Danganronpa Side: The Eye's Deception

di Chainblack
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Parte 1 ***
Capitolo 2: *** Prologo - Parte 2 ***
Capitolo 3: *** Prologo - Ultima parte ***
Capitolo 4: *** Capitolo 1 - Punti ciechi - Parte 1 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 1 - Parte 2 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 1 - Parte 3 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 1 - Parte 4 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 1 - Parte 5 - Indagini ***
Capitolo 9: *** Capitolo 1 - Parte 6 - Processo ***
Capitolo 10: *** Capitolo 1 - Parte 7 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 1 - Parte 8 - Reminiscenze ***
Capitolo 12: *** Capitolo 1 - Ultima parte ***
Capitolo 13: *** Capitolo 2 - Aria fresca - Parte 1 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 2 - Parte 2 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 2 - Parte 3 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 2 - Parte 4 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 2 - Parte 5 - Indagini ***
Capitolo 18: *** Capitolo 2 - Parte 6 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 2 - Parte 7 - Processo ***
Capitolo 20: *** Capitolo 2 - Parte 8 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 2 - Parte 9 - Reminiscenze ***
Capitolo 22: *** Capitolo 2 - Ultima parte ***
Capitolo 23: *** Capitolo 3 - Ancora una volta - Parte 1 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 3 - Parte 2 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 3 - Parte 3 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 3 - Parte 4 - Indagini ***
Capitolo 27: *** Capitolo 3 - Parte 5 - Processo ***
Capitolo 28: *** Capitolo 3 - Parte 6 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 3 - Parte 7 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 3 - Parte 8 - Reminiscenze ***
Capitolo 31: *** Capitolo 3 - Ultima parte ***
Capitolo 32: *** Capitolo 4 - Paura - Parte 1 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 4 - Parte 2 - Indagini ***
Capitolo 34: *** Capitolo 4 - Parte 3 - Processo ***
Capitolo 35: *** Capitolo 4 - Parte 4 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 4 - Parte 5 - Reminiscenze ***
Capitolo 37: *** Capitolo 4 - Parte 6 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 4 - Ultima parte - Reminiscenze ***
Capitolo 39: *** Capitolo 5 - Sopravvivenza - Parte 1 ***
Capitolo 40: *** Capitolo 5 - Parte 2 ***
Capitolo 41: *** Capitolo 5 - Parte 3 ***
Capitolo 42: *** Capitolo 5 - Parte 4 - Reminiscenze ***
Capitolo 43: *** Capitolo 5 - Parte 5 - Indagini ***
Capitolo 44: *** Capitolo 5 - Parte 6 ***
Capitolo 45: *** Capitolo 5 - Parte 7 - Processo ***
Capitolo 46: *** Capitolo 5 - Parte 8 ***
Capitolo 47: *** Capitolo 5 - Parte 9 ***
Capitolo 48: *** Capitolo 5 - Parte 10 - Reminiscenze (1) ***
Capitolo 49: *** Capitolo 5 - Parte 11 - Reminiscenze (2) ***
Capitolo 50: *** Capitolo 5 - Parte 12 ***
Capitolo 51: *** Capitolo 5 - Parte 13 ***
Capitolo 52: *** Capitolo 5 - Parte 14 ***
Capitolo 53: *** Capitolo 5 - Parte 15 - Reminiscenze (1) ***
Capitolo 54: *** Capitolo 5 - Parte 16 - Reminiscenze (2) ***
Capitolo 55: *** Capitolo 5 - Ultima Parte ***
Capitolo 56: *** Capitolo 6 - Affetto - Parte 1 ***
Capitolo 57: *** Capitolo 6 - Parte 2 ***
Capitolo 58: *** Capitolo 6 - Parte 3 ***
Capitolo 59: *** Capitolo 6 - Parte 4 - Reminiscenze (1) ***
Capitolo 60: *** Capitolo 6 - Parte 5 - Reminiscenze (2) ***
Capitolo 61: *** Capitolo 6 - Parte 6 - Reminiscenze (3) ***
Capitolo 62: *** Capitolo 6 - Parte 7 - Verità ***
Capitolo 63: *** Capitolo 6 - Parte 8 ***
Capitolo 64: *** Capitolo 6 - Parte 9 ***
Capitolo 65: *** Capitolo 6 - Parte 10 ***
Capitolo 66: *** Capitolo 6 - Ultima Parte ***
Capitolo 67: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo - Parte 1 ***


Prologo

                                                                                                                                      
Dall'alto dell'ultimo piano di un imponente edificio, collocato in una zona deserta e sconosciuta, un uomo fissava il lento e inesorabile calare della sera, seduto dietro ad una scrivania colma di documenti e scartoffie.
Diede un ultimo sorso alla sua tazza di caffè, oramai diventato freddo. Il sapore non era mai stato così amaro.
Aveva passato l'ultima ora a leggere e rileggere le stesse e identiche righe stampate su quei fogli di carta riciclata.
"Emergenza", "Catastrofe", "Vittime"; parole fin troppo ridondanti in quegli ultimi mesi.
Mise da parte i giornali, tutti con la medesima notizia in prima pagina, e tentò di distogliere la mente da quei pensieri anche solo per un istante.
Kyosuke Munakata non era mai stato tipo da arrendersi alle difficoltà, ma in quel periodo aveva quasi raggiunto il limite della sopportazione.
Ogni progetto messo in atto dalla Future Foundation era stato, in qualche modo, annullato o posticipato in favore delle più impellenti necessità.
- Dopotutto... - mormorò tra sé - ...è difficile che una vera e propria apocalisse non abbia la priorità, no? -
Gettò l'occhio su un articolo che aveva appeso alla parete, una sorta di monito personale.
Raffigurava l'espressione giocosa di un famigerato personaggio in compagnia di un folto gruppo di cadaveri.
L'individuo in questione era divenuto il vero e proprio emblema della disperazione, e non passava giorno senza che il suo nome non venisse  pronunciato seguito da un alone di ansia e paura.
- Monokuma... - mormorò Kyosuke, con la voce colma di disprezzo.
Il pupazzo meccanico dalle sembianze d'orso, così come colei che lo aveva manovrato, era riuscito a gettare il mondo nel caos.
Di qualsiasi forma e dimensione, centinaia di quei robot si erano riversati per la strade di ogni città, avviando la loro conquista del globo partendo dal Giappone.
E, nonostante la caduta in diretta mondiale di colei che si pensava fosse la sola artefice di un tale pandemonio, quei mostri non avevano cessato le
loro nefaste attività.
- Vi è ancora qualcuno, là fuori... - commentò a se stesso l'ex "Ultimate Student Council President" - ...a tirare i fili di questa guerra assurda -
Le sue considerazioni vennero improvvisamente interrotte da un bussare familiare alla porta. Anche senza ponderarne l'identità, nel momento in cui
la porta si aprì rumorosamente Kyosuke seppe immediatamente di chi si trattava.
- Hey - sbottò l'altro - Disturbo? -
- Affatto - fu la concisa risposta di Munakata.
Juzo Sakakura sembrava a suo modo provato dai recenti avvenimenti, nonostante facesse di tutto per mostrare una facciata di superiorità.
L'uomo fece il giro della stanza e ne constatò il peculiare ordine nonostante le numerose carte sparpagliate.
Poi il suo sguardo cadde su di uno dei numerosi articoli riguardanti gli incidenti, e gli ci volle un grande sforzo per non cedere alla frustrazione e non schiacciare quel giornale tra le sue mani.
Kyosuke aggiunse alla già numerosa lista delle cose da fare quella di trovare un valido antistress per Juzo.
- Ci sono novità? - chiese il presidente.
- Sì -
- Quante buone? -
L'assenza di risposta e un grugnito di Sakakura fecero intendere a Munakata il corretto responso.
- La disperazione si allarga a macchia d'olio - disse il pugile, stringendo i pugni - Non riusciamo ad individuarne correttamente la fonte, ma almeno
abbiamo capito che si tratta di un concreto gruppo di persone -
- Già. Il "lascito della disperazione", o come si fanno chiamare - annuì Munakata - Abbiamo motivo di pensare che si trattino di ex-alunni della
Hope's Peak. Sono già usciti fuori dei nomi, ma stiamo continuando ad indagare -
Kyosuke passò a Juzo alcuni documenti evidenziati in rosso con annesse alcune fotografie. Vi erano ritratte alcune sagome difficilmente distinguibili.
Juzo Sakakura passò ad osservarle tutte, una ad una. La sua espressione era di evidente sorpresa.
- Le hai ricevute oggi? -
- Oggi, sì -
- Da chi? -
- Chisa si sta dando da fare quanto te -
Il pugile si grattò il mento.
- Abbiamo informazioni su questi bastardi? -
- Alcune, sì... - mormorò Kyosuke, e allungò il braccio verso un'altra pila di documenti dalla quale estrasse una cartella ricca di fogli - Ibuki Mioda,
Gundam Tanaka, Sonia Nevermind: per il momento abbiamo questi tre nomi. Tutti e tre membri della stessa classe, alla Hope's Peak. Sospetto che anche altri della medesima sezione siano coinvolti, ma le prove scarseggiano -
- Un branco di liceali... - bofonchiò Juzo - Sono davvero queste le persone che stanno assoggettando i governi mondiali? -
- Se consideri che una liceale come Enoshima è riuscita a mettere in piedi un gioco al massacro come quello, non c'è da stupirsi. Non trovi? -
- Come negarlo? - sbuffò Juzo - Continua -
Munakata passò da un foglio all'altro rapidamente.
- Sembra che i Monokuma reagissero ai loro ordini; hanno causato un bel caos - spiegò Kyosuke - Stiamo mandando dei nostri agenti a stanare quei tre e chiunque altro ci sia in ballo, ma sono più sfuggenti di quanto mi aspettassi. Sospetto che stiano ricevendo aiuto da alcune potenti organizzazioni per coprire le loro tracce -
- Chi mai vorrebbe aiutare quella feccia? - chiese Sakakura con una punta di disgusto.
- Avranno i loro alleati, no? Innanzitutto, Nevermind sembra essere un'affluente figura politica - osservò il presidente - Per quanto assurdo possa  sembrare, le sue azioni potrebbero aver riscosso consensi. La disperazione è una malattia molto contagiosa. Inoltre si sospetta che vi sia entrata di mezzo la mafia. Il clan Kuzuryuu, della Yakuza giapponese, sembra essere stato attivo di questi tempi -
Sakakura lanciò un calcio alla parete, facendola tremare. La sua pazienza era evidentemente al limite.
- Stiamo dando la caccia a delle ombre! - sbraitò lui - Come è possibile che si sia venuto a formare un movimento bellicoso mondiale partendo da una scuola!? -
Kyosuke gettò uno sguardo triste sui documenti riguardanti la Hope's Peak Academy. Fulcro di tutta la speranza che il mondo serbava per il futuro, ma teatro del principio della più grande forma di follia umana.
In quel disastro, Kyosuke Munakata aveva visto il disgregarsi del sogno di una vita.
- Avrei voluto portare la speranza nel mondo... - mormorò Kyosuke - Ero ad un passo dal realizzare il mio più grande progetto. Tutto ciò è davvero un boccone amaro -
Juzo sussultò per un istante. Che il suo vecchio amico si abbandonasse ad un simile negativismo era una novità.
- Non dire così, il tuo piano era formidabile! - intervenne lui - Aprire altre sedi della Hope's Peak in tutto il mondo, portare il pinnacolo della speranza a risplendere per tutti i popoli! Sei l'unico ad essere stato talmente lungimirante da avviare un progetto così in larga scala. E hai ricevuto il consenso
di quasi tutte le autorità governative mondiali che riesco a ricordare! -
- Ed è qui che arriviamo alla notizia davvero brutta, Sakakura -
Il pugile esitò per un istante. Kyosuke lo riportò alla realtà.
- Quando è avvenuto l'incidente alla Hope's Peak, alcuni studenti stranieri e dei rappresentanti erano stati invitati per visitare la scuola e farsi un'idea di ciò che costituiva l'apice del modello didattico mondiale. Era un'iniziativa portata avanti dal sottoscritto per accrescere l'interesse dei paesi stranieri -
Juzo Sakakura deglutì.
- E... quindi? -
- Non vi è necessità di dire che, una volta accaduto tutto, ho fatto in modo che gli studenti in visita venissero immediatamente riportati a casa. Ma il
dilagare del caos è stato più repentino del previsto... -
Nel piccolo ufficio cadde un silenzio di tomba. I due si squadrarono negli occhi senza dire nulla.
Juzo ruppe il silenzio con una domanda complicata.
- Abbiamo... avuto delle vittime? -
- Non lo so - rispose Munakata - Ma dei sessanta studenti venuti in visita dall'estero ne sono tornati a casa quarantaquattro. Sedici di loro sono scomparsi nel nulla -
Sakakura deglutì.
- Sedici... - mormorò il pugile - Un numero preoccupante -
- Non abbiamo idea delle dinamiche, né del perché siano spariti proprio loro, se per coincidenza o pianificazione - proseguì lui - Ma quei sedici studenti devono essere trovati ad ogni costo. Sono sedici importanti vite che dobbiamo preservare per il futuro del mondo. Voglio che seguiate qualsiasi pista o indizio; non lasciate niente al caso, Juzo. Trovate quei ragazzi -
Sakakura si massaggiò le nocche, annuendo.
- Conosciamo nomi, volti e dettagli utili di questi studenti? -
A quel punto, Kyosuke Munakata tirò fuori l'ennesimo documento rilegato con cura.
Il fascicolo era composto da numerose pagine con descrizioni e foto. All'indice, vi era una lista di sedici nomi catalogati in ordine.
- Presta attenzione, Juzo - gli disse Kyosuke, iniziando a leggere.

                                                                                        -  -  -  -  -  -  -  -                                                  

Nausea, confusione, lievi dolori e una luce tenue e scarsa.
Sensazioni poco confortevoli accompagnarono il risveglio di Xavier Jefferson, che si accorse molto presto di ritrovarsi in un ambiente poco familiare.
Si alzò a fatica dal letto su cui era disteso e si passò le mani sul volto, stiracchiandosi. 
Riacquisita una lucidità sufficiente, passò a guardarsi attorno. Ritenersi "spaesato" era un eufemismo.
"Cos'è questo posto...?"
Si trovava all'interno di una stanza, probabilmente un piccolo monolocale, piuttosto ordinaria. Vi era un armadio, un letto e un tavolino con un paio 
di sedie. Unica fonte di luce era una singola lampadina che pendeva, solitaria, dal soffitto.
Xavier notò una porta alla propria sinistra; conduceva ad un bagno alquanto stretto, ma attrezzato con ogni necessità.
Il ragazzo fece uno sforzo mentale per recuperare quei pochi ricordi prima di essersi addormentato per chissà quale motivo.
"Dove ero e cosa stavo facendo?" si chiese "Stavo tornando a casa, giusto? Ero in Giappone per..."
Un ricordo gli balenò in testa: la Hope's Peak Academy. 
Dei sessanta studenti inviati per partecipare al percorso di orientamento del prestigioso istituto, Xavier non si riteneva il più motivato.
La scuola forniva un livello di istruzione eccellente e imparagonabile in ambito mondiale, ma il giovane non aveva mai sentito l'impellente desiderio
di accedervi, nonostante fosse stato giudicato idoneo e, come gli era stato detto, "talentuoso".
Il suo gruppo, proveniente dall'Europa, sarebbe dovuto rimanere per almeno due o tre mesi. Il rientro anticipato a causa di un grave incidente terroristico aveva messo l'intero gruppo in allarme.
"Già, una serie di suicidi di massa, e orde di orsi meccanici a marciare per le città..." rammentò lui "Un incubo uscito fuori dal più improbabile degli
show televisivi
"
Fece ancora un giro per la stanza, tentando di recuperare dalla propria memoria quanto più possibile.
"Dopo l'incidente..." continuò lui, meditabondo "I trasporti pubblici si sono interrotti per diverse settimane. Siamo rimasti bloccati lì per un bel po'"
Aprì l'armadio. Con sorpresa notò che, al suo interno, vi erano i suoi vestiti e un gran numero di ricambi. Dei suoi effetti personali, però, non vi era
traccia.
"I robot hanno cominciato ad apparire solo dopo, ma il caos si è sparso in fretta. La scuola ha fatto in modo da trovarci un mezzo per tornare a casa, ma..."
Si fermò, in piedi, in mezzo alla sala.
Si rese conto che dopo quel momento non vi era più nulla, nessuna traccia di memorie.
Fece degli ulteriori sforzi, ma si arrese dopo poco.
- Non ha senso forzare una cassaforte vuota... - mormorò, come parlando a se stesso.
Fu il momento di ispezionare il bagno. Vi era un lavandino, un gabinetto e una piccola vasca da bagno in porcellana. Lo scintillio della vasca gli fece
intuire che quel luogo era stato pulito di recente.
Si accorse infine che davanti al lavandino color perla vi era anche uno specchio; ci si fermò davanti come per assicurarsi che fosse tutto al proprio posto.
La sua faccia era sempre la stessa, non vi era nulla di insolito o inusuale. Persino il suo colorito era tornato lentamente alla normalità.
Si scostò una frangia di capelli scuri dall'occhio sinistro: anche lo squarcio che lo aveva accecato era ancora lì.
L'unico occhio buono di Xavier fece un'ultima, rapida controllata prima di accertarsi di stare bene.
Ma una sgradevole sensazione di disagio non accennava ad andarsene.
"Dove diavolo sono...?"
Decise che il modo migliore per scoprirlo fosse di uscire dall'appartamento. La porta della stanza era spessa e solida, lo stesso si poteva dire dei muri.
Xavier picchiettò il pugno sulla parete. Un rumore compatto gli fece intuire che si trattava di un materiale metallico resistente.
Fatto ciò, girò la maniglia. La porta non accennò a muoversi.
"Un po' lo sospettavo"
Diede un'occhiata alla serratura; non appariva complessa. Non vi fu bisogno di ragionarci troppo; il ragazzo notò che sul tavolino al centro della stanza
vi era un centrino di seta, e sopra di esso era poggiata una chiave.
La colse e ne scrutò l'etichetta attaccata ad essa. C'era solo un numero: "8".
A cosa potesse riferirsi non ne aveva idea, ma Xavier decretò che, essendoci una singola chiave ed una singola porta, il ragionamento da fare fosse scontato.
Girò la chiave nella serratura e la porta si aprì, poi se la infilò istintivamente in tasca.
Davanti a sé vi era un paesaggio alquanto peculiare: notò che il suo appartamento era disposto in cerchio, assieme ad altre casupole assolutamente identiche, attorno a quello che appariva essere un piazzale.
Chiuse la porta, camminò in avanti, e si portò al centro della piazza.
La prima cosa che notò era la presenza di un soffitto. L'intero complesso era posizionato all'interno di chissà quale struttura.
Xavier intuì che non avrebbe rivisto il cielo molto presto.
Passò a guardarsi attorno; la piazza era vuota, nemmeno un'anima in vista.
La stanza dalla quale era uscito mostrava un'incisione sulla porta: un grosso numero "8". Le altre quindici presentavano la stessa fattura, ma con
numeri diversi, da "1" a "16".
Alle proprie spalle, invece, vi era qualcosa di sostanzialmente diverso.
Un gigantesco portone blindato dall'aria solida e inespugnabile; sopra vi erano sedici evidenti incavi: delle serrature, numerate anch'esse.
"Chiunque sia stato si è preso la briga di fare le cose in maniera molto ordinata..." constatò lui.
Si avvicinò al portone e lo ispezionò da cima a fondo. Nessuna maniglia, nessun segno di spostamento sul terreno, solo parti meccaniche.
"Decisamente una porta elettronica"
Batté leggermente un pugno sulla porta. Avvertì il freddo del metallo, così come la sua durezza. Anche quella era una porta che non si sarebbe aperta molto facilmente.
Sospirò, grattandosi il capo.
"Non so cosa sta accadendo, e non mi piace" il suo sguardo era visibilmente in apprensione "Ma sarò davvero l'unico presente?"
Si girò verso gli altri appartamenti; l'idea di andarli ad osservare uno ad uno gli era già balenata in mente tempo prima, ma non vi fu il bisogno.
Nel momento in cui diede le spalle all'imponente portone, la porta numero "9" si aprì.
Lo sguardo di Xavier incrociò quello di una ragazza dai capelli corvini in apparente stato confusionale.
Nessuno dei due mosse un passo verso l'altro.
Il ragazzo era in qualche modo sollevato di non essere solo, ma non sapeva fino a quanto fosse un bene.
Si fece coraggio e si portò avanti.
- Mh, salve... - esordì lui con una certa incertezza.
Lei si strinse nelle spalle.
- B-buongiorno...? - rispose, deglutendo - Dove... siamo, esattamente? -
Xavier sospirò.
"E' evidente che si trova nei miei stessi panni, meglio andarci piano"
- Non lo so, sto cercando di capirlo -
- Chiaro... - sussurrò lei.
Vi furono alcuni attimi di silenzio. Nessuno dei due aveva davvero idea di come continuare la conversazione.
- Ci siamo già visti? - chiese lei ad un tratto.
Lui parve sorpreso.
- Non credo di conoscerti -
- No, di certo no - annuì la ragazza - Ma mi pare di averti visto durante il viaggio verso la Hope's Peak. Eri lì per il corso di orientamento? -
Xavier incrociò le braccia. La possibilità che la ragazza fosse nel gruppo di studenti era plausibile, ma durante il suo soggiorno non aveva badato agli
altri studenti. 
- Sì, è così - asserì lui - E se l'intuito non mi inganna, non siamo i soli -
- Come, prego? -
Non vi fu bisogno di rispondere. Altre due porte si aprirono contemporaneamente, rivelando altri volti confusi e spaesati.
Xavier notò come, a poco a poco, sempre più persone facevano capolino uscendo dalle loro stanze.
- Già, come supponevo... - le disse - Andiamo -
Uno dopo l'altro, tutti gli appartamenti vennero aperti. Un buon numero di persone si era riversato nel piazzale, e il silenzio di pochi minuti prima
aveva lasciato il posto ad una notevole confusione.
Sedici persone erano lì, disposte in maniera disordinata, a guardarsi negli occhi gli uni con gli altri.
L'occhio destro di Xavier fece un rapido giro scrutandole tutte da capo a piedi.
Sospirò di nuovo.
"E' giunto il momento di fare chiarezza" pensò, prendendo la parola e richiamando l'attenzione dei presenti.
 
- - - - -


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Capitolo 2
*** Prologo - Parte 2 ***


Riportare l'intero gruppo alla calma non fu un'impresa facile; la maggior parte delle persone presenti erano visibilmente in apprensione, un paio di loro stava sudando copiosamente, mentre appena una manciata osservava in religioso silenzio quella peculiare situazione.
- Posso dedurre che nessuno di noi ha idea di dove siamo? - intervenne Xavier in tono perentorio.
Il gruppo si ammutolì. Una ragazza alta e dai capelli lunghi si portò un indice alla tempia.
- No, proprio niente - rispose con una calma innaturale.
- T-tutto ciò è inammissibile! - stavolta un ragazzo occhialuto dai capelli arruffati si intromise - Esigo di sapere immediatamente in che razza di luogo sono stato portato! -
- Siamo tutti sulla stessa barca, quindi datti una calmata - lo rimproverò una ragazza bionda dallo sguardo glaciale.
Calò momentaneamente il silenzio sul largo piazzale antistante gli appartamenti.
La situazione era insolita e il clima colmo di disagio; la maggior parte delle persone presenti non riusciva a togliersi di dosso un profondo sentore di disagio, mentre quelli dall'aria più rilassata sembravano più che altro spinti dalla curiosità.
Sguardi avidi di informazioni serpeggiarono tra gli studenti, senza che però nessuno facesse la prima mossa.

Ad un certo punto, un ragazzo snello dai capelli chiari fece un passo avanti e porse a tutti un caldo sorriso, decidendo di intervenire e sciogliere il ghiaccio. 
- Propongo di procedere con ordine - disse con una pacatezza rassicurante, quasi contagiosa - Non so dove siamo, ma almeno non siamo soli. Che ne direste di fare delle brevi introduzioni? -
- Oh, sì! - esclamò una vivace ragazza dai capelli rossi - Forse dovremmo fermarci un momento e tentare di conoscerci! -
La maggior parte dei presenti diede segni di assenso. Era ciò che tutti speravano venisse detto da una terza parte, e non si fecero scappare l'occasione.
Il ragazzo con gli occhiali pareva non essere ancora convinto, però, e si tenne leggermente in disparte.

- Immagino non avrai problemi a fare gli onori di casa, visto che si tratta di una tua proposta - intervenne Xavier.
L'altro la avvertì come una sorta di sfida, ma il suo volto sereno non si scompose di un millimetro.
- Affatto; la trovo una splendida idea - rispose con franchezza - Sono Karol Clouds. E' un estremo piacere conoscervi -
Xavier notò come i suoi modi gentili e quantomai raffinati avessero calamitato l'attenzione, principalmente delle ragazze.
Il giovane emanava sicurezza, assieme ad una flemma autorevole.

Xavier sbuffò in maniera sottile; quel round lo aveva perso, ma non si ritenne soddisfatto.
- Tutto qui? -
- Come, prego? - fece Karol, confuso.
L'altro scosse il capo.
- Ho motivo di credere che tutti i presenti facciano parte del corso di orientamento della Hope's Peak - spiegò lui - Alcuni di voi hanno un volto che ricordo vagamente, ma sono certo di avervi visto durante il viaggio. Se è così, immagino che nessuno di voi sia un qualunque sconosciuto senza identità; dico bene? -
La ragazza dai capelli corvini annuì, accodandosi al discorso.
- E' vero, credo di riconoscere molti di voi... - ammise - Siamo stati tutti scelti dagli scout della scuola, giusto? -
- Aah, comprendo perfettamente dove vuoi arrivare - sorrise Karol - Sei interessato ai nostri... talenti, non è così? -
- Non lo nego -
Karol Clouds si sistemò la cravatta e si schiarì la voce. Non sembrò affatto turbato dalla richiesta, anzi. 
Per lui non fu altro che un'ulteriore opportunità.
- Allora riformulerò volentieri la mia introduzione - disse - Sono stato selezionato in qualità di "Ultimate Teacher", e sono vagamente più vecchio di voi. Ho vent'anni, e presumo voi ne abbiate appena un paio di meno. Sei soddisfatto? -
Quel titolo non lasciava scampo ai dubbi. I "Super Duper High School Students", o "Ultimate Students" che dir si voglia, erano conosciuti ovunque per essere l'apice dell'eccellenza nelle più svariate discipline. E Karol pareva emanare un'aura tutta particolare.
- Credo di sì - asserì Xavier - Ma non hai una certa età per essere stato accettato in un liceo? -
- Vi sono alcuni casi speciali - sorrise lui - Ma non intendo togliere tempo prezioso agli altri. Chi vuole farsi avanti e presentarsi al gruppo? -
Stavolta fu un ragazzo decisamente imponente a introdursi. Sicuramente quello con la corporatura più massiccia, davvero difficile da non notare.
Alcuni avevano manifestato un certo timore solo a stargli accanto.
A passi brevi, ma pesanti, si portò al centro del gruppo e dell'attenzione. 
Le spalle larghe e la fisionomia solida non davano spazio a dubbi: non era uno studente comune.

Si esibì in un brevissimo inchino formale.
- Alvin Heartland, molto piacere - disse - Mi conoscono come "Ultimate Guardian" -
- Piuttosto altisonante! - fece un ragazzo dall'espressione giocosa e sfrontata.
- Ne sono consapevole, ma non ho scelto io il nome del titolo - sospirò Alvin - Potreste considerarmi un bodyguard professionista -
"Considerando la sua stazza è alquanto difficile dubitarne" osservò Xavier.
- Io sono Hayley! - fece una ragazza dai capelli castano chiaro vestita con abiti da trekking - Hayley Silver, "Ultimate Hiker". Piacere! -
Xavier appuntò quel terzo nome nella sua tabella mentale. La ragazza aveva una fisionomia snella, ma non apparentemente muscolosa. Gli fu complicato immaginarsela in chissà quale improbabile arrampicata.
Nonostante ciò, aveva diversi cerotti e bende sparse un po' ovunque sotto la tuta scura, segno evidente che si trattava di un tipo spericolato.
I modi vagamente timidi diedero a Xavier un'impressione diversa da quella figurata, ma decise di attendere di avere più dati a propria disposizione prima di formulare un verdetto definitivo.

- E... non c'è davvero molto da dire sul mio conto - disse con una punta di imbarazzo - Sono una persona poco mondana -
- Beh, io mi presenterei pure, a meno che la mia fama non mi preceda! - esordì il ragazzo arrogante con una certa enfasi.
Il totale silenzio che lo accompagnò fu abbastanza da fargli smarrire ogni traccia di confidenza.
Il suo volto perse vigore pian piano, e la luminosità che lo ricopriva svanì tristemente.
Pareva abbastanza seccato di aver fallito il proprio approccio, ma sembrò essersene fatto una ragione. Non pareva essere accaduto per la prima volta.

- Uff... - sbuffò, intristito - Lawrence Grace... "Ultimate Musician". Ne avrete almeno sentito parlare... -
Xavier non avrebbe mai ammesso di aver effettivamente già sentito il suo nome in diverse occasioni; non dopo quell'impagabile momento.
- Ah, sì, sono certa di aver già sentito alcuni tuoi brani! - lo rinfrancò la ragazza corvina - Il miglior esordiente dei nostri tempi, ho letto alcune interviste in merito -
Lawrence parve riacquistare rapidamente fiducia e sul suo volto si piazzò uno smagliante ghigno beffardo. Xavier tentò di capire se la ragazza non avesse semplicemente mentito per rincuorarlo, dato che non molti altri manifestarono le stesse conoscenze in materia.
- Ad ogni modo, io sono Judith Flourish - concluse lei - "Ultimate Lawyer"; il piacere è tutto mio -
"Ecco un altro improbabile talento pescato da chissà dove..."
La ragazza dai capelli scuri e dall'abbigliamento formale concluse lì la propria presentazione. 
Considerando il suo essere l'Ultimate Lawyer, Xavier si aspettava un tipo più loquace.
Tutto sommato, non le diede torto; in quella stessa situazione, rimanere in silenzio ed analizzare gli altri era un fattore critico.
E Judith Flourish sembrava star seguendo proprio quella strategia. Il suo sguardo gentile nascondeva una vena di genuina apprensione.

- Oh, io! Tocca a me! - la ragazza dai capelli rossi si fece avanti con entusiasmo - Mi chiamo Refia Bodfield, sono la dinamica "Ultimate Cyclist"! -
- Lo vedo - constatò Karol - Sprizzi energia da tutti i pori -
Non fu complicato per Xavier individuare in Refia un elemento dissonante dal resto della comitiva.

La sua espressione lasciava ad intendere che di preoccupazioni non ne aveva, neppure dopo l'essersi risvegliata chissà dove in compagnia di perfetti sconosciuti, per
di più in circostanze poco chiare. Non sapeva se si trattava di ingenuità o solo di un modo di proteggersi.
Stava di fatto che si trattava di un tipo di persona che difficilmente Xavier sarebbe riuscito a prevedere.
A giudicare dai suoi abiti sportivi, era di facile intuizione che il suo talento fosse ricollegabile ad una professione atletica. Xavier notò che solo poche altre mostravano un abbigliamento simile. Una di loro alzò la mano come per prendere la parola.
- Sono June Harrier, "Ultimate Archer" - disse, incrociando le braccia - Devo ammetterlo, per essere dei sedicenti studenti formidabili, avete quasi tutti un aspetto alquanto... ordinario -
Nonostante le parole sembrassero provocanti, il suo tono le faceva sembrare una mera e schietta considerazione.
La ragazza non sembrò pentirsi della propria constatazione, quasi come se avesse espresso un vago rimprovero.
Il suo volto severo era quello di una persona apparentemente intransigente.

- Mai giudicare un libro dalla copertina! - ridacchiò un ragazzo dall'aria sciatta e con una barbetta rada - Rickard Falls, al vostro servizio! Oh, già, quasi dimenticavo: "Ultimate Voice Actor". Non ve lo aspettavate, eh!? -
"Individuato un piantagrane sensazionale..." pensò Xavier.
A differenza di altri casi, Rickard si mostrò palesemente divertito all'idea di avere a che fare con così tanta gente sconosciuta.
Dubitando che questo suo lato avesse strettamente qualcosa a che fare col suo talento, Xavier ipotizzò che si trattasse di un tipo estroverso e nulla di più. Ma ancora, le impressioni potevano mentire senza remore.

- Non ha tutti torti, nessuno penserebbe che uno smilzo come me abbia chissà quale talento...! - sorrise con amarezza un ragazzo biondo dagli occhi chiari - Sono Kevin Claythorne, "Ultimate Botanist". Oltre all'avere il pollice verde non saprei come descrivermi -
- L'umiltà è una virtù - a parlare fu una ragazza piuttosto minuta dai capelli biondi, legati con un nastro - "Ultimate Painter" Vivian Left. Sono certa che andremo d'accordo -
Il suo tono era estremamente sereno e posato. Il suo aspetto giovanile pareva nascondere una spiccata maturità.
Anche Kevin si trovò d'accordo con quanto detto, ma si limitò ad un gentile cenno di assenso. 

Non sembrava tipo da interazione immediata con il prossimo, a differenza del fare raffinato e signorile di Vivian.
Mancavano ancora alcune persone all'appello, ma nessuno sembrava intenzionato a prendere la parola. L'attenzione di tutti venne rivolta verso una ragazza alta dai capelli lunghi e scuri, il cui sguardo sembrava essersi vagamente perso nel vuoto.
Quando si accorse di essere fissata, si svegliò come di colpo.
- Ah! - sussultò - Tocca... tocca a me? Uhm... Elise Mirondo. E' il mio nome, già -
- Questo lo si capiva... - sbottò June.
- E qual'è la tua specialità? - chiese Judith, incuriosita.
- La mia... specialità...? - vacillò momentaneamente Elise - Ah! Il mio talento, certo. Mi chiamano "Ultimate Camerawoman"... credo -
"Credo...?" fu la domanda che quasi ognuno dei presenti si pose nel vedere qualcuno di talmente spaesato.
La sua soglia di attenzione si rivelò essere ancora più bassa quando, non appena finito di parlare, i suoi occhi vagarono senza meta lungo il soffitto. Erano occhi poco vispi, ma irrequieti; scrutarono i dintorni ed ogni cosa che catturasse la sua attenzione.

Il resto della classe le attribuì una scarsa conoscenza delle priorità, ma lei nemmeno sembrò badarci.
Erano rimaste appena cinque persone la cui identità non era ancora nota.
Un ragazzo pallidissimo, chiuso nella propria felpa come una preda impaurita, alzò timidamente la mano.
- S-salve a tutti... - disse, deglutendo - Sono Pierce... P-Pierce Lesdar -
- Non devi sentirti in difficoltà - lo imbeccò Alvin, notando il suo malessere - Qui siamo tutti nella stessa situazione -
- Certo, è vero... - sospirò - I-io me la cavo nel r-ricamo... mi hanno detto di essere "l'Ultimate Sewer"... -
- Hey, amico! - Lawrence lo spalleggiò con una pacca amichevole - Se la Hope's Peak riconosce il tuo talento allora devi farne un motivo di vanto! -
Pierce annuì debolmente, ma preferì non aprire più bocca.
Era diverso dall'approccio di Kevin, anch'esso timido. Pierce era tremante e vagamente sudato, e non smetteva di grattarsi nervosamente le dita.
Più di chiunque altro, lì dentro, era incapace di celare la propria tensione e la paura, il timore di essere finito chissà dove e il terrore di ciò che poteva essergli successo. 
"Una reazione comprensibile" pensò Xavier "Ma fin troppo evidente"

- Bene, abbiamo quasi finito - esclamò Karol - Chi abbiamo ancora? -
Quattro persone restavano al di fuori della cerchia.
Xavier, trovandosi tra quei quattro, scrutò con interesse i tre che fino a quel momento si erano tenuti in disparte.
Il ragazzo occhialuto, i cui nervi erano palesemente a fior di pelle, la ragazza bionda con occhi di ghiaccio e una ragazzina estremamente minuta che fino a quel momento non aveva ancora aperto bocca.
- Siete davvero sicuri che sia una buona idea? - commentò la bionda, suscitando confusione nel gruppo.
- Mh? A cosa ti riferisci? - chiese Hayley.
- Presentarsi, rivelare le nostre identità, i nostri talenti, a dei perfetti sconosciuti... - osservò con una punta di acidità - Nemmeno sappiamo cosa diamine ci facciamo in questo luogo. E' davvero prudente fidarsi senza porsi dubbi? -
- Ha perfettamente ragione! - intervenne l'altro - Non ho intenzione di cooperare senza prima sapere cosa sta succedendo! -
L'ultima ragazzina si strinse nelle spalle ancor di più e non proferì parola, mostrando il proprio silente consenso.
Xavier sospirò.
- Per quanto mi secchi... - disse, grattandosi l'occhio sfregiato - Devo ammettere che hanno ragione. E' una situazione piuttosto strana -
- Non starete esagerando? - obiettò Judith - Sembra che stiate cercando di proteggervi da chissà quale complotto! -
- E' nella natura umana dubitare del prossimo - annuì Alvin, mostrandosi comprensivo - Dobbiamo accettarlo -
- Ma almeno potremo sapere come chiamarvi! - protestò Rickard - Non dico di mostrare i documenti, ma almeno un nome! -
Xavier guardò gli altri tre, poi si rivolse al gruppo.
- Xavier Jefferson - rispose senza troppi fronzoli.
- Pearl Crowngale... - disse la bionda, con tono di poco interesse.
L'altro si sistemò gli occhiali.
- Bah, tutta questa storia non mi piace per niente... - sbottò lui - Il mio nome è Michael Schwarz. Non lo ripeterò una seconda volta -
La ragazzina minuscola si sistemò una ciocca di capelli rossicci mentre fissava il pavimento. Vivian Left le si avvicinò con fare amichevole.
- Va tutto bene, non c'è bisogno di parlare se non lo desideri - le disse in tono quasi materno - Ti va di dirci solo il tuo nome? -
Vivian era piuttosto bassa, ma in confronto con l'altra appariva quasi come un mezzo gigante. Xavier non riuscì a fare a meno di domandarsi se la ragazzina fosse effettivamente una sua coetanea.
Temette di dover faticare più del necessario per spingerla a parlare, ma c
ome un fulmine a ciel sereno la piccolina parlò.
- Hillay... Dedalus - disse con un filo di voce - "Ultimate Clockwork Artisan"... - e con quelle parole tacque definitivamente.
Vivian assunse un'aria soddisfatta grazie alla piccola vittoria ottenuta.
- Direi che siamo a posto, allora! - Karol intrecciò le mani - Ora non resta che comprendere in che situazione ci troviamo -
- Il primo passo sembra essere semplice - disse June, indicando il gigantesco portone alle spalle del gruppo.
- Ooh, è bello grosso! - commentò Rickard, quasi con ammirazione - Ed è l'unica uscita? -
- Così pare - asserì Kevin - Ci sono delle serrature; sedici, per l'esattezza -
- Esattamente ciò che dicevo - riprese June - Sono numerate, come le nostre chiavi. Ne deduco che... -
Michael perse di nuovo le staffe.
- Allora andiamo, forza! Inseriamole! - sbraitò - Cosa stiamo aspettando!? -
- A chi arriva prima! - gli urlò dietro Refia, superandolo.
- Non è una gara, stupida! -
Precipitandosi verso gli incavi, un primo gruppetto di persone estrasse le proprie e le inserì.
Una ristretta cerchia era rimasta indietro, camminando a rilento ed osservando l'evolversi della situazione.

- Quanta fretta... - commentò Xavier.
- Meglio farci l'abitudine - rispose Pearl - In un gruppo così folto, la maggioranza prevale quasi sempre -
Xavier aspettò che tutti avessero inserito le proprie chiavi nelle serrature e procedette ad aggiungere la propria.
Nel momento in cui tutte furono dentro, una luce abbagliante pervase il portone blindato, che si rivelò essere molto più di quanto sembrasse.
Era un gigantesco schermo elettronico mascherato da porta. Le chiavi emisero un ultimo impulso luminoso; alcune immagini non meglio distinte iniziarono ad apparire, fino a prendere lentamente forma e a manifestarsi per ciò che erano.
Xavier vide l'avverarsi dei propri orribili presentimenti in quell'unica visione.
Sull'enorme schermo era comparsa la sagoma di un inquietante pupazzo meccanico a forma d'orso, che scrutava ognuno dei presenti dall'alto come a volgere lo sguardo a dei sudditi.
Il simbolo della disperazione aveva fatto la sua comparsa. Tutti e sedici si ammutolirono, in attesa di quel nefasto destino.

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Capitolo 3
*** Prologo - Ultima parte ***


Un silenzio di tomba ricoprì tutta la piazza.
L'immagine di un gigantesco mezzo busto di un Monokuma era comparso davanti a tutti i presenti; l'orso sembrava scrutare i sedici studenti con interesse, facendo dondolare la testa mentre i suoi due piccoli, inquietanti occhietti guizzavano da una parte all'altra dello schermo.
Judith osservò quella scena con un misto tra paura e disgusto. Chiunque conosceva ciò di cui erano stati capaci i Monokuma, di quanta paura e morte fossero riusciti ad elargire in così poco tempo e in maniera talmente improvvisa.
Il loro rientro anticipato a casa era stato programmato in modo da evitare di coinvolgere gli studenti in quella nefasta guerra terroristica, ma la giovane comprese di non trovarsi affatto al sicuro.
Non nel momento in cui la più temuta nemesi a livello mondiale fece il suo ingresso in scena.
L'orso parve schiarirsi la voce.
- Ahem... è acceso questo affare? - fece la sua vocina stridula attraverso degli altoparlanti - Oh, così va meglio. Innanzitutto, intendo porgere i miei più sentiti saluti ai nostri sedici fortunati studenti! -
Judith riconobbe il suono registrato di alcuni fuochi d'artificio. Quell'atmosfera di apparente relax e giocosità non faceva che rendere il tutto più inquietante, a suo parere.
- "Fortunati"...? - Michael serrò i denti - Ha voglia di scherzare...? Io voglio uscire immediatamente da qui! -
- Manteniamo la calma - stavolta fu Karol a parlare. Il suo volto si era fatto serissimo.
Era chiaro che la sua apparente calma di facciata era stata messa a dura prova.
- Voglio darvi il benvenuto nella nostra struttura più recente e all'avanguardia: una nuova sede della Hope's Peak! - continuò il Monokuma - Un emblema della qualità in ogni campo: dalla didattica al più basilare dei comfort. In questo edificio troverete stanze e attività adatte ad ogni vostra esigenza per permettervi di vivere al meglio la vostra vita scolastica -
Nessuno dei sedici parve essere straordinariamente convinto da quel discorso.
- Uhm, credete che sia registrato...? - ipotizzò Elise.
- No che non lo è! - rispose Monokuma quasi seduta stante - E' importante che il vostro orso di fiducia sia presente per fugare ogni dubbio o perplessità -
- Allora immagino potrai illuminarci su dove siamo e cosa ci facciamo qui - intervenne Alvin, seguito da un gran numero di assensi.
L'orso in bianco e nero si grattò il capo; poi, il suo volto parve illuminarsi.
- Oh, volete passare subito al sodo. Che ragazzi pragmatici! - esclamò lui - Vi dirò tutto in poco tempo. Siete stati selezionati per un importante esperimento sociale: la terza edizione della Scuola del Massacro! -
Un brivido percorse la schiena di Judith.
"La... la cosa...?"
- ...lo sapevo - sussurrò Xavier. Judith si chiese a cosa si stesse riferendo.
Michael esplose di nuovo.
- Esperimento? Massacro!? - ruggì in preda all'ira - Ma di che diavolo parli!?
- Oh, è semplicissimo - spiegò il pupazzo - In questo momento siete confinati all'interno della struttura, e non vi è possibilità di uscire. Non con metodi convenzionali, almeno! -
- E... e allora come si esce da qui...? - deglutì Kevin.
- Sei sicuro di volere una risposta...? - lo ammonì Pearl - Io credo che i suoi "indizi" siano stati piuttosto chiari... -
- Già! La biondina ci è arrivata! - ridacchiò Monokuma - La chiave per uscire da qui risiede nella perfetta ed immacolata esecuzione di un delitto -
Judith avvertì di colpo una mancanza di forze alle gambe. A quelle parole, il tempo parve congelarsi per qualche istante.
Gli sguardi di tutti erano fissi sul gigantesco Monokuma, le cui parole erano state pronunciate con una tonalità assolutamente innaturale rispetto al loro peso effettivo. 
- Un... delitto...? - biascicò Refia - Che... che assurdità! -
Vivian e Karol si erano irrigiditi; ogni traccia della loro tranquillità si era dissipata.
Alvin era scuro in volto, Rickard e Kevin grondavano di sudore, Pierce e Hillary tremavano come foglie.
- Vi sono alcune regole da rispettare, però - proseguì la creatura senza dare loro il tempo di assimilare a pieno la situazione - L'importante non è uccidere, ma non farsi scoprire! Se riuscirete ad assassinare un compagno e ad evitare che i sopravvissuti scoprano il vostro misfatto, sarete liberi di andare! In caso contrario, sarete puniti; quindi attenzione! -
- P-puniti...? - gemette Judith. La cosa ancora non le sembrava reale.
- Mi sembra ovvio... - sbottò Xavier - Chi fallisce viene giustiziato. Dico bene, mostro? -
Il Monokuma assunse un'aria triste.
- Che... parola crudele! - rispose - Ma non fa una piega: gli assassini scoperti verranno portati al patibolo in direttissima. Ma, d'altro canto, vale anche per tutti coloro che falliscono nell'individuare il vero colpevole. Occhi aperti, gente! Oh, e attenti a non uccidere più di due persone per volta, o sarò costretto a punire la vostra scarsa moderazione. E non considerate dei complici: l'unico colpevole è colui o colei che infligge il colpo di grazia! -
- Tutto questo è inconcepibile - sospirò June Harrier, grattandosi furiosamente il braccio - Perché ci stai facendo questo!? -
- Ve l'ho detto: è un esperimento importante! - gesticolò l'orso - Nella seconda edizione è stata la speranza a vincere. Davvero un finale fiacco e banale! Con questa mi auguro che anche la disperazione avrà il suo momento di gloria! -
- Sciocchezze - esclamò Xavier. Il suo tono era chiaramente inviperito - Di certo chiunque sia dietro tutta questa follia non ha il tempo libero di dilettarsi a vedere persone a caso uccidersi tra loro. Qual è il tuo vero obiettivo? -
L'occhio rosso di Monokuma emanò una luce sinistra.
- Ooh, sei così attaccato al tuo mondo di logica e raziocinio che non riesci a vedere la bellezza insita nella follia - rispose in tono di scherno l'orso.
Judith osservò il rapido contrarsi dell'espressione di Xavier. Non le era mai capitato di vedere qualcuno così pieno d'ira.
- N-non dirà seriamente che d-dobbiamo... ucciderci a vicenda...? - piagnucolò Pierce, che sembrava pronto a scappare a gambe levate.
- Oh, suvvia, se vi costringessi a farlo sarebbe un po' monotono. Non trovate? - fu la risposta di Monokuma.
L'intero gruppo fu silente; era evidente che non si aspettavano un responso simile.
- Di che parli, bestia? - chiese Alvin.
- Mi sento generoso, così ho preparato una clausola speciale che permetterà a voi tutti una rapida ed indolore soluzione! -
Il volto di Hayley parve illuminarsi.
- Una soluzione "indolore"? - chiese "l'Ultimate Hiker" - Vuoi dire che non siamo tenuti ad ucciderci a vicenda? -
- Beh, questo spetta a voi - rispose Monokuma - Mi sa che qualcuno dovrà comunque rimetterci le penne, considerando che tra voi c'è una spia -
Per l'ennesima volta, i sedici studenti vennero percorsi da un senso di estremo disagio.
Judith Flourish iniziò a guardarsi di lato con nervosismo: gli altri studenti sembravano tutti irrequieti.
- U-u-una spia!? - urlò Lawrence, rimasto a bocca aperta.
- Già, una vera mattacchiona! - Monokuma si stava divertendo fin troppo per i gusti di Judith - Ma l'avere un vantaggio sugli altri ha il suo prezzo, non temete! Se la talpa in questione muore, oppure viene scoperta e costretta a confessare, allora tutti gli altri studenti saranno liberi di andare a casa illesi, e solo l'intruso verrà eliminato! Non sentite già il profumo della libertà? -
Un velo di enorme disagio e paura ricoprì tutti i presenti.
Quelle parole erano state scagliate come una bomba a mano, e l'impatto era stato notevole sugli animi di tutti i presenti. 
Ad un tratto, l'ipotesi di fare leva sul senso comune e il raziocinio venne meno; le premesse erano cambiate.
Tra il coro di timore e sospetto, però, una persona si fece largo per esprimere un'osservazione obiettiva. - Chiaro. In pratica abbiamo due modi per andarcene - tentò di riassumere Pearl - Uccidiamo qualcuno senza farci beccare, e sopravviviamo da soli. Oppure staniamo la spia e tutti felici e contenti. Dico bene? -
- Ci hai azzeccato di nuovo, biondina! - rise l'automa.
- Adesso basta! Basta parlare di assassinio! - si intromise Refia. Il suo volto era arrossato dalla rabbia - Ucciderci tra noi è una follia! E' impensabile anche solo ipotizzarne l'atto! -
- Santo cielo, io non voglio veder nessuno morire... - gemette Rickard. Il suo buonumore era svanito senza lasciare traccia.
- Questo "esperimento" è al di fuori di ogni legge - asserì Judith, determinata - Non permetterò che accada qualcosa ai miei compagni -
La sagoma del volto di Monokuma sembrò quasi deformarsi in un ghigno folle.
- Uh uh, chissà, piccoli miei? - rise - Ora come ora vi trovate in un mondo dove la legge ha lo spessore di un foglio di carta. E dubito che tutti, ma proprio TUTTI i presenti siano intenzionati a rimanere qui dentro per sempre -
Judith tentò di cercare uno spiraglio di convinzione nei volti degli altri studenti, ma si scoraggiò nel vedere che quasi tutti erano rimasti intimiditi da quell'ultima minaccia.
La ragazza scosse il capo.
"Nemmeno io voglio restare qui un secondo di più. Ma essere disposti a sacrificare la vita altrui pur di scappare è..."
- Beh, così può bastare. Credo che tutto sia piuttosto chiaro! - affermò il robot - Nel momento in cui la mia immagine sparirà, il portone davanti a voi si aprirà, e potrete esplorare la vostra nuova casa. O tomba; dipende da voi! A buon rendere, e tenete a mente le regole! -
Con quelle ultime parole, Monokuma scomparve definitivamente, e il portone elettronico si aprì scivolando lungo il pavimento con un movimento fluido.
Una sensazione di terrore e incertezza era rimasta a permeare gli animi dei presenti.
I sedici si guardarono negli occhi gli uni con gli altri.
Vi erano diverse emozioni in ballo; Judith le riconobbe in un attimo.
Sfiducia, paura, dubbio. Disperazione.
- State... lontani da me - fece una voce, rompendo il silenzio.
Michael si stava allontanando lentamente, passo dopo passo.
- Michael, ti prego! - lo richiamò Karol - Resta con noi! -
- SCORDATELO! - ribatté lui ad alta voce - Da adesso voi tutti non siete che dei potenziali assassini! E io non ho intenzione di morire qui, nossignore! -
Detto ciò, il ragazzo occhialuto si rintanò nella stanza dalla quale era uscito. Un rumore di chiave fece intuire a Judith che non sarebbe uscito molto presto.
Nessun altro osò muovere un passo.
- Che schifo di situazione... - commentò Lawrence - Comincio a sentirmi male... -
- Uuh... è davvero possibile che qualcuno stia considerando di uccidere...? - il tono di Hayley era ricolmo di terrore.
Pearl annuì.
- Difficile a dirlo, ma è da sciocchi estraniare la possibilità - i suoi occhi glaciali penetrarono lo sguardo di Hayley Silver - Per quanto mi riguarda, credo dovremmo agire con cautela -
- E' vero, la prudenza sarà nostra alleata - confermò Vivian - Non dico di abolire la fiducia reciproca, ma sarà bene organizzarci per evitare problemi -
Tutti e quindici diedero il loro consenso.
- Come dovremmo fare...? - chiese Kevin Claythrone - A stento ci conosciamo... come facciamo a fidarci l'un l'altro? -
- Organizzeremo dei gruppi di esplorazione - disse ad un tratto Alvin. La sua voce possente scosse gli animi di tutti.
- Ooh? Cosa intendi? - Elise cascò nuovamente dalle nuvole.
Alvin Heartland si schiarì la voce.
- Formeremo gruppi di tre elementi e andremo a raccogliere informazioni su questo posto - disse - Non sappiamo quanto sia grande, ma con cinque gruppi ricopriremo un'area mediamente vasta -
- Gruppi da tre, dici? - si domandò Rickard.
- Sembra un piano ben studiato - annuì Xavier - Monokuma ha detto che vi può essere un massimo di due vittime, no? -
Refia sussultò.
- Vuoi dire che...? -
- E' fatto in modo che non vi sia possibilità di errore se spuntassero dei cadaveri - esplicò Pearl in tono freddo - Se uno di noi morisse, vi sarebbe almeno un testimone. Ergo, l'assassino non avrebbe vita lunga. Se i cadaveri ammontassero a due, per esclusione l'omicida sarebbe facilmente rintracciabile, essendo i gruppi composti da tre persone -
Judith rimase allibita; più che altro dall'incredibile capacità di adattamento dei compagni in una situazione impossibile da prevedere.
Nell'arco di pochi minuti era già sorta una strategia anti omicidio. Più che sentirsi rassicurata, Flourish avvertì un senso di disagio.
Karol incrociò le braccia. 
- Non gradisco un ambiente fondato sulla reciproca sfiducia, ma non vi sono alternative - sbuffò l'insegnante - In questo modo tutti saranno più tranquilli -
- Allora non resta che decidere i gruppi - disse Judith, imbronciata - Come ci disponiamo? -
A quella domanda nessuno volle inizialmente porre una risposta, principalmente perché nessuno aveva idea di chi fossero i compagni più meritevoli di fiducia.
Persino tra gli esponenti più inclini al rapportarsi al prossimo vi fu una pesante titubanza.
Per nessuno fu possibile fidarsi ciecamente degli altri, creando una paralisi dalla quale non sarebbe stato facile divincolarsi.
Alla fine, fu uno studente in particolare a decidere di fare la prima mossa e scigliere finalmente quel nodo che vincolava tutti. Alvin Heartland scosse il capo.
- Così non andiamo da nessuna parte - sospirò - Farò io le squadre. Tutti d'accordo con questa mia proposta? -
- Beh, è pur sempre l'Ultimate Guardian... - osservò Kevin - Se non si intende di sicurezza lui... -
- Allora ci affideremo a te, Alvin - sorrise Judith, incontrando un cenno d'assenso da parte di Karol.
E, mentre Heartland cominciava a sistemare i gruppi, alcuni sguardi impauriti osservavano lo svolgersi degli eventi.
Hillary Dedalus e Pierce Lesdar erano rimasti nelle retrovie, muti come pesci. Lui non riusciva a smettere di guardare in direzione della stanza di Michael.
Lei, con occhi piccoli e le gambe tremanti, si strinse tra le proprie braccia.
- Ho paura... - gemette con voce così flebile che nessuno fu in grado di udirla.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 1 - Punti ciechi - Parte 1 ***


Capitolo 1 - Punti ciechi

Alla fine, l'idea di separarsi in gruppi da tre fu accolta più che volentieri da tutto il gruppo, sebbene vi fossero dei motivi non propriamente positivi dietro di essa.
Alvin era fiducioso riguardo alle scelte compiute: gli abbinamenti che aveva scelto erano stati ponderati con attenzione, in modo che ogni gruppo contasse almeno un membro degno di fiducia. Alvin era stato abituato da tutta la vita ad individuare le persone affidabili in mezzo a interi gruppi di persone, e faceva del suo sesto senso un motivo di vanto.
Dopo l'apertura del portone, la sua squadra si era dedicata ad esplorare l'area appena adiacente. Un grosso locale era situato appena davanti al piazzale degli appartamenti; apparentemente un ristorante, o per meglio dire un bar, munito di tavoli, sedie e un bancone in legno intarsiato.
Diede una rapida occhiata alle proprie spalle: Elise e Pearl erano assieme a lui.
Le due non potevano essere più diverse, notò Alvin.
Lo sguardo di Pearl guizzava da una parte all'altra della stanza, cercando ogni singolo dettaglio fuori posto. I suoi occhi penetranti ispezionarono sotto ogni singolo tavolo del locale.
Dall'altra parte, Elise sembrava persa a fissare le finestre che davano sul piazzale con aria quasi intontita, intenta in chissà quali considerazioni.
Alvin sospirò.
"La sua distrazione potrebbe costarle caro..." pensò con una vena di deformazione professionale "Meglio tenerla d'occhio"
Le si avvicinò, scrutandone il volto incantato.
- Elise? Va tutto bene? -
Lei sussultò per un istante. Poi sorrise come se non fosse accaduto nulla.
- Certo, è tutto a posto -
- Hai notato qualcosa? -
Lei fece dondolare il capo come per cercare una risposta.
- Uuh... no. Non riesco a concentrarmi per bene senza... -
La frase le morì a metà. Pearl le si accostò, incuriosita.
- "Senza"? - la imbeccò la bionda.
- Oh, uhm... senza la mia telecamera -
Alvin Heartland annuì.
- Certo, dopotutto per l'Ultimate Camerawoman non deve essere piacevole andare in giro senza il proprio principale strumento di lavoro -
- Mhh, non la considero solo uno strumento... - spiegò lei, cercando le parole - Come dire... guardare il mondo dalla mia telecamera mi aiuta a comprenderlo meglio -
Pearl e Alvin si scambiarono un'occhiata confusa.
"Dev'essere un qualcosa che noi comuni mortali non possiamo capire
- Ora come ora dobbiamo concentrarci sulle nostre ricerche; e abbiamo bisogno del tuo aiuto, Elise -
- Farò del mio meglio - disse con un sorriso sereno.
- Ho dato una controllata sul retro del ristorante - si intromise Pearl - C'è una dispensa e numerosissime provviste. Si sono attrezzati bene -
- Di quanto stiamo parlando? - chiese Alvin.
- Faccio prima a mostratelo -
La bionda condusse gli altri due in fondo al locale, oltre una piccola porta rossa. Oltre vi erano scatoloni e celle frigorifere in gran quantità.
Alvin continuò a ripetersi di non aver mai visto tante riserve di cibo tutte assieme.
- Ce ne sarà per almeno un anno... - constatò il ragazzo massiccio - Anche con sedici di noi -
- Davvero stai considerando che rimarremo sedici? -
La frecciata di Pearl andò dritta al punto. Alvin le rivolse uno sguardo severo. Elise abbassò la testa.
- Lo spero davvero... - mormorò l'Ultimate Camerawoman.



Karol lanciò delle occhiate apprensive ai suoi due compagni di esplorazione. Lawrence gli camminava di fianco, fischiettando un motivetto orecchiabile dall'identità sconosciuta. Xavier proseguiva a passo svelto dando loro le spalle.
La proverbiale pazienza dell'Ultimate Teacher si rivelò fondamentale nel tentativo di fare da collante in un gruppo così eterogeneo.
- Questo deve essere il piano terra, giusto? - osservò Lawrence, tra una nota e l'altra.
- Difficile a dirlo, non sappiamo quanto sia grande questo posto - osservò Karol - Tu cosa ne pensi, Xavier? ...Xavier? -
Il ragazzo non parve degnarli di una risposta.
- Hey, amico! - lo richiamò Lawrence - Potresti almeno aspettarci! -
Karol vide il compagno fermarsi, esalando un sospiro annoiato.
- Siete voi che dovreste sbrigarvi - li incitò Xavier - Dobbiamo controllare rapidamente questa zona -
- Perché tutta questa fretta...? - sospirò il musicista - Proprio non ti capisco -
Senza aggiungere altro, Xavier aprì una porta lungo il corridoio e vi entrò. Karol e Lawrence si scambiarono un'ultima occhiata di dubbio prima di seguirlo all'interno.
La stanza appariva come una classe scolastica. Vi erano banchi, sedie, un'ampia scrivania in legno e una lavagna. L'unica differenza è che non vi erano finestre. Sulla mensola di fianco la porta era poggiato un mappamondo perfettamente dettagliato. Sul muro in fondo era fissato un appendiabiti, e un orologio a muro segnava l'orario: le quattordici in punto.
Karol abbozzò un sorriso.
"Finalmente un ambiente familiare"
Il ragazzo passò la mano lungo la scrivania, avvertendone la superficie liscia al tocco.
Xavier stava ispezionando i banchi, mentre Lawrence era intento a perlustrare il perimetro in cerca di chissà cosa.
Spinto dalla curiosità, Karol decise di controllare i cassetti della scrivania, dove era solito custodire tutte le proprie scartoffie.
- Sai, mi stavo chiedendo... - gli disse Lawrence dal fondo della stanza - Il tuo talento è davvero peculiare, Karol -
- Non sei il primo a farmelo notare - sorrise lui.
- Come è che sei stato proclamato "Ultimate Teacher"? Sei piuttosto giovane per essere un insegnante! -
- Saper istruire è un dono che chiunque può avere, a prescindere dall'età - spiegò Karol - Avere la capacità di plasmare una mente ed indirizzarla verso un fine nobile non è facile, credimi. Io credo di essere semplicemente bravo a farmi comprendere -
Lawrence Grace ridacchiò divertito.
- Devi essere uno in gamba, Prof! -
"Prof?" pensò Karol, sorpreso "Beh, non mi dispiace essere chiamato così"
- Senz'altro devi aver fatto più che qualche supplenza per aver meritato quel titolo, dico bene? - osservò Xavier.
Karol notò come ogni rimarco del compagno fosse quasi sempre una frecciata.
- Sì, beh... - rispose, vagamente imbarazzato - Potrei avere ottenuto qualche merito qua e là -
La mano dell'insegnante pescò a tentoni all'interno dei cassetti. Dentro vi trovò alcuni albi e quaderni completamente vuoti, immacolati.
Vi erano anche una riga, un compasso e una cartina geografica ripiegata su se stessa. 
La sua attenzione andò, però, verso le scatole di gessetti in fondo al cassetto. Il volto di Karol si illuminò.
- Ooh, del gesso. Ottimo! - disse, aprendo la scatola.
La sua reazione fu diversa dalle aspettattive. Vi era effettivamente del gesso all'interno della scatola, ma mischiati alle stecchette di solfato di calcio vi erano altri elementi di forma quasi simile.
Proiettili. Un'intera serie di proiettili dello stesso calibro. 
Karol appoggiò la scatola sulla scrivania, con mano tremante, incerto sul da farsi.
Un sospettò nefasto gli percorse la mente. Aprì l'ultimo cassetto solo per vederlo rendersi fondato.
Vi era una pistola. 
Agli occhi di una persona poco esperta poteva anche sembrare un giocattolo, ma Karol intuì che non era quello il caso. 
La prese meccanicamente tra le mani; non aveva mai toccato nulla di più tremendamente freddo.
Bastò poco prima che Lawrence notasse la situazione.
- Hey... HEY! Cos'è quella!? - esclamò il musicista a gran voce.
- Karol! - urlò Xavier - Che stai facendo!? -
L'insegnante si voltò di colpo, spaventato. Posò immediatamente la pistola sulla scrivania, quasi facendola cadere.
- Niente, n-niente! - si giustificò lui - La ho appena trovata nel cassetto! Ci sono anche dei... proiettili... -
I due accorsero subito. Guardarono Karol come a volerlo rimproverare di chissà quale atto osceno avesse compiuto.
- Cielo, Prof... - biascicò Lawrence - Non farci prendere questi spaventi... -
- Sono mortificato... -
Xavier scosse il capo e afferrò la pistola. Aprì il caricatore: era vuoto.
Karol e Lawrence lo videro armeggiare un po' con quell'arma. Dopo qualche attimo, Xavier estrasse dalla pistola un minuscolo meccanismo, grande quanto la punta di un dito.
- Così dovrebbe essere impossibile da utilizzare - disse - Provvederò a sbarazzarmi di questo componente più tardi. Voi tentate di liberarvi dei proiettili -
Gli altri due annuirono timidamente. Xavier si avvicinò a loro.
- Ecco perché vi ho detto che dovevamo fare in fretta - disse con freddezza - Dobbiamo impedire che questi oggetti vengano trovati dalle persone sbagliate -




In fondo ai lunghi corridoi del primo piano, il gruppo di Judith, Pierce e Kevin scoprì una rampa di scale che portava di sopra.
Kevin aprì la porta della grossa stanza trovata appena all'inizio del secondo piano.
Il suo volto si illuminò: era una serra.
- Ooh, bene! - esclamò, compiaciuto - C'è anche qui! -
I tre esplorarono con cura ogni angolo della stanza. Era suddivisa in tre piccoli corridoio, separati tra loro da degli scaffali su cui erano disposte numerose varietà di piante e fiori.
Pierce si chinò ad osservarne alcuni: ve ne erano di così tanti colori che quasi gli veniva la nausea.
Kevin trovò un piccolo spiazzo dove era stata fatta crescere dell'erba, e nell'angolo vi erano diversi pacchi di concime ammassati.
Judith aprì uno degli armadi all'inizio della stanza. All'interno vi era una pala, un rastrello, un innaffiatoio e diverse pinze dalle svariate dimensioni.
Avvertì un certo senso di disagio nel vedere altri tipi di strumenti: una piccozza, un falcetto da mietitura e delle cesoie.
Li tastò tutti con la mano: erano molto affilati.
Richiuse l'armadio alle proprie spalle, deglutendo.
- Cosa intendevi con... "anche qui"...? - chiese timidamente Pierce.
Kevin si voltò di scatto, quasi come colto di sorpresa. Era raro sentire la voce di Pierce.
- Ah, beh... mi ricorda l'orto botanico che ho visto alla Hope's Peak, durante l'orientamento - disse con imbarazzo - Certo, quel posto era enorme, più grande di casa mia. Ma anche questo non è male -
- Devi trovarti a tuo agio, in mezzo alle piante. Giusto? - sorrise Judith.
Kevin socchiuse gli occhi e inalò dell'aria a pieni polmoni.
- Sì. Mi aiuta a rilassarmi - rispose - Lavoro in orti e giardini da quando avevo sette anni. Ho visto ogni tipo di piante e fiori, ma l'odore della natura non mi ha mai stancato -
- Per qualcuno come l'Ultimate Botanist, l'amore per la vegetazione è alla base -
- Non lo nego - disse Kevin - E immagino che i fiori piacciano molto anche a te -
Il biondino indicò i capelli corvini di Judith: un grosso fermaglio, adornato con una rosa bianca, era bene in vista sulla tempia sinistra. Il contrasto tra bianco e nero lo rendeva facile da individuare.
- Ah, parli di questo...! - sorrise imbarazzata, sistemandosi il fermacapelli - Beh, i fiori mi piacciono molto, certo. Ma questo è più un ricordo... -
- Un ricordo piacevole, s-spero... - aggiunse Pierce.
Lo sguardo di Judith si perse nel vuoto per alcuni istanti. Pierce Lesdar parve confuso. Lei tentò di ricomporsi.
- E' una vecchia storia, di parecchio tempo fa - sorrise, senza aggiungere altro.
Gli altri due compresero che non era il caso di fare domande.
- Beh, abbiamo ancora un po' di tempo prima di tornare indietro a fare rapporto - osservò Kevin - Vi va di aiutarmi a fare un catalogo della serra? Potrebbe servire -
Non trovandoci nulla di male, Judith e Pierce cominciarono a spostare alcuni vasi e e fertilizzanti sotto le direttive di un entusiasta Ultimate Botanist.


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Capitolo 5
*** Capitolo 1 - Parte 2 ***


L'esplorazione del piano terra procedeva spedita grazie alla presenza di più squadre sparpagliate in giro.
Il gruppo di Rickard, Vivian e Hillary aveva deciso di controllare la parte centrale del piano, e si era diretta verso il corridoio principale.
- Questo posto è dannatamente enorme! - si lamentò Rickard - Ci si perde come nulla! -
- E' un bene che siamo in tanti ad ispezionare - asserì Vivian - Non riusciremmo a coprire l'intero piano da soli -
Vivian controllò un orologio appeso lungo il muro del corridoio: erano passate le due del pomeriggio.
- Abbiamo appuntamento alle cinque al ristorante davanti al dormitorio - disse lei - Controlliamo per bene in giro e poi torniamo indietro. Tutti d'accordo? -
- Certamente! - fece la voce squillante di Rickard.
Hillary non rispose, chiusa nel suo eterno silenzio.
Rickard si grattò il capo, cercando una soluzione al problema.
- Dai, Hillary, non essere così timida - la incitò lui - Abbiamo bisogno anche del tuo aiuto! -
Di tutta risposta, lei fece un passo indietro.
"Magnifico... sarà più dura del previsto
- Non darle fretta, Rickard - sorrise Vivian - Vedrai che con un po' di tempo capirà che non vogliamo farle del male -
Detto ciò, l'Ultimate Painter si decise ad aprire una delle porte dell'area. 
Vi era un'insegna posta all'angolo del corridoio, con su scritto "Laboratori Artistici".
Ciò che vi trovò, in effetti, rispecchiò le aspettative. 
Era una stanza circolare con un piccolo palco in legno, rialzato ad almeno un metro da terra. 
Sopra di esso, un grosso pianoforte calamitava l'attenzione, mentre diversi altri strumenti erano posti alle sue spalle.
Vi erano violoncelli, trombe, tamburi e alcune chitarre classiche. Persino un'arpa e vari oboe.
- Ce n'è per tutti i gusti - constatò Rickard.
- Senz'altro una sala molto fornita - annuì Vivian - Dovremmo riferirlo a Lawrence, una volta tornati -
- Ah, giusto! - esclamò Rickard - L'Ultimate Musician sguazzerebbe in questo bel posticino! -
I tre passarono in rassegna tutti gli strumenti che riuscirono a trovare.
Vivian esaminò attentamente gli strumenti a fiato: sembravano realizzati da un vero maestro, e nonostante non se ne intendesse come un'esperta, non le fu difficile capire che erano dei pregiati capolavori.
Hillary si avvicinò silenziosamente all'arpa e si dilettò a pizzicarne le corde, producendo una melodia rasserenante. Lo strumento era grande almeno due volte la sua statura, e l'effetto visivo era strano a vedersi.
L'unico che parve in apprensione fu proprio Rickard, che stava controllando il pianoforte. Il suo volto si contrasse.
- R-ragazze? Venite... - le richiamò lui.
- Tutto a posto? - intervenne Vivian. Il suo tono non le piaceva.
- Guardate qui... -
Rickard Falls indicò un punto sotto le corde dell'imponente pianoforte. Un oggetto fuori posto risaltava visibilmente all'occhio.
Vivian allungò la mano e lo pescò, avvertendone il freddo metallo al tatto. Era un coltello.
Si trattava di una lama lunga e affilata, scintillante come appena forgiata.
Il volto di Hillary si scurì di colpo, e indietreggiò spaventata. Come d'istinto, Vivian lasciò cadere l'arma e le si affiancò.
- No, Hillary, non spaventarti - la rassicurò lei - Nessuno ti toccherà con quel coltello, ce ne libereremo subito -
La ragazzina rossa tremava come una foglia, ma si calmò in breve tempo.
- Dici... sul serio? - chiese con un filo di voce.
- Non lo permetterò - il sorriso della bionda era caldo e materno.
Hillary afferrò lentamente la mano di Vivian tra le sue e, in pochi attimi, il suo volto si rasserenò.
"Io cambierei il suo titolo in Ultimate Baby Sitter" pensò Rickard sogghignando.
La sua attenzione si rivolse poi al coltello, ancora poggiato sul terreno. Lo raccolse con estrema cautela.
- Dovremmo... portarlo con noi? -
- Sì, credo sia la scelta migliore - disse Vivian, con apprensione - Non dovremmo essere gli unici a sapere della presenza di armi in questa scuola. Chiederemo aiuto su come eliminare questo coltello agli altri -
- Allora... per il momento lo terrò io... - mormorò Rickard, sentendosi la tasca del pantalone cinque volte più pesante.



- Ah-ha! Me lo sentivo! - esclamò Refia Bodfield, fiondandosi all'interno della stanza.
Il gruppo composto da Refia, Hayley e June si era diretto al secondo piano nella speranza di trovare qualcosa di utile.
Notando la felicità della compagna, le altre due si chiesero che cosa avesse trovato di talmente interessante.
Entrando, si resero conto che si trattava di una palestra.
Refia era già corsa avanti a gran velocità. Hayley la seguì a ruota.
- C'è davvero di tutto, qui! -
Hayley osservò l'attrezzatura sparsa in giro per la palestra. Vi era effettivamente un'ampia gamma di strumenti per fare esercizio.
Pesi e manubri, dei tapis roulant, attrezzi per la muscolatura persino un trampolino.
June diede un'occhiata complessiva alla palestra: era di forma rettangolare, e ai lati corti vi erano posizionati due canestri.
Era chiaro che la sala poteva fungere da campo di basket.
In un angolo della palestra vi era, inoltre, una polverosa porta verdastra in metallo che sembrava condurre in una sorta di ripostiglio.
Refia ci si era fiondata senza pensarci due volte.
- Fa attenzione, tu! - la rimproverò June - Non andartene a spasso senza di noi, è pericoloso! -
La ragazza dai capelli rossi si bloccò mentre tentava di aprire la porta, mostrando un'aria colpevole.
- Ma siamo le uniche, in questa stanza... - si lamentò - Che pericolo potrebbe mai esserci? -
- Credo che June intenda dire che la prudenza non è mai troppa - annuì Hayley, mediando la situazione.
- Non dimenticate che siamo stati tutti imprigionati in un luogo dove ci è stato detto di ucciderci a vicenda... - rinfacciò loro June - Credo che il minimo che possiamo fare è aspettarci qualche trappola anche nei luoghi più impensabili -
Refia incrociò le braccia e annuì.
- Ok, va bene, ti devo dare ragione - disse - Ma adesso che siamo tutte e tre voglio scoprire cosa c'è qui dietro -
June sospirò, mentre Hayley rise divertita.
- Bene, entriamo... -
L'interno era ancora più impolverato di quanto potesse apparire da fuori. Nello sgabuzzino, che era piuttosto lungo per essere tale, vi era una grossa cesta colma di palloni adatti a vari sport, attrezzatura varia, probabilmente di riserva, più altre chincaglierie che avevano accumulato più polvere che altro.
L'attenzione di Refia, però, andò verso un largo telone grigiastro in fondo alla stanza, che sembrava ricoprire qualcosa di altrettanto ingombrante.
Un sorriso luminoso le si piazzò in viso.
- Vuoi vedere che...! - mormorò la rossa, fiondandocisi sopra.
Alzò il telone; tutte le sue aspettative furono soddisfatte.
- Sì, sì! Una bici! - esclamò, raggiante.
- E sembra piuttosto... nuova - osservò Hayley con una certa ammirazione.
Il telaio e le ruote, a differenza del resto degli attrezzi presenti, erano lucenti e lucidi. Refia tastò con cura ogni singolo dettaglio della bicicletta, con mani tremanti.
- E' una "Super Orbis" ultimo modello...! - gemette di felicità - Un vero gioiellino! Guarda il manubrio, e la forma del sellino! Oh, senza parlare del materiale delle gomme e... -
- Ho capito, Refia, è una bella bici...! - rispose Hayley, tentando di porre fine al suo sproloquio.
Si rese conto che anche June aveva trovato qualcosa che soddisfaceva il suo interesse.
Un grosso arco all'avanguardia era appeso sul muro, chiuso in una teca senza lucchetto. Hayley notò come lo sguardo di June ne fissava con minuzia ogni particolare.
Appena di fianco vi era una faretra con un gran numero di frecce. June ne tastò la punta, avvertendone l'affilatura.
Le sue due compagne avevano modi molto diversi di esprimere ammirazione per qualcosa.
- Ti piace? - le chiese Hayley.
June si voltò di scatto.
- Sì... è davvero ben fatto - mormorò - Forse troppo -
- Che intendi dire? -
June si grattò il capo. I suoi capelli bianchi ondularono.
- Si tratta di un arco fantastico, di quelli che troveresti tra l'attrezzatura per le olimpiadi - disse - Nelle mani giuste, può diventare un'arma micidiale -
Refia ed Hayley si trovarono improvvisamente in difficoltà.
- Un'arma, eh...? -
- E hai intenzione di... prenderlo? - chiese timidamente Refia.
June lanciò loro un'occhiata curiosa. La loro attitudine si era completamente ribaltata nel momento in cui avevano fiutato un potenziale pericolo.
- No, è meglio se lo lasciamo qui - replicò lei - D'altronde è uno strumento complicato da usare; nessun novizio sarebbe capace di scoccare una freccia al primo colpo senza farsi male. Dubito che ci sia qualcuno tra noi in grado di utilizzarlo, al di fuori di me -
Hayley annuì, lievemente rincuorata. L'atmosfera, però, era ancora tesa.
June si rese conto di non aver migliorato il morale generale.
Unì le mani e si rivolse alle altre due.
- Va bene, ho un'idea - disse l'Ultimate Archer - Che ne dite di vedere quanto effettivamente può andare veloce quella bicicletta? -
Bastò poco a far ritrovare a Refia il sorriso.
- Sì! - esclamò, afferrando la bici per il manubrio.
- Dai, portiamola fuori! - Hayley si precipitò ad aiutarla.
June Harrier rise in maniera flebile.
Trovare un motivo per entusiasmarsi in un'arena della morte era un'impresa non da poco.


I quindici studenti si riunirono all'orario prestabilito al ristorante antistante i dormitori. Alcuni avevano una faccia decisamente più allegra di altri.
- Ricapitoliamo cosa abbiamo trovato - disse Alvin, esortando i compagni - Io, Pearl ed Elise abbiamo ispezionato qua attorno. Abbiamo scorte di cibo sufficienti per almeno un anno, e tutte le nostre camere sono attrezzate con i servizi igienici. Direi che non dobbiamo preoccuparci dei bisogni primari -
Karol prese la parola subito dopo.
- Io ho cercato lungo l'ala ovest del primo piano con Xavier e Lawrence - spiegò lui - Abbiamo trovato alcune stanze adibite a classi. In fondo al piano c'è la sala della caldaia, e appena poco più in là un deposito per i rifiuti. Sembra che lo smaltimento avvenga in automatico -
Quando Karol finì di parlare, Xavier posizionò sul tavolo quella che era palesemente una pistola, e una scatola colma di proiettili.
L'atmosfera si fece più pesante.
- Una p-pistola...? - balbettò Pierce.
- La ho manomessa, non funziona - lo rassicurò Xavier - Ma rimane pur sempre un'arma, e non sappiamo quante altre siano sparse in giro. E' chiaro che ce le hanno lasciate per facilitarci il... "compito" -
Rickard deglutì.
- Abbiamo trovato anche noi qualcosa... - disse, poggiando sul tavolo il coltello rinvenuto nel pianoforte - Non abbiamo notato altro di sospetto -
- Io, Rickard e Hillary eravamo nell'area centrale del primo piano, verso i laboratori artistici - si intromise Vivian, smorzando la tensione - Abbiamo trovato un mucchio di cose interessanti: una stanza piena zeppa di strumenti musicali, una piccola sala per dipingere e una sala computer! -
Il volto di Lawrence si illuminò. Xavier notò come la sua attenzione, nel sentire parlare degli strumenti, fosse completamente orientata altrove.
- Una sala computer, hai detto? - chiese June - C'era qualche apparecchio funzionante? -
Vivian e Rickard scossero il capo.
- Nulla che potessimo usare in maniera concreta, no - rispose - Ma abbiamo trovato... questa! -
La ragazzina bionda si avvicinò ad Elise e le porse un congegno grande appena un paio di pugni. Era una piccola videocamera.
Gli occhi di Elise Mirondo brillarono mentre le sue manine sollevavano con cura il piccolo dispositivo.
- Ooh...! - mormorò - Grazie mille! Era proprio ciò che mi serviva -
- E a cosa potrebbe mai essere utile quell'affare? - sbottò Pearl, imbronciata.
Cadde un silenzio imbarazzante.
- Beh, n-non saprei, ma... - balbettò Vivian, cercando una risposta decente - Ma pensavo che a Elise potesse piacere, quindi... -
- Mi aiuta a concentrare, ovviamente! - rispose energica Elise - Filtrando la realtà da una videocamera, i miei sensi diventato tre volte più affinati! -
- Ah, contenta te... - fu lo sconfortato responso di Pearl, che oramai aveva rinunciato a comprenderla.
Il gruppo si accontentò del fatto che almeno Elise era contenta.
- Ce ne erano altre di riserva, più alcuni pezzi di ricambio e delle memory card - concluse Vivian - Qualora ne avessi bisogno, ti basterà controllare nella sala computer -
L'Ultimate Camerawoman promise di farci un salto appena possibile; poi fu Judith a prendere la parola.
- Io, Kevin e Pierce abbiamo speso diverso tempo nella serra, al secondo piano -
- C'era una gran varietà di piante e fiori. Ho fatto un catalogo ben fornito - disse Kevin con una punta di orgoglio - Alcune di esse possiedono anche qualità mediche -
- Vi erano diversi attrezzi botanici... - raccontò infine Pierce - Ma oltre a questo non credo ci fosse nient'altro di utile -
Refia si intromise dinamicamente nella conversazione.
- Anche noi abbiamo gironzolato per il secondo piano! C'era una palestra appena sulla destra - disse con eccitazione - Era un posto magnifico! C'era davvero di tutto; io, Hayley e June abbiamo trovato una bici nuova di zecca! -
- Si, era difficile non notarla - le fece notare Xavier - La hai parcheggiata qui fuori... -
- C'erano molti attrezzi ginnici di vario tipo, non mancava nulla - Hayley fece uno sforzo di memoria. Il suo sguardo si illuminò, e si rivolse verso June.
L'arciera si grattò il mento e guardò verso il pavimento.
- Non c'era nient'altro degno di nota - concluse - C'era un'infermeria poco distante, ma il secondo piano va ancora esplorato come si deve -
Xavier notò una strana intesa tra gli sguardi di Hayley e June, ma decise di non porsi più domande del necessario.
- Direi che siamo a posto per oggi - stabilì Karol Clouds - E' tutto il giorno che ci diamo da fare. Propongo di prenderci una pausa e rilassarci un po' -
- Ci sto, sono distrutto... - sbadigliò Lawrence.
- Credo che ne approfitterò per farmi una doccia - annuì Kevin.
- Aww, ma perché non c'è una vasca da bagno...? - si lamentò Rickard, strisciando fuori.
- Chiudete a chiave le porte, mi raccomando - disse Alvin prima che tutti fossero troppo lontani per sentirlo - La prudenza non è mai troppa -
Poco a poco, quasi tutti furono tornati nelle proprie stanze. Il ristorante contava solo tre persone: Xavier, Karol e Pearl.
- Io credo che resterò qui ancora un po' - disse l'insegnante - E voi? -
- Prima di andare volevo assicurarmi di una cosa - rispose Xavier - Dov'è Michael? E' dal discorso di Monokuma che non lo vedo -
- Credo sia rimasto nella sua stanza per tutto questo tempo... - sospirò Karol - Conquistare la sua fiducia sarà complicato -
- La sua "fiducia"? - a Xavier venne quasi da ridere - A cosa potrebbe mai servirci? Si è trincerato e ci ha chiamati "potenziali assassini" fin dal principio. Uno emotivamente instabile come lui è soltanto una minaccia -
Karol assunse un'aria di rimprovero.
- Xavier, non puoi aspettarti che tutti affrontino questa follia con la tua stessa freddezza - gli disse - Michael è un essere umano come tutti -
- E infatti non mi aspetto che gli altri siano come me, ma è nella mia natura guardarmi le spalle da chiunque -
- Quindi ritieni che noi altri siamo... "quindici minacce"? -
Xavier si massaggiò l'occhio sfregiato. Il suo sguardo si contrasse.
- Solo coloro che non riesco a prevedere e controllare - rispose - Questo vale anche per te, Pearl -
La bionda era rimasta seduta in disparte per tutta la conversazione. Sentitasi chiamare in causa, ne risultò sorpresa.
- Oh? Ma davvero? -
- Lo ho capito che sei una tipa sveglia, Pearl Crowngale - le disse, il suo tono era lievemente sfrontato - Nei tuoi occhi non c'è la stessa innocenza che ho visto nelle altre ragazze. Non so che tipo di esperienze tu abbia vissuto, né come pensi e ragioni; ed è per questo che so di dovermi guardare da te. Sei pericolosa -
Karol non seppe più cosa dire. Sentì che tutto il lavoro per costruire un rapporto solido con i compagni fosse appena sfumato nel giro di una conversazione.
- Sei davvero certo di ciò che dici, Xavier? - chiese Pearl.
- Mi sembra scontato -
- Eppure è tutto al contrario - spiegò lei, con una strana luce negli occhi - Lascia che ti mostri che cosa intendo -
Bastò un momento; la figura di Pearl scomparve dal campo visivo di Xavier. Il ragazzo rimase sgomento per qualche attimo; anche con un solo occhio, non aveva mai messo in discussione la qualità della sua vista. Notò che Karol era rimasto esterrefatto quanto lui.
Ad un tratto, avvertì qualcosa di appuntito sul collo. Un'unghia, per la precisione.
Pearl era alle sue spalle; gli aveva bloccato il braccio sinistro, e la sua mano era ferma sul suo collo.
- Pearl! - la richiamò Karol - Che stai facendo!? Lascialo subito! -
La mano di Pearl tastò il collo di Xavier e ne avvertì il pulsare del sangue. Il ragazzo non fu capace di muovere un muscolo.
- Come dicevo, Xavier, io sono l'ultima persona di cui devi preoccuparti, qui dentro - gli sibilò all'orecchio - Perché se avessi voluto ucciderti lo avrei fatto molto, molto tempo fa. Mi basterebbe un dito per uccidere ognuno di voi, in qualsiasi momento; ma mi sto semplicemente adattando alle regole di questo posto. Quindi, fintanto che resterai al tuo posto e non mi darai motivo di essere infastidita, la tua testa resterà lì dove si trova. Oppure sarò lieta di darti un assaggio di ciò che "l'Ultimate Ninja" può fare -
Con quelle ultime parole, Pearl lasciò andare il braccio del suo prigioniero e lo spinse via. Diede loro le spalle e uscì a sua volta dal ristorante.
Xavier si massaggiò più volte il collo, mentre Karol si assicurò che non avesse riportato nessuna ferita.
Diede un ultimo sguardo alla sagoma di Pearl Crowngale; strinse i pugni.
"Ho sottovalutato questo gioco al massacro..." constatò "C'è gente molto più spaventosa di quanto mi aspettassi..."
 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 1 - Parte 3 ***


Nonostante il primo giorno fosse trascorso senza incidenti, la tensione non era diminuita all'interno del gruppo.
Lawrence Grace si alzò dal letto relativamente tardi; l'orologio segnava le undici passate.
Si sciacquò la faccia, indossò abiti puliti e si diresse verso il ristorante.
Vi trovò solo Rickard Falls e Kevin Claythorne, intenti in chissà quale discussione.
- Lawrence! - lo richiamò Rickard - Tempismo perfetto! Stavamo giusto per servirci da bere -
- Buona idea. Avevo giusto la gola secca - rispose compiaciuto - Cosa abbiamo sul menu?
- C'è praticamente di tutto - iniziò ad elencare Kevin - Acqua, succhi, soda, cedrata... -
Lawrence storse il naso.
- Ah, no! Niente bibite gassate! - le sue braccia si incrociarono in segno di diniego - Un artista del suono non deve riempirsi la pancia di aria in eccesso! -
- Giusto, giusto, mi trovo d'accordo - lo spalleggiò Rickard - C'è qualcos'altro? -
Kevin sorrise sotto i baffi.
- Certo, ho trovato numerosissime bustine di thè, e si dia il caso che ne sia un ottimo degustatore. Volete favorire? -
Gli altri due annuirono, pregustando la bevanda. Kevin si recò ai fornelli e mise l'acqua a bollire.
- Allora, hai dato un'occhiata al laboratorio musicale? - chiese Rickard.
- Non ancora, mi sono svegliato da poco. Intendo andarci appena dopo colazione -
Rickard annuì con convinzione.
- Mi ricordi moltissimo un personaggio di un film che interpretai qualche anno fa - disse con reminiscenza - Il titolo era "La melodia del cuore", se non erro -
- C'è una bella differenza tra un personaggio fittizio e il vero Ultimate Musician, credimi! - si pavoneggiò Lawrence.
- Non ne dubito, ma dopotutto apparteniamo a due ambiti abbastanza differenti -
- Tu sei un attore, giusto? - domandò Lawrence, tentando di ricordare.
- In sostanza sì - ridacchiò l'altro - Ma la mia specialità è il doppiaggio. Ultimate Voice Actor: Rickard Falls! La voce giusta per ogni occasione -
- Senz'altro hai una voce ben impostata, si sente - li raggiunse Kevin, portando un vassoio con tre tazze.
Da ognuna fuoriusciva una fragranza piacevole. Lawrence si scaldò le mani a contatto con la porcellana; avvertì un dolce tepore.
- Aah, il thè caldo - sospirò Rickard - Mi ricorda uno dei miei primi lavori, tanti anni fa; un film inglese dove in quasi ogni scena si trangugiava del thè -
- Immagino tu svolgessi il ruolo del protagonista - gli occhi di Lawrence brillarono - Come è normale aspettarsi da un Ultimate student! -
- A dire il vero io interpretai una ragazzina di sette anni che versava da bere... - il volto di Rickard arrossì di colpo.
Gli altri due tossicchiarono quasi all'unisono. Kevin non riuscì a trattenere qualche risata, mentre Lawrence appariva più esterrefatto che altro.
- I-inaspettato...! -
- Oh, suvvia, hai idea di quanti bambini ricoprano ruoli femminili? Hanno una voce ancora bianca! -
- Esigo di... sentirti all'opera per soddisfare la mia curiosità! - sentenziò Lawrence - In cambio potrai godere di una delle mie performance dal vivo! -
- Mi sembra un ottimo scambio - sorrise Kevin - E io vi preparerò il mio speciale thè alle erbe -
I tre ragazzi si strinsero la mano. L'affare era concluso.


Pierce Lesdar si aggirava con estrema cautela tra i corridoi del primo piano.
L'essersi svegliato in ritardo aveva fatto in modo che giungesse al ristorante dopo che tutti se ne erano già andati ad esplorare.
L'idea di rimanere da solo non gli andava per niente a genio.
Non appena svoltava un angolo, si guardava attorno per assicurarsi di non essere stato preso di mira da chissà quale incombente pericolo.
"D-dove saranno tutti quanti...?"
Tirò un altro respiro e proseguì lungo l'ala est del piano. Nemmeno la sua febbrile cautela poteva, però, salvarlo dalla carica di una ciclista troppo entusiasta.
Pierce avvertì il suono di un campanello leggermente in lontananza, ma quando si accorse di cosa si trattava era troppo tardi.
Una bicicletta rossa fiammante, dal colore acceso quasi quanto i capelli della sua proprietaria, gli si parò davanti all'improvviso.
Il ragazzo non riuscì a trattenere un grido di terrore. Il suo sguardo incrociò quello di Refia per appena un istante prima che questa premesse sui freni con tutta la forza che aveva. 
La bicicletta si fermò ad appena un metro dal suo volto terrorizzato, e Pierce capì di avere salva la vita.
- Pierce! Santo cielo! - esclamò Refia, correndo in suo soccorso - Mi hai fatto prendere un colpo! -
- S-s-sto bene... - gemette lui.
Hayley Silver arrivò di corsa. Teneva in mano quello che sembrava essere un cronometro.
- Aww! Maledizione! - sbuffò l'Ultimate Hiker - Ero sicura che stavolta avresti battuto il record! -
- Riproviamoci, Hayley, sono certa che la prossima sarà la volta buona -
Pierce, ancora impaurito e sempre più confuso, rinunciò a comprendere la situazione corrente fino a quando non intervenne qualcuno a spiegarla per lui.
Quel qualcuno era June Harrier, che suscitò immediatamente timore nelle sue due spericolate compagne.
- Che state facendo voi due...? - chiese inviperita l'Ultimate Archer.
- Acc... - sussurrò Refia - June ci ha beccate... -
- Stavamo testando la bicicletta...! - si giustificò Hayley - Refia va fortissimo! Hai visto che velocità!? -
- E vi sembra il caso di farlo per i corridoi!? Abbiamo una palestra per questo genere di cose! - le rimproverò June.
La ragazza dai capelli bianchi sentiva di star dando una strigliata a due sorelle minori particolarmente ribelli e poco sveglie.
- Una semplice palestra è un teatro troppo piccolo per me! - disse infine Refia - I corridoi del piano sono lunghi e ampi: una perfetta pista artificiale! -
- E poi se non ci teniamo in forma ingrasseremo in un batter d'occhio! - la spalleggiò Hayley, con determinazione.
June scosse il capo, stremata.
- Stavate per far del male a Pierce... - disse, aiutandolo a rialzarsi - E poi la tua frenata ha sporcato il pavimento! Guarda i segni delle gomme! -
Refia si grattò il capo, sbuffando. In effetti vi erano marchi evidenti di ruote lunghi un paio di metri.
- Hai... ragione... - sospirò lei - Ti prometto che pulirò tutto più tardi! -
- No, voi due prendete acqua e stracci e pulite ADESSO! -
- Sissignora... - la ciclista e l'avventuriera dichiararono apertamente la loro sconfitta.
Pierce guardò le tre ragazze allontanarsi. June teneva le altre due per le orecchie.
- Cosa... cosa è successo? - si chiese l'Ultimate Sewer, incapace di darsi una risposta definita.


Pearl Crowngale decise di dare un'occhiata nell'area dei laboratori artistici.
Durante la giornata precedente non le era stato possibile esplorare le zone che preferiva, e una volta liberatasi dai vincoli del team poté finalmente cercare nelle zone che più stuzzicavano il suo interesse.
Alvin era stato chiaro al riguardo: "Anche nei giorni in cui non esploriamo, evitate di rimanere da soli".
- Bah, come se avessi bisogno di qualcuno che mi guardi le spalle... - disse tra sé e sé.
La sua prima tappa fu la sala di disegno.
Entrò all'interno solo per scoprire di essere stata preceduta.
Vivian Left era seduta su di uno sgabello davanti ad una tela; la sua mano teneva saldamente un pennello già sporco di vernice.
Pearl rimase a guardare in silenzio l'artista all'opera: il suo tratto era dolce e delicato. Le piccole mani di Vivian sembravano quasi carezzare la tela con la liscia e morbida punta del pennello.
Pearl ammise a se stessa che stava assistendo ad uno spettacolo interessante. Dopo qualche attimo, l'artista si accorse della presenza della spettatrice.
- Pearl! Non ti ho sentita entrare -
"Se la prima che passa mi sentisse arrivare, sarei la vergogna del mio campo lavorativo..." osservò la ninja.
- Stai dipingendo qualcosa? - chiese.
- Nulla di elaborato - sorrise l'altra - Giusto un po' di esercizio con elementi casuali -
La giovane mostrò la tela: aveva ritratto degli oggetti comuni che aveva visto sulla scrivania. Lo stile era pulito e lineare, sebbene il disegno fosse stato appena abbozzato. La ninja intuì che il suo talento consisteva anche nel rendere speciali le cose più insignificanti.
- Prego, continua. Non intendo disturbarti - annuì - Ti va se resto a guardare? -
Vivian sorrise caldamente. 
- Affatto! Mi fa piacere avere del pubblico -
Pearl passò ad osservare il laboratorio di pittura. Era una stanzetta quadrata piuttosto piccola, ma sembrava più stretta a causa della confusione.
Vi erano tele bianche dappertutto, accatastate. Sulla sinistra, una scrivania riempiva l'intero lato del muro.
Sopra vi era ogni sorta di colore in vernice e pennelli assortiti, più matite, compassi e alcune squadre.
In mezzo alla stanza vi era un ingombrante tavolo di marmo con sopra numerosi fogli e strumenti.
Pearl intuì che potesse servire come ripiano da disegno, ma la sua grandezza risultava comunque fuori posto rispetto ad una stanza così piccola.
L'entrata della stanza era costituita da un minuscolo atrio che dava direttamente sulla stanza.
Pearl lo percorse in appena due passi, e quando fu effettivamente dentro si accorse di non essere l'unica presente, oltre a Vivian.
Seduta su una sedia nell'angolo destro della stanza, Hillary Dedalus la fissò senza battere ciglio.
"E' così minuscola e silenziosa che non ne ho avvertito la presenza..." osservò la bionda.
- Ah, non fare caso ad Hillary - le disse l'Ultimate Painter - E' molto taciturna. Le piace la mia compagnia, e a me piace la sua -
- Sicuramente la compagna ideale per un esercizio che richiede concentrazione - osservò Pearl - Ma non capisco se la sua è pura timidezza o c'è dell'altro -
Vivian scosse il capo. Si alzò dallo sgabello e si diresse verso Hillary porgendole la mano; quest'ultima la afferrò senza pensarci.
- Hillary è semplicemente spaventata. E' perfettamente normale se consideri la situazione in cui ci troviamo - asserì la pittrice, carezzandole il capo.
- Lo immagino, ma prima impara a cavarsela da sola e meglio è -
Lo sguardo di ghiaccio di Pearl penetrò a fondo negli occhi di Hillary, che passò a nascondersi dietro Vivian, gemendo flebilmente.
- Pearl! - il tono di Vivian era colmo di rimprovero.
La ragazza sospirò.
- Sto cercando di farle capire che forse non potremo proteggerla in eterno... -
Calò un ulteriore silenzio nella stanza. Vivian Left deglutì con sforzo. Passò la mano tra i capelli di Hillary una seconda volta, con molta dolcezza.
Pearl non riuscì a capire se lo fece per dare coraggio all'amica, o a se stessa.


Un altro giorno era trascorso, e il dormitorio era calato nuovamente nel silenzio del riposo notturno.
Le luci della scuola erano ancora mezze spente, segno che il mattino non era ancora giunto.
Karol Clouds diede uno sguardo all'orologio non appena si alzò dal letto: erano le sei a quarantacinque.
Fece una doccia rapida e indossò uno dei suoi completi. Sistemata la cravatta, il giovane insegnante uscì dalla propria stanza e girò la chiave.
Si guardò attorno nel piazzale; di certo non si aspettava di trovare qualcun altro già in piedi, come lui.
L'enorme sagoma di Alvin Heartland fece capolino in fondo al piazzale, accanto al gigantesco portone elettronico dove, appena due giorni prima, Monokuma aveva fatto il suo ingresso in scena.
Karol gli si avvicinò e lo salutò con un sorriso.
- Buongiorno -
- Altrettanto, Prof - lo salutò lui - Spero che non ti dispiaccia se utilizzo il nomignolo coniato da Lawrence. Tutti gli altri lo hanno trovato divertente -
Karol si sentì in leggero imbarazzo.
- Al contrario, mi scalda il cuore - ammise - Ciò che voglio è stabilire un legame di affabilità con il resto del gruppo. Un buon insegnante sa porsi al livello dei propri studenti -
- Parli davvero come un vero professore - annuì Alvin - Sono certo che quel titolo te lo sei meritatamente guadagnato -
- Così come non deve essere facile ottenere la nomea di "Ultimate Guardian", dico bene? -
Alvin, a braccia conserte, guardò verso il soffitto come per cercare una risposta.
- Sì, mi sono impegnato molto - disse, socchiudendo gli occhi - Ma c'è chi, nemmeno con la mia forza, riesco a proteggere -
- Non puoi pretendere di essere perfetto. Nessuno lo è -
- Ma dal mio lavoro dipendono le vite dei miei protetti - continuò Alvin - Non posso permettermi errori. E spesso questa cosa non mi fa dormire -
- E' per questo che sei sveglio così presto? - gli chiese Karol.
Alvin Heartland ponderò una risposta.
- In parte sì, ma oramai sono abituato a questi orari. Quasi sempre mi sveglio alle quattro, e spesso non dormo neppure, se ho qualcosa per la testa -
- Il tuo zelo è lodevole, ma non esagerare - lo ammonì Karol con empatia - Come tuo insegnante temporaneo, ho a cuore la tua salute -
- Prometto di riguardarmi - sorrise il grosso guardiano - Ma piuttosto, volevo sottoporre un dettaglio alla tua attenzione -
Karol Clouds lo guardo con fare interrogativo.
- Di che si tratta? -
- Di questo -
La mano di Alvin indicò un'immagine digitale comparsa su un display appena di fianco al portone.
Sullo schermo era raffigurato quello che l'Ultimate Teacher intuì essere un disegno.
Vi erano sedici, piccoli riquadri; ognuno di essi presentava all'interno una sagoma stilizzata dalle sembianze più o meno umane.
Il tratto era approssimativo, sembrava quasi prodotto dalle mani di un bambino. Ma Karol capì subito che cosa rappresentavano quei sedici omini raffigurati.
- Siamo... siamo noi? -
- Sì, è una sorta di... strano disegno che ci rappresenta -
- Lo avrà fatto Monokuma? - ipotizzò l'insegnante.
- O chiunque ci sia dietro quella sciocca mascotte - sbuffò l'altro - Ma c'è qualcosa di più preoccupante. Leggi la frase scritta appena sotto... -
Karol aguzzò la vista. Un brivido gli percorse la schiena.
Appena sotto la griglia quattro per quattro vi era un messaggio: "SOPRAVVISSUTI".
I due rimasero in silenzio.
Il significato di quell'immagine appariva scontato.
Karol scosse il capo.
- Non mi lascerò intimidire da queste stupidaggini - rispose con decisione - Alvin, ho intenzione di tenere alcune lezioni in una delle aule del primo piano -
- Lezioni? - si chiese il guardiano.
- Sì. Anche in queste condizioni, un liceale deve avere la possibilità di tenersi al passo con i programmi senza svalutare la propria istruzione. Metterò una nota al ristorante; tu potresti dirlo a quelli che incontri? Siete tutti invitati a partecipare -
Alvin Heartland sorrise.
- Un'iniziativa niente male, Prof -
- Dobbiamo cementare il nostro rapporto - spiegò Karol, entusiasta - Prevenire qualunque possibile problema è prioritario. Tutte le mattine alle nove in punto. Non tardare! -
Karol si congedò, avviandosi verso il ristorante. Alvin lo salutò con un cenno, promettendogli di presenziare alla prima occasione.
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 1 - Parte 4 ***


Judith si versò del thè caldo in una tazza, l'unica cosa che riusciva davvero a digerire al mattino.
Trovò il primo posto libero per sedersi, accomodandosi vicino ad Elise.
Il ristorante era piuttosto rumoroso, ma alla ragazza la cosa non dispiaceva. Il fatto che i suoi compagni fossero riuniti non poteva che essere un bene.
Notò che Elise aveva già iniziato ad utilizzare la videocamera trovata da Vivian; negli ultimi due giorni era stato impossibile vederla senza di essa.
Il tavolo di Lawrence e Rickard era il più chiassoso; i due sembravano aver trovato diversi interessi in comune.
June e Vivian sembravano discutere placidamente di qualcosa; notò addirittura Hillary unirsi sporadicamente alla conversazione.
Judith diede un altro sorso e socchiuse gli occhi come per riposarli.
"Per ora va tutto bene" pensò soddisfatta.
Come sua abitudine, ogni mattino faceva una rigorosa conta dei presenti; una sorta di piccolo rito personale per tranquillizzarsi.
Cercò con lo sguardo i compagni, contandoli uno ad uno e, una volta finito, scoprì di averne elencati tredici.
Tre persone mancavano all'appello: Karol, Hayley e Michael.
Non si sorprese dell'assenza del ragazzo occhialuto; il terrore nei suoi occhi ogni volta che lo incrociava nei pressi del dormitorio le aveva fatto capire che non era ancora pronto a vivere in gruppo. Judith pregò affinché il compagno cessasse di temere di essere aggredito non appena messo piede fuori dalla stanza.
- Dove sono Hayley e il Prof? - domandò all'intera sala.
- Karol è nella classe B del primo piano - le rispose Alvin - Sono quasi le nove, quindi probabilmente starà preparando una lezione -
- Oh, giusto! - ricordò Vivian - Ieri aveva detto di voler organizzare qualche sessione di studio -
Rickard storse il naso.
- Studiare...? - si lamentò - In questa situazione!? Non riuscirei mai a concentrarmi! -
- Però, uhm... - Elise cercò di esprimere il suo concetto - Come dire...? Non capita tutti i giorni di poter seguire una lezione dell'Ultimate Teacher, no? -
- Approfittarne è una buona idea - asserì Pearl - Credo che andrò a dare un'occhiata -
Judith annuì, decisa a sentire ciò che Karol aveva da insegnare. 
- E quanto ad Hayley? -
Lì vi fu il silenzio. A risponderle fu l'espressione palesemente imbronciata di Refia.
- Uff...! - brontolò la ciclista - E' in ritardo! Eravamo d'accordo per fare altri test con la bici...! -
June tossicchiò come per esprimere in maniera non troppo velata il suo dissenso.
- E' in ritardo...? - Judith tentennò - Strano, in genere è parecchio mattiniera... -
Avvertì un senso di disagio. Sentì il bisogno di chiedere conferma.
- Qualcuno la ha vista? -
- Io sono stato il primo a svegliarmi - disse Alvin - Ho visto uscire praticamente tutti dopo di me e Karol. Michael e Hayley non hanno mai lasciato la stanza -
Judith e Refia si guardarono; entrambe riuscirono a vedere nell'altra una sensazione spiacevole.
Refia scattò in piedi.
- Io vado a controllare -
- Non farti prendere dal panico - la tranquillizzò Xavier - Se Alvin ha visto tutti noi uscire dalle nostre stanze non vi è motivo di credere che qualcuno le abbia fatto qualcosa -
- Ma c'è ancora Michael...! - gemette la ciclista - E ad ogni modo questo suo ritardo è sospetto. Io voglio andare a vedere come sta! -
- Vengo con te - le disse Judith - Andare da soli non è prudente. Voi altri rimanete qui, d'accordo? -
Un velo di insicurezza si sparse rapidamente lungo tutta la sala. Alvin si prese la libertà di parlare a nome di tutti.
- Va bene, noi tutti attenderemo qui il vostro ritorno senza muoverci - affermò - Qualcuno ha obiezioni? -
Nessuno ebbe da ridire, e Refia e Judith si precipitarono verso il dormitorio.
Superarono in fretta il piazzale e si diressero verso la stanza di Hayley, la numero sette.
Refia, più che bussare alla porta, batté con forza.
- Hayley! Mi senti? - esclamò - Sei lì dentro? -
Non vi fu risposta.
Le due si guardarono all'unisono. Judith afferrò istintivamente la maniglia della porta e la girò.
Con sua sorpresa, si rese conto che era aperta.
Un brivido le percorse la mano mentre apriva la porta, fiondandosi all'interno. 
La stanza era in ordine, niente era fuori posto. Il loro sguardo vagò febbrilmente in cerca di qualsiasi segno di vita.
Lo trovarono appena davanti.
Trovarono Hayley ancora stesa sul letto; respirava.
Il suo colorito non era dei migliori, e pareva stare sentendo dell'acuto malessere.
- Hayley! - Refia le poggiò delicatamente una mano sotto il capo e la mise a sedere. 
L'Ultimate Hiker aprì gli occhi.
- Refia...? -
- Come stai? Ci siamo preoccupate...! -
La ragazza scosse il capo.
- Mi sono sentita... parecchio male -
- Ti capita spesso? - le chiese Judith - Hai una faccia tremenda. Dobbiamo portarti in infermeria -
La ragazza mise i piedi a terra scuotendo il capo.
- No, no, non vi è bisogno - gemette - Mi basterà fare due passi e la nausea andrà via. E' già successo -
- Vieni, fatti aiutare ad alzarti -
Refia e Judith le afferrarono le braccia e la sollevarono da entrambi i lati. Hayley necessitò qualche altro secondo, ma riuscì a tenersi da sola in piedi in breve tempo.
- Grazie, ragazze... - sorrise lei.
Judith scosse il capo, facendole cenno di non ringraziarla.
- Dai, usciamo -
Fecero per recarsi fuori dalla stanza quando una sagoma sbarrò loro la strada. Le tre ragazze distinsero la figura di Michael.
Il suo volto era contratto in un'espressione di dubbio.
- Che cosa state facendo, voi tre? - chiese.
- Aiutiamo Hayley a rimettersi in sesto - rispose Refia - Ci daresti una mano? -
- Una... una mano!? - Michael pareva quasi adirato a causa di quella proposta - Ma vi sentite!? State aiutando qualcuno che potrebbe tranquillamente pugnalarvi alle spalle domani stesso! -
Judith non riuscì a credere alle proprie orecchie.
- E dovremmo lasciarla qui, incapace di muoversi, senza importarcene!? - lo aggredì l'Ultimate Lawyer - Sei forse impazzito? -
- Una rivale in meno di cui preoccuparci... - gli occhi di Michael fissarono Hayley con sdegno - Se continuate a fidarvi di chiunque, finirete uccise! -
Judith si accorse che Refia era già pronta a scattare e travolgere Michael, ma fu abbastanza pronta da tenerla a freno.
Sentì il sangue della ciclista pulsare più rapidamente che mai; la sua pelle era diventata rossa, divampante come la sua chioma.
- Refia... la priorità è Hayley, non Michael -
- Ma lui...! -
Il ragazzo diede loro le spalle e fece per andarsene.
- Fate ciò che volete... io vi ho avvertite - disse loro rintanandosi nuovamente nella sua stanza.
Una piccola lacrima scese lungo la gota di Hayley Silver.
- Mi dispiace... -
Refia le scrollò le spalle con vigore.
- Non dirlo nemmeno! Non sei tu il problema! - poi il suo sguardo si rivolse verso la stanza numero quattro - Quel ragazzo è un mostro...-


La mattina trascorse senza che l'esplorazione andasse avanti.
Le condizioni di Hayley migliorarono a vista d'occhio nel momento in cui uscì dalla stanza. Dopo una breve passeggiata e una buona tazza di thè caldo, il suo volto tornò di un colore normale e Judith riuscì a tirare un sospiro di sollievo.
- Ci siamo davvero spaventati... - disse Karol, tornato non appena la notizia gli era giunta.
- Vi chiedo scusa, ragazzi - sorrise Hayley con imbarazzo - Non volevo allarmarvi -
- Vedi di evitare le tue gare di corsa mattutine con Refia, almeno per un po'... - la rimproverò June - O starai male di nuovo -
L'avventuriera fu costretta a promettere di rimanere a riposo. Refia la consolò come poteva.
- Non temere, farò anche la tua parte! -
- Piantala, tu... - fu il commento acido dell'arciera.
- Beh, come pensiamo di fare adesso? - Xavier si intromise, richiamando tutti - Capisco che Hayley debba rimanere a riposo, ma noi faremmo meglio a procedere con le ricerche -
L'idea fu accolta da tutti.
- Non è un brutto piano, ma qualcuno deve rimanere con lei - osservò Lawrence.
- Ci penserò io - disse June - Refia mi darà una mano. Nel tenere d'occhio queste due sono un'esperta, oramai -
A Hayley Silver scappò da ridere.
- Va bene, mamma! - le rispose - Ma a stare ferma mi verrà di nuovo la nausea. Facciamo una passeggiata qua attorno -
- Bene - concluse Pearl - Riorganizziamo i team e dividiamoci. Ci rivediamo qui al ristorante verso sera -
L'intero gruppo passò di nuovo a sparpagliarsi lungo la scuola.
A gruppi di tre, uscirono dal ristorante per recarsi ad esaminare le parti restanti del secondo piano.
Un unico gruppo rimase indietro, tra tutti quelli presenti.
Elise Mirondo e Hillary Dedalus si fermarono per qualche minuto al ristorante sotto richiesta del loro compagno di squadra.
Alvin Heartland si avvicinò a loro con fare pensieroso.
- Vorrei parlarvi di qualcosa - sussurrò.
Elise ed Hillary lo squadrarono.
- Di che si tratta? - fece la Camerawoman.
- Vorrei il vostro aiuto - rispose secco lui - Mi era venuta un'idea, e credo di aver bisogno della vostra assistenza -
Hillary si strinse nelle spalle, ma fu propensa ad ascoltare.
Elise era altrettanto incuriosita. 
Il grosso ragazzo avvicinò il capo verso di loro. Notò come Alvin si era posizionato di fronte ad Hillary, rendendo ancora più evidente la loro differenza di altezza. Alvin doveva essere alto più di un metro e novanta, mentre Hillary a malapena raggiungeva il metro e sessanta.
- Vorrei visitare con voi la sala computer - disse - Vivian ha detto che c'erano delle altre videocamere e numerosi pezzi di ricambio, giusto? -
- Giusto - rispose Elise.
- Tu sei esperta nel loro uso, Elise - disse - E, da quel che ricordo, Hillary è l'Ultimate Clockwork Artisan. Intuisco che tu sia familiare con congegni di quelle dimensioni. Dico bene? -
La ragazzina raschiò il dorso della mano sinistra con le unghie dell'altra.
- La mia specialità è la realizzazione di orologi... - rispose - Ma conosco la fattura basilare di qualsiasi congegno elettronico, sì... -
- Saresti in grado di distinguere le componenti di una videocamera con l'aiuto di Elise? -
- Sì, credo di sì -
- Qual'è la tua idea, Alvin? - chiese infine Elise.
Il grosso ragazzo si schiarì la voce.
- Se riuscissimo a farne funzionare un buon numero potremmo creare un nostro sistema di videosorveglianza - disse loro - I rischi diminuirebbero drasticamente, non trovate? -
Elise si massaggiò il mento.
- Non sembra un brutto piano... -
- Se ci sbrighiamo riusciremo a concludere entro oggi - le incitò Alvin - Le prenderemo e le posizioneremo in punti strategici, in modo da coprire quanto più spazio possibile. Cosa ne dite? -
Le altre due parvero rifletterci.
- Va bene, mi sembra sensato - affermò Elise - Lo diciamo agli altri? -
- A lavoro finito, sì -
Seppure scarsamente convinta all'inizio, Hillary dovette ammettere a se stessa che sembrava un piano razionale. Annuì flebilmente, dando un cenno di assenso.
- Ok, facciamolo... -
I tre si strinsero la mano.


Le ricerche erano durate fino a sera tarda. Il gruppo non era riuscito a trovare un piano oltre il secondo, ma l'ispezione era stata eseguita con minuzia.
La scuola aveva iniziato a prendere una sua forma ben definita nella mente di Xavier.
Dopo aver cenato ed essersi coricato, il ragazzo si accorse di essere più stanco del solito.
Era il quinto giorno dall'inizio della loro reclusione, e la stanchezza e lo stress cominciavano a farsi sentire.
Xavier Jefferson dormì malissimo quella notte. Si svegliò che erano appena le sette del mattino; il suo viso presentava un bel paio di occhiaie scure.
Si alzò dal letto e si stiracchiò.
Dopo la routine mattutina fece per uscire dalla stanza, quando notò che il suo cestino dei rifiuti aveva accumulato qualche cartaccia di troppo.
Negli ultimi giorni aveva preso molti più appunti sulla propria situazione di quanto ve ne fosse bisogno.
Chiuse il sacchetto e lo portò con sé.
Il piazzale era completamente vuoto.
Lo superò in fretta, e passò davanti al ristorante senza entrarvi. Notò che dentro non vi era quasi nessuno, appena una o due figure.
Ripercorse mentalmente la strada fino al deposito di imballaggio rifiuti.
Si trovava nei pressi dell'angolo in fondo all'ala ovest del primo piano, vicino al corridoio della caldaia.
Impiegò diversi minuti per raggiungerlo a piedi, rallentato dalla stanchezza accumulata.
Passando davanti alle classi, dove Karol aveva tenuto alcune lezioni mattutine, notò un dettaglio differente.
Su dei ripiani sopraelevati del colonnato che seguiva i corridoi vi erano posizionate delle videocamere, estremamente simili, se non uguali, a quella usata quotidianamente da Elise.
- Cosa ci fanno lì...? - si chiese.
Appuntò nella lista di cose da fare il chiedere spiegazioni al riguardo, e passò oltre.
Il deposito era a portata di vista.
Ne aprì la porta solo per notare la presenza di Pierce Lesdar al suo interno. Questi si girò di scatto, spaventato.
- Ah! Xavier...! -
- Ciao, Pierce - gli disse con nonchalance, gettando il sacchetto in mezzo agli altri rifiuti - Già sveglio? -
- S-sì... - disse lui, guardando altrove - Non riuscivo a dormire -
- Siamo in due - Xavier lo fissò col suo unico occhio - Non dovresti stare qui da solo, lo sai bene -
Pierce abbassò lo sguardo.
- Ma anche tu sei da solo, Xavier... - rispose con un filo di voce - Non hai paura? -
- Ma a differenza tua sono capace di difendermi un minimo - gli rinfacciò lui - Nella giungla sopravvivono i forti, e i deboli si fanno difendere. Tienilo a mente -
Pierce assunse un'espressione contrariata, ma non si pronunciò ulteriormente.
Xavier sospirò.
"Provocarlo non serve a nulla. Non è come Pearl" constatò.
- Dai, non prendertela - si scusò Xavier, ma con tono poco interessato - Torniamo insieme al ristorante e mangiamo qualcosa -
- Sì. Sì, va bene... -
I due uscirono dal deposito. Xavier notò un altro paio di videocamere sparse per la zona. 
Il sentirsi osservato non gli parve una sensazione gradevole.
- Pierce, sai qualcosa riguardo a quelle? - disse, indicandole.
- Le ho notate - rispose l'altro - Ma non ho idea di chi le abbia piazzate. Sarà stata Elise? -
- Plausibile. Dovremo chiedere spiegazioni - 
Decise di dare un'occhiata più da vicino al modo in cui erano state posizionate. 
Erano fissate in una singola direzione; Xavier intuì che il loro raggio di azione era limitato.
- Credi siano su entrambi i piani? -
- Non saprei - Pierce parve pensieroso - Ad esempio, guarda laggiù. Sul corridoio della caldaia non sembra essercene una -
Xavier fece qualche passò lungo la stradina verso la caldaia. Osservò con cura dietro l'angolo, con lo sguardo rialzato verso il soffitto.
Una videocamera era presente anche lì, ma era nascosta dietro l'angolo.
Soddisfatto della sua risposta, tornò con lo sguardo per terra.
Fu lì che accadde.
Notò qualcosa di strano, o per meglio dire: fuori posto.
In fondo al corridoio, davanti alla porta della stanza della caldaia all'angolo dell'ala ovest, vi era una sagoma distesa sul pavimento.
Xavier tentennò per un istante.
Si accorse di stare sudando copiosamente.
Si stropicciò l'occhio e lo riaprì. Non era un'allucinazione.
- Xavier...? - lo chiamò Pierce - Cosa c'è? -
L'altro non rispose. Avanzò verso quel qualcosa con un volto neutro, sembrava ipnotizzato.
Le braccia si contrassero. Il respiro gli venne lentamente a mancare. Avvertì un prurito innaturale lungo tutto il corpo.
Più si avvicinava, più quell'atroce sospetto natogli nella mente acquisiva forma e realtà.
Si fermò di colpo, incapace di credere alla sua stessa vista.
Davanti a lui si erse uno spettacolo agghiacciante.
Una bicicletta nuova di zecca era a terra, immobile. Poco avanti, Refia Bodfield giaceva in una pozza del suo stesso sangue.
Un oggetto oblungo era conficcato nel suo addome.
La mente di Xavier processò rapidamente ciò a cui aveva appena assistito; la sua pupilla si dilatò, le mani non smisero di tremargli. 
Per un istante, il suo intero corpo si era rifiutato di muoversi, incapace di far fronte ad un evento talmente improvviso.
Avvertì un rumore sordo alle proprie spalle.
Le gambe di Pierce avevano ceduto; il ragazzo tentò di urlare, ma non ci riuscì.
- Pierce... - la voce di Xavier era strozzata, ridotta ad un sussurro - Chiama gli altri -
L'Ultimate Sewer balbettò qualche parola incomprensibile.
- Xa... vier... lei... Re-Refia.... -
- CHIAMA GLI ALTRI, HO DETTO! -
Non ebbe bisogno di ripeterlo una seconda volta. Pierce scattò in piedi e corse via, in lacrime.
Nella mente di Xavier ritornò ciò che aveva pronunciato poco prima.
"Nella giungla sopravvivono i forti, e i deboli si fanno difendere..." ripensò, avvicinandosi al cadavere "A meno che non siano già diventati prede..."
Tastò con la mano il collo della ragazza. Non vi era più alcuna pulsazione, nessun respiro.
Il colore della pelle era già iniziato a svanire. I suoi capelli, di un rosso fiammante, erano come carboni di un focolare appena spento; come un fuoco soffocato e lentamente ucciso.
- E' cominciato... -
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 1 - Parte 5 - Indagini ***


Quindici persone erano riunite davanti alla sala della caldaia, oramai divenuta una scena del crimine.
Il corpo di Refia giaceva inerte sul pavimento, esattamente nella stessa posizione in cui Xavier e Pierce lo avevano trovato.
Nessuno ebbe il coraggio di pronunciare una parola.
L'unico suono era il singhiozzare di Hayley, incapace di trattenere le lacrime. Pierce si teneva la testa tra le mani, evitando di guardare il corpo.
Sul volto di ognuno vi era un misto di orrore, paura e sospetto.
- Lo sapevo... - gemette Michael - Sapevo che non bisognava fidarsi...! -
- Michael, non è il momento - lo rimproverò Karol - Capisco che è una situazione difficile da accettare, ma una nostra compagna è morta. Mostriamo un po' di rispetto... -
- Rispetto!? - il ragazzo occhialuto ribatté con forza - E' questo ciò a cui stai pensando!? Refia non è "morta"! E' stata assassinata! E l'unica possibilità è che a farlo sia stato uno di noi! -
Elise tentò di rammentare la descrizione del regolamento di Monokuma.
- In pratica... - disse con un filo di voce - Se non riusciamo a capire chi è stato, saremo tutti giustiziati tranne il colpevole? -
- E se lo individuiamo... - continuò Pearl - Solo quel qualcuno verrà eliminato -
Ad un tratto, la combriccola fu sorpresa da un annuncio vocale. Gli altoparlanti disseminati per l'istituto si attivarono all'unisono.
- Il ritrovamento di un cadavere è stato confermato - disse la squillante voce di Monokuma - Avete un'ora di tempo prima dell'inizio del processo. Allo scadere, riunitevi al piazzale dei dormitori! Usate saggiamente il vostro tempo! -
E con quelle parole, la voce svanì.
- Un'ora di tempo... - sussurrò Judith - Abbiamo un'ora soltanto per svolgere le indagini -
- Allora sarà meglio sbrigarci... - la voce di Xavier era stanca.
- M-ma qui stiamo parlando di... un omicidio! - sorprendentemente fu Hillary a parlare - E se l'assassino continuasse a...? -
- Non dobbiamo abbassare la guardia - continuò Alvin - Indagate con la massima cura guardandovi le spalle. Non sappiamo con chi abbiamo a che fare -
Rickard avvertì le proprie gambe tremare.
- Cristo santo... - biascicò il doppiatore - Perché dobbiamo fare tutto questo...? -
Hayley Silver mosse alcuni passi verso il cadavere della ciclista. Le si accasciò di lato, allungando la mano verso la sua guancia.
- Refia... - singhiozzò.
- Ferma! - Xavier le bloccò la mano prima che potesse sfiorarle la pelle ormai fredda.
- Cosa...!? - sussultò l'avventuriera, trattenendo a stento le lacrime - Cosa vuoi!? Non ho nemmeno il diritto... di darle un ultimo addio? -
- Il suo corpo è una prova, e non va inquinata - il suo unico occhio fissava Hayley con rimprovero - Non vorrei dover sospettare di te, Hayley -
La ragazza scattò in piedi; le sue mani erano strette a formare dei pugni.
- Prova... a ripeterlo! -
- Ora basta - Vivian si frappose tra i due - Refia sarebbe addolorata se vi vedesse così... -
- Già, datevi una calmata, voi due! - la spalleggiò Lawrence - Cavolo, litigare davanti ad una poveretta deceduta! -
June tirò Hayley da parte, aiutandola a calmarsi. Quando l'atmosfera fu ristabilita, Judith prese la parola.
- D'accordo, so che è una domanda un po' azzardata ma... - cercò le parole giuste - Dobbiamo analizzare il cadavere... per caso c'è qualcuno in grado di eseguire... un'autopsia? -
Non aveva molta fiducia in un responso positivo, ma con sua enorme sorpresa una mano fece capolino in mezzo alla folla.
Si girarono tutti: era Michael.
- Sì... - sbuffò lui - Ne sono capace... -
- Questa non me l'aspettavo...! - esclamò Kevin - Sei un medico? -
L'altro si sistemò gli occhiali.
- Bah, no. Non sono che un chimico... - rispose - "Ultimate Chemist", ma conosco benissimo l'anatomia umana e le scienze generali. Ho anche nozioni mediche sul curriculum... -
- Alla fine hai deciso di rivelare il tuo talento, eh? - lo punzecchiò Pearl.
- Tsk! Che cosa credi, che me ne sarei stato zitto e lasciassi che si sospettasse di me!? - le sbottò contro - Una ragazza è morta! Non c'è più nulla da nascondere, a questo punto! -
- Molto bene, Michael - asserì Xavier, infine - Judith, vorrei che controllassi il suo operato. Accertati che non combini nulla di sospetto mentre esegue l'autopsia -
La ragazza dai capelli corvini si voltò verso il compagno. Era la prima volta che si sentiva interpellata da Xavier. 
Le fece una strana impressione.
- Io? -
- Sei l'Ultimate Lawyer, no? - spiegò lui - Avrai avuto a che fare con qualche caso di omicidio, prima d'ora. Sei un minimo più esperta di tutti noi, in questa circostanza, mi sbaglio? -
- Non nego di aver gestito alcuni casi del genere... - deglutì - Anche se mai che mi riguardassero direttamente -
- Contiamo su di te, Judith - la voce possente di Alvin tentò di spronarla.
A quel punto, Xavier si voltò fissando negli occhi ognuno dei propri compagni.
Passò da Kevin ad Elise, da Hillary ad Alvin, da June a Pearl, da Rickard a Michael.
Da Judith a Karol, da Vivian a Pierce, da Lawrence a Hayley.
E, infine, voltò lo sguardo per un'ultima volta verso Refia.
"L'Ultimate Cyclist ha partecipato alla sua ultima gara, oggi..." pensò "E chi le ha spezzato le ali... è in mezzo a queste persone"
- Molto bene, ragazzi - annunciò Xavier - Abbiamo meno di un'ora. Diamoci da fare -
Tutti e quattordici annuirono. Le indagini cominciarono in quel fatidico momento.


Michael estrasse con estrema cura l'oggetto grondante di sangue dal corpo di Refia.
Fluido sanguigno ancora fresco sgorgò dalla ferita; Judith trattenne un conato di vomito.
Michael ripassò più volte l'arma tra le mani; era uno strumento lungo e sottile con un'estremità appuntita.
Non gli ci volle molto per decretare cosa fosse con estrema sicurezza.
- E' un freccia - affermò.
- Una freccia, dici...? - Judith tentò di ricordare - Ma non mi pare che qualcuno avesse trovato frecce nel corso delle indagini -
Hayley si fece avanti, timidamente.
- Ecco, a dire il vero... - esordì lei.
- Ti prego, dimmi che non ci hai tenuto nascosto un dettaglio talmente importante! - la voce di Michael era più che infastidita.
Hayley deglutì. Stava per rispondergli, ma June lo fece per lei.
- Io, Hayley e Refia abbiamo trovato un arco e una faretra in palestra - spiegò - Abbiamo celato l'informazione per non destare preoccupazioni -
- Oh, molto comodo! - sbraitò Michael - L'Ultimate Archer trova un arco, lo nasconde, e un cadavere sbuca magicamente con una freccia nell'addome! -
- E io avrei usato un'arma talmente ovvia!? - June era indignata - Avrei fatto prima a scrivere una confessione! -
Judith li separò.
- June, non intendo accusarti senza prove concrete - le disse la giovane legale - Ma se è vero che tu ed Hayley siete le uniche persone, in teoria, a sapere dell'esistenza dell'arco, allora dovrò trattarvi come principali sospettate -
June Harrier strinse i pugni con fermezza. L'accusa rivolta non le piaceva nemmeno un po', ma lasciò correre.
Sapeva di non avere elementi per discolparsi.
- Vi prego di rimanere assieme a me fino alla fine delle indagini - le rassicurò Judith - Così nessuno potrà aggiungere uteriori sospetti -
- Chiaro... -
- Va bene... -
Michael Schwarz mostrò un'espressione di disgusto nei confronti di June; poi tornò al cadavere.
- La freccia ha inflitto il danno fatale - confermò.
- C'è altro? -
- Sto controllando... - passò la mano lungo il corpo della ragazza. Il suo sguardo guizzò nella zona della testa - Un momento. Forse sì -
L'avvocatessa si chinò assieme a lui.
- Dove? -
- C'è un segno flebile sul collo - disse lui, con voce incerta - Come se qualcosa avesse fatto pressione -
- E' stata strangolata? -
- No, non credo - Michael ci ragionò su - E' lievemente arrossata; potrebbe essere stato il laccio del suo casco, per quanto ne so -
Judith Flourish annuì e si alzò in piedi. Passò in rassegna l'intero perimetro della zona.
- Il pavimento è sporco di sangue - disse - Ma non ci sono altri indizi. Il resto della zona è immacolata -
- Nessuna prova? - chiese June - Nessuna traccia dell'assassino? -
- Niente di niente... -
Il gruppetto andò ad ispezionare la bicicletta. Il mezzo era a pochi metri dal cadavere, lungo il corridoio.
Quando il chimico andò a controllare ogni singolo dettaglio della bici, il suo volto parve perdere fiducia.
- Niente di interessante neanche qui... - la sua voce era sconsolata - La bici sembra aver preso un urto, ma le dinamiche sono impossibili da decifrare -
- Un vicolo cieco, per il momento - osservò Judith, sempre più apprensiva - Refia è stata uccisa sulla sua bici, credo. Oppure potrebbe essere scesa -
- Ha davvero importanza? -
La ragazza si lisciò una ciocca di capelli scuri.
- Beh, l'arma del delitto è un arco, giusto? - constatò - Potrebbe fare la differenza -
- Va bene, va bene... meglio ricontrollare - Michael Schwarz sbuffò per l'ennesima volta - Mandiamo qualcuno a cercare questo dannato arco, nel frattempo -


Xavier allungò la mano verso il ripiano rialzato del colonnato.
Con un po' di fatica, riuscì a raggiungere la videocamere posizionata sopra di esso. Si tolse la polvere dalle mani e controllò che fosse ancora in funzione.
- Avrei bisogno di un chiarimento riguardo queste - 
Alvin ed Elise si fecero avanti.
- Siamo stati noi a posizionarle - affermò il bodyguard.
- Quando, dove e perché? - chiese imperterrito Xavier.
Elise abbassò lo sguardo.
- Volevamo... volevamo solo rendere la zona più sicura... -
- Elise, non dobbiamo giustificarci - la rassicurò l'imponente ragazzo - Le nostre intenzioni erano buone -
Xavier sospirò.
- Voglio solo capire tutti i dettagli della situazione -
- Io, Elise ed Hillary abbiamo preso le videocamere in eccesso dalla sala computer del primo piano - spiegò Alvin in maniera chiara e concisa - Volevamo creare un piccolo sistema di sicurezza fatto in casa. Io ed Elise ci siamo organizzati per farle funzionare e posizionarle -
- Hai detto che Hillary vi ha aiutati? - Xavier era sorpreso - Curioso -
- E' pur sempre l'Ultimate Clockwork Artisan - annuì Elise - Ha utilizzato i pezzi di ricambio per crearne un paio nuove. Rudimentali, ma funzionali -
- Non credevo che il suo talento ricoprisse anche il settore tecnologico -
Alvin sorrise.
- Non ti aspetteresti mai di cosa è capace una persona timida, ma talentuosa -
- Bando alle ciance, abbiamo del lavoro da fare - disse, afferrando tre delle videocamere - Queste tre erano le uniche attorno alla scena del crimine. Se c'è qualche indizio, lo troveremo qui -
Alvin fece un cenno ad Elise; quest'ultima azionò la prima videocamera, selezionando i video registrati.
Una clip di diverse ore era stata salvata come la più recente.
Elise mandò avanti veloce fino a quando non trovarono ciò che cercavano.
Il video mostrava Refia Bodfield in groppa alla sua bicicletta. Apparve sulla pellicola per appena un momento, poiché stava sfrecciando a gran velocità lungo i corridoi.
- Ok, dalla prima è tutto - disse Xavier - Guardate l'orario. Alle sei e trenta Refia ha imboccato il corridoio nel quale è stata trovata morta -
- Dobbiamo presupporre che il decesso è avvenuto a quell'ora? - chiese Elise.
- Lo capiremo con il secondo video. Stavolta è la videocamera posizionata all'uscita del corridoio, appena dopo svoltato l'angolo -
La registrazione andò avanti in maniera fluida. Anche stavolta, l'unica scena degna di interesse si manifestò verso la fine del video.
Durante lo scorrimento della clip, un freccia comparve sullo schermo. Pareva scagliata dalla posizione opposta a quella di Refia, viaggiando verso il punto in cui si trovava il corpo. Xavier trovò la cosa piuttosto scontata.
- E' una freccia... -
- E' LA freccia - corresse Alvin - Deve essere il momento in cui è morta -
- Non si vede chi la scaglia... - sospirò Xavier - Sarebbe stato troppo comodo -
- Non c'è nient'altro nel video? - Elise controllò una seconda volta.
- Niente. Compare solo la freccia - il ragazzo controllò nuovamente l'orario - Dunque... il dardo appare circa venti secondi dopo l'orario della clip precedente -
Elise ed Alvin si squadrarono.
- In pratica: Refia arriva al corridoio, e venti secondi dopo una freccia la uccide. Giusto? - Alvin tentò di dare ordine alla cronologia degli eventi.
- Non può che essere così. Controlliamo l'ultima videocamera -
Stavolta il processo fu più breve. Elise settò la registrazione all'orario che stavano investigando, e la cerchia di eventi si restrinse.
I tre ragazzi sgranarono gli occhi.
Appena pochi minuti dopo la presunta ora del delitto, June Harrier fece capolino dalla porta del bagno situato poco distante.
La figura della ragazza scomparve appena al di sotto della videocamera, muovendosi in direzione opposta alla caldaia.
Cadde un silenzio pesante.
- Mhh... - mugugnò Elise - June era lì... -
- Sarà opportuno rivolgerle qualche domanda .
Xavier annuì, ma con la testa era completamente altrove. 
Qualcosa di strano era appena avvenuto sotto i suoi occhi, ma il ragazzo non sapeva definire con esattezza cosa fosse.
Ricontrollò una seconda volta tutte le clip, per scrupolo.
Sentiva che il suo lavoro, lì, non era ancora giunto al termine.


Rickard e Kevin aprirono la porta in fondo alla palestra, sollevando un grosso strato di polvere.
Lawrence stette attento a non toccare nemmeno con un dito qualunque cosa fosse custodita lì dentro.
- Allora, Lawrence? - chiese Rickard - Trovato nulla? -
- C'è... di certo molta roba... sporca - esordì, infastidito - Ma credo anche di aver trovato ciò che cercavamo -
I tre si diressero all'interno dello sgabuzzino. Sul pavimento, assieme a diversi attrezzi e sporcizia, vi era un grosso arco professionale.
Kevin lo sollevò, avvertendone la pesantezza.
- Uno strumento imponente... - constatò.
- Hayley e June dicevano la verità: l'arco era qui - Rickard si massaggiò il mento - Ma io sono venuto qui un paio di volte, e non ho visto l'arco. Tanto meno non lo ho visto sul pavimento, così in bella vista -
I tre stettero in silenzio a riflettere per alcuni attimi.
- Il colpevole lo avrà preso e riportato qui - ipotizzò Kevin - Magari aveva fretta e lo ha lasciato cadere -
- Ma solo June ed Hayley, oltre a Refia, sapevano della sua esistenza. Giusto...? - si chiese Lawrence.
Nessuno seppe darsi risposta.
- Diamine, mi ricorda una delle mie interpretazioni di un paio di anni fa... - rimembrò Rickard con nostalgia - Un thriller investigativo. Alla fine il colpevole era la spalla del detective -
Lawrence scosse il capo con veemenza.
- N-non dire queste cose...! - lo rimproverò il musicista - E' già difficile riuscire a fidarsi delle persone che abbiamo accanto senza dover aggiungere altri dubbi! -
- Chiedo venia... -
- Però è davvero strano, non trovate? -
Fu Kevin a parlare.
Gli altri due lo fissarono, incuriositi.
- A cosa ti riferisci? -
- Al fatto che l'assassino abbia scelto di uccidere Refia... - osservò Kevin - Tra noi ci sono dei bersagli decisamente più abbordabili di una ciclista che scorrazza a tutta birra per i corridoi. Ad esempio... beh: noi tre... -
Lawrence ebbe un mancamento.
- Noi tre!? -
- Diciamocelo, se dovessi uccidere qualcuno, chi sarebbe? - si chiese Kevin - Un botanico magrolino, un musicista oppure un doppiatore, magari. Nessuno andrebbe dietro gente come Pearl o Alvin -
Rickard tremò.
- Mi stai inquietando, Kevin... -
- Hai ragione, perdonatemi... - disse, con rammarico - E' solo che... ho paura -
Lawrence gli elargì una pacca amichevole.
- E' vero, è una situazione in cui è normale avere paura - disse il musicista - Ma le paure possono essere superate, con una buona forza di volontà. E' ciò che il mio maestro mi diceva sempre, quando mi aiutò a superare il mio timore del pubblico -
- Tu? Ansia da palcoscenico? - ridacchiò Rickard - Stento a crederci! -
- Non ne dubito -
- E come hai fatto a superarla? - Kevin era molto incuriosito.
Lawrence fece uno sforzo di memoria.
- Beh, c'erano diversi stratagemmi... - Lawrence iniziò a fare un elenco - Il più famoso è di immaginarsi la platea in mutande, o di fingere che sia vuota -
- Metodi piuttosto noti, sì - asserì Rickard.
- Oppure il mio preferito: immaginare che il pubblico non abbia la faccia! -
Gli altri due rabbrividirono.
- Ma così è inquietantissimo! -
- Forse. Ma se non hanno un volto non puoi avvertire i loro sguardi giudicarti, no? -
Kevin Claythorne e Rickard Falls decisero di tornare a fare rapporto prima che la discussione degenerasse ulteriormente.
Non trovarono di loro gusto i bizzari metodi che l'Ultimate Musician aveva coniato per superare il panico da prestazione.


Un gruppetto composto da Vivian, Hillary, Pierce e Karol, e capitanato da quest'ultimo, stava esaminando la stanza della caldaia.
Era una sala rettangolare con un gigantesco impianto meccanico.
Il fulcro era la caldaia stessa, costituita da un imponente macchinario alto almeno tre metri e largo cinque.
Per quanto i quattro si sforzassero, non riuscivano a trovare niente che sembrasse vagamente essere un indizio.
- L'atto è stato compiuto qui davanti - osservò Karol - Possibile che non ci sia niente, qui dentro? -
- Forse dovremmo controllare gli alibi di tutti... - disse Pierce, esponendo la sua idea - Magari riusciremo a trovare qualche prova... -
Vivian scosse il capo.
- Abbiamo meno di mezz'ora rimasta per cercare indizi - disse la pittrice - Inoltre l'annuncio è stato chiaro: si terrà un processo. Avremo modo di deliberare sugli alibi più tardi, con tutti gli altri -
Pierce vide la sua idea venire garbatamente cestinata, e tirò un sospiro.
A quel punto, Vivian si voltò verso Hillary; la ragazzina si era appoggiata con la schiena al muro e si era seduta per terra.
Il suo volto era stanco.
- Va tutto bene, Hillary!? -
- E' tutto ok, grazie... -
Karol mostrò apprensione a sua volta.
- Vuoi che ti portiamo qualcosa da bere? O magari vuoi stenderti e riposare un po'? - disse, porgendole la mano - Oggi ci siamo svegliati tutti presto, quando ci sono venuti a chiamare per... -
Di tutta risposta Hillary la scostò, attaccandosi con le piccole mani al braccio di Vivian.
Karol tentò di velare la propria delusione.
- Hillary! Karol vuole solo aiutarti - le disse Vivian.
- Ma non sappiamo se Karol ha ucciso Refia... giusto? -
Quelle parole colpirono l'insegnante come un colpo di pistola al cuore.
La piccola parlava poco, ma quelle poche volte che apriva bocca di certo non risparmiava i colpi.
- Dubiti di me, Hillary? -
- Non vorrei, ma non so chi è stato... - disse - Potrebbe essere stato chiunque. Tu, Pierce, persino Hayley. E io... io non voglio morire... -
- E di me? Non ti fidi nemmeno di me? - le parole di Vivian erano colme di dispiacere.
Hillary arrossì brevemente, scuotendo il capo.
- No... - sussurrò - Non sei stata tu, ne sono sicura. Con te mi sento... più al sicuro -
Vivian Left sentì un peso sollevarsi dal suo cuore, ma la cosa ancora non le andava a genio.
- Sono certa che, prima o poi, potrai fidarti anche di Karol e Pierce - sorrise lei - Loro non ti farebbero mai del male. Dico bene, ragazzi? -
Gli altri due, colti vagamente alla sprovvista, annuirono all'unisono.
- C-certo...! - balbettò il tessitore - L'ultima cosa che voglio è altra violenza -
- Non farei mai niente che possa nuocerti, Hillary. Te lo dimostrerò con i fatti - fu la chiara risposta del professore.
E, nel pronunciarla, Karol non riuscì a fare a meno di incontrare lo sguardo vagamente nervoso di Vivian.
Aveva detto a Hillary di fidarsi di loro, probabilmente per rassicurarla e non darle ulteriori preoccupazioni.
Ma Karol Clouds era convinto che, dietro le parole della pittrice, vi fosse un sentimento di dubbio e paura altrettanto forte.
Nemmeno Vivian Left, così calda e materna, si fidava di loro.
L'Ultimate Teacher si sentì come chiuso in una gabbia dalla quale non vi era uscita.


Elise Mirondo osservò il peculiare comportamento del compagno, al quale non riusciva a dare un senso.
Xavier stava agitando una mano davanti ad una delle videocamere, sbracciandosi nei modi più strani. Un atteggiamento bizzarro che Elise decise di rispettare, ma che la incuriosiva non poco.
- Xavier...? - domandò lei - Cosa stai facendo? -
- Un esperimento -
- E' per questo che mi hai chiamata in disparte? -
Xavier si guardò in giro per assicurarsi che non vi fosse nessun altro nei paraggi. 
- Sì, vorrei il tuo aiuto per capire una cosa, Elise - le spiegò lui - Il modo in cui sono disposte le videocamere... non permette loro di vedere tutto, no? -
- Cosa intendi? -
- Voglio dire: l'obiettivo è fisso davanti a loro - osservò Xavier - Magari ci sono dei punti che non riesce ad inquadrare. Qualcosa fuori portata -
- Dei... punti ciechi? -
- E' esattamente quello che intendevo -
Elise parve riflettere per qualche attimo. Passò un buon mezzo minuto, e Xavier si chiese se non si fosse addormentata come suo solito.
Tutto ad un tratto, la ragazza parve realizzare qualcosa.
- Oh, già - gli disse - Beh, l'inquadratura racchiude quasi tutto ciò che c'è davanti, ma una minima porzione rimane fuori -
- Quale? -
- Appena sotto la videocamera -
Lui si mise a pensare intensamente.
- Quindi basterebbe passare da sotto per non venire ripresi? -
- Oh, no, non è così semplice - sorrise lei - Lo spazio residuo è minimo. Per non essere visto dovresti accovacciarti e attaccarti al muro -
- Capisco - annuì lui - Vorrei fare una prova, se non ti dispiace. Potresti controllare il dispositivo? -
Lei corrugò la fronte. Gli disse di sì, anche se non sapeva esattamente dove voleva andare a parare.
Xavier appoggiò lo stomaco al pavimento ed iniziò a strisciare; ad Elise sembrava un soldato semplice in addestramento.
Quando ebbe finito, il ragazzo ripercorse lo stesso spazio in posa diversa: stavolta si mise a gattoni.
Rifecero l'esperimento per un numero di volte sufficiente a soddisfare i dubbi di Xavier.
- Uhm... abbiamo finito? - chiese Elise, vagamente imbarazzata.
- Sì, ti ringrazio -
Una voce alle loro spalle li richiamò.
- Quindi è questo che ti piace fare nel tempo libero? Una sorta di hobby? -
Era Pearl; sul suo volto era comparso un ghigno beffardo.
Xavier arrossì flebilmente e le diede le spalle.
- Cosa vuoi, tu...? - sbottò il ragazzo.
- Solo sapere cosa stavi facendo sul pavimento negli ultimi cinque minuti -
- Da quanto stavi osservando...!? -
- Da abbastanza tempo -
Elise riprese la videocamera tenendola tra le mani.
- La terrò io, per il momento - disse la ragazza.
- Certo, tienila al sicuro - annuì Xavier - E tu, Pearl? Sono certo che hai di meglio da fare che starmi a fissare -
- Oh, non in questo momento - disse lei - Ho concluso le mie indagini personali e stavo ingannando il tempo -
Lui alzò un sopracciglio.
- Non posso fare a meno di notare che la presenza di un cadavere non ti turba, Pearl -
- Disse il tizio che strisciava sul pavimento -
- Touchè, ma non cambiare discorso - la ammonì lui - Il tuo sguardo, tra tutti, è l'unico a non aver battuto ciglio alla vista di Refia. Hai già avuto a che fare con la morte, non è così? -
Pearl Crowngale fissò Xavier nel suo unico occhio, tentando invano di comprendere dove questi volesse arrivare.
- Sei un tipo sveglio - rispose - No, non è la prima volta. E nemmeno per te, immagino -
- Chissà? -
- Ci risiamo... - sospirò Pearl - Vai in giro a prendere informazioni su tutti, ma sei l'unico di cui nessuno sa nulla. Nemmeno il tuo talento è noto. Piuttosto ipocrita, non trovi? -
- Non intendo negarlo - rispose, inflessibile - Ma sono semplicemente fatto così. Ho commesso imprudenze, in passato, e questo è il risultato -
Aprì leggermente la pupilla sinistra. Sotto non vi era niente che funzionasse come un occhio normale. Sull'iride vi era uno sottile sfregio che combaciava con la cicatrice.
Pearl ne rimase vagamente colpita.
- Da allora sono divenuto più... cinico - disse, infine - Non ti auguro di ritrovarti come me. Sii sempre prudente, a prescindere se sei una ninja o meno -
- Apprezzo la tua apprensione nei miei confronti - ironizzò lei - Ma so badare a me stessa -
La discussione terminò lì.
- Allora, scoperto qualcosa di utile? - domandò Xavier.
Lei ci pensò su.
- Beh, forse. Ma una cosa è decisamente appurata - gli disse, con una strana scintilla negli occhi - Refia non era la traditrice -
Xavier esitò.
- La traditrice... - mormorò - Intendi la talpa di cui...? -
- Sono certo che nessuno si è dimenticato di ciò che ha detto Monokuma. Io non ci dormo la notte, personalmente - spiegò Pearl - Se la talpa muore, allora noi tutti veniamo liberati. Beh, Refia è deceduta, e noi siamo ancora qui. Ergo... -
Lui si massaggiò il mento.
- Mi chiedo fino a quanto possiamo fidarci di queste informazioni... -
- Immagino lo scopriremo a tempo debito. Guarda che ore sono -
Istintivamente, Xavier controllò l'orologio affisso sulla parete. Era appena scoccato il sessantesimo rintocco.
Era trascorsa un'ora.
 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 1 - Parte 6 - Processo ***


I quindici studenti si riunirono nel piazzale non appena udirono i rintocchi degli orologi.
Il tempo era scaduto; vi era una grande agitazione tra la maggior parte dei presenti.
Michael si guardava attorno di continuo, come aspettandosi una trappola o un pericolo imminente.
Pearl ed Alvin rimasero impassibili ad osservare; persino la loro apparente calma tradiva un nervosismo di fondo.
E poi c'era chi era visibilmente spaventato e non si faceva problemi a mostrarlo.
Xavier tenne d'occhio la situazione, prestando attenzione ad ogni dettaglio.
- Monokuma ha detto di riunirci qui... - mormorò - Dovremo tenere il processo in questo piazzale? -
Così come ebbe finito di dire la sua frase, avvertì un tremore proveniente dal pavimento.
Il piazzale stava vibrando incessantemente e, dopo poco, l'area circolare su cui erano poggiati cominciò a discendere verso il basso.
Nessuno osò muovere un muscolo; si limitarono ad accettare il fatto di trovarsi su un ascensore nascosto.
- Era qui davanti, sotto il nostro naso... - disse Rickard, sorpreso.
L'ascensore produsse un rumore metallico ridondante mentre scendeva sempre più verso il basso.
Xavier riuscì quasi a percepire il battito cardiaco dei presenti, tanta era l'emozione e il terrore.
Non appena il suo occhio destro intravide una luce dal basso, l'ascensore si fermò: il viaggio era stato molto più breve di quanto si aspettasse.
Era probabilmente scesa di appena alcuni piani, ma sembrava fosse passata un'eternità.
Davanti a loro si estese uno spettacolo peculiare: un tribunale circolare con un gran numero di banchi; sedici, per l'esattezza.
- Siamo arrivati? - si chiese Vivian.
- Ci è stato detto di presenziare ad un processo... - osservò Karol - E questo è un tribunale. Immagino... che siamo arrivati, sì -
- Un'aula di tribunale, eh? - Xavier lanciò alcuni sguardi in giro - Scommetto che la senti già familiare, Judith -
Lei gli lanciò un'occhiataccia.
- Non potrei mai trovare "familiare" o "normale" questa assurda situazione...! -
Un annuncio dagli altoparlanti fece tremare la sala.
- Ognuno raggiunga il proprio posto, per favore! Trovate il vostro numero corrispondente -
Xavier cercò il banco con il numero otto, lo stesso della sua stanza. Ognuno si posizionò al posto che gli spettava, alcuni malvolentieri.
- N-non sarà una trappola...? - gemette Hillary.
- Dopo essersi presi il disturbo di allestire questa pagliacciata? - le rispose Pearl - Ne dubito -
- A-allora... cosa dobbiamo fare? - Kevin era sempre più nervoso.
Lo sguardo di Hayley, però, era fisso sul banco numero tredici.
Non vi era nessuno ad occuparlo: solo una cornice con una sagoma scura, segnata da una croce color del sangue.
Non fu difficile intuire a chi sarebbe dovuto appartenere quel posto.
Hayley si asciugò una lacrima.
- Dobbiamo trovare l'assassino di Refia, dunque... -
- Siamo qui per questo... - rispose Judith - Anche se l'idea di dover dubitare di uno di noi non mi piace per niente -
- A prescindere dalla situazione, noi rimaniamo membri di una classe - Karol si fece avanti con decisione - E tra compagni di classe bisogna collaborare -
- Anche quando uno di noi è un assassino? - fu il responso di June - Non mi dirai che dobbiamo mostrare empatia, spero! -
Karol Clouds si ritrovò senza parole. Sapeva che la ragazza aveva ragione, ma non volle accettare la realtà dei fatti.
- Evitiamo di saltare a conclusioni affrettate - lo giustificò Alvin - Se davvero la situazione è quella che è, allora si tratta di quattordici contro uno. 
Karol non ha torto nel dire che la cooperazione è la chiave -
- Oh, in pratica è una spietata caccia all'uomo - esordì Pearl - Non male -
- Qui stiamo parlando di un essere umano, Pearl! - inveì Judith.
La ninja la fulminò con lo sguardo.
- Che però ha ucciso un'innocente - disse - Credi che la morte di Refia sia giustificabile? -
- Credo che dovremo sentire le motivazioni di quel qualcuno in questione senza necessariamente doverlo trattare come... come una bestia! - il tono di Judith aveva un che di esasperato - Nella mia vita ho incontrato decine di assassini, alcuni sotto la mia tutela! E... non tutti erano dei mostri... -
- Woah, Judy, calmati! Nemmeno io voglio credere che, chiunque sia stato, sia un pazzo senza scrupoli - gesticolò Lawrence - Ma... beh, un omicidio è un omicidio... e la nostra vita è sul filo del rasoio, no? -
- Esattamente! -
Stavolta fu la voce all'altoparlante ad intromettersi nella conversazione. Il fastidioso vociare di Monokuma riempì la stanza.
- Permettetemi di darvi il benvenuto nel tribunale della scuola! Ripassiamo brevemente le regole, per essere sicuri che tutti siano coscienti della situazione attuale - l'orso si schiarì la voce - Dunque! Durante il processo dovrete determinare il colpevole del assassinio. Voterete per maggioranza non appena avrete raggiunto una decisione unanime. Se indovinate: evvai! Il colpevole viene eliminato, e voi tutti tornate a scuola. Ma se la vostra risposta dovesse essere sbagliata: accidenti! Voi tutti, fatta eccezione per l'assassino, verrete portati nella sala delle punizioni! Date un'occhiata -
Le pareti della sala iniziarono a sollevarsi, rivelando delle ampie vetrate oltre cui era possibile scorgere un'altra stanza, ben più larga.
I quindici la osservarono, terrorizzati. Era vuota, ma emanava un'atmosfera funesta. Nessuno di loro desiderava scoprire cosa ci fosse al di là del vetro.
- Per qualsiasi dubbio o se volete che recuperi una prova già esaminata per voi, non avete che da chiedere al vostro orso di fiducia! Se non ci sono domande, dichiaro  l'inizio del processo per l'omicidio di Refia Bodfield! -
Xavier Jefferson tirò un ultimo, lungo respiro.
Sapeva di avere vicino un omicida, e di doverlo stanare per più di un valido motivo.
Era certo che la verità sarebbe stata spiacevole, ma sapeva anche di non poter fare altrimenti.
- Allora, cominciamo - mormorò.


- Direi di partire dalle basi - propose Judith - Io e Michael abbiamo controllato il cadavere. La vittima è stata colpita all'addome con una freccia: è stato il colpo fatale -
Più di una persona deglutì.
- Una freccia... - mormorò Hayley.
- Non vi erano altre ferite sul corpo - proseguì la giovane legale - Di dettagli rilevanti quasi nessuno, a parte un arrossamento sul collo molto lieve. 
Il corpo è stato rinvenuto a poca distanza dalla sua bici -
Rickard intervenne.
- Io, Kevin e Lawrence abbiamo trovato un arco nello sgabuzzino della palestra...! -
- C'era un arco in palestra? - chiese Karol - Non ne sapevamo nulla -
June sospirò. Intuì che la reazione dei compagni non sarebbe stata positiva.
- Io, Refia e Hayley lo avevamo trovato - affermò - Ma lo abbiamo voluto lasciare lì, senza farne parola -
Avvertì almeno una decina di paia di occhi fissarla intensamente.
- E perché mai volevi tenerlo nascosto!? - la attaccò Xavier.
- Non volevo presentarvi un'arma, tutto qui - rispose schietta - E' difficile sapere cosa pensano gli altri. Volevo evitare di darvi strane idee -
- Sarebbe stato molto meglio portarcelo assieme al resto delle armi ritrovate... - la rimproverò Alvin - Guarda a cosa è servita la tua imprudenza -
June Harrier si morse il labbro.
- Io non... -
- Basta così, June - la zittì Pearl - La vittima è stata colpita con una freccia, un arco è stato ritrovato, e sulle telecamere di sorveglianza compari tu, vicino alla scena del crimine -
L'arciera sussultò.
- Come...!? - gemette - Ah... io ero lì solo... -
- Immagino tu stia per dire che dovevi andare in bagno, visto che sei uscita dalla porta del WC - continuò la ninja - Ma, fino a quando ci saranno tutte queste prove, sei la principale indiziata. Quindi astieniti dall'esprimere opinioni che possiamo mettere in dubbio, chiaro? -
Le due si guardarono in cagnesco.
Judith prese parola prima che la situazione degenerasse.
- Parliamo delle videocamere, dunque - disse - Elise, vuoi favorire? -
- Oh, uhm... - la ragazza ciondolò per un istante - Ah! Sì, le abbiamo posizionate ieri sera -
- "Abbiamo"? - chiese Kevin.
- Io, Alvin ed Hillary - annuì Elise - Eravamo d'accordo sul creare una nostra piccola rete di sicurezza. Ve ne avremmo parlato stamattina, ma... -
- Non ne abbiamo avuto occasione - disse Alvin, abbassando lo sguardo - Ma sui video abbiamo trovato alcune scene interessanti -
Il volto di Vivian si illuminò.
- Di cosa si tratta? - chiese la pittrice.
- C'erano tre prove di rilievo... - rispose timidamente Hillary Dedalus - Il primo video mostra Refia. Pedalava a gran velocità lungo il corridoio della caldaia. Circa venti secondi dopo, dal corridoio perpendicolare parte una freccia. Si vede solo quello. Appena due minuti più tardi, June esce dal bagno situato qualche androne più in là -
I ragazzi si presero alcuni momenti per riflettere.
- Ok, abbiamo un quadro... piuttosto chiaro, no? - esordì Lawrence, grattandosi la gota - In pratica, una freccia la ha colpita mentre passava di lì e la ha uccisa... -
- La dinamica sembra essere palese, sì - disse Xavier.
- Un momento! Ma nessuno sapeva dell'arco se non quelle due! - urlò Michael indicando Hayley e June - Non possono essere state che loro! -
Judith sbatté la mano sul banco.
- Su questo ho un'obiezione! - esclamò - Non vi sono prove che qualcun altro non abbia rinvenuto l'arco. Sono passati cinque giorni dalla prima indagine, e di certo molti altri di noi hanno visitato la palestra -
- Oh, è vero - rispose il botanico - Io stesso sono andato a dare un'occhiata. Anche se in effetti non ho fatto caso all'arco... -
- Lo ho riposto sotto un velo, nello sgabuzzino - disse June - Non era nascosto, semplicemente non era in vista. Chiunque poteva trovarlo -
- In pratica... - concluse Judith - E' ancora troppo presto per dire che sono state loro due -
- No... -
Una vocina soffocata di fece largo nel mezzo del vociare: quella di Hayley Silver.
- Come? -
- Io... ricordo una cosa - disse l'Ultimate Hiker - June disse a me e a Refia che quell'arco era piuttosto pesante, uno strumento da professionisti. Ed era certa che nessun altro, oltre a lei, sarebbe stato capace di utilizzarlo a dovere... -
June strabuzzò gli occhi, ricordando le proprie parole. Aveva sperato, in effetti, che la ragazza non le ricordasse.
- E' la verità, June? - gli chiese Karol.
- Certo che sì! - strepitò Hayley - Lo ricordo chiaramente! -
- E in effetti la freccia è partita da parecchio lontano - osservò Alvin - Per riuscire a centrare il bersaglio da una tale distanza... beh, bisogna essere di certo portati per il tiro con l'arco -
June Harrier strinse i pugni.
- No, non può essere...! - disse fremendo - Non sono stata io... non lo accetto! -
- Allora non hai che da dimostrarcelo - fu il freddo commento di Xavier.
- Io propongo di...! - Vivian richiamò l'attenzione come per distoglierla da June. Cercò con cura una valida motivazione - ...di chiarire la dinamica precisa. Dopotutto, non c'è qualcosa di... strano? -
- Non ti seguo... - Rickard parve confuso - Hai detto che c'è qualcosa fuori posto? -
- Beh, è solo che... -
Judith la spronò a parlare.
- Ogni dettaglio è utile, Vivian - sorrise - Dicci pure -
- E' che... - la pittrice arrossì - Refia correva lungo il corridoio, ma la freccia è arrivata circa una ventina di secondi dopo. Direi che, con la bici, per raggiungere l'angolo all'incrocio avrebbe avuto bisogno di non più di quattro secondi... non è strano? -
La sala cadde momentaneamente in silenzio.
- Beh, in effetti è strano... - annuì Hillary.
- Ma come cambia le carte in tavola? - si chiese Lawrence Grace - Cioè, fa davvero differenza? -
- Ovviamente no - affermò Pearl - Se Refia e la freccia hanno uno scarto di una quindicina di secondi, può voler dire soltanto una cosa: Refia si è fermata all'angolo. Dopotutto è lì che è stato rinvenuto il cadavere -
Xavier si massaggiò l'occhio sfregiato, come per concentrarsi.
- Quindi... l'assassino ha approfittato di un momento in cui Refia ha fatto una sosta... - disse seguendo un proprio filo logico - Ha preso l'arco e ha scoccato la freccia -
- Era quindi... - Karol deglutì - Premeditato...? -
- Non vi è altra spiegazione! - Michael mostrò un tono deciso - E continuo a ripetere che ad aver organizzato l'omicidio era l'unica a saper usare l'arco: June! -
- No... vi dico di no! - gli occhi dell'arciera iniziarono ad inumidirsi - E' un'assurda serie di coincidenze! -
- Un po' troppe coincidenze, non trovi? - disse Pearl, con severità.
Alvin scosse il capo.
- Non vi è davvero altro su cui lavorare? - disse il robusto bodyguard - Questa storia non mi piace. Se solo le telecamere potessero dirci di più... -
- Abbiamo fatto il possibile, Alvin - lo rincuorò Elise - La tua idea era buona... -
- Ma ciò non toglie che la situazione sia quella che sia - li interruppe Xavier - June, se hai qualcosa da dire per discolparti, ora è il momento adatto -
June Harrier si scostò una ciocca di capelli sudati dalla faccia. Guardò in tutte le direzioni, ma non vide altro che sguardi indagatori.
Hayley aveva due occhi arrossati e rabbiosi, le iridi glaciali di Pearl non avevano perso la loro autorevolezza, e l'occhio di Xavier sembrava penetrarle l'anima.
- Io... io non... - balbettò lei - Non so... -
- Scusatemi... -
Una voce dal nulla catturò l'attenzione generale. Tutti si voltarono verso la sua fonte: Pierce Lesdar.
- Cosa c'è, Pierce...? - sospirò Xavier.
- Uhm... è che c'era una cosa che... mi domandavo -
Judith Flourish non si fece scappare l'occasione.
- Dicci tutto! Di che si tratta? -
- Ah, beh... non so se è davvero utile -
- Non esitare, siamo qui per ascoltarti - lo rassicurò Vivian.
- Non avere timore di esprimere le tue opinioni - sorrise Alvin.
- Già, amico! - lo incitò Lawrence - Mica mordiamo -
Pierce abbozzò un sorriso, annuendo.
- Prima avete detto che il colpevole ha approfittato del fatto che Refia avesse fatto una pausa - ricordò lui - E' giusto? -
- Uuh, sì. Avevamo stabilito così - Rickard fu sicuro della sua risposta.
- Ma non è un po'... strano? - Pierce scosse il capo - No, anzi. Sono certo che ci sia un errore -
Tutta quella confidenza nella propria idea lasciò tutti strabiliati. Non era da Pierce caricare a testa bassa verso qualcosa.
- Come mai ne sei così sicuro? - Kevin apparve in difficoltà - Voglio dire... come potresti dire che non è accaduto? -
- Refia mi stava per investire, qualche giorno fa... - raccontò il sarto - Stavo camminando per i corridoio, quando me la sono vista davanti -
Lo sguardo di Hayley si illuminò.
- Ah, lo ricordo! - disse - Era durante il nostro primo test con la bici -
- Lo ricordo anche io... - esordì June.
Pierce annuì ad entrambe.
- E anche allora, Refia stava correndo a tutta birra... - continuò lui - E frenò appena in tempo per non travolgermi. Mi presi un bello spavento -
- Dove vuoi arrivare? - Xavier si stava spazientendo.
- Ha lasciato degli evidenti segni delle ruote sul pavimento - concluse - Le ha provocate la frenata. Ma il pavimento della scena del crimine era immacolato -
Cadde nuovamente il silenzio nella sala. Più per incertezza che altro.
- E' vero... - intervenne June - Erano davvero evidenti. Costrinsi Refia ed Hayley a pulirle immediatamente... -
- Ma che cosa vuol dire? -
Fu Judith a rispondere.
- Vuol dire che... Refia non ha frenato? -
Un secondo momento di incertezza.
- Ma potrebbe semplicemente non aver lasciato tracce...! - Michael era palesemente infastidito - Che importanza ha!? -
- Non direi. Dalla telecamera possiamo vedere che andava parecchio veloce, e prima è stato detto che per arrivare al punto in cui è morta avrebbe dovuto impiegare pochissimi secondi - Pierce parve più sicuro che mai - Inoltre la pavimentazione è uguale in tutto il piano. No, sono certo che avrebbe lasciato delle impronte -
Rickard si sentì scoppiare la testa.
- Argh! Ma questo a cosa ci porta, maledizione!? -
- Beh, se davvero Refia non ha frenato... - osservò Vivian - Allora la scena del crimine perde completamente di senso -
- E come, di grazia? -
- Ricordi che il cadavere era più avanti rispetto alla bici? - spiegò l'artista - Abbiamo dato per scontato che fosse semplicemente caduta, ma è chiaro che il corpo sia stato proiettato in avanti. E la freccia è arrivata perpendicolarmente da destra, quindi non può averla fatta cadere in avanti -
- Giusto! - il dito di Lawrence guizzò in avanti - Se la bici si è fermata prima della svolta, vuol dire che Refia è caduta in quel punto! La freccia non poteva colpirla in quel momento! -
- Ma allora che cosa ha provocato la caduta...? - Kevin si tastò le meningi - Non c'era alcun ostacolo lungo il corridoio! Non che io ricordi... -
- Forse ha perso l'equilibrio durante la corsa - ipotizzò Elise - A me succede spessissimo di inciampare -
Nessuno osò commentare l'asserzione della camerawoman.
- Era pur sempre l'Ultimate Cyclist - sospirò Xavier - Se le fosse capitato di cadere in modo così maldestro dalla bici, non avrebbe mai ottenuto quel titolo -
Judith si schiarì la voce.
- In pratica... abbiamo determinato che qualcosa ha provocato la caduta di Refia, e che poco dopo una freccia la ha colpita, uccidendola - disse, mentre il resto del gruppo la ascoltava con attenzione - Ciò che dobbiamo determinare è cosa le ha fatto perdere l'equilibrio e in che modo è connesso al caso -
Karol prese la parola.
- Le telecamere di sicurezza mostrano entrambe le uscite del corridoio, e niente del genere è stato visto uscire o entrare - asserì l'insegnante.
- Ah, ci sono! - Rickard mostrò un sorriso furbo - La caldaia! L'entrata non è intravista nelle telecamere, e si trova proprio lì davanti! -
- No, è impossibile... - mormorò Hillary - Abbiamo controllato l'intera stanza. Non vi era niente che potesse passare dalla porta -
- Argh, cavolo...! - si esasperò Lawrence - Ma cosa diavolo c'era, lì davanti!? Sulle telecamere non appare niente! -
Xavier ascoltò quell'ultima frase con interesse.
"Niente... non appare niente..." fu ciò che continuò a ripetersi ripetutamente.
Come un fulmine a ciel sereno, un'idea lo colpì. Tutti gli indizi del caso erano riusciti a convergere in un unico punto.
- Niente - disse, quasi ipnotizzato - Non c'era niente -
Gli altri quattordici lo squadrarono.
- Che ti prende, Xavier? - lo canzonò Pearl - Ti è dato di volta il cervello? -
- Non c'era niente, vi dico - ribadì lui - Perché Refia non è incappata in qualcosa; ma in "qualcuno" -
Esclamazioni di dubbio e sorpresa lo travolsero.
- Co-come!? - Michael era sempre più irritato - Ma sei impazzito!? E' da un'infinità di tempo che stiamo dicendo che le telecamere non hanno visto passare niente di niente! Né oggetti, né tanto meno persone! 
- L'unica possibilità è che qualcuno si fosse nascosto nella caldaia... - ipotizzò Alvin - Ma se così fosse sarebbe stato individuato dalle telecamere, una volta uscito -
- No, non necessariamente -
Judith osservò con quanta determinazione Xavier stava mettendo in piedi la sua ipotesi.
- Come ne sei così sicuro? -
- Ho chiesto ad Elise di fare alcune prove, prima - spiegò - Un qualsiasi oggetto di grosse dimensioni sarebbe stato sicuramente avvistato. Ma le videocamere hanno un piccolo difetto: un punto cieco -
Elise sobbalzò.
- Ah! Certo, lo abbiamo notato! -
- Un punto cieco...? Intendi una zona che la videocamera non riprende? - Kevin era confuso.
- Sì, appena sotto di essa. Se una persona si accovacciasse o strisciasse potrebbe passare senza essere vista -
Judith batté un pugno sul banco.
- Ma certo! - esclamò - Vuol dire che un essere umano è l'unica cosa che avrebbe potuto fungere da ostacolo e abbandonare la scena del crimine senza essere individuato dalle telecamere! -
- Ma dovremo pur arrivare da qualche parte con questa linea di pensiero - persino Pearl parve essere in difficoltà - Cosa possiamo ricavare da tutto ciò? -
- Innanzitutto che June non è l'assassina - asserì Xavier.
Il volto dell'arciera riprese vagamente il proprio colorito nell'ascoltare quella frase.
- E... perché? - Hayley espose il suo dubbio - Poteva benissimo sgattaiolare sotto le telecamere -
- C'è una piccola parentesi da chiarire - le rispose il ragazzo, massaggiandosi la cicatrice - Le videocamere sono state posizionate tra ieri sera e questa mattina. Io, Pierce e June dovremmo essere stati i primi a vederle, e non avevamo idea della loro... "particolarità" -
Judith esitò per un momento. Xavier notò subito che la ragazza doveva aver raggiunto la sua stessa conclusione.
- Vuol dire che l'assassino... -
- L'assassino sapeva del punto cieco. Non può essere altrimenti! -
Rickard Falls si sporse oltre il banco.
- U-un momento! Ma allora... le possibilità sono...! -
- Ristrette, sì - sorrise Xavier, con sguardo deciso - Il colpevole ha approfittato di questo dettaglio perché ne era a conoscenza. Ciò vuol dire che ha fatto parte del team di realizzazione del sistema di sicurezza -
Tre paia di occhi si contrassero allo stesso momento.
- Ma... ma come facciamo a capire chi...? - balbettò Vivian.
I tre studenti chiamati in causa non aprirono bocca.
- Mi permetto di depennare uno dei tre nomi dalla lista - disse Xavier - E' impossibile che sia stata Elise. E' stata lei a rendermi noto che la telecamera aveva un difetto. Nessuno come l'Ultimate Camerawoman sarebbe capace di conoscere le prestazioni di un dispositivo simile. Avrebbe potuto mentirmi in più di un modo per celarmi questo indizio, ma non lo ha fatto -
Elise tirò un sospiro di sollievo.
- Non potrebbe essere che è semplicemente una svampita cronica...? - osservò Rickard, non senza torto.
Elise gonfiò le gote, indispettita.
- Rimangono due possibilità... - osservò Judith.
- Non proprio - Xavier aveva le mani tremanti, ma non si tirò indietro - Stiamo cercando una persona in grado da fungere da... "ostacolo"; qualcuno in grado di ribaltare l'Ultimate Cyclist in corsa. Qualcuno di abbastanza... coriaceo -
Ad Hillary mancò brevemente il fiato.
Quasi tutti i presenti impallidirono seduta stante. Judith avvertì le gambe tremare. Pearl si morse il labbro, con evidente sorpresa.
Lawrence sentì come l'impulso di allontanarsi da lì. Ma il più sorpreso era Karol, che nel guardare la persona alla propria sinistra non riusciva a credere ai propri occhi.
Un solo studente era rimasto calmo, quasi impassibile, mentre, a braccia conserte, fissava Xavier nel suo unico occhio con evidente aria di sfida.
- Mettiamo le carte in tavola, Alvin -


 

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Capitolo 10
*** Capitolo 1 - Parte 7 ***


Alvin Heartland non aveva mosso nemmeno un muscolo del viso; la sua espressione era rimasta neutra anche dopo l'accusa ricevuta, con le sopracciglia leggermente corrugate in uno sguardo vagamente torvo.
Le sue braccia erano incrociate come a voler significare di stare aspettando chissà cosa.
Il bodyguard tirò un sospiro.
- Hai davvero intenzione di seguire questa linea di pensiero, Xavier? -
L'altro strinse i pugni.
- Sì, e non mi tiro indietro - rispose - Gli indizi portano a te -
- Molto bene - i suoi occhi emanarono una strana luce, apparendo come infiammati - Sei certo della mia colpevolezza? Provalo! -
Judith si intromise nello scontro.
- Alvin, se hai modo di confutare quanto detto...! -
- Non ve ne è bisogno - asserì lui - Quanto detto da Xavier è un ragionamento privo di una prova conclusiva. Se continui ad affidarti a dati circostanziali non arriverai alla verità -
- Niente di conclusivo...? - Rickard si grattò il mento - Ma la faccenda delle telecamere... -
- E dimmi, come puoi provare che qualcuno non si sia accorto del punto cieco? - continuò Alvin - Abbiamo posizionato le videocamere ieri sera, dopo che tutti sono andati a dormire. Ma, dopo quel momento, chiunque poteva momentaneamente uscire dalla propria stanza e accorgersi dei dispositivi -
Elise si strinse nelle spalle.
- In effetti non abbiamo modo di saperlo... - gemette - Avremmo dovuto controllare anche le altre... -
- Come dicevo... - Alvin abbozzò un sorriso - Si tratta di dati incompleti. Esattamente come non puoi provare che io abbia preso l'arco dalla palestra -
Xavier si morse il labbro. Cercare uno spiraglio nella deposizione era una vera impresa, date le circostanze.
Si guardò attorno solo per trovare sguardi più confusi e spaesati del suo.
Persino Judith e Pearl sembravano essere incappate in un muro invalicabile.
- Non vi è proprio niente che possa ricondurci a lui...? -
Passò un breve attimo, ed udì una risposta breve e concisa.
- Forse sì... -
Tutti si voltarono di scatto. Alvin ne fu il più sorpreso.
Karol Clouds si era fatto avanti.
- C'è un dettaglio che mi sta dando da pensare fin dal principio... - spiegò l'insegnante.
- Qualsiasi cosa va bene, a questo punto, Karol - lo incitò Xavier.
- Sì, dicci tutto! - fremette Hayley, speranzosa di trovare del nuovo materiale.
Prima di parlare, Karol rivolse uno sguardo quasi sofferente verso Alvin. Tra i due vi fu un breve momento di comunicazione non verbale.
Quest'ultimo scosse il capo. 
- Fa quello che devi, Prof - disse Alvin Heartland, volgendo gli occhi altrove.
L'Ultimate Teacher si morse la lingua, ma proseguì comunque. Era cosciente di starlo facendo controvoglia, ma capì che doveva farlo comunque.
- L'orario sulla prima videocamera, quella che mostra Refia sulla bicicletta... - disse Karol - Mostrava come orario le sei e trenta del mattino -
- Uhm... sì, credo di sì - annuì Elise - Lo ricordo. Che cosa c'è al riguardo? -
- Beh, è piuttosto presto - spiegò lui, cercando le parole adatte - Io stesso mi sono alzato solo alle sei e quarantacinque -
L'intero gruppo non parve seguire il ragionamento.
- Quindi... si è semplicemente alzata presto...? - Rickard si grattò il capo.
- Non vedo come possa davvero aiutarci - Kevin apparve sconsolato.
Karol scosse il capo.
- Il punto è che verso quell'ora ho intravisto June camminare lungo il piano terra... - raccontò, facendo rabbrividire l'arciera - Ma non ho visto qualcuno che DOVEVA esserci... -
Xavier e Judith prestarono la massima attenzione a quell'ultima frase.
- Intendi dire...? - chiese Pearl.
- Alvin, sì... - rispose Karol - Il fatto di non averlo visto è un dettaglio strano. Abbiamo parlato qualche giorno fa, e mi ha detto di essere abituato a svegliarsi verso le quattro del mattino o, a volte, di non dormire affatto. E per tutti questi ultimi quattro giorni lo ho sempre visto lungo il piazzale ogni mattina... tranne oggi -
- Mi meraviglio di te, Prof - lo rimproverò il bodyguard - Sai bene che il fatto di non avermi visto ai dormitori non prova che io fossi ad uccidere Refia lungo la caldaia -
- Forse è vero - annuì Pearl, con uno sguardo torvo - Ma, coincidenza dopo coincidenza, il quadro sta iniziando a formarsi, Alvin. Non credi sia il caso di dire dov'eri e cosa stavi facendo durante il delitto? -
- Già, vuota il sacco! - sbraitò Michael - Sei fin troppo sospetto! -
- Ero semplicemente in camera mia a riposare - disse lui con estrema e misurata calma - Quando Pierce è venuto a chiamarci urlando a gran voce ero assieme a tutti voi, ricordate? -
- Niente da fare, non abbiamo davvero niente di concreto... - brontolò Lawrence - Se solo ci fosse una prova decisiva... -
- Non esiste alcuna prova decisiva - ribadì il guardiano - Perché non sono stato io. Credo sia ora di concentrarci sul trovare il vero colpevole senza perdere ulteriormente il nostro tempo -
Xavier Jefferson digrignò i denti; non si era mai sentito così impotente.
Nessuno, nell'aula, sembrava davvero convinto di ciò che era stato discusso, ma nessuno ebbe il coraggio di azzardare altre ipotesi.
Solo un gemito flebile di Hayley ruppe il silenzio. La ragazza si stava asciugando una lacrima fugace.
- Perché doveva accadere a Refia...? - singhiozzò lei - Se solo ci avesse lasciato un segno, o qualsiasi cosa ci aiutasse a capire come è andata... potrei vendicarla...! -
Fu Judith, stavolta, a notare un particolare di interesse.
Le sue orecchie captarono una parola chiave, e il suo cervello si mise in moto. Socchiuse gli occhi per un secondo.
- "Segno"... - mormorò lei - Segno, un segno... -
- Q-qualcosa non va, Judith? - le chiese Pierce.
Lei fece cenno di no.
- Stavo pensando... che forse non abbiamo ancora dato una spiegazione a tutto ciò che è accaduto - disse lei - Ci sono due elementi che non abbiamo chiarito -
- Di cosa parli? - Vivian mostrò confusione - Intendi riguardo l'alibi di Alvin? -
- No, parlo della scena del crimine - spiegò la ragazza corvina - Ricordate di aver visto un segno sul collo di Refia? Una sorta di marchio arrossato -
Michael annuì.
- Certo, ma era piuttosto tenue... -
- Però quando abbiamo rinvenuto il corpo era passata quasi un'ora dal delitto. Potrebbe essersi attenuato -
- Non è morta strangolata, questo è certo! - il chimico tornò su di giri - Non ti fidi della mia autopsia? -
Rickard si strofinò la chioma.
- Beh, non sei di certo un addetto all'obitorio... - borbottò - Magari hai sbagliato qualcosa...? -
Uno sguardo fulminante di Michael fece tornare il doppiatore al suo posto, raggelato.
- No, so che non è la causa del decesso, ma deve pur significare qualcosa -
- Hai parlato di un secondo punto da chiarire, giusto? - si intromise Karol - Di che si tratta? -
Judith sistemò sui capelli il proprio fermaglio, tastando la rosa bianca nella sua morbidezza come per assicurarsi che sia ancora lì. 
- Parlo della freccia - rispose - Abbiamo già confermato che non può essere arrivata dal corridoio perpendicolare conficcandosi in quella posizione. Dopotutto Refia era ancora sulla bici, quando è caduta, e non aveva frenato in alcun punto -
- Ma è assurdo! - ribatté Michael - Abbiamo visto la freccia scoccata nell'altra telecamera! -
- Ma la abbiamo vista dopo venti secondi di ritardo - Hillary sorprese tutti intervenendo - Credo sia scontato che è una prova falsa, oramai -
- Falsa...!? - Vivian sussultò.
Xavier iniziò a fare un ragionamento mentale cronologico.
- In pratica state dicendo che... unendo il fatto che la freccia non può essere stata scoccata da un lato per conficcarsi nel corpo di Refia in quel modo e il fatto che il suo collo presenti un marchio... - disse Xavier - ...a che cosa arriviamo? -
Judith ebbe pronta la risposta.
- Arriviamo al fatto che l'intero omicidio non è stato realizzato a distanza, usando l'arco - esclamò, puntando l'indice in avanti - Ma da vicino! -
- A distanza ravvicinata...? - commentò Alvin - Piuttosto... azzardata, come ipotesi -
- Ma Judy! Il colpo di freccia è stato il danno fatale, giusto? - strepitò Lawrence - Come lo spieghi!? -
- Non rimane che una singola possibilità: la freccia è l'arma del delitto? Sì. L'omicidio è avvenuto da vicino? Pure - annuì - La freccia è stata usata come un pugnale! Assassinio per accoltellamento! -
Una gran baraonda venne a crearsi. 
- Ma certo...! Questo spiegherebbe anche la presenza del marchio sul collo! - esordì Vivian Left - Refia e l'assassino devono aver combattuto! -
- E Refia ha avuto la peggio... - continuò Kevin - L'assassino la ha buttata giù dalla bici, sottomessa e... -
- E poi la ha accoltellata con la freccia... - fu la conclusione di Elise.
Xavier notò che, per una volta, i pareri di tutti stavano confluendo in maniera armoniosa verso un'unica direzione.
Decise di cavalcare l'onda.
- Ciò è dimostrato dall'osservazione di Pierce secondo la quale Refia non avrebbe potuto frenare. Perché l'assassino la ha bloccata in corsa! -
- E poi è passato a creare una serie di prove false, come la freccia intravista nella telecamera... - Rickard si massaggiò il mento, seguendo il filo.
- Che è arrivata venti secondi dopo, perché il colpevole era intento ad uccidere Refia e a passare sotto la telecamera... - annuì Hillary.
- Dettaglio che conosceva bene perché era cosciente del punto cieco... - Hayley cercò di rammentare ogni possibile dettaglio.
- Il tutto per accusare me, l'unica in grado di usare l'arco...! - June era palesemente irritata.
- E il colpevole deve essere qualcuno che era già sveglio prima delle sei e trenta, ed eravamo svegli solo io, June e... - 
Karol tentò di finire la frase, ma un suono roboante scosse l'intero tribunale.
Alvin Heartland aveva appena battuto un pugno fragoroso sul banco; il legno si era vagamente incrinato.
Pierce si nascose sotto il banco, come temendo che il prossimo a subire un pugno sarebbe stato lui.
L'attenzione di tutti era rivola verso l'Ultimate Guardian.
- Adesso basta... - mormorò lui, poi alzò lo sguardo - Adesso basta! Fare comunella per arrivare ad incolparmi è un'azione sterile e inconcludente! Vi ho già detto che le prove in vostro possesso sono labili e circostanziali! -
- Alvin... - lo chiamò Xavier - Smettila di combattere. Sei con le spalle al muro... -
- No! - gridò Heartland, con tutto il fiato che aveva nei polmoni - Sono arrivato dove sono per la mia capacità di non gettare la spugna! Non mi arrenderò! Se davvero vuoi incastrarmi con le tue assurde macchinazioni, Xavier, dovrai tirare in ballo degli argomenti molto più convincenti! Mi rifiuto di accettare una sentenza basata su mere congetture! -
Xavier scosse il capo.
- Vuoi la guerra, Heartland? La avrai -
- Mostrami quanto hai fegato, Jefferson! - lo indicò il bodyguard - Dammi la prova definitiva secondo il quale io, l'Ultimate Guardian, sia un assassino! -
- La ho -
Il volto di Alvin si irrigidì di colpo. Quella frase lo aveva colpito come un rapido proiettile.
- La... hai? - gemette - Menzogne... -
- Cosa intendi, Xavier!? - gli chiese Hayley Silver - Hai davvero qualcosa del genere? -
Lui chiuse l'occhio e tirò un profondo sospiro.
"Qui è dove mi gioco il tutto per tutto"
- No, in effetti non si può dire che la possiedo direttamente, ma la prova esiste - asserì - Ed è stata custodita da una persona che non è più qui con noi -
Judith sussultò.
- Intendi... Refia? -
- Sì, Refia Bodfield ci ha lasciato una testimonianza vitale! - esclamò a gran voce Xavier - Grazie a Pierce abbiamo dedotto che Refia è stata proiettata in avanti perché ha incontrato un "ostacolo". Ma l'unico, vero ostacolo presente era l'assassino. Ciò vuol dire che deve essere necessariamente avvenuta una... collisione -
Karol Clouds sgranò gli occhi, così come tutti gli altri.
- Ma certo... - sussurrò l'insegnante - Come abbiamo potuto non pensarci...? -
- L'omicidio è avvenuto appena un paio di ore fa. Se l'assassino si è realmente opposto alla corsa folle di Refia ed è stato abbastanza forte da farla cadere, allora il suo corpo dovrà pur presentare qualche livido consistente! La velocità e la potenza dell'Ultimate Cyclist no sono da sottovalutare. Quindi... -
Xavier puntò l'indice contro il compagno, posizionato al banco numero dodici.
- No, smettila... - gemette il guardiano, sudando copiosamente.
- E' finita, Alvin -
- TACI, HO DETTO! -
- Togliti la giacca, Alvin Heartland! - ordinò Xavier Jefferson - La prova finale è sul tuo stesso corpo! -
Ciò che ne seguì fu un urlo disumano.
La grossa mano di Alvin Heartland si abbatté sul banco numero dodici, sfondandolo seduta stante.
Ciò che ne rimase non furono che schegge di legno e un'impalcatura malridotta, quasi rasa al suolo.
La maggior parte degli studenti sentì il bisogno di allontanarsi.
Meno Karol, che osservò la scena con un volto sofferente e amareggiato.
Alvin ansimò più volte; i suoi muscoli del braccio si erano gonfiati, e ora sembravano due enormi arti deformati.
Due grosse vene presentavano un rigonfiamento sul collo, il suo volto era paonazzo e gli occhi iniettati di sangue.
Judith Flourish guardò la scena, ammutolita: non aveva mai avuto così paura di un altro essere umano prima di quel momento.
Passarono alcuni attimi, che ammontarono ad almeno un minuto, in cui nessun disse nulla.
Alvin Heartland stava tornando lentamente alla calma: il suo sguardo si era rasserenato, diventando quasi vacuo.
Il suo volto si rilassò, le sua mani smisero di tremare, il suo respiro tornò regolare.
Le sue enormi mani afferrarono un lembo della giacca: la sfilacciò.
Sotto vi era una camicia scura con tre grossi bottoni: li slacciò lentamente, uno ad uno, con una cadenza pacata e flemmatica.
Quando ebbe concluso, aprì i due lati della giacca mostrando un fisico scolpito apparentemente in molti anni di esercizio.
Una larga macchia viola si estendeva da un fianco all'altro, un livido che dava parvenza di dolore al solo guardarlo.
Nessuno riusciva a smettere di fissarlo.
Hayley sentì la necessità di dover piangere.
Hillary, Pierce, Vivian e Kevin abbassarono lo sguardo; avvertirono una strana sensazione di sollievo misto ad un profondo a lancinante dolore.
Xavier, Pearl e Michael conservarono uno sguardo serio e perentorio, ma la tensione del momento colpì anche loro.
Rickard, Lawrence ed Elise non riuscirono a non mostrare un'espressione pietosamente empatica.
June e Judith sentivano la pressione del processo lentamente scivolare via.
E Karol Clouds singhiozzò delle parole confuse, in mezzo alle lacrime.
- Dovevamo proteggere questi ragazzi... - pianse l'insegnante - Dovevamo proteggerli... -
Alvin Heartland abbassò lo sguardo, velando i suoi occhi inumiditi.
- Devo farti i miei complimenti, Xavier... - mormorò il bodyguard - Ho perso. E tu hai vinto. No... non proprio... -
Alzò lo sguardo. Stava sorridendo e piangendo in contemporanea.
- Voi. Voi avete vinto -  

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Capitolo 11
*** Capitolo 1 - Parte 8 - Reminiscenze ***


Anno XXXX, Luglio, Giorno XX

Alvin Heartland fece avanti e indietro lungo il perimetro del salotto un paio di volte prima di accomodarsi sul divanetto rosso in pelle dall'aria sfarzosa.
Appoggiò la schiena e fissò il resto del mobilio.
A giudicare dagli armadi in legno intarsiato, dai dipinti impressionisti, probabilmente repliche, e dall'ampio camino, con diversi trofei appesi volti a simboleggiare chissà quali imprese, chiunque ne fosse il proprietario doveva trattarsi decisamente bene.
"Un altro riccone impaurito" si rispose Alvin.
Era abituato ad essere chiamato da committenti che volevano rimanere nell'anonimato, ma nessuno lo aveva mai fatto attendere così tanto per un singolo incarico.
Alvin estrasse dalla propria borsa il fascicolo che gli era stato consegnato; poche pagine, ma scritte in piccolo e riempite.
Vi erano numerosi dettagli sul suo nuovo cliente, ma nessuna informazione estremamente precisa o confidenziale.
Il rapporto lo indicava come un individuo "speciale", un "caso poco ordinario".
Alvin fece spallucce, e ripose il documento.
Non si era mai fatto problemi con nessun datore di lavoro, e di certo non avrebbe iniziato a lamentarsi in quel momento.
Ma sentiva che vi era qualcosa di diverso.
Passarono altri dieci minuti. Poi, un uomo lo richiamò facendogli cenno di entrare nello studio del committente.
Alvin, entrando, si esibì in un brevissimo inchino; poi si mise a sedere davanti alla scrivania.
Il datore di lavoro appariva come un uomo vagamente anziano e dall'aria burbera; questi lo squadrò da cima a fondo con un fare poco convinto.
- Che significa? - chiese l'uomo.
- Prego? - Alvin apparve sorpreso.
- Avevo chiesto una guardia del corpo - rispose l'altro, arcigno - E mi hanno mandato un ragazzo -
Alvin Heartland sospirò. Non era la prima volta, e sapeva che non sarebbe stata l'ultima.
- Le assicuro che non vi sono errori, signor... -
- Colter. Adam Colter -
- Signor Colter, comprendo che la mia età possa sembrarle fuori luogo, ma ho un ottimo curriculum e molta esperienza - sorrise Alvin - Mi presento: il mio nome è Alvin Heartland. Lavoro nel settore già da alcuni anni -
- Non mi interessa - sbottò l'uomo - Puoi avere venti, sessanta o cinque anni. Mi basta che tu sia in grado di svolgere questo lavoro. In caso contrario: fuori dai piedi -
- Ne sono capace, ma a parole sono bravi tutti - asserì Heartland - Glielo dimostrerò con i fatti -
L'anziano parve ancora poco convinto.
- Le sembra plausibile l'aver mandato un dilettante a svolgere un incarico prestigioso? - continuò Alvin - Hanno mandato me perché sono il migliore -
Massaggiandosi la barba, il vecchio annuì.
- Bene, ora parli la mia lingua - 
- Allora parliamo di lavoro - Alvin prese carta e penna - Lei è il cliente? -
- No, sono solo il committente - rispose - La persona da proteggere è mio nipote James -
- E' qui presente? E' importante per me parlare direttamente con i miei protetti -
- Sta arrivando - tossicchiò Adam - Abbiamo incontrato... difficoltà tecniche -
Alvin alzò un sopracciglio. Iniziò a prendere nota.
- Signor Colter, sul fascicolo informativo ci si riferiva al cliente in modo particolare, definendolo un caso "speciale" -
- Lo è -
- Potrebbe fornirmi qualche informazione in più? - chiese l'altro, senza staccare la penna dal foglio - Come mai avete richiesto questo servizio di protezione? Ci sono dei precedenti? -
- Sì, ce ne sono stati - rispose Adam Colter con amarezza - Qualche tempo fa dovetti sborsare un'enorme somma di riscatto per riaverlo. Fu preso in ostaggio da dei criminali! -
- Lei è ricco, signor Colter? -
- Più di quanto sembri. E lo sembro parecchio -
- Ha dei nemici? -
- Chi non ne ha? - ridacchiò l'uomo - Principalmente la schiera delle persone che mi odiano nuota nelle acque dei pescecani della finanza -
- In pratica lei non ha propriamente "nemici" - puntualizzò Alvin - Più che altro: avversari invidiosi -
- Mi sembra un'ottima descrizione -
Alvin prese nota di tutto.
- Suo nipote è importante per lei? -
- E' tutta la mia famiglia -
- Ed è un'informazione nota al pubblico? -
L'altro si grattò il capo.
- Sì, è abbastanza risaputo -
- Ha dei sospetti su chi potrebbe tentare di fargli del male? -
- Temo di no. Chiunque potrebbe approfittare della sua condizione -
Alvin assunse un'aria stranita.
- C'è qualcosa che devo sapere riguardo il cliente, signor Colter? -
Lui fece per rispondere, ma si bloccò di colpo.
- Chiedilo direttamente a lui -
Alvin si voltò alle proprie spalle, dove la porta dello studio si stava aprendo.
Un ragazzino in sedia a rotelle entrò, scarrozzato da due uomini in divisa.
Alvin e James si scambiarono un'occhiata inquisitoria reciproca.
- James, ti presento il tuo nuovo bodyguard - lo presentò Adam - Ora comprendi a cosa mi riferivo, Heartland? -
Il grosso ragazzo annuì.
- Comprendo -
- Hai dei ripensamenti? -
- Affatto - Alvin scosse il capo - Se lei me lo concede, comincerò oggi stesso -
Adam sorrise. James venne portato verso la scrivania; la sedia cigolò dolcemente.
- Allora parliamo di soldi -
- Non ve ne è bisogno - lo interruppe Alvin - Il mio onorario le sarà noto solo a lavoro finito -
- Oh, piuttosto audace! -
- Noi dell'agenzia Heartland accettiamo un pagamento solo quando il cliente arriva alla fine del contratto sano e salvo - spiegò Alvin - E il cliente arriva... SEMPRE sano e salvo -
Il guardiano guardò in basso verso la sedia a rotelle. Il giovane James sembrava impressionato dalla loro differenza di statura.
Alvin gli sorrise, e ritornò a fronteggiare Adam.
- Se fai un buon lavoro potremmo estendere la durata del contratto - disse il vecchio Colter.
- In quel caso accetterò un pagamento mensile a rate -
- Molto bene -
I due si strinsero la mano.
- Mi aspetto molto da te, Alvin Heartland -
- Non la deluderò -
A quel punto, il ragazzo si chinò verso James Colter. Il ragazzino era rimasto in silenzio ad osservare la scena.
- E tu, James? - gli chiese Alvin - Accetti che io ti protegga? -
L'altro annuì, con un certo imbarazzo. Si accorse che Alvin gli stava porgendo la mano.
Allungò debolmente la sua, stringendola come poteva.
Alvin avvertì al tatto i muscoli atrofizzati del giovane. La sua espressione non si scompose.
- Bene, adesso è ufficiale - sorrise Alvin - Sono il tuo guardiano -


Agosto, Giorno X


Alvin controllò il suo taccuino, dove vi erano segnati date e appuntamenti che ricoprivano quasi tutte le pagine.
Era passata poco più di una settimana dall'inizio del suo incarico, e le cose da fare si erano accumulate in fretta.
James Colter gli era di fianco, all'interno della sua stanza nella magione del nonno.
Osservò gli occhi del bodyguard guizzare da una pagina all'altra del quadernino, senza mai distrarsi.
- Uhm, signor Heartland? -
Il ragazzo spalancò gli occhi, vagamente colto di sorpresa.
Chiuse il quaderno.
- Dimmi pure, James - rispose - E, per favore, chiamami Alvin -
- Va bene - annuì il ragazzo - Alvin, è difficile fare la guardia del corpo? -
- Sì, lo è - sorrise - Ma è un lavoro onorevole, soddisfacente e remunerativo -
Il ragazzino si strinse nella sedia a rotelle.
- Quindi lo fai per i soldi? -
- Tutti devono avere di che vivere, e i soldi sono necessari - rispose - Ma la priorità dell'agenzia Heartland è sempre la totale e perfetta sicurezza del cliente. Non dubitarne mai, James -
Il giovane Colter rise.
- Sei così strano, Alvin -
Lui parve sorpreso.
- Come dici? Strano? -
- Sì! -
- E come mai? - chiese, con un certo interesse.
- Non sei il primo bodyguard assunto da mio nonno, ne ho visti tanti - spiegò lui - Ma nessuno era così giovane come te; erano tutti uomini adulti grossi e silenziosi -
- Credimi, è normale per una guardia del corpo rimanere in silenzio - rise lui - A parlare troppo spesso si perde la concentrazione -
- Ma è diverso... intendo dire... - l'altro cercò le parole giuste - Nessuno mi aveva mai chiesto tutte queste cose -
Alvin Heartland alzò un sopracciglio.
- Tutte queste cose? -
- I miei interessi, come mi sentissi, che cosa avevo voglia di fare... - spiegò James - Persino quale fosse il mio colore preferito, o il film che mi ha emozionato di più -
- E' perché ci tengo a conoscere tutto del mio protetto. Stabilire un rapporto empatico è la prima regola, sia dal punto di vista professionale, sia da quello umano -
L'altro parve confuso.
- Un rapporto empatico? -
Alvin arrossì lievemente.
- Come dire... è un qualcosa che mi sono posto di fare - rispose - Più conosco una persona, più il mio rapporto con quella certa persona si approfondisce. E, così facendo, creo un legame sempre più saldo e indissolubile. E da quel legame traggo la forza e la motivazione di andare avanti, e proteggere i miei protetti al meglio delle mie capacità -
- In pratica... sai che volendo bene ad una persona ti risulterà più semplice proteggerla? -
Alvin si asciugò una goccia di sudore. Il suo volto era quasi paonazzo.
- S-sì, detto in termini semplici... - l'imbarazzo era evidente - Il punto è questo -
- Ecco perché ho detto che sei strano! - ridacchiò James di cuore - Ma in senso positivo -
- Ne sono confortato, James - disse, afferrando la sedia a rotelle e trascinandola via - Forza, abbiamo molti impegni, più di quanti ne riesca a contare -
Il ragazzino sbuffò.
- Dobbiamo proprio...? -
- Tuo nonno si arrabbierà, se batti la fiacca -
- E' vero - annuì James - Cosa dobbiamo fare, oggi? -
- Ci rechiamo a scuola per la tua sessione di studio pomeridiana - elencò lui - Dopo c'è il controllo giornaliero all'ospedale, la sera avrai una cena importante con... -
Alvin si bloccò a metà frase. Si accorse che James si sentiva male al solo pensare alla fitta rete di impegni.
Heartland sospirò.
- Che ne dici di parlarmi di quel libro che stavi leggendo mentre andiamo a scuola? -
Gli occhi di James Colter si illuminarono.
- E' davvero intrigante! - rispose - Un thriller davvero originale. Ora ti spiego... -
Il loro vociare venne candidamente accompagnato dal suono della sedia a rotelle, che scivolava sul tappeto di velluto della magione.


Anno XXXX, Gennaio, Giorno XX


James Colter fece scivolare la penna lungo il foglio di carta. La sua calligrafia era ancora impeccabile, nonostante i numerosi sforzi della mano di tenere salda la presa.
Ad un certo punto, si accorse di aver perso momentaneamente la sensibilità alla mano; la pena cadde a terra.
Il ragazzino sospirò.
La porta dello studio si aprì in quel momento.
- Buongiorno, James -
- Ciao, Alvin -
Il bodyguard lo fissò; aveva un'aria poco serena. Si accorse della penna caduta e la rimise sul tavolo.
- Sembri di cattivo umore, oggi -
- Non lo nego -
- Ti va di parlarne? - chiese, un po' in apprensione.
Afferrò la sedia a rotelle, divenuta vagamente più leggera, e la girò verso se stesso. Lo sguardo di James era triste.
- Non mi sento molto bene, in questo periodo -
Alvin incrociò le braccia. Annuì.
- La tua malattia, giusto? -
- Sono seduto su questa sedia da che ho memoria - rispose lui - Ci ho fatto l'abitudine, ma il mio corpo ha troppi difetti -
Alvin strinse i denti. Si chinò fino a mettersi alla sua altezza visiva.
- James, hai fatto degli ottimi progressi - gli disse - Sono con te da un anno e mezzo, oramai, e ricordo la prima volta che ti vidi. Da allora... -
- Le cose sono cambiate - disse l'altro, serissimo.
Alvin Heartland si sentì in difficoltà.
- Di che parli, James? -
- Ieri sera ho fatto un controllo extra dopo aver avvertito alcuni dolori. E' avvenuto mentre eri via per quella commissione -
- E...? - deglutì Alvin.
- Non sto migliorando, Alvin - rispose con franchezza - I miei muscoli e le mie ossa stanno lentamente cedendo. Ma non è una sorpresa; i medici mi hanno avvertito anni fa -
Alvin Heartland gli afferrò le spalle con le enormi mani.
- James, di cosa stiamo parlando!? - chiese imperterrito - Quali sono le tue condizioni!? Contatterò il miglior medico che la mia agenzia riuscirà a trovare. Abbiamo centinaia... migliaia di contatti in tutto il mondo! -
- Sto morendo, Alvin -
Il ragazzo si morse la lingua quasi fino a mozzarsela. Aveva intuito dove la discussione stava andando a parare, ma non voleva crederci.
Rimase a fissare lo sguardo vacuo di James, mentre fissava il pavimento.
- Stai... morendo - ripeté lui - Capisco... -
- Voglio essere onesto con te, amico mio - disse - Sono il tuo protetto solo da un anno e mezzo, ma... non ho mai conosciuto qualcuno come te in questi quattordici anni che ho vissuto. Quello che vedi sulla scrivania è il mio testamento; ci sei anche tu -
- Non lo accetto, James. Non posso e non voglio -
- Alvin, non essere infantile... -
- No! - lui batté un pugno sulla scrivania - La morte è certa, ma non vuol dire che non possa essere posticipata! So che posso trovare qualcuno che... -
- Alvin, ti prego...! - James iniziò a singhiozzare - Ho appena... sei mesi di vita -
- Sei mesi...? -
I due rimasero in silenzio. Lo sguardo di Alvin Heartland non perse determinazione.
Pescò un pezzo di carta dalla tasca della giacca: lo osservò un paio di secondi prima di stracciarlo nel pugno della mano, gettandolo a terra.
- Alvin! Cosa...!? - esclamò l'altro, afferrando la cartaccia appena in tempo - Che cos'è? -
Aprì il foglio: era un opuscolo. Un depliant informativo con un marchio ben distinto e una grossa scritta in rosso: "Hope Peak's Academy. Nuova apertura".
L'immagine dell'edificio scolastico era vagamente irriconoscibile, ora che il foglio non aveva più una forma concreta.
- Alvin... - balbettò James - Sei stato ammesso alla Hope's Peak? -
- Mi hanno convocato, dicendomi che vorrebbero che presenziassi ai corsi in qualità di "Ultimate Guardian" - sbottò lui - Bah... -
- Vuoi scherzare!? - l'altro era a metà tra l'ammirazione e l'essere sconvolto - E' la più prestigiosa scuola del mondo! -
Alvin colpì il muro, facendolo tremare. Anche a James venne un tremito.
- Non mi interessa - rispose secco lui - Non ci vado -
- Sei completamente impazzito...? -
- Io resto con te, James - fu la perentoria risposta di Alvin - Sei il mio protetto. E' il mio lavoro -
James Colter gli lanciò uno sguardo di profondo rimprovero.
- Se è così... - disse lui - Allora non voglio più essere il tuo protetto -
Alvin sgranò gli occhi.
- Co-cosa...!? -
- Sei licenziato, Alvin -
Heartland avvertì una fitta al cuore. Non tanto per l'essere stato dimesso per la prima volta nella sua carriera, ma per il vero e proprio contesto delle parole dell'amico.
- Non puoi farlo! -
- Lo ho appena fatto - rispose - Vuoi buttare all'aria il tuo futuro per stare appresso ad uno che il futuro non lo ha. A causa delle mie condizioni non ho più nemmeno valore come ostaggio, quindi non vi è più alcuna possibilità di minacciare mio nonno, e non ho bisogno di un bodyguard - 
Heartland batté le mani sulla scrivania, in un impeto di rabbia. Cercò una risposta, un motivo, nello sguardo dell'amico.
Ma ciò che trovò fu solo pura determinazione. James non batté ciglio, anche dopo quell'amara rivelazione.
- Alvin, ricordi quando mi parlasti del tuo bisogno di un rapporto empatico? Beh, è ciò che ti rende unico, ma è anche la tua più grande debolezza -
- Debolezza...? -
- Sei tenero, Alvin. Troppo - sorrise James - E trovo assurdo come uno come te possa essere una guardia del corpo talmente eccellente. E, credimi, sono certissimo che il titolo di "Ultimate Guardian" non possa essere meritato da nessun altro. Ma questo tuo attaccamento a me non ti porterà da nessuna parte. Alla Hope's Peak realizzerai qualsiasi obiettivo tu ti possa prefiggere. Ti si apriranno innumerevoli strade per qualunque tipo di vita tu voglia condurre. Tu DEVI andarci, Alvin. Non puoi passare il resto dell'anno a piangere sulla mia tomba senza fare nulla, chiaro? Non te lo permetterò -
Il bodyguard strinse la mano destra sul proprio petto; il suo cuore batteva freneticamente in un misto tra dolore e rassegnazione.
- James, i miei protetti sono come la mia famiglia - gli disse - Ma con te ho un legame del tutto diverso... -
- Lo so, Alvin, provo lo stesso - disse - Sei il mio migliore amico, quasi un fratello. Ed è per questo che, come ultima richiesta, voglio che tu vada alla Hope's Peak -
Alvin Heartland si mise in ginocchio davanti alla sedia a rotelle, posizionandosi come una sorta di cavaliere pronto per l'investitura.
- Va bene, James... - rispose, arrendendosi - Andrò al corso di orientamento. Te lo prometto -
- Un talento come il tuo non va sprecato, vecchio mio! - rise James - Vedrai, sarà magnifico -
A quel punto, James allungò la mano verso l'amico.
Alvin ricordò esattamente il momento, un anno e mezzo prima, quando se la strinsero per la prima volta.
Un inizio e una fine.
- E' stato un vero onore, Alvin -
- Altrettanto, James - rispose l'altro, trattenendo a stento le lacrime - Non ti dimenticherò mai -
I due si strinsero definitivamente la mano.
- Il corso di orientamento si concluderà a metà Aprile. Partirò tra poco più di una settimana -
- Ottimo, così potrai presenziare al mio compleanno! - disse, tentando di distogliere la mente dal fatto che sarebbe stato l'ultimo.
Lo sguardo di Alvin si fece serissimo.
- Non me lo perderei mai, James - affermò - Per niente al mondo. E' una promessa -


Anno XXXX, Aprile, Giorno 30


Alvin Heartland bazzicava come suo solito davanti al piazzale dei dormitori.
Diede un'occhiata all'orologio: erano le cinque del mattino passate da poco.
Sentiva addosso la stanchezza del giorno prima; assieme ad Hillary ed Elise aveva passato tutto il pomeriggio a recuperare e posizionare le videocamere.
Ma, nonostante la fatica, le sue palpebre non vollero abbassarsi.
Non era riuscito a chiudere occhio nemmeno quella notte. Non riusciva a fare altro che dare guardare il calendario appeso sul muro della sua stanza.
La data fatidica si stava per avvicinare.
"Oggi è l'ultimo giorno di Aprile..." pensò tra sé e sé.
Il suo meditare venne interrotto dal suono di una porta che si apriva: la numero tredici.
Refia Bodfield uscì dalla sua stanza portandosi dietro la sua bicicletta. Alvin si domandò innanzitutto come mai la avesse parcheggiata all'interno della camera, chiedendosi poi che cosa ci facesse sveglia a quell'ora.
La ragazza dai capelli rossi lo notò.
- Alvin! - lo salutò lei - Già sveglio? -
- Sì, sono davvero infaticabile - scherzò lui - E tu? -
- Oh, non avevo proprio sonno - sorrise lei, imbarazzata - Così ho pensato di alzarmi presto per i miei esercizi. Sai, Hayley non potrà aiutarmi per un po', quindi devo impegnarmi il doppio -
Alvin diede un'occhiata alla bicicletta: piuttosto solida e dall'aspetto dinamico, quello che ci si aspetterebbe di vedere pilotato da Refia.
- Sei eccezionale, Refia - ammise lui - Anche in questa situazione inverosimile non perdi la tua energia -
- Sono fatta così! - rispose - E tu? A me sembri piuttosto in forma; tutti dipendono dal tuo parere! -
- E' vero, ma in verità mi sento a disagio... - le disse - Come un uccello in gabbia. Vorrei uscire di qui e volare lontano ma... -
Abbassò lo sguardo. Refia gli porse una pacca di conforto.
- Fatti forza, Alvin... - tentò di rincuorarlo - Troveremo un modo di uscire da qui, dovessero volerci settimane, o mesi! Giuro che usciremo -
Lui si strinse il braccio in una morsa.
- E tu, Refia? - chiese improvvisamente - Non ti senti... inesorabilmente prigioniera? -
Lei ci pensò su. Poi scosse il capo.
- Un po', sì. Ma in realtà sono fiduciosa -
Lui spalancò gli occhi.
- Fiduciosa...? -
- Dimmi, Alvin. Secondo te qual'è il significato di essere "liberi"? -
Lui incrociò le braccia, come era suo solito fare quando doveva riflettere.
- La libertà è il poter vivere secondo il proprio libero arbitrio, le proprie regole e la propria morale - asserì annuendo.
- Una risposta degna di te! - ridacchiò lei, mostrando una dentatura sfavillante - Sai invece come la penso io? -
- Dimmi, sono curioso -
Refia Bodfield si schiarì la voce.
- La "libertà" è andare in bicicletta -
Di tutte le risposte che il bodyguard si aspettava, quella di certo non rientrava nelle probabilità plausibili.
- "Andare in bicicletta"? -
- Crescendo si diventa adulti - spiegò lei - E diventando adulti arrivano le responsabilità, gli impegni e le difficoltà. Eppure, per quanto la vita possa farsi dura o impossibile da gestire, io so che avrò sempre almeno un'oretta al giorno per andare in bicicletta -
Lui ascoltò tutto come ipnotizzato da quelle parole.
- E poi... - continuò Refia, rapita dal suo stesso discorso - Sentirò il vento tra i capelli, e pedalerò lungo i campi, e guarderò il tramonto. E avrò il mio momento privato, solo io e la mia bici. Un momento in cui tutto il resto non conta, in cui penserò "Ho una vita che mi permette di avere abbastanza tempo per andare a fare un giro in bicicletta", e saprò che, anche se tutto va male, mi sentirò libera -
Con quelle parole, Refia montò in sella alla bici e si allacciò il caschetto.
- Anche rinchiusa in questa scuola, con una minaccia di morte incombente, io posso andare in bici - disse, con un'innocenza disarmante - E quindi mi sento... -
- Libera? -
- Libera -
Alvin annuì, facendole cenno di aver capito.
- Sei davvero l'Ultimate Cyclist, Refia -
- Mi hanno detto di essere nata con le ruote! - sghignazzò lei.
Lui assunse un'aria triste.
- Sì, conosco una persona della quale potrei dire... più o meno lo stesso -
- Uhm? Come, scusa? -
- Non badare a me - si scusò lui - Solo un pensiero fugace. Vai, non voglio farti perdere tempo -
Lei sorrise ancora, e iniziò a pedalare lungo i corridoi.
- Ci vediamo dopo, Alvin! -
Lui alzò il braccio, salutandola.
Lo riabbassò dopo pochi attimi. Strinse i pugni.
- Già... libertà di poter fare ciò che si vuole... - mormorò a se stesso - Libertà di pedalare... di "vivere". Non tutti hanno questa possibilità, Refia -
Guardò l'orologio. Erano le cinque e mezza del mattino.
Fece un rapido calcolo.
- Il Prof si sveglia quasi sempre alle sei e quarantacinque - disse, incamminandosi lungo i corridoi del primo piano - Ed è sempre il primo, dopo di me. Dieci minuti per raggiungere la palestra, sette per tornare, tempo indefinito per aspettare il momento "X", la preparazione potrebbe durare anche trenta secondi, se non sono rapido... -
La sua mente iniziò ad elaborare ogni possibile dettaglio ed eventualità. 
Alvin Heartland vide davanti a sé i volti dei suoi quindici compagni: le loro abitudini, i loro movimenti, il loro modo di agire.
Tutto era perfettamente memorizzato nel cervello dell'Ultimate Guardian.
Guardò ancora una volta l'orologio; poi alzò lo sguardo.
- Tra due giorni devo essere al suo fianco... - ripeté - Glielo ho promesso... glielo ho promesso... devo farlo... devo farlo... DEVO FARLO... -
La sua sagoma scomparve lungo i corridoi del piano terra della nuova sede della Hope's Peak.
- Devo... uccidere... i miei compagni... -  

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 1 - Ultima parte ***


Tutti e quattordici premettero il pulsante situato appena sotto il proprio banco non appena tornò il silenzio.
La votazione durò appena qualche attimo: sullo schermo situato sul soffitto dell'aula comparve un volto.
All'immagine di Alvin era allegata la scritta "COLPEVOLE" a caratteri ampi e cubitali, come per imprimere un senso di oppressione.
L'Ultimate Guardian si allacciò lentamente la camicia; il suo sguardo era vacuo.
- Mostro... -
Una voce flebile e strozzata ruppe il silenzio.
Alvin si voltò; era June.
- Come... come hai potuto...? - l'arciera si trattenne a stento - COME HAI POTUTO!? -
Il ragazzo massiccio abbassò lo sguardo.
- Pensi davvero che spiegarlo avrebbe senso? - chiese lui - Pensi di poter capire la mentalità di un assassino come me? -
- Alvin... - stavolta fu Karol a parlare - Devi darci delle spiegazioni -
Lui guardò il suo orologio da polso. Vi era un minuscolo quadrante indicante la data, sulla destra del congegno.
- Oggi è il trenta di Aprile... - mormorò - Tra due giorni sarei dovuto essere a casa. Sarei dovuto essere al suo fianco -
- Di che diavolo stai parlando!? - sbraitò Michael.
- Ho fatto una promessa - rispose - Una promessa ad una persona molto importante -
- Una promessa che ti ha spinto ad uccidere... una ragazza innocente come Refia? - pianse Hayley - E' davvero questa la verità? -
Pearl si mise in mezzo.
- Ognuno di noi ha dei principi e dei valori. Ognuno di noi ha dei sogni e delle aspirazioni... - disse la ninja - Alvin ha i suoi. Deve essere davvero importante se ti ha portato all'omicidio -
Alvin annuì lievemente.
- Non voglio che mi perdoniate - sospirò - Ho... ho tentato di uccidervi. E' stata una mia scelta, e ho deciso di farlo di mia iniziativa. Ho voluto agire prima di affezionarmi a voi, per non recidere un legame troppo saldo. Se mi odiate, me ne farò una ragione -
- Io non voglio odiarti, Alvin! - intervenne Judith Flourish - Ma uccidere...! Uccidere per... qualsivoglia motivo è...! -
- Assurdo, sì - la interruppe il bodyguard - Eppure per qualcuno di talmente importante sono stato disposto a farlo -
Vivian Left gli si avvicinò timidamente.
- Alvin... - disse lei - Ti scongiuro... dimmi che Refia non ha sofferto -
Gli occhi gli si inumidirono. Si pulì la faccia prima di rispondere.
- Non ha sentito niente... - disse, con un filo di voce - Nel momento in cui stava passando davanti alla caldaia... le sono piombato davanti all'improvviso. Il suo sguardo era confuso mentre cadeva a terra, ma... poi le ho stretto il collo con una morsa per farla svenire... non volevo che provasse dolore mentre la... la uccidevo -
Calò il silenzio. Erano parole difficili sia da pronunciare che da ascoltare.
Xavier osservò la confessione in silenzio, ripercorrendo la propria cronologia mentale degli eventi. Tutto sembrava combaciare.
- E poi... - Alvin cedette ad alcune lacrime - Mentre la soffocavo lei... lei ha realizzato. Ha realizzato che non si sarebbe mai più svegliata... mi ha guardato, dritto negli occhi... mi ha supplicato in silenzio, dimenandosi e cercando aria. E io... cristo santo... -
- E poi la hai pugnalata con la freccia... - concluse Pearl.
L'affermazione priva di fronzoli della ninja aggravò il peso che il guardiano si portava sulle spalle.
- Esatto... - disse lui, ricomponendosi - Ho trovato l'arco in palestra un paio di giorni fa. Ho intuito che June lo avesse tenuto nascosto, e ho pensato di usarlo per il mio piano... -
Lawrence deglutì.
- Porca miseria, Alvin... - biascicò - Non dirmi che non hai avuto... nemmeno un attimo di esitazione... -
Alvin non trovò la forza di rispondere. Si limitò a socchiudere gli occhi.
- Ascoltatemi - disse lui - Non ho il diritto di darvi consigli o ammonimenti, nella mia situazione. Ma vi prego, fate in modo che il mio caso rimanga isolato. Siate forti... come io non sono riuscito ad essere. Ve lo chiedo con umiltà... fate sì che il mio errore resti unico nel suo genere -
Nessuno trovò il coraggio di accettare il gravoso compito di accettare quella richiesta.
Alvin avvertì il seme del dubbio propagarsi sempre più tra i suoi compagni.
Si rivolse, infine, a Karol.
- Perdonami, Prof. Sono stato un pessimo esempio -
- Alvin... - si morse il labbro - Se solo mi avessi parlato... -
- Prenditi cura di loro, Karol. Non esiste nessuno di più affidabile di te -
A quelle parole, una porta si aprì alle spalle di Alvin, mimetizzata con il muro.
L'interno sembrava condurre verso la sala adiacente; Xavier ricordò come Monokuma la avesse descritta poco prima.
- La... sala delle punizioni...? - mormorò Xavier.
Tutti gli altri sussultarono.
- E' giunto il momento che io paghi per il mio crimine... -
Hillary strinse la mano a Vivian; il suo sguardo sembrava voler dire che non voleva vederlo andare via.
- U-un momento! - lo fermò Rickard - Se vai lì...! -
- Preferisco andarci di persona che lasciare che Monokuma mi trascini di peso - Alvin abbozzò un sorriso storto e falso - Compagni miei... non vi sono parole per esprimere il mio rammarico. Vi auguro ogni bene possibile -
- Alvin...! - esclamò Kevin - C'è davvero qualcuno di così importante per cui vale la pena di togliere la vita...!? -
L'Ultimate Guardian annuì con serenità.
La porta iniziò a chiudersi lentamente, facendolo sparire pian piano.
Lanciò un'ultima occhiata verso i suoi compagni di classe; vide Hillary e Vivian stringersi tra loro sempre più.
Vide Rickard, col cuore in gola.
Lawrence e Kevin parevano avere sentimenti contrastanti sulla situazione.
Vide Karol e June, entrambi con un dolore lancinante sul volto.
Vide il timido Pierce farsi sempre più piccolo, con gli occhi colmi di terrore.
Adocchiò Hayley ed Elise, incapaci di trattenere la tristezza.
Michael e Pearl erano gli unici col sangue ancora freddo. Lui appariva quasi come sollevato.
Pearl fece un cenno, come a volergli dire che, in qualche strano e assurdo modo, lo capiva.
E infine, gli ultimi due.
- Xavier, Judith, siete stati splendidi - sorrise Alvin - Continuate a collaborare con tutti quanti... e trovate la verità dietro questa follia -
E, con quelle parole, la sua immagine scomparve definitivamente.
Lo schermo si illuminò nello stesso momento in cui si attivarono gli altoparlanti.
- Complimenti! Avete stanato il colpevole! - annunciò Monokuma con eccitazione - Direi che abbiamo perso abbastanza tempo in convenevoli, quindi passerò dritto al sodo! Ho preparato una punizione speciale per Alvin Heartland, Ultimate Guardian! Tutti pronti? E' l'ora della punizione! -

 
 
I quattordici studenti si avvicinarono alle vetrate dell'aula di tribunale, facendosi spazio per vedere.
Lo spettacolo davanti ai loro occhi li fece rabbrividire.
Alvin Heartland era fermo, in piedi al centro dell'enorme sala.
Ai suoi piedi giaceva uno scudo grande a malapena quanto il suo braccio.
Alvin lo raccolse, quasi istintivamente.
Fu in quel momento che, dall'altro lato della stanza delle punizioni, comparve un grosso dispositivo dotato di canna e munizioni.
Xavier sgranò gli occhi: era una vera e propria mitragliatrice.
Lo schermo del tribunale emise un suono acuto; una scritta era comparsa a caratteri cubitali: "THE SHIELDBREAKER".
Un titolo che non lasciava presagire nulla di buono e che scosse gli animi di tutti i presenti.
Judith Flourish pregò con tutta se stessa affinché non avvenisse ciò che stava palesemente per accadere.
Si udì un rombo; l'arma aveva appena fatto fuoco.
Uno, due, tre, dieci, trenta colpi di fila; la mitragliatrice era ricoperta da un denso fumo grigiastro, come se la velocità di fuoco la stesse surriscaldando.
Alvin Heartland si piazzò lo scudo davanti; l'impatto distrusse gran parte della guaina metallica.
Avvertì una feroce perforazione alle gambe e alle braccia, un continuò raschiamento della sua pelle da parte di quei proiettili tanto sottili quanto letali.
Una pioggia cruenta si abbatté sull'Ultimate Guardian provocando una nube di fumo attraverso la quale fu impossibile vedere.
Hillary Dedalus affondò la testa nello stomaco di Vivian; questa la cinse tra le braccia, ma come tutti gli altri fu incapace di distogliere lo sguardo.
Tutti meno Pierce, che dopo la prima ondata si sentì quasi svenire.
Passarono quindici secondi buoni, prima che l'arma da fuoco cessasse di sparare, e col silenzio iniziò a diradarsi anche il fumo.
Ciò che uscì dal gassoso grumo grigiastro non era più nulla che potesse essere ricondotto ad un essere umano.
Un corpo inginocchiato, che presentava più fori che altro, comparve sotto lo sguardo di tutti.
Lo scudo, che non se l'era passata meglio, cadde rovinosamente al suolo, infrangendosi in due metà distinte.
Nello stesso attimo, il corpo di Alvin Heartland cessò qualsiasi funzione.
Il suo fisico possente stramazzò in avanti, con un tonfo sordo.
Attorno vi era un lago di sangue e proiettili.
Non si mosse mai più.


L'ascensore ritornò in superficie dopo un viaggio che parve durare un'eternità.
Scivolò silenziosamente lungo la superficie, giungendo infine a destinazione.
Nessuno dei quattordici studenti disse una singola parola.
Al suo arrivo, rimasero fermi.
Vi era vacuità nei volti di ognuno.
C'era chi era intento a riflettere, chi era rimasto sopraffatto dal dolore più di altri, chi si stava facendo divorare dal rimorso.
C'era chi aveva timore degli altri, paura di cadere nello stesso errore, o terrore di essere il prossimo.
Un miscuglio eterogeneo di paure si era mescolato agli animi dei presenti.
Uno dopo l'altro, tutti iniziarono lentamente a scivolare verso le proprie stanze.
Nessuno salutò, nessuno si diede appuntamento per il giorno dopo; nessuno era certo nemmeno di arrivarci, alla giornata successiva.
Tre persone rimasero sul piazzale.
Karol Clouds, Judith Flourish e Xavier Jefferson.
- Io... andrò a riposare - disse l'insegnante - Ho bisogno di tempo per pensare -
Judith annuì.
- Buonanotte, Prof... -
Karol tentò di sorriderle, ma semplicemente non ci riuscì. 
Camminò vacillando fino alla propria stanza.
Xavier e Judith si guardarono dritti negli occhi.
- E' finita... - sospirò Judith.
- Tu credi? - mormorò Xavier - Io ho il timore che sia appena cominciata -
Lei gli afferrò il braccio.
- Non dirlo! - gemette lei - Ti scongiuro, non dirlo... -
- Dobbiamo affrontare in faccia la realtà, Judith - rispose secco lui - Non possiamo fidarci di nessuno. E non posso fidarmi nemmeno di te... -
- Ma...! -
- Non dire che non uccideresti mai nessuno, per motivo alcuno! - reagì Xavier - Lo disse anche Alvin, e guarda dove siamo finiti! -
Lei si strinse in se stessa. 
Alzò leggermente la mano fin sulla propria testa, afferrando delicatamente il fermaglio ornato con una vistosa rosa bianca.
Lo sfilò; ciocche di capelli corvini le caddero lungo il viso.
I suoi occhi scrutarono il fermacapelli come cercando una risposta.
- Eppure... - sussurrò Judith - Io... non ho paura di te, Xavier -
- Che cosa...? - lui tentò di metabolizzarne il significato.
- Voglio dire che... il tuo atteggiamento rude sembra celare qualcosa di diverso - spiegò lei - Quando ti vedo mi sembra di vedere un'aura simile a quella di Karol. Una sorta di strana... sicurezza -
- Judith, tu non mi conosci... - si grattò il capo.
- Lo so, è solo una sensazione - la legale prese aria - Ma durante le indagini sei stato... incredibile! La minuzia del tuo ragionamento, il tuo attento calcolare le varie possibilità... cielo, io non avrei mai pensato di controllare i punti ciechi delle videocamere -
Lui indietreggiò, imbarazzato.
- Non bisogna essere dei fuoriclasse per avere un minimo di intuito - annuì lui - Tu sei molto più portata... -
- Eppure ho avvertito qualcosa... qualcosa di speciale - lei annuì ripetutamente - Dimmi, Xavier. Sei "l'Ultimate Detective", non è così? -
Il suo unico occhio si spalancò.
- I-io...? - balbettò - Perché lo dici...? -
- Lo ripeto: solo una sensazione - sorrise lei.
Lui chinò lo sguardo.
- Puoi chiamarmi come preferisci - sospirò - Ma non commettere lo stesso errore di Karol. Se mai dovessi trovare qualcuno di cui ti fidi nella posizione di Alvin, ne usciresti distrutta. C'era un punto cieco anche nelle nostre considerazioni basilari... -
- Lo terrò a mente - rispose lei, vagamente delusa - Allora... ti auguro una notte serena -
Lui la salutò con la mano.
- Dubito che avremo davvero delle nottate tranquille, d'ora in avanti - disse, svanendo dietro la porta numero otto.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 2 - Aria fresca - Parte 1 ***


Capitolo 2 - Aria fresca

                                                                           
Lawrence Grace sgattaiolò silenziosamente lungo i corridoi del piano terra; era ancora notte fonda.
Le luci della scuola erano accese, e la differenza tra il dì e la sera era impossibile da denotare, ma gli orologi dell'istituto non mentivano.
Il musicista si guardò attorno in un momento di paranoia, fermandosi ad un incrocio di corridoi.
Guardò a destra, a sinistra, e di nuovo a destra; non vi era nessuno.
Sentì il proprio respiro farsi più affannato.
Camminò con i polmoni svuotati e il volto ansimante per diverso tempo; la testa gli faceva male, e la mente non voleva saperne di togliersi delle fastidiose e tremende immagini di dosso.
Chiuse gli occhi, scuotendo la testa; la sagoma del corpo di Refia non accennava ad andarsene.
Lawrence ricordò ogni dettaglio della scena del crimine come se la avesse avuta davanti, in quel momento.
A ciò si ricollegò subito la macabra esecuzione subita dall'Ultimate Guardian; la sua pelle sentiva i brividi al solo pensiero.
Il giovane continuò a guardarsi attorno nel terrore di seguire, molto presto, i due compagni caduti.
- Oh, cazzo... - mormorò - Non voglio morire anche io... cazzo... -
Si fece strada rapidamente, evitando a tutti i costi di passare davanti alla sala della caldaia.
Il fatto che la sua mente non riuscisse a scacciare i brutti ricordi legati a quel luogo era un sintomo più che affidabile.
Dopo pochi minuti, la sua febbrile marcia si arrestò: era arrivato dove voleva.
L'area dei laboratori artistici, silenziosa come sempre.
"Sono certo di aver visto un violoncello, quando sono stato lì..." pensò "Andrà tutto bene... suonerò qualcosa, mi distenderò i nervi, e andrà tutto 
bene. Tutto. Bene...
"
Poggiò la mano tremante sulla maniglia della porta; ebbe bisogno di un secondo tentativo prima di riuscire ad aprirla correttamente.
La aprì di scatto e ci si fiondò dentro, chiudendosela alle spalle.
Fu lì che si Lawrence Grace si rese conto di aver commesso un errore di calcolo, e che la sua confusione gli aveva fatto sbagliare la posizione delle stanze.
Ciò in cui era entrato era il laboratorio di disegno e pittura, dove una persona minuta e vagamente pallida sembrava intenta a dipingere.
Sentendo i rumori alle proprie spalle, Vivian si voltò di scatto; i due sguardi si incontrarono, ed entrambi vennero assaliti da un senso di disagio.
- L-Lawrence...? - balbettò Vivian - Cosa ci fai qui a quest'ora...? -
Lui non riuscì a produrre una frase sensata.
- No, ecco... io... -
- Sei da... solo? - Vivian scattò in piedi - Sei qui per... uccidermi!? -
Gli occhi del musicista si dilatarono al solo sentire quella parola.
- NO! No, no, no! Assolutamente! - alzò istintivamente le mani - Non saltiamo a conclusioni affrettate, giuro che non ho cattive intenzioni! -
Lei parve riacquistare un minimo di tranquillità. Lawrence riprese un respiro regolare.
- Non volevo spaventarti... - disse lui - Stavo cercando il laboratorio musicale, ma ho sbagliato stanza -
- A quest'ora? -
Il suo voltò arrossì.
- Sì, beh... non riesco a dormire - ammise - Non dopo questi... ultimi giorni -
La sua confessione fece comparire sul volto di Vivian un'espressione empatica. La ragazza annuì.
- Siediti -
- Come? - fece lui.
- Prego, ci sono tante sedie - sorrise lei, placida - Parliamone -
Ancora titubante, Lawrence si accomodò su una delle sedie disposte attorno al gigantesco tavolo di marmo della stanza.
Era così ampio che avrebbe potuto benissimo non scorgere la sagoma di Vivian, se non fosse stata seduta sul suo alto sgabello.
Abbassò il capo, vagamente sconsolato. Vivian prese due tazze dalla scrivania e ci versò del tè tiepido.
- Ti va? -
Lui guardò la sua tazza con uno sguardo di pauroso sospetto. Lei comprese l'antifona.
- Capisco, non preoccuparti -
- No, no! Lo prendo, dico sul serio! - si scusò subito Lawrence - Scusami, non volevo dubitare di te... è che sono un po' spaventato -
- Lo capisco bene - annuì lei - E' da giorni che non riesco a dormire come si deve -
Lawrence bevve un sorso; il suo sguardo era incuriosito.
- Anche tu? - chiese.
Lei si strinse nelle spalle.
- Due giorni fa, quello che è successo ad Alvin e Refia... - sospirò - E'... agghiacciante. Lo ho sognato stanotte, e mi sono svegliata in un lago di sudore -
- E' per questo che sei qui? - ipotizzò lui - Volevi rilassarti un po'? -
Vivian Left sorrise con imbarazzo.
- Sì, ' proprio così. Dipingere mi tranquillizza - spiegò - La mia mente si astrae completamente, come se... -
- Come se in quel momento non esistesse nient'altro a parte te e la tua opera -
Gli occhi della giovane si dilatarono per un istante. Il sentirsi completare la frase in maniera così precisa e dettagliata la aveva lasciata sgomenta.
Guardò Lawrence, incredula.
- Sì... sì, esatto - balbettò lei.
- Lo capisco bene, è un po' ciò che mi fa tirare avanti nei momenti bui - Lawrence chiuse gli occhi trangugiando il suo tè - Un rilassante senso di alienazione -
Vivian lo guardò con un sorriso compiaciuto.
- Credo sia una descrizione perfetta -
L'altro si grattò il collo con imbarazzo. Sentì il bisogno di cambiare argomento.
- Quindi... cosa stavi dipingendo? - disse, osservando la tela.
Non vi era ancora niente di concreto sopra, a parte qualche schizzo e dei tratti di preparazione.
Lei prese in mano il pennello che stava usando poco prima.
- Ero alquanto indecisa - ammise - Magari saprai darmi un'idea. Dimmi, hai uno strumento preferito? -
Lui ci pensò su.
- Sì, in effetti c'è... - mormorò - La mia specialità è il violino -
- Oh, molto raffinato -
Lui assunse un'espressione vagamente mesta.
- Sì, beh... è il motivo per cui sono stato scelto dalla Hope's Peak - raccontò - E' vero, il mio titolo è "Ultimate Musician", ma la verità è che con la maggior parte degli strumenti musicali me la cavo semplicemente bene. Ma il violino è la mia specialità: devo tutto a lui -
Lei si mise a ridacchiare di gusto.
Lawrence arrossì di colpo.
- Come? Che!? Ho detto qualcosa di buffo!? - chiese - O di strano...? -
- No, affatto. E' che credo sia la prima volta che ti sento parlare in maniera così umile - gli disse.
Da che era rosso, sbiancò.
- U-umile!? -
- Beh, ammetto di aver pensato che fossi... un tantino arrogante, quando ti ho visto per la prima volta -
- Ah, lo capisco... sì, sono cosciente di esserlo - rispose lui, colmo di imbarazzo - Il mio maestro mi disse che una punta di egocentrismo non guasta, se riesci a trasformarlo in ambizione e determinazione. Sai, intendo... canalizzare il tuo ego in qualcosa di produttivo -
Lei annuì.
- Lo capisco, credimi. Ti ho giudicato male - si rivolse poi verso la tela - E credo di aver trovato un buono spunto per un dipinto -
- Ah, allora sarà meglio che vada... - disse, alzandosi in piedi - Non vorrei disturbarti ulteriormente -
- No, aspetta! - lo fermò lei.
Lawrence Grace si bloccò sul posto. La piccola mano di Vivian lo stava tirando delicatamente per la camicia.
- Resta qui - gli chiese - Così mi dirai se il violino mi sta venendo bene. Ho bisogno di un critico esperto -
- Allora potrei... andarlo a prendere dal laboratorio - propose lui - Così avresti un valido esempio su cui ispirarti -
Lei sorrise di nuovo.
- Mi sembra un'ottima idea - la sua espressione era calda e flemmatica - Così magari potresti anche farmi ascoltare qualcosa -



Karol attese ancora alcuni minuti seduto alla sua scrivania, intento a fissare il vuoto davanti a lui.
La sua mano fece scivolare un gessetto bianco tra le dita più e più volte.
Sperò che, alla fine, la porta dell'aula si aprisse e che qualcuno venisse finalmente alla sua lezione.
Perse le speranze non appena l'orologio segnò le dieci.
Sospirò tristemente e pulì la lavagna con il polveroso cassino; tracce di gesso caddero fin sul pavimento.
Erano trascorsi un paio di giorni dal processo, e nessuno aveva avuto il coraggio di vagare per la scuola liberamente, soprattutto negli orari più silenziosi. Le lezioni di Karol contavano un'assenza assoluta di studenti.
Il suo sguardo si posò sul registro che stava tenendo in maniera accurata; aveva predisposto un gran numero di lezioni per le più svariate discipline, tutte accuratamente ordinate nei giorni della settimana.
Afferrando il registro, notò un foglio cadere dal suo interno. Era un sorta di elenco delle presenze che aveva redatto nei giorni precedenti.
Karol Clouds era un tipo preciso, abbastanza dal voler far sembrare quel posto come una vera e propria scuola.
Scorse rapidamente le firme di coloro che avevano partecipato; i suoi occhi si fermarono su di una firma solida e ordinata.
La scritta "Alvin Heartland" era ricalcata e curata.
La mano di Karol agì d'impulso, stropicciando lievemente il foglio. Lo infilò nel registro e seppellì il quadernino in uno dei cassetti, deciso a non ripescarlo mai più.
Ebbe bisogno di qualche momento per riflettere. Guardando il proprio riflesso allo specchio, non riusciva a vedere altro che una profonda delusione per se stesso.
Scacciò con forza il volto sorridente di Refia che tentava di insinuarsi tra i ricordi che aveva provato a sigillare in un angolo remoto della sua mente, ma il dolore era troppo recente.
Avvertì, oltre che ad un forte prurito alla nuca, un forte bisogno di un bagno caldo.
Si alzò in piedi e si avviò verso la porta della classe. Fu sorpreso di notare che questa si aprì prima di potercisi avvicinare.
Judith Flourish entrò timidamente nell'aula, e notando la presenza di Karol si introdusse con un brevissimo inchino.
- Buongiorno, Prof... -
- Judith! E' un vero piacere vederti - la accolse lui - Prego, entra -
Lei annuì, facendosi strada.
- Chiedo scusa per il ritardo - disse - So che la lezione era un'ora fa -
Karol Clouds sospirò tristemente.
- Dopo ciò che è successo con Alvin è già una meraviglia che qualcuno sia venuto - le confidò - La tua presenza mi allieta -
- Io... ho ancora parecchio timore - Judith si sedette ad un banco - Sono tutti spaventati a morte, e nessuno riesce più a fidarsi degli altri -
- E' stato un brutto colpo da digerire... - lui prostrò il capo.
- Ma ci deve essere un modo per risanare il nostro rapporto! Anche se... -
Judith si bloccò di colpo. Karol la spronò a parlare.
- Anche se...? -
- Ecco... è per ciò che ha detto Pearl... - deglutì lei - Refia e Alvin sono morti, ma siamo ancora qui... ciò vuol dire che, in teoria... -
Karol la interruppe.
- Parli della talpa? -
- Sì - annuì lei - Odio dover pensare che tra di noi ci sia un folle che sta godendo nel vederci uccidere a vicenda. Ma se davvero ci fosse... -
- E' impossibile decretare chi sia, già - Karol assunse uno sguardo serissimo - Per quel che ne sai, potrei essere anche io... -
Judith scosse il capo.
- No, Prof. Se sono venuta qui è perché... come dire? - cercò le parole giuste - Con te mi sento un po' più al sicuro. E' una strana sensazione -
Il cuore dell'Ultimate Teacher si scaldò.
- Sono... davvero onorato di sentirtelo dire, Judith - sorrise lui - Vorrei poterti promettere di tenerti al sicuro, ma... -
- Ma tu puoi, Prof! Sei maturo e intelligente, e sono certa che potresti fare breccia nei loro animi sconvolti, se provassi a... -
L'altro alzò la mano, facendole cenno di smettere.
- No, Judith, non credo di esserne in grado... -
- Ma perché!? -
- Non sono riuscito a comprendere Alvin - disse, dandole le spalle - Non sono riuscito a capire ciò che i suoi occhi stavano dicendo. Ho fallito nel assimilare i sentimenti di un mio alunno, e ciò ha portato alla morte di due persone -
La ragazza si alzò di scatto.
- Prof, non ti starai mica addossando la responsabilità della loro morte!? -
- Non dico di esserne responsabile... ma non sono riuscito a prevenirle. E ora tutti dubitano di tutti, e nessuno mi ascolterebbe pensando a me come un rivale, in questo gioco della morte -
Karol appoggiò le braccia sulla scrivania, a capo chino. Fissò un punto della cattedra senza un particolare scopo, per indirizzare la sua mente verso altri pensieri.
- Un vero insegnante è in grado di indirizzare i propri alunni verso un futuro radioso. Io non sono nemmeno capace di capire i miei. Sono un disastro... -
- Se lo fossi davvero, sarei qui? -
Lui si voltò. Le sue parole lo avevano colpito.
- Come? -
- Io mi fido ancora di te, Prof, e ho bisogno del tuo aiuto per fare in modo che non ci siano altre vittime - 
- Credi che io possa farlo? -
Lei annuì.
- Lo so per certo. E so che anche Xavier ci aiuterà -
- Xavier? - Karol parve impensierito - Onestamente, quel ragazzo è tra i più criptici del gruppo. Lui e Pearl sono insondabili -
- Ma avverto da parte sua la stessa aura; come un sentore di sicurezza - esclamò Judith.
Karol notò che, a quelle parole, la ragazza toccò istintivamente il fermacapelli floreale che aveva sulla tempia.
Si chiese se la cosa non avesse uno specifico significato.
- E' la stessa sensazione che provo quando difendo qualcuno in aula di tribunale - spiegò Judith - Ho un sesto senso per queste cose. Io... semplicemente mi fido di voi -
L'insegnante si limitò a mostrare un sorriso sincero, e si diresse verso la lavagna.
Afferrò un gesso e iniziò a scrivere diverse righe di testo.
Lei lo osservò, un po' spaesata.
- Hai ragione, Judith - asserì lui - La situazione è critica e dobbiamo fare qualcosa. Ma adesso... adesso è ora di lezione -
- Lezione? -
- Certo. Non potrei negare all'unica presente la sua dose di cultura - disse, indicando le scritte puntandole col gessetto.
Era una frase scritta interamente in latino, che andava da parte a parte della parete.
- Si dia il caso che abbia preparato delle lezioni specifiche seguendo le attitudini di tutti voi - spiegò Karol, non nascondendo una vena di orgoglio. 
- Oh! Una dedizione notevole! -
- Per una giovane maestra del foro, l'ideale è partire dalle origini del mondo latino, dove si è sviluppata una delle più famose civiltà in ambito... "legale" -
A Judith Flourish venne da ridere in modo genuino.
Si sedette al suo posto, recitando per bene la sua parte di studentessa.
- Mi addolora informarti che sono argomenti che conosco benissimo, Prof! - si pavoneggiò lei - Sono pur sempre l'Ultimate Lawyer -
- Oh, ma potresti sorprenderti di quante altre cose tu possa imparare dal sottoscritto - sorrise lui, il suo sguardo era pieno di sicurezza - E il nostro obiettivo, dopo quello di aumentare la nostra cultura, sarà quello di riempire questa classe con tutti gli altri. Sei d'accordo? -
Lei annuì con convinzione.
- Ci sto! -  

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Capitolo 14
*** Capitolo 2 - Parte 2 ***


Era circa mezzogiorno quando tredici degli studenti rimasti si radunarono all'interno del ristorante.
Molti di loro si limitarono a starsene in piedi, senza nemmeno accomodarsi; i volti di ognuno erano segnati da una profonda stanchezza e da un evidente malessere. Era di facile intuizione che nessuno era stato capace di dormire come si deve, in quelle ultime notti.
Karol Clouds lanciò delle occhiate apprensive in giro: i suoi studenti e compagni avevano una pessima cera.
Rickard, pur avendo i nervi a fior di pelle, si accasciò con la testa sul tavolo sopraffatto dalla sonnolenza.
June e Xavier sembravano immersi nei loro più reconditi pensieri, mentre Elise appariva assente di suo, come al solito.
Più in evidenza era il pallore nei volti di Hayley e Hillary.
La prima sembrava essere ancora scossa riguardo agli avvenimenti di qualche giorno prima; le sue gambe accennavano un tremolio incerto.
L'altra aveva trovato la sedia più vicina alla posizione di Vivian e ci si era barricata dietro, come a volersi difendere.
Nessun altro sembrava intenzionato a parlare o ad esprimersi in qualsivoglia modo.
Solo Judith Flourish parve lanciare al professore un'occhiata complice, come per condividere la propria preoccupazione.
- Vi ringrazio per essere venuti - cominciò Karol - Ma prima di tutto: sapete dov'è Michael? -
Il chimico era, con poca sorpresa da parte degli studenti, assente.
- Dove vuoi che sia? - sbottò Pearl - Chiuso nella sua stanzetta, come un gatto impaurito -
- Puoi biasimarlo...? - sospirò Kevin Claythorne - Due di noi sono morti... si potrebbe dire che Michael aveva ragione fin dal principio -
Karol scosse il capo con veemenza.
- No, Michael non aveva affatto "ragione"! - si impose l'insegnante - Comprendo i suoi sentimenti di sfiducia, ma non possiamo permetterci di restarne influenzati. Il caso di Alvin era... diverso -
Xavier gli lanciò uno sguardo infastidito.
- "Diverso"? Sei davvero un ingenuo, Karol - sentenziò lui - Come sarebbe diverso? Aveva un motivo per uccidere, e lo ha fatto. Come possiamo sapere che qualcun altro di noi non provi qualcosa di simile? -
Un vuoto di silenzio avvolse la sala. Diverse teste si chinarono verso il pavimento.
- Xavier, così non migliori la situazione... -
- Sto cercando di guardare in faccia la realtà - sbottò lui - La verità è che non ci conosciamo così bene da sapere che non accadranno altri incidenti -
- Allora ritengo sia una buona idea cominciare a conoscerci come si deve, non trovi? -
Quella proposta suscitò la curiosità di più di una persona.
- Che intendi? - chiese Vivian.
- Ricordate cosa ci ha detto Alvin? - spiegò Karol - Di voler... "agire" prima di creare dei legami troppo saldi? Prima di affezionarsi troppo? -
Elise annuì.
- Sì, ricordo quando lo ha detto... - disse - Appena prima di... -
- Ah, ho capito! - Lawrence la interruppe prima che un pessimo ricordo venisse riportato a galla - In pratica dovremmo tentare di diventare amici! -
- Esatto - Karol sorrise soddisfatto - Creando dei legami più saldi dovremmo riuscire a prevenire delle situazioni potenzialmente spiacevoli -
Alcuni iniziarono a mostrare dei pareri di dissenso. Pearl e Xavier erano poco convinti.
Judith sentì il bisogno di spalleggiare l'iniziativa del Prof.
- E' un'idea sensata, no? - annuì l'avvocatessa - Diamoci dei motivi per non... farci del male. Che ne dite? Chi vuole cominciare? -
Sorprendentemente una mano si alzò subito: quella di Hayley.
- Ok, dato che siamo in vena di approfondimenti, vorrei togliermi una curiosità - esclamò lei - Xavier, ascolta! -
Lui si girò, sorpreso di essere stato interpellato.
- Cosa? Dici a me? -
- Non volevo sembrare mancante di tatto ma... sono curiosa riguardo al tuo occhio sinistro - spiegò lei - Come te lo sei procurato? -
Più di uno sguardo si voltò in direzione di Xavier. Questi intuì che era un domanda che un po' tutti si erano posti almeno una volta.
Non se ne meravigliò.
- Prima di chiedere delle cicatrici altrui è buona norma presentare le proprie... - disse, vagamente stizzito, indicando col dito lo sfregio sulla guancia di Hayley - Mi sembra che anche tu ne abbia una piuttosto evidente sul volto -
- Oh, questa? - lei sorrise con una vaga amarezza - Vi sembrerà banale, ma in realtà dietro c'è una storia piuttosto noiosa. Sono caduta con la faccia su un sasso quando ero piccola...! -
Hillary rabbrividì al solo pensiero.
- Sembra... doloroso - constatò Vivian - Fece molto male? -
- Altroché, ma non ci badai molto - rise Hayley - In realtà lo ricordo con piacere. Fu una delle mie primissime escursioni nella natura selvaggia -
Il suo sguardo si fece vagamente nostalgico, ma tornò subito alla realtà.
- Beh, ho detto la mia - si rivolse a Xavier - Dunque? -
L'altro incrociò le braccia.
- Non è una storia molto bella - sospirò - E' il risultato di una mia carenza di attenzione. Porto questo marchio come un monito per il futuro -
- Un... monito? - fece eco Pierce.
- A non abbassare mai la guardia, in qualunque situazione - rispose secco - Perdonatemi, ma non è un qualcosa che voglio rievocare. Non è un ricordo piacevole -
Karol scosse il capo. Si rese conto che il gruppo non aveva fatto molti progressi.
- Oh, se permettete, avrei anche io una domanda! - fu Rickard, stavolta, a proporsi.
- Prego, dicci pure -
- Riguarda Hillary -
La ragazzina sussultò per un istante.
- Co-cosa c'è...? - biascicò.
- Ho sempre pensato che il tuo talento fosse un po' bizzarro - ridacchiò lui - Come sei stata scoperta dagli scout? Voglio dire... in cosa consiste la tua abilità? -
Hillary incrociò le dita vagamente sudate, ponderando una risposta. Vivian la spronò con un gesto delle mani.
- Sono cresciuta in un paese rurale; mio padre ha una bottega di artigianato abbastanza famosa... - spiegò lei con voce flebile e debole - E' un orologiaio. Beh, principalmente. Ma mi ha insegnato a costruire molti piccoli congegni -
- Ad esempio? - la incitò Lawrence.
- I-il mio primo lavoro f-fu... un carillon - arrossì - Presi spunto dalle opere di mio padre e iniziai a realizzare oggetti più complessi e articolati -
- E a che età hai iniziato? - domandò Kevin.
Lei ci pensò su.
- Credo avessi... circa sette anni - disse - A dodici anni commissionarono alla mia famiglia la costruzione dell'orologio di un campanile. Fu il mio primo lavoro a lungo termine -
Giunse un breve momento di sbigottimento.
- Hai realizzato la struttura interna della guglia di un campanile... a dodici anni!? - la mandibola di Rickard calò di botto.
Il volto di Hillary si riempì di imbarazzo. 
Passò, come suo solito, a mimetizzarsi dietro Vivian.
- E' davvero eccezionale! - commentò la pittrice.
- Nulla... nulla di che... -
- E invece è un successo di cui andare fieri - Karol sfoggiò un'espressione fiera - Quando usciremo da qui, verremo a vederlo -
- Come volete... - annuì lei, con un sorriso contratto.
L'atmosfera iniziò a farsi man mano più leggera ed attenuata. Judith decise di cavalcare l'onda finché ce ne era la possibilità.
- Qualcun altro ha altre curiosità? Io ad esempio ne ho diverse - disse - June, perché non ci parli un po' di te? Magari dei tuoi meriti sportivi -
L'idea venne accolta all'unanimità.
June parve cascare dalle nuvole, sentendosi chiamata nel discorso. Il suo viso era ancora vagamente pallido; non aveva una bella cera.
Appoggiò le mani alle ginocchia e fissò un punto sul tavolino, senza rispondere.
Judith non comprese il perché di quel silenzio.
- June? Va tutto bene? -
L'arciera si alzò all'improvviso.
- Io... devo andare -
Fece per recarsi verso la porta del ristorante, ma la voce di Judith la richiamò subito.
- June! Ma che succede!? - le corse dietro - Dove vai? -
La ragazza le afferrò il braccio con la mano, ma June si districò con forza.
- Lasciamo stare! - strillò lei - Io non... non capisco! Non capisco come facciate! -
Judith strabuzzò gli occhi.
- Cosa stai...? -
- Che accidenti ti prende? - la rimproverò Pearl - Ti è partita una rotella, June? Non ti ha fatto che una domanda innocente -
- Ah, ma certo! Solo una semplice domanda! - sbottò lei - Stiamo qui, a conversare allegramente, a "conoscerci meglio"! Ma nel frattempo due persone sono MORTE! Capito!? "Morte"! Come potete anche solo pensare di intavolare una conversazione amichevole con due cadaveri sulla coscienza!? -
Karol si intromise immediatamente.
- June! Nessuno qui è responsabile di ciò che è accaduto! -
- E di ciò che accadrà!? - continuò imperterrita.
- C-c-ciò che accadrà....!? - balbettò Pierce - Intendi che...? -
- Avete dimenticato due fattori importanti, credo... punto numero uno: resteremo qui per sempre a meno che qualcuno non riesca a ucciderci tutti! - disse - Punto numero due: tra noi c'è un traditore, no!? E si trova qui, in mezzo a noi, NO!? -
Xavier sospirò. Sapeva che la questione del traditore sarebbe stata nuovamente piazzata nella discussione.
- Il traditore è uno solo, June - le rinfacciò Xavier - Non tutti e quattordici. Sai di avere almeno dodici alleati... -
- "Alleati"...? - il volto dell'arciera mostrò una lacrima - Alvin avrebbe dovuto esserlo... e guardate che cosa ha fatto...! Refia era buona, innocente, e gentile...! - 
- Alvin ha compiuto una scelta difficile - gli occhi di ghiaccio di Pearl rivelarono uno sguardo severo - E se ne è assunto le conseguenze. Refia ci è andata di mezzo, ma non possiamo rimpiangere i morti per sempre -
- E dovrei semplicemente... fidarmi di tutti voi? - singhiozzò June.
- Se vuoi davvero che le cose vadano bene, trova la spia. Così avremo un lieto fine, e nessun altro si farà male -
- Non esiste nessun "lieto fine"! - sbottò infine June Harrier, uscendo dal ristorante - Non da quando abbiamo avuto delle vittime. Non c'è modo che questa storia potrà mai avere un finale dove ci ritroveremo a sorridere! -
Con quelle ultime parole, scomparve lungo i dormitori.
Karol vide andare in frantumi l'ennesimo piano di riconciliazione. Il peso che sentiva sullo stomaco andava facendosi sempre più pesante.
- Aspettiamo che si calmi, poi andrò a parlarle - disse Vivian, avviandosi verso l'uscita.
Hillary la seguì a ruota.
- Ecco, addio al buonumore... - sbuffò Rickard, andandosene a sua volta.
- Continuando così, finiremo male... - bisbigliò Lawrence, preoccupato.
Ben presto, il ristorante si ritrovò vuoto. Persino Karol era uscito a testa bassa e colmo di sfiducia.
Judith e Xavier si scambiarono uno sguardo di intesa.
- Te lo avevo detto - le rinfacciò Xavier - Nessuno riuscirà più a fidarsi degli altri -
Judith si morse il labbro.
- Mi chiedo se sarà davvero così... - fece una terza voce. Era Elise.
Xavier la guardò, stranito.
- Come? -
- Beh, se diventassimo amici, non vorremo più ucciderci. Giusto? L'idea era carina -
Gli altri due credettero, inizialmente, che fosse una sorta di strana presa in giro. Poi realizzarono che era solo Elise.
- E tu, Elise? Ti fidi di noi? - a Xavier venne quasi da ridere - Sei certa che nessuno ti farà del male? -
- No, non ne sono sicura... - vacillò per un momento - Però so che Judith non farebbe mai nulla del genere -
- E perché no? Non la conosci così bene -
Flourish gli lanciò un'occhiataccia.
Elise si limitò a sorridere.
- Beh, perché l'altro giorno avevo fame e mi ha preparato una cioccolata calda con biscotti - disse con un sorriso caldo e disarmante - Cioè... una che mi offre del cioccolato non può avere cattive intenzioni, no? -
Passarono circa due secondi, poi Judith non riuscì a trattenere una risata sincera.
Dall'altro lato, Xavier era sconvolto.
- Q-questa è la tua motivazione!? Perché ti ha fatto la colazione!? -
- Eh? Ho detto qualcosa di strano...? -
- Era solo una cioccolata calda! Maledizione! - si accorse di aver perso le staffe, e tentò di ricomporsi - Basta così poco per convincerti!? -
- Ma io adoro la cioccolata calda... -
Il ragazzo si arrese definitivamente, mentre Judith non riusciva a cessare di ridere.
Si limitò ad abbracciare Elise.
- Grazie, Elise - le disse - E' la cosa più innocente e carina che abbia mai sentito -
- Ah, grazie... - rispose lei - Anche se non so bene che cosa sia accaduto -


Rickard Falls dovette fare i conti col proprio malumore, una volta uscito dal ristorante.
Non era solito farsi influenzare da un estremo negativismo, ma non riusciva a scrollarsi di dosso le parole di June.
Ripensò più volte a ciò che la compagna aveva detto, e un senso di profonda angoscia lo avvolse.
Si guardò attorno: era nell'area dei dormitori.
Si chiese se uno di quegli appartamenti non ospitasse realmente un traditore, qualcuno che complottava nell'ombra fingendosi un amico.
L'occhio gli cadde sulla casetta numero quattro: era probabile che Michael fosse ancora lì.
Nessuno era ancora riuscito a compiere una conversazione completa con quest'ultimo, rendendolo probabilmente il membro più imprevedibile.
L'unico momento in cui si era espresso senza scappare a gambe levate era stato durante l'autopsia di Refia; un pessimo pretesto, secondo il parere di Rickard.
Vide poi alcuni dei compagni tornare nelle proprie stanze proprio in quel momento.
Pearl sembrò guardarsi attorno con circospezione prima di richiudersi la porta alle spalle.
Lawrence scivolò rapidamente oltre l'uscio, e la sua serratura emise un rumore secco, come uno scatto. Sembrava avere fretta.
Il piazzale era rimasto vuoto.
La sua attenzione ricadde, infine, sull'immagine digitale rappresentata sul muro dell'ingresso al piazzale, con i sedici profili disegnati con impaccio sopra.
Qualcosa era cambiato.
Due sagome erano divenute scure, ed una croce colorata in rosso era stata posta sopra di esse.
Non gli ci volle che un attimo per capire che cosa stesse a significare. 
Poggiò la mano sul piccolo riquadro dove era presente la sua stessa faccia, facendo scivolare il dito lungo la superficie dello schermo.
"Finirò anche io in questo modo...?" si chiese, perseguitato da un presentimento funesto.
Ad un tratto, le sue orecchie captarono qualcosa. Un rumore rapido, una sorta di vociare.
Assimilò il suono nella sua testa: gli parve quasi un grido, ma molto lieve, come se chiunque lo avesse emesso avesse sbattuto il piede contro qualcosa.
Deglutì: proveniva dalla stanza numero dieci, quella di Pierce Lesdar.
Rickard si avvicinò timidamente alla porta, incerto sul da farsi.
Considerò più e più volte l'idea di intervenire e controllare, e alla fine decise di soddisfare la sua curiosità e la sua apprensione.
Bussò alla porta un paio di volte.
- Pierce? Sei lì dentro...? - lo chiamò lui.
Passarono alcuni secondi. Gli sembrò che qualcuno sussultasse dall'altro lato della porta.
- Chi... chi è? - fece la flebile voce di Pierce.
- Sono Rickard. Ho sentito un gemito, va tutto bene? -
Udì alcuni passi avvicinarsi. La porticina si aprì rivelando appena uno spiraglio dell'interno.
Lo sguardo terrorizzato di Pierce fece capolino da dietro.
- Cosa c'è...? -
- Scusami - si giustificò lui - Ho semplicemente sentito un gridolino e volevo assicurarmi che fosse tutto a posto -
- Ah... capisco - disse lui, annuendo - Va tutto bene, mi sono solo punto -
Rickard storse la testa.
- Punto? -
- Faccio prima a fartelo vedere... oramai -
Pierce aprì la porta. Rickard notò che c'era un bel po' di confusione ammassata in un angolo della stanza.
L'Ultimate Sewer si sedette davanti alla sua scrivania, dove erano appoggiati diversi gomitoli di tessuti vari, dei rocchetti e aghi di diverse dimensioni.
Notò che dall'indice di Pierce colava una piccola e fugace goccia di sangue.
- Stai... cucendo? -
- Già... - disse l'altro, riprendendo il lavoro da dove lo aveva interrotto.
Rickard osservò le sue mani muoversi e destreggiarsi con l'ago. La forma della sua opera era ancora indefinita; doveva aver cominciato da poco.
- Di che si tratta? -
- Un maglioncino... -
- Oh, capisco - annuì - Per tenerti al caldo -
- Non proprio... - Pierce si grattò la guancia - Non ho davvero freddo, ho semplicemente bisogno di cucire qualcosa -
- Così, senza motivo? -
- Mi rilassa... - ammise Pierce - Ho bisogno di distendermi i nervi. Solo cucendo riesco ad alienare la mia testa... -
L'altro annuì.
- Certo! Dopotutto è la tua specialità! -
- Immagino di sì - parve imbarazzato.
- Tutto questo mi ricorda un film che doppiai qualche anno fa - lo sguardo di Rickard si perse nell'ennesima reminiscenza.
Pierce Lesdar continuò a far girare ago e filo.
- Davvero? Era un bel film? - chiese - Vi erano delle scene di tessitura? -
- Più o meno - ghignò lui - Era un horror in cui il cattivo squartava le sue vittime, ricucendole e impagliandole in pose strane -
Se l'atmosfera nella stanza di Pierce era mesta, in quel preciso istante divenne a dir poco funesta.
Il tessitore impallidì.
- Co-come!? -
- Ma tranquillo, era solo un film! - rise Rickard - Però la tecnica era simile; sai, ago e filo, precisione, e... -
Passò ad indicare il dito arrossato del compagno.
- ...qualche rivolo di sangue qua e là! -
Il volto di Pierce, da bianco, era divenuto quasi blu.
- Oh, cielo... - balbettò.
- Dai, dai! Scusami, non volevo spaventarti - Rickard apparve vagamente dispiaciuto - Ma quando ricordo i miei vecchi lavori inizio ad essere loquace -
- Oh, e dimmi... hai prestato la voce a qualche personaggio importante? - chiese l'altro, sviando il discorso.
- Oh, altroché, ero il tizio che squartava tutti - annuì lui - Davvero un'interpretazione difficile, devo ammetterlo, ma il risultato fu appagante! -
Stavolta, Pierce ebbe una parvenza di svenimento.
Rickard si morse il labbro: la sua lingua lunga aveva avuto il sopravvento sul cervello un'altra volta.
- Ah! No, Pierce, non voglio squartarti...! -
- Smettila di ripeterlo, ti scongiuro! -
Il pomeriggio passò lentamente, senza che Pierce riuscisse effettivamente a trovare conforto o un colorito normale.
Ad un certo punto, l'Ultimate Voice Actor capì che, probabilmente, l'idea migliore era starsene zitti ad osservare la realizzazione del maglioncino.

   

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Capitolo 15
*** Capitolo 2 - Parte 3 ***


La passeggiata di Judith la condusse fino al secondo piano; camminava senza meta con la testa fra le nuvole, immersa nelle proprie considerazioni.
Non amava darlo a vedere, ma le parole altrui riuscivano sempre ad avere un grande impatto sul suo stato d'animo.
Non riuscendo a togliersi di testa la voce terrorizzata e ansiosa di June, decise che l'unico modo per schiarirsi le idee fosse di starsene un po' per conto proprio.
"Lasciarmi influenzare così dai discorsi di altre persone..." sospirò "Dovrei essere io a mostrare convinzione, accidenti...
Buttò l'occhio appena al di sotto del colletto della sua camicia, dove risplendeva con fierezza un piccolo distintivo, prova inconfutabile della sua professione. Vi alitò lievemente sopra, lucidandolo con un risvolto della manica.
Il semplice atto di farlo la tranquillizzava; un'altra delle numerose cose di se stessa che tentava di non far notare.
Ancora afflitta dai suoi pensieri, Judith notò un particolare fuori posto: la porta della palestra era aperta a metà.
Si massaggiò il mento.
Era dalla morte di Refia che nessuno aveva avuto il coraggio, né la volontà, di recarsi lì. Si chiese se non fosse rimasta così da allora, ma era certa che non fosse quello il caso.
Sbirciò all'interno: aveva ragione.
Hayley era seduta lungo le gradinate della palestra, sola e silenziosa.
Davanti a lei vi era un qualcosa che Judith riconobbe immediatamente: una bicicletta vagamente ammaccata.
Sentì la propria schiena rabbrividire.
Si fece coraggio e le si avvicinò.
Hayley Silver si rese conto della sua presenza solo quando Judith le fu ad appena un paio di metri di distanza. Le scappò un fiato di sorpresa.
- Judith...! Non ti ho sentita arrivare -
- Sembravi parecchio distratta - osservò l'altra - Va tutto bene? -
Hayley lanciò uno sguardo triste verso la bicicletta. Passò una mano lungo il manubrio, tastandola e avvertendo lo spessore della gomma.
- Mentirei se dicessi di sì... -
Judith le piazzò una mano di conforto sulla spalle. Era ovvio che la compagna era ancora sopraffatta da un profondo sconforto.
- Non mi dirai che ti senti responsabile, vero? - la confortò Judith.
- No, non è quello... - sospirò Hayley - Non avrei mai potuto impedire che Alvin... -
Bloccò la frase a metà. Non riuscì a continuare.
- Nessuno poteva. E' stato tutto così... improvviso -
- Eppure io... - l'avventuriera sembrava in difficoltà - Io... mi sento una stupida a pensarlo, ma... -
- Ma cosa? - la incoraggiò lei - Ti prego, non farti problemi a parlarmi. Voglio sinceramente aiutarti -
Gli occhi di Hayley divennero lucidi.
- So che è assurdo ma... - singhiozzò - Mi manca... mi manca tanto Refia... la conoscevo da appena alcuni giorni, ma... -
Judith intuì perfettamente il punto della questione.
- Non lo trovo affatto impensabile, Hayley... -
- Avevamo così tanto in comune... pensavo saremmo state grandi amiche... -
L'Ultimate Hiker carezzò il sellino della bici; una delle poche parti ad essere rimaste perfettamente intatte.
- Eravamo così felici di provare questa bicicletta... - rammentò Hayley - Lei era al settimo cielo -
A quel punto Judith aveva esaurito gli argomenti confortanti. Sentì di aver bisogno di una spalla a sua volta.
- Forse June e Michael hanno ragione... - proseguì, con la voce ridotta ad un sussurro - E' davvero impossibile fidarsi reciprocamente -
- No, è una versione che non accetterò mai - esordì l'altra - Non intendo arrendermi; deve esserci un modo per rimanere uniti. Io e Karol stiamo provando di tutto -
- Il vostro lavoro consiste nel fidarsi del prossimo... - le rinfacciò l'altra - Noi non siamo come voi -
Judith dovette ammettere a se stessa che si trattava di un punto di vista che non aveva considerato.
Avendo passato anni a difendere persone in un'aula di tribunale, non le parve naturale il doversi trovare ad accusarle o a dubitare di loro.
- Forse è così... ma continuerò a provare - annuì - Ti va di darmi una mano? -
Per la prima volta, dall'inizio della conversazione, Hayley parve mostrare una parvenza di sorriso.
Fecce debolmente cenno di sì.
- Va bene, ma prima devo fare una cosetta -
- Di che si tratta? -
- Vorrei riportare la bici nella stanza di Refia - disse - Lei ne sarebbe felice. Mi aiuti? -
Judith unì le mani al petto.
- Ma certamente! - le rispose con gioia - Io la prendo dal manubrio -
Le due si alzarono in piedi. 
Judith afferrò con entrambe le mani la parte anteriore della bici e si preparò al traino.
- Sei pronta? - chiese ad Hayley.
Ma, non appena ebbe rivolto quella domanda, notò che la compagna stava vacillando pericolosamente.
Hayley parve perdere l'equilibrio per un momento; incrociò sbadatamente le gambe, cosa che sarebbe finita in una sonora caduta se Judith non la avesse afferrata al volo, mollando la bici. Questa piombò al terreno con un tonfo rumoroso.
- Hayley! - esclamò con voce spaventata - Che ti prende!? -
L'altra si massaggiò la testa; il suo volto era vagamente pallido.
- Scusami... scusami davvero... - rispose debolmente - Ad un tratto ho avuto una fitta di dolore -
- Come successe qualche giorno fa? - Judith ricordò di come lei e Refia fossero andate in camera sua, trovandola nello stesso stato febbricitante.
- Già... ma passerà - rise lei - Passa sempre -
- Vuol dire che non è la prima volta...? -
Hayley scosse il capo.
- No, ma credimi: ci sono abituata -
E così dicendo si rimise in piedi con un balzo, come se nulla fosse accaduto.
Judith Flourish non riuscì a togliersi di dosso una sensazione di disagio e apprensione.
- Sicura di star bene per davvero? -
- Appena torniamo ai dormitori mi metterò subito a letto, promesso - fece l'altra - Per adesso va tutto alla grande, non temere -
L'Ultimate Lawyer annuì, ma capì che erano necessarie delle contromisure.
- Stai tu davanti, Hayley - le disse - Qualora ti sentissi male, ti aiuterò io -
Hayley Silver sembrò visibilmente rincuorata.
- Grazie, Judith -


Kevin Claythorne osservò con estrema soddisfazione il lavoro appena svolto.
Tutti i fiori della serra erano stati disposti lungo gli scaffali in ordine alfabetico; le varietà più particolari avevano ricevuto il loro meritato posto in cima, invece.
I vasi erano stati ordinati per stazza e larghezza, gli attrezzi erano stati puliti e sistemati con rigoroso ordine.
Un sorriso di autocompiacimento comparve sul suo volto, mentre annuiva a se stesso come per darsi merito.
Ne era certo: quel piccolo giardino botanico non era mai stato organizzato meglio.
Fece un altro rapido giro della stanza; assicurarsi di non aver tralasciato niente rientrava nel suo metodo di lavoro.
Piante e fiori erano stati sistemati; non mancava che dare una buona pulita al pavimento.
Tracce di terreno e foglie secche erano sparpagliate lungo tutta la zona. 
Scosse il capo.
"Così non va" pensò "Sono sicuro di aver visto una scopa nell'armadietto"
Vi si recò subito. Aprì le ante, e senza curarsi del resto dell'attrezzatura afferrò immediatamente la scopa di saggina appoggiata sul margine destro.
Fu non appena richiuse le porticelle del mobile che si rese conto, con sua enorme sorpresa, di aver ricevuto visite. 
Alla sua sinistra comparve la minuta sagoma di Hillary Dedalus, sbucata dal nulla.
Kevin sobbalzò sul posto; il suo cuore aveva saltato un battito o due.
- Tutto a posto...? - chiese lei, vedendolo a disagio.
- Sì, sì... mi hai colto alla sprovvista -
- Che cosa stai facendo? - continuò Hillary, apparentemente noncurante dello spavento provocatogli.
Kevin si asciugò qualche goccia di sudore dalla fronte.
- Metto in ordine - annuì lui - Se non è tutto al suo posto preciso non sono soddisfatto -
Lei diede un'occhiata in giro: in effetti si notava che il posto era stato gestito con cura.
- E tu? - chiese a sua volta Kevin - Sei qui da sola? Vivian non è con te? -
Hillary corrugò la fronte.
- Non sono... la sua ombra... - sbuffò.
Il ragazzo si massaggiò la nuca.
- S-scusa! Non intendevo dire che dipendi da lei - si giustificò - E' che vi vedo sempre insieme. Ho solo fatto una supposizione... -
- Non fa nulla. Lo capisco -
- In realtà mi sorprende anche il solo sentirti parlare - ammise lui - In genere te ne stai zitta, in un angolino -
Hillary fece spallucce.
- Gli estranei mi mettono... a disagio - gli confessò - Ho bisogno di un po' di tempo... prima di aprirmi con qualcuno -
- Non preoccuparti, rispetto questa tua necessità - sorrise Kevin - Anzi, un po' la capisco - 
- La capisci? -
- Può non sembrare, ma anche io sono un tipo solitario. La mia principale compagnia sono i fiori - si imbarazzò - Lo so, è un'idiozia... -
Lei si massaggiò il mento, contemplando quell'affermazione.
- Beh, sì, è strano... ma ognuno è fatto com'è fatto - rispose - Chi sono io per giudicare? -
- Una risposta saggia. Niente male - l'Ultimate Botanist parve sinceramente colpito.
Detto ciò, Kevin le passò una sedia, invitandola ad accomodarsi. Quest'ultima esitò per un istante, prima di accettare.
- Si potrebbe dire che siamo due frane nelle relazioni sociali - rise Kevin.
- Non lo nego... - il suo tono parve amaro - Passo la maggior parte delle mie giornate nella bottega di mio padre, a lavorare. Non sono abituata ad avere attorno così tanta gente -
- Tutto il tempo in mezzo agli orologi? -
- Sì, e farlo mi fa sentire bene... - sospirò Hillary - Con il tempo, il ticchettio delle lancette, il rumore degli ingranaggi e i rintocchi dei pendoli sono diventati... familiari. Come degli amici onnipresenti, o una nenia prima di addormentarsi -
- Una quotidianità indispensabile, dico bene? -
Hillary abbozzò un sorriso.
- Già. Dunque lo capisci davvero -
- Anche i fiori sanno essere di ottima compagnia, anche se non altrettanto rumorosi - scherzò lui - Anzi, direi che ciò che preferisco di loro è il loro stare in perfetto silenzio. Un'armonia composta solo di colori e profumi -
- Il tuo deve essere un magnifico lavoro -
- Lo è. Ma è anche l'unico che conosco - Kevin assunse uno sguardo pensieroso - Prendermi cura dei fiori e delle piante è tutto ciò che so fare. A volte mi chiedo cosa ne sarebbe di me se non avessi tutto ciò... -
- Nessuno può saperlo - annuì Hillary - Teniamoci ciò che abbiamo finché... finché possiamo -
I due rimasero brevemente in silenzio. Kevin intuì ciò che la compagna stava insinuando.
Sapeva che nella loro situazione non potevano dare niente per scontato, soprattutto il fatto di poter continuare ad occuparsi delle proprie passioni o professioni.
Il ragazzo si scrollò di dosso quei pensieri. Guardò verso Hillary; l'ultima cosa che avrebbe pensato era che quella ragazzina dall'aspetto così piccolo ed innocente potesse fare del male a qualcuno. Tentò di recuperare compostezza e raddrizzò la schiena lungo la sedia.
- E dunque... cosa ne pensi di Vivian? -
- C-come, scusa...? - esitò lei.
- Beh, è ovvio che abbiate trovato una certa intesa fin dal principio - sorrise Kevin - Come mai proprio lei? -
L'Ultimate Clockwork Artisan si strinse timidamente nelle proprie spalle.
- Mi ricorda... mi ricorda moltissimo mia sorella -
- Tua sorella? - il tono si fece sempre più curioso.
Hillary annuì.
- Ho una sorella. Maggiore - raccontò lei - Ma per me è stata un po' come una madre. Abbiamo molti anni di differenza -
- Ti invidio! Mi sarebbe piaciuto avere fratelli -
- Ma averne vuol dire anche sentirne la mancanza quando sono lontani - sospirò Hillary - Mia sorella se ne è andata a vivere lontano da parecchi anni. Non la vedo da tanto... -
L'atmosfera si incupì di botto.
- Ti manca? -
- Tantissimo - asserì - E Vivian... le somiglia in maniera incredibile. Così tanto che a volte mi sembra quasi lei -
- Vivian ha un fare molto materno, non mi sorprende - osservò Claythorne - Vorrei considerarla anche io una buona amica, ma... -
Hillary lo interruppe. Sapeva dove voleva andare a parare, e non le piacque.
- Ma...? -
- Beh, siamo nella situazione che vedi. E' davvero impossibile sapere a cosa pensano gli altri... -
- Non dirmi che sospetti di lei!? -
- Non sospetto di nessuno! - replicò lui - Ma al contempo... ho paura. Paura che tra noi si annidi davvero una spia -
Lei scosse il capo con veemenza.
- Vivian non può essere la traditrice - esclamò - Me lo sento. So di non sbagliare -
Kevin desiderò ardentemente di avere le sue stesse convinzioni, ma sapeva di non poterci fare nulla.
Tutto sommato, però, la forte animosità di Hillary nei confronti dell'amica non gli apparve del tutto sbagliata.
- Vivian ha trovato in te un'amica leale, sembra -
- I-immagino di sì... - il suo volto divenne rosso - Lei fa così tanto per me, e io vorrei restituirle il favore -
- Credo di poterti dare una mano, qui! -
Hillary Dedalus fu più confusa che mai.
Guardò Kevin alzarsi dalla sedia e andare verso uno scaffale. Lo seguì, prima con lo sguardo, poi con le gambe.
Sembrava intento a cercare qualcosa lungo gli scaffali.
Il suo volto si illuminò, e affondò la mano in un vasetto.
La sua mano si ritrasse delicatamente, estraendo alcuni fiori bianchi dalle striature scure.
I petali erano candidi e morbidi al tatto, e il motivo che li colorava era assai particolare, di un tipo che Hillary non aveva mai visto.
Kevin li rilegò in un piccolo mazzolino, poi glieli porse.
- Prendile. Sono alstroemerie - 
- Sono... sono per me? - chiese lei, cingendoli tra le dita.
- Dalle in regalo a Vivian, le piaceranno - sorrise lui - Sai che ogni fiore ha un significato? Intendo: nel loro linguaggio -
- Sì, ma non saprei distinguerli - ammise lei - E questi? -
Lui assunse una posa fiera. Poter dispensare un po' di cultura nel proprio campo era un'esperienza sempre rinfrescante per Kevin Claythorne.
- Le alstroemerie indicano profonda amicizia e devozione - spiegò lei - Le si dà a qualcuno per ringraziare loro di essere al nostro fianco, anche nei momenti bui -
Hillary non riuscì a nascondere il suo evidente imbarazzo, ma li accettò volentieri.
Fu la prima volta che Kevin la vide sorridere di cuore. 
Intuì di essere riuscito in un'impresa che probabilmente nemmeno Vivian era ancora stata capace di portare a termine.
- Sono meravigliosi - disse lei, annusandoli - Ti ringrazio -
- In una situazione talmente critica, ciò che ci vuole è distendere un po' i nervi - annuì Kevin, soddisfatto - E i fiori... eh, sì. Possono questo e altro -



Elise passò il panno in micro fibra lungo la superficie dell'obiettivo della videocamera, fermandosi solo quando questo fu perfettamente lucido e pulito.
Azionò il dispositivo e cominciò una rassegna di tutto ciò che aveva registrato.
Anche mandando avanti veloce, controllare tutto la costrinse ad impiegare più tempo del previsto.
Nessun evento degno di nota era stato catturato dalla videocamera nelle ultime ventiquattro ore. Elise cancellò il file e la riposizionò nello stesso punto dal quale la aveva sollevata.
Annuì soddisfatta, passando poi a guardarsi attorno. La videocamera successiva non doveva essere lontana.
- Cosa stai facendo, Elise? - fece una voce alle sue spalle.
L'Ultimate Camerawoman sobbalzò; Pearl era comparsa dal nulla e il suo modo di annunciarsi non le era per nulla gradito. 
- Da quanto sei lì...? -
- Da abbastanza - rispose lei, secca - Non ho potuto fare a meno di notare come tu stia armeggiando con le telecamere. Che stai combinando? -
Lei si asciugò una fugace goccia di sudore dalla fronte.
- Stavo soltanto controllando le registrazioni... - disse lei - Sai, rimuovo i file in eccesso, libero un po' di memoria... -
- E lo stai facendo qui, tutta sola, di soppiatto? - osservò Pearl. Il suo tono era chiaramente pregno di sospetto.
Elise si strinse in se stessa.
- Scusa... è che non volevo infastidire nessuno -
- Non è una questione di fastidio... - sbuffò l'altra - Gironzolando da sola diventi un bersaglio facile. Se avessi voluto ucciderti, adesso saresti già morta -
Elise deglutì.
- Beh, allora è una fortuna che tu non volessi uccidermi -
- Come? -
- Beh, lo hai detto tu - spiegò Elise - Se mi volevi morta, ora lo sarei già. Ma non lo sono, quindi non mi vuoi morta! -
Pearl si passò una mano sul volto, trascinandola dallo scalpo al mento.
- Sei stupida o semplicemente ingenua...? -
- E-eh...? - si intristì - Ho detto qualcosa di strano...? -
Pearl scosse il capo.
- Lascia perdere. Credo tu sia semplicemente... "fatta così" - annuì - Allora... stai sistemando le telecamere? -
- Già! E' bene che il sistema di sorveglianza venga curato di tanto in tanto -
Pearl incrociò le braccia.
- Hai un bel coraggio, Elise - disse - Credi ancora nell'efficacia di questa idea anche dopo ciò che è successo con Alvin? -
- Ma... cosa c'entra Alvin? -
- L'idea della sorveglianza con le videocamere era sua, no? E' palese che se ne volesse servire per uccidere qualcuno fin dal principio -
Elise scosse il capo fermamente.
- No, ne dubito - 
- E perché mai? - chiese l'altra.
- E' una sensazione difficile da esprimere... - tentennò Elise - Ma non credo che le sue intenzioni fossero cattive dall'inizio. Nei suoi occhi ho visto... una genuina apprensione -
- Gli occhi mentono, Elise. Lo sguardo può ingannare anche i più arguti - asserì Pearl - Non esisterà mai nessuno che tu possa perfettamente comprendere, al di  fuori di te stessa -
- Dici che è impossibile intuire cosa sta pensando qualcun altro? - si domandò.
- Noi esseri umani siamo fatti così. Abbiamo un'infinità di segreti scomodi; cose che non vorremmo mai che gli altri sapessero - disse la ninja - Cose che potrebbero portarci ad uccidere, ad esempio. Siamo rimasti in quattordici, ma chi ti dice che nessun altro nasconda qualcosa che porterà il nostro numero ad assottigliarsi ancora? -
Elise Mirondo abbassò lo sguardo con evidente sconforto.
- Forse... è un motivo in più per essere scrupolosi -
- Cosa intendi dire? - chiese l'altra, confusa.
- Voglio dire che questa scuola dovrà pur avere un'uscita. E se davvero non c'è, ci sarà qualcosa in giro che ci darà una mano a scappare, ne sono certa! -
- Vuoi cercare una scappatoia? - Pearl fece spallucce - E come ti aiuterà a scongiurare il pericolo di altre uccisioni? -
Elise ridacchiò soddisfatta.
- Ma è ovvio! Se riuscissi a trovare una via di fuga non ci sarebbe più il bisogno di uccidere! -
Pearl rimase per qualche istante a fissare la compagna, incerta sul come risponderle.
Era la prima volta che si trovava di fronte ad una persona talmente bislacca e ottimista.
"Forse è davvero troppo, TROPPO ingenua..." pensò, arrendendosi all'evidenza.
- Vedrai, Pearl! Con la mia telecamera nulla è impossibile! - disse l'altra, estraendo il piccolo congegno - Attraverso lo schermo, la mia concentrazione aumenta a dismisura! I limiti umani non sono che un ricordo, per i miei occhi! -
- Sì, certo... tutto quello che vuoi... - sospirò la bionda - Mi aspettavo qualcosa di diverso dall'Ultimate Camerawoman, devo ammetterlo -
Elise si massaggiò la folta chioma, arrossendo.
- Ah, beh... la verità è che sono piuttosto brava a realizzare riprese con ottime inquadrature. Ho contribuito alla produzione di numerose opere cinematografiche - raccontò lei - Sono stata chiamata alla Hope's Peak grazie ad un po' di fama accumulata -
- Ma non mi dire... -
- Ma per me la telecamera ha un valore molto più alto di quello di un mero strumento di lavoro -
Pearl notò come Elise stesse tirando a lucido il dispositivo con molta cura e dedizione, proprio mentre parlava.
- E di che si tratta? -
- Con questa posso catturare dei preziosi momenti della mia vita, e conservarli per sempre - disse, il suo volto si era rasserenato di colpo - Un prezioso patrimonio di ricordi gelosamente custodito in una memoria indelebile. La telecamera cattura la realtà, e non dimentica mai. Non mente mai - 
- I ricordi sono così importanti, per te? - domandò Pearl, incuriosita dal discorso.
- I ricordi sono alla base della nostra personalità - spiegò lei - Racchiudono tutto ciò che abbiamo vissuto, hanno formato ciò che siamo, e costituiranno ciò che diventeremo. Belli o brutti che siano, i ricordi rappresentano ciò che siamo -
Pearl Crowngale ammise a se stessa di essere rimasta colpita, più di quanto si aspettasse.
- E, per una svampita smemorata come me... - sorrise Elise - La telecamera è fondamentale -
- Sei proprio l'Ultimate Camerawoman, non c'è che dire -
- E tu? - chiese infine Elise - Avrai anche tu dei ricordi a cui sei legata. Qualcosa di prezioso risalente al passato -
La bionda ci pensò su per un momento. Il suo sguardo si perse in alcune reminiscenze lontane, che scacciò via con forza.
- No, niente di tutto questo - scosse la testa - Il passato spesso è un fardello che bisogna mettere da parte per riuscire a vivere il presente -
- Non hai un passato piacevole da ricordare? - il tono di Elise si fece preoccupato.
Pearl esitò, prima di rispondere.
- Ho fatto cose di cui non vado fiera -
Rimasero in silenzio per alcuni momenti.
- Se ti andasse di parlarne... - 
- Grazie, Elise. Ma preferisco tenerlo per me - annuì la bionda - Ma torniamo a noi. Se hai intenzione di fare una ricerca accurata dall'area, assicurati di fare attenzione -
- Certamente! - esclamò lei, posizionando la videocamera sul proprio occhio destro - Con la mia fida videocamera, niente può sfuggirmi o cogliermi alla sprovvista! -
- Anche se ti dovessero prendere alle spalle...? -
- Quello... forse sì. Ma ci sto lavorando! -
E, con quelle parole, Elise si lanciò in una nuova impresa.
Pearl rimase a fissarla, mentre si allontanava, con un volto a metà tra la stanchezza e l'irritazione.
"Troppo, troppo, troppo ingenua..."  

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Capitolo 16
*** Capitolo 2 - Parte 4 ***


Alla fine, nonostante l'atmosfera generale avesse riacquistato una parvenza di tranquillità, ognuno decise di proseguire le investigazioni per conto proprio:  alcuni semplicemente preferivano lavorare da soli, altri erano ancora incapaci di fidarsi completamente dei membri di un eventuale team.
Altri ancora avevano detto addirittura che non se la sentivano di adottare delle misure ideate da Alvin, per quanto sicure esse fossero; il ricordo era ancora troppo vivido.
Le indagini di Xavier lo condussero lungo i corridoi del secondo piano, più precisamente verso l'infermeria.
Si trattava di una stanza abbastanza larga con un paio di lettini ospedalieri sistemati lungo la parete destra.
La maggior parte dello spazio era occupato da mobili stracolmi di medicinali, alcuni armadi adibiti a portare documenti, e apparecchi di diverso tipo e dalle più svariate funzioni.
L'idea di Xavier era di passare in rassegna le aree ancora meno esplorate della scuola, ed appartenevano quasi tutte al secondo piano.
L'infermeria poteva contenere diversi strumenti interessanti, e il ragazzo decise che valeva la pena andare a vedere.
Fu con sua enorme sorpresa che scoprì che la stanza non era vuota, bensì vi era qualcuno che non si sarebbe mai aspettato di trovare lì.
Michael Schwarz aveva la testa immersa nel cassetto metallico di uno degli armadi, e le sue mani sembravano scorrere rapidamente una folta pila di documenti.
Xavier lo stette ad osservare per alcuni istanti, incerto sul da farsi. Optò per la soluzione più semplice: bussò sulla porta, già aperta, un paio di volte per annunciarsi.
Michael sussultò, voltandosi di scatto. I suoi occhi erano quelli di una preda impaurita.
- Xavier!? - si agitò.
- E' permesso...? - fece l'altro, con tranquillità.
Michael fece un rapido giro della stanza con lo sguardo. Andò ancora più in fermento.
- Sei... sei da solo? -
- Sono da solo, Michael - rispose - Ma se hai paura di una trappola, puoi anche restare lì dove sei -
- NON PRENDERMI IN GIRO! - gli urlò contro, adirato - Se siamo davvero soli, allora è un'ottima occasione per uccidermi! Credi che sia tanto idiota da non rendermene conto!? -
Xavier sospirò.
- Lo so benissimo. Ma non sono qui per ucciderti... -
Provò a muovere un passo in avanti, ma il chimico gli intimò di fermarsi.
- Stai indietro! INDIETRO! Non avvicinarti! - lo ammonì - Se proprio vuoi entrare, fallo percorrendo il muro di destra! Io uscirò da sinistra... -
Xavier tentò in tutti i modi di non cedere al nervosismo, riuscendo a non perdere compostezza. 
- Va bene, Michael, rispetto il tuo timore... - si arrese - Ma prima, dimmi. Cosa stai facendo qui? -
L'altro gli lanciò un'occhiata di sdegno.
- Sono qui per il tuo stesso motivo, immagino... - sbottò - Sto indagando -
- Trovato nulla di utile? -
L'altro scosse la testa.
- No, solo roba pericolosa! - il suo tono era sempre più rabbioso - Ci sono tantissimi medicinali, ma anche un idiota saprebbe ricavarne del veleno! Intendo confiscare tutto! -
Xavier notò solo in quel momento che Michael si era portato dietro una borsa piuttosto capiente ottenuta chissà dove. Dal contenitore sporgevano scatole ed etichette varie appartenenti ai prodotti di cui il compagno aveva fatto razzia.
- Sei davvero metodico... -
- Sono scrupoloso e previdente! E' l'unico modo per non farsi ammazzare! -
- Sarò onesto, Michael - gli disse Xavier con estrema franchezza - Dubito che, oltre a te, ci sia qualcuno in grado di ricavare delle tossine da quei farmaci -
- Oh? E ne puoi essere così certo!? Conosci gli altri così a menadito!? -
- Va bene, punto a tuo favore - ammise Xavier - Ma se del veleno dovesse sbucare all'improvviso, immagino saprò a chi dare la colpa. Non fare sciocchezze, chiaro? -
Michael digrignò i denti.
- Non devo certo farmelo dire da te... -
- Meglio così - continuò - Altro di interessante? -
Il chimico gettò l'occhio sull'armadio alle proprie spalle. Si scostò di lato in modo da permettere a Xavier di vedere ciò che c'era.
Vi erano sedici piccole celle in alluminio rinforzato, ognuna numerata e con una serratura. Di facile intuizione era capire a chi appartenesse ognuna, ma il contenuto ancora sfuggiva alla sua logica.
- Di che si tratta? -
- Sono le nostre cartelle cliniche... e sono piuttosto dettagliate, a mio modesto parere - spiegò Michael.
Xavier parve sorpreso.
- Cartelle cliniche? Mi aspettavo qualcosa di più - ammise - Come mai le serrature? -
- Ognuno può accedere solo al proprio fascicolo. Non chiedermi perché... - rispose Schwarz, con uno sbuffo - Ma c'è un'altra peculiarità -
- Sentiamo, dunque -
- Due di loro sono aperte. Voglio dire: non sono chiuse a chiave. "12" e "13" - Michael si aggiustò gli occhiali - Non devo aggiungere altro, immagino -
Xavier Jefferson deglutì. Due volti familiari gli tornarono in mente; scacciò via con forza le visioni dei corpi insanguinati di Refia ed Alvin dalla mente.
- In parole povere, possiamo controllare le nostre e quelle di chi è morto... -
- Mettiamola in questi termini, sì... - sospirò Michael.
- Le hai già controllate? -
L'Ultimate Chemist sventolò due piccoli fascicoli; sul suo volto comparve un minuscolo sorriso come per indicare un responso di infinita ovvietà.
- La cartella di Refia è praticamente immacolata. La sua salute era perfetta; come sorprendersene? -
- Inutile porsi dubbi. Era l'Ultimate Cyclist -
- Pare che Alvin soffrisse di un leggero male alla schiena, ma niente di grave - concluse Michael - I dati vagamente utili finiscono qui -
A quelle parole, Michael fece cenno a Xavier di spostarsi.
- Adesso, se non ti dispiace, io me ne vado! -
- Ai tuoi ordini, comandante... - ironizzò l'altro, piazzandosi dalla parte opposta della stanza.
Michael Schwarz si caricò il borsone sulle spalle e si fece strada verso l'uscita.
La voce di Xavier lo richiamò appena un attimo prima di dileguarsi per il corridoio.
- Tutta questa paranoia dove ti porterà? - gli chiese - Se esageri, rischi di crearti dei nemici -
Di tutta risposta, gli venne rivolto uno sguardo sprezzante e acido.
- Non esistono "certezze matematiche" quando si tratta della propria salvaguardia! Alvin doveva essere un guardiano, e guardalo adesso! Lui e Refia, morti e sepolti! -
- Intendi portare avanti la tua crociata completamente da solo? -
- Sì, se lo riterrò necessario! - gli rispose - Prenderò ogni precauzione, curerò ogni dettaglio! Non permetterò a nessuno di cogliermi alla sprovvista... non permetterò a nessuno di uccidermi! Io sopravvivrò, Xavier! Mettitelo bene in testa: IO SOPRAVVIVRO'! -
Con quelle parole, l'Ultimate Chemist sparì definitivamente dalla portata visiva di Xavier, rimasto con un'intera infermeria da controllare e molti più grattacapi da dover gestire.



Vivian Left camminava distrattamente lungo il primo piano con una busta di plastica sigillata tra le braccia.
Il suo cestino dei rifiuti aveva accumulato troppe scartoffie, e la pittrice aveva sentito la necessità di uno smaltimento dei rifiuti.
Il sacchetto era pieno di fogli e cartoncini accartocciati; quasi non vi era altro all'interno.
Un gran numero di pensieri le attorniava la mente; lo sguardo di Vivian era completamente perso nelle proprie considerazioni.
Aprì la porta della sala di imballaggio rifiuti.
Un tonfo dalla rumorosità esorbitante la sorprese a tal punto che quasi perse l'equilibrio. Il sacchetto le scivolò di mano e finì a terra.
Ansimò per alcuni secondi e si guardò attorno. Davanti a lei vi era June Harrier.
Quest'ultima pareva spaventata quanto lei; ai suoi piedi vi era uno scatolone pieno di ciarpame e rifiuti, apparentemente molto pesante e chiaro colpevole del rumore di poco prima.
Vivian si ricompose.
- June...? - sussurrò - Va tutto bene? -
L'arciera annuì debolmente.
- Sì... scusami - gemette l'altra - Ero sovrappensiero. Quando hai aperto la porta mi sono spaventata e... mi è caduto tutto -
Indicò con dito lo scatolone di rifiuti che stava trascinando verso l'imballatrice. La maggior parte sembrava provenire dalla palestra: probabilmente strumenti troppo vecchi e usurati, di nessuna utilità. Il rumore che avevano fatto cadendo era rimbombato lungo tutta la zona.
- Devi fare attenzione - la rimproverò Vivian - Se un tale peso ti fosse caduto sul piede ti saresti ferita... -
Fece per avvicinarsi, ma June mosse immediatamente un passo indietro. Vivian Left osservò quella movenza senza comprenderne il significato.
- June...? -
- P-perdonami... - si ricompose - E' che ho i nervi a fior di pelle... ultimamente la notte dormo a stento... -
- E' per via di Refia? -
June annuì con tristezza.
- Non vorrei dubitare di nessuno, ma non ci riesco... -
- E' comprensibile - la rincuorò Vivian - Ciò che è successo è... terrificante. Ma mi sforzo di pensare che nel nostro gruppo alberghino buone intenzioni -
June si sedette a terra di fianco allo scatolone, esausta. Esalò un lungo sospiro.
- Vorrei poter avere la tua calma, Vivian... -
- Sono tranquilla solo in apparenza, amica mia - rispose tentando di forzarsi un sorriso di circostanza - La verità è che ho molta paura, ma so che gli altri sono ancora più spaventati di me -
A June scappò improvvisamente da ridere.
- Quindi devi essere forte anche per gli altri? - le chiese.
- Credo sia un progetto ambizioso, ma sì - rispose Vivian - Sto cercando di dare coraggio a chi ne ha bisogno. Come Hillary. Come te -
- Dovrei essere io a farlo... -
La pittrice assunse un'espressione impensierita.
- Ti senti in dovere di essere forte? -
- In genere mi viene naturale... - sospirò June - Sono la prima di quattro fratelli. Sono abituata ad essere un simbolo di forza -
La biondina mostrò un sorriso raggiante.
- Ne ero certa! -
- Come, scusa? -
- Hai davvero l'aria della sorella maggiore - le confidò Vivian - Il modo in cui rimproveravi Refia ed Hayley, la tua cura nei loro riguardi. Anche la tua profonda empatia per i morti... ti fa sembrare una persona che ha a cuore i propri cari -
June Harrier si grattò il capo con imbarazzo.
- Tu invece emetti istinti materni da ogni poro -
- Me lo dicono spesso - Vivian si sistemò il fiocco sulla chioma bionda - Anche se il mio aspetto minuto mi rende poco autorevole, le mie parole fanno un ottimo lavoro -
Le due rimasero sedute a fissare il vuoto per alcuni minuti.
Vivian avvertiva che la compagna volesse guidare il discorso in una specifica direzione, ma qualcosa la bloccava.
Le diede altro tempo per metterla a suo agio, convinta che pressarla sull'argomento non avrebbe portato a nulla di buono.
Dopo poco, June parlò.
- Vivian? -
- Dimmi, cara - il suo tono tradiva che se lo stava aspettando.
- Io non credo che tu sia la traditrice -
L'improvviso cambio di intenzione la lasciò momentaneamente basita.
- Ah... davvero? - chiese lei, un po' a disagio.
- E' solo una sensazione, ma ne sono convinta - asserì lei - Quindi te lo chiedo: chi credi che sia? -
Vivian scosse il capo.
- Non volevo che arrivassimo a questo punto... -
- Non possiamo ignorare che c'è una minaccia, tra noi - perseverò June - E trovarla è l'unico modo di portare tutti a casa sani e salvi -
- Perdonami, June - sospirò - Ma non intendo cominciare a dubitare di tutti solo perché Monokuma ci ha detto di farlo. Per quel che ne sappiamo potrebbe non esserci alcun traditore -
- Potrebbe essere... - ammise June - Ma così svanirebbe l'unica opportunità che abbiamo per uscirne illesi, tutti noi... o ciò che ne rimane... -
- Anche in questo caso, voglio ancora dare fiducia ai miei compagni - decretò Vivian Left - Vorrei dare una mano a Karol e Judith col loro progetto -
June Harrier appoggiò il mento tra le ginocchia. Il suo sguardo era pregno di sconforto.
- Mi chiedo da dove tiri fuori tutta questa forza e determinazione... -
- Non fraintendere - la rassicurò serenamente - Sono forte perché ho a mia volta chi mi dà forza -
- Lo hai? -
Vivian arrossì vagamente.
- Lo ho - annuì - Vedrai che le cose andranno bene, June. Abbi fede -
- Lo spero davvero... -
Vivian si alzò in piedi e porse la mano all'amica.
- Ti aiuto a mettere i rifiuti a posto - le disse - Sembrano pesanti -
- Grazie... - le afferrò la mano e si rimise in posizione eretta - Tutta robaccia dalla palestra. Mettere in ordine mi rilassa... -
- Non potrei trovarmi più d'accordo - le rispose.
Le due trascorsero il resto del tempo nella stanza dei rifiuti senza pronunciare una singola parola, ammassando la spazzatura nell'imballatrice.
June sentiva di aver già detto tutto ciò che aveva da proferire; la sua sensazione di disagio era ben lungi dall'essere svanita, ma il sorriso materno di Vivian provvedeva a rischiarare quella tetra atmosfera almeno in parte.



Si era oramai fatta quasi ora di pranzo, e la maggior parte degli studenti si era riunita al ristorante.
Erano arrivati tutti un po' alla volta e ognuno aveva preso posto ad un tavolo, servendosi del cibo trovato nella dispensa.
I presenti erano poco meno di una decina.
Pierce e Karol sembravano star parlando di qualcosa a bassa voce, mangiando alcuni tramezzini.
Hayley e June si erano entrambe versate delle tazze di tè, mentre Kevin sorseggiava placidamente una spremuta d'arancia.
Xavier osservò come il pranzo proseguiva con un sostanziale silenzio, che di certo non favoriva il miglioramento dell'atmosfera.
Si guardò attorno: Michael non c'era, come era ovvio aspettarsi. 
Ricordò di come aveva sentito dire da Karol che il chimico era stato avvistato dalle parti dei dormitori con del cibo trafugato dalla mensa.
Era fin troppo ovvio che non volesse correre nemmeno il benché minimo rischio, soprattutto in faccende di cibo.
Xavier proseguì il proprio pranzo in religioso silenzio.
La quiete fu improvvisamente rotta da Judith Flourish, che entrò nel ristorante con un'espressione palesemente stizzita.
Impossibile da non notare, fu subito oggetto di attenzioni da parte di Vivian.
- Judith, qualcosa non va? -
Lei scosse la testa.
- Ero nel bel mezzo della doccia, quando l'acqua calda è venuta meno... - rispose, brontolando.
Lawrence ebbe i brividi al solo sentirlo.
- Odio quando succede...! - asserì il musicista, con la pelle accapponata.
- Ho provato ad attendere che tornasse, ma ho solo perso tempo - sospirò Judith - Forse c'è un guasto alla caldaia -
- In effetti l'acqua del rubinetto usciva solo fredda, poco fa... - constatò June - Per far bollire il tè c'è voluto parecchio -
Rickard incrociò le braccia.
- Un bel grattacapo! - esclamò l'Ultimate Voice Actor - Vado a dare un'occhiata al contatore -
Fece per alzarsi, ma Karol lo bloccò seduta stante.
- Aspetta! - lo avvertì - Non andare da solo. Porta qualcuno con te -
Gli sguardi di tutti si concentrarono sull'insegnante; questi era cosciente di aver proposto un qualcosa che andava contro il suo credo di fiducia reciproca, e il suo volto imbarazzato ne era una prova sufficiente.
Nessuno, però, ebbe da ridire.
- Mi sembra sensato - annuì Xavier - Vengo con te -
Karol abbozzò un sorriso e lo ringraziò con un cenno.
- Oh, mi unisco anche io! - Lawrence si associò al gruppo - Qualche passo mi farà smaltire il pranzo -
In un punto che nessuno vedeva, Hillary Dedalus tirò un sospiro di sollievo. Troppi ricordi spiacevoli e funesti erano legati alla zona della caldaia, e non amava il pensiero di recarsi nuovamente lì.
- Siete molto gentili, ragazzi - il volto pieno di giubilo di Judith li colse alla sprovvista.
- F-figurati! - arrossì Rickard - In marcia, compari! -
I tre abbandonarono il ristorante e si incamminarono lungo il primo piano.
Rickard sbadigliò sonoramente, probabilmente a causa della sazietà.
Xavier passò il tempo stando zitto ad ascoltare una melodia fischiettata allegramente dall'Ultimate Musician.
Il motivetto era diverso da quello che Lawrence era solito canticchiare nei momenti di noia. La canzone, pur senza testo, sembrava strutturata comunque molto bene.
Xavier notò con un certo stupore come Lawrence fosse in grado di trasformare qualsiasi nota, anche messe un po' a casaccio, in qualcosa di concretamente orecchiabile.
I tre proseguirono in quel modo fino a che non arrivarono a destinazione. La sala caldaie era davanti a loro.
- Eccoci qui - disse Lawrence - Vediamo cosa c'è che non va -
Xavier appoggiò la mano sulla maniglia, ma si bloccò per un istante. Diede una rapida occhiata alla propria destra, all'intersezione con il corridoio perpendicolare. Il punto in cui, circa una settimana prima, aveva ritrovato con Pierce il corpo di Refia.
L'immagine indelebile comparve nella sua mente come prova che non se ne sarebbe mai andata.
Scosse la testa, ed entrò.
Non appena furono dentro, la differenza di temperatura fu evidente. Il calore accumulatosi nella caldaia era asfissiante, ma ancora perfettamente sostenibile.
Rickard si sventolò con la mano, mentre Lawrence rimosse una delle sue magliette.
La sala era alquanto spaziosa, e vi erano macchinari e tubature un po' ovunque. 
Qualunque fosse la causa dal problema, non era evidente.
- Ok, cerchiamo un po' - disse Rickard, muovendosi in avanti con Lawrence.
Xavier ebbe come l'istinto di richiudere la porta alle proprie spalle.
Si voltò di lato per afferrare la maniglia.
E, in un attimo, tutto il calore eccessivo della stanza svanì.
Scomparve di botto, tutto in una volta. Xavier avvertì freddo, un gelo innaturale.
Si domandò come mai avvertisse una sensazione talmente assurda in un luogo così dannatamente torrido; conosceva la risposta, ma il suo cervello si stava rifiutando di elaborarla.
Voleva chiudere la porta, ma semplicemente non ci riuscì. Ogni muscolo del corpo gli si era contratto.
I suoi occhi erano fissi su di un unico punto, in fondo alla sala della caldaia.
Un punto in cui un piccolo fiume di sangue si era riversato sul pavimento.
"No... no..."
Mosse un passo in avanti.
"No... cazzo, no..."
Senza neanche pensarci o accorgersene, stava correndo.
La distinta sagoma di un cadavere si stava delineando davanti a lui.
- CAZZO, NO! -
Aveva cessato di pensare, e aveva semplicemente urlato.
Lawrence e Rickard si voltarono di scatto, rapiti da quel grido repentino.
Nessuno dei due osò muovere un passo.
Rickard era sbiancato e aveva quasi perso l'equilibrio.
Lawrence aveva assunto un'espressione neutra, incapace di darsi una risposta riguardo a cosa stava accadendo.
- E... E... lise... - fu tutto ciò che riuscì a pronunciare.
Xavier si gettò a controllare il corpo della vittima: la lunga chioma di lucidi capelli si era mescolata con il sangue, creando dei grossi grumi e poltiglia.
Le mani del ragazzo la scrollarono con forza.
- ELISE! RISPONDIMI! - le gridò contro - ELISE! -
L'Ultimate Camerawoman non diede alcun responso. Un grosso squarcio sul collo le aveva fatto cessare ogni impulso vitale.
Xavier si rese conto di star disperatamente cercando una risposta da un cadavere con una profonda lacerazione.
Un suono catturò la sua attenzione; rumore di viscere e rigetto.
Lawrence aveva appena vomitato il pranzo sul pavimento della caldaia, e annaspava a fatica.
- Rickard! - urlò Xavier - Va a chiamare tutti! SUBITO! -
Rickard Falls si trovò a fare i conti con più di un impulso: seguire gli ordini di Xavier, aiutare Lawrence a rimettersi in sesto e, più di ogni altra cosa, mettersi a piangere in un angolino.
Scattò fuori dalla porta, cercando di sgombrare la mente da qualsiasi pensiero. 
Lawrence si accasciò contro il muro tenendosi la testa tra le braccia e mormorando qualche frase incomprensibile.
- Il ritrovamento di un cadavere è stato confermato - fece l'annuncio - Avete un'ora di tempo prima dell'inizio del processo. Allo scadere, riunitevi al piazzale dei dormitori! Usate saggiamente il vostro tempo! -
Xavier strinse i pugni, fissando il corpo senza vita di Elise.
Il suo sguardo era ancora terrorizzato, come se chiunque le avesse fatto tutto ciò fosse ancora lì a torturarla. I suoi occhi erano spalancati e colmi di spavento e angoscia. Ai suoi piedi, poco distante, giaceva una videocamera distrutta.
La mano di Xavier si mosse lungo il volto di Elise, chiudendole le palpebre e accompagnandola verso un riposo più sereno.
Le appoggiò la testa sul pavimento.
Ora sembrava davvero lei, appisolata sul pavimento, probabilmente per stanchezza e distrazione. Un pisolino improvviso degno di una svampita come Elise Mirondo.
Xavier Jefferson tentò di immaginarsi quel falso idillio, mentre la sua mente già tentava di elaborare una via verso la verità.
"Ancora una volta, ci siamo illusi..."  

