Storie dal rifugio di pietra

di Yellow Canadair
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Risveglio ***
Capitolo 2: *** Volare ancora ***
Capitolo 3: *** Bambini Tondi ***
Capitolo 4: *** Veglia con il Lupo ***
Capitolo 5: *** Partenza ***
Capitolo 6: *** Dal profondo dei tuoi occhi ***



Capitolo 1
*** Risveglio ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Humans +” a cura di Fanwriter.it!
Numero Parole: 2350
Prompt/Traccia: (5) A si risveglia e il suo corpo non è più lo stesso. BONUS Protesi multiple.

 

Risveglio

 

Jabura trascinò Lucci per le strade deserte della campagna, cercando di forzare l’andatura per allontanarsi dal bunker che stava collassando su sé stesso. Strinse i denti e masticò bestemmie per i poteri che non c’erano più, perché in quel momento la visione notturna dei lupi sarebbe stata provvidenziale, e invece doveva affidarsi solo alla sua memoria e al suo senso dell’orientamento. Tutta roba di prima qualità, sicuramente, ma in quella situazione così difficile ogni aiuto era vitale.

« Non ti addormentare! » latrò all’uomo « Ehi! Sveglio! »

Rob Lucci era frastornato, aveva a mala pena la percezione del braccio di Jabura che lo trascinava sul terreno irregolare. Sentiva sul petto il calore di Hattori, il suo sangue, il piccolo becco che si apriva in cerca di aria.

Non aveva più le mani per aiutarlo. Non aveva un drappo, un vestito, per avvolgerlo e stringerlo. Non aveva più le braccia per farlo.

Quel pensiero gli mozzò il respiro, sentì le gambe cedergli.

« No, no, no. »

E la voce irritante di Jabura non smetteva di tormentarlo.

Il Lupo si fermò, assecondando la caduta per non fargli male.

Jabura lo sapeva, cosa provava, quel bastardo di Lucci. Lo sapeva che in quel momento stava rimpiangendo di non essere morto, che quei figli della merda avevano passato il limite prendendosela con il povero Hattori, che quel piccione era l’unico vero punto debole del collega e probabilmente svegliarsi senza un braccio e senza una mano era stato un trauma da cui non si sarebbe risollevato per parecchio.

Lo afferrò per le spalle (la spalla, una era andata) e gli piantò gli occhi in faccia. « Senti » ruggì basso, imponendosi « Sei salvo. Manca poco, siamo quasi arrivati alla macchina »

La macchina?” pensò annebbiato Lucci. “Che macchina?

In lontananza echeggiarono dei richiami, una lugubre sirena d’allarme risuonò nel buio, balenavano luci di torce: li stavano cercando.

Jabura non poteva perdere tempo. « Devi alzarti, altrimenti ci troveranno. E tu non vuoi tornare là sotto e rimetterci anche le gambe come Kaku, vero? »

Le gambe di Kaku…?” l’ex prigioniero del bunker si sentiva debole, stordito. Doveva avere delle schifezze in circolo, per stare così… non riusciva a coordinare i movimenti, voleva vomitare.

« Devi salvare Hattori, idiota! Ti muore in braccio, se non ti muovi! » imprecò Jabura.

Era il tasto giusto. Barcollando, sentendo la mancanza delle braccia, Rob Lucci si rimise in piedi e Jabura continuò a trascinarlo tra gli sterpi, nella notte senza luna.

 

~

 

« Mettilo dietro, sulla coperta » ordinò una ragazza aprendo il portello di un furgone bianco.

« E Hattori? » avversò Jabura, guardando l’ammasso di piume stretto al petto del sopravvissuto.

« Dobbiamo portarlo da Caro »

Jabura fece salire Rob Lucci sul furgone e poi sputò fuori un: « Figurati se quella… »

« È l’unica » si voltò verso di lui la ragazza, tesa e pallida. « Hai visto in che condizioni sta…? Se perdesse Hattori… »

Jabura sospirò, chinò lo sguardo verso l’uomo che aveva appena deposto nel cargo del furgone; l’ex leader del suo reparto era stato usato per quasi un anno come cavia sperimentale per chissà che cosa, e il fatto che un uomo del suo calibro non avesse nemmeno la forza per parlare o tenere gli occhi aperti faceva capire quanto grave fosse la situazione.

Come se averlo trovato senza un braccio e senza una mano non lo rendesse più che evidente.

« Metti in moto quest’arnese » ordinò spiccio « e vedi di far perdere le tracce a quegli stronzi »

 

~

 

Sentì il vento soffiare e sferzare la casa.

E l’odore forte, penetrante, del caffè. Caffè corretto con qualcosa che avrebbe bruciato nello stomaco.

« Starà abbastanza al caldo? » una voce di donna.

« E mettigli un’altra coperta » la voce di Jabura quando perdeva la pazienza, ma era troppo stanco per arrabbiarsi.

Jabura?

Qualcosa di pesante gli venne adagiato addosso.

« Va’ a riposarti » era Kaku « rimango io qui vicino »

Dov’è Hattori?

Rob Lucci aprì gli occhi di una fessura. Vide brillare un piccolo fuoco, che appariva e scompariva. Era semibuio, doveva trovarsi in una stanza molto piccola. E molto scomoda, considerò notando che sotto di sé aveva sì delle coperte, ma non un materasso, e doveva trovarsi sulla roccia.

Che diavolo stava succedendo?

Lentamente mise a fuoco il profilo inconfondibile di Kaku. Era voltato e parlava sottovoce con qualcuno alle sue spalle.

L’uomo si mosse sotto le coperte, i moncherini sfregarono contro la stoffa.

Con uno scatto Rob Lucci si tirò a sedere, guardò inorridito lo scempio sul suo corpo.

Kaku gli fu immediatamente vicino. « Calmo, sta’ calmo! » lo pregò.

Rob nemmeno lo ascoltava. Dominio delle emozioni, lucidità mentale, addestramenti martellanti e una vita intera spesa a diventare un’arma da massacro… non aveva le mani.

Sentiva gli ordini che partivano dal suo cervello e dicevano alle dita di serrarsi, ma non c’erano pugni da stringere. Il sudore lo avvolse, freddo, mentre la mente cercava furibonda di non lasciarsi sopraffare dalla disperazione più nera.

« Hattori… » disse rauco.

« Hattori è vivo, è da Caro Vegapunk, lo sta aiutando lei » disse subito l’agente più giovane.

« Fammi passare, Kaku, fammi passare… » la donna.

« Tu…? » la segretaria, Lilian. La piccola factotum della Torre di Catarina. Che ci faceva lì? Erano in missione per recuperarlo? Ma lei non era un’agente, non avrebbe dovuto uscire dalla loro sede. Non aveva nessuna qualifica per occuparsi di una missione, era un soldo di cacio piccolo e con un nugolo di capelli neri e spettinati, il suo posto era in ufficio a badare che Spandam non facesse guai!

« Boss » lo salutò lei, sorridendo. « Beva questo. La aiuterà, si deve fidare. »

Rob Lucci non riuscì a replicare, sentì la mano di lei sulla nuca e l’altra gli avvicinò alle labbra una scodella di legno piena di un liquido caldo, dal sentore alcolico. Bevve perché il suo corpo glielo impose, la debolezza era troppa e… e non aveva le mani.

Non aveva le mani.

« Kaku, lo lascio a te » disse la ragazza. Poi si rivolse verso qualcun altro nella stanza: « Andiamo fuori, sbrigatevi, mettete i giacconi »

Da quando la factotum aveva tutto questo potere decisionale? Che era successo?

« Ma è notte! Fa freddissimo fuori! » Jabura. Jabura che aveva sempre da protestare.

« Muoviti, lasciamolo tranquillo. »

E Califa? Kumadori? Fukuro? E Blueno?

 

~

 

Lassù tra le montagne, dove il vento soffiava tra le rocce e i ruscelli scendevano gorgogliando dai ghiacciai, c’era un rifugio di pietra. Era impossibile da notare, salvo se si sapesse già dove fosse; sembrava solo l’ennesima cunetta fra le rocce, ma aggirando un anonimo sperone calcareo si vedeva una fenditura, una porticina. E, osservando con attenzione, si sarebbe visto che quelle macchie scure non erano licheni, ma minuscole finestrelle; ce n’erano tre, e a volte erano otturate dalla paglia.

Lì si erano annidati gli agenti del CP9, lì si erano nascosti agli occhi di un mondo che nel giro di pochi mesi era stato messo a ferro e a fuoco dal colpo di stato più disastroso della Storia. La Giustizia Oscura non esisteva più. Lo stesso concetto di giustizia era messo in dubbio.

Ma lassù, a oltre tremila metri di altitudine, tutto perdeva significato quando l’inverno mordeva le ossa, e non esistevano più pirati, né agenti, né Marine: solo un gruppetto di disperati che cercava di sopravvivere.

Il rifugio di pietra era composto da una sola stanza, che correva circolarmente attorno a una sorta di pilone naturale che sorreggeva la volta; tre aperture permettevano di sorvegliare l’esterno, e dentro era un susseguirsi di coperte, di vestiti, di giacconi, di bottiglie di birra e di razioni di cibo per resistere a quei duri giorni. C’era un bel tepore, il fuoco scoppiettava in un angolo e illuminava tutto di arancio tenue.

Rob Lucci era stato sistemato in un angolo tranquillo, vicino al fuoco dove, solo di notte per non far notare il fumo da nessuno, veniva preparato da mangiare.

« Dove sono? » riuscì ad articolare Lucci, sdraiato su un giaciglio di coperte in un angolo.

Kaku era preparato ad assolvere quel compito, aveva le risposte pronte da settimane. Era lui l’agente con cui Rob Lucci aveva più confidenza, sarebbe spettato a lui dargli il bentornato, spiegargli perché il mondo non era più quello di prima, che loro erano stati usati come cavie per esperimenti folli, che avevano portato loro via pezzi di corpo e di anima.

« Sei sulla Red Line. In un vecchio rifugio di pietra in alta montagna. Impossibile da localizzare, lontano chilometri dal primo villaggio. Kumadori è di guardia. Sei al sicuro. » snocciolò le informazioni rilevanti.

« Che cos’è successo? »

« Il One Piece è stato ritrovato » ammise subito Kaku.

Alla luce della lanterna gli occhi ambrati di Rob Lucci sfavillarono, per quel poco che erano aperti, e si corrucciarono in un’espressione di ira e di risentimento.

« Ed è successo qualcosa. I poteri dei Frutti del Diavolo non esistono più. Tutti i proprietari, io, tu, Jabura, Califa, tutti in tutto il mondo, sono svenuti e sono rimasti svenuti per mesi… »

Rob Lucci lo guardava con il suo solito sguardo austero e serio, ma la bocca schiusa tradiva un respiro più affannato del solito. Kaku immaginava che doveva essere sconvolto, ma sapeva che mai l’avrebbe dato a vedere. Tanto più con Jabura ancora nei paraggi!

 

« Quanto tempo… da quanto tempo dura questa situazione? »

« È cominciato tutto un anno e due mesi fa »

Diede qualche secondo al collega per assorbire la notizia, e poi continuò: « Quando siamo svenuti, naturalmente la segretaria ha chiamato i medici; qualche giorno dopo, però, sono venuti dei governativi a prelevarci, per portarci in una struttura dove, a loro dire, avrebbero fatto delle indagini su di noi. Ma mentre eravamo in viaggio, sempre svenuti, il Governo è caduto. »

Rob Lucci aspettava il seguito.

« Un’organizzazione antigovernativa, in assenza di potere, ha fatto un colpo di stato. Il Governo Mondiale non esiste più. La Marina non esiste più. E siamo stati usati come cavie per esperimenti da quest’organizzazione per tutti questi mesi. »

Rob Lucci capiva quello che diceva Kaku, ma era un incubo. Era sicuramente un incubo, si sarebbe svegliato. Aveva bisogno di aria, si alzò in piedi di scatto. La testa immediatamente gli girò, Kaku lo sostenne prendendolo per il braccio superstite.

Lucci cercò di appoggiarsi a una parete con l’altro, ma inutilmente.

« Calmo, rimettiti seduto » lo pregò Kaku. Decise di dargli la zolletta di zucchero, dopo tutto quell’amaro: « Sono stati Kumadori e Fukuro, con la factotum, a recuperarci. Andrà tutto bene, anche se ti hanno portato via le mani. Caro Vegapunk è dalla nostra parte, sta aiutando Hattori, ha aiutato me e Jabura, e aiuterà anche te. Ci deve la vita, e sta collaborando. Andrà tutto bene. »

L’uomo rimase in silenzio, a metabolizzare quelle risposte. Stava cercando di rimanere lucido, di non lasciarsi andare a reazioni avventate, a controllarsi. Anche se ti hanno portato via le mani.

« Hattori è vivo? »

« Hattori è vivo, l’hai salvato. » ripetè pazientemente Kaku, per nulla seccato dalla domanda.

« Tu… quando ti hanno trovato? »

« Cinque mesi fa » sospirò piccato il ragazzo « E quando mi sono svegliato, non avevo più le gambe »

 

~

 

« Boss » sussurrò commossa Lili « è bellissimo vederla, ho avuto così paura… »

« Piantala, figurati se ci rimaneva secco! La mala erba non muore mai! » la rimbeccò Jabura.

« Basta, tutti e due » li sgridò Kaku. « Andate a dormire, è notte fonda. E tu » si rivolse a Lilian « devi riposarti, domani dovrai guidare »

« Va bene » mormorò obbediente la ragazza. Mosse qualche passo, e si rannicchiò sotto un giaciglio di coperte simile a quello di Rob Lucci, a poca distanza da lui.

L’uomo la guardò mentre si abbracciava al cuscino e si muoveva alla ricerca di una posizione per prendere sonno, come se attorno a lei non ci fosse mezzo CP0. Doveva essere routine, dormire così.

« Che c’è? » notò Jabura quell’espressione « Ti aspettavi il grand hotel? Dormiremo tutti insieme qui! Quindi se non ti dispiace… » disse sedendosi su un altro cumulo di coperte a poca distanza da quello dove si era coricata la signorina.

Rob Lucci squadrava il rivale, cercando di indovinare cosa gli avessero preso. Le mani erano le sue, non aveva dubbi. Le gambe, anche se coperte dai pantaloni, sembravano stare a posto, lo intuiva dai movimenti decisamente più fluidi di quelli di Kaku.

« A te non hanno tolto niente? Nemmeno la lingua? » attaccò.

Kaku e Lilian sorrisero: stava grosso modo bene, se voleva litigare con Jabura.

Jabura si aspettava quella domanda, glielo si leggeva in faccia, e si posizionò in piedi davanti a Lucci, dandogli le spalle. Piano, come se stesse facendo uno streap-tease, si sfilò la felpa nera e, man mano che la stoffa saliva verso l’alto, brillavano alla luce della lanterna delle placche di metallo chiaro impiantate lungo tutta la colonna vertebrale, in fila come un treno, contornate da cicatrici irregolari, e spiccavano tra la massiccia muscolatura dell’uomo.

« La spina dorsale…? » indovinò Lucci, mascherando lo stupore.

« Oh, che bravo, hai studiato anche anatomia? Dieci e lode, gattaccio » commentò il Lupo rimettendosi la felpa.

