Una vita promessa alla morte

di Avareil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

L’impatto era stato così violento da sottrargli qualsiasi consapevolezza del corpo.
Un dolore acuto, lancinante, assordante, accecante lo aveva strappato alla consapevolezza della vita per consegnarlo alla più nera delle incoscienze.
Il nulla, voragine nera e insaziabile, lo avvolgeva come un mantello spesso, soffocando ogni mormorio, ogni richiesta, ogni preghiera e la mente, oramai al collasso, non guidava più il corpo distrutto, massa informe e disarticolata.

Cosa è successo?

Un solo interrogativo echeggiava ciclicamente da sponda a sponda nella mente turbata, ricordi contorti dietro le palpebre serrate.

Cosa mi è successo?

Cullato da ciò che sembrava acqua, ma che acqua non era, sprofondava lentamente verso le viscere della terra, madre esasperata dalle azioni dello spregevole Crono.

Madre?

Padre.

Un’immagine, più vivida delle altre, tormentava adesso l’animo squarciato: un colpo a tradimento in pieno petto, due occhi cristallini e sgranati rivolti verso di lui, poi, quel dolore maledetto e terribile.
 
Lì aveva avuto inizio la sua discesa: quella dei sensi, quella della coscienza.
 
Perso nelle tenebre che lo abbracciavano come grembo di donna, percepiva distintamente una sostanza vischiosa risucchiarlo in profondità: la sofferenza, compagna perenne, infieriva sulle carni schiacciate, pungeva i polmoni contratti, rallentava il flusso sanguigno rendendo qualsiasi attività vitale profondamente penosa.  
La vita fuggiva da lui come una lepre dal proprio carnefice, eppure, l’essenza divina, lo ancorava all’esistenza, rendendo impossibile l’agognata morte, porto sicuro e scevro da ogni dolore.
Disperato dalla consapevolezza di sapersi in eterno legato a una vita fatta di nulla e silenzio, smarrita in una notte eterna, il dio distrutto aveva tentato un movimento, un qualsiasi movimento che urlasse che lui era lì, ancora vivo, ancora forte, ma nessun arto, nessun pensiero accompagnava la sua strenua volontà di mantenersi in vita.
Era stato proprio in quel momento, logorato da un’evidenza alla quale non voleva ancora arrendersi, che l’aveva sentita per la prima volta.
Non bisbiglio divino, non parola umana, ma sensazione sottile capace di manipolargli la mente, di ottenebrare gli ultimi lucidi pensieri:

“Il tempo è oramai propizio, Ade”.

Quel che rimaneva del dio, dai fulgidi capelli biondo cenere agli arti scomposti e laceri, si ricomponeva con sforzo sovrumano, rianimato da quell’essenza che permeava corpo e animo come soffio vivifico.  

“Il vostro animo pone domande alle quali non è facile trovare risposta. Saprete ciò che è giusto sapere, nulla di meno, nulla di oltre, Ade, figlio di Crono”.

Ade, figlio di Crono.

Quel nome.
Quei nomi.
Riconosceva quel nome, Ade, Ade figlio di Rea, essenza benevola, ma quell’altro, il patronimico, riecheggiava nelle cavità del suo essere, malsano e infausto: pochi istanti, pochi ricordi, poche immagini e già il cuore tremava di piena consapevolezza.
Il colpo feroce scagliato contro il petto rivestito di brillante e inutile armatura, due occhi azzurri sgranati per la paura, urla straziate di dea, fetore di bruciato.
E come se il tormento del ricordo non fosse ancora sufficiente, il dolore squarciava il velo della memoria e faceva assaporare nuovamente quella luce del sole, vissuta per poco, troppo poco, prima che la fame paterna lo risucchiasse in una nuova oscurità: lui il primo, lui l’ospite per quei fratelli che, impauriti, lo raggiungevano nelle cavità atroci del ventre nero.

Ade, figlio di Crono, divorato per fame di potere.

“Ade, figlio di Crono, ascoltate attentamente la parola eterna”,

lo spirito fumoso e viscido scandiva ogni parola, cadenzava ogni verbo affinché egli lo udisse con apodittica chiarezza.  

“Il vostro cuore è altruista, l’animo forte. Vi si offre una possibilità, da questa dipenderà la sorte dei fratelli e del cosmo”.

L’ennesimo soffio l’aveva pervaso intimamente, un fiato caldo capace di elettrizzare le membra donando nuova consapevolezza.
Eppure non era cosa buona: con la consapevolezza era giunta la sensibilità e, con essa, il dolore che l’apatia aveva messo con difficoltà a tacere. Brividi sanguinanti logoravano la mente prima che il corpo, massa informe di organi e pezzi di arti, acquisisse piena coscienza di sé: la vita scorreva via dalle gambe tumefatte, dalle ossa fuori posto, dagli occhi spenti, dalle orecchie sorde, dalle emorragie interne e purulente.
Essenza ambigua, colei che lo rianimava, poneva in essere la sofferenza come punizione per una scelta errata.  
Quel tormento, infatti, sarebbe durato in eterno, goccia di sangue dopo goccia di sangue, a meno che la strada intrapresa non fosse stata quella designata dal fato.

“Dite”. Un rantolo proferito tra i denti che non sapeva di possedere ancora.

Era come morire ad ogni respiro.

“Sacrifichereste la vostra vita in cambio della salvezza dei fratelli e del cosmo?”
Fra le spire di quel dolore che lo avvolgevano per stritolarlo con ferocia, udiva la proposta dell’essenza equivoca e ne saggiava il significato come si fa con l’ambrosia dolciastra.
Avrebbe dato la sua vita mille e mille volte ancora in cambio di quella dei fratelli.
Avrebbe abbracciato la morte come benevola sorella piuttosto che soffrire un’esistenza fatta di quel dolore assurdo e crudele.

“Si, sempre”. Con quel poco fiato rimasto nei polmoni feriti, egli aveva risposto, imboccando la strada della morte.

Solo allora lo aveva udito, un gorgoglio basso e terrificante che sapeva di patto diabolico:

“La scelta è compiuta, la vita ceduta: siete legato all’invisibile, all’oltre.  L’occhio che scorgerà le vostre sembianze non sarà estraneo al terrore, mai”.

Un altro sospiro gutturale, un vento gelido che sferzava il volto distrutto del dio candido:

“Promettete, sovrano d’Averno”.

“Prometto”,  aveva ringhiato all’ennesimo pezzo di sé che sentiva staccarsi.

Gelida aria, gelida acqua, gelido abbraccio.
L’essenza lo cullava materna e terribile restituendo la forza e l’integrità delle membra, ma esigendo in cambio la vita splendente: un destino peggiore della morte, con l’inganno veniva carpita l’aura superficiale del maggiore dei Cronidi.

Nel silenzio aveva riaperto gli occhi, ora attenti e lucidi.
Uno strano luogo lo accoglieva: immerso fino alla cintola in acque calme e fresche, si ritrovava al centro di una conca segnata dalla presenza di quattro affluenti. Le tenebre regnavano sovrane insieme ad un odore pungente che sapeva di zolfo e metano.
Nuovamente corpo, nuovamente mente, nuovamente dio vivo e tangibile, aveva raggiunto la sponda ma quando il piede si era poggiato sul suolo nero, una fitta lancinante lo aveva colpito alla bocca dello stomaco costringendolo a curvarsi.
Un feroce colpo di tosse, sangue nero misto ad acqua macchiava il suolo brullo.

Il nuovo tributo veniva versato all’Averno, dimora nera dell’oltre.







L'Angolo di Avareil
Eccoci qui, come promesso inizia questo lungo cammino di nome revisione.
Alcune cose cambieranno, soprattutto nei primi capitoli muterà lo stile e la forma. Di base le immagini saranno le stesse ma alcune cose, necessariamente, saranno modificate. Vi invito, dunque, a rimaner sintonizzati. Qualora aggiungessi delle scene mi premurerò di avvisarvi.
A presto e un forte abbraccio.
La vostra Avareil

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Legàmi


Una battaglia feroce.
Le urla profanavano l’etere azzurro mentre il fetore dell’odio riempiva le narici dei combattenti.
Due schieramenti, due fazioni popolavano il campo insanguinato: ai piedi dell’Olimpo stava Crono, signore di ogni cosa, dall’altra, invece, i sei figli, vomitati dopo che l’inganno della pietra aveva conservato in vita l’ultimo di loro, Zeus, scaltro fuggiasco in terra cretese.
Rea, consorte del terribile titano, osservava affranta lo scenario fatto di morte e distruzione, gemendo addolorata ogni qual volta un nuovo colpo martoriava, umiliava e distruggeva la povera prole.
Crono, feroce, non avrebbe permesso a alcuno, dio, titano, ciclope o mostro che fosse, di sottrargli il potere conquistato con l’astuzia e la forza, e quel tranello, subito per mano di Rea, amatissima e odiatissima moglie, lo rendeva ancor più crudele; infieriva con aspra goduria sui corpi dei figli, sfiniti e riversi al suolo.
Nessuna ribellione sarebbe stata pacificata dal sentimento genitoriale: la brama di dominio metteva a tacere ogni amore in quell’essere spietato.
Era, Demetra, Estia, Poseidone giacevano inermi, privi di sensi, mentre la vita immortale, contro ogni ragionevole logica, iniziava a fluire lentamente via dai loro corpi.
 
 
Solamente Zeus e Ade, il minore e il maggiore, tentavano una strenua resistenza.
Zeus, capello biondo e sguardo cristallino, si ergeva possente e sfinito dinnanzi al padre che, con fauci digrignate, attendeva i deboli attacchi, oramai guidati più dalla stanchezza che dalla ragione. E a nulla erano serviti i richiami di Ade, stratega lungimirante e abile nelle arti difensive, a nulla erano valsi i consigli, le urla, gli ordini: quel folle di Zeus, degno figlio di suo padre, accecato dalla rabbia, combatteva animato dalla furia, lasciando più volte il fianco esposto alla crudeltà paterna. Quella follia ferrigna, esacerbata dal pensiero di un’imminente e terribile sconfitta, colorava di rosso sangue la sclera oculare del minore rendendolo bestiale. La disperazione, da ultima, ne ostacolava i movimenti un tempo eleganti e feroci; in quell’accozzaglia scoordinata di passi sconclusionati Zeus mancava Crono che, invece, con lucidità studiata, rimaneva in attesa del momento adatto.  
Contaminato dalla tracotanza, caratteristica innata della sua indole spavalda, Zeus aveva scagliato con fare sragionato folgori elettriche e, quando il dolore del lancio mancato si era fatto insopportabile, tanto da costringerlo ad abbandonare le armi al suolo, Crono aveva colpito.
 
Una strategia letale e subdola, quella del titano, che trovava compimento in quel fianco scoperto.
 
La sola fortuna di Zeus era stata la completa dedizione del fratello: Ade, il maggiore di quella sfortunata banda di esseri divini e tormentati, non aveva atteso un istante e, compresa anzitempo la mossa del padre, in un unico movimento si era posto tra loro, rendendosi bersaglio per il colpo inumano.
 
Non perché le Moire avessero prospettato la vittoria a un'unica condizione, che fosse Zeus la cagione della distruzione di Crono, egli aveva offerto se stesso in sacrifico: Ade, lungi dalla premonizione oracolare recitata sulle ceneri dell’Olimpo dominato dal titano, immolava se stesso per amore. Lui, dio algido e silenzioso, sentiva il peso di quel legame fraterno gravare interamente sulle sue spalle. Già una volta aveva visto i consanguinei costretti in catene, sprofondati in un nuovo ventre buio e mai, mai avrebbe permesso che quel dolore venisse reiterato con ferocia; piuttosto la morte. Avrebbe accettato stoicamente qualsiasi male se questo avesse significato poter vedere nuovamente le splendide sorelle e i virili fratelli sorridere e ergersi vittoriosi sulle spoglie del nemico.  

“Ade, no!” Un urlo disumano, la mano protesa verso quello che ora gli offriva il petto come riparo.

“Taci, stolto”.
 
Il boato aveva ridotto al silenzio gli schieramenti mostruosi.

Gli occhi insanguinati e feroci del titano osservavano lo schianto di Ade al suolo, colpito in piena schiena, distrutto nella propria essenza.
L’impatto, di cui il dio – o quel che ne rimaneva – era vittima e strumento, era stato di una tale violenza da creare una fossa intorno al corpo consunto; nessuno aveva osato avvicinarsi, tutti erano terrorizzato dal pensiero di scorgere i resti sfregiati.
Ed era stato lì, in quel momento di profonda perdita, che Ade aveva ceduto ogni pretesa sulla propria felicità a quell’entità maligna e ambigua il cui nome rimbombava potente nelle orecchie insanguinate.

Stige.

Essenza fumosa incarnata nelle acque del fiume d’Averno, lo Stige aveva esatto la sua essenza in cambio di una nuova vita.
 
“L’occhio che scorgerà le vostre sembianze non sarà estraneo al terrore, mai".

Nel silenzio generale, lordato dalla risata spregevole del nemico, egli aveva ripreso conoscenza. Attimi sembrati epoche, immagini perse nel buio oltre le palpebre chiuse, il ricordo di quella promessa e il potere che da essa era scaturito: parole sacre impregnavano l’essere divino, ora desto e fuori dalla tomba che lo aveva accolto da morto.
Generato dal ventre materno, imprigionato in quello paterno, adesso Ade sorgeva vincolato all’Averno nero che, prima o poi, fatale, tutti accoglie.

 Si era mosso silenziosamente. Il passo leggero diretto dalla mente lucida, il braccio armato sorretto dalla forza del fato, il cuore imperturbabile alle brutture della spregevole battaglia: tutto in lui trovava compimento come in una feroce macchina da guerra.  Con studiata strategia si era posto alle spalle del padre che, troppo occupato nel sadico gioco di infierire su un Zeus più morto che vivo, non si era minimamente reso conto di quello che stava avvenendo dietro di lui.
Nessuno, dio o titano che fosse, avrebbe potuto mai scorgere l’essenza oscura, avvolta nel niente dell’oltre morte; i suoi passi non facevano più rumore, la sua figura non aveva più ombra, il suo respiro non emetteva più un suono.
L’aura nera che lo rivestiva come un mantello aderente, gli dava l’occasione di sorprendere il nemico alle spalle, unico modo possibile di frenarne la furia, per  poi offrirlo inerme al fratello delle folgori. Aveva agito così, mosso dalla rabbia apatica che sentiva ruggire dal fondo del suo essere.
 
Una voce silente aveva riempito la mente del minore come un pugno allo stomaco:

“Zeus! Colpiscilo!”.

E quello, mosso dalla disperazione, non aveva esitato un istante.
 
 
L’aria, sebbene intrisa degli umori della battaglia e del sangue, non avrebbe potuto avere gusto più fresco. Ade respirava lentamente cercando di ossigenare il cervello, riempire i polmoni, colmare il cuore di nuova speranza.
Nessuno, mai, avrebbe più potuto osare una simile violenza nei loro riguardi.

Il nemico era sconfitto, la famiglia riunita, il cosmo salvo.  

Il corpo del nemico giaceva esamine a pochi passi da lui mentre Zeus, abbandonate le armi, si era inginocchiato al suolo sconvolto; il sangue maledetto li macchiava entrambi sul viso, le mani, le vesti.
Un rapido sguardo oltre le spalle del minore aveva strappato Ade alla calma. Armi spezzate, armature logore, arti e sangue ricoprivano per intero il campo di battaglia; cadaveri ne riempivano ogni angolo. Al suolo giacevano alleati e nemici, indistintamente ridotti a massa informe di sostanze organiche.
Quello scenario truculento aveva tramutato la gioia sfinita della vittoria in angoscia, costringendo l’avernale a cercare i poveri fratelli: temeva che, distratto dalla lotta, quella miserevole sorte avesse toccato anche l’amata famiglia.  Immediatamente, dunque, ne aveva cercato i resti con lo sguardo e, solo quando ne aveva scorte le figure al suolo, feriti ma non distrutti, un immenso sorriso gli si era dipinto sul volto.

“Dissolvi la malia, portentoso dio, solleva l’elmo prodigioso e mostra le tue sembianze ai consanguinei.”

La voce, sibilante e sottile, aveva solleticato il cuore desideroso di ricongiungersi ai fratelli e, mosso da essa, aveva guidato le mani sul capo dove, effettivamente, si stagliava possente un elmo dall’immenso cimiero vermiglio.

Non aveva dovuto richiamare la loro attenzione.

Non c’era stato il bisogno di levare la voce serena: in un momento essi avevano percepito l’essenza pungente e mefistofelica e, rigidi, ne scrutavano adesso le sembianze straniere.

“Fratelli”. Benevolo, Ade, allargate le braccia stanche, li salutava con gioia.

Nessuno aveva ricambiato il sorriso sfinito.

“Chi siete, essenza ambigua?” Poseidone, mano insanguinata sul volto, tappava il naso, infastidito da quel pungente odore di morte e zolfo.

“Ade, sono Ade, vostro fratello”, il passo incredulo mosso verso di loro era stato accolto da un urlo disperato emesso dalla sorella Demetra. Ella lo fissava sconcertata, a stento trattenendo le lacrime.

“Mostrate il vostro vero volto, codardo!” Era, tremante e maestosa, affiancava la sorella disperata; solo Estia,
immobile, scrutava l’essere nero al loro cospetto.

Stranito, incapace di rispondere a quella frase che sapeva di minaccia e diffidenza, Ade li aveva osservati per qualche secondo cercando di mettere a fuoco la situazione e, sollevando le mani in segno di resa, aveva parlato, ancora una volta, con fare pacato e sereno.

“Poseidone, Demetra, Era, sono io, vostro fratello, Ade, colui che per primo fu ingerito nel ventre paterno”.

Aveva insistito ancora davanti al silenzio dei fratelli attoniti e quando, angosciato, li aveva pregati di aprire gli occhi ed osservarlo col calore familiare che solitamente li legava, aveva percepito un terribile dolore alla schiena. Puzza di bruciato e sangue annebbiava la sua consapevolezza.
Una folgore, una folgore di Zeus, suo fratello, lo aveva colpito a tradimento proprio lì, dove poco prima il padre aveva scagliato il fendente fatale.
Giaceva inginocchiato al suolo, il capo chino e l’ustione elettrica che gli squarciava la schiena in uno spettacolo spaventoso.
 Ma quel dolore fisico, sommato all’incapacità di trovare una motivazione per quel comportamento riservatogli con odio, sembrava quasi opaco a dispetto dello sgomento di chi per la prima volta si osserva, trovandosi irrimediabilmente cambiato.
Gli occhi stretti si erano soffermati sul colorito cadaverico delle mani sollevate impotenti, bianca, la pelle, come il marmo, si intravedevano vene nere, e i lunghi capelli, un tempo biondi come i raggi del sole, cadevano verso il suolo neri, neri come la pece, più scuri delle ali dei corvi. Una figura funerea che non riconosceva come se stesso e che pure sentiva appartenergli in ogni centimetro.

“L’occhio che scorgerà le vostre sembianze non sarà estraneo al terrore, mai.”

Si era voltato verso Zeus, ancora una volta pronto al perdono, sperando che fosse solo un malinteso, un disgraziato errore, ma questi, invece, avanzando lentamente fino a ritrovarsi con le ginocchia dinnanzi al suo volto, aveva impugnato una nuova folgore che ora brandiva minacciosamente.

Uno sguardo inquietante oscurava il volto stanco del minore.

Un altro boato, un altro urlo, altro sangue colava innocente dal petto di Ade, incredulo e incapace di movimento alcuno. La kunée, a pochi passi da lui, era stata calciata lontano per paura che la malia dell’invisibilità lo salvasse dalla punizione.

“Zeus, tu mi riconosci, lo leggo nell’occhio cristallino. Perché…perché mi fai questo?”

La frase, flebile sospiro tra i denti insanguinati, non toccava il cuore gelido del dio.
Degno figlio di quel titano di suo padre, aveva odorato la possibilità di grandezza e l’avrebbe ottenuta, a ogni costo.  Egli, senza Ade a riscattare il trono del cielo in qualità di maggiore, avrebbe avuto la gloria tutta per sé. Un ghigno feroce ora incurvava le labbra del minore.

“Siete dunque voi l’essenza codarda che, celata alla vista da una qualche losca malia, ha bloccato disonorevolmente il padre?”

Terribile Zeus, insinuava il falso.
E Ade aveva capito, aveva inteso fin troppo bene l’intenzione del fratello, sebbene una stilla di amore, ancora presente nel cuore, urlasse incredula la propria rabbia.

Lo sguardo vacuo rimaneva fisso sui fratelli, stretti in falange alle spalle del tuonante.

Non l’avrebbero mai accettato e così, compiuta la promessa, egli avrebbe vissuto in eterno nella solitudine dell’oltre morte.

"Non ti bastava un potere uguale al nostro, vero Ade? Miravi a una forza che ti rendesse invisibile, invincibile contro il padre e noi. Volevi il dominio del cielo, dio nero?”

Quelle parole, così estranee alla verità, colpivano l’avernale come uno schiaffo in pieno viso.

"Non è la verità fratelli, credetemi”.

Cercava nel loro sguardo un barlume di fiducia ma nessuno sembrava provarne. Solo a quel punto aveva urlato a gran voce:

"Estia! Tu che prima di altri affrontasti al mio fianco il terribile padre! Ti prego, ascoltami!” ma nemmeno quella supplica era servita a nulla, somma

Estia, ora al suo cospetto, lo osservava senza vederlo. 

 "Non vedo Ade, ma ne scorgo l’ombra. Non vi riconosco come fratello.”

Demetra, sempre in lacrime, aveva sputato ai suoi piedi, rifiutando il legame fraterno sobillata dalle parole di Zeus, suo diletto.

"Il tuo posto non è tra noi luminosi, oscuro essere ambiguo. Che i tuoi regni siano quelli dell’oltretomba ai quali hai sacrificato la vita in cambio di malie e stratagemmi funesti. Che tu possa vivere in solitudine come punizione. Che il buio e la morte siano i tuoi soli compagni: non sei più il benvenuto tra i vivi”.  

Lo avevano lasciato solo sul campo di battaglia, agonizzante e sanguinante.

L’ultimo ricordo della sua esistenza in superficie era stato lo sguardo di Estia lanciatogli fugacemente, all’ombra del resto del gruppo.

 Aveva mimato silenziosamente "mi dispiace"
ed era andata via con gli altri.







L'Angolo di Avareil
Procedo, lentamente, ma procedo. Ci vorrà del tempo per ultimare la revisione ma spero che ne valga la pena.
Nella speranza di poter leggere, prima o poi, i pensieri e le riflessioni di voi, anime silenti, vi rivolgo il mio più cordiale saluto, sempre felice di aver allietato qualche ora del vostro tempo.
Un  abbraccio affettuoso a tutti coloro che, già in occasione della prima pubblicazione, avevano manifestato il loro appoggio e la loro stima: vi ho nel cuore.
A presto.


 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Averno

Silenzio.

Bramava il silenzio, lo disperava.

Più precisamente ne agognava quel tipo capace di donare serenità anche alle menti più tormentate e, la sua, lo era grandemente.
Un caos furioso, nutrito da bile nera e amarezza, lo divorava dal di dentro.
L’ancestrale promessa che lo vincolava allo Stige non ammetteva defezioni: mai più il suo cuore avrebbe potuto sperimentare la pace del silenzio o il calore della soddisfazione se non quella, misera e povera, data dall’adempimento del suo ruolo in quel regno toccatogli in sorte. 

Averno, luogo terribile e spaventoso, dimora amara, odiosa a tutti coloro che avessero la sfortuna di udirne il nome. Averno, ventre nero che tutti inghiotte, mostro dalle fauci spalancate di cui lui, signore nero, era giudice e padrone assoluto.

Il dio sedeva compostamente sul grande scranno posto al centro della sala avernale, dietro di lui, celate alla vista, le porte d’ingresso del tempio oscuro in cui un altare rimaneva silenzioso in attesa di sacrifici; di uno strano verdognolo la misera luce che filtrava per quei luoghi. Lì, nel terribile Orco, non vi era fuoco ardente o vento frizzante che ravvivasse l’etere immobile e tutti gli ornamenti, così come le più piccole rifiniture del tempio, richiamavano alla mente le caratteristiche singolari di quell’essenza oscura: predominava il nero, come nero era il sangue che scorreva nelle vene del dio e la freddezza di quel cuore, oramai infettato dal tradimento, veniva esemplificata dalla durezza del marmo con il quale erano stati formati l’altare e il trono, semplici e lineari, severi come il volto spigoloso. L’intero regno sembrava patire quell’ira feroce covata silenziosamente che, insidiosa come malattia fatale che piano piano, centimetro di pelle dopo centimetro di pelle, consuma dal di dentro, lo avrebbe condotto alla follia.
Un malessere così vivido, il suo, da riverberare possente per tutto l’Averno: ogni istante veniva scandito dal pulsare crudele di quell’organo malato che aveva alloggio nel suo petto.
Un ritmo lento, cadenzato, quasi musicale gli riempiva le orecchie, costringendolo ad agire, ad artigliare la veste là, proprio sopra il cuore maledetto, e ad allentarla nel vano tentativo di farsi aria; aveva ghignato a denti stretti all’ennesimo ricordo di quanto avvenuto, di quanto subito.
Alzatosi repentinamente si era diretto verso l’opistodomo del tempio alla ricerca di requie; ad ogni passo malediceva se stesso, la propria stupidità, l’avventatezza di un sacrificio compiuto per amore.

Amore.

Il volto, sdegnato dalla sofferenza, aveva trovato pace nell’immensa sala delle offerte in cui un profumo dalla forte essenza di miele gli ottenebrava la mente. Gli umani, esseri effimeri prepotentemente attaccati alla vita, gli tributavano offerte e libagioni nel vano tentativo di ammorbidirne l’animo, ma nessuno avrebbe mai potuto sottrarsi al proprio destino quando il piede fosse oramai posato sul suolo d’Averno, suo dominio assoluto.
Questo il meccanismo fatale: con quanta più ferocia la morte funestava la terra, tanto più copiose erano le offerte presso i suoi altari e lui, dio di quei luoghi, si nutriva di quelle, se ne cibava fino all’ottundimento, per dimenticare le proprie, di disgrazie.
La morte spaventava gli umani, li terrorizzava a tal punto da dissuaderli dal rivolgere lo sguardo verso il tempio nero perso nelle lande di superficie in cui, solo di notte, solo ad occhi chiusi, veniva sgozzato e offerto in sacrificio l’animale dal vello nero seguito dal miele dorato e profumato, scelto tra tutti i nettari per addolcire l’animo del dio inesorabile. Gli umani non volevano corromperlo, non tentavano la sorte in sfide argute come con qualsiasi altra divinità: lo temevano, perché temevano l’invisibile, e lo pregavano affinché i cari trapassati venissero accolti e giudicati con giustizia.
Pensava a questo, alla misera condizione che il fato gli aveva donato quando, una volta varcata la soglia delle camere private, con stanchezza aveva poggiato la schiena contro la porta. La mano, posta sugli occhi stanchi a mo’ di schermo, offriva un riparo a quell’angoscia nascosta dietro le palpebre che urlava di un’ingiustizia subita crudelmente.
A poco era servito fare dei lunghi respiri, pacificare a forza quel cuore lento sul quale gravava un forte senso di occlusione: nuovi ricordi, ancor più spaventosi dei precedenti, gli affollavano la mente senza lasciargli scampo.
Nessun oblio gli veniva concesso: truculenti memorie popolavano gli incubi, numerose cicatrici  facevano da testimoni per le infine ustioni, purulente e maleodoranti, che gli avevano funestato il corpo tradito dai consanguinei.

Lo Stige, sordo alle sue suppliche, non gli concedeva neanche un briciolo di apatia grazie alla quale, almeno, ignorare il tormento.

Ade, il dio dal cuore promesso all’Averno, non poteva dimenticare né perdonare.
 

Da secoli giudice onesto e severo,  egli esaminava, soppesava, valutava i peccati e le glorie delle anime al suo cospetto e, una volta espresso il verdetto assoluto, nessuno avrebbe potuto mai contravvenire la sua parola, nemmeno Poseidone, nemmeno Zeus che, lì sotto, non aveva la minima giurisdizione.

E Zeus doveva ben guardarsi dal mettere piede nell’Averno.

Pensava a Zeus e immaginava di valutarne il cuore così come avrebbe fatto con il fantasma di qualsiasi altro mortale: ne avrebbe osservato l’animo, alla ricerca di tracotanza e imprudenza, poi, scandagliate le viscere animalesche, avrebbe soppesato il cuore, rivelandone la nobiltà o la miseria e così, come ognuna di quelle vite spente veniva scrutata in silenzio, anche Zeus, per mano sua, avrebbe scontato la giusta pena, proprio lui che, fra tutti, di giustizia era digiuno.
Con rabbia e sdegno aveva slacciato la fibbia della tunica scura per rivelare un fisico nervoso e affaticato dalla rabbia covata.
No, Zeus non avrebbe mai scontato le sue colpe, il fato non l’avrebbe permesso, ma tutti gli altri umani, quelli a lui devoti così come coloro estranei ai culti, avrebbero obbedito alla sua parola retta dal giusto e mai dalla pietà, sentimento estraneo al suo stesso cuore; quella giustizia, così fredda e spoglia a molti, suonava nelle orecchie dei trapassati come un balsamo dolciastro, capace di pacificare i tormenti. Si veniva giudicati secondo meriti e colpe e nessuno, mai, avrebbe potuto conquistare una posizione distante dalla vera indole.

Giustizia.

Un sorriso sdegnato incurvava le labbra sottili e gelide: giustizia, concetto estraneo a molti umani, sfortunati testimoni dell’agire balordo e quotidiano delle divinità di superficie, dedite al correre dietro le gonne o i vizi piuttosto che ad amministrare il cosmo.
I peggiori tra gli esseri, coloro che avessero sposato lo stile di vita di quelle divinità illustri, venivano precipitati negli anfratti più remoti e terribili del tartaro; ne udiva le urla invocanti pietà e se ne beava.
 
Quale gioia effimera era la sua.

Disteso sul grande letto rifletteva su quella sorte amara, ostinatamente al buio e con gli occhi sbarrati. Cercava di razionalizzare, di focalizzare l’attenzione su un qualche ricordo felice ma niente, se non il vuoto di quel terribile ventre paterno o lo schianto della folgore contro il suo petto sembrava abitare le cavità del suo essere.
 
Alzatosi di scatto e posto sulle spalle nude un mantello, aveva imboccato la porta alla ricerca di una qualche distrazione e, mossosi come un ombra, aveva raggiunto le mura nere del confine dove vegliava il suo fedele Cerbero.
 
 Ad ogni passo si facevano avanti devoti servitori pronti ad accoglierlo nella più ossequiosa delle maniere; anime penitenti, demoni, succubi e mostri distintisi per particolari meriti ai suoi occhi, lo celebravano con parole di stima. Gli erano fedeli e, in una logica tutta avernale e contorta, lo amavano tanto da offrirgli tutto, corpo o anima che fosse.
Menta, succube avernale dalle gambe flessuose di ninfa e animo di demone ardente, lo compiaceva più di ogni altro essere: in lei brillava passione feroce addolcita da un intenso profumo di femminilità malsana. Non l’aveva mai temuto né aveva mai esitato nel chiedergli ciò che il suo cuore bramava; nella sua lascivia gli si sottometteva, prestandosi ad ogni desiderio perverso senza pretendere nulla se non la consapevolezza di essere l’unica per quel dio nero, fedele a se stesso e ai propri valori.
Del resto, dopo il tradimento subito, Ade non era stato più capace di provare alcun tipo di sentimento, o almeno, nessuno che fosse positivo. Conosceva solo la fedeltà – che viene tradita – e l’odio, tanto valeva essere onesti, dunque, e prendere e dare solo il meglio da quella strana unione.
Si afferravano con ferocia, raramente parlavano durante l’amplesso: una questione d’istinto, quasi meccanica nella sua precisa ripetizione di movimenti; Ade si perdeva in quel corpo squamato e tonico, Menta graffiava la sua schiena chiedendo di più, ancora. E quando la mordeva fino a farla gemere dal dolore o le succhiava i seni, ella rispondeva cercando quelle labbra che mai però era riuscita a sfiorare in un bacio.

A stento si guardavano in volto.

Ancora una volta era questo tipo di legame che offertogli: rinnegato dal padre, così come dai fratelli, veniva destinato ad una passione vuota, priva di tenerezza o affetto, feroce nella propria esigenza d’appagare. 

Percorrendo il sentiero, era stata proprio Menta a venirgli incontro: ancheggiava sensualmente, accompagnata dall’ondeggiare della piccola coda serpentina che faceva capolino da dietro la schiena. L’aveva tenuta a distanza con un secco cenna della mano, stanco, infinitamente stanco di quella vita persa in vuota superficialità carnale.
La verità era una, amara e terribile: era morto, morto dentro e tutto era sempre, costantemente, immobile, immutato, immutabile e, come nulla cambiava in lui, nulla mutava nell’Orco; solo Cerbero rimaneva quale mostruosa consolazione.
L’enorme mastino a tre teste l’aveva fiutato da tempo ma, paziente, ne aveva atteso l’arrivo fermo di fianco a uno dei varchi delle mura avernali.
 
“Cerbero, mio fedele”.  Una mano accarezzava il petto dell’enorme demone cane.

 “Cosa vedi? Cosa succede oltre le mura?”.
 
Stimando quell’animale demoniaco quale suo unico e vero compagno di sventure, Ade amava intrattenersi con lui in fantomatiche conversazioni, pur sapendo, ovviamente, già dare una risposta a quei quesiti riflessivi. Egli sapeva bene, infatti, cosa vi fosse al di là della fortezza nera: un vento perenne, quasi ardente, seccava l’aria sospesa su un campo brullo dove la cenere, così come il tanfo di zolfo, rendeva impossibile la respirazione; un luogo morto, funestato dalla disperazione e dal tormento delle urla dei condannati, che conduceva, però, presso le sponde di una strana conca placida, punto in cui i quattro fiumi avernali confluivano silenziosamente.
 
“Sono stanco, veramente stanco, Cerbero”, la voce spenta, il braccio inerme lungo il fianco, il capo rivolto al suolo: tutto in lui sapeva di sconfitta definitiva, e quando l’animale, fiero custode, aveva tentato un guaito comprensivo, il sorriso tirato di Ade aveva trovato esito in una frase amara:

“Rimpiango ogni secondo la mia scelta anche se, in cuor mio so che, in altri mille mondi possibili, avrei sempre agito allo stesso modo”.

Sospirando, lentamente, era ritornato verso i suoi alloggi.
Solo.



 
Era dunque quello il tepore di un sonno ristoratore?

Dormiva, dormiva per la prima volta dopo tanto tempo.

Non ricordava precisamente la serie di azioni che l’avevano condotto nuovamente sull’immenso letto della camera padronale; percepiva semplicemente un torpore diffuso per tutto il corpo e una strana nenia dolce in sottofondo.
Gli occhi rimanevano chiusi e stretti mentre al di là del buio delle palpebre si apriva uno spettacolo fatto di luci variopinte e colori mai visti.
Dopo secoli di freddo e ombra, percepiva sulla pelle il calore del fuoco , ne sentiva l’odore, ne  udiva lo scalpitio, tipico della legna che arde nei bracieri domestici.
Sapeva di essere al sicuro sebbene, in quella immobilità onirica, gli venisse esclusivamente concesso il controllo dei pensieri.

Ma non era solo, il dio nero.

Volgendo quella strana “vista” al suo fianco, era rimasto sbigottito nello scorgere le sembianze di quel dio che, più fra tutti, aveva osato levare la mano contro di lui ingiustamente.
 
Si erano guardati a lungo: occhi di brace l’uno, occhi brillanti l’altro.

Un tempo fratelli, si riconoscevano come estranei e nemici.

Ma quella loro inimicizia, un tempo fatalmente legata alla vittoria sul padre famelico, trovava adesso compimento dinnanzi ai tre sacri troni.
Cloto, Lachesi e Atropo, le tre immutabili signore, figlie del fato e dell’attimo fuggente, sedevano compostamente sugli immensi scranni e tutte osservavano con sguardo glaciale gli ospiti al loro cospetto. Inesorabili e possenti, incarnavano il passato, il presente e l’avvenire.
 
“Finalmente cielo e sotterra si guardano in volto”.

La voce di Cloto, pastosa e roca come quella di un’anziana, li aveva riempiti come fa l’acqua con una piccola otre: investiti da quell’essenza, i due sovrani avevano stretto gli occhi impauriti, per poi sgranarli per lo stupore. Ella sedeva ingobbita sul primo dei tre seggi, il volto era rugoso, stranamente cupo, le mani, ingrigite e nodose, intente nello scioglimento di un gomitolo di filo dorato.
Non li guardava, assorta nella propria mansione, ma sorrideva in un modo che sa di amaro scherno.

“Non sei riuscito ad essere migliore di Crono, Zeus”.

 La donna, sollevato impercettibilmente il capo, aveva fissato l’occhio destro –unico in grado ancora di vedere
 – sul dio luminoso.

“Se solo avessi rinunciato a quello spregevole desiderio di dominio, avresti potuto vedere ciò che è oltre ma, quale degno figlio di tuo padre, hai pensato solamente al potere”, le mani si muovevano veloci sul filo dorato,

“ma, oramai è inutile ipotizzare altri scenari: il destino è compiuto, il filo, dipanato e teso, è pronto per esser filato”.

Con quelle parole, che sapevano di profezia incorruttibile, la signora del passato aveva offerto la matassa sbrogliata alla seconda delle tre donne che, delicatamente, ne aveva iniziato il lento processo di filatura. Il fuso si muoveva agile ed elegante tra le dita di donna.
 
“Ognuno di voi avrà in sorte il destino che si è costruito da solo, azione dopo azione”, Lachesi, donna nel pieno delle forze della vita, parlava con voce schietta e affilata sebbene, a volte, si perdesse nello svolgimento della sacra mansione tanto da costringere la più anziana a richiamarla.

“Sovrani del vostro destino prima che dei vostri regni, vi confido ciò che vedo intrecciato col filo delle vostre esistenze: ciascuno avrà ciò che merita secondo giustizia. Le forbici, pronte al taglio, segneranno la vittoria di colui perse”.

Atropo, essenza infantile e impaziente, richiedeva attenzione con colpi di cesoia affilata cadenzati e sincronizzati con lo scorrere del tempo.
 
“Lascia che lo dica io, sorella. Permettimi questo onore”.
 
Un risolino cristallino aveva richiamato l’attenzione sull’ultima creatura accomodata sul trono di destra. Una bambina, più piccola del trono che la ospitava tanto da non riuscire a poggiare i piedi al suolo, aveva richiamato Lachesi con fare giocoso: gli occhi erano di un vispo rosso vermiglio mentre la chioma, tirata in una coda alta e severa, le conferiva un’aria feroce.
Aveva mostrato i denti in un sorriso acceso e, folgorando Zeus con lo sguardo, aveva continuato:
 
“Tracotante Zeus, la tua punizione è chiara come gli astri: devi una vita a colui che per te la perse sacrificandola al dominio invisibile. La stella più brillante della tua discendenza, colei che questa notte ammirerà per la prima volta il cosmo, non ti appartiene più. Ella è di Ade. In eterno”.
Più terrificante delle sorelle maggiori, la padrona dell’avvenire, proclamava il verdetto assoluto al cospetto di un dio assolutamente travolto dalla consapevolezza dei propri errori.  

Il rumore secco delle forbici parlava di un filo reciso e di una vita creata.

Poi era nuovamente sceso il buio sulle loro menti.
 



Quella notte entrambi i sovrani avevano aperto gli occhi di scatto, ridestati improvvisamente dal vociare infantile di un bimbo appena nato:
l’Olimpo e l’Averno parlavano di un esserino prodigioso, Kore, figlia di Demetra e Zeus,

bella come una stella del cielo notturno.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Vita offesa

Il pianto disperato era stato accolto da Selene, brillante e alta nel cielo che, con tenera luce, ne aveva illuminato il tenero corpicino
Sollevata al cielo come vittoria e trofeo amato, era stata poi avvolta in un drappo di cotone bianco prima di trovare caldo riparo tra le braccia della madre, ancora sfiancata dai dolori del parto.
Una nenia dolce, più antica del tempo stesso, accoglieva nel mondo terribile la creatura innocente.

“Kore, sangue del mio sangue, la terra ti saluta benevola e la luna, bianca e brillante, ti bacia coi suoi raggi. Piangi, anima della mia anima, e apri i polmoni a questa aria grave e frizzante che sa di vita. Ti dono l’esistenza degli dei e i sentimenti degli uomini”.

Demetra, solenne e sfinita, la avvicinava al seno pallido e con delicatezza ve la attaccava affinché le piccole labbra suggessero il primo nutrimento.   

“Il fiore più bello sei tu, bambina mia”.

 Le dita tremanti solleticavano il faccino seminascosto mentre un odore, il suo odore, magico e surreale, iniziava a diffondersi per l’aria leggera annunciando al mondo che Kore, la sua meravigliosa bambina, aveva poggiato il suo delicato piede sul cosmo nero e ne aveva fatto germogliare finanche le sterili gemme.
Paradossale la fatica, la paura e il dolore che Demetra, forza che imprime la vita alle messi, aveva dovuto patire sulla propria pelle per quella creatura che sentiva suggere con delicata e feroce fame;  un desiderio di maternità maturato nei secoli e che aveva trovato compimento tra le braccia di Zeus, fratello, amante, cognato. Non aveva dato peso al tradimento compiuto nei riguardi della sorella quando la meravigliosa notizia aveva attecchito nel cuore vuoto e desideroso di mutare come mutano i tempi e i campi e i prati. Quella tenera creaturina, che a pieni polmoni aveva pianto il proprio saluto al mondo, era parte di lei, sua, solo sua e, in quanto tale, non se ne sarebbe mai separata: aveva scrupolosamente programmato un’intera eternità fatta di giochi, messi profumate e feste e Kore sarebbe stata al suo fianco: fedele compagna, consigliera fidata, amatissima figlia.
 
Lo stesso Zeus non aveva distolto le iridi cerulee dall’evento emozionante e terribile e lì, arroccato sull’Olimpo come un’aquila feroce, aveva assistito al parto della compagna, della sorella, della cognata. Non aveva osato starle vicino per tenerle la mano, non aveva dissimulato le sembianze per raggiungerla in volo o in soffio di vento leggero, ma sull’Olimpo, immobile e distante, si limitava ad osservare silenzioso quello che, invece, la sposa avrebbe accolto con furia e rancore.
Ne aveva percepito quasi immediatamente il passo lento che sapeva di calma apparente, tempesta in arrivo, furia trattenuta a stento da briglie logore.
Le era servito un solo istante, un solo sguardo verso quello, in piedi con il viso rivolto all’orizzonte nebuloso, per capire, vedere, la traccia che legava quella nuova esistenza al marito fedifrago.  Lo aveva chiamato con l’epiteto che la loro unione sanciva, aveva detto marito, marito mio, ma lo sdegno, terribile spettro, soffocava l’essenza regale e distrutta.

“Non mi risparmiate alcun dolore, essere spregevole”.  
 
Era aveva scandito ogni parola lentamente, misurando la rabbia e il dolore affinché egli tremasse al suo cospetto non come dio ma come sposo ingiusto e infedele.

“Non osate opporvi ai piani del fato, sacra dea. Era giunto il momento che anche Demetra desse vita a una sua discendenza”.

Zeus aveva proferito quella frase a denti stretti, sapeva bene, infatti, che la dea non avrebbe nemmeno lontanamente tollerato una risposta di quel genere.

“Perché voi? Perché dovevate esserne voi il padre? Non vi bastavano le femmine umane, non vi bastavano i figli illegittimi che con spudoratezza avete
presentato al mio cospetto?”

Era aveva sputato quelle accuse come bocconi amari incastrati a metà strada tra l’odio e il disprezzo.

“Era…”. Il nome di quella, soffiato a labbra schiuse, suonava come una preghiera: la richiesta di un perdono che Zeus non avrebbe mai saputo pronunciare con parole sincere.

“Mi consola un solo pensiero, fulgido e brillante come la verità: la sofferenza graverà sulle spalle della giovane dea, perché voi, scellerato, l’avete concepita nel tradimento peggiore per uomini e dei”.

Terribile come una furia vendicatrice, Era, sovrana del cielo, gli aveva voltato le spalle mentre il monito terribile echeggiava ancora per l’aria, ora grave, ora asfissiante, per trovare posto in un angolo remoto di quel cuore fin troppo avvezzo al tradimento; e solo quando nel silenzio ripristinato aveva rivolto ancora lo sguardo verso la terra che abbracciava la figlia amata, il presentimento della morte aveva artigliato le sue viscere.
Il pianto udito, il terrore che lo aveva pervaso, l’oscuro presagio di sofferenza: tutti si presentavano come tasselli di una visione che, dolore dopo dolore, si faceva chiara all’occhio preveggente.  

Kore, innocente e inconsapevole, nasceva e moriva al suo primo respiro.
Lei la vittima, il capro espiatorio, colei che, con la sua felicità, avrebbe riscattato le colpe del padre.

Il fato, implacabile, si presentava alla sua porta e con feroce precisione indicava la strada verso la disfatta, perché essere immortali non significa essere invulnerabili; il tempo, bastardo gentiluomo, avrebbe fatto il resto con il suo svolgersi implacabile verso il momento in cui anche la morte, sofferente, avrebbe abbandonato i suoi domini alla ricerca di vendetta.   
 

°°°
 

Come era successo?
Come era potuto accadere?

Un momento era piccola, creatura dalla bocca rosea come primule in fiore, esserino curioso alla ricerca della radice dietro la piantina, e poi eccola lì, ragazza divina, essenza vivifica e solenne.
 Demetra, come di consueto, aveva lanciato un ultimo sguardo d’amore verso la figlia prima che la partenza le dividesse per giorni, e aveva scorto nei gesti compiuti da quella, nelle preghiere recitate a mezza voce e nell’animo gentile e compassionevole, una sé stessa migliore, tanto migliore da non somigliarle più; Kore sapeva di una vita e di un mutamento che non aveva mai conosciuto.
Era meravigliosa, la sua bambina, semplicemente perfetta e pura come una calla mossa dalla brezza primaverile e quegli occhi gialli che campeggiavano brillanti sul volto ovale e baciato dal sole, sapevano di folgore feroce e miele dolciastro; era terribile, come la vita, come la passione dell’esistenza. Le aveva dato le spalle quando l’invito al gioco delle ninfe, ora lontane, l’aveva come ridestata dalla profonda immersione nel regno fatto di radici e vita:
“Arrivo, arrivo”, il sorriso dolce aveva increspato le labbra della giovane dea prima che il piede si slanciasse all’inseguimento.

La corsa giocosa si era fatta cammino lento quando il desiderio di godere quel silenzio, fatto di cinguettii e foglie smosse dalla brezza leggera, le aveva riempito il cuore. Talune volte, durante le lunghe assenze materne, capitava che bramasse la solitudine, il silenzio, la calma della vita che si ristora lentamente per sbocciare florida e meravigliosa e quando quel mattino la madre le aveva posto un tenero bacio sulla fronte a mo’ di saluto, aveva deciso, organizzato, meditato, bramato la fuga dolce che adesso compiva all’ombra dei fitti alberi neri.
In quel paesaggio di surreale bellezza, lei, stretta nel suo abito bianco virginale, sembrava una dea primordiale e antichissima, immersa e travolta dal tremore delle foglie argentate e piegate dal vento; ma il fato, bastardo e infido, a volte si mette di mezzo con una ferocia tale da sradicare qualsivoglia gioia.

Non era sola.

Non era più sola da quando le ombre del tramonto avevano iniziato a tingere di uno strano color cremisi il cielo immenso.

Non era sola e la presenza, silente e ambigua, la seguiva come un predatore fa con la propria preda, attento a non smuovere il terreno, a non emettere un suono che sveli la propria posizione.

Era stata lei, entità divina e coraggiosa, a porgere una domanda alle ombre che la circondavano:

“Chi siete? Mostratevi al cospetto della signora di questi luoghi”.

 “Kore, dolce Kore, vostra madre è la padrona e ora, ahimè è altrove. Che ci fate voi, tutta sola, sperduta sulle sponde boscose del lago proibitovi?”

 Un giovane satiro, vestito solo della propria pelliccia, le aveva rivolto la parola con fare lascivo e, poggiato morbidamente sul tronco di un albero a pochi passi dietro di lei, la squadrava dall’alto in basso, soffermandosi troppo su quel corpo non più di bambina e non ancora di donna.

“In assenza della dea madre è mio il compito di sorvegliare i luoghi che tu calpesti con arroganza”, cercava di sembrar forte la giovane dea, e fiera e
ritta lo osservava con sguardo di fuoco affinché la minaccia che lui rappresentava non la intimorisse nelle azioni; da queste dipendeva, infatti, la sua sopravvivenza.

“Mentite”, il satiro, sorriso sghembo e cattivo, aveva mosso un passo verso la giovane con lascivia brillante nello sguardo bestiale.

“Voi non dovreste essere qui. Vostra madre vi punirà”.

Quelle parole, sibilate con infida cattiveria, avevano smosso il giovane e innocente cuore della ragazza e proprio lì, su quel dubbio, su quella paura, il meticcio aveva palesato le proprie intenzioni:

“Sarei disposto a mantenere il vostro segreto in cambio di un bacio. Sarei gentile, sareste voi a concedermelo senza che io vi forzi con violenza”. I denti sozzi e gialli facevano capolino da dietro le labbra tirate in ghigno.

Non una parola era salita alle labbra bianche per la paura e, per tale ragione, intimamente terrorizzata, Kore si era data alla fuga, inseguita dal caprino essere.

 
°°°

Una fitta, lancinante e terribile, lo aveva costretto a piegarsi su sé stesso.
Un rivolo di sangue, sostanza vischiosa e nera, gli macchiava la mano e una strana sensazione di occlusione gli gravava sul petto adorno di pelli e metallo. Il sovrano dell’Averno era inquieto, maledettamente inquieto e sofferente: non riusciva a ragionare lucidamente, le mani tremavano e il respiro pareva strozzato all’altezza della gola.
 
“Mio signore?” Il secondo giudice, Radamanto il morto, lo aveva osservato con sguardo spento ma non per questo non stranito.

“No, affatto”, un ringhio gutturale aveva riempito la sala del trono prima che il dio, sconvolto, ne varcasse le soglie;  la tunica artigliata all’altezza collo in una disperata ricerca di aria.

“Resta tu – un ruggito lontano raggiungeva in eco alle orecchie del giudice – non lasciare che nessuno varchi l’ingresso del tempio in mia assenza, mi occuperò di tutto quando sarò di ritorno”.
 
Dissolto in nube, il dio dei morti si era proiettato fuori dalle sale oscure, lontano dai fumi votivi e, nuovamente corpo sofferente, a grandi falcate aveva percorso il sentiero isolato e non più calpestato dal terribile giorno in cui…
Non sapeva perché il piede si muovesse lesto verso quei domini umidi e secchi, bagnati dalle acque ardenti dei fiumi avernali. Sapeva solo che era giusto, necessario l’animo turbato e pronto alla feroce battaglia, e più camminava e più sembrava dissolversi, diventare un tutt’uno con l’aria dell’Orco di cui era signore e padrone; la rabbia si tramutava in collera e la collera furia, ma non sapeva spiegarsi il perché.
Cerbero versava in uno stato d’agitazione simile al suo: le bocche sbavavano in smorfie digrignanti e le orecchie rimanevano tese verso minacce che sentiva provenire al di là dell’ingresso. Il passo marziale, allora, si era fatto corsa sragionata e quando il piede aveva calpestato la sponda brulla e bruciata, ecco che lo sguardo di tenebra immediatamente era stato catturato dalle acque al suo cospetto:
più la osservava e più queste, stranamente, si facevano limpide, specchio per quegli occhi non più avvezzi alla luce del sole. Con le interiora strette in morsa di ferro, incapace di distogliere lo sguardo da quelle, sempre più brillanti e luminose, aveva, infine, assistito al prodigio, al compimento del fato.
Una figura minuta di ragazza si ergeva delicata e fiera al suo cospetto. La pelle abbronzata, celata in pudiche vesti bianche, sapeva di vita e profumi inebrianti, sconosciuti e lontani dall’Averno assoluto e buio che dominava.  La chioma lunga, selvaggia, riccia e nera, agghindata con fiori variopinti e fili d’erba, correva e sfuggiva allo sguardo famelico, inseguita da un qualcosa, o qualcuno, che ne terrorizzava l’essere, trasfigurando il bel viso in espressione di bieca paura.
Era minacciata, la creatura al suo cospetto, inseguita e braccata come una lepre che, invano, tenta di seminare il segugio.
E allora, solo allora, quando ne aveva sentito la voce disperata e cristallina invocare aiuto, aveva capito perché lo pervadesse una furia cieca.

°°°

Finita, sei finita, stupida, stupida Kore.

Avrebbe dovuto prestare ascolto alle parole accorate della madre.
Avrebbe dovuto rispettare i vincoli e i divieti.
Avrebbe dovuto, e non avrebbe più potuto in futuro, distrutta da una violenza che sapeva, in cuor suo, l’avrebbe corrotta per sempre.
Aveva corso come il vento, persa tra le fronde fitte, ma quel mostro conosceva la via, il sentiero, la pietra spigolosa sul terreno, e l’aveva raggiunta, lei che, spirito del vento, più e più volte aveva dovuto rallentare il passo per non cadere. Con uno scatto che sapeva di belva selvaggia, l’aveva afferrata con forza da dietro e con cupidigia la teneva stretta a sé, le mani che cingevano con forza i fianchi mentre l’alito fetido che scaldava il collo esposto.
A poco erano servite le urla, gli ordini, le minacce: il satiro nona accennava a lasciarla e più quella si contorceva alla ricerca della fuga più lui la stringeva contro il suo corpo, ora palesemente stimolato dalla vicinanza. Annichilita, terrorizzata, Kore aveva aperto il cuore al nero della disperazione e in una preghiera rivolta a chiunque potesse aiutarla, aveva fatto tremare le vene dei polsi della belva; aveva spesso sentito raccontare alle sue compagne di uomini violenti ma mai, in vita sua, si sarebbe concessa a una simile tortura. Piuttosto la morte.
Con questo sentimento nel cuore, la voce si era levata chiara e sofferente e l’aveva raggiunto, infine, nelle profondità dell’Orco nero che tutto inghiotte.
Forse per la paura, forse per l’angoscia che l’aveva avvolto come un mantello stretto e soffocante, la bestia aveva cercato di zittirla con una mano premuta con forza sulla bocca, e quando lei, degna figlia di sua madre, lo aveva morso, aveva ricevuto, dal folle satiro ,un colpo tanto forte da stordirla. In ginocchio, al cospetto di ombre nere e invisibili per quello che ancora lamentava la mano offesa, Kore aveva smesso di dimenarsi e agitarsi. Con una mano poggiata delicatamente sulla ferita aperta sulla fronte, aveva tentato di frenare il fitto rivolo di sangue rossastro mentre una voce, solenne e cupa, la spingeva ad alzarsi, forte e fiera, al cospetto del morto – sì, perché quel satiro avrebbe presto varcato le soglie nere – così la rincuorava l’essenza invisibile.
Una sensazione nuova e spietata la mangiava dentro, il sangue caldo che l’aveva sempre contraddistinta, lasciava il posto a un gelido flusso che saliva dal profondo del suo essere per trovare sfogo negli occhi stretti ridotti a folgori saettanti; con estrema lentezza aveva puntato l’indice insanguinato contro quello che, furibondo e terrorizzato, si apprestava ad afferrarla nuovamente.
Ma non si mosse dal punto in cui era ma anzi, pallido in volto, aveva sospinto i piedi indietro, lontano da quella giovane dea che, ancora sanguinante, puntava il dito contro il suo misfatto.
Ma lui, folle, non vedeva più lei: gli occhi, vacui adesso, osservavano un punto alle sue spalle di cui il gelo pure lei riusciva a percepire. Paura, sgomento, angoscia, rassegnazione, tutte emozioni spaventose dipinte a tinte forti sul viso del fauno, ora lanciato in una corsa senza fine lontano da lei che ancora lo fissava con ira.
In quei secondi, passati troppo lentamente e troppo velocemente per colpa della paura e dell’adrenalina, ella non aveva avuto le forze di voltarsi verso quell’essenza che ancora si manteneva silenziosa e algida alle sue spalle.
 
“Spero siate un essere di valore, perché ho pregato l’invisibile… e lui non risparmia alcuno”.

Aveva formulato quelle parole come si fa con le preghiere o i moniti, tra sé e sé, a mezza voce, e sfinita, si era abbandonata al suolo umido e smosso dalla folle colluttazione prima che un lungo brivido ne facesse tremare il piccolo corpo avvolto in vesti lorde di sangue e terra.  Non aveva potuto scorgere le ombre nere dissiparsi, il mantello nero sfiorare il suolo o occhi grigi e sottili, infuocati ancora dalla furia e dalla vendetta, cercare tra la fitta vegetazione il satiro in fuga; perché sarebbe morto e lui stesso ne avrebbe esatto l’anima.
Ma quando il cuore, sicuro della vicina soddisfazione, aveva riguadagnato la consueta lucidità, aveva permesso allo sguardo gelido di soffermarsi sulla giovane dea ancora riversa al suolo, lì, in un moto di sacro rispetto e sconosciuto senso di …attaccamento? Ne aveva sollevate le membra abbandonate a un sonno simile alla morte. Il passo marziale, cadenzato dal tintinnare del metallo dell’elmo prodigioso, aveva coperto il leggero sospiro della giovane dea,
“Grazie”, aveva sospirato Kore, pervasa da una strana sensazione e, con le poche forze rimaste, aveva sollevato il capo verso il volto del salvatore per venir folgorata da iridi profonde e oscure, nebulose come l’acqua dei fiumi dei morti.

°°°


Quella notte, nel buio delle sue camere, il dio delle ombre aveva sciolto i lacci e le fibbie dell’armatura ancora pregna di furia e ira. Non c’era voluto molto a rintracciare il satiro bastardo né tantomeno a ghermirne le membra per trascinarle nel lamentoso Erebo: quale goduria osservare il viso dei vivi tingersi del grigio della morte giusta!
Il sorriso, ghigno soddisfatto, era stato però spento dal ricordo di lei, sopita tra le sue braccia come la più normale delle abitudini. Prima di assaporare la propria vendetta, però, l’aveva ricondotta a casa: era bastato seguire la scia del suo profumo in un andamento a ritroso per trovare la casa materna e nemmeno dinnanzi alla conoscenza di saperla figlia di colei che un tempo aveva osato rinnegarlo, aveva esitato a varcare quei confini; lei doveva essere condotta al sicuro e nessuno avrebbe osato ostacolarlo. Pensava a questo Ade, il dio nero, mentre la sensazione di lei tra le mani, così piccola e delicata e inerme e inebriante, lo travolgeva come un’onda implacabile: l’aveva guardata, osservata, scrutata nel volto pallido e nei capelli scarmigliati e ribelli e per una volta, una sola da quel giorno, si era sentito legato a qualcos’altro che non fosse il nero Stige.
Ripulite le membra, tirate ancora dalla tensione della caccia, aveva indugiato sul ricordo di lei, distesa su morbide coltri bianche mentre il suo profumo gli riempiva le narici per sfondare con forza la mente apatica e asettica e, in quell’esatto momento, l’immagine di una piantina, piccola e delicata, aveva fatto capolino nella sua mente; strana essenza, quella, sorta sulla battigia che, un’eternità addietro, lui aveva annaffiato con acqua e sangue, in una promessa all’Averno che nessuno avrebbe mai potuto sciogliere. 


 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Nome

Non credeva che stare interminabili momenti a fissare quel piccolo germoglio verde potesse essere così rilassante.
Si recava presso la sponda dello Stige ogni qual volta concludeva il proprio compito, lo trovava rigenerante. Il peso che sentiva all’altezza del cuore sembrava abbandonarlo, il respiro si faceva più calmo e le membra non soffrivano più di quella familiare e logorante tensione. Lo stesso Orco sembrava giovare di quel cambiamento dal momento che tutti i suoi avernali abitanti respiravano un’aria meno lugubre e tormentata… certo, Cerbero rimaneva sempre un demone a tre teste e i morti, proprio per il fatto di essere trapassati, non potevano considerarsi “felici” ma, qualcosa, qualcosa di piccolo come una leggera brezza faceva sentire un nuovo odore per quei luoghi immobili.
Ade, ritto in piedi come una colonna, osservava quella piantina con interesse. Non capiva come fosse possibile un prodigio del genere: quella distesa arida e brulla che separava i quattro fiumi dall’arco posto nelle lunghe e impenetrabili mura nere non aveva mai ospitato alcun genere di pianta o fiore.

Una terra a cui era sconosciuta la vita.

“Cosa ci fai tu qui?”, Ade, riflettendo a voce alta, scrutava dall’alto in basso quel germoglio alto poco più di una spanna che non aveva cessato di crescere dal giorno della sua comparsa. Sano e rigoglioso traeva nutrimento da quel terreno secco. Nemmeno Ade riusciva a capire come fosse possibile.

“Mi spiace per te sai? Questo luogo non ammette creature fragili…ma questo lo capirai a tue spese”. Il dio, avvolto nel suo lungo mantello nero, aveva sospirato come un’anima scettica e quasi dispiaciuta per quell’esserino. Il guerriero solitamente furente che gli divorava da secoli il cuore sembrava stranamente quieto sebbene sapesse che quel regno, prima di divorare il germoglio, si era preso già la sua di esistenza. 

E invece no, quella pacatezza impostagli sembrava quasi tramutarsi in calma rassegnata.
Nella sua mente regnava un grande vuoto di tanto in tanto riempito dall’immagine della giovane dea che aveva stretto tra le braccia qualche tempo prima.
Non era più risalito in superficie, non aveva più sentito l’ira di quel giorno tormentargli le viscere.
 
 Semplicemente lo Stige non l’aveva più richiamato, lasciandolo solo a riflettere in compagnia di quella piccola pianta verde.
 
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Zeus sapeva.
Zeus, dalla vista folgorante, sapeva quanto successo alla piccola Kore in assenza della sorella. Non appena il sovrano del sottosuolo aveva varcato il suo dominio aveva come percepito un brivido lungo la schiena che aveva scatenato una diffusa pelle d’oca. Dal suo tempio aveva chiaramente assistito alla minaccia del satiro ubriaco, così come ai suoi occhi non era potuto sfuggire il gesto compiuto dal fratello nei riguardi della giovane figlia: Ade, il fratello spietato e terribile che aveva rinnegato, agiva in difesa di una dea che sicuramente sapeva essere la sua progenie e, incurante di qualsiasi torto subito, l’aveva difesa senza esitazione.
Ora toccava a lui.
Avrebbe dovuto sanare quella frattura che per colpa sua e del suo ego aveva creato, era giunto infine il momento di riammettere Ade nel mondo dei vivi così come al cospetto di tutte le altre divinità sue pari.
Avrebbe organizzato un incontro, una cerimonia solenne e, anche a costo di sua figlia, avrebbe sistemato quanto prima infranto. Una scelta difficile da compiere soprattutto se di mezzo andavano altri esseri, ma lui, il sommo, non trovava altra soluzione che piegarsi al volere delle tre signore ineluttabili.
 
“Hermes!”. Aveva tuonato il nome del dio messaggero che, svolazzando agevolmente, gli si era posto da presso pronto a ricevere ordini.

“Mio signore". Hermes, un giovane dalla pelle abbronzata e dai capelli mossi, aveva parlato con la solennità che a stento riesce a mantenere un ragazzino.

“Hermes, ho bisogno che tu vada in un posto per me”. Il tono di Zeus, quasi bisbigliato, fece avanzare il dio alato, incuriosito da tutta quella segretezza.

“Recati nell’Averno, al cospetto di Ade, mio fratello, digli che Zeus lo riammette sull’Olimpo e al cospetto degli dei tutti. Un rito solenne verrà organizzato in suo onore e non potrà esimersi dal parteciparvi”.
Quelle parole avevano lasciato sbigottito Hermes che, con voce balbettante aveva risposto

“Ma...Ma ma Padre, quel posto è spaventoso e Ade non gode di certo di una buona fama”. In vero Hermes era terrorizzato dalle voci che circolavano sullo Ctonio, così come temeva quel luogo oscuro e tenebroso da cui nessuno, se non sparute divinità elette, facevano ritorno.

“Hermes…” Zeus aveva sorriso magnanimo

“Hermes caro… Non te lo sto chiedendo, te lo sto ordinando”. Una minaccia velata aveva colpito il dio in pieno petto che, resosi conto dell’affronto recato al divino padre di tutti gli esseri, aveva risposto chinando il capo e poggiando i piedi per terra.

“Si, perdono Padre, farò come avete detto”.

In cuor suo, l’alato, tremava per la paura mentre l’angoscia non lo avrebbe abbandonato fino al compimento della missione assegnatagli.

Mandatolo via, Zeus, si era alzato dal grande trono di marmo bianco, finemente intarsiato con motivi che richiamavano la sconfitta del padre e dei titani, si era recato presso il suo altare e lì, respirate le offerte sacrificali e rinfrancato lo spirito con le preghiere umane, decideva di andare via, fuori dal tempio, fuori dalla sua corte olimpica. Aveva bisogno di perdersi un po' nel mondo, di trovare un qualche conforto altrove, sapeva infatti che di lì a poco il fato avrebbe svelato la sua verità causando sofferenza a qualcuno.
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Succedeva di nuovo.

Succedeva ogni notte e quella, ovviamente, non era stata diversa dalle altre.
Tiratasi a sedere di scatto sul grande letto della sua camera, Kore si era svegliata per i terribili effetti di un incubo che, da giorni ormai, la tormentava. Non era molto chiaro quello che nel buio dietro le palpebre riusciva a scorgere. Percepiva il proprio cuore battere fin troppo lentamente mentre una grande angoscia le gravava sulla bocca dello stomaco. Alzatasi e procedendo in punta di piedi aveva raggiunto la grande porta che dava sull’immenso campo erboso antistante la casa, era consapevole dell’ora tarda così come sapeva bene che quello significava nuovamente infrangere le regole materne…Ma aveva bisogno di aria, di sentire il manto erboso e profumato sotto i piedi nudi; solo quell’aria aperta e libera avrebbe potuto dare pace a quel suo cuore che da giorni ormai sembrava come malato, imprigionato in un corpo troppo piccolo.

“Dove credi di andare, piccola fuggiasca?”. Alseide, la sua bellissima e vecchia nutrice, l’aveva scrutata dal primo passo fino a quello incriminante che l’avrebbe portata a violare i divieti materni.

Se fosse stata una giornata qualunque, Kore sarebbe rimasta ferma, immobile sul posto nella posizione in cui veniva beccata e, sfoggiando il migliore dei sorrisi avrebbe inventato qualche scusa. Ma quella non era una giornata qualunque né lei si sentiva la persona di sempre.
Con gli occhi ancora velati dal sonno e dall’angoscia aveva provato a proferire verbo ma la voce le si era rotta in singhiozzi sommessi che subito avevano allarmato la vecchia ninfa.

“Piccola ma che succede?”. Alseide le si era posta dinnanzi e, allargate le braccia, l’aveva accolta in un abbraccio materno e caldo.

“Un incubo terribile mi tormenta da giorni”, aveva bisbigliato tra un singhiozzo e l’altro mettendosi di tanto in tanto una mano sopra la bocca per paura che qualcuno potesse sentirla e di conseguenza sopraggiungere.

“Kore, bambina, stai tranquilla, è solo un incubo e tu sei al sicuro”, Alseide, divinità dei boschi, rifiutava qualsiasi cosa che non fosse tangibile e concreta. Un sogno per lei era solo un sogno, fervida immaginazione imbrigliata in sensazioni spaventose e fuori controllo che poco però avevano in comune con la realtà. Ninfa dei boschi e legata alla madre terra, mai avrebbe potuto comprendere il turbamento della dea, scossa da ricordi inafferrabili celati sotto le fattezze di sogni.
Ella era rimasta in silenzio abbracciata alla ninfa e, inalato il suo profumo rincuorante, aveva cercato di allontanare da lei quelle strane immagini che affollavano la sua mente.
Ricordava solo di essersi risvegliata ai piedi dell’altare di sua madre con un piccolo taglietto sulla testa e con le vesti tutte logore e stropicciate e quel dettaglio l’aveva fatta cadere in uno stato di grande agitazione. Ritornata subito in casa e sistematasi alla bene e meglio, non aveva avuto il coraggio di raccontare in che condizioni si fosse risvegliata e questo perché, essenzialmente, non ricordava come si fosse ridotta in quel modo. Tutto quello che riusciva a ricordare le veniva riproposto ogni notte sotto forma di incubo: due occhi grigi, grigi e oscuri, quasi nebbiosi, la osservavano così profondamente da farla sentire scrutata nelle più celate e recondite parti del suo essere.
Ma questo, il motivo reale della sua paura, non l’avrebbe mai potuto dire a nessuno, né a sua madre né alla cara Alseide perché avrebbe significato turbare la pace della madre, svelare i propri misfatti e, ancor peggio, avrebbe voluto dire più rigido controllo per lei. Non avrebbe potuto mai sopportare quell’ulteriore pressione.
Staccatasi dalla nutrice Kore aveva messo una mano tra i capelli scarmigliati per cercare di toglierli dal viso impiastricciato di lacrime; ancora sospirava agitata e evitava lo sguardo della donna.
La ninfa, vedendola turbata aveva infine deciso di contravvenire alle regole della somma Demetra e, badando che nessuno le vedesse, aveva scortato la giovane presso il suo altare e lì, stesasi sul manto erboso, la vedeva finalmente rilassarsi, cullata dall’erba e da teneri fiorellini sbucati dal terreno affinché il suo riposo non fosse sul duro suolo.