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 2 - Parte 5 - Indagini ***


I tredici studenti si riunirono sulla scena del crimine dopo pochissimo.
Xavier aveva sentito le urla di Rickard fin dalla caldaia; un simile richiamo bastò per far accorrere tutti in breve tempo.
All'interno della stanza si udiva soltanto il lento e pesante scalpitare dei macchinari, gli sbuffi della caldaia e il rumore di acqua passante per le tubature.
La maggior parte dei presenti osservava il cadavere di Elise a capo chino, e pochi ebbero il coraggio di avvicinarsi.
Pearl Crowngale socchiuse gli occhi; i suoi avvertimenti non erano serviti ad impedire l'inevitabile.
Karol Clouds era inginocchiato vicino al corpo; teneva la mano fredda e inerte di Elise tra le proprie, quasi come a ricercarne inutilmente una pulsazione.
Il suo sguardo era particolarmente vacuo. 
Appoggiò delicatamente la mano della compagna a terra e si alzò in piedi. Dovette inspirare ed espirare profondamente prima di riuscire a proferire parola.
- Noto con profondo dispiacere come le ultime parole di Alvin siano state vane... - mormorò.
- Prof, so di sembrare ripetitiva, ma vista la situazione mi vedo costretta a ribadirlo - si fece avanti Pearl - Ognuno di noi può avere dei motivi per uccidere che per gli altri non sono minimamente immaginabili. E' una dura realtà, ma dobbiamo accettarla -
Karol alzò lo sguardo; il suo volto era stanco e provato.
- Come posso accettare che, in questo preciso istante, uno dei tredici presenti sia un assassino? - si chiese l'Ultimate Teacher - Uno di noi ha ucciso Elise... vorrei davvero capire con che coraggio è riuscito a compiere un gesto simile, dopo ciò che è successo a Refia... -
- Può significare solo che quel certo qualcuno desidera uscire da qui molto più intensamente degli altri - rispose Xavier.
Il detective rivolse il suo unico occhio in direzione dei compagni.
Judith e June ancora non riuscivano a capacitarsi dell'accaduto, mentre Hayley, Hillary e Pierce rimanevano a debita distanza per evitare anche solo di posare gli occhi sull'accaduto.
Lo sguardo di Karol era profondamente amareggiato, mentre Michael sembrava essere pesantemente irritato dalla situazione.
- Lo sapevo... - mormorò con rabbia il chimico - Un'altra vittima...! Quando finirà questa follia!? -
In un angolo della stanza, Vivian stava cercando di aiutare Lawrence a riottenere un colorito normale. La traccia di vomito del musicista era ancora lì; Kevin pensò di andare a prendere uno straccio e dell'acqua, più che altro per distrarsi da ciò che stava accadendo.
- Che... cosa facciamo...? - chiese timidamente Rickard - Non dovremo affrontare un altro processo...? -
- Sono le regole, che noi lo vogliamo o meno - annuì Pearl - Dovremmo cominciare le indagini -
- No, no...! Non di nuovo! - singhiozzò Pierce - Oh, Dio, voglio tornare a casa...! -
- Ma perché...? - Hayley affondò la testa tra le braccia - Perché tutto questo? Perché a noi!? -
June Harrier strinse i pugni.
- Assassino... - sibilò - C'è un altro assassino tra noi... -
- Non perdere la calma, June - la fermò Xavier - Avrai bisogno di lucidità mentale se vuoi andare fino in fondo a questa storia -
Il calore divampante della caldaia si fece sempre più intenso, probabilmente amplificato dall'infervorare dell'animo dell'arciera.
Il suo volto divenne ancora più rosso, le gote sembravano andargli in fiamme.
- Giuro che lo troverò...! -
- Quindi siamo pronti a cominciare? - 
- Non abbiamo altra scelta, no? - sospirò Judith.
- Un'altra caccia all'uomo... - mormorò Kevin - Che schifo di situazione... -
Xavier annuì. Guardò ciò che rimaneva di Elise, e poi i dodici altri sopravvissuti.
Avrebbe dovuto collaborare con loro per giungere alla verità, avrebbe dovuto affrontare le insidie del processo con l'aiuto di tutti.
Ma tra quelle persone si annidava un nemico nascosto, un lupo in veste d'agnello. Un assassino.
E, ancora una volta, la vita di tutti era sul filo del rasoio.



Michael Schwarz passò ad esaminare minuziosamente ogni singola area del corpo; la causa del decesso era più che evidente, ma la speranza di trovare qualche indizio in più era ancora accesa.
La sua mano ispezionò la sezione attorno al collo della vittima, il cui colorito era oramai divenuto completamente pallido a causa dell'assenza di sangue.
Uno squarcio le aveva reciso buona parte della pelle e della carne, risultando in una ferita fatale.
Un altro fiotto di sangue svicolò dalla ferita e bagnò il pavimento: questo era già completamente ricolmo di fluido sanguigno, e la differenza non si notò.
Un ampio lago di sangue si era disteso a macchia d'olio attorno alla testa, inglobando gran parte della pavimentazione.
Michael dovette, suo malgrado, tastare il terreno con le dita per accertarsi che nulla di importante fosse andato sommerso.
Una sensazione di disgusto gli pervase le membra; il suo braccio tremò e si contorse.
- Bah... - brontolò lui - Che mi tocca fare...? -
- Abbi pazienza, Michael - lo incoraggiò Judith - Sei l'unico che possa capirci un minimo -
- Io sono un chimico! Non un paramedico! - protestò - Il mio posto dovrebbe essere chiuso in un laboratorio, con nessuno tra i piedi e, sopratutto, senza cadaveri! -
Judith notò come l'indagine del compagno non si fermava nonostante le continue lamentele, segno che in cuor suo Michael aveva accettato il proprio ruolo, seppur malvolentieri.
- Scoperto qualcosa? - chiese la legale.
- Qualche traccia, sì... ma non riesco a cavare un ragno dal buco -
La ragazza estrasse un taccuino e una penna dalla tasca dei pantaloni e raggiunse la prima pagina pulita. 
- Fammi un elenco -
Lui la guardò un po' storta.
- Ti sei... preparata, vedo -
- Considerala una deformazione professionale - si giustificò Judith - Avere qualcosa su cui scrivere torna sempre utile -
- C'è una singola ferita sul corpo, nient'altro - cominciò Michael - Non ha né lesioni, né graffi, neanche un livido. Ironico, considerando che era solita inciampare nei suoi stessi lacci... -
Judith gli lanciò uno sguardo severo.
- Michael... abbi un po' di tatto -
- Va bene, mi asterrò da commenti futili... - sbottò, mentre l'altra si chiese se avesse capito in cosa consisteva il rimprovero - Deve essere morta sul colpo, l'arma è penetrata a fondo in una zona vicina alla clavicola. Il collo ha subito seri danni. Probabilmente una lama irregolare -
- Irregolare, dici? -
- Non un coltello, o altre armi dritte - spiegò lui - La ferita è un po' strana -
Judith appuntò tutto con la massima cura.
- C'è altro? - chiese.
- Sì, e qui arriva la parte peculiare - Michael si sistemò gli occhiali - C'è del terreno sparso qua e là -
- Terreno? - lei lanciò uno sguardo sul corpo - Non ne vedo -
Lui le fece cenno di avvicinarsi; alzò una mano e le mostrò alcuni minuscoli ciottoli.
- Sono piccoli, probabilmente frammenti di ghiaia o terriccio. Non ne ho idea - continuò lui - Ne ho trovati sul suo petto. Inoltre c'è una macchia abbastanza evidente sulla sua spalla sinistra: sempre terriccio -
- In pratica i suoi vestiti erano insudiciati con del terreno - annuì lei - Piuttosto inusuale -
- E non è tutto - Schwarz le indicò un'area attorno alle gambe di Elise, sulla quale fortunatamente non era stato versato sangue - Ci sono delle chiare impronte di scarpe in questo punto. Non sono troppo numerose, ma abbastanza evidenti: c'era del terriccio accanto alle suole, lo stesso di prima -
Il volto di Judith si illuminò.
- Possiamo identificarne il proprietario? -
- Magari - scosse il capo - No, non c'è niente che riconduca a chi le ha indossate. E a quest'ora il colpevole se le sarà già pulite -
- A proposito di "ora"... - si domandò Judith - Possiamo stabilire a che orario è avvenuto il delitto? -
Michael si grattò la chioma arruffata.
- Neanche questo è possibile - sbuffò - Il calore della caldaia ha alterato le proprietà del cadavere. Il rigor mortis potrebbe essere già entrato in funzione da un po', e non potremmo saperlo -
Judith Flourish prese nota di tutto nel dettaglio. Michael non riuscì a fare a meno di notare una nota di apprensione da parte di lei ogni volta che la penna si muoveva lungo la carta del quadernino.
- E' tutto? -
- Non c'è altro - confermò Michael.
- Ne sei certo? -
Il chimico trovò una vaga conferma dei propri sospetti, ma evitò di far trapelare la sua irritazione.
- Judith, sei hai qualcosa da ridire sulla mia indagine, sei libera di esprimerti! -
Lei indietreggiò; si accorse di essere stata colta in flagrante. Promise a se stessa di lavorare sulla neutralità della propria espressione nel corso dell'investigazione.
- S-scusa, Michael, ma devo prendere ogni informazione con le pinze... soprattutto le tue - ammise - Sei nella posizione migliore per fornire prove false... e non vorrei dubitare di te -
- Prove false, dici? -
- Beh... sei tu che gestisci l'autopsia - deglutì - Se dipendessi troppo da ciò che mi dici... potrebbe ritorcersi contro... -
Si zittì; sapeva di aver parlato troppo. Un'espressione strana era comparsa sul volto di Michael Schwarz: un misto tra sospetto e compiacimento.
- Sapevo che prima o poi ti saresti rivelata per ciò che sei, Judith Flourish -
- C-come, scusa!? -
- Intendo dire che hai finalmente iniziato a dubitare di tutti - annuì Michael - Lascia che quell'idiota di Karol continui da solo la sua crociata per una classe devota all'amicizia e alla cooperazione. Tu non sei una stupida, o non saresti l'Ultimate Lawyer -
Le gote di Judith divennero sempre più rosse; lei stessa non capiva se per la rabbia o per il calore, ma sentiva in cuor suo di voler rispondere per le rime a Michael.
- E che cosa intendi insinuare con questa frase!? - ribatté lei - Che chi crede nel prossimo è un idiota e che gli avvocati sono tutti scaltri!? -
- Chi ha orecchie per intendere, intenda - fu l'ultima risposta di Michael prima che i due si separassero definitivamente.
L'avvocatessa tentò di concentrare la propria mente sulle indagini, principalmente per non pensare alla sgradevole conversazione avvenuta poco prima.
La sua prima tappa fu raggiungere June, che sembrava intenta ad esaminare quella che sembrava una grossa botola metallica.
Questa era aperta ed il coperchio era appoggiato a terra. Provò ad afferrarlo: era parecchio pesante, ma in qualche modo riuscì a sollevarlo da terra.
Dopo essersi accertata che il suo peso non fosse insostenibile, lo lasciò cadere con un tonfo rimbombante.
- Trovato nulla da queste parti? -
June annuì, ma mantenne un'espressione di distacco. Judith intuì che non era il caso di disturbarla troppo e decise di fare da sé.
La botola sembrava ricondurre ad una celletta sotto il pavimento: una breve scaletta in ferro scendeva verso il basso, dentro la stanzina.
L'interno era angusto, principalmente perché la maggior parte dello spazio era occupato da tubature, e nemmeno troppo illuminato.
Cominciò a scendere al suo interno; passandoci davanti notò che il coperchio della botola poteva essere aperto da entrambi i lati.
Non appena i piedi poggiarono terra, la ragazza guardò innanzitutto verso l'alto: era scesa di appena tre metri.
Poi, esaminando la cella sotterranea, la sua attenzione venne rapita dal particolare più evidente.
Vicino alla scala, poco più avanti, vi era un oggetto metallico dalla forma arrotondata dal quale grondavano tracce di sangue: era un falcetto.
Judith era certa di aver visto quello strumento nella serra, assieme agli altri utensili botanici. Non che vi fosse davvero qualcosa che richiedeva una mietitura, ma la giovane sapeva che quell'arnese non era stato piazzato in quella scuola per un motivo interamente devoluto al giardinaggio.
Strinse i pugni, avvicinandosi a quella che era chiaramente l'arma che cercava.
Ne osservò la lama: ricurva, quasi a mezzaluna. Il metallo scintillante di cui era composto era quasi completamente offuscato dai grumi di sangue.
Ripercorrendo le parole di Michael su come l'ipotetica arma del delitto fosse composta da una lama irregolare, ogni dubbio fu fugato.
Diede ancora un'altra occhiata nei paraggi, ma non vi fu nient'altro che catturò la sua attenzione.
Il pavimento attorno al falcetto era sporco di sangue oramai secco; nessuna altra traccia era presente nel resto della stanza.
Intuendo che il suo lavoro in quel luogo fosse concluso, si apprestò a risalire lungo la scaletta, portando con sé lo strumento insanguinato.
Nel vederla risalire, June storse il naso. La vista dell'arma era già poco gradevole di suo, senza contare le circostanze della scena del crimine.
- Elise è stata uccisa con... quello? -
- Sì, tutto fa pensare che sia così - annuì Judith - E' piuttosto leggero, si può tenere con una mano sola. Persino Hillary riuscirebbe a maneggiarlo -
June scacciò dalla mente quell'esempio.
- C'era altro là sotto? - chiese.
- No, ho controllato bene - la rassicurò Judith - Ma per qualsiasi dubbio faresti meglio a ispezionare di persona. E tu? Trovato qualcosa? -
A quelle parole, June le indicò ciò che stava attirando la sua attenzione.
Un gigantesco macchinario, posizionato alle spalle del cadavere, alto quasi cinque metri e largo tre. Emetteva sbuffi di vapore e diversi rumori, e bastava starci vicino per avvertire un forte calore: la liscia superficie in metallo era incandescente. Era chiaro che quella macchina era un componente della sala caldaie.
- Che cos'è? - chiese l'avvocatessa.
- Michael ha detto che è una sorta di cisterna. E' collegata con uno scambiatore di calore; dovrebbe essere il responsabile della trasmissione dell'acqua calda -
Judith apprezzò l'erudizione, ma non ne intravide il significato.
- Ha a che fare con il caso? -
- Non ne sono davvero certa... - mormorò Harrier - Però l'acqua calda ha smesso di scorrere poco fa, giusto? Mi chiedevo se la cosa non fosse connessa con l'omicidio... -
Qualcosa nella mente di Judith scattò. 
- E' vero... in effetti io stessa me ne sono accorta - constatò - Mentre facevo la doccia, la regolazione termica dell'acqua si è bloccata di colpo -
- Magari questo bestione ne sa qualcosa - osservò June, poggiando la mano sul gigantesco macchinario.
Non sembrava presentare dei difetti evidenti. Anzi, era perfettamente in funzione, e ad ogni sbuffo Judith si convinse che non vi era nulla che non andasse.
Le due notarono che dalla cisterna si diramavano una cospicua quantità di tubature. 
Fu solo seguendole una ad una che si accorsero in cosa consisteva il problema: una delle tubature presentava un'ammaccatura consistente.
Il tubo in questione si trovava esattamente sopra le loro teste, ad appena un metro dalla cisterna, ed era leggermente staccato dal soffitto.
A differenza degli altri era incrinato verso il basso, e delle minuscole e fugaci gocce d'acqua colavano sul pavimento.
- Ecco il "colpevole" - asserì Judith - Quella tubatura è danneggiata -
- Ma è sempre stato così? - si domandò June - Non mi pare di aver notato nulla del genere quando... -
La frase le morì in gola. Un ricordo che stava tentando di scacciare era riaffiorato improvvisamente.
Non era la prima volta che la caldaia veniva ispezionata a causa di un omicidio. June si chiese se quel luogo non fosse stato colpito da una maledizione.
Judith non ci mise molto a notare lo stress della compagna.
- Vuoi uscire un momento, June? -
L'altra scosse il capo con veemenza.
- Sto bene - tagliò corto - Starò meglio quando questa storia sarà finita... -
- Intendi quando troveremo l'assassino? -
L'arciera strinse i pugni.
- Sì, chiunque esso sia - sbottò lei - E non credere che non sospetti anche di te, Judith. Per quanto mi riguarda siete tutti sospetti! -
- Non posso biasimarti... - sospirò.
- Ho fin troppe persone sulla coscienza, ora come ora... - June si diede dei buffetti in faccia come per darsi una strigliata da sola - Non permetterò a chiunque abbia assassinato Elise di fare fuori anche tutti noi e di farla franca. Assolutamente NO! -



Le piccole dita di Hillary rovistarono tra i rottami della videocamera di Elise nella speranza di trovarvi qualcosa di utile.
Fece attenzione a non danneggiare ulteriormente il dispositivo che, a giudicare dalle condizioni in cui era stato rinvenuto non sarebbe mai più tornato a funzionare.
Xavier prestò attenzione ad ogni movimento delle sue mani: era evidente che Hillary sapeva come gestire la situazione.
Il detective aveva notato la presenza della videocamera distrutta vicino al cadavere e aveva deciso istantaneamente di requisirla per sottoporla all'attenzione dell'Ultimate Clockwork Artisan.
Oltre ad Alvin ed Elise, Hillary era l'unica ad aver già lavorato precedentemente con quegli strumenti; dunque era l'unica rimasta da poter consultare.
- Che cosa ne dici? - chiese Xavier.
- E' al di là di ogni riparazione - annuì lei - Ma forse siamo stati fortunati -
Notò il suo cambio di tono ed espressione.
- Dunque hai trovato qualcosa -
- La videocamera sembra essere stata colpita violentemente, ma la rientranza della memory card si è salvata - gli disse - E se la scheda è intatta possiamo leggerne i dati su di un'altra videocamera. Ci metterò qualche minuto -
Xavier annuì pazientemente. Fece qualche passo indietro e appoggiò la schiena al muro, attendendo che Hillary finisse.
Nonostante ciò, il suo sguardo non si distolse nemmeno un momento dalle mani della compagna. Ogni movimento delle dita, ogni pezzetto del dispositivo che veniva
rimosso, ogni percettibile azione veniva immediatamente assimilata dal suo occhio.
"Se Hillary è l'assassina, non le permetterò di liberarsi di qualche prova sotto il mio sguardo
La sua attesa terminò dopo pochissimo tempo: Hillary estrasse un minuscolo chip dal congegno.
- La ho trovata! - lo richiamò lei - Sembra ancora integra -
Lui se la fece consegnare seduta stante.
Girò lo sguardo di lato: proprio in quel momento, Vivian era tornata portando con se uno straccio bagnato in una mano e una delle videocamere di sicurezza in un'altra.
La ragazza si fermò lungo il corridoio, dove Lawrence Grace era seduto sul pavimento.
Il musicista appariva ancora sofferente a causa del ritrovamento di Elise; la sua faccia non era ancora tornata di un colore normale.
Lei gli porse lo straccio umido, e dopo qualche parola di convenevole andò poi da Xavier.
Lawrence chiuse gli occhi, sospirò, e si passò il panno sulla fronte.
Vivian appoggiò la telecamera sulla mano libera di Xavier.
- Ecco, l'ho presa -
- Come sta Lawrence? - chiese lui - Sembra ancora piuttosto provato -
- Lo è, ma sta migliorando - sorrise Vivian.
Xavier lanciò uno sguardo diffidente in direzione di entrambi, poi procedette ad inserire la scheda memoria.
Sotto la mani capaci di Hillary la videocamera di attivò. Vi era un singolo file video salvato sopra; la lunghezza era notevole.
Hillary mandò avanti veloce la registrazione fino a quando non trovò la parte che interessava loro.
Il video era stato fatto in movimento: intuirono che ciò a cui stavano assistendo era il punto di vista di Elise.
- Eccoci, si sta avvicinando alla caldaia - la avvertì Xavier - Manda a velocità normale -
All'interno del video, Elise sembrava aver notato che la porta della caldaia era aperta. Sullo schermo comparve la sua mano che, spingendo delicatamente la porta, entrò al suo interno.
Vivian rabbrividì: il pensiero di stare assistendo a ciò che aveva visto e provato una persona che fino a poco tempo prima era ancora viva le fece venire i sudori freddi. Una sensazione strana e nefasta che sperò di non provare mai più. 
- Prestate attenzione - le spronò Xavier nel momento in cui la parte importante stava giungendo.
L'interno della caldaia era assolutamente identico a quello che avevano visto, e non vi era nulla che sembrasse immediatamente fuori posto.
Persino i ridondanti rumori degli sbuffi erano perfettamente udibili attraverso la piccola telecamera.
Elise mosse qualche passo lungo la caldaia; la telecamera era dritta di fronte a lei.
Ad un tratto, parve fermarsi davanti alla gigantesca cisterna: l'obiettivo si mosse a destra e sinistra, esaminandola nel dettaglio.
Fu in quel momento che accadde: nel video venne avvertito un forte rumore proveniente da fuori la caldaia, ed Elise si girò di scatto.
Mosse un passo avanti, poi un altro e un altro ancora.
Il suo respiro si era fatto vagamente più intenso.
E poi, come in un baleno, Xavier, Vivian ed Hillary sentirono un urlo agghiacciante. Elise sembrava stare urlando oltre le proprie possibilità, struggendosi le 
corde vocali. Un tonfo sordo e il rumore di una lama furono le uniche altre cose che riuscirono ad ascoltare.
Hillary sobbalzò sul posto, mentre Vivian si coprì occhi e orecchie.
La mano di Xavier vacillò per un istante; odiò il dover ammettere a se stesso che quella vista era piuttosto spinta anche per lui.
Il grido non durò che qualche attimo: Elise cascò a terra e, assieme a lei la telecamera. 
Poi, un altro colpo si avvertì, e la telecamera cessò di registrare. L'ultima cosa intravista era un fiumiciattolo rosso scorrere lungo il pavimento.
Hillary respirò a fatica.
- Nessun dubbio che il delitto sia avvenuto qui dentro... - mormorò.
- Ma il colpevole non si vede da nessuna parte... - si lamentò Vivian - Eppure, entrando nella caldaia, Elise non sembra aver adocchiato nessuno -
- Ma doveva essere lì, e credo anche di sapere come - 
Le due ragazze rimasero allibite.
- Dici sul serio? - chiese Vivian.
Xavier annuì.
- C'è un singolo, piccolo dettaglio fuori posto nel video - spiegò lui - La botola metallica era chiusa, nella registrazione. Ma quando siamo arrivati la abbiamo trovata aperta -
- Oh, capisco dove vuoi arrivare -
Hillary si massaggiò il mento.
- E cosa c'era nella cella sotterranea? - chiese.
- Judith ha dato un'occhiata per prima. Sembra che ci fosse un'arma - asserì Xavier - Mi farò dire di più non appena lei, June e Michael avranno finito -
Vivian abbozzò un sorriso.
- Non l'avrei mai detto -
- Che cosa intendi? - domandò lui.
- Beh, ti stai affidando a loro tre per compiere un'indagine al posto tuo - lo punzecchiò lei - Non è forse segno che ti fidi di loro? -
Il volto del ragazzo si contrasse in un'espressione infastidita.
- Al contrario. Quei tre dovranno uscire da quella porta, quando avranno finito - disse indicando la caldaia - E io sarò lì a controllare che non abbiano combinato scherzi con le prove. Io sospetto di tutti, Vivian. Tutti -
L'Ultimate Painter perse ogni parvenza di ottimismo; la sua espressione emanava un forte alone di delusione.
Hillary non poté che guardare Xavier con uno sguardo sprezzante e di disgusto.
- Un'ultima cosa - le richiamò Xavier - Avete idea di che cosa fosse quel forte rumore udito da Elise? -
Vivian Left ci pensò su per un istante: i suoi occhi si illuminarono.
- Oh! Credo di saperlo! - esordì l'artista - Credo sia lo scatolone che June ha fatto cadere vicino all'imballatrice -
Le orecchie di Xavier Jefferson captarono un'informazione succosa.
- Hai detto che è stata June? -
- La ho incontrata nel deposito rifiuti - spiegò lei - Stava trasportando della roba dalla palestra, credo, e la ha fatta cadere per errore -
- Quindi mi stai dicendo che eri con lei? -
Vivian deglutì.
- S-sì, è così... -
Hillary si pose fra i due.
- Soddisfatto del responso, Xavier? - i suoi occhi lo squadrarono in cagnesco.
Lui si limitò a sbuffare.
- Lo sarò quando June confermerà questa versione - rispose - Ora è meglio se torni da Lawrence. Non sembra stare benissimo... -
- Tsk! Certo! - gli ribatté di rimando Hillary - Fai pure finta di preoccuparti per lui! -
E con ciò, la piccola ragazza dai capelli rossi si fece strada lungo il corridoio.
Vivian lanciò a Xavier uno sguardo triste, decidendo di seguire a ruota la compagna.
Rimasto solo coi suoi pensieri, l'Ultimate Detective non poté che immergersi nelle proprie riflessioni.
Sgomberò la mente da ogni dettaglio superfluo e riattivò la videocamera, pronto a vivere una seconda volta la morte di Elise Mirondo.
 

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Capitolo 18
*** Capitolo 2 - Parte 6 ***


Kevin Claythorne aprì la porticina dell'orto botanico e, una volta accertatosi che non vi fosse niente fuori posto a prima vista, vi entrò; Hayley e Rickard lo seguirono a ruota.
Le piante disposte sugli scaffali erano ancora nel preciso e metodico ordine con cui Kevin le aveva lasciate; lo stesso si poteva dire dei fiori e degli strumenti che era solito usare. 
Si fece largo tra le schiere di vasi rigirando lo sguardo a più riprese.
- Vediamo... dove dovevo cercare? - sforzò la memoria - Ah, certo! -
Dirigendosi verso l'armadio metallico nell'angolino ne aprì rapidamente le ante. Il suo sguardo cercò rapidamente qualcosa che non era lì.
- Ok, ripetimi come mai siamo venuti qui? - gli chiese Rickard - Siamo piuttosto distanti dalla scena del crimine... -
- Cerchi qualcosa in particolare? - ipotizzò Hayley.
Il biondino annuì.
- Judith mi ha chiesto di confermare un suo sospetto, e aveva ragione - rispose - L'arma del delitto viene da qui -
- Intendi... dall'armadio? -
Kevin fece notare loro uno spazio vuoto al suo interno.
- E' stato usato un falcetto per uccidere Elise... - disse, la voce gli tremò leggermente al pronunciare la parola "uccidere" - Era uno degli strumenti conservati nella serra -
Rickard si massaggiò il mento.
- Questo non ci aiuta di certo a restringere la cerchia dei sospettati - osservò lui.
- Kevin, tu passi molto tempo qui, giusto? - intervenne Hayley - Hai notato se la falce manca già da qualche giorno? Oppure se è sparita oggi stesso? -
- Ammetto di non aver aperto l'armadio molto spesso... - si grattò il capo - Non c'è niente che utilizzi quotidianamente lì, quindi non ci ho fatto caso... -
I tre si misero a riflettere.
- Notato la presenza di qualcuno da queste parti? Magari un comportamento sospetto? -
Il botanico ci pensò su per qualche istante. La sua espressione cambiò nel momento in cui realizzò qualcosa.
- Hillary è venuta a farmi visita inaspettatamente, pochissimi giorni fa... -
- Hillary? - Hayley era sbalordita - E' venuta qui? Era con Vivian? -
- No, da sola -
- Un po' strano, ma non ci crea davvero una pista concreta... - sospirò Rickard - Oh, già! Sbaglio o avevano detto di aver trovato tracce di terreno sulla scena del crimine? -
I tre guardarono il pavimento, scrutandolo da parte a parte. Le mattonelle della pavimentazione erano ricoperte da un sottile velo di terriccio, foglie secche e sporcizia varia.
Le loro scarpe avevano lasciato impronte evidenti.
Hayley si guardò la suola degli stivaletti: era completamente scura, e allo stesso modo erano le scarpe dei compagni.
- Avrei dovuto fare qualche pulizia in più, lo so... - si scusò Kevin, imbarazzato.
- Beh, almeno adesso siamo certi che l'assassino è passato di qui -
Hayley Silver deglutì.
- Già... di qui -
Rickard notò il suo cambio d'umore.
- Tutto bene? -
- Vorrei poterti dire di sì... - sospirò lei.
- Ok, immagino fosse una domanda idiota... - ammise Rickard - Ma stai tranquilla. Vedrai che andrà tutto bene -
Lei scosse il capo.
- "Tutto bene"...? Se andasse tutto bene ci ritroveremmo con una morte in più... - disse - Voi... siete preparati a mandare a morte un altro del gruppo...? -
- Abbiamo davvero scelta? - Kevin apparve altrettanto sconsolato - Io non so cosa abbia spinto il responsabile ad uccidere Elise, esattamente come non ho idea di cosa abbia portato Alvin a compiere ciò che fatto. So solo che non voglio morire... per nessun motivo -
Lei annuì debolmente.
- Sì, è perfettamente comprensibile -
- Su col morale, ragazzi! Io sono ancora convinto che ci sia una via d'uscita, da qualche parte - si intromise dinamicamente Rickard - Sopravviviamo e troviamola! -
Gli altri due compirono un flebile cenno di assenso, e continuarono a controllare in giro per la serra, ognuno per conto proprio, ognuno immerso nei propri pensieri. Così vicini, eppure così distanti.
Mancava poco allo scadere dell'ora.


Il gruppo di Pierce, Karol e Pearl decise di svolgere una rapida indagine del deposito rifiuti.
Si erano recati lì dietro suggerimento dell'Ultimate Sewer nel tentativo di battere sentieri non ancora esplorati dal resto della comitiva.
La sala di imballaggio rifiuti era situata in prossimità della caldaia, appena sulla destra del corridoio di quest'ultima.
Il grosso ammasso di rifiuti accumulatosi rese le ricerche più ardue, ma Pierce Lesdar iniziò a scavare di buona lena.
Pearl decise di ispezionare il perimetro della sala per essere certa di non lasciarsi sfuggire qualche dettaglio poco in vista.
In fondo alla stanza, Karol Clouds osservava i compagni all'opera con uno sguardo vacuo e sconfortato.
Dopo il ritrovamento di Elise, l'insegnante aveva passato gran parte del tempo a rimuginare e a porsi quesiti insolvibili, costringendo la propria mente ad una punizione ed un supplizio auto inflitti.
Appoggiò la schiena alla parete e guardò verso il soffitto: in mezzo alla luce soffusa delle due uniche lampadine della stanza, gli sembrò quasi di vedere il volto smarrito di Elise sorridergli attraverso l'obiettivo della sua videocamera.
Tornato alla realtà, si accorse che a fissarlo era in realtà Pearl Crowngale.
Lo sguardo di ghiaccio della ragazza penetrò il suo animo come una lama affilata.
- Hai intenzione di startene lì ancora per molto? - gli chiese. Il suo tono era palesemente infastidito dall'apatia di Karol.
- Hai ragione, vi sto rallentando... - sospirò lui - Ho bisogno ancora di un po' di tempo per assimilare tutto quanto -
Pearl fece spallucce.
- Non voglio forzarti ad accettare la morte di Elise come se fosse una cosa da nulla - continuò lei - Ma al processo avrai bisogno di concentrarti, se vuoi avere più possibilità di sopravvivere -
A Karol scappò una debole e triste risata.
- I miei studenti sono tutti all'opera per scoprire la verità e io sono qui a piangermi addosso - mormorò - Che frana -
La bionda scosse il capo.
- Non starai esagerando? -
- Come, scusa? - la fisso Karol.
- Con tutta questa storia del voler essere un buon insegnante - spiegò lei - Ti stai addossando delle responsabilità enormi, ma non puoi reggerle da solo -
Karol si alzò in piedi. Il suo sguardo era vagamente indignato, ma rimase composto.
- E' mio dovere proteggere l'incolumità dei miei compagni! - disse - So benissimo che nessuno me lo ha chiesto, ma io intendo farlo comunque. Non è solo la mia professione, me lo impongono l'orgoglio di insegnante e i miei princìpi! -
- Karol, non puoi impedirci di ucciderci a vicenda... - sospirò lei - Nemmeno l'Ultimate Teacher è in grado di controllare quindici persone contemporaneamente. Era un progetto fuori dalla tua portata -
- Non ha importanza... - sbottò lui.
- Tre persone sono morte, e dopo il processo quel numero è destinato ad aumentare. Se di uno, o dodici, quello non lo so - incrociò le braccia - Hai intenzione di sobbarcarti il peso di ogni vita che si spegnerà tra queste mura? -
Karol si strofinò i capelli con forza, tentando in tutti i modi di contenersi.
- Lo so! Lo so che non posso impedirlo, anche volendo! - gridò - Ma devo comunque provarci! Se le mie parole riuscissero a toccare i loro cuori, se i miei insegnamenti riuscissero a far breccia nei loro animi, allora forse potrei davvero salvarli! Ogni morte è un mio fallimento come tutore; capisci, Pearl!? E' una vita che non sono riuscito a preservare, una minuscola scintilla che non sono stato in grado di alimentare! -
Si abbatté nuovamente control la parete. Strofinò le mani lungo la propria faccia, come per lavare via tutta la disperazione con un semplice gesto.
- Se riuscissi a far uscire da questo posto anche solo uno di voi, sarebbe per me un'enorme conquista... - sussurrò, asciugandosi una lacrima - Un incompetente come me non può aspirare ad altro... se la mia maestra fosse stata qui, Refia, Alvin ed Elise sarebbero ancora con noi -
- La tua maestra? - chiese Pearl.
Lo sguardo di Karol si perse in una reminiscenza lontana. Una parvenza di sollievo apparve sul suo volto contratto dal dolore, come se una brezza fresca lo investisse in una giornata torrida e priva di ombra.
- Le sue parole sono come magnetiche, è impossibile non pendere dalle sue labbra - disse - Se sono arrivato fin qui, lo devo alla spinta che mi ha dato lei... -
- Tutti hanno ricevuto degli insegnamenti e dei precetti che li hanno formati - annuì Pearl - Il solo fatto che tu sia divenuto "Ultimate Teacher" dimostra che li hai assimilati per bene, no? -
- Non è abbastanza - asserì Karol - Non fino a quando i miei compagni continueranno a morire. Vorrà dire che non ho fatto abbastanza -
Pearl Crowngale dovette accettare il fatto di star combattendo una causa persa.
- Come preferisci, Prof, continua pure la tua crociata - disse - Ma credimi, tutto quel peso ti farà collassare, prima o poi -
- Se mai dovessi cadere... - pronunciò Karol Clouds in maniera solenne - ...ciò non avverrà prima di aver trovato una via di fuga -
Fu la voce di Pierce ad interrompere definitivamente la conversazione.
- Ragazzi! - gridò loro - Credo di aver trovato qualcosa! -
Karol e Pearl si scambiarono un'ultima occhiata, poi si diressero verso ciò che il compagno stava indicando.
Questi tirò fuori da uno scatolone quella che sembrava essere una fune, ma un po' più sottile. La corda era saldamente intrecciata e robusta al tatto.
Pearl la prese tra le mani e la esaminò. Si rese subito conto ciò che aveva attirato l'attenzione di Pierce.
Lungo la fune vi erano delle piccole ma evidenti tracce di sangue.
Pearl le tastò: erano secche, ma si scrostavano con facilità semplicemente passandoci il dito sopra.
- E' vecchio di poche ore - asserì la ninja.
- Che sia di Elise? -
- Estremamente probabile -
La ragazza si rivolse poi a Pierce.
- Dove la hai trovata? -
- In mezzo alla spazzatura, in questo scatolone - indicò lui - Sembra essere stata ficcata sbrigativamente... -
- Il colpevole aveva fretta... - osservò Pearl - Questa la portiamo con noi -
- Un ottimo lavoro, Pierce. Hai un occhio fino - sorrise Karol. L'Ultimate Sewer girò lo sguardo, tentando in tutti i modi di nascondere l'imbarazzo.
- E anche un ottimo tempismo - aggiunse Pearl - Guardate che ore sono -
Un rintocco di orologio fece capire loro che il tempo dedicato alle indagini era scaduto.
Un velo di tensione avvolse la sala.
- Allora... andiamo -
- Sei certo di avere la mente sgombra? - chiese.
Karol ci pensò su per un momento.
- No, ho ancora tanti pensieri - ammise - Ma il mio obiettivo è chiaro. Che voi lo vogliate o no, io sono il vostro insegnante. E vi proteggerò a qualsiasi costo -



Tredici persone erano riunite al piazzale dei dormitori. 
Nessuna aveva proferito parola dal loro arrivo.
Vivian Left si guardò attorno, notando come quel luogo desse un'impressione talmente diversa a causa della mancanza di soli tre individui.
Gli studenti attesero pazientemente che l'ascensore si mettesse in moto, anche se non era desiderio di nessuno recarsi nell'infausto tribunale eretto proprio sotto i loro piedi.
E, infine, tutti emisero un lieve sussulto nel momento in cui il pavimento cominciò ad abbassarsi.
Il movimento meccanico dell'ascensore era regolare e cadenzato, identico a come si era presentato la prima volta.
Immergendosi in un abisso buio, sempre più giù, i tredici sopravvissuti osservarono il soffitto divenire sempre più distante.
Xavier era in piedi al centro. Il suo unico occhio osservava un punto fisso davanti a lui.
June strinse i pugni con forza, preparandosi psicologicamente alla battaglia.
Hayley e Pierce contemplavano tristemente il loro trovarsi in quel luogo.
Pearl e Michael, distanziati come loro solito, non si lasciavano sfuggire nemmeno un singolo passo o movenza sospetta degli altri.
Lawrence tamburellò nervosamente la mano sul braccio, sperando con tutto se stesso di arrivare a destinazione il prima possibile, sentendosi soffocato dal buio e dalla pesante assenza di rumore.
Vivian e Karol tenevano sott'occhio la situazione generale. L'artista aveva provato ad imbastire una conversazione amichevole con il resto del gruppo, ma le parole non le vennero fuori. La tensione era palpabile; Vivian Left si chiese se la disperazione non avesse avuto la meglio anche su di lei.
Dall'altro lato, Hillary e Kevin fecero di tutte per concentrare i propri pensieri altrove, verso un idillio mentale falso ma più accogliente della realtà.
Rickard Falls fu l'unico incapace di restare fermo. Percorse instancabilmente una circonferenza coi propri passi, scandendo mentalmente il tempo che l'ascensore stava impiegando e pregando con tutto se stesso che quell'incubo finisse.
Infine, Judith si era messa in un angolino dal quale riusciva a scrutare ogni singolo membro della classe.
Li osservò tutti, dal primo all'ultimo. Poi osservò le proprie mani; mani che sapeva avrebbe dovuto usare per incriminare qualcuno.
Mani che aveva già usato in passato, i cui indici erano stati usati innumerevoli volte per additare la verità, ma che ora erano un mezzo di morte e salvezza.
Judith sapeva che, in quel luogo, la verità aveva un prezzo molto alto; sapeva che avrebbe additato qualcuno non tanto per incriminarlo quanto per mandarlo a morte.
Il solo pensiero le fece nascere un terrore inenarrabile che, dall'interno, le raschiava l'animo con crudeltà.
L'ascensore si arrestò dolcemente pochi attimi dopo.
Davanti a loro si erse l'imponente tribunale, assolutamente identico a come lo avevano lasciato se non per appena un dettaglio.
Due nuove fotografie erano state aggiunte a quella di Refia.
I volti di Alvin ed Elise erano marchiati da una croce di un rosso talmente acceso che il solo guardarla arrecava fastidio alla vista.
Judith osservò disgustata quel palese monito allestito da chiunque fosse il folle che stava facendo loro tutto ciò.
La maggior parte di loro tentò di ignorare le due nuove paia di sguardi aggiunti ai seggi del tribunale; sguardi che sembravano fissarli dall'aldilà, custodi di un dolore sconosciuto ai mortali.
June passò di fianco al banco di Refia e ne accarezzò la foto. Sussurrò qualche parola a se stessa così a bassa voce che fu impossibile udirla.
Vivian rimase per qualche attimo paralizzata davanti all'immagine imbrattata di Elise. Tentò di scacciare con forza l'immagine del suo volto contratto dal dolore a cui aveva assistito poco tempo prima.
Karol lanciò uno sguardo rapido in direzione degli occhi inespressivi di Alvin. Il banco distrutto dall'Ultimate Guardian era stato sostituito. Karol ricordò il fragore disumano udito in quell'occasione, ed ebbe i brividi al solo rimembrarlo.
Girò il volto, e raggiunse il suo posto.
Ognuno dei tredici era sistemato al proprio banco.
- Sembra che ci siamo tutti! - fece improvvisamente l'annuncio di Monokuma - Siamo qui riuniti per indagare sul caso dell'omicidio di Elise Mirondo! Che il processo cominci! -
"Caso", "Omicidio", "Processo". Parole che erano diventate tristemente abituali nell'arco di appena poche settimane, il cui contesto era in grado di gettare ombra sugli animi di tutti.
I tredici studenti erano pronti; una scarica di adrenalina percorse tutti loro.
Dodici contro uno, nessuna possibilità di errore, nessuna rivincita. Nessuna speranza di un lieto fine.

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Capitolo 19
*** Capitolo 2 - Parte 7 - Processo ***


- Proporrei di cominciare con le cose ovvie... - cominciò Xavier.
L'attenzione di tutti era rivolta verso di lui.
Il ragazzo si schiarì la voce.
- Elise è stata uccisa nella stanza della caldaia verso le undici del mattino - disse - Ha una ferita profonda sul collo, si sospetta che l'arma del delitto sia il falcetto da mietitura rinvenuto nella cella sotterranea poco distante -
Fece cenno a Michael di prendere la parola. Questi emise uno sbuffo.
- Morte praticamente istantanea... - continuò il chimico - Sono state rinvenute tracce di terreno lì intorno; è normale pensare che la falce sia stata prelevata dalla serra -
- Sì, è vero! - intervenne Rickard - Quando siamo andati a controllare c'erano tracce di terreno lungo tutto il pavimento. Il colpevole è stato lì -
Hayley e Kevin annuirono all'unisono, confermando la versione dei fatti.
- Magari c'erano delle impronte lasciate dal colpevole nella serra... - osservò June - Avete controllato? -
Kevin si grattò la testa tentando di nascondere un lieve imbarazzo.
- Beh, sì... ma quasi tutte erano mie, e le altre erano irriconoscibili... - 
- Non era davvero possibile distinguere le impronte soltanto a guardarle - asserì Hayley, facendo uno sforzo di memoria.
- Ma Kevin ha detto che le sue erano ben distinte, no? - perseverò l'arciera.
Il biondino tentò di giustificarsi.
- Perché io passo lì molto tempo, e ci sono alcune zone del giardino dove ho messo piede solo io... quindi ci sono solo le mie impronte... -
June parve poco convinta. Pearl intervenne a chiarire il dubbio.
- E' normale considerare che l'assassino si sia avvicinato solo all'armadietto dove era custodito il falcetto - spiegò la ninja - Se anche fosse stato Kevin, non potremmo dedurlo solo dalle tracce delle scarpe -
- In pratica... è un indizio che non ci porta da nessuna parte... - ammise sconsolata Vivian.
Un lieve brusio di voci accompagnò i ragionamenti personali dei presenti.
- Analizziamo gli altri indizi - propose Judith - Credo che la scena del crimine fosse suddivisa in due parti distinte -
- Intendi... la cella sotterranea e la stanza della caldaia? - intuì Hillary.
- Esattamente - l'avvocatessa si portò un dito alla tempia - Secondo voi perché l'arma è stata lasciata lì sotto? -
- E' difficile dirlo - considerò Karol - Forse voleva nasconderla, ma è improbabile. Dopotutto la botola metallica era aperta e in bella vista... -
- Chiunque avrebbe pensato di controllare lì sotto - annuì Lawrence - E infatti abbiamo subito trovato l'arma -
Judith intervenne di nuovo.
- Dobbiamo considerare la situazione nella sua interezza. Non abbiamo a che fare con un assassino professionista... - esclamò - E' possibile che il colpevole la abbia gettata nella cella spinto dal panico -
- Ah, il fattore psicologico... - mormorò Karol, invaghito da quell'ultima asserzione - Non è da sottovalutare. Nessuno, qui dentro, ha mai avuto a che fare con una situazione simile... la paura potrebbe avere avuto il suo ruolo nella vicenda -
- Forse sì e forse no - si intromise Xavier - Io direi di concentrarci su un altro dettaglio importante -
- A che ti riferisci? -
Xavier Jefferson tirò fuori dalla tasca della giacca una piccola videocamera, che calamitò l'attenzione generale.
- E' quella di Elise...? - si chiese Pierce - No, un momento... -
- Si tratta di una delle videocamere piazzate da Alvin ed Elise. Ci ho messo dentro la scheda memoria di quella distrutta nella caldaia - spiegò Xavier - Dentro c'è la registrazione degli ultimi momenti vissuti da Elise. Si tratta di una prova fondamentale -
- E' vero, la abbiamo controllata poco fa - confermò Vivian - Anche se non abbiamo scoperto moltissimo -
- Oh, ma in realtà c'è un mucchio di cose interessanti nel video - Xavier mostrò un sorrisetto beffardo - Invito tutti a dare un'occhiata -
- Per questo posso dare una mano io! -
Una nuova voce fece la sua comparsa nel processo: quella di Monokuma.
Il volto dell'orso meccanico apparve sugli schermi situati lungo il tribunale: il suo sguardo era inquietante e tetro come lo ricordavano.
- E tu che diavolo vuoi!? - protestò Michael.
- Non essere scontroso! Volevo solo dirvi che potete usufruire degli schermi del tribunale per visualizzare il video in super HD! - rispose il pupazzo - Ah, la tecnologia! -
Un velo di incertezza piombò tra i presenti.
- C-ci sarà da fidarsi...? - si domandò Pierce.
- Mah, non che a questo punto importi molto di cosa faccia l'orso, no? - Pearl fece spallucce.
- Va bene, va bene... - sospirò Xavier - Che devo fare? -
Il volto di Monokuma apparve vagamente compiaciuto.
- Ti basta inserire la scheda memoria in quella piccola fessura sotto il tuo banco, e voilà! Semplicissimo, no? - esultò - Ma dopotutto voi giovani siete nati nell'era degli smartphone e dei computer, non avete bisogno dell'aiuto di un orso all'antica come il sottoscritto! Beh, buon proseguimento di processo! -
E con quelle parole, l'immagine scomparve dagli schermi. Ciò che non era andata via era la pesante sensazione di disagio.
I tredici studenti optarono per ignorare le parole del robot e di concentrarsi sul presente.
La mano di Xavier inserì la schedina nel vano apposito, e questo la assorbì al suo interno con un rumore secco.
In pochi secondi, il video della morte di Elise fu mandato in onda.
L'intero gruppo assistette alla scena, sapendo cosa stava per accadere.
Tredici cuori palpitarono in attesa di un qualcosa che nessuno voleva vedere, ma che sapevano di dover controllare.
Nel video comparve un primo rumore, Elise si voltò. Poi l'urlo giunse, rimbombando in tutta la sala.
Hillary nascose la testa tra le braccia. Karol strinse i denti, e poi i pugni, maledicendo la propria impotenza.
Hayley e June rabbrividirono e chiusero gli occhi. Lawrence avvertì un'altra contorsione allo stomaco, ma riuscì a trattenersi.
Xavier rimosse infine la scheda dal banco e la rimise in tasca assieme alla videocamera.
- Ci sono... - Xavier tentennò per un istante. Il video aveva avuto un certo effetto anche su di lui - Ci sono alcuni dettagli da tenere in considerazione. Innanzitutto, il rumore apparso poco prima della morte -
- Lo avevamo stabilito - annuì Vivian Left - Risale a quando io e June ci siamo viste presso l'imballatrice -
Lo sguardo dell'arciera si illuminò.
- Già, è vero... - ricordò lei - Ho fatto cadere per sbaglio quello scatolone... -
- Ecco come hai potuto stabilire l'orario del decesso con così tanta precisione nonostante l'autopsia non lo avesse potuto determinare... - commentò Pearl.
Xavier si esibì in un sorrisetto furbo, poi proseguì.
- L'altra cosa è che la botola della cella sotterranea era chiusa nel video, ma noi la abbiamo trovata aperta -
- E con questo...? - chiese Rickard - Cioè, ok, l'assassino deve averla aperta dopo e ha buttato la falce lì, no? -
- Ma non consideri un punto importante: dov'era l'assassino? -
Più di una persona sussultò.
- Già... nel video non compare nessuno... -
- Era nascosto! Questo è chiaro! - si fece avanti Lawrence - E forse proprio nella cella sotterranea...! -
- Hai centrato il bersaglio, Lawrence - si complimentò Xavier - Il colpevole era nascosto nella cella, e stava tenendo sotto controllo la situazione con l'udito. Appena ha avvertito il rumore in lontananza, ne ha approfittato per uscire allo scoperto e ha ucciso Elise, che nel frattempo si era distratta -
Hayley batté una mano sul banco.
- Ecco come ha fatto a non essere ripreso dalla telecamera! - esclamò l'Ultimate Hiker.
- Ma questo dove ci porta? - si chiese Kevin - Dopotutto, anche adesso non abbiamo idea di chi sia stato a ucciderla... -
- Ma abbiamo un quadro più chiaro e completo della situazione - annuì Pearl - Ci aiuterà a completare il puzzle -
A quel punto, Michael fece il proprio ingresso trionfale nel dibattito.
- Perché invece non saltiamo direttamente alla parte dove lo abbiamo risolto? - 
Gli altri dodici si voltarono di scatto verso l'Ultimate Chemist.
- Come, prego...? - chiese Xavier, esterrefatto.
- Adesso che abbiamo definito come l'assassino abbia eluso la sorveglianza, posso presentare un dato interessante - ridacchiò Michael, beffardo.
- Dicci tutto, Michael - lo incitò Judith - Cosa hai scoperto? -
Schwarz si sistemò la camicia.
- Ho condotto una seconda autopsia più accurata, giusto per togliermi alcuni dubbi - spiegò lui - E i risultati sono stati soddisfacenti! Avevo notato che la ferita presentava qualcosa di strano per il modo in cui era stata inferta, e ho scoperto che c'era di più -
Rickard si arruffò i capelli con le mani.
- Andiamo, Mike! Non tenerci sulle spine! -
- E' molto semplice. La lama è penetrata in maniera irregolare nel corpo di Elise non tanto perché la lama era curva - raccontò - Ma perché il colpo è stato lanciato dall'alto -
Calò un breve silenzio.
- D-dall'alto? - Pierce parve confuso.
- Sì, la lama si è conficcata partendo dalla punta. L'attacco veniva da una posizione poco più alta di Elise - determinò Michael - In parole povere: o l'assassino ha
spiccato un balzo, o semplicemente è più alto di Elise -
Una nuova ondata di silenzio percosse l'aula. Diverse paia di occhi si scambiarono sguardi di sospetto.
- "Più alto"... - mormorò June.
- E si dia il caso che Elise fosse piuttosto slanciata - proseguì Michael - Tra i presenti, solo due persone avrebbero potuto ucciderla in questo modo senza sforzo -
- Solo due...!? - Lawrence si guardò attorno - Ah! Ma certo! Deve trattarsi di... -
Michael sbatté la mano sul proprio banco, i suoi occhi erano infuocati.
- Pearl e Karol - esclamò - Uno di voi due è il killer! -



Pearl Crowngale non rimase affatto colpita dall'accusa rivolta contro di lei. Osservò semplicemente lo sguardo di Michael fissarla intensamente, ma non batté ciglio.
Dall'altro verso, il volto di Karol Clouds si riempì di terrore e angoscia.
- I-io!? - balbettò l'Ultimate Teacher - Credi che sia stato io!? -
- Sono stato piuttosto chiaro - rispose  Michael Schwarz - O tu, o Pearl. Siete i più alti del gruppo, e gli unici che avrebbero potuto farlo -
Xavier trovò molto più semplice figurarsi l'intero delitto commesso dalla bionda che non dal professore, ma si astenne dal proferire un commento talmente inutile.
Sapeva bene che in quella scuola poteva accadere di tutto.
- Uno di loro due...? - mormorò Hayley - Ma così è un cinquanta e cinquanta... -
- Ma prima di tutto, quanto è accurata la tua analisi, Michael? - obiettò June - Possiamo essere certi che... -
- Ma come OSI!? - il chimico, come tutti si aspettavano, ebbe da ridire - Credi che abbia dato semplicemente aria alla bocca per vanto!? So quel che ho visto! -
June Harrier fece malvolentieri marcia indietro, sospirando tristemente.
- Cielo... - sibilò Rickard - Ma una bella camomilla? -
Karol rimase sulle sue, pensando a cosa dire. Pearl, invece, non si fece alcun problema.
- Non abbiamo davvero modo di discolparci - asserì la ninja - Ma dubito che abbiate modo di provare la colpevolezza assoluta di uno di noi, sbaglio? -
- Oh, ma ci arriveremo! - sbraitò Michael, furente - Stanne certa! -
- Uhm, scusate un momento... -
Una voce si fece timidamente largo nella discussione: quella di Judith Flourish.
L'attenzione generale si spostò da Michael a lei.
- Cosa c'è, Judy? - chiese Lawrence.
- Ho come l'impressione che siamo andati avanti troppo rapidamente - annuì lei - Ci sono ancora molti dettagli da chiarire prima di stabilire se Karol o Pearl sono i responsabili -
Michael Schwarz sbuffò rumorosamente.
- Ecco un'altra pronta a contestare i risultati delle mie ricerche... - sospirò - Va bene, qual'è il problema stavolta!? -
Judith scosse la testa.
- No, non ha niente a che vedere con te - rispose - Piuttosto, non sono convinta della versione dei fatti che ha dato Xavier -
Il detective spalancò l'occhio buono, sentendosi chiamare in causa.
- Oh? Ma davvero? -
- Credo ci siano due grosse falle nel tuo ragionamento... - spiegò lei - Ci sono arrivata solo ora, ma ne sono abbastanza certa -
Vivian la incitò a proseguire.
- Se davvero credi che esistano delle incongruenze, parlacene -
- Già, sono estremamente curioso di sapere... - commentò acidamente Xavier.
Judith raccolse la sfida.
- Innanzitutto: hai detto che l'assassino si è nascosto nella cella sotterranea -
- E' così - annuì lui.
- Già questo ci porta alla prima incongruenza -
- Spiegati meglio, Judith - disse Kevin.
Lei annuì.
- Ricordate le impronte di terriccio? -
La memoria di tutti ripercorse tutto il processo fino al principio.
- Certo che sì... - mormorò timidamente Hillary.
- Beh, sono stata personalmente nella cella sotterranea e la ho esplorata a fondo - spiegò - E c'era la falce e parecchio sangue. Ma niente terreno -
Il volto di June si illuminò.
- Hey! E' vero! - esclamò - Ci sono stata anche io, e non c'era nessuna impronta... né a terra né sulle scale -
Judith annuì soddisfatta. Lanciò uno sguardo di intesa verso Pierce Lesdar, ricordando come il dettaglio delle tracce sul pavimento fossero state un punto focale del caso precedente. L'aver saputo apprendere qualcosa di utile dalle circostanze fu un suo motivo d'orgoglio.
Xavier deglutì.
- Questo... questo è vero... - si asciugò del sudore dalla fronte - Ma che cosa... vuol dire? -
- Aspetta, prima lascia che ti spieghi la seconda falla nel tuo ragionamento: hai detto che la botola metallica era chiusa, ma l'assassino la ha aperta durante l'omicidio in modo da cogliere Elise di sorpresa -
Stavolta fu Vivian ad intervenire.
- Forse ho capito... - disse l'artista - Se il colpevole la avesse aperta appena prima di uccidere Elise... lo avremmo sentito nel video -
- Nel video? - Hayley parve pensarci su - Mhh, è vero, nel video appaiono solo due suoni: lo scatolone in lontananza e... beh, il grido... -
- Ora che ci penso... - osservò June Harrier - Judith ha provato a sollevare la botola... ed era piuttosto rumorosa -
Xavier Jefferson grattò furiosamente il dorso della propria mano.
- Ma questo che vuol dire...!? -
- Significa due cose - annuì Judith - Che la botola non si è aperta prima della morte di Elise, e l'assassino non è mai stato al suo interno -
L'intera aula di tribunale rimase spiazzata.
- Questo... - mormorò Hillary - Questo ribalta tutte le carte in tavola... no? -
- Non necessariamente - rispose Kevin - Il fatto che il colpo mortale possa essere stato piazzato solo da Karol e Pearl rimane un dato di fatto, no? -
- Proprio così! - esultò Michael.
Judith Flourish scosse con veemenza il dito indice.
- Ma sarà davvero così? Ora, chiediamoci una cosa importante... - abbassò lentamente il tono di voce in modo che tutti concentrassero l'udito su di lei - Nel video l'assassino non compare. Se non era nel sotterraneo... dov'era? -
Numerose meningi andarono spremendosi.
- E immagino che tu abbia qualche idea a riguardo...? - chiese Lawrence, speranzoso.
Ma il volto di Judith non offrì ciò che stava cercando.
- Temo che quello sia... ancora da definire... - 
Nel mentre, la mente di Xavier ripercorse il video che aveva fatto riprodurre poco prima. Aveva passato più tempo di quanto non sembrasse a visualizzarlo, volta dopo volta, nella speranza di trovare qualche dettaglio poco in vista o una qualunque sorta di indizio.
La rivelazione di Judith aveva disintegrato qualsiasi appiglio di logica trovato, e un velo di dubbio e incertezza stava cingendo i suoi pensieri fino a soffocarli.
Inspirò ed espirò per tre volte, raffreddò la mente, concentrò i neuroni.
Un quadro più definito iniziò a presentarsi davanti a lui.
Il video della telecamera passò nuovamente nella sua testa, avendolo oramai imparato a memoria.
Ogni passo di Elise, ogni respiro, ogni sbuffo di vapore era stato accuratamente captato e ordinato.
Poi, ad un tratto, un ricordo riaffiorò.
- Sbuffo di vapore... -
Il resto della comitiva nemmeno si accorse di ciò che stava mormorando tra sé, impegnato com'era nel dibattito sul come potesse essere avvenuto.
Xavier alzò istintivamente la testa, cercando con lo sguardo qualcosa che non c'era.
- Ho avvertito uno sbuffo... dall'alto - sussurrò - Dall'alto... oh, sì. Ora ricordo... in alto c'era... -
La sua pupilla si dilatò.
- Un momento! -
La sua voce venne lanciata molto più intensamente di quanto si aspettasse.
La classe lo guardò sbalordita.
- Co-cosa c'è...? - Pierce lo scrutò di sottecchi.
Xavier non rispose immediatamente, sembrava ancora intento a ragionare su qualcosa.
- Cavolo, Xavier, non farci prendere spaventi per nulla... - si lamentò Rickard.
- Forse... forse ha capito qualcosa? - ipotizzò Hayley - Xavier? E' così? -
Il detective emise un profondo sospiro.
- Credo... di sì -
- Parla, allora - lo incitò Pearl.
- Judith ha perfettamente ragione, il colpevole non era nel sotterraneo - disse, aprendo il suo ragionamento - Ma era decisamente nella stanza. Ora, la telecamera ha ripreso tutto davanti a sé, ma ovviamente aveva i suoi punti ciechi -
- E uno di questi era la celletta nel pavimento, sì - sbottò sbrigativamente Michael - E con ciò? -
- Ci siamo concentrati su ciò che c'era sotto... - pronunciò con parole lente e misurate - Ma non su ciò che c'era... sopra -
June si grattò la testa, confusa.
- Sopra? - poi realizzò - Ah! Intendi... -
- Intende la cisterna - le rispose Vivian - Stai dicendo che il colpevole... era sulla cisterna -
- Quella alle spalle di Elise? - osservò Kevin - Quindi il colpevole ha colpito dall'alto? -
Pearl scosse il capo.
- Non so da dove cominciare ad elencare le falle di questo ragionamento, ma mi intriga comunque - disse la bionda - Innanzitutto il colpevole deve aver trovato un modo di salirci sopra, no? Ma la cisterna è liscia, ed è alta alcuni metri -
- Non mi sembra di aver visto appigli di alcun tipo lì vicino... - constatò Hayley - Tipo... delle maniglie o sporgenze -
Karol Clouds apparve dubbioso.
- C'era davvero modo di salire sulla cima della cisterna? -
- Sì, se teniamo in considerazione una prova particolare - rispose Xavier - E tu, Prof, dovresti sapere benissimo di cosa sto parlando -
L'insegnante si trovò colto alla sprovvista, ma non perse la postura. Impiegò qualche secondo in più per giungere alla conclusione, mentre tutti gli altri pendevano dalle sue labbra.
- Ah! Credo di aver capito... - disse - Ti riferisci alla fune che ha trovato Pierce! -
- Precisamente. Quella fune aveva delle macchiette di sangue, quindi è normale pensare che fosse sulla scena del crimine. Ma a che scopo? - Xavier viaggiò con lo sguardo incrociando quelli di tutti gli altri - E se fosse stata usata per raggiungere la cisterna? -
- Ma come, esattamente? - domandò Hillary - Solo con una fune è davvero possibile fare qualcosa del genere? -
- No, di certo no. Ma se uniamo la fune a qualcos'altro? - sorrise - Qualcosa che possa aggrapparsi. Ipotizziamo... che la fune sia stata legata al falcetto -
Tutti gli altri rimasero con le mascelle spalancate.
- Cos-...!? La fune e la falce!? - esclamò Kevin.
- Aah, credo di aver capito... - annuì Pearl - Un rudimentale rampino -
- Così facendo si spiega anche l'esistenza di un'altra prova... - asserì Judith - La tubatura piegata sul soffitto! -
Xavier annuì compiaciuto.
- Esattamente, Judith. Se poniamo il caso che il falcetto, legato alla fune, si sia aggrappato alla tubatura e abbia retto il peso di una persona, si spiegherebbe come mai il tubo si è incrinato - continuò Xavier - Tra l'altro, quel tubo ha provocato l'assenza dell'acqua calda ai dormitori proprio mentre Judith usava la doccia. Ricordate che ore erano quando ciò è avvenuto? -
- Era... - sussultò - ...poco dopo le undici, circa! -
- L'orario dell'omicidio...! - constatò Hayley.
- Tutto torna, in pratica! - gioì Rickard.
- Ma siamo sicuri...? Cioè, io ancora ho qualche dubbio - si espose Lawrence - Voglio dire... che ruolo aveva la cella sotterranea in tutto questo? L'arma si trovava lì, no? -
Xavier incrociò le braccia. Era giunto alla parte che stava attendendo con ansia.
- Già, un ottimo quesito. Fondamentale, oserei dire - annuì - Perché lì si nasconde l'indizio finale per svelare l'identità del colpevole -


                                                                          
L'atmosfera del tribunale si era fatta man mano sempre più cupa e colma di ansia e preoccupazione.
Il modo in cui Xavier aveva presentato la propria teoria aveva messo tutti in allarme: il ragazzo sembrava seriamente capace di svelare l'identità dell'assassino.
Il suo volto trasmetteva proprio quella sensazione. Xavier non appariva più meditabondo o in difficoltà, ma perfettamente cosciente di ciò che doveva dire e fare.
Kevin e Karol rimasero impassibili ad osservare la scena, temendo che anche una sola parola di troppo avrebbe spezzato quel delicato equilibrio silenzioso che si era venuto a formare.
Il tacere di Pearl e Michael, invece, era dovuto al loro voler osservare fino in fondo dove li avrebbe condotti quella teoria che, a parere loro, faceva ancora un po' d'acqua da ogni parte.
June, Hayley e Hillary rispettarono il religioso silenzio, ma ognuna dava a modo proprio un chiaro cenno di nervosismo.
Lawrence e Vivian si scambiarono uno sguardo estremamente fugace, tornando subito con l'attenzione rivolta verso Xavier.
Rickard e Pierce erano visibilmente tremanti; in particolar modo, l'Ultimate Sewer non sembrava essere in grado di tenere a freno il proprio sguardo ansioso.
E infine, Judith Flourish era rimasta al proprio posto in trepidante attesa di un responso.
- Dunque, Xavier... - fece quest'ultima - Hai detto che... credi di poter dedurre chi sia stato? -
- E' così. E vorrei che voi tutti seguiste il mio ragionamento con molta attenzione - dichiarò - Abbiamo stabilito che l'unica altra possibilità fosse che l'omicidio è avvenuto dall'alto. E' vero ci siamo arrivati per esclusione, ma ciò non toglie che rimane l'opzione più fattibile -
- Hai spiegato come la fune e il falcetto possano essere stati usati per raggiungere la cisterna... - chiarì Pearl - Ma siamo davvero sicuri che sia andata così? Non abbiamo carenza di prove? -
- E invece ci sono ben due indizi cruciali a sostegno di ciò - Xavier sorrise con sorpresa degli altri - E sono certo che Michael non vede l'ora di illustrarli. Dico bene? -
L'Ultimate Chemist lo guardò in cagnesco.
- In che senso "Michael"? - si chiese Hayley - Pensavo fossi tu ad aver capito tutto...! -
- Oh, sì, ma anche lui dovrebbe aver dedotto qualcosa - asserì Xavier - Dopotutto è lui ad aver trovato questi due indizi -
Il chimico sospirò.
- Il primo è la ferita...  - disse - Il fatto che sia stata inferta dall'alto può significare che il colpevole ha una statura elevata o... che il colpo venisse effettivamente dall'alto -
- In pratica, un assalto in picchiata - concluse Xavier - E la seconda? -
- Le tracce di terreno... - proseguì Michael, mentre Judith notava come quelle impronte apparentemente insignificanti tornassero ad intervalli regolari per scombinare
le carte in tavola - C'erano residui di terra sopra al cadavere, non solo a terra -
- In pratica, essendo il terreno proveniente da delle calzature, se ne è stata trovata traccia SOPRA il corpo, allora è plausibile ritenere che i piedi del colpevole si trovassero sul corpo. Cosa che può accadere se l'assassino piombasse sulla sua vittima dall'alto -
June Harrier apparve spazientita.
- D'accordo, va bene! Credo che a questo punto sia piuttosto chiaro! - esclamò - Ma chi!? CHI è stato!? -
- Era proprio dove stavo giungendo - la rasserenò lui - Ci terrei a rispondere alla domanda che Lawrence ha posto poco fa: che senso aveva la cella sotterranea? -
Il musicista si grattò il collo.
- Eh, in effetti questa cosa mi ronza in testa da un po'... -
- E' semplicissimo: era una distrazione- affermò lui - Un modo per sviare le indagini. Doveva sembrare che l'omicidio fosse stato commesso da sotto, e non da sopra -
- Non ne trovo il significato...! - protestò Karol - Da sotto o da sopra, il colpevole rimane ignoto! Come cambierebbe la situazione!? -
- Cambia tutto, invece - lo corresse Xavier - Pensaci, il colpevole si è preso la briga di nascondere la fune, ma NON la falce. Ha fatto di tutto affinché pensassimo che il delitto sia stato commesso senza l'uso della cisterna. Ma perché? Perché il solo pensare ad un omicidio dall'alto e alla sua modalità di esecuzione ne tradisce l'autore -
Un nuovo silenzio. Il respiro di tutti divenne lentamente irregolare.
Qualcuno di loro aveva già realizzato la cruda verità.
Gli altri pregarono affinché la risposta arrivasse il prima possibile.
- No... no, aspetta... - balbettò Judith Flourish, i suoi occhi ridotti a fessure - Non puoi starlo dicendo sul serio... -
- E' proprio così, Judith. Stiamo parlando di un assassino in grado di fabbricare uno strumento funzionale servendosi di una fune e un falcetto, capace di arrampicarsi su una liscia cisterna di circa quattro o cinque metri e di preparare un omicidio in picchiata senza quasi lasciare traccia di sé. A mio dire, gesta piuttosto impegnative persino per qualcuno come l'Ultimate Hiker - prese aria nei polmoni - Sto parlando di TE, Hayley! Sei tu l'assassina! -
 

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Capitolo 20
*** Capitolo 2 - Parte 8 ***


Il volto di Hayley Silver si trasformò pian piano assumendo un'espressione terrorizzata.
Il dito indice di Xavier era ancora fermamente puntato contro di lei; lo fissò come se quel singolo gesto bastasse ad ucciderla.
D'istinto, si guardò attorno: il vuoto di silenzio che seguì l'accusa rivolta da Xavier era sufficiente a farle intuire che aria tirava nell'aula.
Gli sguardi di tutti erano puntati su di lei. Aprì debolmente la bocca solo per accorgersi di avere la gola completamente seccata.
- Io... cosa...? - fu tutto ciò che riuscì a pronunciare.
- Credo di essermi spiegato perfettamente - ribatté il detective - Hai ucciso Elise. Sei stata tu -
- E' stata... Hayley!? - balbettò June, ancora incredula - Ma questo è assurdo...! -
L'Ultimate Hiker intervenne prima che la situazione degenerasse ulteriormente.
- Un... un momento! - reagì lei - Che significa!? Non hai provato un bel niente! Hai solo messo su un discorso ipotetico, come puoi dire che sia stata io!? -
- "Ipotetico"? A me sembra che le prove ci siano - rispose placidamente Xavier, emanando un'aura di sicurezza.
- In pratica... il fatto di aver mascherato l'omicidio in quel modo getta sospetto su Hayley... - tentò di riassumere Karol - Perché il modus operandi indicherebbe una colpevolezza dell'Ultimate Hiker. Dico bene? -
- Precisamente. L'utilizzo della fune, l'assassinio dall'alto, l'arrampicata fin sopra la cisterna... - elencò Xavier - Cielo, persino il fabbricare una sorta di rudimentale strumento da scalata. Tutto riporta alle abilità di Hayley come alpinista, ed è l'unico modo per spiegare come mai la scena del crimine è stata modificata -
- Sembra sensato, ma... - Vivian non parve convinta - E' davvero possibile che abbia... -
- No, no, aspettate...! - li supplicò Hayley - E' tutto... un enorme malinteso...! Io non... -
Michael sbatté la mano sul banco.
- Piantala di accampare scuse! - la aggredì lui - Se hai qualcosa da dire per discolparti, fa che sia una prova concreta! -
- H-Hayley... - si introdusse timidamente Pierce - Dimmi... che non sei stata tu, ti prego... -
- Ora è il momento di parlare, Silver - la spronò Pearl - Ora, o mai più -
Hayley Silver raccolse ogni briciolo di energia residua per ribattere, ma qualcosa la fermò.
Le immagini captate dai suoi occhi iniziarono a diventare sfuocate. Le voci dei compagni le rimbombarono in testa in un ciclo infinito di urla e sussurri dubbiosi.
Un brusio di sottofondo che divenne rumoroso come centinaia di alveari, tutto concentrato nella sua mente.
Hayley si rese conto di stare perdendo lentamente lucidità. Si appoggiò al banco e tentò di respirare, ma anche quello le riuscì difficile.
L'aria entrava ed usciva con una difficoltà immane, la fronte iniziò a dolerle, il corpo rispondeva sempre meno ai comandi impartiti.
Gli strilli accusatori di Michael risuonavano in tutta la sala, ferendole i timpani. 
Si asciugò il sudore dalla fronte solo per rendersi conto che la mano sudava ancor più copiosamente.
Quando rialzò lo sguardo, il suo volto aveva assunto un colorito anormale.
- Hayley...? - chiese Vivian con apprensione - Stai... stai bene? -
- Aria... - balbettò lei, raschiando il legno del banco con le unghie - Ho bisogno... di aria -
Karol intervenne tempestivamente.
- Si sta sentendo male! - esclamò - Interrompiamo il processo! -
- No, Karol! - lo bloccò Xavier - Non ora che siamo ad un passo dalla verità! -
- Hai intenzione di lasciarla in quello stato!? - protestò l'insegnante.
- Se potessimo interrompere quando vogliamo lo faremmo pure, ma l'ascensore non si riattiverà se non a fine processo - disse indicando il dispositivo immobile alle loro spalle - Per il suo bene, e per il nostro, dobbiamo concludere l'udienza -
Karol Clouds strinse i pugni con forza, poi si voltò verso Hayley. La ragazza era a capo chino sul proprio banco, farfugliando parole quasi incomprensibili.
- Aria... - sussurrò - Vi scongiuro... voglio aria fresca... -
- Ma come possiamo continuare...? - si domandò Rickard - La poveretta non è nemmeno in grado di difendersi, in questo stato... -
- A questo vi è rimedio - una nuova voce si fece avanti - La difenderò io -
Dieci paia di sguardi vennero rivolti verso un'unica direzione. Judith Flourish si era sporta in avanti, calamitando l'attenzione.
- Tu, Judy? - chiese Lawrence, confuso - Intendi... "difenderla"? -
- Proprio così - disse lei, volgendo uno sguardo apprensivo verso Hayley - Se non è nelle condizioni di reagire, lo farò io per lei -
Xavier si mostrò palesemente contrariato.
- Che diavolo vai blaterando, Judith!? Hai seguito il caso anche tu, sai bene come stanno le cose! - gridò - Stai difendendo un'assassina! -
- Non lo sarà fino a quando non lo dimostrerai in maniera concreta! - fu la sua risposta - E io ho intenzione di difenderla. Punto! -
- Mi sorprendi, Flourish - ammise Pearl - Credevo che, nel campo legale, i sentimenti non avessero lo stesso peso della verità -
- Un avvocato non è "al servizio" della verità, ma la cerca e la analizza - asserì lei - E se non è guidato da una forte volontà d'animo, non ci arriverà mai -
Stavolta fu June Harrier ad intromettersi nella discussione.
- Ma perché...? - chiese l'arciera con voce amareggiata - Perché intendi proteggere Hayley nonostante tutte le prove a suo carico!? -
Judith sospirò.
- Potrà sembrarvi ridicolo... - annuì - ...ma è perché io mi RIFIUTO di credere che sia stata lei! Ho imparato a conoscerla: è una persona gentile e di buon cuore! Non posso... non VOGLIO accettare che si sia macchiata di omicidio! -
Xavier scosse il capo.
- Patetico. E' chiaro che il caso di Alvin non ti abbia insegnato nulla - commentò acidamente - La disperazione porta le persone più insospettabili a compiere i gesti più inconcepibili. Non puoi fidarti di ciò che leggi nello sguardo altrui, non potrai mai conoscere qualcuno talmente bene da sapere cosa pensa e cosa prova -
- E' vero, non posso saperlo con esattezza... - Judith strinse i denti - Ma andrò comunque avanti per la mia strada. Anche se la situazione è disperata, non voglio abbandonare un'amica a se stessa senza neanche provarci. Questo è il significato di avere "fede", Xavier -
I due si scambiarono una fulminante occhiata di sfida.
Il resto della classe si ritrovò in una posizione di difficoltà. Nessuno sembrava parteggiare espressamente per una delle due fazioni, ma un velo di incertezza aleggiava su tutti loro. Solo Michael parve schierarsi animosamente con Xavier.
Vivian, Hillary e June dovettero fare i conti con la propria coscienza e decidere se seguire il cuore o la ragione.
Lawrence e Kevin non riuscirono a fare a meno di volgere uno sguardo di pietà verso l'Ultimate Hiker.
Quest'ultima, con occhi vacui e assenti e il colorito pallido, alzò lentamente il capo verso colei che si era erta a farle da barriera.
- Judith... - mormorò, mentre una piccola lacrima le scendeva lungo la gota.
- Molto bene - concluse Xavier - Vediamo dove ti porterà la tua deformazione professionale. Dimmi, Judith, come intendi ribattere alle prove presentate? -
- Facciamo un momento di chiarezza - cominciò lei - L'accusa rivolta contro Hayley trova fondamenta sul fatto che l'omicidio sembrerebbe essere stato eseguito  dall'Ultimate Hiker, ed il fatto che sia stato mascherato in modo da nascondere ciò ha gettato dei dubbi ragionevoli -
- Sì, credo... - Lawrence ci pensò su - ...che tutto sommato il punto sia questo -
- Allora permettetemi di presentare una versione differente della questione - Judith si schiarì la voce - L'omicidio è stato realizzato in modo da avere ben due contromisure. La prima era un'incapacità di determinare il colpevole a causa di assenza di indizi, come era appunto la situazione iniziale. La seconda, in caso fosse saltata fuori qualche prova, era di fare in modo che la colpa venisse attribuita all'Ultimate Hiker allestendo un delitto che, apparentemente, solo lei avrebbe potuto compiere -
Vi fu un momento di incertezza.
- Judith, stai dicendo che... - Hillary alzò la mano - ...il colpevole ha fatto in modo da uccidere Elise facendo sembrare che Hayley fosse l'assassina? -
- In parole povere, affermi che è tutto volutamente messo in modo da sviare l'attenzione e incolpare lei? - chiese Rickard - Beh, è un po' strano... -
- Lo è, ma non si può negare che sia una possibilità - asserì Judith.
- Una storiella interessante - confermò Xavier - Ma che prove hai per dimostrarne la veridicità? -
- Prima mi permetto di esporvi un punto importante della questione - proseguì Judith - Credo che il fulcro dell'intero omicidio risieda sul come abbia fatto il colpevole ad arrampicarsi sulla cisterna -
- Ma lo abbiamo già stabilito, no? - rispose Kevin - Ha legato la fune al falcetto e lo ha fissato sulla tubatura sul soffitto. Poi si è arrampicato e... beh, da quella posizione sarebbe bastato dondolarsi appena per riuscire a mettere piede sulla cisterna -
- Precisamente, ma qui arriva la parte essenziale - annuì l'avvocatessa - Stiamo sottovalutando quanto sia difficile arrampicarsi su una fune messa alla buona. Sono necessari ottimi muscoli ed un buon allenamento. Cose che sicuramente Hayley possiede, ma non è l'unica -
- In breve? - la incitò Michael - Dove vuoi arrivare? -
- Voglio dire che Hayley non è l'unica che poteva farlo! Tra i presenti ci sono altre due persone capaci di tutto ciò -
La classe si scompose di nuovo. Ognuno lanciò occhiate ai propri lati in una febbrile ricerca dei sospettati.
- Altri due? - chiese Vivian.
Judith prese aria.
- Sto parlando di Pearl e Xavier - disse, indicandoli - Sareste stati perfettamente in grado di eseguire il delitto! -
Pearl Crowngale sospirò tristemente.
- E' la seconda volta, oggi... - sbuffò.
- Dici sul serio, Judith? - rispose irritato Xavier - QUESTA è la tua idea di una seconda opzione? -
Lei deglutì.
- Non puoi negare... che sia possibile - tentennò brevemente, ma andò avanti spedita - Uno di voi due potrebbe aver compiuto l'omicidio inscenando la colpevolezza di Hayley facendo in modo che il tutto sembrasse eseguito dall'Ultimate Hiker! Ma anche voi due sareste stati in grado di arrampicarvi sulla fune...! -
Xavier la bloccò con un cenno della mano.
- Va bene, starò al tuo gioco - annuì lui - Facciamo una premessa, però: io ho un alibi per l'ora del delitto. Ero in infermeria con Michael -
L'Ultimate Chemist brontolò una risposta di affermazione.
- Quindi l'unica altra possibilità... - disse Rickard - E' che sia stata Pearl -
- No, è abbastanza improbabile - replicò la ninja.
Il volto di Judith divenne rosso; la risposta superficiale di Pearl la innervosì palesemente.
- E perché mai dovrebbe esserlo!? -
- Perché se avessi voluto uccidere Elise non avrei avuto bisogno di niente. Né la fune, né il falcetto, niente di niente - spiegò Pearl - Avrei potuto raggiungere la cima della cisterna anche da sola -
Un vuoto di silenzio pesante avvolse i presenti.
Più di uno sguardo incredulo si indirizzò verso la bionda.
Rickard pensò che la compagna stesse semplicemente scherzando, ma il volto serissimo di Pearl lo fece ricredere.
Hillary e Vivian si guardarono tra loro come per chiedere conferma di aver udito bene.
- Tu... cosa? - chiese Lawrence - Pearl, la cisterna è alta come minimo quattro metri! -
Lei non rispose. Si limitò ad indietreggiare lentamente di qualche passo. Uno, due, tre, quattro metri più indietro, e poi si bloccò.
Un istante dopo, scattò con una rapidità sorprendente. Eseguì un balzo repentino e appoggiò il piede destro sul proprio banco, e con esso si diede una spinta.
Pearl Crowngale si librò a diversi metri sopra le teste dei compagni, che ancora non aveva realizzato ciò che stava accadendo.
June si stropicciò gli occhi e guardò sopra di sé: la prima cosa che intravide fu la sagome di Pearl Crowngale che si dondolava ad uno degli schermi del tribunale, tenendosi con un solo braccio, a qualche metro da terra.
Attese alcuni secondi in modo che tutti potessero assimilare la situazione, poi si lasciò cadere. Atterrò quasi in piedi e si rimise al suo posto, come se nulla fosse accaduto.
Ci volle qualche momento prima che tutti riuscissero ad accettare la cosa: qualcuno necessitò del tempo extra.
- Cosa... cazzo... è successo!? - strepitò Rickard.
- Volevo soltanto dimostrare come non vi fosse, per me, la necessità di uno strumento per raggiungere posti elevati - spiegò Pearl con una flemma indiscutibile - A questo punto mi sembra scontato che, se davvero avessi voluto incolpare qualcuno, avrei disseminato prove false di genere diverso piuttosto che qualcosa che avrebbe comunque potuto rimandare la colpa a me, come in questo caso. Non trovi? -
Il gruppo intuì che la semplicità con cui Pearl aveva eseguito il salto era segno che azioni del genere rientrassero perfettamente nella sua norma.
June non riuscì a fare a meno di guardarla con una punta di invidia, mentre Vivian ancora teneva la testa alzata verso il soffitto come per accertarsi che non si trattasse di un elaborato trucco. Xavier, pur conservando un'apparente freddezza, continuava a pensare che quella ragazza fosse molto più simile ad un demone che non ad un'umana.
Judith superò lo sgomento e tentò di ribattere.
- Questo... questo non prova nulla! -
- Intendi perseverare con questa tua logica ottimista? - la incalzò Xavier - Ti ho sopravvalutata. Ti rendi almeno conto che se ti sbagliassi la tua vita finirebbe? -
- Judith... - stavolta fu un più pacifico Lawrence Grace ad intervenire - Io credo di capire il tuo orgoglio... ma la posta in gioco è troppo alta. Le prove conducono a Hayley; te ne rendi conto, vero? -
- Io... io non... -
- Se ti ostini a difendere un'assassina... - fu June ad interrompere le deboli giustificazioni di Judith - Ne patirai le conseguenze -
- Basta così -
La voce di Hayley Silver colse tutti di sorpresa. Il suo volto sembrava ancora vagamente sofferente, ma ancora determinato.
- Finalmente ti decidi a parlare. Quale onore! - ironizzò Michael.
- Non prendetevela con Judith... - ansimò Hayley - E' me che state incolpando, no...? -
- Hayley... - la implorò Vivian - Ti scongiuro, se davvero non sei stata tu... devi dimostrarcelo adesso! -
L'Ultimate Hiker dovette fermarsi a riprendere fiato.
- Io... non ho prove... o chissà cosa... - mormorò - Ma nemmeno voi ne avete... non potete dimostrare senza ombra di dubbio che io abbia ucciso... Elise... -
Karol si fece largo tra il vociare.
- Hayley, hai una faccia spaventosa... non sei nelle condizioni fisiche per proseguire! - la bloccò lui - Credo sia necessaria una pausa per... -
- ZITTO! - tuonò Hayley - Ne ho abbastanza... di questa storia! -
Karol Clouds sgranò gli occhi e indietreggiò. Il tono dell'alpinista si era fatto improvvisamente più aggressivo.
- Siete qui a trovare... ogni scappatoia per darmi la colpa, ma... - prese aria - Ma non avete uno straccio di prova concreta! Niente di niente! -
- Hayley... - gemette Vivian.
- Non posso credere che siamo davvero giunti a questo... - Rickard si grattò la testa e abbassò lo sguardo.
- E' vero, non abbiamo una prova finale, ma presto la troveremo - affermò Xavier - E' solo questione di tempo -
- E allora forza! Avanti! Trovala! - gridò istericamente lei - Cercala per tutta la scuola, ma quando ti accorgerai che non esiste maledirai la tua dannata ostinazione! -
- Che bisogno c'è di darsi tanta pena, quando ciò di cui abbiamo bisogno è già qui? -
Hayley Silver si bloccò sul posto. Girò lentamente il capo verso Michael, che la fissava mostrando un sorrisetto beffardo.
- Che... che cosa...? - sussurrò flebilmente lei.
- Non vi è necessità di nessuna prova per determinare che sei tu l'assassina - sorrise Michael Schwarz - Ho trovato il punto debole di questo tuo grosso castello di  menzogne, Hayley -
La ragazza cercò di proferire una risposta, ma la voce le morì in gola. Ne uscì una tosse isterica che durò alcuni secondi.
- Stai... - ansimò - ...mentendo, maledetto...! -
- Oh, tu dici? -
Pearl lo interruppe.
- Basta giochetti, Michael, è una questione seria - lo fulminò la bionda - Se hai qualcosa da dire, dillo -
- E' proprio ciò che farò - asserì - Ci terrei a fornire, innanzitutto, un piccolo promemoria alla nostra piccola killer e all'avvocatessa delle cause perse -
Hayley e Judith lo guardarono in cagnesco senza ribattere.
- Sapete, ho come l'impressione che abbiate dimenticato dove ci troviamo - continuò Michael - Continuate a parlare di prove finali e schiaccianti, ma forse non lo avete notato: questo non è un vero tribunale. Non c'è nessun giudice con toga e martelletto; il verdetto lo si raggiunge a maggioranza -
- Dove vuoi arrivare!? - obiettò Judith.
- Voglio dire che, per raggiungere una conclusione, non è necessaria questa "prova schiacciante" che tanto agognate, ma un buon numero di prove abbastanza convincenti in grado di riunire i pareri di tutti. E si dia il caso che io abbia una mezza idea su come trovarne un'altra -
Hayley batté la mano sul banco.
- Stai bluffando... è una menzogna! -
- Parli di una prova che non accerta la sua colpevolezza... - Lawrence ordinò i propri pensieri ad alta voce - ...ma che getta un'ombra di dubbio ancora più grande? -
- Proprio così. La potrei definire la "prova circostanziale definitiva"! - esordì Michael.
- Interessante - annuì Xavier - Mostracela -
Il chimico incrociò le braccia. Ogni persona presente pendeva dalle sue labbra.
Michael si accertò di avere l'attenzione di tutti prima di iniziare con la propria spiegazione.
- Avrò bisogno di un po' d'aiuto per esporla - cominciò - Innanzitutto: Xavier, ricorderai il nostro breve incontro in infermeria -
- Bei tempi - commentò sarcastico - Dunque? -
- Ci terrei a ricordare ciò che trovammo lì: le cartelle cliniche di tutti noi - disse, e tutti confermarono di ricordare quel dettaglio - In particolare vorrei che ci concentrassimo su una di quelle che ho esaminato: quella di Refia Bodfield -
- E come dovrebbe aiutarci la cartella clinica di Refia a sciogliere questo caso!? - Judith era oltremodo scandalizzata - Intendi farci perdere tempo!? -
- Oh, ma credimi, è un ottimo spunto di riflessione - Michael non perse la sua espressione confidente nemmeno per un attimo - Sapete, non ho potuto fare a meno di notare come fosse assolutamente immacolata; direi che è ovvio aspettarsi che qualcuno come l'Ultimate Cyclist goda di una perfetta salute. E ciò mi ha portato a pensare che... beh, non dovrebbe essere lo stesso per l'Ultimate Hiker? -
Hayley si paralizzò.
- Per... m-me? -
- Proprio come Refia, il tuo talento è di una categoria che oserei definire "sportiva". Persone come voi in genere possiedono un fisico temprato e un organismo sano. Ma, come dire, a differenza della povera Bodfield, tu non sei esattamente l'apoteosi della buona salute -
- Ah, capisco a cosa ti riferisci... - annuì Kevin - In effetti Hayley ha continui svenimenti ed è sempre pallida... -
- E' vero... due settimane fa io e Refia andammo a soccorrerla in camera sua... - rimembrò Judith.
- C'ero anche io, se ricordi - proseguì Michael - E' da allora che mi sono domandato come potesse, una come lei, avere una salute talmente cagionevole. E qui viene la domanda fatidica: è possibile che il misterioso malessere di Hayley abbia a che fare con questo caso? -
Quell'ultima frase colpì l'Ultimate Hiker come un dardo in pieno petto.
- No... smettila, Michael... -
- Smetterò quando avremo concluso - rispose lui, irritato - Monokuma! -
Il richiamo del chimico azionò gli schermi del tribunale, dove l'orso meccanico fece la sua comparsa.
Immediatamente, l'atmosfera nell'aula si raggelò.
- Qualcuno mi ha chiamato? - rispose pigramente il pupazzo.
- Mike, che ti salta in mente!? - protestò Rickard - Chiamare il nemico in un momento simile! -
- Ho un ottimo motivo per farlo. Monokuma - si rivolse alla sagoma dell'orso - C'è una prova che vorrei presentare, ma si trova altrove. Se non erro ci dicesti che potevi procurarci delle prove, qualora queste ultime fossero già state prese in esame -
- E' esatto! Ricordi bene - si congratulò Monokuma - Ebbene? Di che cosa avete bisogno? -
- La cartella clinica di Hayley Silver, ci basta questo - fu la concisa richiesta di Michael Schwarz.
- Michael... - lo richiamò Vivian - Sei certo di quello che fai? -
Il chimico se la rise di gusto.
- Ti basta guardare la faccia di Hayley per capire che siamo sulla pista giusta -
Hayley Silver non aveva una bella cera fin dal principio, ma in quel momento fu come se fosse collassata.
- Ti prego... basta... - pregò lei - Smettila, io... aria... aria...! -
Xavier non riuscì a fare a meno di provare una certa pietà, ma tentò di non darlo a vedere. Non dopo lo strenuo assalto alle deposizioni della compagna.
June si ritrovò a provare sentimenti fortemente contrapposti. Il suo desiderio di trovare e punire l'omicida era giunto in un punto dove non sapeva più in che direzione andare. Lo stesso si poteva dire per Hillary, che abbassò tristemente lo sguardo verso il pavimento.
Vivian e Karol si ritrovarono impossibilitati ad esprimere qualsivoglia commento; il volto sofferente di Hayley bastò a tenerli in silenzio.
- Aria.... ho bisogno... di aria... -
Il pietoso rantolo scivolò silenzioso lungo l'aula.
Judith si morse il labbro inferiore così forte che finì per farselo sanguinare. 
Lawrence non ebbe semplicemente il coraggio di assistere alla scena, e preferì coprirsi il viso con la mano.
Rickard e Kevin rimasero immobili, il loro respiro impercettibile, il battito cardiaco a mille.
Pierce sembrò voler dire qualcosa, ma Pearl gli fece cenno di no. Scosse delicatamente il capo; non vi era più alcuna parola che potesse risolvere la situazione.
L'Ultimate Sewer dovette arrendersi all'evidenza.
- Uhm... beh, ci sarebbe un problemino - gracchiò Monokuma - Per visualizzare la cartella clinica di uno studente ancora vivo è necessaria la sua autorizzazione diretta -
- Ottimo! - esultò Michael - Immagino allora che, se non hai niente da nascondere, tu sia ben lieta di mostrarci il contenuto del referto. Dico bene, Hayley? -
Ma tutto ciò che ottenne come risposta fu un sussurro soffocato da un pianto inesorabile.
Il volto di Hayley era completamente segnato da copiose lacrime.
Si portò le mani alla gola, come se non riuscisse a respirare.
- Ariaaa... vi scongiuro... fatemi uscire... fatemi uscire!! -
- Piantala con la tiritera, ASSASSINA! - Schwarz la additò ferocemente - Hai ucciso Elise. Ora pagane le conseguenze! -
Si udì un tonfo sordo. Il pugno di Hayley si era abbattuto sul suo banco.
- Taci... taci... TACI! - strepitò febbrilmente lei - Ossigeno... aria...! NON NE POSSO PIU'! -
Ne seguì un urlo disumano che nessuno fu più in grado di dimenticare.
- HO... BISOGNO... D'ARIAAAAAAAA!!!! - 
Poi, Hayley Silver cadde in ginocchio sul pavimento.
L'aula di tribunale cadde in un silenzio di tomba, rotto solo dalle sue lacrime confuse e amareggiate.
 

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Capitolo 21
*** Capitolo 2 - Parte 9 - Reminiscenze ***


Anno XXXX, Maggio, Giorno XX

Tra i corridoi dell'area pazienti di uno dei più grandi e importanti ospedali dell'Europa occidentale, un uomo correva affannosamente cercando con sguardo impaurito ed ansioso una stanza.
Ripercorse innumerevoli volte nella propria mente ciò che gli era stato riferito alla reception.
"Stanza numero sette..." continuò a ripetersi febbrilmente "Stanza numero sette... numero sette..."
La fronte era imperlata di sudore, sia per la fatica che per l'apprensione.
Continuò a correre imperterrito senza preoccuparsi di consumare le scarpe già notevolmente segnate dall'usura.
Fu solo quando il numero "sette" comparve sull'insegna di una porta in fondo al corridoio che l'uomo fu in grado di tornare a respirare quasi in maniera regolare.
Compì un ultimo scatto precipitandosi verso la porta.
Quando la aprì, sbattendola contro la parete, una potente brezza fresca lo investì.
Tutte le finestre della stanza erano state spalancate e tirava una forte corrente.
Lanciò uno sguardo atterrito sul letto ospedaliero che aveva di fronte: la sagoma di una persona ben nota era distesa su di esso, quella di una bambina.
Era pacificamente addormentata, e pareva non essersi accorta di nulla. Osservò il volto sereno di sua figlia, ma ciò non bastò a calmarlo.
Di fianco alla piccola, un uomo in camice bianco era seduto e pareva prendere nota di chissà quali informazioni.
- Hayley! - gridò l'uomo, avventandosi contro il letto.
Il dottore lo richiamò all'istante.
- Non faccia rumore, la prego! - lo rimproverò lui - Lei è il padre della piccola? -
Questi rispose solo dopo aver passato la propria mano, ancora tremante, sulla fronte della propria figlia; il solo essersi accertato personalmente che stesse bene bastò a tranquillizzarlo almeno in parte.
Si voltò verso il medico, che ancora attendeva una risposta.
- Sono Jove Silver... - gli strinse la mano - La prego di perdonarmi, ma ero talmente preoccupato che... -
- E' perfettamente comprensibile, Signor Silver, ma adesso si sieda e si rilassi - lo invitò garbatamente il dottore - Sono il dottor Simath. Vuole dell'acqua? Ha bisogno di qualcosa per calmarsi? -
Jove declinò sbrigativamente. Dal suo sguardo era intuibile che era intenzionato ad andare subito al sodo.
- Sono arrivato il prima possibile... - ansimò - Che cosa è successo? -
- Le riferirò tutto con calma. Innanzitutto ci tengo a rincuorarla dicendole che sua figlia non è in pericolo e la situazione è perfettamente stabile -
- Questa è un'ottima notizia - Jove inspirò ed espirò - D-dunque...? -
Simath si schiarì la voce.
- Stamattina abbiamo ricevuto una telefonata dall'istituto dove studia sua figlia - cominciò lui - La preside della scuola ci ha avvertito che la piccola era svenuta in seguito ad un... piccolo "incidente" -
- Un incidente!? - Jove ebbe quasi un mancamento.
- Si rilassi, niente di tremendo - lo rassicurò il medico - Sembra che la porta del bagno avesse una serratura difettosa, e la piccola è rimasta chiusa al suo interno per circa una mezz'oretta. Una serie di sfortunate coincidenze: nessuno è passato di lì nell'arco dell'avvenimento -
- Che razza di...? - il padre si ricompose - Come si fa a non accorgersi che una bambina è sparita per mezz'ora!? -
- Comprendo la sua indignazione, ma adesso arriva la questione importante... -
Il dottor Simath si assicurò che Jove Silver dedicasse la propria attenzione a lui e non alle proprie preoccupazioni prima di proseguire col discorso.
- La presenza di Hayley è stata notata a causa di... urla - disse, misurando bene le parole - Sembra che abbia avuto una crisi isterica e sia collassata sul pavimento dopo aver battuto con forza sulla porta del bagno. Sono intervenuti subito a soccorrerla e la hanno portata qui -
Silver strabuzzò gli occhi.
- L-la mia Hayley? - balbettò - Che cosa le è successo!? -
Sitham tossicchiò brevemente.
- E' molto semplice, Signor Silver: sua figlia è claustrofobica - affermò - Ancora non sappiamo in che misura, ma è evidente che sia così -
Jove lanciò uno sguardo in direzione della bambina addormentata. Era così serena che faticò ad immaginarsela in preda ad un attacco di panico, tutta sola, in un luogo chiuso.
- La mia Hayley... - mormorò - Claustrofobia? -
- A questo punto devo chiederle: Hayley ha mai mostrato sintomi di qualche tipo? -
Jove ci pensò su.
- E' vero, odia stare al chiuso... - disse - Ma non credevo che fosse da attribuire a questo... ho sempre pensato che amasse giocare all'aperto... -
- Dove abita la sua famiglia, Signore Silver? - il dottor Simath cominciò a prendere appunti.
- Una casetta un po' in periferia. Abbastanza spaziosa, abbiamo un giardino... Hayley gioca sempre lì fuori -
- Ha una moglie? -
- Lavora fuori città. E' solita andare e venire ogni due o tre settimane -
- E, mi dica: la bambina ha mai mostrato segni di squilibrio o debolezza mentale in ambienti chiusi? -
Jove Silver deglutì.-
- No, no...! Ecco... - si grattò il dorso della mano - In effetti ha sempre detestato andare in auto o stare in luoghi affollati... ma, ripeto, non ha mai... -
- E' sufficiente, Signor Silver - lo fermò lui - Purtroppo dobbiamo affrontare la realtà: la piccola ha questo problema. Nelle prossime settimane la terremo qui e verificheremo la gravità di questo suo malessere. Decideremo in seguito il da farsi -
- Il "da farsi"...? -
- In genere ai pazienti claustrofobici è consigliato di vivere in zone più adatte, lontane dai centri urbani affollati e pieni di gente - spiegò Simath.
Jove carezzò dolcemente il capo di Hayley.
- Se sarà necessario, non esiterò... - annuì.
- Potrebbe esserlo come non esserlo. Faremo numerosi accertamenti, non si preoccupi - 
- Ma... starà bene, qui, in questo ospedale!? - gemette di nuovo - E se avesse un altra crisi!? -
- La abbiamo posizionata in una stanza molto ventilata, tutte le finestre sono aperte - annuì Simath, e sorrise - Non dovrebbero esserci problemi. Piuttosto, dovrebbe avvertire sua moglie -
Jove Silver scattò in piedi.
- Ah! Certamente...! - esclamò.
Passò un'ultima volta la mano sulla fronte di Hayley. Poi uscì dalla stanza e iniziò a comporre un numero sul cellulare.


Anno XXXX, Luglio, Giorno XX


- Papà, siamo arrivati...? -
Jove lanciò una rapida occhiata allo specchietto retrovisore dell'auto senza perdere di vista la strada.
Lo sguardo stanco e annoiato della figlia lo accolse come un dardo penetrante; la bambina stava dando chiari segni di essere stufa del viaggio.
Accanto al sedile posteriore si erano accumulati oramai diversi piccoli libri e fumetti che Hayley aveva già finito di leggere, e ogni tentativo successivo di ingannare il tempo si era rivelato inefficace.
La piccola sembrava aver trovato interesse nello scorgere da lontano il nuovo paesaggio sopraggiunto durante la tratta, sporgendosi lievemente dal finestrino nonostante le richieste dei genitori di non farlo, ma ciò le era venuto a noia in breve tempo; Hayley non sembrava volersi accontentare di vedere i prati e le colline da lontano.
- Non ancora, tesoro - le disse - Ma non manca molto, vedrai -
Hayley si stese pigramente lungo il sedile emettendo un flebile verso di protesta, ma intuì che continuare la sua crociata contro la noia non le avrebbe giovato.
Jove Silver si asciugò un po' di sudore dalla fronte col dorso della mano.
Tese istintivamente il braccio in direzione dei comandi nel tentativo di abbassare il finestrino, ma incontrò la resistenza della mano della consorte ad impedirglielo.
Thalia Silver lo stava fissando severamente dal sedile passeggeri anteriore, la sua mano era fermamente salda su quella del marito.
- Jove, tutti i finestrini dell'auto sono già abbassati a sufficienza - lo rimproverò lei - Non vorrai far beccare un raffreddore ad Hayley, spero! -
Lui ritirò immediatamente la mano e tornò alla guida.
- Sì, hai ragione... - mormorò.
La donna sospirò.
- Tranquillizzati, c'è aria a sufficienza - lo rassicurò lei, abbassando il tono della voce - Vedi? Per tutto il viaggio non ha avuto crisi o malesseri. Va tutto bene -
- Lo so, lo so - annuì - Ma non posso fare a meno di pensarci. Ho il terrore di vederla ancora in quello stato... -
- Hayley starà benissimo. Ci stiamo trasferendo per questo motivo, no? - gli ricordò sapientemente la moglie - I medici hanno detto che, in campagna, la sua salute migliorerà di netto. Probabilmente in qualche anno acquisterà una notevole resistenza alla claustrofobia, e potrà vivere normalmente -
Jove Silver annuì di nuovo, ma ogni volta che lo faceva perdeva gradualmente di convinzione. La moglie non mancò di notarlo.
- Jove, cosa c'è? -
- Lo sai cosa c'è! Sono ansioso di natura! - replicò lui - Odio l'aver costretto Hayley a trasferirsi! Dovrà stare lontana dai suoi amici e dalla sua routine! -
- Potrà farsene di nuovi, e non vuol dire che dovrà dire addio a quelli che ha già - lo corresse Thalia.
- Una bambina di otto anni non dovrebbe subire certe limitazioni per una... una cavolo di malattia! - sbottò il padre - Cielo, è così dannatamente ingiusto! -
- Jove, piantala! Non risolverai il problema prendendoti un esaurimento! -
- State litigando...? -
Una vocina tenue e timida fece capolino alle loro spalle. Entrambi i genitori si ammutolirono di scatto.
Thalia si voltò di scatto: due occhi languidi la stavano squadrando, apprensivi.
- No, no! Assolutamente no! - la rassicurò la madre - Io e papà siamo solo... molto preoccupati, tutto qui -
- Quindi non state litigando? -
- Per niente, Hayley - affermò Jove.
- Va bene... - la bambina sembrò soddisfatta, ma diffidente - Ma vi tengo d'occhio -
I due coniugi sospirarono all'unisono.
- Sì, Hayley... - fecero entrambi.
Il tempo sembrò passare vagamente più in fretta nel corso della chiacchierata. Dopo un breve periodo, il paesaggio mutò nuovamente.
All'orizzonte comparvero alcune colline verdi e degli altopiani scoscesi, separati da larghe vallate che si espandevano a perdita d'occhio.
Il cielo era limpido e, a quell'alta quota, sembrava quasi più vicino.
Hayley Silver si lasciò scappare un sussulto emozionato.
- Beh, sembra che siamo arrivati - ridacchiò Jove - Contenta? -
Si aspettava una risposta che non arrivò. Hayley sembrava persa a contemplare le montagne che cingevano la zona con uno sguardo perso nella propria meraviglia.
Una nuvola solitaria era l'unico ostacolo tra gli occhi della bambina e l'immensità del cielo, che rapì inevitabilmente la sua attenzione.
- Ti piace, Hayley? - chiese la madre.
- Sì... -
- Avremmo dovuto portarti in montagna più spesso... - si scusò Jove - Ma sono contento di aver trovato finalmente un ottimo pretesto. Vedrai, adorerai questo luogo -
- Lassù! -
La vocina della figlioletta esclamò improvvisamente una direzione. Il suo braccio indicava verso l'alto.
- Come? -
- Lassù! Lì! - perseverò Hayley.
Thalia si sporse dal finestrino per vedere meglio. Il dito di Hayley stava indicando la sommità di un alto monte che torreggiava in mezzo a tutti gli altri come un prepotente gigante in mezzo a dei propri simili più ridotti.
- La montagna, dici? -
- Voglio andare lassù! -
Marito e moglie si scambiarono uno sguardo d'intesa molto preoccupato. Quando la figlia voleva andare da qualche parte, era solita riuscirci con ogni pretesto, in un modo o nell'altro.
- Hayley, è davvero troppo in alto... - commentò Jove.
- Magari quando sarai più grande potrai... -
- Non mi importa! - scosse il capo, interrompendo a metà la proposta di Thalia - Io voglio salire su quella montagna! Da lì si vedrà il mare!? -
Due nuovi sospiri. 
Jove considerò se era più complicato riuscire a vedere l'oceano da quel luogo così in alto, sperduto tra i monti, o il riuscire a convincere la figlia ad abbandonare il progetto.
Continuò a domandarsi sul come tamponare la sua intensa voglia di fare fino a che la nuova residenza della famiglia Silver non apparve in lontananza, oltre una stradina che partiva dal ciglio della strada. Una dimora che doveva fungere da importante vettore di guarigione ma che sembrava voler divenire qualcosa di più.


Una settimana dopo l'arrivo nella nuova dimora, la famiglia Silver sembrava essersi già perfettamente ambientata al clima e all'ambiente circostante.
Faceva parecchio più freddo che in città, ma la cosa non sembrava gravare più di tanto.
Ogni traccia degli scatoloni da trasloco e del disordine accumulato era sparita, e se non fosse stato per la lucentezza del pavimento e l'odore di nuovo che permeava ogni parete della casa sarebbe stato difficile dire che era appena stata allestita e arredata.
Jove Silver si tolse la soddisfazione di posizionare l'ultimo e definitivo elemento che sanciva la loro appartenenza a quella magione: una foto di famiglia di pochi anni prima posizionata sul caminetto.
- E con questa... abbiamo finito - esclamò contento.
- Non male, non male... - commentò Thalia, gettando occhiate sospettose ad ogni angolo - Ma per sicurezza farò meglio a fare un altro giro della casa -
- Non troverai nulla fuori posto! Lo prometto! -
- Oh, davvero? - colse la sfida al volo - Staremo a vedere -
Si scambiarono un bacio e si accomodarono sul divano, contemplando il lavoro ultimato. La casa adesso era decisamente più accogliente.
Eppure, il silenzio che regnava stava ad indicare che mancava ancora un ultimo tassello.
I due si resero conto che mancava un rumorso elemento fondamentale.
- Dov'è Hayley? - si chiese Thalia.
- Stava giocando in giardino, come ogni giorno - Jove sorrise rincuorato - Adora stare qui. Non potrei esserne più lieto. Avevo il terrore che... -
Lei lo fermò.
- Sì, ok, ma non la sento più - lo avvertì - In genere fa sempre un gran chiasso... -
Entrambi aguzzarono l'udito. Non si sentiva nulla provenire dall'esterno.
Si scambiarono un'ultima occhiata apprensiva, poi si diressero rapidamente fuori.
- Si sarà sicuramente stancata e si sarà appisolata... - annuì il padre - Accade sempre -
Thalia non rispose; si limitò a precipitarsi in giardino.
Guardò a destra, sinistra e ogni direzione, ma la piccola non si vedeva da nessuna parte.
- Hayley! - gridò lei - Dove sei!? -
Passarono alcuni attimi.
- Arrivo! - fece una vocina in lontananza.
I due si bloccarono per un istante, poi sospirarono con sollievo. La voce della figlia proveniva da appena dietro la casa.
- Visto? - la punzecchiò Jove - Nulla di cui preoccuparsi! -
- Sei impallidito quanto me, cretino! -
Ci risero su, sollevati da qualsiasi preoccupazione.
Cessarono di farlo nel momento in cui Hayley si presentò da loro, girando l'angolo, con un gigantesco squarcio sanguinante sulla guancia destra.
La madre sentì la forza alle gambe venire meno, mentre il padre si limitò a sgranare gli occhi e a correrle incontro.
- Sono tornata! - esclamò trionfante la bambina.
- Ma che ti è successo!? - Thalia la soccorse immediatamente.
- Sono caduta con la faccia su un sasso! - il tono non esprimeva la minima preoccupazione.
Jove si passò la mano sul volto con interdizione.
- Non mi sembra il caso di riderci su...! - la rimproverò lui - Che ti è saltato in mente!? -
- Volevo raggiungere la cima del monte! - disse alzando un dito verso l'alto, verso la vetta coperta dalle nubi.
- E pensavi di raggiungerla a piedi...? -
- Ogni giorno vado sempre un po' più avanti! - si pavoneggiò lei - Oggi ho provato a scalare un masso, ma sono caduta... domani ce la farò di sicuro! -
- Tu domani non farai proprio un bel niente, signorina! - le urlò la madre, esasperata - Argh! Ma guardati... ti rimarrà una cicatrice! -
- Le cicatrici sono simboli di forza! - puntualizzò Hayley prima di venire trascinata di peso dentro casa.
- Ma quale "forza"!? Al massimo di sbadataggine! - Thalia soffocò un'imprecazione - Adesso corriamo a disinfettarti e poi ci facciamo una bella chiacchierata! -
Jove vide le sagome delle due svanire oltre la porta di ingresso tra lo strepitare di Thalia e le lamentele di Hayley.
Guardò d'istinto verso il cielo, dove la montagna appena alle loro spalle svettava con imponenza.
- "Un po' più avanti ogni giorno", eh? - ricordò le parole di Hayley poco prima - Mi chiedo tra qualche anno dove sarà arrivata quella testa calda... -
Si grattò il capo e rientrò in casa a propria volta.



Anno XXXX, Gennaio, giorno XX


Hayley Silver ripassò mentalmente un'ultima volta la lista delle cose necessarie.
Infilò la testa nel grosso zaino da viaggio e controllò che tutto fosse al suo posto: corda, razioni, kit di primo soccorso, indumenti di riserva e ogni utensìle che poteva servire nel corso dei giorni successivi.
Pareva esserci tutto, ma la ragazza era ancora incerta.
Cominciò a compiere più e più volte il giro del salotto nel tentativo di ricordare se aveva mancato qualcosa; sapeva che la paranoia la avrebbe costretta a riesaminare tutto per l'ennesima volta.
- Ultimati i preparativi? - fece una voce alle sue spalle. Si girò di scatto.
- Sì, papà, è tutto a posto -
- Dalla tua faccia non mi pare - ridacchiò lui.
Hayley gonfiò le gote, indispettita.
- Ho sempre il timore di dimenticarmi qualcosa... - sbuffò lei.
- Mah, forse è così... magari questi? -
Le fece dondolare davanti agli occhi un paio di guanti sportivi in tessuto nero. Le pupille di Hayley si dilatarono.
- Ah! Ma dove...!? - tentò di afferrarli, ma Jove li tirò a sé - E dammeli! -
- Sei sempre la solita distratta - la canzonò lui - Ancora non capisco con che coraggio ti lasciamo andare a fare le tue scampagnate -
La ragazza fu costretta a battersi pur di riuscire a raggiungere i guanti. Dopo alcuni tentativi, Jove semplicemente si arrese e glieli porse.
- Uff, non posso credere che dopo tutti questi anni ancora non vi fidate... - sbuffò lei, indossandoli.
- Suvvia, piccola, stavo solo scherzando - le carezzò la testa - Io e tua madre riponiamo molta fiducia in te, e lo sai benissimo -
Hayley incrociò le braccia, dubbiosa.
- Sarà, ma lo sguardo della mamma ogni volta che esco di casa continua a... turbarmi -
- Tua madre è sempre stata un po' apprensiva - la giustificò lui - La conosci, no? Non si sognerebbe mai di vietarti le tue escursioni -
Entrambi annuirono, sapendo che si trattava della verità.
- Quanto durerà, stavolta? - continuò Jove.
- Appena qualche giorno, sarà breve - sorrise lei - Torno a fare visita al monte qua dietro -
Gli occhi dell'uomo si illuminarono.
- Ah, siamo già in quel periodo dell'anno? - commentò lui - La tua gita annuale sulla montagna dietro casa -
- Si tratta di una ricorrenza importante: la mia prima vetta conquistata! - annuì lei - Ci tengo a farle visita una volta l'anno. Tra l'altro, il tramonto visto da 
lassù è imparagonabile. Dovresti venirci almeno una volta -
- Ah, passo. Non sono un tipo avventuroso come te - si grattò il capo, stringendosi tra le spalle - Cielo, come passa il tempo. Quando arrivammo in questa casa, nove anni fa, non avrei mai immaginato che questa vita ti sarebbe piaciuta così tanto -
La ragazza arrossì.
- B-beh... chiamiamola una vocazione... - balbettò - Le escursioni montane sono un toccasana! Inoltre sono eccitanti e imprevedibili; non potrei mai stancarmene -
- Anche se sono pericolose? -
- Il rischio è una parte essenziale! Non ti ho già detto che sono eccitanti? - ribatté lei - Che divertimento ci sarebbe se fosse comodo e tranquillo? -
Jove Silver sorrise di nuovo.
- Sei cresciuta davvero tanto, Hayley -
- Co-come...!? -
- Niente, scusami. Sono solo un vecchio padre nostalgico! -
- Non sei così vecchio, papà... -
L'uomo sospirò.
- Sai, trovo ancora strano il vederti sparire per settimane per poi vederti arrivare con una nuova conquista nel tuo record personale. Dovrei averci fatto l'abitudine al tuo pallino per l'alpinismo, ma proprio non capisco da chi tu abbia preso! - commentò scherzosamente lui - Ma sono felice che tu abbia trovato qualcosa che ti piaccia e che... beh, quel qualcosa possa aprirti nuove possibilità -
Hayley parve confusa. Il discorso era toccante, ma ebbe l'impressione che il padre volesse intendere qualcosa di più.
- "Nuove possibilità"? - domandò - Che intendi? -
Lui pescò qualcosa dalla tasca dei pantaloni e gliela porse. Si trattava di una lettera.
Hayley la prese tra le mani e la rimirò: era chiusa con un sigillo di cera assai peculiare, un simbolo che non aveva mai visto prima.
Quando la aprì, ciò che provò fu innanzitutto sorpresa e meraviglia.
- Questa... questa è...! -
- Una lettera di ammissione - esclamò lui - La "Hope's Peak Academy", gioiello dell'istruzione moderna! -
La lettera quasi le cadde da mano.
- Ma è quell'istituto super rinomato... e c'è il mio nome sopra!? - il suo tono era quasi scandalizzato.
Lui la rassicurò.
- Non è uno scherzo, Hayley. Stanno aprendo una filiale in Europa, e i loro scout stanno andando in giro a reclutare ragazzi talentuosi in modo da riempire le loro aule -
- E ne hanno inviata una a me...!? -
L'espressione di Jove non poteva essere più fiera.
- Beh, si dia il caso che in giro circoli la voce di una ragazza prodigio che in pochi anni ha scalato decine di vette quasi completamente da sola e in giovane età... - proseguì - A me sembra che questa certa fanciulla abbia... "talento", non trovi? -
Hayley Silver si mise a sedere sul divano, ancora incredula. I suoi occhi viaggiarono più volte tra lo sguardo di suo padre e la lettera.
Sembrava tutto troppo bello per essere vero. O quasi.
- Qualcosa... qualcosa non va, Hayley? - chiese lui, preoccupato - Sembri in difficoltà -
- E'... successo tutto molto in fretta... -
- Non devi temere, questa scuola è famosa per esprimere tutto il potenziale di un individuo - spiegò lui, tentando di tirarla su di morale - Non dovrai rinunciare alle tue arrampicate, anzi! Ti potranno aprire un futuro dove potrai esprimere il tuo talento al cento per cento! Potresti passare alla storia come...! -
- Papà...! - lo interruppe con sua grande sorpresa - Non è per quello. So che è un'occasione inestimabile ma... non so se me la sento di andare... -
Rimasero in silenzio per un po'. Jove Silver abbassò lo sguardo; sapeva fin dal principio che la conversazione sarebbe andata in quella direzione, ma non c'era nulla da fare al riguardo.
- Temi per il tuo "problema"? -
Lei annuì.
- Standomene qui sarei dovuta... "guarire". La mia claustrofobia avrebbe dovuto ridimensionarsi ma... così non è stato - sospirò - Ho ancora problemi a stare in luoghi chiusi o... affollati. Ho smesso di andare regolarmente a scuola proprio per quel motivo; non sono una ragazza normale, non potrò mai avere una vita normale! Non fino a quando non avrò crisi isteriche non appena mi ritrovo in un posto angusto... tutto ciò che ho sono le mie avventure nella natura! -
- Ho parlato con la scuola, Hayley -
Lei si bloccò di colpo.
- Come? -
- La lettera è arrivata alcuni giorni fa. In questo tempo io e tua madre abbiamo fatto numerose telefonate a chi di dovere... - spiegò Jove - Sono disposti a creare un ambiente didattico che terrà conto del tuo malessere: una classe meno numerosa, lezioni all'aperto e la possibilità continuare a fare escursioni di tanto in tanto. Vogliono... no, VOGLIAMO fare in modo che sia tutto perfetto. Una perfetta, normale vita scolastica che puoi goderti anche tu -
- Dici... sul serio? - gli occhi di Hayley brillarono.
Jove Silver annuì ripetutamente.
- Questo e altro per te, piccola mia -
La ragazza si alzò di scatto, gettandosi tra le braccia del genitore. Affondò la testa nel suo petto e soffocò un urlo di gioia sulla camicia di Jove.
Rimasero immobili, abbracciati, per circa un minuto.
- Grazie papà... -
- Ricordati di ringraziare anche la mamma quando tornerà da lavoro -
- Lo farò, te lo prometto -
Si accasciarono sul divano entrambi, vinti dalla stanchezza e dall'emozione.
Hayley guardò ancora una volta la missiva epistolare, che tra le sue mani sembrava risplendere di luce propria.
- Tanti studenti talentuosi, eh? - sorrise - Dici che troverò qualche altro sportivo in gamba? Magari mi farò qualche amico...? -
- Altroché. Ti farai tantissimi amici, una marea! - la baciò sulla testa - E, qualunque cosa accada, noi saremo fieri di te, Hayley. Ora e per sempre - 


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Capitolo 22
*** Capitolo 2 - Ultima parte ***


Il greve silenzio formatosi attorno al banco di Hayley venne occasionalmente interrotto da un fruscio di pagine e carta.
Michael Schwarz contemplò il fascicolo clinico della compagna con un volto serissimo, ma che tradiva una punta di compiacimento.
Karol non riusciva a credere a come il chimico riuscisse a mostrare una simile facciata in una situazione del genere; non poté fare altro che volgergli un espressione di sdegno e commiserazione.
In mezzo alla moltitudine di volti mesti e impauriti, risaltò quello palesemente contratto di Judith; la ragazza aveva le mani serrate a pugno, e sembrava mugugnare qualcosa tra sé e sé.
Dall'altro lato, June si ritrovò a fare i conti con una situazione che non si sarebbe mai immaginata di prendere in considerazione; l'idea di smarrire del tutto, e in un brevissimo lasso di tempo, tutta la propria determinazione. Il pensiero fisso di rintracciare il colpevole era stato sostituito da tutti i momenti che aveva trascorso con Hayley nelle ultime settimane: dalle strigliate ai momenti di conforto reciproco.
La verità appena venuta a galla le impedì di prendere una posizione in merito; il suo conflitto interno sembrò essere troppo violento.
Xavier fece di tutto per evitare di incrociare Hayley col proprio sguardo; non era sua intenzione continuare ad affliggerla con uno spossante giudizio, né voleva riempirsi gli occhi di quella scena miserevole. 
L'Ultimate Hiker era collassata al terreno, sulle proprie ginocchia, tenendosi aggrappata al banco con le ultime forze rimaste.
Notò come Hillary, nascosta come al solito nel suo angolino, le stesse rivolgendo uno sguardo tremendamente severo e incattivito, mentre Kevin e Pierce parvero particolarmente colpiti da quel susseguirsi di colpi di scena.
L'Ultimate Botanist, in particolare, sembrò avvertire un tremolio alle gambe ad ogni singhiozzo e pianto di Hayley.
Xavier sospirò, intuendo come ciò fosse un altro esempio di come, davanti alla morte, tutto assumesse sfumature non assimilabili in un ambiente normale.
- "Grave forma di claustrofobia" - esclamò improvvisamente Michael - "Il paziente presenta seri sintomi fin dalla tenera età. Mancanza dell'attitudine a trovarsi a proprio agio in luoghi particolarmente angusti o al chiuso; ciò può provocare svenimenti, malessere, crisi isteriche..." -
Non terminò la frase e appoggiò la cartella sul proprio banco.
- Questa è solo la prima di tante pagine del fascicolo... - disse poi - Sei riuscita a nascondercelo per ben due settimane... davvero incredibile -
Rickard si intromise.
- Mike... adesso basta... - replicò, stanco - Il verdetto è stato raggiunto. Non c'è bisogno di rigirare il coltello nella piaga -
- E' pietà quella che sento? - protestò lui - Questa ragazza ha appena cercato di ucciderci tutti! Comprendi!? UCCIDERCI! Se non l'avessimo stanata, ora saremmo tutti all'altro mondo! Volevi fare la fine di Alvin!? -
- Michael - stavolta fu una voce diversa a frenare l'impulso del chimico - Smettila. Subito -
Si girarono tutti; a parlare era stato Karol. Teneva ancora lo sguardo fisso verso il basso e gli occhi socchiusi, ma il suo volto era palesemente rigido.
- Anche tu, Prof? - sbuffò Michael - Non vi capirò mai. Dei perfetti sconosciuti tentano di farvi la pelle e voi vi concedete il lusso di farvi degli scrupoli. Assurdo... -
- Sai, Mike... - rispose Xavier - Io credo che se passassi meno tempo rintanato nel tuo buco e tentassi di mostrare un minimo di empatia nei confronti di qualcuno che è nelle tue stesse condizioni, forse capiresti almeno un minimo di cosa stiamo parlando -
- Parli proprio tu, Xavier? - ringhiò l'altro - Sbaglio o tu, più di tutti, premevi per mettere Hayley alle strette? -
- Ciò non vuol dire che mi diverta a farlo. Lo faccio perché voglio sopravvivere - 
- A prescindere dalla situazione... - disse Vivian - Il processo è concluso. Non vi è la necessità di infierire su chi è già sconfitto... -
Più di una persona annuì a quell'ultima affermazione, e Michael non si prese la briga di replicare ulteriormente.
- Eppure... a me non sta bene -
Con sorpresa generale, a parlare fu Hillary.
- C-come? - balbettò Vivian.
- Alvin ed Hayley avranno avuto i loro motivi per volerlo fare... - continuò l'Utimate Clockwork Artisan - Ma perché Refia ed Elise ci sono andate di mezzo...? -
- Esiste davvero una risposta a questo...? - si chiese Pierce, dubbioso.
- Ma che cosa... vi aspettavate che facessi...? -
Calò un gelido silenzio tra i presenti. Una voce debole sibilò lungo l'intera sala.
Hayley Silver si alzò in piedi con uno sforzo disumano, gli arti ancora fiacchi e pesanti. La sua faccia era così pallida da fare spavento, gli occhi rossi e le gote appiccicose per le troppe lacrime. 
- Hayley...? -
- COSA DOVEVO FARE!? ME LO DITE!? - urlò lei - Non potete capire... non potete capire cosa CAZZO significa vivere una vita del genere! -
- Hayley, calmati...! - le gridò contro Karol.
- NO! Non mi calmo! - continuò lei - Tutto quello che vedete... tutto quello che SEMBRO è... è... un'assassina! Una macellaia, una pazza omicida! Ma che scelta avevo...? Che accidenti di scelta avevo quando passare anche un solo cazzo di minuto in questo DANNATO INFERNO è come trascorrere un'eternità di afflizioni!? -
Alcuni dei presenti sentirono l'improvviso impulso di allontanarsi. Il volto della compagna era deformato da una rabbia inenarrabile, e sembrava pronta a tutto.
D'istinto, Hillary si nascose dietro la schiena di Vivian.
- Ogni giorno... ogni ora, ogni minuto che passo qui è un tormento... - tossì lei - Una tortura, come se la testa mi andasse a fuoco! La notte non dormo perché mi manca il respiro, e il giorno vengo colta da continui attacchi di panico! Le poche volte in cui prendo sonno mi sveglio in preda agli incubi in un lago di sudore...! Spesso mi sembra come se le pareti si stringano fino a schiacciarmi le membra, e il dolore non è mai stato così vivo e acuto in vita mia! Ma che dico: "vita"? Io non sto vivendo; sto trascinando la mia FOTTUTA CARCASSA fino al momento in cui il mio organismo non deciderà di smettere di funzionare! ORA DITEMI CHE SCELTA AVEVO SE NON... SE NON...! -
Sbatté ripetutamente i pugni sul banco fino ad incrinarlo.
- SE NON QUELLA DI UCCIDERVI, MALEDIZIONEEE! -
Ne seguì un ultimo pianto isterico che, assieme alle urla, durarono fino a che l'Ultimate Hiker non esaurì definitivamente il poco fiato che le era rimasto.
Contemporaneamente, altre lacrime vennero versate; June Harrier non era più stata in grado di reggere la tensione e si era abbandonata ad un pianto liberatorio.
Si chiuse il volto tra le mani, nascondendolo, mentre Vivian la portava via.
- E' vero, non potremmo mai comprendere... - sospirò Pearl - E' un dolore che non ci è noto, non è possibile per noi concepire ciò che stai passando. Ma è anche vero che ciò ha portato alla morte di Elise, un'innocente -
- Non passa momento che non me ne penta... - singhiozzò Hayley - Ero convinta che, grazie al sostegno di Refia, sarei riuscita a resistere... ma poi lei è... e l'idea di poter rivedere il cielo... ancora una sola, unica volta... di poter respirare un po' di aria fesca... mi hanno fatto agire quasi senza che ne rendessi conto... io non volevo! Non volevo ucciderla, ma...! -
- Niente "ma"! Ciò che è fatto è fatto! -
Una voce robotica sopraggiunse dall'alto; tutti e tredici sobbalzarono.
- Oh, cielo... - annaspò Lawrence - Monokuma... -
- In persona! Devo dirlo, ragazzi, mi avete davvero sorpreso! Avete risolto questi due casi come fossero un giochetto da orsacchiotti! - canticchiò il pupazzo - Se continuate così questa sfida sembrerà fin troppo semplice! -
- Piantala con le stupidaggini, mostro! - inveì Karol - Abbiamo già perso tre dei nostri compagni, non sei ancora soddisfatto!? Non hai nulla da ricavare da tutta questa follia, quindi perché costringerci a un orrore simile!? -
- Oh, professore, la facevo più sveglio! - lo canzonò lui - Certo che ci guadagno qualcosa. Pensavi che il mio fosse un mero diletto!? Cielo, proprio no! -
- Allora... l'incubo continuerà...? - balbettò Kevin, spaventato.
- E inoltre, permettimi di assumere momentaneamente il tuo ruolo per una semplice correzione, Karol - proseguì Monokuma - Non intendi forse dire di aver perso... "quattro" compagni? -
Hayley raggelò seduta stante. L'immagine del corpo di Alvin, crivellato di proiettili, le balenò in mente.
- N-no... - gemette lei - No, ti p-prego... -
- E invece sì! - esultò l'orso - E' stato un bel tentativo, ma hai perso e devi pagare pegno. E si dia il caso che io abbia preparato una fantastica punizione speciale per Hayley Silver, Ultimate Hiker! -
La porta per la sala delle punizioni si spalancò al suono di quelle parole con un cigolio inquietante. Le pupille di Hayley si dilatarono.
- NO! - gridò terrorizzata - No, non voglio! NON VOGLIO! -
- U-un attimo...! - lo implorò Rickard - Parliamone, Monokuma...! Non si potrebbe...? -
- Niente compromessi; le regole sono regole! - obiettò l'orso - E per i bambini disubbidienti che si oppongono dovrò usare un... "incentivo" -
Un rumore sospetto venne emesso da un punto oltre la porta. Col cuore in gola, tutti i presenti osservarono la scena con un sensazione di orrore.
Un gran numero di braccia meccaniche, simili a serpi nei movimenti e nell'aspetto, strisciò fuori dalla porta emettendo un gran fracasso sibilante.
Hayley urlò sconcertata mentre le gambe le venivano ghermite e, lentamente, trascinate via. Si aggrappò con tutte le forze al banco, ponendo ogni briciolo delle proprie energie residue nelle dita, e pregò affinché queste ultime non la tradissero proprio in quel momento.
Si batté strenuamente fino a che queste ultime non cedettero, vinte dallo sforzo eccessivo.
L'immagine di Hayley Silver, portata via da quelle mostruosità meccanizzate, rimase impressa come un marchio di fuoco nelle menti di tutti i presenti.
La ragazza allungò disperatamente il braccio verso i dodici compagni, urlando e strepitando.
- VI PREGO! VI SCONGIURO! - urlò loro - AIUTATEMI! NON VOGLIO MORIRE! -
La richiesta di soccorso non poté essere semplicemente ignorata.
Pearl e Xavier voltarono lo sguardo altrove, coscienti della propria impossibilità di porre rimedio.
June, Vivian e Lawrence assistettero alla scena, impotenti a loro volta, incapaci di distogliere lo sguardo dal volto deformato dal terrore che mostrava Hayley.
Michael e Hillary, vagamente più distaccati, voltarono le spalle. Nessuno dei due aveva davvero voglia di assistere a quel macabro spettacolo.
Kevin si ritrovò a tendere a sua volta la sua mano verso il nulla, quasi come ipnotizzato dal quelle parole che imploravano aiuto.
A differenza del resto della classe, Pierce e Karol mossero istintivamente dei passi avanti, impossibilitati ad ignorare la ragazza in lacrime che stava venendo portata via di peso.
Si fermarono soltanto quando si accorsero di essere stati preceduti.
La mano tesa di Hayley trovò un appiglio in quella di Judith Flourish. La ragazza aveva spiccato un balzo nella sua direzione e le aveva afferrato il braccio saldamente, conficcando le unghie nella manica della maglietta di Hayley.
- No, nooo! - esclamò Judith, tirando a sé la compagna con tutte le forze - Non è giusto! Non è GIUSTO! - 
- J-Judith...! - sussurrò Hayley.
L'avvocatessa non smise di tirare.
- Non è colpa tua, Hayley! Sei stata costretta! - digrignò i denti per lo sforzo - E non è giusto che tu muoia! Non può finire così, NON PUO'! -
- Judith, che diavolo fai!? - le gridò dietro Xavier - Vuoi finire anche tu là dentro!? -
- Restate pure a guardare, se volete! - replicò Judith - Ma io non lo farò! Hayley non è un mostro! Non merita tutto questo! NON-...! -
Judith si accorse troppo tardi di ciò che stava per accadere. Due ulteriori braccia meccaniche comparvero dall'interno della sala.
Queste si avvinghiarono alle sue spalle, emanando delle scintille sospette. Una leggera scarica elettrica venne scaturita, e il corpo di Judith avvertì un improvviso e forte intorpidimento. 
L'ultima cosa che i suoi occhi videro prima di cadere all'indietro fu la propria presa sul braccio di Hayley troncarsi definitivamente, e la sagoma dell'Ultimate Hiker svanire dietro la porta, in una tetra oscurità.
Gli arti robotici si ritirarono a loro volta, lasciandosi dietro un'Ultimate Lawyer sconcertata e inorridita.
Le luci della sala delle punizioni si accesero all'unisono.
Era cominciato l'inevitabile.




L'interno della sala delle punizioni era stato assemblato in modo differente dalla volta precedente.
Hayley Silver si ritrovò ad essere trascinata violentemente lungo il pavimento; le sue gambe venivano trainate dagli arti automatici verso un'impalcatura decisamente sospetta. Il resto della classe, che osservava tramite le finestre, notò con una punta di orrore di ciò di cui si trattava.
Un'imponente parete artificiale da scalata era stata montata su uno degli ampi muri della sala.
A prima vista poteva sembrare della semplice attrezzatura sportiva.
Pearl indicò agli altri ciò che quella situazione aveva di diverso: al posto dei comuni sassi in plastica usati come materiale da fissaggio vi erano borchie metalliche dall'aspetto appuntito.
Il nefasto viaggio di Hayley non ebbe che una brevissima pausa quando i suoi piedi raggiunsero la parete; dopodiché, le braccia meccaniche cominciarono a tirarla in verticale, fino ad ascendere rapidamente verso la vetta.
Hayley sentì il proprio corpo straziato dalle punte in acciaio man mano che veniva portata verso l'alto, lanciando grida di dolore così potenti che i compagni riuscirono ad udirla persino attraverso le spessissime vetrate.
A quel punto dell'esecuzione, la maggior parte di loro aveva già smarrito il coraggio di continuare a guardare.
La scalata continuò fino alla cima, e una buona porzione di sangue aveva cominciato a colare lungo la parete artificiale.
Hayley, ancora a testa in giù e con il corpo attaccato alle spine ferrate, ebbe appena il tempo di volgere lo sguardo in alto.
Una bandiera rossastra stava sventolando fieramente sulla sommità; vi era una frase ricamata sopra: "DESPAIR'S PEAK".
La vera disperazione sopraggiunse quando avvertì la presa sulle proprie caviglie venire meno; le braccia la avevano appena lasciata cadere.
Percorse rapidamente verso il basso tutti i metri fatti in salita; i grumi di sangue che le si erano formati in gola le impedirono persino di urlare, soffocandole un'ultima, disperata richiesta di aiuto.
Tese la mano verso l'alto, sperando con tutta se stessa che un miracolo accorresse dal cielo per trarla in salvo.
Smise definitivamente di soffrire nel momento in cui il suo corpo si arrestò ad appena un metro dal suolo.
Un letto di spuntoni acuminati era sbucato a sorpresa dal terreno nel punto esatto in cui si sarebbe schiantata.
Avvertì la sensazione dei propri arti perforati, ma non vi era alcun dolore, nessun supplizio.
Non vi era più nulla da sentire, e tutto ciò che aveva davanti agli occhi iniziò lentamente a svanire.
Poi, Hayley Silver chiuse gli occhi.
I pochi spettatori rimasti videro la mano dell'Ultimate Hiker, ancora tesa verso l'alto, cadere delicatamente a terra col sangue ancora grondante.
Infine, le luci si spensero.



L'ascensore fece il proprio ritorno al piazzale, nuovamente alleggerito.
Quando il movimento meccanico del mezzo cessò, i passeggeri scesero uno ad uno senza dire una parola.
Il viaggio di ritorno era stato simile a quello di andata; inesorabilmente lento e silenzioso, anche se per motivi diversi.
Se in principio vi erano tensione e paura, in quel momento ogni stralcio di emozione era svanito, come se gli animi di tutti si fossero atrofizzati.
Lo spettacolo dell'esecuzione di Hayley aveva fatto comprendere ad ognuno dei sopravvissuti quanto le regole di quel luogo fossero spietate a prescindere dalle circostanze. 
Judith e June erano ancora notevolmente scosse; la prima, in particolare, continuava a fissarsi il palmo della mano quasi come a credere di stare ancora tenendo quelle di Hayley in un ultimo, vano tentativo di aiutarla.
Vivian si fece aiutare da Karol e Hillary a portarle alle proprie stanze. Nessuno pronunciò nemmeno una frase di circostanza; si limitarono a rintanarsi nelle rispettive camere per immergersi nelle proprie riflessioni. I dodici sapevano che altre notti insonni sarebbero giunte a tormentarli e altri due volti a fare loro visita negli incubi.
Una sola persona rimase ferma al centro del piazzale, col capo chino e gli occhi socchiusi.
Lawrence Grace pareva non avere più nemmeno la forza di muoversi. Proprio come dopo il ritrovamento di Elise, il suo stomaco aveva dato chiari segni di squilibrio nel momento in cui il corpo di Hayley era piombato sulla trappola acuminata.
La testa del musicista era bollente e gli sembrò come se stesse per esplodere.
Rimase immobile a massaggiarsela per qualche minuto. Riacquistata una buona dose di lucidità, alzò la testa verso il soffitto. 
Provò ad immaginarsi il cielo azzurro, sprazzi di nuvole bianche, un sole abbagliante; un intero paesaggio cominciò a formarsi nella sua mente.
Si chiese se era ciò che anche Hayley Silver era solita fare per ricercare anche solo una parvenza di libertà.
Resosi conto di essere rimasto completamente solo, decise di apprestarsi a tornare a sua volta nella propria camera.
Ma, non appena mosse un singolo passo, qualcos'altro attirò la sua attenzione.
Una delle camere aveva la porta aperta, quella posizionata più a destra di tutte: la numero sedici.
Si chiese dapprima chi potesse essere stato a lasciare la porta così incautamente spalancata in una situazione del genere. Poi, con uno sforzo di memoria, non se ne meravigliò più di tanto. La stanza era quella di Elise.
Un pensiero gli fulminò la testa; sentì la curiosità salirgli e, guardandosi attorno e accertandosi di non essere visto, vi si avvicinò.
Il musicista diede un'occhiata all'interno con una rapida sbirciata; era ovvio che non ci fosse nessuno.
La stanzetta sembrava identica alla sua, con appena poche differenze. Elise sembrava averla tenuta un po' in disordine.
Entrandoci dentro non riuscì a fare a meno di provare una forte malinconia pensando alla tragica fine a cui la proprietaria era andata incontro.
Un dettaglio in particolare suscitò il suo interesse; sul tavolino al centro della stanza vi era posizionata una videocamera solitaria, assolutamente identica a quelle che Elise, Alvin e Hillary avevano piazzato lungo i corridoi; uguale a quella che l'Ultimate Camerawoman aveva poco prima di morire.
La prese istintivamente tra le mani e la osservò: la batteria era piena per metà, e in memoria sembrava esserci registrato qualcosa.
Fece per premere il tasto di riproduzione, quando una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare e quasi perdere la presa sul congegno.
- Cosa stai facendo? -
Lawrence si girò, raggelato. Era Pearl Crowngale.
- P-Pearl! Assolutamente niente di male, giuro! - 
- Ero convinta che nessuno avesse voglia di ispezionare l'area dopo quello che è accaduto ad Hayley... - sospirò lei - Persino Xavier si è ritirato. Devo dire che mi sorprendi, Lawrence -
Lui scosse la testa.
- No, non è che volevo curiosare... - ammise - E' solo che... -
Lei fece un altro passo avanti.
- Sì? -
- Ecco... speravo di trovare qualcosa che... - si espresse con difficoltà - Qualcosa che mi aiutasse a ricordarle, ecco -
- Perdonami, ma non ti seguo -
Lawrence Grace prese fiato.
- Non li rivedremo più - sospirò - Refia, Alvin, Elise, Hayley... non li rivedremo mai più. Sono spariti per sempre, e di loro non restano che memorie... memorie che col tempo svaniranno e diverranno sempre più offuscate -
- La morte è indissolubile... - commentò la bionda.
- E' per questo che vorrei... qualcosa che mi aiuti a ricordarli. Ricordare i loro volti... beh, se solo potessi... -
- Anche se li conoscevi da non molto? - chiese Pearl - Anche se due di loro si sono macchiati del sangue di innocenti? -
- Possiamo dire quello che vogliamo, ma sta di fatto che sono stati costretti a farlo... - annuì lui - E io voglio credere che non fossero dei mostri. Solo... degli esseri umani messi alle strette. E anche se siamo stati insieme per poco, abbiamo condiviso molto... -
- Sono parole sagge. Mi ritengo colpita - Pearl sorrise in modo flebile - Dei morti non resta che il ricordo. Fai in modo che non vada perso -
Entrambi annuirono.
- Beh, chissà, magari potremmo trovare di più - continuò Lawrence.
- Che intendi? -
- Che Elise ha lasciato qui una delle sue telecamere - disse - Sbaglio o stava facendo delle ricognizioni in giro per la scuola? Magari ha trovato qualcosa di utile... -
Pearl assunse un'aria apprensiva.
- Sei straordinariamente ottimista se credi che un miracolo del genere possa avvenire... - osservò lei, schietta.
- C'è solo un modo per scoprirlo, no? -
E, così dicendo, premette il piccolo pulsante rosso sulla videocamera.
Dopo alcuni istanti di caricamento, alcune immagini comparvero sullo schermo.
Sembrava che le riprese fossero cominciate dal piazzale dei dormitori.
Lo sfondo che dava sul ristorante venne rapidamente coperto dal volto di Elise Mirondo. Quando la sua faccia comparve davanti ai loro occhi, Lawrence e Pearl avvertirono una particolare sensazione di disagio.
- "Salve! Questo è il diario di bordo di Elise!" - il video cominciò così - "In questo momento io e i miei compagni stiamo affrontando una situazione assai complicata...
questo video servirà per tenere traccia dei nostri progressi!
" -
Lawrence e Pearl si guardarono di sottecchi. Il video proseguì.
- "Siamo qui da pochi giorni e ci stiamo ancora ambientando, ma sono certa che le cose andranno alla grande! Vediamo chi c'è nel ristorante adesso... Oh! Karol! Alvin! 
Salutate i nostri spettatori!
" -
- "I nostri... cosa?" - fece la voce incerta del Prof.
L'Ultimate Guardian rise in maniera composta.
- "Attenta a dove metti i piedi, Elise. Se tieni gli occhi fissi sull'obiettivo rischi di inciampare" - la avvertì Alvin.
- "Nessun problema! So quel che faccio!" -
Il vedere il volto di Alvin Heartland così sereno e pacifico provocò in Lawrence una fitta allo stomaco che non voleva saperne di andar via.
- "Oh, ecco il nostro Xavier!" - proseguì Elise - "Come sta andando la giornata?" -
- "Uhm... bene? Cosa diavolo stai facendo?" -
- "Beh, mi sembra ovvio che ti stia filmando!" - intervenne Rickard.
- "Questo lo vedo, idiota!" - lo rimproverò Xavier.
L'inquadratura si spostò di netto nel momento in cui Elise parve udire un rumore sospetto: quello di un campanello.
- "Ooh! Ecco la nostra Ultimate Cyclist! Sempre in sella alla sua bici, vedo" -
Lawrence Grace si preparò mentalmente.
- "Figo! Fai un video?" - Refia Bodfield si sbracciò nel tentativo di ricoprire tutto lo schermo - "Appena lo hai finito faccelo vedere, mi raccomando! Su, Hayley, andiamo" -
- "Certo, abbiamo parecchio da fare" -
- "Ah, aspetta, Hayley! Un saluto per la cinepresa" - la fermò Elise.
L'Ultimate Hiker mostrò un'espressione da cerbiatto impaurito. Non sembrava reggere bene le interviste.
- "Ah, uhm...! C-ciao!" - tentò di mostrare un sorriso smagliante - "Oggi Refia batterà il suo record, me lo sento!" -
- "Allora verrò a filmarlo più tardi" - 
Le riprese passarono tra un momento e l'altro della prima settimana, inquadrando ogni singolo membro del gruppo.
Lawrence e Pearl assistettero a quel video meravigliandosi di come fossero stati catturati gli altri compagni nelle situazioni più strane.
Videro un Kevin Claythorne ripreso di nascosto mentre eseguiva uno strano balletto durante l'innaffiamento delle piante.
June Harrier fu colta nel tentativo di pulire inutilmente una macchia di sporco da uno dei tavoli del ristorante, salvo poi accorgersi che si trattava di una venatura del legno, vergognandosi come una ladra.
Apparve, in un angolino, persino il timido volto di Pierce Lesdar sorpreso a fare una sorta di boccaccia allo schermo della telecamera, per poi fuggire via a gambe levate una volta accortosi di essere stato scoperto.
A Lawrence venne quasi da ridere; pensò che anche quelle stramberie facevano parte, nel complesso, del talento di Elise.
- Sembra quasi di star vivendo quei momenti... - commentò Pearl.
- Elise era... brava nel più bizzarro dei modi -
Infine, con loro grande sorpresa, il video sembrò concludersi con un primo piano sulla faccia di Elise, che rientrò prepotentemente a rubare la scena.
- "Questo era il primo video log della nostra classe! Vi terrò aggiornati!" - la ragazza sorrise, ma poi il suo volto si fece incredibilmente serio.
Ci fu una pausa di silenzio in cui Elise Mirondo parve riflettere su qualcosa.
Lawrence Grace si chiese a cosa fosse dovuto.
- "...la situazione non è comunque magnifica. Ho molta paura... " - fece la voce proveniente dal video - "Siamo in un luogo dal quale non ci è concesso uscire, e ci è stato imposto di ucciderci vicendevolmente... e nessuno sa cosa ci riserva il futuro. Se qualcosa dovesse accadermi, allora... vorrei che chiunque trovasse questo video lo usasse come mezzo per ritrovare me e i miei compagni. Abbiamo bisogno di aiuto, ve ne prego..." -
La registrazione continuò con un'altra breve pausa. Lawrence avvertì un tremito alla mano.
- "Se invece fosse uno dei miei compagni a trovarlo, allora ti scongiuro... fa in modo che non accada nient'altro di brutto. Nessuno di noi è malvagio, ne sono certa, ma chissà cosa potremmo essere costretti a fare in preda alla disperazione. Io ho fiducia in tutti noi, so che in qualche modo riusciremo a cavarcela, ma... il dubbio  rimane. Vorrei poter fare qualcosa per proteggervi, ma so di non poter fare molto. Posso solo dire che... sono convinta di essere circondata da persone fantastiche. Voglio uscire da qui assieme a tutti voi; ce la faremo, vedrete! Abbiate coraggio. Qui Elise Mirondo: passo e chiudo!" -
Appena terminata quella frase il video si interruppe, segno inequivocabile che era giunto alla fine.
Lawrence e Pearl rimasero fermi a guardare lo schermo, ipnotizzati da quel discorso così incredibilmente inaspettato.
L'Ultimate Musician strinse a sé la piccola telecamera, incapace di trattenere alcune lacrime.
Pearl Crowngale si girò di spalle e fece per andarsene.
- Facciamolo vedere anche agli altri... - propose lei.
Lawrence emise una sorta di piccolo gemito di approvazione. La ragazza decise di lasciarlo da solo.
Tornò nella propria stanza, girò la chiave, e si distese sul letto.
Guardò un punto fisso sul soffitto e si mise a contemplare il nulla.
- Eri ingenua, Elise. Te lo avevo detto... - mormorò - Ma anche troppo buona -
Con quell'ultimo pensiero volto a commemorare la compagna scomparsa, Pearl Crowngale si addormentò profondamente.
 

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Capitolo 23
*** Capitolo 3 - Ancora una volta - Parte 1 ***


Capitolo 3 - Ancora una volta

                                                                           

La risoluzione del secondo caso di omicidio alla Hope's Peak aveva lasciato alle proprie spalle un incontenibile sensazione di vuoto e disagio.
Ne seguì una settimana di assoluto silenzio e paura; sette giorni in cui quasi ogni studente lasciava di rado la propria stanza se non per procurarsi da mangiare o altre cose necessarie.
Gli unici incontri, infatti, avvenivano unicamente al ristorante e tra le stesse persone.
Karol aveva espresso più volte il desiderio di riunire nuovamente la classe, ma non trovò l'appoggio nemmeno da parte di Vivian e Judith, le più propense alla cooperazione.
Quest'ultima, in particolare, sembrava essere andata incontro ad un periodo di forte crisi.
Essendo stati tutti spettatori di come Judith si fosse battuta strenuamente per Hayley, nessuno ebbe la forza di risollevarle il morale, che era palesemente a terra.
L'Ultimate Lawyer rimaneva per lo più a riflettere con sguardo vacuo su ciò che era accaduto senza mai proferire parola.
Pierce e Kevin, a loro volta, sembravano essere diventati ancora più cupi e riservati di quanto non lo fossero già.
In tutto quel silenzioso trambusto di pensieri, timori e preoccupazioni, una singola persona uscì dalla propria stanza in quella mattina di metà maggio.
Hillary Dedalus aprì lentamente la porta del proprio appartamento e, girando lo sguardo, controllò più e più volte in ogni direzione.
Dopo aver appurato con estrema certezza che non vi fosse nessuno nei paraggi, prese coraggio e poggiò un piede all'esterno.
Richiuse la porta alle proprie spalle, girò la chiave e, infilandosela in tasca, fece una gran corsa superando in fretta il piazzale.
Non si voltò fino a quando non ebbe girato l'angolo del ristorante; stava già ansimando, ma non tanto per la fatica quanto per l'ansia.
Aguzzò occhi e orecchie; nessuno sembrava essere nelle vicinanze.
Ripercorse mentalmente la strada da fare e il tempo necessario a seguirla fino alla fine.
Il cammino di Hillary la portò lungo il corridoio centrale del primo piano, verso il crocevia dei laboratori artistici.
Fu proprio in quel preciso punto che la missione furtiva dell'Ultimate Clockwork Artisan incontrò il primo intoppo.
Una volta raggiunto il centro dell'intersezione tra i due corridoi, udì dei passi svelti e leggeri alla propria sinistra.
Mozzò un respiro sussultando, voltandosi di scatto: di fronte a lei era comparsa un'Ultimate Archer apparentemente armata di tutto punto.
June Harrier stava correndo lungo la via con un arco e una faretra attaccati alla schiena.
La ragazza si ritrovò con la stessa espressione basita di Hillary, nel vederla. Il volto di quest'ultima, però, mutò rapidamente in un misto tra terrore e interdizione.
- H-Hillary...? - June sbatté le palpebre un paio di volte - Cosa stai...? -
Si rese conto che gli occhi della compagna erano fissi sulla propria arma.
- June, cosa vuoi fare con... quello? - lei indietreggiò.
D'istinto, June tese una mano avanti per rassicurarla.
- No, non è come pensi...! Volevo solo... -
- Stai indietro! - le intimò Hillary - Se fai solo un altro passo, giuro che mi metto ad urlare... -
L'arciera scosse il capo.
- Va bene, Hillary, non mi avvicinerò - le disse, togliendosi la faretra e poggiandola al suolo - Ecco, vedi? Ora sono disarmata. Va meglio? -
L'altra non ripose. Si limitò ad annuire rigidamente.
June sospirò.
- Non era mia intenzione spaventarti -
- Beh, cosa ti aspettavi portandoti dietro un'arma...? - la rimproverò lei, indicando l'arco - Non è lo stesso che ha usato Alvin...? Che intenzioni hai? -
- Voglio difendermi, tutto qui -
- "Difenderti"? - Hillary aggrottò le sopracciglia - Non ci si difende con un arco, si può solo fare del male... -
- Ma posso tenere alla larga un eventuale assalitore se questi vede che sono armata, no? - fu la sua spiegazione.
L'altra sospirò.
- E sei certa che sia una buona idea andarsene in giro come se nulla fosse? -
- Non mi verrai mica a fare la predica su questo, spero! - rispose June, indignata - Quattro persone sono morte! E io sto vivendo nella paura matta di essere la prossima! Per quel che ne sappiamo CHIUNQUE può diventare un assassino, qui! Alvin ed Hayley ne sono la prova schiacciante! -
- Da come parli mi sembri Michael... - rispose Hillary con un velo di tristezza.
June si bloccò di colpo a quelle parole. Si morse il labbro e girò lo sguardo.
- B-beh... forse Michael ha ragione... - ammise lei - Forse è vero che non possiamo dare nulla per scontato. Per quanto ne posso sapere, tu stessa potresti uccidermi alla prima occasione, se abbassassi la guardia... -
Hillary non diede peso all'ultima asserzione.
- E quindi? Se sei convinta di non poterti fidare di nessuno, intendi ucciderci tutti? - chiese lei all'improvviso.
- C-cos...!? - tentennò June - Che diavolo dici!? -
- Se davvero non ti fidi di nessuno, allora prima o poi desidererai uscire da qui, giusto? E a quel punto cosa farai? Ucciderai? -
June si spazientì.
- E tu, invece!? Te ne vai tranquilla, passeggiando per la scuola, persa nel tuo idillio che tutto andrà bene!? - le rinfacciò - Nemmeno tu ti fidi degli altri! Sei sempre stata nel tuo angolino a tremare di paura! Con che faccia tosta puoi venire a dirmi che devo avere fede nel prossimo!? -
- E' perché mi fido di Vivian... -
L'arciera si bloccò.
- Vivian...? -
- Esatto... - continuò Hillary - Lei ha detto che andrà tutto bene, fin quando manterremo la calma e agiremo per il bene comune. E io mi fido di lei -
- Quindi la tua fiducia non è riposta nel gruppo... - commentò June - Ma solo in Vivian... -
Le due rimasero in silenzio per qualche attimo.
- E non provi timore al pensiero che Vivian possa commettere qualche sciocchezza? - osservò.
- Non accadrà. Io SO che non accadrà - rispose perentoria Hillary - Non è un sentimento logico, me ne rendo conto. Ma io sono convinta di avere ragione; lo so e basta -
June sospirò nuovamente. Appoggiò la schiena al muro e guardò verso il soffitto.
Le lampade appese emanavano una luce ipnotica e rilassante.
Restò in quella posizione fino a che non riuscì a distendersi i nervi del tutto.
- Vorrei poter credere in qualcuno come fai tu... - ammise lei - Ma forse sono troppo egocentrica per qualcosa del genere -
- Non dire così... non è facile fidarsi del prossimo - la rincuorò la compagna.
- Ma è anche vero che fino a questo momento ho pensato unicamente alla mia sopravvivenza. Invidio te e Vivian... sembrate così unite, come se vi conosceste da sempre. Un po' come... -
Non terminò la frase.
- "Un po' come..."? - chiese incuriosita Hillary.
June deglutì.
- Come Refia ed Hayley -
L'artigiana comprese il motivo della sua difficoltà ad esprimersi. Il dolore emotivo era ancora molto vivido.
- Credo che tornerò in camera mia... - disse June, stiracchiandosi - Ho bisogno di un po' di tempo per pensare. E tu? Dove sei diretta? -
- Io? Stavo... - rispose, indugiando - Stavo andando da Vivian... ultimamente mi sembrava giù di morale -
June annuì debolmente.
- Sì, immagino... - poi la salutò - Fa attenzione, mi raccomando -
Si voltò e prese a camminare, trascinandosi dietro la faretra facendola strisciare lentamente sul pavimento. La sua sagoma svanì dopo pochi istanti così come era apparsa.
Hillary Dedalus ripensò solo dopo a quell'avvertimento apparentemente cordiale.
Tutto ad un tratto sentì l'impulso di correre ancor più rapidamente verso il laboratorio di pittura.



Vivian Left prese coraggio e decise di tentare ancora una volta.
La sua mano afferrò delicatamente il pennello e ne appoggiò la punta sottile sulla tela che aveva davanti a sé.
Chiuse gli occhi e prese un lungo respiro: cercò in tutti i modi di materializzare nella propria mente delle immagini concrete, qualcosa che la aiutasse o che le fosse di ispirazione. Qualunque cosa riuscisse a darle la forza di dipingere e, al contempo, di dimenticare.
I suoi pensieri vagarono per diverso tempo alla ricerca di qualcosa che non arrivò mai. Alla fine, tutto ritornava alla macabra scena della sorte di Hayley nella sala delle punizioni.
La mente di Vivian non riuscì a scostarsi da quell'episodio nemmeno quella volta.
Riaprì gli occhi, accorgendosi di stare sudando copiosamente. Poi posò il pennello.
Contemplò con dispiacere il frutto dei suoi continui fallimenti: una tela bianca e vuota che nemmeno il suo talento era in grado di animare.
Vivian ripensò a tutte le volte in cui si era ritrovata a fronteggiare un blocco artistico: principalmente avveniva in momenti difficili o semplicemente di malumore.
Ma in quella specifica occasione tutto assumeva un peso ben diverso.
Sospirò. Tutto ciò a cui riusciva a pensare erano le morti dei propri compagni; un qualcosa che non sarebbe riuscita a riprodurre su tela nemmeno volendolo.
Staccò lo sguardo dai pennelli, intuendo che anche quel giorno non sarebbe riuscita a combinare nulla, e allungò la mano verso l'enorme tavolo marmoreo che ricopriva la maggior parte della stanzetta. Sopra vi era una bottiglia di vetro con del liquido color giallo acceso che Vivian si versò placidamente in un bicchiere.
Fu nel momento in cui ebbe finito di mescere la bevanda che la maniglia della porta del laboratorio di pittura scattò, facendole prendere lo spavento della sua vita.
Sussultò brevemente e il bicchiere quasi le cadde di mano.
Si alzò di scatto, attaccandosi con le spalle alla parete, lanciando uno sguardo di terrore verso l'ingresso.
Dalla soglia della porticina comparve timidamente il volto dell'Ultimate Musician, che si introdusse lentamente all'interno.
Lawrence non mancò di notare come lo sguardo di Vivian sembrasse inizialmente spaventato ma si stesse rasserenando pian piano.
- C-ciao, Vivian... - biascicò lui - Posso... posso entrare? -
Si rese conto di aver posto una domanda superflua, poiché era già entrato, ma attese comunque risposta.
- Sì... sì, certo. Accomodati - fece lei, sospirando - Scusami, mi hai colta di sorpresa -
- Avrei dovuto bussare -
I convenevoli scivolarono rapidamente via, e Vivian offrì all'ospite una sedia ed un bicchiere.
Mostrò la bottiglia a Lawrence con un mezzo sorriso.
- Cedrata? - propose lei.
- Ah, no, ti ringrazio - si scusò lui - Proprio non sono in vena... -
Lei annuì, versandosi un altro bicchiere.
Il musicista sperò di non averla offesa in qualche modo declinando la cortesia.
Cercò rapidamente un modo per porre rimedio.
- Uhm, a t-te piace la cedrata...? - chiese.
Lei arrossì vagamente.
- E' un mio punto debole - scherzò lei - Già, ne vado matta. Potrei berne a litri. Certo, se lo facessi sul serio la mia linea andrebbe a quel paese... -
- Ah, capisco -
Lawrence Grace cominciò a versare del sudore, rendendosi conto che la conversazione non stava andando da nessuna parte e che Vivian appariva sempre più giù di morale ad ogni minuto.
- Va tutto bene, Vivian? - chiese, infine - So che è una domanda retorica, a questo punto, ma... -
Lei scosse la testa.
- No, di certo non va affatto bene... - disse con stanchezza - Non ci riesco, è tutto così... così insostenibile. Non riesco più a chiudere occhio, a stento ho voglia di mangiare e... -
Vivian avvertì un blocco alla gola, come se dovesse mandar giù un boccone amarissimo.
- Non riesco più a dipingere... -
Lawrence comprese perfettamente il significato di quelle parole.
- Hai un blocco? - chiese.
- Fosse solo quello... - sospirò lei - Ho avuto diversi momenti bui nella mia carriera, ma questo è diverso. Con l'arte riesco a liberarmi dallo stress e ad alienarmi dai problemi, ma è la prima volta che questo metodo si rivela talmente inefficace... -
- Non riesci ad esprimere il tuo talento... - commentò lui - Mi sorprenderei del contrario, Vivian. Qualunque artista si ritroverebbe nella tua situazione se dovesse stare a contatto con la morte così di frequente... -
- Ma come posso accettare qualcosa del genere...!? La pittura è troppo importante, per me! Non posso semplicemente lasciare che...! -
- Vivian! - la richiamò lui.
La ragazza cessò il suo strepitare di colpo, rendendosi conto di aver alzato la voce.
La sua faccia si intristì di colpo.
- Scusami, sono mortificata... - mormorò - Non so cosa mi sia preso -
- E' tutto a posto, non devi sentirti in colpa - la rassicurò lui - Ti dirò, nemmeno io sono stato in grado di produrre niente di soddisfacente... è snervante -
- Anche tu? - chiese - Non riesci a suonare? -
- E' che... - Lawrence cercò le parole - Dopo aver visto il video di Elise ho avuto molto per la testa... è difficile rimanere concentrati -
- Il video di... ah! - ricordò lei - Quello che tu e Pearl avete rinvenuto in camera sua... -
Lui annuì.
- Nessuno è riuscito a capire che Elise provasse un timore così profondo e radicato... - disse - E quando ho visto il sorriso di Hayley nella registrazione... beh, non avrei mai potuto ricondurlo alla sua reale situazione. Capisci cosa intendo? Basta così poco per far crollare una persona e spingerla ad atti estremi... -
- Hai... paura, Lawrence? -
Lui esitò per un momento.
- Sì, moltissima... -
- Anche di me? -
I due si guardarono reciprocamente negli occhi per alcuni istanti. Poi Lawrence sorrise.
- No. Non ho paura di te, Vivian -
- Come mai? - deglutì lei - Non temi che possa dare di matto e... combinare qualche sciocchezza? -
- Come posso spiegarti... - si grattò la testa - Mi dai una sensazione simile a quella di Elise -
- Elise? -
- Voglio dire: sei chiaramente spaventata, ma non mi immaginerei mai di vederti fare del male a qualcuno... - disse, tentando di chiarire il messaggio - Ecco, il punto è questo... -
L'artista espresse un sorriso abbozzato.
- Grazie, Lawrence. Lo apprezzo molto -
L'altro si limitò a nascondere il proprio imbarazzo con un semplice cenno.
Lei appoggiò la testa sulle ginocchia e la cinse tra le braccia.
- Ma guardami... continuo a dire ad Hillary di avere coraggio e fiducia ma non riesco ad averne a mia volta... - piagnucolò lei - Patetico... -
- Lo fai perché sai che ne ha bisogno, no? - osservò Lawrence - Sai, ho come la sensazione che, se non fosse stato per te, Hillary sarebbe crollata. E' ovvio che provi una stima eccezionale per te -
- Ma questo è il punto...! - replicò Vivian - Lei si fida di me! Conta su di me! Le ho dato l'impressione di essere forte e in grado di proteggerla, ma la verità è che non sono tanto più forte di...! -
A quel punto, Lawrence allungò entrambe le mani verso le spalle della compagna. 
Vivian rimase interdetta da quel gesto inconsulto, ma rimase ferma ad osservare.
Anche con le mani di Lawrence aggrappate a lei, non sentì nessun intento violento o malvagio. Anzi, quasi ne avvertì un tocco delicato, nonostante la veemenza.
- Vivian, abbatterti in questo modo non ti serve a nulla! - la spronò lui, scrollandola lievemente - Tu SEI forte e non hai bisogno di dimostrarlo a nessuno. Adesso rilassati, tira un bel respiro, e non sobbarcarti tutto questo fardello da sola. Chiaro? -
- C-chiaro...! - ripose lei.
Lawrence Grace tornò a sedere, incrociando le braccia con aria soddisfatta.
- Ottimo - annuì compiaciuto - Sai, credo che l'errore principale commesso da Alvin ed Hayley sia stato quello di affrontare il problema da soli. So che tu non farai lo stesso -
- Te lo prometto -
A quel punto Vivian si alzò in piedi e fece il giro del tavolo di marmo.
Lawrence la seguì con lo sguardo e la vide prendere una bottiglia di plastica piena d'acqua che teneva all'angolo della scrivania.
Ne versò il contenuto in un bicchiere e passò a versare l'acqua in un vasetto.
Dal vaso spuntavano alcuni dei fiori più belli che il musicista avesse mai visto: presentavano un colorito candido con striature scure, ed erano lunghi e vigorosi.
Vivian continuò a versare delicatamente l'acqua fino a che il terreno non fu umido al punto giusto. La sua espressione era molto più serena.
- Sono davvero dei fiori magnifici - commentò lui.
- Lo sono, già - sorrise lei.
Lawrence deglutì. 
- Te li ha dati... Kevin? -
- Kevin...? Oh, no, sono un regalo da parte di Hillary - spiegò lei - Me li ha dati dicendo che erano un pegno di amicizia. Ah, ma credo comunque che vengano dalla serra di Kevin -
- Oh, c-capito! - annuì con una punta di nervosismo - Beh, come già detto, è palese che per Hillary conti moltissimo. E non sembra una ragazza molto estroversa. Devi esserne fiera! -
- Lo sono, ma ho comunque paura di deluderla - ammise - A proposito, credo che stia per arrivare -
- "Arrivare"? - si chiese Lawrence - Intendi Hillary? -
- Sì, in genere passa sempre a farmi compagnia verso quest'ora - raccontò lei - E' una sorta di... nostro piccolo ritrovo quotidiano -
- Oh, comprendo...! - Lawrence si sentì improvvisamente di troppo - Allora forse sarà meglio che vada -
- Ah! Te ne vai? - esclamò Vivian con una punta di interdizione.
- Dopo ciò che è successo, credo che Hillary sia ancora molto diffidente nei confronti di tutti noi - spiegò Lawrence - Beh, eccetto per te. Credo sia saggio non intromettersi nel vostro meeting; non vorrei darle un'impressione errata -
A quelle parole, si alzò dalla sedia stiracchiandosi. 
Fece un cenno di saluto all'artista, accompagnandolo con un sorriso sincero.
- Beh, allora ci vediamo! - disse, girando la maniglia della porta.
Fu in quel preciso istante che sentì qualcosa trattenerlo dalla mano libera; una presa delicata ma altrettanto salda.
Girò lentamente la testa.
Vivian gli aveva afferrato il polso mostrando un volto di supplica.
- Aspetta... non andare -
- Non... non vuoi che vada? -
Lei scosse la testa.
- Ma Hillary... -
- Hillary non c'entra! - ribatté lei - E' perché lo voglio io. Resta con noi, ti prego... -
Vi fu un attimo di esitazione da parte di entrambi.
- Vo-volevo dire... con me. Resta con me - si corresse Vivian.
Lawrence avvertì una strana scintilla nei suoi occhi, una sorta di messaggio invisibile che non poteva essere percepito in nessun altro modo.
Qualcosa nella sua voce, nel suo gesto, nella sua mano che lo convinse a capire meglio di cosa si trattava.
Sospirò. La mano destra lasciò andare la maniglia della porta.
- Va bene, va bene - le disse - Mi unirò al vostro incontro quotidiano. Spero solo di non combinare guai...! -
Il viso di Vivian si illuminò. Mostrò il sorriso più candido e sereno che Lawrence avesse mai visto.
- Andrà tutto bene, vedrai -



Il pomeriggio tranquillo di Pierce Lesdar venne bruscamente interrotto da un incessante bussare alla porta del suo appartamento.
L'Ultimate Sewer sobbalzò dal letto e si rimise in piedi quasi capitolando su se stesso.
Ebbe quasi come la sensazione di aver immaginato tutto e di aver semplicemente sognato quel rumore, ma quando dalla porta provennero altri rumori capì che non era quello il caso.
Tirò un profondo sospiro e si fece coraggio.
Percorse un passo alla volta, cadenzandoli con precisione in modo che non venissero uditi.
Il bussare si era fatto più lieve, ma non accennava a smettere.
Nella mente di Pierce iniziarono a manifestarsi i più svariati epiloghi possibili per quella piccola disavventura.
Sperò con tutto il cuore che chiunque fosse alla porta non avesse cattive intenzioni, o che per lo meno non fosse Michael Schwarz.
Quando fu oramai in prossimità del piccolo atrio, si guardò attorno cercando disperatamente qualcosa con cui potersi difendere.
- Pierce, sei lì dentro? - fece improvvisamente la voce da fuori.
Questi ebbe un colpo al cuore. La sorpresa fu talmente forte che non riuscì ad identificarne il timbro vocale.
- C-chi è!? -
- Sono io, sono Karol! - fece la voce del Prof.
Vagamente rincuorato, Pierce Lesdar aprì leggermente la porticina e sbirciò fuori.
Karol Clouds aveva un sorriso smagliante dipinto sul volto, completamente innaturale e fuori luogo.
I due si scambiarono un'occhiata.
- Co-cosa c'è...? -
- Avevo bisogno di parlarti - disse lui, notando solo dopo il terrore che aveva dipinto negli occhi - Uhm, è un brutto momento? Posso entrare? -
- A-ah! No, affatto. Accomodati pure...! -
Fece entrare l'insegnante all'interno e richiuse la porta assicurandosi che nessuno stesse gettando sguardi indiscreti.
Tirò un lungo sospiro.
- La tua camera è un po' in disordine - rise Karol - Un po' me l'aspettavo -
La sua attenzione era concentrata sui vari gomitoli di tessuto accatastati vicino ad un set da cucito posto in prossimità del divanetto.
- Sì, è vero... - deglutì l'altro - Devo mettere un po' a posto. A-allora... cosa posso fare per te? - 
- Oh, certamente - annuì Karol - Ascolta, Pierce, la tensione ha raggiunto livelli preoccupanti. Voglio fare qualcosa per risollevare il morale al gruppo -
Pierce abbozzò un sorriso storto.
- E' un'idea lodevole m-ma... io cosa c'entro? -
- Semplice: ho un'idea - asserì Karol - E vorrei realizzarla con il tuo ausilio. Ti andrebbe di ascoltarmi? -
Il genuino entusiasmo di Karol sembrò avere un effetto contagioso. Pierce intuì che forse valeva la pena andare più a fondo della questione, per quanto non riusciva a sentirsi tranquillo al cento per cento.
- D'accordo... ti ascolto - mormorò lui.
- Magnifico! Ti ringrazio vivamente - esultò Karol Clouds - Ora ascoltami bene, è tutto molto semplice... -

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Capitolo 24
*** Capitolo 3 - Parte 2 ***


La passeggiata meditativa di Pearl Crowngale la portò ad errare senza meta lungo i corridoi del secondo piano, con passo lento ma infaticabile.
La sua mente era bersaglio di numerosi pensieri da diverso tempo, ma mai come in quell'ultima settimana, a seguito degli spiacevoli eventi riguardanti il fato di Hayley Silver ed Elise Mirondo.
La bionda fece scivolare gli occhi color ghiaccio lungo il pavimento beandosi del motivo sempre uguale, sia come forma che come colore, che riusciva ad infonderle, almeno in parte, un certo senso di tranquillità.
Astrarre la mente rilassando i sensi visivi era da sempre il suo metodo d'alienazione preferito; ciò le permetteva anche di giustificare le sua ripetute visite al laboratorio di pittura di Vivian, che sovente la vedeva arrivare con gradita sorpresa per assistere alle sue prove di disegno.
Nonostante ciò, neanche quel fugace conforto riusciva a distoglierle completamente il cervello dalle immagini registrate sulla videocamera di Elise.
Le parole della compagna oramai deceduta le avevano fatto scattare un campanello d'allarme: nemmeno Elise, così gioviale e ottimista, era riuscita a seminare i propri dubbi nei confronti dei compagni. A differenza di persone come Xavier o Michael, che ammettevano sfacciatamente di considerare tutti gli altri più rivali che altro, Elise era rimasta prevalentemente in disparte, mettendo poco in mostra i propri pensieri.
Pearl dovette fare diverse considerazioni fondamentali.
Sapeva che Elise non poteva essere un caso unico nel suo genere; sapeva che qualcun altro avrebbe potuto seguire le orme di Hayley e commettere un errore irrimediabile.
Ma non sapeva chi, e la cosa riuscì a spaventarla facendo breccia nel suo animo forte e irrobustito dal tempo e l'esperienza.
Pearl sospirò; non era nemmeno certa di potersi fidare di se stessa.
Il vagabondare della ninja trovò un punto di svolta nel momento in cui, ancora persa in mille e più valutazioni, le sue orecchie captarono un suono sospetto.
Aguzzò l'udito: nelle vicinanze era possibile ascoltare una qualche sorta di soffuso borbottio, una tiritera indistinguibile ma fastidiosamente acuta.
Si girò verso sinistra; la voce era chiaramente maschile e sembrava provenire dall'interno della serra.
Intuendo di chi potesse trattarsi, decise di sporgersi appena un minimo per constatare cosa stesse accadendo e per soddisfare la propria curiosità.
La sua deduzione si rivelò esatta: la voce apparteneva a Kevin Claythorne.
Il ragazzo era voltato verso alcuni degli scaffali in metallo dove era esposti vasi con fiori e piante varie, chino a controllare qualcosa.
Il vociare del compagno si era fatto più definito e comprensibile, ma Pearl ancora non capiva con chi o cosa stesse interagendo.
- Crisantemo... Bucaneve... Amaryllis... - borbottò Kevin - Dalia... Aquilegia... Azalea... -
La voce del giovane era di tono basso, ma febbrilmente veloce. Sembrava come se stesse facendo un elenco mentale o una sorta di archivio.
Pearl era perfettamente cosciente di non essere un'esperta del settore, ma fu comunque in grado di riconoscere alcuni di quei nomi bizzarri: erano decisamente fiori.
Kevin cominciò a spostare alcuni vasetti, etichettandoli con minuzia, senza smettere di recitarne i nomi.
La ragazza non riuscì a fare a meno di provare una sensazione di spiacevole disagio.
- Fiordaliso... Gerbera... - continuò lui.
Le sue mani si spostarono rapidamente da scaffale a scaffale, invertendo numerose posizioni e creando un mosaico di colori assai intrecciato.
- Glicine... Ibisco... - mormorò senza sosta.
Fu nell'istante in cui Kevin girò svariate volte lo sguardo in cerca di chissà cosa che Pearl fu in grado di notare con esattezza a cosa fossero dovuti quegli strani brividi che le stavano percorrendo il corpo.
Il volto di Kevin era pallidissimo, smunto, privo di energia o colore. I suoi occhi erano chiusi a metà probabilmente a causa di sonno e fatica.
Le labbra erano asciutte e il collo pieno di sudore.
L'Ultimate Botanist aveva una cera tremenda, ma non cessò di pronunciare ad alta voce quelle astruse nomenclature.
- Lavanda... Mughetto... - continuò imperterrito - Ranuncolo e... e... -
Kevin si girò di scatto più volte; qualcosa sembrò turbarlo. Il suo volto sembrò mutare rapidamente in un'espressione di terrore. 
Emise un gemito e si portò le mani alle tempie; sembrava quasi di volersi mettere ad urlare.
- No... no! Ho perso il filo... maledizione! - disse, lanciando un'imprecazione.
Il suo strepitare non sembrava dar cenno di voler smettere; anzi, a Pearl sembrò che la situazione mentale di Kevin stesse peggiorando ad ogni minuto.
Nella mente della ninja si formò più volte il desiderio di andarsene per non farsi coinvolgere in una situazione complicata e spiacevole, ma alla fine non ci riuscì.
Immaginò che Kevin si trovasse in una situazione sostanzialmente simile alla propria, ma che non riuscisse ad affrontarla con la stessa lucidità.
Tirò un lungo sospiro, ed entrò.
- Kevin - lo richiamò lei con estrema calma.
Il risultato non fu propriamente quello sperato, siccome il botanico si girò verso di lei soffocando un urlo di terrore.
Pearl riuscì a leggere sul suo volto tutta l'enorme paura che era riuscita a suscitargli.
Kevin si ritrovò talmente sopraffatto dalla sorpresa che non si accorse di aver intrecciato le gambe, finendo così per cadere all'indietro.
L'atterraggio non fu dei migliori; la sua schiena trovò ad attenderla il vaso che Kevin Claythorne aveva appena fatto cadere per errore.
La ragazza osservò basita ciò che il suo semplice ed innocente saluto era riuscito a far scaturire.
Kevin, ritrovato un minimo di equilibrio, indietreggiò spaventato gettandosi con le spalle contro il muro. Se prima sembrava emanare ansia e timore, ora sul suo viso non vi era che orrore e paura.
- P-Pearl!? - urlò, scandalizzato - Cosa stai facendo qui!? -
- E' quello che mi stavo domandando a mia volta... - annuì lei - Ho sentito il tuo vociare e mi stavo chiedendo che cosa stessi facendo. Va tutto bene? -
A quelle parole, Pearl mosse istintivamente un paio di passi verso di lui, il quale non sembrò gradire quel gesto.
- N-NO! No, ti scongiuro! - gemette, piangendo - Non uccidermi...! Ti scongiuro, farò t-tutto ciò che vuoi...! Ma, ti prego, non ammazzarmi...! Ti prego... -
Sempre più attonita, Pearl non seppe più cosa dire. Quella supplica di pietà le apparve genuina e sincera, ma estremamente fuori luogo.
La ragazza realizzò soltanto dopo quanto fossero giustificati i timori di Kevin: non vi era nessun altro nelle vicinanze, solo loro due.
Per un istante, e solo per un istante, la comprensione di quanto quella fosse un'occasione irripetibilmente invitante fulminò la mente di Pearl Crowngale.
Soppresse quel pensiero con tutte le forze.
- Non sono qui per ucciderti, Kevin... - gli porse la mano - Dai, tirati su -
Lui parve poco convinto.
La mano bianca e morbida di Pearl era ancora tesa verso di lui, come un tenero invito a rilassarsi.
- Non... vuoi...? -
- No, Kevin. Non è mia intenzione - ribadì - Non ho garanzie, devi solo fidarti -
Ancora titubante, l'Ultimate Botanist decise infine di accettare l'aiuto e si rimise lentamente in piedi.
Si diede una rapida ripulita, togliendosi le macchie di terreno dal pantalone, e prese alcuni momenti per respirare.
Ci vollero diversi attimi, ma Kevin Claythorne parve tornare, almeno vagamente, alla calma.
- Va meglio? - chiese Pearl.
- Sì, sì va molto meglio... - sospirò lui, imbarazzato.
- Mi ha sorpreso vederti in quello stato - ammise la ninja - Di solito sei sempre così pacato e composto... -
Lui espresse il suo malessere con un singolo sguardo affaticato.
- Non dirmi che a te questa situazione non fa lo stesso effetto, Pearl... - mormorò - Non riesco quasi più a dormire... ho paura anche solo ad uscire dalla mia stanza... -
- Anche io sono molto turbata, anche se tento di non darlo a vedere - gli confidò - Ma ancora non arrivo a parlare da sola come una matta, facendo avanti ad indietro per la serra -
Kevin mostrò un'espressione stizzita e disagiata, intuendo come la compagna lo stesse osservando oramai da parecchio.
- I-io... ecco... -
- Devo chiedertelo, Kevin: va tutto bene? - chiese lei, perentoria - So che sembra un quesito retorico, ma voglio assicurarmi che tu non dia di matto. Non vorrei che qualcun altro si ritrovasse nei panni di Alvin ed Hayley. Mi comprendi? -
Lui annuì tristemente.
- Non lo so, credo di aver bisogno ancora di un po' di tempo... - biascicò - Ti invidio, Pearl. Sembri così... così forte. A vederti sembrerebbe che niente riesca a turbarti. Ma come fai? -
Lei esitò per un istante.
- Sono... sono umana anche io, Kevin - rispose - Avere una mentalità fredda non vuol dire non avere paura... io HO paura, come tutti -
Il botanico si sentì in colpa.
- Scusami, non volevo insinuare nulla -
- Non biasimarti - sospirò lei - E' un'impressione che faccio a molta gente. Ti sembro strana? -
- Non più strana di un pazzo che parla da solo, immagino, eh...? - disse, buttandola sul ridere.
Lei, però, sembrò solo preoccuparsi di più.
- Cosa andavi dicendo, poco fa? - chiese - Sembravano... nomi di fiori -
- L-lo erano... - arrossì - Credo sia il mio strambo modo di rilassarmi. Quando sono nervoso mi metto a catalogare le piante... -
- Sul serio? - osservò lei - Un hobby peculiare, non lo nego -
Lui annuì, sempre più imbarazzato.
- Ripeto i nomi dei fiori ad alta voce, seguendo un certo ordine... - raccontò lui - Lo faccio ripetutamente, ancora e ancora, fino a che non ho memorizzato tutto. E' l'esercizio che facevo in negozio, da piccolo, quando stavo imparando il mestiere -
- Un negozio? - perseverò Pearl - Gestione familiare? -
- Quello di mio nonno... sì - rispose - Credo di essere arrivato alla Hope's Peak grazie a lui, principalmente -
Lei compì un cenno di assenso.
- Se può aiutarti a distendere i nervi, ben venga - asserì - Ma hai davvero un pessimo aspetto. Forse dovresti riposarti un po', Kevin -
Lui ponderò riguardo al consiglio della compagna.
- Ne terrò conto, grazie -
Il suo volto parve illuminarsi momentaneamente.
- Oh, aspetta qui un momento - le disse - Prendo una cosetta -
Kevin Claythorne fece il giro dello scaffale e si chinò verso un vaso più largo degli altri, armeggiando con buona lena.
Pearl si sporse leggermente tentando di sbirciare, incuriosita da quel suo cambiamento repentino.
Il botanico ritornò da lei abbozzando un sorriso. Mise la mani avanti, porgendole un piccolo ma folto bouquet.
- Cosa...? - sussultò lei - Fiori? Per me? -
- B-beh... sì -
A metà tra la profonda sorpresa e un impacciato imbarazzo, Pearl colse il piccolo mazzo: dei fiori tondeggianti di un intenso colore azzurro ornavano la composizione floreale che, nonostante fosse stata appena allestita, sembrava comunque un piccolo capolavoro.
- Sono ortensie blu - spiegò lui - Beh, forse sono più azzurre... -
- S-sono davvero magnifiche ma... - si trovò forzata a chiederlo - Perché? -
- Ogni fiore è un messaggio - sorrise lui - E spesso si pensa che siano tutti di base romantica, ma esistono significati più semplici e genuini. Un'ortensia può significare anche gratitudine; e se si tratta di un'ortensia blu... vuol dire che commemora un'esperienza difficoltosa o pesante -
Pearl ne avvertì la delicatezza dei petali al solo toccarli. I fiori sembravano splendere di luce propria.
Le sembrò incredibile come qualcuno fosse riuscito a trasmettere qualcosa come un sentimento o una sensazione attraverso un fiore.
- Quindi... mi stai ringraziando? -
- M-mettiamola così... - disse, voltando lo sguardo in modo da non incrociare il suo.
Pearl ne annusò il profumo, inebriandosene.
- Beh... grazie, allora. E' davvero un bel gesto -
Kevin deglutì. Sembrò cercare la forza e la motivazione per continuare la conversazione, ma un imprevisto inatteso fece capolino nella serra.
La porta del giardino si aprì una seconda volta, stavolta facendo largo alla sagoma di Judith Flourish.
I due si voltarono di scatto verso la compagna. Quest'ultima tentennò.
- Ho... interrotto qualcosa? -
- Assolutamente no...! - rispose Kevin, fulmineo.
Pearl si limitò a scuotere il capo in cenno di diniego.
Judith si schiarì la voce.
- Ad ogni modo... finalmente vi ho trovati! - esclamò - Stiamo facendo una riunione al ristorante. Venite anche voi, vero? -
- Una riunione? - gli occhi di Pearl espressero dubbio - Che tipo di incontro? -
- Karol ha chiesto a tutti di presentarsi - spiegò lei - Sembra voglia dirci qualcosa -
Kevin e Pearl si scambiarono un'occhiata.
- Karol, eh? -
- Il Prof non demorde, sembra - commentò Kevin - Vale la pena dare un'occhiata -
I due accettarono l'invito, e Judith sembrò soddisfatta dei suoi risultati in qualità di messaggera.
Nonostante tutto, lei stessa non sembrava essere al corrente di ciò che stava per accadere.
I tre ragazzi si diressero verso gli alloggi del primo piano, tentando invano di intuire di cosa potesse trattarsi.
Tra loro, Pearl Crowngale alternò quei pensieri a quelli rivolti verso il piccolo vaso di ortensie che portava con sé.
Un bell'azzurro acceso si riflesse nei suoi occhi del medesimo colore. 
Scosse con veemenza la testa.
L'Ultimate Ninja sembrava trovare sempre più dubbi, giorno dopo giorno.



Quando Judith rientrò al ristorante, accompagnata da Pearl e Kevin, notò che tutti gli altri erano già arrivati.
Si guardò attorno; era dalla settimana prima, durante il processo, che non si erano riuniti tutti in un solo luogo, fatta eccezione per Michael.
L'Ultimate Chemist si era, come al solito, rifiutato di prendere parte a qualsivoglia attività.
Nonostante ciò, nessuno pareva badare alla sua proverbiale assenza. Più che altro, tutti erano incuriositi dal motivo che aveva avuto Karol per radunarli così all'improvviso.
L'insegnante era al centro della sala, seduto ad un tavolo sorseggiando caffè, in attesa che giungessero tutti.
Finita la bevanda e constatando che Michael non sarebbe venuto nemmeno quel giorno, si alzò in piedi esibendosi in un breve inchino formale.
- Grazie a tutti per essere venuti, miei compagni - cominciò - Sono contento che abbiate messo da parte i timori e vi siate recati qui -
- "Messo da parte" è un po' improprio. Credo che nessuno abbia smesso di avere paura... - commentò Xavier - Piuttosto, arriva al dunque -
Karol non gradì il modo in cui il compagno aveva abbattuto la sua dialettica ottimistica, ma non vi badò troppo.
- Molto bene. Come tutti ben sapete sono sempre stato poco incline ad accettare questa nostra situazione - spiegò - E continuo a non voler pensare che ucciderci sia  l'unica soluzione. Vorrei dunque fare, con il vostro aiuto, un altro tentativo per prevenire incidenti tragici come quelli già avvenuti -
- Karol, sei sicuro di quello che fai? - domandò Pearl - Quattro persone sono morte. A questo punto credi che valga la pena di...? -
- So cosa stai per dire e: sì, ne vale la pena - tagliò corto lui - Se posso impedire un altro omicidio, lo farò volentieri -
Rickard si fece timidamente avanti.
- Beh, ragazzi... ascoltare ciò che ha da dire non ci costa nulla, no? - esordì lui.
Lawrence ed Hillary annuirono.
- Mi sembra un'iniziativa presa in buona fede - commentò Vivian - Dunque? Di che si tratta? -
- Arrivo al punto - proseguì Karol - Come già detto in precedenza dobbiamo cementare il nostro rapporto di amicizia, trasformare i nostri compagni in più che semplici conoscenti. Stabilendo un legame più profondo riusciremo a creare un ambiente più unito, e l'omicidio non sarà più un'opzione per nessuno -
Xavier sospirò tristemente.
- Senti, Karol, sarò franco: e' una strategia fallace - disse - Non solo non sappiamo se funzionerà, ma dimentichi inoltre una certa incognita: Michael -
- In effetti non mi sembra molto intenzionato a fare amicizia... - osservò Lawrence - Per quanto mi riguarda, avrò sempre paura di lui... -
Karol tossicchiò, riportando l'attenzione su di sé.
- Michael pone un problema a parte. Se riuscissimo a trovare un equilibrio tra noi sono certo che non si sentirà più così minacciato -
- E' possibile, sperando che la sua paranoia non prenda nuovamente il sopravvento - sospirò Judith - Beh, qual è il tuo piano? -
- Sfruttare i nostri talenti - rispose Karol con fierezza.
Un velo di incertezza si diffuse nella sala.
- I nostri... "talenti"? - June apparve molto confusa.
- Ognuno di noi possiede una qualità unica nel suo genere. E' ciò che ci ha permesso di essere presi dalla Hope's Peak, dopotutto - continuò lui - La mia proposta è quella di sfruttarli per creare qualcosa che possa andare a beneficio dell'intero gruppo. Dei "lavori collettivi", se mi passate il termine -
- Vuoi dire: creare qualcosa per gli altri? - si chiese Vivian - Qualcosa da condividere? -
- Precisamente! - Karol parve compiaciuto - Avremo modo di toccare con mano il talento altrui e di fare qualcosa di bello per i nostri compagni. Mostrare il meglio delle proprie capacità e' il primo passo per farsi conoscere meglio -
L'idea fu inizialmente raccolta con un certo sospetto, ma incontrò ben presto il favore della maggioranza.
- Si potrebbe anche fare! - annuì Rickard - Ho già in mente alcune idee -
- Non sembra un piano malvagio - seguì Kevin.
- M-ma io non saprei cosa fare...! - protestò June - Andiamo, il mio talento è tirare con l'arco! Cosa potrei mai improvvisare!? -
- Diciamo che mi accodo a questa opinione... - mormorò Pearl, sentendosi a sua volta in difficoltà.
- Sii creativa, June! Non devi necessariamente attenerti a ciò che sai fare meglio - la rassicurò Karol - Ci basta qualcosa che tu faccia col cuore -
- La fai facile... - si lamentò lei - Ma farò... del mio meglio -
L'atmosfera sembrava essersi vagamente alleggerita.
Per un solo istante, vedendo i volti sorridenti degli altri, a Judith sembrò che la minaccia della morte incombente fosse solo un ricordo.
- Beh, ma come ci organizziamo? - chiese l'avvocatessa - Voglio dire... abbiamo un ordine da rispettare? -
- O un limite di tempo...? - aggiunse Hillary.
- Niente da temere, prendetevi il tempo che vi serve e tentate di rilassarvi - sorrise Karol - Deve essere un lavoro accurato e non fatto controvoglia. A tal proposito, ci terrei a dare la parola a colui che si è offerto come primo volontario di questa piccola iniziativa! -
Karol si fece da parte lasciando il posto al timido Pierce, che era stato in silenzio per tutto il tempo attendendo il proprio turno.
Questi si alzò impacciatamente; notando che tutti lo stavano fissando gli fu complicato mantenere un'espressione tranquilla.
Si limitò a chinarsi appena sotto il proprio tavolo.
Afferrò un grosso scatolone che aveva nascosto lì in basso e lo appoggiò su una superficie stabile, estrendone un buon numero di capi d'abbigliamento.
A prima vista sembravano normalissimi indumenti, ma il gruppo notò che erano stati tutti lavorati a maglia. 
Pierce ne prese uno di un colore bianco candido e si avvicinò a Judith, porgendoglielo.
- Q-questo è per te... -
La ragazza lo prese tra le mani, avvertendone la morbidezza al tatto. Aveva l'aria di essere un maglione pesante e adatto per lo più alle giornate invernali, ma anche  molto soffice e comodo.
- Grazie, Pierce. E' stupendo! - si complimentò lei.
Lui si voltò di spalle tentando in tutti i modi di nascondere l'imbarazzo.
Andò a prendere un altro maglioncino. Stavolta era più piccolo e di un colore rosso acceso.
Lo elargì a Vivian; poi girò rapidamente i tacchi e ritornò al mucchio, tentando di evitarne lo sguardo.
La pittrice ne comprese la difficoltà caratteriale e si limitò a rivolgergli un ringraziamento caldo e gentile.
Pierce passò poi a distribuire tutti i regali al resto del gruppo.
Più di una persona notò come fossero stati realizzati con un certo affetto, ma non passò molto tempo prima che qualcuno si accorse di alcuni dettagli fuori posto.
- Uhm, è davvero molto bello, Pierce - commentò Xavier - Ma il mio maglione ha una tasca solo dal lato destro... -
- Eh!? Oh... - sussultò Pierce - Uhm, ecco... forse ho commesso un errore di distrazione -
- Un po' si abbina alla tua faccia! Heh! - esclamò Lawrence alle sue spalle.
Un'occhiataccia fulminante di Xavier lo mise a tacere.
- Mi sento un po' Babbo Natale con tutto questo rosso addosso! - rise Rickard - Oh! Questo mi ricorda un vecchio film al quale partecipai... -
- Il mio è un po'... largo - si lamentò Hillary, quasi nascosta nel proprio indumento.
- Ah!? Oh... - Pierce abbassò lo sguardo, sconsolato - S-scusami, credevo fosse abbastanza piccolo... -
- Dai, non restarci male; Hillary ha le dimensioni di una bambola - lo rincuorò June - Piuttosto... perché il mio pizzica così tanto!? -
Pierce Lesdar deglutì.
- Oh!? Ehm... - si grattò la nuca nervosamente - Avevo finito il tessuto e... -
- Sai, Pierce, il tuo regalo per me è davvero bellissimo - sorrise Kevin - Ma non posso fare a meno di notare che ha tre maniche... -
Karol Clouds vide il potenziale frantumarsi del proprio piano di fronte all'incapacità di Pierce di lavorare reggendo la pressione.
Si rilassò nel momento in cui vide che gli altri membri del gruppo avevano accettato la cosa con una certa filosofia.
Dopo pochi minuti erano nati numerosi siparietti comici che ambivano ad un sano e benevolo scherno.
Il Babbo Natale interpretato da Rickard fu secondo solo a ciò che Kevin definì come l'imitazione dal polpo con soli tre tentacoli, che per quanto mancasse di apparente senso riuscì a riportare il buonumore in sala.
Tutto sommato, l'operazione sembrava aver avuto un discreto successo.
- Molto bene! - esclamò Karol, riponendo sul tavolo alle proprie spalle un berretto di lana palesemente troppo largo per la sua testa - Prendiamo esempio da Pierce e realizziamo qualcosa di bello per i nostri compagni. Io stesso intendo parteciparvi. Cosa ne dite? -
Un forte segnale di assenso si levò dai membri più entusiasti.
Persino Xavier venne sorpreso ad accodarsi a quel moto di allegria.
Quest'ultimo notò come anche Judith, apparentemente la più colpita a livello emotivo dalla morte di Hayley, sembrasse serena e spensierata.
- Beh, sembra che, per una volta, il Prof ce l'abbia fatta - commentò.
- Già, ne sono davvero... -
Judith smorzò la frase in due. Sembrò rendersi conto solo dopo di stare interloquendo con Xavier. Il suo sguardo mutò rapidamente.
- Davvero... contenta -
Lui non mancò di notare quel cambio d'umore improvviso.
- Tutto bene, Judith? -
- Sì... - rispose secca, dandogli le spalle.
- Non mi sembra che... -
- Sto. BENE! -
Judith si accorse di aver alzato la voce solo dopo. Il resto della classe si era voltata verso loro due.
Xavier si guardò attorno spaesato.
- I-io non ho... - balbettò lui.
L'espressione di Judith mutò rapidamente nella realizzazione di ciò che aveva fatto e che tutti la stavano fissando.
- Scusatemi, non volevo perdere le staffe...! - arrossì lei, avviandosi verso l'uscita - D-devo andare! -
A quelle parole, Judith Flourish uscì di corsa portandosi dietro il maglioncino bianco.
Circa una decina di sguardi inquisitori perquisirono la sagoma di Xavier.
- Hey! N-non fissatemi in quel modo! - protestò il detective - Non ho fatto un bel niente! -
Karol si massò una mano sul volto.
- Stava andando tutto così bene... -
- Xavier! - lo richiamò June, indignata - Non la avrai mica fatta piangere!? -
- Ti ho già detto che non è così! -
Rickard non riuscì a fare a meno di cavalcare l'onda.
- Xavier, sei un mostro...! - disse trattenendo a malapena le risate.
- RICKARD! -
Passarono altri venti minuti in cui l'atmosfera generale si stabilizzò, rimanendo grossomodo positiva.
Poi, una volta fattasi una certa ora, ognuno tornò nelle proprie stanze, maglioncini alla mano, pensando a come poter contribuire all'idea di Karol.
Tra tutti, però, l'Ultimate Detective ancora non riusciva a darsi una spiegazione concreta su ciò che era successo.
E, non essendo abituato a non comprendere ciò che lo circondava, finì per trascorrere il resto della serata in preda a dubbi e supposizioni.
Xavier Jefferson intuì che non sarebbe stata una notte di sonno, quella.



Tornando verso la propria stanza, Xavier si ritrovò nuovamente a pensare al curioso episodio riguardante Judith, probabilmente l'unica nota stonata di quel pomeriggio che si era presentato inizialmente bene.
Non riusciva a darsi una spiegazione plausibile sul perché di quel comportamento acido, ma ad un certo punto capì che non era il caso di pensarci troppo.
Un cambiamento d'umore repentino poteva essere attribuito ad una miriade di circostanze e spiegazioni, in un ambiente del genere.
Non vi era alcuna meraviglia nel vedere qualcuno perdere improvvisamente la calma.
Tentò di scostare definitivamente la testa da quei pensieri; fu lì che la sua attenzione venne catturata da un evento un po' strano.
Si girò alla propria destra: osservò la sagoma di Lawrence Grace, intento a trasportare faticosamente qualcosa.
Si chiese da quanto tempo fosse lì, poiché non aveva notato la sua presenza in prima istanza; Xavier incolpò semplicemente la propria mancanza di attenzione.
Decretò che la situazione meritava qualche domanda.
- Hey - lo richiamò lui.
L'Ultimate Musician sobbalzò, colto di sorpresa.
Fece per girarsi, ma così facendo finì quasi per perdere l'equilibrio e la presa sui due grossi scatoloni che stava portando.
- Ack! Chi!? Cosa!? - esclamò impaurito - Ah! Sei tu, Prof? -
Xavier alzò un sorpacciglio, un po' confuso.
- Che? No, Lawrence, sono io -
- Oh...! - l'altro esitò per un momento - Scusami, con questi affari tra le braccia non vedo quasi nulla -
Il detective notò come le scatole non ricoprissero nemmeno l'interezza della sua testa, ma non badò più di tanto alle stramberie di Lawrence; oltre un certo orario  chiunque si sarebbe sentito un po' stanco.
- Mi sembri in difficoltà - osservò Xavier - Che stai trasportando? -
- Carta, principalmente - rispose lui, appoggiando finalmente gli scatoloni a terra e indicando il contenuto cartaceo del primo - Nell'altro ci sono un paio di strumenti. Li ho portati qui dal laboratorio -
Xavier notò la presenza di alcuni violini e un clarinetto. Nulla fuori dall'ordinario. La carta, invece, era in quantità fin troppo abbondante. 
Osservò come fossero tutti fogli per spartiti.
- Sei in... "fase creativa"? - domandò lui.
- Diciamo di sì! - sorrise Lawrence - Karol non ha avuto una brutta idea, non trovi? -
- Senz'altro. Anche se io, personalmente, mi trovo un po' in alto mare -
Il musicista drizzò le orecchie.
- Oh? Intendi fare qualcosa anche tu? Non lo avrei mai detto! - rise lui.
- Non sono COSI' freddo e scostante come sembro, Lawrence... -
- Mh, anche Rickard mi ha detto che, secondo lui, non sei tanto male - annuì Lawrence - Hai solo bisogno di scioglierti un po' -
Il fatto di essere argomento di discussione tra Lawrence e Rickard lo preoccupò più del dovuto.
- Non sono bravo ad interagire con gli altri. Sono un tipo solitario - Xavier fece spallucce.
- Tu dici? Eppure mi sembri un tipo affidabile, anche se un po' burbero - scherzò lui - E poi mi sembra che tu vada d'accordo con Pierce e Judith, no? -
Xavier deglutì.
- A... a proposito di Judith... - 
Lawrence si grattò il mento.
- Mh? Sì? -
- Credi... che ce l'abbia con me? -
I due rimasero a fissarsi per alcuni istanti. Poi Lawrence trattenne a stento le risate.
- Oh, questa è davvero impagabile! - sghignazzò lui - Ci sei rimasto male per prima, eh!? -
- Piantala! - sbottò l'altro - Sto solo cercando di capire cosa diavolo le ho fatto! -
- Xavier, Xavier... mio sciocco e ingenuo Xavier... - Lawrence imbastì una pantomima degna di Rickard - Le donne sono creature complicate e, soprattutto, rancorose! -
- Non mi stai aiutando... -
- Va bene, allora; ti dirò la mia opinione - annuì Lawrence - Secondo me ce l'ha ancora con te per ciò che è successo al processo di Hayley -
Xavier sgranò il suo unico occhio.
- Come!? -
- Ma sì, sai cosa intendo. Ci sei andato parecchio pesante con lei, ricordi? -
- Stava... difendendo un'assassina! - si giustificò lui.
- Ma ciò non toglie come si sia sentita a causa dei tuoi rimarchi - stavolta assunse un'aria di rimprovero - Credo tu l'abbia ferita -
- Cielo, è passata oltre una settimana... -
- Te l'ho detto: "rancorose"! Le donne sono sensibili, sai? -
Xavier ci pensò su.
- Proprio tutte? -
- Tutte tutte - annuì Lawrence con convinzione.
- Anche... Pearl? -
- Xavier, stai sviando il discorso in maniera poco cavalleresca! - lo additò lui - Judith ci è rimasta male, punto! Quindi, se vuoi sistemare le cose, dovrai chiederle scusa! -
Il detective sospirò.
- Anche se non mi sento responsabile...? -
Lawrence alzò le mani al cielo e le fece scivolare lentamente verso il basso, formando una sorta di arco immaginario.
- "Donne"! - 
- Va bene, ho capito l'antifona... - sbuffò - Sei straordinariamente ferrato in questo campo -
- Me la cavo - fischiettò Lawrence - E ora, perdonami, ma ho del lavoro da fare! -
Così dicendo, l'Ultimate Musician trascinò gli scatoloni in camera sua, congedandosi definitivamente da Xavier.
Quest'ultimo lo salutò sbrigativamente e tornò in camera sua.
Sapeva di avere parecchie cose su cui riflettere. Ancora, però, non sapeva bene cosa fossero.
 

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Capitolo 25
*** Capitolo 3 - Parte 3 ***


Il giorno successivo all'incontro di classe generale pareva essere iniziato con una nota positiva per la maggior parte della classe.
Dopo più di una settimana di silenzio, il piazzale si riempì nuovamente di voci e alcuni schiamazzi; che fosse segno di un tentativo da parte degli studenti di dimenticare gli avvenimenti delle scorse settimane o che fosse soltanto una mera parvenza di tranquillità, nessuno lo sapeva.
O, per meglio dire, era un quesito a cui nessuno voleva veramente trovare una risposta.
A differenza degli altri, però, vi era qualcuno che ancora non riusciva a digerire pienamente la situazione derivata dal processo.
Judith Flourish si ritrovò a fissare la propria immagine riflessa nello specchio della propria camera, in silenzio e senza muovere un muscolo.
Nemmeno lei sapeva cosa stesse effettivamente cercando nella se stessa speculare che la squadrava da oltre il vetro, ma il solo fatto di poter godere della compagnia del perfetto silenzio e di una sana solitudine la aiutava a fare chiarezza nella propria mente.
Poi, accadde l'inevitabile: lo stomaco di Judith emanò un gridolino di protesta.
L'avvocatessa sospirò, maledicendo il proprio prevedibile organismo.
Conosceva se stessa fin troppo bene per non sapere che non si trattava di appetito, ma molto semplicemente di fame nervosa.
L'accumularsi di problemi, lavoro, o anche semplicemente di stress le provocava un fastidioso senso di vuoto alla pancia.
In un normale stato mentale, Judith Flourish avrebbe semplicemente ignorato l'urgenza e resistito fino ad orario di pasto.
Ma quella, si ripeté più volte, non era affatto una situazione ordinaria.
Lo stomaco sporse un altro reclamo, e Judith capì che non vi era che una sola cosa da fare.
- Ho bisogno di uno snack... - mormorò a se stessa, alzandosi in piedi di scatto.
Raggiunse la porta della stanza in un baleno, ma esitò prima di aprirla.
La fece cigolare lentamente, aprendola, per poi controllare che non vi fosse nessuno all'esterno.
Il vociare di poco prima era lentamente svanito, e il piazzale si ritrovò nuovamente nel più totale silenzio.
Nonostante ciò, Judith si sentì come sollevata; non sentendosi incline ad incontrare nessuno, quel giorno, preferiva avere campo libero.
Percorse di fretta la strada fino al ristorante: il bisogno di uno spuntino si era fatto sempre più impellente.
Aprì la porta e ci si fiondò dentro, tirando lunghe boccate d'aria.
Grama sorpresa fu quella di scoprire che non era affatto l'unica presente.
La strategia basata sulla furtività della ragazza andò in frantumi quando incrociò lo sguardo con quello di Rickard Falls, situato appena oltre la prima fila di tavoli.
- Buongiorno! - la salutò lui.
- Ciao, Rickard - fece Judith, mascherando ogni possibile accezione di delusione - Cosa fai qui, tutto solo? -
- Mi era venuta un po' di fame, speravo di prendere qualcosa al volo dalla dispensa - ammise lui - Non ci vengo molto spesso, ma sono certo che debba esserci qualcosa di leggero adatto a me! -
Judith deglutì.
- Oh, un'idea carina...! A parlare di cibo mi hai fatto venire fame... - mentì spudoratamente lei.
- Ottimo! Unisciti a me, allora - la invitò - La dispensa è piuttosto grande; in due faremo meno fatica -
Judith sorrise, accettando l'offerta di buon grado, cosciente di aver preso due piccioni con una fava.
Superarono lentamente l'area dei tavoli; la porta della dispensa era nascosta in fondo al ristorante, dietro una parete.
La ragazza fissò il suolo per tutto il tempo, non sapendo davvero come continuare la conversazione.
Era raro che si trovasse a commiserare le proprie abilità di dialettica, da sempre fonte di personale orgoglio, ma quel periodo proprio non sembrava volgerle a favore.
- Va un po' meglio rispetto ai giorni scorsi, Judith? - 
Rickard la colse alla sprovvista con una domanda estremamente seria.
- Ah...! Sì, un po'... - abbozzò un sorriso falso - E' ancora difficile da accettare -
- Sì, lo è... -
Rickard Falls si massaggiò le fronte con aria stanca. Era la prima volta che Judith notava quel suo lato così empatico.
- Sai, ripenso ancora alle tue parole durante il processo - le raccontò lui - Quando afferrasti la mano di Hayley gridando che... che non era giusto -
- I-io... - arrossì lei - Il fatto è che... -
- Alt! Ferma! Non trovare giustificazioni - la rassicurò lui - Sappi che comprendo benissimo cosa provi. Che Hayley si sia trovata in quella situazione è semplicemente... ingiusto -
Lei annuì tristemente.
- Persone dotate di un grande talento sono costrette a metterlo in pratica per uccidere... - sospirò lei - Se solo Hayley avesse avuto la possibilità di vivere una vita normale, lontana da qui... -
- Questo vale per tutti noi, suppongo - asserì Rickard - Nessuno di noi si merita davvero tutto questo. Beh, "quasi" tutti, immagino... -
Judith colse al volo di cosa stava parlando.
- Intedi la talpa? -
- Il numero di persone si è ridotto ancora, ma non sappiamo niente di niente... - la sua voce parve più apprensiva del solito - Se davvero uno di noi è un traditore, sta facendo un ottimo lavoro... -
Lei scosse la testa.
- Vorrei davvero poter credere alla versione di Karol, che la faccenda della spia sia tutta una grossa farsa... - si rattristò Judith - Ma me ne convinco sempre meno -
- Beh, se proprio tu manchi di fede deve essere davvero grave! - Rickard tentò improvvisamente di buttarla sul ridere - Beh, per il momento non ci resta che continuare a cercare una via di fuga. Qualora ci fosse... -
- Se anche esistesse avremmo bisogno di cooperazione nel gruppo - lo corresse Judith - Ma abbiamo un discreto numero di lupi solitari -
- Beh, Michael è un caso a parte - annuì il doppiatore - Ma non credi che sia possibile tentare un approccio con Pearl e Xavier? -
Lei si bloccò per un momento impercettibile.
- G-già... è plausibile -
Rickard alzò entrambe le sopracciglia; sul suol volto si formò uno strano sorriso sospetto. Judith non mancò di notarlo.
- Ce l'hai ancora con lui, eh? -
- Co-come...? -
- Dai, Judy, abbiamo visto tutti quella piccola scenata, ieri sera - ridacchiò lui.
Judith si coprì le mani col volto.
- Speravo non fosse così evidente... - si morse il labbro.
- Beh, non devi vergognartene - il volto di Rickard si fece più serio - Chiunque si sarebbe sentito in difficoltà, al posto tuo. Xavier è stato molto severo, al processo -
- M-ma non è per quello! - esclamò Judith - Ho realizzato che Hayley era colpevole, ad un certo punto... ma non volevo trattarla come una bestia! Perché Xavier e  Michael non possono comprendere qualcosa di talmente basilare come il rapporto empatico!? Cioè, magari da Michael non mi aspetto granché, ma pensavo che Xavier fosse... diverso! -
Rickard Falls le passò la mano sulla spalla per darle conforto.
- Sono sicuro che Xavier non sia così tremendo come sembra. E' un lato di lui che salta fuori durante i processi - asserì - Credo che il suo vero obiettivo non sia crocifiggere gli imputati, ma arrivare alla verità. Se lo avessi visto nel momento in cui abbiamo trovato Elise... beh, forse ti saresti fatta un'idea diversa -
Judith sospirò di nuovo; stavolta si esibì in un sorriso più sincero.
- Credo che Xavier potrebbe imparare una cosetta o due da te su come si parla ad una ragazza - 
- Oh, ma io sono un maestro in quest'ambito! Non osare dubitarne! - fece finta di pavoneggiarsi - Ma adesso credo sia giunto il momento di mettere qualcosa sotto i denti. Ci stai? -
- Pienamente d'accordo! -
E, così dicendo, Rickard spostò la maniglia ed aprì la porta della dispensa.
Ciò che i due videro in quell'istante fu un qualcosa di inaspettato.
I loro occhi incrociarono quelli di Michael Schwarz, che pareva trovarsi lì già da parecchio tempo.
Il chimico si paralizzò come se avesse visto uno spettro o qualcosa di altrettanto spaventoso ed inenarrabile.
Il ragazzo aveva con sé un sacchetto riempito quasi interamente di provviste dalla dispensa, portandoselo dietro con un'aria quasi colpevole.
I tre rimasero in silenzio. Judith ebbe come l'impressione di aver sorpreso un ladro a rubare, talmente era alta la tensione.
- Michael? - domandò Rickard - Che stai facendo? -
- I-io!? Voi, semmai! - li additò lui - Sto semplicemente facendo scorte alimentari! -
- Scorte? - chiese la ragazza - Aspetta, vuoi dire che ti porti il cibo in camera? -
- Ovviamente sì! -
Rickard si voltò verso Judith come se avesse appena realizzato qualcosa di incredibile.
- Oh, in effetti mi ero chiesto quando e come mangiasse, dato che non lo si vede mai al ristorante! -
- Voi stupidi, prima o poi, finirete per scavarvi la tomba da soli! - li attaccò Michael - Mangiate il vostro cibo come se nulla fosse! E se ve lo avvelenassero!? -
- Santo cielo, Michael...! Devi sempre pensare agli esiti più macabri! -
- Beh, ovvio! Quattro persone sono morte! - osservò acidamente il chimico - E gli ingenui non faranno altro che far crescere quel numero! Io porto le mie provviste in camera mia, e mangio solo dopo averle analizzate almeno due volte da cima a fondo! -
Rickard scosse il capo.
- Una dedizione ammirevole... - biascicò - Non credi di esagerare? -
- Ne riparleremo quando il vostro vicino di tavolo stramazzerà al suolo! - ribatté lui - E ora fatemi passare, per cortesia! -
Detto ciò, i due si allontanarono dalla soglia della porta permettendo a Michael di uscire in tutta fretta.
Fu quando la sagoma dell'Ultimate Chemist scomparve verso l'esterno del ristorante che i due studenti rimasti si scambiarono un'ultima occhiata di intesa.
- Parlavamo di... com'era? "Rapporto empatico"? -
- Parlavamo di quanto non mi aspettassi niente da Michael, anche... -
I due annuirono, silenziosamente, accettando il fatto che vi erano cose che non potevano cambiare nemmeno volendolo.




Era passato ancora un altro giorno, stavolta in maniera più silenziosa.
Xavier Jefferson si alzò dal letto che aveva ancora sonno, e sbadigliando si trascinò verso l'armadio.
Gli ci vollero alcuni minuti prima di riprendere totalmente i sensi a causa del torpore della sonnolenza.
Passò circa un quarto d'ora in bagno e, una volta vestitosi completamente, fece per uscire dalla stanza.
Improvvisamente, qualcosa gli sembrò fuori posto.
Non di certo un dettaglio della stanza, sempre uguale fin dal suo primo giorno di prigionia, ma qualcosa nell'ambiente circostante.
Un silenzio che era nuovamente piombato sul piazzale, in contrasto con il vociare del giorno prima.
Istintivamente sbirciò all'esterno.
Notò come, quel giorno, la classe pareva essersi sparpagliata lungo la scuola quasi come se tutti gli altri fossero stati di comune accordo.
Normalmente c'era sempre qualcuno che bazzicava lungo i dormitori, fatta eccezione per Micheal e Karol; quest'ultimo, in particolare, aveva espresso di sentirsi a disagio da quelle parti per un motivo che non aveva voluto specificare.
L'area era completamente vuota e silenziosa; il primo pensiero di Xavier fu di controllare che non fossero tutti riuniti al ristorante, come ogni mattina.
Prima di lasciare definitivamente la stanza controllò l'orario: erano circa le undici.
Si grattò il capo, notando come ogni giorno si stava alzando sempre più tardi, segno inequivocabile che stava accumulando troppa stanchezza dalle innumerevoli notti insonni.
Passeggiò lungo il piazzale sbadigliando di nuovo. Vi trovò un che di rilassante in quell'ambiente privo di rumore, ma date le circostanze di certo non mancava un senso di inquietudine.
Poi, improvvisamente, mentre era intento a guardarsi attorno, la vista venne a mancargli.
Tutto fu nero, buio, inglobato dall'oscurità.
Xavier si fermò di scatto, col fiato mozzato.
Si stropicciò l'occhio buono: non era improvvisamente divenuto cieco.
Il profondo buio venne accompagnato da un rumore elettrico proveniente da chissà dove: era andata via la luce.
Rimase immobile, incapace di orientarsi o di definire anche solo un minimo dove stesse andando.
Un senso di angoscia lo pervase; oltre al cuore palpitante anche la mente cominciò a giocargli dei brutti tiri.
Si sentì come se stesse per essere aggredito da un momento all'altro, vittima di tutto quel buio e di chiunque si stesse nascondendo al suo interno.
Poi, così come se ne era andata, la luce tornò.
Xavier socchiuse l'occhio, abbagliato dalla luminosità delle lampadine inserite nel soffitto stesso.
Lo riaprì lentamente, accorgendosi di essere rimasto solo per tutto il tempo. 
Si sentì la fronte sudata e la mano tremante. Quando riprese cognizione di sé si rese conto che il black out non era durato che appena dieci secondi.
Il suo respiro tornò regolare dopo pochi attimi. Scrollatosi di dosso l'apprensione e la momentanea paura, decise di proseguire verso il ristorante.
Sembrò che Xavier avesse trovato un'altra cosa su cui investigare.
Arrivato al locale, aprì la porta e si accomodò all'interno.
Guardò davanti a sé, a destra e a sinistra. Fu solo in quel momento che notò la presenza di due altre persone.
In un tavolino in fondo, nell'angolo vicino al vano della cucina, Pearl ed Hillary erano sedute ed intente a fare qualcosa.
- Buongiorno... - le salutò lui.
- Ah, Xavier - Pearl fece un cenno - Ti sei svegliato ora? -
- Sì, ho accumulato stanchezza - sospirò lui - Piuttosto: avete notato il black out? -
- Fin troppo bene -
Xavier non comprese il significato di quella risposta fino a quando non si avvicinò al tavolo dove le due erano sedute.
Notò un dettaglio cruciale: Hillary stava perdendo del sangue dalla mano destra. Xavier esitò per un momento, colto di sorpresa.
Vi erano dei pezzi di vetro dall'aspetto tagliente sul pavimento. Uno era macchiato di rosso.
L'Ultimate Clockwork Artisan era ferma, gemendo sensibilmente, mentre Pearl le stava applicando una pomata.
- Cos'è successo? -
- C'è stato un sovraccarico, sembra - spiegò Pearl - Quando la corrente è andata via una delle lampadine è esplosa -
- Lo ho notato... - annuì lui - Hillary, stai bene? -
- S-sono inciampata al buio... - ammise con una punta di vergogna - Mi sono spaventata e ho perso l'equilibrio... sono atterrata con la mano sui vetri... -
Xavier storse il naso per un istante. Il solo pensiero gli provocò una scintilla di malessere.
- Deve aver fatto male... va meglio, adesso? -
- P-Pearl mi sta dando una mano... -
Il detective notò come la bionda stesse meticolosamente passando una sostanza trasparente lungo il taglio, che sembrava essere piuttosto largo.
Il palmo della mano di Hillary era squarciato da parte a parte, e alcuni fiotti continuavano a colare.
Pearl mantenne la calma e, dopo aver medicato e disinfettato tutto, avvolse la mano con una benda.
Il lavoro pareva compiuto.
- Così dovrebbe andare - annuì la ninja - Non usare troppo la mano destra, ok? -
- G-grazie... - arrossì vagamente Hillary.
Xavier alzò un sopracciglio, arcuandolo come a voler esprimere un senso di confusione.
La stessa Pearl che lo aveva minacciato di morte alcune settimane prima ora sembrava un qualcosa di molto simile ad una madre premurosa. Il volto della ragazza si allargò persino in quello che Xavier notò essere un sorriso affettuoso.
Incapace di carpire la vera natura della compagna, smise di farsi domande.
- Siete solo voi, qui? -
- Sì, gli altri sono in giro per la scuola - spiegò Pearl - Sembra che molti di loro volessero lavorare al progetto di Karol -
- Sembra che il Prof abbia fatto centro, per una volta, eh? -
Hillary gonfiò le gote.
- Xavier... guarda che Karol ce la sta mettendo tutta - lo rimproverò lei.
- Non volevo farne motivo di scherno, Hillary. Dico sul serio - affermò - E' un bene che la classe si sia tranquillizzata almeno un minimo. Avevo il timore che, dopo il caso di Hayley, sarebbe stato impossibile -
- E tu, Xavier? - chiese poi Pearl - Anche tu ti senti più a tuo "agio"? -
- Io... - esitò per un momento - Preferisco tenere alta la guardia -
- Come supponevo - 
Hillary avvertì una punta di tensione tra i due.
- Ragazzi? Va tutto bene...? -
- Alla perfezione, Hillary - le sorrise Pearl - Anzi, sai una cosa? Si dia il caso che anche io stia preparando qualcosa per il progetto del Prof -
Sia Xavier che Hillary la squadrarono, sgomenti.
- Tu? - fece Xavier - Sul serio? -
- Cosa accidenti vorresti dire con quel "Tu"? -
- D'accordo, sentiamo; di che si tratta? -
Pearl Crownglae incrociò le braccia.
- Semplice: cibo -
Nuovo momento di vaga perdizione.
- Cibo? Cucinerai? - chiese Hillary.
- Può non sembrarlo, ma sono un'ottima cuoca - Pearl ne fece motivo di vanto - E mi è stato riconosciuto spesso -
- Lo ammetto: non lo avrei mai pensato - ammise francamente Xavier.
- Non te ne faccio una colpa -
- E dimmi, cosa cucinerai? - si era accesa una scintilla negli occhi di Hillary. Lo stomaco sembrava essere un suo punto debole.
- E' una sorpresa - rispose lei, mettendo la compagna sulle spine.
- Provo ad indovinare: zuppa alle lacrime dei tuoi nemici - Xavier mostrò una smorfia provocatoria.
- Quello, o un risotto coi tuoi testicoli. Dipende da te - rispose lei con una flemma spaventosa.
Xavier fece istintivamente un passo indietro.
- Vada per la zuppa -
- Piuttosto, Xavier... sembri avere parecchio tempo libero - osservò Pearl - Che ne diresti di farmi una cortesia? -
Lui si grattò il collo nervosamente. Non aveva l'aria di essere qualcosa di piacevole.
- Sentiamo... -
- Non fare quella faccia, diamine! - sbottò lei - Volevo solo chiederti di andare in giro a dire gli altri che tra una mezz'oretta al massimo sarò pronto in tavola. Facile, no? -
- Mi sembra fattibile - osservò lui - Ma potrei metterci un po'; la scuola è enorme -
- No, niente del genere. Poco fa ho chiesto a Kevin di fare passaparola lungo il secondo piano. Tu dovresti occuparti solo del primo - spiegò Pearl - Da quelle parti dovrebbero esserci solo Vivian e June -
- Sembra facile - annuì lui - Dov'è l'inghippo? -
- Ricordi il risotto di poco fa? - gli rammentò lei con un'espressione preoccupante.
Xavier afferrò al volo l'antifona.
- Vado e torno... - sbuffò.
La vita del galoppino non gli era gradita, ma si trattava di una valida alternativa ad un destino ben più infausto.
Xavier Jefferson sparì tra i corridoi del primo piano borbottando tra sé di come il pericolo più allarmante di quel luogo pareva essere adornato con occhi di ghiaccio.



La strada per i laboratori artistici era, come previsto, completamente deserta.
Xavier lanciò occhiate ad ogni incrocio di corridoi nel tentativo di adocchiare qualcuno dei compagni, ma invano.
Passò appena sotto un orologio appeso al muro; mancava una ventina di minuti all'orario prefissato da Pearl.
Colto dall'istinto di sbrigarsi, il ragazzo si diresse verso il laboratorio di disegno e pittura, meta d'obbligo nella sua ricerca di Vivian Left.
Afferrò la maniglia e la girò; questa oppose resistenza. Era serrata dall'interno.
Xavier notò quel dettaglio. Non era quasi mai stato lì, ma non immaginava che Vivian avesse tra le sue abitudini quella di chiudersi dentro.
Bussò alla porta per tre volte.
- Vivian? Sei lì dentro? - la chiamò lui.
Passarono appena due secondi.
- Ah, si! Sono qui - rispose la voce dell'Ultimate Painter - Scusami, sono molto impegnata -
- Volevo solo dirti che tra una ventina di minuti si mangia. Pearl ha insistito - le disse - Ci raggiungi li? -
- Certo! Ho solo bisogno di un attimo per concludere qui - fece Vivian - Arrivo tra poco -
Xavier non sentì la necessità di insistere o di attendere oltre.
Girò i tacchi e iniziò a ripercorrere il sentiero al contrario.
Nella sua mente iniziarono a formarsi numerose immagini delle più svariate pietanze che riusciva ad immaginare, chiedendosi se tra esse vi fosse qualcosa di anche solo vagamente simile a ciò che Pearl intendeva propinare loro.
Ancora immerso nelle proprie considerazioni, si accorse di aver appena incrociato qualcuno in corridoio.
Fortuitamente, si trattava di June Harrier.
- Oh, proprio te cercavo -
Lei storse il naso.
- Me...? Cosa vuoi? -
- Pearl sta preparando da mangiare. Ci vuole al ristorante entro... un quarto d'ora, circa -
L'arciera non riuscì a non mostrarsi esterrefatta.
- Pearl? Pearl Crowngale si è messa a cucinare!? -
- Consideralo un piccolo miracolo del piano del Prof - Xavier fece spallucce - A quanto pare anche lei sa essere una donna, se ci si mette -
June abbassò lo sguardo, persa in chissà quali pensieri.
- Persino lei, eh...? - mormorò la ragazza.
- Come? - 
- Mah, non farci caso. E' una vecchia ferita - replicò lei, imbarazzata - Ho sempre voluto imparare a cucinare come si deve, ma sono negata ai fornelli -
Lui ne condivise la sorpresa.
- Voi ragazze continuate a stupirmi -
I due iniziarono ad incamminarsi verso il ristorante. June iniziò a vagare tra alcune lontane reminiscenze. 
- Sai, la mia famiglia è numerosa - raccontò lei, passeggiando - Siamo quattro fratelli, io sono la maggiore. Un po' la mamma del gruppo, diciamo così -
- Non me ne sorprendo. Tu e Vivian sembrate nate per quel ruolo -
Il volto di June espresse un parere differente.
- Magari... -
- Che vuoi dire? - chiese Xavier.
- Invidio l'autorevolezza di Vivian. Io riesco a farmi rispettare solo essendo severa... - sospirò - Non sono davvero tagliata per il mestiere -
Xavier sapeva che ripescare l'argomento sarebbe stato doloroso, ma lo ritenne comunque necessario.
- Refia ed Hayley sembravano rispettarti per ciò che sei -
June si morse il labbro inferiore. 
- Ora sono morte... gran bel lavoro che ho fatto, eh? -
- Se continui con questa "Sindrome di Karol" finirai esattamente come lui: a struggerti per qualcosa di inutilmente doloroso - 
June Harrier gli rivolse uno sguardo confuso.
- Sai, Xavier? Proprio da te non mi aspettavo tutta questa empatia e comprensione -
- Ah, no? -
- Per niente. Mi sembravi più il tipo freddo, insensibile e calcolatore - gli rivolse un sorriso - Sono contenta di essermi sbagliata -
Lui distolse lo sguardo.
- Non fraintendermi, continuo a sospettare di tutto e tutti... e a temere per la mia vita - ribatté - Ma... credo di riuscire a comprendervi meglio, dopo tutto questo tempo trascorso assieme -
- E la cosa è... positiva? -
Vi fu un momento di silenzio.
- Non lo so, June. Spero vivamente di non dovermene pentire... -
June deglutì. La conversazione era arrivata ad un vicolo cieco.
La ragazza si chiese se non ci fosse qualcos'altro a bloccare Xavier nel suo guscio di sospetto e dubbio, ma intuì che non era una barriera facilmente abbattibile.
Dopo pochi minuti di ulteriori riflessioni, i due era arrivati al ristorante.



La prima cosa che accolse Xavier al suo arrivo fu un profumo particolarmente invitante provenire dalla cucina.
Pearl ne uscì poco dopo reggendo un grosso pentolone con dei guanti da forno: una scena che non avrebbe dimenticato facilmente.
- Bene, tutti a tavola - ordinò la ninja.
- Ma manca ancora un sacco di gente...! - intervenne Hillary.
- Vorrà dire che attenderemo ancora un po', ma il piatto comincerà a freddarsi -
Nonostante la curiosità di scoprire cosa ci fosse all'interno del recipiente, i presenti ritennero fosse buona norma aspettare coloro che dovevano ancora arrivare.
L'odore di cibo si stava diffondendo rapidamente, rendendo l'attesa ancor più difficile da sopportare.
Bastò poco affinché Kevin Claythorne tornasse dalla propria missione con un volto che presagiva un risultato insoddisfacente.
- Siamo qui, scusate il ritardo...! - disse, accompagnato da Rickard e Pierce - Ho fatto il più in fretta possibile -
- Oh, c'è qualcosa di buono là sotto...! - il naso di Rickard aveva fiutato qualcosa.
- A lavare le mani, voi tre - imperò la bionda.
Corsero verso il lavandino più vicino e tornarono quasi seduta stante.
L'atmosfera si era finalmente rallegrata, e l'umore migliorò esponenzialmente nel momento in cui Pearl versò il contenuto della pentola nei rispettivi piatti.
Un risotto giallognolo e apparentemente speziato riempiva quasi tutta la pentola. Le porzioni erano volutamente abbondanti.
- Riso, eh? - commentò Xavier - Sembra cucinato a dovere -
- Ci lavoro da alcune ore. E' la mia specialità -
- Non credevo avessi il pallino per la cucina... - ammise June, notando come la pietanza avesse un aspetto che pareggiava il profumo.
- Saper cucinare è il primo passo per diventare autonomi - spiegò Pearl - E il sapere essere indipendenti è un qualcosa che mi è stato inculcato fin da piccola -
- E' d-davvero molto femminile... - mormorò distrattamente Pierce.
A quel commento talmente audace, l'intera sala ebbe il timore che Pearl volesse staccargli la testa a morsi.
Pierce stesso realizzò di aver pensato a voce alta qualcosa di vagamente scomodo, e tremò per un istante.
Pearl, però, sembrò non dare troppo peso alla cosa e continuò a servire i commensali. A Xavier sembrò quasi che avesse gradito.
- Bene, ditemi che ne pensate. Buon appetito - Pearl diede ufficialmente inizio al pranzo.
- Vogliamo cominciare anche se non siamo tutti...? - Hillary parve insistente su quel punto.
Xavier notò come, in effetti, mancavano diverse persone all'appello. Prime fra tutti, Judith e Karol. Che proprio loro fossero assenti era un qualcosa che non si sarebbe mai aspettato.
- Non temere, c'è risotto in abbondanza - la rassicurò Pearl - Posso tenerglielo in caldo per dopo -
- Poi non è che saremo mai davvero "tutti" - osservò Rickard - Michael manca a prescindere -
Hillary annuì con poca convinzione, e si arrese alla propria fame.
Il pranzo proseguì silenziosamente, accompagnato solo dallo stridere delle stoviglie. 
Più di un complimento si levò dal tavolo, rendendo onore alle qualità gastronomiche inaspettatamente qualitative di Pearl Crowngale.
Passati circa venti minuti, avevano finito quasi tutti.
Pierce si era dovuto arrendere a tre quarti del piatto, dando prova del suo stomaco debole.
Dall'altro lato, invece, June provò un certo imbarazzo nell'essere stata la prima a concludere il pasto. 
C'era chi, invece, non era arrivato nemmeno a metà; una singola persona che non pareva essere dell'umore giusto.
Hillary rigirò il cucchiaio tra i chicchi di riso più volte, senza portarsene alla bocca nemmeno uno.
Ogni minuto, con cadenza precisa in maniera inquietante, sembrava porgere lo sguardo al piccolo orologio da polso che teneva sul braccio destro.
- Non hai fame, Hillary? - chiese Pearl.
La ragazzina scossa la testa.
- Scusami, non sono troppo in vena di mangiare... - fece in tono apologetico.
- Non devi scusarti. Ti conserverò una porzione per quanto ti sentirai invogliata -
Lei annuì debolmente.
Xavier sospirò. Sapeva che era giunto il momento di ficcare impropriamente il naso nelle faccende altrui.
Non che la cosa lo divertisse, ma gli sembrò necessario.
- Qualcosa non va, Hillary? - chiese lui.
- Co-come...? - l'Ultimate Clockwork Artisan venne colta alla sprovvista.
- Hai una brutta cera, tutto qui. Ti senti bene, o c'è qualcosa che ti turba? -
Hillary si rese conto che tutto il resto della classe la stava fissando.
- Vuoi dirci qualcosa, Hillary? - la incitò June.
- Non farti problemi, eh? Se possiamo aiutarti... - fece Rickard.
La piccola sospirò.
- Xavier, poco fa sei andato a chiamare Vivian. Giusto? -
Il detective aveva intuito già da tempo che si trattava di un argomento riguardante, in qualche modo, Left.
- Proprio così - rispose - Ha detto di essere impegnata nel concludere qualcosa, e che ci avrebbe raggiunto appena possibile -
Hillary guardò ancora una volta l'orologio.
- Vivian non ha mai fatto tardi per mangiare nemmeno una volta... - disse, osservando il ticchettio delle lancette.
Alcuni di loro deglutirono.
- F-forse si è immersa nel lavoro...? - propose Pierce - Anche io, spesso, perdo cognizione del tempo... -
- O magari si è appisolata...? - si chiese Rickard.
Hillary scosse la testa.
- E' sempre stata puntuale, ogni giorno... - ribadì.
- Ne sei certa? Parli come se la cronometrassi... - le domandò Kevin.
Hillary gli mostrò l'orologio, facendogli intuire che non era poi distante dalla verità.
- Sono un po'... fissata con gli orari - arrossì lei - Se non tengo conto delle tempistiche non... non mi sento tranquilla -
- Va bene, definiamola pure una semplice deformazione professionale - sorvolò Pearl - Credi ci sia motivo di preoccuparsi? -
- Io... io non... -
All'improvviso, si alzò in piedi.
- Scusatemi - disse loro - Voglio andare a controllare -
Un velo di inquietudine si sollevò sul gruppo.
Tutti abbassarono lo sguardo, comprendendo la sua apprensione e condividendola.
- Va bene, chiaro - annuì Xavier - Vengo con te. Voi altri aspettate qui. Non muovetevi -
- Sei... sicuro? - chiese Hillary.
- Non ti lascio andare in giro da sola -
Lei distolse lo sguardo, ringraziandolo in maniera impercettibilmente silenziosa.
- D'accordo, noi restiamo qui... - sospirò Pearl - Fate in fretta -
- Ci metteremo un attimo -
Xavier e Hillary uscirono dal ristorante e si avviarono verso i laboratori del primo piano.
In principio camminarono semplicemente a passo svelto, ma ben presto Hillary cominciò a prendere un'andatura sempre più rapida.
Bastò poco affinché Xavier la vide correre sfrenatamente verso la sala di pittura.
- Hillary, aspettami! - disse, invano. La ragazzina non lo stava ascoltando.
Ci misero la metà del tempo necessario per arrivare a destinazione; entrambi avevano il fiatone.
Hillary Dedalus si fiondò sulla maniglia della porta.
- Aspetta, è inutile...! - ansimò lui - E' chiusa a chiave, dobbiamo bus-... -
La frase gli morì in gola quando la mano dell'Ultimate Clockwork Artisan riuscì ad aprirle senza incontrare alcuna resistenza.
Hillary ebbe come un blocco improvviso. 
La porta era aperta, ma non spalancata. Per alcuni attimi, covò il desiderio di non scoprire che cosa ci fosse dietro di essa.
Avrebbe preferito andarsene, lasciare la questione in sospeso, senza doversi sottoporre allo stress derivante dalla preoccupazione.
Fu solo per dei secondi che durò tale inibizione.
Hillary prese coraggio e aprì la porta.
Non fece neanche un metro all'interno che indietreggiò, lanciando un assordante urlo di terrore.
Xavier si precipitò a sua volta verso di lei. Si bloccò a sua volta.
Afferrò le spalle di Hillary con entrambe le mani, facendo in modo che non cadesse all'indietro per lo spavento.
La scena era macabra come tutte le altre volte.
Il gigantesco tavolo marmoreo che ricopriva il centro della stanza aveva un lato ricoperto di schizzi di sangue colati verso il basso.
Appoggiato ad esso vi era Lawrence Grace, chino col capo verso il terreno come un burattino a cui i fili erano stati recisi.
Fermo, immobile, in una stasi che non faceva presagire niente di buono.
Xavier ed Hillary mossero alcuni passi verso di lui.
Il detective si chinò versò il pavimento, toccando il collo del compagno.
Una sensazione fredda e spaventosa venne avvertita dalle sua dita; scostò immediatamente la mano, facendo cenno ad Hillary di non avvicinarsi.
- Cristo... - mormorò - Non di nuovo... non così... non Lawrence... -
L'Ultimate Musician rimase seduto, impotente, sul luogo della propria morte; nient'altro che un corpo morto e inerte, non diverso dai manichini da allenamento disposti sul tavolo.
Un'altra perdita giunta all'improvviso. L'inesorabile diminuire del numero degli studenti sembrava non trovare pace.
Xavier strinse i pugni con forza, mordendosi la lingua.
- C-cosa f-facciamo...? - Hillary stava piangendo copiosamente - Che facciamo, Xavier...!? -
- Dobbiamo... - esitò lui - Ora n-noi dobbiamo... -
Si bloccò. Xavier Jefferson sentì la voce mancargli un'altra volta.
Aveva fatto il possibile per mantenere il sangue freddo e l'autocontrollo in modo da poter analizzare la situazione con cura e metodo.
Ma un altro dettagli aveva catturato l'attenzione del suo occhio; qualcosa di altrettanto tremendo e inquietante.
Un elemento di disturbo situato più in là; l'enorme tavolo di marmo, con la sua larghezza e altezza, copriva buona parte della stanza alla vista.
Uno schizzo di sangue piuttosto largo, ma in un punto dove non doveva essere: ben distante dal luogo in cui avevano rinvenuto Lawrence.
Oltre il tavolo, lungo la parete che fronteggiava l'ingresso, vi era una tela con sopra un magnifico dipinto. Su di esso, una lunga striscia di sangue secco si era impressa indelebilmente a rovinarne l'arrangiamento cromatico.
Xavier delgutì a fatica.
- Xavier...? Che ti succede!? Ti senti bene...!? -
Non rispose. Si limitò a fare il giro completo del tavolo, per trovare finalmente una risposta ai propri dubbi.
Ma non era quella che, nonostante si aspettasse, sperava di trovare.
Arrivato allo spigolo, le gambe quasi gli cedettero. 
Strinse i denti, soffocando una sonora imprecazione.
La mano destra gli andò a coprire la vista, tentando invano di scacciare quell'immagine orrenda dalla propria memoria.
Vivian Left era distesa sul pavimento, nascosta appena oltre il lato del tavolo, con la testa appoggiata in una pozzanghera del suo stesso sangue.
I suoi occhi erano chiusi e l'espressione serena, proprio come quella di Lawrence.
Il laboratorio di pittura era divenuto simile ad un obitorio.
Xavier Jefferson cercò in se stesso tutta la forza possibile per avvicinarsi e dare un'occhiata.
Realizzò solo dopo che vi era una necessità ancora più impellente; non doveva permettere che Hillary vedesse.
Nella sua mente si formò il pensiero di dover impedire a tutti i costi che la compagna assistesse a qualcosa del genere.
Si voltò di spalle, sperando con tutto se stesso di essere ancora in tempo. Pregò che Hillary fosse rimasta abbastanza paralizzata da Lawrence, tanto da non avere il coraggio di spingersi oltre.
Desiderio che, purtroppo non si realizzò.
Nel momento in cui si voltò, Hillary era al suo fianco: sul suo viso era ritratta la pura essenza della morte interiore.
Poi, urlò. 
Un urlo indicibile, qualcosa che rimbombò lungo tutto il primo piano.
Qualcosa che Xavier Jefferson non fu in grado di gestire.
Dovette attendere che il fiato in gola, oramai squarciata dal suo stesso gridare, le venisse a mancare. Hillary si afflosciò, perdendo quasi ogni energia.
Xavier attese diversi momenti; momenti che divennero minuti, minuti che sembrarono ore.
Recuperare freddezza e compostura era essenziale, ma si trattava di un'impresa non da poco.
Hillary aveva la testa appoggiata sulla sua spalla, piangendo ancora.
Ben presto, i due udirono rumori di passi avvicinarsi al laboratorio. Più di una persona stava venendo loro incontro.
Gli sembrò di distinguere la voce di Karol, ma la sua mente non distingueva più nulla.
Tutto ciò che riusciva a vedere erano Lawrence e Vivian.
Ogni fibra del suo cervello aveva scolpito quelle due scene nei traumi permanenti.
Si alzò lentamente, tenendo Hillary con sé, ancora tremando.
Tirò un lungo, lungo sospiro.
- Si ricomincia... -

 

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Capitolo 26
*** Capitolo 3 - Parte 4 - Indagini ***


A differenza degli episodi precedenti, la scena del crimine presentò un'atmosfera del tutto diversa.
Il pesante silenzio e l'inquietudine crescente erano stati rimpiazzati da una gran baraonda causata prevelentemente dall'Ultimate Clockwork Artisan.
Hillary Dedalus si era categoricamente rifiutata di staccarsi dal corpo dell'amica nemmeno per un momento, tenendosi stretta al cadavere nel vano e disperato tentativo di ricevere risposta da quest'ultimo.
Non volle sentire ragioni nemmeno quando il sangue di Vivian Left le era iniziato a colare copiosamente addosso, imbrattandole la pelle e i vestiti.
Karol decretò che la cosa non poteva proseguire in questo modo.
- Rickard, dammi una mano... - lo pregò l'insegnante, indicando Hillary.
Questi esitò prima di avvicinarsi; Hillary era in un misto di furia e disperazione. Solo ad udirla strillare, sarebbe passata a chiunque la voglia di avvicinarsi.
- Va bene, va bene... - sospirò lui.
I due le si accostarono alle spalle. Karol la prese dolcemente per il braccio. Lei continuava a dimenarsi.
- Hillary, dobbiamo andare... -
- Lasciami... - si scostò lei - NON. TOCCARMI! -
- S-scusami, Hillary... è per il tuo bene - fece Rickard in tono apologetico.
I due iniziarono a tirarla via di forza. Ciò che non si aspettarono fu la forza taurina con cui la piccola fu in grado di tenere loro testa.
- NO! HO DETTO DI NO! LASCIATEMI! - urlò - VIVIAN! NON PUOI MORIRE COSI'! Non... così...! NON TU! -
Si aggrappò al corpo di Left con tutte le proprie forze. Schizzi di sangue cranico iniziarono ad inondarle la faccia, ma lei non sembrò neanche farci caso.
Quando Karol e Rickard riuscirono finalmente a vincerla in muscoli, Hillary Dedalus venne trascinata via lasciando una scia rossa grondante dai vestiti.
Aveva addosso più sangue che altro, e il suo volto era deformato dalla rabbia e dal dolore. 
June rabbrividì nel non riconoscere più la compagna, al solo vederla.
I presenti rimasero immobili e in silenzio fino a quando le urla di Hillary non furono scomparse.
A Judith sembrò di udirle comunque, rimbombanti nella sua testa come un disco rotto.
- Che... che cosa facciamo? - chiese Pierce, incerto.
- Hai da chiederlo? Ora si investiga - sbottò Michael - Fate largo -
Xavier sospirò.
- Questa storia non avrà mai fine... -
- Ti aspettavi diversamente? - commentò il chimico, chinandosi sul corpo di Lawrence - E' un gioco al massacro, Xavier. Tra i presenti solo uno ne uscirà vivo: gli altri diverranno cibo per vermi -
- La tua accettazione della cosa è strabiliante, Michael... - ribatté June, rabbiosa - Non ti importa un bel niente degli altri, eh!? -
- Credevo fosse scontato, razza di idiota! - reagì lui - Proprio così, non posso preoccuparmi per voi perché sono troppo impegnato a temere per la MIA vita! In quest'ultimo mese avete tutti giocato a fare gli amichetti, rifiutandovi di accettare la realtà dei fatti! E guarda che sorpresa: SEI PERSONE SONO MORTE! -
Pearl decise semplicemente di non partecipare alla discussione, non avendo argomenti da trattare. 
Persino Pierce dovette ammettere a se stesso che le parole di Michael dicevano il vero.
- E' pur sempre possibile che qualcuno verrà a salvarci... - tentennò Judith - Ora come ora dovremmo resistere e... -
- Ora come ora dobbiamo liberarci di chi ha ucciso Lawrence e Vivian e tenere la guardia alta; fine della storia - concluse Michael - Credevo che l'esempio di Alvin ed Hayley fosse stato sufficiente: chiunque può diventare un assassino, se costretto a farlo -
- Quindi... moriremo quasi tutti...? - la debole voce dell'Ultimate Botanist fece capolino - Siamo condannati? -
- Basta così, gente -
Xavier Jefferson calamitò l'attenzione generale.
- Credo che sia qualcosa su cui ognuno di noi dovrà riflettere attentamente per conto proprio. Ma adesso la priorità è un'altra... - esclamò - Lawrence e Vivian sono morti. L'annuncio è stato chiaro: ci sarà un processo anche stavolta. Dobbiamo concentrarci e risalire alla verità -
Il gruppo annuì.
Gli studenti si dispersero lungo l'area attorno alla scena del crimine, pronti a cominciare nuovamente, loro malgrado, ad investigare.
Xavier lanciò un'ultima occhiata di compianto ai due cadaveri.
Lawrence, appoggiato placidamente al tavolo di marmo, con un'espressione serena e pacifica come se niente potesse turbarlo.
Dall'altro lato del tavolo, giacendo su un letto di sangue allargato a causa di Hillary, Vivian Left era stesa accanto alla sua tela e ai suoi pennelli, quasi come a divenire un elemento della sua stessa composizione.
Poi, l'attenzione del detective passò a Judith: la ragazza aveva perso la sua normale compostezza.
Stava fissando il pavimento con occhi rossi e a pugni stretti.
Gli sembrò che stesse mormorando qualcosa a se stessa, ma decise di non indagare oltre.
Il suo conto in sospeso con Judith dal processo precedente avrebbe dovuto aspettare.
Xavier Jefferson fu pronto a buttarsi nella mischia una terza volta.



Judith Flourish notò una sostanziale differenza tra il caso in corso e i precedenti: a differenza delle altre volte, vi era un'abbondanza di elementi fuori posto e potenziali prove.
Più il tempo passava, più la scena del crimine si riempiva di oggetti sospetti.
La ragazza prese penna e taccuino dalla tasca e iniziò a prendere nota di tutto ciò che la incuriosiva.
La prima sezione che esplorò fu la zona destra della stanza, dalla parte dove era stato rinvenuto il corpo di Vivian.
La sua attenzione venne in prima istanza catturata da un oggetto solitario poggiato sul pavimento, immerso nel laghetto di sangue.
Judith lo osservò tentando di non spostarlo più del dovuto: sembrava essere una statuetta, probabilmente in marmo o un altro materiale abbastanza liscio, di un tipo che aveva già visto nel laboratorio di pittura. Ricordò di aver visto Vivian utilizzarli di rado come modelli per ritrarre alcune posizioni particolari nelle sue bozze di disegno.
Ne tastò la superficie con le dita: era ben levigata e dolce al tatto, i bordi erano stati lavorati alla perfezione.
Unica pecca era che la base era completamente sporca di sangue.
La ripose lì dove la aveva trovata, continuando a prendere appunti.
Lanciò uno sguardo in direzione di Michael: questi non aveva ancora terminato di esaminare Vivian. Il giovane chimico aveva indossato un paio di guanti in lattice e stava passando i polpastrelli lungo il cranio dell'artista, analizzandone la ferita.
Judith staccò gli occhi e passò ad esaminare il pavimento: un'altra prova apparentemente importante era saltata fuori.
Una bottiglia di vetro rotta era rotolata poco distante, a metà strada tra Lawrence e Vivian.
Era spaccata a metà: la prima parte partiva dal collo e terminava in estremità aguzze e sporche di sangue. L'altra metà non si trovava da nessuna parte.
Vi erano, però, numerosi frammenti vitrei sparsi lungo il pavimento. Judith intuì che il resto della bottiglia era effettivamente lì, ma in una forma non più riconoscibile.
A terra non sembrava esserci molto altro di utile, a parte le copiose chiazze di sangue. Judith fece di tutto per ignorare la scia lasciata da Hillary e si dedicò alla scrivania a lato della tela.
Vi erano due bicchieri, ancora intatti a differenza della bottiglia; al loro interno Judith individuò del liquido giallognolo effervescente.
"Cedrata" ipotizzò "Sbaglio o Vivian aveva detto di averne un debole?"
Controllò con cura: il bicchiere di sinistra era completamente vuoto, rimanevano solo alcune gocce di liquido. Quello di destra era pieno per appena un quarto.
Accanto alla loro postazione, vi erano due piccole sedie poco ingombranti. La stanza era già abbastanza stretta senza di esse.
Constatò il resto della scrivania laterale e ciò che si trovava sul largo tavolo marmoreo: vi erano solo strumenti da disegno e tutti erano al loro posto.
- Non c'è quasi segno di battaglia... - osservò lei.
Xavier la udì con chiarezza.
- Già, sembrano essere stati omicidi molto puliti. Solo le armi sono bene in vista - 
- E' una situazione un po' strana, però - disse loro Michael, da dietro.
I due si voltarono. Anche June fece capolino nella stanza in modo da ascoltare.
- Cosa intendi? -
- Ho dato un'occhiata ad entrambi i corpi. Ci sono alcuni dettagli peculiari - spiegò Michael - Vivian ha una singola ferita sul cranio. Oggetto contundente, un classico -
- Ferita singola con arma pesante? - si chiese Judith - Vi verrebbe da pensare che la morte sia stata rapida, se non istantanea -
- E' molto probabile, ma intendo accertarmene. Il punto complicato riguarda Lawrence, però -
June mosse lo sguardo verso il corpo dell'Ultimate Musician. Rabbrividì.
- C-cioè? - tentennò June - Cosa ha di strano? -
- La causa del decesso è completamente diversa. Lawrence ha diverse ferite sulla schiena... - Michael si massaggiò il mento - Ferite da taglio, intendo. La sua morte è stata lenta e agonizzante, con tutta probablità... -
- Atteniamoci ai dettagli tecnici, Michael... - lo pregò Judith.
- Il punto è questo: se non è morto subito è davvero strano che non ci siano segni di una zuffa, no? -
Xavier annuì.
- E' un punto da considerare, sì - asserì il detective - Ma credo che la prima domanda che dovremo porci al processo sia un'altra -
- Sarebbe a dire? - si domandò June - Il modo in cui sono morti mi sembra abbastanza importante -
- Sto parlando di stabilire con esattezza quante persone sono coinvolte in questo omicidio - disse Xavier - Tre? O due? -
- "Due"...? - Judith incrociò le braccia - Stai considerando la possibilità che Vivian e Lawrence si siano uccisi a vicenda? -
- E'... un'idea strana da considerare, oltre che improbabile - ammise lui - Ma ho come l'impressione che potrebbe essere andata così -
I quattro rimasero in silenzio.
- Lasciamo le ipotesi per dopo. Abbiamo altro da considerare... - sbottò Michael - Le ferite di Lawrence coincidono con le estremità appuntite della bottiglia. Possiamo considerarla come la prima arma del delitto. La statuetta di marmo ha inferto il colpo mortale a Vivian. Idee? -
- Non molte... - June scosse la testa - Piuttosto, c'è altro di interessante sui... corpi? -
- Niente da dire su Lawrence - rispose il chimico - Quanto a Vivian... beh, in realtà sono solo alcuni dettagli. Innanzitutto: una buona parte del suo sangue è stata assorbita dai suoi vestiti -
Fece notare agli altri come il maglioncino indossato da Vivian, di un colore rosso sgragiante, aveva provveduto a mascherare la grossa quantità di sangue colata lungo
il corpo. Gli occhi di Judith guizzarono sull'indumento.
- E' il maglioncino di Pierce? - chiese.
- Sì, Vivian lo stava indossando... - 
- Almeno il suo non le dava tutto quel prurito... - si lamentò June, sospirando - Ancora non riesco a credere che Vivian sia morta... ha un che di assurdo -
Gli altri tentarono di ignorare la constatazione. Era divenuto fin troppo chiaro quanto fosse facile, per chiunque, divenire vittima o carnefice.
Persino Michael soffocò il suo solito commento acido, indicando ai compagni un altro punto di interesse.
- Un'ultima cosa: sul corpo di Vivian ci sono diverse schegge di vetro - disse - Soprattutto sulla sua gonna -
- I frammenti della bottiglia sono arrivati fino a lì? -
- Le possibilità sono poche... - commentò Xavier - Difficile dire quale sia la più plausibile -
Si chinò sul corpo per osservarlo più da vicino. Alcune schegge erano rimaste attaccate al maglioncino, mentre la maggior parte si erano accumulate sulla gonna di colore scuro.
Un ulteriore dettaglio gli saltò all'occhio.
Prese con la mano due frammenti diversi e provò a metterli a confronto. Xavier era abbastanza sicuro di aver notato una differenza più che evidente.
Il primo era più spesso, mentre il secondo era sottile e parecchio più chiaro.
Rimase alcuni secondi a considerarne il significato, quando la voce di Judith richiamò tutti a raccolta.
- E che mi dite di... quello? - fece l'Ultimate Lawyer.
Il suo dito stava indicando la tela dipinta appena di fianco al cadavere.
Sicuramente un elemento di sfondo degno di nota, ma Xavier si accorse di averlo ignorato a causa degli altri indizi più evidenti.
Il dipinto mostrava un cospicuo insieme di colori caldi e immagini disegnate a tratto leggero, poi ripassate con colori ad olio.
June Harrier si fermò ad ammirare l'opera con una profonda ammirazione; sentì il cuore palpitarle un po' più rapidamente.
L'immagine mostrava quella che sembrava essere una coppia di persone che, tenendosi per mano, avvolgevano tutto l'ambiente circostante in una danza dolce e delicata.
La sagoma sulla sinistra appariva come maschile; i suoi vestiti erano rossi ed eleganti, e portava una cravatta scura su una camicia bianca. Le sue mani cingevano quelle della sua controparte femminile, che portava un vestito lungo e bianco, purtroppo rovinato da una striscia di sangue della stessa artista.
Individuare l'identità precisa dei due protagonisti della scena fu alquanto problematico, così come non fu immediato capire addirittura che erano umani.
Ciò perché il dipinto presentava un'ultima, fondamentale peculiarità: i due soggetti non avevano un volto.
Oltre alla mancanza dei tratti distintivi, quali occhi, bocca, naso o altro, mancavano addirittura le sagome dei volti, gli zigomi, ogni sporgenza.
Persino i capelli erano stati rimossi.
Al posto delle facce vi erano due lastre pallide e inespressive, in palese contrasto con il giubilo espresso dal resto dell'opera.
In fondo al dipinto, nell'angolo in basso a destra, vi era una minuscola scritta a caratteri dorati: "V. Left".
- Questo dipinto è... allegro e inquietante al tempo stesso - commentò June - Eppure ha un che di meraviglioso -
- Vivian era l'Ultimate Painter non a caso - annuì Judith - E' incredibile il riuscire ad esprimere i sentimenti di due figure senza dar loro nemmeno un volto... -
- Mi chiedo quale significato nasconda questa scelta... - si domandò Xavier, incuriosito a sua volta.
June abbassò lo sguardo.
- Temo... che non lo sapremo mai... - sospirò - Ma almeno abbiamo un altro indizio: Vivian è sicuramente stata uccisa in questo punto della stanza. La striscia di sangue sulla tela lo prova -
- Beh, anche il laghetto rossastro qui sotto era sufficiente... - osservò Michael - Ma, essendoci sangue ovunque, in effetti non era una speculazione precisa. Questo ci sarà d'aiuto -
Xavier tirò un ultimo sospiro.
- Credo che in questa stanza abbiamo finito... - controllò l'orario - Non abbiamo molto tempo. Vediamo cosa hanno trovato gli altri -
- Io andrò a controllare come sta Hillary... - disse June - Prima mi ha fatto paura... voglio vedere come sta -
- Io invece ho altro che voglio esaminare... - sibilò Michael - Tanti saluti, quindi. Ci vediamo al processo -
Il chimico fece per uscire dalla stanza; poi si bloccò, voltandosi verso Judith.
- E tu... farai meglio a non combinare altre stronzate come quella farsa che hai messo su con Hayley... - le ringhiò iracondo, prima di congedarsi definitivamente.
June riuscì a trattenersi fino a quando Michael non fu sparito dalla loro vista prima di lanciargli un'imprecazione notevolmente spinta.
Si passò una mano sul volto, impiegando qualche secondo a placarsi.
- Lascia perdere quel pezzo di merda, Judith! - la incoraggiò l'arciera - Non ha alcun diritto di dire agli altri come agire nei confronti del prossimo! -
La rezione di Judith, però, non fu come aveva previsto.
Al posto dell'apprensione e la sofferenza, il volto dell'avvocatessa presentava uno sguardo serissimo e imperscrutabile.
Con gli occhi ancora fissi sulla porta di ingresso, la ragazza parve immersa nelle proprie considerazioni. D'istinto, afferrò il fermaglio floreale sul proprio capo e cominciò a sistemarlo. Le parole di June sembravano esserle scivolate addosso senza rumore.
- Judith...? -
- Scusa, June. So che hai buona intenzioni nei miei riguardi, ma non posso ignorare il fatto che Michael abbia... ragione, in qualche modo -
Harrier si sbalordì.
- Co-come!? Cosa!? -
- Ho commesso un grave errore di valutazione... - annuì Judith - Ho messo tutti in pericolo, lo scorso processo. Non deve accadere mai, MAI più... -
A quelle parole, l'Ultimate Lawyer si fece strada verso l'uscita, ma non prima che Xavier intervenisse a sua volta.
Il ragazzo ebbe come la sensazione che un delicato equilibrio stava per rompersi.
- Judith, ascolta... riguardo al processo... - deglutì lui - Io credo... -
- "Io credo" che, al momento, abbiamo altro a cui pensare, Xavier... - disse lei.
I loro sguardi si incrociarono per appena un attimo. Jefferson riuscì a leggere un velo di profonda angoscia negli occhi di Flourish.
- ...molto bene - annuì lui.
June fu costretta ad assistere, impotente, a quella guerra silenziosa.
Il legame faticosamente costruito nel corso del mese stava andando lentamente ed inesorabilmente in frantumi davanti ai suoi stessi occhi.



Rickard e Karol avevano trascorso gran parte del tempo a pattugliare, immobili, l'area davanti l'appartamento numero quindici.
Riportare Hillary alla calma era stata un'impresa non indifferente; ancor più complicato fu convincerla a rimandare la partecipazione alle indagini in favore di una doccia più che necessaria. I vestiti dell'Ultimate Clockwork Artisan erano oramai da buttare.
Hillary aveva ceduto al raziocinio dopo un discreto quarto d'ora; dopo di ciò, era entrata in camera sua e si era infilata in bagno.
Karol rimase in apprensione per tutto il tempo che la ragazza impiegò per detergersi la pelle dal sangue di Vivian.
"Lasciarla da sola in un momento del genere è un azzardo pericoloso... ma non è che possa farci molto" constatò il professore.
Dall'altro lato della porta di ingresso dell'appartamento, Rickard Falls si era seduto a terra e guardava il soffitto con aria persa.
Si asciugò il sudore dalla fronte e sospirò.
- E' così che stanno le cose, dunque... -
Karol gli rivolse lo sguardo.
- Tutto bene, Rickard? -
- Mah, più o meno... - sbuffò lui - Stavo solo pensando a quanto questa situazione non sembri avere vie di uscita -
L'Ultimate Teacher non trovò argomenti validi per ribattere. O, per meglio dire, sembrò non averne più la forza.
Tutti gli sforzi e la fatica fatta per riunire i compagni a fare squadra si erano rivelati l'ennesimo buco nell'acqua.
- Altri due morti... e ancora niente - mormorò Rickard.
Karol notò un dettaglio fuori posto in quelle parole.
- Come, scusa? -
- Lawrence e Vivian non ci sono più... - spiegò l'altro, mogio - Ma la spia è ancora in giro, no...? -
In quell'istante, Rickard assistette a un evento che non seppe definire se non inconcepibile.
Non appena terminò la frase, la mano di Karol Clouds era scattata verso di lui, afferrandogli il bavero.
Rickard strabuzzò gli occhi, osservando gli occhi di Karol fissi su di lui e avvertendo il suo respiro sulla pelle.
- P-Prof...!? -
- Due di noi sono morti... e la prima cosa che fai è gettare altri dubbi inutili!? - sbraitò Karol.
- Piantala, Prof! Lasciami...! - si dimenò l'altro - Non puoi ignorare il fatto che possa essere vero...! -
- E' tutta una dannata trappola! Quale improbabile "traditore" piazzerebbe se stesso in un gioco al massacro col rischio di venire ucciso a propria volta!? - perseverò Karol - Quell'orso ha detto un mucchio di sciocchezze per metterci l'uno contro l'altro, e ci state cascando TUTTI! Lo volete capire O NO!? -
- KAROL! - Rickard lo spintonò via di forza.
I due rimasero a fissarsi per alcuni istanti.
Karol riprese momentaneamente fiato. La mano destra gli stava ancora tremando, come se la morsa non fosse mai stata interrotta.
Notò il proprio battito irregolare e il respiro affannato. Ma, più di ogni altra cosa, notò come Rickard stesse trattenendo a stento alcune lacrime.
- R-Rickard...? Io... -
- Io voglio solo tornare a casa, Karol... - singhiozzò il doppiatore - Nient'altro che questo...! -
Karol si coprì il volto dalla vergogna.
- Cielo, io... non so cosa mi sia preso... - mormorò debolmente l'Ultimate Teacher - Deve essermi dato di volta il cervello... Scusami, Rickard. Dico davvero... -
- Va tutto bene, ma adesso fa un bel respiro. Ok? -
L'altro prese il consiglio alla lettera e iniziò a tirare lunghe e profonde boccate d'aria.
- Aah... non mi accadeva da tempo - osservò Karol - Dev'essere questa dannata atmosfera a farmi andare di matto -
- Eh? E' già accaduto? -
Karol si bloccò per un istante.
- Sì... sì, è successo altre volte -
- Non riuscirei mai a figurarmelo - annuì Rickard - Cioè, magari adesso una mezza idea ce l'avrei, ma... -
- Ti scongiuro, non farne parola con gli altri - lo supplicò - Non vorrei che vedessero la parte di me che ho tentato di reprimere per tutto questo tempo... -
Rickard si massaggiò il capo.
- E' un sentimento... che comprendo bene - lo confortò lui - Anche io ho fatto cose di cui non vado fiero, sai? -
- E chi non ne ha fatte? -
I due sembravano aver finalmente trovato la calma. Si godettero un po' di sano e tranquillo silenzio prima che intervenisse il cigolio di una porta.
Si voltarono entrambi di spalle: Hillary Dedalus era appena uscita dalla stanza, vacillando sensibilmente.
- Va tutto bene? - fece Karol - Hai bisogno di stenderti un po'? -
- No. Affatto - rispose lei, secca - Che ore sono? -
Rickard diede una rapida occhiata.
- Quasi l'una -
- Abbiamo ancora un po' di tempo, allora -
- Cosa intendi fare, Hillary? - chiese Karol, ansioso.
Lei assunse un'aria irritata.
- Indagare, che altro!? Lawrence e Vivian sono stati uccisi, ricordate!? - sbottò lei - E sono certa che c'è un posto che ancora nessuno ha controllato -
Rickard e Karol si scambiarono un'occhiata di dubbio.
- A cosa ti riferisci? - domandarono all'unisono.
- Alla stanza numero cinque -
Gli occhi del terzetto vagarono in direzione del numero disegnato sulla porta dall'altro lato del piazzale.
- "Cinque"? - Rickard fece uno sforzo mentale - Oh! La stanza di... Lawrence? -
- Potrebbero esserci degli indizi utili - disse, avviandosi verso di essa.
- Cosa ti fa credere che troveremo qualcosa, lì? -
Hillary si fermò di scatto.
- Per come la vedo io, le opzioni sono due - sollevò due dita verso l'alto - La prima è che qualcuno li abbia uccisi entrambi -
- Ok, plausibile - annuì Rickard - E la seconda immagino sia... -
- ...che Lawence abbia ammazzato Vivian. Ecco tutto -
Karol deglutì.
- Una situazione piuttosto specifica... -
- Ma non credi che potrebbero essersi... beh, come dire... - Rickard trovò le parole - Vicendevolmente... -
- Stai forse... - Hillary ricambiò con uno sguardo di morte - Stai forse insinuando che Vivian abbia assassinato qualcuno!? E' questo che intendi!? -
L'Ultimate Voice Actor, captato il pericolo, indietreggiò saggiamente.
- N-no... non mi permetterei mai... - sospirò.
- Ottimo. Allora sarà il caso di dare un'occhiata in camera sua -
- Va bene, ti accompagneremo - si arrese Karol - Ma per farlo avremo bisogno della chiave, no? -
- Nessun problema - fece scivolare la mano in tasca e ne estrasse una chiave marchiata col numero "5" - Gliela ho sfilata prima che mi portaste via di peso -
Gli altri due trasecolarono.
- C-CHE!? Ma che ti salta in mente!? - gridò Rickard - Era sulla scena del crimine! Non puoi prenderla a tuo piacimento! -
- Abbiamo appena un quarto d'ora di tempo - rispose lei, ignorandolo - Se fossimo tornati indietro a prenderla ci sarebbe voluto troppo. Allora? Venite o no? -
Karol e Rickard, seppur colmi di disapprovazione, non poterono far altro che seguirla.
La chiave girò perfettamente nella serratura, e la porta si aprì con un suono metallico.
Ciò che intravidero all'interno fu qualcosa che superò di gran lunga le aspettative del gruppo.
I tre si fermarono ad ammirare la scena: la stanza di Lawrence era completamente cosparsa di fogli di carta.
Erano ovunque, quasi da ogni parte, persino rovesciati sul pavimento. Un caos e un disordine disumani regnavano sovrani nella stanza dell'Ultimate Musician.
- W-wow... - commentò Rickard - Impressionante... -
- Che macello - Karol si guardò attorno - Cos'è tutta questa carta? -
Hillary prese in mano un foglio solitario da terra.
- Sono... spartiti - fu il suo responso.
- Spartiti musicali, intendi? Beh, ok, non mi sorprende che ve ne sia un numero elevato in camera di Lawrence, ma così è davvero troppo...! - si lamentò Rickard.
- Controlliamo tutto; non lasciamoci sfuggire nulla - ordinò loro Hillary, determinata più che mai - Potremmo scoprire qualcosa di importante -
Cominciò così l'estenuante ricerca del terzetto in mezzo al bailamme messo su dal compagno caduto.
I minuti trascorsero rapidamente tra fogli svolazzanti e profumo di carta stampata.
Ad un certo punto, Rickard Falls riuscì a vedere spartiti musicali persino lì dove non c'erano.
Karol Clouds, invece, scavando in una pila di fogli con buona lena, mise gli occhi su qualcosa che catturò il suo interesse.
Un minuscolo plico di spartiti era stato, a differenza degli altri fogli vaganti, rilegato e unito in un unico fascicolo.
Sbirciò rapidamente tra le pagine, apparentemente tenute insieme con gran cura.
Notò alcune annotazioni scritte a mano dall'autore stesso. La firma di Lawrence Grace era bene in evidenza sul retro.
Ma ciò che catturò la sua attenzione fu altro: una piccola scritta a inizio paragrafo che, nel momento in cui la vide, decise di nascondere alla vista di Hillary.
Prese il fascicolo e lo nascose tra le vesti, accertandosi di non essere visto.
"Questo spartito potrebbe essere una prova fondamentale..." pensò "Per il momento sarà meglio tenerlo per me..."
L'Ultimate Teacher tornò alla propria ricerca facendo finta di niente.
Nel frattempo, le lancette degli orologi della scuola ticchettavano inesorabilmente in senso orario.
 

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Capitolo 27
*** Capitolo 3 - Parte 5 - Processo ***


Pearl Crowngale aprì la porta della stanza e, assicurandosi di non aver lasciato indietro i suoi compagni, vi entrò rapidamente dentro.
Pierce entrò appena dopo di lei; Kevin fu il terzo, richiudendosi la porta alle spalle.
La ragazza si guardò in giro: il posto era esattamente come lo aveva lasciato l'ultima volta, ma potevano esserci delle differenze cruciali.
La sala del generatore elettrico era decisamente più ampia di quanto il gruppo si era aspettato che fosse; non sembrava ci fosse davvero la necessità di un congegno così grande, ma apparentemente la scuola era più vasta di quanto pensassero.
Il dispositivo elettrico ricopriva buona parte della stanza, e nonostante le dimensioni era silenzioso e perfettamente funzionale.
Si udivano a malapena alcune minuscole scintille dai circuiti che lo componevano.
I tre rimasero ad osservare il colosso tecnologico per alcuni istanti.
Poi, Pierce prese timidamente la parola.
- Quindi... - esitò - Perché siamo qui? -
Ciò che Pierce aveva intenzione di far notare era che la sala del generatore si trovava nell'angolo in fondo a sinistra del secondo piano, ben distante dai laboratori artistici del primo piano. 
Dall'espressione di Pearl intuì che l'Ultimate Ninja non poteva averli condotti in un luogo talmente distante dalla scena del crimine per puro svago.
- Xavier e gli altri stanno passando in rassegna il laboratorio di pittura. Dubito ci siano altre zone di interesse riguardanti l'omicidio in sé -
- Quindi...? -
- Quindi volevo fare una piccola verifica per togliermi un dubbio - 
Alcuni fili elettrici passavano esternamente al muro fino a convergere in una piccola casupola di vetro attaccata alla parete.
Fu lì che Pearl si diresse, appena la notò.
Pierce la vide armeggiare con un dispositivo cubico con sopra alcuni numeri e un pannello digitale.
L'Ultimate Sewer ricordò improvvisamente di cosa si trattava.
- Oh, è il contatore. Giusto? - esclamò.
- Corretto. Hai già avuto modo di dare un'occhiata da queste parti? - gli chiese lei.
- Sì, parecchio tempo fa. Ero con... Elise... - Pierce deglutì - Mi ha spiegato come funzionava questo affare e... beh, niente che io ricordi alla perfezione -
Kevin si fece avanti con voce vagamente sommessa.
- Non ci hai ancora detto quali sono le tue intenzioni... -
- C'è un dettaglio che mi sta dando da pensare: c'è stato un blackout verso le undici, circa. Forse poco dopo - spiegò - Ora, potrebbe essere correlato con il caso in questione oppure no. Dobbiamo assicurarcene -
- E come intendi fare? - Pierce pareva sempre più dubbioso - E' davvero possibile lasciare un indizio dopo un simile operato? -
- Forse sì - Pearl mantenne uno sguardo confidente, ma abbastanza neutro - Il pannello del contatore indica anche eventuali guasti o emergenze. Dunque, vediamo... -
Mentre Pearl controllava i dati relativi, Pierce notò un altro dettaglio apparentemente importante.
Di fianco al pannello del contatore vi erano numerosi interruttori abbassati, ognuno inerente ad una certa area della scuola.
Erano, però, di numero parecchio maggiore rispetto alle effettive locazioni presenti. Ogni interruttore aveva un'etichetta con su scritta l'area di gestione, mentre altri semplicemente non ne avevano nessuna; più precisamente, le etichette erano state rimosse.
Pierce si chiese se quel dettaglio non avesse una certa rilevanza per altre questioni, ma Kevin lo riportò al caso attuale.
- Che stai cercando? -
- Nulla in particolare. Solo... - osservò Pierce - Questi interruttori sono pieni di polvere. Non sembra che qualcuno abbia armeggiato con questa zona, almeno di recente -
- Così pare - si accodò Pearl - Qui è segnato che si è trattato di un sovraccarico di energia momentaneo, ma sembra sia stato un incidente -
- Niente da segnalare, dunque... - sospirò Pierce - Cielo, è un peccato. Confidavo nel trovare qualcosa che potesse aiutarci -
- C'è poco da fare. Oramai è quasi ora del processo... - indicò loro Pearl - Torniamo indietro -
Pierce annuì, un po' intristito.
I due si avviarono verso l'uscita accorgendosi solo dopo qualche istante che Kevin non li stava seguendo.
Pierce si voltò, notando che era rimasto fermo e imbambolato davanti al generatore.
- Kevin? - lo richiamò lui - Tutto bene? -
L'Ultimate Botanist non diede segni di risposta. Pearl e Pierce si scambiarono un'occhiata di apprensione.
La bionda scrollò lentamente la spalla dell'Ultimate Botanist dopo averlo raggiunto.
- Kevin! Che cos'hai? -
Lui scrollò la testa. Le sembrò quasi che stesse tremando.
- S-scusatemi, ragazzi... questa situazione è davvero assurda... - pianse lui - Lawrence era un buon amico... Vivian una persona così dolce... mi chiedo perché sia finita così... -
Pearl sospirò.
- Non c'è davvero un motivo valido, Kevin. Qualcuno lo avrà fatto perché voleva scappare da questo posto - lei si voltò di spalle - Un po' lo comprendo -
- Ma... addirittura arrivare a spaccare il cranio ad una persona...! - 
Kevin si strinse la testa tra le braccia, singhiozzando qualche parola sommessa.
- Kevin... - Pierce abbassò lo sguardo - Non capisco con che coraggio qualcuno possa riuscire ad uccidere per qualsivoglia motivo. Ancora fatico a trovare una risposta per ciò che ha fatto Alvin... o Hayley, anche se nel suo caso è un po' diverso. Però... un po' comprendo l'impellente bisogno di andarsene da qui -
- No, io... io non capirò mai le persone... - Kevin scosse la testa - A volte mi sembrate tutti un branco di folli...! Riuscite ad accettare la realtà dei fatti con una naturalezza inconcepibile! Come diavolo ha fatto Alvin ad uccidere Refia guardandola DRITTA NEGLI OCCHI!? E Hayley ha squartato Elise sporcandosi del suo stesso sangue! Ma voi come fate a... ad andare avanti sapendo ciò che ci accade intorno!? -
Pearl lo afferrò per il braccio e lo tirò su di forza, violentemente.
Kevin avvertì un leggero strappo, ma quasi non ci fece caso. Gli occhi di ghiaccio di Pearl, che lo stavano fulminando sul posto, era tutto ciò a cui ruisciva a pensare.
- Tiriamo avanti perché dobbiamo, Kevin! Perché è ciò che gli umani fanno quando tentando disperatamente di sopravvivere! - lo strigliò lei - Se ci arrendessimo alla  realtà non faremmo altro che perderci in futili commiserazioni... ma dentro siamo spaventati tanto quanto te -
Kevin Claythorne si asciugò le lacrime dal volto e tirò su col naso.
- Anche tu hai... paura, Pearl? -
Lei si sbigottì per il semplice fatto che qualcuno potesse considerarla disumana fino al punto da non mostrare un sentimento talmente basilare con naturalezza.
- Certo, Kevin. Come tutti - annuì - Ho paura -
- Tirati su, ok? - lo rassicurò Pierce - Siamo tutti sulla stessa barca -
- Immagino di sì... - sospirò lui - O almeno vorrei sperare che lo sia -
- Come, scusa? -
- Non siamo davvero TUTTI nella stessa situazione, no...? - Kevin tremò per un istante.
Una scintilla si accese negli occhi di Pearl.
- Ooh... parli del traditore -
- Uno di noi è una spia... - Kevin abbassò il suo tono sempre di più - Potrebbe essere chiunque... per quel che ne so potrebbe essere uno di voi due...! -
- Non vi è modo di saperlo, Kevin - 
- E non è semplicemente tremendo il solo fatto di non poterlo determinare!? Diamine, mi chiedo fino a che punto riusciremo a spingerci senza impazzire! -
Pearl Crowngale scosse il capo in segno di disfatta.
Era oramai passato un mese, ed era certa di essersi fatta un'impressione più che dettagliata di ognuno.
Ma, quel giorno, aveva assistito a più di una persona perdere quasi completamente il senno.
Ricordò la reazione di Hillary, solitamente silenziosa e pacata, di fronte alla morte di Vivian.
E riuscì ad intravedere la lenta e inesorabile perdizione che stava cingendo Kevin sempre di più.
Persino Judith, da circa una settimana, le era parsa come se non fosse più se stessa.
Cercò disperatamente in Pierce una parvenza di normalità: la vide, ma accompagnata da una profonda apprensione.
L'Ultimate Sewer era intento a calmare il compagno, ma a sua volta era palese che non si sentisse a suo agio.
Un'ombra sempre più vasta e densa si stava propagando all'interno della classe.
Pearl diede un ultimo sguardo all'orologio: era passata un'ora.



Con un'onnipresente onda di disagio crescente, anche l'ultimo studente si piazzò al centro dell'ascensore.
Quando la torreggiante sagoma di Monokuma si assicurò che tutti i sopravvissuti stessero presenziando, il marchingegno si attivò e cominciò la sua discesa per la terza volta.
Il gruppo venne inglobato nuovamente dal buio, mentre i dormitori si allontanavano sempre più verso l'alto.
Unica fonte luminosa erano le fioche lampade insite nel muro che facevano capolino lungo il tragitto.
Judith si ritrovò quasi ipnotizzata da quell'insieme di luci che le rischiaravano le palpebre ad intervalli perfettamente scanditi.
Alzò lo sguardo verso l'alto; il soffitto era sempre più distante.
Dentro di sé, nel profondo, assieme alla determinazione di sopravvivere e ad una marea di altri sentimenti contrastanti, ma mescolati fra loro, serpeggiava il timore che quella poteva essere la volta buona in cui non sarebbe mai uscita da lì.
Qualcuno, quel giorno, sarebbe rimasto rinchiuso nella sala delle punizioni.
Impossibile sapere chi, impossibile sapere quante persone. Unica certezza era che il destino di un numero imprecisato di persone era segnato.
Ad un tratto ricordò le parole di Xavier avanzanti le ipotesi di un omicidio vicendevole.
Lanciò uno sguardo verso il resto della classe.
Hillary si era completamente separata dal gruppo; le sue mani grattavano le maniche della sua stessa camicetta quasi fino a lacerarle, probabilmente in gesti inconsulti per sfogare la frustrazione. Il suo volto non esprimeva nient'altro che paura e disprezzo.
Rickard e Kevin si erano messi in disparte; furono gli unici che, anche se solo per un breve momento, riuscirono a proferire parola tra loro.
Judith riuscì ad udire appena alcune parole; sembrava parlassero di Lawrence. 
Dopo un ultimo cenno, e una sorta di gesto simbolico come memento, i due tornarono a tacere per conto proprio.
Dall'altro lato dell'ascensore, June aveva raccolto le gambe tra le braccia, seduta a terra, e aveva affondato la testa tra le ginocchia.
Come lei, anche Karol stava celando il suo viso e ciò che esprimeva, dando le spalle al resto della classe e contemplando il niente.
I due rimasero immersi nelle proprie considerazioni per tutto il lento ed inesorabile viaggio.
Michael era, stranamente, posizionato al centro della stanza. La sua insolita locazione era derivata, o almeno così pensava Judith, da una sua evidente confidenza.
Intuì che per l'Ultimate Chemist era cominciata un'altra gara a chi sopravviveva meglio, con l'unica differenza che stavolta era certo di vincere il suo inesistente premio.
Pearl era rimasta tutto il tempo a fissare Karol e June. Judith non diede a vedere di aver notato che l'attenzione della ninja era rivolta anche su di lei.
Si chiese se Pearl non stesse tenendo d'occhio specifici soggetti in base a dei personali sospetti, ma sorvolò sulla questione.
Pierce, dal canto suo, continuava a lanciare occhiate apprensive a destra e a manca. Prima ancora che l'ascensore si fosse messo in moto, era stato l'unico a provare un approccio vagamente ottimista verso i compagni. 
L'unico risultato delle parole di incoraggiamento di Pierce nei confronti della classe fu che tutti gli rivolsero uno sguardo freddo e diffidente.
Judith non poté fare a meno di notare come il balbettio e il continuo tremare di Pierce Lesdar, da qualche giorno attenuati e quasi scomparsi, fossero improvvisamente tornati in evidenza: chiaro segno che l'Ultimate Sewer aveve perso l'agio recentemente trovato nell'atmosfera.
Infine, l'Ultimate Lawyer lanciò solo un'occhiata fugace verso Xavier, per poi voltarsi di lato.
La ragazza era cosciente di aver dato la palese e giusta impressione di starlo evitando, ma nella sua mente non riusciva a svanire il ricordo del processo di Hayley.
La convinzione di aver giudicato male Xavier, nel suo complesso, era ancora forte. Dubbi cominciavano a sorgere spontanei, ma Judith decretò che non era ancora il  momento di affrontare la cosa.
Il problema attuale era un altro.
L'ascensore, fermandosi, lo ricordò a tutti.
L'aula di tribunale apparve prepotentemente davanti agli occhi stanchi e sfiduciati degli studenti.
Altri due ritratti funebri erano stati aggiunti a fare compagnia a chi già era rimasto lì, eternamente imprigionato.
"Che qualcun altro, oggi, si unirà al gruppo di chi non c'è più...?"
Per un istante, solo per un attimo, pregò affinché l'ipotesi del doppio omicidio di Xavier si rivelasse corretta.
Affinché i suoi occhi non dovessero provare nuovamente il dolore di assistere ad una dipartita, affinché nessuna altra fotografia sbarrata con una nefasta croce rossastra fosse aggiunta al già consistente mucchio. Affinché la morte non suonasse nuovamente alla porta della classe.
Si cullò in quell'idillio finché la voce di Monokuma, indicando l'inizio del processo, non la riportò alla realtà.
- Oggi avete tutti una pessima cera! Ma peccato; l'udienza non si può rimandare! - li schernì l'orso - Il processo per l'omicidio di Vivian Left e Lawrence Grace ha inizio! -
Judith sistemò il fermaglio floreale tra i capelli.
Sgombrata la mente, tirò un lungo respiro.
Era pronta a lottare.



Normalmente, nessuno aveva davvero voglia di prendere l'iniziativa e parlare per primo durante i processi, e l'onere ricadeva spesso su Xavier.
Il ragazzo fu sorpreso nel vedere che, in quell'occasione, le cose era partite diversamente.
- Bene, esaminiamo la faccenda nel particolare - Hillary si fece avanti con impazienza - Cominciamo con i dettagli sui decessi, sì? -
Tutti notarono il notevole cambio di attitudine della compagna, ma nessuno osò commentarlo.
Xavier sospirò.
- Sì, iniziamo dalla prassi... - disse con una punta di amarezza. Definire "prassi" tutto ciò era un boccone amaro da mandar giù - Mike, ci dai una mano? -
Michael Schwarz si sistemò gli occhiali con l'indice.
- Due vittime, due scene differenti - cominciò lui - Lawrence è morto a causa di ferite laceranti alla schiena, abbastanza profonde. L'arma del delitto è sicuramente la bottiglia spezzata trovata poco distante. Le estremità aguzze corrispondono alle ferite riportate dal corpo. L'arma è penetrata nella carne e gli ha perforato alcuni organi interni. Morte in appena una quindicina di secondi, al massimo; ha perso molto sangue -
June rabbrividì; Michael era stato particolarmente prolisso nella spiegazione, e si chiese se non ci avesse iniziato a prendere un malsano gusto.
- Dettagli degni di nota? - chiese Karol.
- No, non per quanto riguarda Lawrence. E' sostanzialmente tutto ciò che ho scoperto - annuì Michael - Passiamo a Vivian. Ferita da arma contundente sul cranio, morte rapida. Il suo corpo era steso davanti alla tela; non sembra essere stato spostato. Ci sono frammenti di vetro sparsi in giro, e una statuetta di marmo era per terra: ovvia arma del delitto -
Michael si esibì in un breve inchino, facendo cenno di aver terminato.
- Abbiamo il quadro della situazione di base... - osservò Rickard - Ora... da dove partiamo? -
- Direi di partire con la domanda più problematica - esclamò Xavier - Le vittime sono due, ma i possibili scenari sono tre. Prima ipotesi: qualcuno ha ucciso Vivian e  Lawrence e si è dato successivamente alla macchia -
- Ipotesi sensata - asserì Pearl.
- Numero due: Vivian e Lawrence si sono uccisi a vicenda - disse poi. Hillary emise una smorfia di disapprovazione - E infine, numero tre: una delle due vittime ha ucciso l'altra, ed è stata poi uccisa da una terza persona -
Vi fu più di uno sguardo confuso.
- Non avevo considerato questo terzo scenario... - mormorò Judith.
- Ci ho pensato in un secondo momento, ma è un'opzione bislacca - ammise Xavier - Se io sorprendessi qualcuno a commettere un omicidio, la prima cosa che farei sarebbe avvisare il resto della classe -
- Ma ci sono situazioni e situazioni - disse Pearl - Potrebbe essere accaduto di tutto, per quel che ne sappiamo -
- Già, è vero... ma è davvero possibile capire quale tra queste tre possibilità è quella giusta? - chiese Kevin, tremando furiosamente.
- Analizziamole e lo sapremo - si fece avanti Karol - Direi di partire con l'opzione più semplice: possiamo stabilire se si sono uccisi tra loro? -
- Credo di sì... innanzitutto dobbiamo considerare che Vivian è morta sul colpo - rispose Michael - Se i due assassini sono loro due, allora Vivian deve essere stata la prima a colpire, no? -
Pur trovandosi d'accordo con la spiegazione, Xavier intuì che un certo qualcuno non avrebbe facilmente lasciato correre.
- E' un'assurdità! - Hillary batté la mano sul banco, come si aspettava il detective - Che Vivian abbia lanciato un attacco a Lawrence è un'idiozia bella e buona! -
- Atteniamoci ai fatti e alle prove, non a futili considerazioni personali... - sibilò acidamente Michael - Lawrence è stato colpito alle spalle con la bottiglia.
Vivian avrebbe potuto farlo perfettamente, no? -
Rickard compì uno sforzo di memoria.
- Frena: innanzitutto la bottiglia dov'era? -
- Sulla scrivania sulla sinistra, no? - osservò June - Voglio dire... i bicchieri erano lì sopra. La bottiglia doveva essere posizionata lì -
- E Vivian era seduta a nemmeno un metro dalla scrivania... - sospirò Pierce - La cosa potrebbe avere senso... -
Hillary si morse il labbro.
- Ma come avrebbe fatto ad uccidere Lawrence dall'altro lato della stanza e a morire davanti alla tela, eh!? - obiettò l'Ultimate Clockwork Artisan.
- Avrebbe potuto benissimo. Lawrence non è morto subito - considerò Judith - Vivian ha rotto la bottiglia e ha pugnalato Lawrence con essa. Poi, Lawrence ha reagito dopo essersi reso conto di essere in pericolo, e Vivian ha indietreggiato verso la tela. Infine, Lawrence afferra la statuetta dal tavolo di marmo e uccide Vivian, morendo nel tentativo di lasciare la stanza. Ha senso? -
- Non era più facile colpire Lawrence con la bottiglia? - si domandò Karol - Perché prendersi la briga di romperla e lacerarlo? -
- Beh, semplicemente: Vivian era molto bassa - Judith fece spallucce - Tentare un attacco con un'arma pesante era svantaggioso. Non avrebbe raggiunto facilmente la testa -
La scena composta pezzo per pezzo da Judith Flourish sembrava reggere a livello di logica, ma Pierce ebbe da ridire.
- M-ma Judith... come fai a sapere che la statuetta di marmo era sul tavolo grosso...? - chiese.
Lei esitò per un istante.
- S-sono già stata alcune volte al laboratorio artistico - rispose lei.
Le occhiate di sospetto cessarono nel momento in cui Pearl confermò la versione dei fatti.
- Vivian non la usava mai, la teneva sempre sul tavolo marmoreo - affermò la ninja - Hillary, confermi? -
La ragazza dai capelli rossi fece lentamente cenno di sì.
- Ok, la ricostruzione sembra avere senso - proseguì Xavier - Ma potremmo aver tralasciato qualcosa. Idee? -
- Perché non proviamo a ricostruire la scena secondo le tempistiche? - osservò Karol - Potremmo mettere a confronto i vari alibi -
L'intera classe approvò l'idea.
- Allora... l'orario del decesso è imprecisato. I cadaveri erano freschi - disse Michael - Ma è plausibile ritenere che sia avvenuto durante il pranzo, se non appena prima o dopo -
- A tal proposito... - intervenì Pearl - Sbaglio o uno di noi ha incontrato Vivian appena prima che accadesse tutto? -
Xavier alzò la mano in modo da chiarire la situazione.
- Sì, sono stato io - disse - E' accaduto quando mi hai mandato a chiamarla per il pranzo -
- Come ti è sembrata? Tranquilla? - chiese June.
- Io... uhm... - Xavier ci pensò su - La porta era chiusa a chiave. Ho bussato alla porta, ma Vivian ha detto che aveva del lavoro da finire e che ci avrebbe raggiunto più tardi -
- Quindi non la hai vista? - il tono di Rickard era diffidente.
Xavier si accorse di essere osservato con un certo interesse. Deglutì.
- No, non l'ho vista -
- E non sapresti dire se era da sola? - lo imbeccò Judith.
- Nemmeno quello, mi dispiace. Ma ho come l'impressione che lo fosse - annuì - Dall'interno non c'erano altre voci che potessi udire -
Pearl prese aria con un lungo sospiro.
- Ora la domanda più importante, Xavier: c'è qualcuno che può confermare questa tua versione? - l'Ultimate Ninja aveva una strana luce negli occhi.
Xavier avvertì un lancinante prurito alla gambe.
- No, credo... di no - mormorò - Ah, ma ho incontrato June appena pochi istanti dopo -
L'Ultimate Archer annuì, ma senza convinzione.
- E' vero... ma non ti ho davvero visto davanti alla porta. Ci siamo incrociati lungo il corridoio... -
- Fammi capire, Xavier... - sibilò Michael - Eri alla scena del crimine in una fascia oraria in cui potrebbe essere accaduto... senza che nessuno fosse lì a vederti? -
- Sì, Michael. E se hai intenzione di additarmi colpevole in base a questo ti invito a farlo in maniera più concreta... - sbuffò lui.
- Bah, con estremo piacere... -
I due si guardarono in cagnesco.
- Adesso basta, voi due! - li interruppe Karol - Se qualcuno ha altre prove contro Xavier, è libero di mostrarle -
- Io, piuttosto, vorrei chiarire il momento esatto in cui Lawrence è arrivato al laboratorio - si intromise Rickard - Nessuno ha visto il vecchio Law per tutta la mattina, no? -
- No, ora che ci penso - annuì Kevin - Quando sono andato verso il secondo piano non lo ho mai incrociato -
- Io nemmeno lo ho visto al ristorante - disse Hillary.
Judith si massaggiò il mento.
- Ok, allora organizziamo questo pensiero: ad un certo punto, in un orario tra prima di pranzo e la fine del pasto, Lawrence è andato al laboratorio artistico - ordinò mentalmente lei - E' rimasto lì con Vivian per chissà quanto tempo, e ad un certo punto è avvenuto l'omicidio. Domanda numero uno: Vivian e Lawrence erano effettivamente da soli? -
Lo sguardo di June Harrier si illuminò.
- Oh! Io lo so! Certo che lo erano! - mostrò un sorriso soddisfatto - C'erano solo due bicchieri sulla scrivania. E' ovvio che fossero in due! -
- In pratica, tutto è cominciato come un incontro normale - osservò Pierce - Si erano anche procurati da bere... -
- Hey, a questo punto mi sorge una domanda... - Rickard si spremette le meningi - La bottiglia da dove è saltata fuori? Uno dei due dovrà averla presa dalla dispensa, no? -
Vi fu un vuoto di silenzio.
- Era cedrata, giusto? -
- Vivian adorava la cedrata... - spiegò Hillary - Mi sembra normale che ne avesse una bottiglia con sé... -
- Ma nessuno ha visto Vivian e Lawrence per tutto il giorno - ribatté Judith - Ora... quella bottiglia da dove è sbucata? -
Ne seguì un ulteriore silenzio, rotto però improvvisamente da Pearl Crowngale.
- Cielo... - sospirò lei - Speravo davvero di non doverlo dire io -
- Che intendi, Pearl? - la incitò June.
La bionda si grattò la nuca.
- Ho tenuto un dettaglio nascosto perché speravo potesse condurci da qualche parte, ma non credevo fosse davvero utile - asserì la ninja.
- Basta indovinelli! - sbraitò Michael - Sputa il rospo! -
- In breve: ho visto chi ha preso la bottiglia dalla dispensa - rispose lentamente lei - Sono stata in cucina tutta la mattina a prepararmi per il pranzo. Ad un certo punto ho sentito dei passi e mi sono affacciata verso l'atrio. Ho visto Kevin: aveva la bottiglia -
Nove paia di sguardi indignati si voltarono verso l'Ultimate Botanist. Questi diventò quasi blu dallo spavento.
- Ah! Uhm, io...! - balbettò lui.
- Kevin, che diavolo significa tutto questo!? - inveì Michael - Hai portato tu la bottiglia a Vivian!? -
- Per quanto ancora intendevi tenercelo nascosto!? - June fu ancora più insistente.
- I-io... non volevo nascondervelo! Davvero! - si allargò il colletto del maglioncino - E' che...! Io n-non...! -
Karol Clouds riportò tutti alla calma schiarendosi la voce.
- Kevin - fece con voce calma e solenne - Ti ascoltiamo -
Il tempestoso vociare cominciò a placarsi.
L'Ultimate Botanist riuscì a respirare. Fece un cenno di gratitudine nei confronti di Karol.
- E' successo stamattina, ma parecchio prima di pranzo... - spiegò lui - Ho incrociato Vivian in corridoio. Aveva fretta di mettersi al lavoro, così mi ha chiesto se potevo portarle una bottiglia di cedrata in laboratorio... -
- E tu lo hai fatto? - chiese Xavier.
- Sì, ho fatto in fretta... Pearl mi ha visto in quell'istante, credo - mormorò, abbacchiato - Le ho portato la bottiglia e me ne sono andato... poi non l'ho più vista fino a... beh, lo sapete -
- A che cosa doveva lavorare con così tanto zelo? - domandò June.
- Credo fosse per il progetto di Karol... ma non ne so molto -
- Va bene, ha senso... - Judith non mostrò convinzione - Ora la domanda fondamentale: perché lo hai tenuto celato? -
Hillary fece capire a Kevin che da quella risposta dipendevano molte cose importanti. Il biondino si irrigidì.
- A-avevo paura che dubitaste di me... - singhiozzò - E' accaduto molto prima del decesso, quindi non aveva niente a che fare con il caso! -
- Questo lascialo decidere a noi! - sbottò Michael.
- La prossima volta non prendere iniziative così sconclusionate, va bene? - lo ammonì Karol.
Kevin annuì tristemente.
- Non pensavo mi sarei messo nei guai per un goccio di cedrata... - 
Tutto ad un tratto, gli occhi di Kevin Claythorne si ravvivarono di una luce diversa.
Alzò la testa di scatto. Fu impossibile non notarlo.
- Woah, Kev! Tutto bene? - Rickard ne rimase sorpreso - Hai una faccia strana -
- Cedrata... - mormorò lui - Cedrata... hey! Credo di aver appena... realizzato qualcosa! -
Judith lo incitò ulteriormente.
- Di che si tratta, Kevin? Parla! -
- Ah... sì! - Kevin batté un pugno sul palmo della mano - Abbiamo detto che c'erano solo due bicchieri sulla scrivania, quindi le persone erano necessariamente due. Giusto? -
- Giusto! - ribadì June, fiera del proprio operato.
- Ma qui viene il punto... - Kevin annuì - Lawrence detestava la cedrata! Cioè, in realtà era avverso a tutte le bibite gassate -
Rickard si ritrovò nella stessa situazione di illuminazione.
- Oh... già! Lo aveva detto - l'Ultimate Voice Actor dovette fare un enorme sforzo di memoria - E' accaduto diverso tempo fa, ancora prima del caso di Refia... -
- Quindi... Lawrence odiava le bevande frizzanti? - constatò Xavier.
- Già. Diceva che riempivano la pancia di aria in eccesso; le detestava - proseguì Kevin - Quindi... a cosa arriviamo? -
Hillary si grattò la guancia con timore.
- I due bicchieri... uno era vuoto - disse lei - Nell'altro rimaneva appena un quarto di bicchiere... ciò vuol dire che...? -
- Che le due persone sedute a bere non erano Vivian e Lawrence - stabilì Judith - Bensì, molto probabilmente: Vivian e... una terza persona! -
Cadde un momento di confusione.
- P-possiamo davvero trarre questa conclusione solo dai bicchieri!? - Michael era esterrefatto.
- Kevin ha ragione. Anche io ho avuto modo di parlare con Lawrence della cosa... - Pierce concretizzò la deposizione - Mi ha detto che le bibite effervescenti lo disgustavano... è davvero difficile pensare che abbia potuto berne anche solo mezzo bicchiere -
- E i bicchieri devono essere stati riempiti più volte - annuì Xavier - Pensateci, sul pavimento c'erano pezzi di vetro, ma NON tracce di cedrata. Ciò vuol dire che la  bottiglia era pressoché vuota, no? E ciò vuol dire... -
- Che le due persone presenti devono averla scolata tutta...! - Kevin alzò un sopracciglio - Certo, difficile immaginarsi Vivian a finirla da sola -
La classe raggiunse un accordo.
- Ok, abbiamo provato che poteva esserci un'altra persona sulla scena del delitto - aggiunse Xavier - L'opzione che sia stata tutta opera di un terzo sembra essere la più valida, ma... a scampo di equivoci: abbiamo altre prove per decretarlo? -
I dieci studenti si guardarono l'un l'altro.
Una mano si alzò timidamente: quella di Karol Clouds.
- Oh? Prof? - Rickard lo notò per primo - Hai qualche idea? -
L'insegnante annuì.
- Credo di avere... una prova, sì -
- Così, all'improvviso? - Michael parve scettico.
L'altro scosse la testa.
- E' un qualcosa che ho rinvenuto poco fa, in camera di Lawrence - disse, destando l'attenzione di Rickard ed Hillary - Non sapevo davvero come prenderla, e presentarla da sola poteva non significare nulla. Ma, con quello che abbiamo scoperto... -
- Hai trovato qualcosa in camera di Lawrence...!? - Hillary si mostrò indignata - E non ce lo hai detto!? -
- Ti chiedo perdono, Hillary. E' che davvero non sapevo dove andare a parare e... - sbuffò - Guardate, faccio prima a mostrarvela -
L'intero gruppo si fiondò a vedere ciò che Karol aveva tra le mani: un piccolo plico di carta stampata.
Uno spartito, uguale alle centinaia di fogli sparsi lungo la stanza dell'Ultimate Musician.
Questo, però, era rilegato con una certa cura. Karol mostrò a tutti il retro dello spartito.
- Osservate, ci sono alcune annotazioni di Lawrence - disse loro - Sembra che questo fosse un componimento a cui stava lavorando per il mio progetto collettivo... è uno spartito per violino -
- Ok, ma dunque? - June era impaziente.
- Guardate il titolo dell'opera - disse infine Karol Clouds, poggiando il dito sull'intestazione.
Tutti gli altri, accalcati, sgranarono gli occhi come se avessero visto chissà quale assurda diavoleria.
In cima alla pagina, sopra lo spartito, c'era un piccolo titolo messo tra virgolette.
Recitava "Vivian" a caratteri in corsivo elegante.
Vi fu un momento di esitazione imbarazzata. Non tanto per il nome in sé, ma a causa di una personale aggiunta dell'autore a lato del titolo.
Un piccolo cuore rosso era stato disegnato appena accanto alla scritta.
- Ah - fu tutto ciò che Xavier fu in grado di dire.
- Mh - fece Kevin - C-capisco... -
Karol era arrossito, ma non quanto June. L'Ultimate Archer si nascose il volto con le mani.
- C-cioè...!? A Lawrence piaceva...!? - Hillary si trovò senza parole.
- Questa storia è appena diventata infinitamente più triste... - commentò Rickard.
Ognuno tornò al proprio posto. L'unico che sembrava non essersi lasciato trasportare troppo pareva essere Michael.
Persino Pearl presentava del rossore in viso.
Vi fu un attimo di titubanza in cui nessuno osò riprendere il discorso da dove era stato interrotto.
L'Ultimate Lawyer si schiarì la voce con una certa fatica.
- In effetti è una prova circostanziale, ma se la uniamo a tutto il resto... - riprese Judith, ricomponendosi dalla sorpresa - Allora è davvero impossibile che Lawrence abbia ucciso Vivian! Deve essere opera di un terzo...! -
Un nuovo dettaglio cruciale era sopraggiunto nel processo, assieme ad un'infinità di nuove domande.
Xavier Jefferson dovette fare numerose riflessioni; il quadro stava prendendo lentamente forma.
"C'erano tre persone sulla scena del crimine, ad un certo punto..." pensò intensamente "Dove ci porta tutto ciò? C'è ancora qualche prova che ci è sfuggita? Ma soprattutto..."
Alzò lo sguardo verso l'alto.
- Stiamo davvero considerando questa nuova situazione nella sua interezza...? - si chiese il detective, sapendo che l'unico modo per ottenere risposta era continuare
a cercarla nel corso del processo, per quanto devastante potesse risultare.