« Cercate di dormire, domani dobbiamo andare fino al paese di Caro e dobbiamo essere in forze » li pregò Kaku.

Il giovane agente si alzò dal capezzale di Lucci, mettendo in mostra delle superbe protesi decisamente futuristiche, tanto che Lucci non potè fare a meno di pensare se, nel cambio, non ci avesse guadagnato: erano lucide, in alluminio, e non somigliavano a classiche gambe umane quanto piuttosto all’evoluzione tecnologica di quelle delle gazzelle. Il piede però, invece di un precario zoccolo, era un tutt’uno col resto della gamba e aveva la forma della punta di uno sci. Erano spettacolari e Kaku vi si muoveva con disinvoltura. Degna invenzione della famiglia Vegapunk.

« Domani mattina andremo da Caro, riprenderemo Hattori e vedremo cosa c’è in serbo per te » promise Kaku.

 

 

 

Dietro le quinte...

Ciao a tutti e grazie per aver letto! Ma un grazie grandissimo va a Fanwriter.it e a Eneri Mess per questa iniziativa che mi ha dato un'altra scusa per scrivere ancora del CP0! 

Sarà una raccolta breve, 4-5 storie al massimo, e si concluderà nel giro di una decina di giorni :) il tema del contest sono le protesi e gli impianti di supporto, quindi tutto girerà attorno alle sensazioni e alle situazioni che Kaku, Lucci e Jabura dovranno affrontare riguardo questa problematica.

Caro Vegapunk e Lilian, la segretaria: sono state introdotte nella storia "La lunga caccia alla Mano de Dios"; la prima è la geniale e dispotica figlia di Vegapunk, la seconda è una segretaria assunta per errore da Spandam, che aiuta il CP0 in tutte le mansioni da "ufficio", risponde a telefono, innaffia le piante, fa la differenziata ed era una pilota alle dipendenze di Caro Vegapunk, prima di essere radiata dal dipartimento scientifico. 

Il piccolo rifugio di pietra esiste davvero, si trova nei pressi del Passo Gavia sulle Alpi. Lo usavano gli Alpini durante la Guerra, per difendere l'Italia. L'ho visitato quest'estate e ci tenevo tanto a inserirlo in una storia, è un posto speciale.

Spero vi piacerà, per favore lasciate una recensione e lasciate gli oggetti contundenti al loro posto, per farmi capire cosa pensate della storia la frutta e gli ortaggi saranno più che sufficienti ♥ 

Arrivederci a presto,

Yellow Canadair

 

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Capitolo 2
*** Volare ancora ***


★Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Humans +” a cura di Fanwriter.it!

★Numero Parole: 2028

★Prompt/Traccia: (24) A sostituisce le protesi di B.

 

Volare ancora

 

Era il tramonto, giunto alla fine di una giornata pigra e carica di attesa.

La neve era alta, il vento fischiava tra gli alberi ed era piacevole starsene tutti insieme al calduccio, stretti stretti nel rifugio di pietra. Tutti tranne il povero Jabura, al quale era toccato il turno di guardia. Ogni tanto qualcuno infilava il giaccone e gli andava a portare qualcosa di caldo, lassù dov’era di vedetta.

Lassù, sulla montagna, gli agenti del CP0 aspettavano che calasse l’oscurità per raggiungere il furgone e affrontare un viaggio che li avrebbe condotti da Caro Vegapunk, figlia del celebre scienziato, mente geniale che, come loro, era ricercata dall’AntiGoverno.

« Yoooooyoooi! » esclamò a mezza voce Kumadori, chiudendo l’occhio destro. Non poteva roteare il suo bastone, visto il poco spazio, ma nella precipitosa fuga da Catarina l’aveva salvato e ora se ne stava appoggiato in un angolo. « Non ceda il tuo spirito, Rob Lucci… lunghi anni di studio… lunghi anni di ricerca… hanno fatto di Caro Vegapunk un’eccellenza nella biomeccanica! »

« A quest’ora avrà già aiutato Hattori, boss » sorrise incoraggiante Lilian, la segretaria, alla luce arancione della lanterna.

Rob Lucci non si pronunciava. Se ne stava nell’angolo, nel suo letto e parlava lo stretto indispensabile. Nella sua stessa condizione, una persona normale sarebbe impazzita, avrebbe dato di matto: come se le terribili amputazioni non fossero state abbastanza, si era svegliato senza una casa, senza più il Governo alle sue spalle, lontano dalla civiltà e confinato in un rifugio con altre quattro persone, senza neppure acqua ed elettricità. C’era da urlare, da piangere fino a seccarsi gli occhi, eppure lui non aveva fatto un plissé.

Jabura era furioso, e spesso razzolava fuori dal rifugio con la scusa di cercare qualche lepre da arrostire, perché proprio non ce la faceva, a vedere il rivale in un angolo, senza nemmeno più il potere di mangiare da solo. Non lo accettava, non voleva vederlo. Poi tornava a mani vuote perché era così nervoso da far rumore e far scappare tutte le prede. Aveva accettato di buon grado la ronda, quella sera.

Kaku riuscì almeno a evitare a Lucci l’umiliazione di chiedere da bere ogni volta che ne aveva bisogno: chiedendogli il permesso, gli legò una delle tazze di metallo al moncherino dell’avambraccio. Era un po’ grottesco, ed era una protesi molto patetica, ma a Kaku parve di sentire un “grazie”. Ma forse era stato il vento.

Di sicuro era il vento.

« Davvero, boss, stia tranquillo » la ragazza si era avvolta in una coperta e si era seduta ai suoi piedi  « lo so che tra lei e Caro non corre buon sangue, però… è in debito con noi, l’aiuterà. »

« A proposito » tuonò Rob Lucci, rivolto a Kaku « Non mi hai raccontato di questa situazione »

Kaku si voltò; stava scaldando del caffè su un fornelletto a gas, mangiucchiando biscotti. « Non sono stato io, a tenere i contatti con Caro » disse « È stata lei » e indicò la ragazza.

« Pensavo ti avesse sbattuta fuori dal dipartimento »

« E le stavo pure per rubare un aereo. » aggiunse Lilian; si mise comoda e cominciò a raccontare: « Quando il Governo Mondiale è caduto, e sapevamo che voi eravate ancora in navigazione, noi rimasti a Catarina -io, Fukuro e Kumadori- abbiamo capito subito che stavate correndo un rischio enorme, ma avevate troppo vantaggio, non potevamo inseguirvi. E la cosa che mi insospettiva di più era che… boss, Spandam sapeva. »

« Sapeva? »

« Alla Torre di Catarina tutte le informazioni, a meno che non fossero espressamente riservate a lei, passavano da me; invece quando sono arrivati quelli del Governo a prelevarvi, mentre eravate svenuti, io non ero stata avvisata della loro venuta, Spandam invece sì. E la cosa mi aveva messo la pulce nell’orecchio. »

« Yoooyooooiii!! Non darti retta e minimizzare la situazione… fu l’errore che io e Fukuro mai, mai nella vita ci perdoneremo! » si lamentò Kumadori.

« Non potevate immaginare che dietro ci fosse un complotto mondiale! »

« Mi occuperò personalmente di Spandam » promise Rob Lucci « E stavolta lo farò definitivamente. Continua a raccontare. »

« Caduto il Governo, sono andata ad Alexandra Bay a prendere uno degli aerei di Caro, ero disposta a rubarlo » disse Lilian con noncuranza « ma, per farla breve, ho salvato il culo a Caro perché la volevano uccidere nel suo ufficio: aveva rifiutato la proposta degli Antigovernativi e la stavano per far fuori. Così non solo ho salvato lei, ma abbiamo anche contattato, e quindi salvato, suo padre. Il quale non sapeva nemmeno che il Governo fosse caduto » aggiunse in ultimo.

« Una vera imprudenza, da parte sua » commentò Kaku.

La ragazza prese fiato. Non le piaceva molto raccontare, e sperò di essere stata abbastanza chiara. Il boss non faceva domande, quindi pensò di essersela cavata bene. Kaku le allungò un po’ di caffè in una tazza di metallo, e rabboccò quella che Rob Lucci aveva legata al braccio superstite.

« Caro si è nascosta in un villaggio a un paio d’ore da qui; noi abbiamo usato l’aereo per cercarvi… almeno finché c’era carburante » disse la ragazza rabbuiandosi.

« Le Sabaody sono diventate poco sicure, per noi del Governo? » domandò Lucci. Alle isole Sabaody viveva un anziano signore dai modi gentili che fabbricava le coperture per le navi che da lì partivano per l’Isola degli Uomini Pesce; con gli scarti, produceva il carburante per gli aerei.

« Non più del solito » disse cupa Lilian « ma Silvers Rayleigh, che ci riforniva, è morto »

« Silvers… » ripetè Rob Lucci.

Lilian ridacchiò « Proprio lui. Il fido vice di Gold Roger. Non mi guardi così, boss, non lo sapevo! per me è sempre stato solo Ray. »

Rob Lucci stava realizzando che loro, Governativi, avevano sempre comprato il carburante da uno degli uomini più ricercati della storia. Avesse avuto più forze, e la voglia, avrebbe scaraventato qualcuno giù dal monte.

Kaku intervenne in difesa: « Non lo sapevamo, non potevamo immaginarlo. Questa storia è saltata fuori dopo il ritrovamento del One Piece »

« Ho parlato con la moglie di Ray… sembra che sia morto in concomitanza con l’ascesa a Re dei Pirati di Marshall D. Teach. Infarto, dicono. Ma io ci credo poco » asserì Lilian.

« E l’aereo? » il leader decise di accantonare quel problema; ne avevano fin troppi.

La voce della ragazza si abbassò. « L’abbiamo smantellato. Era troppo grande, rischiava di essere scoperto »

Per alcuni istanti si sentì solo il rumore del vento.

« Alcuni pezzi sono lì » sorrise, indicando con un cenno le gambe cromate di Kaku.

Il giovane agente si sfiorò le protesi.

Si ricordava di quando Kumadori e Fukuro l’avevano trascinato a braccia nella casa di Caro Vegapunk, dopo un viaggio infernale su bestie da soma per raggiungere il villaggio dove si era rifugiata. Era stato amputato da poco, perdeva ancora sangue, il dolore non lo faceva dormire, Lilian non aveva più antidolorifici da dargli. I suoi amici l’avevano salvato, dopo sette mesi di ricerche, ma lui avrebbe preferito essere morto, piuttosto che non poter più camminare, né volare con il Geppo.

Allora Kumadori e Fukuro avevano proposto di portarlo da Caro, per cercare aiuto da lei, visto che Lilian l’aveva salvata; avevano caricato Kaku su un mulo e l’avevano trascinato per valichi e per ripide salite, fino all’uscio della scienziata.

« Io non posso aiutarlo. Avete fatto un viaggio a vuoto » e stava per chiudere la porta.

« Caro, tuo padre fa ricerche biomeccaniche, io non ci credo che non puoi salvarlo! » aveva pianto Lilian, in ginocchio sullo zerbino.

« Sono due cose diverse. » aveva sentenziato la giunonica donna « E comunque, non posso aiutarlo perché non ho i pezzi per fabbricare delle protesi decenti, non certo perché non ne sono capace. E neanche perché non voglio, checché ne pensiate »

« Yooooyooooiii dunque il cuore e l’animo della famiglia Vegapunk sono ancora palpitanti e vivi… »

Lilian aveva ignorato Kumadori, vedeva soltanto Kaku mezzo svenuto su un asino bolso in mezzo alla strada innevata.

« Quindi se io ti do i pezzi di ricambio… puoi fare qualcosa? »

Caro Vegapunk aveva fatto un sobrio cenno affermativo.

« Prenditi il mio aereo, Caro »

Lilian avrebbe pianto per le notti a venire.

Ma Kaku avrebbe camminato di nuovo.

 

~

 

In cambio dell’aereo, Caro aveva costruito loro anche una specie di furgoncino; somigliava a una busta del latte ed era meno appariscente di un bestione volante con trenta metri di ali. Lilian ne era la pilota, e scarrozzava volentieri gli agenti dove le veniva ordinato. Andava a vapore.

Bussarono alla porta di casa Vegapunk a notte fonda, perché si muovevano con i buio per paura di essere visti.

« Ha messo “Vegapunk” sul campanello?! » osservò seccato Kaku « Dovrebbe cercare di rimanere nascosta! »

Una donna formosa, con i capelli neri come la notte e un sorriso enorme aprì loro la porta.

« Oh, che piacere vedervi! Accomodatevi! Che bella sorpresa! » esclamò zuccherosa.

Gli agenti sgranarono gli occhi. Era un clone. Non poteva essere Caro Vegapunk, quella stessa Caro Vegapunk che dava filo da torcere a Rob Lucci, in quanto a superbia, e teneva sotto al tacco mezzo Governo Mondiale!

Il leader fu il primo a capire: « Una copertura perfetta » riconobbe.

« La copertura dei miei bignè? Certo che è perfetta, entrate! » li accolse la donna.

La porta di casa si chiuse alle spalle dei rifugiati.

« Alla buon’ora » li stilettò Caro Vegapunk « Per quanto tempo mi volevi lasciare il tuo piccione? Non sono una baby-sitter »

Kaku, Kumadori e Lilian quasi sospirarono, nel ritrovare la vecchia arrogante Caro. Niente male come copertura, anche se il cognome sul campanello era un errore da dilettanti; ma Caro Vegapunk era nota a tutti per il suo carattere oltremodo particolare e non molto affabile, se chi la cercava si fosse trovato davanti quel sorriso avrebbe certo tirato dritto, convinto di aver sbagliato soglia.

Un rumorino fece voltare tutti verso la porta che conduceva al salotto: come il motorino di uno spazzolino elettrico, ma più soffocato. E nella stanza, con il rumorino, entrò volando e cinguettando un meraviglioso Hattori!

Il colombino non aveva più le sue delicate ali bianche, strappate via dalla crudeltà dei carcerieri per cercare di sortire una qualche reazione in Rob Lucci, ma Caro gli aveva impiantato due splendide ali di legno e metallo con due motori, e l’uccellino era tornato a volare; atterrò agilmente sulla spalla del suo compagno, gli strofinò il capino contro il collo.

Rob Lucci si voltò verso il colombo e mosse qualche passo verso la finestra, dando le spalle agli astanti.

« Bimotore a raggi solari, lega di Feather Metal, legno di betulla e rame. » spiegò intanto soddisfatta la donna posandosi le mani sui fianchi. « Nulla di complicato. Solo un po’ pernicioso trovare le lampadine giuste per le estremità, ma niente di impossibile » considerò.

« Gli hai messo le lucine rosse e verdi come sugli aerei? » fece Lilian.

« Mi sembrava anonimo, senza » disse Caro, guardando soddisfatta Hattori che decollava dalla spalla di Lucci e gli girava attorno alla testa.

Poi la scienziata guardò Rob Lucci con aria tagliente. « E ora vediamo cosa dovrò sostituire a te. Ho già ricostruito due gambe, una spina dorsale intera, e un paio di ali. Tu che sfida mi proponi? »

L’uomo guardò Kaku, e si scambiarono un cenno d’intesa. Il ragazzo lo aiutò a togliersi le felpe che lo difendevano dal freddo dei monti, e il mantello che lo proteggeva dall’umidità.

