Paix entre nous

di lucille94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38 ***
Capitolo 39: *** Capitolo 39 ***
Capitolo 40: *** Capitolo 40 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Breve confessione prima di iniziare: la fanfiction si basa non solo sul bellissimo romanzo di Scott, ma anche sul film "Ivanhoe" del 1982 dove Bois-Guilbert, invece che finire Ivanhoe ferito, preferisce farsi uccidere per salvare la vita a Rebecca, che ama sinceramente. Senza questo finale la fanfic non regge... ma con questo non voglio dire che il finale di Scott non mi piaccia... Hanno semplicemente due significati molto, molto diversi.

***
Sua Maestà re Richard Cuor di Leone aveva gettato la maschera. Stava fiero in groppa al proprio destriero, che calpestava altezzosamente il terreno insanguinato della lizza di Templestowe. L’aria vibrava tra lo stupore e la rabbia dei presenti. I contadini dei dintorni alzarono forti urla di approvazione, urla che quasi coprirono le parole del sovrano. Ma anche chi non avesse potuto udirle con le proprie orecchie le avrebbe intese dalla faccia del Gran Maestro Beaumanoir, che diventava sempre più livido di stizza e vergogna. Albert de Malvoisin, la serpe della discordia, era assicurato alla custodia delle guardie del re e Richard tornava a rivolgersi al Gran Maestro, circondato dai propri fidi, tra cui lo stesso Wilfred di Ivanhoe.
Rebecca non badava a ciò che le capitava attorno, intontita dall’angoscia che lentamente lasciava il suo corpo. Fuoriusciva come fuoriusciva, in quel preciso momento, il sangue dalla ferita aperta nella tonaca bianca del Templare Bois-Guilbert. Da quando aveva visto la spada di Ivanhoe immergersi nella sua carne era pervasa da una sensazione che aumentava al diminuire dell’angoscia. Quasi non si accorse di suo padre che l’abbracciava e baciava e accarezzava. I suoi occhi erano fissi al luogo dove ancora giaceva il cadavere dello sconfitto.
Richiamati da Beaumanoir, i Templari si erano raccolti ordinatamente in assetto da combattimento, ma la risolutezza con cui il Gran Maestro ordinò subito dopo di abbandonare la lizza li obbligò a marciare rapidamente via da quella che era stata la Precettoria di Templestowe e che ora era l’ennesimo castello in mano alla corona inglese. E il cadavere di Bois-Guilbert era abbandonato a un destino crudele.
Lentamente, Rebecca si sottrasse alle attenzioni del padre.
«Rebecca, luce dei miei occhi – la pregò – Lasciamo questo luogo maledetto il più in fretta possibile»
«Voglio vederlo» bisbigliò la fanciulla, senza prestare attenzione alle sue parole.
«La follia ha colto mia figlia, la mia unica figlia! – si lamentò Isaac tendendo le mani al cielo – Andiamo via, prima che i cristiani si adirino con noi»
Rebecca non lo ascoltava; camminò veloce, praticamente non vista, tra i cavalieri del re e raggiunse il nemico che l’aveva condotta alle soglie di una morte orribile. Lo guardò attentamente, fissò il suo viso immobile e pallido, la sua posa degna di un crocifisso, a braccia aperte. E il fianco aperto: ora che era più vicina, si accorse che la ferita non era estesa come aveva creduto. Sentì il cuore sussultare nel petto e non seppe spiegarsi il perché. Si inginocchiò accanto a lui, osservò più attentamente il suo corpo e capì, capì che respirava flebilmente.
“È vivo!” pensò, senza sapere se gioire per una vita risparmiata o se disperarsi per il prolungarsi della sua persecuzione. Si voltò e vide che il re si stava allontanando, per mettere fretta ai Templari e convincerli che tornare indietro non sarebbe stata affatto una buona idea. Solo suo padre non distoglieva gli occhi da lei e si stringeva nel mantello, lanciandole certe occhiatacce. Rebecca tornò ad osservare la ferita di Bois-Guilbert: era curabile, avrebbe saputo guarirlo. Oppure avrebbe potuto fare come i Templari e abbandonarlo lì come giusta ricompensa per ciò che le aveva fatto. Ma, pensò, lei gli aveva dato il suo perdono; e nondimeno lui l’aveva esortata a fuggire. Lo stallone aspettava ancora nascosto nel bosco da qualche parte. E poi, quello sguardo... quell’ultimo sguardo prima del terribile fendente...
Non era stata una distrazione a condannarlo alla sconfitta. All’attacco disperato di Ivanhoe Bois-Guilbert avrebbe facilmente opposto una difesa; invece aveva allargato le braccia e offerto il petto.
Rebecca era tanto concentrata a controllare i segni vitali del Templare da non notare tre figure che si avvicinavano dal vicino boschetto.
«Giudea – la apostrofò una voce carica di disapprovazione – Sei stata dichiarata innocente, ma per me resti comunque una negromante: cosa vuoi fare a questo disgraziato, ora che è morto?»
Rebecca alzò gli occhi, sorpresa. A parlare era stato l’uomo vestito da monaco. Un altro aveva un cappello a punta dotato di piuma e un lungo arco a cui si appoggiava; il terzo aveva un cappello simile, ma nessun arco, bensì una cetra a tracolla.
«Parola mia, giudea – continuò l’arciere – Noi non abbiamo le sofisticherie di questo monaci armati. Emaniamo in fretta le nostre sentenze e, per quanto quest’uomo in vita non fosse proprio uno stinco di santo e neanche un sassone, era comunque un cristiano. Frate Tuck, vorresti provvedere a un buon funerale per lui?»
Il monaco storse il naso: «Lo faccio in ossequio alla croce che ha sul mantello; l’ho visto sulle mura di Torquilstone e non ha di certo conquistato la mia simpatia»
«Allora andiamo; prima lo seppelliamo cristianamente, prima potremo tornare alla Quercia» rispose l’arciere e si apprestò, con l’aiuto del menestrello, a sollevare il cadavere.
«Se lo farete – intervenne Rebecca, frapponendosi – seppellirete un uomo vivo, condannandolo a una morte ben peggiore»
All’udire quelle parole, tutti e tre gli uomini sobbalzarono.
«Grande Signore! – esclamò il monaco – Questa donna ha già compiuto le sue cabale richiamandolo dall’Inferno!»
Rebecca scostò il brandello di stoffa che teneva premuto contro il fianco del Templare, indicò prontamente la ferita e ribatté:«Guardate la ferita: converrete con me che non è mortale. E ascoltate: sentite anche voi? Respira piano, ma respira ancora!»
I tre uomini dovettero riconoscere che non si trattava di magia: Bois-Guilbert non aveva mai superato la soglia dell’altro mondo.
«Che cosa possiamo fare?» domandò il menestrello, rivolto all’arciere. Questi aveva un’aria cupa; il monaco rispose al posto suo: «Non possiamo farci niente. Io posso solo abbreviargli le sofferenze con un colpo ben assestato del mio bastone»
L’arciere alzò le spalle: «Nella foresta non troverebbe chi lo possa medicare»
«Potreste aiutarmi a portarlo presso il rabbino Nathan? Noi sapremo salvargli la vita» intervenne Rebecca. Nel frattempo Isaac li aveva raggiunti e aveva sentito le sue ultime parole: «Follia! – esclamò – La mia unica figlia ha perso l’intelletto!» e continuò a lamentarsi per tutto il tempo.
L’arciere diede una rapida occhiata ai due compagni e disse: «Giudea, possiamo fidarci davvero delle tue intenzioni?»
«Certamente!»
«Ma figliola! Questo infedele ti ha quasi fatta bruciare come la buona Miriam, che il Signore accolga la sua anima nei cieli!» obiettò Isaac.
«Attento a chi chiami infedele, giudeo! – ringhiò Frate Tuck – Ma su una cosa hai ragione: la tua generosità mi suona sospetta, ragazza»
Rebecca deglutì: «Avete visto tutti che si è lasciato trafiggere. L’ha fatto per salvarmi la vita!»
«Se tu, Frate Tuck, sei d’accordo con il padre, io lo sono con la figlia. Se quest’uomo non era sotto l’effetto di una magia, c’è solo un’altra spiegazione: amore» ammise l’arciere.
Rebecca si sentì arrossire e senza rialzare lo sguardo sugli sconosciuti tagliò corto: «Vogliate portare il Templare dove vi ho detto e avrete una giusta ricompensa per la vostra compassione». I tre accettarono di buon grado. E i lamenti del povero Isaac non sortirono alcun effetto.
Rebecca avvertiva con ansia lo scorrere del tempo: la ferita, in sé, non era mortale, ma Bois-Guilbert rischiava il dissanguamento. Isaac aveva un cavallo; lo stallone nero del Templare fu trovato tra gli alberi a brucare. L’arciere montò in sella e caricò il ferito, dando di sprone per fare più in fretta. Non aveva bisogno di guide che gli indicassero la casa di Nathan. Rebecca lo seguì con il cavallo del padre; Isaac e gli altri due avrebbero continuato a piedi.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


«Aiutatemi a sfilargli la cotta» disse Rebecca all’arciere e questi obbedì alle sue indicazioni. Il respiro del Templare era diventato più flebile, ma restava regolare. Una volta che la ferita fu scoperta, Rebecca si armò di ago e filo e ne ricucì i lembi. Subito dopo, sciacquò il sangue e spalmò un unguento dal profumo intenso. Quando ebbero anche fasciato tutto il busto a protezione della sutura, la giovane ringraziò l’arciere sconosciuto, allungandogli un borsello pieno di monete d’oro. Questi ringraziò e chiese di poter attendere l’arrivo dei due compagni per ripartire insieme a loro. Rebecca si inginocchiò accanto al Templare privo di conoscenza e annuì. Intanto tastava il polso, prendeva la temperatura della fronte e tornava a pulire le ultime tracce di sangue schizzate sul viso. Nathan, il rabbino, non era in casa in quel momento; alla servitù Rebecca aveva ordinato di non entrare nella camera riservata agli ospiti – e in quel momento spettante a lei. Non avrebbe saputo dove lasciar coricare il Templare ferito con la certezza che nessuno l’avrebbe trovato. L’arciere non aveva sollevato nessuna questione, ma l’aveva osservata per tutto il tempo con fare sospettoso. Aveva tenuto d’occhio i suoi movimenti, controllato l’unguento e mantenuto un rigoroso silenzio durante le operazioni. Rebecca non riusciva a crearsi un’idea di cosa quel giovane arciere stesse pensando di lei in quel momento.
«Diffidate ancora di me?» gli domandò, per spezzare definitivamente la cappa di sospetto che incombeva nella stanza.
«No, non più. Ho visto che tenete alla salute di quest’uomo; e francamente non me ne capacito» ribatté, aggiustandosi il cappello sulla testa.
«Voi probabilmente non conoscete la storia» constatò Rebecca con un sospiro.
«Conosco tutta la storia: mi chiamo Locksley ed ero a Torquilstone con i miei uomini e il Cavaliere Nero; il quale non è altri che re Richard, a quanto ho potuto vedere»
Rebecca volse gli occhi in su, sperduta: «Eravate là?» farfugliò, senza tenere conto della seconda parte della risposta.
«Ho visto con i miei occhi questo Templare che vi portava via passando attraverso le frecce e le spade dei miei uomini; giuro che non ho mai visto un uomo così pazzo» ribatté Locksley, accennando con la testa.
Rebecca si rialzò: «Se supererà questa notte – disse, quasi parlasse a se stessa – potrò auspicare che sopravvivrà alle successive. Ha perso molto sangue...»
«Perché salvate l’uomo che avrebbe potuto decidere per la vostra morte?»
Rebecca, a disagio per l’insistenza di Locksley, gli dedicò uno sguardo imbarazzato prima di rispondere: «Perché in effetti avrebbe potuto condannarmi, ma ha preferito farsi uccidere piuttosto di vedermi, da vincitore, ardere sul rogo»
Locksley annuì, fissando intensamente gli occhi di lei. Ma quel momento di sospensione fu brevissimo: dalla porta d’ingresso la voce di Frate Tuck risuonò potente. Stava discutendo con Isaac su un passo dell’Antico Testamento, tentando in tutti i modi di convincere l’ebreo della propria interpretazione per dichiararlo convertito.
«Mio buon eremita – lo interruppe Locksley raggiungendolo all’ingresso – Il cristiano è in buone mani, il funerale non si farà più. L’elemosina, però, l’abbiamo ricevuta lo stesso» e dicendo così fece tintinnare il borsello legato alla cintura. In pochi minuti i tre presero la loro strada e scomparvero nell’aria fredda di un crepuscolo nuvoloso. Isaac indovinò facilmente dove potesse trovarsi la figlia e la sorprese inginocchiata in preghiera ai piedi del letto su cui giaceva il Templare a petto nudo.
«Figlia mia! – chiamò ad alta voce, senza rispettare il silenzio della fanciulla e del ferito – Figlia mia, se quegli uomini sapessero che costui è sopravvissuto, ti condannerebbero di certo! Lascia che a prendersene cura siano i suoi compagni...»
«Non ne ha più – intervenne Rebecca – Il prezzo della sconfitta sarebbe stata l’espulsione dall’Ordine»
«Allora la sua famiglia penserà a lui!» obiettò Isaac.
Rebecca negò: «Credo che non abbia neanche questa. O per lo meno, credo sia molto lontana»
Isaac la guardò con espressione affranta: «Quale figlia sconsiderata mi ha dato l’Onnipotente. Un passo falso e potremmo essere messi a processo... Ma costei vuole salvare il suo nemico! Non come Giuditta, che preservò il popolo eletto...»
Rebecca decise che sarebbe stato inutile rispondere. Si rimise a pregare ad alta voce, recitando i salmi del re David. E suo padre preferì andare a lamentarsi nell’altra stanza piuttosto che interrompere nuovamente le sante parole della figlia.



Grazie a Portman98 per la sua recensione! E' bello sapere che anche qualcun altro è affezionato alla coppia Rebecca+Bois Guilbert!

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Il primo pensiero di Rebecca, quando si svegliò che il sole stava giusto sorgendo, fu di controllare le condizioni del suo paziente. Si avvicinò al letto – lei, invece, aveva passato la notte su un mucchio di cuscini orientali raccolti in un angolo – e stette ad ascoltare: il respiro del Templare era ancora fioco, ma non quanto il giorno prima. Rebecca si sentì più leggera e tastò senza timore il suo polso. Anche i battiti, regolari, erano più forti. Ma doveva essere cauta: Miriam le aveva spiegato che quando gli organi soffrono troppo a lungo per la mancanza di sangue, è possibile che un uomo non si svegli più e che muoia nonostante la ferita sia sana e i segni vitali incoraggianti. Ricordò ciò che aveva detto in presenza dell’arciere e si morse il labbro, temendo di essere stata troppo avventata nelle previsioni.
Si vestì in fretta e corse al pozzo di casa per attingere altra acqua. L’avrebbe fatta bollire e poi, una volta raffreddata, l’avrebbe usata per inzuppare fazzoletti da disseminare su viso, spalle e torace del cavaliere. Quando tornò in casa, nel silenzio del sonno di pressoché tutti gli altri abitanti, aspettò che l’acqua fosse bollente e poi, portandosi dietro la pentola in cui l’aveva scaldata, si chiuse nella propria stanza. Quando guardò il letto, però, trovò che il ferito si era mosso. Era ancora privo di conoscenza, ma aveva mosso un braccio. Aveva la mano prossima alla benda che gli fasciava il ventre, come se avesse sentito dolore e inconsciamente avesse voluto cercare la ferita. Era un ottimo segno e Rebecca si precipitò al suo capezzale. La speranza le diceva di vigilare perché avrebbe potuto svegliarsi da un momento all’altro. Il rabbino Nathan, anche se riluttante, la raggiunse quella stessa mattina per aiutarla a cambiare le fasciature e, a denti stretti, lodò la medicazione. Tuttavia, prima di lasciarla sola con il ferito, dedicò a entrambi uno sguardo di disapprovazione e scosse la testa.
Rebecca si fece portare il pranzo e non lasciò la camera per tutta la giornata: stette seduta sui cuscini o alla finestra e ingannò il tempo mescolando intrugli che le sarebbero tornati utili in un secondo momento. Intanto si avvicinava il tramonto e Bois-Guilbert non aveva più dato cenni di vita. La giovane fanciulla ebrea quasi temeva di scoprirlo morto. E nel frattempo le tornavano alla memoria i tragici momenti dello scontro tra il Templare e Ivanhoe. A proposito, Ivanhoe, il cavaliere sassone cui aveva affidato la vita e che non le aveva rivolto nemmeno una parola nel momento in cui il pericolo era svanito. All’apparire di re Richard, Ivanhoe aveva dimenticato persino dove si trovasse e perché. Aveva ascoltato le accuse ai traditori con il cuore infiammato d’orgoglio, nella consapevolezza che uno di questi giaceva a pochi passi da lui. Si era fatto giustiziere per il re e per Dio. Era davvero tanto diverso dall’uomo che sarebbe dovuto morire e invece respirava sul letto? Sì, in effetti sì: Ivanhoe aveva combattuto per puro spirito cavalleresco, per ricambiare un favore che, per quanto assoluto come la vita, l’aveva spinto all’arena di Templestowe solo per dovere.
Brian de Bois-Guilbert – solo ora pensava al suo nome completo, come se nel solo nome della stirpe si confondessero tante cose e si perdesse l’unicità di quella persona e della sua anima – Brian de Bois-Guilbert era lì, suo malgrado, schierato dalla parte sbagliata.
“Avevo intenzione di apparire come tuo campione” le aveva detto, quando era andato a trovarla per l’ultima volta nella sua cella. E lei non aveva saputo opporgli altro che uno stentato: “Voi?!”
Queste parole erano state pronunciate solo due giorni prima, ma a Rebecca sembrava trascorsa un’eternità. Suonavano lontane, mescolate agli schianti delle spade contro gli scudi. Le lame avevano fatto scintille; e scintille avevano lanciato gli occhi dei due contendenti. Amore e odio si erano scontrati su quel campo di battaglia e l’amore aveva vinto.
Questo non significava che avrebbe ceduto alle lusinghe di Bois-Guilbert: l’unica cosa che riconosceva era il suo debito di gratitudine, debito che intendeva sanare attraverso la propria dote di guaritrice.
Mentre era assorta in così tragiche riflessioni, la mano del ferito si mosse di nuovo; ebbe un tremito, strisciò contro il lenzuolo e si accostò alle bende. Rebecca osservò tutto, rimanendo immobile sui cuscini. Vide che il suo viso si contraeva in una smorfia di dolore e che le sue palpebre tremavano. Un singulto, e Bois-Guilbert mosse anche la testa: la ruotò a destra, poi a sinistra. Rebecca si alzò, accostandosi ai piedi del letto.
Il Templare si contorse ancora per un attimo prima di aprire gli occhi con immensa fatica. Era un morto che risorgeva dalla morte. Le sue membra gli erano pesanti, i legamenti erano intorpiditi e anche lo sguardo era appannato dalla nebbia dell’incoscienza. Pure, il suo spirito battagliero aveva dichiarato guerra al torpore mortifero. Il movimento convulso delle palpebre alla fine trovò requie e gli occhi azzurri del cavaliere brillarono di nuovo di vita.
Qualche sguardo, ancora confuso, al soffitto, poi ai tendaggi orientali della finestra. Poi Brian de Bois-Guilbert spalancò gli occhi e li fermò su Rebecca. Parve che, per un attimo, volesse ritrarsi, ma il dolore lo fece crollare nuovamente disteso. Rebecca si avvicinò ancora, lentamente, finché non gli fu accanto.
«Sono in Paradiso?» domandò lui, con lo sguardo di un bambino sperduto.
«No, signore. Siete nella casa del rabbino Nathan» spiegò lei, impassibile.
«Non sono morto, dunque? – continuò – Per un attimo ho creduto che lo fossimo entrambi e che questa stanza fosse il Paradiso...»
Le sue parole si spensero pian piano, e Rebecca non si trattenne dal raccomandare: «Non esagerate, signore. Avete bisogno di molto riposo»
Lui le sorrise debolmente e reclinò il capo su una spalla: «Siete ancora più bella, Rebecca, di quanto la mia memoria ricordasse»
Rebecca si accostò come se non avesse sentito, gli sollevò leggermente la testa e gli porse alle labbra una ciotola ingiungendogli, con tono dolce ma fermo, di bere. Lui obbedì, nonostante nei suoi occhi fosse balenata una vena di sospetto.
«Cosa mi hai dato?» domandò. Evidentemente, ora che si trovava in completa balia di lei, l’audace cavaliere ripensava alle accuse di stregoneria e le sue certezze vacillavano davanti alla prospettiva di essere avvelenato.
«Qualcosa che vi farà dormire» rispose sibillina Rebecca, quindi uscì dalla camera.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


La ripresa di Brian de Bois-Guilbert fu rapida: dopo una settimana volle alzarsi in piedi e, aiutato da una gruccia, mosse i primi passi. Il dolore al fianco lo tormentava ancora, ma il suo corpo era forte e temprato dalle battaglie di Palestina. Rebecca fu un medico impeccabile ma distaccato, consapevole della propria superiorità nel nuovo rapporto che si era instaurato tra loro. Non aveva più nulla da temere dall’antico nemico: era debole e dipendeva per la maggior parte dalle sue cure e dai suoi rimedi. E mai, di fronte alle sue attenzioni, aveva proferito la parola maledetta, “stregoneria”. Sembrava bandita dal loro presente e dal loro futuro, come se con il risveglio si fosse aperto un nuovo capitolo. E, facendosi per lo più assistere da Nathan, Rebecca impediva al Templare qualsiasi tentativo di ritorno al corteggiamento. Bois-Guilbert, nonostante ciò, non abbandonava le speranze, soprattutto dopo una tale prova di devozione, e spiegava il comportamento scostante di lei con la presenza del padre e dell’altro ebreo, i quali non avrebbero approvato il loro amore. Cercava quindi di parlarle viso a viso, nei rari momenti in cui rimanevano soli. Come un giorno sereno ormai alla fine della seconda settimana di convalescenza. Per un caso fortuito rimasero nel giardino senza compagnia di servi o di altri pazienti, ed essendo Nathan impegnato in casa e Isaac fuori, si prospettavano le circostanze perfette per un dialogo a cuore aperto.
«Rebecca – cominciò Bois-Guilbert, sottovoce – Perché ti prendi cura di me con tanta premura, se poi non mi dedichi né uno sguardo né una parola dolce?»
Rebecca aspettò a rispondere; gli dava le spalle e, dopo quella domanda, non aveva intenzione di voltarsi verso di lui. Perciò finse di essere intenta a guardare una pianta di rose che cominciava a mandare le gemme e parlò solo quando ebbe chiaro cosa voleva dire: «Vi sbagliate: io metto in pratica ciò che mi è stato insegnato; Miriam mi ha raccomandato di non entrare in confidenza con i pazienti». Mentre parlava, considerava quanto questo insegnamento non fosse valso nei confronti di Ivanhoe al castello di Torquilstone e quale magra lezione avesse appreso da ciò. Questo le diede sicurezza e rinnovò l’ostilità che provava per lui.
Brian de Bois-Guilbert si lasciò cadere contro lo schienale dello scranno su cui sedeva, con un sorriso tradito sulle labbra: «Credevo che tra noi ci fosse già una confidenza, almeno da parte mia. E tuttora la rifiuti?»
Rebecca avrebbe voluto voltarsi, questa volta, ma si trattenne: «La confidenza che avete avuto con me è stata cancellata dal mio perdono. Quando vi ho perdonato, ho ritenuto che quanto fosse accaduto prima, buono o cattivo che fosse, non avesse più valore»
Il Templare si scosse a quelle fredde parole e si issò a fatica sulle gambe, aiutato dalla gruccia. Lei sentì che si stava avvicinando e non si mosse.
«Rebecca – disse, ed ella capì che si trovava proprio dietro di lei – Se non quello che era accaduto prima, quello che è accaduto dopo deve muovere in te qualcosa nei miei confronti!»
«Certo, non sono un essere insensibile – ribatté, voltandosi finalmente e atteggiandosi nella posa più austera che conoscesse – Vi porto la mia gratitudine per avermi salvato la vita; ma il vostro coraggio, lo stesso coraggio che vi ha spinto più volte contro altri uomini, non avrà su di me l’effetto che vi aspettate. Io non sono una donna sassone, né una donna normanna: alle mie orecchie il suono della guerra genera solo paura»
Bois-Guilbert si avvicinò ancora barcollando: tra loro rimaneva forse una spanna di spazio e lui, benché ferito e dolorante, sovrastava la fanciulla che era costretta a guardare in su per sostenere il suo sguardo.
«Allora, in nome di quanto ti è più caro, dimmi cosa dovrei fare per conquistare qualcosa di più di una fredda gratitudine, una gratitudine che anche gli esseri privi di ragione possono dimostrare a chi salva loro la vita»
Rebecca non distolse lo sguardo dagli occhi azzurri e disse, scandendo lentamente i termini dell’accordo: «Finché vivrete qui non dovrete più rivolgermi appelli disperati come questo; quando sarete in grado di cavalcare, allora potrete partire. Mio padre ed io non partiremo prima che voi possiate fare lo stesso; ma da quel momento, spero, le nostre strade non dovranno più incrociarsi»
«Parli come se avessi una pietra al posto del cuore!» esclamò Bois-Guilbert e, faticosamente, tornò a sedere sullo scranno con un lungo sospiro denso di sofferenza.
«Parlo all’uomo che mi ha condotto alle soglie della morte per la sua passione peccaminosa e che nonostante quanto sia accaduto continua a propugnare questa sua passione»
«Smentisci le tue stesse parole, come temevo: hai dimenticato, ma solo ciò che avrebbe potuto aprire i tuoi occhi riguardo a me! Ho riconosciuto le mie azioni ed ero disposto a morire affinché tu vivessi. Quando ti ho lasciato l’ultima volta, quando ti ho chiesto perdono, davvero non hai capito che la scelta era stata fatta? Non hai capito che quando hai rifiutato di scappare con me o di rinunciare alla tua fede per salvarti, io ti stavo già sacrificando la mia vita?»
Rebecca ristette. Era decisa a non mostrare la minima possibilità di ripensamento, ma di fronte all’evidenza fece fatica a trovare una risposta appropriata.
«Vi state stancando troppo...» bisbigliò, avvicinandosi. Ma lui la interruppe proseguendo: «Tu non conosci la mia storia e, se è per questo, nemmeno io conosco la tua. So solo che il mio cuore era lacerato da tanti anni, eppure dopo averti conosciuta ho percepito la differenza»
«Signore, vi prego, non ostinatevi...» singhiozzò.
«Se non posso essere tuo nel modo in cui avrei desiderato, ebbene, io mi dichiaro tuo schiavo. Tuo e solo tuo! Quest’esperienza ti ha insegnato quali pericoli può correre una bella fanciulla ebrea quale tu sei. Io, tuo schiavo, mi prenderò cura della tua sicurezza dovunque vorrai andare. Sono disposto a sottopormi a qualsiasi calvario pur di rimanere accanto a te, l’unica persona che possa sollevare il mio cuore dall’affanno del passato». Detto ciò, come a sancire la sacralità di quelle parole, il Templare batté un pugno sul bracciolo di legno. I suoi occhi erano tanto infiammati che Rebecca non resse: d’un colpo, la sua forza d’animo fu spazzata via. Non riuscì a resistere e si avviò a passo spedito per tornare in casa. Anche Bois-Guilbert si rialzò, forse con l’intenzione di seguirla. Lei scappò velocemente e andò nella nuova camera che Nathan le aveva assegnato. La gruccia colpiva ritmicamente il pavimento, ma invece che avvicinarsi si allontanava: il Templare si stava dirigendo alla propria stanza. Non aveva intenzione di insistere.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


O almeno, questo pensava Rebecca: non appena Isaac ebbe fatto ritorno a casa Bois-Guilbert lo fece chiamare e quello, con un po’ di titubanza, lo raggiunse in camera. Sapeva che il normanno era disarmato e per di più debole, ma gli incuteva comunque un certo timore. Inoltre, la richiesta di un colloquio era piovuta talmente inaspettata che il povero Isaac non aveva la più pallida idea di quale sarebbe stato l’argomento da dibattere.
Trovò il cavaliere seduto sul letto con un’espressione cupa in volto. L’ebreo non fece in tempo a porgere nemmeno un blando saluto, perché il normanno cominciò subito a parlare: «Mi rendo conto che la mia presenza vi dà non pochi imbarazzi – disse, con tono schietto e nessuna intenzione di farsi contraddire – Tuttavia devo rendervi note le mie ragioni. Vostra figlia Rebecca mi ha spiegato i vostri piani di partenza e ho sentito con piacere che attenderete la mia guarigione, se non completa, che almeno mi permetta di cavalcare. Io però non sarò mai sufficientemente guarito per separarmi da lei. E poiché in queste circostanze un uomo libero del mio popolo si reca dal padre della donna che intende sposare per chiederne la mano, ecco, io lo faccio con voi»
Isaac ascoltò inorridito il preambolo del Templare e appena gli fu possibile sbottò:«Voi, signore, prima avete condotto lontano da me la mia unica, adorata figlia, l’avete minacciata, l’avete esposta al pericolo di perdere la vita in un modo atroce... Appartenete a una religione che da secoli perseguita il mio popolo... Siete così arrogante da abusare della nostra ospitalità dopo ciò che avete causato... E osate pure chiedermi la mano di mia figlia?! Un uomo consacrato, a cui il matrimonio è impedito, voi vorreste che io vi concedessi mia figlia come una concubina?»
«Voi fraintendete il senso delle mie parole – lo interruppe Bois-Guilbert seccamente – Ma i vostri occhi sono chiusi dall’odio. Ho avuto modo di riflettere a lungo in questi giorni e la mia scelta è salda. Mi aspetto una risposta che le corrisponda»
«Siete abituato ad ordinare e ad essere servito. Qui, però, si tratta di mia figlia e sono io ad avere la potestà paterna su di lei. Non contestate dunque la mia decisione e lasciateci in pace!»
Bois-Guilbert scosse il capo e alzò la voce: «Non cederò così facilmente. È vero, io sono solito dare ordini; ed è vero che in questo momento voi avete tutta la libertà di negarmi ciò che chiedo. Lasciate allora che vi dica una cosa: non rinuncerei a Rebecca nemmeno se le costruiste attorno una fortezza d’avorio»
Isaac trattenne il respiro e distolse gli occhi: «Perché dovrei accondiscendere, ditemi? Il vostro nome non ha evocato che paura e sofferenza in questa famiglia. Il vostro emblema... La vostra fede... Tutto ciò che voi professate vuole il male del mio popolo. Non posso affidare mia figlia a un uomo come voi»
Bois-Guilbert sussultò e calcò la mano sinistra sulla ferita che ancora, talvolta, lo infastidiva: «Voi giudei siete davvero di dura cervice! Non c’è da stupirsi che il Signore vi abbia abbandonato – ringhiò – Ma io tengo a Rebecca e le devo molto più di quanto possiate immaginare. Quindi, vi prego, riflettete sulla mia proposta»
«Non capisco di cosa stiate parlando – ammise Isaac, animato da un fervore insolito – Ma voi non confonderete la mia mente. Devo confessarvi che non ho alcuna intenzione di tenere in conto questo colloquio. Rebecca ed io ci stiamo preparando a lasciare l’Inghilterra e mi impegnerò affinché voi non possiate seguirci»
«Lasciare l’Inghilterra?! – trasalì il Templare – E dove, ditemi, dove andreste?». Nella sua voce c’era una vena di smarrimento che dava una luce totalmente diversa al suo sguardo. Isaac aguzzò gli occhi e cercò di leggere nel turbinio della sua anima; ma non era mai stato bravo a decifrare i sentimenti, né i propri né quelli degli altri, perciò desistette e fece per andarsene.
«Aspettate!» lo trattenne Bois-Guilbert, e quando Isaac gli rivolse di nuovo l’attenzione lo scoprì quasi fragile, quasi smarrito, sebbene l’aspetto nel complesso e l’espressione del normanno non fossero affatto diverse da prima.
«Spero che il nostro colloquio sia finito e vi auguro, con l’aiuto del Signore, di guarire quanto prima» ribatté, intenzionato ad uscire per sempre da quella stanza.
«Vi prego – esalò Brian de Bois-Guilbert – Per ciò che avete di più caro, ed è ciò che è più caro anche a me, restate. Vi aprirò sinceramente i miei pensieri come se voi foste mio padre»
Quella confidenza improvvisa mosse qualcosa dentro Isaac che lo costrinse a fermarsi sulla soglia della porta ancora chiusa.
«La mia non sarà una confessione – cominciò il Templare – Ciononostante mi aspetto che vi chiarisca la situazione: la mia scelta di entrare nell’Ordine dei Cavalieri del Tempio non fu dettata da nessun tipo di vocazione. A quel tempo, vivere o morire mi sarebbe stato indifferente: non combattevo per sopravvivere, ma per uccidere. Il mio cuore era inaridito e la mia anima tradita. Solo una cosa mi restava dell’uomo che ero stato, e cioè la gloria che mi ero conquistato combattendo. Ebbene, quel brandello di orgoglio che mi restava si aggrappò alla fatua gloria come se solo in essa potessi trovare la ragione di esistere non tanto ai miei occhi, quanto a quelli degli altri. I miei superiori conoscevano la mia storia e le mie intenzioni e mi fecero credere che la gloria dovesse essere l’unica cosa di valore: la mia gloria andava a gloria di nostro Signore, la cui insegna ci accompagnava sempre, in battaglia e fuori, nel bene e nel male. I precetti erano facilmente aggirati con la compiacenza di persone come me; e questa fu sostanzialmente la mia vita durante la Crociata. Ora, sapete benissimo cosa sta accadendo in Terrasanta e non sarò io a raccontarvelo: tornai in patria, come molti miei compagni. Qui, contravvenire ai precetti dell’Ordine e della semplice morale era molto più facile: perciò, da un male all’altro, finii per trovarmi in stretta compagnia con gli uomini che voi stesso avete conosciuto, a sostenere una causa ingiusta come quella del principe John non tanto per un mio interesse personale, quanto per ottenermi il rispetto e il timore di chi avesse, un giorno, sentito pronunciare il mio nome. Al torneo di Ashby ho constatato di aver avuto ragione: la mia fama ormai è cresciuta tanto in alto da adombrare qualsiasi colpa. Qualsiasi, tranne una»
«E quale, in nome dell’Altissimo?» intervenne Isaac, dopo una pausa di silenzio.
«Il ripensamento – sussurrò Bois-Guilbert come se fosse una parola maledetta – Il tentennamento, l’incertezza... Comunque vogliate chiamarla, questa bestia mi ha assalito. Non mi aspettavo di essere ancora tanto vulnerabile. Chiedetelo pure a vostra figlia: le ho promesso che avrei rinunciato a tutto pur di salvarla. Alla mia gloria, al mio onore, al rispetto conquistato con il disprezzo del pericolo e della morte. Ed è solo causa e merito suo, di vostra figlia»
Isaac abbassò il capo: a un ebreo come lui un discorso del genere suonava insensato. Ovviamente capiva dove volesse andare a parare; e ovviamente non aveva intenzione di cedere alle sue richieste. Soprattutto, non aveva intenzione di essere raggirato.
«Voi effettivamente avete perso tutto, signore» constatò amaramente.
«Ho perso il mio prestigio, ho perso il mio titolo di precettore; ma ho perso l’Ordine stesso, i compagni d’arme e tutto ciò che era mio, armi, cavalli, schiavi. Mi rimane solo il mio nome, l’unica cosa che il Tempio non toglie ai propri adepti. E mi rimane il mio affetto per Rebecca, alla quale sono disposto a dare tutto ciò che resta di me, compreso il mio nome»
«Come avete intenzione di mantenervi ora, in questa nuova situazione per l’Inghilterra?» domandò Isaac, misurando le parole.
Bois-Guilbert alzò leggermente le spalle: «Le armi sono l’unico mestiere che conosco; non avendo altro che questo, se sarò in grado di riprendere a combattere mi farò assoldare da qualche compagnia... Altrimenti entrerò nella guardia di un nobile, forse del principe, se dimostrerà un poco di magnanimità...»
«Forse non l’avete saputo – lo interruppe l’ebreo a quel punto – ma il re è tornato»
Bois-Guilbert sbiancò e spalancò gli occhi: «Tornato?! Come può essere?!»
«Ricordate il cavaliere chiamato Le Noir Faneant? Il Cavaliere Nero che ha partecipato anche all’assedio di Torquilstone?»
A quell’ulteriore, drammatica rivelazione Bois-Guilbert preferì stendersi. Trasse profondi respiri e si passò una mano sulla fronte. Poi quella mano scese lungo la gola e il cavaliere riaprì gli occhi in uno sguardo vacuo verso il soffitto.
«Vostra figlia – bisbigliò tra i denti – avrebbe fatto meglio a lasciarmi morire dissanguato a Templestowe. Se il re dovesse venire a sapere che sono vivo, mi farebbe impiccare per tradimento!»
Isaac mosse un passo: «I fratelli Malvoisin sono già stati arrestati e attendono di essere giustiziati insieme a tanti altri traditori, signore. Capite che non avete speranze di ottenere nulla né da me né da chiunque altro in Inghilterra che desideri intrattenere buoni rapporti con il re»
«Non mi resta altro da fare che partire per la Terrasanta, di nuovo, e sperare che questa volta i Turchi sappiano mirare al cuore di un pellegrino armato» disse Bois-Guilbert. La voce tremava, forse di paura o forse di rabbia. In ogni caso non parlò oltre; Isaac si sentì libero di lasciarlo solo e provò un senso di sollievo quando finalmente fu oltre la porta chiusa.

Eccoci già al quinto capitolo! Mi piacerebbe molto conoscere il vostro parere... La storia è ancora lunga, tante cose devono ancora succedere, ma desidero davvero le vostre opinioni: mi aiuteranno a crescere, a migliorare lo stile, a capire cosa piace e cosa no. Perciò recensite! Positivo, neutro, negativo... Accetto tutto :) Se preferite potete anche mandarmi dei messaggi, se non vere e proprie recensioni. E' davvero molto importante per me! Grazie mille!

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


«Dove andrete, una volta arrivato a Londra?» domandò Rebecca, affiancando con il proprio cavallo quello di Bois-Guilbert. Avanzavano al passo e Isaac li precedeva.
Il Templare, avvolto in uno spesso mantello nero, non distolse gli occhi dal percorso e rispose: «Credo che mi imbarcherò, tornerò in Normandia e da lì mi recherò in Sicilia»
La fanciulla approvò con un cenno: «Noi andremo in Spagna, presso uno zio... Spero ci sentiremo più sicuri laggiù»
«Ve lo auguro. Mi rendo conto che l’Inghilterra, per quanto Richard si proclami vostro protettore, non può essere un luogo dove formare una famiglia...»
Rebecca negò: «Non intendo formare nessuna famiglia, né qui né in Spagna. Mi dedicherò alla cura dei bisognosi»
Solo allora Bois-Guilbert volse il viso verso di lei. Da sotto il cappuccio si intravedevano i riflessi cristallini dei suoi occhi azzurri e una piega come di sorriso sulle sue labbra, un sorriso malinconico e disincantato: «Allora abbiamo qualcosa che ci accomuna: un uguale voto che ci proibisce la felicità degli altri esseri umani...»
Rebecca non osò ribattere a quell’amara costatazione, temendo di pronunciarsi nel modo sbagliato.
«D’altro canto – constatò lui – se il Signore si dimostrerà misericordioso verso di me, farà sì che io muoia molto presto»
«Quale triste speranza vi muove a partire» sussurrò Rebecca.
«Ci sono momenti in cui un uomo non può che ammettere il fallimento. Quando non resta più nulla se non la morte, è bene che la morte non indugi a venire»
Proseguirono finché fu mezzogiorno: circa a quell’ora giunsero a una locanda isolata. Decisero di fermarsi a consumare un pranzo veloce per poi rimettersi in cammino, ma appena prima di entrare Isaac diede un colpetto di gomito al cavaliere e gli lasciò cadere tra le mani un borsello di monete.
«Noi ripartiremo appena concluso il pranzo. Fate finta di non conoscerci e fermatevi per la notte: noi, invece, ripartiremo subito» gli bisbigliò all’orecchio. Rebecca, evidentemente, era a conoscenza della decisione del padre e passò accanto a Bois-Guilbert senza degnarlo della minima attenzione. Il cavaliere zittì un impeto di rivolta e, dopo aver ceduto il passo a padre e figlia, attese che fossero seduti prima di entrare ed occupare il tavolo più lontano della bettola. Dal proprio angolo teneva facilmente sott’occhio il luogo appartato dove venivano sistemati i clienti ebrei. Chiese una brocca di vino e quello che il cuoco aveva preparato per quella giornata. Vedendosi arrivare un pezzo di carne di cinghiale, previde che per i suoi ex compagni di viaggio sarebbe stato portato solo del pane con del vino. E mentre rimuginava sul da farsi, sulla strada da prendere e sui successivi spostamenti, tre uomini presero posto sulla panca accanto e cominciarono a scambiarsi commenti sugli avventori.
«Quei due – disse a un tratto quello dei tre che dava le spalle a Bois-Guilbert accennando ad Isaac e Rebecca – saranno sicuramente accompagnati da un buon carico d’oro. Oppure, parola mia, non sono ebrei osservanti»
Bois-Guilbert chinò il viso sul proprio piatto, tutto intento ad origliare e, nel caso, a intervenire.
«Io mi accontenterei dei gioielli della ragazza» disse il secondo.
«Io no» esclamò il terzo, e insieme sollevarono le pinte e brindarono. Le loro risate sguaiate riempirono la locanda, ma quegli schiamazzi erano usuali in luoghi del genere e nessuno protestò.
«Quindi è deciso?» riprese il secondo dopo una lunga sorsata.
«Certo! Lasciamoli pagare, per ora» disse il primo.
Dopo un’occhiata, il terzo domandò: «E la ragazza?»
Bois-Guilbert sollevò appena gli occhi, ma nessuno dei tre si scompose, e neppure diede risposta. Un brivido percorse le sue braccia e la sua schiena e l’istinto guidò la sua mano destra sulla cintola, sul fianco sinistro dove d’abitudine teneva la spada. Ma una spada non l’aveva più. D’un tratto, tutti i piani di viaggio erano volati in fumo: il pensiero di abbandonare i propri benefattori, e in special modo Rebecca, perse tutta la risoluzione costruita durante il cammino. Brian de Bois-Guilbert, con una rapida occhiata al coltello servitogli per tagliare il pane, si risolvette ad accodarsi alla losca comitiva della locanda. Aspettò pazientemente: alla fine i tre avventori si alzarono e si diressero con passo sicuro verso Isaac. Parlottarono per qualche minuto e vennero a un accordo. Li vide uscire, vide padre e figlia soffermarsi un istante al di qua dell’uscio; quando anche loro furono fuori, quando il rumore di zoccoli al passo scemò fino a sparire, allora Bois-Guilbert si alzò da tavola, lasciando accanto al piatto una moneta d’oro. Con tutta probabilità i tre si erano fatti assumere come scorta e avrebbero atteso di essere ben addentro la foresta prima di sferrare l’attacco. Il normanno si fece portare il cavallo, salì in sella con un balzo – e nel farlo si procurò una fitta al fianco che gli mozzò il respiro – quindi nascose accuratamente il coltello da pane nella manica destra. Solo allora, datasi una rapida occhiata intorno, partì.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Bois-Guilbert aspettava solo di udire un suono, un grido, un tramestio. E quando lo udì, per quanto il fianco destro gli dolesse, spronò il cavallo in un galoppo disperato. Piombò su due dei tre rapinatori che cercavano di immobilizzare il povero Isaac. L’ebreo, sospeso dalla presa dei due assalitori, si dimenava e urlava che lasciassero stare sua figlia. Bois-Guilbert fece scivolare il coltello nella mano e colpì al volto il bandito più vicino, quindi smontò da cavallo e gli sferrò un calcio nelle costole così forte da togliergli il respiro. Non fece in tempo a rialzare gli occhi: l’altro bandito aveva già tratto dalla cintura un pugnale e l’aveva piantato nel petto di Isaac che, con un rantolo, si accasciava a terra gemendo di dolore. Bois-Guilbert si scagliò contro il secondo avversario, che era quello che nella locanda gli volgeva le spalle. Parò due fendenti e schivò il terzo, quindi, per la rabbia, immerse con un rovescio la lama del coltello nella sua gola e quasi lo decapitò. Il primo bandito barcollava, cercando di tirarsi in piedi e allo stesso tempo di recuperare la poca refurtiva che si erano procurati con il colpo. Il cavaliere lo incalzò, agitando il coltello da pane, ma riuscì a ferirlo solo di striscio. Qualcosa di più importante gli premeva in quel momento: Isaac, con l’ultimo respiro, gli accennò al pugnale del bandito morto e poi bofonchiò: «Salvate mia figlia!»
Bois-Guilbert raccolse il pugnale e con esso la missione. Isaac gli indicò una traccia che scendeva dalla strada fin dentro al bosco circostante, poi, con un ultimo profondissimo sguardo colmo di paura, gli disse: «Addio»
Bois-Guilbert corse a rotta di collo giù per il pendio della strada, incespicando tra le piante basse del sottobosco. Correva, seguendo una leggerissima traccia lasciata da una preda rapita che non si arrendeva al rapitore. La resistenza di Rebecca fu provvidenziale: in breve tempo il cavaliere vide lei e il terzo bandito affrontarsi non lontano. Li raggiunse facilmente e quello, piuttosto che lasciare il bottino senza combattere, ingaggiò con lui uno scontro selvaggio. Prima si sfidarono con i pugnali ed entrambi rischiarono più volte di finire trafitti. Poi, cedendo all’istinto più feroce, abbandonarono le armi e si fronteggiarono a mani nude. Rebecca seguiva la lotta urlando, chiamando aiuto. Non osava muoversi, per timore che altri assalitori fossero nei paraggi e potessero scoprirla sola e vulnerabile. Bois-Guilbert dimostrò subito di avere una tecnica e una forza superiori; tuttavia il bandito era cocciuto e si faceva valere; alla fine, però, preferì la resa e si dette alla fuga. Appena prima di sgusciare dalle grinfie del nemico riuscì a strappargli il cappuccio e in quel momento, quando già le sue gambe lo portavano lontano, trasalì riconoscendo in lui un volto familiare. Bois-Guilbert minacciò di aggredirlo di nuovo e quello si volse definitivamente correndo a più non posso verso nord. Rebecca rimase abbracciata a un albero; Bois-Guilbert, invece, scrutava tutt’attorno nel timore che il bandito che aveva ferito al viso fosse tornato. Quando i passi di corsa del rapitore si furono spenti nell’aria tranquilla della foresta e nessun nuovo pericolo si fu palesato, allora Bois-Guilbert fu sopraffatto dal dolore e cadde in ginocchio. E Rebecca lo soccorse appena in tempo per evitargli di cadere disteso sul letto di foglie del bosco.
 