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Capitolo 28
*** Capitolo 3 - Parte 6 ***


La situazione era rimasta stagnante per diversi minuti, tempo che gli studenti impiegarono per rimettere a posto le proprie idee e opinioni.
Il nuovo dettaglio scoperto, per quanto apparentemente fine a se stesso, sembrava ricoprire un ruolo specifico nel quadro complessivo della vicenda.
Superato il breve momento di imbarazzo, i dieci studenti tornarono a gestire le redini del processo.
Xavier non riuscì a fare a meno di pensare che cosa potesse significare questo nuovo collegamento; nemmeno il resto della classe sembrava aver trovato una risposta adeguata.
Decretò che era il momento di fare chiarezza, ponendo lo spartito di Lawrence come nuovo punto di partenza.
- Va bene, direi di sottoporre alla nostra attenzione questo nuovo dettaglio - propose Xavier - Credo che abbiamo stabilito che... Lawrence avesse un "debole" per Vivian -
Hillary si morse il labbro.
- Qualcuno... se ne era accorto...? - chiese timidamente.
Momento di silenzio.
- Non guardate me... - Pierce scosse il capo.
- Ammetto che questo risvolto mi coglie alla sprovvista - esordì Karol - Lawrence è stato piuttosto riservato in questo ambito -
- Beh, mi sembra anche normale, tutto sommato...! - Rickard si grattò la guancia arrossata - Voglio dire... un'artista graziosa e talentuosa, oltre che molto gentile...! -
- Rickard, non stiamo cercando di giustificare Lawrence... - lo raddrizzò Pearl.
Judith richiamò l'attenzione prima che la conversazione degenerasse.
- Ok, nessuno ne sapeva niente... ma questo dove ci conduce? - si domandò lei - Avrà un qualche peso riguardo l'omicidio? -
- Riconsideriamo la vicenda dal principio... - disse June - Abbiamo la scena del crimine; due persone, probabilmente Vivian e il presunto assassino... -
- Fin qui tutto chiaro - annuì Kevin.
- Ad un certo punto, la persona "X" uccide Vivian con la statuetta - continuò June - Mi sembra... abbastanza sensato, no? -
Hillary intervenne con una domanda critica.
- Ma questo è avvenuto prima o dopo l'arrivo di Lawrence? -
- Quesito interessante... - Karol Clouds si massaggiò il mento - Immagino sia avvenuto... prima? Cioè, mi sembra strano tentare un omicidio con più di una persona presente... -
- C'è più di una prova a sostegno di questo punto - annuì Xavier - Ricordate la scena del crimine? Non c'erano segni di lotta, tutto era in ordine tranne le armi del delitto. E' chiaro che, se Lawrence fosse stato presente, sarebbe subito intervenuto, no? -
- Ma a questo punto c'è un altro dettaglio che non torna... - Judith incrociò le braccia - Lawrence è stato colpito alle spalle. Un attacco a sorpresa, in pratica. Ma, se come abbiamo detto, è arrivato solo successivamente, non dovrebbe aver colto il colpevole con le mani in pasta? -
- Non potrebbe essere semplicemente stato colpito da dietro? - ipotizzò Pierce - Come facciamo a dire che è stato un colpo a tradimento? -
- Beh, lo abbiamo già detto: non c'erano segni di zuffa - rispose lei - La stanza è piccola e piena di oggetti e strumenti; se fosse avvenuto anche solo un minimo scontro lo avremmo notato -
- In pratica... qualcuno ha assalito Vivian e Lawrence... cogliendoli entrambi alla sprovvista, nella stessa stanza, in momenti diversi? - il tono di Michael lo fece sembrare ben più stupido di quanto non fosse.
- Se la metti così, qualunque teoria perde di senso, Mike... - brontolò Rickard.
- Certo che è strano... - Kevin parve pensieroso - Quando Lawrence è entrato nel laboratorio, dovrebbe aver visto il corpo di Vivian, no? -
- Non necessariamente - stavolta fu Pearl a rispondere - Pensateci: qual'è la prima cosa che si vede appena entrati nella stanza? -
Passarono alcuni secondi in cui ogni studente tentò di ricordare nel dettaglio la composizione del laboratorio di pittura.
La risposta arrivò unanime dopo poco.
- Il tavolo di marmo? - osservò June.
- Corretto. Ed è piuttosto largo ed ingombrante - proseguì Pearl - Noi stessi, appena entrati nella stanza, non abbiamo notato il cadavere di Vivian. Abbiamo dovuto fare il giro del tavolo -
- Oh, ho capito cosa intendi. Lawrence semplicemente non ha visto Vivian e non ha fiutato il pericolo! - Rickard annuì con convinzione - Ha senso? -
Vi furono alcuni cenni di approvazione, prima che Hillary Dedalus si facesse nuovamente avanti con la mano alzata.
- Forse non del tutto... -
- Hai ricordato qualcosa? - chiese Karol.
- Beh, consideriamo la cosa da un altro punto di vista: Lawrence non ha visto Vivian... ma deve aver visto l'assassino, giusto? - spiegò lei.
June tentennò per un momento.
- G-giusto... - disse, mancando di convinzione - E con questo? -
- Beh, e non è abbastanza da far scattare un allarme? Intendo: lui è andato lì contando di trovare Vivian, no? -
Il punto di vista espresso da Hillary diede modo di pensare al resto della classe.
Xavier viaggiò con lo sguardo lungo il soffitto, immerso in alcune intricate elucubrazioni.
- Le possibilità possono essere varie... - disse l'Ultimate Botanist - Magari l'assassino non era neppure lì. E' tornato in un secondo momento e ha preso Lawrence alle spalle...! -
- Chi mai, sano di mente, tornerebbe alla scena del crimine dopo aver ucciso Vivian!? - inveì Michael - Connetti il cervello! -
Kevin Claythorne abbassò la testa, tacendo tristemente.
- Mh, se davvero Lawrence si era recato sul posto per incontrare Vivian, ma ha incontrato il colpevole... - Judith mormorò qualcosa a voce alta - E' davvero possibile che non abbia pensato che niente fosse strano? O semplicemente fuori posto? -
- Che qualcuno fosse presente al laboratorio di pittura, da solo e senza Vivian nei paraggi, è abbastanza strano - commentò Rickard - Ma forse non abbastanza da  immediatamente pensare ad un omicidio -
- Forse è così. Ma non c'era davvero nulla che potesse ricondurre al delitto? - Pearl aveva un'aria affranta - Possibile che, semplicemente entrando, Lawrence non abbia percepito nulla di ciò che era accaduto? -
A Xavier Jefferson toccò un ulteriore sforzo mnemonico. La sua mente vagò tra i ricordi di appena un paio d'ore prima, nel momento esatto in cui Hillary aveva aperto la porta della stanza. 
Tentò di far riaffiorare alcune scene specifiche, estraendole da un'intricata matassa di pensieri e distrazioni.
Lo shock e la sorpresa di aver trovato due cadaveri non lo aiutava ad avere un quadro completo immediato; l'elaborazione avrebbe dovuto richiedere più tempo.
Immaginò se stesso a mettere piede nella stanza come se fosse la prima volta, provò addirittura a mettersi nei panni di Lawrence.
Una persona, probabilmente l'assassino, fermo davanti a lui. 
Ci doveva essere un modo per accorgersi della presenza di Vivian, seppur nescosta dal tavolo.
Poi, Xavier si pose la domanda più ovvia.
"Come ho fatto IO ad accorgermi di Vivian?"
Come un fulmine a ciel sereno, la risposta arrivò.
- C'era... uno schizzo di sangue sulla tela - disse.
L'attenzione di tutti si concentrò su di lui.
- Come? -
- Sangue sulla tela di Vivian - continuò lui - Se davvero l'assassino ha ucciso Vivian per prima, allora doveva esserci del sangue sul dipinto. E la tela era rivolta verso l'entrata della stanza; difficile non notarla -
Hillary annuì.
- Noi la abbiamo adocchiata solo dopo perché c'era... Lawrence - deglutì - Ma in effetti è piuttosto in vista -
- E la tela è piuttosto larga... - commentò Karol - Se anche l'assassino fosse stato davanti, Lawrence l'avrebbe vista -
Pierce si passò le mani tra i capelli furiosamente.
- Cavoli, ma allora che cosa diavolo ha visto Lawrence, quando è entrato!? - piagniucolò.
Nessuno sembrò trovare una risposta.
Judith ripassò in mente un'altra volta il corso degli avvenimenti.
Sperò di riuscire a trovare una traccia, o anche un semplice e banale indizio, ripercorrendo la dinamica.
- Qualcosa che Lawrence abbia potuto vedere in una situazione simile... senza che destasse sospetti... - mormorò - Qualcosa che gli ha fatto abbassare la guardia... finendo poi attaccato alle spalle -
- "Abbassato la guardia", eh? - sospirò June - Da questa definizione, uno può pensare solo a Vivian... -
Passarono all'incirca due secondi. Poi, Judith Flourish spalancò gli occhi, dilatandoli all'inverosimile.
Si voltò di scatto verso June Harrier.
- Cosa hai detto? -
June trasecolò.
- Co-come...? Io!? -
- Tu, June - insistette Judith - Cosa hai appena detto? -
Nessuno, tra i presenti, comprese il significato di tale veemenza.
- Ho s-solo detto... - June ripescò le parole appena pronunciate - Che... beh, a giudicare da ciò che abbiamo scoperto, si potrebbe dire che Vivian fosse l'unica in grado di... beh, "distrarlo". Era solo una battuta, eh! Vivian era morta! -
Judith rimase a contemplare quella frase con un'espressione persa ed incantata.
- Tutto bene, Judy? - la richiamò Rickard - Hai una faccia strana...! -
Lei non rispose, si limitò a prendersi altro tempo per pensare. Nessuno osò disturbarla.
Poi, all'improvviso, parlò.
- Non è che qualcuno si è... spacciato per Vivian? -
Momento di incertezza.
Inizialmente, quasi tutti presero l'asserzione quasi come fosse uno scherzo.
Poi, constatando che il viso di Judith non traspirava affatto mancanza di serietà, se non al massimo un briciolo di dubbio, gli altri furono costretti loro malgrado a tenere conto della cosa.
- Stai dicendo sul serio? - sospirò Pearl - E' un po' azzardata, come teoria -
- Ma non è... possibile? - perseverò l'Ultimate Lawyer - Voglio dire... con tutto quello che abbiamo stabilito, e di come fosse impossibile non accorgersi che era accaduto qualcosa... non pensate che l'unica cosa che potesse distogliere la mente di Lawrence da un pericolo incombente fosse che... ha visto proprio Vivian? -
- Oh, questa le batte proprio tutte! - la voce di Michael non tardò a farsi sentire - Judith, sarò franco: è una gigantesca cazzata. Anche se quello che dici ha senso, NESSUNO di noi potrebbe mai fingersi Vivian in modo credibile! La statura, i capelli...! Come si fa a replicare qualcosa del genere!? -
Judith arrossì visibilmente.
- I-io... - balbettò - Era solo un'ipotesi... - 
- Non lo so... - sospirò Kevin - Non sono troppo convinto... -
- E' una teoria un po' troppo tirata, credo - annuì Rickard - Ma, hey! Non ti abbattere, Judy! -
Pearl si mostrò vagamente interessata a quell'opinione.
- Mh, chissà? Magari non dovremmo escludere a priori la cosa -
- Oh, no... anche tu, Pearl? - Michael si rassegnò.
- Beh, mettiamo caso che l'assassino abbia trovato un modo per somigliare a Vivian e che poi se ne sia liberato... - disse - Magari una parrucca, o cose simili? -
L'idea non trovò l'approvazione di nessuno.
- Non so nemmeno da dove cominciare a dubitarne... dove diavolo se la sarebbe procurata!? - l'Ultimate Chemist tentò in tutti i modi di additare la conversazione come una gigantesca perdita di tempo.
- Non abbiamo controllato il deposito dell'immondizia... - si intromise Rickard - Ma dubito che troveremo qualcosa del genere -
- E poi non basta certo un travestimento per fingersi qualcun altro - Karol scosse la testa.
- Già, basterebbe una rapida occhiata alla faccia per smascherarne l'identità! - sbuffò Michael - O mi stai dicendo che il nostro caro assassino ha trovato un modo per cambiarsi il volto! -
Il dibattito cadde rapidamente nel silenzio. Judith e Pearl, contrariate ma sconfitte, dovettero fare retromarcia sulle proprie ipotesi.
La situazione non sembrava aver fatto alcun progresso considerevole.
Più di un volto sembrava aver perso le speranze di fronte a quel caso apparentemente impossibile.
Tranne uno.
Xavier Jefferson continuava a pensare, nella propria testa, di aver assimilato un dettaglio importante.
Qualcosa che lo forza a continui richiami nella memoria, ma che in qualche modo falliva ad ogni tentativo.
Un elemento nella conversazione appena fatta che gli dava fastidio.
Xavier sentiva che sarebbe bastata una singola spinta a condurlo verso ciò che stava cercando.
- Beh, se nessuno ha qualcos'altro da aggiungere sulla questione... - concluse Michael - Direi di accantonare la questione del travestimento prima che la nostra Ultimate Lawyer perda ulteriormente la faccia -
Xavier sbattè una mano sul banco.
- Faccia! -
Rimase per un attimo a contemplare ciò che aveva appena detto.
Si girò a destra, poi a sinistra: i suoi compagni lo stavano guardando come fosse un matto.
Si ricompose rapidamente, facendo finta che nulla fosse accaduto.
- Xavier...? Ti senti bene? - chiese June, preoccupata.
- "Faccia"... - continuò lui - Questa parola mi sta dando da pensare -
Rickard si passò una mano sul volto con fatica.
- E' partito per la tangente anche lui...! -
- No, non sono impazzito. Credetemi - continuò lui - C'è qualcosa che accomuna un mucchio di situazioni molto, molto strane. E quel qualcosa è: il volto, la faccia -
- D'accordo, basta enigmi - lo incitò Pearl - Cosa hai in mente, Xavier? -
L'Ultimate Detective tirò un respiro profondo e raggruppò tutto ciò che era riuscito a recuperare.
- La dinamica dei fatti è questa - Xavier decise di ricapitolare tutto un'ultima volta - L'assassino e Vivian sono assieme, bevono alla scrivania. Poi, il colpevole uccide Vivian, necessariamente in assenza di Lawrence. L'Ultimate Musician arriva, ma non notando niente di strano abbassa la guardia e il colpevole lo attacca alle spalle, uccidendolo. Abbiamo già descritto tutte le prove a nostra disposizione che confermano questa versione. Ora, mettiamo caso che Lawrence abbia DAVVERO scambiato il colpevole per Vivian... -
- Ancora con questa storia? - persino Karol sembrò infastidito - E' davvero così plausibile? -
- Stammi a sentire, ti dico! Crediamoci anche solo per un istante. Ora, è chiaro che Lawrence possa aver commesso un errore grossolano, ma è davvero possibile che non riconosca il viso della ragazza per cui ha un debole? No, io credo sia perché non POTEVA riconoscerlo! -
- Un metodo di ragionamento ad esclusione... - mormorò Judith, colpita - Interessante, ma come lo spieghi? -
- La faccia: tutto si riduce a riconoscere la faccia di chi ti sta di fronte... - disse - L'altro giorno incontrai casualmente Lawrence appena dopo il nostro incontro al ristorante, dove Karol ci aveva esposto la sua idea sul lavoro collettivo. Beh, sul momento non ci pensai ma... Lawrence mi salutò in modo assai peculiare -
- E cioè? - fece più di una voce.
- Mi chiamò... "Prof" -
Gli sguardi di tutti si fecero confusi e sperduti. Quello di Karol in prima istanza.
- "Prof"? Come Karol? - chiese June.
- Già. Mi aveva scambiato per lui, apparentemente - disse - Mi disse che non vedeva bene a causa di alcuni scatoloni che stava portando, ma in realtà non erano nemmeno così grossi. Credetti che Lawrence avesse avuto una semplice svista, ma... beh, con questa saliamo a quota due -
- Aspetta, dove vuoi arrivare? - lo interruppe Pierce - Vuoi dire che Lawrence non...? -
- Ecco quello che credo... - prese aria - Sono convinto che Lawrence Grace non fosse in grado di distinguere i volti -
Calò un pesante silenzio.
L'interdizione era tangibile.
- Lawrence!? Ma non ce ne ha mai parlato! - obiettò Rickard.
- Anche Hayley non ci aveva mai parlato della sua claustrofobia. Avranno avuto i loro motivi - continuò Xavier - E, a tal proposito, il dettaglio delle facce non ci riconduce ad un altro, importante dettaglio della scena del crimine? -
- Ah! So a cosa alludi! - intervenne June Harrier - Il dipinto...! -
- Proprio così - Xavier alzò il pollice in segno di assenso - Il dipinto di Vivian; lo ricordate? Due persone vestite di tutto punto, in un'atmosfera serena e gioviale. Mancava solo una cosa: i loro volti -
- Un'altra coincidenza sensazionale, non c'è che dire - ammise Michael - Ma che modo abbiamo di confermare tutto ciò? -
- Possiamo eccome. Nella maniera più semplice possibile -
Ad un tratto, Xavier Jefferson alzò lo sguardo verso il soffitto.
- Monokuma! - esclamò a gran voce.
Gli altri studenti rabbrividirono al solo sentirne pronunciare il nome.
- Xavier! Dovevi proprio chiamarlo adesso!? - si lamentò Rickard.
- Ora è il momento ideale - sorrise lui.
L'orso non tardò ad arrivare: la sua faccia comparve sugli schermi di tutto il tribunale, ridacchiando di gusto.
I suoi colori bianco e nero così intensi facevano quasi male agli occhi.
- Oh oh! Chi mi chiama? - esordì il pupazzo - Chi osa disturbarmi durante la mia pausa!? -
- Piantala con le sceneggiate - sbottò Xavier - Mi serve una prova, e tu me la procurerai -
Monokuma sembrò sospirare.
- I giovani d'oggi! Non sanno chiedere "per favore"! - si lamentò lui - Avanti, spara! Cosa ti serve? -
Il detective chiuse il suo unico occhio, pensando ancora una volta a tutto il proprio ragionamento. 
Sentiva di essere sulla strada giusta; non volle permettersi di perdere convinzione proprio alla fine.
- La cartella clinica di Lawrence Grace - rispose, in modo che tutti potessero udire.



Michael Schwarz prese in mano il fascicolo depositato poco prima sul proprio banco e cominciò a sfogliarlo con grande cura e attenzione.
Monokuma era riuscito a portare in tribunale la cartella clinica ad una velocità sorprendentemente sospetta; c'è chi pensava che l'orso aveva previsto tutto quello da ben prima che il processo cominciasse.
Ma, nonostante tutto, l'attenzione generale non era rivolta alle prestazioni dell'orso tanto quanto ad un altro, importante dettaglio.
La cartella clinica di Lawrence era semplicemente enorme, quasi sembrava un tomo enciclopedico.
Un gran numero di fogli era rilegato fino a formare un voluminoso e compatto ammasso cartaceo.
Kevin sperò che Michael non avesse realmente intenzione di leggerlo tutto, dal principio alla fine, dato che l'Ultimate Chemist parve immerso profondamente nella lettura.
Dopo aver sfogliato le prime due pagine, Michael andò avanti più rapidamente fermandosi ad intervalli irregolari.
Passarono almeno sette o otto minuti prima che finisse; nel mentre, il resto del gruppo era rimasto in silenzio, col cuore in gola.
Ad un tratto, Michael chiuse il fascicolo e lo piazzò davanti a sé, sul proprio banco.
Gli occhi dei compagni lo pregavano, scongiurandolo in silenzio di proferire parola in modo da fugare ogni dubbio e curiosità.
Michael si leccò le labbra, incerto su ciò che aveva appreso e ciò a cui avrebbe portato.
- Lawrence Grace... - disse - Era affetto da "Prosopagnosia" -
Vi fu incertezza sui volti della maggior parte dei compagni.
- E' come pensava Xavier, dunque... - annuì Judith.
- Sembra proprio di sì - Michael tentò di non perdersi in complimenti - Immagino di dover chiarire questo malessere per i profani: la prosopagnosia è un difetto della percezione cerebrale. Indica che una parte del cervello ha subito danni di qualche tipo, ma in alcuni casi può essere congenita. Senza sprecarmi in noiose e complicate spiegazioni: chi soffre di questo malessere è incapace di riconoscere i tratti somatici dei volti umani, e può variare da persona a persona -
Karol si asciugò la fronte dal sudore.
- Non posso crederci... - mormorò - Ma allora tutte quelle speculazioni erano... veritiere? -
- Non è detto al cento per cento, ma sembra che ci abbiamo azzeccato - annuì Pearl - Lawrence non era in grado di distinguere le facce -
- Un momento...! - intervenne June - Ma fino a che punto può spingersi questa... "prosopagnosia"? Voglio dire... per Lawrence era difficile persino distinguere la mia faccia da quella di Alvin, o Michael, per fare un esempio? -
L'Ultimate Chemist riprese il fascicolo, piazzando il dito in un inserto della prima pagina.
- Dipende dai casi. Sembra che Lawrence fosse un esempio molto grave - disse - Pare che ne soffrisse dalla nascita. La sua era una prosopagnosia piuttosto radicata, e  non riuscisse a distinguere assolutamente nulla. Come se... -
- Come se guardasse a delle superfici liscie e vuote? -
Xavier aveva usato quei termini peculiari per aiutare i compagni a ricollegare il tutto al dipinto.
- Precisamente - confermò Michael - Sembra che avesse persino difficoltà a distinguere le capigliature. Si tratta di un caso rarissimo, quasi unico -
Rickard incrociò le braccia; il suo volto assunse un'aria triste.
- Ecco che cosa intendeva... -
- Che intendi? - chiese Pierce.
Rickard alzò la testa.
- Quando indagammo per l'omicidio di Refia Lawrence mi disse una cosa... - ricordò lui - Il suo personalissimo metodo per vincere la paura del pubblico: immaginare che le persone della platea non avessero la faccia... -
Gli occhi di Kevin guizzarono verso il compagno.
- Hai... ragione! Lo ricordo! - esclamò - Diamine... se ci ripenso adesso... ma perché avrà voluto tenercelo nascosto? -
- Non è facile comprendere i motivi che spingono una persona ad agire in un certo modo - rispose Pearl, con una punta di angoscia - La risposta potrebbe essere... complicata -
Judith si diede dei buffetti sulle guance, imponendosi di concentrarsi.
- Va bene, gente, non perdiamoci d'animo. Abbiamo ottenuto un indizio importante - asserì - Dobbiamo sfruttarlo a dovere! -
- Ma come, esattamente? - si domandò Pierce, con voce sconfitta - Se non poteva riconoscere nessuno, allora poteva seriamente essere chiunque, no? -
- Ci sono dei limiti a questa cosa. E' molto probabile che Lawrence abbia creduto di avere Vivian di fronte a sé, questo sì - continuò Xavier - Ma, citando l'esempio precedente di June, se si fosse trovato davanti qualcuno come Alvin, difficilmente si sarebbe sbagliato -
Passarono alcuni istanti in cui la classe dovette compiere diverse considerazioni.
Alla fine, tutti giunsero alla medesima conclusione.
- Se davvero l'assassino poteva sembrare Vivian... - fece Rickard.
- E se Lawrence aveva difficoltà unicamente con il volto... - continuò Karol.
- Allora la spiegazione è una sola - annuì Pierce.
Xavier fu la voce del pensiero comune.
- Il colpevole è una ragazza - decretò - Difficile dire altrimenti -
Judith, June, Hillary e Pearl si scambiarono alcune occhiate fugaci e apprensive.
Le quattro ragazze del gruppo cascarono in un silenzio pesante. Una meno delle altre.
- Se state insinuando che io possa aver ucciso Vivian... - ringhiò Hillary.
- A questo punto non mi sorprenderei più di niente, Hillary - ribatté Michael - Risparmiaci le tue minacce infondate. Tra l'altro, la tua statura è quella più vicina a quella di Vivian. Sei la più sospetta -
- Aspettate un attimo! - Judith li fermò prima che Hillary perdesse definitivamente la pazienza - E' davvero così? Non abbiamo prove più concrete per stabilire che  l'assassino è una donna...? Stiamo parlando di prosopagnosia, no? Lawrence potrebbe avere avuto una svista ben maggiore...! -
- Mi dispiace, Judith, ma c'è una prova ben più incriminante - le rispose Xavier.
Flourish strinse i pugni.
- E cioè!? Cos'altro potrebbe esserci che non abbiamo considerato!? -
- C'è ancora un dettaglio che non ho esposto alla vostra attenzione. Attendevo il momento giusto, ed eccolo qui -
- Xavier, condividi il tuo pensiero con noi. Te ne prego - lo incentivò Karol.
Jefferson fece scivolare il suo unico occhio lungo la piccola platea, assicurandosi di avere completa attenzione.
Poi, parlò.
- Ho realizzato qualcosa, nel corso del processo. Vi erano alcuni frammenti di vetro raggruppati sul corpo di Vivian - disse, mantenendo un ritmo incalzante - Beh, in prima istanza credevo fossero resti della bottiglia, ma poi ho notato che i pezzi di vetro non coincidevano. Ve ne erano ben DUE tipi diversi -
- Due, dici? - June era incuriosita - Non ci ho fatto minimamente caso...! -
- Era una differenza sottile, ma evidente - proseguì lui - Alcuni dei frammenti appartenevano, in effetti, alla bottiglia. Ciò mi fa pensare, tra l'altro, che questa possa essere la vera arma del delitto -
- Come? La bottiglia? - fece il confuso Pierce - E la statuetta? -
- Credo che l'assassino abbia piazzato la statua per far sembrare che ci fossero due armi diverse, avallando la possibilità che Vivian e Lawrence si fossero uccisi a vicenda. Pensateci, se l'unica arma presente fosse stata la bottiglia, allora sarebbe stato subito chiaro che era opera di un terzo. Dopotutto, Vivian è morta sul colpo, non avrebbe mai potuto usare la bottiglia rotta per uccidere Lawrence -
Pearl annuì ad ogni istanza della spiegazione.
- Sì, mi sembra tutto corretto. La statuetta nemmeno presentava ammaccature degne di nota - sospirò - Avremmo dovuto notarlo prima -
- Ma allora da cosa derivano gli altri frammenti? - fu la giusta domanda di June Harrier.
A quel punto, Xavier estrasse dalla tasca un piccolo frammento di vetro chiaro mostrandolo a tutti i presenti.
- Questo lo ho preso dalla scena del crimine. E' il... "secondo tipo" di vetro - disse - E sono certo che Hillary saprà riconoscerlo, dico bene? -
L'Ultimate Clockwork Artisan sobbalzò, credendo dapprima che si trattasse di qualcosa di incriminante.
Avanzò timidamente lo sguardo verso la mano di Xavier: qualcosa, in effetti, le venne alla mente.
- E'... come quello su cui mi sono tagliata stamattina...! - esclamò - E' una lampadina! -
- Precisamente. E, ridotta in pezzetti, è difficile distinguerla dal resto della bottiglia - Xavier tornò al suo posto - Ah, ci terrei a ricordare che ho trovato questi pezzi sulla gonna di Vivian. Ciò vi suggerisce niente? -
Stavolta fu Judith a farsi avanti.
- Vuol dire che il sovraccarico di corrente è avvenuto DOPO l'omicidio, giusto? - disse lei.
- Esattamente. Ora abbiamo anche un quadro più chiaro delle tempistiche - Xavier sembrò compiaciuto - Ma c'è ancora un altro punto importantissimo. Pearl, ricordi quando mi mandasti a chiamare Vivian? -
- Senz'altro, ne abbiamo già discusso - fu la risposta secca della ninja.
- Beh, e' accaduto DOPO il blackout. E, quando sono tornato, vi dissi che Vivian mi aveva detto che... "aveva da fare" -
Tutti i presenti rimasero a bocca aperta in un solo istante.
Si scatenò il panico.
- A-aspetta solo un momento! - Rickard non credeva alle proprie orecchie - Ma è impossibile! Hai parlato con Vivian dopo il blackout! Ma lei è morta prima di esso! -
- Oh, cavolo, un altro inghippo...! - si lamentò Kevin.
- Che cosa accidenti sta succedendo in questo dannato caso!? - sbraitò iracondo Michael - Lawrence non vede i volti, Xavier parla ai morti... e cos'altro!? -
Xavier tossì rumorosamente, cercando di recuperare l'attenzione di tutti.
- Ci terrei a correggerti, Mike. Non ho parlato ad un morto. Bensì ad una persona che, per ben due volte, ha finto di essere Vivian Left -
- "Due volte"... - mormorò June - Vuoi dire che l'assassino... -
- "L'assassina"... - proseguì il detective, marcando il sostantivo al femminile - Ha sfruttato la prosopagnosia di Lawrence per spacciarsi per Vivian. Poi, dopo aver ucciso entrambi, ha chiuso la porta a chiave. Quando sono arrivato io, mi ha mandato via fingendosi l'Ultimate Artist -
- E tu non hai riconosciuto la voce? - obiettò Pearl.
Xavier si grattò la nuca.
- E'... alquanto imbarazzante. Ma devo averci prestato poca attenzione - si scusò lui - Inoltre la voce proveniva dal fondo della stanza; non era perfettamente udibile. Solo una cosa è sicura: era una donna -
- E immagino tu abbia idea di chi si tratti, giusto? - chiese Kevin, speranzoso.
Xavier sospirò.
- Le mie idee convergono su un singolo soggetto. L'unico modo che aveva la colpevole di essere a conoscenza della prosopagnosia di Lawrence è che lo avesse saputo da una delle due sole persone che ne erano al corrente: lo stesso Lawrence, e Vivian -
Vi fu un ulteriore momento di incertezza.
- Vivian sapeva della...? - incespicò Judith - Ah, ma certo! Il dipinto...! -
- Già, quel ritratto prova che Vivian conosceva il malessere di Lawrence - annuì Xavier - Ora, quale persona possiede un fisico ed un timbro vocale vagamente simili a  quelli di Vivian e le era abbastanza legata da poterle parlare in confidenza di argomenti... delicati? -
L'Ultimate Clockwork Artisan non tardò ad esprimere il proprio dissenso.
- Piantala... con queste idiozie... - mormorò Hillary con occhi infuocati - Stai accusando me, dico bene!? -
- Non riesco a pensare a nessun altro, Hillary - la additò Xavier - Hai ucciso Vivian e Lawrence. Sei tu l'assassina! -
Pierce riuscì a vedere il momento esatto in cui Hillary stava per compiere un balzo felino verso il compagno.
Accadde tutto nel giro di un attimo; la ragazzina sarebbe probabilmente riuscita nel proprio intento se non fosse stato per l'intervento di Pearl Crowngale.
L'Ultimate Ninja aveva afferrato il braccio di Hillary, tenendola saldamente a sé ed impedendole di fare qualche sciocchezza.
- LASCIAMI! LASCIAMI, PEARL! - le gridò contro - GLI FARO' RIMANGIARE TUTTO! TUTTO QUANTO! -
- Non ce n'è bisogno, Hillary - la rassicurò Pearl - Xavier non può incolparti. Quindi, adesso, calmati -
- N-non... può..? Cosa..? -
La ragazzina dai capelli rossi ritornò lentamente alla calma a quelle parole.
Ma, più di tutti, a rimanere di sasso fu Xavier.
- Che intendi con "non può incolparti", Pearl? - sbottò Xavier - Sai, lo ho appena fatto -
- Mi deludi, Xavier - sospirò la bionda - Eri così intento a mettere in piedi la tua perfetta logica che non hai fatto caso al dettaglio più stupido: l'alibi -
La pupilla del detective si dilatò.
- L'a-alibi...!? -
- Non ricordi? Io e Hillary siamo rimaste sempre insieme per tutta la mattinata - spiegò lei - E, quando hai parlato con "Vivian", Hillary era con me. Non si è mai mossa -
Xavier Jefferson rimase impietrito.
Vide la sua versione dei fatti rapidamente sgretolarsi dalle proprie mani.
- Un momento... - biascicò lui - Allora... -
- Ah, e lascia che ti corregga sulla tua teoria "Il colpevole è una donna" - proseguì Pearl - Nel momento in cui hai parlato con la tua ipotetica assassina, tutte noi ragazze avevamo un alibi. Io ed Hillary eravamo in cucina, Judith era con Karol. E June... beh, tu lo sai più di tutti. Giusto, Xavier? -
June Harrier alzò lentamente la mano.
- Sì, io e Xavier ci siamo incontrati appena pochi istanti dopo... - disse - Non potevo essere lì dentro; il laboratorio non ha altre uscite -
- Oh, cielo... siamo punto e da capo - Rickard appoggiò la testa sul banco.
- Questo caso sembra non avere mai fine - persino Judith Flourish sembrava estremamente provata - Sto perdendo le forze... -
Xavier rimase fermo, immobile, contemplando il proprio grossolano fallimento.
Ripercorse innumerevoli volte il filo logico che lo aveva condotto a quella conclusione, ma non sembrò venirne a capo.
Era convinto di non aver sbagliato, era sicuro di non aver commesso errori nel considerare imprevisti ed eventualità.
Ma il tutto si riduceva a quell'unico, inesorabile dettaglio che attanagliava la sua teoria: tutti i suoi sospettati avevano un alibi.
"Cosa ho sbagliato...?" si chiese ripetutamente "Dove ho commesso l'errore che mi ha condotto in questo vicolo cieco?"
Si sentì mancare l'energia dalle gambe; queste iniziarono a cedere sotto il peso di numerosi sforzi andati invano.
Si appoggiò con i gomiti al banco, tentando di trovare un minimo appoggio.
Mise la testa tra le braccia, poggiando la fronte contro il legno del banco, e chiuse l'occhio.
Era calato nuovamente il silenzio, nell'aula di tribunale.
Nessuno osò proferire parola, nessuno ebbe né il coraggio né la forza di andare avanti.
Poi, come dal nulla, una voce si fece largo nel fiume di incertezza e paura che aveva straripato, inondando gli animi di tutti.
Una voce forte, ma pacata e gentile.
- Non arrenderti, Xavier -
L'Ultimate Detective sollevò il capo; ad incontrare il suo sguardo vi erano gli occhi calmi e profondi dell'Ultimate Teacher.
- Karol...? -
- Hai fatto un ottimo lavoro, Xavier - si congratulò con un sorriso - Sono convinto che la tua ipotesi non sia affatto errata. Mi ha aiutato a fare chiarezza in questo caso. Di questo, ti sono grato -
- Di che stai parlando, Karol...? - Xavier abbassò nuovamente la fronte - Non c'è via d'uscita... ho completamente toppato! -
- Non è così. Hai incontrato un ostacolo difficile - Karol si sistemò la cravatta - Tocca a me aiutarti a superarlo -
Xavier Jefferson notò una stilla di confidenza negli occhi dell'Ultimate Teacher.
Una forza che, prima di quel momento, non aveva mai visto.
Karol, che fino a poco prima brancolava nel buio come tutti gli altri, in quel momento stava dando sfoggio di una determinazione senza eguali.
Come l'avesse trovata, o per quale motivo, Xavier ancora lo ignorava.
- Prof, cosa stai dicendo!? - intervenne l'Ultimate Archer - Credi davvero di poter trovare una soluzione? -
- Non lo credo: la ho - esclamò Karol Clouds, sorprendendo tutti.
- Non sarà mica un bluff? - Michael era ancora poco convinto.
L'insegnante scosse gentilmente la testa.
- Ho messo insieme i pezzi sparsi e raccolti da ognuno di voi. Grazie al vostro aiuto sarò in grado di dare un epilogo a questa... triste vicenda. Ho capito tutto, ragazzi. E la verità, ancora una volta, non sarà piacevole... ma lo farò. Se è per proteggere i miei studenti, e per dare pace a Lawrence e Vivian... lo farò -
Battè pesantemente la mano destra sul banco.
- Smaschererò l'assassino. Qui. Ora -
 

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Capitolo 29
*** Capitolo 3 - Parte 7 ***


Dire che Karol Clouds avesse calamitato l'attenzione sarebbe stato oltremodo riduttivo in quelle circostanze.
Il suo discorso, solenne ma determinato, aveva elargito un ultimo barlume di speranza nei cuori di ognuno.
Xavier, prima di tutti, non riuscì a fare a meno di guardare intensamente il volto corrugato dell'Ultimate Teacher, pregando affinché le sue labbra si muovessero e  chiarissero tutta quell'assurda faccenda, sperando che pronunciasse le parole che lo avrebbero liberato da tutto quell'insostenibile peso.
Il detective si lasciò sfuggire un'occhiata di orrore e paura verso la porta che conduceva alla sala delle punizioni; l'incubo di ritrovarcisi dentro si stava concretizzando sempre di più.
Unico salvagente in quell'oceano in tempesta sembrava essere il composto e maturo Karol Clouds.
Nessuno osò fiatare ulteriormente; tutti attesero che l'insegnante pronunciasse ciò che gli competeva.
- Se ho la vostra completa attenzione... - cominciò Karol - ...allora inizierò -
- N-non è uno scherzo, vero? - ansimò Kevin, terreo in volto - Hai davvero capito chi è l'assassino? -
- Ho ragione di credere che sia così - confermò Karol - Ragionando da una prospettiva un po' strana, certo. Ma ho ben pochi dubbi al riguardo -
Pearl sospirò.
- D'accordo, Prof. Ti ascoltiamo -
L'Ultimate Teacher si asciugò una goccia di sudore dalla fronte, poi si strinse il nodo alla cravatta che portava al collo.
- Prima di tutto, però... vorrei prendermi la libertà di concedermi un "desiderio infantile" - disse, gettando tutti in confusione.
- Co-come...? - Rickard espose una faccia esterrefatta - Che significa? -
Karol dovette raccogliere un po' di saliva in più; la gola gli si era seccata in fretta.
- Sto per indicare il colpevole, ma... vorrei con tutto il cuore che si facesse avanti spontaneamente -
L'intera sala cadde in un silenzio imbarazzante.
Karol chiuse semplicemente gli occhi, attendendo risposta.
Michael non si curò nemmeno di fargli la predica: il suo volto esprimeva già perfettamente tutto ciò che pensava.
Judith e June non poterono fare a meno di provare empatia per quel tentativo nato solo per essere fallimentare.
Kevin, Rickard, Hillary e Pierce rimasero muti, più sbalorditi che altro; compresero a loro volta il peso di quelle parole.
- Karol... - Xavier scosse il capo - Non accadrà mai. Questo lo sai, vero...? -
- Lo so. E' una speranza vana, un falso idillio - annuì l'Ultimate Teacher - Un "desiderio infantile", per l'appunto. Ma vorrei davvero non doverlo fare. Speravo ci fosse almeno una possibilità che il colpevole potesse fare ammenda -
- La posta in gioco è troppo alta, Karol - concluse Pearl - L'assassino lo sa bene, credimi -
- Avete ragione, vi chiedo di perdonarmi - Karol abbassò la testa - Allora... procediamo -
I dieci studenti contemplarono quel pesante silenzio per diversi lunghissimi secondi.
Karol Clouds si schiarì la voce.
- L'assassino, stando a quanto abbiamo compreso, ha interagito con tre persone nel corso dell'omicidio - cominciò lui - La prima volta è stato con Vivian: il colpevole era in sua compagnia, e la ha uccisa. Le dinamiche della vicenda sono abbastanza chiare; abbiamo motivo di credere che abbia usato la bottiglia come arma contundente -
Nessuno ebbe da ridire. Il professore andò avanti.
- La seconda volta si è trovato davanti Lawrence Grace. A causa della prosopagnosia di quest'ultimo, l'Ultimate Musician ha creduto di trovarsi di fronte Vivian. In quel momento, l'assassino ne ha approfittato e lo ha ucciso cogliendolo impreparato. Se il colpevole sapesse o meno della malattia di Lawrence... è un dato indefinibile, ma non essenziale. Infine, passiamo alla terza occasione... -
Xavier deglutì rumorosamente.
- Stando alla testimonianza di Xavier e alle prove, la persona con cui ha parlato oltre la porta del laboratorio non era Vivian; questa era già morta prima del blackout. In pratica, dopo l'omicidio di Vivian, due persone hanno confuso l'assassino per Vivian Left. E, considerando ciò, è plausibile pensare che si tratti di una ragazza -
Karol prese una breve pausa, assicurandosi che tutto fosse chiaro per ognuno.
- Come indicato da Pearl, però, tutte le donne della nostra classe hanno un alibi per almeno uno dei momenti in cui l'assassino ha interagito con qualcuno. Ciò potrebbe portarci verso un vicolo cieco... o verso la verità -
- La verità, dici? - domandò June - Ma le prove si contraddicono da sole! -
- No, dobbiamo applicare un ragionamento diverso. Qualcosa che Judith ci ha già suggerito... - disse Karol, suscitando sorpresa nell'Ultimate Lawyer - Un ragionamento per esclusione. Se il colpevole non può essere una donna... allora è un uomo. Semplicissimo -
La risposta non diede in frutti sperati.
- Questo non ci aiuta molto... - annaspò Xavier - E poi la cosa non ha il minimo senso...! -
- Ce l'ha, se consideri una cosa importante - il volto di Karol si scurì - Pensateci, se il colpevole è un uomo, una di queste tre "interazioni" cambia completamente di senso. Lawrence era affetto da una gravissima prosopagnosia; confondere maschi e femmine potrebbe essere plausibile per qualcuno in quello stato. Ma, Xavier, tu hai sentito una voce femminile. Capisci dove voglio arrivare? -
L'Ultimate Detective si passò la manica della giacca per asciugarsi il mento dal sudore.
Spremette le meningi più e più volte.
- Io... maledizione...! - 
- Te lo dirò chiaro e semplice... - Karol sbatté nuovamente la mano sul proprio banco - Stiamo cercando un uomo con una voce da donna. O, per meglio dire... un uomo in grado di "replicarla"... -
Si udì un tonfo sordo; Judith Flourish aveva appena realizzato qualcosa di fondamentale. Le sue braccia collassarono sul banco.
L'unica pupilla di Xavier si dilatò; la sua mente fu completamente vittima dello stupore.
- No... - balbettò Xavier - No, non puoi dire sul serio... -
- Stiamo scherzando...? - June Harrier restò impietrita - Ditemi che non sta accadendo sul serio...! -
Karol abbassò lo sguardo un'ultima volta. Mai come quel momento aveva desiderato ardentemente che il vero colpevole si fosse fatto avanti da solo.
Sarebbero state parole complicate da pronunciare: una condanna, un verdetto di morte, un proiettile verbale. 
Un male necessario, che andava compiuto.
- Spesso tendiamo a dare per scontato che ci troviamo con persone completamente fuori dal comune... benedette da un talento innato e senza pari - mormorò Karol Clouds - Un talento che più di una persona è costretto ad usare per un fine ben poco nobile. Se cerchiamo un uomo con una voce in grado di ingannare Lawrence e Xavier, allora posso pensare ad un solo individuo; qualcuno che fa della voce il proprio mestiere, "l'uomo dai mille volti"... sto parlando dell'Ultimate Voice Actor -



Rickard Falls si ritrovò circondato da numerosi sguardi pieni di astio, stupore e paura.
L'atmosfera di apatia e disagio si era completamente ribaltata in un focoso misto di emozioni inorridite.
Lo stesso Rickard, però, mostrò un volto vacuo, quasi neutro: una faccia che, a prima vista, sembrava quella di qualcuno che ancora nemmeno aveva realizzato la  propria posizione e il grave pericolo che correva.
I suoi occhi rimasero sbarrati verso l'indice di Karol Clouds, che puntava dritto verso di lui.
La bocca gli si aprì leggermente, come ed esprimere uno sbigottimento tacito.
Poi, ad un tratto, il suo volto divenne quasi blu dal terrore.
- Co... - la voce, inizialmente, non gli uscì - Cosa...? Cosa hai detto...? -
- Rickard, non amo ripetermi, ma se desideri che io sia più esplicito... - Karol dovette masticare a fondo quell'ultima frase - Sei stato tu... sei l'assassino -
L'Ultimate Voice Actor rimase immobile, attonito. In maniera del tutto imprevedibile, uno strano sorriso gli comparve in volto.
- Heh... no, un momento - sorrise Rickard - Non stai dicendo sul serio, no? Voglio dire... non stai davvero accusando me, vero? -
Nessuno fu in grado di commentare quella frase.
Rickard ebbe la necessità di guardarsi di lato: tutti i suoi compagni gli stavano rivolgendo la stessa, identica occhiata, con le dovute differenze.
Xavier era costernato, devastato; esattamente come Kevin e Pierce.
Persino Pearl dovette fare i conti con quella svolta talmente assurda.
Hillary, invece, sembrò che si stesse trattenendo dal saltargli alla gola.
Michael lo fissava in cagnesco, allo stesso modo che aveva riservato ad Alvin ed Hayley.
Rickard Falls ritornò a guardare in avanti, fronteggiando lo sguardo severo di Karol Clouds.
- Ragazzi... ma che vi... prende...? - sorrise di nuovo lui - Non è possibile, non me! Heh... heh... non posso essere stato... -
- Smettila, Rickard... - lo zittì Pearl - Ti è stata rivolta un'accusa. Ora, difenditi -
Il suo sorriso svanì rapidamente.
- Ma Pearl, io... io...! - un copioso sudore iniziò a formarsi sul suo volto - Io.... IO...!? COSA!? State incolpando ME!? - 
- Rickard, qual è il tuo alibi per l'ora di pranzo? - lo incalzò Judith.
Il doppiatore si bloccò.
- Io n-non...! -
- Non ce l'hai...? - ringhiò Hillary - Stai dicendo che avresti potuto essere lì dentro, a massacrare quei due...? -
- NO! - si dimenò lui - E' a-assurdo! Inconcepibile! Mi state incolpando di essermi... "spacciato per Vivian"!? Io!? -
- Sei l'unico che avrebbe mai potuto fare qualcosa del genere... sei piuttosto famoso per aver recitato ogni tipo di ruolo, anche femminile - continuò Karol.
- Tu stesso ci hai parlato spesso dei vari film che hai doppiato in passato, no...? - mormorò tristemente June - Non mi sorprenderebbe se uno come te sapesse modificare la voce a tal punto... -
Rickard Falls scosse con veemenza la testa.
- N-no che NON ne sono capace...! Andiamo, è ridicolo! - gridò - Secondo voi sarei in grado di imitare un timbro vocale talmente alla perfezione da risultare identico a Vivian!? E dove avete le prove!? -
Michael Schwarz sbuffò con irritazione.
- Bah! Ovvio, ora come ora non ce ne daresti mai una dimostrazione! - sbottò lui - Rimpiango solo che tu non ti sia pavoneggiato del tuo talento con la classe, altrimenti ora ti avremmo già sbattuto dentro quella maledetta stanza! -
A quelle parole, qualcosa scattò dentro Rickard Falls. Qualcosa di profondo e celato.
I suoi occhi persero qualsiasi luce, i suoi muscoli si rilassarono.
Il suo sguardo, però, era rigido ed infervorato.
Judith notò qualcosa, nel compagno. Qualcosa di strano, quasi mistico; come se fosse intervenuta una persona del tutto diversa.
Come se quel Rickard Falls fosse rimasto nascosto per tutto il tempo, in attesa di colpire.
- "Quella maledetta stanza", eh? La sala delle punizioni...? - sibilò - Volete... volete vedermi morto, non è così? No, io non entrerò lì dentro. Vi farò rendere conto del vostro errore madornale... -
- Rickard...! - implorò Kevin - I-io non voglio credere che sia stato tu, però...! -
- Però...? PERO'!? Anche tu leggi "Colpevole" sulla mia faccia come tutti gli altri, non è così!? -
L'Ultimate Botanist non riuscì a replicare.
- Basta lamentele, Rickard... - lo appellò Xavier - Se hai qualcosa da dire per discolparti, dilla adesso -
- Ah... con piacere - Rickard strinse i pugni - Sai, Xavier, mi stavo giusto chiedendo... esattamente come siamo arrivati a parlare di quella "voce" che tu affermi di aver sentito? -
L'Ultimate Detective colse la provocazione.
- Quando abbiamo parlato di come Pearl mi ha mandato a chiamare Vivian... -
- Oh, è così? Ottimo - disse Rickard, con tono infastidito - E dimmi, chi può confermare questo evento? Eri da solo, no? -
- Ero da solo... - confermò Xavier a malincuore.
- Immagino che abbiate tutti intuito di cosa sto parlando - sorrise lui - Quella conversazione con l'assassino te la sei inventata di sana pianta! E' solo un metodo per avere un alibi vagamente stabile! -
- Mi stai accusando di essere l'assassino, Rickard!? - 
- Proprio così, Xavier! Anche tu non hai nessun alibi dal momento in cui hai incontrato Pearl ed Hillary fino al momento in cui hai incrociato June in corridoio! -
L'Ultimate Detective si ritrovò nuovamente con le spalle al muro.
- Questo... è vero - osservò June.
- Come...!? Hey, io non ho inventato un bel niente! - protestò Xavier - Rickard si sta divincolando dalle accuse con un espediente! -
- Un espediente, dici? Il fatto che tu non abbia uno straccio di prova a testimonianza di ciò che hai sentito è un elemento concreto! Hai ucciso Vivian e Lawrence, hai sistemato la scena del crimine, e poi hai fatto finta di uscire dal laboratorio dicendo che la porta era chiusa e che Vivian ti aveva parlato! -
I due si scambiarono feroci sguardi di sfida.
- Questo rappresenta un problema... - commentò Judith - Come possiamo stabilire chi dice il vero e chi il falso...? -
- L'assassino è uno tra Rickard e Xavier...? - Hillary assaporò quelle parole.
- Deve esserci qualche altra prova che può aiutarci a decretare la verità...! - esclamò Pierce - Qualunque cosa...! -
Rickard colpì il banco con un pugno.
- Non c'è un bel niente! Ma non capite che Xavier ha tentato di fregarci fin dal principio!? - Rickard lo additò furiosamente - La verità dei fatti sta nella sua palese bugia! -
- No, Rickard. Qualcosa c'è -
Falls si pietrificò una seconda volta.
Girando lentamente il volto alla propria destra notò che Karol Clouds non aveva perso nemmeno un briciolo della propria compostezza.
Judith Flourish assistette nuovamente alla "trasformazione" di Rickard: il lupo era tornato agnello.
- Come...? -
- Rickard, non sottovalutarmi - disse l'Ultimate Teacher - Ti ho accusato perché il mio ragionamento segue un filo logico fino in fondo. Non mi sarei di certo fermato a considerare soltanto la storia di Xavier -
I folti capelli di Rickard iniziarono a grondare di sudore, sempre più copiosamente.
- Co-cosa...? No... non è possibile... -
- Lo è. E sarò costretto a dimostratelo - proseguì Karol, col volto sempre più contratto dalla sofferenza - Il punto di vista di Xavier mi serviva ad indicare la tua probabile colpevolezza, ma la vera prova definitiva risiede in ciò che è accaduto nel laboratorio di pittura. Più precisamente, negli eventi riguardanti la morte di Lawrence Grace -
- Hai un altro asso nella manica, Prof!? - fece Pierce, speranzoso.
- No, è chiaramente un errore...! - si oppose Rickard - E' impossibile poter capire cosa... -
- Rickard. Conosci nel dettaglio la prosopagnosia? - proseguì Karol - Essere incapaci di poter scorgere il volto altrui può essere causa di molti problemi. Ma stiamo dimenticando un altro fondamentale ostacolo che Lawrence ha incontrato recandosi sul posto - 
Ognuno si immerse nei propri ragionamenti, tentando di capire a cosa potesse riferirsi Karol.
- Un ostacolo, dici? - chiese June.
- Qualcosa di fisico, non relativo alla malattia in sé - annuì lui - Sto parlando del tavolo di marmo -
Xavier spalancò di nuovo la pupilla.
- Il tavolo? -
- Dobbiamo considerare che è piuttosto largo ed imponente. Ma, soprattutto, alto. Avrà come minimo un metro di altezza - spiegò lui - E dobbiamo anche valutare le circostanze: nel momento in cui Lawrence è arrivato, l'assassino era dalla parte opposta del tavolo, ad occuparsi del corpo di Vivian. Ma se pensiamo alla situazione ponendo il tavolo in mezzo, cosa otteniamo? -
- Karol... - ansimò Rickard - Karol, smettila... -
- Ve lo dico io: Lawrence non solo non poteva vedere il volto di chi aveva davanti, ma nemmeno la parte inferiore del corpo. Che fossero i pantaloni di un maschio o la gonna di Vivian, era un dettaglio che non poteva scorgere dal punto in cui era. L'unico dettaglio estetico che era in grado di scorgere era... il busto -
- Karol... basta! - lo implorò lui - E' tutto un grosso errore...! Ti stai...! -
Ma il discorso imperterrito di Karol non trovò fine.
Come un fiume in piena che distrugge gli argini, l'Ultimate Teacher sapeva che non poteva fermarsi.
Sapeva che la verità era a portata di tiro: l'unico ostacolo era un Rickard Falls ridotto in lacrime.
Trattenendo a stento le proprie, Karol Clouds prese aria, pronto a dare il colpo di grazia.
- L'unico indumento riconoscibile da Lawrence era ciò che la persona in questione stava indossando al momento. E Lawrence ha pensato che si trattasse di Vivian... perché lei in quel frangente stava ancora indossando il maglioncino rosso che le ha fatto Pierce -
- NO, KAROL...! TI PREGO, SMETT-...! -
- Rickard, lo stai indossando anche tu. In questo momento - lo indicò Karol - Un maglioncino rosso, bello largo. Tu e Vivian eravate gli unici ad indossare quel colore. E tu sei abbastanza snello, Rickard... -
Un sibilo d'aria uscì dalla bocca di Rickard Falls, lì dove la frase avrebbe dovuto terminare.
Non uscì quasi più niente, se non qualche colpo di tosse nervosa.
La sua faccia aveva perso ogni colore, come i suoi occhi: spenti e vuoti.
Abbassò lentamente lo sguardo, osservando il proprio maglione.
Morbido e accogliente, fatto a mano. Ricordò le buffe parodie natalizie che aveva inscenato per divertire il resto della classe.
Ricordò il timido volto di Pierce mentre glielo consegnava.
Ricordò quel momento in cui tutta la classe sembrò, solo per poco tempo, libera da ogni preoccupazione. Libera, felice.
I ricordi iniziarono a confondersi e a mutare.
Rickard Falls si perse in una reminiscenza lontana, una dal quale non parve volersi svegliare.
Le sue braccia caddero verso il basso, le gambe gli cedettero.
Si ritrovò in ginocchio davanti al resto della classe.
- No... no... non doveva... andare così... è tutto... heh... sbagliato... tutto, tutto quanto... lei, lui... non... io... -
- Rickard... - Karol si morse il labbro. Una lacrima uscì anche dai suoi occhi - E' finita... -
L'Ultimate Voice Actor si rimise in piedi a fatica, ma non vi era nessun segno di vita nella sua espressione.
- Finita...? E' finita così...? - mormorò febbrilmente - No... non può... non deve... ho ancora... così tanto da fare... così tanto da... dirle... devo andare, andare via... io... io...! IO...!! -
Quell'ultimo urlo fu completamente soffocato dalle lacrime.
Xavier e Pierce abbassarono il capo.
Judith e Pearl rimasero ferme a guardare il pietoso spettacolo, incapaci di dire o fare alcunché.
Michael decise semplicemente di voltarsi di spalle; volgendo il proprio disprezzo altrove.
Kevin, il più affranto, si ritrovò a piangere quasi quanto Rickard. 
Hillary aveva perso ogni sintomo di emozione; i suoi occhi erano infuocati. Il braciere che ardeva in quelli di June Harrier, invece, come ogni volta, si era spento sotto le lacrime dell'assassino. June cominciò a piangere a propria volta, nuovamente incapace di odiare.
- Io devo uscire... uscire, uscire, uscire... - Rickard respirò a fatica - Devo andare... devo raggiungerla, devo parlarle! -
Poi, la sua voce si spense quasi del tutto.
Si udì un unico, ultimo sussurro morente.
- Devo... vederla... ancora una volta...! -

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Capitolo 30
*** Capitolo 3 - Parte 8 - Reminiscenze ***


Anno XXXX, Ottobre, Giorno X


Le sere dei primi di Ottobre avevano cominciato a far sentire sempre di più lo stacco tra la fine dell'Estate e l'inizio dell'Autunno; sempre meno gente andava in giro con indumenti leggeri, e i primi maglioncini pesanti avevano cominciato a fare capolino tra le vie cittadine.
Iniziava il periodo freddo dell'anno; triste e grigio per i più, ma non per Rickard Falls.
Quel pomeriggio aveva finalmente rispolverato dall'armadio la sua felpa rossa preferita, amica di vecchia data e compagna di mille battaglie.
Munita di larghe tasche laterali e di un comodo cappuccio, la riteneva la più affidabile alleata per le lunghe sessioni di lavoro invernali; a causa del freddo di quell'anno, la felpa dovette prestare servizio anticipato.
Rickard si strinse nella felpa e si stiracchiò, allungando le braccia lungo lo schienale del divanetto di velluto della sala d'attesa.
Guardò fuori dalla finestra: le fronde degli alberi avevano cominciato ad oscillare sempre di più. Si era alzato un vento apparentemente implacabile, probabilmente accompagnato da una severa ondata di freddo.
Niente a che vedere con la comodità della stanza d'attesa dello studio, riscaldata e profumata di caffè, segno indiscutibile che la macchinetta nell'angolo stava svolgendo il suo dovere. Rickard era certo di aver visto almeno una decina di persone servirsi un bicchiere fumante nell'ultimo quarto d'ora.
Si stiracchiò un'ultima volta; poi, controllò l'orologio. Erano quasi le quattro in punto.
"In anticipo un'altra volta..." constatò "Grazie mille, paranoia"
L'uscire di casa almeno un'ora prima degli appuntamenti era diventata una regola fissa, vessato dall'eterna paura del rischio di un ritardo.
Prima di una giornata di lavoro, qualunque mezzo di trasporto pubblico o maltempo poteva divenire un imprevisto e causare un ritardo.
Scongiurando questi pericoli, Rickard finiva per giungere a destinazione con largo anticipo, pentendosene a metà.
Da un lato vi era un lungo periodo d'attesa in cui ingannare il tempo non era semplice; dall'altro, grazie all'abitudine, l'attesa era un qualcosa che aveva imparato ad apprezzare. Avere tempo per pensare e per rilassarsi prima di entrare in sala di registrazione risultò essere un passaggio fondamentale della sua carriera.
Anche quel giorno, l'essere giunto in anticipo gli aveva fornito un sostanzioso vantaggio come ricompensa.
Uno degli addetti alla console di registrazione gli aveva fornito il copione appena redatto del film per cui era stato chiamato.
I tre quarti d'ora antecedenti l'orario prefissato per l'inizio della registrazione erano trascorsi piacevolmente tra lettura delle battute e alcuni esercizi di riscaldamento vocale. Contò a mente le pause e i versi delle frasi più lunghe: non sarebbe stato un lavoro semplicissimo.
"L'autore deve essersi divertito un mondo a scrivere tutta questa roba...!" pensò.
Giudicando dalle informazioni ricevute, pareva si trattasse di un film d'animazione che aveva riscosso un successo notevole negli ultimi mesi ed era stato esportato solo di recente. 
Adocchiò distrattamente il titolo: "La formula del Carpe Diem"; solo dal titolo non era affatto facile evincere di cosa trattasse la trama.
Leggendo il copione, tuttavia, notò che si trattava di una trama romantica vecchio stampo ma trasposta in un'ambientazione più moderna.
I protagonisti, un ragazzo ed una ragazza, sembravano dover affrontare numerose vicissitudini sentimentali dove i dubbi, l'incertezza e la paura fungevano da principali antagonisti.
Senza dubbio un'opera di base classica, ma con qualcosa di peculiare che Rickard ancora non riusciva a comprendere.
Aveva provato uno strano presentimento nel corso della lettura, una sensazione che non era capace di scrollarsi di dosso.
Poi, la sua mente lasciò perdere quell'idea nel momento in cui fu distratta da un altro dettaglio.
I suoi occhi fissarono attentamente il titolo in cima alla prima pagina del fascicolo.
Scrutò più e più volte quelle cinque parole, grattandosi nervosamente il collo.
Una in particolare gli stava creando qualche grattacapo.
- La formula... formula, formula... - borbottò tra sé.
Rimase in silenzio per alcuni istanti, incerto sul da farsi.
"Eh, cavolo..." sospirò "L'accento della "O" era grave o acuto...?"
Non ebbe il tempo di controllare gli appunti che la sagoma di un ometto magrolino di mezza età fece capolino da una delle porte del corridoio.
Rickard rimirò nervosamente l'orario: erano da pochissimo passate le quattro. Tempo scaduto.
L'uomo gli si avvicinò mostrandogli un sorriso caldo e accogliente.
- Buongiorno! Tu devi essere Falls, giusto? - gli chiese, porgendogli il braccio per stringergli la mano.
Il ragazzo si alzò sbrigativamente.
- Sono io; Rickard Falls. Molto piacere -
- Sono Vince Spark, sarò il direttore di questo lavoro. Puoi chiamarmi Vince - 
La stretta fu rapida e salda.
- E' davvero magnifico averti qui in studio, Rickard - fece lui - Posso chiamarti "Rickard", vero? -
- Assolutamente! La formalità non è il mio forte - fece il giovane, imbarazzato - Vi ringrazio di avermi chiamato; sono lieto di poter partecipare -
- Ah, non sprecarti in ringraziamenti inutili! - ridacchiò Vince - Ti abbiamo convocato perché sei il migliore della tua generazione! E per questo film volevamo il meglio del meglio! Dai, seguimi -
I due cominciarono a camminare lungo lo spoglio corridoio dello studio. Vince si fermò a prendere un caffè, inserendo l'ennesima moneta della giornata all'interno della macchina.
Rickard sbirciò all'interno delle sale di registrazione: erano quasi tutte piene di persone indaffarate.
- Questo film ha ottenuto un successo notevole in oriente - disse Vince, attendendo che il bicchiere fosse colmo di liquido - Contiamo di mandarlo nei cinema verso Gennaio -
- Come mai tutta questa fama? - chiese Rickard, incuriosito - Si tratta di un caso epocale, o è solo frutto di fortuna e buona pubblicità? -
- Nah, nessun trucchetto da quattro soldi, credimi! Il regista del film è un tipo famoso, tutto qui - spiegò - E' bastato un annuncio, l'anno scorso, per mandare la gente in visibilio. Sembra che abbia fatto sbancare i botteghini di un paese intero -
- E il risultato ha rispecchiato le aspettative? -
- Puoi dirlo forte! Un vero successo! - Vince si esibì in una sorta di applauso - Lo puoi intuire dal fatto che è arrivato qui da noi appena un mesetto dopo il rilascio ufficiale. Abbiamo raggruppato un cast di doppiatori eccellenti per far sì che abbia la sua meritata gloria anche qui in Europa -
Rickard Falls arrossì di nuovo.
- Così finirai per farmi montare la testa...! - scherzò il ragazzo.
- Oh, suvvia, sarai abituato alle lusinghe, no? - ridacchiò rumorosamente Vince - La tua fama parla per te. Ti chiamano "l'uomo dai mille volti", in grado di interpretare centinaia di personaggi diversi con la massima qualità! Quando hanno menzionato il tuo nome per il cast, non ho esitato nemmeno per un attimo! -
- E' tutta una questione di esperienza - annuì Rickard - Ho imparato dai migliori -
- E credo ti sia unito a loro molto in fretta, anche. Cielo, non ho mai visto nessun ragazzo così giovane ricevere così tante richieste di lavoro -
- S-sì... credo di essere un caso particolare...! - Rickard dovette sforzarsi per non arrossire ulteriormente.
- Un caso di vero e proprio talento, senza dubbio. Ma credo di aver già abbondantemente esagerato con i complimenti - disse Vince, abbandonando il bicchiere nel cestino dei rifiuti - Andiamo in sala. Ho un altro paio di cosette di cui devo metterti al corrente -
Il cammino verso lo studio durò ancora per pochi minuti. Durante il tragitto, Rickard gettò lo sguardo verso ogni sala di registrazione che incrociava, tentando di adocchiare qualche volto familiare.
- Come puoi notare, siamo pieni zeppi di lavoro - continuò Vince - Siamo sobbarcati di progetti a cui lavorare. Pensa che le sale di registrazione non ci bastano! -
- Lo ho notato. I primi mesi dell'Autunno sono sempre indaffarati, giusto? -
- Precisamente. E qui arriva il punto che volevo chiarire -
- Di che si tratta? - chiese Falls.
Vince prese una brevissima pausa per controllare alcuni messaggi sul cellulare, poi si voltò verso Rickard.
- Abbiamo una sola sala a disposizione, e il tempo ci è un po' a sfavore - spiegò Spark - Contiamo di finire il doppiaggio completo entro una settimana -
- Una settimana, eh? - Rickard fece alcuni calcoli - Beh, mi sembra fattibile. Bisognerà lavorare di buona lena -
- Questo è lo spirito giusto! - si complimentò Vince - Ma c'è un altro dettaglio minuscolo. Vedi, leggendo il copione forse lo hai notato, ma nel film sono presenti numerose scene di botta e risposta tra i protagonisti, più un sacco di dialoghi accavallati. Per stringere i tempi e facilitare le cose abbiamo deciso che il doppiaggio non avverrà in colonna separata. Tutto chiaro? -
Rickard esitò per un momento.
- Sulla stessa colonna? Cioè, intende dire che saremo in più persone davanti al leggio? -
- Esatto. Spero che la cosa non ti secchi -
- Assolutamente no, affatto - scosse la testa - E' solo che è parecchio raro. Credo non mi capiti da anni -
- Lo comprendo, in genere avviene in casi di "emergenza" -
- Spero solo non sarà troppo affollato, davanti al microfono...! - scherzò Rickard, ma al contempo espresse un'apprensione sincera.
- Oh, non temere. Sarete solo in due - lo tranquillizzò Vince - I protagonisti, intendo. I personaggi secondari li registreremo in separata sede -
Rickard si ritrovò momentaneamente spaesato: la situazione aveva preso una piega inaspettata.
Tutto sommato, però, nulla al di fuori dell'ordinario.
- Va bene, mi è tutto chiaro - annuì - C'è altro che devo sapere? -
- No, credo sia tutto. La tua collega ti attende in sala -
Falls deglutì.
- Oh! E' già qui? - chiese - E io che credevo di essere arrivato prestissimo. A proposito, di chi si tratta? Una voce conosciuta? -
- No, è un elemento nuovo. La nostra candidata principale era impegnata, e la seconda parecchio malata. Abbiamo tenuto un provino per facilitare le cose -
- Ah, comprendo -
- Beh, accomodati e raggiungila. Io e il fonico impiegheremo ancora un quarto d'ora per sistemare tutto; approfittatene per scambiare due chiacchiere -
Vince si congedò lasciando Rickard da solo coi propri tentativi di non far trasparire la propria ansia.
Non vi era dubbio che Rickard Falls amasse il proprio lavoro, ma principalmente preferiva farlo da solo.
Dopo anni di esperienza aveva trovato familiarità nella composizione del terzetto "Doppiatore/Direttore/Fonico": un team di tre soli elementi dalla cui cooperazione dipendeva il buon esito del lavoro. Ma, quel giorno, l'atmosfera di conforto che Rickard trovava in quel circolo di eroici colleghi era stata minata dall'arrivo di un quarto moschettiere; un "intruso" che avrebbe potuto complicare le cose.
Rickard sospirò; sapeva perfettamente che le sue fantasie tentavano di distrarlo dai suoi problemi con l'ansia da prestazione.
L'interazione col direttore di doppiaggio non lo turbava per niente, a differenza delle situazioni in cui si trovava a diretto contatto col giudizio di un collega.
Attese che la sua menta riottenesse freddezza.
Si diede un paio di schiaffi rapidi e indolori per spronarsi e ritrovare compostezza.
"Diamine, ma che mi prende!? Non è certo la prima volta che mi ritrovo a lavorare a stretto contatto con altra gente!" disse, rimproverando il proprio atteggiamento "Adesso entro lì dentro, mi presento, e via! Si lavora e basta!"
Tirò un ultimo, profondo respiro, e poi si decise ad entrare.
Mostrò un sorriso pacifico e sereno e, girando la maniglia, entrò nella sala di registrazione.
Ciò di cui Rickard Falls era ignaro era che un ulteriore ostacolo si sarebbe presto presentato al suo cospetto.
Nel momento in cui chiuse la porta, la vide.
La mano si bloccò, quasi come incollata al pomolo.
Una ragazza dai capelli corti e biondicci reggeva sulla testa un paio di cuffie, probabilmente intenta a fare degli accertamenti uditivi.
Rickard ne seguì la snella figura destreggiarsi attorno al leggio in cerca di alcuni cavi, seguendo le direttive del fonico di doppiaggio attraverso le cuffie.
Rickard Falls non seppe quanto tempo passò dal momento in cui era entrato nella stanza: si rese conto di essere rimasto fermo a fissarla fino al momento in cui non fu lei ad accorgersi della sua presenza.
Si voltò di scatto, notando come la mano destra di Rickard non si era ancora scollata dalla porta.
Vi fu un attimo di esitazione in cui nessuno dei due seppe cosa dire; la faccia di Rickard di certo non esprimeva tranquillità.
Lei si limitò a socchiudere i suoi grandi occhi verdi, mostrando un sorriso cordiale.
- Buonasera! -
Lui rimase in silenzio per circa un secondo, lo sguardo ancora perso nel vuoto.
Si destò in uno scatto di coscienza.
- Cos...? Ah! Ciao! - alzò istintivamente la mano - C-cioè, buonasera...! -
Vi fu un momento di incertezza. Rickard si grattò furiosamente la nuca.
- Tu devi essere... Rickard Falls, giusto? -
- E-Esatto, sì! - annuì più volte - E tu devi essere... -
Si bloccò nel bel mezzo della frase, rendendosi conto che non aveva la più pallida idea di come concluderla.
Rickard contemplò miserevolmente il vicolo cieco in cui era andato a cacciarsi.
"E bravo, Rickard. Sei il miglior idiota che conosco" pensò, desiderando di farsi del male.
- Vera - rispose lei, placida - Vera Geister. E' un vero piacere -
- Altrettanto...! 
- Anzi, credo dovrei definirlo un... "onore"! - proseguì lei - Ho a che fare con la stella della nostra generazione, no? Ti conoscono ovunque! -
Lui indietreggiò di un paio di passi.
- No, no! Cielo, no, non farmi passare per chissà quale celebrità! Sono solo... - ponderando le parole giuste, Rickard si ritrovò ad elaborare un pastrocchio in piena regola - ...solo uno... scemo... fortunato -
- Uno...? Cosa? -
- Ok, fammi fare retromarcia per un momento...! -
Ciò che non si aspettava fu di vederla ridere sfrenatamente.
Vera si asciugò una piccola lacrima dalla guancia sotto lo sguardo attonito di Rickard Falls.
Lei se ne accorse e si ricompose.
- P-perdonami...! Non volevo affatto schernirti! - si scusò lei - E' solo che... beh, mi hai fatto un'impressione davvero strana -
- "S-strana" in senso buono, spero! -
- Senz'altro! Quando mi hanno detto che avrei collaborato con "l'uomo dai mille volti" mi è presa un'agitazione piuttosto... spinta -
- Ah, quel nomignolo... - sospirò Rickard - A volte mi chiedo se non mi remi contro... -
Lei ridacchiò ancora una volta.
- Beh, è possibile. Credevo che mi sarei trovata di fronte qualcuno con un'aura divina e ancestrale, ma mi rinfranca vedere che sei un po'... goffo -
- G-goffo!? - Falls si sentì bruciare dall'onta e dal disonore.
- Ah, cielo... ho pensato ad alta voce di nuovo...! -
I due abbassarono lo sguardo allo stesso momento, tentando di lasciar morire il discorso lì dove si era interrotto.
- B-beh, direi che possiamo aggiungere il "scemo goffo e fortunato" ai mille volti, eh? - ironizzò Rickard.
- Oh, non male. Aumenti il repertorio - rispose seguendo la battuta - Ma toglimi una curiosità: è vero quello che si dice? Che sei in grado di imitare quasi alla perfezione qualsiasi voce? -
Rickard mostrò un sorrisetto beffardo.
- Beh, chissà? Tu ci credi? -
- Oh, suvvia! Intendi tenermi sulle spine? - 
Ad un tratto, la discussione fu troncata da un annuncio di Vince.
La voce del direttore risuonò attraverso il piccolo altoparlante della sala.
- Ok, ragazzi, qui siamo pronti - disse loro - Vogliamo cominciare? -
Rickard e Vera si scambiarono un'occhiata d'intesa, confermando la risposta.
- Magari... te ne darò una dimostrazione alla prima occasione. Che ne dici? -
- E' una promessa? Guarda che me lo ricordo! -
Rickard Falls annuì con un largo sorriso.
- Promesso, promesso! -




Trascorsero all'incirca quattro ore prima che la porta della sala venisse nuovamente aperta.
Dall'altro lato dello studio, Vince accompagnò l'uscita dei due ragazzi con alcune rapide frasi di commiato e tornò a lavorare, prendendo appuntamento per il giorno successivo.
Un rumore elettronico indicò ai presenti che la console aveva cessato l'attività e il microfono fu celermente riposto per il meritato riposo notturno.
Le varie luci della sala di registrazione si spensero una dopo l'altra, lasciando un vuoto di buio e silenzio.
Come ogni volta a cui assisteva al lento svanire dell'atmosfera lavorativa, Rickard si ritrovò a provare una vena di malinconia.
Quella sera, però, era un tipo di tristezza diversa, quasi come fosse più acuta.
Rickard Falls proseguì lungo il corridoio facendo finta di non conoscerne il motivo.
Il lavoro aveva impiegato diverso tempo, ma sul volto dei due giovani vi era un'espressione più che soddisfatta, nonostante lo sfinimento.
- Sono stanca morta... - sbadigliò Vera - E la gola non è messa meglio. Spero non mi tocchi un medicinale -
- E' stata una lunga sessione - annuì lui - Va tutto bene? -
- Devo riprendere il ritmo. Ultimamente ho avuto poche possibilità di esercitarmi, tra i vari impegni e le valigie da fare -
Rickard captò immediatamente un dettaglio cruciale.
- Valigie? -
- Parto tra meno di una settimana - spiegò lei - Mio padre ha un viaggio di lavoro e lo spaccerà per una vacanza di famiglia per l'ennesima volta -
- Ah, ferie autunnali - annuì - La meta? -
- Berlino. Torniamo a fare un tour della "patria" -
Rickard mostrò un sorrisetto beffardo.
- A-ha! Lo dicevo che avevi un che di esotico! - esclamò con fierezza - L'intuito non mi inganna -
- Niente di così eccezionale; sono uno strano meticcio - sorrise lei - Spero riuscirò a trovare il tempo di fare pratica anche quando sarò via -
- L'allenamento è alla base di tutto - gesticolò sentenziosamente Rickard - Ogni occasione è buona per rinfrescarsi le basi -
Lei sospirò, annuendo a sua volta.
- Mi trovo d'accordo, ma alle volte mi chiedo se valga lo stesso per tutti -
- Come? Che intendi dire? -
Lei gli rivolse uno sguardo a metà tra l'imbarazzo e l'ammirazione.
- Voglio dire... a te questo lavoro sembra riuscire in maniera così naturale! - ammise - Oggi sei stato incredibile; faccio fatica a credere che uno come te abbia davvero bisogno di pratica -
Rickard si incupì per un istante.
- No, io... - scosse il capo - Ti prego, elimina questa concezione divina che hai delle mie capacità. Sono un doppiatore della stessa risma di molti altri, e necessito a mia volta di tenermi al passo con l'allenamento vocale -
Lei notò un improvviso cambio di tono; Rickard le sembrò quasi infastidito da quelle parole.
Si irrigidì e tossicchiò un paio di volte per smorzare la tensione.
- Scusami, non fraintendere. Intendevo dire che fa un certo effetto lavorare con te, Rickard -
- Tu dici? Forse mi dai troppo credito -
- Sono certa di no. Mi è bastato ascoltarti al leggio - disse - E lo ho fatto per quattro ore di fila; so quel che dico! -
Falls si lasciò andare in una risata sincera; Vera intuì di aver fatto breccia.
- Questo lavoro è molto prezioso per me. Lo faccio da diversi anni, ma non mi ha mai stancato - sospirò lui, meditabondo.
- Forse, detto da una novizia, non vale molto, ma... credo anche io che abbia un qualcosa di speciale -
- L'essere un principiante non c'entra. E' tutta una questione di sentimento e determinazione. Ce la fa chi ci prova davvero -
Gli occhi le brillarono per un istante.
- Un discorso notevole -
- ...e ce la fa soprattutto chi ha la sorte a favore -
- E... hai rovinato tutto -
Stavolta le risate durarono per diversi secondi, cessando solo nel momento in cui un passante li squadrò con sguardo torvo, intimando loro di non fare baccano.
Rickard riprese fiato nei polmoni e si stropicciò gli occhi.
- Comunque la modestia non è un difetto, ma evita di chinare troppo la testa. Va bene? -
Lei sembrò non intendere il concetto.
- Come, scusa? -
- Intendo dire che c'è un motivo se Vince ti ha scelta per la parte - annuì Falls - Hai del potenziale. Sfruttalo a dovere senza preoccuparti di chissà quali improbabili "grandi stelle del doppiaggio" ti troverai di fronte. Credimi, la maggior parte sono tutti come me: goffi e fortunati -
Lei mostrò un sorriso sincero.
- Beh, non mi dispiacerebbe se fossero tutti altrettanto amichevoli -
Rickard ricambiò lo sguardo con cortesia, ma si ritrovò costretto a celare il volto girandosi di lato; nascondere l'imbarazzo non era mai stato il suo forte.
Ad un tratto, Vera rimirò l'orologio del corridoio con fare apprensivo.
- Ah, si è fatta ora di andare - disse sbrigativamente - Ho diverse cose da fare -
- Oh, senz'altro - rispose Rickard - Dunque... -
I due rimasero in silenzio per un attimo.
Vera aveva iniziato ad avviarsi verso l'uscita, ma sentì l'impulso di fermarsi e voltarsi.
Incrociò gli occhi di Rickard, nei quali si aggirava una sorta di strana scintilla.
- Allora... ci vediamo qui, domani? -
Lui rilassò i muscoli delle spalle, come se stesse attendendo quel tipo di domanda.
- Stessa ora - asserì, alzando la mano con un cenno di saluto.
Vera parve sollevata a propria volta.
Ricambiò con un movimento della testa e, dopo pochi attimi, sparì dietro la porta di ingresso.
Rickard Falls fu lasciato in un vuoto fatto di silenzio e pensieri.
Si guardò attorno: l'atmosfera taciturna dell'atrio aveva assunto un peso completamente diverso.
Ripensò al programma di lavoro dei giorni successivi: il doppiaggio de "La formula del Carpe Diem" avrebbe richiesto quasi sicuramente altre due giornate lavorative.
"Due giorni, eh...?" rimuginò lui.
Afferrò un lembo della felpa rossa e la rimosse del tutto.
L'arrivo della sera aveva placato il vento autunnale.



Due giorni dopo, nello stesso studio, la situazione era drasticamente cambiata.
L'aroma di caffè impregnava le pareti dell'atrio dall'inizio alla fine come ogni volta, ma il continuo viavai di persone che imperversava tra i corridoi come un fiume in piena si era misteriosamente arrestato.
Gli unici a trascorrere il pomeriggio davanti alla macchinetta era qualche tecnico particolarmente impegnato in cerca di una pausa ed alcuni inservienti non altrettanto indaffarati.
Unico indizio per comprendere l'assenza di movimento era intuibile dal brusio di sottofondo proveniente dalla sala di registrazione più in fondo dell'intero edificio.
Un gruppo di persone notevolmente folto si era accalcato di fronte al vetro trasparente che lo separava dall'interno.
L'attenzione generale era concentrata sui due ragazzi posti davanti al leggio, visibilmente intenti nel realizzare una scena di importanza rilevante.
C'era chi osservava in silenzio, impossibilitati ad ascoltare oltre i muri insonorizzati, e chi aveva addirittura iniziato a fare il tifo.
Due individui particolarmente furbi si erano introdotti nella sala di regia, supplicando un riluttante Vince Spark di concedere loro il privilegio di assistere in diretta.
Nessuno aveva celato il reale motivo della loro presenza lì, ovvero la possibilità di regalare ai propri occhi il raro spettacolo dell'"uomo dai mille volti" in azione e, con un po' di fortuna, strappargli un autografo o una stretta di mano; eppure, in molti si ritrovarono a provare interesse per la ragazza bionda che, al suo fianco, faceva di tutto per reggere il suo ritmo.
La registrazione pareva avviarsi verso le battute finali.
Dopo alcuni minuti di tensione generale, la folla scoppiò in un lungo applauso accogliendo l'uscita dei due giovani dalla sala.
Rickard Falls mostrò un sorriso imbarazzato, pur inebriandosi degli incitamenti e le grida che acclamavano il suo passaggio.
Vera Geister non seppe minimamente come gestire la situazione, limitandosi a seguire la scia di Rickard mentre Vince riportava tutti all'ordine.
Quest'ultimo raggiunse i due ragazzi nell'atrio solo dopo aver rimandato ognuno alla propria postazione e l'aver fatto non meno di due o tre ramanzine sul corretto comportamento all'interno dello studio.
Rickard e Vera lo videro arrivare con un volto sudato e vagamente innervosito, seppure soddisfatto.
- Ecco le mie giovani promesse! - esclamò - Va tutto bene? Non ho capito come si è sparsa la voce che eri qui, Rickard; spero che la cosa non ti abbia arrecato fastidio -
- Niente affatto! Confesso che un briciolo di moderata fama non mi disturba - sorrise lui - Se piaci alla gente che male c'è? -
- Beh, dopo questi tre giorni credo di capire il motivo della tua nomea - gli disse Vera - La tua interpretazione è stata così... così incredibile! -
Per la prima volta, Rickard si ritrovò a non sapere come reagire ad un complimento.
Gli occhi verdognoli di Vera emisero una scintilla di pura ammirazione che gli provocò non poco imbarazzo.
- Ah, beh...! Immagino di cavarmela benino...! -
Lei corrugò lo sguardo.
- Cos'è questa improvvisa modestia? - lo schernì scherzosamente lei - Non sei stato tu stesso a dire che bisogna valutarsi meglio? Non crederai mica che la tua fama sia immeritata, spero -
- La giovincella ha ragione - lo imbeccò Vince - Non hai bisogno di essere timido, Rickard. E' raro trovare qualcuno con un talento come il tuo. Quanto a te, Vera... -
Il suo sguardo guizzò repentinamente verso di lei.
- Io? -
- Nemmeno tu dovresti sminuire il tuo valore solo perché paragonato al suo - Vince mostrò una dentatura smagliante - Non penserai di certo che quelle persone fossero lì solo per lui, vero? -
I due si zittirono per alcuni momenti; entrambi trovarono di che riflettere.
Vince si esibì in un rapido applauso.
- Beh, ora basta consigli! Credo sia doveroso ringraziarvi per lo splendido lavoro che avete fatto in questo doppiaggio - si inchinò brevemente - Siete stati magnifici. Non intendo pentirmi della scelta che ho fatto -
- Troppo buono, Signor Spark - fece Vera, scuotendo il capo - Sono lieta di aver passato il provino; questo è stato il mio primo lavoro importante e... beh, era un debutto necessario -
- E' andato tutto a meraviglia, sono certo che Rickard converrà con me. Avete regalato ai due protagonisti due magnifiche voci! - annuì più volte.
Rickard e Vera si scambiarono un'occhiata vicendevole di soddisfazione.
- E' stato un piacere, Vince - disse Falls - Credo che mi congederò, a questo punto -
- Ah, non restate ancora un po'? -
- Temo di no, ho molto a cui pensare - disse Vera - Dopodomani partirò e devo terminare i preparativi. Devo tornare a casa entro le nove -
Un pensiero fugace colpì la mente di Rickard come una rapida pugnalata. Si voltò verso Vera mostrando un volto neutro per non far trasparire apprensione.
Aveva momentaneamente dimenticato la sua imminente partenza.
- Allora non vi trattengo oltre, ragazzi miei! Terrò conto della vostra performance per lavori futuri, dunque! -
- Sarebbe magnifico, la ringrazio! - disse infine Vera, sprizzando gioia.
- Sì. Grandioso - sorrise Rickard con un volto assente per metà.
Vince Spark si congedò definitivamente, lasciandoli soli nell'atrio in compagnia del solo rumore delle ticchettanti lancette dell'orologio appeso alla parete.
Rickard fissò la sua sagoma sparire dietro una porta; la sua espressione era ancora vacua e persa in mille considerazioni.
Fu lì che, colto di sorpresa, si ritrovò le mani di Vera ad afferrargli le braccia.
Il giovane doppiatore trasalì dalla sorpresa, notando come la ragazza stava saltellando sul posto con una faccia colma di giubilo e sollievo.
In un attimo, nell'atrio era scoppiata una festa.
- Hai sentito!? Hai sentito, Rickard!? - esclamò lei - Ha detto che siamo stati eccellenti! E che le sono piaciuta! -
Lui assimilò le parole, tornando alla realtà.
- C-che!? Ne dubitavi!? Siamo stati grandi, ovvio! - disse, accompagnando il suo contento furore.
- Sì, diamine! E lo ha detto anche il direttore! Che ulteriore conferma potrebbe esserci!? -
- Esatto, cavolo! Ottimo lavoro! -
- Oh, SI'! -
Nell'esatto momento in cui Vera alzò la mano, Rickard rispose con un cinque immediato.
Ci volle diverso tempo prima che l'euforia andasse lentamente scemando, fino a lasciare una cospicua traccia di tranquillo compiacimento e felicità.
I loro occhi si incrociarono in quella pausa tranquilla.
- Grazie, Rickard... -
Lui intravide nuovamente quella peculiare scintilla nei suoi occhi.
- E di cosa? Non ti ho di certo favorito in alcun modo - annuì - Quei complimenti te li sei guadagnati -
- E' vero, non è di quello che ti sono grata - 
- E di cosa, allora? -
Lei alzò lo sguardo, evitando contatto visivo, come se la risposta fosse scritta lì.
- Per aver reso questo mio primo lavoro... un po' speciale -
Avvertì una candida e pura dolcezza nelle sue parole.
- "Speciale", dici? -
- Credo che i due protagonisti di "La formula del Carpe Diem" avessero bisogno che qualcuno desse loro la giusta voce per esprimere i loro sentimenti - disse con aria sognante - E la tua era semplicemente perfetta. Credo di aver trovato una forte ispirazione nel tuo modo di lavorare -
- Non c'è un modo giusto o perfetto di doppiare - replicò serenamente lui - C'è solo il proprio: il "nostro" metodo. E, fintanto che ci metti il cuore, sarà sempre quello giusto -
Lei si ritrovò a sorridergli caldamente come per dargli ragione. Vera Geister intuì che le cose che aveva imparato dal collega non erano destinate ad esaurirsi presto.
Rimasero in silenzio, a fissarsi ancora un po'.
Rickard sentiva di dover dire qualcosa che, però, non riusciva ad arrivargli in gola.
Una strana sensazione, quella di non trovare la parole, per qualcuno la cui voce era il principale strumento di lavoro.
Uno sgradevole senso di impotenza attorniò la sua testa mentre gli occhi verdi di Vera continuavano a fare breccia nel suo animo con i loro riflessi smeraldo.
Cercò nei meandri più profondi del proprio vocabolario qualcosa che potesse esprimere il complicato concetto che aveva in mente, ma l'impresa si rivelò ben più ardua del previsto.
Il rumore incessante dell'orologio gli fece intuire che il tempo trascorso a stare in silenzio stava diventando lungo in modo imbarazzante.
Cercando un'ultima volta di divincolarsi da quel fastidioso peso che portava in gola, Rickard decise che era giunto il momento di parlare.
Non gli importò cosa, né come, né perché; sentì il bisogno di rompere quell'assordante silenzio.
Ma, inaspettatamente, fu Vera a scacciarlo per prima.
- Ora... devo andare -
La bocca di Rickard si bloccò, aperta per metà. Non comprese se quelle tre semplici parole fossero giunte al momento migliore o peggiore possibile.
La frase che il ragazzo aveva messo in piedi a fatica capitolò nel giro di un paio di secondi; socchiuse gli occhi e rilassò i muscoli.
- Ah... certo, capisco - rispose - Avrai un mucchio di preparativi da fare -
- Già, è così -
Vi fu un ulteriore momento di pesante silenzio.
Vera alzò la mano, salutandolo con cenno, avviandosi verso l'uscita.
- Allora... spero di rivederti in qualche sala di registrazione, quando tornerò -
- Senz'altro - replicò lui - Fa buon viaggio -
A quel punto, non senza esitazione, Vera gli diede le spalle e uscì dallo studio lasciando che la porta si richiudesse da sola con un rumore metallico.
Rickard si ritrovò solo e spaesato.
Il rumore dell'orologio era diventato più lieve, più accogliente. Era come se tutto il mondo fosse andato a rallentatore per alcuni minuti e, in quell'istante, fosse tornato alla normalità. 
Odori, suoni, sensazioni. Tutto tornò come prima.
"Perché prima era diverso?" si chiese "Cos'è cambiato?"
Gli bastò poco per comprendere che la domanda, in sé, era retorica. 
Rickard Falls sapeva benissimo cosa aveva modificato quell'atmosfera; ciò che non comprendeva era il motivo per cui si rifiutava di accettarlo come veritiero.
Si domandò se fosse semplice imbarazzo, o addirittura paura.
Passò alcuni istanti a porsi alcune domande assurde quanto sensate su ciò che stava provando in quel momento.
Poi, i suoi occhi si dilatarono.
Si voltò di scatto verso l'orologio; quest'ultimo stava per compiere l'ultimo rintocco dell'ora.
Un secondo alla volta, un minuto alla volta.
"Secondi, minuti... che diventano ore... che diventano giorni..." rimuginò "Che diventano settimane... che diventano... mesi. Mesi? Quanto tempo ha detto che sarebbe 
stata via? Un mese? Forse più? Mesi? Interi mesi?
"
Rickard Falls si svegliò da un sonno che pareva essere durato un'infinità di tempo.
Il torpore al cervello e ai muscoli svanì nell'attimo esatto in cui realizzò qualcosa di importante.
Alzò lo sguardo, adocchiando il proprio riflesso nel vetro della porta dell'atrio.
"Com'era il titolo...? "Carpe Diem"? ...Carpe Diem, Carpe Diem... cogli l'occasione, e non..."
Deglutì.
- Ma cosa diavolo sto facendo...!? -
Le gambe si mossero da sole. Si accorse di star correndo solo quando si ritrovò quasi a sbattere contro la porta e a cadere dai gradini appena fuori di essa, tanto era l'impeto.
Si aggrappò con il braccio destro al corrimano per non perdere l'equilibrio sugli ultimi gradini.
Poi, girò febbrilmente lo sguardo verso tutte le direzioni.
La vide scendere le scale della stazione della metropolitana più vicina; saranno stati sì e no una ventina di metri.
Infine, Rickard Falls corse di nuovo, talmente tanto che quasi investì due passanti.
Arrivò ad un punto tale in cui sapeva che la sua voce la avrebbe raggiunta, se usata come si deve.
E, superata ogni inibizione, gridò come se tutto dipendesse da quel singolo urlo.
- VEEERAAA...!! -
Di nuovo, il tempo di fermò; stavolta, non per Rickard.
Vera Geister, immobilizzatasi per la sorpresa, si girò di spalle.
La vista di Rickard Falls, sudato, col fiatone e con almeno sei o sette persone che lo fissavano stranite, le provocò uno strano miscuglio di emozioni.
Attese che questi le si avvicinasse lentamente, evitando gli sguardi severi e infastiditi delle persone attorno con evidente imbarazzo.
I due si ritrovarono faccia a faccia; Rickard prese fiato, mentre Vera rimase completamente in silenzio, attendendo.
- Uuuhm... ecco... - ansimò lui - Ti... ti va di... prendere una bibita assieme? Offro... io... -
Sentì come la necessità di chiudere gli occhi, in attesa di un responso che avrebbe potuto colpirlo come un treno in corsa.
Ciò che si aspettava era una risposta che qualunque persona sana di mente avrebbe dato in un momento simile; sapeva che Vera aveva fin troppe cose da sbrigare prima della partenza imminente, e che invitarla in un bar urlandole addosso nel bel mezzo della strada non era una mossa che in molti avrebbero reputato essere saggia.
Ciononostante, ancor prima di ottenere il responso, sentì il gravoso peso che aveva sullo stomaco sollevarsi piano piano.
Sospirò e riaprì gli occhi; Rickard Falls era certo che un tentativo andava fatto a prescindere.
- Certamente -
Abbassò lo sguardo di scatto, col volto pallido.
Vera stava sorridendo in modo placido.
Ancora una volta, ogni logica era stata sconfitta.
- Sei... sicura? -
Lei trattenne a stento una risata.
- Sicurissima - annuì - Resteresti sorpreso nel vedere quanto velocemente riesco a chiudere una valigia -
Lui non poté fare a meno di ridere, realizzando la propria goffaggine.
- Me lo racconterai davanti una cedrata -



Due anni e quattro mesi dopo, Gennaio, Giorno X


Il periodo di servizio della felpa rossa di Rickard Falls era ben lungi dal terminare.
L'inizio dell'anno era stato accolto da copiose discese di neve, e camminando per le strade si avvertiva un gelo pungente ma quasi piacevole.
Le decorazioni natalizie non erano ancora state rimosse dai negozi e gli appartamenti, per pigrizia o semplicemente per il desiderio di conservare l'atmosfera festiva ancora per un po'.
In una stradina del distretto commerciale, ricoperta di bancarelle e cumuli di neve, Rickard Falls adocchiò qualcosa che catturò la sua attenzione.
Un piccolo chiosco, posto sul marciapiede, stava vendendo un notevole numero di DVD di film e dischi di musica.
Uno in particolare non sfuggì allo sguardo rapace del giovane doppiatore: "La formula del Carpe Diem" era bene in vista tra le ultime uscite.
Rickard pescò dal portafogli una banconota e la poggiò sul bancone, indicando al vecchio gestore il prodotto che gli interessava.
L'uomo, presi i soldi, gli porse gentilmente una busta e gli fece cenno di prendere ciò che desiderava senza preoccuparsi.
I due si salutarono e Rickard ripose la merce nella busta appena prima che una mano lo tirasse per la felpa.
- Rickard, hai comprato qualcosa? - gli chiese Vera, incuriosita.
- Heh, sorpresa! - ribatté mostrando un sorriso furbo.
Lei gonfiò le gote, indispettita.
- Oh, suvvia, sai che odio quando mi tieni sulle spine! -
- E va bene, hai vinto - sospirò - Questo... ce lo vediamo assieme stasera! -
Tirando fuori il DVD apprezzò nel vedere Vera condividere la sua stessa, nostalgica sorpresa.
- Non ci credo, è già uscito il DVD!? -
- Beh, oramai sono passati due anni dalla pubblicazione ufficiale - 
Lei parve rimuginarci sopra.
- Già due anni...? Cielo... - commentò lei - Come vola il tempo -
- E' vero, è passato in fretta nonostante tutte le cose che abbiamo fatto - annuì lui - Sembra solo ieri che abbiamo lavorato a questo film, fianco a fianco davanti al leggio. Ricordi? -
- Potrei mai dimenticarlo? - sorrise lei, regalandogli un bacio sulla guancia - E' stato il punto di partenza -
- Uno dei miei lavori migliori, oserei dire. Anzi, "Nostri" - si corresse lui.
- Non che io abbia fatto tanto quanto hai fatto tu, ma... -
Lui scosse il capo.
- Dettagli, dettagli! Hai tutta una carriera davanti a te e molto tempo per autocommiserarti per motivi stupidi ma più validi! -
I due cominciarono a ridere di gusto, riuscendo a smettere solo dopo un bel po'.
Continuarono la passeggiata tenendosi per mano e ammirando la neve che scendeva candida sopra i tetti delle abitazioni.
Ad un tratto, Vera sospirò tristemente.
- Un po' inizio a capire cosa provasti -
- Di cosa parli? - chiese lui.
- Quando partii per quel viaggio in Germania - mormorò - Pensarti lontano per così tanto tempo è frustrante -
Gli occhi di Rickard guizzarono verso la tasca della felpa.
- Ooh, ho capito... - disse, estraendo dall'interno un piccolo opuscolo mezzo sciupato.
Il nome della Hope's Peak era ben piantato sull'intestazione; all'interno vi era quello che pareva essere un invito per "l'Ultimate Voice Actor", scelto appositamente per partecipare agli esclusivi corsi del prestigioso istituto.
Oltre alle informazioni generali sulla scuola, vi era anche scritto che gli alunni erano invitati a partecipare ad un importante corso formativo lungo circa un mese che si sarebbe tenuto verso la seconda metà di Marzo alla sede principale, in Giappone.
Rimirò il foglio un'ultima volta prima di riporlo nella tasca.
- Scusami, sono un'idiota - disse improvvisamente Vera.
- C-come!? Che stai dicendo? -
Lei appoggiò la testa sulla sua spalla e lo fissò dal basso verso l'alto.
- E' probabilmente l'occasione più grande e importante della tua vita. Il minimo che io possa fare è evitare di farti venire sensi di colpa...! -
- E' di questo che ti preoccupi? Che possa avercela con te perché so che ti mancherò? -
- Beh, ecco... - deglutì lei - Diciamo che... -
- Allora sì, sei un'idiota -
La flebile protesta di Vera a quella asserzione fu completamente soffocata da un soffice bacio di Rickard.
Rimasero in quella posizione per poco meno di una decina di secondi, al termine dei quali Vera si fiondò ad abbracciarlo.
Lui la strinse forte a sé, assaporandone il momento con serena gioia.
- Starò via per un mese o poco più - le disse - E poi tornerò dritto da te e prenderemo un'altra bibita assieme a quel locale che adori -
- Prometti che mi scriverai? -
- Assolutamente - le disse, carezzandola - Ma adesso non facciamoci prendere dall'ansia; mancano ancora oltre due mesi! -
- Hai ragione, hai ragione... -
Alzarono lo sguardo verso la falce di luna che svettava nel cielo della sera.
Rimasero abbracciati l'uno all'altra, godendo di quella vista magnifica.
"Sì, godiamoci questi momenti assieme" pensò Rickard, sorridendo "I più belli che potremo mai ricordare"



Anno XXXX, Maggio, Giorno XX


Rickard Falls sorseggiò una seconda volta dal bicchiere con uno sguardo soddisfatto in volto.
- Ah! Davvero rinfrescante! - disse, compiaciuto - Questa cedrata è magnifica -
- Lo penso anche io - gli sorrise Vivian, versandosi un altro bicchiere - Adoro questa bevanda. Accidenti, se continuo così finirò per ingrassare... -
- Oh, suvvia! Una magrolina come te non starà mica a porsi problemi di linea! Sei in forma smagliante! -
Lei accettò il complimento con un cenno imbarazzato e tornò a concentrarsi sui pennelli.
Rickard posò il bicchiere nel momento in cui si rese conto che Vivian Left aveva oramai prosciugato tutta la bevanda e che le voci sulla sua golosità erano veritiere.
Più che altro, però, gli interessò il momento esatto in cui la pittrice riesaminò con cura la tela che aveva davanti.
Il doppiatore osservò il quadro con una punta di ammirazione; due figure vestite con abiti eleganti erano intente a danzare attorniati da un'armonia di colori vivaci.
Tutto stilisticamente impeccabile, se non fosse stato per un singolo dettaglio che provocava in Rickard una strana sensazione: i due individui, palesemente un uomo e una donna, non presentavano nessun dettaglio del volto. Erano totalmente senza faccia.
Il ragazzo passò molto tempo ad interrogarsi sul significato di quella scelta, ma intuì che il modo più semplice per comprendere fosse chiederlo.
- Hey, Vivian - la richiamò - Quel quadro... è davvero particolare -
- Sì, immagino sia un po' strano a vedersi - rise allegramente lei - Quando Karol ci ha parlato del suo progetto collettivo, ho pensato di realizzare qualcosa del genere -
- Eh, un'idea niente male. Io stesso navigo in alto mare! - ammise - Ero venuto qui per tentare di trarre ispirazione, ma devo dirti: sono piuttosto rapito dal tuo quadro! -
- Ti piace? -
- Molto! Ma forse non lo capisco nella sua interezza... - si grattò la nuca - Come mai i due soggetti non hanno una faccia? -
A quella domanda, l'espressione di Vivian mutò rapidamente in uno strano misto di tristezza e serenità. La ragazza stava pensando a qualcosa di importante.
Rickard Falls non riuscì a non domandarsi di che cosa si trattasse.
- Sai, Rickard, molte persone percepiscono la realtà in modo diverso - disse lei - C'è chi si affida ai colori per esprimere il proprio punto di vista, come me. Chi alla voce, come te. Altri ancora, purtroppo, devono ricorrere a mezzi alternativi -
- Perdonami, ma non ti seguo... -
- Immaginavo; sarò più chiara - Vivian Left prese aria - Questa è... una di quelle tante realtà. Il modo in cui l'esistenza è assimilata da certe persone... meno fortunate. Persone come Lawrence -
La sorpresa nello sguardo di Rickard Falls fu palese e quasi tangibile.
- C-che!? Lawrence...!? - esclamò lui, esterrefatto - Cosa c'entra Lawrence? -
- Ho avuto modo di parlargli spesso, in questo mese - gli raccontò - Eravamo entrambi spaventati, ma siamo riusciti a... parlarci. A comprenderci. Mi sono resa conto che non siamo poi così diversi -
- C-capisco... - balbettò Rickard, posando il bicchiere mezzo pieno sulla scrivania.
- Abbiamo finito per parlare di ogni cosa ci venisse in mente. Così, senza nessun motivo in particolare: pura conversazione. E ho finito per... conoscerlo molto bene -
- Quanto "bene"? -
- Lui soffre di una... "malattia" - sospirò Vivian - Un male piuttosto grave che lo accompagna dalla nascita. Lawrence non può distinguere i volti della gente, e ha serie difficoltà a distinguere due persone basandosi solo su tratti somatici -
Rickard deglutì a fatica.
- Non... ne avevo idea -
- Mi ha detto di non volerlo rendere noto a voi altri, soprattutto dopo l'incidente di Hayley - continuò lei - Aveva paura che potesse trasformarsi in una debolezza da usare contro di lui -
- Comprensibile... anche se mi lascia in bocca un sapore amaro -
Lei sorrise con comprensione.
- Avrebbe voluto dirlo anche a te e Kevin, ma gli manca il coraggio - gli confessò - E così, per aiutarlo, io... ho realizzato questo quadro -
- Il quadro? - disse, volgendo lo sguardo verso la tela.
- Ho approfittato del piano di Karol per poter fare qualcosa per Lawrence. Volevo trasmettergli un messaggio importante: che non deve temere di essere lasciato indietro. Che, anche se possiede un difetto innato, noi siamo qui per aiutarlo. Che... che IO sono qui per dargli una mano ogniqualvolta ne avrà bisogno... -
- Vivian, che cosa stai...? - mormorò Rickard.
L'Ultimate Painter lo fissò dritto nelle pupille.
- E mentre dipingevo ho capito che... - si sforzò di trovare il coraggio di dirlo - ...che a me Lawrence... ha iniziato a piacere. Molto -
L'Ultimate Voice Actor si impietrì. 
Pur avendo iniziato a dedurre dove Vivian volesse andare a parare, restò comunque di sasso.
Vivian Left si accorse che Rickard la stava fissando con uno sguardo stranito e passò a coprirsi il volto con le mani, per nascondere il rossore delle proprie gote.
- Cielo, lo ho detto davvero...! -
- Ah, ecco, io... - balbettò lui - Mi cogli di... sorpresa -
- L-lo immagino. Ma è semplicemente la verità - annuì lei, senza perdere il profondo imbarazzo - Gli voglio bene, voglio continuare a parlare con lui. E, soprattutto... non voglio che gli capiti nulla di male -
Il ragazzo notò una strana luce negli occhi della pittrice.
- Vivian...? -
- Ascoltami, Rickard - disse lei, serissima - Quando sarà il momento di riunirci, la prossima volta, voglio fare una proposta al gruppo. E vorrei il tuo appoggio -
- Il mio appoggio, eh? - osservo lui, sentendosi sempre più in difficoltà - Ma riguardo cosa...? -
- Voglio proporre di... restare qui. In questa scuola -
Terreo in volto, Rickard Falls si ritrovò a contemplare la strategia della compagna con occhi dilatati.
- Tu... cosa!? -
- Oramai una cosa è chiara: non ci sono vie d'uscita da qui - Vivian si morse il labbro - L'unico modo per uscire è che... uno solo rimanga vivo. E io non posso permettere che capiti qualcosa a qualcuno di voi. Soprattutto ad Hillary e... Lawrence. Non riesco a scendere a compromessi col fatto che Lawrence possa morire qui, in questo posto. Lui deve uscire di qui, così come tutti noi. Ma non al costo della vita di qualcun altro -
- Vivian, ti rendi conto di che cosa stai dicendo!? - ribatté Rickard - "Restare qui" può voler dire... per il resto delle nostre vite! -
- So che è qualcosa di difficile da accettare, ma pensaci! Siamo davvero disposti ad uccidere pur di avere salva la vita!? - perseverò lei - Non sarebbe più umano... restare qui? Noi dodici rimasti... possiamo rimanere qui e vivere! Sarebbe un sacrificio enorme, ma... Rickard, non credi che la soluzione meno sanguinosa sia la migliore...? -
La mente di Rickard Falls vagò lungo numerosi piani e pensieri nell'arco di un singolo istante.
La sua faccia vacua ed inespressiva riuscì a tirare fuori una singola frase sommessa.
- Io... immagino di sì -
Vivian ritrovò la calma e tirò un sospiro di sollievo. Si asciugò il sudore, sorridendo nervosamente.
- Ah... sono davvero lieta di avere il tuo consenso! - annuì - Vedrai, Rickard, non dovrà morire più nessuno. Sarà difficile abituarsi all'idea, ma se restiamo uniti ce la faremo -
Vivian Left continuò a parlare senza sapere che le sue parole stavano vagando a vuoto.
Le orecchie di Rickard Falls avevano smesso di recepire qualunque altra cosa che non fossero i suoi stessi pensieri.
Nei suoi occhi aveva cominciato a riflettersi un inquietante buio, sintomo di un malessere interiore più profondo di quanto non potesse sembrare.
"Restare qui... restare qui per sempre..." pensò "Per sempre, per sempre... ma... ma cosa...?"
Abbassò lo sguardo verso il pavimento.
"Ma cosa CAZZO sta dicendo...!? Cosa accidenti significa...!? Restare qui per sempre!? Fino alla fine dei nostri giorni in questa stramaledettissima scuola!? Tutta la
mia vita senza... senza... Vera... Vera? Lei mi sta aspettando... sarei dovuto tornare da lei già molto tempo fa... non passa giorno che non mi detesti per averla
lasciata lì, da sola, ad attendere qualcuno che potrebbe non tornare mai più...! Mai più? No, no, assolutamente no. Che razza di scherzo è questo!? Io devo uscire...
devo, devo, DEVO uscire! Non rimarrò qui dentro per sempre, per niente al mondo! Ma Vivian ha detto che... che non c'è...!
"
Alzò improvvisamente lo sguardo. 
L'Ultimate Painter aveva cominciato a ripassare alcuni contorni del dipinto con l'ausilio di un sottile pennello.
Lo sguardo di Vivian era rasserenato, come se si fosse tolta un peso enorme dalla coscienza.
Rickard vide quello sguardo, lo rimirò più volte.
E lo odiò. Lo odiò profondamente.
"Certo... certo, è chiaro...! E' maledettamente ovvio. Che cos'ha lei da perdere in tutto questo? Tutto ciò di cui ha bisogno è qui dentro, no...? Le basta Lawrence,
la pittura, una vita tranquilla... è perfetto! Ed io...? Vera... io sarò qui, ad odiarmi per il resto della mia vita? Morirò qui dentro senza vederla mai più? Vera...
No, no. Non lo accetto, non lo accetterò mai... mai... Vera... mai... al diavolo tutto, al diavolo questa scuola, al diavolo questa vita...! Vera...! Che CAZZO di senso
ha se non posso rivederla!? Se non posso abbracciarla, baciarla, parlarle!? CHE. SENSO. HA!? Al diavolo... Al diavolo! AL DIAVOLO!!!
"
- MI MANCA DA MORIRE, CAZZOOO! -
Vivian Left osservò con una punta di soddisfazione il perfetto corsivo che aveva adoperato nel trascrivere la propria firma in basso a destra sulla tela, a caratteri dorati.
Le sue orecchie captarono qualcosa di rumoroso, ma avvenne in un istante.
Un dolore lancinante la colpì sul cranio, rapido e forte. 
I suoi occhi si spensero in un singolo istante, assorbendo come ultimo sprazzo visivo la sagoma dei due ballerini senza volto.
Poi, perdendo ogni energia, la faccia di Vivian si spiaccicò sulla tela, scivolando verso il basso lasciando una scia di sangue verticale.
Il suo corpo senza vita toccò il suolo con un tonfo non appena anche le gambe cessarono ogni funzione.
Rickard rimase ad osservare la propria mano, che teneva saldamente in pugno una bottiglia rotta per metà. 
Le estremità aguzze della parte spezzata erano sporche del sangue che colava sul pavimento.
L'Ultimate Voice Actor parve non comprendere appieno il significato del proprio gesto fino al momento in cui l'intera stanza piombò nel buio più totale.
A Rickard scappò un urlo terrorizzato; l'intero laboratorio artistico era diventato scuro, con nessun riferimento luminoso.
Udì il rumore di un vetro infrangersi; indietreggiò, ma finì con lo sbattere contro il tavolo di marmo alle proprie spalle.
Nel farlo, sentì il tonfo di un corpo solido cadere sul pavimento.
Chiuse gli occhi per la paura, scacciando ogni pensiero che non riguardasse Vera per infondersi anche solo un minimo di coraggio in più.
Poi, la luce tornò. Forte e luminosa come prima, ma con una lampadina in meno.
Riaprendo gli occhi, fu per lui come ritrovarsi in un mondo completamente diverso.
Un mondo dove tutta la rabbia che covava era svanita, e Vivian Left era morta, col corpo pieno di sangue e vetro.
Rickard Falls si passò la mano sinistra sul volto, asciugandosi le lacrime sorte dalla realizzazione dell'atto.
- Io... no...! Cosa... - mormorò con voce spezzata - Cosa ho fatto...!? Cristo, lo ho fatto davvero...! Lo ho fatto davvero, merda...! -
Perse momentaneamente forza alle gambe, trovandosi in ginocchio di fronte al cadavere di Vivian.
La ragazza aveva ancora gli occhi aperti, sognanti, come se stesse assaporando la bellezza del proprio stesso dipinto.
Le chiuse gli occhi con la mano, piangendo.
- Scusami, Vivian, scusami...! Non doveva... non doveva finire così... - singhiozzò - Non volevo... fare del male a nessuno...! -
La tristezza nel suo cuore fu, però, completamente rimpiazzata da un sentimento nuovo: terrore, paura.
Le sue orecchie captarono un suono sospetto alle proprie spalle, qualcosa che suscitò in Rickard Falls il timore più profondo che un essere umano potesse provare.
La porta del laboratorio si aprì, rivelando la sagoma di Lawrence Grace. Entrando, questi si piazzò dall'altro lato del tavolo con un enorme sorriso stampato in volto.
Rickard tentò di alzarsi di scatto, ma finì per inciampare nelle sue stesse gambe.
Il suo cervello iniziò ad elaborare qualsiasi responso che potesse, anche se inutilmente, giustificare quell'assurda situazione.
Lacrime e sudore iniziarono a mescolarsi fino a che Lawence non aprì bocca.
- C-ciao, Vivian! Sono un po' in ritardo, scusami -
L'Ultimate Voice Actor si immobilizzò per l'ennesima volta. Sentirsi chiamare in quel modo gli provocò una strana e sgradevole sensazione.
Si limitò a scuotere lentamente il capo di fronte ad un incurante Lawrence Grace.
- D-dai, non fare così! Prometto che mi farò perdonare - disse, raggiante - Infatti, ti annuncio che ho quasi finito di lavorare al mio progetto per l'idea di Karol! Speravo di potertene parlare, e...! -
A quel punto, Rickard Falls intuì ciò che stava accadendo. Ricordando le parole di Vivian, poco prima, capì che quella era la sua ultima possibilità.
La recita non sarebbe durata molto a lungo; bisognava agire.
Sapeva che, nel momento in cui Lawrence avesse fatto il giro del tavolo, tutto sarebbe finito.
Nessun bisogno di un processo, nessuna speranza. Solo morte.
"Morte... Morte... Morirò..." pensò, sudando "Gli basta un'occhiata, e il mio destino è segnato... Oh, Cristo... Vera, perdonami... ti amo tanto..."
La gola e il diaframma di Rickard Falls si contorsero in maniera abnorme.
Compì ogni sforzo necessario nel tentativo di tenere fede ai suoi numerosi titoli: "Ultimate Voice Actor", "L'uomo dai mille volti", e via dicendo.
Tutte le abilità che aveva affinato sembrarono esistere al solo scopo di aiutarlo un'ultima volta.
- S-scusami, Lawrence... prima potresti chiudere... la porta? -
La voce di Rickard uscì perfettamente modulata e priva di difetti, per quanto poco salda nella forma.
L'unica differenza fu che il timbro era esattamente quello della voce di Vivian Left; una replica quasi perfetta che lasciò lo stesso Ultimate Voice Actor stupito di se stesso.
Pregò con tutto se stesso che Lawence Grace, dall'udito più che fino, riuscisse a non notare la differenza.
Il musicista alzò un sopracciglio e si voltò di spalle.
- Ah, cavolo! La dimentico sempre aperta! - si scusò lui con un sorriso - La chiudo subito. Ah, per caso ti sei presa un raffreddore? Hai una voce un po' strana -
- Forse... forse sì -
Lawrence rivolse un ultimo sorriso alla persona che aveva di fronte e si voltò per andare a chiudere la porta.
Girò la maniglia e, appoggiandola delicatamente la porta si chiuse.
Avvertì un paio di passi rapidi alle proprie spalle.
Poi, un dolore estremamente forte sul fondo della schiena.
Urlò con tutto se stesso, sentendo il corpo aguzzo penetrargli le carni mentre una spallata lo costrinse contro il muro.
Una persona lo stava schiacciando di peso verso la parete, impedendogli di muoversi, mentre un qualcosa di simile ad un coltello lo stava oltrepassando da parte a parte.
Continuò a muoversi e a dimenarsi senza smettere di urlare con tutto il fiato che aveva in gola.
In quel putiferio di caos e terrore, riuscì a scorgere una sola, altra voce.
- MI DISPIACE! MI DISPIACE! - urlò il suo assalitore - MI DISPIACE! MI DISPIACE! PERDONAMI!!! -
La mano dell'assassino fece forza sulla bottiglia fino a che Lawrence non ebbe più la forza né di urlare né di muoversi e combattere.
Il suo corpo cascò all'indietro, sbattendo contro il tavolo di marmo.
Aprì gli occhi un'ultima volta, con le ultime energie rimaste.
Una sagoma poco distinta comparve davanti a lui, tenente in mano una bottiglia spezzata.
- Tu... non sei... Vivian... - mormorò, prima di spirare definitivamente.
Rickard Falls lottò con tutte le forze contro il desiderio di piangere ed urlare. La prima cosa che fece fu chiudere la porta del laboratorio a chiave.
Sentì il bisogno di riacquistare il senno e la lucidità. Doveva impedire ad altre persone di entrare e scoprirlo.
Conosceva le regole: sapeva di non poter fare più di quanto non avesse già fatto.
- Vera... Vera, dove sei...? - pianse lui, appoggiandosi alla porta e scivolando lentamente verso il pavimento.
Solo con due cadaveri, l'Ultimate Voice Actor scoppiò nel pianto più disperato che avesse mai compiuto.
- Ho dovuto farlo... non volevo morire... volevo rivederti...! -
Appoggiò la testa tra le braccia insanguinate.
- Ti amo tanto, tantissimo... - sospirò - Voglio... vederti ancora una volta...! -

 

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Capitolo 31
*** Capitolo 3 - Ultima parte ***


L'iniziale silenzio che, di norma, seguiva l'annuncio del verdetto fu rapidamente spezzato e obliterato in breve tempo.
Senza nemmeno poter riprendere fiato dal dibattito appena conseguito, Pearl Crowngale si trovò costretta ad opporsi con tutte le proprie forze tra Hillary e il guscio vuoto emotivamente provato che fino a poco prima era l'Ultimate Voice Actor.
Hillary Dedalus avvertì una scarica di adrenalina assieme alla necessità di sfogare rabbia e frustrazione sul catalizzatore principale della sua collera.
Nonostante la statura minuta, scatenò una forza tale che fu necessario l'intervento di June per riuscire a tenerla a freno ed impedirle di aggiungere altro danno.
- MOSTRO! - inveì contro il colpevole - Sei uno schifosissimo mostro! ASSASSINO! -
Rickard Falls teneva ancora il capo chino sul proprio banco; posizione che non aveva abbandonato sin dal momento in cui Karol lo aveva smascherato.
Alzò lentamente la testa fino ad incontrare lo sguardo furente di Hillary; il suo volto non mostrava che un vago riflesso di ciò che il ragazzo era.
- Hillary, datti una calmata! - intervenne Xavier - E' finita! Il processo è concluso! -
- No che NON mi calmo! Chi se ne importa del processo!? Al diavolo tutto e tutti! - continuò lei - Ha ucciso Lawrence, e ha ucciso Vivian! Li ha ammazzati come bestie per il suo tornaconto! La morte è troppo poco per un VERME come te, Rickard! -
Notando che June e Pearl erano in qualche modo riuscite a frenarla, Karol ne approfittò per avvicinarsi e tentare di farla ragionare.
- Hillary, siamo tutti sconvolti da ciò che sta accadendo. Ma infierire su Rickard non farà tornare Vivian tra noi... -
- Non me ne importa! Capito!? Un bel NIENTE! - ribatté Hillary in un ultimo slancio di sfogo - L'unica nota positiva è che, alla fine dei giochi, TU MORIRAI! Andrai in quella fottuta stanza e farai la fine che meriti! E solo quando sperimenterai lo stesso dolore di Vivian potrò...! -
Si udì un rumore rapido e secco, simile ad uno schiocco.
Hillary non riuscì a completare la frase; la sua bocca venne bloccata da un rapido colpo di palmo.
L'Ultimate Clockwork Artisan cadde a terra a causa del proprio impeto; sulla sua faccia erano comparsi cinque piccoli segni arrossati della forma di una mano.
Si massaggiò la guancia, ancora incapace di comprendere pienamente cosa fosse successo.
Poi, guardò verso l'alto.
Ad incontrare il suo sguardo vi erano due terrificanti occhi glaciali, fissi su di lei come un rapace.
Pearl ritrasse lentamente la mano e si tastò il polso, senza mai perdere la presa visiva sulla ragazzina ai propri piedi.
- Hillary - disse con voce soffusa, ma imperante - Ora. Basta -
Tutta la foga e la rabbia covati si trasformarono, per un attimo, in terrore.
Schiacciata dalla potenza dell'aura di Pearl, Hillary strinse i denti e piantò un pugno fragoroso al suolo; maledisse la propria impotenza e soffocò qualche altra imprecazione.
In quel momento, il silenzio tornò a regnare sovrano.
Pierce era rimasto tutto il tempo dietro al proprio banco a meditare; la sua espressione sembrava voler dire che ancora non riusciva ad accettare tutta quella situazione.
Dall'altro lato, Kevin era rimasto a fissare Rickard con sguardo assente. Aveva anche provato ad avvicinarsi e tendergli una mano di conforto, ma né il suo corpo si decise ad obbedire, soggiogato dal timore, né la situazione sembrava essere favorevole ad un atteggiamento di riguardo nei confronti del compagno.
Kevin Claythorne osservò il rapido sgretolarsi che aveva subito la sua ristretta cerchia di confidenti, ricordando la promessa fatta a Lawrence e Rickard settimane prima che non avrebbe mai potuto portare a compimento.
June si era tolta dalla mischia nel momento in cui il corpo di Hillary era capitolato al suolo; riprendendo fiato, tentò a sua volta di venire a patti con la propria coscienza.
Nel guardare Rickard non riuscì a non provare una sensazione di disgusto, la stessa che aveva sentito nell'udire il verdetto di Alvin.
Eppure, probabilmente mitigato dalle urla di disperazione di Hayley Silver, il suo animo nei confronti dei colpevoli aveva cominciato a porsi sempre più dubbi.
Xavier e Judith erano rimasti a fare da spettatori. 
Lui aveva ritrovato compostezza dopo l'aver evitato le accuse di Rickard e, di conseguenza, una dolorosa ed immeritata fine. Il panico sopraggiunto nel corso del processo si era andato lentamente ad alleviare.
Lei, dall'altra parte dell'aula, continuò la propria lotta interiore tra la parte di sé che voleva dare un seppur minimo aiuto a Rickard e quella che non voleva commettere nuovamente gli errori del passato.
A differenza delle altre volte, inoltre, Michael non sembrava particolarmente sollevato dall'aver scampato l'esecuzione.
L'enorme quantità di sudore prodotto dalla sua fronte mostrò quanto l'Ultimate Chemist avesse compreso di aver evitato la morte per un soffio.
Rimase a riprendere aria osservando ciò che accadeva da lontano, sorprendendosi in maniera particolare di ciò che Hillary aveva espresso.
Karol Clouds, infine, fu l'unico a muovere dei passi in direzione di Rickard; lo sguardo dell'insegnante era colmo di tristezza e rimpianto, ma la sua facciata di comprensione e autorevolezza non venne meno.
Rickard sollevò debolmente lo sguardo.
- Ah, Prof... - mormorò - Sei venuto anche tu a dirmi che mi odi...? -
- No, Rickard. Niente del genere... - sospirò lui - Voglio solo capire. Tutto qui -
Rickard Falls tossicchiò una risata nervosa.
- Capire...? Cosa c'è da capire? E' come ha detto Hillary, no? - disse con un filo di voce - Sono un mostro. Un mostro che ha assassinato due persone e ha tentato in tutti i modi di farla franca. Perché...? Perché volevo uscire da qui... ovvio -
- No, Rickard, ti sbagli - rispose perentorio - Non esistono "mostri" in questo gruppo. Siamo tutti esseri umani disperati che tentano a tutti i costi di sopravvivere. E io ho avuto modo di conoscere un Rickard gioviale e sorridente, e sono assolutamente certo che non fosse una semplice pantomima per ingannarci -
- Come puoi essere così sicuro...? -
- Lo so e basta. Se non fossi in grado di discernere almeno questo... che razza di insegnante sarei? -
Falls mostrò un altro, flebile sorriso.
- Sai, credo di capire cosa... provasse Alvin -
Gli occhi di Karol si illuminarono.
- Cosa intendi? -
- Credo di aver compreso da cosa derivasse il suo dolore - alzò lo sguardo verso il soffitto - Voleva rivedere a tutti i costi una persona, qualcuno di talmente speciale che il solo rischio di morire in questo posto o rimanerci in eterno sembra... inaccettabile. Un compromesso infattibile, capisci? -
- Quindi vale lo stesso... per te? - Kevin si fece avanti - C'è qualcuno che vuoi incontrare? -
Rickard Falls mascherò tutta la propria angoscia.
- Sì... una persona molto, molto speciale. L'unica, credo, che abbia mai amato più di me stesso - ammise, con voce straziata - Le ho promesso che l'avrei raggiunta al mio ritorno. Le avevo preso un regalo... volevo solo... solo riabbracciarla ancora una volta... -
- Ma perché Vivian...? - chiese June - Perché ammazzarla in quel modo...? 
- Credetemi, ad un certo punto la mia mano si è mossa da sola. Ero completamente in preda al terrore... - rispose - Vivian... Vivian voleva proporre di restare qui per  sempre... di creare un'oasi dove nessuno di noi sarebbe più dovuto morire. Voleva accettare fino in fondo le regole di questo postaccio e... arrendersi -
- Vivian voleva... "arrendersi"...? - mormorò Hillary - Voleva restare qui? -
Rickard si asciugò alcune lacrime e prese aria.
- Voleva proteggerci. Tutti noi; soprattutto te, Hillary. E... - tirò su col naso - E Lawrence... -
- Era quello il tuo... "compromesso infattibile" - asserì Xavier.
Rickard si limitò ad annuire un paio di volte.
- Ho... ho ucciso due persone. Due innocenti. Due... due miei compagni. E lo ho rimpianto per tutto il tempo ma... MA...! - batté con forza il pugno sul banco - Ma per quanto sia orribile, io... IO...! -
Il concetto che Rickard tentò di esprimere era, oltre che di facile intuizione, piuttosto crudo e difficile da pronunciare.
Il resto della classe fu pervasa da un gelido brivido; la determinazione dell'Ultimate Voice Actor, in forte contrasto con la figura di lui che si erano creati nel corso del mese, mise a dura prova la fede di ognuno dei sopravvissuti.
- Io... voglio... DEVO RIVEDERLA! -
- Parole magnifiche, ma vane! -
Come tutti si stavano aspettando, la mefitica voce del pupazzo ursino fece capolino dagli schermi del tribunale.
Come una sola persona, tutti alzarono il capo.
Le pupille di Rickard Falls si dilatarono all'inverosimile.
- T-tu...! -
- Proprio io! - sghignazzò l'orso - Devo essere sincero, questo caso è stato emozionante all'ennesima potenza! Rickard Falls, sei una gran mente criminale, lo sai!? -
- Piantala di prendermi per il culo! - inveì lui - Io non... non starò alle tue regole! Non ti permetterò di ammazzarmi! -
Lo sguardo rossastro di Monokuma si fece più intenso.
Pierce Lesdar sentì l'energia alle gambe venirgli meno.
- Ooh? E qui chi abbiamo? Un assassino che gioca a fare l'eroe? Credi di essere... "superiore" alle leggi che regolano questo mondo? -
- "Mondo"? - sbottò Xavier - Più che altro il tuo personale parco giochi malato. Non sei forse tu che giochi a fare la divinità? -
- Già! Non sei che un codardo! - lo attaccò June - Sei lì a goderti lo spettacolo, seduto comodamente in poltrona! Perché non ti mostri, se ne hai il coraggio!? -
A quel punto, la sagoma di Monokuma comparve nella propria interezza nello schermo.
Sfoderò un artiglio in segno di minaccia; nonostante fosse solo un video, tutti ne avvertirono la pericolosità.
- Lasciate che vi dia un importante chiarimento - fece l'orso, con voce lenta e crudele - Io non "gioco" a fare Dio. Fintanto che siete nel mio mondo, io SONO Dio! Fino a che sarete in questa scuola, voi siete il gradino più basso della scala gerarchica! Siete anche meno di semplici pedine: siete giocattoli dei quali ho il diritto di vita e morte! E, a tal proposito, credo che sia proprio giunto il momento di dispensare un po' di quest'ultima! -
A quelle parole, le porte della sala delle punizioni si spalancarono con un boato.
Rickard Falls indietreggiò istintivamente.
Uno spiacevole ricordo balenò nella mente di Judith nel momento in cui gli stessi arti meccanici che avevano ghermito e portato via Hayley erano ricomparsi in scena.
- No... NO! - urlò Rickard - LASCIAMI STARE! IO DEVO USCIRE DA QUESTA CAZZO DI SCUOLA! -
- Mi spiace, mio caro! Le regole valgono per tutti! Hai perso, e ne paghi le conseguenze! E, guarda caso, ho preparato una punizione molto speciale per Rickard Falls, Ultimate Voice Actor!
Punizione a cui spero nessuno avrà obiezione alcuna! -
Con quel discorso, Monokuma rivolse il proprio sguardo verso il resto della classe; in particolar modo, la sua attenzione andò su Judith.
L'Ultimate Lawyer deglutì a fatica.
- L'ultima volta abbiamo incontrato una piccola opposizione all'esecuzione, e te la sei cavata con una scossetta. Ma sia ben chiaro... - fece l'orso - Provate a mettervi in mezzo, e verrete giustiziati assieme a lui! E' il mio ultimo avvertimento! -
Bastò quella singola frase a soffocare completamente ogni barlume di rivolta. Pearl e Karol avevano già iniziato a dirigersi verso Rickard, ma si trovarono immobilizzati dal peso di quella minaccia.
Sotto il lo sguardo impotente, i primi due arti meccanici si avvinghiarono alle braccia di Rickard, che aveva tentato la fuga verso l'ascensore.
- NO! LASCIAMI, HO DETTO! LASCIAMI! - strepitò lui, mentre incontrava sempre più resistenza.
Allungò la mano verso uno dei banchi del tribunale, affondando le unghie nel legno fino a cavarlo con la sola forza delle proprie mani.
Quella manifestazione di potenza sorprese persino lo stesso Monokuma.
- Ho detto... che non mi lascio... UCCIDERE! -
- Rickard... - pianse Judith, coprendosi il volto.
La mano dell'Ultimate Voice Actor continuò a scavare nel legno in cerca di un appiglio più saldo, ma sapeva di stare per raggiungere il limite della sopportazione.
Le forze iniziavano a venire meno, e sempre più arti lo stavano trainando verso la sala.
L'ultimo, disperato tentativo di Rickard Falls andò a vuoto nel momento in cui perse del tutto la presa sul banco.
Il suo corpo venne trascinato via, scivolando sul pavimento lustro, lasciando una scia di unghiate e lacrime.
- NOO! NON PUOI... NON POSSO...! AIU... AIUTATEMI...! -
A quel punto, le sue urla persero ogni potere. Alzando momentaneamente lo sguardo, vide riflesso in ognuno dei propri compagni un sentimento di angoscia e impotenza.
Sapeva che nessuno sarebbe potuto venire in sue soccorso, sapeva che ogni speranza di poter scappare era vana.
Aggrappatosi con l'ultimo briciolo di forze rimasto, riuscì per un attimo ad intravedere, nel vuoto, lo scintillare di due occhi color verde smeraldo che lo fissavano con dolcezza.
Un'immagine residua di un'immaginazione che Rickard Falls sperò con tutto se stesso essere vera.
- Vera... Vera! - mormorò, prima di svanire nel buio della sala - VERAAAAA!!! -
Poi, le porte si chiusero; tacque ogni rumore.





Quando il mondo smise di girare, Rickard riprese lentamente i sensi per poi accorgersi di essere circondato da un buio profondo e assoluto.
Gli arti meccanici lo aveva trascinato per un tragitto notevole, ma non riuscì a capire effettivamente quanto lungo.
Tutto ciò che Rickard Falls sapeva era di essere stato messo in posizione verticale e che braccia e gambe gli erano stati legati e saldamente bloccati.
Provò a scuotere con violenza ogni parte del proprio corpo; ogni muscolo tentò di opporsi a quella prigionia.
Avvertì del freddo materiale a contatto con la propria schiena, come se fosse appoggiato su una pedana metallica.
Poi, ad un tratto, le luci si accesero. Delle lampadine rosse che emanavano una luce fioca e soffusa.
Rickard socchiuse gli occhi, accecato dall'improvvisa nitidezza di ciò che aveva di fronte.
Poi, si guardò attorno.
Era stato legato davanti a quello che sembrava essere un leggio: vi era una piccola impalcatura con sopra montato un microfono. Di fianco vi erano alcune sedie e delle grosse casse collegate ad un proiettore. Da quest'ultimo partì un suono che ne segnalò l'accensione.
Rickard Falls continuò invano a tentare di liberarsi dalla morsa, ma sembrava essere molto più solida di quanto non apparisse già.
Ancorato alla parete, il giovane osservò con volto terreo lo svolgersi degli eventi.
Il video proiettato sembrava cominciare come un vecchio film di chissà quante decadi precedenti.
Un conto alla rovescia precedette l'apparizione di un'enorme scritta in grassetto, ben marcata: "MONOKUMA HOME THEATRE".
A fare la propria comparsa in scena fu un piccolo Monokuma nelle stesse ed identiche condizioni in cui si ritrovava Rickard.
Braccia e gambe erano state inchiodate alla parete, e altri due Monokuma gli erano di fianco mostrando espressioni malevolmente beffarde.
Rickard Falls ebbe uno sgradevole presentimento. Guardò con orrore alla propria destra e sinistra: grazie alla migliore illuminazione notò la presenza di due orsi meccanici che gli risero di gusto in viso.
Dall'esterno della sala, gli spettatori poterono vedere solo lo schermo e l'altra parte della pedana metallica.
Pearl strinse la propria mano sul braccio, che le tremò. Riuscì solo ad immaginare il terrore dipinto sul volto dell'Ultimate Voice Actor.
Una musichetta allegra cominciò a suonare nel momento in cui il filmato andava avanti. Lo stile grafico e sonoro potevano indurre a pensare si trattasse di un cartone animato vecchio stampo, ma nulla poteva essere considerato normale od innocuo in quella sala.
Uno dei due Monokuma aguzzini aveva tirato fuori una mazza da baseball comicamente enorme.
Caricò un colpo e, dopo appena un secondo, piantò un colpo ben assestato sul fianco del Monokuma prigioniero, che mostrò un'evidente smorfia di dolore.
Rickard non ebbe neppure tempo di rendersi conto di che significato avesse: avvertì un dolore lancinante al fianco destro.
Lanciò un urlo disperato, voltandosi di scatto: l'orso alla sua destra lo aveva appena colpito con una mazza da baseball di metallo.
Lo show continuò imperterrito mostrando ogni tipo di tortura subita dal Monokuma intrappolato.
Il resto della classe notò come i due pupazzi ai lati della pedana metallica imitassero ogni movimento che appariva sullo schermo, come a replicarne, oltre che lo stile, anche la ferocia.
Comparve prima un martello, poi un paio di pinze, e a seguire dei guantoni borchiati.
Dal lato delle tribune fu facile comprendere ciò che i due Monokuma stessero colpendo, oltre quella pedana.
June e Pierce smisero quasi subito di vedere, terrorizzati.
Nel cartone animato apparve un coltello; uno dei Monokuma lo conficcò nella gamba del malcapitato.
Kevin e Karol rimasero come ipnotizzati da quello sfoggio di violenza.
Xavier e Michael rimasero a guardare come per dare a se stessi un monito.
Una sega circolare apparve tra le mani di uno dei carnefici; mentre il Monkuma nel video vide il proprio fianco lacerarsi brutalmente, del sangue iniziò a schizzare dalla pedana.
La motosega si bloccò prima di scendere più in profondità.
Nel pieno di quel miscuglio di tensione e paura, Judith passò le unghie più volte sul vetro antiproiettile che la separava dal macabro spettacolo, come nel tentativo debole ed inutile di fare qualunque cosa per aiutarlo.
Hillary, più di tutti, si ritrovò a combattere con più parti del proprio animo. Il suo volto non mosse nemmeno un muscolo per tutta la durata dell'esecuzione.
Non le scesero lacrime, ma nemmeno si sentì sollevata o appagata.
Vi era il nulla; un vuoto siderale incolmabile.
A quel punto, il video arrivò alla sua aspettata, tragica conclusione.
I due Monokuma legarono il terzo con delle funi metalliche e, premendo un pulsante, attivarono una scossa elettrica che fece esplodere l'intera struttura.
Rickard Falls osservò la scena con il cuore in gola. Ebbe appena il tempo di urlare qualcosa di indefinito, poiché dalla sua bocca non uscì altro che sangue e saliva.
Dopo appena un attimo, l'intera sala fu avvolta da corrente ad altro voltaggio, e ben presto non vi fu che un cumulo di fumo e fiamme.
Tutto ciò che era nella stanza, se non era andato a fuoco, rimase coinvolto nell'esplosione dei circuiti elettrici.
Vi furono alcuni momenti di inquietante silenzio.
Un Monokuma arrivò dopo breve tempo con un estintore alla mano, sedando tutto ciò che era rimasto delle fiamme.
Da esse ne uscì la sagoma di un corpo martoriato con dei vestiti carbonizzati e il volto fisso su di un'espressione di terrore.
Delle tende rosse scesero dal soffitto fino a occultare la scena.
Il sipario era calato.




La classe si era lentamente ritirata verso l'ascensore; anche quella volta nemmeno una parola uscì dalla bocca di nessuno.
Era una situazione a cui era impossibile fare l'abitudine.
L'ascensore era sempre più vuoto e spazioso ad ogni tragitto; l'innegabile verità della natura di quel posto costrinse tutti gli studenti a chinare il capo.
Xavier fece per seguire gli altri all'interno, ma qualcosa distolse il suo sguardo.
Si voltò di spalle: non tutti gli studenti avevano abbandonato il tribunale.
Hillary Dedalus non aveva mosso un passo dalla sua posizione; i suoi occhi erano ancora fissi sulle tende rosse della sala delle punizioni.
Il resto della classe notò il comportamento anomalo, ma nessuno se ne meravigliò.
Si scambiarono tutti un'occhiata comprensiva.
Una voce si levò dal mezzo.
- Vado io -
Karol Clouds si fece largo in mezzo ai pochi rimasti.
- Sei... sicuro, Prof? - chiese Judith - E' un momento delicato -
- Ne sono cosciente, ma non possiamo lasciarla lì - annuì tristemente - Vado a parlarle -
Nessuno ebbe niente da ridire. June lo pregò di utilizzare le parole giuste, ma sapeva di avere a che fare con un ragazzo capace.
In una situazione simile, l'unico affidabile pareva essere l'Ultimate Teacher.
Karol aggirò lentamente il perimetro circolare del tribunale, con passo lento e cadenzato.
Dal rumore dei suoi passi sarebbe stato semplice capire che si stava avvicinando, ma Hillary non batté ciglio.
Lui si portò al suo fianco, nella medesima posizione.
Dall'altro lato della stanza, diverse paia di occhi curiosi stavano scrutando la situazione chiedendosi come Karol sarebbe riuscito a fare breccia nell'animo devastato della compagna.
I due rimasero in silenzio per diverso tempo.
Hillary scrutò il leggero muoversi delle tende di velluto rossastro come a cercare un significato che non esisteva.
Karol non riuscì a sopportare quella vista miserevole, neanche per un secondo di più.
- Hillary... - le disse - Dobbiamo andare -
Lei sollevò lievemente il labbro superiore.
- Andare...? Andare dove? - chiese - Ad ucciderci...? -
- Vorrei davvero trovare un modo per evitarlo - asserì lui - E non intendo lasciarti qui da sola -
Lei strinse i pugni.
- Vivian non sarebbe dovuta morire... - disse con voce soffocata.
- Nessuno meritava di morire, tra noi - la corresse lui.
- Nessuno...? Nemmeno... gli assassini? -
Karol scosse il capo.
- Dimmi, Hillary. Come ti senti ora che Rickard è morto...? - le chiese con tono neutro, ma malinconico - Soddisfatta? Senti che la morte di Vivian è stata vendicata? -
- No, io... io non... -
- La rabbia spesso ci porta a mentire a noi stessi - le disse dolcemente - Ma non dobbiamo farci obnubilare il giudizio. Rickard è stato costretto a fare cose che... -
- LO SO! - pianse lei - Lo so che Rickard era solo un'altra... un'altra vittima! Ma io non...! Come faccio ad andare avanti, così...!? -
Karol mostrò un'espressione colma di dispiacere.
- Hillary... -
- Io... per tutta la vita ho... ho finito per dipendere da altre persone... - confessò piangendo - Non sono forte, né fisicamente né mentalmente... ho SEMPRE avuto bisogno di qualcuno a cui appoggiarmi. Qualcuno di più forte che... che mi facesse sentire protetta, capisci? -
- Credo di intuire di cosa parli - annuì tristemente lui.
Lei si asciugò e lacrime con la manica della maglia.
- Ho sviluppato questa... dipendenza affettiva da cui non riesco a liberarmi...! - strepitò - E ora che Vivian è morta, io... io cosa farò...!? Io non volevo... non volevo dire quelle cose a Rickard, ma...! Ero così frustrata! E spaventata! Non sapevo nemmeno cosa stavo dicendo, e...! -
- Hillary - le appoggiò di scatto le braccia sulle spalle - Le debolezze del nostro animo sono dolorose e complicate da superare, ma non sono ostacoli insormontabili. Per nessuno -
- N-nessuno...? -
- Non puoi continuare a dipendere da qualcuno per tutta la vita, ma so che è difficile abituarsi ad un nuovo stile di vita. Permettimi di aiutarti -
L'Ultimate Clockwork Artisan mostrò uno sguardo confuso, ma al contempo quasi sollevato.
- Aiutarmi? -
- A superare il tuo complesso - sorrise lui - Me lo permetterai? -
- Ma perché...? Perché vorresti...? -
Lui si sistemò lo cravatta.
- Perché sono il tuo insegnate. Anzi, anche di più - disse, porgendole la mano - Sono tuo amico -
Vi fu una pausa in cui gli occhi dei due si incrociarono. Hillary scavò a fondo in quelli di Karol per trovare anche solo la minima traccia di gentile falsità dietro le sue parole.
Ma non vi fu niente, non ne trovò.
La ragazzina dai capelli rossi scoppiò in un pianto liberatorio per poi fiondarsi tra le braccia di Karol, affondando la testa nella sua camicia azzurra.
Osservando la scena, il resto della classe riuscì a ritrovare parzialmente un po' di serenità.
- Karol ci sa fare, eh? - commentò June, sorridendo.
Diverse teste fecero cenno di assenso, fatta eccezione per Michael, troppo orgoglioso per mostrare empatia, e di Xavier e Judith.
Questi ultimi parvero profondamente immersi nelle parole di Karol; ciò che l'Ultimate Teacher aveva pronunciato per aiutare la compagna era un qualcosa che destò in loro numerose considerazioni.
Dall'altro lato del tribunale, Karol rimase in piedi, fermo, stringendo le braccia attorno alle spalle di Hillary, incitandola a portare fino in fondo il proprio pianto purché la facesse sentire meglio.
Le calde lacrime della compagna non lo infastidirono affatto. Al contrario: sul volto di Karol era comparso un sorriso sincero e soddisfatto.
Sentì di avere tra le mani un proprio piccolo, personale successo.
Carezzò più volte i capelli di Hillary, stringendola a sé. 
Plasmare lo spirito di un allievo e compagno e aiutarlo a rialzarsi fu per lui la sua più grande conquista.
- Andrà tutto bene, Hillary - pensò - Ti proteggerò io, ora. Ti farò uscire di qui, te lo prometto -
Lei non rispose. Si limitò ad annuire debolmente con la testa.
Karol avvertì, nonostante tutto, la sua gratitudine.
Altre lacrime andarono versate sulla camicia del Prof, ma ogni goccia aveva la consistenza stessa del successo.
Poi, Karol Clouds avvertì una sensazione peculiare.
Una strano senso di calore appiccicaticcio, quasi fosse sudore.
In principio nemmeno ci fece caso, ma col tempo divenne più incalzante.
Abbassò lo sguardo.
Hillary Dedalus era ancora abbracciata a lui; singhiozzò ancora per alcuni istanti.
Karol Clouds avvertì di nuovo quello sgradevole sentore, stavolta individuandone la fonte. Proveniva dal punto in cui Hillary aveva posto la fronte sul suo petto.
- Hillary...? - chiese.
- Sì? -
D'istinto, Karol scostò delicatamente e con gentilezza il capo della compagna dal proprio corpo.
Fu lì che il suo sguardo si congelò.
Assieme alle lacrime ed a chiare tracce di muco, una gigantesca chiazza di sangue era apparsa a macchiare la camicia.
- Cos-...!? - esclamò, atterrito.
Non avvertì alcun dolore, nessuna fitta in alcuna parte del corpo. Men che meno dal petto.
Poi, un pensiero orrendo gli attraversò la mente: guardò davanti a sé.
Le narici di Hillary Dedalus avevano iniziato a perdere copiosamente sangue.
Quest'ultima mostrò uno sguardo confuso, come se a stento se ne fosse accorta.
- H-Hillary!? -
- Ma cosa...? - si domandò placidamente lei.
Il resto della frase non uscì. Quando mosse le labbra, ciò che ne uscì fu una violenta scarica di vomito.
Sostanze intestinali miste a sangue caddero ai piedi di Karol, che si ritrovò ad osservare una scena tutt'altro che piacevole.
Hillary tossì violentemente, appoggiandosi con il braccio al banco per sorreggersi. Un fiumiciattolo di sangue cominciò ad uscirgli dalle cavità oculari.
- HILLARY! - gridò Karol - AIUTO! RAGAZZI, AIUTATEMI...! -
Il resto della classe si precipitò fuori dall'ascensore nel momento stesso in cui udirono le prime urla.
- Ma che cazzo...!? - si sbalordì Xavier alla vista di Hillary, correndo verso i due compagni.
L'Ultimate Clockwork Artisan non riuscì più a contenere tosse e vomito. Si ritrovò ad annaspare alla disperata ricerca di aria, ma persino i polmoni si rifiutarono di collaborare.
Perse l'equilibrio, cadendo a terra in mezzo al proprio stesso sangue.
Karol Clouds rimase completamente paralizzato, incapace anche solo di muovere un muscolo.
I loro sguardi si incrociarono di nuovo, stavolta con un significato differente.
Hillary tese la mano verso di lui, vomitando altro sangue.
Cinque piccole, sottili dita ossute si trascinarono verso la sagoma esterrefatta di Karol, pregandolo in silenzio di fare qualunque cosa.
- A-a..iu...t-t...oooh... -
Karol tese a sua volta la mano in uno slancio di istintiva pietà.
Arrivò quasi fino a sfiorarle le unghie.
Poi, il braccio di Hillary cadde a terra. La ragazza rimase immobile, lo sguardo vitreo fisso nel nulla.
Nel momento in cui il resto della classe si riunì attorno a lei, nessuna parte del suo organismo sembrò dare cenni di vita.
Pierce, Kevin e June guardarono la scena con profondo orrore.
Judith, Xavier e Pearl non riuscirono a credere nemmeno per un istante a ciò a cui avevano assistito.
Michael mosse lentamente dei passi all'indietro, spaventato all'inverosimile.
Karol, invece, cascò in ginocchio.
Allungò le braccia verso le spalle di Hillary come aveva fatto poco prima, dandole una lieve scrollata.
- Hillary...? - la chiamò - Hillary, rispondi... Hillary? -
Passarono degli interminabili momenti di dolente terrore.
Momenti in cui, nella mente dell'Ultimate Teacher, si alternarono rapidamente immagini di una Hillary rabbiosa, triste e devastata a quelle del suo corpo freddo e dilaniato dal dolore.
- Hillary... - la chiamò un'ultima volta, con voce sempre più debole.
Poi, l'Ultimate Teacher lanciò l'urlo di dolore più forte che si fosse mai sentito in quell'aula di tribunale.


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Capitolo 32
*** Capitolo 4 - Paura - Parte 1 ***


Capitolo 4 - Paura

   
                                                                              
Lo sguardo impietrito di Karol Clouds si era rapidamente trasformato in un'espressione di puro terrore.
La sua mente stava forzatamente tentando di rifiutare il fatto che Hillary gli fosse collassata davanti in maniera così improvvisa ed inaspettata.
Sbatté le palpebre più e più volte, come per scacciare quella oscena visione dal proprio cervello, relegandola in un mondo irreale in un sogno.
Riaperti gli occhi, dovette accettare che quella non era altro che la realtà.
Il resto della classe era giunto sul posto, atterriti dalla paura.
June Harrier fu l'ultima, in ordine, ad arrivare; non appena superò due dei compagni si ritrovò davanti il corpo della compagna caduta.
Le scappò un urlo terrorizzato; fu genuinamente acuto e potente, abbastanza da far rinvenire Karol dal suo torpore mentale.
- H-Hillary! HILLARY! - la chiamò lui, gettandosi sul corpo - Rispondimi! HILLARY! 
Una mano lo strattonò con forza, tirandolo all'indietro.
Karol perse l'equilibrio e cadde sulla schiena appena prima di riuscire a sfiorarne il corpo senza vita.
Si dimenò per alcuni secondi prima di voltarsi; Michael Schwarz lo stava tenendo saldamente tra le braccia.
- Lasciami! Dobbiamo aiutarla! - gli urlò contro - Dobbiamo fare qual-...! -
- Karol, smettila! - la voce dell'Ultimate Chemist tuonò furibonda - Non lo vedi!? Hillary... -
L'insegnante lanciò un'ultima occhiata disperata verso l'Ultimate Clockwork Artisan; gli occhi sembravano essere fuori dalle orbite dal dolore, e grumi di sangue scuro le colavano da bocca, occhi e naso.
- E' morta... - sospirò Pearl - Non... non c'è più niente da fare -
- Morta...? - biascicò Karol, senza più un briciolo di senno - Non può essere morta... non può! Avevo promesso... avevo promesso di proteggerla...! -
Judith si fece avanti, aiutandolo ad alzarsi.
- Prof, tirati su... dobbiamo uscire da qui -
- No! Io non...! -
Una voce più acuta fece trasalire tutti i presenti; un bizzarro rumore meccanico emesso dall'altoparlante indirizzò l'attenzione generale su Monokuma.
- Un cadavere è stato rinvenuto! Avete un'ora di tempo prima che cominci il processo! Usatela saggiamente! -
Poi, così come era comparsa, svanì nel nulla più assoluto.
Pierce si grattò furiosamente la testa, piangendo.
- No... No, no, NO! - urlò - Avevamo appena concluso...! TRE DI NOI SONO GIA' MORTI, OGGI...! -
- E' uno scherzo, vero...? - Kevin crollò su uno dei banchi del tribunale - Ditemi che è solo un brutto, orrendo scherzo... -
- Merda... - Xavier strinse i pugni fino a far schioccare le ossa - E' morta davvero... dobbiamo ricominciare! -
Pearl gli lanciò un'occhiata apprensiva.
- Xavier... Karol è messo parecchio male... e la maggior parte di noi è stanca e provata - la ninja sospirò - Siamo davvero in grado di portare avanti le indagini? -
Il detective si guardò attorno, spaesato da quella improvvisa constatazione.
Pierce e Kevin stavano dando chiari segni di debolezza sia mentale che fisica; entrambi si erano seduti per terra, recuperando fiato e tentando di calmarsi almeno in parte.
Karol era in uno stato irriconoscibile; la sua pelle era pallidissima, il volto contratto in una smorfia di dolore che sembrava lacerargli persino l'anima.
June, dall'iniziale timore, sembrava aver tramutato tutto in rabbia. La sua faccia era paonazza, e non faceva che guardare al cadavere di Hillary con profonda irritazione.
Judith e Pearl, dopo essersi prese cura di Karol, si erano riunite a Xavier in compagnia di Michael.
I quattro si accorsero di essere gli unici ad aver mantenuto un apparente sangue freddo, ma l'espressione di ognuno di loro tradiva ansia e perplessità.
- Abbiamo meno di un'ora. Il tempo ci è a sfavore... - commentò Xavier - A maggior ragione dobbiamo sbrigarci -
- Xavier, la situazione non è come le altre volte! - sbottò Michael - Hai visto Hillary, no!? Si è trattato quasi sicuramente di avvelenamento! -
- E con questo? - domandò Pearl.
- "E con questo"!? Non abbiamo una vera scena del crimine da ispezionare, se la morte è stata provocata indirettamente! Abbiamo l'intera scuola da ispezionare, nessuna pista, e soltanto quattro persone abbastanza in forze! Vi sembra poco!? -
- Cinque... cinque persone... - fece una voce alle loro spalle.
I quattro si voltarono per poi subito notare una furibonda Ultimate Archer col volto torvo e contratto.
- June...? Ti senti meglio...? - chiese timidamente Judith.
- Oh, una meraviglia! Davvero! - rispose ironicamente lei - Non potrei stare meglio. Ora muoviamoci e TROVIAMO QUALCHE PROVA! -
- Non condivido il suo temperamento, ma ha ragione. Dobbiamo fare in fretta - annuì Pearl, malvolentieri.
Xavier si guardò attorno ancora una volta: mai come quel momento avvertì la mancanza di alleati.
Erano rimasti in otto, la metà del numero di partenza.
La scuola stava diventando larga e vuota.
- V-vi aiuteremo anche noi... -
La vocina sottile di Kevin Claythorne si fece avanti.
Il biondino stava aiutando Karol ad alzarsi. Tenendolo per mano, lo portò dal resto del gruppo.
- Possiamo... possiamo ancora aiutarvi - fece l'Ultimate Botanist - Giusto, Prof? -
- G-giusto... - tossicchiò Karol - Non posso fermarmi... non adesso... -
La palese menzogna non fu difficile da smascherare; nessuno dei due sembrava avere forza né col corpo né con lo spirito, ma la loro facciata di audacia aiutò il morale del gruppo.
Xavier compì un breve cenno con la testa.
- Va bene, ma non affaticatevi troppo - disse loro - Pierce? Dobbiamo prendere l'ascensore. Ce la fai? -
L'Ultimate Sewer, divenuto sempre più piccolo e tremolante, annuì debolmente.
Xavier inspirò profondamente.
Sapeva di dover dire qualcosa, ma vi erano due dettagli non di poco conto che gli impedirono di formulare immediatamente il concetto.
Il primo era che lui stesso, nonostante il mostrarsi freddo e calmo, era tormentato da dubbi e dalla paura come tutti gli altri.
Le gambe non smettevano di tremare; il ricordo dell'esecuzione di Rickard non era stato sovrascritto o rimpiazzato, ma solo aggravato da quell'ulteriore incidente.
Trovare la forza di agire da leader in una situazione simile gli richiese molti più sforzi del normale.
In secondo luogo, un terribile dilemma attorniava la sua mente.
Alzò la testa, osservando negli occhi ognuno dei sette compagni sopravvissuti assieme a lui.
"Uno di loro... è un assassino...?" si chiese retoricamente.
La risposta la aveva già, ma si forzò a non darsela.
- Ok, ragazzi... - deglutì lui - Abbiamo poco tempo. Andiamo -
Come una sola persona, otto teste diedero il proprio cenno di assenso.
Tutti corsero verso l'ascensore il più velocemente possibile, spinti dall'urgenza di fare presto.
Uno solo di loro restò momentaneamente indietro.
Michael si voltò indietro per un istante, fulminato da un pensiero.
Il suo sguardo andò a puntare il posto in cui Hillary era caduta, priva di vita.
Il chimico deglutì.
"Merda..." sospirò "Guarda che mi tocca fare...
 


L'ascensore arrivò al piano terra, riportando gli studenti davanti ai dormitori.
A differenza delle altre volte, dove un'atmosfera di apatia, mestizia ed incertezza aleggiava sovrana come dopo ogni processo, i sopravvissuti schizzarono via in cerca di qualunque cosa potesse dare loro un indizio.
Ognuno con un'idea ben precisa nella mente, presero direzioni diverse inoltrandosi nei meandri dell'istituto.
Solo tre persone rimasero nel piazzale, sommersi dal silenzio lasciato dal resto della classe.
Xavier e Karol notarono con ammirazione, e con un vago senso di disagio, ciò che Michael aveva fatto.
Il chimico aveva trascinato di peso il corpo senza vita di Hillary fino all'ascensore, portandolo di sopra assieme agli altri.
A causa di ciò, aveva ricevuto occhiate sdegnose emananti pareri contrastanti, ma nessuno degli alunni aveva osato fiatare.
Tutto sommato, il suo piano d'azione seguiva una logica inattaccabile.
- N-non guardatemi così! - si giustificò Michael - Come potrei ispezionare il cadavere senza portarlo con me!? -
- Non ti sto giudicando, Mike... - sospirò Xavier - Ma ammetto che... sembra quasi ti venga naturale armeggiare coi cadaveri, oramai... -
- Era... era una battuta!? Credi che mi diverta!? -
- No, no, dimentica ciò che ho detto - si scusò lui - Avevo solo bisogno di scaricare la tensione -
Schwarz sbuffò con irritazione, decidendo saggiamente di sorvolare.
- Bene, procediamo con ordine - disse il chimico - Karol, togliti la camicia -
L'insegnante restò sorpreso.
- L-la... che? -
- La camicia! Sei sordo!? Toglitela e dammela! - disse, indicando la chiazza di sangue lasciata lì da Hillary - Se davvero è morta avvelenata, allora hai del veleno  addosso! Levala subito! -
A malincuore, Karol si ritrovò a separarsi dal suo capo preferito.
Notò che anche la cravatta presentava macchie, e si ritrovò costretto a rimuovere anch'essa.
Facendo attenzione a non toccare le parti infette, porse tutto tra le mani dell'Ultimate Chemist.
- Bene, adesso avrò bisogno di alcuni dei miei strumenti da lavoro -
- Dove sono? -
- Nella mia stanza, proprio qui davanti - disse, indicando la porta numero quattro - Fortunatamente non ci vorrà molto. Mi sbrigherò -
- Ottimo. Noi veniamo con te - fece Xavier, con calma.
Michael notò qualcosa, nel tono di Xavier. Una traccia di dubbio, forse, o un altro sentimento non positivo.
I due si squadrarono a vicenda.
L'Ultimate Chemist stava assumendo un'espressione furibonda.
- Non hai di meglio da fare che starmi appiccicato...? - chiese, infastidito - Abbiamo poco tempo -
- Allora datti una mossa, Mike. Ma io resto con te -
- Oh, davvero gentile, mio buon samaritano! - ribatté - E sentiamo, poi vorresti una confessione scritta di come ho ucciso Hillary!? -
- Michael, non puoi di certo impedirci di dubitare di te... - stavolta fu Karol, con voce più severa, a rispondere - La vittima è morta con del veleno... non lo definirei propriamente il tuo "campo d'azione", ma sai... -
Michael Schwarz piantò furiosamente il piede destro sul terreno.
- Ah, magnifico! MAGNIFICO! - gridò - Una persona muore avvelenata, e tutti sospettano il chimico! -
- Caro vecchio senso comune. Come dargli torto? - ironizzò Xavier.
- Oggi ti credi straordinariamente simpatico, vero? -
In quel momento, anche il nervosismo di Xavier venne a galla in maniera improvvisa.
Il suo unico occhio fulminò con un unico sguardo il volto di Michael.
Questi rimase momentaneamente paralizzato dalla paura.
- Datti una mossa, ho detto! Abbiamo poco tempo, ricordi!? - disse - Prima finiamo e prima potrai tornare a lagnarti di come tutti ti credono un assassino! Ora muoviti! -
- Bah... - sbuffò l'altro, dando cenno di resa - Ve ne pentirete... -
A Karol non piacque l'atmosfera venutasi a creare, ma non proferì ulteriormente parola.
La strategia di far andare tutti d'accordo era fallita dal principio; le opzioni dell'Ultimate Teacher si erano drasticamente ridotte a poche possibilità.
I tre si diressero in direzione della stanza di Michael, stranamente in silenzio.
Il chimico tirò fuori la chiave numerata e la fece girare con un suono secco e metallico.
Una camera perfettamente ordinata e pulita si mostrò agli occhi di Karol e Xavier, colpiti da quanto quella stanza fosse tenuta in modo assolutamente impeccabile.
Vi era una libreria in cui erano posti, più che tomi, ampolle di vetro e misurini in grande quantità.
La prima tappa di Michael fu proprio lì; afferrò alcuni contenitori ed una vaschetta di liquido sospetto.
Xavier notò poi una grossa teca di vetro sigillata posta vicino al letto; era certissimo di averla già vista da qualche altra parte.
Sforzando la propria memoria, ricordò di aver adocchiato qualcosa di simile in infermeria.
"Oh, sbaglio o Michael ha fatto razzia di medicinali, tempo fa?" ponderò lui.
Tutti i farmaci della scuola erano stati requisiti dall'Ultimate Chemist sotto il pretesto che potessero essere usati come veleni.
Le parole di Michael erano rimaste impresse nella mente di Xavier.
Quest'ultimo non riuscì a fare a meno di notare che vi erano numerosi flaconcini vuoti, alcuni contenenti solo tracce di polveri o liquidi vari; chiari segni che quelle sostanze erano state adoperate in qualche modo.
Non dicendo una parola, Xavier passò oltre.
Karol, nel frattempo, aveva controllato il bagno e il resto della stanza. Rientrò nella sala principale della camera dove ad attenderlo vi era un Michael Schwarz ancora più irritato.
- Finita la perquisizione? - chiese sarcastico.
- Io sono a posto - rispose Xavier.
- Sì... credo non ci sia altro da vedere - annuì Karol - Solo una cosa, Michael. Hai fatto esperimenti in camera tua? In bagno c'erano alcune ampolle lavate e messe ad asciugare -
Il ragazzo si sistemò gli occhiali sul naso.
- Tsk! Certo che sì! E' l'unico luogo che posso chiudere a chiave senza che nessuno abbia niente da ridire, dopotutto! -
- Non lo nego. E a che cosa stavi lavorando? -
- Ad un veleno per uccidervi tutti - disse, con una smorfia di scherno - Se anche ve lo dicessi non lo capireste nemmeno! Se proprio volete accusarmi, fatelo in tribunale! -
- Devi sempre rendere le cose difficili. Eh, Michael? - lo rimproverò Karol - Sembra quasi... come se la morte di Hillary non ti importasse... -
- Io non sono come te, Prof - sbottò lui, uscendo dalla stanza - Non riesco a provare empatia per una persona che, tra l'altro, mi odiava -
- Hillary era solo spaventata -
- Lo sono ANCHE IO! - ribatté lui - Ho una paura FOTTUTA che uno di voi mi farà la pelle, uno di questi giorni! E non venitemi a dire che è assurdo, perché dopo che quel maledetto doppiatore bonaccione ha assassinato ben DUE persone, io non mi aspetto niente di meglio da voi altri! Ma sai qual'è la differenza tra me e voi? IO non mi fido, e non mi fiderò MAI! Non commetterò errori, o passi falsi! Immaginerò sempre il peggio, e la mia cautela mi salverà la vita! -
- Io mi auguro che la tua amata "cautela" non sia invece la paranoia che ti scaverà la fossa, Mike - rispose Xavier.
Pur aspettandosi l'ennesimo battibecco, Karol notò che i due finirono semplicemente per ignorarsi a vicenda.
- Hai tutto ciò che ti serve? - chiese il detective.
- Tutto -
- Bene. Lavorerai al centro del piazzale; Karol, sorveglialo continuamente - ordinò all'insegnante - Non deve muovere un passo senza che tu te ne accorga. Intesi? -
L'insegnante disapprovò quel modo di fare con tutto se stesso.
- Xavier, mettere Michael in prigionia non ci aiuterà... -
- No, Prof, va bene così - sbottò Michael - Tanto comunque non avrei il tempo di andarmene a zonzo. Se resti con me almeno avrò una persona che potrà parlare in mia difesa -
Clouds si morse il labbro con forza, scacciando un'altra volta l'immagine di Hillary morente dalla propria testa.
- E sia... - disse - Ma non darmi motivo di dubitare ulteriormente di te... -
- Impossibile. Non potresti dubitare di me più di così, no? - l'ironia triste ma pungente di Michael mandò a segno un colpo ben assestato.
Xavier sperò con tutto se stesso che Karol sarebbe stato all'altezza del compito affidatogli.
L'insegnante atterrito e terrorizzato di pochi minuti prima aveva lasciato posto al solito Karol posato e paziente, ma con una profonda ombra che andava dilagandosi.
Un presagio preoccupante fece rabbrividire Xavier: Karol Clouds aveva un'aura completamente diversa rispetto a quella che aveva mostrato quella stessa mattina.
Qualcosa era cambiato, nell'Ultimate Teacher; qualcosa di imprecisato, impalpabile. Invisibile.
Xavier non sapeva di cosa si trattava, né di cosa gli stesse dando quell'impressione.
Glielo lesse semplicemente nello sguardo, negli occhi.
- Ci vediamo più tardi... - li salutò lui, dirigendosi verso la prossima destinazione.

 

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Capitolo 33
*** Capitolo 4 - Parte 2 - Indagini ***


La prima tappa delle indagini risultò essere il ristorante, per svariati motivi.
Era il punto di interesse più vicino all'area del piazzale e, tra l'altro, il più sospetto.
June, Pearl e Pierce vi si erano recati rapidamente ed avevano iniziato a scandagliare la zona nella disperata speranza di trovare qualcosa.
Pearl lanciò occhiate rapide ad ogni angolo: il luogo era rimasto perfettamente uguale a come lo avevano lasciato prima del processo di Vivian e Lawrence.
Il tavolo principale era ancora apparecchiato, e i piatti sporchi erano rimasti lì ad emanare uno spiacevole odore di avanzi.
La cucina, allo stesso modo, era stata lasciata in disordine; la pressione costante delle indagini aveva avuto il suo peso.
Pearl guardò il pentolone di risotto, ancora sul tavolo, con una certa malinconia.
Il piano di Karol prevedeva che tutti contribuissero ad un progetto di riappacificazione, ma tutto era stato mandato alle ortiche da ben più di un incidente nel giro di una sola, singola giornata.
L'Ultimate Ninja sospirò, pensando a come le cose sarebbero potute andare diversamente e di come il suo operato gastronomico non aveva aiutato più di tanto.
Scacciò via il pensiero, cosciente che non la avrebbe aiutata a carpire la verità.
La sua attenzione, però, non si scostò dal tavolo: notò che June vi si era avvicinata portando con sé alcuni contenitori in plastica probabilmente presi dalla cucina.
La bionda li osservò meglio: erano delle scatolette in materiale traslucido che erano conservate in uno degli scaffali vicino al frigorifero.
Pearl li aveva già notati durante le proprie peripezie in cucina, e il vederli in mano all'arciera le provocò una certa curiosità.
June passò a riempirne due con una buona quantità di risotto; nel primo venne inserita una porzione proveniente dalla grossa pentola in metallo, nel secondo andò parte del cibo rimasto all'interno dell'unico piatto ancora mezzo pieno.
- Cosa stai facendo? - chiese Pearl.
- Mi sembra ovvio - le rispose l'altra senza nemmeno guardarla negli occhi - Raccolgo prove -
La ninja intuì perfettamente dove volesse andare a parare.
- Chiaro. Mi sembra una mossa sensata - continuò - Quindi sospetti di me? -
- Non iniziamo a fare giochetti mentali, Pearl. Per quel che ne so, chiunque avrebbe potuto avvelenare il piatto di Hillary. E sì: anche tu -
- Un ragionamento democratico - annuì lei - Avevo il timore che, in quanto cuoca, i sospetti fossero diretti principalmente su di me -
- Non sbagli, Pearl - rispose June, inviperita - Ma ciò non toglie che la verità verrà a galla in tribunale -
Finito di versare il contenuto nelle scatole, l'arciera si voltò di spalle e si recò altrove, lasciando Pearl da sola con un volto alquanto irritato.
Scosse il capo, realizzando che non aveva senso prendersela per delle accuse simili.
Lei stessa sembrò non riuscire a smettere di dubitare di alcuni membri specifici della classe, per quanto improbabili potessero sembrare le proprie supposizioni.
Nel bel mezzo del sue elucubrazioni, Pierce fece capolino al suo fianco. Sembrava essere appena uscito dalla cucina.
- Hai finito, Pierce? -
- Sì... ho dato un'occhiata complessiva - rispose, incerto - Non credo ci sia nulla di utile -
- Ne sei certo? - disse lei, omettendo che avrebbe ricontrollato a propria volta in qualunque caso - Abbiamo poco tempo, non possiamo permetterci il lusso di ispezionare un luogo per più di una volta -
- Ne sono sicuro. Inoltre... -
Esitò per un momento. Pearl lo notò più che subito.
- Inoltre? -
- Beh, se non sbaglio, Hillary non si è mai avvicinata troppo alla cucina. E' stata tutto il tempo seduta ai tavoli, quindi è vagamente improbabile che... -
Pearl lo fermò sul posto.
- Pierce, in cucina ci potrebbe essere qualcosa con cui IO potrei averla uccisa; è più che comprensibile - disse lei - Non vi è necessità di fare inutili giri di parole solo perché sono coinvolta, e non sono abbastanza stupida da non rendermene conto -
Lui indietreggiò, inquieto.
- S-scusa, Pearl... non intendevo... -
- Lo so, lo so... - sospirò lei - E' una situazione assurda, e sono un po' provata. A volte ho come l'impressione che tutte le prove portino a me, in qualche modo... -
- Beh, è accaduto alcune volte... m-ma io non voglio farmi condizionare da elementi s-senza fondamento... -
Lei fece un sorriso storto.
- Da come lo dici, sembra quasi che tu non voglia semplicemente inimicarti la sottoscritta perché mi ritieni spaventosa - disse - Ho ragione? -
L'assenza di un responso fu tutto ciò di cui Pearl Crowngale aveva bisogno.
Pierce abbassò lo sguardo con mortificazione, incapace di reggere il confronto di sguardi e sentendosi estremamente colpevole.
Lei gli rifilò una pacca amichevole sulla spalla e passò avanti.
- Tranquillo. Te lo ho detto, no? Certe cose le capisco al volo - lo rassicurò - Ed è normale dubitare di tutti, in questo posto -
- Dici... che la fiducia è da ingenui...? -
L'improvviso quesito di Pierce la fece tentennare per un attimo.
Si trattava di una domanda che Pearl si era posta non poche volte, in quel mese.
- Ascoltami, non dico che fidarsi del prossimo è sbagliato in sé, ma qui è diverso... - rispose, stringendo i pugni - Ho paura del giorno in cui tutti noi dovremo dare ragione a Michael, sai? Temo il momento in cui potremmo renderci conto che avremmo fatto meglio a rimanere costantemente in guardia, ventiquattro ore al giorno. Quel giorno in cui potremmo dover realizzare che degli esseri umani possono tramutarsi in mostri, che dei compagni possano attentare alla tua vita per avere salva la propria -
- Q-questo è il mondo in cui ci troviamo... dico bene? -
- Già, Pierce... è lo schifo di mondo in cui siamo stati scaraventati - ammise lei - E, piano piano, molti di noi hanno iniziato a cedere. Non parlo solo di Alvin, Hayley e Rickard. Judith, Karol, Kevin... ho potuto vedere come tutti stanno mostrando evidenti segni che la tensione sta avendo il sopravvento -
Pierce deglutì.
- Anche... anche tu, Pearl? -
Lei tentò di sorridere.
- Sono umana anche io, no? -
Lui parve come scusarsi per la domanda.
- Ma, se devo essere sincera... - continuò la ninja - Chi mi preoccupa di più è... -
Un rumore improvviso le impedì di terminare la frase; la porta della dispensa era stata spalancata, stridendo a contatto con il pavimento.
I due si voltarono appena in tempo per vedere l'Ultimate Archer entrare e sparire oltre il deposito alimentare.
Pearl incrociò le braccia.
- ...lei -
- C-come? -
- Seguimi, Pierce. Andiamo a vedere -
Trascinandosi dietro il sarto, la ragazza corse a controllare il magazzino con una certa ansia nel cuore.
Trovò June intenta a fare una minuziosa scansione degli scaffali, scavando ininterrottamente tra le scorte di cibo impilate lungo la parete.
- Avete intenzione di restare lì impalati o volete aiutarmi? - disse loro, avendo notato la loro presenza.
- S-sì, vado subito...! - rispose prontamente Pierce, lanciando un'occhiata complice a Pearl come per pregarla di assecondare la situazione.
La bionda intuì che, almeno per il momento, era necessaria una collaborazione silenziosa per evitare problemi.
Passò a controllare i mobili sul lato destro, lasciando il resto ai due compagni.
Esaminò con cura ogni possibile anfratto, ogni scatolone e provvista; non vi trovò che cibo e scorte di vario tipo, ma nulla che destasse sospetti.
La ricerca andò avanti per diverso tempo, fino a che la voce di June Harrier non li richiamò entrambi all'improvviso.
- Hey...! Ho trovato qualcosa! -
Pearl e Pierce accorsero seduta stante, grati che quegli sforzi apparentemente infruttuosi potessero almeno dare loro uno stralcio di pista.
L'arciera indicò loro un oggetto fuori posto, posizionato sul pavimento. Sembrava essere una boccetta in plastica bianca, e sporgeva appena fuori da sotto lo scaffale.
June si chinò a raccoglierla e la avvertì al tatto: era abbastanza morbida e piccola.
Osservandola più da vicino, i tre si resero conto di cosa si trattava: era un flacone vuoto.
Dei segni di colla piuttosto vecchi erano bene evidenti sul contorno del contenitore, segno che vi era probabilmente un'etichetta, poi rimossa.
A giudicare dall'aspetto e dalla conformazione, Pearl poté confermarne con sicurezza l'identità.
- E' un medicinale - asserì - Dunque... è completamente vuoto. Il coperchio è posizionato male, e l'etichetta manca... -
- Ma che ci faceva qui in dispensa? - si domandò Pierce.
Il ragazzo si voltò verso Pearl in cerca di una risposta, ma quest'ultima non fu in grado di fornire una spiegazione plausibile.
Fu quando interpellò June che notò che quest'ultima stava fissando la boccetta con sguardo furioso.
Le gote di Harrier erano divenute rosse, ed una vena rigonfia era ben visibile sul collo; Pierce Lesdar fece d'istinto un passo indietro.
- J-June...? -
- Questo è un medicinale... no...? - mormorò lei - Non c'è dubbio. Vero, Pearl? -
- Sì, ne sono sicura... - rispose lei, inquieta - Ti ha fatto venire in mente qualcosa? -
L'altra fece una smorfia rabbiosa.
- Oh, sì. Senz'altro! - ringhiò - Immagino ricorderete che le uniche medicine di TUTTA la scuola erano in infermeria. Ma qualcuno... QUALCUNO le ha sequestrate tutte... e adesso che una di noi è morta avvelenata, una di quelle "medicine" compare in dispensa...! -
Le pupille di Pearl si contrassero; la deduzione di June non era errata, ma qualcosa nei suoi modi le fece capire che quella situazione non stava per finire bene.
June Harrier corse fuori dalla dispensa stringendo la boccetta tra le mani.
Gli altri due si ritrovarono spiazzati per alcuni istanti, assistendo a tutta la furia delle sue movenze.
- Pierce! FERMIAMOLA! - gli urlò lei, rincorrendo June appena oltre la dispensa.
Ancora tentennante, Pierce dovette combattere duramente ogni riluttante fibra del proprio corpo paralizzato dal terrore prima di unirsi a sua volta alla corsa.
Non sapeva di cosa avere più paura: di ciò che sarebbe potuto accadere, o del solo rivedere quel volto iracondo e paonazzo ancora una volta.



I corridoi della scuola erano talmente vasti e lunghi che ogni suono rimbombava con una forte eco, per quanto tenue fosse.
Il continuo ridursi del numero degli studenti, inoltre, aveva fatto in modo che la desolazione di quel posto aumentasse a dismisura ed in modo inquietante.
Judith Flourish tentò di fare uno sforzo di memoria; ricordò i primi giorni passati in quel posto, quando incontrare qualcuno era ancora un evento piacevole e plausibile,
dove l'incrociare qualcuno che giungeva da dietro l'angolo non provocava spavento e ansia.
Un breve momento in cui gli schiamazzi dei compagni più vivaci e rumorosi erano ancora udibili, ma che inevitabilmente era andato perduto a causa delle regole di quel mondo distorto.
Quando Judith riaprì gli occhi, tornando alla realtà, il paesaggio non era cambiato.
Davanti a lei si stendeva il corridoio principale del primo piano, e l'unico rumore percepibile era il mormorio confuso di Kevin Claythorne.
Il compagno, pallido come non mai, si era fermato per alcuni momenti appoggiato ad una parete, confabulando qualcosa di incomprensibile a voce bassissima.
Judith, al contempo incuriosita e preoccupata da quell'atteggiamento, tentò di prestare attenzione a ciò che stava dicendo. 
Le sembrò che Kevin stesse semplicemente elencando nomi di fiori, o almeno così le parve.
- Kevin...? Tutto bene? -
Il ragazzo si bloccò di colpo, muovendo lentamente lo sguardo.
- Sì... ora va molto meglio - sospirò lui - Avevo bisogno di rilassarmi -
- Cosa stavi...? -
Lui si accorse dell'espressione interrogativa di Judith, evidente segno che aveva sentito tutto.
- C-consideralo una sorta di strano antistress! - si giustificò lui - So che può sembrare assurdo, ma ripetere a voce nomi di fiori mi... tranquillizza -
- Kevin, non sono certo qui per giudicarti - sorrise forzatamente lei - Ognuno ha il diritto di scaricare la tensione a modo suo. Mi auguro soltanto che tu sia in buone condizioni per continuare le indagini -
- Lo sono, giuro! Non voglio essere di peso... - annuì più volte lui.
- Promettimi solo di non sforzarti troppo, va bene? Non voglio vederti sopraffatto dalla fatica -
Lui arrossì, voltandosi di spalle.
- Certo, certo... -
A quel punto, Judith avvertì il bisogno di fare il punto della situazione.
- Dunque, gli altri stanno controllando il ristorante e la zona dei dormitori - cominciò - A noi tocca allargare la zona di indagine -
- Ma come? Non abbiamo nessuna pista concreta! - sbuffò lui - Da dove dovremmo iniziare a cercare? Non sappiamo nemmeno che cosa ha provocato la morte -
- E' vero, ma se ci pensi abbiamo alcune informazioni importanti - lo corresse lei - Ascolta bene: se Hillary è stata avvelenata, vuol dire che deve aver assunto qualche sostanza nociva in qualche modo. Quindi, se ripercorriamo gli spostamenti di Hillary nel corso della giornata, potremmo... -
- ...individuare i luoghi possibili dove è accaduto, giusto? -
- Giusto. Ed è per questo motivo che ci troviamo qui -
Kevin si guardò attorno, senza davvero comprendere come mai il corridoio centrale dovesse essere un punto di interesse.
- Intendi... il corridoio? -
- Ti spiego. Prima del processo stavo investigando sugli alibi di tutti, e Pearl mi ha confermato che Hillary ha passato tutta la mattinata al ristorante, in sua compagnia -
Lui si mostrò ancora più confuso.
- Non dovremmo cercare più a fondo al ristorante, allora? -
- No, pensaci bene. Dopo pranzo, Hillary è stata la prima ad uscire dal locale, se ricordo ciò che mi è stato detto -
- Certo, è stato poco prima di... beh, lo sai... - deglutì Kevin.
- La abbiamo incontrata di nuovo al laboratorio artistico, poco dopo. Ciò vuol dire che c'è stato un lasso di tempo in cui è potuto accadere qualcosa, e non vi erano testimoni -
Kevin ci pensò su, inizialmente dandole ragione.
Poi, però, considerò che la storia era, almeno in parte incompleta.
Un ricordo fugace fece capolino nella sua mente.
- Mh, no, un momento - la fermò lui - Hillary non era da sola -
- Come? Non lo era? - Judith apparve sfiduciata - Ma chi...? -
- Xavier la ha seguita a ruota. Non credo che l'abbia persa di vista -
Lei si bloccò per un momento.
- Xavier, eh? Capisco... -
La memoria di Kevin ripescò nuovamente un dettaglio importante.
- Siete ancora... ai ferri corti? -
- Non siamo "ai ferri corti"! - strepitò lei - E' una situazione... complicata, ok!? -
- Va bene, va bene! Scusa! - indietreggiò, impaurito - Non credevo fosse un tasto dolente, mi dispiace! -
Lei sbarrò gli occhi, rendendosi conto di aver perso le staffe un'altra volta senza nemmeno rendersene conto.
Si passò una mano sulla fronte, sospirando tristemente.
- No, scusami tu... - disse, tastandosi il fermaglio sulla tempia - A volte reagisco in maniera esagerata, quando mi sento in difficoltà... -
Kevin Claythorne non mancò di notare quel gesto apparentemente inconscio e spontaneo.
La mano sinistra di Judith passò attraverso i petali della finta rosa bianca che teneva tra i capelli, come per assicurarsi che tutto fosse ancora al proprio posto.
Quel fiore, per quanto fittizio, catturò l'attenzione di Kevin. Più che altro, la sua curiosità si indirizzò verso quale significato potesse avere per lei.
- E' davvero un bel fermaglio - commentò.
Lei cadde dalle nuvole.
- Come...? Questo? - arrossì - Ti ringrazio. Ci sono affezionata -
- Lo notai anche la prima volta che ci parlammo. Se non erro, mi dicesti che era vincolato ad un... "ricordo" -
- Hai un'ottima memoria - disse lei, colpita - Sì, è un qualcosa di prezioso, ma non esattamente piacevole... ma quando mi sento in crisi mi basta toccarlo per... stare subito un po' meglio -
I loro sguardi si incrociarono; Kevin stava sorridendo in maniera innocente.
- E' s-solo una tecnica per attenuare lo stress...! - disse lei, alzando le mani in maniera colpevole.
- Non sono certo qui per giudicarti - le disse - Ognuno ha il diritto di scaricare la tensione come meglio crede, giusto? -
Il ritrovarsi impartita la sua stessa lezione le provocò uno strano miscuglio di sensazioni, ma comprese il messaggio.
Judith sorrise a sua volta, annuendo con sincerità.
- Grazie, Kevin -
- No, non devi ringraziarmi. Ho solo... ricambiato la cortesia - le disse - Sai, credo tu sia l'unica con cui possa parlare in questo modo, qui... -
Una frase straordinariamente sincera e schietta; Judith non se l'era aspettato. Non da lui, soprattutto.
- Come mai dici così? -
- E' una sensazione strana, ma alcuni di noi sembrano così... irraggiungibili. Come se appartenessero ad un'altra realtà -
- Perdonami, ma non capisco... - ammise lei.
- Prendi Pearl, ad esempio. E' forte, determinata, sembra essere in grado di fare qualunque cosa. O Xavier; senza di lui i processi sarebbero giunti ad un punto morto. Persino Michael, se ci pensi, ha dimostrato di essere incredibilmente utile e versatile. In confronto a loro mi sento... solo un semplice, normalissimo botanico -
- La trovi una qualità deludente? - rispose retoricamente lei - Non starai davvero sminuendo il tuo talento, spero? -
- Tutti lo chiamano "talento", ma nel momento del bisogno le mie conoscenze in materia sono superflue - sospirò lui - Capisci come mai mi sento a mio agio in presenza tua o di Pierce? E... anche di Rickard... -
L'ultimo nome provocò una fitta non poco dolorosa al cuore di entrambi.
- Intendi dire che...? -
- E' perché siete più... "normali" - spiegò lui - E' strano da dire, ma nonostante il vostro innegabile talento, sembrate comunque "comuni". Non emanate un'aura spaventosamente autorevole, anzi. Spesso i vostri difetti vengono a galla, vi capita di fare errori. Capisci cosa intendo? Mi sento meglio perché... sono così anch'io -
A Judith venne quasi da ridere.
- Quindi ci reputi più accoglienti perché siamo goffi? - scherzò lei.
- B-beh... è davvero brutto da dire in questi termini, ma... - si grattò il capo - Non è forse meglio essere goffi in compagnia...? -
- Sai, Kevin, credo che il tuo modo di vedere la cosa non sia sbagliato. Ma dovresti abbattere queste barriere immaginarie che ti separano dai membri più in risalto -
Lui guardò verso il soffitto con aria triste, ponderando attentamente su quelle ultime parole.
- Ci sto provando, ma... - socchiuse gli occhi - E' più complicato di quanto sembri... -
Il tono della sua voce si era fatto più basso e mesto.
Lei gli diede una lieve scrollata alle spalle.
- Fatti forza, Kevin -
- Sì, non è il momento di adagiarci, dopotutto - annuì - Dunque? Dov'è che dobbiamo andare? -
Lei si portò un dito al mento, contemplando ogni possibilità.
- Beh, i posti in cui è stata Hillary oggi sono davvero pochi. Se consideriamo che è stata portata in camera sua da Karol e Rickard appena un paio di minuti dopo il ritrovamento di Lawrence e Vivian... -
- Allora non ci resta che controllare proprio la sua stanza, giusto? -
- Giusto -
Detto ciò, ripercorsero la strada fatta fino a quel momento al contrario.
Judith, però, non riusciva a togliersi dalla mente quell'ultima conversazione, ripensando al proprio rapporto con gli altri membri del gruppo.
Ripensò a Pearl, Michael, Karol. E, infine, a Xavier.
Si strinse nelle spalle; quelle barriere immaginarie potevano essere più concrete di quanto non si aspettasse.



Michael si asciugò una copiosa quantità di sudore dalla fronte; il lavoro stava procedendo in maniera continuativa e stabile, ma la sua espressione tradiva insicurezza.
Karol lo sentì borbottare più e più volte, lamentandosi del poco tempo a disposizione.
Tutto sommato, notò come gestiva contemporaneamente diverse fialette e alambicchi vari, destreggiandosi così bene da dimostrare automaticamente di sapere ciò che stava facendo.
Nonostante ciò, l'insegnante non riuscì a fare a meno di pensare che la situazione stesse sfuggendo loro di mano.
- Uff... quanto tempo abbiamo, ancora? - chiese il chimico.
Karol controllò l'orario sul monitor del portone blindato.
- Abbiamo circa venti minuti scarsi -
- Magnifico... - ironizzò l'altro - Speriamo che almeno gli altri non stiano girando in tondo inutilmente -
- Me lo auguro. Sembra un'impresa inaudita trovare indizi per questo caso... -
Nonostante la sfiducia, Karol dovette ricredersi nel momento in cui vide tornare verso di loro il primo gruppo di ricerca.
Scorse la figura di June Harrier dirigersi rapidamente verso di loro con alcuni strumenti in mano, non perfettamente definibili.
Uno strano senso di sollievo fu ciò che provò Karol nel vederla tornare prima delle aspettative. 
Pearl e Pierce erano appena dietro di lei, correndo a loro volta.
- Sono tornati, Michael - lo avvertì lui.
L'altro si pulì gli occhiali distrattamente.
- Ottimo, speriamo in bene - disse, alzandosi in piedi.
June era oramai a meno di una decina di metri di distanza.
Fu lì che Karol notò che qualcosa non quadrava: il viso di June non trasmetteva esattamente la stessa vena di ottimismo che aveva provato lui fino a poco prima.
Osservandola meglio e più da vicino, notò che il suo volto non poteva essere più ferocemente arrabbiato.
I suoi passi scalpitanti percorsero quel poco spazio rimasto in un baleno.
Il professore si fece istintivamente da parte, temendo di rimanerne travolto. Si accorse troppo tardi di non essere il bersaglio di quella strana ed improvvisa ira.
- Eccovi qui, finalmente... - bofonchiò Michael, girandosi - Allora, trovato nie-...? -
Una mano gli afferrò violentemente il bavero della camicia, interrompendogli la frase.
Prima ancora di potersene rendere conto, sentì tutta la potenza delle nocche dell'arciera sulla propria faccia.
Un pugno diretto e perfettamente mirato. Il dolore fu rapido ma lancinante, e così repentino da fargli perdere l'equilibrio.
Cadde all'indietro senza nemmeno capire come, quando e perché. La prima cosa che vide, riaperti gli occhi, fu che June Harrier gli era piombata addosso per completare l'opera.
- Brutto... pezzo... DI MERDA! - gli urlò lei, assestandogli un altro pugno, stavolta miracolosamente respinto dal proprio braccio.
- Ma che cazzo...!? Levati di dosso, imbecille! - urlò lui - Qualcuno mi aiuti...! -
Prontamente, Karol e Pearl comparvero alle sue spalle afferrandola per il busto e le braccia, trainandola via. Non prima, però, del momento in cui June riuscì a tirargli un poderoso calcio alla rotula non poco doloroso.
Michael si alzò in piedi a fatica; il naso stava perdendo sangue, e anche la saliva sapeva di ferro.
La vista, vagamente annebbiata, gli permise di vedere un'Ultimate Archer dimenarsi nel tentativo di districarsi dalla presa di Karol e Pearl.
Il disprezzo di Michael venne attenuato solo dalla paura di ricevere un altro dei suoi pugni.
- LASCIATEMI! - urlò lei - Devo dargli quel che si merita! ASSASSINO! -
- June, calmati! - tuonò Pearl - Ti è dato di volta il cervello!? -
Michael sputacchiò per terra.
- Maledetta cretina... - sibilò rabbiosamente - Come ti salta in mente di aggredirmi così!? Volevi uccidermi!? -
- Te lo saresti meritato! - continuò lei - Sei tu il colpevole, AMMETTILO! -
- Ora basta, June! - Karol le afferrò entrambe le spalle - Datti una calmata! Agire in questo modo è inaccettabile! -
Lei inspirò ed espirò più e più volte cercando di recuperare lucidità, ma i suoi occhi erano ancora rossi e furenti.
Alzò la mano destra in modo che tutti potessero vederla: teneva ancora stretta la boccetta rinvenuta in dispensa.
- Guardate qui, guardate! - indicò loro - Un flacone incognito. Ed era in dispensa! -
- J-June... non possiamo dire per certo che sia stato Michael a... - osservò Pierce, tenendosi a debita distanza.
- Come potrebbe NON essere suo!? - sbottò lei - Tutti i medicinali li ha sequestrati LUI! E adesso compare uno di loro nel deposito del CIBO dopo che una di noi è morta AVVELENATA! Adesso ditemi: di quale altra prova avete bisogno!? -
- Idiota! Non puoi di certo chiamarla una prova conclusiva! - a tratti, Michael sembrò quasi più arrabbiato per il torto subito che per le accuse - Come ti viene in mente di colpirmi, razza di primate!? Se hai delle accuse da rivolgermi, fallo in tribunale! -
- Considera questo pugno un assaggio di quello che ti aspetta là sotto, assas-...! -
- JUNE! -
Una terza voce, più forte di qualunque altra, sovrastò quelle dei contendenti.
L'arciera avvertì una mano stringerle il braccio con forza, quasi fino a farle male.
Si voltò di scatto, sorpresa sia dal fragore che dal dolore.
Pearl Crowngale la stava fulminando con un singolo sguardo.
Un momento di fugace terrore le oltrepassò le membra: gli occhi di ghiaccio della ninja la paralizzarono.
- La morte non è un gioco, né il tuo personale strumento di vendetta - mormorò - Sono stata chiara? -
- M-ma lui... - singhiozzò l'altra - Lui ha... -
- Se credi che sia stato lui, dimostralo al processo. Fine della questione -
Il tono perentorio della bionda pose fine alla discussione. Nemmeno Michael ebbe il coraggio di pronunciarsi oltre, in quelle circostanze.
June, abbassata la testa con rassegnazione, si costrinse a soffocare tutta la propria frustrazione; seppellita, ma non archiviata.
Nel mezzo del silenzio che ne seguì, un rumore cigolante fece capolino alle loro spalle; tutti si voltarono.
Xavier osservò il gruppetto formatosi attorno al piazzale mentre usciva dalla stanza numero cinque.
Il suo unico occhio osservò i volti di ognuno, soffermandosi su quello livido di Michael.
Il ragazzo si stava asciugando alcuni rivoli di sangue che gli colavano dal setto nasale; il suo umore era più nero del solito.
- Mi sono perso qualcosa? - chiese.
Nessuno osò rispondere.
Karol si limitò a scuotere il capo.
- E' tutto a posto, Xavier. C'è stato un diverbio -
- Ah, comprendo - disse - Chi ha litigato con la faccia di Mike? -
- Xavier, ti prego... -
Il detective capì che non era il caso di aggiungere altro; principalmente perché Pearl stava iniziando a lanciare occhiatacce anche a lui.
- Cosa ci facevi in camera di Lawrence...? - chiese poi Pierce.
- Oh, beh... stavo tentando di ripercorrere i passi di Hillary - rispose - Karol mi ha detto che è entrata lì per investigare assieme a lui e Rickard -
- Hai avuto fortuna? -
- No, non direi - sbuffò - Dunque... il tempo è agli sgoccioli. Avete rinvenuto qualcosa? -
June tirò su col naso.
- Sì... un paio di cosette... - disse l'arciera con una strana smorfia.
Xavier si chiese nuovamente cosa fosse successo. A giudicare dalla situazione, niente di piacevole.
- Mike, come vanno le analisi? -
- Mah... sono ad un punto morto, ma almeno ho del nuovo materiale. Questo quarto d'ora finale sarà fondamentale -
- Ottimo - si voltò verso l'orologio - A breve dovrebbero arrivare anche Judith e Kevin. A quel punto... -
Come una sola persona, tutti i presenti guardarono verso il centro del piazzale: il corpo di Hillary era stato posto sotto una coperta.
Pierce tentò in tutti i modi di volgere lo sguardo altrove; al contrario, June incanalò tutta la propria rabbia in quel singolo momento.
Michael, pulendosi il viso, tornò al proprio lavoro tentando di non lasciarsi distrarre da pensieri superflui. 
La mente di Karol, incapace di lasciarsi alle spalle l'accaduto, continuò a concentrarsi su quella piccola trapunta che ricopriva il cadavere.
La voce strozzata di Hillary continuava a risuonare nel suo cervello, senza volerne sapere di andare via.
Xavier, infine, notò che Pearl aveva assunto un'aria del tutto diversa dal solito. Il suo sguardo, seppure ancora freddo ed imperscrutabile, sembrava segnato da qualcosa di enigmatico e misterioso. Un pensiero che le stava dando qualche grattacapo, ma impossibile da intuire.
Si chiese se potesse esistere davvero qualcosa in grado di turbarla seriamente o se fosse, banalmente, una propria errata impressione.
- A quel punto... si scende - mormorò a bassa voce.
Il processo era sempre più incombente.

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Capitolo 34
*** Capitolo 4 - Parte 3 - Processo ***


Pierce tornò in tutta fretta dal suo breve e rapido viaggio verso il ristorante in cerca del kit di primo soccorso.
L'ansia di recuperarlo lo fece, però, tardare di alcuni minuti; non appena rimise piede ai dormitori, Michael sembrò tre volte più inviperito di quanto non fosse già.
Il naso del chimico stava ancora grondando lievi quantità di sangue ed era anche vagamente ammaccato; solo a guardarlo, Pierce fu percosso da un fugace brivido di dolore.
Constatando come le nocche dell'Ultimate Archer non fossero da sottovalutare, si guardò attorno per assicurarsi che, durante la sua breve assenza, la situazione non fosse nuovamente degenerata.
June e Pearl si erano messe in disparte, vicino alla camera di quest'ultima. Sembravano aver appena finito di parlare di un argomento spiacevole, seppure intuibile.
L'atmosfera non era migliorata.
Karol aveva prestato aiuto a Michael come poteva, nonostante la riluttanza del chimico a ricevere aiuto.
Michael aprì la valigetta bianca e ne estrasse alcuni tamponi; se li ficcò nel naso con un brontolio esasperato e attese che il sangue smettesse di scorrere del tutto.
L'Ultimate Teacher, invece, lanciò alcune occhiate apprensive verso June, nel timore che un altro scatto d'ira potesse provocare danni ben peggiori.
Chi non vide, però, furono Kevin, Judith e Xavier.
Pierce si girò più volte prima di scorgere i primi due mentre uscivano dalla stanza di Hillary con dei volti poco rassicuranti.
Xavier stava bazzicando nei dintorni, cercando chissà cosa.
L'innaturale silenzio dell'area fu finalmente rotto dalla voce sconsolata di Judith.
- Abbiamo ispezionato da cima a fondo - disse, mentre anche Pearl e June si avvicinavano per ascoltare - Non... abbiamo rinvenuto granché... -
- Proprio nulla? - chiese Karol.
- Beh, era tutto in ordine, a parte un unico dettaglio fuori posto - a quelle parole, aprì la mano - Questa -
Ciò che mostrò agli altri era una benda attaccata ad una garza medica; la fasciatura era sfilacciata e presentava tracce di tessuto bagnato.
Xavier la rimirò con cura; era certo di averla già vista.
- Questo è il bendaggio che Pearl le ha applicato stamattina - asserì lui - Confermi? -
La ninja annuì.
- Sì. Nessun dubbio -
- Oh, è vero. Sbaglio o Hillary si era ferita? - osservò Kevin - Cosa le era successo? -
- A causa del blackout, una delle lampadine del ristorante è esplosa. I vetri le hanno provocato un taglio sulla mano - spiegò la bionda - Ero lì con lei. Le ho disinfettato la ferita e l'ho fasciata -
- Ok, ma la benda era in camera sua, adesso - tossicchiò Michael - Dove la avete trovata? -
- Appena fuori dalla doccia, sul pavimento - rispose Judith, chiedendo a Kevin di confermare con un'occhiata di intesa.
- E' umida solo da un lato... - constatò Xavier, tastandola - Dall'altro ci sono... macchiette di sangue secco. Credo siano residui del taglio -
Pierce si fece avanti, titubante.
- Ma... potrà aiutarci? -
L'imbarazzante silenzio che ne seguì fu abbastanza come risposta.
- Non ne ho idea, Pierce... - sospirò Judith - Ma non abbiamo quasi nessuna prova. Ogni minuscolo dettaglio può far brodo -
A quel punto, Kevin controllò l'orologio un'ultima volta; le lancette erano pericolosamente vicine alla scadenza.
- E' quasi ora... - li avvertì lui - Cosa facciamo? -
- Nulla, credo. Abbiamo fatto il possibile, e mancano appena due minuti al processo - disse Pearl - Dovremo cavarcela con ciò che si ha al momento -
L'intero gruppo annuì.
- Credete davvero che ce la faremo... anche stavolta? - 
La debole voce di June richiamò l'attenzione.
- Non abbiamo garanzie... - sospirò Karol - La situazione è brutta. Non ci sono piste concrete... -
- Non lasciarti prendere dal panico, June - la calmò Judith, tentando di mostrarsi tranquilla almeno in apparenza - Non è ancora detta l'ultima parola -
June tirò su col naso, annuendo debolmente.
- Credo che... la cosa più spaventosa sia... - disse infine Pierce - Che chiunque abbia fatto questo ad Hillary sia uno di noi, in questo posto... -
L'argomento che tutti stavano cercando di evitare venne inesorabilmente a galla.
Xavier trovò strano il fatto che fosse stato Pierce a mettere in mezzo la questione, ma il volto terrorizzato del compagno fu abbastanza palese da giustificare quella sua pessimistica linea di pensiero.
- In questo posto... - Kevin ribadì le parole di Pierce come ipnotizzato - Qualcuno sta di nuovo cercando a tutti i costi di scappare da qui... -
- E noi dobbiamo trovarlo, se vogliamo sopravvivere... - Pearl si grattò nervosamente la nuca.
- "Trovarlo"? Ucciderlo, semmai - la corresse Michael - Chiunque sia stato, sa bene a cosa sta andando incontro -
Più di un'occhiata di disapprovazione venne rivolta verso il chimico. June, in particolare, non riuscì a smettere di fissarlo in cagnesco.
- Parli come se la nostra vittoria fosse assicurata - fece Xavier, sospettoso.
- Chissà? - Michael mostrò un fugace ghigno malizioso - Comunque: non credete dovremmo fare qualcosa riguardo... quello? L'ascensore si attiverà tra poco -
Ciò che l'Ultimate Chemist stava indicando era il corpo di Hillary Dedalus, ancora posto sul pavimento.
- "Quello"...? "Quello" era la nostra compagna... - ringhiò June, furente.
- E di certo non è nostra intenzione quella di trascinarla nuovamente in quell'inferno di tribunale, no? - osservò Michael - Spostatela fuori dal centro della piazza. Mi sembra la cosa più... umana da fare -
- Oh, adesso parli di "Umanità", eh? - 
- Basta così, June - la fermò Xavier - Dovresti averlo capito, oramai. Litigare al riguardo è inutile -
L'arciera, con mente lievemente più fredda e mossa dal raziocinio, inspirò ed espirò un paio di volte. Diede le spalle a Michael, dirigendosi verso il cadavere freddo e immobile.
Si chinò su di lei, carezzandole i capelli rossi, ricordando come la timidezza della compagna fosse stata violentemente sostituita da una profonda ira di fronte alla morte di Vivian. Rimembrò come il volto contratto dalla rabbia di Hillary le aveva fatto impressione, quasi paura. Un sentimento violento e improvviso, inaspettato.
June fece cenno a Karol di aiutarla.
Quest'ultimo si avvicinò stentando, ancora incapace di concepire come la situazione fosse degenerata a tal punto. La promessa fatta ad Hillary aveva assunto un peso ed un senso di colpevolezza del tutto nuovi ed estranei.
I due la presero con delicatezza, spostandola appena davanti alla porta della sua stanza.
Judith osservò la scena; non poté fare a meno di rimanerne emotivamente coinvolta. Poco distante, Pierce e Kevin guardavano l'evento affiancati.
Vi era una strana espressione su entrambi, ma entrambe emanavano sconforto e paura.
Pearl aveva girato lo sguardo di lato, estraneandosi dalla situazione. Sembrò come se volesse volutamente evitare di lasciarsi trasportare dal rimpianto.
La situazione necessitava di tutta la freddezza di spirito possibile; la ninja soffocò i propri sentimenti e passò oltre.
Judith notò come persino Michael avesse fugacemente rivolto uno sguardo amaro verso Hillary. Un breve istante di empatia, poi terminato nel momento in cui la sua attenzione tornò verso le ampolle che aveva con sé.
Infine, vide Xavier; simile a come accaduto per Pearl, il detective aveva deciso di staccarsi da quella mesta visione.
Un dettaglio, però, fu notato dalla ragazza: Xavier stava osservando con curiosità il kit di primo soccorso portato da Pierce, ispezionandone l'interno con cura.
Dopo alcuni attimi, Xavier richiuse la valigetta e la tenne con sé, quasi facendo finta di nulla.
Judith si chiese innumerevoli volte cosa passasse per la mente al compagno, ma intuì che avrebbe potuto avere un'altra delle sue inaspettate idee per il tribunale.
Si appuntò mentalmente di chiedere spiegazioni all'inizio del processo.
June e Karol tornarono dopo poco tempo.
Tutti e otto si riunirono formando un cerchio, attendendo lo scadere del tempo.
Come previsto, bastarono una manciata di secondi prima che l'ascensore emanasse un segnale acustico e si attivasse, sprofondando negli oscuri abissi sottostanti la scuola.
L'ennesimo, inesorabile viaggio verso un atroce destino e un'altrettanto cruda verità.
Un viaggio che, come tutti pensarono, avrebbe ulteriormente alleggerito la già indebolita comitiva.
Qualcosa, però, differiva in maniera enorme: mai come quel momento le loro speranze erano state tanto tenui.




- Dichiaro l'inizio del processo per l'omicidio di Hillary Dedalus! Fatevi valere, ragazzi! -
Il fastidioso vociare meccanico di Monokuma sancì il cominciare dell'udienza; la voce arrivò dagli altoparlanti come ogni volta, e dell'orso nessuna traccia.
Xavier sospirò, consapevole del fatto di non avere altra scelta.
- Molto bene... - disse - Partiamo dalle basi, come ogni volta. Michael, a te la parola -
L'Ultimate Chemist si rese conto che gran parte delle occhiate sospettose dei compagni erano rivolte verso di lui, ma mostrò una spavalda flemma provocatoria.
- La vittima è morta per avvelenamento; il tutto è accaduto proprio in quest'aula circa un'ora fa - disse lui, cominciando dai dettagli più ovvi per favorire un ordine mentale corretto - Ho condotto alcune ricerche in merito, ma i risultati sono... diversi da quelli sperati. Ho buone e cattive notizie -
- Partiamo dalle cattive - optò Karol, per togliersi rapidamente il dente.
- Non sono riuscito ad individuare l'identità del veleno... - ammise Michael, con una punta di sprezzante rammarico.
Calò un breve silenzio.
- Non... non sai di cosa si tratta? - Judith rimase spiazzata.
- E' ciò che ho detto, e non intendo ripetermi -
- L'Ultimate Chemist che non riconosce una sostanza chimica, eh...? - il commento acido di June non tardò a farsi sentire.
- Bah, avrei voluto vedere voi al mio posto! - sbottò Michael - Costretto a lavorare senza i giusti strumenti e con enormi ristrettezze di tempo! Ciò che sono riuscito a portare a termine ha del miracoloso! Dovreste solo ringraziarmi! -
June sbuffò, facendogli intendere che i ringraziamenti non sarebbero arrivati molto presto.
- Mike ha ragione, non possiamo farci nulla - decretò Pearl - Ma abbiamo delle buone notizie, giusto? -
Il chimico si schiarì la voce.
- La cosa positiva è che ho stabilito con abbastanza precisione quali siano le caratteristiche del veleno in questione - spiegò lui - Non lo conosco, ma ho potuto confermare almeno il modo in cui funziona -
- Mi sembra un buon inizio... giusto? - si espresse Kevin - Voglio dire; se sappiamo almeno cosa fa è un enorme passo avanti -
- Kevin ha ragione - lo assecondò Karol - Spiegaci, dunque, Michael -
Questi annuì.
- Il veleno in questione è una strana soluzione, un po' mista. L'effetto è potente, ma ha una caratteristica peculiare: è estremamente lento -
- "Lento", dici? - l'attenzione di Xavier si riversò su quella parola.
- Sembra che questa tossina attacchi direttamente i globuli rossi del sangue, ma lo fa in maniera lenta ed inesorabile. Per uccidere la vittima potrebbero volerci addirittura alcune ore. Credo... forse anche più di un paio -
- Un v-veleno lento...? - Pierce si massaggiò il mento - E' davvero possibile procurarsi qualcosa del genere in questa scuola...? -
- Ah, non ne ho idea - Michael passò oltre - Un'altra caratteristica è che il veleno attecchisce sui globuli, trasformandoli a loro volta in sostanze nocive. In pratica, questa tossina ti scombina il flusso sanguigno e ti uccide dall'interno. E sembra che, dopo le prime due ore, il veleno diventi improvvisamente più aggressivo e violento -
- In pratica, passa alcune ore a spargersi per l'organismo, e poi conclude tutto con un attacco definitivo...? - riassunse Judith - Spaventoso... -
- Queste informazioni, purtroppo, non ci danno un vantaggio effettivo - Xavier scosse la testa - Se davvero ha un effetto così lento, Hillary potrebbe essere stata colpita davvero in qualunque momento -
- Non ci resta che proseguire alla vecchia maniera - asserì Pearl - Dobbiamo individuare cosa ha avvelenato Hillary dalle prove che abbiamo trovato -
Tutti e otto annuirono.
Una persona, però, tirò fuori per prima la propria teoria.
- Suppongo che possiamo partire da questa, no? - disse June, poggiando sul proprio banco la boccetta medicinale.
Michael osservò il gesto con disprezzo; si massaggiò il naso, ancora dolente.
- Oh, il flacone che hai trovato in dispensa - osservò Pierce.
- Credo di intuire dove tu voglia arrivare, June - sospirò Xavier.
L'arciera annuì con convinzione.
- So di averlo già detto, ma lo ribadirò per ogni buon conto - disse lei - Tutti i medicinali sono stati sequestrati da Michael, quindi questa boccetta deve per forza venire da camera sua. Ho controllato personalmente l'infermeria, e non è rimasto proprio niente! Ergo: ci sono elevate possibilità che il killer sia proprio lui! -
- "Elevate possibilità", eh? - sibilò Michael, inviperito - La prossima volta che hai un'opinione del genere, esprimila a parole anziché con i pugni! -
I due si guardarono in cagnesco, pronti a saltarsi addosso a vicenda.
Pearl sbatté una mano sul banco, riportandoli all'ordine.
- Smettetela. Fate parlare le prove - li rimproverò lei - Michael, June ha messo in piedi un dubbio sensato. Come intendi replicare? -
- Bah, prima di tutto: non ho mai visto quella boccetta - disse lui - E' vero, ho preso tutti i medicinali dell'infermeria, e li ho catalogati uno ad uno personalmente. Quel flacone non lo ho mai visto. Ma non ho prove per dimostrarlo, questo lo ammetto -
- Però di certo non possiamo dimostrare che il veleno provenga da lì... - osservò Judith.
- Questo è ancora presto da definire - mormorò Michael compiaciuto.
Il suo volto irradiò nuovamente un'arrogante fiducia in se stesso.
- Cosa stai macchinando? - domandò Xavier.
- Si dia il caso che, nel tempo che mi era rimasto, io abbia ultimato questa piccola soluzione chimica di mia invenzione -
A quelle parole, tirò fuori dalla tasca una piccola fialetta contenente un liquido di un colore azzurro.
La boccetta scintillò sotto le luci artificiali del tribunale; il resto del gruppo rimase misteriosamente affascinato.
- Cos'è? Di che si tratta!? - chiese Kevin, divorato dalla curiosità.
- Un reagente speciale. Inodore, poco denso e facile da preparare, con le giuste conoscenze - si pavoneggiò lui - Versandolo su qualcosa, è possibile individuare la presenza di sostanze tossiche, come veleni o roba simile. Assume una colorazione violacea, in quella circostanza -
Gli altri sette rimasero brevemente sbalorditi.
- Hai creato una sorta di radar per veleni!? - esclamò Pierce, incredulo.
- Tsk... mi sembra un'idea brillante, a mio modesto parere - sbottò lui - Perché fate quelle facce? -
- No, non fraintendere... - si giustificò Judith - E' che sembra così... surreale. Così incredibilmente conveniente... -
- Un momento! - June fermò l'entusiasmo generale - Come possiamo sapere che è la verità!? Potrebbe essere un intruglio qualsiasi per depistarci! -
Karol stette per rimproverare l'avventatezza di quel commento, ma la sua innaturale logica lo lasciò spiazzato.
- Questo è... vero -
- Oh, per l'amor del...! - Michael soffocò un insulto - Ero CERTO che saremmo arrivati a questo punto...! Lasciate che vi dia una stramaledetta dimostrazione! -
Detto ciò, estrasse dalla tasca una bustina in plastica isolante; all'interno vi era un lembo di tessuto sporco di sangue di colore verdastro.
Lo piazzò davanti agli occhi di tutti, bene in vista.
Poi, con sorpresa di tutti i presenti, estrasse anche un piccolo coltellino dalla punta aguzza.
Come d'istinto, Pearl e Karol fecero un passo indietro, essendo i più vicini.
- Cos-...? Un coltello!? - inorridì Pierce.
- Silenzio! - Michael zittì tutti - Lasciatemi fare! -
Si rigirò il coltello tra le mani e strinse i denti. Si provocò una piccola ferita lacerante sul palmo della mano destra, lasciando tutti gli altri confusi e spaesati.
Alcune gocce di sangue colarono sopra il banco, formando una minuscola pozzanghera.
Fatto ciò, Michael verso alcune gocce del liquido sopra di esso: la soluzione venne assorbita senza provocare alcun effetto visivo.
- Questo è l'effetto, ovviamente nullo, su del sangue non contagiato - spiegò lui.
- Era davvero necessario, Mike...? - Judith apparve ancora un po' spaventata.
- Era il metodo più rapido e semplice a cui ho pensato - sbuffò lui, non curandosi del lieve dolore - Questo panno, però, lo ho strappato dai vestiti di Hillary.
Il sangue è il suo. Ora, guardate cosa succede -
Replicò il processo di prima, facendo attenzione a far colare il liquido sulle incrostazioni sanguigne.
In pochi attimi, della schiuma di colore viola si formò attorno alla chiazza di sporco.
Ogni dubbio pareva essere fugato.
- Altre domande? - chiese Michael.
Nessuno osò ribattere, nemmeno June. Quest'ultima si morse il labbro inferiore dal nervosismo.
- Suppongo che la prossima mossa sarà provare il reagente su altri oggetti - annuì Pearl - Con un po' di fortuna troveremo... "l'arma del delitto" -
- Oh, allora possiamo iniziare dalla boccetta - suggerì Kevin - Almeno così avremmo un'idea più chiara sulla sua presenza in dispensa -
- Era proprio ciò che avevo intenzione di fare - annuì Michael, preparando la fiala - Stiamo a vedere -
Verso alcune gocce all'interno della boccetta in plastica e la scosse più e più volte in modo da farle mescolare all'interno.
Poi, vi guardò dentro: un sorrisetto snervante comparve sul suo volto.
Poi, passò il flacone al resto della classe in modo che ognuno potesse vedere da sé il risultato.
La soluzione era rimasta azzurro chiaro, quasi trasparente.
Xavier notò la palese differenza con ciò che era accaduto con il sangue infetto.
- Ci sono ancora dubbi? - chiese Michael, con aria di sufficienza.
- Immagino di no. Il flacone non conteneva veleno - poté confermare Pearl - Certo, resta il mistero di cosa ci facesse in dispensa in primo luogo -
- Avremo modo di capirlo più avanti. Ora la priorità è un'altra - disse Karol - Dobbiamo testare la soluzione su tutti gli oggetti sospetti, tutto ciò con cui Hillary potrebbe aver interagito -
Pierce sembrò avere un'idea.
- Hey, sbaglio o June aveva preso un po' del risotto rimasto nel piatto di Hillary? - esclamò.
L'arciera batté il pugno sulla mano.
- Giusto, giusto - disse, tirando fuori la vaschetta plastificata - Direi che il modo più semplice per avvelenare qualcuno è intossicargli gli alimenti, no? -
- Molto bene. Facciamo un tentativo -
Il contenitore venne passato a Michael, il quale appoggiò la fialetta sul bordo. Versò qualche stilla in più per sicurezza.
Utilizzò il manico del coltellino come strumento per mescolare e far amalgamare il tutto.
La soluzione, mischiata al brodo del risotto, si accumulò sul fondo della vaschetta; il colore era azzurro.
Michael osservò il fenomeno con una punta di amara delusione.
- Niente... - mormorò.
- Quindi il cibo non era avvelenato? - si domandò Pierce.
- Beh, forse era scontato... - annuì Kevin - Voglio dire... abbiamo tutti attinto dalla stessa pentola, no? Ma stiamo tutti bene! -
- Non essere ingenuo, Kevin - lo ammonì Judith - E' possibile che, in un attimo di distrazione, il killer avesse avvelenato soltanto il piatto di Hillary. In quel caso, le opzioni sarebbero state drasticamente ridotte -
- Ma non è questo il caso - concluse Xavier - Ma abbiamo ancora una carta da giocare -
Gli altri sette stettero a sentire.
- Hai un'idea, Xavier? - domandò Karol.
Il detective tirò fuori la valigetta del pronto soccorso portata da Pierce poco prima; rivelandola al resto del gruppo, notò che quasi tutti gli sguardi rivolti su di essa erano perlopiù spaesati. Solo Pearl parve reagire in maniera diversa.
- Oh, capisco dove vuoi arrivare - sibilò la ninja.
- Pierce, mi confermi che questa valigetta la hai presa dalla cucina? - chiese Xavier.
Il sarto, vagamente confuso, ci pensò su per appena due secondi prima di rispondere affermativamente con un cenno.
- Allora credo sia ovvio che questo è lo stesso kit usato da Pearl per soccorrere Hillary, stamattina - proseguì Xavier - Contiene ancora la pomata che hai spalmato sulla sua mano, giusto? Vale la pena di fare un tentativo -
- Oh, è una buona idea... - mormorò Judith, ancora incerta.
- Fate pure - sospirò Pearl, non avendo nulla da obiettare.
A quel punto, Xavier appoggiò la borsa rigida davanti a Michael. Questi la aprì: all'interno vi era ancora un rotolo di bende, alcuni cerotti e la pomata citata poco prima.
Passarono diversi istanti in cui il chimico passò a fare alcune prove con la sostanza rintracciante.
Il resto di loro restò col fiato sospeso; purtroppo, nessuna delle loro aspettative fu soddisfatta.
Michael richiuse la valigetta, brontolando nervosamente.
- Niente... - disse, affranto.
- Nessuna reazione neanche stavolta? - gemette Karol - Avvilente... -
- Dì un po'... siamo sicuri che quella brodaglia funzioni? - la provocazione di June colpì dritta al punto.
- Bah! Ti ho già dato prova della sua efficacia! Trovare le prove giuste era compito vostro, se non erro! -
Pearl si schiarì la voce rumorosamente, dando un evidente segnale ai due litiganti. June e Michael si ritirarono, volendo entrambi evitare l'intervento della ninja.
- Cos'altro ci rimane da esaminare? - sospirò Kevin - Abbiamo altre prove? -
- Mh... ne dubito - osservò Karol - E' difficile ricollegare altro all'omicidio -
- No, forse qualcos'altro c'è -
L'opinione di Judith ridestò i membri più demoralizzati.
- Dici sul serio? -
- Mi è venuto in mente... prima abbiamo trovato quella benda, no? - disse l'Ultimate Lawyer - Apparteneva ad Hillary, e c'erano tracce del suo sangue. E' possibile che il reagente trovi qualcosa -
- Hai ragione, Judith. Ma servirà davvero a qualcosa? - osservò Pearl - Se anche trovassimo tracce di veleno, che cosa ne guadagneremmo? Sappiamo già che è stata avvelenata -
- Ci servirà a capire almeno le tempistiche - annuì lei - Pensateci, quel sangue risale a stamattina, prima ancora del pranzo. Una verifica ci aiuterebbe a stringere il lasso di tempo su cui lavorare, no? -
Nessuno obiettò a quella logica. Non avendo alcuna altra pista da seguire, il consiglio di Judith fu approvato.
- D'accordo, è un piano sensato - confermò Xavier - Mike, se non ti dispiace -
Il chimico annuì, e si sistemò sulle mani un paio di guanti in lattice presi da chissà dove.
Prese tra le dita le bende sporche e iniziò a versarci sopra la soluzione, goccia dopo goccia.
Passarono circa un quindicina di secondi.
Poi, il volto dell'Ultimate Chemist mostrò un'espressione esterrefatta.
- Ma che... che cosa...!? -
Il resto del gruppo reagì prontamente.
- Cosa hai trovato!? - chiese Karol, con impellenza - Il responso è positivo? -
- E' davvero... difficile da comprendere. Ma... sì. Il reagente ha avuto effetto - disse lui - Non nel modo in cui mi aspettavo, però -
- In che senso? C'è del veleno sopra, no? - proseguì Kevin.
- Non facciamo giri di parole. Mostracelo - imperò Pearl.
Micheal Schwarz fece come gli era stato richiesto.
La classe si riunì attorno alle bende, notando immediatamente il dettaglio fuori posto.
Le chiazze di sangue secco erano rimaste bagnate da una soluzione azzurra.
Al contrario, dalla parte opposta del fascio, nella zona umida, il reagente aveva avuto effetto, colorandosi di viola.
Nessuno, però, seppe darsi una spiegazione plausibile.
- E' viola... - mormorò Pierce - Ma... non dal lato del sangue di Hillary? -
- Dalla parte opposta, già - Judith si massaggiò il mento - Il lato vagamente umido. Ci sono tracce di veleno, sembra... -
- Ma è... assurdo? - Kevin si grattò la tempia - Come ha fatto a finire del veleno sulla parte che non è nemmeno a contatto con la pelle? -
Xavier richiamò l'attenzione.
- Karol, ho bisogno del tuo aiuto - disse all'insegnante.
Clouds rispose prontamente.
- Cosa posso fare per te? -
- Tu e Rickard siete stati gli unici ad accompagnare Hillary in camera sua, dopo il ritrovamento di Lawrence e Vivian - disse - In quel momento, Hillary aveva ancora la fasciatura? -
Karol dovette fare un enorme sforzo di memoria, ma alla fine fu certo di ciò che rimembrava.
- Sì, ne sono sicuro - asserì - Abbiamo atteso che facesse una doccia per levarsi di dosso lo sporco -
- Allora possiamo affermare che Hillary ha rimosso le bende appena prima di lavarsi. Anzi... - si bloccò per un istante - Se consideriamo che le bende sono vagamente bagnate, è possibile che Hillary le abbia dimenticate addosso, versandoci sopra dell'acqua -
- Quindi stai dicendo che se ne è accorta e... poi se le è tolte - osservò June.
- Sì, esatto - disse - E questo... questo ci porta a farci un'ultima domanda -
I cuori di tutti presenti aumentarono i battiti.
Con trepidazione, attesero che Xavier esponesse il quesito che tutti stavano mentalmente condividendo.
- C'era qualcosa, sul dorso della mano di Hillary. Qualcosa contenente veleno, che è stato probabilmente rimosso in parte dall'acqua della doccia. Ora la domanda è... "Cosa?" -

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Capitolo 35
*** Capitolo 4 - Parte 4 ***


- Direi di riassumere ciò che abbiamo stabilito... - propose Xavier, ricevendo il consenso generale.
I nuovi sviluppi avevano aperto nuovi dibattiti e discussioni, e nonostante il ridotto numero di persone sarebbe stato facile scatenare nuovamente il caos.
Il ragazzo intuì che ripercorrere il flusso di informazioni dal principio avrebbe aiutato a fare chiarezza.
- Dunque, abbiamo esaminato praticamente tutto ciò che è entrato in contatto con Hillary nella giornata di oggi: la pomata disinfettante, il suo cibo, i suoi vestiti. Niente al di fuori dell'ordinario se non per la fasciatura della sua mano -
- Abbiamo trovato tracce di sangue secco da un lato... - annuì Judith - Ma il veleno era presente sulla parte opposta -
Karol alzò lo sguardo.
- E se il suo sangue sulla fascia era privo di tossine... - osservò lui - Vuol dire che l'avvelenamento è avvenuto dopo il blackout. Per meglio dire: dopo che Pearl le ha medicato la ferita -
Vi fu un cenno di assenso da parte di tutti.
- Il veleno non era neppure nel suo piatto, però... - fece notare Kevin.
- Ciò significa che l'atto è avvenuto dopo pranzo - asserì Michael - Senza ombra di dubbio! -
A quel punto, Pearl si fece avanti con aria serissima.
- Però il veleno è stato rinvenuto sulle sue bende, di cui si è liberata nel momento in cui ha fatto la doccia - disse, scandendo bene ogni parola - Ciò vuol dire che il lasso di tempo in cui è stata infettata è... -
Vi fu una pausa di silenzio.
- Breve. Molto breve - sibilò Xavier.
- Dopo pranzo, ma prima della doccia...? - June si spremette le meningi - C'è un gap di... appena una decina di minuti! -
- Ciò che dobbiamo deliberare adesso è estremamente importante - disse Judith - Cosa è accaduto in quei dieci minuti che avrebbe potuto innescare l'omicidio? -
Ne seguì un'altra rapida ma pesante pausa di riflessione.
La risposta fu evidente per tutti.
- In quel frangente... abbiamo trovato Lawrence e Vivian - gemette Kevin - Ma Hillary è sempre stata assieme a qualcuno, in quei momenti. No? -
- Sì, Hillary è sempre stata in compagnia di almeno un'altra persona. Ma... esattamente: chi? - fece June, ponendo un giusto quesito.
Non ci volle molto prima che la maggior parte degli sguardi andasse rivolta verso Xavier.
L'Ultimate Detective deglutì; sapeva dove stavano andando a parare.
Si schiarì la voce.
- Dunque... dopo che Hillary è corsa verso il laboratorio artistico, sono stato l'unico ad andarle dietro - disse lui - Siamo stati da soli nella stanza per circa... tre minuti. Oserei dire quattro al massimo -
- Più che sufficiente, non trovi...? - sbottò Michael.
Xavier sospirò.
Lanciò un'occhiata infastidita al chimico, facendogli intendere quanto disprezzasse quel suo modo di fare talmente poco costruttivo.
- Sì, abbastanza per avvelenarla. Ma con cosa? E, addirittura, in modo che non se ne accorgesse? - fece notare lui.
- Abbastanza strano ed improbabile. Ma non impossibile - fece Pearl - Abbiamo troppe poche informazioni. Inoltre, temo che non abbiamo esplorato nuovamente il  laboratorio artistico dall'inizio della seconda indagine -
Kevin e Judith si scambiarono un preoccupato sguardo di intesa.
Entrambi ricordarono di come avevano volutamente tralasciato quella zona in favore di una pista più concreta.
- Sì, avrei dovuto dare un'occhiata... ma il tempo ci era a sfavore - si giustificò l'avvocatessa.
- Quel che è stato è stato - Karol lasciò correre - Nessuno poteva prevedere una situazione simile -
- Però... dobbiamo ancora considerare un altro importante dettaglio - la voce di Pierce si fece strada tra la confusione - Xavier non è stato l'unico a rimanere da solo con Hillary. Altre... d-due persone rispecchiano questa caratteristica -
Xavier mostrò un sorriso compiaciuto.
- Esatto, Pierce. Era mia intenzione arrivarci - disse - Appena prima di cominciare l'investigazione abbiamo dovuto portare via Hillary di forza. E sono stati Karol e Rickard a farlo -
Il volto di Judith si illuminò.
- Oh! E la hanno dovuta trascinare! - affermò - In mezzo a tutta quella confusione sarebbe stato più semplice somministrarle qualcosa di nascosto... -
Si rese conto troppo tardi che l'insegnante aveva assunto un'espressione inorridita. Judith deglutì.
- State dicendo che io avrei potuto...!? - Karol strinse le mani e si placò - No... immagino di non avere mezzi per dimostrare il contrario... -
- Mi dispiace, Prof... ma devo considerare ogni eventualità -
- E' seccante, ma lo devo accettare - Karol le rivolse un sorriso di comprensione, ma il suo volto contratto fu facile da interpretare.
Il solo fatto di riuscire a mantenere una calma apparente bastava a simboleggiare quanto Clouds si stesse sforzando.
Ad un tratto, June prese la parola.
- Ragazzi... - disse, quasi avendo paura del concetto che voleva esporre - Siamo sicuri che questa non sia stata... opera di Rickard, vero? -
Il ricordo dell'esecuzione dell'ora prima tornò a galla, gettando tutti nello sconforto.
- Rickard era disperato, ma dubito seriamente che abbia assassinato anche Hillary... - sospirò Pearl - Ricordi il regolamento? Può esserci un massimo di due vittime -
- Oh, hai ragione...! - gli occhi di June guizzarono - In quel momento aveva già... già ucciso due persone... contravvenire alle regole sarebbe andato a suo svantaggio -
Xavier e Karol si fissarono l'uno negli occhi dell'altro.
- In pratica, si riduce a noi due...? - disse il professore.
- Così pare, Prof. - rispose l'altro - Ma sarà davvero così? Stiamo davvero considerando tutti i dettagli? -
- Se hai qualcosa da aggiungere, spara! - lo incitò Michael - Per quanto ne sappiamo, siete gli unici due che rispettano le tempistiche dell'omicidio! -
Xavier, istintivamente, si voltò verso Judith.
Quest'ultima credette di intuire che il compagno le stesse in qualche modo passando la staffetta.
- Tu che dici, Judith? - il suo unico occhio si concentrò su di lei - Da sospettato, dubito che la mia opinione verrebbe presa sul serio. Hai idee? -
Lei deglutì.
- Sì, stavo pensando a qualcosa... - rispose, titubante - Durante le indagini abbiamo ribaltato il laboratorio da cima a fondo. Non abbiamo rinvenuto flaconi sospetti come quello della dispensa, né siringhe o altro. Inoltre, non ti abbiamo perso mai di vista fino alla fine del processo. E' difficile pensare che tu abbia avuto un modo concreto per avvelenarla. Lo stesso vale per Karol, ma nel suo caso non abbiamo il quadro completo della situazione. Le uniche due persone che erano con lui... ora sono morte -
Clouds si asciugò una fugace goccia di sudore.
- Ma ci sarà pure un modo di garantire per Karol, no? - disse Kevin - Io e Judith prima abbiamo esplorato il corridoio percorrendo la via che porta dai laboratori ai dormitori. Non c'era niente fuori posto o dettagli di rilievo -
- Ma non avrebbe potuto sbarazzarsi di quel qualcosa durante il tragitto...? - fu la domanda sollevata da Michael.
Il botanico scosse la testa.
- Nah, ne dubito... pensaci: se si fosse allontanato in maniera sospetta, Rickard e Hillary lo avrebbero notato - 
- E in quel momento la loro priorità era quest'ultima, no? - lo appoggiò Pierce.
- Già, poveretta... - June sospirò a lungo. Il suo viso era languido e lacrimoso - Trovare Vivian in quel modo deve essere stato uno shock. Mi è preso un colpo al cuore quando la ho vista ridotta in quello stato, con tutta quella roba ad-... -
La frase le morì in gola.
Sollevò lentamente lo sguardo di fronte a sé.
Il resto del gruppo notò il suo anomalo modo di concludere il discorso, e si chiesero se fosse tutto a posto.
La mente di June, però, non sentì il richiamo dei propri compagni. 
Sorse un pensiero fulminante, che crebbe poco a poco in un ragionamento lungo e complesso, rendendola incapace di sentire o percepire niente che non fosse al suo interno.
L'Ultimate Archer si destò solo quando Pearl Crowngale andò personalmente a scuoterle la spalla.
Gli occhi di June Harrier, ancora dilatati e colmi di stupore, le si posarono sopra.
- June!? Stai bene!? - le chiese la bionda.
Dapprima non rispose.
Poi, si voltò verso tutti gli altri.
- Credo di aver... realizzato qualcosa - disse, ancora incerta.
Xavier non si lasciò scappare la ghiotta occasione.
- Parla, June! Cosa hai compreso?! -
- Erano quattro. Quattro... - ribadì lei - Le persone che hanno interagito con Hillary in quei dieci minuti erano quattro -
Pierce fece un rapido calcolo.
- Xavier, Karol, Rickard... - disse, elencando i tre già citati nella discussione precedente - E poi...? -
Lei inarcò le sopracciglia.
- Vivian - disse infine - Parlo di Vivian -
L'intero gruppo si immobilizzò, iniziando a rammentare quel cruciale episodio.
- Aspetta... intendi dire... - tentennò Judith - Quando Hillary si è gettata sul suo cadavere? -
- Non dimenticherò mai quella scena... - mormorò June - Hillary era grondante del suo sangue: le era colato ovunque. Sui vestiti, sulla faccia... e sulle bende -
Xavier sbatté la mano sul banco, in maniera molto più assordante.
- Le bende! E' vero, come abbiamo potuto non realizzarlo prima!? -
- Adesso, potrebbe essere un'idiozia molto, molto tirata... - continuò June - Ma stiamo cercando una fonte di veleno che, in qualche modo, è finita sul dorso della mano di Hillary in quel preciso e breve lasso di tempo. Qualcosa che è stato possibile rimuovere con l'acqua della doccia -
Un alone di inquietante silenzio avvolse l'intera sala.
- Qualcosa... come il sangue di Vivian? - disse Judith - E' davvero possibile una cosa simile? -
Nessuno sembrò dare conto a quella teoria fino a quando non iniziarono a ragionarci sopra in maniera consistente.
Più il tempo passava, più l'incertezza si tramutò in possibilità.
- Che cosa assurda...! - sbottò Michael, palesemente contrariato - Ma è davvero l'unico evento che sembra avere senso!? -
- Ma questo vuol dire che... - Pierce non riuscì ad esprimersi, talmente forte era la confusione.
- Può voler dire solo una cosa - rispose Xavier per tutti loro - Vivian era stata avvelenata. Non c'è altra spiegazione -
Karol sgranò gli occhi.
- Vivian!? Vivian era affetta dal veleno!? -
- Inconcepibile... - persino Pearl non riuscì a velare il proprio sbigottimento.
Gli sguardi confusi e spaventati di ognuno non fecero che aumentare il panico.
- Ma questo... cambia completamente le carte in tavola... - gemette Kevin.
- U-un momento! - sopraggiunse Judith - Come sappiamo per certo che questa teoria è esatta? Potremmo star prendendo un granchio colossale! -
- Una giusta osservazione, ma di certo non ci mancano i mezzi per dedurre se sia una deduzione veritiera - le rispose Xavier.
Ad un tratto, calò il silenzio. Tutti intuirono cosa stava per accadere.
Xavier stesso sembrava restìo ad usare quella specifica carta del mazzo, ma sapeva di non avere altra scelta.
- Vogliamo farlo davvero? - chiese Karol - Chiediamo di nuovo aiuto a Monokuma? -
- La nostra teoria ci porta a pensare che il sangue di Vivian possa aver giocato in ruolo in questa faccenda - asserì il detective - Dobbiamo accertarcene. E l'unico modo per assicurarcene è quello di... -
Si bloccò di scatto.
Un rumore metallico sorprese l'intero gruppo; una botola metallica si era appena aperta sul soffitto.
Più di una persona sentì l'urgenza di spostarsi, per poi comprendere che non si trattava di un pericolo.
Non in maniera diretta, per lo meno.
Un paffuto Monokuma uscì in maniera inspiegabilmente agile dal buco sul soffitto, portando con sé un indumento innegabilmente familiare.
Lo sguardo sull'orso meccanico era inquietantemente sorridente; avanzò tronfio verso il banco di Michael poggiandoci sopra il vestito.
- Consegna speciale! - esclamò - Volevate questo, giusto? Direttamente dal freddo corpo dell'Ultimate Painter in persona! -
- Razza di mostro meschino! - lo additò June - Sapevi già che saremmo giunti a questo punto, eh!? -
- Aww, non scaldarti, sparafrecce! - la schernì lui - Non crederete mica che non stia ad osservare i processi, vero!? So cosa succede ed agisco di conseguenza! Era ovvio che mi steste per chiedere un favore, così ve lo ho ricambiato facendovi risparmiare tempo. Che anima generosa, eh? -
Pearl sbuffò infastidita.
- Ci hai portato ciò che ci serviva, ora sei inutile - disse, gelida - Sparisci -
Il Monokuma ridacchiò divertito.
- Oh, me ne vado subito! Non vorrei interrompervi proprio sul più bello - disse, con un'espressione terrificante - Dopotutto avete fretta di mandare a morte un'altra persona, no? Chi sono io per farvi perdere tempo? -
E, con quelle parole, svanì lì da dove era arrivato.
Lasciato un vuoto di silenzio in cui nessuno aveva voglia di commentare l'accaduto, si decise di lasciare la parola a Michael.
- Beh, oramai siamo giunti a questo punto... - sospirò, estraendo la fiala - Vediamo di fare questo ultimo accertamento -
Versò lentamente alcune gocce di liquido sul maglioncino; nonostante il colore rosso acceso, alcuni grumi di sangue erano divenuti eventualmente secchi, risultando più evidenti.
A Pierce si strinse il cuore; la sua creazione era ridotta ad uno stato pietoso e per un motivo ancora peggiore.
Con i cuori colmi di trepidazione e ansia, gli otto sopravvissuti attesero che la reazione avesse effetto.
Fu quando apparve la schiuma viola che ogni dubbio fu fugato.
Xavier si morse il labbro; quella conclusione lo aveva lasciato spiazzato. Un sentimento che aveva provato più volte nel corso del gioco al massacro, ma che comunque continuava fervidamente a detestare.
Judith deglutì; iniziò ad analizzare la nuova situazione, ma non con la cura dovuta. La sorpresa era ancora troppo grande.
Michael osservò il lavoro del proprio reagente con espressione neutra; la soddisfazione di avere tra le mani la chiave per risolvere il mistero era stata sopraffatta dalla realizzazione di non sapere come arrivare alla fine. L'Ultimate Chemist brontolò alcune parole incomprensibili: non aveva una risposta.
Kevin rimase quasi come ipnotizzato dal colorito violaceo assunto dal sangue di Vivian; l'improvvisa traslazione della scena del crimine lo aveva lasciato più spaesato del previsto.
Infine, Pearl prese la parola.
- Abbiamo la nostra risposta - disse - Ora... cosa ce ne facciamo? -
- "L'arma del delitto" era Vivian... - Xavier meditò con attenzione - A questo punto mi torna in mente il dubbio già citato prima: potrebbe essere opera di Rickard, ma l'idea è ancora assurda. Abbiamo già ascoltato la sua confessione, e non ha mai menzionato il veleno -
- Vuol dire che l'obiettivo dell'assassino era... Vivian? - Judith rabbrividì - Ben due persone hanno provato ad ucciderla nello stesso giorno!? -
- E probabilmente il nostro assassino ci sarebbe anche riuscito, se non fosse stato per Rickard... - mormorò Kevin - Ha un che di surreale -
- Sì, un insieme di tragiche coincidenze - disse Pearl - Ma adesso abbiamo un'altra pista. Sappiamo che Vivian è stata avvelenata, e il suo sangue infetto è stato il vettore per uccidere Hillary. Adesso la domanda è una... -
Vi fu una breve pausa di silenzio.
- "Chi ha avvelenato Vivian?" - fu ciò che pronunciò Karol - E come? -
Il gruppo stava per rimettersi a pensare, pianificare; a spingere la propria mente ogni oltre immaginazione pur di riuscire ad ipotizzare un possibile scenario.
Xavier socchiuse gli occhi per appena un attimo.
Li riaprì di scatto; un altro rumore lo aveva attirato.
Poco distante, June Harrier aveva piazzato con violenza le mani sul proprio banco.
La sua espressione era terrea e pallida, il fiato quasi mozzato.
I suoi occhi guizzavano tremanti in ogni direzione; era chiaro che delle parole stavano disperatamente cercando di uscire dalla sua bocca.
- June...? - la richiamò lui - Cosa... succede? -
Lei inizialmente non rispose, ma ben presto i suoi occhi si infervorarono.
- Credo di aver... capito - disse, ancora tremante - Capito come sono andate le cose -
- Saremmo lieti di ascoltarti - la incitò Pearl - Hai davvero compreso la dinamica degli eventi? -
- Non ne sono certa, ma se mettiamo assieme alcuni dettagli che conosciamo già... -
Judith allungò il braccio e le scrollò la spalla.
- Forza, June! Parla! - esclamò - Aiutaci ad arrivare alla verità! -
June Harrier guardò negli occhi ognuno dei propri compagni. Si soffermò per qualche attimo in più su Michael: il loro scontro freddo non era ancora finito.
- Il veleno che ha ucciso Vivian deve essere necessariamente lo stesso che ha eliminato Hillary, giusto...? -
- Questo mi sembra scontato - sbottò Michael, infastidito da quel giro di parole - E con questo? -
- Ciò vuol dire che Vivian deve essere stata avvelenata in un arco di tempo compreso tra la sua morte e... un massimo di due ore, dico bene? -
Judith annuì.
- Sì. Se ricordo bene la descrizione del veleno, allora è corretto - spiegò lei - Considerando che Vivian è stata uccisa prima che la tossina potesse farlo, allora le tempistiche devono necessariamente essere quelle -
- Esatto. Ma Vivian è rimasta per molte ore nel laboratorio artistico senza uscirne... - continuò l'arciera - Ore e ore di lavoro... stando a ciò che ha detto Pearl non ha nemmeno fatto colazione. Non è mai passata per il ristorante -
- Corretto... - mormorò Pearl, che stava iniziando ad avere una salda presa mentale sulla situazione.
- Ma noi sappiamo che Vivian non era rimasta a stomaco totalmente vuoto... - lì il tono di June si abbassò quasi in maniera autonoma - Sappiamo bene che lei ha effettivamente ingerito qualcosa... qualcosa di facilmente... "avvelenabile" -
A quel punto, Xavier piazzò un forte pugno sul banco. Strinse i denti, iniziando a sudare.
- No... aspetta un momento... - gemette il detective - Stai parlando... -
- La cedrata... - sibilò Karol, con espressione esterrefatta.
Un nuovo, pesante silenzio avvolse la sala.
June prese aria nei polmoni; inspirò ed espirò.
- Ora... lo dirò solo un'unica volta... - June Harrier alzò lo sguardo - Ricordate... chi... ha portato... la bottiglia? -



L'atmosfera di pesantezza e paura non svanì: semplicemente cambiò l'area di effetto.
Sette volti si girarono verso la stessa direzione, cercando la stessa cosa: risposte.
Una verità dura, cruda, ma inevitabile. 
La risposta ad un altro impensabile delitto che stava per volgere al proprio termine.
Tredici occhi stanchi e traditi incontrarono quelli arrossati e impauriti dell'Ultimate Botanist.
Kevin Claythorne rimase fermo, impietrito. 
Si girò più volte verso coloro che fino a poco prima lo guardavano come un alleato.
Le loro espressioni, miste e variegate, che andavano dallo sconforto, al terrore, alla più completa rabbia, erano tutte fisse su di lui.
Il ragazzo avvertì la presenza di un mirino immaginario sulla propria fronte; i loro sguardi erano armi cariche.
Le sue gambe tremarono; mosse un passo all'indietro senza nemmeno rendersene conto.
- ...R-ragazzi...? - gemette lui.
Nessuno rispose.
Un gelido responso che non gli fece presagire niente di buono.
- Ragazzi, un m-momento... -
- Kevin -
Xavier aveva pronunciato il suo nome con tono deciso e perentorio.
Il botanico si voltò, terrorizzato.
- Xavier...? -
- Kevin, farai meglio a spiegarti. Adesso -
- "Spiegarmi"...? Vorresti dire che... pensate che...? - si rese conto di star sudando copiosamente - Credete che io abbia...? -
- SMETTILA! - l'urlo rabbioso di Michael rimbombò nell'aula, facendo quasi urlare anche Kevin si riflesso - E' la stessa pantomima che ha usato Rickard prima di essere fritto! Qui chiunque può uccidere, chiunque può essere sospettato! Anche TU, KEVIN! ORA PARLA! -
Judith si ritrovò costretta ad intervenire, ponendosi tra Michael e Kevin; quest'ultimo si era rintanato tra le proprie spalle con una faccia da cerbiatto impaurito.
- Kevin, ascoltami bene - fece lei, con tono calmo ma autorevole.
Lui gemette qualcosa tra alcune lacrime.
- Cosa...? Io...? -
- Kevin, rispondimi. E dalla tua risposta dipenderanno molte cose - disse, e sospirò - Allo scorso processo hai confermato di aver portato la bottiglie di cedrata a Vivian dalla dispensa. E' così? -
- Eh... io... - la voce gli tremò - Sì, io... le ho portato... la bottiglia, ma... -
- Ingegnoso - mormorò Xavier - Ecco perché lo avevi tenuto nascosto durante il processo di Lawrence e Vivian. Mi sono sempre domandato cosa ti avesse spinto a celare un dettaglio talmente cruciale anche se, in quel momento, non vestivi i panni del colpevole... -
Claythorne tossicchiò in maniera forte e pesante, quasi come avvertendo il peso di quella affermazione.
- Xavier! - Judith lo guardò con espressione di rimprovero - Se continui a mettergli pressione, lo distruggerai! -
Il detective si mozzò in gola la risposta più razionale; riconobbe lo sguardo di Judith.
Era lo stesso di quando si impuntò nella decisione di difendere Hayley; due occhi ferocemente determinati, ma disperati.
Qui, però, qualcosa era cambiato.
Non vi era più disperazione, nel suo sguardo. Era rimasta solo un'ombra di profonda tristezza e delusione, ma Xavier ne era certo.
Era certo di ciò che stava vedendo nell'espressione dell'Ultimate Lawyer.
Judith Flourish stava cercando solo e unicamente la verità.
Xavier scosse la testa.
- Hai ragione, mi sono lasciato trasportare - disse, voltandosi di lato - Continua l'interrogatorio -
Lei rimase per un istante a contemplare quel suo piccolo successo morale, più che altro sorprendendosi di come le cose erano cambiate.
Ma mise da parte il proprio compiacimento in favore di un'incombenza più urgente.
L'umore di Kevin Claythorne non era per niente migliorato e non accennava a farlo.
Al contrario, si stava mostrando sempre più restìo a partecipare alla conversazione.
- Kevin, se c'è qualcosa che devi dirci, devi farlo adesso - gli disse con calma.
- No... non sono stato io... - gemette, delirante - Io non... non avrei mai... non volevo che...! -
Michael Schwarz si ritrovò costretto ad immischiarsi nella discussione.
- Perché non partiamo dal principio? - disse il chimico - Sei stato probabilmente l'unico ad entrare nella dispensa, oggi, quando hai preso la bottiglia. Hai lasciato lì la fialetta vuota; guarda caso, l'infermeria è straordinariamente vicina al giardino botanico. Immagino tu abbia preso quel flacone ben prima dell'omicidio di Refia, se sei riuscito a sottrarlo al mio sequestro. E tutto per mandare i sospetti su di me. In parte ce l'hai fatta... -
Si massaggiò la guancia, facendo in modo che June potesse vedere. L'arciera fece di tutto per non badarci.
Kevin non rispose; si limitò a scuotere lentamente il capo.
Pearl sospirò a sua volta.
- Mi ha sorpreso notare come sia stato utilizzato un veleno di cui l'Ultimate Chemist non ha mai sentito parlare... - disse la ninja - Se ci pensiamo, è un paradosso. E' il suo campo di azione, è assurdo pensare che una sostanza simile gli sia talmente ignota. Il tutto cambia, però... -
- ...se si tratta di un estratto vegetale. Non è così, Kevin? - la voce e lo sguardo di Judith erano contemporaneamente severi e materni - Ti prego, dì qualcosa -
- No, no...! Voi... basta... è tutto un grosso, grossissimo sbaglio! - rispose lui, senza però tranquillizzarsi - E' tutto sbagliato... TUTTO! -
- E cosa sarebbe "sbagliato", esattamente? - Michael lo fissò con disprezzo - Sei l'Ultimate Botanist e hai a disposizione una marea di esemplari nella serra. Chissà quante di quelle piante, se trattate correttamente, possono secernere veleno! -
- Le tossine vegetali sono note per essere violente, ma spesso anche molto lente... - osservò Karol, sfruttando nuovamente le proprie conoscenze generali - Santo cielo, Kevin... -
A quel punto, l'Ultimate Botanist si piantò con le braccia sul legno del banco.
- No, NO, NO! Vi ho detto di NO! State sbagliando, vi dico! E' tutto un maledetto equivoco! -
- Kevin... - gemette Pierce - Non può essere vero... -
- Se siamo davvero in errore, allora ti scongiuro, Kevin! - lo pregò Judith - Dicci la verità! -
- L-la verità...!? La verità è che... tutto quello che avete detto è una c-congettura errata! - disse lui, paonazzo - Avete commesso un errore madornale! -
- Un errore, dici...? - June deglutì.
- Se davvero... - Kevin annaspò - Se davvero la cedrata era avvelenata, allora anche Rickard sarebbe dovuto essere una vittima! La ha bevuta anche lui, no!? Ma fino alla fine del suo processo stava benissimo! Come lo spiegate!? -
Xavier spalancò il suo unico occhio.
- Questo è... un punto a suo favore, in effetti -
- Certo, se Rickard fosse stato avvelenato, allora i conti non tornano - Karol si massaggiò il mento - Tra l'esecuzione di Rickard e la morte di Hillary saranno passati al massimo cinque minuti. E Rickard avrebbe assunto il veleno almeno un'ora prima di Hillary. Le tempistiche non hanno senso -
Kevin riprese un po' d'aria, abbozzando un sorriso storto.
Tentò di calmarsi, lentamente e con difficoltà.
- Ecco, visto...? - disse - Tutto un grosso sbaglio...! -
- Ah, ne sei così sicuro? Io non direi -
Fu la voce di Michael Schwarz a gettare di nuovo Kevin nel panico.
- Hai un'idea, Mike? - chiese Xavier.
- Un'idea? Ben di più. Ho le prove per confutare quanto ha detto - rispose il chimico - Spero voi tutti ricordiate che questo veleno ha una peculiare qualità che vi ho  descritto verso l'inizio di questo processo -
Tutti fecero uno sforzo mentale, ma toccò all'Ultimate Chemist il compito di rimembrare ai presenti il dettaglio cruciale.
- Bene, vi rinfrescherò la memoria - disse - Questa sostanza è inizialmente innocua, e va a disperdersi nei vasi sanguigni della vittima. Solo a contatto col sangue diventa poi aggressivo, attaccando i globuli rossi direttamente. Capite cosa intendo? Una volta dissolto nel sangue, questo veleno diventa estremamente violento nel giro di poche ore -
- Ma certo, è tutto chiaro...! - esclamò Pearl - Hillary è entrata a contatto con il sangue infetto di Vivian! Vuol dire che il veleno era già prossimo alla sua fase più aggressiva -
Michael si esibì in un lieve applauso.
- Precisamente. I miei complimenti - sorrise il chimico - Quindi ha perfettamente senso che il tempo di infezione fosse accelerato. Le tempistiche dell'omicidio sono completamente alla rinfusa. Hillary Dedalus è stata uccisa in poco più di un'ora da un veleno che ne richiede almeno due, come minimo -
In quel momento, la debilitante ansia di Kevin tornò a fargli una sgradita visita.
Assumendo nuovamente uno sguardo terrorizzato, additò il resto della classe.
- E' così... è così che stanno le cose...? - mormorò lui - Vi state ammucchiando su di me... fate comunella per ammazzarmi, eh...? -
- Non dire assurdità! - replicò June, indignata - Noi vogliamo solo raggiungere la verità, ma tu non ci stai aiutando! -
- NO, TI SBAGLI! - urlò il botanico - Non è la verità... NON LO E'! Non ho ucciso Hillary, non la ho UCCISA! NO! NO! -
- Il tuo scopo era uccidere Vivian... - mormorò Xavier - Non comprendo ancora le tue ragioni, ma in qualche modo hai finito per macchiarti le mani del sangue di Hillary... e questa è la verità che il nostro ragionamento ci sta portando a trovare. Lo capisci, Kevin? -
- No... stai... indietro...! - annaspò lui - E' sempre così... ogni volta... sempre la stessa storia... tutti mi danno contro! Fate gruppo per andare contro di me... mentre la talpa è lì fuori CHE SE LA RIDE! -
Karol strabuzzò gli occhi.
- La talpa...? Il traditore!? -
- Kevin, sai qualcosa del traditore? - lo pressò Xavier.
Il biondo non perse il proprio temperamento.
- Ah... io? Se ne so qualcosa... so che E' TUTTA COLPA SUA! E' colpa sua se siamo rinchiusi qui, dovremmo cercare lui! LUI! IO NON C'ENTRO, NON C'ENTRO NIENTE! -
- Datti una calmata, Kevin! - sbraitò Michael - Se anche fossi innocente, credi che ti daremmo credito con questa tua ridicola scenata!? -
- "Se anche fossi"...? Se anche...? Io... non vi capisco... non vi capisco, non vi capirò MAI! Forse non c'è un solo traditore... forse lo siete TUTTI! State cospirando per mettermi alle strette, per farmi IMPAZZIRE?! Voi mi volete MORTO! -
Pierce Lesdar scosse timidamente il capo.
- E'... è andato...? Kevin è uscito di testa...? -
- La sua psiche ha retto bene fino a questo punto, ma era solo questione di tempo prima che crollasse... - sospirò Pearl.
L'Ultimate Ninja ripensò ai fiori che, pochi giorni prima, Kevin le aveva regalato. Ricordò il sorriso di gratitudine che le aveva rivolto, e lo comparò con quella terrificante espressione che aveva assunto poco prima.
Si chiese se il Kevin Claythorne che le aveva donato quel presente con il cuore fosse ancora lì, o se fosse mai esistito.
- Chiudiamola qui, Kevin - Pearl Crowngale si fece avanti.
Il biondo le rivolse uno sguardo terrorizzato.
- Vuoi... vuoi "chiuderla qui"...? Intendi uccidermi...? E' questo che vuoi fare!? -
- No, intendo semplicemente concludere il processo. Questa brutta faccenda si sta prolungando oltre il dovuto, e non voglio vedere i miei compagni soffrire ancora -
- Non puoi... non puoi concluderlo... tutto ciò che avete detto era basato su idee... senza prove...! -
- E' una prova che vuoi? E una prova avrai - disse la ninja.
Xavier, Judith e June notarono l'estrema confidenza di Pearl sull'argomento; decisero di lasciare che fosse lei ad occuparsi del resto.
Karol e Pierce non riuscirono a staccare gli occhi di dosso a Kevin, messo sempre più all'angolo.
In entrambi venne suscitato un fortissimo istinto di pietà.
- Non ci sono... prove! -
- Ce n'è una: l'arma del delitto - disse tranquillamente Pearl - E' oramai assodato che si tratta della cedrata, no? Basterà dunque un rapido controllo con il reagente di Michael per... -
Kevin tossì rumorosamente.
- N-no...! Non è possibile...! La bottiglia è... - disse, soffocato dalle lacrime - La bottiglia è andata... -
- Distrutta, sì - rispose lei, fredda come sempre - Ma dimentichi un dettaglio importante: Rickard non ha mai finito la sua bevanda -
Si bloccò. Kevin Claythorne si immobilizzò, e con lui persino la sua concezione del tempo che passa.
Cessò ogni lamento, ogni urlo, ogni balbettio. Finì ogni cosa.
Dalla sua bocca uscì solo qualche parola troppo soffocata per essere compresa.
- Ci basterà scomodare Monokuma un'ultima volta per avere le nostre risposte - il volto di Pearl assunse una connotazione di sincera tristezza - A meno che tu non ti decida a... farla finita. Ti prego, Kevin, basta soffrire. Basta... finiamola qui, per il bene di tutti. Per il TUO bene... -
Ne seguirono calma e silenzio.
La sagoma immobile dell'Ultimate Botanist indicò la sua completa perdita di quel poco senno che gli era rimasto.
Un residuo della sua lucidità si riversò in un singolo movimento della bocca.
- Giglio... -
Gli altri sette rimasero spiazzati nel sentirgli pronunciare un termine talmente causale.
- K-Kevin...? - Pierce fece per avvicinarsi, ma Pearl lo fermò.
- Azalea... Girasole... - continuò lui - Loto... Malva... Mughetto... La...van...da.. no, io... non... Crisan... temo... non doveva... Ros... Rosa... non così... non così, Gerbera... Sterlizia... solo, tutto solo, per s-sempre... Vischio... non... doveva... accadere... -
Kevin Claythorne perse ogni scintilla di lucidità dai suoi occhi e cadde a terra, in ginocchio.
Appoggiò la testa sul legno, il volto ridotto ad un ammasso incolore e senza vita.
In mezzo alle lacrime, si udirono soltanto alcuni deboli, soffocati nomi di fiori.

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Capitolo 36
*** Capitolo 4 - Parte 5 - Reminiscenze ***


Anno XXXX, Febbraio, Giorno XX


Non appena il primo raggio di sole della giornata illuminò i vetri della finestra, filtrando tenue attraverso di essa, il vecchio Graham si affacciò con speranzoso ottimismo.
Era stata una mattinata nuvolosa dal cielo grigio e spento, minacciante pioggia più e più volte.
L'aria umida e il vento freddo, oltretutto, avevano contribuito a concretizzare quel presagio di tempesta incombente.
Graham notò come, nel giro di alcune ore, il tempo di fosse risistemato per il meglio: verso le due del pomeriggio aveva iniziato a splendere il sole.
Si massaggiò la barba con espressione soddisfatta; se vi era qualcosa in grado di fargli recuperare il buon umore più del bel tempo era una minaccia di pioggia sventata.
Graham non si riteneva superstizioso; al massimo meteopatico, ma non lo considerava un difetto.
Aprì la finestra e inspirò profondamente; l'aria era fresca, forse un po' rigida, ma piacevole.
- Ora va molto meglio - constatò, gettando un'occhiata ai vasi riposti ai margini del muro esterno.
Le piante erano umide, ma il tepore solare avrebbe presto giovato loro.
Uscì dalla porta di ingresso del negozio con dei guanti verde scuro sporchi di terreno e un innaffiatoio vuoto.
Non appena ebbe mosso appena due passi, una goccia d'acqua gli calò sulla schiena, passando dal colletto della camicia.
Rabbrividì per un istante, guardando verso l'alto con aria infastidita: la vecchia insegna del negozio stava grondando alcune fugaci gocce piovane che erano riuscite a sopravvivere al calore, residuo della leggera pioggerella di poco prima.
Graham borbottò qualcosa prima di recarsi verso i vasi, spostandone la maggior parte all'interno.
Ci vollero più viaggi, ma alla fine il lavoro fu compiuto.
Il vecchio fioraio si stiracchiò e la sua schiena emise un suono secco molto piacevole.
Un segnale acustico attirò la sua attenzione. Guardò l'orologio: le due in punto.
Fece il giro della scrivania ed adocchiò il piccolo calendario cartaceo che conservava su di essa; sulla data odierna vi era segnata la parola "Gita" marchiata in rosso.
"Già, oggi doveva partecipare alla gita scolastica..." rimembrò lui, ancora con la testa fra le nuvole "Dovrebbe tornare tra un quarto d'ora. Giusto il tempo di preparare il tè"
Abbandonò l'atrio per recarsi nel retrobottega, munito di una piccola cucina con bagno annesso, più la poltrona preferita di Graham situata nell'angolo, compagna di numerose dormite.
Graham passò più tempo del previsto a scegliere la qualità di tè da consumare, ma alla fine optò per il classico infuso verde, un intramontabile classico familiare.
L'acqua bollì in poco tempo, e il vecchio trascorse diversi minuti crogiolandosi nella serena visione del tè che si mescolava al liquido caldo.
Il lento colorarsi dell'acqua lo rilassò a tal punto che rischiò di addormentarsi.
A riportarlo alla realtà fu il suono della porta di ingresso che si apriva con il solito, fastidioso cigolio.
Graham si massaggiò il viso stanco; diede un'altra occhiata all'orologio: le due e dieci.
"E' in anticipo" constatò.
Mise la tazza in ceramica sul vassoio e vi piazzò sopra anche una manciata di biscotti.
Era certo che l'ospite avrebbe gradito una merenda sostanziosa.
Prese tutto tra le mani e si recò nuovamente verso il bancone davanti all'ingresso.
Fece per annunciarsi con un saluto, ma ciò che vide lo colse di sorpresa in maniera spiacevole.
- ...santo cielo! - fu tutto ciò che riuscì ad esclamare prima di posare frettolosamente il vassoio sul bancone.
Dalla porta era entrato un bambino biondo e minuto, con grandi occhi verdi inzuppati di lacrime e i vestiti quasi interamente ricoperti di fango e sporcizia.
Questi si asciugò il pianto con la manica imbrattata prima che Graham lo fermasse, evitandogli di procurarsi infezioni.
- Kevin! Che è successo!? - disse, accorrendo in suo aiuto.
Il piccolo non rispose; si limitò a muovere alcuni passetti verso il nonno chiedendo un abbraccio. Di fatto, non gli fu negato.
Graham Claythorne strinse il nipotino tra le braccia e lasciò che le lacrime gli si riversassero addosso, sperando di aiutarlo presto a calmarsi.
Conoscendo il soggetto, non sarebbe stata una cosa rapida.
Tenendolo ancora stretto, allungò la mano verso la porta del negozio e girò il cartello dall'altro lato.
Il negozio di fiori "Claythorne's", quel giorno, cessò in anticipo le attività.



Appena uscì dalla doccia, Kevin fu fatto accomodare su una sedia appena fuori dal bagno.
Vi si poggiò vestito solo di accappatoio e ciabatte da bagno, i folti capelli biondi stavano gocciolando ovunque.
Il nonno aveva già preparato l'asciugacapelli; era ancora il periodo della stagione fredda, e rimanere in quello stato per troppo tempo non gli avrebbe giovato.
Accese il phon, che ruppe finalmente il pesante silenzio della casa; Kevin non aveva aperto bocca fin dal suo ritorno.
Conservando uno sguardo triste e affranto, si era limitato a seguire le direttive del nonno.
Quest'ultimo gli passò la mano tra i capelli lunghi e lucenti più e più volte. Per asciugarli tutti ci sarebbe voluta un'eternità.
Il nipotino aveva da sempre avuto un grande orgoglio per la propria capigliatura, il cui colore dorato era un tratto familiare, ma la loro estensione, che arrivava fin sotto le spalle, era più che altro un impiccio. Non per Kevin, però, che adorava sentire il vento passargli per la chioma.
Ci volle almeno un quarto d'ora prima che la grossa mano di Graham avvertisse che i capelli erano finalmente asciutti.
Posò il phon e allungò a Kevin dei vestiti puliti: quelli che aveva erano stati gettati subito in lavatrice dopo una passata iniziale di detersivo, tanto erano ridotti male.
Non appena si fu rivestito, entrambi andarono a sedersi al tavolino della cucina dove il tè aveva oramai iniziato a raffreddarsi.
Kevin osservò l'accendersi del fornello con occhi spenti e stanchi; Graham aveva iniziato a far bollire altra acqua.
Ne seguì un ulteriore periodo di silenzio, alla fine del quale Graham tornò con due tazze fumanti.
Ne osservò il colore, soddisfatto di come fosse venuto bello denso e accompagnato da un delizioso aroma.
Graham Claythorne faceva delle proprie qualità di cuoco un vanto quasi pari a quelle di botanico.
Piazzò una delle due tazze di fronte al nipote; di fianco posizionò un piattino con cinque biscotti messi a cerchio e la zuccheriera.
- Su, bevi - gli disse - Il tè scalda il cuore e rischiara la mente -
Inizialmente restio, Kevin si arrese alla propria voglia di assaggiare quei biscotti dall'aspetto invitante.
Li inzuppò uno ad uno, creando un miscuglio di tè e briciole sul fondo della tazza.
Dopo aver soffiato per bene sull'infuso, lo mandò giù a sorsi leggeri.
Dall'altro lato del tavolo, Graham mostrò un sorriso compiaciuto: il gusto della bevanda sembrava pareggiarne l'aspetto.
Lasciò trascorrere ancora un paio di minuti. Poi posò la tazza.
- Allora... che ne dici di raccontarmi ciò che è successo? - chiese.
Kevin si strinse tra le spalle, nascondendosi nel maglioncino in lana che gli aveva fatto il nonno.
La reazione del nipote gli fece intuire che non doveva essere una storia piacevole.
- Kevin, suvvia - gli disse - Lo sai che a me puoi raccontare tutto, no? Vorresti tenere un segreto al nonno? -
Il piccolo deglutì.
- No... - scosse il capo.
- Allora forza, dimmi - Graham intuì che era necessaria una piccola spinta - Oggi dovevi andare in gita con la scuola, giusto? -
- Sì... era oggi - mormorò debolmente.
Il nonno intuì che doveva avere qualcosa a che fare con il "problema".
- Kevin, non facciamo inutili giri di parole - sospirò - Cos'è successo? -
Il piccolo deglutì e soffocò una lacrima.
- Eravamo scesi dall'autobus per... una pausa... - cominciò lui - Saremmo dovuti ripartire dopo mezz'ora... -
L'altro annuì, facendogli cenno che aveva la sua più completa attenzione.
- Bene, e poi? E' accaduto qualcosa? -
- C-ci hanno detto di andare a giocare, ma di non allontanarci troppo... così sono andato poco oltre la radura... - la voce gli tremò - C'erano... ecco... -
Graham sentì che stava arrivando il dettaglio cruciale.
- "C'erano"? Cosa hai visto? -
- Beh, c'erano... dei bei fiori. In mezzo al prato... -
L'anziano fioraio rimase basito per alcuni secondi. Poi sorrise, tranquillizzato da quella bizzarra rivelazione.
Aveva immaginato scenari ben peggiori.
Kevin era vagamente arrossito, ma Graham non riusciva a spiegarsene il motivo.
La passione per la botanica e i fiori era un distintivo tratto di famiglia, passato per numerose generazioni.
Che il nipote si sentisse in difficoltà a parlare di fiori ad un fioraio era piuttosto strano.
Graham sapeva che c'era di più.
- Quindi hai visto dei fiori - gli sorrise - Erano belli? -
- Bellissimi, davvero - fece il bambino, mostrando un volto un po' più colorato - N-non come i tuoi, però... -
- Quello è impossibile! Sai bene che i fiori di "Claythorne's" hanno un aspetto impareggiabile - Graham rise di gusto.
Kevin fece un cenno consensuale.
- Ma quelli che ho visto erano davvero... davvero splendidi - ammise, tentando di non ferire l'orgoglio di un professionista navigato - Così ho pensato di... coglierne un po' -
- Coglierli? Volevi fare un mazzo? -
- S-sì... - Kevin arrossì una seconda volta - Per te... -
Graham tentennò per un istante. Assimilò la frase.
- Per me? -
- Sì. Volevo regalarteli... -
Il combinare quel pensiero affettuoso a quel volto talmente dolce gli provocò una fitta al cuore.
Gli carezzò la testa amorevolmente; un sorriso caldo si fece strada attraverso la folta barba del nonno.
- Ma senti! E' davvero un bel gesto da parte tua, Kevin. Ti ringrazio -
- N-no... non sono nemmeno riuscito  portarteli... -
Era un dettaglio che Graham aveva già notato, e che probabilmente avrebbe potuto ricondurre al pianto di poco prima.
La discussione si stava avvicinando alla parte cruciale.
- E quindi ti sei messo a cogliere fiori... e poi? - chiese - E' accaduto... qualcosa? -
Kevin annuì timidamente senza aggiungere altro.
L'uomo sospirò, grattandosi la sommità del capo.
Convincere il nipote a parlare era da sempre un'ardua impresa, ma la sua introversione stava peggiorando giorno dopo giorno.
Estorcergli informazioni non era semplice, ma oramai Graham aveva un quadro abbastanza chiaro della situazione.
Andando per ipotesi, l'alternativa corretta non era distante.
- Qualcuno ha avuto da ridire, Kevin? - gli chiese - Ti hanno detto qualcosa? -
Lui esitò per un attimo. Poi, mesto, annuì.
Lo sguardo di Graham assunse una tinta più apprensiva e, al contempo, infastidita.
Non era la prima volta che accadeva, ma quella si presentava come una potenziale goccia finale del vaso già traboccante.
- Mi hanno... preso in giro... - Kevin tirò su col naso - Tutto il tempo... -
- Chi è stato? -
- Quasi... quasi tutti... - si passò la manica del maglione sugli occhi, asciugandosi.
Graham si massaggiò le palpebre.
- Di nuovo, mh...? - sbottò, irritato - Ti hanno detto qualcosa di brutto? Ti hanno ferito? -
- Hanno detto che sono... una femminuccia... - Kevin si strinse tra le ginocchia - Che sono strano... perché i maschi non raccolgono fiori... ho detto loro che tu, però, lo facevi di mestiere e quindi... -
Si bloccò per un istante. Il nonno premette affinché il discorso giungesse al termine.
- E quindi? Cosa è successo? -
- L-loro... - Kevin tentennò, poi chiuse gli occhi - Hanno iniziato a parlare male di te! Così...! Così io li ho spinti via! -
- Tu cosa!? - Graham rimase sbigottito - Li hai "spinti via"? Hai fatto loro del male? -
- Io non volevo... lo giuro! Ma... ero così arrabbiato! -
Graham Claythorne non si era mai sentito così a disagio, in tutta la sua vita, per un qualcosa che nemmeno aveva fatto di persona.
- Hai reagito per difendermi? Santo cielo... -
- E poi loro mi hanno spinto nel fango... - disse, stringendo i denti - Mi sono venuti addosso e mi hanno... buttato lì... -
- Maledizione... e nessuno ti ha aiutato? - chiese il nonno - Gli altri compagni, o le compagne? E l'insegnante? -
Gli occhi arrossati di Kevin vibrarono di rabbia.
- Hanno detto che me la sono cercata... e che mi stava bene... -
Il ticchettio dell'orologio segnò l'arrivo delle tre.
Fu l'unico rumore udibile per diverso tempo; l'atmosfera della cucina era divenuta pesante e sofferta.
Graham Claythorne fissò con disappunto la propria tazza di tè, oramai vuota. Sospirò.
- Kevin, mi dispiace che tu abbia passato tutto questo per me - gli disse con tono caldo e morbido - E mi addolora sapere che ti sei sentito abbandonato, ma... -
- Li detesto... -
Il nonno trasalì.
- Come? -
- Li detesto tutti...! - pianse Kevin - Non li voglio più vedere! Mai più! -
- Non dire così, Kevin... - lo rinfrancò lui - Non potranno mica essere tutte mele marce. Ci sarà pur qualcuno che... -
- NO! Non c'è nessuno! Non ho amici, e non ne voglio! - sbraitò lui, con enorme sorpresa di Graham - Le persone sono tutte uguali! TUTTE! Ci sarà sempre qualcuno che mi darà contro perché non mi piacciono le cose da maschi! Ma perché non mi lasciano in pace!? -
- Kevin, calmati! Ti scongiuro! - l'apprensione dell'anziano fioraio derivava soprattutto dal fatto di non aver mai visto il nipote in quello stato.
Il carattere tranquillo e mite di Kevin, piuttosto noto, era stato completamente sostituito.
- Non ci voglio più andare a scuola! Li odio tutti, TUTTI! E... e...! - singhiozzò - Mi fanno... paura...! -
- Paura...? Che intendi dire? Ti spaventano? -
- Nessuno mi appoggia mai... nessuno si fa mai avanti per difendermi... sono come dei mostri che aspettano solo un mio passo falso per darmi addosso... li odio, e mi fanno paura... -
- "Come dei mostri"... - ripeté l'altro, attonito - Non riesci a fidarti proprio di nessuno? -
Il giovane Kevin fece cenno di no.
- Ma di me ti fidi, giusto? -
- Sì... sei l'unico di cui mi fido, nonno... -
- E allora sta a sentire il tuo vecchio - disse lui, ridanciano - Ti mostrerò il metodo segreto della famiglia Claythorne per attenuare lo stress! -
Gli occhi di Kevin si riempirono di curiosità e ammirazione, quasi dimenticando lo sfogo avvenuto poco prima.
Graham si alzò dalla sedia e gli fece cenno di seguirlo nella serra del negozio.
La porticina in legno che conduceva all'orticello si aprì con un cigolio, rivelando i profumi che conservava al proprio interno: odori che Kevin conosceva bene e amava.
Bastò poco per fargli recuperare almeno in parte il buonumore. L'atmosfera della serra, piena di colori e profumi, andava fortemente in contrasto con la tremenda mattinata.
- Hai ragione, Kevin, ci sono molte persone con cui non vai d'accordo e ce ne saranno molte altre. Ma non devi arrenderti! Devi solo ricordare che gli stolti non valgono il tuo tempo! -
- Non valgono...? -
- Esatto. Perché preoccuparsi del giudizio di persone che nemmeno provano a comprenderti? - ridacchiò il nonno - E, se continuano ad infastidirti, usa il metodo segreto di famiglia! -
Il piccolo si ritrovò frastornato dall'eccitazione.
- Quale!? Quale segreto!? -
- Ah, ma dovrebbe essere ovvio! I fiori: i fiori sono il segreto! - rispose lui, volutamente attorniando la faccenda di mistero.
- I fiori? - lui non sembrò capire.
- Dimmi, Kevin: che fiore è quello? - gli chiese, indicandogli un vasetto poco lontano.
Alcuni steli circondati da un unico, grosso petalo bianco spuntavano dal vaso.
- E' una... Calla, giusto? -
- Corretto! Bravo! - lo elogiò lui - E quelli? -
Stavolta fu il turno di alcuni fiori rosati dalla forma eccentrica.
- Facile, sono Orchidee -
- Molto bene. Tieni a mente i loro nomi, il loro aspetto e il loro significato. Sai che ogni fiore manda un messaggio, no? -
- Certo! Ogni fiore ha una storia, giusto? - disse il bambino, come citando una frase già sentita.
- Esatto, come ti ho già detto molte volte - continuò, compiaciuto - Sai cosa faccio quando mi sento giù di morale? Ripasso a mente i fiori del negozio -
- T-tutti...!? - chiese, sbalordito.
- Dal primo all'ultimo! Li coltivo io, dopotutto! - rise - Conoscerli a menadito è il minimo! Che dici, ci proviamo assieme? -
Dapprima titubante, Kevin si lasciò presto andare a quella proposta.
Armatosi di un blocco note e una penna mezza consumata, passò a fare un compendio ben strutturato dei fiori presenti con l'aiuto e la supervisione del nonno.
Il pomeriggio trascorse così velocemente che nessuno dei due riuscì ad accorgersene.
Passo dopo passo, ogni piantina o germoglio della serra fu analizzato e catalogato con minuzia e dedizione.
Ci vollero diverse ore, ma il quadernino di Kevin fu riempito in maniera soddisfacente. Un sorriso appagato comparve sul suo viso.
Il nonno notò come il piano per distrarlo dalle preoccupazioni fosse andato a buon fine, ma sapeva anche che si trattava di una soluzione temporanea.
Il problema doveva ancora essere affrontato.
- Ascoltami, Kevin - gli disse - Quando ti troverai in difficoltà, ricorda i messaggi dei fiori. Niente placa la mente come il loro profumo -
Lui annuì, ma con poca convinzione.
- Nonno, tu credi... che i fiori possano unire le persone...? -
- E' una domanda difficile, Kevin. Non a tutti piacciono i fiori, dopotutto. E, sì: purtroppo esiste molta gente che ti arrecherà danno o ti farà uno sgarbo. Ma devi essere forte, piccolo mio. Forte abbastanza da ignorarli e continuare a cercare dei buoni amici -
- Ma io non... non sono forte... -
- Sciocchezze! - lo rimproverò lui - La forza non sta nei muscoli! Sta nel cuore. E tu ne hai da vendere, piccoletto -
Kevin arrossì, ridendo in modo sincero.
- Quindi... - proseguì Graham - ...promettimi una cosa. Che non ti arrenderai, e continuerai ad essere te stesso. E se a qualcuno non sta bene, che sia affar loro! -
A quel punto, il nonno gli porse la mano.
Kevin studiò quel gesto: era chiaro che aveva un significato ben preciso. Graham gli stava chiedendo di fargli una promessa e di rispettarla.
Senza pensarci una seconda volta, la afferrò.
- Te lo prometto, nonno - rispose - Però... -
- Però? -
Kevin deglutì.
- Per quanto i fiori mi possano aiutare... - disse, con voce tremante - Non so se riuscirò mai a smettere... di avere paura della gente... -




Sette anni dopo
Anno XXXX, Novembre, Giorno XX


Nonostante l'anomalo prolungarsi del caldo estivo nei mesi di Settembre ed Ottobre, la stagione fredda aveva finalmente deciso di arrivare.
E col freddo erano giunte anche le principali preoccupazioni per qualcuno come Kevin Claythorne.
La sua classe era provvista di finestre dal bordo abbastanza ampio da permettere il posizionamento di alcuni piccoli vasi da fiore.
La sua proposta di inserirne qualcuno per migliorare l'ambiente era stata accolta calorosamente dagli insegnanti, soprattutto per il fatto che Kevin aveva dichiarato di volersene occupare personalmente, sobbarcandosi ogni responsabilità.
E così, alla fine di ogni giornata di lezioni, Kevin estraeva il grosso innaffiatoio azzurro custodito nell'armadietto della classe, lo riempiva d'acqua alla fontanella più vicina, e passava ad abbeverare quelle piante che oramai considerava parte integrante della propria vita scolastica.
L'arrivo dell'autunno, e successivamente dell'inverno, avrebbe costituito la sfida più complicata da gestire.
Poggiando delicatamente l'innaffiatoio sul bordo dei vasi, il giovane Claythorne pensò più volte a come trovare una soluzione.
La scuola avrebbe chiuso i cancelli a causa delle vacanze natalizie, e di certo non avrebbe potuto riscuotere il permesso di accedervi unicamente per quella mansione.
Considerò di prendere i recipienti verso gli ultimi giorni di scuola e portarli con sé a casa, ma questa era già traboccante di vasi sparsi ovunque.
Trovare spazio sarebbe stato complicato.
Rimuginando ancora e ancora, Kevin si chiese se ci fosse davvero una soluzione comoda e fattibile a quel problema.
I fiori non avrebbero resistito al gelo di fine anno senza le cure necessarie. E, ricordò il ragazzo, erano sotto la sua responsabilità.
"Che fare, che fare?" sospirò.
Poi, ebbe un'idea. Fortunatamente, la sua passione era condivisa dal suo familiare più vicino.
Chiedere a nonno Graham di fare spazio nel negozio per un capriccio personale gli sembrava una proposta inadeguata, ma quantomai sensata.
Ritenne che l'anziano fioraio non avrebbe disdegnato qualche vaso in più per appena tre settimane.
Ancora preso dal suo piano e dai suoi ragionamenti, Kevin si distrasse a tal punto che non udì la porta aprirsi alle sue spalle.
Si rese conto di non essere più solo quando udì un ridacchiare fastidioso dietro di sé.
Si voltò con la piena consapevolezza di chi aveva di fronte.
Tre volti tronfi e colmi di superbia lo stavano squadrando con aria di sufficienza. Il grugno storto di quello che era palesemente il capo borbottò qualcosa.
- Ecco Kevin, puntuale ed impeccabile! - fece in tono canzonatorio.
- Anthony... - lo salutò Kevin, tentando in tutti i modi di ignorarlo - Cosa posso fare per te? -
Udì un'altra risata. I suoi due gorilla non brillavano per acume, ma almeno lo pareggiavano quanto allo snervante rumore delle loro mandibole.
Era ovvio che trovassero nella situazione attuale un elemento comico che Kevin non riusciva ad individuare.
Anthony si appoggiò ad un banco, osservando la scena.
- Che innaffiatoio grosso! Ce la fai da solo? -
- Perfettamente. Cosa volete da me? - ribatté Kevin.
- Eravamo curiosi di sapere come te la passassi ogni giorno dopo la scuola, chiuso qui per almeno venti minuti - disse - Sai quante storie circolano sul tuo conto? -
Kevin sospirò, alzando gli occhi al soffitto.
- Chissà quante, eh? E quante ne hai inventate tu solo per far girare strani aneddoti sul mio conto? -
- Me? Mi stai forse accusando? Guarda che mi offendo! - ridacchiò, seguito a ruota dagli altri due.
La conversazione non stava andando da nessuna parte; o, per meglio dire, in nessun modo Kevin riusciva a provare interesse nel continuarla.
Si limitò a continuare ad innaffiare le piante senza degnarli di uno sguardo.
Anthony colse la sfida al volo senza esitare.
- Sai, c'è chi dice che vieni qui perché soffri di chissà quale strano disturbo da sociopatico - fece uno degli altri due.
- Dici bene, Sal. E' quella più popolare - fece Anthony - Ma non quella più divertente! -
- Già, gira voce che ti porti dietro delle ragazze per fare cosette private in tutta tranquillità... - commentò il terzo - Bravo! Astuto! -
Kevin continuò imperterrito il duro lavoro da imperscrutabile eremita. Il ronzio stava, tuttavia, diventando sempre più forte e difficile da sopportare.
- Suvvia, suvvia, sappiamo tutti che quella è una storiella priva di fondamento! - Anthony mostrò falsamente alcuni riguardi.
A quel punto, i due compari dovettero trattenere a stento le lacrime dal ridere.
Kevin rilassò una vena che si stava lentamente gonfiando; inspirò e tentò di lasciar correre ogni commento futile.
Poi, però, avvertì la mano grassoccia di Anthony sulla propria spalla.
Si voltò di scatto per vedere la sua faccia pericolosamente vicina al suo orecchio.
- Dopotutto lo sa l'intera scuola che ti piace il cazzo. Dico bene, Kevin? -
Claythorne si scostò bruscamente.
- Come!? Che diavolo dici!? - obiettò lui.
- Come, come? Lo stai negando? - sbottò l'altro - Suvvia, i segnali ci sono tutti! A partire da quella bella chioma bionda fluente -
D'istinto, si tirò indietro i capelli. Era un colpo basso bello e buono.
- Stai dicendo idiozie. Nemmeno mi conosci -
- Che bisogno c'è di conoscerti? Sei un misantropo che passa tutto il giorno attorno ai fiorellini! Ad un paio di tette preferisci le begonie, eh!? -
L'eccessiva volgarità della conversazione aveva preso una svolta tremendamente irritante.
Kevin decise definitivamente di lasciar perdere. Posò rapidamente l'innaffiatoio nell'armadio e si avviò verso l'uscita.
Ma, come temeva, il gruppo dei suoi tre aguzzini non era intenzionato a lasciarlo passare.
- Fate largo... - sbottò lui.
- Perché tanta fretta, Claythorne? - fece Sal - Non ci starai dando ragione, spero? -
- Non ho proprio niente da dirvi -
- Dai, Kevin, perché non ti liberi da questo peso? Ammetti che sei una checca repressa, ti farà stare bene! -
Il biondo dovette fare diversi respiri per mantenere il controllo delle proprie emozioni.
"Calma, Kevin, segui i consigli del nonno. Rilassati... Anemone... Vischio... Tulipano..."
Immagini degli scaffali del negozio di Graham iniziarono a formarsi nella sua mente, rischiarandone i pensieri.
Il tempo apparve come quasi fermo.
Kevin ne avvertì il profumo e il colore come se quei fiori fossero davvero lì.
L'espediente calmante della famiglia Claythorne aveva avuto nuovamente effetto.
- Se avete finito, io me ne andrei a casa - disse, infine, perentorio.
- Aww, vai di fretta, vedo. Ma guarda che noi siamo venuti qui per aiutarti... - il tono della voce di Anthony si era riempito di malizia.
- Non vedo come voi buffoni possiate mai avere un movente positivo. Ora, lasciatemi andare - 
Kevin tentò di divincolarsi, ma un movimento sospetto del capo del gruppo lo mise in allerta.
- Ti dimostro cosa voglio dire. Se vuoi smettere di essere un debole devi liberarti di queste distrazioni idiote. Ecco, così! -
A quelle parole, Anthony commise ciò che si rivelò essere un grave errore.
Allungò la mano verso uno dei vasi sul bordo del balconcino e si limitò a dare una spinta abbastanza forte da farlo ruzzolare.
L'ultima cosa che Kevin avvertì prima di perdere la pazienza fu il suono di ceramica infranta sul terreno.
Dopo di ciò, il suo corpo si mosse da solo.
Con uno scatto repentino, si portò su Anthony dandogli una forte spallata con tutta la propria energia.
Questi finì con la schiena sulla finestra, ancora incredulo.
La potenza muscolare del giovane botanico non era sufficiente nemmeno a fargli male, ma la sua reazione lo aveva decisamente colpito.
Gli altri due rimasero attoniti, a guardare.
Kevin, ancora ansimando, sfoggiò uno sguardo rabbioso.
- Perché...!? Perché lo hai fatto!? - urlò - Che motivo avevi!? Li hai distrutti in modo vergognoso! -
- Te l'ho detto, era per impartirti una lezione. Ed ecco che arriva anche il secondo insegnamento -
Ancora prima di capire cosa intendesse dire, il pugno di Anthony lo colpì in pieno stomaco, costringendolo in ginocchio.
Poi, ancora dolorante, avvertì un calcio sulla sezione sinistra del cranio e un altro ancora sulla schiena.
Ridotto uno straccio, sentì il rumore di altri vasi disintegrati sul ciglio della strada sottostante.
Incapace di reagire, si limitò ad emettere un fiato di dolore.
Ascoltò il rumore di tre paia di passi allontanarsi di corsa dalla stanza.
- Te la sei cercata, Claythorne - fece una voce già distante - Questa lezioncina la offre la casa: se vuoi picchiare qualcuno, assicurati che non sia forte il triplo di te -
Kevin riuscì a mettersi a sedere dopo almeno quattro o cinque minuti.
Delle piante sul davanzale non vi era nessuna traccia.
Si rese conto di star piangendo copiosamente, senza riuscire a trattenersi.
Aveva fin troppi motivi per farlo, ma non riuscì a computare a cosa attribuire quell'esplosione di tristezza. Probabilmente a diverse vicende a ridosso.
Si alzò e zoppicò fino all'uscita della classe.
Da lì, prese a correre verso l'uscita, e poi verso casa, senza mai voltarsi indietro.




Graham appoggiò delicatamente il coperchio sulla sommità della teiera, facendo in modo che il calore non di disperdesse.
Aveva riempito il vassoio con una gran quantità di leccornie e il suo tè migliore; un allettante invito che in pochi avrebbero potuto rifiutare.
Conosceva abbastanza bene il nipote da sapere come prenderlo nei momenti di crisi; aveva però il timore che in quella occasione sarebbe stato tutto più difficile.
Guardò il calendario con aria affranta: erano passati oramai cinque giorni da quando Kevin era tornato a casa da scuola per poi rinchiudersi in camera sua, rifiutandosi categoricamente di uscire se non per andare in bagno o per quel pochissimo cibo che ingeriva.
Non aveva nemmeno proferito parola: per comprendere cosa fosse successo, Graham fu costretto a recarsi personalmente a scuola ed informarsi sull'accaduto.
Che il nipote avesse avuto problemi di bullismo in passato era un'informazione nota, ma nonostante le numerose battaglie combattute da Graham per porre fine a quel nefasto fenomeno i risultati erano sempre stati deludenti.
Troppe voci che tacevano, troppi volti che fingevano di non vedere.
Troppa ipocrisia, pensava Graham Claythorne, per far cessare un fenomeno simile.
Si diresse verso la stanza di Kevin, quatto e a passo lieve, sperando che quel tentativo non si concludesse nell'ennesimo rifiuto da parte del nipote di comunicare.
Con sua grande sorpresa, scoprì che la porta era aperta; Kevin non si era chiuso dentro.
- Kevin? Posso entrare? - disse, ma siccome non ottenne risposta decise di entrare lo stesso.
Ciò che vide davanti a sé lo sbalordì; quasi perse la presa sul vassoio.
Kevin giaceva ai piedi del letto con la testa affondata tra le gambe e gli occhi arrossati; la chioma bionda e fluente era sparita.
Rimasugli di capelli biondicci erano rimasti sul pavimento, circondando la sua figura.
La sua testa mostrava un taglio più corto, pulito e sistemato. Da un lato era quasi una vista piacevole, ma dall'altro provocò in Graham una sensazione sgradevole.
Quel ragazzo non sembrava più nemmeno suo nipote.
- Kevin, che hai fatto ai capelli...? - 
- Mi sembra scontato... - sussurrò lui - Li ho tagliati -
- Lo ho notato. Ma perché? - appoggiò il vassoio sul comodino e gli si avvicinò - Ti sono sempre piaciuti così tanto -
Kevin gli mostrò uno sguardo più morto che vivo.
- Sì, mi piacevano... ma mi provocavano più guai che altro... - disse con tono spento.
- C'entra ancora quella faccenda dei bulli...? Ti hanno costretto a farlo? -
- No, è stata una mia scelta - disse, contraendo il volto - Sono stufo di sembrare una ragazza... nessuno mi porterà mai rispetto se continuo a sembrare così... -
- "Così"? Così come? Te stesso? Stai ripudiando ciò che sei per piacere alla gente? - il tono di Graham si era fatto più severo, ma mantenendo la dolcezza del suo animo.
Gli occhi di Kevin mostrarono una reazione più che evidente a quella verità.
- Non voglio piacere agli altri! Voglio solo che mi lascino in pace! - disse, esasperato - Ma perché non posso vivere tranquillo!? C'è sempre qualcuno che mi fa sentire un alieno! -
- Kevin, hai incontrato molte difficoltà, ma non puoi certo generalizzare la cosa a tutte le pers-... -
- E PERCHE' NON DOVREI!? Tutti mi trattano come se si aspettassero che io sia forte! Ma perché!? Perché sono un uomo!? Si aspettano che io sia "forte" ed "audace" perché sono nato così? Sarebbe stato molto più semplice nascere del sesso opposto! Almeno lì il mio carattere sarebbe... giustificato! -
Il cuore di Graham gli si strinse. Era la prima volta in tutta la sua vita che assisteva ad uno sfogo così potente e disperato da parte del nipote.
- Kevin, ti prego... calmati... -
- Ma hai idea...!? - singhiozzò lui - Hai idea di cosa voglia dire il non poter PIANGERE liberamente perché la gente si aspetta di vederti forte!? Non appena mostro un attimo di debolezza, sono tutti pronti a saltarmi addosso, a scannarmi vivo! Li odio, LI ODIO TUTTI! ODIO LE PERSONE...! -
- Odi... anche me? - e in quel momento, lo strepitare incontrollato di Kevin cessò - Anche io ti faccio sentire così...? -
Kevin Claythorne mostrò nella propria espressione un forte rammarico e vergogna. Scosse il capo più volte.
- No... sei... l'unico a cui voglia bene... sei l'unico che mi accetta, che mi fa sentire a casa... -
A quel punto, Kevin non fu l'unico a doversi asciugare le lacrime.
Il nonno gli si sedette di fianco e gli allungò il braccio grassoccio attorno alla spalla, cingendolo a sé.
Stettero in silenzio per alcuni secondi.
- Mi dispiace, nonno... ho provato con il metodo "Claythorne", ma non ce l'ho fatta... - singhiozzò lui. 
- Non importa, Kevin. Non ti chiederò di sopprimere le tue emozioni solo per calmarti. Se vuoi piangere, fallo pure. Sappi che io ti accetterò sempre e comunque. Ci siamo intesi? -
- Intesi - sorrise lui, e per la prima volta, quella settimana, il suo volto apparve rischiarato.
Trascorsero diversi minuti senza che nessuno aprisse bocca. Lasciarono che l'aroma del tè si propagasse nella stanza e rilassasse i loro sensi intorpiditi dal malumore.
Ad un tratto, Graham fece avanzare la mano fino al comodino, avvicinando il vassoio.
Kevin intuì che il nonno stesse cercando nuovamente di consolarlo con le sue prelibatezze; tecnica comunque estremamente solida ed efficace, anche in quel caso.
Ma, invece dei biscotti e delle tazze, ne estrasse qualcos'altro.
Kevin notò che vi era un oggetto cartaceo appoggiato tra la zuccheriera e i fazzoletti ricamati a mano: una lettera.
Il nonno gliela porse con un sorriso caldo; Kevin, però, ancora non capiva.
- Cos'è? - chiese, incuriosito.
- Su, leggi -
Il ragazzo, dapprima, la esaminò. Vi era un sigillo in cera a sigillare la busta con un'effige peculiare; aveva l'aria di essere importante.
Lo rimosse e passò a scartarla per rivelarne il contenuto.
Quando aprì la lettera, si rese finalmente conto del dove e quando aveva già visto il marchio sul sigillo.
L'emblema della Hope's Peak era stato stampato sul fronte e il retro della missiva, torreggiando sopra la piccola calligrafia che costituiva il messaggio.
L'istituto aveva acquistato una certa fama, ed era oramai impossibile non conoscerlo anche solo per sentito dire.
Ma ciò che lo sorprese di più di tutto quello era la presenza del suo some in fondo all'epistola.
- Ma questo è...! -
- Un invito, mi sembra. Dico bene? - ridacchiò il nonno.
- E' impossibile... deve esserci un errore...! - Kevin rabbrividì - Come potrebbero aver chiesto a ME di...!? -
- Leggi attentamente - gli disse, indicandogli una postilla a fine paragrafo - Hanno tutti i motivi per volere te, Kevin -
Ciò a cui Graham stava puntando era un inserto dove definivano l'invitato come candidato per il titolo di "Ultimate Botanist".
Le mani di Kevin tremarono.
- Quando... come...? -
- Ricordi quel saggio che pubblicasti sulla possibilità di far sviluppare Ortensie anche nei mesi invernali? - gli ricordò lui - Beh, sembra che qualcuno abbia scoperto che a scriverlo era un timido ragazzetto di appena diciassette o diciotto anni. E non era che una delle tante cose a cui hai contribuito. Non crederai che alla Hope's Peak si lascino sfuggire un talento del genere, no? -
- Ma cosa dici, nonno!? Lì sono tutte persone fuori dal comune! - disse, rigettandone il pensiero - Uno come me...! -
- Uno come te rientrerebbe perfettamente nella norma, Kevin. Smetti di porti limiti inesistenti o trovare scuse insensate: sei un genio della floricoltura. E questa gente te lo sta riconoscendo, capisci? -
Rimasto senza parole, si limitò a chiedere un'ultima cosa.
- Quando è arrivata...? -
- L'altro ieri. Ho provato a dartela, ma non eri intenzionato ad uscire -
- E credi... credi che dovrei...? -
A quel punto, Graham gli diede una vigorosa pacca sulla schiena.
Quasi lo fece capitolare, più dallo stupore che per altro. L'anziano si era messo a ridere.
- Hah! Questa è buona! Se dovresti!? Certo che sì! - gli disse, poi calmandosi - Vedila come un'altra opportunità. Potrai conoscere tante persone che riconoscono e rispettano le tue qualità. Potresti finalmente cambiare giudizio sul mondo, Kevin, e scoprire che non sono tutti così marci -
Il biondo rigirò tra le mani la lettera, rimuginando attentamente sul da farsi.
Per quanto ci pensasse su, però, la risposta gli appariva come scontata ed evidente.
- Dici... dici che potrò farmi degli amici? -
Graham evitò di scoppiare nuovamente a ridere, ma mostrò i trentadue denti giallastri in un sorriso ampio e giocondo.
- Assolutamente! Incontrerai la crema della società, gente al tuo livello! - disse, colmo d'orgoglio - Ah, credo di stare per commuovermi...! Il mio nipotino ha fatto così tanta strada! Se ti vedesse tua madre...! -
- Forse mi dai troppo credito - rise lui.
- Forse tu te ne dai troppo poco - ribatté - Allora? Ci stai? Guarda che l'onore di "Claythorne's" dipende da te, eh!? -
Kevin ne avvertì lo scherzo e la premura.
Sapeva di non aver bisogno di altre spinte. La sua mente era decisa.
Lasciò cadere la missiva a terra e si gettò di corpo sul nonno, abbracciandolo.
- Grazie, nonno Graham... -
Lui lo carezzò. Fu strano non avvertire la morbidezza dei suoi capelli, oramai accorciati, ma non gli importò.
Quel giorno, Graham Claythorne sentì che il nipote aveva ottenuto qualcosa di più importante: un po' di speranza.
- Andrà tutto bene, Kevin. Vedrai... - gli sussurrò, cullandolo - Andrà tutto bene -


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Capitolo 37
*** Capitolo 4 - Parte 6 ***


L'atmosfera burrascosa del processo si acquietò di colpo, come in un lampo.
Il febbricitante e confuso borbottio di Kevin si era lentamente deperito fino a spegnersi, parola dopo parola, fiore dopo fiore.
I rimanenti compagni osservarono come una notevole perdita di colorito accompagnò passo passo la decadenza verbale, facendo di Kevin un ammasso sconvolto di emozioni instabili.
Xavier avrebbe voluto non assistere a quella scena una quarta volta: il momento fatidico si avvicinava inesorabile.
Un compagno aveva commesso un omicidio, e l'atto era stato smascherato. Ancora una volta, tutto ciò che rimaneva da fare era ascoltare ciò che aveva da dire mentre la porta della Sala delle Punizioni torreggiava incombente, ricordando loro di essere lì, che non se ne era mai andata.
Il tempo che stavano trascorrendo non era altro che la calma prima della tempesta finale: un attimo di respiro prima del giudizio.
"Giudizio" era una parola ricorrente nella vita professionale di Judith Flourish, ma mai aveva assaporato un tale disgusto nei confronti di quel vocabolo.
Judith non riuscì a fare a meno di provare pietà per l'Ultimate Botanist, crollato sulle proprie ginocchia, ed al contempo un odio viscerale nei confronti di quel processo senza né giustizia né equità. Un posto che raffigurava un'ente legislativo solo in apparenza, ma che di legale aveva ben poco.
Judith ripensò ad ogni caduto di quell'assurdo gioco al massacro: Alvin, Hayley, Rickard e Kevin non erano che altre vittime di quel sistema infame, considerò lei.
Michael osservò la scena in silenzio, come ogni volta. Gli risultò difficile provare empatia per il carnefice; ma avvertì qualcosa di diverso, quel giorno.
Qualcosa, dentro di lui, che gli impediva di concentrare tutto il proprio odio su Kevin Claythorne.
Qualcosa che, senza nemmeno rendersene conto, gli aveva aperto un punto di vista diverso. Cosa fosse, però, Michael Schwarz lo ignorava.
Anche Karol Clouds, dall'altro lato, stava facendo i conti con una parte di sé particolarmente ambigua e contrastante.
Il greve rantolare di Hillary nel corso dei suoi ultimi momenti erano marchiati a fuoco nella sua mente; un'immagine perennemente impressa che non poteva andarsene.
Karol aveva impiegato ogni fibra del suo cervello per capire chi fosse il responsabile, ma nel trovarselo di fronte non seppe come reagire.
Non seppe se odiarlo o, dando nuovamente retta al proprio talento e alla propria natura, perdonarlo.
Sapeva che Hillary era morta in modo atroce, e l'artefice del suo delitto giaceva a pochi metri da lui, inerte e devastato.
Un conflitto acceso avvenne, silenziosamente, nel cuore dell'Ultimate Teacher.
June Harrier, dal canto suo, sentì le mani contrarsi, ma allo stesso tempo perdendo ogni energia.
Ricordò il malsano piacere provato nel colpire la morbida gota di Michael con tutto il potere del proprio disprezzo: una sensazione piacevole e magnifica, guidata da un sentimento che June sapeva essere errato. In quel momento, le sue mani non si mossero.
Non vi era niente di buono che June riuscisse a provare nel colpire Kevin, nulla di così doloroso come ciò che tutti i presenti stavano sentendo.
Non vi era piacere, pensò June, nel colpire un amico; nonostante questi fosse un assassino.
A quel punto, Pearl e Pierce si fecero avanti; furono gli unici ad avere il coraggio di muovere dei passi verso il guscio vuoto lasciato da Claythorne.
Pearl si chinò in ginocchio, prendendolo per un braccio; Pierce lo aiutò ad alzarsi.
- Kevin, dai... mettiti in piedi - gli disse Pearl - Affrontaci con dignità... -
Un concetto forzato espresso con parole crude, ma sortì il suo effetto.
Gli occhi di Kevin guizzarono verso di loro, ancora spenti e opachi.
- Dignità...? Dovrei... morire con dignità...? - chiese con un filo di voce.
Non vi era risposta che potesse soddisfare quel quesito.
- Nessuno, qui vuole morire. Nemmeno Hillary voleva, eppure... - 
- Già, Hillary... - deglutì Kevin.
Pierce soffocò un pianto liberatorio, tentando in tutti i modi di mostrarsi forte.
- Perché, Kevin...? - sospirò lui - Perché la hai uccisa...!? -
Calò nuovamente un pesante silenzio: Pierce si era fatto carico della domanda più scomoda.
- Perché!? Dimmi perché! - insistette.
- Perché la ho uccisa...? - Kevin strinse i pugni - No... vi sbagliate... non doveva andare a finire così... non doveva...! -
- Volevi uccidere Vivian... - disse Xavier, scuotendo il capo - Hillary è stata una vittima collaterale, ma il tuo piano era di eliminare Vivian. Ma perché, Kevin...? -
- PERCHE'...!? - l'improvviso urlo lasciò tutti sgomenti - Perché, perché!? Perché io ero il PROSSIMO, ECCO PERCHE'! -
Judith intervenne, seppure spaventata.
- Ma di cosa parli...? -
- Ma non capite...!? NON CAPITE!? Tutto sta andando secondo i piani di Monokuma, il gioco al massacro ci ucciderà TUTTI! TUTTI! Perché parlare di fiducia quando CHIUNQUE può essere un assassino!? -
- Ti è dato di volta il cervello... - disse Michael, sprezzante - Sei diventato un burattino del tuo stesso terrore -
- Un terrore FONDATO! - strepitò lui - E' sempre così, OVUNQUE io vada! Sono sempre il più debole, sempre il più gracile! Ma nessuno può aiutarmi, perché qui siamo TUTTI NEMICI! Quanto tempo... eh? Quanto tempo sarebbe passato prima che uno di voi avrebbe tentato di uccidermi!? QUANTO!? E non venitemi a dire cose... cose come... "e' impossibile", oppure "non accadrà più"...! Accadrà di NUOVO! Vi sareste mai aspettati che Alvin, Hayley e Rickard potessero uccidere qualcuno!? NO! PERCHE' CHIUNQUE PUO' UCCIDERE! Ed era solo... solo questione di tempo prima che io diventassi... la nuova... vittima... -
- Hai ucciso una persona... perché avevi paura di morire...? - contemplò Karol.
- Lo trovi così assurdo, Prof? - sbottò Michael - A pensarci adesso, si direbbe che Kevin sia il più umano di tutti noi. Non aveva davvero un motivo alto, nobile o chissà  cosa. Solo paura: paura allo stato puro -
- Da come ne parli sembra quasi tu lo stia giustificando, Mike... - lo imbeccò Xavier.
Michael si voltò di spalle.
- Forse... un po' riesco a capirlo... - rispose l'Ultimate Chemist, prima di tacere definitivamente.
Kevin, scoppiato nuovamente a piangere, tirò su col naso.
- Paura... paura... eh? Ho vissuto tutta la vita ad avere paura della gente... - mormorò - Sapevo che, prima o poi, qualcuno mi avrebbe tradito... così, io... io...! -
- Kevin... - la voce di Pearl si fece strada attraverso le lacrime del ragazzo - Ricordi questo...? -
Con enorme sorpresa dell'Ultimate Botanist, Pearl Crowngale tirò fuori dalla tasca della giacca un piccolo stelo avvolto in carta umidiccia.
Sulla sommità vi erano degli accesi e colorati petali blu, di una tonalità vivace e profonda.
Un'espressione esterrefatta si dipinse sul volto di Kevin.
- Quella... -
- Un'Ortensia Blu. Una di quelle che mi hai regalato, ricordi...? - sussurrò Pearl - Me la desti in segno di gratitudine... ti prego, Kevin, dimmi che non era una menzogna.
Era tutto un trucco per fare in modo che mi fidassi di te? Era quello il tuo scopo? -
Il biondo non rispose; i suoi occhi, però, parlarono per lui.
Ma Pearl Crowngale aveva imparato già da molti anni a dubitare degli sguardi. Le motivazioni di Claythorne rimasero un mistero.
A propria volta, Judith Flourish pregò affinché le parole che l'Ultimate Botanist le aveva rivolto durante le indagini non fossero soltanto frutto di un desiderio di autoconservazione.
- Voglio credere che dentro di te ci sia ancora un briciolo di umanità, Kevin... - disse, appoggiando l'Ortensia tra le mani tremanti dell'assassino - Voglio credere che la morte di Hillary non sia stata inutile... per quanto la mia speranza sia probabilmente vana... -
- "Umanità"... - la voce di Michael riapparve - La poveretta è morta contorcendosi dal dolore...! Un omicidio che ha ben poco di umano, a mio dire...! -
- NO! - la voce di Kevin penetrò la discussione - No, ti sbagli... non doveva andare così... -
- Cosa intendi, Kevin...? - chiese June, speranzosa di trovare anche solo un minuscolo spiraglio di motivazione.
- Avevo mescolato alla cedrata un sonnifero speciale... - raccontò lui - Vivian si sarebbe addormentata... e sarebbe morta senza sentire alcun dolore... pacificamente, senza soffrire... -
Vi fu un momento di pesante silenzio e sconforto.
- Ma Hillary ha assorbito solo le tossine... - deglutì Pierce.
- E immagino che Rickard ne avesse bevuto troppo poco... - commentò Karol, scuotendo la testa.
- Ecco che cos'era quella boccetta in dispensa...! - June sussultò - Tu avevi... -
A quel punto, Kevin si alzò in piedi.
Avvertì gli sguardi di tutti i compagni su di lui, pesanti e colmi di giudizio.
- Io... avevo paura di tutti voi... la ho ancora, sarò onesto - gemette - Ma... non volevo che soffrisse... non volevo provocare nessuna sofferenza... volevo solo... uscire da qui! -
- Anche a costo di ucciderci... - ne seguì Xavier, assistendo ad una confessione completamente fuori dal comune.
L'Ultimate Botanist alzò la testa; il suo volto paonazzo sembrava sul punto di esplodere.
- Sì... ho tentato di uccidervi... - fremette lui - Non potevo stare fermo ed attendere di essere assassinato da uno di voi... o dal traditore -
A quelle parole, l'intero gruppo sussultò.
- Il... traditore! - esclamò Judith - Kevin, hai scoperto qualcosa!? -
- No, certo che no... - rispose, tremando - Ma oramai siamo rimasti in pochi... come diavolo fate a restare calmi sapendo che una delle persone in questa stanza E' UNA SPIA!? Guardateci! Siamo appena OTTO! Potrebbe essere CHIUNQUE! Chiunque di noi potrebbe esserlo...! E se la sta ridendo, adesso che... adesso che sa che sto per MORIRE! -
Nessuno lo aveva dimenticato.
Non uno di loro aveva rimosso dalla mente che il tempo stava pericolosamente scorrendo, ed era poco.
Dalla Sala delle Punizioni si udì un cigolio sospetto e poco rassicurante, e lo schermo principale del tribunale si attivò.
Come previsto, il volto ridanciano di Monokuma fece nuovamente la sua comparsa, portando con sé un alone di sconforto e paura.
- Una performance davvero notevole, Ultimate Botanist! - si congratulò lui - Tu sì che hai compreso il vero spirito di questa scuola: non fidarti di nessuno, abbi paura di tutti! E non dimenticare che uno tra voi è una spia! Davvero splendido, Kevin! Una vera disperazione genuina! Peccato che ti sia andata male... -
- M-Monokuma... - Kevin tremò, sudando copiosamente - No... no, ti prego...! -
- Oh!? Cosa vai pregando!? Sapevi bene a cosa andavi incontro quando hai riempito quella bottiglia di veleno! - lo rimproverò l'orso.
- NO! Io non posso morire, NON VOGLIO! - urlò, cercando disperatamente un'uscita di emergenza inesistente - Devo tornare dal nonno...! Devo... devo dirgli che...! -
- Lo hai detto tu stesso, Kevin! - ribadì Monokuma - Chiunque può tradirti, chiunque può ucciderti! Anche TU, Kevin! Sei diventato ciò di cui avevi paura, e ora ne paghi le conseguenze! -
Gli occhi di Kevin incrociarono istintivamente quelli vicini di Pearl; la ninja riuscì ad intravedere la palese e silenziosa supplica di aiuto rivolta verso di lei.
Ma entrambi sapevano bene che non vi era nulla da fare; persino Judith si trattenne, rimanendo ferma. L'ultimatum di Monokuma era stato chiaro.
Bastò poco prima che gli arti meccanici di cui era munita la Sala delle Punizioni entrassero in azione, ghermendo la loro quarta vittima.
Kevin si ritrovò ad essere trascinato verso un inquietante buio di vuoto ed oblio, le urla soffocate da un braccio meccanizzato.
D'istinto, Judith Floruish avvertì le gambe muovere un passo in avanti: la sua tolleranza stava per raggiungere il limite.
I volti terrorizzati di Hayley e Rickard erano stati sufficienti: vedere Kevin allo stesso modo fu un peso troppo grave da reggere.
Fece per avanzare ancora, quando una stretta poderosa al polso la costrinse a fermarsi.
La mano di Xavier la tenne saldamente a sé.
- Judith, no... - sussurrò lui - Non morirai anche tu. Non così -
L'Ultimate Lawyer fu profondamente combattuta tra il divincolarsi, ignorandolo, e il seguire il buon senso.
La mano le tremò per un istante, ma alla fine si arrese.
- Non devi guardare per forza... - la rassicurò lui.
- No. Invece devo... - disse, trattenendo ogni lacrima.
Lo stridere delle unghie di Kevin sul pavimento continuò fino a che la porta della Sala non si richiuse davanti a lui.
Intravide, nell'ultimo spiraglio di luce rimasto, i volti dei compagni rimasti.
Pierce, divorato dal terrore, e June dal rimorso.
Pearl, vinta dalla pietà, così come Karol che tentava invano di accettarlo.
Michael, voltatosi di lato, con uno sguardo apparentemente triste.
Nessuno, però, mostrò odio. Solo un acuto, doloroso senso di impotenza.
- Ho preparato una punizione speciale per Kevin Claythorne, Ultimate Botanist! - l'eco della voce di Monokuma rimbombò nell'intera stanza.
Ma nessuno poté udire la nefasta frase; le urla del colpevole coprirono ogni altra fonte sonora con uno stridio straziante.
Poi, tutto cessò.
Kevin Claythorne sparì nell'oscurità, senza mai più fare ritorno.
Vi era un peculiare aroma floreale, nell'aria.