Caro assottigliò lo sguardo. Il braccio sinistro, intero, e il braccio destro fino a metà avambraccio. E non potè fare a meno di notare che l’uomo era sciupato, smagrito, ben diverso dal Rob Lucci possente e muscoloso in grado di uccidere uno squadrone di militari in pochi secondi. Ma aveva lo stesso sguardo fiero.

« E quella che roba è? » chiese, con il tono di una che aveva sorpreso uno scarafaggio nel barattolo dello zucchero.

La tazza di metallo attaccata all’avambraccio superstite.

« Beh, per farlo bere. » bofonchiò Kaku.

« Che razza di protesi… robaccia » protestò la scienziata. « È tutto qui quello che il CP0 sa fare? Dammi quarantott’ore, Rob, e ti ridarò le mani migliori che tu abbia mai visto » 

 

 

 

Dietro le quinte...

Ecco di nuovo Hattori! ♥ piccola e tenera nuvoletta bianca, adesso con ali bioniche e doppio motore, sponsorizzate dalla Famiglia Vegapunk (sempre sia lodata). Spiegoni, in questo capitolo, giusto per far sapere un po' le cose come sono andate. Ops ho ucciso Silvers Rayleigh.

Ricordo che questa è una raccolta molto shalla, senza grandi pretese ♥ giusto un po' di angst, di buoni sentimenti tra questi ragazzacci che si trovano in difficoltà e possono contare solo su loro stessi, e tanto fluff nel rifugio di pietra ♥ 

Ehi! Ma la state leggendo La Lunga Caccia alla Mano de Dios? Lilian e Caro vengono da lì! Troverete bbbbotte, trama, complotti e non-con!! E tanto CP0, non sempre esattamente con i vestiti.

Appuntamento a presto e un bacione,

Yellow Canadair

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Capitolo 3
*** Bambini Tondi ***


 

 

★Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Humans +” a cura di Fanwriter.it!

★Numero Parole: 1776

★Prompt/Traccia: Bambini curiosi

 

 

Bambini Tondi

 

Kaku si era seduto sul bordo di un abbeveratoio di pietra, in una stradina laterale che portava alla piazzetta del paese; la vedeva da lontano, bianca di neve, e aspettava con pazienza che la piccola drogheria aprisse.

Erano da poco passate le otto del mattino, e lui e Lilian erano rimasti nel paesino invernale della Grand Line dove viveva Caro Vegapunk, che in quelle ore stava operando Rob Lucci.

« Servono queste cose » gli aveva detto la pilota, porgendogli un foglietto scritto a matita « Vuoi pensarci tu? Non posso lasciare il furgone incustodito… » gli aveva chiesto il favore.

I soldi stavano finendo, e quella lista era magra e scarna; però Kaku l’aveva presa dalle mani della segretaria e si era avviato in paese prima ancora che i negozi aprissero.

Lei era rimasta rintanata nella vecchia stalla dove avevano nascosto nottetempo il furgone, pronta a difenderlo in caso di pericolo, e con un orecchio sempre teso al lumacofono che c’era dentro per ricevere notizie da Fukuro, in missione per localizzare Califa e Blueno, e da Jabura e Kumadori, rimasti al rifugio.

Kaku lesse la grafia rotonda e chiara: roba di routine, piccoli oggetti e rifornimenti che servivano per sopravvivere in quel rifugio di pietra un altro po’. Certo, era un rischio comprare le cose alla luce del giorno, ma con un furto si sarebbero esposti ancora di più: in un paesello di poche anime dove tutti si conoscevano, tutti si sarebbero messi in allarme in un amen, e loro stavano cercando di rimanere nascosti. Ecco perché se ne stavano acquattati nel furgone, non andavano troppo in giro, e si spostavano di notte.

E lui aspettava che aprisse il droghiere, sperando che non ci fossero molte persone in giro a quell’ora del mattino.

Gli venne sete, e guardò dentro l’abbeveratoio di pietra che lo sorreggeva: ghiacciato. Sospirò, incrociò le braccia e si tirò il berretto sugli occhi per ripararsi dal riverbero della neve che invadeva le strade.

Accavallò le gambe di metallo. Era ancora stranissimo conviverci. La prima cosa che faceva al mattino, appena sveglio, era montarsele addosso. In fretta, prima che il suo cervello avesse tempo di realizzare che le sue vere gambe, dal ginocchio in giù, non esistevano, e che il cuore scappasse al galoppo per il panico e il raccapriccio di una disgrazia alla quale  non riusciva a rassegnarsi. Quando si alzava in piedi, riusciva a convincersi che andasse tutto bene, muoveva qualche passo e… e camminava. Tutto sommato già quella era una vittoria. Saltare e usare il Geppo era ancora difficile, ma un giorno ci sarebbe riuscito. Magari in futuro Caro sarebbe potuta tornare in un vero laboratorio degno del suo nome, e gli avrebbe costruito delle protesi migliori, senza riciclare pezzi di aereo.

Le lame di metallo che uscivano dai suoi calzoni corti rilucevano nella neve, colpite dal sole gelido. Sotto al “piede”, che piede non era perché non somigliava neanche lontanamente alla sua controparte anatomica, era stato aggiunta una sorta di soletta di gomma, residuo delle ruote dell’aereo, per non farlo scivolare sulla neve o sul ghiaccio.

A Kaku non piaceva.

Tutta quella situazione era… sbagliata.

Non avere le sue gambe era sbagliato.

Svegliarsi e non potersi alzare dal letto, era sbagliato.

I moncherini, ciò che rimaneva delle sue meravigliose gambe che lo facevano schizzare nei cieli di Water Seven, erano orribili, mutili, pieni di cicatrici, erano sbagliati.

Strinse i pugni, guardò verso il cielo. Almeno le mani le aveva ancora… forse Rob era stato decisamente più sfortunato di lui.

Quella faccenda, le amputazioni, il Governo caduto, il vivere alla macchia… quando erano scappati da Enies Lobby avevano creduto di aver toccato il fondo, e invece non erano state che le prove generali per un futuro ancora più terribile.

Memori di quella esperienza, aiutarsi a vicenda, da subito, era stata la salvezza più grande. Tutti sapevano già esattamente cosa poteva confortare l’altro, tutti sapevano dove mettere le mani in caso di panico, tutti sapevano gestire la vita tra i monti senza contare sul Governo, che per loro era stata una vera e propria madre: cibo gratis, letti gratis, come lottare, come comportarsi, come vivere. Adesso tutto era solo nelle loro mani, e per di più con degli handicap così pesanti da chiedersi continuamente se avrebbero potuto sopportarli o sarebbero scoppiati, e le loro menti avrebbero ceduto.

E senza Frutti del Diavolo. Erano ormai nove anni che Kaku conviveva con il Cow-Cow, gli rodeva parecchio essere riuscito a dominarlo, a risvegliarlo, per poi perderlo pochi mesi dopo. Accidenti! E per Lucci e Jabura doveva essere stato ancora peggio: per Jabura, poi, quel potere era parte integrante della propria identità.

Basta, Kaku non ci voleva pensare. Voleva allontanare quei pensieri che lo facevano annegare, che lo svegliavano nella notte e non lo facevano riaddormentare.

Alzò il berretto e guardò davanti a sé, in quei metri di neve che c’erano davanti ai suoi nuovi piedi.

E c’era un bambino.

Kaku sgranò gli occhi. Che errore che aveva commesso! Assorbito dai suoi cupi pensieri, la sua Ambizione della Percezione non l’aveva sentito arrivare!

Per fortuna non sembrava un nemico ostile, era solo un mocciosetto.

Avrà avuto tre anni al massimo. Era… tondo.

Così infagottato in strati di lana e cappotti, con il berretto, i guanti, la sciarpina e gli stivaletti, da risultare assolutamente… tondo. Kaku pensò che, se l’avesse spinto, quello sarebbe rotolato fino alla piazzetta senza farsi un graffio.

Il suo faccino era rosso per il freddo, gli occhietti erano neri, leggermente a mandorla, e guardavano rapiti le gambe di Kaku.

Ne arrivò un altro, di bambino. Una femmina, forse, visto che era vestita di rosa, ma era dello stesso modello del primo bambino: tonda e infagottata.

Il bambino le indicò con una mano (intera, non con l’indice solo, perché aveva i guanti con un’unica tasca per tutte le dita) le gambe di Kaku e anche lei, spalancata la boccuccia, si fermò a guardarle in catalessi.

Lo 007 si guardò attorno: non avevano dei genitori, quei due cosi, non c’era una scuola da qualche parte in quel paese? Era leggermente in imbarazzo, così sotto i riflettori, ma non voleva allontanarsi perché prima o poi il droghiere avrebbe aperto, e lui voleva tornare al furgone.

Scavallò le gambe e le accavallò di nuovo, al contrario.

Per la prima volta i bambini sembrarono notare che, attaccata a quelle strane cose metalliche, c’era una persona.

Lo guardarono in faccia e spalancarono gli occhioni neri.

Anche Kaku si sorprese, ma non disse nulla, rimase asserragliato tra il cappellino e il bavero del giaccone da neve.

« Sei una slitta? » disse il Bambino Tondo.

Kaku aprì la bocca per rispondere, ma la Bambina Tonda assestò uno spintone al Bambino Tondo ed esclamò: « Stronzo! »

Ma che bambina dolcissima.

« Non si dicono queste cose! È maleducazione! »

Ma che bambina coerente.

« Lo dico a mamma, che hai detto quella parola! » disse Bimbo Tondo, restituendole lo spintone.

Kaku li osservava, ben lungi dal separali o intervenire.

Il maschietto tornò a guardare verso di lui. « Sei una slitta? »

« No » riuscì a rispondere stavolta l’agente « Mi prendi in giro? »

« Ma hai i piedi come quelli delle slitte! » disse stavolta la bambina.

Kaku si innervosì. Ma erano solo bambini invadenti, non erano minacce. Guardò verso il droghiere, la cui saracinesca si ostinava a rimanere chiusa.

« Beh, sono fatti così. Non sono una slitta » disse il ragazzo.

La Bambina Tonda si accovacciò per guardarli meglio, senza toccarli « Oh! » disse « Sono di ferro! »

« Sei nato così? Con i piedi di ferro? » chiese il fratellino.

La conversazione stava prendendo una piega strana e non piacevole, pensò Kaku. Che diavolo doveva dire? A lui non piaceva parlarne con i suoi compagni, figuriamoci con due mocciosi sconosciuti!

« No » disse evasivo. Era abituato a mentire, però c’erano momenti in cui non ne valeva la pena. Mentire voleva anche dire immaginare una bugia, darle delle note di verismo, e Kaku in quel momento non aveva voglia di inventare una spiegazione alle sue protesi. Non ci voleva pensare per niente.

« Perché non hai più i piedi? » chiese il bambino.

L’agente segreto si stava innervosendo, e pensò di allontanarsi da quei due ficcanaso. Si guardò attorno, in cerca di un altro luogo da cui tener d’occhio il negozio.

Poi la bambina chiese una cosa, triste triste: « Succederà anche a noi? »

« Come papà? » completò il piccolo.

Kaku si voltò verso i due bambini. Lo guardavano serissimi. Si inginocchiò per terra -le protesi lo assecondarono dolcemente- per stare alla loro stessa altezza « No » disse. «  Nessuno vi porterà via niente… che è successo a vostro padre? »

Lunghi anni di spionaggio gli facevano fiutare notizie rilevanti lontane chilometri.

« Non c’è più » disse la Bambina Tonda.

« È a lavorare lontano lontano. Ha mandato una lettera alla mamma. Mamma lo diceva a nonna… »

« E che c’era scritto, nella lettera? » chiese Kaku, sforzandosi di pazientare.

« A papà hanno tolto le gambe » pianse la femminuccia. « Non può tornare a casa »

Kaku non volle tirare troppo la corda, avrebbe scoperto senza problemi di chi fossero figli quei due bambini. Ma quanta gente era stata sequestrata, dal Governo? Cosa c’era in atto, mentre loro erano annidati in quell’angolo di mondo a leccarsi le ferite a vicenda?

« Mamma si arrabbia che te l’abbiamo detto » disse il maschietto.

« Sono bravissimo a mantenere i segreti, non ti preoccupare » promise Kaku sorridendo.

« Anche a me li hanno tolti » disse triste la Bambina Tonda.

Kaku si stranì. « No, li hai. » ne era sicuro: erano coperti dai doposci, ma di sicuro in quegli stivaletti c’erano dei piedi.

« No, me li hanno tolti. E anche a mio fratello. Hanno tolto tutto. »

Kaku sentì un brivido lungo la schiena, ma la domanda successiva lo distrasse: « Posso toccarli? » indicò i piedi di Kaku.

« No » disse lui, ritraendosi. « Meglio di no. » si addolcì subito, perché la bambina si era turbata.

I due rimasero qualche istante a guardare le protesi, Bambino Tondo si stese nella neve per guardare anche la suola di gomma.

« Sei fortunato » disse infine Bambina Tonda « Perché non ti vengono i piedi freddi! »

La saracinesca della drogheria venne sollevata con un gran fracasso, e Kaku si voltò in quella direzione.

Quando tornò a guardare verso i due mocciosi, erano scomparsi.

E, notò Kaku, i loro piedi non avevano lasciato neppure una minuscola impronta nella neve.

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Che fine hanno fatto i Bambini Tondi? Chi erano? Forse Kaku non lo scoprirà mai...

Anche lui, come Lucci e Jabura, è impegnato a combattere contro la realtà che lo strattona e lo costringe a fare i conti con due piedi artificiali. A lui non piacciono, non li vuole, le gambe erano il suo biglietto da visita: chi lo dimentica, a Water Seven, quando solcava i cieli saltando e tutti lo guardavano dal basso? E a Enies Lobby, che fronteggiò Zoro a spade e gioco di gambe? Ma il destino l'autrice è una sadica bastarda, e gliele ha tolte. Ora sta a lui rimettersi in piedi fare il primo passo tornare in sella.

Grazie per seguire questa piccola raccolta e grazie a Fanwriter.it per la bella iniziativa ♥ lasciatemi una recensione per favore, è la prima volta che scrivo così tanto di Kaku e mi piacerebbe sapere se secondo voi è convincente! Grazie tantissimo!

A prestissimo,

Yellow Canadair

 

 

 

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Capitolo 4
*** Veglia con il Lupo ***


★   Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Humans +” a cura di Fanwriter.it!

★   Numero Parole: 1616

★   Prompt/Traccia: (25) Incubi.

 

Veglia con il Lupo

 

Stava sveglio, di notte, a osservare le sue nuove braccia.

Le muoveva lentamente davanti al naso, stringeva il pugno di scatto, lo apriva con calma, girava e roteava i polsi, alzava le braccia al cielo mentre stava steso e le guardava, così strane, così diverse dai suoi muscoli, così più resistenti, così ancora da scoprire.

“Vacci piano” lo aveva ammonito Caro Vegapunk "Niente tecniche strane, niente allenamenti. Devi dare tempo al tuo corpo di abituarsi alle protesi. Loro sono altamente tecnologiche, tu no”

Tsk. Quella donna non sapeva con chi aveva a che fare.