“Riposa bambina e trova pace. Domani sarà un bel giorno. Dimentica i turbamenti oscuri di una realtà che nulla ha a che vedere con la terra benevola”.

Così detto Alseide le aveva baciato la fronte e, sistematasi di fianco a lei, aveva ripreso a dormire.
Kore, invece ancora sveglia, rifletteva sulle parole appena udite e, osservando il trascorrere del tempo sulla volta celeste, si domandava da quale realtà potessero mai giungere esseri dagli occhi così tristi e minacciosi.
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“Kore esci dall’acqua, sei già pulita abbastanza… e smettila di farmi le smorfie con le tue amiche, vi vedo tutte!”. La voce di Demetra riecheggiava per il sottobosco, sembrava infastidita anche se, sotto sotto, celava una grandissima gioia.

“Kore, bambina, sbrigati. Dobbiamo vestirti, pettinarti, agghindarti e insegnarti quanto c’è da sapere in merito. Oggi tutti dovranno vedere che splendida dea sei diventata”.

“Ma madre, io sono sempre stata splendida! “. Demetra e le ninfe risero di gusto mentre Kore, nella sua giocosità, scimmiottava il fare vanitoso di Afrodite.

Non aveva dimenticato la notte prima, la nutrice le era stata di grande conforto accompagnandola e facendola riposare presso l’altare della madre, lì proprio dove giorni prima si era risvegliata avvolta da una strana sensazione; nella mente aleggiava ancora il vivido ricordo di occhi terrificanti e minacciosi, l’animo tenero era ancora in tensione tanto da non averle dato il coraggio di raccontare a nessuno di quanto successo. Le mancava qualcosa, sapeva in cuor suo di essere stata coinvolta in qualcosa sebbene non sapesse dire in che cosa, capiva solamente di sentirsi richiamata al suolo, al terreno erboso che sapeva infonderle serenità; ma quel giorno non avrebbe potuto stendersi a riposare sulla nuda terra, non avrebbe camminato a piedi nudi perdendosi nella coltre ombrosa del bosco, quel dì era fin troppo importante, sia per lei che per la madre e non avrebbe permesso a nessuno, nemmeno al più terribile dei sogni ricorrenti o alla peggiore delle angosce, di rovinarglielo.
Sarebbe salita per la prima volta sul monte Olimpo insieme a sua madre e, al cospetto di tutte le divinità richiamate a gran voce dal padre degli dei, sarebbe stata ufficialmente presentata e legittimata nel suo “nome”.
Ricevere il nome era il momento più importante per la vita di un dio, perché con quello, impresso e marchiato addosso, si veniva riconosciuti nel dono che il fato aveva concesso.
Sua madre ci teneva moltissimo anche se, il momento e il modo scelto da Zeus per celebrare quell’avvenimento era risultato alquanto sospetto a Demetra che ben immaginava altre ricorrenze di fianco a quelle della splendida figlia; credeva infatti che Zeus avesse avuto più di un motivo per indire quella grande riunione solenne che avrebbe richiesto la presenza di tutte le divinità, maggiori e minori, ma nessuno aveva osato chiedere e il padre, di certo, non avrebbe dato spiegazioni.
Per Demetra ciò che più contava era che la sua piccola venisse riconosciuta nel panteon delle divinità, che venisse celebrata e ritenuta saggia e responsabile di un dono; che ci fossero altri motivi per rendere quel giorno ancora più speciale tanto meglio.

 La dea madre aveva indirizzato uno sguardo alla figlia che, ancora completamente bagnata, rideva allegramente con le ninfe, giocando ad una battaglia di schizzi.

 Si era passata una mano sul volto, forse “responsabile” era un po' troppo per la sua bambina, ma era troppo eccitata per rimproverarla nuovamente.
Una volta che Kore fu fuori dalle acque del lago Pergusa, venne avvolta in un telo di bianco cotone per coprire le nudità e, condotta nella sua stanza, era stata fatta accomodare sul letto con gli occhi chiusi.
 
“Non sbirciare piccola impudente!”. Aveva tuonato la madre che, in ginocchio dinnanzi alla cassettiera, ne traeva fuori un magnifico abito tra lo stupore di tutte le ninfe del loro gioioso corteo.

“Adesso posso guardare?”. Dietro il volto celato dalle mani si intravedeva un magnifico sorriso.

“Si”, la voce di Demetra suonava leggermente incrinata.

“Madre, cosa vi succed...?”. Kore non era riuscita a concludere la frase dal momento che, tolte le mani dal viso, i suoi occhi erano stati calamitati da un abito lungo e ricamato a mano morbidamente posto tra le braccia di Demetra.

“L’ho fatto con le mie mani”, disse solennemente la madre mentre glielo porgeva con infinita dolcezza.
Kore era senza parole.

“Dal nulla ho creato te e dal nulla, con le mie mani, ho cucito questo abito per te. Il mio augurio è che tu possa sempre essere felice e fresca come un fiore appena sbocciato e che, insieme, si possa vivere eternamente felici tra i fiori e le messi profumose”, la voce della dea ora era palesemente commossa.
La giovane dea fissava con occhi lucidi quella possente donna dinnanzi a lei che, nella sua dolcezza di madre, la omaggiava come una sovrana. Più guardava la dea dalle braccia forti e dallo sguardo brillante come la più rigogliosa delle vegetazioni e più sentiva il cuore palpitare di gioia; l’amava ogni oltre misura.  Era il suo mondo.

“Sapevo che un abito sfarzoso e appariscente non ti sarebbe piaciuto”. Demetra si asciugava gli occhi bagnati di lacrime con delicatezza.

“Sapevo che se mi fossi presentata con un abito riccamente lavorato tu non l’avresti mai messo. Sei la più dolce delle creature, meritavi una veste che fosse alla tua altezza, che ti facesse brillare ma di una luce che fosse veramente e solo tua”.
Anche Kore adesso piangeva mentre con mani tremanti stendeva il vestito dinnanzi ai suoi occhi stupidi e lacrimosi.
Di un delicato bianco e lungo fino ai piedi era una veste morbida, leggera come una nuvola, avrebbe rivestito il suo corpo come un guanto.

“Madre… Grazie, è il vestito più bello che poteste fare per me, è perfetto e profuma di voi”. Sorrideva un po' alla madre, un po' al vestito, un po' alle ninfe sue amiche che avevano accolto la sorpresa fatta dalla madre alla figlia con un sonoro “ohh” a dimostrazione del fatto che quel vestito fosse veramente una gioia per gli occhi.

“Adesso basta sorridere come un pesce bambina mia, sbrigati e indossalo, non vedo l’ora di ammirarti”. Demetra l’aveva spintonata dietro la tenda.
Un altro “oh” aveva riempito la stanza quando Kore, finalmente, si mostrava agli occhi curiosi delle sue spettatrici. Le spalline erano appuntate con due spille sottili in argento brillante e, la loro forma, ricordava delle piante rampicanti che le ornavano le spalle e la parte inferiore del collo a mo’ di collana. La scollatura non era profonda ma esaltava il piccolo e sodo seno mentre la stoffa leggera l’avvolgeva sui fianchi e sulle cosce evidenziandone le curve tornite.

“Kore, sei bellissima”. Madre e figlia si erano abbracciate in un silenzio ma, quel momento non era durato a lungo.
 Il vociare indistinto delle ninfe, da bisbigliato, si faceva sempre più rumoroso fino ad esplodere in urla gioiose e canti augurali.

“Oh sacro Zeus, ragazza! Farai perdere la testa a qualcuno!”. Alseide, la ninfa più    anziana del corteo aveva fulminato la piccola Limna, ma quando tutte avevano guardato con sguardo malizioso Demetra quella, imbronciata, aveva risposto a tono

“Kore è troppo piccola per queste cose, sarà per sempre solo mia”, e, stringendosela al seno, se l'era sbaciucchiava tutta.

Era una festa.
Tutte le donne presenti in quella stanza ridevano e scherzavano mentre Kore, fatta accomodare su uno sgabello, veniva pettinata con cura. 
Il risultato finale era assolutamente magnifico: una treccia laterale adorna di bellissimi fiori di mughetto.

“Adesso sei veramente perfetta”. Demetra le aveva arricciato un ciuffo ribelle tra le dita e, guardandola negli occhi, cercava di infonderle calma e serenità.

“Andiamo madre”, Kore aveva preso la madre sotto braccio e, baciatala sulla guancia, si avviava con lei verso il sacro Olimpo. Un coro di voci intonava canti solenni che rendevano l’aria ancora più sacra.
La giovane dea era scalza.

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La grande celebrazione olimpica stava per avere inizio.
Tutte le divinità erano già giunte al cospetto del padre degli dei e, dopo avergli reso onore, ognuno si era recato altrove per salutare amici e conoscenti. La musica riempiva l’aria insieme all'incenso e alle preghiere degli uomini,  l’ambrosia nutriva l’animo dei beati lì riuniti, mentre il vino, dono di Dioniso, traboccava dalle coppe costantemente riempite dai coppieri alati, tutti avevano un’espressione beata e inebriata dipinta sul volto; alcuni celebravano la lotta e si fregiavano delle vittorie conseguite, altri inneggiavano alla pace del sacro focolare domestico; solo Era, invece, stava in silenzio di fianco a Zeus, alta e solenne come solo una regina può essere. Non aveva mai proferito verbo, non aveva rivolto al marito nemmeno una singola parola. Non era stupida, sapeva chi sarebbero giunte da lì a poco e per questo motivo una ferita aperta dentro di lei aveva ripreso a sanguinare, una ferita di fianco a molte altre che già in passato aveva dovuto patire. Apollo, Artemide, Hermes, Dioniso erano tutti lì, al suo cospetto, i figli illegittimi del marito erano presenti e presenziavano alla cerimonia. Tutti erano stati per lei causa di infinita sofferenza, ma quella Kore, quella giovane dea che per la prima volta saliva dinnanzi a lei, no, non l’avrebbe perdonata, perché frutto di un tradimento tremendo. Demetra non si era più mostrata al cospetto della somma sorella, temeva per lei e per la vita della figlia.
Zeus aveva dovuto essere perentorio con Era: Kore necessitava di un nome e troppo a lungo si aveva temporeggiato, ma Era, in cuor suo, cercava solo il momento, l’occasione adatta per far pagare alla “nipote” le colpe della sorella.
 
Il lugubre pensare della regina era stato interrotto da un indistinto rumore di zoccoli e nitriti. Tutte le divinità convenute avevano percepito lo strano e sconosciuto rumore e, dal momento che nessun altro era atteso fuorché Demetra e la figlia, avevano tutti taciuto per poter meglio comprendere quanto stesse succedendo.
Fu allora che li si scorse all’orizzonte.
Quattro possenti cavalli neri, aggiogati a un carro di legno nero dal quale spuntavano speroni e punte aguzze, conducevano un dio dalle fattezze oscure. Indossava un elmo che celava larga parte del volto, mentre l’abbiglio era dei più severi e al contempo dei più regali: una lunga tunica nera fermata in vita da una cintura forgiata in piastre metalliche finemente lavorate in oro e argento dalle quali pendeva la custodia di uno xiphos.

“Non temete miei ospiti, questa è una sorpresa”, Zeus si era alzato dallo scranno bianco e aveva placato col suo tono serafico la platea turbata.

“Quello è Ade, MIO fratello”. Zeus aveva volutamente sottolineato il legame di parentela col dio che era appena sceso dal carro. Ade indossava ancora la kunée ma, una volta tolta, tutti i fratelli, tranne Demetra assente, proruppero in gemiti angosciati.
Solo Estia, fattasi vicina al fratello, gli si era inchinata, lasciando tutti ammutoliti. Lo aveva abbracciato tra le lacrime ma Ade, nella sua impenetrabilità, aveva ricambiato freddamente con un leggero inchino del capo.

“Fratello”, il padre degli sorrideva.

“Fratello unisciti a noi e perdona il male subito.”

Quelle parole avevano fatto fremere il dio avernale che, se non fosse stato per la pacatezza imposta dallo Stige, avrebbe distrutto qualsiasi essere postogli dinnanzi. Tranne Estia. Forse.
Avrebbe fatto volentieri a meno di quello spiacevole e civettuolo concilio. Avrebbe fatto a meno di accettare l’invito se non fosse stato per le parole sibilline di Hermes che, abilmente addestrato da Zeus, aveva citato la presenza di una giovane dea che avrebbe ricevuto il nome. Kore, il nome che aveva udito quel giorno, non era il vero nome della dea che aveva stretto tra le braccia; era solo un nomignolo affibbiatole dalla madre e che le rendeva poco giustizia. Quell’essere misterioso che lo aveva richiamato con la sua sofferenza meritava un nome ben più regale e completo, un nome che ne svelasse la vera e segreta natura.
Aveva dunque osservato il fratello minore e, fattosi avanti, era rimasto stupido dal sentire due grandi e possenti braccia stringerlo. Zeus lo stava abbracciando tra lo stupore generale.
Quello non lo poteva sopportare.
Separatosi dal fratello allungando le mani dinnanzi al suo petto aveva bisbigliato tra i denti

“Ricorda che quelle mani che ora poggi amichevolmente su di me, tempo fa non esitasti a usarle per distruggermi. Tu sai perché sono qui fratello. Non cerco altro”.

Mosso un passo indietro si era defilato mentre Zeus, scuro in volto, si accingeva a ritornare al suo trono.

Ade si era mosso nella direzione opposta e, calato l’elmo sul capo, spariva agli occhi degli dei che, forse sollevati dal non vedere più quell’elemento così diverso da loro e così temuto, avevano ripreso a far festa.
Il sovrano dell’Orco se ne rimaneva in disparte, annoiato e impaziente.
 
 
“Padre, vedo la dea madre accompagnare la figlia al vostro cospetto, Esse sono vicine”. Hermes con voce alta e squillante annunciava l’arrivo delle dee dei campi.

“Figli…fratelli”. Zeus aveva cercato con lo sguardo anche Ade ma quello, ancora celato alla vista, rimaneva nell’ombra.
Dubbioso aveva continuato con voce chiara e distinta.

“Oggi una nuova anima si unirà a noi e riceverà un nome degno di ogni onore!”. Il padre degli dei sembrava felice, sebbene uno sguardo attento avrebbe potuto scorgere nei suoi occhi un velo di tristezza.
Le divinità tutte avevano applaudito festose già dimentiche del turbamento che poco prima aveva arrecato la vista e la presenza di quel dio oscuro e implacabile.
In lontananza si udiva un canto lieve e delicato, era Demetra che intonava con dolcezza materna il nome fanciullesco di colei che si mostrava per la prima volta.
Ella la precedeva, celando in parte la figlia che procedeva dietro di lei sorridendo in maniera fiera.
Non appena la prima era giunta dinnanzi a Zeus lo aveva guardato con occhi che volevano dir molto più di quello che avrebbe detto la bocca. Finalmente Zeus, l’uomo con il quale aveva concepito quella meravigliosa vita, avrebbe conosciuto sua figlia e lo avrebbe fatto nel giorno più importante. Gli occhi e la bocca della dea erano tesi in un sorriso pieno d’amore
 
“Ti presento la nostra Kore, Zeus, che ti sia lieta la sua vista come per me è lieta quella tua e di tutto il tuo amabile concilio”. Demetra aveva inchinato leggermente la testa salutando il sovrano e la sua corte che ricambiavano con lo stesso gesto.
Fattasi da parte lasciava infine scoperta la figura dietro di lei che, finalmente, aveva la possibilità di guardare e farsi guardare.
 
Qualsiasi altra ragazza si sarebbe mostrata timorosa al cospetto del padre degli dei e avrebbe tenuto il capo chino.
 
Ma lei no.

Gli occhi erano sorridenti e saettanti, di un giallo intenso, e sorrideva senza vergogna mentre, a viso alto, rendeva onore ai presenti. Recava in mano rami di fiori profumati e, deposti questi ai piedi del trono del padre, rimaneva così, serena e beata, a lasciarsi scrutare. Perché mai avrebbe dovuto avere paura? Anzi, era felice di essere finalmente lì, di vedere qualcuno e qualcosa di diverso intorno a lei, ed era una gioia così pura e sincera che tutte le piante e i fiori presenti nel tempio rifiorivano di mille colori variopinti.  Quel prodigio aveva fatto gemere la folla che, stupita da quella vista, aveva iniziato ad applaudire.
Tutti se la mangiavano con gli occhi, in particolar modo Apollo, rimasto incantato dal prodigio della giovane. Febo aveva provato l’intimo impulso di avvicinarvisi per poter godere di quella bellezza ma un ringhio gutturale al suo fianco lo aveva fatto desistere. Ade, ancora ombra, era di fianco a lui e, senza farsi notare dagli altri aveva sibilato a denti stretti

“Osa avvicinarti a lei, oh Luminoso”, Apollo aveva perso il colorito brillante del volto e al suo posto si faceva largo una vaga tonalità cinerea. Aveva voltato impercettibilmente il capo per scorgere solamente piante avvizzite di fianco a lui.

“Siete voi, il dio nero, che volete da me?”. Aveva parlato cercando di farsi coraggio mentre la folla intorno a loro sembrava completamente assorta dai prodigi della fanciulla.

“State lontano da quella giovane dea, è mia.” Qualcosa dentro di lui si agitava irrequietamente.

“Come osate, dio nefasto! Nessuno può oscurare il sole!”. Apollo aveva stretto i pugni per la rabbia, un’ira resa furiosa dall’impossibilità di vedere l’ostico zio.

“Ricorda, caro nipote, che il sole può venir eclissato…Ma nessuno sfugge alla mano nera della morte”. Un soffio gelido aveva percorso il corpo di Febo che, impaurito, aveva desistito da ogni impresa di conquista. Per il momento.
Avrebbe atteso tempi migliori per fare la sua mossa.
Ade, invece, dopo la spiacevole conversazione, aveva nuovamente focalizzato la sua attenzione sulla giovane ancora intenta a interloquire col padre. Divorava con gli occhi la dea vestita di bianco, innocente e pure così bella e sensuale; era come aver le interiora dilaniate da Cerbero stesso, era come venir divorati dalle tre teste fameliche che ora avevano nome di passione, bramosia, possesso.
Fu solo quando Zeus aveva richiamato l’attenzione dei convenuti che Ade, riscosso dai propri pensieri, riusciva a distogliere lo sguardo dalla divina.

“Oggi siamo qui riuniti per celebrare…”. Zeus aveva iniziato con la formula sacra della celebrazione ma l’attenzione di Kore, nel momento di chinare il capo, era stata catturata da una pianta alla sua destra che, a differenza delle altre pienamente rifiorite, stentava a sbocciare.

“Padre…Un momento, perdonatemi”. Zeus l’aveva guardata dubbioso, mentre questa, incurante dei mille occhi puntati addosso, si accomiatava velocemente per recarsi con passo leggero verso la sofferente. L’aveva osservata a lungo e poi, chinatasi, aveva deposto un delicato bacio su uno stelo avvizzito.

“Come sei bella tu che ancora riposi. Riposa ancora e rigenera la tua vita. Così voglio”. Aveva bisbigliato quelle parole a mezza voce assolutamente ignara del fatto che lì, a due centimetri da lei, in piedi come un soldato, un’ombra oscura aveva avuto modo di vedere e sentire ogni più tenera preghiera della giovane. L’amarezza aveva riempito il cuore del dio dell’oltretomba perché se quella pianta versava in quelle condizioni era solo per colpa sua che, con la sua presenza malsana, appestava ogni essere… Ma Kore non l’aveva maltrattata, non l’aveva forzata a divenire qualcosa di diverso. L’aveva accettata così com’era, nel suo stato avvizzito e triste… L’aveva definita bella.

“Ero Kore, padre, ora sono nessuno. Siate voi a farmi dono di un nome che sia lo specchio della mia anima”, ancora china sulla piccola pianta secca Kore aveva rivolto quelle parole al padre, sorrideva di un sorriso dolce e beato. Gli dei presenti erano rimasti ancora una volta stupiti da quella voce soave, un misto d’innocenza e determinazione, calda come l’estate ma dai modi gentili come una primavera in fiore. Zeus, dall’alto del suo altare aveva provato un’immensa gioia. Quella era sua figlia!

“Tu, che sei capace di cogliere il diverso, il nascosto…Tu che sei capace di accettare l’oscura natura dietro un fiore rigoglioso, tu, figlia, sei Persefone. Colei che sa cogliere con saggezza ciò che si trasforma”.

…e lì fu il pandemonio.

Urla, risate e vino, tanto vino. Tutti bevevano, ballavano, molti si appartavano per stare da soli con la compagnia trovata, altri invece si recavano dalla giovane dea per recarle i loro onori.
Lei, Persefone, agghindata con una corona di fiori e steli, tra i quali uno avvizzito preso dalla pianta amata, ballava con sua madre e le sue amiche, e mentre ballava l’Avernale non distoglieva da lei lo sguardo.  Al pari di un’ombra, Ade, la seguiva senza perderla un secondo di vista. Aveva parlato con la calma e la sicurezza di una regina, era bella, bella da togliere il fiato, luminosa come il sole, e quel corpo… fresco, giovane, dentro quel vestito era una tortura. Gli occhi erano miele e saette, la bocca…rosso melograno e il collo bianco da mordere. Troppo tardi si era reso conto di essere rimasto bloccato a fissarla troppo a lungo e riscossosi da un languore primordiale, prendeva la sua decisione. L’avrebbe avuta ad ogni costo, ella sarebbe stata la sua luce, la sua ricompensa per il sacrificio e poco avrebbe importato che lei lo avesse voluto o meno, Zeus sapeva e avrebbe concesso la giovane in silenzio senza fare alcun problema.
 E così, con bramosia nel cuore, non ci aveva pensato due volte a mostrarsi a lei.
Rideva e ballava al centro della sala, gli occhi brillanti erano in festa come ogni parte del suo corpo elettrizzato, solo un atomo del suo animo era ancora turbato dai pensieri lugubri dei giorni precedenti. Era felice fino a quando, nel bel mezzo della danza circolare mano con la mano con altre dee, aveva sentito improvvisamente più freddo, un brivido le aveva fatto rizzare i peli del collo, e un sospiro all’altezza dell’orecchio l’aveva fatta voltare velocemente. Lì, dove credeva di trovare la madre, lo vedeva per la prima volta. Faccia a faccia con un ragazzo, un uomo fatto anzi, molto più alto di lei, che la guardava dall’alto in basso. Non aveva mai visto un dio con quelle sembianze. Era pallido, pallido come la luna piena e gli occhi erano grigi come le nubi del temporale; proprio quegli occhi grigi erano rimasti allacciati ai suoi per molti secondi, fermi entrambi a pochi centimetri l’una dal corpo dell’altro, si squadravano. Persefone respirava lentamente mentre il suo cuore, celato al mondo, perdeva un battito. Non ricordava di aver mai sentito parlare di un dio così strano e diverso.
Era strano.
Meravigliosamente diverso.
Li circondava un silenzio surreale.
 Chi suonava aveva smesso, chi si ingozzava era rimasto immobile con la bocca piena ad osservare quello che stava accadendo. Le divinità minori, alla vista del dio dell’eterna notte, si erano allontanate timorosi, altri ancora come Ares e Poseidone, si mettevano sulla difensiva. Solo Demetra ai piedi del trono di Zeus, assisteva alla scena come pietrificata. Non sapeva della presenza di quel mostro, non l’aveva visto né alcuno aveva detto lei della sua presenza. Aveva guardato Zeus ma questo, dall’altro del suo scranno, rimaneva in silenzio, mentre Era, di fianco a lui, ghignava.

Un movimento lento, quasi aggraziato e Ade tendeva la mano verso di lei in un chiaro invito a ballare e lei, accennando un sorriso, non glielo rifiutava.
 Senza alcun accompagnamento musicale iniziavano a muoversi, dimentichi del silenzio carico di sconcerto e preoccupazione che li circondava.
Solo dopo la musica riprendeva.

“Zeus, perché non lo fermi, Zeus ti prego fa qualcosa”, Demetra gli si era fatta vicino e con tono lacrimevole si rivolgeva al fratello supplicandolo.

“Demetra, è già tutto scritto…”. La voce del padre si perdeva nella musica come un bisbiglio, più rivolto a sé stesso che alla sorella.

“Cosa è già scritto Zeus?! Che tranello nasconde la tua falsa bontà?!”. La voce della madre era sconvolta mentre lo sguardo si faceva duro come la pietra.

“Persefone sarà di Ade, lui l’ha scelta e l’avrà. Così è scritto nel fato, le Moire l’hanno mostrato. L’hai persa Demetra. Mi spiace”.
Un urlo silenzioso squarciava il cuore della dea che, portata una mano sul petto, stringeva la veste con rabbia.

“Da quanto tempo lo sapevi?”. Aveva digrignato quelle parole.

“Dalla notte in cui tua figlia vide per la prima volta la luce del mondo, Demetra”.

Le parole del fratello erano sommesse, quasi sofferte.

“Tu, traditore”.

“Non osare Demetra”. Zeus l’aveva fulminata facendole distogliere lo sguardo che, dolorosamente, andava a posarsi sui due dei al centro della sala che, indisturbati, continuavano la loro strana danza.
Si guardavano negli occhi senza mai distogliere lo sguardo, la sua kore sorrideva divertita anche le se le gote le si erano colorate di un tenue rossore. Ade, l’infernale, la scrutava in silenzio con un’espressione seria sul volto ma lei più che sembrare intimorita era curiosa di scoprire cosa ci fosse oltre quella maschera; solo dopo molti secondi il dio si era reso conto di essere osservato dalla sorella e, volgendo impercettibilmente il capo, le aveva rivolto un sorriso diabolico.
No, non avrebbe permesso mai in nessun modo una simile unione. Non avrebbe permesso che la sua bambina venisse illusa e costretta con l’inganno nel regno della morte eterna. No, nessuno gliel' avrebbe portata via.
Demetra, incurante delle parole minacciose di Zeus, iniziava a correre con furia e giunta al centro della pista, si frapponeva fra i due nascondendo la giovane dietro le sue spalle.

“Tu non oserai”. Se avesse potuto lo avrebbe incenerito col solo sguardo. Più che una dea sembrava un’orsa che con ringhio gutturale proteggeva il proprio cucciolo.

“Arrivi tardi sorella, lei è già mia, il nome che ella porta dovrebbe illuminare la tua cieca mente”. A differenza di Demetra, Ade era rimasto come suo solito freddo e distaccato e le aveva parlato con tono pacato, mentre una mano, tesa verso Persefone, tentava di oltrepassare quella figura che faceva da muro fra loro. Ma la dea madre, in un impeto di collera, lo aveva spinto indietro.

“Non la toccare!”. Aveva urlato richiamando l’attenzione di tutte le divinità.

“Kore ti prego va via, fuggi il più lontano possibile”, Demetra le aveva parlato quasi in lacrime volgendo il viso di lato.

 “Ma madre io… Lui, stavamo solo ballando”, Persefone aveva balbettato rossa in volto per la vergogna non capendo perché la madre stesse reagendo in quel modo dinnanzi a tutti proprio il giorno della sua celebrazione.

“Va via!”. Quella, invece di darle spiegazioni, l’aveva spinta lontano sia da lei che dal dio silenzioso con il quale aveva ballato.
Persefone, coi capelli scarmigliati per la danza e il volto rosso per l’imbarazzo, aveva indirizzato un ultimo sguardo all’oscuro. Era mortificata e per questo aveva provato a rivolgere un ultimo saluto.

“Arrivederci...?”. Aveva balbettato confusa e preoccupata, solo ora si rendeva conto di non saper nemmeno il nome di quel dio.
Il suo dubbio era stato colmano da una sola parola

“Ade, mia signora”. Il dio aveva scorto quella muta domanda nel tono della dea che, sorpresa, prima di voltarsi e correre già dall’Olimpo con le gote rosso fuoco per la vergogna, gli aveva sorriso.
Ade aveva osservato quella scena come se non fosse stato nemmeno lui la causa di tutta quella baraonda. Non aveva reagito quando la sorella lo aveva spinto lontano dalla sua preda né quando la giovane l’aveva guardato con uno sguardo pietoso e sofferente prima di andarsene ma quello sguardo liquido l’aveva fatto tremare dentro di una rabbia cieca. Nuovamente veniva imposta una separazione, nuovamente veniva privato di un qualcosa di suo.
Era troppo anche per la pacatezza imposta dallo Stige e a pagarne le conseguenze sarebbe stata Demetra, rimasta dinnanzi a lui come se ancora cercasse di porre una distanza tra il dio e la giovane che velocemente si stava allontanando. Lui aveva distolto da lei lo sguardo e voltandosi aveva camminato con passo lento verso il minore di loro; una volta al suo cospetto né si era inginocchiato né aveva chiesto la parola come era usanza per gli altri. Era un confronto tra pari.

“Fratello, non ho intenzione di scatenare una guerra né di punire l’insolenza di nostra sorella”, Ade si era voltato verso quella per saettarle uno sguardo di puro disprezzo.


“Ma tu sai cosa voglio, cosa mi spetta e sarò disposto a tutto pur di ottenerlo. Io ho deciso e voglio lei. Sarà meglio che voi tutti lo capiate. Nessuno si oppone al fato e al sottosuolo”.
 Dava ancora le spalle a tutta la folla lì convenuta mentre una nube nera come la notte e dall’odore intenso dello zolfo iniziava ad avvolgerlo.

 “In un modo o nell’altro io l’avrò”.

 E senza dare né a Zeus né a Demetra la possibilità di parlare, aveva sputato con odio ia piedi della sorella che, per la seconda volta l'aveva rifiutato. Nell’oscurità che lo circondava aveva nuovamente indossato l'elmo e, risalito sul carro, aveva spronato con forza i cavalli.
 


Solo una dea osava ridere. Solo una aveva appena capito come vendicarsi.








L'Angolo di Avareil
Volevo con tutto il cuore aggiornare prima di ferragosto perchè odio l'idea di lasciare a metà le cose. 
Pubblico di fretta quindi perdonate errori e ridondanze, anzi se ne notate qualcuna non esitate a farmele notare in modo tale che io possa correggerle una volta passato questo periodo oscuro fatto di mangiate e ozio.
Un caro saluto sempre a Sissi e Herm e un grazie a chi come only_one e RhaenysStark  che mi da fiducia mettendomi tra le storie seguite. Grazie 
e buon ferragosto! Mangiate e divertitevi come se non ci fosse un domani =D
Avareil

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Nel vento
Aveva corso velocemente incurante della strada e della folla che aveva dovuto malamente spintonare per farsi largo. La vergogna le aveva imporporato le guance mentre il cuore, turbato da quell’inaspettato incontro, non faceva che battere a un ritmo forsennato. Quel dio anomalo l’aveva dominata per tutto il tempo in una danza che molto spesso aveva visto le loro mani sfiorarsi e i loro respiri solleticarsi. “Ade.” Dal profilo affilato e dallo sguardo magnetico.
Più precisamente:
“Ade, mia signora.”
Il ricordare quel tono, quelle parole, il modo in cui la sua bocca si era come arricciata in un sorriso amaro, avevano il potere di farla arrossire, soprattutto perché, ammaliata, era rimasta per un tempo indicibile ad osservare quelle labbra sottili incapace di dare una risposta al dio, una qualsiasi risposta.
Si era limitata a sorridere mentre la folla intorno a loro, compresa la madre, li fissava inorridita e terrorizzata.
Poi era venuta la vergogna, la vera vergogna.
Umiliata al cospetto di tutto il pantheon delle divinità si era data alla fuga, incurante delle voci preoccupate che la richiamavano dalle sue spalle.
Aveva percorso a perdifiato la discesa dell’Olimpo mentre una nuova sensazione simile alla rabbia iniziava a montarle dentro. Correndo senza fermarsi aveva superato di gran lunga il sicuro nido materno nel tentativo di sfogare quell’energia maligna accumulata; aveva girovagato senza meta per molto.  
Solo quando non aveva più udito alcun suono alle sue spalle aveva deciso di fermarsi per riprendere fiato, la terra le dava il suo benvenuto facendo rifiorire dei teneri fiori bianchi ma il cuore della dea, troppo turbato, non vi ci aveva fatto caso.  
Sola coi propri pensieri non riusciva ancora a capacitarsi di quanto successo. Era stata incitata alla fuga da sua madre che, disperata, l’aveva spinta lontano da sé nel vano tentativo di invogliarla alla corsa. Ma esattamente da cosa avrebbe dovuto scappare? Chi mai avrebbe potuto volerle del male, a lei che solo in quella occasione conosceva gli dei?
 
Camminava sovrappensiero, con passo lento e delicato, solo il battito nelle sue vene risuonava nell’etere; si trovava nei pressi del lago Pergusa e quelle zone, sebbene la madre gliele avesse proibite, erano assolutamente sicure per lei che le conosceva – o che almeno così credeva.
Riusciva a scorgere la propria figura proiettata sulle acque placide del lago rischiarate da una luna piena e brillante alta nel cielo: il petto le si sollevava ritmicamente per colpa della lunga corsa, i capelli, un tempo raccolti in una morbida treccia, le ricadevano sulle spalle in un caos di ciocche scomposte e fiorellini, unici superstiti della corona ornamentale.  Il vestito era uno scempio. La veste che sua madre le aveva donato era completamente rovinata, la corsa l’aveva sfrangiato e scucito in alcuni punti ai suoi piedi mentre una preziosa spilla era caduta chissà dove lasciandole buona parte della schiena e la spalla sinistra nuda.
Lì, dinnanzi a quel riflesso che proiettava l’immagine di una dea in fuga, Persefone si era sentita venir meno per la vergogna e la rabbia.
Infastidita per quell’inaspettato corso d’eventi si era mossa con passo leggero verso il lago e, spogliatasi dei resti di quella serata terribile, aveva deciso di lavarsi nelle acque placide.
 
 

“Persefone…si, la dea che oggi ha preso il nome­”, una voce aveva bisbigliato come il vento fra gli alberi.
“Persefone? La figlia di Demetra?”. Un’altra aveva risposto alla prima con fare interrogativo.
“Si! Lei! Non appena ha ricevuto il nome si è fatta sedurre da un dio sconosciuto a molti, un traditore dicono, tanto che sua madre l’ha dovuta cacciare per evitarle disonore!”.  Nuovamente la prima aveva parlato con enfasi.
“Ma sei sicura? La Kore che conosco io non farebbe mai una cosa del genere”.
Due ninfe erano sbucate dalla coltre boschiva intente a parlare sommessamente.
“Sicurissima, ho sentito la notizia da una fonte certa, una dea illustre”. Le giovani, incuranti della presenza di una silenziosa spettatrice, avevano iniziato a girare intorno alle sponde del lago, parlavano con fare civettuolo e pettegolo. 
 La dea oggetto del racconto, stesa a galleggiare sul filo dell’acqua, aveva sbarrato gli occhi non appena aveva sentito quelle parole e, tiratasi immediatamente giù, aveva cercato nascondiglio tra le acque rimanendo in assoluto silenzio. Le vedeva bene, due giovinette intente a chiacchierare di quanto successo poco prima sull’Olimpo; evidentemente le voci della sua fuga non avevano tardato a diffondersi tra le genti ultraterrene.
Un rancore profondo, simile a un fuoco, le artigliava le viscere all’udire narrare i dettagli di una storia contorta che poco aveva a che vedere con la verità. In silenzio, quatta quatta, si era fatta più vicina alle due per sentire i dettagli falsi di quel racconto.
“Demetra era folle di dolore, non poteva credere ai suoi occhi tanto che alla fine ha deciso di mettersi tra i due.” La prima, quella che aveva iniziato il racconto, aveva calato il capo con fare di diniego, dispiaciuta per quanto le era stato riferito e che ora, con suo sommo rammarico, le toccava narrare alla compagna.
“Quel dio … Ade…”.
Al solo sentire pronunciare quel nome Persefone aveva come percepito una strana sensazione alla bocca dello stomaco, come un dolore che non sapeva di sofferenza quanto piuttosto di languore.
“Ade… si dice che abbia commesso le peggiori nefandezze. Un dio cattivo e distruttore di vita che non ha mai esitato a impossessarsi con la violenza sia di cose che di persone.  Vuole lei, l’ha reclamata ufficialmente come premio per la scellerata sorte toccatagli ingiustamente nel profondo Averno”.
“Ma sei sicura di quanto affermi?”. La seconda rispondeva per l’ennesima volta con voce incerta e sofferente.
“Assolutamente, ho udito il dio stesso pretenderla con brutalità al cospetto di Demetra somma e Zeus padre”.
“Ma nessuno ha osato impedire quell’unione a parte Demetra?”.
“No, nessuno ha osato andar contro le parole del dio nero”.
“Ma dicono abbia una schiera di concubine ad allietarlo nel fitto Orco. Perché desiderarne un’altra?”.
“Perché lui è un dio sostenuto dalle Moire, egli può esigere ciò che vuole e prima di tutto il suo cuore brama vendetta. Quella piccola dea verrà usata come trofeo, non come consorte; sicuramente dopo le nozze verrà ripudiata per recare maggiore vergogna al fratello minore e alla sorella che per prima sputò ai suoi piedi rifiudantolo”.
Una coltellata, uno schiaffo in pieno volto. Persefone non sapeva come descrivere l’effetto che quella rivelazione aveva avuto sul suo corpo già sconquassato dalle gelide acque del lago. Tremava mentre la rabbia che aveva provato in principio si andava tramutando in paura.
Ade, il dio dell’Averno la reclamava. Lei che era vita, vita che nasce e cresce, vita che si trasforma, veniva reclamata dal dio che presiede i misteri del sottosuolo dal quale non vi è ritorno. Solo quando le due avevano imboccato un altro passaggio del bosco per perdersi nelle coltri ramose ella era uscita dalle acque ancora tremante e, avvoltasi velocemente nelle vesti stropicciate, aveva iniziato a pensare confusamente sul da farsi. Aveva bisogno di un piano, aveva bisogno di andare via, allontanarsi da quelle terre che la conoscevano e migrare in altre in cui il suo passo si sarebbe potuto confondere con altri. Necessitava di un rifugio, un luogo sicuro in cui quel dio così terribile non avrebbe potuto trovarla. E poco importava che al solo ricordarlo qualcosa dentro di lei si smuoveva facendole battere il cuore forsennatamente; Ade era per lei una condanna a morte, un dio che la reclamava non per amore ma per vendetta e la confinava nel più oscuro dei regni.
Il suo animo avrebbe fatto meglio a dimenticarlo.
Ritornata velocemente nella sua dimora aveva agguantato una veste semplice e pulita, uno scialle pesante e una borraccia di ambrosia e, senza dir nulla, senza lasciar alcun messaggio alla madre ancora assente, era sgattaiolata via perdendosi nel vento.
---

Un leggero bussare, quasi delicato, aveva distolto Ade dal suo fissare ininterrottamente l’altare. Non aveva ricevuto alcuna anima quel mattino e poteva chiaramente percepire il sommesso vociare dei trapassati lasciati ad attendere il loro destino al cospetto del fido Cerbero.
“Avanti” aveva risposto distrattamente mentre con una mano aveva ravvivato la chioma lasciata sciolta sulle spalle.
“E’ permesso? Ti disturbo...fratello?” Estia sbucava da dietro la porta con fare timido sebbene un bel sorriso le illuminasse il volto.
Quella visita inaspettata aveva lasciato il sovrano dell’averno leggermente spiazzato tanto che dovettero passare alcuni secondi prima che una sua risposta riempisse l’aria.
“Estia, cosa ci fai qui?”. Nessun convenevole, nessun fare gentile. Ade era andato dritto al punto, con un gesto reverenziale del capo le aveva fatto intendere di accomodarsi nella cella privata del suo tempio.
“Fratello, io vorrei spiegarti perchè-”, aveva camminato con passo lento facendo ondeggiare impercettibilmente la lunga veste smeraldina che le cadeva addosso a mo’ di tunica.
“Non mi devi alcuna spiegazione”, l’aveva interrotta quasi bruscamente ma poi, vedendo il sorriso della sorella ombreggiarsi, aveva cercato di recuperare
“So di cosa vorresti parlare, sorella, ma oggi i miei pensieri sono rivolti altrove”.
Estia non avrebbe potuto giurarlo ma aveva avuto come l’impressione di scorgere su quel viso freddo e distaccato un barlume di sofferenza.
“Piuttosto dimmi: come hai fatto a raggiungermi qui? Varcare le mura nere risulta un’impresa ardua per molte divinità; non credevo che facessi parte di quella piccola cerchia di “fortunati””, l’ultima parola Ade l’aveva pronunciata quasi con scherno, non verso la sorella quanto piuttosto nei riguardi della propria situazione, sovrano di un regno meschino.
“Ade, come ben sai non sono una divinità psicopompa come Hermes o la divina Ecate. Sono stata richiamata in maniera assolutamente sorprendente e… Sei stato tu a farlo”. La dea gli si era fatta vicina, piccola piccola e dalle forme androgine, aveva alzato un braccio verso il suo volto; l’obiettivo sarebbe stato quello di accarezzargli il viso ma quello, restio al contatto – o semplicemente dimentico- si era scansato, mettendo nuovamente tra loro qualche centimetro.
“Io non ti ho richiamata qui”. Aveva guardato altrove, quasi evitando il suo sguardo brillante.
“Oh si Ade, posso giurartelo sullo Stige”. Aveva ribattuto quella con fare allegro.
“Non… Non prendere alla leggera le promesse nel mio regno, dea di superficie! Lo Stige esige il rispetto”. Si era voltato di scatto sollevando un dito verso il suo volto con fare preoccupato e severo.
“Fratello, guarda…”. Stufa di quell’atteggiamento scettico la divina Estia aveva rivolto il proprio sguardo lontano, verso le torce appese ad ogni colonna del tempio avernale.
Aveva poi congiunto le mani e, mormorato antiche parole, aveva fatto tremare leggermente l’aria. Un nuovo odore riempiva la stanza. Una nuova luce rischiarava l’altare presso il quel i dei stavano conversando.
Fuoco. Questo era il frutto del richiamo di Estia.
Un fuoco caldo e brillante che crepitava vivo su ogni colonna e che, infine, trovava sfogo nel grande braciere retrostante lo scranno nero.
“Il tuo cuore così glaciale ha implorato il tepore di un fuoco che sa di …Famiglia”. Estia sorrideva serafica al dio che, ancora più bianco del solito, si era avvicinato lentamente verso una fonte di calore.
“Io… Non vedevo il fuoco da…”.
“Il tuo animo brama amore da troppo tempo”, la dea gli si era posta di fianco, dinnanzi alla luce calda.
“… Ma il tuo cervello grida vendetta”. Gli occhi di Estia si erano incupiti così come la voce, fino a poco prima gioviale.
 “Quale sarà la tua scelta? il fuoco verde e freddo dei morti o quello rosso come il sangue e caldo come un sole di …primavera?”.

Demone di una dea. Primavera non era una parola che aveva scelto a caso.

“Stai forse consigliandomi di perseguire il mio scopo?”. L’aveva fissata dritta negli occhi, un cipiglio dubbioso e, al contempo, speranzoso.
“Ti sto consigliando di smettere di perseguire vendette inutili. Non destinare a quella giovane un destino forse peggiore del tuo”.
 Fattasi più vicina aveva nuovamente allungato le mani verso quelle di Ade che, sebbene fuggitive, vennero braccate con forza da quelle della dea.
“Guardami fratello, anche tu sei molto di più di quello che dai a vedere.”
E, accompagnata da quelle parole, aveva poggiato un fiore secco sul palmo gelido del dio.
Ade aveva sgranato gli occhi, lo riconosceva, era il suo fiore, quello che aveva adornato la corona celebrativa di Persefone.
Stupito aveva fissato prima l’oggetto prezioso tra le sue mani e poi gli occhi luminosi di Estia.
“Questo posto è così lugubre e tetro per quella giovane dea.” Aveva come sospirato rassegnato, pieno di astio per quella sistemazione.
“Tutto quello che occorre ad una sposa è un fuoco domestico dinnanzi al quale riscaldarsi di fianco allo sposo”.

La dea sorrideva materna. Finalmente stringeva tra le proprie mani quelle del fratello.

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Non immaginava che potesse essere così bello.
Erano passati giorni? Forse settimane da quando aveva deciso di perdersi nel vento fresco. Era riuscita più di una volta a eludere le ricerche della madre così come quelle delle altre divinità. Che senso aveva cercarla se poi tanto nessuno avrebbe mai potuto proteggerla da quella sorte così meschina?
Un dio temibile l’attendeva pazientemente nel profondo Averno e lei, lottando con tutta sé stessa aveva deciso di fuggire lontano, lontano dalle carezze della madre… lontano da quei sentimenti che un solo ballo era riuscito a suscitare in lei.
Eppure lei aveva visto qualcosa in quel dio.
Aveva percepito una verità celata da quello sguardo così nebbioso e grigio.
Se il suo cuore non poteva ancora rassegnarsi alla sua sorte tragica, invece gli occhi avevano vagato in lungo e in largo, mai sazi degli spettacoli variopinti della natura. Sospinta da un vento caldo aveva visitato ogni anfratto della sua amata terra: dove udiva preghiere di voci lontane correva, desiderosa di recare aiuto alle sue genti ma, solo quando i suoi piedi raggiunsero Akragas, aveva deciso di fermarsi.
La madre le aveva spesso narrato di quel luogo florido sebbene funestato da un clima torrido che spesso costringeva i propri abitanti alla fame; ma non solo per questo quella città popolava i racconti materni. Demetra la descriveva come un tempio a cielo aperto, un inno agli dei cantato con fede dagli uomini: una via sacra immensa era stata costruita in loro onore e, tra tutti, svettavano i templi del Padre Zeus e della sorella Era, Era licinia per la precisione.
In quel momento, al cospetto dell’entrata della via sacra, la giovane dea era stata fulminata da una riflessione lampante.

Era, patrona dei matrimoni e protettrice delle spose avrebbe potuto proteggerla.
Si sarebbe inginocchiata presso il suo altare e lì, in supplica, l’avrebbe pregata di tutelarla dagli artigli di un dio nefasto capace di prenderla con la forza col solo scopo di vendicarsi di un torno di cui lei non aveva alcuna colpa

---
 
“La vedete mia signora?” l’ancella aveva chinato il capo al cospetto della somma madre di tutti gli dei.
“Certo, fatele varcare la cella, l’aspetterò qui, presso il mio altare.” Grande, imponente e regale, Era fissava l’ingresso del tuo tempio senza batter ciglio. Quella mattina aveva percepito come una fresca brezza proveniente da nord-ovest, un sospiro leggero come quello di un’anima in pena e aveva sorriso: non avrebbe mai creduto che sarebbe stato così facile avere la propria rivalsa. A nulla erano serviti i piani e le macchinazioni complesse, erano bastate due ninfe ben istruite su ciò che avrebbero dovuto dire, il resto era venuto da sé. La partenza di Persefone, il dolore della madre che, dal giorno della celebrazione non aveva avuto più modo di trovare la figlia e, infine, questo risvolto inaspettato, la piccola dea le si presentava al cospetto per chiedere aiuto; a lei che avrebbe fatto di tutto pur di vendicarsi della sua esistenza.
Si era alzata dallo scranno impreziosito di gemme e piume di pavone e, sistemato il diadema sul capo, aveva mosso dei passi in direzione dell’altare: l’avrebbe accolta lì e l’avrebbe fatto nel modo più dolce e materno possibile; poi avrebbe goduto.
“Zia?”. Persefone aveva varcato il portone della grande cella del tempio. La voce era poco più di un sussurro, perfettamente in linea con l’aspetto della giovane: semplice e profumata sebbene in disordine e con le vesti rovinate dai lunghi peregrinaggi.
Cara nipote, vieni avanti, lascia che i miei occhi si beino della tua vista. Una dea come te non dovrebbe vagare per i campi desolati ma stare di fianco a un sovrano”.
Era aveva allargato le braccia con fare amichevole e aveva stretto la nipote lasciandole un casto bacio sulla fronte come si è soliti fare coi bambini.
“Zia, sapessi cosa hanno udito le mie orecchie e cosa deve patire il mio cuore!”. Persefone si era abbandonata tra quelle braccia forti, respirandone il profumo così fresco e simile a quello della madre.
Era, fingendo una completa estraneità ai fatti, l’aveva afferrata per le spalle e, scuotendo la dea leggermente, l’aveva fissata negli occhi con fare interrogativo.
“Persefone… Qualche dio ha osato?”.
“No, assolutamente zia”, in imbarazzo la giovane aveva dissuaso la zia da pensieri poco puri.
“Ho udito delle ninfe al lago, subito dopo la celebrazione del mio nome. Un dio mi reclama, un dio che mia madre odia, un dio che… tutti odiano”. La sua voce si era fatta bassa e triste.
“Ade…”. Era aveva osservato scrupolosamente la reazione della nipote, il volto pallido e la pelle fredda.
“Ade ti ha reclamata come sua sposa”. Le parole avevano il suono di una condanna a morte.
“Si. Io non credevo che lui fosse… quel dio, da tutti i nostri simili odiato e dagli uomini temuto". Persefone aveva sospirato poggiando le mani sull’altare di fianco a lei, era visibilmente affaticata e sofferente.
“Zia io non sapevo dove andare fino a quando non ho visto il vostro maestoso tempio svettare lungo questa via sacra. A piedi scalzi, con le vesti logore e i capelli scarmigliati vi imploro, aiutatemi a fuggire le attenzioni di un dio che vuole solo vendetta e non amore. Voi che siete la patrona dei matrimoni, vi supplico zia”.
Era le aveva dato le spalle.
Sarebbe stata una bugiarda a dire che quell’essere così delicato non era riuscito a muoverla a compassione. Sentiva per quella piccola dea una sorta di affetto innato, forse generato dal loro avere in comune un matrimonio infelice.
Fu tentata per un istate di darle aiuto ma quegli occhi, così gialli e imploranti, l’avevano ricondotta con violenza dinnanzi a una delle verità per lei più dolorose.
Se lei era infelice era anche per colpa di esseri come Persefone, frutto del tradimento delle persone a lei più care.
Era finito il tempo in cui solo lei avrebbe dovuto soffrire, qualcun altro avrebbe preso posto su quel vascello destinato alla rovina.
“Zia?”.
“Persefone, ho solo una domanda da farti”. La regina si era accomodata sul suo trono con fare regale e, inchiodato il suo sguardo sulla figura dinnanzi a lei, aveva utilizzato un tono freddo e distaccato.
“Ditemi”. La dea non era una sciocca e il tono della parente non le era suonato consolatorio tanto da farle indirizzare lo sguardo sulla dea maggiore.
“Sai dirmi per caso chi è tuo padre?".
“Zeus mia regina”. Persefone aveva risposto con prontezza a quella domanda, quasi orgogliosa di vantare una siffatta parentela.
“E sai dirmi chi è il consorte di tua madre, Demetra?”.
“Mia madre non ha mai voluto un consorte, non avrebbe sopportato un legame così vincolante”. Sua madre era stata sempre amante della libertà e aveva deciso di condividerla solo con lei, la sua bambina.
“Tua madre no, ma io sì”, la voce della dea sul trono si era fatta bassa e cavernosa, quasi gutturale.
“Io, dea delle spose e protettrice del sacro legame, vengo pregata, implorata da ogni ragazza affinché le doni un matrimonio pieno di amore e fedeltà e tu, piccola e sciocca dea, vieni a implorare me che ho ricevuto da tua madre, sangue del mio sangue, il più atroce dei tradimenti?”.
Persefone era bianca come un cencio.
 Sembrava di essere come dinnanzi all’oracolo impenetrabile delle tre moire, nessuno mai aveva osato parlarle del suo concepimento in quei termini, frutto di un tradimento. I suoi genitori l’aveva concepita con grande dolore di Era e lei, sciocca e infantile, si era recata da lei, assolutamente all’oscuro di quelle dinamiche.
“ io… Io credevo che-”,
“Cosa pensavi, piccola stupida, che io fossi felice di accettare un’altra figlia illegittima di mio marito al mio cospetto? Credevi che fossi felice dell’unione dei tuoi genitori avvenuta alle mie spalle? Forse ora è giunto il momento che altri, oltre me, soffrano il dolore della perdita e del tradimento”.
Persefone era senza parole. Immobile dinnanzi alla possente Era si sentiva come un cerbiatto braccato da cani da caccia.
“Sarai sposa, la più sfortunata, relegata nell’oltretomba da viva. Una vita promessa alla morte. Non è divertente?”. Era aveva riso di gusto mentre la giovane aveva iniziato a tremare impaurita stringendosi nelle vesti che sentiva troppo leggere per proteggerla da quel freddo che sembrava ghermirla da dentro.
“Vi prego mia regina-”, Persefone le si era gettata ai piedi implorandola ma Era, guardandola dall’alto della sua regalità, l’aveva ripresa con scherno.
“Mi ricorderò di quando la regina dell’oltretomba si è inginocchiata ai miei piedi. Un bel ricordo sicuramente”, e aveva riso, riso di gusto mentre un’aura nera si addensava tra le colonne del suo tempio.
“Faresti bene a rialzarti, il tuo sposo sarà qui a momenti”.
 
Non sapeva nemmeno lei come avesse fatto a scattare in quel modo.
Forse l’istinto di sopravvivenza, forse la cieca paura di sapere che di li a poco la sua vita sarebbe stata distrutta per sempre, aveva abbandonato il tempio della sorella della madre come una gazzella e, iniziando a correre a perdifiato, aveva nuovamente perso la propria essenza nel vento. Lacrime le solcavano le guance dinnanzi alla consapevolezza che nessun posto sarebbe mai stato veramente sicuro per lei. Tutti l’avevano abbandonata e l’unica dea che invece avrebbe sacrificato la sua vita per lei, sua madre, era troppo importante perché qualcuno le facesse del male in sua vece.
Forse avrebbe dovuto arrendersi.
Forse avrebbe dovuto accettare quel destino così perversamente ordito dal fato.
Ormai via dalla zona sacra iniziava a rallentare il passo.
Che senso avrebbe mai avuto correre, fuggire da un dio che, forte e onnipotente, possibilmente le era sempre stato alle spalle aspettando pazientemente una sua resa?
I piedi erano oramai fermi mentre una leggera brezza le faceva svolazzare le vesti rovinate e i capelli sciolti e ricci.
Una dea fuggiasca, ecco cosa era divenuta. Lei, figlia di Zeus, venduta da suo padre, era una dea fuggiasca, timorosa di affrontare il proprio destino.
Kore avrebbe fatto in quel modo, una bambina ingenua e attaccata alle sottane della madre, ma lei ora era Persefone, una dea che avrebbe protetto quanto di più caro a costo della vita.
“Mostrate”.
Aveva mormorato quelle parole tenendo gli occhi ben serrati.
“So che siete qui. Mostratevi e fate vedere il vostro volto, Ade”.
 
vi Una voce da uomo, bassa e cavernosa le aveva solleticato l’orecchio.
“Persefone, finalmente avete accettato il vostro destino.” Il dio si palesava alle sue spalle. Alto, imponente, rivestito di una fulgida armatura nera. Il cimiero era sottobraccio, l’aveva tolto per mostrarsi a colei che lo reclamava.
Ella si era girata lentamente facendo scudo al suo corpo con il leggero scialle che le pendeva scomposto da una spalla.  
“Voi, voi vi siete codardamente nascosto, mi avete inseguita, perseguitata e tutto questo per una vendetta", aveva pronunziato quelle parole con un malcelato astio. Cercava di essere lucida e coraggiosa, ma quella presenza le faceva tremare le gambe dalla paura e nemmeno la diplomazia poteva trarla via da quella spiacevole e terrificante situazione.
 Una risata sommessa aveva riempito il vuoto che la separava dal dio mentre le sue labbra, solitamente tese in una linea rigida, adesso si curvavano impercettibilmente verso l’alto.
“Siete troppo giovane per sapere il profondo significato della vendetta che nominate e-", qui le si era avvicinato ancora di più per ritrovarsi a pochi centimetri dalle sue labbra
“…e siete troppo pura per sapere che il modo migliore di vincere una preda è sfiancarla, portarla al limite delle proprie forze, braccarla ad ogni via d’uscita e condurla dritta tra le braccia del cacciatore”.
Persefone aveva assottigliato lo sguardo facendo un passo indietro.
“Io non cadrò mai tra le vostre braccia”.
 “Fino a qualche tempo fa non eravate così infastidita dalla mia presenza, mia dolce dea bambina…”. Il tono di voce del dio oscuro ora suonava non solo sarcastico ma anche leggermente divertito.
“Non sapevo chi eravate né che intenzioni aveste nei miei riguardi”, aveva esclamato la dea con enfasi.
“E questo cambia il fatto che avete trovato conforto tra le mie braccia? Sapere chi sono cambia ciò che provate quando mi guardate? Sento il vostro cuore battere forsennatamente da qui, piccola dea bugiarda, e lo so perché il mio ne segue il ritmo!”. Aveva parlato a denti stretti.
Nuovamente veniva giudicato prima di essere conosciuto.
Un rumore secco. Una mano si era levata di scatto colpendo il dio al volto. Ade, impassibile, la guardava in cagnesco.
“Come osate darmi della bugiarda quando voi mi reclamate solo per interesse?” Aveva urlato la dea, ancora incredula di averlo colpito al volto con un’ira estranea alla sua indole gentile.
Ade, rimanendo in silenzio le si era fatto dinnanzi non perdendo mai il contatto visivo.
“Bugiarda. Non sapete ciò che dite e intanto difendete il vostro credo ciecamente.”
A quel punto Persefone aveva distolto lo sguardo
“Voi mi avete illuso, sembravate così-” imbarazzata si era morsa la lingua, non avrebbe mai concesso al nemico la vittoria di vederla illusa da un suo studiato ma falso interessamento; ma lui, sfortunatamente per lei, l’aveva interrotta leggendo nel suo sguardo la verità.
“Sembravo interessato?”. Aveva sorriso in maniera sghemba facendosi ancora più vicino al suo corpo; ora ne poteva percepire il profumo inebriante di fiori.
“Non oserete”. Persefone si era stretta al petto il peplo leggero cercando di nascondere il petto che forsennatamente faceva su e giù in balia di un’ansia cocente.
“VOI non oserete opporvi”.  Ade aveva rimarcato il voi come a sottolineare il fatto che lì, al suo cospetto, lei fosse solo una piccola dea inesperta rispetto a lui, sovrano indiscusso di uno dei regni più neri.
 “Non vi prometterò mai la mia esistenza, dio bugiardo e crudele!”. Lei si era ritratta ma il dio, afferratala per un braccio, l'aveva stretta con forza contro il suo petto.
Ade le si era fatto più vicino, nuovamente il volto a pochi centimetri da quello della dea.
“Io non mento mai”. Lo aveva sentito leggermente digrignare i denti mentre proferiva quelle parole che sapevano di sentenza inderogabile.
 “Siete una donna, Persefone, sarete una regina”.
“Sembravate così vero e invece siete soltanto un famelico egoista, non diverso da coloro che sfruttano i più deboli per proprio tornaconto”.
Quelle parole avevano avuto sul dio l’effetto di una pugnalata in pieno petto; la rabbia che aveva tentato di tenere a freno ora premeva per esplodere. Fremeva.
“Voi non siete diversa dagli altri, così sicura di sé e delle proprie convinzioni. Vostra madre aveva ragione, siete solo una piccola Kore, una bambina. Il nome datovi da Zeus non vi rispecchia affatto!”.
Dinnanzi alla freddezza del tono distaccato e formale del dio Persefone aveva come perso colore in viso mentre le lacrime iniziavano a solcarle le guance copiosamente. Non riusciva a proferir verbo, era un susseguirsi di singhiozzi mentre i suoi occhi venivano calamitati da quelli furenti di Ade.
“Io sono come il mio regno, sconosciuto a molti, ma non tutto ciò che si narra di me è vero.”
Solo a quel punto, dopo aver ripreso fiato, aveva estratto da sotto la cappa metallica un piccolo stelo avvizzito e, aperto delicatamente il palmo della giovane, glielo aveva offerto in silenzio.
“Voi siete molto di più di quello che credete”.
Ammutolita lei lo aveva guardato negli occhi in silenzio; avrebbe voluto credere alle sue parole, avrebbe voluto fidarsi di quell’essere così freddo eppure così umano, ma qualcosa in lei la spingeva a non credergli, a non cedere sotto quello sguardo così misterioso e nero.
 Tutti erano fin troppo avvezzi al tradimento della parola data.
“Non sarò mai la regina di un dio senza cuore che cerca solo vendetta”.
“Dal momento che non credete alle mie parole allora vi dovrò convincere anche con la violenza, mia signora”.
Strattonandola più vicina le aveva stretto le spalle nude con le mani gelate e, facendo aderire quel corpo delicato al suo, aveva calato le sue labbra su quelle di lei in un bacio prepotente al quale lei aveva risposto dimenandosi.
Un bacio punitivo, feroce.
Quando lui si fu allontanato da lei percepiva chiaramente i residui delle lacrime della dea bagnargli le guance glabre.
“Io sono Ade, il dio dei morti”, aveva ripetuto lui soffiandolo sulla bocca di lei.
“...E qualsiasi cosa faccia o dica non mento mai”.
 “Vi prego abbiate pietà di me, non costringermi a una vita così triste e infelice nel buio del vostro regno”, si sentiva persa; più si divincolava come un animale che è appena stato catturato, più sentiva le grandi mani del dio artigliarle la pelle.
 La sofferenza, il tormento innescato da quel bacio violento l’avevano sconvolta, tremava.
“Io vi sono stato costretto, non vedo perché voi non possiate fare altrettanto”.
 Ade, incattivito, l’aveva oramai completamente stretta sul suo corpo. Ne sentiva la consistenza tenera e il pulsare frenetico. Provava nei riguardi di quella giovane un miscuglio di sensazioni indefinite: odio, rancore, bramosia, spirito di rivalsa e, finalmente pregustava il sapore della vendetta.
Ma era quello ciò che bramava il suo cuore?
“Risparmiatevi e farò tutto ciò che voi vorrete.” Persefone aveva sollevato il volto verso di lui alla ricerca dei suoi occhi, ora velati da una patina nebulosa che li rendeva ancora più scuri e senza anima.
Quegli occhi.
In quell’istante la dea si era come pietrificata.
Quegli occhi che tanto l’avevano tormentata in sogno, quegli occhi così apatici e angoscianti. Li aveva visti, li aveva sofferti e ora li riconosceva.
“Voi… Cosa mi avete fatto prima di oggi?!”. La voce della dea tremava visibilmente per il terrore, il voi ora le serviva per porre maggiore distanza tra lei e quell’essere.
“Io vi ho già visto nei miei incubi. Cosa avete osato farmi”. Una furia cieca l’aveva come pervasa con violenza da capo a piedi. Ricordava quei dannati occhi, ne ricordava ogni dettaglio fisico così come erano ben vivide le sensazioni malevole che le procurava quella vista.
“Magari era solo il fato a suggerirvi il vostro destino”. Ghignava Ade mentre con forza continuava a stringerla a sé.
“Voi mi avete perseguitava nel sonno. Spregevole di un dio!”. Piangeva dandogli pugni sul petto, scatenata provava a sfuggirgli dalle braccia anche a costo di farsi del male da sola. Quel dio era inespugnabile.
“Ora basta. Voi avete una pessima opinione di me”. Stringendole i gomiti l’aveva leggermente sollevata verso di sé in modo tale da stabilire un contatto visivo.
“Ma forse in fondo avete ragione. Se essere crudele vorrà dire tenervi al mio fianco allora sì, sarò il dio più crudele che voi avrete mai modo di conoscere”.  Aveva alzato la voce proprio davanti il volto riducendola a un ammasso di singhiozzi rabbiosi.
“Io non sarò mai vostra sposa”. Aveva mormorato quelle parole con rancore
“Lo vedremo”. Aveva parlato nuovamente con un tono freddo e distaccato mentre una mano dalle spalle scendeva a cingerle la vita.
“Reggetevi a me, mia signora”.
“Non oserò mai toccarvi”. Le braccia di lei giacevano lungo i fianchi inermi.
“Non aspettatevi lo stesso da parte mia”.
Poco importava sentirla irrigidirsi tra le sue braccia; non avrebbe mai permesso che l’orgoglio fosse la causa di un suo ferimento. L’avrebbe tenuta stretta tra le sue braccia nella lunga discesa verso l’Averno.
Pochi istanti prima che sotto i loro piedi si aprisse la voragine la mano libera del dio era corsa al volto di lei; una leggera e inconscia carezza prima di premere quella testa riccioluta sul suo petto, l’avrebbe protetta col suo stesso corpo se fosse stato necessario.
Una misera delicatezza che, in cuor suo, sperava che lei notasse.

Non avrebbe mai pensato che anche la vendetta avesse un sapore così amaro.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Ospiti


Sentiva in lontananza l’eco delle risate delle giovani ninfe mentre un fresco odore d’erbetta le riempiva la mente. Riusciva a scorgere distintamente la sua casa nei pressi dell’altare materno, un bel sole alto nel cielo segnava lo scorrere lento di una calda giornata estiva da passare tra giochi e riti celebrativi. Era tutto lì, chiaro, nitido e vivido dietro le sue palpebre.
Ora sua madre l’avrebbe svegliata con un dolce bacio sulla fronte e, se come suo solito non si fosse alzata nel giro di pochi minuti, si sarebbe ritrovata scoperta e esposta alla brezza frizzantina.

Ma sapeva bene che niente di tutto quello era reale; la verità, prima dietro una coltre onirica e poi, pian piano, sempre più esposta alla sua coscienza, l’aveva colpita come una sferzata d’aria gelida in pieno volto. Memore dell’angoscia, della paura e del dolore provato da sveglia nelle ore precedenti aveva spalancato gli occhi; un gemito strozzato le era rimasto incastrato in gola.
Sdraiata su un letto enorme che poco aveva a che vedere col suo profumato giaciglio, si sorprese nel trovarsi avvolta in un lino pregiato e dalle tonalità scure; i sensi, così attivi nella realtà del sogno, adesso le sembravano quasi offuscati da una patina. Udiva suoni indistinti provenire dal di fuori della sontuosa camera in cui alloggiava, gli arti le dolevano per lo sforzo fisico di quegli ultimi tempi mentre gli occhi, solitamente vispi, adesso sembravano lesi: vedeva poco, pochissimo, ancora impastata di sonno e angoscia.  
Stropicciato il volto con il dorso delle mani la giovane dea aveva iniziato a nutrire un intimo e prepotente bisogno di luce: come un girasole che, sottratto ai raggi solari, inizia sentirsi morire.  
Alzatasi dal letto con passo incerto aveva raggiunto le pesanti tende della camera e, sollevato un braccio, aveva tentato di scostarle ma una dolorosa fitta all’altezza della spalla destra le aveva impedito quel semplice movimento; troppo aveva scalciato tra le braccia del suo rapitore, troppo si era ribellata portando il suo aguzzino a stringere la presa sulla sua tenera carne che ora, risentita, iniziava a mostrare segni della violenza.
Un singhiozzo, due…
Un pianto silenzioso le aveva pervaso il cuore mentre la bocca, serrata, si rifiutava di lasciar trapelare il minimo suono; una smorfia amara le si era dipinta sul volto.

Che stupida era stata ad arrendersi, che stupida a lasciarsi abbindolare dalle parole del dio...

 “È un bene che non siate riuscita ad aprire le tende, ci sono molte cose che vorrei spiegarvi prima che la vostra vista riprenda a funzionare come si deve…”. Al solo udire quella voce Persefone era rimasta pietrificata.
Lui, Ade, il sovrano dell’Averno, colui che l’aveva reclamata e presa con la forza – e protetta nella caduta libera verso il fondo dell’abisso-, stava comodamente seduto sul bordo del letto alle sue spalle. La fissava con sguardo serio sebbene la bocca disegnasse una linea all’insù, quasi incapace di mascherare una certa soddisfazione.

“Voi”. Persefone si era voltata lentamente verso il suo rapitore e con sguardo di sfida aveva continuato
“Fareste meglio a togliervi quel ghigno dalla faccia. Mi madre non vi permetterà mai di trattenermi qui contro la mia volontà”.

“Non è la vostra di volontà a dover essere “preservata”. Siete qui per una ragione che oltrepassa di gran lunga voi e qualsiasi altra divinità tanto sciocca da tentare di varcare le mura del mio regno con la vaga pretesa di rimanere impunita”.
Il dio aveva parlato con tono grave e anche il sorriso era come evaporato per lasciare spazio a un volto ora corrucciato.

“Allora io non conto nulla? La mia volontà, che si oppone alla vostra, non va dunque difesa?”. Lo guardava sgomenta mentre la voce ci faceva più fievole.  

“Voi, sciocca dea, siete la cosa che più conta in questo lugubre regno!”. Ade si era alzato di scatto e con un passo le si era fatto dinnanzi; la sovrastava di molti centimetri e, per tale motivo, guardarla in volto gli era quasi impossibile dal momento che lei si ostinava a tenere il capo chino. L’aveva vista quasi sobbalzare e credeva che avrebbe mosso dei passi indietro per mettere nuova distanza tra loro ma, invece, era rimasta lì, al suo posto, dritta come un soldato.
La giovane dea aveva quasi perso un battito a quella dichiarazione così forte e allo stesso tempo fuori luogo.