Una volta riaperti gli occhi, Kevin si rese conto che il paesaggio era drasticamente cambiato.
Ogni cosa, che fossero colori, profumi e sensazioni, era completamente differente da ciò che era abituato a vedere nella scuola.
Gli sembrò di non essere più nemmeno in quella gigantesca prigione.
Le sua mani tastarono il pavimento: era soffice e fresco. Si trattava di un prato.
Un largo e vasto prato dove crescevano i fiori più disparati e dalle cromature più variegate.
Gli parve quasi di essere in un sogno, una meravigliosa realtà onirica per sfuggire alla dura verità.
O almeno ad un primo sguardo: la vera natura di quel posto non tardò a rivelarsi.
Kevin si rese conto di essere legato saldamente a qualcosa; delle grosse e pesanti catene lo tenevano incollato ad una superficie ruvida e nodosa.
Sentì un prurito lungo la schiena, e guardò in alto.
Ciò a cui era vincolato era il fusto di un enorme albero.
Sopra di lui, in lontananza, scorse le finestre del tribunale dal quale i suoi compagni stavano osservando la scena con espressioni inorridite e terrorizzate.
In mezzo al prato, spuntava un cartello sospetto con sopra incisa una scritta in inchiostro rosso: "GARDEN OF INNOCENCE".
Kevin Claythorne rabbrividì: quel giardino così pacifico altro non era che l'ennesima forma assunta dalla Sala delle Punizioni.
Tentò inutilmente di divincolarsi dalla morsa d'acciaio fino a che un rumore rombante e terrificante non lo sorprese.
Avvertì il tronco vibrare intensamente, fino a vacillare.
Girò lo sguardo; impallidì.
Una gigantesca sega circolare stava tranciando il tronco, sezionandolo orizzontalmente.
La dentatura metallica si fece strada attraverso il legno come fosse burro, avanzando lenta ed inesorabile.
L'Ultimate Botanist forzò ogni muscolo e fibra del proprio corpo nel vano tentativo di liberarsi, per sfuggire alla morte che lo stava per raggiungere.
Graffiò furiosamente il legno, arrivò persino a mordere le catene; ad ogni mossa, la speranza andava attenuandosi.
Bastarono una manciata di secondi prima che avvertisse il metallo incandescente lacerargli le carni.
La sega iniziò a tranciarlo di netto, a partire dalla schiena; lancinanti urla di dolore vennero lanciate lungo tutto il prato, che tra i mille colori che presentava stava iniziando ad assumere un'inquietante tinta rossa.
Grida talmente forti che fecero tremare i vetri insonorizzati della Sala, facendo in modo che i sette sopravvissuti si pentissero ulteriormente di avere avuto il coraggio di guardare.
La tortura andò avanti fino a che la sega, improvvisamente, non cessò di muoversi.
Conficcata a metà nel corpo di Kevin, smise di girare e si arrestò.
Per un attimo fugace, Claythorne riuscì a smettere di gridare, sperando che un qualsiasi miracolo fosse intervenuto a porre fine a quello strazio.
Poi, tra uno sputo di sangue e copiose lacrime, osservò una sagoma scura protrarsi davanti al suo corpo martoriato.
Un'ombra: quella dell'albero.
Avanzò, allungandosi su tutto il prato.
In prima istanza, Kevin non capì. Troppo il dolore, troppa la confusione, così come la paura.
Realizzò solo quando fu troppo tardi: i suoi occhi erano spenti e frastornati. Ebbe il tempo di gridare un'ultima volta.
Avvertì il peso del legno schiacciargli le spalle, e in un paio di attimi si udì un tonfo.
L'albero era crollato in avanti, alzando un polverone di petali, erba e foglie.
Non si udì più niente, a parte lo scrosciare di un fiume rosso che andò a bagnare l'intero tronco collassato.
Un petalo di rosa ondeggiò dolcemente nell'aria, fino a posarsi con delicatezza su una chiazza di erba rossastra.
Non un filò di vento osò soffiare; il giardino rimase immobile, ed eternamente silenzioso.



L'ascensore cessò di muoversi con un arresto lento e silenzioso.
I sette sopravvissuti si ritrovarono a guardare i dormitori con volti stanchi e affaticati, oltre che privi di colore.
In un solo giorno avevano perso cinque persone; l'eclatante velocità con cui il loro numero era andato ad assottigliarsi aveva provocato un disagio crescente e pesante.
Pierce ripensò ancora una volta a ciò che Kevin aveva detto loro: era da tempo che la sua mente aveva estraniato il pensiero del traditore e la sua costante minaccia.
Occupati a risolvere il susseguirsi degli omicidi, gli studenti si erano trovati a dimenticare il dettaglio più importante.
L'Ultimate Sewer si guardò attorno; vi erano sei persone esattamente come lui: ognuno temeva di essere il prossimo ad abbandonare la partita.
- Cosa... cosa facciamo...? - sussurrò debolmente Pierce.
- Che cosa intendi? Abbiamo altra scelta? - sospirò Michael - Torneremo alle nostre attività, aspettando che un altro di noi venga ucciso. Non sono forse queste le regole del gioco? -
- Non è un gioco - 
Il chimico si girò verso Pearl; la sua voce era sprezzante e tagliente.
I suoi occhi gelidi erano tornati a fissarlo, irremovibili.
- Come, prego? -
- Non definirlo "gioco". La morte non è un gioco - disse - E' un massacro unilaterale, niente di più -
- Eppure... chiunque lo abbia organizzato di certo la pensa diversamente... - osservò June - Ci rinchiudono qui, ad ammazzarci tra noi in una sfida perversa. Per chiunque ci sia dietro... è solo un gioco, no...? Le nostre vite, coloro che sono morti... tutto è parte di un gioco? -
- E' il motivo per cui non intendo perdonare coloro che hanno reso possibile tutto questo - spiegò la ninja - Trattano le uccisioni come un diletto. Vedremo se saranno della stessa opinione quando la morte busserà alla loro porta -
A quelle parole, la mano di Pearl si contrasse in maniera visibilmente sospetta.
Judith deglutì a fatica.
- Hai... intenzione di uccidere il direttore di questa pazzia...? - chiese lei, spaventata.
- Mi sembra il minimo - rispose l'altra, senza esitare - Chi non ha rispetto per la morte non merita di vivere in prima istanza. Occhio per occhio -
- Immagino tu abbia ragione, Pearl - intervenne Xavier - Ma non prima di avergli estorto tutta la verità sul perché di questa follia. Dobbiamo comprendere il significato della nostra presenza qui, o coloro che sono morti non troveranno mai pace -
Judith, June e Pierce si trovarono d'accordo. Mostrarono palesemente che la mera sopravvivenza non sarebbe mai bastata loro. 
Andare fino in fondo alla questione divenne un'impellente prerogativa.
Alla fine, anche Pearl decise che avrebbe seguito quella linea di pensiero, ma la sua aura omicida non cessò di gettare paura ed apprensione sul resto del gruppo.
Ad un tratto, una voce discordante si unì al gruppo.
- E' tutto inutile - 
A parlare, come tutti ebbero intuito, era stato Michael.
- Immaginavo avresti fatto bastian contrario anche stavolta - puntualizzò Xavier - Ma perché? -
- Tutti voi state partendo dal presupposto che, ad un certo punto, incontreremo il Mastermind e lo faremo parlare. Ingenui; come sperate di trovarlo? - fece notare lui - Siamo rinchiusi in questa trappola senza uscita, con persone pronte ad ucciderci per scappare. Come pensate che il poter trovare il capo sia fattibile? -
- Oh, credimi. Prima o poi il momento arriverà - lo rassicurò Pearl - Il Mastermind è un essere umano, e in quanto tale potrebbe arrivare a commettere un errore, o un'imprudenza. E, in quel momento, arriverò a torcergli il collo -
- Bah, buona fortuna... ma non contate su di me... - disse il chimico, andandosene - Abbiamo perso fin troppe persone. Girate lo sguardo per cercare il Mastermind, anche solo per un attimo, e potreste ritrovarvi ad essere le prossime vittime -
Detto ciò, l'Ultimate Chemist sparì dietro la porta della propria stanza, lasciando dietro di sé un gruppo tormentato da ancora più dubbi.
- Che tipo... - commentò Pierce.
- Forse è davvero impossibile tentare di convincere Michael a collaborare... - disse Judith, avvilita.
- E' una persona che giudica in base ai risultati, non alle parole - asserì Xavier - Michael è un tipo pragmatico. Se riusciamo a dimostrargli che una via di fuga esiste, potrebbe considerare di unirsi a noi -
L'idea fu considerata bislacca, ma non da scartare. Le abilità di Michael si erano rivelate utili nel corso dei processi, ma il diretto interessato si era trovato ad usarle perché costretto, non per genuina benevolenza.
Si chiesero se fosse mai esistito un Michael Schwarz caritatevole e disponibile nei confronti di qualcuno; ma, dopotutto, le circostanze lo avrebbero difficilmente permesso.
- Ma... come facciamo col traditore? -
La domanda di Pierce era giunta al momento meno opportuno.
Gli altri mostrarono espressioni perplesse e dubbiose.
- Non... non lo so. Non ancora - sospirò Xavier - Ma se davvero uno di noi è un doppiogiochista... allora potrebbe avere informazioni cruciali su come uscire da qui, no? -
- N-non starai dicendo che... - Judith trasalì - Dovremmo concentrarci sul trovare la talpa...? -
- Io... credo che Kevin avesse ragione - rispose il detective - Il traditore ci osserva, e sta conducendo la sfida dove vuole lui -
- Kevin... - gemette Pierce.
La Sala delle Punizioni tornò a far riaffiorare ricordi spiacevoli nella sua mente: li scacciò via, forzandosi a dimenticare.
- Se lo trovassimo... allora forse avremmo una possibilità. Non trovate? -
Nessuno riuscì a rispondere immediatamente a quella proposta, principalmente perché voleva significare un dettaglio cruciale.
Sapevano che tra loro si nascondeva una spia, ma cercarla voleva dire dubitare nuovamente di tutto e tutti; ben poca differenza dalle indagini per i processi di classe.
Xavier notò la loro incertezza: era normale, considerando la situazione.
Ma, in mezzo al mare di confusione ed indecisione, una voce si fece strada e si assestò.
- Sono d'accordo -
Tutti si voltarono: a parlare era stato Karol, in silenzio fino a quel momento.
- Prof...? -
- Dobbiamo trovare il traditore. E' l'unico modo - annuì l'insegnante - Michael ha ragione: il Mastermind non uscirà MAI allo scoperto. Dobbiamo costringerlo a venire fuori, e l'unico modo è smascherare il traditore -
- Karol, aspetta...! - lo implorò Pierce - Ricordi le regole, no...? Per concludere la sfida, dobbiamo... -
- Le ricordo perfettamente. Per far cessare questa follia dobbiamo... uccidere la talpa. O costringerla a confessare, rimembri? Non dobbiamo ucciderla per forza, ma... potrebbe divenire un fattore... necessario -
Judith avvertì un brivido corrergli lungo la schiena.
- Karol... mi stai facendo paura... -
L'insegnante si irrigidì a quelle parole. Abbassò lo sguardo, come a mostrarsi sconfitto.
- Mi... rincresce di provocarti questa sensazione. Ma ho deciso - affermò - Ho fatto troppe promesse che sono stato incapace di rispettare. Hillary è... è morta con la convinzione che la avrei protetta. Kevin è morto anche se ho fatto di tutto per mantenerci uniti. E' chiaro che, in questo mondo assurdo e distorto che ci circonda, le parole di un insegnante non valgono nulla: ciò che contano sono i fatti. E io troverò la spia. La troverò, e ci porterò tutti fuori di qui. Io... DEVO trovarla! -
Finita la frase, l'Ultimate Teacher sparì lungo i corridoi del primo piano.
Incapaci di comprendere ciò che Karol Clouds avesse in mente di fare, il resto della combriccola decise di sciogliersi.
Un altro processo era terminato, e le loro energie erano state drenate così come i loro animi si erano indeboliti.
Era necessario del riposo.
Judith osservò June, Pierce e Pearl sparire nelle loro stanze, lasciandola da sola coi propri pensieri.
Lo sguardo terrorizzato di Kevin fece nuovamente breccia nella sua mente; si chiese se una paura tale potesse realmente spingere qualcuno all'omicidio anche in situazioni più convenzionali.
Per quanto l'assassinio potesse esserlo, considerò lei.
Ad un certo punto, avvertì un tocco familiare sulla sua spalla.
Si voltò di scatto; Xavier non aveva ancora lasciato l'area.
Il suo unico occhio la scrutò attentamente.
- Stai bene? - chiese lui.
Lei tentennò per un istante.
- Io... sì. Ma vedere tutte queste morti è debilitante... -
- E' vero, ma al contempo le stiamo prevenendo - disse - Kevin... quel poveretto era divorato dal terrore. Ma se non lo avessimo scoperto... -
- Saremmo morti tutti noi, sì... - Judith mostrò un sorriso storto ed ironico - Non esiste una risposta giusta, eh? -
- A che cosa? -
- Voglio dire: a prescindere dal risultato, qualcuno muore. Come potremmo dire che un esito è migliore di un altro se qualcuno ci rimette la vita? -
Rimasero in silenzio a pensare.
- No, non c'è una soluzione migliore -
- E' quello che temevo - sospirò lei - Stiamo andando avanti con la confidenza di stare optando per il male minore... ma sarà davvero così? -
- Voglio credere che lo sia, Judith - annuì lui, poco convinto - Altrimenti non sarei in grado di proseguire -
Stettero a rimuginare su quel concetto per diverso tempo.
Era una domanda che entrambi si erano posti da ben prima di quel momento; una domanda che probabilmente non avrebbe mai trovato un responso che potesse soddisfare qualcuno.
- ...Judith? -
La voce di Xavier era stranamente flebile.
- ...sì? -
- Ce l'hai ancora con me? -
L'Ultimate Lawyer mostrò un volto affranto ed imbarazzato.
- No... - sussurrò - Mi dispiace, Xavier. Non... avrei dovuto comportarmi così -
- Ho la mia parte di colpa nella faccenda - puntualizzò lui.
- No, tu hai fatto ciò che dovevi - Flourish perseverò con le proprie argomentazioni - Ero così accecata dal voler proteggere Hayley che... che non sono riuscita a vedere il quadro completo... -
- Ti penti di averla protetta? Io credo che lei fosse grata di avere avuto un'amica tanto fedele -
- Ma così facendo ho messo tutti in pericolo... e quando tu mi hai aperto gli occhi sbattendomi in faccia la verità io... io ti ho detestato...! - ci volle un grande sforzo per quella dolente ammissione di colpevolezza - Ho detestato il fatto che tu fossi riuscito ad essere più forte di me. Hai trovato la verità che io stessa ho cercato di celare perché... ho dato più importanza all'affetto... -
- Mettere il proprio cuore davanti è ciò che ci rende umani, Judith. Così come seguire la logica e il raziocinio - disse lui, contemplativo - Abbiamo mille sfaccettature differenti, siamo talmente diversi. Ma il nostro obiettivo è uno solo: sopravvivere. E so che, su quello, potrò contare su di te. Dico bene? -
Judith soffocò una piccola lacrima.
- Quindi mi perdoni...? -
- Certo, se tu perdonerai me per non averti... compresa prima -
- Non devi prenderti responsabilità che non ti sono dovute, Xavier -
- A volte bisogna farlo... per una giusta causa -
A quel punto, Judith allungò la mano verso quella di Xavier.
Sentì il bisogno di togliersi un pesantissimo peso dallo stomaco, ma le parole non erano facili da pronunciare.
Ad ogni sforzo di aprire la bocca, le sembrava di avere già fallito.
Alla fine, si diede un'ultima scarica di coraggio.
- Xavier, farò di tutto per cercare un modo di farci sopravvivere... ma ho bisogno di chiedertelo - sussurrò.
- A cosa ti riferisci? -
Lei lo guardò nel suo unico occhio con un'intensità tale da fargli immediatamente rendere conto dell'importanza di quella domanda.
- Devo essere assolutamente sicura... so che è una domanda stupida, ma... - deglutì - Xavier, tu non sei... il traditore, vero...? -
Lui la guardò con un'espressione mista tra lo sconcerto e il divertito.
- Avrebbe davvero senso risponderti, Judith? - sospirò lui - E se lo fossi davvero? Pensi che ti risponderei semplicemente di sì? -
- No, immagino di no... ma devo comunque chiedertelo -
- Perché? -
- Non lo so. E' stupido ed irrazionale, me ne rendo conto. Ma... voglio che tu mi dica in faccia che non lo sei. Se sei davvero innocente, dimmelo guardandomi negli occhi. Solo allora sarò... tranquilla... -
Lui si esibì in una smorfia sorridente.
- Anche se gli occhi ingannano, Judith? -
- Non c'è solo il falso, nello sguardo - sorrise lei - Credimi, nella mia breve carriera ho avuto a che fare coi peggiori bugiardi di questo mondo, ma anche con gente onesta e leale. So quello che dico -
Lui si grattò la nuca, volgendo momentaneamente il volto altrove.
Non sapeva cosa Judith stesse cercando di ottenere da una risposta talmente ambigua e priva di un concreto significato, ma intuì che si trattava di un qualcosa di importante per lei.
Non trovò alcun motivo per negarle una risposta sincera.
- No, Judith - le disse, guardandola dritta nelle pupille - Non sono un traditore. Non ho mai voluto tradire nessuno -
Passarono alcuni istanti. Alla fine, Flouirsh lasciò andare un sospiro di sollievo.
Si sforzò di sorridere, ma fu un sorriso caldo e genuino.
- Bene... - annuì - Ti credo -




Michael Schwarz si stravaccò sul letto appena pochi istanti dopo essersi richiuso la porta della propria stanza alle spalle.
Si limitò a togliersi le scarpe, stendendosi di lungo sul materasso e stiracchiandosi gli arti mosci e affaticati.
Si tolse gli occhiali con un pigro movimento delle mani; allungò il braccio e li poggiò sulla sedia al margine del bordo del letto.
I suoi occhi stanchi e spenti rimirarono il soffitto senza alcun motivo apparente.
Gli bastò fissare un punto casuale sulla lampadina penzolante per ritrovare parzialmente un po' di serenità.
La giornata era stata sfiancante sotto ogni punto di vista, fisico e psicologico.
L'enorme quantità di tempo passata ad analizzare tracce di sangue e veleno, inoltre, non aveva aiutato.
I suoi pensieri viaggiarono senza una meta precisa, riattraversando gli eventi di quel giorno fatidico e tragico.
"Cinque persone... in un solo giorno..." pensò "E il prossimo chi sarà? Chi tenterà di uccidere? E chi morirà? Sarò io... il bersaglio successivo? Oppure no?"
Non seppe quanto tempo passò nel corso del suo ragionamento, poiché cadde addormentato dopo poco.
Ad attenderlo, però, vi fu un brusco risveglio: qualcuno batté alla porta numerose volte, facendolo svegliare di soprassalto.
Quasi cadendo dal letto, Michael poggiò un piede a terra recuperando l'equilibrio.
Afferrò al volo gli occhiali e se li sistemò frettolosamente.
Ancora intontito dal sonno, cercò di ristabilire il contatto con la realtà e la propria lucidità.
Credette di aver sognato, ma un ulteriore bussare alla porta di ingresso gli confermò il contrario: vi era davvero qualcuno, là fuori.
Si mise in piedi, tremando come una foglia. Muovendo passi piccoli e leggeri, quasi insonori, si avvicinò alla porta per comprendere a chi fosse venuta la malsana idea di fargli una visita proprio in quel momento così poco opportuno.
La mancanza di uno spioncino si fece sentire; Michael deglutì un pesante grumo di saliva.
- C-chi va là...!? - chiese lui, mostrandosi autoritario.
- M-Michael...? Sono io... - fece la flebile voce oltre l'ingresso.
L'Ultimate Chemist si sarebbe aspettato davvero di tutto, fatta eccezione per quello.
Osservò il proprio riflesso allo specchio come per chiedere a se stesso se stesse ancora sognando o se si trattava del frutto di un elaborato scherzo.
L'apprensione di Michael, però, non calò nemmeno per un istante.
Afferrò al volo una sedia e la spinse contro la porta, poggiandola saldamente contro la maniglia.
Iniziò a fare peso con la propria gamba, premendola sulla sedia in modo da creare una forza contrapposta.
In quel modo, nessuno avrebbe potuto introdursi di forza all'interno della stanza senza che Michael riuscisse a bloccarlo con immediatezza.
A quel punto, si limitò ad aprire la porta di appena un paio di millimetri, quel poco che bastava a far passare un tenue spiraglio di luce.
Gettando lo sguardo fuori, vide ciò che temeva: June Harrier si era inaspettatamente presentata al suo cospetto.
- C-ciao... - fece lei, palesemente rossa in viso.
Anche se non riusciva a vedere completamente il viso del compagno, avvertì la sua smorfia di disprezzo.
- Ma tu guarda... - sibilò lui - O sei venuta ad ammazzarmi, oppure sei davvero tornata da me strisciando con la tua vergogna. Gradirei di più la seconda, ma non me l'aspettavo così presto -
- Simpaticissimo come al solito... - ribatté lei - Q-quindi...? Hai intenzione di farmi stare qui fuori...? -
- Assolutamente sì. La prudenza non è mai troppa, e se sono sopravvissuto fino a questo punto lo devo a ciò. Ora, parla -
L'arciera trattenne ogni commento sarcastico, sgarbato o crudele, per quanto sentisse fossero appropriati; sapeva di ricoprire il ruolo della "persona che aveva torto", e doveva seguire il suo copione immaginario. Capì, inoltre, che anche Michael aveva compreso benissimo la situazione, e se ne stava probabilmente approfittando.
June Harrier tirò un sospiro e decise che, quel giorno, l'Ultimate Chemist avrebbe ricevuto ciò che voleva.
- Volevo chiederti scusa... - disse, mordendosi il labbro - Scusa se ti ho colpito in quel modo... sono stata avventata e... sconsiderata -
- Mi sembra un buon inizio... - commentò lui, ancora nascosto dietro la porta - Vai avanti -
Harrier iniziò a provare sentimenti discordanti. Seppur giunta fin lì per chiedere scusa, provò l'improvviso desiderio di sfondare la porta e dirgli in faccia tutto ciò che pensava di lui.
Ma dovette darla vinta al senso comune ancora una volta.
- E ti chiedo scusa per essere saltata a conclusioni affrettate ed averti aggredito in... ogni modo possibile e conosciuto... - disse in un'unica tirata - Ecco, l'ho detto! Ora posso entrare? -
- Accetto le tue scuse, ma la mia risposta è sempre "No" - borbottò lui - Sai cosa succederebbe se aprissi questa porta? La stessa cosa che è accaduta tra Rickard e Vivian: un bel siparietto tranquillo dove, all'improvviso, ci scappa il morto. E, considerando noi due, le mie probabilità di morire aumenterebbero in modo esponenziale. Quindi: no -
La pazienza di June stava raggiungendo un limite che non doveva essere valicato, ma ancora riuscì a resistere.
- Michael, sono qui a prostrarmi davanti a te con tanto di scuse! - inveì lei - Cosa devo fare per poter parlare normalmente con te!? -
- Magari fallo quando non siamo rivali in un dannato GIOCO AL MASSACRO, per esempio! - rispose lui a tono - Ma non capisci che è con questo atteggiamento che rischi di essere la prossima vittima!? Vuoi diventare un bersaglio!? Morire per mano di qualche idiota qualsiasi, in questo buco infernale...!? -
Fu in quel momento che Michael Schwarz, troppo intento nello spiegare la sua ferrea logica di autoconservazione e sfiducia, commise il fatidico errore: abbassò la guardia.
Bastò un momento prima che un poderoso calcio dell'Ultimate Archer, oramai stufa ed esasperata, non lo fece volare all'indietro assieme alla sedia messa come perno.
Ruzzolò fino alla scrivania, rimettendosi in piedi forsennatamente. Afferrò d'istinto il primo oggetto che gli capitò a tiro da usare come arma per difendersi.
Non appena si rimise in piedi, notò che June stava semplicemente rimettendo in piedi la sedia, con un'espressione ancora vagamente infastidita ma calma.
Non cessando di tremare e di temere per la propria vita, il chimico osservò la scena con confusione e paura.
- C-cosa...!? Cosa stai facendo!? - urlò lui, puntandole contro quella che capì essere un'innocua matita presa in un momento di terrore.
- Mi sto mettendo seduta - sbuffò lei - Ecco fatto: ora come ora avrei avuto mille occasioni per ucciderti e nessun testimone. Ma, ohibò! Eccomi qui, tranquilla ed innocua. Ti basta per dimostrarti che NON voglio ucciderti, maledizione!? -
Lui lasciò cadere sulla scrivania la matita; le mostrò un volto dubbioso e ancora vagamente impaurito. Era convinto che quel calcio avesse avuto un altro obiettivo.
- No. Ma ti ascolto... -
Fu comunque una vittoria considerevole per l'Ultimate Archer, che seppure di sangue caldo non amava la violenza. Quell'esperienza le insegnò che, a volte, un pizzico di maniere forti potevano contribuire a trovare una soluzione.
- Accidenti... certo che, con te, tutto diventa complicato... - si lamentò June, chiudendo la porta.
- E con te diventa tutto più doloroso... - ribatté lui, massaggiandosi il fianco. La caduta non doveva essere stata delle migliori.
Lei ignorò il commento, ma si mostrò vagamente compiaciuta del risultato.
- Beh, che dire...? Avevi ragione, Mike - disse lei all'improvviso - Avrei dovuto raccogliere più prove prima di accusarti... e invece ho rischiato di mandare tutto all'aria... -
- Bah, lascia perdere. Un po' comprendo cosa ti ha spinto... - rispose lui, amareggiato - In una situazione del genere, le persone tendono a ricercare la via d'uscita più semplice. E so benissimo di non essere una persona simpatica -
- N-non dire così! Ok, magari il tuo carattere è... sgradevole - disse, senza curarsi del poco tatto mostrato - Ma è comunque ingiusto prendersela con te a prescindere...! -
- Wow, "sgradevole"... - si mostrò impressionato - Come dire...? Sei stata crudele e gentile allo stesso tempo. Tanto di cappello -
- E piantala! Anzi, mi sembra un ottimo spunto per arrivare al punto della questione - perseverò lei - Michael, ma perché ti comporti così? Cosa ti ha reso così... così...? -
- "Paranoico"? "Solitario"? "Misantropo"? Gli aggettivi su di me si sprecano, e credo che Xavier non abbia mancato di appuntarli -
- Guarda che Xavier ha tentato diverse volte di venirti incontro. A modo suo... - disse, stringendosi tra le spalle - Ma deve pur esserci un motivo alla base di questo tuo carattere, no? Non sei di certo nato con un odio congenito verso l'umanità, dico bene? -
Michael non rispose, ma si rivelò colpito da quell'improvviso interesse.
- A che pro chiedermi qualcosa del genere? Tu mi odi -
- Non ti odio, brutto imbecille! - ribatté, riuscendo nuovamente a sfoggiare la propria ambiguità nel comporre le frasi - Vorrei poterti capire, e magari smettere di avere paura di te. So che in realtà sei TU quello spaventato, ma tutto il gruppo teme il tuo atteggiamento da lupo solitario. Voglio un motivo per potermi fidare di te, capisci? Dopotutto... non siamo forse compagni? -
- No, June. Non siamo "compagni", siamo "rivali" - rispose lui, col volto annerito - E uno di questi giorni potremmo trovarci a doverci assassinare. E, se non erro, tu stessa hai detto di non riuscire più a fidarti degli altri, sbaglio? -
- E'... è vero, lo ho detto in un momento di debolezza... - ammise lei - Ma continuo a voler pensare che Judith e Karol abbiano ragione. Dobbiamo restare uniti -
- E se uno di loro fosse il traditore? -
June trasalì.
- Co...come!? -
- Mi hai capito bene: e se una delle persone che tanto inneggiano alla collaborazione fosse il traditore? Cosa faresti? E se io fossi il traditore? Cielo, potrebbe essere chiunque! Come fai a... come fai a fidarti!? Non hai paura di morire!? Di non rivedere più la tua famiglia o i tuoi amici!? -
L'arciera abbassò lo sguardo. Sorprendentemente, a Michael sembrò quasi che stesse ridendo.
La mancanza di una risposta immediata gli fece comprendere di aver toccato un tasto dolente.
- Famiglia e amici... - rispose lei - Già, già. Magari -
- Che intendi? -
Lei guardò verso il soffitto con espressione neutra.
- Sai, a volte ripenso ai nostri compagni caduti... alle povere Refia, Hayley, Elise, Vivian, Hillary... ma anche ad Alvin, Rickard, Lawrence, Kevin, che di certo non meritavano di morire. E poi penso a me, che sopravvivo senza uno scopo -
- Senza uno...? -
- Forse... beh, a volte mi viene da pensare... - a quel punto, chiuse gli occhi - Forse dovevo morire io... forse sarei dovuta cadere al loro posto -
- Cosa diavolo stai dicendo!? Sei impazzita!? - la additò Michael - E' semplicemente assurdo! -
June sorrise; un sorriso senza energia né emozione.
- Non ho nessuno da cui tornare, Michael. Niente e nessuno - gli confidò, stringendosi tra le proprie braccia - La mia vita era uno schifo. Se anche riuscissi a fuggire finirei da un inferno ad un altro. Non ho nessuno che aspetta il mio ritorno, nessuno che perderà tempo a ricordarmi... -
Michael Schwarz ascoltò il debole sfogo senza pronunciarsi. Ad un certo punto, June Harrier si trovò costretta a lasciare andare qualche lacrima che teneva rinchiusa da troppo tempo. 
- Ecco, adesso lo sai. E' piuttosto patetico essere me... - tirò su col naso - Il mio talento è inutile, sono una buona a nulla... e se anche morissi il mondo andrebbe avanti senza nemmeno vacillare un istante. Ecco il peso che ha la mia vita: zero. Ma allora perché io sono viva e gli altri no? Quante persone stavano aspettando il ritorno di coloro che sono morti? Ma nessuno attende il mio... -
- Ti sbagli -
June alzò la testa di scatto: lo sguardo di Michael era rimasto sprezzante e severo, ma il suo tono tradiva qualcosa di diverso.
Quella frase, breve ma potente, era bastata a gettare un'ombra differente sulla sagoma dell'Ultimate Chemist.
- Come...? -
- Ti ho detto che ti sbagli. C'è una persona molto importante che non vede l'ora che tu esca da qui -
- Di cosa stai parlando...? - chiese lei, esterrefatta - Come potresti saperlo...!? -
- Lo so perché la conosco! - continuò lui, infervorato - SEI TU, IDIOTA! -
La mascella della ragazza quasi la cadde.
- Che!? Io!? -
- Non hai amici? Non hai una famiglia che ti ama? E chi se ne importa! - disse, infuriato - Se non hai persone a cui vuoi bene vuol dire che non hai cercato abbastanza! E preferiresti morire senza averle incontrate!? Devi uscire per TE STESSA, non per un qualunque cretino là fuori! TE. STESSA! Chiaro!? -
- M...ma io... - incespicò a metà frase, non sapendo come comportarsi in una situazione talmente inaspettata.
Un furente Michael Schwarz le stava facendo una predica interminabile giunta da chissà quali meandri del suo animo. 
Evento inaspettato, sì, ma stranamente non malevolo.
- Niente "ma"! Non devi voler sopravvivere per qualcun altro, e non ti azzardare a dire che la tua vita vale meno degli altri! Siamo tutti uguali, pezzi di carne senzienti ambulanti che nascono, vivono e muoiono. E, quando moriremo, saremo altrettanto uguali: polvere decomposta fino a svanire. Non vi è motivo di credere che qualcun altro meriti di vivere e tu no! Devi essere egoista, egocentrica! E, credimi: te lo dice la persona più egoista che tu abbia mai incontrato! -
- M-ma che ti prende!? Perché all'improvviso... tu...? -
- Perché è la verità: chi è da solo deve sopravvivere con l'egocentrismo - disse, e il suo volto si inscurì - Perché chi è da solo... deve avere fede che le cose possano cambiare -
Fu a quel punto che gli occhi di June Harrier assistettero ad un evento normalmente non calcolabile.
Michael avvicinò una seconda sedia alla sua, accomodandosi al suo fianco. Un'azione semplice e completamente nella norma, ma che in quelle circostanze assunse un aspetto nuovo.
Che fosse stato proprio lui ad accorciare le distanze era un qualcosa di imponderabile.
Michael guardò il pavimento con aria assorta; l'arciera si chiese se quel bizzarro sproloquio non nascondesse qualcosa di più profondo.
- Spero... che il concetto fosse chiaro - disse, infine.
- Parli per esperienza? - chiese June, intuendo da dove derivassero quelle parole talmente marcate ed incisive.
Lui fece un'ultima smorfia.
- Chissà...? Cosa te lo fa pensare? -
- Il fatto che, almeno secondo la mia opinione, è la prima volta che ti vedo parlare in modo sincero per il bene di qualcun altro -
L'apparente scherno di June si rivelò essere, in realtà, un commento a caldo pregno di buone intenzioni.
- Forse siamo più simili di quanto non sembri... - constatò il chimico.
- E' possibile... - annuì lei.
Ne seguirono alcuni secondi di silenzio.
June Harrier si voltò verso di lui, poggiandogli delicatamente una mano sulla spalla. Michael Schwarz avvertì una strana sensazione.
Era la prima volta che permetteva deliberatamente a qualcuno anche solo di sfiorarlo.
Qualcosa era cambiato.
- Ne vogliamo parlare? -

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Capitolo 38
*** Capitolo 4 - Ultima parte - Reminiscenze ***


Anno XXXX, Marzo, Giorno X



Nessun rumore, nessun impedimento, nessuna distrazione.
Le condizioni erano ideali, perfette: niente avrebbe potuto rovinare quel momento.
Il bersaglio era lì davanti, immobile, con le sue striature rosse e bianche che non aspettavano altro di essere perforate da una punta acuminata.
June Harrier tese il braccio, avvertendo ogni fibra dei suoi muscoli sforzarsi nel compiere il tiro.
"Vento assente, nessun ostacolo" pensò lei, calcolando ogni possibile imprevisto in una frazione di secondo.
Uno dei tanti vantaggi di avere un campo di esercitazione al chiuso era che i capricci del meteo non costituivano più un problema.
La corda dell'arco emanò un suono cigolante, dando il segnale alla padrona che i flettenti erano tesi al punto giusto.
Una goccia di sudore le cadde sulla manica della felpa sportiva; seppure piccola e rapida, i sensi di June ne avvertirono la caduta e persino il tenue suono dell'impatto sul tessuto.
Ogni atomo del suo corpo era concentrato in quello che sarebbe stato l'ultimo tiro della serata.
Non poteva sbagliare. Non poteva e non voleva.
Lasciò andare le dita solo nell'istante esatto in cui fu sicura; solo quando vide nella sua mente l'immagine del bersaglio colpito in pieno, col suo organismo che sforzava al massimo la memoria muscolare, si decise a scoccare.
Poi, si udì un colpo secco. Non passò che appena un secondo.
Si alzò un nugolo di polvere dall'ammasso di paglia usato come pedina sacrificale in favore degli allenamenti dell'arciera.
"Centro"
June Harrier osservò la scena con una certa soddisfazione, ma non sorrise.
Notò quel dettaglio di se stessa: la freccia era andata dritta nel punto centrale del bersaglio, ma la sensazione era diversa rispetto alle altre volte.
Tutta l'eccitazione era scomparsa, lasciando spazio ad un sentimento che la ragazza non riusciva ad identificare.
Appoggiò l'arco al muro, recuperando fiato. Si osservò i palmi delle mani come per cercare una risposta lì dove non poteva trovarla.
Eppure, i calli e i tagli che si erano venuti a formare sulla sua pelle le raccontavano una storia differente: una storia di impegno ed emozione.
Una storia che, però, June non riusciva più a ricordare.
Ponendosi ancora numerose domande, si lasciò cadere sulla sedia più vicina e iniziò a scolarsi un'intera borraccia d'acqua.
Il fresco liquido le scese fin nella gola, come non accadeva da diverse ore.
Altro sudore si riversò sulla tuta che, oramai, andava solo deposta in lavatrice.
Sapeva di dover recuperare il gran numero di frecce che aveva scoccato, ma il solo pensiero di andare a raccogliere le decine di dardi sparsi per i numerosi bersagli  dell'area di addestramento le fece decidere di prendersi ancora qualche minuto di riposo.
Era stato l'allenamento più lungo ed estenuante degli ultimi mesi, nonostante nessun evento importante o competizione degna di nota fosse in vista.
Eppure, June sentì di doverlo fare; un qualcosa che andava portato a termine prima che fosse troppo tardi per rimpiangerlo.
- Mi chiedevo appunto chi avesse prenotato il campo a quest'ora della sera per tre ore di fila -
Una voce dal nulla comparve da sopra di lei, proveniente dalle tribune della palestra.
June non si sorprese più di tanto nel vederle apparire l'ometto palestrato che con i suoi baffetti biondicci le aveva provocato non poche risate.
- Coach... - lo salutò lei - Ancora a lavorare? -
L'allenatore le si piazzò davanti con un tronfio sorriso confidenziale. June gli squadrò la faccia: i suoi baffi erano ancora lì, perfettamente tenuti in ordine.
Si chiese, sospirando, se si sarebbe mai deciso a toglierli di mezzo.
Ma l'orgoglio di Coach Roamb nei confronti della propria peluria facciale era secondo solo a quello che provava per i suoi allievi.
- Ah, no. In teoria adesso mi dovrei già trovare davanti alla porta di casa - ridacchiò lui - Ma come facevo a perdermi questo spettacolo? -
Lei gli rivolse una smorfia quasi divertita.
- Ho soltanto fatto un po' di pratica di tiro - rispose, come se la cosa non avesse importanza.
- Beh, fosse solo quello di certo non avrei perso tutto questo tempo - replicò lui - Ma qui si parla di te! Era da un po' che non venivi ad allenarti -
Lei assunse un'aria colpevole.
Si girò dandogli le spalle con la scusa di dover rimettere a posto l'arco. Non ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi.
- E' stato un periodo... impegnato -
- Ah, lo capisco bene. Ognuno ha la sua vita e i propri doveri, ma l'intero circolo sente la mancanza della nostra promettente stella! - esclamò lui - Da quando hai vinto quel torneo, qualche mese fa, un sacco di manager hanno perso la testa per te, capisci!? Qui si parla del tuo futuro, ragazza mia! -
- Il mio futuro è piuttosto precario, al momento... - sospirò lei - Coach, capisco di aver creato delle aspettative, ma ho delle responsabilità e molti doveri. Ho una famiglia da sostenere e... -
Abbassò lo sguardo, tentando di esprimere un concetto complicato e doloroso.
- ...e il tiro con l'arco è molto importante, per me. Ma... non può avere la priorità sui miei fratelli -
L'uomo muscoloso mostrò un volto apprensivo e colmo di dispiacere. Fece di tutto per non mostrare la propria delusione, e decise di rispondere a June con l'ennesimo sorriso.
- Beh, sei una ragazza forte e responsabile! Sono fiero di essere il tuo allenatore - le disse - Ma è anche vero che stai anteponendo il benessere della tua famiglia ad una grande possibilità per il tuo futuro. Sarò franco, June: di ragazzi talentuosi come te ce ne sono pochissimi. Sono sicuro al cento per cento che saresti una stella olimpica, se ti ci mettessi con tutta te stessa. Sei assolutamente certa di non poter far conciliare i tuoi doveri con lo sport? -
Lei si morse il labbro.
- Temo... temo sia impossibile... - gli disse, col cuore in gola - Anzi... sono costretta a restituirle questo... -
A quelle parole, infilò la mano in una delle tasche della borsa sportiva e ne tirò fuori un opuscolo cartaceo mezzo spiegazzato.
Camminò fino al punto in cui Roamb la stava aspettando, poggiandolo tra le sue mani grosse e scure.
Alzò lo sguardo appena in tempo per vedere il suo cuore di sportivo infrangersi.
- June... non dirai sul serio...? - le chiese con un filo di voce.
Il depliant della Hope's Peak recitava a caratteri cubitali l'accettazione di June Harrier tra i propri banchi col titolo di "Ultimate Archer", sogno proibito di centinaia di sportivi e desiderio irrealizzabile di altrettanti sognatori.
June lo aveva appena cestinato, per quanto la sua mano aveva tentato di opporsi al gesto con tutte le proprie forze.
- In questo momento... la mia famiglia ha bisogno di me... - disse - Non posso andarmene a studiare in Giappone e poi a vivere in chissà quale altro paese per interi anni... -
- D-devo chiederti di pensarci ancora un po'...! - la pregò lui - E' un'opportunità assolutamente unica...! Irripetibile! Una come te merita di avere un futuro brillante, e...! -
Lei lo zittì con un gesto affettuoso.
- La ringrazio, Coach Roamb, ma ho preso la mia decisione - sorrise in maniera forzata - Oggi mi sono allenata per così tanto tempo perché... è probabile che non prenderò mai più un arco tra le mani. Con oggi... chiudo -
Passarono alcuni pesanti secondi.
La giovane riuscì ad avvertire la profonda tristezza emanata dagli occhi dell'allenatore, che stava tentando con tutte le forze di reprimere il desiderio di insistere e continuare a pregarla di rimanere.
Ci volle un grande sforzo prima che Coach Roamb si decidesse ad accettarlo.
- Aah... cielo, è davvero un peccato - sospirò lui - Ma sei una ragazza intelligente. Se questa è la risposta a cui sei arrivata da sola, io non mi intrometterò. Ma... -
Si asciugò i baffetti inumiditi.
- Coach... -
- Sappi che mi mancherai - le disse, infine - Sei stata l'allieva migliore che io abbia mai avuto. Le porte del circolo saranno sempre aperte per te, qualora cambiassi idea. Capito? -
A quel punto, June decise di ignorare lo stato pietoso in cui si trovavano i propri indumenti sudaticci e si lasciò andare ad un abbraccio affettuoso.
Coach Roamb ricambiò, scombinandole i capelli argentei come era solito fare oramai da anni.
- Grazie di tutto, Coach... - disse, prendendo la borsa e avviandosi verso l'uscita.
Fu nel momento in cui si voltò un'ultima volta, osservando la mano di Coach Roamb che la salutava da lontano, che June comprese quello strano e doloroso sentimento che aveva avvertito appena scoccata quell'ultima, fatidica freccia.
Rammarico. Rimpianto. Nostalgia.
Stava abbandonando il campo da tiro. Per sempre.
Una parte di sé lasciata indietro, che un giorno sarebbe divenuta un ricordo lontano da contemplare con mestizia.
June si tirò il cappuccio della felpa sulla fronte e, a testa bassa, si avviò verso casa.



Nel buio e freddo stanzone illuminato unicamente dalla soffusa luce dell'unica lampada da scrivania ancora accesa si potevano udire alcuni rumori distinti.
Passi, il tratto continuo di una penna e vari liquidi in ebollizione.
Impilati sul lungo tavolo di marmo vi era una gran quantità di fogli componenti un plico piuttosto spesso; al loro fianco, un elevato numero di ampolle ed alambicchi erano stati disposti in maniera ordinata e precisa, ognuno contenente un liquido di aspetto, colore e consistenza diversi.
Era quell'ora della sera in cui a nessuno sarebbe mai venuto in mente di disturbare coloro che operavano nel laboratorio, temendo un'incombente punizione.
Alla porta della stanza era stato affisso un cartello bene in vista che vietava a chiunque l'ingresso, senza eccezioni.
Un inserviente dell'accademia passò casualmente di lì durante la ronda notturna: non ebbe bisogno di chiedersi cosa stesse accadendo all'interno, e cambiò subito strada.
Michael Schwarz aguzzò l'udito, intuendo che qualcuno era appena passato di lì e che si fosse guardato bene dall'arrecare disturbo.
Sapeva, però, che la sua concentrazione non aveva tempo da dedicare ad un'informazione talmente triviale.
Attraverso le lenti dei suoi occhiali, tornò ad osservare il liquido verdastro che bolliva nella fiala.
La fiamma bluastra strepitò lievemente, ed una bolla più grossa delle altre esplose all'interno del contenitore: abbassò la potenza del fornello e tornò ad annotare informazioni sul proprio quaderno. Aveva già riempito oltre una ventina di pagine in appena poche ore.
Avvertì il polso dolergli, ma non poggiò la penna sul tavolo nemmeno per un istante. Ignorando le suppliche di pietà delle proprie articolazioni, tornò a prendere appunti.
Avvertì un rumore nuovo; stavolta lo colse sgradevolmente di sorpresa.
Altri passi, stavolta quelli del padre.
Paul Schwarz era rimasto seduto su una poltroncina, immobile, per almeno un'ora e mezza; silenzioso, contemplativo, il suo sguardo non si era spostato di un millimetro.
Michael fece di tutto per non dare a vedere di aver tentennato al solo udirne il movimento dei piedi, ma compì un errore madornale: alzò lo sguardo per un secondo.
I suoi occhi incrociarono quelli del genitore in un attimo fatale: la glacialità del suo sguardo imperscrutabile penetrò nel suo animo, scrutandone ogni impedimento.
Michael abbassò subito il volto e tornò a concentrarsi sulla ricerca, asciugandosi una goccia di sudore che gli colava dalla tempia.
- Basta così - la voce di Paul emise l'ordine, e Michael si bloccò sul posto.
La sua mano tremolante spense la fiamma, e con l'altra afferrò un paio di guanti in lattice.
Sollevò l'ampolla e ne versò il contenuto in un misurino, sciogliendo una polvere al suo interno.
Mescolò frettolosamente la miscela e diede il risultato definitivo a colui che stava aspettando, alle sue spalle, a braccia conserte.
Per un istante, sperò che chiunque fosse momentaneamente passato davanti al laboratorio tornasse indietro al solo scopo di commettere l'imprudenza di disturbare l'esperimento.
Un desiderio infattibile al solo scopo di poter avere più tempo a disposizione. Michael sapeva bene che ciò non sarebbe mai accaduto.
L'ultima volta che qualcuno aveva osato mettere piede in quel luogo durante l'orario in cui il famigerato Professor Schwarz aveva preso possesso della struttura, l'esito era stato poco piacevole ed altrettanto indimenticabile. 
Paul non perse tempo, non degnandolo nemmeno di uno sguardo: si limitò ad osservare un campione del liquido attraverso il microscopio.
Il naso aquilino scomparve oltre la sagoma dello strumento non appena si chinò per analizzare il risultato.
Michael avvertì un tremolio alle gambe che peggiorò ulteriormente quando lo vide alzarsi con un'espressione vagamente irritata.
Nulla di positivo era in procinto di accadere.
- Dimmi, Michael. Ricordi quando abbiamo letto e studiato rigorosamente la procedura? - chiese con voce impassibile.
Il ragazzo deglutì. Le domande retoriche erano le peggiori in assoluto, a suo parere.
- Sì... -
- Bene - annuì il padre - Mi enunceresti, per favore, le ultime righe? Intendo riguardo le caratteristiche fisiche immediate di ciò che stavamo cercando di sintetizzare -
Bastarono pochi istanti per capire dove volesse arrivare; Michael notò che il colore del liquido non era esattamente quello prefissato.
Il nervosismo crebbe esponenzialmente.
- Dovrebbe essere color verde... - disse, con un filo di voce - Tendente allo smeraldo... -
- Corretto. Ora, dimmi: di che colore è questo liquido? -
- Ecco... credo che... -
- Verde bottiglia, al massimo - lo interruppe lui, stanco di attendere un responso - La consistenza è simile, ma hai usato alcuni millilitri di acqua in eccesso. Cosa ne pensi? E' accettabile? -
Un'altra domanda retorica. La serata andava degenerando sempre più.
- No, suppongo di no... -
- Corretto - a quelle parole, versò l'intero contenuto nel recipiente degli scarti.
Ogni singola goccia del prodotto andò gettata sotto lo sguardo stanco e frustrato di Michael Schwarz: era la quarta volta, quella sera.
- Rifallo - fu tutto ciò che disse prima di tornare a posto.
- Non ho abbastanza ingredienti... - fu la flebile risposta - Abbiamo finito il solfato di... -
Il suo dito andò ad indicare il procedimento scritto sul manuale lì di fianco, dove era sottolineato il metodo di produzione del particolare solvente che stava cercando di riprodurre.
La sua debole obiezione provocò la comparsa dell'ennesima occhiata colma di delusione e fastidio da parte di Paul.
- E allora producine dell'altro, che aspetti!? La composizione del solfato è elementare, hai tutti gli ingredienti necessari -
- Ma per farlo ci vorranno almeno tre quarti d'ora, e il laboratorio... -
Una mano sbatté violentemente sul tavolo, facendolo sobbalzare. Il plico di fogli faticosamente impilati venne giù di colpo.
Un frusciare di carta e il tintinnio del vetro riempirono la stanza di rumori fastidiosi e frastornanti.
Michael quasi non udì nulla di tutto ciò: i suoi sensi erano concentrati sulle venature paonazze comparse sul collo del genitore.
- Il laboratorio chiude quando lo decido IO! Se credi che ci sia anche una sola persona in questo rifiuto di accademia con un'autorità tale da costringere ME ad eseguire un ordine, vorrei davvero conoscerla! - sbraitò lui - E adesso mettiti al lavoro: completerai questo maledetto esperimento elementare, dovessimo metterci tutta la notte per farlo! -
Il ragazzo abbassò lo sguardo e si chinò a raccogliere i documenti sparsi per il pavimento: sapeva per esperienza che quella minaccia era ben lungi dall'essere vuota, e che la prospettiva di passare la nottata in bianco era più che plausibile.
La stanchezza e il sonno cominciavano a farsi sentire. Michael si chiese a sua volta come mai non riuscisse a trovare la concentrazione adeguata per svolgere una mansione
di quel calibro, decisamente alla sua portata.
Il solvente in questione era un'invenzione dello stesso Paul, il quale aveva cominciato un duro e lungo lavoro per tramandare al figlio le proprie conoscenze e i trucchi del mestiere.
Qualcosa, al di là dell'essere esausto e provato da una giornata di studi, gli stava impedendo di realizzare il prodotto finale.
Sospirando, si rimise al lavoro nel tentativo di concludere una volta per tutte quella tremenda giornata. 
Cercò in tutti i modi di tenere la mente fissa sulla scrivania, ma per l'ennesima volta non ci riuscì.
Stavolta, oltre all'affaticamento, i suoi occhi catturarono una tenue scintilla di speranza ed interesse.
Paul aveva tirato fuori dalla tasca un foglio mezzo spiegazzato, fissandolo con aria ostile e disgustata.
Dall'altro lato della scrivania, Michael stava lanciando occhiate languide e sognatrici a quello stesso pezzo di carta.
Il chimico notò come il figlio stesse mostrando interesse e supplica nei confronti di quella missiva, e ne fu subito irritato.
Si alzò in piedi di scatto e gli spiattellò il foglio davanti al viso.
- Stai ancora fissando quest'immondizia, Michael!? - lo rimproverò.
Il ragazzo si strinse immediatamente nelle proprie spalle.
- Eh...!? N-no...! Il punto è che... -
- Risparmiami le scuse, so perfettamente a cosa stai pensando - sbottò il padre - Tutta questa messinscena ti ha fatto montare la testa, razza di sciocco... -
Sulla carta era ancora ben visibile il sigillo ufficiale della Hope's Peak Academy, affiancato dal nome "Michael Schwarz" a caratteri grossi e cubitali.
Il depliant mostrava numerose informazioni, di cui una in particolare aveva catturato l'attenzione del giovane fin dal primo istante.
L'invito era stato intestato a ciò che la scuola aveva dichiarato essere "L'Ultimate Chemist".
Una sensazione di meraviglia e profondo orgoglio aveva avvolto Michael nel momento in cui, per la prima volta, aveva avuto occasione di tenere tra le dita tremanti d'eccitazione quella missiva. Un'emozione indimenticabile, ma prontamente smontata da un genitore decisamente contrario all'idea.
Paul Schwarz non aveva assolutamente mancato di esprimere il proprio veemente dissenso sulla questione, senza sentire ragione alcuna.
- E'... un'ottima occasione, non credi...? - si espresse Michael.
- Ecco, è proprio ciò che temevo - sospirò l'altro - Dei sedicenti professori con la puzza sotto il naso ti fanno un paio di complimenti e tu ti sciogli , crogiolandoti nel tuo successo. Ti chiamano "Ultimate Chemist" e immediatamente ti convinci di essere chissà quale eletto -
- Ma papà...! La Hope's Peak è riconosciuta a livello mondiale come il miglior istituto formativo in qualunque ambito...! - protestò lui - E' risaputo che tutti i loro studenti abbiano successo assicurato ed una carriera brillante! Solo il... solo il meglio del meglio è ammesso in quella... -
- In quella TRUFFA, Michael! Perché non è nient'altro che una truffa! - inveì Paul - Non vi è NESSUNO, a questo mondo, che possa insegnarti questo mestiere meglio del sottoscritto. Hai passato interi anni a studiare, e le conoscenze che possiedi le invidierebbero i più insigni luminari del mondo! Tutto ciò di cui hai bisogno è di fare pratica, di imparare a fare questo lavoro direttamente in laboratorio! Non permetterò che il tuo tempo venga sprecato in un'insulsa scuola che osa asserire di poterti insegnare qualcosa! Si permettono di mettersi al tuo livello, quando sei TU ad essere migliore di loro! Non lasciarti ingannare da questi specchietti per le allodole, Michael! -
A quelle parole, Michael si sentì ufficialmente sconfitto. Incapace di replicare, si limitò ad abbassare lo sguardo e tornare al lavoro.
La mano del padre lo bloccò, facendogli capire che vi era dell'altro.
- Michael. Ascoltami bene - gli disse, con voce più calma - Al mondo esistono milioni di persone che non esiterebbero un istante a sfruttarti per il loro tornaconto. Tu sei un genio, figlio mio: il migliore. E' proprio per questo motivo che non puoi fidarti di nessuno. Loro hanno bisogno di te, ma tu non hai bisogno di loro -
- "Bisogno" di me...? - 
- Sì, Michael. Tu sei una delle persone che plasmeranno il futuro, capisci? Una mente come la tua è capace di grandi cose, e il mondo intero sarà sul palmo della tua  mano se solo lo vorrai - continuò lui - Non hai niente da ottenere da quei buffoni della Hope's Peak. Non è altro che gente che vuole averti tra i loro ranghi per fare bella figura, una mera questione di prestigio. Tu non sei un trofeo, Michael. Lo capisci? -
Vagamente convinto, ma a malincuore, Michael Schwarz fece cenno di sì.
- Lo capisco... - sussurrò flebilmente.
- Ottimo... credimi, te lo dico per il tuo bene - gli disse, alzando la lettera - Non oseranno più darti fastidio -
A quelle parole, Paul accartocciò la busta tra le mani e con un tiro preciso la indirizzò nel cestino a fianco della scrivania, aggiungendo un'altra cartaccia al mucchio.
Michael udì il suono della carta appallottolata cadere in mezzo al resto dei rifiuti; il cuore ebbe uno strano sussulto.
Passarono alcuni lunghi istanti di pesante silenzio.
- Vado a prenderti un caffè... - disse, avviandosi verso la porta - Continua ad esercitarti mentre sono assente. Stasera sei semplicemente un po' distratto, ma ti  riprenderai. Finirai l'esperimento e andremo a casa, chiaro? -
- Chiaro - disse, tentando di mostrarsi convinto.
Il padre annuì, notando un cenno consensuale, ed uscì dalla porta. 
Michael attese alcuni istanti: udì il rumore dei passi allontanarsi sempre più, fino a scomparire lungo i corridoi.
Per la prima volta, in quella lunga sera, vi era un silenzio placido e naturale.
Inspirò ed espirò, beandosi di quella pace temporanea.
Un pensiero che, però, lo tormentava da tempo, lo assalì all'improvviso.
Si gettò sul cestino dei rifiuti, rovistando intensamente tra i cumuli di carta.
Afferrò con la mano la pallina cartacea, raggiustandone la forma originale come poteva.
Il nome della scuola, con annesso il proprio titolo, era ancora perfettamente leggibile.
Una miriade di sentimenti contrapposti lo attorniarono, dando inizio ad una lunga e difficile guerra interna.
Un conflitto di interessi e raziocinio che non sembrava voler avere un vincitore.
Le parole del padre erano penetrate nelle profondità del suo animo permeabile, insinuando il seme del dubbio in quella sua unica, dolce sicurezza.
Michael Schwarz si trovò in quello che pensava fosse un bivio, ma era in realtà un vicolo cieco.
Non vi era nessuna risposta, nessuna convinzione.
Solo di una cosa era certo: desiderava conservare quel foglio ancora un po'. Conservarlo, e pensare. Ragionare, forse, ed analizzare la situazione più a fondo.
E, soprattutto, sperare.
Michael nascose l'invito della Hope's Peak Academy tra i propri vestiti e tornò a lavoro.
La notte era ancora lunga, ed era appena cominciata.




La busta della spesa stava iniziando lentamente a fare pressione sul polso di June, che si ritrovò costretta a cambiare mano più volte per trasportarla.
Nonostante l'essersi sobbarcata quel peso aggiuntivo a quello dello zaino da palestra, June riuscì in qualche modo a godersi la passeggiata serale verso casa illuminata dalla luna piena.
Il commiato dal campo di tiro e l'ultimo saluto al Coach avevano avuto un impatto più che doloroso, ma l'ennesimo che la giovane avrebbe dovuto superare a testa alta.
La vita era stata una maestra severa, crudele e spesso ingiusta, ma le aveva consentito di farsi le ossa e di divenire resiliente.
Eppure, pur contando le numerose volte in cui si era ripetuta che era l'unica cosa da fare, il senso di vuotezza nel rimettere definitivamente l'arco nella borsa sportiva e appenderlo al chiodo rimaneva costante e sempre presente.
June Harrier si fece forza e distolse la mente da quel pensiero ancora una volta: avrebbe dovuto farci l'abitudine, e considerò opportuno cominciare da subito.
Osservò il bustone in plastica che si piegava sotto il peso degli alimenti comprati: nonostante l'ora tarda era riuscita a raggiungere un supermercato aperto ventiquattr'ore al giorno in cui fare rifornimento di ogni necessità.
Col tempo, June aveva iniziato ad apprezzare la presenza di quel gigantesco e ben fornito punto di vendita, soprattutto per il fatto che era l'unico in zona in grado di venderle ciò che bramavano i difficili gusti dei fratelli.
La parte superiore della busta, infatti, consisteva principalmente in una discreta quantità di snack dai gusti assortiti e stravaganti.
Controllò scrupolosamente che tutto fosse al suo posto e di non aver tralasciato nessun acquisto.
"I biscotti con cioccolato ed arancia per Jackie..." constatò "Orsetti gommosi per Nate... e le praline per Sean. C'è tutto"
Dimenticarsi un condimento o un contorno era quasi la norma quando si trattava di fare compere per la famiglia, ma una improrogabile legge non scritta le imponeva di non tornare mai dal supermercato senza aver preso le leccornie preferite dei fratellini, la cui golosità era ben nota.
June sospirò; si riteneva una sorella maggiore severa e ligia al dovere, ma a volte aveva l'impressione di viziarli.
Tutto sommato non la trovava una cosa brutta né sgradevole: gli spuntini a base di dolciumi erano il suo modo principale di dare loro il suo amore.
Pensando a che faccia avrebbero fatto l'indomani nel trovarsi gli snack nelle buste del pranzo, riuscì per alcuni istanti a dimenticare il dolore della recente perdita.
Il tiro con l'arco non era di certo un familiare, ma lo aveva sentito vicino come se fosse una parte di lei.
Si chiese se il prezzo da pagare non fosse stato più alto delle sue aspettative, pur considerando il lungo e stressante periodo in cui aveva ponderato la sua risposta.
Vi era qualcosa che andava ben oltre i semplici impegni di una liceale indaffarata a tenerla lontana dalla pratica sportiva: qualcosa che June riteneva fosse un ostacolo ben oltre la propria portata, insormontabile ed inamovibile.
Qualcosa che non si poteva nemmeno combattere.
Pentendosi di non averne parlato a Coach Roamb prima di lasciarlo, intuì che il rimorso la avrebbe seguita per sempre.
Con quel pensiero in testa, si apprestò a svoltare verso il vialetto alberato che conduceva alla residenza della famiglia Harrier.
La stradina era silenziosa come ogni volta che la attraversava a quell'ora della sera.
Si aspettò di trovare la strada libera e sgombra, di attraversare rapidamente il marciapiede e di fiondarsi in casa, possibilmente sperando di trovare la doccia libera e la cena nel forno.
Ma, con sua enorme sorpresa, l'asfalto proprio davanti alla propria magione risultò occupato.
In prima istanza non realizzò cosa stava accadendo: un grosso veicolo di colore scuro era parcheggiato davanti al cancello della sua casa, ma a causa del buio e della scarsa illuminazione del rione le fu difficile capire di cosa si trattasse.
Le bastò avvicinarsi appena un attimo per definire chiaramente cosa fosse quel mezzo di trasporto: era l'auto che la famiglia Harrier utilizzava ogni anno per i lunghi spostamenti di gruppo, come le classiche gite al mare o in montagna o alcune visite ad amici e parenti in occasioni speciali come festività o matrimoni.
Ma non vi erano ricorrenze simili, in quel periodo, e di certo non era né il momento né la stagione adatta ad una gita.
Eppure, constatò June, quel mezzo non veniva mai tirato fuori dal garage per puro caso; sapeva che suo padre era fin troppo affezionato a quella automobile per sfoggiarla
in maniera talmente sfacciata senza motivo.
Ponendosi numerosi altri quesiti, il suo sguardo andò poi verso l'unica persona che avrebbe potuto dare loro risposta: il diretto interessato.
Daniel Harrier era fermo, appoggiato al finestrino dell'auto, con il volto fisso verso la porta d'ingresso della casa.
Era vestito con la giacca ed il completo che portava sempre a lavoro, ma non sembrava essere appena tornato dall'ufficio.
Aveva un'espressione strana che tradiva una certa ansia ed apprensione; la mano sinistra picchiettava nervosamente sulla propria spalla, contraendosi in maniera sospetta.
June si paralizzò: vi era decisamente qualcosa che non andava.
Un atroce sospetto si materializzò nella sua mente, ed ebbe paura di confermare quella sua teoria.
Purtroppo, però, non vi era altro da fare.
- Papà...? - lo richiamò lei.
Lui si voltò di scatto, come ad aver udito una minaccia.
- June... - sospirò - Sei tornata -
- Che sta succedendo...? -
L'uomo si passò una mano tra i capelli; era certo che la figlia non ci avrebbe messo molto a comprendere che la situazione era anomala.
- June, devo parlarti -
- Prima dimmi che cosa sta succedendo...! - continuò lei, imperterrita - Che ci fai qui fuori a quest'ora? E la macchina? -
- E' accaduto esattamente ciò a cui stai pensando. Abbiamo avuto un altro... "incidente" -
L'enfasi posta sulle ultime sillabe confermò le paure dell'arciera; rabbrividì.
Daniel le indicò il cestino di rifiuti poco distante, appena fuori dall'ingresso: vi era poggiata di fianco una busta di plastica emanante un odore nauseabondo.
Avvicinandosi, notò che era colma di bottiglie di vetro ancora grondanti di liquido; June storse il naso.
Le bastò appena una rapida annusata per comprendere di cosa si trattasse: avanzi di vino vecchi di almeno qualche sera.
Sentì il rapido bisogno di scostarsene, mordendosi furiosamente il labbro inferiore.
Poi, superato il primo momento di isteria, la sua mente realizzò un dettaglio cruciale.
Si voltò verso il padre con volto terreo.
- Dove... dove sono i bambini!? -
Lui si limitò ad indicare i finestrini di vetro scuro dell'auto con un gesto stanco.
June Harrier si lanciò a vedere cosa ci fosse oltre, quasi sbattendo contro la portiera a causa dell'impeto.
Fu lì che li vide, tutti e tre: i suoi fratelli stavano placidamente dormendo sul sedile posteriore, come non avessero una preoccupazione al mondo.
Il più grande dei tre, Sean, dormiva con la testa appoggiata al cuscino in pelle sul poggiatesta: aveva un chiaro ed evidente livido violaceo sulla tempia.
Jackie, la terzogenita, stava riposando sulla spalla del fratello: un paio di cerotti erano stati piazzati sotto l'occhio sinistro.
Infine, il piccolo Nate era steso sulle gambe di entrambi, fortunatamente senza mostrare l'ombra di un graffio.
- Stanno bene... li ho messi al sicuro - la rassicurò il padre, vedendola palesemente sconvolta.
- Cosa... cosa è accaduto? Sono feriti... - balbettò lei.
- Temo tu sappia bene cosa è successo, June. Un inci-... -
- Sì, lo so che è stato un cavolo di "incidente", per la miseria! - sbottò lei - Voglio sapere perché i miei fratelli hanno dei lividi, OK!? -
- Adesso datti una calmata - fece lui, con tono di rimprovero - E' successo tutto all'improvviso, è stato... -
Lei lo zittì con un gesto.
- Dov'è la mamma...? -
Era giunta la domanda fatidica.
Daniel socchiuse gli occhi, sospirando. Sperava di poter semplicemente andare al sodo, ma conosceva la figlia fin troppo bene per sapere che non glielo avrebbe permesso.
- E' all'interno, probabilmente svenuta nel suo stesso vomito - disse, senza riserve - Ha avuto una ricaduta ed ha perso il controllo. Non sono riuscito a contenerla -
- E quelle bottiglie...? Dove le teneva nascoste...? -
- Ah, lo sa solo Dio dove sia riuscita a piazzarle senza che me ne accorgessi... - sbuffò lui.
Il quadro della situazione era divenuto più chiaro, ma vi era ancora il dettaglio più importante.
L'automobile non era stata lasciata lì per una pura coincidenza.
June sentì il bisogno di chiederlo anche se sapeva già perfettamente cosa voleva significare.
- E l'auto...? - domandò - Stiamo... andando via? -
Daniel Harrier si voltò altrove, il corpo paralizzato dallo sconforto e dalla mortificazione.
Inizialmente, June pensò fosse il suo solito modo di evitare la domanda, ma le cose erano differenti. Capì che il padre non stava evitando di affrontare il discorso, ma stava cercando il modo migliore di porlo verbalmente.
I pensieri della ragazza viaggiarono rapidamente da una parte all'altra delle circostanze.
Le tornarono in mente i volti vagamente sfregiati dei fratelli: la sola idea di saperli in quello stato la fece quasi impazzire.
Quel livido sul volto di Sean, suo principale confidente familiare e il più responsabile dopo di lei, le provocò un inquietante senso di impotenza.
Jackie, sua gioia ed orgoglio, aveva ricevuto ben due sfregi tangibili: il pensiero bastò a terrorizzarla a morte. Che la piccola fosse stata coinvolta in qualcosa del genere da parte della madre era semplicemente intollerabile; e che Nate, seppure illeso, fosse stato costretto ad assistere ad un tale scempio lo era ancora di più.
Placò l'urgenza di fiondarsi al loro fianco e raffreddò i bollenti spiriti. Vi era un'importante questione da affrontare.
Daniel non aveva ancora risposto.
- Papà, che succede? - chiese ancora - Ce ne stiamo andando...? E' per questo che li hai messi in auto, no? Li tenevi al sicuro per... -
- June, adesso ascoltami bene - 
Il tono improvvisamente perentorio la fece trasalire.
- S-sì...? -
- La mia famiglia è tutto per me, siete la cosa più importante che ho - cominciò lui - E immagino capirai che è mio dovere proteggere i miei figli -
Lei fece rapidamente cenno di sì.
- I tuoi fratelli... sono ancora molto giovani. Nemmeno Sean si rende ancora perfettamente conto di ciò che sta succedendo: ha solo undici anni. June, dobbiamo proteggerli. Io e te, capisci? Dobbiamo fare entrambi la nostra parte per tenere al sicuro la nostra famiglia. Ma... non mi riferisco solo a loro -
La ragazza continuò ad annuire fino a che non udì quell'ultimo punto.
Non fu sicura di comprendere cosa significasse.
- Non solo loro...? Cosa intendi? -
- June... tua madre è molto malata - disse - Ha fatto del male a tutti noi, ma... non è un mostro. In qualche modo dobbiamo aiutare anche lei; salvaguardarla, capisci? -
Ancora una volta, June annuì. Ma fu un gesto privo di convinzione, estremamente spontaneo.
Vi era qualcosa, nelle parole del padre, che le impedì di carpirne pienamente il significato.
- S-sì... dobbiamo... fare qualcosa... -
- Esatto. Ma i ragazzi hanno la priorità - Daniel inspirò profondamente - E' per questo che stasera li porto via. Staranno qualche tempo dai nostri parenti in Svizzera, forse anche qualche mese. Devo assicurarmi che possano vivere un'infanzia tranquilla e priva di pericoli. E' una decisione su cui ho meditato per molto tempo. Mi segui fino a qui? -
June Harrier, pur nuovamente dando un segno di assenso, aveva però smesso di ascoltare.
Quell'ultima frase, pronunciata con quelle esatte parole, avevano dato un nuovo senso al contesto generale.
Aveva finalmente capito dove il padre volesse andare a parare con quella peculiare scelta di vocaboli.
"Li porto via..." pensò "Staranno qualche tempo lontani... in modo che possano... vivere..."
Deglutì.
- E... ed io...? -
Calò il silenzio. Si udì solo il frusciare impetuoso di una raffica di vento che smosse le bottiglie di vetro fino a farle oscillare pericolosamente.
I loro occhi si incrociarono: la risposta era stata formulata ben prima di quel momento, dietro numerosi giri di parole.
- Ho bisogno che tu resti con tua madre, June... - disse, infine - E' una decisione difficile, ma non possiamo fare altrimenti -
- Cos... cosa? Aspetta... - balbettò lei - Io... resto qui? Mi lasci qui? -
- Non ti sto "lasciando", June. Ti scongiuro, tenta di comprendere la mia posizione - fece lui - Hai idea di che cosa voglia dire vedersi portare via la propria prole? Che cosa accadrebbe se, domani mattina, tua madre si ritrovasse completamente da sola con la convinzione che i suoi figli la hanno abbandonata? -
Sudando copiosamente, June tentò di imporre una debole protesta.
- U-un m-momento... non puoi... n-non puoi lasciarmi qui... - gemette - Io non so come... non so cosa... -
- Sei molto più forte di quanto sembri, June, e oramai sei abbastanza grande . Vedrai che andrà tutto bene... - le disse, incrociando le braccia - Ora come ora la nostra principale preoccupazione è mettere al sicuro i tuoi fratelli, capisci? Devo proteggerli, June. Ma al contempo non posso permettere che... che tua madre si autodistrugga dal dolore. Non posso toglierle tutta la sua famiglia, ma devo garantire la salvaguardia dei bambini. Comprendi? -
A metà tra il terrore e l'ansia, tutto ciò che riuscì a rispondere fu un concetto confuso.
Le pupille le si inumidirono, le mani iniziarono a tremarle.
Senza nemmeno rendersene conto aveva lasciato cadere sia la spesa che la borsa sportiva, gettandosi tra le braccia del padre.
- N-no...! NO! Che significa che mi lasci qui con lei...!? Non PUOI lasciarmi qui! - strepitò - Non posso gestirla d-da sola...! Non posso farcela...! -
- Non è una questione di potere o non potere, June! - ribatté lui - DEVI farlo! Io devo sobbarcarmi da solo il compito di dare ai tuoi fratelli un letto, dei pasti, un'istruzione e sicurezza! Ho bisogno del TUO AIUTO per fare in modo che questa famiglia non crolli, hai capito!? Il minimo che tu possa fare è dare il tuo contributo per non far ritrovare tua madre internata in manicomio o appesa per il collo ad un cappio, MI SONO SPIEGATO!? -
La ragazza avvertì le forze venirle meno sempre più, ad ogni momento che passava.
Ben presto si ritrovò in ginocchio a gemere suppliche inconsulte in preda alle lacrime più strazianti che avesse mai versato.
- Ti prego... ti scongiuro... ho rinunciato a tutto per darvi una mano... non farmi questo...- disse, aggrappata con le unghie alla giacca del padre - Non lasciarmi... non lasciarmi da sola... ho paura... -
Lui si limitò a passarle una mano tra i capelli argentei, tentando di rassicurarla come poteva. Intuì che le parole non potessero bastare in una situazione simile, ma era tutto ciò che aveva a disposizione.
- Sarà solo per un breve periodo... - la consolò - Andrà tutto bene. E' una nostra responsabilità assicurarci che la famiglia sopravviva, June. Io e te, capisci? Non possiamo fare affidamento su nessun altro. E tu sei forte, te la caverai come hai sempre fatto -
Le schioccò un bacio affettuoso sulla testa per poi divincolarsi dalla debole presa di June, ancora a terra.
La ragazza tentò invano di riprendersi dallo shock, ma si rimise immediatamente in piedi quando udì il rumore della portiera della macchina.
Daniel si era appena seduto sul sedile davanti al volante.
Le pupille dell'arciera si dilatarono. 
"Lo sta... lo sta facendo sul serio...? Mi sta tenendo qui, da sola con...? Ho rinunciato al tiro con l'arco per... ho sacrificato tutto, OGNI COSA PER...! No...
non sta accadendo sul serio, vero? Non sta accadendo, non sta accadendo... non sta accadendo, non sta accadendo, non sta accadendo, no, no... no... NO...NO...! NO!!
"
Si lanciò d'impulso contro la portiera posteriore, premendo sulla maniglia con tutte le forze.
La mano incontrò una strenua resistenza: lo sportello era stato bloccato. Uno scatto secco ne annunciò la chiusura.
Strinse i denti, battendo con forza sul finestrino.
- SEAN, JACKIE, NATE! - urlò a squarciagola - APRITE LA PORTA! -
Riuscì a malapena ad intravedere le sagome ancora dormienti dei bambini aprire lentamente gli occhi, frastornati dalla stanchezza e dal brusco risveglio.
Ebbe giusto il tempo di incrociare i loro sguardi assopiti un'ultima volta: poi, l'auto si mise in moto.
Un rombo del motore ne segnalò l'accensione, e gli pneumatici strisciarono sull'asfalto.
Ancora attaccata con la mano alla portiera, June si ritrovò trascinata per almeno tre metri prima che perdesse inevitabilmente la presa.
Strusciò il ginocchio a terra, sbucciandoselo, mentre la mano ancora stringeva saldamente il punto in cui fino a poco prima c'era la portiera.
Urlò ancora più forte, ma ignorò il dolore: si rialzò in piedi e cominciò a correre con quel poco di forze rimaste.
Il veicolo si stava allontanando sempre di più, svanendo lentamente nel buio orizzonte notturno.
- ASPETTA! ASPETTAAA! NON... NON AND...! NON ANDARE! NON LASCIARMI QUI, PAPA'! PAPAAAA'! -
Nessuno la udì, nessuno passò per quella via.
Il vento le mosse i capelli nel momento esatto in cui cessò di correre, vinta dalla fatica e dall'insostenibile sconfitta.
Le era quasi parso di vedere fugacemente il volto contrito del padre, voltatosi un'ultima volta verso di lei come a chiederle perdono per una dura scelta.
Tre paia di occhi si affacciarono dal vetro posteriore, squadrandola da lontano con sguardi persi e spaesati.
Poi, il largo veicolo nero sparì definitivamente dalla sua vista.
- Non... NON... - sibilò, piangendo - NON ABBANDONATEMI QUI...! Vi.. prego... -



Il giorno successivo



Per Michael Schwarz, la nottata si era prolungata ben oltre le aspettative.
Si erano fatte le cinque del mattino prima che Paul decretasse che il composto chimico preparato fosse di qualità eccellente, talmente alta da permettersi di concludere l'esperimento.
Anche solo il trascinarsi fino a casa e mettersi in vestiti più comodi si rivelò un'ardua impresa, viste le circostanze.
Capitolato sul letto, drenato di ogni energia e senza nemmeno la forza di ragionare, Michael si era concesso qualche ora di sonno aggiuntiva.
La mattina seguente non era cominciata nel migliore dei modi, però.
Si alzò con almeno una ventina di minuti di ritardo sulla tabella di marcia a causa dell'eccessiva stanchezza.
Ebbe appena il tempo di lavarsi e di consumare una rapida colazione prima di correre fuori di casa portandosi dietro il proprio borsone con gli strumenti da lavoro.
L'accademia distava poco da casa sua, ma sapeva di non potersela prendere comoda in alcun modo.
Vi erano un gran numero di cose che il padre non tollerava, e tra queste vi erano i ritardi non giustificati. Purtroppo, l'essersi svegliato in ritardo a causa dell'intenso lavoro del giorno prima non rientrava nelle categorie di scusanti accettabili.
Una nuova giornata di lavoro e sperimentazioni stava per cominciare, e partire col piede storto non sarebbe stata una mossa saggia.
Diede fondo a tutta la forza nelle proprie gambe per tentare di recuperare terreno, e si accorse solo dopo una copiosa sudata di aver quasi raggiunto l'ingresso dell'istituto.
Diede una rapida occhiata all'orologio da polso: era riuscito a rimanere puntuale nonostante lo svantaggio.
Sospirò, gustandosi la piccola e meritata vittoria.
Considerò la possibilità di rendere quello sforzo un incentivo per ottenere un trattamento più clemente; ogni piccolo vantaggio era d'aiuto.
Non appena varcò la porta d'ingresso a scorrimento automatico, si fiondò verso il corridoio principale per raggiungere l'ascensore; il laboratorio era all'ultimo piano.
Era convintissimo che non avrebbe trovato alcun ostacolo tra sé e la propria meta, ma in quel preciso istante una sensazione nuova lo colpì.
Un invitante aroma stuzzicò il suo olfatto, e Michael si ritrovò costretto a fermarsi brevemente per capire di cosa si trattasse.
Era un odore forte e deciso, qualcosa che di rado si era ritrovato ad annusare.
Si chiese da cosa potesse scaturire fino a quando non volse lo sguardo verso i tavolini della caffetteria situata al piano terra dell'edificio.
Lì, in mezzo ad un discreto numero di docenti intenti a fare colazione, vi era un unico individuo decisamente fuori posto.
Fu impossibile per il giovane chimico non notare la sua presenza: indossava vestiti apparentemente normali, ma ad un'occhiata più attenta era possibile intravedere una camicia bianca estremamente elegante ed un paio di scarpe nere lucide che sembravano costose.
Teneva un cappello bianco schiacciato sulla capigliatura biondiccia, e teneva tra le mani una tazza di caffè fumante, ovvio responsabile del profumo che aleggiava nell'atrio.
L'uomo aveva catturato l'attenzione di quasi tutti i presenti, ma nessuno aveva osato disturbarlo.
Michael notò una sorta di strana aura attorno a quella misteriosa persona.
Ancor più grande fu la sua sorpresa nel notare che l'uomo in questione, notata la sua presenza, aveva alzato un braccio in segno di saluto, incitandolo ad avvicinarsi.
- Oh, buongiorno! - fece - Tu devi essere Michael Schwarz, giusto? -
Il ragazzo si irrigidì; non era certo se la sorpresa maggiore fosse dovuta al fatto che quell'individuo conoscesse il suo nome o alla chiara ambiguità delle sue origini.
Nonostante i capelli biondo cenere, l'uomo presentava un distinto tratto facciale orientale ed un accento decisamente inusuale. Intuì che veniva da lontano, da oriente.
- Con chi ho il... piacere? - borbottò Michael, poco convinto della situazione.
- Permettimi di presentarmi - fece l'altro, e sollevando la giacca mostrò un distintivo brillante attaccato al taschino della camicia.
Fu impossibile non notarne la forma ben delineata e i colori; quell'emblema non lasciava spazio a dubbi.
Michael spalancò la bocca, riconoscendo il marchio della Hope's Peak Academy.
- Lei... è della Hope's Peak!? -
- Esattamente. Sono Kizakura, uno scout del nostro reparto principale - disse, sistemandosi il cappello con la mano destra - Ma tu puoi chiamarmi Koichi -
"Un Giapponese, chiaro..." pensò Michael, trovando conferma nelle proprie supposizioni "E nientepopodimeno che un esaminatore della Hope's Peak...!?"
Deglutì, esibendosi in un breve inchino.
- A che cosa devo la visita...? -
- Oh, credevo avessi già intuito tutto - commentò l'uomo - Ti è arrivato l'opuscolo con l'invito, giusto? -
Ricordandone il destino poco piacevole, Michael strinse una mano nella propria tasca, dove ancora conservava il depliant.
- Sì, lo ho ricevuto... -
- Ottimo. Ammetto che mi era sorta una certa preoccupazione! Sarebbe stato grave se si fosse perso - ridacchiò Koichi.
Il ragazzo notò come l'uomo magrolino stesse portando il tono della conversazione su un livello colloquiale e diretto, senza troppi giri di parole burocratici.
- E mi dica, cosa ci fa qui? -
- Non abbiamo ancora avuto la tua risposta, così ho pensato bene di passare a controllare - affermò Koichi - Normalmente lavoro unicamente in Giappone, per la nostra  sede primaria, ma per caso mi sono trovato a passare di qui e ho considerato l'idea di controllare di persona -
"...straordinariamente fortuita e conveniente, per essere una coincidenza" lo sguardo di Michael si fece diffidente.
- Voi... perché avete scelto me? - chiese ad un tratto.
Lo sguardo di Kizakura divenne spaesato.
- Mi chiedi un motivo? Beh, è perché hai talento - disse, sorridendo - E noi della Hope's Peak siamo alla continua ricerca di studenti talentuosi per poterne coltivare le capacità. Apriamo la strada per un futuro radioso... beh, o almeno così recita il nostro strambo motto -
- Sì, ho avuto modo di ascoltare la vostra propaganda... - Michael sentì il bisogno di tagliare corto - Guardi, sono spiacente, ma mi vedo costretto a declinare l'offerta -
Gli occhi chiari di Kizakura si spalancarono dalla sorpresa. Tra tutte le risposte che si aspettava, quella era ben lungi dall'essere contemplata.
- "Declinare"...? Rifiuti la tua ammissione alla scuola? - il suo tono tradì il suo sbigottimento.
- E' così -
Il biondo si grattò la nuca, storcendo il naso.
- Wow, è un evento inaspettato... - ammise - Credo che sia la primissima volta che ci becchiamo un rifiuto! E' un caso unico -
- Lo sarà pure, ma non ha importanza - scosse la testa - Non intendo iscrivermi, ma la ringrazio comunque per l'offerta -
Koichi tossicchiò, sentendosi in difficoltà.
- Beh, accidenti, non so cosa dire... ma mi sorge spontaneo chiederti come mai - gli disse - Non è da tutti decidere deliberatamente di rinunciare ad una possibilità simile -
Michael si sistemò gli occhiali e socchiuse gli occhi.
- Ho troppo lavoro da fare qui, nel mio laboratorio - disse - Il mio lavoro lo si impara con pratica continua, e le mie responsabilità sono innumerevoli. Non ho tempo per partecipare alle vostre lezioni, il mio dovere mi impone di restare qui -
- Comprendo ciò che dici, ma sono certo che il tuo lavoro e il nostro programma siano perfettamente conciliabili - sorrise Koichi - Avrai la possibilità di lavorare in un laboratorio grande almeno il triplo di quello che hai adesso, e nulla ti vieta di portarti dietro i tuoi attuali progetti. Che ne pensi? -
Il ragazzo si allargò il colletto della maglia, vagamente a disagio.
- L-le ripeto che non posso! Non tenti di convincermi con questa ridicola sceneggiata! -
- Come, prego? Faccio fatica a seguirti - rispose l'altro, calmissimo.
- La vostra scuola raduna i migliori del mondo, no!? Come faccio a sapere che non lo fate per puro desiderio di prestigio e che la vostra qualità vale davvero tutte le vostre parole che la elogiano!? Con la mole di lavoro che ho non posso certo correre il rischio di farmi fregare! -
Chiaramente colpito da quelle parole, Koichi mostrò semplicemente un sorrisetto beffardo.
- Cielo, hai davvero una scarsa opinione di noi... me ne rattristo! - disse - Ma ora, dimmi: questo è ciò che pensi davvero o sono solo parole prese in prestito? -
Schwarz si ritrovò spiazzato; l'acume dell'uomo sembrò averlo messo alle strette senza mezzi termini.
Il solo fatto di aver esitato fu abbastanza, per Koichi, da comprendere come stessero realmente le cose.
- M-mi ascolti... io non mi fido di voi... non mi fido di nessuno - gli disse - Tutto ciò che ho è la chimica, la mia scienza. La logica e il raziocinio sono tutto ciò su cui posso contare. Non ho intenzione di fare affidamento su degli sconosciuti che potrebbero stare approfittandosi di me...! -
- Parole sagge, ma alquanto aspre! - commentò lui - Mi rincresce, ma non voglio insistere oltre. La decisione spetta solo e unicamente a te, Michael. Il tuo destino, le tue ambizioni, il tuo futuro... ricade unicamente sulle tue spalle. Non ti costringerò a venire con noi, ma posso almeno provare a chiederti di ripensarci -
- Ripensarci...? -
- Esatto - disse, velando il proprio volto dietro il cappello - Domani pomeriggio ripartirò per il Giappone, con o senza di te. Ma, lo ammetto, sarei davvero lieto di poter portare con me l'Ultimate Chemist. Hai ancora del tempo; tempo per decidere se questo è davvero quello che desideri -
- Credo di averlo già espresso pienamente... - ribatté debolmente Michael.
- Oh, certo, lo so. Ma tenta di capire se è davvero un tuo pensiero o è frutto di qualcos'altro -
La conversazione giunse al termine. Koichi poggiò la tazza di caffé aromatizzato, ormai vuota, sul tavolo.
Passandogli di fianco, avviandosi verso l'uscita, gli piazzò una pacca amichevole sulla spalla.
- Ciò che conta davvero è ciò che NOI proviamo dentro, Michael. I nostri desideri e i nostri sogni fanno parte di noi - gli sussurrò - Non permettere che altri inquinino il tuo giudizio con le loro opinioni. Il tuo mondo sei tu, Michael. Sta a te decidere -
Koichi Kizakura uscì dall'edificio, lasciandosi alle spalle un Michael Schwarz interdetto e spaesato.
Guardò di nuovo l'orologio: era in ritardo.
Nonostante ciò, non gliene importava. Idee e pensieri ben più consistenti erano in ballo, e il ragazzo si ritrovò costretto a pensare attentamente.
Senza neanche alzare lo sguardo, proseguì verso l'ascensore che lo avrebbe condotto al laboratorio.
Un'altra giornata stava cominciando con dei pessimi presupposti, ma Michael si chiese se non si fosse messo in moto un meccanismo più complesso.
Si domandò se non fosse giunto il momento di una svolta decisiva.




June Harrier si lasciò cadere sul pavimento della propria stanza, cingendo le ginocchia con le braccia e affondando la testa tra gli strati della felpa.
Dopo un'intera serata trascorsa tra pianti ed afflizione aveva esaurito ogni briciolo di forza, incapace persino di mettersi ad urlare.
La schiena era ben piantata sull'armadio, la cui grossa stazza aveva fornito un ottimo riparo di fortuna da intrusioni indesiderate.
I solchi sul pavimento erano ancora visibili: June aveva posto il grosso mobile ligneo davanti alla porta, impedendo a chiunque di entrare.
Essendo la casa trasformatasi in un campo di battaglia, la ragazza aveva usato ogni mezzo per creare un rifugio alla buona.
Era passato diverso tempo da quando la persona fuori la stanza, che June oramai a stento riconosceva, aveva cessato ogni tentativo di sfondare la porta e concludere l'opera.
L'arciera si massaggiò il braccio; vi era un brutto taglio che le aveva lacerato la pelle sopra il gomito, e rimasugli di vetro piccoli e sottili erano disseminati ovunque.
Fortunatamente, l'armadio non aveva ceduto alle spallate dell'aguzzina, che si ritrovò costretta a ritirarsi nei propri folli deliri altrove.
Chiusa nel suo minuscolo universo di falsa sicurezza, June Harrier cominciò a pensare, l'unica attività che riusciva a coordinare in quella situazione.
Pensò intensamente alla propria situazione, a ciò che era successo e ciò che le sarebbe accaduto.
Ogni aspettativa veniva istantaneamente vaporizzata; non vi era realmente scampo da quella situazione.
Ripensò alla tremenda bestia che si aggirava per casa, feroce ed aggressiva. A come sarebbe stata la fine se mai la avesse incrociata nel momento sbagliato.
Il solo pensiero di uscire da lì la terrorizzò; quelle ferite che le aveva procurato erano una prova tangibile.
Né fame, né sete, né qualsiasi altro bisogno si presentò: tutto era attenuato dalla paura.
Ad un certo punto provò addirittura a piantarsi nelle orecchie gli auricolari nel tentativo di distrarsi con un po' di musica, ma non andò a buon fine.
Nella sua mente confusa e spaesata, né le note né le parole riuscivano a trovare un senso.
Fu quando persino la musica ebbe fallito che June Harrier realizzò la più spaventosa realtà della propria vita.
"Sono sola..."
Allungò debolmente la mano verso il bordo del letto e afferrò il cuscino, stringendolo a sé. Finì per inzuppare di lacrime anche questo, ma continuò lo sfogo senza remore.
Sentiva il bisogno di qualcosa che assorbisse il suo dolore senza reagire o proferire parola: il morbido guanciale era il vettore perfetto.
Fu lì che, probabilmente, June riuscì ad addormentarsi vinta dal sonno e dalla stanchezza.
Non seppe nemmeno quanto tempo passò, e più che riposare si trattava di una dormiveglia sofferta.
Quando riaprì gli occhi si ritrovò nella stessa e identica posizione che ricordava di aver tenuto per ore intere.
Alzò leggermente lo sguardo per riprendere cognizione con la realtà, più dormiente che sveglia.
In quel momento, vide ciò che maggiormente rappresentava l'oggetto dei suoi desideri.
I suoi occhi guizzarono nel momento in cui vide la borsa da palestra, ancora intatta dal giorno prima, accasciata ai margini della scrivania.
Staccò la schiena dal fido armadio, strisciando verso la meta.
Afferrò la borsa dal manico e ne aprì la cerniera lampo con un lento movimento cadenzato.
I suoi occhi spenti e lugubri fissarono l'arco da allenamento che aveva riposto all'interno: un piccolo capolavoro d'artigianato, flessibile ma robusto.
Ricordò la sensazione di quando lo tenette tra le mani la prima volta, durante un giorno di pratica che poteva sembrare una delle tante, monotone giornate mondane.
Ricordò il volto beffardo di Coach Roamb quando le propose di provare un nuovo strumento di allenamento, senza ovviamente riferirle che si trattava di un arco nuovo preparato su misura.
Ricordò la sorpresa di vederselo arrivare portato direttamente dal padre come regalo di compleanno in ritardo.
La sua mente scostò il pensiero di quell'uomo; ogni ricordo positivo era stato automaticamente sovrascritto dal suo inconscio, troppo ferito per ignorare l'accaduto ma abbastanza in forze da serbare rancore.
Infine, ricordò la prima freccia scoccata con esso: un centro clamoroso.
Persino i fratellini erano venuti ad assistere e a fare il tifo. June Harrier era rimasta convinta del fatto che avrebbe ricordato quel giorno per tutta la vita.
Osservando quella constatazione dalla sua situazione miserevole, non riuscì a non provare una sensazione di triste nostalgia.
"Tutto era cominciato con il tiro con l'arco..." rimuginò "...e tutto è finito con esso"
Già una volta aveva rotto la promessa di non riprendere mai più in mano quello strumento pregno di memorie, e si decise a richiudere la borsa e riporla per sempre in un angolo della stanza dove non lo avrebbe mai più ripescato nemmeno per errore.
Fu quando fece per richiudere la cerniera che un elemento sospetto cadde dalla borsa, staccandosi da alcune pieghe nel tessuto.
June si accorse dell'accaduto e ne osservò la lenta discesa verso il pavimento: si trattava di un foglio di carta mezzo rovinato, probabilmente dovuto allo stare accartocciato in un luogo angusto.
Lo prese tra le dita, chiedendosi che cosa fosse e come fosse arrivato nella sua borsa.
Non ci mise che un attimo a comprendere l'intera dinamica.
Il foglio altro non era che la stessa lettera di invito declinata appena il giorno prima: il marchio della Hope's Peak splendeva ancora, nonostante le pessime condizioni della missiva.
La scritta "Ultimate Archer" ancora persisteva, occupando gran parte dello spazio disponibile. La scuola sembrava fare molta leva sull'orgoglio dei propri studenti.
June realizzò improvvisamente: riuscì a figurarsi il sorriso gioviale di Coach Roamb mentre infilava di nascosto la lettera nel borsone, i baffetti biondi tremolanti e vispi.
Seppur mosso da buone intenzioni, intuì che non doveva essere stata una scelta fatta a cuor leggero.
Ma June sapeva che la cosa non si fermava lì: quel gesto era un messaggio. Un messaggio che la pregava di non arrendersi.
Un messaggio che le urlava disperatamente che non era ancora finita.
June Harrier abbozzò un sorriso quasi forzato: sapeva di non poter cambiare la sua famiglia, né il destino che era stato tracciato per essa.
Sapeva soltanto di dover fare qualcosa per se stessa, a prescindere da chiunque altro potesse avere rilevanza.
Tentò di intravedere un futuro diverso: non ci riuscì.
"Se non lo vedo, non mi resta che cercarlo..."
Si alzò in piedi; notò come stranamente avesse ritrovato energia alle gambe.
Corse al comodino appena sotto la scrivania e ne aprì forsennatamente tutti i cassetti. Infilò il braccio sanguinante fino in fondo e ne estrasse un grosso borsello di tessuto, capiente e morbido. Lo aprì e ne ammirò il contenuto: i risparmi di una vita intera erano al suo interno.
Si ritrovò a pensare a tutti i modi in cui aveva ponderato di spenderli, ma niente risultò avere più importanza.
Prese fino all'ultimo centesimo e versò tutto in un recipiente più adatto.
Prese ogni oggetto che avrebbe potuto esserle utile: dal cellulare, ad un orologio da polso, a fazzoletti ed altri ausiliari igienici.
Riempì la borsa con alcuni ricambi di vestiti e un ombrello da viaggio. Mise infine i documenti ed un libro ad occupare l'ultimo anfratto rimasto.
Come ultima cosa, prese la borsa sportiva con dentro l'arco.
Caricò tutto in spalla e passò ad infilarsi il paio di scarpe meno consumato che aveva.
Sentì le mani tremarle, così come le gambe: un gelo innaturale dovuta al totale ignoto che si stava preparando ad affrontare.
Vi era un'unica, tenue speranza che la aspettava. Una speranza che prendeva il nome di un prestigioso istituto.
Mise la lettera nella tasca della felpa ed aprì la finestra.
L'aria gelida della notte penetrò nella stanza, ma non fu nemmeno in grado di avvicinarsi al freddo emotivo che la tormentava.
Guardò verso il basso, deglutendo: vi erano circa tre metri di altezza che la separavano dal terreno del giardino.
Lo considerò il primo balzo verso una piccola, grande follia.
Una scommessa impensabile, un azzardo senza mezzi termini in cui si giocava il tutto per tutto.
Sapeva solo una cosa: voleva vivere.
Fu nel momento in cui saltò, prendendo un ultimo slancio di coraggio, che June Harrier sentì per la prima volta nella sua vita il sapore dolceamaro dell'indipendenza.



- ...che cosa significa? -
Michael deglutì una copiosa quantità di saliva.
Si era preparato mentalmente per quel momento, impiegando un'intera notte insonne per preparare al meglio ogni parola da pronunciare.
Nonostante ciò, nell'attimo fatidico, si ritrovò nuovamente in difficoltà.
Sapeva che non sarebbe stato facile, lo aveva sempre saputo.
Qualcosa, però, era cambiato; Michael Schwarz aveva smesso di guardare il pavimento cercando di sfuggire agli sguardi feroci di Paul, e fece di tutto per confrontarlo a quattrocchi, senza che vi fossero ostacoli alla comunicazione visiva.
Il padre non fece mancare di notare la profonda asprezza delle proprie parole nell'udire ciò che Michael aveva da dire.
Persino lui fu in grado di notare che il tono e la convinzione del giovane chimico erano nettamente differenti dagli altri giorni.
Le sue spalle erano dritte e ferme, le gambe non gli stavano tremando, e attraverso i vetri degli occhiali riusciva ad osservare uno sguardo carico di determinazione.
- Esattamente ciò che ho detto... - fece il ragazzo - Ho intenzione di andare alla Hope's Peak. Ho compilato il modulo di iscrizione -
- E' uno scherzo di cattivo gusto, Michael? - sbottò lui, irritato - Credevo di essere stato estremamente chiaro sulla faccenda: tu non andrai da quei buffoni -
- Ho raggiunto la maggiore età, papà. Ho il diritto di compiere questa scelta -
Paul graffiò nervosamente il legno intarsiato del tavolino posto sulla parete del laboratorio. Non si aspettava di vedersi giocare quella carta così all'improvviso.
La sua mano si contrasse in un movimento sospetto; Michael velò accuratamente la propria paura, ma sapeva che il padre si stava contenendo con tutte le proprie forze.
- Spiegami, dunque - continuò - Dammi una buona ragione per cui dovresti voler andare in quel covo di imbecilli -
- Se imbastissimo un ragionamento basato sul raziocinio la avresti vinta tu, senz'altro... - ammise Michael - Ho deciso di andarci semplicemente perché voglio, tutto qui -
A quelle parole, Paul si alzò in piedi di scatto, dando un calcio poderoso alla sedia.
Questa rotolò lontano provocando un gran fracasso; i sensi di Michael erano ancora concentrati sul padre e sul suo volto paonazzo.
- Mi prendi in giro!? Da quando hai deciso di unirti all'ideologia di quegli idioti!? - gridò, adirato - Non hai nulla da guadagnare andando...! -
- Andando lì avrò la possibilità di aprirmi altre strade... - rispose lui - Non pretenderai mica che io resti a farti da lacchè per il resto della mia vita, spero... -
Paul si immobilizzò per un istante.
- "L-lacchè"!? E' questo che credi di essere...!? Tu sei l'erede di questo laboratorio...! -
- Ma non lo capisci!? Io non vedevo l'ora di avere una scappatoia che mi portasse a seguire la mia strada personale! - fece Michael, trascinato dall'impeto emotivo - Ne ho abbastanza di seguire delle regole che non condivido! Le TUE regole! Per te non sono altro che un qualcuno a cui tramandare i TUOI successi, eh!? Pretendi che io diventi un chimico come lo sei tu, facendomi andare incontro allo stesso inferno che hai vissuto a tua volta! Ma io ho intenzione di fare di testa mia, d'ora in avanti! Ho le conoscenze necessarie, e un'istituzione che mi appoggerà! Non ho più bisogno di... di TE! -
- Osi dirmi queste parole... - si espresse l'altro, costernato - ...dopo tutto quello che ti ho insegnato!? Dopo tutto quello che ho fatto per te!? -
- Bah! Ti sono grato per ciò che hai fatto per me, ma non permetterò a quei meriti di vincolarmi a te fino alla morte! - disse - Inoltre, tra le tante cose che mi hai insegnato, ce n'è una che mi è particolarmente cara e che si applica perfettamente a questa situazione... -
Ancora profondamente colpito dal discorso del figlio, Paul tentennò.
- Q-quale...? Che intendi...? -
- Non è forse il tuo motto? "Non fidarti di nessuno. Al mondo c'è un'infinità di gente che non aspetta altro che sfruttarti e rovinarti per avere successo". Mi crea una strana sensazione il dover condividere un pensiero con te, ma hai ragione. Hai ragione, papà, non posso fidarmi di nessuno. Niente e nessuno. Nemmeno di te -
- Non ti fidi... di me? -
- A questo mondo esiste una sola persona che non tradirà mai le mie aspettative o la mia fiducia: me stesso! - concluse Michael, serrando le braccia - E d'ora in avanti seguirò il mio istinto e le mie idee. Ripartirò da zero, e il mio punto di partenza sarà la Hope's Peak. Fine della discussione! -
Rimasero in silenzio a fissarsi in cagnesco per una ventina di secondi, senza proferire altro.
Michael riuscì a vedere negli occhi del padre un variegato misto di emozioni fuori controllo.
Ne avvertì tutto il disappunto, il dolore, il rammarico. Vide un sogno infrangersi a causa di una presa di coscienza, ma sapeva anche che era un male necessario.
Paul aveva momentaneamente perso colorito, ma il suo sguardo non cessava di emanare odio.
Ad un certo punto, il padre tirò un sospiro, voltandosi di spalle.
Pescò dalla tasca del camice quello che a Michael parve essere un pacchetto di sigarette ancora chiuso, coperto dal rivestimento in plastica.
Lo osservò rimuoverlo e aprirne il coperchio, afferrandone una.
Michael era certo che il padre avesse smesso, ma ebbe come la sensazione che vi erano in moto molte più cose di quante non potesse vederne.
I due si scambiarono un'ultima occhiata di sfida.
- Esco a fumare una sigaretta... - disse Paul - Tornerò esattamente tra un quarto d'ora -
Mosse passi lenti e cadenzati verso l'uscita del laboratorio. Tra le dita della mano destra stringeva un accendino grigiastro.
Girò la maniglia e si fermò non appena ebbe messo un piede fuori.
- Se al mio ritorno non sarai ancora qui, in laboratorio... - disse, senza nemmeno voltarsi - ...per me sarai morto -
Non appena svoltò l'angolo del corridoio, Michael avvertì una strana sensazione al petto.
Era al contempo gradevole e spiacevole.
Sentì di stare per fare un passò nel vuoto, in un futuro incerto, spietato e senza garanzie.
Sentì che non poteva più tornare indietro, e che oltre quella porta vi sarebbe stato un cammino dove nessuno gli avrebbe più coperto le spalle.
Al contempo, però, provò sulla propria pelle ciò che voleva dire recidere un vincolo nocivo.
Si sentì leggero, potente, quasi sovrumano. Davanti a lui si erano aperte numerose strade.
Strade buie, solitarie e pericolose, ma c'erano: erano lì, davanti a lui, in attesa di essere percorse, sostituendo una situazione in cui vi era un unico sentiero dritto senza diramazioni né possibilità.
"Questa è paura...? O libertà?" si chiese tra sé.
La mano destra afferrò il manico della valigia che aveva sapientemente nascosto in un vano della scrivania.
Controllò rapidamente che fosse tutto al suo posto, e si apprestò ad uscire dalla stanza.
Sentì il bisogno di voltarsi indietro un'ultima volta, ripercorrendo tutti gli anni trascorsi in quel posto che, per quanto largo, gli sembrava sempre più angusto ed oppressivo ad ogni giorno che passava.
Il primo passo che mosse oltre la soglia della porta gli procurò un gusto nuovo, un sentore diverso e misterioso.
"Non mi resta che scoprirlo da me"
Michael Schwarz sistemò il proprio zaino da viaggio sulle spalle, alzò la valigia, e lasciò il laboratorio del padre senza mai più fare ritorno.



Il giorno successivo



Koichi Kizakura si stiracchiò e sbadigliò rumorosamente. Erano trascorsi diversi giorni in cui si era potuto concedere il lusso di riposare per qualche ora in più, svegliandosi piacevolmente di buon mattino. Il dover partire all'alba lo riportò bruscamente alla sua realtà lavorativa.
Fortunatamente, il viaggio si preannunciava confortevole e abbastanza lungo da permettergli di dormire un po' più a lungo.
Si tolse il cappello per ripulirlo e se lo risistemò in testa, piazzandoselo sulla fronte come se fungesse da paraocchi. 
Lanciò uno sguardo fugace fuori dal finestrino: gli addetti dell'aeroporto stavano sgomberando l'area. L'aereo sarebbe partito a breve.
- Dunque! E' la prima volta che viaggi su un velivolo? - chiese al suo compagno di volo.
Michael Schwarz aveva appena posato la valigia nel vano portabagagli e si era accomodato al suo posto sperando di poter trascorrere alcune ore in perfetto silenzio e tranquillità, ma intuì che Kizakura non gli avrebbe concesso un tragitto senza porgli almeno qualche domanda di circostanza.
- No, sono già stato su un aereo un paio di volte... -
- Ma scommetto mai così a lungo, eh? - ridacchiò il biondo, massaggiandosi la barbetta rada - Da qui fino in Giappone ci vorrà un bel po', ti consiglio di recuperare sonno -
- Lo farei volentieri, con un po' di tranquillità... -
Koichi capì l'antifona e decise di lasciarlo in pace; sapeva che l'orario non era facile da gestire nemmeno per Michael.
Era a conoscenza, inoltre, dei dissapori venuti a galla col padre la sera precedente.
Koichi rimase sorpreso dal notare come Michael non fosse intenzionato a far trapelare nemmeno un briciolo del proprio malessere, e che la maschera emotiva che aveva indossato era solida ed imperscrutabile. Si chiese se non fosse un simbolo di forza e semplicemente di testardaggine, ma ammise a se stesso di esserne rimasto impressionato.
"Tutto ciò mi riporta alla mente un caro, vecchio amico..." sogghignò Koichi, immergendosi nel passato.
Nel bel mezzo del suo contemplare antichi ricordi, fu sorpreso dal vibrare del proprio cellulare.
Si grattò la nuca, realizzando di averlo dimenticato accesso prima del volo e sperando che ciò non provocasse problemi.
Ancora mezzo addormentato, avvicinò gli occhi allo schermo per vedere chi lo stava contattando a quell'ora del mattino, dove persino il sole faticava a mostrarsi.
Il numero, però, era sconosciuto. 
Kizakura sforzò la memoria, ma non riusciva a ricordare a chi potesse appartenere quel recapito.
Chiedendosi chi fosse e come avesse ottenuto quel numero, premette il pulsante del ricevitore.
- Qui Kizakura. Chi parla? - 
Attraverso il rumore proveniente dal cellulare, Koichi riuscì ad ascoltare solo alcuni rumori soffusi e disturbati. Era chiaro che non vi fosse molto campo.
Fu però certissimo di aver udito un suono ben distinto, in mezzo alla confusione: un singhiozzo rotto.
Il suo volto si fece più serio e scuro; la persona dall'altro lato della cornetta stava piangendo.
- Pronto? Chi è? - chiese di nuovo.
- P-pronto...? - stavolta la voce era più distinta, quella di una ragazza - Parlo c-con... la Hope's Peak...? -
Koichi deglutì e tentò di assumere il tono più calmo e rassicurante che poteva.
- Sì, sono Koichi Kizakura, rappresentante della Hope's Peak - disse - Con chi parlo? -
- Ah...! S-sono... Harrier. June Harrier... - fece la flebile voce - Ho c-chiamato questo numero... perché era sul depliant... -
Nel momento in cui aveva udito il nome, la mano di Koichi scattò verso la tasca della propria giacca, estraendone alla svelta un taccuino.
Scorse in fretta le pagine, fino a raggiungere quella designata.
"Falls... Grace... Heartland... No, prima, eccolo: Harrier. June Harrier, l'arciera
- Certo, sei l'Ultimate Archer! - esclamò Koichi - Sono contento di sentirti. Posso aiutarti in qualche modo? -
- Io... io volevo confermare... la mia iscrizione... - disse debolmente - Però... però io... -
- June, adesso tira un bel respiro e ascoltami: sono qui con te, ok? - la rassicurò lui - Cerca di calmarti e dimmi che succede -
- S-sono... sono scappata di casa... - mormorò lei, riprendendo il pianto - Ho raggiunto l'aeroporto, m-ma... non so cosa fare...! Sono sola, ho paura...! -
- Va benissimo, June. Andrà tutto bene - fece la voce melliflua di Kizakura - Dimmi dove sei -
Nel frattempo, Michael Schwarz aveva notato il notevole cambio di espressione di Koichi, che non rispecchiava affatto il tono delle sue parole.
L'uomo parlava in maniera misurata e confortevole, ma i suoi occhi trasmettevano ansia e apprensione.
Lo vide estrarre una penna della tasca per poi segnare alcuni appunti rapidamente sul taccuino: sembrava l'iscrizione del nome di una città con un relativo indirizzo.
A cosa servisse quell'ubicazione rimaneva un mistero.
- Che cosa succede? - chiese Michael.
- Una ragazza è in difficoltà... - gli confidò sottovoce, tornando al cellulare - Pronto, June? Mi senti? -
Dal dispositivo spuntarono alcuni rumori di disturbo.
- Ti sento... -
- Benissimo. Adesso invierò immediatamente un messaggio a un mio collega, ok? Verrà a prenderti quanto prima - le disse - E' grande e grosso, ma ha un cuore d'oro. Lo riconoscerai subito, quindi non avere paura. Va bene? -
- V-va bene... - fece, ancora tremolante - M-ma cosa faccio... adesso? -
- Tranquilla, appena avrò finito di contattare chi di dovere ti richiamerò immediatamente. Parleremo fino a che non verranno a recuperarti, se ti va. D'accordo? -
- Ne... ne è sicuro...? -
- Non sei sola, June. La Hope's Peak ti proteggerà, stanne certa - disse - Ora riattacco momentaneamente. Ci sentiamo tra pochissimo -
A quelle parole, Michael lo vide comporre frettolosamente un numero telefonico gettando contemporaneamente uno sguardo all'orario. Il volo era previsto a breve, non c'era molto tempo. 
Una domanda spontanea sorse nella mente dell'Ultimate Chemist davanti a tutta quella dedizione.
- Fai tutto questo per una persona che nemmeno conosci... - commentò - Perché? -
Momentaneamente spiazzato da quella domanda, Koichi esitò a comporre il numero.
- Perché, eh? - sospirò - Voi ragazzi siete il nostro futuro, Michael. E' una nostra responsabilità proteggervi, non importa se non siete persone a noi strette o familiari. Siete i nostri studenti, chiaro? Il talentuoso seme che darà vita ad un magnifico fiore. E credimi, farei di tutto per preservare la vostra incolumità -
- "Di tutto"...? Un po' estremo... -
- Forse hai ragione, ma chissà? Forse un giorno comprenderai cosa dico, quando troverai qualcuno da proteggere. Magari... qualcuno a cui vorrai bene più di quanto ne voglia a te stesso -
Koichi si immerse nuovamente nelle telefonate, lasciando Michael da solo coi propri pensieri.
Si preannunciava un viaggio lungo e sofferto: troppe cose a cui pensare, troppe risposte da trovare.
Michael Schwarz avvertì una vaga sonnolenza e si lasciò andare sullo schienale del proprio posto.
"Qualcuno a cui voglio bene..." pensò.
Un concetto ancora estraneo, sconosciuto.
Un'altra delle tante cose che Michael Schwarz sperava, in qualche modo, di trovare in quella nuova parte della propria vita.
Pochi minuti dopo era a centinaia di metri da terra, in volo per il Giappone.


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Capitolo 39
*** Capitolo 5 - Sopravvivenza - Parte 1 ***


Capitolo 5 - Sopravvivenza



Erano passati tre giorni dall'esecuzione di Kevin Claythorne.
I corridoi della scuola erano talmente vuoti e silenziosi che quasi pareva di poter udire l'ululato del vento: era il tacito monito che il gioco al massacro di Monokuma aveva mietuto tante vittime e stava procedendo come stabilito.
Judith passeggiò lentamente verso il ristorante, ascoltando il suono riecheggiante dei propri passi, rimbombanti lungo l'intera zona.
Guardò la stradina che portava verso i laboratori: ripensò a come, solo poche settimane prime, fosse stata utilizzata da Refia ed Hayley come circuito di pratica.
A come Vivian, Lawrence e Kevin la percorressero quotidianamente per dedicarsi alle proprie attività abituali.
Passò davanti al terminale del gigantesco portone meccanico davanti ai piazzali, dove era solito trovarsi Alvin immerso nelle proprie elucubrazioni.
Infine, il ristorante era spoglio e desolato: il vociare animoso di Rickard era ciò che principalmente lo ravvivava, senza contare la sagoma sinuosa di Elise che saltellava da un punto all'altro della stanza riprendendo ogni dettaglio, persino quelli più inutili, con la propria videocamera.
Erano tutti ricordi ancora vividi, ma che iniziavano lentamente a sbiadire.
Judith scrollò la testa e si diede alcune leggere pacche sulle gote.
"No, non posso permettermi di dimenticarli..." impose a se stessa "Non posso permettere che il loro ricordo rimanga sepolto in questo inferno..."
Rimpianse di non aver potuto conoscerli in situazioni normali; persino Hillary e Michael sarebbero potuti risultare delle persone più affabili e amichevoli in un contesto differente.
Ma la sfida mortale non si era conclusa, anzi: andava avanti imperterrita, mietendo sempre più vittime innocenti.
Giorno dopo giorno, processo dopo processo, morte dopo morte. Judith si rese conto di aver sfruttato il suo talento non solo per mera sopravvivenza, ma per tentare di raggiungere la fine di quel nefasto gioco. Fine, però, che la avrebbe condotta, nel migliore dei casi, ad uscire da lì con un fardello troppo pesante da sopportare.
Scacciò via dalla mente l'ipotesi di avere altre vittime; con così poche persone non ci si poteva permettere di perdere ancora qualcuno.
Decretò che il modo migliore per rilassare la mente e distoglierla da pensieri infelici fosse l'ausilio di una buona colazione e di una bevanda calda, l'ideale per affrontare il mattino.
Fu quando aprì la porta del ristorante che notò la presenza di un'altra persona; ne rimase colpita, non avendo visto nessuno da fuori.
In fondo alla stanza, in un tavolino solitario, Pearl stava osservando la propria immagine riflessa sul tavolo lucido, persa in chissà quale considerazione.
Al suo fianco vi era un tazza colma per metà di liquido oramai raffreddato. Non vi era traccia di cibo consumato.
A vederle il viso smunto e vagamente scolorito, Judith si chiese se Pearl stesse mangiando abbastanza o se si stesse riguardando almeno un minimo.
La porta del ristorante si richiuse con un cigolio; Pearl si voltò lentamente.
- Judith. Buongiorno -
- Buongiorno, Pearl... - la salutò lei - Va tutto bene? Non hai una bella cera -
- Dubito che tra noi ci sia ancora qualcuno con un aspetto sereno - puntualizzò lei.
Judith dovette annuire malvolentieri. Le si sedette di fianco.
- Dico sul serio, Pearl, mi sembri piuttosto stanca... - le disse, facendole notare le occhiaie - Non riesci a dormire? Forse non mangi a sufficienza? -
- Judith, sei gentile a preoccuparti per me, ma credo che dovresti pensare un po' di più a te stessa... - rispose l'altra, con tono neutro - Siamo in una situazione delicata: siamo rimasti in sette. Dopo tutto ciò che è successo, nessuno sa chi sarà il prossimo ad impazzire... -
- Ti scongiuro, non dirlo... - la pregò Judith.
Pearl deglutì.
- Ciò che è accaduto a Kevin... - mormorò - Odio ammetterlo ma... mi ha scosso. Era da tempo che non mi sentivo così -
- Così come? - Judith parve non capire.
- All'inizio credevo di sentirmi... tradita. Ma non era così - spiegò Pearl, alzando gli occhi al soffitto - Fin dal principio mi ero preparata mentalmente. Sapevo perfettamente che chiunque sarebbe potuto morire; che chiunque avrebbe potuto uccidere. Mi sentivo pronta ad affrontare la realtà, ma le cose sono divenute complicate -
L'Ultimate Lawyer notò una strana luce negli occhi di ghiaccio di Pearl.
- Qualcosa... qualcosa è cambiato? - ipotizzò Judith.
- Credo di sì... - disse lei - Non riesco a capire cosa, ma qualcosa è cambiato. Dopo aver visto tutti i nostri compagni morire, ho avvertito una sensazione diversa. E Kevin... beh, lui era un caso a parte. Forse è colpa di quel fiore... -
Un ricordo riaffiorò nella mente di Judith.
- Oh! Quello di cui parlavi dopo in tribunale...! - esclamò - Quello che ti ha dato Kevin -
- Mi sembrava un gesto talmente puro e genuino... - sospirò Pearl - Per un momento, solo per un momento, ho pensato... "questa persona non potrebbe mai uccidere nessuno". E guardami ora, a rimproverarmi per un giudizio affrettato. Io, che ero partita prevenuta su tutti i fronti. Capisci cosa intendo? Mi sento... strana -
- "Strana"? Non vorrai dire "triste"? -
Pearl si voltò di scatto. I loro occhi si incrociarono.
Il volto dell'Ultimate Ninja esprimeva un sentimento di sorpresa e perdizione, come se Judith avesse pronunciato una frase assurda e priva di senso.
Quest'ultima, infatti, non poté fare a meno di sentirsi in difficoltà davanti a degli occhi talmente intensi quanto pieni di sbigottimento.
- Triste... - sussurrò Pearl.
- C-ci conosciamo da appena un mese... ma è chiaro che, dopo tutto quello che abbiamo passato, ci consideriamo ben più di semplici sconosciuti, no? Non è normale 
intristirsi nel veder morire... un amico? -
- Sì, credo tu possa vederla in questo modo... - disse l'altra, mancante però di convinzione.
- Ho avuto modo di parlare con Kevin a mia volta, durante le indagini - spiegò lei - Non era cattivo, era solo spaventato. Moltissimo. Pensa che a malapena riusciva a trovare il coraggio di parlare ad alcuni di noi; mi ha detto di sentirci come presenze torreggianti, pronte a schiacciarlo. E, dopo aver conosciuto il suo animo così a fondo... beh, vederlo morire mi ha... devastata... -
Pearl incrociò le braccia, ponderando.
- Credo di dovermi ancora porre molte domande su ciò che provo... - annuì, alzandosi dalla sedia - Spero solo di non arrivare alla mia conclusione troppo tardi... o potrei pentirmene -
- ...te ne stai andando? - chiese l'altra, ancora preoccupata.
- Ho bisogno di stare un po' da sola. Ci sono alcune cose a cui devo pensare per conto mio e... alcune scelte che devo compiere -
Judith non poté far altro che rispettare quella decisione, e la salutò con un cenno.
Fu quando Pearl stette per uscire che quest'ultima si fermò, appena prima di muovere il primo passo fuori dalla porta.
- Mh... Judith, grazie - fece lei - Apprezzo il tuo supporto, sappilo. Le tue parole non hanno viaggiato a vuoto -
L'Ultimate Lawyer, vagamente spiazzata da quel commento improvviso, ricambiò con un sorriso sincero.
- Ho avuto anche io i miei momenti di difficoltà, ma qualcuno mi ha aiutato a superarli - le disse - E' il minimo che io possa fare. Siamo amiche, dopotutto, no? -
Pearl si limitò a fare un cenno, rinunciando a risponderle. Dopo ciò, sparì dietro la porta di ingresso e si dileguò lentamente dal ristorante.
Fu il turno di Judith di contemplare il proprio riflesso in cerca di risposte.
Che addirittura Pearl Crowngale si fosse lasciata andare ad un momento di debolezza era sintomo che le cose stavano realmente cambiando.
Judith avvertì un brivido alla schiena; aveva un pessimo presentimento.
Un delicato equilibrio era sul punto di essere nuovamente reciso, e non poteva lasciare che accadesse.
"Pearl sta cedendo... e chissà come stanno gli altri...?" pensò "Devo fare qualcosa, e alla svelta. Qualunque elemento possa fare da collante, io devo trovarlo"
Si alzò in piedi, determinata ad agire.
- ...domani andrò da Karol. Dobbiamo perseverare sulla nostra strategia - mormorò a se stessa - Dobbiamo trovare una via d'uscita, una soluzione. Non possiamo permetterci di autodistruggerci. Non adesso! -
Spinta sia da una forte motivazione che da una pesante apprensione, Judith Flourish decise che non era ancora giunto il momento di arrendersi.
La prima tappa sarebbe stata la dispensa e la prima colazione. Il ragionamento a stomaco pieno era da sempre il miglior alleato in situazioni spinose.
Dopo una ventina di minuti, Judith uscì dal ristorante a passo svelto.
Con un gesto automatico, si assicurò che la rosa bianca fosse ancora salda sulla sua tempia. Se la risistemò per scrupolo.
Poi, si diresse verso i dormitori.
Il silenzio regnava ancora sovrano.




Karol Clouds si fermò davanti alla finestra della classe che dava sul corridoio, rimirando il proprio riflesso sul vetro polveroso.
Era un'azione che era solito fare spesso nei momenti bui: talvolta gli capitava di arrestarsi improvvisamente davanti a specchi o larghe vetrate, semplicemente guardando se stesso senza alcun filtro esterno. 
Si chiese inizialmente se quello non fosse un semplice sintomo di vanità, ma sapeva bene che non era il caso in questione.
L'Ultimate Teacher cercò intensamente la persona che aveva sempre voluto essere, fallendo però nel tentativo.
Chiunque stesse cercando, non lo avrebbe trovato negli occhi spenti e provati della persona che stava osservando.
Ebbe quasi paura a riconoscere se stesso nel riflesso: la sua carnagione, da sempre pallida, era divenuta esponenzialmente più decolorata e smunta.
I capelli, sempre tenuti in perfetto ordine, mostravano addirittura la presenza di alcuni rari peli grigiastri.
Le sue labbra tremavano, segno di una profonda discordia interiore repressa con ogni mezzo.
Avvertì l'irregolarità del suo respiro e la forzata voglia dei propri muscoli di contrarsi.
La persona che stava fissando nella finestra non era minimamente riconducibile a Karol Clouds; o, almeno, era ciò che l'Ultimate Teacher tentò disperatamente di credere.
La facciata da lui costruita con tanta fatica era venuta meno in un momento di debolezza; aveva trascorso il pomeriggio facendo avanti e indietro per i banchi dell'aula del primo piano senza mai nemmeno mettere piede all'esterno.
Era solo questione di tempo prima che il resto del gruppo notasse il suo evidente aumento di stress; e non poteva concepire l'idea di permettere che ciò accadesse.
"Maledizione...
Smise di guardare il disgustoso omuncolo che continuava a ricambiargli le occhiate dal vetro della finestra e riprese a camminare.
Marciò febbrilmente marcando con i passi il perimetro della classe, ripetendo il processo innumerevoli volte.
Karol cercava una risposta; un qualcosa che era certo potesse ottenere solo ragionando con la dovuta calma ed esercitando pazienza e raziocinio, così come i suoi  precetti morali e didattici stabilivano. Una risposta che, però, tardava a manifestarsi.
"Maledizione..."
Si fermò, infine al centro della stanza.
Si beò inizialmente del silenzio che regnava al suo interno, tentando di usufruirne per rilassare mente e corpo.
Ma quel silenzio si rivelò per ciò che era davvero: un'assenza sonora dovuta all'assenza di voci che non poteva più udire.
Voci che ancora strillavano di dolore e paura nei suoi ricordi, ma che non avevano più spazio nell'esistenza.
Voci dei compagni caduti, che ora erano state sostituite da quel tremendo silenzio che, piano piano, stava uccidendo anche lui.
La sua mente vagò fino al ricordo del suo primo tentativo di tenere una lezione per i suoi compagni.
Alvin e Judith erano stati i primi ad arrivare, palesemente interessati all'argomento.
Vivian e Pearl erano seguite immediatamente dopo, approfittando della riunione per inserirsi meglio nel contesto del gruppo.
Persino Rickard e Pierce si erano presentati con un certo entusiasmo, seguiti a loro volta da Lawrence e da un Kevin più riluttante.
Mancavano i membri più vivaci o i più schivi; gli schiamazzi di Refia ed Hayley erano perfettamente udibili dal corridoio poco distante, ma Karol non vi badò.
Che potessero distrarsi e divertirsi a modo loro non era che un bene, e il numero raggiunto era più che sufficiente da poter essere considerato una piccola conquista, una vittoria personale.
Riaprì improvvisamente gli occhi, sfuggendo alle dolci spire di quella deliziosa ed allettante memoria: non c'era più nessuno.
I banchi erano spogli, le sedie lasciate alla polvere, e la lavagna era lucida e priva di marchi di gesso.
La classe era completamente vuota.
Ogni sforzo dell'Ultimate Teacher era risultato vano, creando un enorme buco nel suo animo. Un buco che non riusciva più a colmare con la sola determinazione.
Karol abbassò lo sguardo, sconfitto. Digrignò i denti, strinse le dita in un pugno fino ad arrossarsele.
Infine, come un lampo, gli occhi sanguinanti di Hillary Dedalus rifecero capolino nella sua mente, assieme ai suoi finali rantoli di supplica.
- MALEDIZIONE! -
La gamba reagì da sola. Agganciò con lo sguardo la sedia più vicina e tirò un violento calcio con tutta la forza che aveva. 
Questa andò a schiantarsi contro il banco, facendo cadere entrambi e provocando un rumore assordante.
Non soddisfatto, agguantò il primo banco a disposizione e lo sollevò con entrambe le braccia, scaraventandolo contro il muro.
Lo spigolo della piccola scrivania provocò una minuscola crepa, rovinando l'intonaco.
Non cessò fino a quando ogni singola fibra del suo corpo non si sentì sfogata e soddisfatta.
- NON DOVEVANO MORIRE! NON QUI, E NON COSI'! -
Non risparmiò nemmeno la scrivania principale, assestando un pugno sul legno; le nocche scorticate iniziarono a sanguinargli.
Gettò a terra ogni piccolo oggetto di cancelleria che riuscì a intravedere, dalle matite al piccolo rotolo di nastro adesivo.
Infine, con un ultimo urlo disperato, lanciò un ultimo pugno contro la lavagna di ardesia; colpo che rimbombò lungo tutta la stanza.
- Male... dizione... - ansimò, riprendendo fiato.
Inspirò ed espirò, tentando di recuperare lucidità e compostezza.
Non ebbe più neppure il coraggio di guardarsi nuovamente allo specchio: sapeva che avrebbe visto solo una persona che aveva tentato di cancellare già da molto tempo, ma che nei momenti più bui riusciva sempre a tornare in vita.
Nonostante tutto, però, la mente di Karol riuscì comunque a stabilire un contatto differente con la realtà.
Riuscì ad oltrepassare il velo di rabbia e frustrazione; per un istante, i suoi sensi catalogarono un pensiero nuovo.
Alzò leggermente lo sguardo verso la lavagna; batté un altro colpo, stavolta più leggero, con le nocche.
Al contatto con la superficie scura avvertì una sensazione di freddo e durezza; ma ciò che aguzzò fu l'udito.
Il primo pugno, per quanto furente, aveva prodotto un suono più che strano; troppo per essere ignorato.
Tastò con la mano il punto in cui aveva colpito la lavagna, dando un altro colpetto e poi un altro ancora nella zona adiacente.
Si spostò verso il margine esterno, sul bordo: fece un tentativo anche lì. La reazione sonora fu diversa.
La curiosità e la sorpresa presero improvvisamente il posto dell'ira, lasciando tempo a Karol di riprendersi dalla frenesia di poco prima.
Respirò profondamente, facendo di tutto per lasciarsi alle spalle quell'episodio poco dignitoso.
La sua attenzione era completamente rivolta verso quel nuovo elemento.
Osservò che la lavagna era fissata al muro con dei ganci; allungò le dita fino a raggiungerli. In un paio di tentativi, fu in grado di rimuoverla completamente.
Appoggiò la sua mole imponente al muro, asciugandosi il sudore a causa della fatica.
Andando poi ad ispezionare il punto interessato, trovò conferma dei propri sospetti.
Quella semplice azione dovuto ad un tempestoso scatto di rabbia aveva avuto un esito ben più inaspettato.
Sul muro appena dietro la lavagna vi era un piccolo vano segreto, un'apertura delimitata da due porticine simili a delle ante.
Karol Clouds si avvicinò per osservare meglio.
"Cosa... cos'è?"
Inciso sui due sportelli dall'aspetto metallico vi era il disegno stilizzato del volto di Monokuma affiancato da una scritta esposta a caratteri cubitali.
Una semplice frase che bastò a lasciarlo a bocca aperta per diverso tempo.
"HAI TROVATO L'INDIZIO SEGRETO! CONGRATULAZIONI!
Lo stile di scrittura era volutamente colorato e tondeggiante, quasi come a schernire l'enorme rilevanza dell'informazione che celava.
Karol esitò prima di aprire. Avrebbe voluto scoprire cosa vi era dentro con tutto se stesso, ma sapeva anche che poteva trattarsi di qualcosa di pericoloso.
Le possibilità erano molteplici: poteva trattarsi di una trappola, un inganno che faceva leva sulla disperazione e sul desiderio di un qualunque appiglio a cui aggrapparsi.
"Ma potrebbe anche essere realmente una scappatoia per fuggire da qui..." constatò.
Ponderò l'idea di andare a chiamare i compagni, ma qualcosa lo bloccò. Un pensiero lo fulminò all'improvviso.
"...no, non posso dirlo a nessuno" pensò, mordendosi il labbro "Per quel che ne so... il traditore è fra loro..."
Il solo aver contemplato quell'eventualità lo riempì di costernazione verso se stesso; ma la cosa aveva iniziato a perdere effetto.
Karol aveva oramai cessato di tenere in considerazione il proprio orgoglio di insegnante, devolvendo la propria logica verso un'opinione più concreta.
"Forse qui dietro c'è la chiave per smascherare il traditore...!" disse, allungando le braccia verso gli sportelli "Sì... sì, è l'unico modo. E' l'unico modo per salvarli tutti. Non posso aiutare coloro che sono morti, ma posso ancora portare in salvo i pochi sopravvissuti... e l'unico modo per farlo è..."
Con una strattonata decisa tirò le ante, rivelando il contenuto nascosto.
Uno sguardo di pura determinazione si manifestò sul suo volto, più scuro che mai.
"...è trovare il traditore!"

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Capitolo 40
*** Capitolo 5 - Parte 2 ***


Xavier lasciò la sua stanza parecchio tardi, quel mattino.
Pur svegliandosi moderatamente presto, aveva deciso di non uscire fino a quando non fosse riuscito a mettere a posto i propri pensieri.
Erano accaduti troppi eventi rilevanti negli ultimi giorni, e tutti assieme: la tensione delle battute finali della sfida cominciava a fare presa anche sugli animi più coriacei.
Aveva passato una larga porzione di tempo a guardarsi allo specchio: lo sfregio sull'occhio sinistro era sempre lì, come un monito.
Nel riflesso della pupilla sana riuscì quasi ad intravedere il volto straziato di Kevin, da pochi giorni prima.
Scostò bruscamente lo sguardo, allontanandosi da quelle memorie ipnotiche.
Osservò il muoversi e il contrarsi delle proprie dita come per riallacciarsi alla realtà: ultimamente gli accadeva spesso di lasciarsi trasportare da pensieri sgradevoli.
Una brutta abitudine acquisita molto tempo prima e che non accennava a sparire, soprattutto quando si trovava da solo. 
Si guardò nuovamente attorno, osservando l'atmosfera taciturna.
Il silenzio della stanza e l'assenza di movimento iniziarono a divenire oppressivi; Xavier decretò che era ora di muoversi.
Afferrò la chiave della propria camera e uscì fuori, girando la serratura più volte.
La prima meta prevista avrebbe dovuto essere il ristorante per una rapida tazza di caffè macchiato e qualcosa da mettere sotto i denti, ma così non fu.
Un evento peculiare attirò la sua attenzione, il che lo costrinse ad investigare ulteriormente su ciò che stava accadendo.
Adocchiò la sagoma di June Harrier uscire dalla stanza numero quattro sollevando uno scatolone traboccante di roba non meglio distinguibile.
Una scena apparentemente normale, senza considerare il semplice fatto che l'appartamento che aveva appena lasciato era quello di Michael Schwarz.
Il solo pensarci era motivo di porsi dubbi.
L'arciera cominciò a camminare traballando, quando il volto sospettoso di Michael fece capolino dall'altro lato della porta.
- Non rompere nulla, chiaro!? - la ammonì lui.
- Ovvio! Per chi mi hai preso!? - ribatté lei acidamente.
Il chimico richiuse la porta rientrando, mentre June proseguì a camminare verso i corridoi del primo piano; lasciarono Xavier ancora più spaesato di quanto non fosse già.
Avvertì l'urgenza di chiedere spiegazioni, e corse fino a raggiungere June.
- Uhm, June? - la richiamò lui alle sue spalle - Che stai facendo? -
Lei volse leggermente lo sguardo fino ad incontrarlo con la coda dell'occhio.
- Oh... c-ciao, Xavier - disse lei - Sto trasportando questo mucchio di ciarpame, come puoi vedere -
Lui si sporse leggermente per constatare che cosa stesse portando: nello scatolone vi erano diversi contenitori in plastica e alambicchi vari, misurini ed alcune boccette colme di liquido dai colori più variegati, più altri componenti sospetti. Di facile intuizione era che appartenessero a Michael.
- Materiale da laboratorio, eh? - chiese lui.
- Sì, Michael mi ha chiesto di portarli in infermeria -
Xavier tentennò per un istante. Non credette a quella affermazione nemmeno rielaborandola più volte.
- Lui? Lo ha chiesto a te!? - esclamò, basito.
- B-beh...! Io mi sono offerta di farlo, in realtà... -
- Ok, questo è ancora più assurdo - disse lui, incrociando le braccia - Fino a qualche giorno fa volevi scannarlo vivo. Che è accaduto? -
- Oh, suvvia, Xavier! E' già difficile tentare di ingoiare l'amaro boccone senza che tu venga a ricordarmelo! - sbuffò - Gli ho chiesto scusa, tutto qui... e adesso sto cercando di riparare al mio errore ed essere gentile... cosa c'è di strano!? -
Lui rimase a guardarla come a chiederle silenziosamente se stava parlando seriamente; stranamente, però, gli sembrò che fosse estremamente seria al riguardo.
- No, non credo sia strano da parte tua... ma da parte sua! - disse - Anzi, ora che ci penso: sbaglio o ti ho visto uscire dalla sua stanza? Da quando Michael permette a qualcuno di entrare in camera sua!? -
- F-forse nessuno ci ha mai provato abbastanza! - disse lei, volgendo lo sguardo arrossato - E comunque non credi che sia un bene che sia riuscita a farlo aprire un po'...? -
- Senza dubbio. Ma mi chiedo che risvolti avrà questa situazione... -
- Sei sempre troppo sospettoso, Xavier - rise June - Per una volta che accade qualcosa di vagamente positivo, tendi subito a correre ai ripari -
- Forse hai ragione, ma sono fatto così - si grattò la nuca - Sono un po' pessimista di natura -
- Ognuno ha i difetti che ha. Prendi Michael, ad esempio - ridacchiò June - Lui ne ha da vendere, ma non vuol dire che non si possa fare breccia attraverso di essi, no? Ora perdonami, ma devo sbrigarmi -
Ancora vagamente spiazzato, si limitò a farle un cenno con la mano.
Appena June sparì dalla sua vista, l'Ultimate Detective fece retromarcia e tornò verso il piazzale dei dormitori.
Aveva un tarlo alla testa che si era insinuato nei suoi pensieri e sentiva la necessità di liberarsene.
Si recò rapidamente alla stanza numero quattro e bussò più volte con una certa insistenza.
- Michael? Sei lì dentro? - lo chiamò Xavier.
Dopo un paio di istanti, ebbe risposta.
- Eh? Chi va là!? - fece la voce dall'interno.
- Sono io. Sono Xavier -
- Xavier? Che accidenti vuoi!? -
- Ti suonerà assurdo, ma volevo solo accertarmi che stessi... uhm, bene? -
Vi fu silenzio per alcuni secondi. La porta della stanza si aprì di appena un paio di centimetri rivelando un occhio protetto da una spessa lente di occhiali.
- ...fai sul serio? - sbottò Michael - Tra le tante prese in giro che mi aspettavo, proprio questa? -
- Dico sul serio, credimi... - sospirò lui - Ho visto June uscire da camera tua. Comprenderai, dunque, che la cosa potesse destare sospetti. Giusto? -
Notò lo sguardo di Michael girarsi come per evitare di rispondere ad una domanda scomoda.
- E con ciò? Mi sta semplicemente facendo da facchina... -
- E si è addirittura offerta volontaria. Che è successo tra voi due? Fino all'altro giorno... - si bloccò a metà frase, notando che Michael stava lentamente strisciando all'interno della camera richiudendo la porta - ...per la miseria, Mike! Possiamo, di grazia, parlarci a tu per tu!? -
- Neanche per sogno. Sai bene come la penso sulla questione - rispose - Per quanto riguarda June, sappi che ho preso le mie precauzioni! Non faccio entrare nessuno nella mia stanza senza aver preso le giuste contromisure in caso di pericolo. Quindi, come puoi notare, sono mentalmente sano! -
Xavier si passò una mano sulla fronte, chiedendosi come mai stesse ancora perdendo tempo a preoccuparsi per Michael.
- Va bene, d'accordo. Dimmi almeno che cosa state combinando -
- Come, scusa? - fece la voce oltre la porta - Di che parli? -
- June stava trasportando la tua roba in infermeria, no? Ero convinto che facessi i tuoi esperimenti chiuso in camera - fece Xavier, con fare interrogativo - Come mai prendersi il disturbo di spostarsi in un luogo accessibile a tutti se la tua priorità è la sicurezza? -
- Bah! Come ti ho già detto, ho preso le mie precauzioni! - sbottò il chimico - Avevo bisogno di un laboratorio più ampio perché sto lavorando ad un progetto più ambizioso, tutto qui -
- E di che si tratta? -
- Hah! Credi davvero che basti chiederlo per farmi spifferare tutto!? - rispose, beffardo - Lo saprai se ve ne sarà bisogno! Tanto ti basti! -
Intuendo che la conversazione non sarebbe andata avanti molto facilmente, Xavier decise di lasciar perdere.
- Va bene, vedi solo di non combinare guai... - lo ammonì, prima di andarsene definitivamente.
La giornata era appena cominciata, e già presagiva pessime incombenze.




June appoggiò lo scatolone sul largo ripiano dell'infermeria con una certa soddisfazione in volto; tutto era arrivato sano e salvo a destinazione.
Si asciugò una goccia di sudore dalla fronte. Il lavoro le era costato un po' di fatica.
Si massaggiò le braccia vagamente indolenzite assicurandosi che tutto fosse a posto.
"...sono fuori allenamento" constatò.
Erano diversi mesi che non faceva pratica regolare di tiro con l'arco, e gli effetti del mancato esercizio iniziavano a farsi sentire.
Mimò con le mani l'atto di afferrare un arco, tenderlo, e scoccare una freccia; il tutto le risultava ancora come un movimento naturale, ma sapeva che non era la stessa cosa.
Inoltre, nonostante i tentativi di usufruire della palestra della scuola, non aveva mai trovato il coraggio di impegnarsi sul serio.
Dopo il caso di Refia ed Alvin, June aveva seriamente considerato di appendere al chiodo per sempre quella carriera.
Volse un ultimo sguardo nostalgico in direzione della palestra e tornò a concentrarsi sulla mansione alla mano.
La scatola e gli oggetti in superficie erano intatti, ma nulla le assicurava che qualcosa sul fondo del recipiente non si fosse accidentalmente incrinato per errore.
Inoltre, considerò June, l'idea di sorbirsi le ire dell'Ultimate Chemist nel vedere danneggiata la propria attrezzatura da laboratorio non le era gradita.
Cominciò ad estrarre tutto ciò che poteva con la massima cautela, accertandosi che non vi fosse nulla di rotto o anche solo semplicemente graffiato, poggiando tutto sul tavolo.
"Mi ha chiesto di portare qui tutta la sua roba... ma ancora non ho idea di che cosa abbia in mente" sospirò "Avrei dovuto insistere di più..."
Passò diverso tempo a sistemare tutto ciò che doveva sul tavolo, poggiando tutto con la massima cura.
Per scrupolo, ripassò con lo sguardo tutto il materiale per un paio di volte fino a che non fu sicura che non mancasse nulla.
Aveva una piccola lista dell'inventario con cui confrontarsi in modo da non avere problemi successivamente.
Fu in quell'istante che udì la porta dell'infermeria aprirsi, esattamente all'orario in cui Michael le aveva detto che sarebbe arrivato.
Fu sorpresa, però, nel vedere un volto differente sbucare da oltre la soglia.
Pierce si intrufolò tentennante e osservò una June Harrier vagamente imbarazzata e che aveva già iniziato ad elaborare una spiegazione plausibile per ciò che stava accadendo.
- Oh...! Pierce, sei tu - esclamò lei - Non mi aspettavo di vederti qui -
- Che... che cosa stai facendo qui? - domandò lui.
- Ah, questo...? E' per... beh, per un esperimento - annuì lei, poco convinta - Credo... -
- "Credi"? Non capisco... - lo sguardo dell'Ultimate Sewer apparve ancor più confuso - Che esperimento dovresti voler condurre? -
- Eh, non è un mio progetto personale... è un'idea di Michael -
Le pupille di Pierce si dilatarono.
- M-Michael!? U-un momento...! - ansimò lui - Vuol dire che...!? -
- Rilassati, Pierce! - lo calmò lei - Io e Mike abbiamo... abbiamo parlato un po'. Forse, e dico "forse", potrei essere riuscita a rabbonirlo parzialmente... -
- Dici sul serio? - lui sembrava ancora poco convinto - S-scusa, June... ma dal caso di Kevin i-io... io non sono tanto sicuro che... -
- E' comprensibile avere paura di Michael, ma credo dovremmo dargli almeno una possibilità... e lo dico io, che lo ho preso a pugni -
Pierce Lesdar abbassò lo sguardo, dispiaciuto.
- No... non è per quello -
- E per cosa, allora? - chiese June, intuendo che il discorso velava altri sentimenti più reconditi.
- ...non è un semplice timore per Michael. Credo... credo di aver iniziato a dubitare un po' di tutti - ammise lui, con sforzo - Karol è irriconoscibile, Judith è vessata da una grande frustrazione. Persino Pearl, in questi giorni, è talmente giù di morale da sembrare un'altra persona -
- E' una situazione comprensibile, considerando tutto ciò che è accaduto... - sospirò lei - Siamo... siamo rimasti solo in sette... -
- Ma il punto è che gli animi di tutti sono indeboliti, June! E' esattamente come è successo con Rickard e Kevin... un momento di debolezza potrebbe portarci ad uccidere! Ho paura che chiunque, a questo punto, possa decidere di ammazzare un compagno per disperazione...! Persino... -
June esitò per un attimo; attese che Pierce rispondesse da solo.
- Persino...? -
- Persino... me stesso... - gemette - Ho il terrore di finire in una situazione simile a quelle di Alvin e Rickard... ho paura di non potermi fidare nemmeno di me stesso, June...! -
- Santo cielo, Pierce... - lo confortò lei - Devi resistere, capito? Non puoi lasciare che questi pensieri ti diano alla testa -
- Ma come faccio...!? La notte ho il terrore che qualcun altro impazzisca! E se anche io finissi per dare di matto!? -
- Pierce, ascoltami - il tono di June si fece perentorio - Ho recentemente imparato che un po' di sano egoismo può far bene, di tanto in tanto. E' vero, è difficile fidarsi degli altri in una situazione simile. Ma l'unica persona che non ti tradirà mai sei tu, e non puoi certo cessare di avere fiducia in te, no? Se hai dei saldi principi, affidati a loro. A fine giornata, a guardarti le spalle sarai sempre e solo tu: devi essere forte per te stesso! -
June Harrier tentò in tutti i modi di far arrivare a Pierce quel messaggio dal significato elaboratamente filtrato dagli insegnamenti di Michael.
L'arciera sapeva di non essere altrettanto brava con le parole, ma sperò che il punto del discorso fosse chiaro.
L'espressione di Pierce non trasmetteva un segnale positivo, ma appariva almeno più rilassato di quanto non fosse in precedenza.
- C-ci proverò, June... - annuì lui - Io non voglio spargere il sangue di nessuno... devo credere di potercela fare -
- Ecco, bravo - disse lei con una pacca amichevole sulla spalla - Credimi, Pierce, per essere arrivato a questo punto devi aver tirato fuori una forza strepitosa. Avrei tanto voluto che... -
Si bloccò per un istante.
Pierce fu incuriosito da quella pausa improvvisa.
- Che...? -
- Avrei... davvero voluto che Hayley potesse condividere la tua tempra - sospirò - Avrei voluto fare di più, per lei... forse prevenire quanto accaduto -
- Mah! Ancora a piangere sul latte versato? - fece una terza voce.
Come da programma, l'Ultimate Chemist non tardò a giungere.
Un brivido percorse la schiena di Pierce nel udire le parole sferzanti di Michael Schwarz.
- Ah...! Michael... -
- Che ci fa qui anche Pierce? - disse, rivolto a June - Avevo espressamente richiesto che la cosa rimanesse segreta! -
- E' stato un mero frutto del caso, non scaldarti! - ribatté lei - E comunque n-non mi stavo lamentando del passato! Era solo... una reminiscenza triste, tutto qui...! -
- Bah, non importa. Pierce, prendi un camice - ordinò Michael - E non dimenticarti la protezione per gli occhi -
Sentitosi improvvisamente chiamare in causa per motivi sconosciuti, Lesdar non tardò a manifestare la propria confusione e il proprio dissenso.
- Co-come!? Io!? Ma veramente... - deglutì - Stavo per andarmene...! -
- E invece non te ne vai! Hai visto tutto, quindi mi farai da garante - disse, bloccando l'uscita.
- "Garante"!? -
- Sì, nel caso la signorina Freccia desse di matto e decidesse di ammazzarmi ho bisogno di un ibrido tra un testimone e una guardia del corpo -
June espresse un palese disappunto.
- Ma come...!? Ma ti pare una cosa da dire dopo...!? - si lamentò lei.
- Silenzio! Abbiamo già perso troppo tempo! - la zittì Michael - Voi due, al lavoro! Voglio finire entro stasera! -
June e Pierce si scambiarono un'occhiata di disagio, rendendosi conto di essersi messi in trappola da soli in una situazione degenerata troppo rapidamente per i loro gusti.
"...quel chimico da strapazzo si sta approfittando della mia disponibilità e dei miei sensi di colpa...!" strepitò mentalmente June "Giuro che gli renderò pan per focaccia, prima o poi!"
Michael serrò definitivamente la porta dell'infermeria, decretando l'inizio dell'esperimento.
Pierce si morse il labbro più e più volte, chiedendosi il perché di tutto quell'assurdo inconveniente.
June Harrier si rimboccò le maniche, semplicemente pregando affinché quel supplizio terminasse presto.



Judith Flourish aveva impiegato l'intera serata precedente a prepararsi mentalmente su come affrontare la situazione.
L'incontro sarebbe dovuto consistere in una normale e placida conversazione, ma l'Ultimate Lawyer ebbe come la sensazione che non sarebbe stato così semplice.
Si ritrovò a fissare la porta dell'aula del primo piano senza sapere esattamente cosa fare.
Tirò un lungo respiro, tentando di calmarsi.
Erano oramai alcuni giorni che Karol si era isolato dal resto del gruppo, barricandosi nella classe e uscendo estremamente di rado.
Pearl aveva asserito di averlo visto fare continuamente la spola tra la propria stanza e l'aula, con rarissime visite al ristorante e solo in occasioni in cui non c'era nessuno.
Occasioni che, a causa del numero ristretto di sopravvissuti, erano divenute meno rare.
L'Ultimate Teacher si era tappato in un nascondiglio di pensieri e rimpianti che Judith era intenzionata a rimuovere, pur non sapendo ancora come fare.
Ricordò tutte le altre volte in cui lei e Karol si erano riuniti per discutere il da farsi: i numerosi dibattiti su come affrontare il persistente problema della chiusura di Michael, o anche semplicemente per condividere alcuni pensieri in merito al comportamento generale della classe.
Non erano mancati suggerimenti e ipotesi per trovare una soluzione al gioco al massacro, ma nonostante fossero risultati tutti piani fallaci ed inconcludenti, Karol aveva sempre perseverato con la convinzione di non gettare la spugna.
L'atteggiamento evasivo dell'insegnante aveva procurato a Judith una sgradevole sensazione di disagio, sentendosi esclusa da uno dei pochi ambiti in cui era convinta di poter fare la differenza.
"...ho chiarito il diverbio con Xavier" pensò "Non vedo perché non sistemare anche questa faccenda. Io e Karol dobbiamo trovare una via d'uscita insieme; ce lo siamo promesso!"
Si diede alcuni buffetti sulle guance, un po' per spronarsi e un po' per tentare di darsi una carica energetica per compensare la carenza di sonno.
Appoggiò delicatamente la mano sul pomolo della porta e afferrò saldamente l'impugnatura.
"Non possiamo arrenderci proprio adesso"
Con quell'ultimo slancio, Judith entrò nella classe.
Richiuse lentamente la porta alle proprie spalle, cercando Karol con lo sguardo.
Lo trovò proprio di fronte a lei, voltato di spalle verso la lavagna ad osservare chissà cosa.
I lisci capelli biondi gli pendevano lungo i lati della testa, mascherando quel minimo spiraglio di volto che Judith sperava di poter vedere ed affrontare.
Inspirò ed espirò, muovendo un piccolo passo in avanti.
Si schiarì la voce con un colpetto di tosse, in modo da attirare la sua attenzione. La testa di Karol si mosse lievemente, di appena un centimetro, verso di lei.
Passarono alcuni secondi in cui nessuno disse niente.
L'Ultimate Teacher continuava a darle le spalle, come se ad intendere che non aveva intenzione di parlare. Né con lei, né con nessun altro.
Ma Judith Flourish decise che era giunta lì con uno scopo, e lo avrebbe perseguito fino in fondo.
- C-ciao, Prof - disse lei - Scusa il disturbo... so che forse è un brutto momento, ma avevo bisogno di parlarti -
Karol Clouds non si mosse né rispose, rimanendo in ascolto.
Fu una sensazione strana e spiacevole; il colloquiale Karol era solito rispondere con un sorriso e in maniera esaustiva, e mai lo si era visto ignorare così sfacciatamente una semplice e mera visita di cortesia. Judith intuì che il suo stato d'animo doveva essere più sconvolto e provato di quanto non sembrasse.
- Ascoltami, Karol. Vorrei tenere un altro incontro per decidere il da farsi - disse lei - Lo so: i nostri tentativi precedenti sono stati un fiasco... Hayley, Rickard e Kevin erano... terrorizzati. Abbiamo provato a tenere unito il gruppo con ogni mezzo, ma abbiamo fallito. Ma siamo ancora vivi, Karol; abbiamo ancora dei compagni da proteggere! Non sei d'accordo anche tu? -
Non vi fu risposta nemmeno stavolta. Judith iniziò a sudare, considerando l'opzione che qualcosa non andasse.
Karol era sempre lì, fermo a guardare la lavagna. 
Inizialmente pensò che potesse stare avvertendo un malessere fisico, ma riuscì a captare il lieve movimento dei suoi polmoni e non vi erano segni che rimandassero a malattie.
L'Ultimate Teacher stava, semplicemente, contemplando la situazione senza degnarla di uno sguardo.
Flourish decise di adoperare una tattica differente. Non aveva considerato di utilizzare quella carta così presto, ma la faccenda appariva seria.
- Ho... ho chiarito i miei problemi con Xavier... - gli disse - Ricordi quando mi consigliasti di parlargli? Di affrontare quel diverbio a quattrocchi? Beh, lo ho fatto, e... e ti sono grata. Grata di avermi aperto gli occhi sulla semplice soluzione che ha risolto un dubbio che io stessa e la mia insicurezza avevano ingigantito. Ora Xavier è dalla nostra parte, Karol! Sono sicura... no, sicurissima che ci aiuterà se solo glielo chiedessi! E' un prezioso alleato alla nostra causa, e non farebbe mai del male a nessuno. Se collaboriamo in tre possiamo tranquillamente trovare il supporto di June e Pierce e... perché no? Anche di Pearl! E' vero, abbiamo avuto... un'infinità di vittime, ma non è mai troppo tardi! -
Il continuo silenzio la ferì più profondamente di quanto non apparisse in realtà.
Judith si morse il labbro inferiore, incapace di comprendere che cosa avesse sbagliato ad elaborare.
- ...non è troppo tardi, Karol... so che la morte di Hillary ti ha devastato, ma... - sospirò lei - Ma i nostri compagni hanno ancora bisogno di te. Hanno bisogno del nostro Prof! Ti prego: basta con questo comportamento da recluso! Vieni con me... usciamo da qui e raggiungiamo gli altri. Parliamo loro... e sopravviviamo insieme. Che ne dici? -
A quelle parole, Judith porse in avanti la mano come ad invitarlo.
Fu lì che, improvvisamente, Karol si voltò verso la sua direzione.
Il cuore di Judith ebbe un sussulto: le sue parole sembravano aver fatto finalmente presa.
Il suo animo si riempì di una peculiare sensazione di compiacimento e soddisfazione; un sentore di benessere nell'aver finalmente potuto restituire a Karol tutta la gentilezza che le aveva dimostrato nel corso dell'ultimo mese.
Gli sorrise, caldamente ed in tono sincero.
- Vieni con me, Karol. Andiamo -
L'insegnante non si mosse.
Dall'altro lato della classe, a circa cinque metri da lei, Karol rimase impassibile con lo sguardo fisso sul suo.
Judith avvertì improvvisamente una strana sensazione. Una sorta di brivido, un tremore alle gambe.
Gli occhi di Karol sembravano spenti, ma al contempo pieni di una strana luce.
- ...Karol? -
Quest'ultimo mosse un passo.
Un passo lento, minuscolo, verso di lei. Così flebile e posato che a stento produsse un rumore.
Judith udì la suola della scarpa del maestro alzarsi da terra per muovere un secondo passo con la stessa andatura.
- Karol...? Karol, che succede...? - gemette lei - Va tutto ben-...? -
Poi, lo vide.
Vide quell'unico, singolo elemento che distorceva l'intero ambiente.
Gli occhi le si dilatarono, braccia e gambe completamente congelate. Ogni singola parola che avrebbe potuto pronunciare le morì nella gola, sprofondandole nell'esofago.
Provò a muovere le labbra senza produrre suono, per poi rendersi conto che si erano ridotte a due ammassi si carne secca.
Karol Clouds mosse un terzo passo, stavolta più lungo.
Nella mano sinistra dell'insegnante vi era un oggetto affusolato dalla forma sottile e metallica. Produsse uno scintillio sospetto alla luce della lampada.
La mente di Judith non riuscì ad elaborarlo pienamente, ma intuì di cosa si trattava: un coltello. Piccolo, arrotondato e letale.
- Karol...!? -
Un quarto passo, stavolta più rapido. Ne seguirono un quinto e un sesto, sempre più celeri.
La schiena di Judith si schiacciò sulla porta alle sue spalle; la sua mente era troppo scossa e la sua mano troppo debole per ricercare una via di uscite in un lasso di tempo così irrisorio. 
I passi di Karol erano divenuti quasi balzi: l'Ultimate Teacher iniziò a correre verso di lei alzando pericolosamente la mano sinistra.
La lama del coltello emise un bagliore sinistro, rivelando una superficie aguzza.
Il cuore di Judith pompò sangue ad una velocità esorbitante, talmente rapida che avvertì il petto bruciare.
Non vi era che un singolo metro di distanza rimasto.
L'Ultimate Lawyer chiuse gli occhi lacrimosi, urlando e appellandosi ad ogni minuscolo briciolo di energia rimasto.
- KAROL...!!! -
Il mondo intero si fermò, come se il tempo stesso avesse smesso di scorrere.
Non si udì che un rumore; non si intravide che uno spiraglio luminoso.
Tutto cessò in pochi attimi.

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Capitolo 41
*** Capitolo 5 - Parte 3 ***


Xavier cominciò la nuova giornata tentando di tenere occupata la mente con mansioni ordinarie per distrarla dalla grama situazione che la classe stava affrontando.
Era passato un altro giorno senza che né Karol né Pearl si fossero fatti vivi in alcun modo e, se non fosse stato per la proverbiale aura di sicurezza che emanava  l'Ultimate Ninja, Xavier avrebbe persino iniziato a preoccuparsi per lei.
Il ragazzo portava tra le mani un piccolo sacchetto con i rifiuti accumulati nel corso della settimana per trasportarlo nel deposito di raccolta, al primo piano.
Il torpore mattutino stava iniziando a svanire, trascinandosi dietro ancora qualche sbadiglio occasionale.
I corridoi erano silenziosi come al solito; un'assenza di rumore che di certo non era di buon auspicio, ma che poteva almeno significare che la situazione era tranquilla.
Giunto a destinazione, svoltò l'angolo per recarsi alla porta del deposito.
Fu in quel momento, appena prima di imboccare l'incrocio, che il suo unico occhio percepì un'immagine fugace in lontananza.
Una sagoma umana si era appena diretta lungo il corridoio opposto svanendo dalla sua vista.
Xavier si grattò il mento, tentando di ricordare qualche dettaglio fugace che avrebbe potuto captare in quel breve lasso di tempo.
La ciocca di capelli biondi e il colore della giacca gli diedero la risposta: doveva essersi trattato di Pearl.
Il solo fatto di averla vista gironzolare bastò ad alleviare almeno in parte la sua apprensione.
Il sapere che qualche membro della classe non era stato avvistato di recente bastava a dare fastidio al suo ineccepibile controllo complessivo.
Pearl Crowngale, inoltre, era un tipo difficilmente tracciabile con metodi convenzionali.
Rasserenato, si limitò a recarsi lì dove doveva andare e concludere rapidamente la faccenda.
Non si aspettò di fare un nuovo incontro nel giro di appena meno di un minuto.
All'interno del deposito rifiuti una figura mingherlina stava trasportando un grosso scatolone pieno di ciarpame dall'odore poco rassicurante.
A causa del peso, sembrava essere in difficoltà.
- Pierce...? - chiese Xavier - Che cosa stai facendo? -
L'Ultimate Sewer trasalì, facendo quasi cadere un oggetto dal mucchio.
- Ah...! Sei tu, Xavier - ansimò - Dammi un momento, poso questo affare...! -
Poggiò la scatola in mezzo al mucchio di rifiuti e si asciugò alcune gocce di sudore dalla fronte. Sembrava aver faticato parecchio.
Xavier utilizzò il proprio sacchetto come pretesto per sbirciare ciò che Pierce aveva appena gettato.
Poggiò i rifiuti appena accanto e gettò lo sguardo di lato.
La scatola era piena di vario materiale da laboratorio in pessime condizioni: alcune fialette di vetro scheggiate e alambicchi così sporchi e deteriorati da risultare inutilizzabili, oltre ad un gran numero di contenitori plastificati usa e getta ancora sporchi di liquidi dai colori più variegati.
Fu di facile intuizione capire che quell'ammasso di spazzatura non era di certo qualcosa che Pierce aveva prodotto.
- Cos'è questa roba? - gli chiese, incuriosito.
Pierce Lesdar si grattò la nuca con aria affranta.
- M-Michael mi ha detto di occuparmi dei rifiuti... - sospirò lui - E, beh, preferisco non obiettare. Quando si arrabbia è intrattabile... -
Era la seconda volta in due giorni che Xavier Jefferson sentiva parlare del coinvolgimento di Michael con le questioni di altre persone.
Già il caso di June aveva destato dei sospetti, ma che addirittura avesse chiesto un favore a Pierce gli sembrò più che strano.
- Hai detto... Michael? - commentò lui, inarcando le sopracciglia - Ultimamente sembra aver... mollato un po' la presa -
- Oh, credimi, per niente... - rispose tristemente il sarto - Aveva semplicemente bisogno di una mano e... mi sono ritrovato obbligato ad aiutarlo nel suo esperimento -
- Già, lui e June me lo avevano accennato - annuì Xavier - E così ti ha coinvolto... di che si trattava? June era con voi? -
- Sì, June era già lì ben prima che arrivassi io. Credo si fosse offerta volontaria ma... ne ignoro il motivo - raccontò, facendo spallucce - Quanto all'esperimento... credo che Michael stesse lavorando ad una sostanza un po' strana... da quello che mi ha detto doveva essere un composto di sua invenzione -
Xavier iniziò a porsi molte più domande di prima. Sapere che Michael stesse tramando qualcosa non lo rassicurava nemmeno un po'.
- E immagino tu non sappia di cosa potesse essere capace -
- S-scusa... ma non ci ho capito un bel niente - ammise lui - Michael non ha voluto rivelarci nulla... e neanche June, quando glielo ho chiesto, sembrava aver compreso -
- Certo che è strano... June e Michael si erano dichiarati guerra fino a non troppo tempo fa - Xavier ponderò a lungo su ciò che poteva essere successo.
- Chissà che cosa è accaduto fra loro...? - si domandò Pierce - Credi che... abbiano stretto una sorta di alleanza? -
Quella ipotesi fece sorgere nel detective un dubbio non poco marginale.
- "Un'alleanza"? Spiegati meglio -
- Voglio dire... nel gioco al massacro... -
Xavier sgranò lo sguardo.
- Come!? -
- C-cioè...! Siamo tutti spaventati...! Non mi meraviglierei se alcuni di noi iniziassero a stipulare accordi per... sicurezza -
L'idea era sensata e, per quanto tristi e assurde fossero le circostanze, perfettamente ragionevole.
Fu il sentirlo dire da Pierce ciò che fece rimanere Xavier di sasso.
Il timido Ultimate Sewer era solito non esporre troppo il proprio giudizio, principalmente a causa della personalità remissiva e placida.
Ma Pierce aveva esposto un parere crudo e disincantato; doveva riconoscerglielo.
- Potrebbe essere... ma dubito che June e Michael stipulerebbero un accordo simile - disse - Forse la loro collaborazione deriva da altri fattori. Per lo meno non restano da soli -
Pierce annuì in accordanza con quanto detto, ma la sua faccia rivelò che vi era ancora un dato importante da esporre.
- E poi c'è il problema di quelli più solitari... - sospirò - Ho paura che Karol e Pearl si siano distaccati troppo -
Un'idea fulminò Xavier tempestivamente.
- A proposito di Pearl... per caso è passata di qui? - chiese - Mi sembrava di averla vista girare l'angolo prima di entrare qui... -
- Oh, sì, ora che ci penso è così - affermò lui - E' entrata qui, ma non ha quasi neanche varcato la soglia. Se ne è andata molto in fretta -
- Quanto in fretta? -
- Mi ha visto, mi ha chiesto cosa stessi facendo... - rammentò Pierce, incrociando le braccia - Le ho risposto con sincerità, poi le rivolto la stessa domanda. E' stata un po' vaga, ma alla fine se ne è semplicemente andata. Sembrava... di fretta -
Xavier rimase a pensarci su ancora un po'; il suo sospetto si era rivelato fondato. 
La storia di Pierce gettava ancora un po' d'ombra su ciò che stava combinando Pearl Crowngale, ma si domandò se fosse davvero il caso di investigare ulteriormente.
Infastidire Pearl per una banale curiosità non gli parve un'idea formidabile.
Ciò che, però, stuzzicò maggiormente la curiosità di Xavier Jefferson era il modo in cui il punto di vista di Pierce era radicalmente cambiato rispetto a come lo ricordava.
Pur rimanendo sempre in silenzio e sulle sue, l'Ultimate Sewer era sempre stato difficile da identificare pur rimanendo sul lato ottimista della bilancia.
Ma il Pierce Lesdar lì davanti era più cupo e spaventato del solito; era tuttavia comprensibile. Solo sette sopravvissuti abitavano quella scuola, oramai.
- Vieni, Pierce. Andiamo - fece improvvisamente Xavier.
L'altro cadde dalle nuvole con espressione sinceramente confusa.
- Eh? Dove? -
- Al ristorante, a mettere qualcosa sotto i denti - gli disse, indicandogli l'uscita - Mi sono reso conto di non sapere un bel nulla di te, sai? Sarà un'ottima occasione per rimediare. Ci stai? -
Un guizzo di felicità comparve negli occhi di Pierce, che si fecero più vivaci.
- S-sì! Certo! - disse, accettando di buon grado.
I due lasciarono dunque il deposito rifiuti pregustando con cosa potessero fare colazione una volta giunti ai tavoli.
Xavier sospirò: erano rimaste poche persone in vita. Ancora pochi legami saldi, e andavano preservati.




Xavier uscì dal vano della cucina con una vassoio in mano; sopra vi erano due tazze fumanti di cioccolata calda.
L'odore dolce delle bevande riempì l'aria del ristorante e la riscaldò, provocando un lieve e piacevole tepore.
Il calore si propagò rapidamente, ricordando a Xavier come la scuola fosse perfettamente regolata a livello termico, tanto da annullare qualsiasi impatto climatico potesse avere l'avanzare delle stagioni. Giugno andava ormai avvicinandosi.
Era cominciato il periodo in cui ci si liberava dei vestiti più ingombranti e dei giubbotti leggeri, dove l'afa giungeva anche di sera e si cominciavano ad organizzare le prima gite in località di mare o in montagna, in cerca di un po' di fresco.
Xavier contemplò mentalmente quelle prospettive di vita normali con un'aria vagamente allettata.
Si riallacciò alla realtà dei fatti alquanto in fretta; sapeva che quei pensieri non potevano che alimentare un pericoloso desiderio di uscire da lì.
Tutto andava compiuto in piccoli passi e con pazienza, senza farsi cogliere da ansia o paura.
"Una via d'uscita non apparirà soltanto perché lo voglio ardentemente..."
In quel momento vi era altro a cui pensare.
In primo luogo, tentare di capire esattamente con chi aveva a che fare quotidianamente.
Pierce era seduto ad uno dei tavoli attendendo con flemma che Xavier portasse le tazze; il detective si era offerto di prepararle personalmente, e Lesdar aveva accettato di buon grado, seppur inizialmente titubante.
Era passato oramai parecchio tempo dall'inizio del gioco al massacro, ma Xavier non aveva ancora un quadro completo delle persone che vi stavano partecipando.
Karol e Judith avevano proposto più e più volte di conoscersi meglio per evitare situazioni drastiche: situazioni in cui l'istinto di sopravvivenza potesse avere la meglio sui principi morali che imponevano di non uccidere.
Pensò a come, con qualche sforzo in più, persone come Kevin ed Hayley avrebbero potuto in qualche modo essere salvate.
Pensò a come avrebbe voluto conoscere meglio gente come Refia, Vivian e le altre vittime, anche solo per conservarne un ricordo meglio definito.
Sospirò: pensò anche a come soggetti come Alvin o Rickard avrebbero difficilmente trovato un compromesso adeguato per tenere a bada i propri sentimenti.
Gli sembrò quasi che quella sfida mortale non potesse minimamente essere evitata, che fosse partita col presupposto che qualcuno sarebbe necessariamente morto, non importa quali e quanti sforzi e sacrifici venissero fatti.
La fatalità di quel sistema gli provocò una sensazione di malessere notevole.
Ma non era il momento di lasciarsi andare a momenti di debolezza.
Vi erano ancora cose da poter salvaguardare, e una di essere era lì davanti.
- Ecco qui - disse, poggiando il vassoio - Ho già messo lo zucchero, ma potresti volerne ancora -
- Ti ringrazio - fece caldamente Pierce - Non mi sarei mai aspettato qualcosa del genere da te -
- Parli del preparare cioccolata o di compiere un gesto gentile, di tanto in tanto? - domandò, mescolando la cioccolata con il cucchiaio.
Pierce deglutì sonoramente.
- Mh, entrambi... credo? -
- Una risposta onesta - annuì Xavier - A volte fa bene tentare di tornare alla normalità, anche solo per finta. Aiuta a distendere i nervi -
- Un'idea ragionevole -
- Ammetto, inoltre, di avere un debole per la cioccolata calda - mormorò il detective, bevendo un sorso - Mi ricorda l'inverno -
- Preferisci la stagione fredda, Xavier? - domandò lui, curioso.
- Alquanto, sì. Io e l'afa non andiamo molto d'accordo - rispose - Trovo inoltre che l'atmosfera invernale sia... evocativa, in un certo senso -
- Credo di sapere a cosa ti riferisci - fece Pierce, con un sorriso sincero.
Entrambi proseguirono nel consumare la bevanda. La tazza era piena fino all'orlo e la cioccolata era ancora parecchio calda.
Avrebbero impiegato ancora un po' a concludere.
- Dimmi qualcosa di più - fece improvvisamente Pierce.
- A che riguardo? -
- Su di te. In genere sei sempre molto riservato, un po' come Pearl - gli disse con una punta di curiosità e ammirazione - Ma è difficile parlare con lei... tu però sai essere un po' più disponibile, quando vuoi -
- Pearl è saggia a tenersi a distanza - rettificò Xavier - Invidio il suo sapersi tenere lontana dagli affetti. Farebbe meno male, se venisse tradita -
- Lo credi davvero? -
- Sì, ma nel mio caso è diverso - proseguì Xavier - Anche io tengo alta la guardia, ma mi piace pensare che le persone con cui ho a che fare siano qualcosa di più
che estranei o nemici. E' un... discorso complicato -
- No, ti prego, vai avanti - annuì Pierce - Sono curioso di sapere cosa ne pensi -
Xavier notò una scintilla di genuino interesse nei suoi occhi.
Si schiarì la voce.
- L'uomo è un animale sociale. In situazioni di crisi e pericolo, a sopravvivere in genere è il gruppo unito e fortificato. Ognuno dovrebbe essere forte fisicamente e mentalmente a livello individuale, a mio parere; ma fare tutto da soli è impossibile -
- Ma qui, in questo posto? - gemette Pierce - Siamo tutti rivali, no? Siamo qui per ucciderci... -
- No, Pierce, è qui che ti sbagli - lo corresse - Il nemico è solo uno: il traditore. Non so se il mastermind è il traditore coincidano nella stessa identità; cosa che, in caso contrario, porterebbe il numero di minacce ad aumentare. Ma in questo gruppo abbiamo ancora degli alleati, Pierce, non dimenticarlo. Ci sono ancora persone che condividono il nostro obiettivo. Possiamo sentirci soli, ma non lo siamo davvero -
Pierce poggiò lo sguardo sulla propria tazza, assumendo un'espressione cupa.
- ...mi stai dicendo tutto questo, anche se non sai se puoi fidarti di me? -
Vi fu un momento di silenzio.
Xavier appoggiò le labbra alla tazza e bevve.
- E' vero, per quel che ne so il traditore potresti essere anche tu - gli disse con franchezza - Ma non vi è modo di saperlo. Se ti ho chiesto di venire qui con me, oggi, è per il solo motivo di poterti conoscere un po' meglio -
Pierce Lesdar strabuzzò gli occhi.
- Me? Per conoscere meglio me? -
- Abbiamo passato assieme poco più di un mese, ma ancora so poco e nulla di ciò che sei - disse - Voglio sapere chi è Pierce Lesdar, cosa pensa, cosa prova, cosa fa -
- E se... e se io fossi la spia...? -
Xavier abbozzò un sorriso storto.
- Vorrà dire che ti concederò il beneficio del dubbio - gli rispose - Allora? Che ne dici? -
Alla fine, l'Ultimate Sewer si lasciò convincere da quelle parole. Per la prima volta, Xavier riuscì a vederlo sorridere in modo genuino.
- Certo, va bene...! - disse, entusiasta - A patto che, in seguito, andremo a chiederlo anche agli altri. Io d-da solo... non ne avrei il coraggio... -
Xavier considerò di buon grado l'offerta. Immaginarsi Pierce nel chiedere domande personali a qualcuno come Pearl o Michael senza alcun aiuto fu un pensiero che lo impietosì.
- Affare fatto -
- Oh, b-bene! E... Xavier -
- Sì? -
- Ovviamente mi... parlerai anche un po' di te, giusto? -
L'Ultimate Detective annuì sospirando.
- Certo, certo. Sarà un confronto ambivalente, non temere -
Fu il principio di una conversazione che si prospettava più lunga del previsto, ma affrontata di buon animo.
Entrambi bevvero fino in fondo dalla propria tazza, sospettando che sarebbero dovuti andare presto a riempirle di nuovo.



Il tempo volò senza che nemmeno se ne accorgessero.
Immergendosi sempre di più nella conversazione e in tutte le diramazioni che aveva avuto, erano passate circa due ore.
Gli argomenti trattati andavano dai più comuni ad alcuni un po' di nicchia, magari non quello che ci aspettava da una normale conversazione.
Xavier si ritrovò a dover ammettere che, a dispetto delle apparenze, Pierce Lesdar poteva essere un ottimo interlocutore; il tutto se messo in una situazione confortevole che non gli provocasse il solito, titubante balbettio nervoso.
Aveva inoltre notato come Pierce avesse partecipato in maniera attiva al discorso, ponendo a sua volta un elevato numero di domande pregne di curiosità.
Il tono rilassato e colloquiale riuscì per alcuni istanti a far dimenticare loro l'incombente pericolo in agguato.
- ...e alla fine sei riuscito a non bruciare casa tua - la buffa storia di Pierce fece comparire sul volto di Xavier un sorrisetto divertito.
- Già. Ho sempre saputo di essere decisamente più portato come sarto che come pasticcere... - sospirò lui - Ma ammetto di rimpiangere il non aver mai imparato a cucinare -
- Mhh, ciò mi fa sorgere una domanda che avrei già dovuto porti - annuì l'altro - Come sei diventato l'Ultimate Sewer? -
Pierce si massaggiò il mento.
- "Come", dici? -
- Beh, so che la scuola ha mandato degli scout ad individuare delle persone con del potenziale, ma deve esserci un motivo che ti ha portato ad ottenere quel titolo - puntualizzò lui.
Lo sguardo di Pierce si fece lievemente vacuo. Fissò con poco interesse la tazza ancora sporca di cioccolato, come se quella domanda gli avesse arrecato, in qualche modo, un vago fastidio.
- Beh, è un po' difficile da porre a parole... - ammise lui - Non è che io ricordi esattamente quando ho iniziato. E' così da sempre -
- Da sempre? - rispose Xavier, quasi deluso.
- Sì, so che è strano. Ma da che ho memoria ho sempre tenuto ago e filo in mano quotidianamente. E' stato mio padre ad insegnarmi tutto ciò che so - raccontò lui - Ma risale a tanti anni fa. I miei ricordi di allora sono un po' sfocati -
- E tuo padre che tipo è? -
- Una persona... severa, ma molto disponibile - Pierce dovette pensare a degli aggettivi appropriati per esprimere ciò che voleva dire - Non parliamo molto; comunichiamo con i gesti quotidiani. E' un rapporto strano, il nostro -
- Non vi è necessità di definirlo "strano". Ognuno vive una situazione diversa, dopotutto - annuì l'altro.
- Mi sembra giusto. Ma parliamo del tuo talento, ora, Xavier - proseguì lui, con aria divertita - Tu come hai cominciato a fare il detective? -
Xavier Jefferson voltò lo sguardo altrove per un istante, come per recuperare il ricordo.
- ...sotto questo punto di vista ti somiglio. E' stato il mio vecchio ad indirizzarmi sulla strada che ho seguito -
- Influsso paterno anche qui, eh? - 
- Puoi definirlo così, certo - rispose il detective - A volte, però, quando parlo con lui mi sembra quasi di avere a che fare con un datore di lavoro che con mio padre... -
- Oh...? Non andate d'accordo? - Pierce parve impensierito.
- Mh... è complicato - Xavier incrociò le braccia - E' una persona che dà molta importanza ai risultati, ma è anche molto paziente. A volte i nostri ideali sono andati a cozzare, ma... lo rispetto -
- Beh, per rendere suo figlio un detective prodigioso deve aver avuto a cuore il tuo futuro. Giusto? - Pierce tentò di esprimere un'opinione che avrebbe potuto facilmente
mancare il bersaglio. Xavier, però, non sembrò contrariato.
- La mia famiglia dà molta importanza al tipo di lavoro che svolgo. Io... risolvo problemi. E lo faccio bene - disse, con una punta di malinconia - A volte, però, può diventare pericoloso... in più ambiti -
A quel punto, Pierce si lasciò scappare un sonoro sbadiglio.
Xavier notò come il compagno si stesse stropicciando le palpebre nel tentativo di tenerle aperte, con scarso successo.
- Diamine, Xavier... il tuo stile di vita è davvero movimentato... - commentò lui, sbadigliando una seconda volta - Ammetto di essere un po' invidioso -
- Credimi, ci sono pro e contro nella mia vita. Nulla di così invidiabile - disse - Piuttosto... va tutto bene? Mi sembri stanco -
Pierce sussultò per un istante. Xavier intuì che stava tentando di non darlo a vedere, probabilmente per non offenderlo.
- S-scusami... ho parecchio sonno arretrato... - gemette - Ho dormito male per tutta la settimana... ieri, inoltre, Michael mi ha costretto ad aiutarlo fino a sera tarda... -
- Oh, l'esperimento di Mike - il detective si massaggiò il mento - Ti ha strapazzato per bene? -
- Prevalentemente gli ho fatto da facchino... è stato faticoso - annuì debolmente lui - Spero che June non mi supplichi di spalleggiarla ancora, in futuro. Sono distrutto... -
Xavier notò come la stanchezza stesse lentamente prendendo il sopravvento su Pierce.
Lo aveva tenuto per alcune ore a parlare e a spremergli una conversazione senza intuire in che condizioni si trovasse; il pensiero lo fece sentire un po' in colpa.
Pierce sembrava reggersi in piedi a malapena; decise che era ora di fare una pausa.
- Si è fatto tardi, Pierce. Torniamo in camera. Che ne dici? - propose.
- Ah...! N-non sono così stanco...! - il sarto tentò di mantenere la facciata.
- Ti ho tenuto per due ore a parlare con me, ma è ancora mattina. Dovresti andare a riposare un po' -
L'Ultimate Sewer deglutì con un'espressione triste.
- Non vorrei... averti dato l'impressione di essermi annoiato... -
- Ti fai troppi problemi, Pierce - Xavier ci rise su - Ho visto che hai parlato un sacco di tua spontanea volontà, e ciò mi fa piacere. Continueremo la prossima volta, ok? -
- C-certo...! Magari potremmo invitare June, Judith e Karol...! -
- Volentieri - annuì l'altro - Ora, aspetta un momento qui. Dopo aver chiacchierato così a lungo ho la gola secca. Vuoi un po' d'acqua, Pierce? -
Al compagno venne istintivamente da tossicchiare, come se la proposta stessa gli avesse fatto venire sete.
- Ora che ci penso... sì. Ti ringrazio -
- Torno subito -
Recatosi in cucina, Xavier Jefferson impiegò una discreta manciata di secondi ad individuare il ripiano dove tenevano i bicchieri di plastica.
Ne riempì due con la bottiglia appena estratta dal frigorifero e si accinse a portarli al tavolo che avevano occupato durante la conversazione.
Ad un tratto si bloccò: aveva istintivamente riempito entrambi con acqua naturale senza curarsi di chiedere a Pierce se preferisse quella frizzante.
Fu tentato di tornare indietro e prendere entrambe le bottiglie, ma realizzò che la via più semplice fosse chiederlo al diretto interessato.
- Ah, Pierce? L'acqua come la vorresti? Gassata? - esclamò dal vano della cucina.
Attese alcuni istanti, ma la risposta non arrivò.
Inizialmente pensò che Pierce stesse semplicemente ponderando una decisione, ma erano passati troppi secondi.
- Pierce? - lo richiamò, affacciandosi - Mi hai sentito? -
Ma l'Ultimate Sewer non poteva rispondergli.
Lo trovò accasciato sul tavolo, sonnecchiando rumorosamente, con una minuscola striscia di bava che già iniziava a colargli dalla bocca.
Lo sguardo era rilassato e il respiro regolare; teneva la testa tra le braccia, come fosse appoggiata ad un cuscino.
In appena un minuto, il sonno aveva vinto su Pierce Lesdar, trascinandolo tra le braccia di Morfeo.
A Xavier quasi venne da ridere, ma fece di tutto per non fare rumore.
Appoggiò il secondo bicchiere sul tavolo, facendo in modo che se lo trovasse davanti al risveglio.
Poi, quatto quatto, si allontanò senza fare rumore.
Lo sguardo rasserenato di Pierce fu abbastanza da fargli capire che, per una volta, avrebbe potuto godersi qualche ora di sonno indisturbata.
Xavier si avvicinò alla porta del ristorante, affacciandosi verso l'esterno.
Bevve la propria acqua tutta di un sorso, lasciando il bicchiere sul bordo di una mensola della stanza.
Uscì fuori e si accomodò sui piccoli scalini che davano sul piazzale dei dormitori.
L'amichevole conversazione con Pierce aveva dato i suoi frutti; era certo di conoscerlo un po' meglio.
Ricordò la promessa fatta al timido sarto: riuscire a trascinare tutti gli altri a parlare di se stessi sarebbe stato difficile da soli, ma un po' più semplice supportandosi a vicenda. Si domandò se persino Michael, grazie al suo recente quanto sospetto cambiamento, non fosse vagamente più incline al mettersi in discussione.
Xavier chiuse il suo unico occhio, ed inspirò.
Al buio, i suoi sensi si rilassarono facendo spazio a pensieri più ameni.
Per un istante provò quasi la sensazione che una riappacificazione fosse possibile.
Parte di lui desiderava credere che le cose stessero per migliorare, mentre l'altra metà lo istigava a rimanere attento e a guardarsi le spalle.
Profondamente combattuto riguardo a chi dare ascolto, tra raziocinio e sensibilità, Xavier non poté fare a meno di continuare a sperare per il meglio.
In un luogo dove l'imprevedibile era una norma comune, lasciarsi andare ad idìllii e false speranze poteva essere rischioso.
Espirò, e riaprì l'occhio.
Immediatamente captò qualcosa.
Il suo volto scattò in direzione dei dormitori; la sua pupilla si riabituò presto alla luce artificiale della scuola.
Intravide come una piccola sagoma in lontananza, verso il centro del piazzale.
Una silouhette familiare che si muoveva lentamente nel senso opposto al suo.
Come d'istinto, Xavier si alzò in piedi per vedere meglio.
Mosse un passo in avanti, e poi un altro. Senza rendersene conto aveva abbandonato del tutto il ristorante.
Non sapeva perché lo stesse facendo; lo stomaco gli stava dando una strana sensazione di disagio.
Provò l'irrefrenabile impulso di assicurarsi di chi si trattasse.
Non impiegò molto a rendersi conto di chi aveva davanti.
Judith Flourish stava camminando in direzione della propria stanza; camminare era un termine equivoco, pensò Xavier.
La ragazza stava letteralmente zoppicando con un'andatura anormale, trascinando le gambe in passi lenti e sgraziati.
Una postura che non gli era familiare, il che bastò a provocargli un ulteriore fastidio alle budella.
Xavier avanzò il passo, facendo di tutto per raggiungerla.
Aveva una sgradevole, tremenda sensazione. Come un presentimento nefasto che non voleva saperne di andarsene.
Non appena fu a meno di una decina di metri da lei, la chiamò per nome.
- Judith...! -
Quest'ultima si bloccò. Di colpo, come paralizzata.
Non si voltò, nemmeno per guardarlo in volto. Non rispose nemmeno.
- Judith...? - Xavier pronunciò il suo nome una seconda volta, stavolta più delicatamente - Va tutto bene? -
Una domanda retorica. Era palese che qualcosa non quadrava.
Anche solo osservandola di schiena, poteva vedere che l'Ultimate Lawyer stava tremando come una foglia.
Udì un mormorio tenue e debole, incomprensibile.
Era necessario un accertamento ravvicinato.
Xavier Jefferson si ripeté mille volte che avrebbe potuto pentirsi di ciò che stava per fare, ma sapeva anche di non avere scelta.
- Judith... sono io - le appoggiò dolcemente una mano sulla spalla - Che cosa...? -
La ragazza voltò lentamente la testa.
Lui ebbe come un tuffo al cuore. Una sensazione che, in quella scuola, aveva già provato diverse volte.
La sua mente vagò fino al momento in cui ritrovò il corpo di Refia, poi quello di Elise, infine Lawrence e Vivian.
Momenti che segnarono definitivamente un marchio indelebile nella sua memoria, accomunati da un fattore che li univa: uno sfondo tetro di colore rosso.
Il volto di Judith gli lasciò la stessa impressione.
Una riga di sangue le aveva sporcato parte del volto, marcando una striscia che le andava dalla tempia al mento.
Il resto del viso era segnato da lacrime incontrollate che colavano da occhi ricolmi di venature rossastre.
Era pallida, smunta, ma al solo vederla Xavier avvertì un'improvvisa perdita di colorito in se stesso.
Era lì, davanti a lui, in condizioni pietose. Uno stato in cui non si sarebbe mai aspettato di vederla.
Judith Flourish, sporca di sangue e lacrime, in piedi di fronte a lui.
Il mondo era nuovamente impazzito.
- Xa... Xavier... -
- Judith... santo cielo, JUDITH! - la afferrò con entrambe le mani - Judith, che è successo!? Cosa ti è accaduto!? -
Tentò di spremere ogni informazione possibile, ma fu inutile.
L'Ultimate Lawyer piombò in ginocchio, singhiozzando parole inconsulte.
- Lo... lo ho...! - gemette - Io... Xavier, io non... non volevo...! -
- Judith, calmati! - disse, tirando fuori dalla tasca un fazzoletto.
Glielo passò sul volto, asciugando la macchia di sangue.
La sua mano tremò a contatto con la sua pelle, asportando il fluido rossastro.
A quel punto, la ragazza gli piombò addosso di getto, aggrappandosi con entrambe le braccia attorno al suo petto.
Affondò la testa nel petto di Xavier, versando lacrime a non finire sulla sua maglietta.
Di fronte a quel gesto, il detective non riuscì a far altro che a tenerla stretta a sé, cingendola a sua volta.
Era incapace di capire cosa fosse successo, ma non vi era altro da fare.
Troppe domande, troppo caos.
L'unica fonte di risposte era lì di fronte, incapace di formulare frasi sensate.
- Judith... ti scongiuro, calmati... - la supplicò lui - Sono qui, qui con te. Ora calmati, va bene...? Calmati, e dimmi che cosa è successo -
Passarono appena cinque secondi, probabilmente i più lunghi della sua vita.
Cinque secondi scanditi da un pianto fragoroso e sempre più disagio.
Cinque secondi, al termine dei quali udì ciò che meno voleva sentire.
- Lo ho ucciso... -
Assimilò quella frase, pregando con tutto se stesso di aver udito male.
- Cosa... cosa hai detto...? -
- Lo ho ucciso... lo... LO HO UCCISO...! - strepitò lei - LO HO UCCISO... IO LO... IO NON VOLEVO...! NON VOLEVO, LO GIURO...! IO...! -
Diede fiato ai polmoni con ogni briciolo di forze rimaste, fino a che non le mancò la voce. Raschiò la gola in cerca di altra aria, ma non ne trovò.
Xavier rimase a contemplare il pietoso stato di quella situazione con uno sguardo vacuo quanto terrorizzato.
Non riuscì a pensare a nient'altro; la mente gli si era annebbiata.
Scosse la testa, tentando di recuperare lucidità. Un problema più impellente gli si era presentato davanti.
Si voltò di scatto alle proprie spalle: la porta del ristorante era ancora chiusa.
Non vi era nessuno in giro, e nessuno a parte lui sembrava aver udito nulla.
Ma lui sapeva: Xavier sapeva che era solo questione di tempo.
Pierce avrebbe potuto uscire da lì da un momento all'altro; avrebbe potuto vederli, avrebbe potuto capire, avrebbe potuto avvertire gli altri.
Non poteva permetterlo.
- Judith... Judith, guardami. Ascoltami bene... - le disse, afferrandole il mento e dirigendo il suo sguardo verso il proprio - Ora calmati, e dimmi che cosa è accaduto... ne va della tua salvezza, ok? DEVI dirmi che cosa è successo, Judith! -
- Xavier... io non... -
- Andrà tutto bene. Ci sono io, qui con te - le disse, ponendo il sorriso falso migliore che riuscisse a creare - Andrà tutto bene, ma ho bisogno del tuo aiuto -
Lei sembrò come capire. Inspirò ed espirò, si tenne il petto con le mani.
- Lo ho ucciso... lo ho ucciso io... - gemette - Io non... volevo... -
Infine, calò il silenzio.




Xavier Jefferson percorse in tutta fretta il corridoio del primo piano, correndo come un forsennato, tenendo Judith saldamente per mano.
Le dita gli tremavano, il cuore gli batteva all'impazzata, ma non avrebbe mai mollato la presa.
Girò lo sguardo ad ogni angolo, temendo il momento in cui avrebbe potuto incrociare qualche altro compagno che potesse vederli in quello stato.
La rotta andava pianificata saggiamente.
Allungò lievemente il tragitto, ma alla fine arrivarono senza imbattersi in incontri poco fortuiti.
Il corridoio che stavano seguendo dava sull'aula del primo piano: la porta era aperta e cigolava.
Si fermò appena prima di affacciarsi al suo interno: si voltò di spalle.
Gli occhi di Judith lo stavano pregando di non costringerla ad entrare, di permetterle di rimanere fuori.
Le gambe della ragazza si rifiutarono di muoversi anche di un solo passo, senza compromessi.
L'Ultimate Detective deglutì.
- ...aspettami qui - le disse - Se arriva qualcuno, noi siamo appena arrivati ed eravamo insieme. Va bene? -
- Xavier... non... non andare... -
Le carezzò la spalla, rassicurandola.
- Devo farlo, Judith - annuì lui - Asciugati le lacrime, tenta di tranquillizzarti. Io... torno subito -
Con quelle parole, si apprestò ad osservare ciò che lo attendeva oltre la porta.
Sapeva benissimo che sarebbe stato orribile, sgradevole, tremendo.
Una visione che si sarebbe volentieri risparmiato, ma non vi era via d'uscita.
Era una baratro di disperazione a senso unico, e non c'era più modo di risalire.
La vita di Judith dipendeva da quel momento e da ciò che ne sarebbe seguito.
Appoggiò la mano sul bordo della soglia, ed entrò.
La prima cosa che lo accolse fu un'abbagliante scritta a caratteri cubitali, di un bianco candido e accecante.
Il suo occhio si abituò alla tenue illuminazione dell'aula, rivelando ciò che era.
Sulla gigantesca lavagna scura che ricopriva quasi l'interezza del muro erano state calcate minuziosamente delle larghe lettere col gesso.
Il messaggio che dava il benvenuto agli avventori incombeva su Xavier con la sua infausta presenza.
"C'E' UN TRADITORE IN MEZZO A NOI"
Seppur immobilizzato da tale vista, Xavier non poté fare a meno di poggiare lo sguardo su ciò che vi era immediatamente sotto di essa.
Lungo le mattonelle che ricoprivano il pavimento, in mezzo alla fila di banchi centrale, il corpo di Karol Clouds era steso con la schiena rivolta verso il basso.
Gli occhi spenti riflettevano la luce della lampadina appena sopra il cadavere.
Tracce di sangue erano sparpagliate ovunque attorno alla testa; una rapida occhiata e la classe non sembrava più la stessa.
Il placido sonno che avvolgeva Karol fu solo l'inizio dell'incubo.
Ogni sospetto di Xavier si rivelò fondato.
- Prof... - mormorò lui, con voce morente.
Si portò davanti a lui, osservandone il corpo. Lui, che fino a pochi giorni prima era il faro che guidava i loro animi inquieti verso un sentiero più luminoso.
Lui, sobbarcatosi ogni fardello sulle proprie spalle sottili ma forti.
Lui, che aveva teso la propria mano verso tutti, giaceva a terra, morto.
Infine, l'amara conferma arrivò.
- Il ritrovamento di un cadavere è stato confermato! - fece l'annuncio - Avete un'ora di tempo prima dell'inizio del processo. Allo scadere, riunitevi al piazzale dei  dormitori! Usate saggiamente il vostro tempo! -
Era cominciato. Il nuovo atto di quel dramma insensato.
Stavolta, però, tutto era diverso.
Xavier Jefferson strinse con forza i pugni, battendo un piede per terra.
Vi era in palio qualcosa di ben più gravoso della mera sopravvivenza. 
Era cominciata una nuova battaglia.


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Capitolo 42
*** Capitolo 5 - Parte 4 - Reminiscenze ***


Anno XXXX, Novembre, Giorno X


Era un'uggiosa mattina umida dove il cielo presentava vasti cumuli di nuvole grigie, la cui atmosfera pesante e triste era rivaleggiata unicamente da quella che si respirava nell'angusta sala d'aspetto al secondo piano del tribunale distrettuale.
Lì, in mezzo ad un quasi nauseante aroma di un caffè troppo amaro, ai muri bianchi e vuoti, di una vuotezza quasi ipnotica, e all'incessante rumore della punta di una penna che scivolava sulla carta, il pigro e assonnato sguardo di Alexander Bergam si poggiò sul quadrante del proprio orologio da polso.
Erano le otto del mattino; decretò mentalmente che era troppo, troppo presto.
Era un Mercoledì, giorno in cui era solito prendersi almeno mezza giornata di pausa e in cui aveva posto la regola di non alzarsi dal letto prima delle dieci.
Il Mercoledì era un evento sacro per Alexander, che constatò quanto lo infastidisse aspramente trovarsi a lavoro a quell'ora e in quell'occasione.
Bevve un altro sorso di caffè, sperando che l'amarezza della bevanda fosse abbastanza acuta da rimettergli in moto il cervello, ma non bastò.
Il suo corpo si stava rifiutando di reagire e stava per arrendersi alla stanchezza accumulata il giorno prima ed alla comodità del divanetto su cui era seduto.
Unico motivo per cui ancora non era riuscito a prendere sonno e a gettarsi in un meritato pisolino mattutino era lo snervante stridio della penna che la sua giovane allieva stava spremendo fino all'ultima goccia di inchiostro.
Con un frastuono simile, per quanto fosse in realtà un suono non particolarmente potente, Alexander disse addio ad ogni speranza di riuscire a riposare.
Si grattò il mento e la barbetta rada, sbadigliò, e si rimise a sedere in una posizione più consona; non lo infastidiva che la gente lo vedesse stravaccato beatamente sul divanetto, ma intuì che bisognasse mantenere un minimo di decoro almeno in quella situazione.
Osservò con vaga curiosità ciò che la ragazza, sepolta dietro plichi di fogli e documenti, stava combinando.
Judith Flourish non aveva smesso di prendere annotazioni dalla sera prima, ed ogni volta che completava una pagina la rileggeva come minimo un paio di volte.
Il febbrile zelo con cui la giovane aveva svolto il lavoro della sera prima aveva avuto, però, palesi effetti negativi sulla sua salute.
Aveva dormito al massimo quattro ore, a detta sua; Alexander si chiese se non avesse affatto chiuso occhio.
Nonostante ciò, di buona lena, si era precipitata in tribunale con largo anticipo per rifinire i dettagli del caso direttamente sul posto.
Il ticchettio dell'orologio indicò che erano le otto e cinque minuti: meno di mezz'ora all'inizio del processo.
I capelli corvini di Judith erano ammassati di lato, raggruppati in una folta frangia che terminava dietro l'orecchio.
Alexander la aveva vista costretta a sistemarseli un'infinità di volte, poiché non accennavano a starsene immobili ogniqualvolta il capo di Judith andava da un documento all'altro.
Ancora curva sulla propria schiena, la ragazza poggiò la penna sulla scrivania e si stiracchiò rumorosamente.
Per la gioia di entrambi, sembrava aver concluso.
- Ti sei data da fare... - bofonchiò Alexander.
- Sì... era necessario concludere tutto prima del processo - annuì lei, ansimando dalla fatica - Ora non mi resta che fare mente locale dei punti salienti e... sperare che tutto vada per il verso giusto -
Il polso le doleva ancora, ma non sembrò volerlo far riposare. Afferrò i documenti che aveva davanti e cominciò a rileggerli per l'ennesima volta.
Bergam le rivolse uno sguardo indagatorio, osservando tutta la sua ostinata dedizione professionale.
Era da giorni che Judith aveva assunto un carattere completamente diverso dalla norma; la tranquilla e remissiva ragazzina che lo seguiva ovunque si era tramutata in un'ossessiva ed accanita lavoratrice compulsiva. Un cambiamento radicale che Alexander non riusciva a spiegare in altro modo, se non attribuendolo all'ingenuità della giovane.
- Sarò sincero, Judith - mugugnò lui - Tutto questo mi sembra un azzardo rischioso. No, mi correggo: mi sembra una gigantesca sciocchezza -
Lei abbassò lentamente i fogli, deglutendo. Non ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi.
- N-ne sono cosciente, Maestro... - mormorò - Ma ho preso una decisione, e devo assumermene la responsabilità -
- Oh, senz'altro. Ma ciò non toglie che ti stai cacciando in un grosso guaio - Alexander assunse un'aria irritata - Ancora stento a crederci. Non mi sarei mai aspettato un comportamento del genere da parte tua. Se non dovessi un favore a tuo padre, giuro che... -
- Maestro, la prego! Teniamo fuori la mia famiglia da tutto questo. E' stata una mia iniziativa, e mi dispiace che lei ne sia rimasto coinvolto...! -
- Mi sembra il minimo! Sono il tuo tutore temporaneo, la colpa delle idiozie che combini ricade anche su di me! - la additò lui - Prega solo che vada tutto per il meglio, Judith. Sai bene che cosa c'è in palio in questo processo -
La ragazza lo sapeva fin troppo bene. Era ben più di un semplice caso processuale, ma un debutto fuori dalle regole.
E sui piatti della bilancia vi erano enormi rischi, anch'essi non convenzionali.
Alexander si passò una mano sulla fronte.
- Va bene, manteniamo la calma... - sospirò - Ora voglio che tu mi dica perché hai accettato questo caso. E mi aspetto una risposta sensata -
Erano giunti alla parte complicata del discorso; discorso che Bergam non avrebbe mai voluto affrontare durante la mattinata di un Mercoledì.
Judith dovette ponderare bene le parole, ma non vi erano modi per aggirare l'ovvia realtà dei fatti.
- Mi dispiace, Maestro... non esiste un motivo valido. Ho voluto accettarlo perché... sentivo di doverlo fare -
- Ecco. Esattamente ciò che pensavo - sbottò l'uomo - Ti sei lasciata muovere dalla pietà e dal tuo avventato senso di giustizia, e ora ti ritrovi nei guai fino al collo -
- Maestro, potrà rimproverarmi quanto le pare, ma non rimpiangerò la mia decisione... -
Alexander alzò un sopracciglio irritato.
"Eccola lì: la stessa, identica, cocciuta testardaggine. Tale padre, tale figlia"
- Va bene, ragazzina, lascia che ti rammenti che cosa ti stai giocando oggi, visto che sembri essertene dimenticata - fece lui, alzandosi in piedi e iniziando a tracciare un cerchio con i propri passi - Avresti potuto seguirmi in qualità di assistente per ancora un paio d'anni, assistere ai processi, fare esperienza sul campo, farti conoscere almeno un minimo... ti avrei affibbiato un caso semplice per un debutto modesto e la tua carriera sarebbe decollata. Ma no: hai deciso di fare di testa tua e prenderti questo caso che nessun altro voleva, e adesso rischi di giocarti la carriera prima ancora che sia cominciata. Ma dico io: a chi mai verrebbe in mente di occuparsi di un caso di omicidio ti questa portata come prima prova!? -
- Ad un'idiota... - rispose lei, aspettandosi una domanda retorica.
- Esatto: ad un'idiota - annuì lui - Ed eccoti qui: stanca, tremante e... idiota -
- Maestro, mi dica una cosa lei, stavolta - fece la giovane - Tutti hanno rifiutato il caso, no? -
- Già -
- E chi avrebbe difeso quel poveretto, allora? -
Ancora una volta, Alexander si sentì nauseato da quell'opprimente senso di giustizia; il voltastomaco non tardò a manifestarsi.
- Judith, c'è un motivo per cui nessuno ha voluto lavorare al caso! Quel "poveretto", come lo chiami tu, è palesemente colpevole! Le indagini preliminari hanno rilevato prove schiaccianti a suo carico, capisci? E' una causa persa, e tu te la sei arraffata senza pensarci due volte! -
- N-non è persa fino a che non verrà emesso il verdetto...! - si impuntò lei - Ho riletto il caso decine di volte! Ci sono troppi punti ciechi nella storia, troppe prove strane. E' necessario analizzare la faccenda con attenzione prima di condannare un innocente -
A quel punto, Alexander passò lo sguardo sui numerosi documenti impilati e ammassati sulla scrivania: tutta roba che Judith aveva preparato con le proprie forze il giorno prima.
"E suo padre la appoggia, addirittura...! Si vede che è di famiglia, questa vena di follia..."
- Senti, sei ancora in tempo per ritirarti... - il tono di Bergam si fece più cupo - Posso parlare col Giudice e chiedere un rinvio. Avremo tempo per... -
- Maestro, non intendo tornare sui miei passi - ribatté lei - E' questo il tipo di giustizia in cui credo; devo farlo. So di essere in svantaggio, che ho poca esperienza, che le prove sono a sfavore e che non posso nemmeno parlare col mio assistito, ma è un qualcosa che devo fare... il tipo di avvocato che voglio diventare non è quello che chiude gli occhi davanti a situazioni simili -
- Bah... come pensavo: testarda come un mulo. Almeno possiamo risolvere uno dei problemi - sospirò lui.
Lei inarcò le sopracciglia.
- Che... cosa intende? -
- Ieri ho fatto un paio di telefonate a gente che conosco. Ti lasceranno parlare col tuo cliente, avrai una ventina di minuti al massimo -
Sgranando gli occhi, Judith rimase a bocca spalancata.
- Dice... dice sul serio, Maestro!? -
- Ti sembra il momento di scherzare!? Datti una mossa e preparati: sarà qui a momenti -
A quelle parole, Judith Flourish si fiondò tra le braccia dell'uomo, cogliendolo impreparato.
Quasi perse l'equilibrio a causa di quell'impeto di affetto genuino.
- Grazie, Maestro! Grazie! -
- Bah, di nulla. E ora sbrigati a sistemarti - la raddrizzò lui - E' importante, per un avvocato, trasmettere un'aura di sicurezza ai propri assistiti. Devono sapere di poter contare su di te, devi emanare... -
- Fiducia, calma, e la sicurezza di sapere ciò che stai facendo - completò la frase come recitando un libro stampato.
- Già, già. E, credimi, se vedessi che il mio avvocato è una ragazzina con meno di vent'anni io non sarei tranquillo né fiducioso - sbottò lui - Almeno pettinati -
Lei raccolse il consiglio al volo e afferrò un piccolo specchietto dalla borsa.
Prima di darsi una doverosa sistemata ai capelli, finì per rimirare il proprio riflesso: i segni della stanchezza e dello stress erano fin troppo evidenti.
Alexander le aveva ripetuto infinite volte che la facciata di un avvocato doveva essere, a sue testuali parole, "vergognosamente impeccabile".
La prima impressione era la più importante, sia che si trattasse del cliente sia davanti al giudice.
Ripeté mentalmente gli insegnamenti di Bergam come un mantra, allenandosi forzando un sorriso tra le proprie guance.
Poi passò finalmente ai capelli: erano folti e scompigliati, ma di un colore nero lucido che la aveva sempre riempita d'orgoglio.
Unica pecca era l'impossibilità di tenerli al proprio posto per un periodo di tempo decente, cosa che le aveva creato non pochi grattacapi.
Si chiese se avrebbe mai trovato qualcosa di abbastanza bello e decoroso per poter tenere unita quella massa selvaggia, poi tornò a sedersi.
Fu lì che i due vennero colti da un annuncio improvviso: l'usciere della sala d'aspetto si era introdotto nella stanza affacciandosi dall'esterno.
- Signorina Flourish, è arrivato il suo cliente - disse con tono d'urgenza.
Judith si paralizzò momentaneamente: era giunto uno dei momenti fatidici.
Guardò Alexander negli occhi e le parve di notare un messaggio che le stava inviando mentalmente: "E' il tuo momento".
Aveva atteso a lungo in vista di quell'evento, e proprio in quella circostanza realizzò di sentirsi mentalmente impreparata nonostante le numerose ore passate ad impratichirsi.
Si massaggiò le mani sfregandole tra loro e tirò un lungo sospiro.
"Ok. Adesso gli parlo, gli mostrerò che va tutto bene, e... andrà tutto liscio. Sì"
Si esibì in un'ultima prova di sorriso allo specchio prima di metterlo via nella borsa.
Il sorriso le sparì in un attimo nel momento in cui il famigerato cliente le si presentò davanti camminando pigramente verso la sedia libera dall'altro lato della scrivania.
Era un gigante di circa due metri con una barba bianca voluminosa ed un grosso naso adunco che sormontava la peluria candida.
Indossava un completo elegante che gli stava decisamente stretto e che sembrava palesemente fuori luogo: era chiaro che lo stesse indossando per il solo motivo di essere in una corte giuridica, e che quell'abbigliamento non faceva parte della sua quotidianità.
L'omone si sedette con un respiro affannato; le pieghe del vestito emisero un lieve stridio.
Bastò la sua ombra a sormontare l'intera sagoma di Judith, che lo osservò come pregando di non essere divorata in un sol boccone.
I due si squadrarono a vicenda: gli occhi piccoli e profondi dell'uomo osservarono ogni minuscolo dettaglio della ragazza, annotandoli con minuzia.
Dall'altro lato della stanza, Alexander aveva deciso che con quella storia non voleva averci nulla a che fare, ma non poteva che essere impensierito all'idea che la sua allieva imprudente stesse per affrontare un caso a difesa di un tale colosso. Anche solo dialogare con lui sembrava difficile; figurarsi difenderlo in aula.
L'omone sembrava attendere che Judith parlasse per prima, ma lo sguardo vagamente ansioso della giovane lo spronò a fare la prima mossa.
- Mhh... - un getto d'aria uscì dalle sue grosse narici, come se avesse appena sbuffato - Sei giovane... -
Judith cadde dalle nuvole: si sistemò la cravatta e la giacca blu scuro e tentò di darsi un contegno.
- S-salve. Sono Judith Flourish - si schiarì la voce - Sono qui in vece di suo avvocato -
- Mhh... - bofonchiò lui - Troppo giovane... -
In un impercettibile scambio di sguardi tra Judith e Alexander, quest'ultimo la spronò a continuare. Stare in silenzio equivaleva ad una sconfitta su tutti i fronti.
- Mi... potrebbe dire il suo nome? - lo incitò Judith con un sorriso.
La bocca del gigante emise un altro verso dubbioso, la cui aria mosse vagamente la folta barba ispida.
- Orson Joss... - annuì lui.
Una piccola e meritata vittoria, constatò Judith. Era il momento di battere il ferro finché era caldo.
- Molto bene, signor Joss. Vorrei discutere di... -
- Quanti anni hai? -
L'indice di Judith rimase bloccato a mezz'aria. Era convinta di dover ricoprire il ruolo della persona che poneva le domande, ma la situazione si era ribaltata.
- Ah, uhm... io... -
- Diciannove al massimo. Me lo dice l'intuito... - sbuffò Orson - Sei troppo giovane -
- E' v-vero, sono piuttosto giovane per... -
- Ma ai ragazzini è permesso fare gli avvocati? Dove sono i tuoi genitori? - grugnì l'omone - E' forse uno scherzo di cattivo gusto? Una bambina è il mio avvocato...? -
Soppressa dal quantitativo abnorme di domande retoriche, Judith avvertì una mancanza di fiato.
Avrebbe voluto rispondere, ma l'unione tra la mole dell'uomo e la severità del suo eloquio bastavano a metterla a tacere.
Sorprendentemente, un aiuto arrivò nel momento meno atteso.
Alexander aveva portato il suo braccio teso fino alla scrivania, calamitando l'attenzione.
Osservò Orson dritto negli occhi, fulminandolo.
- Mi ascolti bene, Signor Joss - gli sibilò - E' cosciente della sua situazione, vero? Lei è accusato di omicidio: un caso facile facile. Ci sono indizi, prove, e persino testimoni! Lei ha un piede nella fossa e lo sa tutto il precinto giuridico distrettuale. Si sono tirati tutti indietro, tranne la mocciosa che vede di fronte. Mi ha capito? Il mondo intero la ha lasciata a morire, TRANNE lei. Che ne dice di mostrare un po' di rispetto? Le va? -
Il capo di Orson si girò lentamente verso colei che, deglutendo, alzò timidamente la mano come per indicare di essere la suddetta "mocciosa".
Passarono alcuni istanti. Gli occhi stanchi di Orson Joss si socchiusero, ed espirò rumorosamente.
- E' la verità? - chiese, indicando di non essere al corrente degli sviluppi.
- S-sì... nessuno voleva accettare il caso, e così io... - balbettò Judith.
- Perché? Che motivo avresti per occuparti di un vecchio brontolone come il sottoscritto? -
Ci volle un grande sforzo per esprimere il concetto che voleva esporre, ma alla fine Judith decise di lasciar perdere le formalità ed essere diretta.
- Le dirò una cosa, Signor Joss. Ha ragione: ai ragazzini non è permesso di ricoprire questa professione. Io sono un caso a parte. I miei genitori sono avvocati famosi, e mi è stato permesso di presenziare in aula al fianco del qui presente Signor Bergam in qualità di suo assistente. Se posso avere questo privilegio è perché... sono una raccomandata. E le dirò di più: il mio Maestro, il Signor Bergam, spesso mi rimprovera dicendomi di essere una sciocca, testarda, ingenua priva di buon senso. E a volte il mio orgoglio mi impedisce di dargli ragione... ma in fondo a tutti questi miei difetti e alla mia inesperienza si cela un genuino desiderio di aiutarla, Signor Joss -
- Ma perché...? - chiese Orson, invaghito di quello strano racconto.
Judith deglutì.
- Lei... è accusato di aver assassinato sua figlia, giusto...? -
Vi fu un momento di pesante silenzio.
Gli occhi di Orson si inumidirono, ma la sua facciata austera rimase intatta.
- Sì... è così -
- Ecco... so che è assurdo da dire, ma mi rifiuto di pensare che sia vero -
Alexander si passò la mano sul volto, come per prepararsi alla mielosa insensatezza che stava per giungere.
- Tu ti... "rifiuti"? - Orson assaporò quelle parole, stranito.
- I miei genitori lavorano lontano da casa, sono molto impegnati. Mi hanno lasciata alle cure del mio Maestro, ma non passa giorno senza che mi manchino... - mormorò lei - E mio padre è... la persona che più rispetto al mondo. E sì, so che è una cosa stupida da dire, con tutte le cose orrende che accadono al mondo, ma voglio credere che l'amore di un padre per una figlia sia un sentimento incorruttibile. So che sono innumerevoli i casi in cui un padre non ha rivestito il proprio ruolo: storie di abusi ed omicidi si sprecano. Eppure... eppure voglio avere fede. Fede in lei, Signor Joss -
L'uomo barbuto osservò la scena con estremo sbigottimento, ma al contempo con un discreto e crescente interesse.
- Mhh... ti stai affidando ad un mero presentimento... - commentò lui.
- Chiamiamolo tale. Sono comunque convinta che lei sia innocente, Signor Joss. Mi permetta di dimostrarlo al giudice - concluse Judith, sorridendo - C'è sincerità nel suo sguardo. E lo sguardo non mente, sa? -
Orson Joss, ancora a braccia conserte, si lasciò scappare un lieve sbuffo triste. Il suo sguardo arcigno rivelò un'espressione più cupa, ma dolce.
Tirò su col naso rumorosamente, evidentemente colpito da quelle parole.
Fu come se una grossa barriera eretta tra i due fosse improvvisamente crollata, lasciando spazio a dei sentimenti più aperti.
- Ti ho mal giudicato, Signorina Flourish... - mormorò l'omone.
- Mi chiami Judith - disse lei, scuotendo il capo - Vedrà, in qualche modo ce la caveremo. Ho soltanto bisogno di sapere una cosa da lei -
- Una cosa...? Di che si tratta? -
A quel punto, Judith si alzò in piedi fissando Orson dritto negli occhi. Le loro pupille si incrociarono, quasi a divenire unite.
Orson poté assistere a delle iridi infiammate di determinazione.
- Signor Joss... mi guardi negli occhi e mi dica che non è stato lei. Mi dica la verità, qui e adesso - gli ordinò.
Il tono sembrò al contempo imperativo e di supplica. La giovane avvocatessa non stava semplicemente estorcendo la verità: stava chiedendo al suo cliente di fidarsi di lei.
Orson Joss si asciugò una lacrima.
- La mia Erika... era tutta la mia vita - gemette - Il solo pensare di poterla uccidere è... è un qualcosa di... -
Judith lo fermò immediatamente.
- Ho la mia risposta, Signor Joss - gli disse, allungandogli la mano.
Orson osservò quella piccola manina bianca e liscia, quasi come fosse un sacrilegio sfiorare tanta delicatezza con le sue rozze ed enormi manone.
Eppure la stretta di Judith fu vigorosa, quasi come a volersi porre al suo stesso livello.
L'aura tiepida emanata da quella ragazza fu abbastanza da trasmettere un po' di calore al suo cuore inasprito dalla triste perdita.
- Mhh... sei giovane, ma in gamba -
- Faccio del mio meglio - annuì lei - Ora, abbiamo poco tempo. Vorrei giusto farle qualche domanda riguardo i suoi spostamenti nel giorno del delitto. Le va bene? -
- Sarò esaustivo - 
Lei afferrò rapidamente penna e taccuino, iniziando già a tracciare diversi appunti sulle prime righe della pagina.
- Dunque... lei è tornato a casa da lavoro verso le otto e mezza, giusto? -
- Giusto -
- Mi descriva ciò che ha fatto nel dettaglio, se possibile - lo pregò Judith - Normalmente spererei in un'abbondanza di particolari, ma abbiamo poco tempo -
Lui assunse un'aria meditativa, ripercorrendo tutto ciò che aveva compiuto in quel breve, fatale minuto.
- Ho varcato il cancello e mi sono diretto verso l'entrata del condominio - borbottò lui - Mi sono fermato qualche secondo a controllare la casella postale. Poi ho preso l'ascensore e mi sono diretto al quarto piano -
- Quindi non ha preso le scale? -
- Ho una certa età... - bofonchiò - Le mie ginocchia non sono più forti come un tempo... -
Lei annuì, continuando a prendere appunti.
- Ho estratto la chiave dalla tasca della giacca... - la parte successiva del racconto fu difficile da pronunciare - Sono entrato, e l'ho trovata... lì, per terra... -
- Era certo che fosse... morta? -
- No, all'inizio no. Mi sono precipitato su di lei, ma era in una pozza di sangue. C'era un coltello conficcato nell'addome... -
Ne seguì una breve pausa di riflessione. Orson sembrava aver bisogno di respiro.
- E poi cosa ha fatto? -
- Ero sconvolto, sono rimasto a tentare di svegliarla per alcuni minuti, ma non c'era niente da fare - sospirò lui - Poi sono corso al telefono e ho chiamato la polizia. Due minuti dopo erano già arrivati -
Annotando tutto con minuzia, Judith si sentì in dovere di prendere precauzioni.
- E' tutto? Sicuro di non star tralasciando nulla? -
- Ne sono certo. Non ho avuto la forza di muovermi... - gli occhi dell'omone erano spenti - Sono rimasto vicino ad Erika fino a quando non sono arrivati i soccorsi -
- Lei vive da solo, Signor Orson. Giusto? -
- Giusto -
- Come mai sua figlia era a casa sua? -
- Lavorava in un'altra città. Due volte al mese veniva a trovarmi... -
- Stando a ciò che so, era una giornalista di poco più di trent'anni. E' corretto? -
- Sì, una donna infaticabile e caparbia... - alzò lentamente lo sguardo - Un po' me la ricordi -
Arrossendo vagamente, Judith passò al prossimo punto sull'elenco delle cose da chiedere.
- Il coltello usato per ucciderla... era suo? - chiese infine l'avvocatessa - Lo ha per caso rimosso? -
- No, io... avevo il terrore che se lo avessi estratto avrei peggiorato la sua ferita, così lo ho lasciato dov'era... però sì: era uno dei miei utensili da cucina - 
- Dove era solito tenerlo? -
- Sul bancone attaccato al lavello e ai fornelli, di fianco all'ingresso -
Una pianta abbozzata dell'atrio di casa Joss iniziò a prendere forma sul quaderno di Judith, che tentò di tracciare alcune linee indicative.
Unendo le informazioni di Orson a quelle inerenti ai dettagli tecnici del caso studiati la sera prima, Flourish fu in grado di definire un quadro più completo della situazione.
Un piccolo sorriso confidente apparve sulla sua faccia.
- Molto bene, Signor Joss. Ho tutto ciò che mi serve - esclamò - Le fornirò la miglior difesa possibile, vedrà! -
- Mhh... - sbuffò lui, borbottando qualcosa sotto voce - Allora non posso fare altro che affidarmi a te... -
Fu un rapido gesto di Alexander Bergam ad interrompere il momento di sodalizio.
- Bene, mi fa piacere che abbiate trovato un accordo, ma il processo inizierà a momenti - sbottò lui, quasi infastidito - Usciere, porti il Signor Joss in aula, per cortesia -
Judith rimpianse la mancanza di tempo, ma se ne dovette fare una ragione.
Mentre Orson veniva portato via dalla guardia, lo salutò con la mano come per indicargli che lo avrebbe raggiunto presto.
Rimase per un momento a contemplare il proprio piccolo successo; dopo di ciò, corse a prendere la propria borsa e ci ficcò dentro tutti i documenti rilevanti che  riguardavano il caso in questione, senza tralasciare anche quelli più marginali.
Fece per uscire dalla sala d'attesa, quando una mano conosciuta la fermò, richiamandola.
- Sei stata brava, Judith - fece Alexander, che pareva impressionato.
Lei assaporò quel complimento con un'espressione compiaciuta.
- Ho imparato dal migliore -
- Senz'altro. Ma fa attenzione, piccola - stavolta il tono era più severo - Stai percorrendo un sentiero pericoloso. Riuscire a legare col cliente è importante, ma non fare promesse che non puoi mantenere. Non vorresti mai incontrare lo sguardo di un condannato a cui hai promesso un verdetto di non colpevolezza -
Quella frase la colpì duramente; Judith realizzò di aver fatto correre la bocca, forse un po' troppo.
La posta in palio era appena divenuta ancor più gravosa.
- Lo... terrò a mente -
- E, Judith? Un'ultima cosa -
Alexander si avviò verso l'uscita prima di lei, lasciando la frase a metà. Flourish si chiese che cosa stesse cercando di dirle. Non aveva mai incontrato una persona più schietta del proprio insegnante, e che la tenesse sulle spine senza essere estremamente franco quasi non era da lui.
- Cosa... cosa c'è, Maestro? -
- Non essere ingenua, Judith - la ammonì lui - Lo sguardo mente. Eccome, se lo fa. Non puoi permetterti di abbassare la guardia, non puoi concederti il lusso di fidarti di qualcuno solo perché senti sia la cosa giusta. Gli uomini creano infinite maschere per celare ciò che pensano davvero, e gli occhi sono una di quelle. Non dimenticarlo mai, va bene? -
A quelle parole, Alexander Bergam uscì dalla stanza lasciando sola, spiazzata e confusa la propria allieva.
Di lì a pochi minuti, il processo per l'omicidio di Erika Joss sarebbe cominciato.



La preparazione mentale che Judith aveva meticolosamente costruito non bastò a rimuovere del tutto il panico di fronteggiare una situazione reale in prima persona.
L'aula di tribunale era scintillante e lucida, il denso biancore dei marmi quasi accecava la vista.
A penetrare il silenzio vi era il brusio di sottofondo di coloro che, assistendo al processo, non potevano fare a meno di spettegolare su come fosse finita una ragazzina al banco della difesa; domanda che Judith si aspettava le venisse posta un'infinità di volte.
Alexander si era seduto poco distante dalla sua postazione, come ad indicare che la stava tenendo d'occhio e al contempo le lasciava tutto l'onere della responsabilità.
Non vi era nessuno a guardarle le spalle in quel processo, non quel giorno.
Judith Flourish deglutì con fatica e tornò a mostrare la propria facciata di falsa tranquillità professionale.
Il giudice aveva raggiunto la propria sedia da alcuni minuti e aveva impiegato del tempo a sfogliare il fascicolo sul caso in questione.
Il suo volto ispido e severo emanava una profonda aria di serietà: nonostante ciò, neppure lui fu in grado di trattenere un'occhiata diffidente nei confronti dell'avvocatessa troppo giovane che si trovava di fronte.
Esattamente dal lato opposto, invece, un procuratore massiccio dai capelli lunghi e arruffati e una barba altrettanto disordinata la stava fissando con uno strano sorriso  stampato sul volto; non vi era un solo dettaglio di quell'uomo che Judith riuscisse ad apprezzare.
Conosceva quel pubblico ministero; Alexander Bergam lo aveva affrontato molte volte, e Judith aveva imparato a guardarsi dai suoi rimarchi precisi, ma alquanto viscidi.
Ripescò nella memoria il nome di August Cinder; non poteva abbassare la guardia.
Alla fine di un breve periodo, il giudice mise a tacere gli ultimi battibecchi delle tribune con un paio di colpi di martelletto.
- L'udienza è aperta - pronunciò con un tono che la fece sembrare una frase fin troppo abituale - Il caso in esame tratta l'omicidio di Erika Joss. Entrambe le fazioni sono pronte? -
- Sì, Vostro Onore - annuì Judith.
- Altrettanto, Vostro Onore - seguì August.
- Bene. Signor Cinder, vorrebbe fornire una dichiarazione d'apertura, per cortesia? -
Il procuratore confermò con un cenno. Il suo sorriso presuntuoso non accennava a svanire.
- La vittima è Erika Joss, anni trentuno, giornalista freelance. E' stata ritrovata morta due sere fa nell'atrio dell'appartamento di suo padre: Orson Joss - disse spigliatamente - La vittima aveva un coltello conficcato nel corpo; il decesso è avvenuto a causa di dissanguamento e per la profonda ferita riportata. L'omicidio è stato denunciato circa dieci minuti dopo la morte, stando a quanto ha certificato la polizia -
- Capisco... - annuì il giudice, con volto scuro - Dove è situato l'appartamento? -
- In Via degli Ulivi 627, situata parecchio in periferia - rispose il procuratore - La strada di fronte al palazzo era deserta e l'ora era tarda. Non vi sono testimoni oculari -
- Eppure mi pare di capire che avete un indiziato. Dico bene, Signor Cinder? -
Il sorriso di August si allargò in maniera inquietante.
- Numerose prove ci hanno portato a credere che l'assassino sia il padre della vittima: Orson Joss - esclamò - A tempo debito le esporrò tutto ciò che riguardano le circostanze che ci hanno permesso di arrestarlo -
Erano le parole che Judith temeva di più; lanciò una rapida occhiata al giudice. Non sembrava minimamente scomposto dell'idea che un uomo avesse potuto assassinare la propria figlia.
"Deve averne viste tante, forse anche peggiori di questa..." pensò la ragazza.
- Molto bene. Ascolterò immediatamente la sua deposizione, Signor Cinder - affermò il giudice - Ma prima vorrei accertarmi che la versione appena fornita sia confermata
dalla difesa. Signorina Flourish, ha qualcosa da dire in merito? -
La mano le tremò visibilmente; Judith notò come August avesse adocchiato quel suo minuscolo tentennamento, ridendosela sotto i baffi.
- No, Vostro Onore. Le circostanze del delitto sono esatte - asserì Judith - Tuttavia vorrei che discutessimo delle prove raccolte dall'accusa per verificare se possono davvero incriminare il mio cliente -
- Perfetto. Propongo di cominciare immediatamente - il giudice parve soddisfatto della risposta - Prego, Signor Cinder -
August Cinder raccolse la sfida. Aprì un fascicolo che si era portato dietro, soffermandosi sulle prime pagine.
La battaglia era appena cominciata.
- Dunque, partiamo dai movimenti della vittima - cominciò August - Erika Joss era in un breve stacco lavorativo. Circa due o tre volte al mese passava a casa del padre, e vi restava per un fine settimana. Sembra che, quel giorno, la signorina Joss non fosse mai uscita di casa -
- Dunque non ha lasciato l'appartamento? - chiese il giudice.
- Esattamente - Cinder si leccò le labbra - Ci terrei a puntualizzare che solo la vittima e l'imputato erano dotati delle chiavi dell'appartamento -
Judith inspirò una boccata d'aria, assaporando quel momento.
- Obiezione, Vostro Onore. Il dato fornito è irrilevante - disse la giovane - Il delitto è avvenuto nell'atrio, ad appena pochi passi dalla porta d'ingresso. Chiunque avrebbe potuto bussare ed ucciderla non appena la porta si fosse aperta. Le chiavi non sono una prova sufficiente -
- Obiezione accolta. Continui, Signor Cinder -
D'istinto, la ragazza si voltò verso Bergam, come a ricercarne l'approvazione. Il volto imperscrutabile di Alexander le fece capire che aveva ancora tanta strada da fare.
"Un po' ci ho sperato..."
Dall'altro lato della sala, August mostrò una smorfia beffarda; era come se le avesse elargito quel facile spiraglio come mero antipasto, un omaggio d'accoglienza, o forse un semplice test.
Judith Flourish non si lasciò intimorire dal fatto che il suo avversario stesse palesemente giocando con lei.
- Passiamo al reperto A: l'arma del delitto. Il coltello usato per uccidere Erika Joss proveniva dalla mensola degli utensili da cucina del proprietario della casa -
- Quindi il coltello appartiene all'imputato? - domandò il giudice, per chiarire.
- Precisamente. Il coltello utilizzato era, tra l'altro, quello di dimensioni maggiori e il più affilato. L'arma sembra essere stata scelta con cura: c'è la possibilità che l'omicidio potesse essere... premeditato -
- Obiezione - il responso di Judith non tardò ad arrivare - Il fatto che il coltello fosse del mio cliente è irrilevante. La mensola degli attrezzi da cucina è situata appena di fianco all'ingresso. Sarebbe bastato allungare il braccio non appena entrati per raggiungerlo, e le dimensioni non sono una prova sufficiente -
- Obiezione. Un estraneo non avrebbe potuto sapere che i coltelli fossero situati in quel punto - ribatté Cinder - L'omicidio è stato commesso da qualcuno che conosceva la loro locazione -
- Obiezione. Lei sta partendo dall'errato presupposto che il delitto si sia consumato in pochi istanti, Signor Cinder. Sarebbe bastata una manciata di secondi a qualunque estraneo per rendersi conto di avere i coltelli a portata di mano. La difesa insiste sul trattare il coltello come una prova non decisiva, Vostro Onore -
Il giudice osservò lo scambio di opinioni con interesse, massaggiandosi il mento sbarbato.
- La Signorina Flourish ha esposto dei dubbi concreti - pronunciò - Ha qualcosa da ribattere, Signor Cinder? -
- Sì, Vostro Onore. Ho un'obiezione - esclamò August - L'arma del delitto offre diversi spunti di riflessioni da più punti di vista. Se la posizione del coltello non convince la difesa, allora immagino che le impronte digitali dell'imputato su di esso possano fornire un dato più rilevante -
Judith tentennò per un istante. Impronte digitali, uno degli ostacoli che molto spesso gli avvocati difensori si trovavano a fronteggiare.
Anche in quel caso, non volgevano a favore della propria argomentazione.
Le occorse un notevole sforzo mnemonico per ricordare i consigli di Bergam su come affrontare quelle situazioni.
- Obiezione, Vostro Onore! - disse, puntando l'indice in avanti - Che le impronte digitali del mio cliente si trovassero sul SUO coltello da cucina è perfettamente normale! -
- Obiezione - fu il rapido responso dell'accusa - Signorina Flourish, deve prestare più attenzione ai dettagli. Le impronte dell'imputato sono state trovate... al rovescio. La sua mano stava impugnando il coltello al contrario, come fosse un pugnale. Non ne era al corrente? -
Un brivido percorse la schiena di Judith. 
Le sue certezze iniziarono a vacillare; era comparso un elemento dissonante con tutte le ore passate a studiare il caso.
Era certa di aver riletto tutto decine di volte, ma quel dettaglio le era in qualche modo sfuggito. Uno straziante senso di angoscia la avvolse.
"Le impronte erano al contrario...? E io non ne sapevo nulla...?"
- Mi sembra un fattore importante - constatò il giudice.
- E c'è di più. Non crede che l'assenza di altre impronte digitali stia a significare che nessun altro, oltre all'imputato, abbia impugnato il coltello? -
Il giudice contrasse lo sguardo.
- Sono argomentazioni valide - mormorò, annuendo - Signorina Flourish, come intende rispondere? -
Inspirando ed espirando, Judith tentò in tutti i modi di restare concentrata. Era una situazione difficile da gestire, ma non impossibile.
Aveva visto Alexander tirarsi da guai ben peggiori con la metà dello sforzo. Non poteva essere da meno, non davanti a lui.
Varò ogni possibilità, ma sapeva di dover guadagnare tempo.
- L'assenza d-di... impronte estranee potrebbe implicare che il colpevole ha usato dei guanti... - aggiunse Judith, cercando di mettere in ordine i pensieri.
- Obiezione - tagliò corto Cinder - Non vi sono prove che possano supportare questa tesi. Le uniche impronte sono quelle dell'imputato -
- Obiezione accolta. Signorina Flourish, ha qualcos'altro da aggiungere in merito? - domandò, impaziente, il giudice - Mi sembra che la questione dell'arma sia oramai assodata -
Judith Flourish si immerse in una profonda riflessione, estraniando tutto il resto.
Sapeva di dover affrontare il problema in modo differente, nella maniera che Bergam le aveva inculcato in anni di studi.
La paura e l'incertezza erano nemici del raziocinio, e doveva liberarsene. Andava tutto affrontato con calma, e da una diversa prospettiva.
"Le impronte sono al contrario..." pensò "E' una prova che va a mio svantaggio... o forse... no?"
Un'idea improvvisa la fulminò. 
Senza quasi rendersene conto, si ritrovò a sbattere la mano destra sul tavolo di marmo, come per catturare l'attenzione.
Assimilò con cura ogni dettaglio che costituiva quel pensiero, e poi si decise ad esprimerlo.
- ...la ferita da taglio... è situata sulla parte bassa dell'addome. Giusto? -
August Cinder si fermò ad osservare quel peculiare fenomeno.
- Esatto. E con ciò? - sbuffò lui.
- Se è questo il caso, l'arma deve essere penetrata dal basso, giusto...? - osservò lei - Non è strano che... l'impugnatura fosse al rovescio? -
Calò un breve silenzio.
Sia il procuratore che il giudice si ritrovarono a fare i conti con quella improvvisa constatazione.
Judith deglutì, sperando di aver imboccato un sentiero giusto.
- Il modo in cui il mio cliente ha impugnato il coltello ci fa pensare che, se avesse davvero voluto colpire la vittima, il colpo sarebbe stato inferto dall'alto -
- Ob... obiezione - stavolta il tono di Cinder si fece più tenue - Vi sono una moltitudine di modi per colpire una persona nella sezione inferiore del busto impugnando l'arma in quel modo -
- Anche se l'imputato è un uomo anziano che soffre di acciacchi dell'età? Io ne dubito, Signor Cinder - perseverò lei - L'imputato non può assumere pose complicate o  che necessitano di un certo sforzo. Questo dettaglio deve essere necessariamente preso in considerazione! -
Un lieve vociare si levò nell'aria, facendo da contorno all'animata discussione.
Gli spettatori stavano dando chiari segni di apprezzamento nei confronti della novellina fin troppo giovane, ma che stava costituendo una sfida interessante.
Il martello del giudice bastò a far cessare il chiacchiericcio.
- Ordine! - tuonò il giudice - Signorina Flourish, la sua argomentazione è sensata, ma non solleva ancora tutti i dubbi che cingono l'arma del delitto. Per il momento, però, 
non mi sento di definire il coltello una prova decisiva. Signor Cinder, può fornirci altre prove a carico dell'imputato? -
L'avvocatessa e il pubblico ministero si scambiarono uno sguardo di sfida.
Per quanto il sorriso impertinente di Cinder si fosse ridimensionato, i suoi occhi emanavano ancora una forte aura di sicurezza.
Judith si massaggiò i palmi delle mani, che stavano sudando copiosamente. La sfida continuava senza vincitori né vinti.
Dalle tribune, Orson Joss osservò la scena con una certa ammirazione che traspariva dai suoi piccoli occhi profondi.
- Sì... ho ancora diversi dati a mia disposizione, Vostro Onore - asserì August - La polizia ha raccolto le deposizioni di tutti i condomini che erano nelle rispettive  abitazioni, quella sera. Si dia il caso che alcuni di essi fossero rientrati poco prima del delitto, osservando la situazione da un punto di vista diverso -
- Quindi ci sono dei testimoni? - chiese il giudice.
- Non oculari, ma ciò che hanno detto interessa le circostanze dell'arrivo dell'imputato -
Un altro dato di cui Judith non era a conoscenza; la cosa le provocò una nuova scarica di tensione.
- Molto bene. Esponga, Signor Cinder -
A quel punto, August estrasse dalla propria cartella un plico di fogli spillati che costituivano un buon numero di informazioni.
Flourish si chiese quale diavoleria avrebbe tirato fuori il procuratore da quell'ammasso di prove.
- Il Signor F., dell'appartamento 607 del piano terra, ha intravisto il Signor Joss arrivare al condominio pochissimo tempo prima dell'orario del delitto. Con lui vi erano altre due persone che hanno confermato la versione - spiegò Cinder - A ciò si aggiunge la deposizione del Signor P., appartamento 614, che è rimasto tutta la sera affacciato al balcone a godersi una bottiglia di vino. In base a ciò che ha detto, verso quell'ora l'imputato è stata l'unica persona ad entrare nel palazzo. Nessun estraneo è stato avvistato, né ad entrare né ad uscire -
Un altro fattore critico era andato ad aggiungersi al mucchio senza preavviso.
Scardinare quell'asserzione non sarebbe stato un lavoro semplice ed indolore.
- Le deposizioni sono autentiche e certificate... - borbottò il giudice, osservando il fascicolo - Mi sembrano prove fondate. Lei che ne pensa, Signorina Flourish? -
- Non possiamo affidarci all'attendibilità di testimoni non oculari, Vostro Onore...! - si oppose lei - Potrebbero non aver visto qualcuno entrare di nascosto...! -
- Obiezione. Abbiamo troppe testimonianze concordanti, Signorina Flourish - la fermò August - Questa versione dei fatti è stata approvata da tutti i testimoni presenti. Non può screditarla con mere ipotesi, avvocato -
- Ma nessuno ha assistito al delitto in prima persona, no? - perseverò lei - Non possiamo accertare che sia andata così solo perché le circostanze riguardanti le  tempistiche lo permetterebbero ipoteticamente! -
A quel punto, August Cinder mostrò un'espressione di dubbia entità. Apparve quasi come annoiato, infastidito.
A Judith parve una semplice espressione di come la propria strenua resistenza stesse finalmente facendo effetto, ma ben presto si rese conto che non era così.
Gli occhi del procuratore non emettevano altro che un nervosismo dovuto al tedio; non vi era mai stato nemmeno un momento in cui quell'uomo la avesse considerata una sua pari.
Bastò quel semplice scambio di sguardi a farle realizzare il profondo dislivello che intercorreva tra le due fazioni di quell'aula di tribunale.
- Vostro Onore... - sospirò il procuratore - E' chiaro che la difesa intenda vertere la propria strategia sull'aggrapparsi invano a dei meri cavilli logici. Proporrei di passare direttamente al sodo in modo da concludere questa penosa farsa -
Judith avvertì il bisogno di obiettare per il solo motivo di dirgliene quattro, ma la sua professionalità decise altrimenti.
Strinse i pugni e incassò il colpo, osservando come la situazione andava evolvendosi.
- Che cosa intende dire, Signor Cinder? - chiese il giudice.
- Ho una prova aggiuntiva da presentare alla corte. Una prova... definitiva, oserei dire -
L'intera aula cominciò a bisbigliare, colpita da quel nuovo colpo di scena. Il pubblico ministero estrasse dalla propria borsa una bustina pastificata; all'interno vi era un panno che presentava alcune chiazze scure.
Il giudice si mostrò diffidente.
- Come mai la presenta solo adesso, Signor Cinder? - domandò con voce severa.
- Le mie scuse, Vostro Onore, ma erano necessari degli accertamenti prima di poterla mostrare - sorrise lui - Prima abbiamo stabilito che solo le impronte dell'imputato erano sull'arma del delitto. Era una premessa necessaria per giungere a questo -
- Va bene, proceda pure - acconsentì l'altro.
Era orami tempo di confrontare quell'ennesimo ostacolo; Judith intuì solo osservando l'indizio che non avrebbe rappresentato nulla di piacevole.
- Vi mostro il reperto B: un fazzoletto ricamato a mano, appartenente alla vittima - disse August, alzandolo verso l'alto - E' sporco del sangue di Erika Joss, e non è tutto. Su di esso vi sono due tipi di impronte digitali. Quelle della vittima, ovviamente, e... beh, potete immaginare ciò che sto per dire. Sì, quelle dell'imputato -
- Un fazzoletto sporco di...!? - sussultò Judith - U-un momento...! Nel referto delle indagini non è mai stato menzionato che...! -
August Cinder batté la mano sul bancone, zittendola con il semplice gesto.
- Signorina Flourish, la sua mancanza di informazioni è attribuibile unicamente alla sua disattenzione. Non incolpi la polizia per i suoi errori - i suoi occhi emisero un bagliore - Avrebbe fatto meglio a prendere sul serio queste indagini, come fanno i professionisti -
Mordendosi furiosamente il labbro inferiore, Judith dovette sforzarsi enormemente per non rispondergli a tono.
Mantenere la calma in ogni situazione era uno degli insegnamenti principali di Bergam, quasi fosse un mantra. 
Deglutì amaramente, osservando gli sviluppi.
- Mi dica di più riguardo questa prova, Signor Cinder - lo incitò il giudice - Mi sembra estremamente rilevante -
- Lo è, Vostro Onore. Il fazzoletto è stato ritrovato nel cestino dell'immondizia del terzo piano - spiegò lui - C'è un piccolo cassonetto su ogni piano dove i condomini gettano i rifiuti misti. Ogni due giorni viene svuotato. Il sangue era ancora vagamente fresco quando è stato rinvenuto nella spazzatura -
- Quindi... sospetta che l'imputato abbia voluto liberarsene sbrigativamente nella speranza che non venisse trovato? -
- Precisamente, Vostro Onore -
- Obiezione. Esattamente come nelle situazioni precedenti, nessuno dei testimoni ha assistito alla scena! - si intromise la ragazza - Chiunque avrebbe potuto...! -
- Obiezione. Ancora una volta la sua palese inesperienza le ha giocato un brutto tiro, Signorina Flourish - la bloccò immediatamente August.
- Cos...? Cosa intende dire...!? - 
Cinder si schiarì la voce; il suo ghigno si era allargato.
- Le ho detto che il fazzoletto presenta le impronte dell'imputato, no? - spiegò lui - Beh, si dia il caso che tali impronte siano state ritrovate su una piccola chiazza di sangue sul corrimano che separa il quarto e il terzo piano. Mi sembra superfluo da aggiungere, ma sì: appartengono ad Orson Joss -
- Come...? Ha detto che...? - Judith assaporò quelle parole, tremando - Le impronte del mio cliente sono state rinvenute sul corrimano della scalinata...? Ricoperte di sangue? -
Un mormorio confusionario ricomparve lungo le tribune, e il giudice fu costretto ad intervenire nuovamente.
Dopo aver assestato alcuni colpi di martello e aver riportato tutti all'ordine, si rivolse alla difesa.
- Signorina Flourish, queste prove sembrano avere una rilevanza colossale. Sono abbastanza per farmi pronunciare un verdetto - sentenziò lui.
- Mi sembra un'idea ragionevole - aggiunse August - Questo processo si è spinto anche troppo. Sarebbe il momento di decretare la pena, Vostro On-... -
- Obiezione -
Le parole morirono in gola al procuratore distrettuale. I suoi occhietti vispi lanciarono un'occhiataccia feroce verso la ragazza dal fare indisponente.
- Come ha detto...? - mormorò.
- Ho un'obiezione, Vostro Onore. Le accuse del Signor Cinder contengono una falla madornale -
- Si spieghi, Signorina Flourish -
- Con molto piacere. Vorrei ricordare alla corte che l'appartamento in cui si è tenuto il delitto si trovava al quarto piano, mentre il fazzoletto è stato trovato al terzo.
Inoltre, sono stati trovati chiari segni del passaggio del mio cliente lungo le scale. Mi seguite fin qui? -
- Dove vuole arrivare, avvocato...? - sbottò August Cinder, evidentemente infastidito.
- Presto detto. Signor Cinder, il mio cliente è anziano; ultrasessantenne - spiegò lei - E con l'età si sono manifestati i primi acciacchi. Il mio cliente ha affermato di aver preso l'ascensore, una volta tornato a casa, perché le sue gambe non gli avrebbero consentito di utilizzare le scale -
Le pupille di August Cinder si contrassero.
- Co... come ha detto...!? -
- E c'è di più. Sulla cartella clinica del mio cliente è indicato che ha avuto un incidente alla rotula pochi anni fa, e da allora non ha mai preso le scale nemmeno una volta. Ora, Signor Cinder, mi spiega come sia possibile che le impronte di Orson Joss fossero lungo la rampa di scale? -
- Obiezione! - esclamò imperterrito - L-le impronte erano sul bordo superiore del corrimano. Avrebbe potuto lasciarle semplicemente appoggiandocisi, senza effettivamente prendere le scale...! -
- Ah, sì? E mi dica, Signor Cinder, come ci sarebbe arrivato il fazzoletto al terzo piano? -
- Utilizzando l'ascensore, ovviamente! -
Judith scosse la testa.
- Ma abbiamo appena detto che, pochi istanti prima, il mio cliente ha lasciato delle chiare impronte sul corrimano. Mi spieghi, come mai non è stato trovato niente del genere all'interno dell'ascensore? -
Il giudice colpì con forza il bancone, sedando il boato delle tribune.
L'atmosfera andava scaldandosi sempre di più, attimo dopo attimo.
- Ordine! ORDINE, HO DETTO! - sbraitò - Signorina Flourish, cosa crede che significhi tutto ciò!? -
- E' semplicissimo, Vostro Onore - disse lei, con estrema calma - Ci sono troppe prove di cui non ero a conoscenza pur avendo studiato il caso nel dettaglio, e tali prove non hanno il benché minimo senso poiché contraddicono i fatti. Vi è una sola spiegazione: sono contraffatte -
- CO-COSA...!? - il giudice ebbe quasi un mancamento - Delle prove sono state... manipolate!? -
- Obiezione! - urlò Cinder, adirato - Vostro Onore, le illazioni della difesa sono oltraggiose! Sta forse accusando la procura e la polizia di aver manomesso delle prove o di averle addirittura alterate!? -
- E' la pura logica che mi ha spinto a giungere a questa conclusione - disse, allungando il dito in avanti - Qualcuno ha contraffatto delle prove durante le indagini! E' l'unica spiegazione plausibile! -
- Signorina Flourish...! -
La voce del giudice risultò più grave e severa di quanto non lo fosse stata fino ad ora.
Trasportata dall'eccitazione, Judith non si era resa conto che tutti gli occhi dell'aula erano fissi su di lei, squadrandola da cima a fondo.
Avvertì il peso di decine di sguardi che la osservavano, la scrutavano, la giudicavano.
- Vostro... Onore? -
- Questa accusa è... gravissima, Signorina Flourish - tossicchiò il giudice - Se è davvero intenzionata a seguire questa linea di pensiero... farà meglio ad avere le prove adatte per dimostrare tutto. Capisce a cosa mi riferisco? -
Istintivamente, Judith si voltò verso le tribune. Incrociò lo sguardo di Alexander: persino la sua proverbiale calma era venuta meno dopo ciò che era accaduto.
Judith realizzò di essersi spinta troppo oltre; eppure, la coscienza le suggerì che era la pista giusta.
- Vostro Onore, sono convinta che la via che sto seguendo sia corretta -
- A-avvocato...! Spero sia pronta ad affrontare le conseguenze di questo gesto...! - si intromise August Cinder - Se osa accusare un esponente giuridico senza prove, la sua carriera è segnata! Finita! -
- Il Signor Cinder ha ragione, Signorina Flourish - annuì il giudice - Andrà incontro a dei seri guai se sta semplicemente dando aria alla bocca. Ci rifletta bene. E' sicura di avere una prova che un membro delle forze dell'ordine sia implicato in questa vicenda? -
Judith socchiuse gli occhi per un istante, inspirando.
Ripercorse con cura ogni singolo dettaglio del caso; aveva passato un esorbitante periodo di tempo a studiare i particolari dell'omicidio di Erika Joss, tanto che avrebbe potuto elencarli a memoria. Sapeva che vi era qualcosa che non quadrava, qualcosa fuori posto.
Il tassello finale del puzzle, che avrebbe aperto la strada verso la verità.
La soluzione era a portata di mano, ma inseguirla avrebbe portato ad imboccare una strada a senso unico.
Un sentiero che poteva portare alla vittoria, o ad un'inevitabile sconfitta e disfatta totale; qualcosa da cui non si poteva tornare indietro.
Chiese mentalmente perdono ad Alexander Bergam e a suo padre, che tante, troppe volte le avevano consigliato di mantenere un profilo basso e di non caricare a testa bassa
verso l'ignoto; che non vi era nulla di più pericoloso di ciò che non si conosceva pienamente.
Judith Flourish avrebbe disobbedito ancora una volta.
- Sì, Vostro Onore. C'è qualcosa che potrebbe rivelarci un nuovo dettaglio nel caso - disse - E intendo esporlo alla corte -
Il volto di August Cinder era segnato da copioso sudore, mentre il giudice mostrava un intenso interesse misto ad una sensazione di disagio.
Judith e Alexander si scambiarono un ultimo sguardo. Quest'ultimo non diede alcun cenno; aveva detto fin dall'inizio che la giovane avvocatessa avrebbe dovuto sobbarcarsi tutte le responsabilità derivanti da quel caso. Si limitò a socchiudere gli occhi.
"Fa ciò che devi..." pensò Judith "Ho come la sensazione che il Maestro mi stia dicendo proprio questo..."
- Proceda, Signorina Flourish - la incitò il giudice - Che cosa le ha suggerito una nuova possibilità? -
Si asciugò i palmi delle mani, poi si schiarì la voce.
Tutti i presenti pendevano dalle sue labbra; vi era un assordante silenzio.
- Signor Cinder - cominciò Judith - Vorrei che mi confermasse una cosa, a scampo di ogni dubbio -
- ...di che si tratta? -
- La denuncia dell'omicidio è avvenuta a pochi minuti dall'atto stesso. Ed è stato l'imputato a chiamare la polizia, dico bene? -
Senza capire dove volesse andare a parare, August Cinder si limitò ad annuire.
- Sì, la telefonata è giunta da Orson Joss... -
- Bene. Vostro Onore, ci terrei ad esporre un dettaglio cruciale che mi è stato riferito dal mio cliente durante un colloquio preliminare - proseguì Judith - Mi ha detto queste esatte parole: "Sono corso al telefono e ho chiamato la polizia. Due minuti dopo erano già arrivati". E' questa la frase che mi ha dato da pensare per tutto il processo -
- Non comprendo, avvocato. Dove vuole arrivare? - domandò il giudice.
- Nel corso del processo è già stato detto che l'appartamento si trova in periferia, parecchio distante dal centro abitato popoloso. E non è tutto: era parecchio tardi, e le strade erano deserte. Vostro Onore, mi saprebbe dire quanto dista il distretto di polizia più vicino all'indirizzo dell'imputato? -
L'uomo parve pensarci attentamente.
- Beh... l'unico nei paraggi era quello situato presso il centro della città... - affermò - La telefonata è giunta lì, e gli agenti che hanno partecipato all'indagine sono stati inviati da quella stessa centrale -
- Ecco... Vostro Onore, l'imputato ha detto che, dopo appena due minuti, una volante era già arrivata sul luogo. Lì, in quel vicolo quasi sperduto della periferia, a quell'ora, la polizia è riuscita ad arrivare in appena un paio di minuti. Non è... strano? -
- O-obienzione... - si immischiò August - Questa è ben lungi dall'essere una prova concreta, avvocato! -
- Vero. Ma non vi è niente di "concreto" tra le prove presentate in questo processo. Dobbiamo esplorare ogni alternativa - asserì Judith - Vostro Onore, la ronda delle pattuglie del distretto centrale non arriva così lontano dalla prefettura. La presenza di una volante di polizia in quel luogo e a quell'ora, proprio in concomitanza col delitto, è anomala e quantomai sospetta! -
- Che cosa... propone, Signorine Flourish? -
- Chiedo che il poliziotto che per primo è intervenuto sulla scena del crimine venga chiamato a deporre! Qui, e adesso! -
Un'ondata di pesante silenzio seguì quella improvvisa richiesta.
L'atmosfera trasudava agitazione ed incertezza.
August Cinder avrebbe voluto opporsi, ma sapeva che sarebbe stato fiato sprecato. Il suo volto tornò vagamente tranquillo, però, nel momento in cui il giudice posò il martelletto sul bancone dopo aver dato tre colpi.
- Molto bene. Che entrambe le fazioni si organizzino al meglio - esclamò il giudice - Signor Cinder, prepari il testimone. Il processo prenderà una pausa di venti minuti, al termine del quale riprenderemo con la nuova deposizione. La corte si aggiorna -
Judith si lasciò scappare un lungo sospiro di sollievo, come se un grosso peso le si fosse appena tolto di dosso.
Sapeva di non avere tempo da perdere: andava preparato tutto con cura.
Fece per prendere le proprie cose ed andare verso la sala d'attesa, quando i suoi occhi si poggiarono sull'altro lato della sala.
Scostò la frangia di capelli corvini per vedere meglio: August Cinder le stava rivolgendo un sorriso malizioso, quasi diabolico.
Un ghigno di che stava assaporando il momento in cui sarebbe saltato sopra la propria preda, sbranandola in un attimo.
Osservò quello sguardo malefico sparire oltre la porta del tribunale.
Judith Flourish si chiese se il peggio non stesse per arrivare.
Un orribile presentimento la colse alla sprovvista, un pensiero che non voleva andarsene.
La sfida non era ancora finita.



Seppur correndo con tutte le proprie forze, Judith impiegò un paio di minuti per raggiungere la stanza dove aveva lasciato il proprio materiale di studio.
Avrebbe preferito portarsi dietro l'interezza dei documenti, ma semplicemente non vi era spazio per posizionare un tale ammasso cartaceo.
Non appena fu arrivata, subito si fiondò a riesaminare le sezioni di interesse che le avrebbero permesso di creare una strategia difensiva efficace.
Controllò febbrilmente l'orologio quasi ad ogni rotazione completa della lancetta; mancava appena un quarto d'ora alla fine della pausa, e non aveva ancora nulla tra le mani.
Afferrò al volo il quaderno dove aveva annotato ogni testimonianza riguardante le tempistiche e gli spostamenti, sperando di trovare anche la più piccola traccia del passaggio di una terza persona, magari qualcuno di non ancora calcolato nelle indagini.
La ricerca di Judith subì una brusca interruzione nel momento in cui Alexander Bergam entrò nella sala d'attesa con un volto poco rassicurante.
Lei notò immediatamente il cambio di atmosfera.
- Ah...! Maestro... - biascicò lei - So che mi meriterei una sonora strigliata, ma non è il momento... -
- Senz'altro ti elargirei ben più di una lavata di capo - rispose secco - Allora? Qual è il tuo piano? -
Lei deglutì un pesante grumo di saliva.
- Il mio piano è... trovare ogni possibile spiraglio e usarlo a mio vantaggio -
- In pratica: non ne hai uno -
- Maestro, sto facendo il possibile! - reagì lei - Oramai ho capito come sono andate le cose! Posso snocciolare questo caso, con un po' di fortuna! Possibile che lei non capisca...!? -
Una folata d'aria improvvisa le mosse una ciocca di capelli corvini.
Judith si immobilizzò; il braccio di Alexander si era mosso rapidamente fino a dare un possente colpo alla scrivania, a tal punto da smuovere tutto ciò che vi era sopra.
Lei alzò timidamente lo sguardo: non lo aveva mai visto talmente arrabbiato.
Non ebbe la forza di rispondergli, limitandosi ad attendere che Bergam ritraesse le fauci di propria iniziativa.
- ...ti ho insegnato meglio di così, razza di stupida - disse lui ricomponendosi, ma sempre con tono severo - Sei stata in gamba... hai davvero trovato un filo conduttore che unisce tutti i tasselli del caso. Ma sei davvero un grado di metterli assieme? Disponi dei mezzi per farlo? -
- Maestro, io... - mormorò lei, con un filo di voce - Io non capisco... che cosa...? -
- Judith, sarò franco. Hai avuto intuito: questo intero processo è una farsa. Le prove sono truccate, i testimoni condizionati, i fatti alterati - spiegò lui - E tutto ciò va ben oltre la semplice disonestà. C'è molto altro in moto dietro questo caso. Lo capisci? -
- Maestro... che cosa sa lei che io non so? -
Alexander esitò per un attimo. Fece per accendersi una sigaretta, ma ricordò di essere in uno spazio chiuso.
Era palesemente nervoso, e niente pareva riuscire a calmarlo.
Alla fine, sospirò tristemente.
- Judith, ricordi la professione della vittima? -
- Certo: era una giornalista, no? - annuì lei - Ha lavorato per un paio d'anni per un giornale importante, se non erro -
- Già, ma si stava giocando la carriera - fece notare lui - Un po' allo stesso modo di come stai facendo tu -
- C-come, prego...? -
- Erika Joss era una persona testarda. Andava sempre fino in fondo alle storie che seguiva, anche se queste risultavano essere pericolose - raccontò Alexander - Ben presto si è ritrovata immischiata in una faccenda poco rassicurante. I suoi superiori la hanno spesso avvertita di allentare la presa e di non mettersi nei guai, ma non ha voluto sentire ragioni -
- Maestro, sta dicendo che...? -
Lui le rivolse uno sguardo penetrante, come a voler sottolineare la rilevanza della questione.
- Joss si è ritrovata tra le mani uno scoop sensazionale, a quanto pare. Ma riguardava gente pericolosa, tipi poco raccomandabili - sospirò lui - Ed ecco perché il suo cadavere è stato trovato lì. Non è stata semplicemente uccisa: la hanno messa a tacere -
Il cuore di Judith le salì in gola.
- Messa a...? In pratica, è morta perché sapeva troppo...? -
- E la sua dipartita fungerà da esempio per chiunque tenterà di mettersi in mezzo a queste persone. Una sorta di avvertimento, non so se mi spiego -
- Maestro, basta enigmi! Chi sono queste persone!? E perché lei sa tutte queste cose!? Me lo dica! -
Lui abbassò lo sguardo; la risposta non era semplice.
- Ho inviato un mio conoscente a fare delle ricerche in merito... - disse - Il responso mi è arrivato poco fa, mentre eri ancora in aula. Si tratta di un largo e pericoloso gruppo mafioso con larghe schiere di seguaci. Probabilmente una delle organizzazioni più temibili del paese. Niente che un'avvocatessa adolescente alle prime armi possa gestire, per dirla senza mezzi termini -
Fu un duro colpo da incassare, ma l'orgoglio non fu prioritario per Judith.
- E questa gente ha ucciso Erika Joss e ha fatto in modo che suo padre venisse incastrato...? -
- Ha fatto molto di più. Hanno usato i loro contatti con i corpi legislativi per manomettere le prove e hanno, probabilmente, minacciato i testimoni. Il poliziotto che hai menzionato prima probabilmente lavora per questi criminali, e quasi sicuramente anche quel verme di Cinder sta collaborando -
- Il procuratore Cinder? -
- Per lui questo caso è la gallina dalle uova d'oro. Una sentenza facile e una vittoria quasi assicurata - sbottò amaramente Alexander - Tutto ciò che deve fare è portare a casa il verdetto di colpevolezza e gli sarà data una bella sommetta. Ci scommetterei che le cose stiano così... -
A quel punto, Judith si alzò in piedi di scatto.
- Beh, ma possiamo porre fine a questa follia! - esclamò lei - Posso usare queste informazioni per ribaltare il caso, e...! -
- No, Judith, frena. Pensa a ciò che stai dicendo - la bloccò immediatamente - Queste sono nozioni che hai ottenuto da una fonte che nessuno considererebbe attendibile, e non hai prove per supportarle. Non puoi semplicemente buttare in mezzo l'argomento e sperare che ti credano -
- Ma allora cosa posso fare...? Cosa...!? -
- Piccola Flourish... non stai considerando il dettaglio più importante... quello cruciale... - il suo tono si fece estremamente cupo - In questo momento, Cinder e i suoi alleati staranno costruendo un piano a prova di bomba. Basterà che il poliziotto fornisca la loro versione dei fatti, e fine dei giochi. Non hai nessuna prova che possa esserti utile, niente di niente. Sei una ragazzina che si è messa da sola contro decine di adulti estremamente più influenti e potenti di te. Dire che le tue possibilità di vittoria sono nulle è quasi un pensiero ottimista -
Lei strinse i pugni quasi fino a lacerarsi la pelle con le unghie.
- Mi sta dicendo... che dovrei mollare...? Che non ho alcuna speranza...? -
- Judith, vuoi fare la fine di Erika? -
Le mancò il respiro per un attimo.
- Co... cosa!? -
- Cosa credevi di star facendo? Pensi che ne uscirai tutta illesa? - rimarcò lui - Qui andiamo ben oltre la tua carriera, idiota. Se quegli uomini vedono che continuerai ad insistere, la prossima a venire uccisa sarai tu. Non si fanno scrupoli ad ammazzare donne, dubito se ne faranno a sgozzare una ragazza -
Avvertendo improvvisamente le gambe tremare, Judith si accasciò sulla sedia.
Non riuscì quasi a muovere alcun arto, paralizzata dal terrore. Il solo pensiero di ritrovarsi nelle stesse condizioni della vittima del caso le mandò il cervello nel panico.
- Io...? Uccideranno... uccideranno me...? - mormorò, mentre una lacrima le rigava il volto - Hai detto che... verranno a prendermi...? -
Alexander rimase in silenzio.
- Oramai la frittata è fatta, Judith. Li hai accusati... - 
- N-no...! Maestro, io non... la prego, mi aiuti! - implorò lei - Io voglio aiutare il Signor Joss, ma...! Ma da sola, io...! -
- ...esiste un solo rimedio -
Quella frase arrivò come dal nulla. A Judith, ancora frastornata dalla minaccia di morte, quasi non sembrò reale.
Una soluzione giunta in maniera troppo conveniente: vi era decisamente puzza di bruciato.
- ...un rimedio? Che tipo di... rimedio? - chiese timidamente.
- E' un sistema... definitivo. E temo non ci sia altra soluzione - affermò lui.
- Cosa... cos'è!? Di che si tratta, Maestro!? -
- ...una confessione -
La voce che aveva dato la risposta non era, però, quella di Alexander Bergam.
Judith trasalì brevemente; oltre la sagoma del suo insegnante apparve la grossa stazza di Orson Joss, scortato da due agenti.
L'arrivo improvviso dell'imputato non la sorprese tanto quanto le parole che aveva appena pronunciato.
- Confessione...? - mormorò Judith - Signor Joss, che intende dire? -
Lui emise due pesanti sbuffi dalle narici, muovendosi la barba. I suoi occhi erano spenti e cupi.
- Piccola... sei stata in gamba. Ma adesso non è più qualcosa che puoi gestire con le tue sole forze -
- Esigo una spiegazione... - disse con voce tremante - Voglio che mi spiegate che cosa sta accadendo! -
- E' semplice, Judith. Orson Joss si dichiarerà colpevole -
Fu l'ennesimo proiettile al cuore che Judith Flourish dovette subire, quel giorno.
Quasi più della morte imminente, quella semplice frase andò a sradicare completamente le fondamenta della sua esistenza professionale.
Mentre il mondo attorno a lei crollava, le labbra di Orson si mossero di nuovo.
- Non possono accusarti di aver coinvolto dei membri della legge se il processo si conclude adesso - bofonchiò lui.
- ...no. Che diavolo sta dicendo? E' forse... impazzito? - stridette Judith.
- Sono sanissimo. E ho preso la mia decisione -
- Lei è il MIO CLIENTE! - lo additò Judith - NON PUO' GETTARE LA SPUGNA ADESSO! Non... non dopo tutto ciò che ho fatto! Le ho promesso che la avrei scagionata, ed è ciò che farò...! -
- No, non più. Revoco il mio diritto ad avere assistenza legale -
Judith soffocò un urlo, martoriandosi il labbro.
- No, lei non... non può, NON PUO'! Sa che cosa significa, vero!? La condanneranno A MORTE! E' pura follia rinunciare ad avere un avvocato! Che cosa è cambiato rispetto a...!? -
- E' cambiato tutto, pezzo di idiota - la rimproverò Alexander - Non lo vedi? La posta in palio è drasticamente aumentata. E il Signor Joss lo sa bene -
Orson Joss, a quel punto, mosse dei larghi passi verso la giovane avvocatessa che aveva lottato strenuamente per difenderlo, ponendosi a quattr'occhi con lei.
I loro sguardi si intensificarono di espressione.
I lucidi occhi di Judith stavano trattenendo enormi quantità di lacrime; non avrebbe mai dato prova di debolezza davanti ad un cliente.
Era uno dei tanti insegnamenti etici di Bergam che, però, stavano per venire meno.
- Judith... - il tono di Orson era caldo e paterno - Sono solo un povero vecchio che ha perso sua figlia. Non ho più niente per cui valga la pena vivere... e non intendo trascinarti con me nell'abisso solo perché sei una gran cocciuta -
- Trascinarmi...? E' stata una mia scelta...! -
- ...mi ricordi moltissimo la mia Erika - singhiozzò lui, mostrando per la prima volta un volto segnato da lacrime di dolore.
Nell'assistere a quella scena, né Judith né Alexander furono in grado di replicare.
- Era una testa calda: caparbia, irascibile e dal carattere dirompente. Ma era anche tanto dolce e gentile. Siete davvero uguali -
- Signor Joss, io... - gemette lei.
- Ho preso la mia decisione, piccola. Non ha senso che a morire siamo in due, se posso salvare almeno te - disse, dandole le spalle - Spero... spero che capirai -
Lei si fiondò istintivamente sulla sua schiena, afferrandolo per la giacca.
- Sì, certo che capisco...! Ma non vuol dire che lo accetti! - urlò - Lei è INNOCENTE, Signor Joss! La hanno incastrata! Non può morire così, non è giusto! NON E' GIUSTO! -
Lui si voltò di appena pochi centimetri, osservandola con mestizia.
- Se la vita fosse giusta, la mia Erika sarebbe ancora viva... - sospirò - Ti prego. Rispetta la mia decisione, Judith Flourish... -
Lei si ritrovò ad allentare lentamente la presa da lui, senza però perdere contatto.
Aveva oramai infradiciato di lacrime il tessuto del vestito, senza però curarsene.
Non riuscendo a fare ordine nella propria testa e nel proprio cuore, si limitò a continuare i propri gemiti straziati.
- Non è giusto... - continuò come un disco rotto, interrompendosi solo per singhiozzare - Non è... giusto... -
Alla fine, vinta dalla stanchezza e dal rimorso, cadde a terra.
Le gambe le cedettero definitivamente, e si ritrovò con le ginocchia sul pavimento.
Mentre tutto iniziava a sbiadire, avvertì il gentile tocco della mano di Orson Joss darle una carezza sulla testa.
Poi, ad un tratto, vide l'omone che posizionava qualcosa tra i palmi delle sue mani lisce e delicate.
Abbassò lentamente lo sguardo per capire di cosa si trattava in un breve spiraglio di lucidità.
Ciò che Orson le aveva appena lasciato era un fermaglio legato ad un ornamento floreale: una rosa bianca con due foglie appuntite.
Il candore del fiore era talmente limpido da risultare sgargiante; ad un esame più attento sembrava essere stato fatto a mano.
- ...era di mia figlia, ma voglio che lo abbia tu - mormorò Joss, prima di andarsene definitivamente - Voglio che lo conservi una persona dall'animo puro e sincero; qualcuno che possa portare una boccata d'aria fresca a questo mondo folle. Addio, Judith. Sii... sii sempre forte -
Dopo quelle parole, la porta della stanza si chiuse dietro le possenti spalle di Orson Joss.
A Judith sembrò quasi di riuscire a sentire il proprio cuore spezzarsi in due. La voce distante di Alexander Bergam le stava dicendo qualcosa che però non riuscì a comprendere.
L'universo di Judith collassò su se stesso; niente riuscì più a raggiungerla.
I suoi occhi si spensero del tutto, ogni senso rimase atrofizzato.
Rimase solo la soffice sensazione dei petali di velluto a contatto con le sue stanche, deboli mani.
Tempo dopo, di quella giornata non conservò che un vago ricordo sopraffatto da dolore, rimorso e un profondo senso di impotenza.



Era trascorsa una settimana dalla chiusura ufficiale delle indagini per l'omicidio di Erika Joss.
Un periodo di tempo sufficiente affinché la storia venisse fatta passare su ogni canale televisivo principale, durante il suo massimo picco di ascolti, divenendo temporaneamente un fenomeno eclatante di cui tutti discutevano.
E, come ogni tragedia urbana, la gente smise di parlarne non appena quella successiva si manifestò.
In pochi continuarono ad analizzare più a fondo quell'evento nel periodo a seguire, principalmente perché quel caso presentava una singola istanza differente da ciò che in genere accomunava le indagini dello stesso tipo: il colpevole del caso, Orson Joss, si era dichiarato colpevole nel bel mezzo del proprio processo.
Una confessione firmata era stata recapitata al giudice che presiedeva il processo durante una breve pausa dall'udienza, con gran sorpresa di tutto il corpo giudiziario.
Quel gesto aveva seminato confusione, dubbi e sospetti in lungo e in largo, ma la faccenda fu rapidamente insabbiata e archiviata.
Nel giro di due settimane, il caso Joss era svanito dai pensieri delle persone, consumato nell'oblio.
Anche quel giorno, Judith Flourish sbirciò rapidamente la prima pagina del quotidiano nella speranza di trovare qualche altra informazione relativa al caso.
I suoi occhi perlustrarono la carta stampata in cerca di qualunque cosa potesse ridestarla dal torpore emotivo; quell'ennesimo tentativo si rivelò, come d'altronde tutti gli altri, pietosamente infruttuoso.
La ragazza accartocciò l'intero giornale e lo scagliò lontano, facendolo ruzzolare lungo il pavimento.
Afferrò con la mano un lembo della coperta di lana e tornò a distendersi sul divano in pelle dell'ufficio.
Appoggiò la testa sul bracciolo del sofà, affondandola nella morbidezza del tessuto.
Distrasse la mente inebriandosi di sensazioni piacevoli come il calore della coperta sul corpo, il soffice tocco del cuscino che teneva premuto sul petto e il delicato sentore vellutato del divano che le sfiorava i piedi scalzi: qualunque cosa riuscisse a distrarla andava bene.
Passati alcuni giorni in quello stato, senza mai lasciare l'ufficio nemmeno una volta, aveva cominciato a ricevere visite sempre più frequenti da Alexander Bergam.
Anche quel giorno, quando Judith udì bussare alla porta, subito intuì che si trattasse del suo insegnante.
La ragazza non pronunciò una parola, ma Bergam entrò lo stesso servendosi delle chiavi di riserva.
Una volta messo piede all'interno, osservò con sguardo impietosito quel tremendo stato larvale in cui si era ridotta la sua allieva dal temperamento impaziente.
Scostò le cartacce di giornale accumulate sul pavimento con un piede e vi sistemò le buste della spesa.
Poi si recò davanti al sofà, a braccia conserte e con occhi severi.
- ...hai intenzione di rimanere lì ancora per molto? - la rimproverò lui - Non credi di aver perso già abbastanza tempo? -
Di tutta risposta, lei immerse la testa nel cuscino emettendo un debole mugolio.
Alexander si passò una mano sulla fronte, sospirando. Aveva saputo da sempre che quel momento sarebbe potuto arrivare, e gestirlo si stava rivelando complicato.
Si mise a sedere di fianco a lei, facendosi spazio.
- Ti avevo avvisato, piccola - mormorò lui - Ti stavi sobbarcando un caso problematico, e adesso eccoti qui. Sei fortunata se ti è ancora concesso di esercitare la professione... -
- ...a che pro? -
Per la prima volta in diverso tempo, Judith aveva contribuito alla conversazione. Era già un passo in avanti rispetto alle giornate precedenti dettate da silenzio ed apatia.
- Finalmente parli - fece Alexander - Che cosa intendi? -
- Che senso ha fare questo mestiere se non ho i mezzi per svolgerlo come si deve...? - sibilò lei, con voce rauca - Nei processi vincono i forti e i ricchi, no? Quelli con abbastanza influenza da poter cambiare la cose a proprio vantaggio. La verità viene sepolta sotto chili di corruzione e prove false, quindi perché noi avvocati esistiamo?  A cosa serve una figura talmente impotente come... come... me...? -
Trascorsero alcuni pesanti secondi di silenzio. Era un argomento che Alexander Bergam aveva voluto posticipare, ma la situazione lo richiedeva.
Era tempo di impartire a Judith un'altra importante lezione.
- Ascoltami bene, piccola Flourish. Stai affrontando questa faccenda con una mentalità errata -
- Che intende dire...? -
Lui tossicchiò brevemente.
- Sei un'idealista, Judith; proprio come il tuo vecchio. Tuo padre ha passato tutta la vita a giocare pulito, e spesso questa cosa gli si è ritorta contro - raccontò Bergam, con un'espressione quasi triste - Con questo non intendo dire che sia uno stupido, anzi. La sua esagerata onestà è il motivo per cui lo rispetto. E tu sei come lui: sei una sognatrice convinta che, fintanto che il proprio cliente è effettivamente innocente, tutto andrà bene -
- E non è così che dovrebbero andare le cose...? - singhiozzò lei - Se un uomo è innocente, allora merita di essere assolto. No...? -
- Sì, e ciò che dovrebbe accadere. Ma, Judith, è qui che entra in campo il tuo... il "vostro" difetto peggiore: non vi rendete conto di essere semplici avvocati - spiegò - Non confondere un legale per un supereroe, Judith. Non siamo onnipotenti, e spesso il nostro ruolo consiste più nel ammortizzare un urto che nel prevenirlo del tutto. Prendi le cose troppo a cuore, rimani emotivamente coinvolta in ogni cosa a cui ti dedichi. Con questi presupposti non riuscirai mai a digerire una sconfitta nel modo in cui dovresti: e credimi, Judith, perdere è ciò che ti accadrà più spesso in assoluto, nel corso della tua carriera -
- Perdere...? -
- Non dipende da te. Semplicemente: un avvocato non può vincere sempre. Ma, anche in casi di sconfitta, devi saper andare avanti a testa alta - annuì lui - Devi realizzare di aver fatto tutto ciò che era in tuo potere. Non puoi pretendere di risolvere problemi così enormi con la sola convinzione di potercela fare. Essere adulti significa anche questo - 
Lei si alzò lentamente, appoggiandosi allo schienale, rivelando il proprio volto pallido segnato da interi giorni di malessere e malnutrizione.
Gli rivolse uno sguardo spento e debole.
- Maestro, io... non so se riuscirò mai a venire a patti con questa realtà... - mormorò - Non so riuscirò ad accettare il fatto che... che non posso salvare degli innocenti; uomini che vengono puniti ingiustamente senza che io possa fare nulla per aiutarli...! -
- Allora hai sbagliato lavoro, piccoletta. Tutto qui -
Lei si strinse ancor di più nella coperta, tentando di nascondere la vergogna.
Alexander Bergam si alzò in piedi ed iniziò a circoscrivere con i propri passi una piccola area circolare; sembrava avere qualcos'altro da aggiungere.
- Questo lavoro... non fa per me? -
- No, ma al contempo... sì -
Attimo di incertezza.
- Cosa intende dire...? -
- Un avvocato deve essere scaltro, Judith. Scaltro e un po' sfacciato, se necessario. Ci sarebbero tanti altri aggettivi da aggiungere alla lista, ma li riassumerei  semplicemente tra le doti che non hai. Sei giovane, ingenua e dannatamente gentile: l'esatto opposto di ciò che un legale dovrebbe essere. Eppure... eppure... -
Lei deglutì, appesantita dalle numerose critiche severe.
- E-eppure...? -
- Eppure sei un maledetto genio, Judith. Il modo in cui hai condotto il processo di Joss è stato formidabile, e alla tua età non è normale avere tutto questo acume - replicò Alexander - Credo che avere un simile talento sia un fenomeno estremamente raro. E non sono l'unico ad essersene accorto -
- Non è l'unico? Maestro, non riesco a capirla... -
A quel punto, Bergam estrasse dalla tasca della giacca una busta da lettere con annesso un sigillo ufficiale in cera.
Era un simbolo grosso ed elaborato; di certo indicava un ente prestigioso.
Non riconoscendo quel marchio da nessuna parte, la domanda venne spontanea.
- Che cos'è? -
- Devi sapere, Judith, che la presenza di un'adolescente dietro al banco della difesa è una notizia che ha destato un certo scalpore - Alexander si lasciò scappare una risatina maliziosa - E si dia il caso che, al processo di Orson Joss, fossero presenti alcuni scout di un certo istituto per giovani promesse. Dimmi, hai mai sentito parlare della Hope's Peak Academy? -
- La... - il cuore le salì in gola - La Hope's Peak...!? Quella... QUELLA Hope's Peak Academy!? -
- Ce n'è solo una, mi pare -
- No, aspetti un momento, Maestro! - Judith si ritrovò in posizione eretta senza nemmeno rendersene conto - Mi sta dicendo che...!? -
Senza nemmeno risponderle, le piazzò davanti agli occhi il timbro e l'intestazione dell'epistola.
Parevano essere destinati a Judith Flourish associandole il titolo di "Ultimate Lawyer"; la lettera non conteneva che alcune righe di formalità ed un paio di firme eleganti con alcuni svolazzi. Non vi erano dubbi che fosse autentico.
- Capisci di cosa sto parlando, piccoletta? -
- Maestro, io... - la giovane si morse il labbro, profondamente combattuta - E' probabilmente l'occasione migliore che mi sia mai capitata in vita mia, ma...! -
- "Ma"? Ma cosa? Non dirmi che hai delle esitazioni!? - rise lui - Hanno messo gli occhi su di te, Judith! Datti una svegliata! -
- Maestro, lo ha detto anche lei... - sospirò - Sono un'ingenuotta che crede di poter salvare il mondo a parole... cosa ci faccio in mezzo a studenti meritevoli...? -
- Sarà un'ottima occasione per apprendere cose che nemmeno io posso insegnarti, Judith - annuì lui - La formazione che ti daranno lì sarà completa sotto ogni punto di vista. E inoltre... potresti finalmente capire per conto tuo che tipo di avvocato vuoi diventare -
Lei fissò la lettera con occhi ancora increduli.
- L'avvocato che voglio essere, mh? -
- Ho già parlato con tuo padre e ho ottenuto la sua approvazione -
- C-con papà...? -
- Già. Ha anche aggiunto che sarà un ottimo modo per schiodarti da questo maledetto divano - asserì Bergam, soddisfatto - Il periodo di orientamento sarà verso Marzo. Hai circa quattro mesi per prepararti a dovere. Vedi di non buttarli sul sofà, chiaro? -
A quelle parole, Alexander afferrò la propria valigetta da lavoro e fece per levare le tende.
Una debole presa lo bloccò appena prima di arrivare alla maniglia della porta: si guardò alle spalle.
Judith estese le braccia, cingendolo in un abbraccio e spingendo il naso contro il suo petto.
- La ringrazio, Maestro... -
- Non ringraziare me. Io non sono che un normale, cinico bastardo che sa qualcosa in più su questo mestiere - disse, scrollandosela di dosso con un gesto stranamente gentile - Domani parleremo del viaggio. Fino ad allora, vedi di riprenderti del tutto. Non voglio mai più vederti in quello stato, sono stato chiaro? -
- Chiarissimo - abbozzò un sorriso che le riuscì più o meno bene.
L'uomo annuì, notando un netto miglioramento.
Si allacciò i bottoni della giacca, preparandosi al freddo invernale dell'esterno, e lasciò lo studio.
- Sii, forte, piccoletta - le disse, allontanandosi - Il prossimo ostacolo è sempre dietro l'angolo -
Non appena il rumore dei passi di Bergam lungo le scale del palazzo fu scomparso del tutto, Judith richiuse la porta dello studio.
Teneva ancora la lettera tra le mani vagamente sudate dall'eccitazione; il cuore le batteva a mille.
Inspirò ed espirò profondamente; il pensiero relativo alla sorte di Orson Joss non era ancora svanito e il dolore risultava essere sempre vivo.
Il suo sguardo si poggiò su un piccolo oggetto rivestito di uno sgargiante biancore che aveva posizionato sul bordo della scrivania giorni prima, dimenticandoselo lì.
Corse verso il tavolo, cogliendo il piccolo accessorio floreale tra le mani; il fermaglio di Erika Joss non aveva perso lucentezza in mezzo al sottilissimo strato di polvere che rivestiva il legno della scrivania.
Lo portò istintivamente alla tempia e se lo sistemò appena sopra l'orecchio sinistro, bloccando una folta ciocca del ciuffo di capelli corvini.
Si guardò allo specchio: per la prima volta, si ritrovò a sorridere in maniera sincera.
Era un bel fermaglio, elegante ma abbastanza sobrio. Semplicemente le piaceva.
Nonostante le dimensioni ridotte era però appesantito da un fardello carico di ricordi che non si sarebbero alleggeriti molto presto.
Osservò il proprio riflesso allo specchio un'ultima volta.
"Ultimate Lawyer..." rimuginò "Un titolo altisonante per una che non sa nemmeno che cosa vuol dire essere un avvocato... che il Maestro avesse ragione, però? Questa
esperienza potrà davvero servirmi a fare chiarezza...?
"
Passò un dito tra i bianchi petali di seta, avvertendone la delicatezza soave.
- Capirò cosa... no: CHI voglio diventare...? -
Ancora ipnotizzata dalla dolce carezza del colore del fermaglio, i suoi occhi fissarono un punto oltre la finestra dove un altro biancore si stava accumulando.
Un nevischio improvviso la sorprese, iniziando a coprire i tetti delle città con il proprio freddo ma delicato abbraccio.
La stagione era finita; era giunto l'inverno.




Circa due anni prima...