Però, aveva notato Rob Lucci, all’inizio le mani meccaniche ci avevano messo un po’ di tempo per abituarsi agli ordini che trasmetteva dalla sua mente: evidentemente anche loro avevano bisogno di una fase di rodaggio, per calibrarsi.

Si appoggiò un palmo su una guancia: era freddo e liscio.

Hattori aveva accettato subito quel cambiamento. Non gli importava nulla, e Lucci non poteva essergliene più grato. Il colombino, però, si era preso di prepotenza qualche minuto per studiare quei nuovi arti, per girarci attorno, per studiare le articolazioni delle dita, per saggiare con la punta del becco quelle braccia che di umano avevano ben poco e ascoltare il rumorino che produceva il becchettarvi su.

Fasce d’acciaio e placche d’alluminio formavano superbe mani bioniche, gelide ed efficienti. Esattamente come lui. Rob Lucci non potè fare a meno di sorridere soddisfatto.

 

Stava sveglio, di notte, a osservare le sue nuove braccia.

Perché quando chiudeva gli occhi riusciva a vedere la sega che gliele aveva strappate via.

Qualcosa a metà tra il sogno e il ricordo, rivedeva i denti d’acciaio, il rumore folle del motore che li faceva girare, sentiva le cinghie che legavano al letto il suo corpo inerme. Il sangue. Lo scricchiolare delle sue ossa frantumate…

Sognava i volti coperti degli uomini che l’avevano mutilato. Sognava Hattori, brutalmente fatto a pezzi solo per svegliare lui da quella strana forma di coma. Sognava di non svegliarsi in tempo per portarlo via. Sognava di non riuscire più a mangiare, né fare una firma, né farsi la barba come tutti. Sognava il Governo che lo gettava via, come già era accaduto…

Si svegliò di soprassalto e si rizzò a sedere con la sola forza degli addominali, sudato fradicio, col fiato mozzo e con il cuore che gli martellava in petto. Maledetti sogni, l’unico momento in cui tutto il suo autocontrollo svaniva.

« Ehi. Incubi strani? »

Si guardò attorno, cercò di mutare il volto in felino per vedere nel buio, ma quel potere non esisteva più. Pazientò qualche istante, e poi capì che chi aveva parlato era quel bastardo di Jabura.

Il Lupo era seduto nel suo letto, dall’altro lato del piccolo rifugio, con la pilota e Kumadori che dormivano alla grossa, e un lieve russare si levava dall’agente dai capelli rosa.

« Niente di grave » asserì Lucci togliendosi i capelli dalla fronte con uno scatto della testa, ben attento a non offrire lati deboli al suo rivale storico. Il letto di Kaku, accanto al suo, era vuoto: era il suo turno di guardia.

Jabura si alzò dal letto e si diresse verso il secchio con l’acqua accanto al fornelletto a gas. Alzò il coperchio, immerse una gavetta di acciaio e la portò al collega. La posò a terra, vicino al nido di stoffa di Hattori, e poi porse a Lucci la protesi dell’avambraccio destro, perchè se la mettesse e potesse bere da solo.

« Succede spesso a tutti, di svegliarsi nel mezzo della notte » disse, senza guardare negli occhi Lucci ma aiutandolo a montare sul moncherino l’avambraccio meccanico.

« Non è niente che debba allarmare nessuno » ribattè Lucci « Puoi tornare a dormire »

« Razza di irriconoscente! » ringhiò il Lupo « Non ci riesco. Secondo te che ci facevo, sveglio? »

Rob Lucci accese la propria protesi, brillarono i neon azzurri sulle nocche e lungo l’avambraccio, e illuminarono il volto stanco del suo collega, i suoi capelli sciolti che scendevano a cascata fin sul petto, con tanti, troppi, fili bianchi in tutto quel nero. Si ricordò che anche lui ne doveva aver passate di brutte. Bevve piano dalla gavetta, sentendo in bocca il sapore del metallo.

« Quanto dureranno questi disturbi? » domandò.

Jabura si strinse nelle spalle. « Non me ne intendo. Lili ha parlato di stress post-traumatico, ma non ne sa molto nemmeno lei. » sorrise amaramente « Mi dice sempre di svegliarla, se di notte c’è qualcosa che non va, ma… » ma era stanca anche lei, che tutto il giorno, e spesso anche la notte, andava su e giù tra le valli per assicurarsi che nessuno li scoprisse. Jabura si voltò verso il cumulo di coperte che nascondeva la donna, di fianco alla massa più voluminosa di Kumadori. « Se non ti senti bene la sveglio »

« Non mi serve niente » ci mancava solo di tirare giù dal letto tutti quanti per un brutto sogno! Avevano quattro anni? Posò la gavetta e con la mano meccanica lasciò una carezza delicata su Hattori, per non svegliarlo. Dormiva accoccolato vicino al suo cuscino, e non poteva più ficcare la testa sotto l’aluccia come al solito, quindi si ritirava sotto un drappo scuro per sfuggire alle luci e stare al calduccio.

« Succede anche a te, allora. » mormorò infine, rivolto al collega.

« Fare incubi? Io? No. Qualche sogno mi innervosisce, tutto qui. »

Il che, tradotto, voleva dire incubi spaventosi che lo tormentavano facendogli rivivere chissà che ricordo fino a svegliarlo. Jabura minimizzava sempre, per fare il duro.

« Cosa ti ha… innervosito? Io che ti superavo nei Doriki? Di nuovo? » lo provocò sfacciatamente.

« Idiota » scoprì i denti Jabura « Se ci tieni a saperlo, sogno quando mi hanno tolto le vertebre. Senza anestesia, maledetti. Quando ho capito che, senza, mi sarei cacato addosso per tutta la vita » sbottò furioso, voltandosi poi verso i compagni addormentati per controllare che la sua ira non li avesse svegliati.

Rob Lucci non riuscì a trovare nulla per ribattere. Conosceva cosa portavano i danni a livello spinale… cosa succedeva invece se la colonna veniva addirittura rimossa? E “senza anestesia”? era impossibile, Jabura era noto per raccontare un sacco di balle… se fosse stato vero, sarebbe  stato  inconcepibile che fosse ancora vivo… scosse la testa, voleva scrollarsi di dosso l’immagine di cosa doveva aver passato il collega.

« Beh, adesso sembri in salute. E non hai l’odore di uno che si caga addosso… almeno quello » perché senza acqua corrente, di odori in quel rifugio se ne sentivano tanti, troppi.

« In salute… ringraziando quella pazza di Caro. Ci ha messo cinque giorni, per rimettermi insieme »

I mesi di prigionia erano i ricordi più brutti della sua vita. Quando si era svegliato, paralizzato, e gli avevano detto che non si sarebbe mosso mai più, che sarebbe stato solo un corpo a disposizione degli scienziati Antigovernativi… quei giorni in cui gli veniva iniettato di tutto, in cui era intontito, aveva le allucinazioni, non poteva muoversi e, anche se non l’aveva mai detto a nessuno, era spaventato a morte.

Quando era stato salvato (una fuga rocambolesca, su una barella trafugata, perchè non poteva camminare), aveva pregato Kaku di ucciderlo. Uno Shigan dritto al cuore, tanto non avrebbe sentito nulla. Era il suo mestiere, uccidere, no? Gli risparmiasse l’umiliazione di vivere ridotto così, e lo uccidesse.

E Kaku aveva detto ok. Però a una condizione: andare prima da Caro Vegapunk.

Caro Vegapunk aveva protestato, lei il debito l’aveva saldato riparando le gambe di Kaku, era inutile quella questua davanti alla sua porta di casa, con il rischio di svegliare i vicini in piena notte. Ma poi, per fortuna, guardando quel gruppo di amici che la pregavano con le lacrime nel cuore, si era convinta e aveva fatto trasportare Jabura dentro casa.

Poi aveva scoperto che c’era da sostituire un’intera spina dorsale, e l’aveva presa come una sfida personale.

Lì, dalla scienziata, Jabura era stato cinque giorni, in un seminterrato che faceva da laboratorio e sala chirurgica, e lei gli aveva collegato alle costole rimaste una colonna vertebrale di metallo, aveva ricollegato i nervi e le terminazioni, e dopo quei cinque giorni sotto i ferri ne erano passati altri dieci, perchè le ferite e i tagli che aveva praticato Caro per impiantargli quella protesi ai limiti della fantascienza si cicatrizzassero. Immobile a pancia in più per tutto quel tempo, ma non gliene era importato: uscito dal seminterrato, dopo i primi cinque giorni, era riuscito a stringere le dita attorno alla mano di Lili.

« Concentrati su qualcosa di bello » gli consigliò Jabura, pensando alle lacrime di gioia della ragazza, che copiose erano scese quando l’aveva visto muoversi di nuovo. « Qualcosa che ti faccia pensare al futuro » perché di futuro e di speranze parlavano i versi che Kumadori aveva declamato sciogliendosi dalla commozione.

E tanto per cominciare, aveva minacciato Kaku di scaraventarlo fuori dalla finestra, se si fosse azzardato ad avvicinarsi per fargli uno Shigan.

« Torna al tuo posto » sospirò Rob Lucci, rimettendosi sotto le coperte e scollegando la propria protesi « Il prossimo turno di guardia è il tuo, no? »

Vide il compagno dargli le spalle, con le luci della sua colonna bionica che mandavano dei bagliori offuscati dalla stoffa dei vestiti; lui doveva mantenerla sempre accesa, non poteva spegnerla o toglierla a piacimento, altrimenti… Lucci s’incupì ancora di più.

Ma per fortuna il Lupo reagì: « Ci vado da solo! Mica avevo intenzione di farti la guardia per tutta la notte! »

« E basta… » si levò un lamento cavernoso dal fondo del rifugio.

I due litiganti si chetarono.

Stava sveglio, di notte, a osservare le sue nuove braccia.

E anche se a volte si svegliava, spaventato, sapeva che c'erano i suoi compagni tutt'attorno a lui.

 

 

 

 

Dietro le quinte...

E non sapete CHE BELLO pubblicare questo capitolo! È il primo a cui ho pensato, la conversazione tra Lucci e Jabura, la confessione (un po' sbilenca, incompleta e nascosta) di quanto anche per il Lupo siano stati difficili i mesi di prigionia, anche se non lo ammetterà mai in maniera palese -tipo durante il duello con Sanji, che diceva "non mi fai niente, sei scarso", e pensava "chi accidenti è questo, che mi sta facendo il culo?!" 

E poi ci sono le paure di Rob Lucci, che così orgoglioso ha difficoltà a gestire un corpo che, a volte, ha bisogno dell'aiuto degli altri. Ma per sua fortuna, i suoi amici non lo lasciano mai solo! Però ehi, come fuziona bene questo braccio meccanico, chissà che per uccidere non sia meglio del vecchio! 

Adoro Jabura, chi mi segue da un po' credo l'abbia leggermente capito, e sono contentissima quando mi ritaglio un capitolo solo per lui ♥ Vi piace?

Grazie a tutti coloro che stanno seguendo e grazie ai recensori, GRAZIE RAGAZZI, siete magici ♥♥♥ e vi do appuntamento in settimana per l'ultimo capitolo! Eh sì, fine della raccolta :( ma forse più avanti aggiungerò qualche altro capitolo. Per ora è tutto!

Un bacione a tutti

Yellow Canadair

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Capitolo 5
*** Partenza ***


Partenza

[fuori contest]

 

Kumadori era bravissimo a raccontare storie.

Riusciva a farti sentire il cuore a mille delle innamorate, il clangore delle spade dei paladini, le ruote dei carri sul selciato e persino i cigolii delle porte, l’odore della polvere, la sensazione di umido delle soffitte dove i protagonisti dei suoi racconti trovavano gioielli e mappe del tesoro.

Le sue preferite erano le storie d’amore, e più erano tragiche, più lui si divertiva a recitare le espressioni affrante dei personaggi, le loro dichiarazioni strappalacrime, le loro vendette passionali e le riconciliazioni dopo lunghe peripezie.

I protagonisti non parlavano mai in maniera normale, come ci si aspetterebbe da servette analfabete o avventurieri squattrinati: erano in grado di pronunciare discorsi aulici e lunghissimi solo per chiedere un sorso d’acqua, con gran disappunto di Jabura che voleva sapere come andava a finire la storia, e non gli interessavano ore di salamelecchi che il collega s’inventava apposta per, diceva lui, allungare il brodo.

Ascoltare storie e tragedie può sembrare un passatempo da bambini, ma era uno dei pochi a disposizione degli agenti, chiusi nel rifugio in alta montagna senza neppure la corrente elettrica. Quando calava il sole e le gelide tormente avvolgevano la cupola mimetizzata del loro piccolo covo, non rimaneva altro da fare che chiedere a Kumadori una storia, e ci si distraeva a chiedersi se la giovane trovatella avrebbe o no scoperto chi erano i suoi genitori: la malvagia e ricchissima regina, o la povera e dolcissima fornaia? Erano dubbi in grado di spaccare la platea!

Neppure Rob Lucci, con tutta la sua severità e la sua concentrazione sulle cose importanti in quel momento -imparare a gestire le protesi, riprendere l’uso pieno delle Rokushiki, captare la lumacofonata da Fukuro che era sulle tracce di Blueno e Califa-, riusciva a trovare un motivo valido per impedire quel passatempo. Quando era impossibile uscire all’aperto per il freddo, e di sera, c’era ben poco da fare. Il rifugio era davvero troppo piccolo per qualsiasi cosa, e gli agenti riuscivano solo a fare addominali e dorsali sfruttando lo spazio dei giacigli. Ma non si potevano fare per sempre, e dopo cena una bella storia non si rifiutava mai.

Qualcuno si metteva vicino al lumacofono, per essere sicuri di sentirlo trillare nonostante la voce tonante di Kumadori, e cominciava l’avventura.

Infuriava la tormenta, cosa che aveva reso qualsiasi turno di guardia un vero suicidio, e aveva convinto tutti gli agenti a non uscire: a mandare qualcuno a fare ricognizione, c’era il rischio di perderselo per broncopolmonite.

Quella sera, però, non fu Kumadori a raccontare.

Fu Kaku.

« … poi la drogheria ha aperto la saracinesca, mi sono girato da quella parte, intanto i due ragazzini sono spariti. »

Narrò ai colleghi di quello strano incontro con i bambini, davanti allo spaccio del paese.

« Saranno tornati a casa loro » ovviò lucidamente Rob Lucci incrociando le braccia e mandando bagliori metallici alla luce della lampada a olio.

« Non hanno lasciato impronte » avversò Kaku « Non li ho sentiti allontanarsi né arrivare, e nemmeno erano in giro quando ho fatto un giro nei dintorni per cercarli »

Con il buio e il freddo che c’erano fuori, e il fuoco della lampada che faceva tremolare la poca luce, una storia di fantasmi in piena regola era l’ideale per sonni sereni. Peccato che Kaku, lo sapevano tutti, non si stava inventando niente.

Jabura lo squadrò e poi disse: « Sei sicuro che non fosse per la stanchezza? »

Kaku lo fulminò: « Non era un’allucinazione e non ero stanco! »

« Piantala di fare l’alzato di culo, non sei-

« YOOOOYOOOOIIII non si creino spiacevoli gazzarre in questo ameno luogoooo » pregò Kumadori.