«Signore, signore! – singhiozzava Rebecca, scuotendolo delicatamente – Mio padre, signore!»
Bois-Guilbert provava una forte nausea in quel momento e non aveva nessuna intenzione di alzarsi, soprattutto sapendo che per il povero Isaac non c’era che da organizzare il funerale. Sapeva anche, però, che una notizia del genere avrebbe distrutto la bella fanciulla ebrea e lo stesso sarebbe accaduto alla vista del cadavere. Perciò, lentamente, si alzò in piedi per impedirle di tornare sulla strada. Si accorse di essere sporco di sangue, sangue suo e sangue nemico. Ma Rebecca non era affatto scossa dal sangue e continuava a mettergli fretta per riportarla dal padre.
«Rebecca – cominciò lui trattenendola per un braccio – Sarebbe meglio tornare alla locanda»
«Va bene, ma solo dopo aver soccorso mio padre – ribatté e indicò nella direzione della strada – E’ lassù, dove ci hanno aggredito»
«Rebecca, so dove si trova tuo padre e, credimi, mi dispiace ma ti impedirò in ogni modo di andarci»
Rebecca spalancò gli occhi:«Volete rapirmi di nuovo?! Volete portarmi via da mio padre un’altra volta, ora che è in pensiero per me?! Se è con questa intenzione che mi avete liberato, beh, preferisco che mi uccidiate con quel pugnale»
Bois-Guilbert, ripiombato di peso nei ricordi dei rifiuti passati, per un attimo desiderò mostrare alla fanciulla la fine che aveva fatto suo padre. Forse, tempo prima, l’avrebbe fatto spietatamente; ma non allora. Perciò, raccolto il pugnale e ripulito del sangue, prese un profondo respiro e disse sottovoce: «Tuo padre ti ha affidata a me. Uno dei banditi lo ha colpito ed ora giace là dove hai indicato. Preferisco risparmiarti il dolore di vederlo così»
Rebecca scosse la testa: «A tanto vi spingete? Non vi basta portarmi via come al castello di Torquilstone? Volete addirittura farmi credere che mio padre non sia più!». Nonostante l’incredulità, le lacrime cominciarono a scendere copiose sulle sue guance. Il fatto che Isaac non arrivasse, anche con fatica, anche ferito, precipitava Rebecca nella consapevolezza della fine: immaginava, anzi, capiva che quanto Bois-Guilbert diceva era la verità. Eppure, la sua mente e il suo cuore non volevano rassegnarsi.
«Aspettami qui – disse il normanno – Ora sei al sicuro. Tornerò subito e porterò i cavalli. Torneremo indietro alla locanda e lì chiederemo aiuto. Andare avanti in queste condizioni sarebbe inutile»
Le ripeté la raccomandazione di aspettarlo e poi si incamminò zoppicando leggermente. Rebecca, prigioniera della propria vulnerabilità, si trovò costretta, controvoglia, ad obbedirgli. Si consumò nel pianto e nella rabbia, sfogandosi contro gli alberi, contro la terra, contro il cielo. Una furia sconosciuta la comandava, non era più padrona di sé. Si ritrovò, senza sapere come, seduta a terra, con gli abiti macchiati di fango e le foglie tra i capelli, il velo a qualche passo di distanza. Bois-Guilbert la trovò così, in condizioni miserevoli. Portava dietro di sé un solo cavallo: gli altri, disse, erano scappati. Rebecca avrebbe ancora opposto i propri dubbi – nonostante il suo aspetto rivelasse tutt’altro – ma Bois-Guilbert la anticipò, porgendole un medaglione che aveva visto al collo di Isaac e che i banditi non avevano fatto in tempo a sottrargli. Era rimasto ammaccato dal fendente mortale ed era tinto di sangue non ancora del tutto rappreso. Rebecca a quella vista si sentì male e svenne; rinvenendo, ributtò quel poco che aveva mangiato alla locanda. Priva di forze, Bois-Guilbert la raccolse tra le braccia e montò a cavallo con cautela. La fece sedere sulla sella davanti a sé, le fece incrociare le braccia attorno al proprio collo e poi, delicatamente, diede di sprone al cavallo.
Rebecca poggiava la testa contro il suo petto, ne sentiva i battiti forti e regolari e ricordava come in un sogno il periodo in cui lui era rimasto privo di sensi dopo il duello con Ivanhoe. Ricordava l’ansia che la invadeva al momento di dover controllare i suoi segni vitali e la paura di scoprire che era morto. Avrebbe voluto stringerlo a sé più forte, per godere dell’influsso rassicurante della sua sola presenza. E lo avrebbe fatto, ma le mancavano le forze, le palpebre erano pesanti...
Bois-Guilbert, nondimeno, sentiva il respiro di lei, sottile e rapido come quello di un coniglio sfuggito alla volpe. Istintivamente, di tanto in tanto, la stringeva contro di sé e provava un profondo affetto insieme a malinconia: avrebbe voluto stringerla in quel modo, percepire i loro corpi uno contro l’altro; ma non in quelle circostanze. Respirava il profumo dei suoi capelli neri, avvertiva il brivido delle lacrime di lei contro il proprio collo e il sussulto delle sue braccia sulle spalle.
Cavalcarono placidamente ripercorrendo la strada a ritroso finché non giunsero in vista della locanda.
«Manca poco» sussurrò Bois-Guilbert, e spinse il cavallo al trotto. Arrivati che furono all’ingresso, affidò il cavallo allo stalliere e riprese in braccio Rebecca, che gli si abbandonava quasi come svenuta. Rientrarono, catturando l’attenzione di tutti i presenti. Bois-Guilbert si rivolse all’oste senza dare l’impressione di tenere in conto la curiosità degli avventori, ma parlò forte perché tutti lo sentissero: «Questa fanciulla e suo padre sono stati attaccati lungo la via. Vi chiedo una stanza per lei; qualcuno, invece, che abbia un po’ di timor di Dio, vada a cercare suo padre»
L’oste fece cenno di seguirlo, mentre un gruppo di tre o quattro persone della locanda si preparava a recuperare il corpo del morto, nella speranza di trovare qualcosa che ai ladri fosse sfuggito. Nel frattempo Bois-Guilbert trasportava Rebecca nella stanza che l’oste gli indicava, ordinava di chiudere la porta e non disturbare e, solo una volta soli, distendeva la fanciulla sul letto. Nel timore che gli abiti stretti le costringessero il costato impedendole di respirare bene, Bois-Guilbert fece appello a tutto il proprio autocontrollo e si limitò a slacciarle i lacci del corsetto, allentandoli un poco. Rebecca, semicosciente, mosse un braccio per scacciarlo, e gli ingiunse di non osare toccarla.
«Non preoccuparti – borbottò irritato – Ora esco di qui e ti lascio in pace. Riposa un po’, penserò io a portarti la cena. Mi assicurerò di persona che il cuoco non cucini altro cinghiale per oggi»
Detto questo, trasse la chiave dalla toppa, uscì e richiuse a doppia mandata. Una volta sceso al piano inferiore aspettò il ritorno dei quattro samaritani e diede disposizioni affinché il povero Isaac fosse sepolto secondo le norme della sua religione.



Ringrazio molto GineVra W per aver lasciato una recensione al capitolo precedente! Ricevere un commento fa sempre piacere!

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Rebecca sussultò allo schioccare della serratura. Bois-Guilbert entrò, introdusse un servo che poggiò due piatti di minestra e una pagnotta sulla cassapanca, lo osservò uscire e richiuse la porta dietro di lui, a chiave. Prese una delle due scodelle e gliela porse, ma lei la rifiutò: «Non voglio toccare cibo» disse seccamente. Lui tenne quel piatto per sé e mangiò seduto su una sedia, cercando di guardarla il meno possibile. Rebecca non aveva bisogno di sforzarsi per ignorarlo; però, di tanto in tanto, balenava qualcosa nel suo sguardo e gli dedicava un’occhiata furtiva.
«Grazie» sussurrò a un tratto, così piano che quasi faticò a udire la propria stessa voce.
Bois-Guilbert dissimulò la soddisfazione e ribatté asciutto: «Non mi ringraziare: sono arrivato tardi»
«Sapete – continuò lei come se non lo avesse ascoltato – Quando non eravate qui mi è venuto in mente che potreste essere stato voi ad uccidere mio padre per avermi in vostro potere»
Bois-Guilbert non si fece sorprendere: «Sai bene che tuo padre non mi sarebbe stato di nessun ostacolo. Se avessi voluto prenderti, l’avrei fatto e basta. Niente avrebbe potuto proteggerti da me, nemmeno Ivanhoe»
Rebecca sentì una stretta al cuore a quella velata minaccia, ma si fece coraggio: «Ho dei parenti a Sheffield, lontani parenti. Mi rendo conto di chiedervi l’ennesimo favore, ma lo faccio lo stesso: vorrei che mi accompagnaste da loro. Pagheranno la mia liberazione con molto oro»
«Quindi ti consideri mia prigioniera?» rise amaramente Bois-Guilbert, lasciando la scodella sulla cassapanca.
«Sono sotto la vostra custodia, signore. Se è come dite, mio padre mi ha affidata a voi»
Bois-Guilbert avrebbe voluto protestare contro una gratitudine così misera, ma si trattenne e, chinato il capo, rispose:«Farò ciò che mi chiedi. Prima però devo sapere alcune cose da te: innanzi tutto, quanto oro porti addosso?»
Rebecca fece una faccia disgustata, ma Bois-Guilbert la incalzò: «Siamo soli e viaggiamo praticamente disarmati: devo sapere se siamo una preda appetibile per altri banditi»
A quelle parole, la ragazza tremò e cadde in una nuova crisi di pianto. Bois-Guilbert avrebbe voluto fare come quel pomeriggio, avvicinarsi e stringerla a sé fino a sentire le lacrime scorrere sulla propria pelle... Ma trattenne anche questo istinto e tacque, consolandola con il proprio silenzio. Non parlarono oltre: Rebecca pianse finché ne ebbe le forze e poi si addormentò. Bois-Guilbert, invece, rimase seduto sulla propria sedia a braccia conserte, senza dormire mai profondamente.
La mattina dopo fu svelto a svegliare la bella fanciulla e a condurla al piano di sotto per una veloce colazione. Il sole era sorto solo da un paio d’ore quando si misero in cammino, Rebecca a cavallo e Bois-Guilbert a piedi, reggendo le briglie. Li precedeva al galoppo un messaggero con un biglietto in ebraico custodito in un borsello di cuoio. La strada per Sheffield implicava dover tornare indietro verso nord ed attraversare i luoghi dove si erano susseguite le vicende del ritorno di Ivanhoe e Richard. Il normanno non le avrebbe percorse volentieri, eppure era disposto a tanto pur di apparire in una luce diversa agli occhi di lei. Non era riuscito a sapere quante e quali ricchezze Rebecca trasportasse, ma sicuramente non erano la sua preoccupazione principale; di tanto in tanto tastava il pugnale legato alla cintura e perlustrava i dintorni con la vista aguzza dell’uomo avvezzo alla guerra. Nel tentativo di camuffarla agli occhi di possibili curiosi l’aveva avvolta nel mantello che era spettato a lui i giorni precedenti: sperava che, mascherando la sua identità di ebrea, nessuno si sarebbe arrischiato ad attaccarli.
Il primo giorno di viaggio trascorse senza inconvenienti ed entrambi poterono coricarsi tranquillamente in due camere diverse della locanda in cui si ritirarono a passare la notte. La mattina del secondo giorno ripresero la via, ma Rebecca non aveva intenzione di rimanere zitta tutto il tempo come il giorno prima. Sentiva il bisogno di parlare; parlare di tutto: di sé, del padre, del passato... e del suo accompagnatore, di cui – si accorse solo allora – conosceva poco.
«Dove siete nato, signore?» domandò. Erano soli sulla strada e tutt’attorno c’era solo bosco.
«Sono nato in Normandia, nel castello di mio padre, ormai trentacinque anni fa» rispose.
«Io nacqui a York, dove mio padre si era trasferito dopo essersi sposato. Mia madre era di York»
Bois-Guilbert raccolse l’invito al dialogo e, scrutando attorno nella vegetazione, chiese a propria volta:«Era una donna ebrea?»
«Certo! Si chiamava Rachel. Sfortunatamente morì giovane e io non ho quasi nessun ricordo di lei. E i vostri genitori?»
«Mio padre si chiamava Vincent de Bois-Guilbert e mia madre Elinor. Sono il figlio primogenito, ma certo non il figlio prediletto. Da ragazzo ho dato molte preoccupazioni ai miei parenti»
«Siete stato un figlio ribelle?» ribatté Rebecca con un tono forzatamente divertito.
«Non puoi immaginare quanto sia stato ingrato e arrogante; dopotutto, se mi trovo qui ora è anche per merito del mio carattere...»
«Cosa volete dire?»
«Il fatto che io sia diventato un Templare ha più radici nel mio passato che nella mia vocazione»
Rebecca non insistette, percependo un certo imbarazzo nella sua voce.
«Vostro padre è morto?»
«Sì – rispose mal celando un certo disagio – E’ morto, ma io ero lontano quando accadde»
Piombò il silenzio sul loro cammino. Solo le foglie secche e gli zoccoli del cavallo rompevano il monotono scorrere dei minuti. Bois-Guilbert, distratto dai ricordi, non prestava quasi più attenzione ai dintorni: seguiva il tracciato della pista come se fosse un cammino obbligato.
Una freccia che gli passò a qualche dito di distanza dal naso e che balenò alla sua destra, conficcandosi in un tronco, lo richiamò alla realtà – ormai troppo tardi. Innumerevoli grida si sollevarono dal bosco tutt’attorno, quasi che le piante stessero prendendo vita. Rebecca si lasciò scivolare giù dalla sella tra le braccia di Bois-Guilbert, poi insieme si inginocchiarono a terra, e lui le faceva scudo con il proprio corpo. Il cavallo si imbizzarrì, tentò di fuggire dal pandemonio, ma due uomini comparsi come dal nulla afferrarono le briglie. Intanto, altre persone si avvicinavano di corsa da tutte le direzioni. Bois-Guilbert si alzò in piedi e, con mossa fulminea, trasse il pugnale dalla cintura e lo agitò per tenere i banditi a debita distanza. La superiorità numerica, però, era destinata a prevalere e lui ne era ben consapevole. Perciò, tentò la via diplomatica: «Fermi! – tuonò – Siamo due poveri pellegrini, non abbiamo niente che possa interessarvi»
Rebecca si era alzata a propria volta e ora si schiacciava contro la sua schiena, aggrappata alle sue spalle. Guardò da dietro di lui i volti seminascosti dei loro assalitori: contò una decina di archi pronti a scoccare la freccia, tutti puntati contro il petto inerme di Bois-Guilbert. Altre cinque o sei persone si aggiravano a qualche passo di distanza con gli archi bassi.
«Gettate il pugnale!» ordinò un uomo con un cappello a punta in testa e un fazzoletto avvolto attorno alla parte inferiore del viso. Il cavaliere si arrese e alzò le braccia. I banditi, invece, non diedero a vedere di essere intenzionati a rilassare le corde dei loro archi. L’uomo che aveva parlato, verosimilmente il capo della banda, ordinò a Rebecca di uscire allo scoperto. Bois-Guilbert le accennò di obbedire e lei, facendosi coraggio, affiancò il cavaliere e, come lui, alzò le mani. Il mantello era scostato e i suoi abiti rivelavano la sua identità; quasi tutti i banditi sogghignarono, valutando a colpo d’occhio il valore delle stoffe e dei gioielli, ma il loro capo fissò gli occhi azzurri sul viso di lei tanto intensamente che Bois-Guilbert si sentì avvampare di gelosia.
«Abbassate le armi!» ordinò il capo e tutti obbedirono zelanti. A quel punto, l’inaspettato: l’arciere sfilò il fazzoletto dal viso e si lasciò riconoscere.
«Locksley! Siete voi?» trasalì Rebecca.
Locksley confermò con un inchino, poi si rivolse a Bois-Guilbert: «Vedo che le cure della ragazza che volevate far bruciare sul rogo vi sono tornate utili...» gli disse, in tono sarcastico.
«Badate a frenare la lingua – ribatté tra i denti – Non mi farò scrupoli a insegnarvi il rispetto...»
Locksley non si lasciò impressionare; tornò a Rebecca e domandò cupamente: «Dov’è vostro padre? Devo pensare che quest’uomo vi abbia di nuovo rapita?»
In un primo momento, la faccia mesta di Rebecca spinse Locksley a ordinare ai propri uomini di legare le mani a Bois-Guilbert; poi, quando ebbe ascoltato la successione degli eventi di due giorni prima, il fuorilegge scosse il capo e, senza revocare l’ordine, espresse il proprio dispiacere e l’intenzione di aiutarli.
«Vogliamo andare a Sheffield – spiegò Rebecca – Il signore ha accettato di accompagnarmi»
Locksley era troppo diffidente per non opporre le proprie ragioni: ordinò quindi alla banda di scortare i due ospiti alla Grande Quercia e di tenere particolarmente sotto controllo il cavaliere.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Il villaggio che Locksley e i compagni avevano costruito nel fitto della foresta era in tutto degno della fama che lui e i suoi Allegri Compagni avrebbero ricevuto dalle ballate dei secoli successivi. Bois-Guilbert ristette sorpreso, ma la sua scorta lo condusse con modi non proprio delicati verso un albero a cui fu legato. Rebecca, invece, fu affidata a un gruppo di donne e introdotta in una capanna.
«Dove la portate?» ringhiò Bois-Guilbert, approfittando della vicinanza di Locksley.
«Non prendetevela così sul personale – scherzò quello – Non le accadrà niente. Semplicemente, le daremo un abito con cui sarà più comoda e ci prenderemo ciò che ci siamo meritati con una così buona sortita»
«Come sarebbe a dire?! Se aveste aspettato il prossimo pellegrino avreste potuto far ben altro bottino!»
«Noi vi togliamo solo ciò che a voi appesantirebbe il viaggio verso Sheffield. E poi, detto tra noi, non avete scelto certo il momento migliore per mettervi a girare l’Inghilterra: re Richard ha intenzione di far piazza pulita dei suoi nemici e quando scoprirà che siete vivo vi giurerà vendetta. E voi proprio ora decidete di passare di qui, territori pieni delle sue armate!»
«Voi non mi sembrate spaventato al pensiero di essere trovato a cacciare di frodo sulle terre del re!» obiettò.
«Questo perché il re ce ne ha data speciale concessione per alcuni servigi portati a dei sassoni prigionieri nel castello di Torquilstone circa due mesi fa. Ne sapete qualcosa?»
Bois-Guilbert, alla fine, ricordò dove avesse già visto quel muso sassone: all’assedio, certo! Era colui che comandava le frotte di arcieri che incessantemente facevano piovere nuvole di frecce contro gli uomini del castello.
“Il diavolo in persona”, così l’aveva definito Front-de-Beuf. Ribolliva di rabbia, Bois-Guilbert, e diede due strattoni alle corde che lo assicuravano all’albero. Poi aggiunse, in un bisbiglio: «Lasciatele almeno il medaglione ammaccato che porta al collo: è l’ultimo ricordo che le resta di suo padre»
Locksley mutò l’espressione scherzosa con una seria e compunta e annuì, quindi prese congedo da lui e si diresse da tutt’altra parte, a distribuire ordini agli uomini.
Da quel momento Bois-Guilbert si dedicò all’osservazione: intendeva decifrare i rapporti sociali del posto, capire il funzionamento del villaggio e tutto quanto potesse essergli utile per accattivarsi la fiducia di quelle persone. Questo passatempo lo impegnò per circa un’ora; poi la porta della capanna in cui Rebecca era stata portata si aprì e Rebecca stessa, insieme alle sue accompagnatrici, ne uscì vestita con un abito di foggia sassone e i capelli legati in una lunga treccia. Bois-Guilbert la vide subito, e subito sentì il cuore fermarsi; si rese conto – come se ne avesse avuto bisogno – che l’opulenza non aveva nulla a che fare con il sentimento che provava per lei: l’avrebbe voluta con sé anche vestita di stracci.
Notò con piacere che, appena uscita, lanciò sguardi intorno per cercarlo. Quando lo trovò, poi, mosse istintivamente una mano per attrarre la sua attenzione. Lui le sorrise quasi senza accorgersene e il suo corpo, fino ad allora teso, si rilassò. Rebecca fu condotta altrove e non le fu permesso di avvicinarsi all’albero cui lui era legato. A mezzogiorno le offrirono un piatto di carne di cervo, mentre a Bois-Guilbert non venne dato nulla. C’erano due uomini incaricati di tenerlo d’occhio, ma probabilmente si annoiarono, visto soprattutto che lo stesso prigioniero a un tratto fu sopraffatto dalla stanchezza e si addormentò.
Quando scese la sera qualcosa cambiò: Bois-Guilbert, che aveva passato gran parte del pomeriggio dormendo e si era svegliato in preda ai crampi allo stomaco, d’improvviso si trovò braccato e preso per le braccia. Quattro fuorilegge lo attorniavano, lo sollevavano e lo conducevano con la forza verso uno spiazzo dove era acceso un grosso fuoco, attorno al quale sedeva un buon numero di uomini. E attorno a questo primo cerchio si raggruppavano gli altri abitanti, uomini e donne insieme, in piedi.
«Visto che a voi normanni piacciono i processi – principiò Locksley raggiungendolo – Qui ed ora si consumerà il vostro, di processo»
Bois-Guilbert, una volta di più sdegnato, si scosse: «Come osate voi, cane sassone, mettere sotto giudizio un libero normanno, un paladino delle Crociate?»
Locksley lo guardò dal sotto in su e sorrise con aria furba: «Questa arroganza non vi giova agli occhi della nostra giuria. Fossi in voi sarei più cauto»
«Qual è l’accusa?» domandò di rimando.
«Le accuse sono numerose: avete rapito questa giovane donna precisamente due mesi fa; avete cercato di violarne l’onore; avete ucciso molti uomini nell’assedio di Torquilstone prima di scappare con la vostra preda; avete messo a repentaglio la vita di quella stessa fanciulla, poi trovata innocente; e infine, avete ucciso il padre della fanciulla con l’intento di condurla nei boschi e compiere la vostra ignobile impresa»
«Nulla di più falso! Per quanto riguarda le accuse di rapimento e di violenza, Rebecca può testimoniare che le ho sempre usato clemenza e che non ho osato toccarla contro la sua volontà; e inoltre ho ottenuto il suo perdono a Templestowe, sulla cui lizza avrei preferito farmi uccidere che condannarla al rogo. Quindi, vedete, io non ho messo in pericolo che me stesso e il mio onore e, sconfitto, ho perso sia me stesso che il mio onore»
Locksley si volse verso un lato dello spiazzo.
«Dice il vero, milady?» domandò ad alta voce. Una voce cristallina rispose: «Sì» senza aggiungere altro.
«Quanto all’ultima accusa – continuò Bois-Guilbert guardando nella direzione di quella voce – Ho dato la mia parola a questa fanciulla di non aver fatto del male a suo padre, le ho consegnato il medaglione affinché non insistesse a volerlo vedere. Se fossi arrivato prima, solo di qualche minuto, forse avrei potuto salvarlo. Se avessi viaggiato con loro come avevo chiesto non sarebbero stati ingannati; in ogni caso, comunque, avrei saputo proteggerli meglio di come ho fatto in quelle circostanze. E se volete saperlo, le ho anche detto che suo padre non sarebbe stato un ostacolo ai miei piani, se avessi voluto disonorarla»
Locksley non parve affatto colpito da nessuna delle affermazioni di Bois-Guilbert. Dal lato dello spiazzo dove si trovava Rebecca giunse un lamento soffocato.
«Ti ha affidata a me, Rebecca. Rebecca, tuo padre mi ha chiesto di salvarti e io ti ho promesso che ti accompagnerò a Sheffield»
«Quanti erano gli uomini che hanno assalito questa fanciulla e suo padre?» domandò un uomo pensieroso dalla parte opposta rispetto a Rebecca.
«Erano tre» rispose Bois-Guilbert. Rebecca confermò tra i singhiozzi.
«Li avevate mai visti prima?»
«Alla locanda»
«Quale?»
«“Il cervo rosso” – rispose – Ci eravamo fermati per il pranzo e da lì le nostre strade avrebbero dovuto dividersi: questi tre, però, erano seduti accanto a me ed ho ascoltato il loro piano di rapina ai danni dei miei benefattori. Per questo li ho seguiti a una certa distanza e, quando hanno dato il via all’attacco, mi sono precipitato in loro soccorso»
«Provate a descriverli... Sia mai che li conosciamo!» rise qualcuno che Bois-Guilbert non riuscì ad individuare.
«Erano alti e biondi, tutti e tre. Uno è morto, l’ho ucciso nella lotta; gli altri due si somigliavano abbastanza da sembrare fratelli. Uno rimarrà sfregiato al viso, perché l’ho colpito alla guancia con un coltello; l’altro è scappato con qualche graffio, era piuttosto abile nella lotta a mani nude... Ah! Il pugnale! Il pugnale con cui mi avete trovato apparteneva al morto»
Locksley trasse il pugnale dalla cintura e lo fece girare tra i propri uomini, finché uno saltò in piedi e venne vicino al fuoco:«Lo riconosco, Robin: appartiene a John Decket, detto il Lesto. Qualche tempo fa lo incontrai in una locanda e mi propose di assaltare una comitiva di ebrei con l’aiuto di alcuni suoi uomini»
«Ricordo che me ne hai parlato. È stato circa cinque mesi fa» ammise Locksley.
«Sono quelli che attaccano i viaggiatori che vanno verso sud, sulla strada per Londra!» intervenne un altro. Ben presto si alzarono in molti pronti a testimoniare sull’indole diabolica di quel malvivente.
«Ora, grazie al signore normanno, non dovremo preoccuparci più di una concorrenza così spregevole. Ciononostante, caro Templare, non abbiamo ancora affrontato le accuse più gravi: cosa potete dirci della congiura che si preparava contro re Richard? Ne eravate parte attiva?»
Bois-Guilbert corrugò la fronte.
«Voi tacete, Templare – lo incalzò Locksley – Eppure voi siete uno dei fedeli del principe John, e qui lo sanno tutti! Cosa avete da dire?»
«E’ vero, quello che dite è vero!» esclamò Bois-Guilbert nervosamente. Locksley alzò le sopracciglia: «E quale sorte, da buon normanno quale siete, si conviene a chi tradisce il sovrano legittimo?»
L’arciere trasse una freccia dalla faretra, afferrò un arco da terra e mirò al cuore del cavaliere. Questi, in tutta risposta, offrì il petto e fissò gli occhi sul suo boia: «La morte, sassone» disse, con voce cupa.
Robin tese ancora più la corda di tendini. E Bois-Guilbert non mosse un muscolo. Il diavolo in persona...
«Tirate!» gridò il Templare. Locksley, però, abbassò l’arco e lasciò che la freccia si conficcasse tra i piedi del normanno.
«Come ci si sente ad essere messi sul patibolo?» domandò l’arciere, avvicinandosi.
Bois-Guilbert non rispose. Il pallore del viso contraddiceva l’atteggiamento audace e rivelava una profonda inquietudine. Locksley non aveva bisogno che gliene desse conferma a parole.
«Voi avete stretto un patto sacro, signore – riprese il capo dei fuorilegge – Un patto con un uomo morto, il padre della fanciulla di nome Rebecca. Noi non siamo gente senza Dio e abbiamo deciso di tenervi in vita affinché portiate a compimento la missione che vi è stata affidata. Tuttavia non possiamo rilasciarvi: vivrete entrambi assieme a noi per il periodo che riterremo opportuno. Quando ci avrete convinto della bontà delle vostre intenzioni, allora potrete ripartire: comprendete che, essendo stato voi un sostenitore del principe John, non possiamo lasciarvi andare correndo il rischio di essere denunciati. Se la nostra benevolenza, poi, dovesse essere tradita, riterremo questo un crimine troppo grave per non essere cancellato con il vostro sangue»
Bois-Guilbert ascoltò con attenzione e, poco a poco, le sue guance ripresero colore.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


«Abbiamo una capanna vuota che fa al caso vostro» disse Locksley, quando Rebecca gli chiese dove avrebbe passato la notte. Con un cenno, ordinò a due uomini di condurre Bois-Guilbert – tuttora legato – alla stessa capanna. Quando furono tutti lì, Rebecca guardò con espressione perplessa prima il fuorilegge e poi il cavaliere.
«Questa sarà la vostra capanna per tutto il tempo in cui vivrete con noi – spiegò Locksley, aprendo la porticina di legno – Noi non lasciamo che una donna viva da sola, perché le sortite sono sempre possibili, specie di notte»
Rebecca lanciò un’occhiata bieca alla capanna; Bois-Guilbert, intuendo i suoi timori, intervenne a suo favore: «Non è possibile lasciare la capanna a me e ospitare la fanciulla nella capanna di qualcun altro?»
Locksley alzò le spalle: «Le nostre capanne sono piccole, signore, e la maggior parte di noi ha già una donna e alcuni anche dei bambini»
«Non fa niente, grazie – ribatté Rebecca – Troveremo un accordo. Per cominciare: sarebbe possibile montare una tenda per dividere la capanna a metà?»
Locksley annuì e dispose che così si facesse. Dovettero aspettare quasi un’ora, ma alla fine una tenda spessa e rigida divideva a metà lo spazio interno, dove furono creati due giacigli nei due angoli opposti. Rebecca approvò il risultato ed entrò, andando ad occupare la porzione oltre la tenda. Bois-Guilbert, con le mani legate, fu deposto dai suoi custodi sull’altro giaciglio.
«A domani mattina, compare» salutò Locksley all’indirizzo del cavaliere, poi augurò la buona notte a Rebecca e si allontanò.
«Non credevo che vi avrebbero fatto un processo...» disse la voce di Rebecca dopo qualche minuto di silenzio.
«Una pagliacciata, vuoi dire. Ma ci vuole ben altro per spaventarmi»
«Buona notte, signore» sussurrò lei in risposta e, dal fruscio che seguì, Bois-Guilbert indovinò che si fosse sdraiata.
 
Di buon mattino, il suono di un corno svegliò il villaggio. Nello stesso momento, due uomini vennero a prelevare Bois-Guilbert e, per prima cosa, gli liberarono le braccia dai lacci.
«Compare Brian! – lo apostrofò Locksley, che sopraggiungeva armato di arco – Avete mai cacciato il cervo?»
Bois-Guilbert, che non apprezzava tanta confidenza da un fuorilegge sassone, lo guardò sprezzante e gli rispose: «E’ ovvio; ma ero a cavallo e con una folta muta di cani»
Locksley negò divertito: «Qui la partita è più sottile. Siete a vostro agio con arco e freccia?»
Bois-Guilbert rise: «Non vorrete insultarmi, sassone!»
«Allora sarà meglio che impariate a maneggiare queste armi raffinate. Will, da’ un arco al nostro nuovo compagno»
Bois-Guilbert afferrò saldamente l’arco e legò la faretra colma alla cintura.
«Non temete – disse poi con tono ambiguo – che queste armi nelle mie mani siano pericolose per voi?»
Locksley non si volse nemmeno per rispondergli e, indicando un sentiero con il dito, disse: «Siete troppo furbo per mettere a repentaglio la vita vostra e della vostra amata che rimarrà qui insieme alle nostre donne. State pur certo che se dovesse accadermi qualcosa a causa vostra, i miei uomini non esiteranno a vendicarsi sulla vostra bella fanciulla»
Bois-Guilbert storse le labbra con disappunto e si accinse a seguire il capo dei fuorilegge.
«In ogni caso, se volete, potete chiamarmi Robin»
«Voi vi siete già preso la libertà di chiamarmi Brian...»
Robin sorrise, circondato dai propri uomini più fedeli: «Ora basta chiacchiere – sussurrò – Il primo cervo della mattina sarà vostro, per cui state ben vigile e cercate di procurarci la cena»
Camminavano con passi lenti e ben misurati, con il minimo rumore. A un tratto, una sagoma si mosse tra gli alberi e i fuorilegge, tutti insieme, puntarono l’indice nella sua direzione. Bois-Guilbert caricò l’arco – era la prima volta in tutta la vita che ne imbracciava uno – e cercò di mirare con il solo intuito nella direzione della preda. Quando scoccò, la freccia finì alta e si conficcò in un tronco; la cerbiatta, però, inaspettatamente, stramazzò al suolo. Robin, soddisfatto, abbassò l’arco.
«Non avrei potuto lasciar scappare un così bell’esemplare, Brian. E voi avete molto esercizio da fare» constatò.
Era mattino inoltrato quando la squadra di cacciatori fece ritorno al villaggio di fuorilegge portando tre cervi e cinque conigli selvatici. C’era aria di allegria e comunità; le donne macinavano un po’ di grano comprato alla fiera della città vicina, mentre alcuni uomini lavoravano come falegnami o fabbri riparando le armi difettose dei compagni. Bois-Guilbert si sentì trattato alla stregua di un campione di torneo da quelli che vennero a prendere gli animali uccisi per prepararli a dovere per la cena e per la conservazione. Cercò Rebecca, ma in modo da non attirare l’attenzione di Robin Locksley per evitare le sue frecciatine. La vide in un gruppo di donne a macinare alcune erbe e ritenne più conveniente ostentare indifferenza. Al momento del pranzo, che si consumava al pari della cena seduti in grandi gruppi misti di uomini e donne, Locksley gli fece notare, massaggiandosi il mento, che si sarebbe dovuto lasciar crescere un po’ di barba.
«La guerra mi ha insegnato che un viso rasato è più conveniente» ribatté con aria di superiorità. Gli uomini presenti non trattennero le risa.
«Non sottovalutate questo valoroso cavaliere – li redarguì il capo – Per quanto sia un normanno, ha dimostrato di avere più coraggio di molti di voi! Brian – continuò poi, rivolgendosi direttamente a lui – a poca distanza da qui c’è un laghetto fresco e pulito. Potete recarvi lì per le vostre pratiche di toeletta. Badate solo che le nostre donne non siano impegnate nei loro bagni»
Altre risate accolsero quelle parole e Bois-Guilbert, per non apparire scortese, alzò la coppa di legno piena di vino e bevve alla salute di Robin.
Giunta la sera, ciascuno tornò alla propria capanna; Bois-Guilbert fece lo stesso da uomo libero, senza esservi scortato e senza avere le mani legate. Entrato, incontrò lo sguardo severo di Rebecca, che lo aspettava in piedi al di qua della tenda, le braccia incrociate.
«Ho bisogno di parlarvi» disse semplicemente.
«Parla pure» ribatté lui, sfilandosi la cintura per prepararsi a dormire.
«Voglio stabilire una legge che ci vincoli: vi chiedo di non oltrepassare mai la tenda, né di scostarla. Se me ne dovessi accorgere, giuro che inizierò a gridare come non ho mai fatto in vita mia. Datemi la vostra parola»
Bois-Guilbert annuì e la invitò a proseguire.
«Eccetto casi eccezionali, vi prego di entrare nella capanna sempre dopo di me e sempre dopo aver bussato»
Il cavaliere annuì di nuovo e si sedette sul proprio giaciglio.
«Voglio poter pregare ad alta voce» aggiunse Rebecca.
«Pretendo lo stesso» ribatté Bois-Guilbert.
La fanciulla non si aspettava quel tono perentorio e ammutolì per un attimo. Sembrava come sospesa su una decisione di cui non era sicura. Alla fine scomparve con un guizzo oltre la tenda porgendo la buona notte. Bois-Guilbert non attese oltre e si fece il segno della croce, cominciando a recitare le preghiere del vespero a memoria. Dall’altra metà della tenda Rebecca recitava forse un salmo in ebraico. Bois-Guilbert si sforzava di concentrarsi sulla preghiera, ma capitava che di tanto in tanto facessero capolino altri pensieri del tutto sconvenienti a un orante: ad ogni fruscio dell’altra metà si figurava Rebecca mentre sfilava ora una manica, ora l’altra, ora l’intero abito per rimanere in camicia e brache di lino. E il cuore cominciava a battere ad un ritmo eccessivo, per cui, con una risoluta scossa di capo, Bois-Guilbert ritornava alle sue parole sante. Quando ebbe concluso con l’ultimo “Amen” la sequela delle litanie e fatto il segno di croce si coricò senza togliersi la casacca.
«Signore – lo chiamò Rebecca con voce flebile – Perdonate se vi disturbo, ma vorrei chiedervi una cosa»
«Dimmi» rispose, sospirando.
«Quando vostro padre morì, quanto tempo passò prima che vi sentiste di nuovo felice?»
Bois-Guilbert si stese supino e fissò il buio sopra di sé: «Quando mio padre morì ero già arruolato nelle fila dell’Ordine Templare. Parlando sinceramente, non posso dire che ci sia stato un vero e proprio lutto: ero lontano, la notizia mi giunse insieme a molte altre e la distanza annacquò il dolore. Bisognava combattere, salvare la pelle... E c’erano anche molti svaghi a distrarmi»
Rebecca assaporò la pausa di silenzio che li separò per alcuni istanti, poi riprese: «Mi sento tanto smarrita pur tra gente amica. Mi sembra che il mondo sia spopolato, che nulla abbia più senso dopo la sua scomparsa. Io vivevo attraverso di lui, lui era la mia roccia e la mia sicurezza. Ora che non vive più, che non è più qui a parlarmi, mi sento tanto spaesata!»
«Non preoccuparti: con il tempo il dolore cederà alla rassegnazione. E non sarà un male, perché ti si apriranno nuove prospettive e sarai pronta a coglierle. Tuttavia, devi stare attenta: anche il lutto ha dei limiti precisi. Superali e sarà come se tu avessi osato varcare le porte dell’Inferno per trarne la persona cara che hai perso: finiresti con il precipitare nell’abisso e a nulla varrebbero le parole degli amici a consolarti»
«Parlate come chi ha osato ed è precipitato nell’abisso, signore»
Esitò, poi ammise: «Forse mi è capitata una cosa simile; ma mi sono sacrificato per la persona sbagliata»
Rebecca temette che si riferisse a lei e per un attimo non osò replicare. Poi, cambiando argomento e tornando al principio, domandò ancora: «E voi ricordate vostro padre? Ricordate il suo viso, la sua voce...?»
Bois-Guilbert le rispose con una risata: «Quel bravo vecchio mi perseguita ancora con i suoi rimproveri!»
Era stata una risata amara; dopo di ciò il cavaliere sigillò la fine della conversazione con un «Buona notte» tremendamente indifferente e voltò il corpo contro la parete.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Ora che quella cicatrice gli attraversava la guancia dal mento all’orecchio, rossa come pulsasse, veniva chiamato banalmente “lo Sfregiato”. Già altri malviventi erano stati soprannominati in quel modo e, in fondo, non avrebbe mai dovuto spiegare come quella ferita fosse stata inferta. A nessuno, era ovvio, avrebbe confessato che si era trattato di un coltello da pane. Pure, Jeoffry lo Sfregiato  raccontò a molti di aver incontrato un viaggiatore disarmato ma evidentemente avvezzo all’uso delle armi e per nulla intimorito dall’inferiorità numerica. Raccontò della facilità con cui aveva ucciso il Lesto e fronteggiò gli increduli quando ribadì che il Lesto era morto con la testa quasi staccata dal corpo.
Una sera a una locanda di York si mise a raccontare di nuovo la solita storia. Un mese, sì: un mese prima, sulla strada che si insinua attraverso le foreste di Nottingham, appena dopo la bettola del Cervo rosso. Luoghi conosciuti a molti dei suoi interlocutori e rinomate per i grandi affari fatti a scapito dei ricchi mercanti che ogni giorno passavano per quei sentieri.
Aveva giusto abbozzato il contesto della rapina quando una voce familiare si sollevò da un angolo della locanda e un uomo si alzò in piedi.
«Mi crolli il cielo sulla testa se questo che sento non è mio fratello Jeoffry!» esclamò, e Jeoffry stesso si protese per vedere in volto colui che aveva parlato.
«Albert!» esclamò, veramente sorpreso. Albert si avvicinò a grandi falcate al tavolo del fratello e gli tese il braccio: «Fratello, io ti davo per morto!»
«E io pure!» confessò Jeoffry lo Sfregiato.
«Quel maledetto Templare per poco non ti ha accoppato, vedo! Oppure hai tentato qualche colpo dopo che ci siamo separati?» domandò Albert, scoprendo i denti radi in un macabro sorriso.
Jeoffry aggrottò la fronte: «Non ricordo di aver rapinato un Templare. Solo un matto lo farebbe!»
«Ascoltami: se te l’ha fatto l’incappucciato del Cervo rosso, sta’ sicuro che è un Templare. L’ho riconosciuto!»
Gli avventori della locanda si affollarono attorno a lui e anche l’oste tese l’orecchio.
«Brian de Bois-Guilbert, sono pronto a giurarlo sull’anima di nostra madre!» disse con tono enfatico. Ma un tagliagole di città troncò brutalmente il suo entusiasmo: «Tua madre ti rinneghi! Giuro sulla mia testa di aver sentito dare per certo che quel Templare è morto giusto tre mesi fa!»
«Morto?! Impossibile! Un mese fa mi ha quasi ridotto a un colabrodo» inveì Albert, scaricando una serie di pugni in aria contro il malvivente.
«L’ho sentito dire anch’io – intervenne l’oste – S’è fatto ammazzare ad una lizza a Templestowe per un’ebrea»
«Un’ebrea?!» ghignò un altro avventore dall’aria pericolosa.
«Si dice che l’avesse rapita, ma il Gran Maestro l’ha accusata di essere una negromante e lei ha preteso un’ordalia. Bois-Guilbert ha parteggiato per l’Ordine ma la maledizione è stata più forte di lui e l’ha spinto a farsi ammazzare» raccontò l’oste.
«Tu hai sognato, Albert – lo rimproverò Jeoffry – Come fai ad essere sicuro che si tratti proprio di lui?»
Albert fece una brutta smorfia al fratello e rispose rancoroso: «Perché l’ho visto da vicino ad Ashby, imbecille! E sono pronto a giurare anche sull’anima di nostro padre: quello era lui! Un’ebrea: giusto, oste? Jeoffry, non dirmi che quelli che volevamo rapinare non erano ebrei»
«Non ho mai detto il contrario – ribatté – Ma di ebrei ce ne sono tanti!»
«Sì, ma erano padre e figlia. E la figlia aveva tutta l’aria di essere una maga»
«Potrebbe darsi – ammise Jeoffry, facendo spallucce – Ma quante della sua razza lo sono?»
Albert si spazientì e batté un pugno sul tavolo.
«Era lui, ti dico!» esclamò.
Jeoffry non si spaventò; si alzò in piedi, guardò il fratello dritto in viso e bisbigliò: «Tu sei matto, Albert!»
«L’ha richiamato in vita» sentenziò l’altro.
«Chi?» domandò un uomo non distante.
«La ragazza! – rispose, voltandosi di scatto – Con i suoi incantesimi, i suoi demoni... L’ha richiamato dall’Inferno! Ecco come ha fatto. Il Templare era morto, ma lei lo ha risuscitato, l’ha fatto schiavo ed ora quello la serve come se fosse la sua padrona»
Jeoffry continuò a fissarlo, mentre un sottile, gelido brivido gli percorreva le braccia. Albert aveva studiato, se ne intendeva sicuramente più di lui... Il pensiero di aver affrontato un demone lo atterrì, e il suo viso sbiancò. Nell’osteria era piombato un silenzio di tomba; nessuno aveva più obiezioni da muovere. Lentamente, il sospetto cominciò a serpeggiare tra i tavoli.
«Dove si trova, ora?» domandò l’oste, con voce roca.
Albert alzò le spalle: «Io, grazie al Cielo, non li ho più incontrati. Anche se mi piacerebbe avere la mia rivincita... e il mio bel bottino. Un morto, di certo, non può più apprezzare certi aspetti della vita; io, invece, sono vivo e vegeto»

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Bois-Guilbert migliorò sensibilmente all’arco nelle settimane seguenti: uno dei compagni lo assisteva ancora nella caccia per evitare all’animale predato inutili sofferenze. Gli esercizi al bersaglio fermo invece denotavano miglioramenti più evidenti. Colui che era stato Templare si comportava ora come un fuorilegge sassone – o quasi. I compari lo avevano accolto passo passo nella loro confidenza e anche Robin Locksley aveva cominciato a stimarlo più rispettosamente. Bois-Guilbert si era presto offerto di impratichire gli uomini nell’uso della spada, aiutato dal compare Little John, ottimo spadaccino.
Rebecca si era parimenti fatta accettare dalla cerchia di mogli che dal primo giorno la assisteva. Il lutto per il padre, fatto di lacrime e lamenti, cedeva gradualmente il posto a quella rassegnazione che Bois-Guilbert le aveva preannunciato ed ella si sentiva sempre più sollevata al pensiero che anche in quel momento così delicato il cavaliere le aveva dimostrato affidabilità. Nel segreto del suo cuore era orgogliosa di essere la sua protetta. Ogni giorno aveva occasione di vederlo, di ascoltarlo mentre parlava con i fuorilegge... E più il tempo passava, più sembrava svelare aspetti della sua personalità che fino a poco prima non avrebbe immaginato di trovare in lui. L’osservare da lontano l’attenzione con cui Bois-Guilbert istruiva i compagni all’uso della spada le faceva tornare in mente la cura con cui Miriam le aveva svelato i misteri delle erbe. Quasi non pensava più che quella spada, nelle sue mani, avrebbe potuto trafiggere corpi pieni di vita e strappare l’ultimo respiro ai moribondi. Provava la stessa ammirazione sia nel vedere Robin Locksley centrare un bersaglio dalla distanza lunga, sia nel vedere Brian de Bois-Guilbert atterrare un avversario con poche mosse rapide ed efficaci. Erano certamente due mondi diversi, il suo e quello dei due uomini; ciononostante, cresceva in lei la curiosità per il mistero sotteso all’arte delle armi. Ma il suo interesse era limitato a questo? Se lo domandò un giorno, dopo essersi accorta di aver fissato il normanno per buona parte della mattina. E si era risposta che il suo interesse non andava al di là del limite dell’innocenza: semplice curiosità, quasi infantile.
Un pomeriggio insolitamente caldo, non molto tempo dopo quella mattina, accadde qualcosa di nuovo: Rebecca aveva sentito più volte le fanciulle maritate parlare di un laghetto – lo stesso laghetto che Robin aveva descritto a Bois-Guilbert al primo pranzo comune – in cui solevano immergersi in pomeriggi come quello. E difatti Marian, la moglie di Robin, le si avvicinò subito dopo pranzo chiedendole se volesse essere del gruppo. Ed accettò, pur confessando di non aver mai nuotato prima di allora.
«Il fondale è basso – la rassicurò Beth, moglie di John – Non avrai difficoltà e se non ti sentirai di continuare, potrai sedere sui massi che circondano il laghetto»
Quel pomeriggio stesso Bois-Guilbert, per cercare refrigerio dal caldo, si era avviato nel bosco con l’intenzione di esplorarlo in vista delle successive battute di caccia. Robin si accorse del suo insolito girovagare e decise di tenergli dietro a debita distanza. Il normanno, da parte sua, non sospettava affatto di essere seguito e proseguì su diversi sentieri, arrivando alla fine ad udire uno scialacquio lontano. Il suono di acqua corrente lasciava presagire la presenza di un ruscello o anzi di un torrente abbastanza importante. E ne fu contento, Bois-Guilbert, al pensiero di rinfrescarsi un po’. Si incamminò assecondando il proprio udito finché al rumore si aggiunse anche il riverbero delle onde contro gli occhi. Si spinse fin sulla riva: un torrente, come aveva immaginato, tagliava la foresta scorrendo tumultuosamente verso est. Ristette per un attimo a contemplare lo spettacolo delle rapide, poi, tra il rimbombo delle onde, poté distinguere un’eco lontana di voci femminili venire dalla direzione della sorgente: decise di risalire il corso senza nemmeno soffermarsi a pensare. Il suo petto era pervaso da una dolce sensazione di impaccio e la testa avvertiva le vertigini dei turbini dell’acqua e del sentimento. Sapeva, infatti, a chi attribuire le voci.
Non dovette percorrere molta strada prima di arrivare a un bacino dove le rapide si placavano e l’acqua, ancor più limpida, rifletteva il colore del cielo. Contò in totale una quindicina di donne intente a bagnarsi presso la sponda opposta nel fresco scorrere del torrente fattosi laghetto – quel laghetto di cui aveva già sentito parlare diverse volte. Si appoggiò a un pino e vi si riparò, per sfuggire agli sguardi delle donne. La sua ricerca fu molto breve, perché la chioma folta e nera di Rebecca era unica in tutto il villaggio. La vide immersa fino alle spalle e avvolta sott’acqua da un alone bianco che doveva essere la sua sottoveste di lino. Si sporse appena per vedere meglio, rimanendo cauto.
Di colpo sentiva una gran sete e la gola gli sembrava come chiusa, impedita da un nodo. Il suo respiro era debole – come per paura di far rumore. E la sensazione che prima si era limitata al petto ora permeava tutto il suo corpo donandogli una beatitudine inconsueta.
«Brian, amico mio, – lo raggiunse, e raggelò, la voce di Robin – Non starai spiando le nostre donne, vero?»
Robin si avvicinò con aria complice e si appoggiò all’albero vicino, contemplando a propria volta la superba visione. Bois-Guilbert sprofondò nella vergogna e istintivamente incrociò le braccia sul petto, ma Robin non sembrava affatto offeso, casomai divertito.
«Così hai trovato il laghetto delle donne...» constatò nuovamente il fuorilegge, ritraendosi per non farsi scoprire.
«A quanto pare» ammise lui, senza staccare gli occhi da Rebecca che, ingenuamente, lanciava schizzi a piene mani alle amiche.
«Se per farti la barba in questi giorni ti è bastata una tinozza di acqua calda, ho il sospetto che da oggi tornerai qui più di frequente...»
Bois-Guilbert si staccò dall’albero e mosse due passi indietro. Tuttavia, il desiderio di rimanere a guardare, ad aspettare che Rebecca uscisse dall’acqua era troppo forte. Tanto forte che ben presto tornò al proprio posto, con occhi rapiti. Talvolta la fanciulla sembrava in procinto di abbandonare i giochi per trarsi più vicina alla riva, e in quei frangenti Bois-Guilbert si aggrappava al tronco con le unghie e aguzzava la vista; puntualmente, però, rimaneva ingannato.
«Ah, Brian! – lo canzonò Robin all’ennesima volta, dandogli una pacca sulla spalla – Come farai a dormire questa notte?»
Bois-Guilbert deglutì e si separò con un sospiro da quel sogno, seguendo l’invito del fuorilegge a tornare sulla via del ritorno. Lo sguardo basso, l’espressione assorta, e un impercettibile mordersi le labbra: e un fuggire della fantasia, rapido e inarrestabile, dietro a ciò che gli occhi avevano visto. Questo era ciò che quel pomeriggio gli avrebbe lasciato.
«Chi l’avrebbe mai detto? – concluse l’arciere, sorridendo – Mi ritrovo a parteggiare per un normanno!»