Delle riviste, una tazza di cioccolata calda e un'aula completamente vuota e silenziosa. L'armamento completo per affrontare al meglio un noioso pomeriggio invernale era stato preparato con minuzia e precisione. Niente sembrava poter andare storto in una giornata talmente placida e vagamente noiosa.
Rita Nebiur assaporò il dolce gusto della bevanda bollente e iniziò a sfogliare il giornale del mattino; era oramai passata ora di pranzo, ma ancora non aveva avuto occasione di leggerlo. Il piano era di fare una rapida escursione delle notizie giornaliere più importanti per poi dedicarsi a letture più piacevoli e rilassanti.
Si guardò in giro con circospezione, quasi come per assicurarsi che non vi fosse rimasto nessuno a rovinare quel magnifico momento solitario.
Fino a pochissime ore prima, la classe era piena di alunni chiassosi che non attendevano altro che andarsene e lasciarsi alle spalle quella pesante giornata scolastica che sembrava non voler finire mai. Nonostante tutto, Rita comprendeva ciò che provavano gli studenti: nessuno aveva mai voglia di andare a scuola a Dicembre, soprattutto degli adolescenti sbizzarriti con tante energie e poca voglia di studiare.
L'atmosfera vivace della classe non le era mai dispiaciuta, ma i suoi momenti privati con il silenzio risultavano comunque essere impagabili.
Diede un altro sorso alla cioccolata e guardò l'orologio: mancavano ancora due ore alla riunione dei docenti. Vi era tempo in abbondanza per distendere i nervi e i muscoli.
Sfogliò un'altra pagina di giornale: stavolta vi fu qualcosa che catturò la sua attenzione.
Vi era un articolo che parlava di una storia assai peculiare: pareva che un noto avvocato avesse preso sotto la propria ala una giovane promessa del mondo legale; una ragazza di appena sedici anni. Nel leggerlo, gli occhi di Rita Nebiur guizzarono di curiosità.
"I giovani d'oggi sono davvero pieni di talento!" commentò mentalmente "Se solo i miei studenti potessero prendere esempio... beh, ognuno è fatto come è fatto, dopotutto"
Dopo aver soddisfatto la sua sete di sapere, sfogliò distrattamente il giornale fino a che non concluse l'ispezione.
Appoggiò il quotidiano sul tavolo e si lasciò scappare uno sbuffo.
Aveva il pessimo vizio di definire i ragazzi come "giovani d'oggi", automaticamente ed involontariamente dandosi della persona avanti con l'età.
Dall'alto dei suoi quarant'anni, Nebiur si ritrovava in quella fastidiosa nicchia dove era troppo giovane per i colleghi veterani e troppo vecchia per gli studenti, ritrovandosi a non ricevere il dovuto rispetto da nessuna delle parti.
Una situazione fastidiosa che aveva, però, imparato a gestire con una certa filosofia.
Nessuno si era mai lamentato di lei come insegnante, anzi. I genitori la adoravano, ed era riuscita a gestire anche i casi più complicati di studenti eccezionalmente ribelli.
Pur lavorando lì da appena due anni, aveva iniziato a farsi un'ottima nomea.
Quell'inverno cominciava in maniera estremamente positiva per Rita Nebiur.
"Sfido a trovare qualcosa che possa rovinarmi la giornata!" pensò, con una punta di autocompiacimento.
Fu in quel momento che un vigoroso bussare alla porta dell'aula la fece sobbalzare dalla sedia.
Si voltò di scattò verso la porta, finendo per gettarsi alcune gocce di cioccolato sul maglioncino a causa del gesto inconsulto.
Sospirò tristemente di fronte alla propria impotenza.
"...a bussare deve essere stato il karma..."
Si passò rapidamente un fazzoletto sulla superficie macchiata e tamponò il guaio al meglio delle proprie possibilità.
- Prego, avanti! - esclamò.
Sperò fosse semplicemente la solita collega smemorata che le chiedeva informazioni riguardo l'orario della riunione; le preghiere furono vane.
A presentarsi di fronte a lei fu il rettore dell'istituto, che le si parò davanti mostrando un vestito formale color marrone chiaro e la sua barba perfettamente tenuta e curata.
Impossibile non riconoscere una sagoma simile: Rita scattò in piedi e lo salutò mostrando rispetto.
- Ah...! Signor Marriet! Buongiorno! - 
- Professoressa Nebiur. Ricambio - il sorriso del preside Marriet sembrava celare un certo disagio, ma Rita tentò di non badarci - Spero di non disturbarla durante la sua pausa -
- Affatto! Dopotutto ho ancora un paio d'ore prima del colloquio con gli altri insegnanti - disse, nascondendo tutto il proprio disappunto - Posso fare qualcosa per lei? -
- Assolutamente sì. Sono qui proprio per parlarle di una questione della massima urgenza -
Rita sospirò in maniera velata. Indicò a Marriet la sedia, pregandolo di accomodarsi. Questi non se lo fece ripetere e si sedette di fronte a lei.
Appena furono faccia a faccia, il rettore cominciò a parlare.
- Professoressa Nebiur, purtroppo porto notizie non propriamente felici - cominciò, con tono austero.
- Che cos'è accaduto? -
- Probabilmente lei non ne è al corrente, siccome è rimasta qui tutto il tempo... - continuò lui - Ma poco fa, appena fuori dal perimetro scolastico, è avvenuto uno spiacevole incidente -
Rita deglutì.
- Quanto spiacevole...? -
- Molto. Estremamente - annuì - E' scoppiata una rissa tra studenti della nostra scuola, Professoressa. Inutile dirle quanto la cosa sia grave, giusto? -
Gli occhi della donna si dilatarono.
- Co-cosa...!? Una rissa!? - esclamò, sbalordita - Ed è stata provocata dai nostri studenti...? -
- Precisamente. Un avvenimento terribile... ma davvero peculiare -
- ...si spieghi, Signor Marriet - fece lei, confusa - In che modo lo definirebbe "peculiare"? -
- E' molto semplice. Più che una rissa si è trattato di un... massacro unilaterale - il tono del preside si fece più grave - A quanto mi è stato detto, erano in sei contro uno -
- Sei contro... uno!? -
- Davvero poco sportivo, se posso permettermi -
- S-Signor Marriet, non scherzi! - protestò Nebiur - Quel poveretto è stato pestato a sangue da sei ragazzi!? E' inconcepibile...! -
Gli occhietti vispi di Marriet fecero cenno di no.
- C'è un malinteso, Professoressa. Il ragazzo in questione sta benissimo - sospirò lui - Sono gli altri sei ad essere stati soccorsi. Uno di loro è stato portato in ospedale -
Calò il silenzio.
Un silenzio pesante e quasi imbarazzante. La situazione aveva preso una piega più che inaspettata.
- Prego...? -
- E' così, Professoressa. Come le ho detto: i sei ragazzi sono stati trovati a terra, pieni di lividi -
- Ha detto che è stato... un massacro unilaterale... -
- Non mi sono contraddetto, infatti - replicò lui.
- Mi faccia capire: un singolo studente ne ha malmenati altri sei... completamente da solo? - domandò lei, sbigottita.
- E tutti e sei erano addirittura più grossi di lui. Mi creda, questa faccenda ha dell'incredibile -
- N-non ne dubito... - deglutì lei. Un'ombra di sospetto si stava lentamente concretizzando.
Il preside Marriet si allentò la cravatta, tossicchiando.
- Passiamo al motivo della mia visita, Professoressa. Di certo non sono venuto in vece di messaggero solo per informarla - spiegò lui.
- No, immagino di no... -
- Credo abbia intuito di cosa voglio parlare. Lo studente in questione, il "gladiatore" moderno, è uno dei suoi studenti, Professoressa Nebiur -
L'orribile presagio si era rivelato, infine, corretto. Rita Nebiur socchiuse gli occhi.
Avendo iniziato ad afferrare meglio la natura di quella situazione, aveva finalmente capito di chi si trattava.
- Lei sa a chi mi riferisco, vero? - disse lui, retoricamente.
- Sì... temo di sì... -
- Sarò franco, Professoressa Nebiur. Fosse per me non ci penserei due volte a sbatterlo fuori da questo istituto. E sono certo che i genitori dei sei ragazzi appoggeranno questa linea di pensiero - fece lui, vagamente adirato - Ma si tratta di un... "caso umano" su cui sono stati investiti tempo ed energie per una sorta di redenzione accademica. Per non sputare sul lavoro dei docenti di questo istituto, vorrei dargli un'ultima possibilità -
- Mi sembra un'idea ragionevole, Signor Marriet... -
- Lo faccio anche perché so che lei tiene particolarmente a questo... mostriciattolo - disse, scatenando in Rita una sensazione di vago astio - Lei sarà la sua ultima  spiaggia, Nebiur. Se non noterò dei netti miglioramenti nella sua condotta, farò in modo che quel ragazzo veda le sbarre di un carcere. Mi sono spiegato? -
Rita annuì innumerevoli volte.
- Assolutamente, assolutamente. E' stato chiarissimo, Signor Marriet! - sorrise forzatamente lei - Ora, se non le dispiace, credo che telefonerò immediatamente alla sua famiglia, per...! -
- Non è necessario - la interruppe lui - Ho già provveduto a tutto io. Si dia il caso che il giovanotto in questione sia fuori la porta -
- O-oh...! Comprendo... - sospirò Rita.
- Bene, allora lo affido alle sua cure, Professoressa Nebiur - i suoi occhi si fecero di nuovo più gretti - Esigo dei risultati. Chiaro? -
- C-chiaro... -
- Ottimo. Sono lieto di vedere che c'è intesa - disse con un sorriso volutamente falso - Hey, tu! Ragazzo! Forza, muoviti! -
La porta si spalancò lentamente con un cigolio. Rita osservò la scena con il fiato mozzato.
Un ragazzo snello e asciutto dai capelli biondo cenere entrò nell'aula zoppicando. Indossava dei vestiti consunti e presentava dei lividi scuri sul volto, chiaro segno della rissa recente. Una delle nocche era scorticata, e il labbro aveva un'incrostazione di sangue asciutto.
Lo studente e l'insegnante di scambiarono un'occhiata.
Rita Nebiur quasi si spaventò a vederlo in quello stato.
- Bene. Vi lascio soli - disse il rettore, sfregandosi le mani - Impegnatevi entrambi in questa... "riabilitazione". Sono stato chiaro, delinquente? -
Il giovane non gli rivolse nemmeno uno sguardo. Il preside tralasciò l'impudenza e decise di andarsene, non prima di aver rivolto un altro sguardo di intesa a Rita.
Questa fece un semplice cenno, poi passò a sedersi.
La cioccolata si era raffreddata, l'atmosfera era compromessa, e la pausa interrotta.
"Giornata rovinata..." sospirò lei, rimpiangendo il tempo perduto.
- Su, siediti pure - lo invitò lei - Dobbiamo affrontare un argomento importante -
Lo studente esitò, ma poi obbedì.
Lei lo guardò meglio: lo vedeva quasi tutti i giorni, ma in quell'occasione gli sembrò quasi un'altra persona.
Si immaginò un simile smilzo prendersela con sei studenti più larghi e forzuti e metterli tutti al tappeto; il solo pensiero era assurdo.
Nonostante tutto, quei lividi raccontavano una storia leggermente diversa: di certo i sei energumeni non erano stati atterrati senza reagire.
Tutto sommato, il solo fatto di aver vinto lo scontro era notevole.
Si chiese se quelle mani così smunte e apparentemente fragili non fossero capaci di compiere altre azioni altrettanto incredibili, con un po' di impegno in più.
I loro occhi si incrociarono un'ultima volta.
- ...ti sei cacciato di nuovo nei guai... - sospirò Rita - Forza, Karol. Raccontami cos'è successo. Dal principio -

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Capitolo 43
*** Capitolo 5 - Parte 5 - Indagini ***


I pochi rimasti accorsero sul luogo del delitto dopo nemmeno tre minuti dall'annuncio.
Il susseguirsi di passi ed esclamazioni sconcertate fu rapidamente sovrascritto da un pesante silenzio, seguito da un frustrante velo di inquietudine.
I sei sopravvissuti circondarono il corpo di Karol, guardandolo dall'alto in basso con espressioni miste.
Xavier si fermò a contemplare la strana calma che il volto sanguinante dell'Ultimate Teacher riusciva ad emanare nonostante l'accaduto.
Aveva avuto modo di assaporare pienamente il suo talento di istruttore in più occasioni, e alcune volte in quella stessa aula.
Ritrovarlo in quello stato fu un pensiero doloroso quanto il fatto che il detective sapeva chi era stato a farlo.
Alzò vagamente lo sguardo; gli occhi di Judith erano ancora lucidi, piccole venature rossastre erano comparse attorno alle iridi.
Era in uno stato decisamente migliore rispetto a pochi momenti prima, durante il loro improvviso incontro al piazzale.
Tuttavia, restava il fatto che la lucidità di Judith fosse comunque in pessime condizioni e che quella calma apparente fosse stata inscenata unicamente a causa della  presenza degli altri quattro. Judith Flourish si rendeva perfettamente conto della propria situazione; il tarlo del senso di colpa sembrava divorarla inesorabilmente.
Il suo sguardo faticò ad incontrare quello di Karol, e una volta raggiunti i suoi occhi spenti fu quasi impossibile scostarsene.
La mano le vibrò, ricordando il momento in cui aveva inferto il colpo fatale.
La memoria tentò di rifuggirne il pensiero, ma era troppo vivido e recente per essere scacciato con così poco.
Pur facendo di tutto per nasconderlo, trasudava una certa ansia.
Dall'altro lato, June Harrier osservò inorridita il tremendo spettacolo; si chinò in ginocchio come per assicurarsi di non star vivendo un incubo.
Nel momento in cui la sua mano toccò il volto rigido di Karol, trovò la conferma che tanto sperava di non ottenere.
- Prof...! - pianse lei - Porca miseria, Prof...! E'... morto! Karol è morto...! -
Michael le afferrò una spalla, scostandola da lì.
- Non avvicinarti troppo, June... - sbuffò lui - Il cadavere va ispezionato senza essere inquinato... -
- Ma... ma come puoi parlare di indagini in un momento simile...!? - replicò l'arciera.
In casi normali, la ramanzina si sarebbe rapidamente tramutata in un feroce battibecco; ma così non fu.
L'espressione di Michael mostrava una forte apprensione, come se non sapesse minimamente che pesci prendere.
Era la prima volta che June lo vedeva così spaesato, per quanto fosse ancora impossibile capire cosa gli passasse per la testa.
Harrier si rialzò in piedi lentamente, deglutendo; l'idea di dover ricominciare la disgustava.
- ...non abbiamo altra scelta, June - mormorò Pearl, con un filo di voce - E' accaduto di nuovo... e stavolta non potremo contare sull'aiuto di Karol... -
Pearl Crowngale sembrava sentire particolarmente quella mancanza. Fu impossibile contraddirla.
Erano rimasti in sei, ma l'assenza spirituale di Karol parve gravare enormemente sullo stato d'animo dei presenti.
L'Ultimate Teacher era morto, e con lui se ne era andato uno dei principali pilastri che sorreggevano l'integrità morale del gruppo.
Timidamente, Pierce Lesdar si fece avanti. Le sue occhiaie e il volto pallido lo fecero apparire come uno spettro deambulante.
Era chiaro che non era andato incontro il più felice dei risvegli.
- U-un momento... non siamo rimasti che noi sei... - balbettò lui - Il colpevole è... davvero uno di noi...!? -
- Che alternative potrebbero esserci!? - sbottò Michael - Sì, Pierce. Uno di noi sei ha ammazzato Karol! E' successo già quattro volte che un membro del gruppo desse di matto; sapevamo che sarebbe accaduto di nuovo! -
- In pratica... - la voce di June quasi le morì - E' tutto inutile... non possiamo fidarci di nessuno... nessuno...! -
- Stiamo calmi! - 
L'intervento di Xavier raddrizzò tutti i presenti.
Alzò la mano come per attirare l'attenzione su di sé.
- Xavier...? - sibilò Pearl - La calma è una virtù, ma questa situazione è critica... -
- Lo capisco. Capisco che è difficile accettare che uno di noi sopravvissuti si sia lasciato andare alla follia e alla paura... - disse, esalando un profondo sospiro - Noi sei... abbiamo assistito agli orrori di questo massacro fin dal principio. Sappiamo che è in grado di trasformare persone pure e innocenti in qualcosa di disumano. Ma è proprio in questo momento che dobbiamo mantenere il sangue freddo... -
- Lo dici anche se sai che in questo gruppetto c'è un assassino...? - domandò Michael.
- ...credo... di starmi riferendo soprattutto al killer - disse, infine - Non so che cosa ti ha spinto ad agire in questo modo, ma stai pur certo che verrò a fondo della questione -
Cinque paia di sguardi lo fissarono in un misto tra interesse e stranezza.
Uno in particolare: Judith provò sentimenti contrastanti a riguardo, ma sapeva anche che Xavier non si trovava nella posizione di poter fare di più.
- Xavier... ha ragione, giusto...? - mormorò Pierce, facendosi coraggio - Dobbiamo mantenere la calma... soprattutto per noi stessi -
- Bah! Darò peso alle parole di Xavier quando decreteremo che non è lui il killer! - ringhiò infastidito Michael - Io comincio ad ispezionare la salma. Il tempo scorre! -
June si strinse nelle spalle, deglutendo.
- Scusa, Xavier... - disse, andandosene per conto proprio - Ma ha ragione... potresti anche... essere stato tu... -
- Non ti biasimo, June - annuì lui - Fa ciò che devi -
Si scambiarono un cenno di comprensione, e June sparì dalla sua vista.
All'improvviso, avvertì il tocco di una mano sulla propria spalla.
Si voltò di scatto: era Pierce. Il ragazzo gli stava rivolgendo uno sguardo preoccupato, ma vagamente deciso.
- Facciamo... del nostro meglio... - gli sussurrò all'orecchio.
Xavier si limitò a fare cenno di sì. Era raro vedere Pierce in quello stato.
Si chiese se quel suo modo di fare non stesse ad indicare che l'Ultimate Sewer sapesse qualcosa che lui ancora ignorava.
Quando anche Pierce si fu dileguato, fu il turno di Pearl.
Era rimasta ferma a guardare il cadavere di Karol Clouds per diversi minuti prima di sciogliere il contatto visivo.
Mordendosi istericamente il labbro inferiore, lanciò una rapida occhiata verso l'Ultimate Detective.
- ...è stato un bel discorso - commentò a bassa voce.
Una frase strana detta in circostanze strane. Vi era qualcosa nelle parole di Xavier che aveva colpito l'inconscio di Pearl Crowngale.
- Ciò però non vuol certo dire che ti fidi di me - osservò lui.
- No, immagino di no... -
Passarono alcuni secondi di silenzio.
- Ne abbiamo perso un altro. E ne perderemo ancora uno... -
- E' inevitabile, a quanto pare - sospirò Xavier - Cosa intendi fare, Pearl? -
- Trovare la verità, ovvio. Ma sarà dura - strinse i pugni - Lo hai realizzato, vero? Sono rimaste solo le persone con cui abbiamo stretto il rapporto più saldo...ogni perdita, d'ora in avanti, sarà estremamente più dolorosa... sei pronto ad affrontare tutto questo, Xavier? -
- Mi... sorprende sentirti parlare di sentimenti in modo così esplicito... - ammise lui - Ma non hai torto. Dobbiamo guardarci le spalle, forse anche da noi stessi. Ciò che proviamo potrebbe costituire un... ostacolo al raziocinio -
Lei annuì un paio di volte.
- Sì... fa in modo da non farti frenare quando sarà il momento di dire la verità, ok? -
Lui deglutì. Era come se Pearl avesse improvvisamente intuito tutta la verità dietro la facciata di finta sicurezza di Xavier, penetrando a fondo nei suoi pensieri e scandagliandone gli anfratti più remoti. Gli occhi di ghiaccio di Pearl avevano nuovamente fatto presa sul suo animo.
- Farò il possibile... - fu l'unica risposta che riuscì a darle.
Seppure non pienamente convinta, Pearl decise infine di andare per la propria strada.
Non prima, però, di aver interpellato anche Judith. L'Ultimate Lawyer era rimasta vagamente in disparte, ancora immersa nei proprio pensieri.
La strattonò con delicatezza, riportandola alla realtà.
- Judith, tutto bene...? - chiese la ninja.
Una goccia di sudore passò lungo la nuca di Xavier. Pregò affinché il tutto non si concludesse nel peggiore dei casi.
- Sto... bene. Ho bisogno di un po' di tempo per calmarmi e... riordinare i pensieri - rispose Judith, tentennante.
- Lo capisco... - mormorò Pearl - Vedi di non esagerare. Sappiamo tutti quanto riesci a prendere a cuore la sorte delle vittime -
- E' un mio brutto difetto, vero...? - Flourish tentò di forzare un sorriso.
- No. Non necessariamente - rispose lei - A più tardi. Vado a svolgere le indagini -
Judith annuì, ingoiando un pesante grumo di saliva.
Rimasti oramai soli, Xavier decise di passare rapidamente all'azione.
Erano già trascorsi quasi dieci minuti dall'annuncio di Monokuma, e sapeva bene quanto fossero preziosi quei fugaci secondi che andavano passando.
La verità era a portata, seppur difficile da mandare giù, ma aveva bisogno di ogni minuscolo dettaglio che poteva sfruttare.
Senza neanche pensarci, prese Judith per mano trascinandola via senza destare sospetti né facendo rumore.
La ragazza trasalì per un momento, lasciandosi poi portare senza opporre resistenza.
Quando furono fuori dalla stanza, Xavier la guardò dritta negli occhi, quasi rimirando il proprio riflesso nelle orbite lucide ed inumidite di lei.
I due dovettero compiere un grande sforzo per gestire quella cooperazione.
- Xavier... - sospirò lei - Che cosa... intendi fare...? -
- Capire cosa è successo, nient'altro - rispose fermamente - E ho bisogno del tuo aiuto, Judith -
- Non... non vi è davvero molto da... -
- NO! - imperversò lui, contenendosi quanto possibile - No, Judith, io non lo accetto. Non accetterò il fatto che tu sia un'assassina, chiaro!? -
Lei si strinse tra le proprie braccia.
- Ma è ciò che sono... - mormorò, lasciandosi scappare una lacrima - Io... lo ho ucciso... con le mie mani... -
- Mi rifiuto di credere che sia avvenuto senza... senza almeno uno straccio di motivo... - continuò lui - Judith... c'è un motivo, no? C'è per forza una motivazione valida... -
- E se non ci fosse...? - chiese lei, con occhi spenti.
Qualcosa, dentro Xavier, sembrò morire.
- Voglio sentirlo con la tua bocca, Judith. Cosa è successo? -
Strinse la presa della propria mano sulla sua, incitandola in tutti i modi a parlare.
Fu complicato spingerla a parlare, soprattutto considerando che si trattava di una confessione in piena regola e che il solo fatto di ammettere un tale crimine andava contro ogni cosa in cui aveva mai creduto.
Eppure, alla fine, Judith Flourish cedette.
- ...mi ero recata in classe perché volevo vedere Karol... - iniziò a dire, singhiozzando - Volevo... volevo parlargli. Era sconvolto a causa di Hillary, e volevo in tutti i modi tentare di calmarlo... di confortarlo... magari spingendolo a tornare con il gruppo -
- Va bene. Continua - la spronò lui.
Lei avvertì un tremito alle gambe. La parte critica del racconto stava per giungere.
- Gli ho parlato, ma... - si bloccò momentaneamente - Non ha dato cenno di volermi rispondere... e poi...! -
- E poi...? -
- Poi ha... - inspirò profondamente - Ha tirato fuori... un coltello! -
Il mondo si bloccò.
Xavier Jefferson osservò come ogni minima certezza stesse andando lentamente in frantumi. 
Ci volle un enorme sforzo mentale per digerire quel concetto, ma si costrinse ad accettarlo.
- Karol... ha sfoderato un coltello? -
- Sì, e... e me lo ha puntato contro...! - Judith si tenne la testa tra le mani, coprendosi il volto - E' corso verso di me, con la lama in mano...! Non stava dicendo neanche una parola, niente di niente! Ha semplicemente... tentato di affondare il coltello nel... m-mio petto... -
- Judith, non starai dicendo seriamente!? - esclamò lui, atterrito - Karol? Karol Clouds avrebbe tentato di ucciderti...!? -
- Non scherzerei mai in una situazione simile, Xavier...! - pianse lei, facendo di tutto per contenere il volume della voce - Io ho... ho visto la morte in faccia...! -
- E poi che cosa...? Che cosa è successo? -
Lei si asciugò il sudore con la manica della giacca.
- Ho urlato. Ho chiuso gli occhi e ho urlato, cercando a tentoni con la mano qualunque cosa mi fosse vicino... -
- Hai... "cercato"? -
- Ero completamente accecata dal terrore... - annuì lei - Così ho preso la primissima cosa che avevo a portata e... lo ho colpito con t-tutta la... forza che avevo... -
- Lo hai colpito... - mormorò Xavier - In pratica... ti stavi difendendo -
- Non ha importanza, vero...? - disse lei, incapace di controllare il pianto - Non ha importanza se stavo cercando di salvarmi. Lo ho comunque ucciso... -
Lui la scosse, riportandola alla calma.
- Non perdiamo di vista l'obiettivo, Judith! Continua a narrarmi: che cosa è accaduto dopo? -
- Cosa è accaduto...? Beh, non ho avuto quasi il tempo di pensare... - descrisse lei - Appena ho sentito di averlo colpito con qualcosa, ho aperto rapidamente gli occhi. Lo ho visto barcollare all'indietro, e cadere... a quel punto sono corsa via senza mai voltarmi indietro. Sono andata nel bagno delle ragazze del primo piano e mi sono chiusa dentro a chiave... credo di essere rimasta lì a piangere per almeno mezz'ora... -
Lui ricollegò mentalmente la scena alla propria tabella mentale.
- Hai almeno visto... con cosa hai attaccato Karol? -
- Sì... era... un grosso globo terreste. Un mappamondo che era esposto sulla mensola vicino l'ingresso dell'aula -
- Oh, quello... - Xavier lo ricordò dalla prima investigazione avvenuta lungo il primo piano - E dimmi... dopo essere uscita dal bagno sei... tornata verso il piazzale? -
- ...è quello che avrei dovuto fare - sospirò lei - Però, io... avevo il terrore di aver commesso un errore irreparabile, e così... sono tornata verso l'aula -
- Cos...!? Sei ritornata qui!? - esclamò lui, stupefatto - Con tutto ciò che era accaduto!? -
- Xavier, io... avevo il presentimento di averlo ucciso con quel colpo... - gli confidò, con un nodo alla gola - In qualche modo era come... se lo sapessi. Sapevo che era morto e... dovevo accertarmene. Quando sono arrivata, lui era... in quello stato -
- ...lo hai trovato lì, accasciato... - mormorò il detective - Ed è stato allora che... -
Lei mostrò un sorriso spento, di chi non poteva fare altro che ridere.
- Il mio cervello ha sragionato - raccontò lei, curando i dettagli in maniera stranamente precisa - Ho iniziato a piangere come una forsennata, e sono corsa via. In tutto quel tempo non mi ero nemmeno resa conto di avere una striscia del sangue di Karol sul volto... se mi avesse vista qualcun altro sarei... io... beh, il resto lo sai. Ci siamo incontrati poco dopo davanti ai dormitori -
Xavier socchiuse l'occhio, pensando profondamente riguardo ciò che aveva appena sentito.
Più ne sapeva di quella storia, più era sempre meno convinto che ci fossero speranze di uscirne indenni.
- Ho capito... - annuì lui - Judith, sei certa di non aver tralasciato nulla? Anche il più piccolo, insignificante dettaglio potrebbe... -
- Potrebbe cosa...? Xavier, ti rendi conto di che cosa significa tutto questo, vero...? -
Lui si bloccò. Sperava con tutto il cuore che quella parte di conversazione si potesse saltare.
- Io... io non... -
- Xavier. Sono tua nemica, ora - disse lei, senza guardarlo nell'occhio - La mia incolumità è la tua condanna. Non puoi difendermi, non ne hai motivo... -
Lui sbatté un piede a terra. La sua espressione cambiò radicalmente.
- Non me ne importa, ok? -
- X-Xavier...!? -
- Ok, forse non possiamo cambiare la realtà dei fatti... ma non vuol dire che non possa fare qualcosa per la nostra situazione. Qualcosa che possa sovvertire questa sfida. Capisci cosa intendo, Judith? -
Lei mostrò un'espressione spaventata.
- Xavier, che cosa hai in mente...!? -
- Non possiamo cambiare la verità, ma possiamo aggirare le regole - spiegò lui - C'è ancora un modo per salvarti. Il metodo definitivo, per così dire. L'ultima regola -
Flourish ripercorse mentalmente i dettagli della sfida, realizzando solo dopo poco ciò che il compagno intendesse dire.
Il piano di Xavier iniziò a concretizzarsi anche nella sua mente; ma ciò non bastò a tranquillizzarla.
Xavier Jefferson era pronto ad andare fino a fondo; pronto a sporcarsi le mani senza mezzi termini.
Il suo sguardo dimezzato mostrò una determinazione ferrea.
- Tu vuoi... concludere il gioco...? - sibilò Judith - Vuoi trovare il traditore...? -
Vi fu un breve momento di pausa.
- Monokuma è stato esplicito: uccidete il traditore, o costringetelo a confessare, e il gioco finisce - asserì lui - Abbiamo il tempo delle indagini e del processo. Se trovo il traditore... allora tu sei salva. Il gioco termina, Judith. Capisci? Devo trovarlo, e... -
- E ucciderlo? Intendi davvero...? -
Avvertì nuovamente la stretta delle mani di Xavier. Sempre salda, ma gentile. Quasi protettiva.
Sentì un sentimento nuovo nascere in quel preciso momento: che fosse speranza o qualcosa di più profondo, Judith lo ignorava.
Tutto ciò di cui era certa era che l'Ultimate Detective era serissimo, ed era pronto a tutto pur di trovare quella scappatoia.
- ...sì, lo ucciderò. Ucciderò il traditore - disse - Se è l'unico modo per farti sopravvivere, e sia. Lo farò. Sperare in una confessione sarebbe richiedere un miracolo.
Se arriveremo al punto di non ritorno, allora... -
- N-no... non ti permetterò di sobbarcarti tutto da solo - fece lei - E' pura follia, Xavier -
- E' tutto ciò che ci è rimasto... -
- NO! E' tutto ciò che MI è rimasto! - strepitò lei - Fai tutto questo solo per salvaguardare me! Sei forse impazzito!? Qui c'è in gioco anche la TUA vita! Dovrei essere io a percorrere questa strada, non tu! Ho ucciso IO Karol... dovrei essere io a... a volere... -
- Non riesci ad accettare il fatto che voglio salvarti, Judith...? -
- Ma perché dovresti... voler salvare me più di te stesso...? -
Lui le rivolse, inspiegabilmente, un'espressione quasi serena, come volesse accennare un sorriso.
Un volto simile era l'ultima cosa che l'Ultimate Lawyer si sarebbe mai aspettata di vedere.
- Mi sembra una domanda un po' scontata, non trovi? -
- S-scontata...!? -
Le lasciò le mani, mollando la presa. Xavier Jefferson camminò per alcuni metri, affiancandosi alla porta della classe.
Judith avvertì un formicolio alle gambe in concomitanza con un eccesso di calore alla testa.
- Andiamo ad indagare, Judith - suggerì lui - Avremo tempo per chiarire questa faccenda dopo che avremo smascherato la talpa. Mi raccomando, non destare sospetti. Abbiamo bisogno di guadagnare tempo se vogliamo avere qualche possibilità di stanarlo. Va bene? -
Lei alzò debolmente un dito, come per voler controbattere, ma Xavier non le diede tempo di proferire parola.
Le diede le spalle e rientrò in aula, pronto a gettarsi in una nuova investigazione.
Rimasta sola, Judith non riuscì a non ponderare sul reale significato di quel comportamento.
Si tastò la rosa bianca, gesto che coincideva con l'atto di spremere le meningi.
Realizzò di avere la risposta a portata di mano, ma il solo contemplarla risultò piuttosto imbarazzante, oltre che complicato.
Si diede alcuni buffetti sulle gote, tentando di stabilizzarsi: le sue guance erano più calde del solito.
Si rese conto solo in quell'istante di essere vergognosamente arrossita.
Una sensazione nuova la riempì, facendo spazio al terrore e la disperazione che avevano circondato la dipartita di Karol.
Si era aperta un'intricata via verso la salvezza; o, per meglio dire, qualcuno la aveva aperta per lei.
Una strada che si sarebbe presto intrisa di sangue, se seguita. Ma di altre opportunità, in quel mondo distorto, non ve ne erano.
- ...una disperata speranza. Sopravvivere uccidendo. Eliminare qualcuno per salvare qualcun altro. Che esistenza paradossale sto conducendo qui - sussurrò a se stessa.
Si sistemò la giacca e la cravattina rossa, dandosi una sistemata ai capelli.
Asciugò le lacrime e riassestò il proprio contegno. Era necessaria una capacità di recitazione discreta per mascherare quel piano, e il minimo che poteva fare era il
tentare di non insospettire gli altri. 
Tutto ad un tratto, come non era riuscita nell'ultimo mese, Judith Flourish non si sentiva più sola.
- Andiamo... Xavier -




Michael Schwarz fece scorrere la mano lungo il volto di Karol, tastandone le ossa e i muscoli oramai freddi e irrigiditi.
Ad un primo esame, nulla sembrava essere fuori luogo al di fuori di alcuni dettagli; decise di esaminare il tutto un'altra volta per fugare ogni dubbio.
Era così intento nel procedere con l'autopsia che a stento si accorse del rumore dei passi di Xavier, che gli si era affiancato.
Lanciò un'occhiata circospetta alle proprie spalle; l'Ultimate Detective stava osservando il cadavere con fare dubbioso.
Era palesemente assetato di informazioni; Michael pensò bene di passare al sodo senza passare attraverso inutili cerimonie.
- Intuisco che tu sia qui per un aggiornamento... -
- Sì, se possibile - rispose Xavier - Hai scoperto qualcosa? -
Il chimico si alzò in piedi, mostrando al compagno un quadro più esteso della scena.
Il corpo di Karol era disteso sul pavimento in posizione supina; le braccia erano staccate dai fianchi e si dilungavano quasi orizzontalmente ai lati.
Il volto era segnato da una cospicua quantità di sangue che scendeva dalla fronte; altre macchie di sangue erano sparpagliate tutto attorno l'area del cranio.
A vederla dall'alto, pareva quasi la posa di una crocifissione.
La mano destra era aperta e risultava appoggiata su qualcosa: un grosso mappamondo con un'ammaccatura che giaceva ad appena pochi centimetri dalla posizione del corpo.
Le dita di Karol avevano lasciato quattro strisce sanguigne dalla forma delle falangi.
Xavier sussultò internamente: la storia di Judith stava prendendo forma.
- La causa del decesso... - mormorò Michael - ...sembra essere un trauma cranico dovuto all'impatto con il mappamondo -
- Il globo terrestre è l'arma del delitto? Nessun dubbio? - si permise di chiedere.
- E' decisamente strana, ma non vi è altra spiegazione. Guarda - gli indicò il chimico - Vi è un'ammaccatura con delle tracce di sangue, e sembra aver preso la forma  della testa di Karol. Non c'è dubbio che sia stato usato per colpirlo. L'uccisione è stata compiuta... tra le nove del mattino e le undici, circa -
- Ma un mappamondo può davvero fungere da oggetto contundente? - si domandò giustamente Xavier.
Michael incrociò le braccia.
- Normalmente anche io mi porrei dei dubbi, ma questo affare è abbastanza pesante. Prova a sollevarlo -
Xavier Jefferson fece come consigliato; in effetti, come appena descritto da Schwarz, il globo aveva una massa piuttosto consistente.
- In pratica, chiunque avrebbe potuto usarlo come arma. Dico bene? -
- Sì. Se contiamo i sei presenti, allora tutti noi saremmo stati in grado di farlo - Michael fu convinto della sua risposta.
Xavier si massaggiò il mento, assemblando mentalmente i pezzi del puzzle.
- C'è altro? -
- Eccome. C'è decisamente un dettaglio sospetto; osserva bene l'area attorno alla quale si è sparso il sangue -
Michael indicò il perimetro del capo di Clouds; macchie di sangue erano sparse un po' ovunque.
- Mhh... c'è troppo sangue -
- Lo hai notato, vedo. Sì, il trauma cranico è stato grave, ma il sangue si trova anche dal lato opposto della ferita -
- Hai trovato una spiegazione plausibile? - domandò il detective.
Michael assunse un'aria dubbiosa.
- Sì, ma non saprei comunque come spiegarla -
- Dimmi di più, Mike -
- Ok, chinati - gli ordinò lui - Vedi questo punto? Questo è il luogo in cui il mappamondo ha colpito la fronte. C'è un chiaro livido ed è uscita una gran quantità di sangue. Ora, il punto strano è che del sangue è colato dall'altro lato della fronte, vicino alla tempia opposta. Ho controllato, e pare ci fosse un'altra ferita -
- Una seconda ferita? - mugugnò Xavier - Davvero strano... a cosa è dovuta? -
Michael Schwarz sospirò in tono sconfitto.
- Questo è il punto: non ne ho idea. Pare fosse una ferita vecchia di almeno un giorno, forse due. Il colpo inferto dal mappamondo deve averla riaperta, ed è uscito del sangue -
- Mhh... in pratica sappiamo perché il sangue è uscito da due posizioni differenti, ma non sappiamo come Karol si sia procurato quell'altra ferita - sintetizzò lui.
- In parole povere, sì - lo assecondò Michael - Non credo che abbia a che fare con il caso, però -
- Perché dici così? -
- Karol è morto da appena due ore, al massimo. Questa seconda ferita risale addirittura ad un'altra data - osservò il chimico - Qualunque sia il motivo, dubito che abbia a che fare con l'omicidio -
- Capisco ciò che dici... - annuì Xavier - Eppure è strano. Nessuno ha visto Karol in questi ultimi giorni, quindi deve essere un qualcosa che si è fatto... da solo? Possiamo davvero escluderlo dai dati rilevanti del caso? -
- Ah, non ne ho idea. Io ho fatto il mio lavoro di chimico, ora sta a te fare quello di detective - brontolò lui.
Xavier intuì che Michael, ancora una volta, aveva fin troppe gatte da pelare con l'autopsia per dedicarsi anche al resto dell'indagine.
Un compito ingrato, pensò Xavier, ma indispensabile.
Il detective fece per continuare ad ispezionare, ma venne fermato dall'arrivo di June Harrier.
L'arciera sembrava portare novità scottanti, a giudicare dalla sua espressione stizzita.
- Hey, ragazzi! Ho trovato qualcosa! - esclamò lei, dirigendosi verso loro due.
- Cos'è? Fa vedere - la incitò Michael.
Lei sporse timidamente le mani, rivelando la sua scoperta: era un coltello.
Era liscio e dai colori tersi. La lama era lucida e arrotondata, e sembrava essere un'unità singola col manico.
Xavier e Michael lo osservarono più da vicino: non sembravano esserci tracce di sangue né altri dettagli degni di nota, a parte la sua forma particolare.
- Un coltellino, eh? - osservò Michael - Dove lo hai trovato? -
- Era sotto un banco, poco più in là... - June deglutì - Lo ho trovato mentre ispezionavo la classe -
Xavier rammentò la storia udita poco prima e tentò di incastrare anche quel pezzo del puzzle.
"Stando a ciò che ha detto Judith, Karol la ha attaccata con un coltello..." pensò, ancora riluttante all'idea "E' difficile da immaginarsi una scena simile... ma la lama usata da Karol deve essere questa"
- Qualcuno ha mai visto questo coltello prima d'ora? - chiese Xavier.
June scosse la testa, facendo un chiaro cenno di non averlo mai visto.
Al contrario, Michael alzò un sopracciglio; stava compiendo uno sforzo di memoria.
- Sì... credo di averlo visto tra gli utensili dell'infermeria... - annuì Michael - E' stato durante... -
La sua bocca si bloccò di colpo, smettendo repentinamente di parlare.
Scostò lo sguardo dal singolo occhio di Xavier per non incrociarlo, ma oramai era troppo tardi. L'Ultimate Detective aveva individuato un elemento succoso del racconto,
e non lo avrebbe mollato tanto facilmente.
- Già, in infermeria... - constatò Xavier - Sbaglio o è proprio dove stavi conducendo il tuo... piccolo "esperimento"? -
L'altro si grattò nervosamente la nuca.
- Bah... sì, è così... - sbuffò.
- Non sarebbe ora di dire che cosa stavi architettando lì? - perseverò Xavier - Se non me lo vuoi raccontare tu magari potrà farlo June. So benissimo che hai coinvolto anche lei -
L'arciera si mostrò abbastanza indifferente all'idea di rivelare tutto; era chiaro che comprendeva la situazione meglio di quanto non lo stesse facendo Michael.
- Beh, credo dovremmo dirgli tutto. Giusto, Mike? - suggerì saggiamente June - Non vorrai che gli altri si facessero un'idea sbagliata...? -
- Ho capito, ho capito! E va bene! - acconsentì infine Michael - Ho voluto tenerlo segreto perché poteva essere pericoloso, tutto qui -
- Ti credo, Mike. Ma ora racconta -
Il ragazzo si schiarì la voce; tirò fuori un panno di tessuto fine dalla tasca e iniziò a pulirsi le lenti degli occhiali.
- Ho tentato di sintetizzare una certa sostanza utilizzando un metodo nuovo sviluppato dal centro di ricerca di mio padre - spiegò lui - Un composto chimico simile ad un potente narcotico... ma sostanzialmente diverso. Ecco, dà un'occhiata -
A quelle parole, estrasse dalla tasca dei pantaloni una piccola fiaschetta contenente alcune minuscole pasticche.
Non erano diverse in aspetto dalle normali aspirine che qualunque farmacia poteva avere in scorta, ma la descrizione dell'Ultimate Chemist faceva intuire che vi era ben
più dietro l'innocua apparenza.
- In pratica è un tranquillante? -
- Definirlo così è riduttivo. No, è molto di più - Michael accennò un sorriso soddisfatto - Questo affare scatena una reazione chimica direttamente sul sistema nervoso di chi lo assume, mandando impulsi peculiari al cervello. Basta ingerire una sola pillola per cadere in uno stato di perfetta morte apparente: un sonno profondissimo in cui il cervello cessa le sue funzioni normali per alcune ore, capite? -
June rabbrividì visibilmente.
- N-non me lo avevi descritto in questo modo...! - si lamentò lei.
- Non volevo fornire troppi dettagli superflui... -
- Eppure mi sei sembrato straordinariamente compiaciuto mentre mi elencavi il tutto - puntualizzò Xavier.
- Dettagli! Oramai c'è già scappato il morto, quindi non ha più senso nasconderlo - sbottò lui.
- E quindi tu e June avete lavorato a questo progetto, ieri -
- Beh, non solo noi. Pierce è rimasto con noi fino a sera tarda per aiutarci a finire - lo corresse June - E' stato di grande aiuto -
Xavier accennò un momento di realizzazione.
- Ooh... ecco perché stamattina era così stanco - sospirò il detective - Lo hai strapazzato per bene, Mike? -
- Quanto bastava. Pierce è un tipo che dà il meglio di sé solo se lo si sprona a dovere - nelle parole di Michael sembrava esserci traccia di un vago complimento.
- Va bene. Ultima domanda: esattamente... perché hai voluto creare questo prodotto? - domandò lui, con sguardo dubbioso - Uno come te, che rifugge ogni rischio e potenziale pericolo, che si prende il disturbo di creare quella che è effettivamente un'arma. Piuttosto strano, non trovi? -
- Bah... forse dal tuo punto di vista. Io volevo soltanto crearmi un sistema difensivo più efficace; un asso nella manica, se capisci cosa intendo -
- Ammetto di non capire, invece. Come pensi che una pillola possa essere usata per difendersi? - osservò lui - Al massimo puoi mischiarla alla bevanda di qualcuno, ma di certo non puoi servirtene in caso una persona ti attaccasse -
- I tuoi dubbi sono sensati, ma so come colmarli - rispose lui, con tranquillità - Vedi, se sciolta nell'acqua questa pillola trasmette il proprio effetto al liquido in questione. Basterebbe trovare un modo per spruzzarla addosso al proprio assalitore per metterlo fuori gioco per un po' -
- Hai pensato... proprio a tutto... - sospirò June - Ma non sarà pericoloso portarsi dietro qualcosa di simile? -
- Sempre meglio che disarmati. Siamo rimasti in sei, June. E, se tutto andrà bene al processo, ci ritroveremo ad essere in cinque. Si avvicina il momento della fine, e non vorrò trovarmi impreparato quando verrà la resa dei conti -
Xavier intravide un'amara reazione da parte di June, a quelle parole. 
La ragazza fece per proferire parola, ma decise di rimanere in silenzio.
- Ancora non riesci a fidarti di noi, Mike? -
- E tu ci riesci? - replicò lui - No, impossibile. Sei troppo sveglio per una sciocchezza simile. Abbiamo abbassato la guardia, e Karol è deceduto. Chi sarà il prossimo, mi chiedo? -
- Forse non mi conosci come pensi, Michael - lo corresse Xavier - Mi sto aggrappando con tutto me stesso ad un ultimo appiglio di speranza. E' tutto ciò che mi rimane -
- Ma davvero? Allora vedremo chi la spunterà a fine giornata: il raziocinio o l'istinto? -
Xavier raccolse la sfida. Gli risultò facile, avendo già messo in palio quanto di più importante era rimasto in quell'unico, grande azzardo.
- Allora sarà meglio tornare alle indagini quanto prima - suggerì il detective - Il tempo è già poco -
A quelle parole, Xavier fece per andarsene. Ma la mano di Michael lo bloccò lì dov'era. 
Avvertì una forte presa sulla spalla destra, e si voltò di scatto.
Attraverso le lenti del chimico, riuscì ad assaporare tutta la sua strenua determinazione.
- Mike...? -
- Non ho ancora finito con te... - disse - Sappi che tutte le informazioni che ti ho elargito sull'autopsia te le ho date in modo che ognuno avesse lo stesso punto di partenza al processo. Non vorrei che qualcuno se ne approfittasse per cambiare le carte in tavola per fare i propri comodi: della mia analisi non si discute -
- Perché mi stai dicendo questo, Michael? -
- M-Mike... che ti prende? - lo strattonò lievemente June - Lascialo, su! -
Lui, invece, strinse ancora di più la morsa sulla sua spalla.
- C'è un ultimo indizio riguardante il corpo. Lo ho volutamente celato in modo da analizzarlo meglio, ma ora ho ben pochi dubbi al riguardo -
Vi fu un momento di silenzio. June fece traspirare sempre più la propria ansia, mentre Xavier ancora cercava di comprendere a cosa fosse dovuto quel bizzarro atteggiamento.
Doveva esserci qualcosa che gettava una nuova luce, o forse un'ombra, su quel caso.
A quel punto, Michael indicò il braccio sinistro di Karol, dal lato opposto del mappamondo.
- Osserva bene... sotto la mano di Karol - disse, chinandosi per sollevarla - E dimmi che ne pensi -
Sia Xavier che June si avvicinarono, divorati dalla curiosità.
Il detective spalancò l'occhio, il respiro gli si mozzò in gola. Persino June rimase completamente interdetta.
Sollevando le dita fredde e inerti dell'Ultimate Teacher, Michael Schwarz rivelò quelle che apparivano essere delle lettere scritte col sangue.
Le unghie di Karol erano ancora sporche, e il brevissimo messaggio si concluse in una scia rossastra.
Due sole lettere apparvero sotto la mano di Karol: una grossa "X" seguita da due caratteri arrotondati più piccoli, il tutto in una sorta di corsivo.
- ...ho provato a leggerlo in ogni modo possibile, ma la risposta è una sola: "Xav" - asserì Michael - C'è scritto... "Xav" -
Xavier fece istintivamente un passo indietro.
- E' assurdo... - mormorò - Non starai di certo insinuando che...!? -
- Non insinuo un bel niente. Due lettere non bastano a provare la tua colpevolezza, ma... - il suo sguardo si fece feroce - Sono più che sufficienti per gettare una grossa fetta di sospetto su di te. Hai i miei occhi puntati addosso, Xavier. Non dimenticarlo MAI -
- Un attimo... come sappiamo che a scriverlo sia stato Karol...? - chiese giustamente June.
Michael non si fece cogliere alla sprovvista dal quesito.
- I segni delle dita corrispondono, così come le tracce di sangue sulle unghie - confermò - Combacia tutto: il messaggio è stato lasciato da Karol -
Per assicurarsene, Xavier si avvicinò all'area che conteneva la scritta.
Passò un dito sulla superficie del pavimento, lì dove era posizionata la "X". La sua ditata ne trascinò un po' con sé; il sangue era ancora vagamente fresco.
Restò immobile ad osservare l'assurda situazione venutasi a creare; due singole lettere che sarebbero bastate ad incriminarlo, o quantomeno a metterlo in cattiva luce agli occhi di tutti. Più Xavier ci pensava, meno quel dettaglio aveva senso, sfuggendo ad ogni logica.
"...Judith non mi ha detto di aver fatto qualcosa del genere..." pensò "E' assurdo pensare che abbia voluto incriminarmi. No, non ha alcun senso. Nessuno ha mosso le dita di Karol; deve essere stato lui a lasciare la scritta. Ma perché...? Perché... io?"
Si alzò in piedi, più confuso di prima.
- ...avremo modo di accertarci di come sono andate le cose durante il processo - disse loro - Io torno alle mie indagini -
Detto ciò, Xavier Jefferson si incamminò verso il fondo della classe con aria pensierosa.
June lo vide andarsene, e provò un enorme senso di disagio misto a paura.
Si voltò verso Michael; quest'ultimo era tornato ad ispezionare minuziosamente il cadavere come suo solito.
I suoi occhi andarono poi verso il piccolo "Xav" velato per metà dalla mano di Karol.
- Sarà vero...? - sospirò - Sarà... davvero stato Xavier ad ucciderlo? -
- Di che ti sorprendi? Dopo tutto ciò a cui abbiamo assistito ancora ti reputi incapace di considerare gli altri come probabili assassini? - replicò Michael.
- E' dura abituarsi ad un'idea simile... - ammise lei - Io vorrei fidarmi, ma... -
- June - lui le rivolse uno sguardo severo - Stai cercando di dare fiducia a delle persone sapendo che tra loro c'è un assassino e un traditore. Non essere ingenua, ok? -
- M-ma io... beh, almeno so che posso fidarmi almeno di te... no? -
Lui si mostrò esterrefatto, più per quello che di qualunque altra cosa.
- Di me...!? -
- B-beh... siamo stati insieme tutta la mattina fino all'annuncio... - deglutì June - Non ti ho mai perso di vista, quindi... non puoi aver ucciso Karol, no...? -
- Ah... sorprendentemente logico, da parte tua - tossicchiò lui.
- Già...! Già, non puoi averlo ucciso tu, quindi so che sei dalla mia parte! - esultò lei.
- No che non lo sono! - le rinfacciò Michael - Alla fine del processo torneremo ad essere rivali, se non saremo morti! -
- Ma almeno... ti fidi del fatto che... che non ho ucciso Karol, vero? -
Michael si trascinò le mani sul volto, incapace di credere di come la compagna stesse completamente mancando il punto della discussione.
- Se può farti stare meglio, sì... sono abbastanza certo che non sia stata tu - disse, provocandole un fugace sprizzo di gioia - Sei troppo buona e sciocca per elaborare un caso così complicato e crudele -
- M-ma come ti PERMETTI!? - il momento euforico durò meno del previsto - C-cioè... ok, mi sta bene se mi chiami "buona", ma...! -
- E poi devo dire di essere rimasto vagamente deluso dal risultato... -
- Come, prego!? -
- Andiamo, su! E' bastato che trovassi un flacone vuoto per riempirmi di pugni e calci, lo scorso caso! - sbottò lui, irritato - Ora che ho trovato un messaggio lampante come minimo mi aspettavo che cavassi un dente o due a Xavier... -
L'esasperazione raggiunse il punto di non ritorno.
- Argh! Torna ad occuparti dell'autopsia prima che decida di cavarli a te! - gli urlò contro, intimorendolo quanto necessario - Santo cielo... ma per chi mi hai preso!? -
L'atmosfera irruenta si spense rapidamente nel silenzio non appena ognuno tornò alle proprie mansioni.
June Harrier lasciò Michael a lavorare in solitario, rimettendosi a cercare indizi.
Nonostante ciò, il suo stato mentale non le stava giovando.
"Fino a quando avrà intenzione di rinfacciarmelo...?" si domandò, rimettendosi a cercare tra i banchi dell'aula.

 

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Capitolo 44
*** Capitolo 5 - Parte 6 ***


Ancor più che agli indizi e alla scena del crimine, l'attenzione di Xavier Jefferson andò puntata verso un obiettivo che differiva da quello che il resto della classe si era prefissato.
Di fronte alla necessità di individuare la spia, l'investigazione passò in secondo piano; il detective fu determinato a non lasciarsi scappare nessun gesto sospetto o anche solo una movenza o una parola che potevano tradire un intento maligno.
Aveva passato oltre un mese in quella scuola, però; si chiese se il fatto di non aver notato niente di estremamente sospetto da parte di nessuno in particolare non avesse un significato a sé stante.
L'onere del dover gestire due indagini lo forzò a concentrarsi ancora di più.
Abbandonando la postazione di Michael, situato al centro dell'aula assieme al cadavere, Xavier si diresse verso il fondo della sala.
Pearl e Pierce sembravano intenti a controllare punti diversi della stessa sezione, ognuno immerso nei propri pensieri.
Il ragazzo si voltò per un istante alle proprie spalle; Judith si era unita prontamente alle indagini mostrando una facciata di tranquillità.
Gli bastò scorgerle il viso per capire quanta fatica e sforzo ci volessero per mantenerla, affinché Michael e June non si accorgessero di nulla.
Ciò non fece altro che provocare in Xavier un'urgenza ancora più incalzante di concludere l'opera.
Prese la decisione di approcciare, come prima cosa, Pearl Crowngale.
La bionda pareva persa in chissà quali riflessioni mentre i suoi occhi di ghiaccio perlustravano l'area attorno alla parete laterale.
Non appena Pearl fece cenno di aver notato il suo arrivo, Xavier si decise a parlare.
- Allora... hai scoperto qualcosa? - domandò.
Pearl esitò per un istante.
- ...segni - annuì - Ci sono degli strani segni sul muro -
Il detective passò ad osservare con più cura ciò che la compagna stava indicando.
Vi erano alcune scalfitture lungo la parete, segni simili a graffi e alcune chiazze grigie.
- Cosa credi possano significare? -
- Non ne ho idea. Ma è come se... - si bloccò per un istante - Come se qualcuno abbia scagliato violentemente qualcosa contro il muro. Forse una sedia... -
- Avrà a che fare con l'omicidio? - fu la conseguente domanda di Xavier.
Pearl apparve diffidente; ciò procurò in Xavier una sensazione strana. 
Il solo fatto che Pearl potesse avvicinarsi alla verità era da sé un'ipotesi pericolosa. Il ragazzo sapeva che avrebbe dovuto distorcere i fatti per giungere al proprio obiettivo, ma il trovarsi di fronte una prova che nemmeno sapeva come ricollegare lo lasciò spiazzato.
- No, non credo... - disse lei - Quei marchi si trovano solo su questo lato, e il corpo di Karol è stato trovato parecchio più in là. Inoltre, l'area attorno al cadavere è praticamente intonsa, come se non fosse avvenuto alcuno scontro -
- Quindi Karol è stato ucciso da un singolo colpo ben piazzato? -
- E' possibile. Ma dopotutto che certezza potremmo averne...? -
Le risposte vaghe di Pearl erano piuttosto comuni, ma Xavier ebbe come la sensazione che quel giorno lo fossero ancora di più.
L'Ultimate Ninja aveva sempre preferito rimanere in disparte, durante le indagini passate, e agire e pensare per conto proprio.
Nonostante tutto, ciò che ancora dava da pensare a Xavier erano i dettagli del crimine che non combaciavano.
"Judith ha detto che Karol la ha attaccata immediatamente. Non c'è stata alcuna battaglia" pensò "Ma allora questi graffi come sono stati fatti?"
- C'è dell'altro? - chiese poi Xavier, tentando di non dare a vedere i propri lampanti sospetti.
- Sì, direi che c'è un punto di interesse che mi sta tormentando non poco - rispose lei, indicando la lavagna.
Xavier intuì immediatamente di cosa si trattasse.
Sulla larga lastra di ardesia era ancora inciso il lugubre messaggio che aveva accolto Xavier non appena aveva messo piede in aula.
Si avvicinò per scrutare meglio quella scritta dall'aspetto inquietante.
"C'E' UN TRADITORE IN MEZZO A NOI" era scritto a caratteri cubitali e ricopriva la maggior parte dello spazio disponibile sulla lavagna.
- Il messaggio in sé è chiaro... - sospirò lui - Ma il motivo per cui è stato lasciato? Davvero inspiegabile -
- Un avvertimento un po' sopra le righe. Ma non del tutto sterile - sentenziò Pearl.
Lui notò una scintilla nei suoi occhi.
- Cosa vuoi dire? -
- Questa scritta potrebbe costituire una... importante fonte di riflessione - aggiunse - Ma credo che ne parleremo meglio al processo -
- Non hai intenzione di scucire nessuna informazione, come sempre - fece lui, quasi lamentandosi.
- Non averne a male, ma conosci benissimo la nostra situazione - rispose secca - Potresti benissimo essere stato tu, per quel che ne so. Condividere nozioni di questa portata è pericoloso, se lo si fa con leggerezza -
- Non posso darti torto... - sospirò lui - Allora passerò ad una domanda a cui sicuramente potrai rispondermi: qual è il tuo alibi per il delitto? -
Lei titubò a causa della domanda a bruciapelo, ma non si scompose.
- Il mio alibi? Non ne ho - disse con franchezza - Oggi sono stata da sola per tutto il giorno. Sono andata in giro per la scuola in solitario -
- Nessuno che possa garantire per te, dunque? -
Pearl ci pensò su, cercando qualunque dettaglio potesse tornarle utile.
I suoi occhi si illuminarono per un istante.
- Mhh, beh, ho incrociato Pierce al deposito rifiuti, in mattinata. Credo fossero quasi le nove -
"Combacia con quello che ha detto Pierce" pensò lui "La sagoma che ho intravisto lungo il corridoio era effettivamente Pearl"
Jefferson annuì brevemente.
- E dopo quel momento non hai più visto nessuno? -
- Nessuno. Fino all'annuncio... -
Quella parola gli provocò un fastidioso prurito alla nuca; il messaggio registrato di Monokuma era partito appena pochi istanti dopo essere giunto nella classe.
La voce squillante dell'orso mista alla circostanza del ritrovamento gli aveva lasciato un ricordo doloroso.
Xavier si chiese come mai, quasi sempre, fosse toccato a lui l'ingrato compito di ritrovare i corpi dei propri compagni; quasi come se qualcuno stesse cercando di punirlo.
Come per Refia, così per Elise, anche Vivian e Lawrence erano stati scoperti allo stesso modo.
Xavier estraniò dalla mente la possibilità di essere stato maledetto e tornò a concentrarsi sul caso attuale.
- E tu, Xavier? Che mi dici dei tuoi spostamenti? -
- Io? Ho incontrato Pierce appena poco dopo di te - raccontò - Lo ho invitato a prendere una bevanda al ristorante, e siamo rimasti lì per diverse ore. Lui potrà confermare -
Pearl sembrava, però essersi persa nella parte meno importante del discorso.
- Tu... lo hai invitato a trascorrere del tempo assieme? -
- Assurdo, vero...? - fece lui, accentuando il tono sarcastico - Lo dici come se fosse un evento epocale -
- Perdonami, ma non hai la nomea di essere un tipo socievole. Come me, d'altronde -
- Sto cercando di lavorarci su - concluse, facendo spallucce - A proposito di Pierce, credo abbia trovato qualcosa -
Le parole dell'Ultimate Detective si riferivano al fatto che il piccolo sarto stava trotterellando verso di loro con il volto di chi aveva scoperto qualcosa di importante.
- Ragazzi...! Guardate che cosa ho trovato! - strepitò Pierce.
Xavier e Pearl si sporsero per osservare ciò che si trovava tra le pallide mani di Pierce Lesdar: si trattava di un flaconcino in plastica bianca dall'aspetto tremendamente familiare.
- E questo? E' una vecchia conoscenza, eh? - commentò Xavier.
- E' il contenitore usato da Kevin... - mormorò tristemente Pearl - Pierce, dove lo hai trovato? -
- Sotto la cattedra - rispose, indicando l'ampia scrivania in solido legno - Era lì, steso sul pavimento -
- E il contenuto? - Xavier fece per aprirlo, ma la sua espressione mutò rapidamente. Era inesorabilmente vuoto.
La delusione fu palpabile.
- Niente, eh? -
- Siamo sulla scena di un delitto - Pearl scosse il capo - Difficile escludere a priori quanto un elemento possa essere rilevante ai fini del caso. Dovremo esaminarlo meglio al processo -
I tre annuirono all'unisono.
- Hai rinvenuto altro, Pierce? - insistette Xavier.
- Stavo per controllare i cassetti - fece lui - Ce ne sono due. Per il resto, la scrivania non ha altri posti dove nascondere indizi -
- Vada per i cassetti -
Il detective si chinò e appoggiò un ginocchio a terra.
I cassetti erano di metallo e risultavano essere inseriti in apposite rientranze all'interno della scrivania. Xavier ne tirò uno; era piuttosto pesante per le sue dimensioni.
I cassetti erano metallici e dall'aspetto solido; ne tirò uno, avvertendo tutto il suo peso. Aprì il primo vano: all'interno non vi erano che scartoffie, probabilmente appartenenti a Karol, tenute come sempre in perfetto ordine. Oltre non vi era altro.
Xavier lasciò perdere i fascicoli dopo essersi accertato che non vi fosse nulla nascosto sotto, dietro o in mezzo alle pagine. Lanciò uno sguardo scontento verso Pierce e Pearl, che compresero che la prima indagine non aveva avuto i frutti sperati.
Aprì in seguito il secondo cassetto: vi erano diversi strumenti e oggetti di cancelleria. Un metro, alcune righe e penne e matite varie, tutto tenuto in perfetto ordine.
Unico elemento discordante era un paio di forbici appoggiate trasversalmente; probabilmente il solo strumento a sfidare la minuzia di Karol Clouds.
Fu abbastanza, però, da far nascere un sospetto.
Xavier afferrò le forbici e cominciò a condurre una rapida ispezione.
Il suo unico occhio si serrò: sul lato opposto della lama delle forbici vi era un'unica, sottile striscia rossastra solitaria.
Non ci volle molto per capire che si trattava di un rivolo di sangue.
Mostrò subito agli altri ciò che aveva rinvenuto.
- E'... s-sangue...? - domandò retoricamente Pierce.
- A quanto pare... - Xavier passò il dito sulla striscia sanguigna. Una polverina rossa si staccò dal metallo, rivelando che si era formata un'incrostazione di sangue secco.
- Le forbici sono l'unico strumento sporco di sangue? - chiese Pearl, per chiarire.
- Sì, il resto non è stato mosso di un millimetro... - annuì lui - Ma le forbici... in qualche modo sono implicate -
Appoggiò l'oggetto macchiato sulla scrivania e si mise a pensare.
L'ispezione di quell'area sarebbe dovuta terminare in quel momento, ma l'occhio di Xavier notò un altro dettaglio.
Appena sotto il secondo vano c'era un sostegno in metallo, esattamente uguale a quelli che reggevano gli altri due cassetti. All'interno, però, non vi era nulla; solo uno spazio vuoto.
- Qui sembra manchi qualcosa - notò il detective - Forse un terzo cassetto? -
- E' quello che ho pensato, ma... - Pierce si grattò la tempia - ...non sono nemmeno sicuro che ci sia mai stato. E nel resto dell'aula non c'è niente -
Xavier dovette ammettere che la constatazione era sensata.
D'altronde, nessuno avrebbe potuto eseguire una verifica completa poiché, al di fuori di Karol, nessuno degli studenti aveva mai controllato in maniera ricorrente il  contenuto dei cassetti, né quanti effettivamente ce ne fossero. Esalò un sospiro rassegnato.
- Qui abbiamo finito - asserì Xavier - C'è altro? -
- Ne dubito. L'aula è abbastanza piccola, credo che abbiamo cercato ovunque - annuì Pearl.
- Per essere piccola, lo è. Ma prima vorrei accertarmi di una cosa. La classe presenta delle finestre sul lato sinistro, no? -
Il dito del detective indicò delle piccole aperture di forma quadrata ricoperte da degli spessi vetri colorati.
Ve ne erano tre, situate sulla parete di sinistra dell'aula. Pur conferendo alla stanza un tocco più vivace, nessuno fu in grado di apprezzarne il gusto estetico, viste le circostanze.
- Sì, ma non so quanto possiamo considerarle "finestre"... - sospirò Pierce.
- Come mai? -
- I vetri colorati sono spessi e opachi. Vedere attraverso non è possibile - spiegò il sarto.
Xavier si massaggiò il mento.
- Quindi nessuno avrebbe potuto assistere al delitto dal corridoio esterno, giusto? -
- Proprio così. Ma se il dubbio ti assilla puoi compiere una verifica - suggerì Pearl.
L'Ultimate Detective la valutò essere un'idea sensata.
Pierce e Pearl decisero di dividersi e continuare a cercare su altri fronti nel mentre; Xavier si recò davanti ad una delle tre finestre, quella più vicina alla lavagna.
Aguzzò la vista e sforzò il proprio occhio per tentare di vedere oltre il vetro color prato; fu tutto inutile. Ciò che accadeva nel corridoio gli era precluso alla vista.
Per scrupolo, decise di tentare anche con le altre due.
I risultati non furono quelli sperati, però. Ad ogni tentativo, ogni scintilla di importanza che quelle finestre potevano avere andavano man mano svanendo.
"E' stato tutto inutile..." pensò sbuffando.
Fece per fare retromarcia, quando una strana sensazione distolse la sua attenzione.
Rimase fermo per un istante, poi fece scivolare lentamente il piede lungo il pavimento: avvertì un frusciare sospetto.
Abbassò rapidamente lo sguardo: alla suola della scarpa sembrava essersi attaccato un pezzo di carta giallognolo dall'aspetto consumato.
Si abbassò per controllare meglio. Il corpo cartaceo sbucava da appena un angolino da sotto il mobile attaccato al muro.
La scarpa aveva fatto presa a causa della pressione e lo aveva tirato parzialmente fuori.
La curiosità lo spinse a controllare cosa vi fosse, ma il primo pensiero andò verso il sospetto di un'altra delusione.
Che vi fosse della carta sparsa per un'aula era piuttosto normale.
Distrattamente, Xavier estrasse il foglio e lo scrutò.
Rimase immobile, lo sguardo fisso su quella singola immagine.
Si ritrovò a spalancare la bocca dalla sorpresa. Il cuore aveva aumentato i battiti, anche se Xavier ancora non sapeva a causa di cosa.
Tutto ciò che aveva realizzato era quanto assurdamente strana e misteriosa fosse la sua improbabile scoperta.
Un disegno a matita ricopriva buona parte della metà del foglio; era un volto umano dalle fattezze possenti e dallo sguardo severo, ma al contempo gentile.
Anche senza eccedere di particolari e di tratti precisi, l'associazione mentale avvenne subito.
"......Alvin?"
La sagoma dell'Ultimate Guardian apparve sotto forma di disegno. Proprio accanto al ritratto vi erano alcune scritte, sempre a matita.
Il nome "Alvin Heartland" era seguito da una scritta ancora più piccola che recitava "Ultimate Guardian".
Vi era poi un paragrafo più esteso proprio al di sotto, ma Xavier non si degnò di leggerlo.
Nascose rapidamente il foglio sotto i vestiti e si alzò in piedi.
Si voltò alle proprie spalle, guardando a destra e a sinistra.
Michael, June, Pierce, Pearl e Judith erano tutti intenti in altre mansioni e nessuno sembrava averlo notato.
Per un istante, in mezzo agli sguardi ansiosi e preoccupati degli altri ragazzi, a Xavier parve quasi di riuscire a rivedere il torvo sguardo di sfida che l'Ultimate Guardian gli aveva lanciato durante il loro ultimo duello processuale.
Xavier attenuò il respiro, calmandosi. Non aveva ancora idea di che cosa aveva trovato, ma l'intuito gli suggerì di procedere con cautela.
"...potrei aver trovato un indizio scottante" pensò "Probabilmente l'unico che posso tenere segreto agli altri. Ora..."
Si allontanò con nonchalance dall'area del ritrovamento facendo in modo da non suscitare l'attenzione degli altri.
Ciò di cui aveva bisogno era di un luogo isolato per pensare e assemblare i pensieri. E, soprattutto, per poter controllare in santa pace ciò che quella nuova traccia aveva da offrire.
Le possibilità che si trattasse dell'ennesimo vicolo cieco erano alte, ma ogni tentativo andava fatto.
"...ora devo capire il senso di tutta questa storia"
Xavier Jefferson uscì dall'aula, lasciandosi alle spalle il corpo di Karol Clouds.
Un elevato numero di fattori, in quell'omicidio sembravano non combaciare.
Il momento di rimettere assieme i pezzi si stava avvicinando.
L'ora di tempo per le indagini era quasi scaduta.




"- ...Judith? -
- Dimmi, Prof -
- E' davvero una situazione complicata... no, definirla tale è riduttivo. La situazione è critica... -
- Me ne rendo conto... ma che cosa possiamo fare? Siamo solo in due... -
- Sì, gli altri hanno smesso di venire alle mie lezioni, e le riunioni di gruppo si sono fatte più sporadiche. Da quando sono morti Refia ed Alvin, tutti hanno i nervi a fior di pelle, e per un giusto motivo. Se tutti gli altri non riescono ad intravedere nemmeno un barlume di speranza, dobbiamo farlo noi per loro. Aiutarli, e guidarli -
- ...sei incredibile, Prof -
- Come, prego? -
- La questione di Alvin ha toccato te più di chiunque altro. Avevi stabilito una buona intesa, ti fidavi di lui. Il suo... comportamento deve averti fatto malissimo, ma continui comunque a voler aiutare tutti gli altri. Ti invidio. Io... non so se riuscirei a fare lo stesso. Vorrei essere come te -
- E' una frase coraggiosa, la tua. Rendersi conto dei propri limiti è il primo passo per oltrepassarli. Anche io ho seguito l'esempio di una persona che stimavo per giungere al punto in cui sono, sai? -
- Deve essere stato qualcuno di formidabile -
- Assolutamente. Le devo ciò che sono diventato -
- Intendi "l'Ultimate Teacher"? -
- Anche quello. Ma va ben oltre un mero titolo. Eppure, ti dirò, persino un discreto insegnante come me non può fare tutto da solo. Tento di non darlo a vedere, ma... Alvin ha lasciato un solco profondo nel mio animo... Per salvare i nostri compagni avrò bisogno del tuo aiuto. So che puoi aiutarmi; sei una ragazza diligente ed empatica. Ti prego, sostienimi e dammi una mano. Ok, Judith? ...Judith? Judith... Judith...Judith? Judith...Ju?dith?Jud?i?th...Ju?it?d?j?ud?i??.............
"
- Judith! -
L'Ultimate Lawyer spalancò gli occhi, sussultando rumorosamente. Emise un rapido fiato di sorpresa, portandosi una mano al petto.
I suoi sensi tornarono a funzionare regolarmente nel momento in cui riprese contatto con la realtà.
Si rese conto di essersi imbambolata a fissare un punto generico nel vuoto siderale, alienando i suoi pensieri e la propria stessa presenza.
Quando si risvegliò dal suo torpore, si trovava in piedi al centro della classe.
La voce ansiosa dell'Ultimate Archer la stava richiamando più volte; avvertì di essere scossa con veemenza da una mano piccola ma forzuta.
Incontrò lo sguardo di June Harrier, che non sembrava affatto tranquilla.
- Judith, va tutto bene...? -
Tentennò ancora per qualche istante, ricomponendosi subito dopo. Fece di tutto per far sembrare come se non fosse accaduto nulla.
- Certo. E' tutto a posto, scusami; mi sono distratta a pensare - sorrise lei.
La risposta non parve convincere pienamente June, ma quest'ultima decise semplicemente di accettarla.
- Vedi di non esagerare, ok? Credo... credo che la questione di Karol abbia toccato te più di chiunque altro. Eravate piuttosto uniti... -
La mente di Judith assimilò quelle parole, tentando di ricordare dove le aveva già udite. Era un concetto estremamente familiare, ma che per un qualche motivo i pensieri
confusi e sbizzarriti della ragazza le impedivano di ricollegare al passato.
- Io... chissà? Forse non lo conoscevo così bene come credevo... - deglutì - Ho come questo sentore... -
- Perché dici così...? - rispose l'altra, vagamente delusa.
- Credo di capire cosa intende Judith -
La voce di Pearl Crowngale si intromise nella discussione. La ragazza dagli occhi di ghiaccio camminò lentamente verso le altre due, mostrando il suo classico, imperscrutabile sguardo.
- Avevi stabilito un legame solido con Karol, ma è anche vero che lo conoscevi da poco più di un mese - puntualizzò lei - E' impossibile capire cosa passi per la mente di una persona persino dopo anni di amicizia e relazioni. Figuriamoci dopo così poco tempo... -
- Tu... dici? - June si grattò la nuca - A volte credo che, in certe situazioni, ti ritrovi in poco tempo a conoscere una persona meglio di quanto chiunque altro sia mai riuscito a fare. Dipende dai casi -
Flourish si strinse tra le spalle, abbassando lo sguardo.
- Avete ragione entrambe, ma qui è diverso - mormorò - Ero convinta di conoscerlo bene, che si fosse aperto con me in maniera genuina... ma evidentemente non era quello il caso. Forse non ho mai davvero compreso chi fosse realmente Karol Clouds... -
- C-capisco cosa vuoi dire... - intervenne June, tentando di mediare - Prima di trovarlo così, Karol si era chiuso in se stesso sbarrando la porta a tutto e tutti... è possibile che soffrisse di qualcosa che non voleva assolutamente rivelarci, ma avrà avuto i suoi buoni motivi! ...non credi, Judith? -
Ancora una volta, l'avvocatessa fece di tutto per non incrociare lo sguardo delle compagne.
Forse temendo di tradirsi, forse temendo di far trasparire troppi sentimenti dolorosi o anche semplicemente scomodi, in conclusione finì per tacere.
- Chissà...? Forse anche dietro le parole di Judith c'è qualcosa che ancora non possiamo capire -
La voce di Pearl riapparve a tradimento una seconda volta; Judith avvertì come una pugnalata al cuore.
Sentì il sangue pulsarle nelle vene a velocità folle; un calore anormale le arrostì il viso dall'interno. Le orecchie erano arrossate, ed iniziò a sudare.
Ebbe una folle paura di voltarsi, ma alla fine il suo corpo lo fece quasi in maniera autonoma.
Due chiarissimi occhi glaciali la stavano fissando, squarciandole l'anima.
Da che era caldissimo, il corpo di Judith si irrigidì, quasi come a perdere sensibilità.
- ...che intendi, Pearl? - chiese June, ancora incapace di cogliere alcune sottili sfumature di sottotesto.
- Nulla. Solo una strana impressione che ho avuto - disse la ninja, disfacendo sbrigativamente la conversazione - E' quasi ora di andare. Se avete ancora qualcosa da controllare, vi conviene farlo adesso. Pochi minuti, e saremo in tribunale... -
A quelle parole, Pearl Crowngale se ne andò lasciandosi alle spalle una June Harrier vagamente confusa.
Lì vicino, Judith Flourish non riusciva a scrollarsi di dosso quell'inesorabile senso di angoscia e impotenza.
La sagoma cristallina degli occhi di Pearl era rimasta nel suo cervello come un monito.
Inspirò ed espirò, come ogni volta in cui aveva la necessità di ritrovare la calma.
Non appena le gambe le smisero di tremare, si rivolse a June.
- Michael ha finito con l'autopsia? - domandò.
- Sì, credo di sì - affermò l'arciera - Non sembra averci messo molto -
- Questo perché è stata tremendamente infruttuosa... - il tono imbronciato dell'Ultimate Chemist non tardò a farsi sentire.
Michael Schwarz e Pierce Lesdar giunsero rapidamente dalle altre due; i loro volti non ispiravano niente di esageratamente positivo.
- "Infruttuosa"...? - June fece traspirare una certa delusione - Non vi era niente di rilevante? -
- Davvero poco, purtroppo. A parte le informazioni di base non è saltato fuori nulla di così eclatante o sospetto... -
- D-dai, non prendertela... - aggiunse Pierce - Non c'era molto altro che potessi fare... -
- Risparmiami la tua pietà! - sbottò lui - Troverò l'assassino con gli altri indizi trovati in aula! Ho avuto parecchio tempo per studiarli a fondo; il nostro killer ha le ore contate! -
- Non dire così, ti scongiuro... - lo implorò June - Il solo pensiero mi fa stare male... -
Michael le rivolse la solita occhiataccia severa.
- Non perderò altro tempo a ricordarti la nostra situazione, ma almeno tenta di comprendere che è inevitabile. Qualcuno deve morire -
- Inevitabile... dici? - gemette Pierce - Siamo come topi in trappola che tentano di sopravvivere divorandosi a vicenda... non c'è proprio altra soluzione, eh...? -
- Se ci fosse stata credo la avremmo utilizzata già da tempo - concluse il chimico - Basta con le ciance; è ora di andare -
Il dito di Michael puntò l'orologio da parete che scandiva rigorosamente il passare del tempo.
Era passata un'ora.
Judith rimase quasi ipnotizzata dallo scorrere della lancetta dei secondi; un ticchettio che la separava dal processo più complicato a cui avesse mai preso parte durante
la sua breve carriera. Forse anche l'ultimo.
In mezzo alla miriade di pensieri che attorniavano la sua mente, uno in particolare fece capolino.
Alzò improvvisamente lo sguardo.
- ...dov'è Xavier? -
Gli altri tre si voltarono di scatto verso di lei; poi, come una sola persona, perlustrarono il resto della stanza.
L'Ultimate Detective non si vedeva da nessuna parte.
- Ma... dov'è finito? - si chiese June - Era qui pochi minuti fa, ne sono certa -
- Stava dando un'occhiata alle f-finestre... - balbettò Pierce - Io e Pearl gli abbiamo parlato poco fa -
- Mh, il sospettato si dà alla macchia... - commentò aspramente Michael.
Gli altri presenti non commentarono la cosa; ogni indizio sarebbe stato accuratamente analizzato al processo.
Non vi era bisogno che la battaglia cominciasse lì, in quel momento.
Fu nuovamente Pearl a ricomparire dal nulla, portando con sé la risposta.
- Se cercate Xavier, lo ho visto uscire dall'aula pochissimo tempo fa. Sembrava voler controllare qualcosa - asserì la ninja.
- Beh, il tempo è scaduto. Che si desse una mossa! -
- ..vado io. Andrò io a cercarlo - esclamò infine Judith, sbrigandosi ad uscire.
Sorpassò Michael e Pearl e si recò verso la porta, tirando a sé la maniglia.
Nessuno sembrò avere da ridire a riguardo di quella iniziativa.
- Fa in fretta, Judith! - la avvertì Pierce - Il processo inizierà a breve! -
- Farò in un attimo! Iniziate ad avviarvi! - gridò loro, correndo lungo il corridoio.
Fu durante quel breve tratto percorso in fretta e furia, attraverso la coltre di paure e dubbi, in quelle sabbie mobili di atroci timori, che l'unico appiglio di speranza si manifestò; lì, in tutto il suo oscuro splendore. Una speranza fatta di morte e sangue.
Un tenue frammento di ciò che, oramai, non era più possibile salvare.
"Dobbiamo trovarlo... dobbiamo trovare il traditore..." pensò "Io e Xavier... possiamo farcela... vero?




Trovata la situazione di tranquillità e silenzio che ricercava, Xavier si appoggiò con la schiena al muro e si asciugò il sudore dalla fronte.
Aveva quasi corso pur di raggiungere quel corridoio abbastanza nascosto e poco in vista; aveva bisogno di non essere visto da nessuno.
Si guardò scrupolosamente attorno per assicurarsi di non essere stato seguito; era certo di aver lasciato l'aula senza che i più lo notassero, ma si aspettava che almeno Pearl o Judith avessero realizzato la sua assenza dopo non molto.
Inoltre, l'idea di vedersi comparire l'Ultimate Ninja alle spalle non costituiva affatto un pensiero gradevole.
Dopo aver concluso i dovuti accertamenti, ripescò il foglio di carta che aveva tenuto ripiegato sotto la giacca.
Osservandolo meglio, si rese conto che era parecchio vecchio; vi erano tracce di inchiostro e diverse parti che erano già spiegazzate, e il bianco della carta appariva essere sbiadito e consunto. Quel foglio non era stato scritto di recente.
Lo aprì delicatamente, come avendo paura di romperlo.
Davanti al suo occhio, il disegno di Alvin comparve una seconda volta.
Era stato tracciato a matita, i tratti erano rapidi e abbastanza precisi, ma il volto presentava comunque qualche difetto stilistico.
Il sospetto che potesse essere opera di Vivian fu rapidamente scartato.
Tutto sommato, si trattava di un profilo alquanto dettagliato.
A Xavier parve quasi di vedere un fantasma, come se il rombo del banco disintegrato dal pugno di Alvin ancora risuonasse lungo i corridoi del primo piano.
A catturare la sua attenzione furono, però, le numerose righe di testo scritto che affiancavano l'immagine.
Iniziò a leggerle mentalmente, partendo dall'alto.
"Alvin Heartland..." recitava il testo "Il titolo di Ultimate Guardian era scritto appena sotto il nome... vediamo..."
Abbassò lentamente lo sguardo, immergendosi nella lettura.
"Alto almeno due metri. Fisicamente prestante, grosso, muscoloso. E' una guardia del corpo, necessariamente allenato ed esperto nel combattere.
 Ha i sensi affinati, è molto attento a ciò che lo circonda. Cammina tenendo sempre lo sguardo avanti. Di tanto in tanto si guarda le spalle.
 Non esplora mai da solo posti troppo isolati, è estremamente cauto. Forse ha paura di un attacco a sorpresa.
 La mattina è il primo a svegliarsi; rimane per diverso tempo da solo all'uscita del piazzale.
 Ha interagito principalmente con: Karol (Teacher), Elise (Camerawoman). Karol si fida di lui
"
Le nozioni continuavano imperterrite, analizzando quasi ogni aspetto di ciò che era l'Ultimate Guardian con una precisione quasi inquietante.
Fu dopo alcuni righi che Xavier notò finalmente che cosa stessero a significare quelle informazioni.
Sudò freddo al solo leggere ciò che ne seguiva.
"Livello di pericolo: altissimo. Forse il più problematico tra tutti quanti. Coglierlo impreparato è quasi impossibile. 
 Confronto corpo a corpo sconsigliato. Conosce alcune arti marziali. Uccisione non garantita. 
 Da non considerare come bersaglio prioritario; tenersi estremamente in guardia da lui.
 Strategia migliore (in caso di necessità): ucciderlo puntando al collo dalla distanza
"
La grafia in corsivo era sottile e ordinata, come fosse un documento da ufficializzare.
In seguito al paragrafo vi era, infine, una grossa croce marcata con inchiostro rosso.
A caratteri più grandi vi era la scritta "DECEDUTO".
Xavier ebbe come l'impressione che quello era il modo, per chiunque avesse redatto quella pagina, di archiviare il problema.
In effetti, tutti i dettagli su come affrontare Alvin perdevano inevitabilmente di senso considerando la morte di quest'ultimo.
Xavier Jefferson non aveva la più pallida idea di come utilizzare una prova simile, né che significato avesse.
"...e inoltre... perché questo foglio era nascosto in aula?"
Ancora senza rispose, Xavier fu improvvisamente colpito da un pensiero.
Speranzoso, ma realista, voltò il foglio per osservare se vi era qualcosa scritto anche sul retro.
Si aspettava, in realtà, che non ci sarebbe stato nulla di rilevante, o forse proprio niente.
Si sorprese nel constatare di essersi sbagliato.
Ad accogliere il suo occhio vi era un altro disegno ritraente un altro volto noto.
Lo stomaco di Xavier si strinse mentre ne osservava i dettagli a matita come la barbetta rada e il sorriso smargiasso.
Deglutì, e iniziò a leggere.
"Rickard Falls. Ultimate Voice Actor.
 Prestazioni fisiche completamente nella media. Nessun dettaglio di spicco. 
 Tra i maschi è probabilmente il più rumoroso. Estroverso, caloroso. Non è uno sciocco, ma presta poca attenzione.
 A giudicare dalla sua professione, non ha mai combattuto.
 Ha interagito principalmente con: Lawrence (Musician), Kevin (Botanist), Pierce (Sewer). Ha un buon rapporto con tutti.
 In genere è sempre in compagnia.
 Livello di pericolo: basso. Uccisione relativamente semplice. Nessun elemento di rilievo nelle sue prestazioni.
 Strategia migliore: attirarlo con l'inganno in un luogo isolato, spezzargli il collo, nascondere il corpo per intralciare l'autopsia
"
La stessa precisazione sul decesso era stata inserita appena sotto.
Xavier era certo che nient'altro, quel giorno, sarebbe stato in grado di fargli contorcere le interiora dall'inquietudine.
Con suo rammarico, abbassando ulteriormente lo sguardo lungo il margine verticale del foglio, si accorse che non era così.
A differenza di quello su Alvin, il paragrafo di Rickard non appariva pregno di informazioni e note.
Vi era spazio in abbondanza per un altro profilo.
La sua pupilla si dilatò; si bagnò le labbra asciutte e strinse la presa sulla carta, come per non farsela scivolare via.
"...Xavier Jefferson. Ultimate Detective.
 Prestazioni fisiche vagamente sopra la media, ma è uno dei ragazzi più allenati. Apparentemente innocuo, potrebbe rivelarsi più pericoloso del previsto.
 Freddo, scostante, estremamente attento. E' probabilmente il più arguto, ma non lo dà a vedere. E' chiaro che nasconde qualcosa.
 Non si estranea dal gruppo come altri, ma mantiene sempre alta la guardia. 
 Potrebbe essere in grado di lottare, ma è incerto.
 Lo si vede quasi sempre al primo piano. E' solito indagare la scuola per conto proprio; è minuzioso. Ha un temperamento calmo, ma imprevedibile.
 Ha interagito principalmente con: Karol (Teacher), Judith (Lawyer). 
 Livello di pericolo: indefinito (probabilmente alto). E' possibile che celi un potenziale nascosto. Da tenere sotto controllo.
 Da considerare come bersaglio prioritario; è intelligente. La sua morte potrebbe essere necessaria.
 Strategia migliore: è cieco da un occhio. Approfittare del suo punto di mancata visibilità per coglierlo impreparato, finirlo con un solo colpo ben piazzato
"
Il testo era affiancato da un terzo disegno: fu come guardarsi allo specchio.
Xavier notò come il profilo mostrasse un suo sguardo molto truce, come se l'autore considerasse essere quella la sua vera natura.
Le mani gli tremarono vagamente.
Fu tentato di rileggere il tutto cercando ci carpirne il significato un po' più a fondo, ma qualcosa lo bloccò.
Udì improvvisamente una voce rimbombante lungo il corridoio, e d'istinto nascose il foglio spiaccicandolo all'interno della tasca.
Appena si fu calmato, col cuore che però ancora batteva forte, aguzzò l'udito per capire cosa stesse accadendo.
- Xavier...! - esclamò la voce da lontano - Dove sei!? -
Il respiro del detective si quietò; era la voce di Judith.
Realizzando qualcosa, sbirciò l'orologio fissato alla parete: era passata un'ora dall'inizio delle indagini.
Il processo era ormai prossimo e il tempo delle indagini era concluso.
"...ancora non so che cosa ho scoperto, ma è importante. Me lo sento" pensò "Questo documento è correlato all'omicidio di Karol, ma potrebbe aprire strade per altri 
ragionamenti. Forse... forse è proprio ciò che stavo cercando!
"
Espirò profondamente e si accinse a raggiungere Judith.
Si passò la mano sopra la tasca del pantalone, appiattendone il contenuto in modo che si notasse quanto meno possibile.
Convinto di essere in possesso di un vero e proprio asso nella manica, Xavier Jefferson si preparò alla battaglia.




- ...siamo tutti pronti? -
Pearl Crowngale si rivolse agli altri cinque compagni con un tono che faceva presagire l'inizio dei giochi.
Un nuovo processo avrebbe determinato la morte di almeno uno di loro; dovevano venire a patti con la cosa prima di proseguire.
June annuì con poca convinzione, seguita da un Pierce ancora meno motivato.
Michael si limitò ad incrociare le braccia, facendo cenno di essere preparato al peggio.
Judith mostrò un cenno di assenso, portandosi la mano al petto come per regolarsi il battito cardiaco.
Infine, Xavier lanciò uno sguardo verso ognuno di loro. Erano pronti.
- Allora andiamo -
Un flebile segnale acustico si propagò lungo il piazzale, e l'ascensore cominciò nuovamente la propria discesa.
Ben presto, la ridotta comitiva si ritrovò immersa nel buio poco denso del sotterraneo.
Unico rumore, ancora una volta, era il suono metallico dell'ascensore che si appropinquava alla meta.
I sei erano disposti alla rinfusa lungo l'area circolare, ognuno alle prese coi propri pensieri.
Judith dava le spalle all'intero gruppo; Xavier intuì che si trattasse semplicemente di uno stratagemma per non far vedere la sua espressione corrucciata al resto del gruppo.
Xavier lo aveva capito: Judith non riusciva a tenere le proprie emozioni segregate troppo a lungo, nonostante la sua professione.
Più ci pensava, più il detective non riusciva a comprendere come potesse essere avvenuto tutto ciò.
Provò a figurarsi la scena: Karol Clouds, coltello alla mano, che veniva assassinato da un colpo alla testa inferto dalla stessa Judith.
Entrambe le fazioni erano inconcepibili alla logica.
"...eppure dovrei saperlo. In questo posto, la logica non è che un lontano ricordo. Un elemento che non trova spazio"
Dall'altro lato, June si era seduta a terra abbracciando le proprie gambe, raggomitolata in un bozzolo di silenzio.
Poco distante, Pearl stava fissando i muri con occhi persi nel vuoto.
Pur essendo ai poli opposti per temperamento, le due ragazze apparivano quasi simili, come se quella snervante attesa mettesse tutti sullo stesso piano mentale.
Meno imperscrutabile era l'espressione di Michael, perennemente imbronciata ed emanante un atmosfera tesa ed irrequieta.
Xavier ricordò le parole del chimico: poche settimane prima, Michael aveva giurato solennemente che sarebbe sopravvissuto ad ogni costo.
Il detective si chiese se Michael fosse ancora talmente convinto di quella sua asserzione pur dopo gli eventi di quello stesso giorno.
Il gruppo era debilitato, stanco e diviso. La lenta ed inesorabile discesa non giovava a nessuno.
Fu appena poco prima di fermarsi del tutto che Xavier avvertì un tocco leggero alle proprie spalle.
Si voltò di scatto, rimasto sorpreso. Era così immerso nei propri pensieri che non aveva sentito nessuno avvicinarsi.
Si rilassò, rendendosi conto che si trattava di Pierce Lesdar.
Il sarto pareva essersi avvicinato per rivolgergli un commento privato, poiché il suo tono di voce fu ancora più basso del solito.
- Xavier... - sussurrò.
- Che cosa c'è, Pierce? - chiese l'altro - Va tutto bene? Hai una brutta cera... -
- Io sto bene - annuì lui - Ma tu? -
- Potrebbe andare meglio. La morte di Karol è stato... - deglutì - ...un brutto colpo da digerire -
- Sì... lo è stato per tutti -
Ne seguì un breve silenzio. Xavier usò quel tempo per ponderare come mai Pierce avesse avuto intenzione di parlare proprio in quel frangente.
- Xavier... ascolta - disse, infine - Sai per caso qualcosa che noi altri non sappiamo? -
Il detective sentì il sangue gelargli.
- ...cosa te lo fa credere? -
- Niente. E' solo un vago sospetto... - ammise lui - Senti, ho ragionato a fondo sulle dinamiche del caso. Credo... credo di aver più o meno compreso come potrebbero essere andate le cose -
- ...come? Pierce, hai detto che...? -
Lui lo zittì con un gesto, facendogli capire di abbassare la voce.
- E' solo che... senti, Xavier. S-sta accadendo qualcosa di strano, nel nostro gruppo... - balbettò lui - Io vorrei aiutarti, ma... non so fino a che punto -
- Pierce, io... -
- Sappi che... al processo potrei... - Xavier notò tutto lo sforzo che Pierce stava impiegando per esprimersi - ...potrei dover ricorrere... ad uno stratagemma forzato. Qualcosa che non ti piacerà, ma che potrebbe rivelarsi necessario... spero potrai perdonarmi -
L'ascensore si arrestò, cessando lentamente di muoversi.
Pierce fece improvvisamente retromarcia e si avviò verso l'uscita, lasciandosi alle spalle uno Xavier più confuso che altro.
Le parole di Lesdar continuarono a riecheggiare nella sua mente stordita, chiedendosi che cosa volessero significare.
Aveva un pessimo presentimento al riguardo, ma sapeva che la risposta non poteva che arrivare attendendo.
Solo il processo avrebbe gettato finalmente luce sul quel caso machiavellico e ogni sua sfumatura.
La luce dell'aula di tribunale invase l'ascensore.
Il processo stava per cominciare.
Cinque persone entrarono in sala prima di Xavier, che li fissò tutti; uno ad uno.
Cinque compagni con cui aveva condiviso oltre un mese di inferno, angoscia, paura e morte.
Amici, ma nemici. Alleati, ma rivali. Xavier ricercò la verità nel falso, incapace di intravederla.
Solo una cosa era certa.
"...questo processo si concluderà quando il traditore sarà rivelato............ vero?"

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Capitolo 45
*** Capitolo 5 - Parte 7 - Processo ***


Un sibilo lontano riecheggiò nell'aula; un rumore tenue e distante, probabilmente dovuto a qualche meccanismo dell'ascensore.
Fu estremamente rapido e fugace, ma bastò affinché il suono si propagasse nella stanza. Non era che un'evidente prova di come quest'ultima si fosse inesorabilmente svuotata.
I banchi vuoti contavano dieci pannelli funebri in totale, ognuno con la foto sbarrata in rosso di un deceduto.
Dall'ultima volta, Xavier notò l'ovvia aggiunta di quelle di Kevin e Karol.
La sensazione di vedere quelle sagome fu raggelante; il ricordo di quando erano in vita si mescolò al grigiore macabro di quel memento, creando un miscuglio di vita e morte.
L'attenzione del detective andò rivolta verso il volto immobile dell'Ultimate Teacher, i cui occhi vispi sembravano voler dire qualcosa persino attraverso la foto.
Il vedere la sua foto lo colpì in maniera particolare.
Si domandò, in base a ciò che aveva raccontato Judith, quali fossero state le intenzioni di Karol Clouds durante i suoi ultimi istanti di vita.
La risposta, però, giaceva nell'unica cosa che Xavier poteva fare per sbrogliare quella assurda matassa.
Alzò lo sguardo verso i suoi cinque compagni, schiarendosi la voce.
- ...propongo di cominciare -
Nessuno disse di sì, ma nemmeno dissentirono. Fu quasi come l'annuncio dell'inizio di una prassi come tutte le altre.
I nervi a fior di pelle dei sei sopravvissuti erano palpabili.
Toccò a Michael Schwarz l'onere di introdurre, ancora una volta, i dati basilari delle indagini.
- Allora mi permetto di esporvi la situazione a partire dalle ovvietà - sospirò lui - La vittima è stata trovata morta nell'aula del primo piano, quella distante circa dieci minuti dal ristorante. La causa del decesso è stata un forte colpo al cranio. Vi era una ferita sul lato della fronte di Karol, vicino alla tempia. L'arma del delitto sembra essere il grosso mappamondo rinvenuto proprio lì di fianco. Vi è un'ammaccatura e del sangue sulla superficie. La vittima è morta in una  finestra temporale di... circa due ore e mezza -
Judith notò un improvviso cambio di tono nella voce del chimico.
- Non sembri estremamente convinto dell'orario... -
- E' stato complicato... la morte era avvenuta parecchio di recente quando lo abbiamo trovato - ammise lui - E' il massimo che sono riuscito a prevedere -
- In pratica: Karol è stato ucciso non troppo tempo prima del ritrovamento del suo cadavere - sintetizzò Pearl.
- Questo... ci aiuta parecchio, giusto? - osservò June, ma dubitando della concretezza della propria asserzione - Ci basterebbe controllare gli alibi di tutti e fare una verifica accurata -
Xavier si morse il labbro. Sperava di poter rimandare il controllo degli alibi in un momento posticipato, ma l'intervento di June aveva affrettato le cose.
Il primo ostacolo poteva non essere distante.
- Sì, buona idea - approvò rapidamente Michael - Siamo rimasti davvero in pochi. A differenza delle altre volte, elencare gli alibi potrebbe rivelarsi efficace -
Calò un breve silenzio. Michael e June notarono con una nota di disappunto che l'idea, per quanto fosse sensata, stava lasciando gli altri quattro a riflettere.
Il chimico non mancò di prendere nota della cosa prima di offrirsi volontario.
- ...comincio io. Stiamo cercando di capire dove eravamo tra le nove e le undici e mezza, circa... - disse - Io e June siamo stati assieme quasi tutta la mattina, credo fin dalle otto. Eravamo ancora assieme quando è partito l'annuncio di Monokuma -
L'arciera alzò l'indice per confermare.
- Sì, ho controllato personalmente. Erano le otto - asserì lei.
- In pratica, potete verificare vicendevolmente i vostri alibi... - annuì Xavier - Ma sono curioso. Cosa stavate facendo in tutto quel tempo? E perché così presto? -
Michael e June si scambiarono un'occhiata.
- Eravamo intenti a ripulire l'infermeria. Ieri non ne abbiamo avuto né il tempo né le forze - raccontò Michael.
- Dopo aver messo tutto a posto, Michael ha voluto riesaminare l'esperimento - sospirò June - Così abbiamo passato ore intere in quel laboratorio improvvisato in infermeria... -
- Non parlarne come se fosse una faccenda triviale! - la rimproverò Michael - Era di vitale importanza! -
June brontolò qualcosa a bassa voce e lasciò perdere, essendo poco incline al litigio.
- Avete parlato di esperimento, giusto? - chiese Judith, interessata - Che cosa avete combinato, ieri? -
- Un prodotto chimico di mia invenzione. Un potentissimo sedativo che annulla le funzioni cerebrali mettendole a riposo, provocando uno stato di perfetta morte apparente -
Il tono di Michael era ricolmo di un certo orgoglio, ma i compagni non poterono fare a meno di storcere vagamente il naso.
- Una sostanza piuttosto estrema... - commentò Pierce.
- E perché tutto questo? - continuò l'Ultimate Lawyer - Cosa volevi farne? -
- Un'arma per difendermi, per dirlo in modo schietto - annuì Michael - Sarebbe potuta tornare molto utile in più di un modo -
- Non è un po' troppo pericolosa? - aggiunse Pearl - Basterebbe poco per uccidere qualcuno per errore, no? "Un'arma difensiva" avrebbe potuto portarti a doverti nascondere da noi, Michael -
- Bah! Non sottovalutarmi! Sto lavorando a questo prodotto da parecchio prima di venire qui, in questo buco infernale! - sbottò lui - Era il soggetto di una ricerca che stavo conducendo per altri scopi. Si è semplicemente rivelato utile in modo inaspettato -
- Fatico a trovare altri modi per sfruttare qualcosa del genere, sarò franco - ammise Xavier.
- Forse perché non riesci a vedere il quadro complessivo della cosa. Il poter tenere qualcuno perfettamente immobile e insensibile può essere utilizzato in mille ambiti diversi, dal punto di vista militare a quello medico. La scienza ricopre ogni settore della nostra vita, dopotutto -
- Punto a tuo favore, Mike. Allora mi permetto di porti un ultimo quesito - continuò il detective - Come mai hai deciso di coinvolgere alcuni di noi nel tuo esperimento? E' risaputo che sei un lupo solitario e non ti fidi di nessuno. Quindi, perché? -
Michael lo squadrò con volto torvo.
- Ho i miei limiti quando lavoro da solo. Quando conducevo esperimenti al laboratorio di mio padre ero solito farmi aiutare da alcuni colleghi - rispose - Avevo bisogno di braccia, così mi sono fatto aiutare. Prendendo le dovute precauzioni, si intende -
- Confermo... le sue norme di sicurezza erano asfissianti... - brontolò June.
- Asfissianti quanto necessarie! -
- Ma June non è stata l'unica a darti una mano, no? - riprese Pearl - Anche Pierce era con voi -
Il piccolo sarto alzò timidamente la mano.
- P-più per errore che per altro... -
- Pierce è capitato in infermeria ieri, mentre tornava dal bagno del secondo piano - disse June, andando a memoria - Michael gli ha praticamente imposto di restare, così è rimasto a sorbirsi le sue angherie per diverse ore -
Pearl sembrò soddisfatta della risposta. Si rivolse a Pierce un'ultima volta.
- Pierce, confermi questa versione? -
- Sì, è tutto come hanno detto. Non ho compreso molto di ciò che Mike stava facendo, ma mi ha chiesto di fare principalmente lavori manuali -
- E questo è quanto avvenuto ieri. Che mi dici di stamattina? -
Pierce incrociò le braccia, tentando di ricordare. Aggrottò le sopracciglia, sforzandosi.
- ...dunque, stamattina sono stato brevemente con June e Michael. Erano le otto e quaranta del mattino, mi pare - raccontò il sarto - Michael ci ha chiesto di recarci lì presto per aiutarlo a ripulire l'infermeria. Ieri eravamo troppo stanchi per farlo. Lui e June sono rimasti lì, mentre a me è stato richiesto di sbarazzarmi dei rifiuti. Si erano accumulati -
- E poi che hai fatto? - lo incitò Xavier.
- Ho semplicemente obbedito. Ero piuttosto stanco dal giorno prima, ma non volevo sorbirmi l'ira di Mike, così... - Pierce preferì evitare quella parte - Comunque ho dovuto portare un paio di scatoloni fino al primo piano, al deposito imballaggio rifiuti. Ho fatto due viaggi, quindi ci ho messo un po' di più -
- Sì, Pierce è tornato un momento in infermeria a prendere l'altro scatolone e poi è andato subito via - confermò June.
- Gli ho detto che sarebbe potuto andare a riposarsi e che la sua presenza non era più necessaria - concluse Michael - Dopo quel momento, lo ho rivisto solo dopo l'annuncio -
La situazione pareva essere chiara. Xavier volle però essere sicuro di un dettaglio.
- A che ora è avvenuto? Voglio dire: in quale orario avete visto Pierce per l'ultima volta? - chiese.
- Erano circa le nove meno dieci. Forse meno cinque -
- In pratica, a quell'ora Karol doveva essere ancora vivo - osservò Pearl - Dobbiamo chiarire una finestra di tempo differente, Pierce. Cosa hai fatto subito dopo? -
- Ah, b-beh...! - incespicò lui - Sono tornato al deposito rifiuti, e di lì a poco ho incontrato Xavier. Le ore successive le ho passate in sua compagnia -
Gli occhi di tutti vennero puntati verso il detective.
- E' vero ciò che dice, Xavier? - chiese Michael.
- Lo confermo. Io e Pierce siamo stati assieme per più di due ore - 
- E che cosa è accaduto in quel frangente? - domandò Judith.
Fu Pierce a riprendere la parola.
- Beh, Xavier mi ha invitato a prendere una bevanda calda al ristorante... - annuì l'Ultimate Sewer - E' stato un po' improvviso, ma non avevo più nulla da fare. Ho accettato -
- E così siete andati assieme al ristorante, eh? - June si grattò il mento.
- E' esatto... - poi, il volto di Pierce Lesdar parve quasi illuminarsi - ...ah! Quasi dimenticavo. Poco prima che arrivasse Xavier ho incrociato Pearl. E' stato un brevissimo saluto -
La ninja spalancò vagamente gli occhi, come se se lo fosse appena ricordato.
- Oh... sì, lo rammento - disse la bionda - Me ne sono andata via poco dopo. Niente da dire al riguardo -
- Ok, allora direi che l'alibi di Pierce regge - proseguì Judith - Xavier, tu sei stato con lui tutto il tempo. Giusto? -
- Giusto. Mi sono svegliato presto e sono andato a gettare dei rifiuti al deposito - annuì - Lì ho incontrato Pierce e gli ho proposto di unirsi a me in una cioccolata calda -
- E a che scopo? Se posso permettermi, è una richiesta un po' sospetta... - Michael Schwarz non mancò di esprimere i propri dubbi.
- Nessun fine segreto o nascosto. Una semplice conversazione amichevole. Dovresti provarci anche tu, Mike - lo schernì lui, facendo spallucce - Abbiamo parlato del più e del meno, ma il motivo del nostro confronto trascende l'utilità di questa discussione. Il nostro alibi regge -
Xavier si voltò verso Pierce come per chiedere una conferma visiva.
Si sorprese nel vedere che il compagno aveva volutamente voltato lo sguardo altrove, come per evitare di entrare a contatto col suo occhio.
Come se stesse cercando di non rispondergli.
- ...sì, direi che siamo a posto - fece Pierce.
Xavier si limitò ad annuire, pur domandandosi a cosa fosse dovuto quel comportamento inusuale.
Dovette fare i conti, inoltre, anche con un Michael Schwarz che non accennava a smettere di fissarlo con fare palesemente sospettoso.
Il detective fu in grado di capire almeno quello a cosa fosse dovuto; ma era una questione da affrontare in un secondo momento.
- Non hai altro da aggiungere in merito ai tuoi spostamenti, Xavier? - domandò infine Pearl.
Il detective fece finta di tentare di ricordare. Aveva ponderato a fondo sul come affrontare quella eventuale domanda: era probabile che una menzogna ben congegnata
avrebbe potuto aiutare la sua causa. Sapeva che Judith non possedeva alcun alibi, e il potergliene costruire uno fasullo avrebbe potuto far guadagnare loro tempo.
Il volto perfettamente neutro dell'Ultimate Lawyer tradì, in maniera invisibile, una sorta di aspettativa.
Ma entrambi sapevano bene che ciò era impossibile. Un dettaglio cruciale avrebbe prevenuto qualunque tentativo di inventare una storia credibile.
"Pierce... è stato con me tutto il tempo" pensò Xavier "Se provo a mentire su ciò che ho visto o fatto, mi scoprirà subito"
- No, credo sia tutto ciò che ho da dire -
- Ottimo. Passiamo a Judith, allora - propose Pearl - Che cosa ci puoi dire? -
L'avvocatessa mostrò un'espressione di finta tranquillità mentre ingoiava un pesante grumo di saliva.
- ...non molto. Non credo di poter fornire un alibi - disse - Sono rimasta in camera mia tutto il tempo. Ho raggiunto l'aula solo dopo l'annuncio -
Il cuore di Xavier saltò un paio di battiti. Era come l'essersi esposti al fuoco nemico senza alcuna protezione.
Jefferson intravide nel volto di Judith tutto l'incredibile peso che quella scommessa aveva messo in palio.
"...il rischio è altissimo! Sarebbe bastato che anche uno solo di loro la avesse intravista, anche solo per sbaglio, ed è finita!" si asciugò del sudore "Sei certa di ciò che fai, Judith!?"
- Tutto il tempo nella tua stanza...? - chiese Michael.
- Sì... mi sono svegliata tardi, e non avevo voglia di uscire. Non ho nemmeno fatto colazione -
- Mi sembra sensato - intervenne improvvisamente Xavier, forte della propria strategia - Dopotutto, io e Pierce siamo rimasti al ristorante di fronte ai piazzali per tutto il tempo. Se fosse passata di lì la avremmo vista -
Pierce annuì, ma senza troppa convinzione.
- Sì, immagino tu abbia ragione... - ammise il sarto.
- Bah! Ci sono parecchi modi per passare davanti al ristorante senza farsi vedere! - obiettò Michael, col solito fare burbero - Non basta certo dire che non la avete vista per confermare che non sia passata di lì sgattaiolando -
- Beh, l'assenza di un alibi è di per sé un dato da tenere in considerazione, suppongo... - ammise June.
Judith sospirò, socchiudendo gli occhi, facendo cenno di non poter ribattere.
- Rimane solo Pearl - Xavier passò prontamente al discorso successivo - Che ci racconti? -
La ninja esitò per un istante, come per ricordare qualcosa.
- Mmh... dopo aver visto Pierce sono rimasta per conto mio per tutto il tempo - disse lei - Ho vagabondato in giro senza meta, come faccio di solito. Mi sono fermata per un po' alla serra, ma non posso dimostrarlo. No, temo di non avere un alibi, ma non mi sono mai avvicinata all'aula -
La sezione preliminare del processo era giunta al termine con l'ultima verifica. Un quadro generale degli avvenimenti era stato chiarito, e i primi dubbi iniziavano a sorgere spontanei.
- ...beh, credo che la situazione sia palese - constatò Michael - Abbiamo quattro persone con un alibi di ferro per l'orario del delitto, e due senza alcuna copertura -
Judith corrugò la fronte, sentendosi pressata all'istante.
- Io e Pearl, eh...? -
- Una di loro due...? - mormorò June - Stando ai fatti... l'assassina è una tra Judith e Pearl? -
- E' ancora troppo presto per dirlo, ma... - Xavier non trovò modo di confutare quanto detto - Ci è impossibile definire un colpevole solo con gli alibi. Dobbiamo rivolgerci agli elementi concreti: le prove -
- Senz'altro, ma almeno sappiamo chi dobbiamo tenere d'occhio - perseverò Michael - Non vi sono molti dubbi: una tra loro due deve aver ucciso Karol. Noi quattro siamo sempre stati in compagnia. E' perfettamente logico, quasi ovvio -
Xavier si voltò istintivamente verso Judith. La compagna non sembrava accennare a far crollare la propria facciata di tranquillità fittizia, ma conoscendo la situazione era chiaro che non fosse tutto a posto. Judith Flourish stava tremando internamente, osservando l'inesorabile scorrere dei suoi secondi contati.
Un'altra reazione non gli sfuggì: quella di Pearl Crowngale.
L'Ultimate Ninja non sembrava aver reagito bene all'accusa; fissò intensamente Michael, come nel tentativo di intimorirlo.
Xavier la osservò contorcere vagamente il braccio, come per frenare una qualche sorta di rabbia.
Già quel dettaglio gli apparì inconsueto, trattandosi di Pearl. Il detective si chiese se la ninja non stesse semplicemente manifestando un disprezzo latente nei confronti di Michael e delle sue accuse tempestive.
In fin dei conti, Xavier Jefferson conosceva la triste verità.
- ...allora non ci resta che dimostrare i fatti in modo pratico - sbottò Pearl, irritata - Se davvero le cose stanno come dici, allora credo che il colpevole sia ben chiaro -
Judith rimase esterrefatta.
- N-niente è "ben chiaro"! - replicò l'Ultimate Lawyer - C'è ancora una lunga discussione da affrontare prima di arrivare alla verità! -
- Non litigate così, vi scongiuro... - le implorò Pierce, avvertendo la tensione crescente - Atteniamoci ai fatti, va bene...? -
- Pierce ha ragione: dovremmo tenere in considerazione le prove rinvenute ed analizzarle con cura, come già detto - affermò Michael - Solo allora potremo avere un quadro chiaro della situazione -
Tra le due contendenti vi fu una breve contesa visiva; nessuna sembrava essere intenzionata a cedere.
Xavier vide quanto rapidamente la situazione stesse degenerando e fece in modo da cambiare rapidamente discorso.
Quel poco di tempo a disposizione andava sfruttato al meglio delle sue possibilità.
- Concentriamoci sugli indizi, allora - disse sbrigativamente - Quali sono le tracce che possono costituire un filo logico sensato? -
- Oh! Forse l'arma del delitto? - optò June - Ammetto di avere un sacco di domande al riguardo -
- Intendi il mappamondo... - mormorò Judith - Sì, inutile dire che si tratti di un'arma alquanto strana -
- Non è tanto il fatto di averlo usato. In realtà c'è un dettaglio davvero insolito che circonda questo avvenimento - osservò Pearl.
- Che cosa intendi? -
La bionda riordinò brevemente i pensieri.
- Il mappamondo è piuttosto pesante, quindi adatto ad essere un'arma contundente. Ma è un oggetto che si trovava in classe fin dal principio, ciò vuol dire che l'assassinio di Karol... non era premeditato. Un'arma troppo ingombrante da trasportare e presa sul posto. Fino a qui mi seguite? - si guardò attorno, ricevendo assensi da tutti i presenti - Adesso... se davvero il delitto non è stato pianificato in anticipo, perché c'era un coltello sul luogo del delitto? E perché l'assassino non ha scelto di usare quello? -
Xavier si massaggiò il mento, dando l'impressione di meditare su quanto appena detto.
Vi erano numerosi dettagli della scena del crimine che risultavano fuori posto con la storia di Judith, ma quello non rientrava nella categoria.
Per quanto assurdo potesse sembrare, Xavier dovette dare per scontato che il coltello apparteneva in realtà all'Ultimate Teacher.
Ancora impossibilitato a comprendere come utilizzare quella informazione a proprio vantaggio, osservò lo scorrere degli eventi.
In particolare, Michael Schwarz sembrava voler dire qualcosa.
- ...il coltello era uno strumento dell'infermeria, ma per quanto ne sappiamo potrebbe essere stato preso parecchi giorni fa - disse il chimico - Io, personalmente, non
ho fatto caso alla sua presenza o assenza durante l'esperimento -
- Certo che è bizzarro - commentò Pierce - Come mai, innanzitutto, c'era un coltello in infermeria? Non è un dettaglio strano di suo? -
- No, se consideriamo le circostanze in cui ci troviamo - fece Xavier - Ricordate la nostra prima indagine, più di un mese fa? Rickard e Vivian trovarono un'arma simile nel laboratorio musicale. E' chiaro che si tratta di un altro espediente che Monokuma ha impostato per spingerci ad uccidere -
- Forse sì. Ma credo che non sia questo il caso - disse improvvisamente Judith.
- Cosa intendi? -
Judith indicò come la forma affusolata della lama tradisse, in realtà, la sua provenienza effettiva. Uno sguardo più attento rivelò un dettaglio fondamentale.
- Non è un semplice coltello. E' un bisturi, una lama ampiamente utilizzata in ambito medico - asserì l'avvocatessa - Se pensiamo a ciò, allora possiamo dire con certezza
che proviene dall'infermeria -
- Ah, quindi è stato preso da lì...! Chiunque lo abbia preso deve essere passato dall'infermeria, no? - fece June, vagamente assorta nel proprio ragionamento.
- E credo anche di sapere chi è stato... -
Fu Pearl a parlare; la sua voce si stagliò fino al banco più in fondo al suo, dove Xavier inarcò le sopracciglia.
La confidenza del tono di Pearl gli procurarono una notevole apprensione.
- ...sai chi ha preso il bisturi? - domandò Xavier.
- Sì. O, almeno, lo ho intuito a rigor di logica -
- Basta perdere tempo! Diccelo! - la incitò nervosamente Michael.
Pearl Crowngale si bagnò le labbra, assicurandosi che tutti la stessero ascoltando.
- ...ecco cosa credo - disse, infine - Ad aver messo le mani sul coltello... è stato Karol -
Il cuore di Judith palpitò sensibilmente.
- ...Karol? Il Prof!? - esclamò June Harrier - Ma che vai dicendo!? -
- Mi ricollego al discorso che abbiamo fatto prima - spiegò Pearl - Se l'assassino ha scelto di uccidere Karol con il mappamondo invece di usare il coltello, allora le opzioni che possiamo considerare sono davvero poche. Quel globo terrestre è pesante, e Karol è stato colpito da davanti: tutto ciò ci porta a pensare che il conflitto tra i due sia stato diretto. Ma un'arma simile sarebbe difficile da maneggiare, e sarebbe bastato mancare il bersaglio anche di poco per non infliggere danni letali, salvo poi subire il contrattacco di Karol. Il bisturi sarebbe stato molto più sicuro ed efficace. Perché, allora, non usare il coltello? -
- ...perché non era un'opzione... - Michael le concluse la frase - Perché il coltello non era in mano all'assassino, ma in mano a Karol. E' questo che stai dicendo? -
- Esattamente - sospirò Pearl - Non vi è spiegazione migliore, a mio dire -
Xavier tentennò per un istante.
- Possiamo... affermarlo con certezza? - chiese Pierce.
- Beh, potremmo chiedere il parere ad un esperto. Come il nostro Ultimate Detective, ad esempio - suggerì Pearl - Cosa ne dici, Xavier? Ti sembra sensato? -
Jefferson non riuscì a non avvertire una vena di sfida nel suo tono, ma rimase composto senza cedere ad una banale provocazione.
- Sì, è coerente con le prove - annuì lui - Ciò a cosa ci porta, però? -
- Beh, questo ribalta un po' le carte in tavola... - mormorò Pierce, ancora interdetto - Se il coltello era in possesso di Karol e l'omicidio non era premeditato dall'assassino... -
- ...allora il piano originale prevedeva che Karol uccidesse il colpevole! - esclamò June, non credendo alle proprie parole.
Passarono alcuni istanti in cui la classe dovette fare fronte a quella nuova eventualità.
- Tutto torna... - sibilò Michael - Karol era, in realtà, il vero artefice del delitto. Ma il suo piano gli si è ritorto contro -
- Karol...? Voleva uccidere qualcuno...? - il tono di Judith era dimesso e distaccato.
- U-un momento...! - lo interruppe June - Siamo davvero certi di poter accettare una versione simile!? S-stiamo comunque parlando del Prof! Si è battuto fino all'ultimo per...! -
Un'occhiataccia di Michael le penetrò la retina.
L'arciera si ritrovò ammutolita al solo incrociargli lo sguardo.
- June, ancora con questa folle ingenuità!? - la accusò il chimico.
- Temo di dovergli dare ragione, stavolta - osservò Xavier - Questo luogo saprebbe tirare fuori il peggio da chiunque. Persino una persona stoica e leale come Karol può finire per impazzire e tentare di uccidere qualcuno... per quanto difficile e amaro possa essere il pensiero, dobbiamo considerarlo -
Pierce mostrò chiari segni di voler spalleggiare June, ma l'evidenza era troppo forte per essere contrastata. L'Ultimate Sewer si limitò ad assistere in silenzio.
- Quindi... Karol voleva seriamente uccidere uno di noi... - sospirò Judith - ...e quel qualcuno lo ha ucciso -
- Vuol dire che... uno dei presenti è stato attaccato da Karol? E lo ha ucciso per... difendersi...? - la voce di June tremò.
- Che sia autodifesa, rimane pur sempre un omicidio. Le regole di questo inferno sono estremamente chiare - brontolò Pearl.
- Già, rimane pur sempre un delitto... - il tono di Xavier era stanco - Ma ancora non ci siamo avvicinati alla soluzione -
- Ne sei certo? -
Ancora una volta, la voce di uno studente calamitò l'attenzione con una singola frase.
Michael Schwarz si sistemò gli occhiali sulla sommità del naso, pulendosi le lenti con un panno. Nonostante il gesto, la sua espressione era tetra.
- Hai un'idea, Mike? - Xavier lo mise istantaneamente alla prova.
- Mi è appena venuto in mente un dettaglio peculiare - annuì il chimico - Karol era effettivamente una persona integerrima, ma ultimamente aveva dato segni di squilibrio. Si è rintanato in un luogo solitario, senza vedere né sentire nessuno. L'ultima volta che lo abbiamo effettivamente avvistato è stato appena dopo l'esecuzione di Kevin,  prima di tornare alle nostre stanze -
- Sì, lo rammento bene - annuì Judith - Dopo quel giorno, Karol ha iniziato ad essere estremamente scostante. Abbiamo deciso di lasciargli tempo e spazio per riflettere, ma mi chiedo se sia stata una buona idea, in fin dei conti... -
- Inutile piangere sul latte versato. Ciò su cui dovremmo concentrarci è... la frase con cui Karol si è congedato quel giorno - proseguì Schwarz - La rammentate? -
Fu necessario uno sforzo di memoria, ma il ricordo riaffiorò senza ostacoli.
Xavier riuscì a collegare il discorso di Karol all'espressione cupa e rabbuiata che aveva quel fatidico giorno, in cui erano morte ben cinque persone.
- Sì... era intenzionato a stanare il traditore, se non ricordo male - disse Xavier - Sembrava parecchio determinato -
- Forse anche troppo, viste le circostanze - commentò Pearl.
- Ma ciò dovrebbe farci pensare, ragazzi - li imbeccò Michael - Karol ci lascia con quella frase. Giorni dopo, tenta di uccidere qualcuno. Non vi fa... riflettere? -
Gli altri cinque rimasero basiti di fronte a quella rivelazione.
Pur prendendo inizialmente quelle parole con estrema cautela, il sospetto iniziò a manifestarsi in modo sempre più tangibile, fino a divenire un tremendo presagio.
- No... credi davvero...? - balbettò Pierce - Non può essere! -
- Eppure è estremamente probabile, non trovate? - continuò il chimico, imperterrito - Se tutto combacia, avremmo anche dato un senso al come mai uno come Karol sia  ammattito così di punto in bianco. Aveva un piano ben preciso, in mente... e non avrete mica dimenticato quell'enorme messaggio sulla lavagna, no? -
- No, no di certo... - gemette Judith - Ed è quindi plausibile dire che quella scritta è stata creata da... Karol? -
Nessuno ebbe il coraggio di esprimere a parole il concetto.
Forse troppo aspro, forse perché estremamente conveniente, e in un altro caso poiché era semplicemente assurdo anche solo ponderarlo.
Toccò a Xavier l'ingrato compito, tacitamente affidatogli, di esporre quella deduzione.
Ma, seppure convincendosi della sua sensatezza, non riusciva a trovare nemmeno un briciolo di veridicità.
Xavier Jefferson si ritrovò nella scomoda situazione di dover dubitare, ancora una volta, di tutto ciò in cui credeva.
Tra la verità e i sentimenti poteva esserci un unico vincitore.
- ...ci sono elevate possibilità che il colpevole di questo caso... - deglutì - ...sia il traditore -




Contemplando quella nuova possibilità in mezzo al vortice di pensieri e dubbi che dirompevano nella sua mente, Xavier avvertì l'improvviso impulso di richiedere conferma.
Attese il momento giusto in modo da non dare nell'occhio; Michael e Pearl avevano socchiuso gli occhi, velando ciò che stavano pensando agli sguardi indiscreti dei compagni più spaesati. Pierce e June si erano semplicemente ammutoliti, attendendo lo svolgersi di quel breve ma pesante silenzio devoluto alla riflessione.
Fu in quell'attimo fugace, mentre nessuno guardava, che la singola pupilla dell'Ultimate Detective viaggiò fino ad incontrare gli occhi di Judith Flourish.
I due sembravano essersi voltati nello stesso istante.
Il volto della ragazza era vagamente impallidito; non riusciva a non credere che un seme di dubbio fosse germogliato in Xavier dopo l'ultima supposizione messa agli atti.
Con un rapido, impercettibile cenno tentò di inviargli un messaggio, una missiva mentale che solo loro potevano intravedere.
Xavier osservò tutta la disperazione nel suo sguardo; si voltò di scatto in avanti.
"...non è possibile
Incrociò le braccia, tenendosi il mento con l'indice. Avvertì la propria mano tremare a contatto con il braccio.
La nascose immediatamente sotto il banco, sperando che nessuno avesse notato quanto disagio stesse provando in quell'istante.
Si pulì i palmi dal sudore, facendo di tutto per ricomporsi.
"Judith... non può essere la traditrice..." continuò a ripetersi mentalmente "Non avrebbe avuto senso, da parte sua, confessarmi l'omicidio di Karol..."
Verità e menzogna si mescolarono, amalgamandosi in riflessioni confuse e prive di un filo logico.
Pur estraniando sensazioni soggettive e intuizioni nate dalla fiducia, il risultato era sempre incomprensibile.
Xavier Jefferson si ritrovò nella complicata situazione di non sapere più a cosa credere.
"...che sia solo una strategia psicologica...? No, è assurdo... ma potrebbe anche... no, non lei. Non è da lei, ma al contempo come posso esserne certo...?"
- Quindi... -
Il volto di Xavier si contrasse. Qualcuno aveva parlato, interrompendo il suo flusso scomposto di ansia e perplessità.
Era stata Pearl a reintrodurre l'argomento dopo quella breve pausa di riflessione generale.
- Abbiamo tra le mani l'ultimo caso, probabilmente... - asserì la bionda. Gli occhi di ghiaccio erano illuminati da una strana luce.
- L'ultimo... - ripeté June, come incantata - Se l'assassino è davvero il traditore... allora se lo troviamo possiamo... uscire da qui...? -
- Sembra troppo bello per essere vero... - mormorò Pierce.
- Il sarto ha ragione, non lasciamoci prendere dalla tensione proprio ora - aggiunse Michael - Sapremo se abbiamo ragione a fine processo. Il nostro obiettivo è, innanzitutto, quello di individuare l'assassino di Karol -
- Sì... che sia correlato al traditore è ancora una mera ipotesi - annuì Judith - Ma al contempo potrebbe risultare un fattore fondamentale -
- "Fondamentale", dici? Perché? - domandò June.
- Pensiamoci: è possibile trovare l'assassino partendo dal presupposto che sia il traditore? - fece notare l'Ultimate Lawyer - Magari i due hanno dei tratti in comune che possiamo dedurre -
Xavier era rimasto stupito da come Judith fosse riuscita a parlare indirettamente di sé mantenendo un'espressione talmente seria ed impeccabile.
Al contempo, denotò che quel discorso aveva una seconda funzione. Una più nascosta, celata.
Gli sembrò quasi come se Judith lo stesse pregando di seguire quel sentiero logico perché sapeva che la risposta sarebbe stata errata.
"...vuoi farmi capire che l'assassina non è la traditrice, Judith...?"
Xavier tossicchiò, pulendosi la gola.
- In pratica, se troviamo dei punti di contatto tra ciò che potrebbe essere l'assassino e ciò che costituisce l'identità del traditore, potremmo andare per esclusione - commentò
Xavier, vagamente interdetto - Facile a dirsi, ma vale la pena fare un tentativo -
- Bah! Mi sembra un piano assurdo... - sentenziò Michael - Dopotutto non abbiamo la minima idea di chi sia il traditore! Tutto ciò che abbiamo sono informazioni sull'assassino! -
- Sono convinta che nel corso del processo potrebbero saltare fuori alcune nozioni fondamentali che potremo riunire a questo filo conduttore - annuì Judith.
June fece schioccare le nocche rumorosamente.
- Beh, è complicato, ma potrebbe funzionare! - esultò - Questa coincidenza potrebbe essere ciò che ci serve per snocciolare il caso! -
- Ma da dove iniziamo? - domandò Pierce, ancora incerto - L'unico che aveva informazioni sul traditore era Karol... -
- Ci basterà ripercorrere i suoi movimenti e ciò che lo riguardava - June mostrò un sorriso confidenziale - Ci sarà pur qualcosa lasciato da Karol che ci può aiutare, no? -
- June ha ragione - la assecondò Xavier - E' probabile che Karol sia la chiave per risolvere questo caso. Concentriamoci sul trovare qualche traccia del suo operato; che ne dite? -
Il detective si guardò attorno: ricevette numerosi assensi.
Quella nuova pista stava gettando le basi per una indagine importante.
Inspirò profondamente, preparandosi mentalmente ai dibattiti a venire.
- ...non sarà necessario -
Il respiro quasi gli si mozzò a metà. Tentennando, si voltò di scatto alla propria sinistra.
Si rese conto in un attimo che tutti stavano fissando la stessa persona.
Pearl Crowngale aveva nuovamente calamitato l'attenzione.
Il suo sguardo penetrante fece scendere la temperatura dell'aula di alcuni gradi.
Vi era qualcosa, nel suo volto, che incuteva timore.
- ...prego? -
- Non sarà necessario. E' una pista inutile - commentò la ninja - Non troveremo nessun indizio, seguendola. Piuttosto, dovremmo concentrarci su alcuni indizi fondamentali che abbiamo... inavvertitamente tralasciato -
Xavier riuscì a vedere come le gambe di Judith stessero vagamente perdendo energia. Il suo volto, però, rimaneva imperscrutabile.
Un altro lato dell'Ultimate Lawyer che aveva sottovalutato, constatò lui.
- Poche storie, Pearl. Se hai qualcosa da dire, dillo - sbottò Michael, innervosendosi.
- E' presto detto - la ragazza puntò due dita verso l'alto - Ci sono due indizi che non abbiamo ancora tenuto in conto. Due indizi che potrebbero facilmente rivelarci l'identità dell'assassino -
- V-vuoi scherzare...!? - obiettò June Harrier, stizzita - E te li fai uscire solo adesso!? -
- C'è un motivo ben preciso. Ho realizzato la loro esistenza solo durante il processo, quando una certa informazione è venuta a galla -
Xavier deglutì profondamente. Aveva paura di chiederlo, ma sapeva di doverlo fare.
- Allora dicci, Pearl... - mormorò - Di che si tratta? -
Lei non se lo fece ripetere due volte. Inarcò le sopracciglia e prese a parlare.
- Prima di tutto ho bisogno di porre una domanda importante - cominciò - Dico a te, Pierce -
L'Ultimate Sewer scattò in punta di piedi.
- Eh...!? A me...? -
- L'annuncio del ritrovamento del cadavere viene emanato in modo che si possa udire in tutta la scuola, ed a tutto volume - asserì lei - Dimmi, tu dov'eri quando è stato mandato? -
Pierce si strinse nelle proprie spalle.
- Ero... al ristorante -
- Eri da solo? -
- Xavier se ne era appena andato... mi pare - annuì lui - Io credo di essermi addormentato, ma il segnale di Monokuma mi ha svegliato di soprassalto -
Pearl annuì. Nessuno, però, capiva dove stesse andando a parare.
- E dopo cosa hai fatto? - l'interrogatorio proseguì senza remore.
- Sono uscito in fretta e furia dal ristorante e sono corso verso il corridoio - asserì lui - Non sapevo dove andare, ma poi ho visto in lontananza June e Michael che correvano verso la classe e... beh, li ho seguiti -
Pearl parve soddisfatta.
- Ottimo, era ciò che volevo sapere -
- Ma ancora non sappiamo quali siano i due fantomatici "indizi vitali"... - sbuffò Michael.
- Oh, ci stavo giusto arrivando - proseguì Crowngale, imperterrita - Michael e June sono arrivati subito dopo di me, e Pierce per ultimo. Io sono giunta in aula per... terza -
Xavier ebbe una lieve fitta allo stomaco.
- Per terza... - mormorò lui a fatica.
- A questo punto mi pare scontato, ma Xavier e Judith erano i primi sulla scena... - Pearl inspirò - Strano, no? -
Un sentore si sbigottimento pervase la sala.
- Co-come...? - annaspò Judith.
- Judith, non avevi forse detto di essere rimasta in camera tua fino all'emissione dell'annuncio? - Pearl la squadrò, fulminandola con lo sguardo - Eppure sei arrivata lì immediatamente. Persino prima di Pierce, nonostante il ristorante sia più vicino all'aula rispetto ai dormitori... -
- He-hey...! Ha... ragione...? - balbettò June - N-no, un attimo... -
- Non pretenderai di accusarmi in questa maniera!? - ribatté Judith, mostrandosi indignata - C'è più di una strada che passa davanti al ristorante partendo dal piazzale! Pierce potrebbe semplicemente... non avermi visto! -
- Nonostante ciò hai impiegato una quantità di tempo notevolmente bassa per giungere a destinazione - sibilò la ninja.
- Ero già fuori dalla porta quando Monokuma ha emesso l'annuncio - ribatté lei, freddamente - Che abbia fatto prima di Pierce è perfettamente fattibile. Quanto a June e Michael, loro venivano direttamente dal secondo piano -
Judith avvertì, pur dopo essersi espressa in maniera concisa, la pesante tensione dovuta agli sguardi dei compagni.
June e Pierce stavano assistendo al dibattito con volti deformati dal terrore; persino Michael si ritrovò vagamente spiazzato da quei dubbi nei confronti di Judith.
Xavier, dal canto suo, rimase in silenzio nella propria impotenza.
L'Ultimate Lawyer non si diede per vinta.
- Tutto qui, Pearl? -
- No, affatto. Non avrai dimenticato il secondo indizio, spero? - rettificò.
- Per nulla -
- Allora andiamo al sodo senza troppi fronzoli. Ieri mattina io e te abbiamo conversato al ristorante... - raccontò la bionda - Una conversazione piacevole, devo dire. Ma non ho potuto fare a meno di origliare una certa frase che hai mormorato mentre me ne stavo andando. Oggi avevi pianificato di andare da Karol, non è così? -
Flourish avvertì un'altra fitta, stavolta al petto.
- ...devi aver preso un abbaglio - dichiarò lei.
- Tu dici? Bizzarro, considerando che avevate l'abitudine di incontrarvi tutte le mattine dei giorni pari da qui a diverse settimane fa -
Quella frase arrivò come in ritardo.
Le orecchie di Judith captarono qualcosa, ma fu un colpo talmente repentino che quasi non riuscì a rendersi conto di cosa fosse.
Sbarrò gli occhi, congelata.
Il suo rituale mattutino in compagnia dell'Ultimate Teacher era rimasto un incontro riservato che nessuno, in circostanze normali, si sarebbe mai preso la briga di scandire.
Eppure, di fronte a lei, quell'assurda eventualità si era appena manifestata.
- Cosa... hai detto...? - gemette lei, incredula.
- Lo ribadirò per ogni buon conto: tutte le mattine dei giorni pari, salvo pochissime eccezioni, tu e Karol tenevate un meeting strategico su come gestire i rapporti con il resto di noi - Pearl serrò le braccia - Mi sbaglio? -
- U-un momento...! - intervenne June - Puoi dimostrare che è avvenuto anche stamattina...? Non credo che... -
- June, ci terrei a ricordarti un dettaglio cruciale che Michael ci ha esposto durante il nostro secondo processo in questo buco infernale - disse, catturando in particolare l'attenzione dell'Ultimate Chemist - Questo non è un vero tribunale, e il voto lo si raggiunge a maggioranza. Talvolta una prova decisiva non serve se TUTTE quelle circostanziali puntano verso una sola persona. Nel caso di Hayley ha funzionato. Ora, Judith, se hai qualcosa da dire a tua difesa, dilla. Adesso -
Passarono alcuni secondi senza che nessuno dicesse nulla. Ad ogni momento, però, i dubbi crescevano in numero e in peso.
- Judith...? Dì qualcosa... - la implorò June - Ti prego... -
- Io... - l'avvocatessa si morse il labbro - T-troverò un modo per chiarire la situazione... m-ma... -
- Incredibile - il tono di Michael faceva trapelare scetticismo - Tra tutti, proprio tu. Sarò sincero, non me lo aspettavo -
- Non parlare come se f-fosse già incriminata...! - lo richiamò Pierce - Judith non si è ancora difesa... -
- Ma le considerazioni di Pearl sono perfettamente logiche, non vi pare? - perseverò il chimico - E poi abbiamo già stabilito gli alibi di tutti. Judith rientra perfettamente nella cerchia dei pochi individui che avrebbero potuto uccidere Karol. Le possibilità sono esigue -
- Lo chiariremo quando avremo ascoltato la sua versione dei fatti - asserì Xavier, troncando il discorso - Judith ha diritto a difendersi... e lo farà -
L'incitamento di Xavier non sembrò sortire l'effetto desiderato.
Il panico crescente iniziò ad avvolgere l'Ultimate Lawyer nelle proprie spire; il sentiero buio si era rivelato un vicolo cieco.
June quasi si sporse a causa della tensione, sperando con tutto il cuore che la compagna potesse, in qualche modo risollevarsi.
Pierce, a sua volta divorato dal dubbio, osservò la scena rimuginando attentamente.
Pearl e Michael non si scomposero, attendendo pazientemente il responso dell'avvocatessa. Era solo questione di tempo.
Xavier Jefferson, poco incline a lasciare che la situazione sfuggisse loro di mano in quella maniera, decise che era il momento di agire.
Tentò di dimenticare i dubbi provati poco prima in un ultimo, grande slancio di fiducia verso Judith.
"...è il momento di ribaltare il caso, di affrontare nuove prospettive. Quello, o Judith è spacciata..." si urlò mentalmente "Ma come...? Come? COME!?"
Aprì la bocca per darle fiato; qualunque cosa sarebbe andata bene pur di guadagnare tempo prezioso.
Ogni singolo, minuscolo dettaglio andava preso in considerazione.
La via da percorrere per svelare il traditore era ancora nascosta da un'impenetrabile coltre di nebbia.

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Capitolo 46
*** Capitolo 5 - Parte 8 ***


- ...solo un momento -
Il frenetico flusso di pensieri di Xavier si arrestò violentemente.
Ogni singola fibra del suo cervello era impegnata ad elaborare innumerevoli scuse ed espedienti per distogliere quanto più possibile l'attenzione da Judith.
Non si sarebbe mai aspettato che un'occasione si presentasse autonomamente proprio in quell'istante.
Nonostante tutti fossero concentrati sulla questione alla mano, con occhi puntati sull'Ultimate Lawyer, una vocina flebile si fece largo in mezzo alla calca.
Tutti si girarono all'unisono, colpiti da quell'improvvisa rottura dell'atmosfera.
Piece Lesdar aveva timidamente alzato la mano.
Nessuno fiatò; Pierce si guardò attorno come per accertarsi di essere stato ascoltato. Realizzandolo, la tensione non mancò a sopraggiungere.
Pearl lo fissò, stranita. L'Ultimate Sewer non aveva ancora aperto bocca, ma la sua espressione era insolita.
Per quanto la ninja fosse intenzionata a proseguire lungo l'interrogatorio di Judith, ebbe come la sensazione che si trattasse di qualcosa di importante.
Dall'altro lato, Judith riuscì a trovare una breve finestra di respiro.
Michael non mancò di evidenziare quanto gli sembrasse una perdita di tempo bella e buona con una smorfia infastidita, ma non proferì parola.
June e Xavier sperarono vivamente in un miracolo che li togliesse da quella orribile situazione.
- ...dicci pure, Pierce - lo invitò Xavier.
Il sarto si grattò nervosamente il dorso della mano.
- ...credo che siamo sulla pista errata - asserì lui - C'è un dettaglio... un particolare che non abbiamo tenuto in considerazione -
- Cosa...? - sibilò Pearl - Di che stai parlando? -
Xavier assistette a quell'improvvisato Deus Ex Machina che era appena giunto a fornirgli una scappatoia. Non mancò di approfittarne, scavalcando prontamente  l'interdizione mostrata da Pearl Crowngale.
- Di che cosa parli, Pierce? Spiegaci - perseverò Xavier.
- S-sì! Abbiamo mancato qualcosa? - lo appoggiò June.
- B-beh... non è esatto. E' piuttosto un elemento che non avevo considerato io, ma che potrebbe avere un impatto diverso alla luce delle nuove informazioni che abbiamo estrapolato dal contesto - si giustificò Pierce.
- Poche storie; va al punto - sbottò Michael.
Pierce si voltò rapidamente verso Judith; quest'ultima era visibilmente in ansia. La facciata di finta tranquillità stava venendo meno.
Il frammentarsi di quella pesante maschera stava divenendo più evidente.
L'Ultimate Sewer tirò un lungo sospiro.
- Ok, riconsideriamo un punto importante degli alibi - cominciò Pierce - Abbiamo detto che Karol è stato ucciso in una finestra temporale che va fino alle... undici e mezza, circa. Era difficile definire un orario perché il decesso era recente. Ciò significa che l'omicidio poteva essere avvenuto... beh, anche poco prima dell'annuncio, giusto? -
- E' esatto - confermò Michael - Per quanto quel "poco prima" sarebbe almeno una mezz'ora, direi -
- Bene, tutto torna - annuì lui - Dunque... c'è un dettaglio di ciò che è avvenuto stamattina che non ho menzionato... non ci avevo quasi neanche pensato, ma in realtà non lo ritenevo importante e lo ho tralasciato -
- E sarebbe? - Pearl stava chiaramente pendendo dalle sue labbra.
Pierce si morse il labbro inferiore con un movimento impercettibile.
- ...durante la mia conversazione con Xavier... mi sono addormentato - disse - Così, di botto. Probabilmente era dovuto alla stanchezza accumulata. E sono abbastanza  certo di essermi appisolato pochi minuti dopo le undici... -
Xavier alzò un sopracciglio. Quell'informazione era stranamente sospetta.
- Ti sei addormentato? - chiese June - Ammetto di non avere effettivamente capito la rilevanza della cosa... -
- E-ecco... il punto è che: al mio risveglio Xavier non c'era più... - mormorò - Mi sono svegliato col suono dell'annuncio, ma a quel punto era passato già diverso tempo... -
Un'improvvisa realizzazione colpì l'Ultimate Detective come un fulmine a ciel sereno. Avvertì una secchezza alle labbra.
- Cos...? Cosa!? - esclamò Xavier.
- I-in realtà... Xavier non ha esattamente un alibi per tutta la durata del mattino... - proseguì Pierce.
- Un momento... perché te lo fai uscire solo adesso? - il tono di Pearl era profondamente contrariato.
Pierce tentennò per un attimo.
- Durante l'ultima d-discussione... mi hai fatto notare che Judith e Xavier erano stati i primi ad arrivare... - disse lui - Certo, sospettare di Judith ha senso, ma... non credete che la presenza di Xavier fosse... inusuale? -
Xavier Jefferson rimase momentaneamente basito. 
- Pierce... ma cosa...? - poggiò istintivamente una mano sul banco - Ma che vai dicendo...!? Io...! -
- Xavier - lo bloccò Pierce Lesdar, mostrando un'espressione serissima - E' un qualcosa che non posso ignorare... spero potrai perdonarmi, ma ho bisogno di sapere se non sei davvero il responsabile di questo delitto... -
Una scintilla scoppiettò nei pensieri di Xavier; qualcosa si era come illuminato.
Quell'ultima frase, quelle parole di Pierce, avevano risvegliato un ricordo.
"Spero potrai perdonarmi...?" pensò Xavier "Pierce mi... ha già detto... questa cosa"
Accadde in una frazione di secondo. Xavier ricordò. 
Ricordò esattamente quella brevissima conversazione avvenuta con l'Ultimate Sewer verso la fine del viaggio in ascensore, appena prima di entrare in aula.
Ricordò i passi felpati dell'Ultimate Sewer, venuto a confidargli qualcosa senza scopo né significato, qualcosa che non aveva ancora assunto un senso concreto.
" ...potrei dover ricorrere... ad uno stratagemma forzato. Qualcosa che non ti piacerà, ma che potrebbe rivelarsi necessario... spero potrai perdonarmi"
Gli occhi dei due ragazzi si incontrarono: Xavier vide all'interno delle sue pupille qualcosa di simile ad una supplica.
"...lo ha capito. Pierce... ha capito tutto" realizzò il detective "Ha capito che Judith ha assassinato Karol; lo aveva intuito parecchio tempo fa. L'orario che ha appena fornito agli altri è falso; non mi sta davvero accusando...!"
Pierce gli mandò un ultimo cenno.
Xavier annuì.
"...mi sta guadagnando tempo!"
- Aah, tutto si spiega... - fece la voce di Michael - Mi stavo giusto domandando il significato di quella certa prova -
- A cosa ti riferisci, Mike? - sospirò Xavier - O davvero credi che questa fanfaronata di Pierce sia veritiera? -
- Lo vedremo, Xavier - sibilò il chimico - Spero tu non abbia dimenticato che, fin dal principio, sei stato il sospettato numero uno di questo caso! C'è un messaggio scritto col sangue sotto la mano di Karol, ricordi? E non vi sono dubbi che lo abbia scritto lui! -
Jefferson era già da tempo venuto a patti che non si sarebbe liberato facilmente di quel messaggio e che sarebbe venuto a tormentarlo durante il processo.
- Già... la scritta nascosta sotto il palmo - commentò June - Erano solo due lettere, però -
- Quello "Xav", intendi? Non sarà un po' forzato? - osservò Judith - Non è un nome completo, ma solo le iniziali. Sicuri che non voglia... significare qualcos'altro? -
- Piuttosto difficile - obiettò Pearl - Se è stato davvero Karol a scriverlo, allora deve necessariamente riferirsi al suo assassino. La "X", la "a" e la "v", e in quel dato ordine, non si riferiscono a nessun altro di noi. Chi altri ha una "X" nel nome o nel cognome? -
- Accidenti, Pearl. Fino a poco fa eri disperata di incolpare Judith, e adesso guardati - la provocò il detective.
- Come, prego? Ti infastidisce che Pierce abbia messo su un argomento più convincente e i sospetti siano ricaduti su di te? - Pearl lo fulminò sul posto - Farai meglio a non prendere con leggerezza la tua situazione, Xavier -
Il ragazzo sbuffò; inscenare la pantomima si stava rivelando complicato.
- Pierce ha posto un quesito sensato, sì. Ma ha tralasciato una cosetta -
- D-di che parli...? - 
- Pensateci: l'omicidio è avvenuto a causa dell'impatto con un corpo contundente, no? - spiegò Xavier - Non è ovvio ritenere che Karol sia morto sul colpo? -
- Sul colpo... capisco cosa vuoi dire - mormorò Judith - Il trauma deve essere stato forte. Karol potrebbe essere morto istantaneamente -
- E dubito che un cadavere abbia potuto lasciare un messaggio. Ergo: qualcuno ha cercato di incastrarmi - 
- Bah! Non correre troppo... - lo bloccò Michael, interrompendolo - Stiamo parlando di un colpo subito di lato, non piazzato sulla sommità del cranio. Letale, senz'altro, ma Karol è sicuramente deceduto qualche istante dopo essere stato colpito. Vi era tutto il tempo di lasciare un breve messaggio... -
Xavier avvertì un formicolio alle gambe. Non indietreggiò.
- E cosa ti rende talmente sicuro che sia stato lui stesso a lasciarlo? Potrebbe essere stato chiunque! -
- Le dita di Karol erano sporche del suo stesso sangue, no? - rispose Pearl - Ma il suddetto sangue era sparso solo intorno alla testa: come ci è finito sulla mano? -
- E inoltre... - aggiunse June - Il sangue non era da nessun'altra parte... e dubito che il colpevole abbia usato la mano di Karol per scriverlo... -
- P-perché lo escludi a priori...!? - Xavier era scandalizzato - E' quasi ovvio pensare che qualcuno abbia utilizzato il braccio del cadavere per lasciare una finta annotazione! -
- E allora perché la scritta era nascosta? - intervenne Michael - Se non avessimo spostato la mano, non la avremmo neanche notata. Mi vuoi dire che l'assassino la ha creata e poi... mimetizzata? Un piano peculiare quanto assurdo -
- ...è possibile che Karol vi abbia messo sopra la mano per impedire che... l'assassino la scoprisse? - fu il commento di Judith, che non sprizzava sicurezza da ogni poro.
- N-no... un momento... -
- Il che vuol dire che l'assassino è rimasto nei paraggi...? - osservò June - Forse Karol ha dovuto fare in questo modo perché il colpevole non se ne era andato immediatamente -
- E ciò dà consistenza all'idea che il colpevole sia una delle persone giunte per prime sulla scena - Pearl lo additò - Alla fine rientri sempre tu, Xavier -
L'Ultimate Detective si sentì morire internamente, ma non aveva intenzione di demordere.
Nonostante ciò, l'assestamento del caso non andava in suo favore.
All'improvviso, un altro aiuto inaspettato giunse a soccorrerlo.
- Aspettate un attimo...! - stavolta era Judith Flourish ad immischiarsi - Mi è sorto un dubbio considerevole -
Michael Schwarz si mostrò esterrefatto.
- Ah...? Proprio a te, Judith? - brontolò - Credevo che fossi propensa a seguire una linea di pensiero che ti scagiona, dico bene? -
- Discolparsi non significa tralasciare indizi significativi solo perché ci torna scomodo, Michael - lo rimproverò lei.
- Bah! Fa un po' come ti pare -
- Dicci, Judith. Cosa hai notato? - la incitò Pearl.
L'Ultimate Lawyer si schiarì la voce.
- Abbiamo stabilito l'eventualità che il colpevole fosse rimasto nei paraggi per brevissimo tempo, e soprattutto che non avesse notato la presenza della scritta nascosta sotto la mano -
- ...mh, sì. Fin qui tutto torna - annuì Pierce.
- Ma non è... strano? Voglio dire: c'era una scritta ben più evidente ed incriminante sulla scena: quella sulla lavagna! - esclamò - Perché il colpevole dovrebbe averla lasciata intonsa se era talmente incriminante? -
Il momento di incertezza che ne seguì fece inizialmente credere a Judith di aver estrapolato una pista rispettosamente sensata.
Le sue tenui speranze vennero incontrovertibilmente sradicate da un Michael Schwarz particolarmente aspro.
- ...tutto qui? E' piuttosto ovvio, se me lo chiedi -
- Non vi è nulla di ovvio, in questa faccenda...! - protestò lei - Se credi di aver trovato una spiegazione plausibile, illuminaci -
- Ha ragione; ammetto di non aver intravisto un senso ragionevole... - ammise June - Che cosa hai dedotto, Mike? -
Il chimico sospirò, come se la risposta fosse talmente ovvia da non meritare nemmeno una delucidazione.
- A volte la risposta corretta è la più semplice - disse - Karol si è semplicemente sbagliato -
L'Ultimate Lawyer si mostrò interdetta.
- Come... sarebbe a dire? Si è "sbagliato"!? -
- Pensaci: siamo partiti dal presupposto che Karol avesse intuito l'identità del traditore. Ha aggredito qualcuno, e quel qualcuno lo ha ucciso per difendersi; o almeno questo è il piano ipotetico che abbiamo costituito. Ma che prove abbiamo che Karol avesse effettivamente fatto centro? -
- Q-questo è vero... - sussurrò Pierce - Se l'assassino non ha cancellato la scritta, vuol dire che non la trovava incriminante -
- In pratica, l'assassino potrebbe non essere il traditore... - concluse Pearl - Ma stiamo divagando. A prescindere dalla validità di questo punto, ciò non ha niente a che vedere con Xavier. Le prove a suo carico non si sono di certo attenuate -
- Un attimo...! - 
Stavolta fu Xavier ad intromettersi prepotentemente nella discussione.
Il resto della classe tornò a concentrarsi su di lui; Judith avvertì una bruciante sconfitta.
- Xavier... hai qualcosa da dire...? - il tono di June sembrava supplichevole, come se lo scongiurasse di dar loro torto.
- ...Judith ha ragione: questo caso è troppo strano, ha troppi punti incongruenti! - disse lui - Abbiamo tirato su un discorso ipotetico senza basi concrete, andando principalmente per ipotesi. Numerose prove ancora non sono state spiegate; come possiamo raggiungere un verdetto in questo modo!? -
Pearl Crowngale incrociò le braccia; la sua espressione tradiva un'ombra di profondo dubbio.
- Abbiamo prove a sufficienza per stabilire un andamento plausibile dei fatti - asserì lei - Sono convinta che quanto abbiamo detto fino ad ora sia corretto: Karol ha tentato di uccidere qualcuno, e quel qualcuno lo ha eliminato nel tentare di proteggersi. Quali sono queste prove senza senso di cui parli? -
- Ad esempio... il flacone vuoto - disse, aggrappandosi ad ogni appiglio possibile - E' stata rinvenuta una fiaschetta vuota sulla scena del crimine; forse la stessa che ha usato Kevin. E' un elemento completamente fuori posto, no? Deve per forza essere correlata all'omicidio! -
- Bah! Ancora una volta stiamo riponendo la nostra attenzione su un dettaglio futile! - bofonchiò Michael - Dopo l'omicidio di Hillary, il flacone è stato lasciato nell'orto botanico, lì dove lo aveva custodito Kevin. Chiunque avrebbe potuto appropriarsene, quindi non è una prova che ci conduce da qualche parte -
- E non reputi che possa essere stato utilizzato nel delitto? - osservò Judith - Potrebbe avere un ruolo che non possiamo neppure immaginare -
- In effetti è sospetto... - aggiunse Pierce, dando loro corda - Forse potremmo dedicare del tempo a stabilire che parte ha giocato nella vicenda... -
Si creò un vuoto di silenzio.
La continua ed imperterrita insistenza aveva portato Pearl e Michael a zittirsi, contemplando i nuovi sviluppi.
Seppur grondante di sudore, Xavier fece di tutto per riuscire a mantenere il sangue freddo. 
Ma il suo intuito non stava mentendo: i compagni stavano lentamente mangiando la foglia.
"Non trovo nessuno sbocco... niente che possa aiutarmi a dedurre l'identità del traditore...!" Xavier strinse i pugni con rabbia "Di questo passo... potrei dover..."
- ...che strano -
A sorprendere tutti fu la voce di June Harrier.
L'Ultimate Archer si rese conto solo in seguito di aver pronunciato a voce alta quello che credeva essere un pensiero.
Ne seguì un momento di imbarazzo.
- A cosa ti riferisci? - chiese Judith.
- Ah...! Ecco... - balbettò lei - E' una strana sensazione... ho come l'impressione che questo processo sia diverso dagli altri -
- Tu dici? A me sembra lo stesso battibecco dove tutti dubitano di tutti - commento acidamente Michael.
- No, ti sbagli - il volto di June si fece serissimo - A differenza delle altre volte... -
La ragazza sembrò non voler concludere la frase.
Il sesto senso di Xavier gli suggerì che poteva trattarsi di un'arma a doppio taglio, ma fu comunque deciso a provarci.
- Parlaci, June. Che cosa ti sta dando da pensare? - chiese il detective.
Lei si decise finalmente ad esprimersi, ma apparve comunque un'azione sofferta.
- ...e' come se fossimo suddivisi in due -
- In... due? - ripeté Judith.
- Di solito lo ho sempre avvertito come un "tutti contro tutti", ma stavolta ho la sensazione che si siano venuti a creare due gruppi distinti in contrasto -
Pearl si massaggiò il mento.
- Comprendo cosa intendi; è come se vi fossero due sfere di influenza che tentano di sovrapporsi... - disse la ninja.
- C-che cosa... dovrebbe significare...? - chiese Pierce, anche se sapeva che la risposta non gli sarebbe piaciuta.
June prese, infine, il coraggio a due mani.
- Xavier, Judith, Pierce... - mormorò - Voi... ci state nascondendo qualcosa, vero? -
Passò un lunghissimo istante di panico.
I tre menzionati deglutirono quasi all'unisono. Era comune vedere June infervorarsi, ma più raro era il vederla talmente seria riguardante un proprio sospetto.
Il fatto che non stesse dando in escandescenze, memento dell'infelice confronto con Michael di pochi giorni prima, diede ancora più peso alla situazione.
Persino Pearl e Michael, riconoscendo la concretezza di quell'asserzione, decisero di lasciarla parlare.
- Cosa stai dicendo...? - fece Xavier - Noi tre staremmo... celando qualcosa? -
- Ho avuto questa sensazione... - gemette June - Avete tutti messo in campo argomenti validissimi, ma è stato strano. Xavier, sei sempre stato il più brillante del gruppo,  durante i processi. Non mi aspettavo niente di meglio dall'Ultimate Detective, ma nel corso dell'udienza non hai fatto altro che sviare l'attenzione verso dettagli più generici e meno rilevanti. Non... non è da te, ecco -
L'unica pupilla di Xavier Jefferson rimase paralizzata verso un punto fisso. Lo sguardo di June era severo, ma al contempo quasi triste.
Una mestizia dovuta al trovarsi obbligata ad accusare un compagno.
"Ha realizzato tutto questo... solo ascoltandomi...?"
- Come potresti aver dedotto qualcosa di simile? E' assurdo che... -
- Xavier, siamo rimasti in sei - lo bloccò June - Noi sei siamo qui fin dall'inizio, siamo i sopravvissuti. Abbiamo passato assieme un periodo di tempo di gran lunga maggiore rispetto agli altri. Credo... di aver imparato a conoscervi, oramai -
- Conoscerci...? - mormorò lui, stupefatto - Tu... tu non sai un bel niente di me... -
- Potrò non conoscere il tuo passato, ma ciò non vuol dire che sia completamente insensibile a ciò che provi! - lo additò lei - Io sono una persona empatica, e colgo certe sfumature! Ti stai comportando in modo strano, e vale anche per Judith e Pierce! Siamo compagni, no!? Dovremmo collaborare, ma...! -
- June... io non volevo che... - gemette Judith.
- Ancora con questa storia... - sospirò Michael - June, ti ostini a vedere degli amici in coloro che sono tuoi rivali. Quante volte dovrò ripetertelo? -
June Harrier sbatté con forza il piede sul pavimento del tribunale, zittendo in un istante anche il borioso Ultimate Chemist.
- Chi se ne importa! - strepitò lei - Ho passato più di un mese con voi superando le più orrende e macabre avversità della mia vita! Non riesco a non considerarvi... miei amici! S-sì, uno di noi è un assassino, ma... abbiamo già stabilito che è stato un omicidio per difendersi, no...? -
- Non importa. Chiunque sia stato sta mascherando la propria colpevolezza - osservò Pearl - E, così facendo, minaccia la nostra vita. E' un fatto inconfutabile -
- ...può essere - sospirò l'arciera - Ma io riesco comunque ad avvertirlo. C'è qualcosa che non mi convince in questa brutta storia. E, considerando che non possono esserci complici, è impossibile pensare che più di una persona abbia a che vedere con la morte del Prof... ma allora perché sento che in più d'uno stanno mentendo!? -
June Harrier dovette sforzarsi di mantenere all'interno le lacrime, ma gli occhi lucidi e il rossore delle gote tradirono quel suo attimo di debolezza.
Pierce Lesdar provò un'istintiva vergogna e abbassò lo sguardo.
- June... noi... - Judith pronunciò quelle parole con enorme difficoltà - Noi non... -
- Si tratta solo di un tuo sentore... senza fondamento - asserì improvvisamente Xavier.
Più di uno sguardo si rivolse verso il detective.
- Come...? - gemette l'arciera.
- Che ti prende, Xavier? - lo ammonì Pearl con un'occhiataccia.
Lui inspirò profondamente.
- Lo hai detto tu: non esistono collaborazioni negli omicidi - asserì - E' già difficile che due persone possano avere qualcosa da celare, ma addirittura tre? -
- Io... io credevo che... - singhiozzò l'arciera.
Il detective perseverò.
- E' semplicemente assurdo - sentenziò lui - Ciò che dovremmo fare adesso è... -
- Fermo lì, Xavier -
La mano del ragazzo si contrasse. Si voltò leggermente verso destra.
Pearl Crowngale lo stava fissando con estremo interesse.
Vi fu un rapido scontro visivo.
- Pearl? Cosa c'è? -
- Sai, June ha detto una cosa interessante - osservò lei - Una cosa che mi ha... dato da pensare -
Lui deglutì.
- Illuminaci, allora -
- June non ha tutti i torti quando dice che il rapporto tra noi sei è... "diverso" - continuò la bionda - Siamo giunti fino a questo punto scampando assieme alla morte. Alcuni del nostro gruppo hanno stabilito qualcosa di ben più di un semplice rapporto. Basti pensare a Lawrence e Vivian, e l'affetto per quest'ultima che provava Hillary. Chissà... che in qualche modo non si sia venuto a formare qualcosa di vagamente simile...? -
Le unghie di Xavier raschiarono il banco di legno. I palmi cominciarono a sudare copiosamente.
- Come...? Cosa!? - esclamò Michael, stizzito - Ho capito bene ciò che vuoi dire!? -
- Sì, credo di sì. Reputo veritiere le parole di June: il nostro rapporto potrebbe essersi pericolosamente approfondito - disse la ninja, con voce gelida - Non mi sorprenderebbe se qualcuno stesse, in qualche modo... cercando di proteggere qualcun altro senza un motivo specifico -
- Questo... questo è un tantino esagerato, n-non credete...? - si giustificò Pierce - D-dopotutto, chi metterebbe a repentaglio la propria vita per...? -
- E se le cose fossero diverse? - lo interruppe Pearl - Se il suddetto "complice" stesse difendendo l'assassino NON perché è intenzionato a farlo, ma per un mero atto di fede? Magari è semplicemente convinto che l'omicida sia innocente, a prescindere dalle prove. Il che mi porta a pensare ad un caso in particolare... -
"No, Pearl..." si urlò mentalmente Xavier "Non farlo, dannazione! Non dirlo!"
- P-Pearl, mi stai facendo paura... - gemette June - C-credi davvero che...? -
- Oh, sì. Mi hai aperto gli occhi, June; te ne sono grata - fece la bionda - Abbiamo già avuto a che fare con un caso similissimo, durante la nostra seconda visita al tribunale: una difesa pedissequamente eretta per difendere un'assassina per il solo fatto di aver creduto in lei. Ho l'impressione che sia un deja-vù -
- Pearl! - gridò Judith, inorridita - Che diavolo... che diavolo stai...!? -
Gli occhi di ghiaccio di Pearl Crowngale fecero raggelare l'intera stanza. Le orbite cristalline della ninja offuscarono ogni singola protesta.
Gli altri cinque non poterono che assistere in silenzio.
- Tagliamo corto, Judith. Ancora una volta sei convinta di star proteggendo un innocente, vero? Proprio come accadde con Hayley, ti fai accecare dai sentimenti - la accusò lei - E anche stavolta stai remando contro di noi insabbiando l'innegabile verità: l'assassino di Karol è Xavier -
Il tempo parve quasi andare a rallentatore, una volta pronunciate quelle parole.
Le voci degli altri cinque andarono a formare un miscuglio cacofonico senza né capo né coda.
Xavier si immerse in una profonda riflessione solitaria, in compagnia unicamente di se stesso.

"...siamo alla frutta. Non c'è più spazio per alcun dibattito.
Ho sottovalutato June e la sua capacità di comprensione.
Ho sottovalutato Pearl, il suo acume e la sua adattabilità.
Ho creduto davvero di potercela fare, con l'aiuto di Judith e Pierce.
Credevo di poter trovare il traditore, credevo di poter mettere la parola fine a questo incubo.
Credevo... di poter... salvare Judith.
Sono stato un idiota, non c'era alcuna pista che potesse portarmi a rivelare l'identità del traditore. Solo prove circostanziali.
Non è Judith a farsi accecare dalla speranza. Sono io.
E ora voteranno per me. Voteranno per me, e saremo tutti morti.
Tutti tranne... Judith? Si potrebbe definire un finale accettabile...? 
No.
No, non lo è. 
Lasciarla da sola, con questo fardello? Sarebbe come uccidere anche lei.
E io, dal canto mio, nemmeno voglio morire.
C'è solo un'unica cosa da fare. L'ultima.
Mi tremano le mani, le gambe, ogni muscolo si contorce. Il mio corpo si ribella a causa della paura, ma non ho altra scelta.
E' ora, o mai più. 
Devo tirare ad indovinare.
Uno di noi è il traditore; la morte di uno di noi può significare la salvezza di tutti.
Chi è...? Chi può essere? 
Michael? Pearl? Pierce? June? O... o addirittura...
E' davvero possibile che...?
"
- No -
Nel momento in cui Xavier tornò in sé, realizzò che era passato circa un minuto.
Tutto ciò che aveva udito era una determinata negazione.
Si voltò verso Pearl: quest'ultima apparve come stizzita.
- ...come, prego? - fece la ninja.
- Ho detto: No. Ti sbagli, Pearl -
L'Ultimate Lawyer si era stagliata contro le parole della bionda con una determinazione incrollabile.
Xavier osservò lo sguardo serio e profondo della ragazza, velato a metà da una ciocca di capelli corvini e un largo fermaglio floreale dal colore candido.
- Hai ancora intenzione di difendere Xavier...? - sbottò Michael, disgustato - Non hai imparato la lezione? -
- Credimi, la ho imparata eccome - sospirò Judith - Basta con questa assurda messinscena. Facciamola finita -
Il mondo sembrò crollare.
Xavier Jefferson prese aria con tutti i polmoni nell'istante in cui realizzò cosa stava per accadere.
- J-Judith...! -
- Xavier è innocente. E lo dimostra un fatto concreto -
- Judith! NO! SMETTILA! -
June e Pierce non osarono dire una parola. Forse rapiti dall'andamento del discorso, forse spaventati dall'improvviso scalpitare del detective, si trovarono inibiti a proferire parola.
Michael e Pearl si accodarono al silenzio, lasciando che l'Ultimate Lawyer si esprimesse.
Vi fu un ultimo, lampante segno di sforzo.
Judith Flourish superò ogni ostacolo emotivo, sganciandosi una pesantissima e gravosa zavorra dalla coscienza.
- La verità è una sola: Xavier non può averlo ucciso... -
- JUDITH! NO! NO! -
- Perché sono stata io -
In un attimo, il grido di Xavier perse energia fino a morire lentamente nella sua gola, oramai rinsecchita.
Udire quelle parole fu un rapido colpo di ghigliottina.
Quella speranza troppo forte che lo aveva fatto smarrire si spense in un singolo, rapidissimo istante; ne seguì solo il buio.
Nessuno fiatò; solo volti pallidi, confusi e spaventati fecero da contorno alla confessione.
Ancora una volta, il mondo intero si fermò, come se il tempo stesso avesse smesso di scorrere.
- ...lo ho ucciso io... con le mie... stesse... mani... -




Judith Flourish avvertì uno strano ed inusuale senso di leggerezza, come se un peso estremamente gravoso si fosse appena sollevato dal suo stomaco.
La sensazione di agitazione si era lentamente appianata, lasciando posto ad un vuoto emotivo che andava man mano riempiendosi di sentimenti misti.
Osservò le proprie mani, che fino a poco prima tremavano dalla paura; erano immobili, tiepide. Calme. Innaturalmente calme.
Lasciò cadere le braccia con un pesante sospiro; sentì l'impulso di liberarsi di quegli ultimi detriti psicologici svanire nell'oblio.
Non aveva idea del perché si sentisse così tranquilla, e la cosa quasi la turbava.
Esteriormente, però, dava un'impressione diversa.
Il suo volto pallido e posato era solcato da alcune lacrime che, rigandole dolcemente il volto, cadevano silenziosamente sul pavimento.
Si tenne il petto con la mano, attendendo il momento in cui anche il suo battito cardiaco tornasse perfettamente regolare.
Si passò la manica della giacca sulle gote, asciugandosi lacrime che venivano, però, rapidamente rimpiazzate.
Tutto ciò che Judith stava cercando di fare era di darsi un contegno e affrontare la propria situazione in maniera dignitosa.
Pearl e Michael evitarono qualunque commento; il processo era oramai terminato e non occorreva più alcun sostegno verbale.
Ciò che volevano sapere era a portata di mano, ed era solo questione di tempo.
Dal lato opposto, Pierce Lesdar si stava mordicchiando nervosamente le unghie delle mani, probabilmente roso da un profondo senso di colpa ed impotenza.
June Harrier apparve come la più emotivamente vulnerabile; rifugiandosi nel pensiero di aver oramai già assistito ad un fin troppo elevato numero di eventi orrendi, credeva oramai di poter affrontare qualunque cosa. La confessione di Judith le aveva dimostrato per l'ennesima volta che così non era.
Infine, Xavier Jefferson se ne stava in silenzio con sguardo torvo e iracondo.
La sua mano stava grattando furiosamente il legno del banco, fino a scorticarlo.
Le vene del collo erano rigonfie, e ogni singola fibra del suo corpo urlava e lo implorava di sfogare quell'eccesso di rabbia condensata.
Avvertì il desiderio di urlare al mondo intero la propria frustrazione, soffocando quel potente impeto con ogni briciolo residuo della propria mente annebbiata.
Il confronto finale era giunto.
Judith Flourish appoggiò entrambe le mani sul banco, fronteggiando tutti gli altri cinque compagni.
Fece come per dire qualcosa, ma le parole non uscirono. Si bagnò le labbra e si schiarì la voce, ma fu tutto inutile.
- ...Judith -
L'Ultimate Lawyer si voltò di scatto: a parlare era stata Pearl.
Gli occhi glaciali si erano momentaneamente resi quieti; il suo volto espresse compassione. 
Le rivolse un cenno comprensivo.
- Ti ascoltiamo - disse, infine, l'Ultimate Ninja.
Judith abbozzò un sorriso, ringraziandola.
Poi prese un'ultima boccata d'aria prima di cominciare.
- ...stamattina sono andata... da Karol - raccontò, con voce sommessa - Doveva essere un incontro come tanti altri, ma era da diversi giorni che non occorrevano. Karol è stato schivo anche nei miei confronti in questo periodo... -
Prese una breve pausa per deglutire.
- Quindi sei... davvero andata da lui... - June stentava ancora a crederci.
- Sono giunta in aula in breve tempo, credo fossero passate le dieci. Non saprei dire, non ho davvero tenuto conto dell'orario... - continuò lei - E' lì che le cose sono precipitate... ho incontrato Karol, ma non mi stava degnando di uno sguardo. Lo ho pregato più e più volte di tornare dal gruppo, ma era come se non mi stesse sentendo... -
- Karol... ti ha ignorata? - commentò Pierce - E' davvero strano, da parte sua -
- Non so cosa stesse pensando in quell'istante, ma non ha battuto ciglio... e poi... - la sua mano ricominciò a tremare - E' accaduto tutto lì...! E' avvenuto così in fretta che a volte mi domando se la mia vista non mi abbia giocato un brutto tiro... -
L'Ultimate Chemist si fece avanti.
- Secondo ciò che abbiamo dedotto... - osservò Michael - ...Karol deve averti assalita -
La gravosità di quelle parole furono un colpo pesante.
Judith singhiozzò.
- S-sì... ha estratto quel maledetto coltello, e... mi è corso incontro brandendolo! - esclamò - Non... non sapevo cosa fare, ero terrorizzata! L'unica cosa a cui riuscivo a pensare era che... stavo per morire. Credo di aver urlato... e la mia mano ha agito da sola... -
- E con ciò vorresti dire che... - la esortò Pearl.
- ...mi sono schiacciata contro la parete. Ho allungato il braccio per afferrare qualunque cosa potesse difendermi, completamente alla cieca - Judith descrisse l'accaduto come se la scena stesse avvenendo una seconda volta, proprio in quell'istante - Avevo chiuso gli occhi dal terrore, non riuscivo più neanche a ragionare. Non appena li ho aperti, ho visto la mano di Karol puntare al mio collo con un coltello alla mano... così, appena ho avvertito che le mie dita stavano toccando qualcosa, ho semplicemente... colpito -
- C-colpito... - Xavier si ritrovò a ripetere quelle esatte parole - Lo hai colpito... col mappamondo? -
Lei annuì con aria lugubre.
- Non avevo neppure idea di cosa fosse fino a che non ho guardato, ma sì. Era il globo terrestre situato sul mobile... - avvertì una fitta al petto - La prima... cosa che ricordo non appena ho ripreso conoscenza era la sagoma di Karol che... si afflosciava al suolo... -
Ne seguì un breve silenzio. Nessuno ebbe il coraggio di romperlo, e toccò a Judith proseguire e rispondere alle domande che nessuno aveva la forza di porre.
- ...credo che un po' del suo sangue mi sia schizzato sul volto. Non ci ho nemmeno fatto caso, perché ho preso a correre subito dopo... -
- Sei corsa via, dici? - chiese Pearl.
- Sì... senza nessuna esitazione. Ho aperto la porta e sono scappata senza mai voltarmi indietro... - gemette lei, con gli occhi che secernevano altre lacrime - Ho  raggiunto il bagno delle ragazze e mi ci sono chiusa dentro, serrandolo... sono rimasta lì dentro, a piangere, per un periodo di tempo che non saprei calcolare... -
Xavier scattò in avanti col busto, colto dall'impeto.
- Judith, sei assolutamente certa che Karol fosse morto, quando lo hai visto!? - intervenne lui.
- C-come...? Io non... -
- Hai detto di essere andata via di corsa senza pensarci due volte, no? E' possibile che...!? -
- Xavier - 
La voce imperativa di Michael lo redarguì con quel singolo richiamo. L'Ultimate Detective gli lanciò uno sguardo di sfida.
- Cosa vuoi...? -
- Non credi sia ora di finirla con questa ridicola farsa? Continui a cercare spiragli di innocenza anche dopo una confessione simile...? - lo ammonì il chimico, con sguardo severo.
- "Farsa"...? Di che accidenti stai...? Credi che sia un gioco, per me!? - 
- Affatto. Ma mi pare ovvio, oramai, che fin dal principio hai preso le difese di Judith perché sapevi benissimo ciò che era accaduto - lo accusò lui - O sbaglio? -
Per la prima volta, Xavier si ritrovò completamente a corto di parole da utilizzare per confutare quanto detto.
- Hey, un momento! - intervenne June - A-anche io ho avvertito che vi era qualcosa di strano nel suo comportamento, ma addirittura arrivare a dire che Xavier fosse un complice dal principio è...! -
- ...corretto. E'... corretto, June - Judith la bloccò - Xavier... ha cercato di aiutarmi -
La mascella dell'Ultimate Archer sembrò quasi staccarsi dalla sua faccia.
- COS-..!? -
- Dunque le cose stanno così... - commentò Pearl, tra sé e sé.
Judith si schiarì la voce.
- Dopo essere uscita dal mio rifugio sono stata colta da un'ansia lancinante... avevo il terrore di averlo ucciso, e dovevo accertarmene... - raccontò, con un grosso nodo alla gola - Sono arrivata lì, ho visto Karol... e sono scappata di nuovo. Mi ero resa conto di... averlo ucciso. Volevo andare via, rinchiudermi in camera e non farmi vedere da nessuno. Ero terrorizzata all'idea che qualcuno mi vedesse. Ed è stato lì che... -
- ...che hai incontrato Xavier? - optò Pearl.
L'Ultimate Lawyer si limitò ad annuire, mentre il detective abbassava lo sguardo con rassegnazione.
- Aveva appena lasciato il ristorante, e ci siamo incrociati... - proseguì l'avvocatessa - Non ho più retto, e gli ho raccontato tutto... non ho nemmeno pensato di stare firmando la mia condanna a morte, gli ho semplicemente rivelato ogni cosa in un delirio disperato... -
Michael Schwarz incrociò le braccia, sospirando.
- Ed ecco spiegati tutti i movimenti della mattinata... - commentò - Ma il mistero più grande rimani tu, Xavier. Cosa diavolo ti eri messo in testa!? Perché hai voluto dare una mano a Judith pur sapendo che facendolo avresti messo a rischio la tua stessa vita!? -
L'Ultimate Detective rivelò una scintilla sospetta brillare nella sua unica pupilla.
Infilò le mani in tasca, guardandosi attorno con circospezione.
Ogni singolo membro della classe pendeva dalle sue labbra, in cerca di risposta.
- ...lo ho fatto per un motivo ben preciso - disse, infine - Volevo concludere il gioco al massacro -
- Concludere il...? - Pierce rimase confuso - Il tuo obiettivo era finire il gioco? -
- Monokuma è stato piuttosto esplicito. Il gioco può finire in due modi; numero uno: non restano più partecipanti... - rispose lui - Numero due... -
- ..."esporre il traditore" - Pearl gli completò la frase.
- Ma certo...! Il traditore! - esclamò June, con sorpresa - Quindi il tuo scopo era trovarlo!? -
Xavier annuì lentamente.
Ripensò intensamente a tutti gli sforzi conseguiti per giungere in quello che sembrava essere un vicolo cieco in tutto e per tutto.
Una grama frustrazione lo colse.
- ...se lo avessi trovato prima della fine di questo processo, allora il gioco sarebbe finito - asserì - E con ciò... -
- ...Judith sarebbe stata salva. Brillante - Michael si lasciò scappare un complimento. Il suo indicibile astio per gli assassini sembrava essersi attenuato.
- Lo hai fatto per Judith...? - gemette June - Santo cielo... -
- E, dimmi: sei riuscito a coinvolgere anche Pierce nel tuo piano? - domandò Pearl.
L'Ultimate Sewer balzò dalla sorpresa di essere citato.
- Ah... io...! - balbettò lui -
- E' chiaro che ne sei rimasto invischiato, Pierce - osservò Pearl - Ma non capisco come, né perché -
- No, lasciate che vi spieghi - li rassicurò Xavier - Il mio piano originale comprendeva la partecipazione solo di me e Judith. Pierce si è... come dire? Offerto volontario -
Diverse paia di occhi si rivolsero verso l'Ultimate Sewer, divenuto sempre più piccolo dall'imbarazzo.
- Hai qualcosa da dire, Pierce...? - sibilò Michael, irritato.
Lui sospirò, sudando copiosamente.
- Ho covato un sospetto nei confronti di Judith fin dal principio... - ammise Pierce - Il suo modo di comportarsi era troppo strano... mi sono convinto che stesse nascondendo qualcosa, e la conferma è arrivata poco dopo l'inizio del processo... -
- A cosa alludi? - chiese June.
- Avevo intuito che c'era qualcosa che non andava nella versione di Judith quando abbiamo stabilito i suoi movimenti dopo l'annuncio... - spiegò il sarto - Non appena ho sentito la voce di Monokuma, mi sono svegliato di soprassalto e sono corso verso i corridoi. Non vi era alcun modo che Judith potesse arrivare all'aula prima di me, ma... lì la ho trovata. Qualcosa non quadrava... -
- E non hai pensato di dire la tua in merito? - domandò Pearl.
- V-volevo farlo, ma il fatto è che... - fu necessario un enorme sforzo - ...mi era parso che Xavier avesse in mente qualcosa. Anche durante le indagini, Xavier è rimasto quasi sempre in disparte, e in un certo momento si è anche appartato con Judith -
Il detective si grattò nervosamente la nuca.
- Quindi ci hai notati... - sbuffò lui.
- Ho osservato il comportamento di Xavier durante il processo, e ho intuito che avesse in mente qualcosa... - annuì Pierce - Non sapevo perché, ma stava proteggendo Judith. Dovevo... no: volevo saperne il perché, ma non potevo chiederlo apertamente. Così... -
- Così hai elaborato... quella menzogna... - sussurrò Judith, realizzando l'atto.
Rosso di vergogna, Pierce annuì sbrigativamente.
- Ho mentito sugli orari per confermare l'alibi di Judith, ma al contempo avevo bisogno di distrarre la vostra attenzione su qualcun altro... e Xavier era l'unica possibilità -
- Quindi tutta quella grossa balla era per far guadagnare tempo a Xavier! - sbottò Michael - Diamine, ci saremmo risparmiati una bella fatica se non fosse stato per te! Ma perché diavolo hai agito in questa maniera così sconsiderata!? -
Pierce si strinse nelle proprie spalle.
- "Perché", eh...? - gemette - Già... bella domanda... -
- Ci sarà pur stato un motivo che ti ha indotto ad appoggiare Xavier e il suo piano, dico bene? - disse Pearl, invitandolo ad esprimersi.
Pierce lanciò uno sguardo di intesa verso l'Ultimate Detective, e poi a Judith.
Entrambi sembravano provare un misto tra riconoscenza e risentimento verso ciò che aveva fatto per loro; ma non si poteva tornare indietro.
- ...non saprei dirlo. Nel mio cuore, speravo che Judith non fosse un'assassina, ma in realtà non ne ero poi così certo - disse - Però... volevo fidarmi di Xavier -
Al detective si illuminò lo sguardo.
- Come? Di me...? - 
- Dopo che abbiamo parlato ho... sentito uno strano calore - annuì lui - Sono sempre stato molto schivo nei vostri confronti; avevo troppa paura che, un giorno o l'altro, qualcuno avrebbe finito per uccidermi. Ma stamattina, per la prima volta, ho pensato ad uno di voi come... un amico. Ho avvertito un legame, fiducia... forse un po' di speranza. Non volevo tradire quella sensazione, quindi ho... voluto appoggiarti, anche se il tuo piano era folle... -
Gli ci volle qualche attimo per realizzare quanto gli altri lo stessero fissando con un'espressione completamente stranita e basita.
Evitò di badarci troppo, intuendo che se avesse ricambiato le occhiate non avrebbe fatto altro che vergognarsi ulteriormente.
A Judith scappò un sorriso affettuoso nei suoi confronti.
- E questa... è l'intera storia - Judith pose una conclusione sulla vicenda.
Cadde nuovamente un pesante silenzio; il processo era giunto al termine.
La confessione marchiava in maniera evidente la fine dell'udienza, così come l'inizio di un evento ancor meno piacevole.
Judith abbassò lo sguardo, velando la propria espressione stanca e demoralizzata.
- ...è finita, dunque - disse Pearl.
- Non ci resta che votare - fece Michael, istigando gli altri a non soffermarsi troppo su un'azione inevitabile quanto sofferente.
- Deve davvero... finire così...? - gemette June - E' così ingiusto... -
- Lo è... - Judith le rivolse un sorriso comprensivo - Ma le regole di questo luogo parlano chiaro... -
June Harrier si mostrò quasi indignata.
- Regole...? Chi se ne importa delle regole! - strepitò lei - Judith, come puoi dire qualcosa del genere in un momento simile!? Non hai paura di...!? -
- June - 
Si voltò di scatto; ad interromperla era stata Pearl.
La bionda aveva uno sguardo serio, anche se intristito.
- Judith sta accettando tutto questo per il nostro bene, lo capisci? Non c'è altro modo -
- Ma non hai... paura di morire...? -
Flourish dovette trattenersi per non scoppiare nuovamente in lacrime.
- Stai... scherzando, June...? Sono terrorizzata... - fece lei, con un filo di voce - Ma al contempo... eh, mi sovviene che non vi ho mai raccontato come ho ottenuto questo... -
A quelle parole, Judith rimosse dalla propria capigliatura il suo iconico fermaglio floreale, afferrandone delicatamente i petali bianchi.
Xavier notò che era la prima volta che la vedeva senza quell'ornamento sul capo; ciocche di capelli corvini lisci e lucenti le caddero lungo le spalle.
- Il tuo fermaglio... - mormorò il detective.
- Questo è più una sorta di... memento - raccontò lei - Apparteneva al mio primo cliente. Me lo donò appena prima di... essere giustiziato -
Il volto di June inorridì. Persino Pierce tremò al solo pensiero.
- E' stato condannato a morte...? -
- E io non ho potuto impedirlo. Questo oggetto è un monito, e al contempo uno sprone - disse lei, mentre una prima lacrima le scendeva lungo la guancia - Non ho intenzione di sopravvivere mandando a morire degli innocenti; non di nuovo. Non... non potrei sopportare di essere l'unica ad uscire di qui... vi prego, votatemi. Votatemi, e facciamola finita -
Da che era cupa, l'atmosfera di fece vertiginosamente aspra e inquietante.
La stanza delle punizioni era appena oltre il tribunale; la porta che conduceva oltre sembrò quasi emettere un cigolio provocatorio, come a simboleggiarne l'imminente apertura.
Ogni discussione era cessata. Non rimaneva altro da fare se non spingere il pulsante.
- ...allora direi... di iniziare - propose Pearl, facendo un breve inchino verso Judith, come a simboleggiare rispetto - Siamo tutti pronti? -
- No. Non direi -
Il climax si arrestò di colpo. A Pearl parve quasi di aver udito male, ma le parole erano state scandite perfettamente.
Michael, June e Pierce alzarono lo sguardo, stupefatti.
Judith si voltò di scatto. Avendo tentato di tappare tutti i suoi sensi per proteggersi dal dolore, quella frase la colse alla sprovvista.
Xavier Jefferson aveva una strana espressione sul volto; a braccia conserte, stava fissando un punto fisso sullo schermo del tribunale.
Tutti gli altri si aspettavano una qualche sorta di responso da parte sua, ma furono costretti a chiederlo.
Pearl Crowngale si sobbarcò l'onere.
- Come, prego...? - domandò la ninja, retoricamente - Hai detto qualcosa, Xavier? -
- Ho detto di "No". Non voteremo, perché non è ancora finita -
Michael Schwarz piantò rumorosamente il palmo della mano sul proprio banco.
- ...sei ammattito? Ti sei intestardito talmente tanto che non vuoi sentire ragioni nemmeno dopo una confessione!? - sbraitò - Il processo è CONCLUSO, Xavier! Judith ha ammesso tutto, e ogni tassello è al suo posto! Cos'altro potresti volere di più!? -
- Ne sei certo, Mike? Io credo che stiamo dimenticando la cosa più importante di tutte - fu la semplice risposta dell'Ultimate Detective.
- Xavier... - sospirò June - Stai dicendo sul serio...? Capisco che tu voglia aiutare Judith, ma... -
- Xavier, hanno ragione! - persino l'Ultimate Lawyer dovette opporsi - Se continui a ribattere non arriverai a nulla! Ho ucciso... ho ucciso IO Karol, e non puoi cambiarlo... -
- Forse no. Ma non ha importanza - perseverò lui - Cose del genere non hanno rilevanza. Ho intenzione di ribaltare completamente il caso, quindi... non azzardatevi a votare. Non ORA! -
Pearl si mostrò vagamente stizzita, ma interessata.
- Credi davvero di poterlo fare in una situazione simile...? - chiese la bionda, lanciando un'occhiataccia congelante.
- Se credete che il processo sia finito, vi sbagliate di grosso - rispose lui - E' appena cominciato -
Pierce Lesdar si fece improvvisamente avanti.
- R-ragazzi...! Che abbiamo da perdere, dopotutto? - li incoraggiò il sarto - E se valesse davvero la pena di investigare più a fondo...? -
Stranamente, nessuno ebbe da ridire. Michael non mancò di appuntare, però, come ciò gli sembrasse un'altra enorme perdita di tempo.
- Bah! Molto bene - sbottò - Ma sia ben chiaro: farai a meglio a dire qualcosa di concreto -
- E sia. Starò al gioco e seguirò questa tua nuova idea - acconsentì Pearl - Vediamo fin dove sei disposto a spingerti, Xavier Jefferson -
- S-se c'è anche solo una possibilità di cambiare le cose... facciamolo! - esclamò June, quasi emozionata.
Xavier si voltò verso Pierce; gli mostrò un cenno di gratitudine.
L'Ultimate Sewer ricambiò mostrando un'espressione più determinata che mai.
Infine, fu Judith ad incontrare il suo sguardo.
Xavier riuscì ad oltrepassare il limite fisico che li separava, penetrando nella retina degli occhi dell'Ultimate Lawyer; lì intravide l'ultimo barlume della supplica di soccorso che la compagna gli stava lanciando fin da quella mattina.
Con rinnovato vigore, Xavier Jefferson si ributtò nella mischia.
- ...lasciate che vi esponga il mio caso, compagni miei -

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Capitolo 47
*** Capitolo 5 - Parte 9 ***


Quello che, inizialmente, apparve come un disperato tentativo di prolungare invano un processo già concluso risultò, invece, essere una seria fonte di dubbi.
Che l'Ultimate Detective avesse preso a cuore la situazione per motivi squisitamente personali era evidente, ma qualcosa nello sguardo di Xavier fece sorgere nel resto della classe dei pensieri contrastanti, principalmente dovuti all'inspiegabile determinazione e alla sicurezza mostrata dal compagno.
A Michael Schwarz, però, quel punto di svolta non piaceva affatto.
- Bada, Xavier... farai meglio a non mettere su una farsa solo per guadagnare tempo - lo ammonì il chimico - Non vedo cosa ci impedisce di formulare il verdetto... -
Judith deglutì; pregò affinché nessuno desse retta a quell'ultimo rimarco dell'Ultimate Chemist.
- Tranquillo, Mike. Ho un ragionamento concreto da esporre. Non ti deluderò - rispose Xavier con calma disarmante, ma senza perdere la sua espressione severa.
Pearl sospirò, incrociando le braccia. Era chiaro che neanche lei apprezzava pienamente ciò che il compagno stava facendo, ma ammise a se stessa di essere curiosa di sapere ciò che Xavier aveva improvvisamente realizzato.
- Forza, allora - disse la ninja - Parla. Hai detto che intendi "ribaltare" il caso. Come intendi fare? -
Xavier si schiarì la voce; tutti gli occhi erano puntati su di lui. La pressione costante non lo fece vacillare.
- ...con la confessione di Judith ci si è aperta una nuova strada da varare - cominciò lui - Una strada che ci potrà portare a scoprire dettagli di questo caso a cui non abbiamo dedicato la giusta attenzione -
- Una via aperta... dalla confessione? - June si mostrò scettica - A me sembra il contrario... non abbiamo appena concluso il processo grazie ad essa...? -
- Non se vogliamo davvero TUTTA la verità - ribatté lui - Pensateci, gente. Abbiamo tra le mani l'arma più forte in assoluto da utilizzare in un tribunale. Un qualcosa che in tutti gli altri processi non avremmo mai potuto sfruttare ma che adesso è qui, sul palmo delle nostre mani -
- E questo elemento è...? - Pierce lo stava silenziosamente implorando di arrivare al dunque.
Xavier rivelò improvvisamente un sorriso malizioso.
- ...la deposizione dell'assassino. Ecco cosa -
Nessuno fiatò. Ognuno passò ad elaborare quella risposta a modo proprio.
La prima ad accorgersi della rilevanza di quell'informazione fu Judith.
- Ah...! - esclamò con un fiato - Ma certo... una testimonianza infallibile, in pratica -
- Ok, mi sono persa... - ammise June - Che cosa significa? -
- Voglio dire che Judith ha appena ammesso di aver ucciso Karol - spiegò il detective - In pratica, non ha assolutamente più nulla da nascondere, niente per cui mentire. Nel momento stesso in cui ha confessato il delitto, si è trasformata nel testimone perfetto: uno che non ha più motivo di dire il falso -
Michael si grattò il mento, vagamente interessato a quello sviluppo.
- ...intrigante - fece il chimico - Certo, non toglie che l'esito del processo rimarrà invariato, ma a suo modo è un'evoluzione degna di nota -
- Un testimone che sappiamo non mentirà... - mormorò Pearl - A pensarci, la cosa ha senso... -
Xavier richiamò nuovamente l'attenzione generale.
- In parole povere, possiamo avere una versione cristallina della scena del crimine. Adesso abbiamo la possibilità di esaminare i tasselli del puzzle che ancora non sono al loro posto da un punto di vista completamente non inquinato. Judith, ci darai una mano? -
Una vaga fiamma si accese negli occhi dell'Ultimate Lawyer.
- Sì... assolutamente sì - disse, mascherando l'ansia - Il danno è fatto, ma farò di tutto per aiutarvi -
- Eppure, mi chiedo, a cosa credete di arrivare con questa pista? - domandò giustamente Michael - Lo scopo del caso è scovare l'assassino. Una volta fatto, che ci resta da capire? -
Xavier scosse il capo.
- Mike, mi sembrava di averlo già spiegato. Il mio obiettivo non è mai stato di trovare il colpevole - asserì lui - Io cerco il traditore -
Calò un breve silenzio.
- ...credi di poter risalire al traditore usando la deposizione di Judith...? - chiese June.
- Un'idea audace - annuì Pearl - Ma che motivo hai di credere che il traditore abbia avuto a che fare con la morte di Karol? -
- Non ho prove, ma ho dei sospetti - rispose placidamente lui - E potrò verificarli solo con questo metodo. Allora? Ci state? -
Pierce fu il primo a buttarsi in avanti.
- C-certo! Assolutamente! Se abbiamo anche solo la minima possibilità di sovvertire le sorti del processo, facciamolo! - esclamò lui - Non abbiamo nulla da perdere! -
- Pierce... - Judith espresse un sorriso caldo - Grazie -
- Bah! A questo punto siamo praticamente costretti a darti corda! - si lamentò Michael.
- Perché dici così? -
- Non è ovvio? - sbottò il chimico - Con queste premesse, chiunque si mostrasse contrario a questa idea risulterebbe essere il traditore. Chi mai farebbe un errore simile? -
- Giusta osservazione - disse Pearl - Nessuno può più tirarsi indietro. Da qui in poi, si decide tutto -
- O-ok...! Anche io ci sto - si accodò June - Ma, lo dirò, non ho davvero idea da dove cominciare a discutere -
Michael si sistemò gli occhiali sulla sommità del naso.
- Non ne hai bisogno, June. Ora tocca a Xavier - puntualizzò - E' stato lui a cominciare tutto questo. Mi aspetto, come minimo, che abbia un valido punto di partenza -
- Perspicace, come sempre - lo canzonò Xavier - Sì, ho tra le mie mani una prova davvero peculiare. Una che non potremmo spiegare altrimenti. Sei pronta, Judith? -
L'Ultimate Lawyer rinsaldò la presa del fermaglio. Annuì con convinzione.
- Prontissima -
A quelle parole, Xavier fece scivolare lentamente la mano all'interno della giacca. 
Ne pescò qualcosa dall'interno; un corpo bianco e sottile, visibilmente cartaceo.
Tutti gli altri si sporsero dalla propria postazione per osservare meglio: si trattava di un semplice foglio di carta ripiegato su se stesso.
Xavier si prese qualche secondo per mostrarlo a tutti, e poi lo aprì rivelandone il contenuto.
Sulla carta vagamente sciupata vi erano alcuni disegni realizzati a matita con annesse diverse righe di testo scritto a mano in una calligrafia ordinata.
La prima cosa che catturò l'attenzione generale fu la sagoma stilizzata del volto di Alvin Heartland, la cui presenza sembrava improvvisamente aleggiare lungo l'aula.
Judith rabbrividì per un istante.
- A-Alvin...? - 
- Quello è un disegno... di Alvin? - si chiese retoricamente June - Santo cielo, è così simile... -
- Saranno anche dei semplici tratti a matita, ma la somiglianza è impressionante - asserì Michael - E' forse opera di Vivian? -
- Ne dubito - rispose Xavier - E' fatto bene, ma Vivian era su un altro livello. Il titolo di Ultimate Painter non le era stato dato per caso. No, questo disegno lo ha realizzato qualcun altro, così come la descrizione a margine -
- "Descrizione"? - Judith notò solo dopo che le scritte sottili erano in realtà una sorta di dati anagrafici.
- Sì, c'è davvero di tutto riguardante Alvin - continuò Xavier - Un parametro fisico, le sue peculiarità, le sue abitudini. Come si muoveva, cosa era solito fare. Persino dei sottili dettagli ricavati dal suo sguardo. E' un lavoro preciso in modo inquietante -
- Xavier, credo che tu ti stia dilungando troppo... - lo ammonì Pearl - Dove vuoi arrivare? Cosa ha a che fare quel disegno con il nostro caso? -
- Oh, c'entra eccome. Vedete, ho rinvenuto questo pezzo di carta sul luogo del delitto, in classe; sporgeva da sotto un mobile -
- Come, come? Sulla scena del crimine? - lo bloccò June - No, un momento! Ho esaminato la classe da cima a fondo, e non ho trovato niente di...! -
- E' normale. Sono stato il primo a trovarlo, e lo ho tenuto nascosto per tutto il tempo - disse con una paradossale calma.
Gli altri cinque avvertirono sentimenti contrapposti al riguardo.
Il tenere nascosta una prova era di per sé un atto sconsigliato, e in quelle circostanze apparve ancora meno appropriato.
- Hai intenzionalmente celato una prova...? - sibilò Michael.
- Sta buono, Mike. Ho semplicemente intuito la sua rilevanza e la ho conservata come asso nella manica -
- B-beh... non ha influito sul processo, no? - tentò di giustificarlo Pierce - Per il momento dovremmo chiudere un occhio -
Tutti acconsentirono, anche se malvolentieri. Xavier si sentì liberato di un peso.
L'ostacolo più scomodo, il fare accettare la prova, era stato rimosso.
- A questo punto vengo al sodo - disse, infine - Judith, dicci: hai mai visto questo documento? Ne sai qualcosa? -
L'avvocatessa gli diede un ulteriore sguardo per sicurezza, ma la risposta arrivò lampante.
- No, affatto... - rispose - Non lo ho mai visto prima -
Xavier mostrò un sorrisetto compiaciuto.
- Ottimo - disse - Non ho bisogno di ricordare che questa risposta è da considerarsi veritiera, no? -
- Bah! Ancora non hai spiegato un bel niente, Xavier! - lo additò Michael, furibondo - A cosa ci serve quello scarabocchio!? -
- Oh, comprenderai la sua utilità quando noterai il paragrafo finale della descrizione - spiegò il detective - Vedi: c'è uno specchietto, in fondo al testo, che illustra un'altra cosetta su Alvin. In breve: il modo più efficiente per... ucciderlo -
Più di una persona spalancò gli occhi dalla sorpresa.
Pierce più di tutti.
- Come...!? Ucciderlo!? - esclamò, spaventato - Su quel foglio è indicato come uccidere Alvin!? -
- Per essere precisi, è indicato un metodo per eliminarlo in modo sicuro e sistematico. Chiunque lo abbia scritto ha evidenziato come Alvin, l'Ultimate Guardian, fosse un individuo... "problematico" da affrontare a causa della sua mole e della sua esperienza come guardia del corpo. Qui suggerisce di attaccarlo al collo dalla lunga distanza, probabilmente con l'uso di qualche altro espediente... ma sto divagando. Ciò che importa è che questa lista è stata compilata con l'intento di uccidere -
Judith captò un dettaglio rilevante.
- ..."lista"? - domandò - Vuoi dire che c'è altro? -
Xavier fece cenno di assenso.
- Ebbene, sì. Alvin non è l'unico ad aver meritato menzione - disse, girando il foglio - Altre due nostre conoscenze sono elencate sul retro. Osservate bene -
Spinti dalla voglia di sapere, gli sguardi si accalcarono sulle sagome realizzate a matita.
Il volto di Rickard Falls rievocò un ricordo particolarmente spiacevole in June Harrier, ma l'attenzione degli altri andò altrove: sul ritratto dell'Ultimate Detective.
- ...quello sei tu - commentò Pearl.
- Già, e devo dire che mi somiglia - Xavier accennò un vago complimento - Non vi è bisogno di dire che, anche nel caso mio e di Rickard, assieme ad un'accurata descrizione d'insieme è scritto anche come farci fuori. L'autore ha tenuto conto della mia mancanza di visione dal lato sinistro, addirittura. Senz'altro un lavoro ben fatto -
Ad una più attenta lettura, Judith notò di come i testi abbondavano di dettagli su tutto ciò che riguardava la vita degli studenti in quella finta scuola, senza tralasciare impressioni personali o fattori rilevanti. 
La grossa scritta rossa indicante "DECEDUTO" torreggiava sul lato del foglio, emanando un sentore di incombente pericolo.
Osservando quei ritratti così vividi, per quanto imprecisi in alcuni punti, rievocò in Judith spiacevoli sensazioni.
- ...questo foglio era sulla scena del crimine, quindi - fece l'Ultimate Lawyer.
- E' così. E abbiamo appurato che non ne sei l'autrice - disse poi Xavier - Direi che possiamo escludere anche il sottoscritto, per più di un motivo. Non è plausibile che io stesso abbia scritto in maniera così precisa e dettagliata il modo perfetto per uccidermi. Inoltre, se avessi voluto tenerlo nascosto, non ve lo avrei mostrato e basta -
- U-un momento... questo ragionamento per esclusione a cosa dovrebbe portarci...? - lo fermò June - Se anche ne trovassimo l'autore... -
- Cambia tutto, June. Proprio tutto - chiarì Xavier - Abbiamo appena dimostrato che una persona al di fuori di me e Judith potrebbe essere implicata nel caso di Karol. E quella persona sembra essere estremamente informata su noi tutti, e sta meditando di ucciderci. Capisci dove voglio arrivare? -
- Ma certo... - la voce di Pierce si levò nell'aula - ...e se questo terzo fosse... il traditore? -
Michael si oppose immediatamente.
- Ridicolo! Il traditore avrebbe commesso una simile imprudenza!? Il solo fatto che questo foglio esista è un'assurdità! - sbuffò - Chi mai, sano di mente, si porterebbe dietro qualcosa di talmente incriminante!? -
- E' proprio ciò che dobbiamo scoprire, Mike. Chi ha scritto queste cose? Perché? E perché si trovava lì? - a quel punto, Xavier prese una breve pausa - Beh, a dire il vero... credo che alla prima domanda possiamo tranquillamente trovare risposta -
Calò un silenzio tombale. Tutti e cinque fissarono Xavier Jefferson con un'espressione stranita; come se avesse appena rivelato un segreto di portata mondiale.
La naturalezza con cui aveva dichiarato di conoscerne l'identità fece rimanere increduli tutti i rimanenti membri della classe.
- Cosa...? Sai chi è stato? - domando June, allibita.
- Ne ho una vaga idea, sì -
- Bando alle ciance... - ringhiò Michael, spazientito - Chi è...? -
- Sarà più semplice da intuire se presterete attenzione a questo ultimo particolare presente sulla carta -
Il dito di Xavier indicò un angolo del foglio, dove vi era una chiazza di sporcizia scura. Fu necessario avvicinarlo per far rendere conto ai compagni di ciò che era.
- ...questo è sangue - affermò Pearl, annusando - E' secco, ma... è decisamente sangue -
- Corretto, Pearl - affermò Xavier, compiaciuto - Più precisamente: è il sangue dell'Ultimate Teacher, la nostra vittima. Il sangue di Karol -
La reazione degli altri fu sufficiente a far capire a Xavier che ce l'aveva fatta.
Un ultimo inganno, un'ultima menzogna, per giungere alla verità. 
"...il sangue è mio, ma chi andrebbe mai a pensarlo?" ponderò "Tutto ciò di cui ho bisogno è di dimostrare che il foglio era effettivamente lì, anche a costo di aggirare i fatti con un espediente di convenienza
- C'è il sangue di Karol... allora il foglio deve essere stato lasciato lì in prossimità del delitto! - esclamò Judith.
- Da non crederci... - commentò Michael - E' davvero collegato a quanto accaduto a Karol!? -
- Ma Judith ha detto di non averci niente a che fare... - fece Pierce - Quindi appartiene davvero al traditore? -
- Xavier...! Hai d-detto che ne hai carpito l'identità, giusto!? - June sembrò implorarlo - Di chi si tratta!? -
- Mi sembra scontato -
L'Ultimate Archer sussultò, così come il resto della classe.
Michael, Pearl, Pierce e Judith attesero in religioso silenzio che Xavier enunciasse finalmente la sentenza.
I sospetti che avevano iniziato ad aleggiare trovarono forma concreta nelle parole dell'Ultimate Detective.
- ...se la persona che era in possesso di questo documento era sul luogo del delitto, e quella persona non era Judith e non era il sottoscritto, allora le possibilità si riducono ad essere... due. Ma di certo non è stato redatto da Karol, poiché lui stesso viene menzionato nel testo parlandone in terza persona. Rimane una sola  alternativa: l'unica altra persona senza alibi. Logico, no? -
A quel punto, afferrò saldamente il foglio e lo sbatté con forza sul banco, piantando entrambe le mani sul legno intarsiato.
Alzò lentamente lo sguardo, rivelando una singola pupilla carica di determinazione.
Passarono degli istanti che durarono molto più a lungo di quanto non sembrasse.
L'innaturale silenzio dell'aula di tribunale venne infine spezzato da ciò che tutti stavano aspettando di udire.
- ...enuncio, dunque, la mia ipotesi - mormorò Xavier Jefferson - Questo è tuo. Dico bene, Pearl? -




Nessun rumore, né un fiato.
Gli occhi chiari e limpidi dell'Ultimate Ninja osservarono quel pezzo cartaceo, squadrandolo, analizzandolo.
Semplicemente porgendo lo sguardo verso le glaciali pupille di Pearl Crowngale sarebbe stato impossibile carpire tutto ciò che stava accadendo nella sua mente.
Dietro il velo di apparente calma e impassibilità, qualcosa era andato in frantumi provocando una gran confusione.
Pearl non staccò il contatto visivo dal foglio nemmeno per un istante, decisa a mantenere la facciata quanto meglio le riusciva.
Inspirò un'impercettibile quantità d'aria, passando in rassegna ogni singola parte del proprio corpo per assicurarsi che tutto fosse sotto controllo; che niente potesse far trapelare quel pericoloso squilibrio interno.
Ad un tratto, Pearl avvertì una sensazione sgradevole alla mano; un qualcosa di strano e nuovo ma per nulla piacevole, simile ad una paralisi.
La estrasse dalla tasca con un movimento rapido, e la vide.
La vide tremare.
Fu un'occhiata lunga appena una frazione di secondo, ma fu un tempo sufficiente affinché l'universo di Pearl Crowngale cambiasse per sempre.
La mano destra era attraversata da un formicolio fastidioso, e il palmo era lievemente sudato.
Più tentava di capire cosa le stesse accadendo, più il panico aumentava.
La rimise immediatamente in tasca, nascondendola prima di tutto a se stessa.
Rialzò lo sguardo; il foglio era ancora lì, saldo nella mano di Xavier. Questi lo stava tenendo puntandolo direttamente verso la sua direzione, come una provocazione.
Ma agli occhi di Pearl, quella fu vista più come una minaccia.
Anche il sentirsi minacciata si aggiunse alla lista degli sgradevoli sentori con cui la bionda aveva poca esperienza, se non nulla.
Nonostante corpo e mente le stessero inviando chiari segnali di stress, l'Ultimate Ninja non cedette.
Si accorse che stava passando troppo tempo: troppi preziosi secondi stavano trascorrendo in quello stallo, e ad ogni attimo che passava i dubbi dei compagni si intensificavano.
"Perché...? Perché ha quel...? Sarebbe dovuto sparire, sparire per sempre... cancellato nell'oblio, mai più riesumato... e allora perché...? Perché è in mano sua...!?"
- ...di che stai parlando? - fu l'unica risposta di Pearl.
Xavier Jefferson assunse un'espressione severa.
- Davvero, Pearl? - chiese il detective - Hai intenzione di negare fino in fondo? E in questo modo? -
- Fermi un momento, voi due! - l'Ultimate Archer bloccò la discussione sul nascere - Che storia è questa!? Quel foglio lo ha scritto Pearl!? -
- Non è così assurdo, June - replicò Xavier - E' l'unica persona che avrebbe potuto lasciare un ulteriore indizio sulla scena del crimine. Non può essere stato nessun altro -
- Ah, e così io "potrei" aver lasciato una prova - sbottò Pearl - E' questo il modo con cui intendi provare che sono stata io? Non farmi ridere -
Michael picchiettò nervosamente col dito sul banco.
- Ammetto... che sospettare di Pearl, in questa situazione, sia naturale - affermò lui, con sguardo dubbioso - Ma non abbiamo davvero elementi concreti per dichiarare indissolubilmente che sia stata lei -
- Allora non ci resta che trovare un'altra strada - concluse il detective, fingendo che la faccenda fosse di una semplicità disarmante - E' un po' come fece Karol durante il terzo caso: prima offre uno spunto di riflessione, poi passa a spiegare il ragionamento per arrivare alla fine -
- Ridicolo... - mormorò Pearl - Non hai uno straccio di prova per dimostrare che io c'entri qualcosa. In aula erano presenti solo due persone: la vittima e l'assassina... -
Judith si strinse tra le spalle; la faccenda aveva preso una piega che non le piaceva.
- Xavier... capisco ciò che vuoi dire - lo fermò l'Ultimate Lawyer - Ma quando sono andata da Karol sono certa di non aver incrociato nessuno... -
- Non dimenticare un fattore importante - la corresse lui - Sul foglio c'era una traccia di sangue; in pratica, chiunque abbia perso questo foglio deve essere  necessariamente arrivato dopo il momento in cui hai colpito Karol col mappamondo. Direi che è avvenuto tra la prima volta in cui sei arrivata in aula e la seconda, quando sei tornata a controllare il corpo. Qualcuno deve essere giunto sul luogo del delitto, ne sono certo -
- Il r-ragionamento fila... - annuì Pierce - Ma perché proprio Pearl...? Ok, è l'unica senza alibi, ma non abbiamo così tante prove per... -
- Ne ho un'altra -
Xavier Jefferson sorprese tutti con un ultimo, inaspettato commento.
- Un'altra...? -
- Un'altra prova, ovvio - fece lui, con confidenza.
- Avresti un altro indizio contro Pearl? - Michael si mostrò impressionato - Un altro che ci hai volutamente nascosto...? -
L'altro scosse la testa.
- No, niente del genere. Anzi, non è nemmeno un vero indizio. Si tratta più di un... dettaglio tecnico che non abbiamo tenuto in considerazione come dovremmo -
Nessuno sembrò intuire dove Xavier stesse cercando di condurli.
- Niente enigmi, Xavier... - sibilò Pearl - Se hai qualcosa da dire, dillo e basta -
- Con piacere, Pearl - disse, raccogliendo la sfida - Judith, dovrai darmi una mano. Ho bisogno che tu faccia uno sforzo di memoria -
- Ah... certo. Farò il possibile -
Xavier si schiarì la voce tossicchiando.
- Ricordi quando mi hai portato a vedere il corpo di Karol per la prima volta? Eravamo solo io e te -
- C-come dimenticarlo... - Judith aveva sperato invano di non dover far riaffiorare proprio quella memoria.
- Vedi, Judith. In quel momento eravamo entrambi sconvolti e spaventati. E' stato lì che ho ideato il piano per smascherare il traditore... ed è stato in quel momento che ho mancato di notare un dettaglio essenziale -
- Ma cosa...? Cosa potremmo mai aver mancato di ispezionare...? -
L'unico occhio di Xavier Jefferson brillò di una strana luce.
- L'annuncio -
Vi fu un silenzio incerto.
Durò tanto quanto Judith ebbe bisogno di spremersi le meningi, mentre gli altri rimanevano a guardare senza fiatare.
- L'annuncio...? -
- Sì, il messaggio vocale di Monokuma - continuò Xavier - Avviene ogni volta che ritroviamo un cadavere, è sempre stato mandato attraverso gli altoparlanti della scuola -
- Certo... certo! - Judith batté un pugno sul palmo della mano - Lo ho sentito non appena sei entrato in aula...! Ero sconvolta dal terrore... e ricordo che quelle parole mi riecheggiavano nella testa... a stento volevo credere che fosse accaduto davvero -
- P-però continuo a non seguire il filo del discorso - ammise Pierce, grattandosi il mento - Che cosa ha a che fare l'annuncio con tutto questo? Monokuma lo manda ogni volta che muore qualcuno, quindi non era di certo fuori posto... -
- "Fuori posto" no. Ma ciò che mi chiedo io è: perché l'annuncio è scattato proprio in quel momento? -
- In quel momento...? - Pearl esitò - Non capisco dove vuoi arrivare... da come parli sembra quasi che... -
- Che ci sia una logica dietro l'emanazione dell'annuncio? Intendevi dire questo, Pearl? - la interruppe Xavier - Perché è esattamente ciò che ho pensato. Rifletteteci: tutte le altre volte l'annuncio è stato lanciato poco dopo l'arrivo della maggior parte del gruppo sulla scena. Quando io e Pierce abbiamo trovato Refia, l'annuncio non è stato immediatamente attivato. Lo stesso vale quando io e Hillary trovammo Vivian e Lawrence. Ma quando io, Rickard e Lawrence trovammo Elise, l'annuncio venne mandato subito. Cosa cambia tra le circostanze? -
- ...deve esserci una spiegazione, dunque - mormorò Michael Schwarz - E temo di sapere chi sia l'unico a cui possiamo chiedere conferma... -
Le parole di Michael preannunciarono ciò che tutti stavano attendendo, anche se non volentieri.
Un rumore statico venne prodotto dallo schermo del tribunale, rivelando l'apparizione dell'orrenda mascotte che li aveva rinchiusi in quella prigione.
Il sorriso beffardo di Monokuma torreggiò sopra le teste dei sei studenti, guardandoli dall'alto in basso come suo solito.
- Voi chiamate, e io rispondo! Monokuma al vostro servizio! - si annunciò lui, facendo un gran frastuono.
- Nessuno ti ha nemmeno interpellato... - biascicò June, disgustata.
- Poche storie, Monokuma. Non vogliamo i tuoi teatrini, solo risposte - lo avvertì Xavier, folgorandolo con una sola occhiata - Dicci quello che vogliamo sapere -
- Uff... che ragazzo pragmatico, sei una vera noia! - lo schernì l'orso - Ma è anche vero che siamo nel bel mezzo di un processo interessante! Sarebbe sgarbato, da parte mia, interrompere un'udienza così emozionante! Passerò dunque al sodo e vi dirò ciò che volete sapere! -
Xavier puntò l'indice contro il maxischermo.
- Dicci, allora. E' vero che c'è una restrizione sul quando l'annuncio per il ritrovamento dei cadaveri viene emesso? Rispondi! -
Seppure la faccia di Monokuma fosse sintetica e l'orso fosse impossibilitato a cambiare espressione, agli studenti sembrò quasi che il ghigno gli si fosse allargato.
- Heh... è esatto! - fece lui, con tono emozionato - L'annuncio è programmato per essere inviato non appena almeno tre persone hanno assistito al ritrovamento! E' una regola storica, del manuale originale, quindi ci sono molto affezionato! -
Judith sussultò per un istante.
- Vuoi dire che... -
- Ah, e per evitare incomprensioni: sì, se l'assassino si mescola al gruppo di coloro che trovano il corpo per primi, verrà comunque considerato partecipe del ritrovamento! -
Stavolta, a mostrare un sorriso soddisfatto fu Xavier Jefferson.
Non riuscì a mascherare il proprio compiacimento, e si limitò ad annuire lentamente in direzione di Monokuma.
- E' tutto. Ora sparisci - gli ordinò.
- Che maleducato! Ed io che mi sono preso la briga di dirvi tutto con tanta precisione! - il tono di Monokuma era volutamente sarcastico - Farete meglio a mettere su uno spettacolo degno, allora! Ci conto! -
Così come era comparso, Monokuma sparì dalla loro vista. Il monitor emise dei rumori distorti, e infine si spense lasciando un vuoto di silenzio.
Il volto di Xavier, a quel punto, esprimeva alla perfezione ciò che stava pensando; gli bastò una rapida occhiata in direzione di Pearl per riferire indirettamente il messaggio.
- ...non credo ci sia bisogno di aggiungere altro. Vero, Pearl? -
Ma l'Ultimate Ninja non rispose; a stento sembrava ancora partecipe alla discussione.
Il suo sguardo glaciale apparve, in quel momento, come frantumato; come se il suo potere freddo e penetrante fosse debilitato.
Una nuova, strana luce aveva preso il suo posto nelle pupille lucide di Pearl Crowngale.
La ninja si guardò attorno, ancora ammutolita.
Incontrò gli sguardi di June, Michael, Pierce e Judith. Ognuno era diverso, ma tutti esprimevano gli stessi quesiti.
Assaporò le loro paure e i loro dubbi, così come i sospetti nei suoi confronti che andavano crescendo in maniera incontrollata.
La testa le fece male, come se stesse perdendo contatto con la realtà.
Pearl si portò una mano alla fronte, provando l'improvviso desiderio di andare via, lontano da quel silenzioso frastuono di pensieri.
La fronte le sembrò bruciare, la testa esploderle.
Quando rialzò il capo, fronteggiando i compagni volto a volto, apparve una persona completamente diversa.
- ...basta -
- Come hai detto...? - chiese Xavier, prendendolo come un atto sfrontato.
- Basta... smettetela... - mormorò Pearl - ...smettetela di... guardarmi in quel modo... -
- Pearl, che ti succede...? - Judith provò una sensazione sgradevole nel sentirla parlare in quel modo - Hai una pessima cera... -
- Judith, risparmiati la pietà per un secondo momento - incalzò Michael - E' oramai ovvio che Pearl ci sta nascondendo qualcosa di enorme. E ho anche una mezza idea di ciò che si tratta -
- Un momento! Fermi! - esclamò June - N-non abbiamo ancora sentito la sua versione dei fatti! -
- La mia... versione? - Pearl digrignò i denti, furente - Che senso ha fornire un punto di vista che verrà ignorato...? Siete tutti convinti del mio coinvolgimento, no? -
- Pearl, n-noi ci atteniamo alle prove... - si espresse Pierce, con difficoltà - Se siamo in errore, devi dimostrarcelo con... -
- AL DIAVOLO LE PROVE! - 
Un poderoso calcio contro il banco zittì definitivamente l'Ultimate Sewer; Pierce indietreggiò d'istinto, il proprio istinto di conservazione gli intimò di tenersi alla larga da quella che non riusciva più a riconoscere come Pearl Crowngale.
- Pearl, che stai facendo!? - la richiamò June.
- Le prove, qui... sono totalmente inutili - ringhiò lei - Non esistono prove che possano dirvi come è andata veramente, non ce ne sono! Ma voi siete già perfettamente convinti che io sia coinvolta... che io sia colpevole, vero!? Ve lo si legge in faccia! -
- Cielo, che proprio tu perdessi le staffe in questo modo... che delusione - Michael enfatizzò il proprio disappunto - Ero convinto che almeno tu mantenessi un po' di cervello -
- Pearl, le prove parlano chiaro - intervenne Xavier - Tu eri lì. Eri sulla scena del delitto, stamattina. Puoi negarlo quanto vuoi, ma è lampante. Dicci la verità! -
- Io non ho fatto niente! NIENTE! - gridò lei - Smettetela di guardarmi così... SMETTETELA di guardarmi come UN'ASSASSINA! -
- Ah, ma su quello ci lavoreremo più tardi - proseguì Xavier, imperterrito - Ciò di cui sei sospettata non è omicidio. Dovresti averlo intuito -
Vene rossastre comparvero in evidenza sulle retine degli occhi della ragazza.
Poggiò violentemente una mano sul banco, come per intimargli di non proseguire oltre.
- No... non ti azzardare...! - 
- Pearl, abbiamo già chiarito che l'incidente con Karol abbia avuto a che fare con Judith. Ma il tuo ruolo è ben diverso, vero? D'altronde... -
- NON. DIRLO! -
Ignorando quel grido a metà tra la minaccia e la supplica, Xavier Jefferson portò in avanti l'indice.
- Sei sempre stata tu, vero? - disse, masticando ogni parola - Sei tu la traditrice, Pearl Crowngale -




- ...dimmi che non è vero - fu la flebile richiesta di June Harrier.
All'accusa rivolta da Xavier era seguito un breve silenzio, rotto solo dal respiro affannato di Pearl.
Quest'ultima stava riversando tutto il proprio astio viscerale sul legno del banco, oramai scorticato dalle sue unghie.
- Pearl... devi dirci la verità - stavolta fu Judith a porsi in avanti - Sei... sei davvero tu la traditrice? Sei la talpa nel nostro gruppo...? -
La ninja si voltò di scatto.
- Io...? La traditrice...? - sibilò - Ah, siamo giunti anche a questo... non bastavano gli omicidi... -
- Basta con questa tiritera folle! - la aggredì Michael - Abbiamo abbastanza indizi per sospettarti, che tu lo voglia o no! Ora DICCI LA VERITA'! -
- La verità è che io non c'entro niente! Chiaro!? NIENTE! - fu il rabbioso responso - Non ho ucciso nessuno... non ho tradito nessuno...! Nessuno, maledizione, nessuno! -
- Ma perché ci hai tenuto nascosta la tua presenza sulla scena del crimine...!? - intervenne Pierce - Se sei innocente, allora perché ci hai mentito, Pearl...? -
L'impeto della bionda si arrestò di netto. Il suo volto si contrasse in una strana smorfia imprecisata.
Le parole dell'Ultimate Sewer avevano colpito nel segno.
- Io non... non volevo...! - balbettò lei - Io non... non era mia intenzione... ma Karol...! Karol era...! Non... è giusto! Io non volevo che accadesse...! -
- Pearl, calmati. Ti prego - la rassicurò Judith - Devi dirci ciò che sai. Se ciò che dici è vero, allora... -
- Bah! Inutile tentare di trovare scappatoie per considerarla innocente! E' palesemente la traditrice! - inveì Michael, furente - Se non vuole confessare, abbiamo altri modi per concludere questo maledetto gioco del cazzo! -
- S-stai dicendo di ucciderla...!? Sei impazzito!? - fece June, improvvisamente sulla difensiva - Non sappiamo ancora nemmeno ciò che ha fatto...! Se davvero lei è... -
- June, se non facciamo qualcosa in merito al traditore Judith verrà mandata nella Sala delle Punizioni - le ricordò Xavier - Sei disposta a lasciare che ciò avvenga? -
L'arciera e l'avvocatessa si scambiarono uno sguardo carico di dubbio e tensione; entrambe avevano sentimenti contrastanti al riguardo, ma la risposta fu palese.
- ...no. Non lascerei mai che Judith venisse uccisa al posto del traditore... - mormorò tristemente - Però... -
- Vi dico... che vi state sbagliando - perseverò Pearl - Voi tutti... sempre a sospettare di me, in ogni occasione! Eppure vi sbagliate, siete in errore ogni volta...! -
- Tu dici? Allora rispondi a questo, Pearl - Xavier ripartì all'attacco - Hai volutamente taciuto sul fatto che eri presente sulla scena, nonostante tu non avessi ucciso Karol. Deve esserci un motivo per il tuo comportamento: qual è? -
- Qualcosa che la ha spinta a rimanere in silenzio nonostante non fosse colpevole... - sospirò Pierce - Se anche fosse la traditrice, non avrebbe senso... -
- Già...! Perché non ha semplicemente detto che si trovava lì, se non ha fatto nulla? - si domandò June - Sarebbe bastato... dire la verità, no? -
Sentendosi minacciata da ogni fronte, Pearl avvertì l'urgenza di fare un passo indietro.
Non sembravano esserci vie di fuga da quelle argomentazioni, esattamente come non ve ne erano dal tribunale sotterraneo.
Ma la verità le sembrò un nemico troppo grande e potente da affrontare; qualcuno con cui nemmeno il benché minimo confronto pareva plausibile.
- Io non... non volevo che... -
- Argh! Basta cincischiare! - si esasperò Michael - Diccelo! Diccelo e basta! -
- ...forse non può - 
Tutti si voltarono verso Judith Flourish, come se avesse appena enunciato una rivelazione sensazionale.
- ..."non può?" - fece Pierce - Che intendi? -
- Lo avete detto anche voi... - mormorò Judith - Non sembra esserci il più assurdo motivo per cui Pearl possa voler tenere nascosta la sua presenza sulla scena... a meno che... -
La pupilla di Xavier si illuminò.
- A meno che... Pearl non sia direttamente coinvolta col delitto -
- Cos-...? - la ninja non riuscì a credere a ciò che sentiva - N-no! NO! Assolutamente no! Non lo ho ucciso io! Lo abbiamo già...! -
- Lo abbiamo già cosa? "Dimostrato"? - sbottò Michael - Ma con queste nuove informazioni potremmo anche iniziare a creare un quadro differente della situazione, non trovi? -
- C-credo di capire a cosa vi riferite... - sospirò Pierce.
Pearl appoggiò entrambe le braccia sul banco con forza.
- Che state... che state dicendo!? Karol è morto a causa dell'impatto col mappamondo! - strepitò lei.
- Ma l'impatto non è stato immediatamente letale. Ricordi? Lo abbiamo già dimostrato - le rammentò Xavier - Il fatto che Karol abbia potuto lasciare un messaggio indica che la morte non è stata istantanea... e soprattutto... -
- ...noi non abbiamo idea di quanto tempo abbia impiegato Karol a morire, dopo essere stato colpito da me - constatò Judith - Potrebbe essere passato... parecchio più tempo di quanto immaginassimo -
- Abbiamo una finestra temporale di circa mezz'ora da quando Judith è scappata dalla classe e il momento in cui è tornata per controllare... - notò June - Che in quel frangente sia accaduto qualcosa? -
- Qualcosa come l'arrivo di Pearl, ad esempio? - propose Michael, accodandosi al ragionamento.
- V-voi... vi siete intestarditi su questa faccenda...! - si oppose Pearl, senza darsi sosta - Vorreste dire che sono stata io ad ucciderlo!? -
- No. Ciò andrebbe a cozzare col resto del nostro filo logico - la corresse Xavier - Il fatto che la scritta alla lavagna sia rimasta intatta era per indurci a pensare che il traditore e l'assassino fossero due entità separate. No, Pearl, non credo tu abbia ucciso Karol. Ma hai giocato un ruolo nella sua morte. Pensiamoci, questo caso è completamente assurdo fin dalle sue premesse -
- Con "premesse" intendi...? - Pierce domandò una delucidazione.
Xavier si schiarì la voce.
- Innanzitutto che Karol abbia aggredito Judith. Un comportamento simile deve essere scaturito da qualcosa. E, se ho intuito bene, quel qualcosa ha a che fare col traditore. Karol era così profondamente immerso nella sua ricerca al traditore che ne è rimasto vittima - spiegò lui - Ora, Pearl: che cosa è successo tra te e Karol? Cosa ti ha permesso di giungere a quella conclusione? Sei l'unica che ha le risposte, e se necessario ti costringeremo a confessare -
- Pearl, ti scongiuro! Difenditi! - la implorò June.
- Parla, traditrice... - ringhiò Michael - Parla, o te ne farò pentire... -
- Pearl... se vuoi che crediamo nella tua innocenza, aiutaci a farlo - sospirò Pierce.
- ...ti prego - fece infine Judith, con tono gentile ma perentorio - Vogliamo la verità -
L'Ultimate Ninja deglutì a fatica; la gola riarsa le faceva male ogni volta che tentava di emettere anche solo un suono o un gemito.
Diverse paia di occhi riversarono su di lei sguardi pieni di confusione e paura, odio e dolore. 
Occhi che andavano ad ingrandirsi in modo smisurato nella cognizione già fortemente debilitata di Pearl.
- No... vi prego... dovete credermi... -
Avvertì debolezza in tutto il corpo; una delle gambe venne a mancare e fu costretta a sorreggere il proprio peso con le braccia.
Sentimenti che non aveva mai provato inondarono il suo animo come un fiume in piena, gettandola in uno sfrenato bailamme senza sosta né ordine.
"Non doveva finire così... non doveva...! Io non volevo fare nulla! Non voglio uccidere nessuno... nessuno... NESSUNO...! Non sono stata io, non sono stata io...!"
Avvertì infine una sensazione diversa, sempre nuova. Un'umidità in volto che non le era familiare, un sentore mai sondato prima.
Chinò il capo verso il basso; il banco era vagamente bagnato. Alcune gocce si erano sparse in modo disordinato sulla superficie lignea, provocando piccole chiazze trasparenti.
Le ci volle qualche attimo per comprenderne la provenienza.
Si portò una mano sul volto, poi la staccò dopo essersi tastata la pelle; era bagnata.
"Ma che cosa...?"
- Pearl...!? - l'esclamazione di June terminò in una smodata boccata d'aria - Stai...? -
- No... non guardatemi così...! - continuò la ninja, pietosamente incapace di trattenere le lacrime - Non è come credete! Non ho fatto niente...! -
- Pearl, niente più suppliche. Sai bene quanto noi quanto siano inutili in questo inferno dove ci troviamo - le disse Xavier, con voce severa e sguardo torvo - E' tempo tu ci dica tutta la verità. Tutta -
"La verità... dire loro la verità...? Sì, me lo aveva detto... me lo aveva detto, ma non gli ho dato ascolto... Perché...? Perché lo ho fatto...? Io non volevo,
non doveva finire così... non doveva, non doveva, non doveva non dovevanon dovevanondovevvanononononoNONO...! NOOOO....!
"
- ...non doveva finire così... -
Pearl Crowngale cadde in silenzio per alcuni minuti.
Vide per un istante il proprio riflesso sulla vetrata che li separava dalla Sala delle Punizioni.
Non riconobbe la persona che intravide sopra di essa, non riuscì a ricollegare la propria immagine a quella della ragazza in lacrime ritratta sulla parete di vetro.
Odiò profondamente quella persona che andava contro tutto ciò che era sempre stata; i suoi ideali di forza, indipendenza e freddezza non contavano più nulla.
Sperò di vederla sparire, di scacciarla nell'oblio, ma quella Pearl che tanto detestava non se ne andò.
L'Ultimate Ninja lo sapeva: non se ne sarebbe mai andata.
Sarebbe rimasta lì, in ogni specchio, a farle da ombra; così fin dal giorno in cui era comparsa.

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Capitolo 48
*** Capitolo 5 - Parte 10 - Reminiscenze (1) ***


Anno XXXX, Novembre, Giorno X


Era sera inoltrata, e un buio profondo e notturno inghiottiva ogni cosa. Persino la fioca luce della luna poteva ben poco, offuscata da una coltre di nuvoloni neri che presagivano una tempesta incombente.
L'aria era umida e tirava un forte vento; i vetri delle finestre erano appannati e iniziava già a calare la nebbia.
Quella sera, la natura sembrava star mandando un chiaro segnale, come se si stesse ribellando.
Uno spettatore osservò quell'impressionante spettacolo da un luogo sicuro; al riparo, tra le mura della propria magione che non cedevano agli ululati del vento.
Brian Horde scostò la tenda e pose lo sguardo in lontananza; un fulmine era appena caduto in un punto imprecisato a largo della costa, e le prime gocce di pioggia picchiettavano fragorosamente sul vetro creando una melodia scrosciante.
Brian sbuffò, visibilmente irritato, e si scostò. 
Allungò la mano verso il pomolo della finestra e lo girò verso destra, serrandolo.
L'atmosfera era pessima, ma non come il suo umore; e Brian non era tipo da non dare a vedere il proprio stato d'animo.
Tornò a sedersi alla propria scrivania ottocentesca e ricolma di documenti e libri di ogni genere, dove il suo giovane ed inesperto segretario lo stava attendendo tremando come una foglia.
La meteopatia di Brian era piuttosto risaputa, così come il fatto che l'uomo divenisse intrattabile non appena si presentava del maltempo improvviso.
Quella sera, però, tutto apparve in proporzione maggiore.
Il volto torvo di Brian Horde diede al segretario il presagio che non si trattava della giusta sera per portare cattive notizie.
Brian si limitò ad appoggiare il mento sul dorso delle proprie mani, fissando il suo impiegato di traverso.
- ...dovevi dirmi altro? - chiese, con la voce di un predatore pronto a scattare.
L'altro si sistemò il colletto della giacca, che gli stava stringendo la gola.
- N-no, signore. Il mio rapporto finisce qui - asserì lui.
- Bene - sospirò Brian - Ti dirò, non avevo assolutamente voglia di sentire di più. Ho solo bisogno di rilassarmi un po'... -
- Assolutamente, Signore - concordò il segretario - Credo che del riposo le gioverebbe, senz'altro -
Lui gli lanciò un'occhiataccia intimidatoria.
- Se lo comprendi, allora sparisci -
Senza farselo ripetere due volte, l'ometto si alzò di scatto e raccolse tutte le proprie scartoffie, ripiegandole sbrigativamente all'interno della propria cartella.
Si allontanò a passo svelto e raggiunse la porta dello studio voltandosi per appena un istante.
- Allora... con permesso - si congedò lui.
- Aspetta -
Il giovane deglutì; era abituato agli sbalzi d'umore del datore di lavoro, così come anche al fatto che spesso gli veniva ordinato di andarsene e poi restare contemporaneamente.
Quella sera, però, aveva una brutta sensazione.
- ...mi dica, Signore -
- Raddoppia la sicurezza - ordinò lui - Voglio che diano un'occhiata attorno al perimetro, non mi interessa se fa brutto tempo. Metti una persona in più in ogni corridoio, per scrupolo -
L'altro impallidì; non fu tanto per la tempestività con cui gli veniva richiesta un'organizzazione tanto precisa, quanto per l'ordine stesso.
Era comparso uno strano bagliore negli occhi di Brian Horde; una scintilla sospetta che non celava nulla di buono.
- S-Signore...? Posso chiederle come mai mi sta chiedendo di fare tutto ciò? - domandò lui, con massima umiltà - Qualcosa non va? -
Brian non rispose.
Raggiunse con la mano una scatoletta di sigari, ma poi ricordò che la finestra era tappata a causa della pioggia.
Dovette abbandonare malvolentieri l'idea di distendere i nervi col fumo; scostò la scatola di lato e si mise a massaggiarsi il mento.
- ...ho una strana sensazione -
- Prego? -
- Ho detto che ho una sensazione strana, spiacevole - ribadì lui - Stasera non mi sento tranquillo. Rinforza la sicurezza -
L'altro tossicchiò, grattandosi il gomito freneticamente.
- Signore, teme che qualcuno possa approfittarsi del maltempo per giungere qui? - chiese lui - Mi perdoni se mi permetto, ma questa magione è una vera e propria roccaforte. Sfido chiunque a tentare di introdursi con una tempesta simile e tutti i nostri uomini di guardia. Sarebbe imposs-... -
- Ascoltami bene -
Brian batté un pugno sulla scrivania senza nemmeno preoccuparsi di incrinarla.
Si alzò dalla poltrona con uno sguardo incandescente, che avrebbe potuto ridurre in cenere chiunque con un singolo movimento della pupilla.
Non compì nemmeno un passo; rimase immobile, a fissare l'ometto che, nel frattempo, aveva perso qualche chilo per lo spavento.
- Se ti dico di aumentare la sicurezza, tu lo fai. Sono anni che mi affido all'istinto per sopravvivere, e non mi ha mai tradito nemmeno una volta - disse, con voce al contempo calma ma intimidatoria - Ho un brutto presentimento, come un brivido lungo la schiena. Quindi... tu andrai a dare l'annuncio agli uomini, SUBITO! -
- Assolutamente, Signore! Immediatamente! - fu tutto ciò che riuscì a dire prima di correre via a gambe levate.
Non appena la maniglia della porta si abbassò con uno scatto, Brian tornò a sedersi.
Si passò una mano sul volto stanco e si mise a pensare guardando un punto fisso nel vuoto.
Aveva appena parlato di come aveva sempre dato retta all'intuito, ma sapeva bene che quest'ultimo andava spesso e volentieri a cozzare con la ragione e il buon senso.
Aveva fatto costruire quella villa in un luogo sperduto, vicino ad una rocca a picco sul mare; vi era un unico accesso alla residenza, e passava per una strada rocciosa, stretta e perennemente sorvegliata dal personale e dalle telecamere; nemmeno la tempesta poteva mettere in pausa l'instancabile sistema di sorveglianza della villa.
Il resto del territorio era costituito da un'aspra scogliera e da uno strapiombo che dava direttamente sull'oceano; non vi era nessuna strada alternativa da poter  percorrere per arrivare lì; nonostante ciò, Brian Horde non riusciva a scrollarsi di dosso quella sensazione di inevitabile pericolo.
Non era accaduto nulla di strano o particolare nei giorni precedenti, né aveva intrapreso manovre o azioni rischiose di recente.
Tutto ciò a cui si stava affidando era il proprio sesto senso; la paura che potesse trattarsi di un sintomo di vecchiaia non tardò ad arrivare.
Era tutta la vita che Brian Horde si dedicava ai propri affari, riuscendo lì dove molti uomini prestigiosi avevano fallito e costituendo una notevole fortuna.
L'istinto non lo aveva mai deluso, né in affari né in quanto alla propria vita privata.
Ma gli anni passavano per tutti. Brian intravide sul proprio volto le rughe di un uomo che si avvicinava ai sessanta, domandandosi di conseguenza se non fosse arrivato il momento di smettere di aggrapparsi così saldamente a delle sensazioni di cui non era più sicuro di potersi fidare.
Sospirò pesantemente; i sigari erano ancora un'opzione non disponibile.
Un tuono fragoroso lo sorprese, facendolo sobbalzare; era decisamente ora di trovare qualcosa che potesse distendergli i nervi.
Ancora un altro fulmine o folata di vento improvvisi, e la soglia di tolleranza di Brian sarebbe stata messa a dura prova.
La prima idea che gli balenò in mente fu la più semplice; si alzò dalla poltrona e si avviò verso un angolo della stanza, dove era situata una credenza antica dal valore inestimabile. Il pomolo in ottone cigolò non appena vi posò la mano sopra; aprì l'anta lignea e ne estrasse una bottiglia di liquore.
Era di un vivace colore rosso ed emetteva una fragranza dolciastra; era ciò che gli occorreva per riuscire a distrarre il cervello dai cattivi pensieri.
Aveva ordinato quella bottiglia da una remota località americana, l'unica in cui si produceva quel particolare tipo di alcolico; Brian aveva da sempre provato un certo imbarazzo nel confidare la propria debolezza nei confronti dei sapori dolci e mielosi, così aveva fatto in modo che quella spedizione fosse resa nota solo a pochi confidenti.
Si avvicinò alla scrivania e appoggiò su di essa la bottiglia e un piccolo bicchiere in vetro scintillante.
Stappandola, appoggiò lentamente le narici sull'estremità della bottiglia; si inebriò dell'odore con una lenta ma profonda inspirazione.
Avvertì i sensi rilassarsi, la pelle contratta si era improvvisamente rammollita, e i muscoli del volto si erano finalmente lasciati andare.
Ma la magia durò ben poco; una brezza gelida gli carezzò il collo, facendolo rabbrividire.
Si sporse oltre la scrivania; uno spiffero di vento era penetrato attraverso la finestra, e diverse gocce di pioggia erano cadute sul tappetto persiano.
Strinse con foga la bottiglia, quasi provando l'urgenza di spaccarla in mille pezzi.
- ...maledizione! - tuonò.
Si avventò sulla maniglia della finestra, strattonandola e spingendola verso l'interno. Girò la maniglia fino in fondo, forzandola.
Osservò, irritato, i danni provocati dalla pioggia: era penetrata parecchia acqua, e una buona porzione del tappeto era ormai fracida.
Brian tastò i danni con la mano; fortunatamente, nulla di irreparabile.
Ma nulla infastidiva Brian Horde come un tiro mancino da parte del maltempo; il malumore non accennava a diminuire.
- Sia dannato il cielo, adesso anche questa! - imprecò lui - Eppure ero certo di...! -
Si bloccò a metà della frase. 
L'istinto tornò a stuzzicargli la mente, stavolta in maniera più tempestiva.
Un brivido gelido gli percorse la schiena da cima a fondo.
Si voltò lentamente verso la finestra; era ancora chiusa, come la aveva lasciata pochi attimi prima. Ma qualcosa non lo convinse.
- ...eppure ero certo di averla chiusa per bene... - sussurrò a se stesso.
Brian Horde era sempre sicuro di fare le cose per bene. Troppo sicuro.
Mosse un braccio verso il pomolo della finestra, accertandosi che il meccanismo non fosse difettoso o semplicemente allentato.
Non appena ne ebbe la conferma, si voltò di scatto; era solo, come era ovvio che fosse.
Guardò ovunque, in ogni angolo che la vista riusciva a scorgere.
Non vide nulla, non sentì nulla, non avvertì nulla.
Copioso sudore iniziò a grondargli dalla fronte; pur non percependo nessun tipo di minaccia, la sensazione di pericolo non lo abbandonò nemmeno per un istante.
Dopo alcuni attimi, i suoi arti iniziarono a ritornare rilassati, come se il momento di crisi fosse superato.
Il respiro gli tornò normale, il cuore smise di battere all'impazzata.
Il silenzio tornò sovrano.
- ...è tutto a posto - mormorò - Devo essermi immaginato... che... -
La sua pupilla si accorse troppo tardi del dettaglio fuori posto.
La luce del lampadario che illuminava la stanza stava gettando la sua ombra sulla parete; ma non era l'unica.
Una seconda sagoma si era aggiunta alla propria; un'ombra sinuosa e rapida.
Gli occhi trasmisero al cervello quell'informazione, che arrivò una frazione di secondo troppo tardi.
Si voltò di scatto, con occhi serrati dallo sgomento.
Un tuono cadde poco distante, sommergendo ogni cosa col proprio rumore.
Una mano gli tappò la bocca, afferrandolo da dietro. 
Avvertì un ginocchio che gli colpì due volte la schiena, provocandogli un dolore acutissimo.
Provò ad urlare, ma uscì solo un suono confuso e filtrato dalle dita dell'assalitore.
Ad un certo punto, accadde l'inevitabile: il suo organismo processò un dolore talmente immenso che lo fece svenire quasi immediatamente.
Alla saliva si mescolò un vasto grumo di sangue; la gola era completamente invasa da una quantità sanguigna anormale.
Un corpo affilato gli era appena stato piantato nel collo, trapassandolo da parte a parte.
Emise un gemito soffocato, e poi perse i sensi del tutto.
Il suo corpo esanime si accasciò di peso sulla scrivania; vasti fiotti di sangue vennero vomitati dalla bocca di Brian, che aveva smesso di provare qualunque sensazione.
Il legno della scrivania ottocentesca era tinto di un rosso profondo.
Dalla sommità del cadavere, una piccola figura magra e smunta scese sul pavimento con un breve salto.
Rimase per alcuni secondi ad osservare il proprio operato; gli occhi dell'assassina erano chiari e spenti.
Il rosso vivo del sangue brillò all'interno delle sue iridi, provocandole una sensazione strana.
La ragazzina scosse la testa, ritornando alla realtà.
Infilò le mani nelle tasche della costosa giacca cucita a mano che il cadavere stava indossando.
Impiegò circa una quindicina di secondi per trovare ciò che stava cercando; una spilla dorata con incise le iniziali "B.H.".
La osservò per un istante; aveva trovato e ottenuto il bersaglio.
Infilò la spilla nella tasca dei pantaloni e passò oltre.
Eseguì un rapido scatto, portandosi sulla zona del tappeto dove la pioggia non era stata clemente, proprio di fronte alla finestra.
Si mise in punta di piedi, tentando di raggiungere la maniglia.
Si accorse che era stata chiusa con una certa forza; esercitò una notevole pressione su di essa per spingerla ad aprirsi quanto prima.
La missione era compiuta, l'obiettivo neutralizzato e la prova dell'atto trafugata.
La giovane non doveva fare altro che uscire da quel luogo, e tutto avrebbe avuto fine.
Osservò il compimento dei propri sforzi; la finestra si era aperta.
Della pioggia aveva già cominciato ad entrare all'interno della stanza, inzuppandole il viso.
Fece per poggiare una mano sul bordo del davanzale, pronta ad immergersi nell'oscurità notturna e darsi alla macchia.
Allungò la mano verso la via di fuga che aveva preparato, concentrando ogni fibra della propria mente sul come seguirla alla perfezione, senza dare nell'occhio.
Innumerevoli possibilità si erano manifestate nel cervello dell'assassina.
Riguardo a quale applicare, lo avrebbe deciso in base alle necessità.
Il primo passo era compiuto.
- .........papà? -
Ad un tratto, una folata di vento le scompigliò i capelli.
Si immobilizzò, con la mano fissa a mezz'aria, incapace di muoversi.
L'assassina si girò lentamente verso le proprie spalle.
La porta dello studio era aperta; una bambina dai capelli rossi era sbucata da oltre la soglia, piazzandosi al centro della sala.
Indossava un pigiama bianco e aveva due occhi vagamente assonnati. 
Il suo sguardo terso e stanco incrociò i due occhi glaciali della giovane sicaria.
Lo scambio di sguardi tra le due avvenne nel giro di un attimo.
La ragazzina osservò la sagoma che si apprestava a saltare dalla finestra, poi i suoi occhi passarono a scrutare l'enorme ammasso cadaverico crollato sulla scrivania.
Fu inizialmente convinta di trovarsi in un sogno vivido, dove suono, colori e odori erano estremamente realistici e ben definiti.
Attimo dopo attimo, però, l'identità del corpo diveniva sempre più chiara e nitida. Il velo del sonno era stato brutalmente strappato via.
Un sguardo terrorizzato comparve sul suo volto contratto da paura e disgusto; la bocca spalancata di Brian Horde mostrava una lama metallica intrisa di sangue che gli aveva perforato e tranciato il collo, uscendo dalla sua bocca irrigidita.
La bambina, ancora prima di urlare, sentì l'impulso di scappare; fuggire via, da quella che non era più né realtà né sogno. Solo un incubo ad occhi aperti.
Si voltò rapidamente, senza neppure notare che la sagoma della ragazza bionda era sparita dal davanzale.
La porta di chiuse con uno scatto della maniglia; la mano dell'assassina ben piantata su di essa.
A quel punto, i polmoni della piccola si gonfiarono d'aria.
- AIUT-...! -
Il grido le fu strappato via.
Non fu in grado di pronunciare fino in fondo neppure una vocale.
Una mano le serrò la bocca, mentre il braccio opposto le stava lentamente schiacciando il collo fino a soffocarla.
Tirò fuori tutta l'aria che riuscì a trovare all'interno del proprio corpo, che si tramutò però in un sibilare soffocato.
Avvertì la morsa stringerla sempre di più; la vista si annebbiò, così come il resto dei sensi.
L'ultima cosa che vide prima di perdere definitivamente il contatto con la realtà fu il volto dilaniato del padre.
L'assassina avvertì che la resistenza della vittima era definitivamente venuta meno.
Il corpo della bambina dai capelli rossi si afflosciò sul pavimento; gli occhi erano rimasti aperti, sbarrati.
La ragazzina bionda esitò per un istante; compì alcuni passi indietro, allontanandosi.
Ma gli occhi spenti della recente vittima non smisero di fissarla nemmeno per un istante.
Passarono alcuni istanti: infine, scostò ogni pensiero dalla testa e si concentrò unicamente sulla fuga.
Balzò sul davanzale e si preparò a saltare verso l'esterno, lasciandosi alle spalle il proprio operato.
Fece per voltarsi indietro un'ultima volta, ma si obbligò a non farlo.
Pearl Crowngale si immerse nel buio notturno, abbandonando la magione di Brian Horde.
Non si udì nessun allarme, nessun urlo, nessuno scalpitante rumore di passi.
Solo pioggia, vento e tuoni.
La morte di Brian Horde e di sua figlia venne scoperta solo venti minuti più tardi.
Nessun colpevole fu mai trovato.



Due giorni dopo



Le nuvole cariche di pioggia che per più di un giorno avevano portato un'incessante tempesta si erano finalmente volatilizzate.
L'aria era ancora fredda e umida, ma il cielo era terso e privo di minacce meteorologiche.
Brandon Moore aprì delicatamente la finestra verso l'esterno, beandosi della frescura portata dal mattino.
La vista sul giardino della villetta, come sempre, era innegabilmente piacevole e rilassante.
L'erba fresca era costellata di gocce di rugiada e alcuni uccelli, che da poco avevano nidificato su uno degli alberi del cortile, avvolsero l'area con la propria cantilena.
Alcuni petali colorati caddero dai propri steli per finire a galleggiare sulla superficie delle pozzanghere sparse lungo il prato, unico lascito della pioggia del giorno prima.
L'anziano Moore osservò il quieto spettacolo con un sorriso caldo, godendosi ogni attimo di quella pace.
Si accomodò al tavolino posizionato accanto la finestra e iniziò a versarsi del tè caldo.
La teiera era ancora bollente, ed un fumo vivace svolazzò attorno alla tazza non appena il liquido andò a riempirla.
Ne annusò il tiepido odore; una fragranza dolciastra di un infuso straniero, probabilmente il suo preferito.
Inserì due zollette esatte ed iniziò a girare col cucchiaio; era un rituale mattutino a cui non era stato capace di rinunciare per anni, divenendo un'abitudine.
La giornata di Brandon Moore doveva necessariamente cominciare con una fumante tazza di tè.
Anche quel giorno, così come in tutti gli altri, la bevanda aveva lo stesso, magnifico sapore; gli uccelli intonavano la stessa melodia, l'erba aveva lo stesso profumo.
In un mattino così perfettamente normale e generico, però, il vecchio Moore sentiva che qualcosa stava per accadere.
"...vi è aria di cambiamento" pensò, dopo un altro sorso.
Moore non era mai stato un uomo ansioso o impaziente, né uno pretenzioso. Se l'intuito gli stava suggerendo che quel giorno era diverso dagli altri, avrebbe atteso con flemma che l'evento si manifestasse in maniera spontanea, senza dare fretta al destino.
Nella sua cerchia di conoscenti vi era chi ammirava quella dote e chi ne aveva quasi timore; c'era chi pensava che Brandon Moore agisse in quel modo spensierato perché non aveva paura di nulla, neppure della morte, e che dare tempo al tempo era divenuto quasi un gioco, per lui.
Come se le sorprese del fato fossero per lui oggetto di divertimento.
Quando sentì bussare alla porta, Brandon si chiese se non fosse il destino venuto a riferirgli ciò a cui stava pensando.
- Avanti - esclamò con tono pacato.
Ad entrare fu un uomo snello sulla trentina, uno dei suoi innumerevoli collaboratori.
L'uomo si esibì in un breve inchino, e Brandon ricambiò il saluto con un affabile cenno della mano.
- Maestro - esordì, con tono di riverenza.
- Buongiorno - rispose Brandon - Oggi è una magnifica mattina, non trovi? -
L'altro non trovò un modo brillante di replicare, e si limitò ad annuire.
All'anziano Moore venne da ridere.
- Sei sempre troppo serio - sorrise - Devi forse dirmi qualcosa? -
- Porto notizie -
- Lo avevo intuito. Di che si tratta? -
- Pearl è tornata -
L'occhio destro di Brandon scattò, quasi vibrando. La sua premonizione sembrava aver fatto centro ancora una volta.
Senza smettere di sorridere, si voltò verso la finestra.
- La piccola Crowngale, eh? E' stata rapida - asserì - Falla entrare -
L'uomo si congedò con un secondo inchino, svanendo poi dietro la porta.
Brandon ebbe il tempo di concludere la sua tazza di tè; si mise poi a riflettere.
"...Pearl Crowngale" pensò tra sé "Che il destino abbia in serbo qualcosa, per te?"
In appena una ventina di secondi, la porta della stanza si aprì di nuovo.
A farsi strada nel salotto di Moore, pieno di semplice mobilio bianco e numerosi dipinti affissi alle pareti, fu stavolta una ragazzina estremamente giovane con capelli color biondo chiaro e occhi cristallini come il ghiaccio.
La giovane si fermò poco più avanti del ciglio della porta; quest'ultima venne chiusa alle sue spalle.
Brandon le rivolse un sorriso caldo e cordiale.
- Ciao, Pearl - fece lui, invitandola ad avvicinarsi - Vedo che sei tornata -
- Maestro - rispose lei, chinando il capo.
- Stavo giusto per versarmi un po' di tè - fece Brandon, prendendo la teiera tra le mani - Vieni, su. Ti offro una tazza -
Lei parve quasi esitare, ma alla fine raggiunse l'anziano mentore al tavolino sotto la finestra.
La differenza d'età tra i due era palpabile; da un lato vi era Brandon, dalla pelle liscia ma piena di piccole rughe sparse, i capelli grigiastri e radi e una vestaglia candida.
Dall'altro, Pearl lo guardava dal basso verso l'alto con un'espressione vacua; portava i capelli legati alle spalle e indossava abiti consunti e vagamente sporchi.
In più, la maglietta che indossava era costellata da numerose tracce di sangue e sporcizia organica di vario genere.
Brandon Moore non si curò della cosa, come se fosse la più normale delle circostanze.
Le versò la bevanda e gliela porse, ignorando completamente le mani insanguinate che reggevano la tazza.
- Fa attenzione. E' caldo -
Pearl soffiò diverse volte sulla superficie del tè, senza però avere molto successo nel raffreddarlo.
Bevve un breve sorso per tastare il terreno; rinunciò a berlo fino a che la temperatura non fosse stata più accettabile.
Si meravigliò che il proprio maestro si stesse godendo la propria bibita con sorsi lunghi e goduti, senza neppure battere ciglio.
Quel breve e apparentemente normale quadretto cessò di esistere nel momento in cui la giovane decise di andare al sodo.
- ...ho portato a termine il mio compito - disse, poggiando sul tavolo un piccolo oggetto scintillante: una spilla dorata con una macchia rossa rinsecchita.
Brandon assunse un'aria più seria, ma non smise di sorridere tiepidamente.
- Lo so. Sei stata davvero in gamba - si complimentò lui - Hai svolto la missione in meno tempo di quanto mi aspettassi -
Pearl non reagì al complimento; aveva la sensazione che vi fosse qualcosa di più dietro le parole del vecchio, che quella lode non fosse il fine ultimo della conversazione.
Avvolta da un senso di vaga inquietudine, attese in religioso silenzio.
Brandon bevve un altro sorso. Afferrò la spilla con la punta delle dita e la ripose in un cassetto.
- Sai, Pearl. Devo ammettere che mi hai saputo sorprendere in più di un modo - commentò lui - Ho dato un'occhiata ai tuoi appunti -
Gli occhi chiari della ragazzina guizzarono; abbassò rapidamente lo sguardo, come a volersi nascondere.
- I miei... appunti... -
- Sì. Ti chiedo scusa per averli letti, immagino che tu li ritenessi un qualcosa di privato - Brandon si grattò la nuca con fare sincero e apologetico - Ma nei giorni appena prima della tua missione ti ho vista continuamente intenta a scrivere. La curiosità ha avuto la meglio su di me -
- Non deve scusarsi... era solo il materiale della missione - rispose lei, senza scomporsi.
L'anziano Moore si massaggiò il mento.
- A tal proposito... erano parecchio dettagliati. Forse troppo - constatò - Hai studiato da vicino il tuo bersaglio per giorni interi, monitorando il suo stile di vita e assorbendo ogni piccola informazione su di lui. Cielo, su quei fogli era addirittura indicato il numero di volte in cui andava in bagno -
- Mi sono appostata in un luogo sicuro per osservarlo... - rispose timidamente - Ogni dettaglio può essere utile da sfruttare durante il lavoro... me lo ha insegnato lei, no? -
- Esatto, la mia non era certo una critica. Stavo semplicemente denotando il tuo zelo - annuì - Da quant'è che hai preso questa abitudine? -
- Abitudine...? -
- Di scrivere rapporti dettagliati sui tuoi bersagli, nero su bianco -
- Ah... è che riesco a concentrarmi meglio se ho tutte le informazioni sotto mano... - raccontò - Rileggo tutto ciò che scrivo fino a che non ho un quadro mentale completo del bersaglio. Agisco solo quando sono sicura -
- Ammirevole. Davvero ammirevole - Brandon si esibì in un brevissimo applauso - Sapevo che il tuo talento era inestimabile -
Passò un breve momento di silenzio.
La conversazione sembrava quasi essere arrivata ad un punto morto, ma la verità era che entrambi stavano attendendo che l'altro mettesse in mezzo il vero soggetto dell'argomento.
Pearl Crowngale aveva intuito fin da subito che quello non era altro che un preambolo che il suo mentore aveva costruito per attenuare ciò che stava per arrivare.
Lo guardò dritto negli occhi, e con voce flebile gli pose una domanda.
- ...c'è qualcosa... che deve dirmi, Maestro? -
Lui cessò di sorridere, ma il suo volto non si irrigidì. Rimase sereno, ma al contempo assunse un'aria diversa.
- Sì, Pearl. C'è qualcosa di importante di cui dobbiamo parlare - 
La piccola deglutì.
- ...mi dica -
A quel punto, Brandon Moore si alzò dalla sedia e si andò a specchiare nel vetro della finestra. Il giardino non aveva perso la sua aura di calma, e vigeva un silenzio quasi sacro.
Vide riflessi anche i piccoli occhi chiari della giovane, fissi nella sua direzione in fervente attesa di risposte.
- Pearl, dimmi. C'è del sangue sui tuoi vestiti - disse improvvisamente lui - A chi appartiene? -
Lei esitò per un istante.
- A Brian Horde, il bersaglio della mia missione -
- Corretto. E' il sangue dell'uomo che ti è stato richiesto di assassinare - disse lui - Vedi, giusto ieri sono iniziate a circolare varie notizie sulla sua dipartita. Di come il cadavere sia stato ritrovato in un luogo apparentemente inaccessibile e senza alcuna traccia del colpevole. Di come il delitto sia avvenuto in un intervallo di tempo brevissimo e di come nessuno si spieghi come possa essere avvenuto senza che nessuno si accorgesse di nulla... o meglio, QUASI nessuno -
Pearl ascoltò tutto con attenzione, collegando ogni informazione alle varie tappe del proprio lavoro.
Alzò lentamente lo sguardo.
- Maestro... -
- Ciò che mi ha colpito... è stato l'altro ritrovamento. Il secondo - le parole di Brandon si fecero lente e pesanti - Il cadavere della piccola Lucille Horde, trovata morta strangolata a pochi passi dal corpo del padre -
Brandon Moore si voltò di scatto, rivolgendo alla giovane assassina uno sguardo severo e penetrante. Un'occhiata di cui Pearl Crowngale conservò il ricordo in eterno.
- Ho due domande per te, Pearl - disse, perentorio - Numero uno: perché hai ucciso Brian Horde? -
Pearl avvertì un lieve tremito alle mani.
- ...era il bersaglio della mia missione -
- Sì, ma il punto è PERCHE' lo hai eliminato? Parlo del motivo per cui ti è stato incaricato il suo omicidio, Pearl -
- Brian Horde... era un affarista corrotto che si era arricchito sfruttando commerci illegali e traffici banditi... - disse lei, quasi come se recitasse un testo scritto - Aveva ottenuto una fortuna mandando in rovina i suoi avversari, spesso ricorrendo anche all'omicidio... era in contatto con la malavita e se ne stava servendo per ottenere più potere... -
Brandon incrociò le braccia dietro la schiena. Annuì brevemente.
- Sì, corretto. Brian Horde era un uomo pericoloso, che ha distrutto innumerevoli vite per il proprio tornaconto - continuò lui - Ed ecco come mai la nostra organizzazione lo ha classificato come bersaglio prioritario. Andava ucciso -
Passò un altro pesante, lungo secondo.
- Ora... la seconda domanda - prese una breve pausa, inspirando - Perché... hai ucciso Lucille Horde? -
Il quesito successivo era stato posto con le stesse parole del primo, eppure il tono era completamente diverso.
Pearl ne avvertì il brusco cambiamento, ma la sua risposta non era cambiata.
Gli occhi glaciali di Pearl rimasero saldi.
- ...era una testimone del delitto. Mi ha colto sul fatto - rispose - La ho messa a tacere in modo che non desse l'allarme -
Il mentore si fermò per un istante, constatando come la propria allieva avesse dato una risposta fin troppo logica e pragmatica.
- La hai uccisa perché... era una testimone? -
- Lasciare testimoni è pericoloso; è stato uno dei suoi molteplici insegnamenti -
- Sì, non nego che sia così - ammise lui - Ma, Pearl... sono certo di averti anche insegnato a saper distinguere le decine, no... centinaia di sfumature da considerare in casi simili -
- Mi perdoni, Maestro... - mormorò lei, con aria confusa - Ma non la capisco... che cosa ho sbagliato? L'obiettivo è stato eliminato, e i testimoni silenziati... -
- Pearl... - sospirò lui, portandosi una mano alla fronte.
- Io non... non capisco -
Lui le poggiò una mano sulla spalla, facendo in modo da canalizzare tutta la sua completa attenzione su di sé.
Nel momento in cui i loro occhi si incrociarono, Pearl non fu più capace di distogliere lo sguardo.
Brandon Moore stava indagando dentro di lei.
- Pearl, affrontiamo il discorso da un altro punto di vista - propose - Chi erano, per te, le due persone che hai assassinato? Che cosa hai visto in loro? -
- Erano... - deglutì - Erano bersagli. Andavano uccisi -
- Perché? -
- Perché... mi è stato ordinato di farlo... - sospirò lei - Erano gli ordini, e io... li ho eseguiti -
Quelle parole fugarono ogni ombra di dubbio nella mente di Brandon. 
Era oramai chiaro ciò che ancora mancava alla ragazzina per poter far evolvere il proprio mondo. Doveva solo scegliere le parole giuste per insegnarglielo.
- ...Pearl, devi imparare a comprendere realmente ciò che ti circonda. Non ti è stato ordinato di trucidare delle bestie - le disse, con tono fermo e risoluto - I tuoi obiettivi sono... persone. Esseri umani. C'è una differenza abissale, comprendi? -
- ...ma la missione ha la priorità... qualunque sia il bersaglio, l'importante è che vada eliminato, giusto...? - domandò lei, sempre meno sicura di ciò che stava dicendo.
- No, Pearl. Non devi semplicemente seguire gli ordini; devi anche comprenderli. Non devi uccidere qualcuno solo perché ti è stato detto di farlo; devi capire quali conseguenze avrà il tuo gesto, e pesare bene ogni valutazione. Ecco qual è stato il tuo errore: ancora non comprendi il valore delle vite che prendi -
- Il loro... "valore"? -
Brandon si rese conto di stare andando incontro ad un argomento complicato per qualcuno dell'età di Pearl, ma sapeva che bisognava affrontarlo.
- Ogni vita ha un valore, Pearl. Ogni vita ha un significato, uno scopo; per quanto buono o malvagio possa essere -
- Ma noi... noi rubiamo la vita... - osservò lei.
- So che può sembrare paradossale, ma soprattutto noi che priviamo gli altri della vita dobbiamo comprenderne il peso. Noi, che ci facciamo carico di un lavoro gravoso come questo, abbiamo il dovere di valutare ogni vita con le giuste misure -
- Ma come si fa...? - domandò lei, allibita - Come si fa a... decidere il valore di qualcosa di simile? -
- E' un compito complicato per una persona sola; ecco perché siamo un gruppo numeroso che prende decisioni unanimi - rettificò lui - Poniamo ad esempio Brian Horde. Era un uomo spietato, malvagio. Ha ucciso e rubato, depredato e mentito. Lui, che calpestava le vite altrui per il proprio benessere, è stato eliminato per garantire il bene di altra gente. Centinaia di famiglie innocenti sotto il suo giogo saranno libere una volta che il suo impero malavitoso cadrà a pezzi -
- ...capisco -
- Ti eri mai posta il dubbio? - chiese lui - Ti sei mai domandata come mai ti mandassi ad uccidere queste persone? -
Lei si mostrò titubante.
- No... -
- Come mai? -
- Ero convinta... di doverlo fare e basta. Per ripagarla della sua gentilezza di avermi ospitato qui... -
- Ripagare un debito di gratitudine non significa dover diventare ciechi alla verità. Hai sempre trattato le tue vittime come semplici oggetti da distruggere, e mai come persone. Ed è per questo, immagino, che hai ucciso quella bambina -
Pearl abbassò lo sguardo.
- Io non... -
- Tu non la vedevi come un'umana, ma come "Una testimone". Un dato, in pratica; un elemento scomodo. La hai uccisa perché era la cosa migliore per la riuscita del piano: era il corso d'azione più rapido, sicuro ed efficiente. Nessuno sarebbe riuscito a rintracciarti, se avessi fatto fuori la piccola. Dico bene? -
- S-sì... - ammise lei, con voce più colpevole. La sua percezione della realtà si era nettamente modificata rispetto al principio della conversazione.
- Ma questo... è costato la vita ad un'innocente. Capisci, Pearl? Una bambina innocente è morta. Avresti potuto semplicemente stordirla, addormentarla, tramortirla. Sei in gamba, avresti potuto utilizzare qualunque metodo a tua disposizione. Hai scelto il più pragmatico, e ciò ha significato la morte di una persona senza colpe -
- M-Maestro, io... -
- Noi siamo assassini, non macellai - spiegò lui, infine - Non trucidiamo gente, ma assassiniamo individui problematici con lungimiranza, pensando al bene futuro. Abbiamo il potere di uccidere: dobbiamo essere saggi nel gestirlo e mai dobbiamo abusarne. Sono stato chiaro? -
Pearl ancora non riusciva a mostrare genuina mortificazione, ma qualcosa era decisamente mutato nella sua espressione.
Un qualcosa di poco chiaro e ancora incognito, che Brandon sperò potesse diventare un pensiero concreto.
- ...mi punirà? - sussurrò.
- Come? - Moore aguzzò l'udito.
- Sarò... punita per questo...? -
L'uomo sospirò, vagamente deluso.
- ...no, Pearl. E' una mia responsabilità istruirti, e i tuoi errori dimostrano che non ho svolto il mio ruolo come avrei dovuto -
- Non deve assumersi colpe che non ha... -
- Si tratta comunque di qualcosa che non sono riuscito a farti assimilare - sentenziò lui - Non ti punirò, ma mi vedo costretto a metterti in pausa -
- "P-pausa"...? -
- Per un po' non andrai in missione; resterai a casa - le disse - Voglio che tu pensi molto, molto attentamente a ciò di cui abbiamo discusso oggi nelle settimane a venire. Voglio che tu comprenda ciò che hai fatto, e ciò che farai. Che tu capisca quale sia davvero il tuo scopo -
- Il mio scopo? -
- Sì, piccola. Tu uccidi, ma perché? Ognuno ha una propria morale, un codice; qualcosa in cui credere. Quali sono i tuoi valori? Cosa significano per te la vita e la morte? -
Lei non rispose, non essendone capace.
Si limitò a volgere lo sguardo altrove, lontano da quei quesiti complicati.
- ...fino a quando non lo avrai capito, non sarai mai davvero completa -
- Ma quale scopo potrei mai avere...? Io non... -
- Pearl - la fermò lui - Non esiste nessuno, al mondo, in grado di rispondere a questa domanda. E' un qualcosa che devi capire da sola; deve nascere dall'interno. Adesso, va -
Dopo appena qualche attimo, Pearl si alzò dalla sedia e mosse passi lenti e stanchi verso la porta.
Brandon Moore osservò la sua sagoma sparire oltre la soglia; lo sguardo vacuo della ragazzina non era migliorato, né dava segni di ripresa.
Brandon sospirò; era chiaro che sarebbe stato un cammino difficoltoso.
Bevve un ultimo sorso di tè, ormai raffreddato.
Aveva iniziato a tirare una lieve brezza profumata di erba fresca, dal giardino.
"...vi è aria di cambiamento" pensò, lasciandosi trasportare la mente e i pensieri dalla delicata carezza del vento.



Cinque anni dopo



Rita Nebiur osservò con malinconia il suo morbido fazzoletto di lino ricamato a mano, ricordo di molti anni prima, oramai imbrattato e rovinato da chiazze rossastre.
Aveva domandato ad un inserviente di procurarle del disinfettante dall'infermeria, ma non avendo trovato altro per tamponare le ferite aveva dovuto utilizzare quello come ultima spiaggia.
Aveva trascorso dieci minuti a passare il fazzoletto sopra le ferite e i piccoli tagli da unghia sul volto di Karol, che per quanto fosse rimasto stranito da tale comportamento non si era opposto alla premura dell'insegnante.
Vi erano numerosi piccoli lividi, più uno maggiore sotto l'occhio sinistro; per quanto fosse stata un'impresa eclatante, era impossibile che sei persone non avessero opposto almeno un minimo di resistenza. 
Eppure, il ragazzo magrolino di fronte a lei se ne restava tranquillo, seduto a fissare il vuoto con una calma glaciale, dopo aver appena tramortito un buon numero di ragazzi più grandi e grossi di lui.
Vi era un'aura innaturale che cingeva lo sguardo di Karol Clouds; qualcosa che Rita Nebiur ancora non riusciva a leggere.
La donna mise in lista di comprare uno smacchiatore più potente, e appoggiò il fazzoletto sulla cattedra.
Diede un'ultima occhiata di controllo per vedere se la maggior parte del lavoro era finita.
- Così dovrebbe andare - disse - Ti fa ancora male? -
L'altro esitò per un istante, poi scosse la testa.
Rita sospirò; la comunicazione tra i due non stava andando come sperato.
- Sei piuttosto coriaceo, per essere così esile. Sono certa che non ti faceva male neanche prima - scherzò lei - Certo che è stata... una strana sorpresa -
Passò qualche altro secondo di silenzio. Karol non stava rispondendo agli stimoli della conversazione, e Rita non aveva ancora idea di come spingerlo ad aprirsi.
Da quando il preside aveva lasciato la stanza e i due erano rimasti soli, tutto ciò che lo studente si era limitato a fare era lanciare occhiate vacue in un punto fisso davanti a lui, perso nel colore scuro della lavagna.
Non era la prima volta che la donna aveva a che fare con un caso complicato, ma Karol portava il tutto ad un livello superiore.
Rita tamburellò con le dita sulla cattedra, nervosamente pensando a cosa fare.
Non ci volle molto per capire che contro un muro talmente solido poteva essere usata una sola arma: la schiettezza.
- Va bene, Karol. Credo che aggirare il discorso sia superfluo - sospirò lei - Vorrei affrontare con te la situazione nel modo più diretto possibile. Che ne dici? -
Lui non rispose, ma le fece intuire di avere la sua attenzione.
Quel piccolo, minuscolo cenno degli occhi fu già una piccola conquista.
- Il preside mi ha già informata di tutto. Hai preso parte ad una rissa poco al di fuori dalla scuola, circa mezz'ora fa - cominciò lei - Non credo di doverti spiegare gli innumerevoli motivi per cui un comportamento tale sia pessimo e certe azioni non vadano mai compiute; sei abbastanza sveglio per saperlo. Ciò che non mi spiego è come mai tu rimanga invischiato in circostanze simili. Non è la prima volta, dico bene? -
- ...non lo è -
Fu la prima frase di senso compiuto che pronunciò dall'inizio del discorso. Rita la assimilò come un'altra vittoria, seppure esigua.
Si sistemò i capelli ondulati e incrociò le braccia.
- Da un paio d'anni ti sei fatto un nome tra i pettegolezzi della scuola. C'è chi ti chiama "L'incubo dei bulli". Ho perso il conto di quanti ragazzacci si siano ritrovati con occhi pesti e lividi ovunque -
Karol fece spallucce. L'insegnante gli rivolse un'occhiata accigliata.
- Ti sei erto a giustiziere scolastico, Karol? -
- Nulla di così infantile - fu la risposta.
- Allora vorrai spiegarmi che cosa diavolo ti sei messo in testa? - domandò lei, imponendosi - Se non sono state prese delle misure contro di te fino ad ora è perché si è sempre trattato di casi isolati, e spesso nemmeno troppo gravi. La maggior parte delle tue vittime scappa a gambe levate prima ancora che tu faccia qualcosa. Ma oggi è diverso: hai davvero esagerato. Hai malmenato sei persone, e uno di loro è finito in ospedale. Non possiamo più chiudere un occhio sulle tue azioni, Karol -
Lui aggrottò le sopracciglia ed emise uno sbuffo.
- Non me ne sorprendo -
- E sembra che neanche te ne importi più di tanto... - Rita si passò una mano sul volto stanco e affaticato - Lo capisci che c'è in gioco il tuo futuro, Karol!? -
- Che senso ha il mio futuro se non mi piace il mondo in cui lo vivrò? -
Rita interruppe brevemente la strigliata; le era sembrato che, per la prima volta, Karol avesse espressamente elargito un proprio commento personale, un parere.
Era il primo passo per comprendere ciò che pensava realmente, e non se lo lasciò sfuggire.
- Non ti piace il mondo, Karol? -
- Non del tutto - esitò nel proseguire la risposta - Ha tante cose belle, ma troppe brutte. E queste ultime non le digerisco -
- Cos'è che non "digerisci"? -
Lui le rivolse uno sguardo inquisitorio. Quelle continue domande sembravano aver sortito un effetto differente da quello sperato.
- Professoressa Nebiur... perché mai dovrebbe interessarsi a ciò che penso di queste faccende? - domandò - A lei nemmeno interessa -
- Come, scusa? - fece lei, allibita - Che stai dicendo? -
- Le farebbe molto più comodo sbarazzarsi di un tipo problematico come il sottoscritto. Perché insiste in questo modo? Che ci ricava? -
Rita assimilò quella frase realizzando il profondo distacco dei loro rispettivi punti di vista.
- ...dici sul serio? -
- Non ho motivo di scherzare, Professoressa - fece lui, come fosse la cosa più normale del creato.
- Karol, io sono la tua insegnante - gli disse, rivolgendogli uno sguardo di fuoco - Il mio scopo è quello di indicarti la giusta strada, di formarti e renderti un adulto responsabile e rispettabile. Il mio fine ultimo è il tuo bene, lo capisci? -
- Il mio... bene? - esclamò, sconcertato - Sono solo uno sconosciuto. Uno dei mille ragazzi con cui ha avuto a che fare e dei quali non dovrebbe importargliene -
- Ho avuto tantissimi alunni, sì, e non pretendo di ricordarli tutti e nemmeno affermerei che tutti fossero speciali per me. Ma su due cose sei profondamente in errore. Ho sempre dato il massimo per ognuno dei miei studenti, per OGNUNO! E... tu non sei uno sconosciuto. Sei Karol Clouds, un mio allievo. E si dia il caso che io sappia diverse cose su di te -
A quelle parole, Rita pescò all'interno della propria cartella uno dei tanti fascicoli che vi erano all'interno.
L'espressione incredula di Karol le fece intuire che non era stata ancora abbastanza convincente, ma era sulla buona strada.
Il ragazzo non sembrava tipo da lasciarsi influenzare dalle parole: occorrevano i fatti.
- Dunque... alla lettera "C": Clouds - fece con un sorrisetto - Ho avuto modo di correggere i test della scorsa settimana. Normalmente non li farei vedere agli studenti prima del tempo, ma date le circostanze farò un'eccezione -
- Che cosa sta cercando di dimostrare...? -
- Ci terrei a mettere l'accento sul voto che hai ottenuto sul compito. Dà un'occhiata -
Rigirando il foglio sul verso opposto, Rita Nebiur mostrò due grosse cifre marcate in inchiostro rosso. Vi era evidenziato un "dieci", con diverse note a margine.
Karol mostrò disinteresse.
- ...tutto qui? -
- Ti sembra poco? - constatò lei - Era un test su materie multiple in vista degli esami. Non ho mai visto un risultato migliore -
- Professoressa... quello è soltanto un numero - sbuffò Karol - Non rappresenta chi o cosa sono. Solo quanto ne so riguardo certi argomenti -
- Oh, hai assolutamente ragione -
Il giovane alzò un sopracciglio, evidentemente colto impreparato. Era certo di conoscere le parole che avrebbero seguito quella messa in mostra della sua eccellenza accademica, ma si ritrovò in errore.
- ...come? -
- Ho detto che hai ragione. Un voto non significa nulla. Nemmeno due, o tre ottimi giudizi di fila riescono ad individuare una persona nella sua interezza; solo il suo livello culturale - Rita si alzò in piedi, iniziando a circoscrivere un percorso attorno alla sedia di Karol - Ma il tuo caso è diverso. Anni, anni e anni di completa perfezione in ogni materia. E' strepitoso, magnifico... e forse anche un po' inquietante. Diventa ancora più strano se pensi che la persona che ottiene certi successi è la stessa che va per strada a massacrare bulli a mani nude -
- Non sono di certo il primo... - replicò lui - Una persona violenta può essere anche acculturata, e viceversa -
- Vero anche questo, ma è una combinazione molto rara. E ciò mi ha portato ad incuriosirmi - raccontò lei, sorridendo - Volevo capire che tipo di persona fossi, e ho fatto le mie ricerche -
- Le sue... cosa? -
Lei si schiarì la gola.
- Al di fuori della scuola non frequenti nessuno, non hai hobby al di fuori della lettura e delle passeggiate nei parchi. Preferisci i romanzi lunghi, e il tuo genere preferito è il Giallo. Frequenti sempre lo stesso locale per la colazione, e ordini un caffè macchiato ogni mattino. Ma sei vagamente germofobico e ti capita spesso di pulire la tazza prima di... -
Karol si alzò in piedi di scatto, facendo vacillare la sedia.
- P-Professoressa! Come fa a...!? -
- Ah, se ti stai chiedendo se ho l'abitudine di pedinarti... beh, no - rise lei, compiaciuta - La maggior parte delle informazioni le ho raccolte dai tuoi genitori e dalle persone che ti vedono quotidianamente -
- Lei ha...? -
- Interrogato i tuoi conoscenti? Sì - rispose senza nemmeno dargli il tempo di finire.
- Ma perché...? 
Lei appoggiò lentamente una mano sul banco, guardandolo dritto negli occhi.
- Perché sono la tua insegnante - disse, stavolta serissima - E no, non lo faccio per tutti. E nemmeno suddivido i miei alunni in base a chi lo merita e chi no. Lo faccio per coloro che ne hanno bisogno. E tu, Karol, hai bisogno di aiuto -
Lui abbassò lo sguardo.
- Necessito aiuto? ...ed è stata lei a deciderlo? -
- A volte è necessario prendere l'iniziativa quando si ha a che fare con un gran cocciuto come te - sorrise - Ma perché non ti parlo di ciò che mi ha più sorpreso della tua vita? -
- Cosa...? Di che sta...? -
- Parlo del fatto che fai volontariato -
Karol Clouds socchiuse brevemente gli occhi; si portò una mano alla fronte, più per coprire la propria vergogna che per esprimere disappunto.
- Sa anche questo...? - sbuffò, spazientito.
- Sì. Tre volte a settimana vai a tenere un breve doposcuola per dei bambini delle elementari. Davvero ammirevole - il tono era scherzoso, ma al contempo sincero.
- Non si metta in testa strane idee. Lo faccio per... -
- Già, il motivo. Di certo non lo fai per soldi - lo interruppe di nuovo, stavolta più bruscamente - L'associazione per cui ti sei impegnato è No Profit. E di certo non lo fai per ripassare argomenti, a meno che le tabelline non siano nel tuo programma di studio. Non sarà che lo fai... perché ti piace? -
- Professoressa Nebiur, adesso basta con...! -
- No! Ascoltami tu, invece - lo additò lei - Sei un ragazzo in gamba, sei sveglio, e intelligente! Potresti fare qualunque cosa della tua vita, hai le capacità di plasmare il mondo se solo volessi. E se hai intenzione di continuare ad immischiarti in inutili risse di strada sei libero di farlo, ma abbi almeno la decenza di chiederti se è quello che vuoi davvero! Chiaro!? -
Ansimando, attese la risposta di Karol; era pronta a scardinare ogni suo argomento pur di convincerlo a cambiare atteggiamento.
Ma pur non perdendo la sua aria vagamente indignata, Karol non ribatté. Si limitò ad osservare, in silenzio.
Fu il segnale che Rita interpretò come il proprio successo nel fare breccia.
- ...ti ho dimostrato che, per me, non sei un estraneo. Ti ho dimostrato quanto, per me, il tuo sia un caso importante e che ho a cuore. Ora tocca a te - prese aria - Karol, torniamo alla domanda originale: perché hai fatto a botte con quei sei ragazzi? -
Lui incrociò le mani, contemplando se fosse il caso di dare una risposta. 
L'insegnante notò come fosse combattuto sul fatto di aprirsi o meno con lei, ma sapeva anche che le barriere che il ragazzo aveva eretto stavano pian piano iniziando a cedere.
E Rita era anche perfettamente cosciente della propria abilità di saperle abbattere.
- ...erano feccia -
- Come? -
- Gente simile è meglio che sparisca - mormorò, con una fiamma negli occhi - Stavano importunando una ragazza. Era diventata il loro bersaglio preferito oramai da settimane, e a loro non interessava altro che fare il bello e il cattivo tempo con lei -
La nuova prospettiva fece comparire un impercettibile sorriso sul volto di Rita Nebiur.
"Lo sapevo"
- E tu li hai voluti fermare? -
- ...oggi uno di loro stava allungando le mani mentre gli altri se la ridevano. Ho provato a dire loro di fermarsi, ma mi hanno ignorato -
Vi fu un breve silenzio. La storia, dopo quel momento, si fece più ovvia.
- ...e tu cosa hai fatto? -
- Credo che lei lo sappia benissimo -
- Voglio sentirlo dalle tue labbra -
Il ragazzo notò che la professoressa non voleva sentire ragioni al riguardo. Era un qualcosa che doveva fare, per quanto scomodo.
Si grattò la nuca.
- ...mi facevano schifo. Sei, grandi e grossi, e pensavano di potersi sentire forti sottomettendo una ragazza alta la metà di loro. Dato che non volevano darmi retta... ho pensato che un incentivo sarebbe stato d'uopo -
Rita deglutì.
- E quell'incentivo era...? -
- Ne ho afferrato uno e gli ho distrutto la faccia - disse lui, calmissimo - Appena hanno visto il loro amico, non potevo più essere ignorato. Ha funzionato -
- Non dubito dell'efficacia dei tuoi mezzi, Karol... ma della loro etica - sottilizzò lei.
- Mi sono abbassato al loro livello e ho iniziato a parlare la loro lingua - concluse lui - Hanno avuto ciò che meritavano -
- Ma la priorità era salvaguardare la ragazza, non infierire su di loro - osservò Rita - Perché li hai ridotti in quelle condizioni talmente gravi...? -
Una strana scintilla comparve sulle pupille di Karol.
- ...volevo impartire loro una lezione indimenticabile - sibilò - Dopo oggi non ci proveranno mai più. Mai. Più -
Seppure vagamente scandalizzata da quelle motivazioni, Rita trovò un appiglio a cui aggrapparsi.
Si massaggiò il mento, mostrando un'aria interessata. Karol intuì che l'insegnante stava per esporre un altro dei suoi argomenti.
- ...un'interessante scelta di parole, la tua - disse lei.
- A cosa si riferisce? -
Rita alzò l'indice, rievocando la frase precisa.
- Volevi... "impartire loro una lezione". Hai utilizzato questa espressione marcando bene il concetto, masticandone le parole - spiegò lei - E' chiaro che, per te, il valore didattico della faccenda fosse estremamente rilevante -
- ...messa in questi termini, sì. Il mio scopo era... -
- Insegnare. Volevi insegnare qualcosa a quelle persone - sorrise lei - E' la stessa cosa che fai con quei bambini, la sera. Impartisci lezioni dall'alto della tua esperienza -
Karol sospirò, scuotendo il capo.
- Non potrei mai porre questi due casi sullo stesso piano... -
- Ovviamente no. Anche perché il volontariato lo fai con piacere - puntualizzò Rita - Con quei bambini è facile. Loro non conoscono il lato brutto di te; non hanno paura di te. E' un ambiente perfetto per una persona come te, Karol -
Vi fu un'altra realizzazione di cui prendere atto da parte di Karol Clouds.
- ...i bambini non giudicano, si limitano ad assimilare e basta -
- E' fantastico, vero? - Rita aveva un'aria sognante - Tempo fa insegnavo in una scuola elementare. Fu il più bel periodo della mia carriera -
- Lo capisco... -
A quel punto, Nebiur si portò alle spalle di Karol e appoggiò entrambe le mani sulle sue spalle.
- Karol, non hai mai pensato... - gli sussurrò all'orecchio - ...di diventare un insegnante? -
Un meccanismo scattò nel cervello del giovane; un qualcosa che era rimasto bloccato per troppo tempo.
Fu come se il mondo avesse cessato di ruotare per un periodo di tempo indefinito, riprendendo poi a girare ancor più velocemente.
Karol Clouds alzò gli occhi verso il soffitto, incrociando quelli di Rita.
- ...io? Un insegnante? -
- Hai la cultura, la dedizione e la capacità di farlo. Non ti manca nulla che un maestro modello dovrebbe avere - lo rassicurò lei - Uno come te, con la giusta guida, potrebbe fare cose meravigliose. Istruire le generazioni future, plasmare le loro menti indicando loro la via più giusta -
- No, non dica così... - sospirò lui - Non ne potrei mai essere in grado -
- Non rinnegare la tua natura, Karol! - lo spronò lei - Perché mai non dovresti esserne capace? -
- Perché... spesso faccio agire le mie mani prima del cervello. Perché risolvo i problemi con la violenza... -
- Oh, santo cielo, Karol... - lo avvolse in un abbraccio, rassicurandolo.
- Ma è così! Chi mai si affiderebbe agli insegnamenti di uno come me!? - esclamò in preda alla frustrazione - Nessuno mi si avvicina perché hanno paura di me! Non instillerei fiducia, ma solo terrore! Come potrò mai sperare di...!? -
- ...è permesso? -
Una terza voce comparve dal nulla.
Karol cessò immediatamente lo sproloquio, pregando affinché non potesse essere udito dall'esterno.
- Avanti - fece Rita, domandandosi al contempo di chi potesse trattarsi.
Una volta aperta la porta, a comparire sulla soglia fu una giovane studentessa che Rita Nebiur non aveva mai conosciuto prima.
Le sembrò di ricordare vagamente la sua presenza lungo i corridoi della scuola, intuendo che appartenesse a quello stesso istituto.
Osservandone il volto imbarazzato, la donna si chiese che cose fosse venuta a fare.
- Cosa posso fare per te? - le domandò - Ti chiedo scusa, ma siamo nel mezzo di un colloquio importante -
- Ah...! N-non voglio rubarvi troppo tempo! - si scusò lei - Volevo solo sapere... come stava Clouds -
Rita si voltò immediatamente verso l'alunno. Aveva gli occhi sbarrati, e non spiccicava una parola.
- Ah, Karol. La conosci? -
- Io... ecco... mh... - mormorò lui. 
Sputacchiò qualche parola incomprensibile prima che la ragazza prendesse la parola.
- ...poco fa mi ha protetta da dei ragazzi - spiegò lei - Mi stavano facendo passare un inferno, in questo periodo... ma Clouds li ha scacciati via! -
- Ma non mi dire... - disse Rita, mostrando un largo sorriso soddisfatto. 
Karol ancora nascondeva il proprio viso.
- Ho visto che ti eri ferito... ma almeno stai bene - fece lei - Scusa, volevo solo ringraziarti per l'aiuto! Non intendo disturbarvi oltre! -
Richiuse la porta alle proprie spalle con una certa fretta, mostrando come l'imbarazzo fosse presente anche in lei.
Rimasti soli, Rita Nebiur assaporò quel momento di impareggiabile dolcezza.
Si rivolse a Karol con aria di scherno; lui era ancora impietrito.
- ...beh, ma guarda un po'! A me non sembrava affatto terrorizzata da Karol Clouds, Oscuro Signore del Male e della Violenza! -
- P-professoressa, la smetta... -
- Non hai più scuse, ragazzo mio. Hai solo bisogno di canalizzare la tua voglia di impartire "lezioni" in... beh, qualcosa di meno pratico e più... propedeutico -
- Ed è possibile? -
- Nulla su cui non si possa lavorare! - esclamò lei - Sono qui per questo, no? -
A quelle parole, Karol si alzò dalla sedia in cui si era confinato e guardò Rita; quest'ultima le rivolse uno sguardo dolce e complice.
Ci volle coraggio, e non fu facile, ma Karol sentì di doverle dire qualcosa.
Il meccanismo si era sbloccato, e il macchinario era pronto per essere messo in moto.
Il mondo stava girando.
- ...Professoressa Nebiur. Mi aiuterà...? -
Lei gli scombinò i capelli biondicci e lisci.
- E' il mio mestiere - 

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Capitolo 49
*** Capitolo 5 - Parte 11 - Reminiscenze (2) ***


Due anni più tardi



- ...voleva vedermi? -
Pearl Crowngale si introdusse all'interno della stanza annunciandosi con un leggero battito alla porta d'ingresso.
Questa era già aperta, ed entrò senza attendere una risposta immediata. Dopotutto, era stata convocata lì.
- Ah, Pearl! Sì, vieni pure - la invitò Brandon, seduto al solito tavolino - Prendi una sedia e accomodati -
La stanza era la stessa di sempre; Pearl non aveva fatto visita al proprio mentore per oltre due mesi, ma l'inconfondibile profumo dolciastro che avvolgeva il suo studio rimaneva sempre lì, a permearne le pareti. 
I muri bianchi riflettevano la luce del sole gettando sul pavimento un chiarore dall'aspetto mistico, filtrato solo dai vetri delle finestre.
Un'atmosfera di pace e calma cingeva quel luogo, che da anni ed anni era rimasto identico, quasi fosse immune allo scorrere del tempo.
Il proprietario non faceva eccezione: Brandon Moore aveva oramai oltrepassato i sessanta da un pezzo, ma il suo aspetto mostrava che i segni dell'età stavano  avanzando più lentamente del normale. I capelli erano grigiastri, e diverse rughe erano apparse sulla sua pelle, ma a Pearl sembrò quasi che fosse così da sempre.
Senza farselo ripetere, Pearl si sedette davanti a lui rifiutando garbatamente una tazza di tè; era convinta che il maestro ne bevesse troppo, ma non lo avrebbe mai confidato.
- Sei stata puntuale -
- Lo sono sempre - replicò lei, senza accigliarsi.
- Verissimo - ridacchiò il vecchio - Dunque, come te la passi? E' da un po' che sei in pausa, dico bene? -
- Appena un mese -
- Per una infaticabile come te deve essere sembrata un'eternità! -
Pearl rimase a fissare il volto giocoso di Moore; cominciare le conversazioni con delle garbate formalità era da sempre stato un suo tratto distintivo.
Lo faceva a prescindere dall'importanza del discorso e dal peso che avrebbe avuto, quindi le era spesso stato difficile intuire di cosa volesse parlarle quando veniva richiamata nel suo studio dall'odore dolciastro.
- Nemmeno troppo. Ho avuto tempo per pensare - rispose, inflessibile.
- Oh? Hai qualcosa che ti tormenta? -
La ragazza assunse un'espressione vaga. Era come se la risposta fosse ovvia, ma non volesse ammetterlo.
- ...Maestro, cosa voleva dirmi? -
- Passi subito al sodo, vedo - sorrise lui - Sembra che questo vecchio dovrà accontentarsi; ho il vizio di abbandonarmi ai convenevoli, lo ammetto -
- Non ne abbia a male, Maestro - lo rassicurò lei - Ma se ha qualcosa di importante da riferirmi vorrei che lo facesse subito -
L'espressione del mentore si fece più seria, senza però indurirsi.
- ...bene, andiamo al dunque - continuò - Vorrei affidarti una missione. Una importante -
Pearl avvertì un formicolio alle mani. Era raro che Brandon ponesse un accento marcato su quanto la missione avesse peso.
- Me ne parli -
- Si tratta di un'indagine che vorrei portassi avanti per conto della nostra organizzazione. Sarà rischiosa, e dovrai lavorare molto lontano - spiegò Brandon - Te la senti? -
Pearl socchiuse brevemente gli occhi.
- ...non rifiuterò un incarico - asserì lei - Ma deve esserci un motivo per cui ha deciso di mandare me, non è così? -
- Già. Sei l'unica che possa svolgere questa missione - disse, poi alzò una mano - Ma non svalutare la mia opinione di te; sei una dei nostri migliori agenti. Ti avrei inviata in ogni caso -
- Lei mi onora, Maestro. Le assicuro che manterrò fede all'impegno - disse lei, con un breve inchino.
- Non essere così formale, su! - la schernì lui - Adesso, però, passiamo alle cose serie. Ti devo informare sui dettagli del caso, quindi presta attenzione -
- Mi dica -
Brandon Moore serrò le braccia, assumendo un'aria preoccupata.
- ...immagino tu conosca la Hope's Peak Academy, dico bene? - 
Nella mente di Pearl affiorò un'informazione seppellita da tempo.
- La Hope's Peak...? - mormorò - Si tratta di quell'accademia elitaria che coltiva talenti, giusto? Si trova in Giappone -
- Precisamente. E' l'istituto più prestigioso al mondo: la crema delle nuove generazioni vanno a studiare lì, divenendo poi il futuro della società - spiegò - Si tratta dell'orgoglio di quel paese, e da un po' di tempo a questa parte è divenuto un posto influente anche all'estero -
- Deve esserlo, se è arrivato persino alle nostre orecchie -
- Già, davvero una scuola peculiare. Ma ogni istituzione apparentemente impeccabile ha le sue macchie... - sospirò Brandon - Ora ascoltami bene, Pearl. Alcuni nostri agenti che si trovano in Giappone ci hanno mandato delle notizie allarmanti. Pare che un individuo pericoloso si sia addentrato alla Hope's Peak, mescolandosi tra i suoi studenti -
- Tra... gli studenti? - domandò lei, stranita - Mi sta dicendo che questa persona è un liceale? -
- A quanto pare sì -
- Quanto potrà mai impensierirci uno studente adolescente infiltrato in una scuola? -
- Qui arriva la parte critica - Brandon le fece cenno di prestare la massima attenzione - Questo fantomatico studente ha la reputazione di essere "l'Ultimate Despair" -
Gli occhi chiari di Pearl si spalancarono; quel nome grottesco e al tempo stesso altisonante aveva una strana aura attorno a sé.
- "Ultimate... Despair"? -
- Il titolo di "Ultimate" viene conferito agli studenti dell'accademia. E' un simbolo del loro status come eletti, indica che sono in assoluto i migliori nel loro campo -
- E chi è riuscito a creare abbastanza guai da meritarsi la nomea di "Despair"? -
Moore si chinò verso l'allieva.
- ...è ciò che dovrai scoprire, Pearl - le rivelò, abbassando il tono di voce - Dovrai recarti in Giappone, fingendoti una studentessa normale. Indaga in giro e scova l'identità dell'Ultimate Despair. Dovrai fare immediatamente rapporto ad ogni scoperta che farai, ma se la situazione lo richiedesse... -
Pearl deglutì; sapeva quali parole stavano per seguire il discorso.
- ...dovrò ucciderlo - mormorò.
Brandon Moore osservò come l'allieva stesse pronunciando quelle parole con una strana espressione sul volto.
Un sospetto aleggiò nella sua mente, ma lo mise momentaneamente da parte.
- ...esatto - confermò - Si tratta di un soggetto temibile, che sta seminando il panico lungo il paese. Bisogna trovarlo, e fermarlo -
- Ma sarà difficile mescolarsi in un luogo simile senza dare nell'occhio... - disse Pearl, esprimendo un dubbio - Con capelli biondi e occhi chiarissimi non potrò che essere al centro dell'attenzione. La mia fisionomia è troppo... "esotica" -
- Un ragionamento corretto, brava - si congratulò lui - Ma ho pensato anche a questo. Devi sapere che la Hope's Peak sta aprendo una filiale qui in Europa -
- Dice sul serio? - fece lei, incredula.
- Sì. L'istituto vuole espandersi. Sembra si tratti del lavoro di un importante funzionario, ex-studente della Hope's Peak: Kyosuke Munakata - 
- E questo come ci aiuta? -
- E' presto detto: alcuni ragazzi del nostro continente sono stati esaminati dagli scout della Hope's Peak e scelti come Ultimate Students per il nuovo istituto - disse, estraendo un piccolo opuscolo su cui erano indicate alcune date e luoghi - A Marzo avverrà una sorta di scambio culturale, un'iniziativa che permetterà ai ragazzi scelti di visitare la scuola originale in vista della creazione della succursale europea -
- Ooh, comprendo... - sibilò lei - Alcuni studenti andranno lì in visita. Io mi infiltrerò tra loro... -
- Corretto di nuovo. Non avrai problemi a mescolarti tra la folla se ti unisci ad un gruppo di tuoi coetanei -
- Rimane solo... un unico problema -
Brandon Moore spalancò gli occhi, incapace di comprendere a cosa si stesse riferendo.
- Mh? A cosa alludi? -
- ...ha detto che a partire saranno degli studenti dal talento eccezionale, no? - disse lei, abbassando il capo - Come posso far finta di essere una di loro? Che talento ho da poter vantare? -
- Pearl... non dire sciocchezze - ribatté lui - Sei in assoluto la migliore allieva che abbia mai avuto. La più precoce e la più abile sin dalla tenerà età. Non vedo come...! -
- Maestro...! - protestò debolmente lei - Non posso... non posso di certo raccontare di essere... un'assassina provetta... Non è una dote di cui andare fieri, né un talento che persone normali considererebbero di coltivare -
Le sue parole di opposizione celavano qualcosa di più; Brandon se ne era accorto.
Osservò come Pearl, per la prima volta nella sua vita, stesse mettendo in dubbio un elemento che la riguardava.
- ...Pearl, che tu lo voglia o meno, hai un talento. Talento per l'omicidio, sì - affermò - Nessuno meriterebbe il titolo di "Ultimate Assassin" più di te, ma ovviamente non è così che ho provveduto alla tua registrazione -
- ...ah, no? - disse lei, esalando un sospiro di sollievo.
- Ho creato un titolo più... consono al tipo di ambiente che frequenterai. Non hai motivo di preoccuparti, gli scout sono già al corrente delle tue doti -
- ...la sua rete di collaboratori arriva davvero ovunque, Maestro - commentò lei, impressionata.
- Cosa credevi? Ho una certa influenza - disse, fingendo di pavoneggiarsi - Ma ho avvertito una strana tensione da parte tua, Pearl. Cosa c'è che non va? -
Pearl Crowngale non tentò neppure di fingere ignoranza; sapeva benissimo che era impossibile che qualcosa sfuggisse all'acuta attenzione di Brandon Moore.
Le sue pupille sottili sbirciavano ovunque, persino nell'animo della gente. Era una dote inquietante e affascinante al tempo stesso.
La giovane si era arresa già da tempo al fatto che non poteva celare dei segreti in sua presenza.
- ...Maestro, io... -
- Si tratta ancora di quella storia di sette anni fa? Ci stai ancora pensando? -
Lei deglutì. Ancora una volta ebbe conferma di quanto Moore fosse spaventosamente perspicace.
- Non le sfugge nulla, mh? -
- Non sarei arrivato dove sono, in caso contrario - sorrise lui - Pearl... ancora ti tormenti perché non comprendi il motivo... per cui uccidi? -
Annuì a fatica.
- Vorrei poterle dire che in tutti questi anni io sia giunta ad una risposta. Ma non è così - mormorò la bionda - Continuo a svolgere le mie missioni, prestando attenzione a non strafare e a non commettere imprudenze. Ma ancora non capisco, Maestro. Non capisco cosa significhi... uccidere -
- Privare qualcuno della vita è un'azione difficile da identificare - le disse, comprensivo.
- Eppure per me è... troppo normale. Una vita si spezza così facilmente; in un attimo fugace, un uomo può cessare completamente la sua esistenza - raccontò, ipnotizzata dal proprio stesso racconto - Come fa un atto così effimero essere carico di un peso così grande? -
L'anziano si alzò dalla sedia, recandosi al suo fianco. Le carezzò una spalla; ne avvertì il lieve tremare.
- Non puoi quantificare la vita umana, ma puoi comprenderla. Non puoi attribuirle un valore arbitrario, ma puoi almeno carpirlo. La vita è sacra, e così è anche la morte -
- Vita e morte sono... sacre? -
- Io li definisco dei... "diritti inalienabili" del genere umano. Tutti vivono e muoiono, senza eccezioni - spiegò lui - Ma una morte prematura è ingiusta, se portata per mano umana. La morte deve avvenire, ad un certo punto, ma affrettare quella altrui per il proprio tornaconto è inaccettabile. Il diritto alla vita non può essere revocato per motivazioni simili -
- ...capisco - annuì Pearl.
- I bersagli della nostra congrega sono esclusivamente persone che hanno abusato del proprio potere e hanno imposto la morte a chi non la meritava ancora. Ci siamo fatti carico di un grosso fardello, ma abbiamo svolto il nostro compito con dedizione e giustizia. Bada, però: è il NOSTRO ideale di giustizia. Non tutti lo condividono -
- Questo vale per tutto, immagino -
- Senz'altro. Abbiamo fatto la nostra scelta, ed eccoci qui. Il nostro lavoro si basa su delle fondamenta paradossali, non trovi? -
- ...lei mi ha sempre detto che, in quanto assassini, dobbiamo essere i primi a comprendere quanto valore abbia la vita - asserì lei - E' perché dobbiamo conoscere ciò che stiamo per portare via, giusto...? -
- Esatto, Pearl. Ma per quanto il nostro gruppo abbia un'etica comune... - sospirò lui - ...ognuno è mosso da principi diversi, da valori differenti. Ognuno di noi uccide per delle motivazioni che gli sono personali. Chi perché crede di fare la cosa giusta, chi perché è invece convinto di star compiendo un male necessario. Chi, ancora, prova un estremo piacere nell'eliminare qualcuno e non si pone troppi problemi -
- Si può davvero interpretare la morte in modi così diversi, pur perseguendo lo stesso fine? - domandò lei.
- Certo. Siamo umani, siamo tutti differenti. Ma una cosa ci accomuna - affermò, guardando l'allieva dall'alto - Tutti noi rispettiamo la morte, e non ce ne serviamo mai per i nostri fini personali. Vi è stato chi ha infranto questa regola, in passato, ed è stato punito... in modo radicale -
Pearl Crowngale deglutì profondamente.
- ...Maestro -
- Dimmi -
- Sette anni fa... quando uccisi quella bambina... - disse, con un filo di voce strozzata - Io calpestai la morte senza nemmeno badarci... per me non era che un mezzo, uno strumento di lavoro. Mandai in frantumi il nostro credo, ma non sono... mai stata punita. Perché...? -
Vi fu un breve silenzio da parte di Brandon, indicando che la risposta non era semplice da proferire.
- ...vi erano pareri contrapposti, nell'ordine - sospirò lui - Io mi opposi alla tua... punizione. Eri troppo giovane, e inesperta. Non avevi ancora assimilato i concetti più importanti, ma iniziasti a lavorare presto per via del tuo immenso talento. Ho voluto darti una seconda possibilità, e fino ad oggi non la hai mai bruciata -
- Ma Lucille Horde è morta... - perseverò lei - E' morta ingiustamente, e io sono ancora viva... -
- Se la sua vita ha potuto significare, per te, una crescita talmente significativa... - le disse il mentore - ...allora voglio credere che non sia morta invano -
Pearl assimilò quella risposta; le lasciò un gusto amaro, ma ne comprese il senso.
Dopo un breve momento di riflessione, Pearl si alzò dalla sedia.
Si inchinò lentamente, per poi avviarsi verso la porta. Si bloccò a due passi dall'uscita.
- Maestro. Andrò alla Hope's Peak - esclamò lei - Andrò lì, e cercherò la mia risposta -
Brandon Moore sorrise; un sorriso caldo e sincero, di chi sapeva che era avvenuto qualcosa di positivo.
- ...approfittane per vivere un po' da studentessa normale. Ti farà bene -
L'idea fulminò la mente di Pearl, la quale però indietreggiò seduta stante.
- ...non sono una persona normale, non so se ce la farò. Ma farò di tutto per comprendere cosa significa, per me, il mio ruolo. E' una promessa -
A quelle parole, Pearl Crowngale lasciò definitivamente lo studio, senza più tornarci se non poco prima della partenza.
Brandon Moore la vide sparire oltre la soglia della porta, lasciandosi alle spalle il proprio profumo.
Il vecchio si sedette al tavolo, immergendosi nei propri pensieri.
Afferrò distrattamente l'opuscolo della Hope's Peak e fece per metterlo via in un cassetto, quando qualcosa catturò la sua attenzione.
Appena prima di riporre il depliant, notò un piccolo oggetto metallico sul fondo del cassetto: una spilla dorata con le iniziali "B.H.", con piccole incrostazioni rossastre.
La rimirò tra le proprie dita, rievocandone il ricordo.
"...vi è aria di cambiamento" pensò, versandosi l'ultima tazza di tè della giornata.
Vi era un profumo nuovo nell'aria mattutina proveniente dal giardino.



Qualche mese dopo, il giorno prima del processo



Pearl Crowngale rimase immobile con lo sguardo fisso sulla porta dell'aula del primo piano, senza muovere un muscolo.
Gli occhi chiari erano puntati sulla maniglia, che ancora esitava ad afferrare. 
Erano passati oramai diversi minuti da quando la ragazza era giunta lì davanti; gli unici momenti in cui non restava imbambolata di fronte all'ingresso era per gettare occhiate circospette lungo il corridoio, assicurandosi che non giungesse nessuno.
Nonostante tutto, aveva preso le proprie precauzioni: Michael, June e Pierce si erano barricati in infermeria, combinando chissà quale diavoleria per conto dell'Ultimate Chemist.
Xavier non era uscito dalla sua stanza, e Judith era rimasta nei pressi del ristorante dopo la loro ultima conversazione.
Era difficile che uno dei compagni venisse ad importunarla proprio in quel momento, ma Pearl sapeva anche che non poteva adagiarsi sugli allori.
Si decise a poggiare la mano sul pomolo, ma ancora faticò ad abbassarlo.
"...va tutto bene" si rassicurò mentalmente "Non stai facendo nulla di male... ora entro, e chiarirò la faccenda... andrà tutto bene, andrà tutto bene"
Pur ripetendoselo in continuazione, Pearl sapeva che non era così.
Era difficile che sarebbe realmente andato "tutto bene"; non con le premesse che stava considerando.
Fu quasi in procinto di rinunciare ed andarsene quando, in un ultimo slancio di coraggio, chiuse gli occhi ed aprì la porta di getto.
Accadde in un istante; si fiondò all'interno e richiuse la porta alle proprie spalle; fu come levarsi un cerotto.
Il suo respiro era ancora irregolare, ma il primo passo era fatto.
Pregò affinché la tensione non le giocasse brutti scherzi, ma oramai il dado era tratto.
Non poteva più tornare indietro: gli occhi dell'Ultimate Teacher erano fissi su di lei nel momento stesso in cui aveva messo piede nell'aula.
Karol era in piedi, vicino alla cattedra; non sembrava star facendo nulla in particolare, ma la sua espressione non apparve essere per niente rilassata.
Pearl ne scrutò il volto: gli occhi di Karol erano lucidi e arrossati, il volto arrossato e accaldato. Le orecchie avevano il medesimo colore.
Il braccio destro era contratto e una vena pulsava lungo il dorso della mano.
Pearl Crowngale maledisse la propria idea di andarlo a trovare in un momento talmente pessimo; ma pur rimpiangendo la scelta, non si tirò indietro.
Si strinse tra le spalle, e si fece avanti.
- ...ciao, Prof -
- ......Pearl - 
Pronunciò il suo nome con appena un sibilo. La ragazza deglutì.
- Va tutto bene... Karol? - domandò.
- ...no, ho diversi grilli per la testa - rispose lui, avvicinandosi a lei - Cosa ci fai qui? -
- Volevo... volevo parlarti -
Il volto di Karol era ancora torvo e rabbuiato; con sguardo contrito, Pearl tentò in ogni modo di non distogliere gli occhi da lui.
- Parlarmi? -
- Sì, io... avevo bisogno di fare una... confidenza - disse, ancora titubante - Non sapevo... a chi rivolgermi... -
Passò qualche attimo di silenzio. Karol sembrò considerare quella proposta.
Fu li che Pearl ebbe conferma dei propri dubbi: Karol non era in sé.
Non era mai accaduto che l'Ultimate Teacher si approcciasse in modo talmente vago ad un confronto, soprattutto con un'espressione corrucciata e apparentemente iraconda.
Il disagio di Pearl crebbe esponenzialmente ad ogni secondo che passava; sentì l'impulso di accantonare l'idea. Di andarsene via, di corsa, senza voltarsi.
Ma Karol Clouds la sorprese ancora una volta.
- ...Pearl, prima di qualunque cosa tu voglia dirmi devo porti una domanda -
La ragazza avvertì un battito accelerato del cuore.
- ...di che si tratta? -
La mano di Karol si contrasse ancora.
- Pearl... - sibilò lui - Chi sei veramente? -
Scandì le parole in modo che fossero perfettamente udibili.
Le pupille di Pearl si ridussero a fessure, ed iniziò a sentire brividi di freddo lungo tutto il corpo. 
Nemmeno la fuga era più un'opzione, essendo le sue gambe completamente paralizzate.
Un breve senso di terrore la attraversò: Karol non aveva perso il suo sguardo penetrante, e stava attendendo una risposta.
Gli occhi glaciali di Pearl persero ogni potere di fronte a un quesito così vago, ma al contempo così specifico.
Serrò le dita delle mani e riprese lucidità mentale; pur non cessando di tremare, sapeva che quella era un'occasione.
Un'occasione da non sprecare solo per paura.
Pearl Crowngale, per la seconda volta, prese il coraggio a due mani e tentò di nuovo.
- ...sono un'assassina -
Karol assaporò quella risposta senza battere ciglio; le stava mostrando che la risposta in sé non aveva peso: l'Ultimate Teacher la conosceva già.
Non era altro che una prova, ma che Pearl la avesse superata o meno era un altro discorso.
Karol afferrò una sedia vicina e ci si sedette. Poi allungò la mano verso un'altra postazione, davanti a lui.
- Accomodati - la invitò lui.
Lei esitò, ma alla fine si lasciò convincere. Probabilmente poiché l'aura pericolosa attorno la sagoma dell'insegnante si era attenuata.
La pelle di Karol si era rilassata, tornando chiara e limpida, seppure questi rimanesse in stato di allerta.
Pearl gli si sedette di fronte; il confronto era iniziato.
- ...allora, Pearl - cominciò lui - Parlami. Cosa volevi dirmi? -
- ...è strano - mormorò lei, con volto contrito - Ero venuta da te per liberarmi di un peso, ma ho come l'impressione che tu sappia già tutto -
- Verifichiamolo - propose lui.
- Allora... potremmo partire da ciò che ti ho appena rivelato - sospirò lei - Io... non sono l'Ultimate Ninja -
A braccia conserte, Karol annuì tre volte.
- ...sei l'Ultimate Assassin, giusto? -
Un grosso grumo di saliva discese lungo l'esofago di Pearl.
- Sì... - ammise, con un filo di voce - Esatto. Sono l'Ultimate Assassin, una killer professionista -
- Non fatico a crederci - proseguì Karol - Spacciare le tue doti per quelle di una maestra di ninjustsu aveva senso, ma la tua vera natura risiede altrove... -
- Karol... come facevi a saperlo? - fu l'ovvia domanda della bionda - Non mi capacito di come potessi esserne a conoscenza...! Io non...! -
- Pearl, ti rivelerò tutto a tempo debito - la bloccò lui - Ma prima... prima devo capire se posso fidarmi di te -
- Fidarti di me... - Pearl annuì - Sì, immagino sia normale... 
Karol appoggiò entrambi i gomiti sul banco, affrontandola a viso aperto.
- Va bene. Dimmi ciò di cui volevi parlarmi - la incitò - Non ti interromperò -
A quelle parole, Pearl prese una lunga boccata d'aria.
Era giunto il momento di liberarsi di un fardello troppo grosso, troppo pesante da sopportare.
Sotto lo sguardo giudizioso dell'Ultimate Teacher, Pearl Crowngale raccontò la propria storia.
- Sono una killer, addestrata per uccidere sin da ragazzina. Faccio parte di un'organizzazione segreta che agisce per conto di un ente governativo. Siamo un gruppo di assassini che bersaglia individui pericolosi o che abusano del proprio potere; io sono stata mandata in Giappone, alla Hope's Peak... per una missione importante -
- ...che tipo di missione? - domandò Karol, senza lasciarsi scandalizzare.
- Il mio compito era... di individuare un soggetto che stava seminando il terrore in lungo e in largo, e che pareva essersi infiltrato alla Hope's Peak -
L'Ultimate Teacher ebbe un'illuminazione.
- Stai parlando... dell'Ultimate Despair? - chiese lui - Lo stesso che ha provocato l'invasione dei Monokuma e il collasso della Hope's Peak? -
- Proprio lei - confermò Pearl - Ero stata inviata con lo scopo di trovarla e ucciderla prima che facesse ulteriori danni. Ma... ho fallito -
- Hai fallito? -
Lei sospirò, mortificata.
- Le mie indagini mi hanno portato a scoprire che si trattava di una studentessa infiltrata nella scuola: Junko Enoshima -
- Una... studentessa...? - fece lui, incredulo - Un momento, hai detto "Junko Enoshima"? -
- Ti ricorda qualcosa? -
Massaggiandosi il mento, Karol tentò di rievocare quanto più possibile dal suo trascorso alla sede principale della scuola. Quel nome non gli era nuovo.
- ...ho avuto a che fare con molti studenti dell'istituto, durante quel mese di permanenza - mormorò - Mi pare di ricordare una ragazza con quel nome -
- Ti è andata bene. Hai avuto a che fare con il più pericoloso essere umano della storia contemporanea -
- Assurdo... non vorrai dirmi che una semplice adolescente possa aver...! -
Lei gli bloccò la frase, impedendogli di continuare.
- ...che un'adolescente possa aver provocato talmente tante vittime? E' ciò che stavi per dire...? - fece lei - Perché... è ciò che ho fatto anche io -
- Pearl... -
La ragazza si ricompose.
- Ovviamente non mi porrei mai sullo stesso piano di qualcuno del genere. Ma al contempo non posso negare di... esserle stata simile - sospirò - Ma a prescindere dai nostri trascorsi, non cambia che Monokuma abbia rapito anche me. Non sono che una vittima impotente della disperazione... -
- Una "vittima"... - constatò Karol - Pearl, mi stai dicendo che tu... non sei la...? -
- Karol - lo interruppe nuovamente - So che fidarsi di me non è affatto semplice... ma devi credermi: non sono la traditrice -
- Immaginavo stessi per dirlo... - asserì lui - Se è davvero Junko Enoshima ad aver messo noi sedici in questa sfida assurda, è difficile che stia ricevendo aiuto dalla persona incaricata di assassinarla, non trovi? -
Pearl spalancò gli occhi.
Pur avendo pronunciato una frase dal significato ovvio, vi era un peso ben maggiore per l'Ultimate Assassin.
Un peso che, in quel momento, fece la differenza.
- ...Karol, vuol dire che... mi credi? -
- Ho motivo di ritenere che tu stia dicendo la verità... - commentò - Ma c'è un'altra questione da chiarire -
- C-cioè...? -
- Non capisco come mai tu sia venuta qui a dirmi tutte queste cose. Perché adesso? E come mai hai voluto tenerlo segreto fino ad ora? Devi dirmelo, Pearl -
La ragazza ebbe un ulteriore momento di esitazione. Deglutì.
- ...la verità p-potrebbe non essere piacevole -
- Non lo è quasi mai. Te lo dico per esperienza - le confidò lui - Ma il fatto di essere venuta da me è un passo avanti. Pearl, sei l'unica che possa gettare un po' di luce su questa faccenda. Ti prego, parlami.... ti prego -
Gli occhi le si inumidirono. 
Fu quello il momento in cui ogni freno fu tolto, in cui ogni inibizione perse di consistenza.
Furono quelle parole a spronare Pearl a rivelare quell'ultimo, grosso segreto: un'informazione che avrebbe cambiato tutto, drasticamente.
Una singola frase che avrebbe ribaltato il rapporto col gruppo, ma che il tenerla segreta la stava rodendo dall'interno.
Alzò lentamente lo sguardo; Karol non aveva distolto il suo nemmeno per un istante.
Stava attendendo con stoica pazienza.
E lì, Pearl compì il secondo passo.
- ...io volevo uccidervi - gemette - Volevo uccidervi tutti -
Ne seguì un pesante silenzio. Si udì il ticchettio dell'orologio da parete, unica fonte sonora della stanza.
Karol mostrò un'espressione corrucciata, ma non fiatò. Lasciò che la prima, piccola lacrima versata da Pearl cadesse sul banco indisturbata.
- ...volevo uccidervi. Dal primo all'ultimo; non me ne importava niente - singhiozzò - Ammazzarvi senza distinzione, per me non faceva differenza. L'unica cosa che volevo era uscire da qui, da questo posto disgustoso in cui si sputa su ogni cosa in cui credo. Volevo andarmene, tornare a casa... volevo sbarazzarmi per sempre di questo ricordo, e l'unico modo per farlo era di eliminarvi tutti -
Passò qualche altro momento di pausa. Karol ancora non accennò a pronunciarsi.
- Ho iniziato... a prendere appunti. E' una cosa che faccio sempre prima di assassinare qualcuno... - proseguì lei - Ho elencato ogni cosa che potesse aiutarmi ad uccidere ogni singolo membro del gruppo. Davvero, chiunque... ognuno di voi. Mi sarebbe bastato attenermi alle regole di Monokuma e... sarei potuta uscire. Il mio lasciapassare per la libertà era... praticamente il mio pane quotidiano. Mi sarebbe bastato... mandare a morte quindici persone e avrei avuta salva la vita... -
- ...ma alla fine non lo hai fatto -
Lei si asciugò gli occhi inumiditi.
- ...no, non lo ho fatto -
- Perché? -
A Pearl venne quasi da ridere.
- ...vedi, Prof, ho passato tutta a vita a cercare una risposta che non ho mai trovato da nessuna parte. Una risposta ad una domanda che aleggia sulla mia esistenza dal primo giorno in cui ho intrapreso questo mestiere - fece lei, ricordando un tempo passato e lontano - "Perché uccido"? Mi sono domandata tante volte questo assurdo quesito, senza mai neppure comprendere cosa significasse. Per me uccidere era un lavoro. Era il mio modo di contribuire al benessere della società, ma qualcosa non mi quadrava. Qualcosa, dentro di me, mi diceva che non ero soddisfatta di questo responso... -
- ...che cosa cercavi dall'omicidio? -
- Vorrei poterti rispondere. Il mio mentore... lui mi ha detto che i miei dubbi erano dovuti al fatto che ancora stento a comprendere il valore della vita: il peso che ogni singola esistenza porta con sé, fino al sopraggiungere della morte. Era vero. Non ho mai capito fino in fondo che cosa significasse, per me, vivere... -
Karol Clouds prestò attenzione ad ogni sfaccettatura della sua espressione mentre raccontava tutto ciò.
Non riuscì ad individuare nessuna falsità, nessun inganno, nei suoi occhi. Era una vera confessione, e lui si sentì in dovere di accettarla.
- E cosa ti ha fatto cambiare idea? -
- Cambiare... idea? -
- Alla fine non ci hai uccisi, no? - evidenziò lui, con ovvietà - Hai realizzato qualcosa. Ma cosa, e come? -
Una seconda volta, Pearl si lasciò scappare un sorriso spento.
- ...ti sembrerà assurdo - fece lei, con voce candida - Ma è stato tutto merito di Elise -
Una fitta al cuore colpì metaforicamente l'Ultimate Teacher, nell'udire quel nome.
- Elise...? -
- Proprio lei. Probabilmente la persona più sciocca e ingenua che abbia mai conosciuto - disse, soffocando un'altra lacrima - La più stupida, incomprensibile, svampita ragazza su questo mondo. Ma anche la più buona e innocente... -
- ...avevo quasi dimenticato il suono della sua voce - ammise Karol - Sembra passata una vita, ma è morta poche settimane fa... -
- Tutto sembra un'eternità, in questo inferno -
- Ma cosa ha fatto Elise a tal punto da spingerti a cambiare idea...? -
Pearl intrecciò le dita delle mani.
- ...quando concludemmo il processo di Hayley, io e Lawrence trovammo... un certo video -
- Tu e... Lawrence...? - altri nomi familiari provocarono in Karol una reminiscenza sgradevole - Ah, ma certo! La telecamera che Elise... -
- Esatto. Prima di morire, Elise lasciò un memento. Un videomessaggio per noi, i suoi compagni - gli occhi di Pearl erano sognanti - Fu incredibile, Prof. Incredibile. Era la prima volta che assistevo a qualcosa del genere. Vidi il volto di Elise Mirondo per l'ultima volta attraverso quello schermo, che ci implorava di fare in modo che il gioco al massacro cessasse. Disse che aveva fiducia in noi, che voleva uscire da lì assieme a tutti. Lo aveva registrato ben prima che Refia venisse uccisa... nemmeno poteva immaginare ciò che sarebbe accaduto successivamente... eppure era lì. Spaventata, ma fiduciosa. Ingenua, sì, ma piena di speranza. Era... completamente l'opposto di ciò che ero. Tutto ciò che avevo in mente era di ammazzarvi. Di trovare l'occasione giusta per eliminare uno di voi, e mandarvi a morire per scappare. Se Alvin non avesse agito per primo, forse lo avrei fatto io. Ma lei, quella sciocca... ha continuato a credere in noi fino alla fine -
- ...era una persona con un'enorme sensibilità - affermò Clouds - Attraverso la telecamera percepiva una realtà più accurata; una tutta sua -
- E' stato lì che ho compreso qualcosa di nuovo... - Pearl si afferrò il petto con la mano - Ho iniziato a provare un sentimento diverso, sconosciuto. Qualcosa che non ho saputo identificare fino a che non... -
Tentennò, senza finire la frase. Una contrazione del suo volto fece intuire a Karol che vi era bisogno di uno sprone.
- ...fino a che? -
- ...fino a che Kevin... non mi donò quel fiore - accennò un sorriso spento - Un fiore. Per me. Capisci, Prof? Un fiore... -
- E' un regalo molto dolce, e premuroso - annuì lui - Ma cos'è che ti diede da pensare? -
- Karol... è difficile da spiegare. Per tutta la mia vita non ho mai... agito come una persona normale. E' un qualcosa che ho compreso solo in questo mese - raccontò lei, perdendosi nelle proprie parole - Non ho mai fatto nulla di ordinario, non sono mai STATA una persona ordinaria. Non ho mai vissuto da adolescente, e non sento nemmeno di essere stata una ragazza. Ma quel fiore, quel maledettissimo, bellissimo fiore... Kevin mi disse che rappresentava un messaggio di gratitudine spassionata. Un altro concetto che mi era alieno, d'altronde... -
- Dimmi, Pearl - la incitò lui - Che cosa hai realizzato? -
L'assassina espirò profondamente.
- ...ho aperto gli occhi. Per la prima volta, ho compreso con chi avevo a che fare. Con che tipo di persone stavo vivendo questa breve porzione della mia vita - disse, lasciandosi trasportare dal discorso - Ho smesso di vedere "bersagli". Ho cominciato a vedere esseri umani. Persone, come me, ma anche molto diverse. Ognuno spinto da una propria volontà, dai propri desideri. Refia ed Hayley non volevano che essere libere. Alvin, Rickard e Kevin desideravano riabbracciare una persona cara. Elise ed Hillary sognavano di poter forgiare dei legami importanti. Vivian e Lawrence erano guidati dal loro affetto reciproco. E' stato allora che ho compreso che... non potevo farlo. Per nessun motivo -
- Non potevi "farlo"? -
- Uccidervi - asserì - Ho scoperto un nuovo lato di voi, e di me stessa. Credo di essermi... io... -
- Affezionata? -
Pearl lo guardò come se avesse appena detto la cosa più assurda possibile, ma al contempo sembrò sollevata che la avesse esonerata dal fardello di dirlo con la propria bocca.
- ...sì. Immagino di sì - sospirò - La domanda della mia vita... "Perché uccido?" perde di senso. Non voglio... non voglio più uccidere nessuno. Non voglio, non voglio... -
Karol Clouds si massaggiò il mento; sorrise.
- Credi che sia un male? - domandò lui - Ascolta: so che ti senti confusa, ma non è forse tutto al contrario? Non hai forse trovato... la risposta che cercavi? -
Pearl si ammutolì per un istante. Un nuovo punto di vista le veniva offerto; uno ancora più inaspettato.
- La mia risposta...? -
- Da quel che ho capito, il tuo obiettivo non era tanto il trovare un motivo per uccidere quanto comprendere il valore delle vite che prendevi. Non lo hai forse compreso? Voglio dire: dal momento in cui, dal tuo punto di vista, inizi a vedere un essere umano non come una preda ma come un insieme di emozioni, sentimenti e desideri, hai già compiuto un enorme passo avanti. Quei ragazzi... ora sono morti. E tu sai bene che cosa hanno perso, ciò che non hanno potuto realizzare. Ciò che provavano, ciò che sognavano, la loro etica e i loro affetti... questo costituisce il valore di un'esistenza, Pearl -
La ragazza socchiuse gli occhi, ripetendo quella frase più e più volte nella propria mente.
Il concetto le rimbombò nel cervello, quasi come a rimanerne intrappolato; come se Pearl Crowngale si stesse forzando ad assimilarlo, quasi provando paura di perderlo.
- ...il valore di un'esistenza - mormorò, con un filo impercettibile di voce.
Alzò lo sguardo; gli occhi di Karol erano divenuti più limpidi.
Ogni segno di ira e tensione presenti all'inizio della conversazione era svanito; era come se fosse tornato il solito insegnante di tutti i giorni.
L'Ultimate Teacher ricomparve assieme alla sua aura protettiva e affabile. Si respirava un'aria diversa, nell'aula.
- Karol... mi hai impartito un'importante lezione - gli disse con riconoscenza - Grazie... -
- E' ciò che mi riesce meglio - mostrò un sorriso caldo e accogliente - Anzi, ti sono grato a mia volta. Mi hai permesso di ricordare il mio ruolo in questa classe. Aiutarvi e guidarvi quando siete pervasi da dubbi e la via non è chiara. E' ciò che farebbe un vero insegnante -
- Tu SEI un vero insegnante, Prof - rettificò la bionda.
- No, non ancora - rispose lui, alzando lo sguardo al soffitto - Per raggiungere il livello della mia maestra ho ancora tanta, tanta strada da percorrere -
Rimasero in silenzio per alcuni istanti.
Pearl Crowngale aveva un ultimo groppo alla gola da rimuovere; un ultimo peso da sollevare affinché la coscienza non le facesse così male.
Un ultimo sforzo, che poteva concretizzarsi con l'aiuto dell'Ultimate Teacher.
- ...ciò che ti ho detto adesso... vorrei poterlo dire anche agli altri -
- E allora fallo. Nessuno te lo impedirà - la incitò lui - Xavier, Judith, Pierce e June saranno comprensivi, se sarai onesta. Per Michael... ci lavoreremo -
- N-no, Prof...! Non è così semplice: io ho pianificato di ucciderli! Non posso presentarmi davanti a loro e pretendere che...! -
- Pearl -
Fulmineo, appoggiò entrambe le mani sulle esili spalle dell'Ultimate Assassin. Gli occhi glaciali della bionda vennero irrorati dalla determinazione dell'insegnante.
- ...cosa dovrei fare, Prof? -
- Ascolta il mio consiglio. Torna in camera tua, e rilassati - propose lui - Fatti una doccia, riposati e metti in ordine i tuoi pensieri. Domani mattina ci incontreremo qui in aula e daremo un'occhiata ai tuoi... "appunti". Tutti insieme -
Lei rimase scandalizzata.
- C-cosa!? No! Ti prego, no! - lo scongiurò lei - Sono la prova tangibile di ciò che ho provato a fare! Non voglio che...! -
- Pearl, è proprio per questo che devi mostrarceli. Esponendoceli, dimostrerai che hai fatto il primo passo nell'accettare il tuo errore e sarai pronta per andare avanti a testa alta. Se nascondi tutto sotto al tappeto e fingi che non sia mai esistito nulla, non risolverai mai il problema alla radice -
- Ma... - singhiozzò lei - Mi odieranno... appena vedranno cosa c'è scritto sopra... mi odieranno tutti... -
- E qui entrerò in scena io - esclamò, fiducioso - Ti spalleggerò dall'inizio alla fine. Farò in modo che capiscano, che comprendano ciò che eri e che vedano ciò che sei. Non permetterò loro di farsi un'idea errata, ma ho bisogno della tua cooperazione. Ti prego... domani mattina, porta i tuoi appunti -
Ancora vagamente titubante, Pearl finì per annuire alla sua proposta.
- V-va bene... -
- Andrà tutto bene, Pearl - la rassicurò - Mi farò aiutare da Judith -
- ...Judith? -
- Si, quella ragazza ha una capacità empatica fuori dal comune. Sono fiero di poter collaborare con qualcuno come lei - sorrise - Assieme risolveremo il problema, e  troveremo una via di fuga. Tutti assieme -
Rimosse delicatamente le mani dalle sue braccia, lasciandola libera di alzarsi.
Vi fu un ultimo sguardo di intesa tra i due prima che Pearl Crowngale si rimettesse in piedi, avanzando verso la porta di uscita.
Si voltò di spalle; lo sguardo di Karol la accompagnò ad ogni passo.
- ...domani mattina? - domandò.
- Accordato -
- ...Karol - mormorò, aprendo lentamente la porta e varcandola per metà - Grazie. Grazie di cuore -
Richiuse la porta e si fiondò via, correndo verso i dormitori.
Era percorsa da una strana eccitazione; una sensazione strana, ma piacevole.
Sentì il tramontare di una lunga porzione della propria vita e l'aprirsi di una nuova.
Per la prima volta in diciannove anni, Pearl Crowngale si sentì leggera, rilassata. Felice.