« Non ho intenzione di dormire nella neve perché tu » tuonò Lucci a Jabura « non sei riuscito a tenere la lingua a freno » una rissa tra lui, Kaku e Jabura avrebbe raso al suolo quel nascondiglio scavato nella pietra, poco ma sicuro.

« Se non è stato per la stanchezza, quello ha conversato con due fantasmi, hai capito? » sbraitò Jabura indicando il collega più giovane « Certe cose portano malissimo! E se li avesse trascinati fin qui?! Non ho intenzione di svegliarmi in piena notte e trovarmi due mocciosi che mi fissano! »

« Piantala con queste storie! » rispose iroso Lucci. « Sei un Governativo, non puoi credere a queste assurdità! »

« Boss, abbiamo ragione di pensare che non siano solo assurdità » disse la segretaria con un sospiro, emergendo dal suo cantuccio. Jabura si voltò nella sua direzione. « Abbiamo chiesto a Caro Vegapunk, che conosce qualcuno in paese, di fare qualche domanda in giro in maniera discreta... e quello che ha detto Kaku, storia di fantasmi o allucinazione che sia, ha dei riscontri nella realtà. Tenga… »

Porse un foglietto di carta a Rob Lucci, che interpretò senza difficoltà la grafia rotonda e precisa della ragazza.

L’uomo lesse le poche righe e poi si voltò verso Kaku. « Sono esistiti veramente due gemelli, in quel paese: Vevé e Zenziño, figli del Viceammiraglio Shu, che era originario della zona… avrebbero compiuto cinque anni fra pochi mesi. » i suoi occhi indugiarono ancora sulle righe.

Calò il silenzio.

« Lo conoscevi? » fiatò Kaku, che ovviamente conosceva già tutto il contenuto del biglietto.

« So chi era » rispose Lucci, senza tradire alcuna emozione. « Shu è scomparso circa un anno e mezzo fa » lesse.

« Yoooyoi, coincide con il periodo in cui vi portarono via… »

« E stando a quanto dice Caro Vegapunk, i due figli sono scomparsi dai loro letti una notte di sette mesi fa. La madre è partita la settimana dopo per cercarli, e non si hanno più notizie di loro » completò Lilian.

Vennero i brividi a tutti, ma solo la ragazza non si curò di nasconderli, avvolgendosi di più nella coperta che aveva sulle spalle e addossandosi a Jabura, e lui la circondò con un braccio, così gelosamente da farla sobbalzare. Nessuno osò parlare, e per qualche lunghissimo minuto si sentì solo il crepitare della fiammella nella lampada, che rischiarava appena la minuscola stanza, e gli ululati furiosi del vento. Non era tanto la storia familiare del Viceammiraglio Shu a turbarli, quanto le dimensioni che aveva assunto quell’insensato e folle sequestro di massa di Governativi, Marine e, sembrava, anche relative famiglie.

« Ecco perché è… improbabile che sia qualcosa causata dalla stanchezza » spiegò a voce bassa la pilota a Jabura « anche ammettendo che sia stato un sogno, come avrebbe fatto Kaku a indovinare la presenza di due gemelli sui quattro anni, che facevano riferimento a fatti che lui non poteva conoscere? »

Kumadori si alzò, accese il fornelletto a gas in fondo al rifugio, e mise su dell’acqua: aveva bisogno di un tè caldo, e probabilmente anche gli altri. Jabura e Lucci forse l’avrebbero anche corretto con qualche goccio dell’unica bottiglia di scotch che avevano.

La tempesta infuriava impietosa, e dalle finestrelle otturate con la paglia arrivavano degli spifferi gelidi. Kaku si impegnò per risistemare tutto, ed evitare che entrasse troppo freddo nel loro nascondiglio.

Rob Lucci, seduto sul suo letto di coperte e di fieno, chinò lo sguardo su Hattori, che se ne stava ammargelluto fra le sue gambe, ficcato sotto le coperte e ben intenzionato a restarci. Le sue ali bioniche lampeggiavano pigre e, ogni tanto, guardava il suo compagno in attesa che facesse qualcosa. Ma Lucci non accennava a volersi alzare (per andare dove, poi? Nella tormenta? A far la guardia all’acqua che bolliva?), e il colombino rimaneva nel suo cantuccio, sentendosi al sicuro vicino al suo amico.

 

~

 

« Quanto manca? » disse annoiato Jabura battendo i piedi sul terreno innevato per cercare di riscaldarsi.

Lilian scostò un lembo del giornale della settimana prima e controllò l’orologio legato con lo spago al cruscotto del furgone. « Un altro quarto d’ora »

Il mattino dopo per fortuna la tempesta s’era acquietata, e Jabura aveva chiesto alla pilota di aprire il furgone e metterlo in moto, perché potesse mettere sotto carica la propria protesi.

L’agente segreto era seduto sul cofano aperto dell’automezzo, e un filo elettrico lo collegava alla batteria: una volta acceso il motore e fatto girare a vuoto, questo ricaricava la batteria, che a sua volta ricaricava la spina dorsale dell’uomo, che non doveva fare altro che sedersi tranquillo per un paio d’ore e aspettare che il caricamento fosse completo.

Caro Vegapunk l’aveva dotato di un cavo di alimentazione troppo corto però, e lui non poteva fare altro che sedersi lì, sul bordo del cofano aperto. Jabura era convinto che quel demone di donna l’avesse fatto apposta per evitare che si potesse mettere comodo, magari steso a terra o seduto sui sedili nell’abitacolo, al calduccio!

Lilian invece, che era quella che guidava il furgone, si era ritirata in santa pace sul sedile del guidatore; ormai quel sedile aveva preso le sue forme, perché negli anni passati era stato nel cockpit del suo aereo, e poi una volta smantellato era diventato il sedile del furgone. Quando lavorava a Catarina e usciva in missione con gli agenti, passava più tempo seduta lì che alla scrivania della Torre.

Aveva messo i piedi sul finestrino e leggeva pigramente il quotidiano della settimana passata, letto e riletto da tutti perché era l’unica copia che erano riusciti a ottenere da Caro Vegapunk l’ultima volta che l’avevano vista. Mancavano alcune pagine, altre erano piene di scarabocchi, su altre erano disegnati gli schemi di una battaglia navale, e in quel momento la ragazza aveva alcuni fogli, e Jabura altri ancora per poter leggere contemporaneamente e non annoiarsi troppo durante quelle due ore di caricamento.

« Quanto manca ancora? »

« Quattordici minuti » mormorò la pilota senza alzare lo sguardo dall’articolo che stava leggendo. Era il suo preferito, parlava di un torneo di baseball disputato usando verdura al posto di attrezzi sportivi. Sempre meglio degli articoli del “Nuovo Governo dei Giusti”, nome assunto dagli Antigovernativi, che non facevano altro che parlare di quanto sicuro fosse il mondo una volta smantellata la Marina e il Vecchio Governo. Certamente. Però del fatto che avessero deportato i membri delle organizzazioni non lo diceva nessuno. Lilian li odiava, quegli articoli.

Rob Lucci invece li leggeva tutti, uno per uno, e li analizzava nei minimi dettagli a lume di candela quando non riusciva a dormire, cercando di cogliere ogni sfumatura e allusione dei cronisti. Era fermamente convinto che, in mancanza di altro su cui mettere le mani al momento, potessero fornire degli indizi sulla vera situazione in cui versava l’intero mondo, e forse anche qualche suggerimento utile al loro immediato futuro. Il leader non dimenticava mai, infatti, che altri due suoi subordinati in quel momento erano in serio pericolo, e non si dimenticava di Fukuro che era sulle loro tracce.

La notizia della probabile morte di uno dei figli di quel Viceammiraglio gli aveva messo la pulce nell’orecchio ma, anche se aveva paura di arrivare troppo tardi da Califa e da Blueno, non lo dava mai a vedere.

« Eri con Kaku quando ha visto quei due mocciosi? » domandò lì per lì il Lupo.

« No » rispose la ragazza tirandosi fino in cima la zip del giaccone da neve « Ero rimasta al furgone ed era andato da solo a fare un servizio in paese »

« Non mi piace quella storia » bofonchiò l’agente « Da quando l’ha raccontata mi sento osservato »

Lili sospirò e si guardò attorno. Scese dal furgone (gli ammortizzatori a mala pena avvertirono il cambiamento, tanto che era leggera) con il fucile in pugno e diede una rapida occhiata nei dintorni, sotto lo sguardo vigile dell’agente ancora attaccato alla batteria del mezzo.

Avanzò nella neve, uscì fuori dal ricovero in cui avevano nascosto il furgone, descrisse un ampio giro guardandosi attorno e si affacciò al dirupo che dava sul passo che collegava due vallate. Tutto deserto. Zero impronte nella neve. Il cielo era bianco come la terra, e gli occhiali da sole della ragazza erano provvidenziali.

Tornò da Jabura.

« Ti stai lasciando suggestionare » gli disse sollevandosi gli occhiali sopra la fronte, incastrandoli con il berretto di lana dal quale uscivano i suoi capelli sciolti e costellati da minuscoli fiocchi di neve bianchi.

« Guarda che è vero! I fantasmi scelgono qualcuno con cui comunicare, e difficilmente lo mollano! Ce li ritroveremo nei letti! »

« Con quello che puzziamo? Ma dai… » lo liquidò lei, non riuscendo però a sembrare convincente come avrebbe voluto; anche lei si era fatta influenzare da quella storia, e pensare a due bambini fantasma che potevano aver seguito Kaku le metteva la pelle d’oca.

All’improvviso i due vennero fatti quasi sobbalzare dal suono del baby lumacofono che li collegava con il rifugio di pietra, appoggiato sul sedile del passeggero.

Con il cuore in gola, Lilian guardò l’animaletto squillare, in trepidante attesa che apparissero i lineamenti del boss, o di Kaku, o di Kumadori. Il terrore di essere scoperti era tanto, e anche una lumacofonata poteva metterli in serissimo pericolo. Al secondo trillo, per fortuna, comparvero delle sopracciglia arcuate e un’espressione altera inconfondibile, e la ragazza sospirò sollevata.

« Boss! »

« Il furgone è pronto a partire? » domandò Rob Lucci senza perdere tempo in preamboli.

« Il serbatoio è pieno, le munizioni ci stanno e anche le coperte in più, c’è solo da svuotare il rifugio. Boss, per favore, possiamo portare con noi il fornelletto a gas, se ci muoviamo? »

« Permesso accordato » concesse il leader, cui faceva comodo mangiare qualcosa di caldo, ogni tanto « La batteria a che punto è? »

« Nove minuti e arriva al cento per cento » rispose la pilota agguantando l’orologio e girandolo nella sua direzione.

« Appena il cane ha finito, fallo tornare immediatamente alla base. Serve anche il suo aiuto »

« Sissignore » rispose obbediente la ragazza, sorvolando ampiamente sul “cane” come sua abitudine, per evitare di creare ancora più ruggine tra quei due disgraziati. Che poi, sapeva benissimo, era tutta scena, tutto teatro. Rob Lucci interruppe la lumacofonata senza congedarsi.

« Che vuole? » vociò Jabura infilandosi un paio di guanti da neve che aveva in tasca e sentendosi immediatamente rinfrancato.

« Ti manda un bacione forte forte e ti chiede se hai messo la canottiera » rispose con noncuranza la ragazza mettendo giù il ricevitore.

« Due cretini, tu e lui » commentò seccato il Lupo.

Lilian non se la prese nemmeno un po’. « Appena finisci con la batteria, torna al rifugio. Credo che ci stiamo per spostare » disse scendendo dal furgone.

« Era ora! Siamo qui da mesi, maledizione! »

Lo sportello si chiuse con un rumore sordo, un po’ di neve sfarinò dal tettuccio. « Il boss preferisce muoversi con tutte le cautele necessarie, e sono contenta che la pensi così » mormorò amara la ragazza.

« “Pensi” è una parola grossa, per quello là » la corresse Jabura.

Lilian lo raggiunse e si sedette vicino a lui sul cofano aperto.

Aspettarono insieme il rumore del cicalino che avvisava che la batteria era completamente carica.

« Preferisco rimanere ancora al freddo, che rischiare di perdere di nuovo voi agenti » mormorò lei affondando nella propria grande sciarpa.

 

~

 

« Mbè? Che avevi da rompere? Guarda che non l’ho mica chiesto io, di avere una batteria che- » latrò Jabura entrando nel rifugio, e chiudendo immediatamente la rozza porta di legno per non far entrare il freddo in quel piccolo ambiente caldo per miracolo.

« Shhh! » gli ordinò Kaku.

Jabura stava già per inalberarsi ma Kumadori lo interruppe prima che il tutto sfociasse nell’alterco: « Yoooyooooiii… » disse « modera la favella e apprestati al lumacofono, Fukuro riporta liete novelle da Forte di Oga, e stiamo per muoverci dall’angusto rifugio montano »

« …Forte di Oga? » mormorò il Lupo.

Si avvicinò quatto quatto al cantuccio dove i suoi tre colleghi erano seduti uno vicino all’altro, formando un capannello. Al centro c’era un lumacofono con una zip dorata al posto della bocca e gli occhietti piccini come capocce di spillo.

« Continua, Fukuro » ordinò Rob Lucci, che teneva in mano il ricevitore.

« Chapapa! Invece Blueno si trova al terzo livello della struttura, nella zona nord-ovest! »

Kaku non si perdeva una sillaba e appuntava rapidamente ogni informazione su un blocchetto di carta, usando una matita appuntita. Kumadori ne aveva altre due in mano, pronte all’uso nel caso in cui la punta si spezzasse.

« Non sono riuscito a capire quali siano le loro condizioni, ma li ho visti, sono vivi. Chapapa, Califa però non si è svegliata! »

« Yoyoi, urge di nuovo procurarsi una lettiga » commentò Kumadori. Lucci si mise un indice in verticale sulle labbra: silenzio.

Tutti trattenevano il fiato e aspettavano avidi altre notizie da Fukuro.

« Ho raccolto tutte le informazioni relative ai turni di medici e guardie, e trovato una base provvisoria a pochi chilometri dal bunker dove parcheggiare il furgone mentre noi siamo dentro, chapapa! »

« E non hai parlato ad anima viva come ti avevo detto, vero? » si assicurò Jabura in tono minaccioso, avvicinandosi al ricevitore che aveva Lucci in mano.

« Chapapa! Ho tenuto la zip sempre chiusa e ho fatto finta di essere sordomuto! »

« Questa missione è molto più importante di quelle fatte in passato, non abbassare la guardia » ordinò Lucci « e non pensare mai di essere fuori pericolo. Rimani concentrato. »

« Chapapa! » probabilmente Fukuro si era messo sull’attenti, ma Lucci, Kaku, Jabura e Kumadori non potevano vederlo.

« Passo e chiudo. Aspetta nostre notizie » concluse il leader chiudendo la lumacofonata.

Kaku staccò la punta della matita dal foglio di carta e sorrise. In cima campeggiava la scritta “VIVI”, e non poteva che esserne felice. Vivi, ma in chissà che condizioni, pensò poi… ma ci avrebbero pensato dopo, la priorità era tirarli fuori da quella prigione.