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Le donne tornarono in tempo per la cena. Avevano le trecce fradice e le guance rosse; Rebecca non faceva eccezione. Bois-Guilbert, come ogni sera, sedeva già in un gruppo di uomini e scambiava con loro qualche chiacchiera, qualche opinione sulla caccia e qualche consiglio sull’uso della spada in combattimento. I suoi occhi, però, volgevano spesso nella direzione di Rebecca e le sue parole inciampavano una sull’altra mentre parlava. Ben presto i compagni cominciarono a prenderlo bonariamente in giro, e poco dopo sopraggiunse Robin. «Brian – disse sedendogli accanto – Hai l’appoggio di tutti i buoni fuorilegge di Sherwood e l’intercessione delle loro mogli. Di cosa ti preoccupi?» Tutti risero di cuore. Non Bois-Guilbert; Bois-Guilbert si limitò a un sorriso amaro, per poi ribattere: «Nemmeno l’intercessione della Santa Madre di Dio potrebbe aprire un varco nel cuore orgoglioso di quella fanciulla» «E’ proprio per il suo orgoglio che ti sei lasciato vincere» osservò Little John. «Mai concedere la minima libertà alla donna che si vuole! – spiegò un altro compare – Come si dice, dalle un dito e si prenderà tutto il braccio!» Erano parole che rivendicavano la saggezza dell’esperienza; eppure i compari scoppiarono a ridere, e uno gli urlò: «Tanto lo sappiamo chi è che comanda in casa tua!» E quello grugnì un insulto e annegò i seguenti con una sorsata di birra. «Non state parlando a uno sprovveduto – li ammonì Bois-Guilbert, alzando la coppa di legno per imporre il silenzio – Non sono nuovo a un tale rifiuto» A quelle parole chi ancora parlava tacque: e l’attesa dei compagni spinse il cavaliere a continuare: «Certo, su un animo giovane e inesperto sortisce tutt’altro effetto. Era una nobile fanciulla normanna, così bella che aveva pretendenti ben al di sopra del suo rango. Io avevo appena una ventina d’anni e mi infiammai d’amore per lei non appena la vidi. La corteggiai secondo le regole e riuscii a strapparle un pegno; tuttavia, avrei dovuto meritarmi la sua mano e per questo, dopo aver vinto anche i cavalieri più provati sul campo dei tornei, la mia sete di gloria mi spinse a partire tra i crociati. Dissi a tutti che combattevo per Adelaide e presto tutti i menestrelli cristiani cantarono la sua bellezza e la sua virtù. Mi caricai di tanta gloria e di tante ricchezze che avrei potuto gareggiare da pari con i re crociati e quando tornai in Normandia per ricevere la ricompensa che tanto avevo agognato scoprii che la mia amata aveva preso per marito...» «Ebbene? Continua, Brian!» lo incoraggiò Will Scarlett. Bois-Guilbert scosse la testa e, dopo un lungo sorso di birra, disse semplicemente: «Un altro» e alzatosi, se ne andò immerso in oscure riflessioni. Rebecca gli diede il permesso di entrare e Bois-Guilbert scivolò all’interno della capanna con discrezione, serrando subito la porta con un colpo secco al chiavistello. La luce che entrava dalla piccola finestrella, situata al di qua della tenda, illuminava a sufficienza da permettere di distinguere il giaciglio e il cavaliere ci si sdraiò sopra pesantemente. Si fece svogliatamente il segno di croce e cominciò a recitare le preghiere, ma la sua mente era altrove come lo era stata per tutto il pomeriggio: questa volta, però, era agitata dai ricordi del passato, dai sentimenti che ribollivano nel suo cuore e lo tormentavano ormai da molti anni. Si chiedeva perché i fantasmi della sua giovinezza dovessero perseguitarlo ancora, perché le immagini di dieci anni prima dovessero riapparirgli davanti più nitide che mai rammentandogli a quale prezzo aveva sacrificato le proprie forze e il proprio avvenire. Era accecato dall’amore allora, e aveva promesso che nessun’altra donna avrebbe ingannato Bois-Guilbert; Brian de Bois-Guilbert. Perché un inganno era stato, un tremendo inganno per allontanare un pretendente e magari sperare che non facesse ritorno. Era stato tanto amaro, quel momento, che ne sentiva ancora la frustrazione e la vergogna. Quando l’aveva vista... E quel bambino... E quell’unione... Aveva conosciuto i Templari in Palestina; aveva condiviso con alcuni di loro il combattimento, la mensa, la tenda. E in seguito a quella scoperta aveva deciso che quello sarebbe stato il suo destino; il destino di Brian de Bois-Guilbert. Rebecca si mosse al di là della tenda; probabilmente era già addormentata. La tentazione di rompere il patto, di varcare la soglia e raggiungerla, stringerla come l’aveva stretta durante il viaggio di ritorno alla locanda, e anche di più... Quasi si alzò, Brian de Bois-Guilbert; ma mentre si metteva seduto ecco tornargli alla memoria il periodo del suo noviziato, e poi i voti sacri, e poi di nuovo la guerra. Adelaide non era Rebecca: per Rebecca, per la sua sopravvivenza, era stato disposto a dare la vita e prima ancora l’onore. Per Adelaide, invece, non aveva desiderato altro che accumularne a dismisura. E a cosa era valso l’onore, se non a una veloce ascesa dell’Ordine Templare fin quasi a sfiorare il bastone di Gran Maestro in un’età assolutamente precoce? Ma ancora: a che cosa valeva quell’onore supremo ora che non aveva più la minima possibilità di raggiungerlo? Bois-Guilbert si distese nuovamente a pancia in su e incrociò le mani sul petto: e se fosse morto quel giorno? Quale significato avrebbe trovato la sua sete di gloria e quale il suo amore per Rebecca? Davanti ai suoi occhi si spalancò la realtà: la gloria sarebbe morta insieme a lui. Anzi, la gloria era la parte morta di lui. Con la sconfitta aveva ammesso la propria colpa: e per quanto la sua gloria fosse grande, l’infamia l’aveva spazzata via. Nessuno dei suoi compagni d’arme l’avrebbe più portato quale esempio, vuoi perché aveva perso il senno per un’ebrea, vuoi perché aveva preferito la vita dell’ebrea alla propria. Se si fosse trattato di Adelaide, una bella normanna dagli occhi azzurri e lunghi capelli biondi, la sua fama si sarebbe prolungata nei secoli attraverso le canzoni struggenti dei menestrelli e dei trovatori. Eppure il comportamento della bella normanna non aveva sollevato lo stesso scandalo dell’innocenza di un’ebrea contro la colpevolezza di un Templare. Rebecca si mosse di nuovo e la mente di Bois-Guilbert si liberò d’un tratto di tutti i cattivi pensieri. Era lì, così vicina e pur così lontana da lui. Possibile che anche lei fosse cieca come i cristiani che avrebbero voluto ucciderla? Che non vedesse come l’uomo che aveva di fatto risvegliato dalla morte non fosse più l’uomo che l’aveva rapita? «Signore – sussurrò Rebecca all’improvviso – Volevo dirvi che Marian mi ha detto ciò che avete raccontato a Robin questa sera...» Bois-Guilbert sorrise debolmente: «E cosa ne pensi?» «Penso che mi dispiace» rispose dopo un istante di indecisione. «Buona notte, Rebecca» «Buona notte a voi» I cattivi pensieri rimasero con lui per giorni, come fossero la sua ombra, il lato oscuro di un uomo che dopo molto tempo vissuto all’ombra di un riparo possente esca di nuovo alla luce del sole e riveli il bene e il male che fino ad allora erano apparsi nello stesso bigio colore. Così come ora si svelava il lato più umano del suo carattere, allo stesso modo le cicatrici degli errori passati erano evidenti. Prima era stato semplicemente un normanno assetato di potere – un normanno come tutti gli altri; ora anche gli abitanti del villaggio lo guardavano con un pizzico di compassione. Forse gente sassone di così basso lignaggio non riusciva ad afferrare il peso che l’onore ha sulla dignità di un normanno di nobile nascita; ciononostante, qualcosa era cambiato. L’impenetrabile sguardo celeste del Templare rinnegato non differiva, in fondo, dal colore del ghiaccio che gela i corsi d’acqua durante l’inverno: una calda estate aveva preceduto il gelo e se ne scorgevano gli strascichi nell’impeto passionale che talvolta infuocava quegli occhi e quelle membra; era succeduto un autunno di piogge e lacrime e poi, inevitabilmente, l’inverno che aveva congelato, sigillato l’anima dell’uomo Brian e l’aveva trasformato in fratello Brian, cavaliere dell’Ordine del Tempio. Bois-Guilbert cercò di non dare importanza a quell’indizio di umanità che aveva seminato sbadatamente. Non lasciò trapelare emozioni quando un compagno gli domandò a che famiglia appartenesse quella Adelaide di cui era stato innamorato. Aveva risposto con voce indifferente, come parlasse di una sconosciuta. Il cavaliere, quindi, rimase oppresso dalla cupezza per diversi giorni e nemmeno la vista di Rebecca riusciva a fargli tornare il benché minimo sorriso. Una mattina, approfittando di una certa libertà di entrambi – Bois-Guilbert non era nel numero dei cacciatori e lei non era impegnata con le altre donne a cucinare –, la fanciulla si fece raggiungere da lui in un luogo appartato. «Vi vedo molto provato dai vostri ricordi. È difficile non notarlo, soprattutto se penso all’uomo che eravate fino a una settimana fa» esordì, cercando il suo sguardo. Bois-Guilbert, infatti, non alzava gli occhi su di lei; li aveva fissi a terra distrattamente. «Se è per questo che mi hai chiamato...» si schermì lui, stringendosi nelle spalle. «Non mi dite che non è vero, signore. Voi provate ancora dolore per quella donna» Bois-Guilbert storse le labbra e ribatté: «Quello che provo per quella donna è solo disprezzo» «Amore e odio vanno di pari passo nel cuore degli uomini. Ditemi: nel vostro si cela anche l’invidia per l’uomo che l’ha sposata?» domandò candidamente Rebecca e, facendolo, sollevò con delicatezza la mano destra di lui. Era un gesto spontaneo, totalmente istintivo; Bois-Guilbert rimase colpito da quella premura e finalmente alzò gli occhi su di lei. «Invidia no – rispose dolcemente, mentre con la mano libera osava sfiorarle la guancia – Nemmeno per un momento; nemmeno quando la vidi allora. Un tale pensiero non mi si è mai nemmeno avvicinato» Rebecca arrossì per le sue carezze; non per questo lasciò cadere la mano che, anzi, stringeva più forte. «Fatemi una promessa, se davvero tenete a me» bisbigliò per farlo avvicinare. Bois-Guilbert chinò leggermente il capo e accostò l’orecchio alle labbra di lei, invitandola a continuare. «Non disprezzatemi per il mio rifiuto» singhiozzò Rebecca e, quando lui si fu risollevato, lo guardò con occhi lucidi. «Rebecca – ribatté lui, commosso profondamente – Io capisco la tua paura; la comprendo davvero. Non ti biasimo: ti ho rapita, ti ho minacciato, ti ho fatto soffrire. Ma guardati attorno: costoro sono fuorilegge proprio come noi. Io sono un rinnegato, non appartengo a nessuna categoria del mondo da cui vengo; tu sei una reietta, poiché appartieni al popolo che mise in croce Nostro Signore. Ma a me non importa, Rebecca!» «Vi avevo chiesto di non ritornare più su quel discorso!» lo interruppe, aggrottando le sopracciglia. Il cuore batteva all’impazzata nel suo petto, e incrociò le braccia per evitare che lui si accorgesse della sua agitazione. Ma Bois-Guilbert era distratto da altri pensieri: «Tu mi vedi ancora come un normanno, anche ora che non lo sono più!» Rebecca sentiva le lacrime sulle ciglia, ma tratteneva il pianto dissimulando le emozioni. Lo ascoltava e le sue parole arrivavano dritte a quel cuore che pulsava a ritmo frenetico. Arrossì violentemente, chinò la testa e distolse lo sguardo. Lui imputò quell’atteggiamento alla sua contrarietà e troncò il discorso per non offenderla. Se si fosse risvegliato in lei il sentimento testardo del castello di Torquilstone non avrebbe più avuto la possibilità di parlarle francamente. Ritenne meglio, allora, dargliela vinta e sperare, con questo, di accontentarla. Rebecca non interpretò allo stesso modo il suo improvviso silenzio: avrebbe preferito mille volte continuare ad ascoltare i suoi appelli disperati, piuttosto che trovarlo così pronto ad obbedirle. Colta alla sprovvista, pensò che lui avesse capito: capito cosa? Nemmeno lei aveva chiaro cosa stesse succedendo. Di colpo sollevò lo sguardo e incontrò i suoi occhi fissi, enigmatici. Cosa stava pensando? Pensava di aver vinto, forse? Rebecca rabbrividì a quella prospettiva; rabbrividì perché riconobbe istintivamente che era quella giusta. E si promise di dissimulare in ogni modo: doveva convincerlo di essere ancora quella di un tempo, quella che l’aveva rifiutato a costo della vita. «Mi dispiace, signore, ma questo non potrà mai essere – rispose mesta e distaccata insieme – Un’ebrea resta un’ebrea e un normanno un normanno, benché rinnegato. Non li aspetterebbe nulla di buono – prese un respiro, poi, allentando le redini del cuore, constatò – Quel giorno mi diceste che avreste fatto di me una regina. Ma non ho mai desiderato esserlo...» Bois-Guilbert replicò serissimo: «Eppure lo sei. Sei la regina del mio cuore e continuerai ad esserlo. Il tuo rifiuto non sarà come quello di Adelaide» Rebecca sorrise e lui portò la sua mano alle labbra e la baciò come un servo devoto. Ecco di nuovo quel sentimento dirompente, quel desiderio di contatto fisico; se rialzandosi l’avesse spinta contro il muro della capanna dietro di lei, se l’avesse abbracciata e baciata con la passione che agitava in quel momento tutto il suo corpo dilaniato dai risentimenti, di certo lei non l’avrebbe rifiutato più. Ma facendolo avrebbe dimostrato in primo luogo a se stesso di non essere diverso dall’uomo che era stato. Deglutì e tornò a guardarla negli occhi; lei gli sorrise più generosamente e con una leggera riverenza si congedò.


Ciao a tutti! Come procede la storia? Vi piace? Nel caso, non dimenticate di lasciare una recensione... Se preferite, inviate un messaggio privato! Aspetto le vostre impressioni :)
A risentirci al prossimo capitolo!

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Il nome di re Richard echeggiava in tutta l’Inghilterra. Lo seguivano le notizie di impiccagioni di nemici e di congiure sventate; molti che erano stati compagni di tavola del principe John furono svelti a dileguarsi oltre Manica. Il sovrano percorreva il regno in lungo e in largo con rapidità, seminando il terrore tra gli amministratori e minacciando processi sommari. Lo seguiva una coda di prigionieri, troppo illustri per essere impiccati al primo albero, come era stato inizialmente pianificato: per uomini del calibro dei fratelli Malvoisin si preparava una morte comunque infamante ma di fronte a un numero d’occhi più conveniente al loro rango. Questi prigionieri di riguardo viaggiavano a piedi, catene a mani e caviglie, sguardo basso e silenzio. Per chi si ribellava le fruste dei carcerieri bastavano a ristabilire l’ordine.
Il re e il suo seguito si trovavano a York, pronti a partire verso sud, sulla via più diretta per Londra, quando i pettegolezzi giunsero alle soglie del castello della città. Richard ne venne a conoscenza quasi per caso, tramite un proprio servo. E dopo lo scoppio d’ira con gli ufficiali e i funzionari che avrebbero dovuto avvisarlo subito, il sovrano si prese del tempo per decidere sul da farsi: gli risultava molto difficile dare credito a voci apparentemente senza senso che andavano contro le sue certezze più salde – dopotutto l’aveva visto a Templestowe, riverso e colpito a morte. Ben più semplice sarebbe stato derubricare quelle insinuazioni a mere chiacchiere e fingere di non averne mai sentito parlare. E se invece fossero state legittime? Se Bois-Guilbert fosse poi comparso armato e sostenuto dai ribelli sfuggiti alla sua giustizia? Un rischio troppo grande perché non si spendesse qualche energia, e anche qualche soldo, per appurare cosa c’era di vero in ciò che il popolo mormorava.
Perciò Richard fece raccogliere più dettagli possibili ai propri informatori e giunse alla fine ai nomi di Jeoffry lo Sfregiato e Albert, suo fratello. Due malviventi comuni, come ce n’erano tanti sparsi per il regno, annidati nelle bettole e nelle stazioni di sosta. Ma avendo saputo da alcune spie che quei due si trovavano proprio a York e che era possibile, con i giusti appoggi, rintracciarli ed arrestarli, Richard ordinò che così si facesse.
Jeoffry ed Albert erano rintanati in una delle peggiori locande di tutta l’Inghilterra, seduti a un tavolo con alcuni compagni di furti a dividere una serata di bevute, quando una pattuglia di soldati del re, armati fino ai denti, irruppe all’interno. Minacciarono di consegnare i due fratelli e senza tante rimostranze gli avventori della locanda, tutti d’accordo, collaborarono. La prima notte in carcere passò tra improperi, maledizioni e pause di tremendo silenzio. I due ignoravano il motivo, tra i tanti, che li aveva condotti lì.
La mattina successiva furono condotti in una saletta custodita da due guardie; ad attenderli c’era il re in persona, armato di una temibile spada.
«Allora, vili predoni – li apostrofò, quasi beffandosi di loro – Mi è stato detto che avete informazioni su una persona di mio interesse»
Jeoffry chinò la testa, tremando come una pecora davanti al lupo. Albert, invece, capì subito di cosa parlasse, si inchinò goffamente e parlò ad alta voce: «Vostra Maestà, noi chiediamo salva la vita e la libertà qualora Vostra Altezza trovi qualche giovamento dalle nostre parole»
Parlava bene, Albert; era sempre stato lesto d’intelletto e per un po’ era stato a scuola presso i monaci. La vocazione alla rapina e all’omicidio, però, ne aveva fatto un ottimo lestofante.
«Parla!» tagliò corto il re.
«Vostra Maestà – riprese Albert, inchinandosi di nuovo – Se ci chiedete di una persona, temo che voi abbiate già saputo...»
«Tu pensa a informare il tuo sovrano di tutto ciò che sai»
«Il Templare Brian de Bois-Guilbert, Maestà, è vivo» ammise Albert.
Il re aggrottò la fronte: «Sulla base di quali prove puoi affermare una tale bestialità con quella sicurezza? Io ho visto il Templare morto a Templestowe. Vuoi tu accusare il tuo re di essere un bugiardo o uno sprovveduto?!»
«No, Maestà – balbettò Albert, sinceramente preoccupato per la propria vita – Ma posso darvi le prove che cercate. Mio fratello ed io ci siamo scontrati con un uomo, non lontano da Lincoln. È intervenuto in difesa di due ebrei, padre e figlia. Vedete la cicatrice sul volto di Jeoffry, Maestà? È opera sua! Dillo, Jeoffry!»
«E’ così, Maestà – ammise – Ma cosa guadagnerei dall’accusare un morto?»
Albert annuì: «Giusto! Non abbiamo denunciato quell’uomo alla vostra autorità, Maestà, e questa è una colpa, è vero. Ma è anche ciò che conferma la nostra testimonianza: perché raccontare di aver affrontato qualcuno, quando si tratta di un morto? Cosa avremmo ricavato, se non derisione? La verità, Maestà, è che la vostra vita sarà in pericolo finché il Templare non sarà appeso al cappio, a monito per gli altri ribelli come lui»
Il re non era disposto a farsi ingannare da due ladri di sobborgo, tuttavia doveva riconoscere che Albert non aveva parlato male. Dopo una breve riflessione, se ne uscì con una proposta: «Ti ascolterò e condurrò le mie ricerche; ma voi non verrete rilasciati. La vostra vita per quella del Templare: sperate quindi che io riesca a trovarlo e, quando lo avrò, egli prenderà il vostro posto nella mia prigione»
Richard ordinò quindi che fossero rinchiusi assieme ai traditori che viaggiavano nel suo seguito e lì rimanessero mentre si cercava di fare chiarezza su cosa fosse stato di Brian de Bois-Guilbert in quegli ultimi tempi. Seguendo le indicazioni dei due malviventi, le spie del re percorsero le locande del Nottinghamshire e Lincolnshire, fino ad arrivare alla locanda del Cervo rosso.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Bois-Guilbert guardò soddisfatto il centro del bersaglio. L’aveva colpito di nuovo. Robin approvò con un cenno del capo e gli diede una pacca bonaria sulla spalla.
«Sei un fuorilegge perfetto, ormai» si complimentò, e Bois-Guilbert ammiccò.
«Che cosa vi serve, ora, per fidarvi di me e lasciarci andare?» domandò schietto.
Robin si incupì: «Lascia che ti dica una cosa, Brian: se in principio volevamo averti sotto il nostro controllo per nostra sicurezza, oggi non è più così. Gira voce che tu sia vivo in Inghilterra. E benché siano solo voci da mercato prima o poi Richard verrà a saperlo e si metterà a cercarti»
Bois-Guilbert rispose altrettanto seriamente: «Un altro motivo per lasciare al più presto il vostro villaggio. Se come dici godete della benevolenza del re non voglio che a causa mia corriate dei pericoli, che rischiate delle accuse di tradimento...»
«Con te anche Rebecca è in pericolo. Pensa se delle guardie dovessero fermarvi per un controllo lungo la strada per Sheffield: tutti sanno, Brian, tutti. Se ti imbatti nella persona sbagliata potrebbe essere la fine per voi»
Bois-Guilbert si soffermò a pensare a quell’ipotesi. In effetti, quella che era iniziata come una prigionia rischiava di diventare l’unica via di sopravvivenza. D’altro canto, Rebecca aveva tutte le ragioni per volersi riunire ai propri parenti; e lui aveva promesso che l’avrebbe condotta laggiù in totale sicurezza. Non l’avrebbe affidata superficialmente alla scorta degli uomini di Robin, fossero anche lo stesso Robin e il fedele Little John.
Al ritorno al villaggio Rebecca gli venne incontro: lo faceva sempre più spesso dal loro colloquio su Adelaide e gli mostrava sempre più accondiscendenza, senza sbilanciarsi troppo riguardo al loro rapporto. Gli prese la mano e la accarezzò, chiedendogli come fossero andati gli allenamenti con l’arco.
«Devo parlare con frate Tuck» rispose lui abbozzando un sorriso. Rebecca lo lasciò andare e, forse per la prima volta, si sentì messa da parte. Bois-Guilbert camminò in solitaria fino alla cappella di Copmanhurst. Trovò il monaco intento a glorificare il Signore per il lauto pranzo che aveva concesso al suo umile servo e venne invitato a partecipare di quella munificenza senza avere avuto il tempo di spiegare il motivo che l’aveva condotto lì. Durante tutto il pasto, Bois-Guilbert non fece che pensare all’inadeguatezza del chierico eremita, ma poi ricordava i propri voti sacri e distoglieva l’attenzione da quei dettagli. Quando finalmente ebbe la possibilità di parlare in tutta sincerità di ciò che lo angosciava, il buon eremita gli rispose: «Figliolo, torna con animo sollevato al villaggio e aspettami là. Sai che faccio abitualmente visita ai miei figlioli e ogni volta permetto a chi ne fa richiesta di parlare a tu per tu con il Signore prestando il mio Vangelo»
«Perché non ora?» incalzò Bois-Guilbert, ma il frate aprì le braccia:«Perché ora non ho a portata di mano il mio Vangelo!» affermò come cosa scontata.
Bois-Guilbert si trattenne fino al tramonto per rinfrescare alcune nozioni basilari all’eremita, che per via della solitudine aveva dimenticato buona parte della sua preparazione liturgica e teologica. Quando fu libero di tornare, l’inquietudine era solo leggermente sopita. Decise di non ridestare più i dubbi e di dedicarsi interamente alla caccia e al cibo, come la maggior parte dei fuorilegge sembrava fare con grande giovamento per il corpo e per l’anima.
Frate Tuck mantenne la promessa e due giorni dopo sbucò dal sentiero, brillo già dalle prime ore del mattino. Mentre due uomini si assicuravano che pur barcollando arrivasse allo spiazzo del fuoco senza incidenti, il sant’uomo già predicava che il sangue di Cristo aveva redento gli uomini e perciò lui non aveva fatto altro che perpetuare la memoria del sacrificio, come ogni buon cristiano avrebbe dovuto fare.
Rebecca, in piedi accanto a Bois-Guilbert, si lasciò scappare un commento aspro: «Questi sarebbero i sacerdoti cui voi solete rivolgervi?» e detto ciò si accostò a Marian e si sedette a terra.
«Amico Brian – biascicò il frate allungandogli una borsa di cuoio – Qui c’è quello che cerchi. Sai cosa fare»
Bois-Guilbert afferrò la borsa e l’aprì, traendone un codice del Nuovo Testamento alquanto consunto ma sostanzialmente integro. Chiuse gli occhi, sussurrò una preghiera e, dopo aver preso un profondo respiro, spalancò il libro.
Et sicut non probaverunt Deum habere in notitia, tradidit eos Deus in reprobum sensum, ut faciant quae non conveniunt, repletos omni iniquitate, malitia, fornicatione, avaritia, nequitia; plenos invidia, homicidio, contentione, dolo, malignitate; susurrones, detractores, Deo odibiles, contumeliosos, superbos, elatos, inventores malorum, parentibus non oboedientes, insipientes, inconpositos, sine affectione absque foedere, sine misericordia. Qui cum iustitiam Dei cognovissent – non intellexerunt quoniam qui talia agunt digni sunt morte – non solum ea faciunt, sed et consentiunt facientibus.[1]
Bois-Guilbert chiuse il libro e prese un gran respiro. Nessuno, oltre a lui, conosceva il latino abbastanza bene da capire un testo alla prima lettura. Per questo chi gli era vicino si spaventò del suo improvviso pallore e del suo silenzio.
«Brian – intervenne Little John che era accanto a lui – Che cosa significa?»
Avrebbe voluto parlare, ma le labbra erano serrate dall’incredulità: com’era possibile che parole così mirate giungessero proprio in quel momento a rispondere alle sue domande? Bois-Guilbert, a un tratto, non aveva più l’arroganza di classificare la pratica delle sorti bibliche come una superstizione.
«San Paolo apostolo... – bisbigliò rialzando il capo e restituendo il codice e la borsa – Era la lettera ai Romani...»
Un mormorio diffuso accolse quelle poche parole. Robin osservò il comportamento del normanno cercando di indovinare quali pensieri quel brano avesse sollevato. Sicuramente pensieri non buoni, pensieri dolorosi.
«Adelaide?» sussurrò.
Bois-Guilbert negò categoricamente: «Non c’entra. L’apostolo parlava di me» disse, battendosi la mano sul petto.
«Possiamo aiutarti?» domandò Marian, mentre Rebecca si rialzava con l’intenzione di avvicinarsi. E su di lei Bois-Guilbert volse uno sguardo al limite dell’allucinato.
«Rebecca, vieni, ti prego»
Le tese la mano, ma lei non la prese.
«Andiamo nella capanna» le disse ancora, precedendola lungo la strada. La fece entrare, le chiese di sedersi sul giaciglio, poi uscì di nuovo lasciandola sola.
Rebecca non l’aveva mai visto tanto turbato; nemmeno a Templestowe aveva quello sguardo inquietante; nemmeno a Torquilstone durante il loro primo incontro a tu per tu. Si ripeteva di stare calma, che non sarebbe successo nulla di male, che non avrebbe osato usarle violenza. Eppure, nonostante tutte le idee rassicuranti che cercava di istillarsi nell’attesa, la sua schiena era percorsa da brividi e le braccia coperte dalla pelle d’oca. Non percepiva il minimo rumore sospetto e ciò contribuiva a spaventarla. Come d’improvviso, Bois-Guilbert irruppe nella capanna e tirò il chiavistello. Aveva in mano un fiaschetto di vino rosso e due bicchieri di legno.
«Tieni» disse porgendogliene uno e riempiendolo.
«Signore, io non bevo vino!» si lamentò lei, facendo per rifiutarlo. Ma lui glielo impedì versandosi a propria volta una buon bicchiere.
«Bevi, ti prego» ordinò, e tracannò d’un fiato. Lei non ebbe il coraggio di disobbedirgli e prese un piccolo sorso.
«Non posso più aspettare – cominciò lui ambiguamente – Mi perseguita da troppo tempo»
Rebecca tremava di paura. Aveva freddo, un freddo innaturale, e istintivamente si scostava da lui, che si era seduto per terra di fronte a lei.
«Cosa vi prende?» balbettò.
«Non temere»
 
[1] Rom. 1 28-32: “E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d'invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa.”

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Rebecca si sentiva terribilmente vulnerabile e tuttavia rispose ai suoi occhi fissi con uno sguardo altrettanto intenso.
«Io, Brian de Bois-Guilbert, sono il primogenito di Vincent de Bois-Guilbert. Nacqui quando mio padre era un vassallo potente, un nome grande in tutta la Normandia. Mia madre era francese, imparentata con la famiglia di Philippe II. Nelle mie vene corre un sangue tra i più nobili di tutta l’Inghilterra. Ma quanto ha contato questo?»
Rebecca stentò, all’inizio, a capire cosa importasse. Ormai credeva che l’avrebbe aggredita e violentata. Invece, Bois-Guilbert si appoggiò alla parete della capanna che stava dietro di lui e distolse gli occhi da lei, puntandoli alla finestrella.
«Dopo di me nacquero un fratello e tre sorelle, poi mia madre si ammalò e non poté più avere figli. La mia vita non fu diversa da quella dei miei coetanei: allenamenti e preghiere soprattutto, perché mia madre aveva una fede molto profonda e voleva che i suoi figli la maturassero allo stesso modo. Tuttavia, io ero il figlio ribelle, il figlio scavezzacollo che sfuggiva spesso alla sorveglianza dei tutori e galoppava solitario nel bosco... Non mi rendevo conto dei pericoli cui mi esponevo, non mi preoccupava l’angoscia in cui lasciavo i miei genitori. Talvolta mi capitò di venire a rissa in qualche locanda e di portare a casa i lividi, e mia madre piangeva perché, in fondo, non ero che un ragazzino. Mio padre cominciò a punirmi sempre più severamente, ma solo per il grande affetto che nutriva per me. Doveva essere orgoglioso di un erede così animoso com’ero io, perché dimostravo di comprendere l’importanza della mia famiglia e del mio ruolo nel regno. Vedeva per me un futuro di gloria e prestigio»
E qui, giù un altro mezzo bicchiere di vino.
«Poi comparve Adelaide nella mia vita. Io avevo vent’anni, lei sedici. Era bella, bionda con occhi azzurri come il cielo d’estate. Una bellezza fuori dal comune, una bellezza fatale si direbbe. Molti avevano già avanzato una domanda di fidanzamento, ma suo padre la teneva per sé in attesa del colpo di fortuna»
Rebecca reclinò il capo, cercando di seguire il filo della storia che sembrava saltare da un estremo all’altro.
«Adelaide non mi amava, non mi ha mai amato – continuò lui – Si è presa gioco di me fin dal principio e mi ha convinto a lasciare ciò che avevo di più caro, mio padre e la mia famiglia. Mi chiedeva la gloria, la fama del suo nome oltre i confini dei regni cristiani. Mi disse di andare in Palestina a conquistare i luoghi santi, a riportarle come pegno del mio amore una reliquia delle più preziose che avessi potuto trovare. Mio padre mi rimproverò duramente, mi chiuse nelle segrete del castello, mi ammonì dicendo che se fossi partito allora non sarei più dovuto tornare. Credeva che fosse la mia ennesima ribellione; non gli dissi che lo facevo per Adelaide»
Si interruppe, si versò un altro bicchiere e ne bevve una sorsata.
«Fu a causa di un’epidemia, fu così che ci conoscemmo. Eravamo giovani, accesi dalla passione, ma lei mi resistette. Diceva che si sarebbe concessa solo a un uomo, a un vero uomo, un uomo non solo ricco come potevo essere io; un uomo famoso. Solo ora mi accorgo di quanto le lodi per la sua bellezza mi confondessero, precipitandomi nel suo intrigo: certo, mi dicevo, una tale beltà si conquista con le armi, con l’onore. Ma non le bastavano le mie vittorie ai tornei, non le bastavano i doni, non le bastava nulla che venisse da me. Lei voleva avere un uomo, diceva. Partii per le crociate di notte, senza farmi scoprire dai servi di mio padre. Le lasciai un messaggio che diceva più o meno: “Parto ragazzo e tornerò uomo, e tu sarai la mia donna”. Feci il mio dovere di soldato, di cavaliere. Pagai i migliori poeti della corte del re di Francia perché componessero le sue lodi e le diffondessero in tutta Europa con le loro rime. Conquistai tesori, corone, titoli... Tornai in Normandia seguito dall’ammirazione dei compagni e dei superiori. E cosa trovo al mio ritorno?»
Si soffermò nuovamente con lo sguardo su Rebecca. I suoi occhi ardevano di rabbia: era la rabbia di dieci anni prima.
«Eccola nel mio castello, vestita come una regina grazie ai doni che io le avevo inviato durante la mia assenza. Aveva un gioiello al collo, un gioiello che veniva da Costantinopoli, fatto interamente d’oro e di pietre preziose. Accanto a lei c’era una nutrice con in braccio un bambino: bello, robusto, biondo. Molto somigliante a me a un anno di età. E sempre accanto a lei, dall’altra parte, vidi che sedeva un giovane. Suo marito, ovviamente»
Non riuscì a continuare; lo sguardo infuocato di rabbia si spense nelle lacrime che cominciarono a solcare le sue guance. Rebecca, ritratta contro la parete opposta, rimase atterrita e spaventata.
«Bevi, Rebecca, bevi» ordinò indicandole il bicchiere ancora pieno di vino. Lei obbedì, ma prese ancora una volta un solo sorso.
«Chi era quel giovane?» domandò con un filo di voce. Temeva di essere stata audace. Bois-Guilbert accennò un ghigno beffardo, poi alzò il bicchiere di legno che rigirava tra le dita: «Bevi tutto il vino, Rebecca. Tutto»
«Perché?»
«Ho detto di bere» ribadì scandendo ogni parola.
Rebecca guardò il bicchiere, ma scosse leggermente il capo. Al suo rifiuto, Bois-Guilbert si levò in ginocchio e la raggiunse muovendosi carponi. Afferrò il bicchiere e glielo portò alle labbra.
«Bevi, Rebecca. Fallo per il tuo bene»
Rebecca aveva il cuore in tumulto, cercò di sottrarsi ma lui, con la mano libera, le cinse le spalle; poi le premette il bicchiere contro la sua bocca e lo inclinò, lasciando che il vino scorresse giù. Rebecca bevve, mentre parte della bevanda cadeva in rivoli lungo il mento e il collo. Quando ebbe bevuto tutto il vino Bois-Guilbert scagliò via il bicchiere. Lei tossì e una vampata di calore risalì le sue guance; in più, lui era ancora accanto a lei e le cingeva le spalle con il braccio.
«Quel giovane era mio fratello, Rebecca. Guillaume de Bois-Guilbert»[1]
 
[1] I lettori del libro ricorderanno che Bois-Guilbert racconta a Rebecca la sua storia d’amore con Adelaide de Montmare durante il loro primo colloquio a Torquilstone. Ho deciso, in questo caso, di seguire il film del 1982: non essendoci nessuna allusione ad Adelaide, ho potuto reinventare questa parte della storia per renderla funzionale alla mia trama... Ho cercato di mantenere gli elementi fondamentali del libro, ma ho voluto dare una svolta molto più tragica al tutto.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Bois-Guilbert asciugò il mento di Rebecca con le dita, poi si sedette accanto a lei e guardò un punto indefinito davanti a sé. Lei prese respiri profondi e si scostò leggermente. Le bruciavano gli occhi e non sapeva se spiegarlo con il vino che non era abituata a bere o con la paura che lui le incuteva con la sola vicinanza.
«Quel bambino era mio nipote. Era nato un anno e mezzo prima, quando io ero a farmi ammazzare per un pezzo di terra desertica. Forse, se fossi morto, quei due avrebbero fatto festa. Il loro problema sarebbe scomparso senza scandali. Scandali, comunque, non ce ne furono. Venni a sapere che si erano sposati quattro anni prima del mio ritorno. Ora, devi sapere che sono stato lontano da casa grossomodo cinque anni: impossibile pensare che si sia trattato di un’improvvisazione. Era preparato, ben preparato. E pensare che Guillaume era il mio amico più fidato; fu un continuo tradimento, il loro. Guillaume ed Adelaide avevano pensato a tutto, spingendomi a farmi ammazzare in ogni modo affinché potessero godere insieme dell’amore e della ricchezza. Con me primogenito lontano e il denaro sufficiente a pagare qualcuno che sostenesse la mia morte non fu difficile convincere mio padre ad accettare le nozze. E così fu...»
Una brevissima pausa, poi di nuovo: «Mio padre pensò di trovarsi davanti un fantasma quando mi vide. Ma che senso aveva ormai spiegargli cos’era successo? Spiegargli in quale tranello fossimo caduti entrambi? Spiegargli che sua nuora non era altro che una scaltra volpe assetata di denaro? Pover’uomo. Mi spiacque lasciarlo quando partii per diventare un Templare. Lo vidi piangere come un bambino; tuttavia, quando mi dissero che era morto, non provai un gran dolore. Per me mio padre era già morto il giorno del nostro addio...»
Dopodiché, silenzio. Rebecca prese coraggio per vincere la titubanza e sussurrò: «E cosa ne era stato di vostra madre?»
Bois-Guilbert trattenne un singhiozzo e parlò piano: «Morì quando avevo quindici anni»
«Anche mia madre morì quando ero molto giovane» ribatté lei, guardando nella stessa direzione di lui. Sentiva che era giunto il suo momento: «Si chiamava Rachel, come vi ho detto, ed era di York. Mio padre l’amava molto e non era avaro con lei, come non lo era con me del resto. Lei aveva sempre bellissimi gioielli e abiti, aveva serve che la accudivano e una stanza piena di preziosi regali. Seppi poi che aveva sempre avuto difficoltà a partorire e che dei cinque figli che aveva dato alla luce nel corso del matrimonio con mio padre solo io ero sopravvissuta. E morì così, dando alla luce un bambino prematuro quando io avevo solo sette anni; e pensare che sono già passati sedici anni da allora! Allora non capivo cosa stesse succedendo in quei giorni drammatici: d’un tratto mia madre era bianca come il latte e non si muoveva più. Mio padre non voleva che mi avvicinassi, perché la nostra fede ci dice di non entrare in contatto con i morti. L’ultimo ricordo che ho di lei è quando mi assicurò che sarebbe andato tutto bene, che presto si sarebbe ripresa dalla malattia e avrebbe ricominciato a viziarmi»
Nonostante il dolore che quei ricordi ridestavano in lei, Rebecca provava nel petto ancora il calore del vino e ne traeva giovamento.
«Vuoi ancora?» le domandò Bois-Guilbert, riempiendo il proprio bicchiere a metà e porgendoglielo. Rebecca ringraziò e bevve lentamente.
«Mio padre non fu più lo stesso: vendette tutto ciò che era stato di mia madre perché la sola vista di qualcosa che gliela rammentasse lo faceva soffrire infinitamente. Liberò le sue serve e ne acquisì altre cui affidare la mia educazione. A quindici anni, poi, partii per andare a Costantinopoli a imparare l’arte di guarire da Miriam e rimasi lontana per due anni. Quando le cose cominciarono a mettersi male per noi, per via del processo alla mia maestra, mio padre mi fece tornare in Inghilterra. Solo una volta giunta a York mi rivelarono la fine di Miriam e piansi, piansi tanto!»
I singhiozzi le impedirono di continuare.
«Tu sei più fortunata di me – bisbigliò Bois-Guilbert dopo l’ennesimo bicchiere di vino – Tu hai ancora qualcuno che si preoccupa per te a Sheffield e che può offrirti protezione. Ho sempre invidiato questa solidarietà tra ebrei, anche in Palestina»
Rebecca fece una faccia contrita a quella considerazione, ma Bois-Guilbert non se ne accorse. La bottiglia era ormai quasi vuota e lui tracannò le ultime gocce senza usare il bicchiere.
«Io gliel’avevo detto di non fidarsi di quegli uomini – proseguì, mentre lui abbassava il fiaschetto e lo riponeva in un angolo – Glielo dissi subito; ma lui temeva che voi poteste seguirci e raggiungerci. Eravate voi il problema di mio padre...»
Bois-Guilbert appoggiò il gomito al ginocchio e abbandonò la testa nella mano, fissandola per un istante con occhi persi: «Ha deciso di fidarsi delle persone sbagliate» osservò con sufficienza.
Rebecca annuì: «Solo ora mi accorgo che la vostra scorta sarebbe stata l’unica veramente affidabile in quel momento»
Il normanno decise che ne aveva avuto abbastanza dei ricordi tristi del passato: quanto c’era da dire era stato detto da entrambi e soffermarsi a ripensare alle stesse cose per troppo tempo avrebbe guastato ulteriormente il loro umore. Perciò sospirò profondamente, così da attirare la sua attenzione.
«Il vino ha il pregio di mettere sonno – disse, apprestandosi a coricarsi – Questo, poi, era abbastanza forte per arrivare dalla bisaccia di un chierico – quindi, una volta sdraiato, afferrò Rebecca per il braccio – Stenditi qui, di fianco a me»
Rebecca non era così confusa da accettare e preferì uscire e raggiungere Marian e le altre donne. Bois-Guilbert, un po’ abbattuto, la salutò e chiuse gli occhi.
«Rebecca! – trasalì Beth, che fu la prima a vederla uscire – Cos’è successo?! Eravamo in pensiero!»
«Aveva bisogno di parlare con qualcuno, tutto qui. Non mi ha fatto nulla di male» la rassicurò, poi ammise di aver bevuto del vino con lui e di non sentirsi perfettamente lucida.
«So io di cosa hai bisogno – sopraggiunse Marian – Abbiamo tutta la giornata per andare al laghetto. Prendiamo un poco di cibo e ci avviamo; un bagno freddo ti farà svegliare per bene»