Come poteva un dio ammettere di tenere a lei e, allo stesso tempo, ferirla nella maniera più atroce solo per puro egoismo?

“Se conto così tanto come dite, perché mi costringete a una sorte che non voglio in alcun modo accettare?”.
Quelle parole avevano colpito il cuore del sovrano che, ferito e nuovamente messo davanti alla più crudele delle verità, si sentiva per l’ennesima volta rifiutato e giudicato; un dolore quasi lancinante aveva iniziato ad avvelenarlo da dentro tanto da rendergli impossibile mantenere un tono calmo.

 “Lo Stige mi vincola a voi in un modo che nemmeno le sacre signore riescono a capire, Persefone. Non vi ho scelta, non vi ho cercata, non vi ho invocata-”, quelle frasi costavano tutta la pacatezza del dio, costretto a tenere a bada lo spirito sanguinante che gli mangiava il cuore.
“Il mio voto ha richiesto una vita, la mia, che ora è promessa all’invisibile, ma voi, mia signora-”, e in quel momento una mano di Ade si era sollevata con lentezza, il tono di voce quasi amaro
“Voi siete la cosa più simile al sole che io abbia mai potuto sfiorare, una luce in un caos oscuro”. Delicatamente aveva poggiato il palmo della mano sul viso fresco della dea ancora intenta strenuamente a fissare dinnanzi a lei, giusto all’altezza del petto del dio.
Ma questo poco importava al dio che, finalmente la sentiva; era passato molto tempo dall’ultima volta in cui aveva avuto la possibilità di sfiorarla.
Sentiva il sangue ribollire nelle vene della dea mentre il suo piccolo cuore galoppava come una biga senza auriga.
Persefone a stento respirava.
A quel contatto aveva come smesso di pensare mentre una piccola vocina nella sua testa le suggeriva di alzare gli occhi verso quel dio imponente e…Così familiare.
Allora si era mossa. Con estrema eleganza aveva alzato il volto, permettendo agli occhi bramosi di sfamarsi di quella vista.
Erano entrambi silenziosi, si studiavano come due animali selvatici che si contendono una qualche preda.

“Ditemi la verità, dio”. Aveva parlato con tono deciso non venendo meno al contatto delicato che le faceva fremere la pelle della guancia.

“Perché mi bramate?”.

“Perché siete già mia, lo Stige che ci unisce ha designato voi come mia compagna regale e io sono qui a reclamarvi”. Il tono carezzevole e suadente del dio mal si accordava però con le parole appena proferite. Era stata proprio questa dissonanza a far allontanare Persefone che, in cuor suo delusa e amareggiata, si era illusa di udire una risposta differente.

Amore? Avresti voluto sentir parlare d’amore da un dio che ti ha manipolata nel sogno e ti ha perseguitato nella vita reale?

I pensieri avvelenati della dea l’avevano fatta indietreggiare, costringendola a rinunciare a quel tepore che dal viso si stava irradiando lentamente in tutto il corpo.

“Credevo… Anzi, mi sono illusa di trovare in voi qualcosa che fosse ben più profondo di un legame imposto dall’alto. Tutto in voi è perverso: io non sono vostra e voi non siete mio".
La dea ora gli dava le spalle mentre con le mani si carezzava la pelle delle spalle infreddolite.

“Non mi sottometterò mai a un volere che non capisco e che non accetto”.
A quel punto Ade aveva stretto i pugni lungo i fianchi e, digrignando impercettibilmente i denti, aveva risposto

“Il destino vi ha condotta a me e, che lo vogliate o meno, siete legata a questo terribile regno che bistrattate senza conoscere. Voi non conoscere eppure giudicate.
 L’angoscia che provate, il dolore che logora il vostro stomaco, il freddo che vi punge la pelle, sono tutti malesseri che vivo io nella solitudine del mio tempio da secoli. Allontanatevi da me e i vostri dolori aumenteranno come i miei, saremo la causa delle nostre reciproche sofferenze.
…Io ho già sofferto abbastanza, Persefone.”
 
“Io non vi conosco, non posso fidarmi né tanto meno può mia madre. Ella non accetterà mai una situazione del genere”. Persefone si era stretta nelle spalle mentre la voce risuonava quasi stanca e afflitta.

“Sono il dio dell’oltretomba!”. L’aveva afferrata per una spalla e, imprimendo una certa forza, l’aveva fatta voltare; desiderava specchiarsi in quelle due folgori che campeggiavano sul volto ovale e delicato della dea.

“Sono Ade, una divinità ben più anziana e potente di vostra madre, una divinità ben più saggia e giusta”.

“Allora perché vi comportate ingiustamente con me? Non è per affetto che mi reclamate ma per vendetta!”. Aveva alzato la voce, voleva capire cosa celasse il dio dietro quella maschera fatta di serietà e arroganza.

“Io-”. Interdetto, Ade, non sapeva come rispondere a quell’accusa, mentre Persefone, oramai agitata, continuava

“Come potete dire di non essere un violento o un rapitore quando avete preso me incurante della mia volontà? Voi, che credete di essere un dio giusto, siete forse stato corretto con me? Vi ho forse recato offesa in qualche modo tanto da non meritare la possibilità di scegliere o quanto meno di ricevere delle giuste spiegazioni?”. 

Lei aveva ragione.

A quell’accorata arringa il dio aveva abbassato lo sguardo.
Come poteva guardarla negli occhi?
Da quando si era sentito richiamato in superficie da quella creatura, ne era stato quasi ossessionato. Ogni notte, a partire da quella notte, la vegliava durante il sonno, con gli occhi dello Stige la seguiva nei suoi giochi; l’aveva vista crescere e ora che si vedeva rifiutata l’unica speranza di serenità avendola al suo fianco, per colpa del fratello minore e della sorella, non aveva esitato a farsi giustizia da solo.

Ma se la vendetta va riservata solo a coloro che ti feriscono…Lei che colpe poteva mai avere nei suoi riguardi?
Veramente si stava comportando nel modo migliore? Veramente eseguire il volere di un destino beffardo equivaleva a fare giustizia?
Era solo vendetta quella che il suo cuore lesinava?

Ma ora era lei a vederlo.

Così vicina a lui, ancora ben saldamente tenuta per le spalle, riusciva a vederlo per quello che veramente era: un dio che, nella sua grandezza, era spaesato come il più piccolo degli esseri. Ora riconosceva in quello sguardo vacuo e in quelle parole venute meno un uomo completamente diverso dal protagonista dei più spregiudicati e terribili racconti che aveva udito dalla bocca delle compagne di giochi.

“Eppure io vedo del dolore in voi, un dolore inespresso che va ben oltre un voto suggellato con lo Stige”. Persefone, stranamente pervasa da un nuovo coraggio, ora alzava lei la mano in direzione del volto di Ade, ancora pietrificato in riflessioni turbolente.
Entrambi gli dei erano come catturati in un silenzio carico di significati incapaci di trovare sfogo in parole di senso compiuto. Persefone finalmente lo sfiorava, e non sulle vesti, non sulle braccia, gli carezzava il volto con la delicatezza di una madre nei riguardi della più piccola delle creature.
Era freddo, gelido e un filo di barba gli rendeva il volto leggermente ispido. Non aveva mai sfiorato un uomo così intimamente ed ora invece eccola lì, a cercare una verità nascosta dietro le fattezze di quel dio sofferente.
Lui, quasi sconvolto, l’aveva fissata con occhi nebulosi e, dopo aver silenziosamente gustato quel contatto, aveva nuovamente parlato.
 
“Meritate sul serio il nome donatovi da vostro padre-” il dio, alludeva chiaramente alla capacità della dea di cogliere il diverso e… di accettarlo. 
Aveva allora mosso un ulteriore passo verso di lei, oramai si trovavano a pochissimi centimetri l’uno dall’altra; lui ancora la teneva per le spalle con assoluta delicatezza e lei, quasi completamente travolta da quello sguardo di nebbia, si era come dimenticata di tutto, di ogni dolore, di ogni angoscia, di ogni paura.
“Allora siate mia ospite un giorno, un mese o un anno. Non sarete trattenuta qui contro il vostro volere ma almeno… date la possibilità a questo regno lugubre di farsi apprezzare nella sua natura celata a occhio superficiale”.

Date a me questa possibilità, avrebbe voluto dirle.

La vide annuire impercettibilmente, un movimento che solo da lui, così tremendamente vicino, poteva essere colto.
Con estrema lentezza Ade aveva allora chinato il viso sul suo, pochi millimetri e le loro bocche si sarebbero unite in un bacio dal gusto completamente diverso da quello precedente ma, il destino, sempre contrario, li aveva nuovamente interrotti.

“Mio signore!”. Una voce roca richiamava il dio dal corridoio antistante la porta della camera.
“Mio signore! Notizie urgenti!”. Radamanto lo invocava, il suo tono di voce concitato; un segno terribile dal momento che il suo giudice era sempre molto pacato e serio.

Per quell’interruzione Ade maledisse Zeus.
---


 
Hermes lo attendeva nella cella del suo tempio nero ora rischiarato dalla calda luce del fuoco.
Il ragazzino dai calzari alati batteva con un piede sul pavimento con fare impaziente mentre gli occhi vagavano da una colonna all’altra ancora troppo sconvolti dall’aver trovato quella luce luminosa nel più fitto dell’Orco.
Quando aveva udito il maestoso portone della cella schiudersi si era voltato con le mani sui fianchi.
Che aspettasse da molto glielo si leggeva in viso.
 
“Hermes, nuovamente al mio cospetto, devo forse supporre un vago senso di nostalgia nei riguardi del mio regno?”. Ade aveva parlato col suo solito tono serio e impeccabile; egli, sebbene non vi fosse più avvezzo, era sempre legato ai principi dell’ospitalità.

Anzi, per il solo fatto che il suo dominio, prima o poi, avrebbe accolto tutti, lo rendeva il sovrano più ospitale.  
Lui non faceva esclusioni. Tutti erano ben accetti nell’Averno.

Un sorriso furbo faceva capolino sul volto di Hermes: se il suo ospite poteva essere tanto scaltro da sottolineare la sua posizione di superiorità allora lui, di sicuro, non sarebbe stato da meno; la missione affidatagli era troppo importante perché battutine sibilline potessero mettergli paura.

“Sommo signore dell’Averno voi sapete cosa mi porta al vostro cospetto, non fate gemere di dolore il cuore di una madre in pena, vi supplico”. Hermes, con tono cauto, aveva formulato quella preghiera nel modo più pietoso possibile; sapeva infatti che il dio dell’Averno, sebbene temuto per la propria severità, allo stesso tempo veniva rispettato per la propria saggezza.

“Quello che mi chiedi, nipote, non dipende dal mio personale volere. Anche io, infatti, sono pedina di un fato più grande di me che mi spinge a esigere una consorte”. Ade aveva camminato con passo lento e, raggiunto lo scranno, vi si era accomodato con grazia. Ecco il sovrano dell’Averno, eccolo nuovamente indossare la maschera del fato per celare i suoi più oscuri desideri.

“Zio, se permettete, l’Olimpo vi offre ogni altra dea o ninfa che possa essere di vostro gradimento ma vi scongiuro, restituite Persefone alla madre. Vostra sorella Demetra non fa che cercarla in ogni angolo del globo. La sua ricerca è inarrestabile e quando-”, le parole concitate di Hermes erano state bloccate da un gesto della mano di Ade.

“Quando Demetra, mia sorella, saprà che Persefone è al mio fianco non oserà obiettare”. Questa volta poteva percepirsi nell’aria una lieve tensione scatenata nel dio dal ricordo del comportamento della sorella al suo cospetto.

“Demetra è fin troppo sciocca per vedere ciò che vi è oltre, abituata com’è a solo ciò che gli occhi possono mostrarle. Ma lei-”, a quel punto una mano del dio si era spostata verso il suo viso, sopra le tempie a massaggiarle lentamente.

“Persefone è l’unica compagna che questo trono possa reclamare. A differenza vostra, bei dei della superficie, lei sa vedere anche ciò che si nasconde”.
Hermes aveva deglutito in difficoltà. Come avrebbe mai potuto convincere lo zio ad evitare la tragedia che si sarebbe scatenata se solo Demetra avesse sospettato che la sua Kore era prigioniera dei freddi meandri avernali?

“Lasciate che la veda, che almeno mi assicuri coi miei stessi occhi che sta bene e che accetta quanto voi dite e credete”. Hermes, osservando lo zio improvvisamente irrigidirsi, aveva capito immediatamente di aver fatto centro.

“E sia”. Ade, fulminato con uno sguardo di brace il nipote, aveva richiamato al suo cospetto il suo giudice, Radamanto, rimasto fuori dalla cella del tempio perché i due dei potessero fronteggiarsi viso a viso senza altri di mezzo.

“Mio signore, che comandate?”. Il volto di Radamanto, sempre serio e composto, ora recava un’impercettibile nota di preoccupazione; non era abituato a tutto quel movimento divino in casa propria, men che meno era avvezzo a vedere il proprio signore, sempre pacato e calmo, mascherare invece un’ira e un’angoscia senza pari.

“Conducete Persefone al mio cospetto, ditele che suo fratello Hermes vuole assicurarsi della sua salute".

“Come ordinate”. Fatto un piccolo cenno col capo Radamanto aveva lasciato la stanza non prima di aver scoccato un’occhiata sospettosa all’ospite dai piedi alati.


“E’ sempre così cupo il vostro secondo?”. Hermes aveva rivolto quella domanda allo zio non appena Radamanto aveva varcato la soglia; il tono gioviale di chi vuole alleggerire la situazione ma Ade, tormentato, non l’aveva degnato di una risposta.

---

 
 
 Radamanto la precedeva nel lungo corridoio che di lì a poco l’avrebbe condotta al cospetto del dio che, fino a pochi istanti, prima l’aveva tenuta tra le braccia come fosse stata il gioiello più prezioso sulla faccia della terra.
Infreddolita e ora anche turbata da quella strana convocazione, non faceva che arrovellarsi il cervello su ciò che avrebbe mai potuto dire al fratello.

Avrebbe forse dovuto pregarlo di condurla via prima che qualcosa di terribile avesse luogo?

Quella riflessione angosciante aveva trovato la propria fine non appena la dea aveva posto il piede nella cella avernale del dio.
Ade, dall’alto del suo trono nero sembrava ancora più impenetrabile - forse perché non l’aveva degnata di uno sguardo al suo ingresso- mentre il fratello, piccolo e rivestito di bianco, la guardava con ansia, anzi, più precisamente la scrutava alla ricerca di un qualche segno di violenza.

“Fratello”, Persefone, infastidita da quello sguardo, l’aveva richiamato prontamente.

“Sono stata reclamata in moglie, non abusata contro il mio volere solo per soddisfare una voglia carnale”.

Quella frase, pronunciata con tono grave, aveva come lasciato di stucco Hermes che, mortificato adesso guardava il pavimento.

“Mia signora… Non siate dura con vostro fratello Hermes. È giunto qui al mio cospetto armato dei migliori propositi: voleva sapere quali fossero le vostre condizioni di salute”. Ade, un po' lusingato da quella frase pronunciata con solennità dalla giovane dea che subito aveva come difeso non il gesto subito – un rapimento è sempre un rapimento- ma almeno le intenzioni dietro quello, aveva sorriso impercettibilmente alla dea che, dopo averlo ascoltato, aveva rivolto il proprio capo al fratello; questa volta il tono era più dolce.

“Fratello, come avete potuto vedere da voi, io sto bene. Ade non ha osato torcermi un capello né usarmi violenza di alcun tipo. È vero, le sue mani anno compiuto un gesto orribile ma ha rispettato ogni vincolo imposto dall’ospitalità”, un lieve rossore ora le imporporava le guance; meglio tacere sulla loro intima vicinanza di qualche minuto prima.

“Sorella, le vostre parole mi danno un gran sollievo. Venite con me, da vostra madre che vi cerca strenuamente da giorni, portate voi stessa la notizia della vostra riguadagnata sicurezza”. Hermes con fare implorante le rivolgeva quella preghiera affinché ammettesse che quello non era il luogo in cui voleva rimanere.

“Mi spiace fratello”.

Ade e Hermes si erano come pietrificati all’udire quella semplice frase.

“Mi spiace fratello”, aveva continuato la dea

“Il mio ospite mi offre la possibilità di conoscere questo regno che terrorizza i più e io, Persefone, non posso venir meno a questo invito. Dite alla cara madre che sto bene e che molto presto la raggiungerò tra le profumate spighe del campo davanti casa”. Persefone aveva parlato con saggezza, sapeva che nessuno avrebbe potuto obiettare quella scelta così logicamente motivata.

“Ma sorella…”. Hermes, ora palesemente sconvolto, non poteva più dire alcun che.

“Nipote, avete udito le parole della mia ospite. Nessun obbligo è stato infranto quindi andate e riferite a Demetra quanto detto dalla sua Kore. Ella rimarrà qui fin quando questo le aggraderà. Il mio regno l’accoglie”. Ade si era alzato con eleganza dal suo trono e, mosso un passo verso il suo interlocutore aveva continuato

“Faresti meglio a rassicurare mia sorella prima che si preoccupi ancor di più. Fai in modo che sappia dove si trova sua figlia”. Quelle ultime frasi celavano un’infinita soddisfazione del dio, finalmente forte dell’assenso di Persefone a rimanere al suo fianco.

“Farò come desiderate, zio”.

Un cenno del capo alla sorella e, con un battito d’ali, Hermes era sparito dal loro cospetto.
Un silenzio quasi surreale aveva riempito la stanza dell’altare infernale.

Ade, in piedi e ancora fermo dinnanzi al suo scranno, si era limitato a fissarla, era impossibile per lui celare quel che il suo animo stava sperimentando perché lo stesso agitava quello della dea.
“Quindi avete accettato il mio invito”. Aveva parlato mentre con passo cadenzato aveva sceso i gradini per raggiungere il suo altare profumato di spezie e miele.

“Siete stato molto educato nel formularlo, evidentemente”, Persefone l’aveva guardato di sottecchi, troppo imbarazzata per incatenare i suoi occhi con quelli ardenti del dio.

“Allora sarò il miglior ospite che una dea come voi possa mai desiderare”. Adesso il dio le si faceva vicino, il frusciare del chitone e del mantello erano gli unici rumori oltre al battito del cuore di Persefone; ella era rimasta immobile mentre la voce, quasi frizzante, mal celava una parziale ma ritrovata serenità.

“Lo spero perché mi avete promesso di illustrarmi ogni angolo del vostro regno”.

Un sorriso le aveva impercettibilmente illuminato il volto mentre un piccolo brivido le percorreva la sua spina dorsale.

Il dio oscuro le si era fatto nuovamente davanti, come aveva fatto quella mattina nella sua camera da letto, come era avvenuto nella sala magna dell’olimpo dove per la prima volta i loro occhi si erano incatenati ma, questa volta tra loro era come se vi fosse stata una nuova intimità, un nuovo patto suggellato da un’offerta di pace inaspettata.
 
Ade, sfilatosi il mantello, glielo aveva posto sulle spalle nude e, nel farlo, l’aveva stretta più vicina a sé.

“Grazie”, aveva bisbigliato e, chinatosi su di lei, le aveva baciato la fronte con estrema dolcezza.
Persefone aveva chiuso gli occhi imbarazzata.

Avrebbe potuto abituarsi a quel dio. 


Il fuoco ardeva nella sala un tempo oscura.
 
---

 
Quando il sovrano dell’Averno e la sua gentile ospite avevano lasciato la sala del trono questa era rimasta silenziosa per molto tempo. Nessun gemito di dolore, nessun abbaio forsennato era giunto alle orecchie di Radamanto, lasciato a sorvegliare l’altare divino.
Il giudice aveva camminato intorno allo scranno con passo marziale, i suoi occhi non facevano che vagare sovrappensiero: i pensieri erano fin troppo grigi perché potesse rilassare le membra.
Il giudice in seconda, questo il soprannome affibbiatogli dagli olimpici, era sempre stato così anche prima di venir scelto per svolgere quel ruolo; Ade in persona l’aveva designarlo e lui, che un tempo era solo un misero mortale, da quel momento non aveva trovato altro obiettivo che dedicare interamente la sua esistenza a quel dio e a quel regno.
Un regno oscuro, sì, ma giusto rispetto al mondo umano fin troppo tormentato da ingiustizie di cui molto spesso la causa erano proprio gli dei che gli uomini sceglievano di celebrare.

La sua vita prima di morire non poteva considerarsi vera vita come quella che aveva iniziato a vivere dopo la morte.

Un paradosso forse, ma un paradosso veritiero.
Trovava molto più soddisfacente vivere un’eternità al fianco di Ade piuttosto che una tra gli quegli esseri umani che tanto aveva scrutato in vita e da cui tanto aveva imparato in morte.
Il mondo cambiava per non cambiare mai.
I vizi cambiavano per non cambiare mai.
E forse solo lui, che mai era cambiato, adesso invece si trovava mutato.
Se ne era accorto quel giorno, nel silenzio della cella del sovrano.
Solo, perso nei suoi pensieri, aveva urtato un piccolo vaso ricolmo di offerte votive ai piedi di una colonna. Tiratosi su agilmente, con ancora il vaso tra le mani, i suoi occhi avevano incrociato le fiamme ardenti della torcia.

Aveva notato effettivamente un qualcosa di diverso nell’immensa sala ma solo ora, faccia a faccia col mutamento, metteva a “fuoco” di cosa si trattasse.

Erano passati secoli, forse millenni di servizio fedele ma mai e poi mai il suo corpo aveva potuto nuovamente sperimentare il calore del fuoco, il suo tepore o anche semplicemente godere di quella luce chiara che solo delle fiammelle vispe riuscivano a emanare.

Allungato un dito verso la fiamma aveva sorriso sentendo il vero calore bruciargli impercettibilmente la mano.

Quello non era un fuoco umano, o almeno, non era dono di uomini, così come non era fuoco avernale, assolutamente verdognolo e gelido.

 Sentiva come una forza primordiale bruciare dentro quei bracieri.

Alla ricerca di quella entità bruciante aveva tenuto gli occhi fissi sulla fiammella danzate e lì, nascosta tra le lingue incandescenti, l’aveva vista per la prima volta.


Vestiva un abito smeraldino.

 








L'Angolo di Avareil
Scusate veramente per il ritardo, mi ero ripromessa di essere veloce ma la colpa non è stata mia. Il capitolo era pronto da giorni ma per colpa di un trasloco non ho avuto rete internet e ora la sto palesemente scrocando eheheh.
Ringrazio sempre chi mi parla e mi dice quel che pensa e prova leggendo questa storia, è di grande conforto e stimolo.
Ringrazio anche chi, silenziosamente legge o silenziosamente mi fa il regalo di mettermi tra seguiti/ preferiti o ricordati anche se poco m'importa essere lì, preferisco di gran lunga parlare con voi lettori, capire che pensate o anche cosa vi aspettereste da una storia del genere. 
Con la speranza che siate coraggiosi e che possiate avanzare in futuro sia critiche positive o anche negative vi rinnovo i miei saluti e il mio grazie.
Siete preziosi. Tutti.
A prestissimo
Avareil

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Ciò che si scorge oltre

Avevano camminato lentamente scambiandosi di tanto in tanto degli sguardi di sottecchi.

Un’occhio poco attento avrebbe giudicato il sovrano dell’Averno assolutamente distaccato dall’ambiente circostante ma, in realtà, complici le numerose torce poste a rischiarare il corridoio, Persefone era riuscita a scorgere una ruga d’eccitazione intorno agli occhi del dio così solitamente serio e dai tratti induriti.
Egli teneva ancora le spalle rigide come quelle di un soldato, il passo era marziale e risuonava secco contro il pavimento nero e lucido.
La dea, curiosa, lo aveva fissato con insistenza e malcelato interesse alla ricerca di un qualche piccolo segno che smascherasse i veri sentimenti del dio e il fiero Ade, forse sentendosi bruciare il volto per colpa dell’insistenza dello sguardo della dea, all’improvviso aveva rivolto impercettibilmente il capo verso di lei incatenando i loro sguardi.
Un angolo delle sue labbra sottili si era tirato su in un sorriso accennato, il viso assumeva un colorito vivo.
“Mia signora?”, una domanda sospesa a metà.

 Le aveva rivolto la parola e l’aveva fatto con l’eleganza di un re abituato a servire piuttosto che ad essere servito.

Subito Persefone, strettasi sulle spalle il mantello pesante e troppo lungo per la sua piccola figura, aveva distolto lo sguardo arrossendo impercettibilmente.

Lei, che aveva sempre dovuto combattere con sua madre per aver riconosciuto un briciolo di libertà e autonomia, adesso veniva trattata come una regina.

Il cuore le palpitava veloce nel petto sebbene il cervello, fin troppo sveglio e fin troppo distante da quella spontaneità tipica del carattere della Kore di un tempo, la spronava a rimanere vigile, a non lasciarsi travolgere dalle emozioni contrastanti che le abitavano l’animo.

“Credo… Si, credo che sarebbe un buon punto di partenza, per poter poi comprendere meglio il vostro regno, capire quale sia il vostro ruolo in tutto questo”. Aveva parlato con voce chiara e cristallina mentre le mani, veritiere testimoni del turbamento del cuore, stropicciavano il tessuto del mantello con fare impacciato.

Udite quelle parole Ade aveva sorriso tra sé e sé, intimamente felice di non percepire alcuna nota di paura in quell’essere delicato.
“Se pensate che il mio compito sia d’ampio spettro come quello di Zeus vi devo correggere fin da principio Persefone: l’Averno non ammette gozzovigli o distrazioni da parte dei suoi sovrani, men che meno dai suoi sudditi”.
Riuscito a intercettare nuovamente i suoi occhi sfuggenti e imbarazzati, le aveva rivolto un sorriso corrucciato e -quasi- speranzoso.
“Seguitemi”, aveva poi risposto e, fattole cenno di aumentare il passo, l’aveva condotta fuori, “all’aria aperta”.
“Vedete, l’Averno non è solo un regno come tutti credono, l’Averno è un essere vivente, una creatura che respira come me e voi… Ascoltate”.
Ade, preso dalla sua spiegazione, aveva sollevato una mano verso la dea facendole segno di fare silenzio per poter meglio concentrarsi.

E lei l’aveva udito.

Un suono distinto e netto come un battito di creatura viva: un cuore, ora lo distingueva perfettamente e, per questo motivo, aveva sgranato gli occhi sorpresa.
“Il vostro regno vibra, possiede un cuore che batte”, aveva mormorato impressionata da quella scoperta così fuori dalle regole del cosmo. Suggestionata, quasi inconsapevolmente, aveva posto una mano sopra il proprio petto, all’altezza del suo organo vitale.
Ma quelli erano due battiti completamente diversi: il suo, vivo e forte, denunciava quello debole e stanco dell'Averno.
“Io sono il mio regno, io vivo perché lui vive, lui vive perché io vivo”. Ade, dopo aver osservato ogni suo gesto, le aveva nuovamente sorriso; questa volta un velo di tristezza gli oscurava  lo sguardo.
“Dunque quello che sento è il vostro cuore?”, aveva chiesto quasi con preoccupazione la dea, impensierita dalla debolezza di quel battito.

Silenzio.

Ade non le rispondeva, anzi, quasi vergognoso, aveva distolto lo sguardo da lei e da quegli occhi caldi come il miele ma ora profondamente avviliti.
Sapeva bene che, a dispetto delle sue sembianze così fiere e imponenti, il suo cuore e tutto il suo essere erano da secoli marchiati da una maledizione che non lasciava scampo a nessun organo e a nessun sentimento.

“Ade…il vostro cuore?”, Persefone non aveva alcuna intenzione di cedere su quel punto, voleva sapere, voleva capire.
Nuovamente il dio non aveva risposo al suo quesito ma, questa volta, pur non guardandola in viso, l’aveva presa per un polso e, con un gesto quasi intimo, aveva posto la sua mano sul suo petto, proprio all’altezza di quel battito malandato che svelava la veridicità dell’intuizione della dea.
“Ade…ma cosa vi hanno fatto?” La voce di Persefone era quasi un sussurro addolorato mentre distintamente ora riusciva a percepire quel malessere che, dal sovrano, riverberava in tutto il suo dominio per infine trovare eco nel suo petto, ora allineato con quel ritmo lento.
 “Sarà meglio sbrigarci. Prima che gli obblighi del trono si facciano impellenti gradirei presentarvi qualcuno”.
Ade adesso la guardava nuovamente negli occhi, aveva interrotto il contatto tra il suo petto e la mano della giovane e questa, piccola e affusolata, era finita stretta tra le sue.
“Vi seguo, come sempre…”, Persefone aveva tentato di parlare con voce serena ma ancora mostrava i segni di una sofferenza nutrita nei riguardi di quel dio che tanto ancora le teneva nascosto.
“Spero vi piacciano i cani”, Ade, questa volta sorridendo, aveva ripreso a camminare a passo spedito; teneva per mano la dea che, piccolina e impacciata dal mantello, faticava a star dietro a quel dio così imprevedibile.
 
Il sovrano dell’Averno sarebbe stato un disonesto se avesse detto di non aver provato una scossa d’ adrenalina nell’udire quel “come sempre” pronunciato dalla sua ospite come se si fosse trattato di una consuetudine familiare.

Lei, invece, sarebbe stata una bugiarda qualora avesse affermato con forza che quel profumo così intenso, a metà strada tra cuoio e anice, sprigionato dal mantello sulle sue spalle non le piaceva affatto, soprattutto addosso.
---



“Come hai detto?”. La voce di Demetra risuonava spaventosa tra le mura del suo tempio sacro.
Il volto, solitamente di un caldo colorito ambrato, adesso invece risultava chiazzato di rosso e leggermente accaldato. Più precisamente tutta la dea, nella sua interezza celestiale, era percorsa da scariche elettriche simili alle folgori del fratello olimpico.

Una rabbia criminale le abitava il cuore.

Hermes, dal canto suo, se in un primo momento aveva cercato di tranquillizzare la dea con i suoi soliti modi goliardici e scherzosi, adesso invece, nuovamente e letteralmente coi piedi per terra, mostrava un volto pallido e preoccupato.
Fare il messaggero non era mai stato un compito facile e chi, stupidamente, affermava al suo cospetto che “ambasciatore non porta pena” era, per l’appunto, solo un povero idiota e l’avrebbe volentieri sfidato a prendere il suo posto in situazioni come quella:  al cospetto di una dea madre che veniva defraudata del suo bene più prezioso, sua figlia, e da colui che più poteva avere in odio il suo cuore, il fratello traditore; il tutto condito da maledizioni rivolte al  padre degli dei che mal aveva saputo prendere le difese di quella creatura così indifesa ora in balia dell’Erebo.

“Si, mia somma dea, Persefone è nell’Averno, ospite di vostro fratello Ade”. Hermes l’aveva guardata con paura, una paura confermata dal colorito ancora più acceso delle gote di Demetra.

“Tu stai scherzando, la mia piccola Kore non può essere lì, è impossibile”.

“L’ho vista io con i miei occhi. Ella è stata convocata al mio cospetto presso la grande sala nera del sovrano dell’Ade”. Il messaggero sapeva che la poca calma della zia si sarebbe esaurita nel giro di poche battute e temeva maledettamente quel momento.

“Mia figlia Kore…”. Aveva iniziato la dea ma Hermes l’aveva subito corretta.

“Persefone vorrete dire…”

Appunti per sopravvivere agli sguardi omicidi: mai osare ricordare ad una madre che la figlia non è più una bambina.

Rimanendo illeso dallo sguardo di fuoco lanciatogli dalla zia, Hermes aveva tossito distogliendo il volto.

“La mia Kore…”, aveva poi continuato quella mai smettendo di osservarlo in cagnesco,

“non può essere giunta di sua sponte in un luogo così oscuro, nessuno del mio seguito ha mai osato fare parola di una realtà così meschina dinnanzi alla mia piccola quindi proprio non capisco come tu possa osare a definirla “ospite” di quel bastardo di mio fratello”.

Ecco. Appunto.

“Mia signora, vedete…”, il balbettio quasi indistinto di Hermes avevano insospettito la dea che, mossa dalla rabbia e dall’impazienza, si era fatta pericolosamente vicina al nipote, quasi faccia a faccia, mentre le mani forti si stringevano sui fianchi morbidi per il nervosismo.

“Persefone, vostra figlia, ha accettato l’invito di vostro fratello: ella rimarrà nell’Averno per poter soddisfare la sete di conoscenza per quei posti oscuri ai più”.

Aveva buttato fuori la verità tutta in un sol respiro.

“Come hai detto?”.
Demetra, adesso quasi spenta e bianca in volto, aveva guardato sconvolta il ragazzino.
“Kore ha accettato l’invito del signore dell’Averno?”, le parole erano quasi strozzate.
“Si”. Hermes, apodittico, sanciva con quel monosillabo il tormento della dea terrena.
“Quanto tempo ha detto che durerà la sua permanenza?”. Demetra, esitante, ora poneva una mano all’altezza del cuore; stava male, era come non aver più fiato in corpo.
“Mi ha detto di riferirvi che sarà di ritorno quando le spighe dorate abbracceranno l’altare natio”.

Aveva fatto silenzio la dea, aveva incassato quel colpo come il migliore dei soldati e ora, voltatasi, aveva camminato verso l’uscita della sua cella sacra a capo chino e con le mani strette sul ventre piatto.
La carne della sua carne, la sua bambina, sarebbe rimasta mesi e mesi confinata nel gelido Erebo: non avrebbe potuto vederla, non avrebbe potuto sentire il suo piccolo e tenero corpo stretto tra le sue braccia. Non avrebbe più potuto chiamarla “bambina” se solo quel mostro, sfruttando il suo buon cuore, le avesse messo le mani addosso costringendola a diventar donna in maniera traumatica e violenta.

Ade non è Zeus.

Una vocina interiore le bisbigliava quel mezzo conforto.

Ade non oserebbe mai.

Sempre quella vocina, forse la sua coscienza nascosta, cercava di tranquillizzarla ma, la dura realtà dei fatti le ricordava che proprio quel dio non si era fatto scrupoli a rapire la sua bambina; che ella avesse accettato un posteriore e fantomatico invito era assolutamente impossibile.

Non poteva essere vero.

La sua creatura non era una sciocca, non si sarebbe mai fatta abbindolare dalle promesse vane di un dio oscuro.

Si, ma ti ricordi come ballavano, avvinti in uno sguardo di fuoco? 

Un urlo le aveva riempito i polmoni al solo ricordo di quella notte, le mani, ora strette tra i capelli, li tiravano e li stringevano con rabbia.  
In cuor suo sapeva che vi era qualcosa di oltre, qualcosa che non voleva vedere ma che sapeva essere lì, in agguato, pronto a sottrarle la sua unica felicità, la sua unica luce.

Travolta da questi pensieri non aveva più badato al nipote ancora rigido al suo cospetto, non aveva cercato con lo sguardo le fedeli ancelle né aveva pregato il suo compagno, il suo Zeus. Nessuno avrebbe potuto recarle sollievo per quel dolore che le mangiava lo stomaco.
 Traballante e incerta aveva mosso dei passi verso la porta del tempio e lì, in un soffio di vento, si era persa anche lei nel mondo.
 Un sospiro, una brezza: Demetra era lì, alla disperata ricerca della sua bambina perduta.  
 
---

 
 
Le camere fumose del tempio akragantino l’avevano accolta in silenzio religioso.
Estia aveva varcato la soglia sacra con passo leggero mentre gli occhi vispi erano alla ricerca della padrona di quei luoghi.
Era, distratta e seminascosta dalle coltri purpuree che separavano la cella dalla sala del tempio, era circondata da fumi propiziatori e libagioni succulente: celebrava riti di fecondità per le giovani donne promesse in sposa, le mani erano rivolte al cielo.
Estia aveva sempre nutrito nei riguardi di quella sorella una profonda ammirazione; del resto non sapeva quale altro sentimento indirizzare nei riguardi di quella dea che, seppur dall’animo focoso, aveva sempre saputo mitigare le proprie ire.

Più o meno.

Allontanati dalla mente alcuni lugubri ricordi che vedevano Era quale protagonista sanguinaria di vendette atroci, Estia aveva continuato a guardare la sorella, una grande pena le chiudeva la bocca dello stomaco.
Quella dea maestosa, regina consorte di cieli olimpici, soffriva al pari di ogni altro essere vivente, ma lo faceva con una dignità senza pari tale che la stessa Estia non poteva fare a meno di provare stima: indipendentemente dal comportamento assolutamente balordo tenuto dal compagno divino, ella, Era la somma, non faceva che dedicarle ogni mese delle profumate offerte, segno di riconoscenza per quelle nozze benedette dal sacro fuoco domestico.
Come potesse continuare ad amare loro fratello per Estia era un mistero.
Come potesse continuare a sopportare i tradimenti e le bugie, un assoluto enigma.
Eppure Estia non aveva mai smesso di ammirarla.

Fino a quel momento.

Estia ben sapeva che la vita della regina era solcata da profonde ferite che nemmeno il tempo avrebbe mai potuto sanare; ma questo non la legittimava, ancora una volta, a cercare giustizia da sé.
La dea del focolare domestico aveva saputo del tradimento compiuto da Era, aveva visto coi suoi occhi, onnipresenti e celati dalle fiamme vive, con che ferocia e con che tracotanza la dea signora dei cieli e delle unioni, avesse tradito sé stessa, il proprio tempio e il proprio dono.
Persefone le aveva chiesto asilo e quella, nella sua “grandezza”, l’aveva umiliata come la peggiore delle creature per poi costringerla a una fuga logorante e avvilente.
Certo… Estia ben sapeva che Ade non era assolutamente lo spregevole dio che veniva raccontato nelle storie, ma Era questo lo ignorava e anzi quasi lo sperava; ella ricercava solamente vendetta e peggiore fosse stato l’aguzzino della giovane Persefone meglio sarebbe stato quel piatto freddo da offrire alla sorella Demetra.

No.

Lei, Estia, la più anziana, la più grande ed evidentemente anche la più saggia, non avrebbe lasciato impunito un atteggiamento del genere.

Si sentiva tradita.

“Dolce Estia, che bello vedervi”. Demetra, ancora con le mani ora giunte in preghiera, le aveva sorriso compostamente dandole ancora le spalle.
Il portamento, l’atteggiamento, il diadema che recava sulla fronte era tutti segni fin troppo tangibili della sua innata regalità.
 
“Sorella, vorrei poter esprimere lo stesso piacere nell’incontrarvi ma non posso unirmi a voi nel vostro giubilo. Il mio animo è ferito e siete voi la cagione di questo malessere”.
Estia era sempre stata una donna materna e benevola ma, come ogni maggiore che si rispetti, provava quasi l’impellente desiderio di raddrizzare i comportamenti devianti delle persone a lei più care.

Ovviamente per il loro bene.

Era, immobile, aveva leggermente sobbalzato nell’udire quelle parole scagliate con freddezza e precisione. Sua sorella sapeva. Non era buona cosa.

“Sarebbe inutile tentare di prendervi in giro mentendo su ciò che ho fatto alla giovane figlia di nostra sorella Demetra; ma sarei altrettanto sciocca nonché un’ipocrita se ora, ai vostri luminosi occhi, mi mostrassi pentita del mio gesto”. Aveva parlato con schiettezza, le mani sistemavano nervosamente lo scialle sulle spalle nude mentre gli occhi, marroni e profondi, evitavano il contatto visivo.

“Non mi pento di nulla, io sono Era, la compagna legittima di Zeus, mio e vostro sovrano dei cieli olimpici; evitate quindi un rimprovero, non avrebbe alcun effetto.”

Era aveva parlato col tono perentorio tipico dei sovrani.

“Se io parlassi a voi da dea a dea allora potrei pure accettare questa sorta di giustificazione che accampate per il vostro operato”.
“Io non giustifico…”. Era, prontamente, aveva interrotto la sorella ma questa, adesso visibilmente indispettita, le si era fatta d’innanzi e, volto a volto, aveva ripreso la parola con cipiglio guerresco.
“Non interrompetemi”. Folgoratala con occhi di brace, Estia aveva poi ripreso con tono più pacato.

Si era lisciata le vesti prima di riprendere fiato.

“Non mi rivolgo a voi come una semplice supplice farebbe con la propria regina; io sono vostra sorella, vostra sorella maggiore, esigo che mi ascoltiate col dovuto rispetto; poi, se avrete altro da aggiungere, sarò ben lieta di interloquire con voi civilmente”.

Era, fatto si col capo, aveva dunque guardato verso il corridoio che dalla cella conduceva ai suoi giardini.  Con una mano aveva indicato alla sorella quella strada.
“Scusate i modi sorella, seguitemi, avremo modo di discutere con calma presso i melograni odorosi”.
“Sta bene.” Aveva risposto la dea maggiore e, accompagnando le parole con un cenno del capo, l’aveva seguita.
Una volta giunte nei pressi del giardino si erano accomodate su due seggiolini, una di fronte all’altra. Era rimaneva rigida.
“Ebbene” Aveva iniziato Estia, un sorriso di cortesia mascherava l’astio.
“Ebbene, sorella, volevo farvi delle domande.” Estia, continuando, aveva letteralmente stupito Era che, adesso, la guardava in silenzio ma con gli occhi curiosi e incerti.
“Sono a vostra disposizione, chiedete pure, ma sappiate che non mi pento di quello che ho fatto, questo vi sia ben chiaro”, piccata Era aveva sistemato l’orlo del vestito, distoglieva ancora gli occhi.
“Voi siete la regina consorte di Zeus, mio e vostro fratello; da lui siete stata scelta e con lui avete suggellato l’unione presso i miei fuochi?”. Estia continuava a sorridere mentre il viso dell’interlocutrice si faceva ancora più contrito.
“Si certo, sono la regina, legittima e unica consorte di nostro fratello”.
“E ditemi, dolce sorella, fin dove si estende il vostro dominio?”. La dea del fuoco aveva ora accavallato le gambe lasciando intravedere due pesanti cavigliere.
“Il mio dominio non ha confini: ogni essere umano che nasce e cresce necessita la mia benedizione; ogni unione, ogni parto, ogni legame di fedeltà esige il mio vincolo sacro.” La voce della dea si era fatta leggermente più sicura mentre le mani continuavano a giocare con l’orlo del peplo.
“Vantate inoltre una felice discendenza, molti figli hanno allietato il vostro vincolo col padre Zeus: Ares, Eris, Ebe…”.
“Si, i miei figli sono i miei gioielli, le mie uniche gioie”. A quel punto Era si era fatta più fiera: Zeus avrebbe potuto anche calpestarla e mancarle di rispetto con ogni bagordo e ogni tradimento ma quei figli erano la sua discendenza, il suo unico premio in un’eternità fatta di amarezze.

Quando una madre sente parlare dei propri figli non può fare a meno di sentirsi orgogliosa.

“Si mi rispondete… I figli sono un grande vanto per una madre; i figli sono preziosi come l’oro e inestimabili come l’ambrosia”. Estia aveva mostrato i denti bianchi e perfettamente dritti ma, quel sorriso, non aveva contagiato gli occhi stranamente foschi.
Troppo tardi Era aveva inteso il doppio senso di quella domanda e, troppo tardi, si era resa conto di aver parlato schiettamente mettendo a nudo il suo animo di madre.

Solo a quel punto Estia l’aveva folgorata con uno sguardo nero e feroce.

“Allora, sorella, mi appello a voi e al vostro animo di madre e di regina: il vostro potere è sconfinato e a questo è intrecciata in maniera indissolubile l’esistenza umana, ogni vostro volere è legge, ogni vostra vendetta un ordine. Siete madre di dei, protettrice di madri, consolatrice di madri, voi dunque che siete LA madre, come potete, come potete anche solo ordire una punizione che si scagli contro una vittima innocente e non verso colui o coloro che hanno veramente colpa?”. Estia ora era in piedi e fronteggiava la sorella che molto poco ora aveva in comune con la regina austera di prima.
“Siete la consorte del padre dei cieli e a voi lui ha promesso il potere e l’unione sacra e legittima. Voi sapevate a cosa andavate incontro, l’avete letto nei suoi occhi, nei suoi gesti, nella tracotanza bramosa che lo contraddistingueva in battaglia e nei concili; non eravate all’oscuro di niente, tutto in lui era manifesto e l’avete scelto, pregi e difetti, avete preso tutto e ancora vi ostinate a punire gli infelici invece che i carnefici. Piuttosto che punire una figlia dovevate punire la madre e il padre che a voi usarono tradimento. Voi…”, a quel punto il discorso concitato di Estia si era placato in una sentenza di poche parole.
“Voi siete venuta meno al vostro dono: una dea, non un’umana ma una dea, vi ha chiesto protezione, supporto, quantomeno un’unione serena sebbene imposta e voi le avete rifiutato tutto e, in quel rifiuto, avete negato voi stessa.
Quel diadema che portate sul capo non vale la donna, la sorella che non trovo più, Era”.

“Io bramavo giustizia. Quella dea aveva gli occhi di mio marito e il calore della madre, ho sofferto terribilmente Estia! Il frutto esplicito di un tradimento al mio cospetto”.

 Era, a capo chino, aveva proferito quelle parole in un sospiro colpevole; Era, la regina, la sovrana dei cieli, mostrava finalmente il suo cuore grondante di sangue per le numerose ferite subite a tradimento.

Estia le si era fatta vicina e, sollevata una mano, ora le carezzava con l’indice il volto delicato.

“Questa non è mai stata giustizia, sorella: questa è vendetta; una vendetta priva di senso che vi rende ben peggiore di Demetra o Zeus. Demetra soffre, soffre per questo torto recatovi e allo stesso tempo si maledice perché da questa ferita inferta a voi, sangue del suo sangue, è nata la sua più grande gioia: Persefone. Il Fato ha già provveduto a sottrargliela, non credete che questo basti?
Non avete bisogno di far versare lacrime e sangue, le Moire sono state chiare”.
“Nostra sorella soffre molto?”, Era non aveva chiesto col desiderio di saper la sorella sofferente, anzi, il suo tono, da madre a madre, da sorella a sorella, era addolorato.
“Si, ella soffre atrocemente e tanto più si strugge perché crede che quell’ unione sia in odio alla sua bambina; del resto voi stessa avete negato a Persefone finanche la serenità nelle nozze”.

Il tono grave di Estia aveva riempito l’aria profumata del giardino alberato.

Erano una di fronte all’altra, una seduta rigidamente, l’altra in piedi, troppo agitata per star comodamente poggiata su un seggiolino imbottito.
“Un figlio non dovrebbe subire le colpe dei genitori”. Era aveva finalmente aperto bocca, il tono fievole, quasi inesistente, era giunto alle orecchie di Estia in un sospiro.
“No, non dovrebbe”, aveva risposto quella, adesso il capo era rivolto alla sorella.

Lentamente la sovrana si era alzata dalla seduta comoda per muovere qualche passo verso un albero rigoglioso, unico testimone del loro discorso; un melograno forte e carico di frutti maturi.
Con mano sicura ne aveva preso uno e, con reverenza, l’aveva posto in grembo alla sorella.
“Un dono.” Aveva mormorato.
“Un dono?” aveva risposto Estia dubbiosa, anche se un tenero sorriso iniziava a illuminarle lo sguardo.
“Si, un dono per Persefone. Se potete, mia saggia sorella, recate questo presente all’ospite di nostro fratello; suggeritele di interrarlo nei pressi di una fonte d’acqua “pura” e di assaggiarne i chicchi una volta maturi. Un dono”. Aveva ripetuto quella parola con solennità.
“Un dono di augurio per un’unione benedetta”.

Estia ora le sorrideva apertamente e dopo aver messo al sicuro il prezioso frutto l’aveva abbracciata di slancio.
“Mi spiace sorella, come sempre mi sono lasciata travolgere dall’ira”.
“Siete una grande sovrana, saggia e buona. Non lasciate che la cattiveria altrui avveleni il vostro cuore”, le aveva mormorato Estia all’orecchio.
Sciolto l’abbraccio si erano guardate sorridendo. Gli occhi di Era ancora spenti.
“Secondo voi Demetra soffrirà pur sapendo la figlia felice?”.
“Quando si ha molto e si perde poco si soffre, cara sorella, ma quando si ha poco e si perde tutto si muore dentro.
Demetra soffrirà sempre”.
Con quelle parole Estia si era accomiatata dalla sorella.

In mano reggeva il prezioso frutto.
 
---


 
“I Cani?”, la risposta di Persefone mal celava preoccupazione e dubbio.
“Si, i cani, beh… Magari non proprio come li potreste immaginare”. Ade, sempre tenendola per mano, l’aveva condotta a passo svelto lungo il grande viale; direzione mura di confine.
Aveva sentito dentro di sé il bruciante desiderio di mettere a parte Persefone di un aspetto di lui che non molti conoscevano.
Era come desiderare di venire apprezzati per quello che si è veramente, a prescindere dalle fattezze o dai cuori malandati.
 Lui non era quella maledizione, non sopportava l’idea che anche in questo le sue scelte potessero essere vincolate da potenze oscure. Era stanco di essere il sovrano oscuro e triste.

Oddio, triste lo era eccome, ma forse, forse quella giovane dea avrebbe potuto vedere oltre la scorza emaciata e contaminata dal vincolo allo Stige.

Magari avrebbe potuto sul serio affezionarsi a lui e a quel regno per quello che erano, creature vive la cui esistenza seguiva regole proprie ma non per questo atroci o terribili.

“Onestamente ne ho un po' paura. I cani sono animali da fiducia, se non conoscono chi hanno davanti ne scrutano l’anima prima di affezionarsi”, Persefone quasi inciampava nei propri piedi ma non poteva negare di essere stata travolta da una sferzata d’aria fresca anche lì nel più cieco Orco.  

Era come correre per i campi erbosi della piana materna.
Era come ridere con le ninfe.
Ma lì non vi era né la madre né il suo fidato corteo, erano solo loro due, un dio scuro e emblematico e lei, una quasi donna, una poco più che ragazza.
Eppure le piaceva stare lì, in quel regno totalmente nero rischiarato solo da fiamme rosso vivo.
“Cerbero non oserà toccarvi, siete mia ospite, la mia più cara ospite. Non farebbe nulla di sconsiderato”. Ade aveva parlato con serietà, quasi dimentico del sorriso spontaneo di prima; desiderava rassicurarla.
“Speriamo”. Persefone l’aveva guardato di sbieco mal celando un sorriso furbo e giocoso.
Lo prendeva in giro come fossero stati amici da tempo, come se i loro cammini si fossero incontrati secoli addietro in circostanze felici; la dea aveva scorto la risposta alla sua provocazione proprio sul viso del dio ora corrucciato in un cipiglio scherzosamente offeso.
“Cerbero, mio fedele…”. Ade aveva lasciato la giovane alle sue spalle e, allungato un braccio per farle segno di mettersi dietro di lui, aveva invocato il maestoso guardiano del varco avernale.
Un cane enorme e dagli occhi iniettati di sangue aveva fatto capolino da dietro una coltre nera e fitta poco avanti rispetto all’ingresso; non una ma ben tre teste erano attaccate a quel busto possente e nero, ogni zampa veniva corredata da artigli acuminati.
Persefone quasi svenne.
I suoi occhi mai si erano poggiati su una simile bestia eppure il suo ospite, Ade, l’aveva invocato con reverenza e affetto; lei, che era rimasta dietro il dio, per lo spavento ne aveva afferrato la veste all’altezza delle spalle, lì il suo volto aveva trovato riparo.
“Mi spiace”, aveva mormorato quasi immediatamente,
“Mi spiace, non riesco, è così imponente e le teste, Ade, ha tre teste il vostro “cane”!”.
Sconvolta aveva balbettato quelle considerazioni impacciata e tremolante.
Un sussulto, Due…
La stoffa alla quale era aggrappata, e quindi anche il corpo che questa rivestiva, erano sconvolti da sussulti ripetuti che facevano vibrare il corpo del sovrano avernale. Una voce, una voce bassa e roca riempiva quell’aria solforosa e pesante di un riso spontaneo e profondo.
Ade, l’oscuro e impenetrabile, rideva; una risata cavernosa che gli saliva dallo stomaco e gli scuoteva le costole, i polmoni, il petto…il cuore. Tremava.
“Vi pare il modo, questo, di comportarsi? Ade!”, la dea aveva colpito con un pugno leggero la schiena del dio.
“Ho paura e voi ridete?”. Nel rivolgergli quell’accorato rimprovero Persefone aveva alzato il capo alla ricerca del viso colpevole del dio ma i suoi occhi di folgore avevano incontrato ben sei sfere insanguinate: il “feroce” mastino aveva calato i capi all’altezza della dea; goccioloni di bava fuoriusciti dalle labbra pensili avevano creato piccole pozzanghere vicino ai loro piedi.
“Ade, vi imploro!”. Nuovamente il volto nascosto tra quelle scapole sobbalzanti per il forte riso.
“Cerbero, date alla nostra ospite la possibilità di prendere fiato. Sedete e state fermo. Fatevi conoscere”. Nella sua grandezza sproporzionata il fido demone aveva preso posto di fianco a loro distogliendo l’attenzione da quella dea così poco avernale.
“Persefone, mia signora…”. Le aveva rivolto la parola con fare carezzevole, la voce ancora scossa da qualche risata.

Da quanto tempo il suo corpo malato non veniva travolto così dal riso?

Secoli. Nella migliore delle prospettive.

Mia signora un corno!”. Persefone, che molto più aveva della vecchia Kore che non della giovane e matura dea, aveva risposto con tono angosciato a quella provocazione.
“Come avete potuto tessermi un tranello del genere?! Quello non è un cane!”, un altro colpo tra le scapole del dio l’aveva fatto gemere per la sorpresa.

Quanta intimità, quanto…affetto(?) in quei gesti spontanei.

“Quello è un cane, magari non proprio piccolo e tenero come quelli di superficie ma se solo vi fidaste per un momento e sollevaste il vostro bel capo, potreste osservarlo e scorgere in lui la stessa indole. È il mio più fidato guardiano”. Sempre rimanendo di spalle davanti a lei, Ade aveva allungato una mano dietro di sé, cercava Persefone, ne cercava il fianco per poterla sfiorare e farle forza.
“Vi credo, nessuno oserebbe varcare quell’ingresso sapendo chi vi avete messo a guardia”. Rassicurata da quel nuovo contatto la dea aveva nuovamente sollevato il viso badando bene a non incrociare gli occhi del “cane”, e trovando invece quelli del dio che la guardava col capo leggermente voltato verso dietro.
“Persefone”.

Perché quel nome pronunziato dal dio aveva sul suo corpo un effetto formicolante e caldo?

“Uhm”. Un mugolio contrariato in risposta.

“Persefone…”, il tono del dio ora era chiaramente deciso e quasi minaccioso, come quando ci si rivolge ad una bambina capricciosa.

“Si, va bene, devo guardare oltre, lo so, ci provo, altrimenti non sarei qui”.

Vinta dalle stesse motivazioni che l’avevano portata a vagare per quei luoghi, aveva lasciato la salda presa sulla veste del dio e, lentamente, si era rivolta verso il demone avernale.

Su, forza, mangiami. Dai campi erbosi alle fauci di un mastino infernale.

Ade, percependo la ritrosia nel movimento lento della dea - ma notando anche la fiducia riposta nel suo consiglio- l’aveva affiancata, e ora, chino su di lei, le aveva mormorato all’orecchio
“Stendete un braccio mia signora”.

Addio arto destro. 

E invece no, con un lungo brivido che le percorreva la schiena per andare a prendere posto nel suo basso ventre – colpa del fiato caldo del dio che le aveva solleticato il collo-  si accorgeva di avere ancora il braccio; certo, umido di bava.


Ma l’aveva ancora. 






L'Angolo di Avareil
Eccoci qui, un nuovo capitolo in poco tempo per farmi perdonare la lunga attesa dei giorni passati!
Un bacio va a Sissi la cui presenza è sempre di grande conforto e stimolo. 
Un abbraccio a Damned e  Armidia che, sfondando il muro del silenzio, hanno scritto bellissime recensioni.
I vostri consigli e i vostri suggerimenti sono sempre ben accetti.

Grazie sempre
Avareil.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Un dono, un danno
 
“Siete un pessimo ospite, signore dell’Averno, vorrei che lo aveste ben chiaro nel vostro animo”. Persefone, imbronciata e con le vesti bagnate di bava, aveva palesato il suo sconforto e il suo ribrezzo al dio che, a distanza di sicurezza, a stento riusciva a nascondere un sorriso divertito.
“Mia signora, a volte per conoscere veramente le cose bisogna sporcarsi le mani”. Ade, impeccabile nel suo portamento, le aveva lanciato uno sguardo furbo.
Piccata, la dea aveva proseguito oltre a passo veloce dandogli volontariamente le spalle.
“Persefone, non siate offesa, vi prometto che mi farò perdonare”, quello era il tono di chi, sentendosi leggermente in colpa, pregava la propria vittima per avere una seconda possibilità.
“Si, certo, la prossima volta sarà un dolce micio con denti d’arpia e ali di falco”, Persefone si era voltata verso quello con le braccia incrociate sul petto,
“Non ci si può proprio fidare di voi”. Aveva distolto lo sguardo dal cipiglio divertito del dio ma era rimasta lì, ferma qualche metro più avanti: lo aspettava.
Troppo velocemente aveva camminato, troppa distanza aveva messo tra loro quando invece sentiva come il bisogno di averlo vicino, di godere di quella presenza il più a lungo possibile.
Ade, notando quell’atteggiamento, aveva leggermente sgranato gli occhi; quella dea, nel suo fare fanciullesco e spontaneo, sapeva mostrare il proprio affetto in una maniera così fresca da togliergli le parole.
Giunto al fianco della sua ospite l’aveva guardata da capo a piedi beandosi dei suoi ricci scarmigliati e dei suoi occhi vispi e, infine, sorridendo, le aveva offerto il gomito, incurante della bava che le imbrattava le vesti scure.
 
“No, vi prego”, Persefone aveva allungato le mani per evitare che quel contatto potesse macchiare anche il dio ma quello, incurante di ogni cosa fuorché della sua signora, l’aveva avvicinata e fatta poggiare su di sè.
“Mia signora, come vi dicevo pocanzi “a volte per conoscere veramente le cose bisogna sporcarsi le mani””.
 
Aveva riaccompagnato Persefone presso le sue stanze sebbene il suo animo bramasse l’opposto; non poteva intrattenersi ancora con lei quando il suo orecchio riusciva distintamente a percepire in lontananza l’eco dei lamenti dei suoi sudditi.
 L’Averno è un regno fin troppo complesso perché il proprio sovrano ne possa prendere alla leggera gli incarichi e i doveri.
Troppe anime avevano varcato le soglie infernali perché nessuno se ne occupasse con la dovuta attenzione; certo, Radamanto era un ottimo secondo, un giudice giusto ed esperto conoscitore dell’animo umano ma alcune questioni richiedevano tassativamente la sua presenza.
Lui era il re, il dio di quei luoghi e a quei luoghi e a quei doveri era vincolato.
Eppure la risata di Persefone e il suo fare giocoso l’avevano completamente distratto.
Prima di lasciarla si erano guardati per un lungo momento, lei, piccolina e ancora avvolta nel suo mantello, aveva cercato di nascondere il nervosismo e l’imbarazzo; lui, invece, nuovamente serio e composto, aveva leggermente chinato il capo in segno di saluto reverenziale.  
“Farò in modo che non vi manchi nulla in mia assenza. Alcune ninfe avernali sono state chiamate per voi, per aiutarvi in qualsiasi routine personale o anche semplicemente per tenervi compagnia ma-“. Il dio le aveva rivolto uno sguardo di scuse accompagnato però da un tono fermo,
“Ma mi perdonerete se non posso darvi il permesso di aggirarvi liberamente per questi luoghi. Alcuni di essi sono fin troppo pericolosi perché una dea come voi possa avventurarsi da sola”.
Quelle parole avevano scaldato il cuore della dea che, oramai sciolto, era affiorato fino agli occhi, ora due pozze di miele liquido e caldo.
Uno strano piacere l’aveva avvolta sentendo la preoccupazione e la premura nella voce di quel dio impenetrabile a molti. Gli aveva sorriso dolcemente, le lunghe ciglia nere le ombreggiavano il volto rendendo il suo fare seducente e al contempo sincero.
 
“Non vi preoccupate, non ho desiderio di vagare per l’Averno sola e priva della mia guida”, aveva parlato di getto lasciando trapelare quel calore che ora le serrava le viscere.
La mia guida…
…La sua guida.
Come poteva il sovrano dell’Averno, il rigido e imperscrutabile Ade, resistere a un sentimento così delicato che veniva lasciato sfuggire quasi inconsapevolmente da quelle labbra rosee e morbide?
Non poteva, semplicemente non poteva.
Gli occhi del dio, solitamente vitrei e senz’anima, ora erano simili ad un cielo nebuloso che si prepara alla tempesta.
L’aveva scrutata a lungo e in silenzio: il suo sguardo chiedeva il “Permesso” e lei, la giovane dea, l’aveva ben capito. Non una parola, non una frase accattivante, no, lei non era quello, semplicemente aveva socchiuso gli occhi inclinando il viso verso di lui, offrendo in questo modo le labbra a lui che l’osservava con brama.
Remissiva, le gote leggermente colorate di rosso, i ricci scomposti che le adornavano il viso: si concedeva a lui e, a lui soltanto, di sua spontanea volontà in un modo così dolce e semplice che lo aveva quasi tormentato.
Non vi era stata malizia in quel movimento, non si scorgeva lussuria in quelle ciglia nere che, socchiuse, gettavano ombra sul viso ovale rendendolo ancora più virginale e puro.
Era riuscito a frenarsi, a limitarsi solo per pochi secondi ma poi, dinnanzi alla porta delle stanze della sua ospite, si era calato su di lei; i capelli sciolti e neri adesso ricadevano come una cascata intorno alla dea inebriandola del suo profumo d’anice e cuoio.
Ella aveva subito la più terribile delle torture: imbarazzata e impaziente lo aveva atteso e solo quando, finalmente, aveva percepito quelle labbra sottili poggiarsi con delicatezza sopra le sue aveva come sospirato per il sollievo e la pace ritrovata.
il ricordo della violenza con la quale l’aveva presa la prima volta era completamente evaporata per lasciare il posto a un bruciore agrodolce che le correva lungo le terminazioni nervose per andare in fine a scioglierla all’altezza del basso ventre; le mani del dio sulle sue braccia l’accarezzavano lentamente mentre la bocca tormentava ogni centimetro delle sue labbra rosse e umide.
Soggiogata dal quel dio e da quel bacio lento che sapeva di richiesta tacita, lei aveva risposto con un sospiro arrendevole: il suo sì al signore dell’eterna notte e, con quel sì, quello che era iniziato come un bacio casto, ben presto aveva lasciato il posto a desiderio insaziabile, irrefrenabile per il signore dell’Erebo.
 Ade non sapeva come resistere a quella bocca morbida e a quel corpo premuto contro il suo e, al limite dell’autocontrollo, l’aveva imprigionata contro la porta; la lingua si era insinuata in quella calda apertura sondandone ogni centimetro per trovarne la compagna.
Un tormento lancinante bruciava il cuore della dea: lei avrebbe dovuto odiarlo, avrebbe dovuto disprezzarlo e temerlo e invece, era lì, tra quelle braccia possenti, a insinuare le mani tra i capelli del dio, lunghi e scarmigliati, per averlo più vicino, per averne di più di quel calore che solo il suo corpo freddo sapeva darle.
Morbido, pungente per la sottile barba che gli ornava il volto, Persefone aveva serrato gli occhi per poter percepire quel bacio con tutti gli altri sensi del suo corpo divinamente tormentato.
Quel dio, così freddo e impenetrabile, celava invece un animo travolto dalla passione; quel cuore malato batteva forsennato e trovava eco nel suo.
 
Ma il signore dell’Averno sapeva chiaramente che quel serpente sanguinario e violento, che era solito stritolargli lo stomaco, a poco a poco avrebbe travolto e soffocato ogni muscolo, ogni arto, ogni pensiero lucido, riducendo il dio dei morti a un ammasso di pulsioni e sentimenti. In tensione, nel vano tentativo di rimanere presente a sé stesso, aveva dunque posto le mani sui fianchi della giovane dea: egli ne artigliava le vesti sottili nel vano tentativo di star fermo, di porsi dei limiti da non dover in alcun modo oltrepassare. Persefone aveva sussultato sentendo quella dolce invasione e con un sospiro di piacere ora assaporava le mani vaganti del dio lambirle i fianchi.
 
Poteva un bacio sconvolgerla fino a questo punto?

Era come ricevere il calore di mille soli sulla pelle, era come essere abbracciati dalla natura e dal suolo, un po' come nascere e un po' come morire, quelle braccia che la tenevano stretta la facevano sentire importante, paurosamente a casa.
“Ade…”. Aveva sospirato a contatto con le labbra del dio.
“Persefone”, un altro bacio su quelle labbra leggermente schiuse, un’altra invasione lenta e volta ad assaporare ogni angolo di quell’essere che aveva tra le braccia.
Sentiva le mani del dio vagare lungo i suoi fianchi, spingersi poi verso la schiena e scendere nuovamente in una carezza lenta e allo stesso tempo possessiva, lì, contro la porta della sua camera, bloccata dal corpo di Ade, riceveva da quello calore e protezione da ogni sguardo imprudente che avesse avuto l’ardire di spiarli.

Una donna, eccoti Persefone, sei donna che brama, che desidera.

Mia signora.” Questa volta era stato il signore dell’Averno a interrompere quel contatto così intimo. Aveva parlato tenendo il viso nascosto nell’incavo del suo collo profumato.
Mia signora”, aveva ripetuto dopo un momento di smarrimento mentale.
“Devo andare ora”, aveva bisbigliato Ade pericolosamente vicino alla linea del suo collo bianco ed esposto.
Una mano si era sollevata verso il volto nascosto del dio che, ricevendo quella carezza inaspettata, aveva sollevato lo sguardo verso la giovane dea ansante tra le sue braccia. Rossa in volto ora lo guardava con fare dolce ma sperduto.

Un’amante che brama la presenza del proprio compagno.

Lo aveva osservato in silenzio per poi afferrare delicatamente la sua tunica scura e semplice all’altezza del petto.
“Tornate presto”, aveva mormorato guardandolo dritto negli occhi.
“Per favore”, aveva poi aggiunto a bassa voce in un bisbiglio.
Quel serpente che prima avvolgeva in spire diaboliche il ventre del dio ora invece si era spostato più giù, e avvolto nelle spire squamate la sua virilità sopita da tempo, ecco che ora la stimolava al limite della sopportazione.
 La voleva, la voleva solo per sé.
Ade le aveva sorriso, un sorriso che coinvolgeva lo sguardo profondo e illuminato dalla luce della brama.
“Sarò da voi non appena mi sarà possibile, mia dea”, aveva mormorato a sua volta con tono basso e roco, svelando quel desiderio che gli sconvolgeva il cuore.
“Riposate durante la mia assenza, al mio ritorno vi mostrerò altri luoghi”, aveva sorriso carezzandole con l’indice il mento e sollevandolo verso la sua bocca.
“Niente bestie paurose questa volta, promesso”.  Aveva suggellato la promessa con un bacio casto sulle labbra della dea che adesso gli sorrideva mostrando i denti bianchi e due fossette sulle guance che ne addolcivano ancora di più l’aspetto.
Contro sé stesso e la propria volontà, l’aveva lasciata liberandola dalla trappola che la vedeva bloccata tra il suo corpo e la porta della stanza; ancora chino su di lei le aveva lasciato un bacio sulla fronte: scusa balorda per poter nuovamente odorare quel magnifico profumo di campi e fiori profumati.

Persefone aveva nuovamente chiuso gli occhi.

Che fosse il suo cuore a godere questa volta di quella carezza.
 
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Sebbene il suo corpo fremesse ancora alla ricerca di quella pelle calda e profumata, la sua mente, lucida, più o meno, era già proiettata nella sala del tempio al cospetto di quelle anime dannate che aspettavano impazienti e spaventate dinnanzi al suo scranno vuoto.
Prima però avrebbe dovuto cambiarsi, lavarsi – aveva sorriso sentendo addosso l’odore di Cerbero- e indossare l’armatura regale; infine avrebbe preso anche la kuneé, simbolo del suo legittimo potere in quel regno.
Assorto in quei pensieri ordinati e metodici aveva varcato la soglia delle sue stanze collocate a qualche corridoio di distanza da quelle della sua cara ospite.

Un calore gli aveva avvolto il petto al ricordo di quelle labbra schiuse e umide, di quel corpo piccolo e caldo stretto contro il suo, così freddo eppure che riscopriva vivo.
La desiderava, la desiderava come mai aveva desiderato qualcuno in vita sua; a dispetto di Zeus o Poseidone egli non aveva mai rincorso donne o demoni, né aveva mai costretto alcuna di loro a giacere con lui. Solo una era stata la sua compagnia, il suo sfogo e, in nessuno dei loro rapporti egli aveva mai avuto o voluto stabilire un qualcosa che andasse oltre il semplice contatto fisico.
Menta, la succube avernale che gli teneva compagnia nelle notti solitarie, aveva sempre rispettato questo distacco, d’altra parte ella, nel suo cuore infetto di demone, non aveva bramato altro che il sapersi la migliore fra tutte, la preferita del dio, al quale egli aveva promesso fedeltà. Ade non l’amava, non l’aveva mai nascosto, eppure gli bastava lei, non cercava altrove.
Non era il cuore che doveva soddisfare quando la cercava tra le coperte del suo letto.
Chino sul lavabo si puliva il volto con abbondante acqua e ad ogni abluzione sentiva il corpo raffreddarsi per ritornare al solito contegno di sempre.
Altri sentimenti esigevano soddisfazione, e la vendetta che tanto lo aveva spinto, adesso sembrava una sciocca scusa ripetuta come un mantra per celare a sé stesso la verità dei fatti: il suo cuore esigeva affetto, un affetto che nemmeno da bambino aveva mai potuto sperimentare.
Per questo, da quando aveva udito per la prima volta il vagito della piccola Kore, non aveva più osato sfiorare alcun essere femminile.
Per questo motivo da quando l’aveva vista in pericolo tra le braccia di quel fauno lascivo aveva reagito con ira e furia.