« Partiremo stasera » dispose Lucci. « Voglio il furgone carico e tutti pronti alla partenza entro le 15. Poi, Kumadori, darai il cambio alla pilota e la farai rientrare: devo capire com’è messa la strada fra qui e Forte di Oga.

« Male, temo » osservò Kaku « dovremo procedere a rilento, e non sono nemmeno sicuro che fin lì ci sia una strada carrozzabile »

« Per questo ne devo parlare con chi guida il furgone » lo stilettò Lucci. Loro erano superumani addestrati a uccidere, ma la specialista in fatto di trasporti rimaneva quella piccola e modesta segretaria: era scrupolosissima e non le sfuggiva nulla di cosa potesse servire durante una missione.

 

~

 

« Le coperte ci sono tutte, il fornelletto a gas è nella scatola in fondo, qui ci sono gli oggetti personali di ognuno, gli zaini sono tutti a portata di mano, qui ci sono tutti i viveri, l’acqua per il viaggio è qui nelle taniche, e la cassetta dei medicinali è tutta in ordine ma, boss, serve rifornirci di alcune cose, tra cui gli antidolorifici, perché Califa e Blueno ne avranno bisogno. C’è una lista completa dei medicinali da ricomprare lì, dietro il foglio che le ho dato »

Rob Lucci scorse la lista che gli aveva porto la ragazza, poi aprì lo sportello dal lato opposto al conducente e si issò a sedere sul sediolino accanto al guidatore e ricontrollò la mappa della zona che avevano disegnato nei giorni scorsi, in cui spesso a turno erano andati in ricognizione.

Hattori, che purtroppo non poteva più volare per tragitti brevi come saltelli, venne accomodato sul grembo del suo padrone, comodo e al caldo sulla sua coperta preferita, con un minuscolo cappellino blu con un pon pon bianco in testa, e una sciarpina blu al collo. Tubò soddisfatto e si meritò una metallica carezza distratta da parte di Lucci.

« I primi duecento chilometri sono segnati sulla mappa, poi dovremo fermarci e capire che direzione prendere, ricordatelo »

« Roger, boss » rispose pacata la ragazza mettendo in moto il furgone.

« Dimentichiamo niente, al rifugio? » domandò Kaku agli altri.

Lui era seduto nel vano carico, comodamente adagiato sulle coperte come Kumadori e Jabura, che erano con lui. Nessuno si era tolto il cappotto o il giaccone, dentro al furgone faceva freddo quasi quanto all’esterno, e già cominciavano a rimpiangere il tepore del rifugio di pietra. Ma bisognava andare avanti.

« Sono stato l’ultimo a uscire, non c’era nulla dentro. Ho controllato due volte » assicurò Jabura, liberando con le sue parole una nuvoletta di vapore, tanto il freddo che c'era.

« Yoooyoooi, ed è stata mia cura relegare all’oblio qualsiasi traccia che il nostro passaggio abbia lasciato in tanti mesi e nell’ultimo viaggio verso il furgone! Polvere! Ossa! Cenere! Tutto sarà trasformato, nulla morirà! » recitò Kumadori.

« Anche se qualcuno ci aveva creduto sul serio, per un attimo » disse Kaku rivolto a Jabura.

« Scemo » lo rimbrottò l’agente dalla lunga treccia nera « Voglio vedere te, nelle stesse condizioni! » disse togliendosi i guanti e cercando di scaldarsi le mani con il fiato.

« Un destino mesto e un avvenire cupo si sarebbero profilati senza la mano divina della progenie geniale di Vegapunk » riconobbe Kumadori commuovendosi.

« Quell’alzata di culo » ridacchiò Jabura incrociando le braccia « Ma non dimentichiamoci che lavorava su materia di prima qualità! Non ci siamo addestrati tutta la vita per crepare sotto i ferri del primo macellaio » dichiarò indicandosi il petto con il pollice.

« Ovvio » disse Rob Lucci sdegnoso « Perché noi siamo superumani, e non esiste niente che ci possa fermare. » concluse facendo tintinnare fra loro le sue nuove dita in titanio « Andiamo. »

 

Il furgone si allontanò nella notte con i fari spenti, lasciando dietro di sé le scie delle ruote chiodate. Prima che imboccasse l’antica via abbandonata che portava ai tornanti che conducevano giù da quelle montagne, uno spiffero di vento fece drizzare i peli sulla schiena di Kaku.

« C’è qualche falla nel furgone? » chiese alla pilota.

« Falla? » si meravigliò lei. « Spero di no! Siamo appena partiti, ci manca solo questa! »

Rob Lucci rimase per un attimo concentrato, poi sentenziò: « Non entra aria da nessuna parte »

Kaku si strinse nelle spalle, e non replicò. Lilian accese la radiolina per colmare il silenzio della notte e degli uomini che viaggiavano con lei.

 

Sul limitare del territorio del paesino montano, attraversato dal furgone per andare verso Forte di Oga, dov’erano detenuti Califa e Blueno, la strada era rischiarata da alcuni lampioni che illuminavano i fitti fiocchi di neve che quella notte cadevano incessanti.

« Troveranno il papà? » domandò una bambina avvolta nel suo cappottino, con così tanti strati di lana addosso da sembrare rotonda.

« Non lo so » rispose un bambino, tenendo la sorellina per mano « Torniamo a casa adesso, la mamma si arrabbia se rimaniamo fuori tutta la notte… »

Si incamminarono verso il paesino e presto sparirono alla vista, senza lasciare alle loro spalle nemmeno una piccola impronta che potesse essere coperta dalla neve che, lenta lenta, cadeva.

 

Kumadori era bravissimo a raccontare storie.

Ma Kaku, da allora, ne avrebbe avuta una tutta sua da raccontare.

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Si chiude con questo capitolo la raccolta scritta per il "Prosthetic Kink Contest" indetto da Fanwriter.it! Ricordo che, però, il quinto capitolo è fuori dal contest a causa della data di pubblicazione, ben oltre il tempo massimo permesso! Grazie a tutti coloro che hanno letto, doppiamente e triplamente agli appassionati recensori ♥ e a tutti coloro che hanno messo la storia nelle seguite/ricordate/preferite! 

Sono stata molto contenta di scrivere un'altra volta sul CP9, e rassicuro chi dice che li maltratto troppo: non preoccupatevi, quest'inverno sarà all'insegna del fluff (sempre che riesca a capire come si scrive il fluff, dopo tante stragi) ;p sto scherzando, non ci sarà alcun fluff sono sempre contenta quando i lettori prendono le difese delle mie vitt dei miei personaggi! ♥ 

Kaku ha raccontato ai colleghi la storia dei due fratellini che ha incontrato; subito dopo ha chiesto a Caro Vegapunk, residente nel paesino, se ne sapesse qualcosa, e lei ha raccontato che erano i figli di Shu. Vi dice niente?

 ◄◄◄

Era un capitano della Marina; a Enies Lobby grazie a un Paramisha aveva fatto arrugginire fino a sgretolarla una delle spade di ZoroQui sono passati nove anni da allora, e nel frattempo è diventato Viceammiraglio, almeno prima che gli Antigovernativi prendessero il sopravvento.

Gli anni passano anche per Rob Lucci e gli altri: adesso hanno 37 anni Lucci, 32 Kaku, 44 Jabura, 38 Blueno, 43 Kumadori, 38 Fukuro, 34 Califa; in questa storia sono passati nove anni dai fatti di Enies Lobby. 

Lilian, che venne assunta a 27 anni come segretaria e poi si è scoperto essere pilota (la sua storia è raccontata nei primi capitoli de "La Lunga Caccia alla Mano de Dios"), ha 34 anni, in questa storia.

Caro Vegapunk ha 18 anni. Da circa 30 anni. Le abbiamo detto che non può spacciarsi più per appena maggiorenne, ma non cede. Ce la teniamo così, fresca patentata ♥

Il termine "ammargelluto", qui riferito ad Hattori, viene da una poesia di Fosco Maraini; che vuol dire "ammargelluto"? E chi lo sa! Siete liberi di immaginare il colombino, al sicuro vicino a Rob Lucci, come preferite ♥

Per oggi è tutto! Grazie per aver seguito questa raccolta, e alla prossima avventura ♥

Yellow Canadair

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Capitolo 6
*** Dal profondo dei tuoi occhi ***


Scusate, ma non avevo ancora finito!

 

Dal profondo dei tuoi occhi

 

Rob Lucci non si aspettava nulla di meno, né da se stesso né dai suoi colleghi: riuscirono tutti, in pochi mesi, a recuperare l’uso delle Sei Tecniche.

Un livello base, era ancora difficile scendere a patti con gli arti meccanici che aveva impiantato loro Caro Vegapunk, però era sufficiente per elevarsi, come meritavano, al di sopra dei comuni mortali, ben oltre lo status dei semplici Marine armati, nell’Olimpo di armi sovrumane che il Governo Mondiale, ora decaduto, aveva avuto tra le sue file.

Rob Lucci, Kaku e Jabura si erano allenati duramente, fra gli alberi, sui loro sacchi a pelo, di notte, nelle foreste gelate della Red Line, e alla fine ce l’avevano fatta: un poco alla volta, passo dopo passo, giorno dopo giorno, si erano ricostruiti i loro Doriki, quella dignità e quell’orgoglio da agenti segreti che il Nuovo Governo dei Giusti aveva creduto di strappar loro via assieme ai loro corpi.

Non avrebbe mai vinto.

Non contro il CP0.

Loro erano tre belve assetate di sangue, e non sarebbe bastato uno sgambetto misero come quello, a fermarli.

Lo sguardo vigile di Kumadori li aveva sostenuti e aiutati in quel recupero furioso, fatto di notti agitate per gli incubi e giornate in cui il sudore non aveva tempo per scendere che già ghiacciava, lì sul nevaio in cui si nascondevano. L’agente dai capelli rosa era stato saldo come una roccia (se non si contavano i momenti in cui, preso dalla disperazione per l’altrui sconforto, minacciava il suicidio) e li aveva a modo suo assistiti, suggerendo esercizi, dispensando consigli, avendo la cura di selezionare storie che parlassero sempre di eroi ed eroine positive, che dopo tribolazioni e sofferenze riuscivano ad arrivare ai propri traguardi contando solo sulle loro forze, e sull’aiuto degli amici. Solo ogni tanto si abbandonava in patetiche storie d’amore a lui tanto care, per dare sfogo alla sua vena più drammatica, ma sapeva che in quel momento era più importante cercare storie che sollevassero il morale ai compagni, piuttosto che il suo. E, al ritmo dello yoyoi, i tre agenti, i cui corpi erano stati sotto le mani sapienti di Caro Vegapunk, andavano su e giù in una serie infinita di addominali e piegamenti, per riuscire a tornare il prima possibile agli antichi splendori.

E, proprio quando anche l’ultimo di loro fu tornato a padroneggiare a un livello accettabile anche l’ultima delle Sei Tecniche, arrivò la lumacofonata che stavano aspettando da mesi: Fukuro aveva ritrovato Califa e Blueno, tenuti segregati molto lontano da lì e le cui condizioni erano del tutto ignote.

 

 

Caro Vegapunk, brillante figlia del futuristico genio, portava con onore il cognome di suo padre: le protesi di Lucci e di Kaku erano perfettamente calibrate sui loro nervi: resistenti come acciaio, fredde come marmo e leggere come l’aria, era tecnologia allo stato dell’arte. L’unico vezzo che Caro si era concessa era la sottile luce al neon che correva sugli avambracci di Lucci, e sulle tibie di Kaku.

In mano a quei due, delle semplici protesi erano diventate armi mortali: lo Shigan, dito a proiettile, era più veloce, andava più a fondo con meno fatica, e Lucci non aveva dubbi che, modificando e rendendo taglienti le falangi, sarebbe diventato ancora più efficace. Il Rankyaku di Kaku, dato con la lama delle sue gambe bioniche, ora era in grado di tagliare le montagne, tanto che gli allenamenti del ragazzo, più che volti al potenziamento, si erano diretti verso il controllo di tale capacità.

Jabura? Il nuovo impianto della spina dorsale, la sfida più ostica e più affascinante per Caro Vegapunk, aveva decuplicato il Tekkai già perfetto dell’uomo: riusciva ad applicarlo, tramite quel che rimaneva dei suoi nervi, alla struttura d’acciaio che lo reggeva -letteralmente- in piedi, e parando i colpi con la schiena avrebbe potuto resistere a un intero bombardamento senza un graffio, con il solito ghigno.

A volte, i tre agenti pensavano che non gli era andata del tutto male.

A volte.

Altre volte, invece, riuscivano persino a spaventarsi per quello che avevano passato, anche se certo non l’avrebbero detto a nessuno, sarebbe rimasto un segreto tra loro e la notte.

Nel caso di Rob Lucci, poi, tutti sapevano benissimo che, se avesse avuto la possibilità, avrebbe barattato le sue braccia di metallo con le ali, ormai perdute, del suo amato Hattori.

«Ehi! Tutto bene?»

La voce di Kaku riscosse Rob Lucci. «Certo» rispose, automaticamente.

Non esisteva l’ipotesi che si distraesse in missione. E gli avvenimenti degli ultimi drammatici mesi non erano una giustificazione.

«Siamo quasi arrivati»

Stavano avanzando in una prigione sotterranea da quasi un’ora, evitando per un soffio tutte le pattuglie di sorveglianza. Erano entrati da una porticina nascosta in un fienile abbandonato, un vecchio passaggio segreto in disuso -forse per scappare dal bunker, o per andarci- scoperto da Fukuro che era stato lì in avanscoperta per diverse settimane; poteva sembrare una cantina anonima per le conserve dei proprietari del fienile, e invece era una vecchia galleria che portava fin dentro alla prigione, sbucando in una porta murata in uno sgabuzzino che Fukuro, nei giorni passati, aveva provveduto a sbloccare piano piano, per non farsi scoprire.

Avrebbero potuto entrare e fare irruzione, uccidendo chiunque con le loro Tecniche. Erano in tutto tre agenti, non sarebbe stato un problema; un Rob Lucci tredicenne aveva tenuto testa a cinquecento uomini armati. Il problema era che non sapevano esattamente con quanti nemici avrebbero avuto a che fare, che tecnologie avessero e, soprattutto, il luogo era labirintico. Troppo pericoloso giocare a carte scoperte, meglio l’infiltrazione.

Più che una prigione, quel posto era concepito come un bunker, una struttura in cui rifugiarsi in caso di calamità; però molte stanze erano usate per tener prigioniere delle persone, Lucci e Kaku se ne accorgevano dai lamenti, dal rumore dei pianti, dal suono cadenzato di teste disperate che sbattevano sul muro. Guai, guai a farsi scoprire dagli altri prigionieri: sarebbero insorti, avrebbero creato una tale confusione che raggiungere Califa si sarebbe rivelato impossibile. Molto meglio tenersi quella possibilità solo in caso estremo, come diversivo se le cose sarebbero precipitate.

Chi erano i prigionieri? Kaku e Lucci non lo sapevano. Erano Ex Governativi come loro, forse, oppure Marine. Forse avevano tutti avuto i poteri dei Frutti del Diavolo, forse erano dei semplici dissidenti del nuovo Governo dei Giusti. Un nome che, per quanto ne avevano capito gli ex agenti, faceva ridere.