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Rebecca tornò nella capanna alla fine della cena: non sapeva come avrebbe trovato Bois-Guilbert, dato che, da quello che si diceva, non aveva messo piede fuori per tutto il tempo. Bussò delicatamente alla porta e lui le aprì. La luce del crepuscolo bastava ad illuminare l’interno.
«Come vi sentite, signore?» domandò entrando.
«Mi sento come uno che ha battuto forte la testa e ha dormito come un sasso per quasi un giorno intero» ribatté.
«Avete fame? Volete che vi porti qualcosa avanzato dalla cena?» disse, essendo ancora in piedi sulla soglia.
Bois-Guilbert considerò per un attimo la proposta, poi rispose che sarebbe uscito a prendere una boccata d’aria e ne avrebbe approfittato per assaggiare qualcosa.
«Vuoi farmi compagnia?» chiese infine, sorridendole.
«Sono molto stanca...»
«Non ci metteremo molto» insistette. Lei accettò.
Mentre uscivano dalla capanna, insieme, Bois-Guilbert la sospinse avanti a sé mettendole una mano sulla schiena. Raggiunsero il gruppo più grande, raccolto attorno ad Allan-A-Dale che recitava una canzone di sua invenzione, aiutandosi con una dolce melodia alla cetra. Era in sassone, ma ormai il cavaliere normanno era avvezzo a quella lingua e, sebbene trovasse qualche difficoltà a parlare, capiva bene quanto si diceva. Rebecca, dal canto suo, aveva imparato da bambina quella lingua e la permanenza nella foresta di Sherwood non le aveva dato fastidi. La canzone raccontava un’antica leggenda di origine celtica, la leggenda di due amanti tanto accecati dal sentimento da trovare la morte. Drustan ed Essylt i loro nomi. Gli ascoltatori partecipavano, coinvolti nell’alone di magia che colorava le avventure della coppia. E quando si dice che musica e parole insieme hanno effetti strabilianti, si veda questo caso: Bois-Guilbert e Rebecca si erano seduti per terra, vicini tanto da potersi parlare all’orecchio senza che nessun altro sentisse. Tuttavia rimasero silenziosi per tutto il corso della canzone e, al culmine del racconto – quando Essylt, venuta a sapere della morte di Drustan, si trafigge il cuore con il pugnale di lui –, allora Rebecca cercò la mano di Bois-Guilbert per confortarsi e lui, in tutta risposta, la cinse delicatamente tra le braccia e le fece posare la testa sulla propria spalla. A causa dell’oscurità che era ormai calata sul villaggio, rotta solo da poche torce disseminate lì attorno e dagli ultimi tizzoni del grande fuoco, nessuno si accorse di loro. E nemmeno Rebecca si accorse di essersi permessa un’intimità così inusuale con il cavaliere. Tuttavia non le dispiacque, visto che ascoltò le strofe finali della canzone in quella posizione. E Bois-Guilbert, dopo tanti tentativi, otteneva in parte quel contatto di corpi che fino ad allora aveva potuto solo desiderare ardentemente.
Quando la canzone finì, Allan-A-Dale raccolse le ovazioni assolutamente meritate insieme ai baci della sua giovane moglie Edith. La piccola folla si disperse verso le capanne e anche Rebecca si riscosse e si alzò in tutta fretta. L’incanto della leggenda era finito e, come se si svegliasse da un sogno, si rese conto di quanto fosse stata ingenua.
«Aspettate fuori, signore. Vi dirò io quando potrete entrare» ordinò a Bois-Guilbert quando furono davanti alla porta. E nel farlo usò il tono più duro che conoscesse.
Entrò sola, quindi, e nell’oscurità quasi totale raggiunse il proprio giaciglio, si inginocchiò e si svestì. Mentre riponeva l’abito da parte e rimaneva in sottoveste e brache di lino sorrideva: ripensava a quel contatto, al calore del braccio di lui lungo la schiena fino al fianco, e ammetteva che le sarebbe piaciuto... Ma la sua non era una leggenda, era vita vera e crudele, e per soffrire il meno possibile avrebbe dovuto amare il meno possibile; soprattutto, non avrebbe dovuto amare un normanno.
«Venite pure» esclamò e sentì la porta aprirsi e richiudersi. Allora cominciò a recitare le preghiere ebraiche. Con l’orecchio teso catturava intanto i rumori dell’altra metà della capanna: Bois-Guilbert sfilava la cintura – ecco, la riponeva. Di solito si sdraiava vestito. Invece, i fruscii continuarono. Rebecca interruppe la preghiera: che si fosse tolto la casacca? Perché avrebbe dovuto farlo? Le tornò alla memoria il suo torso nudo, con la ferita che buttava ancora sangue. Mentre lo medicava aveva avuto il tempo di contare le cicatrici che portava sul corpo. Ora, se fosse stata di là, le avrebbe accarezzate ad una ad una, perché ne conosceva il prezzo. Come aveva potuto Adelaide rifiutare una persona com’era Bois-Guilbert? Brian de Bois-Guilbert. Raramente, davvero raramente Rebecca lo identificava con il nome completo. In quel momento era doveroso farlo, necessario anzi. Pensò che avrebbe potuto: avrebbe potuto, cioè, andare di là, oltrepassare la tenda e raggiungerlo e medicare non solo le ferite del suo corpo – a quelle aveva pensato qualche medico crociato e spesso non aveva fatto un buon lavoro –, ma soprattutto quelle della sua anima. Adelaide non era ebrea. Adelaide avrebbe potuto sposarlo e vivere con lui, ma era stata meschina. No, non lo meritava: meglio così, meglio la solitudine piuttosto che una moglie indifferente, o peggio avversa. Rebecca si accorse solo dopo qualche minuto che stava guardando nella sua direzione, nella direzione del suo giaciglio, dove gli ultimi bisbigli di preghiere in latino erano andati spegnendosi. Eppure, ne era certa, non dormiva, non dormiva ancora. Che la aspettasse?
Tremò impercettibilmente e si coricò, volgendo il viso verso la parete di legno. Era troppo intelligente per cedere a quella tentazione, per quanto forte e ostinata essa potesse essere. Chiuse gli occhi, li chiuse forte, e si impose di dormire e non pensare mai più a simili sciocchezze. Quello che immaginava non sarebbe stato il suo futuro.
Bois-Guilbert seguì con attenzione i rumori dell’altra metà della capanna. Lo faceva ogni sera senza che lei lo sapesse: chiudeva gli occhi e lavorava di fantasia, finché il sonno scendeva sulle palpebre e le opprimeva fino alla mattina. L’aria fresca sulla pelle del torace gli dava il refrigerio necessario dopo la bevuta di quel giorno. Era un uomo troppo provato dall’esperienza per sognare già ad occhi aperti: la strada verso il cuore di Rebecca era ancora lunga. Aveva i capelli ancora umidi, l’aveva sentito quando reclinando la testa gli aveva sfiorato inavvertitamente la guancia. Aveva resistito alla tentazione di baciarle la fronte e di stringerla troppo contro di sé, ma ne aveva guadagnato quando lei non si era sottratta per tutto il resto della canzone. Poche strofe, forse, ma di certo le più belle, le più dolci. Chissà se aveva dedicato a lui le sue preghiere, sospirò Bois-Guilbert. Ora che aveva il cuore un po’ più sgombro dalle ragnatele del passato aveva anche un poco più di comprensione per la fede. Se non fosse stata ebrea, avrebbe potuto giurare di essersi innamorato di un angelo; ma non era forse vero che anche gli ebrei credevano nell’esistenza degli angeli? Con un sorriso finalmente sincero, Brian de Bois-Guilbert sentì scendere la calma in tutte le membra. Sopravveniva il sonno e lui gli si abbandonò spontaneamente.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Albert era stato condotto nelle segrete del castello che ospitava il re e il suo seguito nella permanenza – di sole poche ore, ormai – a York. Per distinguerlo dai furfanti comuni, condannati alla forca della mattina successiva, il malvivente fu destinato a una cella dove stavano rinchiusi altri prigionieri, ben più illustri di lui. Tra questi i fratelli Malvoisin.
L’arrivo del nuovo occupante non fu salutato con calore da coloro che, anche nella disgrazia, rivendicavano una superiorità di nascita.
«Incredibile! – obiettò uno alla guardia – Sua Maestà vuole davvero disonorarci, se ci mette accanto questa feccia»
Come se la forca che li attendeva in un futuro non lontano avesse qualcosa di diverso da quella che, la mattina dopo, avrebbe sostenuto i corpi di farabutti di strada.
Il ladro fu isolato in un angolo, inchiodato dagli sguardi astiosi dei compagni di cella, in tutto cinque. Altri prigionieri marcivano in celle vicine.
«Non insultarlo – ribatté il Templare Albert de Malvoisin al prigioniero che aveva parlato – Sicuramente gode della benevolenza del re, se viene risparmiato all’esecuzione di domani»
Albert pensò di scorgere un luccichio di stima negli occhi del Templare e rispose, con un leggero inchino: «Questi re, così arroganti, vanno accontentati nei loro desideri»
Malvoisin lo guardò sprezzante: «E noi dovremmo starti a sentire? Cosa ne sai di re? Non so perché Richard non ti abbia strangolato con le sue mani quando ti ha avuto sotto tiro»
«E’ come vi ho detto, mio signore – ripeté Albert, più cauto – Ho offerto a Sua Maestà un servigio che nessun altro avrebbe potuto porgergli»
«E sarebbe?» lo incalzò Philip de Malvoisin, infervorandosi per l’onta di doversi rivolgere a un uomo tanto spregevole.
«Ho informazioni su una persona, una persona che il re vorrebbe aggiungere al vostro numero»
«Di chi si tratta? – rise un altro uomo – Richard si riduce a fare il cane da caccia per stanare i suoi nemici»
Albert, ignorando l’identità dei propri interlocutori, sorrise e declamò: «Brian de Bois-Guilbert!»
Malvoisin, il Templare, balzò in piedi e lo raggelò con uno sguardo: «Insolente! Tu salvi la tua sporca pelle aggrappandoti alla veste di un uomo ignobile, che ha preferito farsi ammazzare piuttosto che salvare l’onore suo e dell’Ordine! E chi credi di poter ingannare con le tue menzogne?»
Albert biascicò stentatamente che durante un’aggressione ai danni di due ebrei, padre e figlia, il Templare era comparso e li aveva cacciati. Raccontò, in breve, la storia che si andava ripetendo nelle locande del Nottinghamshire ormai da un mese. Ad Albert de Malvoisin più che agli altri non poté sfuggire la verosimiglianza della storia: i due ebrei, di cui la ragazza era quasi certamente la fanciulla di cui Bois-Guilbert si era invaghito, la descrizione minuziosa del suo ex compagno d’Ordine e soprattutto il dettaglio della leggera zoppia, che presupponeva una ferita recente e non ancora sanata, lo convinsero che ci fosse qualcosa di vero nelle parole del malvivente.
«Richard ti ha creduto?» domandò sospettoso alla fine del racconto.
Albert annuì: «E’ più prudente credere a confessioni come la mia, o si rischia di sottovalutare il pericolo di un nemico sciolto...»
«Secondo te, troveranno mai questo rinnegato?» intervenne Philip de Malvoisin.
«Io lo auguro! Sarò ben contento di assistere, dove che sia, alla sua impiccagione»
Il Templare sorrise freddamente.
«Hai un bel coraggio a chiedere la libertà dopo la tua condotta delittuosa. Non meriti la forca meno di me, villano. Eppure, non ti odio affatto. Anzi, potresti essere utile alla nostra causa»
«Non vedo come, signore»
Albert de Malvoisin si avvicinò e gli chiese con un filo di voce: «In che riguardo tieni re Richard?»
Albert si strinse nelle spalle: «Nessuno, signore. Se non fosse che ha il potere di mandarmi sulla forca...»
«Ma anche John l’avrebbe un giorno. Così come potrebbe ricoprirti d’oro se lo servirai adeguatamente» sussurrò Malvoisin.
«Oh, non vedo come, dato che Richard è più saldo che mai sul trono...»
«Non mi contraddire! E ascolta: nel fortunato caso in cui Bois-Guilbert venga catturato, tu sarai libero»
Albert, forse, cominciò a capire dove quel discorso volesse mirare e intervenne: «Signore, come potete fidarvi di un villano come me? Un mentecatto, ve lo assicuro, non sono altro che questo! Se si tratta di aggredire dei mercanti in una foresta, ci vado per primo, ma se voi mi chiedete... insomma... Non sono in grado!»
Malvoisin scosse il capo: «Non penserai che voglia farti agire da solo, vero? Un mentecatto come te... No! Anche qui a Lincoln abbiamo amici: sarà sufficiente raccoglierli e guidarli»
«Qualcosa che io non posso fare, mio signore!» obiettò Albert, chinando il capo.
«Mi basta che tu li avvisi, gli descriva la nostra condizione e tutto ciò che vorranno sapere. Se poi vorrai prendere parte alla rivolta, questo lo lascio decidere a te. Pensa semplicemente a questo: non ti piacerebbe infliggere tu stesso la morte al tuo nemico?»
Albert alzò gli occhi e il Templare ghignò: «Questa città, in fondo, va accontentata nel suo desiderio di sangue. Noi sopravvivremo, ma Bois-Guilbert deve morire in ogni caso»

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


Mentre Richard avanzava verso sud lungo la strada da York a Lincoln con la lentezza tipica dei grandi convogli, la vita nella foresta di Sherwood scorreva placidamente tra una caccia al cervo e un agguato a sventurati mercanti che avevano preferito la via più veloce e più pericolosa a quella più sicura ma ben più lunga. Bois-Guilbert non prendeva parte a quest’ultima attività per evitare di incontrare qualcuno che lo conoscesse o che avesse sentito parlare di lui. Robin comprendeva queste precauzioni e gli affidava, nei momenti in cui i migliori uomini del villaggio erano assenti, il controllo di chi invece restava a lavorare sotto i rami della Grande Quercia. Rebecca, da parte sua, passava le giornate in compagnia delle donne e aveva stretto legami di sincera amicizia con alcune di loro.
Marian, in particolare, la trattava come una sorella minore e, a ormai due mesi dal loro arrivo lì, non nascondeva alla fanciulla ebrea le sue considerazioni.
Un giorno, mentre si trovavano al laghetto a lavare i panni e a rinfrescarsi dal caldo di agosto, le si avvicinò e le domandò diretta: «Cosa ti trattiene dall’accettare Brian?»
Era una domanda che vorticava nella testa di tutte le ragazze di Sherwood, comprese quelle sposate. E Rebecca lo sapeva, ma ciononostante rimase stupita dalla schiettezza di Marian e non seppe darle risposta.
Si avvicinò anche Joan, una ragazza fidanzata a un fuorilegge, e aggiunse: «E’ forte e intelligente, Rebecca... E ti è devoto all’inverosimile!»
Rebecca chinò il viso e finalmente rispose: «Io sono ebrea, amiche... Come potrebbe essere che io sposi un normanno cristiano?»
Marian le accarezzò la guancia: «Cosa provi nei suoi confronti?»
«Io... – cominciò – Io credo di volergli bene ora... Ma se penso che, solo due mesi fa, l’ho rifiutato fino alla morte, lo disprezzavo, volevo che sparisse... Sono confusa... E... No, non posso pro-»
Beth le schizzò dell’acqua in viso e la fece tacere tra le risate delle altre; poi, dolcemente, le disse: «Rebecca! Non vorrai farci credere che quel normanno non ti piaccia!»
«Beth dice così perché ci siamo accorte tutte che non lo guardi più come lo guardavi all’inizio; e poi rimani vicino a lui sempre più volentieri» disse Marian.
«Non aver paura, Rebecca: se vi volete bene, cosa potrebbe andare storto?» concluse Edith.
Rebecca non parlò più. Lavò i propri panni e mosse qualche passo in acqua, poi chiese se fosse l’ora di tornare al villaggio e si fece accompagnare indietro. Si chiuse nella capanna e vi rimase fino all’ora di cena. Chi si avvicinò alla capanna poté riferire di averla sentita pregare ad alta voce e, talvolta, piangere.
Anche Bois-Guilbert l’aveva vista tornare, ma aveva capito che qualcosa l’aveva turbata ed aveva evitato di disturbarla. Marian intanto aveva parlato a Robin, confidandogli le speranze, i sospetti e i timori che covava nel cuore. Più tardi, all’occasione propizia Robin raggiunse Bois-Guilbert e lo invitò a seguirlo nella foresta.
«Voglio parlarti di Rebecca» gli confessò, quando furono abbastanza lontani perché nessuno sentisse.
«Voglio dirti che, secondo Marian, potrebbe essere il momento giusto– continuò – Dovresti farti avanti, Brian; dovresti affrontare le sue incertezze e distruggere quel pregiudizio che ha per cui un matrimonio tra voi non potrebbe sussistere»
«Robin – ribatté cupamente – Tu non immagini quante volte io mi sia messo in gioco per conquistarla; se ancora mi resiste, lo fa certamente perché ha altro per la testa. Ho paura di peggiorare le cose; preferirei che mi desse qualche buon segno prima di rischiare l’ultima possibilità che ho»
Robin sorrise: «A me sembra molto combattuta; ma dopotutto è una fanciulla e molto giovane, per giunta. Chissà quali sogni nutriva per il proprio avvenire: anche Marian inizialmente ha dovuto sacrificare molte speranze, ma il nostro legame è diventato sempre più forte e quelli che sembravano sacrifici furono in realtà liberazioni... E non ci conoscevamo neppure prima che decidessi di diventare un fuorilegge. Decidessi! Senti come parlo: chi sceglierebbe di essere un fuorilegge? Ci hanno costretti ad esserlo, o sbaglio?»
Bois-Guilbert annuì distratto da altre preoccupazioni.
«Prova una di queste sere, magari stasera stessa»
Bois-Guilbert prese un gran respiro e lo guardò per la prima volta da che si erano avviati nel bosco. Abbozzò un sorriso, ma sul suo volto era dipinta la disillusione. Robin gli diede una pacca sulla schiena e fece segno di tornare. Avevano appena imboccato il sentiero del ritorno, quando Robin cambiò nuovamente direzione portandosi dietro l’altro.
«Sei tu che non immagini nemmeno quanto io ti capisca, Brian – gli disse, facendogli eco – Anche io nutrivo ben poche speranze, all’inizio»
«Cosa vuoi dire?» domandò incuriosito.
«Marian è normanna, come te» rispose, guardando lontano tra le querce.
«Normanna?!» esclamò Bois-Guilbert, senza aggiungere altro. Robin annuì e sospirò: «Non l’avresti mai detto, vero? Ed era anche fidanzata a un altro uomo...» aggiunse, con un tono a metà tra l’imbarazzato e il compiaciuto.
«A un normanno, suppongo»
«Uno dei peggiori... Senza offesa»
Bois-Guilbert sorrise amaramente, e ribatté: «Ma lei amava te e tu l’hai avuta...»
«Non credere che sia stato così facile come dirlo! – saltò su Robin, tagliando l’aria con un rapido gesto – Prima lei scappò travestendosi da ragazzo, poi si associò alla mia banda mentendo sulla sua identità. E poi, quando scoprii chi era in realtà... non perdemmo tempo»
Una breve pausa, poi riprese: «Solo che la scovarono e la obbligarono a sposarsi immediatamente. E allora cosa potevo fare io? Potevo forse lasciarla in moglie a un altro uomo dopo che era stata mia? Certo che no! E allora prendemmo d’assalto Nottingham e la strappai dall’altare con queste braccia. La sera eravamo marito e moglie grazie al nostro Tuck... E poco tempo dopo si tenne il torneo di Ashby...»
Robin tornò a guardare il normanno; aveva ancora l’aria cupa, il volto chino e gli occhi penetranti. Le sue parole non sembravano aver sortito alcun effetto positivo; il fuorilegge continuò a parlargli francamente: «Se funziona tra un sassone e una normanna, cosa dovrebbe andare storto tra un normanno e un’ebrea?»
«Che l’ebrea non ha intenzione di dar retta al normanno» constatò lui.
Robin scosse il capo: «Lei ti dà retta! Più di quanto vorrebbe. Le donne hanno occhi troppo attenti per lasciarsi scappare certi dettagli; e da quando Marian me l’ha fatto notare, ti assicuro, vedo che Rebecca tende ogni giorno di più verso di te»

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


La cena si era conclusa da poco; attorno al grande fuoco si chiacchierava, si cantava, si raccontavano storie. L’aria era frizzante e il crepitio delle fiamme vi mescolava di tanto in tanto scintille e brandelli roventi di corteccia. Un gioco di fumo saliva verso il cielo ma non arrivava ad offuscarlo del tutto. Poi, a confondersi con le scintille vennero le lucciole. Erano le ultime della stagione, percorrevano sentieri invisibili tra gli alberi e ricordavano vagamente gli spiriti raminghi delle fiabe nordiche. L’atmosfera era invitante; spirava una leggera brezza, sufficiente a far sussurrare le foglie. Voci lontane, lingue sconosciute, bisbigli da un altro mondo. Per un momento, tutti si fermarono, tacquero e ascoltarono le parole della natura. Poi ripiombò l’allegria, la festa per una buona caccia e per la bella stagione che offriva serate di così rara bellezza. Alcune fanciulle si alzarono dal posto, si aggirarono per un po’ intorno alle capanne, poi infilarono un sentiero e si allontanarono di qualche passo dal chiasso del ritrovo. Rebecca era tra queste.
Giunsero in una radura dove la luce del falò filtrava solo a scaglie e i rumori della compagnia erano attutiti dallo stormire ininterrotto delle foglie. Si sedettero per terra guardando la danza delle lucciole che, come fluttuando attorno a loro, pulsavano il loro struggente amore alla ricerca della femmina. Sembravano stelle cadute dal cielo, confuse e sperdute, nel loro zigzagante andirivieni, nel loro subitaneo salire e ridiscendere, con la fioca luce dei loro corpi. Di tanto in tanto una di queste stelle si avvicinava alle donne, quasi volesse porgere un omaggio, un saluto. E le fanciulle sorridevano, additavano; in completo silenzio. Non c’era nulla da dire, nulla di cui parlare.
Un rumore sommesso di passi cominciò a crescere alle loro spalle. Marian fu la prima a gettare uno sguardo dietro di sé e subito fece cenno alle amiche di alzarsi discretamente. Rebecca, intenta a seguire il tragitto di una delle lucciole, se ne accorse quando ormai tutte erano in piedi e discoste. Volse gli occhi e notò una figura maschile che si avvicinava e accennava con la testa alle ragazze che si accodavano sulla via del ritorno al villaggio.
Sentì il cuore impazzire: di gioia? Di sorpresa? Di qualcos’altro? Bois-Guilbert era già lì, poco dietro di lei, fermo. La guardava senza sorriso. Erano i suoi occhi a sorriderle.
«Posso?» domandò sottovoce, come se non volesse disturbare le lucciole. Rebecca annuì e tornò a guardare davanti a sé.
«Tutto bene?» domandò ancora lui. Aveva notato che Rebecca non portava la lunga treccia delle donne sassoni: i capelli sciolti sulla schiena ondeggiavano alla brezza e le cadevano sul petto e sulle spalle.
«Tutto bene»
Bois-Guilbert prese un respiro profondo, quindi con la mano destra – sedeva alla sinistra di lei – cominciò ad accarezzarle la guancia. Lei arrossì leggermente, ma non si sottrasse.
«Sei bella come una stella, questa sera» sussurrò, e la sua mano scivolò dalla guancia ai capelli neri sulla schiena.
«Non ho fatto la treccia prima di uscire dalla capanna...» bisbigliò lei con tono colpevole, come se si accorgesse solo allora di una distrazione. Ma Bois-Guilbert ribatté: «Sei più bella con i capelli sciolti...»
«Signore, voi mi offendete con tutti questi complimenti» lo ammonì, scostandosi solo per farlo avvicinare. Eppure, nella sua mente tornava la conversazione con Marian, tornava la preghiera e a tutto si mescolava un gran timore. Erano giorni, ormai, giorni interi passati a riflettere senza mai arrivare a una decisione sicura: ogni momento un’esitazione, un ripensamento... E ore e ore di rassicurazioni cadevano in pezzi. In quel momento, però, aveva un forte desiderio di lasciare che le cose prendessero la loro strada, senza cercare di cambiare il loro corso.
Lui sorrise e ritirò la mano, dandosi un’occhiata intorno.
«Anche in Normandia c’erano boschi come questo»
Sorrise malinconica mentre chiedeva: «Vi manca la vostra terra?»
Bois-Guilbert alzò le sopracciglia: «Nulla è più mio laggiù, nemmeno la terra su cui mossi i miei primi passi...»
Rebecca gli dedicò un altro di quei suoi sorrisi tristi: «Io non ho mai nemmeno visto la terra del mio popolo»
«E’ affascinante, la Palestina. In certi momenti è così silenziosa che, sì, forse, se qualcuno volesse ascoltare, sentirebbe la voce di Dio»
Una lucciola si posò sulla spalla di Rebecca, la spalla sinistra. Bois-Guilbert la notò, la prese sul palmo della mano e gliela porse: «Dicono che porti fortuna» sussurrò.
«Lo auguro» rispose lei, avvicinando un dito, ma appena toccò la lucciola, quella spalancò le ali e volò via di nuovo libera. La seguirono per un tratto con lo sguardo, poi Bois-Guilbert si fece di nuovo vicino e riprese ad accarezzarle delicatamente le spalle. E, come prima, Rebecca non fece nulla per farlo smettere.
«Mio padre diceva che bisogna esprimere un desiderio quando si tocca una lucciola. Era un modo per farmi contenta da bambina...»
Bois-Guilbert portò la mano all’altezza del suo orecchio e cominciò a domare le sue ciocche dietro di esso.
«E hai desiderato qualcosa, ora?» domandò sussurrando. Rebecca batté velocemente le palpebre e arrossì, mordendosi il labbro. Poi tornò a guardare avanti, rifiutandosi di dirlo.
«Rebecca...» sussurrò, come affidando il suo nome alle lucciole che volavano loro attorno. Le lisciò i capelli oltre la spalla, liberandole il collo. Si avvicinò piano, socchiuse gli occhi e le disse in un soffio: «Tu sai cos’ho desiderato»
Rebecca sentì come un solletico: lui le sfiorava il lobo con la punta del naso, respirava il profumo dei suoi capelli. Chiuse gli occhi e rimase immobile, permettendogli di spingersi oltre. Bois-Guilbert scese dall’orecchio al collo e lo sfiorò con le labbra; Rebecca rabbrividì di piacere e provò una strana sensazione di vertigine; avrebbe voluto coricarsi lentamente a terra. Bois-Guilbert, intanto, aveva cominciato a baciarla tra il collo e la spalla, delicatamente; piccoli baci senza rumore, discreti e appassionati insieme. Solo i suoi respiri intensi rompevano talvolta il silenzio delle lucciole.
«Rebecca...» sussurrò ancora un paio di volte, mentre lei sospirava per placare il suo folle cuore. Eppure...

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


Bois-Guilbert sentì una goccia sulla guancia. Sollevò il viso dal suo collo, corrugando la fronte.
«Rebecca...?» sussurrò ancora con tono diverso e con le nocche delle dita asciugò una nuova lacrima precipitosa. Rebecca scosse la testa, ma il suo viso non era più terso e sereno come un istante prima: era contratto, come se una spada l’avesse trafitta al cuore. Le sue mani si stringevano sul petto e tutto il suo corpo, libero dalle attenzioni di lui, si piegò in avanti. Un urlo strozzato, un lamento, e Rebecca, scattante come una cerbiatta, si sollevò e corse via senza dare a Bois-Guilbert nemmeno il tempo di dire una parola. La guardò dileguarsi, rifugiarsi nella capanna e rifiutarsi anche alle amiche che, vedendola sconvolta, si erano raccolte attorno a lei ed ora premevano alla porta.
Bois-Guilbert si sdraiò supino e guardò le stelle del cielo, brillanti come ogni sera, impassibili. No, Rebecca non era bella quanto loro, ma di più: era troppo bella per uno come lui. I suoi peccati l’avevano condannato.
Quando il sangue agitato si fu placato e la sua mente fu di nuovo lucida, Bois-Guilbert si alzò e, invece che tornare alla capanna – dove mai e poi mai avrebbe voluto metter piede in quel momento – si diresse nel bosco, ripercorrendo un sentiero a memoria, fino ad arrivare al corso del torrente. Contemplò le acque turbinose, turbinose come le passioni chiuse nel suo cuore, e pensò che in fondo sarebbe stato un solo passo e poi la fine. Aveva sfidato la morte molte volte e per affari assai più futili di questo: ora si trattava di sparire, di uscire dalla vita con riservatezza, nel silenzio della notte.
No, si incamminò risalendo la corrente, trovò il guado e passò sull’altra sponda. Costeggiò ancora il letto del torrente, che nell’oscurità era cento volte più rumoroso e misterioso, e arrivò alla spiaggia del laghetto. Tolse gli stivali e i pantaloni; immerse i piedi, le caviglie, i polpacci; tolse anche la casacca e si tuffò. Il freddo contatto dell’acqua si scontrava con il ricordo del calore del collo e della guancia di lei, ma l’avrebbe aiutato a riprendersi dall’ebbrezza. Come dopo un eccesso di vino o una rissa.
Mosse alcune bracciate, aveva imparato a nuotare in Normandia. Arrivato al centro dello specchio d’acqua, stese le braccia e contemplò la luna alta nel cielo come se fosse coricato su un letto di cristallo. La biancheria aderiva alla pelle e dava l’impressione che il freddo dell’aria pungesse di più di quello dell’acqua.
C’era stata Adelaide nella sua vita; non era stata l’unica. C’era stata Matilda, la serva di Adelaide, che non gli aveva resistito tanto a lungo quanto la padrona; poi c’era stata la locandiera di Poitiers, di cui non ricordava il nome; e ancora Rosetta, una siciliana che aveva addolcito l’attesa della partenza per la Terrasanta; e le ebree Miriam e Yael, che non avevano opposto gli stessi scrupoli di Rebecca alle sue pulsioni; poi la normanna Carole del seguito di re Richard... E tra queste tante altre di cui non ricordava nemmeno il viso. Erano state tutte Adelaide, e le aveva chiamate tutte Adelaide, prima o dopo. Non trovava differenze tra il modo in cui loro si concedevano a lui e quello in cui Adelaide gli si era promessa; perché tutte, prima o poi, avrebbero conosciuto e amato altri uomini; ed era per questo che lui non le amava. Anche Rebecca era stata Adelaide all’inizio: a Torquilstone era stato sul punto di chiamarla così, ma lei gli aveva dato una lezione che nessun’altra prima si era preoccupata di dargli. Si era rifiutata, e si era rifiutata al punto da barattare la propria purezza con la morte. Ed era stato in quel momento – quando i suoi piedi esitavano sul davanzale della finestra e le sue mani si aggrappavano allo stipite di pietra – che Bois-Guilbert si era sentito di nuovo prigioniero di una donna. Una donna, però, che non aveva nulla a che fare con Adelaide.
Bois-Guilbert fissò la falce della luna alta sopra di lui: era la stessa luna che si vedeva dalla Terrasanta, sovrastante gli schieramenti che il giorno successivo si sarebbero dati battaglia; assisteva alle agonie degli uomini e anche ai loro piaceri senza essere mai toccata, nemmeno sfiorata dalle umane pene. Chiunque l’avesse guardata in un momento di turbamento vi avrebbe trovato la tranquillità; e lo stesso chi, inebriato dalle cose che piacciono agli uomini, avesse levato per un momento lo sguardo al cielo.
La luna parla una lingua arcana che va dritta al cuore dell’essere umano. È la confidente degli innamorati e dei suicidi; è la custode dei sogni e degli incubi; raccoglie in sé le contraddizioni della Terra e le appiana nel candore eterno delle sue lande sconosciute. La luna è perfetta, fatta di cristallo, un sole che non scalda ma che, forse per questo, affascina. Lascia che sia lo spettatore a scaldarsi per lei.
Bois-Guilbert raccontò alla luna tutto ciò che vedeva sfilare davanti agli occhi della memoria. Come se lei non sapesse, ignorasse gli errori, le cadute, la fatica di rialzarsi; e poi il gusto delle prime scappatelle, della complicità delle amanti, della condiscendenza dei superiori. A sangue freddo e alla luce di ciò che sarebbe seguito, Bois-Guilbert si domandò se la permissività di chi avrebbe dovuto castigare la sua licenziosità non avesse avuto il solo effetto di precipitarlo in un abisso di peccati. Ricordava le giustificazioni che lui e i giovani confratelli più focosi accampavano ad ogni ritorno da uscite non concesse e ricordava forse anche più nitidamente gli sguardi di simpatia in risposta alle giustificazioni più assurde. Se qualcuno l’avesse punito a quel tempo, se giacere con una donna fosse stato vietato e perseguiti i contravventori, forse non sarebbe arrivato a quel punto. Rimpiangeva forse Beaumanoir e gli altri asceti dell’Ordine? Assolutamente il contrario: avrebbe preferito non essere mai stato accolto nell’Ordine, dato che non aveva vocazione. Ammesso tra i consacrati aveva disonorato i veri uomini di Dio. La sua non era la vita del sacerdozio; e se fino a quel momento vi aveva fatto solo superficialmente caso, ora accusava il peso di responsabilità non confacenti alla sua indole: cosicché, sotto lo sguardo della casta luna, confessò di pentirsi, pentirsi della scelta avventata del giovane cuore infranto e degli amplessi e degli omicidi che l’avevano malauguratamente seguita. Non aveva mai usato violenza a una fanciulla, non almeno nei termini in cui una violenza è realmente tale. Gran parte delle donne che aveva incontrato erano consenzienti di mestiere e lucravano sui soldati lontani da casa e dalla morale.
«Rebecca...» sussurrò. Rebecca era tutt’altra cosa. Rebecca era come la luna: candida, intatta, irraggiungibile.
Da quel momento, da quel bagno rigenerante nelle acque del lago, Bois-Guilbert decise che non avrebbe tentato più di vincere le sue resistenze. L’amore che nutriva per lei non sarebbe diminuito: semplicemente riconosceva la sconfitta e le lasciava il campo, le armi e la vita.
Si immerse e tornò alla riva senza riprendere fiato; indossò i vestiti sulla biancheria bagnata e si incamminò per rientrare. Una volta giunto al villaggio, scoprì che il tempo era passato più velocemente di quanto avesse creduto e che nessuno era rimasto sveglio tanto a lungo da vederlo tornare. In quest’ultima impressione, però, Bois-Guilbert si ingannava: due occhi l’avevano seguito passo dopo passo, senza mai perderlo di vista, badando che non avesse in mente di fare pazzie, come suicidarsi o, peggio, scappare.

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


«Notizie del traditore?» domandò re Richard all’ufficiale più prossimo. Quello scosse la testa, poi però ammise: «A Sheffield non hanno visto nessuno che assomiglia a lui o all’ebrea che viaggia con lui»
«Ne sono certi?» incalzò il sovrano, prendendo una coppa d’oro dalla mensa.
«Sì, Vostra Maestà: lo sceriffo della città ha detto di aver rafforzato la sorveglianza alle porte della città avendo saputo dell’arrivo di Vostra Maestà»
«E gli ebrei della città cos’hanno detto?»
L’ufficiale si strinse leggermente nelle spalle: «Dubito che siano affidabili; in ogni caso confermano l’aumento di sicurezza da parte dello sceriffo e, anzi, lamentano di aver subito dei torti e delle rapine negli ultimi tempi»
Il re depose la coppa davanti a sé.
«Non li hanno avvistati altrove?»
«Non più da quando hanno lasciato la locanda dei “Due monaci”, appena superato il confine del Nottinghamshire»
«Tutto lascerebbe pensare che siano ancora lì. Cosa strana, dato che è una zona fittamente boscosa e piena di fuorilegge – poi Richard rammentò il viso di Robin Hood e sussurrò – Possibile che li abbiano giustiziati quegli uomini? Certo, avevano qualche conto in sospeso con il Templare... Devo incontrare di nuovo Locksley e sentire cos’avrà da dire al riguardo»
Dopo un tale ragionamento, svoltosi totalmente all’insaputa dell’ufficiale che per quanto vicino non era riuscito a captare una sola parola nel lungo bisbiglio del re, Cuor di Leone ordinò inaspettatamente di lasciare la strada maestra su cui stavano avanzando; o meglio, ordinò che il seguito, prigionieri compresi, attendesse lì dov’erano, presso il castello di Lincoln. Un piccolo numero di esploratori si sarebbe diretto verso Nottingham, con specifica indicazione di percorrere in lungo e in largo le foreste: l’obiettivo era entrare in contatto con il celebre Robin Hood. Chi ascoltò di persona quell’ordine pensò che il re avesse esagerato con il vino, ma Richard era più lucido e determinato che mai. E gli esploratori partirono il giorno seguente.
Quello stesso giorno un ebreo si presentò al castello di Lincoln. Si presentò come Abraham figlio di Solomon di Sheffield e chiese di poter apparire davanti al re appena fosse stato possibile. Quando Richard venne informato della sua presenza sbrigò le faccende minori in tutta fretta e lo fece chiamare. Abraham entrò tutto ossequioso nella sala dove il re lo attendeva, inchinandosi profondamente secondo l’uso orientale e invocando la benedizione celeste sul capo del sovrano.
Richard lo lasciò finire, poi lo interrogò: «Cosa vi porta qui, Abraham figlio di Solomon? Da Sheffield è un pezzo considerevole di strada per un uomo solo»
«Non sono solo, mio signore – lo corresse timidamente Abraham – Sono qui con mio padre, mio zio e i loro servitori. Vengo per una questione molto urgente»
«Se si tratta delle angherie di qualche conte o sceriffo, lasciatemi il suo nome e farò chiarezza»
«No, signore. Si tratta della mia fidanzata» confessò, e un leggero rossore si diffuse sulle guance, sopra la linea della barba folta.
A quelle parole Richard, che già nutriva segrete speranze, manifestò una certa curiosità e domandò se si stesse parlando di rapimento o di violenze subite dalla fanciulla a causa del fidanzamento.
«Violenze sì, mio signore. Non so quanto in merito al fidanzamento: di certo so che due mesi fa la mia fidanzata aveva promesso di raggiungermi a Sheffield ma, a tuttora, non è arrivata». Nella voce mescolava un certo sdegno all’intonazione di abituale inferiorità.
«Come si chiama la vostra fidanzata? E da dove partiva?»
Abraham trasse un respiro, come per sciogliere un peso sul petto, e rispose: «Si chiama Rebecca figlia di Isaac di York e partiva dalla locanda detta “Cervo rosso” appena passato il confine tra Lincolnshire e Nottinghamshire»
Richard trovò finalmente la conferma che cercava.
«Non è mai arrivata, dite? Non sapete altro?»
«Nel messaggio che mi è stato inviato da lei, Rebecca riferiva di essere accompagnata da una persona che avrebbe dovuto essere ricompensato per il servizio»
Il re si prese il mento tra le dita e assunse un atteggiamento cupo.
«Cosa pensate sia successo?» domandò dopo una pausa di silenzio.
Abraham esitò, cercò le parole, il filo su cui impostare una giusta risposta: «Gira voce a Sheffield – disse infine – che un traditore della corona sia scomparso misteriosamente nelle foreste di queste zone. Si dice che insieme a lui sia scomparsa una fanciulla, una fanciulla ebrea... Signore, io temo che si tratti della mia fidanzata; temo che quest’uomo possa aver messo in pericolo il suo onore e la sua vita. Perciò, se riuscirete, come vi auguro, a prendere questo traditore, imputategli anche l’accusa di rapimento e violenza verso la mia fidanzata... Ma senza specificare che si tratta di una fanciulla ebrea, o il nostro matrimonio verrebbe compromesso»
«Sarà fatto, Abraham di Sheffield. Vi invito a prolungare la vostra permanenza qui finché io lo riterrò necessario. Ora andate e, se dovessero giungervi notizie, non esitate a comunicarmele»

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


Rebecca si affacciò dalla tenda e vide che Bois-Guilbert era in piedi, intento ad allacciare la cintura attorno ai fianchi.
«Vi devo delle scuse e delle spiegazioni...» bisbigliò. Non lo aveva sentito tornare, quella notte. Era tornato, quindi, tanto tardi da averla trovata già addormentata profondamente. Non mostrava stanchezza, le sue mani erano agili e aggiustarono la fibbia con pochi rapidi gesti. Solo quando fu pronto ad uscire, Bois-Guilbert alzò gli occhi su di lei. Non erano gli stessi occhi della sera precedente, avevano perso qualsiasi barlume di gioia e, al suo posto, mostravano disillusione e rassegnazione. Anche le labbra lasciavano trapelare, nel sorriso bieco che le immobilizzava, un sentimento niente affatto positivo. Rebecca si sentì colpevole di una tale infelicità e chinò il capo, non riuscendo a sostenere la vista di un uomo distrutto. Anche Bois-Guilbert reclinò la testa sul petto, prendendo un gran respiro.
Rebecca provò l’impulso irrefrenabile di gettargli le braccia al collo e poi, all’improvviso, si trovò così come si era immaginata. Il suo viso premeva contro la casacca di lui e le sue spalle gli fornivano l’appoggio per l’abbraccio. Avvertiva la sorpresa nel suo corpo impietrito. Per un primo istante le parve di stringere a sé una statua; poi percepì le sue braccia attorno al busto, in un movimento composto e quasi distaccato. Non come si sarebbe aspettata.
«Signore – cominciò, cercando di nuovo i suoi occhi – Devo confidarvi qualcosa che farà soffrire entrambi...»
Bois-Guilbert la allontanò delicatamente: «Allora sarebbe meglio sedersi» constatò, senza perdere tempo. Si sedette sul giaciglio e la guardò dal basso, aspettando che facesse altrettanto. Rebecca fece come lui aveva detto, ma non gli si mise più tanto vicino.
«A Sheffield non ho nessun parente» ammise con voce rotta.
Lui sollevò leggermente le sopracciglia: «Da chi contavi di rifugiarti, allora?». Nella voce forzosamente indifferente si faceva strada un tono forse risentito, forse geloso.
«A Sheffield vive un amico di mio padre, Solomon di Sheffield – spiegò ad occhi bassi – Lui e mio padre hanno compiuto molti viaggi insieme da giovani, prima di sposarsi. Solomon ha un figlio di circa trent’anni, Abraham, che conosco da quando eravamo ragazzini. Il sogno dei nostri genitori era vederci un giorno sposati; poi le vicende di Ashby hanno convinto mio padre che vivere qui sarebbe stato pericoloso per me e che avremmo dovuto trasferirci in Spagna al più presto. Ma queste cose le sapete già... Ciò che non vi ho detto è che nel biglietto che mandai a Sheffield chiedevo la protezione di Solomon; cosa che, in un certo senso, lasciava intendere la mia volontà di sposare suo figlio»
Bois-Guilbert respirò rumorosamente, strinse i pugni e il affondò negli stracci su cui sedeva.
«Perché non me l’hai detto subito?» domandò con tono aspro.
Rebecca impallidì: «Temevo che non mi avreste accompagnato! Ma cercate di capire in che situazione mi trovo: sono una fanciulla nubile, sola, senza più parenti in tutta l’Inghilterra e con un patrimonio che farebbe invidia a chiunque. Si sa che mio padre era uno degli ebrei più ricchi del regno. Ora che è morto, tutto diventerà di proprietà di chi mi sposerà... E il ricordo dell’amicizia di mio padre con Solomon mi ha spinta a prendere quella decisione»
Bois-Guilbert faticava a trattenere la tempesta che agitava il suo cuore: da un lato comprendeva la logica del comportamento di lei, ma dall’altro non poteva ignorare i sentimenti, i desideri e le speranze chiusi nel suo cuore.
«Però, per quanto può valere, se avessi dovuto compiere ora questa scelta, credo che non avrei inviato quel biglietto; non almeno con le stesse parole...» concluse Rebecca, combattendo contro le emozioni per mantenere la voce limpida.
Bois-Guilbert ascoltò a malapena quell’ultima confessione. Ribolliva, bruciava di gelosia e sentiva i vecchi costumi normanni rialzare la testa dopo un periodo di letargo.
«Rebecca – ribatté, cercando a propria volta di non alzare troppo la voce – Perché ti ostini a non vedere? Perché rifiuti le mie prove d’amore e preferisci un matrimonio di convenienza come...»
Adelaide: quella donna lo perseguitava ancora. Adelaide turbava i ricordi e li mescolava al presente, lo rendeva cieco davanti all’affanno di Rebecca, gli impediva di rendersi conto obiettivamente di cosa stesse succedendo.
Rebecca intuì subito da quella frase lasciata in sospeso cosa dovesse aspettarsi. Si lasciò di nuovo guidare dall’istinto e si protese avanti, sollevandosi sulle ginocchia, tendendo le mani verso di lui.
«Brian – lo chiamò, per la prima volta – Io non voglio vedervi così... Mi avete promesso che non mi avreste disprezzato per il mio rifiuto... Ma capisco che sia una cosa terribile da accettare – prese il suo viso tra le mani e lo accarezzò sulla ruvida traccia di barba – Se solo non fossi ebrea, Brian! E se voi non foste normanno, né cristiano!» singhiozzò, liberando le lacrime.
Bois-Guilbert la sorresse per evitare che gli cadesse addosso. La tenne saldamente per le braccia e la fece voltare, accomodandola sulle proprie gambe. Rebecca piangeva a dirotto, inconsolabile, e si copriva il viso con le mani impedendogli di asciugarle le lacrime.
«Rebecca – protestò commosso – Non dire sciocchezze! Puoi essere ebrea e amare un cristiano! Se gli uomini ci trovano qualcosa di sbagliato siano affari loro: Dio non ha forse creato Adamo ed Eva? Li ha forse creati cristiani o ebrei o musulmani?»
Rebecca domò il pianto e alzò lo sguardo su di lui: «Ormai non posso tirarmi indietro...»
«Resteremo qui, Rebecca – ribadì Bois-Guilbert – Qui nessuno si opporrà al nostro amore. Qui nessuno giudicherà immorale la nostra unione...»
«Brian, non sarà così; non potremo vivere per sempre nella foresta, sfamandoci di ciò che ci dà il bosco. Potremmo aver bisogno di medicine, di cibo che si compra nei mercati... Potrebbero venire i soldati del re e ci scoprirebbero... Potrebbero succedere tante cose, qui... E noi non siamo al sicuro da nessuna parte in Inghilterra»
«Andremo via, allora! Partiremo per la Spagna o per qualsiasi altro posto!»
«Anche questo è impossibile: come potremmo imbarcarci, un normanno e un’ebrea, senza suscitare sospetti?»
Bois-Guilbert richiamò alla memoria – anzi, fu la memoria stessa a richiamare a Bois-Guilbert – il discorso che Robin gli aveva fatto: girava voce... girava voce che lui fosse vivo! Da un momento all’altro Richard avrebbe potuto mettersi alla sua ricerca con intenzioni tutt’altro che buone. Rebecca aveva ragione: sarebbero dovuti andare via prima che si sapesse di lui. Ma a quel tempo era impossibile anche solo immaginare di farlo. Erano in trappola, una trappola pronta a scattare.
Istintivamente, Bois-Guilbert strinse a sé Rebecca, ma solo per darle la spinta per rialzarsi.
«Non c’è speranza, non più... – borbottò ripiombando di colpo nella cupezza – Sarà meglio che ti accompagni subito a Sheffield per sposarti. Quando viaggerò solo potrò eludere più facilmente la sorveglianza delle guardie e andarmene... Sì, forse questa è la scelta migliore; forse è l’unica scelta possibile»

Prima che Rebecca potesse trattenerlo, Bois-Guilbert uscì dalla capanna e si diresse a passo sicuro verso la capanna di Robin. Bussò forte, bussò più volte perché tardavano ad aprigli. Alla fine la porta si socchiuse e il viso di Marian fece capolino nella fessura.
«Devo parlare con Robin, subito»
Rebecca lo raggiunse in tempo per afferrargli il braccio e mandargli un ultimo sguardo. Marian era scomparsa all’interno, bisbigliava. Robin, probabilmente, stava ancora dormendo.
«Un momento, per favore...» tornò a dire a Bois-Guilbert, richiudendo la porta. Il normanno e l’ebrea si scambiarono un’occhiata perplessa; lui, con le mani sui fianchi, immaginò a cosa fosse dovuto il ritardo di quella mattina, e forse Rebecca fece altrettanto quando realizzò di aver visto di sfuggita Marian coprirsi con la sottoveste.
Dopo qualche minuto, Robin si mostrò con un’aria ancora insonnolita. Vedendoli lì, insieme, Rebecca ancora aggrappata al braccio di Bois-Guilbert, Robin ipotizzò che avessero intenzione di metterlo a parte di una qualche sorta di rapporto che era finalmente sbocciato tra loro; per questo sorrise e aprì le braccia: «Brian! – esclamò – Vuoi che ti vada a chiamare il buon Tuck? Ci vado io in persona, basta che me lo ordini!»
Bois-Guilbert lo fulminò con uno sguardo molto eloquente, e l’espressione del fuorilegge precipitò da gioiosa ad allarmata.
«Abbiamo urgenza di partire, Robin. Spero che tu capisca» ribatté il normanno. Rebecca si trasse qualche passo indietro, facendosi piccola piccola.
«Non capisco, infatti» fu la risposta, asciutta, di Robin.
Bois-Guilbert prese un profondo respiro: «A Sheffield non ci sono parenti; c’è invece un fidanzato»
Robin sbarrò gli occhi e ammutolì. Dalla capanna venne un’esclamazione soffocata.
«Gli ebrei sono molto pignoli su queste cose: prima arriveremo a Sheffield, meglio sarà. Fidati: ne ho viste tante, di cose, in Palestina» continuò Bois-Guilbert. Aveva gli occhi lucidi e la voce tagliente.
«Ma... – obiettò Robin, cercando di raccogliere le idee – Ma se non sanno dove siete, quali problemi potrebbero darvi? Rebecca, volete davvero onorare quel fidanzamento?»
Rebecca alzò gli occhi, esitò, guardò Bois-Guilbert, si morse le labbra e infine bisbigliò: «Non ho altra scelta»
Bois-Guilbert non si era voltato; aveva aspettato la risposta con lo sguardo rivolto al cielo e, dopo la risposta, aveva chiuso gli occhi e scosso leggermente il capo.
«Sai che non è il momento giusto per partire, Brian! Richard, ormai, dovrebbe trovarsi a Lincoln – fece Robin – Distoglila da questa idea»
«Io sono d’accordo con lei» tagliò corto Bois-Guilbert.
«C’è qualcosa che non sai... – sospirò il fuorilegge, poi lo condusse in disparte e solo quando furono molto distanti dalla capanna continuò – Ci è giunta notizia che alcuni strani individui si sono presentati alle locande della zona chiedendo di un normanno zoppo e di un’ebrea che lo seguiva... credo si riferissero a voi, benché tu, Brian, non sia esattamente zoppo. Capisci, ora? Vi stanno cercando»
Bois-Guilbert accolse quelle rivelazioni con malcelato turbamento: qualcuno aveva parlato, aveva citato espressamente quei luoghi e gli eventi della rapina nei boschi... Ma chi? Non si spiegava come ciò fosse possibile. Decise subito di non farne parola a Rebecca: non voleva che si preoccupasse ulteriormente.
«Io... – cominciò, accarezzandosi il principio di barba sul mento – D’altra parte, se ci trovassero qui, sarebbero guai per tutti...»
«Restate! – insistette Robin, afferrandogli il braccio – Restate finché Richard non sarà sceso fino a Londra!»
Bois-Guilbert mosse lo sguardo attorno: «Sanno che siamo qui, in queste foreste. Presto accerchieranno la zona e cominceranno a darci la caccia»
Il normanno sapeva di cosa stava parlando, nella sua voce regnava una drammatica certezza.
«Dobbiamo rischiare» concluse, tornando a guardare Robin. Questi non seppe più come contraddirlo e chinò il capo, arrendendosi.
 