Persefone era già sua, il fato lo aveva sancito, e solo lui avrebbe potuto godere di quella pelle morbida, di quelle labbra schiuse e turgide.

Tiratosi su con il viso umido e con ciocche di capelli libere e sgocciolanti, era rimasto per qualche minuto ad occhi chiusi; le mani avevano artigliato il bordo del mobile con forza.
Aveva bisogno di recuperare la calma e il contegno.
Anche solo il ricordo di quel corpo caldo premuto contro il suo aveva innescato un circolo vizioso il cui esito era ben visibile all’altezza del suo basso ventre.
Avrebbe voluto essere calmo e focalizzato sul so compito ma la mente, ancora in balia di primordiali istinti, gli ricordava che Persefone era lì, nel suo regno.

A pochi passi da lui.

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Ricorda bene le parole di tua sorella, Estia! Non distrarti, non pensare ad altro, non lasciarti travolgere da nulla: hai una missione, portala a termine.
Dopo aver lasciato Era nei pressi del suo sacro tempio akragantino, Estia aveva ripreso il proprio cammino. Doveva raggiungere il fratello Ade negli inferi, doveva a tutti costi incontrare la giovane Persefone e recarle il dono della regina dei cieli; ma, questa volta, nessun richiamo l’avrebbe agilmente condotta al cospetto dell’altare avernale.
Doveva procedere con attenzione: raggiungere l’Averno non era una questione semplice per una divinità come lei, non psicopompa come Hermes o la divina Ecate.
Estia, dai! Non perdere tempo vagando col pensiero e con la vista!
La sua vocina interiore, quasi dittatoriale, le aveva imposto di correre alla ricerca del varco oscuro che le avrebbe permesso, non senza difficoltà, di penetrare la corte inviolabile del suo caro fratello.
Lo fai per Demetra, per poterle recare la notizia di un’unione felice. Almeno questo.
Estia, ancora baciata dal caldo sole dell’isola triskelion, aveva inspirato ed espirato profondamente: sapeva dove si trovasse l’ingresso nero, sapeva anche come raggiungerlo ma le sue conoscenze si fermavano lì; saper riconoscere la camera sacra del dio a poco serviva se non sapeva come arrivarci.
Quello che stava concretamente oltre quel varco non aveva mai avuto modo di vederlo coi propri occhi.
Per tale motivo, una volta raggiunta la spelonca, aveva dovuto farsi molto coraggio; non molti riuscivano a tornare da quel viaggio.
 
Dapprima un odore pungente, molto diverso dall’essenza di miele tipica del sacro tempio avernale, le aveva riempito le narici.
La puzza di zolfo, polvere e cenere era poi accompagnata da una quasi totale oscurità che la lasciava brancolante nel buio; più volte aveva rischiato di cadere rovinosamente al suolo per colpa della lunga veste che le ostacolava il cammino. Lungo la discesa accidentata non era difficile, infatti, imbattersi in pietre taglienti e rami spezzati e pieni di spine e, per questo motivo, aveva lasciato scoperte le gambe annodando alla bene e meglio i lembi della lunga veste alla vita: del resto non era invitata a un concilio né ad una celebrazione sacra; nessun’anima viva avrebbe osato criticarla.
Anche perché, lì, nell’Averno, di anime vive se ne contavano veramente poche.
Dopo alcuni momenti in cui l’angoscia e la paura, acuite dall’oscurità e dalla difficile situazione, avevano quasi portato all’abbandono dell’impresa, finalmente Estia aveva raggiunto una sorta di grande landa desolata completamente avvolta nella foschia; ben poco riusciva a scorgere oltre questa. Gli occhi, infatti, appesantiti dall’aria malsana e dalla nebbia, scorgevano un’immensa muraglia dalle fattezze impenetrabili stagliarsi contro un cielo nero illuminato da sporadiche e tenue fiammelle verdognole. Tutto il resto era precluso ai suoi formidabili occhi di dea.

Melograno, dono, Demetra, Persefone.

Cercando di tener bene a mente il punto della sua missiva in quel tetro luogo, aveva ripreso la marcia accompagnata dal rumore dei suoi passi cadenzati dallo scrosciare delle pesanti cavigliere dorate. Era stanca ma il frutto preziosamente celato sotto la veste doveva essere consegnato alla sua padrona.
Solo dopo secoli di marcia, almeno così le erano sembrati i momenti di brancolamento, era riuscita a scorgere qualcosa.
Udiva suono di acque chete e un leggero lamento di sottofondo, un lamento così basso da sembrare quasi il bisbiglio di un’antica litania; un brivido le aveva fatto venire la pelle d’oca quando era riuscita finalmente a vedere la fonte del rumore.
Poco più sotto rispetto alla sua posizione, celato alla vista da un dislivello di qualche metro, stava infatti un terribile nocchiero dall’aspetto vecchio e macilento; solo gli occhi rosso sangue riuscivano a distinguersi in quell’essere completamente bianco e quasi avvizzito.
Egli parlava con tono perentorio a una schiera di anime trapassante: ecco i lamentosi.
“Salite! Forza! Tenete in mano le monete, poveri disgraziati! Bene in vista e non fate scherzi! Anche se vecchio rimango sempre agile col bastone”.
Il traghettatore teneva con forza tra le mani rugose un lungo bastone che usava sia come arma che come strumento per favorire una più agevole navigazione. Il suo tono, sebbene non proprio materno, celava una certa pietà per quelle anime perse e spaurite: ogni tipo di essere era al suo cospetto, che fossero bambini, donne, uomini o anziani, erano tutti lì, vestiti di pochi stracci e con l’animo angosciato.

Caronte, il traghettatore avernale.

Eppure non sembra così spregevole. 

Estia, sempre più affaticata e desiderosa di raggiungere il fratello, aveva mosso dei passi veloci e, col fiatone, era riuscita a scalare il pendio raggiungendo alle spalle il traghettatore ancora intento a dare indicazioni agli astanti.
“Caronte? Siete voi, Caronte?”. La dea aveva cercato di richiamare l’attenzione del vecchio ma quello, forse perché sordo, forse perché fintosi tale, l’aveva degnata di uno sguardo solo dopo aver dato le dovute attenzioni alle anime dei trapassati.

Vecchiaccio.

Ignorata, Estia aveva incrociato le braccia al petto, attendendo pazientemente di ricevere le attenzioni di Caronte.
“Dea di superficie, noto”. Il tono burbero di Caronte l’aveva trapassata prima ancora del suo sguardo di fuoco.
“Dea di superficie ignorante delle nostre abitudini, affermo”. Caronte aveva fatto un passo verso la dea che, nel suo infinito imbarazzo, aveva calato il capo con fare reverenziale.
“Avete ragione, traghettatore, non conosco il vostro regno e le vostre abitudini. Vi chiedo scusa”. Umile, la dea aveva parlato con rispetto per però accorgersi troppo tardi che l’amabile vecchio era già sulla barca e la guardava torvo.

“E allora? Sbrigatevi! La morte non aspetta nessuno!”.
Zitta e nuovamente a capo chino Estia aveva preso posto accanto alle anime.
La traghettata non era stata la migliore della sua esistenza, per la verità non aveva mai usufruito di mezzi di locomozione così terrestri tanto che, una volta messi i piedi nuovamente per terra, aveva ringraziato il cosmo e la madre Gea.
Una nausea, un dolore fastidioso però le stritolava la bocca dello stomaco.

L’aria dell’Averno non è la più salubre per noi esseri di luce.

Tossendo e con una mano dinnanzi al volto aveva proceduto quanto più velocemente il suo fisico le permettesse: sentiva caldo e la lunga veste, anche se ancora annodata in vita, era fin troppo pesante.

Forza Estia, ci sei quasi.

Lo vedeva finalmente, il grande tempio nero si intravedeva da dietro l’arco della cinta muraria.
In uno slancio di gioia e felicità aveva iniziato a correre a perdifiato ma, il lugubre ringhio di una gigantesca figura canina a tre teste, l’aveva immobilizzata a pochi passi dal grande portone.
Lì, anche il suo corpo di dea aveva ceduto.
 
---


 
L’avevano richiamato dal presidio della sala dell’altare con urgenza. Il messo aveva riferito con agitazione di una presenza non annunciata bloccata da Cerbero all’ingresso delle mura; il fedele mastino di Ade, dopo l’ultima visita di Hermes, aveva ricevuto l’ordine di non permettere ad alcun dio di entrare senza il permesso del signore di quei luoghi.
Radamanto, imprecando a denti stretti, aveva immediatamente lasciato la sala e, con passo spedito, si era diretto alle mura presidiate dal cane avernale; Ade, ancora impegnato, non aveva fatto ritorno, dunque era di sua competenza sbrigare quella spinosa faccenda.

Dea svenuta, non sappiamo chi sia. Venite velocemente.

Il messo era stato poco chiaro ma del resto come avrebbe potuto biasimare la sua ignoranza se le stesse schiere divine, avendo in odio l’Averno, non vi avevano mai messo piede?
Radamanto odiava con tutto sé stesso avere a che fare con quei esseri superficiali, tutti fatti di ambrosia e lussuria.
Non li tollerava, la sua mente, così rigida e ligia al dovere, non concepiva delle esistenze così inutili all’uomo così come alle altre divinità serie e giuste come il suo signore Ade.
 
L’Olimpo e l’Averno erano due realtà fin troppo diverse per pretendere anche solo lontanamente di fare un paragone.

I capelli lunghi e completamente grigi erano tirati in una mezza coda che lasciava scoperto il viso; una smorfia di fastidio aveva fatto piegare gli angoli della bocca verso il basso.

Chi diamine era quella dea che, impunemente e senza il minimo invito, osava anche solo provare ad oltrepassare la cinta vigilata dal demone?

Aveva quasi raggiunto il gran portone quando due esseri evanescenti e lugubri dalle fattezze mostruose gli si erano fatti incontro.
“Radamanto, nostro signore, scusi per il disturbo”, il primo aveva parlato con voce quasi affannata e preoccupata.
“Cerbero ha segnalato immediatamente la presenza dell’estranea e noi non sapevamo come comportarci e-”, Radamanto aveva bloccato con un cenno della mano anche il parlottio indistinto della seconda sentinella e, nel farlo, non aveva mancato di scrutarli entrambi molto severamente.
“Abbastanza”, aveva zittito i due.
“Lei dov’è?”.
“L’abbiamo distesa qui, di fianco l’ingresso, ancor fuori le mura, signore”, a capo chino gli inservienti avevano indicato la direzione con il braccio.
“Potete andare, tornate ai vostri posti”. Perentorio aveva mosso dei passi nella direzione indicata.
“Bravi”. Aveva detto loro senza mai girarsi.
 
Aveva seguito la direzione indicata dalle guardie ma prima, subito dopo aver superato l’ingresso, aveva tranquillizzato il mastino a tre teste anch’egli agitato per colpa di quella intrusione; poi, con sguardo circospetto, aveva scrutato i fianchi del portone alla ricerca della fantomatica dea svenuta e, l’aveva vista.
Giaceva al suolo scomposta, le gambe erano scoperte mentre il viso, sporco e pallido, era incorniciato da una massa setosa e ramata.
Per qualche secondo il giudice era rimasto come immobile ad osservare quel corpo sgraziatamente abbandonato a sé stesso e alla fatica ma, anche così, l’aveva riconosciuta. Era lei, la dea dall’abito smeraldino che aveva visto danzare tra le fiamme delle torce del tempio del dio, suo signore. Era lei, Estia, che con la sua chioma rosso fuoco aveva travolto i suoi sensi portandolo ad allungare una mano sulla torcia per poter tastare con le sue stesse dita il piacere e la sofferenza di un fuoco caldo sulla pelle, dopo secoli di morte.
Si era inginocchiato al suo cospetto per poter meglio osservare quell’essere così solitamente focoso e ora invece freddo e smorto; non poteva lasciarla lì. Ade, il suo signore, non avrebbe potuto tollerare che la sorella rimanesse riversa al suolo abbandonata al freddo dell’Averno: lei era un’ospite e come tale avrebbe dovuto ricevere ogni riguardo.
Aveva allungato le mani verso quel corpo e, con quanta più delicatezza il suo corpo fosse in grado di ricordare dalle sue misere e umane esperienze, l’aveva presa tra le braccia facendo in modo che il suo pesante mantello ne coprisse gli arti nudi e graffiati.

“Estia, signora del focolare…”. Aveva parlato con tono basso proprio per evitare che quella, magari svegliandosi di soprassalto, potesse spaventarsi per colpa della sua presenza.

“Estia…”, quel nome gli bruciava la lingua.

Aveva mai chiamato per nome una dea o anche solo una donna? Non lo ricordava più.

Un mugolio da basso aveva richiamato la sua attenzione sul corpo di donna tra le sue braccia.

“Il melograno”, aveva bisbigliato in uno stato a metà strada tra l’incoscienza e il sonno.
“Come dite, dea?”, aveva assottigliato gli occhi sforzandosi quantomeno di leggere il labiale di quella parola che dalla divina veniva pronunziata con la forza di un leggero soffio.
“Il melograno, prendete il melograno, vi prego”. Questa volta l’aveva vista agitarsi e, nel tentativo di farla stare calma, l’aveva stretta ancora di più contro il suo petto.
“Vi ho udita, cercate un melograno, un melograno…”, aiutato dalla sua aurea ctonia, il giudice era riuscito a scorgere il frutto a qualche metro di distanza da dove la dea era stata accomodata.
“L’ho trovato. Ora state ferma”. Radamanto, perentorio, l’aveva rassicurata in tempo per vederla nuovamente svenire tra le sue braccia.
Recuperato il prezioso frutto si era avviato alla reggia del suo signore.

La dea giaceva svenuta e accucciata contro il suo petto;

al di là di quello non si udiva alcun battito.
 
L’aveva poggiata con ogni reverenza su un morbido triclinio nella cella antistante l’altare del dio avernale; il viso pallido non accennava a prendere colore mentre una mano longilinea artigliava come un rapace la veste sgualcita all’altezza della bocca dello stomaco.
Radamando non sapeva che fare.
Solo un imperativo gli dominava l’anima: doveva evitare che quella dea soffrisse senza colpa alcuna, perché lui l’aveva scrutata attentamente e quel viso da bambina cresciuta non poteva in alcun modo celare nefandezze o lussurie come gli altri esseri di superficie.

Ho bisogno del mio signore.

Fortunatamente il messaggio della dea sperduta era giunto celermente all’orecchio del sovrano che, affrettatosi nei suoi doveri, aveva velocemente raggiunto i suoi luoghi sacri.
“Radamanto!”. La voce grave del dio aveva riempito l’aria dell’ampia cella, una nota di preoccupazione gli incupiva il tono, solitamente già molto basso e cavernoso.
“Mio signore, ho portato vostra sorella qui, al sicuro presso il vostro tempio ma… Ma non accenna a stare meglio. Non apre gli occhi da quando l’ho trovata riversa al suolo”. Radamanto, nel suo solito tono glaciale aveva riferito l’accaduto al sovrano nei minimi dettagli.
Quello, udito il racconto, si era poi chinato leggermente sulla sorella per poterne studiare l’aspetto.
“Portatemi dell’ambrosia, giudice. Velocemente”. Non l’ordine ma il tono in cui esso era stato formulato avevano invitato Radamanto alla fretta.
Aveva rovistato presso l’altare e lì, in un’anfora sacra ne aveva trovata a sufficienza.
“Mio signore”, passatagli la brocca aveva osservato in silenzio il suo dio che, con molta delicatezza, aveva sollevato il capo della sorella per avvicinare le labbra bianche al bordo del contenitore.
“Estia devi bere”. La voce poco carezzevole del dio aveva impercettibilmente riscosso la dea.
“Estia, sciocca sorella! Bevi”. Agitato aveva fatto scorrere del liquido ambrato sulle labbra della dea che, una volta gustato, aveva cominciato a berne avidamente, ora più viva e colorita in volto. Sembrava come assistere al rifiorire di un fiore sotto il sole del mattino, più beveva più il suo volto riprendeva lucentezza e i suoi arti, così freddi e smorti, iniziavano a vibrare di luce calda.
“Estia…”, Ade, con un sorriso tirato le aveva accarezzato il capo con delicatezza.
“Fratello!”. La dea gli sorrideva mostrando i dentini bianchi, raggiante.
Proprio come se non fosse successo nulla.
“Siete una sciocca!” Ade, vedendola in forze le aveva allungato uno scappellotto sulla nuca esposta.
“Ade!”. Aveva urlato quella dolorante.
“Che diavolo pensavate di fare, incosciente! Non siete Hermes, non siete Ecate! Come potevate sperare che un viaggio nel mio regno non vi prosciugasse la vita? Stupida, potevate rimanere senz’anima!” Ade, ora visibilmente agitato, stava in piedi al suo cospetto, di fianco a lui il silenzioso Radamanto la scrutava con occhi gelidi; il suo era un volto glabro e solcato da rughe di biasimo intorno agli occhi e alla bocca ora corrucciata.
Proprio lui aveva cercato con lo sguardo e, come quando si viene folgorati da un ricordo, ella gli aveva rivolto la parola con il cuore in gola.
“L’avete trovato, vero? Il melograno, l’avete voi!?”, tiratasi a sedere di scatto aveva sentito come la stanza ruotarle intorno.
“Stai ferma Estia!”, aveva abbaiato esasperato il fratello e, dopo aver lanciato uno sguardo al suo fedele giudice, aveva alzato un indice verso di lui.
“Di che parla la somma Estia, Radamanto?”.
“Un melograno mio signore, mi ha chiesto di cercarlo al di là della cinta dove è stata trovata priva di forze”. Con il capo aveva fatto cenno al sovrano di guardare alle sue spalle.
Un melograno maturo era poggiato su un vassoio prezioso presso il suo sacro altare.
Dubbioso Ade vi si era avvicinato e dopo aver stretto il frutto tra le dita aveva guardato la sorella.
“Che mistero celate?”.
“Devo raccontarvi alcune cose caro fratello”.


--- 



Aveva ascoltato in silenzio il dettagliato racconto della divina sorella; un moto d’ira lo aveva pervaso nell’udire il trattamento riservato alla sua dolce Persefone da parte della regina dei cieli olimpici. Il fatto che fosse una regina non aveva fatto di sua sorella una persona regale nell’animo.
Aveva rifiutato appoggio e protezione alla sua ospite, aveva umiliato Persefone, aveva respinto le sue preghiere e, tutto questo, solo per rancore e vendetta verso il compagno e la sorella.
 
Tu non sei stato migliore di lei Ade, ricordalo.

No, la voce della sua coscienza sbagliava, era completamente diversa la situazione.
Lui aveva sognato quella dea, l’aveva vista soffrire tra le braccia lascive di un fauno bastardo, l’aveva osservata riversa al suolo cercare inconsciamente l’abbraccio della madre terra a mo’ di riparo; aveva ballato con lei e lei non l’aveva rifiutato.
Non l’aveva mai rifiutato se non dopo aver udito parole non vere sul suo conto.
Lui non era un violento, non era un dio fuori giustizia perché egli stesso la incarnava, a differenza di Era che, solo dopo aver parlato con Estia, riusciva a recuperare il senno.
Ma lui che sapeva, che aveva provato sulle sue spalle cosa significasse subire un tradimento, non poteva avere in odio quella sorella nemmeno volendo. Quella sofferente e addolorata aveva cercato di farsi giustizia da sé… Proprio come in principio meditava lui nel cuore.
“Quanto dite, sorella, mi fa ben capire quanto dolore covi nel cuore nostra sorella Era”.
Seduto sull’alto trono aveva ascoltato le parole di Estia che ora, nel pieno delle forze, non faceva che camminare avanti e indietro per la sala gesticolando.
“Estia!”. L’aveva infine ripresa.
“Se non la smettete di camminare mi farete venire il mal di testa!”, Ade aveva brontolato folgorandola con uno sguardo insofferente.
“Scusa Fratello, è che adesso vi è la parte fondamentale del racconto”. Ella aveva tirato su un bel respiro e aveva parlato solo dopo aver frenato gli agitati battiti del suo cuore.
“Era manda il melograno per la giovane Persefone, Un dono, ha sottolineato più volte, un dono per la dea e per voi fratello”.
“Per me? Un melograno? A cosa potrebbe mai servirmi un unico frutto della superficie in questo regno?”, nuovamente attento e rigido sullo scranno ascoltava le parole di Estia cercandone un qualche oscuro mistero.
“Il melograno è pianta sacra a Era nostra sorella, Ade. Ella lo dona a Persefone affinché ella, una volta interrato, lo asperga con le proprie mani: una fonte “pura” è richiesta affinché esso possa crescere nella sacralità di un’unione ben voluta. E’ un dono di nozze, fratello, ella dovrà mangiarne di sua sponte”.

Nozze.

Ade, interdetto, era rimasto per lungo tempo in silenzio.

Era, la cara sorella che era riuscita a muovere a compassione la dolce Estia, era furba, furba e malevola. Il dono che aveva offerto alla sua Persefone era molto più di una semplice benedizione.
 Un frutto coltivato nell’Averno vincola all’Averno.

Persefone sarebbe stata felice, Demetra, la sorella traditrice avrebbe perso la figlia.
In questo modo Era avrebbe avuto la sua vendetta senza nuocere ad altri se non alla sorella.
Lui poteva accettarlo?
Si, certo. Ma Persefone?
 
L’unico rumore che riempiva la sacra cella era il tintinnio delle cavigliere di Estia che, nervosamente, batteva il piedino contro il pavimento; un rumore fastidiosissimo che, sebbene da Ade fosse bellamente ignorato, logorava invece i timpani del suo secondo.
“Mia signora”, Radamanto, in piedi di fianco al suo sovrano, l’aveva guardata con fare truce, e tutto questo solo stringendo gli occhi in modo da formare una ruga di biasimo sulla fronte.
“Si, perdonatemi…?” Come risvegliata da sé stessa la divina Estia aveva rivolto lo sguardo caldo sul giudice che la stava rimproverando.
“Radamanto, mia signora”. Era un pezzo di ghiaccio.
“Perdonatemi Radamanto, non sono avvezza né alla freddezza né alla calma”, aveva sorriso quella.
“Se è per questo non lo siete nemmeno alla pacatezza e alla riflessione”, aveva mormorato quello a denti stretti.
“Come dite?”, accigliata aveva guardato il giudice con fare stupito.
“Avete rischiato la vostra essenza venendo qui senza avviso o invito”, e anche se non lo diceva ad alta voce era chiaro che Radamanto la stesse prendendo per sciocca e superficiale.
In silenzio, Estia aveva distolto lo sguardo, quasi punta da quella riflessione ma prima che suo fratello si ridestasse dalle proprie riflessioni, aveva nuovamente guardato il giudice negli occhi con un sorriso strafottente in volto.
“Allora la prossima volta sarete voi a farmi da guida”. Aveva sorriso impercettibilmente
Una scintilla aveva scosso il giudice ma prima che questi potesse abilmente mascherarla con qualche battuta acida, il suo sovrano aveva nuovamente preso la parola.
“Sta bene, Radamanto. Sarete voi la guida di Estia nei suoi prossimi viaggi verso l’Averno, ma ora, se volete scusarmi, devo pensare”. Alzatosi dal regale seggio aveva oltrepassato la sorella e il suo giudice e, giunto in prossimità dell’altare, aveva preso il frutto con una mano.
“Ringraziate nostra sorella da parte mia”. Aveva detto con un ghigno triste dipinto sul volto.
“Ditele che è perdonata ma che badi bene a non osare mai più trattare così la mia ospite”.

La mia regina.

L’aveva pensato con tanta intensità che per poco il suo cuore macilento non si era arrestato; come poteva mai Persefone accettare così su due piedi quell’unione se solo ora riusciva ad accettarlo come ospite?
Una risposta lo aveva folgorato.
“Il tempo sarà dalla vostra. Il melograno ha bisogno di tempo per attecchire con le sue radici”. Estia, di spalle, aveva soffiato quel consiglio.
Lui aveva risposto lugubre
“Nell’Averno non cresce nulla”.
“Ne sei sicuro, fratello?”.
Estia si era voltata, un sorriso sincero le rischiarava il volto.


---


 
“Se solo voi foste stata zitta a quest’ora io sarei a svolgere il mio legittimo incarico, invece che stare qui, con voi, a cercare una soluzione per i vostri colpi di testa scriteriati”. Radamanto, in ginocchio davanti ad un mobile, rovistava alla ricerca di un qualcosa.
Estia, piccata dalle parole arroganti di quel giudice, non era riuscita nemmeno mordendosi la lingua per stare zitta.
“Badate con chi state parlando, secondo”, aveva sibilato quella, offesa.
Radamanto toccato da quel rimprovero assolutamente fuori luogo, si era irrigidito rimanendo di spalle,
“Badate, divina, che questo non è lo sfavillante cielo sotto il quale vantate protezione, questo è l’oscuro Erebo; qui siete solo un’anima. Siete Voi a dovermi rispetto, perché io sono il giudice di questi luoghi”. Un’odiosa tensione si era creata tra i due.
“Bene allora, signor Giudice, aspetto voi e la vostra lenta ricerca. Se foste stato un giudice più attento non saremmo qui a perder tempo alla ricerca di un fantomatico qualcosa di utile che non trovate!”. Estia, questa volta pungente, aveva incrociato le braccia sul seno, aspettando la risposta furente dell’avernale; una risposta che non aveva tardato a giungere.
Quello infatti, furioso, non aveva esitato a girarsi verso la dea ma, essendo in ginocchio, il suo sguardo si era poggiato all’altezza della sua vita ancora bardata con la gonna troppo lunga; sotto quella si allungavano due gambe slanciate e sode che terminavano con due cavigliere.
Radamanto era rimasto immobile per molti secondi.

Da quanto in qua un corpo di donna era capace di scuoterlo a quel modo?
Erano solo due gambe, dannazione!

Sollevati gli occhi verso quelli verdi della dea aveva scorto una scintilla vibrante, un leggero imbarazzo che ora le colorava le gote di un rosso acceso; si era ritratta pochi secondi dopo.
“Tenete”, Radamanto, ora in piedi di fronte a lei e nuovamente rinchiuso nel proprio gelo, le aveva offerto due monete nere: una raffigurava una folgore, l’altra una sorta di elmo con un cimiero svettante.
“Cosa sono?” aveva chiesto quella, felice di distogliere l’attenzione dal demone.
“Monete, monete per Caronte. Mostrate la folgore e vi ricondurrà a casa, mostrate la kuneé e verrò immediatamente convocato dall’altra parte del fiume dei morti per scortarvi fin qui”. Radamanto ora le dava le spalle.
“Bene. Allora a presto, giudice”. Aveva parlato quella con tono solenne.
“A presto, dea di superficie”.

Estia non aveva potuto non notare il leggero scherno in quella voce solitamente glaciale.




 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Angoscia

Con il melograno ancora tra le mani, Ade rifletteva sulle parole della sorella Estia.
Da solo, nella sala del trono, aveva dovuto aspettare lo scorrere lento ed inesorabile del tempo prima di poter rimanere nuovamente con sé stesso, nel silenzio della mente ora irrimediabilmente distratta. Fino a quel momento non aveva fatto altro che accogliere, ascoltare e giudicare con severità e correttezza ma, nemmeno quel suo procedere così metodico e preciso era riuscito a conferire al suo animo la consueta lucidità e pacatezza.
Estia si era resa portavoce della regina consorte di Zeus, loro sorella Era, ma quello che Ade teneva  ben saldo nella mano destra era molto di più di un semplice “dono”.

Sorrideva, un ghigno quasi ironico gli incurvava le labbra sottili.

Un dono che cela una condanna, ecco la benedizione di Era.

Una vendetta sottile la sua, ma così ben congegnata che le avrebbe permesso di farsi giustizia da sé senza sporcarsi le mani.
… E a lui poteva solo stare bene un risvolto di quel genere, in fondo Persefone sarebbe stata legata a lui da un vincolo benedetto e rischiarato dalla calda luce del focolare domestico. L’Averno e il suo sovrano avrebbero potuto godere in eterno della presenza di quella dea che sapeva di vita e sole.

Ma lei?

Sebbene lo stesso Zeus avesse legittimato tacitamente quell’unione, permettendogli di varcare il luminoso mondo alla ricerca della sua signora, lei avrebbe mai potuto accettare un legame di quel genere? Si sarebbe mai vincolata di sua sponte, interrando, aspergendo con una fonte pura e, infine, ingerendo i semi oramai avernali di quel frutto?
Avrebbe mai detto addio alla madre per sempre?
Con una mano posta stancamente sulle tempie, Ade si arrovellava il cervello alla ricerca di risposte adatte a quelle domande insidiose.

Magari lei avrebbe accettato. Magari avrebbe scelto lui.

Un sorriso aveva per un istante illuminato il volto corrucciato del dio: in fondo lei aveva accettato di rimanere presso i suoi domini, lo aveva accolto come guida, aveva permesso che le sue labbra saggiassero quelle rosee e inesperte di lei.
Ma quel sorriso si era nuovamente spento dinnanzi a considerazioni ben più pregnanti di etica.

Etica?

Avrebbe mai potuto permettere che la sua Persefone soffrisse l’abbandono del tetto materno?

Un rantolo di sofferenza era sfuggito alle labbra arricciate del dio.

Quella non era affatto etica. Se il Fato era dalla sua parte, se le tre sacre signore avevano vincolato lo stesso Zeus con le loro parole di fuoco, se la stessa Era gli offriva su un piatto d’argento la scusa migliore per la celebrazione sacra, perché tutti quegli scrupoli di coscienza?

“Mio re”. Radamanto aveva fatto capolino da dietro la porta d’ingresso e con voce cupa aveva annunciato la presenza di altri dannati, ridestando in quel modo il sovrano perso nei suoi ragionamenti.
“Ancora?”. Il signore dell’Averno, stupito da tanto caos, si era alzato in piedi e con un balzo agile aveva raggiunto la porta per poter constatare egli stesso lo stato della situazione.
Uno stuolo non indifferente di anime occupava l’intero ingresso del tempio: rivestiti di stracci, vecchi, donne, bambini e uomini fatti lo guardavano spauriti, gli occhi spenti, le mani giunte in preghiera.
“Radamanto”, il tono del dio non era affatto rassicurante.
“Si, mio signore”.
“Mandate a chiamare Hermes, ho urgente bisogno di conferire con Zeus”.

---





 
Una volta varcata la soglia della sua camera, aveva immediatamente cercato di riguadagnare il contegno e il decoro miseramente persi tra le braccia di quel dio assurdo e passionale. Aveva respirato profondamente mentre, ancora con le spalle poggiate sulla porta, aveva posto una mano sul petto, all’altezza del cuore impazzito.

Persefone, che destino vuoi compiere?

Non aveva avuto il tempo di riprendere fiato e di rimettere in ordine i pensieri  che un cerchio di tenere fiammelle azzurre le si era fatto tutto intorno; inclinato il capo di lato e mossa da curiosità, aveva allungato un indice per sfiorarne una e subito aveva percepito come un guizzo provenire da questa.

“Chi siete, tenui fiamme che mi fate da corteo?”, la sua voce suonava incuriosita e leggermente titubante.
Magicamente un gruppetto di bambine, strane bambine ma pur sempre bambine, si era materializzato dentro la stanza. Alcune le erano particolarmente vicine, tanto da poterne osservare la pelle in parte deturpata o bianca come quella di un corpo morto, altre invece erano sedute sul letto, altre ancora la scrutavano la lontano con gli occhi socchiusi. 
Per poco non aveva perso un battito per la paura e le mani, prima protese verso la fiamma, ora erano ora poste sugli occhi a mo’ di schermo.
“Signora?”, una di quelle le si era avvicinata e le aveva leggermente tirato il peplo all’altezza della gamba.
Persefone, prendendosi di coraggio, aveva allora allargato le dita poste sugli occhi e, sbirciando le avernali poco per volta, iniziava ad abituarsi a quel loro aspetto inquietante ma stranamente non feroce. 
Colei che l’aveva richiamata strattonando la veste, evidentemente la più grande tra quelle, aveva continuato in un sospiro
“Noi saremo le vostre serve, nostra signora, siamo qui per soddisfare ogni vostra esigenza”.
“Io non ho alcun bisogno di servi”, aveva parlato la dea, togliendo definitivamente le mani dal volto e indirizzando un sorriso timido a quella che aveva parlato.
“Ho bisogno di fedeli ancelle che si prendano cura di me e sei voi tutte siete qui per aiutarmi allora anche io vi prometto di trattarvi con il riguardo che meritate”.
Persefone aveva infine sorriso apertamente mentre gli occhi, ora sereni, osservavano senza paura il piccolo volto deturpato della più grande delle ninfe avernali.
“Ma signora” una di quelle sedute per terra aveva parlato quasi con enfasi, rassicurata dalla dolcezza di quella dea.
“E’ bello vedere che non ci temete. Noi, così come l’intero Averno e il suo onorato signore, non siamo cattive o maligne. Non abbiate alcun timore di noi e del nostro aspetto. Si, è vero-“ quella aveva rivolto il viso altrove, mostrando una lunga cicatrice rossa che dal collo la segnava fino alla spalla destra,
“è vero, siamo un po’ distrutte e deformi ma siamo buone, fedeli e questo regno così oscuro ci ospita con amore, ci custodisce. L’Averno non è un posto spaventoso, semplicemente è sconosciuto ai più... Il fatto che però nessuno lo scorga non vuol dire che però non esista”.

L’invisibile che non si scorge ma che vi è sempre, il seme dietro il fiore, la radice sotto l’albero.

Quell’osservazione, espressa con cieco amore, aveva  riscaldato il cuore della dea.
Forse il Fato non era così imperscrutabile. Forse seguiva delle logiche oscure ma non per questo irrazionali. Ade, il sovrano dell’invisibile, poteva essere il degno compagno della vita esplosiva?
Le veniva da ridere e al contempo da piangere.

E sua madre?

Turbata aveva provato a prendere posto sul grande letto, affaticata da una serie di emozioni che le facevano ancora tremare le gambe, ma una bimba fiammella l’aveva prontamente dissuasa con una smorfia in volto, segno, questo, che le aveva riportato alla mente il “profumo” del mastino infernale ancora lì presente ad impregnarle le vesti.
Le ninfe dell’Averno, che avevano ben poco di cattivo, l’avevano scortata in una sala adiacente a quella in cui campeggiava un maestoso letto matrimoniale rivestito di lenzuola purpuree. Lì aveva scorto una grande vasca fatta d’avorio in cui avrebbe avuto modo di pulirsi, coccolata da quelle. Proprio grazie alle loro premure era riuscita infine a prendere sonno: merito del bagno caldo che le aveva rilassato i muscoli e dell’ottima ambrosia olimpica che le era stata servita poco prima di stendersi sul grande letto.
 



Oramai sola e con gli occhi fissi al soffitto aveva tentato di rimettere insieme i pezzi della sua esistenza: solo qualche mese prima la sua vita era quella di una piccola kore dei boschi e dei prati e ora, invece, veniva trattata con ogni riguardo da uno degli dei più temuti dell’intero pantheon.
Eppure, anche se in principio aveva avuto paura ella stessa di quell’essere così diverso dagli altri, alla fine aveva iniziato ad apprezzarlo, a cercarne lo sguardo nebuloso in ogni anfratto. Quel modo di fare, così severo e composto, risultava ai suoi occhi ancora più interessante dal momento che ora, solo dopo tempo, riusciva a intravedere un oltre.

La sua era stata una fuga poco convinta. Ecco.

La sua era stata una resistenza fiacca.

La paura dell’invisibile aveva a poco a poco lasciato posto a un’altra gamma di sentimenti che avevano preso vita sulla sua bocca schiusa e invasa dalle labbra esigenti e calde di lui.
Accucciatasi sul lato destro del proprio corpo aveva poi tirato le ginocchia al petto mettendosi in posizione fetale, con gli occhi stretti aveva pregato a mezza voce:

Madre, mi spiace recarvi tanta sofferenza. Tornerò presto, lo sapete. Voglio solo conoscerlo meglio, svelare il mistero che avvolge in spire nere il mio destino. Vi prego madre, siate forte.

E così, con gli occhi socchiusi, aveva lentamente perso consapevolezza di sé e del proprio corpo, sprofondando in un sonno ricco di sogni, regalo di un qualche genio benevolo che la consolava nella solitudine del talamo.
Vedeva come l’ombra delle sembianze della madre mentre questa, intenta a parlare con altre ninfe, gesticolava come suo solito, infervorata da un qualche racconto udito in lande desolate.
Immaginava poi l’altare materno abbellito da rami di ogni tipo di erba profumata mentre fiori variopinti regalavano alla vista della mente una visione rilassante e familiare.
Ricordava il vocio del suo corteo, i canti corali e le danze propiziatorie così come- e qui nel sonno aveva aggrottato le sopracciglia, infastidita- percepiva ancora l’insofferenza nei riguardi dei limiti imposti dalla madre;  sapeva che oltre il limitare del bosco avrebbe visto il lago Pergusa, eppure per raggiungerlo era sempre costretta a eludere la sorveglianza di Demetra e delle sue fedeli ancelle.  Aveva sorriso al pensiero del lago, luogo proibito eppure rifugio sicuro da occhi indiscreti e fastidiosi; lì era solita cercare la sola compagnia dei fiori e degli animali, lontana da ninfe e nutrici troppo apprensive.
Ma ecco che una stilettata al cuore l’aveva fatta fremere in quella via di mezzo tra il sonno e la veglia in cui si trovava.

Il lago Pergusa non era stato sempre riparo.

Lo sentiva distintamente dentro di sé, un battito primordiale che sapeva d’angoscia le martellava contro il petto.
Si sentiva come sfiorare da mani sporche e sudice mentre una voce roca le tormentava i timpani. Un brivido di paura le correva lungo la schiena al cospetto di un essere mostruoso per lascività.

Un satiro?

 Sì. In una visione che sembrava estranea al suo punto di vista lo vedeva chiaramente muoversi nell’oscurità delle frasche boschive alle sue spalle.
Chissà da quanto la seguiva, da quanto studiava i suoi movimenti con la speranza che facesse un qualche passo falso e lei, come una stupida, l’aveva fatto nel momento in cui, ignorando il divieto materno, aveva varcato il limite sicuro del parco sacro a Demetra.

“Kore, dolce Kore, che ci fai tutta sola in questo luogo? Lo sai che tua madre si infurierebbe se sapesse che sei qui?”

“Ti prego, non dirlo a mia madre, volevo solo guardare un po' più da vicino il lago”.

Ma che stava dicendo?
Perché il suo corpo e la sua bocca avevano parlato senza il suo consenso?
Dormiva, eppure viveva quelle sensazioni brucianti sulla sua pelle.
Quelle mani nodose e pelose sulle braccia candide, quell’alito fetido di vino alitato sul viso innocente: era così vicino al suo corpo da poterne leggere il bramoso desiderio negli occhi quadrati e iniettati d’alcool.
Era scappata come una furia gridando con quanto più fiato avesse in corpo. Invocava aiuto, cercava un riparo ma ecco che il lago, sordo alle sue sofferenze, la lasciava sola dinnanzi a quella bestia.
Solo quando quelle mani l’avevano nuovamente afferrata con violenza aveva mormorato una preghiera a mezza voce. Non chiamava la madre o le ninfe amiche, a dire il vero non aveva chiamato nessuno.
Eppure qualcuno aveva risposto.

Un dio oscuro, avvolto in una nebbia nera aveva messo in fuga il satiro perverso con un solo sguardo di brace e, sempre quel dio, velato alla vista, le si era inginocchiato da presso dopo che, allo strenuo delle forze, si era abbandonata al suolo accogliente.
Vedeva chiaramente ora, vedeva quel dio rivestito da metallo nero prenderla tra le braccia con una reverenza pari a quella dovuta  a un delicato stelo.
Lo vedeva come se lei fosse stata la spettatrice del suo stesso salvataggio.
L’aveva condotta presso all’altare materno e lì l’aveva delicatamente poggiata in terra perché trovasse riposo e conforto. Solo poco prima di venir lasciata aveva come percepito quel muro di nebbia diradarsi;  egli infatti si era sfilato un elmo, nero e finemente lavorato, dal capo, liberando una chioma ribelle e nera come ali di corvi.
Ade.
Ade?
Era lui eppure non lo era.
Era lui nel fisico, nelle fattezze, nei gesti.
Ma non era veramente lui: lo sguardo era vitreo.
Un soldato, un essere privo di anima, ecco quello che vedeva nello specchio del suo sogno.
Solo ora capiva perché quegli occhi l’avessero tanto tormentata nel silenzio della sua incoscienza.
 
 
Si era ridestata solo dopo ore di sonno profondo tanto che gli arti mollemente adagiati sul letto sfatto avevano leggermente tremato quando aveva ripreso conoscenza.

Doveva parlare con lui. Doveva scusarsi? Forse sì, avrebbe dovuto dal momento che l’aveva accusato ingiustamente di averla perseguitata nella realtà onirica quando invece quella era solo il riflesso di un fatto che lo vedeva eroe, vero eroe.

Dopo essersi stiracchiata aveva passato una mano sul volto pensieroso e, vergognosa, aveva scosso la testa da destra a sinistra biasimando la propria superficialità.
Richiamata dalle proprie riflessioni dal volteggiare per la stanza di un fuocherello azzurro, ecco che aveva parlato.
 “Ninfa, qual è il tuo nome?”,
“Emisu, mia signora… Sono incompleta”, tramutatasi in bambina avernale aveva preso posto di fianco a lei, in piedi. Un sorriso amaro aveva illuminato il viso della giovane che, quasi con naturalezza, aveva indicato sul proprio volto il motivo di quel nome. La parte sinistra del volto era completamente sfregiata da quelli che sembravano segni d’artigli.
“Emisu”, Persefone aveva guardato con premura la piccola ragazza e prima di poterle comunicare i propri desideri, si era alzata. Con gli occhi socchiusi e infreddolita, aveva cercato uno scialle con il quale coprirsi le spalle ma quando la ninfa le aveva indicato un peplo scuro adagiato sulla sedia ella aveva fatto no col capo.
“Cerco il mantello che avevo indosso”, aveva risposto la dea.
“Mia signora, certo”. L’avernale si era assentata un attimo per poi ricomparire con il mantello ripiegato tra le mani.
Vedendolo pulito Persefone aveva leggermente sorriso per poi però incupirsi non appena non era riuscita più a captare tra i meandri di quella veste il profumo del suo possessore.
“Emisu, dov’è il tuo signore in questo momento?”, la dea aveva ripiegato la veste e, poggiatala con cura sul grande letto, aveva infine deciso di indossare quella posta sulla sedia.
“Mia signora, il sovrano di questi luoghi giudica e regna dalla sala del tempio avernale ma ho avuto rigidi divieti sul fatto di lasciarvi aggirare per quelle zone in sua assenza”, mortificata aveva rivolto gli occhi al pavimento, timorosa d’aver offeso la sua padrona.
“Si, Ade mi aveva avvertita di questa possibilità-”, l’aveva rincuorata quella.
“Sta bene, lo aspetterò presso le sue stanze se avrete la bontà  di condurmici”.
“Certo”, la ninfa aveva risollevato il capo e con abile mossa si era spostata presso la grande cassettiera della camera.
“Che state facendo?”, dubbiosa Persefone l’aveva seguita.
“Vi preparo le vesti, mia dea”.
“Che vesti? Io possiedo solo la tunica bianca di superficie e il peplo blu che avete lavato pocanzi”. 
La ninfa le aveva fatto cenno di avvicinarsi.
“Mia padrona, il dio di questi luoghi rispetta ogni sacro vincolo dell’ospitalità”, e con quelle parole aveva aperto  l’anta rivelando uno stuolo di vestiti preziosi.
“Se volete incontrare il dio sarà meglio abbigliarvi in maniera solenne”.
 

---







 “Siete stato più lento della volta precedente, nipote. Devo forse immaginare una certa titubanza nel seguire gli ordini del padre degli dei nonché dei miei?”. Ade, ancora infastidito dalla volta precedente in cui il dio alato aveva osato paragonarlo al peggiore degli uomini perversi, aveva immediatamente fulminato Hermes che, ancora memore dell’ultima visita presso quei luoghi, mal sopportava l’idea di ritornarci tanto presto.
“Zio, sovrano dell’Ade, eseguo ogni ordine mi sia impartito, nessun rancore nutro verso voi e il vostro regno. So che siete e sarete un ottimo ospite, se è questo ciò a cui vi riferite”. Hermes, ora coi piedi leggermente sollevati dal pavimento, aveva risposto cercando con tutte le sue forze di non incrociare lo sguardo irritato e al contempo divertito di Ade.
“Zeus domanda il motivo di tale convocazione, sommo Ade”.
“Troppe anime bussano alla mia porta, troppi morti chiedono accoglienza tra le mura nere”.
“Veramente?”. Il tono del giovane dio sarebbe risultato falso anche all’orecchio più inesperto, sapeva egli, sapeva bene cosa stava sconvolgendo il mondo di superficie ma aveva deciso di tacere.
“Hermes, non osate prendervi gioco di me presso i miei altari sacri!” Ade, furioso, si era alzato dal nero scranno d’avorio e, mossi dei passi rapidi in direzione del nipote, l’aveva afferrato per una spalla e condotto di peso verso il grande portone nero dell’ingresso.
“Zio…” Hermes balbettava e quel balbettio aveva trovato muro nell’atteggiamento perentorio del dio furibondo.
“Guarda coi tuoi occhi, stupido e non osare ingannarmi!” Spinto fuori aveva assistito coi suoi stessi occhi verdi a uno spettacolo raccapricciante: da lontano, lontanissimo, oltre le mura, inizia a intravedersi una fiumana di gente disperata e  macilenta; i più fortunati avevano ricevuto degna sepoltura e potevano oltrepassare i fiumi neri ma gli altri, i più sfortunati, sarebbero stati costretti a vagare in eterno presso le spiagge dell’al di là.
Hermes, pallido in volto, aveva distolto immediatamente lo sguardo e, calate le spalle in segno remissivo, si era voltato non sopportando più quella distesa di disperazione.
“Vostra sorella, mio signore, vostra sorella Demetra”.
“Mi sorella cosa?” Ade l’aveva superato, incamminandosi nuovamente verso la sala profumata di miele, le spalle dritte sostenevano un capo leggermente inclinato verso il basso con fare riflessivo.
“Demetra ha perso la ragione: vaga come un’anima solitaria alla ricerca della sua bambina perduta sebbene sappia che ella è qui presso di voi in qualità di ospite. Ha cercato in lungo e in largo la sua kore, e perdendo quella ha perso anche il proprio nome e il proprio dono. Non fiorisce, non matura, anzi, avvizzisce sotto il peso di un clima che non le riscalda più la pelle”.
“Ha scatenato una carestia quella folle”. Una mano stretta in pugno si era scagliata contro il piano dell’altare facendo tremare le numerose libagioni ivi poste.
“Si, mio signore. Zeus tace ma in cuor suo spera e prega che voi possiate ponderare la vostra scelta. Se è veramente Persefone colei che desiderate, legatela a voi quanto prima in un vincolo legittimo e sacro. Fino ad allora Demetra non si darà pace e altri umani vi andranno di mezzo”. Hermes, stranamente serio, aveva parlato con un tono di voce basso, troppo basso per un ragazzo della sua indole.
“Perché, dopo? Ella non sarà mai favorevole a queste nozze! Continuerà questa folle battaglia con l’unico obiettivo di impietosire la figlia e mettere alle strette il fratello Zeus. Senza umani noi non esistiamo, Hermes”.
Ade, ora a capo chino e con le mani strette sul bordo dell’altare, gli dava le spalle.
“Ebbene, riferisci al tuo signore che le mie intenzioni permangono senza mutazione alcuna. Persefone sarà mia e se egli non ritiene opportuno ostacolare il folle agire della sua compagna, bene, che faccia pure! Il mio regno può ospitare tutti, anche voi dei di superficie”, le ultime parole sembravano trasudare veleno.
Hermes, trasalendo nell’udire quella minaccia, aveva distolto lo sguardo dal corpo dello zio e aveva mosso dei passi verso l’uscita.
“Siete congedato. Aspetto celeri risposte. Per quanto riguarda Demetra, vedrò anche io di parlarle: quella stupida deve capire che al Fato non ci si può opporre. Proto, Lachesi  e Atropo sono state chiare: una luce in cambio  di una luce, un sacrificio per un sacrificio”.
“Ma voi siete sicuro che Persefone sarebbe d’accordo con voi qualora venisse a scoprire quanto soffrono gli umani per il dolore della madre?”, Hermes adesso lo fissava con sguardo cupo.
“Non è il caso che Persefone sappia in questo istante. La metterò io stesso al corrente non appena avrò parlato con Demetra”.
“Avete paura di un no come risposta?” .
Ade aveva irrigidito la schiena già di per sé contratta.
“Ella non può dirmi no”.
“E se lo facesse? Se vi pregasse di restituirla alla madre?”
Aveva sospirato pesantemente e solo dopo qualche secondo quelle parole erano uscite dalle sua labbra a mo’ di bisbiglio.
“In quel caso sarebbe libera d’andare”.
Dopo aver congedato Hermes si era diretto velocemente nelle sue stanze. Radamanto avrebbe preso il suo posto mentre lui, pervaso da un’ira e da un dolore angosciante, avrebbe tentato di riconquistare la pacatezza del suo spirito. Si sentiva braccato, accerchiato, col fiato sul collo. Ogni volta che all’orizzonte sembrava delinearsi una soluzione ragionevole ecco comparire immediatamente qualche problema pronto a stroncarla.
L’aveva detto, infine l’aveva ammesso con se stesso al cospetto del nipote alato.
Avrebbe lasciato Persefone per un bene maggiore. Avrebbe liberato la dea da quel vincolo imposto dal Fato e nuovamente, da solo, avrebbe subito il peso di quel regno che già da lungo tempo gli gravava sul cuore affaticato.
Avrebbe voluto spaccare qualcosa, distruggere il mondo che lo circondava per sfogare quell’amarezza in cui stava annegando il suo animo.
Gli scoppiava la testa e il corpo, rigido e freddo, bramava solo un contatto, una carezza.

Ade che brama una carezza? Ma non ti vergogni stupido dio? Non vedi come anche il Fato si beffa di te? Non affezionarti, quella dea non lo farà, non sacrificherà nulla per te.

Doveva parlarle? Raccontarle quanto stava avvenendo in superficie? Narrarle del pomo di melograno?
Aveva bisogno di un bagno, di rilassare quel corpo rigido e dolorante e distogliere i pensieri da quell’angoscia  che lo tormentava.

Poi avrebbe deciso.

Aveva appena imboccato la porta quando la speranza di ritrovare la pace l’aveva completamente e nuovamente abbandonato per lasciare il posto a bile nera.
I suoi occhi stanchi si erano soffermati sulla figura di donna stesa tra le lenzuola.
La succube stava mollemente stesa sul letto, nuda e con le gambe lunghe e sensuali leggermente divaricate: era chiaro ed esplicito quale desiderio la incendiasse. Ella aveva sorriso leccandosi le labbra con la lingua, intrisa di lussuria e voluttà lo invitava a giacere con lei, a consumare quella folle passione che le sconvolgeva le viscere nere.
“Padrone”, aveva mormorato languidamente, mentre una mano artigliata accarezzava il seno nudo per poi scendere impudentemente verso il centro del suo corpo esposto alla vista del dio. Ade, fermo sull’uscio non aveva osato muovere un passo oltre. Le spalle contro la porta erano rigide mentre gli occhi, persi nel vuoto oltre la figura della demone, erano foschi, incupiti, quasi incattiviti; non una stilla di desiderio brillava in essi.
“Menta-”, il tono era incolore.
“Non osare mai più varcare le mie camere senza il mio permesso”. Con occhi brace ora si mostrava nella perentorietà tipica della sua essenza avernale. Una nube oscura, la sua anima tormentata, ora lo avvolgeva, stritolandolo nella morsa dell’ira.
“Perdonatemi, mio signore”, Menta aveva mormorato con fare pentito anche se non un muscolo del suo corpo si era mosso dalla posizione provocante in cui si era lasciata trovare stesa su quel letto; forse pensava che egli scherzasse, che la furia fosse solo il motivo con cui quella volta l’avrebbe posseduta.
Menta aveva continuato a stuzzicarlo.
“Padrone, è molto tempo ormai che evitavate la mia compagnia”, ora la mano era nuovamente a tormentare un capezzolo,
 “speravo solo, magari, facendovi una sorpresa, di attirare la vostra attenzione visto che la dea di superficie non soddisfa il vostro desiderio”, Menta si era tirata sulle ginocchia e, con un atteggiamento a metà strada tra quello di una supplice e quello di una donna bramosa, aveva esposto il suo corpo allo sguardo di brace del dio.
“Si vede sul vostro viso che soffrite, lasciate che io vi dia pace, come i tempi passati”. La coda demoniaca oscillava lentamente.
 “Menta”. Questa volta la voce del dio, spettrale e cavernosa, le aveva scatenato un brivido lungo la schiena; la succube sentendosi appellare in quel modo, si era leggermente tirata indietro.
“Tu, demone lasciva, come osi mostrarti al mio cospetto, al cospetto del tuo dio, senza vergogna anche quando egli ti mostra la sua ira?. Ti sono rimasto fedele non per affetto ma perché questa è la mia indole, ma tu stessa sapevi bene che non per affetto da parte mia, e non per passione, non per amore o desiderio, ma solo per brama di potere e vanità voi giacevate con me nel mio letto. Nessun legame ci vincola, nessun affetto ci lega. Le parole che dici, la mancanza che affermi sono falsi come falso è il tuo aspetto e la tua indole. Non permetterti mai più”. Ade, ancora fermo dinnanzi a lei, aveva parlato con calma, sebbene il volto mal celasse quel bruciante fastidio nel vederla così sfrontata al suo cospetto. Ella non aveva motivo di essere lì perché non da giorni, non da mesi, ma da anni egli non aveva più osato toccarla; più precisamente da quando i suoi sensi, persi nel buio del sonno, avevano captato in lontananza il vagito della sua dea.
“Al cospetto della dea che bramo sentite il vostro potere venir meno: badate bene Menta, che sia la prima e l’ultima volta in cui osate frapporvi tra me e la dea che bramo.”

Chiaro, secco, terribile.

La succube, impaurita da quelle parole si era alzata con lentezza, non un filo di vergogna aveva trapassato quel volto impudico e quel corpo esposto. Si era rivestita non proferendo alcun verbo mentre un viscido e verde odio le risaliva alle labbra.
Sapeva perché Ade la rifiutava, anzi ben conosceva la profezia dello Stige: egli avrebbe avuto una luce in cambio di quella persa. Preferiva, a lei una divinità della superficie stupida e ingenua. E lei, per onore, per rabbia e invidia, si sarebbe vendicata.

Perché un conto è venir rifiutati senza alcuno che prenda il nostro posto, altro invece è vedersi sostituire.

Forse non sarebbe servito molto, forse sarebbe bastato che quella insulsa dea la vedesse uscire dalle camere del signore dell’Averno poco vestita.
Proprio come era appena accaduto.
 


---






 A pochi passi dalla grande porta, ingresso degli appartamenti di Ade, ella aveva visto tutto. Una succube avvenente e rivestita con pochi lembi di tessuto era uscita trafelata dalla camera di quel dio di cui fino a poco prima aveva sentito elogiare la fedeltà.
 
Stupida, stupida Persefone!
 
Addolorata aveva stretto tra le mani il mantello di Ade, mantello che si era rivelato essere il pretesto di una visita e che invece l’aveva condotta dinnanzi a una terribile verità: era vero, le parole pronunciate dalle ninfe nei pressi del lago erano veritiere. Ade sul serio amava intrattenersi con succubi avernali mentre lei, stupida e ingenua, sarebbe stata solo il premio di una vendetta agognata da tempo.
 
Vicino a lei la piccola fiamma Emisu aveva assistito alla scena, non un guizzo  e, una volta trasformata, non una parola era uscita da quelle labbra spaccate e rovinate.

“Mia signora, tutto bene?” aveva chiesto quella stupendosi della rigidità del corpo della compagna al suo fianco.
Persefone era pietrificata.
“Mia signora?”, aveva insistito quella, questa volta rivolgendo lo sguardo attento e indagatore sul viso della dea.
Quella era pallida e con le mani piccole stringeva con forza il mantello, ora ridotto a uno straccio mal ripiegato.
“Chi è colei che abbiamo appena visto uscire dagli appartamenti del tuo  signore?”, piccata, aveva proferito quelle parole con sofferenza, come se le fossero costate prezioso fiato.
“Menta, la succube un tempo preferita dal sovrano”.

Pugnalata al cuore.

Eppure non vi era preoccupazione nella voce della ninfa, non un filo di rancore o sorpresa per quanto aveva appena visto.
 
Che fosse una consuetudine?
 
“Perché era nelle camere del sovrano?”, aveva continuato quella impassibile.
“Non so, ormai è tanto tempo che il dio non ha nessuna compagna”, Emisu aveva cercato la mano della dea in quel caos di stoffa appallottolato contro il suo petto.
 
“Perché non chiedete voi stessa? Del resto eravate venuta per conversare con lui”.

Perché la ninfa mostrava quella calma quasi apatica mentre lei non faceva che sentire le viscere strette in un pugno di fasci e nervi accavallati e doloranti?

Emisu, capendo il motivo del silenzio della dea, aveva risposto:
“Mia signora, se Ade fosse anche lontanamente il dio che ora temete allora questo regno sarebbe già collassato su sé stesso secoli addietro. Troppa corruzione varca queste mura perché non ci si possa fidare nemmeno del dio che lo regge”.
 
Un rimprovero? Emisu, la timida, la stava rimproverando con tono distaccato sebbene lo  sguardo, fiero, non faceva che scrutarle l’anima attraverso gli occhi.
 
“Se volete veramente conoscere questi luoghi fidatevi esclusivamente del dio che li governa. Non date adito a pettegolezzi, non credete agli occhi, spesso ingannati da ciò che si mostra in superficie.  Non fidatevi delle prime impressioni. L’Averno segue regole strane ma non per questo illogiche. ”

Ma qual era la logica nella gelosia che ora le attanagliava lo stomaco?


 “Il sole abbaglia coi suoi raggi e crea allucinazioni, mia signora. La notte senza luna suscita paura e intimorisce la mente di chi si perde nel bosco.
Solo l’uomo di ragione, fedele a sé stesso, sa sopravvivere a entrambe le situazioni”.
 
Tramutatasi in piccolo fuocherello Emisu l’aveva lasciata sola a pochi passi dalla porta della camera del dio.  
 
Doveva respirare. Affrontare quel serpente velenoso che l’aveva morsa.

Aveva camminato velocemente e solo  davanti la porta nera aveva esitato un momento prima di bussare.
 
“Avanti”.

Dal di dentro la voce di Ade aveva risposto quasi meccanicamente, come assorta.
Ella allora aveva schiuso leggermente l’uscio e, in silenzio, aveva sbirciato dentro prima di fare qualche altro passo.
Lui era lì, a pochi passi da lei, chino su uno scrittoio pieno di carte. Il fuoco caldo di un camino illuminava il corpo del dio parzialmente svestito: il chitone nero infatti giaceva scomposto sui fianchi ora cinti esclusivamente dalla corta gonna della veste. Il sovrano non aveva minimamente sollevato il capo dalle carte.
 
“Signore”, in imbarazzo la dea era rimasta ferma sulla soglia, amareggiata.

Perché era mezzo svestito? Perché? Sciocca Emisu.
 
Gelato nell’udire quella voce, Ade solo in quel momento aveva distolto lo sguardo dallo scrittoio e con un’espressione sorpresa le aveva fatto cenno di accomodarsi.
“Persefone, mia signora,  perdonate l’indecenza. Non aspettavo una vostra visita, soprattutto in questi luoghi”.
“E da chi altri allora l’attendevate?”, a mezza voce ella aveva mormorato piccata.
“Perdonatemi?”, stupito da quella risposta e, ancor di più dal malcelato disprezzo dietro quella, il dio aveva incrociato le braccia sul petto, mettendo ancor di più in bella mostra un fisico statuario e asciutto.
“Ero venuta a riportarvi questo e a ringraziarvi della vostra cortesia ma sfortunatamente-“ e lì aveva posto l’accento,
“sfortunatamente ho avuto modo di notare che certe delicatezze non le usate solo nei miei riguardi”.
 
“Persefone”, il tono di Ade ora era leggermente infastidito.
“Vogliate farmi la cortesia di entrare e poi di formulare chiaramente la vostra accusa. Non sono avvezzo alle circonlocuzioni sfiziose della superficie”.
 
Quella aveva mosso dei passi dentro la stanza e, con un po’ troppa forza aveva chiuso la porta alle sue spalle.
“Ho visto la vostra succube uscire dai vostri appartamenti e sebbene la dolce Emisu fosse assolutamente certa della vostra buona fede io invece ne dubito dal momento che vi trovo svestito a pochi passi dal letto sfatto”.
Aveva gettato contro il dio il mantello stropicciato e con rabbia aveva distolto lo sguardo.
“Stupida io che appena ho indossato il mantello ho sentito la mancanza del vostro profumo”. Sentiva le lacrime premere per uscire ma non si sarebbe umiliata ulteriormente al cospetto di quel dio bugiardo.
 
Era gelosa. Dannatamente gelosa.

 Lo sentiva nella voce spezzata, lo vedeva nei gesti frenetici delle mani, e gli occhi, solitamente di un caldo miele ora invece erano elettrizzati come due folgori.

E lui avrebbe messo alla prova quella gelosia benefica per il suo povero cuore.
 
Era bellissima.

“Siete una stupida Persefone”, severo aveva nuovamente  distolto lo sguardo per tornare a concentrarsi sui fogli sullo scrittoio.
“E’ tutto qui quello che avete da dire in vostra difesa?”. Furente la dea aveva mosso dei passi nella sua direzione sempre però rimanendo a una distanza di sicurezza.

Bramava lo scontro, desiderava la verità.
 
Silenzio. Il dio non la degnava di uno sguardo.

Solo dopo  qualche secondo di quella terribile tortura si era decisa a farsi più vicina a quell’essere mezzo nudo e chiuso in un ostinato silenzio.
L’aveva afferrato per un braccio e con prepotenza ne aveva richiamato l’attenzione.
“Io non ho nulla da dire perché non ho nulla da nascondere. Avete visto Menta uscire dalle mie camere e per l’ennesima volta mi considerate pari a quel balordo di Zeus. Se voi non avete fiducia in me, quella è la porta”. Due occhi spenti, così simili a quelli del dio del suo sogno,  avevano folgorato la dea che, quasi scottata, aveva mollato la presa sul suo braccio.
“Vi ostinate a recitare il ruolo del soldato giusto e irreprensibile e così avete perso l’anima. Non avete dei sentimenti? Se è vero che il nostro fato è legato e in nome di questo mi avete salvata dalle grinfie del satiro, come fate a non percepire il mio dolore?!”.
Con lacrime che le rigavano il volto Persefone si era voltata e con le spalle leggermente incurvate aveva cercato di nascondersi alla vista del dio.
 
Ade, interdetto, aveva alzato la voce:
 “è proprio perché ho un’anima che non ho potuto far altro che seguirvi in quel dannato bosco in barba ai divieti di Zeus. È proprio perché ho un’anima che vi desidero come l’ambrosia… E’ perché ho un anima che soffro al pensiero che voi non vi possiate fidare di me e della mia parola-”  aveva urlato e, come quando ci si sfoga di ogni malessere, aveva continuato,
 “Non ho mai giaciuto con nessuno da quando nella mia di mente è risuonato il primo pianto di una bambina venuta al mondo sotto i raggi luminosi di Selene. Nessuno ha mai osato, prima di oggi, varcare le mie camere senza il mio permesso. Non per il Fato, lo Stige o le tre signore vi ho salvata dalla grinfie di quel bastardo ma perché soffrivo fisicamente il vostro stesso dolore e ho desiderato con tutto me stesso farvi da scudo contro il male. Persefone-“ due mani calde si erano poggiate sulle spalle di lei, coperte solo da un sottile velo di tessuto color porpora.
“Persefone dubitate ancora di me quando per voi mi metterei in ginocchio ora stesso giurandovi fedeltà?”.
Con una leggera pressione l’aveva fatta voltare verso di sé e prendendo il viso tra le sue mani l’aveva guardata negli occhi.
“Dovete fidarvi di me Persefone, solo di me e delle mie parole, per nessun motivo al mondo oserei venir mento alle mie promesse”.
“Mi dispiace” aveva mormorato la dea in lacrime ma col cuore stranamente più leggero.
 
“Anche a me”.
 
Persefone l’aveva abbracciato con forza nascondendo il viso contro il suo petto.
 
Si era solo lavato, profumava di buono. Le era mancato sentirlo addosso.
 
Sciocca, sciocca Persefone.












L'Angolo di Avareil
Ciaooo a tutti! Risorgo dalle mie ceneri! Sono stata in viaggio e ho perso un sacco di tempo tra i preparativi alla partenza e la sistemazione al ritorno ehehe^^ Ma ora sono qui!
Spero che il capitolo vi piaccia, è un pò riflessivo/introspettivo ma era necessario ai fini della storia.
Grazie sempre a tutti coloro che mi seguono in questa meravigliosa follia.
Grazie a chi recensisce, grazie a chi mi segue e anche a chi semplicemente legge.
E... Io ve la sparo così: la storia esiste, la linea principale esiste ma...Perchè non lanciate qualche prompt? Nel senso, ho sempre amato poter parlare coi lettori per capire cosa si aspettano o meno quindi penso che sarebbe divertente riuscire a mettere sul tavolo anche qualche vostra fantasia se si presta alla storia!

Io sono qui ;)
A Presto 
Avareil

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Quando la verità fa male

Erano oramai ore che Estia stava mollemente adagiata sul triclinio rivestito di morbida lana, cullata dal sentir sulla pelle lo sfrigolare del fuoco a pochi passi da lei, scoppiettante dentro un immenso braciere.
Gli occhi chiusi, i capelli sparsi sul cuscino, un braccio sul viso a mo’ di schermo per la luce calda: sembrava riposare placidamente, sprofondata in un sonno ristoratore ma, invece, in alcun modo riusciva a placare l’animo turbato da pensieri tetri.
Avrebbe voluto sentirsi  in pace con sé stessa: del resto era riuscita a muovere a compassione la sorella Era e a guadagnare per la giovane Persefone un dono di nozze santo ma, qualcosa dentro di lei, nella profondità del suo essere, era inquieta.
 
Oramai da giorni  non riusciva a rintracciare Demetra in alcun luogo.
Il suo richiamo si era perso in lande deserte, infranto contro scogliere rocciose, aveva persino raggiunto i confini della terra ma tutto era stato vano; non l’aveva trovata da nessuna parte. Sembrava come cacciare una preda abile nel nascondersi: ogni volta che le si avvicinava grazie a una qualche traccia, quella spariva in chissà quale luogo, facendo perdere ogni segno del suo passo.
Eppure lei avrebbe solo voluto consolarla, abbracciarla, dissuaderla dal compiere gesti folli prima che la sconsideratezza e il dolore, prevalendo sul buon senso, causassero ancora più danno e distruzione di quanto non si fosse già compiuto; ai confini della terra, infatti,  tutti gli esseri di superficie iniziavano a intravedere le conseguenze di quella sofferenza: nessun germoglio aveva più la forza di crescere, nessuna radice recava più alcun nutrimento e questo, nel giro di poco tempo, sarebbe stato il motivo dell’estinzione dell’intera razza umana.
Sarebbero bastati solo pochi mesi e quelle distese floride di campi e prati verdi si sarebbero tramutate nel fantasma di loro stessi: erbe marce, campi appassiti.
 
Ancora più angosciata si era alzata dalla morbida seduta per recarsi con passo tintinnante verso l’altare della sua sacra dimora: un tempio piccolo il suo, accogliente e profumato, eppure completamente vuoto. Non una ninfa le faceva da corteo, non un essere si aggirava per quelle stanze profumate di zagara e cenere; era sola e sebbene questo fosse il frutto di un suo desiderio espresso in giovane età al fratello Zeus, ora, invece, ne sentiva tutto il peso sulle spalle.
 
A volte invidiava Demetra.
 
A volte invidiava Era.
 
E quelle, anche  nel loro immenso dolore, non avrebbero mai sostituito la loro sorte con la sua, non avrebbero mai scambiato la maternità con una solitaria vita fatta di fiamme e silenzio e, il paradosso di tutto questo stava nel suo dono: santificare la casa, il ritrovo familiare, ospitare e riscaldare gli amati membri della famiglia - lei che di famiglia non ne avrebbe mai potuta avere una.
 