I due camminavano a passo felpato con estrema cautela, anzi, Kaku aveva avvolto le sue protesi nella gommapiuma per essere sicuro che il metallo non cozzasse rumorosamente sul pavimento in cemento battuto. Non poteva indossare scarpe perché Caro Vegapunk aveva concepito le sue gambe da gazzella perché, per usarle, non fosse necessario nient’altro che ciò con cui le aveva costruite. Quindi niente scarpe, calzini e orpelli: solo del funzionale acciaio, e gomma per renderlo antiscivolo. Un altro lato positivo delle gambe bioniche era che non sentivano freddo.

Kaku guardò di nuovo la mappa disegnata da Fukuro: stavano andando nella direzione giusta. Ancora pochi metri. Califa era tenuta prigioniera, da sola, in uno stanzino alla fine di un corridoio su quel piano.

 

La ritrovarono in una stanza minuscola e senza finestre, illuminata da una lampadina appesa a un filo che ronzava in maniera sinistra. La riconobbero solo per i lunghi capelli biondi, una cascata di sporcizia color grano che si riversava sul corpo magro e sulla camicia bianca che la copriva. Mani e piedi erano legati con delle corde di canapa spesse quanto gli arti della donna e aveva gli occhi bendati con una fascia lercia di sangue, stretta attorno alla sua testa. Dormiva su una coperta sporca e lisa direttamente sul pavimento, ed era immobile.

Kaku aveva sbirciato nella finestrella della porta per assicurarsi che la cella fosse quella giusta, l’aveva tagliata a metà con un colpo di Rankyaku e Lucci era immediatamente entrato, chiamando la collega per nome.

Ma Califa non dava cenno di vita; Lucci la prese per una spalla, la scosse, e la donna si svegliò di soprassalto.

«No! » sussurrò aggressiva, ma così flebilmente che sembrava una voce spettrale. Si alzò sulle gambe magre e ricadde in ginocchio. «Vattene» si appiattì contro il muro.

I due uomini si guardarono tra loro: era un comportamento insensato.

«Califa, siamo noi!» parlò Kaku, immaginando che lei non li vedesse per via della benda. Anche se lui e Lucci non ne avevano parlato, un sospetto ce l’avevano: non le avevano fatto qualcosa agli occhi, vero?

Rob Lucci decise che non poteva aspettare i suoi comodi, in due passi fu vicino a lei e la prese in braccio di forza, caricandosela al petto.

Ma la donna cominciò a divincolare e scalciare, e l’Ambizione dei due uomini captò un abisso di paura e di ira.

«Non va bene così» disse infine Kaku «Non ci riconosce, se grida è la fine.»

«Credi che abbia danni al cervello?» domandò Lucci rimettendola a terra.

«Ci mancherebbe solo questo» scosse la testa Kaku; era una possibilità terribile, alla quale non voleva pensare.

Gli agenti si allontanarono di un paio di passi, studiando la situazione mentre la loro collega, tremando, si rimetteva seduta in evidente stato di allerta, come prevedendo che qualcuno le stesse per fare del male e aspettasse il colpo. Lucci riconobbe un vago e debole tentativo di Tekkai, evidentemente l'ultima risorsa che la prigioniera aveva per difendersi, ma era così debilitata da non riuscire a mantenerlo per più di pochi attimi.

Kaku all’improvviso ebbe un guizzo; con il Soru si portò vicino alla donna e batté le mani accanto alla sua testa, con un movimento rapidissimo. Il colpo tra i palmi risuonò sulle pareti metalliche, Califa non si mosse.

Lucci capì e strinse i denti.

Era sorda. Non li sentiva. E probabilmente sotto quella benda c’era un altro orrore.

Ecco perché era terrorizzata, ecco perché aveva reagito così: non aveva riconosciuto due amici, ma due uomini sconosciuti che la volevano portare via, verso chissà che altri esperimenti.

A quel punto, persino slegarla sarebbe stato pericoloso: Califa si sarebbe difesa, e avrebbe utilizzato le Tecniche contro di loro, costringendoli a usarle a loro volta per fermarla.

«Fatti riconoscere» ordinò Lucci a Kaku.

«Come? Non mi sente, e non mi vede.»

«Fatti toccare la faccia»

Kaku rimase per qualche secondo a elaborare l’ordine, mentre già si inginocchiava per metterlo in atto. Ma certo: Califa conosceva benissimo le loro fisionomie, poteva riuscire a risalire alla loro identità a partire da quelle… e il suo naso, lungo e squadrato, era un elemento troppo particolare per non essere associato subito a lui.

Prese le mani della donna, che tremava e stringeva i denti, e se le portò al volto mentre Lucci faceva la guardia alla porta: avevano solo tre minuti prima che la ronda tornasse da quella parte.

Le dita gelate di Califa vennero guidate sugli zigomi del ragazzo, sugli occhi, perché capisse subito che stava toccando un volto; poi Kaku le spostò, non senza un filo di imbarazzo, sul proprio naso. Non che avesse problemi con quella forma così atipica, però non gli piaceva che le persone lo toccassero, infatti non accadeva mai; ma quella era una situazione di forza maggiore. Una mano sfiorava il naso, l’altra lambì la visiera del cappellino.

Percepì la donna smettere di tremare. «…Kaku?» sussurrò finalmente.

«Lucci, fatti riconoscere anche tu» e gli diede il cambio alla porta.

Anche il boss prese le mani di Califa, e le guidò sul proprio viso. Lei toccò la barba, la forma del pizzetto, le guance lisce, e poi salì sulle sopracciglia arcuate e toccò i capelli legati. «Lucci… sono desolata, non sono riuscita a…»

Ma a Lucci non interessava cosa non fosse riuscita a fare, se la caricò in braccio come aveva tentato di fare prima, e stavolta Califa non oppose resistenza, e uscì con Kaku nel corridoio prima che passasse la ronda.

 

 

Jabura e Kumadori invece si erano preoccupati del salvataggio di Blueno: anche lui molto provato, dimagrito da far spavento, però era in piedi e non sembrava gli mancassero arti.  I capelli, notarono i due agenti accorsi a salvarlo, stavano su come al solito formando i due consueti corni; un po’ spettinati, un po’ malconci, ma era proprio la solita acconciatura di Blueno. La barba invece era lunga, incolta, con qualche filo riccio e bianco.

«Va tutto bene? Dobbiamo uscire di qui, ce la fai?» si sincerò Jabura, senza ottenere altra risposta che uno sguardo triste.

«Yoyoi» disse Kumadori, per una volta nella sua vita a bassa voce «Il tempo non è nostro alleato, e il silenzio per quanto prezioso, a volte val la pena esser infranto: Blueno, quale pena ti hanno fatto patire i carcerieri?»

Gli occhi dell’uomo rifuggirono lo sguardo inquisitorio degli amici, e si abbassarono.

Jabura divenne pallido. «Ti hanno tagliato…» boccheggiò. Era una parte talmente importante nella vita di un uomo, che non riusciva quasi a formulare la frase.

Ma Blueno scosse tristemente la testa e aprì invece la bocca.

Kumadori e Jabura stettero muti, come era stato condannato a essere Blueno.

«Andiamocene. Svelti» prese l’iniziativa l’agente più anziano.

Avevano recuperato tutti. Erano di nuovo tutti insieme. Erano a pezzi, ci sarebbe stato da aiutare anche Califa e Blueno ma, Kumadori ne era sicuro, il peggio era passato.

 

Rob Lucci depose la sua collega in un morbido nido di coperte, all’interno del furgone, tra gli zaini e i cappotti. Quando furono saliti con un salto nel cargo anche Blueno, Jabura, Kumadori e Fukuro, Lucci ordinò alla pilota di partire e il furgone sfrecciò nella notte, portando finalmente in salvo gli ultimi due agenti.

Ben concentrata sulla guida, Lilian Rea Yaeger guidò il furgone su per delle pietraie per non lasciare impronte, fece molti giri a vuoto per far perdere qualsiasi traccia, e per due ore e mezza guidò nella notte più nera con i fari deboli che rischiaravano lo stretto necessario per non finire in qualche fosso. Per fortuna dopo i primi cinquanta chilometri arrivarono su una strada di collegamento tra città molto importanti della Red Line, e sul selciato battuto le impronte erano tante, troppe per riuscire a capire che direzione avessero preso i fuggiaschi; quando poi, alle prime luci dell’alba, finirono sotto un tremendo nubifragio, gli agenti ebbero la certezza che nessuno sarebbe riuscito a ritrovare le loro impronte fuori dal bunker, che sarebbero state cancellate dalla pioggia e dal fango.

Blueno era devastato e si sedette in un angolo, e anche lui fu avvolto nelle coperte. A differenza di Califa, sentiva bene, e Kaku fu bravissimo a spiegargli in poche parole che era al sicuro, che erano in fuga da mesi ma che non si sarebbero fatti riprendere, ora che erano di nuovo tutti insieme.

Lucci invece, seduto sul sedile anteriore, non smetteva di voltarsi verso il cargo e controllare Califa: le sue condizioni erano disastrose, e l’uomo sapeva che c’era una sola persona in grado di aiutarla: Caro Vegapunk. Così, nonostante all’inizio il piano prevedesse diversamente, aveva deciso in accordo con tutti di tornare sui loro passi e insediarsi di nuovo nel rifugio di pietra, che aveva il vantaggio di essere a pochi chilometri dalla casa della scienziata. Non sapeva se e come avrebbe aiutato anche Califa, ma il leader decise che valeva la pena fare un tentativo.

Blueno non parlava, il che non cambiava molto dal solito, però per esperienza comune anche lui probabilmente era stato sottoposto a interventi orribili. Caro Vegapunk avrebbe dovuto occuparsi anche di lui, o Lucci le avrebbe raso al suolo la casa.

Tutti e due se ne stavano avvolti nelle coperte, tra i loro amici e colleghi che gli avevano offerto acqua, biscotti, vestiti, tutto quello che avevano a disposizione in quel mezzo di fortuna. Califa, che non aveva più l’udito, né la vista, era disorientata, tanto che per confortarla Kumadori e Jabura rimasero vicini a lei tutto il tempo.

 

 

Quando, dopo ore, arrivarono al rifugio di pietra, fra le ghiacciate montagne della Red Line, Lucci prese in braccio Califa e la portò nel piccolo ricovero. La donna poteva camminare, ce la faceva, ma per motivi di rapidità e di praticità Lucci preferì tagliare la testa al toro e andare per metodi più spicci. Non poteva rischiare che inciampasse nella neve altissima, e guidarla passo dopo passo fino al rifugio di pietra avrebbe richiesto del tempo che non avevano: era nascosto e andava raggiunto dopo diversi minuti di cammino su un sentiero abbandonato, in pessime condizioni, mentre tutt’attorno infuriava la bufera. Attenti a cancellare le impronte, una volta lasciato il furgone in una grotta riparata a qualche chilometro di distanze, erano andati tutti in direzioni diverse, per confondere eventuali inseguitori. Difficilissimo che qualcuno fosse riuscito a seguirli, ma si parlava della sicurezza della famiglia, e nessuno voleva correre rischi o farli correre agli altri.

Blueno riuscì a camminare, anche se sostenuto da Kumadori e da Fukuro. Qualche minuto di cammino, e la porta del rifugio finalmente si chiuse alle spalle dell’ultimo governativo.

Kaku, che aveva portato la stufetta a gas, l’accese subito per riscaldare l’unico ambiente, anche se adesso che erano in sette (otto, con Hattori; nove, con la segretaria che al momento stava facendo un giro nei paraggi per controllare che non fossero seguiti) sarebbe diventato caldo in un attimo; anzi, c’era decisamente poco spazio. Meno male che era una soluzione molto temporanea, solo il tempo di portare Califa e Blueno da Caro e capire cosa fare della propria esistenza da lì in avanti.

Appena il rifugio si scaldò un po’, e appena Fukuro e Kumadori misero a posto i sacchi a pelo e le coperte che costituivano i letti di tutti, ritrovando gli spazi in cui avevano dormito per mesi, Blueno crollò addormentato, come prevedibile. Kaku rimandò al giorno seguente le spiegazioni, senza preoccuparsi.

Diversa la situazione di Califa: toglierle la benda che aveva sugli occhi sembrava a tutti un modo per denudarla ancora della sua dignità, come i carcerieri che le avevano tolto i vestiti e avevano usato il suo corpo per sperimentazioni. E la donna, quando qualcuno posava le dita sulla benda, si ritraeva dicendo di no; ma il volto era sporco di sangue, che colava da sotto quella benda, e bisognava almeno toglierla: era lercia, e bisognava medicare la donna qualsiasi cosa fosse successo ai suoi occhi. Gli uomini però, davanti a quel rifiuto così pietoso, non ebbero il coraggio di strappargliela dagli occhi: a dirla tutta, avevano paura di quello che avrebbero trovato sotto, o che non avrebbero trovato.

Non sapevano cosa fare, non riuscivano a farsi capire, avrebbero voluto dirle che appena si sarebbe sentita meglio, e appena sarebbero stati certi che nessuno li avrebbe cercati lì, l’avrebbero portata da Caro Vegapunk, ma non sapevano come fare.

Quando Lilian tornò dal suo giro, rassicurò tutti: erano soli nel raggio di chilometri e chilometri, non c’era nessuno, potevano riposarsi per qualche ora. Ma Kaku la richiamò: il suo compito non era finito, per quel giorno.

«Califa non sta bene e non ci lascia avvicinare» disse alla ragazza.

Califa si era chiusa a riccio sulla sua brandina e si era stretta nella coperta. Fukuro si era avvicinato per darle l’acqua da una bottiglietta, ma la donna tremava e sembrava scappare dal collega, anche se non aveva la forza fisica per farlo.

Kaku non era uno psicologo, ma sapeva che Califa doveva essere in preda a qualche crisi per quello che aveva passato. 

Lilian sospirò. Capiva, e se l’aspettava. Califa era sempre stata molto più… fragile, in un certo senso, rispetto agli altri suoi colleghi, con “le spalle meno larghe”. Si tolse il giaccone gelido e si concentrò sulla donna pateticamente avvolta nelle coperte militari che erano state del suo Canadair. L’ex prigioniera aveva il volto e il ventre rivolti verso il muro e le gambe incrociate, creando una vera e propria fortezza con le sue spalle. Singhiozzava in preda allo shock.

Rob Lucci era in piedi nelle vicinanze, taciturno e scuro come il mare quando le correnti sottomarine agitano le sabbie, e osservava la sua collega in preda al panico, senza riuscire a riemergere.

Lilian si inginocchiò accanto a Califa e cominciò ad accarezzarle le spalle, tranquilla. Avrebbe voluto parlare. Le avrebbe potuto dire qualcosa per confortarla, e invece non riuscì a fare nulla che non fosse guardare sconsolata verso Kaku, che rimaneva nelle vicinanze.

Califa non smetteva di tremare, e non si riusciva nemmeno a capire se capisse che vicino a lei c’era la pilota a consolarla. A tutti era bastata un’occhiata per capire che quello era qualcosa che aveva a che fare con lo shock subito, e tutti sapevano benissimo di non avere idea di come gestire la situazione nell’immediato. Specialmente se Califa aveva reazioni così distanti dai loro modi di pensare.