Bois-Guilbert rifiutò la compagnia di una scorta, ma accettò quella di un asinello. Prepararono le provviste d’acqua, di pane e di carne di cervo essiccata. Il giorno volò nei preparativi e la cena fu frugale più del solito. Rebecca poi, vinta dall’angustia del viaggio che li attendeva, avvertì più presto la stanchezza e si congedò dalle amiche tra abbracci e auguri per il futuro. Una volta nella capanna impiegò tutte le energie a suscitare un sonno profondo per riposare tutta la notte, fino alla partenza. Bois-Guilbert, forse provato allo stesso modo dai preparativi e dalle preoccupazioni, si ritirò poco dopo di lei. Lasciava i saluti per il mattino dopo.
A Rebecca era inutile qualsiasi tentativo di dormire. Qualsiasi posizione le risultava scomoda, come se il giaciglio fosse puntellato di spilli, e qualsiasi pensiero lieve finiva per calarsi nell’ottica del viaggio imminente. Era buio pesto quando tutte le ansie che palpitavano dentro di lei ad ogni battito del cuore ebbero la meglio: si alzò piano e non si curò di rivestirsi. Si avvicinò alla tenda e la scostò leggermente. La luce soffusa che penetrava dalla finestrella disegnava i contorni del corpo di Bois-Guilbert, sdraiato sul fianco sinistro sul giaciglio. Doveva godere di un sonno pesante a lei sconosciuto.
Rebecca mosse timidamente i primi due passi prima di avere un’esitazione: se l’avesse scoperta? No, dormiva troppo profondamente per essere svegliato dal suo passo leggero. Confidando in quel pensiero si avvicinò ancora, finché non fu a una spanna dal giaciglio. Giunta lì, lentamente, si inginocchiò come in contemplazione. Bois-Guilbert, addormentato, aveva il viso rivolto a lei. Un viso sereno, per nulla turbato. Rebecca non volle trattenersi e gli diede la prima, affettuosa carezza. Ne seguirono molte altre, poi la mano discese sulla sua gola, e contemporaneamente i pensieri e l’immaginazione di lei riandarono alle impiccagioni. Di impiccati ne aveva visti tanti, fossero essi ladri, assassini, traditori della corona... Ogni città aveva la sua forca e solo raramente il cappio pendeva vuoto. Ecco, in quel momento immaginò il cappio attorno a quella gola, immaginò quel viso sereno congestionato nella morte, rosso bluastro, e le labbra storte da un dolore tanto netto quanto definitivo. Sentì un gran calore a quella visione, allo scherzo della mente impressionata dai ricordi e dai sentimenti. Deglutì, come a scacciare l’impressione di avere lei stessa la gola chiusa da un cappio. Non le importava tanto di sé; in quel momento aveva solo bisogno di sentirsi viva e di sentir vivo anche lui. Mosse quindi la mano sul suo collo e premette leggermente sulla vena fino a percepire il flusso ritmico del sangue. Sì, era vivo. Ed era viva anche lei.
Quella premura, però, doveva aver infastidito Bois-Guilbert che, lamentandosi sommessamente, si volse a pancia in giù, traendosi piuttosto verso la parete della capanna. Gli occhi di Rebecca si soffermarono allora sulla porzione di giaciglio rimasta vuota. Ci pensò su, e nel frattempo tornò ad accarezzare la sua guancia, i suoi capelli e infine le spalle... Poi la tentazione vinse le ultime remore e Rebecca si distese a pancia in giù accanto a lui.
La prospettiva era del tutto differente, ora. Il suo viso non era così sereno come le era parso: le sopracciglia erano leggermente aggrottate, come se qualcosa lo disturbasse. Allora gli accarezzò la fronte, finché notò con una certa soddisfazione che la sua delicatezza sembrava sciogliere le rughe. Desiderò di aver infranto tempo prima il patto che sussisteva tra loro; desiderò di non aver mai fatto alzare quella tenda a dividerli come estranei; desiderò di non aver mai scritto il messaggio ad Abraham. Impossibile tornare indietro: non le restava altro che assaporare le gioie che il presente, con parsimonia, le avrebbe donato.
Bois-Guilbert si mosse: si issò sulle braccia e ricadde di nuovo adagiato sul fianco sinistro e, senza nemmeno aprire gli occhi, tese il braccio nella direzione di Rebecca, le mise la mano sulla schiena e la abbrancò saldamente, trascinandola verso di sé. E lei non oppose resistenze di sorta: quando fu contro di lui, gettò il proprio braccio attorno al suo torso e si strinse ancor di più al suo corpo. Immerse il viso tra la sua spalla e il suo collo, avvertendo sulla nuca il suo respiro, regolare e intenso.
«Non voglio, Brian...» bisbigliò. Lui non rispose e continuò a sfiorarle la leggera camicia di lino lungo la schiena.

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


Bois-Guilbert si sollevò dal giaciglio: la luce che penetrava dalla finestrella non era più quella notturna, segno che l’aurora era ormai imminente. Guardò Rebecca, coricata supina lì accanto, i capelli neri spettinati e il viso finalmente sereno. Si sentiva pervaso dal suo profumo femminile. Era stata una notte diversa da tutte le altre notti, quella: non gli era mai capitato, in tutta la vita, di stringere a sé una donna e dormire. No, non era accaduto nulla ed era giusto così; il tempo era passato, scaduto, non era più il momento. Bois-Guilbert distolse gli occhi, rinunciando alla tentazione di scoprire una trasparenza nella camicia di lino. Rebecca non era sua; un altro uomo aveva con lei un vincolo legittimo e quell’uomo l’avrebbe voluta gelosamente come la voleva lui. Tuttavia, la voglia di stendersi nuovamente accanto a lei, all’innocenza del suo corpo indifeso, era forte. Forte come era stato il desiderio di restare ad aspettare al laghetto, dietro a un pino, che lei uscisse dall’acqua e si svelasse. No, non era più il tempo, non era più il momento.
Bois-Guilbert afferrò la cintura e la legò ai fianchi prima di uscire senza svegliarla. L’asinello aveva passato la notte poco lontano dalla capanna. Il carico di sacchi e borracce che avrebbe dovuto portare lungo il viaggio era già pronto, riposto con cura all’interno della capanna-magazzino. Attese veramente poco, Bois-Guilbert, prima che qualcuno lo raggiungesse: erano Robin e Will Scarlett. A loro si aggiunsero nel giro di qualche minuto altri compari fuorilegge che diedero una mano ad ultimare i preparativi. Quando l’asinello fu caricato di tutto il necessario, il normanno tornò alla capanna per svegliare Rebecca nell’imminenza della partenza.
Entrò e la trovò prona: la luce era già più intensa, benché il sole non fosse ancora sorto. Si inginocchiò e le sfiorò il fianco con la mano; la sensazione di solletico bastò a infrangere il suo sonno, e fremendo per la sorpresa si rigirò a pancia in su e, istintivamente, si coprì con alcuni stracci. Bois-Guilbert non trattenne un sorriso e i suoi occhi brillarono; Rebecca, rossa in viso per il pudore, non gli lasciò dire nemmeno una parola, ma lo spedì di nuovo fuori ad aspettare che fosse vestita.
Che strani comportamenti hanno talvolta le donne! Un pensiero simile dovette attraversare la mente di Bois-Guilbert mentre tornava al gruppo di uomini che si confrontavano attorno all’asinello.
«Brian – lo chiamò a sé Robin, insospettito dall’aria sovrappensiero del normanno – Non so cosa ti dia quella faccia trasognata, in ogni caso temo di doverti dare alcune dritte per il tragitto che dovrai seguire»
Punto sul vivo dall’osservazione del capo dei fuorilegge, Bois-Guilbert assunse un’espressione più composta, un’espressione che gli era sicuramente meno inconsueta.
«Se veramente Richard si trova a Lincoln – cominciò Robin – vi conviene tenervi sul confine occidentale della foresta. Sali fino al laghetto (conosci la strada) e poi risali il corso dopo aver guadato il torrente. Arriverai a vedere un vecchio cippo di confine: da quel punto prosegui su un sentiero che si infila tra gli alberi. È stretto, ma non lasciarti ingannare dalle apparenze: conduce direttamente alla strada per Sheffield e, quel che è meglio, non incontra altri sentieri né locande né stazioni. Impiegherete due giorni per arrivare alla strada. Da lì in poi dovrete fare attenzione ai luoghi che frequentate e alla gente con cui parlate: è molto probabile che, come le spie sono arrivate qui, così abbiano indagato anche laggiù. Siate discreti e non date nell’occhio...»
In quel preciso momento Rebecca uscì dalla capanna, vestita come al solito con abiti sassoni e i capelli spartiti in due lunghe trecce.
«Comportatevi da sassoni – continuò Robin dopo averle gettato un’occhiata – Non parlate mai in francese, non rivelate in nessun modo la vostra vera identità. Ma tu, Brian, sei abbastanza intelligente da arrivarci da solo. Non è più tempo di parlare, ora che siete pronti a partire: partite e che la benedizione di Dio sia su di voi»
Bois-Guilbert afferrò le redini dell’asino e lo tirò dolcemente dietro di sé dopo aver stretto la mano a tutti i compari presenti. La commozione lucidava gli occhi di tutti e stringeva la gola, cosicché le parole furono davvero poche e più gli sguardi e i sorrisi tirati.
«Un’ultima cosa – lo richiamò Locksley appena si fu voltato – Tieni. A noi non serve un coltellino come questo»
Bois-Guilbert afferrò il pugnale del bandito detto il Lesto e lo assicurò alla cintura, ringraziando con un cenno. Quindi si voltò definitivamente. Rebecca attese in disparte che lui la raggiungesse e, quando le fu accanto, gli domandò: «Che strada dobbiamo tenere?»
Lui indicò davanti a sé e replicò con un’altra domanda: «Preferisci viaggiare in groppa all’asino?»
«No, grazie – rispose, accarezzando l’animale – Finché non sarò stanca camminerò»
Si avviarono nel fruscio dei loro passi sulle foglie secche. Sentivano dietro di loro, fissi, vigili, gli sguardi degli uomini di Sherwood. Avrebbero sentito la loro mancanza.
Robin, dal canto suo, aveva imparato a proprie spese quanto un occhio in più, anzi due, e meglio ancora quattro, potessero risultare utili a chi viaggia nella foresta. Perciò si voltò verso i compari che lo attorniavano e ordinò a due di essi, un certo Thomas e l’altro Alan, di seguire a debita distanza i due viaggiatori e di vegliare su di loro. Non che non confidasse nella benedizione divina: certo, però, se fosse accaduto qualcosa di spiacevole non sarebbe sceso nessun angelo dal cielo ad informarli. Li inviò quindi con il preciso ordine di intervenire solo ed unicamente se le circostanze lo avessero permesso: valeva a dire non rischiare la pelle in due contro dieci. Se le cose avessero dovuto volgere in peggio, avevano l’espresso ordine di tornare immediatamente indietro e di avvisarlo.

Rebecca e Bois-Guilbert, dunque, viaggiavano scortati senza saperlo. Superarono il torrente, ne risalirono il corso. Seguirono in tutto le indicazioni di Robin, in attesa di giungere al cippo che avrebbe segnato la svolta del loro tragitto. Camminavano silenziosi: forse l’imbarazzo della notte, forse la mancanza di argomenti così rilevanti da spezzare il clima di complicità che il silenzio coltivava, fatto sta che per buona parte della giornata non parlarono. Se veniva scambiata qualche parola era per indicare un tratto accidentato, un ostacolo o uno scoiattolo. Molto più delle parole valevano, anche in questo caso, gli sguardi vellutati che si scambiavano l’un l’altra. Di tanto in tanto si sfioravano quasi inavvertitamente ed erano brividi di dolce sorpresa per entrambi.
Arrivò infine il momento di cercare un riparo per la notte: Bois-Guilbert avrebbe voluto prolungare il cammino fino ad arrivare al cippo, ma era combattuto all’idea di stancare l’asino e Rebecca. Era quasi tentato di fermarsi, quando proprio Rebecca puntò il dito davanti a sé e disse:«Guardate! È il cippo?»
Bois-Guilbert aguzzò la vista in quella direzione, schermandosi gli occhi dal sole al tramonto. Tra la vegetazione del sottobosco sorgeva un tronco grigiastro intricato in un’edera. Si avvicinarono e, quando finalmente furono prossimi, si resero conto di aver raggiunto la meta fissata per il primo giorno di cammino.
«Siediti pure, Rebecca. Accendo un fuocherello per tenere a bada gli animali del bosco e prendo un pezzo di carne» disse Bois-Guilbert, cominciando a raccogliere legna. Rebecca si sedette a riprendere fiato e legò le redini dell’asino a un ramo vicino. In meno di due minuti il fuoco cominciò ad ardere.
«Non attirerà l’attenzione?» chiese con un filo di voce. Il timore di brutti incontri – banditi o guardie del re – era ciò che più la angosciava da che erano partiti e a nulla valevano le rassicurazioni di Bois-Guilbert.
«Ci bado io – ribatté lui – Lo faccio prendere, poi terrò la fiamma bassa. Farà poco fumo, ma basterà a spaventare le bestie»
Detto ciò, afferrò un pezzo di carne essiccata e la porse a lei, che l’addentò subito: la camminata aveva svegliato la fame di entrambi e fiaccato le loro gambe. Bois-Guilbert prese del cibo per sé e porse la borraccia a Rebecca. E lei, pensando fosse piena d’acqua, ne trasse un sorso abbondante, per scoprire troppo tardi che si trattava di vino rosso.
«Volete farmi ubriacare? – lo sgridò indispettita – Non sarà facile viaggiare con una fanciulla ubriaca!»
Rideva come se il vino la inebriasse già. Bois-Guilbert rise a propria volta e le rubò la borraccia: «Di sicuro sarà più facile dormire!» ribatté e bevve. Rebecca non seppe cosa dire e tacque; in seguito si assicurò che la borraccia che lui le tendeva contenesse pura acqua di fonte.
La notte filò liscia senza che nessun animale facesse capolino a disturbare il loro riposo. Gli ululati dei lupi erano molto distanti, mentre un barbagianni, di tanto in tanto, strillava come uno spettro sopra le loro teste. Rebecca, però, era troppo stanca per svegliarsi; Bois-Guilbert, invece, era abbastanza abituato ai rumori notturni da non distrarsi dalla veglia. Non rimase sveglio tutta la notte, ovviamente; fu più il tempo in cui dormì che non quello in cui controllò il fuoco. Di certo, nei momenti in cui era vigile, i suoi occhi cadevano spesso su Rebecca e la sua mano indugiava sulla sua guancia e sul suo collo. La vedeva sorridere di piacere alle carezze e non trovava la forza di smettere. Al risveglio, Rebecca dovette insistere per destarlo dai sogni.
Il secondo giorno si prospettava non tanto diverso dal primo: imboccarono senza indugi il sentiero che si incuneava, sparendo a tratti, nel bosco. Secondo le stelle che ancora puntellavano il cielo si stavano dirigendo verso nord, l’esatta direzione per Sheffield. Una breve sosta a mezzogiorno e poi di nuovo in cammino, finché quello che sembrava l’ennesimo tratto confuso si rivelò essere più esteso del previsto. Ben presto cominciarono a dubitare di stare seguendo la via tracciata, ma, nell’impossibilità di tornare indietro, si risolvettero ad andare avanti nonostante tutto.
Non era ancora il tramonto quando finalmente il bosco si diradò e poterono mettere i piedi su una strada più trafficata. Bois-Guilbert capì che si trattava della strada indicatagli da Robin e si diresse nella direzione che gli lasciava il sole a sinistra. Tutto sembrava andare per il meglio, se non che – ma loro non potevano saperlo – nel loro girovagare nel bosco avevano finito con lo smarrirsi e con lo sbucare molto indietro rispetto a quanto indicato da Robin: così si ritrovarono a viaggiare sì sulla strada per Sheffield, ma significativamente arretrati. E, cosa forse ancora peggiore, i due fuorilegge incaricati di seguirli avevano riconosciuto le tracce sbiadite del sentiero giusto e avevano proseguito verso nord: prima di accorgersi che qualcosa era andato per il verso sbagliato erano dovuti arrivare allo sbocco sulla strada per poi constatare che nessuna impronta usciva dal bosco.
Tornando a Bois-Guilbert e Rebecca, i due percorsero fiduciosamente la strada finché fu d’accordo anche l’asinello. All’approssimarsi di una locanda, però, l’animale annusò l’odore di buon foraggio e, stanco di cibarsi di erba, puntò gli zoccoli e decretò una sosta.
Bois-Guilbert arrivò quasi a bastonarlo dalla rabbia, ma non ci fu verso. Rebecca alla fine cedette e appoggiò la scelta dell’asino. Lui avrebbe preferito passare la notte in un luogo meno frequentato, ma capitolò.
«Se è qui che vogliamo fermarci, mi sta bene: ma ascolta, Rebecca. D’ora in poi parleremo solo e soltanto in sassone e ci comporteremo esattamente come fossimo sassoni. Se ti chiedono qualcosa, io sono tuo marito. Dobbiamo anche sceglierci dei nomi sassoni»
Rebecca gli venne in aiuto: «Cosa ne dite di Drustan ed Essylt?» propose con un sorrisetto complice. Bois-Guilbert approvò.
Entrarono nella locanda segnalando l’asino intestardito appena fuori la porta e chiedendo un tavolo. Tutto rigorosamente in sassone. Il locandiere indicò un tavolino in un cantuccio della sala e si affrettò a servirli. Portò della minestra e del pane secco, che, fatto a brandelli, venne sciolto nella ciotola. Appena cominciarono a mangiare – parlandosi rigorosamente in sassone – Rebecca notò qualcosa.
«Ci sono degli uomini che ci stanno fissando» sussurrò. Dalla sua posizione, spalle al muro, Rebecca aveva la visuale completa sul locale; Bois-Guilbert, invece, non vedeva nulla oltre alla parete che si alzava davanti a lui.
«Guardano me o te?» domandò senza alzare il viso dalla scodella. Poi aggiunse: «Non li guardare direttamente»
Rebecca li osservò con la coda dell’occhio e alla fine rispose: «Guardano me. Si dicono qualcosa nell’orecchio...»
Bois-Guilbert si scosse leggermente, senza cambiare atteggiamento. Prese l’ultima cucchiaiata di pane e minestra e poi si rivolse di nuovo a lei: «Non dargli attenzioni. Forse sono solo un po’ brilli... Se vedranno che non ti preoccupi di loro ti lasceranno stare. In ogni caso – soggiunse, scattando in piedi e spostando la sedia da un lato del tavolo a quello consecutivo – Meglio far capire chi comanda»
Si risedette e le strinse la mano sinistra, portandosela alla guancia. Rebecca stette al gioco e finì il proprio piatto di minestra velocemente, poi si lasciò scivolare contro lo schienale della sedia e si volse a lui accondiscendente. E lui, con il braccio libero, le cinse la vita.
«Non esagerate con la scusa di essere mio marito; ricordate che non lo siete – lo rimproverò, allontanandogli delicatamente la mano – E inoltre una donna vi sta guardando»
«Ed è bella?»
Rebecca storse il naso divertita: «Ditemelo voi, è laggiù vicino alle scale»
Bois-Guilbert si voltò leggermente e sorrise all’indirizzo di una donna di trent’anni, appoggiata languidamente al corrimano, che gli rispose con un cenno civettuolo.
«Non male... – commentò, poi, scuotendo la testa – Che posti, le locande!»
«Non mi fate ingelosire nemmeno un po’ – scherzò lei, e avvicinandosi a lui sussurrò – Vorrei andare in camera, ora... sono molto stanca»
Bois-Guilbert si alzò scattante e, voltandosi verso il banco dell’oste, si accorse che anche due uomini seduti poco distanti avevano fatto lo stesso. Per istinto cercò nuovamente la mano di Rebecca e, trovatala, la trasse vicina. Come aveva previsto, i due uomini si mossero verso le scale e ignorarono le attenzioni della donna trentenne. Ormai giunto al banco, Bois-Guilbert chiamò il locandiere e richiese una cameretta, anche piccola, in cui potessero passare la notte. Il locandiere gli disse che non c’erano camere, semplicemente uno stanzone dove tutti i viaggiatori dormivano assieme su materassi di paglia. Bois-Guilbert deglutì e accettò a denti stretti quell’opzione. Accennò a Rebecca di seguirlo verso le scale, istillandole con uno sguardo rassicurante la fiducia che le serviva ad affrontare i due sconosciuti.
«Dove andate, signori?» domandò uno dei due in un sassone ricco di accenti francesi. Bois-Guilbert non si degnò di rispondere e forzò la resistenza per passare.
«Levati, William. Il signore qui ha fretta» lo canzonò l’altro, dando al compare una gomitata tra le costole.
«Chi non l’avrebbe? – ribatté il primo – Se ci fate prendere parte, signore, vi facciamo strada volentieri alla camera. È un servizio dovuto a tutti i forestieri»
Rebecca si premette tutta contro il fianco di Bois-Guilbert che la cinse nuovamente con il braccio.
«Fate largo, cani» ringhiò questi, forzando una seconda volta il loro sbarramento.
«Ehi! – imprecò William – Che modi sassoni! Uno offre un servizio e viene insultato!»
Bois-Guilbert sfoderò uno sguardo di ghiaccio e ripeté: «Levatevi di torno, fateci passare»
«Se in tre siamo troppi, c’è qui Brunilde che può aiutare la vostra pupilla» replicò William, che dei due era sicuramente il più interessato.
A quelle parole, Bois-Guilbert si sentì accecare dalla rabbia e dalla vergogna.
«Razza di porci, sparite dalla mia vista!» esclamò in francese, slanciandosi insieme a Rebecca per superarli. William, che stava alla loro destra, afferrò Rebecca per il braccio e la strattonò; Bois-Guilbert se ne accorse e non perse tempo, sferrandogli un sinistro che gli ruppe uno zigomo e lo mandò lungo disteso ai piedi del banco. L’amico non stette a guardare, e colpì Bois-Guilbert alla schiena. Rebecca perse l’equilibrio e cadde a terra, troppo spaventata persino per gridare. Bois-Guilbert, dopo una frazione di secondo in cui non riuscì a respirare, si volse contro l’assalitore, ma quello era più preparato e cercò di colpirlo con un destro al viso. Bois-Guilbert era sveglio di riflessi e deviò il pugno con il braccio, per replicare subito con il proprio, affondato nella pancia dell’avversario. Quando l’aggressore crollò contro il muro, Bois-Guilbert aiutò Rebecca ad alzarsi e a salire le scale.

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


«Mi spiace non avere qui le mie pomate...» mormorò Rebecca mentre tastava l’ematoma che si allargava sulla schiena di Bois-Guilbert. Questi tratteneva i lamenti per puro orgoglio maschile e banalizzava. Per il momento erano soli, soli in tutto il grande stanzone disseminato di brande e cumuli di paglia; sedevano su uno di questi mucchi, quello meglio illuminato da una piccola lampada che pendeva da una trave del soffitto.
«Sdraiatevi, per favore, e non muovetevi» ingiunse, lasciandogli lo spazio necessario.
«Agli ordini!» scherzò Bois-Guilbert coricandosi a pancia in giù.
Rebecca si avvicinò in ginocchio e, dopo un’ultima rapida osservazione, disse: «In mancanza di unguenti posso farvi un massaggio che aiuterà la guarigione» e distese le mani sulla zona arrossata. Compì movimenti lenti e circolari alternando i due sensi di rotazione, dedicandosi poi a sciogliere la rigidità dei muscoli con leggere pressioni. Sapeva di provocargli dolore e percepiva i suoi sospiri come un tentativo di dissimulare la sofferenza. Allora, ricordando gli insegnamenti di Miriam, continuò a parlargli.
«Non temete che quei due possano sorprenderci stanotte?»
La sua voce tradiva la paura. Bois-Guilbert sorrise beffardo e ribatté: «Sarebbero molto stupidi, ma il tuo timore è comprensibile, visto che non hanno dato prova di grande intelligenza neanche prima...»
«Non potete immaginare cosa significhi sentirsi dire certe cose...» confidò lei. Bois-Guilbert, questa volta, esitò, e la sua esitazione era ben fondata: solo quattro mesi prima non si era espresso tanto diversamente nei suoi confronti. E ad aggravargli la coscienza contribuiva una certa ambiguità insita nel suo gesto: aveva ingaggiato la rissa per difendere Rebecca oppure per rivendicare il proprio diritto su di lei? Era qualcosa che nemmeno lui riusciva a definire e questo lo inquietava.
«Me ne rendo conto...» borbottò alla fine, confidando nel fatto che lei non avrebbe prestato orecchio alla sua risposta elusiva.
«A volte mi sembra di essere così vulnerabile – confessò, come parlando da sola – Vorrei avere modo di difendermi da me, senza ricorrere a un uomo che sia lì a proteggermi. Ho imparato che, spesso, i guai piombano addosso agli sventurati quando sono indifesi»
Bois-Guilbert pensò rapidamente e parlò altrettanto presto: «Slega il mio pugnale dalla cintura e prendilo con te» disse. Insistette quando lei si rifiutò di farlo.
«Legalo alla gamba, così rimarrà nascosto dal vestito e nessuno sospetterà che tu l’abbia, ma in caso di pericolo sarà facile estrarlo»
Rebecca soppesò il pugnale tra le mani, non più così sicura delle affermazioni di poco prima; in ogni caso, appoggiò l’arma accanto al giaciglio di paglia e si dedicò con rinnovato impegno al massaggio; lo concluse nel giro di pochi minuti – preferiva non ostinarsi su un ematoma così recente. Ciononostante non si fermò e risalì alla spalla sinistra: sulla scapola si stendeva una lunga cicatrice, una di quelle che aveva notato quando lui era privo di sensi a casa di Nathan. Vi passò un dito, ripercorrendo un immaginario colpo di spada inferto da dietro.
«Acri» spiegò Bois-Guilbert semplicemente. Rebecca accarezzò nuovamente la ferita, rievocando nella mente lo scivolio delle spade in una rovente battaglia sotto il sole di Palestina. Poi, chinandosi lentamente, vi posò le labbra e baciò la cicatrice. Bois-Guilbert ebbe un brivido e voltò di scatto la testa: «Che cosa fai?!» domandò, incredulo.
«Non voglio essere ingrata come Adelaide – ammise lei risollevandosi – Prima di lasciarvi voglio darvi ciò che posso»
Quindi fece scorrere il palmo lungo la sua schiena verso il lombo sinistro, dove si trovava un altro segno di battaglia.
«Hattin» disse Bois-Guilbert con amarezza. E Rebecca si chinò e baciò anche quella cicatrice. Rialzatasi, la sfiorò di nuovo con la mano e sussurrò: «Ho sentito notizie terribili di quella battaglia...»
«Non fu una battaglia – ribatté con voce atona – Fu una carneficina»
Rebecca cercò nella semioscurità un’altra cicatrice e la trovò sul costato destro: risaliva a un torneo in Normandia.
«Voltatevi, per favore... Se non vi fa troppo male coricarvi di schiena»
«Figuriamoci!» ansimò Bois-Guilbert obbedendo alle sue indicazioni.
Rebecca gli accarezzò la fronte: «Chiudete gli occhi»
«Come vuoi» sorrise reclinando il capo.
La prima cicatrice che sfiorò passava appena sotto la clavicola.
«Ancora Hattin» sussurrò Bois-Guilbert. Rebecca la accarezzò più a lungo, quindi si chinò e la baciò delicatamente. Poi ne baciò altre tre, più piccole, dovute a diversi tornei. Quindi la sua mano si arrestò sul fianco destro, sulla cicatrice di Templestowe.
«Questa è mia – bisbigliò fissandola – E’ come se ve l’avessi inferta io. È quella che mi dà più dispiacere...»
Si chinò e la baciò più volte, finché non percepì un movimento di lui e si rialzò. Aveva socchiuso gli occhi e la guardava scontato.
«Ce n’è un’altra, un’altra che mi hai provocato tu» disse e, con la propria mano, guidò la mano di lei fino al centro del petto. Non c’erano cicatrici evidenti e Rebecca si preoccupò di capire a cosa alludesse. Lui sorrise nuovamente e spiegò: «Mi hai trafitto il cuore, Rebecca; e mi rendo conto solo ora che Adelaide, questo, non l’aveva fatto. Adelaide l’aveva solo scalfito; tu l’hai trapassato. È questa la cicatrice che mi fa più male»
Rebecca ascoltò con attenzione. Quando ebbe finito lui reclinò di nuovo la testa, accarezzandole la mano. Lei si chinò, gli sfiorò il petto con le labbra inumidite e poi premette, indugiando più a lungo prima di scoccare il bacio. E lui, vinto dalla sua tenerezza, immerse una mano tra i suoi capelli neri, coccolandola. Rebecca si coricò, poggiando la testa sul suo petto, avvertendo i palpiti forti e leggermente accelerati del suo cuore ferito. Fu rassicurante addormentarsi con la sua mano ancora tra i capelli.

Bois-Guilbert fece cenno a Rebecca di seguirlo di sotto, per una colazione veloce prima della partenza. Aveva già chiesto che l’asinello venisse nutrito a sufficienza per sostenere il viaggio verso la stazione successiva e si era assicurato che i due ribaldi della sera precedente non fossero più ospiti della locanda. Scesero dunque le scale e sbucarono accanto al banco; il locandiere, però, era sulla soglia della locanda a intrattenersi con qualcuno che, per il momento, era rimasto fuori.
«Vuoi del latte fresco?» domandò Bois-Guilbert a Rebecca per ingannare l’attesa di essere serviti e cominciò a trarre dal borsello alla cintura il denaro necessario a pagare vitto e alloggio. Non passò molto tempo che il locandiere cedette il passo all’avanzare di quattro uomini armati, la cui stazza era a dir poco possente. Recavano sul petto, sulla sopravveste rossa, il blasone reale composto da tre leoni dorati. A quella vista, Bois-Guilbert sbiancò e volse le spalle.
«Ricordati, siamo sassoni, marito e moglie, e torniamo a Sheffield dopo essere stati a Nottingham da tuo fratello» bisbigliò a Rebecca in tutta fretta. Lei, capendo al volo, annuì per rassicurarlo. Bois-Guilbert riacquistò il suo sangue freddo e si rivolse pacatamente al locandiere, che nel frattempo li aveva raggiunti, e domandò ciò di cui avevano bisogno.
Inizialmente i quattro uomini del re non badarono a loro due; salirono nello stanzone al piano di sopra, chiesero alcune informazioni sulla foresta e sui fuorilegge che la abitavano e non fecero menzione, nemmeno per un cenno fugace, al motivo che li aveva condotti lì. Restava un evento significativo per una locanda isolata come quella, dove capitavano raramente ospiti di prestigio.
Bois-Guilbert sorseggiava una bevanda d’orzo calda e ristorante quando gli vennero all’orecchio, fatalmente, alcune parole che un ospite della locanda poco distante stava scambiando con uno dei quattro ufficiali.
«Ci sono stati problemi durante la vostra permanenza?» aveva chiesto l’ufficiale, a mani ben piantate sui fianchi. Sembrava una domanda di normale amministrazione, per assicurarsi che nelle locande del regno non intervenissero incidenti spiacevoli.
Gli occhi di Bois-Guilbert saettarono dall’ufficiale all’ospite; e quest’ultimo se ne accorse e ricambiò lo sguardo prima di rispondere: «Niente, signore. Niente di importante»
Per quanto il suo tono fosse distaccato, l’ufficiale si volse nella direzione in cui l’ospite aveva guardato e, inevitabilmente, i suoi occhi caddero sulla coppia di sassoni seduti poco lontano. Rimase a fissarli per un istante, poi si interessò ad altro e si allontanò. Bois-Guilbert, che aveva tenuto sotto controllo la situazione cercando di non suscitare sospetti, trasse un respiro di sollievo, nel tentativo di convincersi che il pericolo fosse scampato. Chiamò Rebecca vicino a sé – la chiamò con il nome inglese di Essylt, come avevano concordato – e saldò il conto, avviandosi alla porta. Uscì alla luce del sole, vide l’asino legato a un palo poco distante e vi si diresse. Rebecca rimase indietro e si accorse subito che uno dei quattro uomini in uniforme si era distaccato dagli altri tre e si avvicinava a Bois-Guilbert girato di spalle. Si morse le labbra per evitare di tradirlo in qualche modo stupido.
Intanto, mentre Bois-Guilbert liberava le redini dal palo, l’uomo in uniforme lo raggiunse e lo sorprese.
«Ditemi il vostro nome e il motivo che vi ha portato qui» ordinò. Bois-Guilbert sentì gelare il sangue nelle vene, ma quando si voltò verso l’interlocutore il suo viso era piano e sicuro, impenetrabile.
«Mi chiamo Drustan, figlio di Cedric. Sono qui di passaggio, torno a casa dopo un viaggio presso mio cognato che abita a Nottingham» rispose.
«E dove, di preciso, siete diretto?»
«A Sheffield, signore»
Lo sguardo dell’uomo si inasprì e tutto il suo atteggiamento si fece in un certo modo minaccioso: «Ho alcune domande per voi: prima di tutto, come vi siete trovato in questa locanda?»
Bois-Guilbert cercò di mantenere un’aria rilassata: «Benone, signore. Solo, bisognerebbe predisporre delle camere separate, o l’onore delle caste donne inglesi potrebbe essere messo a repentaglio»
L’altro approvò, poi: «Vi ricordate di qualche incidente? Una rissa, forse?»
«No, signore... Niente di che»
«Perché l’oste mi ha riferito di una scazzottata tra voi e altri due avventori per delle parole di troppo rivolte a vostra moglie» riferì quello, piantando le mani sulla cintola.
A quel punto ammise: «Sì, questo sì. Ma non più di due pugni. Chi mi ha offeso era piuttosto ubriaco, credo... Da non reggersi in piedi...»
«Erano lucidissimi – lo contraddisse cupamente, e aggiunse – Devo chiedervi di slacciarvi la cintura e di togliervi la casacca, signore»
Bois-Guilbert riuscì a dissimulare la sorpresa: «Posso chiedervi prima perché dovrei farlo? Quale autorità avete per perquisirmi?»
«Abbiamo l’ordine di Sua Maestà re Richard di perquisire chiunque ci risulti sospetto»
«Sospetto di cosa? – ribatté, inquisendo l’inquisitore – Ammetto di aver fatto a pugni, ma conoscete il motivo che mi ha spinto a farlo... Come vedete, sono disarmato...»
«Voi parlate troppo, sassone – ringhiò quello – Sempre che siate sassone come volete far credere»
Bois-Guilbert rabbrividì e rimase immobile. Rebecca, da dietro l’uomo in uniforme, gli venne incontro e lo abbracciò.
«Drustan, cosa aspetti? – domandò – Se non partiamo subito rischieremo di essere sorpresi dalle tenebre e...»
Rebecca non continuò oltre. Lo sguardo dell’uomo, grigio come il ferro, si era spostato su di lei e l’aveva ammutolita.
«E’ mia moglie. Potrà confermare quello che vi ho raccontato. Si chiama Essylt...» spiegò Bois-Guilbert.
«Tipico nome inglese, non c’è che dire...» convenne l’altro, i cui occhi smentivano l’indifferenza della voce. La osservò a lungo senza proferire parola, poi, adocchiato qualcosa che gli interessava, tese la mano verso il suo collo. Bois-Guilbert, precipitosamente, gli afferrò il polso e minacciò: «Come osate?!»
L’uomo si liberò dalla sua presa e lo respinse: «Domate la vostra gelosia: ho l’ordine di perquisire chi voglio – ribadì – E voglio vedere cosa porta al collo vostra moglie»
Rebecca tremò, ma non si fece toccare; svelò lei stessa il medaglione del padre. L’uomo lo prese nel palmo, lo scrutò minuziosamente e constatò alla fine: «Voi, signora, o siete un’ebrea o siete una ladra; il che equivale a dire la medesima cosa»
«L’abbiamo trovato lungo il cammino; l’avremmo rivenduto appena tornati a casa» mentì Bois-Guilbert; l’uomo non lo degnò di un’occhiata.
«I vostri lineamenti e i vostri capelli non sono di certo sassoni. Credetemi, ho avuto occasione di conoscere donne ebree e, per la Città Santa, se voi non siete un’ebrea io non sono un normanno»
Rebecca non seppe replicare. Bois-Guilbert, invece, le si parò di fronte, frapponendosi tra lei e l’ufficiale del re.
«Adesso basta, signore. Non so chi voi siate e perché abbiate deciso di perseguitarci, ma mia moglie ha ragione: se non partiamo subito non arriveremo alla prossima stazione prima di notte»
Il cavaliere sguainò fulmineo un pugnale e lo puntò contro la pancia di Bois-Guilbert, che sbiancò ulteriormente e aprì d’istinto le braccia. L’uomo lo fissò negli occhi, gli agganciò la cintura con la lama e la tagliò di netto; quindi gli fece assaggiare il freddo metallo contro il collo, costringendolo a tenere alto il viso, e con la mano libera sollevò il lembo della casacca che gli copriva il fianco destro.
«Dunque – convenne subito dopo – La nostra ricerca è giunta ad una svolta fortunata...» e chiamò i tre compagni che aspettavano presso i cavalli. Quando furono accanto a lui indicò la coppia e disse: «Vi presento Brian de Bois-Guilbert e la sua bella ebrea»

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


«Un guardacaccia che si presenta come Robert di Huntingdon chiede udienza al re. Devo farlo passare?» domandò la guardia al proprio superiore.
«Perché mai dovrebbe essere ricevuto?» domandò di rimando l’altro.
«Sostiene di avere informazioni importanti su una questione che riguarda la congiura» rispose la guardia.
«Fallo passare, anche se dubito che il re lo vorrà ascoltare, ora che sembra tutto sotto controllo»
L’ufficiale evidentemente si sbagliava perché quella mattina stessa il sedicente Robert di Huntingdon fu condotto in una stanza piuttosto appartata in cui Richard aveva deciso di incontrarlo. Quando Robert ebbe superato la soglia e chinato il capo e piegato il ginocchio davanti al proprio sovrano, questi lo raggiunse e gli ordinò di alzarsi, perché tra vecchi amici e alleati non si doveva indugiare in simili fronzoli da protocollo. Robert – o Robin – obbedì, mal celando un certo disagio. Stringeva il cappello piumato tra le mani, come se torturando il cappello potesse in qualche modo reprimere un sentimento troppo forte. Richard, attento osservatore, notò quell’insolito comportamento e gli chiese immediatamente di dirgli ciò che sapeva.
«E’ difficile confidare al mio re qualcosa che potrebbe distogliere da me la sua benevolenza. Per questo vi chiedo, Vostra Maestà, di lasciarmi finire prima di rispondermi» cominciò, schiarendosi la voce.
«D’accordo, ma continuate!»
E Robin continuò: «Circa due mesi fa sorprendemmo due viaggiatori lungo la strada che da Lincoln sale a Nottingham. Costoro erano Brian de Bois-Guilbert e Rebecca di York»
«Come pensavo! – lo interruppe Richard, mancando subito all’accordo – Sapevo, sentivo che voi avevate avuto una parte in questo intrigo!»
«Vi prego di ascoltare, Maestà: il nostro primo pensiero, da uomini fedeli alla corona, fu di giustiziare il Templare in quanto traditore e violento. Rebecca, però, ci raccontò dell’agguato subito da tre banditi che le avevano ucciso il padre, quell’Isaac di York che anche voi avete conosciuto. Isaac, prima di morire, aveva affidato la figlia al Templare e questa aveva domandato la sua protezione fino a Sheffield, dove voleva trovare riparo presso altri ebrei. Si stavano dirigendo là quando noi li sorprendemmo. Lo risparmiammo perché potesse portare a compimento quel sacro giuramento, impedendogli di partire finché non fossimo stati sicuri di poterci fidare di lui e sotto la minaccia di ucciderlo qualora avesse tentato di rompere il nostro patto. Maestà, devo confessarvelo: se davvero quell’uomo un tempo fu quello che è stato, oggi non lo è più. Appenderete sulla forca un innocente, domani, se non ripenserete la vostra sentenza»
Richard avvampò e scosse la testa: «Voi mi deludete, Locksley; voi mi tradite davvero! Voi passate dalla parte del mio nemico!» e chiuse le mani a pugno.
Robin sostenne lo sguardo iroso del re ostentando più calma di prima: «Non mi sostituirò al mio re nel giudicare i suoi nemici; ma Bois-Guilbert era anche un mio nemico, lo sapete bene! Avete visto che ho mirato contro di lui con le mie frecce. Ho mirato al suo petto inerme anche quando lo cogliemmo nella foresta e se non fosse stato per quel giuramento sacro, come vi ho detto, io l’avrei ucciso a sangue freddo e voi sareste sollevato dal peso della giustizia, per quanto lo riguarda. Ma vi giuro anche: chiedetemi di ucciderlo oggi e io non lo farò, anzi, mi parerò davanti a lui, e porgerò il mio collo al cappio al posto del suo»
«Cosa vi spinge a parlare così, Locksley? Non vi riconosco!» ruggì Richard.
Robin si avvicinò: «C’è qui con me una persona che attende»
«Che cosa attende?»
«Attende di parlare al condannato, Maestà»
«Impossibile! E di chi si tratta, ditemi?»
Robin sorrise scontato: «Rebecca di York. Pensavo che avrebbe potuto interessarvi ascoltare ciò che quei due hanno da dirsi»
Richard contenne di colpo la propria animosità, incuriosito dalla proposta.
«Cosa vi fa pensare che potrei trovarci qualcosa di interessante?»
Robin cercò le parole muovendo gli occhi tutt’attorno, poi, con aria distante, confessò: «Gli innamorati parlano tanto e dicono tante cose e quelle cose sono pure come l’acqua che sgorga da una sorgente di montagna. E gli innamorati in procinto di separarsi per sempre indulgono a chiacchierare, a raccontare se stessi per non lasciare che l’altro li dimentichi... Parlate con uno che se ne intende e che ha parlato tanto e troppo in molte circostanze per amore»
Richard era inequivocabilmente mosso dalla prospettiva offerta dal fuorilegge. Rifletté per un istante, poi, essendo uomo dalle decisioni rapide, fece chiamare una guardia e le ordinò di accompagnare la ragazza di nome Rebecca nelle segrete dove giaceva Bois-Guilbert e di approntare una certa stanza per il loro colloquio. Quindi uscì con Robin dietro alla guardia e scese alle segrete per un’altra strada, sbucando in un cantuccio buio nel cui muro si apriva una finestrella oscurata. Nella trasparenza nera della stoffa si intravedeva una stanza posta più in basso, fornita di un tavolo e due sedie. Veniva usata per le confessioni dei prigionieri e quel cantuccio era utile a chi volesse origliare non visto. Robin, protetto dalla semioscurità, gongolò per l’avere indovinato l’esistenza di un tale stratagemma.
La loro attesa non fu lunga: una prima volta la porta si aprì e l’esile figura di Rebecca mosse i primi passi esitanti, voltandosi spesso da una parte all’altra. Anche il minimo rumore – anche lo scalpiccio dei sassolini sotto le suole di lei – giungeva nitido al cantuccio nascosto da dove Richard e Robin seguivano la scena.
«Guardate come si affanna... – sussurrò Richard, parlando più a se stesso che al compagno – Guardate: non sembra di godere la vista di Dio da quassù? Non si affannano così gli uomini e le donne di tutta la Terra?»
Robin trasse un sospiro ed annuì. E pregò quel Dio, che vedeva anche loro, che quanto era in procinto di accadere potesse valere qualcosa agli occhi del re.