Un sorriso amaro le aveva incurvato le labbra mentre, pensierosa, si era ritrovata a passeggiare intorno al grande braciere dalla forma circolare. Con la mente trasportata altrove aveva immaginato di tenere un bimbo tra le braccia e con questo di girare intorno al fuoco cinque volte prima di proclamarlo “figlio”.  Aveva riso amaramente: ne aveva visti a bizzeffe di riti di quel tipo, riti in suo onore, e ogni volta un leggero fremito la portava a distogliere lo sguardo sognante.
 
Chissà cosa voleva dire amare qualcuno più di sé stessi, essere un’amante, una moglie… Una madre.
 
Lei non avrebbe mai compiuto quel rito per sé stessa e quelle dannate cavigliere d’oro sonante ne erano il costante memorandum.
 
Ritornata alla triste realtà si era poi allontanata dal fuoco, l’attenzione ora captata da due oggettini abbandonati sull’altare: le monete dell’ Erebo giacevano disordinatamente come se qualcuno le avesse gettate lì con mal grazia.
Indispettita con sé stessa - non era mai stata amante del disordine-  aveva allungato una mano per prenderle.
Non sapeva quando e se avrebbe nuovamente avuto occasione di recarsi in quei luoghi oscuri, solo si  limitava a sperare con tutto  il cuore che la nipote potesse essere abbastanza forte da sopportare quel legame così bizzarro eppure così logico secondo la natura oscura dell’Erebo; si augurava con tutta sé stessa che i due fratelli, mossi entrambi da logiche pretese, potessero infine giungere a un compromesso e, in quel senso, il melograno di Era sembrava l’unica soluzione possibile.
Vincolare Persefone all’Averno di modo che Demetra non la potesse più sottrarre al fratello, questo era il bisogno;  Ade poi, nella sua grandezza, non avrebbe mai impedito alla sua signora di recarsi in visita alla madre.
 
Fortunatamente aveva discusso con la regina, fortunatamente aveva ottenuto il dono e, fortunatamente non l’aveva smarrito lungo il  cammino, o meglio, fortunatamente qualcuno l’aveva ritrovato prima che fosse troppo tardi.

Il solo ripensare a quel soggetto le aveva messo i brividi, e non brividi di paura o ammirazione quanto piuttosto di disprezzo: come osava quel giudice trattarla con superiorità e arroganza? 
Una bambina, così l’aveva trattata, da bambina capricciosa e sciocca.
 
Dannate sembianze androgine! Non potevo essere più alta come Era? O formosa come Demetra?
 
Ma che stava dicendo?
 
Perché desiderare sembianze diverse per compiacere qualcuno?
 

Voleva compiacerlo?
 
In una baraonda di pensieri assurdi Estia aveva sgranato gli occhi tenendo ben stretta nella mano destra la moneta raffigurante la kunée.
 
Quello era un giudice, trapassato da tempo inoltre e con ancora la morte dipinta sul volto pallido e freddo, i capelli poi, grigi e lunghi ne incupivano ancora di più le sembianze; non era bello come un dio, affatto!
 

Estia, non fare la stupida, non hai mai visto un uomo morto riesumato a nuova vita per volere degli dei?
 
Radamanto era stato scelto da Ade in persona che lo aveva premiato per la sua fierezza e correttezza, e quando quello era stato ucciso proprio per colpa di quella sua estrema correttezza e serietà, Ade non aveva potuto far altro che accoglierlo nel suo regno e onorarlo con la carica di primo giudice di fianco a Minosse e Eaco.
Tutti conoscevano quella storia eppure sempre tutti ignoravano l’umanità seppellita in quel regno di morte, preferendo distaccarsene con la scusa di fantomatiche mostruosità ivi compiute.
 
Ma poco era vero di quanto si diceva.
 
Caronte ad esempio non era il terribile nocchiero narrato nelle storie: ella ricordava chiaramente la pena in quegli occhi vecchi e sanguigni quando al suo cospetto non uomini malvagi ma bambini si erano mostrati; che poi avesse un brutto carattere era un altro paio di maniche.
 
Aveva sorriso al ricordo di come era stata trattata da quel vecchiaccio, eppure quell’aria le mancava. Non la puzza o i lamenti ma quello che vi era dopo: l’aria serena delle anime giudicate mandate a scontare il resto della loro vita in qualche luogo dell’Ade perché mai, dopo il giudizio avernale, aveva sentito urla o lamenti.
 
Magari per questo motivo Ade aveva scelto proprio quell’ uomo per giudicare in sua assenza: all’incirca di trenta anni umani, mascherati da un aspetto logoro fatto di capelli grigi e rughe marcate in una costante espressione di serietà, si ben prestava ai principi di giustizia avernali, severi e insovvertibili.
 
Ma perché pensava a Radamanto?
 
 Perché ancora sentiva su di sé quello sguardo, a metà strada tra lo sconvolto e l’imbarazzato, indirizzatole quando si era ritrovato faccia a faccia con le sue gambe semi nude?
 
Magari potrei andare a controllare di persona. Potrei osservare cosa avviene presso la sala del trono, del resto Demetra da lungo tempo è assente, temo ripercussioni ben peggiori di quelle riferite.
 
Estia, ma che diavolo ti passa per la mente? Spiare un giudice?
 
Io voglio solo vedere cosa succede nell’Averno, per sicurezza.
 

Non andrò allora, mi limiterò a osservare, da lontano.
 
In una lotta interiore tra sé e la sua parte logica e razionale  aveva infine deciso di guardare tra le fiamme del suo braciere, con la moneta infernale ancora in mano sperava di riuscire a captare qualcosa al di là del caldo fuoco.

“Un fuoco sempre vivo si cela in quel tempio ed io, Estia, che non ho alcuna effigie, mi specchio in quelle  fiamme perché io sono il loro simbolo”.

Una preghiera pronunciata a mani giunge dinnanzi al suo braciere con la moneta sacra ancora tra le mani ed eccola proiettata tra le fiamme: i suoi occhi si erano persi in un caotico fiume di fiamme e lingue rosse e solo dopo molti secondi si era infine ritrovata in quei luoghi così vagheggiati dal cuore.
 In silenzio, badando bene a non palesare la propria presenza, aveva scrutato la cella avernale alla ricerca della propria preda.

Preda?

Fortunatamente essendo già fuoco non poteva avvampare per la vergogna.
 Per un momento aveva temuto di trovare il divino fratello a presenziare come suo solito gli incarichi della sua natura ma non Ade era chino su un seggio nero a stilare resoconti cavillosi.
Eccolo.
Estia aveva sorriso tra se: Radamanto sembrava indispettito come suo solito  ma a differenza della volta precedente, qualcosa in lui denunciava un certo malessere.
Incupita a sua volta ne aveva studiato i movimenti: le mani agili muovevano lo stilo sul foglio mentre l’altra reggeva la fronte; era assorto come chi non riesce a trovare una soluzione. In preda a un raptus di rabbia aveva scaraventato tutto il materiare utile allo scrivere per terra mentre, palesemente preoccupato, si era preso la testa tra le mani; a bassa voce sembrava udire una litania ripetitiva

“Non c’è posto, non c’è posto, non posso mandare quelle creature lì insieme a tutti gli altri, dannazione!”.

Aveva ripreso il foglio dal pavimento e, dopo averlo accartocciato con rabbia, l’aveva scagliato verso le fiamme vive e calde del braciere.
Estia, ben nascosta dietro le fiamme, aveva assistito a un rapido guizzar di sentimenti sul volto del giudice.
Ira, rammarico, angoscia, rabbia…Amarezza.

Perché sta così? Per chi non vi è posto nello sperduto Erebo?

Curiosa  era rimasta in attesa di altri bisbigli che però non erano giunti.
Il giudice, impassibile, era rimasto ad occhi chiusi presso le fiamme, una mano sollevata verso le lingue rosse alla ricerca di calore.

Che sta facendo quel pazzo? Si brucerà così.

In pena ella si era ritratta ma questo non aveva evitato che le fiamme lambissero la mano di Radamanto che, privo di qualsiasi reazione, era rimasto fermo.
Lui era già morto. Non poteva soffrire oltre, non col corpo almeno.
 
Quello che recava sofferenza al suo animo non era il calore del fuoco troppo vicino alla pelle diafana quanto il non riuscire a trovare una logica soluzione per quel problema venutosi a creare di recente.
 “Dannazione”, aveva imprecato nuovamente distogliendo lo sguardo dal fuoco.
“Dannazione al Fato, alle moire e a tutte le divinità di superficie!”.

Come osa?

Estia, furiosa  con lui e  con se stessa avrebbe desiderato ardentemente colpirlo con qualche lapillo di cenere e brace ma, costretta a stare ferma, aveva ascoltato in silenzio, mordendosi le labbra ogni qual volta che lo udiva imprecare.
“L’innocenza non dovrebbe esser collocata nello stesso luogo dell’ ignavia in vita. Se la distesa degli asfodeli è destinata a tutti coloro che hanno vissuto una vita senza oneri e senza onori e i campi elisi sono invece esclusiva dimora degli eroi, io dove ospito l’innocente?”

Innocenti? Al mondo non esistono innocenti.

Un sorriso sarcastico sul volto di Estia.
Un sorriso spento sul volto di Estia.
Occhi sgranati sul viso evanescente della dea.

Che si riferisse a dei bambini?

Ma i bambini erano sempre morti, perché solo ora crearsi quel problema?

La risposta era giunga quasi improvvisa dal giudice assorto nei suoi calcoli.

“Dannata Demetra e la sua follia”.
 
 
Allora e solo allora aveva compreso quanto grave fosse la situazione se anche un giudice come Radamanto aveva difficoltà nel gestire un caos del genere.
I morti erano troppi, non per l’Averno sperduto, ma per il giusto ciclo vitale dell’esistenza; troppi bambini varcavano le soglie del non ritorno e questi, nella loro innocenza, non potevano trovare riparo negli stessi luoghi degli altri esseri viventi, fatti di istinti e atti di coscienza sicuramente non casti come i loro.
Avrebbe dovuto cercare sua sorella.
Ade avrebbe dovuto.


“Lo so che siete lì, Estia”.
Scioccata aveva sgranato gli occhi mentre quel giudice, a braccia conserte stava dinnanzi all’immenso braciere del tempio avernale.
“E’ inutile che vi nascondete tra le fiamme, vi sento distintamente adesso. Sento l’odore della vostra preoccupazione: sa di miele bruciato”.
 
 
--- 
 
 
 
Ancora un minuto.
Almeno pochi secondi.
Inebriata da quel profumo così pungente e riscaldata da quell’abbraccio, Persefone avrebbe implorato quel dio dagli occhi grigi, se solo avesse pensato di riuscire a muoverlo a compassione, ma Ade, quell’essere assurdo e contraddittorio, l’aveva allontanata da sé in maniera perentoria con una leggera spinta impressa sulle spalle, sebbene il suo sguardo mal celasse una scintilla di bramosia mista a sofferenza.
“Mia signora”, aveva mormorato cercando di mettere una qualche distanza tra loro: il sovrano dell’Averno era palesemente in difficoltà per colpa di un istinto che mal si concordava con l’indole passionale da poco risvegliatasi in quel corpo freddo da secoli.
“Ade?”, la aveva risposto imbronciata, chiaramente interdetta per quella separazione imposta, anche se, quel particolare sentimento, era evaporato nel giro di pochi secondi quando qualcosa di assolutamente terribile le si era palesato alla vista.  Non più dea ma statua di sale quando Ade, voltandosi alla ricerca di un mantello con il quale ricoprire il corpo esposto ed eccitato, aveva messo in mostra una schiena possente ma completamente deturpata.
Un terribile spettacolo fatto di cicatrici profonde poste a corteo rispetto alla più grande  proprio al centro, poco più sotto rispetto alle scapole, mentre altri segni, forse tagli di minore entità, erano un po’ dappertutto.
Un singulto le si era bloccato in gola e quando il dio, dimentico delle proprie ferite, aveva lanciato uno sguardo veloce alla signora alle sue spalle per comprendere il motivo di quello strano rumore ma, come folgorato dai ricordi, si era affrettato a coprire quello scempio.
 “Chi ha osato lasciarvi quei segni?” aveva mormorato la dea con le mani strette sulla bocca per evitare che gemiti di dolore e paura trovassero l’uscita.
“Non è una bella storia”, Ade, quasi vergognoso, aveva stretto ancor di più il mantello sulle spalle e, rimanendo voltato, si era chiuso in un silenzio spettrale.
“Ade”, Persefone aveva mosso un passo verso quello ma vedendo che il dio nuovamente la ignorava, si era poggiata contro quella schiena logorata nascondendo il viso contro la  stoffa scura.
“Mio signore, vi prego, non tenetemi all’oscuro di nulla”. Lo aveva stretto contro di sé come avrebbe fatto una madre ma nulla, nessuna risposta.
“Come posso fidarmi se non conosco?”
“Non è una bella storia, mia dea e-“ bloccatosi a metà frase aveva sentito Persefone stringerlo con ancora più forza e, quasi incoraggiato, aveva continuato quella confessione,
“Ho paura di come voi possiate reagire quando udirete chi ha distrutto il mio corpo senza ragione alcuna”, un sorriso amaro aveva incurvato le labbra del dio; gli occhi erano stretti come a voler nascondere la baraonda di sentimenti che lo tormentavano.
Perché lui voleva raccontare. Voleva narrare la verità di quel giorno. Voleva spiegare che non per egoismo ma per amore aveva sacrificato la sua esistenza.
Voleva essere accettato.
Per la prima volta amato.
“Vi prometto…Vi prometto che ascolterò ogni parola prima di giudicare”, Persefone, con lentezza, aveva fatto pressione su quel corpo affinché potesse nuovamente ammirare il volto del dio, ma quello, ancora addolorato in viso, aveva tenuto gli occhi chiusi e il capo chino.
“Ve lo prometto” aveva continuato quella e solo a quel punto lui aveva aperto gli occhi e in un bisbiglio a pochi centimetri dalle labbra carnose di lei aveva risposto:
“Fate attenzione a ciò che promettete mia signora, in questo regno le promesse sono vincolanti”,  e sempre  lì, a pochi centimetri l’una dall’altro, la dea aveva risposto con la semplicità e la freschezza della sua età e di getto, socchiudendo gli occhi ammaliata da  quel modo sensuale seppur severo, aveva continuato:
“Allora vorrà dire che vi sono legata, mio signore. Udirò ogni parola, prometto”.
Questa volta era stata lei a colmare la distanza che li separava, un bacio leggero, un vincolo posto a suggellare il patto appena proferito.
Lui, in silenzio, con gli occhi leggermente socchiusi, aveva accettato quel voto apposto sulle sue labbra mentre le mani, fino a qualche istante prima lunghe sui fianchi, avevano afferrato i morbidi fianchi della dea per sentirne la vicinanza.
“Vorrei farvi vedere un posto mia signora, un posto che non ho mai mostrato ad alcun essere, umano o divino che fosse”, Ade aveva parlato con tono pacato, gli occhi tempestosi persi in quelli gialli di lei.
Persefone allora si era staccata dal sovrano e, guardandolo dall’alto in basso con un cipiglio a metà strada tra il serio e l’indispettito aveva continuato felice:
“Prima però fatemi la grazia di vestirvi e coprire ogni lembo di pelle. Non vorrei che qualche succube vi mangiasse con gli occhi”.
Ade aveva sorriso di cuore per quella freschezza, quella giocosità tipiche della giovane dea che, con un sorriso dolce era riuscita a fargli capire quanto in realtà le fosse pesata quella intrusione da parte della demone.
Quella gelosia infantile faceva bene al suo animo tormentato.
 
 
Persefone non aveva smesso per un secondo di mordicchiarsi le labbra, pensierosa e leggermente impaziente desiderava con tutto il cuore capire cosa vi fosse dietro quel corpo distrutto, dietro quella vita sacrificata all’invisibile e sempre quel cuore, più piccolo di una taglia perché stretto in una morsa di  preoccupazione e angoscia, soffriva lo stesso dolore del dio al suo fianco.
Vedendola angosciata e con il labbro inferiore stretto tra i denti, Ade non aveva esitato ad offrirle una via di fuga,
“Non siete costretta”, gli occhi ancora puntati dinnanzi a sé, verso l’orizzonte contro il quale si stagliavano le mura nere di confine.
“Cosa avete detto?”, ridestata da una sorta di sogno a occhi aperti, la dea lo aveva osservato dubbiosa.
 “Se avete paura non siete costretta a fare nulla”. Ade aveva nuovamente proferito quella frase con voce bassa e cavernosa.
“No. Sono pronta, abbiate fiducia in me”, la dea aveva stretto la sua mano cercando di infondere con quel  gesto un coraggio che forse anche a lei mancava.
Leggermente rincuorato aveva continuato in religioso silenzio la propria marcia verso l’esterno: non avrebbe varcato il grande portone, non avrebbe permesso che la sua ospite venisse turbata dalla vista di quella landa sperduta di anime trapassate; piuttosto avrebbero aggirato Cerbero percorrendo il sentiero dei sepolcri imbiancati , lo stesso che solo lui aveva avuto modo di percorre quel giorno.
Un corridoio stretto si apriva dinnanzi ai due, circondati a destra e a sinistra da immensi tronchi vuoti e dallo strano colorito lattiginoso. Persefone, alla loro vista, aveva leggermente ansimato per il timore trovando in essi delle mortifere somiglianze con delle mani adunche e artigliate rivolte al cielo ma, a quel punto era stato il dio a stringerne la mano e a farla più vicina a sé in modo che non avesse paura di quel regno malato.
“Non ci credo”.
 Un sospiro di sorpresa sfuggito dalle labbra della dea aveva fatto capire ad Ade quello che lei finalmente aveva intravisto.
“Io credevo che non vi fosse vita in questo regno, credevo che tutto fosse morto e spento e…”, uno sguardo triste sul volto di Ade aveva frenato la dea nel continuare: ella, dimentica di esser di fianco al sovrano di quei luoghi, non si era resa conto di star dando a lui del morto  e del vecchio.
“Mio signore, perdonatemi-”, mortificata quella lo aveva supplicato,
“ma non credevo che ci fosse quel genere di vita qui”, un sorriso mesto le si era disegnato sul volto, mesto proprio come le parole del sovrano giunte in risposta,
“Quello è l’unico germoglio che ha avuto mai l’ardire di resistere all’Erebo spregevole”.
 
Davanti a loro una piccola piantina verde, sana e robusta, spiccava sulla sponda antistante la conca in cui i quattro fiumi infernali si incontravano per un breve istante.
Stupita Persefone si era inginocchiata ai suoi piedi e con delicatezza ne aveva accarezzato le foglie.
“E’ così bella Ade”.
Commossa aveva guardato il dio in piedi dietro di lei e, in balia di sentimenti che nemmeno lei sapeva ben descrivere, aveva parlato con timore.

Timore di ferirlo,  proprio come poco prima.

“Com’è possibile, mio signore? Credevo che questo regno non potesse ospitare la vita, eppure questo esserino piccolo e verde è meraviglioso.” Un sorriso dolce sul volto di Persefone.
 
Quello, il dio nero, aveva fatto un cenno di sì col capo e, dopo averla affiancata, si era inginocchiato a sua volta;  i suoi occhi, vivi e grigi, posati esclusivamente su di lei.
“Quella che state accarezzando, dolce Persefone, è la mia vita o almeno così mi piace pensare. Quando ho promesso la mia vita allo Stige, Egli ha imposto un tributo: acqua e sangue e proprio qui, dove questa pianta cresce e vive, qui è dove li ho versati con dolore e sofferenza e sempre qui, mia dolce Persefone, è il luogo in cui sono stato richiamato quando ho vi ho vista per la prima volta”.
Sorrideva Ade, un sorriso tenue rivolto a lei che, con cuore stretto, non aveva smesso di carezzare la pianta.
“Perché vi siete promesso al fiume dei vincoli?-“ Persefone, triste, aveva continuato, nella voce una stilla di angoscia,
“Volevate sul serio avere più potere? Avevate in odio i vostri fratelli?”
“Mai, mai mia signora. Non per egoismo sono vincolato all’Averno, ma per amore e sacrificio”.
 
Aveva sgranato gli occhi la piccola dea nell’udire l’intero racconto.
 
Aveva pianto, quando  Ade, seduto di fianco a lei e con gli occhi rivolti verso le acque grigie come i suoi occhi, le aveva narrato con accuratezza ogni istante di quel tormento, riuscendo a farlo rivivere nell’animo  turbato della dea.
 
Sembrava perso come in balia di ricordi capaci di annullarne la luce vitale e soffriva ad ogni ingiustizia che si ritrovava a ricordare, perché in fondo era sempre così:
ogni qual volta si sforzava di ricordare quel giorno, nuovi dettagli truculenti gli ottenebravano la mente  indurendo il cuore, già fiaccato da quell’oscurità respirata da secoli e secoli.
 
Ma non era questo ad averla fatta piangere: non per  il colpo mortale di Crono subito al posto di Zeus, non per il vincolo nero imposto né per  il sacrificio eroico compiuto dal dio.
Quello che veramente l’aveva turbata era il modo spregevole in cui questo era stato trattato dai suoi stessi fratelli, il sangue del suo sangue.
Suo padre, sua madre, l’avevano rinnegato insieme a tutti gli altri.
Suo padre, suo padre non aveva osato a schierarsi contro il fratello quando questo aveva guadagnato la forza e l’invisibilità delle ombre, anche se queste erano state piegate alla causa della salvezza degli altri.
 
Suo padre.
 
Suo padre aveva pensato al potere, al trono, al cielo luminoso e, in nome di quello non aveva esitato a colpire in piena schiena il fratello.
 
Un po’ come aveva fatto con lei: non aveva esitato a cederla quando le tre moire avevano predetto rovina se così non fosse stato.
 
L’amarezza le mangiava il cuore facendole stringere le viscere in un ammasso contorto di nervi e organi.
“Come ha potuto…” Un mormorio aveva distolto Ade dal silenzio in cui si era perso.
 
“Chi?”
 
“Quel codardo, quel…Quel…”, Persefone non riusciva nemmeno a trovare i giusti termini per descrivere il padre.
 
Se così poteva chiamarlo.
 
“No, Persefone, non vi ho raccontato questa storia perché odiaste vostro padre.”
 
Oh Ade.
 
Soffriva, odiava, rimpiangeva, eppure diceva lei di non lasciarsi prendere dall’odio.
 
“State male, vero?”, a stento Persefone riusciva a parlare, scossa com’era dall’amarezza e dalla rabbia.
 
“Con voi al fianco sto meno male, ecco”, Ade, con occhi spenti, si era sforzato di sorridere, riuscendo solo a mostrare un’impercettibile incurvatura sulle labbra strette.
 
 
Non voglio che soffra.
 

No, non voglio più che soffra!
 
“Posso esserlo”.
“Cosa?”, Sempre con lo sguardo fisso dinnanzi a sé, il dio osservava distrattamente l’acqua stagnante.
“Posso esserlo. La luce, la vostra luce, posso esserlo Ade. Non voglio che la vostra sia un’esistenza fatta di solitudine, dolore e ira. Non siete più solo.”
 In un fiato Persefone aveva stretto la mano del dio poggiata al suolo.
 
Lui, rigido, era rimasto in silenzio.

Che aveva detto?
 
Con estrema lentezza, come se in quei secondi stesse cercando di tagliare in pezzi le parole della dea per analizzarle e poi assemblarle nuovamente, si era voltato verso quella, ora inginocchiata al suo fianco; l’aveva sentita parlare, il respiro leggermente spezzato in gola, le gote arrossate.
 
“Se il Fato così vuole, se voi…Se voi così starete meglio, io posso esserlo; posso stare qui con voi, al vostro fianco”.
 
“Non sapete cosa state dicendo”, Ade, serissimo, ora la scrutava in volto alla ricerca di un qualche dubbio, di una qualche titubanza ma trovando solo due occhi fieri e determinati aveva continuato esasperato:
 “Non è per il Fato che dovreste desiderarlo!”, scostando la mano da sotto quella di lei si era alzato di scatto, intento a mettere quanta più distanza tra loro.
“Non capite?!”, guardandola dall’alto la vedeva nella sua innocenza, piccola e fremente in quel corpo di dea pura e piena di vista e nuovi sensi di colpa terribili gli aggrovigliavano le viscere.
 
Posso mai permettere che ella si sacrifichi per me per dovere?
È giusto così Ade, meriti un po’ di felicità.
Ma se guadagno felicità sottrandola a chi… Amo, come posso essere felice?
 
 E poco contavano le parole delle tre moire: non avrebbe goduto di un’amara vendetta se questa vedeva come vittima sacrificale un’innocente.
 
 “Il vincolo allo Stige è sacro ed eterno. Se così deciderete sarete vincolata qua per sempre e né io né vostra madre potremo fare più niente a quel punto. Vi sarebbe preclusa la superficie per sempre”. Agitato aveva distolto lo sguardo dall’espressione delusa di quella.
 
“Voi avreste mai rinnegato il vostro giuramento?
 Sapendo che avete salvato delle vite, tornereste mai indietro per cambiare la vostra decisione?” Persefone, a quel punto, aveva piegato le ginocchia al  petto amareggiata.
 
“No, non lo farei mai”.
 
“Allora come potrei mai farlo io? Se so che in questo modo posso darvi serenità, perché mai dovrei venir meno alla mia parola?”
 
“Perché siete una ragazzina, non sapete cosa volete veramente, ancora. Adesso siete solo impietosita da questa dannata storia, non desiderate veramente ciò che dite di desiderare”.
 
In un soffio di rabbia aveva distrutto Persefone, che, coi pugni serrati, si era alzata in silenzio.
Capendo troppo tardi quello che la bocca aveva osato proferire, il dio aveva rivolto lo sguardo mesto alla dea.
“Persefone, io…”.
 
Un  rumore secco.
 
Nuovamente lo aveva schiaffeggiato, un colpo pieno di rabbia si era scagliato contro il volto corrucciato di Ade.
 
“Siete uno stupido”, col volto rigato di lacrime lo aveva scrutato con occhi fiammeggianti di rabbia.
“Come osate anche voi considerarmi come una bambina? Come osate sottovalutare i miei sentimenti? Credete che solo perché ora mi affaccio alla vita io sia così superficiale da farmi trascinare da sentimenti falsi? Avete dinnanzi a voi una dea, signore dell’Averno, una dea che porta un nome sacro che sta per mutamento e trasformazione. Io vedo oltre, dio dell’Erebo, io vi vedo per quello che siete”. Una mano stretta sul petto, una lungo i fianchi, entrambe chiuse in pugni così stretti da sentire le unghie ferire i palmi.
 
Ella parlava di sentimenti?
 
“Non per il Fato ma per voi, per sapervi felice, per sapere che state bene.” Si era nuovamente avvicinata a lui sebbene quello tenesse il volto reclinato verso il basso nel chiaro intendo di nascondersi allo sguardo severo della dea.
 
“Voi mi siete già caro e non posso, non voglio sapervi sofferente perché questo vostro dolore avvelena anche il mio corpo. Una volta mi diceste che “stare lontani avrebbe acuito il nostro male”, allora non facciamolo. Non allontanatemi di voi. Mia madre capirà che qualcosa ben oltre il Fato ci lega”.
 
O era solo lei a desiderarlo?
 
Fulminata da quella considerazione aveva mosso un passo indietro e, rossa in volto aveva subito esclamato.
“Ma se non è questo ciò che il vostro cuore brama, se non siete pronto-” aveva sorriso tristemente.
“Siate onesto con me, signore dell’Averno, come siete sempre stato e dite ciò  che veramente desiderate”.
 




 “Salirete in superficie, da vostra madre”, serio e con lo sguardo assorto Ade aveva infine elaborato un verdetto.
 
“Starete presso i suoi altari per due mesi. Se allo scoccare di questi sarete ancora convinta di questa vostra decisione allora vi accoglierò come mia regina.”
Finalmente la guardava in volto.
Un sorriso oscurato dalla stanchezza faceva capolino dietro il sottile velo di barba del dio.
“Perché due mesi?” aveva mormorato la dea, persa nell’osservare quell’espressione sofferente.
“Perché prima bisogna compiere un rito, mia signora”. Solo a quel punto, come dal  nulla, un frutto era comparso nella mano del dio, evocato in una nube nera.
“Un melograno?” aveva nuovamente domandato dubbiosa,
 
 “Dovrete spaccarlo, interrarlo e aspergerlo con una fonte pura e a quel punto germoglierà come frutto avernale di cui vi nutrirete. Compiuto il rito sarete creatura avernale, degna consorte di questo sovrano che vi attenderà con impazienza”, una carezza sul viso della dea aveva finalmente svelato il turbamento del dio. Era emozionato, glielo si leggeva negli occhi grigi ora simili a un mare placido.
Persefone aveva poggiato una mano su quella del dio, morbidamente posta sulla sua guancia e, socchiusi gli occhi, aveva mormorato serena:
“Datemi il melograno”
“Avete intenzione di farlo ora?” Ade era sorpreso.
“Si, perché dovrei desiderare di perdere tempo? Io sento che ciò è giusto”, Persefone, sempre con gli occhi chiusi, si beava della carezza del dio sebbene quello, ora ancor più emozionato, aveva spostato la mano mettendole due dita sotto il mento in modo tale da sollevarle il volto.
“Guardatemi mia signora-“, richiamata, la dea aveva aperto gli occhi, svelando un caldo color miele.
“questo è ciò che veramente desiderate?” e, nuovamente, come la volta precedente, non parole ma gesti erano stati la scelta della dea che, sollevatasi sulle punte, aveva posto le labbra morbide su quelle sottili del dio nero.
Timide scuse per quello schiaffo dato con rabbia.
 
Un gemito era scappato dalle labbra del sovrano che, non resistendo più a quel richiamo primordiale che sentiva agitarlo dentro, l’aveva stretta a sé con forza, finalmente respirando a pieni polmoni quel profumo che sapeva di vita; finalmente assaporando quel calore che lo faceva fremere dentro.
Il dio dell’Erebo, completamente perso su quella bocca umida e schiusa, aveva osato varcarne l’ingresso: una scarica d’adrenalina aveva percorso il suo corpo, un fremito che aveva trovato eco nei gemiti sospirati dalla dea.
“Persefone…”
La dea non aveva mai sentito il suo nome pronunciato con tanta passione e brama, quattro sillabe sussurrate con voce roca a pochi millimetri dalle sue labbra, un sospiro tra un bacio e un altro e, ad ogni nuova invasione, si sentiva morire dal desiderio bruciante che le agitava il ventre.
“Mio signore” aveva risposto quella, la voce dolce e leggermente arrochita avevano sconvolto il dio che praticamente oramai perso completamente avvinto nelle spire del serpente velenoso che da sempre lo abitava, si era lasciato cadere al suolo tenendola ben stretta tra le braccia.
Morbidamente stesa sul suo corpo fremente, l’aveva guardata negli occhi, i suoi erano due pozze nere.
“Morirò se non sarete mia” la bocca del dio ora incurvata in una linea sofferente aveva atteso quella della dea ma Persefone, invece che baciarlo, ne aveva accarezzato il profilo severo con la punta delle dita.
“Io sarò vostra e dell’Averno. Per sempre”.

Avevano sorriso entrambi, un sorriso delicato e casto come quello di due persone che si confidano reciprocamente i segreti del cuore.
“Sarà meglio procedere adesso, avete lo strano dono di distrarmi signore dell’Averno”. Persefone aveva parlato a bassa voce, il capo poggiato sopra il petto del dio, le mani intorno al suo volto per carezzarne il profilo spigoloso.
Ade teneva gli occhi chiusi e di tanto in tanto un sorriso si stendeva sulla linea solitamente seria delle labbra; a volte le mordicchiava un dito quando questo, per gioco, si spingeva su quella bocca severa.
Un mugolio: non aveva proprio voglia di rinunciare a quel calore, al sentirla sopra di sé sebbene in cuor suo sapesse che quello, il rito, era l’unica loro speranza per poter essere felici.
Una riflessione come un fulmine a ciel sereno aveva però illuminato il dio, lasciando al posto della beata espressione una smorfia corrucciata.
“Persefone, prima che compiate il rito, vi è un ultima cosa che dovete sapere”, aperti gli occhi aveva incrociato quelli dubbiosi di lei, ancora a pochissimi centimetri di distanza.
“Dite”, la dea aveva sorriso incerta, curiosa di capire cosa nascondesse quell’espressione preoccupata.
“Vostra madre non sarà d’accordo”.
“Mia madre capirà”, quella, mal celando un velo di tristezza, aveva infine sorriso.
“Mia madre desidera solo il mio bene e voi, voi lo siete. Lo sarete, lei lo capirà”.

“Voi, mia dolce signora, siete fin troppo ottimista. Mi correggo allora”, a quel punto Ade si era leggermente sollevato sugli avambracci sostenendo il suo peso e quello della dea sopra di lui, il volto, nuovamente serio, faceva quasi paura.
“Mi correggo: vostra madre non è felice di sapervi in mia compagnia, ospite e  futura regina. Ha intenzione di scatenare una guerra, anzi, l’ha già iniziata".
Sollevatasi a sua volta e mettendosi in ginocchio di lato al dio, una Persefone sconvolta non riusciva a trovare le parole da pronunziare.
“Voi state scherzando”, un sorriso incredulo, quasi isterico dipinto sul volto.
“Mia signora-“ una mano di Ade si era posta sulla guancia ora fredda e pallida della dea,
“Mia signora, io non vi prenderei mai in giro, vostra madre mi ha in odio e soffre la vostra distanza, stuoli di anime trapassate affollano il mio regno oramai da giorni. Ella ha dato vita a un ciclo irreversibile che nemmeno voi potrete mai riportare allo stato originario”, ora erano due le mani del sovrano sul volto sconvolto della giovane dea dagli occhi umidi di lacrime.
“Mi state dicendo che per colpa mia, solo per colpa mia, mia madre sta radendo al suolo intere popolazioni umane?” . Gli occhi spauriti di quella avevano innescato un’angoscia tale nel cuore di Ade da  portarlo a stringerla contro il suo petto cercando in qualche modo di fermare quei singhiozzi addolorati.
“Non per colpa vostra, voi non avete alcuna colpa. La colpa è mia che vi ho braccata come una preda costringendovi alla resa, la colpa è mia che sono rimasto folgorato da voi e non potendo rinunciarvi vi ho sottratto con egoismo agli altari materni. Per questo motivo dovete riflettere attentamente su quanto state per fare, se deciderete di rimanere al mio fianco, altri soffriranno la vendetta di Demetra”.
Scuoteva il capo la dea, e tanto più realizzava quanto avesse detto Ade tanto più si sentiva morire mentre una rabbia nera le risaliva dal profondo abisso dell’anima.

Perché era sempre costretta ad allontanarsi dai suoi più cari affetti?

“Nessuno merita questo. Io non voglio rinunciare a voi così come non voglio rinunciare a lei ma, sopra ogni cosa, nessuno merita di morire per colpe non sue!” le lacrime bagnavano le mani del dio a coppa su quel viso sconcertato dal dolore,
“Vi prego mio dio, lasciate che io compia il rito, Era propizia questa unione, lasciate che ciò accada e…-” bloccata dai singhiozzi si era presa la testa tra le mani,
“e lasciate che io vada a parlarle, mia madre…”, sfinita aveva chiuso gli occhi.
“Compiremo il rito, ora stesso, ma sarò io a parlare con vostra madre prima che voi possiate lasciare questi luoghi che vi amano-“ l’aveva leggermente scossa invitandola ad aprire gli occhi,
“ma vi prego, calmatevi. In questa giostra fatta di ipocriti e egoisti voi siete l’unica innocente e meritate di essere felice. Voi sarete felice qui?” in cerca di quell’unica conferma Ade le aveva baciato la fronte per poi scendere sulle guance bagnate di lacrime salate.
“Sì”.
“Allora alzatevi mia signora, compiamo il rito e state serena. Non siete sola”.

Non avrebbe mai potuto compiere la sacra celebrazione omettendo la tragica reazione di Demetra. Non avrebbe mai potuto vincolare a sè Persefone con la menzogna eppure, vedendola in lacrime disperata, per una volta avrebbe desiderato essere il peggiore degli omertosi.

 
---


 
Una figura di fuoco si era materializzata dinnanzi agli occhi impassibili del giudice Radamanto.
Il
secondo, chiuso in un rigido silenzio, attendeva delle spiegazioni.
 “Ero preoccupata”.

          Perché sentiva il dovere di giustificarsi?

“ E perché spiarmi? Speravate di captare qualche informazione a tradimento?”, severo e sospettoso Radamanto la squadrava da capo a piedi non avendo paura dei piccoli lapilli di cenere e scintille.
“Speravo solo di capire quanto grave fosse la situazione, sono molto preoccupata giudice e voi dovreste immaginare il perché!” Esasperata Estia aveva abbaiato quella risposta scatenando un piccolo sbuffo di cenere ai piedi del grande focolare.
Psicologicamente si era preparata a una battaglia fatta di insulti e urla ma, invece, stranamente, quello aveva sciolto le braccia lungo i fianchi e con un sospiro le aveva parlato con un’insolita sofferenza.
“La situazione è molto grave Estia. Ci sono degli esseri strappati alla vita troppo prematuramente, se continuerà di questo passo Demetra causerà l’estinzione della razza umana e… E non per gli dei io soffro, alcuni meriterebbero di sparire nel Tartato-” l’ultima frase l’aveva mormorata a denti stretti,
“io soffro per gli innocenti Estia, non è una sorte giusta”.
“Non di giustizia vive l’uomo, Radamanto”, la dea aveva risposto con voce atona scatenando una risposta sgarbata del giudice
“Ma dovrebbe! E dovrebbe grazie a degli dei giusti! Ma se questi dannati dei sono i primi a cedere all’egoismo come potrà mai sopravvivere il resto dell’umanità?”
“Non tutti gli dei sono così” mesta, aveva abbassato il capo.
“No è vero, vi sono divinità sciocche come voi o Ade che provano a recare aiuto al prossimo e poi vi sono esseri gloriosi come Zeus che, ad esempio, non esitano un’istante a ingannare la sorella affinché questa, illusa dalla virtù della verginità, ceda la primogenitura e con essa il diritto al trono olimpico in cambio di due cavigliere sonanti. È per esseri come Zeus che voi e Ade avete in dono una sorte balorda. È per l’egoismo di Demetra che le genti moriranno”.
Si era sfogato, aveva sputato la bile nera che gli avvelenava il cuore.
Egli sapeva che destino era stato scelto per la dea al suo cospetto così come per il dio al quale era devoto e odiava con tutto se stesso quella ingiustizia.

Si era sfogato, era vero:

Ma a che prezzo?

Estia era scomparsa.





 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Il peggiore degli incubi
 

Il suono del suo incedere aveva un che di sinistro.
Tutto il suo aspetto era di per sé spaventoso.
Un’ aura oscura e malsana lo avvolgeva come un nero mantello mentre un tanfo mefistofelico si diffondeva nell’etere: era furioso.
Il signore dell’Averno che procedeva con fare marziale verso la sala del trono celeste non era lo stesso che aveva lasciato le camere della sua dolce signora solo pochi istanti prima.
Quel dio aveva poco a che vedere con l’essere che con amore e devozione aveva stretto la sua regina tra le braccia.
Una rabbia cieca lo bruciava dal di dentro riportandolo a essere il sovrano imperscrutabile e impenetrabile di cui tutti gli altri dei avevano timore e paura.
Un nauseabondo odore di zucchero bruciato gli riempiva le narici man mano che i suoi passi si facevano più vicini all’uscio sacro: qualcuno pregava.
Non un solo essere in solitudine ma schiere e schiere di fedeli erano riuniti in preghiera e poco importava che fossero uomini, dei o bestie.
Tutti vedevano, tutti pativano le pene irragionevoli di un dolore immotivato e suo fratello Zeus, il padre della sua promessa, avrebbe fatto bene ad ascoltare quanto gli avrebbe detto.
Non avrebbe accettato un no come risposta.
Con l’interno guancia stretto in un morso, aveva proseguito fino all’immensa sala dove sapeva avrebbe trovato il minore ben accomodato sul bianco scranno di marmo.
Quanto è vanaglorioso.
Questo il primo pensiero a saettare i neuroni dello ctonio.
Suo fratello Zeus, l’illustre, era dinnanzi a lui, seduto sull’alto trono bianco ma, a dispetto di ogni previsione, il suo volto era cinereo, ben lungi dal solito colorito rosato che sapeva di salute e benessere.
Bianco e con gli occhi circondati da sottili rughe, palesava in una postura rigida e composta tutto il proprio turbamento, turbamento acuitosi nel momento stesso in cui i passi del sovrano dell’Orco si erano arrestati al suo cospetto.
Non un inchino, non una parola.
Il saluto del dio dell’Averno era stato un impercettibile cenno del capo indirizzato a un Zeus stranamente silenzioso e preoccupato.
“Fratello, eccoti infine. Sapevo saresti giunto”.
“Se il Fato avesse avuto pietà di me avrei fatto volentieri a meno di metter piede in questo sontuoso tempio che tutto rappresenta fuorché giustizia”.
Secco, dritto al punto.
“Non sono io il legittimo destinatario della vostra furia. Io ho permesso che mia figlia venisse a voi, l’ho lasciata nelle vostre mani a dispetto dell’ira di sua madre. È Demetra il vostro ostacolo” Zeus, rosso in volto, aveva farfugliato quella risposta in maniera impacciata: un vano tentativo di accattivarsi la simpatia del fratello.
Ma Ade, scettico in viso e con il labbro superiore leggermente arricciato, palesava un chiaro sarcasmo.
“Voi non mi avete concesso un bel niente e si, diventerete mio nemico se solo oserete chiedermi di rinunciare a Persefone, se solo oserete-“questa volta il signore dell’Averno aveva sibilato con rancore
“se solo oserete sottrarmela per un vostro ulteriore tornaconto”.
“Non sono così come mi dipingete fratello!” Un moto di rivalsa aveva animato il dio dei cieli che, quasi con impeto, si era alzato dallo scranno bianco per farsi vicino al maggiore.
“No, è vero. Siete molto peggio”.
Ade aveva fatto un passo indietro, non per paura ma per sdegno.
“Voi siete il dio glorioso che mi ha spedito nell’Erebo per un sospetto. Siete colui che per timore di perdere la primogenitura ha illuso la buona Estia, convincendola a cedere la propria libertà in cambio del sacro vincolo della verginità, lei che è fuoco e famiglia, vincolo e unione domestica! Zeus, voi siete il dio peggiore di questo intero pantheon!”
Quella risposta, proferita con durezza e severità, aveva però scatenato l’ira di una figura più a destra, mal celata dalle imponenti colonne poste a cerchio rispetto al trono.
“Come osate rivolgerti in questo modo al vostro signore, al vostro dio? A lui dovete rispetto!”
Era, nella sua maestosità di regina, aveva preso la parola e con furore aveva raggiunto il fianco del marito, ora ridotto a un’espressione seria e cupa.
Immobile, Ade, non aveva sbattuto ciglio.
Sapeva bene che la sorella avrebbe presenziato quell’incontro ma, in cuor suo aveva sperato che almeno per una volta, illuminata dal buon senso, avrebbe fatto silenzio, rimanendo così nell’ombra.
Ma no, perché tacere?
Tanto meglio. Anche lui era stanco di tenere le proprie considerazioni per sé.
“Voi, serpe”, il dio oscuro, forse con un tono ancor più cupo, l’aveva folgorata con uno sguardo al vetriolo: gli occhi iniettati di sangue, ben lontani dal placido grigio di sempre.
“Voi, traditrice del vostro nome. Come osate prendere la parola, voi che non avete esitato a rifiutare protezione ad una supplice?”
Leggermente interdetta e con il fiato in gola, Era aveva mosso un passo indietro, cercando, oramai troppo tardi, riparo vicino la colonna.
“Quello che ho fatto è stato utile a voi. Siete così stupido da non capirlo?”, vedendo lo sguardo nero del sovrano dell’Erebo anche la stessa regina aveva sentito come le gambe tremarle e, impaurita dallo spettacolo fatto di morte e torture che leggeva riflesso negli occhi del dio, aveva rivolto gli occhi altrove.
“Bugiarda”. Ade, implacabile, si era mosso così rapidamente da trovarsi al suo cospetto in meno di qualche secondo e, con mal grazia, l’aveva afferrata per un braccio, costringendola a guardarlo senza esitazione.
“Persefone vi implorava e voi avete pensato solo alla vostra vendetta, al rancore verso il vostro compagno che ha osato venir meno al suo giuramento-“
Lì Ade aveva stretto ancor di più la presa e avvicinando il proprio volto a quello di Era aveva nuovamente sibilato:
“permettete un consiglio: potrete nascondervi nel buio, correre fino all’orizzonte o trovare riparo nel più profondo degli abissi ma, osate nuovamente rivolgere parole insolenti a me o alla mia sposa e vi troverò, ad ogni costo. Io, Ade, signore dell’Averno, non devo ubbidienza né a voi né a nostro fratello Zeus. Un sovrano regna con il rispetto dei suoi sudditi e voi, balorde caricature di voi stessi, siete una vergogna per l’intero cosmo”.
Cercando di darsi un contegno aveva poi ripreso fiato e, con lo sguardo leggermente meno fustigatore, aveva continuato
“Si comanda con la ragione, con la giustizia, concetti che chiaramente sconoscete entrambi”.
Il signore dell’Averno aveva mormorato da ultimo quell’ asserzione come fosse stata una condanna e con quella aveva mollato il braccio della sorella che, col volto bianco, aveva mosso dei passi indietro, uscendo in quel modo dalla camera di marmo.
 
Con un ghigno in volto Ade aveva preso nuovamente parola
“Zeus, voi sapete che Persefone è mia. Mia per Fato, mia di diritto, mia perché lei mi si è promessa così come me, le ho donato me stesso e con ella ha accettato anche la mia cattiva sorte”, il tono di voce roco lasciava trapelare la rabbia di ritrovarsi al cospetto di quel fratello bastardo a dover dare giustificazione del proprio atto.
“Convocate quella pazza di sua madre Demetra. È tempo che accetti la situazione”.
“Se si presentasse qui, se solo il suo sguardo incrociasse il vostro sarebbe la fine, Ade”.
“Convocatela o perderà la sua unica figlia. Per sempre”.
 
 
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Un vago senso di intorpidimento si diramava per tutto il suo corpo rendendola un piacevole ammasso di organi e nervi.
Sollevate le palpebre lentamente, aveva dapprima scorto il letto sfatto sotto si sé e poi la sua attenzione si era focalizzata sulla coperta morbidamente adagiata sul corpo nudo.
 
Ade, mio signore.
Gli eventi di poche ore prima le erano tornati alla mente con una prepotenza tale da farle sollevare di scatto la schiena dalle morbide lenzuola.
Lei…
Ade…
Loro…
Le guance, ora rosse e accaldate, erano le chiare testimoni del fatto che Persefone ricordasse esattamente quanto successo proprio lì, su quel morbido letto, tra le braccia forti e gentili del suo signore.
Il suo signore.
Un sorriso dolce le aveva incurvato le labbra mentre gli occhi, luminosi, scrutavano quel corpo alla ricerca di ricordi impressi con carezze e baci.
Avevano passato la notte insieme e su quel letto lui le aveva donato un piacere che le aveva fatto esplodere il cuore in petto.
No Persefone, non tutta la notte.
Gelata da quella riflessione era scattata in pieni stringendo contro la propria nudità la pesante coperta.
Lui era andato, andato via, più precisamente si era recato sull’Olimpo in cerca di soddisfazione e, la sua preda, il nemico da sconfiggere altri non era che sua madre.
Mamma.
Mamma perché ci fai questo?
Con un groppo in gola aveva mosso dei passi verso la grande sala da bagno dove un piccolo fuocherello fluttuante l’attendeva paziente.
“Emisu, mia ancella” come quando si vede una roccia in mezzo a un mare in tempesta, Persefone l’aveva raggiunta, il respiro particolarmente agitato.
“Mia signora, cosa vi turba?” placida Emisu, seppur nella sua deformità le aveva offerto un caldo benvenuto mentre le mani sapienti avevano iniziato a riempire la grande tinozza con acqua calda e aromi.
“Non voglio un bagno, voglio sapere dove si trova il nostro signore”.
 “Non state in pena per il signore, dolce dea, egli sarà di ritorno quanto prima e,” scostata la coperta dal corpo infreddolito e curvo della giovane dea con fare materno l’aveva sospinta verso la vasca:
“Un bagno caldo mia signora è ciò che ci vuole per calmare i nervi e rilassare i muscoli intorpiditi”, un sorriso malizioso aveva fatto arrossire vistosamente Persefone che, vergognosa, si precipitata dentro la tinozza.
“Il re di questi luoghi ha lasciato per voi un dono. Affrettatevi nel lavarvi, esso vi aspetta in camera, dentro il cassetto della scrivania”.
Un dono?
Con le sopracciglia arcuate, segno di un’immensa curiosità che però solo in parte era riuscita a scacciare la preoccupazione, la dea aveva osservato interdetta la propria ancella che, con devozione, aveva iniziato a detergerle le membra.
Impaziente però Persefone ne aveva richiamato l’attenzione e, sottraendole con abile mossa la pezza bagnata dalle mani, le aveva sorriso dicendo con una leggera nota di allegria:
“è meglio che faccia da me, sarò più veloce”.

Era stata un fulmine. Complice l’acqua calda, era riuscita in poco tempo a pulire ogni centimetro di pelle a fondo, ristorando il corpo e riguadagnando lucidità.
Quello che era successo la notte prima sarebbe stato il suo ricordo più prezioso. La memoria che avrebbe difeso con le unghie e con i denti e che avrebbe tenuta ben presente davanti agli occhi qualora qualcuno avesse osato insinuare il dubbio tra lei e Ade.
Avvolta nel morbido telo offertole da Emisu, non aveva aspettato di essere asciutta, non aveva calzato scarpe né abiti.
Così, come la dea dei prati quale era, si era mossa agilmente verso il luogo designatole dall’ancella e, quando le sue mani avevano sollevato il coperchio dello scrigno finemente lavorato in legno e oro, i suoi occhi si erano riempiti di lacrime.
Lacrime di felicità.
Si era dovuta sedere sul letto, le gambe non avrebbero retto l’emozione del cuore.
Non erano orecchini, non una collana o un anello regale, insomma: niente che l’avrebbe potuta angosciare riportandole alla mente una sovranità che le sarebbe toccata in sorte se avesse ufficializzato l’unione col sovrano dell’Averno.
Non che questo la intristisse, anzi, il problema però rimaneva sempre il fantasma della madre desolata e alla ricerca di vendetta.
Ecco, quello che teneva tra le mani non era il dono di un re a una regina quanto piuttosto quello di un dio devoto alla dea amata: egli non le chiedeva nulla ma dava e basta, dava se stesso in una maniera così profonda da farle venire la pelle d’oca.
Due piccoli e delicati fermagli giacevano brillanti e lucenti sul fondo della preziosa confezione: l’ossatura in oro sorreggeva migliaia di pietrine colorate disposte in modo tale da richiamare alla mente fiori variopinti e foglie di rami rampicanti.
Senza parole Persefone aveva portato una mano tremante alla bocca per tentare – inutilmente- di fermare i sospiri emozionati.
Ade aveva capito il suo animo irrequieto, aveva compreso il perché dei suo sguardi persi alla ricerca di natura verdeggiante, aveva inteso la sofferenza patita nel buio di un regno senza sole.
Lui aveva visto oltre. Lui l’aveva guardata dentro e ora le recava in dono dei fiori che sebbene mai avrebbero potuto spargere il loro profumo allo stesso tempo mai sarebbero potuti appassire.
Quasi timorosa - al solo pensiero di fare cadere al suolo quei preziosi monili il suo cuore accelerava- ne aveva sollevato uno ammirandone la bellezza e la delicatezza della trama.

Ricevere quel regalo era stato stordente, quasi immobilizzante.
Aveva avuto bisogno di parecchi istanti prima di riuscire a riconettere il cervello al cuore in subbuglio ma, quando vi era riuscita, ecco l’angoscia travolgerla e un unico pensiero folgorarle la mente.
La conca.
Il melograno.

Un presentimento oscuro le impediva di godere a pieno della vista di quei doni cari.
Sentiva come il bisogno di dare un'occhiata al piccolo cumulo di terra smossa che celava il tesoro a lei più caro: la possibilità di un futuro felice lì col suo signore.
Spiegata ad Emisu quella sensazione spiacevole che le attanagliava lo stomaco, aveva assistito alla tramutazione di questa in fuocherello vispo e fluttuante: era un sì, l'avrebbe accompagnata alle sponde della conca sacra.



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Sdegno e vergogna. 
Sdegno per la bassezza di costumi del fratello e della "dolce" consorte.
Vergogna per sè stesso, per il suo ritrovarsi lì, al cospetto di un dio minore a render conto dei propri desideri.
Ancora lì, con gli occhi di brace e una sottile aria malsana che si spandeva dal corpo rigido e pronto all’attacco, Ade cercava di mantenere quel briciolo di calma che gli avrebbe impedito di scatenare morte e distruzione.
“Voi sapevate, voi tutti sapevate che la vostra vita beata avrebbe esatto un costo, e ora che vi si para dinnanzi vi nascondete, non prendete posizione. Non avete il coraggio di far rispettare il giusto!”
Con l’indice puntato contro il viso del fratello, ora nuovamente accomodato rigidamente sullo scranno, il dio ctonio aveva sibilato cavernoso:
“Fratello, né voi né lei mi sottrarrete ciò che è mio”.
“Lei, mia figlia-“ Zeus, focalizzandosi per la prima volta sul significato di quelle parole, perché Persefone era anche sua figlia, Zeus aveva risposto con lo sguardo perso dinnanzi a sé,
“lei non si unirà mai a voi sapendo quello che sua madre causa al cosmo”
 “Lei sa…” stupito il minore aveva puntato il suo vitreo sguardo sul fratello e, come scosso da quella rivelazione, aveva mormorato
“Persefone sa e non fa nulla? Che egoista”.
Un’ira cieca aveva travolto il dio avernale che, balzando come un puma, aveva afferrato il fratello per il bavero della corta veste bianca ricamata in oro.
“Non osate nominarla se il vostro obiettivo è offenderla”
Zeus, non intimorito ma sinceramente scioccato da quella reazione, aveva sospirato e, con una mano a ravvivare i capelli, aveva come saettato
“Demetra sta arrivando. Cerca di non essere così brutale”
“Sono brutale per colpa vostra”.
Torcendo il busto lievemente verso l’entrata della sala anche lui ora sentiva l’incedere affrettato di un essere.
“Dov’è la mia bambina?! Dov’è?!”
Urla di madre, alternate a singhiozzi e sospiri, avevano preceduto la visione della dea madre.
Se Ade non l’avesse riconosciuta dentro di sé come sua sorella non avrebbe mai potuto intravedere in quella pseudo-dea una sua consanguinea.
Nulla in lei mostrava segni di beatitudine e grandezza.
Il corpo, solitamente pieno e rigoglioso, era un mucchietto di pelle secca e ossa sporgenti mentre il viso, un tempo luminoso, era ridotto a rughe e solchi lasciati da lacrime perenni.
Da quanto tempo Persefone era presso i suoi altari?

Possibile che non si fosse reso conto del tempo passato in sua compagnia?
O meglio: possibile che avesse completamente perso il senso del tempo, proprio lui che sapeva la folle irrazionalità dello spazio e del tempo nel suo regno?
Demetra, o quel che ne rimaneva di lei, da quanto tempo pativa l’assenza della sua Kore?
Gli occhi vitrei e spenti della sorella divina avevano vagato incerti e desiderosi alla ricerca della figura tanto amata e cercata ma, non scorgendola in alcun luogo, nuove lacrime e nuove urla si erano aperte sul suo viso e sul suo petto.
Un dolore tramutatosi in odio quando sempre quegli occhi affaticati avevano intravisto le sembianze dell’odiato fratello.
“Bastardo!” un moto d’ira l’aveva come rianimata e scagliatasi contro di lui come una bestia feroce, ma ferita e stanca, aveva mosso solo due passi per tirare due pugni deboli contro il petto ammantato di nero del fratello avernale.
Ma come sempre, non la forza ma il gesto avevano turbato Ade che, conscio della nuova sofferenza della sorella si sentiva soffocare dentro da bile nera.
Perché la sua pietà doveva indebolirlo?

Non sarebbe la prima volta, stupido.

Facendo forza su sé stesso e la propria pietà aveva afferrato con delicatezza i polsi della sorella e, con uno sguardo gelido, aveva cercato di ottenere la sua attenzione sebbene quella si dimenasse alla ricerca di libertà.
“Me l’hai tolta, il mio unico amore, me l’hai tolta”.
“Sorella, non vi ho tolto nulla. Vostra figlia è vostra e lo sarà per sempre. Io la desidero in moglie perché mi completa, perché siamo le due facce di una stessa medaglia”.
“Non dire assurdità, lei è una bambina. Tu me l’hai portata via con la forza, barbaro!” Debole Demetra cercata di evitare il contatto visivo mentre le mani, adunche e nodose, cercavano di liberarsi dalla presa salda del fratello.
“Sorella, vi vedo disperata, ma il vostro dolore non è il solo. Senza Persefone morirei”, Ade cercava di calmarla, di farle capire che una serie di circostanze erano la cagione della sua sofferenza e che non per volontà ma solo per destino ella era costretta ad allontanarsi dalla sua bambina. Ma Demetra, irata e resa folle, aveva liberato una mano e, con uno scatto, aveva graffiato il volto del dio con le lunghe unghie.
Un gemito di dolore: Ade si ritraeva con una mano sul volto artigliato.
Demetra rideva isterica mentre lacrime le bagnavano le guance.
“Siete pazza?!”
“Si, e farò di peggio se non me la riporterete!”
Furioso, e non più simile al dio pacato di poco prima, il signore dell’Averno iniziava a rivelare le sue sembianze scatenando la più cieca delle paure nelle anime dei suoi spettatori.
Un volto bianco solcato da profonde occhiaie viola faceva da sfondo a occhi neri iniettati di sangue mentre i capelli, liberi e neri, aleggiavano intorno al suo capo spettrale.
Un fantasma.
Un demonio.
Non c’era bisogno di parole, anzi, nessuno sarebbe stato in grado di proferire verbo dinnanzi al terribile Ade, sovrano dell’Orco più nero.
“Se non avrò la mia bambina di nuovo al mio fianco saranno queste mani, queste stesse che vi hanno ferito, a distruggere l’intero cosmo…”, Demetra aveva sibilato quella parola tra i denti, mal celando odio e dolore ma troppa sicurezza vi era in quelle frasi pronunciate senza pudore dinnanzi all’ospite dei morti.
“Credete che possiate dolermi in alcun modo, sorella?” Ade le aveva scoccato uno sguardo di fuoco.
“IO SONO IL SOVRANO DEL REGNO CHE MINACCIATE DI AMPLIARE!”
Un urlo disumano era sgorgato fuori come bile nera dalla bocca del dio ctonio che, all’apice della furia, risultava avvinto in una nube nera e odorosa di zolfo.
“Demetra, ascoltate bene quanto sto per dirvi: Persefone è già mia, un rito è stato compiuto e lei mi è già fedele in uno modo che voi e quello lì che sede sullo scranno non potrete mai capire. Altre leggi governano l’Ade, le mie, e Persefone le ha accolte”.
“Non è vero, non è possib-“ Demetra, agitata era stata bloccata da un gesto secco della mano del dio che, nuovamente la riduceva al silenzio.
“Io non mento. Persefone vi raggiungerà presso i vostri altari domani stesso e da lì due mesi le saranno concessi per ponderare le sue scelte: allo scoccare di questi ella mi raggiungerà nell’Erebo e ne sarà incoronata regina, badate sorella, regina. Non concubina, non succube, non sottoposta. Ella sarà mia consorte, unica e degna consorte”.
“Ah, come se non fosse chiaro il vostro intento di strapparmela per pura vendetta verso me e nostro fratello. Non sono una sciocca Ade, voi vi circonderete di demoni lascive non appena me l’avrete portata via”, Demetra in principio ammorbidita dal vedere soddisfatta la richiesta di vedere nuovamente la figlia, aveva però assunto un’espressione cupa, come quella di chi sa come vanno realmente le cose.
“Sorella, io non sono Zeus”.
Con quelle parole, prima di perdere il controllo dinnanzi all’ennesima insinuazione, Ade aveva dato le spalle ai due dei al suo cospetto e, con passo marziale, aveva lasciato quei luoghi senza degnare più alcuno della propria attenzione.

Se solo fosse rimasto lì non sarebbe più stato responsabile delle proprie azioni.



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Cosa avrebbe mai potuto fare da lì?
Non poteva venir meno ai suoi incarichi, non poteva abbandonare quei luoghi, semplicemente non poteva far nulla.
Lui era morto e come tale, non avrebbe mai potuto varcare le soglie della luminosa superficie.
Quelle riflessioni, di un’apoditticità schiacciante, lo annichilivano lasciandolo senza la possibilità di ribattere alla coscienza severa che abitava il suo animo.
L’unico segno di quello stato di malessere erano le sopracciglia aggrottate mentre il labro inferiore, di un mortifero colorito violaceo, veniva morso senza pietà.
Radamando per la prima volta in vita sua in morte sua, si sentiva impotente.
Lì, seduto sul bordo del letto grezzo, non faceva che osservare il camino spento dinnanzi a lui.
L’aveva spento quando, in preda all’ira, aveva sentito quella preghiera addolorata mentre sempre quella voce, unica capace di scaldargli qualcosa dentro, andava perdendosi in singhiozzi e lacrime.
Solo dopo parecchi minuti di quella rigidità imposta si era alzato di scatto: un’idea balzana sembrava avergli restituito coraggio.
Avrebbe chiesto ad Ade il permesso di lasciare l’Averno, anche solo per un poco.
Si, e se chiede il motivo di questo viaggio?
Sei capace di mentire al tuo signore, Radamanto?
 Scuotendo la testa con far didiniego, il giudice aveva portato una mano alla bocca per coprire un’espressione seria e contrita mentre i suoi occhi vagavano febbricitanti dai suoi piedi al camino spento e dal camino spento ai suoi piedi.
Lì, la folgorazione.


Era stato difficile scrivere quel messaggio ma, ancor di più, farlo giungere presso i sacri altari della dea. Ma, se l’illuminazione aveva fatto centro, ella lo avrebbe ricevuto di lì a poco.
Aveva riacceso il fuoco, in silenzio, l'animo troppo speranzoso per turbare quel momento con frasi stupide o sciocche riflessioni a mezza voce.
Se era vero che tutte le fiamme sacre del regno dei morti erano dono di Estia, allora a lei e a lei sola, sarebbe giunto ogni messaggio lasciato bruciare tra quelle lingue di fuoco. 
Questo almento sperava Radamando.
In linea teorica era un ragionamento inattaccabile.
Un biglietto, una lettera sarebbe stata lasciata lì ad ardere nel focolare della camera e, in quello scritto, il giudice avernale, a modo suo, aveva provato ad esprimere il proprio dispiacere.
 
Cara Estia
Divina Estia.
Non esistono parole adatte per descrivere il rammarico che avvelena il mio cuore.
Vi siete presentata al mio cospetto come la più assurda delle dee e io, giudice integerrimo, vi ho odiata, vi ho odiata così intensamente da riuscire a sentire la vita scorrere nel mio corpo morto  e freddo.
Vi ho odiata perché voi, nella vostra grandezza, avete sacrificato ad un dio egoista, quanto invece vi avrebbe reso veramente ciò che siete: dea materna e calorosa come un fuoco in inverno.
Vi ho odiata perché quelle cavigliere mi ricordano la vostra prigionia ma, con sommo dolore, riportano alla mente anche queste mie catene fatte di morte e zolfo che mi vincolano in questo regno.
Vi ho sentita pregare, divina, vi ho sentita urlare e piangere dal dolore e avrei voluto morire ho sofferto, ho sofferto come a noi trapassati non è dato di soffrire.
Il vostro fuoco mi arde dentro e per questo vi odio, vi odio perché da voi non potrò mai avere nulla di più che un caldo fuoco ardente nel mio alloggio vuoto; vi odio perché voi non avrete mai più che un tempio desolato.
Perdonate, se potete, le mie parole piene di astio e sdegno ma non a voi erano dirette, voi che siete buona, e in fondo non così sciocca come credevo.
Sono impotente dinnanzi alla distanza che ci separa. Mai potrò raggiungervi, mai potrò respirare l’aria fresca del bosco che si narra circondi il vostro tempio, mai…mai potrò più vedervi o tenervi tra le braccia mentre giacete svenuta.
Avrei dovuto capirlo prima: “un cuore morto ha bisogno di tempo per ritornare a funzionare umanamente”.
Mi dispiace.
Ma la verità è che non mi dispiace affatto avervi avuta nella mia vita  morte, anche se per poco.
Io non potrò aver mai nulla di oltre, lo sò, la mia esistenza è conclusa. 
Ma la vostra, sciocca Estia, ancora non è nemmeno cominciata.
Non sprecatela.
 

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Avevano camminato in silenzio, lei, la dea, con le mani giunte sul grembo, l'altra, l'ancella, una pallida fiammella fluttuante.
Persefone non avrebbe saputo dire con che umore stesse procedendo verso quei luoghi abitati solo da un germoglio e da fiumi spettrali: una sorta di felicità angosciata le riempiva il petto come se l'emozione nutrita nel corpo fosse avvelenata da una sorta di cattivo presentimento.
Aveva deciso di percorrere il corridoio fatto di alberi adunchi e, sebbene l'idea di superarlo senza Ade le mettesse una certa agitazione, l'aveva percorso a passo svelto desiderosa di giungere il più presto possibile alla meta sperata.
E lì, l’aveva vista.
Lì aveva ringraziato il proprio presentimento.
Si vedeva chiaramente anche in lontananza: una figura minuta e dallo strano colorito verdognolo era inginocchiata al suolo e con mani artigliate graffiava il terreno brullo e da poco smosso.
Menta.
Aveva iniziato a correre, Persefone, la dea buona e amorevole, aveva iniziato a correre sorreggendo la veste verso l'alto in modo che non le desse impaccio alcuno nella corsa frenetica. Una rabbia nera le accecava lo sguardo mentre dall'abisso del suo stomaco iniziava ad affiorare un urlo animalesco.
"Cosa osi fare tu, demone?"
Per un solo istante la figura inginocchiata al suolo aveva smesso di muoversi come gelata da quella sorta di ammonimento ma, subito dopo, aveva ripreso a scavare con più foga alla ricerca di un qualcosa nascosto nel sottosuolo.
Il melograno.
Come fulminata da quella considerazione Persefone aveva aumentato il ritmo della corsa e per ritrovarsi alle spalle della succube folle.
"Fermati", con una spinta la dea aveva fatto leva sulle spalle di Menta che, trascinata dal vortice della pazzia, le si era voltata contro digrignando le zanne affilate.
"Tu, lurida sgualdrina di superficie, pensavi di potermelo sottrarre così?!" un gorgoglio simile ad una risata isterica aveva riempito l'aria.
"Ferma ho detto, o pagherai il fio delle tue azioni". Persefone, rigida come un soldato, la guardava come presa da forza spettrale: gli occhi, solitamente di un caldo color miele, erano invece vitrei, quasi senz'anima.
"Non sarete mai la regina di questi luoghi. Non lo permetterò mai", dando nuovamente le spalle alla dea, Menta aveva ripreso a scavare il sottosuolo ma le sue mani erano riuscite a smuovere solo poca terra perché Persefone, afferratala per i lunghi capelli serici incurante delle urla e delle mani della succube che ora le graffiavano le sue, l'aveva spinta con forza distante dal luogo in cui il prezioso melograno riposava.
"Non oserete".
"Pensate di fermarmi così, con uno strattone e una tirata di capelli? Non potete nulla contro di me, io sono una succube, figlia di questo regno d'ombra. Voi, invece siete solo una deuccia di superficie, inutile e goffa". Con quelle parole Menta era sgusciata via dalla presa della dea e con occhi iniettati di sangue la guardava con fare spiritato.
Aveva assunto le forme congeniali alla sua vera natura: due corna basse e attorcigliate facevano capolino dal capo ricoperto di serpi rossastre mentre dalla schiena, oltre alla coda verde di serpente, prendevano forma due ali di pipistrello.
"Voi non siete nulla in questo regno, puttanella" schernendo una Persefone completamente apatica e quasi assente, il demone le si era fatto incontro e con violenza l'aveva spinta verso la conca dei fiumi avernali.
"Vediamo se un bel bagnetto nel Flagetonte ti rinfresca l'animo", ridendo sguaiatamente aveva afferrato la dea che, mollemente, si era lasciata trascinare.
Stupita da quella remissività, la risata di Menta si era fatta più acuta mentre le mani, affusolate ma gelide, stringevano con forza il polso della dea.
"Qualsiasi cosa oserete farmi non rimarrà impunita". Persefone, con lo sguardo perso nel vuoto, si era lasciata condurre sulla sponda e, costretta in ginocchio, aveva mormorato quella sentenza di punizione.
"Non mi interessa se in cambio posso vedervi soffrire almeno un po’".
E con forza, la succube, afferrata la dea per i capelli, l'aveva spinta col capo dentro l'acqua.
 
 
Un singolo goccio di quelle acque e la dea avrebbe sofferto un dolore peggiore della morte.
 