Pearl strinse tra le mani il plico di fogli fino a stropicciarne i bordi; alla fine, la tensione non se ne era andata via del tutto.
La ragazza continuava a fissare quell'ammasso di carta con aria di colpevolezza, sorreggendolo tra le dita tremolanti che avvertivano un peso ben maggiore di quanto la carta non avesse in realtà. La coscienza le stava giocando l'ennesimo tiro mancino.
Quel mattino si era svegliata anche prima del solito, seppure avesse dormito a stento, e aveva raccolto tutti i propri appunti prima di uscire dalla stanza.
Su quei fogli erano descritte numerose informazioni, alcune delle quali non avrebbe mai voluto fossero divulgate.
Nozioni su come assassinare i suoi compagni: i loro punti deboli, le loro abitudini, i loro spostamenti quotidiani. 
Tutto era scrupolosamente messo nero su bianco per ognuno dei quindici partecipanti al massacro.
Deglutì; non era ancora certa di volerlo fare.
Si figurò nella mente le espressioni inorridite degli altri sopravvissuti nel leggere quelle righe scritte con freddezza e senza scrupoli.
I volti impauriti di June e Pierce, il probabile scetticismo di Judith, e l'inevitabile, sfrontata schiettezza di Xavier e Michael.
Quel mattino, Pearl si era momentaneamente lasciata assalire dai dubbi.
Recatasi al deposito rifiuti, fu tentata di sbarazzarsi di quei maledetti appunti e di dire a Karol che non era capace; che semplicemente non ce la faceva.
L'incontro casuale con Pierce Lesdar all'ingresso dell'area di smaltimento, la aveva fatta desistere e le aveva dato più tempo per pensare a mente fredda.
Dopo un lungo vagabondare senza una meta specifica, Pearl Crowngale si ritrovò nuovamente di fronte alla porta dell'aula del primo piano, sede del suo appuntamento con Karol.
Rimirò la porta con la stessa espressione del giorno precedente: una forte tensione aleggiava nell'aria.
Pur sapendo che la parte più difficile della confessione era, in realtà, già passata, si mostrò titubante.
"...diamine, non mi riconosco più"
Sospirò. Tentennare così spesso e in quella portata non era da lei; l'ennesima delle sensazioni nuove che Pearl aveva scoperto nell'arco di pochi giorni.
Tentò di aggrapparsi alle parole di Karol per darsi quella spinta che ancora le mancava; la voce dell'Ultimate Teacher sembrava avere un effetto mansuefante su coloro che la ascoltavano durante i suoi insegnamenti; per Pearl non fece eccezione.
"...va bene, basta rimuginare" annuì "Adesso entro, li mostro a Karol, e troviamo un modo per dirlo agli altri... andrà tutto bene. Il Prof mi aiuterà. Andrà tutto bene... tutto bene"
Appoggiò delicatamente la mano sulla maniglia; avvertì il freddo del metallo sul palmo vagamente sudato.
"Andrà tutto bene"
La abbassò; l'udito percepì il cigolio del perno della porta.
"Tutto. Bene"
Spalancò la porta più rapidamente, come nel togliersi un cerotto.
Entrò rapidamente, sperando che nessun passante inopportuno la cogliesse sul fatto.
Mise piede all'interno, e mise le braccia avanti: i fogli erano bene in mostra.
- Karol, sono qui...! - esclamò - Ti ho fatto...? -
Silenzio. Non un rumore.
Poi, la porta venne lievemente sospinta all'indietro, probabilmente da uno spiffero. Si udì nuovamente il cigolio; stavolta sembrava più pesante e rumoroso.
Gli occhi glaciali di Pearl si paralizzarono, fissi davanti a sé.
Le ci volle qualche attimo per assimilare la scena: Karol Clouds era disteso sul pavimento, l'espressione rigida in direzione del soffitto, la testa raccolta in una pozza di sangue, e la luce soffusa dell'unica lampadina dell'aula mandava un bagliore sinistro che si rifletteva sulle pupille spente dell'insegnante.
Poi, un rumore diverso: carta frusciante, lievemente caduta al suolo.
Le mani avevano perso la presa, e con essa ogni sensibilità.
Il plico di fogli si era rovesciato sul pavimento, disperdendosi a terra.
Ma Pearl Crowngale nemmeno se ne rese conto: era troppo intenta a fissare quella scena e a tentare di concepire quanto surreale potesse essere.
Socchiuse gli occhi, e li riaprì: nulla era cambiato.
Ripeté l'azione due, tre volte; nulla cambiò. Non era un sogno, né un incubo.
Nulla che potesse scacciare con la forza di volontà, nulla da cui poteva risvegliarsi.
Quando la realtà la colpì, si portò una mano alla bocca e bloccò un grido.
Soffocò la voglia di urlare assieme alle lacrime che le scendevano, ma queste ultime non furono facili da bloccare.
Senza pensarci, si recò in prossimità del corpo e ne afferrò le spalle con le mani tremolanti.
- KAROL...! Karol, NO! No, ti prego! TI PREGO, NON... non andartene...! - singhiozzò - Non così, non adesso...! Karol... -
Rimase a supplicare il cadavere per almeno un minuto, senza curarsi di gettare parole al vuoto.
Dopo di ciò, si alzò in piedi e iniziò a guardarsi attorno.
Le parve di vedere una grossa scritta bianca sulla lavagna, ma per quanto fosse imponente non ci fece caso.
Sfiorò col piede un mappamondo insanguinato mentre si spostava lentamente lungo la classe: la sua attenzione era ora fissa sui suoi fogli sparsi per la classe.
Un'espressione di orrore andò poi verso la porta d'ingresso.
Si sentì come morire; per la prima volta, per quanto non fosse reale, Pearl Crowngale fu certa di aver assaggiato il vero sapore della morte.
- .........non devono... - sussurrò a se stessa, ipnotizzata.
Un attimo dopo si era gettata sul pavimento.
Le mani strisciarono ovunque: sotto i banchi, lungo le mattonelle, in ogni punto dove era caduto un foglio.
Le unghie si avvinghiavano avidamente alla carta, tirandola a sé, ghermendola con furia.
"Non devono vedermi... non devono trovare gli appunti... penseranno... penseranno che sia stata io...! Penseranno che lo abbia ucciso, mi accuseranno... mi accuseranno, mi imputeranno dell'omicidio, io non...! Non ho fatto niente... niente... niente... non sono stata io, non sono stata io, non sono stata io, non io, non io, non io,
non iononioononionioninonooon...NNNOOOOOOOO...!!!
"
Non trovò neppure il tempo di controllare di averli presi tutti o di contarli. Non appena i suoi occhi cessarono di avvistare altri fogli, si alzò in piedi.
E iniziò a correre.
Corse, senza fermarsi, senza prendere fiato. Si gettò fuori dalla classe, e corse ancora.
Strinse a sé gli appunti, e continuò a correre.
Corse, senza più pensare, senza più sentire, senza più vedere.
"Non sono stata io... non sono stata io... vi scongiuro... credetemi... credetemi... credetemi... per...donatemi... vi prego..."


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Capitolo 50
*** Capitolo 5 - Parte 12 ***


Era trascorsa circa un'ora dall'inizio del processo.
In seguito ai dibattiti, alle accuse e alle fomentate discussioni era giunto un momento di freddo silenzio e riflessione, in cui nessuno aveva il coraggio di aprire bocca.
Di fronte ai volti stupiti e increduli dei compagni si ergeva la sagoma oramai vacillante e debilitata dell'Ultimate Assassin.
Pearl era rimasta con la mano destra fissa sui propri occhi, facendo di tutto per nascondere le lacrime e le pupille arrossate, mentre la sinistra era fissa sul banco e sorreggeva buona parte del suo peso corporeo, essendo le gambe drenate di ogni energia.
Era rimasta in uno stato pietoso, a metà tra il silenzio e il pianto totale, rifiutandosi di incrociare gli sguardi dei compagni.
Michael Schwarz seguì la stessa idea; sapeva che se avesse rivolto gli occhi verso di lei non avrebbe fatto altro che rivolgerle uno sguardo sprezzante e iracondo, che nemmeno le lacrime della ragazza erano in grado di intenerire; non del tutto, almeno.
Quel barlume di pietà fu un altro dei numerosi dettagli che l'Ultimate Chemist tentò di mascherare.
Poco distante, Pierce Lesdar abbassò il capo, stanco e rattristato.
In qualche modo, sapeva di avercela fatta; sapeva che quella situazione era stata raggiunta anche grazie alla sua iniziativa e a quel suo tentativo impulsivo di rovesciare
le carte in tavola. Sapeva di aver contribuito a creare una scappatoia per Judith.
Una parte di lui fremeva, a tratti eccitata, a tratti quasi soddisfatta.
Poi il suo sguardo andava verso la minuscola figura di Pearl, crollata su se stessa, ed ogni traccia di contentezza abbandonava il cuore dell'Ultimate Sewer.
Alla fine della strada che aveva scelto di seguire vi era quella scena; pur realizzando che andava fatto, non riusciva a sentirsene fiero.
Un punto di vista affine era condiviso dall'Ultimate Lawyer.
Un peso straordinariamente grave si era lievemente sollevato dallo stomaco di Judith Flourish.
Il caso aveva assunto un aspetto diverso, e una via per la salvezza si era mostrata.
Si sentiva pronta a percorrerla, ma al contempo non riusciva a provare una gioia completa.
Nacque in lei la sensazione di essere salva da un destino inevitabile, ma qualcosa ancora la frenava.
Nonostante tutto, una parte di Judith sepolta nel suo più profondo inconscio cantava, inneggiando alla ritrovata speranza; una parte che Judith non avrebbe mai ammesso di possedere.
Ma a sentirsi particolarmente strana, quel giorno, fu June Harrier.
La disperazione sconcertante di Pearl risvegliò in lei alcune memorie, ridestando una sorta di istinto materno.
Non era la prima volta che June assisteva a qualcuno scoppiare in lacrime, ma erano sempre stati episodi familiari e intimi con i fratelli più giovani.
L'impulso di fiondarsi su Pearl, rassicurandola e convincendola che tutto andasse bene, venne fortemente combattuto dal suo lato razionale: l'assassina non era un'amica.
Non era una persona per cui valeva la pena sprecare parole di conforto, ma un nemico.
Eppure, facendo ricorso al mese passato assieme a lei, quella visione di Pearl apparve distorta; il tutto bastò per impedire all'Ultimate Archer di prendere una posizione, ancora una volta.
Toccò a Xavier Jefferson il gravoso compito di sbloccare la situazione.
Il detective si tastò il petto: aveva ancora il fiatone.
Tra tutte le convinzioni che aveva avuto non vi era mai stata la certezza che quel piano funzionasse. Xavier stesso non lo definiva neppure un piano; semmai un elaborato azzardo.
E quella scommessa aveva dato i suoi frutti: come già tante volte prima di allora, le prove avevano condotto ad una nuova verità.
Una nascosta, sepolta; una che forse nessuno avrebbe voluto dissotterrare.
Guardò per un momento il viso di Judith, e ritrovò la determinazione. Ciò che aveva fatto andava fatto.
Appoggiò una mano sul banco, rompendo la cupola di silenzio venutasi a formare.
Sapeva cosa voleva; il punto era il come ottenerla. Con le buone, o le cattive.
- ...Pearl - mormorò - E' il momento di dirci la verità -
L'Ultimate Assassin sollevò lentamente la testa, rivolgendogli uno sguardo affranto.
- ...la verità? -
- Sì, e tutta. La verità completa e immacolata di ciò che è accaduto a Karol - sentenziò lui, non lasciando spazio a compromessi - Sappiamo che sei andata da Karol, stamattina. Sappiamo che hai avuto un ruolo in questa vicenda. Diccelo, Pearl. Dì la verità! -
- Ti prego... - sussurrò June, versando qualche lacrima a propria volta - Ti prego, raccontaci cos'è successo... -
- No... no, non mi crederete mai... - Pearl grattò il banco con le unghie, scuotendo il capo - Non dopo ciò che è accaduto...! -
- Pearl - 
Fu la voce di Judith a richiamarla, stavolta. Era calda e composta, seppure tradiva una certa ansia.
I suoi occhi erano profondi e inflessibili.
- ...Judith? -
- Pearl, raccontaci. Te ne prego - sospirò Flourish - Poniamo fine a questa storia nel modo migliore. E' l'unico modo. Abbiamo bisogno della tua testimonianza -
- Ma io non... non ho fatto...! -
- Andrà tutto bene - disse, infine - Andrà. Tutto. Bene. Ora calmati, e dicci la verità -
Né Xavier né tanto meno Michael si aspettavano che quelle parole potessero sortire l'effetto desiderato, ma furono costretti a ricredersi.
L'inflessibilità paradossalmente gentile di Judith sembrava aver fatto breccia, e la bionda aveva finalmente messo un freno alle lacrime e ai singhiozzi.
Pur tentennando ancora, Pearl Crowngale si passò la manica della giacca scura sul volto, strofinando con forza.
Le gote erano ancora appiccicose e arrossate, le labbra seccate e il fiato mozzato.
Eppure, Pearl si decise a parlare. Non seppe neppure lei che cosa la spronò a farlo, ma intuì che non vi erano altre vie.
Aveva paura, un terrore incommensurabile. Ma una lieve brezza lavò via quelle sensazioni.
Per un istante, solo per un fugace attimo, l'Ultimate Lawyer le era parsa estremamente simile a Karol Clouds, come se le loro rispettiva sagome si fossero sovrapposte.
Sospirò, e annuì.
Fu così che Pearl Crowngale iniziò a narrare l'evento più nefasto della propria vita.




- ...mi ero recata da Karol, esattamente ieri mattina -
Già il principio bastò a gettare alcuni dei presenti in confusione.
- Ieri? - domandò June - Tu e Karol vi siete incontrati... ieri? -
- Già... ero andata a lì a chiedergli consiglio - mormorò la bionda - Volevo che mi aiutasse. Aveva un pesante fardello da gestire, e non riuscivo più a reggerlo. Volevo togliermelo, liberarmene. Ma... sapevo che non ce l'avrei fatta da sola. Confidavo che Karol avesse ciò che a me mancava; il coraggio di... affrontarvi -
- Affrontare... noi? - Michael sbuffò - Non mi sembra tu abbia mai sofferto questo problema! -
La killer si strinse tra le spalle.
- ...è diverso. Del tutto... diverso - pronunciò - Era un qualcosa che avrebbe cambiato tutto. Avrebbe potuto modificare radicalmente l'equilibrio di questa sfida mortale. Non potevo... prenderla alla leggera. Avevo bisogno di aiuto... -
- E quel qualcosa era...? - la incitò Xavier.
Era il momento della parte più difficile, la pù complicata da esporre a parole.
Ma Pearl ritrovò la stessa forza con cui era riuscita a dirlo a Karol, il giorno precedente.
Non era un'impresa nuova. 
Prese una boccata d'aria, e proseguì.
- ...vi ho mentito. Fin dal principio - disse - Io non sono l'Ultimate Ninja. Sono un'assassina, un sicario che agisce in segreto. Sono... l'Ultimate Assassin -
Pur avendo vagamente intuito dove Pearl stesse andando a parare, sentire quella frase pronunciata dalle sue stesse labbra fece comunque un certo effetto.
- L'Ultimate Assassin... - a Judith il concetto stesso pareva ancora strano, quasi assurdo - Un talento per... l'omicidio? -
- Non vedo perché dubitarne - osservò Michael - Pearl ci ha dimostrato più volte di avere delle capacità fuori dal comune. In un mondo simile è decisamente più probabile utilizzarle per assassinare piuttosto che per... beh, qualunque cosa faccia un ninja -
- Già... hai ragione... - mormorò Pearl - E' un lavoro estremamente richiesto, per quanto strano vi possa sembrare. I sicari vengono ingaggiati di continuo e per i motivi più disparati -
- E ne deduco che una con il tuo titolo fosse... ingaggiata molto spesso. Dico bene? - domandò Xavier, con una naturalezza disarmante.
Pearl esitò, prima di rispondere.
- ...sì. Sono la migliore - strinse i pugni - Delitti perfetti e puliti, nessuna prova, nessun testimone. Ho assassinato decine di persone fin da quando ero una ragazzina, e non sono mai stata scoperta nemmeno una volta... -
- P-Pearl, ti prego, evitiamo i dettagli... - la supplicò June - E' già... abbastanza difficile doverti sentir dire tutto questo... -
- Ti chiedo scusa, June, ma è ciò che sono. E' la persona che avete di fronte ad aver fatto tutto questo: sono io. E' inutile nascondere la verità o addolcirla con delle giustifiche inutili. Ho ucciso tanta gente; tanta, tantissima gente... e avevo intenzione... di uccidere anche voi -
Quasi tutti avvertirono una fitta allo stomaco.
- Noi...? - sussurrò Pierce - Volevi ucciderci...? -
- Ora ascoltatemi... molto attentamente. Mi ci è voluto parecchio per trovare il coraggio di dirvelo, ma... sì. Fin dall'inizio della sfida tutto ciò che avevo in mente era di eliminarvi tutti. Tutti, dal primo all'ultimo. Volevo uscire di qui, andarmene; tornare a casa. Non potevo permettermi di morire senza prima aver trovato... la risposta che cercavo. Sapevo di avere le capacità per farlo, ma dovevo fare i conti con le regole di Monokuma. Non dovevo farmi scoprire... ma era chiaro che il nostro gruppo fosse composto da persone che non sono abituate ad uccidere... se avessi giocato male le mie carte tutti avrebbero sospettato di me, la "ninja". Ho inventato un titolo che potesse nascondere le mie vere capacità senza destare sospetti, e ho atteso... -
- Hai... atteso? - balbettò June.
- Sì, ho aspettato il momento giusto. Il momento per fare la mia mossa e poter finalmente andarmene da questo posto maledetto... -
Non appena terminò di pronunciare quella frase rimase in silenzio per diversi secondi, con gli occhi chiusi.
Pur pendendo dalle sue labbra, i compagni rispettarono quella breve pausa e attesero l'inevitabile prosieguo.
- ...ma quel fatidico momento non è mai giunto - sospirò - Ho atteso settimane intere, ma non ho mai preso l'iniziativa. Sono stata spesso tentata, ma... -
- E cosa ti ha bloccato? - le chiese Judith, stringendosi le mani al petto.
- No, non "cosa"... - mormorò lei - Ma "chi". Ancora adesso faccio fatica a comprendere cosa mi sia successo, ma col passare dei giorni quel mio desiderio di uscire si attenuava. No, forse non è corretto definirlo così. Dovrei dire, più che altro, che è stato sostituito da qualcosa di diverso -
- Sii più specifica, Pearl - la incalzò Xavier - Come è avvenuto questo... cambiamento? -
Alla bionda scappò una risata priva di energia.
- ...se solo potessi capirlo a mia volta, Xavier, non avrei più bisogno di pormi domande. Ho trascorso tutta la mia vita a tentare di capire che cosa provassi realmente, al di fuori della mia professione. Non so cosa mi sia successo, semplicemente non... non riuscivo più a pensare di uccidervi. Non riuscivo più a visualizzarvi come bersagli, come nemici. Non dopo... il video di Elise -
- Elise? - quel nome ridestò brutti ricordi nella mente di Pierce - Ah! Il video che tu e Lawrence avete trovato in camera sua...? -
- Quello, sì. Era davvero assurdo, a mio dire - continuò - Parlava di speranza, ma anche di fiducia negli altri. All'inizio credevo che le sue parole derivassero  prevalentemente dalla sua ingenuità, dalla sua incapacità di vedere la realtà per ciò che era. Eppure... eppure quelle parole mi rimbombarono in testa per intere notti,
privandomi del sonno a più riprese. Quelle parole hanno cambiato il mio mondo -
- Vorresti farci credere che ti sei "affezionata" a noi? - commentò ironico Michael - Che è bastato un video strappalacrime per sovrascrivere un'intera vita passata ad uccidere persone? Ne dubito alquanto -
- Michael, perché mai non dovrebbe essere possibile!? - imperversò June - Credi che Pearl sia un robot senza sentimenti!? -
- Bah! Non lo reputo impossibile, ma non starete dimenticando qualcosa? - sbottò lui, irritato - La stessa persona che ci sta dicendo di come "è cambiata" è la stessa che, stamattina, ha contribuito all'omicidio di Karol! Sappiamo tutti come finirà questa storiella, quindi perché non andiamo subito al sodo? Pearl, dicci che cosa hai fatto a Karol Clouds! -
Michael e Pearl si ritrovarono in un feroce scontro di sguardi, in cui il chimico era certo di avere vantaggio.
Ma la bionda se ne tirò immediatamente fuori. Scostò il capo e socchiuse gli occhi, sospirando tristemente.
- ...non gli ho fatto niente -
- Balle! Non potevi trovarti lì per caso! - la accusò lui - Dì la verità! -
- Ti ho detto... che non gli ho fatto NIENTE! - 
Piantò un violento colpo sul banco, costringendo tutti ad indietreggiare di un passo.
Era stato un evento raro vedere Pearl Crowngale smossa dalle lacrime; ancor più raro era vederla spinta dall'ira.
Ma fu un momento passeggero, poiché il volto contratto della ragazza tornò a rilassarsi, comprendendo che la situazione non stava migliorando.
- ...perché eri lì, Pearl? -
La voce melliflua di Judith le fece recuperare la voglia di affrontare il discorso. Calmatasi, Pearl lanciò un'occhiata di sottecchi a Michael, al quale era stato segnalato da Xavier e June di fare silenzio. Date le circostanze, Pearl riprese il racconto.
- ...per rispondere a questo dovrò riallacciarmi al motivo per cui mi sono recata da lui ieri. Come ho già detto... volevo che mi aiutasse - disse, sentendo un lancinante senso di colpa - Volevo che mi desse una mano ad affrontare... tutti voi. Ero stanca di dovermi nascondere. Volevo farvi capire... che non ero vostra nemica. Ma come potevo spingervi a credermi se vi ho mentito così a lungo su chi sono davvero e cosa faccio? Speravo che il Prof avesse una risposta per me... -
- E Karol... la aveva? -
- Sì, suppongo di sì - sorrise tristemente Pearl - Era l'Ultimate Teacher; quel ragazzo emanava un'aura incredibile. Era come se bastasse parlargli per poter risolvere ogni questione, per poter trovare una soluzione ad ogni problema. Mi ha ascoltata, e mi ha creduta... assieme avevamo deciso di vederci stamattina per affrontare questa faccenda con il resto di voi. Avrei dovuto rivelarvi tutto: dalla mia identità a ciò che avevo pianificato. Ero ancora dubbiosa... ma alla fine mi sono decisa a farlo. Ero certa che con il suo aiuto ce l'avrei fatta... e invece... lo ho trovato morto, con lo sguardo fisso sul soffitto... -
- Pearl, stai dicendo che non hai avuto proprio nulla a che fare con l'omicidio del Prof...? - domandò Xavier, ancora incredulo.
Lei si morse il labbro e annuì ripetutamente.
- E' così...! Vi prego, dovete credermi! Non voglio più uccidere nessuno, men che meno qualcuno disposto a fare così tanto per me! - li supplicò lei.
- Sappiamo che è stata Judith! - sbraitò Michael - Ciò che vogliamo sapere è cosa hai combinato nel frattempo! E' ovvio che tu sia la traditrice! -
- No, no! Non appena sono arrivata lì sono scappata via! Non c'entro niente con tutto questo...! -
- E allora perché hai mentito sui tuoi movimenti se eri innocente!? Non ha il benché minimo senso! -
Pearl soffocò ulteriormente delle lacrime. Lo stomaco le bruciò intensamente.
- Io... io non volevo... che sapeste che ero stata lì...! - strepitò - Se qualcuno mi avesse vista, avreste sospettato immediatamente di me... così come in tutti gli altri processi! Non volevo che accadesse... odio quella sensazione! La detesto, mi fa sentire una grande rabbia! Volevo solo sparire, andarmene, fare finta che non fosse successo nulla e volatilizzarmi! Volevo... volevo solo che non dubitaste di me... -
- Santo cielo, Pearl... - gemette June, sentendosi impotente.
- E proprio tu avresti seguito una linea d'azione talmente illogica e irrazionale? - denotò Xavier, allibito - Mi sorprendi, Pearl -
Lei mostrò uno sguardo languido.
- ...cosa devo dirti? Forse per una volta mi sono stancata di essere sempre quella fredda e calcolatrice... per una volta ho voluto mettere a tacere la ragione. Certo, col senno di poi è ovvio che me ne sia venuta a pentire... sono andata persino contro il consiglio di Karol che avevo accettato di buon grado -
- Il suo consiglio? - Judith si mostrò interessata.
- Certo... quello da dove è partito tutto: mi disse che il primo passo per essere accettata era di... dire la verità - raccontò lei, rievocando il ricordo dell'Ultimate Teacher - Di parlarvi a tu per tu, di dirvi ogni cosa con sincerità. E invece... invece, alla fine, non volevo altro che scappare via e dare fuoco a quei maledetti appunti... -
- Appunti? - un meccanismo si attivò nella mente di Xavier - Ah! Ma certo, il foglio che ho trovato in aula -
- Già... - ammise lei, a malincuore - Ho da sempre l'abitudine di segnare su carta ogni dato rilevante che possa aiutarmi per l'uccisione. Ne ho compilato uno per ciascuno di voi, nessuno escluso. Avevo... il terrore che qualcuno li trovasse... e la mia paura si è rivelata fondata, sembra -
- Come hai fatto a smarrire quel singolo foglio? Lo avevi con te? -
- Sì... Karol mi aveva proposto di portarli e usarli come prova tangibile del fatto che stessi dicendo la verità... - gemette con rammarico - Doveva essere... il primo passo per liberarsi di questo fardello... -
- ...oramai è andata così, Pearl - la rassicurò Pierce - Oramai quei fogli non esisteranno più. Non hai motivo di pensarci -
Fu in quel momento che Pearl Crowngale manifestò un'espressione di dubbia identità; un volto contratto, tremolante. Impossibile da non notare.
Gli altri cinque intuirono che la faccenda nascondeva qualche altro risvolto.
- ...Pearl? - la interrogò Xavier - Devi... dirci qualcos'altro? -
- Io... ecco... -
- Pearl, ricorda ciò che ti ha detto il Prof! - la incitò Judith - Non temere di dire la verità, anche se fa male! -
- Già, le menzogne portano ad un falso idillio - si accodò Pierce - Fidati di noi, avanti! -
- Il punto è... che quei fogli esistono ancora... - disse, balbettando - N-non... ho avuto il tempo di... sbarazzarmene... -
- "Non ne hai avuto il tempo"? - sbuffò Michael - Spiegati meglio, diamine! -
Pearl prese aria ancora una volta. Le furono necessarie diverse pause.
- ...quando sono scappata dalla classe sono corsa di filato lungo il corridoio - cominciò lei - Volevo andarmene al più presto, prima che qualcuno mi vedesse. Ma è lì che mi sono dovuta fermare; all'incrocio dei corridoi... ho visto Judith -
- Hai visto me? - l'avvocatessa provò a riflettere - Vuoi dire che è stato il momento in cui stavo tornando in aula...? -
- Stando a come sono andate le cose, sì - asserì Xavier - E' successo quando stavi tornando a controllare se Karol era effettivamente morto -
- Sì... in quel momento non avevo la minima idea che lei lo avesse ucciso. Sapevo solo che, se avessi fatto un solo passo in più, mi avrebbe vista - Pearl serrò i pugni  con forza - Sono tornata in classe di corsa; ero nel panico e non avevo vie di fuga. Dovevo trovare un posto per nascondere gli appunti prima che arrivasse Judith, o la mia colpevolezza sarebbe stata considerata ovvia -
- U-un momento! Ma allora li hai nascosti in classe!? - esordì June.
- Impossibile! Non diciamo idiozie! - intervenne Michael - Abbiamo setacciato quel posto da cima a fondo. Non è saltato fuori niente! -
- ...a prima vista no - annuì Pearl - Ma vi era un nascondiglio di cui... solo io ero a conoscenza -
- Solo tu? - Pierce si spremette le meningi, non riuscendo a ricordare nulla di rilevante.
- Già... lo trovai quando investigammo il piano terra per la prima volta, durante la prima settimana - fece lei - Non ne ho mai fatto menzione con nessuno... pensavo potesse tornarmi utile in un secondo momento.... beh, ironico... -
- Non girarci intorno. Dove si trova questo fantomatico nascondiglio? - insistette Xavier.
Pearl abbassò lo sguardo.
- ...all'interno del... mappamondo -
Vi fu un momento di confusione generale.
Nella mente di Xavier riaffiorò la sagoma del globo terrestre insanguinato, che riteneva aver già pienamente giocato la propria parte nel processo, tornare alla ribalta.
- Nel mappamondo!? - 
- ...quell'affare è cavo. Ho scoperto casualmente un piccolo interruttore posto sul polo inferiore - raccontò la bionda - All'interno c'è una rientranza abbastanza larga da contenere un oggetto -
- Bah! Ridicolo! Assolutamente ridicolo! - la vociona di Michael non si attardò a manifestarsi - Avrò preso tra le mani quel coso decine di volte, durante le indagini!
Mi sarei accorto se avesse contenuto qualcosa! Gli ho anche dato una scossa per accertarmene! -
- ...c'è un piccolo trucco per prevenire questa cosa - replicò Pearl - Ho utilizzato un altro oggetto per riempire tutto lo spazio nel vano del mappamondo, in modo che risultasse compatto. Anche scuotendolo non ce ne si renderebbe conto, di primo acchito -
- Frena... e avevi a disposizione qualcosa di simile sul momento? - domandò June, vagamente disorientata.
- Deve essere qualcosa che si trovava già in aula... - mormorò Judith.
- Andando per logica, credo sia perfettamente intuibile - fu Xavier a dire la propria in merito a quel quesito comune - Pensateci: Pearl non poteva uscire dall'aula per via di Judith, quindi doveva trattarsi di qualcosa che si trovava lì. Ora, non c'era forse un certo qualcosa che mancava dalla scena del crimine? L'unico dettaglio fuori posto -
Passò un breve lasso di tempo. Poi giunse una risposta.
- ...il cassetto - esclamò all'improvviso Pierce - Il cassetto della scrivania...! -
- Precisamente, Pierce - si congratulò il detective - Ho motivo di credere che tu abbia usato il cassetto mancante per tappare il buco, dico bene? -
Pearl Crowngale mostrò un sorriso storto.
- ...perspicaci, come sempre -
- Farmi, fermi tutti! - Michael Schwarz, ancora non convinto, si mise nuovamente in mezzo - E' da troppo tempo che ci affidiamo alle parole di questa traditrice! Per una volta che possiamo farlo dovremmo controllare con i nostri occhi! -
June Harrier gli rivolse uno sguardo acido, ma non riuscì a trovarsi in completo disaccordo con quanto detto dal chimico.
Era sbucata una nuova prova, stavolta tangibile e localizzata. Era giunto il momento di ispezionarla.
- ...non vi fermerò. Sapete bene come procurarvelo, no...? - sospirò Pearl, pregando che le cose non stessero andando a complicarsi ulteriormente.
Nessuno ebbe nient'altro da ridire.
Il processo continuò come stabilito, pur vertendo in una direzione incerta.
Xavier si apprestò a fare il nome di Monokuma affinché la diabolica mascotte soddisfacesse la loro richiesta un'altra volta.
La breve attesa che ne seguì segnò i due minuti più lunghi che Pearl Crowngale ricordò di aver mai vissuto nella propria esistenza.




Il mappamondo fu depositato da Monokuma al centro esatto della sala, ma non prima di aver intenzionalmente infastidito i sei ragazzi con le sue solite, snervanti tiritere.
Il macabro e viscido senso dell'umorismo dell'orso lasciò un'impronta di disgusto sugli animi di tutti i presenti. Prima fra tutti: June Harrier.
Fin dal primo caso, l'arciera aveva covato il desiderio di disintegrare il robot urside da cima a fondo, senza lasciarne neppure un ingranaggio integro.
Era in quelle situazioni in cui Monokuma si avvaleva dello scherno per appesantire l'atmosfera e amplificare la pressione che la rabbia di June, opportunamente gestita e canalizzata, veniva fomentata all'inverosimile.
Ma, ancora una volta, dovette mettere da parte il proprio astio e concentrarsi sul caso alla mano.
Mentre era intenta a rivolgere uno sguardo minaccioso nei confronti dell'orso meccanico, Xavier si apprestava ad aprire il mappamondo seguendo le istruzioni di Pearl.
L'attenzione di tutti si riversò sul detective non appena questi premette il minuscolo pulsante situato all'estremità inferiore del globo.
- ...è vero, c'è un interruttore - mormorò a se stesso.
Il grosso mappamondo rivelò una spaccatura nel mezzo, e due sezioni ben distinte si divisero.
Col cuore palpitante, i cinque si accalcarono per vedere cosa ci fosse all'interno.
Ciò che si mostrò a loro fu un vano di forma cubica interamente riempito da un corpo metallico della stessa forma.
Il cassetto della scrivania era perfettamente incastrato all'interno del mappamondo, formando un insieme compatto.
Xavier allungò la mano, afferrando con la punta delle dita una rientranza nel cassetto che doveva fungere da manico.
Sfilandolo lentamente si rese conto di quanto le proporzioni dell'incastro fossero troppo perfette per risultare in una coincidenza.
Era come se quel trucco fosse stato creato appositamente per essere utilizzato in quel modo.
Non appena fu completamente fuori, a Xavier scappò un sussulto.
Non più retto dal globo geografico, il peso del cassetto si riversò interamente sulle sue mani; a tratti fini per scappargli.
Lo appoggiò sul proprio banco con un tonfo; era più pesante di quanto non sembrasse.
- Piccolo, ma bello compatto... - osservò June.
- Pensiamo alle cose rilevanti! - si aggiunse Michael - Guardate cosa c'è al suo interno! -
Esattamente come specificato, nella cavità del cassetto erano stati impilati alcuni fogli stretti per bene tra loro.
Pescando nel mucchio accartocciato, Xavier estrasse un primo foglio sgualcito.
Due sagome distinte apparvero di fronte agli occhi degli studenti: il volto esile e dolce di Vivian Left e l'impacciata espressione di Kevin Claythorne, entrambi ricalcati con un tratto a matita. Recuperarono tutti i fogli mancanti, e la collezione risultò essere completa.
Vennero fuori i profili di ognuno di loro, con descrizioni complete e ritratti ben delineati.
A June Harrier venne una fitta al cuore nel momento in cui le sue pupille intravidero la grossa scritta "DECEDUTA" sui ritratti di Hayley e Refia.
Michael osservò, invece, il proprio documento con una punta di disgusto. Era troppo curata. Troppo. 
Vi erano molte più informazioni sul suo conto di quante lui ne avesse mai fatte trasparire. Ciò gli provocò un forte senso di angoscia.
Dall'altro lato, Judith era quasi meravigliata di come Pearl avesse annotato dei dettagli di cui lei stessa non era al corrente.
Era perfino appuntato che l'Ultimate Lawyer era solita sistemarsi il fermaglio sul capo con la mano destra e mai con la sinistra; tentò di pensarci e si rese conto
che era vero, ma di non averci mai prestato attenzione.
Le sfuggì uno strano sguardo di ammirazione nei confronti dell'Ultimate Assassin; si domandò, infine, se quella straordinaria capacità di osservazione non potesse
essere devoluta verso fini migliori.
Pierce li raccolse tutti e li posizionò vicino al cassetto, evitando di sbirciare il suo. Da un certo lato, non era curioso di sapere il metodo migliore per provocare la propria morte; decise che vi erano delle informazioni che era meglio non conoscere.
- ...beh, direi che è confermato. Pearl ha detto la verità - asserì l'Ultimate Sewer.
- Bah! Per una volta... - commentò acidamente il chimico.
- Bene, adesso sappiamo come si sono svolte le cose, ma c'è un dettaglio che non mi è chiaro - June si grattò il mento - Pearl, hai detto di aver visto Judith venire verso l'aula, e fin qui mi trovo. Ma Judith non ha mai detto di averti intravista, o sbaglio? -
L'Ultimate Lawyer cadde dalle nuvole.
- Oh! Già, in effetti... non mi è parso di averti incontrata -
- ...beh, ripensa ai tuoi movimenti di stamattina - le suggerì Pearl - Quando sei tornata sulla scena del crimine non sei neanche entrata in classe, no? La porta era aperta: ti è bastato vedere il cadavere di Karol e avevi già la tua risposta -
Xavier si massaggiò la tempia.
- Judith, confermi? - chiese il detective.
- Sì... ora ricordo - fece lei - Appena ho visto Karol, sono scappata subito. Non ho messo nemmeno un piede all'interno -
- ...ed io ho atteso fino a quando non ti ho sentito allontanarti... - mormorò la bionda - A quel punto sono corsa via, decidendo di recuperare i fogli in un secondo momento -
- Destino infame! - imprecò Michael - Ti sarebbe bastata un'occhiata dentro per risparmiarci la fatica di trovare la responsabile di tutto questo macello! -
Pearl Crowngale strinse violentemente i pugni.
- Io n-non...! Non c'entro niente, ti ho detto! - inveì lei.
- Bah! Dì pure ciò che vuoi, ma il risultato non varia! - la additò Michael - La tua storiella regge, certo. Ma non ci hai mai dimostrato che tu non abbia fatto qualcosa a Karol! Abbiamo solo appurato che ti trovavi lì, ma non il perché! -
- Un attimo! Capisco che non ha prove per scagionarsi, ma...! - intervenne June.
- No, un momento, ragazzi -
Cinque persone si voltarono verso un'unica direzione.
A parlare era stato Xavier: il detective aveva assunto un'espressione diversa. Profonda, contemplativa, ma anche incredibilmente feroce.
Pierce avvertì un brivido.
Judith, dal canto suo, si domandò se il compagno non avesse realizzato qualcosa di importante.
Bastò poco affinché Xavier Jefferson mettesse in atto il proprio ragionamento.
- ...credo che Michael abbia ragione -
Pearl ebbe un tuffo al cuore.
- ...anche tu, Xavier? - 
- Come mai prendi questa posizione, Xavier...? - gli chiese Pierce, non convinto - A me sembra che la versione di Pearl sia abbastanza coerente...! -
- No, non è per quello - rettificò lui - La sua deposizione non è errata in sé, ma c'è un nuovo dettaglio da considerare. Un dettaglio cruciale -
- Hai capito qualcosa, Xavier? - fece Judith.
- Finalmente un po' di buon senso - si complimentò Michael, a modo suo - Era ora che smettessimo di dare credito a Pearl. Forza, Xavier: illuminaci -
- Bada, Mike. Non lo faccio perché diffido a prescindere - sentenziò il detective - Ho trovato un'incongruenza, e intendo semplicemente esporla -
Detto ciò, allungò il braccio verso il banco e afferrò la base del mappamondo.
Un'asta metallica ne sorreggeva la struttura rotonda, formando un'impugnatura solida.
Xavier lo sollevò con il braccio e iniziò a dare alcuni colpi a vuoto brandendolo.
Nessuno disse una parola, limitandosi a guardarlo in quel bizzarro esperimento.
Con sorpresa di tutti i presenti, Xavier si rivolse infine verso Judith.
Alzò la mano e, inaspettatamente, le porse il globo.
- Judith, prendilo -
L'Ultimate Lawyer si ritrovò spiazzata dalla richiesta; anche solo il pensiero di riprendere tra le mani l'arma del delitto non le era congeniale.
La memoria muscolare della mano le riportò alla mente quel colpo inferto quella stessa mattina; le dita di Judith tentarono di rifiutarsi ad obbedire.
- Ma... perché? - gemette lei, con voce strozzata.
- Fidati di me. Afferralo -
Ancora titubante, la ragazza mise da parte il proprio disagio e strinse la presa attorno alla base del globo.
Inizialmente non capì il motivo di quella richiesta, esattamente come neanche gli altri riuscivano ad intuirlo.
Ma bastò poco affinché l'espressione di Judith cambiasse radicalmente.
Tastò attentamente il mappamondo, sollevandolo e abbassandolo più volte con il solo ausilio del braccio destro.
Ripeté l'operazione fino a che non riuscì a confermare il proprio sospetto.
Alzò lentamente il capo verso Xavier; questi annuì, come per darle un cenno di complicità.
- ...è leggero - pronunciò Judith Flourish.
- "Leggero"...? - June assimilò quelle parole - Che intendi? -
- E' decisamente leggero, molto più di quanto ricordassi - proseguì lei - Durante le indagini mi pareva di averlo preso tra le mani per esaminarlo, e il peso era considerevolmente maggiore -
- A questo punto mi pare ovvio - Xavier riprese il discorso - Stamattina forse non ci hai fatto caso per colpa del terrore, ma questo è il mappamondo così come lo hai usato per colpire Karol. Avrete certamente notato come la maggior parte del peso consistesse nel contenuto del globo, vero? -
Pierce indicò il cassetto metallico con il dito.
- Certo... il cassetto è parecchio pesante, come quelli che abbiamo visto in aula! -
- Aah, ma certo - Michael mostrò un sorriso smorfioso - Ora è tutto più chiaro! Bel colpo, Xavier -
Comprendendo a propria volta il significato di quella scoperta, Pearl impallidì.
- Cosa...? No, u-un attimo...! -
- Inutile divagare - continuò Xavier, imperterrito - Senza l'ausilio del cassetto, il mappamondo risulta avere un peso complessivo... moderato. Difficilmente da considerare "letale" -
- Ed è stato aggiunto... solo DOPO la colluttazione con Karol! - esclamò June Harrier, con occhi spalancati.
- Esatto; Pearl ha inserito il cassetto solo successivamente. Judith aveva già colpito Karol con il mappamondo, ma è impossibile che possa averlo ucciso con un'arma simile -
- No... NO! Aspettate! Non ha alcun senso! - protestò Pearl, disperandosi - Karol era già morto quando sono arrivata io...! N-non è possibile che...! -
- Bah... chi vuoi che possa crederti dopo una prova del genere...? - sibilò l'Ultimate Chemist - Ti sei scavata la fossa con le tue stesse mani -
A poca distanza, Judith Flourish contemplò quell'avvenimento con uno sguardo apatico, fisso nel vuoto.
Ogni altro pensiero venne scacciato e sovrascritto; quella rivelazione ottenne il monopolio sulla sua mente.
Con gran fatica, pronunciò quella frase che fin dal principio aveva considerato una bugia ottimista, sperando potesse tramutarsi in realtà.
- Io... non ho ucciso... Karol? - mormorò a se stessa - Non lo ho... ammazzato? -
- No, Judith - bastarono quelle due semplici parole a sollevare un enorme fardello dallo stomaco di Xavier - Credo sia palese che tu sia stata solo un'altra vittima di questo folle piano -
- Un folle piano... di Pearl... - June si morsicò ferocemente il labbro - Se Karol non è stato ucciso da Judith, allora rimane una sola opzione...! -
- L'unica che abbia mai avuto senso - sbottò Michael - Diamine, tutta quella faccenda sulla distinzione tra assassino e traditore... gettata al vento! Alla fine coincidevano davvero! Assurdo, davvero assurdo! -
- Ragazzi... no...! - Pearl si intimorì a tal punto da tremare - Che state dicendo...? Pensavo che... mi avreste creduta...! -
- E' da oltre un mese che siamo costretti a credere solo alle prove, Pearl - ribatté severamente Xavier - E tu, più di tutti, dovresti saperlo. Pearl, ogni altro membro della classe ha un alibi, e Judith non può aver ucciso Karol. Rimani solo tu; solo e soltanto tu. Hai trascorso del tempo sulla scena del crimine senza che nessuno possa confermare ciò che hai fatto. Per quanto ancora... intendi negare l'evidenza...? -
Le pupille della bionda si contrassero, mostrando delle sottili vene arrossate.
- N-no... non posso accettarlo... - sproloquiò affannosamente l'Ultimate Assassin - Non dopo tutto ciò che è accaduto... non può finire così! Non sono stata io, dovete credermi! June...! Judith...! Pierce! Xavier! Non... abbandonatemi! Non potete commettere questo errore! NON POTETE! -
I suoi occhi viaggiarono ovunque, cercando ossessivamente l'appoggio anche di uno solo di loro.
Judith, dall'altro lato della sala, era completamente persa nel proprio mondo.
La sua attenzione era calata nel momento in cui la sua innocenza era stata inaspettatamente dimostrata. Colpita da un repentino senso di sollievo, si era lasciata andare al piacere della sicurezza. Le suppliche di Pearl non la raggiunsero.
Persino June, la più incline al compromesso, dovette farsi da parte. Evitò di incrociare gli occhi lacrimosi di Pearl; sapeva che le avrebbe procurato solo dell'inutile dolore.
June Harrier si decise ad affrontare la realtà dei fatti senza indorare la pillola con false speranze.
Crowngale non compì nemmeno l'estremo tentativo di chiedere clemenza all'Ultimate Chemist; aveva oramai imparato che, senza prove concrete, conquistare la fiducia di Michael Schwarz costituiva un'impresa inverosimile.
Infine, incontrò il singolo occhio di Xavier che la squadrava dall'alto verso il basso.
Si sentì piccola, minuscola, in confronto al detective che aveva superato ogni aspettativa e aveva sconfitto ogni pronostico di quel processo.
Sopraffatta dalla sua presenza, Pearl si lasciò cadere in ginocchio; chiuse gli occhi, e attese il proprio fato.
- ...credo sia giunta l'ora della votazione - propose Xavier.
Silenzio; il ragazzo prese quell'assenza di risposte come un responso a sé stante. Stavano acconsentendo all'idea.
Fu certo che non ci sarebbero state opposizioni fino all'ultimo secondo.
- ...no -
Xavier avvertì un brivido corrergli lungo la schiena: la sua principale preoccupazione aveva preso forma.
Girò lentamente lo sguardo con un movimento lento e composto.
Una sesta voce aveva espresso un dissenso.
Pierce Lesdar non appariva certo come un eroe scintillante, ma riuscì comunque ad accendere una tenue scintilla negli occhi di Pearl, che a quelle parole si era ridestata dal torpore.
Xavier Jefferson sospirò; un sospiro tristemente lungo e stanco.
- ...Pierce, che stai facendo? -
- Non possiamo ancora votare... - ribadì lui - Non ancora -
- Sei ammattito? - domandò sarcasticamente Michael - Cos'altro credi di poter ottenere prolungando il processo? Abbiamo la soluzione a portata di mano! -
- F-forse è così... ma al contempo sento che non possiamo farlo - si impuntò il sarto.
Quella peculiare determinazione non era da lui, ma Xavier notò che non era la prima volta che Pierce prendeva una decisione impulsiva, quel giorno.
Probabilmente era cambiato qualcosa, in lui.
- E perché non dovremmo? -
- Perché... qualcosa ancora non quadra, Xavier! E mi sorprende che proprio tu stia premendo per concludere il processo senza prima averlo risolto del tutto! -
- Cos... cosa stai dicendo!? - rispose lui, indignato.
- C-capisco che tu abbia a cuore la sorte di Judith e che l'averla scagionata ti abbia fatto sentire meglio. Ma non volgere l'occhio via dalla verità prima del tempo! - imperversò l'Ultimate Sewer, tirando fuori una grinta senza precedenti - L'Ultimate Detective che ho conosciuto in questo mese non lascia mai NIENTE al caso! -
- Pierce... ti prego... - la vocina debole di June si fece avanti - Basta... basta con questo processo... non ne posso più -
- June!? - esclamò Pierce, atterrito - Ma che dici!? -
- Sta dicendo che è stufa di correre dietro a delle teorie improbabili - riassunse Michael - Il processo è concluso, Pierce. Sei l'unico che ancora si oppone ai fatti indiscutibili che abbiamo stabilito. Pensi davvero che ci sia qualcosa che valga la pena menzionare, a questo punto? -
Pierce si girò poi verso Judith, l'unica che ancora non aveva espresso un proprio parere.
L'Ultimate Lawyer sembrava essere uscita dalla sua bizzarra trance e si era riunita spiritualmente al gruppo.
Si tastò nervosamente il fermaglio bianco; l'idea di immischiarsi ancora in quella brutta faccenda le era sgradita più di chiunque altro, e non mancò di darlo a vedere.
- Pierce... ne sei certo? - 
- Judith, anche tu...? - gemette il sarto - Tu hai sempre creduto fino in fondo nell'innocenza degli altri! Potrai anche considerarlo il tuo peggior difetto, ma è al contempo la 
tua migliore qualità! -
- A volte... si deve guardare in faccia la realtà... - sospirò lei - Ed io... ho finalmente scoperto che non ho... ucciso il Prof! Capisci, Pierce!? Non sono stata io! Ero certa... che sarei morta in quella maledettissima stanza! Io voglio solo... che il processo finisca, maledizione! Voglio soltanto andarmene da qui...! -
Non appena Judith cedette alle lacrime, Pierce si ritrovò in una posizione scomoda.
Ognuno di loro gli aveva voltato le spalle, e Pearl non era più in grado di controbattere.
Pierce Lesdar si ritrovò assalito da una forte solitudine, da una disperazione sconfortante.
Fu sul punto di arrendersi, quando intravide davanti a sé la sua ultima occasione.
La mano si Xavier si era protesa in avanti, innalzando l'indice.
Pierce ne osservò il movimento: non stava indicando una direzione, bensì un numero.
- ...una sola - mormorò il detective.
- Come...? Cosa intendi dire? -
- Una sola possibilità, Pierce - disse, irremovibile - Hai un solo tentativo per dimostrarci che il processo ha ancora delle falle. Che la verità ancora ci sfugge. Una chance, una soltanto, e se non sarà sufficiente passeremo alla votazione -
Xavier rimarcò con estrema cura come quel colpo fosse l'unico che gli era rimasto in canna.
Spiazzato da quella proposta, l'Ultimate Sewer si trovò costretto ad accettare.
Eppure, nonostante l'accordo stipulato senza mezzi termini, Pierce non avvertiva una completa ostilità da parte del compagno.
Dietro l'espressione furiosa di Xavier trovò un altro significato.
Sentì che non lo stava soltanto costringendo o minacciando, lo stava mettendo alla prova. 
"...è forse questo il tuo modo di riporre la tua fiducia in me, Xavier?"
Incapace di darsi una risposta definitiva, Pierce afferrò il coraggio a due mani e accettò l'offerta.
Nessuno si oppose; né le ragazze oramai sopraffatte dall'apatia e dallo sconforto, né Michael, che seguì quel piano malvolentieri.
Il processo stava per terminare. 
Come ciò sarebbe accaduto dipendeva unicamente dalla volontà dell'Ultimate Sewer.

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Capitolo 51
*** Capitolo 5 - Parte 13 ***


"Una sola, singola possibilità..."
Pierce ripensò a quel monito che i compagni gli avevano posto davanti. 
Una barricata insormontabile dettata da chi una risposta già la aveva, un chiaro segnale di fermarsi prima di inoltrarsi in altre improbabili congetture.
Forse anche una supplica a mettere la parola "Fine" a quel tormentato supplizio.
Vi erano più di un motivo per cui i sopravvissuti avevano deciso di passare alla fase di votazione; primo fra tutti era che le prove conducevano inequivocabilmente a Pearl.
Pierce notò come la tensione di Judith si fosse volatilizzata nel momento in cui era stata dimostrata la sua innocenza in merito al delitto: l'avvocatessa, che aveva combattuto con le unghie e con i denti, aggrappandosi alla tenue speranza di trovare il traditore prima di venire giustiziata, si era ritrovata con una facile soluzione.
Pierce Lesdar, dal profondo del suo cuore, non riusciva a disapprovare quel comportamento, date le circostanze.
D'altro canto, Judith non era l'unica a premere per giungere alla fine.
Al di fuori di Pearl, rimasta in silenzio nella propria impotenza, tutti gli altri erano d'accordo sul procedere alla votazione.
Fu proprio nel vedere il volto sconfitto e sofferente dell'Ultimate Assassin che il giovane sarto avvertì l'impulso di fermarli prima che fosse troppo tardi per rimediare.
Xavier gli aveva concesso un solo tentativo per ribaltare le sorti del processo.
Quella che sembrava una minaccia, però, fu assimilata da Pierce in modo diverso: Xavier stava combattendo una feroce battaglia con sé stesso.
Il lato emotivo cercava disperatamente di togliere Judith dai pasticci, mentre il lato razionale sentiva che l'interruzione di Pierce non era del tutto fuori luogo.
Quell'ultimatum era il suo modo di dare all'Ultimate Sewer l'occasione di aprire gli occhi alla classe; soprattutto a Xavier stesso.
Pierce decise che non avrebbe sprecato quel dono.
- ...abbiamo esaminato il caso in ogni dettaglio, e abbiamo stabilito delle nuove dinamiche nel quadro generale - cominciò Pierce - Sappiamo che Pearl è andata in classe in due momenti distinti. Ieri pomeriggio, durante il suo incontro con Karol, e stamattina, salvo poi il tentare di nascondere il fatto che era stata lì -
- Fin qui è tutto chiaro. Continua - lo incitò Michael.
Era giunto il momento cruciale; Pierce Lesdar tirò un lungo respiro.
- Ma, alla luce delle nuove informazioni, credo che la base del processo abbia subito un cambiamento... ora, mi rivolgo a Pearl -
La bionda sollevò lentamente il capo, quasi come se non avesse ancora realizzato che il processo era continuato.
- Dici... a me? - sussurrò debolmente.
- Pearl, ascoltami bene e rispondimi con sincerità - disse lui - Ieri hai incontrato Karol nel pomeriggio; giusto? -
- E' giusto... -
- Bene - tossicchiò brevemente - Ti è parso di notare qualche... dettaglio strano? Qualcosa fuori posto? -
Nessuno sembrò capire a cosa si stesse riferendo, men che meno Pearl.
- A cosa alludi...? Io non ricordo nulla di così strano - disse lei - Certo, era un po' nervoso, forse in tensione. Ma... -
- No, sto parlando proprio a livello fisico. Qualche segno, livido... o ferita? -
Un campanello d'allarme suonò per i sei ragazzi.
Xavier si accostò al bordo del banco, concentrando tutta la propria attenzione sulla risposta che sarebbe venuta.
Pearl spalancò gli occhi, come se un fulmine a ciel sereno la avesse colpita.
- ...ferita? No... ora che mi ci fai pensare, no. Non aveva nulla del genere - rispose con certezza - Non in modo evidente, almeno -
- Pierce, dove vuoi arrivare? - chiese June.
- Credo che lo abbiate vagamente intuito, ma lo metterò in chiaro - annuì il sarto - Sul corpo di Karol abbiamo trovato due ferite, entrambe sulla fronte. Piuttosto evidenti, difficile non notarle; ma è proprio qui che è presente la contraddizione! -
- Credo di iniziare a capire... - mormorò Xavier tra sé e sé.
Pierce annuì con veemenza.
- Abbiamo appena dimostrato che il colpo inferto da Judith era molto più debole di quanto potesse sembrare. Lei stessa non se ne era accorta a causa della foga del  momento, ma l'attacco non poteva essere letale. Come ha fatto, allora, a lasciare una ferita così evidente? Non ha alcun senso! -
- Bah! Pierce, non essere ingenuo! - lo rimproverò Michael - Il tuo ragionamento si regge sulla testimonianza di Pearl! Sappiamo tutti che ha spudoratamente mentito per tutto il tempo! La ferita deriva dal fatto che è stata LEI ad ucciderlo successivamente al colpo di Judith! -
- E come spieghi la seconda ferita? - continuò Pierce - Abbiamo appurato, durante la tua autopsia, che risale almeno a ieri -
Michael mostrò un sorriso smargiasso.
- Hah! E pensa un po'! Chi è stata l'unica ad aver incontrato Karol, ieri? Pearl! Solo lei! - esclamò, assaporando la vittoria.
- E questo non ti fa pensare? -
Michael Schwarz dovette risistemarsi gli occhiali sul naso per evitare di farli cadere, tanta era l'impazienza.
- Che diavolo stai dicendo!? -
- Non è strano che Pearl possa avergli procurato entrambe le ferite...? - fu la semplice risposta del sarto.
Xavier si massaggiò il mento, cogliendo finalmente il punto del discorso.
- ...credo di aver inteso ciò a cui volevi arrivare, Pierce - disse il detective - Se Pearl avesse attaccato ieri il Prof. e gli avesse procurato quel taglio, vuol dire che il suo intento era... ucciderlo ieri. Perché mai lasciare un lavoro a metà e concluderlo oggi? -
- ...è difficile credere che l'Ultimate Assassin possa fallire in un omicidio contro una persona dalle prestazioni fisiche normali - osservò Judith, ripresa dal proprio torpore. Pearl avvertì una strana sensazione al petto; non avrebbe mai creduto, prima di allora, che il suo talento potesse in qualche modo costituire un aiuto.
- Fermi, fermi tutti! - li bloccò Michael, irritato - State dicendo che Pearl non può essere responsabile di entrambe le ferite!? -
- L-logicamente è l'unica cosa plausibile...! - annuì June Harrier - Voglio dire... hanno ragione. Se Pearl è davvero l'Ultimate Assassin avrebbe lasciato la sua vittima con una semplice ferita, permettendole magari di andarsene e avvertire gli altri, per poi ucciderla solo il giorno seguente? E' inconcepibile -
- Ripensiamo alle ferite in sé - propose Judith - Una era posta sul punto che ho colpito col mappamondo, l'altra era sul lato opposto della fronte, ma non era letale... giusto? -
L'intero gruppo si voltò in automatico verso l'Ultimate Chemist, il quale assunse un'espressione vagamente preoccupata.
- ...che avete da guardare? - ringhiò lui.
- Mike, saresti così gentile da riesumare i risultati delle tue analisi? - domandò Xavier - Temo sia necessario per chiarire alcuni dubbi in merito -
- Su, Michael... non farti pregare - l'intercessione di June fu necessaria.
Il ragazzo occhialuto sbuffò, ma non se lo fece ripetere una seconda volta.
- ...badate, le mie non si potrebbero considerare delle "autopsie" vere e proprie. Sono mere analisi anatomiche basate su dati circostanziali che... -
- Mike, poche chiacchiere - lo incalzò il detective.
- S-stavo solo dicendo che ho avuto un sacco di roba da controllare e... potrei aver mancato qualcosa! - si giustificò lui - Comunque... la prima ferita era nello stesso punto di un piccolo livido. Ero sicurissimo che fosse dovuto alla colluttazione col mappamondo, e che quest'ultimo avesse provocato la ferita -
- Ma così non era... - mormorò Pearl - Quindi la ferita era... preesistente? -
- Ah, interessante - annuì Judith - Se davvero non è stata provocata dal mappamondo, è forse possibile che la sua natura sia la stessa della seconda ferita? -
- Intendete dire che... - June dovette fare uno sforzo - ...che la ferita c'era già e che il mappamondo la ha soltanto riaperta? -
- Precisamente - asserì Pierce - Mentre la seconda... -
- Era esattamente come appena descritto. Il colpo forte deve averla fatta riaprire - asserì Michael con sicurezza.
- Mike, a questo punto dovrai compiere un altro sforzo di memoria. Dobbiamo capire il COSA abbia provocato quelle ferite - disse Xavier.
Pierce fu contento di vedere che il detective aveva accettato quella versione; il sarto avvertì un certo orgoglio.
- Un momento, però...! - stavolta fu June ad intervenire, esprimendo un dissenso - Capisco che il mosaico stia prendendo forma, ma c'è ancora qualcosa che mi turba! -
- A cosa ti riferisci, June? - domandò Judith.
- V-voglio dire... Michael prima ha detto che le nostre ipotesi hanno come unica base la... testimonianza di Pearl - disse, deglutendo - N-non che io mi diverta a dubitare di tutto e tutti, ma non so se posso fidarmi delle sue parole. Come possiamo essere certi che le ferite risalgano proprio a ieri e che lei non abbia combinato chissà cosa per depistarci!? -
Pearl Crowngale non poté fare a meno di abbattersi di fronte ad un tale esempio di pragmatico raziocinio.
June tentò di tenere a bada i sensi di colpa e di non cedere di fronte alla pietosa figura dell'assassina.
- Un commento sensato... - mormorò Michael - Qualcuno ha idee? Come possiamo ricollegare le ferite proprio alla giornata di ieri? -
- Avremmo bisogno di qualche prova... - Judith rimuginò a fondo - Pierce, non è che hai qualche idea? -
L'Ultimate Sewer si ritrovò improvvisamente a corto di argomenti, e senza preavviso.
Bastò quell'ombra di dubbio a porre momentaneamente un freno alla sua attività cerebrale, che andò in completa confusione.
- Ah...! Io non... non ne ho idea...! - brontolò Pierce, deluso - Non ho pensato fino a questo punto! -
- Hai fatto abbastanza Pierce. Da qui in poi ci penso io -
Una voce dal nulla sorprese nuovamente il giovane Lesdar.
Xavier Jefferson aveva nuovamente deciso di prendere in mano le redini del processo senza alcun timore.
La sua confidenza emanava un'aura di completa sicurezza e spavalderia, pur rimanendo estremamente calmo e composto.
- Xavier! Hai pensato a qualcosa? - chiese Judith, trepidante.
- Sì. Se abbiamo bisogno di una prova, ve la fornisco io - disse.
- Un qualcosa in grado di delineare le tempistiche con cui è stato compiuto l'omicidio... - mormorò Michael - Esiste davvero? -
- Ebbene, sì. Esiste - dichiarò - E la risposta è semplice: le forbici -
Vi fu un attimo di interdizione.
- Le forbici...? - June ci pensò per un attimo - Ah, già! C'erano delle forbici in uno dei cassetti della scrivania... giusto? -
- Precisamente. E immagino ricorderete ciò che abbiamo rinvenuto sopra una delle lame: una striscia di sangue - 
- E quel sangue è... il fattore chiave? - chiese Pearl, con tenue speranza.
- Pensateci, ragazzi - disse loro il detective, aiutandoli a percepire l'insieme - Abbiamo già avuto a che fare col sangue di Karol, oggi. Il Prof. lo ha utilizzato per lasciare quel messaggio, e lo ha potuto fare perché il sangue era fresco! Anche stamattina, durante le indagini, abbiamo potuto constatare che il sangue era liquido e denso; ma non possiamo dire lo stesso di quello sulle forbici -
- Già... era una singola striscia rinsecchita - mormorò Pearl
- Abbastanza secca da essersi attaccata alle forbici formando una crosta... - aggiunse Michael.
- Ma non abbastanza da non poter essere rimossa. Grattandone un po' ho notato che se ne è staccata una parte con facilità - Xavier si avviò a concludere la propria argomentazione - Il sangue non era fresco, ma non era nemmeno così secco da permeare l'intera superficie metallica incollandosi ad essa. Possiamo, dunque, decretare che sia stato lasciato sulle forbici ieri, al massimo. Più precisamente: ieri sera -
Il collegamento era stato fatto e posto in modo che nessuno potesse confutarlo.
Pierce sentì che il proprio obiettivo era stato raggiunto, e tirò un sospiro di sollievo.
- Quindi il delitto è stato organizzato... fin da ieri? - Michael sbuffò - Roba da non crederci! -
- Questo caso sta assumendo una piega inquietante... - mormorò June - Chi avrebbe mai potuto ordire qualcosa di così assurdo ed intricato? -
- Non scartiamo la possibilità che sia stata Pearl - raccomandò Xavier - Lei è ancora la più sospetta, se non l'unica. Ma è ovvio che siano necessarie delle analisi più accurate -
Un senso di profonda inquietudine attanagliò gli altri cinque. Le parole del detective non lasciavano intendere nulla di piacevole.
- Analisi più accurate...? C-cosa intendi, Xavier? - balbettò Pierce.
- Temo che sia... tristemente ovvio - deglutì Judith - Abbiamo delle informazioni incomplete. Dobbiamo recuperarle nell'unico modo possibile... -
Tutti gli altri realizzarono nello stesso istante.
June venne avvolta da un senso di profondo disgusto e rifiuto.
Judith, come lei, non provava affatto piacere nel dover considerare l'unica loro alternativa.
Michael e Pearl non si lasciarono intimorire: il primo aveva già avuto a che fare fin troppe volte con dei corpi deceduti, mentre la relazione che intercorreva tra la bionda e la morte stessa aveva una storia lunga e travagliata. Niente che non potesse affrontare.
Pierce, dal canto suo, ebbe quasi un mancamento al solo pensiero.
Xavier, ancora una volta, si fece voce della volontà collettiva, sobbarcandosi l'onere di pronunciare quelle parole.
- ...dobbiamo ripetere l'autopsia - disse con fermezza - Ci serve... il cadavere di Karol Clouds -




Ancora una volta, Monokuma fu capace di dimostrare al gruppo di non essere mai impreparato di fronte agli imprevisti.
La velocità con cui fu capace di assecondare la richiesta un po' estrema della classe lasciò loro uno sgradevole stupore, soprattutto considerando ciò che era andato a reperire.
Così come qualunque altra prova o elemento del caso, il corpo senza vita di Karol Clouds fu trasportato in tribunale e posizionato su un ripiano al centro della sezione circolare dei banchi, in bella mostra per tutti i presenti.
La sola vista fu un duro colpo per più di una persona.
Judith provava ancora rammarico per il colpo infertogli, nonostante non fosse stato quello decisivo. Pur superando il senso di colpa, il vedere l'Ultimate Teacher in quello stato di tetra immobilità bastava a lacerarle l'animo.
L'aura autorevole che avvolgeva Karol e l'atmosfera rassicurante scaturita dalla sua voce erano svanite; al suo posto vi era solo un corpo freddo e morto; inerte, pallido, terrificante.
La pelle aveva assunto un colore sbiadito e i capelli avevano perso lucentezza; nemmeno sembrava più lui.
A June Harrier non bastarono che un paio di secondi per capire che non poteva reggere quella situazione.
Il suo corpo si ribellò a quell'orrore, a partire dal suo stomaco. L'Ultimate Archer annunciò fin dal principio che non sarebbe stata capace di esaminare nuovamente Karol.
Rimase al suo posto, lasciando agli altri il compito di rielaborare l'autopsia.
Fu proprio Pearl Crowngale a prendere l'iniziativa lì dove gli altri ancora titubavano.
Dimostrò nuovamente come il suo modo di affrontare la morte fosse diverso dalla norma, seppure con i dovuti limiti.
Fece di tutto per non pensare a quel cadavere come il proprio compagno, ma come una prova da sfruttare per togliersi dagli impicci. Ci provò, ma non ci riuscì pienamente.
Tra le tante novità che Pearl si ritrovò ad affrontare fu l'incapacità di non identificare un morto; non era più un semplice ammasso di carne in decomposizione.
Fino ad alcune ore prima era Karol Clouds, il suo faro di salvezza. Era un qualcosa che Pearl non poteva ignorare, ma si forzò comunque a farlo.
Vi era ancora qualcosa da fare prima di arrendersi.
- ...allora cominciamo - disse lei.
Michael e Xavier le si erano affiancati; erano entrambi pronti a cominciare il controllo.
Judith si era messa vicino alle gambe, mantenendo una breve distanza.
Con sorpresa di Xavier, Pierce non si era tirato indietro; anzi, sembrò voler prendere piena responsabilità di ciò che lui stesso aveva provocato.
- Pierce, non vuoi aspettare con June? - domandò il detective.
- X-Xavier... abbiamo avuto a che fare con molti cadaveri oramai. Non voglio farmi da parte, non stavolta - disse, ostentando coraggio.
Xavier acconsentì, mostrando un certo orgoglio.
- Bene, avremo bisogno di tutto l'aiuto possibile -
- Da dove... dovremmo iniziare? -
- Michael, guidaci tu - lo pregò Judith - Tu hai sicuramente un'idea più chiara della situazione -
L'Ultimate Chemist non se lo fece ripetere. Incrociò le braccia e diede un cenno al gruppo, come a voler dire che avrebbe temporaneamente preso il comando.
- Dunque, ho già svolto i preliminari e sono abbastanza certo di non aver mancato nulla nel resto del corpo; un ripasso non farà male, però - disse - Le uniche ferite presenti sono le due sulla fronte. Andremo ad ispezionarle meglio; Judith, tu controlla su braccia e gambe se non c'è nulla che possa aver mancato. Pierce e Xavier mi aiuteranno con il lavoro principale. Pearl... -
La bionda notò quell'esitazione. Sbuffò, intuendo a cosa avrebbe portato.
- ...sì? -
- Tu sei la sospettata. Osserva, ferma, e zitta - ordinò lui.
- Presta comunque attenzione. Se noti qualcosa di strano, avvertici - intervenne Xavier, mediando.
- Mi sembra il minimo - annuì lei.
- E' tutto. Iniziamo - 
Le parole del chimico segnarono un lungo periodo di silenzio in cui ognuno svolse la sua parte in religiosa quiete.
Xavier si ritrovò a rimuginare sui primi dati che aveva estrapolato da un'occhiata veloce.
Il corpo di Karol stava chiaramente risentendo degli effetti della morte, ma non puzzava; intuì che, fino a quel momento, fosse stato conservato da qualche parte.
"Un secondo esame del cadavere è per noi una novità, ma non è affatto inusuale durante un'indagine. E' chiaro che Monokuma tenga i cadaveri da qualche parte, nel caso uno servisse nel corso del processo"
Un altro elemento che aveva destato la sua attenzione era che il cadavere non era stato semplicemente trasportato di peso.
Il soffitto del tribunale si era aperto rivelando una piccola cavità, dalla quale Karol era stato lentamente calato tramite una pedana e alcune funi.
Anche semplicemente considerando queste due ultime informazioni, un pensiero si manifestò nella mente del detective.
"...sapevo che questa scuola ha diverse zone che ci sono precluse, ma potrebbe essere molto, MOLTO più grande di quanto immaginassi"
I mezzi usati da Monokuma erano poco chiari, ma che il suo controllo sulla struttura fosse totale era scontato quanto evidente. 
L'onnipotenza del nemico si mostrò schiacciante ancora una volta.
Xavier passò poi a scrutare il meticoloso lavoro svolto da Michael Schwarz; il ragazzo aveva indossato dei guanti in lattice generosamente forniti dall'androide urside e stava esaminando la zona attorno alla prima ferita: quella che tutti credevano fosse stata causata dal mappamondo.
Dopo alcuni minuti, Michael dovette compiere una leggera rettifica a quanto detto durante la prima indagine.
- ...il livido che circonda la ferita è stato sicuramente provocato dal mappamondo, è un dato di fatto. La loro perfetta sovrapposizione mi ha tratto in inganno -
- Quindi la ferita è stata davvero causata da qualcos'altro, e l'attacco di Judith la ha semplicemente riaperta... - mormorò Pearl.
- Riusciresti a determinare come è stata provocata, allora? - domandò Pierce, speranzoso.
Il chimico assunse un'espressione dubbiosa.
- ...a giudicare dal modo in cui si è cicatrizzata la pelle... sembra che sia stata recisa -
- "Recisa"? E' un po' vago - osservò Xavier.
- Credo si sia trattato di un taglio. Forse anche profondo -
Vi fu un momento di confusione generale.
- Un taglio? Davvero? - chiese June, a pochi metri di distanza - Ma... non è un po' strano? -
- Già, la differenza tra una ferita da taglio e una contundente è palese. Come abbiamo fatto a non accorgercene? - sbuffò Xavier.
- Mhh... quando eravamo sulla scena del crimine la ferita si era aperta in modo anomalo ed era uscito molto sangue. Confrontando la portata del livido, le fattezze innaturali della ferita e il peso del mappamondo abbiamo dato per scontato che fosse stata provocata da quest'ultimo. Ci siamo sbagliati - fu la conclusione di Michael, che sembrò accettare il proprio errore con dignità.
- E l'altra ferita? - fece Pearl - Quella sulla parte opposta della fronte -
- Sì, beh... la avevo tralasciata. Non la ritenevo inerente al caso... - ammise il chimico.
- Ricordo che ne parlammo - asserì Xavier - Avevi detto che la seconda lesione era più vecchia e non poteva essere correlata -
- Ma adesso sappiamo che potrebbe esserlo...! - esclamò Pierce - L'omicidio deve aver avuto inizio ieri sera! -
A quel punto il chimico non poté fare altro che rimettersi all'opera nel tentativo di fare luce sulla questione.
Impiegò altri dieci minuti per accertarsi della natura dell'abrasione sul lato sinistro.
- Dunque... ad una rapida occhiata direi che la seconda ferita è... estremamente simile alla prima - mormorò - Forse uguale... sì, non c'è dubbio -
- Quindi sono entrambi tagli? -
- Hey! Coincide con l'ipotesi di Xavier! - disse Judith - Se le forbici sono state utilizzate durante l'attacco allora è plausibile pensare che le ferite siano delle lacerazioni! -
- Aspettate, qualcosa non quadra... - li bloccò Xavier.
I sensi dell'Ultimate Detective erano all'erta; un dettaglio cruciale stava sfuggendo alla loro attenzione.
La sua unica pupilla vagò da una parte all'altra della fronte, appena sopra le palpebre socchiuse di Karol.
Un'illuminazione lo folgorò all'improvviso.
- ...Mike, come hai detto prima era semplice scambiare la prima ferita per una da impatto se non la si esamina con attenzione. E piuttosto irregolare e profonda -
- Uhm, sì. Credo che fosse il punto dell'intera questione... - sbuffò lui - Quindi? -
- Sai, è comunque difficile credere che sia stata provocata da un semplice paio di forbici. Guarda quanto è profonda - continuò lui - Il colpevole deve essersi messo a scavare di buona lena nella carne e nelle ossa della testa... come se avesse voluto infierire -
- Ugh...! Xavier, risparmiaci i commenti macabri! - lo pregò June, disgustata e spaventata.
- Ma è importante. Osservate bene: la seconda ferita è perfettamente speculare, e probabilmente provocata dallo stesso strumento - indicò loro - Non è forse possibile che...? -
- ...che anche la seconda ferita sia altrettanto profonda - annuì Pearl.
- Stai dicendo che le due ferite sono esattamente uguali...? - Judith era ancora scettica.
- A prima vista non sembrerebbe, poiché il colpo col mappamondo ha completamente scombinato la prima. Ma la loro natura e le tempistiche adottate per infliggerle sembrano essere identiche. E' un'ipotesi da non scartare -
Michael batté freneticamente un piede sul terreno.
- No, no! Un attimo! E' impossibile che una ferita altrettanto profonda possa trovarsi sotto la cicatrice sinistra! - sbottò - Una lesione del genere non può chiudersi in un lasso di tempo così breve! La ferita di destra è in quello stato a causa del mappamondo, ma...! -
- No, ti sbagli. E' possibile -
L'irrefrenabile sproloquio del chimico trovò inaspettatamente un rapido epilogo.
Si voltò di scatto alla propria destra; non si aspettava di trovare uno sguardo talmente serio negli occhi di Pierce Lesdar.
Che il sarto lo avesse contraddetto con una tale confidenza lo lasciò spiazzato, oltre che profondamente irritato.
- ...Pierce? Che vai cianciando!? - inveì Michael.
- Ti dico che è possibile. La cicatrice indica che la ferita è stata rimarginata solo sulla superficie, sullo strato esterno della cute. Vi sono innumerevoli metodi per accelerarne il processo artificialmente. Quel marchio potrebbe nascondere sotto di esso una lesione grave tanto quanto quella di destra; lavorando sulla carne e sul cranio è possibile mascherare l'atto con relativa facilità -
Ne seguirono alcuni secondi di incertezza.
Pierce si rese conto solo successivamente che il resto della classe lo stava fissando con espressioni stupefatte e incredule.
In un baleno, l'atmosfera di serietà che lo cingeva lasciò spazio ad un consistente imbarazzo.
- Uhm... ecco...! - balbettò il sarto.
- Pierce, ma sei incredibile! - lo acclamò Judith, esaltata - Davvero è possibile qualcosa del genere!? -
- Beh... solo in teoria! Ma sì, ne sono sicuro - annuì lui - Non dobbiamo fare altro che controllare sotto la ferita per avere le nostre risposte -
- Ora abbiamo anche un motivo valido per farlo - asserì Pearl, soddisfatta - Sei stato in gamba, Pierce -
- Non credevo te ne intendessi di queste cose - sorrise Xavier, compiaciuto - Sei una miniera di sorprese -
Il ragazzo fece di tutto per nascondere la vergogna, non senza però goderne segretamente.
- R-ragazzi, smettetela...! Potrei aver preso un abbaglio colossale, per quanto ne so! -
- E allora non ci resta che scoprirlo - li incitò June Harrier - Dai, Mike! Pensaci tu! -
Non troppo invogliato, Michael Schwarz afferrò lo strumento che gli avrebbe permesso di accedere a quelle nozioni: il bisturi.
Pur essendo una prova del caso nulla vietò loro di utilizzarlo per altri fini.
Le mani dell'Ultimate Chemist si mossero lentamente, squarciando con tratto lieve la pelle di Karol.
La lama del coltellino seguì il profilo della cicatrice da un estremo all'altro con precisione millimetrica.
Un fiotto di sangue uscì da sotto, ma la maggior parte era già stata versata tempo addietro. Quel grumo era l'ultimo rimasuglio che ancora ne permeava la carne.
Con le dita vagamente tremanti, Michael spostò le sezioni recise e ne rivelò ciò che celavano.
Con trepidazione, ognuno si sporse per vedere il risultato delle loro faticose indagini. Persino June vinse la paura e si affacciò per controllare.
Tutti e sei assistettero al culmine dell'indagine: sotto la cicatrice sinistra vi era una piccola cavità di carne lesionata, esattamente come nella destra.
La simmetricità e la disposizione dei tagli erano uguali in modo impressionante.
- ...è come ha detto Pierce! - disse Judith, meravigliata.
- C'era davvero una ferita uguale sotto la cicatrice... - Michael si morse il labbro.
- Il colpevole, dunque, ha provocato queste due lesioni andando a scavare nel... cranio di Karol - persino a Xavier la cosa apparve inutilmente cruenta.
- Mh, un momento... - li interruppe June - Non siamo partiti dal presupposto che Karol fosse stato ucciso stamattina? Certo, l'omicidio poteva essere stato pianificato e messo in atto da ieri, ma una ferita simile ucciderebbe chiunque...! -
Il dubbio di June fu messo agli atti dall'interezza della classe. Uno scetticismo di fondo permeò gli animi degli studenti.
- E non dimentichiamoci che Karol mi ha attaccata... - mormorò Judith - Ed era vivo e vegeto, ne sono certa... -
- Sì, Karol era ancora vivo stamattina. Non c'è dubbio, poiché ha addirittura lasciato un messaggio col sangue - osservò Xavier - Ma allora che intento aveva il colpevole quando ha provocato tutto questo? E come ha fatto? Cielo, sembra impossibile che una persona sola possa aver fatto tutto questo... -
- ...la risposta potrebbe essere a portata - disse poi Michael, richiamando tutti - Guardate cosa c'è qui! -
Nessuno se lo fece ripetere. Voltandosi verso il punto indicato da Michael, all'interno della fronte di Karol.
Nascosto tra i tessuti vi era un piccolo corpo nerastro che sbucava dalla carne, conficcato dentro essa. Fu solo scavando che il chimico riuscì ad individuarlo.
Lo afferrò con la punta delle dita e provò ad estrarlo, ma senza successo. L'oggetto sembrava essere stato inserito nel cranio, incastrato dentro di esso.
I sei studenti si scambiarono occhiate dubbiose.
- Cos'è... quello? - gemette June.
- Forse è la nostra risposta. Dobbiamo prenderlo! - esclamò Xavier.
- Ci penso io -
Pearl Crowngale prese l'iniziativa ed afferrò a sua volta un paio di guanti. 
Seppure titubanti, nessuno osò negarle quel tentativo.
Afferrò la punta dell'oggetto tra le dita sottili e, all'improvviso, strattonò con forza micidiale. 
Con un colpo secco estrasse il corpo misterioso, sotto lo sguardo intimidito e nauseato degli altri.
Lo porse a Xavier, soddisfatta del lavoro compiuto.
- Ecco a te -
- Gentilissima - ironizzò lui - Ora, vediamo un po'... -
Ad un primo esame sembrava una sorta di cilindro metallico di colore scuro; nulla che si potesse vedere nella vita di tutti i giorni.
Andando a scrutare più a fondo, una delle estremità aveva dei minuscoli componenti elettrici, così come diversi fili che sbucavano da essi. 
Questi ultimi, però, erano completamente bruciati ed erano inutilizzabili.
- ...che diavoleria è mai questa? - chiese Judith.
- Era nel... cranio di Karol? - Pierce rabbrividì al solo pensiero.
- Non vorrete dirmi che ce lo ha inserito il colpevole!? - sbottò Michael - Questa, poi! -
- Ma dovrà pur significare qualcosa, no...? Voglio dire... a cosa serve? -
- Non credo di averne la minima idea... - sospirò Pearl - E tu, Xavier? Credi che...? ...Xavier? -
Il detective non rispose.
La sua pupilla era rivolta unicamente a quello strumento insolito e misterioso, scrutandolo da parte a parte.
Una profonda inquietudine aveva iniziato a scuotere il suo animo dalle fondamenta; respirando affannosamente, la sua memoria ripescò un ricordo.
Tra le infinite nozioni della sua vita, quell'unico dettaglio ritornò a galla nel momento fatidico.
Ogni fibra del suo corpo si accodò a quella sensazione, e Xavier Jefferson non ebbe più dubbi.
- ...lo ho già visto -
Attimo di silenzio.
- ...come? Fai sul serio...? - mormorò Michael, spalancando gli occhi.
- Sì, io... io lo ho... merda... - imprecò - Merda, come ho potuto realizzarlo solo ora...? Ora tutto ha senso! -
- Xavier...!? - Judith lo fermò nel pieno del suo sproloquio incomprensibile - Che vuoi dire!? Sai cos'è questo oggetto!? -
Il detective sbatté il pugno sul banco più vicino. Il suo volto era contratto in un'espressione terrorizzata.
Si morsicò il labbro fino a recidersi un brandello di pelle morta, stringendo tra le mani quel congegno.
- ...un omicidio che non coincide con le tempistiche... una vittima che agisce oggi pur essendo stata attaccata ieri... e l'assurda follia di Karol. E' tutto troppo assurdo per sembrare vero, no? -
- A-abbastanza... - ammise June - Eppure... -
- Già dal principio avremmo dovuto porci le giuste domande - continuò Xavier - Perché Karol è stato colpito alla fronte? Esistono modi più efficaci per uccidere una  persona che scavargli nel cranio! E' chiaro che l'intento era un altro! E ora... ora troviamo questo congegno maledetto nel cervello del Prof. lo stesso giorno in cui ha dato di matto attaccando Judith! E' assurdo, ma facendo due più due arriviamo all'unica conclusione sensata! -
Pearl spalancò le labbra, esterrefatta.
- No... no, non è possibile - disse, scuotendo il capo con veemenza - Non dirlo neanche per scherzo...! -
- Seriamente...? Seriamente!? - gridò Michael, furibondo - Non può essere TALMENTE incasinato questo delitto! -
- Xavier... - lo pregò Judith - Se davvero sei a conoscenza di ciò che è quell'affare, allora saprai darci una risposta. Karol è...? -
Il detective inspirò profondamente; stava per dare una risposta di cui nemmeno era troppo convinto ad una domanda fin troppo importante.
Ripensò più volte allo scenario, ma il cilindro non dava spazio a troppi dubbi: era l'unica alternativa.
Non riuscendo a trovare un'altra spiegazione, si vide costretto a riferirla ai compagni: quell'ultima, assurda deduzione.
- ...Karol Clouds è stato lobotomizzato. Ed è accaduto ieri sera -




Michael Schwarz dovette compiere uno sforzo sovrumano per contenere l'immenso ammontare di risposte poco garbate in merito a quanto detto dal compagno.
Suo primo istinto fu quasi di ridergli in faccia, incapace di credere che Xavier potesse dire una cosa simile con una faccia così seria.
Eppure, constatando che il detective fosse perfettamente lucido e decisamente non in vena di scherzi, l'umore del chimico mutò rapidamente.
- ...tra tutte le assurdità che potevi sparare - commentò lui, pulendosi le lenti degli occhiali - Questa le batte proprio tutte -
- Mike, non sto dando fiato alla bocca - ribatté l'altro - So cosa sto dicendo: Karol è stato "manomesso" -
- Oh, ma ANDIAMO! Come diavolo credi che sia possibile qualcosa del genere!? - sbraitò.
June Harrier sentì il bisogno di intervenire.
- N-non dico che tu abbia torto, Xavier... ma è piuttosto difficile da accettare - sospirò l'arciera, avvilita - Te ne sbuchi di punto in bianco con una teoria inverosimile... -
- Eppure... per quanto improbabile, non darebbe una spiegazione a tutto ciò che è successo? - esordì inaspettatamente Judith - Voglio dire... tutti i dettagli fuori luogo di questo caso potrebbero addirittura acquisire un senso! -
- Non avrà senso fino a che non ci spiegherà come diavolo è giunto a questa conclusione improponibile! - asserì Michael, senza lasciare spazio a compromessi.
Fu il turno di Pearl di esporre una domanda che la stava martellando incessantemente.
- ...Xavier, poco fa hai affermato di aver già visto questo oggetto cilindrico - mormorò, indicando il piccolo congegno annerito - Ne conosci davvero il funzionamento? Sai di che si tratta? -
Lui non rispose immediatamente; Pearl ebbe come la sensazione che il compagno stesse attentamente misurando le parole da utilizzare.
Le rivolse un'occhiata di sottecchi.
- ...sì, lo conosco. Ho avuto a che fare con roba simile - confessò - E credetemi, non è nulla di piacevole -
- Ok... q-quindi che cos'è che fa...? - balbettò Pierce, conscio che la risposta non sarebbe stata piacevole.
Xavier Jefferson allungò la mano rivelando nel dettaglio quel piccolo corpo sporco di sangue e carne.
Aveva un'estremità rigida e una più esile, dalla quale spuntavano alcuni piccoli fili metallici, tutti bruciacchiati.
Qualunque fosse il suo scopo, non sembrava più in grado di portarlo a compimento.
- Questo arnese... è un dispositivo che genera onde elettromagnetiche. Si tratta di impulsi artificiali che mirano a replicare quelli dell'attività cerebrale -
La spiegazione fu compresa, ma difficilmente accettata.
- Onde... cerebrali? - June parve sforzarsi di capire.
- Il nostro cervello emette diversi tipi di onde che variano in frequenza a seconda dello stato del nostro organismo - continuò lui - Queste onde hanno un forte effetto sulla nostra cognizione e sul tessuto nervoso. In pratica, sono trasmissioni di informazioni su ciò che percepiamo. E questo aggeggio... serve a modificare l'attività cerebrale con degli impulsi creati artificialmente -
- Un oggetto... così piccolo? - Pierce si grattò la nuca.
- La tecnologia fa miracoli, eh...? - ironizzò Michael - Ma ancora non mi è chiaro come tu possa sapere tutte queste cose! -
Xavier scosse il capo.
- Ho avuto modo di conoscerle durante un'indagine, tempo fa - disse, facendo spallucce - Ma è irrilevante. Ciò che sappiamo è che Karol ne era palesemente affetto -
- Ed è per questo che ha tentato di... accoltellarmi!? - esclamò Judith, inorridita.
- Possiamo intuire che ad averlo fatto sia chiunque abbia ordinato al cervello di Karol di agire in quel modo - Xavier parve sicuro della risposta - Ciò spiegherebbe non solo il motivo del suo comportamento fuori norma... ma anche un altro importante dettaglio -
- ...parli della causa del decesso - esordì Pearl Crowngale, lasciando gli altri di stucco.
Xavier si meravigliò della sua intuizione, e ricambiò con un cenno di assenso.
- Esatto, Pearl... osservate bene i fili bruciacchiati sull'estremità - li indicò facendo attenzione a non sfiorarli con le dita - Questi erano connessi direttamente al cervello, essendo il congegno conficcato nel cranio. Ma sono fusi, probabilmente a causa di un corto circuito... -
- Ah! - June ebbe un sobbalzo - Stai dicendo che hanno causato... un "corto circuito" al cervello!? -
- Bingo - sorrise Xavier.
Michael mostrò uno sguardo vagamente sprezzante. Continuando ad esaminare il dispositivo ebbe modo di notare come la descrizione di Xavier avesse delle fondamenta veritiere.
La composizione dell'oggetto rivelò la presenza di una piccola batteria e di un magnete. 
La verità evidente lo mise alle strette.
- Bah... incredibile - sbuffò - Va bene, la tua teoria regge. Ma credi di poter dimostrare che la malfunzione del dispositivo abbia provocato la morte? -
- Perché ne dubiti? - domandò Xavier.
- Molto semplicemente, era inserito per bene nella testa di Karol, e ha un aspetto solido. Sarebbe stato necessario un impatto notevole per... -
La bocca smise di muoversi, interrompendo la frase.
Michael notò un sorriso beffardo formarsi sul volto dell'Ultimate Detective: realizzò che Xavier lo aveva portato esattamente dove voleva.
- Già, Mike. Un forte impatto - 
- Merda... - imprecò lui - Il mappamondo...! -
Judith avvertì una fitta al cuore.
- Cos...? Il mappamondo? Il m-mio colpo!? - disse, terrorizzata.
- L'attacco ben piazzato di Judith ha colpito la fronte... - commentò Pearl - Non era letale per Karol, ma era abbastanza forte da danneggiare il dispositivo -
- E provocandone il corto circuito, ha innescato la morte del Prof! - Pierce seguì a ruota il ragionamento.
- Un attimo! A-aspettate! - li bloccò June - Non verrete a dirmi... che la responsabilità è di Judith!? -
Le parole dell'arciera confermarono il timore incombente dell'Ultimate Lawyer di ritrovarsi nuovamente invischiata in quella orribile faccenda.
Bastò un rapido cenno di Xavier per riportare tutti alla calma.
- Non fraintendete - li rassicurò lui - Ad aver ucciso Karol è stato l'elettroshock, non il mappamondo. L'assassino, quindi, è chiunque abbia impiantato questo affare dentro il Prof -
Il battito cardiaco di Judith decelerò nel giro di pochi attimi. La ragazza fu certa che, prima o poi, avrebbe avuto un infarto.
- Già... è vero - annuì Pierce - Cielo, avremmo dovuto notarlo prima! Quelle due ferite alla fronte erano troppo strane! -
- Inutile piangere sul latte versato - sbottò Michael - L'importante è esserci arrivati. Purtroppo, però, manca il dato più importante -
L'atmosfera si fece pesante.
Il quesito finale stava arrivando più rapidamente che mai.
- ...già, l'elemento chiave - sospirò Xavier - CHI ha messo questa roba dentro Karol? Chi lo ha ucciso? -
- Un piano contorto e diabolico... - commentò amaramente Judith - Non voglio credere che uno di noi sei possa averlo fatto, ma... le cose stanno così, no? -
- E' innegabile... - June abbassò la testa - Deve essere stato... uno di noi -
- E si dia il caso che nessuno dei presenti ha un alibi per ieri sera... - aggiunse Michael, profondamente irritato.
- Eppure... è così strano - Pierce non parve convinto - Pensateci, ragazzi: questo omicidio è stato elaborato in maniera inverosimile -
- "Inverosimile" è quasi riduttivo - fece June, mordicchiandosi un dito.
- No, dico sul serio -
Il tono di Pierce Lesdar fece trasparire che vi fosse di più dietro le sue parole. Un significato che stava ad indicare un punto di vista diverso.
- Cosa intendi dire, Pierce? - lo incitò Xavier.
- La domanda che mi sto ponendo è: esiste davvero qualcuno, tra noi sei, in grado di fare cose simili? -
Ne seguì un momento di silenziosa meditazione. Il quesito lasciò un alone di interdizione, ma anche di interesse.
- Spiegati meglio, Pierce. Cosa vuoi dire? -
- E-ecco... io stavo... - deglutì - Stavo pensando ai casi passati. Sapete, spesso mi tornano in mente gli orrori a cui abbiamo assistito da un punto di vista diverso.
Ricordate durante il primo caso? Alvin riuscì a disarcionare Refia a mani nude. Fummo in grado di incriminarlo perché... beh, era l'Ultimate Guardian. Uno imponente  come lui doveva necessariamente esserne in grado -
- Aah... capisco dove vuoi arrivare... - commentò Xavier, pregandolo di andare avanti.
- E il secondo caso? Hayley è riuscita a creare una situazione di stallo grazie alle sue doti di arrampicatrice. E' stato proprio quel dettaglio legato al suo essere l'Ultimate Hiker a tradirla. E che dire di Rickard? Solo l'Ultimate Voice Actor avrebbe potuto replicare dei timbri vocali così differenti dal proprio alla perfezione -
- E concludiamo con Kevin, che ha saputo creare una tossina vegetale da un ammasso di erbaccia - seguì Michael - Un'impresa possibile solo all'Ultimate Botanist -
- Già... ma in questo caso? - sospirò Pierce Lesdar, vagamente confuso - Una persona ha messo le mani nella testa di Karol, manomettendogli il cervello e rendendolo il suo burattino. Più ci penso e più mi chiedo: ma chi mai, tra noi, ne sarebbe capace!? -
Vi fu un rapido scambio reciproco di occhiate inquisitorie, ma una soluzione non venne raggiunta.
Xavier Jefferson provò ad immaginarsi numerose possibilità, ma nessuna sembrava condurre ad un filo logico concreto.
"...può davvero essere stato chiunque?" pensò "No, deve esserci un indizio. Un traccia che porti a..."
- ...beh, non siamo forse tornati al punto di partenza? -
La voce colma di stress di Michael tornò a farsi sentire. Per quanto non fosse famoso per pronunciare frasi gradevoli o costruttive, nessuno osò interromperlo poiché nessuno aveva ancora idea di dove andare a parare. Il chimico, dal canto suo, sembrava avere avuto un'illuminazione.
- Definisci "Punto di partenza"... - sbuffò June.
- Beh, non è scontato? Chi mai avrebbe potuto compiere un delitto talmente efferato se non l'Ultimate Assassin!? - sentenziò a gran voce - Non avrete mica dimenticato che Pearl è ancora la più sospetta, vero!? E a me non sembra così strano pensare che un'assassina professionista possa aver manipolato il cervello di una vittima! -
- Q-questo è vero, ma... - Judith scosse il capo - Possiamo davvero affermarlo a priori? -
- Lo ha detto Pierce - perseverò Michael - Nessuno dei nostri talenti ci permetterebbe qualcosa di simile -
- Ma un'assassina ne sarebbe in grado... - mormorò June, contemplando la possibilità.
Xavier scosse la testa, vagamente deluso dal risultato.
- E alla fine si torna sempre a Pearl... - sospirò, avvilito - Cosa ne dici, Pearl? Hai qualcosa da dire in merito? -
Incrociò le braccia e attese la risposta della bionda, socchiudendo gli occhi.
Passarono alcuni attimi di silenzio; fin troppi per attendere un semplice responso. 
Xavier si girò in direzione di Pearl, quasi credendo che non avesse sentito.
Nel corso del processo, ogni accusa rivolta verso Pearl Crowngale era stata fortemente contrastata da quest'ultima, anche con una certa insistenza.
Una lotta ferrea e quasi irrazionale che l'Ultimate Assassin aveva portato contro tutti gli indici che le erano stati puntati contro.
Eppure, in quel momento, non vi fu alcuna risposta immediata. Xavier notò che Pearl era intenta a fare ben altro.
Realizzò solo in quel momento che la ragazza non aveva nemmeno partecipato attivamente alla conversazione per un tempo prolungato.
Fu lì che notò ciò a cui Pearl si stava dedicando.
I cinque ragazzi sorpresero la compagna china col viso rivolto sulla fronte di Karol e le dita esili poste sul margine della sua fronte squarciata.
Mentre nessuno vedeva, l'ispezione di Pearl era andata silenziosamente avanti.
- Pearl...? - la richiamò Judith - Che cosa stai... facendo? -
- Risolvo il caso - fu la semplice e schietta risposta dell'ex ninja.
Pur non dandole inizialmente alcun credito, il resto di loro non poté che avvertire un forte interesse verso quell'ultima asserzione.
- Cosa intendi dire!? - fece June - Hai intuito qualcosa!? -
- Sì, credo di sì - fece lei, ancora occupata ad armeggiare con le dita - Ho pensato ad un dettaglio durante il nostro dibattito; qualcosa a cui non abbiamo pensato -
- Non farti pregare, Pearl. Rivelacelo - insistette Xavier.
In quell'istante, le dita di Pearl si chiusero in una morsa e la ragazza le sollevò verso l'alto.
Un'espressione velatamente soddisfatta mostrò che l'Ultimate Assassin aveva trovato ciò che cercava.
Xavier si sporse per capire cosa avesse trovato, ma non riuscì a capire: stretto tra le falangi della bionda non vi era assolutamente nulla.
Era come se stesse maneggiando l'aria, tenendola quasi come avesse una forma e un aspetto.
- ...appena abbiamo stabilito che Karol è stato "aperto" avremmo dovuto considerare un altro fattore essenziale - disse improvvisamente la bionda, senza staccare lo sguardo dalla propria mano sollevata - Karol ha praticamente subito un'operazione, senza mezzi termini. Qualcuno gli ha tagliato la fronte e lo ha imbottito con quel dispositivo. Ma la differenza tra una ferita normale e quelle provocate da un intervento c'è, ed è colossale -
- La differenza... la differenza... - Judith spalancò le palpebre - ...ma certo...! Oddio, è ovvio! Una ferita comune si rimargina, ma dopo un'operazione il taglio deve essere necessariamente...! -
- ...chiuso, sigillato. Esatto, Judith - proseguì Pearl - Non si può lasciare un paziente ancora aperto dopo un'azione simile, o morirebbe dissanguato. No, chiunque abbia "aperto" Karol deve averlo anche "richiuso". Ora domando a tutti voi: considerando le due ferite sulla fronte avreste mai pensato al fatto che avesse subito un trattamento artificiale? -
Attimo di imbarazzante silenzio: tutti e cinque scossero la testa.
- Beh, no... dopo un'operazione in genere si lasciano sempre dei punti... - commentò June - Anni fa mio fratello si ferì ad un ginocchio e dovettero operarlo. Mi ricordo bene che aveva delle cuciture che sporgevano dalla zona della rotula... -
- Esatto, June. Non si esce intonsi da un intervento chirurgico -
- E come si spiega che Karol lo fosse...!? - esclamò Michael, esterrefatto.
Pearl rivelò un'espressione aspra.
- ...non lo era -
- Cosa? Che significa...? - mormorò Pierce.
- Quello che ho detto: non era affatto illeso. Semplicemente non si vedeva a prima vista. E questa... è la prova -
Pearl strinse gli indici ai rispettivi pollici e li separò, mettendo le mani in controluce verso una delle luci artificiali del tribunale.
Xavier alzò istintivamente lo sguardo e ne rimase abbagliato; non appena il suo occhio si fu abituato alla luce, comprese ciò che la compagna stava cercando di dire loro.
Tra le dita di Pearl, posto in evidenza dall'illuminazione, apparve una sagoma poco distinta ma tangibile. Una forma sottilissima e lunga retta senza sforzo dalle dita.
Un filo.
- Quello è... un filamento sottile...? - 
- Sì, Xavier. E' un filo molto, molto sottile. Guardate tutti - e così dicendo, passò a mostrarlo nel dettaglio al resto della classe - E' di una fibra tenue e trasparente, praticamente invisibile ad occhio nudo. E, soprattutto, è resistentissima -
- N-notevole... - fece June - Ma da dove lo hai tirato fuori? -
- Non è ovvio? Era nella testa di Karol -
- No che non è ovvio! - ribatté Michael - Abbiamo controllato un sacco di volte e non...! -
- Non lo avete mai notato, giusto? - continuò Pearl, senza badare troppo alle proteste del chimico - Sarebbe strano il contrario. Questo è lo stesso materiale con cui si fabbricano degli spaghi speciali usati negli omicidi. Così sottili da essere quasi invisibili, ma letali se applicata la giusta pressione -
- E tu li avresti avvistati? Quando, e come? - domandò Xavier, insistendo.
- Appena adesso, quando ho capito che tutto questo casino non poteva essere stato provocato senza uno strumento simile - rispose tranquillamente lei - Quanto al come... lo hai detto tu, Mike: io sono un'assassina professionista. Tra le mie doti ce ne sono diverse davvero particolari. Non sottovalutare la mia vista -
- Ma allora... Karol è stato ricucito utilizzando dei fili trasparenti? - Judith assaporò quella frase senza davvero crederci - Ancora non mi sembra possibile -
- Di certo è stato usato qualche espediente per far cicatrizzare meglio la ferita, ma il succo è quello. Fareste meglio a vedere coi vostri occhi -
A quelle parole, Pearl passò ad illustrare nel dettaglio la situazione. 
Impiegò numerosi tentativi, ma alla fine riuscì ad estrarre un certo numero di fili dall'interno della pelle.
La maggior parte si erano oramai mescolati alle interiora e si erano confusi totalmente con l'organismo: i pochi che Pearl riuscì a reperire erano quelli ancora attaccati ai margini dei tagli sulla fronte che avevano provveduto a tenerla unita.
Michael dovette tastare con le proprie mani per rendersi conto che era vero: gli era stato impossibile accorgersene anche dopo ben due autopsie.
Pur lustrandosi le lenti degli occhiali, ancora non riusciva ad individuarli correttamente; incolpò la sua scarsa vista e passò oltre.
Alla fine dell'esaminazione, l'Ultimate Assassin prese la parola ancora una volta.
- ...abbiamo un quadro più chiaro di ciò che è accaduto, ora - asserì Pearl.
- Tu dici? A me non sembra che abbiamo fatto passi da gigante... - si lamentò June - Come è cambiata la situazione? -
- Abbiamo un elemento in più da tenere in considerazione - affermò Michael - Deve pur esserci qualcosa che riconduca all'identità dell'assassino -
- E qualcuno ha capito di che si tratta? - il tono speranzoso di Pierce non trovò conferma.
- Non da parte mia - Judith fece cenno di diniego - E tu, Xavier? Cosa mi dici riguardo a...? -
Si bloccò.
Un silenzio gelido, uno sguardo truce, labbra secche e vagamente spalancate. 
Volto contratto, respiro affannoso, mani tremanti.
Questo era l'aspetto dell'Ultimate Detective dopo aver osservato varie volte le nuove prove a propria disposizione.
Immediatamente turbata da quel cambiamento repentino, Judith gli si avvicinò tempestivamente.
- Xavier...? Xavier! - gli diede una scrollata - Che ti succede!? -
Ma le parole non lo raggiunsero subito.
La mente del ragazzo era rimasta concentrata su altro, su un pensiero recondito che, piano piano, stava venendo a galla.
Pezzo dopo pezzo, l'intero caso assunse una conseguenza logica: una forma, un aspetto.
Qualcosa che fosse privo di buchi o incongruenze, ma che inevitabilmente si basava su di esse.
Xavier Jefferson continuò a ripetersi in mente una singola frase che aveva udito poco prima.
Un insieme verbale che estratto dal contesto non aveva significato, ma che unendolo a tutti gli altri dati otteneva un nuovo significato.
Un significato orribile, pauroso, tremendo. Uno che Xavier ancora faceva fatica ad accettare, ma che avrebbe inevitabilmente dovuto.
"Karol è stato ricucito utilizzando dei fili trasparenti... lo ha detto Judith poco fa... già, è stato..."
Estrapolò finalmente il termine che gli stava dando più da pensare.
Lo estrasse, e lo mise da parte. Lì, in un angolino della sua mente dedicato solo a quello, poté finalmente analizzare quel singolo vocabolo che tanto lo faceva penare.
"........ricucito. E' stato ricucito. 
E con una certa maestria, anche. 
Cristo, è stato un lavoro perfetto. 
Ricucito, ricucito.
Non se ne sarebbe mai accorto nessuno. Pearl è stata provvidenziale.
Ricucito. Il Prof... Karol... ricucito.
Il colpevole ha fatto in modo che sembrasse tutto un incidente.
L'assalto di Karol, il contrattacco di Judith, l'arrivo di Pearl. Tutto, perfettamente allestito.
Ricucito.
Sembrava davvero che... che fossero... ferite normali. Ma erano... ricucite...
Ricucito. Cucito. Cucito. Cucito. Cu...ci...to. 
Cu... CUCITO. NO.
NO, CAZZO, NO. NO, NON E' VERO... Non può essere... 
NON PUO' ESSERE.
NON... PUO'... ESSERE...!
IO...! IO NON...! AAAARGH!
"



Xavier emise un lieve sospiro.
Si accorse di essere fissato dai compagni, che apparivano a tratti apprensivi e a tratti spaventati.
Rilassò le braccia, poi le gambe, poi il respiro; infine tutto il corpo.
La sua testa si voltò verso sinistra con una lentezza inaudita.
Non appena rialzò il mento, rivelò un'espressione di angoscia, paura e perdizione.
Uno sguardo che nemmeno Xavier stesso pensava di essere capace di produrre.
Avvertì come una coltellata al cuore: era da tempo, pensò lui, che non avvertiva una forma talmente genuina di tradimento.
Nel silenzio generale, fu in grado di pronunciare una sola, lenta, strascicata parola.
- ...........Pierce...? -

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Capitolo 52
*** Capitolo 5 - Parte 14 ***


Per un istante, per Pierce Lesdar fu come trovarsi in un sogno.
La voce di Xavier rallentò, si distorse; divenne confusa e incomprensibile.
Il suo cervello assimilò i movimenti della sua bocca, ma non il significato di quell'unica parola che aveva pronunciato.
Non seppe dare un significato concreto a quel breve momento di completo blackout fino a che non ne udì pienamente il contesto.
Il suo nome; Xavier aveva pronunciato il suo nome. E non alla solita maniera.
Non era il classico richiamo in confidenza; non sembrava intenzionato a domandargli qualcosa, che fosse un parere o un chiarimento.
Non lo aveva nominato per rivolgersi a lui o anche solo per menzionarlo.
Era una parola strascicata e balbettata, come se Xavier nemmeno fosse convinto di averla pronunciata.
Aveva detto il suo nome, ma al contempo non riusciva nemmeno a concepirne pienamente il perché.
Tutto ciò che Pierce Lesdar fu in grado di percepire fu un'ombra di terrore e sconforto propagarsi sul volto terreo dell'Ultimate Detective.
Ancora immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto, Pierce si ridestò dal torpore.
- ...Xavier? - mormorò, ancora confuso - Cosa... cosa c'è...? -
- Pierce... - il detective soffocò ogni impulso emotivo - ...esigo una... spiegazione -
L'Ultimate Sewer non capì. La situazione stava lentamente andando in declino senza che avesse il potere di fare nulla.
Falliva nel carpire cosa stesse provocando un tale malessere al compagno.
- Ma... ma che stai dicendo, Xavier...? - deglutì - "Spiegazione"...? -
- Pierce - stavolta fu Pearl Crowngale a richiamarlo.
Pierce si girò di scatto, preso alla sprovvista; anche l'espressione di Pearl era mutata.
La ragazza che fino a quel momento era rimasta vittima delle lacrime sembrava essersi rimessa parzialmente in sesto.
Vi era ancora tristezza e sofferenza nei suoi occhi di ghiaccio, ma anche un rinnovato, tenue vigore.
E lo stava fissando intensamente.
- ...Pearl? -
- Pierce, avrai compreso oramai che Karol è stato... opportunamente ricucito - spiegò lei - E in maniera assolutamente perfetta, senza alcun errore. Non ci eravamo  nemmeno accorti che era stata applicata una sutura prima di controllare talmente a fondo il cadavere. Capisci... dove voglio arrivare? -
Il sarto avvertì un tremito, un formicolio vibrante lungo le gambe che rapidamente si spostò alla schiena.
Una goccia di sudore gli scese lungo il collo.
Si girò rapidamente verso sinistra; l'espressione esterrefatta e terrorizzata di June sembrava appena uscita da un incubo ad occhi aperti.
La ragazza si portò le mani alla bocca, tappandosela, celando la pesantezza del proprio respiro.
Si girò verso destra; incrociò anche Judith e Michael. 
La prima era come cadaverica, impallidita in maniera simile a quella dell'Ultimate Detective.
Senza pronunciare una singola frase, Judith rivolse i suoi occhi dilatati verso la sagoma del piccolo sarto.
Persino Michael si ritrovò a corto di commenti sprezzanti. Era giunto al momento in cui persino lui si era ritrovato colpito lì dove non se lo aspettava.
Mutò rapidamente in uno sguardo inferocito, e strinse i pugni.
- ...farai meglio a parlare, Pierce - lo minacciò il chimico.
Fu solo dopo quell'asserzione minatoria che Pierce Lesdar comprese fino in fondo la gravità della situazione e il suo significato.
Spalancò la bocca, assumendo un'aria atterrita e terrorizzata.
- R-ragazzi...!? N-non direte sul... s-serio!? -
- Pierce... io non... - Judith dovette prendere aria - Non intendo accusarti fino a quando non avremo prove più concrete, ma... ti scongiuro, dì qualcosa. Qualunque cosa sia in grado di scagionarti...! -
- No, un attimo... UN ATTIMO! - li implorò lui - E' un gigantesco malinteso...! Io non sarei mai capace di qualcosa del g-genere...! -
- Cioè di "cucire"? - sbottò Michael - A me sembra che tu ne sia perfettamente in grado -
- Non dire assurdità...! - continuò Pierce, con occhi lucidi - Cucire del tessuto e della pelle umana sono due concetti agli antipodi! Non crederete mica che un sarto possa sferruzzare un corpo umano!? E' follia! -
June Harrier si mise improvvisamente in mezzo.
- S-sì... ha ragione - ansimò lei - E' stupido pensare che la sutura di Karol sia stata fatta da Pierce... non possiamo paragonarlo al tessere un maglioncino, no...? -
- Sotto questo punto di vista non posso obiettare... - mormorò Pearl.
- Ecco... visto? - Pierce forzò un sorriso di circostanza - Solo un piccolo malinteso. Rimane comunque qualcosa che chiunque avrebbe potuto fare... -
- Sì... - annuì Xavier - Sì, è vero. Non c'è molto da dire, non possiamo attribuirlo a... nessuno -
Xavier Jefferson annuì una seconda e una terza volta, dando peso alla propria risposta.
La tensione era ancora alle stelle, ma riuscì ad intravederla scemare.
I polmoni dell'Ultimate Sewer si rilassarono lentamente, mentre l'atmosfera tornava alla normalità.
"Ma che cosa mi è preso...? Dubitare in questo modo di Pierce?
Assurdo. Semplicemente assurdo.
Sono arrivato a sospettare persino di lui, in preda alla disperazione. Proprio l'unico che non potrebbe mai essere stato...
Sì, è così. Pierce è innocente.
Non ho uno straccio di prova, proprio niente, contro di lui.
Niente. Niente, niente, niente.
Proprio... un bel... 
...
...
"
- June -
La voce del detective fece sobbalzare l'arciera. La rottura del breve momento di silenzio la colse alla sprovvista.
- Ah...! Xavier? - disse, voltandosi - Cosa c'è? -
Xavier Jefferson si stava massaggiando nervosamente il mento, gettando occhiate a destra e a manca.
- June, cosa... - prese aria - ...cosa hai detto, poco fa? -
Una seconda volta, June Harrier si ritrovò spiazzata dal suo comportamento imprevedibile.
- Poco fa? -
- Hai detto qualcosa... a proposito di un paragone -
- Xavier, ti si è fritto il cervello? - scalpitò Michael - Parla chiaro! -
- No, un momento. Credo di capire a cosa ti riferisci - disse l'arciera, mitigando l'atteggiamento di Michael - Ho detto che... beh, pensare che un sarto possa aver ricucito un uomo è... stupido, no? Non è come... -
- ...come cucire un maglioncino - Xavier le terminò la frase, spalancando l'orbita - Un maglioncino... un maglion-... oh, cazzo. OH, CAZZO -
La reazione spropositata non mancò di gettare disagio sul resto della classe.
- Xavier! Ma che ti prende!? - domandò Judith, spaventata.
- Santo CIELO! Ma come ho potuto!? - il detective alzò in aria una mano e la sbatté rumorosamente sul banco più vicino - Come ho potuto non accorgermene per così TANTO TEMPO!? -
- X-Xavier, stai sragionando...! - fece il sarto, apprensivo - Calmati, ti scongiuro! -
Il tentativo di Pierce di placarlo, però, non sortì effetto.
Xavier diede un grosso calcio al banco e poi appoggiò entrambe le mani sopra di esso, respirando affannosamente.
Non appena fu passato abbastanza tempo, Pearl Crowngale si sobbarcò l'onere di interpellarlo.
- Xavier... se hai compreso qualcosa di importante, devi dircelo - fece lei, ancora in ansia a causa di quella sua esplosione d'ira.
Judith a stento riusciva a riconoscere il carattere freddo e calcolatore del compagno, di cui non rimaneva nemmeno un barlume.
Ma l'avvocatessa lo vide. Vide che a straziare il volto sofferente dell'Ultimate Detective non era rabbia né livore.
Era un dolore acuto, lancinante, dovuto ad un forte senso di tradimento e impotenza.
Prese coraggio, e gli si avvicinò.
- Xavier, parlaci... - gli disse, carezzandogli la spalla - Andrà tutto bene. Ma, adesso, parlaci -
Attimo di silenzio.
Xavier Jefferson si rimise composto, dando ancora le spalle al resto del gruppo.
Gli altri lo intravidero sollevare lentamente la testa verso il soffitto, perdendosi in chissà quale pensiero.
- ...avevo dimenticato -
Fu la sola frase che pronunciò. Gli altri cinque non fiatarono; sapevano che il resto sarebbe arrivato subito dopo.
Era solo questione di tempo.
Judith gli diede una lieve scrollata alle spalle, incitandolo a non fermarsi.
Xavier sospirò pesantemente. Era pronto ed esprimersi, nonostante il dolore.
- Avevo dimenticato... con chi avevo a che fare. Avevo dimenticato le persone con cui sto condividendo questo inferno - sussurrò, immettendo piano piano sempre più energia nel proprio discorso - Avevo dimenticato che noi sedici non siamo stati scelti completamente a caso. Qualcosa ci accomuna: qualcosa che i ragazzi normali non hanno. Qualcosa che... ci rende unici. Speciali -
- I nostri... talenti? - optò Pearl.
- Già... i nostri "talenti". La crema della gioventù, gli "Ultimate Students", riuniti in un gioco al massacro. Ci hanno costretti ad adoperare le nostre doti migliori per il più squallido, disgustoso motivo: l'omicidio. E ho potuto assistere a delle dimostrazioni davvero sensazionali, gesta che mi hanno fatto capire quanto tutti noi siamo dotati, ognuno a modo suo. Noi siamo... assolutamente i migliori nei nostri rispettivi campi. I migliori. Siamo stati chiamati alla Hope's Peak perché nessuno, e ripeto: NESSUNO è al di sopra delle nostre capacità! -
- Dove vuoi arrivare...? - chiese Michael, avvertendo un forte disagio.
La pupilla di Xavier mostrò una scintilla incandescente.
- ...Pierce, ricordi ciò che Karol ti chiese di fare poco più di una settimana fa? - domandò, con voce ferma e imperscrutabile.
Lesdar esitò prima di rispondere.
- Intendi... il progetto collettivo? -
- Proprio quello. Karol si affidò a te per spingerci tutti a partecipare. Tu fosti il primo a mostrare il tuo... "talento" all'opera -
- Ma cosa c'entra...? - mormorò Pierce, sempre più in ansia - Cosa c'entra tutto questo con...!? -
- PIERCE! - gridò Xavier, additandolo - Quei maglioncini che ricamasti personalmente... facevano PENA! -
Pierce Lesdar sentì qualcosa al proprio interno rompersi, in maniera metaforica.
- Co-... cos-... COSA!? - esclamò, atterrito - Ma che diavolo DICI!? -
- Erano lavori pietosi... ogni singolo maglione presentava un difetto! - perseverò Xavier - Uno era troppo largo, un altro troppo stretto, uno pizzicava da morire... uno aveva addirittura TRE maniche, santo cielo! -
- Xavier, adesso stai esagerando! - lo rimproverò June - Ciò che dici è assolutamente...! -
Si fermò a metà frase, rielaborando le parole del compagno e la propria cognizione.
Gli altri la fissarono fino a che non si sbloccò, osservandola straniti.
- ...corretto? -
- J-June!? Anche tu!? - fece Pierce, indignato.
- Cristo... Xavier non ha affatto torto... - mormorò Pearl, mordendosi l'indice - Il mio maglioncino era... inservibile -
- Un momento, ma di che diavolo state parlando...? - intervenne Michael, evidentemente confuso.
- Oh, già, Mike non era presente... - osservò Judith - Beh, il punto è che i lavori di Pierce sono... -
- Scadenti. Assolutamente indegni del titolo di "Ultimate Sewer" - perseverò Xavier - E' impossibile che quelle capacità appartengano ad un Ultimate. Non saresti qui, altrimenti -
- Era solo un momento di... blocco creativo! S-sì, niente di più! - si giustificò Pierce, tremante - N-non pretenderete mica di lavorare al meglio in queste circostanze, n-no...!? -
- Allora rispondi a questo, Pierce... - la voce di Jefferson si fece sempre più grave - ...cosa ti ha spinto... a diventare un sarto? -
Per l'ennesima volta, i quesiti a sorpresa dell'Ultimate Detective non lasciavano tempo nemmeno di raccogliere le idee.
- Cosa mi ha spinto a...? -
- Sì, Pierce. Cos'è che ti ha mosso a tal punto dal voler intraprendere questa carriera? Rispondi -
Pearl Crowngale scosse la testa, sospirando. Sulla sua faccia comparve un'espressione di disappunto e disapprovazione.
- ...Xavier, hai messo in mezzo un argomento sensato, ma questa domanda esula completamente da ciò che... -
- No, aspetta - Judith Flourish le si parò di fronte - Lascialo fare... è chiaro che Xavier abbia un piano -
L'assassina ebbe da ridire, ma dovette tenerlo per sé. Scrutando entrambi i contendenti della disputa verbale, non poté fare a meno di pensare che Xavier avesse i suoi motivi per porre una domanda così fuori contesto. E lo sguardo impaurito di Pierce non fece altro che dare conferma a quel sospetto.
- Il motivo... della mia scelta di carriera? - mormorò Pierce - Ma è... semplice. Direi che si tratta di... si tratta... di... -
Si bloccò. Un silenzio che apparve innaturale a tutti i presenti, Pierce compreso.
Cercò le parole, il loro significato, il concetto che stava cercando di esprimere.
Ma non lo trovò. Non era da nessuna parte.
Continuò a scavare a fondo nella propria memoria, ma non lo sentiva. Non lo avvertiva neppure sulla punta della lingua, come un qualcosa che sapeva ma non riusciva ad esprimerlo col termine adatto. Era un'informazione che non esisteva.
E quando lo realizzò, Pierce iniziò a perdere lentamente lucidità.
Cadde in un vuoto di silenzi e rumori, in cui l'unico chiodo fisso era il ritrovamento di un dato che gli sarebbe dovuto essere essenziale.
Qualcosa di così basilare, così radicale della sua esistenza, che non avrebbe dovuto avere neppure il bisogno di cercarlo, ma che inspiegabilmente non era lì.
Il silenzio tentennante proseguì fino a che Xavier non decise che era ora di finirla.
- ...non lo sai? Non sarà che... semplicemente non esiste? - 
- Non... esiste...? - balbettò Pierce, barcollando.
- Che diavolo significa...? Xavier! Esigiamo delle spiegazioni! - ringhiò Michael - Che accidenti sta succedendo!? -
- Non ci capisco più nulla... - sospirò June, stanca.
- Che le nostre premesse... fossero errate? - commentò Pearl, incredula.
- Xavier, qual è la verità che hai scoperto? - lo implorò Judith.
Xavier Jefferson era ancora divorato da un forte senso di colpa, ma decretò che non sarebbe stato quello a frenarlo.
Non lì, non in quel momento. Non così.
- ...non riesce a dirci cosa lo ha spinto a diventare un sarto... perché lui non è un sarto - disse, con fermezza - Esattamente come quando parlammo stamattina, quando pensavo di starti conoscendo meglio. Sei stato vago quando mi hai parlato di come hai iniziato il tuo percorso... perché non lo hai mai realmente iniziato. E ancora una volta: che un Ultimate non sappia nemmeno come ha intrapreso la sua vocazione è impensabile. I fatti parlano chiaro, Pierce: tu non sei l'Ultimate Sewer. Non è  semplicemente plausibile che tu lo sia. No, sei solo un esperto di ago e filo... ma in una maniera che trascende il ricamo. Capisci dove voglio arrivare...? -
Oramai ridotti a fessure, i minuscoli occhietti di Pierce mostrarono un'ultima, flebile, silenziosa supplica nei confronti del compagno.
- Xavier... n-no... tu devi... - gemette, soffocando un pianto - Devi credermi... io non... non... -
- Pierce - esclamò infine l'Ultimate Detective, abbandonando ogni scrupolo - La mia teoria sta prendendo forma. Se prendiamo tutti i dati a nostra disposizione, allora c'è una sola deduzione razionale da poter compiere. Tu, Pierce Lesdar... sei l'Ultimate Surgeon - 




- Ora... calmiamoci, e affrontiamo la situazione con raziocinio -
Il suggerimento di Pearl, per quanto sensato, non venne accolto come avrebbe dovuto.
Davanti all'accusa rivolta contro di lui, Pierce era rimasto muto e inespressivo. Era accaduto tutto troppo in fretta; non aveva avuto il tempo di assestare mentalmente la situazione che si era venuta a formare. Tutto ciò che vedeva era il cambio radicale che aveva subito l'espressione di Xavier nei suoi confronti.
Fin da quella mattina aveva emanato un'aria di gentilezza, amicizia. Complicità.
Avevano affrontato quel processo spalla a spalla, ma ora si ritrovavano l'uno contro l'altro; Xavier si mostrò inverosimilmente feroce, e Pierce ancora non riusciva a comprendere come fossero giunti a tale punto.
Dal canto suo Xavier non accennava a voler demordere, proseguendo energicamente su quella linea di pensiero. Una sensazione bruciante nel petto lo spingeva a continuare anche se ogni parola che pronunciava gli faceva quasi male.
Non voleva farlo; ma doveva.
- ..."Ultimate Surgeon" - mormorò Pierce, ancora incredulo - Credi che io sia... un chirurgo? Che vi abbia mentito per tutto questo tempo...? -
- E' ciò che intendo scoprire, Pierce - fu la secca risposta del detective.
- Xavier, perché...? Perché tutto questo? - gemette lui, sofferente - Io credevo che fossimo compagni! Come puoi dubitare di me!? -
- E' proprio per QUESTO che devo continuare! Lo capisci o NO!? - gridò, soffocando l'urgenza di prendere a calci il banco - Nessuno mi ha spalleggiato più di te, nel corso di questo mese! Siamo stati una squadra niente male, ma adesso le prove puntano a TE! Come credi mi debba sentire!? -
- Xavier, comprendo ciò che stai passando... - Judith tentò di mediare tra i due - Ma, esattamente come hai dato fiducia a me, non dovresti darla anche a lui? -
- Judith, con te è... diverso - Xavier si strascicò una mano lungo la fronte sudata - Con te non c'è mai stata una mancanza di fiducia. Conoscevo la verità, e ho fatto di tutto per aggirarla e proteggerti... qui è all'opposto. La realtà dei fatti sfugge alla mia comprensione, e le prove mi stanno dicendo che Pierce potrebbe essere implicato in questa faccenda! -
- Quindi hai intenzione di affidarti ai dati effettivi piuttosto che ai sentimenti? - rimarcò Michael - Piuttosto contraddittorio, oserei dire -
Xavier sospirò pesantemente.
- ...mi sono lasciato trasportare dalle mie emozioni, ma sono pur sempre un detective. Non rimpiango di aver combattuto per Judith con metodi controversi, ma adesso è un'altra questione. Pierce, io... io voglio ancora fidarmi di te! Sei mio amico, un mio compagno! Ti prego: se sei innocente... dimostramelo! Aiutami a vederci chiaro! -
- Xavier... io non ho ucciso... assolutamente nessuno...! - singhiozzò Lesdar - Farò di tutto per... fartelo capire! -
Nonostante lo sforzo, nessuno dei due riuscì ad udire quella frase in modo rassicurante; era una vera e propria sfida, di un tipo che non avrebbe avuto nessun vincitore.
Avrebbero combattuto, e avrebbero sofferto. In quel momento, la posta in palio era altissima e gravosa.
- Ok, a-allora... suggerirei di andare per gradi, come abbiamo sempre fatto! - intervenne June - Xavier, hai detto che sospetti che Pierce sia l'Ultimate Surgeon... ma abbiamo davvero prove sufficienti per confermarlo? Io ancora fatico a crederci -
- Qualcuno deve aver operato Karol per inserirgli quel dispositivo nel cranio, trasformandolo in un burattino semovente - spiegò lui - Ma, pur essendo Ultimate Students, dubito che qualcuno di noi abbia le capacità di compiere qualcosa di così preciso, metodico, e soprattutto pericoloso in maniera così efficace per poi riuscire a celarlo così bene. Deve essere stata opera di un professionista: un chirurgo, per l'appunto -
- E abbiamo dedotto che Pierce non può essere un sarto eccellente, dati i suoi "precedenti"... - commentò silenziosamente Pearl, tentando di non gettare troppo sale su ferite aperte.
- N-non è abbastanza da dire che sia stato io! - perseverò Pierce - Nessuno ha un alibi per ieri sera! Chiunque potrebbe aver mentito sul proprio talento, per quel che ne sappiamo... no!? -
- Bah! Non posso darti torto su questo... - sbuffò Michael - Ma possiamo almeno escludere Judith: lei era conosciuta come avvocatessa da prima che ci recassimo alla  Hope's Peak. Dubito che i giornali abbiano tralasciato di menzionare una legale che è anche un chirurgo -
- Oh! E possiamo depennare dai sospetti anche June! - esclamò Judith, con occhi brillanti - La ho vista diverse volte esercitarsi con l'arco in palestra. Non ci sono dubbi 
che sia l'Ultimate Archer! -
June Harrier si lasciò scappare un sospiro di sollievo. Era evidente che temeva un proprio coinvolgimento oramai da diverso tempo.
- ...e oserei escludere anche Pearl, oramai - 
L'Ultimate Assassin udì le parole di Xavier con un cenno di palese sorpresa.
- Pearl...!? Ma è comunque la nostra indiziata principale! - osservò nervosamente Pierce.
- Ma credi che abbia mentito due volte sul proprio talento? - rettificò il detective - Ha finto di essere una ninja per mascherare la sua identità di assassina. Ora: chi mai, sano di mente, si fingerebbe un assassino per nascondere il fatto di essere un chirurgo? -
- Beh, come controbattere a questa logica? - commentò Michael, alzando un sopracciglio - Bizzarro come il tuo passato sanguinolento sia praticamente il tuo alibi, biondina -
Non vi fu risposta da parte di Pearl, che lo ignorò bellamente pur nascondendo un sentore di sollievo.
- Non rimangono che tre opzioni: Xavier, Michael e Pierce - Pearl rimuginò sulle possibilità residue - Non abbiamo modo di sfoltirle ulteriormente? -
- Deve esserci, se cerchiamo abbastanza bene - esclamò Judith - Se esaminiamo i dettagli del caso possiamo trovare altre incongruenze da confrontare, e magari riusciremo a definire meglio chi può essere stato e chi no -
- Un piano sensato, ma come svilupparlo? - Michael non sembrava troppo convinto del fatto che ci fossero sentieri ancora non battuti.
- P-permettetemi di esporre un dubbio considerevole, però! - intervenne Pierce - Tutta questa storia dell'intervento chirurgico ancora non sta in piedi! -
Xavier non poté fare a meno di avvertire una traccia di paura in quella improvvisa polemica.
- Di cosa parli? -
- Voglio dire... è davvero possibile che Karol sia stato sottoposto ad un'operazione alla testa? - osservò lui - Non credete sia infattibile...? Voglio dire... per cose simili si necessitano apparecchiature complicate, strumenti adatti e del personale, come minimo! ...giusto? -
- Ha! Proprio come poco fa dimostri di intenderti abbastanza di questo campo, Pierce! - lo punzecchiò Michael - Prima sei un esperto di ferite e abrasioni, ora questo? -
- N-non dire sciocchezze...! E' senso comune immaginare che un intervento chirurgico sia un'operazione complicata! -
- Pierce non ha torto... come si può compiere qualcosa di simile senza nemmeno un minimo di preparazione? - osservò June, incerta sul da farsi.
- Non gonfiamo il problema, gente - Pearl Crowngale intervenne a bruciapelo - Non sarò un'esperta di medicina, ma conosco bene l'anatomia umana. Il colpevole si è limitato ad inserire il dispositivo sul cranio; ciò vuol dire che, in termini semplici, tutto ciò che doveva fare era: tagliare, applicare, ricucire -
- Certo... se il suo obiettivo era provocare la morte di Karol non si sarebbe neppure preoccupato di garantire il pieno successo dell'operazione - annuì Judith.
- In pratica, ciò di cui l'assassino aveva bisogno erano gli strumenti da lavoro - mormorò Xavier - ...e si dia il caso che uno di essi fosse sulla scena del crimine -
- Come, prego? Sulla scena? - Michael era interdetto - A cosa ti riferisci...? -
- Beh, pensiamoci: abbiamo appena compreso che Karol non si è mai mosso dalla classe - spiegò Xavier - E' stato operato lì, e lì è rimasto fino all'arrivo di Judith. Ma sappiamo anche che ha attaccato quest'ultima con un coltello. Ricordate un dettaglio importante in merito? -
Judith balzò in punta di piedi.
- Ma certo! Era un bisturi! - gridò, trasportata.
- E Karol non se lo sarebbe potuto procurare da solo... deve essere stato portato dall'assassino - sibilò Michael, seguendo il filo logico.
- Esattamente. Ma elaboriamo nuovamente questo dettaglio: dove era situato il bisturi, in origine? -
Il discorso dell'Ultimate Detective guidò il resto della classe verso il sentiero giusto; un'idea comune venne pian piano a formarsi -
- ...dall'infermeria - pronunciò Pearl.
- Già, veniva da lì! Lo avevamo già detto, ne sono certa! - perseverò June, lasciandosi trasportare.
- Questo vuol dire che il bisturi deve essere stato preso da qualcuno che sapeva fosse lì - continuò Xavier - Qualcuno che, per quasi l'intera giornata di ieri, è stato in infermeria -
- ...a causa dell'esperimento di Michael siamo stati solo in tre per tutto il tempo - disse June.
- Già, e nessuno si è avvicinato nel corso del pomeriggio - annuì Michael.
- Eravamo solo io, June e Michael... - Pierce deglutì - Ma questo comunque non dimostra che l'assassino sia uno di noi! Chiunque avrebbe potuto accorgersi della presenza del bisturi nel corso di questo mese, per poi venirlo a recuperare solo dopo la fine dell'esperimento! Dopotutto l'omicidio è avvenuto in un orario imprecisato della sera, no? Potrebbe comunque essere stato chiunque! -
- No, Pierce. L'assassino è una delle persone coinvolte nell'esperimento. Ne sono certa -
Pierce si voltò con orrore verso la fonte di quell'asserzione. 
La voce di Judith era calma e seria, per quanto la sua espressione tradisse un sintomo di senso di colpa.
Nemmeno la giovane legale sentiva che accusare Pierce fosse la cosa giusta, ma dovette mettere da parte i sentimenti ancora una volta per far spazio al raziocinio.
- Che stai dicendo, Judith...? - mormorò Pierce, terrorizzato.
Lei tossicchiò nervosamente, schiarendosi la voce. Oramai lo aveva detto, e doveva proseguire.
- Consideriamo alcuni fattori essenziali che stanno alla base del nostro ragionamento: una persona non può essere operata così di punto in bianco. Se si apre il cranio a qualcuno, il dolore e lo shock rischiano di ucciderlo sul colpo. Non basta stordirlo o semplicemente addormentarlo; si necessita un metodo più radicale -
- Un anestetico, in pratica - concluse logicamente Michael.
- Precisamente, sì - annuì Judith - Una simile operazione può essere portata a compimento solo se il "paziente" è stato opportunamente privato di alcune sensazioni -
- Ma allora la faccenda si complica... - brontolò June - A me non sembra di aver visto nulla del genere in infermeria -
June scosse il capo, socchiudendo gli occhi.
- E invece devi averlo visto per forza, considerando che hai contribuito a crearlo -
L'arciera si fermò un istante per ragionare; quell'ultima asserzione la lasciò momentaneamente basita.
A realizzare prima di tutti fu Michael, sopraffatto da quella improvvisa scoperta.
- No... non intenderai mica... - il chimico serrò i denti, furente - ...il mio nuovo composto!? -
- Il tranquillante neurale di Michael... ora tutto è più chiaro - intervenne Xavier - Mike ha detto che si tratta di una sostanza in grado di far momentaneamente cessare le attività del cervello e di provocare uno stato di morte apparente -
- E se i nervi non erano attivi, la vittima poteva essere operata... - proseguì Pearl.
- Un attimo! Io non avevo idea di che cosa facesse quella roba! - Pierce si impuntò strenuamente.
- Mi dispiace, Pierce... ma non puoi dimostrare che non ne fossi a conoscenza - mormorò Judith, avvertendo un grosso peso allo stomaco - Ma una cosa è certa: tu eri lì.
Sei una delle tre sole persone che avrebbero potuto procurarselo... ecco perché ho detto che l'assassino deve necessariamente aver partecipato all'esperimento di Mike -
- Allora... allora... - Pierce continuò a mettersi le mani tra i capelli, scombinandoseli ripetutamente in preda al nervosismo - Deve esserci una spiegazione... il colpevole... può essere comunque stato Michael! Chi, meglio di lui, sapeva come utilizzare quella sostanza...? -
- Oh! Passi ad accusare me, adesso? - sbuffò il chimico - Beh, non che ti rimanga molta altra scelta. Come sospettati siamo rimasti solo io e te, Pierce -
- Michael, non parlare come se tu fossi completamente esente da ogni sospetto... - lo incalzò Xavier - Fino a prova contraria potresti benissimo essere stato tu -
Fu in quel momento che l'Ultimate Chemist rivolse verso Xavier un ghigno beffardo.
Un sorriso quasi crudele, di chi aveva il coltello dalla parte del manico.
A nessuno piacque quella vista e la sgradevole sensazione che ne derivava; men che meno a Pierce Lesdar, sempre più impaurito.
- Ah, hai ragione, Xavier - sogghignò Michael - "Fino a prova contraria" potrei essere stato io. Allora non mi resta altro che fornirti quella prova e tutto sarà risolto, dico bene? -
- Hai... qualcosa del genere? - domandò Judith, sporgendosi lentamente oltre il banco.
Niente del volto del ragazzo occhialuto faceva traspirare che si trattasse di un bluff.
- Non "ho". Abbiamo - asserì il chimico - Dico bene, June? -
Come una sola persona, l'intera classe fece scattare lo sguardo verso l'Ultimate Archer.
Forse perché si sentì improvvisamente al centro dell'attenzione, forse per l'avidità di informazioni dei compagni, June Harrier iniziò a sudare copiosamente.
- A-abbiamo...? - deglutì lei.
- June, saresti così gentile da riferire ai nostri cari compagni come si è conclusa la nostra serata, ieri? - la pregò Michael, con aria di sufficienza.
La tiratrice rimuginò a fondo sulla questione, ripercorrendo mentalmente le azioni compiute il giorno precedente.
Nella sua mente si materializzò la mappa dei due piani e tutti i movimenti fatti nel corso della sera.
- Dunque... una volta concluso l'esperimento, io e Michael ci siamo fermati a parlare per cinque minuti fuori la porta dell'infermeria... - raccontò lei, ricollegando ogni dettaglio essenziale - Ci siamo caricati alcune cose da riportare in camera di Mike e siamo tornati insieme ai dormitori... ah! -
Quell'ultima esclamazione lanciò un segnale di allarme.
- Hai ricordato qualcosa...!? - insistette Pearl.
- Certo, ora ricordo! I materiali ancora utilizzabili li abbiamo presi noi due... ma gli scarti e l'immondizia li abbiamo affidati a Pierce! Mike gli ha ordinat-... gli ha chiesto di portare tutto all'imballatrice! -
- Heh, proprio così - annuì Michael Schwarz, soddisfatto - Io e June siamo rimasti assieme fino a che non ci siamo chiusi nelle nostre rispettive stanze. Inutile dire che, quando ciò è accaduto, Pierce non era ancora tornato. L'unico senza un alibi -
- Un m-momento... un MOMENTO! - imperversò Pierce Lesdar per l'ennesima volta - Io sono andato a gettare i rifiuti e sono tornato subito... in camera mia...! -
- Ancora una volta: non puoi dimostrarlo... - fece Xavier, con voce sofferente - Inoltre... questo coincide con quanto mi hai raccontato stamattina. Mi dicesti che Mike ti aveva tenuto in piedi a trasportare rifiuti fino a sera... santo cielo, Pierce... -
- NO! No, ti prego... Xavier, non puoi gettare la spugna in questo modo! Non PUOI! - lo supplicò Pierce, in preda alle lacrime - Sono innocente! INNOCENTE! Non potrei  mai aver fatto niente di tutto questo! Devi credermi! -
Xavier Jefferson si afferrò il petto con la mano, stringendolo con tutta la propria forza.
- Io... vorrei... ma non... - soffocò un grido di dolore - Non ci riesco... -
- Aspetta, Xavier! Fermatevi tutti! - questa volta fu June a riprendere le redini - Io... ancora non sono pienamente convinta! C'è ancora qualcosa che non quadra in tutta questa assurda faccenda! -
Per quanto quello fosse un altro tentativo di andare contro la logica generale, Xavier lo accettò quasi di buon grado.
- Cosa c'è, June? -
- Ora ascoltatemi, e intendo con attenzione - fece l'arciera, serissima - Sgombrate la mente da ogni logica e deduzione. Vorrei porre l'accento su un qualcosa di completamente diverso. Qualcosa che... cambierà la vostra prospettiva! -
Quattro paia d'occhi e una singola pupilla la squadrarono con assoluta interdizione.
- June, di che diavolo stai blaterando...? - sospirò Michael, stanco e provato, incapace di irritarsi ulteriormente.
- Sembra avere un ottimo motivo per parlare - la difese Pearl - Lasciamola fare -
- Grazie, Pearl - sorrise l'arciera - Ora... ripensate a tutto ciò che è stato detto e fatto nel corso di questo processo: un tira e molla continuo, dove i sospetti sono stati catapultati a destra e a manca ad ogni svolta. Abbiamo fatto una gran confusione, ma dobbiamo anche dire che c'è stato un singolo elemento che ha saputo sbrogliare la matassa creatasi in più di un momento -
Pian piano, Xavier iniziò a capire cosa stava tentando di dire.
In quell'istante, Jefferson fu in grado di comprendere a cosa fosse attribuita quella strana sensazione di bailamme, quel sentore che qualcosa non quadrava.
Che vi fossero dei fattori, alla base del processo, che ancora non si spiegavano ma che ai quali la logica non avrebbe mai potuto dare un senso.
- ...Pierce - mormorò Xavier - Pierce è quell'elemento...! -
- Io...? - una tenue luce si riaccese nello sguardo del giovane, oramai sopraffatto dalla paura.
- Esatto! Capite, ragazzi!? - continuò June - Pensateci! Chi ha spalleggiato Xavier nel difendere Judith quando tutto puntava contro di lei? E' stato Pierce! Non aveva un motivo per farlo, non ci avrebbe guadagnato niente! Lo ha fatto, e basta. E quando Xavier ha lanciato il suo ultimatum prima di scatenare la votazione contro Pearl? E' stato Pierce ad elaborare una strada che ci conducesse verso altri sentieri! -
- ...se siamo giunti fino a questo punto dell'udienza, lo dobbiamo a Pierce... - sussurrò Judith, assaporando lo strano gusto amaro di quella frase - Santo cielo... -
- Se la mettiamo su questo piano... la cosa inizia a perdere di senso... - sospirò Pearl.
- Capite cosa intendo!? A Pierce sarebbe bastato stare zitto e lasciare che il processo andasse avanti da solo se avesse davvero voluto mascherare la sua colpevolezza! Se non fosse stato per lui, Judith sarebbe stata votata un sacco di tempo fa! -
Michael urtò violentemente il banco, coi nervi a fior di pelle.
- Oh, ma che DIAMINE! E' assurdo, semplicemente assurdo! Le prove conducono a lui! LUI! -
- Michael, non puoi ignorare che le azioni di Pierce sarebbero andate a suo svantaggio se fosse realmente l'assassino! - lo sgridò Judith.
- E come spieghiamo l'enorme quantità di indizi che puntano a lui!? Magari si è semplicemente tirato la zappa sui piedi senza rendersene conto! - ringhiò con rabbia.
- Oh, adesso stai passando il segno! - June si inalberò, peggiorando l'alterco - Cosa credi, che qualcuno possa semplicemente dimenticarsi di aver ucciso una persona e agire senza pensare alle conseguenze!? Stai parlando in modo ridicolo, Michael! -
- Smettetela! - Pearl tentò di dissuaderli dal proseguire il battibecco - Così non state migliorando la situazione...! -
La situazione non accennava a voler tornare alla calma.
Xavier ne approfittò per riordinare i pensieri e cercare una via logica da seguire, persino lì dove la razionalità non sembrava essere di casa.
Lì, dove il pensiero logico era fuori luogo e nessuno trovava una scappatoia, l'Ultimate Detective si immerse per l'ultima volta nella propria mente, navigando tra i suoi meandri. 
Il processo si stava avviando verso la sua conclusione, ma mancava ancora qualcosa.
L'ultimo tassello del puzzle, quello che avrebbe dato finalmente forma al mosaico.
Ripercorrendo l'interezza del caso ancora una volta, Xavier Jefferson decise di fare un altro tentativo.
"...ieri sera, Michael, June e Pierce erano assieme in infermeria.
Il piano era di creare il nuovo composto di Michael.
Hanno concluso di lavorare a sera tarda: June e Michael sono tornati ai dormitori, mentre Pierce verso il deposito rifiuti.
Né Judith né Pearl hanno detto di averlo visto, quindi Pierce non ha un alibi.
Avrebbe potuto benissimo sottrarre una piccola porzione del composto di Mike senza farsi scoprire, per poi tornare a recuperare sia quello che il bisturi.
Ma aveva bisogno di un modo per portare con sé il liquido...
Certo, credo sia ovvio. Il flacone vuoto trovato sulla scena del crimine, lo stesso di Kevin.
Venivano entrambi dall'infermeria, quindi poteva prenderli entrambi.
Dunque, sarebbe potuto andare da Karol e renderlo inoffensivo con la sostanza, utilizzando il bisturi per aprirgli il cranio.
Possibile che il dispositivo... lo avesse sempre avuto con sé?
Mi sembra normale pensare che si portasse dietro ago e filo, quindi i mezzi per ricucire Karol li aveva.
Ha utilizzato il suo talento di Ultimate Surgeon per creare una situazione in cui sembrasse che non era stato applicato alcun intervento umano.
Ha lasciato Karol lì assieme al bisturi
...e il mattino dopo arriva Judith.
Il corpo di Karol viene manovrato a causa del dispositivo... qualcuno lo usa per attaccare Judith.
Lei tenta di difendersi e lo colpisce col mappamondo, tramortendolo.
Judith scappa, e dopo non molto arriva Pearl.
A quel punto, però, l'elettroshock dovuto alla rottura del dispositivo ha già ucciso Karol.
Pearl si fa prendere dal panico, e scappa via lasciando alcune tracce dietro di sé.
Nel frattempo, Judith è tornata ed ha visto il cadavere.
Convinta di essere responsabile, fugge fino ad incontrarmi.
Il resto è storia nota.
Ora... in tutto ciò che ho appena elencato deve esserci una contraddizione. No, forse non necessariamente. 
Deve esserci almeno un unico, ultimo elemento che non ho preso in considerazione.
Qualcosa che faccia luce sulla faccenda... qualcosa che indichi che Pierce è realmente il colpevole...
Ma sarà... davvero stato lui? Può realmente essere? Pur dopo aver fatto tutto questo?
E' così assurdo... al solo pensarci io... io non...
Non posso... dubitare... così facilmente... di un mio compagno... 
Eppure... eppure... eppure...
Chissà... chissà se Karol avrebbe avuto una soluzione. Cosa avrebbe fatto l'Ultimate Teacher al mio posto?
Cosa avrebbe fatto lui...?
Cosa...
...avrebbe...
... 
...
"



- ...June -
L'Ultimate Archer avvertì una sorta di deja-vù.
Si girò lentamente verso Xavier Jefferson, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo.
Il litigio tra i compagni sembrava essersi placato.
- Cosa... cosa c'è? -
- Le tue parole... mi hanno fatto realizzare qualcosa. Qualcosa che ancora non so definire, ma che mi è rimasto impresso -
- A cosa ti riferisci in particolare? - gli chiese Pearl - E' qualcosa... che può aiutarci con il caso? -
Xavier non rispose immediatamente. Rimase ancora a riflettere per qualche istante.
L'alone di mistero che si lasciava dietro lasciò tutti gli altri con espressioni miste tra ansia ed irritazione.
Ad un tratto, il detective si rivolse a Pierce Lesdar; gli mostrò un'espressione carica di caparbia determinazione.
Pierce non seppe dare un significato a quello sguardo fino a che non aprì bocca.
- ...Pierce, le tue azioni nel corso di questa giornata sono state... molto complesse - specificò lui - La verità delle prove e il tuo modo di agire vanno in netto contrasto, creando una situazione in cui è impossibile credere ad una delle due versioni. Come se... -
- ...come se? - disse Pierce, con un filo di voce - Cosa vuoi dire...? -
Xavier inspirò profondamente.
- ...come se entrambi i punti di vista fossero veri - disse, infine - Come se esistessero due verità, due realtà diverse ma che combaciano. Un paradosso concreto -
- Xavier, aiutaci a capire...! - lo implorò Judith.
- Sì, vi chiedo scusa. Non è il momento di parlare per enigmi - fece, con tono apologetico - Ciò che voglio dire è che... se Pierce asseconda una verità diversa da quella effettiva, non sarà perché... ci crede davvero? Pierce, potrebbe essere che... tu sia genuinamente convinto di essere innocente? -
Un baratro di dubbio e incertezza cominciò lentamente a divorare l'esile figura del giovane Lesdar, i cui occhi erano ridotti a fessure.
- X-Xavier... ma che stai... che stai dicendo...? - mormorò, tremando - Sei forse... impazzito...? Devi essere folle per... per poter affermare che... -
- Pierce, le prove non mentono: e stanno dicendo che hai ucciso Karol - disse, con fermezza, gettando un ultimo impeto - Che sia possibile che tu... abbia dimenticato di averlo ucciso? -
Silenzio. Nessun fiato, nessun cenno.
Pearl, Michael, Judith e June restarono immobili, incapaci di udire persino il proprio battito cardiaco.
Un debole rantolo soffocato uscì dalle labbra rinsecchite di quello che fino a poco prima avevano conosciuto come "Ultimate Sewer".
- Di...menticato... - disse, mentre la sua bocca si deformava in un sorriso abominevole - Heh... ma che stai... ma che dici? Io? Dimenticato? Io avrei dimenticato di...? -
- Non dovresti sorprendertene così tanto - fece Xavier, freddo e serissimo - Abbiamo già avuto prova che il cervello umano può essere controllato. Karol non avrebbe mai tentato di assassinare Judith in altre circostanze, no? -
- Non dire assurdità... heh... - sibilò Pierce - Io... avrei dimenticato qualcosa di simile...? Non dire... stupidaggini... -
- Pierce, chi ti dice che non ci sia un altro di quei dispositivi dentro la TUA testa!? -
- NON DIRE CAZZATE! - i polmoni del ragazzo esplosero in un putiferio di grida rabbiose - Io... Pierce Lesdar... sono L'ULTIMATE SEWER! Sono un sarto, un semplice SARTO! Non sono... un chirurgo! NON SONO UN CHIRURGO! -
- E allora dimmi: qual è stata la prima cosa che hai cucito? -
Ancora una volta, la domanda lo lasciò spiazzato.
- La prima cosa che ho...? Il mio primo lavoro!? Io...! - rantolò alcune frasi sconnesse - Io non... NON... -
- Non te lo ricordi? Allora proviamo qualcos'altro: per quanti anni hai praticato questa professione? -
- Non... non LO SO! E' PASSATO... TROPPO TEMPO...! - urlò, graffiandosi le braccia - NON lo... non lo ricordo... NON LO RICORDO...! -
- Allora permettimi un ultimo quesito: cosa ti ha spinto... a diventare un sarto? -
- Io non... non me... aaaaaAAAHHHH!! BASTA! SMETTILA, XAVIER, SMETTILA! - gridò, colpendo ripetutamente il banco con i pugni scorticati - ESCI DALLA MIA TESTA! LASCIAMI IN PACE! IO SONO UN SARTO, CAZZO! UN SEMPLICE, BANALISSIMO, MALEDETTISSIMO SARTO...!! -
L'Ultimate Detective scosse la testa, sospirando.
- ...nemmeno stamattina hai tentato di inventarti qualcosa. Ti sarebbe bastato ideare una storiella su come tu avessi iniziato per depistarci tutti, ma non ne hai sentito il bisogno. Pierce, tu sei convinto di essere l'Ultimate Sewer, ma non è così. Sei l'Ultimate Surgeon, hai ucciso Karol... e non te lo ricordi. Qualcuno ha manomesso il tuo cervello, proprio come è accaduto con il Prof -
- Il mio cervello... MANOMESSO!? - pianse lui - No... NO! La mia vita non è fasulla! I MIEI RICORDI NON SONO FABBRICATI! NON E' POSSIBILE! -
- Troppe incongruenze portano alla verità... - spiegò lui - Il tuo essere incapace come sarto, le tue conoscenze di anatomia, e tutti gli indizi che portano a te. Pierce, devi... accettare la realtà -
Lesdar necessitò di un minuto per riprendersi dalle lacrime e dalle urla. La gola gli faceva male, bruciava. Se la sentì arsa e graffiata, lacerata fin sotto l'esofago.
- La "realtà"...? Non accetto questa "realtà"... - singhiozzò - Non quella dove... il mio amico... mi accusa di omicidio... e mette in dubbio la mia stessa esistenza... -
Xavier Jefferson avvertì una fitta lancinante al petto.
Fece male. Molto, troppo male.
Bastò quella singola parola a farlo vacillare pericolosamente.
"Amico..." pensò, paralizzandosi "Mi ha chiamato... suo amico..."
- Pierce... sappi che ti ho considerato un mio compagno a mia volta... - mormorò - Ma conosci perfettamente la situazione in cui ci troviamo. O te, o noi... -
- Xavier... ti prego... non farlo...! - disse, gettandosi in ginocchio - Non... rinnegarmi... non rinnegare me, i miei ricordi, la mia esistenza! Io non ho mai voluto... il male di nessuno! -
- ...ti credo. Ed è per questo che intendo arrivare alla verità - inspirò profondamente - Con l'ultima prova -
Ne seguì un momento di interdizione generale.
- L'ultima prova... - mormorò June-
- Il culmine del processo...? - Michael assaporò quelle parole.
- Esiste un'altra prova? Qualcosa che ancora non conosciamo? - domandò Pearl, rapita dall'andazzo del discorso.
Xavier Jefferson scosse la testa.
- No, non è affatto un indizio nuovo. Faremo come abbiamo fatto numerose volte, oggi: rielaboreremo le prove in nostro possesso alla luce dei nuovi fatti -
- Un indizio vecchio che assume una nuova luce...! - esordì Judith.
- Sì. E questo indizio... è l'ultimo lascito dell'Ultimate Teacher - sbatté le mani sul banco - Il suo messaggio scritto col sangue! -
Il ricordo balenò rapidamente nei loro pensieri, imponendosi prepotentemente.
La mano sinistra di Karol Clouds, contratta e poggiata sul pavimento per celare una minuscola sequenza di due lettere.
- Certo... lo "Xav" - fece Michael.
- Ma di certo non poteva riferirsi a Xavier... - sospirò June.
- Esatto, non poteva essere rivolto a me. Ma c'è dell'altro - continuò il detective - Abbiamo appurato che, a lasciare quella scritta, sia stato Karol. Né Judith e né Pearl hanno manomesso la scena del crimine. Quei caratteri sono stati lasciati da Karol... ma è strano, se pensiamo che fino a poco prima era stato condizionato e manovrato -
- Un attimo! La morte non è stata istantanea! - esclamò Judith - Possibile che... Karol abbia ripreso brevemente i sensi prima di venire affetto dallo shock!? -
- E' esattamente ciò che penso, altrimenti non si spiegherebbe come avesse potuto lasciare quel messaggio. Sì, la mia teoria è che l'Ultimate Teacher abbia dato fondo ad un ultimo barlume di lucidità, prima della morte, per lasciarci un messaggio -
- Ma a che pro lasciare scritto qualcosa per incriminare TE!? - obiettò Michael, esasperato - Non avrebbe avuto senso fare in modo che...!? -
- No, Mike, non dimenticare una premessa importante: Karol non si fidava più di nessuno - osservò il detective - Era ossessionato dalla ricerca del traditore, e molto probabilmente era guardingo nei confronti di tutti noi... tranne una persona -
Non fu necessario nemmeno indicarla, poiché tutti gli sguardi dei presenti si rivolsero verso un singolo individuo, quasi simultaneamente.
Judith Flourish avvertì l'intensità delle loro espressioni, provando una notevole ansia.
- ...me? -
- Tu, Judith -
- Ma perché... perché io? -
- Credo sia intuibile - disse Pearl - Quando ieri ho parlato con Karol... ha sottolineato quanto, nonostante tutto, si fidasse di te. Inoltre... sei l'ultima persona che ha visto prima di morire, no? -
L'Ultimate Lawyer ci ragionò su per alcuni istanti. Ebbe un'improvvisa realizzazione, come un fulmine a ciel sereno.
- Sono l'ultima persona... che ha visto -
- Karol era molto sveglio - proseguì Pearl - Quel messaggio è stato messo in modo che a poterlo capire potesse essere una persona sola, qualcosa che il traditore non potesse sfruttare. Un messaggio lasciato... -
- ...appositamente per me. Per... me! - Judith si tastò il fermaglio floreale - Karol ha davvero affidato a me il destino di tutti noi!? -
- L'Ultimate Teacher era il miglior insegnante sulla faccia della terra - a Xavier scappò un sorriso caldo - Si è battuto per difenderci fino all'ultimo. Questo è il suo modo di proteggere i suoi alunni, persino oltre la morte. Judith... solo tu puoi salvarci. Ti prego... poni fine a tutto questo -
Flourish non riuscì a non gettare un ultimo sguardo verso Pierce Lesdar, oramai ridotto ad una larva umana.
Collassato su se stesso, l'Ultimate Surgeon partecipava passivamente al processo senza più riuscire ad intervenire.
Quello stato pietoso non fece altro che accendere ulteriormente una scintilla di determinazione nel cuore vacillante di Judith.
- Pierce... ti chiedo scusa... e ti ringrazio per tutto ciò che hai fatto per me - sospirò - Ma è giunta l'ora di dimostrare a Karol che non ha sbagliato a fidarsi di me -
Non ricevette risposta; gli occhi privi di colore del volto scavato di Pierce fu tutto ciò che intravide.
Judith chiuse gli occhi, e meditò.
Immergendosi nel flusso dei propri pensieri, scandagliò ogni singolo frammento della sua memoria per qualunque cosa potesse tornarle utile.
Qualunque frammento di ciò che la vincolava all'Ultimate Teacher; ogni elemento apparentemente insignificante poteva fare la differenza.
Ogni parola pronunciata da Karol, ogni suo sorriso sincero o forzato, le sue movenze, il suo carattere, i suoi ideali.
Judith Flourish raccolse tutto intraprendendo il sentiero finale verso la verità, certa che l'Ultimate Teacher non la aveva mai realmente abbandonata.



"...il sangue era fresco. Già questo è un dato di fatto.
Era colato ovunque, sparpagliandosi. Possibile che anche il messaggio di Karol si fosse... sciolto?
Non era sua intenzione scrivere "Xav"... no, il messaggio era diverso.
Magari qualcosa di vagamente simile, ma che ribalta completamente il significato.
Dunque... difficile confondere la grossa "X" per qualcosa di diverso. 
Che il problema sia insito nella vocale? E' una "a" in corsivo, arrotondata.
...già questo è strano. Perché lasciare un messaggio in corsivo se vuoi che sia facile da capire?
No, quella non è una "a".
Deve trattarsi di altro.
Qualcosa che solo io posso comprendere... qualcosa che possa ricondurre a Pierce.
Pensa, Judith, pensa. Pensa... pensa... pensa...
Karol, cosa stavi cercando di dirmi? 
Se solo fossi riuscita a conoscerti meglio, a comprenderti meglio, a percepire i tuoi sentimenti.
Cosa non darei per seguire anche solo un'altra delle tue lezioni...
Un'ultima volta... solo un'ultima volta...
...
...
...
...una lezione... una lezione...
Cosa disse... quella volta...? 
Cos'è che rendeva le dissertazioni di Karol così interessanti...? Così uniche?
...
...



- La situazione è critica e dobbiamo fare qualcosa. Ma adesso... adesso è ora di lezione -
- Lezione? -
- Certo. Non potrei negare all'unica presente la sua dose di cultura - disse, indicando le scritte e puntandole col gessetto.
Era una frase scritta interamente in latino, che andava da parte a parte della parete.
- Si dia il caso che abbia preparato delle lezioni specifiche seguendo le attitudini di tutti voi - spiegò Karol, non nascondendo una vena di orgoglio. 
- Oh! Una dedizione notevole! -
- Per una giovane maestra del foro, l'ideale è partire dalle origini del mondo latino, dove si è sviluppata una delle più famose civiltà in ambito... "legale" -
A Judith Flourish venne da ridere in modo genuino.
Si sedette al suo posto, recitando per bene la sua parte di studentessa.
- Mi addolora informarti che sono argomenti che conosco benissimo, Prof! - si pavoneggiò lei - Sono pur sempre l'Ultimate Lawyer -
- Oh, ma potresti sorprenderti di quante altre cose tu possa imparare dal sottoscritto - sorrise lui, il suo sguardo era pieno di sicurezza - E il nostro obiettivo, dopo quello di aumentare la nostra cultura, sarà quello di riempire questa classe con tutti gli altri. Sei d'accordo? -
"



Riaprì gli occhi.
Il tempo riprese improvvisamente a scorrere; in pochi istanti, nella sua mente si erano concentrate settimane intere di ricordi e memorie sparse.
Quando l'episodio specifico tornò a galla, Judith Flourish fu finalmente certa della sua risposta.
Si rivolse ai compagni, ancora in trepidante attesa. Nessuno aveva fiatato, per non rischiare di disturbarla.
La scintilla negli occhi dell'Ultimate Lawyer non lasciò spazio a dubbi: aveva trovato qualcosa.
- ...sapete una cosa? - cominciò lei - Ho finalmente capito una cosa che mi chiedevo da tempo -
La prima frase pronunciata da Judith dopo quegli intensi minuti carichi di attesa e tensione lasciarono il resto della comitiva vagamente confusa.
- A cosa ti riferisci? - disse Xavier, dandole corda.
Lei mostrò un sorriso amaro.
- Ho compreso la reale grandezza del nostro Prof. - rispose, annuendo - Ciò che lo rendeva speciale. Ciò che riusciva a rendere le sue lezioni qualcosa di unico ed interessante -
- La "grandezza" di Karol...? - June assaporò quelle parole realizzando di non essersi mai posta quello specifico quesito prima di allora.
- E in cosa consiste? - domandò Michael, incuriosito.
A quel punto, l'Ultimate Lawyer allargò le braccia come quasi a confessare una verità inossidabile, al contempo occulta e palese.
- Era perché lui teneva ad ognuno di noi in egual modo. Voleva proteggerci tutti, istruirci tutti, guidarci senza distinzioni - continuò - Le sue lezioni erano state create appositamente per ognuno di noi, adattandole ai nostri talenti e alle nostre attitudini. Lui voleva estrapolare il meglio da ciascuno dei suoi studenti; avremmo dovuto capirlo quando ci suggerì di partecipare al lavoro collettivo. Ha sempre tentato di farci brillare a modo proprio -
- ...sì. Hai perfettamente ragione - annuì Pearl, con un velo di mestizia - Era capace di far sentire speciale chiunque semplicemente parlandogli. Era palese che... si interessava ai problemi di ognuno di noi -
- E a me... diverse settimane fa mi diede ripetizioni su un certo argomento - continuò Judith - Qualcosa che io ero convinta fosse la mia specialità; eppure lui ha saputo individuare alcune mie lacune e le ha colmate. Ancora oggi stento a crederci -
- E di cosa si trattava? - domandò June, sempre più curiosa.
Flourish sorrise in modo più caldo.
- Storia del diritto romano: le radici della legalità a partire dal mondo latino - esordì lei - Ed adesso ho compreso... che se Karol avesse voluto lasciare un messaggio solo per me, avrebbe usato ciò che in principio ci ha unito. Ha sfruttato il mio talento -
Il suo indice si sollevò in aria, e con un rapido movimento lo indirizzò davanti a sé.
Puntò la falange verso il banco poco distante: Pierce Lesdar era ancora ridotto uno straccio, ed osservò la scena senza riuscire ad esprimersi.
Riprese un barlume di lucidità nel momento in cui si accorse che Judith lo stava indicando con tono di accusa.
- ...cosa... stai dicendo... Judith...? -
- Pierce, ho finalmente capito che cosa vuol dire quel messaggio. In realtà è di una banalità sconcertante, ma eravamo troppo presi dal caso per accorgerci di questo dettaglio. Karol non ha affatto scritto "Xav"; quelle lettere apparentemente in corsivo ci hanno tratto d'inganno, poiché il messaggio va letto al rovescio... ciò che Karol ci ha lasciato è "no.X", una forma abbreviata per... "Numero Dieci" -
- Di-dieci!? - Michael Schwarz strabuzzò gli occhi - Quel cerchio non è una "a" in corsivo!? -
- Ci sembrava tale solo perché il sangue è colato modificandone vagamente la forma - spiegò lei - Ma il fatto che fosse scritta in un'improbabile calligrafia già è strano. In questo modo il messaggio assume un senso ben diverso... e due significati lampanti. Uno: l'utilizzo della numerazione latina indica che è indirizzato a me. Due: sta ad incolpare proprio Pierce -
- Me...? Sta ad incolpare... me? -
Judith inspirò profondamente. Si stava giocando la carta finale, e non aveva intenzione di commettere errori.
Decise che il processo si sarebbe concluso lì, in quel momento.
- ...all'inizio di questo folle gioco, ad ognuno di noi è stato assegnato un numero. Parlo del numero delle nostre stanze e delle nostre chiavi -
Xavier allungò istintivamente la mano verso la propria tasca, dove conservava la chiave con inciso il numero "8". 
La strinse tra le dita, realizzando finalmente ciò che Judith aveva scoperto.
Pearl abbassò lo sguardo, volgendo gli occhi al pavimento; la battaglia era conclusa.
June si portò le mani alla bocca, soffocando un grido disperato. La verità era venuta a galla, e le stava lacerando l'animo.
Persino Michael si ritrovò a corto di commenti sagaci; riuscì solo a volgere un'ultima occhiata di disprezzo nei confronti dell'imputato, prima di attendere il verdetto finale.
Infine, Xavier sentì un grosso peso sullo stomaco gravargli sempre di più, in maniera incessante.
Appoggiò lo sguardo sui resti di quello che, fino a non molto prima, era l'Ultimate Sewer.
La faccia di Pierce era contratta in un'orrenda versione del suo viso, distrutta dal dolore e dalla paura; gli arti impietriti e fossilizzati, la pelle pallida si era come rinsecchita e i capelli sudati gli pendevano sulla fronte.
L'Ultimate Detective scosse la testa; il Pierce che conosceva lui non c'era più.
Lasciò che Judith desse il colpo di grazia a quell'irriconoscibile ammasso di carne umana, che non riconosceva più come il fido alleato di un tempo.
- Pierce... sei tu. Sei tu il numero dieci, il numero "X"! - gridò Judith, mentre una piccola lacrima le scendeva lungo la guancia - Sei tu... che hai ucciso Karol... -
Qualcosa si ruppe; una rottura tacita, silenziosa, ma distruttiva.
Ad infrangersi furono gli ultimi resti dell'Ultimate Surgeon.
Come uno specchio incrinato, la sua identità confusa non seppe più distinguere la realtà, fino a sprofondare nel buio della follia.
Lanciò un ultimo grido disperato. Poi, si spense lentamente, fino a che la sua voce non si soffocò da sola.
Il suono rimbombò lungo l'aula di tribunale, per poi venire rimpiazzato da un pesante silenzio tombale.
Pierce Lesdar si accasciò al suolo, cascando sulle ginocchia.
Il suo mondo era stato irrimediabilmente cambiato.
Intravide la sagoma di Xavier per un istante fugace, catturandone il dolore e la tristezza.
Poi, più nulla. 
Il buio e il vuoto lo accolsero tra le loro spire.

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Capitolo 53
*** Capitolo 5 - Parte 15 - Reminiscenze (1) ***


Alcuni mesi prima



Erano circa le nove del mattino di un'uggiosa giornata di Novembre.
Nel largo complesso ospedaliero di St. Crane, un uomo camminava sbrigativamente lungo i corridoi scandendo mentalmente ogni momento di quello che presagiva essere uno dei giorni lavorativi peggiori della sua carriera.
Il dottor Stairsen, primario di medicina che non godeva di una reputazione immacolata e famoso per i suoi celebri scatti di collera, osservò con angoscia crescente il rapido cambio d'atmosfera rispetto ad appena un quarto d'ora prima.
La mattinata era cominciata così come da norma: con una tazza di caffè, una rapida visita al bagno del terzo piano, e un veloce giro di convenevoli con i colleghi.
I corridoi erano vuoti e silenziosi, così come ci si aspetterebbe di vedere ad un orario simile, così presto.
L'ora delle visite non era ancora cominciato, e Stairsen si era goduto la calma e la tranquillità di un ambiente lavorativo che si era appena ridestato da una notte di sonno.
Gli infermieri e i medici del turno di notte erano andati a casa, sostituiti dai loro colleghi diurni; il St. Crane funzionava come un intricato organismo autosufficiente,
e Stairsen si era spesso crogiolato nel merito di averlo messo su, a livello organizzativo, quasi da solo.
L'ospedale era la sua macchina perfetta; un insieme di lavoratori che seguivano regole funzionali e orari consoni.
Tutte le apparecchiature erano in regola e tutti i pazienti erano tutelati e trattati con la massima cura.
La fama che si era procurata nel corso degli anni era più che meritata, e Stairsen non aveva mai mancato le opportunità di sfruttarla per ottenere sempre più popolarità e successo a livello internazionale.
Il carattere borioso e litigioso del primario finì così per essere seppellito sotto il peso dei suoi successi, liquidando ogni possibile rivale che agognava a ricoprire la sua carica e a prendere la sua sedia.
Ma fu proprio quel mattino di Novembre ad intaccare, per la prima volta, il delicato equilibrio degli ingranaggi del St. Crane: un imprevisto che neppure un uomo lungimirante come il primario Stairsen avrebbe potuto gestire in così poco tempo.
Chiuso nel suo ufficio a sistemare carte e documenti, impilati oramai da diverse ore, Stairsen sentì la propria attenzione venire meno solo e unicamente quando udì un forte baccano provenire da fuori la finestra, diversi metri più sotto.
Sbuffò sonoramente, non potendo più ignorare la fonte di un tale bailamme.
Si alzò dalla sedia girevole, stiracchiandosi rumorosamente, e portò lo sguardo oltre la finestra.
Non appena vide ciò che stava accadendo fuori, impallidì visibilmente.
Oltre una dozzina di ambulanze si erano parcheggiate sulla strada antistante l'ospedale, e a giudicare dal suono delle sirene in lontananza molte altre stavano per giungere.
Afferrò istintivamente il suo fazzoletto in seta ricamato a mano e si asciugò del sudore dalla fronte.
Decine di persone venivano scaricate dai veicoli bianchi e arancioni, molte delle quali erano ferite in modo visibilmente grave.
Era avvenuto il finimondo, e il dottor Stairsen iniziò ad avvertire che l'enorme macchinario perfetto noto come St. Crane stava per incontrare una difficoltà di proporzioni immense: qualcosa che forse non poteva reggere.
Si precipitò lungo i corridoi dell'ospedale, osservando come fossero divenuti pieni di persone tra le più disparate: dai feriti gravi a quelli meno a rischio, dai familiari più sconsolati agli infermieri che tentavano di calmarli, da bambini in lacrime ad adulti che avevano perso ogni barlume di luce dagli occhi.
Tra grida, pianti e richiese di aiuto, Stairsen assistette ad un inferno in terra.
Impiegò alcuni secondi prima di fiondarsi verso il secondo piano in cerca di chi poteva fornirgli una delucidazione più accurata.
Superò decine di barelle e pazienti prima di trovare la persona che stava cercando: la capo infermiera del reparto.
- Dottoressa! - la chiamò a gran voce.
La donna scattò subito verso di lui, non prima di aver impartito indicazioni ai suoi colleghi.
Assieme si diressero in direzione dell'ambulatorio principale; tenere il passo di Stairsen non fu facile, poiché corse come aveva fatto in poche altre circostanze.
- Grazie al cielo è qui, Dottor Stairsen... - sospirò l'infermiera.
- Mi riassuma la situazione, per favore! In fretta! -
- Un disastro: un incidente stradale verso il centro cittadino... - cominciò lei - Un tir ha perso il controllo e si è schiantato lungo la strada, coinvolgendo decine di veicoli e alcuni passanti. Tra le vetture vi erano anche alcuni autobus pieni zeppi di gente. Abbiamo oltre un centinaio di feriti, e circa una decina di morti -
- Cristo santo, non possiamo accogliere tutta questa gente al St. Crane, cazzo! - tuonò lui - Come è possibile che tutte le ambulanze si siano dirette qui!? -
- Dottore, il nostro ospedale è in assoluto il più vicino alla zona dell'incidente... - spiegò lei, con evidente difficoltà - I feriti sono gravissimi, non sarebbero sopravvissuti al viaggio fino ad un'altra struttura... -
- MERDA! - imprecò Stairsen - Quante persone sono in attesa? Quante stanze abbiamo a disposizione!? -
- Abbiamo allestito dei campi provvisori per strada per i feriti meno gravi. Quelli gravi, ma non in pericolo di vita, stanno ricevendo un trattamento di fortuna -
- Chiamate tutte le forze disponibili dagli altri ospedali - ordinò - E per quelli in condizioni critiche? -
La donna si morse il labbro con forza, lasciando un piccolo solco nella carne.
- N-non abbiamo spazio a sufficienza... né tanto meno personale - disse lei - Sono quasi tutti in attesa di un'operazione urgente, ma non abbiamo abbastanza chirurghi! -
- Maledizione! Avete chiamato quelli che oggi erano liberi o in licenza!? Abbiamo bisogno di tutte le braccia che ci occorrono! -
- Circa il sessanta per cento ha detto che arriverà, gli altri erano fuorì città... - spiegò lei, tremante - Di questi, solo il trenta per cento riuscirà ad arrivare entro un quarto d'ora... -
- Non bastano! Quanti pazienti abbiamo scoperti!? -
Bastò un rapido controllo per verificare quella informazione. L'infermiera lanciò rapidamente lo sguardo in direzione del proprio ricevitore elettronico, dove diversi messaggi si stavano accatastando. Un guizzo di gioia le diede una scossa ai nervi.
- Ah... il dottor Lesdar si sta occupando di diversi pazienti alla volta! - esclamò, con sorpresa ed eccitazione - Sembra che abbia già concluso un'operazione e si stia dedicando a quella successiva! -
Stairsen si bloccò per un istante nel sentire quelle parole.
Schneider Lesdar, primario di chirurgia, era l'unica persona di quel complesso ospedaliero a ribattere a tono ogniqualvolta sorgeva una disputa con Stairsen.
Quest'ultimo aveva finito per considerarlo ben più di un collega particolarmente fastidioso, la cui lingua lunga e tagliente gli aveva provocato non pochi grattacapi.
Lesdar era un rivale in tutto e per tutto ed uno dei motivi per cui Stairsen ancora non sentiva di avere una presa totale sui dipendenti dell'ospedale.
Il carattere magnetico di Lesdar era motivo sia di odio che di ammirazione da parte sua; per un istante, il suo cervello elaborò una sensazione di sollievo nel saperlo dalla sua parte in una situazione talmente complicata.
Stairsen decise di lasciare da parte ogni attrito per concentrarsi sul problema alla mano.
- ...bene, ottimo. Lesdar sarà pure un coglione, ma sa fare il suo lavoro - rimarcò lui - Fornitegli ogni supporto necessario -
- Sarà fatto, dottore -
- Quanti pazienti mancano da sistemare? -
La risposta che arrivò non fu delle migliori.
L'infermiera, ancora titubante, strinse a sé il fascicolo dei pazienti ricoverati registrati negli ultimi minuti.
- ...se consideriamo il ritmo che sta tenendo Lesdar assieme al resto del corpo dei lavoratori, allora rimarrebbero appena poche persone. Ma non abbiamo nessuno a cui chiedere di... -
Stairsen si fermò di colpo; fu così repentino che la donna al suo seguito quasi inciampò nei propri tacchi per la brusca frenata.
Il primario di medicina si era incantato per un paio di secondi, sintomo inevitabile che aveva avuto un'idea.
Che fosse un'illuminazione vincente o solo un misero espediente per guadagnare tempo ancora non lo sapeva.
Stava di fatto che, ogni volta che Stairsen assumeva quell'espressione imbambolata, era perché stava ponderando qualcosa di grosso che gli frullava nel cervello.
L'uomo si voltò di scatto, incontrando gli occhi impauriti dell'infermiera.
- ...oggi il figlio di Lesdar era con lui, vero? -
- Co-come ha detto, scusi...? - chiese lei, balbettando.
- Il moccioso di Lesdar! Suo figlio, cazzo! - urlò lui - Viene in ospedale ad assisterlo tre giorni alla settimana! Anche oggi era con lui, no!? -
- Sì... sì, era in reparto. Lo ho visto - annuì lei, vagamente confusa - Ma... -
- Dategli una stanza, un infermiere e un paziente. Deve cominciare subito -
Dette quelle parole, il primario riprese a correre in direzione dell'ambulatorio.
Ci vollero in paio di secondi prima che la donna assimilasse l'ordine che le era stato impartito e raggiungerlo.
- D-dottore...! Un momento! - lo fermò lei - Non dirà sul serio!? -
- Non farmi perdere tempo. La mia parola è definitiva -
- E' solo un ragazzo! Un tirocinante! - protestò lei - Non è in grado di gestire un'operazione complicata, non importa se è il figlio del primario di chirurgia! -
- Quel ragazzino ha assistito al lavoro del padre per anni e ha cominciato il tirocinio oramai da tempo. Mi basta che abbia le basi -
- Ma...! -
A quel punto, Stairsen le lanciò un'occhiataccia fulminante che la donna non dimenticò per il resto della sua vita.
Uno sguardo di pura furia e irritazione che avrebbero potuto scuotere l'animo del più duro e freddo essere umano sulla terra.
Le afferrò una spalla con la mano enorme e le si avvicinò rabbiosamente.
- ...abbiamo dei pazienti che stanno per morire tra i corridoi del nostro ospedale - sibilò lui al suo volto terrorizzato - Metterei anche un pagliaccio ad operare, purché sappia cos'è un bisturi. Non abbiamo tempo, né disponibilità, né opzioni. Il giovane Lesdar deve andare in sala operatoria, SUBITO! SONO STATO CHIARO!? -
Non fu necessario ripeterlo una volta di più.
I due si separarono alla fine del corridoio, senza rivedersi fino a fine giornata.
Erano da poco passate le nove, in quel mattino di Novembre.
La capo infermiera del St. Crane corse senza sosta per riferire il messaggio che avrebbe cambiato per sempre la vita di Pierce Lesdar.



La sala era buia, angusta e considerevolmente spoglia.
Vi erano a malapena un lettino e le apparecchiature necessarie all'operazione, trasportate lì in fretta e furia e collocate all'interno del poco spazio.
Nulla a che vedere con ciò a cui Pierce Lesdar era abituato.
Da oltre la vetrata dalla quale era solito assistere, la sala operatoria appariva molto più grande, più futuristica. Più epica.
Agli occhi del ragazzo, quella stanza appariva sotto forma di un imponente campo di battaglia dove si consumavano conflitti senza esclusioni di colpi.
Battaglie a colpi di bisturi e pinze tra due fazioni in perenne guerra: i medici contro la morte.
E il fascino bellico di quel mestiere aveva da sempre catturato l'attenzione di Pierce fin dalla prima volta a cui aveva assistito ad un evento simile.
Anche quando il suo punto di vista divenne più adulto e maturo, quella denotazione quasi fiabesca non cessò mai di esistere.
I chirurghi erano eroi che, a spada tratta, affrontavano il male per sradicarlo e neutralizzarlo; e le forze maligne potevano assumere forme tra le più disparate: dalle lesioni gravi, a piccoli nei maligni, fino ad arrivare a cancrene ben più gravi della norma.
E, a differenza delle solite storie, il bene non sempre trionfava alla fine. Spesso capitava che il chirurgo perdesse.
Nonostante ciò, il fervore che Pierce conservava nel fare il tifo per i suoi campioni non cessò mai.
Ed eroe tra gli eroi era il padre, una leggenda anche nella sua vita meno fittizia.
Pierce Lesdar aveva avuto la possibilità di conoscere il primario Schneider sia in ambito professionale che nella vita privata.
Riservato e pacato in casa, anche sul posto di lavoro era noto per ammutolirsi quasi del tutto, gestendo le operazioni con una professionalità che nessuno sapeva spiegarsi.
Impossibile da capire, sempre assorto nei propri illeggibili pensieri, ma anche saggio e disponibile; Pierce definiva suo padre così.
Nella sua fantasia, però, Schneider era l'eroe tra gli eroi. L'unico, il più forte, il migliore.
Un guerriero silenzioso che affronta il nemico con metodo e dedizione; più gli anni passavano, più quella diventava la descrizione dell'uomo a cui Pierce tentava di avvicinarsi quanto più gli era possibile.
Fu proprio a causa di quel sogno che il brusco ritorno alla realtà fece più male del previsto.
Pierce riaprì gli occhi e ricordò la sua situazione.
La sala operatoria non era più un campo di battaglia; non vi erano eroi, né mostri, né imprese leggendarie. L'idillio che lo aveva accompagnato circa dieci anni prima era svanito.
Era la vita reale che lo attendeva; una vita composta da una sala operatoria messa su alla buona, un chirurgo inesperto e una paziente in fin di vita.
Pierce abbassò lo sguardo verso quella vista pietosa.
Distesa sul letto ospedaliero vi era una ragazza giovane dai lunghi capelli castani e dai tratti vagamente orientali.
La sua pelle era secca e pallida, e il volto era smunto e privo di colore.
Poi, gli occhi del chirurgo si fissarono sull'enorme ferita che la giovane aveva sul fianco. Profonda e penetrante, come fosse un cratere.
Nulla che Pierce avesse già visto in precedenza: era ovvio che qualcosa aveva tranciato la carne e poi era stata rimossa.
Pierce tentò di ricordare la breve descrizione che gli era stata fornita prima di entrare in sala: un grave incidente automobilistico aveva causato la morte di diverse persone, più la presenza di innumerevoli feriti. A giudicare dalla violenza dell'impatto, il solo fatto che la ragazza fosse viva poteva essere correlato ad un miracolo.
Ed era stata depositata lì, davanti a lui. Era stata affidata alle sue cure.
Più ci pensava, più Pierce credette che si trattava di un ineffabile scherzo del destino.
Lì, dove non c'erano eroi, la vita di una persona era stata affidata alle sue mani tremanti ed incerte. Mani che, pur sapendo cosa dovevano fare, erano frenate dall'ombra dell'inesperienza.
- Qui siamo pronte - fece una voce davanti a lui.
Due infermiere, donne adulte che sicuramente avevano visto casi ben più gravi, gli erano state fornite come assistenza.
Avevano allestito rapidamente l'intera stanza in modo da adibirla a sala operatoria di fortuna, ma con impeccabile zelo.
- ...molto bene - sospirò lui.
Era ciò che era solito dire a se stesso prima di intraprendere qualunque sfida o prova particolarmente ardua. Due semplici parole che dovevano istigare il suo cervello a mettersi in moto con un sistema auto indotto. Un altro dei trucchi psicologici ereditati da Schneider.
Ma il destino non aveva ancora chiuso i conti con Pierce Lesdar, che si trovò nuovamente bloccato.
Con la coda dell'occhio avvertì un rapido cenno, e le orecchie udirono un gemito soffocato.
La paziente aveva ripreso conoscenza, e i suoi occhi si aprirono a fatica.
Pierce Lesdar sentì una generosa porzione del mondo crollargli addosso.
Il solo vedere il suo volto sofferente bastò a fargli desiderare di andarsene, chiamare un vero chirurgo, e dileguarsi nella propria vergognosa incapacità.
Ma poi ricordò. Ricordò le parole che lo avevano spinto a cacciarsi in quella brutta faccenda.
Ripercorrendo con la memoria fino a pochi minuti prima, Pierce nemmeno ricordava come aveva fatto a farsi trascinare in quella follia.
Poi, gli sovvenne la frase fatidica.
"Non abbiamo più chirurghi, e ci sono ancora pazienti in attesa di cure urgenti. Devi aiutarci, o quelle persone moriranno"
Pierce Lesdar sospirò; non aveva una scelta. Non la aveva mai avuta.
Quella giovane che, con occhi sbiaditi che urlavano di dolore, stava osservando il proprio corpo martoriato non aveva nessuno; assolutamente nessuno.
Pierce provò ad immaginarsi che tipo di solitudine potesse provare qualcuno la cui vita stava per spegnersi senza persona alcuna che potesse aiutarla.
Ripescò vari eventi della propria vita ed esperienza, ma nessuno riuscì a costituire un degno paragone.
Quella ragazza aveva solo lui; lui, e lui soltanto.
L'unico eroe sceso a combattere per lei; tutto il suo mondo.
- ...morirò? -
Fu una singola parola ad essere pronunciata dalle labbra della giovane, mentre le infermiere si adoperavano per rincarare la dose di anestesia.
Era una parola sconnessa, debole, espressa con febbrile panico.
Pierce esitò; gli era stata rivolta una domanda orrenda, una alla quale neppure aveva una risposta.
Perché nella realtà cruda di Pierce, una senza eroi e favole, non esisteva un responso razionale che potesse soddisfare qualcuno in una simile circostanza.
Pensò più volte a cosa dire, prima di farsi uscire l'unica parola che avrebbe davvero mai potuto dire.
- No - asserì lui.
Vi fu un breve momento dove i loro sguardi si incrociarono.
- Veramente...? -
- Andrà tutto benissimo - continuò lui - Sono un chirurgo, e sono qui per te. Adesso stiamo per affrontare un'operazione difficile, ma ne uscirai sana e salva -
- Non... sto per morire? -
- Affatto - da sotto la mascherina azzurra, Pierce riuscì a mostrare un largo sorriso.
Lei ricambiò. Eppure, quel momento di serenità durò poco.
Seppure la vista e i pensieri le fossero annebbiati dai tranquillanti, la giovane sapeva che a parlarle era solo un ragazzo che poteva avere circa la sua età.
Riuscì ad intravedere un barlume di ansia, un panico mimetizzato. Una paura che si manifestava solo attraverso tenui gocce di sudore che gli bagnavano la fronte.
Pierce Lesdar assaporò, per la prima volta nella sua vita, il significato della parola "terrore".
- Dimmi... dove andrai una volta che sarai uscita da qui? - chiese improvvisamente lui.
- Dove, dici? Mh... - inspirò profondamente - ...a prendere un gelato con la mia migliore amica... al nostro bar preferito -
- Mi sembra un'ottima idea - annuì - Non fa mai troppo freddo per godersi un buon gelato -
A quel punto, le palpebre di lei divennero sempre più pesanti e insostenibili.
Il volto le si rilassò, smise di tremare, socchiuse gli occhi. L'anestetico era entrato in circolo.
- ...sono nelle tue mani - disse, prima di addormentarsi.
Passò un interminabile secondo.
Il gravoso fardello che pesava sulle spalle di Pierce Lesdar aveva aumentato le proprie dimensioni a dismisura.
Erano bastati una domanda, un desiderio e un atto di fede.
Sapeva solo una cosa: avrebbe dovuto fare come i chirurghi delle sue avvincenti storie puerili.
Avrebbe dovuto combattere la morte, respingerla, sottrarre quella vita alle sue grinfie.
Avrebbe dovuto mettere a frutto le capacità che gli erano valse il suo titolo.
Lo avrebbe fatto perché, in quel preciso momento, era l'unico al mondo.
- Bisturi - ordinò, e la lama gli venne rapidamente conferita.
Inspirò, ed espirò.
- Cominciamo -



Col sole in procinto di sparire e il cielo tinto di arancione e rosso, la giornata volgeva al termine.
Era stato faticoso, sfiancante, lunghissimo, ma anche quello che sembrava un dì interminabile alla fine giunse a conclusione.
Schneider Lesdar salì la rampa di scale lentamente, un gradino alla volta, nonostante tutta la stanchezza che si portava dietro.
Non appena l'ospedale era finalmente tornato alla calma e l'ondata di pazienti era stata gestita, la prima mossa del primario di chirurgia del St. Crane era stata di vagare per tutta la struttura in cerca di un certo qualcuno.
E aveva un'idea piuttosto concreta riguardo a dove trovarlo.
Arrivato in cima alle scale appoggiò la mano sulla porta che dava sul terrazzo e vi entrò.
Una brezza leggera e fresca gli carezzò il volto appena poggiò il piede all'esterno; dal tetto dell'edificio si poteva ammirare quanto l'ospedale fosse alto e imponente.
Gli bastò una rapida occhiata per individuare il suo obiettivo.
Pierce era seduto su una panchina vecchia e mezza arrugginita, fissando in lontananza i caldi colori del vespro.
I suoi occhi erano fissi in direzione dell'orizzonte, senza neanche sbattere le palpebre. Nemmeno con l'arrivo del suo vecchio si smossero di un millimetro.
Schneider Lesdar aveva trascorso la giornata passando ininterrottamente da una sala operatoria ad un'altra, scarrozzandosi dietro il figlio come era solito fare anche in situazioni più tranquille, senza emergenze.
Fu circa verso le due del pomeriggio che si accorse che il giovane non era più fuori ad assisterlo, come di consueto.
Non avendo il tempo di cercarlo o neppure di domandarsi dove fosse, aveva proseguito col suo lavoro confidando che stesse bene.
Fu solo verso sera, alla fine di quell'orrida odissea, che un'infermiera di passaggio lo aveva avvertito che il giovane Lesdar era stato richiamato per gestire un intervento completamente da solo. Bastarono quelle parole a far nascere un senso di sorpresa e disagio nel cuore del padre.
Conosceva bene suo figlio Pierce, e aveva bene in mente quali fossero le sue doti in ambito di chirurgia.
Pierce lo aveva seguito in ospedale fin da quando aveva sette anni, semplicemente assistendo al suo lavoro dopo essere tornato da scuola.
Il piccolo non si era mai espresso pienamente sul perché del suo interesse nei confronti del mestiere del padre, ma a Schneider non era mai dispiaciuta la sua compagnia.
Gli bastava vedere gli occhi sognanti del figlio per capire quanto genuina fosse la sua passione.
Schneider Lesdar aveva fatto di quello non solo uno sprone, ma anche un vanto.
Nel corso degli anni, Pierce Lesdar era divenuto un individuo ben noto al St. Crane, fino al fatidico giorno in cui decise che avrebbe seguito le orme del suo vecchio in sala operatoria; nessuno se ne sorprese, anzi. C'è chi diceva che era solo questione di tempo prima che superasse il genitore.
Fu così che l'adolescenza di Pierce trascorse tra gli studi ordinari e il suo tirocinio speciale per allenarsi come medico chirurgo.
Il fatto di essere figlio del primario di chirurgia aveva sicuramente avuto il suo peso, dandogli la possibilità di presenziare ogni volta che il padre si metteva all'opera.
E giorno dopo giorno, lezione dopo lezione, le sue conoscenze in materia aumentavano così come le sue abilità.
Schneider aveva preferito svezzarlo senza buttarlo direttamente su pazienti veri e propri, e non si era pentito di quella scelta fino a quel giorno.
Il giorno in cui Pierce si era ritrovato costretto a prendere in mano il bisturi, stavolta sul serio.
E ritrovarlo lì, al termine di quel giorno nefasto e con quell'espressione sul volto, non fece che aumentare il suo senso di colpa.
Schneider mosse dei passi verso di lui, superandolo e inserendo una moneta nel distributore automatico appena oltre la panchina.
Quando la lattina di tè freddo ne uscì, la afferrò ed andò a sedersi al suo fianco.
Rispettò il silenzio per alcuni minuti, giusto il tempo di consumare la bibita.
- ...giornata tosta, eh? - borbottò Schneider.
Pierce si limitò ad annuire. La conversazione aveva bisogno di un traino.
- Mi hanno detto tutto. Stairsen ti ha chiesto di occuparti di una paziente - sospirò - Deve essere stata dura -
- Non lo nego -
Gli poggiò una mano sulla spalla, scuotendolo con affetto.
- Sei stato in gamba, ragazzo. Hai avuto fegato - lo rinfrancò - Purtroppo era un'emergenza, siamo stati costretti a chiedere il tuo aiuto. Me ne rammarico, ma a quanto pare hai svolto un lavoro esemplare -
Pierce mostrò una smorfia vagamente inviperita.
Si scrollò di dosso il braccio paterno e voltò lo sguardo altrove.
- ...non indorare la pillola -
- Pierce, ciò che sto cercando di dirti è che... -
- Che ho "svolto un lavoro esemplare"? - scosse il capo - Quella ragazza è morta... -
Ne seguì un silenzio pesante e gravoso. L'aria si era fatta improvvisamente più gelida.
Intuì che il figlio aveva cercato in tutti i modi di evitare l'argomento, ma Schneider sapeva anche che imbottigliare sentimenti simili lo avrebbe solo fatto esplodere.
Era un qualcosa che voleva evitare.
- ...sì, è morta - disse all'improvviso, con estrema fermezza - E a quanto mi pare di vedere te ne stai assumendo la colpa -
- E non dovrei...? Non dovrei, papà!? - strepitò lui - Era una MIA responsabilità! Era la mia paziente, e adesso è...! -
- PIERCE! Tu sei solo un apprendista! Non era affatto una tua responsabilità; la situazione era quella che era, e tu...! -
- Non trattarmi come se fossi l'ultimo degli idioti! - gli gridò contro - Io ho imparato dal migliore in assoluto, il chirurgo numero uno dello stato! Ho imparato questo mestiere da TE! Sono dieci volte meglio di qualunque specializzando anche dieci anni più vecchio di me, e allora PERCHE' e' finita in questo modo!? -
- Datti una calmata, ragazzo! - tuonò Schneider - La rabbia e la frustrazione ti impediscono di vedere l'ovvia realtà dei fatti! -
Ancora stringendo i pugni con ira, Pierce tentò di tornare freddo e lucido. Tornò a sedersi composto, inspirò profondamente, e poi si lasciò scappare un lungo sospiro.
- Non doveva finire in questo modo... - gemette.
Schneider si passò una mano sulla fronte sudaticcia.
L'uomo aveva una capigliatura e baffetti grigiastri, e di certo non appariva giovane; ma dopo quel giorno sembrava improvvisamente avere una decina di anni di più.
Quella discussione di certo non gli stava giovando.
- ...Pierce, hai sviluppato delle capacità eccellenti e le tue conoscenze sono ottime - lo rinfrancò lui - Ma devi imparare a riconoscere i tuoi limiti -
- Detesto avere dei limiti... - sbuffò lui - Accettare il fatto che ci sono delle cose che non potrò mai fare, non importa quanto mi sforzi... -
- Fa schifo, vero? Ma avere dei limiti è una delle cose più umane che esistono. Devi conviverci -
Passarono altri attimi di silenzio. Il respiro di Pierce era tornato regolare, e il suo volto si era rischiarato.
La rabbia di poco prima era stata sostituita interamente da un velo di tristezza.
- ...quella ragazza doveva morire per forza? -
Schneider si grattò il mento. Era una domanda difficile, ma Pierce aveva già ampiamente dimostrato di non essere più un ragazzino. 
- E' stato un incidente orrendo. Molte persone sono morte ancora prima di giungere in ospedale. Di quelli che sono arrivati, una piccola porzione si è salvata - sospirò il vecchio - Se hai fatto del tuo meglio, e conoscendoti bene so che lo hai fatto, allora non c'era niente da fare -
- "Niente da fare"... - Pierce ribadì quelle parole più volte, come una strana nenia.
- Te lo ripeto: era una situazione anomala - annuì l'uomo - L'ospedale aveva bisogno di aiuto, e tu lo hai fornito al meglio delle tue capacità -
- Non importa. Ho commesso comunque un errore madornale... -
- Di che accidenti stai parlando? -
Pierce si morse il labbro, serrando le palpebre sugli occhi.
- ...le ho promesso... che la avrei salvata - mormorò, tremando - Le ho detto che sarebbe andato tutto bene... -
- Pierce... -
- Le ho mentito. Stava per morire, e non ho avuto il coraggio di dirle la verità - una lacrima gli rigò la guancia - Non le ho rivelato che non potevo salvarla, che era troppo tardi. Non le ho detto che era la mia prima, vera operazione e che la tensione stava avendo la meglio su di me. Stava morendo, e io le ho mentito. Le ho detto che sarebbe potuta andare a gustarsi un gelato in compagnia una volta uscita da lì... e invece... l'ho uccisa -
- E te ne penti? -
Pierce si voltò verso il padre, con sguardo indignato. Era una domanda che non si sarebbe mai aspettato di sentire; non in quella situazione, non da lui.
Ma più cercava di capire cosa il suo vecchio voleva intendere, più faticava a trovare una risposta.
- ...cosa? Cosa dici!? Se me ne pento!? - strepitò - Io...! Io le ho...! -
- Mentito, sì. E ti senti in colpa per non aver mantenuto la promessa - annuì lui - Ma vedila così: quella poveretta stava per addormentarsi per sempre. Avresti preferito che chiudesse gli occhi sbiancata dal terrore e senza alcuna speranza nel cuore? O è meglio cullarla con qualche parola più dolce e comprensiva? Se fossi stato nei suoi panni, avresti voluto che le ultime parole da te udite fossero "Stai per morire"? -
Pierce non seppe rispondere. Abbassò lo sguardo, cercando di trovare le parole; ma non ve ne erano.
Era un punto di vista che ancora non aveva varato, e più ci pensava più il suo pensiero si distorceva.
- Io non... non volevo che... -
- Pierce, ascoltami bene: quando un paziente è in una situazione dove non possiamo più salvarlo... - gli ci volle un secondo per prendere fiato - ...il minimo che possiamo fare per loro è accompagnarli alla soglia della morte dando loro un ultimo pensiero felice. Che chiudano le palpebre definitivamente pensando a quanto buono sia il gelato gustato in compagnia di amici, piuttosto che a quanto sia orribile il loro fato. Capisci, ragazzo mio? -
Fu difficile ammetterlo, ma Pierce non riuscì a discostarsi da quella linea di pensiero.
- ...lo capisco - annuì, cercando di apparire convinto pur non essendolo - Eppure è così... ingiusto -
- La vita non è "giusta". Non lo è mai stata -
- Non è tanto quello quanto il fatto che... mi sento impotente - spiegò lui - Un chirurgo dovrebbe guarire le persone, salvare la loro vita. Eppure, il più delle volte, nemmeno ci riusciamo. E' paradossale -
- No, ragazzo. Se ti concentri solo sulle vite che perdi non vedrai tutte quelle che salvi - disse lui - E non vedere i medici come dei supereroi infallibili. Siamo solo uomini, dopotutto. Viviamo, mangiamo, sbagliamo, moriamo; come tutti -
- E' tutto molto diverso da come me lo immaginavo da ragazzino - annuì Pierce, vagamente sconsolato.
- Già, sei sempre stato un gran sognatore. Un romantico - sorrise il padre - Non vederlo come un difetto. Anzi, in realtà non hai tutti i torti -
- Cosa intendi dire? -
Schneider si grattò la nuca, pensando a come esporre il proprio pensiero.
- Beh, mettiamola così: per un paziente grave, un medico è una sorta di eroe pronto a salvarlo, no? - disse - E noi facciamo di tutto per non deludere le loro aspettative -
- Quindi è più per auto compiacimento? -
- Quello sempre. Ricorda: siamo uomini - spiegò il padre - Creature sostanzialmente egoiste. Interpretiamo la realtà in modo da renderla più piacevole. Se agli occhi di qualcuno siamo eroi a noi mica dispiace, anzi. E' una bella spinta al nostro ego -
- Dubito che un chirurgo navigato possa avere un ego così gonfio - sospirò il giovane - Con tutte le persone che ci muoiono attorno... -
- Ed è qui che ti sbagli, ragazzo - lo interruppe il padre - Ti sbagli di grosso -
La notevole veemenza con cui Schneider aveva espresso quel pensiero destò curiosità in Pierce.
Lo sguardo del padre si era fatto improvvisamente serissimo. Pierce conosceva quegli occhi: erano quelli di un uomo che aveva visto e imparato molte cose nella sua vita, e che stava per condividerle e tramandarle.
- ...cosa intendi? -
- Ora stammi bene a sentire, Pierce. Dico sul serio, prestami orecchio e non interrompermi - gli disse, con fermezza - Noi medici dobbiamo sempre restare coi piedi per terra, ma con lo sguardo dritto davanti a noi. Dobbiamo lottare con le unghie e con i denti, ed essere sempre convinti di potercela fare. Dobbiamo ingigantire il nostro ego e puntare sempre al massimo. Ne conosci il motivo? -
Pierce mostrò un lieve segno di diniego. L'uomo si schiarì la voce.
- Perché dobbiamo sopravvivere. E' tutta una questione di sopravvivenza, Pierce. Niente di più. Noi siamo gli ultimi baluardi della vita; sulle sponde dello Stige, sul ciglio dell'abisso, ci siamo noi. Ogni giorno lottiamo contro la morte per avere la meglio anche solo temporaneamente. Trattiamo decine di pazienti, molti dei quali non hanno la benché minima speranza di farcela, ma nonostante tutto facciamo l'impossibile pur di vincere. E proprio noi, che combattiamo queste battaglie perse in partenza, dobbiamo restare vivi. Noi abbiamo L'OBBLIGO di sopravvivere, perché è il nostro dovere. Perché, senza di noi, la morte vincerebbe sempre. Siamo l'ultima speranza di quei poveretti che un futuro non lo hanno e dobbiamo farci carico delle loro vite. E io ho ne ho visti tanti, Pierce. Oh, credimi, proprio tanti: innumerevoli chirurghi incapaci di superare il loro primo fallimento, o un periodo particolarmente negativo. Medici che non potevano dimenticare il volto di quel paziente che non hanno potuto aiutare, che non hanno potuto salvare. Chirurghi che cadevano in depressione, o che addirittura arrivano a togliersi la vita a causa del profondo rimorso. E' gente che ha dimenticato la cosa più importante di questo lavoro: sopravvivere. Hanno rinunciato a lottare, e così facendo hanno rinunciato a salvare le vite di coloro che avevano bisogno di loro. Pierce, non lasciare che questo tuo fallimento costituisca un freno. Il futuro è pieno, traboccante di persone che avranno bisogno del tuo talento per essere guarite, che avranno bisogno dell'Ultimate Surgeon per sentirsi protette, al sicuro. Rinuncia a combattere, e quella gente potrebbe restare sola. Come quella ragazza di oggi: eri l'unico a poter combattere per lei. Eri tutto il suo mondo, la sua vita era nelle tue mani, e la hai difesa al meglio delle tue capacità. Quindi, portati dietro questo fardello; ricordala, sopporta, resisti, e continua. L'operazione più importante della tua vita è sempre la prossima -
Pierce lo fissò con aria esterrefatta, attonita.
Ipnotizzato da quel discorso e dal suo significato, tentò di ripercorrerlo mentalmente per assimilarlo.
Era convinto fosse la prima volta in cui suo padre si era espresso in maniera talmente diretta su un'opinione personale.
Schneider Lesdar era da sempre stato un uomo riservato e di non troppe parole.
Il ragazzo si rese conto di averlo sempre ammirato senza mai davvero conoscere quel lato così importante di lui.
- Sopravvivenza... eh? - borbottò Pierce - Davvero un mestiere così altruista trova fondamenta in un pensiero così egocentrico? -
- Paradossale, come spesso è la vita - asserì - E questo concetto ha anche delle basi storiche piuttosto interessanti -
- Come, scusa? A cosa ti riferisci? -
- Lascia che ti illumini con un aneddoto - proseguì Schneider - Stiamo parlando di molte decine di anni fa, secondo conflitto mondiale. In una minuscola vallata tra alcuni massicci della Francia si stava combattendo una battaglia disperata. Rinchiusi nell'ultimo forte rimasto loro, le truppe francesi erano state schiacciate da ogni lato dalle forze nemiche. La morte era incombente, e non restava altro che la resa. Eppure, poco prima che i cannoni tedeschi bussassero alla loro porta, un giovane capitano ebbe un'idea. Con i loro ultimi aeroplani lanciarono un attacco disperato per ribaltare le sorti della guerra -
- E ce la fecero? - domandò Pierce, che sperava in un lieto fine a sorpresa.
- Beh, tu che dici? Una decina di aeroplani contro l'intero esercito tedesco - Schneider scosse la testa - No, morirono tutti. Ma non prima di aver concluso il loro piccolo piano. Sai quegli aerei a cosa puntarono? -
Il ragazzo fece intendere di non intuirlo, e i suoi occhi lo supplicarono di soddisfare la sua curiosità.
Schneider abbozzò un sorriso storto.
- ...bombardarono gli ospedali - disse, alzando lo sguardo al cielo, quasi figurandosi la scena - Lanciarono un attacco suicida per distruggere l'intera zona ospedaliera della trincea nemica. Certo, vennero immediatamente annientati dalla contraerea mentre le truppe rimaste al forte venivano trucidate. Ma ecco la parte incredibile: quell'attacco finì per congelare le forze nemiche per mesi interi. Non potendo più contare sulla guarigione delle unità ferite, i tedeschi furono costretti a temporeggiare. Molti soldati morirono per mancanza di cure e medicine, e non fu difficile per i francesi riconquistare la vallata dopo l'arrivo dei rinforzi. Cosa ne pensi? -
- ...una storia niente male - disse, nonostante fosse rimasto incredibilmente colpito dal racconto - Ed è da questo racconto che hai tratto il tuo mantra personale sulla sopravvivenza? -
- Solo in parte. Il mio punto di vista deriva dalla mia esperienza di vita - sospirò l'uomo, ripensando al passato - E' una risposta che ho raggiunto dopo molti anni di onorata e sofferta carriera -
- "Sopravvivere"... - Pierce assaporò più volte lo strano e ambiguo gusto di quel termine - Noi dottori dobbiamo sopravvivere, altrimenti non potremo curare i bisognosi... -
- Puoi sintetizzarlo così, esatto. Dopotutto, chi cura i feriti se il medico muore? -
- Non... posso darti torto -
A quel punto, Schneider Lesdar si alzò dalla panchina. Lanciò la lattina di tè freddo, vuota e accartocciata, all'interno del cestino posto di fianco.
Diede un'ultima pacca di conforto al figlio e si avviò verso l'uscita.
- Riflettici su, va bene? Trova una risposta che faccia al caso tuo - gli disse con tono caldo e gentile - Ho visto molte persone impazzire nel tentativo di trovarla.
Non aggiungerti al mucchio. Tra qualche mese partirai per il Giappone in qualità di "Ultimate Surgeon", no? Faresti meglio ad andarci a mente sgombra -
In tutta quella gran confusione, Pierce lo aveva rimosso. Aveva dimenticato il fulcro della sua gioia di quell'ultimo periodo.
Il massimo riconoscimento del suo talento era giunto sotto forma di missiva da parte del comitato degli scout della Hope's Peak Academy.
Lo volevano tra loro per le sue qualità di chirurgo ad una così giovane età.
Eppure, dopo quel giorno, ciò era diventato di sfondo alla sua situazione emotiva.
Pierce Lesdar sapeva che avrebbe dovuto pensarci ancora molto, molto a lungo.
A quel punto, Schneider si lasciò alle spalle la sagoma corrucciata del figlio e si appoggiò alla maniglia della porta.
Fu quando ebbe sorpassato per metà la soglia di quest'ultima che la voce di Pierce lo richiamò un'ultima volta.
- ...papà -
Schneider si voltò lentamente.
- Sì? -
- Quando lo hai capito? -
- Capito cosa? -
- Che volevi sopravvivere... per il bene degli altri - domandò lui - Quando lo hai compreso? -
Il primario di chirurgia del St. Crane si stiracchiò, lasciandosi scappare un gemito di stanchezza.
Eppure, stava sorridendo. Uno di quei sorrisi che era raro vedergli in volto, che facevano breccia attraverso la sua nomea di chirurgo e padre inflessibile.
- ...lo sai, ragazzo? Su questa terrazza è dove ho fumato la mia ultima sigaretta -
Pierce rimase ammutolito per un istante. L'improvviso cambio di argomento lo aveva confuso non poco.
- Come...? -
- Mi ero stancato di quella robaccia che mi ammazzava i polmoni. Volevo dare alla mia esistenza una regolata in modo da vivere più a lungo. Sopravvivere, appunto -
- C-capisco... -
Si voltò verso di Pierce, sempre con volto sereno.
- Sai quando ho capito di volerlo fare? - disse, infine - Quando ho visto il sorriso del primo paziente che ho salvato. Un sorriso di gratitudine genuina che non dimenticherò mai. E, ogni volta che metto qualcuno sotto i ferri, spero sempre di... rivedere quell'immagine. E se voglio che sempre più persone possano sorridere in quel modo... devo sopravvivere a tutti i costi -
Schneider Lesdar sparì lungo la scalinata che portava al piano di sotto.
Pierce osservò la sua sagoma lentamente sparire al di sotto della soglia. Quando l'ultima ciocca di capelli grigiastri fu svanita, si voltò verso il cielo all'orizzonte.
Il cielo era scuro, ma sereno. Decine di stelle splendevano sopra di lui, delineando un meraviglioso firmamento.
Era giunta la sera.



Tra le tante cose che Karol si era reso conto di non sapere in merito alla propria insegnante vi era la sua straordinaria minuzia nel curare i dettagli estetici.
Rita Nebiur aveva passato un discreto quarto d'ora a fare in modo che la camicia del suo giovane protetto fosse perfettamente in ordine e non stropicciata, finendo poi con l'annodargli la cravatta al collo in modo che non gli stringesse.
Persino il nodo di quest'ultima era stato eseguito in modo perfetto: Karol si domandò come facesse a possedere un'abilità simile dato che di cravatte, ovviamente, non ne portava.
Ritenne che non fosse la prima volta che la maestra si trovasse in una situazione simile. E sperò non fosse neanche l'ultima.
Un grosso sorriso compiaciuto era comparso sul volto di Rita fin da quella mattina; era ovvio che fosse in grande spolvero per i preparativi e che la sua eccitazione per quell'evento fosse notevole, quasi come se la protagonista fosse lei.
Dopo quegli anni passati assieme, Karol aveva iniziato a comprendere pienamente ciò che le espressioni facciali della professoressa stessero ad indicare; e in quel caso stava emanando una forte aura di compiacimento e orgoglio.
- Là, ecco fatto! - esclamò lei, con gaudio - Sei perfetto! Guardati allo specchio -
Seppure con imbarazzo, Karol lanciò una veloce occhiata alla sua immagine riflessa.
Non aveva mai provato una forte vanità per il proprio aspetto, ma dovette riconoscere a se stesso che quell'abbigliamento, in effetti, gli donava.
Rimase a fissare l'accostamento della camicia azzurra a righe con la cravatta rossa e i pantaloni beige: gli sembrò un look forse un po' troppo maturo, ma realizzò che l'effetto era voluto. Dopotutto, quel giorno segnava un'importante tappa della sua formazione.
Settimane dopo, Karol avrebbe realizzato che quella data indicava il momento in cui aveva smesso di "crescere" e aveva iniziato ad "invecchiare".
- ...è davvero notevole - annuì lui, soddisfatto - La ringrazio -
- Non devi, è sempre un piacere - rispose, mostrando i denti in un largo sorriso - Ah... è sempre un'emozione accompagnare i miei studenti al diploma -
- Come ci si sente? - domandò Karol. Era una sensazione che sperava di poter provare a sua volta.
Rita ci pensò su, cercando il modo migliore per esprimere il concetto.
- "Realizzata", direi - disse infine - Ho svolto il mio lavoro, e ha dato i suoi frutti. E quei frutti daranno vita a nuovi semi, quando sarà il tuo turno di accompagnare i tuoi pupilli al termine del loro percorso -
- P-professoressa... mi sta mettendo addosso una certa pressione... - deglutì Karol.
Lei gli elargì due sonore pacche affettuose sulla spalla.
- Non essere così. Ti sei impegnato al massimo in questi anni per raggiungere la perfezione accademica - asserì, incrociando le braccia - E' giunto il momento di seguire la tua vocazione, e nulla potrà fermarti -
- Se lo dice lei... - sospirò lui - Ammetto di essere un po' indeciso su quale facoltà seguire all'università. Non credevo che avrei avuto il dramma dell'indecisione... -
- Oh, non credo proprio che sarà un problema -
Karol si bloccò per un istante; conosceva quel tono di voce.
Era la voce che Rita Nebiur utilizzava quando era in procinto di rivelargli qualche informazione che aveva volutamente tenuto nascosta.
- ...cosa intende dire con questo? -
- Beh, mio giovane allievo, non capita tutti i giorni che una commissione di un certo livello abbia l'opportunità di ascoltare una tesina da parte di uno studente così promettente... -
- Professoressa... che cosa ha fatto? -
Lei gli diede le spalle, girando senza meta per la stanzetta.
- ...potrei aver fatto qualche telefonata qua e là... - mormorò - E potrei, ripeto: POTREI aver domandato ad alcuni scout della Hope's Peak Academy di presenziare alla cerimonia -
Il volto del ragazzo impallidì dalla sorpresa.
Il modo schietto, quasi non curante, con cui Nebiur lo aveva detto gli provocò uno strano misto di emozioni miste ad ansia e confusione.
- Lei... cosa!? -
- Rilassati, Karol! E' normale che il tuo nome saltasse fuori, prima o poi! -
- Si rende conto di cosa ha fatto...? - gemette lui - Ha proposto me alla Hope's Peak! L'istituto migliore al mondo! Solo l'eccellenza è ammessa ad...! -
La donna gli serrò le unghie nelle spalle con un movimento repentino, costringendolo a guardarla dritto negli occhi.
Preso in contropiede, Karol Clouds non poté fare altro che assecondarla.
- ...Karol, ascoltami bene. Ho chiesto alla Hope's Peak di farti uno scrutinio perché tu SEI l'eccellenza. Hai un talento innato che solo loro possono coltivare, e non lascerò che la migliore occasione della tua vita vada sprecata -
- Lei crede davvero che io possa...? -
- Diventare il miglior insegnante di tutti i tempi? Sì - rispose con sveltezza - Sei intelligente, sveglio, empatico, forte, determinato. Non vi è ostacolo che potrebbe porti un freno, tranne uno: te stesso. Hai intenzione di restare per sempre nella mia ombra o ti deciderai a prendere in mano la tua vita? -
Una domanda retorica, ma che a Karol apparve non scontata.
Il giovane sapeva che quelle parole corrispondevano alla verità: il rispetto e l'affetto nutrito nei confronti dell'insegnante erano troppo forti per poter considerare di poterla, un giorno, superare. Eppure, neppure qualcuno come Karol Clouds poteva opporsi all'ordine naturale delle cose.
- ...voglio renderla fiera di me, Professoressa - disse all'improvviso.
Una minuscola lacrima di commozione scaturì dagli occhi di Rita, che lo cinse in un abbraccio caloroso.
Strinse forte le braccia attorno alle spalle dell'allievo, divenute oramai larghe e salde.
- Io SONO fiera di te. E diverrai un insegnante coi fiocchi - disse, stringendogli il nodo alla cravatta un'ultima volta - Uno come te... avrà sempre a cuore la salute e il benessere dei propri studenti. Chiunque avrà il privilegio di imparare da te potrà sempre, sempre contare sul tuo aiuto. Perché tu sei fatto così: sei affidabile, gentile e premuroso. Non dimenticarlo mai, Karol -
Gli carezzò il viso col palmo della mano, scostando i ciuffetti biondi che pendevano dalle tempie.
Allungò poi il braccio verso il suo, prendendolo per mano e guidandolo verso la porta della stanza.
"Oltre quella porta..." pensò Karol, ipnotizzato dalla dolcezza dei movimenti della maestra "...vi è il futuro che lei mi ha aiutato a costruire. Io lo realizzerò"
- Andiamo, Karol? -
Lui si lasciò condurre all'esterno, accompagnato dal calore della sua mano e dalla forza di quella promessa.
- Andiamo -
 

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Capitolo 54
*** Capitolo 5 - Parte 16 - Reminiscenze (2) ***


Alcuni mesi dopo




Un buio denso e lugubre, un lieve tintinnio metallico, un sentore di umidità e una forte e lancinante fitta alla testa.
Una moltitudine di sensazioni diverse e poco chiare accompagnarono il risveglio di Pierce Lesdar, quel giorno.
Avvertì un lieve dolore alla schiena e ai polsi, ma il suo cervello ancora non riusciva nemmeno ad elaborare completamente tutto ciò che il suo corpo stava provando.
A Pierce sembrò di aver dormito per giorni, forse settimane, a giudicare dalla sua completa assenza di lucidità e cognizione di tempo e spazio.
Spalancò lentamente gli occhi tentando di capire dove si trovasse, ma le sue palpebre appesantite non erano intenzionate a seguire gli ordini.
Passarono diversi minuti in cui Pierce cadde nuovamente in uno stato di dormiveglia.
Impiegò diverso tempo prima di riuscire a tornare padrone del proprio organismo.
Proprio mentre la sua mente cominciava ad accelerare il processo di elaborazione, a Pierce soggiunse un pensiero.
Non era normale che si sentisse così affaticato e stanco; ciò andava ben oltre il normale recupero di sonno arretrato.
Aveva già provato una sensazione simile anni addietro, in una delle rarissime volte in cui si era trovato dall'altro lato del bisturi.
"...sono stato... addormentato...?"
Pierce Lesdar non aveva mai dimenticato il giorno in cui aveva subito lui stesso un intervento chirurgico; in particolar modo l'anestesia.
Si trattava di un'operazione minore, semplicissima; prassi che chiunque, tra i colleghi del padre, avrebbe potuto svolgere ad occhi chiusi.
Ed infatti Pierce ricordava di non aver avuto la minima apprensione nei confronti dell'intervento in sé.
Ma l'anestesia totale per addormentarlo non riusciva a rimuoverla dai suoi ricordi; pur riconoscendone l'ironia, a Pierce quel processo non era mai andato a genio.
Aveva visto decine, centinaia di pazienti venire tranquillamente spediti tra le braccia di Morfeo con una innocua sostanza soporifera, ma il dover subire quel trattamento lo mise a disagio. La lenta ma inesorabile perdita della cognizione, delle facoltà basilari, della propria lucidità mentale, lo spaventavano.
Fu dopo quel lontano giorno passato che Pierce aveva covato il desiderio di non dover mai più essere messo sotto i ferri.
Pierce Lesdar era terrorizzato dall'idea di non poter controllare se stesso.
Fu per quel motivo che, realizzando ciò che poteva essergli accaduto, fu assalito da un improvviso senso di panico.
Si dimenò con la poca forza che gli era tornata, ma fu inutile; con il ritorno del senso del tatto avvertì qualcosa che lo cingeva, stringendolo.
Erano corpi lunghi e saldi stretti attorno alla sua vita e agli arti. Inizialmente pensò si trattasse di corde, ma poi ne tastò il freddo metallo che le componeva.
Erano simili a catene, e lo tenevano attaccato al largo tavolo su cui era poggiato il suo corpo.
Pian piano si rese conto di essere steso in posizione orizzontale, e che l'unica fonte di luce di fronte a lui era quella di una lampada a soffitto.
Fece forza sulle catene, ma invano. Erano fin troppo spesse per poter essere spezzate dalla sola forza fisica.
"...ma dove mi trovo?"
Quando la testa iniziò a fargli meno male, Pierce tentò di ricollegare mentalmente i suoi ultimi ricordi ricombinandoli in un puzzle ordinato.
Non gli fu facile, poiché una fitta nebbia attanagliava le sue memorie delle ultime ventiquattro ore.
Rammentava vagamente un'emergenza, forse una fuga. Ricordava di essere assieme ad altre persone, e di trovarsi lontano da casa.
La sagoma della Hope's Peak Academy fece capolino tra i ricordi: aveva trascorso lì circa poco più di un mese per via di un progetto di orientamento scolastico.
Ricordò volti, nomi e luoghi che gli erano quanto più familiari, ma ancora non riusciva a raggiungere il nodo principale.
Pur sentendo la necessità di un aiuto mnemonico, Pierce non avrebbe mai immaginato che sarebbe arrivato tanto presto e nel modo più inaspettato.
Le sue orecchie captarono nuovamente il suono metallico poco chiaro di prima, e si voltò di scatto.
Ciò che si trovò di fonte lo fece rimanere agghiacciato, paralizzato dal terrore.
Due pupille, di cui una nera ed una dalla forma indistinguibile e rossa, lo stavano fissando con intensità.
Appartenevano ad una creatura che sembrava uscita da un'improbabile fiaba per bambini, ma che negli ultimi tempi aveva costituito un vero e proprio incubo.
Un pupazzo meccanico dalle sembianze d'orso dai colori bianco e nero che lo suddividevano in due perfette metà; sul muso aveva un perenne sorriso diabolico e inquietante.
I ricordi di Pierce iniziarono a rischiararsi alla vista di quell'orrenda mostruosità.
- ...buongiorno, Pierce Lesdar - fece Monokuma, con la solita voce squillante.
Il ragazzo deglutì, incapace di pensare lucidamente.
- ...t-tu sei... uno di quegli abomini... - balbettò in preda al panico - Sei un Monokuma... -
- Cielo, abbi un minimo di riguardo! - si lamentò l'orso - Non ti hanno insegnato le buone maniere!? -
Pur apparendo inviperito, a Pierce non sembrò altro che una stramba farsa di un predatore che si divertiva a giocare con la sua preda.
Il giovane chirurgo ricordò perfettamente ciò che quegli androidi dalle improbabili fattezze avevano combinato nel mondo, gettandolo nel caos.
Gli stava mostrando i denti e gli artigli senza ferirlo, godendosi il momento in cui il ragazzo sarebbe crollato.
- ...conosci il mio nome? - disse, tentando di reggergli il gioco.
- Certo che sì. Ti conosco molto bene - annuì Monokuma - Si dia il caso che io sia un orso molto informato e previdente. Ho pianificato tutto al meglio affinché questo progetto abbia successo! -
- Un progetto...? - Pierce realizzò di star sviando dai quesiti principali - Un momento... dove sono? E cosa vuoi da me...? -
- Se mi dessi il tempo di parlare ti spiegherei tutto, cielo! Che impazienza! - si lamentò Monokuma, proseguendo la pantomima - Ho messo a punto una sfida; una molto, molto pericolosa, ma anche importantissima. Ho bisogno della collaborazione di tutti affinché il mio piano vada in porto e tu, Pierce, sei un necessario tassello del mosaico! -
- Ancora non capisco... che cosa sta succedendo... - scosse il capo - Quando e come sono arrivato qui? E dov'è "qui"? -
A quel punto, Monokuma incrociò le braccia assumendo una posa ridicolmente pomposa.
- Sei alla Hope's Peak Academy! E stai per cominciare il nuovo semestre di mutuo omicidio! - esclamò, sprizzando vitalità - Una sfida in cui sedici studenti tentano di uccidersi vicendevolmente tentando di accaparrarsi il premio più ambito: la libertà! -
Il ragazzo rimase in silenzio, ammutolito.
Per un attimo gli sembrò quasi di aver capito male. 
Ma poi realizzò; intuì che non si trattava di uno scherzo o di una commedia straordinariamente ben congegnata.
Quell'orso stava dicendo sul serio, e aveva parlato di omicidio.
- Omi...cidio...? - sibilò lui, paralizzato - Non puoi dire sul serio... -
- Sono serissimo, ma comprendo bene che dal tuo punto di vista sia difficile da credere - annuì Monokuma, comprensivo - Ma devi capire che è la verità. La sfida inizierà tra pochi giorni. E tu, caro mio, sei uno dei sedici contendenti -
Il cuore iniziò a pompargli il sangue freneticamente; Pierce avvertì un eccesso di calore alla fronte e alle mani.
Ogni tentativo di liberarsi fu inutile; quel mostro lo aveva in scacco.
Il solo pensiero di essere stato appena costretto a prendere parte ad un evento simile gli provocò un senso di svenimento.
- Non mi starai dicendo che... devo uccidere altri esseri umani...? -
- Esattamente! Spiacente, ma sono le regole -
- E' inconcepibile... - mormorò, ancora incredulo - Chiunque tu sia... perché stai facendo tutto questo!? -
L'androide assunse un'aria perplessa.
- Chiunque io sia? Io sono Monokuma! -
- Parlo della persona che ti sta controllando, ovviamente! - inveì lui - Chi mai potrebbe ricavare profitto dal vedere degli studenti assassinarsi tra loro!? -
- Aah, non temere - annuì l'orso - Vi è un obiettivo ben definito che sto cercando di raggiungere, ma non è necessario che tu ne comprenda la logica. No, non è quello il tuo ruolo -
Quelle parole sibilline suggerirono a Pierce che vi era altro di cui doveva ancora venire a conoscenza.
- ...non è "quello"? -
L'occhio rossastro di Monokuma si illuminò con un bagliore sinistro.
- Bene, adesso taci e lascia che ti spieghi. Sarà molto più facile e rapido in questo modo - asserì Monokuma, prendendo a parlare - Se intendi farmi domande sul perché o come io stia realizzando questo progetto stai perdendo tempo e fiato. Sei un mio prigioniero; quindi, se vuoi uscire di qui, dovrai attenerti alle mie regole. Chiaro? E le regole sono semplici: per poter scappare devi eliminare un altro studente, massimo due, senza però farti sorprendere nell'atto. Voi sedici sarete messi all'interno di questa scuola, che sarà la vostra arena. Non importa quanto tempo passerà; nessuno uscirà fino a che la sfida non sarà conclusa -
Pierce annuì timidamente, come ad intendere che aveva seguito correttamente il filo del discorso. Pur disgustato dalla situazione, sapeva di dover tenere duro.
- ...ci costringerai ad ucciderci... -
- Esatto. Ma non sarà un gioco semplice nemmeno per me, credimi! - sospirò l'orso - Ho anche io i miei grattacapi... ed è qui che entri in scena tu! -
Pierce Lesdar intuì che la parte peggiore del discorso stava per arrivare.
- I-io...? -
- Vedi, caro Pierce, non è la prima volta che organizzo questa sfida - raccontò l'orso, con tono evocativo - E nelle altre edizioni ho sempre fatto in modo da avere qualche piccolo asso nella manica. Una sorta di... "garanzia" -
- Garanzia...? Per uno che ha il pieno controllo di questa sfida, fatico a trovare un motivo per averne una... -
- Oh, ma non parlo della mia sicurezza - lo corresse lui - Vedi, il gioco al massacro talvolta può trovare degli ostacoli al suo corretto svolgimento. E il problema principale è: capita che, all'inizio, gli studenti si rifiutino di partecipare -
Il ragazzo assunse uno sguardo di dubbia perplessità.
- Che cosa ti aspettavi? Che le persone inizino seriamente ad uccidere dei propri simili solo perché glielo hai ordinato tu? -
- Punto a tuo favore - concesse Monokuma - Ecco in che cosa consiste la garanzia, infatti. Se nessuno studente intende fare la prima mossa, allora farò in modo da offrire loro un punto di inizio. In parole povere... elargisco loro un motivo per agire -
Pierce iniziò a sudare freddo. Non erano necessarie parole esplicite per rendere chiaro quel concetto.
Se un assassinio non fosse avvenuto entro tempi stabiliti, lui lo avrebbe provocato.
E il sentirsi coinvolto in questo piano non lo fece sentire per niente tranquillo.
- ...vuoi costringermi ad uccidere qualcuno... per far cominciare la sfida...? - mormorò, incapace di credere che stesse accadendo davvero.
- Solo se sarà necessario, tranquillo! Ma se il gioco rimane fermo, ho bisogno che qualcuno dia una bella scossa alla situazione! - ridacchiò - Credimi, dopo il primo omicidio nessuno riesce più davvero a fidarsi degli altri, e il gioco assume un effetto valanga molto comodo! -
- S-smettila... - ringhiò il chirurgo - Smetti di chiamare "gioco" questa follia... e poi perché lo hai chiesto a me!? Me, tra tutti! -
- Oh, c'è un valido motivo per cui gli altri quindici sono ancora a nanna e ho voluto disturbare solo te - replicò Monokuma.
Ancora una volta, le frasi misteriose del pupazzo non facevano altro che appesantire quella grama sensazione di incombente pericolo.
- E quale... sarebbe? -
- Semplice: sei un grande esperto dell'anatomia umana. Uno come te avrebbe poche difficoltà ad escogitare un delitto preciso senza dare nell'occhio -
- Non prendermi IN GIRO! - gridò Pierce, adirato - Io sono un CHIRURGO! Il mio scopo è quello di guarire le persone, risanarle... non di UCCIDERLE! -
- Oh oh! Santo cielo, che temperamento caldo! -
- Se credi... - continuò l'Ultimate Surgeon - Se credi che accetterò le tue folli condizioni... ti sbagli di... -
- Ma ancora non hai sentito tutta la storia -
Si bloccò a metà della frase, incredulo.
- ...c'è anche dell'altro!? -
- Non essere sciocco! Non ti chiederei di certo una simile collaborazione... senza offrire niente in cambio! -
Pierce rimase in silenzio.
Non sapeva perché, né come, ma quelle parole avevano fatto breccia. Si sentì colpevole di aver pensato una cosa simile, ma si ritrovò invogliato ad ascoltare.
- ...mi offri qualcosa per la mia... collaborazione? -
- Beh, ovvio! Il tuo sarebbe un ruolo rischioso, e non avrebbe senso dartelo senza almeno darti un piccolo vantaggio tattico -
Pierce deglutì. Non gli piaceva, per niente.
Ma a quel punto non aveva più nemmeno molta scelta.
- ...va avanti -
- Oh oh! Ho catturato la tua curiosità? - il sorriso beffardo di Monokuma si fece più inquietante - Ascoltami attentamente, dunque. C'è una regola di cui ancora non sei a conoscenza. Qualora l'assassino venisse scoperto come artefice del misfatto, allora questi sarà punito. E con "punito" intendo "giustiziato" -
- Giustiz-... quindi chi fallisce viene ucciso...!? -
- Chi prende la vita altrui deve essere pronto a perdere la propria -
Un'espressione tristemente vera, ma che Pierce aveva sempre sperato di non doverci avere a che fare.
- E quel... "vantaggio" di cui mi parlavi? -
- Vedi, ragazzo mio, una volta che la sfida sarà cominciata voi sedici sarete sullo stesso piano; nella stessa identica posizione. Avrete a disposizione lo stesso spazio e gli stessi strumenti. In pratica, sarete alla pari. Dovrete affidarvi ai vostri talenti, a ciò che vi rende unici, per poterla spuntare. E qui entra in gioco la nostra piccola clausola privata - annuì Monokuma, soddisfatto del proprio piano - Se accetterai le mie condizioni... allora farò in modo da agevolare il tuo lavoro -
- "Agevolare"... non mi piace come hai sottolineato quel termine - disse Pierce, avvertendo un brivido gelido alla schiena.
- Oh, ma dovresti gradirlo, poiché intendo dire che io stesso interverrò in tuo favore rendendo l'omicidio più complicato e difficile da risolvere. E non solo! - proseguì imperterrito - Farò anche in modo da offrirti un'occasione piuttosto comoda per permetterti di agire. Ti basterà seguire le mie indicazioni e sarai un gradino sopra i tuoi avversari. Che ne dici? Un'offerta generosa, non trovi? -
Il sapore marcio e disgustoso di quella proposta fece sentire Pierce Lesdar ancora peggio di quanto non stesse già.
Di tutta risposta, lanciò uno sguardo di sfida all'orso.
- ...sei folle se pensi che potrei mai uccidere qualcuno -
- Ah, sì? - sogghignò lui - Tu dici? Ne sei estremamente convinto? -
- Credi che basti offrirmi un considerevole vantaggio per indurmi ad assassinare una persona? -
- Oh, no! No di certo - fece lui, senza perdere il suo tono di scherno - Perché non ne ho bisogno. Mi basta molto di meno per convincerti -
L'Ultimate Surgeon si paralizzò a quelle parole. Le sue pupille si ridussero a fessure.
Vi era qualcosa, nelle parole della creatura, che stavano lentamente penetrando nella sua testa, insediandosi nei suoi pensieri più reconditi.
- ...non sai di che parli - reagì spontaneamente Pierce.
- Lo so, invece. C'è, infatti, un secondo motivo per cui ho voluto scegliere, tra voi sedici, proprio te -
- Fandonie... lo ribadisco: io sono un chirurgo - ringhiò, serrando denti e pugni - Salvare la vita altrui è la mia priorità! Che motivo potresti avere per chiedere proprio a me di... -
- Pierce, basta con questa ridicola sceneggiata - sorrise Monokuma - Tu, tra tutti, sei quello più morbosamente attaccato alla vita. Non fare finta di niente -
Silenzio. L'apprendista chirurgo si era ammutolito.
Non sapeva se era semplicemente per via dell'assurdità delle parole del nemico o per il fatto che, nascosta dentro se stesso, una parte di lui si sentiva chiamata in causa, come colpita nel segno.
Pierce provò una sconcertante paura per il fatto che Monokuma potesse aver detto la verità.
- ...io sarei...? -
- In te si nasconde un fortissimo desiderio di sopravvivere. Io lo so bene - continuò l'orso, imperterrito - Certo, anche gli altri hanno un sacco di motivi per vivere. Ognuno di loro ha delle persone che desiderano rivedere, abbracciare, rassicurare. E' normale, perfettamente logico. Ma tu, Pierce... tu sei diverso. La sopravvivenza, per te, non è semplicemente un istinto basilare. E' un mantra, un credo privo di compromessi. Uno stile di vita. Tu DEVI sopravvivere, no? Te lo impone la tua professione! -
- ...smettila -
- Smetterla di fare cosa? Di enunciare la verità? - ribatté, senza volersi fermare - Tra voi sedici, solo uno potrà sopravvivere. E' un dato di fatto che non puoi cambiare solo volendolo. Non sarebbe meglio se... fossi tu a vincere? Se tu dovessi morire qui, chi curerà i tuoi pazienti? E non parlo solo di quelli presenti, ma anche di quelli futuri. Chi potrà mai guarirli se non l'erede della medicina moderna? -
- Ti ho detto di SMETTERLA! - tuonò l'altro.
I muscoli gli si contrassero, il respiro gli divenne più affannato.
Un vortice di pensieri in tempesta si abbatté sulla sua mente già stanca e in profondo conflitto.
Sentì il bisogno di alzarsi, di respirare; di prendere una boccata d'aria.
Guardò il soffitto, come a tentare di specchiarsi nella luce dell'unica lampadina presente. Come a voler cercare se stesso in un mondo in cui non sapeva più chi era.
Appoggiò la testa sul ripiano, inspirando lentamente.
Grattò nervosamente la pedana metallica con le unghie mentre la sua respirazione tornava alla normalità.
Socchiuse gli occhi.
- ...mi sorprendo nel sapere che mi conosci così bene -
Monokuma si mostrò compiaciuto.
- Te lo ho detto: sono previdente -
Lui sospirò.
- ...ho dei pazienti, a casa, che mi stanno aspettando - disse - Ho promesso loro che li avrei guariti. E ho promesso di farmi carico delle vite che non ho potuto salvare. Ho troppe promesse da mantenere... non posso ancora morire. Non qui, non ora -
- Quindi immagino... - disse l'orso, allungando la zampa verso la mano immobile di Pierce - ...che abbiamo un accordo? -
Pierce Lesdar dovette pensarci un'ultima volta. Stava per compiere un'altra promessa, ma non del tipo a cui era abituato.
Aveva giurato numerose volte che avrebbe dato tutto se stesso per proteggere delle vite.
In quel momento, realizzò di star promettendo di spezzarle.
Stava giurando che avrebbe ucciso.
- ...dimmi cosa devo fare -
Allungò le dita verso l'artiglio di Monokuma, stringendolo senza troppa convinzione.
Il conflitto interno di Pierce Lesdar iniziò a logorarlo fin dal principio.
Monokuma indietreggiò di appena due passi, sfoggiando un sorriso tronfio e soddisfatto.
Aveva ottenuto ciò che voleva, e non avrebbe mancato di darlo a vedere.
- Perfetto... - sogghignò - Il patto è suggellato. Non restano che gli ultimi ritocchi! -
L'ennesima pessima, orripilante sensazione di disagio che Pierce assaporò quel funesto giorno.
- A cosa alludi...? -
- Ti ho detto che ti avrei aiutato, ma solo al momento opportuno - spiegò lui - Fino a quando verrà, avrò bisogno che tu sia esattamente allo stesso livello degli altri -
- Come...? Ma avevi detto che...! -
- Oh, non ti ho mentito. Quando arriverà la tua occasione per uccidere, avrai il mio supporto. Ma verresti immediatamente scoperto se tutti sapessero che sei un chirurgo, no? Dobbiamo sfruttare il tuo talento in modo celato, e ho in mente una strategia perfetta -
- E di che si tratta...!? -
Un rumore sospetto da sotto il tavolo metallico lo fece sobbalzare.
Senza attendere una risposta concisa, delle braccia meccaniche si sollevarono dal basso reggendo alcuni strumenti dall'aspetto familiare ma al contempo pauroso.
- ...annullerò temporaneamente la tua personalità! -
- COSA!? - gridò lui - FERMO! I patti non erano...! -
- I patti non riguardavano minimamente questo dettaglio, mio caro! - replicò l'orso, ridendo di gusto - Sono pur sempre l'organizzatore della sfida, quindi mi prendo la libertà di apportare qualche piccolo ma significativo cambiamento! -
L'impulso di liberarsi si fece sempre più forte, ma fu tutto inutile.
Le catene che lo vincolavano erano troppo spesse e salde; Pierce Lesdar era in trappola.
- Che cosa... che cosa mi farai...!? -
- Considerala un'ulteriore... "precauzione" - disse - Dimenticherai questa nostra conversazione ed entrerai nella sfida credendo di essere esattamente nella stessa situazione degli altri. In questo modo eviterò un tuo... possibile tradimento -
- Credi che, nella mia situazione, io possa...!? -
- Oh, lascia che ti dica una cosa. Prima regola della vita: non fidarti mai di nessuno - annuì Monokuma - Sii cauto e non giungeranno imprevisti a romperti le uova nel paniere. Inoltre, con la tua nuova identità, nessuno potrà risalire al tuo vero talento! Sarai in una botte di ferro, piccolo Pierce! -
La forza e la volontà di opporsi vennero meno quando l'androide gli piazzò sul volto una maschera da respirazione.
Comprese ciò che Monokuma gli stava facendo inalare solo quando la sua mente cominciò nuovamente ad annebbiarsi e il suo cervello a non reagire agli stimoli.
Si stava addormentando, portandosi nel cuore un grosso fardello.
Pierce Lesdar aveva paura: paura di non svegliarsi mai più, paura di ciò che sarebbe accaduto con quell'alleanza, paura di uccidere, paura di morire.
Con troppe domande e con nessun desiderio di voler trovare loro una risposta, l'Ultimate Surgeon si addormentò profondamente senza immaginare che avrebbe riaperto gli occhi solo un mese dopo.
Monokuma osservò la sua vittima mentre le sue palpebre si accingevano a chiudersi.
Ne rimirò il volto contratto e sofferente, gustandone con gioia la vista.
Il suo occhio meccanico brillò intensamente una seconda volta; un barlume rosso sangue illuminò la stanza per ciò che fu un attimo fugace.
- ...nessuno potrà scoprire la tua vera identità, Pierce - ridacchiò tra sé - Nessuno... tranne lui! -




Un mese dopo




Pierce Lesdar riaprì gli occhi di scatto.
Rimase immobile, in piedi, a contemplare con sguardo vacuo la propria situazione.
Si sentiva come appena risvegliato da un sogno; immagini, suoni e sensazioni indistinti si accavallarono nella sua mente senza creare un contesto.
Era un flusso di pensieri slegato dai suoi ricordi che gli inondò la testa con violenza.
Si portò le mani alla fronte, gemendo dal dolore: aveva una forte fitta alla tempia, e gli sembrò che il cervello gli stesse per scoppiare.
Il dolore venne lenito dal tempo, e pian piano Pierce tornò lucido e stabile.
Appoggiò istintivamente la mano sul tavolo davanti a sé, cercando un sostegno.
Si guardò attorno: la stanza in cui si trovava era luminosa e piena di mobili dai colori bianco e azzurro chiaro.
Vi erano alcune apparecchiature e diversi cassetti con etichette, mensole colme di ampolle dalle più svariate forme e misure, e scaffali sui quali vi erano ciò che Pierce identificò come medicinali. Sembrava un laboratorio, ma capì che doveva trattarsi di un'infermeria.
Il tavolo su cui si era appoggiato, inoltre, era pervaso da una gran confusione e disordine.
Fogli, boccette sporche e macchie ne cospargevano l'intera superficie.
Era ancora tutto confuso, ma gli ultimi ricordi che aveva stavano riaffiorando nella sua testa poco alla volta.
Uno in particolare, però, si manifestò in forma fisica con suo enorme stupore.
Alle sue spalle comparve la piccola figura di Monokuma, giunto da chissà dove.
Si lasciò sfuggire un gemito di stupore nel vederlo apparire in quel modo.
- Bentornato, Pierce - lo salutò l'orso.
Pierce Lesdar intuì che lo scopo del robot non fosse quello di coglierlo di sorpresa senza altri fini.
- ...ancora tu - mormorò - Dove mi trovo? -
- Prenditi qualche minuto per rinfrescarti le idee - gli suggerì lui - Dopotutto... hai dormito per un mese intero! -
Il chirurgo alzò un sopracciglio, senza reagire a quell'asserzione completamente assurda.
La sua smorfia di incredulità riempì Monokuma di insoddisfazione. Era palese che si aspettasse una reazione ben diversa.
- Mi prendi in giro? -
- Per niente! Faceva parte del nostro piccolo accordo, rimembri? - gli fece lui, sogghignando - Ti ho creato una personalità alternativa alterando i tuoi ricordi, in modo che nessuno potesse sospettare di te. E devo dirlo: te la sei cavata benone! -
Ad un tratto, qualcosa nella mente di Pierce scattò. L'ultima parte della loro conversazione di un mese prima gli ritornò alla mente, e ricordò tutto.
Ricordò perfettamente ciò che Monokuma gli aveva rivelato prima di addormentarlo.
- Tu mi hai... cambiato i ricordi!? - tuonò lui.
- Te lo ho detto, avevo diversi motivi per farlo - gli rammentò lui - In questo modo ho permesso che partecipassi alla sfida senza darti vantaggi di informazioni e ho prevenuto un tuo possibile tradimento -
- La sfida... ma certo, la sfida! - spalancò gli occhi - Adesso mi trovo... nel gioco al massacro!? -
- Esatto! Ma non temere, per adesso sei al sicuro - annuì Monokuma - Nessuno farà la sua mossa così presto ora che siete rimasti solo in sette -
Un pesante grumo di saliva gli discese per l'esofago. Pierce avvertì un malessere generale fin nelle viscere.
- S-sette...? Vuoi dire che nove persone sono già... morte? -
L'occhio rossastro di Monokuma brillò di una luce sospetta.
- Morte, sì! Assassinate! - esclamò - E sarà meglio che ti abitui all'idea perché è giunto il tuo turno, caro Pierce -
Lo sguardo del giovane si fece serissimo.
- Il mio turno... - mormorò - Vuoi che uccida qualcuno, in pratica... -
- Precisamente. Ma ti ho promesso un aiuto, ed è ciò che ti darò - disse lui - Innanzitutto, prendi questa. E' una mappa della scuola; ti sarà utile -
Pierce afferrò tra le mani il pezzo di carta; su entrambi i lati erano disegnati tratti a matita che segnavano la posizione di tutti i corridoi e le stanze.
Diede una rapida occhiata: lo spazio utilizzabile si disponeva sui due piani della scuola, che erano gli unici accessibili.
Poi, notò un ulteriore dettaglio: una delle stanze del primo piano era stata marchiata con una croce rossa.
- ...cos'è questa? -
- Quello, Pierce, è il luogo in cui si trova il tuo bersaglio - dichiarò Monokuma.
Il ragazzo si grattò nervosamente il collo sudato.
- ...il mio obiettivo... la persona che devo uccidere -
- I corridoi sono vuoti; tutti gli altri sono già tornati nelle loro stanze - spiegò l'orso - Se vuoi agire, ora è il momento perfetto -
- "Se" voglio? Non credo di avere molta scelta... -
- Oh, beh, avevamo un patto, sì... - ridacchiò Monokuma - Ma si tratta pur sempre di omicidio. Non mi meraviglierei se volessi tirarti indietro all'ultimo... -
Pierce si morse il labbro. Sapeva bene che quelle parole apparentemente premurose del nemico erano false e provocatorie.
Aveva fatto la propria scelta, e sarebbe andato fino in fondo; anche Monokuma lo sapeva bene.
- ...piantala con questa sceneggiata. Ci andrò... -
- Heh... ci avrei scommesso. Sei davvero una persona zelante, Pierce Lesdar! - lo canzonò lui - Dunque, se stai per recarti lì avrai bisogno di... questi -
A quel punto, Monokuma elargì al complice tre altri doni.
Tra le sue zampe bianche e nere, Pierce intravide una boccetta di vetro e un bisturi su quella destra e un minuscolo dispositivo cilindrico dal colore nerastro sulla sinistra.
Nessuna delle tre cose gli fece presagire alcunché di positivo.
- Cosa sono...? -
- Questo è il tuo "bonus". In questo flacone è contenuto un composto creato direttamente dall'Ultimate Chemist - spiegò l'orso - Glielo ho sgraffignato senza che se ne  accorgesse; contiene un liquido capace di mettere fuori combattimento per diverse ore chiunque ne assuma un po'. E' un'arma non letale, ma pur sempre un'arma. Usala con attenzione -
Prendendolo in mano, Pierce ne osservò il contenuto bianco tenue. Che qualcosa di simile fosse stato creato da qualcuno della sua età gli sembrò spaventoso.
Non ebbe bisogno di spiegazioni su cosa fosse il bisturi: era uno strumento familiare, ma che in quella situazione poteva rivelarsi un'arma impropria.
Ciò di certo non gli migliorò l'umore.
- ...e quell'altro affare? -
- Questo è... beh, uno strumento utile, ma non necessario - disse Monokuma, grattandosi la nuca con la zampa goffa - E' un emettitore di onde elettromagnetiche. 
Se inserito nel cranio di qualcuno, mi permetterà di assumere temporaneamente il controllo del cervello di quella persona, tramite alcuni impulsi speciali -
Pierce stette a sentire quella bislacca spiegazione incapace di credere a come Monokuma fosse convinto di farsi prendere sul serio.
- Mi prendi in giro? - domandò, interdetto.
- Non sottovalutarmi! Dispositivi simili esistono sul serio! - strepitò l'orso - Di che ti sorprendi? Hai di fronte a te un orso automatizzato che ti ha alterato le memorie.
Oramai dovresti poter credere a qualunque cosa! -
Il ragazzo fece per rispondere a tono, ma si trovò effettivamente incapace di contravvenire a quell'insulsa logica.
Si costrinse ad accettare quella storia come veritiera.
- E perché mai dovresti prenderti il disturbo di farlo? -
- Consideralo un premio per i tuoi sforzi - annuì il pupazzo - Puoi tranquillamente decidere di non utilizzarlo, ma se invece lo adoperassi andrebbe a tuo vantaggio. Alto rischio, alta ricompensa! -
- E sentiamo... come pensi che io possa ficcarglielo nella testa? -
- Oh, non dirai sul serio? Sei l'Ultimate Surgeon! Questo è il tuo pane quotidiano! -
- Senza strumenti o altro non potrò mai... -
- Guardati in tasca - lo interruppe Monokuma.
Pierce si bloccò a metà frase. Malvolentieri, pescò nella tasca dei propri pantaloni cercando a tentoni con la mano.
Le sue dita afferrarono qualcosa. Si trattava di un rocchetto con del sottilissimo filo quasi trasparente.
Era così fine che a stento era possibile individuarlo ad occhio nudo, ma non per questo era meno resistente.
Pierce ne riconobbe la fattura; si meravigliò che l'orso potesse avere accesso a qualcosa di simile.
Accanto al rocchetto, inoltre, era legato un ago lungo e affilato. 
- Non hai bisogno d'altro, dico bene? - rise Monokuma, pregustando quel momento.
- ...no - fu la semplice risposta del giovane.
- Allora farai meglio a sbrigarti - lo incitò lui - Hai un'ora di tempo; dopo di che tornerai ad essere "l'altro Pierce" -
La notizia lo infastidì non poco.
- E' proprio necessario? -
- Beh, sarebbe parecchio strano se improvvisamente i tuoi compagni si trovassero di fronte un Pierce che non ha la più pallida idea di chi loro siano, dico bene? -
Ancora una volta, l'Ultimate Surgeon non riuscì a trovare modo di controbattere.
Prese tutto ciò che gli era stato fornito e si avviò verso l'uscita dell'infermeria; il tempo gli era a sfavore, e non ne aveva da perdere.
Prima di congedarsi definitivamente dalla mostruosità dalle fattezze d'orso, si voltò un'ultima volta verso di lei.
- ...dimmi un'ultima cosa -
- Mh? Di che si tratta? -
Il ragazzo esitò.
- ...quel tipo, "l'altro Pierce" - disse - Che tipo è? -
Monokuma attese prima di rispondere. Scrutò per bene lo sguardo di Pierce Lesdar, chiedendosi se quella domanda non avesse chissà quale doppio fine.
Ma capì che così non era. Gli occhi di Pierce erano tristi e vuoti.
Quella era la domanda di una persona che, prima di abbandonare la propria umanità, voleva togliersi un ultimo dubbio.
- ...è un ragazzo timido, ma leale - disse Monokuma - Sveglio, ma un po' pauroso. Tiene molto ai suoi amici, e farebbe qualunque cosa per loro -
Il giovane annuì.
Era un responso dall'esito dolce e amaro.
Per un istante, solo per un istante, Pierce Lesdar si chiese se avrebbe mai potuto essere quel ragazzo, un giorno.
Si domandò se non fosse meglio che fosse il Pierce sincero e premuroso ad esistere in quel mondo.
Scacciò violentemente quei pensieri.
"...ho troppe promesse da mantenere, troppe parole da rispettare, troppe vite da salvare. Devo farlo... devo farlo... devo... farlo..."
Col cuore in gola, l'Ultimate Surgeon si avventurò lungo i corridoi della Hope's Peak Academy per affrontare quell'ultima prova, mentre Monokuma svanì lentamente tra le ombre della stanza, emettendo una risata soffusa e maliziosa.
Era sera tarda, e tutto taceva.




Karol Clouds aveva appena riposto il gessetto sul bordo della lavagna quando udì un cigolio improvviso alle proprie spalle.
Si voltò di scatto; una visita a quell'orario era insolita quanto sospetta.
Il suo cuore palpitò rapidamente per alcuni istanti, la tensione aumentò.
Non appena la porta si fu aperta del tutto, rivelò la sagoma di Pierce Lesdar.
L'Ultimate Teacher lo squadrò da cima a fondo: non era la prima volta che Pierce vagabondava da solo per i corridoi, per quanto non fosse un tipo incauto, ma non era neanche conosciuto per approcciare gli altri di sua spontanea iniziativa.
Si domandò il motivo della sua presenza lì, ma vi era anche altro a cui pensare.
Una strana, spiacevole sensazione gli percorse la schiena. Era giunto il momento di una nuova verifica.
- ...Pierce, sei tu - fece Karol, mostrandosi calmo e impassibile - Che cosa ci fai qui a quest'ora? -
L'Ultimate Sewer non rispose; si limitò a lanciargli uno sguardo vacuo.
Vi furono alcuni momenti di pesante silenzio. Il presagio di Karol non accennava ad andare via.
Il modo di fare taciturno di Pierce non era consueto; stava accadendo qualcosa, ed ignorava di cosa si trattasse.
- Pierce...? Che sta succedendo? -
Non appena lo disse, notò un rapido movimento di mano da parte del compagno.
La mando sinistra di Pierce scivolò lungo il chiavistello della porta, serrandolo dall'interno. La porta era sigillata.
Era oramai chiaro agli occhi dell'Ultimate Teacher; stava per accadere qualcosa di innaturale.
Si mise istintivamente sulla difensiva, allarmando ogni suo senso di stare all'erta.
- Che cosa significa tutto questo...? - gli chiese, con voce alterata - Che stai facendo!? -
A quel punto, il ragazzo davanti a lui si esibì in un lento movimento della schiena, incurvandola in avanti.
L'inchino di Pierce gli parve anomalo e fuori luogo, per quanto fosse impeccabilmente formale.
Per un istante, quella strana combinazione di eventi lasciò Karol spaesato e confuso.
- ...sono venuto... - mormorò Pierce - ...a chiederti perdono -
L'insegnante non smise nemmeno per un istante di avere timore di quanto stava accadendo, ma si lasciò incuriosire da quella frase misteriosa.
- "Perdono"? Di che stai parlando? -
- Ascolta... ci sono alcune cose che devo fare; promesse che devo mantenere, persone che devo salvare - cominciò Lesdar, senza fornire spiegazioni anticipate - Numerosi pazienti attendono il mio ritorno a casa... ho giurato loro che li avrei curati. Non può essere nessun altro a farlo: devo essere io. Io mi sono sobbarcato il peso del loro futuro, così come l'onere di tutte le persone che si sono spente durante i miei interventi -
- Pierce...!? - esclamò Karol - Ma che stai...!? -
- Non posso morire. Non qui, non ora. Devo sopravvivere - sospirò lui - La mia sopravvivenza potrebbe significare la salvezza di centinaia di persone. Sapendo ciò... anche se è solo una possibilità, non posso ignorarla! Io, il migliore del mio campo, sono la loro unica speranza! Capisci!? Non posso arrendermi, e non lo farò! -
Karol Clouds strinse i pugni con forza, fino ad arrossarseli. Piantò le sue stesse unghie nella propria carne, tanta era la foga.
Rivolse verso Pierce uno sguardo di morte e collera; un'ira così cieca che avrebbe intimidito anche i più impavidi.
- ...era tutto vero. Dalla prima all'ultima riga... - mormorò Karol con rabbia - Tu sei l'Ultimate Surgeon, Pierce Lesdar... ci hai mentito per tutto questo tempo...! -
Il chirurgo aggrottò le sopracciglia; era certo che Monokuma avesse tenuto segreta la sua identità, ma era evidente che così non fosse.
Si domandò se il motivo per cui quel ragazzo dai capelli lunghi e biondi e l'aspetto raffinato fosse diventato il suo bersaglio non avesse a che fare con tutto ciò.
- ...sì, sono l'Ultimate Surgeon: l'erede della medicina moderna. Il mio destino è di salvare l'umanità dalla piaga della morte - fremette lui - Per questo scopo, tu dovrai morire. Vengo a chiederti perdono perché sacrificherò la tua vita in favore del bene comune... spero con il cuore che tu possa capirmi -
Karol mosse un semplice passo in avanti; fu un movimento tonante, che scosse i banchi vicini a lui.
Il suo braccio si contrasse, così come i muscoli e le fibre che lo componevano.
Gli occhi dell'Ultimate Teacher si erano infiammati, rivelando un volto ottenebrato dalla rabbia più pura.
- Traditore... - masticò ogni sillaba di quella parola - Sembra che... la lezione all'ordine del giorno ti riguardi personalmente... -
Karol appoggiò la mano sulla lavagna alle proprie spalle, mettendo l'accento sulla frase che aveva appena terminato di scrivere.
La scritta "C'E' UN TRADITORE IN MEZZO A NOI" era stata ricalcata più volte con del gesso, in modo da essere posta in evidenza.
Non vi fu spazio per incertezze: quell'incontro non era un qualcosa che l'Ultimate Teacher non si aspettava. Vi era stato solo il dubbio del chi.
Pierce emise un sospiro; non si sarebbe atteso nulla di diverso da quella reazione.
- Proteggerò il futuro delle persone. E' lo scopo della mia vita! - esclamò, mettendosi in guardia.
- ...io ho... degli studenti che contano su di me - sibilò furente Karol, muovendo un altro passo in avanti - Sono i miei preziosi alunni... hanno affrontato un mese orrendo in balia di morte, paura e frustrazione... hanno fatto affidamento su di me affinché li guidassi... e non li deluderò. Non di nuovo. Io sono il loro INSEGNANTE! IO LI PROTEGGERO' TUTTI! PROTEGGERO' IL LORO PRESENTE! IN GUARDIA, TRADITORE! -
La mano di Karol si allungò fino a raggiungere la sedia più vicina.
Strinse il pugno attorno ad una delle gambe in metallo e la sollevò da terra; le vene del braccio si gonfiarono all'inverosimile.
Tenendola saldamente nella mano, iniziò a correre.
Corse in avanti, con passi sempre più lunghi e furiosi. In appena una manciata di secondi si ritrovò davanti a Pierce.
Contrasse il braccio e schiantò la sedia sul punto in cui si trovava l'Ultimate Surgeon.
Questi si ritrovò costretto ad indietreggiare all'ultimo secondo, evitando il colpo mortale per un soffio.
Gli bastò osservare il tremendo impatto provocato dalla collisione della sedia con il pavimento per capire che gli sarebbe bastato essere sfiorato per essere ucciso.
Karol non si arrese; con la stessa mano indirizzò un colpo dal basso verso l'alto, colpendo di striscio Pierce sul mento.
Il chirurgo gli rovesciò addosso un banco, ma l'Ultimate Teacher lo respinse con un calcio ben assestato; nel frattempo, la sua mano libera aveva afferrato un'altra sedia.
Sferrò colpi senza sosta, incurante di ciò che avrebbe potuto colpire o danneggiare.
Ogni singola fibra del suo corpo era concentrata nel colpire il nemico con un singolo attacco; uno solo, ben piazzato.
Pierce Lesdar diede sfoggio di ottimi riflessi, ma era una tattica destinata a fallire rapidamente. 
Karol lo aveva portato lì dove voleva, e si apprestò a dare il colpo di grazia.
Con un movimento rapido, lanciò entrambe le sedie verso di lui utilizzando tutta la propria forza.
Pur schivandone una, l'Ultimate Surgeon non fu capace di evitare anche la seconda. 
Alzò le mani al petto per proteggersi, ma l'impatto lo fece tentennare abbastanza da garantire a Karol un'apertura.
L'insegnante si tuffò su di lui, travolgendolo con forza sovrumana. 
Pierce capitolò a terra, non ricevendo nemmeno una singola opportunità per rialzarsi; le mani di Karol Clouds erano già serrate sulla sua gola.
Strinse la presa sul collo di Pierce con tutte le proprie forze, poggiando il proprio corpo sul suo per imprimere più pressione.
La vista di Pierce gli si annebbiò vagamente, segno che il cervello lo stava disperatamente implorando di far passare sangue e ossigeno.
Piazzò istintivamente le mani sui polsi di Karol, facendo forza per contrastare il suo attacco.
Fu proprio quando fu sul punto di reclamare la propria vittoria che Karol Clouds avvertì un'improvvisa fitta alla testa.
Sentì un vago dolore, un formicolio fastidioso. Una sensazione tenue, ma che andava ad imporsi prepotentemente sui suoi sensi man mano che i secondi trascorrevano.
Incapace di capire a cosa fosse dovuto, si limitò a stringere le dita attorno alla gola di Pierce con ancora più forza.
Ma non ci riuscì; anzi, gli sembrava che le energie gli venissero meno.
Un senso di terrore lo assalì; non capiva, non riusciva a comprendere cosa gli stesse accadendo.
Poi, lo vide. Vide una scintilla negli occhi di Pierce, che stava gradualmente guadagnando terreno.
Spostò infine lo sguardo sui propri polsi, sul punto in cui le esili mani del chirurgo erano piazzate. 
Un minuscolo, sottile rivolo di sangue stava colando da quel punto.
Sentì un'altra fitta di dolore provenire da quel punto; stavolta più pungente, quasi come bruciasse.
I suoi occhi osservarono paralizzati ciò che si era appena conficcato nella sua carne: un ago, nascosto nella manica dell'avversario, grondante di una sostanza biancastra di cui era intriso. 
- T-tu... maledetto... - gemette, realizzando il trucco.
Le braccia iniziarono a perdere sensibilità; poi toccò alle gambe, e al resto del corpo. La sensazione di debolezza e di pesantezza si sparse a macchia d'olio, lasciando Karol un tragico ruolo da spettatore impotente.
Pierce riuscì infine a divincolarsi dalle mani tremanti e indebolite di Karol, spingendolo a terra con un calcio.
L'Ultimate Teacher rovinò al suolo, tossicchiando; anche la vista iniziava ad annebbiarsi, e con la paura giunse un senso di inevitabile perdizione.
Sollevò gli occhi verso il soffitto: tutto ciò che vide era la luce soffusa della lampadina e i due occhi dell'Ultimate Surgeon che, oscurati dalla penombra del suo viso, lo scrutavano accennando pietà. Erano gli occhi di qualcuno che sapeva di aver vinto, pur non traendone gioia.
"Ah... no... non doveva finire così..." pensò, combattendo il sonno e il torpore con ogni briciolo di energia rimasta "I miei studenti... i miei... preziosi... studenti... non sono riuscito a proteggerli... non sono... non... aah... professoressa... Nebiur... so... sono... stato... un buon insegnante........?"



Non appena gli occhi di Karol si spensero del tutto, Pierce riuscì a tirare un sospiro di sollievo.
Si massaggiò il collo, respirando a pieni polmoni tutta l'aria che riusciva avidamente ad inalare.
Si appoggiò ad un banco per recuperare le forze; era sudato e ancora impaurito.
Aveva scommesso tutto su quell'unico stratagemma, pur sapendo che avrebbe potuto fallire. Il fatto che aveva camminato sull'orlo del baratro della morte consolidò quella sua preoccupazione.
Diede un ultimo sguardo al corpo svenuto del suo avversario.
"...sapeva il mio nome... è uno dei partecipanti che ha vissuto con l'altro Pierce..." pensò lui, attanagliato da un sentore di tristezza.
Nonostante l'aver ripetuto più volte di voler sopravvivere a tutti i costi, gli fu comunque difficile trovare la forza per proseguire quel piano.
Ma oramai era troppo tardi per tornare indietro: lo aveva realizzato nel momento stesso in cui aveva assaporato la furia cieca dell'Ultimate Teacher.
Pierce Lesdar si convinse di avere una sola via di fuga, ed era lì davanti a lui.
Riprese le forze, afferrò Karol per le braccia e lo trascinò fino alla cattedra, posizionandolo sopra di essa.
Era un letto operatorio di fortuna, ma se lo sarebbe fatto bastare.
Estrasse ago e filo dalla tasca e li poggiò accanto alla testa. Poi passò ad esaminare i cassetti della scrivania per cercare qualunque cosa avrebbe potuto aiutarlo.
Un paio di forbici dalla punta affilata fu tutto ciò che reputò di una certa utilità.
A cose fatte, si portò di fianco al corpo inibito del compagno.
Infine, estrasse l'ultimo pezzo del puzzle: il dispositivo nero. Il cuore gli palpitò a mille.
Aveva una vaga idea di ciò che sarebbe accaduto, e ciò lo spaventava. 
Afferrò il bisturi con la mano tremante, preparandosi all'incisione. Aveva solo alcuni balsami presi in prestito dall'infermeria, ma nessuna strumentazione adatta a qualcosa del genere. Si sarebbe dovuto affidare alle proprie capacità per poter realizzare il miracolo.
Socchiuse gli occhi, e inspirò profondamente.
- ...ti chiedo perdono... - ripeté più volte - Perdonami... perdonami... non volevo tutto questo, perdonami... -
Abbassò lo sguardo, rivelando due occhi che oramai avevano accettato il proprio fato.
La soglia tra l'umanità e il diabolico era stata superata e abolita.
Rimaneva solo la volontà, la determinazione. La sopravvivenza.
- ...cominciamo -


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Capitolo 55
*** Capitolo 5 - Ultima Parte ***


Xavier rimirò l'orrida scena davanti a sé col cuore colmo di frustrazione.
Con l'emissione del verdetto, l'incubo sarebbe dovuto terminare; per lui non era che appena cominciato.
Strinse violentemente i pugni e abbassò lo sguardo, come a rifuggire dalla propria impotenza.
Pierce Lesdar si era ridotto ad una larva: il volto completamente bianco e le occhiaie risaltavano sull'ammasso inerte e vacillante che era il suo corpo.
Si era rannicchiato in sé stesso, in ginocchio, con la testa raccolta nella febbrile stretta delle sue mani tremanti.
Soffocato da lacrime e bisbiglii incomprensibili, Pierce risultava irriconoscibile.
Gli altri quattro compagni gli si radunarono attorno uno alla volta. Xavier li fissò uno alla volta; non vi era odio nei loro occhi.
Vi era sofferenza e incredulità in quelli di Judith, così come June mostrava una forte e viscerale empatia nei confronti di quel ragazzo distrutto.
Pearl, nonostante fosse ancora scossa dal modo in cui il processo si era evoluto e rovinosamente precipitato nel caos, venne colta dall'istintivo bisogno di porgergli una spalla amica. Ma la pesante atmosfera e gli irrefrenabili singhiozzi dell'Ultimate Surgeon le impedirono di realizzare quel gesto innocente.
Persino Michael aveva perduto la sua solita espressione sprezzante e iraconda. Dietro le lenti di vetro che portava in volto si celavano due occhi che emanavano più comprensione di quanta non ne dimostrasse in realtà.
Xavier lo squadrò per bene; vi era una coltre di tristezza persino in Michael Schwarz, sebbene si figurò fosse difficile farglielo ammettere.
Ma per quanto i cinque studenti potessero avere ancora dubbi ed incertezze su ciò che provavano, una cosa era ben chiara e definitiva.
Il voto era stato dato, il verdetto dichiarato esatto, e il processo era concluso.
Un rumore statico interruppe il silenzio formatosi, e una sagoma poco gradita fece capolino torreggiando sopra le loro teste dallo schermo del tribunale.
- ...incredibile, stupefacente! - fece la voce squillante dell'orso - Nonostante tutto, siete comunque riusciti a risolvere il caso! Sono sinceramente colpito! -
- Monokuma... - sibilò Xavier - Esigiamo delle spiegazioni... qual è il tuo ruolo in tutta questa faccenda!? -
- Già! Devi necessariamente averci messo lo zampino! - gridò June, esacerbata - Che cosa hai fatto a Pierce!? -
L'androide li sbeffeggiò con superbia, ridendo loro in volto con gusto.
- Beh, non posso negare di essermi reso partecipe in questa faccenda, ma io non ho assolutamente agito in maniera diretta -
- Spiegati meglio... - mormorò Pearl, facendo scrocchiare le dita di una mano.
Un sorriso più largo e malvagio comparve sullo schermo.
- E' molto semplice: ho offerto a Pierce i mezzi per poter compiere un delitto pulito ed efficiente in cambio della sua collaborazione! - esclamò, divertito.
- Cosa!? Collaborazione!? - reagì Michael - Quindi era davvero...!? Pierce è il traditore! -
- Per avervi tradito, vi ha tradito, sì - annuì l'orso - Ho promesso a Pierce che lo avrei agevolato se lui avesse accettato di dare una scossa alla sfida in caso di stallo.
E ha fatto un lavoro splendido, oserei dire! Peccato che abbia avuto a che fare con dei giovani così promettenti... il nostro piano è andato in fumo! -
Una voce alle spalle del gruppo si fece improvvisamente sentire con la poca energia che ancora aveva in sé.
- ...fandonie... -
Le orecchie d'orso del pupazzo si drizzarono.
- Oh? Come, prego? La nostra stella ha parlato? -
- STRONZATE! - gridò Pierce, battendo i pugni a terra - IO NON HO UCCISO NESSUNO! NESSUNO! Smettila di dire assurdità! Io... io non ho mai accettato un patto così folle...! -
- Aww, quasi dimenticavo il dettaglio più importante...! - disse Monokuma, grattandosi la nuca con fare poco curante.
- S-sarebbe a dire...? - chiese Judith, temendo la risposta.
- Beh, che avete azzeccato anche un altro punto cruciale: ho modificato i ricordi di Pierce per bilanciare i suoi privilegi. Mi avete beccato! -
Xavier si morse il labbro; non era più certo di voler avere ragione, a quel punto.
- ...dunque era tutto vero... - mormorò il detective - Gli hai manomesso il cervello... così come hai fatto con Karol...! -
- Ma perché!? - strepitò June, trattenendo le lacrime - Era necessario spingersi a tal punto!? -
- Ragazzi miei, non dubitate della logica del mio operato - si giustificò l'orso - Avevo necessità di tenere a bada Pierce; sapeva troppe cose che avrebbe potuto usare per tradirmi e aiutare voi. Al contempo, avrebbe potuto usare le sue nozioni per avvantaggiare se stesso. Inoltre, avevo bisogno che tutti voi, Pierce compreso, foste convinti del suo essere l'Ultimate Sewer per mettere a punto il nostro piano d'azione. Ed infatti ha funzionato; eravate sul punto di votare per Judith e Pearl! -
- Io SONO l'Ultimate Sewer! - intervenne nuovamente Pierce - Piantala con queste IDIOZIE! -
- Bah! Non ti rendi conto neppure adesso di qual è la verità? - sbuffò Monokuma - Sei solo un costrutto fasullo. Un ammasso di ricordi che ha appena un mese di vita creato solo con lo scopo di essere un diversivo -
Pierce esitò, mentre le sue pupille si assottigliavano; quelle parole lo avevano scosso in maniera evidente.
- Io... cosa? Non mentire... io sono Pierce Lesdar... Ultimate Sewer... io... IO SONO...! -
- "Io sono"!? Tu non esisti neppure! - urlò il robot, spazientito - Non sei mai esistito! Sei un falso, un surrogato! Ti ho creato io col solo fine di fare da copertura ad un altro studente! E hai fatto bene la tua parte, ma ora sei spazzatura! -
- Ora stai passando il segno... - il volto di Pearl Crowngale si era scurito di botto - Calpesta la vita altrui a tuo rischio e pericolo, mostro immondo... -
- E chi è che mi sta minacciando? - rise Monokuma - Parli grosso, ma sei esattamente come quel falso laggiù: una pedina ininfluente! -
- Io... non sono "falso"... - si impose debolmente Pierce, strascicando il suo corpo lungo il pavimento - Smettila di dire che non sono reale... e tutti i miei ricordi...? -
- Ancora con questa storia? Sono tutti una fabbricazione! Te ne saresti dovuto rendere conto dal fatto che la tua vita è una miscela di memorie alla rinfusa che ho messo un po' a casaccio! E il tuo "talento"? Non sapresti ricamare come si deve nemmeno un calzino bucato! -
- Ma perché...? - singhiozzò June Harrier, avvilita - Perché Pierce avrebbe stretto un patto con Monokuma...? Per quale motivo avrebbe accettato di collaborare con un mostro simile!? -
- Non equivocare, sparafrecce - le rispose Monokuma - Il vero Pierce è una persona molto diversa da quello che conoscete voi. In lui era fortissimo il desiderio di sopravvivere, e ciò lo ha portato a fare una scelta; come molti di voi, del resto -
- Un tale attaccamento alla vita... - mormorò Judith, ipnotizzata da quel concetto - Per lui vivere era così importante da fargli decidere di uccidere...? -
- Altroché! Era una sorta di suo mantra personale - rettificò Monokuma - E io avevo giusto bisogno di una garanzia per far andare avanti il gioco senza intoppi. Era il complice ideale -
- Ma per favore! -
Il tono sprezzante dell'Ultimate Chemist fu così roboante che tutti finirono per voltarsi verso di lui.
Michael Schwarz calamitò l'attenzione dei presenti; aveva un'espressione di dubbia identità, misto tra collera e sospetto.
- Un'altra voce nel mucchio... - sospirò Monokuma.
- Taci, orso! Non fai altro che dire fesserie per mascherare le tue reali intenzioni! - lo accusò lui.
- Oh? Di cosa vai cianciando, topo da laboratorio!? -
- La tua "garanzia di successo"? Il tuo scopo sarebbe "far andare avanti la sfida senza intoppi"? Ridicolo, non farmi ridere! - 
- Mike, credi che avesse un altro fine? - gli domandò Xavier, intuendo che il compagno sapesse perfettamente ciò di cui stava parlando - Un ulteriore motivo per usare Pierce? -
- Bah! Pensateci! - li incalzò lui - Se davvero il suo scopo era di far proseguire la sfida, perché sfoderare il suo asso nella manica nemmeno troppo tempo dopo il caso di Kevin? La tensione era alle stelle; un altro delitto era più che probabile. Ma ha deciso di bruciarsi la carta all'improvviso: perché? -
Monokuma cadde in silenzio, mantenendo un'espressione neutra.
Pendendo dalle sue labbra, la domanda venne spontanea.
- P-perché, allora...? - chiese June.
- Perché voleva liberarsi di Karol; ecco il motivo! - il chimico puntò il dito contro lo schermo.
- Ka-Karol...? Il prof era il suo bersaglio!? - sussultò Judith.
- Come lo hai dedotto...? - domandò Pearl, altrettanto interdetta.
Michael socchiuse gli occhi, massaggiandosi la fronte.
- ...mi era sorto un dubbio ascoltando il racconto di Pearl - spiegò lui - Il Prof sapeva quale fosse il suo vero talento senza che lei lo avesse esplicitamente rivelato. Era chiaro che Karol aveva ottenuto delle informazioni di cui noi non eravamo al corrente; informazioni grosse. Non è da escludere che fosse venuto a conoscenza del vero talento di Pearl e Pierce... e ciò ha portato Monokuma a pensare... -
- Doveva eliminare Karol... - asserì Pearl - Perché gli era di impiccio -
- Precisamente -
- Ma qualcosa non mi torna... - esclamò a sorpresa Judith - Tutto ciò che ci è concesso avere in questa scuola è gestito da Monokuma, no? E ciò vale anche per le informazioni. Perché mai Monokuma dovrebbe voler elargire qualcosa del genere solo per rimetterci? -
- Se pensi a ciò che è accaduto, è semplice - Michael alzò un indice - Karol aveva in mano quei dati. Immagino che servissero per seminare discordia e dubbi in colui o colei che ne fossero entrati in possesso. Ma Karol... ha agito diversamente. Monokuma si aspettava che il Prof avrebbe attaccato Pearl e Pierce credendoli traditori, ma... -
- ...ha sortito l'effetto opposto - concluse Xavier.
Il detective ricevette un segnale di assenso da parte dell'Ultimate Chemist.
- Lui ne voleva approfittare... per aiutarci a svelare la verità - sussurrò Pearl, realizzando il quadro completo - Ha deciso di ascoltarmi... e supportarmi -
- Karol voleva genuinamente salvarci tutti...! - strepitò June - Ed è stato per questo che Monokuma lo ha preso di mira! -
- Già. E' evidente che non si aspettava che il suo espediente potesse essere usato contro di lui - proseguì Judith - Si è pentito di aver messo quei dati in mano a Karol, e  ha deciso di utilizzare Pierce per metterlo a tacere! -
Una risata squillante riverberò attraverso gli apparecchi acustici della sala.
L'occhio rosso dell'androide si era illuminato di nuovo, trasmettendo una scia rossastra.
- Le vostre sono mere congetture! L'Ultimate Teacher si è portato il segreto nella tomba! - esclamò divertito - E ora che ci penso... non è l'unico che lo farà -
Un allarme mentale scattò nei pensieri di ognuno dei presenti.
Tutti si voltarono di scatto, all'unisono, verso la sagoma debilitata di Pierce Lesdar.
Questi aveva disegnato in volto il terrore più puro umanamente verificabile.
- ...no... n-no, ti prego... - gemette - Non vorrai mica...? -
- Sarai anche un falso, ma condividi il corpo con l'autentico artefice di questo delitto - sogghignò lui, digrignando i denti - Mi spiace, piccoletto, ma è tempo di pagare pegno! -
- NO! Non se ne parla! - 
A gran sorpresa, fu Xavier Jefferson a mettersi in mezzo.
Il giovane si frappose tra Pierce e Monokuma, gettando a quest'ultimo laceranti occhiate di sfida.
- X-Xavier...? - mormorò impaurito Pierce.
- Che significa tutto questo? - sbuffò Monokuma - Osi opporti!? -
- Hai orchestrato TU questa follia! E ora credi di poter far ricadere l'intera colpa su Pierce!? Scordatelo! -
- Ha ragione! - Judith arrivò presto a fornire supporto - Non hai alcun diritto di giustiziarlo! Sei altrettanto colpevole! -
- Interferisci con il tuo stesso "gioco" e pensi di potertela filare senza conseguenze!? - lo aggredì Michael.
- Non toccare Pierce! - June gli fece da scudo con il proprio corpo - E non denigrare la sua esistenza! E' un nostro amico e fedele compagno! -
- Sii pronto alle dovute conseguenze... - sussurrò Pearl, gelida - ...qualora tu dovessi anche solo sfiorarlo -
Circondato da tutti e cinque, il cuore di Pierce prese a palpitare senza sosta.
Vide i suoi compagni ergersi a sua difesa facendo di tutto per non far trapelare paura e insicurezza, cercando in tutti i modi di spronarsi a fare la cosa giusta.
Una lacrima gli scese lungo il volto, cadendo sul pavimento con un impercettibile guizzo.
Per la prima volta nella sua vita, Pierce non si sentiva più solo. Non più.
- ...ragazzi - mormorò - Amici... miei... -
Si udì un rumore metallico.
Un suono sospetto, innaturale. Un fragore improvviso che colse tutti alla sprovvista.
I cinque si voltarono alle proprie spalle assistendo a quella visione inquietante.
Un braccio meccanico era appena spuntato dal pavimento, cingendo il collo di Pierce con una stretta soffocante. 
Altri due arti giunsero rapidamente a bloccargli le braccia.
- Cos...!? PIERCE! - gridò Xavier.
Le grida soffocate di Lesdar vennero ricoperte dalla roboante risata di Monokuma.
Decine di altri schermi si erano accesi contemporaneamente, ricoprendo l'intero soffitto di sagome ursine emettenti versi sguaiati.
Una cacofonia folle e delirante che rimbombò lungo tutta l'aula, gettando i sopravvissuti nel panico.
- Non ve lo avevo forse GIA' DETTO!? - si spanciò Monokuma - Fintanto che siete nel MIO mondo, io sono il vostro DIO! Vi lamentate di regole che posso cambiare ad ogni mio capriccio, e non c'è NIENTE che potete fare per evitarlo! Ma parliamo seriamente: non ho infranto alcuna regola! Ho proposto a Pierce un affare, e lui lo ha ACCETTATO! Nel momento in cui mi ha stretto la mano ha fatto la sua scelta! E ORA. NE PAGA. LE CONSEGUENZE! -
Le braccia meccaniche si mossero, trascinando Pierce di peso lungo il suolo.
Si portò le mani sul meccanismo che gli teneva serrato il collo, tentando in tutti i modi di gettare quanta più aria possibile nei propri polmoni.
Folle di paura, si dimenò come un pazzo non appena il cigolio della porta che conduceva alla Sala delle Punizioni non si fece più vicino ed incombente.
- NO! NO! AIUTO! VI PREGO, AIUTATEMI! -
Ma la coscienza generale del gruppo era già in moto. Pierce avvertì una forte morsa alle gambe.
Una stretta salda, sicura.
Pearl Crowngale si era gettata a capofitto su di lui, afferrandolo al volo e tirandolo verso sé.
Judith e June ne approfittarono, precipitandosi sulle braccia meccaniche per opporsi al loro moto.
Xavier si aggrappò alla vita di Pierce imprimendo tutta la sua forza, mentre Michael aveva ghermito un lembo della felpa e il braccio sinistro senza mai lasciarseli sfuggire.
- Che diavolo fate!? - tuonò Monokuma - Non avrete dimenticato la clausola per chi si oppone alle esecuzioni!? -
- Non ce ne importa! LASCIALO ANDARE! - urlò Xavier con ogni briciolo di fiato residuo.
Di fronte a quella scena impressionante, Monokuma sbuffò con nervosismo. 
Lanciò un'occhiata di sufficienza verso gli studenti prima di fare spallucce.
- ...bah, non posso certo giustiziarne sei assieme - mugugnò - Per stavolta chiuderò un occhio -
Un secondo rumore sospetto balenò lungo l'aula di tribunale.
Judith Flourish spalancò gli occhi: sapeva di cosa si trattava.
L'orribile ricordo dell'esecuzione di Hayley Silver le tornò alla mente, e il suo sguardo si posò sugli arti meccanici.
Questi si erano ricoperti di energia luminosa e avevano iniziato a vibrare.
Pur sapendo ciò che stava per accadere, Judith non lasciò la presa.
Chiuse gli occhi, strinse i denti, contrasse ogni muscolo del proprio corpo, e si preparò.
Non ebbe neppure il tempo di allarmare gli altri; fu questione di un attimo.
Una repentina scarica elettrica si diramò lungo l'intero circuito, infliggendo uno shock ai cinque salvatori.
June Harrier avvertì un fitto dolore alle mani, e il suo corpo si oppose all'ordine di tenere duro.
Xavier e Michael furono respinti dalla scossa, finendo col cadere di lato.
Judith tentò in tutti i modi di obbligare il proprio corpo a sopportare il dolore, ma i suoi limiti umani giunsero a riportarla alla realtà.
Lasciò andare appena prima che le dita le si ustionassero.
A resistere ancora era Pearl Crowngale che, con volto sofferente, restò aggrappata alle gambe di Pierce mentre veniva inesorabilmente trascinato via.
Gli occhi glaciali di Pearl versarono una piccola lacrima nel momento in cui anche le sue forze la abbandonarono.
Lasciò la presa e cadde sul pavimento, sfinita.
Pierce Lesdar tese un'ultima volta la mano in avanti, tentando di raggiungere i compagni.
Li vide allontanarsi sempre di più dalla propria vista annebbiata.
Li vide distanti, non riusciva più a udirli, né a percepire la loro presenza.
Un denso buio lo avvolse, più profondo di quanto potesse immaginare.
"...i miei amici... dove sono... i miei... amici...?"
Pierce socchiuse gli occhi, abbandonandosi all'oscuro oblio.
Un rumore meccanico segnò la chiusura della porta.
Implorando perdono, l'Ultimate Surgeon attese la fine.




Dopo un breve periodo di tempo di caos e buio totale, gli occhi di Pierce si ritrovarono accecati da due luci brillanti come fari.
Dovette socchiuderli per un istante, accecato dalla forte luminosità; si abituò pian piano a quella forte emissione luminosa, riuscendo finalmente a guardarsi attorno.
Due grossi riflettori erano puntati sulla sua figura distesa orizzontalmente su quello che sembrava essere un letto ospedaliero.
Il resto della stanza era buio, e non riusciva a vedere nient'altro se non un vago riflesso davanti a sé.
Sollevò la testa a fatica solo per riuscire ad adocchiare le due vetrate scure poste in fondo alla stanza, dalle quali riusciva ad intravedere cinque volti 
impauriti e terrorizzati, che gli stavano urlando frasi che non poteva udire.
Pierce si dimenò con tutte le sue forze, ma fu inutile; braccia e gambe erano ancorati al letto tramite fili di spago sottilissimi ma molto resistenti.
L'opporre resistenza non fece altro che aumentare il dolore e la pressione applicata sui suoi arti già stanchi e spossati.
Ansimò pesantemente, vinto dall'ansia e dalla fatica; il sudore e le lacrime si mescolarono sulle sue gote.
Ad un tratto, al culmine della sue tensione psicologica, avvertì un movimento sospetto.
Osservò i due riflettori muoversi in avanti in maniera anomala.
Ne seguirono un cigolio metallico e il tenue sfregare dell'attrito volvente di un paio di ruote.
Fu lì che realizzò che non era il resto della stanza a muoversi; era lui.
La brandina stava viaggiando all'indietro, sospinta da un Monokuma apparso dal nulla.
Con un ultimo sogghigno malvagio, come a dare il proprio addio, diede uno spintone considerevole al letto facendolo rotolare più rapidamente.
Accelerò per alcuni secondi fino a che non subì una brusca frenata a causa di un ostacolo in mezzo alla strada.
Pierce si sentì improvvisamente più leggero: si accorse che i fili che lo tenevano prigioniero si erano improvvisamente allentati facendolo capitolare all'indietro, giù dal giaciglio.
Si aspettò di trovare il pavimento ad accoglierlo, ma era finito in una trappola ancora peggiore.
La sala si illuminò in un baleno di una luce a metà tra il bianco e l'azzurro, rivelando ciò che si trovava al suo interno.
Pierce era finito in quello che gli sembrò un baule spesso e fatto di metallo.
Fu quando il coperchio gli venne chiuso in faccia che realizzò che non si trattava di un mero contenitore.
Era un sarcofago di fattezze umane con due cavità poste sugli occhi e un'infinità di minuscoli fori sottilissimi posizionati dappertutto, fino a ricoprire l'intera superficie bucherellata. 
Il sarcofago venne tirato su da un meccanismo complesso di fronte agli occhi dei cinque studenti rimasti fuori dalla stanza.
Xavier osservò inorridito quella macabra prigione, intravedendo gli occhi chiari di Pierce attraverso i due buchi superiori.
Occhi che imploravano aiuto, che supplicavano pietà, che chiedevano perdono.
Ad un tratto, lo schermo di un televisore fissato immediatamente sopra il baule si illuminò rivelando, tra varie interferenze, una frase scritta in un inquietante rosso.
"THE RED STRING OF FATE"
Xavier batté più forte i pugni contro il vetro infrangibile, che distrusse ogni sua speranza di riuscire a sfondarlo con il suo coriaceo spessore.
Judith annaspò, indicando ai compagni ciò che stava accadendo attorno al sarcofago.
Dalle pareti si erano aperti alcuni vani da cui erano spuntati decine, centinaia di filamenti biancastri, ognuno dei quali aveva un ago argentato collocato all'estremità.
Un complesso sistema di arti meccanici teneva in piedi quella mostruosità aberrante.
Michael deglutì, inorridito alla vista. Quell'esorbitante numero di sottili punteruoli tintinnò, emettendo una vibrazione sgradevole.
Come una sola entità, gli aghi vennero puntati verso la prigione di Pierce. Un conto alla rovescia di appena cinque secondi partì dallo schermo.
Al quinto rintocco, il primo ago venne indirizzato verso il sarcofago, passandolo da parte a parte.
June non riuscì a tenere gli occhi aperti.
L'ago penetrò con velocità inusitata, quasi fosse stato sparato, uscendo dalla parte opposta e speculare.
Il filo bianco che lo teneva non era più tale: era rosso, e grondava sangue.
Vi fu un attimo di silenzio; poi, l'esecuzione degenerò.
A seguire, prima due aghi, poi tre, cinque, dieci; tutti penetrarono il sarcofago in una furia cieca, componendo un'intricata matassa rossa e argentata.
Di fronte a quello spettacolo, Pearl sentì le viscere contrarsi mentre con sguardo vacuo assisteva impotente.
In una manciata di secondi, la ragnatela era completa.
L'ultimo ago attraversò un buco posizionato sul centro della fronte, e un meccanismo scattò.
La porta del sarcofago si aprì.
Un corpo martoriato sbucò appena dall'interno, saldamente legato al baule da una miriade di fili rossi.
Gocce di sangue cadevano sul pavimento, grondando lungo i filamenti.
In posa di crocifissione, Pierce Lesdar cessò ogni movimento.
I suoi occhi vuoti si spensero del tutto assieme all'esalazione del suo ultimo respiro.
I fili rossi danzarono, immergendosi nel suo sangue scintillante.
Un'immagine residua rosso cremisi fu tutto ciò che i cinque sopravvissuti videro prima della fine.
Poi, le luci si spensero.




Xavier si accasciò al suolo coi palmi delle mani tremanti piantati sul pavimento.
Un drappo nero era calato oltre la vetrata, celando l'interno della sala e ponendo fine a quell'orrido spettacolo brutale.
Nessuno osò fiatare per diverso tempo; tutti e cinque rimasero lì, immobili, fissi a guardare qualcosa che non c'era più.
Mai come quel giorno si erano sentiti così piccoli e deboli nei confronti del loro aguzzino, il cui volto malevolmente beffardo continuava a troneggiare dall'alto.
Ma Xavier non gli badò; continuò a far stridere le unghie sul suolo, tentando di lenire il dolore interno provocandone uno fisico.
Qualunque cosa per impedirgli di pensare andava bene.
Poi, ad un tratto, avvertì un tocco familiare da entrambe le spalle.
Judith e June lo tirarono per le braccia, aiutandolo ad alzarsi e forzandolo a riprendersi.
Il ragazzo si rimise in piedi con enorme sforzo, ringraziando le due compagne con un semplice cenno del capo. Le parole ancora non uscivano.
Michael si era appoggiato con la schiena ad un banco; tolti gli occhiali, si massaggiò più volte le palpebre nel vano tentativo di rilassare i nervi.
Non aveva smarrito la sua espressione corrucciata nemmeno per un istante.
A spezzare definitivamente il silenzio fu un distinto rumore di schiocco d'ossa.
La mano di Pearl si contrasse in modo sospetto, rivelando un rigonfiamento ad una vena. 
Judith osservò con inquietudine quei chiari sintomi di rabbia; un bagliore omicida si riflesse sulle pupille glaciali dell'Ultimate Assassin.
Pearl Crowngale serrò i pugni, irrigidendo il suo sguardo.
- ...ho giurato che ne avresti pagato le conseguenze - mormorò - Stai pur certo che manterrò la mia parola -
- Sei tutto fumo e niente arrosto, Crowngale - rise Monokuma, canzonandola - Pensi di intimorirmi facendo la voce grossa? Vuoi uccidermi, ma non sai nemmeno da dove cominciare a cercarmi, non è così? -
- E' solo questione di tempo - asserì, senza pronunciarsi oltre.
Di tutta risposta, Monokuma si esibì in una smorfia crudele; fu palese che non la considerava una minaccia concreta, ma Pearl non sembrò badare ai dettagli.
L'Ultimate Assassin fece voto di onorare quella promessa a qualunque costo; a Judith quell'iniziativa mise molta più paura di quanto ispirasse fiducia.
Quando la tensione del momento fu svanita, un'altra persona si fece avanti.
- ...dunque... è finita? - 
La vocina titubante di June Harrier si fece strada in quel nugolo di ansia e timore.
L'attenzione degli altri quattro si rivolse su di lei; la realizzazione fu immediata.
- ...è concluso - sussultò Judith - Il gioco al massacro è... concluso? -
- Si direbbe di sì... - sbuffò Pearl, totalmente insoddisfatta.
Dallo schermo in cima al soffitto comparve un'espressione confusa di Monokuma, che si grattò il capo con fare dubbioso.
- Oh? Di che state parlando? -
- Non fare il finto tonto, bastardo...! - ringhiò Michael - Una delle condizioni è stata rispettata! -
- Ooh, forse dovreste essere un po' più espliciti - il sorriso di Monokuma sembrò allargarsi - Sapete, la sera tendo ad essere un po' lento di comprendonio -
Fu una provocazione palese, Xavier lo aveva inteso perfettamente, anche se ancora ne ignorava il fine.
Ma se c'era una cosa che aveva capito era che con l'orso i giri di parole e i convenevoli erano sprecati.
Era lui a dettare legge, e se voleva giocare avrebbe giocato. Il detective decise di andare al sodo e di dargli semplicemente ciò che voleva.
- ...il traditore è morto - disse, con voce sommessa. Dirlo gli fece male; molto male - ...facci uscire. Era nei patti -
Ancora una volta, l'orso sembrò volersi fare beffe del gruppo.
- Come, scusa? Il "traditore"? - sbadigliò - Non ho proprio idea di cosa stiate parlando -
- Non osare prenderci in giro! - lo additò June - Non crederai di rimangiarti la parola sulla clausola speciale!? -
- Abbiamo vissuto per tutto il mese con l'ansia del traditore... - gemette Judith - E adesso che... che ne conosciamo l'identità... -
- Pierce era... il traditore. Ce lo hai addirittura detto tu stesso - concluse Pearl - Provocandone la morte o costringendolo a confessare avremmo vinto. Ora... tieni fede alla tua parola -
Fu in quell'istante che un forte grido sorprese l'intero gruppo.
Monokuma esplose in quella che era una risata grassa e sguaiata, completamente priva di contegno. Un riso forte e tonante, di una scellerata cattiveria, volto solo ad umiliare.
La cavità oculare sinistra del pupazzo si illuminò di rosso, gettando un riflesso lungo tutta la stanza.
- Oh, cielo! Credo ci sia stato un equivoco madornale! - esclamò, senza smettere di ridere - Voi eravate convinti che Pierce Lesdar fosse la spia!? -
Attimo di incertezza; i cinque studenti si paralizzarono.
- Che cosa...? Che diavolo vuoi insinuare!? - gridò Mike, tentando di sovrastare le risate.
- Non siate ingenui, ragazzi miei! Certo, Pierce ha tramato alle vostre spalle fin dal principio e ha combinato un bel pasticcio... - annuì - ...ma da qui al considerarlo una spia? Quell'imbranato!? Al massimo potrei considerarlo uno strumento; un giocattolo comodo, che però ha esaurito la sua utilità. Dunque, me ne sono sbarazzato! -
- Che cosa... che cosa significa tutto questo...? - la voce di June era rotta da alcune lacrime isteriche.
Monokuma si pulì un orecchio con un artiglio, mostrando indolenza.
- E' molto semplice: Pierce era una mia garanzia affinché il gioco proseguisse, ma oltre a ciò era un partecipante come voi tutti, senza vantaggi né privilegi. E da ciò potete trarre l'ovvia conclusione, miei cari! -
Xavier non riuscì a trovare le parole immediate per esprimere quell'assurdo concetto.
Una moltitudine di pensieri vorticarono nella sua testa; ogni rassicurante certezza era crollata nel breve giro di una frase.
Una disperazione nuova e repentina si fece strada tra gli animi dei pochi sopravvissuti; la verità era indigesta, ma innegabile.
- ...il traditore è ancora fra noi...? - mormorò il detective, ancora incredulo.
Si voltò di scatto.
Pearl, Judith, Michael e June si stavano reciprocamente fissando.
Un conflitto freddo, silenzioso. Le alternative erano pochissime, eppure talmente complicate da accettare.
Nessuno seppe più cosa dire o pensare.
- No... no, vi prego... ditemi che è uno scherzo... - Judith si portò le mani alle tempie, stringendo le palpebre.
- Il traditore... è uno di noi cinque? - mormorò Pearl, impallidita.
Vi fu un rumore statico proveniente dallo schermo.
Monokuma aveva smesso di ridere, e ora li fissava con uno sguardo vacuo; un'espressione neutra che meglio si addiceva ad un pupazzo senza anima né vita.
Parve voler dire qualcosa, ma inizialmente esitò.
- ...questo sta a voi giudicarlo -
La frase sibillina dell'orso destabilizzò ulteriormente la situazione.
Il senso non era chiaro, così come neppure lo era il motivo per averla pronunciata.
- Cosa vuoi dire...? - domandò Xavier.
Monokuma rimase in silenzio per alcuni secondi, prima di continuare.
- ...le persone sono davvero esseri straordinari, a mio parere - disse improvvisamente, senza contesto - Dà loro un motivo per combattere, per sopravvivere, e loro lo faranno. Combatteranno, sopravvivranno. Uccideranno. Dà loro anche solo un barlume di speranza, e loro si aggrapperanno ad esso con tutta la propria forza. Forse il bello della speranza è proprio questo: spinge le persone a fare l'impossibile, e ciò si traduce nella disperazione. Ecco perché quest'ultima è così interessante: è imprevedibile. Gli esseri umani disperati cercheranno speranza lì dove credono ci sia, anche se non la vedono. La psiche umana mi lascia davvero senza parole -
- Il tuo è uno sproloquio privo di senso o sostanza... - replicò Pearl di tutta risposta - Cosa stai cercando di dirci? -
- Ah, non fate caso alle ciance di un vecchio orso spelacchiato - annuì Monokuma - Ma lasciatemelo dire: questo esperimento sta avendo un enorme successo grazie alla vostra partecipazione. Sono estremamente soddisfatto -
Ancora una volta, gli studenti fecero caso a come Monokuma si riferisse a loro definendoli come semplici cavie in una macchinazione più grande e complessa.
Il solo pensiero fece storcere il naso a tutti loro; prima di chiunque altro, a Michael Schwarz.
- Ancora ti rifiuti di dirci il motivo per cui ci hai costretti a partecipare a questa follia? - domandò il chimico.
- Ah, non avrebbe senso se ve lo dicessi. Il significato di questo esperimento esiste solo perché è celato - spiegò loro Monokuma - Ma non posso certo negare che il fattore dell'intrattenimento sia di notevole importanza! -
- "I-intrattenimento"!? - strepitò June - Qui la gente MUORE, pazzo che non sei altro! Quale mente deviata trarrebbe godimento da...!? -
- La mia! La mia mente deviata, sissignore! - esordì lui - L'ebbrezza di vedere qualcuno uccidere sconfiggendo ogni propria remora e inibizione, il tutto per salvarsi. L'efferatezza di ogni delitto, e il lento declino della cognizione generale del senso comune e della mentalità oggettiva -
- Parli per indovinelli. Ti diverti a vederci brancolare nel buio? - sbottò Pearl, infastidita.
- Ma pensateci. Pensate a come tutto è iniziato - li spronò l'orso - All'inizio, tutto ciò che avete in mente è la vostra sopravvivenza personale. Col passare del tempo, però, avete iniziato a conoscervi meglio. E più vi conoscete, meno voglia avete di uccidervi l'un l'altro, desiderando che tutti possano salvarsi. Ma ancora: dovete coordinare tutto questo col fatto che uccidere i vostri amici è la vostra priorità. E più gente muore, più questi desideri altalenanti si mischiano e si confondono. Arrivate al momento in cui siete rimasti in cinque, ed a questo punto della sfida vi domandate se non riuscirete davvero a vincere e ad uscire di qui, dato che manca così poco al traguardo! Ancora una volta, il benessere del singolo e del gruppo vanno in contrasto. In situazioni normali, la maggior parte delle persone tenterebbe di trovare la soluzione in grado di portare il maggior beneficio al maggior numero di persone. "Il collettivo prospera sul sacrificio del singolo"; è un vecchio detto che riassume perfettamente la natura di ogni società umana esistita nella storia. Una contraddizione eterna che genera conflitti; è il nostro destino. Ma quando vita e morte sono in gioco le regole convenzionali non valgono più: tutto perde di senso, e la logica cessa di esistere. Ora, ciò che voglio sapere è: dove sarete disposti a spingervi pur di proteggere ciò che avete di più prezioso? -
Non vi fu risposta. Il contorto discorso di Monokuma non sembrava avere né capo né coda, come un flusso di parole libere da ogni contesto o regola.
- Sei malato - disse Pearl, senza aggiungere altro.
Una risata sconnessa risuonò dagli altoparlanti.
- E' molto probabile - rispose - Ma adesso basta con i miei discorsi a vanvera. Stiamo tirando le somme, ed è ora che l'esperimento giunga al termine. Mi congratulo con voi cinque per essere arrivati così lontano, ma adesso... è il momento che la spia faccia la sua mossa -
Con quelle ultime parole, lo schermo si spense definitivamente.
Lasciato un vuoto incolmabile nella sala, i cinque non seppero più cosa dire o fare.
Era come viaggiare alla deriva in un mare troppo grande per essere esplorato.
Xavier si sentì come un topo intrappolato in un labirinto appositamente studiato per portarlo dove voleva Monokuma, come se una scelta non fosse mai stata presente.
Dei fili invisibili lo avevano guidato su quel percorso già tracciato, ma non vi erano bivi o traverse. Era una strada a senso unico, lo era sempre stata.
Quella improvvisa realizzazione fece capire a Xavier Jefferson che di alternative non ve ne erano. 
La sfida sarebbe continuata fino a che Monokuma non avesse deciso altrimenti.
- ...la talpa farà la sua mossa, eh? -
La voce dell'Ultimate Chemist fece capolino. La sua espressione era irritata.
- Mike, non dare peso ai deliri pronunciati da quel mostro... - intervenne June.
- Oh, credimi, mi guardo bene dal prestare attenzione al suo folle blaterare. Ma su una cosa è stato chiarissimo: sta "tirando le somme". Siamo alla fine, ragazzi -
- Cosa vuoi insinuare, Michael? - domandò Pearl.
Si sistemò gli occhiali sugli occhi, grattandosi nervosamente la punta del naso.
- Non capite? Siamo alla fine, alla conclusione. Il traditore sta per agire... e noi dobbiamo batterlo sul tempo -
- Non correre, Mike. Non abbiamo la più pallida idea di chi possa essere - lo fermò Xavier.
- Hai ragione, di certezze non ne abbiamo - rettificò Michael - Ma di sospetti ce ne sono eccome -
Judith scattò in punta di piedi.
- Michael! Non è il momento di essere avventati e farsi trascinare dalle congetture! - lo rimproverò - Monokuma voleva metterci fretta e pressione! -
- No, oramai è chiaro! Siamo sopravvissuti in cinque, cinque soltanto! Oramai non è più una questione di tirare ad indovinare! -
- Mike... non vorrai dire che... - balbettò June - ...hai una vaga idea di chi possa essere il traditore? -
L'Ultimate Chemist, sotto i riflettori, esitò a rispondere. Poi si esibì in un rapido cenno di assenso.
La tensione generale salì alle stelle.
- Parla, Michael - lo esortò Pearl - Cosa hai intuito? -
Il gruppo intero pendeva dalle sue labbra; Michael Schwarz parlò dopo essersi assicurato di avere l'attenzione generale.
- ...c'è un qualcosa che mi ha dato da pensare. Qualcosa su cui abbiamo sorvolato per concentrarci sul caso alla mano, ma che non possiamo ignorare - cominciò lui - Credo ricorderete perfettamente quel maledetto congegno nero che abbiamo rinvenuto nel cranio di Karol, non è così? -
Judith provò un brivido lungo la schiena, avvertendo la pelle d'oca. Il cadavere dell'Ultimate Teacher non rientrava tra le cose a cui voleva pensare.
- Certo, ovviamente... - gemette lei.
- Beh, ho un tarlo che mi rode la testa. Quell'affare non lo avevo mai visto in vita mia, e lungi da me conoscerne la funzione. Ma come abbiamo fatto a scoprirne i dettagli senza fatica? Semplice: uno di noi lo sapeva già. Possedeva informazioni che nessun altro poteva minimamente immaginare: che era uno strumento per la manipolazione cerebrale. Inutile precisare quanto questo sia... strano, no? -
Xavier Jefferson spalancò l'occhio dalla sorpresa. Notò che tutti lo stavano fissando.
Tutti tranne Judith, che ancora osservava il volto serissimo di Michael con un'espressione dubbia e scettica.
- Co-cosa...!? Mike, non dirai che...!? - fece l'Ultimate Lawyer.
- Metti da parte i sentimenti personali e guardiamo in faccia la realtà: Xavier sapeva qualcosa di cui solo Monokuma era in possesso. E' stato l'orso a dare a Pierce quell'affare, ma come poteva Xavier conoscerne i dettagli a priori? Sei stato fin troppo vago quando ci hai parlato di come ne eri a conoscenza, ed è ora che tu ci dica la verità -
Xavier emise un lungo sospiro.
- Mike... credi che io sia il traditore? -
- Lo trovo considerevolmente probabile. Dimostrami il contrario -
Il detective dovette ammettere di avere le spalle al muro.
Judith e June avrebbero voluto opporsi a tutto ciò, ma sapevano che non vi era altra scelta. I dubbi di Michael avevano fondamenta concrete.
Pearl si limitò ad osservare in silenzio; era stata una giornata lunga e faticosa, e più volte si era ritrovata a fare i conti col proprio passato e con le proprie scelte.
L'Ultimate Assassin decretò che era il momento di dare una possibilità anche a Xavier, ed attese in silenzio la sua spiegazione.
- ...come ho già detto, si tratta di un particolare di un'indagine di tanto tempo fa - asserì lui - E' una storia lunga e travagliata, e preferirei evitare di raccontarla per non allontanarci troppo dal topic attuale. Comunque no: non posso dimostrarvi la mia innocenza con prove concrete. Dovrete affidarvi alla mia parola soltanto -
- Le parole non significano nulla se sei il traditore! - lo additò il chimico.
- Non sono un traditore... non ho mai avuto intenzione di tradire nessuno - Xavier inspirò - Anzi... dopo il discorso di Monokuma inizio a comprendere qualcosa riguardo l'identità della nostra fantomatica spia che prima mi sfuggiva -
Michael sussultò.
- Come!? Pensi di convincermi così facilmente!? Non cambiare discorso! - lo aggredì, esasperato - Dicci tutto ciò che vogliamo sapere, altrimenti...! -
Non terminò la frase; un suono improvviso lo interruppe.
Un tonfo sordo, come un colpo improvviso. Un corpo che cadeva, cedendo alla gravità.
L'Ultimate Chemist si voltò di scatto: June Harrier era collassata sulle proprie ginocchia ed ansimava per la fatica.
Il suo viso era vagamente pallido e imperlato di sudore. La sua espressione sofferente fece andare tutti in allarme.
- June!? - gridò Michael.
Pearl fu la prima a scattare al suo fianco.
Afferrò l'arciera per un braccio e la aiutò a rialzarsi nonostante le difficoltà.
- June, che ti prende!? - la richiamò Judith - Ti senti bene!? -
Lei annuì debolmente, facendo loro segno che non vi era pericolo.
- S-scusatemi... - ansimò lei - Ad un tratto mi sono sentita sfinita... completamente drenata... -
Xavier si massaggiò il mento con apprensione.
- Starà bene? - si chiese.
- E' eccessivo affaticamento, ne sono quasi convinto - asserì il chimico - E' da stamattina che ci stiamo struggendo per colpa di questo caso... non ha più energie. Deve riposare -
- I-io direi di... uscire da qui e prenderci una pausa - suggerì Judith - Non combineremo niente in questo stato. Siamo tutti esausti... -
La proposta, seppure saggia, provocò alcune titubanze. La questione della credibilità di Xavier era ancora aperta, e malvolentieri Michael la avrebbe lasciata decadere.
L'Ultimate Chemist lanciò al compagno uno sguardo iracondo.
- ...Michael, ti prometto che avrai le tue risposte domattina stessa - gli promise Xavier, intuendo l'andazzo - Ma adesso è necessario andare a riposare. E' stato un giorno impegnativo -
Michael Schwarz guardò prima lui, poi June. La ragazza era ancora in piedi, ma sembrava più in uno stato di dormiveglia.
Pearl Crowngale gli fece cenno che, pur contro voglia, era la cosa giusta da fare.
- ...aiutatemi a portarla all'ascensore - disse - Continueremo domani, Xavier. Domani, capito? -
- Siamo intesi, capo -
Detto ciò, Michael e Pearl spalleggiarono June scortandola fino alla stanza di fianco, dove era posizionata la piattaforma mobile.
L'Ultimate Archer parve sorridere flebilmente in segno di ringraziamento, e si lasciò aiutare volentieri.
Xavier rimase ad attendere che il suo cuore cessasse di battere in modo talmente rapido.
Non lo voleva dare a vedere, ma una stilla di terrore lo aveva divorato. 
Già una volta aveva visto una compagna collassare improvvisamente alla fine di un processo, e quella sembrava quasi una replica fedele.
Non voleva mai più assistere a qualcosa di simile a quanto successo ad Hillary, con tutto il cuore. 
Grato che il caso di June fosse esponenzialmente meno grave, si lasciò andare ad un sospiro di sollievo.
- Andiamo, Xavier? -
La voce candida di Judith Flourish lo guidò in direzione dell'ascensore. I due erano rimasti soli.
Si scambiarono un'occhiata complice.
- ...anche tu credi che sia io il traditore? -
Lei mostrò una smorfia.
- No, ne dubito fortemente -
- Come fai a dirlo? -
Si sistemò il fermaglio bianco tra i capelli, sorridendo.
- Te lo ho già domandato in passato, ricordi? - gli disse lei, rievocando una precedente conversazione - Ti chiesi di guardarmi negli occhi e di dirmi che non eri il traditore. Tu mi hai già dato la tua risposta, e io mi fido di te -
- Ti fidi davvero? Senza alcun dubbio o sospetto? -
- Xavier - i suoi occhi si fecero serissimi e profondi - Oggi... ero sul punto di arrendermi. Ero certa, certissima che sarei morta in quella sala. Se sono qui lo devo a voi tutti che mi avete aiutata a trovare la verità. A June, Pearl, Michael. A Pierce... e a te. Mi hai difesa quando ero colpevole; so di potermi fidare. Tu non tradiresti mai nessuno, Xavier, e ti aiuterò a dimostrarlo anche agli altri. Ti proteggerò io, stavolta -
Passarono alcuni istanti.
Xavier Jefferson socchiuse l'occhio, sorridendo lievemente.
Non vi erano parole sufficienti per esprimere la propria gratitudine, così opto per un gesto più consono.
Le strinse la mano con la propria in una stretta affettuosa; una stretta calda e tenue.
Rimasero immobili per alcuni istanti. Non vi era nient'altro da aggiungere.
- Andiamo, Xavier - sorrise lei.
- Sì, andiamo -
Si incamminarono assieme verso l'ascensore. 
Il processo era concluso, e la scuola sempre più vuota.
Eppure, c'era qualcosa che ancora combatteva per rimanere in vita. 
Dando un ultimo saluto a Pierce Lesdar, Xavier Jefferson abbandonò per la quinta volta l'aula di tribunale.