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


Bois-Guilbert alzò uno sguardo astioso contro i compagni di cella. Albert de Malvoisin era stato l’ultimo a colpirlo e lo guardava dall’alto in basso con arroganza. Bois-Guilbert scattò sulle gambe, il pugno carico dietro la testa; ma in due lo afferrarono per le spalle e lo inchiodarono contro il muro. Malvoisin lo guardava con sdegno.
«E dopo tutte le pene, gli affanni cui vi siete sottoposto, non siete neanche stato capace di possedere l’ebrea? – lo derise scrutandolo – Avete rinunciato all’onore, alla vita, al nome di normanno e avete vestito i panni di un sassone... Che cosa avete conseguito? Una forca e un’illusione»
Bois-Guilbert fremette d’ira: «E che cosa avete ottenuto voi? Non siamo qui per lo stesso motivo e non ci attende la forca, la stessa forca? Voi siete la serpe del Giardino, Malvoisin: siete il consigliere del male, che sibila alle orecchie e confonde e condanna all’Inferno!»
«Guardatevi – ribatté quello – La forca non vi disonorerà di certo; vi darà invece il posto che vi meritate. E lei sarà di un altro uomo, Guilbert. Un altro uomo la accarezzerà, la possederà mentre il vostro corpo miserabile penderà ancora dal cappio, pasto ai corvi. Io non lascerò rimpianti dietro di me, non lascerò ombre. Mi sono schierato dalla parte sconfitta, ma la sconfitta non è disonorevole se si rimane fedeli e io l’ho fatto. Voi, invece, no»
Bois-Guilbert ruggì, scuotendosi: un’ira focosa bruciava il suo cuore. L’uomo che lo teneva saldamente a sinistra gli affondò una ginocchiata nel diaframma e, in un rantolo, il normanno finì prostrato a terra con il fiato mozzo.
In quel momento esatto sopraggiunse un drappello di guardie che lo prelevò senza parlare e lo condusse fuori, quasi trascinandolo, verso una meta sconosciuta. Dopo corridoi infiniti, passi affrettati e strascicati, quando ormai temeva che solo il patibolo potesse richiederlo con tanta fretta, ecco una porticina da una parte, quasi nascosta a chi fosse passato sovrappensiero. L’aprirono e lo spinsero dentro senza molte attenzioni per il suo stato, facendolo cadere in ginocchio sul pavimento. La porta si richiuse pesantemente alle sue spalle; Bois-Guilbert alzò gli occhi battendo convulsamente le palpebre per la luce abbagliante che l’aveva avvolto oltre la soglia.
«Brian! – esclamò una voce conosciuta – Cosa vi hanno fatto?»
Due candide mani, fredde di paura, raccolsero il suo viso e guidarono il suo sguardo affaticato.
«Rebecca...» bisbigliò, mentre le labbra si aprivano a sorriderle.
Lei trasse un fazzoletto bianco dalla manica e gli tamponò prima il labbro, poi la guancia e il naso, quindi la fronte. Ritirò la mano intrisa di sangue; il fazzoletto conservava solo qualche frammento immacolato.
«Cosa vi hanno fatto?» ripeté singhiozzando e lo aiutò ad alzarsi. Notò che zoppicava leggermente alla gamba sinistra, ma lui la rassicurò: nulla di rotto.
«Oggi mi hanno cambiato cella... Ho ritrovato alcuni vecchi commilitoni che hanno pensato di darmi il benvenuto» raccontò con aria rassegnata. Rebecca lo fece sedere su una delle due sedie e si inginocchiò accanto a lui.
«Brian – lo chiamò, prendendogli le mani nelle proprie – Darei tutto ciò che ho per tirarvi fuori di qui...»
«No, Rebecca. Non è possibile e non è giusto nutrire false speranze – la rimproverò tornato di colpo serissimo – Forse non saresti dovuta venire; anzi, non saresti dovuta venire affatto! Una prigione non è il luogo adatto a te»
Rebecca scosse la testa: «Non ditelo neanche per scherzo! È mio dovere essere qui e sarò sempre presente ovunque potrò!»
Bois-Guilbert impallidì e ribatté immediatamente: «Non pensare di presentarti all’impiccagione, domani. Io sarò bendato, tu no! E non voglio che assisti a un tale spettacolo»
«Io...» era pronta a replicare, ma lui la interruppe mettendole un dito sulle labbra: «Tu partirai per Sheffield, hai capito? Partirai oggi stesso. Andrai a Sheffield e sposerai Abraham»
«No! – esclamò – Non mi ordinate una cosa simile! No, no e no! Non sposerò Abraham né nessun altro!»
«Rebecca, ascoltami: non illuderti che io possa uscire libero di qui. Il mio destino è segnato e me lo sono forgiato da me, come un fabbro che si fabbrichi la propria catena o un becchino la propria bara; tu sei giovane e innocente, sei candida come un giglio, e non meriti certo di perdere la tua vita dietro un uomo come me – fece una pausa, poi riprese – Hai sempre avuto ragione: un normanno e un’ebrea? No, certo che no! Tu devi sposare un ebreo e io devo scontare i miei errori una volta per tutte. Il cappio, lui sì, mi libererà dalle mie contraddizioni. Dovrei essere grato al re per la sua giustizia»
Rebecca si alzò in piedi e batté una mano sul tavolo: «Parlate male, Brian. Le vostre parole sono pietre contro il mio cuore. Dopo tutto questo tempo siete pronto a rimangiarvi i vostri sentimenti per me? Diffidate delle armi di una donna solo perché sono diverse dalle vostre? Ve lo dico io, signore: una donna ha armi ben più potenti di un uomo; non sono di ferro o d’acciaio, ma resistono a qualsiasi cosa e superano qualsiasi confine»
«Tu mediti qualche sciocchezza, Rebecca» sussurrò, atterrito, fissandola.
Rebecca chinò il capo, il suo petto sussultò e gli occhi si fecero languidi di lacrime: «Se solo fossi rimasta con voi la notte delle lucciole... Chissà cosa sarebbe successo...»
Bois-Guilbert sorrise di nuovo amaramente e sollevò una mano fino alla sua guancia: «Non ci pensare...»
«Mi dispiace solo non avervi dato tutta me stessa quand’era il momento. Ora vi mando a morire con il rimpianto di ciò che sarebbe potuto essere»
«Meglio così. Il tuo onore è salvo e potrai sposare Abraham, com’è giusto»
«Vi ho già detto che non lo sposerò, non più... Non sposerò nessuno; non posso, da quando ho capito che amo voi» confessò mentre due grandi lacrime scivolavano sulle sue guance.
«Rebecca...» sussurrò Bois-Guilbert, mentre lei gli prendeva la mano e la portava sul proprio cuore.
«Voglio passare questa notte con voi, Brian, per quanto possa valere un proposito come questo» continuò, senza dargli il tempo di parlare. Ma lui, disincantato, scosse la testa e ribatté: «Questa notte sarà tutta per pregare. Non è più il tempo delle dolcezze»
Rebecca obiettò: «Voglio assistervi fino alla fine»
«Va’ da Abraham, vedrai che sarà la scelta migliore per te...»
«Abraham è qui, a Lincoln, e sono sua ospite»
Il viso di Bois-Guilbert impietrì. Lei andò avanti: «L’ho rivisto dopo dieci anni dall’ultima volta... E’ pingue come un vitello, Brian, è timoroso e trema alla vista della propria ombra finché è in mezzo ad altre persone... Poi, quando è capitato che siamo stati soli, è cambiato d’un tratto: mi ha trattata con tale distacco, quasi che pensi che io sia una nuova Gomer[1], quasi che il fidanzamento, in un certo senso, lo imbarazzi e lo costringa. È stato rude con me, mi ha dato ordini come fosse già mio marito, come se fossi già sua. Sono presso di lui ormai da tre giorni e so già che lo odierei se lo sposassi. Il fatto è che ogni volta in cui mi viene davanti, noto che non è affatto forte, né di corpo né di carattere, che non è alto, che i suoi occhi non sono azzurri e il suo mento non è rasato... e che è goffo, sempliciotto e tutto preso dagli affari del denaro. Crede di sopraffarmi con l’oro, come se non sapesse che ne possiedo più di lui; crede di potermi governare come una capretta giovane e senza corna... Insomma, ogni giorno che passa io mi rendo conto di quanto Abraham non sia voi, Brian»
Bois-Guilbert aveva ascoltato fremendo di tanto in tanto, come se in quei frangenti un impeto mal governato prendesse il sopravvento per essere di nuovo subito domato. A denti stretti – era evidente che dire quelle cose era contro la sua volontà – sentenziò: «Quando l’avrai sposato, sicuramente cambierai idea»
Rebecca sbarrò gli occhi: «Dunque voi pensate che io dovrei sottomettermi docilmente a un uomo del genere dopo aver tenuto testa a voi per tanto tempo? No, Brian, non lo voglio. Ho deciso, forse tardi, chi sarà l’uomo che chiamerò mio»
Detto ciò, Rebecca si chinò, protese le labbra e chiuse gli occhi. Bois-Guilbert, inaspettatamente, schivò il suo bacio e la allontanò con dolcezza.
«Non è più tempo» disse, abbassando lo sguardo, la voce soffocata.
Rebecca sospirò: «Nemmeno un bacio? Nemmeno l’ultimo bacio di una sposa?»
Bois-Guilbert scosse lentamente il capo senza guardarla.
«Allora bacerò questa vostra reliquia e vi lascerò la mia da baciare quando vorrete...» affermò, avvicinando il fazzoletto insanguinato alla bocca. Quando lo abbassò, dopo averlo tenuto premuto contro il viso, le sue labbra e il mento erano scarlatti. Bois-Guilbert fu molto colpito da quella vista e avvicinò la mano per ripulirla, ma lei si scostò, sfilandosi dal collo allo stesso tempo il medaglione del padre e baciandolo alla stessa maniera.
«Tenete – disse consegnandoglielo – Così sarò vicina al vostro cuore finché avrà vita e, spero, anche dopo»
Bois-Guilbert avrebbe voluto rifiutare, ma non ci riuscì: afferrò il medaglione e subito lo baciò dove riconobbe il velo rossastro lasciato dalle labbra di lei.
Rebecca asciugò le lacrime nel fazzoletto e cercò di sorridere, pur tremando tutta di disperazione.
«Sarò lì – balbettò – E in quel momento pregherò per voi e per me. Pregherò che ci sia un solo Paradiso ad aspettare ebrei e cristiani e che non sia come voi credete, che gli ebrei siano tutti respinti nella Geenna. Se il Signore avrà pietà di noi, forse ci consentirà di passare l’eternità insieme»
Bois-Guilbert la guardò allontanarsi verso la porta; la commozione la vinceva. Ma quelle parole...
«Cosa significa?» domandò in un ultimo, disperato grido. Lei, dalla soglia, voltandosi, ribatté: «Addio, caro Drustan» e scomparve.
 
[1] Nell’Antico Testamento, Gomer è la moglie del profeta Osea. È una prostituta e Osea la esorta spesso a ravvedersi, rammentandole il suo amore per lei. Il loro rapporto è figura del rapporto tra il popolo di Israele (che nella Bibbia si allontana dal Signore) e Dio, che si preoccupa per lui e lo esorta a tornare all’Alleanza.

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


Rebecca risentiva l’eco del suo grido dietro di sé. Aveva echeggiato tutta la stanza, e la porta chiusa non aveva trattenuto la sua voce. Pensò che quel grido sarebbe rimasto l’ultima traccia del loro ultimo dialogo. Il cuore le si strinse nell’angoscia di una tragedia imminente mentre gli occhi bruciavano di nuove lacrime. La guardia la conduceva verso l’uscita del castello e, passo dopo passo, la allontanava da lui. Abraham non sapeva, Abraham non capiva. Abraham pensava solo a tornare in fretta a casa a celebrare in fretta il matrimonio, a diventare in fretta padrone delle cose sue. Avrebbe sposato lei o il suo patrimonio?
«Sua Maestà il re vuole vedervi» comunicò un’altra guardia che incrociò il loro cammino e solo a stento Rebecca capì che si stava rivolgendo a lei. Forse un brivido dovuto al timore reverenziale per il sovrano, ma nessuna tinta di emozione più forte colorò il suo pallore di morte. Salirono su, a una stanzetta nient’affatto grande, nient’affatto regale, in cui Richard aspettava. Era la stessa stanza in cui aveva parlato con Robin poco prima, ma Rebecca questo non lo sapeva.
«Le notizie della vostra bellezza sono veritiere – si complimentò il re nella sua galanteria – Anche se le ultime vicende vi hanno un po’ sciupata. Qualche giorno di quiete e, vedrete, tornerete bella come un fiore. Tuttavia, sembra destino che ci incontriamo in circostanze sempre simili»
Rebecca si inchinò graziosamente, ma il suo viso era grave: «Vostra Maestà mi lusinga e mi addolora allo stesso tempo» ribatté ad occhi bassi. Richard aspettò invano di incontrare nuovamente i suoi occhi prima di parlare: «Come spiegate la vostra tristezza alla vigilia dell’esecuzione di un uomo che negli ultimi mesi non ha fatto che perseguitarvi, mettendovi in balia dei banditi e degli assassini e di lui stesso?»
Rebecca, senza sollevare gli occhi umidi di pianto, rispose puntualmente: «Talvolta capitano miracoli, Vostra Maestà: non saprei colmare altrimenti i vostri dubbi»
«Temo che il vostro cuore sia ancora confuso dalle lusinghe del Templare, cara fanciulla – constatò il re – Cercherò di ricordarvi chi sia: è colui che vi ha rapita, colui che ha attentato al vostro onore e vi ha condotto a processo»
«E’ colui che si è fatto trafiggere – lo corresse con voce dura – Perché pare che nessuno abbia fatto caso a questo?»
Richard, turbato dal suo tono, ribatté: «Gentile fanciulla, quell’uomo congiurava per la mia morte. Ci sono testimoni, molti e fidati, che dicono di averlo sentito proferire parole abominevoli contro di me; che dicono di averlo visto brindare alla mia prigionia. Mi doveva la sua fedeltà, come ogni suddito del regno, voi compresa. Non voglio avanzare accuse contro di voi perché so bene che siete estranea a qualsiasi complotto; pure, volevo parlarvi di lui»
Rebecca annuì debolmente con la testa e Richard si sentì autorizzato a procedere: «Se fosse in vostro potere salvargli la vita, lo fareste?»
«Certamente, Vostra Maestà. E non lo farei per rivolta contro di voi»
«Non ritenete che sia un pericolo per la corona la libertà di quell’uomo?» incalzò.
«No, signore – replicò, e ad ogni parola cresceva in lei la speranza di ottenere per Bois-Guilbert il perdono regale – So che non oserebbe più sfidare la vostra autorità»
«Per paura? Mi teme, quindi, ora che sono qui sul suolo inglese e ho il potere di mandarlo a morte?» osservò Richard con un mezzo sorriso.
«No, non per paura. Semplicemente, non ha più motivo di congiurare contro di voi»
Il re si prese il mento tra le dita e si accarezzò la barba.
«L’avete con voi? L’avete lì nella manica, forse?»
Rebecca sbarrò gli occhi: «Di cosa parlate?»
«Il fazzoletto»
Rebecca sentì la gola asciutta e il respiro fragile. Fece cenno di no e poi si girò di spalle, cercando con la mano sotto il corpetto. Quando si volse di nuovo verso il re stringeva il fazzoletto insanguinato, ma sebbene il re glielo richiedesse si rifiutò di separarsene.
«E’ un pegno, forse?» domandò lui, cedendo.
«Un pegno molto particolare – ammise; poi, schiarendosi la voce, osò parlare senza essere stata interrogata – Vostra Maestà, io sono rimasta orfana di mio padre in questi tempi, come saprete. So che mio padre aveva contribuito al vostro riscatto dalla prigionia e so che ora siete in debito con me di una considerevole somma: ecco, io vi chiedo la vita di Brian de Bois-Guilbert e in cambio il vostro debito verrà rimesso»
Il re sembrò quasi prendere in considerazione la proposta; poi, con una risata appena trattenuta, rifiutò: «Non scendo a patti come questi. Voi siete una donna e non so quanto la vostra parola valga in simili faccende»
«Finché sarò nubile, Vostra Maestà, ho tutto il diritto di gestire il mio denaro»
Richard negò nonostante tutto. La vita di Bois-Guilbert, anzi, la morte di Bois-Guilbert era un fatto di troppa importanza per il ristabilimento della pace. Si sarebbe trattato, riconobbe il re con rammarico, di una perdita significativa: Bois-Guilbert – questo era risaputo – era una delle migliori spade del regno e sicuramente aveva fatto onore al proprio Ordine in Terrasanta. Ciononostante, si parlava pur sempre di un rinnegato.
«Se anche lo salvaste dalla forca – aggiunse infine – non potreste sposarlo, in quanto vincolato al celibato dagli ordini sacri»
«Gli ordini sono invalidi qualora siano stati conferiti a una persona indegna: in quanto rinnegato, credo sarebbe meglio per tutti che, nel caso sopravviva, sia ridotto a laico – osservò Rebecca acutamente – Quanto a me, non mi dà alcun problema essere la moglie di un rinnegato, essendo io stessa una rinnegata in questo regno»
Richard ammirò la sua forza d’animo e capì come quell’ebrea avesse potuto aprire una breccia nel cuore ostinato di Bois-Guilbert. Non era sottomessa al pari dei correligionari, i quali il più delle volte avevano dimostrato ben poca tenacia. I pregiudizi antisemiti del re, che prima di allora avevano tremato solo di fronte a uomini saggi della Terrasanta, tremarono davanti a Rebecca. Ne fu colpito profondamente e tacque per qualche istante.
«Mi dispiace – concluse infine con voce roca – Mi dispiace sinceramente che questa storia debba avere un epilogo come questo. Andate, ora, e pregate»

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***


La notte calò la sua coltre di stelle e di incubi sulla città di Lincoln e scese fin nelle sue fondamenta, tra massi di roccia naturale e pietre squadrate, nello squallido ristagno umido delle prigioni. Tutto era silenzio, perché nessuno dei detenuti aveva intenzione di mostrare il minimo turbamento di fronte alla morte che li aspettava al sorgere del sole. C’era chi dormiva placidamente l’ultimo sonno, c’era chi fissava il vuoto come già non vivesse più, c’era chi pregava sottovoce ad occhi chiusi. Tra questi – che erano davvero pochi – c’era Brian de Bois-Guilbert.
Era un’abitudine della vigilia della battaglia: si pregava inginocchiati, per lo più cantando salmi. In quella circostanza no. Bois-Guilbert era seduto contro il muro, nell’angolo che i compagni gli avevano assegnato. Pestaggi non ne aveva più subiti: non fosse che le troppe percosse lo conducessero prematuramente alla morte senza il piacere di una folla di villani.
Sedeva, dunque, spalle al muro, braccia incrociate e gambe distese. Avvertiva sul petto l’aderenza del medaglione metallico e, talvolta, lo premeva contro la pelle per percepirne meglio la presenza. Più che preghiere, nella sua testa vorticavano immagini: immagini dell’infanzia, immagini di Adelaide, della guerra, dei tornei, di Rebecca. Solo raramente vi facevano capolino ricordi del principe John o dei due compagni di avventure e razzie Front-de-Boef e De Bracy. Ma la sua voleva essere la preghiera di una vita e perciò, insieme alle parole rituali apprese a memoria, Bois-Guilbert ci metteva del proprio. I sospiri, regolari quanto permetteva l’angoscia che gli pesava sul cuore, scandivano i passaggi di quella preghiera personale. I peccati, le disobbedienze, i vizi, gli omicidi, gli insulti... Tutto gli ripiombava addosso e lo disorientava: davvero aveva avuto modo di fare tante cose nei soli trentacinque anni che aveva vissuto? Tanto male, nient’altro: in quella cella e nel cappio che lo aspettava avrebbe regolato tutti i conti rimasti in sospeso. E in sospeso sarebbe rimasto solo il suo corpo colpevole, pasto – come aveva detto Malvoisin – ai corvi.
Rebecca era aggrappata al davanzale della finestra della propria camera. Scrutava l’orizzonte ancora illuminato dalla blanda luce del crepuscolo e gettava occhiate bieche verso oriente, dove il chiarore dell’aurora avrebbe annunciato l’imminenza dell’alba; e del patibolo. In quel momento sarebbe stata là, nella piazza del mercato allestita già per l’occasione. Un palco – l’aveva visto quel pomeriggio – su cui era stata montata la forca; e dalla forca pendevano ben dodici cappi, uno per ciascun condannato, perché nessuno venisse rimosso prima che fosse passato un mese o forse due. Aveva sentito un brivido lungo la schiena e le sue labbra avevano sussurrato un nome; Robin le aveva calato il cappuccio del mantello sugli occhi e l’aveva condotta via, verso la casa dove alloggiava Solomon di Sheffield. Sapeva, Rebecca, che sarebbe stata là nonostante la contrarietà di Abraham. Se avesse voluto accompagnarla per via della sua folle gelosia sarebbe stato peggio per lui.
Bois-Guilbert trasse un respiro più profondo: i pensieri, ormai, avevano preso il sopravvento sulla preghiera e vagavano sciolti dietro all’ultimo profumo cui i suoi sensi si erano aggrappati. Il profumo di Rebecca, ovviamente. Era un uomo, in fondo, e quasi a beffarlo i pensieri più istintivi lo sviavano da quelli più santi e più confacenti a un condannato a morte alla vigilia del supplizio. Di esperienza di donne Bois-Guilbert ne aveva tanta, abbastanza da figurarsi scene che con Rebecca non erano mai andate oltre la fantasia. E come le aveva avute durante la permanenza al villaggio dei fuorilegge, così quelle visioni lo allietavano ora tra le fredde mura del carcere. Ad addolcirle con la sostanza degli eventi reali c’era il ricordo di momenti che, a ripensarci, gli toglievano ancora il respiro. La sera delle lucciole, in cui finalmente aveva potuto avvertire sensibilmente la sua corrispondenza d’affetti, la notte prima della partenza, in cui l’aveva stretta a sé e desiderata oltremisura, eppure l’aveva preservata per il suo bene futuro... Abraham: chi era costui? Che faccia aveva, che statura e che carattere? Avrebbe voluto vederlo, e il vero rammarico che gli restava era proprio non poter conoscere colui che l’avrebbe avuta vinta. A quel vago guizzo di invidia le visioni cambiarono e Bois-Guilbert si ritrovò di colpo il terzo, l’escluso, l’intruso nella stanza nuziale di un altro. Vedeva e bruciava, ascoltava e fremeva. Ma lui sarebbe stato già morto, il suo corpo in quel momento avrebbe oscillato al soffiare della leggera brezza notturna, i suoi lineamenti disfati già dal tempo, zimbello dei ragazzini. Rebecca, forse, l’avrebbe dimenticato, sarebbe diventata la perfetta moglie e madre ebrea e non avrebbe fatto parola a nessuno del suo passato amore con un normanno cristiano.
Rebecca si separò dal davanzale e si sedette sul letto. Un’occhiata attorno, a misurare quanto vuoto la circondasse e quanto fredda le paresse l’aria di quella stanza. Lui non c’era. Lui non sarebbe stato più. Una morsa le strinse la gola e le impedì di urlare; altrimenti avrebbe urlato con tutto il fiato che aveva, avrebbe gridato l’ingiustizia della propria sorte e proclamato il suo voto di fedeltà. No, il silenzio era molto più conveniente o Abraham avrebbe saputo. Qualcosa doveva pur sospettare: impossibile che avesse creduto fino in fondo che il re l’avesse convocata attraverso un guardacaccia sassone; li aveva scortati infatti fino al castello e li aveva seguiti finché il guardacaccia non gli aveva fatto francamente sapere che non l’avrebbero lasciato passare. Allora era tornato a casa ad aspettarla. Al suo ritorno l’aveva interrogata: forse non era così sempliciotto come lei voleva credere; e l’interesse che nutriva per lei non si limitava al patrimonio. Non le avrebbe impedito, comunque, di assistere all’impiccagione. Rebecca, con il cuore in pezzi, si convinse anzi che avrebbe assistito lui stesso e con un certo compiacimento, benché tutto ciò fosse assolutamente lontano dalla mentalità di un ebreo. L’avrebbe fatto sempre a causa di quella folle gelosia che l’aveva spinto a mettere in dubbio la sua integrità con parole velenose: “Avete passato due mesi sola con quell’uomo; anche io sono un uomo, e so di cosa parlo. Impossibile che non vi siate conosciuti più a fondo di quanto voi sostenete”. A un tale ragionamento Rebecca non aveva opposto obiezioni, per timore di abbassarsi al livello dell’interlocutore.
Bois-Guilbert avrebbe voluto togliersi quelle immagini dalla mente, ma ormai avevano preso il sopravvento. E a loro si mescolavano in un vortice impetuoso Guillaume e Adelaide, e Rebecca si sovrapponeva ad Adelaide... Gli mancava il respiro, si sentiva sopraffare dalle emozioni e dalle visioni. Alla fine aprì gli occhi e, nell’oscurità, distinse la piccola apertura che fungeva da finestra. Benché non le avvertisse più così nitide come prima, la fantasia gli lasciava le stesse sensazioni di smarrimento. Gli girava la testa come se fosse per mare, ciondolava e si appoggiava ora alla parete di sinistra, ora a quella di destra. Probabilmente era colpa del digiuno: la fame gli ispirava gli incubi e gli addossava la stanchezza. Sì, di certo non si trattava di paura. Era avvezzo all’idea che la morte potesse sopraggiungere da un momento all’altro. In fin dei conti avrebbe potuto dire di conoscerla come una vecchia frequentatrice, quasi come una delle sue amanti in Palestina: quanti uomini aveva visto morire? Quante carezze la morte gli aveva dato di striscio sulle lame delle spade in battaglia? La morte l’aveva accarezzato dove poi, molto tempo dopo, l’avrebbe accarezzato Rebecca. Rebecca... Quanto avrebbe dato per un ultimo incontro... per un unico bacio...
 
Quelle parole... Quel saluto... Bois-Guilbert pregò di aver frainteso.

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Capitolo 31
*** Capitolo 31 ***


Faceva freddo: per questo tremava. Tremavano tutti davanti e dietro di lui nella fila di dodici condannati scortati a piedi dalle prigioni alla piazza del mercato. Incespicava con le caviglie incatenate; le mani legate dietro la schiena gli impedivano di mantenere l’equilibrio e, alle spinte a volte troppo violente delle guardie, capitava che dovesse appoggiarsi a chi lo precedeva o seguiva. Il digiuno faceva il resto. Bianco come un cencio, Bois-Guilbert non aveva molta coscienza di ciò che stava accadendo. L’aurora illuminava a stento il cielo a est e, dalla linea dei tetti stagliata contro l’orizzonte, la città appariva una sagoma nera senza profondità.
Una spinta violenta lo fece ruzzolare a terra fuori dalla fila e la processione si dovette fermare. Due guardie lo afferrarono, una per braccio, lo tirarono in piedi a forza e lo reinserirono nei ranghi. Quindi si riprese con la mesta marcia. Le strade, all’improvviso, si riempirono di persone che spintonavano, insultavano, lanciavano verdura marcia. Ma che importava più? Bois-Guilbert sentiva pioversi addosso il biasimo degli abitanti di Lincoln senza provare emozioni. Albert de Malvoisin e suo fratello Philip, loro sì, si scostavano sdegnosi e lanciavano sguardi di superiorità contro i paesani, rispondevano agli insulti... Bois-Guilbert no: d’altronde non era forse vero ciò che il suo commilitone Templare gli aveva detto il giorno prima in carcere? La forca non lo avrebbe disonorato: aveva già fatto tutto da sé e in modo impeccabile. Nessuno avrebbe potuto ridurlo peggio, nemmeno Richard e le sue forche.
Alla fine eccoli, i cappi preparati per loro. Erano dodici, come se ogni cappio fosse stato approntato appositamente per un collo in particolare. Non gli incutevano alcun timore; piuttosto gli suscitavano di nuovo i rammarichi su cui aveva avuto tutta la notte per riflettere.
«Rebecca...» bisbigliò. Gli scossoni che riceveva dalla folla non lo distoglievano dalla contemplazione del suo viso come la sua memoria lo rappresentava.
Fendendo la folla inferocita, a stento trattenuta dalle guardie, i condannati giunsero ai piedi della scaletta del palco. Quasi non sapevano spiegarsi come ci fossero arrivati: tutto aveva la parvenza di un sogno, persino la terra sotto i piedi sembrava avere la consistenza delle nuvole. Uno per volta, i condannati salirono i gradini e si presentarono sul palco. Il rito dell’impiccagione prevedeva che, per ogni reo, ci fosse una breve descrizione: nome, stirpe, accusa e condanna. Bois-Guilbert cominciò a sentir proclamare: “Albert de Malvoisin, colpevole di alto tradimento contro Sua Maestà...” e poi: “Philip de Malvoisin...” e poi i nomi degli altri cinque che lo precedevano.
 
Rebecca, non lontano dal palco, tremava per l’agitazione: il freddo dell’aurora non la pungeva, ben protetta com’era dal pesante mantello intarsiato con fili d’oro. Un dono nuziale dello zio del fidanzato, cui piaceva evidentemente precorrere i tempi e chiamarla quasi sua moglie senza che fosse stato stilato nemmeno il contratto prematrimoniale. Ma non le importava in quel momento. Dal fermento che scuoteva la piazza intuiva che i condannati erano prossimi. Un movimento violento ed improvviso le confermò che i condannati erano quindi arrivati. Schiamazzi e urla si sollevarono tutt’attorno a lei e fu sballottata dai vicini animosi. Abraham, per averla più sotto controllo, le afferrò il braccio rudemente e la portò vicino a sé.
«Cosa fate?» ringhiò lei, stringendosi le braccia al petto.
«State qui accanto a me, Rebecca – la ammonì – E state buona»
Rebecca diede uno strattone, ma non riuscì a liberarsi. Gli lanciò un’occhiata astiosa e tornò a guardare nel punto in cui la folla sembrava agitarsi con più fervore. Alla fine, come scivolando tra gli spettatori assetati di vendetta, il primo condannato cominciò a salire le scale. Il tumulto era ancora grande e non riuscì a distinguere le parole dell’araldo. Il secondo fu Albert de Malvoisin, il Templare.
“Albert de Malvoisin – proclamò l’araldo al suo apparire – colpevole di alto tradimento contro Sua Maestà re Richard...” e un boato di disapprovazione divorò le parole seguenti. Il terzo fu Philip de Malvoisin.
Rebecca stringeva le braccia al petto nell’attesa febbrile di vedere comparire lui. Ogni testa che sorgeva dalla scaletta le causava un sussulto, per poi scoprire che era uno sconosciuto dal nome ridondante e dalla colpa poco originale di tradimento.
Il nono: eccolo salire la scaletta, il suo volto inconfondibile benché strapazzato dall’angoscia e dai lividi. Sembrava reggersi a malapena in piedi. Abraham, accanto a lei, rise sommessamente e sussurrò: «Sarebbe questo l’uomo che avrebbe attentato al vostro onore? Vi giuro, da ciò che raccontavano credevo fosse un gigante poderoso... E invece...»
Rebecca storse il naso senza degnarsi di rispondere o semplicemente di voltarsi. I suoi occhi erano fissi su di lui, ma quando l’araldo cominciò a parlare si sentì venire meno.
 
«Brian de Bois-Guilbert – proclamò l’araldo quando fu in cima alla scaletta; e il popolo sottostante sollevò un brusio di curiosità – colpevole di alto tradimento contro Sua Maestà re Richard, e inoltre di rapimento e violenza nei confronti di una libera donna di York. È condannato al supplizio della forca»
L’accusa di violenza gli lacerò il cuore e lo costrinse ad alzare gli occhi: subito balenò di fronte a lui il cappello giallo che risaltava nella moltitudine di berretti grigi e di teste scoperte. Rebecca era là, accanto a quell’ebreo che con tutta probabilità doveva essere Abraham. Sì, eccola: indossava un velo sul viso, per cui era irriconoscibile da quella distanza, e un mantello riccamente decorato. Bois-Guilbert percepì il vuoto dentro di sé, gli mancò il respiro e la gola divenne ancora più secca di prima. Non avrebbe dovuto essere lì; ma le era grato.
La guardia che lo scortava, tenendolo saldamente per le spalle, gli indicò lo sgabello su cui salire. Quando fu stabilmente in piedi, la stessa guardia gli calò sugli occhi una striscia di stoffa nera.
 
Rebecca soffocò un singhiozzo e strinse la presa attorno all’elsa. Era fatta: Bois-Guilbert aveva il cappio al collo e la misura della corda era stata accorciata affinché rimanesse tesa. Sarebbe morto tra terribili sofferenze per strangolamento. Si morse le labbra fino a sentire il sapore del sangue. E la mano strinse ancora più forte l’elsa del pugnale. Doveva essere cauta e approfittare della distrazione di Abraham e dei vicini per estrarre la lama dal fodero. Aveva ancora il tempo di tre proclamazioni per farlo. Poi avrebbe aspettato il segnale convenuto, al quale le guardie avrebbero sottratto gli sgabelli da sotto i piedi dei condannati e questi avrebbero cominciato a dimenarsi sospesi fino allo strangolamento. In quel momento avrebbe affondato il pugnale nel petto: le sue nozioni di medicina le insegnavano dove trafiggersi per procurarsi una rapida morte per dissanguamento. La disperazione le avrebbe dato la forza necessaria.
Il pugnale era sfoderato. Lo premette contro di sé, pronta a puntarselo contro l’addome.
Lo squillo delle trombe annunciò l’arrivo di re Richard. Il sovrano montò sul palco accolto dall’ovazione della folla spettatrice. Passò in rassegna i condannati e, accostandosi a Bois-Guilbert, sembrò dirgli qualcosa. Poi lo superò e raggiunse un palchetto eretto consecutivamente al palco della forca, dove si trovava uno scranno. Vi si sedette e chiamò a sé l’araldo che aveva cessato poco prima di proclamare le generalità dei condannati. Rebecca fremeva d’impazienza: se doveva morire, che si facesse in fretta! Più il tempo passava più rischiava che Abraham si accorgesse del pugnale. Il re non aveva la stessa urgenza...
 
La folla era impazzita all’arrivo del re: festante all’inverosimile, quasi si trattasse del Signore in persona disceso nuovamente sulla Terra. Ma Bois-Guilbert era del tutto indifferente.
«Vi hanno lasciato il medaglione?» domandò all’improvviso una voce vicinissima. Bois-Guilbert si riscosse leggermente, badando a non perdere l’equilibrio.
«Sì, Vostra Maestà» confermò, e percepì il rumore dei suoi passi che si allontanavano. Incredulità e gratitudine scalzarono l’indifferenza. Era lì, il medaglione, con ancora impresso il bacio di sangue di Rebecca.
 
Rebecca si portò istintivamente una mano sul cuore. Lo percepiva contro la nuda pelle del suo seno sinistro: il fazzoletto era lì. Le pareva di aver visto – ma temeva fosse stata solo un’impressione – che Bois-Guilbert aveva chinato leggermente il capo, come a cercare il medaglione. Sperò che né le guardie né i compagni di cella gliel’avessero sottratto.
L’araldo si allontanò dal re e riprese il proprio posto, accennando alle guardie sul palco affinché si tenessero pronte. Poi diede il segnale: ciascuna guardia si portò avanti, afferrò lo sgabello del condannato e rimase in attesa del segnale successivo. L’araldo alzò il braccio: quando l’avesse abbassato, allora gli sgabelli sarebbero stati tolti. I condannati avrebbero cominciato a penzolare.

Bois-Guilbert avvertì il sussulto dello sgabello: la guardia l’aveva afferrato ed era pronta a sottrarglielo. Chiuse gli occhi, deglutì e strinse i denti. Non appena avesse sentito vacillare il sostegno avrebbe fatto un salto, così che il contraccolpo gli spezzasse l’osso del collo strappandolo alla morte per strangolamento. Il re doveva divertirsi a contemplare la tensione dei loro volti; oppure il tempo appariva così dilatato da dare già un assaggio di eternità.
«Fermi! – esclamò platealmente la voce di Richard – Una grazia!»
Rebecca strinse l’elsa del pugnale e spalancò gli occhi. Richard si alzò dallo scranno e mosse alcuni passi sul palco. Il suo seguito di nobili fedeli e di guardie lo seguì a breve distanza, mentre la folla tornava a mormorare. Richard si fermò davanti al cappio di Bois-Guilbert e ordinò alla guardia: «Sciogli quest’uomo dalle catene e consegnalo al tuo sovrano»
Bois-Guilbert sentì allentarsi la stretta attorno ai polsi, poi gli fu tolto il cappio e infine la benda. La luce dell’alba lo accecò e, brancolando, cadde in avanti. La folla sollevò un grido, ma Richard era sufficientemente robusto da sorreggerlo senza l’aiuto di altri.
«Siete salvo – sussurrò al suo orecchio, approfittando della vicinanza – Ma da oggi mi aspetto la vostra cieca fedeltà»
Bois-Guilbert si appoggiò alle sue spalle per rimettersi in equilibrio. Aveva gli occhi ancora semichiusi e le tempie pulsavano così forte da stordirlo.
 
«Rebecca! – trasalì Abraham – Cosa avete intenzione di fare?!»
Rebecca si accorse solo allora di aver lasciato cadere il pugnale. Per poco non si era ferita i piedi: fortunatamente l’arma era caduta un po’ più avanti sul selciato della piazza. Il tintinnio della lama aveva richiamato Abraham, che l’aveva scoperta. La afferrò di nuovo per il braccio, ma questa volta la stretta era ben più salda.
«Ah! – gemette lei, lottando per liberarsi – Mi fate male!»
Un grido di terrore si sollevò dalla folla tutt’attorno a loro. In un primo, brevissimo momento, Rebecca pensò che ciò fosse causato dalla vista del pugnale. Ma no, non poteva essere, perché tutta la piazza pulsava di ira mista a paura. Un movimento scomposto agitò il pubblico raccoltosi compatto all’interno del perimetro disegnato dalle case e impedì qualsiasi libertà ai singoli presenti. Un’onda di persone si sollevò da un capo della piazza – quello più vicino al palco – e mosse verso le vie d’uscita. Abraham non rifletté molto sul da farsi, abbandonandosi ai propri istinti di sopravvivenza. Volse le spalle al palco e cominciò a correre, trascinando con sé Rebecca che, per quanto si sforzasse, non riusciva a gettare uno sguardo indietro.
«Cosa succede? – gridò – Cosa sta accadendo?»
Ad Abraham non importava un bel nulla.

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Capitolo 32
*** Capitolo 32 ***


Ciò che accadde fu questo: non appena Bois-Guilbert fu in grado di reggersi in piedi, re Richard lo affidò al sostegno di un cavaliere e si diresse indietro verso lo scranno, per consentire all’esecuzione di avere luogo. Mentre cercava di riacquistare la vista dopo la parentesi buia della benda, Bois-Guilbert aveva provato il riverbero fastidioso di un oggetto metallico contro gli occhi. Aveva aguzzato, per quanto aveva potuto, lo sguardo e rintracciato l’origine del fastidio: alla finestra di un ostello, dietro le pesanti tende nere tirate, qualcosa baluginava alla luce del sole nascente. Nel preciso momento in cui aveva capito di cosa si trattasse, una freccia lo aveva colpito al centro del petto e mandato riverso a terra; il cavaliere che lo sorreggeva, preso alla sprovvista, non era riuscito a sostenerlo.
La folla ruggì di paura e si diede rapidamente alla fuga; il seguito del re si precipitò a circondare il sovrano. Intanto, frecce da diverse direzioni piovevano sul palco e numerose guardie furono colpite. Altre frecce saettarono dalla piazza contro le finestre degli edifici circostanti. La confusione era generale: grida, strilli, il rombo della folla che si disperdeva nelle vie.
Bois-Guilbert giaceva riverso sul palco, la vista annebbiata. Aveva battuto la nuca e i suoi sensi erano confusi; la ferita nel petto mandava sangue, sempre più sangue, e la sua camicia di lino era ormai nera. Gettò un’occhiata intorno, faticando a respirare. Faticava anche a muovere le braccia, sebbene l’unico pensiero che gli vorticasse nella mente fosse quello di trarsi fuori da quella situazione. Accanto a sé vide una falange di scudi alzati, una torre di ferro che si spostava compattamente cercando una via d’uscita. E le frecce piombavano giù, accanto al suo corpo, e si infiggevano nelle travi del pavimento. Dietro di lui, alcuni uomini erano saliti sul palco e avevano finito le guardie agonizzanti. I condannati erano stati liberati; alcuni, poi, erano rimasti feriti e languivano nel loro sangue. Bois-Guilbert cominciò a tremare: aveva freddo, batteva i denti. Che la morte fosse vicina?
Una figura si chinò sopra di lui, ma Bois-Guilbert vedeva sfocato e non riusciva a soffermare gli occhi per riconoscere chi fosse. La figura si volse, sembrò afferrare qualcosa per poi tornare di nuovo a lui. Aveva afferrato un pugnale, strappandolo al cadavere di una guardia. Lo sollevò alto, ma, prima di vibrare il colpo, bisbigliò: «Deus misereatur tui, frater!»[1]
“Malvoisin!” avrebbe esclamato, se ne avesse avuto la forza. Malvoisin gli si scaraventò contro.
 