 








 

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Capitolo 13
*** Capitolo 11 ***


Offrirsi
 
“E’ fatta?”.
Mani tremanti ancora sporche di terra.
“Suppongo di sì”.
Una voce profonda ma morbida, quasi emozionata.
“Supponete?! Non ne avete la certezza?” in quello scambio di battute a mezza voce Persefone gli aveva rivolto uno sguardo dubbioso e quasi sconcertato.
“Perdonami mia signora-“ un sorriso storto aveva illuminato il cupo volto del dio,
“vorrei farvi notare che questa è anche per me la prima volta. Nessuna divinità prima d’ora aveva compiuto un siffatto rito né mai prima d’ora io ne avevo sentito il bisogno”.
Un sorriso genuino questa volta aveva contagiato gli occhi solitamente tristi del sovrano; non vi era furore o brama in quello sguardo indirizzatole senza imbarazzo, quanto piuttosto una sottile delicatezza.
 
Lei gli si era promessa, lui le si era promesso.
 
Con le gote di un leggero colore rosato, la dea aveva ricambiato quello sguardo fatto di incredulità e al contempo emozione.
“Avete ragione. Perdonate la mia superficialità… vorrei solamente avere la certezza che quanto è stato compiuto sia stato fatto nel modo giusto”.
“L’Averno non segue queste categorie: l’Erebo non conosce il giusto di superficie”, la solenne affermazione del dio ctonio aveva ricevuto in risposta uno sbuffo di Persefone che, tiratasi su dal terreno umido con ancora le mani leggermente bagnate, l’aveva schizzato in volto sorprendendolo oltre misura.
“Allora spero di averlo fatto come esige l’Averno, mio promesso sposo”.
Era raggiante.
 
 
 
Era stato strano. Un dio come lui, avvezzo ai tradimenti e alle menzogne, avrebbe ritenuto quella celebrazione fin troppo semplice.
Non avevano chiamato nessun testimone, solo lo Stige avrebbe presenziato quel rito.
 
Persefone aveva preso con delicatezza il frutto dalle mani del signore dell’Averno e con riguardo ne aveva osservato la forma, soppesato il peso, odorato il profumo così fresco e diverso dal tanfo avernale. Aveva gustato quel melograno con gli occhi, persa in una sorta di limbo nostalgico che l’aveva trascinata nuovamente sulla superfice, di fianco alla madre, dinnanzi a distese di campi arati e ricchi di colori caldi.
 
“Venite Ade, dovete starmi di fianco” un sospiro morbido aveva ridestato Ade, perso nell’osservare i movimenti lenti della dea davanti a lui.
 
“Non credo sia una buona idea… voi siete la vita e io… esattamente l’opposto.” Un sorriso sghembo si era allargato su quel volto triste e pallido.
“Temo che anche semplicemente la mia presenza possa distruggere quel soffio vitale”.
“Non siate sciocco” cristallina lei lo aveva apostrofato con impeto.
“Come potete nuocere se io e voi siamo i beneficiari di questo dono? Il vostro nome è scritto su questo frutto, proprio di fianco al mio. Fatevi avanti, vi prego”.
Una mano reggeva il melograno, l’altra si era stesa verso di lui: invitante, innocente, speranzosa.
Con un sospiro strozzato in gola Ade aveva accettato quell’invito e, mossi due passi, le si era fatto di fianco.
Lei piccola e sorridente stava dinnanzi a lui, cupo in volto e con l’ansia dipinta in ogni ruga intorno agli occhi.
“Porgete le mani, dio”. Un sopracciglio sollevato a quella richiesta, il dubbio palesemente espresso con un “uhm” sfuggito dalle labbra strette.
“Fidatevi. Io di voi mi sono fidata”, un cipiglio gentile, quasi materno, aveva rassicurato impercettibilmente il dio che, con le mani davanti a sé, attendeva qualsiasi destino.
Persefone aveva sorriso e, allungato il frutto sopra quelle, ne aveva forzato la scorza dura svelandone il contenuto rosso scarlatto.
Preso un chicco tra le dita aveva mormorato un caloroso saluto, come quando si rivede un caro amico dopo tanto tempo e, con grande stupore del dio, lo aveva avvicinato alle labbra saggiandone il sapore fresco.
“Mia signora?”
“Shh…”, con gli occhi ancora chiusi aveva sollevato un indice verso il dio avernale, chiedendo solo un secondo per poter assaporare le meraviglie di quel chicco succoso. Solo dopo, quando la lingua aveva trovato soddisfazione, aveva preso un altro chicco per avvicinarlo questa volta alla bocca del dio.
Non aveva dovuto dare alcuna spiegazione: Ade, serio in volto, quasi colto da una bramosia sacra, aveva schiuso le labbra accettando quel dono di superficie.
Una scossa aveva percorso la spina dorsale della dea quando le dita avevano sfiorato la pelle insolitamente calda dell’avernale mentre una serpe dalle mille spire aveva stretto il cuore del dio portandolo a gemere per un desiderio primordiale che gli comprimeva il basso ventre in una dolorosa costrizione; ma non solo lì sentiva affluire il nero sangue. Il suo cuore pompava forsennatamente mentre il succo del melograno bagnava la sua lingua.
 
Come folgorato, capendo il senso di quel gesto, di quella offerta dolciastra, aveva preso quella mano tra le sue e ne aveva sfregato la pelle contro la guancia: un gesto carico d’amore e devozione.
“Vi sono legata-” un bisbiglio solenne che solo lui, a pochi centimetri da lei, avrebbe potuto udire.
“vi sono legata. In superficie questo è un rito di fedeltà e io mi lego a voi. Vi sono fedele, mio sovrano”, ora Persefone ne aveva preso una mano e stretta tra le sue, ne aveva baciato il dorso freddo.
 
Ora capiva perché la dea gli aveva offerto quel frutto prima di qualsiasi rito avernale: voleva legarlo a sé già nella sua dimora, portarlo con sé anche in quei due mesi di distacco: era sicura che non avrebbe cambiato idea.
 
E lui lo sperava, maledettamente.
 
Con sentimento aveva pronunciato a sua volta quel voto semplice e sentito
“Mia signora, vi sono legato. Il mio cuore è vostro.
La superficie che già ci vede uniti sia testimone all’Erebo di questo patto. Sono perdutamente vostro”.
Avevano giurato entrambi dinnanzi allo Stige che ode ogni vincolo e lì, proprio di fianco alla vita di Ade, Persefone si era inginocchiata per scavare il riparo del frutto.
 
Aveva mosso le mani in silenzio: esperta nell’arte e guidata dal proprio dono aveva visto in quel guscio di terra il nucleo della sua felicità.
“Siete sicura?” una domanda formulata quasi con timore.
“Di noi sono sicura”.
Ricoperto il melograno con la brulla terra della sponda, si era tirata su.
Ora, ammantata del silenzio del rito, la dea aveva mosso dei passi verso la conca dei quattro fiumi avernali per raccogliere nelle mani a coppa quanta più acqua possibile.
Aveva infine versato il liquido denso sul piccolo cumulo di terra smossa mentre le labbra bisbigliavano il nome del suo promesso.
Poi, in silenzio, si erano presi per mano.
 

---
 
 


Perché era scappata?
Non lo sapeva.
Perché soffriva?
Il suo cervello si rifiutava di trovare una qualche scusa valida.
Perché quell’organo in pieno petto le doleva come se fosse stato appena frantumato in mille e più pezzi?
Disperata e con la mano artigliata all’altezza del cuore Estia si era data alla fuga. Una fuga folle e immotivata: questo le diceva la mente fredda e razionale. Una fuga dal dolore: questo invece le suggeriva l’animo turbato e sofferente.
Quelle parole, scagliatele contro con rabbia e angoscia, l’avevano ferita in maniera disumana: un cuore umano non avrebbe retto quella sofferenza e lei, per sua fortuna, era una dea, una dea di fuoco. Quel muscolo, fatto di fiamma a sua volta, avrebbe resistito a qualsiasi dolore anche contro la sua stessa voglia di spegnersi.
Aveva solo bisogno d’ossigeno.
Aveva solo bisogno di stare da sola.
Come sempre.
 
Per questo aveva abbandonato il braciere dell’Erebo e sempre con questa giustificazione impressa nella mente aveva riguadagnato la consistenza corporea per fiondarsi fuori dal tempio desolato.
 
Se avesse avuto ancora una voce avrebbe urlato.
Ma ella non aveva un fiato in corpo che potesse essere distolto dai singhiozzi che le sconquassavano il petto.
Rabbia e dolore, sentimenti diabolici.
Persa in lande disabitate più sentiva il tintinnare delle cavigliere più un’ira cieca le montava nel petto soffocando qualsiasi barlume di lucidità.
“Vi odio…vi odio…”
Un mantra spietato le riempiva la mente mentre le immagini di Radamanto in piedi dinnanzi a lei le scorrevano davanti agli occhi bagnati e vacui.
Un mantra che presto si era spento in un “mi odio” mormorato a mezza voce.
Sfinita, infine, si era lasciata cadere al suolo: il viso stretto tra le mani mentre lacrime calde come lapilli di lava le solcavano le guance pallide e tirate.
 
“Sorella?-”
Una voce lontana la chiamava.
“Estia, mia dolce sorella? Anche voi distrutta?!”

 
Con gli occhi sgranati, la dea di fuoco aveva sollevato il viso verso quella voce così tanto familiare e così a lungo cercata.
Una Demetra insolitamente magra e smunta era davanti a lei, anche ella recava i segni di una pena indicibile in ogni ruga, in ogni smorfia di quel viso funereo.
 
“Demetra? Siete voi?” Estia, incredula e ancora scossa dai singhiozzi, le aveva rivolto uno sguardo implorante mentre le mani, tremanti, si erano fatte strada verso la veste sgualcita e logora della dea minore.
“Capisco il vostro sconcerto…non sembro più io, lo so”, un sorriso amaro aveva irrigidito il viso scarno di Demetra che, come presa da un ‘infinita stanchezza si era inginocchiata al suo cospetto.
“…Un dolore atroce mi avvelena il cuore. Mi è stato tolto tutto cara Estia e voi ben sapete a cosa io mi riferisca. Mia figlia è smarrita”, a quel punto aveva allungato le braccia per accogliere contro il suo petto la sorella persa nel dolore a sua volta.
“Ma voi invece? Perché vi disperate?”
“Vi prego-“Estia, come improvvisamente focalizzata su questioni ben più importanti del suo sconcerto, si era asciugata il volto bagnato con il dorso della mano e, riguadagnato un briciolo di contegno, aveva pregato la sorella.
“non badate al mio dolore, piuttosto ascoltate bene: Persefone sarà felice. A lei, almeno a lei, questo destino non è stato sottratto: la sua unione sarà lieta. Ve lo prometto, la stessa Era ne ha sposato la causa. Parlate con Ade, vi supplico. Vostra figlia è ancora vostra. Nessuno potrà portarvela via.”
Demetra, scossa da quelle parole, l’aveva afferrata saldamente le spalle e, quasi con mal grazia, aveva sollevato il viso bagnato della sorella cercandone lo sguardo.
“Che intendete?”
“Persefone è libera di scegliere. E se sceglierà Ade questo non vorrà dire che non la vedrete più. Nostro fratello è un dio buono”.
“Nostro fratello ci ha traditi per brama di potere”.
“Non è vero Demetra. Vi ostinate a credere questo per colpa del vostro amore per Zeus ma sapete bene quale sia la verità.”
“Ade me l’ha sottratta con l’inganno”.
“E’ stata la vostra follia a farvela perdere!”
Stanca di sentire quelle parole Estia aveva reagito prendendo le difese del fratello assente.
“Voi non siete diversa da me, sorella! Siete stata illusa, soggiogata da quel dio luminoso e per colpa vostra e sua avete consumato un tradimento già scritto nel destino di Persefone! Il Fato le concede la felicità, non siate così stupida da sottrarglierla”.
Pietrificata Demetra aveva deglutito, quasi avesse l’acqua alla gola; le mani strette in pugni lungo i fianchi.
“State forse dando a me la colpa di questo rapimento sebbene sappiate che la stessa Era le ha rifiutato protezione?”
“In cosa siete diversa voi? State facendo morire migliaia di esseri innocenti quando sapete bene che la colpa è di un Fato ben più grande di noi”.
 
A quelle parole la dea minore si era alzata di scatto, corpo fiacco permettendo e, con rabbia, aveva mosso dei passi indietro rispetto alla sorella ancora in ginocchio al suo cospetto. Gli occhi di Demetra stretti in due fessure
“Non permetterò che mia figlia marcisca nell’Erebo, sarei disposta a sacrificare tutti i mondi possibili piuttosto che la mia unica Kore”
“Intraprendete una strada infelice, sorella”.
“Sono già infelice, che lo siano tutti”.


Con quel mormorio digrignato a denti stretti, Demetra era nuovamente sparita lasciando erba marcia dietro di sé.
“Ade, vi prego, trovatela”, aveva sospirato esangue la dea maggiore.
 
Sentiva il profumo di catastrofe aleggiare per i campi deserti.
 
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Morto.
Forse avrebbe fatto un piacere a tutti gli esseri viventi e non.
Forse, se la sua vita si fosse conclusa in una tomba, nessuno avrebbe sofferto.
 
Radamanto era ancora lì, in piedi davanti al braciere quasi spento: le mani strette in pugni serratissimi, il volto una maschera di cera.
 
Merito solamente la morte e un nero buco nel quale giacere freddo.
Un cane, un cane rabbioso, ecco cosa hai mostrato a quella stupida dea.
 
Lei era svanita e con sé aveva portato via quella strana sensazione di calore che da qualche tempo gli riscaldava l’animo smorto. Era corsa via perdendosi nella cenere del suo stesso fuoco ma lui aveva visto.
Aveva visto come quel volto di fiamma si fosse corrucciato, come gli occhi, un tempo vispi e luminosi si fossero invece ridotti a due fessure strette e addolorate.
Era scappata via, e aveva fatto benissimo.
I denti stretti in un digrignare silenzioso erano gli unici testimoni di uno strano rodimento interiore.
 
Dea stupida e fragile.
Un pensiero saettante capace di fargli aggrottare impercettibilmente le sopracciglia.
Era vero, non avrebbe dovuto scagliarsi in quel modo contro quella strana creatura fatta di fumo e cenere; non avrebbe dovuto rinfacciarle la stupidità e la bontà con le quali aveva accettato consapevolmente un destino di solitudine dal quale mai avrebbe potuto avere scampo.
Ma a te che importa? Sei morto Radamanto… e lei non è il tuo signore.
 
Giustizia. La sua è una sorte ingiusta.
È solo per la giustizia che il tuo cuore batte nuovamente?
No.
Radamanto era un giusto. Un giudice severo e apodittico ma, ben sapeva che non solo giustizia muoveva il suo comportamento.
Avrebbe voluto consolarla ma era evidente che la morte, insieme al suo soffio vitale, si fosse presa anche la delicatezza dei modi.
 
Ricorda Radamanto, sei morto.


L’aveva odiata così tanto quando aveva osato andargli contro nel suo dominio, davanti al suo seggio sacro, in quella circostanza così delicata.
Eppure era stato strano tenerla inerme tra le braccia, sentire quel calore diramarsi dalle sue mani solitamente gelide fino alla punta dei capelli.
Lui era stato abilissimo nel negarsi tutto, nel negare l’evidenza.
 
Un campione, proprio.
Hanno fatto bene ad ammazzarti. Codardo.
 
Come definirsi altrimenti? Se anche dinnanzi a quei radicali cambiamenti aveva il coraggio di tenere gli occhi chiusi, coperti da una finta patina fatta di regole e norme, come altro poteva definirsi?
Lui sapeva di sentire; anzi, sentiva chiaramente che qualcosa nel suo corpo morto iniziava a prendere vita.
 
Non è permesso.
Radamanto, a te non è permesso. A lei men che meno.
Sei un giudice, morto. Resta tale e non esigere nulla di oltre.
 
Quegli ammonimenti mentali non erano però riusciti a distoglierlo dalla realtà circostante: era ancora solo nella sala del giudizio, il fuoco rosso, un tempo ardente, campeggiava mogio al centro della sala; una strana nube dolciastra iniziava a levarsi dalle offerte intorno all’altare.





 
Continuava quel lento ciclo distruttivo che nel giro di poco tempo avrebbe consumato l’essere vivente.
Una smorfia gli aveva corrucciato la fronte quando un eco gli aveva trapassato le orecchie.
 
Anche gli dei pregavano.

 
Sentiva quell’essenza balorda e sovrana ergersi sopra le altre che, disperate, invocavano la sorella Demetra affinché smettesse col proprio incedere folle.
 
Guarda dove ti ha spinto la bramosia di potere, folle di un dio.
 
Un coro fatto di mille voci sacre scongiuravano la fine del gelo e lì, in quel caos sonoro, finalmente riusciva a captare il gemito addolorato della dea fuggitiva.
 
-“Ade, vi prego, trovatela”- il bisbiglio di Estia chiaro e forte fin alle ossa.
 
Stava male, era chiaro.
 
Anche un morto l’avrebbe capito. E lui lo era, morto e insensibile inoltre.
 
Biasimando sé stesso e la propria mancanza di delicatezza, aveva prontamente riordinato le carte sullo scrittoio e, preso un respiro profondo, aveva osservato le fiamme ora sottili.
 
Doveva parlare col suo signore, metterlo al corrente di quanto successo presso la sala delle offerte così come in superficie, dove una dea addolorata pregava accoratamente l’intervento dell’avernale.
Ecco ciò che avrebbe potuto fare.
Avrebbe potuto solo limitarsi a riferire, rimanendo impotente in un angolo del nero Erebo.
E anche se lei soffriva, e anche se lei si spegneva lentamente sotto i suoi occhi, non poteva fare nulla.
Un ghigno nero e terribile aveva trovato posto sulle labbra secche:
anche lui indossava delle cavigliere invisibili che non gli avrebbero mai permesso di varcare quel regno fatto di morte e desolazione.
 
Complimenti Radamanto, con molta probabilità non la vedrai mai più.
 
 
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"Sapete cosa ho intenzione di dirvi, mio signore”.

“Avreste potuto aspettare”. Ade, avvolto nel suo mantello nero, non nascondeva il fastidio dato dalla situazione.
Discutere col suo giudice dopo aver celebrato un rito d’unione non era esattamente ciò che il suo cuore bramava.
Avrebbe preferito passare quei momenti compagnia dell’unico essere per lui prezioso e invece, il suo fedele Radamanto, l’aveva intercettato lungo i sentieri neri della dimora e una volta fattosi vicino aveva formulato quell’unica asserzione.
“Sapete cosa ho intenzione di dirvi, mio re”.
Certo che sapeva. Come poteva anche solo per un secondo dimenticarsi di quanto scompiglio quella folle della sorella stesse causando? Come poteva ignorare il dolore dei suoi fedeli: lo sentiva nelle orecchie, lo percepiva fin dentro le ossa.
Morti ingiuste.
Ecco cosa non avrebbe potuto a lungo tollerare.
“Dovete cercare Demetra, vostra sorella, mio signore. Dovete, prima che sia troppo tardi”.
 
Ade aveva digrignato i denti in cuor suo ben conscio della possibilità di dover “cedere” qualcosa per non scontentare nessuno.
Sapeva che non per suo tornaconto ma per volere degli altri “divini” doveva esser pronto a scendere a compromessi con la madre della sua futura sposa.
Futura sposa
Forse solo per amor suo avrebbe fatto un passo indietro.
Ma mai, mai avrebbe rinunciato alla sua Persefone.
Quel pensiero, quella sola vaga possibilità di dover anche sacrificare un solo giorno di compagnia della sua amata, l’aveva fulminato con una tale intensità da contrargli le viscere e scurirgli gli occhi, riportandolo a quella massa fatta d’odio e rancore che era solito essere in passato.
Irriconoscibile a sé e al suo secondo, aveva stretto le labbra mentre un ruggito roco gli risaliva dal petto con fare bestiale.
“Mio signore, voi sapete cos’è giusto a differenza dei superficiali”, Radamanto, a capo chino, aveva pronunciato quelle parole come una sentenza.
“Si”, secco e terribile Ade gli aveva voltato le spalle.
“Preparate i miei cavalli, giudice. Stasera stessa mi recherò sull’Olimpo”.


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Bussavano alla porta.
Due colpi dati con fermezza che però non avevano turbato la strana miscela fatta di quiete e impazienza che le inondava l’animo.
 
Sapeva chi vi era dietro quel legno robusto.
 
Non sapeva se la sua fosse certezza o sola speranza: forse aveva desiderato con una tale intensità che dietro la porta vi fosse il suo signore che, non appena scostato l’uscio, aveva accolto con un sospiro quel dio nero che l’avvolgeva in silenzio tra le sue braccia.
 
Eppure non da molto i loro cammini avevano imboccato strade diverse: lei scortata nelle sue stanze, lui nella sala della sentenza. Non sapeva con certezza quando avesse iniziato a sentire la sua mancanza: era lì, da un po', un vuoto celebrale che poteva essere soddisfatto esclusivamente da quelle labbra sottili e calde.   Il sovrano dell’Averno non aveva esitato un istante e, nemmeno varcata la soglia della camera subito le si era stretto contro, esigendo quella bocca rosea e succulenta.
Non la stava baciando, la stava possedendo con le labbra, la stava sciogliendo mentre le mani, abili e gelide, le strappavano gemiti impudichi.
Con che cuore staccarsi da quel corpo?
Erano promessi eppure qualcosa in lei la portava a fermare quell’intrusione brutale e al contempo desiderata. Qualcosa nell’atteggiamento del dio la portava a ritrarsi, a chiedere spiegazioni.
Per questo, forzando sé stessa e la propria volontà – completamente persa su quelle labbra da gatto fameliche- aveva posto le mani tremanti sopra il petto del dio e con una leggera pressione l’aveva allontanato da sé.
Non era servita forza. La sola intenzione di allontanarlo aveva immediatamente placato Ade che, con un respiro leggermente affannato, ora stava ad occhi chiusi con la fronte poggiata sulla sua.
Persefone non aveva avuto bisogno di parole. L’aveva letto su quel viso turbato, su quei gesti frenati a stento, negli occhi angosciati del dio:
stava andando via.
Avvolto nel suo mantello nero, rivestito con piastre di metallo finemente lavorate e con ai piedi la kunee rosso sangue poggiata di fretta per prendere invece lei, aveva capito.
Quello era un addio, l’addio di un re che va in guerra.
“No” aveva mormorato cercando il suo sguardo, ostinatamente celato dalle palpebre,
“No, vi prego” aveva nuovamente pregato mentre le mani stringevano il tessuto morbido del mantello.
“Devo. Lo sapete”.
“Portatemi con voi. Lei soffre indicibilmente”.
“E io? Non sono forse turbato alla sola idea di perdervi per sempre per il volere di una folle?”. Solo allora il dio l’aveva guardata in volto, gli occhi furenti, i capelli lunghi e neri scomposti sulle spalle. Trasudava rabbia e angoscia.
“Non potete perdermi. Mi sono promessa a voi”, un sorriso tenero era stata l’arma di Persefone ma il signore dell’Averno, fin troppo avvezzo alla sofferenza, l’aveva osservata con dolore dipinto in volto.

"Vostro padre mi ha bandito per secoli dai cieli luminosi solo per un sospetto. Non oso immaginare cosa sarebbe capace di fare se solo sapesse che vostra madre sta decimando i suoi preziosi fedeli. Senza preghiere noi non esistiamo”.
Cupa in viso e con una opprimente sensazione di abbandono che le gravava sulle spalle, aveva stretto Ade contro il suo petto tremante, silenziosa e rassegnata.
“Tornerò presto e solo allora sarà il vostro turno: andrete da vostra madre e se dopo due mesi avrete ancora questo desiderio nel cuore allora sarò vostro. Per sempre”.
Un sorriso mesto aveva illuminato il viso di Ade nascosto nella folta chioma della giovane.
Nel silenzio della camera il signore dell’Averno le aveva mormorato all’orecchio con voce bassa
“cosa desidera il vostro cuore, mia dea?”
 “Io…desidero…” Persefone sorrideva tristemente, “voi”.
 
Malizia?
Si. Malizia nella sua voce.
 
Non solo quella. Anche una dolce nota di paura e apprensione avevano arrochito la voce della dea mentre Ade, scosso nei suoi istinti, l’aveva osservata famelico.
“Noi siamo già uniti, in superficie” aveva puntualizzato con fare perso la dea e, a quella sottile allusione Ade aveva risposto con un bacio vorace.
 
Lei era già sua. Era mostruosamente vero.
 
Quella dea era sua, pronta per lui e quando quella aveva afferrato le sue mani e con devozione ne aveva baciato i palmi anziché i dorsi, egli aveva completamente perso il senso di sé.
La sua lingua aveva varcato la soglia delle sue labbra schiuse e mentre il bacio si faceva più profondo il dio la sospingeva verso l’immenso letto al centro della stanza.
Nessuna parola, solo sospiri mentre quelle mani gelide si insinuavano sotto le vesti alla ricerca della pelle calda.
Persefone sentiva il tormento nei gesti del sovrano, la bramosia trapelare dai suoi sospiri mentre qualcosa di turgido premeva contro il suo ventre con fare impudico. Un imbarazzo virginale le aveva imporporato le guance accaldate: sentiva le mani del dio esplorare il suo corpo con una reverenza senza pari.
“Persefone, vi voglio maledettamente”. Un ruggito basso e roco mormorato contro il suo orecchio l’avevano fatta inarcare contro Ade che, sopra di lei, si beava della vista di quell’essere tremolante e travolto dalla passione. Con lentezza e sempre fissando quel volto arrossato alla ricerca di un qualche dubbio, aveva mosso la mano verso l’interno coscia della dea che, a quell’inaspettata pressione, aveva aperto gli occhi cercando il suo sguardo. E sempre con gli occhi incatenati l’uno l’altra Ade si era spinto più su verso la sua femminilità calda e invitante.
 
Non avrebbe osato prenderla. Non avrebbe osato possedere quel corpo prima che la loro unione fosse legittima agli occhi dell’Averno, ma le avrebbe dato piacere. Le avrebbe dato piacere rispettando il corpo di vergine desiderosa che sentiva pulsare sotto le proprie dita.
 
“Guardatemi mentre vi sfioro”, le aveva mormorato tra un bacio e l’altro provando a rassicurarla, mentre le dita, oramai calde, si insinuavano sotto il delicato tessuto che avvolgeva le sue zone più nascoste.
L’aveva vista sgranare gli occhi, l’aveva sentita stringere impercettibilmente le gambe come risposta incondizionata a quella nuova invasione; e più la guardava più pregava che il proprio istinto si saziasse di quell’assaggio che con grande sforzo concedeva a entrambi.
“Ade io ho paura…” aveva mormorato Persefone con un filo di voce: gli occhi languidi e lucidi alla disperata ricerca di sicurezza.
“Sono vostro. Non oserò violarvi”, mormorando contro le sue labbra quelle dolci raccomandazioni, aveva iniziato a sfiorarla intimamente: una carezza superficiale ed esterna ma non per questo incapace di far tremare la donna sotto di sé.
Persefone lo sentiva. Sentiva quegli occhi divorarla mentre dita gentili le sfioravano il centro caldo del corpo.
Milioni di piccole scariche elettriche si diramavano dal punto sapientemente accarezzato dal dio, Ade sapeva come darle piacere e sfregando con movimenti circolari la sentiva bagnarsi, prepararsi.
Avrebbe voluto prenderla così: calda, inesperta, e gemente.
Ma non l’avrebbe fatto.
Si sarebbe limitato a accarezzarla con amore e a vederla contorcersi contro la sua mano oramai bagnata di umori.
Vergine e appassionata.
Vergine sarebbe rimasta ma sapendo che gli apparteneva; che solo le sue mani avrebbero accarezzato il suo corpo e fatto in mille pezzi la sua anima.
“Persefone, siete mia. Sentite come reagisce il vostro corpo, sentite come tremate, sentite come vi voglio- “un gemito roco era sfuggito dalle sue labbra mentre col bacino aveva fatto pressione contro di lei per farle capire quanto anch’egli, a sua volta, fosse perso.
“Ade, Ade…mio signore”, usciva infine sconfitta da quella tortura.
Stringendo gli occhi e allungando le sue braccia verso il collo del dio l’aveva tirato contro di sé mentre spasmi muscolari la travolgevano come onde.
Il suo cuore batteva forsennatamente e il seno si abbassava ritmicamente contro il petto del dio. I capezzoli turgidi non erano però sfuggiti alla sua attenzione e ben deciso ad annullarla regalandole altri gemiti si era chinato sul suo petto ansante.
Scostata la veste leggera e scomposta aveva assaporato ogni dettaglio di quell’immagine divina: la sua Persefone gli si offriva ad occhi chiusi.
Così, con delicatezza, aveva infine poggiato le labbra sulla punta e lentamente aveva iniziato a leccare e a succhiare. Un gesto intimo e devoto.
 
La deva gemeva tenendo quel capo stretto contro il seno. Godeva mentre tra le gambe sentiva distintamente un liquido calda riscaldarla.

----



….
……
Giacevano scomposti sul letto sfatto, o per lo meno, lei era scomposta.
I capelli sparsi sui cuscini, la veste gualcita e gli occhi languidi guardavano con affetto il signore sedutole di fianco.
Amore, ecco cosa dicevano i loro sguardi.
 “Sarò presto di ritorno, mia signora”. Il suo cervello, ancora stravolto da quanto successo, era riuscito solo a proferire quella vaga e debole rassicurazione accompagnandola con una carezza al volto rosato e leggermente accaldato della sua amata; un gesto tenero al quale la dea aveva risposto socchiudendo leggermente le palpebre e umettando le labbra: un chiaro invito ad essere baciata prima di sprofondare in un sonno ristoratore.
Lui aveva eseguito l’ordine e carezzando la sua bocca in un bacio intimo le aveva infine mormorato all’orecchio
“Sarò ragionevole, per voi e voi soltanto, lo prometto”.  L’aveva vista accennare un sorriso e abbandonare delicatamente il capo contro il suo petto.
 
Solo tempo dopo Ade aveva avuto il coraggio di alzarsi.
Il cuore in fiamme pronto a difendere ciò che gli apparteneva.












L'Angolo di Avareil
Credo che delle scuse siano d'obbligo. Avevo promesso una presenza costante e invece eccomi qui con almeno 5 giorni di ritardo. Mi spiace sebbene in mia difesa possa dire che il ritardo è dovuto ad un problema di vista. Ho iniziato un lavoro che prevede lo stare al pc otto ore al giorno quindi, una volta a casa, i miei occhi sono letteralmente a pezzi.
Sperando di avervi mosso a pietà ( ehehe ) vi saluto con affetto, con la speranza di sentire presto qualche vostro commento, positivo o negativo non importa.  Desidero sapere cosa ne pensate di questo caos ^^.


 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Scelte
 
Un dolore lancinante l’aveva trafitto alla gola tanto da fargli momentaneamente perdere il controllo del carro trainato a tutta velocità dai quattro cavalli avernali.
Una mano, abbandonate con violenza le briglie, era corsa al collo dove un fuoco rovente sembrava ustionargli le membra.
 
Persefone
 
Quella parola, presentatasi spontanea nella sua mente, l’aveva lasciato ad occhi sbarrati mentre il dolore, fattosi liquido ardente, correva fino allo stomaco.
 
No, no no, diamine no!
 
Riafferrata la briglia persa, il sovrano aveva ripreso la folle corsa verso la cieca voragine apertasi al suolo, unica via per raggiungere l’oscuro Erebo.
Nemmeno il dio sapeva in che modo fosse giunto nel suo regno, travolto da una sana e pura paura non sarebbe riuscito a ricostruire lucidamente gli ultimi istanti della sua discesa: un attimo prima era consapevole di trovarsi in superficie, immerso nel ridente cielo stellato con la consapevolezza di aver chiarito la propria posizione in merito al desiderio di aver Persefone al suo fianco per sempre e, un attimo dopo, era invece lì, sconvolto e dolorante alla ricerca dell’unica persona di cui avrebbe potuto provare sulla pelle le stesse sofferenze.
Abbandonati i cavalli alle cure dei guardiani si era precipitato a passo svelto oltre il tempio sacro, meccanicamente, come guidato da una forza superiore, aveva percorso i lunghi e stretti corridoi, diretto alle sue camere.
Sperava con tutto il cuore di trovarla lì, stesa sul letto sfatto, ancora avvolta nella morbida coperta che lui stesso, poche ore prima, aveva posto sul corpo nudo. Lo sperava dannatamente ma sapeva bene in cuor suo che in quelle camere avrebbe trovato solo silenzio e freddo.
Per questo motivo non aveva bussato, non aveva chiesto il permesso prima di scostare l’uscio e riempirsi gli occhi di vuoto e assenza.
“Persefone?” l’aveva chiamata con fatica, la gola ancora in fiamme.
“Persefone?!” con una mano stretta intorno al collo interiormente ustionato aveva tentato di parlare con più chiarezza ma il dolore insopportabile gli impediva di articolare la voce.
“PERSEFONE!”
L’urlo disumano era fuoriuscito dal suo corpo con strazio.
Un urlo il cui riverbero aveva fatto tremare l’intero Orco, gettando i suoi abitanti nella più disperata delle angosce.
 
Correva.
 
Il lungo mantello slacciato in velocità e abbandonato al suolo con un gesto secco alla ricerca di refrigerio: un caldo soffocante e logorante risaliva dallo stomaco contratto per acuirsi in bocca dove la lingua, di uno strano colorito violaceo, palesava lo stato di avanzata decomposizione delle interiora.
Se lui versava in quelle condizioni, lui che era il signore di quei luoghi, la sua Persefone era distrutta da una tortura che non avrebbe mai avuto fine.
Solo una poteva essere la causa di quella maledizione ardente che bruciava le viscere, solo il Flagetonte, unico tra i fiumi avernali a fluire con impeto, castigava coloro che osavano bere delle sue acque con fuoco purificatore dell’animo.
 
Le pupille del dio, di un insolito nero e strette in linee sottili, palesavano quella consapevolezza in una memoria presentatasi alla mente come una folgorazione…
 

Ade, come state?”
Proto, incurvata su sé stessa, non aveva smesso per un istante di scrutare il giovane sovrano dell’Averno, di divine fattezze ma dal fato oscurato alla vista della moira.
Ade, questo il nome del dio a cui lo Stige aveva imposto il sacrificio, era rimasto come pietrificato dinnanzi alle lunghe e impenetrabili mura del Tartaro.
Ade, colui che è sottratto alla vista.
Fato beffardo.
“Come volete che stia?”, la voce cupa e seria svelava la maturità di quel dio così stranamente composto anche dinnanzi alla peggiore delle sorti.
“Se fossi in voi non sarei tanto triste, la vita dei superficiali è piena di futili cose-” la vecchia aveva parlato mentre con passo incerto aveva iniziato a muoversi verso il grande varco d’ingresso.
“I dei che voi tanto invidiate non capiranno mai ciò che vi è dall’altra parte. Inseguiranno amori, glorie, vendette e non vedranno mai oltre…-” una risatina decrepita aveva interrotto quella riflessione dal retrogusto amaro per poi trovare conclusione in un’asserzione fatta a monito sacro
“… ma avrete modo di vederlo da solo, coi vostri occhi”, chiudendo in quel modo una discussione assolutamente confusa che il dio, distratto dai propri pensieri fatti di dolore e sofferenza, non era riuscito a ben cogliere.
Solo quando la figura dell’anziana si era fatta impercettibilmente distante si era come riscosso dalla paralisi data dalla paura di quella sua nuova sorte e subito si era proteso verso quella per offrirle un braccio d’appoggio.
“Caro Ade…-” l’anziana aveva accolto quel gesto garbato con un sorriso genuino e solcato da milioni di rughe,
“andiamo, mia sorella ci attende”.
Avevano camminato in silenzio, lui, il dio nero e dalla veste logora e lei, divina anziana ingobbita ma, una volta giunti presso la sacra camera dell’altare, un prodigio aveva fatto si che non la tenera anziana ma un’altra figura di giovane donna avesse preso il posto della prima.
Strana nelle fattezze e dai movimenti nervosi, ella aveva lasciato il braccio al quale la vecchia Proto si era poggiata e ora dava le spalle a un dio stranito da quello strano scambio.
Lachesi teneva una matassa di fili tra le mani e, fin troppo interessata a sbrogliarne i nodi, non aveva distolto da quella lo sguardo nemmeno quando la voce, leggermente stridula, aveva richiamato il giovane all’attenzione.
“Sommo Ade, se siete veramente il più ragionevole della vostra stirpe, avrete sicuramente capito che questa è la sala del tempio toccatovi in sorte. L’Averno non è il peggiore dei regni possibili: egli ha le sue leggi, leggi che diverranno le vostre. Egli ha i suoi modi, i suoi luoghi, il suo tempo e il suo spazio e tutti diventeranno vostri. Niente qui soggiace alle leggi di superficie. L’Erebo di cui siete il signore vi sarà fedele solo se voi sarete giusto ma-“,  solo allora ella aveva sollevato lo sguardo verso il volto bianco ed emaciato del suo interlocutore,
“…ma questo avrete modo di vederlo da solo, coi vostri occhi”.
Un sorriso sghembo aveva illuminato il viso della giovane donna che, richiamata dalla matassa che aveva tra le mani, aveva nuovamente distolto lo sguardo.
 
Dopo pochi secondi era svanita, proprio come si era palesata.
 
In silenzio e con ancora il corpo dolorante per i colpi ricevuti a tradimento, Ade si era guardato intorno: nulla di ciò che lo circondava gli era familiare.
E poi per lui, vissuto in un ventre senza uscita, cosa mai poteva essere familiare?
Libero di muovere i primi passi nella luce della vittoria si ritrovava invece precipitato in un’altra oscurità, ben peggiore, perché scelta di sua sponte.
Mai i suoi occhi avevano visto cieli neri senza astri, mai le sue orecchie avevano udito gemiti e addolorate preghiere come quelle che lo avevano accolto una volta messo piede nella camera dell’altare; un fortissimo odore di miele gli inebriava la mente travolgendolo con forza.
Quasi perso in quel fantastico profumo rigenerante, non si era accorto di una vocina sottile che lo richiamava insistentemente da basso.
La proprietaria di quel suono melodioso aveva dovuto strattonare le vesti del dio per ricevere da questo una qualche attenzione.
“Ma insomma!”
Ade, leggermente più presente a sé stesso, aveva focalizzato l’attenzione sull’essere che lo aveva appena rimproverato.
Una bambina, una bambina divina dallo sguardo di fiamma e con lunghi capelli acconciati in una severa coda lo stava richiamando.
“Perdonate la mia distrazione...?”
“Atropo, io sono Atropo e adesso, se non vi dispiace, dovrei farvi vedere un’ultima zona del vostro immenso e ospitale regno”.
Come richiamato a più spiacevoli circostanze, il nuovo sovrano aveva perso il leggero sorriso, che gli aveva rilassato i muscoli tirati e contusi del volto, per riassumere un’espressione seria e compita.
Atropo, leggermente intristita da quella sofferenza che leggeva chiaramente negli occhi del dio, non aveva smesso per un secondo di tenerlo per la veste: nella sua ingenuità sperava di trasferirgli una qualche forza utile ad affrontare quell’ultima parte del cammino, la peggiore.
Ma quando gli occhi vitrei del dio si erano spinti oltre il sentiero spoglio costeggiato da alberi adunchi e secchi, ella lo aveva sentito trattenere il fiato.
“No, vi prego”, Ade come paralizzato, aveva supplicato pietà.  
“Non abbiate paura. Questo è il vostro regno, quelli sono i vostri fiumi e quella è la vostra sacra conca. Lo Stige vi ha scelto e come voi vi siete promesso anche lui si è votato a voi e a voi soltanto”.
Ma quando il dio, come tramortito dal ricordo del dolore provato presso quelle acque pesanti e grigie, non era più riuscito a muovere un passo, ecco che Atropo aveva ripreso a parlare con più dolcezza.
 “Sapete Ade, questo regno è fedele. Questo regno ama proprio come gli altri. È solo più oscuro e non tutti ne sanno cogliere la vera natura ma vedete…”
A quel punto il passo della bambina si era proprio fermato in prossimità della sponda fatta di terra brulla e secca.
“…vedete, li su a destra, nascosto dalle rocce scorre placido il Lete, e scorre per aiutare i mortali a dimenticare le sofferenze terrene o le gioie che li ancorerebbero al passato. Lì invece sulla sinistra ci sono lo Stige e l’Acheronte, il primo sacro protettore dei giuramenti il secondo, invece, patrono del dolore e dei lamenti”.
Atropo infine si era alzata sulle punte e con la manina aveva puntato il dito verso un fiume posto più lontano dagli altri ma il cui fluire era ben visibile a causa della forte e turbolenta corrente,
“quello infine è il Flagetonde, esso è fuoco e purifica l’animo di chi si bagna nelle sue onde. E lo Stige…”
Lì Ade aveva ripreso la parola e, forse con sgarbo, l’aveva interrotta
“So cosa esige lo Stige”.
La divina moira allora aveva indirizzato al proprio interlocutore uno sguardo sincero e, con un sorriso spontaneo aveva affermato
“Sono doni di un regno al suo signore”.
“Sono armi”, Ade aveva risposto secco.
Il sorriso della divina si era fatto allora mesto
“Sono doni…-
…ma questo avrete modo di vederlo da solo, coi vostri occhi”.
 

 
Una serie di colpi di tosse violenti gli avevano sconquassato lo stomaco tanto che, quando col dorso della mano era andato ad asciugare un angolo della bocca stranamente umido, si era reso conto che del sangue era stato sputato fuori.
Sangue nero, sangue di un corpo avernale che avrebbe resistito a quel tormento in un modo o nell’altro.
Ma lei?
Le immagini vivide del suo primo incontro nell’Averno gli riempivano gli occhi mentre i passi, accelerati, seguitavano verso il luogo in cui sapeva, sentiva, che l’avrebbe trovata.
Doni? Dannato il cosmo! Quale dono vi è in un fiume che arde le viscere di chi osa berne?
Coi denti digrignati una maledizione era volata verso il cielo
Osate sottrarmela, Averno osa sottrarmela, e verrai distrutto.
Lo Stige mi sia testimone.
A confermare i suoi tragici dubbi un piccolo fuocherello che gli si faceva incontro con fare rapido.
“Ancella!” Ade aveva parlato con rabbia e sofferenza.
“Mio signore, vi prego Persefone, Persefone ha ingoiato l’acqua avernale!”
Emisu, con le lacrime agli occhi aveva parlato di getto, travolgendo il sovrano dell’Erebo con una serie di informazioni, una peggiore dell’altra.
Non aveva avuto bisogno di sentire oltre.
Smaterializzandosi con le ultime forze che aveva in corpo, aveva infine raggiunto la piana brulla.
Sulla sponda, a pochi passi dal luogo in cui egli aveva versato il proprio sacrificio secoli e millenni prima, giaceva Persefone.
Pallida in volto e con le labbra di uno strano colorito violaceo, la dea si contorceva al suolo emettendo sempre più deboli gorgheggi e lamenti.
“Persefone!”.
Ade, stravolto e dolorante, era rimasto gelato da quella vista.
Debole e con le mani protese in avanti, come a voler chiedere spiegazione di quella terribile vista, si era lasciato cadere al suolo. In ginocchio dinnanzi alla sua dolce sposa, aveva chinato il capo.
Le labbra strette in una linea sottile che non lasciava sperare nulla di buono mentre dietro di lui l’ancella si apprestava a dire tutto ciò che i suoi occhi avevano visto.
“Padrone, Persefone è stata-“
Vedo”. Non la voce di Ade ma quella dell’entità sovrana in lui aveva pronunciato quella risposta secca.
Lui era l’Averno.
Lui era i suoi luoghi, i suoi tempi e i suoi sudditi.
Lui era tutto e vedeva.
Giungeva il momento in cui vedeva, coi suoi occhi.
 Non sarebbe servita una parola in più, non una in meno.
Chiuso in un silenzio tombale, un’Ade completamente trasfigurato in una figura nera circondata da un’aura altrettanto oscura e torbida, aveva allungato le mani verso quel gracile corpo tormentato dalle acque del Flagetonte impetuoso e, con gentilezza, l’aveva sollevato di peso.
Il sovrano dell’Orco procedeva a passo lento verso la scelta peggiore che gli si sarebbe mai potuta presentare.
Persefone, tra le sue braccia, assolutamente incosciente, giaceva col capo innaturalmente rivolto al cielo senza astri.
Alle loro spalle, un buco nella nera terra con nulla dentro.




---



 
 
 
Era sconvolta.
Completamente sconvolta tanto che le mani, solitamente ferme, le tremavano come foglie in inverno.
Cos’era quella lettera che profumava di zolfo e morte?
Chi?
Cosa?
…Come?
A dire il vero Estia avrebbe saputo trovare una risposta a tutti quegli interrogativi affastellati confusamente nella sua testa.
Radamanto.
Radamanto le aveva inviato una lettera.
Radamanto le aveva inviato una lettera dalle profondità dell’Averno.
Si era fatto furbo. Il giudice intransigente e irreprensibile, aveva sfruttato il passaggio che lei stessa, in prima persona, non aveva esitato ad utilizzare quando la voglia di sapere, vedere e conoscere si era fatta troppo impellente.
 
Ma come fai a mentire a te stessa in questo modo, Estia?
 
Anche dinnanzi alla più palese delle verità avresti la forza di mettere la testa sotto la sabbia così da non vedere quello che ti si mostra?
Per una volta ammetti perché lo spiavi.
Mai.
 
Riscaldata dal braciere del grande tempio solitario, la dea aveva afferrato con gesto lento quel pezzo di carta grigio e stranamente odoroso di morte e lamenti; un foglio che aveva fatto capolino davanti ai suoi occhi tutto d’un tratto, proprio quando quel senso di malessere aveva iniziato ad abbandonarla, complice lo scorrere del tempo.
Ed invece quel maledetto foglio di carta, nella sua semplicità spartana, aveva sconvolto quel fragile equilibrio che era riuscita a riguadagnare.
Con dita tremanti aveva sollevato i lembi di carta con delicatezza e, quando gli occhi si erano soffermati sulle frasi un po' contorte e un po' cancellate di quello strambo giudice, si era messa a ridere; una risata di cuore che aveva riempito la voragine interiore di farfalle.
Quello sciocco, deve soffrire di personalità molteplice.
Questo il primo commento a incurvare in un sorriso le labbra carnose della dea.
Quel giudice, insensibile e irrispettoso, incapace di tenere a freno la lingua, dimostrava di essere assolutamente confuso anche in merito al suo stato di natura: era morto eppure sentiva, era vivo dentro eppure le catene dell’al di là lo bloccavano con forza costringendolo ad abiurare ogni sentimento umano che, con una forza oltre morte, cercava di affermarsi.
Ma Radamanto ha mai vissuto?
Un uomo, sebbene dimentico della vita, non smette di esser uomo nemmeno in morte. Ma lui? Lui sembrava proprio inconsapevole: ignorava cosa fosse la vera vita.
Un riso sarcastico aveva oscurato la spontaneità del precedente
E lei? Se nemmeno lei che era una dea poteva affermare di aver mai vissuto, da che pulpito commiserare il povero giudice?
Io e te, caro Radamanto, siamo proprio dei casi disperati.
Essere dei, essere immortali, non ci rende diversi da voi uomini.
Entrambi siamo vulnerabili ai voleri del Fato.
Una sorta di sospiro liberatorio era sgattaiolato dalle labbra socchiuse.
Estia, con sempre il foglio ben stretto tra le dita, aveva imboccato l’uscita della cella per recarsi nel silenzio del suo bosco e lì, accomodatasi su una rocca, aveva ripreso l’estenuante lettura.
...Cara Estia
Divina Estia…

Vi ho sentita pregare, divina, vi ho sentita urlare e piangere dal dolore e avrei voluto morire ho sofferto, ho sofferto come a noi trapassati non è dato di soffrire…

Sono impotente dinnanzi alla distanza che ci separa…

…mai potrò più vedervi o tenervi tra le braccia mentre giacete svenuta.


…Mi dispiace.
 
"Disgraziato di un uomo!” Alzatasi di scatto, in balia di sentimenti turbolenti, la dea non si era accorta delle copiose lacrime amare che le inumidivano le gote.
La lettera, accartocciata in una palla informe, era finita scagliata tra i cespugli.
Lontano dagli occhi disperati.
Lontano dal cuore trafitto.
“Disgraziato di un uomo! Disgraziata me!” le mani ora coprivano il viso devastato mentre le parole seguitavano a scorrere come un fiume in piena.

“Sono stanca di tutto questo, sono stanca” con il dorso della mano aveva ripulito alla bene e meglio gli occhi umidi mentre una strana consapevolezza iniziava ad arderle il petto, proprio all’altezza del cuore.
Si era mossa in silenzio, una determinazione devastante dipinta negli occhi vitrei come acqua gelida.
Doveva togliersele. Doveva togliersele immediatamente.
Non un minuto di più avrebbe tollerato quel tintinnare metallico proveniente dalle caviglie sottili.
Se ne sarebbe disfatta e con quelle avrebbe riscattato il proprio giuramento.
Lei era Estia, una dea completa in sé stessa e quella verginità, quella verginità con la quale era stata ingannata, non l’avrebbe più ostacolata.
Una volta raggiunta nuovamente la sala. aveva rovistato dentro le mille credenze disposte in cerchio rispetto al sacro altare e, solo quando le mani avevano sfiorato l’oggetto desiderato, aveva sospirato.
Un’angoscia nera le divorava il cuore mentre le dita tremanti sfioravano la pergamena dalla filigrana d’orata.
Una pergamena bianca: questo il motivo, la causa del suo sconforto.
Una pergamena bianca e intonsa a rappresentare una verginità che non sarebbe mai stata violata.
 
Perché era stata così stupida da accettare quel vincolo assurdo?
Perché per essere riconosciuta come “completa in sé stessa” veniva costretta a sacrificare una parte di sé? Quando ad altri, alle divinità maschili ad esempio, non veniva richiesto un sacrificio del genere per essere definiti come completi?
 
Il fuoco resta puro. Estia, il fuoco resta puro e non cede a lusinghe ignobili.
Ma il fuoco si dona.
 
Nessuna di loro, nessuna delle tre dee vergini aveva subito violenza ignobile.
Estia, Artemide e Atena: ciascuna con la capacità di perseguire gli obiettivi desiderati senza lasciarsi distrarre dal bisogno altrui o dal proprio bisogno degli altri.
Ma lei era fuoco, e il fuoco ha sempre bisogno di qualcosa per ardere, che questo sia ossigeno, legno o passione.
“Sono stanca di soffrire, Zeus. Il mio è un tormento ingiusto”.
La piccola dea dai capelli rossi e dalla veste corta e larga aveva mosso dei passi alla ricerca di una qualche punta acuminata.
Il suo sangue avrebbe dovuto imbrattare quella tela bianca.
 
“Estia, che state facendo?”
Una voce tonante l’aveva ridestata da quella sorta di trance nella quale la bramosia di libertà e al contempo la paura l’avevano precipitata.
“Fratello, avete udito la mia supplica, leggete la sofferenza sul mio volto ma vi ostinate a non capire cosa affligge il mio cuore?”
Il dio supremo, chiuso in un silenzio solenne, stava alle spalle della dea incurvata sul foglio bianco e immacolato poggiato sull’altare sacro.

“Voi sapevate cosa mi stavate spingendo a promettere e non avete esitato dinnanzi alle conseguenze che mi avrebbero colpita in prima persona. Perché se avete corso il rischio di giocare con la mia libertà io non posso fare altrettanto?”
Estia volgendo impercettibilmente il capo verso Zeus alle sue spalle, aveva mormorato quell’accusa avvelenata.
“Divina, non potevo immaginare che i vostri desideri sarebbero cambiati così repentinamente, io-“
“Repentinamente? Come vi permettete a definire questo cambiamento repentino? Non giorni dal mio giuramento, non secoli ma interi flussi si sono svolti dinnanzi ai nostri occhi prima che una scintilla ridestasse il desiderio di libertà che voi mi avete negato”.
“Siete stata voi a promettere”.
“Eravate mio fratello! Eravate mio fratello e non avete esitato un secondo quando il vincolo della verginità si poneva come soluzione per la vostra legittima salita al trono!”
Estia, con le guance nuovamente rigate di lacrime, aveva scagliato quelle parole con rabbia, ma questa non era diretta contro il suo interlocutore quanto piuttosto contro sé stessa e la propria superficialità.
“E io vi ho ascoltato, fidandomi”.
Il rammarico impregnava le sue parole così come i gesti lenti che la vedevano allungare le dita verso il coltello affilato delle offerte.
“Sorella. Questa scelta comporterà delle conseguenze. Sapete che lo Stige esige il rispetto dei vincoli. Voi state venendo meno alla vostra parola”.
“Come può essere ritenuto legittimo un giuramento votato a qualcosa che legittimo non è?”
“Le leggi sono leggi seppur male amministrate”
Zeus aveva smosso la lunga chioma con fare nervoso mentre gli occhi, vispi e attenti, non smettevano di tener d’occhio le mani della dea pericolosamente vicine alla lama.
“Le vostre leggi sono ingiuste allora”.
“Se agirete non ci sarà nulla che io potrò fare per sottrarvi al tormento al quale sarete destinata per secoli”.
“E’ meglio che non possiate far nulla. L’ultima volta che avete fatto qualcosa ho ricevuto in dono due cavigliere d’oro”.
Il sarcasmo era tangibile, concreto, vibrante e vivo come il sangue fuoriuscito dal lungo taglio che la dea si era inferta sulla mano sinistra.
Erano bastate poche gocce di quel liquido rosso sul foglio intonso e dalla filigrana d’orata.
Poi il buio aveva riempito le sue palpebre.
Estia non era più.
 
Non era più al cospetto di un desolato Zeus che ben sapeva cosa di lei ne sarebbe stato fatto.
Gli occhi gialli, solitamente divertiti e luminosi si erano incupiti di tristezza e amarezza mentre dentro, nelle profondità di quell’animo vanaglorioso, iniziava a prendere forma un serpente avvelenato che, tra le sue spire strette, contorceva il piccolo cuore.
Che aveva fatto? Dove l’aveva portato il suo egoismo?

Era.
Demetra.
Persefone.
E ora Estia.
Non era riuscito a proteggere nessuno se non i suoi biechi interessi e anche lì, anche lì che avrebbe dovuto almeno ritenersi soddisfatto dei traguardi raggiunti, vedeva invece i volti addolorati delle dee che aveva ferito, umiliato, usato.
A volte è meglio viver aquila.
E, con quel pensiero in mente, si era librato in volo, lontano dal tempio freddo e vuoto dove per lungo tempo nessuna fiamma avrebbe più brillato.
 
 
 
---




Ne detergeva il corpo con cura. La mano gelida reggeva con forza una pezza bagnata con acqua calda e aromi affinché quel corpo torturato potesse almeno trovare pace in quella piccola attenzione.
Persefone giaceva immobile sul grande letto della camera di Ade. Non un gemito era più fuoriuscito da quelle labbra di rosa mortalmente colorate di viola e la pelle, solitamente calda e profumata, era invece fredda, umida per colpa della terra, del fango e di quelle dannate acque.
No, non voleva che quello fosse l’ultimo ricordo della sua amata.
Non l’avrebbe lasciata in quello stato, agonizzante per il resto dell’esistenza.
Non avrebbe permesso a nessuno di portargliela via, nemmeno alla morte stessa.
Non provava agitazione né paura, sapeva che avrebbe agito, che avrebbe risollevato la sua amata dal mortifero sonno in cui era crollata.
In cui l’avevano sprofondata.
Aveva dovuto serrare con forza le palpebre per scacciare dalla mente la sequenza di immagini che vedevano la succube violare la pace del luogo in cui poche ore prima lui e la sua promessa avevano vincolato i loro voti.
E non gli interessava nulla di quel melograno maledetto, cagione di ogni problema, perché se Persefone non si fosse agitata tanto non si sarebbe mossa incautamente fino a quei luoghi solitamente disabitati.
Avresti dovuto aspettarmi, sciocca.
Sempre ad occhi chiusi Ade aveva sollevato una mano serrata in pugno all’altezza della bocca; respirava pesantemente. Non trovava pace.
Ma a che sarebbe servito trovare la pace se questo significava perderla da lì a poco?
Avrebbe agito nella maniera più logica anche se questo significava contravvenire alle leggi, alle promesse, al tempo concesso alla sua giovane promessa e a sua madre.
Si sarebbe assunto le proprie responsabilità.
Come sempre del resto.
Persefone non sarebbe rimasta a lungo in quello stato, non avrebbe girovagato incosciente tra le siepi infuocate dei ricordi contorti che scaturiva il Flagetonte purificatore.
Egli l’avrebbe resa simile a lui, creatura avernale resistente alla morte.
Ma ostica alla vita.
No, non è vero. Lei sarà sempre vita.
Ade, chi beve l’ambrosia offerta dal regno dell’Erebo, resta all’Erebo.
Lei resterà con me, sarà la mia sposa, la mia regina.
Lei non avrà più scelta. Se la renderai tua simile, ella non potrà più raggiungere la madre in superficie.
Scatenerai una guerra.
LEI è TORMENTATA. DOVREI FORSE LASCIARLA COSì? A SOFFRIRE DAVANTI AI MIEI OCCHI?
Ade, a capo chino, aveva stretto la pezza tra le dita. Una rabbia nera gli aveva velato gli occhi, mentre il dialogo interiore l’aveva condotto dinnanzi all’unica scelta possibile.
La vedeva stesa su quel letto molto più grande di lei, un letto che avrebbero dovuto riempire insieme, felici e avvinti in abbracci fatti di lussuria e amore, e invece su quel letto si sarebbe consumata una tragedia.
Perché lui l’avrebbe nutrita, resa avernale, resa sua simile. E l’avrebbe strappata a sua madre.
Verrai meno alla promessa.
Questa è una nuova promessa. L’amerò per sempre.
Carezzando il volto impassibile della giovane, il dio aveva sorriso con un’espressione tirata.
L’avrebbe amata per sempre.
Anche se lei l’avesse odiato per quella scelta.
 
Un colpo secco alla porta aveva distolto Ade dalle sue riflessioni lugubri.
“Signore, ho quello che avete richiesto”, Radamanto, solitamente imperturbabile, trasudava una leggera angoscia.
Tra le mani portava una piccola otre nera decorata con ghirigori in rosso.
“Bene, adesso lasciatemi solo”, Ade non degnandolo di uno sguardo, focalizzato com’era su quello che di l^ a poco avrebbe compiuto, si era alzato e, a capo chino, aveva riposto la preziosa otre presso il capezzale del letto.
“No”. Impenetrabile ma internamente sconvolto da sé stesso e da quella umanità che sentiva piano piano affiorare, Radamanto aveva risposto in modo pronto e secco, suscitando in Ade una sorta di irrigidimento lungo la spina dorsale.
“Ho detto di andare via”.
“No, mio signore. Vi sarò al fianco, come sempre” vincendo una sorta di pudicizia nel manifestare sentimenti segreti, il giudice si era fatto da presso al dio avernale davanti a lui e, con un cenno del capo rispettoso aveva continuato
“è giusto che per una volta anche voi abbiate al fianco qualcuno che vi ripeta che niente vale la sofferenza delle persone che si amano”.
Il giudice aveva parlato con tono solenne: vi era dolcezza in quella considerazione mascherata però da monito di diritto.
“Non appena sarà sveglia andrò via mio signore”.
Ade, il dio della morte avernale, per la prima volta senza parole, non aveva osato proferir verbo.
Che senso avrebbe avuto esprimere a voce una stima che già da tempo nutriva nei riguardi del suo fedele secondo?
Preso un lungo sospiro si era infine posto al cospetto della dea. Solo uno sguardo perso e incupito campeggiava sul volto tirato e esangue del dio
“Persefone, vieni salvata dall’invisibile a cui sei ora promessa. Con questa ambrosia la tua vita è promessa alla morte, per sempre”.
Poi, poggiata l’otre sulle labbra livide, aveva assistito a un miracolo:
percepito l’odore dolciastro del nettare degli dei, si erano schiuse.
 
 
 
 
 
Ridotto all’ombra di sé stesso, Ade rimaneva inginocchiato al cospetto della dea in attesa, e solo quando un leggero sussulto aveva scosso l’immobilità mortifera di quel corpo, aveva infine tirato un sospiro di sollievo.
Un sollievo sostituito rapidamente da brivido d’angoscia.
L’aveva compromessa per sempre, consegnata all’Orco rubandole la possibilità di scegliere una vita lontana da lui.
Persefone aveva nuovamente aperto gli occhi, non ridenti e dal caldo color miele ma frastagliati di milioni di pagliuzze grigie.
 
Se fosse stato possibile, l’imperturbabile dio avernale avrebbe invocato una maledizione su di sé perché felice; in una situazione del genere era felice.
Felice di averla lì. Della sua stessa sostanza.
 
 
“Sono i doni di un regno al suo signore”
“Sono armi”, Ade aveva risposto secco.
La bambina divina aveva allora rivolto un sorriso mesto al nuovo sovrano dell’Averno.
“Sono doni…-
…ma questo avrete modo di vederlo da solo, coi vostri occhi”.
 
 
E sempre con una maledizione stretta tra i denti, le aveva preso delicatamente una delle mani poggiate sul grembo. Il sovrano dell’Averno, se solo avesse potuto, se la decenza e il pudore non avessero albergato nel suo cuore, avrebbe pure ringraziato quella pazza della succube che con quel suo gesto insano gli aveva permesso di avere per sé quella bellissima dea senza dover chiedere il permesso a nessuno.
Anzi, lui le aveva offerto la salvezza.

Una vita promessa alla morte è pur sempre vita.
No?









L'angolo di Avareil
Eccoci qui: un nuovo capitolo, una nuova angoscia ahahahah.
Prima di tutto lasciate che ringrazi di cuore tutti coloro che con passione mi seguono fin da principio, coloro che sempre hanno avuto il tempo di dedicarmi una parola gentile e infine quelli che, anche semplicemente seguendo e leggendo mi regalano un'immensa felicità.
Questa storia esiste anche grazie a voi.
Ringrazimenti a parte vorrei mettervi al corrente di un mio personale pensiero:
Estia.
Estia nella mitologia è quello che è sempre stata: un donnino fiero e materno e, paradossalmente vincolato alla solitudine e alla verginità.
Ogni volta che leggo di questa dea grandiosa mi tremano i polsi per la rabbia perchè in cuor mio soffro di questa contraddizione vivente
"Estia che è fuoco, fuoco sacro della famiglia, è sola come un cane" ma, la rabbia peggiora quando, leggendo qua e là vedo parlare di questa verginità come l'unico modo per la donna di potersi affermare come "Completa in sè", e lo so che la Grecia antica è la Grecia antica, non voglio prendere un concetto come la verginità nell'età classica e stravolgerlo alla luce del concetto che possediamo oggi  ma, perdonatemi: che grande cazzata. 
Perchè riflessioni di questo tipo le ritroviamo anche oggi: se una donna vuole aver successo deve rinunciare alla famiglia.

Onestamente mi sembra un po' assurdo come ad esempio trovo assurda la politica di alcuni film di animazione in cui adesso se la protagonista è donna la si vede realizzata ma senza amore. Perchè siamo sempre costrette a dover scegliere tra il successo e l'amore?

Scusate la riflessione ma ci tenevo a rendervi partecipi di questo pensiero perchè non so se la mia Estia accetterà questo vincolo becero.

Saluti e tanti bacini



Avareil

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


Rivivere
 
Era lì, ma non ne era poi così sicura.
Se avesse dovuto semplicemente fare affidamento sulle sensazioni allora si, avrebbe potuto gridarlo a gran voce: era lì, ad osservare con rabbia e angoscia le mani artigliate della succube scavare il suolo a lei sacro ma, se invece fossero state chiamate come testimoni le vibrazioni fisiche, allora non avrebbe saputo rispondere con certezza apodittica.
 
Ma come poteva non essere lì se distintamente percepiva uno dopo l’altro, come stilettate al cuore, i graffi laceranti subiti dalla terra a lei cara?
Come poteva non essere reale quella sofferenza che sembrava trovare eco sulla sua stessa pelle?
 
E quando gli occhi accesi di preoccupazione avevano capito con che intenzione quella dannata stesse agendo, ecco, proprio in quel momento un istinto primordiale si era impossessato di lei rendendola molto dissimile dalla dea pacata e dolce di sempre.

In uno slancio simile a quello di un ghepardo si era buttata contro la succube nella vana speranza che le sue forze, misere e inconsistenti in quel regno dimora dei morti, potessero almeno spostare la pazza dal luogo a lei più caro e prezioso.
Quello slancio però, quella tenace determinazione a poco sarebbero valsi.
Lo sapeva bene lei, dea di superficie lontana dai suoi domini di luce.
Nel momento stesso in cui Menta, rivelando il suo vero io, bavoso e digrignate, l’aveva afferrata e sospinta verso le acque vischiose, Persefone aveva immediatamente capito che qualsiasi azione, qualsiasi gesto, qualsiasi parola non avrebbe avuto il potere di dissuadere il suo aguzzino dalla sete di vendetta covata nel cuore.
La sua essenza non apparteneva a quei luoghi ostici alla vita, lei, un’intrusa nell’Erebo, veniva trattata come un battere, un parassita che un corpo come l’Averno cercava di eliminare.
Per questo sapeva essere inutile ogni rivolta, ogni reazione sarebbe stata spenta con violenza e sadismo e lei era stanca di fuggire da quel destino che la rincorreva, proprio come la prima volta.
Una cieca convinzione albergava nel cuore casto
 
Da braccata ho trovato la libertà.
Da perseguitata ho scoperto una felicità consapevole.
Il Fato sa essere benevolo con chi lo accoglie.
A presto, mio signore.
 
Con le mani lungo i fianchi e uno spirito rassegnato al destino oscuro finanche alle tre moire, si era lasciata trascinare verso sponde sconosciute e turbate da un flusso impetuoso capace di emanare uno strano calore.
Sempre con quella convinzione scolpita nel cuore aveva tenuto le labbra strette in una morsa ferrea: non un singhiozzo, non un urlo sarebbe sfuggito a quella bocca dignitosa e ferita, non una preghiera, non una supplica si sarebbe levata verso quella succube nemmeno quando, sentiti i capelli afferrati in una morsa dolorosa Menta l’aveva sospinta con il capo sotto l’acqua.
Non aveva resistito molto: rischiando di soffocare il suo corpo aveva prepotentemente spinto il cervello a mandare quel maledetto impulso
Respira Persefone, apri la bocca
E proprio quell’impulso verso la salvezza aveva invece siglato la sua condanna a morte.
O ad un destino peggiore, forse.
Non appena la lingua aveva saggiato le spumose e roventi acque del Flagetonte si era spaccata, mentre il liquido, rovente e di una strana consistenza vischiosa, si apriva una strada infuocata verso le tenere viscere, presto contorte in una stretta dolorosissima.
 
Era inumano, lontano da qualsiasi soglia di sopportazione divina.
Solo pochi secondi di quella tortura erano bastati prima di venir scaraventata con violenza in uno stato catatonico e irreversibile.
 
Non era morta solo perché non poteva morire.
 
Ma perché ricordava?
Perché riviveva quel momento?
 
Sarebbe stato questo il suo tormento?
 
 Poi, l’amara consapevolezza
 
Dove sono le mie mani?
Dove gli occhi o il naso?
 
Solo la bocca, solo quella percepiva chiaramente in un buio nero fatto di sangue, fuoco e immagini terribili di un passato recente che si faceva vivido dietro le palpebre inesistenti.
Il gusto amaro del proprio sangue tra le labbra era un’altra di quelle poche cose presenti alla sua coscienza stravolta e anche se avesse voluto detergerle col dorso della mano, anche se avesse cercato con gli occhi bramosi un goccio d’acqua con il quale dare refrigerio a quelle membra spaccate, non avrebbe trovato nulla: il nulla nella sua presenza fatta di vuoto la avvolgeva in una sorta di bozzolo stretto e soffocante.
 
“Sai al cospetto di chi ti trovi?”
 
Una percezione le aveva folgorato le ultime sinapsi attive non interessate dal dolore terribile.
Non aveva risposto a quel quesito sibilino: come avrebbe potuto?
I denti rotti, le labbra spaccate, la lingua nera e purulenta, lei, Persefone, era una bocca che non poteva parlare, una vita che non poteva vivere.
 
Un mostro
 
Ecco cosa le era stato fatto, ecco in che condizione era stata sprofondata.
Ecco al cospetto di chi pensava di trovarsi.
 
“Prenderò il tuo silenzio per assenso”, un gorgoglio malevolo aveva fatto tremolare l’etere caldo intorno alla dea tumefatta.
 
“Sebbene io ben sappia che non di tua volontà ma costretta con la forza hai bagnato le tue labbra presso le mie onde, sebbene io conosca chi ha osato far tanto e a che scopo, sebbene io abbia visto con che arrendevolezza ti offrivi al Fato, non posso in alcun modo sollevarti da questo stato di sofferenza che ti tormenta, bambina mia-“.
Uno zampillo di qualcosa aveva impercettibilmente sfiorato la bocca della dea che, come dissetata, aveva risposto con un urlo disumano, espressione del dolore patito.
“Se il Fato è corretto non soffrirai ancora per molto. Il tuo dio, il mio dio, Ade, non attenderà molto prima di scegliere da che parte schierarsi ma, ma c’è una cosa che prima ho bisogno di farti vedere giovane dea, perché a dispetto dei tuoi migliori pensieri e delle tue migliori intenzioni… il tuo animo non è puro”.
 