Il gruppo si scisse non appena l'ascensore si fermò davanti ai dormitori.
Pearl scortò June, ancora debole e priva di energie, fino in camera sua prima di congedarsi dagli altri.
Nonostante l'arciera desse segni più evidenti di stanchezza, anche gli altri non erano da meno. Il peso dell'intero giorno si riversò su di loro come un fiume in piena, travolgendoli con un'improvvisa necessità di stendersi sul letto e dormire.
Nessuno disse una parola, come accadeva alla fine di ogni processo. Ognuno passò ad aprire la porta della propria stanza chiudendosi dentro a chiave.
Ben presto, tutti abbandonarono il piazzale al silenzio e al vuoto.
Tutti tranne Xavier Jefferson.
Non appena anche Judith, salutandolo con un breve cenno della mano, si fu rintanata nella sua stanza, Xavier rimase per qualche istante a fissare la piazzola.
La desolazione era evidente e schiacciante in confronto al primo giorno.
Xavier ricordò il momento in cui tutti e sedici si ritrovarono ammassati al centro di quell'area, confusi e spaesati; il momento in cui era iniziato tutto.
In un primo momento, tutti quei volti e quelle voci ammassati tra loro costituivano principalmente un fastidio e una preoccupazione di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
Quel giorno, però, ne sentiva la mancanza.
Rendendosi conto che nonostante la stanchezza non sarebbe comunque riuscito a dormire, Xavier decise di fare due passi.
Vi erano troppe cose a tormentare i pensieri di Xavier; sperando che quella passeggiata lo avrebbe aiutato a schiarire le idee, si avventurò lungo la scuola.
Passò oltre il ristorante e si avviò verso i corridoi; non era saggio tornare in quel luogo dopo i recenti avvenimenti.
Le mura della mensa erano impregnate del ricordo di Pierce, ancora troppo vivido per non fare male.
Abbassò la testa, camminando mentre guardava il pavimento con aria sconsolata.
"...Pierce... mi dispiace..."
Vagò senza meta per lungo tempo. Non seppe neppure quanto passò dal momento in cui si era allontanato dai dormitori.
Dato che gli altri quattro si erano già coricati, sapeva che i piani della scuola erano vuoti, sgombri, non c'era nessuno. 
Nessuno che potesse tendere un agguato, mosso dalla follia o dalla paura.
Nessuno che avrebbe tentato di ucciderlo.
Per la prima volta in diverso tempo, Xavier riuscì a staccare il cervello dalla cautela e dalla paranoia, cessando di vedere ombre sospette ad ogni angolo.
Errando senza meta, guidato solo dal rumore dei suoi passi riecheggianti lungo i corridoi, Xavier si ritrovò casualmente in un'area che si era promesso di esaminare con più cura il giorno successivo: l'aula del primo piano.
Si sorprese di essere giunto fin laggiù, ma ipotizzò che non si trattasse neppure troppo di un caso.
Sapeva di volerci tornare un'ultima volta per porgere un ultimo saluto anche ad un altro, importante compagno.
Mise la mano sulla porta, ma esitò prima di entrare.
Trovato il coraggio, si fece strada attraverso la soglia e si ritrovò davanti la lavagna.
Il suo corpo tentennò: la scritta "C'E' UN TRADITORE IN MEZZO A NOI" era ancora presente sulla lavagna, ma era l'unico dettaglio rimasto intatto; quasi come a ricordargli per l'ennesima volta che non era ancora finita.
Si guardò attorno con sorpresa, attonito.
L'aula era stata rimessa a nuovo, in condizioni quasi perfette.
Rimaneva appena il segno di qualche scalfittura sui muri e un paio di ammaccature su una sedia, ma ogni traccia di sangue e gli altri elementi della scena del crimine  erano scomparsi nel nulla. Fu come se l'omicidio non fosse mai avvenuto.
"...deve essere stata messa a posto mentre eravamo al processo, così come in tutti gli altri casi" constatò "Vuol dire che c'è davvero qualcuno oltre a noi, in questa scuola? O è semplicemente un Monokuma ad occuparsene?"
Lasciò perdere quei pensieri sterili; vi era altro a cui porre la propria attenzione.
Xavier si avvicinò al centro della stanza, dove era stato rinvenuto il cadavere di Karol, inginocchiandosi.
Rifiutandosi di lasciare come suo ultimo ricordo quello del cadavere martoriato in tribunale, il ragazzo espresse un commiato silente.
"Grazie di tutto, Prof..."
Si alzò in piedi dopo appena un minuto, decidendo poi di avvicinarsi alla lavagna.
Rimirò la scritta con una smorfia sofferente; prese il cancellino ed iniziò a rimuovere le lunghe strisce di gesso dalla lavagna.
Tolse ogni lettera, dalla prima all'ultima, lasciando immacolata la superficie di ardesia.
"...eri solo un'altra vittima di questo sporco tranello, Karol..."
Ripose il cassino sul bordo della lavagna e si voltò.
Fece per andarsene, ma il suo occhio individuò un altro elemento di interesse: anche il terzo cassetto della scrivania era stato rimesso al suo posto.
Ricordò di come Pearl avesse raccontato loro di averlo preso per nascondervi all'interno le prove della sua presunta colpevolezza.
Il mappamondo era tornato alla propria posizione originale, un po' ammaccato, così come il cassetto.
Ma quest'ultimo sporgeva leggermente all'infuori, rivelando vagamente che vi era del contenuto.
Xavier adocchiò una copertina colorata in amaranto, e la curiosità ebbe la meglio su di lui.
Tirò il cassetto con la punta delle dita e ne estrasse ciò che vi era dentro.
Lo squadrò un paio di volte, riconoscendolo subito: era il registro di Karol.
Lo stesso che l'Ultimate Teacher aveva usato nel corso del mese precedente, durante le sue lezioni sporadiche.
"...il registro del Prof... come mai si trova qui?" si domandò "Durante le indagini non è di certo saltato fuori..."
Varie ipotesi iniziarono ad affollargli la mente, ma una sola era abbastanza plausibile da poter essere presa in considerazione.
L'unico individuo in grado di far sparire ciò che voleva, quando lo voleva, senza dover incorrere in conseguenze o spiegazioni da fornire.
"...che Monokuma abbia volutamente fatto sparire il registro per l'intera durata delle indagini?" realizzò "Che avesse un motivo valido per farlo?"
Vi era solo un modo per scoprirlo, e Xavier lo utilizzò immediatamente.
Aprì il registro fin dalla prima pagina, facendolo scorrere con la massima cura e osservando ogni dettaglio.
Su ogni pagina era stata scritta la data del giorno che riguardava, anche se in quei giorni specifici non era accaduto niente di rilevante.
Vi erano addirittura dei paragrafi dove Karol segnava coloro che si erano presentati a lezione.
Xavier sorrise, pensando a come a Karol facesse piacere l'idea di poter agire come un docente ordinario.
A margine del fascicolo vi erano poi alcune pagine interamente dedicate all'analisi degli studenti.
Xavier rimase sbalordito: erano annotate informazioni piuttosto dettagliate e mirate al carpire i punti di forza e le debolezze di ognuno.
Gli ricordò moltissimo il lavoro eseguito da Pearl, ma con un fine diametralmente opposto, più didattico.
Passò diverso tempo a leggere le varie righe che Clouds aveva scritto su ciascuno di loro: erano sintetizzate e senza dettagli superflui.
Era chiaro che servissero più come appunti, da promemoria da utilizzare per il suo lavoro da insegnante.
- "Michael si fida solo di ciò che vede. Da prendere di petto, e con pragmatismo"... - recitò lui - Decisamente un'opinione azzeccata, Karol -
Passò a curiosare altrove, immergendosi nei pensieri di Karol Clouds.
Provò ad immaginare la sua espressione mentre metteva nero su bianco la proprie considerazioni sugli altri studenti, a confessare di proprio pugno alla carta tutto ciò che gli passava per la testa.
- "Lawrence ha una profonda stima delle proprie capacità ed è un po' egocentrico, ma dipende parecchio dal giudizio altrui. Esercitare cautela con le parole" -
Voltò pagina.
- "Hillary è piuttosto diffidente, ma non ai livelli di Michael. Vivian è riuscita a creare una buona relazione grazie al suo fare materno. E' necessario un approccio delicato e paziente nei suoi confronti. (Sembra avere un debole per i dolci alla fragola. Da tenere a mente)" -
Ne sfogliò un'altra.
- "June si addossa troppe responsabilità, anche in ambito pratico. Tratta Refia ed Hayley come sorelline minori e finisce per dare strigliate ai compagni. Sarebbe  opportuno darle una mano per evitare che si schiacci da sola" -
- "Ultimamente Kevin non guarda più Pearl negli occhi quando si vedono. Avrà paura? O c'è dell'altro?" -
- "Elise e Rickard hanno stretto amicizia. Pare che lui stia tentando di curare la sua distrazione cronica, ma temo stia utilizzando un approccio errato. Da tenere d'occhio" -
Pagina dopo pagina, il quadro generale apparve più chiaro e distinto.
Una gran nostalgia avvolse Xavier rivedendo scritti tutti quei nomi, marchiati indelebilmente su carta pur riguardando avvenimenti passati persi nel tempo.
Era un qualcosa che Xavier Jefferson decise che non doveva andare perduto.
Si apprestò a concludere di leggere, quando accadde un altro evento inatteso.
Voltata l'ultima pagina, non vi erano più annotazioni o commenti a caldo. Niente più scritte e appunti, o considerazioni sugli alunni.
Vi erano diverse righe di testo scritte a mano in un corsivo elegante, ma completamente diverse da ciò che aveva letto fino a quel punto.
Aveva un'intestazione, una data e persino una firma.
Era una lettera.
- ..."A Judith" - Xavier lesse il titolo, deglutendo.
La lettere risaliva al giorno precedente.
Si ritrovò ad avere tra le mani quelle che potevano essere le ultime parole dell'Ultimate Teacher prima di venire attaccato da Pierce.
Pur non essendo indirizzata a lui, non riuscì a fare a meno di immergersi in quella lettura.
- "Se stai leggendo queste righe, potrebbe essermi accaduto qualcosa di brutto; forse irrimediabile.
   Lascio qui questo messaggio confidando nel fato, sperando che possa arrivare a te e solo a te.
   Perdonami se nell'ultima settimana sono stato chiuso in me stesso; avevo bisogno di tempo per pensare
   dopo ciò che era accaduto a Kevin ed Hillary.
   Ma ho preso una decisione: ho deciso di affrontare di petto il problema, ora che ho i mezzi per farlo.
   Il traditore è ancora tra noi, ma potrei averlo individuato.
   Se dovessi morire prima di riuscire a salvarvi, vorrei che tu portassi a compimento questa mia volontà.
   Posso chiederlo solo a te, poiché è solo di te che mi fido pienamente.
   Dietro la lavagna è nascosto uno scompartimento segreto. Lo ho trovato per caso; è probabilmente opera di Monokuma.
   Vorrei che utilizzassi le informazioni al suo interno col tuo giudizio e a tua discrezione.
   Se mai le cose dovessero volgere per il peggio, prendi June e scappa. 
   Fuggite, rifugiatevi dove il traditore non possa prendervi.
   Siete tutti miei preziosi studenti, ma ho paura di non poter dare la mia fiducia a chiunque con leggerezza, in questo momento.
   Non so ancora chi è il traditore con esattezza, e non posso correre rischi.
   Sappi che la vostra salvaguardia è e sarà sempre la mia priorità.
   Sii forte.

   Con affetto, Karol Clouds
" -


Xavier Jefferson si alzò in piedi, poggiando il registro sulla cattedra.
Avvertì un tremore alle mani; aveva appena fatto una scoperta importante.
Qualcosa che avrebbe potuto cambiare definitivamente l'esito della sfida.
"...qualcosa per cui Karol... è stato preso di mira da Monokuma" deglutì "Quel qualcosa... è alle mie... spalle...?"
Si voltò lentamente, lanciando un'occhiata sospetta alla lavagna.
Ancora titubante, appoggiò i palmi sulla parte inferiore e la sollevò. Togliendola dai ganci che la sorreggevano, la appoggiò a terra scostandola poi col piede.
Non credette alla propria vista, ma il contenuto della lettera si verificò essere veritiero.
Un vano segreto, nascosto dietro la lavagna, gli si era mostrato.
Una scritta bianca e tondeggiante sotto il disegno di un Monokuma sornione fu la prima cosa che vide.
"HAI TROVATO L'INDIZIO SEGRETO! CONGRATULAZIONI!
- Indizio... segreto... -
Tremò.
Allungò la mano verso gli sportelli metallici, assicurandosi prima che non vi fosse nessuno a vederlo.
Ogni cosa, ogni pericolo, ogni problema poteva potenzialmente risolversi lì.
Uno strumento di proporzioni epiche che avrebbe potuto rispondere alla domanda più grande.
Un'arma che, forse, avrebbe aperto finalmente una via di fuga dall'inferno.
Xavier prese il coraggio a due mani, pregando con tutto il cuore qualunque divinità esistente, ed aprì le ante d'acciaio.
 

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Capitolo 56
*** Capitolo 6 - Affetto - Parte 1 ***


Capitolo 6 - Affetto



Era una mattina come tante altre, uguale alle decine che la avevano preceduta nel corso dell'ultimo mese e mezzo; eppure, al contempo, stranamente diversa.
June Harrier rimaneva seduta davanti alla porta della propria camera senza apparente motivo, gettando occhiate pigre e svogliate senza prestare davvero attenzione.
Erano solo le sette di mattina, ma era già in piedi; quella notte proprio non era riuscita a dormire, come era già accaduto per le due precedenti.
Erano trascorse appena una decina di ore dalla fine del processo di Pierce, ma sembrava essere passato molto più tempo.
Il sonno le intorpidì i sensi e i pensieri, ma non le fissazioni che si trascinava dietro.
Il piazzale era troppo silente, privo di ogni rumore in modo innaturale.
Non aveva fame nonostante non mangiasse da diverso tempo, ed era priva di ogni energia e volontà. Nemmeno ricordava come si era alzata dal letto.
La scuola era sempre più vuota e più larga, e ogni giorno più silenziosa.
La scomparsa di Karol e Pierce aveva dato un pesante scossone alla loro volontà, cosa che andò a ripercuotersi anche nei giorni successivi.
Fu infatti proprio all'alba del primo che June Harrier si domandò se quel continuo silenzio e quell'esistenza priva di significato non la avrebbero eventualmente portata ad impazzire del tutto.
Aveva già visto diversi compagni perdersi nella follia, chi per un motivo e chi per un altro, dando per scontato che non si sarebbe mai unita a loro.
Ora dopo ora, minuto dopo minuto, quella certezza cominciava a sbiadire sempre di più, inesorabilmente.
Affondò la testa tra le ginocchia e fece sprofondare la testa sull'incavo creato dalle gambe.
Celò quel mondo orrendo alla sua vista nel vano tentativo di dimenticare di appartenervi.
Soffocò la voglia di piangere a più riprese, e rimase ferma in quella posizione.
La sua mente vagò senza meta né direzione, affollata di pensieri e timori.
Le sembrò quasi di essersi addormentata nel momento in cui riprese coscienza, sorpresa da un rumore improvviso.
Realizzò che la stanchezza accumulata aveva avuto la meglio su di lei, facendole abbassare la guardia.
Alzò il capo e si voltò di scatto: il suono udito era di passi, ed un volto familiare le si era parato davanti.
Un singolo occhio verde e uno sfregio sul lato sinistro del suo viso furono i primi dettagli che notò.
- June - la salutò lui - Va tutto bene? -
I nervi le si distesero, e sospirò tristemente.
- Ciao, Xavier... - disse, imbronciata - Beh, credo sia palese che io non sia di buon umore, temo... -
- Riesco a constatarlo - ammise lui - Posso sedermi? -
June contemplò quella proposta.
Era raro che Xavier chiedesse spontaneamente un confronto a caldo, ma ricordò che il compagno aveva dato prova di essersi aperto agli altri molto più di quanto non accadesse all'inizio. Ciò che era avvenuto in merito a Pierce ne era un chiaro esempio.
Sorrise flebilmente, si afferrò un lembo della gonna per tenerla salda, e si spostò di lato per fare spazio.
Lui prese quel gesto come un responso affermativo, e si accomodò al suo fianco.
Rimasero in silenzio per un po', fino al punto in cui Xavier si decise a rompere il ghiaccio.
- Ti sei svegliata presto - constatò.
- Diciamo pure che non ho preso sonno - mormorò, stanca - Questi giorni tutti uguali passano con lentezza inesorabile... e la mia mente non ne può più -
- Troppi pensieri per la testa? -
- Te ne sorprendi? - osservò lei.
Xavier fece cenno di no. 
Un'altra domanda gli sorse spontanea, ma fu restio a porla. Non era un argomento facile né piacevole da affrontare.
- ...non hai paura che possa farti del male? -
Lei gli rivolse uno sguardo stupefatto, quasi come se il senso le sfuggisse.
- Che stai dicendo? -
- Siamo soli, gli altri tre saranno in giro per la scuola - commentò lui - E nessuno avrebbe un alibi per quest'ora. Non hai il timore che... possa compiere qualche sciocchezza? -
Lei scrutò a fondo il volto di Xavier mentre pronunciava quell'asserzione decisamente bizzarra; ne notò un'espressione serena che ne tradiva la base ipotetica.
June Harrier socchiuse gli occhi, sorridendo tra sé e sé.
- Mi stai chiedendo se mi fido di te, Xavier? - domandò, voltandosi.
Lui si grattò la nuca, rispondendo in modo vago.
- Puoi vederla così - 
- Sì, sono certa che tu non sia qui per uccidermi - annuì lei - E ti dirò: anche se fosse, dubito che la cosa farebbe molta differenza -
Xavier Jefferson impiegò qualche attimo per individuare un elemento decisamente fuori posto nella risposta dell'arciera.
- Come...? Di che stai parlando? - esordì lui - Farebbe una differenza enorme! -
- Non per me, credo - disse, con voce neutra e sguardo vacuo - Oramai non più -
- Non dire idiozie, June - ribatté lui, sentendo la necessità di correggerla - Non starai mica dando così poca importanza alla tua vita, spero? -
June Harrier alzò lo sguardo al soffitto. La sola vista la seccò: gli occhi cercavano il cielo e le stelle, il verde di un prato, forse un caldo tramonto.
Ma quella prigione di cemento e metallo le bloccavano i sensi, intorpidendoli.
E assieme a loro, anche la sua volontà ne era uscita debilitata.
- ...sai una cosa, Xavier? C'è un lato di me che ho sempre avuto difficoltà a gestire. Un difetto, direi -
L'improvviso cambio di argomento lo lasciò spiazzato e confuso, ma non osò interromperla.
Era chiaro che, in quel momento, June stesse cercando di trovare uno spiraglio per inserire una confidenza nel contesto.
Il detective rispettò quell'iniziativa e rimase in silenzio ad ascoltare.
- ...di che si tratta? - fu tutto ciò che chiese.
Lei inspirò profondamente.
- ...sono sempre stata una persona orgogliosa - raccontò, appoggiando la schiena alla porta della stanza - In quasi ogni aspetto della mia vita questo mio tratto si manifesta in forme differenti. Ad esempio: odio perdere. Detesto la sconfitta come poche cose al mondo. Il sapore amaro dei tuoi sforzi non ricompensati, nonostante la tua più totale e completa dedizione, è un qualcosa che mi fa ribrezzo. Credo sia il motivo per cui ho deciso di dedicarmi ad uno sport come il tiro con l'arco, dove non devo dipendere da nessun altro. Sono solo io, la freccia e il bersaglio; nessuno da cui dipendere, nessuno che abbia in mano le sorti della mia partita. E la mia voglia di vincere è stata uno sprone importante, che mi ha portato ad essere l'Ultimate Archer... a dirla in questo modo quasi mi vergogno del mio titolo... -
Il discorso andava sciogliendosi man mano, ma Xavier intuì che il succo del concetto ancora non era giunto.
Era come se June si stesse facendo trasportare da un flusso di nozioni mai raccontate, mai proferite. Come dei segreti imbarazzanti tenuti nascosti in un recipiente troppo piccolo.
- ...e ciò non è che una piccola parte di ciò che sono - continuò lei - Credo di avertelo già detto, ma sono la prima di quattro fratelli. Sono la maggiore, e sono abituata ad avere a che fare con persone che dipendono da me. Ho il mio ruolo in famiglia, ed è quello predominante. Ho finito spesso per dovermi prendere cura persino dei miei genitori... e in qualche modo ho finito per ingelosirmi di questa mia posizione: la vincitrice, la sorella maggiore, colei che risolve i problemi, quella "affidabile". Godevo di queste cose, ed è come se sentissi il bisogno di... "vincere" nella vita. Di gustare la soddisfazione ultima nel sentire di essere necessaria, quasi superiore... credo che il mio atteggiamento materno nei confronti di Refia ed Hayley derivasse proprio da quello: una necessità. Ed ogni volta che centravo il bersaglio con una freccia, questo desiderio diventava più forte -
Si voltò di scatto verso Xavier, ponendo i propri occhi di fronte al suo.
Lui rimase zitto, senza osare interromperla; il finale del racconto stava per arrivare.
- ...devi perdonare il mio sproloquio insensato. Mi sono lasciata trasportare - sorrise, arrossendo vagamente.
- Non vergognartene. Anzi, ti prego, continua - la invitò lui.
Lei tirò un lungo sospiro.
- ...ho sentito questa voglia anche qui, in questa scuola - ammise - Nel momento in cui ho compreso di trovarmi in una competizione per la sopravvivenza, una voce al mio interno mi ha urlato... "Devi vincere!". Già, "vincere"... sopravvivere, tornare a casa. Tornare alla mia vita normale, dove sono necessaria. Ma... è tutto finito -
- Cosa intendi? Cosa è finito? -
Il suo sguardo si fece triste e vacuo.
- ...non sento più quella voglia, quella spinta - sospirò - Quel desiderio bruciante si è spento. Ho realizzato qualcosa... io non sono affatto necessaria. Non servo a nessuno -
Lui le piazzò una mano sulla spalla con vigore, dandole una rapida scrollata.
- Non dirai sul serio...? - esclamò - Hai sicuramente qualcuno per cui sopravvivere. I tuoi fratelli, la tua fam-... -
- La mia famiglia non esiste più - rispose - Si è sgretolata, distrutta. Mio padre mi ha abbandonata, portandosi via i miei fratelli. Mia madre è... scomparsa oramai da tempo. Non ho nemmeno così tanti amici, o persone speciali... là fuori non c'è nessuno che attende il mio ritorno, Xavier. Nessuno. Se anche sparissi, il mondo continuerebbe a girare senza nemmeno accorgersi della mia mancanza. Ma voi siete diversi, non è così? Tu, Judith, Michael e Pearl avete progetti da compiere, persone da rivedere. E io sono qui... forse più per errore che per altro. E ripenso ai nostri compagni caduti chiedendomi perché sono morti al mio posto... al posto di una che di motivi non ne ha. Forse... forse l'errore sono proprio io -
- Piantala, June. Sono un gran mucchio di idiozie - obiettò Xavier, irritato - Dare così poco valore alla tua esistenza è l'errore più grande che potresti fare -
La reazione di June non fu come Xavier Jefferson se l'era figurata.
La ragazza gli rivolse un sorriso, tornando ad appoggiare la testa sulle ginocchia pallide.
June abbozzò una risata soffusa.
- Già... hai ragione. Michael mi ha detto le stesse cose, sai? -
Il nome dell'Ultimate Chemist lo disorientò.
- Michael? -
- Ho già affrontato l'argomento con lui - spiegò - E anche lui ha tentato di consolarmi... a modo suo -
- Lo ammetto, mi risulta difficile immaginarmelo -
- Oh, lo credo bene - rise lei - ...ma, sai, sotto sotto siete simili. Entrambi severi, a volte un po' scorbutici, e avete un modo tutto vostro di preoccuparvi per gli altri -
Il paragone non mancò di procurargli imbarazzo, ma a Xavier non dispiacque quella conclusione.
- E sentiamo: quali perle di saggezza ti avrebbe elargito il buon Mike? -
- Beh... vedi... - assunse un colorito arrossato - ...è strano pensare che venga da lui, ma Michael è convinto che la felicità esista davvero, da qualche parte. Il difficile sta nel trovarla, ma non bisogna mai arrendersi. Bisogna essere... un po' egocentrici, e fare di tutto per non negarsela quando arriverà -
- E tu, June? - sorrise Xavier - Sei pronta a prenderla al volo quando la troverai? -
Lei si strinse tra le spalle, imbarazzata.
- B-beh... io... -
- O hai ancora intenzione di... svalutarti inutilmente? -
- So che... avrei d-dovuto tenere a mente il suo insegnamento, ma... - balbettò lei, divorata dai crucci.
- Ascoltami bene - disse infine il detective - Segui il consiglio di Michael: sii egocentrica. Anzi: sii orgogliosa! Sii fiera di essere sopravvissuta, e fa di tutto per preservare quest'unica esistenza che possiedi, perché dobbiamo sfruttarla fino in fondo. E non credere che il tuo affetto per gli altri sia solo un qualcosa nato per soddisfare il tuo ego; sono piuttosto sicuro che tu sia semplicemente una persona empatica, solo molto depressa -
- Tu... - tentennò lei - Tu dici...? Come puoi esserne...? -
- Abbiamo passato assieme diverso tempo, oramai - asserì lui - Certe cose si sentono e basta -
Stupefatta dalla veemenza con cui Xavier Jefferson avesse esposto il proprio punto di vista, il volto di June arrossì in maniera ancora più evidente.
- Xavier... non credevo tu fossi il tipo da... - esitò prima di continuare - ...prestare attenzione a cose simili -
- Mh... non nego di essere stato un po' freddo, in passato - ammise - Ma... beh, le cose cambiano. E anche tu devi cambiare, June -
Harrier, per la prima volta dall'inizio del dialogo, si lasciò andare in una risata genuina e liberatoria.
Annuì dolcemente, grattandosi la guancia con evidente vergogna.
- Te lo prometto, mi darò una regolata - si alzò in piedi di scatto, con un balzo - Ho deciso: basta con i pensieri negativi. Da adesso userò un approccio ottimista! -
- A parole è facile - la schernì lui - Mi dimostrerai questa tua convinzione con i fatti, quando saremo usciti di qui -
L'improvvisa adrenalina di June Harrier cessò di botto nel momento in cui quella frase del compagno la riportò alla realtà.
Il buon proposito dell'arciera pareva essere stato infranto con effetto immediato.
- ...già, "quando" usciremo di qui... - sospirò tristemente - La fai facile... potrei non riuscire mai a dartene prova -
- Oh, sì, invece -
June rimase per un istante a metabolizzare quell'ultima frase sibillina.
Si voltò di lato notando che anche Xavier si era rimesso in piedi, e la stava osservando con un'espressione serissima.
- Xavier...? Cosa...? -
- June, noi usciremo di qui. Tutti noi - esclamò - Te lo garantisco -
- Ma come puoi esserne così...!? -
- Ho trovato un modo per scappare -
Il mondo intero parve bloccarsi per alcuni istanti.
June Harrier spalancò le palpebre, incredula a ciò che aveva appena udito.
Nemmeno per un istante, però, credette si trattasse di uno scherzo o di un'idea mal congegnata.
Xavier Jefferson era serissimo, e le sue intenzioni erano chiare.
- ...dici davvero? -
Lui annuì.
- Sì. E ho bisogno... del tuo aiuto, June. Della tua collaborazione - le disse - Devo chiederti un importante favore -




Erano circa le otto del mattino quando Michael Schwarz terminò di leggere l'ultima riga del fascicolo, per poi richiuderlo e riporlo nella cartelletta plastificata.
Aveva impiegato circa venti minuti ad analizzarne il contenuto, spostando rapidamente gli occhi da parola a parola per sintetizzarne i punti più importanti.
Nel momento in cui decretò di essere soddisfatto, richiuse la cartella all'interno del cassetto dell'armadio e si apprestò a lasciare l'infermeria.
Era ancora piuttosto presto, e difficilmente qualcuno si sarebbe trovato lì a quell'orario.
Controllò l'orologio per assicurarsi di non aver tardato sulla tabella di marcia; il suo timer mentale spaccava il secondo.
Afferrò rapidamente il poco materiale che si era portato appresso e si portò vicino alla porta d'ingresso, allungando la mano libera.
La aprì con un movimento secco; il suo cuore saltò un paio di battiti.
Una sagoma umana gli comparve davanti, appena oltre la soglia, facendolo indietreggiare terrorizzato.
Gran parte delle ampolle che trasportava finì sul pavimento con un tonfo; una si incrinò in maniera irreparabile.
Michael balzò tre volte all'indietro schiacciando la schiena contro il muro, ansimando.
Dall'altro lato della stanza, un ragazzo assistette alla scena con un'espressione a metà tra l'esterrefatto e il confuso.
- ...Mike, va tutto bene? - domandò Xavier, iniziando a preoccuparsi.
Lui deglutì, asciugandosi il sudore dalla fronte.
- Xa-Xavier! Che cosa ci fai qui!? - gridò, irritato.
- Potrei farti la stessa domanda, ma preferisco chiederti come mai sei così pallido -
- E hai da chiedermelo!? - sbottò lui - Mi sei comparso davanti senza preavviso! E' già la seconda volta che mi combini questo brutto tiro! -
Xavier rievocò l'episodio rimarcato da Michael; si era svolto in modo simile, ma non in proporzioni così ingigantite.
Trovò che il terrore provato da Michael fosse alquanto esagerato, ma sapeva bene con chi aveva a che fare.
L'Ultimate Chemist non era tipo da andare per il sottile nemmeno per cose del genere.
- Mike, non era mia intenzione coglierti alla sprovvista - chiarì lui - E ti assicuro che non sono qui per farti del male -
- Bah! Ci crederò quando sarò tornato vivo e vegeto in camera mia! - bofonchiò lui, senza rilassarsi nemmeno per un secondo.
La pazienza di Xavier stava venendo messa a dura prova, ma oramai il giovane se ne era fatto una ragione.
Tentativo dopo tentativo, persino Michael Schwarz poteva essere convinto. Mai al cento per cento, ma entro certi limiti.
- Come posso dimostrarti la mia buona fede? - domandò lui.
- Non puoi. Levati di mezzo e fammi uscire da qui, e forse ci farò un pensiero - disse senza porre mezzi termini.
Xavier sospirò con un cenno disfattista.
- Va bene, come vuoi - e a quelle parole, si mosse lungo la parete ponendosi lungo il muro opposto - Ecco, ho lasciato l'ingresso libero. Ma in realtà sarei venuto qui per parlare con te, quindi ti sarei grato se mi stessi a sentire prima di dileguarti -
Michael alzò un sopracciglio, guardandolo di sottecchi da oltre le lenti correttive.
- Tu? Parlare con me? - chiese, scettico.
- Proprio così -
- Dov'è l'inghippo? -
- Santo cielo, Mike! Nessun tranello o doppio fine! - rispose infine, cedendo all'esasperazione - Potresti, anche solo per una dannatissima volta, semplicemente fidarti delle mie parole? Solo una volta, maledizione! -
Lui emise un sonoro sbuffo dalla bocca imbronciata, sistemandosi gli occhiali.
- ...non mi fido, ma ti ascolterò - sentenziò lui.
Il detective non trovò né la forza né la voglia di controbattere. A modo suo, era una vittoria.
- Allora... cosa stai facendo qui così presto? - iniziò Xavier - Dovevi avere un buon motivo per andartene in giro da solo -
- Non ho fatto altro che recuperare del materiale per il mio esperimento di ieri - rispose senza giri di parole - E poi mi sono fermato a leggere alcune delle cartelle cliniche a nostra disposizione. Tutto qui, non c'è altro -
L'occhio di Xavier guizzò in direzione dell'armadio poco distante da Michael.
Ricordò dei fascicoli medici conservati lì, prove importanti utilizzate in ben due processi.
Era da diverse settimane che non ne facevano uso, però, e il dubbio sorse di conseguenza.
- Come mai li leggevi? -
Michael si grattò la nuca, tentando di velare un lieve imbarazzo.
- Mah... nessun motivo in particolare - disse lui - Ogni volta che finisce un processo, vengo qui e controllo le varie cartelle che abbiamo sbloccato -
Il detective rammentò anche che i dati disponibili erano solo quelli inerenti ai loro compagni deceduti; il che pose un'altra domanda.
- ...senza un fine preciso, dunque? -
- Ammetto che non vi è raziocinio in quel che faccio... - disse, facendo spallucce - Ma se abbiamo delle informazioni in più tanto vale dare un'occhiata veloce -
- E' davvero strano da parte tua, sai? - osservò l'altro - Metterti a rischio per un qualcosa che non ha un valore pratico. Non è da te -
Michael abbassò lo sguardo, aggrottando nervosamente la fronte.
- ...diciamo pure che è il mio modo di dire loro addio -
- Come, prego? - Xavier non credette inizialmente a quanto appena sentito.
- Un ultimo saluto, un commiato - sbottò lui, mostrando con evidenza quanto si vergognasse ad ammettere un particolare simile - Mi immergo in quelle che sono le ultime testimonianze biologiche dei nostri rivali, e in questo modo è come se... li rivedessi un'ultima volta -
- Mike, io... - tentennò lui - ...non avevo idea che provassi certe cose -
- "Certe cose"? Intendi emozioni? Grazie molte -
- Sai benissimo cosa intendo - lo incalzò lui - Fin dal principio hai sempre detto che ti importava solo della tua sopravvivenza, e di nient'altro. Non hai nemmeno dato una mano ad Hayley quando ti era svenuta davanti, e la tua freddezza nei nostri confronti è disarmante. E' lecito pensare che non te ne importasse nulla, comprendi? -
Michael tamburellò con la mano sul muro, come nel tentare di trovare le parole giuste.
Alla fine, si rassegnò all'evidenza; sospirò un'ultima volta, quasi come nell'ammettere silenziosamente che Xavier aveva ragione.
- ...sì, per me siete sempre stati dei nemici. Non lo ho mai nascosto, né ci ho girato attorno. Per me, questa è una competizione a tutti gli effetti: una guerra - disse, poi prese una breve pausa. Il suo sguardo si fece più triste - Ma questo... non vuol dire che io abbia mai augurato la morte a qualcuno. Nessuno di loro meritava di morire. Nessuno. Erano ragazzi nostri coetanei, con un oceano di possibilità davanti; non avrei mai potuto desiderare che qualcuno di loro morisse... ma io, Xavier, ho sempre avuto la priorità. DOVEVO averla! Dovevo salvaguardare me stesso, perché se non lo avessi fatto sarei andato incontro alla loro stessa fine! E la mia vita è l'unica cosa in assoluto a cui non potrei mai rinunciare, per NIENTE al mondo, a prescindere da quali sacrifici dovrò fare -
Passò un momento di pesante silenzio.
- Michael... io non intendevo che... -
- Lo so, Xavier. Non mi aspetto di essere reputato una persona gradevole, ma il mio egoismo è necessario. Sai perché io e te siamo ancora qui? - gli chiese retoricamente, con una strana scintilla negli occhi - Perché siamo stati cauti. Perché, in fin dei conti, anche tu hai tenuto sempre la guardia alzata. Non ti sei sempre fidato del prossimo; hai messo in dubbio ogni cosa, hai prestato attenzione. E' stata la nostra cautela a permetterci di sopravvivere, Xavier! Guardaci! Io, te, Pearl, Judith e June... noi cinque siamo stati i più guardinghi, i più scettici. Ad un certo punto, noi siamo stati i soli cinque che hanno pensato a se stessi piuttosto che agli altri. Risultato: abbiamo conservato la pellaccia integra -
- Non so te, ma io non riesco ad andarne pienamente fiero... - rimarcò Xavier.
- Non devi, infatti. Non è una bella cosa. Ma se vuoi rimanere in vita è obbligatorio - proseguì lui - Refia ed Elise erano troppo incaute, Vivian e Lawrence troppo affezionati. Hillary troppo emotivamente attaccata, e Karol era fissato con l'idea di doverci aiutare tutti. Si sono scavati la fossa con le loro mani, Xavier. Hanno commesso degli errori, e ne hanno pagato le conseguenze -
- Smettila, Michael... non parlare di loro come se avessero sbagliato a riporre fiducia in un altro essere umano... - lo pregò lui.
- Non lo considererei un "errore"... solo un gesto incauto. Ma stiamo girando intorno allo stesso concetto, oramai - sospirò lui, massaggiandosi la tempia - Oramai il mio punto di vista lo hai ben chiaro, no? -
- No, non del tutto -
L'Ultimate Chemist alzò lo sguardo snervato verso il compagno, domandandosi quale altra seccatura avesse in serbo per lui.
Qualcosa nell'espressione del detective, però, gli fece intuire che si trattava di un elemento importante.
- Ah, no? -
- C'è ancora un dettaglio che mi sfugge - continuò Xavier - Fino ad ora mi hai parlato di come hai attribuito la tua salvezza al non esserti mai fidato di nessuno -
- Corretto - sbottò lui - Quindi? -
- E che mi dici di June? -
Michael serrò gli occhi, spalancandoli.
Il quesito lo fulminò, facendolo momentaneamente esitare.
- Co-come...? Che diavolo intendi!? -
- Non fare il finto tonto - lo additò Xavier - E' palese che vi siate avvicinati in qualche modo, il che è ancora più strano considerando come foste ai ferri corti. Hai iniziato a coinvolgerla nelle tue attività, cosa che non hai mai fatto con nessun altro. Ed uno come te difficilmente si sarebbe fatto dare una mano dalla persona che il giorno prima aveva tentato di malmenarlo brutalmente -
- Tutto ciò non ha nulla a che vedere col mio approccio nei suoi confronti... -
- Sì, invece - perseverò l'altro, senza sosta - Ho parlato con June, poco fa. Mi ha detto di come avete avuto diverse opportunità per parlare, di come tu la abbia spronata a reagire, a non darsi per vinta. Ti attribuisce gran parte del merito per cui è riuscita a reggere la pressione di questa sfida, quindi perché screditi  tutto ciò? Non è forse vero che... ti fidi di lei? -
Non vi fu risposta, non nell'immediato.
Michael rimase a fissarlo in cagnesco per ciò che fu un buon minuto intero.
Xavier rimase immobile a reggere quel confronto freddo e tacito; sapeva di avere ragione, e non indietreggiò.
Il chimico si tolse gli occhiali ed iniziò a pulirsi le lenti con un panno estratto dalla tasca della camicia.
Alitò lievemente sui vetri e vi passò sopra il panno con un movimento circolare.
- ...la vita è stata già abbastanza ingiusta nei suoi confronti - disse, senza cessare di pulire le lenti - Sì, abbiamo parlato. E credo di aver rivisto in lei molte cose che facevano parte di me. Quella ragazza è... innocua. Non farebbe del male a nessuno, perché non ne ha motivo. E' l'unica, qui dentro, che non sente il bisogno di uscire. E questa cosa... mi ha fatto infuriare. Non potevo concepire come qualcuno non avesse un motivo per vivere, e ho sentito il bisogno di dirgliene quattro. Volevo... volevo solo aiutarla... tutto qui -
Un sorrisetto beffardo comparve sul volto del detective, ma Michael non vi badò.
- E' la prima volta che ti sento dire... - osservò Xavier - ...che non riusciresti ad immaginarti qualcuno di noi in grado di nuocere agli altri. Sei sempre stato fisso sull'idea che "chiunque può essere un assassino". Questa è fiducia, Mike -
- Forse. Forse sono davvero cambiato - sbuffò - E ho il terrore che questa mia scelta mi condurrà prematuramente alla tomba... ma sì. Ho deciso di fidarmi di lei. E se... solo fosse possibile uscire da qui... vorrei che almeno lei ce la facesse. Vorrei che June andasse lì fuori e trovasse una ragione per vivere. Perché la vita è questo, Xavier: non ha mai un senso, all'inizio. Devi trovarlo tu, fornirglielo; e puoi farlo solo vivendo. La felicità esiste, bisogna solo trovarla. E io intendo trovare la mia... ma desidero che la abbia anche lei. Se lo merita -
A quel punto, Xavier mosse dei passi in avanti, in direzione di Michael.
Quest'ultimo scattò in punta di piedi, sorpreso da quella mossa inavvertita.
Dapprima spaesato e spaventato, smise di tremare nel momento in cui Xavier Jefferson gli tese la mano.
Ne osservò il movimento, la semplicità del gesto, il suo sorriso genuino. Non vi era nulla di malevolo, ma Michael Schwarz ancora non si decise a ricambiare.
- ...in virtù di questa tua presa di coscienza... - gli disse il ragazzo sfregiato - ...che ne diresti se cooperassimo per realizzare questo progetto? -
Michael esitò. Assaporò quelle parole senza carpirne il reale significato.
- Cosa intendi dire...? -
- Porteremo June fuori di qui, ma non solo. Anche noi due, e Pearl, e anche Judith. Usciremo tutti da questo posto - esclamò - Ho un piano, Mike. Un piano per scappare -
- Sei... sei impazzito!? - tuonò lui - Se anche avessi una strategia, portare fuori tutti è impossibile! Lo hai dimenticato!? Uno di noi cinque è un traditore! -
- Ho tenuto conto anche di quello - annuì Xavier - Devi fidarti, è una soluzione a prova di bomba -
- No! No che non mi fido! - reagì lui - Ho detto che avrei riposto fede in June, ma ciò non vuol dire che la cosa valga anche per voi altri! Io non mi fido di te, Xavier! Per quanto mi riguarda, sono ancora piuttosto convinto che il traditore possa essere TU! Sei sospetto oltre ogni modo, e non...! -
- Michael -
L'Ultimate Chemist si paralizzò. Lo sguardo di Xavier non era mai stato così serio e penetrante.
La sua singola pupilla emise un bagliore, e il chimico non poté fare a meno che perdersi all'interno di quel riflesso nell'iride.
Era un'espressione di pura, intransigente determinazione. 
Un qualcosa che le parole non avrebbero mai smosso. Un brivido gli percorse la schiena.
- So di non averti ancora fornito una prova concreta in merito alla mia innocenza... ma lascia almeno che ti esponga la mia idea; in seguito valuterai se darmi corda - gli disse - Ma, ti prego, stammi a sentire. Ho bisogno del tuo aiuto -
Michael deglutì. Era giunto il momento di compiere un'altra scelta di cui si sarebbe presto pentito.
- ...non ti prometto niente - disse - Ma ti ascolto -
Xavier Jefferson sorrise un'ultima volta.
- Grazie - annuì lui - Sarò breve. Senza giri di parole... avrei bisogno che tu mi faccia un grosso favore -



Fermatasi al centro della stanza, Pearl Crowngale socchiuse gli occhi e si lasciò guidare da quell'arcobaleno olfattivo, sottomettendo i sensi all'inebriante profumo sparso lungo la serra.
Inspirò a pieni polmoni l'odore di erba e petali, pur senza distinguerli e separarli; era l'insieme a darle quella sensazione di dolce e rilassante pace.
Non aveva bisogno di conoscerne i nomi e saperli distinguere per poterli apprezzare; con tutte le varietà presenti nel giardino interno, dopotutto, sarebbe stato impossibile riuscire a ricordarli tutti. 
L'unica persona ad esserne in grado aveva lasciato quel posto tempo prima.
Riaperte le palpebre, Pearl passeggiò lungo gli scaffali posando lo sguardo su ogni vaso, su ogni germoglio che sbocciava dal loro interno.
Passo dopo passo, finì per fare il giro dell'intero orticello più volte, lasciandosi carezzare dalla premurosa fragranza dei fiori.
La notte in bianco non aveva portato consiglio né riposo; l'Ultimate Assassin era uscita dalla camera la mattina presto e aveva passato la maggior parte del tempo a prepararsi un tè al ristorante, per poi mandarlo giù a fatica.
Lo stomaco si rifiutava di digerire alcunché, e la mancanza di sonno di certo non giovava.
L'idea di ripiegare su una visita al giardino per distendere i nervi le era giunta senza preavviso, una voglia improvvisa e irrazionale.
Durante quel periodo, a Pearl non era mai andata a genio l'idea di ripresentarsi lì; lo spettro di Kevin Claythorne faceva ancora gravare la sua presenza tra quei vasi, e il ricordo, per quanto tentasse di non darlo a vedere, le provocava ancora un acceso dolore.
Fu quando una stilla di disagio cominciò a formarsi che gli occhi di ghiaccio della ragazza si poggiarono su qualcosa che catturò immediatamente la sua attenzione, lasciandola affascinata.
Un vaso piuttosto largo e capiente era stato messo in bella vista sul bancone principale; una miriade di fiori dall'acceso colore blu, vertendo sull'azzurro, ne adornava l'interno con una cascata di petali del medesimo colore.
Alcuni erano caduti poggiandosi dolcemente sul legno del banco, formando un letto di petali gradevole alla vista.
Pearl, inizialmente colpita da quell'arrangiamento, si trovò assalita da una fitta di dolore.
Allungò lentamente la mano fino a sfiorare i fiori delicati e dalla consistenza setosa; non era la prima volta che ne tastava uno.
Pearl Crowngale realizzò: erano ortensie. Ortensie blu, dello stesso tipo di quella che conservava gelosamente in camera.
Una tristezza pungente la avvolse, ma la bellezza effimera di quei boccioli ebbe la meglio.
Allargò le braccia fino a cingere l'intero vaso, portandoselo al petto in una sorta di abbraccio.
Affondò il naso in mezzo ai petali godendo del loro effluvio e lasciando che la morbidezza della loro composizione le carezzasse le guance.
Poi, una volta cessato di inebriarsi del malinconico aroma, fu colta da un'ispirazione improvvisa.
Poggiò la mano nel centro del vaso e afferrò un'ortensia con delicatezza, tenendola dal gambo in modo tale che non si piegasse.
La portò vicino al naso, ed alzò lo sguardo: poco vicino c'era uno specchio attaccato alla parete.
Si avvicinò titubante, arrossendo vagamente al solo pensiero di ciò che stava per fare.
Rimirò il proprio riflesso nel vetro: aveva la pelle pallida e gli occhi stanchi, ma i capelli biondi erano lucenti e gli occhi cristallini scintillavano.
Il colore delle iridi si mescolò a quello del fiore in un insieme azzurrognolo.
Con un gesto insicuro ma speranzoso, portò il piccolo bocciolo alla tempia e lo incastrò tra i capelli, sciogliendosi il nastro con cui teneva ferma la chioma.
Rimase in silenzio a fissarsi con imbarazzo per diversi minuti.
Non sapeva né cosa pensare della situazione né di se stessa. Di una sola cosa era certa: tutto sommato non le dispiaceva.
Non aveva mai ammesso nemmeno a se stessa di invidiare la grazia con cui Judith portava il suo fermaglio, e la curiosità di tentare di emularle lo stile anche solo per un momento si era rapidamente tramutata in voglia.
Non si dispiacque del suo aspetto e non si pentì della scelta fino al momento in cui, rimirando lo specchio, una seconda sagoma non fece capolino alle sue spalle.
Il profilo di Xavier comparve improvvisamente sulla superficie speculare, e Pearl si voltò di scatto con un'espressione esterrefatta.
Il suo corpo agì in modo spontaneo, e con un rapido colpo di mano rimosse velocemente il fiore per poi riposizionarlo frettolosamente nel vaso.
Si voltò verso Xavier appena un istante dopo, ma era troppo tardi.
L'Ultimate Detective aveva assistito all'intera scena e un'espressione stupita gli era apparsa sul volto sfregiato.
Rimasero per alcuni secondi a fissarsi con imbarazzo.
Il primo pensiero di Xavier Jefferson andò al come, inizialmente, non aveva nemmeno riconosciuto la compagna a causa dei capelli sciolti.
Gli era sembrato come se una perfetta estranea si fosse improvvisamente introdotta nella scuola, ma dietro la chioma fluente e dorata si nascondevano due pupille chiare e cristalline che identificava perfettamente. 
Pur trattandosi ovviamente di Pearl, la sorpresa lo fece tentennare più del previsto.
- Xavier...! - esclamò lei col fiato mozzato - Cosa... ci fai qui? -
- Nulla in particolare, davvero - la rassicurò lui - Avevo visto la porta aperta e sono entrato... ti ho disturbata? -
Lei scosse il capo, tentando di ignorare il proprio imbarazzo facendo finta che nulla fosse accaduto.
- Affatto - rispose, ricomponendosi - Ero semplicemente venuta a... rilassarmi un po' -
- Mi sembra un'idea ragionevole - annuì lui, scrutando le varie composizioni floreali disposte lungo i vasi di terracotta - A volte fa bene staccare un po' il cervello -
- Ne ho sentito il bisogno dopo gli ultimi avvenimenti... - ammise Pearl - E tu? -
- Non posso negare di trovarmi nella stessa situazione -
Xavier si accomodò su uno degli sgabelli della serra, poggiandosi sopra con un sospiro sereno.
Ne offrì uno a Pearl, ma lei gli indicò che preferiva stare in piedi.
- ...è stato un gran brutto caso - commentò improvvisamente Xavier, fissando il vuoto.
La bionda si strinse tra le braccia, assumendo un'espressione intristita.
- Sì... - gemette - Ancora non mi capacito di ciò che è accaduto a Karol e Pierce... -
- Loro due sono stati le vittime principali, ma ci siamo andati di mezzo tutti - assodò Xavier - Soprattutto tu, Pearl. Come ti senti? -
Quell'improvvisa apprensione non le provocò che uno strano senso di disagio. Non era di certo abituata a ricevere attenzioni e premure dalle persone attorno a lei, ma tutto sommato dovette ammettere che non le era sgradito.
- ...sto bene - tentò di andare sul vago, ma i suoi occhi tradivano un malessere di fondo.
- Sei sicura? Hai dovuto mettere parecchia carne al fuoco, oggi - continuò Xavier - Ti capirei se avessi voglia di sfogarti un po' -
- Vedi, sembrerà ovvio, ma per me non è facile parlarne... non è facile guardare in faccia le stesse persone che ho ammesso di voler assassinare... - deglutì lei - Temo
che avrò bisogno di più tempo per abituarmi a questa nuova situazione... e ho come l'impressione che Michael non mi concederà alcun riguardo -
- Figurati, è già troppo impegnato a prendersela con me - ironizzò lui - Vedrai che quel testardo si convincerà, prima o poi -
- Lo spero davvero... - sospirò lei - Anche se, ora come ora, nemmeno io so cosa pensare di me stessa. Non mi meraviglierei se June e Judith avessero paura di me -
- Questo comportamento disfattista non ti si addice, Pearl - la rimproverò lui - Ma lo considero un vago passo in avanti per aprirti in modo più empatico con gli altri -
- Lo prendo come un complimento - disse, abbozzando un sorriso sincero.
Rimasero in silenzio per un po', ognuno cercando di mettere a posto idee e pensieri.
Vi era qualcosa che a Xavier premeva di chiedere, in realtà. Una domanda forse un po' scomoda, e forse inadatta alle circostanze, ma che lo tormentava fin dal processo del giorno prima.
- ...Pearl, posso porti una domanda? - disse, trovando il coraggio e prendendolo a due mani.
- Spara -
Xavier prese aria.
- ...cosa si prova ad... uccidere qualcuno? -
La bomba era stata sganciata, ed oramai era impossibile ammortizzarne l'urto.
Si rese conto di aver colto Pearl spiazzata: bastarono la sua espressione e il lieve aprirsi della sua bocca esitante a dargliene la conferma.
- ...come mai mi poni una domanda simile? -
- Ti chiedo scusa - disse in tono apologetico - Ma sto cercando di venire a patti con la realtà in cui ci troviamo. Sono morte molte persone, e alcuni di noi si sono macchiati di omicidio. E, in cuor mio, ho paura di ricordarli solo come assassini: vorrei poter conservare il ricordo della loro umanità, una sorta di... -
- Stai cercando di accettare la loro scelta di uccidere? - fece lei all'improvviso - Di giustificarli? -
Lui tentennò. Non erano i termini che avrebbe voluto usare, ma Pearl era stata fin troppo chiara e precisa.
- ...credo di sì. Sarà sbagliato nei confronti delle vittime, ma... - deglutì - Forse sto semplicemente cercando di convincermi che in loro non vi era un intento maligno -
Pearl gli fece cenno di aver inteso ciò che stava cercando di dirle; il difficile concetto che il detective aveva paura a tirare fuori a causa del momento delicato attraversato dalla compagna, che seppure con riluttanza si mostrò disponibile a colmare quei dubbi.
- ...ascoltami bene, Xavier. Ciò che sto per dirti è un punto di vista squisitamente personale, e non vorrei incautamente indurti a considerare l'assassinio come pratica risolutiva di qualsivoglia problema -
- Non è necessario che tu prenda queste precauzioni con me - la rassicurò lui.
Pearl Crowngale annuì, poi socchiuse gli occhi e incrociò le braccia, assumendo una posa meditativa.
Il ragazzo rimase a fissarla in trepidante attesa di una risposta, sperando in una soddisfacente illuminazione.
Alla fine, Pearl si decise a parlare.
- ...ciò che posso dirti è, innanzitutto, che ciò che provo normalmente io nella mia quotidianità professionale è completamente differente da ciò che è accaduto ai nostri amici. Ascoltando me non potrai mai capire il dolore che hanno provato loro - introdusse Pearl, senza lasciare spazio ad incomprensioni - Vedi, Xavier... io ho vissuto da sicario per quasi tutta la vita. Sono stata cresciuta come una sorta di macchina assassina, addestrata a neutralizzare bersagli umani nel minor tempo possibile e in modo efficiente. Io non sentivo niente, Xavier. Niente. Ho affondato un coltello nella gola di molte persone, altre le ho soffocate, ad altre ho rotto il collo ed altri ancora sono periti in modo anche peggiore. Ma il mio limite era che... non avvertivo niente di particolare. Per me era lavoro, capisci? Così come per qualunque persona la propria professione diventa abituale e ripetitiva, per me è stato lo stesso. Pur avendo a che fare con vite umane non potevo rendermi conto della differenza... fino a che il mio Maestro non mi ha istruita a riconoscere il valore di ciò che stavo rubando -
- Il "valore", dici? -
- Il peso di una vita, il suo significato - annuì lei - Strappavo vite senza nemmeno chiedermi il perché: erano ordini, e li seguivo. E dopo aver realizzato il mio errore ho iniziato a pormi una domanda. Un quesito incessante, che mi ha tormentato per giorni e notti, per molti anni: "perché uccido"? -
- ...un bel dilemma - constatò Xavier, assorbito dal racconto - E... hai trovato una risposta? -
Lei si bloccò per un momento, immergendo la mente nei ricordi dell'ultimo mese e mezzo.
- ...no - sospirò - Ma... ho trovato chi l'aveva -
- Come, scusa? Temo di non capire... - fece lui, perplesso.
- Vedi, Xavier... ho pensato molto alle azioni dei nostri compagni, coloro che si sono spinti nel baratro della disperazione, e hanno finito per essere giustiziati. Ho pensato più e più volte al loro operato e... ti sembrerà assurdo, forse ridicolo, ma... li invidio - Pearl dovette impiegare tutto il proprio coraggio per pronunciare quella frase senza avvertire una fitta di dolore al cuore - Li invidio moltissimo. Loro avevano... ciò che io ho cercato ostinatamente per tutta la vita. Alvin ha commesso un omicidio per mantenere una promessa più importante della sua stessa esistenza. Hayley ha combattuto strenuamente contro il proprio corpo pur di aggrapparsi alla vita. Rickard ha messo tutto da parte per amore di una persona speciale. Kevin... lui si è... fatto prendere dalla paura e dallo sconforto, ma in lui era forte il desiderio di vivere. E infine... temo che non sapremo mai ciò che ha spinto Pierce ad agire, ma doveva essere mosso da una volontà inamovibile per arrivare a tanto. Capisci, Xavier? Tutti loro hanno ucciso con un motivo ben preciso in mente; hanno assassinato con uno scopo, con una volontà propria. E' un qualcosa che io non sono mai riuscita a fare, nonostante tutti i miei trascorsi da killer. Sento che quelle persone hanno impresso un forte significato nelle loro azioni; qualcosa che li ha resi... umani, pur commettendo il gesto meno umano di tutti. Ed io, che mi sono immersa in litri e litri di sangue senza nemmeno pormi un singolo quesito, mi chiedo... come posso ritenermi umana? Come posso comprendere ciò che loro hanno provato? Cosa mi manca...? -
Fu uno sfogo lungo e dettagliato, che lasciò a Xavier un retrogusto amaro e indigesto.
Non gli pareva ancora normale di star affrontando una tematica come l'omicidio in maniera così strettamente dettagliata.
Sentiva che la discussione stava vertendo su di un punto di vista che una persona normale non avrebbe mai potuto afferrare a pieno, ma si sentì comunque in dovere di dirle qualcosa.
- ...Pearl, ascolta - disse lui - So che dirtelo ora non ha il minimo significato, considerato il tuo passato, ma il senso comune mi suggerirebbe di non provare nemmeno a cercarlo, un motivo per uccidere la gente. Uccidere è... beh, comunemente considerata un'azione sbagliata. Ma detto ad un'assassina professionista è un concetto vuoto -
- Non te ne faccio una colpa - sospirò lei - So di non avere una vita normale; che tratto l'assassinio come qualcosa di naturale ed ovvio -
- Eppure... - la interruppe lui - Penso di aver capito che... ancora non hai trovato qualcosa in cui credere -
Quel concetto fece rimanere Pearl alquanto confusa. Era un termine che aveva sentito di rado, ma sul quale non si era mai soffermata.
Si voltò verso Xavier: il suo viso non esprimeva severità o disgusto nei suoi confronti, stava davvero cercando di aiutarla come poteva.
Sentendosi un po' più a suo agio, Pearl si sollecitò ad investigare quel nuovo punto di vista.
- Qualcosa in cui... credere? -
- Non è tanto il valore della vita in sè, a questo punto - spiegò lui - Qualunque vita è preziosa. Quindi, se ti soffermassi a carpire il significato di ogni esistenza che strappi, la risposta sarebbe sempre la stessa: è sbagliato. Ciò a cui devi dare valore è il motivo che dai all'atto stesso. Non devi uccidere per uccidere, ma per raggiungere uno scopo; e quello scopo deve rispecchiare un valore in cui credi, qualcosa a cui dai importanza. Qualcosa che dia un senso alla tua vita, Pearl. Piuttosto di "Perché uccido", chiediti "Quale obiettivo voglio raggiungere facendo ciò? Quando giungerà il momento in cui non avrò più bisogno di uccidere?". Fino a quando non avrai trovato questo ideale... non potrai mai essere davvero completa -
La ragazza con occhi di ghiaccio si soffermò a lungo su quelle parole. 
Sentiva che Xavier aveva rielaborato quella domanda in qualcosa di più complesso, ma al contempo più chiaro.
Pur non trovando una risposta nell'immediatezza, Pearl Crowngale sentì che la strada davanti a sé era diventata più nitida, più chiara.
Gli mostrò un sorriso riconoscente.
- ...grazie, Xavier -
- Non ringraziarmi - disse lui, scuotendo il capo con veemenza - A prescindere da ciò che ho detto, uccidere è sbagliato! Quindi credo che... la cosa migliore sia  semplicemente non farlo mai più -
- Non devi temere, non è un qualcosa che voglio capire per affrontare il futuro... - spiegò lei - Ma solo per accettare il passato. Ve lo ho detto: non voglio più uccidere nessuno. Men che meno voi quattro -
- Questo mi rincuora - sorrise il detective - Sai, devo confessarti che... ho sempre temuto che prima o poi mi avresti fatto la pelle. Me ne hai data un'ampia dimostrazione tempo fa -
Pearl fece per chiedergli a cosa si riferisse, ma la sue mente ricordò all'istante ciò a cui alludeva.
Il giorno in cui Pearl Crowngale rivelò la sua identità fasulla all'Ultimate Detective non era stato piacevole e di certo non aveva avuto una conclusione migliore.
Xavier si passò una mano sul collo, rabbrividendo al solo pensiero; l'assaggio del potenziale di Pearl gli era bastato in quel singolo episodio, e aveva esercitato un'immane cautela nelle settimane a seguire pur di evitare qualunque altro scontro di simile portata.
- Ooh... quello... - disse, grattandosi una tempia con nervosismo - Scusami, Xavier. Volevo solo istillarti paura e tenerti lontano... -
- Lo so, non devi preoccupartene - la rassicurò lui - Anzi, ti comunico che sei perfettamente riuscita nel tuo intento. Non lo davo a vedere, ma ero terrorizzato -
- B-basta parlare di quello! - si lamentò lei, dandogli una lieve botta sulla spalla.
In conclusione finirono per ridere assieme ricordando quel momento spiacevole.
La tensione scivolò via così come era arrivata, lasciando spazio ad un'atmosfera più pacata.
I discorsi sulla morte vennero messi da parte, e ne seguì un sincero scambio di convenevoli e chiacchiere amene.
Pearl Crowngale si sentì come rinvigorita; la tristezza e lo sfinimento degli ultimi giorni vennero rimpiazzati dalla leggerezza di un discorso amichevole e spontaneo, di come mai era riuscita a condurre. Pur trovandosi di fronte ad una novità totalmente sconosciuta, appartenente ad una realtà differente, la accolse a braccia aperte.
Alla fine, Xavier si alzò in piedi portandosi alla sua altezza visiva.
- Vedrai, Pearl. Avrai modo di riscattarti una volta usciti di qui - le disse, poggiandole una mano sulla spalla e scuotendo leggermente - Ti aiuteremo noi -
La bionda intrecciò le dita delle mani e gli rivolse un sorriso sincero.
- Grazie... ma non riesco a condividere il tuo ottimismo - disse, poi - Chissà se riusciremo mai ad uscire...? -
- Oh, ce la faremo. Eccome -
La ragazza aggrottò la fronte. Vi era qualcosa, nel tono del compagno, che tradiva un'enorme confidenza e sicurezza.
Scrutò la pupilla verde di Xavier: era serissimo.
- Come puoi esserne... così certo? -
- E' semplice: ho un piano -
Lei deglutì.
- Un piano... - mormorò, speranzosa - Per scappare da questo luogo orrendo? -
- Proprio così - asserì - Tutti insieme -
Ancora una volta, una parte del discorso le fece scattare un campanello d'allarme.
- Ma, Xavier... non mi verrai mica a dire che... sai chi è il traditore? -
Lui rimase brevemente in silenzio. 
Le si avvicinò all'orecchio come per assicurarsi che nessun altro potesse udire, pur essendo da soli.
- ...ho una teoria - le rivelò - E la mia strategia è già in moto. Ho solo bisogno che ognuno giochi la sua parte -
Una vaga frenesia eccitata percorse Pearl nell'udire di quel nuovo fattore.
- Dimmelo, Xavier! Dimmi cosa hai...! -
- Saprete tutto a tempo debito - la rassicurò lui - Ma affinché ciò riesca... ho bisogno anche del tuo aiuto, Pearl -
Pur titubante e insoddisfatta, Pearl non sembrò restia ad acconsentire.
Sperò più volte che Xavier si decidesse a rivelarle la verità, ma il detective sembrava alquanto impuntato al riguardo.
Sospirò, arrendendosi alla situazione.
- Va bene... ti aiuterò - disse, infine - Ma devi promettermi che non ci terrai all'oscuro di ciò che stai facendo -
- ...te lo prometto - sorrise lui - Andrà tutto bene, Pearl, ma ora ascoltami con attenzione. Necessito di un piccolo, importante favore -

 

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Capitolo 57
*** Capitolo 6 - Parte 2 ***


Si erano oramai fatte le nove del mattino, e Xavier Jefferson si accinse a raggiungere l'ultima tappa del suo itinerario prefissato.
Abbandonò il secondo piano dell'istituto e si recò lungo l'ala est del primo piano, gettando sguardi circospetti a destra e a manca.
La stanchezza accumulata si fece sentire, ma fece in modo da farsela scivolare addosso, quasi ignorando la richiesta del suo occhio di chiudersi per qualche minuto.
Vi era un'ultima, cruciale mansione da portare a termine prima che si potesse concedere il giusto riposo.
La ricerca di Xavier proseguì per almeno un quarto d'ora, fino a quando non fu l'udito a guidarlo verso la sua meta.
Passeggiando lungo l'intersezione con il corridoio centrale, il ragazzo udì un suono melodico e cadenzato provenire da una delle stanze vicine.
Si guardò rapidamente attorno e alzò lo sguardo verso i pannelli affissi alle pareti: si trovava nell'area dei laboratori artistici.
Si domandò dapprima da dove venisse quel suono, ma realizzò abbastanza presto che poteva esserci un'unica spiegazione sensata.
Scansò il laboratorio artistico, sede di ricordi poco piacevoli e troppo recenti, e allungò il braccio verso la maniglia della porta accanto.
Il laboratorio musicale era rimasto deserto da settimane; dopo la scomparsa di Lawrence, gli studenti avevano preferito starne alla larga.
La melodia che ne usciva, però, dava quasi l'impressione che l'Ultimate Musician fosse tornato in vita per elargire un'ultima volta un assaggio della propria arte.
Quel pensiero infantile sfiorò appena la fredda e razionale mentalità dell'Ultimate Detective, che pensò bene di non perdersi a rimirare un passato doloroso.
Abbassò il pomolo, spinse lentamente la porta aiutandosi con la spalla, ed entrò nella stanza chiudendosela alle spalle senza fare il minimo rumore.
Il fine di Xavier trascendeva la mera discrezione; ciò che desiderava principalmente era che quella canzone malinconica non venisse disturbata.
Allungò lo sguardo fino al piccolo palco rialzato alla fine della stanza, dove un pianoforte solitario era situato al suo esatto centro.
Attorno ad esso, appoggiati alle pareti, una lunga sfilza di strumenti musicali di vario genere lo cingeva quasi come ad amplificare l'importanza dell'imponente e massiccio piano.
Infine, ultimo dettaglio del quadretto, una ragazza dai capelli corvini era seduta davanti alla fila di tasti bianchi e neri, facendo scivolare le mani su di essi con un tratto vagamente impreciso, ma molto delicato.
Xavier si fermò ad assistere a quell'esibizione solitaria, senza né un pubblico né uno scopo.
Judith era poggiata lì, da sola, con la musica come unica compagnia.
A Xavier bastò appena un minuto per realizzare che la sinfonia prodotta dalle mani dell'Ultimate Lawyer presentava numerosi difetti tecnici, ma capì anche che non gli importava.
Una scintilla nel suo sguardo si accese nel vedere quel semplice accostamento musicale, ma che sapeva esprimere comunque una forte malinconia.
Un arrangiamento imperfetto, ma comunque unico; come potendo sentire la voce di Judith in un modo completamente diverso, nuovo. Speciale.
Xavier Jefferson si domandò se Lawrence Grace non avesse provato dei sentimenti simili nei confronti della sua professione.
Ancora perso in quella visione sognante, un altro suono catturò però la sua attenzione: uno più fisso, statico; ridondante.
Un ticchettio preciso e imperterrito, che non cessava mai.
Si guardò attorno sperando di individuarne la fonte e farlo cessare, ma non sembrava essere nei paraggi.
Fu solo avvicinandosi al palco che Xavier individuò un piccolo e sottile oggetto posizionato sopra lo spartito; un ago metallico oscillava con precisione millimetrica, guidando il ritmo di Judith attraverso le note. Intuendone lo scopo gli bastò poco per abituarsene, ma un lieve fastidio di fondo rimaneva.
Passarono ancora alcuni minuti, durante i quali Judith si accorse di avere compagnia con un rapido cenno della testa.
Uno spettatore errante, giunto lì senza preavviso e senza annunciarsi.
Xavier le fece cenno di non fermarsi unicamente a causa della sua presenza; allungando la mano, la pregò di continuare.
Lei, dapprima imbarazzata, gli rivolse un sorriso caldo e tornò a concentrarsi sui tasti.
Un suono diverso, più dolce e pacato, di una gentilezza effimera, avvolse la stanza durante l'ultima strofa; poi, così come era stata prodotta, la musica cessò e si acquietò.
Dopo di ciò, Judith alzò un dito verso il dispositivo ondeggiante e premette un pulsante, spegnendolo e dando soddisfazione alle orecchie del detective.
Un breve applauso fu ciò che Xavier le rivolse non appena ebbe finito. Batté le mani delicatamente appena un paio di volte, raggiungendola sul palco.
- Non era male - disse, con schietta sincerità - Sei piena di sorprese -
- Conosco i rudimenti, ma quella che hai sentito non la definirei musica d'alta classe - sorrise lei - Mi piace strimpellare, tutto qui. Mi rilassa -
- Non mi sorprende che tu abbia bisogno di relax, con tutto ciò che è successo -
L'espressione di Judith mutò rapidamente in un mesto broncio; Xavier si pentì amaramente di averle tolto luminosità, ma era inevitabile.
Ciò che era accaduto a Karol Clouds e Pierce Lesdar ancora tormentava gli animi di tutti loro.
Judith incrociò le mani e sospirò malinconica.
- ...siamo rimasti solo cinque, eh? - mormorò, fissando il bianco della tastiera come a volercisi perdere dentro.
- Già... - annuì lui - Mi sembra ancora difficile da contemplare. Pensare che siamo partiti in sedici... -
Judith Flourish appoggiò entrambe le mani sul coperchio del piano e lo abbassò fino a coprirne i tasti.
Poi, si scostò di lato sullo sgabello rettangolare e indicò a Xavier un punto libero al suo fianco, invitandolo ad accomodarsi.
Il ragazzo la raggiunse scavalcando quella poca distanza che ancora intercorreva tra loro e le si piazzò vicino.
Rimasero seduti davanti al pianoforte per diverso tempo prima che qualcuno dei due si decidesse a parlare.
Entrambi sapevano bene quali sarebbero stati i principali argomenti di conversazione: il gioco al massacro e le azioni successive da compiere.
Era stata raggiunta una svolta importante, ma Xavier decise che non era il momento di perdersi in considerazioni legate alla paura e all'ansia.
Pur non dandolo a vedere, Judith era ancora profondamente scossa dagli avvenimenti del giorno prima.
Non voleva ricordarglieli: voleva aiutarla.
- ...dimmi una cosa - disse lui all'improvviso - Come trascorrevi il tuo tempo libero, normalmente? -
Lei esitò. Era un quesito strano, quasi banale. Ma notò una vena di genuino interesse, nonostante tutto.
- ...beh, pur essendo parecchio impegnata con il mio lavoro e gli studi... - raccontò lei - Mi piace guardare film di tanto in tanto -
- Film, dici? -
- Almeno uno a settimana - specificò lei - Non dico di avere il pallino della cinematografia, ma ho una conoscenza discreta in materia -
- Non male. Io, personalmente, non sono un avido consumatore di pellicole - ammise - Ma so gustare un buon film quando lo vedo -
- E' un hobby rilassante. Si possono imparare molte cose da un regista competente -
- Film preferito? -
- Ah, no, la scelta è troppo vasta - disse, alzando le mani - Mi sentirei quasi in colpa a preferirne uno -
- Avrai almeno un genere prediletto? -
- ...credi sia un'ovvietà se ti dicessi... i gialli e i polizieschi? - disse, grattandosi la guancia.
- Stai parlando ad un detective - fece spallucce - Così vai sul sicuro -
Risero in modo sincero, così come non si sarebbero mai aspettati di riuscire a fare in circostanze simili.
Xavier alzò lo sguardo al soffitto, stendendo le gambe con un sospiro rilassato.
- ...quando usciremo da qui ne vedremo qualcuno assieme - asserì.
Nonostante la proposta allettante, Judith si ritrovò impossibilitata a prenderla serenamente in considerazione.
Socchiuse gli occhi, sospirando.
- ..."quando usciremo" - mormorò con un filo di voce - Un concetto alquanto temerario... -
- Voglio essere ottimista, per una volta - affermò - E tu, Judith? Sei spaventata? -
Lei gli rivolse un'espressione basita, come se la risposta fosse fin troppo ovvia e scontata.
- E me lo chiedi...!? Certo! Sono spaventata a morte! - esclamò - L'unico modo per uscire di qui è... è l'omicidio, Xavier! E io non... -
- Non devi temere - la rassicurò lui - Andrà tutto bene. Assieme troveremo un modo di scappare -
Judith spalancò momentaneamente le palpebre; non era la prima volta che udiva quella parole.
Era una frase familiare, dal conforto e calore ben noti.
Un qualcosa che aveva già provato in diverse altre occasioni.
- ...quando parli così mi ricordi molto Karol -
Lui si mostrò sorpreso.
- Tu dici? - chiese - Lo prendo come un complimento -
- Lo è - sorrise placidamente Judith - Si era erto a nostro protettore, ha tentato di riunirci sotto la stessa causa. E se siamo ancora vivi... lo dobbiamo a lui -
- Credi che io sia capace di replicare qualcuno come Karol? - domandò Xavier, perplesso - Ho i miei dubbi -
- Non sottovalutare la fiducia che riponiamo in te, Xavier - osservò lei - Tu e Karol siete molto più simili di quanto non sembri -
- Citami un esempio -
Lei non ebbe nemmeno bisogno di pensarci. Gli rivolse uno guardo serissimo.
- ...entrambi, a modo vostro, avete fatto l'impossibile per proteggerci. Per tenerci uniti, per soccorrerci - disse - Non avrai dimenticato che sei stato tu a salvarmi, ieri? Quando tutto sembrava finito e... pensavo che sarei... morta in quella stanza... se ora sono qui lo devo principalmente a te -
- Judith, io... -
- No, dico sul serio - proseguì imperterrita - Credo di... non averti neppure ringraziato a dovere. Ma... il solo pensiero di essermi avvicinata alla tomba così tanto mi fa... rabbrividire. Non ho chiuso occhio, stanotte, e dubito accadrà molto presto. Ma tu eri con me; fin dal principio mi hai sempre difesa, hai compiuto ogni genere di pazzia solo per tenermi al sicuro. Per dimostrare la mia innocenza... sai, è la tua dedizione che mi ha ricordato Karol -
- Karol era molto diverso da me. Lui era pratico, diretto - ammise Xavier, con una punta di amarezza - Era autorevole, un tipo su cui poter contare. Bastava che aprisse bocca per riuscire a spronare tutti noi. Io... beh, la mia specialità sono i sotterfugi, gli espedienti. Raggiungo la verità mentendo, ottengo ciò che voglio agendo dalle retrovie. E' il tipo di persona che sono, e non potrei mai mettermi a paragone con Karol. Lui era... su un altro livello -
- Il vostro modo di operare è agli antipodi, ma i vostri fini erano gli stessi. Non ti pare? -
Xavier dovette arrendersi all'evidenza, ma non lo ammise in modo diretto.
Si limitò a voltarsi di lato, nascondendo l'evidente imbarazzo.
Judith non poté fare a meno di stuzzicarlo ancora un po'.
- ...sai, hai ragione. Karol era in grado di darci la carica semplicemente conversando - proseguì lei - Altre volte, invece, con idee più peculiari. Come il progetto collettivo, per menzionare un esempio calzante -
- Come dimenticarlo...? - annuì Xavier con malinconia.
- Ci ha permesso di mettere a frutto i nostri talenti in modo costruttivo, tentando di distoglierci dal volerli usare per l'omicidio - continuò lei, senza nascondere la sua ammirazione - E grazie a ciò sono nate opere meravigliose... come il quadro di Vivian, o la canzone di Lawrence. Oppure... come questo -
Xavier osservò l'indice di Judith puntare verso il piccolo dispositivo di forma oblunga posizionato sopra il pianoforte.
Era spento, immobile, ma la sua asticella sembrava voler riprendere il ritmo da un momento all'altro.
Il detective lo rimirò per bene, domandandosi che cosa avesse a che fare con il discorso alla mano.
- Questo aggeggio? - si grattò il mento - A guardarlo bene si direbbe... un metronomo -
- Non sbagli: è ciò che è - rispose lei, prendendolo tra le mani e mostrandoglielo - E' costruito a mano, ed è molto delicato. E' l'ultimo... lavoro di Hillary... -
- Hillary...? - esclamò, colto alla sprovvista - Lo ha realizzato lei? -
- E chi altri? -
Xavier ci pensò su, e in effetti non gli venne in mente nessuna altra alternativa.
Il metronomo era composto da un piccolo ma sofisticato sistema di ingranaggi, ed attivandolo notò che la lancetta si muoveva con precisione millimetrica, oscillando senza sosta e scandendo il tempo un ticchettio alla volta.
Non vi erano dubbi che si trattasse di un'opera dell'Ultimate Clockwork Artisan; Xavier realizzò di non aver mai visto Hillary al lavoro nel suo campo d'azione, e fu velatamente soddisfatto di aver potuto assistere ad uno dei suoi prodotti compiuti.
- E' davvero ben fatto - osservò Xavier, sfiorandolo delicatamente - Mi chiedo come mai abbia voluto costruirlo -
- ...non ne sono certa, ma ho una teoria plausibile -
- Oh, la difesa sembra avere un'idea - scherzò lui - Sentiamo -
- Beh, Vostro Onore, la verità è che... qualche tempo fa Lawrence mi fece una confidenza - raccontò lei - Fu durante il periodo in cui Karol ci aveva proposto il progetto collettivo. Lawrence mi disse che, per il suo, avrebbe chiesto ausilio ad Hillary. Ignoravo come, ma credo che questa sia l'unica spiegazione -
- Ah... ma certo. Il metronomo è uno strumento utile per un musicista - osservò - E Lawrence aveva composto un brano per Vivian -
- E Hillary ha fatto questo per loro... - Judith mostrò un sorriso caldo - Vedi? E' come ti dicevo. Persino una timorosa e riservata come Hillary ha saputo collaborare, con la giusta spinta. E tutto è partito da Karol, se ci pensi -
Xavier sospirò. 
- ...già, se la metti così è vero - disse con voce spenta - Hillary si fidava solo di Vivian, ma ha saputo aprirsi anche con lui. Sono convinto che anche Rickard e Kevin, con un po' di tempo, avrebbero saputo mettere da parte i loro timori -
- E l'ultimo caso... Karol ci ha aiutati per tutto il tempo senza nemmeno che ce ne fossimo resi conto - il tono di Judith era tristemente consapevole - Tutto ciò che ha fatto... lo ha fatto per noi. Ci ha uniti, ci ha protetti. Ci ha dato una possibilità -
- ...e ti prometto che non la sprecherò -
La voce di Xavier si fece improvvisamente più carica.
Judith notò quel cambio repentino; fu come se il compagno avesse completamente cambiato viso, così come anche l'atmosfera attorno a lui era stata ribaltata.
- ...che cosa intendi dire? -
- Quello che ho detto. Siamo sopravvissuti grazie a Karol e non getterò alle ortiche il suo sacrificio, così come quello di tutti gli altri nostri compagni. La loro morte non deve essere stata invano; dobbiamo scappare, sopravvivere, e... ricordarli -
- Sei... straordinariamente determinato - notò lei, impressionata ma al contempo lievemente intimorita.
- Sì... beh, non sarò l'Ultimate Teacher, ma farò di tutto per tenerci al sicuro - asserì - E farò in modo che tutti noi usciremo da questa scuola. Te lo prometto, Judith -
A quelle parole, una minuscola lacrima di commozione rigò la guancia dell'Ultimate Lawyer.
Era un'espressione di felicità, ma che nascondeva una stilla di paura e incertezza.
- Xavier... ti sono grata per queste parole, ma... - singhiozzò lei - ...non potremo mai uscire tutti da qui... vorrei tanto poterti aiutare, vorrei poter rendere il nostro gruppo unito, compatto... ma c'è... ancora la faccenda del tradi-... -
- Judith -
Xavier le bloccò la frase con un rapido movimento.
Raccolse le sue mani nelle proprie, stringendole tra loro con lieve dolcezza.
Ne assaporò il calore, tenendole unite fino a che Judith non avesse smesso di piangere.
Non appena cessò, passò l'indice sotto il suo occhio asciugandone i residui umidi.
I loro sguardi, estremamente vicini, si incontrarono in un ultimo, intenso scambio.
- Xavier...? -
- Judith, ascoltami molto, molto attentamente - le disse, con tono serio e profondo - Tu... ti fidi di me? Sai che non potrei mai farti del male, vero? -
Lei deglutì. Quella domanda le istillava una sensazione sgradevole, paurosa, ma al contempo dolce ed accogliente.
- Certo... certo che sì - annuì - Io non... -
- E allora devi credere alle mie parole. In questa scuola hai solo amici; alleati. Persone che ti proteggeranno. Io, June, Pearl, persino Michael, con un po' di buona  volontà. Non devi mai dubitarne: loro tre sono i nostri preziosi compagni -
- Ma Xavier...! Il trad-...! -
- Non c'è nessun traditore - la interruppe - Non c'è mai stato -



Per un istante fu come se il tempo stesso si fosse improvvisamente congelato e avesse iniziato a scorrere all'indietro.
La mente di Judith ripercorse in meri attimi tutto ciò che aveva composto quell'ultimo mese.
Le persone scomparse, il sangue versato, le notti insonni, i dubbi e i sospetti.
Il guardarsi le spalle ogni volta che si usciva dalla stanza.
I pasti indigesti tra gli sguardi di chi temeva di essere pugnalato alle spalle.
Le indagini, i processi.
Le urla, le lacrime.
Tra omicidi, esecuzioni, e persone che tiravano avanti per inerzia, il significato di quella semplice frase diede un senso nuovo e terribile alla loro situazione.
Le labbra di Judith tremarono senza che riuscissero ad emettere alcun suono.
Sentì di voler piangere ancora, ma Xavier la tenne saldamente tra le mani.
Rimase a bocca aperta per diverso tempo, incapace di proferire alcunché.
Si passò più volte la mano sulla fronte, tentando di accettare quell'informazione.
Ma non ci riuscì. Semplicemente non poteva farlo.
Si rivolse nuovamente verso il compagno, con occhi arrossati e lucidi.
- ...non... esiste...? - gemette - Ma che... che vuol dire...? -
- E' stato tutto un sofisticato tranello... - rispose, abbassando la testa con sofferenza.
- Ma... e tutti i nostri compagni morti? Per cosa sono...? - scosse il capo veementemente - No... no, un momento... Xavier, come fai a...? Come fai a saperlo? -
Lui alzò lentamente gli occhi verso di lei; a quella distanza, la cicatrice su quello sinistro le fece un certo effetto.
L'iride verde le inviò una supplica silenziosa, e le mani di Xavier si strinsero ancora di più sulle sue.
- ...ti dirò tutto a tempo debito. Molto, molto presto - le rispose - Ho un piano, Judith. Un piano per uscire da qui. Per scappare tutti assieme -
- Dici sul serio...? -
- Non potrei mai scherzare su qualcosa del genere - affermò lui, rimarcandone la rilevanza - Ma se vogliamo che questa strategia abbia successo, avrò bisogno della collaborazione di tutti. Judith... anche della tua. Ti chiedo di prestarmi aiuto... me lo darai? -
A quelle parole, Xavier riscontrò un responso inaspettato.
Judith scostò le mani dalle sue e gli si avvicinò con tutto il corpo, stringendolo in un abbraccio.
Avvolse mani e braccia attorno al suo torace ed appoggiò la testa nell'incavo del suo collo.
Si distese per metà lungo la sua gamba ed incrociò le mani cingendolo in un circolo completo.
Xavier, dapprima colto di sorpresa, appoggiò la mano sinistra al suo fianco e la destra tra i capelli corvini, accarezzandola lentamente, rassicurandola.
Judith socchiuse gli occhi e si lasciò cullare da quel movimento lieve e confortevole.
Rimasero avvinghiati in quella dolce morsa per diverso tempo. Nessuno dei due seppe quanto passò, e nemmeno erano certi di volere che finisse.
Ad un certo punto, Judith portò la bocca vicino al suo orecchio, sussurrando a bassa voce.
- ...c'è un motivo valido per cui non puoi dirmelo adesso, vero? -
Avvertì le braccia di Xavier irrigidirsi per un istante. Passò la propria mano lungo di esse, convincendolo a non avere timore.
- ...sì, è così -
Ne seguì un altro breve silenzio.
- Judith, io... non ti costringerò a... -
- Dimmi cosa devo fare -
Xavier Jefferson fu grato che, in quel momento, i loro occhi non si stavano incrociando.
Fu per lui motivo di sollievo il non doverle dare a vedere la commozione che provava per quell'unico, grande slancio di fede.
Avvicinò le labbra alla guancia dell'Ultimate Lawyer e le scoccò un breve bacio.
- ...dietro la lavagna dell'aula al primo piano... - le disse - ...quella usata da Karol... c'è un vano segreto. Un nascondiglio. Lì troverai un importante pezzo del puzzle, una prova: un cofanetto non sigillato. Prendilo e portalo con te, ma non rivelarne il contenuto fino a che non sarai assieme a tutti noi, va bene? -
Lei stette a sentire prestando attenzione ad ogni dettaglio. Sospirò.
- ...mi stai mettendo a dura prova in più di un modo, sai? - gli disse, ricambiando il gesto d'affetto.
Gli appoggiò la bocca sulla gota e lo baciò silenziosamente. Poi, i due sciolsero l'abbraccio.
- Lo so, ti chiedo scusa - sospirò, in tono apologetico - So di starti domandando molto, ma... -
- Mi hai salvato la vita, Xavier - fece lei - Il minimo che io possa fare è darti una mano nel momento del bisogno. E se necessiti che io non ponga domande... allora non lo farò -
- ...grazie -
Xavier si alzò dallo sgabello. Le loro mani erano ancora unite, e il ragazzo covava il desiderio di stringerla ancora a sé.
Malvolentieri, entrambi lasciarono la presa sperando che il momento di riconciliarle non fosse lontano.
- Ho dato appuntamento a tutti alle dieci, al piazzale dei dormitori - disse, avviandosi all'uscita - ...ci vediamo lì -
- Sì... - sorrise lei - A presto.
L'Ultimate Detective si congedò definitivamente dalla stanza.
Vuoto e silenzio seguirono il suo commiato. Judith dovette attendere un momento per stabilizzarsi.
Il cuore le palpitava forte, e l'emozione fu dura a svanire.
Si diede alcuni buffetti sulle guance per motivarsi e si alzò a sua volta.
Fece per andarsene, ma si bloccò all'improvviso. 
Il suo sguardo andò verso il piccolo metronomo ancora poggiato sul pianoforte.
Lo rimirò con interesse, e lo afferrò con cura tra le dita.
- ...Xavier ci farà uscire da qui - disse tra sé con pura convinzione - E tu verrai con me. Non rimarrai qui a prendere polvere -
Lo infilò tra le pieghe della giacca color blu scuro, ed uscì dal laboratorio musicale.
Si inoltrò tra i corridoi, correndo il più veloce possibile.
Vi era una nuova speranza, in lei, seppure cinta da un velo di inquietudine. Judith Flourish decise, però, che avrebbe riposto la sua fede incondizionata in quell'ultima, enorme follia. Sarebbe stato il suo cuore, quella volta, a scegliere.
Si liberò da ogni freno, e corse.
Mancava mezz'ora all'appuntamento.
      




June Harrier avanzò a passo svelto facendo attenzione a non far cadere ciò che stava trasportando.
Aveva riempito una grossa busta fino all'orlo, finendo per farla traboccare.
Si guardò attorno una volta raggiunto il retro del ristorante: non sembrava esserci nessuno.
Uno dei vari schermi sparpagliati lungo la scuola indicava sul monitor le nove e cinquantotto.
Si crogiolò brevemente nella propria puntualità e marciò oltre. Non aveva tempo da perdere e vi erano ancora diverse cose da sistemare.
L'atmosfera generale era piuttosto tesa, ma a June faceva comunque piacere il potersi tenere indaffarata.
Aveva spesso avuto il timore che la mancanza di mansioni da compiere nella vita quotidiana avrebbe potuto impigrirla.
Con un ultimo sforzo, sobbarcandosi il peso che si portava appresso, fece il giro del locale e si portò all'ingresso, proprio davanti all'entrata del piazzale.
Fu sorpresa di vedere che, a dispetto di ciò che credeva, sembrava già essersi creata una discussione alquanto animata.
Vide Michael e Pearl poco più avanti, intenti a parlare di chissà cosa. Unico fattore visibile era che l'Ultimate Chemist fosse, come al solito, piuttosto contrariato.
Il vocione di Michael risuonò lungo l'intero corridoio, mentre Pearl mostrava un'espressione infastidita e sconfortata.
June si domandò da quanto tempo Michael la stesse assillando, e si decise ad intervenire.
- Mike! Pearl! - gridò loro - Ma che sta succedendo!? -
Entrambi si voltarono verso di lei con sorpresa.
Michael Schwarz si mostrò particolarmente compiaciuto del suo arrivo.
- Ah, June, arrivi al momento giusto! - esordì lui - Stavo giusto tentando di capire che cosa stesse passando per la testa di questa PAZZA! -
- Michael, te lo ho già detto: si tratta di un enorme malinteso... - sbuffò lei, mostrando una santa pazienza.
June non impiegò molto per intuire a cosa si stesse riferendo il chimico.
Pearl sembrò star trasportando a sua volta dei bustoni carichi di oggetti di vario tipo, ma di categoria ben diversa.
Una semplice occhiata, e l'arciera rabbrividì: tra vari rumori metallici, dalle borse di Pearl spuntarono numerosi manici di coltelli e oggetti affilati di vario tipo.
Addirittura, portava legata alla vita una spada con tanto di fodero, reperita chissà dove.
Non riuscì a dare torto all'allarmismo di Michael, ma tentò comunque di capire con lucidità e calma che cosa stesse accadendo.
- Pearl... che cosa sono quelli? - domandò lei, leggermente intimorita.
- ...sono armi. Tutte quelle che sono riuscita a recuperare dalla scuola - rispose lei - Ma non abbiatene timore: non le ho prese per usarle contro di voi -
- Ah, ma certo! E secondo te dovremmo semplicemente accettare il fatto che tu abbia fatto incetta di armamentari per puro collezionismo!? - ringhiò lui - Ci hai presi per degli idioti!? -
- A-aspetta, Mike... deve esserci una spiegazione, no...? - osservò June - Che motivo avevi di accumularne così tante? -
Pearl appoggiò i borsoni a terra, tentando di alleggerire la tensione. Se ne distanziò abbastanza da far ritenere a Michael che non costituiva una minaccia.
La bionda incrociò le braccia ed emise un sospiro profondo.
- ...me lo ha chiesto Xavier - rivelò loro - Mi ha pregato di prendere tutto ciò che poteva essere usato come arma, ogni cosa che potessi trovare -
Gli altri due rimasero ancora più sbigottiti, per più di un motivo.
- Te lo ha chiesto... Xavier? - balbettò June, incredula - Ma... perché? -
- Non ne ho idea... - brontolò Pearl, ostentando insoddisfazione - Mi ha detto... che avrebbe spiegato tutto una volta riuniti al piazzale alle dieci in punto -
- E non hai pensato di domandargli il motivo di tutto ciò!? - esclamò allibito il chimico, sempre più esasperato.
Pearl si grattò la nuca con imbarazzo.
- Io... gli dovevo molto dall'ultimo caso - disse, voltandosi - Lui mi ha chiesto di non fare domande, quindi ho preferito non farne... e poi non è venuto a nuocere a nessuno, no? -
- Sotto questo punto di vista... no - annuì June - Ma è comunque molto strano... perché ci ha chiesto di radunare tutta questa roba? -
- "Ci" ha chiesto? Vuoi dire che ha domandato un favore anche a te? -
- S-sì... ma a me è diverso, più o meno... -
A quel punto, anche June poggiò a terra il proprio carico per rivelarlo agli altri.
Da ciò che stava trasportando sbucarono numerose valigette metalliche, ognuna con una croce rossa dipinta sopra.
Erano numerosi contenitori di pronto soccorso recuperati dalle varie stanze della scuola. Pearl riconobbe quello del ristorante, usato la settimana prima.
Assieme a quei kit medici, un altro elemento di spicco fece la sua comparsa tra i bagagli di June: un arco, lo stesso che era conservato in palestra.
La fattura eccellente e le dimensioni non lasciavano spazio a dubbi: si trattava dello stesso arco rubato da Alvin.
Assieme ad esso vi era anche una faretra con numerose frecce al suo interno.
- Hai... preso l'arco dalla...!? -
- Lo avevo già sgraffignato qualche settimana fa... - ammise June - Lo ho tenuto nascosto in camera mia per sicurezza... -
- E questi pacchetti di medicine? - domandò Pearl.
L'arciera si strinse tra le spalle.
- Xavier... mi ha chiesto di recuperare tutte quelle che potevo, e poi di recuperare arco e frecce... - deglutì - Ha detto che mi avrebbe rivelato il motivo al piazzale... -
La stessa storia andò a ripetersi una seconda volta.
Mentre i tre tentavano di rimuginare su cosa potesse essere accaduto, un quarto studente si unì a loro.
Judith Flourish li aveva raggiunti nel bel mezzo della spiegazione di June, e si mostrò non poco confusa.
- Judith! Ci sei anche tu - la richiamò l'Ultimate Archer.
L'avvocatessa lanciò occhiate circospette ad entrambi i bagagli; la colse un velo di apprensione.
- Armi... e medicine? - 
- E' stato Xavier a domandarci di farne scorta... - le spiegò Michael - Ma ancora ne ignoriamo il motivo -
- Xavier vi avrebbe chiesto di...? - Judith tentennò.
Fu in quel momento che gli altri tre notarono che anche l'Ultimate Lawyer aveva portato qualcosa con sé, per quanto molto più piccolo e meno ingombrante.
Tra le mani, Judith teneva un cofanetto metallico colorato di nero. Lo teneva a sé stringendoselo al petto, come ad evidenziarne l'importanza.
- ...a te ha chiesto forse di portare... quello? - domandò Pearl, incuriosita.
- Ah... sì, è così - annuì lei - Mi ha confidato di avervi implorato alcuni favori. A me ha richiesto questo recipiente -
- Beh, cosa contiene? -
Judith arrossì e abbassò lo sguardo.
- N-non lo so...! Mi ha pregato di non aprirlo prima di esserci tutti riuniti...! - ammise - Ma ha anche aggiunto che si tratta di qualcosa di importante! -
- Quanto importante? - incalzò Michael.
- Beh, credo parecchio - continuò lei - Era nascosto in uno scompartimento segreto dietro la lavagna dell'aula al primo piano. Deve trattarsi di qualcosa di grosso! -
Calò un silenzio di tomba. Tutti e tre spalancarono gli occhi, esterrefatti. 
- Co-come!? E' uno scrigno nascosto e tu ancora non hai controllato cosa ci fosse dentro!? - gridò Michael.
- Ti ho già detto che faceva parte del piano di Xavier! -
- Ma al diavolo Xavier! Quell'affare potrebbe salvarci la vita! APRILO! - inveì il chimico.
Judith rinsaldò la presa sul cofanetto, impuntandosi sul volerlo lasciare chiuso.
Toccò a June l'onere di porsi tra i due litiganti per sedare la faida.
Tra un battibecco e l'altro, calmatesi le acque, fu Pearl a sottoporre all'attenzione altrui un proprio inquietante pensiero.
- ...ragazzi, ascoltatemi... - disse loro, catturando la loro attenzione - Ho uno... strano presentimento -
Judith aggrottò la fronte.
- Cosa intendi? -
- Xavier ha chiesto un favore differente a tutti noi, ma nessuna delle sue richieste sembra coincidere con le altre - spiegò loro.
- Avrà avuto i suoi motivi, no? - June mosse l'indice in un gesto rilassato - E poi stiamo per scoprire tutto. Oramai sono le... -
- Già, le dieci passate... ma Xavier dov'è? -
Vi fu un attimo di titubante incertezza.
Si guardarono attorno con circospezione istintiva, realizzando che il diretto interessato ancora non era presente.
Non vi era traccia di Xavier Jefferson da nessuna parte, anche se il luogo dell'appuntamento era a pochi metri dalla loro ubicazione.
- ...Xavier non c'è ancora? - mormorò Judith - Ma deve essere qui, da qualche parte... -
- Dove si è cacciato quel cretino...!? - Michael picchiettò nervosamente a terra col piede.
In mezzo a quella domanda ricorrente, gli occhi di ghiaccio di Pearl mostrarono evidenti segni di inquietudine.
Un'espressione di disagio comparve sul suo volto e non accennava a sparire.
- P-Pearl... che cosa vuoi dire con...? - chiese June, notando l'atmosfera di tensione.
- ...ci ha chiesto di procurarci armi e medicine, più quella che sembra una prova fondamentale... - continuò l'assassina - E' tutto molto strano... -
- E' come se ci avesse detto di... - Judith sussultò - ...di prepararci? -
- Ma a cosa!? E dove diavolo si trova!? -
- ...r-ragazzi? -
Tutti si voltarono verso June Harrier. L'arciera era visibilmente scossa.
Girò la testa più e più volte, come a cercare qualcosa che gli altri ancora ignoravano.
- June...? Che ti prende? - le fece Michael - Cos'hai? -
- Non lo sentite anche voi...? - disse loro - Questo rumore? -
I tre rimasero a fissarla per alcuni istanti, poi piombarono in un silenzio forzato.
Stettero senza fare il minimo suono, non emettendo nemmeno un respiro o un sussurro.
Ben presto, ciò a cui l'arciera si stava riferendo divenne chiaro.
Un rumore elettronico, come una sorta di allegro motivetto, si stava diffondendo nell'area.
Non fu complicato individuarne la provenienza: veniva dal piazzale dei dormitori appena di fianco.
Tutti e quattro si voltarono di scatto nella stessa direzione.
- ...viene da lì - indicò June.
- ...andiamo, presto! - 
Pearl prese a correre in quella direzione, senza neppure conoscerne il motivo. 
Sentì semplicemente di dover correre, e soddisfare quel bisogno di sapere. 
Il disagio crescente non si era affatto attenuato; quasi terrorizzata, Pearl si fiondò verso la fonte del rumore.
Judith la seguì a ruota, contagiata dagli stessi timori, tenendo stretto a sé il cofanetto.
Aveva posto su quel recipiente la sua incrollabile fede nei confronti dell'Ultimate Detective. Tenerlo a sé bastava a darle la forza di andare avanti, ma non di liberarsi da quell'angoscia che dilagava.
June e Michael erano subito alle loro spalle, dirigendosi altrettanto rapidamente verso il centro.
Nessuno dei due capiva cosa stava accadendo, né perché. Entrambi, però sapevano che qualcosa stava per cambiare. 
Il mero istinto suggerì loro di tenere alta la guardia.
I quattro studenti giunsero a destinazione.
Ad accogliere il loro ingresso fu un elemento fuori posto; una visione inusuale.
I quattro arrestarono la loro marcia nel bel mezzo del piazzale, dove la sezione circolare posizionata esattamente al centro mancava.
- ...l'ascensore... manca? - osservò Judith.
- No, è in funzione! - indicò Michael - Guardate! -
Non appena pronunciò quelle parole, la piattaforma sbucò dal pavimento e si riposizionò al suo posto, lì dove era sempre stata.
Con un lieve movimento meccanico scivolò attraverso la fessura e si integrò nuovamente al suolo.
- Qualcuno ha... usato l'ascensore? - mormorò Pearl, incredula.
- Ma il rumore viene da altrove...! - June aguzzò l'udito, e la fonte fu subito chiara - ...sopra di noi! -
Alzarono lo sguardo all'unisono.
Sopra le loro teste, un enorme schermo stava brillando di vari colori mentre mostrava varie immagini.
Erano tonalità cromatiche così accese che fu necessario abituarsi alla vista prima di poter distinguere cosa vi fosse sopra.
Judith, Pearl, June e Michael si stropicciarono gli occhi, e posero lo sguardo sopra di esso.


...poco tempo prima


Xavier si guardò attorno una terza volta per assicurarsi che non vi fosse nessuno in vista.
Solo il silenzio era a fargli compagnia; silenzio, desolazione e solitudine.
Il piazzale era spoglio e tutte le stanze dei dormitori disabitate; lanciò uno sguardo verso l'orologio digitale posizionato all'uscita dell'area.
L'orario segnato portava le nove e quarantuno.
"Circa venti minuti all'appuntamento con gli altri..."
Fece rapidamente mente locale, ipotizzando dove potessero trovarsi gli altri quattro.
Aveva predisposto tutto secondo un calcolo preciso, ed era certo che il suo piano avrebbe dato frutti. Non gli rimaneva altro da fare se non l'ultima mossa.
Si portò vicino al pannello di controllo della porta elettronica, la mastodontica muraglia di metallo che si era aperta un mese prima dando loro un malevolo benvenuto alla Hope's Peak Academy. Era rimasta aperta sin da allora, e tutti pensavano fosse stata semplicemente lasciata spenta e inattiva.
Il display, però, era ancora attivo. 
Su di esso era rappresentata una griglia quattro per quattro con, all'interno dei riquadri, alcuni disegni stilizzati delle sagome degli studenti.
Xavier mostrò una smorfia di disgusto; i volti di coloro che erano periti erano stati anneriti e marchiati da una croce rossa; un marchio evidente che fungeva da monito.
Rimanevano accesi soltanto cinque quadranti.
Xavier promise a se stesso che avrebbe fatto in modo che nessun altro venisse rimosso.
"...è ora di compiere l'ultima verifica"
Si posizionò davanti allo schermo dei comandi e si schiarì la voce un paio di volte.
Avvicinando lentamente la bocca davanti al display, iniziò a sussurrare un richiamo.
- ...Monokuma - disse - Rispondi -
Passarono alcuni attimi, ma non vi fu alcuna reazione. Niente variò, e Xavier decise di ritentare.
- Monokuma, so che puoi sentirmi! - tuonò - Rispondimi! -
Ancora nulla, nessun responso. Xavier Jefferson cominciò a spazientirsi sempre di più.
- Maledetto orso, non farmi perdere tempo! - gridò, battendo un pugno sul vetro - Non hai forse detto tu stesso che potevamo consultarti!? -
Ci vollero diversi altri colpi violenti sul monitor per fare in modo che apparisse uno schermo statico seguito da rumori indistinti.
La griglia sparì di botto, e al suo posto comparve il profilo arrotondato della fastidiosa mascotte.
Il volto bicolore di Monokuma fece capolino lungo lo schermo, mostrando un'espressione adirata e contrariata.
- Hey! Ma che modi sono!? - strepitò il pupazzo - Vuoi per caso romperlo!? Non c'è mica bisogno di agitarsi tanto! -
Xavier osservò con disgusto la piccola figura comparsa sullo schermo.
Incrociò le braccia, mostrandogli una smorfia di sdegno.
- ...tsk, come immaginavo -
- Come, scusa!? Che vai blaterando!? - domandò Monokuma, sempre più irascibile.
- Avevo il sospetto che fossi capace di comparire letteralmente su qualunque schermo di questa scuola. Me ne hai appena dato la conferma - spiegò lui, con voce saccente.
Monokuma emise un sospiro rassegnato.
- ...non dirmi che mi hai disturbato solo per questo...? - brontolò - Voi ragazzi proprio non conoscete il valore delle cose e del tempo...! -
- Non dire sciocchezze, non ti ho certo chiamato solo per un dettaglio così frivolo -
- E allora spara. Che cosa vuoi? - domandò, ricomponendosi.
Il detective attese qualche istante, studiando la sua preda. Era solo un'immagine su uno schermo, ma si trattava comunque di un avversario scaltro e pericoloso.
- ...c'è una domanda che dovevo porti riguardo ad un mio dubbio - cominciò lui - Mettiamo caso che il traditore divenisse la vittima di un caso. Tu, in quel caso, avresti l'obbligo di avvertirci; non è così? -
Monokuma rimase fermo, inespressivo. Passarono diversi secondi, ma non accennò a dare una risposta.
Xavier picchiettò nervosamente sul vetro; quel silenzio gli stava fornendo diversi spunti per pensare.
- ...ebbene? - continuò il giovane.
- Xavier, forse dovresti propinarmi un argomento che abbia un minimo di senso, se vuoi la mia attenzione! - lo canzonò lui, grattandosi l'orecchio con aria di sufficienza.
Un meccanismo scattò in Xavier. Si sporse lievemente in avanti.
- ...va bene, Monokuma. Lascia che riformuli la domanda... - sibilò lui - Se la spia morisse... tu ce lo diresti immediatamente, giusto? -
- Uff! Che quesito banale! Nemmeno io posso andare contro le mie stesse regole, chiaro!? - disse - Certo! Se morisse, vi avviserei come promesso! -
Xavier Jefferson rimase impassibile, contemplando l'informazione ricevuta da Monokuma.
Provava un odio profondo nei confronti di quel robottino animalesco, un astio che non si sarebbe mai appianato.
Eppure, per la prima volta, Xavier si ritrovò a rivolgergli un sorriso.
Un ghigno soddisfatto, vagamente beffardo. Un'espressione di chi aveva la partita in pugno.
Monokuma non mancò di notarlo, e si acquietò.
- ...lo hai fatto di nuovo, Monokuma - mormorò, scandendo bene le parole.
- Che intendi dire, ragazzino? -
- Ti sei tradito per la seconda volta - disse - Ho finalmente scoperto il tuo trucchetto. Il tuo tranello per abbindolarci tutti -
Il volto impassibile di Monokuma non diede cenno di ansia o preoccupazione. 
Rimase lì, inerte, come un animale impagliato.
- Ooh? Ma davvero...? - sibilò l'orso con voce vagamente divertita - E che cosa avrebbe capito il nostro geniale detective? -
- Una verità banale, che ci è sfuggita per tutto questo tempo... - ammise, stringendo i pugni con rabbia - Un inganno a cielo aperto, rimasto sempre sotto il nostro naso senza, però, che riuscissimo a vederlo. E questo trabocchetto te lo porti avanti fin dal nostro primo giorno in questo inferno. Il giorno in cui ci dicesti che... c'era una "talpa" in mezzo a noi. Una "spia" -
Il sorrisetto maligno di Monokuma si allargò.
- Senti, senti... mi stai forse accusando di avervi mentito...? - chiese l'orso, con fare divertito.
- No, è proprio questo il punto: era la verità. C'è una spia, tra noi... - prese una breve pausa - ...ma tu non hai mai detto neppure una singola volta che c'è un "traditore" -
Il confronto raggiunse una svolta decisiva.
Lo stallo era concluso, e la pupilla di Monokuma si illuminò di un rosso acceso e spettrale.
Un ghigno deformato, orrendo e mostruoso, comparve sulla faccia della bestia meccanica. Una risata maniacale uscì dalle sue labbra, mentre lo schermo vibrava e si offuscava.
Era come se per la prima volta rivelasse la sua vera natura senza alcun filtro, senza maschere.
Non erano mancati episodi in cui Monokuma aveva assestato la propria superiorità, ma Xavier aveva sempre avvertito un certo distacco.
Quel pupazzo era manovrato da qualcuno che non aveva mai avuto la minima intenzione di porsi al loro stesso livello.
Ma in quel momento, in quel singolo istante, Xavier riuscì a vedere oltre le apparenze.
La risata dell'androide assunse una connotazione folle, esaltata, malvagia. Umana.
- Già... esatto! - rise spietatamente - Mai una volta ho pronunciato quel vocabolo! Tutto ciò che dovevate fare era di trovare "la spia"! -
- ...ma a quelle parole ci siamo fatti prendere dal panico... - continuò Xavier - ...ed è iniziata a serpeggiare tra noi l'idea che ci fosse un agente doppiogiochista. Ma è stato tutto un nostro costrutto... un nostro timore che è andato a consolidarsi... -
- Esattamente. Io vi ho semplicemente dato un'informazione, Xavier; ma avete fatto tutto da soli! - disse, ridendo in modo sempre più sfrenato - Guarda! Ammira il potere
delle parole! Basta pronunciare una semplice frase come "c'è una talpa", e tutti perdono la testa! Vi siete creati un mostro che non esisteva per darvi uno scopo, vi guardavate le spalle da un nemico che non è mai esistito! Il vostro ragionamento è andato per associazione di idee, e vi ha condotto a questo punto! Prendi quel poveraccio di Claythorne come esempio: si è fatto divorare il cervello dalla paura e ha finito per commettere un omicidio, e tutto per un'idea che avete estrapolato voi stessi! Ah, che divertente ironia! -
Xavier resistette all'impulso crescente di prendere a calci l'intero circuito elettronico e di mettere a tacere quella voce.
Ma dovette resistere, si costrinse a farlo. Il suo lavoro non era ancora concluso.
- E che dire del vostro amato professore!? - continuò Monokuma - Oh, si rivolterà nella tomba quando saprà che è morto cercando di proteggervi da NIENTE! -
- Ora basta, orso imbecille - sbottò lui, adirato - Non ho tempo da perdere con un inutile psicopatico come te -
- Così rischi di ferire i miei sentimenti, Xavier! - 
La presa in giro gli scivolò addosso. 
Xavier fece stridere le unghie sullo schermo, come a tentare di immaginarsi di potergli arrecare del dolore fisico.
- ...ho un'ultima domanda per te, bastardo -
- Heh... dimmi pure - lo accomodò Monokuma - Anche se non so cos'altro potresti volere, ora che sai tutto ciò che c'è da sapere -
- Non proprio tutto - proseguì il detective - Ricordami un'ultima volta le condizioni per concludere il gioco. Le possibilità sono tre: quindici persone muoiono, e c'è un vincitore; oppure, la spia viene uccisa; o ancora, la spia confessa la sua identità. Ho mancato niente? -
Monokuma non capiva dove volesse andare a parare, e si limitò a dargli un vago cenno di assenso.
- ...già, è tutto corretto. Dunque? -
Stavolta fu Xavier, a sorridere malevolo.
- Dunque... mi permetto di utilizzare un cavillo tecnico che non hai specificato - gli spiegò - E' una strategia che a te piace molto, vero? Non te la prendi se la sfrutto anche io? -
- A che cosa alludi...? -
- E' semplicissimo: hai detto che la spia deve confessare - asserì - ...ma non hai detto... "a chi" -
Silenzio. Un freddo, pesante silenzio di tomba.
Un lieve suono statico fece capolino dai trasmettitori audio dello schermo.
La voce di Monokuma si era fatta più cupa, più crudele.
- ...heh... magnifico - commentò l'orso - Un'altra incredibile dote dell'umanità: il saper sfruttare ogni situazione a proprio vantaggio anche in casi disperati. Sì, Xavier, è come dici tu! La spia deve confessare a qualcuno il proprio ruolo... e con "qualcuno" intendo "chiunque"! -
Xavier rimase impassibile mentre l'occhio rosso brillante di Monokuma emetteva bagliori sinistri.
Avvertì la sua voce entrargli nella testa, torturandolo con la sua risatina isterica.
Poi, Monokuma mostrò i denti aguzzi in un ultimo, frenetico ghigno.
- Chiunque... anche me! -
Il ragazzo sbuffò, snervato da quanto tempo avesse impiegato a rispondere.
- ...molto bene -
- Ancora una volta molto arguto - si congratulò il robot con una vena di sarcasmo - Ma, fattelo dire: sei un codardo, Xavier Jefferson! Un grandissimo, patetico codardo! -




Pearl Crowngale rimase ferma, immobile, davanti alla scritta che era appena comparsa dinnanzi ai loro occhi.
Le sue pupille glaciali erano dilatate in un'espressione neutra, spenta. Il labbro inferiore le pendeva verso il basso, senza un briciolo di forza residua.
Sentì le mani perdere energia, e piombare in un torpore che nemmeno riusciva ad avvertire.
June Harrier sentì una lieve mancanza alle gambe.
Le ginocchia le vacillarono, e si ritrovò a poggiarle al suolo senza nemmeno rendersene conto.
I suoi occhi erano ipnotizzati, e ogni altro pensiero svanì.
Michael Schwarz, allo stesso modo, avvertì una completa assenza di lucidità.
Il sangue iniziò a scorrergli più rapido, il cuore pompò senza sosta, e il volto gli divenne quasi paonazzo.
Sentì il bisogno di gridare, ma non ne ebbe la forza. Neppure l'Ultimate Chemist fu capace di esprimere ciò che provava.
Strinse i pugni fino a spremersi le vene, grattandosi furiosamente la pelle senza un perché.
Infine, Judith Flourish riuscì ad avvertire solo il lieve tocco delle sue dita sul freddo metallo del cofanetto, l'unica cosa che ancora la legava alla ragione.
Lo strinse tra le braccia sempre più forte, come un ultimo barlume di luce che scacciava un baratro di follia.
Immobili, inerti, ammutoliti, i quattro rimasero per lungo tempo a fissare l'immagine comparsa sull'enorme schermo, rappresentante il profilo di un ragazzo dai 
capelli scuri, il viso severo, e un occhio squarciato da una cicatrice.
Una frase a caratteri cubitali orbitava attorno alla fotografia, lampeggiando in modo allegro.
"XAVIER JEFFERSON HA CONFESSATO! IL GIOCO AL MASSACRO E' CONCLUSO"

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Capitolo 58
*** Capitolo 6 - Parte 3 ***


- Maledetto... bastardo...! -
Michael fissò il display con occhi iniettati di sangue e con i denti serrati dalla rabbia.
Aveva i pugni contratti e le venature paonazze, e non vi fu il bisogno di vederlo in viso per intuire che il suo volto era dello stesso colore.
Batté il piede a terra con forza e diede un calcio al vento per sfogare tutta la propria frustrazione.
Un senso di lacerante agonia lo portò sul punto di esplodere; sentì una fitta bruciante allo stomaco, poi al petto; fu come se il suo corpo volesse rigettare fiamme.
- MALEDETTO, SCHIFOSO BASTARDO! - gridò una volta per tutte.
Numerose imprecazioni ne seguirono, fuoriuscendo assieme ad un flusso di rabbia di cui l'Ultimate Chemist doveva sbarazzarsi.
June assistette al suo sfogo senza neppure tentare di tranquillizzarlo.
Si portò le mani sulla faccia contemplando con orrore l'enorme scritta che aveva dato loro la sgradevole rivelazione.
Era troppo occupata a tentare di mettere in ordine i suoi pensieri, gettati alla rinfusa nella sua mente già scombinata.
Fece di tutto per resistere all'esigenza di gridare mentre il resto del suo corpo collassava sul pavimento, vinto dall'emozione e dallo sconforto.
Si ritrovò pochi secondi dopo in ginocchio e con entrambi i palmi delle mani piantati al suolo, versando lacrime amare.
Poco più avanti, Pearl era rimasta a fissare l'immagine di Xavier senza distogliere lo sguardo nemmeno per un secondo.
Si domandò se non si trattasse di un orribile sogno; un incubo in cui le avevano giocato un scherzo di pessimo gusto.
Per alcuni secondi, Pearl Crowngale si domandò se quella scritta digitale sarebbe scomparsa se avesse fissato lo schermo abbastanza a lungo da farle male alla vista.
Ma non se ne andò; rimase torreggiante sopra le loro teste come un monito, un avvertimento.
Era lì ad indicare loro nel modo più esplicito possibile che erano stati traditi.
Che erano stati accoltellati alle spalle, usati, mandati a morire.
E l'immagine di colui che aveva provocato tutto ciò era l'elemento che faceva più male.
Tra la moltitudine di sensazioni nuove e sconosciute che Pearl aveva scoperto nell'arco dell'ultimo mese si aggiunse anche un forte dolore al petto di natura enigmatica.
Faceva male; una sofferenza lancinante, ma non di carattere fisico. Era un fitta che si estendeva lì dove la carne e i nervi non giungevano.
La bionda si portò una mano al petto, e con sguardo contratto strinse i denti.
- ...non è vero -
Seppure debole, la voce raggiunse tutti gli altri tre compagni.
Michael interruppe di botto il suo sfogo furioso e si girò verso di lei.
Rivolgendole uno sguardo iracondo batté un piede per terra, facendo tremare tutto.
- Come...? Come hai detto scusa...!? -
- Ho detto... che non è vero - ribadì Pearl - Non può esserlo. Mi rifiuto di accettarlo -
- Ti è dato di volta il fottuto cervello, PEARL!? - gridò lui, alzando un dito verso l'enorme schermo - Guardalo! GUARDA LI'! Vedi quella faccia!? E' la faccia di uno schifosissimo TRADITORE! -
- No! Non può essere andata così! - perseverò la bionda - E' assurdo che lo sia! Tutta questa storia non ha alcun senso! -
Michael strabuzzò gli occhi, vinto sia dalla rabbia che dalla confusione.
- S-senso...? "SENSO"!? Che cosa non avrebbe senso!? - sbraitò - Il tempo dei processi è finito, Pearl! Non c'è più da attenersi a prove o testimoni! C'è solo la cruda  verità! E questa verità è rappresentata proprio da quella dannata scritta sopra le nostre teste! -
- Pearl... - fece debolmente June, rimettendosi in piedi - Non so a cosa alludi... ma credo che i fatti parlino chiaro... -
L'assassina esitò, trovandosi alle strette.
- June, anche tu...? -
- Accetta la realtà, Pearl... - singhiozzò l'arciera - Xavier era un traditore... era la persona che stavamo cercando fin dall'inizio, quella che avrebbe potuto salvarci tutti ma ha preferito sopravvivere a nostre spese...! -
- N-no, June...! Aspetta un...! -
- Sarebbero tutti vivi se non fosse stato per lui! TUTTI! - pianse Harrier, versando lacrime sul freddo pavimento - Ci ha traditi... perché negare l'ovvietà dei fatti...? -
A quel punto, June si appoggiò delicatamente al braccio di Michael, sobbarcando la sua spalla col peso della propria testa.
Affondo gli occhi nella sua camicia e continuò a piangere, liberandosi di tutto ciò che covava all'interno.
Sebbene con iniziale disappunto, Michael sospirò e le diede corda.
Alzò la mano sinistra e la infilò tra i suoi capelli, tenendole delicatamente il capo.
June continuò con il proprio sfogo emotivo senza porsi freni, lasciandosi trasportare dal bisogno e dall'emozione.
Continuando a sorreggerla in silenzio, Michael rivolse a Pearl un'ultima occhiata severa.
- ...è finita, Pearl - disse con fermezza - Abbiamo vinto. Siamo sopravvissuti... facciamocelo bastare -
L'Ultimate Assassin non aveva smarrito la sua espressione accigliata.
Provò pena per June, e il suo cuore era a sua volta colmo di sconforto; ma qualcosa, dentro di sé, le urlava che non era ancora finita.
Una voce, al suo interno, le sussurrò di combattere un'ultima volta.
- ...ti devo correggere, Mike - disse Pearl - Il tempo dei processi non è ancora concluso -
Schwarz le rivolse un'occhiataccia inviperita.
June, scostandosi dalla sua spalla ed asciugandosi gli occhi con l'estremità della felpa, la squadrò a sua volta.
- Che intendi dire, Pearl...? - domandò l'arciera.
- Terremo un'ultima discussione. Qui, ora - stabilì lei - Vi dimostrerò con i fatti quanto vi sbagliate -
- Bah! Voglio proprio vedere! - la sfidò il chimico - Avanti, allora! Che prove hai a sostegno della "buona fede" di Xavier!? -
Pearl si schiarì la voce.
- June, poco fa hai detto un qualcosa di molto interessante... - cominciò - Hai parlato di come le morti avvenute fino a questo momento siano responsabilità di Xavier, giusto? -
L'arciera titubò, ma annuì con convinzione.
- C-certo...! Se il traditore si fosse mostrato, questa sfida sarebbe terminata seduta stante! Nessuno sarebbe dovuto morire! -
- Quindi, secondo questo ragionamento, il traditore ci voleva morti - proseguì la bionda - Giusto? -
- Dove vuoi arrivare...? -
- Molto semplicemente: voleva morti anche noi quattro? - 
Il significato della domanda non fu di facile intuizione.
- Come...? Beh, non è forse ovvio!? - ribatté Michael - Ha lasciato che undici di noi morissero! Era nostro nemico, quindi è logico pensare che...! -
- "Logico" un bel niente, Mike. Xavier ci ha salvati - asserì.
June e Michael spalancarono la bocca con stupefatta esasperazione.
- "Salvati"!? Ma che vai dicendo!? - 
- Non avrete mica dimenticato quella scritta sopra le nostre teste, vero? - disse lei, indicandola - Le regole parlano chiaro: il traditore doveva morire, o confessare. Beh, a me sembra proprio che lui abbia vuotato il sacco. In che modo o a chi, questo lo ignoro; ma ha deliberatamente deciso di porre fine alla sfida e, in questo modo, ci ha dato la possibilità di andarcene. Ciò non significa forse che... ci ha appena salvato la vita? -
- A-assurdo... - mormorò June - Ma perché noi...? Perché SOLO noi!? Se davvero aveva a cuore la nostra sicurezza, allora perché non ha confessato ancora prima che Refia morisse...? -
- Deve essere accaduto qualcosa che ancora ignoriamo - asserì Pearl - Ma non possiamo affermare a priori che volesse il nostro male... non ha alcun senso, considerato
il modo in cui si è comportato negli ultimi processi! -
- Noi ignoriamo TUTTO ciò che riguarda quel maledetto! - imperversò Michael - Pensateci, non sappiamo un bel niente di lui! Tutte le sue azioni fino ad ora potrebbero
essere state per predisporre chissà quale suo assurdo e arzigogolato piano, per quanto ne sappiamo! -
- A me non... piace partire da presupposti negativi... - ammise June - Eppure... non me la sento di dargli fiducia sapendo che ci ha tenuto nascosta la sua identità e il suo fine... e mi dispiace dirlo, ma che tu o Judith siate rimaste emotivamente coinvolte nell'ultimo caso non è una scusa valida per difenderlo! -
- Non è affatto quello il motivo della mia convinzione...! - esordì Pearl, pur non essendone pienamente convinta - Diglielo anche tu, Judith! -
Vi fu un attimo di pausa silenziosa.
Fu solo in quella circostanza che i tre contendenti si resero conto che la partecipazione al discorso dell'Ultimate Lawyer era stata pressoché nulla.
Si voltarono tutti e tre nello stesso momento.
Judith Flourish era rimasta immobile, ad occhi chiusi, in quella che sembrava una posa meditativa.
Immersa nelle proprie riflessioni, non sembrò nemmeno essere mentalmente presente fino a che non riaprì gli occhi, avvicinandosi al gruppo.
- ...Judith? Va tutto bene...? - chiese l'arciera con premura.
- ...no, direi di no - fu la secca risposta - Tutta questa situazione è un gran scompiglio -
- Te ne sei stata in disparte per tutto il tempo - la incalzò Michael - Hai almeno seguito ciò che stavamo dicendo? -
La legale annuì rapidamente.
- Sì, dalla prima all'ultima parola - esclamò - E accusatemi pure di sparare ovvietà, ma anche io sono piuttosto convinta che Xavier non sia davvero un nostro nemico -
- Bah! Infatti c'era da aspettarselo... - sibilò il chimico, inviperito - E' palese che tra te e Xavier corresse buon sangue, quindi che tu voglia difenderlo è concepibile -
- Io non intendo semplicemente "difenderlo" - il suo tono si era fatto più chiaro, e i suoi modi più infervorati - No, io voglio dimostrare con assoluta certezza la sua innocenza. E lo farò a qualunque costo -
Una dichiarazione eclatante che agli occhi degli altri parve più una sorta di sfida. L'Ultimate Lawyer non era mai stata così sicura di se stessa, nell'ultimo mese.
- J-Judith... sei certa di ciò che fai...? - June mostrò uno sguardo languido - Proprio perché le eri molto vicina, potresti essere la più ferita... -
- ...June, ascoltami. Ascoltatemi tutti -
Il tono solenne fece sì che si creasse un'atmosfera differente, più tesa. 
Nessuno osò interrompere ciò che stava per dire; l'ultima arringa dell'Ultimate Lawyer stava per compiersi in quel preciso istante.
- ...chiamatemi pure un'idiota, poiché ciò che sto per dire va contro ogni tipo di raziocinio indispensabile per la mia professione - esclamò, trasportata dal momento - Ma 
Xavier mi ha giurato più di una volta che non ci avrebbe mai traditi. Mi ha guardata negli occhi, e me lo ha giurato. Lo ho scongiurato di guardarmi dritta in faccia e di dirmi la verità... e gli ho promesso che avrei creduto alle sue parole, in nome di tutto ciò che ha fatto per salvarmi la vita. Non mi importa di comportarmi da imbecille: in questo luogo dove la morte è una prassi, quella promessa è l'unico principio che mi sia rimasto, ed intendo attenermi ad esso fino alla fine. E' tutto ciò che mi rimane... è tutto ciò che resta di lui, e io avrò fede. Io mi fido di Xavier! -
Judith ansimò ripetutamente, prendendo aria nei polmoni oramai sfiatati.
Si tastò le gote: si rasserenò nel sentire che erano asciutte.
Judith aveva dovuto combattere duramente contro la necessità di piangere e sfogarsi. 
Un forte bruciore nel petto e un gran malessere nell'animo la attorniavano, ma si impose di non scoraggiarsi.
Avrebbe pianto quando tutto sarebbe finito: fu la promessa che fece a se stessa, costringendosi a combattere ancora una volta.
Si guardò attorno, sperando che le sue parole avessero sortito l'effetto desiderato.
Pearl Crowngale le rivolse un lieve sorriso, ma caldo; in profondo contrasto con la glacialità dei suoi occhi.
Fu in quel momento che Judith si rese conto di quanto la compagna fosse effettivamente cambiata nel corso di quella permanenza alla Hope's Peak.
June Harrier, dal canto proprio, non riuscì ad ignorare il peso di quella confessione.
Arrossì lievemente, incapace di non dare a vedere quanto si fosse commossa davanti ad una simile manifestazione di fiducia.
Il suo punto di vista sull'Ultimate Detective, però, rimaneva pressoché invariato.
Invece, come il resto della classe si aspettava, convincere l'Ultimate Chemist si rivelò un'impresa più ardua del previsto.
Michael Schwarz incrociò le braccia, battendo ritmicamente il piede sul pavimento.
- ...non ti nascondo che mi trovi d'accordo sul definirti un'imbecille - confermò lui.
Judith deglutì; non era il migliore dei modi in cui si aspettava di cominciare.
- M-Mike... - lo implorò June - Abbi un minimo di considerazione...! -
- Ce ne facciamo ben poco dei guanti di velluto - sbottò lui - Ma voglio credere che l'intuizione dell'Ultimate Lawyer possa avere qualche base più concreta -
La ragazza corvina sussultò.
- Mike...? Ma allora...! -
- Prima Pearl ha detto di voler tenere un ultimo dibattito. Un processo finale, in pratica, dove l'imputato è Xavier - asserì lui - Ora, Ultimate Lawyer... dimostracelo. Dimostraci che Xavier Jefferson è ancora nostro alleato. Non me ne faccio niente di parole vuote e falsi idilli: fa parlare i fatti, le prove! -
- ...puoi farlo per noi, Judith? - la pregò June - Ti prego... dimostracelo... ti prego... -
L'avvocatessa annuì. Ognuno a modo suo, sia Michael che June avevano espresso un desiderio simile: l'essere in errore.
Judith osservò per bene le loro espressioni sconfortate: per quanto il chimico tentasse di non darlo a vedere, anche lui era in evidente conflitto con se stesso.
Mai come quella volta Michael Schwarz sperò che qualcuno potesse contraddire la sua inviolabile logica ferrea.
Judith avvertì infine una pacca affettuosa sulla spalla.
Si voltò per ritrovarsi un occhio di ghiaccio luminoso e un sorriso confidente.
- ...puoi farcela -
Fu l'ultima spinta necessaria.
Judith si diede alcuni lievi buffetti sulle guance e serrò la presa del fermaglio sulla propria chioma.
- ...ragazzi, circa un'ora fa ho parlato con Xavier - raccontò lei - Alla fine del nostro discorso mi ha dato appuntamento qui, alle dieci, chiedendomi prima di... fargli un favore. Ora, da ciò che ho intuito mi è parso di capire che a tutti voi è stata fatta una richiesta specifica, dico bene? -
Gli altri tre annuirono in silenzio; nessuno le diede torto. 
- E con ciò? -
- Vorrei capire la vera natura di queste sue pretese - proseguì lei - Prima abbiamo visto l'ascensore in funzione, quindi possiamo dedurre che sia stato Xavier ad usarlo. Se così fosse, allora quei suoi "favori" dovevano avere uno scopo al di fuori della sua persona; qualcosa che riguarda solo noi, capite? Altrimenti non avrebbe avuto senso il suo dileguarsi senza dire nulla -
- Mi sembra sensato... - osservò Pearl - Ma, innanzitutto, come ha fatto ad attivare l'ascensore? Non si mette in moto solo in vista dei processi? -
- Se la sfida è davvero conclusa allora è plausibile che quelle regole non contino più, no? - optò June - Dopotutto... Xavier ha confessato -
- Sì, vero, ma a chi? - domandò Michael, ponendosi un dubbio giustificato.
- Quello è un punto poco chiaro, ma tralasciamolo per adesso - disse Judith, mandando avanti il discorso - Partiamo da te, June. Cos'è che Xavier ti ha chiesto di fare? -
L'arciera si strinse tra le spalle, poi afferrò l'arco e la faretra. Li piazzò assieme ad un elevato numero di valigette metalliche, di un tipo che avevano già visto lungo l'edificio.
Ammassò i kit medici a lato e vi poggiò sopra l'equipaggiamento preso dalla palestra.
- ...mi ha detto di recuperare l'arco, più ogni freccia che potessi usare - raccontò - Mi ha detto che doveva essere una precauzione... per difendermi. Poi ha voluto che reperissi tutte le suppellettili di primo soccorso sparse per la scuola, per sicurezza. Non mi ha voluto dire il motivo, ma... mi ha detto di tenermi pronta... -
Judith annuì con interesse, poi passò al testimone successivo.
- E tu, Pearl? -
- Mi ha domandato di reperire ogni tipo di arma che avessimo a disposizione - fu la secca risposta - Ero piuttosto scettica, ma mi ha detto che ne avremmo avuto bisogno
per proteggerci... e che si fidava del fatto che non ne avrei abusato. Ho raccolto tutte le stoviglie affilate e un paio di altre cose -
A quel punto, Pearl mostrò il bottino: vi erano lame di diverso genere, principalmente quelle trovate in cucina.
Vi era anche un coltello più lungo e affilato: Judith lo riconobbe essere quello individuato da Rickard e Vivian durante la primissima indagine.
Si domandò come Pearl ne fosse entrata in possesso, ma a far sorgere ancora più quesiti fu la lunga spada dai tratti orientali che portava legata alla vita, tenuta nel fodero.
- E... quella? -
- Oh... - la killer arrossì - Come dire...? Quella la trovai durante la nostra prima ispezione del secondo piano... la portai in camera mia e l'ho tenuta nascosta lì fino ad oggi... -
- E nessuno se ne è accorto!? - tuonò Michael.
- Agire di soppiatto fa parte della mia professione - puntualizzò lei.
- M-meno male che non hai voluto usarla... - biascicò June, tremante.
Judith si massaggiò il mento.
- Quindi Xavier ti ha domandato di procurarti un armamentario per tutti noi... - mormorò - E a te, Michael? -
L'Ultimate Chemist brontolò qualche frase sconnessa, sbuffando.
- ...sì, praticamente la stessa cosa che ha chiesto alle altre due. Ho un paio di armi nascoste tra i vestiti -
- Ma come!? E non ci hai detto niente!? - si lamentò June.
- Ve lo avrei detto a tempo debito! - replicò lui - E non potete costringermi a toglierle: sono la mia garanzia di sicurezza! -
- Ancora con la tua paranoia, anche a sfida conclusa... - sospirò Pearl.
- Bah! Poi vedrete se avrò ragione o meno! - le schernì lui - Fino ad oggi la mia cautela non mi ha mai tradito! -
A quel punto, Judith aveva oramai il quadro completo della situazione, fatta eccezione per l'ultimo tassello del mosaico.
Non le restava altro da fare che rivelarlo, e sperare in un esito positivo.
- Dunque, Judith? Che cosa volevi dimostrare chiedendoci ciò? - la incalzò il chimico.
- I favori chiesti da Xavier non possono essere casuali: devono avere un nesso, un filo conduttore - spiegò lei - E forse possiamo trovarlo se analizziamo ciò che ha chiesto a me di prendere -
- G-giusto...! Quasi dimenticavo che avevi anche tu qualcosa da mostrare - esclamò June, sussultando sul posto - Quello scrigno, giusto? -
L'Ultimate Lawyer mostrò un volto incerto, con una strana espressione di disagio.
Mostrò a tutti il cofanetto metallico che aveva tenuto con sé per tutto il tempo, permettendo ai compagni di visualizzarlo con cura.
Era un recipiente metallico dalla superficie liscia e lucida.
Non vi erano serrature o lucchetti, simbolo del fatto che non era stato pensato per essere sigillato, ma solo nascosto.
L'aspetto era solido ed era abbastanza grosso da contenere diversi oggetti.
- ...come vi ho già detto, non lo ho ancora aperto - disse la corvina - Ho promesso a Xavier che... lo avrei sbloccato solo quando sarei stata assieme a tutti voi -
- E' stato lui a chiedertelo? -
- Esatto, e ovviamente ne ignoro le motivazioni - sospirò l'avvocatessa - Ma ho motivo di credere che sia qualcosa di importantissimo: era celato in uno scompartimento
segreto dietro la lavagna dell'aula al primo piano -
- Mhh... durante le indagini sul caso di Karol non è saltato fuori - ricordò June - Nessuno ha toccato la lavagna, nemmeno Xavier. Che questo affare sia rimasto lì dietro tutto il tempo, fin dall'inizio? -
- Beh, la domanda sorge spontanea... - aggiunse Michael - Come ha fatto Xavier a trovarlo? A meno che non ne fosse già al corrente... -
- Difficile a dirsi, ma potrebbe essere... - commentò Pearl - ...ammesso che Xavier avesse effettivamente informazioni a noi non note -
- Io invece ho una teoria diversa... - 
Judith Flourish calamitò l'attenzione generale ancora una volta.
- E cioè? -
- Sulle ante del vano nascosto c'era scritto che questo cofanetto cela un "indizio segreto" - spiegò lei - Possibile che... contenga le informazioni che hanno portato Karol ad essere bersagliato da Monokuma? -
June ebbe una realizzazione improvvisa, tempestiva.
- Ah! In effetti era nascosto nella sua aula! - fece l'arciera, con entusiasmo - Forse lo ha trovato lui, per primo! -
- Ed è grazie a ciò che ha scoperto la mia vera identità... e quella di Pierce? - mormorò Pearl, rimuginando.
- Argh! Che stiamo aspettando, ancora!? - gridò Michael, in preda all'esasperazione - Avanti, aprilo! -
Judith annuì, facendosi carico del compito. 
Gli altri tre le si accalcarono addosso, facendosi spazio per vedere cosa vi fosse all'interno.
L'avvocatessa appoggiò delicatamente le dita sul coperchio e lo alzò.
I suoi occhi quasi ne rifuggirono la vista; aveva fatto una grossa scommessa sul contenuto di quel cofanetto, e il pensiero di rivelarlo la spaventò.
Non vi erano che due possibilità: la vittoria o la sconfitta, la ragione o il torto. La verità o il falso.
Tutto dipendeva da ciò che sarebbe accaduto di lì a pochi istanti.
Aggrappandosi a tutta la propria fede nell'Ultimate Detective, Judith Flourish aprì il contenitore metallico.





L'ascensore decelerò gradualmente fino ad arrestare del tutto la sua discesa.
Con un movimento fluido si fermò a circa una quindicina di metri sotto la superficie di partenza.
Xavier Jefferson si guardò attorno, circondato dal buio e con solo alcune piccole luci al neon attaccare al muro a fargli da riferimento.
Eseguì un rapido calcolo in base alla memoria: ogni volta che aveva preso l'ascensore per scendere fino al tribunale aveva impiegato un po' più di tempo per giungere a destinazione.
Guardando verso l'alto, riusciva ancora a malapena a scorgere il soffitto sovrastante il piazzale.
"...devo essere a circa metà strada dal tribunale" constatò "Ma perché fermarsi proprio qui?
La risposta gli arrivò prima di quanto pensasse.
Udì uno sbuffo di fumo sospetto alla propria destra; una porzione del muro lì vicino si era appena sollevata rivelando un passaggio nascosto.
Mimetizzato dal colore del muro e dal buio, sarebbe stato impossibile accorgersi della sua presenza.
"...ecco una via di fuga impossibile da raggiungere con mezzi convenzionali" pensò, irritato "Hanno proprio pensato a tutto"
Sentendolo come un invito ad addentrarsi, Xavier imboccò la strada e abbandonò la piattaforma mobile.
Si ritrovò in un corridoio completamente opposto a ciò che aveva appena attraversato: era stretto, e completamente bianco.
Era ben illuminato, forse anche troppo; la differenza gli infastidì la vista.
Si fece strada attraverso la stradina unilaterale di fronte a sé; non vi erano biforcazioni, bivi, e neppure porte da ispezionare.
Era un sentiero unico e senza deviazioni. 
Xavier ebbe la sgradevole sensazione di star seguendo una strada a senso unico al solo scopo di portarlo lì dove voleva Monokuma; il sentirsi nuovamente burattino
dei suoi piani era di quanto peggio potesse capitargli.
Il tragitto fu inaspettatamente più breve del previsto, e si concluse con il ritrovamento di una scalinata.
Xavier le diede un'occhiata rapida: presentava una struttura metallica a chiocciola e andava verso l'alto avvolgendo l'intero spazio disponibile nella sua spirale.
Aveva un aspetto diverso rispetto al resto della stanza; era vagamente arrugginita, forse malandata a causa del tempo.
Xavier sospirò.
"Per quanto ancora intende farmi camminare, quell'orso...?"
Non avendo altre opzioni, il ragazzo si incamminò e salì gli scalini uno alla volta.
Non seppe quanto tempo passò prima di raggiungere la cima della scalinata, ma non ci badò: ebbe tempo per pensare.
Rivolse un pensiero ai quattro compagni che aveva lasciato indietro senza alcuna spiegazione, e che in quel momento erano probabilmente al piazzale a lanciargli frasi colme di odio, frustrazione e rimpianto.
Si domandò, con un briciolo di ingenua speranza, se avrebbero mai potuto perdonarlo. Poi, però, si rese conto di non poter avanzare pretese di alcun genere.
Non se lo sarebbe potuto concedere, e non lo avrebbe richiesto.
"...dopotutto li ho traditi" rimuginò, salendo i gradini uno dopo l'altro con passo sempre più appesantito dal rimorso.
Passarono appena cinque minuti prima che arrivasse in cima: il paesaggio era nuovamente cambiato, con sua enorme sorpresa.
Un altro corridoio si era aperto davanti a lui, ma stavolta era completamente diverso.
Si trattava di un androne spazioso e illuminato, pieno di sfarzo e ricoperto di mobilio.
Si guardò momentaneamente alle spalle, paragonando la vecchia e rozza scala di ferro con quell'improvviso cambio di stile.
Non sembrava più nemmeno una scuola, anzi: non la ricordava nemmeno lontanamente.
"Ma che diavolo di posto hanno allestito...?"
Si fece strada lungo il pregiato tappeto rosso posto davanti al suo ingresso, attraversando quella stanza di dubbio gusto.
Vi erano pilastri in marmo che sorreggevano una pregiata cristalleria scintillante, drappi rossi di seta che facevano da contorno ad arazzi dall'aspetto antico,
e poi quadri e dipinti che ornavano ogni angolo scoperto della tappezzeria.
Xavier trovò quel posto bizzarro e completamente fuori luogo; al contempo, però, lo colpì una sensazione familiare.
Crebbe in lui un sospetto che covava da tempo, ma che decise avrebbe atteso fino al momento di poterlo verificare.
Arrivato in fondo a quell'ennesimo percorso, una nuova sorpresa arrivò ad accoglierlo.
Stavolta non vi erano scale o porte a permettergli di proseguire, ma un grosso tendone rosso perfettamente in linea con il bislacco lusso mostrato fino a quel punto.
Xavier si avvicinò con circospezione, cercando di capire a cosa servisse quella struttura che occupava tutto lo spazio tra le quattro pareti del corridoio.
Una spessa tenda di tessuto rossastro e cosparsa di una polverina dorata segnava l'ingresso all'interno del piccolo padiglione; di fianco all'entrata vi era quello che sembrava un cartello, un'insegna, con una cornice metallica e un vetro protettivo.
Il ragazzo gli si avvicinò per leggere l'unica scritta presente, marcata con caratteri cubitali e tratteggiati in un corsivo elegante.
"Museo delle cere di Monokuma" pensò Xavier, domandandosi che cosa ci facesse qualcosa di simile all'interno di una scuola.
Ancora una volta, però, il giovane dovette ricordare a se stesso che non si trovava all'interno di un edificio scolastico, ma solo un qualcosa che doveva assomigliare ad esso.
Non era mai stata una scuola convenzionale fin dal primo giorno, e mai lo sarebbe stata.
"Questo sedicente museo deve essere un'altra delle assurde macchinazioni di Monokuma...
Per nulla invogliato ad entrarci, Xavier si ritrovò a non avere molta scelta.
Vi era una sola strada da seguire, ed era dritta attraverso il tendone.
Sospirò, e allungò la mano verso il drappeggio rosso. Scostandolo, ebbe accesso all'interno della struttura.
Mosse pochi passi in avanti, abituando la vista alle luci abbaglianti scaturite da alcuni vetri sul pavimento.
Si stropicciò l'occhio, e lo riaprì.
Poi, si arrestò di botto.
- ...oh, Cristo... -
Fece istintivamente un passo indietro, con lo sguardo deformato dall'orrore e dal disgusto.
Il braccio sinistro gli tremò, contraendosi in modo anomalo; un brivido gelido gli attraversò la schiena.
Davanti a lui vi era un abitacolo, una rientranza nel muro separata da una solida vetrata.
Appoggiò le mani sulla superficie traslucida, osservando l'orrendo spettacolo.
All'interno della vetrina vi era una sagoma inerte, immobile, e priva di colore; un qualcosa che sembrava un manichino, ma che Xavier sapeva non essere tale.
Lì, come una marionetta con fili spezzati, si ergeva il cadavere dell'Ultimate Cyclist.
Xavier Jefferson avvertì un pesante rigurgito allo stomaco.
Refia era stata inserita all'interno di quella che sembrava una prigione di resina trasparente, come un insetto da collezione.
I suoi capelli color fuoco erano fossilizzati assieme al resto del suo corpo; la pelle era ancora lucida, tenuta perfettamente dal materiale conservante.
Ad aggiungere una crudele ironia, assieme al cadavere messo in posizione eretta erano state incastonate anche un bicicletta, alle sue spalle, e una freccia era conficcata nel suo addome.
- Santo cielo... -
A giudicare dall'aspetto del corpo sembrava non essere passato neppure un giorno. 
Preservata in quella prigione, Refia Bodfield era stata resa quello che sembrava un diorama vivente, un oggetto da collezione.
Xavier dovette forzarsi a smettere di guardare, a smettere di soffrire.
Ma sapeva benissimo di avere appena iniziato.
Il sentiero che oltrepassava il tendone seguiva una singola strada ben delineata, all'interno della quale spuntavano numerose altre vetrate dall'aspetto simile.
- ...no... ti prego, no... -
Avanzò strascicando il piede, trascinando malvolentieri tutto il suo corpo che si opponeva a quella vista.
Al contempo, però, sapeva di non poter davvero evitare di guardare.
Qualcosa, dentro di sé, lo costrinse a farsi carico di quelle visioni orripilanti.
Si voltò a destra.
Sul corpo bucherellato di Alvin Heartland era stato piazzato uno scudo messo altrettanto male, lo stesso che aveva tenuto in mano durante i suoi ultimi momenti.
I suoi indumenti erano sporchi di sangue ovunque e avevano fori di proiettile in ogni punto.
L'immobilità e la calma del suo sguardo si contrapposero alla disumana forza dimostrata dall'Ultimate Guardian durante il processo.
Vederlo così sereno, pensò Xavier, provocò in lui uno strano contrasto.
Andò ancora avanti, guardando a sinistra.
Xavier fu grato che le palpebre di Elise Mirondo erano state tenute chiuse, abbassate.
I suoi occhi spalancati e dilaniati dal dolore avevano perseguitato i suoi incubi per settimane.
In mezzo al grosso squarcio che le passava dal collo al petto era stata piazzata una piccola videocamera con una lente rotta, frantumata.
Esattamente di fronte riposava Hayley Silver, ironicamente raffigurata con una mano portata alla gola, come a voler cercare aria.
Rinchiusa in quella teca di resina, Xavier non riuscì neppure ad immaginare quanto dolore avrebbe potuto provare l'Ultimate Hiker, le cui ferite in tutto il corpo mettevano in ombra la piccola cicatrice sulla guancia di cui la ragazza andava tanto fiera.
Il cuore di Xavier portava già un grosso fardello, ma trovò la forza di proseguire.
Una nuova teca gli si piazzò davanti; non poté fare altro che ritenerla un altro colpo basso da parte di Monokuma.
Lawrence Grace e Vivian Left erano stati sigillati assieme, nello stesso contenitore.
La mano sinistra di lui reggeva un violino con le corde recise, la mano destra di lei teneva un pennello sporco di chiazze rosse tra le dita candide e sottili.
Le mani libere erano intrecciate l'una nell'altra, in un un ultimo, tenero, macabro abbraccio.
Poco più avanti, il corpo martoriato di Rickard Falls giaceva in disparte in un angolino solitario.
Assieme alle sue spoglie era stato inserito un microfono munito di filtro, quasi come a schernirlo.
Posto invece sulla parte sinistra del petto vi era quello che a Xavier sembrò essere una piccola custodia di plastica di un DVD.
"...La formula del Carpe Diem...?" disse, leggendo il titolo del film.
Non ne riconobbe il significato, ma doveva necessariamente essere qualcosa di importante.
Il tragitto non era ancora concluso.
Stavolta, ad attendere Xavier, vi era un letto di fiori rossi e arancioni, al centro del quale era stato posto il corpo di Kevin Claythorne.
Il ragazzo notò solo successivamente che erano tutti, originariamente, petali color arancio.
Il rosso era colato dalla schiena dell'Ultimate Botanist, che aveva finalmente smesso di soffrire.
Pochi metri più avanti vi era la bara trasparente dell'Ultimate Clockwork Artisan.
Avvicinandosi al corpo inerte di Hillary Dedalus, Xavier notò che sulla sua testa era stato messo un disco bianco mostrante una forte somiglianza ad un'aureola.
Aguzzando la vista notò che si trattava del quadrante di un orologio a cui erano state tolte le lancette.
"...per un luogo dove il tempo non scorre più..."
Infine, gli ultimi due abitacoli erano stati posizionati in un'ultima sala circolare, alla fine dell'intero circuito.
Xavier deglutì al solo pensiero di sapere che erano stati riempiti molto di recente.
Sulla destra vi era Karol Clouds, vittima di un sonno eterno che lo aveva strappato al suo desiderio di proteggere.
Sulla sinistra, Pierce Lesdar sembrava quasi non avere ancora accettato la propria morte.
Il braccio dell'Ultimate Surgeon era teso in avanti, quasi come a voler uscire dalla teca.
Al contempo, però, numerosi fili lo tenevano legato, immobilizzato, sigillando definitivamente il suo fato.
L'Ultimate Teacher, invece, aveva tra le mani un gessetto e un quadernino, le cui pagine bianche erano state barrate da una scritta in inchiostro rosso: "Fine della lezione".
Xavier Jefferson si portò in avanti, lungo l'ultima porzione di quell'infausto salone.
A separarlo dalla porta d'uscita vi erano solo quattro altre vetrine, stavolta vuote.
Col cuore a pezzi, le superò senza neppure dare il tempo alla propria immaginazione di ipotizzare chi avrebbe mai potuto riempirle.
Scostò violentemente il pensiero, lo scacciò; si proibì categoricamente di figurarsi un'altra aggiunta a quel museo.
Ansimando pesantemente, raggiunse a fatica il corridoio finale che lo avrebbe condotto fuori di lì.
Non vedeva l'ora di andarsene, di lasciarsi alle spalle quel luogo che come solo fine aveva quello di costituire un monito.
Imboccò la strada volgendo un ultimo saluto mentale ai compagni caduti. 
Non vi era più nulla da fare; poté solo promettere che non avrebbe permesso ad altri di unirsi a loro.
Fu durante quel breve commiato che un ultimo pensiero balenò nella mente del ragazzo.
Un'idea strana, che gli lasciò una strana sensazione di disagio. Un qualcosa che ancora non riusciva ad elaborare, ma che sapeva non poter essere un dettaglio casuale.
"...vi erano solo... quattro teche rimaste...?"
- ...ce ne hai messo di tempo -
Una voce dal nulla interruppe le sue congetture.
Alzò rapidamente lo sguardo, mettendosi istintivamente in guardia.
Era una voce squillante e robotica, la stessa che aveva oramai ascoltato innumerevoli volte e di cui si era stancato fin dal primo istante.
Sul lato opposto del corridoio era comparso Monokuma, stavolta in forma fisica.
Non vi era più nessuno schermo tra loro, niente che li separasse.
Xavier Jefferson lo fissò in cagnesco, sopprimendo la voglia di distruggerlo.
Mai come quel momento era stato così vicino ad avere una risposta, e la avrebbe estorta a qualunque costo.
Osservò un altro dettaglio degno di nota: l'orso meccanico era in piedi davanti ad una porta metallica con sopra disegnata l'effige della Hope's Peak Academy.
Al solo vederla, provò una sincera soggezione.
- Voglio la verità, Monokuma... - gli disse - Tutta la verità su questo gioco al massacro. Me la devi -
- Ooh, quanto siamo pretenziosi! - ridacchiò l'androide - Ma in effetti è giusto che ti dia la ricompensa che ti spetta. Sappi, ragazzo mio, che ti trovi davanti all'ufficio del rettore, che sarei io! -
A quelle parole, indicò l'enorme portone alle proprie spalle, picchiettandosi sopra con la zampa artigliata.
Xavier trovò conferma del proprio sospetto.
- ...in pratica sono alla fine -
- Esattamente! Le mie congratulazioni per aver ingannato i tuoi compagni così a lungo, Xavier! -
Lui scosse la testa, ignorando le sue parole malevole.
Passò direttamente al sodo.
- ...tu sei lì dentro, vero? -
Calò un breve silenzio.
- Che vuoi dire? - domandò Monokuma.
- La persona che ti comanda - proseguì il giovane, muovendo alcuni passi verso di lui - Si trova lì dentro, vero? -
Una scintilla rossa brillò nella pupilla sinistra del pupazzo. 
- Heh, sempre dritto al punto - ridacchiò - Sì, Xavier: dietro questa porta c'è la risposta ad ogni tua domanda. C'è la soluzione a questo assurdo mistero. Non devi far altro che oltrepassare la soglia, e tutto ti sarà rivelato. Ma... -
- ..."ma"? - domandò prontamente.
Un'altra risatina maliziosa di Monokuma riecheggiò.
- ...ma credi di avere la forza di ottenerla? Una volta passata quella porta non si torna indietro; dovrai lasciarti tutto alle spalle. Tutto, e tutti. Ne sei ancora convinto? -
Xavier Jefferson emise un lungo sospiro.
Si guardò indietro un'ultima volta, volgendo la mente a tutte le persone che aveva incontrato quello stesso giorno.
Poi, scosse fermamente il capo.
- Sono arrivato fin qui con un solo scopo - asserì - Fammi entrare -
A quelle parole, Monokuma si esibì in un breve inchino.
Un segnale acustico annunciò l'apertura del portone; le due ante di solido acciaio si aprirono davanti alla sua singola pupilla.
L'orso si addentrò per primo, invitandolo ad entrare subito dopo.
- ...prego, allora! -
Non se lo fece ripetere una seconda volta.
Xavier oltrepassò l'intero corridoio a passi ampi e svelti.
Qualunque cosa ci fosse stata oltre quel confine, chiunque gli si fosse parato davanti, lo avrebbe affrontato.
Era il momento della verità, il preludio al termine.
"...poniamo fine all'inganno"




Judith sollevò il coperchio con polso fermo, ma il suo cuore era pieno di agitazione.
Gli altri tre si strinsero attorno a lei per avere una visione chiara del contenuto; nessuno era intenzionato ad attendere un secondo di più per scoprire cosa ci fosse dentro.
Sbirciando all'interno, i quattro studenti notarono la presenza di un singolo oggetto: un fascicolo di carta plastificata di colore nero pece, apparentemente contenente dell'altro.
Judith affidò il cofanetto a Pearl e prese tra le mani la cartelletta; scuotendola un po' sentì del rumore di carta sparsa muoversi al suo interno.
Sul retro del contenitore vi era stampato il marchio della Hope's Peak Academy, simbolo che non era più contenta di vedere.
Da che era l'effige della speranza si era tramutata in un araldo di morte e sventura.
- Che cos'è, che cos'è!? - la sollecitò June.
- Non lo sapremo fino a che non sarà aperta anche questa... - sbuffò Michael - Forza, Judith; procedi -
L'Ultimate Lawyer fece come richiesto. 
Sollevò il laccio che la sigillava e riversò il contenuto tra le proprie mani.
A sbucare dal fascicolo fu un cospicuo pacchetto di quelle che il gruppo identificò come fotografie.
Judith ne avvertì al tatto la consistenza liscia e i colori vagamente sfumati, lo spessore della carta e gli angoli appuntiti.
Le tenne in mano tentando di capire quale fosse il loro significato, e le mostrò ai compagni con un fare interrogativo.
- Sono... foto - osservò Pearl - L'indizio consiste in delle fotografie? -
- Potrebbero raffigurare qualche dettaglio importante... esaminiamole! - esclamò Judith.
La proposta venne immediatamente accolta, e l'Ultimate Lawyer passò a sfogliarle una ad una tra le proprie mani in modo che tutti potessero vedere.
La prima immagine ritraeva un palco, simile a quello di un piccolo teatro. 
Vi erano varie sedie di legno e poltroncine, dei piccoli riflettori dall'aspetto economico che illuminavano il palcoscenico e un tripudio di colori ad abbellirne lo sfondo.
In mezzo a quell'insieme di elementi risaltavano due figure umane, entrambe poste sopra il palco.
Una era in piedi, di spalle, mentre la seconda era seduta su un ripiano rialzato a circa due metri da terra.
Fu proprio quest'ultima sagoma a destare sorpresa tra i quattro sopravvissuti, che puntarono contemporaneamente il dito verso di lei.
- Hey... ma questa...!? - incespicò Michael.
- E'... Vivian! -
Distinguere l'Ultimate Painter non fu complicato; la ragazza teneva un pennello nella mano destra ed una tavolozza sporca di colori ad olio variegati nella sinistra.
Sembrava essere intenta a dipingere un'intricata composizione cromatica sullo sfondo del palcoscenico, e in volto aveva un sorriso cordiale e sereno.
L'intera ambientazione del piccolo teatro pareva essere stata realizzata da Vivian Left, ma non vi erano in lei né tracce di stanchezza né di noia.
Una fitta nostalgica colpì June Harrier.
- ...sembrava davvero felice - sospirò lei.
- Perché mostrarci una foto di Vivian? Che stranezza... - bofonchiò Michael.
- No, non credo il punto della questione sia Vivian quanto la persona che era con lei - puntualizzò Judith - Qualcuno la riconosce? -
Aguzzarono nuovamente la vista.
Appena di fianco alla pittrice vi era una ragazza dai lunghi capelli biondi legati in una folta chioma setosa.
Indossava un abito dal gusto orientale: un kimono dai caldi colori primaverili adornato con vari accessori floreali.
Rimasero per qualche minuto a scavare nella memoria, ma non vi fu traccia di quella persona.
- No, non ho idea di chi sia... - mormorò Pearl - Forse un'amica di Vivian? -
- Beh, mi sembra palese. Sembra si stiano divertendo molto - disse June, lasciandosi scappare un sorriso triste - Vivian sembra a suo agio -
- Piuttosto... credo di aver capito dove si trovassero - intervenne Judith - Non era forse... il laboratorio teatrale della Hope's Peak Academy? -
Rievocando il ricordo del periodo trascorso alla sede principale, quel commento fugò ogni dubbio.
Gli occhi di June si illuminarono.
- Ooh...! Hai ragione! Questa foto è stata scattata alla sede principale, in Giappone! -
- Allora risale ad oltre un mese e mezzo fa... - brontolò Michael - Non mi pare abbia niente a che vedere con la nostra disavventura in questo postaccio -
- Non è detto. Potrebbe essere solo uno dei vari tasselli del puzzle - asserì Pearl - Dobbiamo controllare le altre foto -
Mancavano, infatti, diverse fotografie all'appello, e il gruppo passò subito alla successiva.
Il luogo era differente, così come le persone ritratte.
La foto ritraeva una stanza con un pavimento di erba sintetica e dei muri bianchi su cui erano appesi numerosi oggetti dall'aspetto affilato.
Ad una seconda occhiata si resero conto che si trattava soltanto di armi di legno particolarmente realistiche, probabilmente utilizzate a scopo di allenarsi.
In mezzo alla sala, due individui si stavano fronteggiando incrociando due spade di bambù, entrambi con un volto determinato e al contempo soddisfatto.
Sulla destra, la prima contendente era una ragazza dai capelli argentei ed una divisa scura, con due occhi scarlatti celati da sottili occhiali squadrati.
A fronteggiare la studentessa dallo sguardo penetrante e minaccioso vi era un colosso muscoloso a loro ben noto: Alvin Heartland.
- Qui c'è Alvin... - indicò Judith.
L'Ultimate Guardian si era tolto la giacca e le scarpe e aveva assunto una posa da combattimento.
Entrambi parevano star raccogliendo la sfida altrui con serietà, ma al contempo con sano agonismo.
- Alvin tirava di scherma...? - si chiese Michael.
- Non la definirei in quel modo - lo corresse Pearl - Sembra più che stiano praticando uno stile marziale tipico dell'oriente. E' comunque impressionante che Alvin ne conoscesse la pratica - 
- Ma ancora una volta ci manca il dettaglio più importante: chi è questa ragazza? - June emise uno sbuffo abbattuto.
Decisero all'unanimità di passare oltre.
Ancora una volta i soggetti e l'ambientazione cambiarono.
Stavolta a comparire davanti a loro fu una dinamica rappresentazione di quella che apparve come la fine di una gara.
Refia Bodfield e una ragazza dalla carnagione scura e i capelli sbarazzini avevano appena tagliato il traguardo a bordo delle rispettive biciclette.
Erano entrambe sudate e sporche, e i loro volti erano contratti a causa della fatica. Fu come se volessero esprimere tutta la loro voglia di non darla vinta all'altra.
June Harrier ricordò di aver visto il volto di Refia così divertito solo in occasione delle sue sperimentazioni cronometrate in compagnia di Hayley.
- E' la pista di gara della scuola - confermò l'arciera - Refia... si stava impegnando sul serio! -
- Adorava entrare in competizione con tutti, eh? - notò Michael - E sembra che alla sua amica non dispiaceva affatto -
- Ma siamo ancora senza indizi... - il morale basso di Judith si fece sentire.
Fu Pearl, però, ad avvisarla di non gettare la spugna troppo presto.
- ...c'è dell'altro in questa foto - li avvertì l'Ultimate Assassin - Guardate qui, nell'angolo -
I tre compagni si sporsero con la testa verso il punto indicato dall'indice della bionda; con loro sorpresa, un'altra coppia di soggetti era raffigurata nella foto.
Appena oltre il punto in cui si trovava Refia, su un circuito ginnico differente, Hayley Silver stava correndo trasportando un enorme zaino dall'aspetto pesante.
L'Ultimate Hiker sembrava sfinita, ma anche intenzionata a continuare fino alla fine la propria corsa. 
Alle spalle della ragazza, un individuo massiccio e grosso almeno quanto Alvin trasportava un borsone grande circa il doppio di quello di Hayley, traboccante di pesi.
Aveva un aspetto duro e maturo, a stento sembrava un liceale. C'è chi ipotizzò che si trattasse di un insegnante di atletica che aveva preso Hayley sotto la propria ala.
Il cervello di June, però, scattò; una lampadina si accese, rievocando un ricordo nitidissimo.
- U-un momento...! Io questo tizio lo conosco! - fece lei, indicando il nerboruto che istigava Hayley a proseguire.
- Quell'ammasso di muscoli...? - chiese Michael, con tono vagamente sprezzante.
- Dicci tutto quello che sai, June - la pregò Judith, speranzosa.
L'arciera si grattò il dorso della mano, assumendo un volto pensieroso.
- Come era il suo nome...? Ah, certo! - esultò, battendo un pugno sul proprio palmo - E' Nidai, della 77-B! -
Il nome non provocò alcuna reazione.
- Chi, scusa? -
- Era iscritto in qualità di Ultimate Coach - spiegò June - Lo ho conosciuto; un tipo severo, ma in gamba -
- Aspetta... è uno studente della nostra età? - Pearl si mostrò scettica - Ero convinta fosse un docente -
- Beh, non nego che il suo aspetto sia insolito, ma è un bravo ragazzo - confermò Harrier - Ed anche un ottimo allenatore! Mi ha fatto sudare parecchio... capisco ciò che ha provato Hayley -
- Mhh, per una volta abbiamo un identikit - constatò Judith - Ma questo dove ci porta? -
- Da nessuna parte, a meno che June non possa ricollegare questo tale alla nostra situazione - esordì Schwarz.
L'Ultimate Archer ci pensò su, ma fece un cenno di diniego.
- Non saprei che dirvi... ma dubito che possa essere implicato nel nostro incidente - disse - E' solo uno studente! E di buon cuore, tra l'altro -
- Non ci resta che proseguire, dunque... - gemette Pearl, sfiduciata.
Le fotografie si susseguirono l'una dopo l'altra, ognuna presentando la stessa formula delle precedenti.
La foto successiva mostrò Lawrence Grace in quello che appariva come un duetto improvvisato con una ragazza dall'abbigliamento trasandato e una capigliatura scura ed esplosiva, tendente al punk. Pur essendo solo un'immagine stampata riusciva a trasmettere tutta l'energia scaturita dalla musica dei due artisti.
Pur sembrando sovrastato dalla travolgente forza della chitarra della partner, a Lawrence l'esibizione non parve dispiacere.
Un'altra foto ritraeva un esaltato Rickard Falls davanti ad un piatto di leccornie fumanti dall'aspetto squisito.
Un ragazzo basso e paffuto vestito da chef si stava gustando la scena, probabilmente crogiolandosi nella propria soddisfazione di vedere l'Ultimate Voice Actor con l'acquolina in bocca.
Un'altra ancora raffigurava Hillary Dedalus in un suo classico momento di disagio; rannicchiata dietro una scrivania, tenendo stretto tra le braccia tremanti un piccolo orologio a cucù, l'Ultimate Clockwork Artisan stava gettando sguardi impauriti verso un ragazzo dal volto apparentemente feroce vestito di una tuta da lavoro gialla. Il giovane, più che altro, sembrava star cercando di rassicurarla e guadagnare la sua fiducia con evidenti, scarsi risultati.
La successiva mostrava un'aula scolastica piuttosto comune, all'interno della quale era possibile scorgere la sagoma di Karol Clouds vicino alla lavagna, intento a parlare
con alcuni alunni seduti ai banchi. Pur essendo uno studente, l'Ultimate Teacher sembrava ricoprire perfettamente il ruolo di insegnante anche in una classe piena di studenti stranieri; l'idea di immaginarselo dal lato opposto della cattedra risultò a Judith quasi strano.
Sul margine della lavagna era stata segnata con gesso colorato la scritta "Lezione extra della Scuola Preparatoria". Fu Michael a spiegare che la Hope's Peak teneva corsi secondari per alunni non esattamente talentuosi, ma comunque ammessi all'istituto grazie a delle donazioni.
Che avessero chiesto a Karol di tenere delle lezioni per loro non fu una sorpresa per nessuno.
June notò che si trattava dell'unica immagine con più di due persone, nella quale era impossibile capire con chi stesse effettivamente interagendo Karol.
Un ragazzo dai capelli corti e un ciuffo ribelle rialzato aveva alzato la mano per porre una domanda all'Ultimate Teacher, ma nessuno lo ritenne un dettaglio degno di nota. Passarono oltre.
Kevin Claythorne comparve in quella dopo, ritratto di fianco ad un'enorme pianta coltivata nel giardino botanico della scuola, la cui serra si estendeva per metri e metri.
Vedere la sua espressione gioiosa e soddisfatta fu un duro colpo da digerire per Pearl, ma che sotto sotto le sollevò un peso dallo stomaco.
Unico altro elemento nella foto era la presenza di un individuo grassoccio dal volto bonario che stava porgendo a Kevin una bevanda fresca.
La pacifica tranquillità della situazione non elargì alcuno spunto di riflessione.
Fu poi il turno di Michael Schwarz di comparire tra le foto.
Il vedere se stesso in mezzo al mucchio gli fece provare una sensazione sgradevole.
- Hey! Sei tu, Mike! - esultò June, sorridendo - E questa è...? -
Basto poco per far perdere all'arciera tutto l'entusiasmo.
Nella foto, Michael era intento ad additare con fare accusatorio una ragazza terrorizzata che si era letteralmente prostrata in ginocchio in preda alla disperazione più totale.
Il chimico le stava rivolgendo una ramanzina rabbiosa degna del suo nome, ed apparve così vivida che alle tre ragazze parve quasi di sentire la sua voce sprezzante mentre la accusava di chissà cosa.
- Ah... quell'impiastro... - si espresse lui, con genuino sdegno.
Pearl, June e Judith lo fissarono inviperite, scandalizzate dal contenuto di quella foto.
- Mike, santo cielo! - lo rimproverò Judith - Stavi facendo piangere una ragazza in questo modo!? -
- Co-come...!? -
- Non ci posso credere! Ma che razza di uomo sei!? - June gonfiò le gote, indispettita.
- Avete completamente equivocato...! -
Pearl scosse il capo più volte con disapprovazione.
- ...vergognati -
- Statemi a sentire, dannazione! - si inalberò lui - Le stavo solo rimproverando una disattenzione, ma quella tipa scoppiava in lacrime per un nonnulla! -
- B-beh... tu però sembri proprio il tipo da prendertela per delle sciocchezze... - sbuffò Harrier, non convinta - Spero almeno tu le abbia chiesto scusa! -
- Bah... prometto che rimedierò, va bene? - mentì il chimico, mettendosi al riparo dal bombardamento verbale.
- Piuttosto... immagino tu sappia di chi si tratta, allora - osservò Pearl.
Lui si sistemò gli occhiali, pulendosi le lenti con un panno.
- ...Tsumiki, Ultimate Nurse - disse loro, indicando il camice bianco indossato dalla ragazza - Mi aveva chiesto aiuto con alcuni compiti di chimica, e io le ho dato una mano per alcune settimane. La incontravo spesso nel laboratorio della scuola; la foto è stata scattata proprio lì, pare -
- "Pare"? Non sai chi la ha fatta? -
- No, purtroppo no... - ammise lui, con amarezza - Non ho idea di chi la abbia realizzata -
- Ovvio, eri troppo intento a mortificare quella poveretta... - si lamentò l'arciera.
- Mi dispiace, va bene!? Ora passiamo oltre, per cortesia! -
- Beh, rimangono appena due foto... - mormorò Judith.
L'Ultimate Lawyer passò a quella dopo, pentendosene immediatamente.
L'immagine ritraeva proprio se stessa, ma in una posa che aveva sperato nessuno potesse testimoniare.
Arrossì visibilmente e tentò, con un rapido movimento di mano, di saltare direttamente a quella successiva.
Pearl Crowngale fu, però, ancora più veloce.
Gliela tolse di mano e la mostrò al resto del gruppo.
Una Judith Flourish visibilmente contenta stava tenendo tra le mani delle piccole creaturine pelose, accarezzandole con impeto affettuoso.
Due minuscoli criceti le erano saliti sul palmo di una mano, un altro ancora su quella opposta. L'ultimo della famigliola si era appisolato sulla sua testa, usando il fermaglio floreale come una sorta di cuscino. In tutto ciò, nessuno seppe perché, ma Judith si stava esibendo in una strana posa plastica senza alcun senso apparente.
Alle sue spalle, un ragazzo dall'aspetto unico e bislacco si era posizionato nella stessa maniera, ridendo in modo sguaiato.
Il bizzarro siparietto senza né capo né coda non trovò un significato logico neppure sotto un'attenta analisi.
Una sensazione di neutra confusione cinse gli sguardi degli altri tre, mentre Judith si piazzava il viso tra le mani per la vergogna.
- Uhm... Judith...? - chiese June - Cosa significa tutto ciò? -
- N-niente! Cosa volete che significhi!? - si giustificò lei.
- Hey, ognuno ha i suoi hobby e io non giudico - Michael fece spallucce - Ma questo tizio che ride come un pazzo dietro di te chi diavolo è? -
- E' T-Tanaka, del corso principale... - sibilò, con il poco fiato rimasto a causa dell'imbarazzo - U-Ultimate Animal B-Breeder... -
- Oh! Ora si spiegano i gerbilli - commentò Pearl.
Judith le strappò di mano la foto, mostrandosi contrariata.
- Non sono "gerbilli"...! - dichiarò lei, indignata - S-sono... i quattro Re Celesti Oscuri, Divinità della Distruzione... e voi NON farete domande in merito! - 
Nessuno osò desiderare altrimenti, e la faccenda fu archiviata.
Mancava l'ultima fotografia, che Judith portò prontamente alla vista di tutti per canalizzare la loro attenzione altrove.
Stavolta era di un tipo completamente diverso. Non era più scattata da lontano e ritraente soggetti non coscienti della fotocamera.
Era un autoritratto digitale puntato direttamente sulla persona che lo stava facendo.
Le due ragazze in primo piano erano le uniche presenze nell'immagine; si tenevano abbracciate, sorridendo l'un l'altra in modo amichevole.
I quattro riconobbero immediatamente il viso pallido di Elise Mirondo, il cui braccio usciva dall'inquadratura per sorreggere la fotocamera al contrario.
In posa affine era una fanciulla dai capelli rossi, un abbigliamento distinto, e il viso ricoperto di lentiggini.
Vi era un'intesa amicale, tra le due, e risultavano essere in perfetta sintonia.
- Elise... - June non riuscì infine a trattenere qualche lacrima - Queste foto sono un patrimonio di ricordi di tutti i nostri amici... -
- Eppure ancora ci sfugge che razza di indizio dovrebbero rappresentare! - sbottò Michael.
Judith ammise che aveva ragione; qualunque cosa avrebbero dovuto scoprire ancora sfuggiva alla loro comprensione.
Revisionò le fotografie un'ultima volta, accertandosi di non aver mancato nulla.
Fu durante il secondo girò che istintivamente controllò il retro delle stampe.
Dietro ognuna di esse, nell'angolo in basso a destra, era segnata una firma a caratteri fini ed eleganti: "M. Koizumi".
A giudicare dall'ovvia provenienza giapponese di quel nome, ipotizzò che si trattasse di qualcuno inerente alla comunità della Hope's Peak.
Il formato con cui la sottoscrizione era stata stampata era uguale su tutte le foto, indicandone il proprietario.
- "Koizumi"... avete mai sentito questo nome? - domandò Judith.
Pearl ci pensò su, ma non ne venne a capo.
- Forse lo ho sentito una volta, alla Hope's - fece spallucce - Ma non saprei ricollegarlo ad un volto preciso -
- C'è il suo nome su tutte le foto. E' chiaro che appartengano a questo Koizumi - annuì Michael, convinto.
- No, un momento. Il fatto che sia presente una firma stampata non vuol forse dire che Koizumi è colui che le ha scattate? - osservò June, ponendo un degno quesito.
Pearl assunse uno sguardo accigliato.
- Giusto... ma se così stanno le cose allora ne deduco che "Koizumi" sia una Lei -
- E questo come lo avresti intuito? - Michael si mostrò piuttosto scettico.
Pearl afferrò le foto e le allargò a ventaglio, mostrandole tutte contemporaneamente.
- Osservate bene le immagini: in nessuna di queste è possibile visualizzare chi sia il fotografo, tranne che nella foto di Elise - indicò - Se escludiamo che la fotocamera appartenesse alla nostra vecchia amica, non è da escludere che Koizumi sia la ragazza dai capelli rossi al suo fianco, no? -
- Plausibile - annuì Judith - E da ciò che cosa ricaviamo? -
Pearl Crowngale si massaggiò il mento con aria assorta.
- Mhh... se davvero si tratta di un indizio, è possibile che questa persona sia coinvolta nel nostro rapimento? - suggerì la bionda.
- Se anche fosse non abbiamo idea di chi possa essere, quindi è una prova inutile... - sbuffò Michael - Siamo al punto di partenza -
- E non abbiamo neppure trovato un collegamento a Xavier... - June incrociò le braccia - Lui nemmeno compare nelle foto! -
- Con tutta probabilità quel maledetto era a conoscenza di molti più dettagli... - il chimico sussurrò un'imprecazione - Bah! Oramai è tardi per i rimpianti. Ciò che conta è che la sfida è finita e ci faranno uscire da qui! -
A malincuore, Judith Flourish dovette accantonare l'idea di trovare un modo per scagionare il compagno.
Quel cofanetto conteneva informazioni criptiche e misteriose, ma nulla che potesse aiutarla nel proprio intento. Un senso di sconforto la avvolse.
Pearl Crowngale le rivolse un cenno di premura, suggerendole di non darsi troppa pena.
Sapevano entrambe che ciò che potevano fare e sapere era limitato.
Judith raccattò le foto per inserirle nuovamente nella loro custodia originale; avevano svolto il loro lavoro, e difficilmente avrebbero avuto bisogno di riesumarle.
"...sono comunque le ultime foto ritraenti i nostri compagni" pensò, decidendo di conservarle assieme al metronomo sotto la giacca.
Fece per inserirle nella busta, quando la sua mano incontrò una resistenza improvvisa.
Inizialmente non capì; forzò il loro ingresso, ma era come se non riuscissero più ad entrare.
- Ma cosa...? Qualcosa le blocca... - 
Si domandò di cosa potesse trattarsi, poiché fino a pochi minuti prima c'entravano perfettamente.
Allargò la cartella con le dita e sbirciò al suo interno.
Un foglio di carta ripiegato numerose volte su se stesso aveva occupato gran parte dello spazio residuo.
"...prima non lo avevo notato. Che sia rimasto schiacciato dalle foto e si sia disteso quando le ho tolte?"
Fu l'unica spiegazione che seppe darsi, anche se un motivo per la presenza di quell'elemento ancora non c'era.
Allungò le dita all'interno della busta, grattandone il fondo con le unghie.
Quel movimento non passò inosservato all'Ultimate Assassin.
- Judith? - la richiamò lei - Cosa fai? -
- C'è dell'altro, qui dentro - esclamò, tirando fuori il foglio e stringendolo tra l'indice e il medio - A quanto pare non è ancora finita -
Michael si precipitò dinnanzi a lei con sguardo strabiliato.
- Come!? Un altro indizio!? -
- Così pare - commentò Judith - Datemi un momento; lo apro subito -
Ancora una volta si creò una calca attorno all'Ultimate Lawyer, che rivelò il contenuto del documento distendendo il foglio accartocciato.
Nonostante la carta sgualcita e le pieghe fu perfettamente leggibile.
Vi era stampata sopra una griglia con due colonne e un elevato numero di righe orizzontali.
In ogni riga erano scritti dei nomi e delle informazioni generiche, ma nessuno vi prestò attenzione prima di aver letto cosa c'era in alto.
Sopra la tabella vi era una scritta marchiata con inchiostro rosso; solo a vederla pareva di una certa importanza.
Judith si schiarì la voce.
- ..."Lista degli alunni partecipanti al Progetto Eye's Deception"... - cominciò, sentendo un brivido correrle lungo la pelle - "Ogni alunno proposto verrà valutato 
in base alle opinioni di tutti e sarà inserito solo dietro decisione unanime
" -
- Ma che diavolo è...? - Michael rilesse per assicurarsi che non fosse un elaborato scherzo - Un "progetto"? -
- Non sarà lo stesso menzionato da Monokuma...? Quell'esperimento sociale, come lo aveva definito lui... - disse June, interdetta.
- Sembra che la nostra situazione sia... un'operazione in larga scala - asserì Pearl - "Decisione unanime"... la nostra "adesione" a questa sfida è stata decretata da più persone, sembra... -
- E questa lista sottostante!? - Michael la puntò col dito - Questi... siamo noi!? -
Judith abbassò lo sguardo verso l'elenco.
Con voce tremante, iniziò a leggerlo a partire dall'alto.
- ..."Claythorne, Kevin - Ultimate Botanist" - disse - "Falls, Rickard - Ultimate Voice Actor", "Harrier, June - Ultimate Archer" ... -
- Niente da dire, sono i nostri nomi - palesò Pearl.
- La nostra condanna a morte... - deglutì June - ...messa per iscritto. Che cosa diavolo sarà "Eye's Deception"...? -
- C'è dell'altro, Judith? Qualcosa di utile? - disse Michael, pregandola di continuare.
Lei scorse verso il basso, elencando tutti i nomi presenti.
Dopo June seguirono Michael, Lawrence, Vivian ed Hayley. Non sembrava mancare nessuno.
- ..."Flourish, Judith - Ultimate Lawyer"... - pronunciò il suo nome con un groppo alla gola. Poi, il suo sguardo si illuminò - ..."Lesdar, Pierce - Ultimate Surgeon"...! -
- C'è scritto "Surgeon"...? - Pearl rimirò la riga in questione - ...è vero. E' indicato come tale -
- Quindi questo pezzo di carta è una sorta di documento identificativo - borbottò Michael, interessato - Oh, ora si spiega tutto -
- Definisci "Tutto", Mike - sospirò June - Io invece non ci capisco un bel nulla -
- Dai, ragiona! - la spronò lui - Non brancolavamo nel buio in merito al fatto che il Prof. conoscesse i veri talenti di Pearl e Pierce!? Ora abbiamo la risposta! -
Judith sussultò.
- Ma allora... Karol ha trovato questo indizio per primo! - 
- Ed è stato preso di mira da Monokuma subito dopo a causa del suo piano d'azione... - sospirò Pearl.
Michael indicò a Judith il punto da cui si era interrotta, incitandola a proseguire fino alla fine.
- Dacci conferma, Judith - disse il chimico - Anche l'identità di Pearl è quella corretta? -
L'Ultimate Lawyer lesse rapidamente i nomi successivi scorrendoli con la punta dell'unghia.
- ...Karol, Alvin, Refia, Hillary... Pearl! Eccola - indicò loro - "Crowngale, Pearl - Ultimate Assassin" -
Ogni dubbio fu fugato, e ciò portò il gruppo a porsi un'ultima domanda.
- Abbiamo accertato le dinamiche di come Karol è stato incastrato - concluse Michael - Ma ancora non abbiamo un'idea precisa del piano del Mastermind, né di quello di Xavier -
- M-ma quando potremo andarcene...? - sussurrò timidamente June Harrier - Il progetto è concluso, adesso, giusto...? Allora perché non ci lasciano andare via...? -
- Non temere, June. Sono certa che si tratti di una questione di tempo - la rassicurò la ninja - E' tutto finito, non devi più temere nulla. Dico bene, Judith? -
Silenzio.
June abbozzò un sorriso di gratitudine verso l'Ultimate Assassin, ma quella strana assenza di una risposta turbò anche lei.
Entrambe si voltarono verso Judith Flourish, rimasta immobile con aria assente.
Anche Michael Schwarz, per quanto non volesse ulteriori grane, si sentì in dovere di controllare.
- ...Judith? - la richiamò Pearl, scuotendole lievemente la spalla per attirare la sua attenzione.
L'Ultimate Lawyer non la sentì, non udì nulla.
Il suo cervello era completamente assorbito da quell'ultima riga di scrittura presente al margine inferiore della pagina.
L'estremità era ricoperta da caratteri che non erano nemmeno lettere, per la maggior parte.
Avvertì una sensazione di gelo al petto e allo stomaco, come se stesse soffiando un vento freddo sulla pelle.
Si accorse di star respirando a stento, di inalare aria a piccolissime dosi, annaspando.
I bordi del foglio dove erano poggiate le sue dita si inzupparono di sudore, divenendo appiccicaticci e fragili.
Quando gli occhi inumiditi furono capaci di rimettere a fuoco la scritta, le sua labbra asciutte e tremanti riuscirono a malapena a pronunciare qualche gemito sconnesso.
- Judith! Che succede!? - la strattonò June - Che cosa hai...!? -
- ...June! - Pearl la bloccò sul posto.
Sembrava aver intravisto a sua volta ciò che aveva turbato Judith, e nemmeno la sua espressione era delle migliori.
- Allora? Che problema c'è? - intervenne Michael.
- Guardate... - sussurrò Pearl - Leggete qua... -
Il suo dito scivolò fino in fondo alla pagina.
June si arrestò a sua volta, incredula, mentre Michael mostrò evidenti segni che la rabbia stava per avere di nuovo la meglio su di lui.
In mezzo a quella ebollizione di pensieri e sentimenti, la fioca voce dell'Ultimate Lawyer pronunciò la parte finale del documento.
L'unica che avrebbe preferito non scoprire, quella che avrebbe gettato tutti i loro sforzi alle ortiche.
L'unica che, in mezzo a quel profondo oceano di dubbi e paure, fu in grado di scuotere definitivamente l'incrollabile fede di Judith Flourish.
- ......."Jefferson, Xavier (Provvisorio) - ?????????, ???? (ZN08) - Ultimate Spy" -

 

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Capitolo 59
*** Capitolo 6 - Parte 4 - Reminiscenze (1) ***


Il suono di una campanella, lo stridere delle sedie e dei banchi spintonati dagli studenti ansiosi di uscire, e le grida esultanti di coloro che già si riversavano oltre i cancelli della scuola, assaporando la temporanea libertà dalle incombenze scolastiche.
Una brezza fredda ma gentile accompagnava l'inizio delle ferie natalizie, unico spiraglio per godersi le festività di fine anno in santa pace e senza preoccupazioni.
Era stato un Dicembre rigido e privo di neve, ma l'assenza del bianco candido veniva ampiamente compensata da un'atmosfera natalizia che si diffondeva per tutta la città, decorata con festoni e luminarie dalle più svariate forme e colori.
In mezzo a tutto quel freddo vi era una sensazione di pace e calore ad accogliere il fiume in piena di tutti gli alunni che, per alcune settimane, avrebbero fatto della scuola un ricordo e se la sarebbero lasciata temporaneamente alle spalle.
Tutti, tranne uno.
Mentre la folla si accalcava per passare attraverso l'ingresso e raggiungere le proprie mete o i mezzi di trasporto per tornare a casa e il rumore di passi scalpitanti sovrastava ogni altro suono, un unico ragazzo era appoggiato ad uno degli alberi del cortile esterno, fissando con sguardo pensieroso l'edificio che componeva la sede principale del Viktor Helios, noto istituto didattico che aveva acquisito molto credito negli ultimi anni.
Girava voce che la rinomata Hope's Peak Academy avesse intenzione di costruire una sede oltre l'oceano, al di fuori del Giappone; il Viktor Helios era stata una delle poche scuole a non lasciarsi intimorire dalla minaccia della concorrenza, e non aveva mancato di mettere in mostra il proprio corpo docente e le infrastrutture degne di un istituto di prima classe al fine di rimarcare la propria assenza di paura nei confronti del colosso giapponese.
Il ragazzo continuò a fissare quella che doveva essere una delle istituzioni più orgogliose del paese, senza però mostrare neppure un cenno di empatia.
Il suo sguardo sembrò occupato ad analizzare ben altro che la facciata che i pezzi grossi della scuola tentavano di mantenere.
Il lento scemare della confusione da fine quadrimestre permise all'area di divenire più tranquilla, più silenziosa.
Il giovane si godette quel breve momento di silenzio, bruscamente interrotto dall'arrivo di una voce più familiare.
- Hey, Xavier! -
Si voltò di scatto, colto alla sprovvista.
I suoi occhi verdi individuarono un piccolo gruppetto di studenti, di cui una lo stava salutando oscillando il braccio.
Erano tutti membri della sua classe, salvo un paio provenienti da quella accanto. 
Contagiati dall'entusiasmo generale, anche loro parevano gioire del termine delle lezioni per l'anno corrente.
Xavier sorrise e ricambiò il saluto, mentre tre di loro gli si avvicinavano.
- Tutto solo durante l'ultimo giorno di scuola? - chiese uno dei maschi.
- Mi conoscete, sono un tipo solitario - scherzò Xavier - Sto solo aspettando che si faccia ora di prendere l'autobus. Volevo godermi un po' di pace -
- Oh, Xavier! - esordì la ragazza più vivace - Come passerai le vacanze di Natale? Hai già dei progetti? -
Il ragazzo dai capelli scuri ci pensò su.
- Bella domanda - rispose con aria interrogativa - Non ho ancora un piano preciso. Credo che deciderò tutto all'ultimo, come sempre -
- Scommetto che non sai come muoverti perché sei sempre indaffarato! - si lamentò un altro studente - Dovresti mollare un po' la presa, di tanto in tanto! -
- Hai ragione, hai ragione - annuì lui, con un sorriso amareggiato - Intendo approfittare delle ferie per godermi un po' di relax -
- Beh, inizia subito! - propose la ragazza con una posa di vittoria - Stiamo andando a quel nuovo bar inaugurato la settimana scorsa per una bevanda di fine anno! Ti unisci a noi? -
Gli sguardi dei tre parvero trasudare eccitazione e aspettative. Xavier si mostrò addolorato nel dover declinare un invito posto con così tanta premura.
- Vi chiedo scusa, ragazzi. Oggi ho diverse faccende da sbrigare - disse, abbassando la testa con fare apologetico - Purtroppo ho le mani legate -
- Accidenti... di nuovo! - si lamentò lei - Riusciremo mai a portarti da qualche parte!? -
- Dai, non fare così...! - uno dei ragazzi tentò di calmarla - Lo sappiamo tutti che Xavier è spesso molto impegnato; non può farci niente -
- E' così, ma prometto che recupereremo questo tempo durante le vacanze - li rincuorò Xavier - Sarebbe proprio ora di mollare un po' la presa, almeno per adesso -
Il viso della giovane si riempì nuovamente di energia; mostrò un'espressione furbetta e divertita.
- ...lo hai promesso! Dovrai venire al bar con noi, dopo Natale! - lo additò pubblicamente, come ad ufficializzare l'atto.
- Sarà fatto, sarà fatto - disse, grattandosi la nuca - A patto di consigliarmi cosa ordinare. Ho dei gusti esigenti, io -
- Affare fatto! - disse, incamminandosi verso l'uscita salutandolo con la mano.
- Buone feste, Xavier - esclamarono gli altri, riunendosi al gruppo ed uscendo dal cortile scolastico.
Xavier si limitò a ricambiare con un affabile cenno di saluto.
Attese alcuni attimi dopo il preciso momento in cui le loro sagome svanirono dal suo raggio visivo.
Il suo sorriso di circostanza svanì, lasciando spazio ad un volto accigliato. La maschera era caduta.
Sospirò profondamente; odiava dover dire quel genere di cose. Non gli piaceva fare promesse che sapeva di non poter mantenere, il pronunciare parole vuote senza un vero fine.
Le bugie necessarie, però, erano sgradevoli quanto obbligatorie; era una scomoda realtà con cui aveva fatto i conti per lungo tempo.
Alzò lo sguardo verso l'istituto.
Quasi tutti gli studenti che avevano varcato la soglia del cancello non lo avrebbero rivisto fino alla fine delle vacanze, a Gennaio.
"...io qui non ho ancora finito, invece"
Si incamminò a sua volta verso l'esterno, avviandosi verso la stazione dell'autobus.
Vide il riflesso dei suoi due occhi attraverso la vetrata di un negozio lungo il tragitto, cercando in essi la risolutezza di cui aveva bisogno.
Non mancava molto all'inizio della missione.




L'autobus si fermò a diversi isolati di distanza, dopo aver percorso un tragitto lungo almeno nove fermate.
Non appena mise piede sulla banchina di stazionamento, Xavier si guardò attorno con circospezione.
Si trovava all'ingresso di un parco pubblico, una zona ampiamente frequentata, ma completamente vuota in quell'occasione.
Non c'erano scuole nei dintorni, e i bambini che normalmente popolavano e animavano quell'area verde stavano tutti probabilmente tornando a casa per godersi, al  caldo, l'inizio delle brevi vacanze invernali.
La mancanza di uffici o altre infrastrutture in quel piccolo distretto pieno di abitazioni contribuiva all'assenza di gente, rendendo il parco tacito e calmo.
Xavier ne assaporò il tiepido silenzio accompagnato da una gelida brezza invernale.
"...nascondersi in piena vista, ma solo quando non c'è nessuno. Tipico di Ewan" osservò "Ha pensato ad ogni dettaglio"
La passeggiata durò per poco tempo. Il sentiero pieno di foglie secche e ghiaia si interrompeva bruscamente all'inizio della zona riservata alle strutture ludiche per i bambini e alle panchine che accoglievano i genitori e i nonni che, con tanta pazienza, li portavano lì per passare intense ore di gioco.
Ma non vi erano né bambini né anziani, quel giorno.
Non vi era alcuna traccia della vivace gioia che abitualmente si avvertiva in quel luogo, e l'unico suono era quello di alcuni uccelli più temerari che, sfidando il freddo, andavano a caccia di insetti tra le fronde oramai spoglie degli alberi.
Al posto dei residenti abituali, tre persone stavano occupando la sezione dell'area giochi, immersi in chissà quale improbabile conversazione privata.
Un ragazzo snello dai capelli rossi, vestito di una giacca bianca troppo leggera per quella stagione, era seduto sulla cima del quadro svedese tenendosi in equilibrio apparentemente saldo con entrambe le gambe.
Appena di fronte, una ragazza dai capelli castani e sbarazzini e dall'aria impaziente si stava pigramente facendo dondolare sull'altalena, tentando di ingannare la noia.
Un ragazzo più massiccio, dallo sguardo serio e dai capelli corti, si era avvolto in un vecchio cappotto ed attendeva pazientemente seduto su di una panchina.
Vigeva un'atmosfera alquanto tesa e guardinga, che andò poi a sciogliersi con l'improvviso arrivo di Xavier.
La ragazza fu la prima ad accorgersi di lui, e balzò via dall'altalena apprestandosi ad approcciarlo.
Superò il recinto con un altro salto e gli si piazzò di fronte con un'espressione raggiante.
- Eccoti qui! - esclamò, assumendo poi un'aria severa - Sei in ritardo -
- Chiedo venia - si giustificò Xavier - Quell'autobus era davvero lento. Vi ho fatto aspettare molto? -
- Niente affatto - il ragazzo corpulento scosse la testa con flemma - Kristen è arrivata tre minuti fa. E' in ritardo anche lei -
- Non c'era bisogno di puntualizzarlo... - bofonchiò lei, palesemente irritata che la sua ramanzina fosse stata sventata.
Xavier evitò di menzionare che si trattava di un dettaglio che aveva perfettamente intuito da solo, ed elargendole una pacca amichevole sulla spalla passò oltre.
Il giovane dai capelli rossi saltò giù dalla struttura per salutarlo in modo appropriato.
Non appena furono vicini, si strinsero la mano. Mantennero un comportamento dalla facciata formale, ma entrambi si lasciarono sfuggire un sorriso confidenziale.
- Ewan, è un piacere averti a bordo - disse Xavier, canzonandolo con finta saccenza - Solo tu potevi trovare un luogo per riunirci così isolato e, al contempo, sotto gli occhi di tutti -
- Qui saremo al sicuro, ho preso le mie precauzioni - rispose lui, ostentando estrema sicurezza - E' bello sentire di nuovo le tue sfacciate prediche, vecchio mio -
Non appena la stretta delle loro mani si allentò, si batterono un pugno amichevole, ridacchiando a bassa voce.
- Ancora con i vostri strambi siparietti! - sospirò Kristen, vedendoli talmente divertiti.
- E' una tradizione a cui siamo affezionati - spiegò Ewan, alzando un indice - Se non ci punzecchiassimo un po' sentiremmo la mancanza di uno sprone -
- Ma non mi dire... - fece lei, senza bersi nemmeno una parola dell'amico bugiardo.
- Sì, beh, la verità è che ci diverte prenderci reciprocamente per il culo - rettificò Xavier.
- Amen - Ewan pose il punto definitivo sulla questione - Tralasciando; comincerei subito con il discutere di lavoro, ma prima urge un chiarimento. Come dovremmo chiamarti? -
La domanda lasciò Kristen momentaneamente di stucco. 
Notò che il quesito era stato rivolto direttamente a Xavier, il quale aveva reagito con un'espressione neutra.
- ...oh, suvvia! - fece lei - Ci conosciamo da una vita e necessitiamo di nomi in codice!? Non possiamo semplicemente chiamarlo...? -
- Kristen - il grosso si intromise con veemenza nel discorso - Sai bene come funzionano queste cose -
Lei gonfiò le gote, insoddisfatta.
- S-sì, ma... -
- Lui è l'unico, tra noi, ad aver agito sotto copertura per parecchio tempo - spiegò - Ha un'identità falsa da mantenere, e faremmo meglio ad abituarci ad essa per non metterlo in difficoltà in futuro -
- Lo capisco, davvero... - annuì lei, vagamente dispiaciuta - E' solo che... è da un sacco che...! -
- Non vorrai che finisca come la volta scorsa, Kristen? - imperversò lui.
- E va bene, Nate, ho capito! Non c'è bisogno di ricordarmelo! - sbottò lei - Ma continuo a dire che è una seccatura! -
Nate diede un cenno di intesa ad Ewan, e quest'ultimo annuì con accondiscendenza.
- Hai sentito Nate, grande capo - disse, rivolgendosi a Xavier - Allora? -
Quest'ultimo non parve essere troppo convinto, ma decise di non complicare ulteriormente la situazione.
- ...Xavier Anders. E' lo pseudonimo che ho utilizzato in questi mesi - disse - Ma in realtà potete chiamarmi come volete. Dubito che avrete a che spartire con le persone che mi hanno conosciuto e... -
- Sarà nostro impegno chiamarti "Xavier" fino al termine della missione, dunque - dichiarò Nate, incrociando le braccia.
Era stato detto come un consiglio, ma fu avvertito come un ordine impartito. Tutto il gruppo era abituato alle prese di posizione di Nate, su cui era difficile che trovasse compromessi.
Xavier sospirò, mentre Ewan fece spallucce arrendendosi alla situazione. Kristen si mostrò ancora indolente, ma decise di passare oltre.
- Ligio e ferreo come sempre, Nate - disse Xavier, andandosi a sedere al suo fianco sulla panchina.
- E' necessario che almeno uno del gruppo abbia la testa sulle spalle - sentenziò lui, senza sentire ragioni.
Anche Ewan e Kristen decisero che il metodo più veloce di sbrigarsela era di acconsentire e tentare di non dargli contro.
- Allora direi che... possiamo anche cominciare - asserì Xavier.
Erano le parole che tutti gli altri stavano attendendo di udire.
Kristen si portò rapidamente a sedere vicino a Xavier, occupando l'ultima porzione di spazio rimasta sulla panchina. Ad Ewan non parve dispiacere di rimanere alzato.
I tre compagni gli si strinsero attorno, attendendo che il leader proferisse parola in merito alla riunione odierna.
- Ooh, attendevo questo momento! - esultò la ragazza - La squadra è di nuovo riunita, finalmente! -
Pur non dandolo esplicitamente a vedere, l'entusiasmo di Kristen era condiviso. 
Era trascorso più di un anno dall'ultima volta in cui avevano cooperato per portare a termine una missione, e il lavoro li aveva costretti a recarsi negli angoli più disparati del continente per adempiere a compiti differenti.
Era raro che si ritrovassero assieme, ancor più inusuale che fossero presenti tutti e quattro.
Ciò era di per sé un bene, ma anche un motivo di inquietudine. Se erano stati convocati tutti voleva dire che la questione richiedeva la massima urgenza e un'efficienza totale.
In casi ancora peggiori, poteva trattarsi di una situazione più delicata della norma.
Xavier aveva già preso in considerazione quell'eventualità; la sua sola presenza bastava a giustificare una necessità di azzerare i rischi.
La situazione andava analizzata nei minimi dettagli, fin dal principio.
- Dato che la maggior parte delle informazioni le possiedo io... - cominciò - Vorrei che mi deste un rapido resoconto di ciò che avete scoperto durante la vostra permanenza qui -
- Allora... siamo arrivati in città circa una settimana fa - rispose Ewan - Io e Nate il quindici, Kristen il sedici. Da lì abbiamo perlustrato gli altri istituti marchiati come "sospetti" per capire che aria tirava -
- Nulla di insolito - annuì Nate, con aria pessimistica - Sembravano comunissime scuole. Nessuna voce di corridoio, nessuna storia circolante tra gli studenti -
Xavier si massaggiò il mento; poi si rivolse a Kristen.
- Hai svolto ciò che ti avevo chiesto? - le domandò, speranzoso.
Lei si leccò le labbra, mostrando un cenno positivo.
- Ho scavato un po' nelle graduatorie dei concorsi per gli insegnanti di ruolo in quest'area - annuì - Siamo a metà dell'anno accademico, quindi è inusuale che ci sia ricambio di personale tra i docenti. Nessuna scuola sembra aver fatto assunzioni... tranne il Viktor Helios -
"Tombola" pensò Xavier. Tutti i nodi stavano venendo al pettine.
Non restava altro che assemblare tutti i pezzi e sperare che il risultato fosse visibile.
- E tu che ci dici, Xavier? - disse Ewan, dandogli la parola - Sei stato sotto copertura per molto tempo, oramai. Dovresti avere un quadro generale della situazione, no? -
Il ragazzo annuì. Si accertò di avere l'attenzione generale prima di cominciare a discorrere sull'argomento.
- ...sono giunto in città da oramai cinque mesi. Ho raccolto numerose informazioni, ma sarà bene che io parta dal principio. Sbaglio o i piani alti vi hanno dato solo una descrizione abbastanza approssimativa dell'obiettivo? -
- Non lo nego - confermò Nate - Siamo stati richiamati qui d'urgenza; non abbiamo avuto nemmeno il tempo di tornare alla base -
- Ci è stato detto tutto a grandi linee - concluse Ewan - Dicci di più, capo -
Xavier annuì.
- Ascoltatemi bene... - d'istinto si voltò di spalle, controllando il vialetto del parco per accertarsi che non vi fosse nessuno di indiscreto - ...i nostri superiori hanno individuato una possibile base di rivoltosi nei pressi di questo paese. Mi hanno inviato per stanarli e riferire ogni dettaglio sulle loro attività -
- Siamo alle solite... - sospirò Kristen, seccata - Ogni tanto sbuca un nuovo covo di quei dannati terroristi... -
- Non è una novità - commentò Nate - Stanno aumentando in numero. Presto potrebbero divenire una minaccia molto più consistente -
- Sempre se non li fermiamo - puntualizzò Ewan - Continua, Xavier -
- Mi sono infiltrato con questa falsa identità e ho iniziato a fare domande in giro - proseguì lui - Ci sono volute settimane, ma ho ottenuto alcune utili testimonianze. E' una grossa città, questa, ma se un gruppo criminale approda alle sue porte tende comunque a non passare inosservato. Unendo ciò che ho scoperto alle informazioni datemi dai nostri superiori ho capito che stavano utilizzando una certa struttura come base operativa: una scuola -
- Nascondersi in un istituto scolastico...? - Kristen alzò un sopracciglio in segno di disappunto - Un piano bizzarro... ma forse efficace -
- Si mimetizzano in mezzo ad una folla di persone insospettabili - elaborò Nate - Nessuno andrebbe mai ad investigare degli studenti cercando di stanare dei terroristi -
- Tu dici? - Xavier parve essere scettico - Eppure è stata rilevata gente piuttosto giovane tra i ranghi dei ribelli. Anche studenti, ragazzi della nostra età -
- Sono casi rari - specificò Ewan - Coloro che stanno tentando di sradicare il nostro governo sono principalmente vecchi fanatici in cui è radicato un odio viscerale per il nostro Re; è gente che ne ha detestato le fondamenta, non l'evoluzione. In pratica: principalmente uomini maturi o vecchi. E' un gruppo di adulti conservatori -
- Ooh, un'analisi niente male! - si complimentò Kristen - Quindi... stiamo cercando una scuola, giusto? -
Xavier incrociò le braccia.
- ...non una qualsiasi. Una che si può permettere di ospitare un largo gruppo di persone, probabilmente armate, senza destare sospetti - continuò - Ci sono diversi istituti in città, ma pochi dispongono di possibilità simili. Ho escluso a priori i collegi più piccoli e ho usato dati falsi per iscrivermi al Viktor Helios. Un azzardo azzeccato, oserei dire -
- Perché proprio l'Helios? - era raro vedere Ewan così piacevolmente sorpreso.
- Ho fatto i dovuti accertamenti: l'Helios gode di una buona popolarità e di larghi introiti. Organizza ogni anno diversi viaggi interregionali per i propri studenti e scambi culturali con altre scuole, anche fuori città. Andando per logica, è normale pensare che possa essere utilizzato come copertura per traffici illeciti. E' un nascondiglio ideale -
- E hai indovinato basandoti solo su queste supposizioni? - anche Nate era impressionato, cosa che raramente dava a vedere.
Xavier mostrò un sorriso soddisfatto.
- Beh, era comunque l'alternativa più plausibile - disse - Nel caso si fosse rivelato un buco nell'acqua avrei potuto utilizzarlo come copertura per indagare sulle altre scuole. Nessuno chiude la porta in faccia all'Helios, da queste parti; è un'accademia prestigiosa -
- Tanto di cappello! - Kristen gli elargì due sonore pacche sulla spalla - Lo vedi che non sei poi così stupido? -
- Troppo buona, troppo buona - ironizzò lui - E la tua ricerca mi ha dato la conferma che cercavo: i terroristi si celano tra le mura del Viktor Helios. E' assodato -
Nate espresse rapidamente il proprio dissenso.
- "Assodato" è un parolone. Non abbiamo fatto altro che creare una teoria molto, molto solida - asserì.
- Hai perfettamente ragione - ammise Xavier - Di certo non me ne sarei tornato a casa senza le dovute verifiche -
- Quindi... è tempo di agire? -
Le quattro spie si scambiarono sguardi di intesa.
- Proprio così - dichiarò Xavier - E' giunto il momento di capire cosa stanno combinando -
- Ooh, adesso cominciamo a ragionare...! - Kristen tenne a freno l'eccitazione il più possibile - E' ora di dare una scossa a questa maledetta guerra civile! -
- Non trattarla subito come una vittoria - la rimproverò Nate, che si subì un'occhiataccia infastidita da parte di lei - Si tratta di un compito pericoloso -
- Abbiamo numerosi vantaggi, però - osservò Ewan - Dubito fortemente che il nemico sappia di noi. Non si aspetta di avere delle spie alle calcagna, né che stiamo per agire. Inoltre, Xavier ha passato molti mesi in quella scuola; mi viene da pensare che ne abbia studiato ogni metro quadro, no? Non andremo allo sbaraglio in territorio nemico -
A quelle parole, il ragazzo mostrò nuovamente uno sguardo fiducioso, quello di una persona che ha già pensato a tutto.
- Ho preparato una mappa della scuola per ognuno di noi: ci sono indicazioni, punti di interesse, e ho marchiato in rosso tutti i luoghi da ispezionare con la massima priorità -
- Sempre sul pezzo, vecchio mio! - Kristen alzò il pollice, complimentandosi.
- Sarà opportuno procurarsi il giusto equipaggiamento - si accodò Ewan - Torce, strumenti di scasso. Armi, soprattutto. Sarà una missione rapida, ma dobbiamo essere pronti. Kristen? -
- Ci penso io, lasciate fare a me - li rassicurò lei, confidando nelle proprie doti.
- Nate, avremo bisogno di supporto tecnico - lo interpellò Xavier - Puoi procurarci quattro ricetrasmittenti? Io non ne ho avute in dotazione per la mia missione in solitaria -
Nate si mise a rimuginare profondamente, emettendo un getto d'aria calda dalle larghe narici.
- ...datemi dieci ore e avrò tutto il necessario - asserì.
- Perfetto. Ewan, tu ed io avremo un meeting, stasera - disse, infine - Voglio spiegarti per filo e per segno tutto ciò che riguarda l'Helios. Ho bisogno della tua materia grigia per elaborare una strategia vincente - 
- Sarà fatto. E fatto bene - rise maliziosamente il ragazzo dai capelli rossi - C'è ancora da chiarire quando entreremo in azione, però -
Kristen, Nate ed Ewan si voltarono in contemporanea verso il leader, palesemente aspettandosi una qualche sorta di indicazione. Forse più una dichiarazione di guerra,  ma nessuno riuscì a sentirla come ufficiale se non pronunciata da lui.
Coinvolto dalle aspettative, Xavier si lasciò andare a quella formalità.
- ...agiremo domani sera, con le tenebre - decretò - L'obiettivo è trovare ogni traccia di attività da parte dei ribelli che attentano alla stabilità del nostro regno. Sarà una missione a basso profilo. Evitate ogni battaglia; se vi trovano, scappate. Anche il solo fatto di aver trovato qualcuno sarà già una prova evidente che si celano persone sospette, in quella scuola. Date la priorità alle informazioni e alla vostra salvaguardia. Intesi? -
Tutti e tre si misero sull'attenti. Kristen ed Ewan mostrarono la propria posa quasi per gioco; Xavier notò invece come Nate avesse preso estremamente sul serio anche quel semplice convenevole, esibendo un saluto militare perfetto.
Sospirò, sperando di vedere presto il giorno in cui sarebbe divenuto meno rigido.
- ...allora al lavoro, squadra. Ci riuniamo stasera alle dieci al mio appartamento - esclamò Xavier - Tu, Ewan, alle nove. L'indirizzo lo avete già, no? -
- E vai! Si va in scena! - Kristen spiccò un balzo oltre la staccionata iniziando a correre verso l'uscita del parco - Corro a fare scorte! Ci vediamo stasera! -
La ragazza li salutò agitando il braccio, sparendo oltre il cancello metallico che delimitava l'ingresso.
- Attenta a dove metti i...! Bah, è troppo lontana - sbuffò Nate, incamminandosi a propria volta - Sarà meglio che anche io mi dia da fare. Ci ritroveremo stasera al punto di incontro designato. Sarò puntuale -
- Non ne dubito, Nate - lo salutò Ewan - Avremo anche tempo per raccontarci che cosa abbiamo fatto nel corso di quest'anno. Sono ansioso di ascoltare le vostre storie -
- Dopo la riunione, molto volentieri - puntualizzò Nate, marcando il punto della questione.
- Sì, Nate... sì... - 
Anche il ragazzo corpulento svanì dalla loro vista.
Una brezza ancora più fredda si levò lungo il parco, rimasto ancora più vuoto di quanto non lo era già.
Ewan rimirò placidamente l'atmosfera che vigeva nel parco; il clima rigido sembrava sposarsi alla perfezione con il candido silenzio che regnava sul giardino spoglio.
Era una calma piacevole, e al contempo stranamente inquietante.
Respirandone l'aria gli parve quasi di poter assaporare l'essenza stessa dell'inverno.
- ...sai, hai ragione - disse improvvisamente Xavier.
La sua voce lo sorprese nel bel mezzo della propria alienazione.
- In merito a cosa? -
- Non vedo l'ora di sapere che cosa avete combinato in questo periodo di lontananza - sorrise Xavier - Ciò che avete fatto, chi avete conosciuto. Quante figuracce avete collezionato, quali cibi disgustosi avete assaggiato. Tutto -
Il rosso si sorprese di una simile considerazione, ma poi ricordò con chi aveva a che fare.
Sul volto di Xavier era comparso un sorriso tenue, e i suoi occhi verdi brillavano.
- Sei sempre il solito nostalgico... "Xavier" -
- Fa ancora strano sentirmi chiamare in questo modo da voi... - gli confidò - E, sì: sono il solito nostalgico. Sarà che il pensare che le vostre vite vadano avanti senza poterne attivamente fare parte mi... irrita -
Ewan lo ascoltò mostrando un'espressione vagamente incerta, eppure avvertendo un tiepido calore nell'animo.
- Suvvia, ci siamo comunque tenuti in contatto. Dico bene? -
- Sì, ma a volte non mi basta -
Vi fu un momento di silenzio. Un vento freddo si intromise con il suo raggelante sibilo.
Xavier rimase immobile, con lo sguardo perso nell'azzurro del cielo pomeridiano.
- ...a volte sento la vostra mancanza - gli rivelò - Il nostro lavoro è importantissimo, e lo rispetto; lo sai bene anche tu. Però... a volte vorrei tanto potervi... -
- Hey, adesso ascoltami -
La brusca interruzione lo lasciò momentaneamente basito. 
Ewan gli si era avvicinato e gli aveva afferrato il braccio con una presa stranamente forte.
Rimasto tentennante, alzò gli occhi verso i suoi: vi era una strana luce nel suo sguardo.
Era un volto contratto da uno strano dolore, ma che al contempo rivelava una comprensiva empatia.
Un misto di emozioni e segnali che Xavier non riuscì a cogliere. Il rosso era sempre stato criptico in ciò che provava veramente, ed era raro vedergli esprimere il proprio pensiero.
Pur conoscendolo oramai da numerosi anni, Xavier era certo di non avergli mai visto fare quella faccia.
- ...Ewan? -
- Non starai dimenticando qualcosa, vecchio mio...? - gli disse lui, con tono di rimprovero - La regola numero uno. Quella d'oro -
Il ragazzo deglutì. Sapeva a cosa si riferiva, ma era un argomento di cui non aveva mai voluto discorrere.
Scostò lo sguardo, sconfortato.
- Non la ho... dimenticata -
- Te la rinfresco per sicurezza... - disse, con un grosso groppo alla gola - Noi siamo spie. Siamo agenti sotto copertura; indossiamo continuamente maschere e viviamo di inganni, tutto al fine di portare a termine il nostro lavoro. La cosa più pericolosa per qualcuno come noi è... -
- Ho capito, Ewan! Non c'è bisogno di...! -
- ...affezionarsi -
Lo aveva detto. Era un termine a cui Xavier si approcciava con un misto di amore e odio.
Sapeva che faceva parte di lui, ma al contempo lo ripudiava come una sorta di debolezza, pur non potendone fare a meno.
Ciò che faceva più male, però, erano gli sguardi di chi continuamente stava a ricordargli il suo grave errore.
- ...ascolta: noi siamo amici - mormorò Ewan - Niente cambierà mai tutto questo. Ma il tuo vincolo affettivo nei nostri confronti si sta trasformando nella tua più grande debolezza. Lo stesso vale per Kristen: siete troppo legati ai vostri sentimenti -
- ...perché tutti me ne parlate come se fosse un crimine...? - gemette lui - E' sfiancante sentire che è sbagliato voler bene ai propri amici... -
- Non è errato! Ma è comunque rischioso! Siamo agenti da prima linea, ricordi!? - perseverò lui - E non solo: siamo i migliori! Affrontiamo missioni pericolosissime, e c'è sempre, SEMPRE il rischio di rimetterci la pelle! E la morte di un compagno non può intaccare troppo il tuo spirito; non deve. Se ti affezioni troppo, rischi di...! -
- LO SO! - gridò lui - Maledizione, lo so! Eppure...! Eppure... -
Di fronte alla mancanza di parole di Xavier, Ewan si ritrovò costretto a fare un passo indietro.
Non piaceva neppure a lui dovergli fare prediche simili, ma sapeva anche di farle con le migliori intenzioni e con un giusto obiettivo in mente.
- ...hey, mi dispiace. Non volevo fartelo pesare - si scusò il rosso - Ma sono preoccupato per te, capisci? Mostri una scorza dura, ma sotto sei molto sensibile. Io ti conosco da più tempo di tutti: queste cose le so -
- ...so che dovrei accettare il mio ruolo - sospirò Xavier, meditabondo - E so che hai ragione... ma non posso certo decidere ciò che provo, no? So di avere un comportamento irragionevole, essendo una spia. Però non riesco semplicemente a... -
- No, davvero, lo capisco - riprese Ewan - Il nostro tempo insieme è impagabile. Ma io ho accettato il rischio di questa professione, e so che... potrei perdervi tutti. Potrei ritrovarmi da solo da un giorno all'altro. Ma noi agenti dobbiamo anteporre il bene del paese prima dei nostri interessi. E'... il nostro lavoro -
Xavier sospirò.
- Non posso farti promesse, Ewan. Non so se riuscirò a cambiare -
- Non devi farlo per forza. E' comunque una tua bella qualità, che ti rende te stesso - sorrise l'altro - Però... è una lama a doppio taglio. Non dimenticarlo mai -
- Prometto di tenerlo a mente - lo rassicurò lui - ...dannazione, doveva essere una rimpatriata e si è trasformata in una ramanzina -
- Beh, un testone come te ne ha spesso bisogno - scherzò Ewan - Facci il callo -
- Ora capisco come si sente Kristen quando Nate la placca - sorrise debolmente Xavier.
Quell'ultimo commento fece sorgere ad Ewan un'altra domanda. Una meno prioritaria, ma che si collegava fin troppo bene all'argomento appena affrontato.
L'atmosfera era già quella che era, ed il ragazzo ne approfittò per togliersi anche quel secondo peso dallo stomaco.
- ...a proposito di quei due - borbottò.
- Mh? Che cosa? -
- ...intendi dirglielo? -
Ne seguì un silenzio colmo di incertezza.
Xavier si mostrò vagamente confuso, ma dentro di sé un'intuizione si fece largo tra i meandri dei suoi pensieri.
Sperò, in realtà, di non aver indovinato a cosa si stava riferendo.
- ...di che cosa stai parlando, Ewan? - disse, ostentando una completa ignoranza.
- Parlo della tua identità, "Xavier" -
Ancora una volta era riuscito a provocargli un forte disagio.
Xavier finì per domandarsi se l'amico lo stava facendo apposta ad addensare tutti quei discorsi complicati in un solo giorno.
- ...l-loro sanno benissimo chi sono - borbottò - Un loro collega e loro amico -
- Sì, ma hai capito perfettamente a cosa mi riferisco - sospirò Ewan - Sono l'unico a saperlo, ma è perché ti conosco da tanto. Non meritano forse anche loro di essere messi al corrente della situazione? -
- E-ecco... il punto è che... -
Si bloccò momentaneamente, cercando il modo migliore per esprimere il concetto in modo sensato e coerente.
Ewan rimase ad attendere a braccia conserte: non si divertiva a mettere l'amico in difficoltà, ma a volte era necessario per spronarlo a parlare.
Anche quella, riteneva Ewan, era una delle cose che aveva appreso dopo anni di esperienza.
- ...sai, Kristen riesce a mettere sempre il buonumore a tutti - disse improvvisamente.
La risposta di Xavier lo lasciò momentaneamente di stucco. Domandandosi dove volesse andare a parare, lo lasciò andare avanti senza interromperlo.
- E' una ragazza molto solare; dubito che la nostra squadra abbia mai avuto un collante emotivo così forte. E Nate... beh, non importa chi si trova di fronte, tenta sempre di raddrizzarlo se le cose non vanno come vuole, inculcandogli del buon senso. Ho come il timore che, se dicessi loro la verità... -
Deglutì. Gli ci volle uno sforzo maggiore per continuare.
Ewan dovette fornirgli un ulteriore sprone.
- ...cosa accadrebbe? -
- ...ho paura che le cose cambino, tra noi - ammise - Mi spaventa che possano trattarmi in modo... differente -
La fin troppo schietta sincerità lasciò il rosso allibito.
- Questa, poi - rise Ewan - Non credevo ti facessi simili problemi. Hai così poca fiducia in loro? -
Xavier arrossì lievemente.
- Ma no! Non è quello il punto! -
- Attenendoci ai fatti, a me sembra sia proprio quello - lo stuzzicò lui, scherzosamente - Beh, se posso dirti la mia: una persona che fa il nostro lavoro farebbe bene a non avere rimpianti. Cose non dette, non fatte, non provate... fai in modo da non averne, va bene? -
Xavier non riuscì a trovare un modo per replicare a tutto ciò, un'altra volta.
Trovò snervante come l'amico riuscisse ad impartirgli importanti lezioni andando sempre dritto al punto, senza giri di parole e senza indorare la pillola.
Era una dote che detestava, ma che al contempo gli aveva sempre invidiato.
A quel punto, anche il rosso si fece strada sul vialetto del parco dirigendosi verso la propria meta.
- Pensaci su, va bene? - lo salutò lui, dandogli le spalle - Ci vediamo alle nove da te -
- Sì... a stasera -
Passarono alcuni minuti. La solitudine non si fece sentire, poiché la eco delle parole di Ewan continuava a filtrare nei suoi pensieri, intasandogli la testa.
Xavier rimase a contemplare la propria esistenza contraddittoria col cuore pesante, fino a che non si decise a lasciare a propria volta il luogo dell'incontro.
Mancavano poco più di ventiquattro ore all'inizio della missione.
Xavier Anders sentiva di aver trovato molte più domande che risposte nel giro di una singola, breve rimpatriata.




L'aria era gelida, quasi irrespirabile. A notte inoltrata, quel freddo quasi gentile delle ore diurne era solo un ricordo.
Era al calare della sera che l'inverno mostrava tutta la propria spietatezza e il proprio rigore, ma non era abbastanza per tenere tutti rinchiusi in casa davanti ad un caminetto o ad una bevanda calda.
Due persone si aggiravano presso il perimetro dell'istituto Viktor Helios, su una stradina illuminata a malapena da pochi lampioni sparsi e dalla fioca luce di un'esile falce di luna parzialmente mascherata dalle nubi.
Kristen esalò un respiro lungo, osservando come il proprio fiato si condensasse rapidamente di fronte ai propri occhi.
Le temperature basse degne dell'ultimo mese dell'anno non la impensierivano, ma non amava comunque il freddo.
Prestò poca attenzione alla strada, concentrandosi maggiormente sul rumore di eventuali automobili di passaggio, poiché era convinta che nessuno potesse passare di lì a piedi, a quell'ora e con quel clima. 
Poi ci pensò su, e dovette ricredersi. Esistevano sempre delle eccezioni, e il suo compagno ne era un ottimo esempio.
Xavier stava controllando il contenuto dei piccoli zainetti che si erano portati dietro: piatti, leggeri e maneggevoli, con colori scuri per non essere avvistati in notturna.
L'equipaggiamento consisteva nello stretto indispensabile per una rapida ricognizione: una torcia elettrica, una mappa dell'area, una piccola fune e la ricetrasmittente di Nate.
L'obiettivo era di entrare ed uscire nel minor tempo possibile tentando di recuperare informazioni sulla presenza di nemici all'interno della scuola.
Un'operazione delicata da portare a termine con sveltezza.
Pur ripetendosi nella testa il proprio obiettivo settandolo come prioritario, Kristen non riusciva però a distogliere l'attenzione dall'abbigliamento fin troppo leggero sfoggiato dal suo alleato.
Una giacca leggera messa sopra una maglietta del medesimo colore scuro, pantaloni pratici e nemmeno un paio di guanti.
La sola vista bastò a provocarle la pelle d'oca.
- ...diamine, ma come fai? - borbottò lei.
- A fare cosa? -
- Ad andartene in giro come fosse una gita primaverile -
- Ah, capisco a cosa ti riferisci - sospirò lui - E' tutta una questione di abitudine, Kristen. Fidati -
La ragazza si strinse il giubbotto e rinsaldò la presa della sciarpa nera sul proprio collo.
Era solita favorire una tenuta comoda per muoversi e poco ingombrante, durante una missione, ed anche in quel caso aveva ridotto i vestiti al minimo necessario.
Eppure, ogni sguardo verso Xavier consolidava la sua idea che si trattasse di un caso esagerato.
- Beh, se a te sta bene non mi lamento mica - disse, infine - Basta che non ti becchi un malanno -
- Ti sorprenderesti di sapere quanta gente mi dice la stessa cosa - fece lui, mostrando un sorriso storto - Nate in primis -
- Almeno di quello non mi meraviglio -
Proseguirono il check-up senza ulteriori distrazioni. 
L'equipaggiamento era al suo posto e non presentava incongruenze con quanto deciso con Ewan la sera prima.
Xavier si tastò istintivamente la fodera nascosta tra le pieghe della cintura; il coltellino affilato in dotazione era ancora lì, al suo posto.
La lama era soggetta a numerose verifiche da parte del ragazzo, che doveva avere l'assoluta certezza di non rimanere disarmato nel momento del bisogno.
Sapeva che, in un probabile territorio nemico, era ciò che principalmente avrebbe fatto la differenza tra la vita e la morte.
Il miglior scenario sarebbe stato quello in cui non avrebbero dovuto estrarlo, ma Xavier non era solito concedersi ipotesi ottimiste.
Fece scivolare la mano lungo l'impugnatura permettendo alla sua memoria muscolare di tranquillizzarsi al tocco, sapendo che era tutto in ordine.
Emise un sospiro impercettibilmente flebile; osservò anche Kristen subito dopo.
Anche quest'ultima era munita di una lama, ma più lunga e pratica per scontri frontali.
Xavier aveva sempre riconosciuto che l'abilità della compagna nel maneggiare coltelli era sempre stata superiore alla propria, forse anche di troppo.
Era stato il motivo principale per cui Kristen era sempre mandata in prima linea in quasi ogni missione affidatagli; eppure, a lei non sembrava neppure dispiacere.
"Ognuno ha la propria specialità, dopotutto..." era solito dirsi Xavier per convincere se stesso che era il normale corso d'opera e che non poteva farci nulla.
L'altro elemento da avanguardia era Ewan, ma a Xavier risultava comunque difficile preoccuparsi per lui: il rosso era l'unico munito di un'arma da fuoco, e le sue abilità da tiratore lo rendevano un'efficiente unità mobile e sicura.
L'apprensione della giovane spia era principalmente rivolta verso la ragazza seduta di fianco a lui, che sbirciava oltre la rete metallica che li separava dall'edificio scolastico.
Osservando il suo sguardo intento a scrutare i dintorni, un altro dilemma attorniava la mente di Xavier; le parole che Ewan gli aveva rivolto il giorno prima continuavano a rimbombargli nella mente.
"...forse dovrei dirglielo"
- Sai una cosa? -
La voce di Kristen interruppe il suo pensiero a metà. Senza aver raggiunto una decisione, si voltò distrattamente verso di lei.
- Mh...? Cosa? -
- Mi sono appena ricordata che Ewan mi deve qualche spicciolo - sorrise maliziosamente lei - Credo proprio che lo costringerò ad offrirmi da mangiare -
- Mhh, conoscendoti... - mormorò lui - ...non sarà nulla di economico -
- Oh, puoi scommetterci! Se mi impegno avanzerà qualcosa anche per te e Nate - disse, assaporando il proprio piano con aria deliziata.
Xavier finì per ridere assieme a lei.
- ...sì, sarebbe fantastico -
- Cosa? Ridurre Ewan sul lastrico? - ridacchiò lei, divertita.
- No. Andare tutti assieme a mangiare qualcosa -
La ragazza si paralizzò; Xavier aveva utilizzato un tono diverso dal solito.
Realizzò di aver parlato dando per scontato alcuni dettagli cruciali; era raro che si incontrassero, e se avveniva era solo al fine di condurre al termine una missione.
Che avanzasse tempo libero prima di rientrare a fare rapporto era un evento ancor più inusuale.
Il viso di Xavier le trasmise un sentimento di insoddisfazione di cui temeva di essersi resa conto troppo tardi.
- Hey... che ne dici di una bella bistecca? - propose improvvisamente lei - E' il piatto preferito di Nate, e c'è una Steak House vicino al nostro appartamento -
Il compagno si mostrò rasserenato.
- Mi sembra un'idea gustosa e democratica; nessuno avrà da ridire -
- E pensa a tutte le patatine che ci metteremo attorno! E la salsa! - esclamò, facendo viaggiare la fantasia un po' oltre il dovuto.
- Kristen, se continui così rischi di farci venire seriamente fame -
- Ok, giusto. Non vorrei che il mio stomaco risuonasse per tutta la scuola - annuì - Però... almeno posso prometterti che non sarà un'uscita occasionale -
Xavier drizzò le orecchie. Il tono di Kristen si era improvvisamente reso più tenero.
- Come...? -
- Voglio dire che... non smetteremo di vederci dopo questo lavoro - lo rassicurò lei - Raccatterò Ewan e Nate per le orecchie, se necessario, ma ci terremo in contatto più spesso -
Gli elargì una pacca affettuosa sulla spalla. 
Xavier non poté far altro che celare il proprio volto, rincuorato ma al contempo imbarazzato da quelle parole.
- ...è così facile capire a cosa penso? - domandò Xavier, senza incontrare il suo sguardo.
- Non sempre, no. Ma ce lo avevi scritto in faccia - lo punzecchiò, gustandosi la sua reazione - E poi... anche a me mancate molto. E' bello che il team si sia riunito, ma spero sempre di non dovervi lasciare così presto -
In mezzo al conforto, il discorso di Ewan fece nuovamente breccia tra i pensieri di Xavier, provocandogli una reazione turbata.
- ...è strano, pensando che per tutta la vita ci hanno insegnato a non attaccarci troppo ad altre persone - sospirò lui.
- Ah... la regola d'oro, certo - annuì Kristen - Beh, per come la vedo io, l'uomo è un animale sociale. La nostra vita è costellata di relazioni con i nostri simili; sarebbe impossibile ignorarle proprio tutte, no? E poi sai che noia sarebbe un'esistenza senza qualche amico? -
- Heh, come darti torto? - ammise lui, con un'occhiata di complicità - Peccato che se i superiori sapessero come la pensiamo saremmo nei guai -
- Ah, quanto a loro... - rispose lei, massaggiandosi il mento - ...credo sarebbe utile se prendessero la loro regola e se la ficcassero dove dico io -
Vi fu un momento di silenzio.
Xavier trattenne a stento una risata, mentre Kristen sgomitava per farlo smettere, ma ridendo a sua volta.
- Questo però non dirlo ai nostri illustri superiori, eh? -
- Sarà il nostro segreto professionale - replicò lui, puntando l'indice sul proprio naso, come segno che avrebbe mantenuto il silenzio al riguardo.
- Vi state divertendo, voi due? -
Una terza voce fece capolino dal vialetto alla loro sinistra; passi ben noti di due persone.
Ewan e Nate erano appena tornati dal giro di perlustrazione, e si aggiravano quatti per evitare sguardi indiscreti.
- Siamo stati attenti a non fare rumore, non temere - lo tranquillizzò Kristen.
- Avete avvistato dei movimenti nei pressi della scuola? - chiese Nate, lanciando alcuni sguardi oltre la ringhiera metallica che li separava dall'istituto.
Xavier scosse il capo ostentando certezza.
- Nessuno -
- Se c'è qualcuno, sarà all'interno - osservò Ewan - E' quasi ora di agire: ripassiamo il piano per un'ultima volta -
I quattro annuirono all'unisono. Kristen tirò fuori una cartina dallo zaino e la piantò sul terreno, illuminandola con la torcia.
Ognuno dei presenti si inginocchiò ponendosi ad una delle quattro estremità della mappa: era stata redatta da Xavier, e rappresentava la struttura del Viktor Helios nella sua interezza.
Facendo scivolare il dito lungo la carta umida indicò ai compagni il percorso decretato con Ewan la sera prima.
- So che ne abbiamo già discusso, ma per sicurezza sarà bene ricapitolare - disse loro, richiedendo la massima attenzione - L'Helios ha un sistema di allarme  strettamente collegato alle telecamere di sorveglianza. Se entrate nel loro raggio, in tre secondi tutta il quartiere saprà della nostra presenza -
- Come conosci il loro funzionamento? - domandò Kristen.
- Io e Nate abbiamo già visto questa tipologia di videosorveglianza, in passato -
- Confermo. E' una tattica efficace e nemmeno troppo dispendiosa - illustrò il tecnico - Tutte le telecamere sono collegate allo stesso sistema, che automaticamente trasmette tutte le ricezioni alla centrale di polizia. Disattiviamo quello, e il gioco è fatto -
- Problema: la stanza di sicurezza è chiusa a chiave - intervenne Ewan - L'unico metodo per intaccare il sistema è di disattivare il generatore elettrico e spegnere l'intera scuola -
- Ooh, attacchiamo alla radice. Mi piace - annuì Kristen - Ma così facendo il nemico potrebbe sapere di noi, ammesso che ci sia davvero qualcuno lì dentro -
- Senza la luce saremo noi ad avere il vantaggio - disse Nate - Conosciamo il loro territorio e possiamo sfruttare l'effetto sorpresa. Inoltre, per noi il buio non fa differenza. Confido che ognuno di voi abbia il visore notturno che gli ho fornito? -
Quasi in contemporanea, gli altri tre tirarono fuori dalle tasche un piccolo paio di lenti scure collegate ad un dispositivo del medesimo colore.
- ...ok, in conclusione - continuò Xavier - Ewan e Kristen andranno avanti e disattiveranno la corrente elettrica. Ewan, tu ti occuperai del generatore al piano terra. Kristen, tu bloccherai quello secondario di emergenza: si trova sul tetto. Se prendi la scala anti incendio sulla destra dell'edificio eviterai la maggior parte delle telecamere -
- Sarà fatto! - esclamò lei, alzando il pollice.
Il leader del gruppo assunse un'espressione più cupa.
- ...l'obiettivo è di trovare il luogo in cui i terroristi si stanno nascondendo. C'è un deposito sotterraneo raggiungibile dal piano terra, ma è cosparso di telecamere e non è possibile accedervi nemmeno durante il giorno. Ci riuniremo dopo aver fatto saltare la corrente e controlleremo i dintorni - asserì, prendendo aria - Ma per quanto la missione sia importante, la priorità rimane... -
- Uscire tutti interi - lo interruppe Ewan, sorridendo - Se le cose si mettono male, scappiamo a gambe levate -
- Precisamente - confermò Xavier - Hai con te la bomba luminosa? -
Ewan preferì rispondergli con i fatti. Afferrò la cintura che portava ai fianchi e infilò le dita in una delle piccole, numerose tasche di cui era fornita.
Allungò la mano in avanti, mostrando un piccolo corpo grigio di forma cilindrica; era ciò che Xavier aveva menzionato, senza alcun dubbio.
Kristen mostrò di averne una a sua volta.
- E' abbastanza abbagliante da poter essere vista da qualunque zona della scuola - asserì Nate.
- Lanciatela solo in caso di emergenza, per aprirvi una via di fuga. Sarà il segnale di ritirata per tutti gli altri - 
I preparativi erano ultimati; non rimaneva che ufficializzare la missione con le giuste parole. 
Tutti attesero che fosse Xavier a dare il segnale, come era solito fare quasi per tradizione.
Il ragazzo avvertì le aspettative dei compagni e decise di agire di conseguenza.
- ...non appena avrete spento i generatori, contattateci con le ricetrasmittenti. Io e Nate faremo breccia immediatamente - esclamò - E' il momento. Andate! -
Fu una questione di attimi; Kristen spiccò un balzo in alto e afferrò il margine della ringhiera con le dita, facendosi dondolare per alcuni istanti.
Un altro salto, con un po' di slancio, e riuscì ad atterrare dall'altro lato cadendo perfettamente in piedi.
- Esibizionista... - si lamentò Ewan, scavalcando il cancello con un movimento alla volta.
Xavier si appoggiò alle sbarre d'acciaio, osservando i due compagni sparire nel buio della notte, oltre le mura del Viktor Helios.
Per un istante gli parve di vedere le loro sagome arrestarsi e ad alzare un braccio, come per salutarlo o rassicurarlo.
Eppure, non riuscì a fare a meno di provare una certa ansia.
Mentre ricercava ancora un'ultima volta le figure dei due amici, una mano corpulenta gli si piazzò sulla spalla con un tonfo.
- Sei troppo teso - sussurrò Nate, scrollandolo - Sai bene che sono due tipi in gamba, quei due -
Xavier lo ringraziò con un silenzioso cenno del volto.
- Sì... eccome, se lo so -
La luna era completamente offuscata dalle nubi.
Il buio notturno accompagnò l'inizio della missione; una come tante altre che il gruppo aveva già affrontato, ma che avrebbe potuto fare la differenza nella guerra a venire.
Mancavano alcune ore all'alba, e Xavier si chiese se avrebbe dovuto combattere quella sgradevole sensazione che covava dentro di sé.
"...alla fine non glielo ho detto..." rimuginò tra sé, vessato da quel rimpianto.

 

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Capitolo 60
*** Capitolo 6 - Parte 5 - Reminiscenze (2) ***


La notte tarda portò con sé un gelo ancora più pungente, che pareva intensificarsi ad ogni respiro.
Xavier, però, non sembrava curarsene nemmeno per un istante; non erano passati che appena cinque minuti dall'ingresso di Ewan e Kristen nel Viktor Helios, e l'attenzione della giovane spia era indirizzata unicamente al dispositivo palmare che Nate teneva con la mano libera.
Il muscoloso compagno aveva tirato fuori dallo zaino una strumentazione di modeste dimensioni, facili per il trasporto, ma notevolmente complessa.
Non appena i due della squadra di avanguardia erano spariti nell'edificio, Nate aveva acceso il suo portatile e un altro apparecchio più piccolo, che gli stava nel palmo della mano.
Su quest'ultimo era tracciata una piantina digitalizzata della scuola, opportunamente redatta in base ai dati forniti da Xavier, e due spie luminose indicavano la posizione rispettivamente di Ewan e Kristen. I dati venivano immediatamente inviati al computer di Nate, che gestiva l'intera situazione utilizzando le rapide dita della mano destra.
Xavier aveva sempre trovato ironico quanto Nate fosse incredibilmente portato per il settore tecnico pur avendo una costituzione che faceva pensare altrimenti; nonostante la possente mole e i muscoli, era raro vederlo in prima linea o anche semplicemente invischiato in un combattimento.
Tutto sommato, le missioni a cui Nate prendeva parte spesso non avevano nemmeno bisogno di zuffe o scontri diretti; si limitava a vincere con le informazioni e con l'utilizzo di sofisticati stratagemmi informatici. Nate non si era mai fregiato delle proprie capacità di hacker, ma era risaputo che fosse stato assunto quasi esclusivamente per quello specifico motivo.
Era una persona affidabile; anche nei momenti più complicati, Xavier aveva sempre trovato sollievo nell'idea che Nate coprisse le spalle al gruppo; una sensazione di agio raffinata nel corso di numerosi anni trascorsi assieme.
L'attenzione di Xavier andò per un attimo sulla rapidità con cui Nate premeva i tasti del computer, impressionandosene per l'ennesima volta, per poi tornare sui due simboli che marchiavano la posizione degli altri due.
Ewan stava seguendo un tragitto lungo il primo piano dell'edificio, mentre Kristen aveva fatto il giro per imboccare la scala anti incendio, come indicato durante la riunione.
Procedevano entrambi spediti, e le ricetrasmittenti erano costantemente attive.
Un rapido rapporto da parte di Ewan rasserenò la situazione.
- "Mi sto dirigendo verso l'obiettivo. Nessuno in vista. Passo" -
- Ricevuto. Come procede, Kristen? Passo - disse Nate, parlando al ricevitore.
- "Ho raggiunto le scale. Avanzo con cautela, queste maledette fanno un rumore infernale. Passo" -
- Teneteci aggiornati. Passo e chiudo - concluse Xavier, tenendo il trasmettitore a portata di mano.
Detto ciò, tornò ad incollare gli occhi sui due schermi facendo in modo da non mancare nulla che potesse essere avvistato.
I fattori imprevisti andavano ridotti al minimo e tenuti sotto controllo, secondo il suo metodo esecutivo.
Nate non poté fare a meno di notare quell'eccesso di zelo; riuscì ad avvertire una forte carica di apprensione in ogni occhiata, ogni sguardo verso il palmare, in ogni goccia di sudore che gli calavano dalle mani. Sospirò.
- Sei piuttosto su di giri - commentò, cogliendo Xavier alla sprovvista.
Questi si girò di scatto.
- ...come? -
- E' palese che tu sia in agitazione. Dovresti darti una calmata - lo rimproverò lui, severo come sempre.
Il ragazzo si grattò la nuca con nervosismo.
- ...è una missione delicata - si giustificò - E' imperativo che tutto vada liscio -
- Sicuro che sia solo per quello? - domando Nate, sorprendendolo una seconda volta.
- Niente indovinelli, Nate. A cosa alludi? -
Il corpulento compagno emise un lieve sospiro rassegnato.
- In genere sei sempre molto composto durante le missioni; ti conosco bene - disse, con tono sospettoso - Ma quando si tratta di mandare Ewan o Kristen in avanscoperta diventi immediatamente irrequieto. Non credere che non me ne sia accorto -
- Non mi sembra di certo qualcosa di cui meravigliarsi... - sbottò lui - Non è forse normale preoccuparsi per gli amici? -
- Ovviamente. Ma spero tu non stia dimenticando un'importante mentalità che dobbiamo preservare a fini professionali -
Xavier avvertì una fitta allo stomaco. Sapeva che sarebbe andata a finire così.
Ancora più di Ewan, Nate era sempre stato incredibilmente ferreo nei confronti della Regola d'Oro. Non mancava mai di mostrare quanto la seguisse con profonda dedizione, ed era il motivo per cui Nate era risultato piuttosto impopolare tra i colleghi. Il distacco e la freddezza mostrati nei confronti dei compagni aveva fatto sì che Xavier, Ewan e Kristen fossero le uniche persone con cui avesse stabilito una qualche sorta di contatto.
E non aveva mai mancato di rimproverare Xavier in merito al regolamento delle spie ogniqualvolta lo riteneva necessario.
- No, Nate... non la ho dimenticata -
- Predichi bene, ma razzoli male - continuò lui, senza staccare gli occhi dallo schermo - Ti preoccupi troppo per la nostra salvaguardia; basta guardarti per capire che sei costantemente in apprensione -
- Potrai ripetermelo all'infinito, ma temo di essere semplicemente fatto così - concluse Xavier, tagliando corto.
Nate sbuffò, chiaramente insoddisfatto.
- E' un lavoro pericoloso, il nostro. Un sacco di persone che conoscevamo sono morte in servizio, e continuerà ad accadere - proseguì lui - Ed è nostro dovere accettare
la loro scomparsa, per il nostro bene e quello di tutti. Quando ti deciderai a capirlo? -
Xavier avvertì un tremito alle mani. Strinse i pugni, avvertendo una certa rabbia repressa che tentava di eruttare.
- ... ma a te starebbe bene? - chiese a Nate, aggrottando la fronte - Ti starebbe bene di sapere che io, Ewan e Kristen potremmo sparire da un giorno all'altro? Che svanissimo per sempre, e non potessimo vederci mai più? Rispondimi: ti starebbe bene? -
Nate smise di prestare attenzione agli schermi e si voltò verso di lui con sguardo serio, fermo.
Affrontò il volto spazientito di Xavier con impassibile calma.
- ...sappi questo - disse il tecnico, mantenendo un tono imperscrutabile - Prima di qualunque altra cosa, io nutro un profondo rispetto nei vostri confronti. Siete le spie migliori che conosca, e a prescindere dalle vostre doti siete delle persone gentili. Ed è proprio in virtù di questo rispetto che intendo accettare ciò che la vita ci porterà. Non trarrei alcuna gioia dalla vostra morte, ma so che potrebbe accadere e... mi preparo psicologicamente a quel momento. E tu? Sei pronto ad accettare il corso degli eventi? -
Xavier abbassò la testa; ogni briciolo di rabbia scivolò via, lasciando il posto ad una lieve frustrazione.
- ...non so se ne sarò capace -
- Hai ancora bisogno di tempo, ma ti suggerisco di provvedere quanto prima - asserì lui, in definitiva - Lasciarsi vincere dalle emozioni è il più grave errore che una spia possa commettere. Tienilo sempre a mente -
L'atmosfera si appesantì; i due si acquietarono per alcuni istanti, senza che nessuno dicesse nulla.
Vi era già molto in moto nella mente di Xavier, e Nate realizzò di aver dato un altro possente scossone alla sua psiche.
Era abituato a fargli prediche sulle questioni etiche, ma capì anche di aver fatto un passo di troppo.
Sospirò, passandosi una mano sulla fronte.
- ...forse sono stato troppo duro. Mi dispiace - disse, con voce bassa.
- Le tue scuse non sono necessarie. Il problema è che hai ragione - ammise Xavier - Attenuare i propri sentimenti è davvero complicato, però -
- Non lo nego -
- Lo dici anche se a te sembra riuscire così naturale - disse Xavier. Pensò solo successivamente che non si trattava propriamente di un complimento.
Nate, dal canto suo, non sembrava minimamente turbato dalla cosa; a quel punto, Xavier si incuriosì al punto da chiedersi se il compagno non avesse davvero una risposta per lui.
- ...controllare le proprie emozioni, eh? - mormorò - Sì, forse io... -
Si bloccò a metà frase.
Xavier vide una scintilla scattare nelle pupille di Nate, il quale si voltò immediatamente verso il palmare.
Un suono sospetto era stato emesso da quest'ultimo; un rumore intermittente seguito da un completo silenzio.
Il volto scuro di Nate impensierì Xavier a tal punto da spingerlo a sporgersi per vedere.
Una scritta a caratteri scarlatti era comparsa sul monitor del dispositivo: "Segnale perso".
I due si scambiarono un'occhiata inquieta.
- Il segnale è... svanito? - sussurrò Nate.
- Che cosa è successo!? -
Esaminarono con attenzione la pianta virtuale della scuola: tutto era al suo posto, a meno degli indicatori di posizione dei due compagni.
Erano improvvisamente scomparsi dalla mappa, nel giro di un attimo.
- ...sembra che non riesca ad individuare le loro posizioni - affermò Nate, senza perdere la calma.
Xavier non perse tempo ed avvicinò alla bocca la ricetrasmittente.
- Mi sentite? Abbiamo perso il vostro segnale. Aggiornateci. Passo -
Attese un istante, che presto divenne un lasso di tempo molto più lungo.
Non vi fu nessuna risposta nell'arco di quindici secondi.
Nate afferrò rapidamente il proprio ricevitore.
- Ewan, Kristen, rispondete. Com'è la situazione? Passo -
Ancora nessun suono venne emesso dal comunicatore.
Seguirono numerosi tentativi nel minuto a seguire; mentre Xavier cercava in tutti i modi di allestire una comunicazione, Nate armeggiava freneticamente con il computer.
La localizzazione era ancora mal funzionante, e la tensione continuava a crescere.
- ...Nate, che cosa sta succedendo!? -
Il ragazzo imponente si massaggiò il mento, ponderando sulle possibili cause.
- ...la strumentazione non è difettosa, la ho controllata io stesso. Deve esserci un'interferenza -
- Un'interferenza...? Varrebbe a dire che qualcuno ha intenzionalmente manomesso il segnale!? - esclamò Xavier, spaventato - Ma allora... sanno della nostra presenza! -
- Non è... da escludere - Nate socchiuse gli occhi; le sopracciglia si arcuarono vertiginosamente in uno sguardo accigliato - E' un bel guaio -
Xavier si attaccò alla ringhiera e sporse lo sguardo verso la scuola. 
Non vi era nulla di sospetto, soprattutto a livello uditivo: non era scattato alcun allarme, e non vi era confusione.
Era come se la scuola fosse stata separata da tutto il resto del quartiere.
- ...se fossero stati scoperti avrebbero utilizzato le bombe luminose - asserì Xavier - Forse Ewan e Kristen sono ancora al sicuro? -
- Se anche fosse, oramai anche loro avranno capito che c'è qualcosa che non va - intervenne l'altro - Le comunicazioni sono state tagliate oramai da diversi minuti. E' possibile che si stiano ritirando -
- ...e se non potessero? -
L'idea attraversò le loro menti in contemporanea. Xavier fu assalito dal timore che il nemico potesse avere più informazioni di loro, nonostante la lunga ed elaborata preparazione avvenuta per quella missione. 
"...e se fossero rimasti bloccati lì?"
Scosse la testa. Capì che pensarci troppo non avrebbe giovato a nessuno. Era necessario prendere una rapida decisione.
- Nate, dobbiamo intervenire...! -
Esitò nel pronunciare quella frase, ma ciò che lo lasciò più spiazzato fu l'immediato responso positivo.
- Mh... forza, sbrighiamoci -
Xavier spalancò gli occhi, abbozzando un sorriso.
Era rarissimo che Nate decidesse di entrare in azione; senza un valido pretesto, in genere era sempre stato contrario ad agire in situazioni di svantaggio o dove le probabilità di vittoria erano incerte. La cautela del compagno sembrò finalmente passare in secondo piano.
Fu una piacevole sorpresa, ma evitò di pensarci troppo. Non avevano tempo da perdere in considerazioni sterili.
Nate prese sbrigativamente la propria attrezzatura e la ficcò alla meglio nello zaino. 
Rinsaldò l'attaccatura del fodero del coltello alla cintura e fece segno a Xavier di essere pronto.
- Allora andiamo. Troviamo quei due e svignamocela - disse Xavier, aggrappandosi alla ringhiera e cominciando a scavalcarla il più velocemente possibile.
- Hey, vedi di non abbassare la guardia! - lo raccomandò Nate, che lo seguì a ruota - La priorità va al salvataggio di Ewan e Kristen, ma se le cose si mettono male scappa -
- Lo terrò a mente - rispose, ansimando - Heh... è strano vederti approvare una strategia così frettolosa e poco curata -
Nate assunse un'espressione stranita.
- ...come? Che intendi...? - gli chiese, scavalcando la cima acuminata della parete.
- Ero certo che ti saresti opposto a questo soccorso avventato - ammise l'altro - Non fai mai niente che non segua una certa logica. Che Kristen ed Ewan rappresentino un'eccezione...? -
Nate rimase in balia dell'incertezza.
I due spiccarono un salto e si portarono all'interno del perimetro scolastico. La zona era ancora completamente silenziosa; non un suono né un rumore.
- ...sto solo facendo ciò che devo. Non fraintendere -
Xavier si limitò a sorridere.
Il tempo scorreva imperterrito, e bisognava agire con sveltezza.
- Io vado sul tetto. Tu controlla il primo piano - ordinò - Se trovi Ewan, avvertimi. Se la comunicazione è ancora assente, prendilo e scappate assieme. Io mi occuperò di Kristen -
- Ricevuto - annuì Nate - Oramai è chiaro che il nemico si trova in questo posto. Dobbiamo andarcene al più presto -
A quelle parole, i due iniziarono a correre forsennatamente in direzioni opposte.
Con ansia crescente e il cuore palpitante, Xavier imboccò il sentiero che portava alla scalinata di servizio. 
La luna era completamente assente, e la luce era già poca; indossò il visore notturno e sperò di non incorrere in ulteriori imprevisti.
Temette fino all'ultimo di dover dare ragione al suo orrendo presentimento.




A Xavier occorse poco meno di due minuti per fare il giro della struttura.
Nonostante la fretta, si guardò attorno ad ogni angolo per assicurarsi che non ci fosse nessuno a sorvegliare l'area.
Un brivido gli attraversò la schiena: sapeva che vi erano dei nemici, ma non aveva idea di dove fossero. 
Quel pericoloso divario in ambito strategico era ciò che detestava di più, durante una missione.
Più il tempo passava, meno comprendeva come potesse essere accaduto qualcosa di simile.
"...nessuno doveva sapere della nostra presenza qui..." pensò, camminando di soppiatto lungo il muro "...che sia stato incauto? Mi sono fatto scoprire durante la mia copertura? Eppure ero certo di..."
Accantonò quei pensieri per concentrarsi sui dintorni. 
La scala anti incendio era di fronte a lui, e correva diagonalmente lungo la parete della scuola.
Mosse i primi passi con estrema cautela: il metallo arrugginito cigolava sensibilmente. Era necessario procedere con passo fermo, pur andando in forte contrasto con la sua voglia di sbrigarsi.
Salì di due gradini alla volta prestando attenzione a fare quanto meno rumore possibile; farsi scoprire in quella situazione avrebbe peggiorato le cose.
Era giunto al primo piano; la porta di servizio adiacente la scala era chiusa dall'interno, e non sembrava possibile aprirla da fuori.
"Beh, è una porta d'emergenza adibita alla fuga. E' normale che possa essere aperta solo da dentro"
Si sporse oltre la sottile membrana di vetro sulla parte alta della porta, osservando ciò che accadeva al primo piano.
Vi era buio, ma in quel poco di chiarore era palese che non vi fosse alcun movimento.
"Ewan e Nate dovrebbero essere qui..."
Diede un'occhiata alla propria ricetrasmittente: il segnale risultava ancora assente. 
Oramai inutilizzabile, la ripose nella tasca sperando di essere contattato il prima possibile una volta tornata la linea.
Continuò imperterrito a salire le scale, fermandosi alle intersezioni dei vari piani per controllare la situazione.
Non vi era nessuno, non un'anima. Anche affacciandosi alle finestre, opportunamente sigillate, era impossibile scorgere la presenza di persone.
Xavier si bloccò per un istante, colto da un forte senso di stranezza.
Non sapeva identificarne la fonte, ogni fibra del suo corpo gli stava urlando di fare attenzione; che la minaccia non era distante come sembrava.
"...il tetto si trova oltre il quinto piano"
Si fissò in mente la propria meta e continuò a salire imperterrito.
L'obiettivo era la casupola del generatore ausiliario, posta sul tetto della scuola. Vi erano due metodi per arrivarci: dall'interno, o passando dalla scala esterna.
Ripercorrendo il tragitto percorso da Kristen pochi minuti prima, Xavier era certo che la avrebbe raggiunta per primo.
Quella sua sicurezza svanì non appena mise piede sull'intersezione tra il quarto e il quinto piano.
Spalancò gli occhi, vinto dallo stupore.
L'intera porzione di gradini che portavano fino al quinto piano era svanita, scomparsa. Rimossa.
Le gambe di Xavier avvertirono un tremito; si avvicinò tentennante alla zona in cui ci sarebbe dovuta essere la scalinata che conduceva di sopra.
Vi erano dei marchi, come fossero dei graffi causati da un corpo che struscia. 
Fu lì che ricordò un dettaglio importante, uno che avrebbe fatto la differenza.
"...le scale tra un piano e l'altro sono rimovibili...!"
La sezione con i gradini poteva slittare ed essere posizionata altrove per necessità. Era stato pensato in modo che potesse essere messa da entrambi i lati dell'intersezione nell'eventualità che una delle due metà fosse stata resa impraticabile. 
Ma la scala non era stata spostata all'estremità adiacente: era sparita del tutto.
"No... io ho... controllato ogni cosa proprio oggi..." le sue pupille si ridussero a fessure "La scala era al suo posto... altrimenti non..."
Vi era uno stacco di almeno tre metri tra i due piani; non era una distanza colmabile con un balzo, né dal basso né dall'alto.
Nessuno poteva passare da quel punto da alcuna direzione; la porta che conduceva al quarto piano, come le precedenti, era serrata.
Si fermò.
La situazione gli stava sfuggendo di mano, e sentì il bisogno di calmarsi.
Emise un lungo respiro, e tentò di meditare.
"Tutta questa situazione è priva di senso... c'è qualcosa che mi sfugge"
Socchiuse gli occhi.
Un pensiero gli attraversò la mente, una deduzione improvvisa.
Un'intuizione che gli provocò sudori ancora più freddi.
Quella sezione scomparsa apriva un dubbio molto più grande di quanto Xavier avrebbe mai potuto immaginare.
"...prima che il segnale sparisse, la posizione di Kristen indicava questo punto. Lei è passata di qui" ponderò "Ma se la scala non c'era deve essere tornata indietro... no, è qui il problema: se l'avesse fatto l'avrei incontrata! Ma se non poteva entrare dalla porta e non poteva proseguire..."
Deglutì.
Ipotizzò ogni possibile scenario, fino ad arrivare a fatica all'unica conclusione che, seppure assurda, era l'unica che aveva senso.
"...la scala è stata rimossa... dopo il passaggio di Kristen...?"
Una sensazione orrenda pervase il suo cervello.
Il vantaggio tattico del nemico si era rivelato estremamente maggiore delle aspettative.
Una pesantissima impotenza e un immane senso di sconfitta logorarono le sue facoltà mentali.
"C-conoscono... ogni nostra mossa...? Ci stanno... circondando senza farcene rendere conto!?"
Non fu più in grado di pensare.
Mandò ogni ipotesi e strategia all'aria e prese a correre a perdifiato giù per la scala di servizio, senza più neanche prestare attenzione a non fare troppo rumore.
Corse, corse fino a non avere più fiato.
Il suo sguardo era segnato dal terrore e dall'ansia, deformato in una smorfia pallida e madida di sudore.
Pochi minuti dopo, uno Xavier in preda ad una furiosa paura era giunto all'ingresso principale del Viktor Helios, inoltrandosi tra i corridoi del piano terra.





Superato l'atrio, Xavier costeggiò il muro delle bacheche e la reception per poi portarsi sulla scalinata principale, che collegava tutti i piani dell'istituto.
Il vedere quel luogo di notte, spoglio di qualunque presenza attiva, rumori e movimento, sortì uno strano effetto suggestivo.
Aveva passato molti mesi in quella scuola, ma non avrebbe mai pensato di ritrovarsi al suo interno con addosso un simile disagio.
Era un lato del Viktor Helios che le persone normali ignoravano, una seconda identità nascosta sotto gli occhi di tutti.
Un mondo a parte, abitato da persone che come lui erano esenti dalle regole convenzionali della società.
Xavier aveva accettato di seguire quel sentiero molto tempo prima, ma mai prima di quel momento si era tanto pentito di quella sua scelta.
Salì i gradini in marmo facendo scivolare la suola degli stivali su di essi, riducendo l'attrito e il suono emesso al minimo.
La mano destra era saldamente posizionata sul manico del coltello, sempre attaccato alla cintura.
Sentì l'irrigidirsi delle dita aumentare di pari passo con la tensione; osservò l'ambiente con circospezione innumerevoli volte, temendo un agguato ad ogni angolo.
Eppure, paradossalmente, nessuno era in vista; neppure una presenza era anche solo lontanamente percepibile.
La scuola era pervasa da un vuoto siderale che non fece che accrescere le ansie della giovane spia.
Saliti i gradini, si portò al primo piano; un pensiero lo fulminò non appena vi mise piede.
"...Ewan e Nate dovrebbero essere da queste parti"
Si fermò a pensare, rammentando la struttura del palazzo dai ricordi che aveva della mappa da lui redatta.
La stanza del generatore non era lontana, ma era necessario oltrepassare l'intero piano prima di arrivarci.
E il tempo non gli era a favore.
"Mi ricongiungo a loro... oppure vado dritto verso il tetto...?"
Il ricordo della scala di emergenza fece capolino; chiunque fosse stato ad intralciarlo, probabilmente sapeva dei movimenti di Kristen.
Oramai era assodato, e la priorità tornò ad essere una sola.
"...c'è un'altissima probabilità che Kristen sia stata scoperta..."
Strinse i pugni, e riprese a correre.
Nel frattempo, un vago senso di colpa per aver abbandonato gli altri due iniziò a serpeggiargli dentro.
Lo estraniò al meglio delle proprie possibilità, concentrandosi sull'obiettivo principale.
Fu solo quando salì al terzo piano che la sua corsa si arrestò.
Si attaccò al muro e si sporse: due telecamere di sicurezza monitoravano la sezione di scale che si congiungeva con il quarto piano.
Xavier realizzò qualcosa: il piano originale consisteva nel suddividere il gruppo in modo da mettere fuori gioco il sistema di sorveglianza.
Nate era stato molto chiaro: l'attivazione dell'allarme avrebbe emesso un segnale fin troppo acuto per non poter essere udito.
E quella situazione stava ad indicare un unico esito.
"...se Ewan e Kristen sono stati scoperti, ma le telecamere non hanno suonato..." ponderò lui "...allora vuol dire che sono riusciti a disattivare la sorveglianza!"
Dovette dare prova di un grande atto di coraggio e fiducia, ma alla fine decise di provare lo stesso.
Mosse tre passi verso l'intersezione dei raggi visivi delle telecamere, fermandosi esattamente al centro.
Le lenti dei due dispositivi rimasero inerti, spente. Il riflesso della sua immagine si riflesse sui loro vetri scuri e inattivi.
- ...sì! - esultò silenziosamente lui.
L'ascesa della spia riprese, ed era oramai giunto al quarto piano.
Lanciò uno sguardo in direzione dell'uscita di emergenza: riuscì ad intravedere la sagoma della scalinata e della sua porzione mancante appena oltre la porta.
Era finalmente giunto allo stesso punto di poco prima, ma dal lato opposto: quello da cui era possibile continuare.
Non sembrava ci fossero più ostacoli, e Xavier colse l'occasione per raggiungere l'ultimo piano.
Ancora una volta, nessuno era in vista.
"...fin troppo strano" pensò "Puzza di trappola..."
Era un presentimento che il ragazzo covava fin da quando aveva messo piede nell'area scolastica.
Troppi dettagli erano fuori posto, e troppe persone mancavano all'appello. Eppure, qualcos'altro spronò Xavier a perseguire il proprio intento.
"...secondo la logica, Kristen non può essere lontana"
Si fece coraggio, e oltrepassò l'ultima rampa di scale.
Un portoncino grigio scuro separava la zona interna dal terrazzo; abbassò la maniglia ed uscì fuori, sotto le stelle ed il cielo buio.
Una brezza gelida gli accarezzò la faccia, ma non era abbastanza per farlo indietreggiare.
Il tetto della scuola era ampio: vi erano alte reti d'acciaio messe a prevenzione di eventuali cadute, ed era un luogo di ritrovo per molti studenti.
Una porticina più piccola portava alla scala anti incendio, messa momentaneamente fuori uso.
Oltre a ciò, una casupola grande quanto una piccola stanza era posizionata sulla parte sinistra del terrazzo.
Xavier conosceva benissimo quel posto: era il luogo dove era tenuto il generatore ausiliario di energia che riforniva la scuola in caso di bisogno, ma veniva anche utilizzato come deposito per le più svariate cianfrusaglie e attrezzi vari.
Xavier deglutì; estrasse il coltello e si apprestò a raggiungere la porticella ammaccata che dava all'interno della baracca.
Il cuore gli palpitò rapidamente; avvicinò la mano tremante alla maniglia e la sospinse con un leggerissimo colpetto.
La porta ondeggiò: era aperta.
Inspirò profondamente.
Diede un poderoso calcio alla porta, spalancandola con un forte botto, e si gettò dentro mettendo in avanti la lama.
Poi, il silenzio.
Il suo allenamento da spia prevedeva che, in simili circostanze, gli occhi si aggirassero ovunque per scorgere la presenza di nemici, minacce, o anche solo di indizi.
Ma lo sguardo di Xavier non vagò in cerca di pericoli, né di un particolare fuori posto.
Milioni di nemici avrebbero potuto fare irruzione in quel preciso istante, e non avrebbe fatto differenza.
Tutto il mondo si ridusse per pochi istanti a quella stanza polverosa e piena di ragnatele.
Abbassò lo sguardo annebbiato verso il pavimento.
Il corpo di Kristen era in posizione prona, con le braccia divaricate in un lago di sangue.
Un lungo pugnale scuro era ben piantato sulla sua schiena, esattamente nella posizione del cuore. 
La faccia della ragazza era schiacciata a terra, come fosse annegata nel suo stesso sangue. 
La mano destra era rimasta attaccata al generatore di emergenza, lasciando una chiara impronta rossa su di esso.
Il sangue aveva cominciato a scivolare lungo le piastrelle del pavimento, tingendo tutto di un colore vivo e acceso.
Xavier rimase in silenzio, quasi senza respirare. Il coltello gli cadde di mano.
Mosse uno, due, tre passi verso di lei, poi lasciò cadere tutto il peso del proprio corpo sulle ginocchia e si prostrò a terra.
- ...no ...no...! -
Con le mani tremanti, raccolse ciò che era rimasto della compagna e lo portò a sé.
Portò la sua testa vicino alla propria, sorreggendo con la mano sinistra i suoi capelli castani, oramai di un colore irriconoscibile e grondanti di sangue.
Estrasse il pugnale dalla sua schiena e lo lanciò via con disprezzo.
Un'espressione terrorizzata era dipinta sul volto della vittima; Xavier le chiuse gli occhi, incapace di fissare le sue iridi sbiadite.
Avvolse il braccio destro attorno alla vita di Kristen e la strinse a sé, senza emettere alcun suono.
Non seppe quanto tempo passò, ma il suo stesso scorrere perse di significato.
Ripensando successivamente a quel momento, Xavier ricordò solo di aver pianto per la prima volta in molti, molti anni.
Una sensazione strana, distante, e al contempo familiare; non gli era mai capitato di piangere così intensamente per qualcuno, ma quella sera era diversa da tutte le altre.
Uno strano misto di sensazioni e odori gli si mescolò nel cervello, stordendolo. Ricordi confusi gli vorticarono nella mente, rendendo la realtà irriconoscibile.
Perché, di primo acchito, quello non era che un assurdo, improbabile incubo ad occhi aperti.
Persino la stretta sulla mano di Kristen gli parve fittizia, illusoria, come se non stesse accadendo davvero. 
Fu come se la realtà si stesse prendendo gioco di lui, di tutte quelle ansie e quelle preoccupazioni che si erano rivelate fondate nel momento più inatteso.
In mezzo a quel delirio emotivo, il dolore della perdita fu l'unica cosa abbastanza concreta da farlo rinsavire.
La lucidità gli tornò dopo un periodo indefinito.
Osservò il volto di Kristen, avvertendo una fitta al cuore. 
- Perché...? Non ha senso... non... doveva... accadere... - 
Strinse a sé il cadavere un'ultima volta, poi si girò di spalle e le afferrò le braccia.
Ripose il coltello nel fodero e preparò le proprie forze. Si caricò Kristen sulla schiena, e con uno sforzo si rimise in piedi.
- ...ti porto via da qui... - mormorò, con voce spenta.
Le gambe e le braccia facevano ancora male, rifiutandosi di obbedire. Fu necessario spingere la propria volontà oltre ogni limite per costringere il proprio corpo ad avanzare.
Ripreso controllo ed un minimo di freddezza mentale, Xavier uscì dal capanno con un enorme fardello sulla coscienza.
Fece attenzione affinché Kristen non gli scivolasse via, tenendola salda sulle spalle.
Uscì a passo lento dalla casupola; sapeva che la scala di servizio era ancora inutilizzabile. L'unico modo per scappare era di ripercorrere a ritroso la strada interna.
Si voltò verso destra, dirigendosi rapidamente verso l'ingresso del quinto piano.
Le scalinate si rivelarono ancora più ardue, con il peso aggiuntivo.
Xavier barcollò pericolosamente tra un gradino e l'altro, scendendo di piano lentamente e con passo sofferto.
"...avrei dovuto... dirglielo..." pensò, emettendo qualche gemito di dolore "...avrei dovuto dirglielo fino a che ne avevo la possibilità..."
Scese un altro gradino, e un altro ancora. Era giunto al terzo piano.
"Devo... devo trovare Ewan e Nate... forse sono ancora in tempo per..."
Il secondo piano fu oltrepassato a sua volta.
"Ma se è tutta una trappola tesa dai nostri nemici, allora... è possibile che...?"
Si bloccò sulla soglia del primo piano. 
Non aveva idea se gli altri due fossero ancora lì o meno; tutto ciò a cui riusciva a pensare era di portare via il corpo di Kristen.
Via da quell'inferno nel quale non la avrebbe mai lasciata a marcire.
Pescò a fatica la ricetrasmittente dalla tasca; il segnale non accennava a tornare. Anche solo contattare Nate sarebbe stato impossibile.
"...devo uscire da qui... il piano prevedeva questo..." strinse i denti "...ma non posso lasciare quei due qui dentro...! Maledizione...!"
Gettò uno sguardo languido verso il viso pallido della compagna.
- ...scusami, Kristen... - gemette - Prometto che verrò a riprenderti, ma... devo andarli a cercare -
Scese rapidamente le scale verso il piano terra, varcando più di un gradino con ogni passo. 
Una rinnovata fretta incalzò il ritmo del suo movimento, costringendolo ad accelerare.
"Non posso portarla con me per tutta la scuola..." un pensiero sgradevole fece breccia "Sarà meglio che la lasci vicino all'uscita..."
Non appena mise piede sul pavimento del pian terreno, prese a correre a perdifiato verso l'androne vicino all'ingresso.
La porta principale del Viktor Helios gli si stagliò davanti, vagamente in lontananza.
Xavier corse, corse forsennatamente senza fermarsi.
Sudore e lacrime cascavano in contemporanea dal suo volto smunto, ma non smise di correre. Si forzò a continuare ad ogni costo, senza farsi concessioni.
E continuò a correre, correre, fino a che non rallentò.
Rallentò, e si bloccò. Per la seconda volta, quella sera, ogni impulso del proprio corpo si intorpidì.
Ogni pensiero cessò, ogni movenza si congelò sul posto.
Xavier spalancò le palpebre con una disarmante lentezza, incapace di credere che tutto ciò stesse realmente accadendo.
L'atrio presentava una sostanziale differenza rispetto al momento in cui lo aveva attraversato l'ultima volta: macchie di sangue grondanti scendevano lungo il vetro traslucido, imbrattando il pavimento con chiazze sparpagliate.
Appoggiato alla porta, il cadavere di Ewan era seduto ricurvo con la testa pendente in avanti. 
Aveva un enorme taglio nella gola e numerose altre ferite simili sul petto.
Le mani prive di forza gli spuntavano dai lembi della giacca oramai impregnata del liquido rossastro.
I capelli, dello stesso colore lucente, erano illuminati dal vago chiarore della luna che finalmente faceva capolino tra le nubi, illuminando il volto senza vita di Ewan.
Xavier collassò nuovamente su se stesso, allungando un braccio verso la guancia del compagno.
Gli elargì un lieve buffetto, e poi un altro ancora; rifiutandosi di credere a quella vista, la disperazione lo spinse addirittura a chiamarlo.
- E-Ewan... no, ti prego... svegliati... - lo pregò lui - Dobbiamo andarcene... dobbiamo andare via... ti scongiuro, non lasciarmi... ti prego... ti... -
Avvertì il peso di Kristen lentamente scivolargli via dalle spalle; il corpo della ragazza rovinò appena di fianco a quello di Ewan, suscitando in Xavier una visione orripilante.
I due amici erano lì, di fronte a lui, morti.
Xavier non seppe più che cosa provare; il cuore era esploso in una miriade di emozioni, un tripudio di collera, orrore, paura, colpa, conflitto, nostalgia, rimpianto.
Sensazioni su sensazioni si accavallarono in quella baraonda interiore, intorpidendo il pensiero razionale del ragazzo.
Vittima di se stesso, fu proprio a causa di quel colossale trambusto mentale che i suoi sensi si ritrovarono rallentati e infiacchiti.
Le sue orecchie udirono troppo tardi, il suo cervello processò l'informazione con alcuni secondi in eccesso.
Uno, due, tre passi alle sue spalle.
Xavier, con sguardo quasi vacuo, spalancò gli occhi. Il terzo passo era troppo, troppo vicino.
Si voltò di scatto.
Tutto ciò che era rimasto di sano nel suo inconscio si riversò in quell'unico, fondamentale riflesso incondizionato.
Una lama di coltello proveniente dall'alto fu tutto ciò che vide; si spostò istintivamente di lato, ma era inevitabilmente tardi.
Una sferzata rapidissima gli tranciò in due la sezione dell'occhio sinistro.
Ebbe appena il tempo di urlare e scalpitare che un secondo colpo gli arrivò immediatamente dopo.
Gettandosi disperatamente di lato, rotolò sul pavimento.
Si rimise in piedi barcollando con equilibrio precario e afferrò frettolosamente il coltello agitandolo davanti a sé alla cieca, in un disperato tentativo di 
allontanare l'aggressore pur non riuscendolo a vedere.
Si asciugò il sangue dalla faccia, tentando di sfruttare ogni secondo a propria disposizione per riassestare il proprio controllo sulla situazione.
L'occhio sinistro era andato, e un fiume di sangue fuoriusciva copiosamente dalla ferita verticale che aveva subito.
La sofferenza lancinante non bastò a farlo svenire, ma Xavier era certo che fosse il dolore più vicino all'inferno che avesse mai provato.
La vista quasi offuscata percepiva solo un vasto grumo rossastro, e la ferita bruciava come se fosse stata logorata su braci ardenti.
Ma ciò che più fece breccia nel suo animo non fu il dolore disumano, né la paura, né la tristezza.
Era puro e totale stupore.
La sua unica pupilla rimasta osservò la sagoma sbiadita dell'aggressore, che non aveva ancora compiuto la sua mossa successiva.
Anzi; era immobile a gettare occhiate neutre verso i due cadaveri poco distanti.
Xavier si schiacciò contro la porta, quasi come a proteggere i due amici caduti. La mano che teneva il coltello vacillò, fino ad abbassarsi.
Conosceva quello sguardo; erano degli occhi così profondi che neppure il buio poteva mascherarli.
Erano occhi che aveva visto fin troppe volte, con cui aveva condiviso fin troppe cose, e che adesso lo fissavano colmi di impassibile sdegno.
- ...ti avevo avvisato - disse, con voce cupa - Ti avevo avvisato... che ti saresti scavato la fossa con le tue mani -
Nate fece un passo in avanti, sorreggendo il pugnale con la grossa mano muscolosa senza mai scostarlo dalla traiettoria di Xavier.
Quest'ultimo, col poco fiato che aveva in corpo, ansimò rapidamente.
Sentì l'ossigeno venirgli a mancare, così come la volontà di tenersi in piedi.
Un vuoto assoluto lo cinse, e tutto sprofondò nel caos.
- Nate... - balbettò lui.
Un irriconoscibile volto, seppure ben noto gli si parava davanti.
Ogni traccia dell'austera gentilezza, della severa gentilezza dell'amico era svanita senza lasciare traccia.
Rimaneva solo un bagliore assassino in due occhi pieni di odio.
Xavier giurò a se stesso di non aver mai visto quella persona in vita sua.
 

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Capitolo 61
*** Capitolo 6 - Parte 6 - Reminiscenze (3) ***


Xavier squadrò una seconda volta la sagoma del ragazzo che gli si ergeva di fronte, alzando debolmente lo sguardo verso l'alto.
La corporatura massiccia, gli abiti scuri, e il volto severo e spigoloso; non vi era dubbio che si trattasse di Nate, ma credette fino all'ultimo che i propri sensi lo stessero traendo in inganno; uno scherzo di pessimo gusto, una ridicola farsa.
Osservò il pugnale sporco di sangue nella mano destra di Nate, grondante di liquido ancora fresco.
Rimirò le sue movenze imperscrutabili, il suo respiro misurato ma profondo, i capelli corti e scuri.
Non vi era una sola incongruenza con la persona che aveva conosciuto per tutti quegli anni, eppure non riuscì a riconoscerla.
Non c'era più nulla di lui; solo uno sguardo torvo e colmo d'odio.
Xavier si passò la mano sull'occhio sinistro, ma la scostò subito; bruciava da morire, e il solo sfiorarla gli provocò una fitta acutissima.
Avvertì lo scorrere di numerose stille sanguigne colargli lungo la faccia e cadere sul pavimento, poco distante dal punto in cui il corpo di Ewan era stato lasciato.
In mezzo al caos, ricordò anche quel cruciale dettaglio: Ewan e Kristen erano morti. O, per meglio dire, brutalmente uccisi.
Rifiutò categoricamente l'idea di attribuire il loro decesso all'uomo che aveva di fronte in un ultimo, labile tentativo di rifuggire l'assurda realtà dei fatti.
- ...Nate...? Ma che cosa...? - biascicò con voce strozzata - ...che cosa stai facendo...? -
Xavier si spinse contro la parete, immettendo forza nel piede destro per aiutarsi ad alzarsi.
Nate notò quel movimento, e brandì il coltello in avanti intimandogli di non muoversi.
Xavier deglutì, e rimase seduto con le spalle al muro.
- Cosa credi che stia facendo? - rispose sarcasticamente l'altro, senza perdere serietà.
- Questo è...assurdo...! E' impossibile...! - tossicchiò Xavier, lanciando la voce in avanti con le energie rimaste.
Nate scosse il capo, emettendo un lungo sospiro.
- "Impossibile", dici? Eppure, eccomi qui - rispose - Come sempre sei il solito ingenuo. Cadere in un trabocchetto così elementare... vergognati -
- Stai delirando, Nate...! Tu non...! - 
- Io ti ho ingannato, "Xavier"; è la realtà dei fatti - sibilò Nate - Quanto altro sangue dovrai vedere scorrere prima di accettare le cose come stanno? -
Xavier strinse i pugni fino ad arrossarsi le nocche.
Aveva perso molto sangue e faceva fatica a mantenere la concentrazione, ma una raffica di pensieri ed emozioni lo costrinsero a rimanere sveglio.
- Assurdo... - mormorò - Tu avresti fatto... il doppio gioco? Per tutti questi anni...? Non è concepibile... -
- Non essere stupido: il mio lavoro consisteva proprio in questo. Insediarmi tra i ranghi dei servizi segreti del regno e riferire informazioni ai miei veri alleati -
spiegò lui, palesandola come un'ovvietà - E se sono riuscito a mantenere la facciata per tutto questo tempo vuol solo dire che ho fatto bene il mio mestiere -
- Ma allora... allora tu sei...! -
Nate fece un passo in avanti; riecheggiò lungo tutto l'atrio.
- ...un terrorista, sì - rispose, impassibile - Un membro dell'alleanza che sta cercando di rovesciare l'attuale governo monarchico con la forza. Ecco la verità -
Fu ancora più doloroso da sentire a parole, pur avendolo già perfettamente intuito.
Un'espressione di orrore e paura comparve sul volto di Xavier, il cui unico occhio si era ridotto ad una minuscola fessura e le cui spalle non cessavano di tremare dal panico.
Capì come mai quella persona appariva così diversa dal Nate a cui era stato abituato: quest'ultimo non era mai davvero esistito.
Il ragazzo vide passarsi davanti tutti i momenti trascorsi con l'intero gruppo, inevitabilmente analizzandolo sotto una luce diversa.
- ...una bugia... questi anni sono stati tutta una bugia... per approfittarti di me...? -
- Mi sembra un riassunto conciso - replicò lui - Non averne a male; non sei l'unico ad esserci cascato. Kristen, Ewan... persino i piani alti ne erano all'oscuro. E tu, da bravo amico, hai finito per raccomandarmi ai superiori per i miei distinti meriti sul campo. Mi hai decisamente agevolato, e te ne sono grato -
- Smettila... - sbottò Xavier, serrando i denti - Smettila di dire queste assurdità... come puoi calpestare il nostro rapporto come se... come se non fosse mai accaduto nulla...!? -
Nate inarcò le narici e aggrottò la fronte.
- ...razza di sciocco. Ancora ti ostini a non vedere le cose come stanno!? Ti ho mentito! Non sono mai stato un tuo compagno; men che meno tuo amico. Ti ho usato per raggiungere il mio scopo... ed eccomi qui, ad un passo dal raggiungimento -
A quel punto, Nate alzò il braccio libero e compì un gesto rapido con la mano.
Xavier notò due figure di uomini adulti uscire da uno dei corridoi adiacenti; erano persone che non aveva mai visto, ma che erano palesemente agli ordini di Nate.
Uno dei due, in particolare, trasportava una valigetta scura dall'aria sospetta.
- Qui è tutto sistemato - li esortò Nate - Ora andate, prima che si accorgano di noi. E portate la valigia al sicuro -
I due non se lo fecero ripetere e sgattaiolarono via tramite una finestra aperta, svanendo nella notte.
Xavier assistette impotente allo svolgersi degli eventi, maledicendo se stesso per non poter intervenire.
Gli sguardi dei due ragazzi tornarono a confrontarsi.
- ...ma perché...? - domandò Xavier, con la gola quasi soffocata da sangue e muco - Perché tutto questo...? Qual è il vostro obiettivo!? -
Nate sbuffò, irritato.
- ...il nostro paese sta affrontando una grave crisi, sai? - disse - Una crisi che continua ad imperversare sui nostri cittadini, e che peggiorerà se la famiglia reale continuerà a regnare indisturbata. Una monarchia assoluta non è un sistema in grado di far prosperare una nazione: la condannerà in un futuro prossimo -
- Il nostro paese... esiste sulla base di una storia antica e travagliata... ha delle fondamenta antichissime che ne hanno consolidato la struttura socio-economica, e non avete il diritto di imporre il vostro ideale rivoluzionario con la forza! -
- Parli come se i reali non nascondessero numerosi scheletri nell'armadio... - sibilò Nate - Il nostro è uno stato militarizzato che sarebbe in grado di sopprimere qualunque avversario politico con uno schiocco di dita. E con la crisi internazionale degli ultimi tempi, quel presentimento si sta per avverare. Dobbiamo fermarli prima che sia troppo tardi, e se l'unico modo per farci ascoltare è un colpo di stato, così sia! -
Xavier batté con forza un pugno sul pavimento, utilizzando ogni briciolo di forza residua nei suoi muscoli.
- MA ALLORA PERCHE'!? PERCHE' HAI UCCISO KRISTEN ED EWAN!? - gridò a pieni polmoni - COSA SPERAVI DI OTTENERE!? PERCHE' NOI!? -
- ...fai il finto tonto? O davvero credevi che io non conoscessi la verità...? -
Xavier si bloccò; quelle parole lasciavano presagire un orrendo risvolto nella faccenda.
Deglutì, sputacchiando un grumo di sangue.
- ...la verità? -
- La verità su di te; su chi sei veramente - rispose con estrema freddezza, cosciente di avere ragione - Non hai mai rivelato nulla a me e a Kristen, ma io ho le mie fonti. Conosco il tuo segreto -
- ...come puoi... sapere qualcosa di simile? - balbettò lui - Quasi nessuno dovrebbe...! -
- ...dovrebbe essere a conoscenza del fatto che tu sei uno degli eredi al trono? - pronunciò, impassibile - Non sei semplicemente il preferito dei piani alti; sei il loro protetto. Sei a tutti gli effetti uno dei pretendenti al trono del regno, un membro della famiglia reale. Mi sbaglio? -
Uno sconfortante senso di angoscia lo pervase. 
Sapeva troppo, anche più di quanto il suo ruolo gli avrebbe potuto consentire.
Xavier sentì di aver fortemente sottovalutato i suoi avversari, e che quell'errore di calcolo madornale aveva fatto la differenza.
- ...che follia - commentò Xavier - Anche se conosci la mia identità, bersagliare me non ha alcun senso...! Il trono è già occupato dalla principessa! Io sono solo
un membro del ramo cadetto della famiglia! Non indosserei la corona nemmeno volendo! -
- Non hai prestato attenzione - lo corresse Nate - Noi intendiamo estirpare TUTTA la famiglia reale, dal primo all'ultimo. Una volta uccisa la principessa, il diritto di regnare sarebbe passato alla persona successiva sulla lista: tu. Con la tua morte, stiamo agendo d'anticipo su uno scomodo problema futuro -
- Ma questo non giustifica ciò che hai fatto, dannazione! - strepitò lui - Eravamo soli, IO E TE, POCHI MINUTI FA! Fuori la scuola, all'inizio della missione... avresti potuto uccidermi lì, IN QUEL MOMENTO! PERCHE' COINVOLGERE ANCHE EWAN E KRISTEN!? LORO ERANO INNOCENTI! -
A quel punto, Nate gli rivolse nuovamente un acido sguardo sdegnoso e iracondo.
Xavier sudò freddo per alcuni attimi.
- ...ancora una volta mi prendi per un idiota? - ringhiò Nate - So benissimo che ti è stato innestato un tracciatore sotto pelle. Nel momento in cui il tuo corpo subisce una ferita, un impatto grave, o è percosso da un forte stress, un segnale viene immediatamente mandato ad Ewan. Non potevo uccidere te per primo, o sarei stato scoperto -
"D-dannazione... sa anche questo...!?"
Xavier non riuscì a nascondere la sorpresa di essere stato sconfitto su ogni fronte, e vacillò sensibilmente.
- Ewan non era una semplice spia; era la tua guardia del corpo - continuò Nate - Era l'unico ad essere stato messo al corrente di tutto, ed è sempre stato colui che più di chiunque altro garantiva per la tua sicurezza. Dovevo sbarazzarmi di lui in modo da eliminare ogni testimone scomodo -
- Ecco perché... hai elaborato tutto questo...? -
Nate emise un getto d'aria dalle grosse narici, come a dare un cenno di assenso.
- ...quando il segnale delle ricetrasmittenti si è misteriosamente interrotto, è stato per opera mia. Ho fatto in modo da interrompere le comunicazioni per costringerci ad entrare nella scuola. Dovevo fornirti... il giusto pretesto -
- ...ecco perché non hai esitato ad entrare... - realizzò Xavier.
- Incolpa te stesso per esserti affidato alla strumentazione che IO vi ho fornito. Era già tutto predisposto da settimane: i miei collaboratori all'interno della scuola sapevano del nostro arrivo da un sacco di tempo, e si sono preparati di conseguenza seguendo le mie direttive - spiegò Nate - Una volta visto che Kristen aveva superato il quarto piano, i miei uomini hanno rimosso una porzione della scala per impedire a lei di scappare e a te di raggiungerla. Ero certo che saresti voluto andare a soccorrere lei, per prima. Sei sempre stato troppo protettivo nei suoi confronti -
- ...era tutto per costringermi a rifare la strada al rovescio e farmi perdere tempo...! -
- Proprio così. E, mentre tu tornavi indietro facendo il giro della scuola, io sono salito sul tetto... e l'ho uccisa -
Quelle parole furono come un colpo al cuore.
Xavier dovette prendere qualche momento per convincersi che le aveva pronunciate davvero.
Le riferì con una calma proverbiale, quasi innaturale. Gli aveva appena detto di aver ucciso la sua migliore amica come se fosse la cosa più naturale del mondo.
- ...la hai uccisa a sangue freddo... -
- Ancora una volta devi rimproverare le tue scarse facoltà di giudizio - continuò Nate - Che una come Kristen, estremamente dotata per il combattimento corpo a corpo, possa essere uccisa colpita alle spalle è pazzesco. Avrai notato di certo che il suo corpo presenta una singola ferita alla schiena, no? Sarebbe bastata un po' di lucidità mentale per capire che, ad approcciarla per ucciderla, era stato qualcuno a cui lei stessa aveva dato le spalle. Qualcuno... di cui si fidava -
- ...schifoso bastardo -
- E mentre tu te ne stavi lassù a piangere per la tua amica... - proseguì Nate, ignorando l'insulto - Io scappavo dalla scala anti incendio, appositamente ripristinata dai miei compagni nascosti nell'ombra. Ho incontrato Ewan alcuni piani più sotto; aveva appena finito di disattivare l'allarme. Con lui è stato... più complicato -
Xavier non poté fare a meno di girarsi alla propria sinistra, osservando il cadavere del rosso: aveva numerose ferite al petto ed una alla gola.
Era chiaro che non fosse andato al tappeto senza opporre resistenza.
- Ewan... - mormorò Xavier.
- ...ha sempre avuto un sesto senso, quando si trattava di proteggerti - commentò Nate - Si fidava di me, ma aveva capito che qualcosa non tornava... ed ha alzato la guardia. Davvero... Ewan incarnava pienamente il mio ideale di "spia". A differenza tua, d'altronde -
Xavier notò il tono vagamente polemico di quell'ultima asserzione.
Una nota discordante da tutto il resto del discorso, che rivelava un'informazione nuova.
- ...parli sempre in modo composto e misurato, Nate - constatò lui - Eppure non posso fare a meno di notare un certo... disprezzo nei miei confronti -
Il volto di Nate si scurì, mostrando venature rossastre nei suoi occhi e uno sguardo quasi inferocito.
- Non sbagli, no di certo. Per una volta in sei anni voglio essere onesto con te: io ti detesto - disse, rivolgendosi con un tono alterato - Tu hai un grave difetto, uno che decine di persone hanno cercato di correggerti ma che hai sempre bellamente ignorato: tu ti affezioni troppo! Sei completamente vincolato dai tuoi legami, assuefatto dall'amicizia, ottenebrato dalla fiducia! Tendi a fidarti troppo del prossimo, sei una persona troppo affettuosa! Io ed Ewan te lo avremo ripetuto fino allo sfinimento, e guarda dove ti ha condotto il tuo comportamento! Che uno come te... che uno come te possa essere considerato la migliore spia del regno... mi viene da ridere, e da vomitare! Ewan era cento volte più uomo di te, ti era superiore in tutto! Ma tu, cocco dei reali e il favorito dei superiori, gli eri sempre avanti a prescindere, da bravo raccomandato. Mi disgusta pensare che un rammollito come te sia considerato una spia eccellente, quando la base delle basi ancora ti manca! Affezionarsi alle persone porta a questo! A rimanere devastati alla loro scomparsa! Tu e Kristen... siete deboli. E la vostra debolezza vi ha portato alla disfatta. Questa sera hai agito proprio come volevo, perché ho saputo anticipare e sfruttare le tue mosse in base ai tuoi sentimenti sbizzarriti. E una persona simile dovrebbe avere il diritto di sedersi sul trono novoselita? Giammai, non finché avrò fiato in corpo. Sei un debole, e sarà mio compito rimuoverti dalla posizione che non meriti -
Lo sfogo ebbe infine termine.
Xavier osservò Nate mentre riprendeva aria, trasportato dall'intensità e dalla lunghezza del discorso.
Il ragazzo non aveva mai avvertito una simile quantità di sentimenti negativi diretti verso se stesso, e di certo non si attendeva di riceverla da parte di qualcuno che, fino a poco prima, considerava un importante compagno.
Quella sera sembrava ancora troppo surreale per poter essere vera, quasi come fosse un sogno ad occhi aperti.
Un Nate che non conosceva, in una situazione impossibile, in una notte senza luna.
I corpi di Kristen ed Ewan a circondarlo, il coltello di Nate puntato verso di lui, la ferita all'occhio che non smetteva di sanguinare.
I terroristi, la famiglia reale, l'ordine delle spie.
I suoi stessi sentimenti.
Tutti attori o elementi di quell'elaborata opera teatrale in cui la sua vita si era tramutata.
Ma Xavier sapeva che era ora di smettere di assecondare il puerile desiderio che si trattasse di un sogno e di affrontare la realtà; la realtà in cui il suo affetto aveva portato alla morte di molte persone a lui care e allo spezzarsi dell'equilibrio di quella guerra civile.
Inspirò, ed espirò, ritrovando un'apparente calma.
Aprì il suo unico occhio verso Nate, che ricambiò lo sguardo di sfida.
- ...mi odi a tal punto perché amo i miei amici...? -
- Il tuo lignaggio ti imponeva di non farti incatenare da simili vincoli - rispose - Sei la vergogna del casato -
- Dimmi, Nate... - fece improvvisamente la giovane spia - Tutto questo enorme discorso... tutte queste spiegazioni... mi stavo chiedendo come mai me le stessi fornendo invece di piantarmi quella lama nel collo -
Vi fu un momento di silenzio. Nate tentennò.
- E' davvero raro sentirti parlare così tanto. Beh, dopotutto... io non conosco niente del vero te stesso, quindi non dovrei sorprendermene. Ma se c'è qualcosa di cui sono assolutamente certo è che tu sia una persona affidabile ed efficiente - continuò Xavier, con voce pacata - Se davvero volevi uccidermi, non avresti perso tempo a spiegarmi le tue ragioni o a dirmi come mai mi disprezzi. Dopotutto... proprio tu di certo non ti fai scrupoli in base ai sentimenti, no? -
- Dove vuoi arrivare...? - disse, stringendo la presa sul coltello - Credi che io non voglia ucciderti? -
- Oh, al contrario. Ne sono convinto - replicò - Solo che... ancora non puoi. Vero? -
Una goccia di sudore attraversò la tempia di Nate. Tentò di non dare a vedere il proprio disagio, ma fallì nel tentativo.
Incurvò le sopracciglia in un'espressione rabbiosa.
- Come immaginavo... - sospirò Xavier - Sei fin troppo preparato per non saperlo. Sì, nel mio corpo è stata impiantata una piccola microspia. In caso di ferite, Ewan sarebbe stato avvisato subito. Ma, se mai dovesse giungere la mia morte, allora il segnale verrebbe inviato al quartier generale, allarmando tutti i piani alti. Il regno non se ne starà in silenzio dopo aver perduto uno dei principi candidati, non credi? Ma il tuo obiettivo è uccidermi... ciò vuol dire che stai semplicemente aspettando il momento giusto per farlo, dico bene? -
- E cosa te lo fa credere? -
- Quei due uomini, i tuoi compari... trasportavano qualcosa - sibilò, facendo rabbrividire Nate - Avevamo deciso di ispezionare questa scuola perché eravamo certi che i terroristi stessero architettando qualcosa... e ho come l'impressione che quel fantomatico "qualcosa" fosse il contenuto di quella valigetta. Mi sbaglio? -
- Non vedo perché dovrei risponderti -
Xavier abbozzò un sorriso storto.
- Non ve n'è il bisogno. La tua faccia parla da sé - commentò, provocando nel nemico un ulteriore sentore di nervosismo - Deve essere qualcosa di scottante, se intendi proteggerlo. Il tuo scopo sarebbe quello di... uccidermi solo nel momento in cui i tuoi alleati saranno troppo lontani per poter essere rintracciati. Una volta che mi avrai ammazzato, l'intero esercito reale ti sarà alle calcagna. Ti stai sacrificando per la tua causa, vero? Ho motivo di credere che sia così -
Nate sbuffò con irritazione.
- Ma che bravo... - si complimentò ironicamente - E credi forse di poter prevenire il concretizzarsi della mia strategia? Senza energie, senza un occhio, e con buona parte del tuo sangue che si riversa sul pavimento? -
Xavier abbassò la testa per un istante. Prese aria.
- Ah, ma tu dimentichi un dettaglio importante... - disse, abbozzando un sorriso - Io... ho avuto il privilegio di essere protetto dalle due migliori guardie del corpo al mondo -
Un orrendo sospetto si tramutò in un gelido brivido che attraversò la schiena di Nate in un istante.
Il suo corpo si irrigidì, mettendosi prontamente in guardia.
Non sapeva ancora cosa, ma vi era qualcosa fuori posto.
La sua mano tremò, e il pugnale con essa.
I suoi occhi scrutarono la sagoma immobile di Xavier, il cui occhio stava emettendo uno strano bagliore inquietante.
Iniziò a sudare; il corpo gli richiese di indietreggiare, ma non poteva.
Non poteva ancora abbandonare quella posizione in cui il collo di Xavier era  a portata della sua lama.
Obbligò i suoi timori a farsi da parte con ogni briciolo della sua sanità mentale.
Ma fu troppo tardi.
Fu tardi quando si accorse di due elementi cruciali.
Le sue pupille notarono un rapidissimo gesto delle mani di Xavier; il coltello da guerra di Kristen era sparito, e una delle tasche della cintura di Ewan era stata aperta e trafugata.
In una frazione di secondo, si domandò quando fosse riuscito a trovare il tempo di farlo.
Realizzò che i cadaveri dei compagni erano rimasti troppo vicini, dandogli l'opportunità di farlo, ma non riuscì a concepire quando potesse essere accaduto o quanto rapidamente.
Abbandonando ogni esitazione, Nate si preparò ad affondare il pugnale in avanti e dare il colpo di grazia.
Le dita di Xavier si mossero per prime.
Un rapido schiocco di pollice ed indice fece partire la capsula nera verso il volto di Nate.
Questi ebbe appena il tempo di sussultare.
La bomba luminosa gli esplose in viso, accecandolo in un tripudio di luci che lo colpirono con l'intensità di dieci soli.
Sentì gli occhi bruciare e la vista appannarsi di scatto; una sensazione di ustione gli avvolse il viso, ma Nate non indietreggiò.
Diede fondo a tutta la propria disperazione e lanciò un lungo affondo con il braccio destro.
La lama del pugnale si abbatté su ciò che aveva di fronte; udì un tonfo sordo, e un possente rinculo gli aveva sconquassato il braccio. Aveva colpito il muro.
Tutto ciò che udì nei secondi dopo fu un urlo disumano che risuonò per l'intero edificio scolastico.
Xavier aveva chiuso l'occhio e si era gettato istintivamente verso destra, evitando il colpo di Nate.
Strinse le dita fino a sbucciarsele attorno all'impugnatura del coltellaccio di Kristen, e gridò.
Gridò e pianse; urlò a squarciagola, e lacrime e sangue piovettero dal suo volto.
Urlò dando fondo a tutto ciò che restava della sua lucidità, mettendo tutto se stesso in quel singolo attacco.
Era un unico colpo, una sola possibilità.
Memorizzò la posizione di Nate nello spazio, e affondò il coltello in avanti.
Una sola sferzata, una sola chance di salvezza.
Gridò ancora, e i polmoni si svuotarono. La gola si seccò, e sputacchiò altro sangue.
Non uscì più alcun suono, nemmeno un soffio o un alito.
Dopo le luci e il rumore seguirono il buio e il silenzio.
Poi, l'oblio.