Rebecca impiegò un istante a rendersi conto di cosa Abraham avesse fatto: l’aveva schiaffeggiata. Sì, schiaffeggiata. Si accarezzò la guancia dolorante e rialzò lo sguardo su di lui.
«Cosa ti è venuto in mente?!» gridò Abraham, paonazzo in volto. La afferrò per il braccio e la fece rialzare, poi la strattonò e improvvisamente la lasciò andare. Rebecca perse l’equilibrio e cadde a terra.
«Lasciatemi stare!» strillò, strisciando lontano da lui. Le urla avevano attirato la servitù: due serve e un servo accorsero nell’anticamera, ma non intervennero. Rebecca si tirò in piedi appoggiandosi alla parete opposta ad Abraham e lo guardò con occhi furiosi.
«Cosa sta succedendo?!» tuonò la voce di Solomon, che apparve sulla soglia di un salone; il viso di Abraham cambiò totalmente.
«Questa donna – spiegò, puntandole l’indice – aveva intenzione di compiere un abominio là nella piazza. Ho dovuto punirla!»
Solomon mosse gli occhi dall’uno all’altra, ma Rebecca chinò il viso, intenzionata a non dire una parola di più. In breve arrivò anche Samuel, il padrone di casa. Rebecca respirava affannosamente, temendo che Abraham potesse avvicinarsi e colpirla una seconda volta. Ma la situazione era congelata: Samuel e Solomon si scambiarono un’occhiata, mentre Abraham trepidava in attesa che il padre prendesse una posizione netta.
«Voi – proruppe infine Samuel rivolto le due serve – Accompagnate la fanciulla alla sua stanza e lasciatela sola. Più tardi prenderemo una decisione riguardo a lei»
 
Rebecca fu quasi sollevata al pensiero di essere sola. Si appressò alla finestra, si aggrappò alla grata che la separava dall’esterno e cercò di orientarsi. Voleva trovare la piazza e capire se dal secondo piano di quell’edificio le fosse possibile intendere qualcosa di più su cosa stesse accadendo. La guancia pulsava ancora; sicuramente era arrossata, ma non le importava affatto. Vi passò sbadatamente una mano, accarezzandosi la pelle, e tremò immaginandosi per un attimo tra le sue braccia, al sicuro... Ma poi le braccia divennero quelle di Abraham, che la toccava senza pudore. Le si mozzò il respiro e contemporaneamente i suoi occhi si diressero in basso, sulla strada di sotto: un gruppo di persone correva disordinatamente, urlando parole incomprensibili. Dietro di loro c’erano quattro uomini che tentavano di trasportare un quinto, sanguinante e pallido, privo di sensi. Rebecca trasalì e si scostò violentemente. Quando ebbe ripreso coraggio, tornò al proprio posto: la strada era tornata deserta, ma una scia di sangue a gocce abbondanti tradiva il traffico di un attimo prima. Il rumore di grida e di passi concitati si era spostato più avanti; quando fu scemato del tutto, da altri punti della città si sollevarono altri lamenti, altri suoni spaventosi. Portati dal vento urla, clangori, strilla salivano fino al cielo, e nel farlo giungevano a Rebecca che più e più si angosciava. Nell’impeto pensò anche di forzare la grata, ma se l’avesse fatto sarebbe stata semplicemente libera di uccidersi, non di scappare: l’altezza non l’avrebbe risparmiata. Preferì allontanarsi, accucciarsi sul materasso del letto e tapparsi le orecchie, fingendo che fosse tutta una sua fantasia, un timore inconsapevole legato a quella guancia che le faceva male e al fatto di essere dovuta scappare dalla piazza trascinata con la forza. Brian stava bene, doveva stare bene. Non si sarebbe mai perdonata la sopravvivenza se lui... No, non riusciva nemmeno a pensarci. Il re l’aveva risparmiato, e per i cristiani il re era il primo dei servi di Dio. Impossibile che gli fosse capitato qualcosa di male.
Un rumore troppo vicino la fece saltare in piedi: la serratura scattava, rimangiandosi tutti i giri che la serva aveva dato prima di estrarre la chiave. La porta si socchiuse e, dopo un istante di esitazione, Solomon si introdusse nella stanza.
Rebecca si alzò di scatto e le vertigini la assalirono: Solomon era già abbastanza vicino da poterle dare sostegno con le braccia. Quando lei ebbe di nuovo gli occhi fissi su di lui, l’ebreo sussurrò: «Perché vi siete fatta condurre in piazza all’esecuzione, figliola?»
Rebecca scosse il capo e si sedette sull’orlo del materasso.
«Abraham è stato un incosciente ad accompagnarvi... Ma voi... Davvero avete tentato?» incalzò Solomon, mettendole delicatamente una mano sulla spalla. Lei aspettò a rispondere e infine bisbigliò a mezza voce: «Sarei stata pronta a farlo»
«Perché mai?» implorò Solomon. Nel suo tono non c’era condanna, non c’era biasimo. Solo una grande preoccupazione, la stessa che avrebbe avuto il tono di Isaac se avesse potuto parlarle. O almeno questa fu l’impressione di Rebecca e questa impressione la spinse ad aprirsi un po’ di più.
«Perché... – cominciò, poi si rese conto di non riuscire a spiegare con le parole quel che provava e riprese – Ho perso mia madre, poi mio padre... Sono sola, Solomon, e lui si è aperto una strada nel mio cuore quasi senza che me ne accorgessi»
Solomon sospirò e ritrasse la mano dalla sua spalla.
«Parlate di lui come se fosse un uomo buono, ma sappiamo entrambi che è un cristiano, un cavaliere del Tempio, e la sua educazione gli insegna ad odiarci e a servirsi di noi. Devo mettervi in guardia, figliola: molti mali sono stati compiuti sotto la maschera della benevolenza»
«Lo so, Solomon... Ma ho abbandonato queste paure da tempo, da quando i miei occhi sono stati liberi di poter guardare ciò che egli è veramente. Ha perso tutto, proprio come me: cosa potrebbe spingerlo a commettere il male nei miei confronti? Mi perderebbe, e rimarrebbe solo. Per lui vale lo stesso destino che attende me: separateci e moriremo»
L’ebreo sospirò di nuovo, si alzò e mosse qualche passo pensieroso.
«Figliola – disse poi – La scelta che volete prendere potrebbe condurvi fino all’esilio dal popolo di Israele, ne siete consapevole?»
«Affronterò tutte le conseguenze della mia decisione senza lamentarmi» asserì, accompagnando le parole con un cenno del capo.
«Io sono disposto a offrirvi tutta la protezione di cui potreste avere bisogno – ribatté Solomon con dolcezza – Ma potrò arrivare fino a un certo limite. Superato quello, sarete totalmente alla mercé dei vostri nemici e del vostro ultimo amico»
Rebecca annuì: «Capisco le vostre ragioni e vi sono grata per tutto ciò che siete disposto a fare per me. Non voglio però che mettiate a repentaglio il vostro nome e la vostra dignità...»
Solomon sorrise: «Il vostro animo è puro, il vostro cuore è saldo. Se è il Signore a guidare i vostri passi, io non ho l’arroganza di imporvi un cammino diverso; e se si trattasse di un demone, io sarei ugualmente impotente. Non mi resta che rimanervi accanto e custodirvi, per quanto sarà nelle mie facoltà. Riflettete, mia cara, e forse il tempo chiarirà ad entrambi il significato di ciò che ci sta accadendo»
Solomon si inchinò leggermente ed uscì, lasciandola nuovamente sola con i dubbi, i timori e le speranze.
 
[1] “Dio abbia misericordia di te, fratello”

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Capitolo 33
*** Capitolo 33 ***


«Lassù, a quella finestra! – gridò Little John, accennando da dietro il suo riparo – Ce n’è uno lassù!»
Lo scontro nella piazza infuriava ancora, nell’attesa infinita di vedere i rinforzi sopraggiungere dal castello. Will Scarlett scagliò una freccia seguendo il dito di Little John prima che Robin potesse fare altrettanto. Il capo dei fuorilegge mirò allora a un uomo nascosto dietro il parapetto di un balconcino e lo colpì: quello precipitò con un grido strozzato e si schiantò contro il pavimento di pietra. La confusione generale impediva di distinguere i feriti dai morti: nel tentativo di raggiungere una posizione più sicura o più favorevole ci si doveva gettare a capofitto tra i corpi, senza fare troppa attenzione a ciò che si calpestava. Robin saltò da dietro un tavolo di osteria usato come riparo e attraversò la piazza a balzi; non stette a contare quante frecce gli passarono accanto, sibilando paurosamente. Fu abbastanza fortunato da raggiungere una vietta stretta e buia, chiusa da un arco qualche spanna sopra la sua testa. Strinse la sinistra attorno all’impugnatura dell’arco, incoccò una freccia e mirò un altro cecchino. Da quella posizione avrebbe potuto vedere i rinforzi senza perdere di vista lo spazio del combattimento. Aveva fatto bene a farsi accompagnare: c’era subito stato qualcosa di poco rassicurante al castello di Lincoln.
Ricordò in un lampo il pomeriggio del giorno prima, quando si era recato dal re insieme a Rebecca: attraversavano un salone semivuoto, nel cui soffitto alto si raccoglievano i bisbigli dei pochi presenti. D’un tratto, passando accanto a tre uomini, forse funzionari di corte, aveva sentito di sfuggita un “Sarà una brutta sorpresa per il re” a cui un altro aveva risposto “Serve tempismo, o la forca sarà pronta anche per noi”. Parlavano in francese. Vedendoli passare, due sconosciuti come loro, i tre avevano preferito tacere e allontanarsi. Robin non aveva subito colto il significato di quelle frasi perché era sovrappensiero, preoccupato per l’amico normanno. Ora, però, si rendeva conto di aver conservato quel ricordo proprio perché gli suscitava uno strano turbamento. Vi collegò anche un altro fatto particolare cui aveva assistito. Era notte, ormai. Di regola, le porte della città avrebbero dovuto essere chiuse: era proprio per questo che si trovava a disagio, disabituato com’era alla costrizione di uno spazio cintato. Si stava arrovellando sul modo per raggiungere i compagni che lo aspettavano nella foresta, non molto distante, quando, passando per un vicolo nei pressi della porta meridionale, aveva udito dei rumori, dei tramestii come di persone impegnate a spostare delle casse da fuori a dentro le mura. Aveva seguito l’udito e raggiunto il luogo: la porta era socchiusa. Lì per lì aveva pensato che fosse in atto una qualche sorta di contrabbando illegale e ne era stato ben contento: aveva trovato la sua via per evadere. Bastò pazientare un po’, poi, quando tutti i presenti si trovavano impegnati in qualche spostamento di casse, sgattaiolò fuori come un gatto da una cantina.
“Che guardie disciplinate custodiscono Lincoln!” aveva pensato con un sorriso di beffa; però, da qualche parte nella sua mente si era annidato un nuovo dubbio, una nuova insicurezza. E questa lo aveva spinto a chiedere ai compagni di entrare armati in città per assistere all’impiccagione. Non si era sbagliato.
Ripiombò di peso nel presente quando un urlo acuto fendette l’aria fino alle sue orecchie. Era una voce maschile, un grido di morte. Alzò gli occhi e seguì la caduta a precipizio di un uomo dal terzo piano di un palazzo sul lato della piazza che gli stava di fronte. Caricò l’arco, cercò un bersaglio e lasciò la presa sulla freccia. Un rantolo, e il nemico colpito ruzzolò a terra, dando ancora un paio di respiri prima di spirare. La situazione si stava calmando: ormai i rivoltosi erano rimasti in pochi. Probabilmente erano stati presi alla sprovvista, avevano creduto di essere in netta superiorità numerica rispetto al contingente di truppe schierate nella piazza. Ed in effetti, senza Robin e gli Allegri Compagni, sarebbe stata una rotta per Richard e i suoi soldati. La sua scorta, probabilmente, non avrebbe retto più di una manciata di minuti. Dalla strada del castello risuonò sempre più potente il galoppo dei cavalli. Robin, d’un tratto, si preoccupò di radunare i propri uomini: uscì allo scoperto, sfidando la sorte, e gridò un ordine in lingua sassone. I suoi uomini lo raggiunsero, gli occhi in su a scrutare le finestre. Il galoppo si avvicinava, e Robin temeva che sarebbero stati scambiati per rivoltosi. Doveva trovare il re, immediatamente, o avrebbero rischiato di essere giustiziati sommariamente sul posto.
La prima cosa che gli venne in mente di fare fu raggiungere il palco: si arrampicò sulle travi di sostegno e con un ultimo balzò si issò sul pavimento di assi. Si diede un’occhiata intorno, contando i corpi riversi. Sperava di vedere un segno, un indizio per capire dove il re si fosse rifugiato con la sua scorta: non li aveva visti abbandonare la piazza.
«Vostra Maestà! – cominciò a urlare – Vostra Maestà!»
Nel frattempo ingaggiò un’altra ricerca. Nei momenti convulsi dello scontro aveva perso di vista il palco in più occasioni e ora si augurava che le peggiori previsioni non si realizzassero sotto i suoi occhi.
«Vostra Maestà!» chiamò per l’ennesima volta, e contemporaneamente i suoi occhi caddero giù, su due corpi avvinghiati, uno sopra l’altro, immobili. Erano due condannati: indossavano entrambi la camicia di lino. Il primo era riverso a pancia in giù sull’altro, che invece era supino. Il primo aveva una freccia piantata nella schiena e un’altra nel costato destro: identificare uno qualsiasi dei due si rivelava impossibile. Robin si gettò su di loro, afferrò il primo per le spalle e lo sollevò, coricandolo sul palco: era Albert de Malvoisin, gli occhi spalancati, di quell’azzurro brillante, ma vacui. Era morto sul colpo, forse dopo due o tre colpi di tosse; un rivolo di sangue gli scendeva dalle labbra.
Robin guardò l’altro condannato: aveva avuto una freccia infissa nel petto, ma quando Malvoisin gli era caduto addosso questa si era spezzata e la punta era penetrata nella carne. Un pugnale macchiato di sangue era abbandonato accanto al suo collo, sopra la spalla sinistra. E sul collo, lungo la linea della mandibola, si apriva un taglio ancora sanguinante. Il volto era intriso di sangue e per questo Robin, in un primo tempo, stentò a riconoscerlo. A un’occhiata più attenta, il suo respiro già affannoso si arrestò. Era Brian de Bois-Guilbert.
«Locksley!» tuonò la voce di Richard da dietro le sue spalle. Rumore di armi, di ferro e di passi concitati; poi due uomini lo afferrarono saldamente per le braccia e lo tirarono in piedi con la forza.
«Locksley! – chiamò ancora Richard – Siete ferito?»
Robin si diede un’occhiata distratta e negò: il sangue che gli sporcava i vestiti era appartenuto ad altri uomini. Richard lo raggiunse e ordinò che lui e i suoi uomini fossero rilasciati. Soffermò lo sguardo sui due corpi davanti a sé e sospirò. Quale gran dispendio di vite si era consumato una volta di più sotto i suoi occhi. Ben più di quello che era stato programmato.

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Capitolo 34
*** Capitolo 34 ***


Dopo due giorni di digiuno e solitudine, finalmente la porta si aprì.
«Rebecca...»
Sollevò la testa dal cuscino, intontita dalla stanchezza. Per un attimo le era parso di aver udito la sua voce, la voce di Brian. Ma sulla soglia c’era Abraham, e aveva un’espressione cupa. Si mise seduta sul materasso senza preoccuparsi di darsi una parvenza di presentabilità. I capelli spettinati le cadevano arruffati sulle spalle; i vestiti erano stropicciati; gli occhi socchiusi.
«Mio padre mi ha detto di venire da voi»
Era tornato alle buone abitudini dell’educazione, e Rebecca lo notò con un mezzo sorriso di vittoria.
«Sono grata a Solomon per la sua bontà e per la sua saggezza» ribatté semplicemente.
Abraham richiuse la porta e si avvicinò. Rebecca non aveva paura di lui.
«Credo dobbiate sapere cos’è accaduto due giorni fa» continuò l’ebreo guardandola dall’alto in basso. Lei annuì, cercando di dissimulare il proprio interesse.
Abraham aspettò a parlare di nuovo, poi: «C’è stato uno scontro, un agguato. Uomini di corte, ufficiali, guardie e semplici ladri di strada, un totale di trenta persone, ha attentato alla vita del re. Erano di certo in combutta con i condannati e avevano sostenitori al castello pronti a prendere il controllo del regno – disse lentamente – Ma sono morti tutti. Uno dopo l’altro, uccisi senza pietà. E il vostro Templare con loro»
Senza lasciarle il tempo di realizzare, Abraham trasse da una tasca un anello e afferrò rudemente la sua mano destra. In un batter d’occhio, l’anello fu al suo dito.
«Con i dovuti tempi, Rebecca, noi ci sposeremo. Questo pomeriggio stipuleremo il contratto matrimoniale, domani io partirò per Sheffield e tra un mese celebreremo le nozze»
Rebecca non afferrò appieno tutto quanto Abraham le diceva. Si ritrovò con quell’anello e quella promessa e comprese troppo tardi.
«Avete capito bene – continuò lui vedendo la sua espressione smarrita – Vi prenderò in moglie nonostante sappia perfettamente in che condizioni siate»
«Cosa dite, Abraham?» singhiozzò, rigirandosi l’anello sul dito.
«Voi non siete più una fanciulla; è inutile che protestiate, perché lo so. Solo mio padre è così ottuso da pensare che diciate il vero. Forse lo dice per accattivarsi la vostra simpatia, vista la quantità d’oro che entrerà nelle nostre casse con il matrimonio. O forse questo è ciò che farei io se fossi al suo posto: lui è un filosofo, ha tanti bei concetti per la testa, ma concetti vuoti. Io ho girato il mondo e conosco gli uomini. E anche le donne»
Rebecca rabbrividì: «Anche io credevo di conoscervi, Abraham, ma mi rendo conto che il mondo vi ha cambiato in questi dieci anni»
«Mi ha semplicemente aperto gli occhi, e mi stupisco che non l’abbia fatto anche a voi. Eppure siete stata a Costantinopoli; la vostra maestra e protettrice è stata arsa sul rogo... E voi vi compromettete con un cristiano; ma che dico? Con un Templare!»
«Io non...!»
«Non avete più nessuno, Rebecca: vostro padre è morto ed è morto anche il vostro amante; non vi resto che io. Certo, forse sul momento non vi garba molto l’idea, ma sarete mia moglie e dovrete sottostare alle mie leggi. Ho visto tanti ebrei fare i permissivi con le loro mogli e finire gabbati, perciò con voi sarò un marito duro e geloso. Alla fine sarete contenta del vostro destino; sarò fin troppo clemente con la donna che si è fatta disonorare da un cristiano e che era pronta a morire per lui»
Trattenne le lacrime giusto per il momento in cui Abraham rimase ancora nella sua camera, e non fu lungo. Quando fu di nuovo sola, la solitudine non le parve più una punizione, ma una protezione: nessuno, fuori da quella stanza, avrebbe mai scoperto il suo dolore. E se non fosse stato per le grate alla finestra, Rebecca pensò che si sarebbe potuta buttare di sotto.
***

Una settimana era già passata da quel giorno terribile. Il guardacaccia Robert di Huntingdon provò un brivido a ripensare a quell’agguato e a quanto vicino alla morte si fosse spinto. Ora il re lo convocava. Un’altra volta. L’ennesima volta, avrebbe potuto dire. Ma non si scompose, nonostante avesse i nervi insolitamente sensibili quella mattina.
Lo sguardo di Richard era offuscato da nubi di tempesta. Robin, in un primo tempo, non fu nemmeno sicuro di essere stato notato. La guardia l’aveva ben annunciato, e la sua figura non passava facilmente inosservata. Eppure, il re guardava fisso davanti a sé, come se contemplasse la personificazione di tutto ciò che odiava.
Alla fine, la sua voce roca ruppe il silenzio quasi sussurrando: «Cos’è diventata l’Inghilterra?»
Robin scosse il capo, abbassandolo progressivamente. Richard si fece impettito, trasse un profondo respiro e proseguì, a voce alta e squillante: «Un covo di vipere, ecco cos’è diventata l’Inghilterra!»
I suoi occhi infuocati saettarono contro il fuorilegge sassone che, in un battito di ciglia, lesse tutte le emozioni contraddittorie che animavano il suo sovrano. Non l’aveva chiamato per rimproverarlo o per punirlo: aveva già sorvolato sul fatto che lui e i suoi uomini fossero entrati armati nella città e anzi lo aveva già ringraziato generosamente per la sua lealtà. Ciononostante, aveva ragione di nutrire sospetti; e aveva ragione di esternarli con qualcuno di cui si potesse fidare. Robin era la persona che faceva al caso suo, e Robin questo lo sapeva.
«Se non fosse stato per voi, a quest’ora sarei già sottoterra a farmi divorare dai vermi! – continuò, ripetendo una frase che era diventata un ritornello durante i loro incontri – Se non foste intervenuto, a quest’ora quei ribelli avrebbero messo a soqquadro l’Inghilterra! C’è solo da gioire a sapere che sono morti»
Ma la sua espressione esausta bastò a smentire l’ultima affermazione: Richard cercò l’appoggio dello schienale di una sedia e vi si aggrappò.
«Normanni. Normanni come me, del mio stesso sangue – borbottò come se non avesse fiato – Tradito dai miei stessi uomini, dagli uomini della mia stessa stirpe! Non dai sassoni, non dagli sconfitti! Locksley, voi non sapete quanto costi a un re condannare i figli del suo stesso popolo! Accetterei più di buon grado una forca piena di sassoni, lasciatemelo dire! Ma una forca di normanni è un vero e proprio abominio per un re normanno! Certo, certo anche voi comprenderete: quanti sassoni hanno tradito il loro re quando la sorte ha volto in favore dei conquistatori!»
Robin annuì, senza alzare gli occhi sul suo viso. Contemplava le sue mani, la cui presa faceva scricchiolare il legno.
«Quell’uomo... – riprese, con un tono totalmente diverso – Se non aveste insistito, oggi sarebbe in fondo alla fossa comune insieme ai suoi pari... Ma no! Giace qui, invece, nel mio castello, perché il re si vergognava a lasciar morire la migliore lancia del regno! Sia maledetto chi mi ha consigliato in questa scelta, e voi prima di tutti, Locksley! Se sarò costretto dalle circostanze, giuro che lo ucciderò con la mia stessa mano: e a nulla varranno le vostre parole»
Cuor di Leone gesticolava in modo convulso e si contraddiceva una frase con l’altra; Robin guardava di sottecchi, non osando interromperlo.
«Ho sempre tenuto in conto l’esempio dei miei predecessori e ora vi dico, Locksley: pensate a Giulio Cesare. Cesare è stato clemente con i suoi nemici... Guardate com’è finito miseramente! Ed ora io sto facendo lo stesso con questo Templare... Cosa mi assicura della sua fedeltà? Il fatto che gli abbia salvato la vita, forse?»
Richard prese a misurare la stanza con ampie falcate. E Robin conservava per sé le sue riflessioni: nulla traspariva sul suo volto se non un certo imbarazzo.
«Come sta?» domandò alla fine, vincendo le proprie riserve. Da giorni ormai fremeva di impazienza ed essere lasciato all’oscuro delle condizioni di Bois-Guilbert gli sembrava una ricompensa ingrata per l’aiuto da lui portato nella piazza. Perciò, quando ebbe pronunciato quelle due semplici parole si sentì infinitamente più leggero; i suoi nervi si distesero. Bene o male, finalmente avrebbe avuto una risposta.
Richard non si aspettava una domanda del genere, ma capì subito che dovevano essere sentimenti di sincera amicizia a suscitarla. Quindi raccolse le idee, si schiarì la voce e disse: «Ora sta di sicuro meglio: non vi nascondo che al suo arrivo il mio medico gli diede poche speranze di sopravvivenza. Lavato via il sangue, però, si è reso conto che le ferite erano solo superficiali»
«Anche quella al petto?» lo interruppe.
«Certo! – rispose, indicando il proprio petto per accennargli di cosa si era trattato – Vedete, la punta della freccia è penetrata in questo senso, verticalmente, su nel muscolo pettorale. Non ha superato le costole e non ha nemmeno sfiorato il cuore... Ha perso sangue, questo sì, ed era oltretutto debilitato: le mie guardie mi hanno riferito che durante i quattro giorni di prigionia non ha toccato cibo, accontentandosi di bere la sua caraffa quotidiana. Ecco perché ha perso i sensi, capite?»
«E il collo?»
«Una ferita di striscio. Malvoisin non ha avuto modo di sferrare il colpo come si deve»
Robin trasse un respiro di sollievo, ma il re volle confidargli gli ultimi particolari: «Si è svegliato mentre il medico gli stava ricucendo il petto. E sapete cos’è stata la prima cosa che ha detto, me presente? – diede a Robin il tempo di scuotere il capo e si rispose – “Rebecca è qui? È salva?”»
Robin si rilassò definitivamente, ridendo di cuore. E Richard lo guardò con un’espressione di incredulità, probabilmente la stessa con cui aveva assistito di persona alla scena che aveva appena raccontato. Un breve intermezzo di silenzio diede modo ad entrambi di scacciare i ricordi dell’attacco di una settimana prima.
«Ditemi, Locksley – riprese il re tornando serio – Anche voi siete un capo: come avete potuto pensare che i vostri uomini non vi avrebbero mai tradito? Avevate molti nemici influenti, primo tra tutti mio fratello: ma a quanto mi hanno detto vi siete dimostrato inafferrabile»
Robin fu costretto a cercare una risposta adatta: «La mia situazione non è paragonabile a quella di Vostra Maestà. Io ho a che fare con persone semplici, persone povere e disperate. Chi mi ha seguito nella foresta l’ha fatto per sopravvivere e non aveva speranze al di fuori di me. Io ho dato loro la speranza del vostro ritorno e la certezza di cibo. Questo bastava per i semplici cuori sassoni. Voi, Maestà, avete a che fare con ben altro»
Gli occhi di Richard si accesero di curiosità: «Dite, Robin – disse – Voi avete dato ai vostri uomini questa speranza. Che speranza potrei dare io ai miei uomini per accattivarmeli?»
«Speranza di terre, senza dubbio; e ricchezze a dismisura... Ma chiunque può promettere lo stesso, Vostra Maestà, e un cuore avido non conosce fedeltà duratura. Voi dovrete dare qualcosa che nessun altro potrà né togliere né aumentare» rispose Robin acutamente.
Richard affilò lo sguardo e si fermò: «Voglio dirvi una cosa, Locksley, e voglio dirvela da quando ho avuto occasione di conoscervi. Voi parlate bene, fin troppo per credere che siate un semplice fuorilegge sassone. E come mai vi siete presentato come Robert di Huntingdon? Certo, per non farvi riconoscere. Ma perché proprio questo nome, Robert di Huntingdon?»
Robin sospirò e distolse per un momento gli occhi dal re, poi, tornando a guardarlo, replicò: «Vi suona familiare questo nome?»
«Mi è subito suonato conosciuto, lo ammetto. Perciò vi prego di rispondermi sinceramente e senza timore»
Robin annuì: «Forse il figlio del duca di Huntingdon non è morto in terra di Crociata, dopotutto... Ma le circostanze lo hanno costretto a rinnegare la propria famiglia per non attirarle contro la vendetta di vostro fratello, Maestà. Non gli rimaneva che vivere da fuorilegge e aiutare la gente sassone; da nobile, non avrebbe potuto farlo con la stessa facilità. Ma Robert preferisce il nome di Robin, adesso, e la casata degli Locksley a quella degli Huntingdon. Perciò, Maestà, considerate questa l’ultima manifestazione di un fantasma che, placato, tornerà ad abitare l’oscurità dei boschi. Il duca non dovrà sapere...»
Il re lo interruppe: «Lasciate che vi renda l’onore dovuto a un figlio della nobiltà sassone, Robert – disse stupito – Vi darò terre e un castello e delle rendite. Vi devo il mio ritorno e la mia stessa vita, permettetemi di ripagarvi»
Robin negò: «No, Maestà. Per voi voglio essere ciò che sono: Robin Locksley, fuorilegge. Robert di Huntingdon è solo una maschera»
Richard lo guardò quasi con ammirazione, poi, dopo una breve pausa, tornò al discorso precedente: «Il Templare non è uomo che si lasci conquistare da terre e ricchezza, proprio come voi; inoltre, come avete detto prima, chiunque, sia io che mio fratello che qualsiasi altro re, potrebbe offrirgliene. Come farò dunque ad assicurarmi la sua completa fedeltà, Locksley? Come posso avere la certezza che non oserà più tradirmi?»
Robin sorrise ed ammiccò: «Sarà più semplice di quanto pensiate, Sire: tutto ciò che dovrete fare sarà permettergli di sposare l’ebrea Rebecca. Se riuscirete in questo, Bois-Guilbert non solo non oserà tradirvi, ma vi sarà più fedele di vostra madre»
Richard ricordava nitidamente il dialogo cui aveva assistito di nascosto nelle prigioni e non dubitò un istante del consiglio di Robin.
«Non è affatto semplice come credete – confessò, lisciandosi la barba – Perché la ragazza è già ospite di Solomon di Sheffield e suo figlio pare molto interessato alla dote della fanciulla e alla fanciulla stessa. E in ogni caso gli ebrei non sono così inclini a dare una propria figlia in sposa a un cristiano. E non ultimo, il Templare, benché espulso dall’Ordine, rimane comunque un sacerdote. Un sacerdote indegno, sicuramente, ma un sacerdote vincolato al celibato»

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Capitolo 35
*** Capitolo 35 ***


Rebecca era coricata sul letto. Era notte fonda, ma il sonno non riusciva a vincere le sue preoccupazioni: il contratto era stipulato e già due settimane erano passate. Entro pochi giorni sarebbero cominciati i preparativi per la cerimonia delle nozze. Abraham era ancora lì, perché il re aveva chiuso le porte della città: le ricerche di possibili complici dei ribelli erano ancora in corso, nella pressoché totale segretezza. Si aveva paura a parlare a voce troppo alta, perché una sola parola, un motto o una battuta ambigua avrebbero potuto costare giorni di carcere e torture. La città era immobile. Così la casa dove Solomon e la sua famiglia erano ospitati: Rebecca non poteva uscire dalla propria camera, perché le era vietato incontrare Abraham fino al giorno del matrimonio; sua sola compagnia erano le serve del suocero che di tanto in tanto venivano a visitarla portandole dolcetti dono del fidanzato, secondo l’usanza. Lei non li toccava nemmeno e li faceva lasciare su un mobiletto cosicché, quando si trovava sola, potesse sbriciolarli e spargerli sul davanzale per i passerotti.
Brian de Bois-Guilbert era morto. Morto, morto come Isaac, morto come Rachel... Morto come tutte le persone a lei care. Vita veramente ingrata, la sua, più di quanto pensasse, perché la illudeva e poi la precipitava nell’abisso. L’abisso della disperazione da cui non voleva più risalire: avrebbe attraversato il confine degli Inferi a costo della propria felicità, non sarebbe più tornata. Non le restava più nulla, nessuna prospettiva, nessun desiderio. Tutto era morto con lui...
 
Uno schianto la spaventò. Tutto era buio e si poteva ben credere che si trattasse di uno scherzo della mente o, al più, dello scherzo di qualche ragazzino insolente. Pure, Rebecca si alzò. Muovere qualche passo l’avrebbe distratta dai pensieri cupi; percorse cautamente la stanza fiancheggiando la parete alla sua destra, continuò ad avanzare, arrivò alla finestra. Non c’era luna quella notte; nemmeno scostando le tende avrebbe ottenuto un po’ di luce. Volle scostarle ugualmente e per farlo si spostò indietro di un passo. Il suo piede calpestò un sasso. Anzi, non un semplice sasso: un sasso avvolto in un foglio di pergamena strappato. Il suo cuore ebbe un sussulto, Rebecca si chinò e prese la pietra tra le mani, rigirandosela tra le dita. Tornò al letto, vi si sedette e cercò di mantenere la calma; ma era pressoché impossibile. Chissà cosa voleva comunicarle quel messaggio! E lei non poteva leggere in mancanza della benché minima fonte di luce. Attendere l’alba? Le sembrava tanto sciocco farlo, tanto stupido: perché aspettare? Di certo si trattava di qualcosa di urgente. Si coricò e trasse da sotto il cuscino il fazzoletto insanguinato, lo premette contro la guancia e contro le labbra, lo baciò così tante volte da perdere il conto.
Per capire cosa diceva quel foglio di pergamena dobbiamo tornare a tre giorni prima, al castello di Lincoln. Bois-Guilbert era in piedi, rinvigorito da una dieta ricca di carne e di frutta. Richard aveva seguito i suoi miglioramenti con un certo ottimismo, tuttavia nutrendo ancora dubbi sulla sua fedeltà futura. Per questo decise, proprio tre giorni prima di quella pietra nella camera di Rebecca, di parlargli a quattr’occhi.
Si presentò nella sua stanza – una stanza chiusa a chiave, quindi una sorta di prigione – senza farsi annunciare. Bois-Guilbert in quel momento era accanto alla finestra e, alla vista del sovrano, rimase come sbalordito, indeciso su cosa fare. Perciò non fece assolutamente nulla oltre a voltare il capo nella sua direzione. Richard richiuse la porta dietro di sé e, da fuori, qualcuno la serrò a chiave, con due mandate.
Per un primo momento i due si fissarono: due paia di occhi azzurri, francesi, si specchiarono e si studiarono; forti e determinati quelli del re, diffidenti quelli del cavaliere. La tensione era palpabile e Richard era, tra i due, quello nelle condizioni di infrangerla. E lo fece indirizzandogli poche parole: «Si direbbe che la vostra bella ebrea vi abbia salvato la vita una seconda volta»
Bois-Guilbert deglutì e distolse per la prima volta gli occhi, puntandoli verso l’esterno, ai boschi che circondavano le mura. Non sapeva che il re aveva emanato l’ordine di vietare l’uscita dalla città, per cui immaginava Rebecca già lontana, sulla via di Sheffield.
«Si direbbe, infatti» sussurrò. Non fosse stato per il medaglione che portava al collo, la freccia gli avrebbe trafitto il cuore e Malvoisin sarebbe rimasto con l’amaro in bocca trovandolo già morto. Pensandoci, Bois-Guilbert scosse leggermente la testa.
Richard si avvicinò. Al fianco aveva la spada e tendeva a metterla in evidenza, come a intimidire il prigioniero. Bois-Guilbert lo notò subito, ma cercò di non far trasparire nessun timore.
«Voi sapete, immagino, cosa sia successo» disse lentamente.
«Certo – confermò – Il vostro medico ebreo mi ha raccontato tutto»
Richard scosse il capo: «Chiunque abbia deciso di uccidervi doveva essere piuttosto indisciplinato: ha tirato prima del segnale e ha mandato tutto all’aria. La prima freccia avrebbe dovuto essere per me»
Bois-Guilbert fece un cenno affermativo con la testa.
«Non ho deciso di risparmiarvi la forca per nulla» continuò Richard, cercando il suo sguardo. Finalmente, il Templare tornò a guardarlo dritto in viso. Nella sua espressione convivevano la gratitudine e l’amarezza. Richard intuì a cosa ricondurre i due opposti sentimenti e proseguì: «Capirete che la situazione non è affatto rosea né per me né per voi: da un lato ho voci fidate che mi consigliano di essere clemente e prendervi nel numero dei miei uomini; dall’altro ho la testimonianza di voci diverse, ma altrettanto degne di fede, che mi ricordano ogni vostra parola contro di me in Terrasanta e in Inghilterra. Vi confesso che non è facile tenere la spada nel fodero davanti a voi»
«Vostra Maestà – ribatté Bois-Guilbert con voce roca – Ero pronto a morire, più che a sopravvivere. Sono consapevole che l’impiccagione sarebbe stata la giusta ricompensa per i miei crimini... Ma se posso...» aggiunse, trattenendosi troppo tardi.
«Continuate, per favore»
«L’accusa di violenza, Sire... Quell’accusa era l’unica che non mi si potesse muovere» disse tra i denti, e il suo sguardo si accese di rabbia.
«Quell’accusa mi è stata suggerita da un uomo che dovreste aver sentito nominare: Abraham di Sheffield. E sono qui per parlare anche di lui»
A quel nome Bois-Guilbert ebbe uno scatto di rivolta e, per distrarsi, distolse nuovamente lo sguardo e si scostò dalla finestra, tornando verso il proprio letto.
«Perché dovreste parlare con me di un ebreo?» ribatté duramente.
«Perché sono consapevole che la clemenza non basta a comprarmi la vostra fedeltà»
Gli occhi di Bois-Guilbert saettarono rapidissimi di nuovo sul re. Per un attimo pensò di aver capito male; poi meditò sulla risposta e cominciò a comprendere.
«Intendete forse...?»
«Ho già mandato alcune missive all’arcivescovo di Canterbury per discutere del vostro stato. Credo che il vostro sacerdozio sia indegno, signore, e ritengo cosa migliore per voi e per la Chiesa che siate ridotto alla condizione di laico. Voi condividerete la mia scelta, presumo»
Bois-Guilbert annuì; i suoi occhi brillavano.
«In secondo luogo, devo darvi una notizia che forse vi scuoterà un poco: mi è stato confermato da fonti certe che Abraham di Sheffield ha ormai stretto con la vostra Rebecca il contratto matrimoniale che per gli ebrei segna l’inizio ufficiale del matrimonio»
Gli occhi di Bois-Guilbert, prima accesi, si spensero bruscamente. L’interesse lasciò il posto alla disillusione e il cavaliere sentì il bisogno di sedersi sul letto.
«Ciò nonostante – continuò Richard, ridonandogli un barlume di speranza – il mio medico ebreo mi ha rassicurato, dicendomi che in questa fase è ancora possibile intervenire. E io sono intenzionato a farlo»
«Come? Come possiamo intervenire?» lo interruppe, fremendo di impazienza.
Richard sorrise: «Ammettetelo, avanti. Non c’è più bisogno di farne una questione d’onore né per voi né per lei. Anzi, se davvero dovesse essere capitato qualcosa di scandaloso tra voi, questo è giusto il momento di confessarlo»
Bois-Guilbert, un po’ confuso, scosse il capo: «Non è accaduto nulla di scandaloso, Sire»
«Nulla?» domandò incredulo.
«Nulla... Ma non capisco...»
«E’ presto spiegato: se una fanciulla ebrea nubile si manifesta non più vergine e sa indicare il nome di chi l’ha disonorata, quell’uomo è tenuto a pagare un’ammenda e a sposare la detta fanciulla. Capite ora perché insisto»
«Io credevo che una fanciulla in simili condizioni fosse condannata alla lapidazione! Così ho letto nella Bibbia e così mi è capitato di vedere in Palestina...»
«Questo solo se la fanciulla è già legata dal fidanzamento. Rebecca si è fidanzata ufficialmente solo una volta giunta qui a Lincoln»
Bois-Guilbert scosse più forte la testa per schiarirsi le idee: di colpo gli sembrava di aver sbagliato tutto. Proprio quello che aveva cercato di evitare con tutte le forze si rivelava ora l’unico mezzo per ottenere la mano di Rebecca.
«Varrebbe anche con un cristiano?» domandò sottovoce.
«Lo faremo valere» affermò il re. Ma Bois-Guilbert si morse le labbra: «Vorrei dirvi che l’ho fatto, credetemi; ma l’ho rispettata anche quando lei sarebbe stata consenziente...»
Richard gli si avvicinò; aveva l’aria un po’ abbacchiata, e la sua voce non smentì la sua espressione quando proferì piano: «Il mio medico si sarebbe offerto di certificare lo stato della fanciulla se aveste confessato. Ma dare falsa testimonianza è contro la sua e la nostra Legge, per cui non certificherà mai contro la verità...»
Bois-Guilbert si illuminò all’improvviso: «Però io ho dormito con lei!» esclamò alzandosi.
Richard strabuzzò gli occhi: «E come avete fatto a dimenticarvelo?»
«No! Non è come credete... Ma è un bene che abbiate frainteso: se avete frainteso voi, fraintenderanno anche loro. Abbiamo dormito insieme, ma, intendo, abbiamo solo dormito. Basterà parlare un po’ ambiguamente e il vostro medico non dirà nulla di falso» spiegò, e le parole fluivano veloci via via che la mente abbozzava sempre più nitido un piano.
«Bisogna che lei sappia; altrimenti rischiamo che faccia scoprire l’inganno!» commentò Richard, una volta comprese le sue intenzioni.
«Dovremo mandarle un messaggio sufficiente a far capire solo a lei cosa intendiamo fare» convenne lui.
Uno sguardo d’intesa, un mezzo sorriso e qualche parola di saluto. Richard lasciò la stanza per andare a concordare con il medico ebreo i dettagli della faccenda e a studiare il modo con cui far arrivare il messaggio. Bois-Guilbert, una volta solo, tornò alla finestra; avrebbe voluto aggrapparsi al davanzale e gridare il suo nome: ormai la sentiva quasi sua e niente più lo spaventava.

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Capitolo 36
*** Capitolo 36 ***


“Tu a couché avec moi”
Poche parole sibilline e Rebecca si sentì offuscare la mente. Chi aveva scritto quel biglietto? Chi gliel’aveva gettato così rudemente attraverso la finestra? E soprattutto: era questa una minaccia, un avvertimento, una denuncia?
Accartocciò il foglio strappato e lo gettò in un angolo, tremando di paura. Tenne da parte la pietra, pensando a come poter spiegare la sua presenza nella stanza che non lasciava da settimane. Se l’avesse nascosta bene le serve non l’avrebbero trovata; non ci sarebbero stati problemi. L’avrebbe nascosta, infatti, ma qualcuno bussò alla porta prima che ne avesse il tempo. Perciò la lasciò cadere sotto il letto, sperando che passasse inosservata. Invitò ad entrare: ed ecco apparire Abraham, scuro in volto, anzi davvero adirato.
«Rendetevi presentabile e scendete» ordinò, lasciandole lo spazio per precederlo. Le disse che qualcuno voleva vederla. Arrivata nella sala in cui venivano ricevuti gli ospiti incontrò gli occhi scuri di un uomo ebreo di mezza età, vestito sontuosamente, intento fino a un attimo prima a conversare con un Solomon piuttosto incupito. Vedendola arrivare lo sconosciuto ammutolì e scambiò rapide occhiate con padre e figlio, poi si fece avanti e si presentò: «Shalom! Io sono Joseph ben Jacob, medico personale di Sua Maestà re Richard; se non sbaglio, voi siete Rebecca di York»
«E’ esatto» rispose gentilmente, aspettandosi un qualche messaggio da parte del sovrano e preparandosi all’idea di dover andare al castello.
«Mi rincresce conoscervi in circostanze spiacevoli come questa» confessò Joseph, abbassando gli occhi. Rebecca aggrottò la fronte e confessò a propria volta di non capire.
«Voi vi siete recentemente fidanzata con quest’uomo, non è vero? – domandò quello e, a un suo cenno, proseguì – Mi spiace davvero dovervi rimproverare, ma voi non siete nelle condizioni onorevoli per potervi sposare»
«Come osate? – lo interruppe Rebecca, alterandosi – Voi mettete in dubbio la mia integrità?»
Joseph le dedicò uno sguardo molto particolare, uno sguardo che lei non seppe interpretare fino in fondo. Poi le disse, parlando molto lentamente: «Brian de Bois-Guilbert mi ha rivelato di aver dormito con voi nel periodo in cui siete stati insieme nella foresta»
Rebecca stava per protestare contro tali insinuazioni, quando le divenne chiaro il significato del biglietto. Qualcosa però non tornava e lo rivendicò: «E quando ve l’avrebbe detto? Da quanto so, quell’uomo è morto la mattina dell’esecuzione...» Usava un tono duro e indifferente, ma la voce tremava e il viso si colorava di tinte rosse. Abraham studiava i suoi gesti e le sue parole per cogliervi non sapeva bene cosa; Solomon ascoltava con volto turbato.
«Brian de Bois-Guilbert è vivo e sta bene – disse il medico Joseph, e nel farlo sorrise leggermente – E mi ha confidato quanto vi ho detto. Sono qui per assicurarmi che sia la verità e non una vile menzogna... Ne va della rispettabilità di questa famiglia»
Rebecca trasse un respiro profondo e si affidò alla speranza: «E’ così – ammise giungendo le mani sul grembo – Abbiamo dormito insieme»
«E pensavate che io non me ne sarei accorto?!» strillò Abraham, quasi aggredendola. Solomon redarguì il figlio per il suo comportamento e il medico lo allontanò.
«Questa donna pagherà secondo la Legge – assicurò questi, e proseguì – Secondo la Legge, appunto, dovrà corrispondervi una somma congrua al danno subito. Inoltre, il cavaliere cristiano vi ripagherà ulteriormente. Quanto a voi, Rebecca di York, dato che il peccato è stato commesso prima del contratto matrimoniale, si è compiuto in un’epoca in cui eravate libera da qualsiasi vincolo e per di più vittima di rapimento senza possibilità di essere salvata. Secondo la Legge, il cavaliere dovrà risarcire il danno che vi ha arrecato oppure sposarvi senza richiedere dote»
Rebecca simulò un’espressione di smarrimento, ma il suo cuore aveva già preso una salda decisione.
Chiese di essere accompagnata alla presenza del re, per discutere della sua situazione; il medico, però, oppose un’altra proposta: Abraham sarebbe andato al castello a contrattare un giusto risarcimento e solo in seguito il re l’avrebbe ricevuta. Rebecca accettò e così pure Abraham, che si avviò subito, più infervorato che mai – «Vedremo chi l’avrà vinta!» pare abbia detto superando la porta –, verso il castello dove Richard non vedeva l’ora di assistere al confronto.
«Figliola – la avvicinò Solomon con voce rotta, una volta che furono rimasti soli – Vi chiamo figliola perché siete questo e non altro per me: non pensiate di essere caduta in disgrazia davanti ai miei occhi. Voi siete stata vittima di un barbaro, questo è sicuro. Il fidanzamento è miseramente rotto, me ne rendo conto. Non rotto per vostra mancanza; se anche Abraham volesse intestardirsi, gli impedirei di sposarvi»
Rebecca indossava in quel momento il velo per uscire di casa; il medico Joseph la aspettava appena fuori. Tuttavia, si attardò a scambiare quelle che, con tutta probabilità, sarebbero state le sue ultime parole con il vecchio amico di suo padre.
«Non desiderate più la nostra unione?» domandò calandosi il velo davanti al viso.
Solomon scosse la testa: «No, perché conosco troppo bene mio figlio e nutro troppo affetto per voi»
«Credevo che fosse questo affetto a ispirarvi quel desiderio»
«Abraham non saprebbe perdonarvi una colpa come questa – bisbigliò – Ha il cuore duro, Abraham, acerbo come un frutto immaturo»
«Quale ebreo osservante prenderebbe in moglie una donna disonorata?» constatò amaramente.
Solomon esitò, poi vinse la riluttanza e rispose: «Io l’ho fatto. Ed Abraham non è figlio mio»
Rebecca spalancò i grandi occhi neri: «Cosa dite, Solomon?»
«Lui non sa nulla e vi prego di non fargliene parola» fece il vecchio ebreo, senza aggiungere altro. Le indirizzò un cenno di saluto piuttosto imbarazzato e si diresse verso le scale. Rebecca si riscosse e si avviò in fretta alla porta.
 