«Non capisco…» mormorò Kaku « Siamo addestrati anche per sopportare queste circostanze, non dovrebbe… »

«Siete persone!» disse Lilian spazientita «Lo so che siete addestrati, che siete superumani, che siete armi di distruzione di massa. Ma siete persone. E le persone a volte sono fragili. Tutto qui.»

Kaku non ribatté; incrociò le braccia e rimase a guardare le due donne vicine, impegnate in un dialogo fatto di gesti lentissimi. Poi, alla fine, Lilian alzò la testa e guardò più intensamente verso Kaku, che intanto si era inginocchiato vicino a loro, come se gli volesse chiedere qualcosa che non riusciva a esprimere a voce, o forse stava solo seguendo il filo dei propri pensieri.

Prese la mano di Califa, stese il palmo verso l’alto, e con un dito (gelato, era appena tornata dall’esterno), tracciò una lettera.

C

C come Casa. C come Califa.

Poi tracciò una A. Poi una L, poi una I, sempre in stampatello. Alla F, la donna aveva smesso di tremare.

«Califa» sussurrò la donna, leggendo quello che Lili le aveva appena “scritto” sulla mano.

Se a Kaku brillavano gli occhi, Lilian era commossa fino alle lacrime. Califa riuscì a mettersi seduta, e protese di nuovo la mano aperta verso Lilian e verso Kaku.

Stava chiedendo loro di parlarle ancora.

 

Riuscirono a spiegarle ogni cosa, con quel metodo lento ma efficace. Persino delle protesi, di Caro Vegapunk, delle ali di Hattori. Le chiesero dove sentisse dolore, se potevano fare qualcosa, se volesse delle medicine specifiche. E infine Lilian le chiese il permesso di toglierle la fascia per disinfettare quello che c’era sotto. E Califa, dopo molte esitazioni, disse di sì.

Lilian tolse la benda molto piano, tagliando delicatamente la stoffa all’altezza di una tempia, dopo essersi lavata bene le mani e con Jabura a farle coraggio perché non tremasse nel curare la sfortunata agente.

Meno male, che Califa non vedeva. Non seppe mai le espressioni di gelido raccapriccio sui volti dei suoi amici, non sentì mai le imprecazioni di Jabura, ascoltò solo la vibrazione delle pareti, scosse da Kumadori che vi batteva sopra i pugni in un pianto disperato.

Quel che Califa sentì, invece, fu il capino di Hattori che le strofinava le mani, l’odore di dopobarba di Lucci proprio vicino a lei, gli abbracci soffici di Kumadori, e poi tante mani che prendevano le sue per dirle, senza parole, che era tutto finito. “Vegapunk”, tracciò Jabura sui suoi palmi, per ricordarle di non preoccuparsi, sarebbe tornata a vedere, avrebbe riavuto i suoi meravigliosi occhi blu.

 

 

«Ancora qua? Non eravate andati a farvi uccidere per ritrovare i vostri amici?»

Caro Vegapunk, signore e signori, campionessa mondiale di tripla simpatia carpiata, slalom gigante delle buone maniere e insulto artistico su ghiaccio.

Nel suo salotto c’era Rob Lucci, altero e superbo, che nei mesi passati aveva recuperato tutto il suo charme e la sua forma fisica; anche se era vestito con degli abiti pesanti, da neve, raccattati chissà dove ed era coperto da un mantello sformato decisamente troppo grande, il suo sguardo assassino e fiero continuava a forare le pareti, e ostentava la stessa arroganza che sfoggiava quando era il leader della sezione del CP0 con sede a Catarina. Dietro di lui c’erano una donna dai lunghi capelli biondi con gli occhi bendati (e sulla cui benda qualcuno aveva disegnato due occhioni femminili con tanto di ciglia) e un uomo corpulento dallo sguardo triste.

Rob Lucci odiava chiedere a Caro Vegapunk di fare qualcosa per lui, ma amava poterle ricordare che era merito della sua squadra se lei e il padre erano vivi. C’era in ballo la vita di Califa e di Blueno, e se era un sacrificio che avevano fatto prima Lilian, poi Kaku, e poi Jabura, allora anche lui poteva bussare alla porta di Caro Vegapunk e chiederle, per favore, di aiutarli.

«Non dica assurdità» rispose sdegnoso Lucci togliendosi la tuba e scuotendo sul tappeto la neve che s’era posata sulla falda «Siamo dei professionisti, una semplice missione di recupero non ci causa nessun problema»

E in effetti, notò la giunonica scienziata, tutte le protesi che aveva costruito erano integre; anche quelle di Jabura lo erano, anche se non le vedeva, ma se l’uomo era in piedi (e se stava fuori casa prendendo a palle di neve quella ribalda dell’ex pilota) voleva dire che anche la sua protesi funzionava ancora.

«E ora cosa dovrei fare? Sentiamo» sibilò piantandosi a tacchi larghi davanti all’uomo, al centro del suo meraviglioso salotto nella casa del paesino invernale dove si era nascosta.

Caro Vegapunk era l’unica persona al mondo che si permettesse di sfidare Rob Lucci. Certo, sfidarlo a cazzotti o sparargli addosso era semplice, ma nessuno osava stare completamente disarmato davanti a lui e provocarlo sfacciatamente: l’unica eccezione era Caro.

Rob Lucci con un gesto rapido sfilò la benda a Califa, liberando il suo sguardo cieco, e contemporaneamente ordinò a Blueno di aprire la bocca.

Caro Vegapunk non fece un plissé.

«Tutto qui?» disse con una punta di delusione. «Tutte queste storie per così poco?»

Fece dietrofront e si avviò nel corridoio.

Arrivata a metà si girò. «Su! Muoviti! Non ho tutto il giorno!» disse a uno tra Califa e Blueno, ma senza far capire con chi ce l’avesse.

Califa, che non poteva aver sentito, rimase ferma al suo posto, dritta come un fuso.

Blueno, in un gesto interrogativo, si portò una mano al petto, come a domandare: “ce l’hai con me?”

Caro tornò sui suoi passi, seccata. « No, a te ti metto a posto durante la pausa » gli rispose. Prese sbrigativamente per mano Califa e cercò di portarla via, ma l’agente si puntò spaventata i piedi e rifiutò di muoversi: giustamente, non aveva sentito niente, né visto nulla, aveva solo percepito una mano sconosciuta che voleva trascinarla.

Lucci schiumò di rabbia, dentro sé, e il flebile istinto di famiglia che i suoi colleghi avevano risvegliato urlò con forza contro quel sopruso. Era costretto dalle circostanze a mettere un freno all’istinto di sgozzare Caro Vegapunk: doveva fare da tramite tra quell’insopportabile donna e Califa.

Mise una mano metallica sulla spalla della collega, che immediatamente lo percepì, le prese una mano, e cominciò a scrivere sul palmo alcune parole per rassicurarla e per spiegarle cosa stava per succederle.

Caro Vegapunk osservava quel dialogo con le labbra strette e gli occhi pieni di una malcelata curiosità scientifica; fosse stata una psicologa, una sociologa, o una qualsiasi studiosa del comportamento umano, quel gruppo di agenti sarebbe stato pane per i suoi denti: gli ex bambini problematici, diventati assassini e addestrati a non avere legami se non con la Giustizia Oscura, avevano sviluppato un senso di affezione per i loro colleghi, al punto da rimanere loro accanto e rischiare la propria vita per salvarli, quando il buonsenso avrebbe suggerito di scappare.

Considerando poi il passato di Rob Lucci, i suoi modi di affrontare problemi legati alla giustizia, il suo carattere e la sua arroganza, quello che stava succedendo nel salotto era un vero miracolo, una cosa che la donna avrebbe giurato potesse accadere per il piccione, non certo per un altro essere umano.

«Va bene» disse infine Califa «Vengo» tese la mano, che fu presa da Caro, e insieme sparirono nel corridoio semibuio.

 

 

La luce le dava un po’ fastidio, ma sarebbe passato presto. I filtri dovevano calibrarsi da soli, l’avrebbero fatto nei giorni successivi e, se voleva, poteva indossare dei comuni occhiali da sole, proprio come se quegli occhi azzurri fossero stati i suoi.

I rumori erano amplificati, ma non così tanto da dare fastidio. Erano più nitidi, più puliti. Se avesse voluto un po’ di silenzio, poteva chiudere le comunicazioni premendo un minuscolo pulsantino dietro il padiglione sinistro.

Califa se ne stava seduta nel salotto di casa Vegapunk e guardava fuori dalla finestra, assaporando ogni dettaglio di quel panorama invernale: la neve che scendeva, i balconi di legno, le fontanelle agli angoli delle strade, le orme nella neve lasciate dalle persone. Tutto le sembrava nuovo e bellissimo. Il soffice rumore che facevano i fiocchi bianchi posandosi sul davanzale le faceva venire voglia di allungare un dito e toccarli.

Dell’operazione non aveva che un vago ricordo, spazzato via dalla sua nuova, vecchia, immagine: due occhi azzurri uguali a quelli che aveva mesi prima, che le avevano donato i genitori alla nascita, e un minuscolo monile dorato, tanto leggero da essere impercettibile, che le sfiorava le orecchie e le si infilava nei fori dei timpani.

Blueno, seduto vicino a lei sul divano, ogni tanto borbottava qualcosa che somigliava a un “sssà, sssà, prova, prova » deglutiva e riprovava, mentre Caro Vegapunk, che si preparava la colazione in cucina, li teneva sott’occhio.

Non che non si fidasse delle proprie creazioni, ovviamente, ma ogni lavoro aveva bisogno di un minimo periodo di osservazioni, per assicurarsi che tutto filasse liscio e non ci fossero problemi di rigetto.

Califa sentì dei passi sul vialetto d’ingresso e si girò verso la porta di casa. Poi, all’improvviso, il campanello.

«Alla buon’ora» osservò la voce della scienziata.

 

 

«Mi vedi? Quante dita sono queste?» disse Jabura sbandierando la mano sinistra, quella con due dita in meno grazie a una vecchia missione.

«Jabura» lo ammonì la donna seguendo il collega con lo sguardo «Questa è molestia sessuale, e su quella mano hai al massimo tre dita»

«E tu? Stai bene?  domandò Kaku a Blueno, visto che costui non si pronunciava.

«Sto benissimo, può andare» rispose l’ex oste di Water Seven, con una voce che sembrava la sua e che proveniva… da qualche parte nella sua pancia.

«Chapapa, ora non sei più l’unico ventriloquo» osservò con una risata Fukuro, scucendosi la zip, in direzione di Rob Lucci.

«Non aveva solo la lingua, fuori uso» spiegò la scienziata «Ho dovuto ricostruirgli mezza trachea e sostituire le corde vocali che… no, non ve lo dico cosa ho trovato là dentro» decise, in uno slancio di magnanimità «Dovrà ricordarsi di muovere le labbra, altrimenti rischia di spaventare la gente» suggerì. Poi, guardando quello scemo a cui aveva sostituito la spina dorsale che faceva le prove per veder muovere gli occhi bionici della sua collega, disse:«Ehi, biondina. Perché non gli fai vedere lo zoom?»

«Perché è molestia sessuale» si difese la “biondina”. Mosse leggermente le sopracciglia, come se si stesse sforzando in maniera lieve, e subito l’occhio destro, con un rumorino metallico, si allungò ben oltre l’orbita, sporgendo quasi oltre il naso della ragazza, e rivelando una sorta di montatura dorata che sorreggeva l’intero bulbo oculare, che pareva di vetro e porcellana, e riluceva alla luce del giorno.

Lilian strillò: «È UNA FIGATA PAZZESCA!!!»

«Zitta, sciocca!» la sgridò Lucci.

«FIORIR SUL CARO VISO VEGGO LA ROSA, TORNANO I GRANDI OCCHI AL SORRISO INSIDIANDO!» cantò Kumadori sciogliendosi in pianto.

«Obiettivo digitale, ottimo per appostamenti. Funziona come un 300 mm ma la misura è quella di un occhio umano, a prova di polvere e schizzi, anallergico, con un diaframma massimo di 1.2,8. Non ringraziatemi» disse Caro sorseggiando il suo caffè.

 

 

Uscirono dalla grande casa di Caro Vegapunk con la speranza di non doverci tornare mai più, e di non dover portare lì altri amici che stavano combattendo tra la vita e la morte.

Camminando sotto la neve, salirono tutti sul furgone, dove erano ammassate tutte le loro cose: avevano lasciato il rifugio di pietra, stavolta per sempre.

Rob Lucci si preoccupò che Califa e Blueno, gli ultimi arrivati, stessero comodi e al caldo, visto che ancora dovevano ristabilirsi del tutto, si scambiò uno sguardo con Kaku per sapere se dalle sue parti era tutto a posto, e Jabura… poteva anche crepare, per quanto gli importava, pensò assicurandosi che avesse anche lui delle coperte per appoggiarsi all’interno del furgone, e non ne distribuisse troppe agli altri. Kumadori e Fukuro, infagottati nelle pellicce, erano in fondo a tutto, e aspettavano di partire.

«Mi dica lei, boss» disse Lilian, già seduta al posto di guida, inforcando gli occhiali da sole «la porto dove vuole»

Rob Lucci, con Hattori sulle ginocchia, chiuse lo sportello del furgone montando al fianco della pilota, preparandosi alla partenza. «Andremo dall’unico che, a quanto pare, era ben informato di tutta questa situazione fin dall’inizio» disse Lucci.

«Intendi Spandam?» indovinò Jabura.

«Esatto.» tuonò Rob Lucci. Era la seconda e ultima volta che quel maledetto insetto riusciva a far del male a lui e a tutti i suoi colleghi. Stavolta, adesso che il Governo Mondiale non esisteva più, nulla l’avrebbe salvato dalla vendetta di quei sette assassini, le cui vite erano state rovinate due volte dal tradimento e dalla codardia di quell’omuncolo.

Lilian annuì decisa. « Dove, boss?»

 «Riportaci a Catarina»

 

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Sorpresa! Sono tornata ad aggiornare questa storia! Avevo ancora una gran voglia di scriverci su, e quindi ho approfittato del Cow-T (una gara a squadre organizzata dal sito LandeDiFandom) per aggiungere l'ultimo capitolo e portare in salvo anche Califa e Blueno!


Dedicato ai recensori di questa storia, John Spangler e Shinigami di fiori: grazie! Davvero grazie! 


Poche chiacchiere: il "metodo" che usano gli agenti per comunicare con Califa, tracciare le lettere sui suoi palmi e sfruttare il suo senso del tatto, mi è venuto in mente leggendo la storia di Helen Keller, attivista americana sordocieca che imparò a leggere e scrivere quando la sua maestra, Anne Sullivan, usò con lei lo stesso metodo.
Kumadori, quando vede Califa tornare a vedere e sentire, non poteva che intonare i versi "All'amica risanata" di Ugo Foscolo!

E per stasera è tutto! Rimanete sintonizzati, entro una decina di giorni sarà aggiornata anche la raccolta "Sette bambini decisamente cattivi"!

Grazie e un bacione,

Yellow Canadair

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