Era pomeriggio inoltrato, e nonostante vi fosse un bel sole senza nuvole l'aria risultava comunque gelida. Era un segno che la fine dell'anno stava per giungere, e avrebbe portato con sé il periodo invernale più rigido e freddo.
Aster si passò una tazza di cioccolata calda bollente sotto i baffetti grigiastri, assaporandone sia il gusto che il tepore.
Quella bevanda era l'unico vizio stagionale a cui proprio non riusciva a rinunciare.
Era risaputo che ne fosse ghiotto, e arrivava a consumare anche tre tazze al giorno quando non era di buonumore.
Quel pomeriggio, difatti, era alla quarta.
L'uomo mise temporaneamente da parte le scartoffie a cui stava lavorando, decidendo di dare al proprio cervello una pausa.
I suoi occhi si poggiarono sull'articolo di giornale che aveva opportunamente ritagliato dal quotidiano di alcuni giorni prima e che gli aveva procurato non poche preoccupazioni.
L'inserto parlava di un misterioso avvenimento accaduto in un prestigioso istituto scolastico di un'importante città di confine.
All'interno del Viktor Helios erano state rinvenute tracce di sangue e brandelli di indumenti in più di una locazione; l'allarme era stato dato da un custode che aveva fatto un giro di ronda due mattini dopo la fine ufficiale delle lezioni, quando l'edificio era oramai deserto.
Dettagli degni di nota erano che il sistema di sorveglianza era stato reso inutilizzabile a causa di una manomissione del generatore elettrico, e il sangue sembrava appartenere a molti individui differenti, probabilmente prova che si trattava di uno scontro armato.
La scuola era divenuta immediatamente territorio di indagini, ma la polizia sembrava in alto mare; c'è chi ricollegava quell'evento, pur in assenza di prove concrete, ai numerosi incidenti dovuti alle manovre terroriste mosse contro il regno, che avevano provocato già notevoli danni in circostanze differenti, ma affini.
Si era trattato decisamente del Natale più caotico che le forze dell'ordine cittadine avessero mai affrontato, e il polverone sollevato fece eco in quasi tutti i borghi del paese.
Aster ispezionò con cura ogni altra notizia o informazione in merito a quanto accaduto: mai una volta venivano menzionati i servizi segreti, men che meno le spie al diretto servizio di Sua Maestà. Tirò un sospiro di sollievo.
Sbuffò con vaga irritazione mentre ingollava un altro sorso di cioccolata; erano avvenuti troppi contrattempi in una missione che doveva essere semplice.
Un tale epilogo non era ciò che Aster aveva predetto, e ciò non faceva altro che incrementare la sua inquietudine.
"Doveva essere una semplice ricognizione..." pensò "Eppure, nonostante io abbia sguinzagliato alcuni tra i miei migliori ragazzi, il nemico era un passo avanti. Non mi convince..."
Poggiò la tazza sul bancone, appoggiando le spalle allo schienale della sedia. Odiava essere preso in contropiede.
Ancora di più detestava il doversi guardare le spalle in casa propria, come a sentirsi minacciato dalle proprie mura.
La notte dell'incidente, Aster aveva ricevuto una telefonata urgente da una delle spie mandate sul posto; il ragazzo sembrava ferito, ma riuscì comunque a riportare il suo messaggio: i servizi segreti erano stati traditi. Poi, ansimando e gemendo, il ragazzo aveva riagganciato promettendo di farsi sentire presto.
Erano trascorsi quattro giorni da quel momento, e ancora non vi era stata alcuna notizia.
Aster tamburellò con le dita sul bancone, facendo alcuni calcoli a mente e ipotizzando vari scenari.
"...a rigor di logica, sarebbe dovuto rientrare ieri. Il tempo per raggiungere la capitale dalla sua posizione rientra nei tre giorni, con mezzi convenzionali"
Ripassò mnemonicamente le notizie estrapolate dai vari giornali che avevano trattato lo stesso articolo.
Erano state trovate tracce di sangue non identificato in almeno tre luoghi della scuola, portando le possibili vittime a tre come minimo.
Ipotizzando che il ragazzo si fosse salvato, le speranze che l'intera squadra si fosse salvata erano esigue, ad essere ottimisti.
"...è l'unico ad avere quelle informazioni" ponderò Aster "Devo assolutamente averle... ad ogni costo"
Nel bel mezzo delle sue elucubrazioni, uno squillo familiare lo colse di sorpresa.
Si girò di scatto verso l'angolo della scrivania, dove l'interfono stava emettendo un segnale acustico.
Aster scattò in piedi; un vago sorriso si piazzò sul suo volto.
"Possibile che...!?"
La possibilità che le sue speranze potessero realizzarsi in maniera così improvvisa gli provocò una notevole euforia.
Si affrettò a raggiungere il pulsante di ricezione e lo pigiò con il dito tremolante.
- Qui parla Aster - disse frettolosamente.
- Signore, ho urgenti novità - disse la voce del suo sottoposto attraverso l'interfono - ZN08 è tornato -
L'intuizione si era rivelata corretta; Aster assunse un volto compiaciuto.
Uno sprizzo di gioia percorse ogni fibra del corpo dell'uomo oramai attempato, che ricomponendo modi e tono rispose con placidità.
- Magnifico! Fallo entrare -





Appena pochi minuti dopo la chiamata ricevuta all'interfono, la porta dello studio si aprì con un lento cigolio.
Aster osservò esterrefatto la sagoma che attraversò la soglia in quell'istante, riconoscendo a malapena l'individuo.
Un ragazzo pallidissimo e dai capelli scuri strascicò il proprio corpo in avanti con passo lento e stanco; aveva occhiaie scure marcate e i vestiti sporchi e logori.
Avanzò a viso basso verso di lui, emanando un'aura di spossatezza e sfinimento.
Si sedette alla poltroncina proprio di fronte alla scrivania, esalando un flebile respiro nel momento in cui il suo corpo sprofondò nel cuscino.
Aster rimase a fissarlo ancora un po', incerto su ciò che aveva di fronte agli occhi.
Il primo dettaglio che saltò alla vista una volta che il ragazzo fu abbastanza vicino fu la presenza di un fitto bendaggio attorno all'occhio sinistro.
Erano state applicate garze e fasciature su più strati, rendendo l'emisfero sinistro della faccia impossibile da distinguere.
La prima cosa a cui pensò fu di trovarsi al cospetto di un morto ambulante, poiché l'unica pupilla visibile del giovane non emanava alcuna luce.
Tamburellò nervosamente con le dita; non accennava ad esprimersi nemmeno con una parola, e la cosa lo inquietava.
Era la prima volta che lo vedeva in quello stato; che fosse successo qualcosa di cui i giornali, ovviamente, non erano a conoscenza era evidente.
Vi era solo un modo per scoprirlo, ma Aster sapeva che le risposte non sarebbero state piacevoli.
L'espressione del ragazzo parlava per lui, e anche senza pronunciare una sillaba era chiaro che nella sua mente stava avvenendo qualcosa.
Un pensiero, un turbamento, una paura; tutte cose che Aster riteneva scomode, se non pericolose.
Se era certo che tutto ciò stava accadendo, era perché aveva già toccato con mano il suo carattere in più di un'occasione.
Aster lo conosceva meglio di chiunque altro, più di qualunque altra persona.
Lo conosceva fin dal giorno in cui era nato.
- Bentornato a casa, Zeno -
- Ciao, papà... -
Fu tutto ciò che fu in grado di rispondere. Aster fu lieto di aver almeno ricevuto una vaga risposta, ma la situazione non era delle migliori.
Dopo qualunque altra missione, il figlio era solito introdursi con un resoconto piuttosto dettagliato del lavoro svolto, delle risorse utilizzate, degli obiettivi raggiunti.
Quell'assenza di intraprendenza colloquiale era sembrata anomala fin dal suo primo passo nella stanza.
Aster attese ancora una decina di secondi; sperò che Zeno proferisse qualcosa, ma intuì che avrebbe dovuto malauguratamente prendere le redini della conversazione.
- Allora... sembra che tu sia andato incontro a delle difficoltà - osservò con ovvietà - Come sta l'occhio? -
Zeno contrasse lo sguardo, poi fece un cenno col capo.
- ...dubito tornerà mai a funzionare -
- Che tipo di ferita è? - continuò il padre.
- Da taglio. Me lo hanno infilzato... -
- Ero certo di averti fornito un'ottima scorta - fece Aster, incrociando le braccia - Mi meraviglio di questo risultato -
Zeno produsse un gemito sofferente.
- Non è stata colpa loro... - mormorò, stringendosi tra le spalle.
- Suppongo si siano verificate circostanze complicate - esordì Aster, annuendo - Ma, sai, il fatto che tu sia l'unico ad essere tornato, assieme alle altre informazioni accumulate, non mi spinge ad essere ottimista. Potresti raccontarmi ciò che è accaduto dal principio? Dove sono gli agenti EM02, KC16 ed NN29? -
Fu necessario un ulteriore sprone, ma alla fine si decise a parlare dietro le incessanti richieste del genitore.
- ...era tutta una trappola. Il nemico aveva intravisto il nostro arrivo ben prima di quanto ci immaginassimo -
- Sapevano di noi pur essendo una manovra in gran segreto? - Aster alzò un sopracciglio - Insolito -
- C'è stato un fattore determinante... - deglutì - Avevano un agente nei nostri ranghi -
L'uomo brizzolato annuì un paio di volte, come ad intendere che oramai se lo aspettava.
Era la prima volta in numerosi anni che aveva incontrato un simile ostacolo, uno svantaggio di informazioni e addirittura una talpa tra le proprie fila.
- E immagino tu sappia l'identità di questa persona. Dico bene? -
Zeno esitò, prima di rispondere. Pur essendo passati diversi giorni, sembrava tutto ancora irreale e assurdo.
- ...NN29 era un agente dei terroristi... - mormorò, con un groppo alla gola pesantissimo - Ha orchestrato tutto in modo da coglierci in fallo... -
- NN29, eh...? - sbuffò l'uomo - Maledizione. Era giovane, ma molto scaltro. Si vede che sto invecchiando, se non ho saputo smascherarlo -
- ...me ne assumo la responsabilità -
Aster denotò un cambio di tono, in quella frase.
- Come dici? -
- Ho consigliato io il dispiegamento di NN29... il fallimento della missione ricade sulle mie spalle - disse, straziato - Non sono riuscito a rendermi conto di nulla... di chi fosse in realtà, di che tipo di persona fosse... è tutta... tutta colpa mia... -
La fronte di Aster si aggrottò, pronunciandosi verso il basso in un'espressione accigliata. Quell'ultima asserzione del figlio consolidò in lui un sospetto e un timore.
- ...qual è lo stato di NN29? -
Zeno esitò un'altra volta. Il suo occhio divenne lucido.
- ...morto... lo ho ucciso con le mie mani... -
- E il suo corpo? - 
- Nascosto... non lo troveranno -
Aster batté lievemente il piede sul pavimento con ritmo cadenzato; poi sorrise.
- Eccellente! Il traditore è stato neutralizzato - disse, congratulandosi - Ottimo lavoro -
- Un complimento sprecato, papà - Zeno si trovò in disaccordo - Ha... fatto molti più danni di quanti avrei potuto prevenire... -
Aster rimosse il sorriso dal suo volto e tornò a mostrarsi severo.
Sospirò; era giunto il momento delle domande fatidiche.
- ...qual è lo stato di EM02 e di KC16? -
Zeno affondò la testa tra le ginocchia.
- ...m-morti... assassinati durante la missione... - gemette - Ho... seppellito i corpi in un prato... poco fuori città... -
- Hai portato in giro tre cadaveri senza farti notare? -
Zeno non ripose; si limitò ad annuire brevemente continuando a celare il proprio viso.
Il padre grattò nervosamente la superficie della scrivania; quella scena gli era più sgradita di quanto non apparisse in realtà.
- Suvvia, Zeno, tirati su - gli disse - Capisco che tu abbia visto la morte in faccia e ti sia spaventato, ma ciò che conta è che tu abbia riportato un successo. Lo sai? Il tuo avvertimento ci ha dato un enorme vantaggio su quei maledetti estremisti -
Pur prestando poca attenzione a ciò che il padre gli stava dicendo, quell'ultima parte non passò inosservata.
- Un... vantaggio? -
- Proprio così. Ricordi quando contattasti il quartier generale, la sera della missione? - spiegò - Ci dicesti che avevi assistito alla fuga di due individui che facevano parte delle forze nemiche, descrivendoli fisicamente. Beh, proprio ieri siamo riusciti a rintracciarli e ad arrestarli. Ed è stato tutto grazie a te -
Zeno ricordò solo allora il momento in cui aveva fornito l'identikit delle due persone che stavano accompagnando Nate in quella fatidica nottata.
In una telefonata fatta nel cuore della notte, aveva fatto in modo che altri concludessero ciò che il suo gruppo aveva iniziato.
In mezzo al caos, la paura, e la miriade di difficoltà affrontate per tornare a casa sano e salvo quel dettaglio gli era sfuggito di mente.
- ...quindi li avete presi -
- Esatto! Magnifico, vero? - compiaciuto, Aster si lasciò scappare un leggero applauso - E non è tutto. A quanto pare stavano portando con sé i risultati di un esperimento segreto piuttosto sospetto. Siamo di nuovo noi ad avere il vantaggio, figliolo! -
- Quale esperimento? -
Aster ridacchiò sotto i baffi ed estrasse qualcosa dal cassetto della scrivania.
La mano tirò fuori un piccolo corpo metallico di colore scuro, poggiandolo sul tavolo con espressione gratificata.
Zeno rimirò il minuscolo strumento: aveva una strana forma simile ad un cilindro ed era molto sottile. Il materiale di cui era composto era opaco, ma pur non vedendo al suo interno capì che doveva trattarsi di un congegno altamente sofisticato.
- Di che si tratta? -
- Questa, figlio mio, è una diavoleria che quei pazzi stavano sviluppando in gran segreto. A quanto pare il Viktor Helios nascondeva nel proprio sotterraneo un laboratorio segreto che produceva questi affari. Si tratta di elettrodi neurali; un'invenzione geniale quanto diabolica -
Zeno si massaggiò il capo.
- ..."neurali"? Immettono energia nel cervello? -
- Proprio così. Stando alle nostre ricerche, questi affari immettono onde radio all'interno del cervello provocandone un malfunzionamento - proseguì Aster - Siamo solo agli inizi delle nostre indagini, ma supponiamo che possano abilitare una sorta di... controllo mentale -
Zeno sussultò.
- Possono manovrare le persone con questi...!? -
- A quanto pare sì, se li conficchi nel cranio di qualcuno - annuì Aster - Terrificante, vero? Pensa solo a quanti utilizzi possano avere nelle mani sbagliate -
- F-fin troppi... - mormorò lui - E i terroristi li stanno creando...? -
- Forse anche in questo momento. Ma almeno sappiamo ciò che stanno combinando; è un passo in avanti -
- Sembra così... surreale - commentò Zeno, incerto - Davvero la mente umana può arrendersi a qualcosa di simile...? -
- Mhh, la tecnologia ha fatto passi da gigante negli ultimi anni. La possibilità di un controllo remoto di un cervello non è un'ipotesi così astratta -
Il solo pensiero gettò un brivido di disagio lungo la schiena di Zeno.
- Santo cielo... -
- Non devi temere, Zeno. Le tue azioni ci hanno permesso di fare enormi passi avanti nella nostra guerra - 
Aster si alzò in piedi ed iniziò a fare il giro della scrivania. Zeno osservò il lento susseguirsi dei suoi passi, silenziosi e felpati.
Se lo vide arrivare di fianco; la mano del padre si poggiò sulla sua spalla in una pacca vigorosa.
- Saremo in grado di salvare molte vite, grazie a te - sorrise - Hai svolto uno splendido lavoro, un successo su tutta la linea -
- ...no, ti sbagli -
Avvenne nel giro di un secondo.
Zeno sentì improvvisamente la presa della mano del padre divenire più rigida, più forzata.
Pur non guardandolo in viso, sapeva bene che tipo di faccia stava esibendo: una irritata, e forse delusa. Nulla di positivo, quello era certo.
Aster scostò la mano e iniziò a vagare senza meta lungo la stanza, costeggiando la sedia su cui era seduto il figlio. Sospirò.
- Cosa intendi dire? - domandò.
- Non è ciò che chiamerei un successo... - rispose Zeno - Non dopo ciò che è accaduto -
- Dovrai essere più specifico, Zeno. A cosa ti riferisci? -
- Lo sai benissimo, papà... - serrò i denti - Loro... sono morti...! Non sono riuscito a...! -
- Zeno! -
Un'esclamazione a tono più alto lo rimise in riga, zittendolo. Zeno strinse i pugni con impotenza.
- ...ancora con questa storia, non è così? - mormorò il padre, sbuffando con tristezza - Proprio non riesco a fartelo comprendere -
- Papà, tu non capisci! Loro non... non erano semplici colleghi! - gridò lui - Erano miei...! -
- "Amici"? E' ciò che stavi per dire, non è così? - lo interruppe - Zeno, una spia non può concedersi lussi simili! Quante volte dovrai ignorare la nostra regola principale affinché tu lo capisca!? -
- MA IO NON CE LA FACCIO! - a quel punto si alzò anche lui - Ewan, Kristen... persino Nate! Erano miei amici, persone A CUI TENEVO! -
- Zeno, loro erano EM02, KC16 e NN29 - lo riprese lui - Il tuo chiamarli per nome non ha favorito nient'altro che il tuo morboso attaccamento a loro, e guardati ora! Ogni spia sa che, nel momento in cui apre gli occhi al mattino, potrebbe star affrontando l'ultimo giorno della propria esistenza. La loro sopravvivenza non era scontata,  e tu non dovevi darla per garantita! Sei ridotto a pezzi a causa di quello sciocco sentimentalismo che ti ho raccomandato mille volte di accantonare! -
- Li conoscevo... da tutta la vita...! - gridò furiosamente, iniziando a secernere qualche lacrima solitaria - Tenevo a loro più che a me stesso! -
- E come ti sei sentito quando NN29 ti ha pugnalato alle spalle...? - Aster non risparmiò i colpi bassi.
Zeno si portò le mani tra i capelli e cominciò a strepitare con ancora più forza.
- COME VUOI CHE MI SIA SENTITO!? - urlò - MALE! OVVIAMENTE MALE! Ma vuoi davvero farmi una colpa per aver... voluto bene a qualcuno!? -
- Eppure, osserva. Osserva a che cosa ha portato questo tuo sentimento - disse Aster, puntando l'indice contro di lui - Ecco il tuo problema, Zeno: ti affezioni troppo,  anche più di una persona normale. Provi un bene morboso per i tuoi amici, un affetto indescrivibile. Finisci sempre col voler proteggere chi ti è caro anteponendo il loro bene al tuo, mettendoli addirittura prima del mondo intero. E il tuo affetto è una tua profonda debolezza, figliolo: come uomo, e soprattutto come spia -
- Ma io non... - Zeno soffocò quelle parole dentro di sé a fatica - Io non volevo che... desideravo unicamente... -
- ...che sopravvivessero, non è così? Ecco un altro dettaglio cruciale: hai paura della morte. Non tanto della tua, come di quella di chi ti è caro. Hai il terrore di restare da solo, il che ti spinge ulteriormente a fare il possibile per gli altri. Ma come spia, Zeno, la tua priorità è l'obiettivo professionale, la missione. Devi avere a cuore il benessere della tua gente, che riusciamo a proteggere con il nostro lavoro. Il voler difendere solo chi ti è caro è un egoismo che non puoi permetterti -
- ...quindi è questo che siamo? -
- Prego? -
Vi fu un momento di silenzio. Lo sguardo di Zeno perse di intensità, divenendo pian piano più mansueto, ma non meno ferito.
Inspirò profondamente.
- E questo che descrive noi spie...? Siamo... carne da cannone? Non dobbiamo curarci della nostra esistenza in favore del bene comune...? Non abbiamo il diritto di amare perché...? -
- Zeno, spero almeno che tu non abbia dimenticato il nostro motto di famiglia -
Il ragazzo sbuffò, ma compì inevitabilmente un cenno di diniego.
Non lo aveva rimosso dalla mente; era un mantra che gli era stato inculcato fin dall'infanzia, e gli bastò immaginarsi le labbra del padre muoversi mentre lo pronunciava 
per riuscire ad udirlo come il primo giorno in cui gli venne insegnato a rispettarlo.
Lo ripeté a voce, come una cantilena imparata a memoria, ma senza sentimento.
- ..."Il collettivo prospera sul sacrificio del singolo" - sospirò.
Aster annuì lentamente.
- Proprio così. Un insegnamento volto a ricordarci che noi siamo strumenti del popolo. Viviamo per la gente comune e moriamo per essa - asserì - Uno solo di noi può agire in modo da salvare milioni di persone, e che alcuni finiscano per perire in servizio è inevitabile, ma ogni morte contribuisce al raggiungimento di uno scopo più alto. EM02 e KC16 lo sapevano, quando sono andati in missione; sono morti per permetterti di uscire vincitore. E perché no? Persino NN29 stava lottando per un suo ideale, per quanto malsano, e ha messo da parte ogni scrupolo. Tu, Zeno, sei l'unico a non averlo ancora compreso -
Aster gli si avvicinò di nuovo, stavolta porgendogli una mano più amichevole, più calda.
La poggiò delicatamente sulla sua spalla, rassicurandolo.
- Ed è stato giusto così. Tu, tra tutti, hai un ruolo molto importante in questa nazione -
- Ti prego, smettila... - disse Zeno, scostandosi - La mia vita non è più preziosa di quella di una persona comune. La nostra parentela con la famiglia reale non significa nulla... -
- E' vero... noi apparteniamo al ramo cadetto del casato - annuì Aster, con una voce che trasudava un certo orgoglio - Mio fratello maggiore è diventato Re, mentre io sono il capo del Dipartimento dei Servizi Segreti. In teoria non avremmo alcun diritto al trono, ma... siamo comunque parte della famiglia. E, se dovesse accadere qualcosa di spiacevole alla principessa, starà a te prendere in mano le redini del paese e proteggerlo. Sarò onesto: non te lo auguro. E' un onere molto gravoso -
- ...non invidio per nulla mia cugina - ammise Zeno - Né ho alcuna voglia di portare la corona... ma a quanto pare i nostri nemici la pensano diversamente -
- Che cosa intendi dire? - domandò Aster, preoccupato.
Il giovane abbassò lo sguardo verso il pavimento.
- ...il loro obiettivo era portare in salvo la loro ricerca, ma... ambivano a togliermi di mezzo - spiegò lui - In base a quanto ho capito, vogliono uccidere tutti i membri della famiglia reale; a partire dalla principessa e... da coloro che possono prendere il suo posto - 
- In pratica: tu - disse il genitore, massaggiandosi il mento - Che questa missione avesse come scopo collaterale quello di ucciderti? -
- Suppongo sia stata un'iniziativa di Nate, ma è chiaro che rientrasse nei loro piani fin dal principio... - sospirò - Vogliono rovesciare il governo, papà. Il primo passo che compiranno sarà di uccidere la principessa, e poi stermineranno tutti noi. Creeranno un regime partendo da zero, sulle ceneri di quello vecchio... che cosa facciamo? -
- Agiamo; ecco cosa - rispose Aster, prontamente tornando alla scrivania - Non ce ne staremo con le mani in mano adesso che abbiamo scoperto le loro priorità -
Zeno osservò come il padre aveva già iniziato a scrivere a mano una lettera, impugnando la penna che aveva nel taschino.
Essendo stato spesso fuori in missione, il ragazzo non aveva mai avuto molte occasioni per osservare le mansioni burocratiche del padre; tutto ciò che sapeva era che,
in quanto leader dei servizi segreti, una sua parola era in grado di far muovere ogni singolo agente del regno ovunque potesse trovarsi.
Aster lo aveva detto spesso; suo fratello poteva essere il Re, ma a reggere le redini di Novoselic era sempre stato lui, da un luogo dove nessuno poteva vederlo.
Era il principale motivo per cui non aveva mai ambito ad indossare la corona, e probabilmente la sua abilità gli aveva permesso di non incontrare opposizione da parte di nessuno.
Come suo figlio, Zeno aveva sempre ritenuto di essere stato bersaglio di pesanti aspettative, gravose quasi quanto quelle ricadute sulla figlia dell'attuale sovrano.
Pur diventando una spia eccellente e riconosciuta, il ragazzo sapeva che i propri limiti lo avrebbero per sempre relegato in una nicchia diversa da quella del padre.
Osservandolo all'opera, provò al contempo ammirazione e paura; lo rispettava, ma in cuor suo aveva il timore di diventare come lui.
Nessuno seguiva la regola d'oro più di Aster; Zeno lo sapeva bene. 
Il capo del Dipartimento dei Servizi Segreti avrebbe messo il benessere del popolo davanti a qualunque altra cosa, senza alcuna eccezione. 
"Persino la vita di suo figlio" pensò Zeno, tenendo quel commento per sé così come aveva sempre fatto.
Aster terminò di scrivere l'epistola e la sigillò in una busta.
- Avremo molto da fare nel periodo a venire - disse l'uomo - Siamo ad un passo dallo scoprire dove si nasconde quella feccia. Setacceremo tutto il regno da cima a fondo -
- Pensi di poterci riuscire prima che facciano la loro prossima mossa? - domandò il ragazzo - Mi sembra difficile -
- Oh, il nostro è un territorio piccolo dopotutto - sorrise - Vedrai, non ci metteremo molto a stanarli. Ma dobbiamo agire su più fronti: qui entri in gioco tu, figliolo -
Zeno deglutì. Non aveva ancora avuto il tempo di abituarsi ad avere la vista dimezzata e già vi era un incarico in arrivo, e per giunta di enorme portata.
Riconobbe nel padre l'assenza di scrupoli che lo aveva sempre caratterizzato.
- ...cosa devo fare? -
- Quei maledetti puntano alla principessa. Quindi, mentre li cerchiamo, dobbiamo anche assicurarci che lei non corra alcun rischio -
- Mi sembra sensato. Dobbiamo aspettarci tentativi di assassinio in qualunque momento - commentò Zeno - I terroristi sono ufficialmente attivi non da molto... possibile che non siano a conoscenza che...? -
- No, non essere ingenuo - lo rimproverò Aster - Se NN29 stava passando informazioni, è quasi sicuro che il nemico sappia che la principessa non si trova al castello, in questo momento. Anzi, sarà necessario che io faccia un'indagine a tappeto per scongiurare la presenza di ulteriori... scomode talpe -
- Quindi come agiremo? -
A quelle parole, Aster alzò in alto la busta che aveva appena finito di chiudere. Il timbro ufficiale del casato era stato posto sul sigillo di cera, formalizzandolo a tutti gli effetti.
- La principessa ha già una piccola scorta che la ha seguita oltre l'oceano, ma non è sufficiente. Voglio che ti infiltri nell'istituto che sta frequentando e la tenga d'occhio da vicino -
- Un'altra scuola... - il solo pensiero gli provocò una sensazione sgradevole.
- Sei ancora giovanissimo. Mescolarti tra gli studenti ti è molto più semplice che mimetizzarti in una città straniera. Inoltre, in mezzo ai giapponesi salteresti troppo all'occhio -
- Niente da dire al riguardo - ammise lui - ...quando dovrò partire? -
- Verso Marzo. Un gruppo di studenti europei sarà condotto lì per un percorso di orientamento. Ti unirai a loro e agirai come da manuale. Piuttosto semplice, in teoria, no? -
Zeno non mancò di notare quel bizzarro rimarco. Era piuttosto comune, per Aster, stuzzicarlo in quel modo.
- ..."in teoria"? -
- Già, farai meglio a non sottovalutare quella scuola - ridacchiò il padre - Non è un istituto qualunque: è la Hope's Peak Academy, il pinnacolo del mondo dell'istruzione. Solo il meglio del meglio è ammesso tra quelle mura, capisci? Per poter avere una copertura perfetta, sarà bene che ti abitui ad avere a che fare con persone fuori dal comune e restare al loro passo -
- Conosco quella scuola... - rimuginò lui - Solo studenti con talenti innati possono iscriversi, stando a quanto ho sentito dire -
- Hai tutte le credenziali, figlio mio. Non dimenticare che sei pur sempre la spia migliore della nostra divisione giovanile -
- Mi consideri ancora... "il migliore"? - Zeno palesò quella contraddizione - Anche se i miei difetti sono inaccettabili? -
Aster scosse il capo.
- ...sono certo che il tuo potenziale risplenderà una volta che avrai imparato a gestire i tuoi sentimenti, Zeno. Hai solo bisogno di più tempo. Sei intelligente, sveglio, adattabile, prestante, ed esperto in molti settori tecnici.  Hai tutto ciò che "l'Ultimate Spy" dovrebbe avere - disse, mostrando quelle lusinghe come genuine - Certo, ovviamente non ti presenterai come tale. Ti ho preparato una lettera di iscrizione alla Hope's Peak con un titolo differente; ti consiglio di impiegare questi pochi mesi a disposizione per guarire ed imparare tutto ciò che ti serve: la cultura locale, l'area in cui ti muoverai, informazioni sulla scuola e, soprattutto, l'identità che dovrai rivestire -
Il giovane strinse i pugni.
- Io... non so se riuscirò a... -
- Dimenticati di KC16, EM02 e NN29. Oramai sono morti; il loro ricordo è solo un fardello che ti farà da zavorra per la vita -
Fu quello il momento in cui Zeno riuscì finalmente a scorgere l'incolmabile divario che lo separava dall'uomo che aveva di fronte.
Una spaccatura grande quanto una voragine, che separava due mondi differenti e inconciliabili.
Ripercorrendo la propria vita a ritroso, Zeno capì che quello proposto era un compromesso che non sarebbe mai stato in grado di accettare.
Ancora una volta, mentire era l'unica soluzione.
- ...va bene -
- Bene. Ma intendo prendere una precauzione aggiuntiva - il volto di Aster si incupì - D'ora in avanti lavorerai da solo, Zeno. Solo missioni in solitaria -
Il ragazzo spalancò l'occhio. Era abituato a lavorare spesso da solo, ma sentirsi forzare un'assenza di supporto era una sensazione nuova e sgradevole.
- ...sempre da solo? -
- Devo farti capire che puoi contare solo su te stesso, con le buone o con le cattive - asserì - Abbiamo concluso. Puoi andare -
Un sentore di bruciante conflitto ancora divampava nel suo cuore, ma proseguire nella conversazione era inutile.
Zeno si alzò dalla sedia cosciente che il padre non avrebbe mai capito, e si allontanò lentamente dalla scrivania.
Avvertì lo sguardo severo del genitore giudicarlo ad ogni passo, come una presenza che lo perseguitava.
Si arrestò sulla soglia della porta, voltando lo sguardo sfregiato verso Aster un'ultima volta.
- ...vorrei avanzare una sola richiesta -
L'uomo ne restò sorpreso, ma non vide motivo di non acconsentire ad ascoltarlo.
- Di che si tratta? -
- Vorrei... - deglutì - ...anche solo per quest'ultima missione... vorrei continuare ad essere "Xavier" -
Ne seguì un lungo silenzio.
Aster picchiettò con la punta del dito sul bordo del tavolo, contemplando quella richiesta e considerandola strana quanto preoccupante. 
Uno sguardo scuro si rivelò sul suo volto.
- Per quale motivo? -
- E' difficile da spiegare... - ammise - E' come se sentissi di... non aver ancora concluso qualcosa che "Xavier" avrebbe dovuto finire -
- Zeno, proprio come non dovresti affezionarti alle persone non dovresti neppure legarti troppo ad un nome, o un'identità che hai ricoperto. Questo tuo attaccamento al  passato si manifesta in molte forme, ed io intendo estirparle tutte. Sono stato chiaro? -
- Te ne prego! - esclamò lui, sorprendentemente insistente - Solo... solo per quest'ultima volta. Ne ho bisogno... per chiarire i miei dubbi -
Si trattava di un caso più unico che raro che Zeno premesse così tanto per un qualcosa di simile; Aster riconobbe l'inusualità del momento e il non sapere che approccio dare.
Sospirò; avrebbe compiuto un ultimo azzardo.
- ...molto bene; intendo accontentarti - affermò - Modificherò i tuoi dati nell'iscrizione. Solo stavolta, Zeno; siamo intesi? -
- Sì... ti ringrazio - si esibì in un breve inchino, e si voltò di spalle - Allora... mi congedo -
Sospinto da quella piccola vittoria, accelerò il passo sperando di allontanarsi prima che il padre cambiasse idea.
Un richiamo distante, però, lo obbligò a fermarsi.
- Zeno! -
Si congelò sul posto. Voltò lentamente lo sguardo verso lo studio, da dove il padre lo aveva chiamato.
Ebbe momentaneamente il timore che lo stesse per sgridare una seconda volta, o che avesse malauguratamente cambiato idea sulla concessione richiesta poco prima.
Ma uno sguardo differente era comparso sul viso di Aster; un qualcosa che Zeno non seppe definire, poiché non lo aveva mai scorto fino a quel momento.
Era un'espressione neutra; severa, ma al contempo quasi delicata.
Rimase immobile a fissarla fino a che Aster non si decise a proferire parola un'ultima volta.
- ...come spia ti sarà richiesto di mentire. Mentirai su tutto: su ciò che pensi, su ciò che provi, su ciò che credi. Racconterai un'infinità di menzogne, assumerai innumerevoli identità, diventerai persone che non sei, tutto per il bene della missione - gli disse - Sei uno strumento del tuo popolo, ma... non dimenticare mai chi sei, figliolo. Non dimenticare mai il tuo nome; la tua vita appartiene a Novoselic, ma il tuo nome è solo e unicamente tuo. L'unica cosa che sarà incisa sulla tua bara sarà "Zeno Nevermind". Tienilo a mente -




Qualche mese dopo...




Xavier oltrepassò il portone metallico col cuore in gola.
Udì sbuffi di vapore sollevarsi allo scorrere delle spesse ante blindate alle sue spalle, richiudendosi con un tonfo.
Era in trappola, ma una via di fuga non era ciò che cercava.
Era giunto in quel luogo solo per andare avanti.
La stanza in cui era finito era buia, ma una fioca luce rossastra davanti a sé gli permise di individuare la sua malevola guida.
Il Monokuma che lo aveva accolto lo precedette, arrampicandosi su di una struttura verticale posizionata proprio davanti al ragazzo.
Xavier guardò lentamente verso l'alto, cercando di capire cosa fosse.
Poi, le luci si accesero.
Dei fari abbaglianti illuminarono l'intera stanza, rivelando ciò che vi era all'interno.
Stropicciandosi l'occhio, il ragazzo capì che ciò che gli si parava davanti era un imponente, maestoso trono bianco perlaceo.
Sulla sua sommità, svettando ad almeno un metro sopra la sua testa, una persona lo stava fissando con un largo e terso sorriso; limpido, splendente, quasi divino.
A ricambiargli lo sguardo era una ragazza dai lunghi e setosi capelli biondi, la pelle pallida come porcellana, ed un vestito sfarzoso e scintillante che le giungeva fino ai tacchi a spillo.
La fanciulla porse in avanti il braccio ed aprì la mano, come ad accoglierlo amorevolmente.
Xavier rimase paralizzato alla sua vista; la sua intuizione aveva fatto centro, ma il vederla di persona sortì comunque un effetto disarmante.
La giovane fece svolazzare la chioma bionda con un gesto elegante e allargò il sorriso.
- Ben arrivato, Zeno, mio caro... - sussurrò, con voce melliflua.
Xavier deglutì.
- ...Sonia... - mormorò - Che follia è mai questa...? -








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Capitolo 62
*** Capitolo 6 - Parte 7 - Verità ***


Xavier rimase immobile a fissare, inorridito, quell'assurda situazione inverosimile.
Sonia era seduta comodamente sul trono scintillante con postura elegante e maestosa; passò le dita della mano destra tra i lunghi capelli biondo cenere e con la mano sinistra accarezzava la testa del Monokuma accasciato lungo il bordo del seggio regale, oramai privo di vita e con gli occhi spenti.
Non vi era più la necessità di un filtro come il pupazzo meccanico; Monokuma sembrava aver concluso il proprio ruolo.
Ciò che più suscitò inquietudine nel ragazzo fu che l'aura maligna dello sguardo dell'orso non era semplicemente svanita con la sua disattivazione; era traslata a colei che ne aveva tirato i fili durante quel lungo mese.
Gli occhi di Sonia erano ben lungi dall'apparire normali; al posto delle normali iridi azzurre vi erano delle distorte spirali che ne testimoniavano la totale follia.
Occhi anormali, di una malvagità immonda che Xavier non credeva potesse appartenere a quel pianeta.
Eppure eccoli lì, su di una persona che distava anni luce da ciò che il demone davanti a sé rappresentava.
Che i ricordi si contrapponessero prepotentemente alla realtà fu una conseguenza inevitabile.
Xavier dovette scavare a fondo nella propria memoria, risalendo ad un ricordo remoto e quasi sbiadito.
Il giorno in cui suo padre gli fece conoscere la persona che Xavier avrebbe dovuto proteggere con il proprio lavoro.
Era una bambina graziosa dai capelli chiari e dal sorriso smagliante; Xavier non aveva potuto fare a meno di guardarla con una certa ammirazione.
Era come se risplendesse di luce propria, e quella stessa luce irradiava chiunque fosse nei paraggi.
Fu il giorno in cui Xavier imparò come era costituito un nucleo familiare, e che quella bambina vi apparteneva.
Ma Aster aveva posto l'accento su una questione delicata, qualcosa che Xavier avrebbe dovuto tenere sempre a mente; la figlia di suo zio non era come lui. Era speciale.
Sonia non era e non sarebbe mai stata al suo stesso livello; era a diversi gradini più sopra in una scala che Xavier non avrebbe mai dovuto tentare di salire.
Quella persona era preziosa, e lui avrebbe dovuto devolvere la propria vita alla sua protezione.
Ricordò anche di come, guidato da un'ingenuità infantile, avesse accolto quel pensiero di buon grado. Proteggere la cugina sembrava un ottimo piano e qualcosa di cui andare fieri.
Solo anni più tardi il ragazzo aveva scoperto che cosa stavano a significare quelle parole: Novoselic aveva bisogno di persone che lo guidassero alla luce del sole e di coloro che aiutavano il traino con il favore delle tenebre. Due facce della stessa medaglia, due metà di un insieme che si necessitavano vicendevolmente.
E Sonia, con la radiosità del suo animo e del suo volto, oltre che con il favore della sua stirpe, era la candidata perfetta a ricoprire quel ruolo.
A Xavier era parso così naturale che non si era mai sentito di doversi porre dubbi in merito. Dal canto suo, il giovane aveva finalmente fatto i conti con ciò che significava appartenere al volto nascosto della sua nazione.
Sarebbe diventato come Aster: una spia. Un agente che rimuoveva la sporcizia ed aggiustava situazioni scomode senza che nessuno ci buttasse l'occhio; un "netturbino sociale", come suo padre era solito definire la propria professione con vena scherzosa.
Con l'età e l'esperienza, il lato brutto del suo lavoro divenne man mano parte della prassi.
Conobbe suoi coetanei che erano stati indirizzati verso lo stesso mestiere, e apprese quanto peso avessero le loro missioni per la sicurezza del paese.
Tra una mansione e l'altra, però, non erano mancate le occasioni per approfondire il rapporto con la futura monarca.
Sonia trascorreva il proprio tempo quasi unicamente al castello; per Xavier non era difficile trovare del tempo per andarla a trovare, quelle volte che tornava a palazzo dopo il completamento di un'operazione. 
Aster gli aveva raccomandato innumerevoli volte di non avvicinarsi troppo a quella persona, che le loro posizioni erano troppo distanti ed un legame affettivo non avrebbe portato altro che guai e situazioni scomode. Fu una delle rare volte in cui Xavier disobbedì volutamente ai dettami del padre.
Riusciva ad incontrarla almeno una volta al mese, con un po' di fortuna. Ebbe la possibilità di conoscere la sua personalità, i suoi interessi, le sue preferenze.
I suoi sogni, le sue ambizioni, le sue debolezze, le sue paure.
Ciò che amava, ciò che odiava, ogni cosa: tutto si riduceva alle loro conversazioni fatte davanti alla larga fontana del giardino interno del castello.
Mese dopo mese, un quadro più completo di quella persona andava formandosi assieme ad un desiderio più impellente di proteggerla.
Per lui fu come essere cresciuto con una sorella; un rapporto sporadico, ma genuino.
Erano stati anni di amicizia, confidenze, e una certa complicità da parte di Sonia nei confronti dello scomodo mestiere di Xavier, che lo obbligava spesso a sporcarsi le mani.
La principessa di Novoselic era a conoscenza del lato oscuro del paese, e aveva sempre fatto del suo meglio per sostenere la propria famiglia nel momento del bisogno.
Fu proprio a causa di questi trascorsi che la giovane spia non riusciva davvero a credere ai propri occhi; alla vista di quella perfetta sconosciuta che fingeva soltanto di essere la persona a cui voleva bene, ma che al contempo non lasciava spazio a dubbi o inganni.
La ragazza davanti a lui era Sonia Nevermind, Ultimate Princess, sovrana del regno di Novoselic.
- Zeno... - la voce di Sonia trasudava una composta eccitazione - E' una gioia poterti vedere qui, al mio cospetto! -
Lo stomaco del ragazzo si strinse.
- ..."gioia"? Le circostanze mi sembrano tutt'altro che piacevoli... - sospirò, demoralizzato - Sonia... che cosa significa tutto questo? Ci sei davvero tu dietro... dietro questa assurdità? Hai davvero... pianificato una sfida mortale di queste proporzioni? -
Il sorriso candido si allargò lungo la pallide gote della principessa.
- E' una domanda puramente retorica, non trovi? Conosci già la risposta - fece lei, maliziosa - E anche da un bel po', non è così? -
Xavier mostrò una smorfia di disgusto.
- ...no, era solo un vago sospetto. Ho avuto la certezza solo alla fine del processo di Karol, dopo quella tua palese frecciata - sbottò - Ancora non riuscivo a convincermi che potesse essere vero, ma era l'unica possibilità, no? Gli unici a sapere della mia identità ed in grado di recitare il motto di famiglia sono solo i membri del nostro casato. Aggiungi le fotografie ed il fatto che eri l'unica, oltre a me, a soggiornare in Giappone e... il quadro si completa da solo -
- Una deduzione degna di te, "detective" - Sonia nascose le labbra dietro la mano vellutata.
- Deduzione? Non prendermi in giro, Sonia. Non lo avrei mai capito senza gli indizi che mi hai lasciato - ribatté lui, adirato - Hai fatto in modo che io arrivassi alla soluzione esattamente quando volevi tu, non è così? Ho danzato sul palmo della tua mano per tutto il tempo... quindi spero almeno avrai la decenza di fornire le dovute spiegazioni al tuo burattino. Perché le esigo, Sonia. Immediatamente -
- Oh, mio caro...! Definirti addirittura una marionetta! - la voce della ragazza si fece inverosimilmente mortificata - Tu sei molto, molto più prezioso. E' vero, ho dovuto guidarti a più riprese, ma se sei sopravvissuto fino a questo punto lo devi solo e unicamente alle tue capacità -
Xavier si domandò se quel tono apparentemente dispiaciuto non facesse parte della complessa maschera che l'Ultimate Princess aveva costruito.
- Piantala con le lusinghe - tagliò corto Xavier - Voglio tutta la verità; ora. Perché hai fatto tutto questo, e come? E, soprattutto... perché hai coinvolto tutti noi? -
Il volto e la voce di Sonia tornarono neutri, velati dal suo perenne sorriso circostanziale, stampato sulla sua faccia come fosse una bambola dipinta a mano.
- ...certamente - sussurrò lei - Ma perché non partiamo dal principio? La nostra situazione non è altro che la naturale evoluzione di ciò che è accaduto alla Hope's Peak. Immagino sarai al corrente almeno di questo, Zeno -
- ...l'incidente avvenuto a scuola, sì - commentò lui - La Hope's Peak è stata teatro del più sconcertante episodio di suicidi di massa fin dall'alba dei tempi. Ad aggiungersi a ciò, pare che alcuni studenti si fossero assassinati tra loro e che fosse scoppiata una rivolta da parte degli alunni dei corsi preparatori per motivi non divulgati... -
- Oh, non c'è nessun vero "motivo", Zeno - spiegò lei - Quei ragazzi avevano una scintilla di desiderio e pazzia che la società stava lentamente sopprimendo. Erano corpi freddi che si trascinavano lungo i corridoi di un istituto che li trattava come umani di seconda categoria. E' bastato soffiare leggermente su quella tenue fiamma e... il resto è venuto da sé -
- E sei stata tu a... "soffiare"? -
- Oh, no... no, non sono stata io l'artefice di quel magnifico capolavoro - fece lei, con aria sognante.
Xavier scosse la testa.
- No, ovviamente. La mia era una domanda stupida: tu sei stata una vittima di quell'evento, non è così? -
Sonia assunse un'espressione palesemente sconcertata.
- ..."vittima"? Non ho idea di che cosa tu stia parlando, mio caro Zeno -
- Allora lascia che ti rinfreschi la memoria, mia cara Sonia - fece lui, poggiando un piede in avanti - In tutta la mia vita ho avuto a che fare con una ragazza onesta, gentile, audace, e anche incredibilmente ingenua e spericolata. Una persona che ho giurato di proteggere, alla quale ho devoluto la mia vita e la mia professione. Quella persona... era mia cugina Sonia Nevermind, principessa del regno di Novoselic. Tu... non sei altro che una visione distorta di ciò che era quella persona; non azzardarti a spacciarti per ciò che non sei. Non so quale orrenda circostanza ti abbia portato a ridurti così, ma non sei colei per cui ho lottato. Qualunque cosa sia successa alla Hope's Peak ha necessariamente influenzato anche te; non è vero? -
- Oh, santo cielo, Zeno... - con occhi lucidi, Sonia si alzò dal trono ed iniziò a scendere appoggiando con grazia le scarpe sulle sporgenze di quest'ultimo, portandosi finalmente sulla linea d'aria del cugino - ...mi descrivi come fossi un mostro! Mi ritieni così diversa? -
- Fin troppo - rispose secco lui - Forse la vera Sonia è ancora assopita lì dentro, da qualche parte. Ma non sei tu -
- E' qui che ti sbagli -
La mano di Sonia si allungò in avanti fino a raggiungere la guancia di Xavier. Questi notò il movimento un secondo troppo tardi, e si divincolò sbrigativamente, 
scostandole il palmo con un gesto brusco. Il suo unico occhio le rivolse uno sguardo feroce.
Lei non smise di sorridere candidamente.
- Io non mi sono addormentata, Zeno. E' come se mi fossi... destata -
- Coloro che annegano nella disperazione sono ben lungi dall'essere svegli e lucidi, non ti pare? - Xavier la additò - Perché è questo ciò che è successo, no? La disperazione ha avuto la meglio su di te e sulla tua psiche, rendendoti il demone che sei ora -
A quelle parole, Sonia socchiuse gli occhi. L'aura di inquietante serenità che cingeva la sua figura non era svanita. Anzi, si era consolidata ancora di più.
- Zeno, cosa credi che sia la disperazione? -
La domanda a bruciapelo lo colse lievemente alla sprovvista.
- ...è ciò che penetra nel tuo animo quando è debole - rispose lui, senza nemmeno pensarci - Trova le tue paure, le alimenta, le fortifica. Una volta che ha attecchito nel tuo cuore, ti spinge a compiere l'imponderabile in preda alla follia. E' una malattia contagiosa che, lentamente, divora il genere umano... -
- Ah, una risposta degna di te, mio caro! Sei sempre stato un tipo un po' cupo e pessimista - rise lei, quasi divertita - Ma lascia che ti fornisca un secondo punto di vista: la disperazione non è un sentimento, ma un vero e proprio stato dell'uomo. Uno stile di vita, se vogliamo porla in questi termini -
Xavier si mostrò sconcertato da un responso così astratto e poco convenzionale. Le parole della principessa erano enigmatiche, e nonostante questa stesse pronunciando frasi mosse dalla follia non poté fare a meno che incuriosirsi sul loro significato.
- Vedi, Zeno, la disperazione è... un moto dell'anima. Una forza incontrollabile che sfugge a qualsiasi predizione, la perfetta rappresentazione di ciò che compone il nucleo psichico di un individuo. Dove la speranza ci conduce a credere in un futuro radioso, provocando in noi una piacevole e rinfrescante sensazione di agio, la disperazione ci spinge ad... agire! L'uomo nasce con passioni e desideri; sono dei tratti congeniti della nostra essenza, che ci appartengono fin dall'origine della nostra specie. E l'anima si muove in maniera naturale verso il raggiungimento di questi obiettivi; che siano di natura fisica e carnale oppure mentale e filosofica ha ben poca importanza; faremo di tutto per avere ciò che il nostro cuore brama. E il non poterlo avere... ci fa soffrire. Ci dispera, e provoca in noi un'esplosione di energia che ci spinge sempre più in là, a sorpassare i nostri limiti! La speranza è un laghetto limpido, cristallino e tranquillo. La disperazione è un mare in tempesta che solo i più forti e coraggiosi possono affrontare! Ma i tuoi desideri non sono nel laghetto; sono al di là dell'oceano! Perché vedi, Zeno, la storia ci è testimone: le più grandi imprese non sono state compiute da persone speranzose e ottimiste, ma da uomini costretti all'angolo che hanno saputo tirare fuori le zanne, che hanno schiacciato il prossimo pur di non essere schiacciati a propria volta. Ecco cos'è la disperazione, Zeno: il carburante del nostro ego! -
Xavier ascoltò il discorso sorprendendosi di quanto la ragazza si fosse fatta trasportare dalle proprie stesse parole.
Sonia si ritrovò ad ansimare, sospinta da una piacevole eccitazione; le spirali di pazzia nei suoi occhi si erano come illuminate.
L'Ultimate Princess inspirò profondamente e tornò alla calma, ricomponendosi.
Il ragazzo non riuscì a fare a meno di provare una forte inquietudine.
- ...e tutta questa convinzione da dove la hai tirata fuori? - domandò.
- Ho avuto chi ha saputo estrapolarla, mio caro - chiarì lei - Mi permetto di correggere una mia precedente asserzione, Zeno. Non mi sono svegliata: è stata la grande Junko Enoshima a farmi destare dal mio torpore -
Quel nome risuonò pericolosamente familiare. Xavier fu convinto che Pearl avesse già menzionato quella persona, ma le informazioni su di essa risalivano a ben prima  del loro gioco al massacro. Xavier riuscì a confermare un altro proprio dubbio.
- Junko Enoshima... è il nome della persona che ha gettato la Hope's Peak, e il mondo intero, nel caos... dico bene? Colei che ha fatto scaturire l'incidente e tutto ciò che ne è derivato... il nome dell'Ultimate Despair -
- Per alcuni è stata una calamità... - Sonia scosse il capo - ...per altri, un profeta. Sono punti di vista, Zeno. Io, però, so ciò che ho visto: ho visto una vera leader che ha saputo aprirmi gli occhi sulla verità della nostra esistenza. Ma parlarti di ciò esulerebbe dallo scopo della nostra conversazione; immagino che avrai voglia di sapere che ruolo TU abbia in tutta questa faccenda -
Xavier non ebbe neppure bisogno di proferire parola per trasmettere ciò che pensava. Rimase in silenzio ad attendere che la risposta giungesse da sé.
Sonia recepì l'antifona, e si passò una mano sul mento con fare compiaciuto.
- ...vedi, non basta far scaturire la disperazione; devi anche saperla crescere, nutrire, coltivare - spiegò lei - Io e i miei compagni siamo ciò che Enoshima si è lasciata alle spalle: siamo la sua eredità, che ha come scopo il portare la disperazione in lungo e in largo. Ci ha affidato questa missione ben sapendo che avremmo avuto delle difficoltà e... dei limiti -
- Lo immagino. Circa una dozzina di persone che tenta di destabilizzare gli ordini mondiali... è un'impresa assurda -
- Vero. Lo sarebbe... senza il dovuto aiuto da parte di alleati competenti - esclamò lei - Dobbiamo insinuarci nelle società più gremite, scatenare il panico nelle nazioni più popolate, e affrontare una guerra difficile e sanguinosa. Sarebbe da sciocchi affrontarla senza un buon equipaggiamento, informazioni, e... una spia -
Xavier aggrottò le sopracciglia. Quell'ultima parola lo aveva fatto lievemente trasalire.
- ...come? - mormorò.
- Tu, Zeno - asserì Sonia, contemplando il proprio piano - La verità è che abbiamo bisogno di te molto più di quanto immagini! -
- F-ferma... ferma! - la bloccò lui - Che stai dicendo!? -
- Oh, cielo! Ancora non lo hai capito? - ridacchiò lei - Tutto questo gioco al massacro non aveva che tre funzioni ben specifiche: la prima di esse era di trasformare Zeno Nevermind nell'Ultimate Despair. Le qualità dell'Ultimate Spy al servizio della disperazione! L'alleato perfetto! -
Xavier sgranò l'occhio; il mondo sembrò crollargli addosso nel giro di un attimo.
Avvertì una fitta allo stomaco, e un'altra ancora alle gambe.
- M-me...? Volevi che io... diventassi uno di voi...!? -
- Nessuno ti conosce bene come me, tesoro - spiegò lei, dilettata dalla sua reazione - Sei una spia eccellente, un ragazzo capace e intelligente. Uno come te sarebbe capace di compiere qualunque cosa se riuscisse a tirare fuori il proprio potenziale -
- Sei completamente pazza se credi che possa aggiungermi alle vostre fila dopo ciò che mi avete fatto! - sbraitò lui, colpendo il muro con un pugno - Come hai potuto pensare che infilarmi in una sfida mortale potesse spingermi a compiere una decisione simile!? -
Sonia alzò l'indice, facendolo ondeggiare lentamente.
- Non hai prestato attenzione, Zeno. Non si trattava di farti scegliere: il mio obiettivo era... destarti -
Il ragazzo iniziò a detestare profondamente il suono e il senso figurato di quel termine. Deglutì un pesante grumo di saliva pensando a ciò che significava in quella situazione.
- ...volevi farmi... sprofondare nella disperazione...? -
- C'è un solo modo per risvegliare la disperazione latente in una persona - chiarì Sonia - Devi costringerla a vedere la realtà dei fatti: che la speranza è un idillio fasullo. Per questo ti abbiamo circondato da persone mosse da desideri altrettanto forti e abbiamo atteso che comprendessi il nostro messaggio -
- Gli altri... tutti gli altri erano... - a Xavier tremarono le spalle - Non erano che... bestie da macello per il vostro fine...? -
- Cielo! Se la metti in questo modo tutto sembra orribile! - rise, senza celare lo scherno - Non fraintendere: i tuoi compagni erano delle importantissime pedine del nostro piano. Vedi, Zeno, con delle persone normali è tutto molto più facile: torturale fisicamente abbastanza e sarai in grado di risvegliare la loro disperazione in modo ottimale e decisamente efficiente. Ma con alcuni non basta: con te, ad esempio, non sarebbe bastato -
- Che accidenti significa!? -
- Ogni individuo è diverso dagli altri, e per risvegliare l'ego latente di persone forti è necessario saper sfruttare le loro... debolezze - precisò lei - Nel tuo caso, beh, è lampante. Sei un tipo in gamba, razionale, sveglio. Il solo modo per metterti in difficoltà è di colpire nell'unico punto dove ti fa più male -
La fronte gli iniziò a sudare; socchiuse gli occhi.
Aveva paura; paura di ciò che stava per pronunciare. Il terrore che quel lato di lui potesse tornare a tormentarlo fu più grande di quanto potesse immaginare.
Il punto debole che tutti gli avevano criticato e che non era riuscito a correggere; il fattore che aveva decretato la sua più grave crisi e che, ancora una volta, tornava per riaffacciarsi alla crudele realtà dei fatti.
Chiuse gli occhi per un istante pregando con tutto se stesso che Sonia non pronunciasse quell'unica, maledetta parola.
- E' l'affetto, Zeno. La tua croce, la tua fissazione, e il tuo punto debole - Sonia avvicinò le labbra al suo orecchio in modo suadente, quasi ipnotico - Basta darti tempo a sufficienza, e finisci per affezionarti a chiunque ti stia intorno senza riuscire più a staccarti -
Ne seguì il silenzio.
Xavier si appoggiò alla porta metallica oramai serrata, portandosi una mano al volto.
- ...smettila - fu l'unica, flebile frase che riuscì a pronunciare.
- E' sempre stato un tuo difetto, vero? Per quanto tentassi di rimanere distaccato, alla fine cedi e inizi a provare qualcosa per le persone con cui condividi la tua vita. E ti risulta difficile soprattutto dire addio; diciamocelo, sei un inguaribile romantico! Ed è il motivo principale per cui abbiamo deciso di tenere questa sfida: ti abbiamo circondato di tuoi coetanei, costringendoti a vederli morire uno dopo l'altro. L'unico modo per fare breccia nel tuo cuore è sfruttare questa tua sfaccettatura. Col passare del tempo hai iniziato a vederli non più come dei rivali, ma come degli amici. Più trascorrevi tempo in loro compagnia, più finivi per conoscerli meglio... più iniziavano a divenire parte di te; della tua storia, della tua vita -
- ...hai sfruttato dei ragazzi innocenti... solo per arrivare a me... - disse lui, tra i denti - ...li hai fatti massacrare tra loro... quando il tuo obiettivo ero IO! -
- Oh, non fraintendere. La loro presenza in quanto partecipanti non era affatto casuale - il volto di Sonia gli fece presagire che vi era ancora molto da mettere allo scoperto - Non erano i primi che passavano di lì per caso. Tutti loro erano persone a cui noi... io e i miei compagni, eravamo in qualche modo legati. Gente con cui abbiamo avuto un contatto durante il nostro ultimo mese alla Hope's Peak; vecchi amici che rappresentavano... un pericoloso legame col passato -
- ... ecco il perché delle fotografie... - fece Xavier, sempre più adirato - Voi li conoscevate! Hayley, Alvin, Lawrence, Kevin... tutti loro! -
- Ed arriviamo al secondo, vero motivo di questa sfida: liberarci di individui scomodi - disse lei, con sguardo così placido da sembrare tetro - Abbiamo abolito ogni nostro legame col passato, ed ora non c'è più nulla che ci vincola. Abbiamo preso tredici ragazzi e ragazze con cui avevamo stretto amicizia, più un altro soggetto particolarmente incline alla disperazione: un giovane chirurgo estremamente attaccato alla vita, perfetto come garanzia per far continuare il gioco. A questi abbiamo inserito un'assassina venuta per eliminare Enoshima, un elemento pericoloso di cui dovevamo sbarazzarci... ed abbiamo avuto la classe perfetta in cui metterti -
Il quadro completo iniziava a prendere forma. Xavier avvertì il sudore colargli lungo la schiena schiacciata contro la parete.
- ...maledettamente ben orchestrato... - ammise lui - Avete preso due piccioni con una fava: togliere di mezzo le persone a cui vi eravate legati e al contempo darmi qualcuno a cui affezionarmi per tenermi alla gogna... eppure ancora stento a capire... -
- A cosa ti riferisci? -
- Quei quindici... le quindici persone che avete rapito col solo motivo di mandarle al macello... non sono individui qualsiasi - fremette lui - Molti di loro avevano motivazioni e determinazione anche superiori alle mie... avrebbero tranquillamente potuto uccidermi; che cosa avreste fatto, allora? -
Il sorriso di Sonia si fece più tetro.
- Oh, Zeno... chiunque in grado di assassinare l'Ultimate Spy superandolo in astuzia sarebbe stato automaticamente un rimpiazzo perfetto! - disse lei - Abbiamo preparato apposta solo quindici bare: questa sfida non si sarebbe mai conclusa in parità. Se qualcuno degli assassini fosse riuscito a sopravvivere al processo, lui o lei sarebbe diventato il nuovo candidato per entrare nella nostra squadra -
Quella frase lo destabilizzò brevemente; era abituato a vedersi trattare come uno strumento da Monokuma, ma sentirsi dire apertamente da Sonia quanto poco rilevante  fosse stata la propria eventuale sopravvivenza gli lasciò una strana sensazione amara in bocca.
Non era che l'ennesima prova che colei che aveva davanti aveva seppellito la sua umanità in un remoto anfratto della propria anima, e che loro sedici erano carne da cannone fin dal principio.
- ...hai pensato proprio a tutto - sospirò Xavier, con un lacerante senso di sconfitta - Persino la faccenda del traditore era tutta una tua macchinazione, vero...? -
- Oh, non per vantarmi, Zeno... ma è stato un tocco di classe - esordì lei, con una risata lieve ma soddisfatta - Dicendo a tutti che c'era una spia sono riuscita a creare diverse situazioni interessanti: la prima era di tenere tutti sulle spine, di annullare qualunque complicità e di far restare tutti in guardia. Schwarz mi ha decisamente aiutato, con il suo modo di fare. Il mio secondo scopo eri... tu, ovviamente. Fin dall'inizio credo tu avessi perfettamente intuito che la "spia" non era altro che te stesso; a chi poteva riferirsi quell'epiteto se non all'Ultimate Spy? Ed ecco... la parte più interessante! -
Xavier abbassò nuovamente lo sguardo; era ben cosciente di aver fatto involontariamente tutto ciò che la principessa aveva programmato, e la sensazione di cocente disfatta gli bruciava nel petto con la potenza di un incendio.
- ...taci, Sonia... -
- Ooh, è un brutto peso da sopportare, non è così? - lo schernì lei - In principio, quando hai realizzato di essere il bersaglio di tutti gli altri, sei rimasto in silenzio. Ma, dopotutto, chi avrebbe fatto diversamente? Erano quindici perfetti sconosciuti! Non te ne fregava un bel niente di loro, e tutto ciò che avevi in mente era di sopravvivere, di salvare la pellaccia! Non appena l'idea che "un traditore" si annidasse nel gruppo iniziò a serpeggiare nel gruppo, tu la hai sostenuta credendo che potesse distogliere i sospetti da te. E' più difficile risalire ad una "Spia" partendo dal concetto di "Traditore"; dopotutto, come hai ben intuito tu stesso, io non ho mai detto neppure una volta che la Spia lavorava per me. Ergo, c'è una Spia, non un Traditore. Ma, accidenti, guarda come la situazione si è capovolta! -
Il tono di scherno non cessò di irritarlo, ma Xavier si sentì completamente impotente. Sapeva che Sonia stava parlando in quel modo per fare breccia nel suo animo, ma pur realizzandone le macchinazioni la consapevolezza non lo aiutò a stare meno male.
- ...il problema era che... stavi lentamente iniziando a provare qualcosa per loro. Morte dopo morte, processo dopo processo, quei ragazzi morivano... e tu sapevi che era colpa tua! Non avevi il coraggio di confessare, perché eri certo che in quel caso saresti morto! Dopotutto, la spia doveva scegliere tra la morte e la confessione: chiunque avrebbe pensato che vuotare il sacco avrebbe avuto conseguenze pressoché simili all'altra opzione, altrimenti perché mai metterla in prima istanza? Ed è stato lì... è lì che è accaduto, Zeno... quando la paura di morire e l'affetto verso i tuoi amici si sono fusi in un paradossale miscuglio di emozioni, la tua mente ha contemplato per la prima volta un pensiero speranzoso: "E se mi stessi sbagliando? Se ci fosse davvero un traditore? Se io non fossi la spia che tutti stanno cercando?" -
Xavier deglutì pesantemente. Nascose l'occhio voltandosi di lato, ma non vi era modo di sfuggire al veleno che la lingua di Sonia stava secernendo.
- Ho ragione, vero...? Mi basta guardarti in faccia, per capirlo - proseguì lei, imperterrita - Durante il quinto processo, quando la vita di Flourish era in pericolo... hai cercato "Il traditore" con tutte le forze, tentando di dimenticare di star cercando te stesso. Volevi salvarla a tutti i costi, ma al contempo l'idea di morire per farlo ti spaventava; è stato quando hai perso anche Pierce che hai realizzato che l'unico modo per salvare quelle poche persone che ti erano rimaste era di confessare... di darti in pasto a Monokuma, e sperare che almeno i tuoi ultimi quattro amici si salvassero, anche se ti avrebbero odiato per sempre. Ed ecco perché hai orchestrato la tua stessa confessione alle loro spalle: temevi il loro giudizio. Eri terrorizzato dagli sguardi di odio che ti avrebbero elargito, anche se stavi salvando loro la vita -
- ...basta così, Sonia -
La brusca interruzione la fece inizialmente tentennare, ma l'Ultimate Princess ritrovò immediatamente la calma.
Vide sul volto del cugino una sofferenza senza pari; sapeva di aver colto nel segno, e il lancinante dolore che emanava la singola pupilla di Xavier bastò a dargliene prova.
- Che succede, Zeno? - domandò lei, con fare quasi materno - La verità è stata un boccone troppo amaro? -
- ...che cosa accadrà, adesso? - chiese lui - Mi hai detto tutte queste cose... mi hai procurato tutto questo male... per quale motivo? -
Sonia rimase impassibile per alcuni secondi; poi, le sue labbra si allargarono in modo inquietante, mostrando i denti bianchissimi.
- Ooh... ora arriva il bello, Zeno...! - mormorò lei, delicatamente eccitata - Ho fatto in modo che il tuo cuore si appesantisse per prepararlo a dovere alla disperazione. Il senso di colpa di aver lasciato che undici amici morissero, la consapevolezza che gli ultimi quattro ti odino con tutto il loro cuore, e il fatto di essere stato tradito da colei che consideravi un membro della tua famiglia... tutto ciò è disperazione, Zeno, anche se tenti di resistervi. Manca solo... il tocco finale! -
La sua mano si mosse rapidamente verso una sporgenza sul trono; Xavier notò troppo tardi che aveva appena premuto un pulsante.
Improvvisamente, una scarica elettrica dal pavimento percorse il suo corpo, costringendolo ad urlare dal dolore.
Accadde nel giro di pochi attimi: braccia e gambe si ribellarono ai suoi ordini e cessarono ogni resistenza, costringendolo in ginocchio.
Le mani continuavano a vibrare, ancora percorse dai residui di corrente. 
Strinse i denti e si morsicò violentemente le labbra, costringendosi a restare lucido. 
Udì un rumore di passi; la gonna scintillante di Sonia svolazzò alla sua destra. La principessa si era avvicinata a passo lento e solenne, come una monarca in procinto di emettere la propria sentenza sul proprio suddito.
Si chinò in ginocchio, portandosi vicino a lui.
- ...sono rimasti solo in quattro, Zeno - sussurrò - Sono tutto ciò che ti resta, tutto ciò che hai a cuore. Non solo amici, oramai: tra loro c'è anche quel piccolo, ingenuo avvocato di cui ti sei scioccamente invaghito. Cosa succederebbe, mi domando... se te li portassi via? -
A quelle parole, scattò.
Un impulso di adrenalina sospinse il suo corpo a reagire, ma le fibre e i muscoli non riuscirono a trovare le forze.
Sonia trasalì brevemente, indietreggiando: uno sguardo di profondo odio, nero come la pece, era diretto verso di lei.
Un occhio iniettato di sangue la stava squadrando da capo a piedi.
- Non... TOCCARLI...! -
- Ooh... era proprio ciò che volevo sentire...! - rispose, ricomponendosi - Un febbrile attaccamento agli altri, la paura di rimanere da solo, un affetto smisurato e incondizionato. Sono queste le cose che ti trasformeranno nell'Ultimate Despair, una volta che avrò ucciso June, Pearl, Michael e Judith -
- AVEVI PROMESSO...! - gridò lui, a pieni polmoni - AVEVI PROMESSO DI LASCIARLI ANDARE... SE LA SPIA AVESSE CONFESSATO! -
- Ma io li lascerò andare, mio dolce, adorato cugino - disse lei, con voce mielosa - Aprirò loro la strada verso l'uscita da questa "scuola"... ma ciò che incontreranno  mentre la percorreranno sarà decisamente fuori dal mio controllo -
Xavier tentò un'ultima volta di costringere il proprio corpo a rialzarsi, ma Sonia riuscì a prevedere anche quello.
Appoggiò il tacco a spillo di una scarpa nell'intersezione del ginocchio, affondandolo nella carne.
Poi, allungò la mano e agguantò il cranio di Xavier, utilizzando l'indice e il medio per tenergli sollevate le palpebre.
La giovane spia mugugnò qualche parola sconnessa, in preda al dolore.
Qualcosa, di fronte a lui, si stava muovendo: una sezione del trono si era spostata, rivelando uno schermo piatto posizionato proprio di fronte a lui.
A parte qualche rumore statico e immagini confuse, non vi era nulla di definito su di esso. Nonostante ciò, non riuscì a non provare una forte paura.
- ...ti mostrerò qualcosa di sensazionale, Zeno - esclamò lei - Un video redatto personalmente da Junko Enoshima, con l'aiuto di un certo collaboratore, in grado di risvegliare la disperazione latente di un individuo. Una volta diventato come noi... la morte dei tuoi amici stabilizzerà il tuo animo predisposto. E, casomai uno o due si salvassero... ti manderò ad ucciderli con le tue stesse mani -
- N-No...! Non... f-far... NO! - mugugnò Xavier, soffocato dalla mancanza di forze.
Sonia accolse quelle suppliche come un buon auspicio, e ricambiò con l'ennesimo sorriso.
- E infine, ecco il terzo e ultimo scopo del nostro piano... - avvicinò delicatamente la bocca all'orecchio di Xavier, accertandosi che potesse udirla - ...non appena sarai dei nostri, userai il tuo talento per infiltrarti nella Future Foundation, e la distruggerai dall'interno. Senza i paladini della speranza a proteggerli, le persone abbracceranno la disperazione, e il mondo sarà tinto dei nostri colori. Tu, Zeno, sarai l'araldo della nostra rivoluzione... e ci porterai alla vittoria! -
- Signorina Sonia! -
Improvvisamente, una terza voce risuonò da più lontano sorprendendo entrambi.
L'Ultimate Princess si alzò in piedi, voltandosi verso la fonte del rumore; Xavier rimase con lo sguardo fisso in avanti, osservando l'accaduto.
Una terza persona era subentrata nel confronto, sbucando da una porta posta appena al di là del trono.
Indossava una tuta da lavoro sporca ed un berretto scuro apparentemente sudicio, aveva un volto dall'aria truce, ma al contempo stranamente innocuo.
A Xavier sembrò di riconoscerlo da una delle fotografie che aveva rinvenuto nella scatola dietro la lavagna, ma nulla di più.
Il nuovo arrivato corse affannosamente verso la principessa, inchinandosi in segno di umile rispetto.
- Oh, Kazuichi - fece lei - Ero certa di aver detto che non volevo essere disturbata -
Il suo sorriso e il tono pacato celavano una nota di profonda irritazione che il ragazzo non mancò di notare.
Xavier vide la persona a cui Sonia si era rivolta come "Kazuichi" prostrarsi ai suoi piedi con adorazione.
- P-perdoni questo suo umile suddito, Signorina Sonia, Maestà! - esclamò lui - Ma si tratta di un'emergenza! -
- Cielo, deve essere davvero tale per spingerti a tanto - ammise lei - Che cosa accade? -
- E' l-la Future F-Foundation! - fece lui, strepitando - Ci hanno trovati! -
Sonia rimase a contemplare quell'informazione con un'espressione stupita.
Xavier ricordò quel nome dalla conversazione di poco prima e dalle informazioni sparpagliate che aveva su di essa.
Tutto ciò che riuscì ad intuire fu che non si trattava di alleati di Sonia, soprattutto a giudicare dal suo volto accigliato.
- ...parli del diavolo - mormorò Sonia.
- E' tutta colpa mia, Signorina Sonia! - piagnucolò l'altro - Credevo che i pannelli anti-sonar ci avrebbero schermati più a lungo, ma...! -
- E' tutto a posto, mio caro - fece lei, tranquilla - Sei riuscito a mimetizzarci per più di un mese. Un'impresa notevole -
- S-Signorina Sonia! - le lacrime sul volto del giovane meccanico trasudavano pura ammirazione.
- Ahimé, purtroppo era questione di tempo - sospirò lei - Non importa quanto in profondità ci siamo nascosti: quelle serpi sanno sempre dove cercare. Fortunatamente, il gioco al massacro si è appena concluso. Non avremo problemi a scappare, vero? -
Il ragazzo scosse veementemente la testa.
- Io e Tanaka abbiamo già predisposto la fuga! Le capsule sono pronte! -
- Splendido - si congratulò lei.
- Ma ci terrei a specificare che sono stato io a... -
- Kazuichi, spero vivamente che tu non mi stia facendo perdere tempo con inutili chiacchiere - lo redarguì Sonia, con la sua tremenda influenza regale - Perché lo troverei alquanto... sgradevole -
Non fu necessaria una parola di più per far scattare Kazuichi da dove era venuto.
Questi si affrettò a raggiungere l'uscita, voltandosi un'ultima volta.
- Ah...! Ma che cosa facciamo con i quattro sopravvissuti? E... con lui? -
Il suo dito indicò la sagoma di Xavier, ancora bloccato in ginocchio ma perfettamente lucido.
Sonia lo contemplò con soddisfazione.
- ...presto sarà uno di noi. A quel punto ci penserà lui a fare piazza pulita degli altri - disse - E, quando la Future Foundation lo troverà, reciterà la parte del povero sventurato, l'unico riuscito a salvarsi, e si guadagnerà la loro fiducia. Scacco matto -
- Sempre un passo avanti a tutti, Signorina Sonia! - esultò il ragazzo, prima di dileguarsi oltre la porta.
Sonia Nevermind porse un ultimo saluto con la mano in direzione di Xavier prima di seguire il proprio subordinato verso la via di fuga.
Xavier la osservò dargli le spalle un'ultima volta, allontanandosi senza smarrire eleganza e portamento.
- Ci incontreremo di nuovo molto presto, Zeno - disse, congedandosi - Quando ti sarai... destato -
La sua sagoma luminosa svanì a sua volta, lasciando Xavier da solo con il proprio fato.
Lo schermo iniziò a produrre immagini più distinte, suoni più acuti.
Si stava attivando, e Xavier sapeva che era il principio di qualcosa di orribile.
Il suo occhio ne rimase ipnotizzato; non riusciva a chiuderlo, a distogliere lo sguardo.
Appena prima che il suo cervello cadesse nell'oblio, il ragazzo rivolse un ultimo, disperato pensiero verso coloro che aveva tentato di proteggere.
Espresse un desiderio, una preghiera: che potessero andarsene via, lontano da quel posto, lontano da lui.
Con quell'ultima, tenue speranza nel cuore, Xavier si lasciò andare al sonno e all'oscurità.




- ...intendi accettare la realtà dei fatti, Judith? -
Le parole di Michael Schwarz non raggiunsero le orecchie dell'Ultimate Lawyer, troppo immersa nei propri pensieri per dare conto a ciò che il compagno stava tentando di dirle oramai da diverso tempo.
Quest'ultimo volle fare un ultimo tentativo, ma June si mise di mezzo. L'arciera gli indicò che non era il caso di metterle ulteriore pressione, che il suo animo era già sconvolto così com'era.
Michael sbuffò, dovendo mettere il proprio pragmatismo da parte un'altra volta.
Fu Pearl a giungere vicino a Judith, poggiandole una mano affettuosa sulla spalla.
Gli occhi della ragazza erano ancora fissi sull'elenco dei partecipanti al progetto Eye's Deception, dove il nome fittizio di Xavier Jefferson era stato rimarcato sul fondo della pagina.
L'Ultimate Assassin non osò cingersi dell'arroganza di sapere come Judith potesse sentirsi, ma avvertì comunque il dovere di porre sollievo alle sue pene, in qualche modo.
- Judith... ascoltami -
Flourish si girò lentamente; aveva le pupille lucide e arrossate, ma si rifiutò di piangere.
Pearl le riconobbe lo sforzo e la dignità, stringendola in un abbraccio.
- Noi siamo con te, va bene? - la rassicurò - Non ti lasceremo mai -
Judith si limitò ad annuire e si abbandonò alle gentilezze di Pearl, che le passò dolcemente la mano tra i capelli corvini.
Nonostante la situazione tesa, a June si scaldò il cuore nel notare come quel piccolo gruppo si fosse riuscito a consolidare, nel bene e nel male.
Si girò di spalle: persino il noto chimico musone sembrava aver tirato un sospiro di sollievo.
- Mike... - lo chiamò l'arciera - Che cosa facciamo, adesso? -
L'Ultimate Chemist riconobbe che si trattava di un quesito semplice e complicato al tempo stesso. 
La sfida era conclusa, ma i risultati ancora non accennavano a mostrarsi.
- ...chiunque ci sia dietro questa sfida dovrà farci andare via - asserì - Il problema è... il quando -
- Oh! Per quello non ci sarà da attendere! -
Una voce statica seguita da un segnale acustico risuonò per tutto il piazzale dei dormitori, spaventando i quattro presenti.
Judith e Pearl alzarono lo sguardo verso l'alto, mentre Michael e June si guardarono attorno con circospezione.
La voce di Monokuma sembrava provenire da ogni direzione, ma era lo schermo gigante sopra le loro teste a mostrarlo.
- Monokuma... - fece Pearl, sprezzante - Ti riveli, infine -
- Voglio farvi le mie più sentite congratulazioni! - esclamò vivacemente l'orso - Voi quattro siete i fortunati vincitori di questa edizione del gioco al massacro! -
Il messaggio fu seguito da un rumore artificiale di fuochi pirotecnici in sottofondo.
L'atmosfera gioiosa della loro vittoria non fu accolta con lo stesso entusiasmo, ed un irritato Ultimate Chemist si fece avanti.
- Poche ciance, bastardo! - lo additò lui - Abbiamo vinto, dici? E allora facci uscire! -
- Quanta impazienza! - sbuffò Monokuma - Come promesso, ai vincitori sarà rivelato il percorso per uscire dalla scuola! Ve lo siete proprio meritato -
Michael si girò verso June; quest'ultima mostrò un vago sorriso storto. 
Era palese che il desiderio di uscire si era tramutato in un sentore di sollievo che i due condividevano.
June strinse la mano al polso di Michael, tentando di contenere l'agitazione.
- Un attimo! - gridò Judith verso lo schermo.
Il Monokuma gigante la fissò con aria interrogativa.
- Eh? Cosa c'è? -
- Dov'è Xavier!? - fece Judith, disperata - Che cosa gli accadrà!? -
L'orso meccanico si grattò pigramente il mento con lascivia.
- Mhh... Xavier, Xavier...? - sbadigliò lui - Di chi parli? A quanto ne so, nessuno dei partecipanti aveva questo nome... -
Il viso dell'Ultimate Lawyer divenne paonazzo; sarebbe bastato poco per farla esplodere, ma Pearl Crowngale la fermò prima che potesse proferire parola.
- Judith... ora la priorità è un'altra -
- Ma...! Ma lui...! -
- Non possiamo fare niente per Xavier - scosse la testa - Ora dobbiamo guardarci le spalle l'un l'altro. Non abbiamo altra scelta se non proteggere i pochi che sono ancora con noi -
Fu complicato sopprimere il desiderio di dirne quattro all'androide, ma si forzò a non dare peso a colui che non meritava attenzione.
Inspirò profondamente e poi gettò fuori l'aria dai polmoni, raffreddando i bollenti spiriti.
- Heh! La biondina ha ragione: ora come ora dovete pensare a voi stessi! Non potete permettervi il lusso di abbassare la guardia alla fine! - li raccomandò Monokuma.
- C-come...!? - sussultò Michael - Che vuoi dire!? -
- Oh, niente spoiler! Suvvia, ragazzi, siate allegri! - ridacchiò lui - Preparatevi! L'uscita dalla scuola si rivelerà proprio... adesso! -
Non appena ebbe finito di pronunciare quella parola, la terra tremò.
Una scossa potente fece vibrare il pavimento e tutto ciò che era nella sala.
I quattro si ritrovarono coinvolti in quello che sembrava un terremoto artificiale, ed ebbero fatica anche solo a rimanere in piedi.
June si aggrappò alla vita di Michael, il quale appoggiò un ginocchio a terra per restare stabile.
Pearl piantò i piedi al suolo reggendo Judith per un braccio.
Mentre la scossa continuava, qualcosa alle loro spalle aveva iniziato a muoversi.
I quattro sopravvissuti si voltarono ed assistettero ad uno spettacolo impressionante.
L'intera parete alle spalle delle casupole del dormitorio aveva cominciato a traslare, fino a rivelare una porta meccanica perfettamente mimetizzata all'interno del muro.
L'enorme portellone si sollevò con un suono roboante, rivelando quello che era l'inizio del sentiero che conduceva all'uscita.
Una luce artificiale uscì dallo spiraglio appena comparso, gettando sul volto di Michael una luce di speranza.
- L'uscita... - mormorò lui, lasciandosi poi trasportare dall'emozione - L'USCITA! Eccola! Siamo sal-...! -
Si fermò a metà frase.
Pearl, Judith e June rimasero altrettanto ammutolite.
Da oltre l'apertura erano comparse dieci, venti, cinquanta paia di zampe bianche e nere.
Sempre di più ne apparivano fino a superare abbondantemente il centinaio.
Quando il terreno smise di muoversi e la porta si fu aperta del tutto, un esercito di Monokuma era apparso dinnanzi a loro con artigli sguainati e gli occhi color rosso sangue.
Un'armata di orsi tutti uguali tra loro, che emettevano versi nefasti e bloccavano completamente l'ingresso con la somma delle loro moli.
Michael Schwarz sbiancò; un fiume di sudore gli grondò dalla fronte, e gli sembrò di aver appena perso dieci anni di vita.
June non riuscì a bloccare il tremito alle gambe, e indietreggiò istintivamente con passo tremante.
A sua volta, nemmeno Judith riuscì a mascherare il proprio terrore, mentre Pearl sfoggiò un volto iracondo e accecato dall'ira.
Quell'ultima trappola fece scattare in lei un odio che non avrebbe mai creduto di poter provare.
- L'uscita è da quella parte! - esclamò il Monokuma da oltre lo schermo, prima di svanire del tutto - Buona fortuna! -
Il display si spense, lasciando come uniche fonti sonore l'eco delle risate dei pupazzi, il tremito dei sopravvissuti, e l'ebollizione del sangue dell'Ultimate Assassin.

 

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Capitolo 63
*** Capitolo 6 - Parte 8 ***


Furono necessari diversi attimi per metabolizzare la comparsa di quell'inquietante schiera di androidi proprio davanti al passaggio appena aperto; l'unica via di uscita era sbarrata da una folta massa di Monokuma grossi almeno un metro e mezzo, con occhi scarlatti e gli artigli sfoderati.
Michael osservò quella scena terrificante con occhi sbarrati e gli arti paralizzati dalla paura; aveva finalmente ceduto ad un festeggiamento precipitoso e ciò era costato caro al suo animo, vagamente crogiolato in un senso di sollievo dopo l'annuncio della fine del gioco.
Ma quell'esercito meccanizzato portava con sé novità poco rassicuranti: il gioco al massacro non era ancora concluso. Mancava ancora l'atto finale.
I Monokuma rimasero fermi, immobili, e in silenzio. Il solito chiassoso chiacchiericcio dell'orso aveva fatto posto ad una miriade di volti inespressivi e taciturni.
June si sarebbe aspettata di udire le loro grasse risate miste a sogghigni di scherno, ma non proferirono una sola parola.
L'arciera capì: quei Monokuma non erano venuti lì per i soliti giochetti mentali che avevano sapientemente sfruttato nel corso dell'ultimo mese.
La loro apparenza e il loro approccio emanavano un'aura del tutto diversa.
La ragazza lo sapeva: erano lì per uccidere. 
Judith e Michael fecero istintivamente un passo indietro, e un altro ancora. Spiazzati dall'elevatissima differenza di numero, il loro corpo suggerì loro di trovare immediatamente riparo altrove, in un luogo più sicuro del piazzale. Il trovarsi lì in mezzo non faceva che accrescere in loro la sensazione di essere bersagli facili.
Il loro piano fu bruscamente interrotto, però, da un cenno della mano di Pearl, la quale intimò loro di non abbandonare le proprie postazioni e, soprattutto, di non eseguire movimenti sospetti che avrebbero potuto attirare le attenzioni dei nemici su di loro.
- ...non muovetevi - ordinò la bionda - Non fate un solo passo, o rischiamo di trovarceli addosso -
- E che cosa dovremmo fare, allora!? - gridò Michael con esasperazione - Q-quei mostri ci sbarrano la strada! E l'unica via di fuga è da quella parte! -
Il chimico indicò il lungo e largo corridoio che si estendeva oltre l'apertura, abbastanza spazioso da poterci far passare un intero furgone.
Si prolungava così tanto che era difficile scorgerne la fine, soprattutto a causa delle numerose sagome di Monokuma in mezzo che costituivano una folla cospicua.
- ...non avremmo comunque dove nasconderci - osservò June - Il resto della scuola è un enorme vicolo cieco, e quegli affari possono sicuramente connettersi alle telecamere... -
- Non possiamo scappare, in pratica... - mormorò Judith, tastandosi nervosamente il fermaglio.
- M-ma perché...? - Michael affondò le unghie della mano nel braccio opposto, fino ad arrossarsi la pelle - Abbiamo vinto... la sfida è finita... ma allora perché!? -
Nessuno riuscì a dargli una risposta; in quella circostanza, neppure esisteva.
- ...questo non fa che dimostrare ulteriormente quanto, per chiunque sia dietro questa faccenda, noi non siamo altro che pedine con cui dilettarsi - il tono di Pearl era neutro, ma al contempo pregno di un'energia furiosa - E questo... è a dir poco snervante -
Judith le squadrò istintivamente il viso; vi era una rabbia inaspettata che scaturiva dalle pupille di ghiaccio di Pearl Crowngale, una furia tacita che attanagliava la sagoma dell'Ultimate Assassin. Judith la aveva già vista arrabbiarsi diverse volte; ma lì le parve completamente diverso.
Un'ira che superava qualunque confine.
Ad un tratto, un rumore cigolante costrinse tutti e quattro ad alzare lo sguardo volgendolo in avanti.
Mettendosi immediatamente in guardia, Michael Schwarz si sporse per capire di che cosa si fosse trattato.
Il suono meccanico proveniva dalla zampa del Monokuma più in avanti, quello che guidava la folla in maniera simile ad un leader, che aveva mosso il primo passo in avanti.
Vi fu un breve silenzio, poi ne mosse un secondo e un terzo.
June osservò la scena con una sensazione di orrore e spavento. Il cigolare si moltiplicò in pochi attimi, divenendo un'orchestra di passi robotici di pari lunghezza e intensità.
Come a seguire l'esempio del condottiero, i Monokuma immediatamente dietro iniziarono a muoversi in avanti, come una vera e propria marcia militare.
Si stavano avvicinando, coprendo lentamente la distanza che intercorreva tra loro e il piccolo gruppo di sopravvissuti.
Era accaduto ciò che Michael sperava vivamente non succedesse: che il nemico facesse la prima mossa sfruttando il numero.
L'istinto di scappare, ignorando le parole di Pearl, si fece sempre più forte e intenso fino a che il suo cervello non lo pregò urlando di darsela a gambe.
Fu necessaria una salda stretta di June al suo polso sudaticcio per costringerlo a rimanere al loro fianco.
Michael osservò i suoi occhi supplichevoli da oltre le lenti degli occhiali; tremavano entrambi come foglie, ma nell'arciera pareva essersi manifestata una consapevolezza più marcata, più salda. June Harrier decise che non era più il momento di fuggire, e lo avrebbe fatto capire anche a lui.
- Mike... lo abbiamo già detto... - gli disse, allentando la presa e passando gentilmente il palmo della mano sulla sua guancia - Ti prego... rimani con noi. Abbiamo bisogno di te -
Pearl si voltò per dare un cenno di assenso. A sua volta, pur essendo combattuta e spaventata, Judith aveva mantenuto il proprio posto.
Michael dovette andare contro ogni proprio principio per convincersi a rimanere solo qualche secondo di più.
- ...siete forse impazzite...? Credete di poter fare qualcosa in questa situazione!? - strepitò lui - Guardateli! Saranno almeno DUECENTO! Cosa sperate di combinare se...!? -
- Mike - la voce dell'Ultimate Assassin si fece più profonda - Nascondersi e chiudere gli occhi funziona con le persone, non con i mostri. Niente potrà salvarti, se fuggi adesso. Inoltre, non è ancora finita. Lo hai forse dimenticato? Siamo armati -
Lo sguardo dell'Ultimate Chemist andò al mucchio di lame e affini che Pearl aveva racimolato poco tempo prima; scintillavano di una luce nuova che Michael non aveva  colto fino al momento del bisogno, quello dell'imminente necessità. 
Ma non bastò a soffocare le ansie del chimico, che di certo non si lasciò andare ad uno speranzoso buon umore a causa di alcuni utensili affilati.
- E credi che basteranno per un'orda simile!? -
- Michael non ha tutti i torti... - asserì Judith - Ma abbiamo davvero altra scelta? L'unica possibilità è di... combattere -
- Non è neppure una scelta... - sospirò June, imbracciando l'arco - Combattere o morire, Mike. Scegli -
Il ragazzo si massaggiò la fronte sospirando; non era neppure una scelta, anche se posta come tale. 
- Inoltre, Mike... mi permetto di farti notare un dettaglio non di poco conto -
Le parole di Pearl suscitarono in lui una certa curiosità, ma quando alzò lo sguardo per rivolgerle gli occhi Pearl era svanita.
Michael sussultò; era certo di averla appena udita parlare, ed era stata di fronte a lui per tutto il tempo per non accorgersi della sua assenza.
Si guardò lateralmente, notando come anche Judith e June avevano iniziato a cercare la figura della bionda con espressioni confuse.
Era come svanita nel giro di un attimo.
Poi avvertirono un rumore secco, e si voltarono all'unisono.
Il Monokuma condottiero, dall'andatura più spedita e avanzato più rapidamente degli altri, aveva appena perduto la testa.
La videro schizzare in aria in un movimento verticale, per poi ruzzolare rovinosamente sul pavimento, emettendo scintille elettriche e producendo rumori di cavi spezzati.
Era accaduto tutto così rapidamente che non avevano neppure realizzato che, alcuni secondi dopo, Pearl era di nuovo vicino a loro.
Judith sgranò gli occhi e fu costretta a voltare più volte il capo per seguire la scena nella sua interezza.
Il corpo del Monokuma era rimasto in piedi, per poi cadere all'indietro pochi attimi dopo a circa dieci metri dal gruppo. 
La testa era stata recisa con una precisione impressionante.
Davanti a loro, Pearl teneva stretto tra le dita un coltello affilato sporco di un sostanza viscosa e verdastra, probabilmente olio; la stessa che i resti del Monokuma stavano secernendo insozzando il pavimento.
Passarono alcuni secondi; persino l'avanzata del resto dell'esercito si era arrestata in virtù di quanto appena accaduto.
- Ma... come hai...? - balbettò Michael.
- Dal mio punto di vista, ragazzi... - sibilò la bionda - Sono SOLTANTO duecento -
Un segnale acustico partì da tutti i Monokuma presenti; i loro occhi rossi si attivarono nello stesso istante.
Avevano rilevato un imprevisto, e avrebbero agito di conseguenza; fu ciò che June Harrier pensò quando vide l'intera flotta di orsi androidi accelerare senza preavviso.
I loro movimenti si fecero irregolari e sconnessi, guidati solo da ferocia e dal perseguimento di un obiettivo: loro.
Pearl afferrò istintivamente una seconda lama e assunse una posa da combattimento, gettando occhiate sdegnose sui mostri che, di lì a poco li avrebbero assaliti.
Inspirò quanta più aria possibile nei polmoni, e poi gridò con tutto il fiato che aveva in corpo.
- RAGAZZI! Non è finita! NON. E'. FINITA! - urlò, lasciandosi trasportare - SE C'E' UNA TENUE SPERANZA, AGGRAPPATEVI AD ESSA CON LE UNGHIE E CON I DENTI! SPUTATE IN FACCIA ALLA MORTE! Vi prego... solo per questa volta... SEGUITEMI! COMBATTETE CON ME! -
Infine, scattò. Corse verso l'orda caricandola a testa bassa, decisa a toglierli di mezzo uno ad uno.
Avrebbe sfogato la propria rabbia su quei pupazzi utilizzando ogni briciolo della propria forza, sfruttando tutta la frustrazione scaturita da quella sfida di oltre un mese.
Pur volendo imprimere nei propri coltelli tutto il proprio odio, Pearl si vide costretta ad arrestare il proprio impeto nel momento in cui un oggetto rotondo non identificato la sorpassò dall'alto, lanciato a gran forza verso i Monokuma in carica.
Si riparò la vista appena in tempo; il corpo misterioso esplose in una miriade di colori portando con sé i corpi di una decina di malcapitati Monokuma.
Una schiuma viscosa prodotta dalla detonazione bloccò l'avanzata del resto delle forze, che si ritrovò a dover superare il nuovo ostacolo.
Pearl si voltò alle spalle; Michael Schwarz aveva slacciato la camicia rivelando al di sotto dei vestiti ben due file di esplosivi chimici attaccati a delle cinture in cuoio.
Ne teneva stretti un paio tra le mani, e ansimava affannosamente con una punta di eccitazione.
Judith rimase impressionata da quello sfoggio di armamentario, mentre June lo rimirò con una certa fierezza compiaciuta; quasi non riconobbe il piccolo chimico che correva a nascondersi alla prima occasione.
Pearl li raggiunse in pochissimo tempo. Non furono necessarie parole per accertarsi della determinazione di Michael Schwarz, poiché quest'ultimo avanzò di propria spontanea volontà, con armi alla mano.
- E va bene... VA BENE, CRISTO! - gridò, rabbioso - Se proprio devo morire qui, vedrò almeno di portarne all'inferno qualcuno! -
- Ti copro le spalle! - June Harrier lo seguì a ruota - Se provano ad avvicinarsi, gli pianto una freccia in mezzo agli occhi...! -
Imbracciando arco e faretra, anche Harrier si mise in posizione. 
Pearl rivolse loro un sorriso caldo, ma malinconico. 
Lo sapeva bene, così come anche loro lo avevano realizzato: le loro munizioni non sarebbero mai bastate per tutti i Monokuma.
Dovettero compiere un atto di fede e coraggio per lanciarsi in quell'impresa, che di alternative non ne dava.
Non mancava molto all'arrivo dell'ondata di nemici; andavano ultimati i preparativi.
Si chinò frettolosamente verso il mucchio di armi ed estrapolò la katana, porgendola a Judith.
Il perché di quella scelta fu ignoto all'avvocatessa, che però accettò il dono seppur con mani tremanti.
- Sai usarla? - le domandò Pearl.
Deglutì.
- No -
- Perfetto - disse, spingendo la spada orientale tra le dita della compagna - Il raziocinio e la tecnica ti sono spesso di intralcio quando hai bisogno di un po' di sana furia cieca. Stammi vicina e affettane il maggior numero possibile. Non importa come: distruggili. Pensi di farcela? -
Judith Flourish diede un'ultima occhiata al borsone con tutte le lame e gli oggetti accumulati e ammassati sul terreno.
Il pensiero che non fossero stati raggruppati col solo scopo di fungere da diversivo non riusciva ad abbandonarla.
Era certa che quelle armi erano state portate lì con un significato ben preciso: quello di combattere per sopravvivere. 
"Lui vuole che sopravviviamo... deve essere così! DEVE!"
Si rivolse a Pearl; sorridendo con una lieve malizia.
- Devo solo scotennare qualche orso, giusto? - mormorò, ostentando una falsa fiducia - Credo di essere abbastanza incazzata per farlo -
- Non volevo sentire altro -
Presero posizione a propria volta, di fianco agli altri due.
Si ritrovarono in quattro a fronteggiare un esercito di centinaia; nessuna via d'uscita e nessun compromesso.
Solo un'armata di Monokuma che li stava lentamente circondando. Ma videro il loro essere con le spalle al muro come un obbligo a proseguire solo in avanti.
Seguendo il grido di battaglia di Pearl Crowngale, i quattro sopravvissuti si lanciarono contro morte certa.





Torpore. Pesantezza. Malessere. La testa di Xavier parve quasi andargli a fuoco durante i primi istanti in cui iniziò a recuperare lucidità.
Lo avvolgeva un buio profondo; anche solo aprire l'occhio lo faceva stare male. Preferì dunque rimanere nell'oscurità, fino a che quel fastidioso malore non si fosse deciso ad andarsene.
Pian piano, mentre la stanchezza del sonno iniziava ad affievolirsi, i suoi sensi captarono varie sensazioni confuse.
Vi erano dei rumori indistinti; forse un vociare di due o più persone, uno stridio lento su una parete, più una serie di passi a tratti lenti e rapidi.
Scuotendo lievemente la testa si rese conto di averla appoggiata su qualcosa; le sue stesse braccia.
Le aveva posizionate a fare da cuscino e ci si era sprofondato concedendosi del sonno. La sensazione di liscia durezza sotto di esse gli fece pensare di essersi appisolato su di un tavolo, o qualcosa di estremamente simile.
Eppure, pur pensandoci su diverse volte, Xavier non riusciva proprio a ricordare come, quando e dove si fosse addormentato.
Era una situazione strana, ma la sonnolenza continuava a cingere la sua mente, spostando i pensieri altrove.
Si lasciò cullare dal buio ancora per alcuni minuti, vinto da quella piacevole indolenza che tutto sommato non gli dispiaceva.
Il sopore continuò indisturbato fino al momento in cui non avvertì una lieve scossetta alla spalla destra, seguita da un suono.
- ...vier! -
Ebbe un lieve sussulto.
Tentò di aprire la palpebra, ma la luce filtrante lo infastidì a tal punto che lo richiuse. Era così brillante che faceva quasi male.
Si domandò come mai risentisse di un tale effetto; del perché quel buio pareva così invitante.
La voce che aveva udito aveva un che di familiare, ma la parola pronunciata era ancora indefinita.
- ...Xavier! -
La udì di nuovo, stavolta in modo perfettamente chiaro.
Era un nome; il suo. Impiegò più tempo del previsto per capire che, chiunque fosse, stava interpellando lui.
Lo aveva dimenticato: quello era il nome che aveva scelto, l'identità che oramai lo accompagnava da diverso tempo.
Gli fece strano sentirsi chiamare in quel modo, ma dopotutto era da una vita che continuava a cambiare viso e nome.
Eppure, quello in particolare sembrava avere un significato e un suono diversi. Come se quella esatta combinazione di lettere avesse un che di unico.
Ad un tratto, una moltitudine di voci differenti si unirono al coro; alcune, come la prima, lo stavano chiamando.
Altre sembravano intente in conversazioni differenti, altre ancora bisbigliavano qualcosa di incomprensibile a bassa voce.
Avvertì un altro colpetto sulla stessa spalla; Xavier aggrottò le sopracciglia, farfugliando qualche brontolio nervoso.
Non gradiva che il suo riposo venisse disturbato in quel modo, e preferì ignorare del tutto la faccenda.
La testa faceva ancora male, e i suoi pensieri erano in completo disordine.
Con la speranza di venire lasciato in pace, emise uno sbuffo e tornò a dormire.
Lì, nel buio, cullato dal nulla più assoluto.
- Xavier! Svegliati! -
Stavolta fu una pacca di proporzioni ben maggiori.
Xavier si svegliò di soprassalto, spalancando l'occhio buono. Inondato dalla luce della stanza, lo socchiuse subito.
Si abituò pian piano all'ambiente che lo circondava, massaggiandosi la spalla dolorante.
Un'espressione contrariata era comparsa sul suo volto stanco e assonnato, e quel brusco risveglio rientrava tra le cose che meno preferiva.
Nonostante ciò, riconobbe che lo scossone aveva sortito l'effetto di diradare la nebbia nella sua mente.
Xavier ricordò tutto, fin nei minimi dettagli.
Aveva tentato invano di schiacciare un pisolino sul banco, ma aveva scelto il momento meno adatto. Era certo che qualcuno sarebbe venuto a disturbarlo.
E quel certo qualcuno che aveva ipotizzato fosse l'artefice di quella sveglia scortese era alla sua destra, a braccia conserte, che gli rivolgeva un'espressione imbronciata.
Lui ricambiò, ostentando come non avesse affatto gradito quel gesto, ed emise un sospiro di stanco sconforto.
- ...maledizione, Refia! Cosa diavolo vuoi...!? -
- Ti pare forse il caso di dormire, Xavier!? - l'Ultimate Cyclist gonfiò le gote - Siamo nel bel mezzo di un meeting importante! Devi partecipare anche tu! -
Si stiracchiò un'ultima volta, grattandosi la nuca. Notò come gran parte degli sguardi della classe erano diretti verso di lui.
Deglutì; Refia non aveva tutti i torti, ma era innegabile che la stanchezza avesse avuto la meglio su di lui.
- Che fai, amico? Ronfi della grossa a quest'ora del giorno? - lo schernì Rickard, ridacchiando di gusto.
- Non abbiatene a male... - si giustificò Xavier - Si tratta di un po' di sonno arretrato; tutto qui -
- Bah! Abbi almeno la decenza di rimanere attivo fino alla fine! - sbottò Michael, puntuale con le ramanzine - Non lamentarti se poi il programma non ti soddisfa! -
- Suvvia, lasciatelo respirare - Karol riportò tutti alla calma - Xavier, faresti bene ad andare a dormire un po' prima, la notte. Del sonno regolare è imperativo per chiunque -
L'accusato alzò le mani in segno di resa.
- Sarà fatto, Prof. Promesso - affermò, rassegnato - Allora? Che cosa manca da decidere? -
- Il punto più importante! - Refia gli diede una scrollata con tutto il braccio - La meta! -
Il ragazzo assunse un'aria demoralizzata.
- Ma come...? Ancora non si è stabilito dove andremo in gita!? - si lamentò lui - Credevo fosse il primo punto da mettere in chiaro -
- Oh, tranquillo, è già quasi tutto organizzato - lo rassicurò Vivian con un sorriso - Ciò che intendeva dire Refia era che il posto dove andremo offre sia località di montagna che lidi balneari. Dobbiamo scegliere in base alle nostre preferenze -
Kevin parve alquanto sconsolato da quel dubbio.
- Accidenti... non vi è modo di trovare un compromesso? - optò il botanico - Sembra quasi un peccato dover rinunciare ad uno dei due. Ho sentito che quel posto offre magnifici panorami sia costieri che alpini -
- Eh, no, vecchio mio! - Lawrence scosse la testa - Abbiamo a malapena una settimana; non ci basterà per fare tutto -
Nella classe calò un breve silenzio meditativo.
- Mare o montagna, dunque. Scelta ardua - commentò Pearl - Che sia necessaria una votazione? -
- Non amo dover accontentare solo la maggioranza... - ammise Karol, allargandosi il colletto della camicia.
- Allora propongo di enumerare i pro e i contro di ciascuna opzione e di raggiungere un comune accordo - dal retro della classe, il capoclasse Alvin espresse il pensiero più logico e ragionevole - Siete d'accordo? -
Nessuno parve avere nulla da ridire. Una mano si alzò immediatamente per prendere parola: quella di Hayley Silver.
- Beh, direi di iniziare con i punti più ovvi! Io propongo la montagna! - esclamò, e nessuno si sorprese di quella presa di posizione - Possiamo fare lunghe passeggiate, arrampicate, immergerci nel verde più incontaminato... ah, e il campeggio! -
- Oh, il campeggio mi piace - Rickard appoggiò l'idea, allettato.
- Sì, sì! La montagna è decisamente più avventurosa! - Refia non mancò di farsi sentire - Potremmo partire alla volta di sentieri non battuti! Sarà un'esperienza nuova, diversa. Vedrete, sarà magnifico! -
- Mhh, con l'Ultimate Hiker a farci da guida non vedo perché rifiutare - osservò June - Anche a me l'idea piace. L'aria di montagna è gradevole -
Rincuorate dall'approvazione di June, Refia ed Hayley si presero per mano e si misero a saltellare allegramente, pregustando la vittoria.
L'arciera non poté fare altro che ridere con un'espressione stupida davanti ad un entusiasmo così genuino.
Nel frattempo, Karol aveva iniziato ad appuntare sulla lavagna tutte le opinioni della classe, in modo da avere un quadro più chiaro degli interessi di ciascuno.
- U-un momento... - intervenne flebilmente Pierce - La m-montagna non è anche un luogo un tantino... rischioso? Io credo che il mare sia molto più tranquillo... -
- Dai, Pierce, non esagerare! - ribatté Hayley - Cosa vuoi che ti accada? -
- Odio dover essere pessimista, ma devo dare ragione a Pierce - sentenziò Michael - Il pericolo di frane e incidenti vari non è del tutto assente in posti simili, e voi due siete proprio i tipi da portarci a sperdere su chissà quali altissimi picchi! In virtù di una vacanza più tranquilla, io proporrei il mare -
Michael ignorò la linguaccia di Refia e si rivolse agli altri membri della classe.
Il timore sembrava aver attecchito anche su Kevin, per quanto quest'ultimo pareva essere più incline ad una gita montana.
- Uhm... credo che mi terrò neutrale, per stavolta... - asserì Claythorne.
- Mi accodo a Kevin - esclamò Xavier, dondolandosi sulla sedia - Non credo mi faccia molta differenza, quindi potete decidere voi -
- Spero che ciò non si tramuti in un pretesto per poter tornare a sonnecchiare, Xavier - la voce di Alvin alle proprie spalle lo colse alla sprovvista.
Si girò per notare la sua sagoma torreggiare in modo inquietante su di lui. Si rimise subito composto e scosse il capo.
- No, no di certo... - sbuffò.
- Magnifico - fece il guardiano, compiaciuto - Io, personalmente, opterei per la montagna. Trovo che il clima, lì, sia corroborante. E, sarò sincero, sono poco avvezzo alla calura - 
- Ah... a-anche io non sopporto il caldo... - si aggiunse Pierce, che stava rivalutando la propria opinione - E le insolazioni... e le scottature... -
- Pierce, con quell'atteggiamento tutto diventa un'apocalisse - lo rimproverò Pearl.
- Io invece trovo che una vacanza al mare sarebbe splendida - sopraggiunse Vivian, con aria quasi sognante - La spiaggia al tramonto, il profumo dell'aria salata, e un continuo azzurro a perdita d'occhio... -
- Ooh! Una vena poetica destata dal pensiero delle onde che si infrangono sulla spiaggia...! - esclamò Lawrence con tono teatrale - Non posso che concordare! -
- Andiamo, Lawrence! Il tuo giudizio è completamente di parte! - lo stuzzicò Rickard, ridendo sotto i baffi.
Il violinista spalancò gli occhi con aria battagliera.
- Co-come!? Quali illazioni vai farneticando!? -
- Ammettilo: vuoi solamente vedere un certo qualcuno in costume da b-... -
Un rapido calcio allo stinco mise definitivamente a tacere l'Ultimate Voice Actor che, pur dolorante, vedendo l'espressione imbarazzata dal compagno non trovò ragione di pentirsi del proprio operato.
Anche Vivian arrossì brevemente, ma scostò subito lo sguardo verso le file più indietro.
- E tu, Hillary? Che cosa preferiresti? - domandò.
La piccola orologiaia trasalì per un istante. Tutti sapevano che non avrebbe parlato se non interpellata prima da qualcuno, e il fatto che fosse stata Vivian accelerò le cose.
- E-ecco... io... - deglutì - Vorrei... andare in montagna -
Un rumore di gesso secco; Karol annotò anche quello.
- Mi associo alla piccoletta - sorrise Pearl - La montagna offre possibilità più stimolanti -
- Siamo quasi al culmine della votazione - osservò Alvin - Chi manca, ancora? -
Tutta la classe si guardò attorno, attendendo quei pochi pareri mancanti.
All'improvviso, la porta della classe si spalancò catturando l'attenzione di tutti.
Elise entrò in tutta fretta portando con sé un borsone largo e capiente.
- Eccomi qui, gente...! - disse, ansimando - Ho trovato tutto! -
- Hey, spilungona! Perché ci hai messo tanto!? - chiese Michael, irritato.
- Ah... - Elise rimase ferma a pensare per alcuni attimi - ...credo di aver sbagliato classe per un paio di volte, mentre tornavo -
- "Credi"...? - mormorò Xavier, incredulo.
- Elise, vieni in questa classe oramai da un anno! - la redarguì June - Quando ti deciderai ad imparare la strada!? -
L'Ultimate Camerawoman si grattò la fronte con fare apologetico, chinando il capo.
- Giusto, giusto... prometto che farò più attenzione - promise lei - Ma sono riuscita a reperire tutto ciò che mi occorre -
- E di che si tratta? - domandò Kevin, indicando la borsa che trasportava.
Gli occhi di Elise guizzarono, e rivelò il contenuto con entusiasmo.
- Ecco qui... abiti sportivi, pezzi di ricambio per la videocamera, accessori vari da campeggio e... un pratico elmetto! - disse, tutta contenta - Posso attaccarci la videocamera sopra ed utilizzarla durante le arrampicate! Comodo, no? -
Calò un silenzio generale. 
Più di una persona si passò una mano sul volto, mentre il resto della classe iniziò a ridere; l'eco delle risate di Rickard si sparse per tutta l'aula.
L'Ultimate Camerawoman osservò impassibile la scena, ancora compiaciuta dal proprio equipaggiamento.
- Elise... - sospirò Pearl - E' ancora tutto in corso d'opera -
- Eh? In che senso? -
- B-beh... non abbiamo ancora deciso se andare al mare o in montagna... - Pierce non trovò modo di indorare la pillola - Diciamo che... sei stata un po' troppo preventiva... -
Elise ci pensò su per alcuni attimi.
Girò il capo verso la classe, e poi verso Karol. Questi la stava fissando con un sorriso circostanziale, ma al contempo stranito.
- Ah, uhm... - mugugnò lei - Allora scelgo... uhm, la montagna -
- E dovevi anche pensarci!? - esplose definitivamente Michael.
A quelle parole, l'Ultimate Teacher mostrò un cenno di assenso e rimarcò col gesso la scritta "Montagna" sulla lavagna.
- Allora immagino sia deciso - esordì - Nessuna obiezione? -
La votazione fu così conclusa; Xavier fu sollevato nel sapere che quell'incombenza era giunta al termine.
Tutto sommato, però, dovette ammettere a se stesso che l'idea della partenza non gli dispiaceva, e l'entusiasmo dei compagni era riuscito a contagiare anche lui.
Si guardò attorno: Hayley e Refia stavano festeggiando la vittoria iniziando a prendere appunti su tutto ciò che avrebbero fatto in gita, senza tralasciare alcun dettaglio.
Nonostante il loro baccano, anche June si unì alle loro elucubrazioni. La squadra si riunì per escogitare la migliore linea di azione da utilizzare nel poco tempo a loro disposizione.
Pearl e Alvin si erano messi a discutere affabilmente di una chissà quale esplorazione boschiva che avevano in mente di fare; nel bel mezzo della conversazione la bionda tentò di trascinare anche Hillary, rimasta in disparte per quasi tutto il tempo.
I continui tentativi di Pearl di allacciarsi all'Ultimate Clockwork Artisan parevano aver dato i loro frutti, poiché Hillary sembrò trovarsi a proprio agio.
Dall'altro lato della stanza, Vivian consolava un Ultimate Musician piuttosto a terra e sul cui volto era mostrata una cocente disfatta emotiva.
L'Ultimate Painter gli cinse il collo in un abbraccio e lo baciò sulla fronte; fu ciò che il resto dei compagni definivano come "il miracolo di Vivian", poiché era in grado di ribaltare l'umore di Lawrence nel giro di appena un istante. Anche quel giorno non fu diverso.
Pierce e Kevin si erano radunati attorno al banco di Michael, dove quest'ultimo si stava esibendo in uno dei suoi classici sermoni sulla sicurezza personale e collettiva da adoperare in situazioni di pericolo. Xavier notò come il lato paranoico della classe si fosse concentrato attorno a quell'area.
Kevin stette a sentire con notevole interesse; Pierce stava addirittura prendendo appunti.
Rickard si era seduto sulla cattedra e, facendo dondolare le gambe, osservava divertito i vani tentativi di Karol di dare un senso a tutte le cianfrusaglie che Elise si era portata dietro.
Il modo con cui la ragazza cercava di convincere il Prof dell'importanza vitale di ogni singolo oggetto contenuto nella borsa aveva un che di fenomenale.
Xavier li osservò tutti, dal primo all'ultimo. E sorrise.
"E' proprio una classe di pazzi" pensò, appoggiandosi allo schienale della sedia "Sarà per questo che mi trovo così bene"
Stette ad assaporare il clima festoso dei compagni per un po', fino al punto in cui si accorse che in tutta quella piacevole atmosfera vi era uno strano sentore.
Come un qualcosa di discordante, una sensazione strana e fuori posto.
Si rimise composto, investigando silenziosamente su ciò che poteva essere. Non sembrava esserci nulla di strano sui volti sorridenti degli altri, né nell'aula stessa.
Avvertì uno strano brivido alla schiena.
Qualcosa non quadrava; o, per meglio dire, mancava.
Trasalì in un istante, realizzando.
"...Judith!"
Un forte senso di colpa lo avvolse; non aveva notato la sua assenza.
Non trovò giustifiche nella propria sonnolenza, né nel clima allegro e confusionario che si era venuto a trovare.
Quella sensazione di mancanza e di inquietudine trovarono conferma nell'assenza dell'Ultimate Lawyer. 
Si alzò in piedi di scatto, girandosi da ogni lato.
Con sua enorme sorpresa, la vide.
Si stropicciò la pupilla, credendo di avere un'allucinazione, ma era lì.
La trovò seduta ad un banco vicino alle finestre che davano sul giardino della scuola, con lo sguardo perso nel proprio tenue riflesso sul vetro traslucido.
Sembrava immersa in chissà quale pensiero, ma a Xavier parve ancora più strano che non si fosse messa in discussione durante il dibattito sulla meta.
Ed era raro, da parte sua, non accennare nemmeno un'opinione. 
Judith amava comunicare col prossimo, soprattutto con i propri amici e compagni, e ciò andava ben al di là di una mera deformazione professionale. I suoi momenti taciturni erano in genere giustificati da un cattivo umore, e Xavier sentì il bisogno di vederci chiaro.
Le si avvicinò lentamente superando una fila di banchi, e le si sedette appena di fianco.
Osservò il lento e delicato muoversi dei suoi capelli corvini tenuti assieme dal fermaglio floreale, il cui biancore risaltava come fosse una stella nel cielo notturno.
Non riuscendone a visualizzare perfettamente l'espressione, Xavier dovette andare per tentativi.
- ...hey, Judith - le disse - Qualcosa non va? -
Lei si voltò lentamente verso di lui. Aveva un'aria triste, come presagito.
- Oh, Xavier... - sospirò lei - Non è nulla -
- Ne sei certa? - la incoraggiò lui - Ti conosco bene. A me sembra che ci sia qualcosa che ti angusti -
Lei si strinse tra le spalle, mordicchiandosi il labbro.
- E'... una situazione un po' triste -
- Immaginavo - fece lui - Per distogliere la tua attenzione dalla riunione per la gita deve essere qualcosa di grosso -
- Ah, non fraintendere... ho seguito tutta la conversazione - lo rassicurò lei - Vedo che la montagna è stata l'opzione più gettonata -
Xavier annuì, contemplando la scritta sottolineata alla lavagna.
- Così pare - asserì lui - Te ne dispiace? -
- Assolutamente no! - esclamò Judith - Anzi, piacerebbe moltissimo anche me! Sarebbe... davvero fantastico -
Lui annuì, ma ebbe subito un ripensamento.
Si rese conto che vi era un dettaglio strano in ciò che Judith aveva appena detto.
Si voltò nella sua direzione, rimirandone il volto amareggiato.
- Mh? A cosa... ti riferisci? -
- Alla gita, no? - rispose - Andare tutti assieme in montagna a divertirsi. Sarebbe stupendo, non credi...? -
- Suvvia, partiamo la settimana prossima! - rise lui, carezzandole la spalla - Ne parli come fosse un sogno irrealizzabile -
- Ma lo è. Non ricordi? -
Xavier si bloccò per un istante. Una goccia di sudore fugace gli colò lungo la tempia.
Il tono di Judith si era fatto improvvisamente duro, quasi freddo.
A quel punto era andato ben oltre l'essere strano.
Le scrutò il viso: era spento, privo di energie e colore. Un volto che Judith Flourish non aveva mai indossato, un qualcosa che non le apparteneva.
- ...J-Judith...? Ma che stai...? -
Lei girò il collo di novanta gradi con un movimento rigido, quasi meccanico.
Lo scrutò dritto nell'anima con un'occhiata penetrante.
- ...sono tutti morti per colpa tua, Xavier -
Silenzio.
Lo stomaco del ragazzo si ribaltò. La sua schiena era rigida e il sudore freddo.
Ricordi di realtà differenti iniziarono a mescolarsi tra loro in un vortice confuso e privo di senso logico.
Si alzò di scatto dalla sedia, allontanandosi da quell'automa dalle sembianze di Judith Flourish.
Indietreggiò spaventato fino a che non urtò una sedia, quasi cadendo all'indietro. Provocò un forte rumore.
Si era reso conto solo in quell'attimo di discordanza sonora che il vociare del resto dei compagni era cessato di colpo.
Si girò istintivamente verso sinistra.
Il fiato gli morì in gola.
Dove poco prima si stava consumando una normale e piacevole conversazione era comparso il corpo di Alvin Heartland.
Era seduto a terra, accasciato alla parete, con il corpo pieno di fori di proiettile che grondavano sangue fresco.
Appena di fianco, sul banco, era accasciata Hillary Dedalus. Perdeva sangue da ogni orifizio del volto, e gli occhi erano rossi e gonfi, fissi in un'espressione terrorizzata.
Riuscì a stento a trattenere un conato di vomito, ma distaccò subito la sua mente da quella visione. Si voltò, e tentò di correre via.
A fare da ostacolo vi fu un'altra fila di banchi; Hayley Silver era distesa sopra di essa, perforata da spuntoni in ogni parte del corpo.
A terra, appena sotto, era seduta Refia Bodfield con una freccia ben piantata nell'addome.
Le superò facendo di tutto per non guardarle in volto.
Oltrepassò il corpo di Kevin Claythorne, disteso sul pavimento in mezzo a dei fiori insanguinati, per poi trovarsi di fronte un Pierce Lesdar il cui cadavere era stato misteriosamente cucito alla parete stessa dell'aula. Sulla stessa fila, Vivian e Lawrence erano distesi a terra, l'una sull'altro, ricoperti di cocci di vetro conficcati ovunque.
Corse via, oltre la cattedra dell'insegnante. 
Il cadavere bruciacchiato di Rickard Falls era rimasto lì, steso, con gli occhi ancora spalancati.
Finalmente, riuscì ad arrivare alla porta d'uscita.
Davanti ad essa, quasi come a fare da ostacolo, vi erano distesi Karol Clouds ed Elise Mirondo in posizioni simili.
Il primo aveva la testa aperta sulla fronte, con viscere cerebrali visibili; il collo di lei, invece, era stato quasi reciso da uno squarcio lungo fino al petto.
Chiuse l'occhio in lacrime e corse oltre, gettando disperatamente la mano sulla maniglia della porta e spingendo con ogni briciolo della sua forza.
Era chiusa, sigillata, ma il suo cervello sragionante non se ne curò e continuò a spintonare l'uscita con forti spallate.
- No, NO, NO! FATEMI USCIRE! - gridò a pieni polmoni - FATEMI USCIRE! -
Consumò ogni stilla di energia rimasta per buttare giù quella porta, e quando improvvisamente smise di incontrare resistenza da essa fu troppo tardi.
Spinse a piena forza e si ritrovò fuori, sul corridoio.
Ansimò, e alzò lo sguardo. Si impietrì per l'ennesima volta.
Il corpo di Kristen era stato messo in posizione prona con un coltello ben piantato nella schiena.
Era distesa sulle gambe di Ewan, che presentava uno squarcio alla gola e una miriade di altre ferite sul petto.
Xavier indietreggiò per lo spavento, cadendo all'indietro all'interno della classe. 
La porta gli si chiuse in faccia con un tonfo sordo.
- No... io non... non volevo tutto questo...! - pianse, rimettendosi in piedi - Non volevo che morissero... NON VOLEVO CHE MORISSERO! -
Si strinse tra le proprie braccia tremanti, e rimase immobile. 
Non riuscì a stare in posizione eretta per molto, e crollò in ginocchio.
Si guardò in giro, in mezzo al lago di sangue che era colato per tutta la stanza.
Gli occhi erano offuscati dalle lacrime, ma riusciva a vedere ciò che aveva di fronte.
Qualcuno mancava. 
Ebbe un sussulto.
- ...Judith? ...Pearl? - mormorò - ...June? ...Michael? -
Si alzò in piedi una seconda volta, ancora più a fatica.
Avvertì un sensazione di implosione emotiva, che gli provocò un forte malessere. Digrignò i denti, tenendosi la testa con le mani.
Ebbe come la sensazione di stare per saltare in aria da un momento all'altro.
In preda ad una febbrile follia, lasciò che i suoi polmoni e la sua voce espressero le sue ultime, lucide volontà.
- JUDITH! PEARL! JUNE! MICHAEL! - urlò a squarciagola - RAGAZZI! DOVE SIETE!?
VI PREGO! Vi prego...! Tornate da me... non... non lasciatemi... da solo...!
Non lasciatemi da solo...!
...Non lasciatemi da solo...!
......NON... LASCIATEMI... DA SOLO...!
Vi prego... amici miei...
...
...
...

...Dove...siete...? -
 

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Capitolo 64
*** Capitolo 6 - Parte 9 ***


Michael allungò il braccio per pulirsi le lenti degli occhiali con un lembo della camicia; sudore e sporcizia si erano accumulati sui vetri durante quella estenuante battaglia protratta molto più a lungo delle aspettative.
L'Ultimate Chemist, ancora ansimando per la fatica, si guardò attorno rimirando il campo di battaglia.
Innumerevoli pezzi di Monokuma distrutti e smantellati giacevano lungo tutto il piazzale, imbrattando il pavimento di olio e detriti meccanici.
Artigli e gambe frantumate erano stati gettati ovunque, e le teste mozzate degli orsi avevano perso, se non il loro sguardo inquietante, almeno il loro barlume di vita.
Michael si chinò momentaneamente per recuperare fiato; non aveva più idea di quanto fosse trascorso dall'arrivo dell'orda di Monokuma, ma a quel punto non avrebbe più fatto differenza.
Un senso di sfiancante sconforto lo aveva avvolto nel vedere il loro numero crescere a dismisura, anche quando sembravano essere finiti.
E invece, contro ogni aspettativa, molte altre decine di androidi assetati del loro sangue erano sopraggiunti alla zuffa, giungendo da quella che doveva essere la loro via di fuga.
Il chimico alzò lo sguardo annebbiato dalla stanchezza e guardò in avanti; esattamente di fronte a lui, Pearl Crowngale non aveva ancora smesso di lottare.
La ragazza aveva imbracciato due lame sottili, una per mano, e aveva eretto un fortino di resistenza quasi completamente da sola.
Se vi era qualcosa che aveva sconvolto Michael Schwarz ancora più dell'infinito numero di nemici giunti a reclamare le loro teste era la strenua tenacia mostrata dalla bionda.
Con movimenti secchi e rapidissimi, quasi impercettibili, l'Ultimate Assassin decapitava senza remore ogni orso che le piombava addosso. A Michael sembrò che quelle piccole daghe fossero delle vere e proprie estensioni delle sue mani, e la naturalezza con cui le gestiva e le faceva danzare attorno ai Monokuma avvalorava quella sensazione.
Ogni robot che oltrepassava una certa soglia veniva sminuzzato e ridotto in macerie fumanti; l'impressionante spettacolo era andato avanti per oramai fin troppo tempo.
Michael sapeva benissimo che non sarebbe potuto durare in eterno.
Le riserve di energia di Pearl, per quanto disumane, non erano illimitate. La stanchezza della ragazza si manifestò assieme alle sue prime ferite subite a braccia e gambe, più alcuni taglietti sul petto e sulle ginocchia da parte di alcuni Monokuma particolarmente resilienti.
Anche Pearl aveva cominciato a recuperare fiato, tra un attacco e l'altro; ma il chimico sapeva che quello non era il problema principale.
Lo vedeva nelle movenze della bionda, nei suoi attacchi, nel suo modo di agire: Pearl non aveva abbandonato la posizione iniziale fin dal primo momento.
Si stava palesemente auto limitando, e per un'ottima ragione. Aveva ben tre altre persone a cui badare, alle proprie spalle.
Judith si era appostata appena poco dietro Pearl sotto ordine di quest'ultima: quei pochi Monokuma che riuscivano ad oltrepassare la linea concettuale dettata dal posizionamento dell'Ultimate Assassin, nel tentativo di coglierla alle spalle, veniva opportunamente tranciato dalla sua katana.
I Monokuma più distanti venivano, invece, assaliti da una violenta pioggia di frecce da parte di June.
Appostatasi nelle retrovie, Harrier aveva prestato supporto in ogni modo possibile svuotando rapidamente la sua faretra. Molte teste d'orso erano rotolate con una freccia incastonata nel centro della fronte.
Allo stesso modo, Michael attendeva i gruppi più gremiti di nemici per sorprenderli con alcuni esplosivi di sua invenzione, facendone saltare in aria più di uno alla volta.
Quell'ottimizzazione delle risorse era necessaria, considerando il fatto che le munizioni erano quasi concluse nonostante i preparativi messi a punto dal ragazzo.
Aveva accumulato diversi ordigni chimici, anche più di quanto aveva previsto fossero necessari, ma quella situazione fu capace di aggirare ogni sua aspettativa.
Si tastò le cinture che aveva legato alla vita: non rimanevano che tre bombe. Deglutì.
Era decisamente il momento peggiore per trovarsi a corto di munizioni, poiché i Monokuma sembravano essersi adattati alla situazione.
Fu come se fossero mossi da intelletto, poiché avevano iniziato ad agire in maniera differente, più cauta e pianificata.
Non avevano, però, niente di umano. Nessun tratto che si potesse leggere o interpretare, mosse da poter anticipare.
Attaccavano con la furia di una bestia e la freddezza di un automa; non vi erano muscoli, carne o altri elementi di un nemico organico da cui poter trarre informazioni.
E non era da sottovalutare la loro capacità di pianificazione, seppure fossero macchine.
Era come se capissero che il punto debole dell'Ultimate Assassin erano i tre individui alle sue spalle.
Pian piano, uno alla volta, avevano occupato il perimetro circolare del piazzale guadagnando un vantaggio strategico.
Pearl notò immediatamente quel cambio di manovra offensiva, ma fu restia a lasciare la posizione per impedire loro di circondarli: muoversi da lì voleva dire lasciare scoperte Judith e June, anche se per poco tempo. 
Era un rischio che non si sarebbe concessa. Sospirò: sapeva a cosa sarebbe andata incontro, una volta iniziata quella battaglia.
"...loro tre non sono abituati a combattimenti lunghi" osservò "Sono esausti... ma non posso elargire uno spiraglio al nemico proprio ora..."
Rinsaldò la presa sulle lame e continuò a ridurre il numero di androidi nella speranza di colmare lo svantaggio di numero.
Purtroppo, come anticipato dalle loro peggiori aspettative, non ci volle molto prima che una trentina di Monokuma formassero due file di cerchi concentrici attorno all'intero gruppo.
- ...P-Pearl! - gridò Judith - Ci hanno intrappolato...! Che facciamo!? -
La mente della bionda tentò invano di elaborare una strategia efficace nel poco tempo che i nemici le concedettero; appena pochi istanti dopo, il cerchio iniziò a restringersi.
- Mostri schifosi! - gridò Michael, lanciando una delle tre bombe rimaste verso i pupazzi vicini a lui.
Una detonazione improvvisa disintegrò quasi una decina di Monokuma alla volta; Pearl si voltò di scatto, adocchiando finalmente una possibilità.
La breccia aperta da Michael conduceva direttamente al vialetto per il ristorante. Era un'occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare.
- INDIETRO! CORRETE VERSO MICHAEL...! - gridò a pieni polmoni, cominciando a correre a propria volta.
Nel momento stesso in cui diede le spalle ai Monokuma che aveva di fronte, vide le figure di June e Judith ritrarre le armi e cominciare a muoversi frettolosamente verso la via di fuga.
Ancora una volta, però, troppo tardi.
Il muro di orsi robotici si era già quasi completamente chiuso addosso alle due compagne, e il fatto di avere una scappatoia a portata passò in secondo piano.
Gli occhi di ghiaccio di Pearl osservarono le due ragazze in fuga mentre gli artigli affilati delle mostruosità nemiche erano già quasi alla loro portata.
Il tempo si congelò per un istante: la mente di Pearl elaborò una quantitativo di informazioni elevatissimo, ma ogni calcolo portava alla stessa, inevitabile soluzione.
Dal posto in cui era non sarebbe riuscita a salvarle entrambe.
Avrebbe potuto correre, saltare e utilizzare qualunque strumento o arma; aiutare tutte e due nella stessa frazione di secondo era impossibile anche con la sua velocità.
Incapace di accettare quell'esito si costrinse a cercare una soluzione inesistente, e col cuore incapace di scegliere fu la sua mente a far muovere il suo corpo.
Un'azione dettata unicamente da calcoli e probabilità: Pearl non fu capace di mettere sulla bilancia le vite delle sue compagne.
Scattò; ogni suo muscolo si contrasse in quell'unico, disperato balzo.
Arrivò a lame sguainate e sferzò cinque Monokuma in una sola volta, appena prima che le loro zampe lacerassero il collo di Judith. 
Quest'ultima allungò la spada di lato e ne tranciò altri due mentre si metteva al sicuro.
Ma le gambe di Pearl non si fermarono; mosse più dalla disperazione che da altro, si voltò di spalle sapendo perfettamente che non avrebbe fatto in tempo.
Vide i sei Monokuma avventarsi su un'indifesa Ultimate Archer, il cui arco non avrebbe potuto essere usato come scudo d'emergenza.
Spiccò un altro balzo verso di lei, ma gli occhi della bionda intravidero schizzi di sangue umano ben prima di riuscire anche solo a gridare.
Le mancò il respiro per un attimo, ma non cessò di correre.
Un attimo prima di far piombare la propria furia sul gruppo di bestie senz'anima, il suo sguardo si poggiò sul fianco squarciato dell'Ultimate Chemist mentre rovinava a terra assieme a June, che stringeva tra le proprie braccia.
Non appena avvertì il pavimento sotto il proprio piede, Pearl sferrò un rapidissimo attacco con tutte le proprie energie residue.
I sei nemici vennero tagliati in due parti ciascuno, crollando inerti sul terreno.
- MICHAEL! - gridò June, ancora avvinghiata a lui.
Pearl e Judith non persero nemmeno un secondo di tempo e si fiondarono su di loro, a difenderli.
Le diverse decine di mostri rimasti tentennarono brevemente a vederle a spada tratta, ma ripresero a marciare subito dopo.
Judith lanciò un'occhiata colma di terrore verso i due compagni a terra; June era in lacrime, strattonando Michael e tenendogli la testa con una mano.
Con l'altra stava disperatamente tentando di fermare il sangue che gli sgorgava dal fianco.
Quest'ultimo, invece, aveva un'espressione persa nel vuoto e dolorante; era come se non potesse più distinguere ciò che gli era di fronte.
Mosse debolmente le labbra, esalando qualche respiro affannoso e parole prive di energia.
- ...te l'ho detto... più e più volte... - mormorò - Nel momento in cui... fai qualcosa... per gli altri... è il momento in cui ti scavi... la fossa... -
A quelle parole, socchiuse gli occhi e svenne. Nel momento esatto in cui perse conoscenza, June quasi perse il senno.
Ogni fibra del suo corpo tremò dal terrore, e venne ricoperta da una sensibile pelle d'oca.
- Michael...! Alzati, ti prego...! - implorò l'arciera, estraendo immediatamente uno dei kit medici che portava con sé - Aiutatemi! VI PREGO! -
- Pearl...! Dobbiamo soccorrerlo! SUBITO! - urlò Judith - E' grave! Sta perdendo molto... oh, Cristo... -
Crowngale si ritrovò nuovamente in una situazione controversa.
"...diamine... non abbiamo modo di dargli le cure necessarie... questi stronzi ci saranno addosso in un attimo!"
Ponderò a lungo, ma fu inutile.
Michael era fuori combattimento, e June non era nelle condizioni ideali per combattere né aveva abbastanza frecce rimaste.
Judith le era ancora di fianco, ma oltre alla stanchezza accumulata vi era anche la preoccupazione per il compagno ferito.
Fu in quel momento di estrema crisi che l'assassina notò un dettaglio cruciale; concentrata a tenere d'occhio gli spostamenti dei Monokuma aveva adocchiato una certa riduzione del loro numero apparentemente illimitato. Era la prima volta, dal principio dello scontro, che sembravano essere drasticamente diminuiti.
Alzò lo sguardo e osservò la via di fuga aperta nella parete, dalla quale avevano continuato a giungere senza sosta.
Non vi era nessun altro Monokuma in arrivo da quella direzione: i rumori di passi meccanici che avvertiva erano solo quelli del piazzale.
Una scintilla d'ingegno si accese nel cervello della bionda.
"...che i Monokuma di scorta siano... terminati?"
Era una speranza tenue, ma non inverosimile. Non vi era motivo per non far scendere in campo l'arsenale al completo proprio alla fine.
Seppur piccola, Pearl Crowngale decise di aggrapparsi a quella possibilità con tutta se stessa.
L'Ultimate Assassin socchiuse gli occhi, ed esalò un lungo sospiro.
- Voi due - disse, richiamando June e Judith - Ascoltatemi bene. Non c'è tempo -
Seppure ancora in preda ad ansia e paura, le compagne le diedero immediatamente retta.
- Pearl...? Hai un piano? - domandò June, speranzosa.
- Sì, ma dovete seguirlo alla lettera - continuò lei - Un solo errore e mandiamo tutto a monte. Fine, morte. Game Over. Sono stata chiara? -
- S-sì, fin troppo... - Judith annuì, con terrore crescente - Allora...? C-che cosa dobbiamo fare...? -
I Monokuma erano quasi arrivati fino a loro. Pearl intuì che il loro rallentamento era dettato dal loro numero in ribasso, cosa che li aveva probabilmente portati ad agire con più riguardo della propria situazione.
Pearl non si lasciò sfuggire l'opportunità: si chinò in ginocchio e allungò il braccio sul petto di Michael, estraendone uno dei due esplosivi rimasti.
June lo vide passargli sotto il naso, ed ebbe un tremito.
- Che stai...? Che cosa vuoi fare con quello? - 
- Ragazze... occhi e orecchie su di me - ordinò Pearl - Prendete Michael in due. Non appena lanciò questa granata... dovete correre. Correte senza mai voltarvi, e  dirigetevi verso l'uscita. Niente esitazioni, va bene? -
Judith e June si scambiarono uno sguardo rapido; ad entrambe quel piano suscitò un notevole dubbio.
Era fin troppo strano e poco calcolato, e correre in faccia al nemico nel tentativo di arrivare illesi del lato opposto non sembrava la più brillante delle idee.
Bastò però uno sguardo verso il viso dolorante di Michael per sollevare entrambe da ogni incertezza.
Judith si legò il fodero della spada alla vita e sollevò il chimico dalla spalla sinistra; June accantonò arco e faretra sulla schiena e fece lo stesso dal lato destro.
Si misero in posizione, tenendo Michael saldamente con le loro braccia.
June alzò lo sguardo verso il piccolo esercito di Monokuma rimasti in piedi; era come se le stessero aspettando a braccia aperte e zanne sfoderate.
Deglutì, col cuore palpitante. Girò lievemente il collo verso sinistra, avvicinando la bocca all'orecchio di Michael.
- ...ti porto via da qui - gli sussurrò con un impercettibile filo di voce, scoccandogli un lieve bacio sulla tempia - Non temere -
Pearl caricò la forza nel braccio e si mise in posizione.
- Pronte!? - gridò.
- Pronte! - le voci delle compagne risuonarono come fossero una sola.
Fu tutto ciò che la bionda voleva sentire.
Prese la mira con la massima cura e lanciò l'esplosivo nel pieno centro delle linee nemiche.
Non appena la detonazione ebbe luogo, una densa coltre di fumo nerastro si levò in aria. Diversi arti di Monokuma saltarono via, sfuggendo da ogni parte.
Era il momento di agire.
- ANDATE! VIA, VIA! - urlò Pearl a pieni polmoni.
Judith e June non se lo fecero ripetere e si inoltrarono all'interno della nuvola di fumo, che andava diradandosi rapidamente.
Corsero a testa bassa, utilizzando i bagliori rossastri degli occhi di Monokuma per individuarli ed evitarli.
Nel mentre, dovettero prestare attenzione a non inciampare nei resti degli androidi esplosi e quelli distrutti in precedenza, che erano ammucchiati per tutto il pavimento creando una lunga serie di ostacoli. 
Il timore di June non accennava ad appianarsi, e il suo cuore decelerò solo quando l'Ultimate Lawyer allungò l'unica mano libera per afferrare la sua, tenendola stretta.
Affidandosi al coraggio della compagna, l'arciera pregò affinché ciò che c'era alla fine della nube non fosse solo un'altra delusione e la disfatta.
Fu con sorpresa che notò come, una volta oltrepassato il fumo, non vi fossero altri Monokuma ad attenderle.
Gli occhi di June Harrier brillarono, e le gambe furono percorse da una scarica di adrenalina.
- Ci siamo... siamo oltre! - esultò.
Un brivido piacevole le percorse l'intero corpo, ma l'entusiasmo durò solo fino a che non notò che Judith non lo condivideva.
Flourish, al contrario, aveva un'espressione tutt'altro che gratificata. 
Nel vederla in quello stato, June realizzò a sua volta: non avvertivano nessun altro passo alle loro spalle.
Né dei Monokuma, né di Pearl. Fu li che decisero di trasgredire alle poche regole dettate dall'Ultimate Assassin: si fermarono, e si voltarono.
Una cinquantina di orsi meccanici si erano raggruppati attorno al piazzale, ignorando completamente la loro fuga.
Al centro della massa, Pearl Crowngale li fronteggiava da sola.
Un'espressione di terrore comparve sui volti delle due ragazze nell'istante in cui intuirono a cosa voleva arrivare Pearl.
Ai Monokuma non interessava altro che togliere di mezzo la pedina più scomoda della comitiva; Pearl lo aveva realizzato prima di tutti.
- PEARL! -
- NON FERMATEVI! - urlò lei, in rimando - ANDATE AVANTI E CURATE MICHAEL! -
- Ci stai chiedendo di lasciarti lì!? - si oppose Judith, rifiutando categoricamente l'idea.
- ANDATEVENE, HO DETTO! NON POSSO PROTEGGERVI SE RIMANETE QUI! -
Era una verità che le due ragazze conoscevano benissimo da diverso tempo, ma accettarla si rivelò più difficile del previsto.
Si sentirono un peso, un intralcio, il motivo per cui Pearl aveva avuto così tanta difficoltà a resistere alla furia di quella battaglia.
Il peso del compagno tramortito, inoltre, aggravò ulteriormente il peso sulla loro coscienza, così come velocizzò la loro decisione.
- ...andiamo - mormorò June, con un bruciante senso di sconfitta.
Judith dovette concordare, pur rifiutandone l'idea con ogni frammento della sua anima.
Volsero un ultimo sguardo di gratitudine verso Pearl e corsero via in lacrime, stavolta senza più voltarsi.
- TI ASPETTIAMO IN FONDO! - gridò Judith, dileguandosi assieme a June lungo il largo corridoio oltre il piazzale.
A Pearl Crowngale scappò quasi da ridere a sentire quelle parole in una situazione simile.
"...mi stai affibbiando una bella responsabilità"
Si guardò attorno; non erano rimaste che alcune decine di Monokuma ancora funzionanti, ognuno con uno sguardo scintillante e con gli arti in posizione da combattimento.
Erano affamati di lei, e pur non avendo un'espressione definita le parve quasi di avvertire la voglia convulsa di affondare i denti metallici nella sua carne.
Abbassò la testa, sospirò.
E sorrise.
- ... diamine... che assurda ironia - mormorò, pulendosi sui pantaloni scuri il sangue dalle sue lame smussate - Ho cercato per anni una risposta ad un quesito che  credevo insolvibile... ed era qui, sotto il mio naso -
Il suono delle sue nocche risuonò in mezzo al silenzio della sala. I Monokuma rimasero fermi ad attendere la sua mossa; non parevano intenzionati a lasciarle  un'opportunità di contrattacco. Lei ne approfittò per recuperare fiato.
Non aveva più energie, né forza nelle braccia e nelle gambe. Rimaneva in piedi per inerzia, e la certezza di poter affrontare così tanti nemici da sola era svanita.
In circostanze normali, cinquanta robot sarebbero stati al massimo un esercizio di riscaldamento, per lei; ne aveva già abbattuti a centinaia nel giro di poco più
di una mezz'ora, e cinquanta in più non avrebbero fatto differenza.
Ma il suo corpo si opponeva, la stanchezza la obbligò a vacillare. 
Eppure, Pearl Crowngale non smise di sorridere. Nemmeno per un istante.
- ... spero siate pronti, maledetti. Ho promesso che avrei ucciso il vostro "padrone" per fargli pentire amaramente di aver giocato con la morte, ma ora ho tanti altri giuramenti da mantenere - disse, alzando un coltello al cielo - Vi mostrerò la risposta che ho trovato... per proteggere i miei amici... IO VI UCCIDERO' TUTTI QUANTI! -





Xavier si svegliò di soprassalto; il primo impulso non appena spalancò gli occhi fu quello di rimettersi in piedi, ma non ci riuscì.
Il suo corpo era fiacco e intorpidito, la testa gli bruciava intensamente, e la vista era ancora annebbiata.
Una serie di immagini confuse si ammassarono nel suo cervello, accentuando il suo malessere: sagome indistinte, volti sfuocati e voci acute miste a sussurri.
Per diversi minuti, realtà e immaginazione si mescolarono in un insieme insensato di colori e suoni.
Xavier realizzò che quelle immagini residue non appartenevano ad altro che al sogno dal quale si era appena svegliato.
Ne ricordava poco, ma il sentore di profondo disagio e timore che gli aveva lasciato gli fece intuire che non era stato un sonno piacevole.
Col tempo i pensieri alla rinfusa si riordinarono da soli, e il ragazzo riprese il contatto con la realtà; dopo le facoltà mentali, toccò al corpo.
Mosse un indice, e a seguire tutte le dita della stessa mano; ripresa confidenza con quest'ultima, passò poi al braccio, fino a muovere la spalla.
Provò ad alzare la testa, ma si rivelò un'impresa ancora troppo ardua. Il capo non aveva smesso di dolere, e non accennava a farlo.
Allungò la mano contro la parete, avvertendo la sensazione di metallo freddo al tatto, e si aggrappò ad una sporgenza aiutandosi almeno a mettersi seduto.
Riuscito ad appoggiare la schiena al muro, iniziò a recuperare fiato e a far tornare regolare il proprio respiro.
Il cuore batteva ancora all'impazzata, e una gran quantità di sangue gli stava venendo pompata al cervello.
Si massaggiò la fronte; vi erano ancora diversi dettagli della sua situazione che non erano stati messi in chiaro.
"...dove mi trovo?"
Si guardò attorno: la prima cosa a catturare la sua attenzione fu il grosso trono perlaceo la cui stazza sovrastava qualunque altra cosa nella stanza.
Bastò quello a recuperare un importante ricordo.
- Sonia... - mormorò, con voce stanca.
Passò ad osservare il resto dell'area: era esattamente la stessa in cui ricordava di essere entrato.
Vi erano monitor, apparecchiature sofisticate ed un gran numero di marchingegni di cui difficilmente avrebbe carpito il funzionamento.
Su alcuni degli schermi erano raffigurate le riprese di alcune telecamere di sorveglianza: osservando con più attenzione notò che stavano sorvegliando i corridoi della scuola in cui era stato rinchiuso nell'ultimo mese. 
Vi era anche una ripresa del tribunale e di tutte le aree connesse alle scene dei crimini. 
Un ultimo schermo, separato dagli altri, era stato posizionato proprio di fronte a lui.
Emetteva rumori statici, come se la trasmissione fosse stata interrotta.
La sua mente scattò: ricordò anche quello. Ricordò cos'era che Sonia voleva mostrargli.
La sua testa iniziò a fare più male, a scottare intensamente, come a volere esplodere.
Si portò entrambe le mani alle tempie e si resse lo scalpo a stento.
Dovette attendere diverso tempo prima che il dolore svanisse, la sua lucidità tornasse, ed un pensiero predominante iniziasse a sovrastare prepotentemente gli altri.
"...devo trovarli"
Seppure a fatica, si alzò in piedi. Fece un rapido controllo di tutto il proprio corpo, assicurandosi che non lo tradisse nel momento del bisogno.
Riusciva a muovere braccia e gambe alla perfezione e, al contempo, a mantenere l'equilibrio.
Era trascorso circa un quarto d'ora dal suo risveglio.
"Devo trovarli..."
Mosso da quella febbrile sensazione, iniziò a vagare per la stanza alla ricerca di informazioni.
Scrutò attentamente i monitor della videosorveglianza, scorrendoli rapidamente con lo sguardo.
Passò oltre i laboratori artistici, oltre la serra, senza nemmeno badare alla palestra o l'infermeria.
Vi erano due sole riprese dove accadeva qualcosa di attivo: il suo occhio si poggiò su di esse.
Entrambe raffiguravano ciò che stava accadendo al piazzale dei dormitori da due angolazioni diverse: la sagoma di Pearl spariva e riappariva da uno schermo all'altro, saltando in mezzo a folti gruppi di Monokuma e squartandoli senza pietà con uno sguardo che Xavier nemmeno riconosceva.
"....Pearl" pensò, attribuendo un significato e un'identità a quella parola.
Non vi era traccia degli altri, per quanto cercasse.
L'attenzione di Xavier si concentrò unicamente sull'Ultimate Assassin. Ne rimirò i capelli biondi, gli occhi color ghiaccio, e le ferite che pian piano si accumulavano sul suo corpo a causa dei colpi inferti dai Monokuma. Ne osservò la grazia e la rapidità con cui si destreggiava sul campo di battaglia, eliminando i robot con colpi così rapidi che a stento riusciva a percepirne il movimento.
Ma il ritmo di Pearl Crowngale stava andando sempre più a rallentare, passo dopo passo, colpo dopo colpo. Lesione dopo lesione.
Xavier si voltò di scatto, cercando un'uscita. Il suo corpo e la sua mente concordarono sulla fretta che era necessario avere in quelle circostanze.
"Devo... trovarla" pensò.
L'ingresso dal quale era arrivato era stato sigillato; l'unica altra via di fuga era quella utilizzata da Sonia e il suo alleato.
Il ragazzo realizzò solo in quel momento di non sapere quanto tempo fosse passato, ma la constatazione non ebbe importanza.
Avanzò instancabilmente verso l'uscita, martellando la propria mente con le stesse, identiche parole.
"Devo trovarli... devo trovarli..." respirò affannosamente, iniziando a correre "Presto... PRESTO...!"
Non appena uscì dalla stanza, una voce statica risuonò al suo interno.
Un flebile, debole messaggio dallo schermo statico che gli era stato messo davanti.
Due iridi azzurre distorte e convulse comparvero per un attimo sulla sua superficie, seguite da una breve frase.
- "Vai, Zeno... compi l'atto finale..." - fece la voce dell'Ultimate Princess - "Trovali... destati... e torna da me" -
Ma Xavier non poteva più sentirla.
Stava già correndo verso il piazzale dei dormitori della sede secondaria della Hope's Peak Academy.





June e Judith si trascinarono a fatica lungo il percorso che, aggrappandosi ad un dubbio ottimismo, le avrebbe condotte all'uscita.
Nonostante si trattasse di un tragitto rettilineo, e sostanzialmente privo di ostacoli, vi erano diversi elementi che rendevano la loro fuga più difficoltosa del previsto.
Il peso dell'Ultimate Chemist, aggiunto alla fatica e alla stanchezza derivate dal recente combattimento, le aveva inevitabilmente rallentate.
Michael non aveva ancora smesso di sanguinare e non accennava a riprendere conoscenza; ad acuire i timori di June Harrier nel vederlo ridotto in quello stato vi era un forte senso di colpa. Non solo nell'essersi sentita colpevole delle sue condizioni, ma anche nell'aver dovuto lasciare indietro Pearl.
L'arciera si era morsa il labbro costringendosi ad accettare la scappatoia che la bionda aveva creato per loro, ma non passava attimo che non se ne pentisse.
Era stata innumerevoli volte sul punto di girare i tacchi e tornare indietro, ma le circostanze vollero diversamente.
Osservò il volto di Judith, che la spalleggiava durante la corsa: era un viso segnato dal dolore fisico e mentale, la faccia di chi aveva visto il proprio mondo rivoltarsi contro la normalità e la aveva calpestata ripetutamente.
A June parve di notare in quella ragazza una cocciuta vena di orgoglio che le impediva di mollare; se era per il mero desiderio di sopravvivere o per qualcos'altro, lo ignorava.
Eppure, più la guardava e più si concretizzava il pensiero di non lasciarla da sola, in balia di qualunque cosa vi fosse oltre quella strada.
June Harrier dovette porre la propria fiducia nelle capacità dell'Ultimate Assassin e andare avanti.
Erano passati pochi minuti da quando avevano abbandonato il piazzale con passo zoppicante; il paesaggio, però, aveva già iniziato a cambiare.
Le pareti avevano cambiato colore e materiale, apparendo metalliche e robuste e, a tratti, con chiazze verdastre.
Anche il pavimento era cambiato: era nero come la pece, e lucido. I loro passi rimbombavano emettendo eco metalliche lungo tutta l'area.
Per quanto si trovassero ancora alla Hope's Peak, quel luogo di discostava in maniera eclatante da tutto ciò che rimandava al concetto di un edificio scolastico.
June avvertì una sensazione decisamente poco familiare.
"Ma... dove diavolo si trova questa scuola...!?"
Il pensiero le passò di mente quando udì una debole tosse; si girò di scatto. Michael era allo stremo delle forze, e la ferita non era più nelle condizioni di non essere trattata.
Una gelida ansia avvolse le due ragazze, che si scambiarono un'occhiata di intesa.
Cessarono immediatamente di muoversi e lasciarono che il silenzio confidasse loro alcune preziose informazioni.
Circondate da una totale assenza di rumore poterono udire che non vi erano passi di alcun genere nelle vicinanze.
Non avevano inseguitori alle calcagna.
- ...fermiamoci per un momento - suggerì Judith.
L'arciera non se lo fece ripetere e appoggiò delicatamente Michael contro una parete, tenendogli la schiena dritta.
Mentre estraeva frettolosamente un piccolo kit di primo soccorso, Judith passò a sbottonargli la camicia e a rimuovere i lembi di tessuto rimasti invischiati nei grumi secchi di sangue.
Sfilandoli lentamente provocò una reazione di lancinante dolore sulla faccia del chimico, il quale rimase ancora incosciente.
- Va bene, con calma... - June inspirò profondamente - Passo il disinfettante: tienilo fermo -
Judith fece come richiesto; bloccò entrambe le braccia di Michael con le proprie e fece pressione con la propria fronte sul suo petto.
Ottimizzò le energie per impedire al compagno di muovere inavvertitamente delle zone che avrebbero dovuto rimanere immobili.
June portò la boccetta con l'antisettico ed un panno pulito sulla zona lesa; ebbe una lieve esitazione.
Il fianco di Michael era stato squarciato da tre profonde artigliate che erano penetrate nella carne e la avevano lacerata violentemente.
Non le fu necessario sentire il dolore sulla propria pelle per provare una sensazione di gelido disagio.
Deglutì, e facendosi coraggio iniziò a passare la sostanza sulla ferita ancora aperta.
Come da previsione, fu impossibile per l'Ultimate Chemist resistere alla scarica di dolore.
Judith riuscì a fatica ad evitare che si scatenasse per via della sofferenza, ma ebbe bisogno del sostegno dell'arciera per riuscire nell'impresa.
Furono costrette a ripetere l'azione per tre volte prima che June potesse applicare un bendaggio solido ed efficace.
Dopo qualche altro minuto di sofferenza, il viso di Michael si rasserenò e quest'ultimo si addormentò di colpo.
June Harrier ansimò; il non vederlo più in preda al dolore fu già una piccola conquista, ma l'ansia non se ne sarebbe andata fino a che non lo avrebbe rivisto riaprire gli occhi.
Le due si rivolsero un complice sguardo di compiacimento, che però durò poco. 
La brusca realtà dei fatti tornò a colpirle approfittando di un momento di debolezza; June sospirò amareggiata.
- ...vorrei tornare indietro - ammise l'arciera, appoggiando la nuca alla parete.
Judith non seppe come risponderle. Sapeva che il condividerne la volontà e il dolore non avrebbe aiutato la loro speranza a concretizzarsi.
- ...non possiamo farlo - mormorò - Pearl ci ha dato un'occasione unica per portare in salvo Michael. Non dobbiamo sprecarla -
- Lo so... diamine, lo so! - disse, scalciando l'aria - Ma...! Ma... e se Pearl non ce la facesse...? -
L'Ultimate Lawyer tentennò; sentire June mentre dava voce alle sue paure recondite non le stava giovando.
- Non è una questione che riguarda ciò che Pearl può e non può fare... - asserì Judith - Si riduce tutto a ciò che NOI siamo in grado di compiere. Guardiamo in faccia la realtà, June... siamo deboli. Estremamente, se paragonati a lei. Avrebbe molte più possibilità di cavarsela da sola, piuttosto che con una zavorra come noi... -
June assunse un'aria abbacchiata.
- ...non ci vai per il leggero - 
- Adesso è inutile fantasticare su false speranze... aggrapparci alla possibilità che Pearl possa venire in nostro soccorso o che... che Xavier possa tornare da noi... -
In un istante, June riuscì quasi a percepire tutto il peso che l'animo di Judith stava trascinando con sé; lo intravide in un debole barlume riflesso nei suoi occhi.
Provando empatia per la sua situazione, si rese conto che ogni reclamo contro le sue ragioni sarebbe stato futile.
- Atteniamoci ai fatti: dobbiamo portare Michael all'uscita - esclamò Flourish - Capito? Sei con me? -
- Sì... sì, certamente -
Decretarono la fine della breve pausa.
Si alzarono all'unisono e afferrarono nuovamente il corpo dormiente dell'Ultimate Chemist.
June scacciò via ogni pensiero di troppo dalla mente e concentrò ogni sua energia nella corsa; partì in quarta e prese a marciare di buona lena.
- Allora muoviamoci, forza - disse, appena prima di muovere il primo passo in avanti.
Quest'ultimo non fu seguito da molti altri, poiché l'arciera si ritrovò costretta a fermarsi; aveva incontrato resistenza al movimento.
Uno strattone al braccio le intimò di bloccarsi sul posto. Judith le stava tenendo stretto il braccio e non sembrava intenzionata a mollarlo.
Dapprima confusa, June assistette a quel gesto senza comprendere a cosa fosse dovuto; un'espressione accigliata le comparve in viso.
- Judith...!? Ma che fai? - insistette lei - Sbrigati! Non immobilizzarti di punto in...! -
- Silenzio...! - la zittì rapidamente la compagna.
June fece quasi per replicare, ma intuì che non era il caso. L'espressione di Judith stava ad indicare ben altro che indolenza o mancata voglia di muoversi.
Era preoccupata, quasi spaventata; da cosa, però, ancora non lo sapeva.
Judith alzò l'indice per intimarle di non fare alcun rumore; obbedì istintivamente.
In assenza del loro scalpitare sul pavimento metallico e senza altre interferenze sonore, un rumore nuovo risuonò lungo l'area.
Era abbastanza debole, ma si faceva man mano sempre più intenso.
- ...lo senti? - chiese Judith con un filo di voce. 
L'altra si limitò ad annuire.
Ben presto il suono si fece incredibilmente vicino, quasi fino a divenire una vibrazione.
Il pavimento, infatti iniziò a tremare sensibilmente. Fu lì che le due si accorsero dell'origine di quel frastuono sospetto.
"Dal basso!?"
Alle loro spalle, ad appena due metri di distanza, le placche di metallo che costituivano il terreno si divisero lasciando il posto ad una rientranza.
Le due ragazze rinsaldarono la presa su Michael e indietreggiarono, allontanandosi dal largo foro appena formatosi.
Ebbero un motivo in più per allungare le distanze nell'istante in cui videro un'enorme testa rotonda dal colore bianco e nero e un occhio cremisi spuntare dal pavimento.
Con loro orrenda sorpresa, un Monokuma massiccio alto circa tre metri aveva bloccato la strada dalla quale erano appena giunte; aveva due paia di artigli più piccoli, ma altrettanto taglienti, e una corporatura possente e solida che differiva da quella dei convenzionali Monokuma anche solo a guardarlo.
Le due dovettero concedersi alcuni attimi per assimilare la comparsa di quella mostruosità.
Poi, come una persona sola, si voltarono e presero a fuggire al meglio delle proprie possibilità.
- CORRI! -
I roboanti passi dell'enorme orso riverberarono lungo tutta l'area, rassomiglianti tuoni durante una tempesta.
A grandi falcate, l'androide chiuse rapidamente le distanze dalle due fuggiasche gravemente rallentate dal peso dell'Ultimate Chemist.
June non smise di scappare nemmeno per un momento, ma un'ombra gigante proiettata davanti a lei la costrinse a voltarsi.
Vide con la coda dell'occhio una grossa zampa di Monokuma sfoderare gli artigli e abbattersi su di loro; ebbe appena il tempo di gridare.
- STAI GIU'! -
Spintonò Michael e Judith di lato ed alzò l'arco con l'altro braccio, ponendolo tra gli spuntoni acuminati dell'orso e il proprio collo.
Le prime crepe iniziarono a farsi strada lungo il telaio dell'arco, che sotto un ultimo, possente attacco del nemico finì per spezzarsi in due.
L'arciera capitolò all'indietro, illesa ma disarmata.
Fece per rimettersi in piedi, ma l'orso le sferrò un calcio poderoso al petto, facendola ruzzolare per un metro di distanza.
June tossicchiò dal dolore, ma non perse tempo. Sapeva che ogni secondo passato ad attutire il colpo era un secondo di vantaggio per il nemico.
Si rimise in piedi di scatto e udì un altro suono, stavolta più rapido e secco.
Judith aveva penetrato la spessa pelle gommosa del robot con la sua spada, infilzandogli la coscia e facendolo tentennare appena prima che potesse fiondarsi nuovamente su June.
L'occhio scarlatto dell'orso si illuminò, stavolta in direzione dell'Ultimate Lawyer: aveva cambiato priorità di bersaglio, e non stava mancando di farglielo capire.
- Via, Judith! VIA! - le gridò June.
Un'artigliata partì dalla zampa destra, ma l'avvocatessa fu pronta. Si abbassò rapidamente e rimise le mani sull'elsa della katana, estraendola assieme a chiazze di liquami e di carburante.
Monokuma avanzò passo dopo passo in direzione di Judith, senza concederle il lusso di prendere fiato tra un attacco e l'altro.
Ciò che la ragazza riusciva a schivare lo bloccava con la lama della spada, ma anche indietreggiare o abbandonare la postazione si rivelò una scelta infattibile; ai piedi di Judith giaceva Michael, ancora privo di sensi. La giovane non poteva spostarsi.
June constatò la propria impotenza di fronte alla rottura della sua arma, ma non permise alle circostanze di inibirla del tutto.
A denti serrati e con volto paonazzo, iniziò a correre verso la schiena del mastodontico Monokuma, spiccando poi un balzo.
Allungò entrambe le mani verso la faretra che portava sulla spalla e prese una freccia per ciascuna.
- Bestiaccia! - gridò, conficcando le frecce nel suo corpo in maniera simile ad un coltello - Lasciali stare! -
L'avversario non sembrò aver sentito il colpo, e continuò indisturbato a sferzare Judith.
June Harrier era però solo a metà dell'opera: innalzò il braccio destro, estraendo la freccia, e la piantò in una zona superiore.
Fece lo stesso con l'altra, e iniziò a farsi strada sulla schiena del mostro perforandola periodicamente.
Scie di liquidi verdastri inondavano il suo cammino, che però la portò indisturbata fino al collo che sorreggeva la rubiconda testa del robot.
June serrò i pugni un'ultima volta, caricò le energie, e affondò entrambe le frecce sulla zona superiore della testa.
L'euforia dell'attacco la destabilizzò brevemente, ma sembrava essere andato a segno.
Il Monokuma si era bloccato.
Ansimando, June si sporse in avanti per monitorare la situazione: Judith aveva conficcato la lama nella zampa destra, impalandola.
Il resto del corpo dell'androide rimase inerte.
June respirò a fatica, ma con un sorriso compiaciuto sul volto. Il momento di trionfo durò per pochi istanti, però; fino al momento in cui uno sbuffo di vapore bollente venne rilasciato dalle narici di Monokuma e una scarica elettrica non si disperse nell'aria. 
Era tornato in funzione, e l'occhio rosso emanò un bagliore sospetto.
- M-merda...! E' ancora vivo! -
La zampa lesa si mosse repentinamente verso l'alto, attentando alla vita dell'arciera. Quest'ultima, completamente indifesa, si portò le braccia a protezione del collo in un disperato tentativo.
Judith Flourish, ancora una volta, fu più rapida. Con un colpo secco, recise la sezione acuminata della zampa in modo da renderla temporaneamente inoffensiva.
Un braccio sprovvisto di mano arrivò fino all'Ultimate Archer, che con un grido sbigottito sentì tutta la vita passarsi davanti.
Chiuse gli occhi dallo spavento, ma li riaprì non appena notò la porzione mancante all'estremità del braccio. Il segno del passaggio della spada era più che evidente.
Non appena il cuore le tornò ad un battito più regolare, June si portò in avanti.
- J-Judith...! - balbettò in preda al terrore - G-grazie! Tu stai ben-...!? -
Avvertì uno spostamento d'aria dalla parte opposta; un movimento possente, ma rapido.
La colossale zampa sinistra di Monokuma, ancora integra, si mosse con un movimento circolare ad alta velocità.
Tutto ciò che gli occhi di June furono capaci di recepire di quella mossa fu il clangore degli artigli di Monokuma che si abbattevano sul viso di Judith, colpendola in piena faccia.
Uno schizzo di sangue volò verso di lei, bagnandole i vestiti; June osservò con orrore il corpo dell'amica venire sollevato dalla forza dell'attacco per poi volare ad alcuni metri di distanza sulla destra, rovinando poi al suolo. La spada andò distrutta, e Judith Flourish non si mosse più.
Per June Harrier, il mondo sembrò improvvisamente essersi messo sottosopra.
Una scarica di adrenalina bollente le invase ogni arto del corpo, facendole bruciare i muscoli e le articolazioni.
La mani strinsero così forte le frecce al punto da piegarle con la sola forza bruta.
Alzò entrambi i gomiti al cielo, e li abbassò con la rapidità di un fulmine.
- MALEDETTO... SCHIFOSISSIMO FIGLIO DI PUTTANA! -
Le due frecce perforarono l'intera cavità del cervello del Monokuma, il quale iniziò immediatamente a presentare sintomi di malfunzionamento. L'Ultimate Archer non era che all'inizio.
Estrasse le frecce e colpì una seconda volta, e poi una terza, amplificandone la ferocia e l'impatto.
Continuò ancora e ancora, riducendo la testa del nemico ad una poltiglia fumante e secernente olio e combustibile.
Picchiò così duramente che le stesse frecce di spezzarono definitivamente, e a quel punto proseguì a colpire con i pugni e le nocche fino a sbucciarsi entrambi.
Quando il volto del robot fu irriconoscibile, l'enorme mole del suo corpo precipitò al suono con un tonfo rimbombante.
Anche allora, la furia di June non fu capace di estinguersi.
Andò avanti a fracassare il cadavere dell'orso fino a che non gli ebbe staccato le giunture degli arti a suon di pugni e calci.
Afferrò infine l'estremità dell'elsa della katana e iniziò a piantarla ferocemente sul corpo sezionato dell'androide, costellandolo di fori e lacerazioni.
L'ira dell'arciera parve placarsi solo nel preciso istante in cui ogni singola scintilla elettrica scaturita dal robot non ebbe cessato di scoppiettare.
La mano di June lasciò andare il manico della spada, che cadde al suolo producendo una eco distante.
Tutto ciò che le sue orecchie udivano, però, era il suono del suo cuore scalpitante e del suo respiro attraverso i polmoni contratti e affaticati.
Cadde in ginocchio, pulendosi con un lembo pulito della felpa la faccia ricoperta di sangue, sporcizia e lacrime.
Con le ultime energie rimaste, si recò da Michael e se lo caricò sulla schiena: se lo trascinò a fatica fino al punto in cui Judith era stata scaraventata e dal quale non si era ancora mossa.
- J-Judith... Judith...! - la chiamò lei - Rispondimi, ti scongiuro...! -
Allungò la mano verso la sua testa e la voltò verso di sé: tre enormi segni di artiglio le avevano sfigurato la sezione destra del viso, lasciando ferite permanenti.
Una di queste correva dalla fronte allo zigomo, passando per l'occhio. Fiotti di sangue ancora freschi uscivano dagli squarci, sporcando di rosso il candido biancore del fermaglio floreale.
- Santo cielo... - mormorò June, afferrando d'istinto il kit medico che teneva ancora con sé.
Passò un panno sterilizzato e del disinfettante su tutta la faccia: immaginò soltanto il dolore che avrebbe provato la compagna se fosse stata cosciente, e fu grata di non dover assistere ad una scena simile.
Le bendò metà della testa pregando che le ferite non si fossero già infettate, ma contava sulle proprie abilità di soccorso più di quanto non dava a vedere.
Rimaneva solo un ultimo, grosso ostacolo.
"...tranquilli, ragazzi" inspirò profondamente "Vi porto via da qui"
Rinsaldò la presa su Michael, afferrandolo con entrambe le braccia, mentre si caricava Judith sulla schiena.
Il peso eccessivo era dilaniante per le sue condizioni, ma l'Ultimate Archer pregò affinché quell'ultima fatica potesse condurli alla salvezza.
Ogni passo le gravò sul corpo come una massa di tonnellate; eppure, seppure con estrema lentezza, portò avanti il proprio cammino con dedizione incrollabile.
Un passo alla volta, grondante sudore e lacrime, la solitaria June Harrier si trascinò lungo il corridoio di metallo con il silenzio e il dolore come unica compagnia.

 

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Capitolo 65
*** Capitolo 6 - Parte 10 ***


Le orecchie di Pearl captarono un ronzio crepitante alla propria sinistra, che immediatamente la mise in allarme.
Girò lentamente il collo, trascinando la testa per inerzia con le poche energie residue: il rumore sospetto veniva dalla testa mozzata di un Monokuma atterrato poco distante.
Lo scoppiettio elettrico era emesso da alcuni cavi recisi che sbucavano dall'estremità recisa del collo, emettendo lievi scossette che ne testimoniavano gli ultimi istanti di vita.
L'occhio rosso della metà nera del robot non aveva ancora cessato di brillare; a Pearl parve quasi che l'androide stesse cercando in tutti i modi di portare a termine il compito che gli era stato dato. Che stesse tentando di raggiungerla e ucciderla con gli arti di cui era sprovvisto con maniacale senso del dovere.
Per un istante, Pearl Crowngale parve quasi rispecchiarsi in quel cumulo di rottami oramai destinato allo spegnimento definitivo.
Con un ultimo fragore di scintille, la poca energia che alimentava il Monokuma si estinse, e lui con essa.
L'occhio scarlatto si spense, e cessò ogni rumore. Non solo dal robot, ma dall'intero piazzale.
Non un solo rumore, né una voce; solo l'ansimante respiro dell'Ultimate Assassin, distesa a terra con braccia e gambe divaricate e distese in un fiumiciattolo di sangue.
Rantolò gravemente, coi polmoni avidi di ossigeno, mentre gli occhi erano fissi in un punto vuoto sul soffitto perlaceo.
Ogni fibra del suo cervello era così occupata a recuperare le forze che fu a malapena in grado di comporre un pensiero concreto.
La punta delle sue dita sfioravano le lame smussate che aveva brandito fino a quel momento; ve ne erano a decine, sparse per quello che era un campo di battaglia.
Il piazzale dei dormitori era ricoperto di carcasse di Monokuma, sparpagliate in ogni angolino e ridotti a mucchi di metallo impilati tra loro, alcuni ancora fumanti.
La maggior parte degli androidi distrutti non aveva più la sommità del capo; ogni decapitazione era stata portata a termine con sveltezza, e a nessuno sembrava essere stato concesso un trattamento di favore. I Monokuma nelle migliori condizioni avevano un largo foro al centro della fronte, segno che qualcosa li aveva ferocemente infilzati con un singolo colpo preciso e pulito.
Altri ancora, invece, presentavano ferite di graffi e artigli; un gran numero di braccia dei vari pupazzi erano state staccate e utilizzate come armi di fortuna per lacerare i propri simili in una manovra di spietata efferatezza e crudele ironia.
Eppure, gli artigli dei Monokuma distrutti non erano macchiati soltanto di liquami chimici e olio; molti di essi erano intrisi di grumi di sangue.
In mezzo a quella che poteva sembrare una discarica, ma che ad un attento sguardo era molto più simile ad un cimitero di guerra a cielo aperto, giaceva esausta una Pearl Crowngale ricoperta di ferite su ogni parte del corpo.
Le braccia e le gambe presentavano tagli di ogni spessore e profondità, così come anche i fianchi e il petto. 
La schiena aveva un unico, lungo squarcio verticale che le bruciava da morire, ma i sensi obnubilati dal dolore erano a stento in grado di percepire tutto ciò.
Lì, in mezzo ad un laghetto sanguigno prodotto da lei stessa, giaceva inerte e circondata da numerose montagne di rottami appartenenti ad oltre due centinaia di orsi robotici.
Il silenzio e la pace di quel luogo si contrapponevano fortemente all'immagine visiva della situazione: a Pearl quel residuo di massacro parve familiare, ma al contempo aveva un sapore nuovo, del tutto diverso. In mezzo alla gola raschiata dallo sforzo, con le papille gustative affogate nel ferro, vi era un gusto di fresca soddisfazione.
Pearl Crowngale tossicchiò del sangue, sorridendo. Era simile a ciò che aveva sempre vissuto, ma completamente diverso.
Le fu difficile paragonare quell'atto ad un'uccisione: sterminare degli androidi sprovvisti di anima non avrebbe mai potuto stare sullo stesso piatto della bilancia del togliere la vita ad un uomo, nemmeno dopo averne eliminati a centinaia.
Non aveva ucciso nessuno, non si era macchiata di alcun sangue che non fosse il proprio.
Eppure, stranamente, Pearl realizzò di aver utilizzato per la prima volta il proprio talento con uno scopo più soddisfacente.
Un fine più reale, personale. Indipendente.
Stremata e ridotta in fin di vita, con gli organi interni affaticati e i muscoli che quasi le bruciavano, sentì il proprio animo colmarsi di un fresco leggero e piacevole.
"... ironico" pensò, con una punta di soddisfazione "... uscire di scena in questo modo... è una strana sensazione"
Provò a chiudere e ad aprire le dita di una mano. Non ci riuscì. A malapena fu capace di comprendere a quale mano stava esattamente impartendo l'ordine.
Il calore del suo sangue si tramutò in freddo, e poi rapidamente in gelo.
Il suo sorriso divenne più flebile.
"... ce l'avranno fatta a fuggire? Chissà...? Spero con tutto il cuore che... riescano a scappare da qui" pregò lei, socchiudendo gli occhi "Mi chiedo se... questa
mia realizzazione... permetterà loro di sopravvivere? Se, dopo una vita passata ad uccidere, io sia riuscita finalmente a... salvare qualcuno? Buffo... forse la cosa che mi lascia più amareggiata... è il non poterlo scoprire da me...
"
Il torpore della sua mente andò ad appesantirla, minuto dopo minuto.
Impose una strenua resistenza pur di non addormentarsi, ma la difficoltà nel mantenersi attiva e lucida crebbe in maniera graduale.
Fu quando fu in procinto di svenire che il suo cervello si ridestò all'improvviso, recependo qualcosa di inaspettato.
Un rumore.
Pearl riaprì gli occhi di scatto. Attenuò il respiro, permettendo alle sue orecchie di discernere correttamente ciò che aveva appena udito.
Lo sentì di nuovo; debole, lento, ma cadenzato.
Lo udì ancora e ancora, per diverse volte. Solo alla fine ne fu certa: era un suono di passi.
Ipotizzò inizialmente che potesse trattarsi di un fortunato Monokuma scampato alla sua ira, ma scartò rapidamente l'idea.
Era certa di essere stata rigorosa e metodica nell'eliminare ogni minaccia.
Inoltre, quei passi presentavano il distinto suono delle suole di scarpe, che si facevano largo tra i rottami sparpagliati lungo il piazzale.
Sentì numerose carcasse e resti meccanici venire scansati via al suo passaggio.
Ad un certo punto il rumore si fece così vicino che la ragazza fu in grado di avvertirne la presenza. I passi si arrestarono.
La luce proveniente dalle lampade incastonate nel soffitto venne offuscata dall'arrivo di una sagoma umana che torreggiò sopra il suo corpo martoriato.
Pearl aguzzò la vista appannata cercando di distinguere a chi appartenesse quel profilo.
Un rapido sguardo ai capelli corvini, ai vestiti e alla cicatrice che gli rigava il volto pallido, e non ebbe più dubbi su chi potesse trattarsi.
L'unico, in effetti, che si aspettava potesse comparire in una situazione simile.
Pearl gli rimirò il volto, provando un peculiare misto di emozioni e sensazioni disparate.
Alla fine, gli sorrise caldamente.
- ... sei tu - mormorò, con un tono dolce - Ci stavamo tutti chiedendo... dove fossi finito -
Il ragazzo si chinò in ginocchio senza dire una parola. 
Pearl lo osservò più da vicino; anche con la vista indebolita e gli occhi che a malapena distinguevano ciò che aveva intorno fu impossibile non accertarsi della sua identità.
Ogni minimo dubbio che poteva essersi creato fu fugato.
- ... non so cosa ti sia passato per la testa - fece lei, con un filo di voce - ... ma voglio credere che avessi i tuoi motivi... ti sembrerà... assurdo, ma... -
La frase le si interruppe: tossì violentemente un fiotto di sangue, che macchio la giacca di lui.
Senza nemmeno battere ciglio, Xavier allungò la mano verso il basso.
Appena smise di tossire, Pearl avvertì il lieve e gentile tocco delle sue dita sulla chioma bionda. La mano di Xavier le carezzò il collo e lo sollevò delicatamente verso l'alto, elevandone la postura. Pearl sentì il suo braccio reggerle la schiena, e la mano aggrappata saldamente alla propria spalla.
La ragazza si sentì cullare da quella stretta e provò l'istintivo impulso di lasciarsi andare; appoggiò la tempia al suo petto, affondando la guancia nella sua maglietta.
- ... sono felice di rivederti -
Ad un certo punto, appena prima di sentire la testa e i pensieri vorticare nella propria mente un'ultima volta, Pearl sentì un'ultima sensazione di calore al viso.
Aveva cominciato a piangere, ma non era certa del motivo.
Lacrime iniziarono a sgorgare dai suoi occhi, e attribuì inizialmente quell'atto all'ennesima disfunzione del proprio corpo martoriato.
Ma così non era, e Pearl Crowngale lo sapeva bene. Aveva assaporato una moltitudine di sensazioni nuove e particolari nel corso di quel mese, ed aveva iniziato a comprendere a cosa fossero dovute. Forse una necessità del suo animo, forse un semplice sfogo.
Qualunque cosa fosse, quel pianto stava divampando da un recesso del suo ego che non ne poteva più di tacere.
- ...dimmi, Xavier... credi che ne abbia il diritto...? - mormorò, con la voce soffocata dal pianto - Credi che una come me, dopo aver ucciso un'infinità di gente... credi che una persona simile abbia il diritto di dire "non voglio morire"...? -
Silenzio.
Le sembrò quasi di udire una risposta, ma non fu in grado di comprenderla.
Le palpebre si appesantirono, e il mondo venne ricoperto dall'oscurità.
Assieme ad alcune parole confuse, Pearl Crowngale avvertì un'improvvisa sensazione di leggerezza, come se fosse appena stata sollevata in aria.
Una brezza le attraversò il volto, cullandola mentre il suo ultimo barlume di lucidità venne meno, e perse conoscenza.





- Un passo... alla volta -
June Harrier mormorò insistentemente a se stessa quella breve frase per indursi a proseguire il cammino ignorando la fatica.
Tentò di convincere il proprio cervello che poteva farcela; che la costanza e una buona dose di testardaggine la avrebbero aiutata ad arrivare alla fine nonostante tutto.
Finì per ripetersela così tante volte che riuscì quasi a convincersi; ingannare se stessa le risultò più facile dato che la sua mente non aveva energie residue sufficienti per mettersi a pensare. 
Ignorando qualunque altro pensiero, June continuò a camminare senza mai permettere alle sue gambe di fermarsi, anche con un'andatura lenta e barcollante.
- ... un passo... alla volta - ansimò.
Il peso di Judith, per quanto esiguo, stava iniziando a ledere lentamente la forza delle sue spalle.
La aveva trasportata sobbarcandosela sulla schiena per oramai diverso tempo, reggendole la coscia sinistra con un braccio e tenendo saldamente Michael con l'altro.
Trascinare l'Ultimate Chemist si era rivelata l'impresa più ardua.
Aveva tenuto rigido il braccio destro per riuscire a mantenerlo contando solo sulla propria forza, e di conseguenza quest'ultimo si era quasi paralizzato per via dello sforzo.
Andando avanti per pura inerzia, la ragazza non sapeva fino a quando avrebbe retto e fino a che punto il suo corpo avrebbe assecondato quella bugia a cui June lo aveva assoggettato.
Erano passati venti minuti dall'incontro con il Monokuma dalle enormi proporzioni; il volto dell'arciera era madido di sudore, e avvertì un liquido più denso scenderle lungo il viso.
Voltò leggermente il capo; il bendaggio di fortuna che aveva composto per il viso di Judith aveva retto ancor meno delle aspettative, e un rivolo di sangue le stava colando dalla faccia appoggiata a quella di June.
Quella sensazione di calore fece accelerare il battito cardiaco di June; non aveva più molto tempo a disposizione, e tutto il suo corpo recepì quella informazione.
Si girò rapidamente, osservando con la coda dell'occhio qualora fossero giunti degli inseguitori.
Fu quando sospinse ulteriormente le proprie gambe ad accelerare che consumò quel poco di energia che continuava a farla camminare imperterrita.
Avvertì un mancamento alle caviglie, che poi si diffuse fino alle ginocchia.
Il primo istinto fu di gettarsi di spalle per attutire l'impatto da caduta, ma entrambe erano occupate da uno dei suoi compagni.
Nel momento in cui lo realizzò, era già caduta al suolo di petto, rovinando assieme agli altri due.
Sbatté la guancia con violenza, avvertendo un lievissimo gusto di sangue in bocca; una gengiva sembrava essersi lesionata.
Un forte bruciore ai talloni e alle spalle le fece comprendere quali porzioni del proprio corpo aveva spinto oltre il limite e che, probabilmente, non avrebbe più potuto sfruttare per un po'.
Rimase stesa con la faccia a terra per un periodo di tempo indefinito, pregando affinché nessuno li trovasse; sperando che il cielo le concedesse altro tempo, altre possibilità.
Pur avvertendo dolore e stanchezza ovunque, June non poté fare a meno di considerare che ogni secondo trascorso in quello stato era un'occasione in più per il nemico di coglierli alla sprovvista; non seppe se fu l'urgenza o il semplice e puro terrore a sospingerla, ma June Harrier si sollevò da terra con l'uso dei gomiti e si mise in ginocchio.
Annaspò ancora, sputando a terra un grumo di saliva rossastra.
Allargò i polmoni per permetterle di inspirare quanta più aria possibile.
Allungò il braccio destro e raggiunse la camicia di Michael, riuscendo ad afferrarla solo al terzo tentativo.
Con le dita sudaticce e prive di energia, lo trainò a sé e lo accostò al proprio fianco.
Facendo leva con l'altra mano afferrò Judith per il colletto e la portò a sé.
Li strinse entrambi alla vita, iniziando a trascinarli lungo il pavimento liscio e metallico.
- ... un passo alla volta... - insistette lei.
Martellandosi con l'idea che, ad un certo punto, i passi da muovere sarebbero necessariamente terminati, June impiegò tutta la forza delle sue ginocchia in quel faticoso sprint.
In un minuto intero riuscì a percorrere appena cinque metri.
Alzò lo sguardo affranto, pregando affinché quel corridoio apparentemente infinito giungesse finalmente al termine, così come le proprie fatiche.
Che quella maratona contro il tempo non dovesse dilungarsi oltre, e che per la prima volta in oltre un mese i suoi sforzi potessero essere ricompensati.
Strizzò le palpebre, gettando un'occhiata lungo il sentiero.
Ebbe un sussulto.
Si stropicciò momentaneamente gli occhi, credendo di avere avuto una vana illusione; ma così non era.
Allungando lo sguardo intravide, alla fine della strada, una solida porta metallica che ricopriva buona parte della parete.
Era il culmine della fuga, l'arrivo.
La vista era annebbiata e confusa, ma l'obiettivo non era mai stato così nitido.
Avrebbe potuto esserci qualunque cosa oltre quel robusto portone, e June Harrier seppe di doverlo scoprire a prescindere da ciò che sarebbe accaduto.
Di scelta non ne aveva.
- ...un passo alla volta! - gridò, con voce strozzata e i denti serrati.
Poggiò la pianta del piede destro a terra e la usò per darsi la forza di sollevare anche l'altro.
L'avere una meta delineata e, soprattutto, bene in vista le elargì una forte scarica di adrenalina.
Intravide in quella destinazione la fine di quella mostruosa fatica, nel bene e nel male che avrebbe potuto trovarvi al suo interno.
Mosse passi larghi, ampi, tenendo stretta a sé i compagni con ogni briciolo di energia, serrando le unghie nei loro vestiti per fare presa.
Non seppe quanto tempo passò, poiché la sua mente settò come unico bisogno il completamento di quell'ultima parte del percorso.
Lasciò perdere ogni dolore e ogni piaga per dedicarsi unicamente a ciò che aveva di fronte; avrebbe scontato quel debito con sé stessa in un secondo momento.
Fu solo quando giunse al traguardo che fu capace di lasciare andare Judith e Michael, lasciandoli momentaneamente accasciati sul pavimento.
June mostrò un sorriso storto; zoppicò fino al portone in ferro, che da vicino le si mostrò molto più resiliente di quanto non apparisse di primo acchito.
Lo squadrò da cima a fondo: non aveva una maniglia, bensì una manovella circolare che ne regolava l'apertura.
Sopra di esso vi era una targhetta, anch'essa in metallo, con sopra un'iscrizione ben chiara.
"Cabina di espulsione d'emergenza. Capienza massima: nove persone"
June lesse quella frase una seconda volta; non era sicura di carpirne il senso pienamente, ma di una cosa fu certa: era un mezzo di fuga.
O, almeno, era stato mascherato da tale.
Sbuffò da entrambe le narici; si tirò le maniche della felpa sudata e sporca e pose entrambe le mani sulla manopola rotonda.
Fu necessario un ultimo, grande sforzo.
Avvertì i palmi delle mani sbucciarsi, grattando contro la superficie della manovella, opponendosi all'inerzia del congegno.
Con un cigolio rumorosissimo, e facendo ricorso al proprio peso per aiutare lo spostamento, anche l'ultimo ostacolo fu neutralizzato.
Si passò un lembo della felpa sulla fronte, rantolando con un fare quasi euforico.
La porta si lasciò aprire con una notevole facilità, inequivocabile prova del suo successo.
- ...andiamo! - esclamò, afferrando nuovamente i compagni.
Spinse il portello con il piede e si trascinò all'interno quanto più velocemente possibile.
Colmò il suo cuore di speranza e spalancò gli occhi, preparandosi a tutto ciò che avrebbe trovato.
L'interno della stanza si rivelò atipico: era una cabina circolare piuttosto spaziosa e dalle pareti giallognole.
Su quasi ogni lato erano state posizionate delle console tecnologiche con una miriade di pulsanti, leve ed indicatori lampeggianti.
June ne osservò l'intricato sistema perfettamente operativo: quel posto era in funzione.
Ma vi fu qualcos'altro che catturò la sua attenzione.
Appoggiò Judith sul pavimento, e Michael poco distante.
Mosse brevi passi tentennanti verso la strumentazione di fronte a lei: vi era quello che sembrava essere il volante di un auto.
Ancora oltre, a ricoprire l'intera parete, vi era una vetrata: fu la prima volta in un lungo periodo di tempo che a June Harrier fu concesso di vedere l'esterno.
Aveva quasi dato per scontato il trovarsi perennemente rinchiusa in un edificio, aveva dimenticato la sensazione del vento tra i capelli, del sole sulla faccia, dell'erba tra i piedi.
Erano tutti sentori misti a ricordi violentemente soppiantati dalla necessità di sopravvivere.
Oltre quel vetro, però, vi era l'esterno; June si avvicinò a quella finestra che dava sulla libertà inebriandosi del colore blu che la permeava.
Realizzò solo allora la verità: non era un colore familiare. 
Non era il blu di un cielo notturno, né si avvicinava alla sua immagine.
Era un colore scuro, denso, che ricopriva ogni cosa. Un blu che inglobava il mondo intero in una spira di oscurità.
Solo a vederlo, June fu percorsa da un gelo terrificante.
Rimirò quel tenebroso panorama di infinito indaco che le si parava prepotentemente davanti: le luci provenienti dalla cabina illuminavano parte dell'area, rivelando alcuni elementi distinti nei paraggi: rocce, enormi scogli ammassati tra loro, muschio e alghe che le ricoprivano, alcune piccole bolle d'aria che risalivano verso l'alto.
Incrociò addirittura gli occhi di una creatura marina che pigramente le nuotò davanti lo sguardo allibito.
Alzò lo sguardo, e non vide la superficie.
June cadde in ginocchio, abbandonando la schiena esausta al muro della scialuppa.
- ... questo è il mare... - mormorò, vinta da stupore e paura - ... siamo nelle profondità... del fottutissimo oceano... -
Rimase immobile a fissare il vuoto con aria persa e occhi contemplativi, seppure svuotati di luce.
Realizzò molte delle cose che era stata solita domandarsi nel corso della sua permanenza in quel posto: i soccorsi mai arrivati, il mistero di come erano stati portati in quella sedicente scuola, e persino la forma e la struttura interna dei due piani della Hope's Peak.
Tutto assumeva un senso nuovo alla luce di quella informazione, così come anche quell'ultimo tranello.
June Harrier si ritrovò nella situazione dove l'unica via di fuga era attraverso un piccolo sommergibile che non era neppure capace di guidare.
Era stata messa davanti all'uscita, ma con nessun mezzo per oltrepassarla.
La disperazione attecchì velocemente; si portò il viso alle ginocchia soffocando urla e imprecazioni.
Pianse qualche lacrima amara, vinta dall'avvilimento e da un bruciante senso di sconfitta.
In quel momento di totale perdizione, avvertì qualcosa.
Un suono trascinato, forse uno stridio.
Scostò il viso dalla gonna inzuppata e scattò in piedi, respirando con affanno; il proprio strepitare le aveva impedito di udire ciò che stava accadendo.
Il cigolio sinistro proveniva dalla porta dalla quale era appena entrata, e ad accompagnarlo vi era un rumore di passi.
June non perse tempo; scavalcò rapidamente Judith e si piazzò davanti a lei. Si accovacciò su Michael e affondò una mano tra i suoi vestiti, sperando di trovarla ancora lì.
L'ultima bomba di Michael era ancora attaccata ad una delle sue cinture.
La afferrò immantinente e la strinse tra le dita; qualunque cosa la stesse per raggiungere non la avrebbe trovata impreparata.
"... avanti, venite pure a prendermi..." pensò, col sangue in ebollizione "Non andrò giù senza portarvi con me...!"
Attese fino all'ultimo istante, fino a quando il portone non fu completamente aperto.
Intravide l'ombra di una sagoma oltrepassare la soglia; la sua mano ebbe l'impulso di muoversi e lanciare l'esplosivo non appena il bersaglio fosse a portata.
I nervi del braccio erano tesi e pronti ad agire. Udì un ultimo passo.
Fu solo alla fine che June riuscì tempestivamente a frenare quell'impulso prorompente, quell'impetuoso stimolo che le urlava di scagliare l'arma.
Il profilo davanti a lei si rivelò appartenente ad una persona dall'aspetto familiare.
Un ragazzo dai capelli corvini e un occhio sfregiato le si parò davanti, assistendo alla figura di June Harrier che lentamente si afflosciava al pavimento, esterrefatta.
L'Ultimate Archer balbettò qualche frase sconnessa, impietrita.
Lentamente, abbassò il braccio.
- ... Xavier...? -
 

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Capitolo 66
*** Capitolo 6 - Ultima Parte ***


Il risveglio di Michael Schwarz fu accompagnato da un forte malessere al cranio ed una lacerante fitta al fianco; un amaro risveglio, ma il chimico realizzò immediatamente che il solo fatto di aver aperto gli occhi, ripercorrendo i suoi ultimi ricordi lucidi, era un segnale positivo.
Girò lentamente lo sguardo, cercando inutilmente di distinguere i dintorni; i suoi occhiali non erano al loro posto, e anche ispezionando a tentoni con la mano non riuscì a recuperarli.
Maledisse la sua scarsa vista e tentò di utilizzare un altro tipo di approccio: decise di indagare sulla propria situazione andando per gradi.
Si rese conto di essere steso sul pavimento, supino e con la testa poggiata su un corpo morbido, probabilmente di tessuto, che fungeva probabilmente da cuscino.
Ancora non aveva un quadro preciso di come fosse finito lì, e soprattutto a causa di chi o cosa; il primo istinto fu di non fare alcun rumore.
Trovandosi nel dubbio, era da sempre abitudine dell'Ultimate Chemist di partire dai presupposti peggiori.
Di suoni ve ne erano davvero pochi: al massimo qualche cigolio, più un ricorrente rumore meccanico che andava avanti con insistenza.
Annusò l'aria, storcendo vagamente il naso; vi era odore di metallo e macchinari, più un peculiare olezzo salino dalla provenienza sconosciuta.
Troppe informazioni non collocabili non provocarono in Michael un miglioramento d'umore.
L'unico modo per capire ciò che stava accadendo era in modo diretto, coi propri occhi.
Non cessò di esercitare la dovuta cautela; la sua prima mossa fu di girare lentamente il collo verso destra.
Adocchiò una parete lunga e circolare con un portone metallico sigillato. Senza le lenti gli era impossibile scorgere i dettagli, ma la mole dell'ingresso era abbastanza grossa da poter essere percepita. 
Un altro elemento importante catturò la sua attenzione: una sagoma umana seduta sul pavimento, con la schiena rivolta contro il muro.
Michael aguzzò la vista e si concentrò sui dettagli peculiari; vi era un fitto bendaggio che ricopriva metà del volto della persona, ma i vestiti blu e il fermaglio bianco ne rivelarono l'identità in modo esplicito: era Judith.
Che fosse addormentata, svenuta, o addirittura in una circostanza peggiore, lo ignorava. Tutto ciò che Michael fu in grado di vedere era che non fosse cosciente.
La sensazione sgradevole che lo perseguitava non accennò a diminuire d'intensità.
Michael alzò poi lo sguardo verso il soffitto; vi erano diverse piccole lampade a muro che fornivano un'illuminazione completa, ma nient'altro che catturasse il suo interesse.
Finì col muovere il collo in direzione opposta a quella di Judith, in modo da avere un quadro completo dei paraggi.
Non appena lo fece, ebbe un repentino colpo al cuore.
Ad appena due metri da lui, sul lato sinistro, June Harrier era appoggiata con la testa su un ripiano metallico, profondamente addormentata.
Aveva le nocche sbucciate, la felpa e le gambe piene di tagli, e sangue riversato su tutto il volto e i vestiti.
Ciocche dei capelli slegati le cadevano lungo le spalle coprendole parte del viso con una matassa disordinata.
Teneva entrambe le braccia stretta alla vita e le gambe rannicchiate su se stesse.
Il primo impulso di Michael fu di alzarsi in piedi e correre a verificare che stesse bene, ma qualcosa lo fermò: un rumore inatteso, imprevisto.
Un lento, posato suono di passi in direzione dell'arciera.
Michael Schwarz si irrigidì con immediatezza, avvertendo un gelido brivido lungo la schiena. Paralizzò autonomamente il proprio corpo, bloccando braccia e gambe e mozzandosi il respiro riducendolo ad una tenue ed impercettibile inalazione d'ossigeno. 
Intravide con la coda dell'occhio due gambe passargli di fianco; la persona lo sorpassò e si fermò di fronte a June.
Non ebbe bisogno degli occhiali per riconoscere i pantaloni scuri, la giacca e la capigliatura corvina con il ciuffo ribelle sulla sommità.
Sentì i muscoli contrarsi dalla tensione e il bruciore della ferita aumentare a dismisura. Lo stomaco gli sobbalzò, e la mano gli tremò visibilmente.
Ipotizzò un elevato numero di situazioni e possibilità alle quali ricollegare ciò che stava avvenendo, ma il suo cervello smise di funzionare razionalmente nel momento in cui il ragazzo che aveva di fronte si chinò sull'arciera, allungando il braccio verso di lei.
Una scarica adrenalinica attraversò le fibre del corpo di Michael Schwarz che, senza neppure accorgersene, gettò alle ortiche ogni briciolo di raziocinio in favore di un'azione tempestiva. Il suo corpo si mosse da solo, ignorando qualunque logica e qualunque ragionamento sensato; cessando di considerare cause ed effetti,  conseguenze e ripercussioni, vero e falso. 
Tutto ciò che sapeva era che il suo corpo gli stava urlando sonoramente di alzarsi e muoversi.
Il dolore al fianco era come svanito, seppellito da una valanga di ormoni. 
Si alzò in piedi di scatto e spiccò un balzo in avanti, tutto nel giro di appena un secondo.
Spalancò le braccia e atterrò sulla schiena di Xavier, cingendogli il collo con il braccio sinistro e la spalla con il destro.
Riuscì a percepire nel suo grido di sorpresa e nella resistenza disperata che era riuscito a coglierlo di sorpresa, unico fattore a suo vantaggio.
Xavier si alzò in piedi dimenandosi come un ossesso, ma Michael si aggrappò a lui con ancora più forza avvinghiandosi alle sue gambe utilizzando le proprie, bloccandolo sul posto.
L'avversario alzò la mano nel tentativo di rimuovere il braccio di Michael, senza però riuscire a spezzare la sua presa. 
Annaspò in cerca di aria e poi prese a sgomitare freneticamente sul fianco ferito del chimico sperando di provocargli un dolore abbastanza acuto da spingerlo a desistere.
Nel mezzo del furioso scontro, gli occhi di Michael avvistarono uno spostamento appena di fronte: una seconda sagoma si era appena messa in piedi e stava correndo verso di loro.
Svegliatasi di soprassalto a causa del frastuono, June Harrier non aveva avuto neppure il tempo di realizzare ciò che stava accadendo, ma sapeva di dover agire con sveltezza.
- MICHAEL, NO! - urlò a pieni polmoni - LASCIALO ANDARE! -
Si gettò sui due contendenti e afferrò il braccio del chimico, facendo leva affinché lasciasse la presa. 
Furono necessari alcuni secondi prima che Schwarz realizzasse l'intervento dell'arciera e si decidesse a dare ascolto a ciò che gli stava gridando contro.
Avvertendo il repentino alleggerirsi della morsa, Xavier inspirò aria con avidità e si gettò in avanti, crollando in ginocchio sul pavimento ed allontanandosi strisciando.
Il corpo di Michael era ancora carico di energia accumulata e di pura eccitazione furente, e fu necessario che June continuasse a tenerlo saldamente per evitare che scattasse di nuovo.
Il volto disperato e terrorizzato di Harrier servì a fargli raffreddare l'animo, e in alcuni attimi l'Ultimate Chemist sentì ripristinarsi la propria freddezza mentale.
Lo sforzo era stato notevole, e Michael si ritrovò ad ansimare per lungo tempo sia a causa della fatica che dal dolore della ferita riaperta.
Un rivolo di sangue gli scese lungo il fianco, destando nuovamente le preoccupazioni dell'Ultimate Archer.
Quest'ultima, però, notando lo sguardo minaccioso sul volto del chimico, che non accennava ancora a calmarsi del tutto, si ritrovò costretta a modificare le priorità.
- ...maledizione - tossicchiò Xavier, rimessosi in piedi a fatica - Te lo hanno mai detto che sei forzuto, per essere un topo da laboratorio...? -
Michael strinse i pugni.
- ... sta indietro! - gridò - INDIETRO! Non ti avvicinare...! -
- Michael, smettila! - si intromise June - Non è nostro nemico! Torna alla calma! -
- Non mi calmerò fino a che non sarò certo che le nostre vite non siano IN PERICOLO! - sentenziò, rabbioso - E tu, dannato traditore che non sei altro... hai un minuto per convincermi a non strangolarti fino a farti uscire l'anima dal corpo! -
Soppesando cautamente l'entità di quella minaccia, Xavier sospirò e pensò bene di alzare le mani.
- Avrò bisogno di un po' di tempo in più per raccontarti l'intera storia, Mike... - deglutì - Ma almeno lascia che ti tranquillizzi... non sono qui per farvi del male -
- Sai meglio di chiunque altro che mi ci pulisco il culo, con le parole! - lo aggredì in risposta - Fa parlare i fatti! -
A quel punto, June sbatté il piede a terra con forza.
- Ti ho detto di calmarti, razza di caprone! - sbottò Harrier, dandogli uno scossone alla spalla - Devi fidarti! Se non fosse stato per lui, adesso Pearl sarebbe...! -
Si bloccò a metà frase. L'arciera capì che avrebbe fatto molto prima ad indicare ciò a cui si stava riferendo.
Lo sguardo confuso di Michael si piazzò sul punto che l'indice di June stava indicando: distesa sul pavimento, dall'altro lato della stanza, Pearl Crowngale giaceva inerte a faccia in su, con l'intero corpo ricoperto di bende e fasciature. 
Ogni arto, ogni centimetro visibile era stato seppellito da spessi strati di nastro disinfettante e garze ospedaliere.
I capelli biondi erano sciolti e sparpagliati sopra la sua giacca nera, appositamente utilizzata come cuscino.
A sbucare in mezzo a quel mare di bendaggi vi era un singolo occhio color azzurro cristallino completamente aperto, indicante che Pearl era sveglia e cosciente.
Non avendo la forza di muoversi né di parlare, l'Ultimate Assassin dovette esprimere la propria opinione con un debolissimo cenno del capo.
Michael storse il naso con confusione di fronte alla mummificazione di Pearl, ma si sentì comunque sollevato nel vederla ancora viva, per quanto mal ridotta.
Adocchiò Xavier, poi June, e di nuovo Xavier, in un giro di sguardi rapidi e sospettosi.
Quest'ultimo mostrò uno sguardo di supplica; Michael mostrò una smorfia contrariata, ma alla fine si arrese agli occhi lucidi dell'Ultimate Archer.
- ...e va bene - sospirò - Adesso ci spiegherai tutto, per filo e per segno -
- Non chiedo niente di più, credimi - rispose l'altro, ancora sulla difensiva.
June smise solo in quel momento di avvertire il cuore alla gola, e le sue spalle si rilassarono così come i suoi nervi fortemente provati.
Lasciò andare i polsi di Michael, che non necessitavano più di essere tenuti a bada, e fece per raggiungere Pearl.
Stava per avvenire un confronto importante, e non voleva che qualcuno mancasse di parteciparvi.
Sospinta da quel pensiero, June Harrier si bloccò a metà strada voltandosi in direzione di Judith, realizzando solo in quel momento che il chiasso dello scontro aveva svegliato anche lei.
- Judith! - gridò, gettandosi verso l'amica.
L'Ultimate Lawyer si alzò barcollando, quasi incapace di reggersi perfettamente in piedi.
Appoggiò la mano al muro e con l'altra si toccò la fronte; una sconfortante sensazione le cingeva il capo e la parte destra del viso. Si sentì come se i pori della pelle fossero ostruiti e non riuscissero a far traspirare aria.
Si tastò la sezione bendata, ma ritirò subito la mano; il dolore lancinante la colse alla sprovvista.
Il tempestivo arrivo di June Harrier la aiutò a stabilizzare i pensieri.
- ... June - mormorò.
- Piano! Fai piano... - la incitò lei - Non sforzarti -
L'Ultimate Lawyer accolse il consiglio e approfittò della spalla di June per avere un sostegno più stabile.
La prima cosa che le venne in mente di fare fu di guardarsi attorno, ma ancor prima di riuscire a capire dove fosse e cosa stesse accadendo la sua attenzione fu  catturata dalla figura che le era esattamente davanti.
Appena oltre l'Ultimate Chemist, Xavier era in piedi e appoggiato a quella che sembrava una console di comandi; il volto pallido e l'occhio sfregiato non lasciarono spazio a dubbi, e Judith si convinse che non si trattava né di una svista né di uno scherzo dovuto alla poca lucidità.
Ne rimirò per alcuni istanti i tratti efebici segnati da un indicibile dolore nel vedere il viso della compagna ridotto in quello stato pietoso.
Judith Flourish non disse una parola.
Scansò garbatamente la mano di June, ignorando le ragionevoli suppliche di quest'ultima sul fatto che dovesse rimanere ferma e a riposo.
Mosse passi rapidi e ad ampie falcate, mantenendo un'andatura costante ed un volto neutro. 
Non emise un sussurro, né un battito di ciglia.
Superò celermente Michael, il quale si guardò bene di frapporsi tra lei e il suo bersaglio.
Pearl, dal suo angolino, osservò l'intera scena con una scintilla di curiosità.
Xavier vide il rapido approcciarsi di Judith, ed ebbe un nodo alla gola.
Tossicchiò brevemente, deglutendo.
- Judith... io... - balbettò.
Dovette rimandare qualunque cosa stesse per dirle.
Non appena Judith si fermò ad appena pochi centimetri da lui, gli stampò una dirompente cinquina sulla guancia.
Fu uno schiaffo così potente e pregno di energia che il cervello di Xavier impiegò un attimo di troppo a realizzare di essere stato colpito.
Di fronte allo sguardo allibito di June, all'espressione vagamente turbata di Michael, e al sorriso velatamente divertito di Pearl, Xavier si ritrovò ad accettare quella punizione plateale con una certa filosofia. Socchiuse gli occhi, e sospirò.
Fece per aprire bocca, tentando di fornire ogni sorta di chiarimento volto a dare un significato alle azioni che avevano meritato quella sberla, ma si ritrovò zittito da un secondo manrovescio che lo colse nuovamente alla sprovvista, stavolta sulla gota opposta.
D'istinto fece per proteggersi entrambi i lati del viso prima di rivolgere nuovamente gli occhi verso Judith, la quale stava ansimando con l'aria di chi avrebbe tranquillamente potuto continuare ad elargire doverosi schiaffi.
- ... bene - mormorò infine Judith, circondata dal silenzio di tomba dei compagni - Ora... non sono più arrabbiata -
Detto ciò, si tuffò tra le sue braccia e gli affondò il volto nel petto, stringendolo a sé con ogni briciolo di forza residua.
Xavier evitò di pronunciarsi in merito e lasciò che lo sfogo avesse luogo senza interruzioni.
Era stata una lunga giornata, e gli sembrò giusto che si concludesse in quel modo: con un sospiro di sollievo da parte di June, un'occhiata complice di Pearl, una liberazione emotiva da Judith, e uno sguardo ancora vagamente contrariato sul volto di Michael. Tutto come ricordò che doveva essere.
Carezzò dolcemente la chioma di Judith, aiutandola a calmarsi.
- ... credo sia ora di raccontarvi tutto dal principio - disse loro.
Nessuno emise obiezioni, per quanto Michael Schwarz avesse comunque qualcosa di impellente da aggiungere prima di immergersi in quella necessaria conversazione.
Puntò l'indice davanti a sé, indicando la vetrata oltre Xavier con un'espressione al contempo confusa e incredula.
- ...ma quello è il fottuto oceano!? -






Il rumore del motore, inizialmente incessante e roboante, si attenuò pian piano dando modo ai passeggeri di abituarsi prima al suono, e poi alla velocità.
Attraverso la larga finestra anteriore del piccolo sommergibile adibito alla fuga d'emergenza era possibile scorgere il paesaggio circostante cambiare rapidamente;  l'acqua scivolava sul vetro provocando una lieve schiuma man mano che il mezzo accelerava, superando scogli ed enormi massi sommersi.
Judith si avvicinò per osservare più da vicino quello spettacolo irripetibile; intravide con la coda dell'occhio gli ultimi residui visivi dell'enorme sottomarino che aveva svolto il ruolo di prigione nel corso di quel periodo.
Lanciò un'occhiata amara a quel sommergibile colmo di orrendi ricordi e a tutto ciò che costituiva, elargendogli un ultimo addio.
Non le sarebbe mancato, nemmeno per un istante, ma dovette ammettere a se stessa di aver lasciato un pezzetto di sé tra i corridoi di quella scuola fittizia.
Osservò poi ciò che aveva davanti: la gigantesca imbarcazione era stata ormeggiata all'interno di quella che appariva essere una grotta abissale, un antro sommerso dove nessuno sarebbe potuto finire nemmeno per errore. Judith ipotizzò che quel luogo doveva trovarsi in un punto imprecisato al largo dell'oceano.
Realizzò solo allora quanto fossero state vane le speranze che qualcuno sarebbe potuto venire a portarli fuori di lì.
Dopo alcuni minuti, la scialuppa aveva varcato l'uscita della cava e si era immersa nel vasto blu al di sotto della superficie.
L'assenza di luce era palese, ma all'Ultimate Lawyer quell'oscurità sembrava attraente in una maniera che non sapeva definire.
Il fatto che quello spettacolo fosse unico nel suo genere, e probabilmente non si sarebbe mai più ripresentato, contribuì ad accrescere il suo bizzarro fascino.
Nel frattempo, anche June si era fatta coraggio e si era avvicinata al vetro, trascinandosi dietro Pearl.
La sistemò con cura in un punto in cui, anche da seduta, sarebbe riuscita a godersi un po' il panorama.
L'Ultimate Assassin, da oltre le bende che le ricoprivano il viso, le mostrò un caldo segno di gratitudine; infine, perse a sua volta il proprio sguardo nel mare sconfinato.
Dietro al gruppetto di ragazze ammaliate, una singola figura guardava invece altrove.
Lo sguardo torvo di Michael Schwarz non era riuscito ad indirizzarsi verso l'oceano poiché qualcos'altro lo distraeva; un pensiero che negli ultimi minuti era divenuto un chiodo fisso e che aveva completamente catturato l'attenzione del chimico.
I suoi occhi erano fissi sulla console di comando del sommergibile, dove un ragazzo dai capelli scuri e non ancora sollevato da ogni sospetto stava facendo scivolare le dita tra i tasti con l'aria di chi aveva tutto perfettamente sotto controllo.
La mano di Xavier si poggiò delicatamente su alcune leve e poi tornarono a poggiarsi saldamente sul piccolo timone, controllando il moto del mezzo efficientemente.
E più il tempo passava, più Michael si rese conto che nella sua testa era sorto un quesito che non riusciva più a tenere a freno, al quale sentì di dover dare voce.
- ...nessuno se lo sta davvero domandando? - disse all'improvviso, facendo girare il resto del gruppo.
- Come...? A cosa ti riferisci? - gli chiese June.
Judith e Pearl condivisero il suo fare interrogativo; Xavier alzò un sopracciglio.
Di fronte a quel plateale silenzio, Michael sospirò con una vena di irritazione.
- E va bene, lo puntualizzerò io... Xavier... tu stai... - mormorò, tamburellando con le dita sul proprio braccio - ...tu stai guidando un maledetto sottomarino!? -
Xavier si grattò la testa, vagamente imbarazzato.
- Ah... si tratta di questo? - disse, facendo spallucce.
- Non porlo come un argomento di poco conto! - sbottò l'altro - Da che parte la si guardi, non è una situazione normale! E mi meraviglio che voi altre non vi siate poste il dubbio! -
June si irrigidì di fronte a quell'attacco verbale.
- B-beh... se la metti in questi termini, in effetti è un po' strano... - gemette lei, arrossendo.
Xavier scosse la testa lentamente.
- Dalle mie parti ti insegnano a fare certe cose direttamente a scuola, non sorprendetevi - li rassicurò lui - Anzi, fidati, Mike: non è nemmeno il mezzo più strano che ho guidato -
- Questo non migliora le circostanze! - sbraitò - E non mi interessano chissà quali altre diavolerie tu sappia comandare...! -
- No, aspetta, io lo voglio sapere...! - protestò Judith, con una strana scintilla negli occhi.
- A tal proposito... -
Il tono di Xavier, a quel punto, si fece più serio. L'atmosfera cambiò radicalmente, e tutti si ammutolirono per permettergli di parlare.
Era stata promessa una spiegazione, e a tempo debito era giunta.
Senza distogliere gli occhi dalla guida, Xavier pregò il resto dei compagni di prestare la massima attenzione.
- ...colgo l'occasione data da questa "stranezza" del mio paese per ricollegare l'argomento - cominciò lui - Io vengo da Novoselic. Avete presente? -
Vi fu un momento di blocco momentaneo.
June Harrier arrossì visibilmente e voltò lo sguardo, tentando di non dare a vedere che non aveva idea di che cosa stesse parlando.
- ...credo sia un piccolo stato autonomo situato nel centro dell'Europa - accennò Judith - E' uno dei pochissimi esempi di monarchia assoluta sopravvissuta in tempi moderni... giusto? -
- Una descrizione giusta, ma approssimativa - asserì Xavier - Coloro che conoscono il mio paese lo ricordano per i motivi più disparati: c'è chi rimane incuriosito dal  nostro bizzarro folklore, chi anche ci vede come un ottimo esportatore di vini e cioccolata, chi ancora ci rammenta a causa di uno strano stereotipo sulla nostra  fantomatica puntualità. Ma in pochi ricordano che il nostro governo è tra gli organi più antichi esistenti, e che a causa del suo essere retrogrado è scoppiata una guerra civile di proporzioni preoccupanti... -
- Un conflitto interno, dunque... - mormorò Michael - Credo di aver letto qualcosa al riguardo. I giornali esteri parlavano di atti di terrorismo -
- La verità mediatica è spesso accuratamente filtrata, ma credo si possano definire tali - affermò Xavier - Se dovessi tirare ad indovinare, direi che Pearl ne sa qualcosa in più di voi, vero? Dopotutto il tuo lavoro ti ha portato un po' ovunque -
L'Ultimate Assassin alzò lo sguardo fino ad incrociare il suo.
- ...sì - mormorò flebilmente.
Nell'udire la voce di Pearl, il cuore di June si alleggerì di un grosso peso che si portava sullo stomaco.
Quella singola, semplice parola poteva stare a significare un sintomo di rapida ripresa. L'arciera si limitò a sorridere candidamente.
- E questo che cosa ha a che fare con te, Xavier? - domandò il chimico, in modo diretto.
- Molto semplicemente... - sospirò lui - Io sono una spia... al servizio della monarchia novoselita -
Judith deglutì silenziosamente. Sentirselo dire dalla bocca del diretto interessato era una sensazione completamente diversa.
Aveva già iniziato ad intravedere Xavier sotto una luce diversa da molto tempo, ma in quel momento era come se appartenesse ad un piano del tutto differente.
- Una spia... - biascicò June. Quella parola aveva un sapore amaro.
- Bah! Quindi non avevamo torto... - sibilò Michael.
- Per favore, lasciatemi concludere il discorso - li pregò Xavier - Dopo potrete decretare liberamente qualora io sia un traditore o meno. Me lo concedete? -
June e Judith si scambiarono una speranzosa occhiata di intesa. Michael si limitò a compiere un cenno di approvazione senza pronunciarsi oltre.
Pearl rimase in silenzio, ad ascoltare ogni parola e bisbiglio.
Xavier prese coraggio, inalò una gran quantità d'aria, e cominciò a raccontare.
- ...tutto cominciò quando venni mandato in missione in Giappone. La guerra civile aveva raggiunto un punto di svolta e ad alcuni agenti, come il sottoscritto, era stato dato il compito di sorvegliare la principessa di Novoselic per prevenire un attacco da parte dei nemici. Attualmente, la principessa Sonia è l'erede al trono di Novoselic; in quel periodo, stava attendendo ai corsi della Hope's Peak Academy come studentessa in trasferta. Il mio compito era di recarmi lì sotto falso nome e di tenerla al sicuro... ma ancora non sapevo cosa si era messo in moto in quella scuola -
- Quindi hai approfittato del nostro viaggio di orientamento per accedere alla scuola senza dare nell'occhio... - concluse Michael.
- Precisamente - confermò Xavier - Inizialmente ero convinto che stesse filando tutto liscio... ma ciò che non avevo previsto era l'arrivo di una minaccia diversa da quella che mi ero figurato. Un nemico inatteso che ha gettato non solo il Giappone, ma l'intero mondo, nel caos: Junko Enoshima -
Dallo sguardo di Pearl fu lampante capire che ne sapeva qualcosa. 
Essendo un argomento noto oramai a chiunque, Xavier non sentì il bisogno di dilungarsi.
- Enoshima... - June mormorò quelle parole con una punta di disgusto.
- Proprio lei, la ragazza che ha scatenato una vera e propria guerra - proseguì il ragazzo - La stessa a cui Pearl stava dando la caccia. Ha trascinato nella disperazione una gran quantità di studenti, e alcuni di essi hanno finito per divenire suoi fedeli seguaci. Tra di loro... vi era anche la principessa Sonia -
- La sovrana di una nazione è diventata una pedina nelle mani di una psicopatica!? - esclamò Michael, terrorizzato.
- Inutile dire che si trattava di un'alleata fuori dal comune... - sospirò Xavier, con sguardo triste - Eppure... ancora non bastava. Dopo la morte di Enoshima, i suoi più leali sostenitori, tra cui anche Sonia, hanno preso il suo posto iniziando a far dilagare il disastro in ogni parte del globo. Ma, a quanto pare, hanno trovato un ostacolo alquanto difficile da gestire. Un muro invalicabile, erto a difesa dell'umanità: la Future Foundation -
- Oh...! Q-questo lo so! - June alzò la mano - E' un'organizzazione para-militare che si occupa di incidenti internazionali di questa portata... giusto? -
- Corretto - fu la risposta - E' un ente neonato, ma è cresciuto rapidamente in un gruppo grande e ben strutturato. Il baluardo difensivo definitivo, a protezione della speranza. I seguaci della disperazione sapevano che non sarebbero riusciti a distruggerlo con metodi convenzionali: avevano bisogno di un metodo più radicale... ed è qui che entriamo in scena noi -
I quattro compagni titubarono. Quella frase sibillina non lasciava presagire nulla di positivo.
- ...noi? - fece Judith - Che... che vuol dire? -
- Noi sedici... partecipanti al progetto "Eye's Deception". Fin dal principio noi eravamo una sorta di... asso nella manica. Un espediente da utilizzare nel caso la situazione fosse andata a loro sfavore -
- "Eye's Deception"... - borbottò Michael - Ho già letto questo nome, ma cosa sta ad indicare? -
Xavier sospirò con profonda amarezza. Era la parte che più di tutte aveva difficoltà a pronunciare.
- ...è ciò a cui abbiamo partecipato in questo mese e mezzo - disse, stringendo i pugni - Non era soltanto un gioco al massacro... era una selezione. Una competizione per verificare il più idoneo ad unirsi a loro... -
- Co-cosa!? - gridò June, col cuore in gola - Ma che stai... unirsi a loro!? -
- Avete capito bene - sbuffò la spia - Il vincitore non avrebbe ottenuto la libertà: sarebbe stato tramutato nell'Ultimate Despair, proprio come Sonia. Volevano vedere chi di noi era più incline alla disperazione, e renderlo una pedina da far infiltrare nella Future Foundation e... disintegrarla dall'interno -
Michael picchiettò col piede sul pavimento, in un movimento continuo e sempre più rumoroso.
- Assurdo... - fremette lui - Quindi tutto ciò che è accaduto... è stato del tutto inutile...? -
- Alvin, Hayley, Rickard, Kevin, Pierce... - gemette June - Non avevano idea di ciò che sarebbe accaduto loro... -
- ...una trappola - sibilò Pearl, con un filo di voce.
Xavier annuì con mestizia.
- Già... un tranello architettato fin nei minimi dettagli - ammise - Ogni tassello del puzzle è andato al suo posto -
- Un momento... - li fermò Judith - E che cosa mi dici della questione del... traditore? -
Gli occhi di Michael si illuminarono; la domanda che più lo premeva era finalmente saltata fuori.
Interpellò Xavier seduta stante per soddisfare quel tarlo che lo rodeva insistentemente da settimane.
- Esatto, Xavier...! Il traditore... - ringhiò lui - Cosa hai da dirci in merito!? -
- Mike, calmati! - gli fece June, rimproverandolo aspramente - Non partire dal presupposto che lo sia! -
- Non ha tutti i torti, ma anche in questo caso era un'insidia ben congegnata - replicò la spia - Monokuma ha detto a tutti di trovare "la spia". Con ciò, infatti, intendeva che l'obiettivo ero io, pur essendomi presentato come detective... ma era solo un metodo per inculcare paura e sfiducia. Non c'è mai stato un traditore: d'altronde, Monokuma non ha mai nemmeno pronunciato quella parola -
- Che vai dicendo!? Certo che la ha...! - obiettò Michael, bloccandosi però a metà frase.
Ripescando nella sua memoria non fu capace di trovare un ricordo nitido di quanto stava per affermare.
Vinto dal dubbio, preferì zittirsi e meditare.
June, Judith e Pearl non mancarono di notare quell'atteggiamento sospetto, e iniziarono a ponderare a loro volta.
- Quindi... il traditore... -
- E' stato un nostro costrutto. Non so chi, né esattamente quando, ma qualcuno ha iniziato a parlare della "spia" come "traditore", e a quel punto il pensiero serpeggiante si è tramutato in un chiodo fisso. Siamo stati vittime di noi stessi e del nostro terrore -
- Quindi ti hanno usato per dare a tutti noi... un motivo per guardarci le spalle - gemette June, avvertendo una fitta allo stomaco - Solo a pensarci mi viene la nausea... -
- ...fermi tutti -
Ognuno si voltò: le parole secche e improvvise dell'Ultimate Chemist risuonarono lungo le pareti arrotondate del sommergibile.
June notò un'espressione contratta e le spalle tremanti; Michael pareva aver realizzato qualcosa di particolarmente pauroso.
Gli occhi del chimico si voltarono lentamente verso Xavier, squadrandolo da cima a fondo: pupille serrate, paralizzate.
- M-Mike...? - gli si avvicinò June - Che succede...? -
- ...Xavier - lo richiamò lui.
La spia aggrottò la fronte. Quel tono e quell'espressione lo mettevano a disagio.
- Michael? -
- Tu, poco fa... hai detto che "ogni tassello del puzzle è andato al suo posto"... come ad indicare che il piano di Sonia abbia avuto successo - deglutì - Non starai mica a dire che... sono riusciti nel loro intento...? -
Il quesito sembrò coglierlo di sorpresa.
L'espressione di Xavier rimase imperscrutabile, e ciò non contribuì a rasserenare l'animo vacillante del chimico, il quale passò istintivamente sulla difensiva.
Notando come Michael avesse già iniziato ad indietreggiare e che anche June pareva mostrarsi vagamente irrequieta, Xavier si trovò costretto a valutare attentamente le proprie argomentazioni. Judith, dal canto suo, non ostentò alcun segno di timore; rimase in silenzio ad ascoltare ciò che aveva da dire.
- ...Mike, rilassati - tentò di calmarlo - Non sono vostro nemico. Perché mai prendermi la briga di venire fin qui e raccontarvi tutto, altrimenti? -
- F-fino a che ci sarà anche solo la minima possibilità che faccia parte di un tuo piano contorto e deviato mi sentirò in diritto di avere paura, chiaro!? -
- Siamo alle solite... - sbuffò June, strattonando Michael per la camicia - Mike, smettila di pensare e concentrati sull'ascoltare gli altri, per una volta! Magari non tutto, in questo universo, sta cercando di ucciderti! -
- Ah, perdonami, ma dopo questa esperienza sono poco abituato ad avere a che fare con situazioni innocue! -
In mezzo al rumoroso battibecco, Judith non mancò di notare come Xavier stesse trovando più di una difficoltà nell'approcciarsi al modo di fare del chimico.
Il solo fatto di essere al centro dei sospetti era per lui fonte di malessere; fino a lì era chiaro.
L'Ultimate Lawyer intuì che vi fosse il bisogno di una spinta ulteriore per sbloccare la conversazione.
- ...Xavier, alla luce di quanto accaduto preferisco partire da presupposti più ottimisti - asserì lei - Ti va di darci una mano a capire? Se il loro intento era di renderti un loro schiavo, come hai fatto a sfuggire alle loro macchinazioni? -
Il sottomarino fu avvolto dal silenzio; persino Michael decise di tacere e dargli modo di parlare, principalmente per avidità di risposte piuttosto che per mera fiducia.
Xavier esitò inizialmente, ma si rese conto che quella era la migliore opportunità per discolparsi.
Incrociò gli occhi di June e Judith, e poi lo sguardo di Pearl; quest'ultima si limitò a compiere un cenno silente, che valeva più di mille parole.
- ...ho preso le mie precauzioni - confidò Xavier - Quando ho confessato a Monokuma di essere la spia sapevo che, in qualche modo, avrei incontrato la persona che  guidava quel robot. Ciò che temevo maggiormente era che sarei potuto morire, certo... ma vi era un altro fattore cruciale che mi assillava -
- Sarebbe a dire? - lo incalzò Judith.
Il ragazzo incrociò le braccia, assumendo un tono malinconico.
- La cosa che più mi terrorizzava, oltre alla mia probabile dipartita... - mormorò, deglutendo - ...era di finire come Pierce. E, anzi, è stato proprio quest'ultimo a suggerirmi indirettamente come agire -
- ...Pierce? - pronunciò debolmente Pearl, sussultando.
Il resto dei compagni esibirono espressioni perplesse.
- Che intendi dire, Xavier? -
- Vedete, ragazzi, ho riflettuto a lungo su ciò che gli era accaduto... - proseguì lui - Il suo cervello è stato manipolato, ma in maniera del tutto differente da come è accaduto nel caso di Karol -
Judith ripercorse memorie estremamente sgradevoli; storse il naso.
- Già... al Prof era stato innestato un dispositivo dotato di elettrodi, se non erro... - sospirò lei.
- E' proprio quello il punto - Xavier alzò l'indice - A Karol fu posto quell'affare infernale tramite una delicata operazione chirurgica. Nulla da meravigliarsi, se si tratta dell'operato dell'Ultimate Surgeon. Ma che dire, allora, dello stesso Pierce? Anche il migliore dei chirurgi non può operare se stesso, e dubito ci fosse qualcun altro
in grado di eseguire la medesima pratica in modo efficiente. Inoltre, Pierce non aveva neppure un segno, una ferita o una cicatrice che tradissero questo processo -
Michael Schwarz si grattò il mento, a metà tra l'interesse e la mancata consapevolezza di dove volesse andare a parare.
- Sì, mi trovo d'accordo... - commentò lui - E allora come spieghi il fatto che Pierce fosse stato manipolato a sua volta? -
- Molto semplice, in realtà - Xavier abbozzò un sorriso confidente - Se non è stata apportata alcuna modifica al suo corpo, il condizionamento mentale deve essere stato... indotto in un'altra maniera. Oserei dire a livello del subconscio, forse tramite ipnosi. Il che mi ha portato a pensare... se il nemico avesse a disposizione un modo per soggiogare la volontà altrui senza ricorrere ad una lobotomia, vuol forse dire che attaccherebbero direttamente il cervello con un segnale, o qualcosa di intangibile? -
- M-ma... non capisco... - si lamentò l'arciera - Anche in questo caso, come avresti fatto a prevenirlo!? -
La spia si schiarì la voce.
- Beh, se l'unico bersaglio è proprio il cervello... allora basta proteggere solo quello, no? - disse, con una naturalezza quasi arrogante - Anzi, nel mio caso... direi che lo ho "spento". Dico bene, Mike? -
Vi fu un attimo di incertezza; poi, ogni singola persona all'interno del sommergibile si voltò verso l'Ultimate Chemist, che si trovò improvvisamente travolto da occhiate esterrefatte.
- U-un attimo...! Che cosa c'entro io!? - obiettò lui.
- Non ricordi? - domandò poi Xavier - Prima della mia confessione ho chiesto un favore in particolare a ciascuno di voi. Erano tutti volti ad assecondare il piano che avevo in mente -
- A tal proposito... - June parve lievemente inviperita - Sbaglio o tu non hai mai specificato che cosa ti aveva chiesto Xavier...? -
Michael sciolse a fatica il nodo che aveva alla gola, quasi sentendosi a sua volta responsabile.
Deglutì un grumo di saliva mentre le tre ragazze lo squadravano da cima a fondo.
- B-beh... mi aveva chiesto di... - tentennò per un istante - ...di prestargli una delle mie pasticche speciali... -
- Più precisamente: il composto di sua invenzione che ha sviluppato assieme a te, June - puntualizzò l'altro.
- E perché accidenti non lo hai detto prima!? - strepitò l'arciera, furibonda.
- Ma suvvia, con tutto quello che è accaduto con quei maledetti Monokuma pensavi che avessi pure il tempo di stare a pensare a quello!? - si giustificò lui - Avevamo cose più urgenti di cui occuparci! -
Judith gonfiò le gote con un cenno di disapprovazione.
- Avresti almeno potuto menzionarlo... - si lamentò - E comunque mi meraviglio che tu ti sia lasciato convincere a cedergli qualcosa di simile! -
- Già! Che fine ha fatto il Mike paranoico che non avrebbe mai prestato un'arma a qualcuno!? - si accodò June.
A quel punto, fu Xavier ad intervenire prontamente in sua difesa. 
- Fidatevi, è stata un'impresa... - disse, col morale a terra - Siamo stati per tre quarti d'ora a discutere delle contromisure che avrebbe adottato nel caso avessi voluto pugnalarlo alle spalle con la sua stessa medicina... -
- E non lo rimpiango affatto! - aggiunse Michael, chiarendo la sua posizione.
- Ma sta di fatto che... ha funzionato. Giusto...? -
Senza distogliere le mani dalla console dei comandi, Xavier si girò ed elargì loro un sorriso compiaciuto; un'espressione vittoriosa che poteva stare ad indicare ben pochi esiti.
- Per una volta sono stato io ad anticipare loro - gongolò con una vena di sfacciataggine - Ho nascosto la pastiglia in bocca e ho atteso il momento opportuno per  ingerirla. Era così piccola che non se ne sono accorti, ma ha fatto il suo lavoro. Hanno tentato di friggermi i neuroni con un video, e quindi... -
- ...hai "spento" il cervello - concluse Judith, meravigliata.
- Precisamente -
La complessità della strategia fu ciò che maggiormente lasciò stupiti i quattro ragazzi, ma dopo la spiegazione fornita da Xavier vi fu un altro dubbio da esporre.
O, per meglio dire: vi era qualcosa che aveva lasciato loro un profondo senso di insoddisfazione.
- ...è stato un azzardo - sussurrò Pearl.
Le mani della spia vibrarono sensibilmente.
- ...un rischio calcolato, ma pur sempre un rischio: ne prendo atto - rispose lui.
- E non sarebbe stato più semplice affrontare la questione assieme a tutti noi? - fece Judith, facendo da portavoce al pensiero comune che aleggiava tra tutti loro.
Un rivolo di sudore gli scese lungo la tempia; Xavier aveva sperato di poter sorvolare l'argomento, ma era stata una speranza inutile.
Erano parole che non voleva dire, che aveva il timore di pronunciare; avrebbero fatto male a loro e a se stesso.
Pur sapendo ciò, era cosciente che non avrebbe potuto evitare di pronunciarsi all'infinito.
Sospirò, inserì il pilota automatico, e si voltò per guardare ognuno di loro dritto in volto.
- ...perché hai agito da solo, Xavier? - gli domandò Judith, con sguardo mesto - Se solo ci avessi... -
- Ragazzi... - la interruppe Xavier - Io ho... commesso molti errori. Tra questi vi è il fatto di aver insistito a fare per conto mio, certo... ma non ce la facevo. Non avevo la forza... né il coraggio di rivolgervi il mio sguardo. Abbiamo volutamente evitato di menzionarlo, ma... so che cosa pensate. So bene che... oramai avete realizzato che se i nostri undici compagni sono morti è in gran parte colpa mia... avrei potuto evitarlo, ma ho preferito sopravvivere a spese altrui. E sapendo ciò... ho vigliaccamente scansato il confronto con voi -
- Xavier... - gemette Pearl, debolmente.
Il ragazzo continuò imperterrito.
- Ero terrorizzato dal vostro giudizio... avevo paura che mi avreste odiato. Ma la verità non si può sotterrare in questo modo - sospirò - Sono tutti morti... e lo si deve a me. E non sono così arrogante da pretendere che mi si perdoni. Ma, se almeno potete credere a questo... sappiate che, per proteggere voi, sarei disposto a compiere azioni che appena un mese fa non avrei mai minimamente ponderato. E lo dico perché... siete i miei preziosi amici - 
Avvertì sullo stomaco il peso di quella frase solo appena dopo averla pronunciata.
Realizzò di aver lasciato che la sua mente si esprimesse senza inibizioni, che la sua bocca si muovesse senza contrarsi.
Aveva sentito il bisogno di lasciare andare quel fardello per alleggerire la propria coscienza, ma una volta fatto ebbe quasi difficoltà a mantenere il contatto visivo con gli altri.
Desiderò ardentemente di distogliere lo sguardo per evitare il loro; di velare il rossore che aveva in viso e l'enorme sforzo che aveva compiuto nel rivelare quel pensiero gelosamente custodito nel suo animo tremante.
Eppure, Xavier si costrinse a guardarli, a fissare i loro occhi e ad assorbire tutto ciò che emanavano, ogni sentimento piacevole o doloroso che fosse; decise che quella sarebbe stata la prima delle numerose conseguenze dei suoi gesti che avrebbe dovuto accettare, volente o nolente.
Passò da un viso all'altro in rapida successione; con sua sorpresa, notò che Pearl e Michael stavano ostentando più empatia di quanto non si attendesse.
Attraverso il fitto bendaggio che le ricopriva il viso, la pupilla chiara dell'Ultimate Assassin trasudava una certa compassione verso la situazione del compagno.
Xavier si domandò se la ragazza non avesse rivisto in lui qualcosa che le ricordava se stessa e i dubbi che aveva affrontato in passato.
Michael si limitò a rimuovere gli occhiali e a pulire le lenti insistentemente, senza pronunciare una parola.
Era un comportamento peculiare al quale Xavier aveva già assistito diverse volte: nel caso in cui Michael evitasse di pronunciarsi in una situazione complicata era principalmente dovuto al fatto che voleva evitare di esprimere commenti controversi. Nonostante tutto, gli parve quasi comprensivo.
La sorpresa più amara fu però il riscontro nelle espressioni delle altre due.
Judith era rimasta a braccia conserte e sguardo basso, sconsolato, mentre un sentimento bruciante stava ardendo sulla faccia di June.
L'arciera si ritrovò a fare i conti con pensieri in forte contrasto, e si tenne il petto con la mano quasi come ad impedire che esplodesse.
- ...sì, hai ragione - disse Harrier, muovendo un passo in avanti - Avresti potuto salvarli... ma hai preferito rimanere zitto, e quelle undici persone sono decedute... anche Pearl e Michael hanno rischiato grosso, e Judith rimarrà per sempre col viso sfigurato... -
Col sangue raggelato, Xavier si girò verso l'Ultimate Lawyer; questa scostò lo sguardo a propria volta. Non era felice che June avesse utilizzato la sua ferita per attaccarlo, ma nemmeno poteva mentire a se stessa dicendo che la cosa non la tangeva.
- June, aspetta... - la implorò Pearl, pur venendo ignorata.
- Non torneranno mai più, Xavier... ma questo lo sai bene - continuò - Spero tu sia mentalmente preparato... perché è un fardello che ti porterai dietro per tutta la vita... -
Pur essendo convinto di essersi predisposto all'eventualità di quelle parole, fecero male; più del previsto.
Non ebbe neppure la forza di darle ragione; sapeva che sarebbe stato un commento futile.
Il rimorso cominciò a divorarlo interiormente con rapidità; sentì le viscere contorcersi e il cuore palpitare a mille.
La testa gli sembrò andargli a fuoco; quel responso era il motivo principale per cui aveva evitato il confronto diretto, e avvertirne il peso concretamente sulla coscienza gli ricordò come mai ne avesse così tanta paura.
Un terrore tale da spingerlo a voler scappare, a nascondersi per sempre alla loro vista.
- ...Xavier, ascolta -
Appena prima di balbettare qualche parola confusa in preda al panico, Judith gli aveva poggiato una mano sulla guancia.
Serrò gli occhi; avvertì le sue dita poggiarsi con fermezza sugli zigomi, costringendolo a fissarla dritta nella pupilla. Era uno sguardo severo, ma al contempo pacifico.
- Judith, io... -
- Ciò che June voleva dire... è che non puoi cancellare ciò che hai fatto. Non potrai mai farlo; puoi solo imparare a conviverci - inspirò profondamente, addolcendo il tono della voce - ...ma non vuol dire che devi farlo da solo. Saresti disposto, per una volta, a lasciarti aiutare? -
Con sua sorpresa, anche June si unì a quel gesto di affetto completamente contrapposto a ciò che aveva appena detto.
Judith prese per mano l'arciera e la avvicinò a Xavier; la ragazza si asciugò gli occhi lucidi, facendo crollare la maschera di collera e fermezza che aveva costruito, e afferrò a sua volta la mano di Xavier.
- ...non sei da solo, ok? - mormorò - Non ti abbandoneremo alla prima difficoltà... -
Prima di riuscire a replicare, sentì un'altra mano affondare la propria presa sulla sua spalla.
Michael Schwarz lo stava saldamente tenendo con tutte le dita, ma in una stretta più amichevole; quasi rassicurante.
Oltre le lenti degli occhiali, la spia vide un volto tutto nuovo dell'Ultimate Chemist, che pur conservando la sua aria arcigna emanava un'intenzione del tutto differente.
- Basta segreti, però - comandò il chimico - Mi sono spiegato, bastardo? -
Ebbe come un tuffo al cuore. Una forte sensazione di calore lo avvolse; un sentore raro, quasi sconosciuto.
In mezzo a quel misto di emozioni, Xavier abbozzò per la prima volta un sorriso sincero.
Allargò le braccia e cinse tutti e tre i compagni in un abbraccio vigoroso, stringendoli a sé.
Stettero immobili e in silenzio, trascorrendo secondi preziosi in una piacevole armonia che non necessitava parole.
Dalla sua posizione, Pearl osservò la scena con volto sereno; l'epilogo di quella assurda vicenda si era rivelato migliore delle previsioni, e fu contenta così.
Ben presto, però, la sua assenza iniziò a farsi sentire. Non ci volle molto affinché June trascinasse tutti con sé per coinvolgere anche Pearl in quel momento di unione.
I quattro si chinarono, portando l'Ultimate Assassin, sopraffatta dalla sorpresa, al centro dell'insieme.
Tutti e cinque, tenendosi per mano, celebrarono una fine ed un nuovo inizio.
Rimasero in quella posizione fino a che il panorama alle loro spalle, oltre la vetrata, non cambiò repentinamente.
Si girarono all'unisono, sorpresi da quel bagliore ceruleo che gli si manifestò davanti.
Il blu scuro degli abissi aveva lasciato il posto ad un colore più chiaro: un celeste cristallino e solcato da increspature.
La superficie del mare si avvicinò sempre di più, inondando gli sguardi dei cinque sopravvissuti con la sua effimera bellezza.
Xavier inspirò profondamente; allungò la mano verso quella di Judith e la afferrò per le dita sottili e morbide, alzando la testa verso quella distesa azzurra simile ad un cielo terso.
Quando quest'ultima ricambiò il gesto, si sentì rinvigorito da una nuova energia.
- ...torniamo a casa - disse, godendosi appieno quell'interminabile momento di pace.




Lo sportello sulla sommità del sommergibile si aprì verso l'esterno con un cigolante rumore meccanico e si accasciò con un tonfo sordo di lato; Judith sporse la testa al di fuori della scialuppa e lasciò che una moltitudine di sensazioni nostalgiche le inondassero il volto stanco e pallido.
Avvertì un tiepido tepore sulla pelle, gettato dai raggi di un sole mattutino filtrati da appena un paio di nuvole bianche.
Una leggera brezza le accarezzò la chioma e le scompigliò le ciocche corvine tenute a fatica dal fermaglio, mentre un intenso odore salino penetrava a fondo nelle sue narici.
Davanti a lei vi era solo acqua; mare a perdita d'occhio. Una distesa blu che non finiva mai, di una vastità sconfinata a tal punto da fare quasi spavento.
Eppure, la ragazza non provò né paura né perdizione.
Inspirando a pieni polmoni salì gli ultimi pioli della scaletta e mise piede sulla prua, allargando le braccia al vento e lasciandosi trasportare da quella sensazione di libertà.
Era da tempo che bramava di ritrovare quel piccolo, semplice piacere che aveva sempre dato per scontato: la possibilità di respirare all'esterno.
Quel mattino aveva un sapore piacevole; vecchio, e al contempo nuovo. Simboleggiava la fine di una terribile epopea, ma anche l'inizio di qualcosa di diverso.
Judith Flourish lo sentiva nel profondo del proprio animo: la vita, dopo quell'esperienza, non sarebbe tornata a scorrere allo stesso modo.
Si beò di quella meravigliosa emozione per pochi istanti, e poi tornò all'imbocco della scala.
Gettò uno sguardo verso il basso: i compagni avevano trovato non poche difficoltà a sollevare Pearl lungo i pioli, e a quest'ultima non pareva piacere affatto l'idea di essere trasportata in maniera simile ad un pacco. A Judith venne quasi da ridere nel vedere il suo sguardo palesemente rassegnato.
Allungò le braccia e raggiunse la compagna con le dita, sollevandola per le ascelle.
La trascinò sul ponte fino a che non fu completamente distesa su di esso.
Asciugandosi alcune gocce di sudore, passò poi a sollevarle la schiena in modo da permetterle di vedere ciò che avevano conquistato.
L'occhio dell'assassina si illuminò a sua volta di fronte a quella vista semplice, ma maestosa. Il chiarore della sua iride si ricoprì di riflessi lucidi.
- ...guarda, Pearl - sorrise Judith, carezzandole le spalle - Siamo fuori -
Crowngale non disse nulla. Si limitò ad annuire, continuando a contemplare il cielo azzurro che si dilungava fino ad oltre l'orizzonte.
Rumori di passi alle loro spalle fecero capire a Judith che anche gli altri tre li avevano raggiunti.
June fu la prima a superarle, correndo in gran fretta verso il bordo dello scafo.
Sprizzando eccitazione da tutti i pori, a malapena riuscì a trattenere alcune lacrime di commozione; alzò le braccia al cielo e lasciò andare un grido d'euforia, risuonando lungo le onde increspate.
Michael la seguì a piccoli, cauti passi per non perdere l'equilibrio. Si tolse gli occhiali e si passò la giacca sugli occhi inumiditi, esalando un lungo sospiro di sollievo.
- ...ce l'abbiamo fatta - gemette, cascando in ginocchio - Siamo sopravvissuti... santo cielo... -
Il chimico necessitò di sedersi e assimilare mentalmente la portata di quell'impresa, ad assaporare il fatto di essere riuscito ad evitare la morte celata ad ogni angolo e di essere giunto fino a quel punto, alla fine di tutto. Ma il suo momento di respiro durò poco, poiché l'euforia dell'arciera finì per travolgerlo in più di un senso.
June gli si gettò addosso allungando le braccia fino a cingergli la vita e stringendo con tutta la forza che aveva; un abbraccio che Michael avvertì con ogni vertebra del suo corpo.
- Siamo fuori, Mike! - esultò a gran voce - Siamo usciti da quell'inferno! -
L'Ultimate Chemist non riuscì a capire se il dolore fisico proveniva dalla ferita riaperta sul fianco o dall'esagerata reazione della compagna al raggiungimento della libertà; ciononostante, si sorbì i suoi assordanti schiamazzi e la sua forza sovrumana senza emettere fiato o battere ciglio.
Sentì quasi di doverglielo, ma sarebbe passato molto prima di ammetterlo in modo esplicito.
In mezzo al gioioso quadretto giunse, infine, Xavier. 
Camminò verso il bordo del ponte e si sporse, rimirando la propria immagine riflessa sulla superficie increspata.
Si chinò in ginocchio ed affondò la mano per metà all'interno del mare, quasi come per convincersi che fosse reale; che quella fuga miracolata non era frutto della sua immaginazione o di un tranello di Sonia.
Il suo profilo specchiato divenne più nitido; il ragazzo non rivide in quella faccia la stessa che aveva sempre avuto. Si domandò se il se stesso di un mese prima avrebbe riconosciuto quei tratti come propri; se quella pupilla non avesse assistito a così tanti orrori da averne abbastanza per una vita intera.
E gli parve che lo stesso valesse per i suoi compagni; ognuno di loro aveva un'espressione molto diversa dal giorno in cui li aveva conosciuti.
Che fosse per le esperienze vissute, per il legame stabilito, per gli attriti o le intese, lo ignorava. Erano cinque persone differenti, nel bene e nel male.
E, per la prima volta nel corso della sua carriera, Xavier sentì di non essere in dovere di scartare quell'identità come al termine di ogni missione precedente.
Quella gli sarebbe rimasta impressa, che lo volesse o meno, fino alla fine dei suoi giorni.
Sospirò; tornando verso i compagni, si accorse che i festeggiamenti non erano ancora conclusi, per quanto li ritenesse prematuri.
La vasta distesa oceanica che li circondava non gli faceva presagire nulla di buono. Pur essendo riusciti a scappare dal sottomarino, la via di casa era ancora incerta, ignota.
Ancora perso nelle proprie elucubrazioni su come fare per orientarsi, avvertì una lieve stretta alla caviglia.
Abbassò lo sguardo istintivamente; la pallida mano di Pearl lo stava tirando dal pantalone per attirare la sua attenzione.
Al contempo, con l'altra mano, aveva richiamato anche Judith.
- Cosa c'è, Pearl? - domandò il ragazzo.
La ragazza con occhi di ghiaccio si limitò a fissare un punto indefinito verso l'alto, tra le nuvole e l'azzurro del cielo.
Incuriositi, e al contempo preoccupati da quel comportamento, Xavier e Judith volsero lo sguardo in quella direzione.
L'Ultimate Lawyer fu la prima ad accorgersene; per quanto distanti, vi erano dei corpi scuri dalle dimensioni indefinite che stavano solcando i cieli proprio sopra le loro teste.
Judith dovette sforzare la vista dimezzata per comprendere di cosa si trattasse; attribuì a quelle sagome l'identità di grossi uccelli, ma ad una seconda occhiata realizzò che non era così.
La formazione di volo e l'andatura non erano affatto naturali, bensì meccanici; non si trattava di volatili, ma di velivoli.
E in breve tempo, entrambi notarono come si stessero facendo sempre più vicini.
- ...vengono verso di noi? - sussultò Judith.
- Cosa...? Come!? - esclamò Michael, visualizzandoli a sua volta - Che cosa diavolo sono!? -
June fece affidamento alla propria vista per definire una risposta sicura.
- ...elicotteri - mormorò - E si stanno avvicinando... -
Fu questione di minuti prima che divenissero abbastanza vicini da poter essere intravisti meglio; erano completamente neri e dalle sfumature metalliche. 
Persino il vetro del parabrezza era oscurato in modo da non far vedere all'interno.
Erano tre in tutto, e quello che comandava la squadra scese di quota fino a pochi metri dalla superficie dell'acqua.
Il vigoroso movimento delle pale provocò forti raffiche che costrinse i ragazzi ad indietreggiare, coprendosi gli occhi, e spazzando via le onde generando un piccolo vortice.
Il sommergibile traballò sensibilmente, e i cinque si strinsero tra loro circondando Pearl, l'unica incapace di muoversi, per evitare che venisse sbalzata fuori bordo.
La paura giunse spontanea per l'intero gruppo; Michael maledì il momento in cui aveva cantato vittoria, e June con lui.
Judith si parò istintivamente davanti a Pearl, mentre quest'ultima prestava la massima attenzione ai movimenti dal grosso velivolo.
Tra loro, però, Xavier sembrò l'unico a non essere stato colto dal panico: pur essendo in guardia, i suoi muscoli erano rilassati e il volto non era teso.
Regolò il respiro e si limitò ad attendere lo svolgersi degli eventi; era cosciente di aver predisposto tutto.
Sapeva che, per una volta, ogni cosa era andata secondo i propri piani.
L'elicottero rimase a fluttuare nella stessa posizione per alcuni istanti prima che il portone laterale si aprisse, rivelando al suo interno la presenza di almeno una decina di persone vestite con divise militari scure e munite di elmi protettivi. L'elevato numero di individui fece pensare a June di aver giudicato male le proporzioni e la capienza di quel mezzo.
Avevano con loro armi di vario calibro e un distintivo scintillante bene in mostra sul petto; tra loro spiccava l'unica persona vestita con indumenti completamente differenti e che destabilizzava il perfetto ordine di quella squadriglia armata.
Pearl lo osservò con discreto interesse: era un uomo con una capigliatura elegante, ma fortemente in contrasto con i suoi vestiti spartani, quasi rozzi.
Un lungo cappotto logoro con una pelliccia sintetica scura ricopriva una semplice canottiera bianca e scendeva fino alle ginocchia. Il fisico scolpito dell'uomo risaltava meno solo a causa dello sguardo truce che quest'ultimo pareva ostentare perennemente, occhi che avrebbero intimidito chiunque a prescindere dalla situazione.
Con sorpresa del gruppo, quest'ultimo spiccò un balzo dall'elicottero ed atterrò con i piedi ben piantati sul sommergibile dopo una caduta di quasi tre metri.
Dopo aver squadrato ognuno dei ragazzi che aveva di fronte da cima a fondo camminò a passo spedito verso di loro, fermandosi a poca distanza.
Nel vederli ammutoliti e spaesati, pensò bene di fare la prima mossa.
- ...Judith Flourish, June Harrier... - disse, spostando gli occhi di viso in viso - Michael Schwarz, Pearl Crowngale... e Xavier Jefferson. Dico bene? -
Judith deglutì silenziosamente ed annuì; nessun altro osò fiatare.
L'uomo dall'aspetto feroce sospirò, sentendosi sollevato. Accennò un sorriso, ma era fin troppo evidente quanto fosse forzato.
- Avrò studiato le vostre facce e i vostri nomi per oltre un mese, oramai... - sbuffò - Sono Sakakura, della Future Foundation. E, da questo momento, siete sotto la nostra protezione -
Si girò di scatto e fece al resto dei suoi uomini un cenno con il braccio, dando loro un segnale di via libera.
Michael assunse un'aria sognante: intravide in quella persona un salvatore avvolto da una luce mistica, come un angelo disceso a condurlo alla salvezza.
- S-siete alleati...? - domandò, tremante - Non volete... farci del male, vero...? -
Juzo Sakakura scosse la testa, rassicurandolo.
- Ci abbiamo messo un sacco a trovarvi, non mi meraviglio che siate impauriti - disse con tono apologetico - Non dovete temere più nulla: siamo qui per portarvi al sicuro -
- Oh, grazie al cielo...! - esultò June, con le lacrime agli occhi - Ah! Vi prego, dovete aiutare la nostra amica! Non è in grado di camminare autonomamente... -
L'uomo sporse lo sguardo oltre l'arciera e notò come Pearl fosse ricoperta di bende e con le gambe inerti. Dopo essersi accertato che non fosse in pericolo di vita, la sollevò con entrambe le braccia e la prese in braccio, portandola con sé.
- A lei ci penso io - disse loro - Voi riuscite a muovervi? -
- Sì... sì, noi siamo a posto - rispose Judith con una certa riverenza.
- Perfetto. Ah... ancora una cosa... - disse, realizzando di dover ancora porre una domanda importante - Ci siete solo voi, qui? -
Cadde nuovamente il silenzio, stavolta dettato da un'atmosfera più grave.
Fu Xavier a fare da voce al gruppo, sentendosi quasi in dovere.
- ...siamo gli unici rimasti vivi -
Juzo Sakakura avvertì un brivido percorrergli la pelle, ma non si scompose. Celò alla vista dei ragazzi il proprio sguardo affranto e proseguì verso l'elicottero trasportando l'Ultimate Assassin.
- Forza, venite - concluse, infine - Andiamo a casa -
Michael e June lo seguirono a ruota, avviandosi assieme verso la scaletta che avevano appena calato dall'elicottero.
Judith osservò la scena, ancora incredula; era accaduto tutto così in fretta, e in maniera incredibilmente conveniente. Dopo quell'esperienza si era disabituata alle situazioni in cui tutto andava per il meglio. Ma ciò che più le dava da pensare era che, a differenza degli altri tre, Xavier non sembrava così sorpreso di quanto accaduto.
E se c'era un'altra cosa che aveva imparato in quel periodo, e nella sua carriera, era il riconoscere un'espressione sospetta.
- Dì un po'... - gli disse, in modo schietto - Sapevi che sarebbe andata a finire così, vero? -
Xavier si grattò distrattamente la nuca, colto alla sprovvista. Evitò il contatto visivo con Judith per non creare ulteriore imbarazzo.
- ...Sonia e il suo gruppo sono scappati con un altro sommergibile, o almeno così mi è parso di capire prima che se ne andasse - spiegò lui - E, considerando come il suo piano prevedesse che io facessi il resto del lavoro, era difficile che tornasse personalmente qui, soprattutto in elicottero. Inoltre... mi pareva avesse menzionato che la Future Foundation fosse nei paraggi -
- E come al solito ti tieni tutto per te senza metterci al corrente, vero? - sbottò lei, sbuffando sonoramente.
- D-dai, non fare così... - replicò lui, immediatamente ponendosi sulla difensiva - Non era mia intenzione... -
- Xavier, non dimenticare che ci hai fatto una promessa: niente più segreti - gli disse, addolcendo però la voce e appoggiandogli una mano sulla guancia - Non ne hai più bisogno -
Il caldo tocco del suo palmo riuscì a sciogliere ben più della sua tensione. Una forte sensazione di calore al cuore sorprese Xavier, provocandogli un inatteso tremore alle gambe.
Pose la propria mano su quella di Judith e la guardò in viso; la vista della metà destra sfigurata gli provocò un enorme dolore. Sarebbe stato un continuo promemoria degli errori che aveva commesso, di che effetti avevano avuto su chi gli stava intorno. Quelle ferite garantirono che non avrebbe mai dimenticato.
Eppure, il profondo blu dell'iride di Judith riuscì in qualche modo ad acquietarlo; l'effetto mansuefante di quell'occhio ebbe un che di miracoloso, come se bastasse solo rimirarlo da lontano per sentirsi in pace.
Xavier decretò che Judith aveva ragione: non vi era più alcun motivo per mantenere segreti. Anzi; doveva a quelle persone la verità più di qualunque altra cosa.
- Judith -
- Cosa c'è? -
- Inizierò a rispettare questo buon proposito da subito - asserì lui - C'è una cosa che devo dirti: vedi... "Xavier Jefferson" non è il mio vero nome... -
Si bloccò per un istante, attendendo una risposta da Judith, anche solo una parola per smorzare la tensione.
Ma l'Ultimate Lawyer non gli diede quella soddisfazione: rimase ferma a guardarlo, attendendo che finisse, con sguardo deciso e impassibile.
Il ragazzo deglutì, realizzando che non se la sarebbe cavata con poco.
- ...è solo uno dei tanti pseudonimi che ho usato durante le mie missioni - disse, arrancando - Il mio vero nome è... -
Fece per pronunciarlo, ma le parole gli rientrarono in gola.
Judith appoggiò a bruciapelo le proprie labbra sulle sue stampandogli un bacio silenzioso, interrompendo ogni parola superflua, congelando quel momento nel tempo.
Xavier le appoggiò d'istinto una mano sul fianco e reggendole la testa con l'altra.
Dopo un momento durato un'eternità, Judith si staccò rivolgendogli finalmente un sorriso caldo.
L'imbarazzo sul volto di Xavier fu una ricompensa più che abbondante, e lui stesso capì di essersi lasciato soggiogare da quel viso chiaro e dallo sguardo mellifluo.
Lei gli allungò un'ultima, calda carezza sul viso, lasciando che le dita scivolassero candidamente sulla sua pelle, oltre la cicatrice, fino al collo.
Poi, lo prese per mano, e lo tirò con sé.
- Andiamo, Xavier -
L'Ultimate Spy si lasciò trascinare senza opporre resistenza, seguendo con lo sguardo la scia di capelli corvini che svolazzavano al vento, tenuti assieme da una rosa bianca.
Sorrise sinceramente: ancora una volta si rese conto che non avrebbe mai potuto rispettare la regola d'oro che la sua famiglia gli aveva imposto.
Si era decisamente affezionato a quel nome.
 

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Capitolo 67
*** Epilogo ***


Un mese dopo



- Voleva vedermi? -
Xavier richiuse la porta alle proprie spalle con un movimento lento e posato, quasi come per rispettare quel solenne silenzio che aleggiava nello studio.
Le mura grigie e il mobilio spartano descrivevano in modo conciso l'identità del loro proprietario, così come l'atmosfera pesante che si respirava in sua presenza.
Il ragazzo mosse alcuni passi in avanti e si fermò al centro della stanza assumendo una posa rigorosamente formale, immobile, attendendo istruzioni. L'aver passato l'intera vita a ricevere direttive da un superiore gli aveva sicuramente giovato nel corso dell'inserimento nel nuovo ambiente lavorativo.
Di fronte a lui, dietro una scrivania sommersa di documenti, e ciononostante incredibilmente ordinata e organizzata con scrupolo, un uomo in abiti bianchi lo fissava con un'espressione imperscrutabile.
- Accomodati - disse, senza concedersi convenevoli - Dobbiamo discutere delle ultime novità -
Il ragazzo annuì lievemente e passò a sedersi sull'unica poltrona libera. Il cigolio del cuscino in velluto sotto il suo peso lo tranquillizzò sensibilmente, ma non bastò a sopprimere del tutto il profondo senso d'ansia che lo sguardo penetrante del direttore della Future Foundation gli stava rivolgendo; una glacialità, a suo dire, che rivaleggiava persino quella di Pearl in momenti di collera.
Kyosuke Munakata non era conosciuto per essere un uomo affabile e dalla lunga parlantina; si era guadagnato il successo con l'impegno, l'efficienza, e la freddezza di spirito.
Era il principale motivo per cui Xavier aveva deciso di supportare momentaneamente l'associazione, fino a quando ve ne fosse stato il bisogno; al ragazzo non andava a genio prendere ordini da chi non rispettava. Sorprese se stesso per primo quando si era ritrovato ad accettare l'offerta proposta dal noto gruppo militante autonomo noto come "Future Foundation".
Xavier aveva deciso che non avrebbe lasciato che il proprio senso di gratitudine offuscasse il suo giudizio, obbligandolo ad unirsi a loro per il fatto che lo avevano tratto in salvo una volta scappati dal sottomarino; in base ad alcune circostanze successive, aveva poi finito per accogliere l'invito ugualmente.
Una di quelle era proprio quell'uomo dai vestiti candidi che aveva di fronte.
Era raro che Munakata convocasse qualcuno nel suo ufficio che non fosse Sakakura; faceva eccezione solo Judith, che nel corso dell'ultimo mese sembrava averne ottenuto i favori.
In base a quanto raccontato dalla ragazza, era un uomo che faceva parlare i fatti e considerava quasi solo i risultati; fu più facile, per Xavier, figurarsi come le capacità organizzative di Flourish fossero servite a migliorare l'immagine che il direttore aveva di lei.
Al contrario, lo stesso non poteva dire di se stesso; quelle poche volte che aveva avuto a che fare in modo diretto con la massima autorità della fondazione, a Xavier non era parso di stargli eccessivamente simpatico o che lo vedesse di buon occhio. 
Si domandò se quella conversazione non avrebbe risposto, oltre che ad alcune sue impellenti domande, anche a quel dubbio che non cessava di tormentarlo.
- Signore, devo comunicarle che le indagini sono ancora in corso - cominciò Xavier, senza perdere il tono di apparente riverenza - La squadra a cui mi sono affiancato sta ancora cercando di individuare i ricercati nelle aree designate. Potrebbe volerci altro tempo -
- Sono a conoscenza degli scarsi sviluppi delle ricerche, ma non temere. Non si tratta di certo di una mansione facile, né tanto meno rapida - asserì Kyosuke, incrociando le mani e appoggiandoci il mento sopra - Discuteremo di ciò più in là. Innanzitutto, ci tenevo ad avvisarti che il team di Crowngale ed Harrier è tornato alla base -
Xavier ebbe un lieve sussulto; era ciò che sperava di sentire oramai da una settimana. La sua mano grattò freneticamente il ginocchio con eccitazione.
- Quando sono tornate? - domandò, mantenendo un profilo dignitoso.
- Appena un'ora fa. Hanno fatto rapporto e sono andate a scaricare tutto ciò che hanno reperito lì. Sembra che il recupero abbia dato i suoi frutti -
Xavier esalò un sospiro di sollievo misto a compiacimento; aveva temuto costantemente il pericolo di qualche complicazione imprevista, ma alla fine tutto sembrava essere andato per il verso giusto.
Ricordò di come Pearl aveva impiegato ben due settimane per ristabilirsi pienamente dalle ferite riportate durante il combattimento contro i Monokuma, e una settimana dopo già premeva per poter dare il proprio contributo alla causa della Future Foundation.
Sorprese Xavier in misura maggiore lo scoprire che sarebbe andata in missione assieme a June proprio in merito a quanto suggerito da lui e Judith.
Nessuno del gruppo era convinto che quell'orrenda faccenda si fosse conclusa con la loro fuga; sentivano di essersi lasciati alle spalle qualcosa di prezioso.
Qualcosa di troppo importante per essere lasciato a prendere polvere sul fondo dell'oceano.
Nonostante Xavier avesse intuito che aria tirasse con il direttore Munakata e pur avendo tenuto il capo chino per adattarsi, aveva pienamente supportato il piano di Judith di allestire una squadra per fare un sopralluogo nel sommergibile incriminato.
Essendo stato abbandonato da Sonia era difficile, a causa dei ferrei controlli della fondazione, che l'enorme nave si fosse mossa da lì.
Un gruppo di persone capitanate da June e Pearl, che conoscevano perfettamente l'area, si sarebbe recato a recuperare ogni cosa necessaria, ogni importante memento di quell'inferno.
L'idea fu accolta di buon grado nel momento in cui si intuì il valore strategico dell'entrare in contatto con la tecnologia nemica e quali vantaggi potesse fornire; o, per meglio dire, nel momento in cui Judith convinse i piani alti dell'associazione a considerare quella prospettiva. 
I resti dei Monokuma distrutti da Pearl dovevano essere ancora lì, e il reparto tecnico della Future Foundation bramava i componenti di quegli orsi più di ogni altra cosa.
A quanto aveva sentito dire, persino l'ex-rettore Tengan aveva accolto positivamente quell'idea, premendo per portarla a compimento e appoggiando Judith su ogni fronte.
Xavier dovette rendergliene atto: era fin troppo brava con le parole, e altrettanto con le lusinghe.
- Quindi non ci sono stati imprevisti? -
- Non è stato menzionato niente del genere - lo rassicurò lui - Non appena avremo concluso qui, potrai ricongiungerti alle tue compagne -
Xavier vide la propria felicità al pensiero di rivederle venire coperta da un alone di inquietudine.
Munakata non era tipo da perdersi in giri di parole, e con quell'ultima espressione era stato decisamente esplicito.
Il ragazzo lo affrontò con la dovuta cautela.
- ...c'è altro che mi deve dire, Signore? -
- Sì, alcune cose - fece l'uomo, passando dritto al punto - I seguaci della Disperazione sono ancora dispersi, ma come ben sai non sono le uniche persone che stiamo cercando. Mi domandavo se la nostra ricerca degli individui coinvolti nell'incidente alla Hope's Peak non avesse dato esiti migliori -
Quel repentino cambio di tono mandò a Xavier un segnale palese, qualcosa che si era aspettato da tempo.
Il ragazzo ricordava bene quell'operazione ancora in corso manovrata dalla Future Foundation; fin troppo, avendo contribuito ad essa a propria volta.
Ancora prima che gli eventi del mese passato venissero messi in moto, i giochi al massacro non erano una novità: stando alle informazioni ricevute, un'altra classe di studenti era stata rinchiusa nell'edificio principale della Hope's Peak e questi ultimi erano stati obbligati ad uccidersi vicendevolmente.
Come se non bastasse, i familiari, gli amici e le conoscenze più strette ed intime dei partecipanti erano stati sequestrati ed utilizzati come ostaggi; carburante per alimentare nei contendenti il desiderio di scappare e ricongiungersi a loro.
Xavier aveva seguito con un certo interesse le vicende di Towa city, l'isola artificiale dove queste persone erano state segregate e ridotte ad una condizione simile alla selvaggina.
Che fossero genitori, fratelli, o anche solo amici stretti, non aveva importanza: l'isola era stata resa un mattatoio in tutto e per tutto. 
Il principale timore del ragazzo, così come del resto dei suoi compagni, era che un destino simile fosse potuto capitare a coloro che avevano più a cuore; gli fu facile immaginarsi come Sonia avesse potuto conservare l'ennesimo asso nella manica, pur essendo confidente nella riuscita del suo piano.
Una volta messa avanti l'ipotesi non ci era voluto molto prima di ottenere il veemente consenso di June e Judith, che avevano premuto per accertarsi che stessero bene, nonostante il mondo intero fosse diventato una zona di guerra a causa dei Monokuma e che le possibilità di un soccorso tempestivo ed efficiente fossero esigue. 
Una squadra di ricerca era quindi stata allestita in gran fretta e mandata in azione sotto le direttive dell'Ultimate Spy il quale, non avendo ricevuto notizie da casa dopo l'annuncio della caduta di Novoselic, si era premurato di cercare il padre e il resto della famiglia reale con ogni mezzo.
Ma il quesito di Munakata aveva un fine ben diverso da quello apparente; gli occhi penetranti del rettore della fondazione non lasciavano spazio a dubbi.
Non era un rapporto, ciò che richiedeva, ma una dimostrazione. Non voleva informazioni, ma risultati.
Xavier aveva fatto partire quella ricerca, e sapeva di doversene assumere la responsabilità. Ma a gravare su di lui era ben più che qualche aspettativa.
A marchiarlo erano principalmente dei sospetti.
- ...stiamo avendo difficoltà - rispose - Abbiamo tentato di localizzare le famiglie dei nostri compagni caduti, ma con il caos che si è venuto a creare ognuno si è 
rifugiato in luoghi remoti, nascosti. Non so se riusciremo a recuperarli tutti. Forse abbiamo un indizio su dove possa essere la sorella di Hillary, ma è ancora tutto incerto -
- A quanto ho notato, Harrier ha espresso una notevole lamentela per non essersi potuta unire al gruppo di ricerca - commentò Kyosuke, facendo finta di cambiare discorso.
- June ha tre fratelli minori. E' normale che sia in apprensione - sospirò Xavier - E dubito che riusciremo a tenerla a bada ancora per molto -
- La invierò al momento più opportuno - concluse l'uomo - Dunque... mi pare di capire che dall'ultima volta non ci siano stati progressi notevoli -
La spia deglutì silenziosamente.
- ...abbiamo tratto in salvo due persone, Signore -
- E non intendo privarti del merito - proseguì - Ma non posso fare a meno di temere che questa eccessiva difficoltà sia dovuta a qualcos'altro oltre che alla mera sfortuna -
Munakata aveva finalmente sferrato il suo attacco, e Xavier si ritrovò a non sapere esattamente come affrontarlo pur essendosi mentalmente preparato.
Da quando era entrato nella Future Foundation i pettegolezzi sul suo conto si erano sprecati; in pochi lo avevano accolto affabilmente sapendo di ciò che era accaduto nel sottomarino, e men che meno il leader dell'associazione.
Pur non essendo incline alle voci di corridoio, Kyosuke Munakata non era il tipo d'uomo da agire con poca cautela di fronte alle possibili minacce.
Erano il pragmatismo e il rigore ad averlo portato al comando; Xavier lo aveva appreso a proprie spese.
- Sospetta ancora di me, Signore? -
- Sei con noi da un mese, Jefferson, ma ancora non ho la piena certezza che tu non stia lavorando per il nemico - spiegò lui, senza mezzi termini - Il tuo talento e il tuo passato ti mettono nella posizione di non poter godere di piena fiducia; spero tu te ne renda conto. E la possibilità che le missioni che ti ho affidato vadano a rilento potrebbe celare un velato ostruzionismo da parte tua. Fino a che ci sarà anche solo una singola, minuscola possibilità che tu non sia davvero un alleato, io continuerò a temere che la schiena della Future Foundation possa essere minacciata da un coltello. Mi sono spiegato? -
Xavier sospirò. Si sentì di avere a che fare con un esemplare di Michael, solo più minaccioso ed autorevole.
- Eppure ho continuamente i suoi uomini addosso, Signore - fece il ragazzo, con schiettezza - Mi risulterebbe difficile fare i miei comodi con una sorveglianza così stretta -
- La prudenza non è mai troppa, Jefferson - replicò - Ah, e ci terrei ad informarti che ho acconsentito all'utilizzo del tuo pseudonimo sotto richiesta di Flourish, e non per mia spontanea concessione -
- Non avevo dubbi, Signore - disse, con tono rassegnato - Dunque? Cosa posso fare per meritare la sua fiducia? -
Kyosuke incrociò le braccia, serrando lo sguardo.
- Portami risultati soddisfacenti - disse - Non richiedo altro. Se sei stato contaminato dalla disperazione non impiegherò molto a scoprirlo e a terminarti; intesi? -
Un lieve sudore freddo gli scese lungo la fronte.
- Lei è davvero un uomo radicale, Signore. Lo sa? -
- Esserlo è necessario - spiegò Munakata, senza mutare espressione - La disperazione non va semplicemente combattuta: va soppressa, eradicata. E' il seme maligno che ha portato a questa guerra, ed in questo conflitto io ho bisogno di sapere da che parte stai. Puoi andare, Jefferson -
Dietro a quell'evidente segnale che la conversazione era finita, Xavier si alzò dalla sedia esibendosi in un inchino formale assai sciatto.
Si voltò e si apprestò a lasciare lo studio pregando di ritornarci il più tardi possibile, quante meno volte fossero necessarie.
Xavier Jefferson, quel giorno, imparò che le etichette affibbiate dalla gente, spesso e volentieri, sarebbero rimaste incollate per l'eternità all'identità di qualcuno a prescindere dagli sforzi compiuti per rimuoverle.
Ma un altro pensiero laterale si manifestò nel flusso della sua mente, opposto ma strettamente correlato.
Xavier si fermò a pensare per un istante a come, alla Future Foundation, sarebbe potuto non essere mai il benvenuto; fu con una certa serenità che realizzò come la cosa non gli importasse.
Come fosse un tassello minuscolo in un quadro più grande, una sfaccettatura su un mosaico più complesso.
Canticchiando un motivetto inaspettatamente allegro, si diresse verso i piani inferiori dell'edificio.
I suoi amici erano tornati, e ogni altra preoccupazione non aveva più la priorità.





Solo quando le dita di Pearl sfiorarono il vetro della teca, avvertendone al tatto il freddo e la superficie liscia, si rese conto di quanto tempo era effettivamente passato da quando era entrata in quella stanza. Fissò l'orologio da parete alla sua destra; era rimasta imbambolata per almeno un quarto d'ora, persa in una contemplazione che non degnava di attenzione lo scorrere delle lancette.
Oltre lo spesso strato vitreo, custodito con estrema cura, vi era un dipinto.
Pearl Crowngale non era mai stata attratta in modo particolare dall'arte, né dal sofisticato modernismo che caratterizzava quel periodo, né dai classici che ne avevano disegnato le fondamenta e dato un'identità immortale.
L'Ultimate Assassin osservava solo ciò che catturava la sua attenzione con i dettagli giusti e al momento giusto. La definizione che si era data era quella di una ragazza con poco senso estetico, ma che seguiva semplicemente l'istinto.
Era raro che qualcosa attirasse la sua attenzione, e quelle poche volte che accadeva si trattava principalmente di lavori astratti, che sfuggivano alla logica comune.
A suo dire, gli unici quadri in grado di destare il suo interesse erano quelli in grado di "smuoverle l'anima"; nessuno aveva mai davvero compreso che cosa intendesse dire con esattezza, così Pearl aveva semplicemente accettato di essere tacciata come sempliciotta e di badare ai propri gusti senza esporli.
Nel corso del suo lavoro, tra l'altro, la ragazza non aveva avuto poi molte occasioni per entrare a contatto con il mondo dell'arte; le uniche volte erano quando Brandon Moore la aveva portata a visitare le opere custodite nella propria magione, cercando di istruirla un po'. Sentì di esserci riuscito per metà, ma fu comunque soddisfatto del risultato.
Eppure, quel giorno, Pearl scoprì un lato di quel mondo che fino a quel momento le era rimasto ignoto.
Il quadro che aveva davanti le parlava come fosse dotato di un'anima propria, raccontando una storia nota, ma con intonazione diversa.
Le pupille chiare della ragazza bionda si persero lungo i colori caldi e chiari delle due sagome che facevano da protagoniste indiscusse nell'immagine; un uomo senza volto vestito con eleganti abiti rossi cingeva tra le braccia una fanciulla, anch'essa priva di espressione e tratti somatici, che indossava un lungo e setoso vestito bianco perlaceo.
La loro danza era gioiosa e al contempo malinconica, e avvolgeva l'intero dipinto nelle proprie spire. 
Ogni colore, ogni dettaglio e ogni pennellata erano stati pianificati e ragionati con eccezionale solerzia; nonostante ciò, a Pearl il tratto non apparve troppo statico o eccessivamente movimentato.
Era come se il quadro stesso cercasse un perfetto compromesso tra la realtà e l'immaginazione; Pearl non riuscì a spiegarsi come potesse esistere qualcosa di simile, ma qualcosa dentro di lei vibrava. L'opera le piaceva, e ciò le bastava.
Unico tassello dissonante era una scia rossastra colata lungo il vestito della donna, che ne intaccava la purezza e il candido accostamento cromatico.
Una traccia di colore profondo, che Pearl sapeva non essere frutto di un banale errore: era il simbolo che l'autrice aveva lasciato in quel quadro ben più che la propria anima, ma anche qualcosa di se stessa nel significato più letterale possibile.
Forse anche il fatto di conoscere la storia che vi era dietro, e di averla vissuta in prima persona, fu un fattore determinante per il giudizio di Pearl Crowngale, la quale, in religioso silenzio, rimase a contemplarla ancora un po'.
Aveva rimirato quel quadro già altre volte, ma realizzò di non averlo mai davvero osservato come si deve.
- ...è così bello che, una volta che ci posi gli occhi sopra, non puoi più staccartene - fece una voce alle sue spalle - Dico bene? -
Pearl ne riconobbe immediatamente l'identità; non ebbe bisogno di voltarsi a salutarla, poiché June Harrier le si accostò di fianco unendosi a quel momento di ammirazione.
L'arciera ne rimirò la composizione con una punta di soddisfazione sul volto; era cosciente che se quel dipinto era sopravvissuto era soprattutto per merito suo, e non poteva fare a meno di compiacersi di quella piccola, ma preziosa impresa.
- Il mio maestro era solito dire... - mormorò Pearl, senza staccare gli occhi dall'abito della fanciulla senza volto - ...che l'arte è soggettiva, e va interpretata secondo il proprio punto di vista. Ma, al contempo, per comprenderla pienamente è anche necessario spogliarsi di se stessi ad assumere i panni di una persona diversa -
- Espandere i propri orizzonti valutando quelli altrui? - osservò June, grattandosi il mento - Molto profondo. Niente male, il tuo maestro -
- E' un uomo saggio. Mi ha insegnato molte cose - annuì lei - Spero che stia bene... -
June assunse uno sguardo più comprensivo, comprendendo quale peso avesse quell'affermazione. Dopotutto, ne condivideva l'ansia pienamente.
- Non temere; Xavier si sta facendo in quattro per trovare le nostre famiglie, e la Future Foundation ha molti mezzi e risorse - la rassicurò lei - Li troveremo -
- Quel vecchio sa badare a se stesso - sorrise lei, tentando di sdrammatizzare - Ma ha i suoi limiti. Mi auguro che tutto vada per il meglio -
- Dai, piuttosto che guardare ad un futuro incerto, pensiamo ai successi recenti! - propose June, con un sorriso smagliante - La missione di recupero è andata a gonfie vele! -
A ciò Pearl non ebbe nulla da obiettare.
Le due ragazze si erano offerte volontarie per guidare una squadra di ricognizione nel luogo della tragedia.
Localizzate le coordinate del soccorso avvenuto il mese prima, il sottomarino novoselita della famiglia Nevermind era stato facilmente rintracciato nella grotta sommersa dove era stato ormeggiato e abbandonato. Il solo pensiero di tornare lì dopo così poco tempo per smaltire l'orrore vissuto provocò in loro una contorsione allo stomaco.
Bastò mettere piede a bordo per avvertire un gelido brivido percorrere le loro schiene, mentre le urla delle vittime e il loro sangue versato tornavano come immagini residue nella loro memoria.
Eppure, la loro determinazione fu incomparabile: quella missione andava portata a termine.
Avevano lasciato ben più che ricordi spiacevoli e traumi in quelle profondità abissali: vi era qualcosa che non avrebbero mai e poi mai rinunciato a recuperare.
Qualcosa che non meritava di rimanere lì.
Una volta accertato che i Monokuma ritrovati sul posto, distrutti e ridotti in pezzi, non fossero in funzione e che l'intera struttura era stata privata di energia elettrica e delle sue normali funzioni, June e Pearl si erano prese la libertà di vagare per la scuola fittizia in cerca del loro obiettivo.
Ripercorrere il piazzale dei dormitori, la strada che passava per il ristorante, e i corridoi dove si erano consumati i delitti fu un doloroso colpo al cuore.
Quel luogo, senza luce né vita, appariva molto più come un cimitero di quanto non fosse effettivamente.
La ricerca si era conclusa, infine, con un lauto successo. E, di fronte a loro, vi era il frutto di un ritrovamento extra.
Il quadro di Vivian Left era stato posto nel laboratorio artistico così come era stato lasciato dalla sua creatrice. 
June e Pearl avevano insistito affinché potessero portarlo con loro, e non fu l'unica cosa.
Pur cercando in giro qualcosa che potesse fungere da memento, furono capaci di rinvenire soltanto un unico altro reperto: uno spartito musicale rilegato con cura e  posizionato sul pianoforte del laboratorio musicale.
Quadro e partitura erano stati messi nella stessa teca, in esibizione in una delle sale principali della sede della Future Foundation, affinché non venissero mai divisi.
June osservò malinconica il piccolo pilastro di fianco al dipinto dove era stato posizionato il plico di fogli denominato "Vivian", ultima composizione dell'Ultimate Musician e culmine della sua carriera.
Relegarli lì era come concedere loro di rimanere assieme per l'eternità.
Trattenne a stento una lacrima, ma si costrinse a resistere. Aveva pianto molto, nell'ultimo mese; in quel momento aveva bisogno di essere forte.
I suoi occhi inumiditi si posarono poi su un altro, piccolo elemento inserito nell'insieme, un qualcosa che non ricordava.
Si affacciò sul vetro e gettò un'occhiata sul bordo della mensola sottostante il dipinto; un piccolo congegno spento era stato posizionato sopra di essa, appena sotto le sagome danzanti.
Ad osservarlo meglio, si trattava di un metronomo. Notando come la fattura non pareva di fabbrica, June si chiese che cosa ci facesse lì.
- E quello? - disse a Pearl, indicando il punto in questione.
- Ah... Judith è passata non molto tempo fa - spiegò l'Ultimate Assassin - E' un ricordo di Hillary... voleva che venisse conservato qui, assieme a loro -
- Hillary... - mormorò June, abbassando le spalle - Judith aveva un suo lascito, eh? -
- Mi rammarico del fatto che non ci sia pervenuto qualcosa di tutti loro... - sospirò Pearl - La morte è assoluta, ma... nessuno merita di venire dimenticato -
- Nessuno di loro lo sarà, Pearl. Nessuno - fece June, con voce strozzata - Non potremmo neppure volendolo -
- Forse. Ma, un giorno, noi non ci saremo più. E questa vicenda verrà persa, obliterata nella storia e nelle sue innumerevoli tragedie - osservò l'altra - Il mondo si
dimenticherà del loro dolore, e sarà come se non fosse mai avvenuto. Che triste ironia... forse un po' ingiusta -
- Beh, è inevitabile, no? - commentò l'arciera - Il nostro stesso pianeta, un giorno, cesserà di esistere; e con lui, ogni ricordo dell'umanità. Tutto è destinato a svanire, quindi perché preoccuparsi di qualcosa di simile? L'importanza di questa storia sta nel valore che ha per noi, e per coloro che ne verranno in contatto. E questo credo valga per tutto ciò che riguarda la nostra vita -
- Ah, care vecchie conversazioni sull'esistenzialismo - sorrise Pearl - Non hanno età. Si finisce sempre per approfondire la questione senza mai risolverla -
- Forse è perché la maggior parte della gente il senso della vita magari lo capisce. Accettarlo, però, è un altro paio di maniche -
- Chissà? Ho passato tutti questi anni a cercare di capire cosa fosse la morte - sospirò Pearl - Ma la vita? Un vero mistero, non c'è che dire -
Rimasero in silenzio a fissare il quadro per diversi altri minuti. Nessuna delle due sentì di dover aggiungere altro.
Pearl, nel rimirare il moto danzante dei due amanti senza volto affiancato dallo spartito musicale, si domandò se quelle due opere non fossero una sorta di risposta a  quell'eterno quesito; una che apparteneva solo a Lawrence e Vivian.
Rasserenata da quell'idea, socchiuse gli occhi pacificamente, sorridendo.
- ...che ne è stato dei Monokuma distrutti che abbiamo raccolto? - disse a June, spezzando il filo del discorso e passando al successivo.
- L'ex-rettore Tengan ha chiesto che gli venissero recapitati in laboratorio per delle ricerche accurate - rispose Harrier, assecondandola - Sembra che lo studio della tecnologia nemica possa darci un considerevole vantaggio, in questa guerra a venire -
- Non dubito che i piani alti sapranno cosa farne - asserì Pearl.
Entrambe sospirarono. Era giunto il momento di andare, e di affrontare quell'ultimo gradino a testa alta.
Il motivo principale per cui si erano recate con tanta insistenza nel sottomarino era per ripescare qualcosa di molto più vitale di quanto i resti degli androidi o i ricordi dei caduti potessero mai essere. 
Nulla che potesse essere messo sullo stesso piatto della bilancia.
Le due ragazze si scambiarono una vicendevole occhiata languida.
- ...andiamo? -
- Sì... -
Uscirono dalla stanza, lasciandosi la teca alle spalle.
Era giunto il momento dell'ultimo commiato.




Il pomeriggio di Graham Claythorne andava concludendosi dopo un gran numero di ore trascorse a lavorare il terreno; appoggiò la vanga al carrello degli attrezzi, si asciugò la fronte sudata con la manona ancora sporca di terreno, e osservò in silenzio il prodotto del suo operato.
Le zolle di terra smossa indicavano che in più punti erano state scavate delle buche, adeguatamente riempite con semi dei fiori più disparati. Quel terriccio fertile avrebbe accolto alcune delle sue composizioni più belle e variopinte, un mosaico floreale che avrebbe tenuto fede alla fama che si era procurato in tanti, tanti anni di servizio.
Riuscì ad immaginarsi che forma avrebbero preso le aiuole, una volta cresciute abbastanza e doverosamente curate; più trasportava l'immaginazione, più realizzava che splendido giardino sarebbe potuto diventare con le dovute attenzioni.
Sospirò; non riuscì a sorridere.
Nell'interezza della sua onorata carriera di floricoltore, non fu capace di ricordare un singolo episodio in cui i frutti del proprio mestiere non fossero riusciti a riscaldargli il cuore, a rallegrarlo. Aveva cominciato a coltivare seguendo una passione, ed era ciò che lo aveva spinto a farne il proprio lavoro.
Graham Claythorne amava i fiori profondamente, in modo genuino; un sentimento che esprimeva solo con i fatti, e poco verbalmente.
Ma il trovarsi lì, in quel giardino, incapace di provare gioia per ciò che ne sboccerà, lo lasciò spaesato; quasi impaurito.
Una delle sue poche certezze della vita veniva meno, e Graham si trovò costretto a fare i conti con i pensieri che aveva soppresso nel corso dell'intera giornata passata a scavare, seminare, e tacere.
"Ogni fiore rappresenta qualcosa", era solito dire l'anziano giardiniere; che fosse un messaggio, un concetto, un augurio, vi era sempre qualcosa di adatto.
Ma quel giorno, Graham aveva deciso di utilizzare "parole" del tutto differenti per esprimere il suo stato d'animo.
Aveva piantato fiori vivaci, colorati, incandescenti; un tripudio di colori caldi e soavi, che potessero portare calore nell'animo di chi lo osservava.
Un calore volto, però, a fare da mediatore in una situazione opposta.
Quei fiori avrebbero avuto un scopo preciso: circondare le undici lapidi incastonate nel terreno, sulla sommità di altrettante bare seppellite nel giardino della sede principale della Future Foundation, su quella remota isola al largo della costa.
Graham non era uno sciocco; ben cosciente che fosse uso comune quello di utilizzare fiori come dono per i defunti, sapeva che il giorno in cui avrebbe dovuto adoperarli per qualcuno di caro sarebbe potuto arrivare. Era una piccola porzione del suo mestiere che gli lasciava un sapore amaro in bocca.
Ma quelle undici tombe non erano affatto convenzionali; erano troppo piccole e troppo premature.
In più, in una di loro, Graham Claythorne aveva dovuto adagiare a malincuore la cosa più preziosa della sua intera esistenza.
Si era offerto volontario per aiutare i membri della fondazione a seppellire tutte le bare nel giardino, sentendosi in dovere di dare il proprio contributo.
A detta dei presenti, nel momento in cui il vecchio aveva disteso il corpo del nipote sul letto interno della bara, nessuno era stato capace di distinguere chi fosse il morto.
L'espressione sul volto di Graham Claythorne era qualcosa che Judith Flourish si augurò di non vedere mai più per il resto della sua vita.
La ragazza era rimasta in giardino anche dopo che tutti i colleghi della fondazione se ne erano andati via, rimanendo a contemplare lo stoico lavoro dell'uomo.
Si meravigliò di come avesse trovato la forza di continuare imperterrito ad adoperarsi per far fiorire quella zolla di terra erbosa nonostante le circostanze; che fosse semplicemente per onorare la dipartita dei suoi compagni o che fosse proprio per tenere la mente occupata con altro, lontana dal pensiero di aver perduto Kevin, lo ignorava.
Judith vide in quel modo di fare qualcosa che le provocò una certa ammirazione.
Passarono diversi minuti prima che Graham concludesse il suo quantitativo di lavoro quotidiano. A quel punto, si diresse verso il carrello che aveva portato con sé e ritornò alle lapidi trasportando un mazzo di fiori.
L'Ultimate Lawyer riconobbe i petali azzurri e la costituzione larga di quei boccioli: erano ortensie. Intuì da chi Kevin avesse preso la passione per quel certo fiore.
Graham passò a depositare un'ortensia su ogni tomba, delicatamente posizionandole al centro dell'epitaffio. 
Ben presto, ogni lapide fu ornata da una gentile macchia color cielo, unico sollievo da quel mesto grigiore.
Claythorne non mancò nessuno; un fiore per Refia, un fiore per Alvin, uno per Elise, uno per Hayley.
Uno per Vivian, uno per Lawrence, uno per Hillary, uno per Karol, uno per Pierce.
Poi, Graham giunse alla tomba di Kevin; Judith notò come l'anziano avesse offerto un'ortensia in più a quel sepolcro.
"Un favoritismo comprensibile" considerò Judith, ipotizzando come l'uomo stesse dicendo addio a ben più di una semplice persona, con quel gesto.
In fondo alla fila di lapidi, per ultima, vi era quella di Rickard.
Graham si inginocchiò lentamente, ed esitò prima di poggiarvi sopra il fiore.
Voltò il capo verso destra, assaporando l'atmosfera con cautela. Non era l'unica persona ad essersi trattenuta al cimitero.
Una ragazza dai capelli corti e biondi era rimasta seduta davanti alla stele di Rickard Falls per tutto il tempo, nascondendo gli occhi verdi arrossati dalle lacrime tra le ginocchia.
Graham notò come il proprio gesto non sembrasse tangere il suo animo già fragile, sospirò, ed adagiò l'ortensia.
In silenzio, tornò al carrello ed iniziò a mettere tutto a posto per andare via, ripulendo ogni arnese con un vecchio straccio umido.
Judith osservò quel triste quadretto; non ricordava occhi così spenti dal giorno del processo di Orson Joss.
Una brezza gelida le accarezzò la guancia; quel preludio alla sera le diede un pretesto per intervenire in quella situazione disperata.
Si avvicinò lentamente alla ragazza, evitando di provocare rumore; deglutì e inumidì la lingua asciutta e seccata, cercando le parole migliori.
- ...signorina Geister, sta iniziando a fare freddo - le disse, con voce gentile e comprensiva - Le va di rientrare? -
Trascorse almeno un minuto senza che Vera reagisse minimamente a quell'invito; dopo di ciò, si alzò a fatica dalla posizione seduta e diede le spalle a Judith senza
degnarla di un solo sguardo. Si avviò a capo chino verso la sede della Future Foundation, lasciando l'Ultimate Lawyer in compagnia di una profonda amarezza.
"...di certo avrebbe preferito che sopravvivesse qualcun altro" pensò, addolorata "Non di certo io... e nonostante ciò non riesco a darle torto..."
Un lento cigolio metallico sopraggiunse, arrestandosi di colpo.
Judith osservò come Graham si fosse fermato col carrello proprio di fronte a lei, osservandola con sguardo buio.
Sorpresa da quello strano gesto, la giovane indietreggiò di un passo. Lui le fece cenno di non avere timore.
- ...non averne a male - borbottò lui.
- S-Signor Claythorne...? -
L'anziano giardiniere si grattò la barba morbida, emettendo uno sbuffo d'aria dalle narici larghe.
- Non ti odia - sospirò - Dalle tempo. Non auguro a nessuno di sopravvivere a qualcuno che ami -
Detto ciò, si diresse a propria volta lungo il sentiero per l'edificio principale lasciando Judith da sola coi propri pensieri.
Sarebbe dovuta tornare a fare rapporto a chi di competenza, ma non ne ebbe né la forza né tanto meno la voglia.
Si limitò a trovare uno spiazzo d'erba fresca su cui sedersi e rimirare il colore del mare al tramonto. 
Il fresco odore di sale e il riflesso arancione del vespro sulla superficie dell'oceano riuscirono per un istante a distogliere la sua mente da ogni pensiero, placandola.
Tornò alla realtà solo quando i suoi si poggiarono sulle due file di lapidi che aveva di fianco, dalle quali si sentiva come fissata.
Rabbrividì, e socchiuse gli occhi cercando di distogliere la vista da quella visione macabra.
- Ti stai ancora crucciando per quanto accaduto? -
Una voce dal nulla la sorprese, facendola sussultare. La familiarità del tono e dei modi si ricollegarono immediatamente all'identità dell'individuo.
- Mike... hai finito, per oggi? -
- In orario, come sempre - commentò Michael, con sufficienza - E scommetto che tu, invece, ancora no -
Lei gli mostrò un broncio sconsolato.
- Oggi non sono nel pieno delle forze... - mormorò.
- Di certo non migliorerai se continui a vessarti per ciò che è successo ai nostri compagni - rispose lui, sedendosi al suo fianco in mezzo al prato brullo.
Judith lo fissò con una certa incredulità.
- E tu, Mike? Sei davvero capace di... lasciarti qualcosa del genere alle spalle? Come se niente fosse accaduto...? -
- Devo, se non voglio impazzire. Ma voglio essere chiaro - precisò lui - Metterci una pietra sopra? Sì. Dimenticare? Impossibile. Rimarrà un ricordo indelebile, ma non vuol dire che dovrà necessariamente fare da zavorra. Non credi anche tu? -
Lo stupore mutò in uno sguardo di ammirazione.
- Devi possedere una determinazione incrollabile per riuscire ad attenerti ad un pensiero simile - si congratulò lei - Ammetto di essere un po' invidiosa della tua forza d'animo... -
- Bah... non esserlo - sbuffò lui - Sai perché sono forte? Perché sono un cinico bastardo, e mi difendo così. Conosco i miei limiti, e piuttosto che superarli preferisco assecondarli e trarne beneficio. Credimi, è molto meno stressante in questo modo -
- Judith! Non stare a sentire a quel musone! -
I due vennero sorpresi dall'entrata a bruciapelo dell'Ultimate Archer, che piombò loro addosso stringendoli con le braccia.
Michael si maledisse per non essere riuscito ad ascoltare in tempo il rumore dello scalpitare dei suoi passi, disabituato a causa dell'assenza di June dalla sede.
Era la prima volta che la rivedeva da quando era partita in missione con Pearl, e il calore del suo saluto lo travolse come un fiume in piena.
Dal canto suo, invece, Judith ricambiò con un altro abbraccio; tutta l'ansia che aveva provato nel corso della mancanza delle compagne evaporò, svanendo nel giro di quel gesto d'affetto.
A pochi metri di distanza, Pearl camminava lentamente e con entrambe le mani in tasca, sollevandone una per un saluto senza troppe cerimonie.
- Finalmente siete tornate...! - esclamò Judith, con sollievo - Temevo che potesse accadervi qualcosa di brutto, in quel maledetto sottomarino... -
- Non c'è stato nulla da segnalare, tranquilla - la rassicurò June - Anzi, ero io ad essere preoccupata per te! Se ti lasciavo ancora qualche giorno in compagnia di Mike ti saresti trasformata in una gran brontolona, proprio come lui! -
- Sono felice di vedere che il tuo tatto da pachiderma sia rimasto invariato... - la punzecchiò Michael - Piuttosto, Pearl, non sarà stato poco saggio partire appena dopo il tuo recupero? Se continui ad agire pensando di essere invincibile rischi di romperti di nuovo -
Pearl attese che June cessasse la sua breve sfuriata verso il chimico e i suoi modi poco garbati, poi si accomodò sull'erba sedendosi di fianco a Judith.
- Non temere, Mike - rispose con un sorriso - Farò attenzione -
- Dunque... il recupero è andato senza intoppi, giusto? - domandò timidamente Judith.
Pearl e June si limitarono ad annuire e a rimirare il risultato dei loro sforzi.
I loro occhi si poggiarono sulle undici bare conficcate nel terreno, poco lontane dall'ombra di un salice solitario cresciuto nel giardino, le cui fronde si muovevano ad ogni capriccio del vento.
La spedizione aveva avuto come principale obiettivo il recupero delle salme che, a detta di Xavier, si trovavano in un punto nascosto dell'imbarcazione alla quale solo i loro aguzzini avevano potuto avere accesso normalmente.
Il vederli imprigionati nella resina, congelati in un tempo che non scorreva più, quasi come fossero trofei, aveva provocato nelle due ragazze una sensazione d'ira che a malapena erano riuscite a contenere. Si erano personalmente prese la briga di tirarli fuori dalle loro gabbie, da quella immeritata galera, e di portarli via.
La sepoltura in quel luogo era sembrata l'alternativa più umana e rispettosa per poter dare finalmente un ultimo addio ai loro compagni, sfortunate vittime di un'ingiustizia.
Persino June non riuscì a preservare il proprio buonumore a quella vista, e optò per aggiornarsi con Judith e Michael in un secondo momento.
Si sedettero fianco a fianco tutti e quattro e rimasero in silente contemplazione.
Uniche rotture di quella quiete erano lo spirare del freddo vento serale e il rumore quatto dei passi di una quinta persona, che in quel momento giungeva dal vialetto.
Xavier oltrepassò il sentiero e raggiunse il praticello dove i quattro compagni si erano riuniti. 
Ebbe un momento di rapida paralisi nel vedere le lapidi, ma evitò di fissarle troppo a lungo. Avrebbe avuto tempo e modo, per quello. 
Si limitò a far scivolare le scarpe lungo l'erba umida, incamminandosi col viso rivolto verso il tramonto.
Nessuno proferì parola al suo arrivo; June si limitò a spostarsi per fargli spazio, e il ragazzo si accomodò tra lei e Judith.
- Sei in ritardo - lo incalzò Michael.
- Ciao anche a te, Mike - rispose lui, sorridendo, silenziosamente grato per aver rotto il silenzio che incombeva - Il capo mi ha tenuto in ufficio più del previsto -
- Ancora non ti ha preso in simpatia? - domandò June, sbuffando - Che tipo cocciuto... -
- Non ho fretta di farmi piacere - disse, quasi con noncuranza - Appena porterò risultati sufficienti, vedrete che allenterà la presa -
- Munakata è un uomo rigido, ma giusto - si intromise Judith, tentando di mettere una buona parola - Vedrete che presto capirà che non ha nulla da temere -
- Fa bene ad avere dubbi, invece - sbottò Michael - Non mi sarei fidato di lui se ti avesse accettato di buon grado alla cieca -
June batté una mano per terra con del vivido rossore in faccia.
- Non sei proprio in grado di dire qualcosa di carino, vero...!? -
- Ho solo esposto un dato di fatto! - ribatté il chimico - E poi cosa credi? Anche io ritengo che sarebbe meglio per tutti se iniziassero a dare a Xavier un po' più di credito -
- Dai, June, non prendertela - rise Xavier - Lo sai benissimo che è il suo modo di tirarmi su di morale. E' fatto così -
Detto ciò, elargì a Michael un pacca amichevole sulla spalla allungando il braccio. Inaspettatamente, l'Ultimate Chemist sbuffò e ricambiò il gesto.
L'arciera rimase piacevolmente colpita dall'intesa che i due ragazzi avevano raggiunto in quel tempo che era stata via; guardò Michael con uno sguardo che emanava fierezza e soddisfazione, ed anche una maliziosa vena di compiacimento. Michael fece di tutto per ignorarla, ma arrossì in modo palese.
- Piuttosto... June, Pearl? - proseguì Xavier - Sono felice di trovarvi bene -
- E' stato più semplice del previsto - lo rassicurò l'Ultimate Assassin - Ce la siamo cavata con poco sforzo -
- Io e Pearl facciamo una squadra notevole, se c'è da far lavorare i muscoli! - si pavoneggiò scherzosamente l'arciera.
- E anche il recupero dei familiari coinvolti nell'incidente sta procedendo bene - aggiunse Judith - Alcuni sono già stati portati in salvo. Confido che le ricerche saranno fruttuose -
Le notizie sarebbero dovute essere di conforto, ma Xavier sapeva che non erano altro che un paraurti.
Quella conversazione era finalizzata a ben altro che al semplice scambio di novità e al recuperare momenti persi.
I cinque compagni stavano tacitamente evitando di buttare in mezzo lo scomodo argomento principale, tanto minaccioso quanto vicino.
Xavier sentì la necessità di far durare quella finta calma ancora un po' più a lungo.
- Avete programmi nell'immediato futuro? - domandò loro - Cosa farete ora che la missione è conclusa? -
- Io sono ancora sommerso di roba da fare - rispose Michael, grattandosi la nuca - Sto lavorando nel reparto scientifico della fondazione sotto le direttive di Kimura -
- Oh! Sei riuscito a farti qualche amico o continui a fare il lupo solitario? - domandò June, sperando in un responso positivo.
- Per il momento conserviamo un rapporto strettamente professionale - sentenziò lui - Ma devo dire che c'è gente interessante, lì. La nostra leader ha poca spina dorsale, ma è in gamba -
- "E' in gamba" mi sembra un ottimo complimento sulla "scala Mike" - rise Judith - Vorrà dire che possiamo stare tranquilli -
- Anche io mi terrò impegnata per un po' - sopraggiunse Pearl - Dopodomani riparto in missione -
June spalancò gli occhi. 
- Ma come... di già!? -
- Sei appena tornata e già ti getti di nuovo nella mischia - commentò Xavier - E' davvero necessario? -
La ragazza si sistemò i capelli biondi scompigliati dal vento.
- C'è stata un'emergenza in alcune città non troppo distanti da qui - spiegò lei - A quanto pare c'è un pazzo che se ne va in giro ad ammazzare ogni criminale colpevole di omicidio gli capiti a tiro. Mi unirò alle indagini della sesta divisione della "Sezione Speciale Anti Crimine" della Future Foundation per un po' di tempo -
Nell'udire ciò, a Judith vennero i sudori freddi ed una repentina contrazione allo stomaco.
- Vai sulle tracce di "Killer Killer"...? L'assassino di assassini!? - esclamò l'Ultimate Lawyer - M-ma... una missione simile, a così breve distanza dalla tua convalescenza...! -
- E' imperativo che la cosa venga risolta il prima possibile - asserì Pearl - Il problema, a quanto pare, ha finito per ingigantirsi nelle ultime settimane -
- U-un momento...! Questo matto prende di mira gli assassini...! - strepitò June - Non è un motivo in più per NON andare!? -
Pearl Crowngale non riuscì a darle torto; era ben cosciente che il suo titolo di "Ultimate Assassin" avrebbe costituito principalmente un forte svantaggio, in quell'indagine.
Ciononostante, aveva preso la sua incontrovertibile decisione.
- ...è proprio per questo che devo farlo - disse fermamente - Anche se ho trovato la mia risposta a quella fatidica domanda, sento che è ancora parzialmente incompleta. Un "assassino di assassini"... ho come l'impressione che questa persona possa avere qualcosa che a me ancora manca -
Lo sguardo glaciale di Pearl non lasciava spazio a dubbi; non avrebbe permesso a nessuno di fermarla.
Judith comprese come l'amica stesse andando non solo a compiere il proprio dovere, ma anche ad affrontare una parte di sé con cui doveva ancora regolare i conti.
Notando come la sua scelta fosse stata presa con coscienza e fermezza, nessuno tentò di dissuaderla. Non riuscirono, però, a non trasudare una certa apprensione.
- P-promettici solo che starai bene... ok? - balbettò June, tenendola per mano.
Di tutta risposta, Pearl mostrò loro un sorriso caldo e privo di preoccupazione.
- Non mi perdonerei se non tornassi da voi - disse - Ce la farò. Avete la mia parola -
- Questo mi basta - sospirò l'Ultimate Archer, vagamente rincuorata - Anche io farò la mia parte; mi unirò al team di avanguardia a partire dalla prossima settimana -
Un'occhiataccia accigliata di Michael la colse alla sprovvista.
- Bah! Proprio il lavoro più pericoloso dovevi andare a scegliere! - esordì lui con un grugnito insoddisfatto - Perché proprio nella squadra incaricata di stanare e catturare i seguaci della Disperazione!? Vuoi farci morire d'ansia!? -
- B-beh, qualcuno doveva pur farlo...! - replicò lei, incapace di capire se Michael le stesse facendo una ramanzina o si stesse semplicemente preoccupando per lei - E
poi un tiratore è sempre utile... ed è tutto ciò che so fare -
- Rilassati, vecchio mio, avrà dei veterani a coprirle le spalle. Nella truppa del capitano Izayoi ci sanno fare - aggiunse Xavier, mitigando la situazione - Inoltre, tutte le missioni sono organizzate e coordinate dai nostri alleati al Quartier Generale, quindi siamo in buone mani. Dico bene, Judith? -
Xavier si sentì costretto a richiamare a sé tutto l'aiuto possibile per placare l'apprensione di Michael prima che lo facesse esplodere.
Sgomitò scherzosamente verso Judith, attendendo di ricevere man forte dal suo affidabile pragmatismo; aiuto che, però, non giunse come si era atteso.
Xavier ci badò poco fino a quando non scorse il viso dell'Ultimate Lawyer, perso a fissare un punto nel vuoto davanti a lei.
- ...Judith? -
Quel richiamo reclamò l'attenzione degli altri tre, che notarono quanto palesemente l'espressione della compagna fosse diventata più cupa, quasi come si fosse spenta.
A preoccuparli principalmente era stata la velocità con cui era avvenuto quel cambiamento, cosa assai rara soprattutto considerato il suo carattere mite.
- Judith, che succede? - Pearl si sporse verso di lei - Qualcosa non va? -
Judith Flourish sospirò con un velo di tristezza; il labbro le vibrò con un tremolio incerto.
- ...dunque è così? - mormorò - Andiamo... semplicemente avanti con le nostre vite? -
Il suo occhio languido era rivolto verso le steli funebri ordinatamente disposte davanti a loro.
Non fu necessario precisare il contesto per capire cosa stesse provando in quel momento; Pearl ricordò la conversazione avvenuta poche ore prima con June e di come
era rimasta impressionata dal modo in cui l'Ultimate Archer era riuscita a convivere con quel grosso fardello emotivo.
Era un confine che, però, Judith ancora stentava a varcare.
Non attribuì quella sfaccettatura del suo carattere ad una mera deformazione professionale, ad un avvocato troppo protettivo che non riusciva ad accettare una condanna
ingiusta, bensì ad una sua forte caratteristica caratteriale: Judith non era in grado di dimenticare o di lasciar correre, nemmeno volendolo.
Il suo morboso senso di giustizia le impediva di sentirsi a proprio agio in caso anche una singola circostanza non fosse andata nel verso giusto; Pearl ricordò come la fine del secondo processo e il disperato tentativo della compagna di impedire l'esecuzione di Hayley le fossero rimasti impressi come indelebile segno di quel suo tratto spesso deleterio e, a lungo andare, forse autodistruttivo.
Persino quel suo fermaglio bianco, accessorio divenuto un marchio distintivo, non era altro che un memento che la ancorava ad un insuccesso passato.
Anche quel giorno, l'Ultimate Lawyer tendeva la mano in avanti come a voler raggiungere quelle di chi non c'era più.
- Dovremmo alzarci, voltare le spalle... - mormorò lei - ...e accettare che rimangano qui, a marcire in questo giardino...? -
- Judith, non pretenderai di assumerti la responsabilità di quanto accaduto? - obiettò Pearl - Hai il brutto vizio di flagellarti per cose che non puoi controllare -
- Lo so... conosco questa parte di me, e la detesto - sospirò - Ma, al contempo, mi sento bruciare dentro e so di non poterci fare nulla! E' vero, siamo sopravvissuti... siamo rimasti in vita fino alla fine, ma... a quale prezzo? E' davvero giusto che noi siamo qui e che loro siano... lì sotto? -
- No, ovvio che non lo è - intervenne June, oramai priva del suo usuale sorriso - Ve lo dissi anche allora: una volta morto il primo di noi, non vi sarebbe stata alcuna possibilità di avere un epilogo che ci rendesse felici... questo non è un lieto fine. Non lo sarà mai -
- L'unica cosa che abbiamo guadagnato è la possibilità di scegliere - fece Michael, con lo sguardo perso nella vastità del cielo - Scegliere di continuare a vivere o di farla finita. Ai nostri compagni non è stato concesso neanche quello. Tutto sommato dovremmo ritenerci fortunati, non trovi? -
- La possibilità di scegliere... - Xavier assaporò quelle parole. Avevano un gusto amaro.
Aveva vissuto la propria esistenza come un ciclo continuo di causa ed effetto, scelta e conseguenza. E le decisioni che aveva preso nel corso di quel mese avevano portato a quel momento; a loro cinque, seduti sul prato di un cimitero, a domandarsi il significato di ciò che avevano trascorso nel sottomarino.
Il vedere Judith così afflitta da quel dolore non era una visione semplice da digerire, soprattutto considerando quanto il ragazzo attribuisse a se stesso la responsabilità di quei decessi. Le parole di June di un mese prima ancora gli rimbombavano in testa: "un fardello che si sarebbe portato dietro per la vita".
Non avrebbe mai voluto che qualcuno, men che meno Judith, si sobbarcasse un peso che spettava a lui e alle scelte che aveva fatto.
Ma non aveva intenzione di traslarlo su qualcun altro, né voleva farsi schiacciare da esso.
Se l'unico modo di tirare avanti era di diventare abbastanza forte da poterlo reggere, Xavier Jefferson lo avrebbe fatto.
- Loro non ci sono più; ora tocca a noi - disse Xavier, volgendo l'occhio alle proprie spalle, verso il tramonto - Dobbiamo scegliere. Scegliere se continuare, o arrenderci. E tu cosa farai? Ce l'hai un motivo, una speranza, anche solo un presentimento, che ti spinge a proseguire? -
- Un motivo, dici...? - domandò lei, ancora insicura.
- Sì, uno scopo - fece June, girandosi a sua volta verso il mare tinto dal riflesso arancione - Un motivo per rialzarti e reagire -
- ...un motivo per preoccuparti per qualcuno - Michael si tolse gli occhiali e lasciò che l'aria fredda del mare gli inondasse il volto.
- Un motivo per combattere - Pearl si slegò i capelli biondi e li lasciò danzare al vento.
- Ce l'hai un motivo per vivere, Judith? - le domandò, infine, Xavier.
Judith Flourish sentì la mano di Xavier raggiungere lentamente la sua, stringendola con affetto. Ne avvertì la presa delicata e calda, morbida al tatto.
Rimirò il suo sguardo: addolorato, ma gentile. Ferito, ma forte. Un singolo occhio verde brillante, senza paura, senza malizia.
Un occhio che non celava inganni.
E, a quel punto, finalmente sentì il proprio animo sciogliersi candidamente. Sorrise, e si asciugò quell'unica lacrima che aveva versato in quel breve frangente.
Strinse a sua volta la mano, e allungò il braccio opposto fino a raggiungere Pearl e June, invitando anche Michael ad unirsi.
Ognuno contribuì a quell'abbraccio, formando una catena compatta, unita.
Judith avvertì il calore di quelle quattro persone come fosse il proprio, quasi fossero una sola cosa, avvertendo il tocco delle loro mani e delle loro volontà.
Assieme, i cinque amici osservarono il lento calare dell'ultimo raggio di sole di quella fatidica giornata.
Quando non vi furono che la sera e le stelle a cingere quel momento, Judith socchiuse l'occhio e lasciò andare un lungo, lento sospiro.
- Ce l'ho -


 
FINE
 


 
-   -   -   -   -   -   -   -   -
 
Questo capitolo segna la fine di "Danganronpa Side: The Eye's Deception",
una storia fanmade volta a rappresentare ben più che un tributo alla saga.
Un ringraziamento speciale a Zarwell_94, per averla seguita fin dal principio e per aver fornito costante supporto, a whitemushroom e Roxo per averla assaporata nella sua interezza e per i commenti e la passione che mi hanno dimostrato nell'apprezzarla,
e a chiunque sia arrivato fino alla fine di questo racconto.
Spero vivamente che l'odissea vissuta da questi miei sedici personaggi possa aver significato per voi
tanto quanto ha avuto valore per me il potervela raccontare.
Che possiate aver appreso qualcosa dalle loro vite, o semplicemente che la lettura possa avervi intrattenuto;
lo considererei un successo in entrambi i casi.
Non è una semplice storia; per me è molto importante, e leggendola le avete dato vita.
Grazie per averle dato una possibilità.


 
- Valozzo

 



Un ringraziamento a Master Chopper per l'affetto dimostrato per questa storia
e per questo suo regalo speciale.
 

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