Bois-Guilbert squadrò in un istante l’ebreo che sopraggiungeva a passo spedito verso di lui. Lo aspettò in piedi, impettito, una mano poggiata sul tavolo che li divideva. Statura bassa, barba folta e nera, così come i capelli sulle spalle, crespi come quelli di un saraceno; abiti riccamente decorati alla maniera orientale e occhi infiammati di gelosia. Tutto il ritratto era condizionato da una specie di autocontrollo che Abraham cercava di imporre al proprio corpo, per conformarsi all’atteggiamento che era solito tenere in presenza di estranei. Eppure la questione doveva toccare le corde più delicate della sua anima, se dimenticava persino di inchinarsi davanti al re che sedeva a capotavola.
«Voi, infedele – apostrofò Bois-Guilbert una volta raggiunto il tavolo – Che l’Inferno vi inghiotta!»
«Suvvia, Abraham di Sheffield – intervenne il re, riportando con un cenno la calma – Quanto è accaduto è sicuramente molto grave e comprendo la vostra ira; ma detesto che tali questioni rimangano in sospeso e desidero che in questa occasione arriviamo a una soluzione del conflitto»
Abraham annuì, ricordandosi solo allora di inchinarsi. Bois-Guilbert mantenne un dignitoso silenzio, così come il re gli aveva raccomandato in precedenza.
«Il mio suddito è addolorato per il danno che ha arrecato a voi e alla fanciulla – cominciò Richard – Ma si offre di risarcirvi entrambi: al momento non ne è in grado, non possedendo risorse di nessun tipo, ma giura di farlo nel prossimo futuro; per quanto riguarda il matrimonio riparatore che è in uso presso ebrei e cristiani in questo genere di casi, egli si dichiara disposto a prendere in moglie Rebecca di York, consapevole che nessun altro uomo accetterebbe di sposarla dopo un fatto tanto disonorevole»
Abraham sembrò trattenere un nuovo scoppio d’ira e si astenne dal dare qualsiasi risposta. Bois-Guilbert capì di dover intervenire per muovere il dibattito: «Come Sua Maestà ha spiegato, sono pronto ad addossarmi qualsiasi onere. Certo, credevo che in discussioni come questa la presenza della fanciulla interessata fosse importante... Preferirei continuare alla presenza di Rebecca»
«Rebecca starà bene rinchiusa in una stanza finché la sua condizione non verrà riconosciuta. E, in tutta franchezza, è cosa inusitata che una donna partecipi a discussioni come questa» fu la risposta pronta e secca dell’ebreo.
Bois-Guilbert alzò il sopracciglio con aria di superiorità e constatò: «Se conosceste Rebecca sapreste bene che la sua presenza può essere solo d’aiuto a sbrigare la faccenda»
«Evidentemente non la conosco bene quanto voi, signore» ribatté velenoso Abraham. Bois-Guilbert gli lanciò un’occhiata minacciosa e chiuse le mani a pugno.
«Le vostre parole vi rivelano per quello che siete, Abraham: un uomo dappoco, attaccato al possesso ed estremamente permaloso. Avete forse paura che una donna della statura di Rebecca possa adombrarvi? Temete di non riuscire a imporvi su una donna dal carattere forte e caparbio? È per questo, ditemi, che la spregiate tanto?» lo provocò.
Abraham, prevedibilmente, divenne ancor più rosso di prima e ribatté: «Fosse stato per me, l’avrei fatta lapidare come impone la Legge; mi ha mentito più volte, sostenendo la propria integrità; ha messo in dubbio la mia potestà su di lei; forse tra voi normanni le donne hanno più licenza che non tra di noi, ma ciò non vi riguarda. Se siete disposto a farvi comandare a bacchetta da una fanciulla viziata, fate pure. Io, secondo quanto prescrive la Legge, voglio il risarcimento che mi spetta»
Bois-Guilbert ascoltò la sua risposta frenando malamente l’impulso di mettergli le mani attorno al collo: «Vi riempite tanto la bocca della Legge, come tanti altri che ho conosciuto in Palestina e in Inghilterra. Mi conforta l’aver conosciuto anche gente molto migliore di voi, aperta al dialogo e capace di riconoscere il proprio prossimo. Ce ne sono tanti, in Palestina, che sono saggi forse quanto i patriarchi che entrambi veneriamo. Peccato che siano in pochi a dar loro retta: finiranno come i profeti, non credete? Perseguitati in vita ed osannati solo dopo la morte»
Abraham sbigottì e replicò: «Proprio voi parlate! Voi che avete infranto tutti i comandamenti e vi siete fatto beffe dei vostri voti! Voi volete insegnare a me la saggezza? Non siete altro che un ipocrita profittatore»
«Non ho mai affermato il contrario – confermò Bois-Guilbert – Io non sono mai stato un cristiano perfetto e come me ce ne sono molti altri; così ci sono ismaeliti degni di rispetto ed altri indegni perfino del titolo di uomo. Come anche tanti ebrei che si riparano dietro la Legge per giustificare le proprie azioni. Vi dico una cosa, Abraham: se la vita mi ha insegnato qualcosa, questa è non giudicare le persone in base alla religione che professano. Devo la vita più a una donna ebrea che non a un medico cristiano; ho visto molti commilitoni perire per l’incuranza di religiosi cristiani, mentre molti altri si sono salvati perché medici ebrei, votati solo alla loro professione e alla loro fede, sono stati costanti nell’accudirli. Ho visto poi ismaeliti più devoti di tanti crociati e li ho ammirati benché fossero miei nemici. Non c’è nulla di più miserevole che invidiare la fede di un altro»
Abraham aveva già pronta una replica di fuoco, ma Richard sollevò un braccio e lo fece tacere ancor prima che iniziasse a parlare.
«Riportiamo la discussione là dove serve, e smettiamo di scannarci come fossimo in terra di crociata. Il nostro cruccio è un altro, signori, e va affrontato seriamente»
Abraham piegò nuovamente il capo e lasciò scivolare sul tavolo un foglietto di pergamena su cui risaltavano poche righe in inchiostro nero. Erano scritte in ebraico, e a Bois-Guilbert bastò un’occhiata fugace per capire di cosa si trattasse. Di ebraico sapeva davvero poco: lo parlava discretamente ma in ambiti molto limitati e, per quanto riguardava la lingua scritta, era pressoché analfabeta. Perciò sentì gelare il sangue nelle vene al pensiero che quelle righe dicessero qualcosa di troppo.
«Cosa state presentando, Abraham? Io non leggo questa lingua, perciò sbrigatevi a tradurne le parole» ordinò il re con tono burbero.
Abraham lanciò uno sguardo sprezzante all’avversario, raccolse il foglio e lesse: «Ad Abraham figlio di Solomon di Sheffield. Pace a voi! La benedizione del Signore sia sulla vostra casa. Rebecca figlia di Isaac di York vi chiede aiuto: i banditi hanno ucciso suo padre ed ella si trova in balia di un antico nemico. Parte oggi dalla locanda detta “Cervo rosso” sulla strada tra Lincoln e Nottingham. Sarà necessario il pagamento di un servizio alla mia scorta; in cambio della vostra generosità Rebecca offre se stessa e la propria dote, se questa proposta potrà trovare favore ai vostri occhi»
Seguivano l’indicazione di data e luogo e, in calce, la sottoscrizione di Rebecca. Bois-Guilbert si scosse leggermente, stringendo le braccia conserte davanti al petto. Il re aveva ascoltato con attenzione, poi aveva preso un poco di tempo per sé per riflettere. Dopodiché, alzando una mano, accennò a una guardia posta a custodia dell’ingresso di avvicinarsi.
«Portami qui il mio medico Joseph l’ebreo – ordinò, quindi, rivolto ad Abraham, proseguì – Io non sono pratico delle vostre usanze: chiedo quindi il consiglio di un mio servo fidato»
L’ebreo assentì, riponendo il biglietto. Bois-Guilbert assentì a propria volta traendo un respiro profondo.
Joseph arrivò trafelato. Si inchinò e si pose affianco al suo re, il quale gli fece porgere da Abraham il biglietto; Joseph lesse rapidamente e, mentre la lettura scorreva, il suo viso si faceva più serio e cupo.
«Vostra Maestà – proferì alla fine, restituendo il biglietto – Cosa volete sapere al riguardo?»
Abraham studiava il volto del correligionario esattamente come aveva fatto in casa propria. Bois-Guilbert, invece, teneva lo sguardo basso.
«Voglio sapere se quel biglietto significa qualcosa per un ebreo osservante» rispose Richard lentamente.
Joseph si soffermò a pensare, poi ribatté: «No, Sire: sono parole certamente importanti, ma non hanno valore nel rito del fidanzamento»
«Secondo la Legge di Mosè – sbottò Abraham – Quando una donna fidanzata viene disonorata, lei e colui che l’ha disonorata devono morire per lapidazione»
Joseph saettò uno sguardo gelido su di lui: «Qui non sussiste alcun fidanzamento! Niente contratto, niente anello! Sono le parole di una fanciulla confusa dal dolore e dalla paura»
«Io mi sarei comportato da fidanzato se solo le circostanze me l’avessero permesso! D’altro canto i nostri padri avevano già preso accordi riguardo al nostro matrimonio»
Joseph impallidì: «Solomon di Sheffield me ne avrebbe parlato: eravate lì con me quando gli ho comunicato la notizia. Non mi è parso che volesse sollevare obiezioni»
«Io le sollevo, invece: chiedo che la Legge venga applicata e che gli adulteri paghino per il loro peccato!»
Richard si alzò inaspettatamente: «Non vi permetto di emanare sentenze di morte nel mio regno, Abraham di Sheffield. Quale autorità avete, ditemi? La Legge di cui parlate è la stessa che onoriamo anche noi, solo liberi dalle bende che chiudono i vostri occhi!»
Abraham ristette al rimprovero del re e anche Joseph chinò il capo in segno di reverente sottomissione al sovrano. Bois-Guilbert, per quanto lo riguardava, avrebbe affrontato valorosamente la lapidazione: sentiva in corpo la forza di mille uomini. Perciò, per contenersi, restava a braccia conserte, imperturbabile a un primo sguardo, ma segretamente scosso.
«Ora io, re Richard Plantagenet, affermo che qui non sussiste fidanzamento legittimo, in quanto la fanciulla, prima della stipula del contratto, ha giaciuto con il mio suddito. Tuttavia il contratto è stato steso e la sua rottura prevede un’ammenda: ebbene, Rebecca di York pagherà la propria dote in risarcimento ad Abraham di Sheffield, il quale desisterà dall’accampare qualsiasi diritto sulla persona della detta Rebecca di York. D’altro canto, io stesso ordino al mio suddito Brian de Bois-Guilbert il pagamento di un’ammenda pari a metà della dote della fanciulla da lui disonorata in risarcimento ad Abraham di Sheffield. Se poi il mio suddito, in consonanza con quanto la legge ebraica prevede, vorrà prendere in sposa la fanciulla Rebecca, io ordino che nessuno opponga obiezioni, perché tutto avviene nell’osservanza della tradizione del popolo di Giuda e con l’assenso del re d’Inghilterra»
Con l’aiuto di uno scriba di corte fu stilato un nuovo contratto in cui si riportava il debito del cavaliere nei confronti dell’ebreo e la promessa di pagamento sotto la minaccia del carcere in caso di inadempienza. I due contendenti apposero la propria sottoscrizione e l’ebreo lasciò il castello ormai al tramonto. Rebecca fu condotta nella stessa stanza poco dopo, e ad attenderla trovò solo Richard che le sorrideva benignamente.

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Capitolo 37
*** Capitolo 37 ***


«Rebecca, vi rivedo con piacere» disse il re accogliendola. Sedeva ancora capotavola e nell’attesa si era fatto portare una coppa di vino rosso, da cui trasse un sorso.
La ragazza aveva appena rialzato il viso dopo la riverenza, quando domandò a mezza voce: «Lui dov’è? Posso vederlo?»
Richard sorrise di nuovo: «Lo incontrerete tra poco. Joseph vi ha già detto che sta bene?»
«Sì, sia ringraziato il Cielo!» mormorò giungendo le mani sul petto. Il re mutò il sorriso in un’espressione molto più grave e chiese: «Siete consapevole della messinscena? Io lo so già, ma confermatemelo: voi siete intatta e onorata, non è vero?»
Rebecca sentì crescere le lacrime sull’orlo delle ciglia: «Sì, Vostra Maestà, lo sono... Ma il medico ha detto...»
«Vedo che avete capito perfettamente – la interruppe con un cenno – Ora restano da sbrigare alcune faccende. Rispondete con sincerità, senza temere alcunché da parte mia o di qualcun altro. Dunque: avete intenzione di rinunciare alla vostra fede per abbracciare quella cristiana?»
Rebecca si irrigidì: «Questo mai»
Richard annuì: «Molto bene, d’accordo. Vi confesso che sospettavamo questa risposta. Allora proseguiamo: siete disposta a sposare il mio suddito cristiano Brian de Bois-Guilbert nonostante la differenza di fedi?»
«Se potessi, sì, Vostra Maestà. Nel rispetto delle nostre fedi e tradizioni»
Il re accennò ancora bonariamente, sollevando la coppa: «Qui arrivano i problemi – ribatté, e bevve – Ho discusso a lungo con Joseph, che, oltre a essere un buon medico, è anche un dotto ebreo e amico del rabbino di Lincoln: Joseph mi ha suggerito di celebrare una cerimonia ebraica e una benedizione cristiana, di modo che entrambi vi sentiate legati da un vincolo sacro. Se voi, Rebecca, condividete questa proposta, saremmo già a buon punto»
Rebecca rifletté per un istante, poi rispose: «Trovo che l’idea del medico sia saggia... Solo, non capisco come possa... Essendo egli un consacrato...»
«A questo avete già posto un rimedio voi stessa – replicò – quando mi avete suggerito di farlo ridurre allo stato laicale. Attendo tra breve un documento dell’arcivescovo di Canterbury e conto che arrivi entro questo mese: quando l’avremo, le nozze potranno essere celebrate. Ma a questo punto...» aggiunse alla fine, per poi fare un cenno alla propria destra, verso un angolo in ombra della stanza, occupato tutto da un vecchio arazzo. L’arazzo si mosse e comparve un uomo. Rebecca non impiegò nemmeno un istante a riconoscerlo e, se il re non l’avesse trattenuta richiamando a sé la sua attenzione, sarebbe corsa immediatamente verso di lui. Brian de Bois-Guilbert avanzava con passo regolare, il viso illuminato da un sorriso incantato.
«Rebecca di York – aveva detto dunque il re con tono solenne – E’ costui l’uomo che ha dormito con voi nella foresta di Sherwood?» C’era un che di divertito, di scherzoso nel suo modo di fare, come se facesse la parodia di se stesso. Rebecca non ci fece caso e, immersa totalmente nella solennità della situazione, annuì e dichiarò: «Sì, Vostra Maestà, è lui!»
Bois-Guilbert era ormai arrivato accanto al re; Rebecca si trovava all’altro capo del tavolo, immobile.
«Avvicinatevi, Rebecca di York» ordinò il re, e nello stesso istante anche Bois-Guilbert si avviava a raggiungerla. Si incontrarono a metà del tavolo, le loro mani si strinsero e solo per rispetto al sovrano non si abbracciarono, benché entrambi lo desiderassero ardentemente.
«Ora prestatemi molta attenzione – continuò Richard alzandosi in piedi – Ho le mie condizioni da porre perché questo matrimonio possa svolgersi»
I due, allora, si disposero in modo da avere il re di fronte e si prepararono ad ascoltare.
«Vi sposerete dunque alle mie condizioni, che sono queste che vi dirò: i vostri figli, perché vi auguro di averne tanti e sani, saranno educati alla religione cristiana. Essi infatti saranno figli di padre cristiano e sudditi di un re cristiano; spesso è proprio questo aspetto che causa maggiori dissapori tra genitori di fede diversa, e io voglio evitare che ciò accada tra voi, a costo di intromettermi. Anche io, infatti, ho i miei interessi in questa unione: voi, Brian de Bois-Guilbert, non siete scampato alla forca per i vostri meriti passati, ma per quelli futuri. Voi mi seguirete come un fedele vassallo nelle mie campagne militari, mettendo al mio servizio la vostra abilità guerriera. Conto di partire per la Normandia da qui a un anno, un anno e mezzo al massimo: voi siete originario di quelle terre e siete un ottimo cavaliere. Mi aspetto che mi serviate al meglio.
«Voi, Rebecca, mi ripagherete della salvezza di quest’uomo come avete promesso; tengo però ad aggiungere dell’altro: non solo il mio, ma tutti i debiti che debitori cristiani hanno contratto con vostro padre verranno rimessi, perché è inusitato che la moglie di un nobile cristiano eserciti l’usura. Per quanto riguarda Abraham, pagherete l’ammenda per la rottura del fidanzamento così come avete pattuito con lui. Non ho nulla da ridire sulla vostra professione di guaritrice, in questo verrete a patti con vostro marito. Ecco, le mie condizioni sono queste»
Le sue parole caddero nel silenzio. I due innamorati si guardarono a lungo in viso, occhi negli occhi, finché Bois-Guilbert si trovò pronto ad affermare: «Io accetto le condizioni»
Rebecca, più insicura, più prudente, avrebbe voluto avanzare qualche garanzia per la vita del futuro sposo, ma temeva, d’altro canto, di sminuirlo davanti al suo re e protettore. Per cui, sorvolando sull’educazione dei figli e sui prestiti, affermò a propria volta: «Anch’io accetto»
«Molto bene: come mi ha proposto Joseph, procederemo alla cerimonia non appena avrò tra le mani il documento dell’arcivescovo; nel frattempo dovete considerarvi fidanzati secondo la tradizione ebraica, per cui vi sarà vietato vedervi fino al giorno delle nozze. Ma così sia: l’attesa moltiplicherà la gioia. E io lo so bene» concluse Richard, sollevando la coppa nuovamente e bevendo l’ultima goccia di vino rimasta.
Bois-Guilbert trasse da una tasca un involto di stoffa e lo consegnò a Rebecca.
«Sua Maestà il re mi ha detto che hai conservato il mio pegno... Lo stesso ho fatto io; anzi, è il tuo pegno che ha conservato me» sussurrò, invitandola a scostare la stoffa. Rebecca obbedì e svelò il medaglione forato. D’un tratto le fu tutto chiaro e istintivamente gli mise una mano sul petto: «Vi fa male?» domandò. In realtà avrebbe voluto intendere “E’ grave?”, ma una tale domanda era smentita dall’evidenza, dal fatto che lui era vigoroso e in piena salute.
«Non più» rispose.

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Capitolo 38
*** Capitolo 38 ***


C’era agitazione nel castello: non si era mai visto nulla di simile. Nel castello tutto era sospeso, come in una fiaba recitata da un menestrello: lo sposo, in un abito scarlatto, aveva raggiunto la stanza della sposa. Poi era entrato scortato da due testimoni, aveva trovato la sposa seduta su una sedia, vestita di tutto punto, rossa come la vampa d’amore. Aveva sollevato il velo e contemplato per un attimo la bellezza raggiante di quel viso, poi aveva fatto scivolare di nuovo il velo giù, come se quella vista lo stordisse di beatitudine.
Un baldacchino era stato innalzato a un capo del salone delle udienze e lì, sotto quel baldacchino, lo sposo era andato ad aspettare la sposa. Ed ella apparve come avvolta in un alone di divina dolcezza, scortata da fanciulle nubili e da guardie del re – queste ultime a debita distanza – ammantata di stoffe e gioielli come fosse una regina. Il velo le copriva il viso, ma lo sposo non aveva più motivo di nutrire dubbi e non si voltò a guardarla entrare, benché le esclamazioni di stupore di tutti i curiosi accorsi per l’evento lo tentassero non poco.
La sposa lo raggiunse e gli dedicò uno sguardo segreto, celato dal velo geloso. Il rabbino la invitò a compiere i sette giri rituali attorno allo sposo ed ella, aiutata dalle damigelle, li portò a termine senza grandi difficoltà. Quindi tese la mano destra e lo sposo, traendo un anello d’oro fino, glielo mise al dito, pronunciando ad alta voce la formula: «Osserva, tu mi sei consacrata con questo anello secondo la legge di Mosè». Il rabbino allora porse il calice e impartì su di esso le benedizioni, e al termine gli sposi ne bevvero un sorso a testa. Il bicchiere di vetro, ultimo atto del rito, fu avvolto in un panno e posato a terra. Lo sposo alzò il piede e lo calpestò, frantumandolo in un colpo con sicurezza.
La piccola cerchia di persone ebraiche accorse all’evento si alzò festante e gli spettatori cristiani li imitarono subito, appena compresero che la rottura del bicchiere significava la fine della cerimonia. Il rabbino disse poche parole agli sposi prima di andarsene sorridente a rendere omaggio davanti al re. Si fece avanti allora il vescovo di Lincoln che, allontanando leggermente gli sposi dal baldacchino, impartì loro la solenne benedizione cristiana che segnava l’inizio della coabitazione legittima di una coppia. I cristiani presenti, sposo compreso, si segnarono con il segno di croce. Dopodiché, l’euforia esplose di nuovo prepotentemente. Per la città si distribuì birra alla salute degli sposi e il popolo fu accontentato.
«Tornando al cerimoniale ebraico, ora che siete sposati – intervenne il rabbino – E’ giunto il momento dell’ychud. Il banchetto nuziale comincerà tra un’ora circa; le fanciulle ebree verranno a chiamarvi»
Sia Bois-Guilbert sia Rebecca erano ben consapevoli di cosa li aspettasse e si diressero alla stanza nuziale accompagnati dal piccolo corteo ebraico. Avevano oltrepassato la soglia e la porta si era chiusa dietro di loro. La luce del sole di fine settembre penetrava ancora dalle due finestre e bastava a illuminare tutto lo spazio della camera. D’un tratto si trovarono soli, isolati dal mondo di fuori. Quel momento era un primo assaggio di matrimonio.
Rebecca guardò il letto nuziale e vi si diresse spedita, come se attendere ancora sulla soglia la imbarazzasse. Fece per sollevare le lenzuola, ma Bois-Guilbert la richiamò, ingiungendole di non farlo.
«Ma come? – domandò smarrita – È il rito...»
Bois-Guilbert fece cenno di no e rispose: «Un’ora non è sufficiente. Avremo tutta la notte per questo...»
Rebecca si sentì avvampare le guance e solleticare gli occhi. Tuttavia, non demorse: «Il rito ebraico prescrive che in questo momento noi...» ma non riuscì a portare a termine la frase. Bois-Guilbert sorrise della sua innocenza e si avvicinò. Le accarezzò la guancia, poi si sedette sul letto e la prese per i fianchi con più confidenza. La fece sedere di sbieco sulle proprie ginocchia e, dopo averla osservata intensamente, ripeté: «Un’ora... Cosa vuoi che sia? Vogliono forse metterci fretta?»
«E come passeremo quest’ora?» domandò Rebecca, un po’ impertinente.
«Sai, non mi hai ancora dato nemmeno un bacio. E questo è disdicevole per una sposa bella e dolce come te»
«Potrei dire altrettanto di uno sposo appassionato come voi»
Bois-Guilbert sorrise: «Non mi accontenterò di un bacio soltanto. Questa sarà per noi l’ora dei baci»
«Oh, sì! – concordò Rebecca, cingendogli le spalle con le braccia – Ho una gran sete dei vostri baci» aggiunse, o forse avrebbe voluto farlo, perché Bois-Guilbert le si accostò tanto da suggerle quelle parole direttamente dalle labbra.

Un banchetto per pochi invitati accolse i due sposi dopo un’ora abbondante di segregazione; le fanciulle ebree, sopraggiunte prima di loro, avevano già fatto circolare nella sala la notizia della mancata consumazione. E, secondo il rituale ebraico, questo era a dir poco strano. Ma i due sposi avevano un’aria seria e serena, per cui nessuno, specie i cristiani, si allarmò.
Lo sposo sedeva alla sinistra di re Richard, mentre alla sinistra della sposa si trovava il medico Joseph. Tra gli invitati – per lo più ufficiali e funzionari della corte del re – c’erano Robert di Huntingdon con sua moglie Marian, il suo fidato “scudiero” John e sua moglie Beth. Un menestrello di passaggio, un certo Dale, accompagnava il banchetto con il melodioso suono della sua cetra.
Non si potrebbe credere l’armonia che aleggiava nella sala: tutti parlavano cordialmente, senza che la razza diversa costituisse un ostacolo; si mescolavano francese, sassone ed ebraico in una commistione di lingue che ricordava Babele. Le indagini si erano chiuse, gli ultimi sospetti erano ormai assicurati alla giustizia dello sceriffo del luogo e Richard aveva promesso di ripartire entro qualche giorno, per evitare di consumare tutte le risorse della zona. Nel bel mezzo della cena si ritrovò a parlare proprio di questo con il vescovo e, tra le altre cose, disse: «Lo sposo mi raggiungerà tra qualche mese insieme alla sposa... Certo, ora hanno ben altro a cui pensare...»
E in effetti più volte nel corso del banchetto i due sposi si erano scambiati sguardi fugaci, carichi di tutti i desideri inappagati. Talvolta capitava che Bois-Guilbert sussurrasse qualche parola all’orecchio di Rebecca, e lei arrossiva sorridendo. Pochi ci fecero caso, ma entrambi mangiarono veramente poco e parlarono, forse, ancora meno. Quando il vescovo, con tutti i religiosi del suo seguito, ebbe lasciato il banchetto, intervennero i buffoni con motti e scherzi che ravvivarono il clima.
Rebecca, poco dopo, mandò un cenno alle fanciulle ebree che formavano il suo corteo nuziale ed espresse il desiderio di ritirarsi nella propria camera; anche le donne cristiane presenti si alzarono per accompagnarla. Un lungo sguardo di intesa tra lei e Bois-Guilbert precedette la sua partenza. Lui si rivolse, con un certo compiacimento, verso il suo sovrano, e si immerse in una disquisizione sulla caccia al cervo interrotta qua e là dalla battuta sagace di qualche buffone impertinente.
L’assenza di donne e religiosi attizzò ulteriormente l’allegria burlesca della festa. I calici si alzavano in rinnovati brindisi con svariati auguri, dai più tradizionali ai quasi irripetibili. L’aria era frizzante come il vino che sgorgava dalle botti e veniva distribuito dai servi. Le miti canzoni del menestrello Dale vennero scalzate da ben altre composizioni. Tuttavia, gli occhi di Bois-Guilbert erano assenti e il suo calice non si vuotava mai a causa dei sorsi troppo parchi; come se volesse mantenere un contegno, una lucidità che non lo facesse sfigurare nel giorno delle nozze. Anche Richard, benché avesse la fama di amante del vino, cercò di porsi un freno per rispetto agli invitati.
Era forse passata mezz’ora dalla partenza di Rebecca, quando Marian e due ebree tornarono nella sala del banchetto e si accostarono educatamente allo sposo. Marian si chinò e sussurrò: «La sposa è pronta e vi aspetta»
Bois-Guilbert si sentì rimescolare tutto e si riscosse. Chiese congedo al re e salutò gli invitati, che ricambiarono rinnovando gli auguri e gli incoraggiamenti. Marian e le due fanciulle lo accompagnarono fin quasi alla porta della camera nuziale, quindi si congedarono con una riverenza.
Bois-Guilbert preferì entrare da solo. Non bussò: aprì la porta lentamente, in modo da non far rumore. La luce era fioca, solo una candela poggiata su un tavolino; dalle finestre penetrava qualche raggio argenteo della luna. Rebecca era inginocchiata a lato del letto, immersa nella preghiera. Indossava solo una camicia da notte, sottile come un velo, e come un velo trasparente. La candela si trovava dietro di lei e la sua luce proiettava sulla stoffa i contorni nitidi del suo corpo. Bois-Guilbert chiuse la porta con uno schiocco e a quel punto Rebecca si accorse di lui. Fece per alzarsi, ma lui le disse: «Continua, ti prego», e lei tornò a chinare il capo, sussurrando le sue preghiere.
Il suo cuore batteva forte, ma dopo l’arrivo di lui batteva anche più forte. I muscoli si irrigidirono, tuttavia si sentì molle, debole e confusa. Balbettò rapidamente l’ultima parte delle orazioni e poi si volse nuovamente a lui.
Le aveva dato le spalle per non profanare, con l’ebbrezza dei sensi, il momento sacro della preghiera. Dio prima di tutto, e così si era fatto il segno di croce e aveva detto qualche parola che ad orecchio gli suonava sacra. Non aveva la concentrazione adatta alla preghiera, non in quel momento. Chissà se aveva fatto caso, Rebecca, alla trasparenza della sua camicia, al modo in cui la luce disegnava le sue forme riservando ben poco all’immaginazione? No, non vi aveva fatto caso, o si sarebbe coperta. Era un tipo pudico, lei, e non avrebbe permesso nemmeno allo sposo di vederla così.
«Ho finito» lo richiamò la sua voce, appena turbata. Frettolosamente, Bois-Guilbert concluse il proprio tentativo di preghiera e si volse impaziente. Rebecca era in piedi: la veste cadeva vaporosamente sul suo corpo. La candela svelava la linea del bacino, delle cosce, dei polpacci... Una vista di cui Bois-Guilbert non volle più privarsi. Prima di avvicinarsi si slacciò la pesante cintura borchiata che gli stringeva i fianchi; la lasciò cadere là dov’era e poi si avviò per raggiungerla a lato del letto. I suoi occhi non erano in grado di dissimulare nulla di ciò che provava e Rebecca lo capì; ne sembrò, anzi, un po’ intimorita, e si strinse nelle spalle.
«Ti faccio paura?» sussurrò dolcemente lui, accarezzandole la guancia.
«Non ho mai avuto paura di voi, lo sapete» ribatté.
Bois-Guilbert trasse due profondi respiri e parve pronto a dire qualcos’altro, ma lei lo anticipò: «Posso vedere la vostra ultima cicatrice?»
Le sorrise e rispose: «Aspetta un momento»
Si sfilò la casacca rossa e la fece scivolare dietro di sé, quindi sfilò anche la camicia bianca. Rebecca, alla luce tremula della candela, scorse la cicatrice ancora arrossata nel centro del petto, la sfiorò con le dita e constatò: «Proprio dove avete voluto che vi baciassi alla locanda...»
Lui approfittò della sua distrazione per sollevarla tra le braccia; fu una strana sensazione sentirla trasalire. Salì in ginocchio sul letto e la adagiò delicatamente al centro del materasso: lei stessa aveva già ritratto le lenzuola e steso un telo bianco. Non appena la vide lì, distesa nel candido ammanto della camicia, il suo desiderio crebbe a dismisura. Aveva già afferrato un lembo della sua veste per sfilargliela quando lei, con la mano, lo fermò.
«Per favore – disse guardandolo con grandi occhi espressivi – spegnete prima la candela»
Bois-Guilbert si lasciò sfuggire un riso, ma non lo fece per mortificarla. Si alzò, raggiunse il mobiletto su cui si trovava la candela e soffiò con decisione. Dopo un ultimo lampo di luce, il buio si impadronì della stanza. Il fruscio di lui che risale sul materasso, della veste sfilata e lasciata da parte, un gemito soffocato...

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Capitolo 39
*** Capitolo 39 ***


Bois-Guilbert si issò sulle braccia e puntò le ginocchia contro il materasso per darsi lo slancio e rialzarsi. Era ormai sorto il sole e dalle finestre entrava la tenue luce dell’alba. Rebecca era sotto di lui, gli occhi chiusi e un’espressione di piacevole sfinimento sul viso. Respirava profondamente e il suo petto si alzava e si abbassava con ritmo regolare.
«Riposa, ora...» le disse in un soffio e lei gli sorrise, stiracchiando il corpo illanguidito. Non la infastidiva più l’idea che la vedesse così, nuda. E lui provava nei suoi confronti un attaccamento diverso, non meno ardente, non meno rispettoso... Semplicemente diverso.
Si alzò, rimboccandole addosso le lenzuola, come a custodirla da sguardi indiscreti. Quindi sollevò da terra la camicia da notte che era scivolata giù dal letto, raccattò poi i propri vestiti e li indossò nuovamente, preparandosi a raggiungere Robert e John che gli avevano dato appuntamento per una passeggiata a cavallo quella mattina. Gli dispiaceva lasciarla sola, ma d’altro canto se non l’avesse fatto sarebbe stato capace di assaltarla ancora, tanta era la passione che tuttora lo animava. Non rinunciò, comunque, visto l’anticipo sull’orario della messa, a sedere sull’orlo del letto per guardarla. Solo il volto, il collo, le spalle e una mano restavano scoperte; la bellezza naturale di quel volto, di quel corpo... e pensare che fosse sua, solo sua e di nessun altro... Per un momento, Bois-Guilbert si rese conto di essere un uomo veramente fortunato. L’amava, l’amava alla follia, e si era consacrato unicamente a lei. Suo e di nessun’altra donna; erano legati da un vincolo infrangibile ed esclusivo. Qualcosa a cui Bois-Guilbert non era affatto abituato, ma che avrebbe tollerato volentieri. D’altro canto, come poteva dire di possedere, quando non possedeva più nemmeno se stesso?
Più la contemplava, più desiderava che quel momento, quella mattina, la prima del loro matrimonio, non finisse mai. Aveva ancora addosso le sensazioni fisiche ed emotive migliori. Il suo corpo era turbato da grande affetto e la sua anima era calma, stabile e devota. Non avrebbe potuto trovarsi in condizioni più invidiabili.
Rebecca volse il viso nella sua direzione e socchiuse gli occhi alla pallida luce del sole nascente.
«Restate qui – bisbigliò, afferrandogli teneramente un braccio – Vi prego, non andate via»
Bois-Guilbert, vinto, si coricò accanto a lei e la baciò. Un bacio lungo e appassionato, che placò per un attimo i suoi capricci.
«Devo andare – le rammentò poi – O il re si pentirà di avermi dato in moglie una fanciulla ebrea che mi distoglie dai miei doveri di cristiano»
Rebecca rise e ribatté: «Anche i re commettono errori, ma per non incorrere nelle sue ire vi lascio andare. Promettetemi di tornare appena potrete»
«Lo prometto. E farò di più: ti prometto che la notte ventura non dormirai più della passata»
Rebecca rise di nuovo e si strinse contro di lui, poi lo lasciò andare e si accoccolò tra le lenzuola.
Bois-Guilbert abbandonò la stanza a malincuore; più volte si voltò a guardare la porta chiusa, risentendo sotto le dita la pelle vellutata dei suoi fianchi o la consistenza setosa dei suoi capelli, e sulle labbra la morbidezza delle sue guance.
Assistette alla messa concentrandosi il più possibile per salvaguardare uno spazio della propria mente alle cose sacre, impedendo ai ricordi della notte di assalirlo e distoglierlo. Fu una lotta dura contro i sensi, ma alla fine avrebbe potuto dirsi soddisfatto. All’uscita dalla piccola chiesa del castello incontrò Robert di Huntingdon, in tenuta da cavalcata. Il vino della sera prima non gli aveva guastato il sonno, mentre John, che sopraggiunse poco dopo, aveva un’aria piuttosto rintronata. Non appena vide il fuorilegge, Bois-Guilbert ammiccò ed alzò tre dita; l’altro assunse un’espressione maliziosa e gli sorrise. Per non apparire invadente decise di lasciare al novello sposo la libertà di raccontargli ciò che voleva, senza incalzarlo con le domande. E Bois-Guilbert, nonostante le reticenze, gli fece intendere di essere quanto più appagato possibile. L’attesa era stata lunga, ma una sola notte aveva ripagato le privazioni di mesi: non si pentiva certo di aver aspettato.


Rebecca udì lo schiocco della porta; tirò a sé le lenzuola, fin sul naso, e respirò il profumo che vi era rimasto intrappolato. Poi si rigirò, si distese a pancia in giù e sprofondò il viso nel cuscino su cui lui aveva dormito. Come un sogno, riviveva nel dormiveglia tutti gli avvenimenti della notte passata. Non li riviveva come ricordi, ma come sensazioni: per prima, il delicato scorrere della camicia contro la pelle, poi il fresco contatto con l’aria, le carezze. E i baci, come dimenticarli? L’aveva ricoperta di baci, baci in ogni dove, su tutto il corpo. L’aveva lasciato fare, fremendo di piacere. Aveva un leggero timore, un senso di fragilità mescolata a ingenuità, a non saper cosa fare, cosa dire. Lui era molto più disinvolto, benché – le era parso – le avesse usato una delicatezza particolare. Era come – ma anche questa era una sua impressione – se fosse stata anche per lui un’esperienza nuova, mai provata. Come se non avesse mai giaciuto con altre donne e in quel momento si vedesse a violare un segreto pieno di fascino. Risentiva, impresse nella memoria, le dolci parole francesi che aveva sussurrato per farla rilassare, e tutti i sospiri che avevano esalato insieme.
La seconda volta: il sonno non era profondo e, di tanto in tanto, udiva un gufo lanciare il cupo richiamo nella notte. A un tratto aveva sospirato un po’ più forte e lui si era mosso.
“Rebecca?”
“Siete sveglio?” aveva domandato, cercando di scorgerlo nell’oscurità. Lui aveva strisciato sul materasso e le aveva cinto la vita con il braccio. Pian piano si erano disposti uno contro l’altro, lei l’aveva abbracciato e, nel tempestarsi vicendevolmente di baci, erano finiti con l’amarsi di nuovo, senza più timori né freni.
Poi, storditi, si erano riaddormentati mano nella mano uno accanto all’altra. Un sonno ben più profondo del precedente, che andò scemando via via che il giorno si avvicinava. In un batter d’occhio era quasi l’aurora, un gallo aveva già cantato. Lui l’aveva sfiorata lungo il fianco e la coscia sinistra e lei aveva socchiuso appena gli occhi, pensando fosse già mattino. Quando l’aveva vista sveglia, lui si era avvicinato, sottomettendola a sé.
“Di nuovo?” aveva bisbigliato lei, stropicciandosi gli occhi. Lui, nella penombra, si era chinato a baciarle il collo, poi, rialzatosi, aveva sussurrato: “Vedrai, amore mio, vedrai”
Aveva avuto ragione: la terza volta era stata la migliore. Forse perché la nuova luce donava una profondità diversa al loro amore, forse perché l’idea dell’imminente separazione caricava il singolo istante di aspettative, forse perché, dopo il riposo, i sensi assaporavano l’unione con rinnovata curiosità.
Non seppe rispondersi, Rebecca: aprì gli occhi decidendo di darsi un’occhiata, la prima dalla sera precedente. Non trovò nulla di strano, nulla di anomalo. A uno sguardo superficiale era tale e quale la sera prima; eppure, avvertiva un cambiamento che, per certi versi, la spaventava. No, non sarebbe più stata com’era. Era anzi irrimediabilmente un’altra persona, una sconosciuta con nuove emozioni, nuove sensazioni, nuovi pensieri... avrebbe dovuto imparare a conoscersi, a riconoscersi.
“Rebecca de Bois-Guilbert” pensò, mordendosi le labbra. Che bel suono, che bel concetto! E pensare che solo cinque mesi prima...
Sangue. Sangue e nient’altro, questo era stato cinque mesi prima, e a quel ricordo Rebecca abbassò gli occhi sul materasso. Due battaglie, due duelli, due ferite, ma quale distanza separava quelle due esperienze: ben più che cinque mesi!
Di colpo sentì l’urgenza di alzarsi e lo fece, nonostante l’intorpidimento. Trasse il telo macchiato e si assicurò che il lenzuolo sottostante non recasse tracce. La messinscena, infatti, non era ancora finita: qualche serva ebrea, una di quelle che sarebbero venute a svegliarla, avrebbe potuto denunciare la menzogna ad Abraham e ne sarebbero derivati non pochi guai. Ripiegò il telo, lo nascose per bene nella cassapanca tra i vestiti e si distese nuovamente sotto le lenzuola. Non passò molto tempo che arrivarono le sue serve, ragazzine libere e pagate, che la fecero alzare e la prepararono per mostrarsi al castello.
«Mio marito è già uscito?» domandò, orgogliosa di sfoggiare a buon diritto quel titolo.
Una serva, la più grande, rispose: «Sì, mia signora. È uscito con Robert di Huntingdon e il suo scudiero John. Le loro mogli vi aspettano nel salone per congratularsi con voi»
Rebecca sorrise mentre la porta si apriva dinanzi a lei. Il profumo dell’autunno la accolse per primo oltre la soglia.

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Capitolo 40
*** Capitolo 40 ***


Il pomeriggio era arioso. Sulle mura del castello di Lincoln batteva il sole – era una delle ultime giornate di sole prima delle piogge autunnali – mitigato da una brezza che soffiava verso est. Bois-Guilbert respirò a pieni polmoni, le mani saldamente poggiate sui fianchi. La cavalcata, contro tutte le aspettative, era stata rigenerante dopo le fatiche della notte.
Gli occhi azzurri si spinsero più in là possibile, sorvolarono le distese di campi e di boschi, studiarono i tracciati delle strade e si insinuarono nei vicoli della città. Rebecca, ormai, doveva aver ricevuto l’invito a raggiungerlo lassù: non c’era motivo di essere precipitosi. Prima della seconda notte di nozze avrebbero dovuto appianare a sangue freddo gli ultimi dettagli del loro matrimonio. Sapeva che non era buona cosa rimandare un discorso importante come quello e sapeva anche che la sera non ci sarebbe stato il tempo per i discorsi seri. L’attesa era facilmente ingannata dall’immaginazione: era già notte, era già buio, era già nel chiuso della loro camera con lei. Non vedeva più distese verdi né grigi vicoletti. C’erano solo il profumo dei suoi capelli e la soffice carezza delle lenzuola.
Rebecca lo sorprese a fissare con sguardo intento un punto distante, perso chissà dove nei meandri della sua fantasia. Sorrise a quella vista e aspettò di essergli accanto prima di richiamare la sua attenzione su di sé.
«Brian? – bisbigliò, poggiandogli una mano sulla spalla – Sono qui»
Bois-Guilbert volse di scatto gli occhi e il viso verso di lei.
«Hai fatto in fretta!» constatò sorridendole di rimando.
«Come mai mi avete fatto venire qui? Non ci saremmo potuti incontrare... altrove?» domandò, intonando l’ultima parola in modo diverso. Bois-Guilbert afferrò al volo il significato di quella domanda che era quasi un invito e scosse il capo: «Dobbiamo parlare» disse semplicemente.
Rebecca si morse le labbra, presa alla sprovvista. Girò uno sguardo superficiale tutt’attorno, guardò giù dalle mura e sembrò avere un capogiro. Il camminamento era stretto e per lei, che non era abituata a certe altezze e prospettive, era quasi un camminare nel vuoto.
«E’ che siamo in un luogo così poco familiare...» si giustificò, aggrappandosi come se temesse di precipitare. Lui le mise una mano sulla schiena per farle coraggio.
«Ma è della nostra famiglia che dobbiamo parlare» ribatté. I loro occhi si incontrarono ancora e di colpo tutto il turbamento di Rebecca si dileguò dalle sue pupille. Tornò il sorriso, timido ed emozionato, sulle sue labbra.
«Ditemi cosa avete pensato, vi prego»
Bois-Guilbert prese un gran respiro prima di cominciare: «Mi rendo conto che il re ti ha posto una condizione piuttosto dura, quella di far educare i nostri figli alla fede cristiana. Ti confesso che non sarei stato altrettanto accondiscendente se la scelta fosse stata posta a me. Ho riflettuto a lungo e voglio proporti questo compromesso: i figli saranno cristiani, ma porteranno tutti un nome ebraico, un nome che sceglierai tu. Non voglio che tu e la tua stirpe rimaniate eclissati dietro il nome della mia casata»
Gli occhi di Rebecca brillarono di una luce ancora più sincera e il suo sorriso si allargò: «E’ una cosa meravigliosa, Brian! Sono felice che il Signore vi abbia ispirato un così buon consiglio»
«C’è dell’altro – aggiunse – Come ha detto il re, tu hai la tua professione di guaritrice: vuoi continuare a praticarla?»
Rebecca esitò, rifletté un istante, quindi rispose: «Solo se questo incontra il vostro favore»
Bois-Guilbert si incupì: «La consapevolezza di dover partire, un giorno, al seguito del re verso la guerra mi rattrista già. Tu, mia moglie, sarai qui ad attendere mie notizie e sarai angustiata quanto lo sarò io sapendo che sarai sola per molti mesi. Perciò ho pensato, se ti piace, che potrai continuare a guarire i malati anche da sposata, ma solo a un patto: che tu lo faccia gratuitamente, chiedendo solo il costo dei medicinali che ti occorreranno, e solo alla presenza di aiutanti, apprendisti o assistenti cristiani»
Rebecca comprese le motivazioni che soggiacevano a quel patto: evidentemente, il ricordo del processo di Templestowe era vivo e bruciante nella sua memoria ed egli voleva evitare, a tutti i costi, un rinfocolarsi dei pregiudizi contro di lei. Perciò annuì, assumendo un’espressione grave quanto quella di lui. E Bois-Guilbert apprezzò, chinandosi a baciarla sulle labbra, incurante di chi avesse potuto vederli.
«Torna dalle tue ancelle, ora; a stasera!»
 
«Io mi ritiro. Vi aspetto quando vorrete raggiungermi» sussurrò Rebecca all’orecchio di Bois-Guilbert e si alzò discretamente dal proprio posto. Bois-Guilbert non si volse, afferrò la coppa dal tavolo e ne trasse un sorso o due di buon vino rosso. Un vino forte quasi quanto quello di Frate Tuck.
«Ho sentito delle vostre prodezze – si congratulò il re quando Rebecca ebbe lasciato la stanza con le ancelle – E non posso far altro che dire che voi confermate la vostra fama di soldato!»
I commensali risero di quel complimento e Bois-Guilbert abbassò umilmente lo sguardo.
Non lasciò passare molto tempo prima di alzarsi a propria volta, chiedendo il permesso di lasciare la tavola; il re lo concesse con sguardo magnanimo.
Rebecca, quella sera, aveva sbrigato le preghiere più velocemente e lo aspettava già coricata, con indosso la fine camicia da notte. Bois-Guilbert, inebriato dal vino e dalla promessa di quella mattina, si fece avanti baldanzosamente. Lei lo guardava dal sotto in su, sorridendogli ancora. Aveva un sorriso così semplice e pur così affascinante; e forse nemmeno se ne rendeva conto.
«Hai pensato ai nomi dei nostri bambini?» le domandò dolcemente, indugiando a pronunciare quella parola così carica di tenerezza. Gli occhi di lei brillarono come avevano brillato alla luce del sole sulle mura e bisbigliò, come fosse un segreto: «David se maschio, e se femmina Judith»
«Mi sembrano entrambe ottime scelte» approvò lui e si accinse a spegnere la candela.
«Aspettate – lo fermò, mettendosi seduta – Aspettate»
Gli accennò di tornare e da lei non si separò più fino al mattino; la candela continuò a bruciare finché non si fu consumata del tutto.
 


FINE

Vi ringrazio per aver seguito la storia fino alla fine... che non è detto sia definitiva ;) 
Lasciate i vostri commenti nelle recensioni, aspetto di conoscere le vostre impressioni e i vostri consigli... Mi piacerebbe davvero avere un confronto con i miei lettori, anche per capire se il progetto di un ulteriore sequel possa venire incontro alle vostre aspettative o se comunque lo ritenete una buona idea. 
Grazie ancora! E a presto!!!
Lucille94

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