Se avesse avuto occhi li avrebbe sgranati.
Se avesse avuto mani le avrebbe strette sul ventre contorto dall’angoscia ma né occhi, né mani abitavano quell’ammasso di organi contorti dalle fiamme.
La sua reazione era stato un misero rantolo disperato.
Solo allora il Flagetonte le aveva mostrato il disegno.
Un ballo, una festa.
Una fuga disperata nel vento che trovava compimento in un tranello.
Braccata da sempre e in silenzio seguita da un’ombra, un’ombra gentile.

Ade, un’espressione seria e imperturbabile scolpita in volto.
Una maschera per celare il dolore di un tradimento più antico della morte stessa.
Parole che si fanno discorsi.
Discorsi che si fanno promesse.
Un melograno, un vincolo.
 
Al cospetto dell’entità ambigua, la dea, nei suoi poveri resti, aveva iniziato a singhiozzare, travolta da quel disegno imposto con forza alla sua mente distrutta.
 
“Figlia, ogni tua azione reca la presenza di una grande assente”.
 
Ed ecco ripartire il tormento.
Altre immagini imposte al suo vuoto guscio.
Lei e Ade sul grande talamo.
Una distesa di anime oltre la soglia dell’Averno, in attesa di un giudizio giunto troppo presto.
Un letto vuoto sotto il cielo freddo ma costellato di stelle.


 "Il vostro cuore pretende d’esser puro ma non c’è bontà in chi si dimentica di affetti antichi sebbene fin troppo vincolanti. Vostra madre non ha mai ricevuto risposta alla sua preghiera di rivedervi-“
"
Il vostro egoismo costa vite, l’egoismo di vostra madre e del vostro amato costano vite e voi, vincolata all’Averno, diverrete la cagione della nostra morte”.

“Dividi il tuo cuore piuttosto, giovane dea. Non mangiare “ …” ”
 
Ma a quel punto la voce si era persa in un buio dolce come l’ambrosia su in una bocca che non sapeva più di sangue.
 
 


  °°°
 


 
Aveva urlato con tutto il fiato rimastole in quel corpo piccolo e stranamente freddo ma nessuno aveva udito la sua voce.
Nessuno vuole udirla, Estia.
Allora aveva urlato ancora, e ancora, e ancora fino a quando, allo stremo delle forze, si era abbandonata in ginocchio al suolo; terra umida e smossa.
Non una luce, non un filo di aria pura osava trapassare quella crudele cella messa a punto specificatamente per lei: la traditrice del voto.
Un quadrato di infime dimensioni in cui la terra diventava unico strumento di detenzione e tortura: la sua camera mortuale, la tomba che l’avrebbe accolta in una morte eterna.
Nessuno avrebbe mai dovuto infrangere un voto, lei lo sapeva bene, lo sapeva prima di stringerlo, lo sapeva anche quando i primi dubbi avevano iniziato a mangiarle il cuore e ora, al buio e senza un filo di aria da poter bruciare, ecco che aveva ben presente davanti agli occhi la terribile scelta che aveva compiuto.
 
Sotterrata ai piedi del suo stesso tempo, sotterrata affinché il fuoco corrotto trovasse estinzione in quella tetra tomba.
 
I capelli rossi e fluenti non erano più, al loro posto una testa rasata alla bene e meglio metteva in mostra un viso pallido e segnato da copiose lacrime di rabbia.
La veste verde, la sua veste verde era stata sostituita da una nera, funerea e umile, così grezza e ruvida da lasciare segni sulla pelle delicata.
 
Volevano la sua distruzione, il suo spegnimento.
 
Con lei in quella misera cella con solo una misera razione di ambrosia come ultimo pasto prima della lenta agonia, si spegneva Estia, la sacra dea del focolare.
 
Spenta con l’accusa di desiderare un focolare tutto per sé.
Ma quella non era la legge del cosmo, non in quell’universo lei avrebbe mai potuto trovare soddisfazione ad un così bieco e terribile sogno.
 
“Mi spegnerete ma non umilierete il mio cuore”.
Furiosa e debole si era rialzata dalla scomoda posizione per iniziare un ristretto avanti e indietro nervoso e sterile; nessuna uscita, niente che potesse permetterle di riempire i polmoni di aria fresca necessaria alla sua fiamma.
E poco le importava che il suo nome fosse sulla bocca dei mortali, poco le interessava della gloria e del riconoscimento, così come delle offerte e del rispetto: solo che la sua fiamma ardesse, ardesse nei cuori dei suoi fedeli, nelle case delle famiglie, nell’animo dei bambini appena nati e ammessi nel nucleo familiare, questo sperava e nessuno, nessuno avrebbe mai potuto sottrarglielo.
 
In cuor suo, un cuore trafitto dal tradimento, Estia meditava, o almeno cercava di farlo con quelle poche forze che le rimanevano in corpo.
Nessuno può spegnere il fuoco divino.
Finché qualcuno l’avesse pregata, finché qualcuno avesse celebrato i suoi riti avrebbe vissuto.
Ma i mortali, a volte ciechi dinnanzi al vero, avrebbero presto smesso di onorarla:
un fuoco che arde fiacco non riscalda nessuna casa, non crea nessuna famiglia.
Avrebbero presto smesso di pregarla dinnanzi a quell’assenza.
Questo il suo tormento: aspettare l’ineluttabile spegnimento, confinata in una tomba di pochi passi per lato.
Con un sorriso amaro la dea aveva ripensato al motivo della propria condanna.
“Ecco, ecco la tua stanza nuziale, dolce Estia”.
Un pugno scagliato con forza contro la parete dura l’aveva fatta gemere per il dolore e la frustrazione.
“Radamanto, non vedo sorte per me, per voi…”
Un sorriso tirato aveva stirato le labbra screpolate e secche
“e non vedo nemmeno un noi. E il bello di tutta questa grande baraonda è che vi ho visto una volta? Due? E non vi rivedrò più”
Diamine Estia.
“Un sogno, un bel sogno che non troverà compimento”.
E aveva urlato nuovamente, con rabbia e miseria per poi sciogliersi in un mare di lacrime addolorate
“…ma io so, so che saremmo stati felici”.
 

 

°°°
 



Non appena gli occhi della giovane dea erano stati richiamati alla luce della vita avernale, il giudice aveva silenziosamente lasciato le stanze del suo sovrano e con le mani strette in grembo aveva percorso i lunghi corridoi della nera reggia diretto a passo svelto quanto più lontano possibile da quella terribile sensazione di occlusione al petto che lo tormentava da quando, inconsciamente, dinnanzi agli occhi non il suo signore ma lui, lui in persona come in un riflesso, stava al capezzale di una bellissima e indifesa Estia.
Scioccato da quel colpo a tradimento riservatogli dal cuore da poco risvegliatosi in petto, aveva deciso di allontanarsi.
Aveva bisogno di requie da sé stesso e da quel dolore che gli batteva all’altezza dello sterno perché soffriva, come mai prima di allora: del resto mai aveva avuto anche solo la possibilità di affezionarsi, di definire suo qualcuno, solo la legge, la legge e il dovere erano stati i suoi possessi, monoliti freddi e spogli ben lontani dal calore del fuoco.
Ad ogni passo che sentiva riecheggiare lungo le pareti illuminate da tenui fiaccole, sentiva chiaramente che la felicità, quell’unico barlume che sembrava essere la causa scatenante del pulsare forsennato e sanguigno, gli stava sfuggendo dalle mani come acqua gelida, e più sfuggiva più lasciava dietro di sé membra intorpidite e stanche, facili preda di cani famelici pronti a dilaniare ogni resto; lui era Radamanto, un giudice scelto dal divino e per quanto sperasse, per quanto si sforzasse di sperare, la sentiva chiaramente.
La paura lo divorava dal di dentro.
Paura di perdere quell’unica occasione.
Vuoto proprio come la camera che ora lo accoglieva, percepiva distintamente l’angoscia prendere il posto dell’aria nell’ampio torace; ogni volta che gli occhi neri e spenti si soffermava sul braciere stranamente fiacco, le peggiori immagini tra quelle che ormai da giorni lo abitavano, sembravano prendere il sopravvento rendendolo schiavo dei timori più neri.
Non accetterà mai il mio sentimento
E anche se volesse accettarlo non potrebbe, è vincolata.
Anche tu lo sei ma questo non sembra bloccarti in alcun modo.
No, e come potrebbe? Può la morte spegnere tutto?


Ma quando il silenzio si faceva più lugubre, e il fuoco più fioco ecco che terribili riflessioni annebbiavano le tenere speranze.
 
Ma lo Stige dinnanzi al tradimento può ogni cosa.
 
Perché anche se la morte non avesse spento tutto, anche se avesse aspettato una morte intera, cosa avrebbe dovuto aspettare?
 
Radamanto, nessuna risposta potrà mai giungere.
 
Qualsiasi cosa avesse atteso, sperato, pregato, non sarebbe mai stata esaudita.
 
Non è vostro questo tempo
 
Avrebbero sofferto in ogni caso, due animali in gabbia che non avrebbero mai potuto essere liberi.
 
Ogni vita ha un prezzo, lei l’ha pagata a prezzo della libertà.
Tu, invece, l’hai sprecata per rimpiangerla quando era troppo tardi.
 
Per questo motivo, con quel misero cuore rinsecchito ora ricolmo di angoscia, aveva guardato intorno a sé con fare perso e vacuo.
Cercava una soluzione per quella sofferenza che non avrebbe trovato fine.
E in quel momento gli occhi, improvvisamente attenti e lucidi di una strana follia disperata, avevano scorto la superficie spigolosa e acuminata di un coltello affilato: ecco l’idea peggiore, l’idea che con più forza lo seduceva, richiamandolo verso una strada che, se imboccata, non avrebbe più avuto ritorno.
Ma come dire no a quel rimedio? Se avere un cuore, un cuore vivo e pulsante, significava esser tormentati senza sosta da una falsa speranza, che senso aveva possederne uno?
Chi di speranza vive, di disperazione muore, e tu povero Radamanto non puoi nemmeno vivere.
Non puoi nemmeno morire.
Che senso aveva continuare a sperare?
Meglio disfarsene di quell’organo rosso e vivo.
Meglio cavarlo dal petto e darlo in pasto al terribile guardiano a tre teste.
 
Perderai Estia.
Non è mai stata mia.
 
Con un respiro trattenuto a stento tra i denti il giovane giudice aveva allentato la veste.
I movimenti lenti e precisi di chi sa ciò a cui sta andando incontro e, sebbene ne provi un’immensa paura, rimane fermo e deciso nel continuare: avrebbe concretizzato quanto partorito dalla mente stanca e avvilita.
Sciolti i lacci della veste nera e austera l’aveva infine poggiata sul letto grezzo, col busto nudo e la mano gelidamente serrata intorno all’elsa dell’arma aveva camminato con passo marziale verso l’angolo della camera adibito alla detersione: un tre piedi altrettanto semplice in cui in alto campeggiava una modesta bacinella di ceramica bianca riempita con poca acqua, gelida anch’ella e, proprio specchiandosi in quello sputo di acqua, aveva avvicinato la punta della lama al petto, proprio al centro tra i pettorali.
Un respiro profondo mentre gli occhi si riflettevano negli occhi d’acqua.
Due respiri profondi, una baraonda di pensieri scatenava il caos cerebrale mentre il cuore, consapevole, batteva strenuamente, come chi combatte, chi prova a resistere.
 
Stupido e inutile cuore, dov’eri quando la vita ti attraversava?
 
Un’ira devastante aveva fatto serrare la presa del giudice sull’arma, il volto trasfigurato in quello di una belva, mostrava i denti digrignati a quel riflesso di sé stesso che vedeva nella misera acqua.
 
Come hai potuto anche solo crederci? Sperarci?
Non è vostro il tempo, non è vostra la speranza.
Lei è vincolata.
Tu lo sei.
Liberati da questo tormento.
Liberati e torna quello che eri in vita.
 
E, con quel desiderio amaro nel petto, si era infine consegnato all’oscuro oblio.
 
Premuta con forza la punta della lama contro il delicato sterno aveva inciso in profondità con l’unico obiettivo di raggiungere quel dannato e bellissimo organo per cavarlo una volta per tutte dal petto morto.
 
Salvala da qualsiasi scelta possa condurla al tormento.
 
Liberati e torna quello che eri in vita.
 
 
Un morto.
 


°°°



 
Un sorta di cortocircuito mentale aveva lasciato il dio avernale immobile e silenzioso.
 
Il grande e imperturbabile Ade, il dio oscuro dal cuore impenetrabile, era rimasto per un tempo infinito a fissare la dolce dea che giaceva scompostamente sul grande talamo con ancora le labbra umide di ambrosia e gli occhi schiusi di un giallo frastagliato in migliaia pagliuzze grigio verdi; in ginocchio al suo capezzale osservava esterrefatto quel fiore sbocciare a vita nuova.
Ma non solo quello, non solo la grande emozione di riaverla con se l’aveva lasciato senza parole: la dea sdraiata sul letto, coperta da una veste leggera e con i capelli morbidamente sparsi suoi guanciali, molto aveva della dolce Persefone, così come molto di quella aveva perso.
 
Il Flagetonte, arma terribile e benedizione inaspettata, l’aveva travolta, distrutta e rivoltata, mentre lui con la sua scelta l’aveva definitivamente votata a sé e al suo regno.
 
E’ mia
L’Averno l’accetta e la ridesta dal sonno di morte
Rivive vincolata all’oltretomba
 
Mentre quelle riflessioni dolci ed amare al contempo gli fulminavano le ultime connessioni neuronali non ancora perse per colpa dell’angoscia di perdere l’essere per lui più prezioso, due occhi grandi e lucidi lo guardavano come in attesa di una parola, una carezza, uno sguardo meno serio e affilato di quello con il quale la stava esaminando.
Ma come poteva smettere di esaminare quelle membra riportate a vita nuova?
Le forme rotonde di giovinetta sembravano più decise, piene e invitanti e le labbra schiuse e umide, solitamente di un casto rosa, sembravano più rosse, succulenti.
Anche un cieco avrebbe potuto notare quei cambiamenti che nel complesso le donavano l’aria di una donna.

No
di una regina

 
Bloccato da quel pensiero, Ade aveva schiuso leggermente le labbra per la nuova consapevolezza di saperla completamente sua, sua senza dover chiedere permessi di alcun tipo a nessuno, quando la dea sotto di lui, impensierita e preoccupata, aveva allungato verso quel volto pallido e muto una mano per allietarlo con una carezza.

“Mia signora, siete tornata da me”
Angoscia e preoccupazione coloravano quella frase proferita come una preghiera di ringraziamento.

“Siete stato voi a ricondurmi a casa”


Una scintilla di gioia aveva per un istante cancellato ogni pensiero tetro per far esplodere dentro al suo cuore ferito un calore avvolgente: lei era come lui, e lui lo sapeva, lo sentiva, lo leggeva nei gesti delicati ed eteri, distanti dalla giovialità distratta di un tempo che, però, non era andata del tutto persa, conservandosi nelle gote tinte di rosso e nella mano calda e amorevole che lo sfiorava in viso, invitandolo ad avvicinarsi.
Tornava Ade dal profondo caos fatto di riflessioni angosciate, a poco a poco tornava per rivolgerle uno dei pochi e rari sorrisi che quel viso avesse avuto la fortuna di ospitare.
Il Fato li aveva voluti affini, complici, uniti fin dal principio tanto da permettere a entrambi di sentire sulla propria pelle le gioie e i turbamenti dell’altro e ora, fatti della stessa sostanza, sembravano addirittura capaci di poter vivere dividendo a metà un solo respiro.

"Ade"
“Nessuno oserà mai più strapparvi a me”.

"Ade", la dea non riceveva risposta.
“Nessuno oserà mai più sfiorarvi con un solo dito”

"Ade"
“Nessuno vi ama come me, sono il vostro dio e voi, voi siete la mia unica dea. A voi sono devoto”
"Ade!"
Queste le uniche parole che le labbra serie e tirate del dio avevano avuto modo di pronunciare prima che una bocca morbida e rossa si impossessasse di lui, trascinandolo sopra la dea che, impaziente, lo aveva afferrato per il viso esigendo un bacio.
Ella lo aveva cercato ed accolto con un gemito di sollievo mentre il cuore, intenerito da quelle parole così sincere, si era sciolto in un liquido caldo.
Allungate le mani oltre il volte ispido, aveva cinto il collo del suo amato e, facendo una lieve pressione lo aveva invitato verso di se, portando il dio ad assumere una posizione improbabile: inginocchiato ai piedi del letto e proteso col petto su di lei morbidamente stesa.
Un nuovo odore impregnava quel corpo morbido e accogliente, un odore che sapeva di vita e morte, di terra, acqua e sangue.
Ed era dolce sulla lingua come l’ambrosia avernale che l’aveva resa sua e di nessun altro.
Con una lussuria che non sapeva propria, Ade, arresosi ai più profondi desideri del cuore, le aveva leccato le labbra nel tentativo di assaporar ancor meglio quel gusto familiare di ambrosia reso ancor più dolce dal fatto di venir direttamente saggiato dalle morbide e succulente labbra della dea mentre questa, con un sguardo lucido per il desiderio, si offriva remissivamente a quella invasione gentile ed anzi, esigeva che quel dio che la faceva fremere con un bacio diabolico si donasse a lei che aveva perduto ogni assennatezza per colpa di quelle labbra.
Facendosi forza sulle braccia, il dio era riuscito a sollevarsi sopra Persefone badando a non gravarle addosso; rimaneva sospeso su di lei, i respiri affrettati si facevano un unico grande sospiro mentre l’odore di donna che ora impregnava l’essenza della dea tra le sue braccia, gli dava completamente alla testa tanto da sentire il bisogno impellente di immergere completamente il volto nell’incavo di pelle morbida tra il collo e la spalla.
 
A rischiarare la stanza lingue di fuoco provenienti dal grande camino acceso che proiettava ombre e luci impertinenti sul corpo della dea, mettendone in mostra le forme seducenti eppure virginali.
Un brivido, forse causato dal freddo o forse dalle labbra bramose del dio, scese in una lenta carezza sul collo esposto, avevano reso turgidi i capezzoli del seno piccolo e sodo, portando Persefone a gemere e muoversi sotto quel corpo alla ricerca di maggiore contatto, ma più lui la sentiva agitarsi sotto di sé più desiderava tormentarla con una scia di umidi baci che dalla mandibola scendeva impudente fino alla spalla e ancora più giù.
Avrebbe voluto parlare, avrebbe voluto avere la forza di dire qualcosa, qualunque cosa ma, il cervello, travolto e stordito al pari del cuore completamente sconvolto, non gli dava la possibilità di formulare pensieri lucidi e coerenti.
Un solo imperativo: farla sua, bearsi di quella bocca, di quegli occhi, di quell’odore e di quel corpo offerto.
Gli occhi grigi come il fiume dei morti le accarezzavano ogni lembo di pelle lasciato esposto dalla veste logora.

Ade, fermati
NO

“Persefone”
Ade, a mezzo centimetro dalle labbra schiuse della dea aveva mormorato quel nome  a mezza voce: la chiamava con un’intimità nuova, con un calore nuovo.
Come uno sposo che invoca la sposa.
Non aveva saputo resistere oltre e strascinandola sopra di sé, le aveva afferrato il viso con entrambe  le mani per baciarla con ardore, alternando morbide carezze a famelici morsi di possesso.
Persefone completamente, perdutamente in balia del dio e dei suoi dolci e umidi assalti, lo assecondava in ogni modo mentre il signore dell’Averno la esplorava con la lingua coinvolgendola in un ballo perverso.
Non c’era egoismo in quel dio, in quel bacio dato con tormento, come fosse stata l’ultima occasione per essere felice.
E quelle labbra, che orai sapevano poco di ambrosia, lo stuzzicavano, lo mordevano, invitandolo ad accogliere quanto con amore a lui e a lui soltanto veniva concesso.
“Ade”
Lo stava pregando
“Ade, vi prego”, solo con forza era riuscita ad allontanarlo da se sebbene le mani fossero rimaste ben ancorare al petto teso, guizzante e leggermente accaldato del dio sotto di lei.
Egli era rimasto immobile, gli occhi chiusi, le labbra morbidamente poggiate sulla fronte della dea contratta in un’espressione corrucciata e seria.
“Ade, vi prego, non dobbiamo affrettare i tempi, non sono ancora…”
Persefone aveva bisbigliato dolcemente con quelle labbra umide e gonfie di baci e forse perché ancora intontita e tremante per l’invasione del suo amato, non aveva notato l’irrigidimento anomalo nel dio, letteralmente pietrificato sotto di lei e ora ad occhi sbarrati.

Deve sapere, Ade.
Devi dirglielo.

Si era staccato da quel corpo caldo e fremente grazie ad una forza che non credeva nemmeno di possedere e, una volta in piedi, aveva passato nervosamente una mano tra i capelli neri e ribelli mentre con gli occhi cercava una veste, un mantello, qualsiasi cosa che lo aiutasse a nascondere alla vista il corpo della dea che stava ancora scompostamente sdraiata sul letto, esposta e… intristita.
Trovata una coperta l’aveva adagiata alla bene e meglio su Persefone che, leggermente stranita da quel comportamento aveva tentato di placarlo.
“Ade, mi dispiace. Non volevo offendervi”
Chinato il capo aveva afferrato il tessuto per avvolgerlo intorno alle membra tremolanti.
“Non è colpa vostra. Sono io quello che vi deve delle spiegazioni”
Il tono tetro con il quale Ade le aveva risposto l’aveva fatta tremare dal di dentro.
Una paura innata era affiorata richiamando alla mente spiacevolissime sensazioni.
“Cosa intendete?”

Che sia veloce e indolore.
 
“In cambio della vostra vita l’Averno esigeva un tributo che non ho esitato a pagare”
 
“Ade…cosa avete fatto?” tremante Persefone si era sollevata per poggiare la schiena contro la testata del letto.
 
“Ho dovuto. Non potevo in alcun modo lasciarvi in quelle condizioni”
 
“Il vostro cuore pretende d’esser puro ma non c’è bontà in chi si dimentica di affetti antichi sebbene fin troppo vincolanti. Vostra madre non ha mai ricevuto risposta alla sua preghiera di rivedervi-“
 
Persefone osservava con sguardo assente il dio che, al suo cospetto, parlava col tono duro del sovrano che decide per il bene comune: assente perché travolta da frasi che sentiva riecheggiare prepotentemente nella sua testa dolorante.
 
“Persefone, non potevo lasciarvi patire quel tormento per colpa mia e della mia maledetta assenza. Se non fossi salito presso Zeus e quella folle di vostra madre, Menta…”
 
“Il vostro egoismo costa vite, l’egoismo di vostra madre e del vostro amato costano vite e voi, vincolata all’Averno, diverrete la cagione della nostra morte”.
 
“Ho scelto di venir meno ad una promessa per suggellarne una più importante”

Ade allora si era nuovamente chinato al suo cospetto e, presa tra le sue mani quella piccola e tremante di lei, l’aveva avvicinata alla bocca per baciarne prima il dorso e poi, in una carezza intima e devota, il palmo chiaro e delicato.
 
“Voi avete ricevuto la benedizione dell’Averno e bevendo della sua ambrosia dalle mie mani siete diventata una sua figlia, la mia sposa e regina”
 
“Dividi il tuo cuore piuttosto, giovane dea. Non mangiare “ …” ”
 
Il Flagetonte l’aveva avvertita e quella mostruosa premonizione sembrava prendere corpo dinnanzi ai suoi occhi, occhi che avrebbero voluto piangere di gioia al sapersi sposa del dio tanto amato e che invece ora lacrimavano per un’angoscia terribile che le mangiava il cuore.
 
“Ade, cosa avete fatto?”
 
 
 
 
 
 
 
In quell’istante, lontano presso il sacro altare del dio dell’Averno, una voce gioviale e allegra richiamava l’ospite divino.
“Ade, come promesso è giunto il momento. Demetra l’aspetta!”
 
Hermes svolazzava dinnanzi al trono vuoto.







l'Angolo di Avareil
Ci tenevo con tutto il cuore. Volevo ad ogni costo aggiornare prima di Natale in modo da riuscire a farvi gli auguri! Paradossalemente il capitolo è un po' lugubre per essere un regalo di Natale ma spero vi faccia piacere lo stesso.
La storia va avanti e storia è anche questo.

Grazie infinitamente per la pazienza che avete nel seguirmi, nel leggere e nel recensire.  Ogni volta avere modo di sapere cosa pensate mi da una spinta in più.
Un bacio e un abbraccio affettuso.
Buon Natale e felice anno nuovo!
Avareil

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Se solo
 
 
Può mancare l’aria in un campo aperto?
 
Immobile e con il labbro inferiore morso tra i denti bianchi, Persefone aveva atteso seduta rigidamente che la madre concludesse il suo lungo, lunghissimo discorso.
Da quando avevano raggiunto la dimora loro sacra, Demetra non aveva smesso un istante di parlare: preghiere, ammonizioni, a volte sospiri e gemiti strozzati avevano riempito le camere private delle due dee; il corteo era stato sciolto.

“Sei così… strana, bambina mia. Silenziosa e quasi assente-”
“…non devi temere più nulla, quello scellerato non potrà varcare i confini dell’Averno impunemente questa volta-”
“Se solo l’avessi capito prima, se solo avessi avuto anche il sospetto che la tua cella fosse il sottosuolo!” Demetra, angosciata, aveva fatto ondeggiare pericolosamente la coppa di ambrosia che reggeva tra le mani,
“Ho temuto il peggio, bambina mia, ho temuto il peggio...”

L’ambrosia dolce le rinfrescava il palato restituendole un barlume di lucidità,

“...la mamma è qui, non permetterò più a nessuno di avvicinarsi a te, non permetterò a nessuno di poggiare l’occhio viscido sul tuo corpo di dea splendente-”

“Dannati dei, dannato Ade, dannato Zeus e dannati tutti quelli che non hanno osato far nulla o dir nulla per aiutarmi. Che possano essere dannati”,

“Madre...”, Persefone, con una mano poggiata sulla bocca, aveva sgranato gli occhi all’udire quella sequela di bestemmie contro il padre dell’Olimpo e il signore dell’Averno; non che le importasse di quel padre perverso che la sorte le aveva donato, quanto piuttosto il suo pensiero era rivolto al dio sotterraneo che mai e poi mai avrebbe meritato quella maledizione imprecata con rabbia a denti stretti.

Non è giusto.

Perdonatela Ade.

“Perdonami piccola Kore, a volte i grandi sbagliano nel parlare in modo accorato e vibrante dinnanzi a chi è puro di cuore come un fanciullo”.

Ah! Se solo avesse saputo.

Sciagurata quella povera madre se solo avesse anche solamente immaginato cosa, e in che modo, quel dio anomalo era riuscito a farsi strada sotto la pelle tenera della sua bambina, seducendola verso il morso con il quale le avrebbe donato un regno, un cuore e una totale devozione.

Se solo sua madre avesse immaginato con che spontaneità si era concessa, anima e cuore, all’ostile nemico.

Persefone, raggelata da quei pensieri turbinosi, avrebbe riso, se avesse potuto, e poi pianto, e poi riso ancora, confusa da sé stessa e dalla madre angosciata e angosciante.

Di che bontà di cuore parlava?

Lei, Persefone, non era affatto pura, non era affatto buona e perfetta come sua madre si ostinava a farle credere, come, del resto, si ostinava a credere ella stessa: Demetra, in prima persona, la ritraeva come un crogiuolo di pregi, ignorando i vizi e i difetti e i desideri di lussuria e l’amore che un cuore di donna e dea avrebbe, prima o poi, covato.

“Su, cambiamo discorso-”.

Demetra aveva poggiato la coppa vuota sull’immenso tavolo della reggia e le si era fatta più vicina: la scrutava, la studiava alla ricerca di un qualche minimo cambiamento.

“Fatti guardare kore, lascia che i miei occhi rassicurino il cuore turbato, stai bene? Veramente bene?-”,
“sembri così pallida-”
“gli occhi tuoi, solitamente gialli e splendidi, sembrano opachi, quasi sfuggenti-”
“...e sei scarna, mal ridotta, mio amore-”

La dea madre, a braccia conserte, osservava con apprensione e tristezza quell’essere toccato dalla sventura.

“Come avresti potuto nutrirti del resto? Ben sai che chi osa toccare il frutto di quei luoghi, resta in quei luoghi”.

Un istante dopo, però, come scossa da un atroce dubbio, l’aveva afferrata per le spalle con forza e, concitata, aveva farfugliato ad occhi sbarrati:

“Persefone, ti prego, dimmi che quel folle non ha osato nutrirti-”
scuotendola ancora cercava in quel volto una risposta che non trovava,
“Ti prego, bambina mia, ti prego dimmi che quello scellerato di un dio non ha osato vincolarti a sé con la violenza e la forza!”.

“Basta madre!”
 
Quanto era sciocco cercare nel corpo quello che invece serpeggiava nelle cavità del suo animo?

Persa in quel monologo fatto di ansie e rancori, Demetra non aveva badato altro che alla condizione fisica della figlia: tutto quello che era dentro, tutto quello che la turbava nel cuore, le sarebbe rimasto sempre precluso, sigillato dalle labbra strette che fino a quel momento non avevano lasciato sfuggire un soffio di verbo.
Solo all’ennesima ingiuria verso l’assente, sentendosi soffocare in gola da parole di rimprovero, Persefone si era liberata dalla morsa materna e, in cerca di aria, aveva mosso due passi indietro,

“Madre, sono qui, al vostro cospetto, scarna e pallida, sì, ma viva. Non potreste semplicemente, per un momento, lasciar perdere ogni altra paura e stare con me? Semplicemente con me? Senza altri dei di mezzo, senza preoccupazioni futili.
Potreste, semplicemente, smetterla di fare-”

“Fare come?” Demetra l’aveva guardata inclinando lentamente il capo, delusione e risentimento nel suo sguardo.

“Così, proprio così, come state facendo in questo istante. Perché non la smettete con questo rancore e questa ansia? Sono stata trattata come la migliore delle ospiti presso il regno d’ombra e il dio dell’Averno non ha osato levare mai un dito contro la mia persona-”, aveva rilasciato l’aria compressa nei polmoni e, con essa, parte della rabbia prima di continuare con tono morbido:

“Ora sono qui, libera e viva. Usciamo, andiamo per i campi. Mi sono mancati, e voi con loro”.

Toccata, intenerita da quella confessione, Demetra aveva sorriso impercettibilmente, sciogliendo le braccia annodate sul petto in una posa di chiusura.

“Andiamo allora, anche i campi hanno sentito la vostra mancanza e, - sorridendo aveva concluso- anche io con loro”.
 
 
Persefone, al sorriso della madre, aveva tirato un sospiro di sollievo, per poi però essere fulminata da un lancinante senso di colpa,

Mentire per metà non era certamente grave con mentire su tutta la linea.

No?

Perché era vero che Ade l’avesse trattata con ogni riguardo e cura, che l’avesse assistita e accompagnata quando lei aveva espresso il desiderio di conoscere quei luoghi, ed era vero che, viva, era ora in quel momento presso la madre gioiosa.
Libera, no, non era vero che la sua esistenza fosse sciolta da ogni vincolo.
Non libera perché legata indissolubilmente all’Erebo nero.
Non libera perché il suo cuore, ora oscuro, ora bramoso, era nelle mani di dio giusto, oscuro e anomalo che, pazientemente, attendeva il suo ritorno al di là del fiume delle anime.
 
 
 
Due passi.
Avevano mosso solamente due passi, poi, come sorda alle precedenti ammonizioni della figlia, Demetra aveva masticato e sputato nuove invettive contro il dio assente.

“Quel lurido mostro, come ha osato farti questo?-”
“Come ha osato rapirti e tenerti laggiù, quel...”

Un mormorio che sfiancava l’animo.

“L’abisso nero è abitato da spregevoli creature, malevoli e maliziose, mi domando come tu sia riuscita a rimanere così intatta. Sei sicura….”
Come avrebbe potuto sopportare quel costante martirio?
“Dolce Kore, prendi la mia mano andiamo insieme verso l’orizz-”

“Madre”, non vi era stato bisogno di aggiungere altro.

Persefone, stringendo gli occhi aveva rivolto uno sguardo esasperato alla madre che, zittita, aveva ritratto la mano.

“Mi sei mancata così tanto, bambina mia. Perché devi rifiutare a tua madre la mano? Ti voglio solo sapere vicina, ricucire una ferita che mi logora dentro...”

Sensi di colpa.

Sua madre era una maestra nel far sentire in difetto il prossimo, suscitando nel suo cuore colpa e risentimento.

Poteva lei sopportare ancora quella situazione?

Rivolgendo gli occhi al cielo, forse supplicando, forse imprecando silenziosamente tra i denti bianchi, Persefone aveva accontentato la madre.

Del resto cosa le costava prenderla per mano dopo tanta separazione?
“Brava, brava la mia piccola e dolce bambina”.

Demetra, con un sorriso a trentadue denti dipinto in volto, aveva fatto finta di non notare il fastidio nelle mosse e nei gesti della figlia, sicura che quello fosse solo il risultato della forzata costrizione in luoghi immondi e privi di amore.

Sensazioni che lei, sua madre, avrebbe prontamente sostituito con il calore materno.
 
Poteva mancare l’aria in un campo aperto?


 
 
Persefone si era sempre illusa di poter ritrovare sé stessa nelle piante, nei ruscelli, nelle fonti pure, in tutta la natura che, coi suoi suoni e richiami, la faceva sentire più viva, più calda, più reattiva agli stimoli della vita ma eccola lì invece, seria e quasi apatica, non più alla ricerca del calore di Febo, non più libera come invece aveva sempre pensato.
E non l’ambrosia nera rimpiangeva, piuttosto quella mano, stretta tra le dita calde e paffute della madre, che percepiva come una corda: la corda legata intorno al collo di un cane confinato in uno spazio aperto ma angusto, sconfinato alla vista ma limitato nei passi.

“Tu sarai sempre la mia kore, vero?”
 
Non era riuscita a formulare alcuna risposta.
Si era limitata ad osservare l’orizzonte dinnanzi a lei e sebbene la madre le avesse stretto la mano con più forza, invitandola a rispondere, lei non aveva proferito un suono.
 
Non avrebbe potuto mentire così spudoratamente.
 

°°°
 


 
 
 
Era rimasta a letto, proprio nella stessa posizione in cui vi si era stesa non molte ore prima.
Sua madre l’aveva accompagnata presso le sue stanze, invitandola al riposo e alla calma, quel pomeriggio, infatti, era stata colta da un leggero mancamento: il sole, aveva pensato, la luce del sole, l’aria fresca o semplicemente l’emozione di essere a casa, queste erano le spiegazioni che Demetra formulava in cuor suo; eppure, se Persefone avesse avuto la forza di parlare, le avrebbe smentite tutte, una per una.
Non per il sole e il suo calore, né l’aria fresca o la felicità di essere a casa erano state le cause del suo mancamento: semplicemente aveva sentito la cogente necessità di abbandonarsi al suolo, avvertire il profumo dell’erba mischiato con quello della terra, e poi l’avrebbe smossa, alla ricerca di radici: punto di contatto tra lei e lui.

Lo cercava.

Sperava di intravederne la figura, in cuor suo desiderava che nel buio della notte nera lui la raggiungesse presso il talamo di superficie e l’abbracciasse donandole conforto; ma i suoi movimenti, fin troppo repentini e poco aggraziati, l’avevano destabilizzata, lasciandola in balia delle vergini.
Ora, nel silenzio e nella solitudine della camera, intravedeva una luce fioca filtrare dalle tende.
Era notte ed era sola: uno sospiro di sollievo le era sfuggito dalle labbra.

Ade vi prego.
 
Ma di cosa avrebbe dovuto pregarlo?
Lui le stava concedendo la possibilità di sistemare ogni cosa e lei, stupida e sciocca come sempre, sospirava e gemeva sofferente in attesa del suo ritorno.
Smettila di sperare, Persefone. La speranza è degli sciocchi.
Non sperare che lui ti offra la soluzione su un piatto d’argento. Non è suo l’onere.
 
La veste bianca ondeggiava pesante sulle caviglie nascondendo ogni forma con strati e strati di tessuto pesante, eppure i suoi passi non avevano emesso un rumore.
Un sorriso dolce le aveva increspato le labbra,
“Non disturbare i morti”, glielo aveva detto lui, Ade in persona, la prima volta che l’aveva condotta in visita per quei luoghi neri. Egli si era mosso con grazia lungo i corridoi della reggia avernale e non un suono, non uno scricchiolio era stato prodotto dal suo passo: un’ombra oscura, un fantasma.
In realtà era semplicemente una forma di rispetto, la sua: un non voler turbare il riposo eterno di quelle povere anime.
 
Ma lì sotto tutto era diverso, l’attenzione abitava quei luoghi in cui anche le parole assumevano un peso nuovo:

Mia signora.

Quante volte lui l’aveva invocata in quel modo, con voce roca e profonda?
E quante volte aveva udito quelle stesse parole formulate con lascivia o scherno dalle divinità di superficie, le cui avventure salaci erano racconti sulle bocche delle ninfe?
Quante volte sua madre l’aveva chiamata Persefone?

Nessuna.
Nessuno badava al peso delle parole lì, sulla terra illuminata da Febo.
A nessuno importava.
 
Persefone aveva sorriso con amarezza a quel pensiero:

Solo gli umani pensavano all’Ade.

Solo gli uomini lo pregavano, sacrificando tori o pecore nere nel folto dei boschi, nelle notti più nere.
I divini, invece, sciocchi o illusi di vivere in eterno, lo evitavano, relegandolo nel buio dell’invisibile, certi di non dover mai visitare quel regno.

“Ogni vita attecchisce sulle sponde della morte”.

Quella frase era sfuggita dalle labbra schiuse come una preghiera.
 
Una voragine nel petto aveva risucchiato il timido sorriso: pativa il dolore della distanza e per quanto si sforzasse non riusciva a non pensare a lui e a quel regno oscuro che l’aveva accolta e salvata.
Oramai presso la finestra dalle tende scostate, riusciva a sentire il silenzio della vita che riposa e, sospirando e tremando, aveva richiamato alla mente il fantasma di quel dio che abitava il suo cuore.
Aveva bisogno di lui, di sentirlo, di vederlo, di viverlo.
E non potendolo avere l’avrebbe almeno pregato, affinché sapesse che era pensato in ogni istante.
Avrebbe visitato un suo altare di superficie.
Vita che celebra morte.
 
°°°
 
 
Nessuno avrebbe mai più dovuto pronunziare il nome del dio nero al cospetto della giovane Persefone, nessuna storia su di lui, nessun racconto sul rapimento, niente di niente: Demetra era stata chiara e, con quell’ordine, altrettanto chiare erano state le descrizioni dei supplizi che avrebbero flagellato il reo.
Non avrebbe permesso a nessuno di incrinare il delicato equilibrio che col passare del tempo, piano piano e a poco a poco, cercava di tessere tra lei e la sua kore.
Non avrebbe permesso che il fantasma del dio, richiamato dall’eco del suo nome, le sottraesse nuovamente la figlia, nemmeno per un istante avrebbe tollerato che il viso luminoso della giovane si potesse oscurare per un qualche ricordo terribile.
 
In lontananza, presso il tempio rigoglioso perso nei prati, Demetra l’osservava con la mente, accarezzando la delicata figura della bambina dei suoi ricordi…
…ma non era una sciocca né, tantomeno, cieca.
Persefone, la sua Persefone, mostrava tratti di una personalità mai prima svelati al mondo: a volte nervosa, altre solitaria e taciturna, altre stranamente e volutamente severa nei riguardi di chi affrontava con troppa superficialità i rituali.

“Anche ciò che sembra arido e secco protegge, invece, un’esistenza delicata”.

Chissà ormai quante volte aveva udito quel monito solenne fuoriuscire dalle labbra della dolce figlia intenta a richiamare al rispetto coloro che non riuscivano ad andare oltre la bella corolla luminosa e variopinta dei fiori estivi alla ricerca di un altro tipo di bellezza.
Quella che le si palesava con chiarezza nel ricordo e nell’emozione della mente sembrava una persona nuova, più bella, più saggia e attenta al creato, più attenta anche di lei che a volte dava per scontato il valore delle radici al di sotto dei fiori splendenti.
 
“Nostra figlia è divenuta la dea che gli astri avevano profetizzato. Sì di lei sempre fiera, dolce Demetra”.

Un brivido freddo aveva fatto venire la pelle d’oca alla dea che, fin troppo persa in riflessioni, non aveva notato il sopraggiungere silenzioso e ferino del potente signore dei cieli.

“Fratello”, quella parola era fuoriuscita a forza dai denti serrati: un chiaro segno di astio e rancore.

“Siete ancora furiosa per quanto avvenuto alla nostra bambina? Il peggio è alle spalle, suvvia Demetra! Anche quello era stato già scritto, senza che io potessi far nulla per modificarlo”,

“Peccato che non abbiate sentito il bisogno di comunicarlo anzitempo a me, a me che ne sono la madre sventurata!”.

Voltatasi con lentezza, con la solennità di una leonessa, Demetra aveva scrutato il volto sorridente e furbo dell’amato quanto odiato fratello.

“Avreste modificato il corso degli eventi mettendo a rischio l’intero cosmo. In cuor vostro sapete che mai, in alcun modo, avrei potuto darvi una simile notizia”, Zeus, dolce e amabile, le si era fatto da presso e, sollevata una mano, l’aveva poggiata con delicatezza sul volto della sorella divina.

“Smettetela, voi e i vostri modi lascivi e teneri non corromperanno il mio animo- si era morsa il labbro incerta- non più. Avete osato tenermi all’oscuro di tutto e quando la mia bambina vagava disperata per l’Averno nessuno mi ha dato aiuto nella ricerca disperata. Solo Estia, solo lei ha saputo trovarmi, sola e dispersa nel mondo. Lei merita le mie carezze e la mia dolcezza, non voi!”
 
Perché l’aveva visto abbassare il fulgido sguardo?

Perché sentiva una sorta di tensione nuova tra loro, un qualcosa che ben poco aveva a che vedere con la passione?

Qualcosa di freddo e spiacevolmente elettrizzante le turbava i nervi.

Perché suo fratello non osava rispondere?
Perché il volto si era tinto di colori cupi e gli occhi sembravano due pozze di rammarico e sofferenza?
E le spalle incurvate?

Un istinto primordiale le aveva stritolato le viscere creando all’altezza della bocca dello stomaco una terribile sensazione di vuoto che a stento le aveva permesso di formulare i suoi timori in parole tremolanti

“Cos’altro mi nascondete, fratello?”,
fremente per colpa del silenzio prolungato, Demetra aveva afferrato il dio per la veste morbidamente poggiata sulle spalle,

“Cosa mi nascondi, Zeus! Questo cuore non sopravvivrà ai tuoi silenzi”,

“Dioniso, mio figlio, verrà celebrato nel nome e …gli verrà concesso un trono”.

Spiazzata da quella strana comunicazione, Demetra aveva allentato la presa e, con le mani lungo i fianchi, aveva osservato immobile quel volto cinereo.

“Nessun trono è vacante, Zeus. Non è possibile ciò che dici”.

“Un trono è vacante, Demetra”.

Dubbiosa aveva cercato una qualche spiegazione negli occhi del dio ma quelli erano troppo mesti e al contempo saettanti di rabbia e sdegno e timore e preoccupazione.

“Estia non è più”.
 
Perché sentiva freddo? Un freddo letale correrle per ogni terminazione nervosa?
 
“Estia non è più cosa?”, la voce uscita in un singulto strozzato palesava sbigottimento e angoscia.

“Estia è venuta meno al suo voto e lo Stige, implacabile, ha punito la sua arroganza-” in un raro segno di debolezza l’aveva osservato prendersi il volto turbato tra le mani tremanti,
“-Ella giace sotterra, in attesa che la fiamma del suo cuore impuro si spenga insieme alla vergogna del suo gesto”.
 

°°°
 

 

“Mio signore – un inchino e aveva proseguito -  la carestia ha finalmente avuto un epilogo. Demetra ha placato la sua furia e con essa il grande gelo che ha funestato la terra.
La popolazione umana è stata falcidiata e tormentata tanto da causarne un suo dimezzamento ma, fortunatamente, il clima favorevole permette una facile ripresa agricola e, con essa, rallegra i cuori dei sopravvissuti”.
“Molti sono i fedeli che vi invocano con libagioni di miele e sacrifici di bestiame”.

Radamanto, al cospetto del sovrano dell’Averno, aveva snocciolato con rapidità e precisione quelle informazioni.
 
Ade, infatti, lo aveva incaricato di elaborare una sintesi delle condizioni sulla terra: desiderava comprendere quale strategia avrebbe messo in atto la sorella una volta accontenta e, con sollievo, era felice di constatare che non solo lui, non solo la sua amata Persefone rispettavano i patti.
Demetra aveva ricacciato i venti freddi oltre i confini delle colonne d’Ercole e i campi, secchi e bruciati prima dal calore e poi dal folle gelo, avevano iniziato a dar vita ai primi germogli.

“Bene, molto bene”.

Eppure non trovava la pace.
Sentiva come la punta sottile di un ago trapassargli i palmi delle mani, generando un formicolio fastidioso che, con pazienza e quasi dedizione, andava alla conquista del corpo divino.
Era impaziente. Ogni organo, ogni arto, ogni muscolo in lui era impaziente di riavere indietro ciò che aveva dovuto allontanare in vista di un bene superiore ma un tormento nero gli contorceva le viscere in una spira di desiderio e lussuria, acuiti dai ricordi, imprevisti e fuori luogo, delle labbra rosse, succulenti e fuggitive della giovane dea che aveva soggiogato in un terribile bacio di saluto.
 
“Mio signore, con il vostro permesso ritornerei a svolgere le mie funzioni: molte anime attendono presso Minosse ed Eaco”.
Cupo e serio, Radamanto non aveva sollevato gli occhi dal pavimento nero e la voce, solitamente seria, suonava addirittura apatica.
Ade, attento ma stranito, avrebbe potuto anche lasciar passare quello strano atteggiamento, giustificandolo magari con il fatto che, essendo Radamanto una creatura dell’Oltretomba, poteva anche essere tollerabile- accettabile- quasi normale, una certa insensibilità nei riguardi dei mortali; ma qualcosa l’aveva trattenuto dal congedarlo.
L’aveva percepita al bussare della porta: una strana traccia odorosa, metallica e pungente, lo impregnava, accompagnata da una sensazione profonda e disturbante che vedeva contaminare l’animo onesto del suo secondo: erano stati questi i motivi che l’avevano condotto al diniego.

“Aspetta un momento-”, quella frase, lanciata con leggerezza dal dio nero, aveva bloccato il passo marziale del giudice, già giunto presso la porta immensa della sala del giudizio.

“Prima che tu possa andar via rechiamoci presso le sponde dello Stige”.

Radamanto, raggelato da quella proposta, aveva stretto i denti in una morsa serrata, mantenendo però una postura curva e lo sguardo basso nel vano tentativo di non mostrare sorpresa alcuna, ma in cuor suo- di che cuore parlava?- in sé stesso, in quel poco di sé che gli restava, ben sapeva di essere in una situazione delicata, quasi tragica.
Si era limitato a fare un cenno assertivo col capo e, una volta che il dio gli fu accanto, aveva aperto la porta.

Ade sapeva, ne era certo.

Lo sentiva sotto la pelle, ora intirizzita da una spiacevolissima sensazione di pericolo e timore.
 
 


Era rimasto in silenzio, altrettanto aveva fatto il dio di cui non riusciva ad udire nemmeno il passo.

“Da quanto tempo oramai, mio fidato giudice, mi offri servigi e rispetto?
 Decenni?
 Secoli?”,

“Non saprei mio signore. Il tempo, presso il vostro regno, scorre in modo incomprensibile. Vi direi da poco, molto poco, per esprimervi la felicità per la fiducia che avete riposto in questo corpo morto, eppure…”

“Eppure cosa?”

“Eppure una dolorosa pesantezza grava sul mio essere”.

Ade aveva indirizzato un sorriso sottile al vuoto dinnanzi a sé, un leggero suono era uscito dal suo petto: forse un sospiro, forse una risata di scherno.
Preoccupato da quella reazione e folgorato dalla possibilità di averlo offeso in qualche modo, Radamanto precipitosamente si era affrettato nello spiegare il senso della frase appena pronunziata,

“Non era mia intenzione offendervi, Ade. Vi sono grato del dono che mi avete fatto, sono grato a voi e al vostro animo gentile, sono grato per la possibilità-” Radamanto era un fiume in piena che solo Ade, con un gesto pacifico della mano, sarebbe riuscito a placare,

“Anche io ti sono grato per la tua fedeltà e per la solennità con la quale svolgi i tuoi compiti, ma è strano, veramente strano, caro giudice, che ancora tu non abbia ben afferrato fino a che punto il mio essere pervada questi luoghi”.

Ade aveva assottigliato il sorriso in una linea severa e amara,

“Credevo avessi compreso che il luogo che abiti, l’aria che ti sostiene, finanche il cielo nero che ti sovrasta legge il tuo animo e scruta il tuo essere…e conosce i timori e … i rimorsi”.

Il giudice aveva fissato lo sguardo nella stessa direzione di Ade, verso la distesa di terra brulla che, sconfinata e desolata, si apriva al di là delle nere mura; poi, con rassegnazione, aveva nuovamente osservato il volto del dio, tirato e attraversato da oscuri pensieri.

“Pensavi non comprendessi? Che non vedessi a che gioco, voi miseri, stavate giocando?”
Infastidito per la leggerezza con la quale era stato considerato, Ade aveva continuato

“Ho preferito non agire, far finta di non vedere. Io, Ade, non vedere cosa tu ed Estia stavate tramando nei vostri cuori qui, nel mio regno”.

 
“…E’ da un po' di tempo oramai che il fuoco sacro arde fiaccamente. Sembra quasi che le lingue di fiamma si consumino ad ogni combustione anziché ravvivarsi”,  Ade aveva rimodulato la voce, ora più composta, meno agitata dall’angoscia: sembrava voler cambiare discorso, spostare la conversazione su un qualcosa che lo impensieriva e preoccupava al contempo, oltre l’Averno non disponeva di informazioni che gli potessero suggerire il fato della sorella.

Vergognoso di sé e della propria apatia, Radamanto aveva calato il capo al suolo: se solo avesse potuto si sarebbe nascosto allo sguardo affilato che il sovrano aveva lanciato al suo indirizzo, facendogli capire che non era più il tempo di nascondersi dietro un dito.

“Siamo esseri fatti di sangue e fango, creature d’ombra condannate al gelo eterno. Nessun petto può ardere se non lo si ha … un cuore”.

Con voce tremante il giudice aveva mormorato quella risposta: sapeva che Ade l’avrebbe udito anche così, con quel sospiro addolorato a mezza bocca. Il dio, infatti, una volta compresa quella confessione e ricollegatala alla strana traccia di sangue vecchio prima percepita, finalmente comprendeva perché l’assenza di una qualsiasi sensazione o emozione o preoccupazione al dubbio insinuato sulle condizioni di Estia.

Che stupido, ragiona ancora come un uomo.
 
 
 “Quando le anime dei trapassati varcano questi luoghi, dimmi Radamanto, che espressione leggi nei loro volti?”.
 
Ecco l’ultimo colpo, l’ultima provocazione.
 
“A volte paura, mio dio, altre immensa felicità o gratitudine”,

“Strano”, Ade lo aveva osservato furbo, la voce un misto di sarcasmo e benevolenza.
“Strano, non avendo un cuore battente, a rigori, seguendo il tuo ragionamento impeccabile, non potrebbero in alcun modo provare sentimento alcuno-”,

Ad occhi sgranati, Radamanto l’aveva osservato muto.
 
“Credi sul serio che un cuore sia solo un organo, giudice?”

Con quelle ultime parole Ade aveva superato il suo secondo, ora immobile e pallido in volto, per lasciarlo solo coi suoi demoni mentali.
Adesso, nell’immensità di quel silenzio, li risentiva tutti, i sentimenti maledetti, e sentiva il dolore, quasi fisico, di quella incisione.

Di quella inutile incisione.
 
 
A volte è proprio la mente a creare mura, ad ignorare il vero, volontariamente.
 
 

°°°
 
 
 
“Lascerai che lei scompaia, Zeus?”

“Non posso far altro”.

Demetra, col volto tirato e le mani strette in grembo, aveva completamente perso la forza di parlare.
Era mai possibile che quella scellerata della sorella avesse fatto una cosa del genere? Venir meno al patto con lo Stige era inconcepibile per loro, divinità sottoposte al volere del Fato.

“Andiamo da lei. Liberiamola da quella gabbia nera simile al ventre paterno. Magari ha cambiato idea. Zeus, magari era solo abbacinata da chissà quale desiderio, magari-“, ma Zeus, ben consapevole delle motivazioni che con angoscia e determinazione avevano condotto la sorella alla folle decisione, aveva mosso lentamente il capo da sinistra a destra.

No

“No?” Demetra, aveva allungato le forti braccia lungo i fianchi, occhi di brace e un dolore al petto la facevano fremere.

“E’ tua sorella-“

“Si è innamorata-“,
il padre del cielo l’aveva folgorata con uno sguardo addolorato.
“Estia si è innamorata e questo sentimento la contamina. Lo Stige non accetterà un ulteriore vincolo con una traditrice dei patti”.
 
 
Una lacrima aveva solcato il volto sconvolto della sorella infelice, poi l’aveva vista muovere dei passi incerti: la schiena nuovamente curva mentre l’aspetto, prima fresco e felice, ora sembrava tangibilmente tormentato.

“E noi saremmo dei? Noi gli illustri e i luminosi?! Divinità potenti che hanno tutto? Lasceremo che nostra sorella marcisca per un sentimento che io, tu stesso ed altri hanno veramente insozzato di vergogna? Chi è costui? Forse un fedifrago? Un traditore dei familiari? Un meschino depravato? Con che coraggio ti definisci padre e protettore di tutti noi? Pensa a quello che tu hai fatto a tua moglie, a quello che io le ho fatto, pensa a mia figlia, tua figlia…
Estia a chi reca danno?
…Chiedi aiuto alle sacre moire, Zeus. Ti supplico”.
 
Con quella preghiera, mormorata con un sospiro pieno di amarezza e sofferenza, Demetra gli aveva dato le spalle: a testa bassa si era incamminata verso la figlia, persa in lontananza in un corteo di ninfe.
 
 
°°°




Dormivano tutti, ne era certa. Nel silenzio della notte profonda riusciva a distinguere il ritmo, regolare e profondo, del sonno che aveva abbracciato gli abitanti della sua dimora.
Doveva andare in quel preciso istante, prima che qualcuno la sentisse, prima che qualcuno la sorprendesse vestita con un peplo nero e col capo coperto da un lungo velo fissato da un fermaglio d’oro scheletrico, intenta ad imboccare la porta in punta di piedi.
Cosa avrebbe potuto rispondere in quel caso?
Come avrebbe potuto spiegare che nelle viscere di quel corpo nutrito da ambrosia nera, sentiva il richiamo delle profondità boschive, dove solo i più temerari osavano recarsi per compiere i sacrifici al dio dell’Averno?
Eppure lei la sentiva, distintamente: una voce roca e suadente la invitava, avvolgendola e sospingendola verso quei luoghi, solo e soltanto alla ricerca di Lui.

Sto arrivando.

Il cuore le fremeva nel petto tanto da poterne sentire il pompare ritmico e disperato fin dentro le orecchie mentre il ricordo di quell’ultimo bacio, scambiato con disperazione e fame, ne travolgeva i sensi accartocciando le viscere,
fremeva lì, tra le cosce vergini, disperata e bramante.
 

Ti cerco Ade, e porto con me un carico fatto di disperazione e tormento.

Voleva che la sentisse, implorante e inerme presso i suoi altari, a rendergli onore e rispetto, a versare libagioni e a pregare come una supplice che chiede al destino quale sia la via migliore da percorrere.
Cosa avrebbe dovuto chiedergli?
Lui era la somma giustizia imbrigliata in un corpo appassionato e stretto nelle catene di un vincolo, anche se l’avesse supplicato di dirle come agire, lui non l’avrebbe fatto: era il suo turno, avrebbe dovuto scegliere lei che strada imboccare.
 
No.
Lui non l’avrebbe vista in quel modo, non l’avrebbe vista debole, sofferente e afflitta presso i suoi altari, perché lui si era rivelato essere il peggiore dei suoi incubi durante la notte e il migliore dei miraggi nelle calde luci del giorno e sapeva che quel dio, come lei, l’aspettava con impazienza.
Non avrebbe tormentato anche quelle preghiere.
 
Non era stato difficile trovare il luogo, aveva semplicemente seguito il corso delle piante, sempre più fitte e soffocanti man mano che si avvicinava all’altare: sembrava una sorta di difesa, una sorta di guscio in grado di offrire intimità e riservatezza a quei poveri sventurati in cerca di conforto presso il dio che abbraccia tutti, prima o poi. 
Mossa quasi da un istinto ancestrale aveva aperto le braccia, proprio come aveva fatto la prima volta al cospetto dell’ombra del suo inseguitore e, in quel momento, proprio come in quel giorno lontano, si era sentita avvolgere dalla nebbia oscura dell’Averno: una guida verso il nero altare fatto di marmo freddo e splendente.
Aveva sfamato gli occhi di quella vista che sapeva di intima scoperta, come quando si viene ammessi alla presenza di un qualcosa di grande e misterioso, precluso ai più.
Tutto era come sospeso in un silenzio che sapeva di solennità, morte e, stranamente, pace.
Forse per quella strana sensazione di rilassamento che l’aveva avvolta come un mantello caldo, forse perché stupita dalla lussureggiante e nera vegetazione che le offriva intimità e riservatezza, aveva sentino l’impellente necessità di accostarsi a quella lastra nera e gelida con le mani frementi strette all’altezza del petto.
Poi aveva semplicemente socchiuso le labbra, lasciando fuoriuscire una preghiera dolce e amara al contempo:


“Ade, signore della dimora sotterranea presso la quale conducesti Kore, figlia di Demetra, strappandola alla madre e alla fanciullezza.
Voi invoco per nome, voi che risiedete sul trono nero oltre la vita e oltre l’eterno e che amministrate con saggezza l’esistente, concedendo il riposo della morte ristoratrice: accogliete con cuore sincero questo rito”.

Aveva poi steso le labbra in un sorriso bambinesco mentre le guance si imporporavano gradualmente di una sempre più accesa sfumatura rossastra:

Vengo a mani vuote: non ho con me un toro nero né una pecora che vi possa offrire in sacrificio- né mai avrei potuto, come sapete non sopporto la sofferenza, soprattutto se patita da creature innocenti”, aveva mormorato imbarazzata, sperando che lui comprendesse il suo rifiuto nel versare sangue
innocente presso un qualsiasi altare.

“Voi, che state presso l’Averno di cui siete signore e animo, ospite gentile di radici, sostegno di alberi floridi, ascoltate la mia preghiera:
venite benevolo e benedite con la vostra presenza la vostra promessa sposa che, sulla superficie, agogna un atomo della vostra presenza”.
Aveva serrato gli occhi, tentando con ogni briciolo di forza rimastale, di tenere a bada il cuore agitato dalla speranza di una qualche risposta.
Era così stupido sperare che lui, nella sua fulgida e strana bellezza, si presentasse lì, al suo cospetto, invisibile alla vista perché nascosto dall’elmo ma non invisibile a lei che lo cercava con l’occhio del cuore?
 
 
Ma più l’attesa si faceva estenuante, più sentiva le gambe iniziare a tremarle per la delusione e il freddo che le penetrava fino alle ossa.

“Ade, vi prego…”, col peplo nero stretto sulle spalle scoperte, si era avvicinata all’altare freddo e silenzioso e con disperazione ne aveva scavalcato i gradini gelidi il cui effetto sulla pelle era stato una dolorosissima pelle d’oca.
Poi, con istinto profano e sacro al contempo, si era stesa sulla lastra nera.
Che fosse lei la vittima sacrificale, che fosse lei a cedere, a dividersi, a lacerarsi dentro tra il dover essere e il voler essere.
 
Lì, avvolta in quell’abbraccio gelido, aveva sentito un unico fastidio all’altezza del capo e, muovendo con lentezza il braccio, aveva raggiunto il luogo colpevole.
Tra le mani ora reggeva un fermaglio, quello che lui le aveva recato in dono, quello che lei aveva schiantato a terra con mal grazia e che riportava i segni della caduta.
“Hai perso i tuoi brillanti ma resti sempre bellissimo”, girando il monile tra le mani – assolutamente a suo agio su quell’altare, vestita di nero e pronta ad un sacrificio- aveva rivolto parole dolci a quell’oggettino delicato e spoglio il cui compagno era al sicuro, superstite alle sue sbadataggini, nel caldo Erebo.

Un ramo spoglio delle sue gemme, proprio come gli alberi che avevano lamentato la sua scomparsa.
 
Quella riflessione, apparentemente sciocca e leggera, l’aveva però stranamente colpita, portandola a sollevare di colpo la schiena dall’altare accogliente.

Era bastato solo il suo ritorno affinché le piante, gli alberi e la natura tutta, potesse recuperare il suo solito splendore?

Si, era bastato solo questo, il suo ritorno per fare in modo che dalla radice sbocciasse lo stelo della vita, in un nuovo ciclo, in una nuova ruota.
E se fosse stato sempre così?
Se lei fosse andata via per tornare, e fosse tornata per andare via?
 
Folgorata, aveva nuovamente osservato l’altare sotto di sé.
 


Ade le aveva risposto.









 
 
Ma il travolgimento, l’incertezza e la forza di quella riflessione erano stati spazzati via da due mani che, forti e delicate, disperate e reclamanti, l’avevano spinta con impeto sull’altare che lei aveva abitato.

“Ade”.

“Zitta e accogli il tuo dio, supplice”.

 E l’aveva zittita, eccome.

Ne aveva respirato i gemiti, i sospiri e i lamenti impregnati di disperazione e bramosia.
Il rumore della veste lacerata con impazienza aveva accompagnato le labbra esigenti del dio dell’Averno che, voraci, mordevano e baciavano la dea, leccandone il collo, e alternando carezze benevole a morsi possessivi e letali tanto da strapparle, brandello dopo brandello, ogni cognizione di sé: aveva allargato le braccia affinché lui vedesse in che modo, remissiva e consapevole, si offriva a lui e alle sue torture.
Non era stato delicato come la prima volta, il tormento e l’eccitazione muovevano le sue mani gelide alla ricerca dei segreti di quel corpo: aveva percorso con lentezza la gamba, dalla caviglia fino all’interno coscia, dove brividi e tremolii lo avevano accolto con una spontaneità tale da sottrargli il respiro.
L’aveva fatta stendere sul gelido altare e come un felino le era scivolato sopra facendole sentire, premendo all’altezza del basso ventre, quanto anche lui la desiderasse al di fuori di ogni logica.
Quella preghiera l’aveva scosso dentro a tal punto da mandare al diavolo qualsiasi buon proposito fatto di pazienza e attesa: si era tramutato in ombra e come tale l’aveva presa e avvolta tra le sue braccia.
Un gorgoglio roco gli era risalito dal petto quando alla luce della luna pallida l’aveva vista mordersi fremente le labbra tentando inutilmente di mettere a tacere le preghiere mormorate in una litania roca e sensuale: lo stava implorando, con ancor più devozione di prima, e più la sentiva più premeva contro quel corpo caldo la sua erezione, oramai pulsante contro la stoffa seriosa.
In un unico e fluido gesto aveva sfilato la cinta stretta affinché il chitone, stretto e aderente al corpo, potesse essere rimosso, agevolando e favorendo una piacevole frizione di corpi nudi; perché lei era già nuda, con brandelli di veste a circondarne il corpo meraviglioso esposto e caldo.
In quel silenzio che formava una bolla intorno a loro, si erano osservati a lungo: il petto di lei si sollevava freneticamente mentre il volto arrossato iniziava a rivelare i primi sedi del suo assalto.
Non aveva resistito oltre quando l’aveva sentita sollevare il bacino contro di lui, in uno sfregamento corpo su corpo, intimità contro intimità: non aveva scampo.
Le aveva raccolto i seni tra le mani e con sensualità ne aveva succhiato e morso le punte, acuendo quella sensazione di umido e bisogno tra le gambe di lei, leggermente schiuse ed invitanti.

“Ade…”, Persefone aveva miagolato di piacere mentre la testa cascava all’indietro, esponendo ancor di più il petto a quella bocca avida.

“Non dire nulla, mia signora. Hai già detto abbastanza…”, un morso l’aveva fatta fremere per poi farla singhiozzare quando si era chiuso in una lenta suzione del capezzolo.

“Lascia che sia io a parlare, a dirti- e aveva indirizzato una mano verso quel bacino che sentiva fremere- a dirti quanto abbia apprezzato la tua preghiera, accorata e dolce”. La provocava con un tono affilato, stravolgendo il senso di quelle parole che suonavano alle sue orecchie come una maliziosa minaccia.

Ade era un demone meraviglioso.

Quella mano che aveva abbandonato il seno si era spinta tra le gambe della giovane alla ricerca di quella fessura, umida e stretta, che sapeva lei gli avrebbe offerto non senza opporre una buffa e poco convinta resistenza.

“Fa la brava, kore*…fa la brava”.
L’aveva chiamata bambina, e a lei era imploso dentro un mondo dentro fatto di voglia, pura e famelica voglia di lui in ogni modo.
L’aveva visto sorridere soddisfatto quando, alla prima delicata carezza, aveva tremato inconsapevole: sentiva quelle dita gelide percorrerle quel solco nascosto e bagnato avanti e indietro senza fermarsi in un punto in particolare, accendendo ogni sua terminazione nervosa.

“Ti prego, Ade, ti prego”.

E lui l’aveva accontentata, aveva esaudito quel desiderio terribile e con lentezza esasperante aveva sospinto un dito tra quelle labbra schiuse: l’aveva sentita sospirare appagata per quella intrusione.
Ma non sarebbe stato gentile. La gentilezza aveva oramai abbandonato il suo corpo da un po’.
Per questo motivo aveva interrotto l’andare e venire del dito, facendola sospirare esasperata

“Mia kore- le aveva morso le labbra punitivo- adesso rendete onore al dio che avete invocato”, e con la mano che l’aveva tormentata aveva afferrato la sua, agguantata strettamente al bordo della lastra di marmo nero. Non perdendo mai il contatto visivo con quella dea che gli giaceva completamente offerta tra le braccia, aveva condotto la sua piccola mano sul suo membro dritto e sofferente e, guidandola con la propria, le aveva insegnato come dargli piacere, sorprendendosi della gentilezza di quel tatto e dell’attenzione con la quale la sua amata si rendeva strumento di piacere per lui, il dio dei morti e dei vivi.

Poteva mancare l’aria in un campo aperto?
Si, oh dei.
Si.








L'Angolo Di Avareil
Non so da dove iniziare con le scuse: mi mostro col capo cosparso di cenere, abbiate pietà.
Scherzi  a parte, mi spiace veramente per questo pauroso ritardo: le vacanze natalizie, i viaggi e lo studio pazzo e disperatissimo mi hanno prosciugato l'esistenza e certamente non volevo postare un capitolo stupido e vuoto.
Questo è più lungo del solito, un modo per accattivarmi la vostra benevolenza ^^'', impreziosito, spero, dalla piccola parentesi hot in fondo che spero vi sia piaciuta. In merito a ciò vi invito a darmi qualche consiglio dal momento che con queste scene non sono molto pratica. Non vorrei urtare la sensibilità nè allo stesso tempo lasciare a bocca asciutta.
kore* è con l'asterisco perchè voglio sottolineare che quando lo trovare in minuscolo vuol dire che lo uso semplicemente come il corrispettivo di bambina.

Radamanto ha capito, finalmente ha capito quanto è stato bestia, vediamo ora che combinerà. 
Ed Estia? La grande assente, per ora ;)

Un Bacio!!!!
 

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Capitolo 17
*** Capitolo 15 ***


Spettri e ombre

Una chioma scomposta dal vento, il frusciare delle ali, il respiro leggermente affrettato, il pulsare di un cuore in agitazione: era come se il divo alato fosse lì, al loro cospetto presso le camere private del dio di quei luoghi.

Vivido e tangibile, Persefone lo percepiva distintamente sebbene quello si trovasse lontano, presso il sacro altare del divino Ade.

Hermes era infine giunto per far rispettare le promesse, quelle stesse promesse che solo pochi secondi prima erano state infrante, sostituite con una ben più pericolosa e intima che la vedeva legata all’Averno:

il frullare di quelle piume, il respiro di quel corpo, il monito del Flagetonte, tutto in lei vibrava e riverberava come un colpo, cadenzato e scandito, inferto alla cassa di un tamburo di guerra.


 

Era angosciante.


 

Davanti agli occhi, ora velati dalla vista offertale dal regno che la reclamava come regina, vedeva la giovane e scomposta figura del messaggero, preoccupato dal compito affidatogli.

Ne aveva sentito la voce distintamente e, anche se non ne fosse stata in grado, avrebbe saputo leggere il linguaggio di quelle labbra tirate reclamanti udienza.

Dinnanzi, intorno a lei vi era un regno che

si faceva appendice del suo corpo: questo il dono dell’ambrosia nera.

Questo il vincolo che la legava in eterno a quei luoghi.


 

Spaventata da sé stessa, turbata dal piacere che le solleticava il cuore al solo sapersi non più ospite, ma abitante amata e ben accolta, si era alzata di scatto dal talamo sfatto lasciando in sospeso quella domanda bisbigliata in un singulto strozzato.

 

“Ade, cosa avete fatto?”

Cosa avrebbe mai dovuto fare?

Ti ha salvato la vita, ingrata dea, e tu punti il dito contro di lui.

Quanto sei codarda? Il tuo cuore sussulta per la gioia, sei felice di questo imprevisto corso degli eventi eppure, nemmeno adesso, sei capace di assumerti

la responsabilità delle tue azioni.

 

Tu non hai richiesto l’ambrosia, né hai deciso di berne, ma la promessa che hai suggellato con Ade è più antica di questi nuovi risvolti-

 

Solo perché adesso sei in grado di veder oltre non divenire una codarda.

 

Assumiti le tue responsabilità.


 

Angosciata e impaurita dalle conseguenze che quelle azioni avrebbero potuto scaturire, tormentata dal ricordo del monito del Flagetonte, si era quasi imposta di

di ignorare la figura del sovrano, ancora muto al suo cospetto.

Aveva ben chiaro in mente di cosa avrebbe dovuto fare o dire ma, bloccata da sé stessa e dai propri timori, era riuscita solamente ad alzarsi freneticamente dalle coltri morbide e scomposte dove aveva fino a quel momento riposato.


Ade era rimasto ad osservarla, rigido come una statua di marmo e al contempo nebuloso e oscuro come un’ombra che sta sempre in agguato dietro le porte, sotto i giacigli: più simile ad uno spettro che ad un dio.

La sua sola presenza congelava l’etere.


Nel silenzio più profondo si potevano udire i sospiri agitati della dea intenta a lisciare le vesti rovinate, le dita sottili correre verso i capelli scompostamente adagiati sulle spalle nel vano tentativo di riordinarli: nel silenzio di quella camera si poteva udire l’assenza di battito in quel cuore turbato di dea, disperatamente alla ricerca di un contegno che la paura, sottile e strisciante, andava man mano logorando.

“Quali sono le vostre intenzioni?”,

una voce atona e apatica era fuoriuscita dalle labbra severe del dio nero che, rimanendo sempre di fianco al letto, aveva impercettibilmente volto il capo verso la dea agitata.

“Andrò da Hermes come stabilito. Raggiungerò mia madre, tornerò a casa: quello è il posto che il Fato esige che io abiti”.

“Mentite”,

una parola, un affondo di spada: Ade, il dio della morte non aveva proferito altro.

“Come osate darmi della bugiarda?”,

“Io so cosa ho visto, so con che propositi nel cuore ho agito. Il Fato vi ha designata come mia regina”,

“Il Fato non ha considerato i miei legami, legami vincolanti che nemmeno voi, potente dio, potete tranciare”.

“Mentite”.

Esasperata dall’ennesima fredda accusa che la bucava dentro, Persefone si era voltata furente verso di lui, ancora rigido e scuro in volto

“Vi avevo detto di essere prudente e lungimirante. Questa volta siete voi incapace nel vedere oltre. Almeno io devo mantenere la promessa che voi avete infranto”.

Che motivo aveva di ferirlo a quel modo?

Quale il bisogno di puntare il dito contro il dio che aveva agito per il suo bene?


Lui non sapeva del Flagetonte, questa la sua colpa.

Non era con lei quando la succube aveva affondato i suoi artigli nella sua morbida carne: questa la sua colpa.

L’amava, come lei amava lui,

questa 
la loro colpa: ciò che li aveva resi vulnerabili e stupidi e ciechi dinnanzi ai giochi del Fato.


“Bene, andate allora, e badate a non far più ritorno. Mi assumerò la responsabilità delle mie azioni. Io e io soltanto, non ho bisogno di voi”.


Non una parola di più, non una di meno era uscita dalle labbra strette e livide del signore dell’Averno, ora più simile ad una maschera nera che a un divino.

Non aveva avuto il coraggio di guardalo in faccia mentre sentiva la risposta alla sua provocazione, non aveva avuto il coraggio di girarsi verso di lui nemmeno quando aveva sentito il suo passo marziale da re soldato, dirigersi verso le grandi porte per poi sbatterle alle sue spalle.

Era sempre questo il problema: lei non aveva il coraggio.

Non lo aveva mai avuto, del resto a cosa le sarebbe servito? Sua madre la proteggeva da ogni male.

Menzogna.

Aveva vissuto sulla sua pelle la falsità di quella credenza.

Sua madre non l’aveva saputa proteggere dal Fato, un Fato che

quella le negava con tutte le sue forze.

Con un sorriso di sdegno dipinto sulle labbra tirate, Persefone aveva provato un

immenso odio nei riguardi di sé stessa e della propria codardia.


Com’era possibile che la sua vita fosse una costante rinuncia?

Perché ogni volta le venivano imposte condizione che prevedevano sempre il sacrificio di un qualcosa a lei caro?


Perché non poteva semplicemente vivere per sé stessa e per i propri desideri?

 

Si era voltata troppo tardi.

Di Ade, in quelle stanze, vi era solo la grande assenza.

E pesava come un macigno sul cuore.

Lo hai accusato ingiustamente, pur sapendo la verità.

Vergogna.

 

Un singhiozzo era sfuggito alla dea, fin troppo angustiata dalla consapevolezza di aver ferito l’unico essere così affine a lei da poterne sentire l’essenza scorrere per le sue stesse vene.


 

Ma che altro avrebbe potuto fare?

Il Flagetonte era stato chiaro:

Non mangiare figlia, piuttosto…”

Piuttosto cosa?

Aveva bisogno di andar via da quelle camere, una necessità cogente che la spingeva a correre e a sbattere con noncuranza la porta alle sue spalle.

Via, via da lì, da quei luoghi capaci di risvegliare nel suo animo un profondo senso di colpa che, a poco a poco, piano piano, le mangiucchiava la coscienza già sporca, già turbata.


Come era stata capace di arrivare a quel punto? Sua madre soffriva, lei soffriva, il suo amato dio soffriva.


E tu che ti illudevi di essere “pura”, stupida, stupida e infantile dea, ogni scelta è una responsabilità, ogni azione comporta conseguenze, speravi forse di essere esente da un conto del genere?”,

aveva mormorato a denti stretti quel mantra amaro sulla lingua per tutto il corridoio che l’avrebbe condotta presso le sue stanze.

Con rancore e disprezzo verso sé stessa aveva notato e odiato il momento in cui la camera e tutti i suoi elementi le si erano rivelati con più calore e familiarità: sentiva l’Averno sulla pelle come un caldo benvenuto che lei sentiva di non meritare sebbene le piacesse, maledettamente. Per tale motivo un’imprecazione leggera le era sfuggita dai denti serrati.

Perché rinunciare a quella dimora amara?

Perché dover sempre sacrificare una parte della sua vita?

Irata con sé stessa, con il Fato meschino e trasparente persino all’occhio dei divini, aveva sollevato la vaste dal corpo infreddolito e scosso da fin troppe sensazioni spiacevoli e l’aveva scagliato contro la grande cassettiera di fianco al focolare.

Turbata aveva raggiunto la camera da bagno dove una tinozza di acqua gelida l’attendeva per una rapida abluzione; la dea non aveva badato al delicato rumore metallico susseguito al lancio della tunica.

L’oggettino al suolo aveva atteso paziente il ritorno della proprietaria della veste scagliata con forza che, solo dopo aver rimestato frettolosamente nella cassettiera alla ricerca di una veste scura, l’aveva infine scorto al suolo, pericolosamente vicino al focolare.

Un fermaglio.

Uno dei fermagli di cui il dio le aveva fatto dono era lì, caduto per colpa della sua ira e della sua angoscia.

Un singhiozzo strozzato aveva accompagnato la dea, chinatasi a raccogliere quel prezioso monile, ma ecco che questo, al suo semplice e delicato tocco aveva tremolato, mettendo in evidenza il danno causato dalla caduta violenta.

La sottile e delicata trama di pietre preziose che sapientemente ricreava fiori in boccio, risultava in parte lesionata, in parte tremolante mentre molti preziosi giacevano al suolo, proprio nel luogo in cui si era registrato l’impatto.

Quello che ora reggeva con dispiacere tra le mani ben poco aveva a che vedere col gemello, ben al sicuro lontano dalla veste appallottolata e gettata contro il mobile.

Uno scheletro, uno scheletro spogliato delle sue vesti più belle, ecco cosa reggeva tra le mani.

Un dono che non aveva saputo proteggere, lo spettro di una promessa che non avrebbe potuto mantenere se non a caro prezzo.

Un nuovo sacrificio sarebbe stato compiuto, non da Ade, non dalla madre tanto amata eppure soffocante ma da lei, parte mediana di una relazione d’odio tra opposti.

Vestiti e vai da Hermes, sbrigati e rendi più veloce questa separazione angosciante.

Rapida e a capo chino aveva lasciato alle sue spalle le stanze fredde.

Stringeva al petto, proprio sopra il cuore, il piccolo superstite scheletrico mentre al suolo di quella camera brillavano milioni di pietre preziose,

un cielo stellato nell’Averno nero.


 

°°°


 


 

Aveva aspettato sul limitare delle grandi mura nere che la dea lasciasse i suoi alloggi per potervici ritornare senza il pericolo di incontrarla.

La sua immagine, anche la sola possibilità di cogliere i suoi tratti di sfuggita, innescavano in lui un’ira cieca che nemmeno Eros, con le sue frecce infallibili sarebbe riuscito a placare; anzi, forse proprio quel farabutto alato stava giocando con lui, ferendolo prima con punte d’oro e dopo, a tradimento, colpendo lei con la lega di ferro nero.

Rise sdegnatamente di sé immaginandosi quale nuovo Apollo, amante non corrisposto.

A denti stretti, mostrati in un ghigno di bestia, e dopo un tempo che non avrebbe saputo quantificare, aveva nuovamente mosso dei passi marziali verso le sue stanze: doveva cambiarsi, vestirsi con le nobili vesti nere, simbolo del suo ruolo e del suo essere e, infine, indossare la kunee, di metallo nero dal cimiero di sangue.

La furia che lo intrappolava in spire strette e soffocanti lo rendeva incapace di qualsiasi gesto, qualsiasi parola:

non aveva la forza di dire nulla né di fare alcunché, troppo lo sconvolgimento e troppa la delusione che quelle parole, dette con paura e timore da una bocca un tempo amica, avevano generato nelle sue più tenebrosa profondità.

E non serviva a nulla cercare per l’ennesima volta la giustificazione per un comportamento di quel tipo, non serviva provare a sollevare dalle spalle della dea la responsabilità delle parole proferite:

semplicemente si sentiva tradito, deluso per l’ennesima volta, come se fosse scritto nelle sue ossa il destino di esser creduto un traditore dei patti e delle promesse.

Con quanta fede aveva agito? Fede nella bontà dei propri intenti, fede nella bontà dei propri sentimenti e di quelli della dea stesa al suo cospetto in un sonno di morte.

Giudicato senza giustizia.


Come se lei, con quello sguardo sottile e impaurito gli avesse gridato in faccia:

“Mi avevi promesso di essere ragionevole. Guarda invece in che tormento mi hai sprofondata”.

Cos’altro avrebbe potuto fare in una situazione del genere?

Una mano era corsa al volto contratto e a mo’ di schermo aveva oscurato gli occhi stanchi e brucianti come bracieri infernali.

Il signore dell’Averno non riusciva a riguadagnare a sé il controllo e la pacatezza che lo Stige gli aveva cucito addosso.

Era stanco di subire quella sorte, stanco di venir considerato la peggior feccia.

Sdegno gli avvelenava la lingua, una bile nera che risale dallo stomaco e corrode le labbra, mute e strette a celare denti digrignanti, una bile che risaliva su, negli occhi, tingendoli di un nero putrido e insondabile.


Abbastanza


Ne aveva abbastanza.

Perché anche lei doveva essere come tutti gli altri, perché il suo destino era quello di non venir mai creduto nella sincerità delle proprie azioni.

Abbastanza.

Che destino balordo era stato scritto per lui?

Le mani lungo i fianchi fremevano vistosamente, l’intera sua figura veniva scossa da lunghi e sottili brividi di rabbia che facevano tremare le ossa, il sangue, i muscoli.

Com’era possibile che quelle labbra, rosse e succulenti, si fossero permesse di insinuare il dubbio su di lui e sulle sue azioni?

Quella dea, meravigliosa e terribile, lo avvelenava col suo amore: un veleno di cui lui non avrebbe saputo fare a meno ma che, ovviamente, lo mangiava a poco a poco, come un tarlo.

Giunto infine presso i suoi alloggi si era spogliato con scatti agili e precisi, disfatto della veste semplice aveva afferrato la tunica regale e nera; la kunee lo attendeva sul piccolo davanzale del camino ravvivato da un fuoco fiacco e poco brillante.

Il cimiero rosso sangue lo richiamava al vero della sua esistenza.

Giudica e fai rispettare le norme dell’invisibile.

Sei il sovrano, per te non è stata predisposta alcuna gioia.

In malora le profezie.

Eppure uno strano calore aveva iniziato a bruciargli nel petto, all’altezza di quel cuore che se fino a poco prima sentiva battere a stento, ora invece, aveva ripreso a pulsare con forza, forse ravvivato dalla traccia profumata lasciata dalla dea in quei luoghi.

Proprio lei gli fluiva dentro, i suoi pensieri, le sue parole e i suoi sentimenti.


Un sorriso sincero e stupito aveva sostituito il ghigno animale:

dovevi ferirmi per capire i tuoi desideri, piccola dea?

Non più Kore ma una kore nell’animo.

Sei ancora una bambina, mio amore.


 


°°°


“Hermes, da molto i miei occhi non venivano solleticati dalla luce d’ambra che emana un corpo di superficie, vi rivolgo il mio cordiale benvenuto”.

Persefone, regale e composta, aveva varcato la soglia della grande cella avernale in cui un giovane dio dai calzari alati fremeva visibilmente per l’attesa.

“Mia dea, non pensavo di vedervi così, senza prima dover costringere lo zio a rivelare il suo tesoro più prezioso”.

Hermes, sollevato nel vedere la giovane piuttosto che il dio nero e imperturbabile, le si era fatto da presso mostrandole un sorriso sollevato a trentadue denti.

“Siete pronta per ritornare presso la dimora materna, mia signora? Demetra sacra vi aspetta con impazienza, teme che un ripensamento possa mandare in frantumi i buoni propositi del signore di questi luoghi”.


 

“Nessun ripensamento alcuno impedirà al mio ospite, nonché signore, di rispettare i patti stipulati. Hermes, è del dio dell’Averno che stai parlando, un dio ben più antico di noi che esige rispetto e reverenza.

Nemmeno mia madre dovrebbe osare dubitare di lui in maniera così sciocca”,

con una determinatezza che non era propria, Persefone aveva risposto spazzando via ogni sciocchezza, ogni mancanza di rispetto che fino a quel momento fin troppi dei, sua madre compresa, avevano osato riservare al dio al quale il fato l’aveva legata.

“Non volevo offendervi, mia signora”, mortificato, il dio alato aveva poggiato i piedi per terra mentre il sorriso che fino a quel momento aveva illuminato il giovane volto, adesso aveva lasciato il posto ad un’espressione più seria, quasi da uomo adulto.

“Non è vostra la colpa ma dei pregiudizi che abitano l’Olimpo. Sarà mia premura sradicarli uno ad uno, come erbe malate e cattive”,

un sorriso saggio aveva tirato il volto della signora al cospetto del messaggero che, forse colpito da quella padronanza di modi e dalla compostezza delle parole, era stato come fulminato da una qualche illuminazione balzana e pericolosissima.


Persefone non sembrava più Persefone.


Cinereo in volto, Hermes l’aveva osservata attentamente e, con reverenza, le aveva rivolto una domanda

“Mia signora, vi prego, consolate un messaggero timoroso. Nulla vi è stato fatto, nulla vi è stato offerto di questi luoghi dal ritorno di Ade?”.

Colpita da quella domanda, la dea aveva distolto lo sguardo per poi spostarsi a passo lento verso il grande altare al centro della cella buia, illuminata da fuochi pigri.

“Mia signora?-”

“Non posso rispondervi sapendo che mentirei spudoratamente, preferisco tacere e prender posto presso al luogo che meglio si confà alla mia anima, ora nera, ora luminosa come la tua. Sono vincolata a questi luoghi, messaggero, non per promessa infranta ma per la tutela della mia esistenza. Il sovrano dell’Erebo mi ha salvata dalla morte eterna promettendomi all’invisibile”.

“Promettendovi a sé, siete la sua sposa dunque-”

“No, sono solo un’anima di questi luoghi ma non una sposa: nessun rito nuziale è stato compiuto, nessuna benedizione ci vincola, sono la sua sposa perché sono fatta della sua stessa sostanza e dalle sue mani ho bevuto la nera ambrosia di questi luoghi, ma no: non sono sposa benedetta da alcuna unione sacra ai MIEI luoghi”.

“Ma...vostra madre-”

“Ho arrecato a mia madre fin troppi dolori e, sebbene anche a me non ne sia stato risparmiato alcuno, desidero che non dalla vostra bocca ma da me e me soltanto ella venga a conoscenza di una siffatta situazione”.

Come sprofondato in una voragine, Hermes si era lasciato cadere al suolo: le gambe troppo deboli per sorreggere il peso di quella intuizione veritiera.

“Vostra madre se ne accorgerà?”, il dio aveva bisbigliato quel timore a mezza voce temendo come la dea madre avrebbe mai potuto reagire a quella notizia.

“Mia madre non appena mi avrà al suo fianco non baderà a null’altro e io spero, in cuor mio, di essere abbastanza brava nel mascherare il mio turbamento”.

“Quale turbamento, mia dea?”

“Non avrei mai voluto abbandonare questi luoghi”.


Il silenzio era caduto come un macigno sullo stomaco di entrambi:


Hermes vedeva e sentiva la diversità di quella figura un tempo così simile a lui, bella e amante del cosmo superficiale; non che ora fosse brutta, anzi, una nuova bellezza, una nuova consapevolezza quasi di donna brillava in quegli occhi gialli più profondi e saggi di quelli della Kore un tempo conosciuta.

Persefone, invece, capiva anche grazie al fido messaggero, quali grandi problemi avrebbe rischiato: la madre non avrebbe dovuto sospettare quel legame con l’oltretomba mai, non avrebbe mai dovuto leggerle il cuore alla ricerca di un qualche sentimento verso il sovrano del regno che l’aveva salvata promettendola a sé e all’Averno; almeno in principio.

Almeno per quei due mesi non avrebbe mai e poi mai dovuto mostrare la profondità di quel sentimento così a lungo covato e da tutti, sempre, osteggiato, perfino dal Fato che li voleva insieme, perfino da lei che aveva osato dubitare della bontà delle azioni del suo amato.

Quanto poteva essere sciocca? Come osava mettere in dubbio l’agire dell’unico dio che l’avesse mai considerata come persona e non come oggetto da disporre, una bambolina nelle mani di una madre fin troppo asfissiante?


Eppure il Flagetonte l’aveva ammonita:

Dividi il tuo cuore piuttosto, Persefone, ma non mangiare...


No, non avrebbe mangiato il melograno sacro seppellito nel suolo avernale.

Ci avrebbe provato almeno, anche se sentiva distintamente il pulsare di quel regno dentro di sé.

Faceva male sapere che ogni sua azione, volente o nolente, feriva qualcuno: sua madre, il suo dio, sé stessa.

Sarebbe stato meglio rimanere nell’ignoranza, forse.

Almeno avrebbe ferito solo sé stessa, assumendosi la responsabilità di un cuore diviso, facendo l’egoista e tentando almeno di essere felice.

Perché l’egoismo doveva essere solo di Afrodite? Perché solo lei poteva disporre di ogni vita senza preoccupazioni, senza sensi di colpa per il “dopo”, mentre lei, vincolata dal Fato ad un essere che si riscopriva ad amare, era costretta ad allontanarsi nel vano tentativo di salvare il salvabile?

“Allora? Abbiamo un patto? Prometti che in nessun modo, mai, nemmeno sotto tortura, svelerai quanto successo in questi luoghi?”, Persefone ora osservava il divo alato, ora al suolo intento a distrarsi accarezzando una piuma dei calzari.

“Ve lo prometto”,

“Grazie, adesso sarà meglio andare, mia madre ci attende, riesco distintamente a sentire la sua voce e quella delle altre in corteo”, si era allontanata dall’altare giusto di qualche centimetro quando Hermes, leggermente turbato, l’aveva ridestata dai pensieri

“Non attendiamo che il sovrano di questi luoghi ci raggiunga? Del resto siete stata la sua ospite”,

“Il sovrano di questi luoghi al momento mi ha in odio, come pretendere un saluto da lui?”,

“In odio?!” Hermes, tiratosi di scatto in piedi, aveva spalancato gli occhi per l’angoscia e la sorpresa,

“Voi sareste felice se la persona che avete a lungo atteso, e che avete servito e riverito come una regina, vi avesse trattato come il peggiore degli impostori con una sola frase di dubbio? Sareste felice se vi dicessi addio senza la sicurezza di un ritorno?”

“No mia signora ma...”

“Allora andiamo via, questi luoghi che tanto amo al momento non sono più casa”.


 

Avevano camminato in silenzio, Hermes davanti a mo’ di guida per lei che, a testa bassa, procedeva ben sapendo dove i suoi piedi di volta in volta si stessero poggiando.


 

Quanto aveva vissuto in quei luoghi?

Evidentemente abbastanza per conoscerne ogni anfratto, ogni via, ogni odore o voce di sottofondo; anche i lamenti, un tempo spaventosi alle sue orecchie, adesso risuonavano con la loro vera voce: sembravano persone in preghiera, lodare o invocare il loro dio assente o distante.

Chissà dove si trova

Sperava in cuor suo di ritrovarlo alle grandi mura ma quando queste erano divenute una vaga altura alle sue spalle il cuore si era riempito di amarezza e, ad ogni passo che l’avvicinava al traghettatore, cresceva la speranza che almeno lì, sul fiume delle anime, lo avrebbe trovato in attesa.

Le sarebbe bastato uno sguardo, un cenno, anche solo averlo lì, ad osservarla con odio o disprezzo, ma che fosse lì per lei: questo bramava.

Ma Ade non era nemmeno su quelle sponde e quando ormai i passi si facevano più lenti e affaticati per colpa della salita verso la superficie ecco, Persefone sentiva distintamente il cuore sprofondare in un abisso nero fatto di dolore e rimpianto.

Avrebbe voluto vederlo, parlargli, implorarlo di perdonarla. Gli avrebbe spiegato il perché di quella fuga ingloriosa, se avesse dovuto gli avrebbe raccontato anche del Flagetonte: gli avrebbe detto tutto pur di fargli capire che non per carenza di sentimenti ma per paura che qualcosa di terribile li funestasse, lei stava andando via, in cenrca di una madre ingiustamente abbandonata senza alcuna spiegazione.

E sarebbe tornata, avrebbe fatto di tutto per ritornare da lui, tra le sue braccia; avrebbe cavato il cuore dal petto di quel demone infame e a chiunque avesse osato tenerla lontana da quel regno ormai divenuto casa.

Gli avrebbe detto tutto solo se avesse potuto averlo lì.

“Mia dea, un aiuto?”

Hermes, continuando a guardare dinnanzi a sé, aveva rivolto quell’invito a Persefone che, dietro di lui, procedeva sempre più lentamente, come se milioni di lacci la stessero tenendo legata all’Averno nero.

“No, vi ringrazio. Andate avanti, vi raggiungo subito”.

A stento era riuscita a trattenere le lacrime amare, formulando quella risposta nella maniera più composta possibile.

Ma le doleva il cuore, il buio le oscurava l’animo ad ogni passo verso la luce: più camminava più sentiva come braccia possenti e invisibili tirarla indietro.


“Non pensavo che il vostro cuore fosse diventato così oscuro, Persefone, devo aver avuto una cattiva influenza su di voi”.


 

Quella voce


 

Quella voce sapeva bene a chi appartenesse eppure non lo vedeva,

la luce che intravedeva lontano in superficie l’infastidiva già rendendola incapace di distinguere da dove provenisse quel suono tanto amato e ricercato.

“Non vi vedo”,

“Io vi vedo e sento chiaramente ogni vostro pensiero, ve ne eravate già dimenticata?”.


 

Una mano l’aveva afferrata per un polso richiamandola indietro, lontano dalla luce di superficie, lontano da Hermes che, ignaro, aveva proseguito fin sopra.

Avvolta in una nube nera e travolta dal suo profumo di anice e ambra, la dea si era lasciata afferrare, stringere e trascinare contro la parete della lunga grotta, collegamento tra l’aldilà e l’ al di qua.

“Pensavate veramente che vi avrei fatto andare via dai miei regni senza nemmeno un saluto?”,

“Credevo foste arrabbiato, sono stata spregevole ma-”

“Si, lo siete stata, ma fortunatamente il vostro cuore è molto più sincero e determinato di quanto non riusciate a palesare a parole”.


 

Lui aveva letto il suo cuore, la sua mente, il suo animo.

Le loro vite, ora fuse in una, comunicavano in una maniera così profonda che quei pensieri, proferiti nel cuore della dea con violenza e angoscia, erano riverberati nel cuore di pietra del dio infondendo una nuova speranza.


 

Cosa aveva pensato con tanta intensità?

Cosa aveva spinto quel dio ad afferrarla per un polso e a spingerla contro la parete bloccandola tra la nuda terra e il suo petto rivestito di metallo da guerra?


 

A pochi centimetri dalle sue labbra l’aveva sentito mormorare

“cavereste veramente il cuore a colui o colei che osasse tenervi lontano da me?”

Tentatore e malefico come un serpente aveva messo a nudo il suo animo, il suo cuore, la sua determinazione, facendola sprofondare nell’imbarazzo.

“Veramente lo fareste per me? Colui che vi ha bloccata contro la vostra volontà nel suo regno di ombra e morte?”, questa volta la voce del dio sembrava più seria, profondamente sarcastica e cattiva.


 

Voleva punirla, farla soffrire.

“Si, il mio stesso cuore su un vassoio d’oro. Sono stata spregevole. Non meritavate un tale trattamento”.

A testa alta e con un filo di voce la dea aveva mormorato quella risposta non scostandosi dalla vicinanza che lui, col suo corpo, aveva creato.

“La mia promessa è ancora intatta: sono il vostro sposo e a voi mi sono promesso, non venite meno voi alle vostre parole. Tra due mesi sarò qui, su questo uscio, ad attendere il vostro ritorno con un melograno tra le mani. Mancate e mi avrete perso per sempre”,

“Ma ho bevuto l’ambrosia di questo regno, sono già vincolata all’Averno”,

“Si, è vero-”,

a quel punto il dio si era fatto ancora più vicino, il respiro caldo le solleticava le labbra invitandole a schiudersi,

“si è vero- siete vincolata all’Averno, ma non a me. Siete una sposa non benedetta, mia dolce Persefone. Se verrete meno a questa promessa rimarrete da sola,

nell’Erebo, preda di mostri e demoni, e io non potrò fare nulla per voi”.

“Siete bugiardo e cattivo, signore dell’Averno”.

Questa volta Persefone, maliziosa e sorridente, aveva alzato le braccia per cingergli il collo e spingerlo contro di sé, esigendo un bacio d’addio che la tormentasse nei mesi di lontananza.

“Verrete da me?”, Persefone aveva mormorato quella supplica dopo essersi allontanata dalle labbra fameliche del dio nero.

“La superficie mi è preclusa”, frustrato Ade, aveva iniziato a baciarla sulla linea del collo cercando di imprimere nella mente l’odore nuovo e maledettamente eccitante che quella dea emanava.

“Venite, vi prego, trovate il modo”, Persefone lo aveva infine bloccato e, con le mani delicatamente poggiate sul volto ispido, l’aveva guardato negli occhi.

“Credete solo al mio cuore d’ora in avanti e non alle parole. Il mio cuore vi ama” una di quelle mani era ora scesa ad afferrarne una del dio, poggiata sul suo fianco, e l’aveva spostata sul suo petto, all’altezza del cuore, tra i seni piccoli.

Imbarazzata da sé stessa e dalla propria intraprendenza, la dea aveva mormorato

“questo cuore su un piatto d’oro se osassi venir meno a quanto promesso”.


 

Poi l’aveva spinto via, improvvisamente, e aveva iniziato a correre verso Hermes, ormai fuori dalla grotta nera.

Da ultimo, ancora travolto dalla dichiarazione della dolce dea, Ade aveva sentito un mormorio divertito sfuggire alle labbra del nipote alato

Sono felice che siate almeno venuto a salutare la vostra amata, a presto zio”


 


 

°°°


 


 

Sarebbe stato meraviglioso poter godere della luce del sole in silenzio, circondata dal rumore del sottobosco e delle acque chete del lago Pergusa ma, sfortunatamente, un coro di giovani ninfe intonava canti di benvenuto in suo onore, distraendola dalla pace naturale che il cuore ricercava.

Forse per quello, forse per il timore e la vergogna, aveva provato in tutti i modi a distrarsi, ad evitare di incrociare gli occhi umidi e lucidi della madre che, poco più indietro, la attendeva con le mani strette sul grembo.

Vergogna e sensi di colpa: il cuore di Persefone era dilaniato da quelli così come dalla consapevolezza di aver lasciato un pezzo di sé alle proprie spalle, nel buio dell’Averno nero.

“Madre…”, pochi passi ed era al cospetto della dea delle messi.

La trovava diversa, cambiata, più smunta e magra e da un insolito colorito giallognolo che poco aveva a che vedere col solito incarnato di pesca che la faceva brillare di salute.

“La mia bambina, la mia piccola Kore… Ti ho cercata per tutto il globo per poi scoprire che eri lì, sempre vicina eppure lontanissima sotto i miei calzari. Ho temuto per la tua essenza”.

Due braccia forti ma morbide l’avevano circondata con delicatezza infondendo nel suo corpo uno strano calore.

Le era manca, le aveva fatto del male.

Eppure perché sentiva un certo fastidio nei riguardi delle parole da quella pronunziate?

“Non sono stata costretta a rimanere in quei luoghi, cara madre. Sono stata un’ospite, trattata nella migliore delle maniere”, un sorriso tirato aveva segnato il volto della giovane dea, stranamente più rigida tra le braccia materne.

“...Parleremo di questo in un altro momento, Kore”, l’aveva presa per mano e, seguita dal corteo in festa, avevano iniziato la lunga passeggiata verso il tempio a loro dedicato.

“Persefone”, la dea promessa all’Averno aveva mormorato quel nome.

“Come hai detto, scusa?” Demetra, distratta dalla felicità, non aveva badato al tono leggermente irritato con il quale la ragazza aveva mormorato il suo nome.

“Non sono più Kore, madre. Il mio nome è Persefone”

Il gelo aveva ammutolito il corteo mentre un calore nuovo le incendiava il petto di un orgoglio non suo.



Ade, sotto di lei, seduto sul trono del suo regno, aveva nuovamente sentito.




 

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


Far finta di nulla
 
 
“Spiegatemi”.
Ade osservava con sguardo affilato la distesa di acqua placida e grigia dinnanzi a sé.
Lo Stige, implacabile e pericoloso, scorreva sereno e lento verso i meandri più profondi e oscuri del suo regno, totalmente incurante del peso che le promesse sancite nel suo nome fossero, la maggior parte delle volte, causa di sgomento e dolore dei promettenti.

“Ho detto: spiegatemi”.

Con un tono di voce spietato, il dio aveva richiamato l’attenzione dell’essenza del fiume, non lasciandosi intimorire dal frusciare sinistro dei flutti contro i margini scoscesi.

“Cosa dovrei spiegarti, dio?”,

una voce cavernosa e suadente aveva riempito l’etere avernale generando un brivido fastidioso lungo la colonna vertebrale dello ctonio: erano secoli, forse millenni, che quella sensazione – spiacevolissima e lugubre- non ne pervadeva l’animo, turbandolo.

“Sapete bene cosa desidero conoscere, sovrano degli obblighi”.

Ade aveva formulato quella asserzione secco e diretto senza alcuna inflessione di reverenza nella voce: era inutile perdersi in parole, spiegazioni o preghiere.

Lo Stige ben sapeva il motivo della sua domanda.
 
“Per nessun motivo e per molte ragioni, giovane dio”.

Spiazzato da quella risposta sibillina, Ade aveva digrignato i denti mentre le mani, rigide lungo i fianchi, si stringevano in pugni serrati: uno schiocco invito a tacere, a ben ragionare sulle parole che avrebbe dovuto formulare prima di scagliarsi con odio contro quell’essenza torbida come le sue acque.
Lo Stige ben sapeva giocare con i sentimenti e le debolezze.

Lui lo sapeva bene.

Se qualcuno gli avesse chiesto di descrivere quell’entità che solo e sempre gli riempiva il petto e l’orecchio ma mai l’occhio, l’avrebbe immaginata con fattezze meravigliose e terribili: un bambino che sbadiglia placido dinnanzi ad un’efferatezza compiuta dinnanzi ai suoi occhi.
Assolutamente disinteressato a ciò che vi era dopo o prima del patto sancito, lo Stige si limitava ad offrire una via di fuga o un vincolo, a seconda della situazione, e con quello accresceva il suo potere imprescindibile.

Lui lo sapeva fin troppo bene.

Per questo gli era sembrato assolutamente sciocco perdersi in chiacchiere: Ade voleva capire con che animo- se di animo si poteva parlare- quel maledettissimo essere avesse accettato il voto di Estia, un’Estia di cui in quel momento riusciva a percepire a malapena l’esistenza.

“Non prendetemi in giro, essere spietato. È di mia sorella che vi beffate al mio cospetto”.

“Se è questo ciò che ti preoccupa, caro figlio, allora sta tranquillo. Cesserà molto presto anche il supplizio della rea Estia”.

Un bieco gorgheggio di acque aveva accompagnato la risposta dello Stige.
Dopo qualche secondo di silenzio assordante, Ade, cupo in volto, aveva articolato a mezza voce:

“Cosa intendete?”

“Intendo che molto presto l’esistenza di tua sorella non sarà più un qualcosa di cui preoccuparsi, dio avernale”.

Con il respiro mozzato in gola, il dio aveva abbassato il capo verso l’acqua grigia ai propri piedi,

“Perché”.

“Ha spezzato il patto al quale si era consacrata. E’ venuta meno a me e alla mia inesorabilità. Cesserà di esistere, in eterno…”.

Lo Stige, crudele nel suo distacco dalle sofferenze, si era limitato ad illustrare la sorte scelta dalla dea e abbracciata dalla stessa con follia e avversione alla vita.

“Non era un voto spontaneo, lo sapete bene”.

“Anche non volendolo ella ha giurato, mentito e tradito. Va punita come ogni altro spergiuro”.

“Ditemi perché-”, Ade aveva chiuso gli occhi nel vano tentativo di contenere la furia devastante che sentiva montare dentro,

“Ditemi perché vi accanite con così tanto odio contro quell’essere, Stige”.

“Nessun motivo mi muove, nessuna ragione in particolare: mi infastidisce il fatto che si possa pensare, anche solo immaginare, di poter violare un patto stipulato ai miei piedi, Ade. Anche tu dovresti saperlo”.
 
Veramente aveva udito quelle parole?
Fastidio?
Orgoglio?
 
“Voi, fiume empio…” Con una voce simile ad un ringhio Ade lo aveva maledetto,

“… un patto non è un Fato immutabile. Le migliori strategie di guerra mutano al mutare dei tempi e delle situazioni. Le migliori pianificazioni diplomatiche cambiano al cambiare delle esigenze e tu, infimo essere che ti atteggi a destino imbrigliabile, condanni per fastidio una dea buona, colpevole solo di essersi infine opposta a un desiderio che non sentiva suo? Siete stato voi, voi e quell’altro, quel dio brillante, a far finta di non vedere il vero!”
 
Al silenzio assordante provenire dal nulla intorno a lui, Ade aveva urlato con sdegno,

“Rispondete, seduttore di anime! È così che agite? Per tornaconto?”

Al sentir solamente le acque incresparsi e farsi più vive, il dio delle ombre eterne aveva continuato cercando di riguadagnare la calma,

“Cosa ha chiesto Zeus? Quali le parole vincolanti per Estia?”.

“Il suo ventre non dovrà mai generare vita, nessun figlio vedrà la luce dell’Olimpo”.
 
“E cosa ha promesso lui in cambio? Cosa vi ha promesso Zeus in cambio di questo voto estorto con forza, efferato fiume?”.
Indifferente a quelle accuse lanciate con gelida serietà, lo Stige aveva sospirato senza vergogna:

“Ha concesso la parola presso l’uomo e, con essa, un giuramento che fosse valido solo e soltanto in grazia dei miei vincoli”.
 
Bastardo e maligno seduttore.

“Serpe, veleno e miasma. Il vostro giuramento non vale il vostro nome. Non siete migliore delle creature che giudicate”.
Sconcertato da quella rivelazione -perfettamente in linea con l’egoismo e l’egocentrismo del minore dei fratelli- Ade aveva sputato quella maledizione dando le spalle al fiume e, con lo sdegno dipinto sul viso, aveva abbandonato quel luogo infetto.

Un ghigno amaro aveva incurvato le labbra sottili del dio avernale:
come poteva essere stato tanto cieco da non capire che anche un’entità come lo Stige si sosteneva per mezzo del nome pronunciato a fior di labbra dai promettenti?

Se lo Stige esisteva, se le sue acque fluivano imperiose abbracciando i vincoli dei viventi, era solo grazie a quel nutrimento promessogli dal più giovane degli dei: patti che solo stipulati in lui e per mezzo di lui, potente e inesorabile, avrebbero trovato compimento.

Sopravvivere ad ogni costo. Questo l’obiettivo dello Stige che Zeus aveva saputo piegare al suo volere.

Avvolto nell’ombra nera e demoniaca e mangiato da una latente frustrazione, Ade aveva rallentato il passo solo quando il piede aveva oltrepassato il limitare delle mura.

 “Nessuna prole, nessun figlio che reclami il trono Olimpico”.
 

Un attimo.
 

Un ghigno animalesco gli si era aperto in volto scoprendo denti bianchi e affilati: Ade, trasfigurato in ombra tetra, aveva assaporato le parole precedentemente udite dallo Stige.

“Nessuna prole, nessun figlio che reclami il trono Olimpico”.

Se quello era il voto meschino toccato in sorte alla povera Estia, se quelle erano le intenzioni latenti dietro le azioni di Zeus, allora entrambi quegli esseri avrebbero fatto meglio ad indietreggiare dinnanzi ad un Fato oscuro e, stranamente, benevolo: la verginità di Estia non sarebbe mai stata carpita con l’intento di generare vita.
Nessun dio o uomo avrebbe osato toccare la divina sorella al solo scopo di raggiungere il brillante Olimpo. Nessun essere l’avrebbe mai avuta per il suo grembo e, soprattutto, nessuna vita sarebbe mai stata generata dall’assenza di vita.

“Radamanto è morto”, aveva mormorato con un sorriso affilato,

“E con lui è perita la possibilità di generare vita già da lungo tempo”.

Un gorgheggio cupo e roco, possente e vibrante era risalito dalla cavità del suo petto per trovare eco nello sperduto orizzonte nero:

Estia non violava nessun patto.

Nessun vincolo sarebbe stato leso da quella unione strana ma felice e lui avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per convincere Zeus a ritrattare il vincolo un tempo stretto con lo Stige.

Anche i patti sarebbero mutati.

È finito il tempo di far finta di non vedere, fratello.
 
 
L’espressione infervorata aveva trovato pace solo alla vista del fidato Cerbero che, all’oscuro di qualsiasi macchinazione ignobile, lo aveva accolto con reverenza e affetto. In compagnia della silente creatura aveva organizzato i pensieri e le idee, le riflessioni e i progetti: necessitava di una strategia brillante e rapida nell’azione. Estia soffriva e lui doveva sbrigarsi.

Serviva solo l’occasione, l’occasione adatta in cui, faccia a faccia con quell’essere, avrebbe potuto sibilare l’unica minaccia in grado di smuovere l’attenzione del minore dei fratelli:

o Estia o guerra.

Che per una volta si facesse finta di non vedere per il suo tornaconto e non per quello di altri infimi e egoisti esseri.
Nessun altro sarebbe stato sacrificato per giochi di potere tra divinità ingorde.

Le riflessioni argute, i machiavellici piani elaborati con affannato e preoccupazione avevano però fiaccato lo spirito del dio, già a lungo tormentato anche da altre questioni.
Ancora di fianco a Cerbero aveva sentito le gambe stranamente pesanti e con una mano tremolante per la fatica aveva schermato gli occhi: una fame sorda alla ragione premeva sullo stomaco vuoto e stretto.

Anche lui aveva bisogno di preghiere e libagioni che lo sostenessero nell’esistenza.

Per questo motivo, lasciata una carezza affettuosa e distratta all’altezza della zampa pelosa del fido guardiano, si era mosso velocemente presso l’altare profumato di miele, dolce e avvolgente.
 
Non aveva badato a niente e a nessuno e una volta raggiunta la sala aveva sbattuto con violenza la porta alle spalle. Al cospetto dell’immensa lastra nera apparecchiata, ad occhi chiusi aveva inspirato profondamente, trovando appagamento nelle voci sommesse che riempivano il suo cuore alla ricerca di pietà e grazia.
 
Sedeva sul grande trono nero con poca della solita compostezza: era stanco, paurosamente stanco, quasi svuotato da tutte quelle improvvise novità che, aggravate da una fastidiosa assenza, sentiva pesare all’altezza della bocca dello stomaco come un carbone bruciante.

Assenza, più acuta presenza.

Un sospiro affranto era sfuggito alle labbra tristi ombreggiate da una peluria che si faceva via via più ispida e lunga.
Il solo ricordo della dea, abbandonata tra le sue braccia con occhi dolci e languidi e labbra schiuse, innescava lungo il suo corpo un brivido animalesco che, a partire dall’inguine, risaliva con furia verso l’altro, verso quel cuore che sentiva battere magnificamente dentro la cassa toracica.
Come avrebbe fatto? Come avrebbe resistito a quel richiamo fatto di sussurri che sentiva levarsi ogni notte verso la luna pallida e distante?
Quelle preghiere bisbigliate come una nenia a mezza bocca, il suo nome, pasteggiato tra labbra morbide e tremanti per la sofferenza, come avrebbe potuto resistere?

Maledizione!

Maledizione a lui, al Fato e al suo desiderio malsano e bruciante di averla per sé, per sempre.

Abbi pazienza Ade, non puoi raggiungere la superficie per tuo diletto. Hai promesso del tempo.

Una scarica di rabbia gli aveva percorso la spina dorsale portandolo a raddrizzarsi sulla seduta di marmo ostico.

Estia.

Estia. Prima di tutto doveva pensare ad un modo per trarla da quella terribile situazione.

Doveva parlare con Zeus, suggerirgli l’azione migliore da compiere.
Alzatosi in piedi aveva iniziato a fare un logorante avanti e indietro lungo il fianco dell’altare alla ricerca del momento migliore per recarsi sul luminoso Olimpo. Se solo avesse potuto conciliare quella visita, a uno sporadico incontro con la sua dolce Persefone…

“Ade…”

Ad occhi sgranati e leggermente rivolto verso l’altare al suo fianco, aveva osservato la lastra nera a bocca leggermente aperta.

Non è possibile.

“Ade, signore della dimora sotterranea presso la quale conducesti Kore, figlia di Demetra, strappandola alla madre e alla fanciullezza.

“Oh dei”.

“Ade, voi invoco per nome, voi che risiedete sul trono nero oltre la vita e oltre l’eterno e che amministrate con saggezza l’esistente, concedendo il riposo della morte ristoratrice: accogliete con cuore sincero questo rito”.

“No, Persefone, no…” una mano era corsa sopra la bocca nel vano tentativo di frenare lo sgomento e la sorpresa per quanto stava percependo con ogni fibra del suo corpo, del suo animo e del suo essere avernale.

Vengo a mani vuote, mio dio: non ho con me un toro nero né una pecora che vi possa offrire in sacrificio- né mai avrei potuto, come sapete non sopporto la sofferenza, soprattutto se patita da creature innocenti”,

“No!”.

Quelle parole, espresse con dolcezza e tremito di voce, scivolavano come miele dolce e giallo dentro le sue orecchie, scuotendolo con forza e ridestando desideri proibiti.

Preghiera irresistibile e maledetta.

Con quel poco di coscienza rimasta era riuscito a mettere in ordine i pensieri turbati: Persefone non doveva recarsi in quei luoghi, luoghi neri e pericolosi per una dea di luce. Posti in cui si recavano i disperati e gli addolorati, i maledetti e i rei in cerca di perdono. Lei non doveva andare lì, presso altare celato dalla fitta boscaglia, non doveva stendersi su quella lastra dove lui avrebbe potuto sentire perfino il calore del suo corpo o il suo profumo.

 “Voi, che state presso l’Averno di cui siete signore e animo, ospite gentile di radici, sostegno di alberi floridi, ascoltate la mia preghiera:
venite benevolo e benedite con la vostra presenza la vostra promessa sposa che, sulla superficie, agogna un atomo della vostra presenza”.

Condannato.

Senza speranza o via di fuga.

Quell’ultima frase, mormorata con tono basso e disperatamente implorante, l’avevano condannato per sempre.
E anche se folle, e fuori da ogni logica, e poco furbo e, sicuramente imprudente, non avrebbe potuta lasciarla lì da sola, implorante e stesa come un sacrificio sopra il suo altare.
Trasfigurato in una maschera d’amore e turbamento all’ennesima preghiera addolorata per colpa della sua assenza, aveva indossato la kunée e, nascosto dal prodigio di quell’elmo, aveva osato varcare i confini del regno dei vivi alla ricerca della sua personale ragione di esistenza.

E l’aveva trovata, infreddolita e con in mano un fermaglio.
Il suo.
 


°°°
 

 
I morti non possono lasciare questi luoghi.
I morti non possono lasciare questi luoghi, mai.
Radamanto, per la miseria! I morti non possono lasciare questi luoghi.
Era nuovamente tutto come prima, maledettamente tutto come prima.
Parlare con Ade era stato illuminante e doloroso ed aveva avuto come conseguenza quella di farlo nuovamente sentire uno straccio, proprio come i giorni precedenti alla folle decisione, con l’aggravante adesso, di sapere quanto stupido e irresponsabile fosse stato quel gesto; aveva solo fatto finta di non vedere la verità della situazione.

Un codardo. Complimenti.

Eppure non per codardia, non per paura aveva agito. Relegata nei meandri più oscuri del suo cuore, la ragione del gesto rimaneva nascosta perfino a lui stesso, troppo addolorato per affrontarla.
 
Fermo e avulso da tutto ciò che lo circondava, fissava un punto indefinito della parete dinnanzi a sé, ignorando ogni domanda, ogni richiesta, ogni essere che, come Eaco, da molto tempo lo osservava con un sorriso mesto disegnato sul volto vecchio.
Non aveva il coraggio di guardarlo.

“Credi forse che io non sappia che tu sai che ti osservo da oramai lungo tempo, secondo giudice? Quale timore nasconde il tuo sguardo schietto?”

 “Nulla, nulla che possa importarti”. Radamanto aveva risposto secco, cercando di celare il dolore nella voce.

“Come posso ignorare questo fastidiosissimo rumore?”.

“Quale rumore?”, scocciato Radamanto aveva guardato altrove, non volendo concedere a quel fastidioso indagatore alcuna risposta.

 “Quello del tuo cuore, maledetto!”. Eaco, svelata la propria conoscenza, aveva allargato il sorriso rugoso mentre il secondo, voltatosi lentamente verso di lui, palesava nel volto cinereo la propria angoscia.

“Ah Radamanto! Pensavi di poterti nascondere dietro quel volto serio e composto da un vecchio come me? Ah” – un sospiro era sfuggito da quelle labbra benevole,

“Ah, Radamanto, quanto poco della vita hai vissuto per ritrovarti turbato anche ora, nel sonno ristoratore della morte”.

Eaco, alzatosi dal seggio di legno lentamente, aveva rivolto un sorriso al collega ammutolito.

“Forza, seguimi. Parliamo un po’”, poi aveva lanciato uno sguardo a Minosse poco distante da loro, curvo sullo scrittoio,

“Minosse, a breve saremo di ritorno”, ma quello si era limitato ad alzare una mano distrattamente accompagnandola con un grugnito, mentre con l’altra annotava imperterrito quanto riferito da una tremolante anima al suo cospetto.

“Andiamo”.

Radamanto lo aveva raggiunto in poche falcate e, in silenzio, aveva iniziato a seguirlo, assolutamente all’oscuro della meta da raggiungere.

“Dove mi conduci, vecchio re?”.
“Presso le porte degli inferi”.

Bloccato da quella risposta, Radamanto aveva afferrato la manica del compagno di cammino con sgomento.

“Cosa hai intenzione di fare, folle? Non sai chi ha dimora presso le porte del Tartaro?”
Eaco, con un sorriso rugoso stampato in volto, aveva staccato con delicatezza la mano dalla tunica bianca e aveva risposto con la dolcezza di un padre,

“E’ proprio perché so che ti conduco presso quei luoghi: la mia intenzione è offrirti una strada, Radamanto.  A te la scelta di intraprenderla o meno”, poi aveva ondeggiato un paio di chiavi color dell’oro davanti agli occhi intimoriti del secondo giudice e, sempre sorridendo, aveva continuato:

“Ade, il giusto, approverebbe”.
 
Radamanto aveva deglutito rumorosamente: la mente imperlata di sudore era l’unica testimone di un turbamento cocente intrecciato ad una maledetta voglia di fare, di seguire il consiglio benevolo, di affrontare a viso aperto il Fato contorto.

“Conducetemi presso le porte dei gemelli, ma vi prego non lasciatemi in balia di folli sentimenti. Siate la mia ragione, ve ne prego”.

Una risata profonda aveva scosso il petto dell’anziano che, dategli le spalle, aveva ripreso fischiettando la marcia verso i confini dell’Ade nero e pieno di misteri.

“Sai bene Radamanto, che non due esseri ma solo uno può varcare le soglie, non posso accompagnarti ma tranquillo, aspetterò qui il tuo ritorno, non preoccuparti”.

Sbagliato, sbagliato, sbagliato.
Non doveva assecondare i suoi desideri.

I gemelli sapevano essere creature terribili e sibilline: mai aveva osato varcare quelle soglie, mai se non Eaco, il più anziano e il più saggio, aveva interagito con i geni.
“Vai Radamanto, il tempo scorre diversamente per noi e per gli altri…”

Per lei.

Sapeva che quel termine, enfatizzato da uno sguardo che molto diceva, era stato pronunciato con un certo sottile riferimento a qualcosa che ben conosceva ma che non voleva palesare apertamente.
Se Ade conosceva ed era l’Averno e solo lui decideva chi mettere a parte di ciò che in esso avveniva, allora anche Eaco, ritenuto adatto al conoscere, era stato messo al corrente della situazione e con tatto aveva offerto una via, un tentativo di pacificare l’animo turbato.  

“Vai Radamanto...”

...


Mezzo passo oltre la porta.
Un passo e un tonfo secco alle sue spalle.
 

“Chi osa varcare la soglia della mia dimora, disturbando il mio sonno?!”
Una voce paurosamente roca e cavernosa aveva accolto il secondo piede poggiato oltre la porta del sonno, mentre un’ombra spaventosamente grande si proiettava dinnanzi al povero giudice.
Impietrito dalla reazione fulminea del genio, egli aveva raddrizzato la schiena riacquistando la solita compostezza, fatta di pseudo freddezza,

“Genio illustre, il mio nome è Radamanto, giudice di Ade, il sommo signore di questi luoghi”, il tono serio e composto non riusciva a mascherare una nota di incertezza: del resto nemmeno lui sapeva quale fosse lo scopo di quella visita.
Una risata, prima leggera come un sospiro, poi via via più forte e intensa aveva accompagnato l’emergere di Ipnos dalle tenebre fumose delle sue stanze: un giovane delicato e longilineo gli sorrideva con serenità dipinta sul volto.

“Perdonami giudice, ma da molto non ricevevo visite ufficiali. Morivo dalla voglia di giocare”- il genio gli aveva rivolto un sorriso tutto denti prima di ritornare composto, a dispetto di un Radamanto impietrito e senza parole.

“Devo indovinare il motivo della tua visita o sei così gentile da illuminarmi con parole tue?”.
Quel richiamo scherzoso aveva ridestato il giudice dallo stato catatonico nel quale era precipitato:

“Si, si, il mio nome è Radamanto”,

“L’hai già detto”,

“Sono il secondo giudice di Ade il signore-”,

“Hai già detto anche questo”, Ipnos sorrideva maligno e divertito dinnanzi all’incapacità comunicativa di quello strano essere avernale,

“Genio… non ho idea del perché io sia qui”, Radamanto, esasperato, aveva sospirato con uno sguardo perso nel vuoto fumoso delle camere.

“Accomodati allora, lascia che lo capisca da me… da quanto tempo non dormi, demone?”, Ipnos aveva poggiato le mani all’altezza delle scapole del giudice che, colto da un fremito per quell’improvviso contatto, aveva irrigidito la schiena:

“Stai tranquillo, non ho alcuna intenzione di arrecarti danno, il mio unico interesse è capire il motivo della tua presenza senza perdere preziose ore di sonno ristoratore. Il sonno è un ottimo modo di impiegare il tempo eterno che si ha a disposizione, sai?”.

Al mutismo prolungato di Radamanto, Ipnos aveva nuovamente sorriso serafico e aiutatolo a prendere posto sopra un morbido letto di piuma e fumo, aveva parlato con una strana lentezza.

“Goditi questo dono che ti concedo, essere morto e vivo al contempo, dubito che potrai giovarne nuovamente in futuro”.
 

E lì, semplicemente, non era stato più.
 

“Mostrami cosa nascondi agli occhi dell’Ade, mostrami cosa nascondi ai tuoi stessi occhi fatti di dolore e freddo disincanto.
Mostrami, in nome del dio che abita questi luoghi, cosa cela il profondo del tuo cuore turbato così che io possa aiutarti nei limiti dello spumoso e fumoso sonno che porta ristoro o morte. Mostrami Radamanto”.

Quella melodia, quella voce di cui non riusciva a captare le parole ma solo il ritmo cullante, l’aveva sedotto verso la porta della sua mente, quella porta che si ostinava a tenere chiusa, serrata persino a sé stesso.

“No, non voglio varcare quella soglia, no, abbiate pietà, vi prego”.

Ma quella preghiera non aveva ricevuto ascolto e, come richiamato da quelle barriere impenetrabili, aveva allungato la mano sulla maniglia della consapevolezza.
Aperta la porta, un fiume di immagini avevano travolto il giudice: immagini di cui non avrebbe mai e mai più voluto sentire l’odore, magnifico e dolce di fuoco, e che invece erano lì, davanti ai suoi occhi, chiusi nella paralisi onirica.
 
 


“Vi sono divinità sciocche come voi o il signore dell’Averno che provano a recare aiuto al prossimo, e poi vi sono esseri gloriosi come Zeus che, ad esempio, non esitano un istante a ingannare chiunque, anche il sangue del loro sangue, per ottenere vantaggi. Eri sua sorella e non ha esitato un momento, illudendoti con la virtù della verginità e privandoti dei piaceri della vita, della primogenitura e con essa il diritto alla libertà, donandoti in cambio due cavigliere sonanti”.

L’aveva ferita, l’aveva ferita con l’intenzione di ferirla, di farle provare dolore, lo stesso che sentiva bruciargli dentro dal momento in cui l’aveva vista.

Quante volte l’aveva vista? Poche, pochissime.

E quante, invece, aveva sperato di rivederla ancora dopo quello sguardo fugace?

Folgorato da quelle due iridi verdi e saettanti che con pudore e curiosità avevano scandagliato il suo essere, Radamanto era sprofondato in un caos caldo e avvolgente senza rendersi conto né come né perché.

La prima volta, fin da quella prima volta, aveva immediatamente avvertito un qualcosa di diverso nell’aria pesante dell’Averno e, di questa sensazione piacevolissima e stranissima, aveva avuto la conferma quando, non resistendo alla preoccupazione di sapere che un qualche essere di essenza diversa si trovava al cospetto del suo dio, aveva bussato alla grande porta della sala dell’altare.
Lì il suo signore, stranito da quel bussare improvviso, l’aveva accolto al suo cospetto e sempre lì, scostato l’uscio pesante, aveva intravisto la figura di una piccola dea vestita di verde e dai capelli di fiamma.
I piedi erano nudi al suolo.
Leggermente turbato da quella vista- non aveva mai visto prima di allora un altro essere di superficie, se ne era sempre ben guardato data la fama pessima- era riuscito a formulare solamente una parola:

“Signore?”

Molti i significati dietro quell’interrogativo:
state bene? Siete turbato? Qualcosa o qualcuno osa disturbare il vostro regno di pace e giustizia?
Il dio nero aveva colto tutte le sfumature di quella domanda e, indirizzandogli un sorriso tirato e per parte turbato, aveva liberato il giudice,

“Radamanto, è mia sorella. Non preoccupatevi, ritornate ai vostri uffici. Mi premurerò di chiamarvi non appena avrò concluso con la divina Estia”.

Estia

Prima che l’avernale lo congedasse con un gesto della mano, l’aveva vista voltarsi verso di lui e lanciargli uno sguardo curioso, interessato a capire chi fosse quell’essere d’oltretomba animano da sentimenti umani.
Poi era andato via, non riuscendo a percepire il sospiro della dea.

“Siete circondato da persone che vi amano e rispettano”,

“Si, avete ragione. Sono fortunato”.

Ma il dio, turbato dal modo in cui la sorella aveva raggiunto la sua cella, richiamata dal fuoco del suo cuore spento e bramoso di calore domestico e familiare, non aveva badato al secondo sguardo indirizzato da quella verso la porta dietro nella vana speranza di ritrovare quella curiosa figura ancora lì sull’uscio.
 
Ma quella non era stata l’unica volta in cui i due avevano avuto modo di incontrarsi, anzi, scontrarsi: Radamanto lo sapeva bene.
Era stato lui a prenderla tra le braccia quando la fatica e la paura l’avevano travolta, lasciandola esanime sotto il peso di un’aria d’Averno che poco aveva di ospitale per lei che non apparteneva a quel luoghi.
Lui l’aveva stretta al petto cercando in tutti i modi di nascondere a sé stesso quel piacere provato nel semplice respirare il profumo della chioma intrisa di oli e spezie sacre, e le mani che, delicate e pudiche, l’avevano avvolta in un abbraccio di supporto, avevano scatenato un formicolio violento riverberato fin alla spina dorsale, lasciando dietro di sé una pelle morta e paradossalmente turbata da brividi.
Ade, dinnanzi a lui, l’aveva richiamata alla vita offrendole un’ambrosia di superficie non vincolante, eppure in cuor suo per un istante aveva sperato di saperla più vicina, magari per parte legata a quei luoghi che lui stesso abitava da lungo tempo.
Salvata la dea da un destino infelice, salvata dal sonno e dalla stanchezza, l’aveva osservata ridestarsi, aprire quegli occhi verdi e vividi e sorridere al fratello e a lui, assolutamente perso nell’osservare quel volto rifiorito: lì, in quel momento era sorta la rabbia, cieca e agonizzante, della certezza di non poterla mai avere pur desiderandola con purezza di cuore.
L’aveva ferita per ferire sé stesso, per cacciarla lontano, verso quei luoghi che lui non avrebbe mai potuto varcare, ma quando il senso di colpa e il dolore l’avevano corroso dentro, non aveva esitato un attimo a trovare uno stratagemma che gli permettesse di parlarle un’ultima volta, anche a costo di non venir ascoltato.

Ecco la prima volta in cui Ade aveva fatto finta di non vedere, forse perché travolto dalla bella Persefone, forse perché anche lui tormentato dalla possibilità di vedersela portare via da un Fato beffardo.

Radamanto aveva scritto il proprio pentimento su carta impregnata di fumo e zolfo e lei, non molto tempo dopo, aveva risposto.

Ecco la seconda volta in cui Ade aveva rivolto lo sguardo altrove.

Estia aveva ricevuto il suo messaggio e, incredula, aveva fissato il foglio con occhi sgranati: in quell’istante aveva capito che non solo il suo stupido cuore era stato trafitto dalla freccia di Eros.
Per questo, presa di coraggio, aveva utilizzato in segreto le due monete comunicanti col regno dei morti e, quatta quatta, ne aveva varcato le soglie infuocate, vagando di braciere in braciere, di stanza in stanza, alla ricerca del giudice penitente.
Lui l’aveva sentita arrivare ma, rigidamente steso sul letto, non aveva avuto il coraggio di muovere un muscolo.

“Ho ricevuto il vostro messaggio, giudice”, il bisbiglio della dea di fuoco solleticava le orecchie vive di un Radamanto stranamente travolto da emozioni che non sapeva di possedere.

“Giudice, mi udite?” la dea, prima un’ombra tra le lingue di fuoco, si era fatta immagine di donna reale e, infine, era divenuta un corpo vivo presso il suo letto.
Pietrificato.

“Eravate onesto? Quelle parole che voi avete scritto, erano vere?” seria e triste in volto per colpa della freddezza del demone, ad occhi bassi Estia aveva formulato quella domanda con la morte nel cuore.

Estia, quello lì è un morto, cosa pretendi di vedere in lui? Quale viva reazione speravi di notare in questo corpo giovane eppure spento?

Sempre con la serietà, la compostezza e il timore che lo contraddistingueva quando lei era nei paraggi, Radamanto aveva sollevato il busto e, sempre con la rigidità di un soldato, si era seduto sul bordo del letto: lo sguardo fisso dinnanzi a sé, aveva mosso solo il capo in un cenno d’assenso.

“Bene, sappiate che ero fin qui giunta per darvi l’occasione di chiedere perdono con la vostra voce e non col volto celato dietro una lettera”.

Sorpresa da quel cenno – una risposta secca, ma pur sempre una risposta- Estia aveva incrociato le braccia sul petto, in volto un cipiglio di sfida furbo.

“Non avrei mai dovuto scrivere quelle parole, divina Estia. Voi non dovreste essere qui e io non dovrei anche solo osare rivolgervi la parola, solo al vostro cospetto”.
Il giudice si era alzato e, facendo ben attenzione a non sfiorarla nemmeno per errore, aveva raggiunto l’angolo della camera più distante.
Una cocente delusione aveva imporporato il viso di Estia che, senza parole, aveva sciolto il nodo delle braccia lasciandole cascare al suolo con tristezza.

“Radamanto, io…”.
“Non dite oltre. Sono stato un folle e un illuso, ho commesso un crimine atroce scrivendovi e turbando il vostro animo e la vostra pace di vergine e dea. Abbiate pietà”.

Radamanto, serio in volto, non aveva guardato quegli occhi verdi nemmeno per un istante. Non avrebbe mai sorretto il peso della delusione e del rammarico e della rabbia dipinti in quelle pozze solitamente brillanti e felici.

“Mi avete ferita per la seconda volta giudice. Non può esserci perdono per chi infrange una promessa di scuse”.

Estia aveva parlato di getto, infuocata dalla vergogna e dalla speranza stracciata nel cuore e non si era assolutamente accorta di come il giudice, al solo udire quelle parole, avesse sollevato lo sguardo nero e vacuo sul suo volto arrossato dalla collera.

“Non può esserci perdono per chi infrange una promessa…”

Era chiara l’allusione: il voto della dea, la sua promessa sopra le altre, non poteva essere infranta mai, pena: il tormento.

Estia aveva mormorato nuovamente quella frase tra sé e sé non smettendo di osservare quell’essere che, oramai non più celato dal velo della serietà, l’aveva osservata con uno sguardo disperato.

Poteva un morto soffrire a quel modo? Perché ora lo leggeva distintamente in quello sguardo che urlava un dolore ignobile.

Poteva quell’essere sacrificare sé stesso e i suoi sentimenti per lei e la sua incolumità?
Chi mai aveva fatto questo per lei? Sempre usata e raggirata per loschi scopi?

“Radamanto…-”

“Andate via, ve ne prego”.

“Radamanto, io-”,

“Voi non potete dir nulla per dare sollievo a questo essere che dovrebbe giacere tra i defunti e che invece, salvato dall’Ade, sta ora al vostro cospetto con insolita tracotanza sperando in un qualcosa che non potrà mai ottenere. Mi contento di avervi vista un’ultima volta, mia divina signora. Non spero in altro”.
Estia aveva mosso un passo verso di lui ma quello, sollevata una mano perentoriamente, l’aveva tenuta a distanza.

“Divina Estia vi prego, non acuite il mio tormento. Mi basta sapere che siete venuta e che avete ascoltato la supplica di questo folle. Ma ora andate prima che l’Ade e lo Stige svelino i nostri cuori e ci diano in pasto ai titani del Tartaro come traditori dei patti”.

“Sono io colei che è vincolata, voi non correte alcun rischio-“.

Il giudice, al semplice udire quelle parole dette con fremito, l’aveva folgorata con uno sguardo di brace, un diavolo e un demone al contempo:

“Il mio pensiero è rivolto unicamente a voi, Estia, e mi caverò il cuore dal petto non appena avrete varcato questa soglia se solo oserete portare con voi qualche insano proposito”.

“Voi non potete seguirmi, non potete sapere quello che la mia mente desidera”.

“Non costringetemi a scegliere per entrambi, Estia”.

“Siete voi ad aver già scelto!”.

Estia, con gli occhi lucidi di rabbia e pianto, aveva mosso altri due passi verso quell’essere all’angolo e, a pochi centimetri da lui, l’aveva visto ancora ritrarsi nel vano tentativo di non sfiorarla.
Mortificata, si era nuovamente allontana ma, con sguardo fiero aveva continuato:

“Io non posso più nascondere quello che altri hanno fatto finta di non vedere fin dal principio, giudice”.

“Ma non capite l’assurdità della situazione? Io sono un morto risanato da Ade, voi una dea vincolata allo Stige. Cosa potremo mai decidere per noi stessi?”.
Con rabbia Radamanto le aveva risposto digrignando i denti: addolorato e sdegnato dal Fato, bloccato dalla propria serietà. L’aveva a pochi passi, avrebbe potuto stringerla, accarezzarne le curve, baciare quelle labbra di rosa e, invece, rimaneva all’angolo, ostacolato da sé stesso.

“Potremmo iniziare ad agire, potremmo iniziare a sovvertire le leggi immobili che vincolano la nostra esistenza. La vita e la morte sono mutamento costante”.

L’aveva sentita con forza, con fervore aveva pronunciato quelle parole di sfida al cosmo e poi l’aveva vista sollevarsi sulle punte dei piedi al suo cospetto: la dea aveva chiuso gli occhi e, avvicinatasi al volto sconvolto del giudice impietrito, aveva deposto un umido e casto bacio sulle labbra strette.

Radamanto, a occhi sgranati, aveva accolto immobile quell’improvviso gesto.

“Cavatevi pure il cuore dal petto, stupido demone. Io, Estia, ho scelto il mio destino”.

A pochi centimetri da quelle labbra tentatrici e virginali, il giudice era riuscito a malapena a formulare uno sconvolto “Vi prego-”, prima che la dea, rincuorata dal rossore che aveva tinto il volto giovane del demone, aveva nuovamente accostato le labbra a quelle fredde e leggermente schiuse di Radamanto, ancora stupito ma in attesa di un’altra dolce carezza che agognava con tutto il suo essere.

L’aveva sentito sospirare quando un nuovo bacio aveva solleticato le sue labbra e, alla postura rigida lentamente si era sostituito un abbraccio titubante e incerto che aveva avvolto la piccola figura di Estia con delicatezza, gli tremavano le mani.

Due inesperti, due amabili inesperti che per la prima volta saggiavano il piacere dell’amore a fior di labbra.

Avevano sospirato entrambi quanto le labbra si erano distaccate, ma nessuno dei due aveva osato parlare o allontanarsi dalla tenera presa in cui erano avvolti.

Lui, alto e longilineo curvato su di lei, piccola e sottile, in un abbraccio delicato.

“Vi prego, divina Estia, vi supplico. Non fate nulla di sconsiderato”, Radamanto, sempre ad occhi chiusi, aveva mormorato quella preghiera con voce sottile e tremolante, nella vana speranza che la dea stretta tra le sue braccia sentisse il tormento che lo lacerava dentro al solo pensiero di saperla in pericolo ma, a quella supplica era seguita solamente un’altra carezza umida.

“Non state in pena per me, giudice. Con il benevolo volere del Fato, ci rivedremo, forse”.

Sorridente e con le gote arrossate, Estia aveva sciolto il caldo abbraccio ritrovandosi al cospetto di un Radamanto stranamente colorito in volto e col fiato leggermente accelerato, aveva accarezzato con lo sguardo quella figura strana e bellissima e, indietreggiando verso le fiamme alte del fuoco senza mai smettere di guardarlo, aveva mormorato un dolce saluto: gli occhi erano lucidi per la felicità.

Resosi conto troppo tardi delle intenzioni della dea, Radamanto si era slanciato verso il camino nella vana speranza di fermarla ma la sua mano si era persa nel vuoto.

L’aveva persa.

Un ringhio gutturale aveva scosso il petto del giudice, lacerato dentro.
 
 

“Oh miei dei”

Ipnos, con un’espressione sconvolta dipinta sul volto, aveva osservato quanto il giudice avesse tentato con forza di tenere nascosto perfino a sé stesso.

Giudice degli uomini, rinato nel regno di Ade e legato al regno del cielo”.

Con una mano sotto il mento, in una chiara posa pensante, il genio del sonno aveva osservato la figura del giudice che, steso sul lettino, si rigirava affannosamente.

Cosa c’era ancora?

Assottigliando lo sguardo con fare indagatore, il genio aveva scandagliato le profondità del cuore del demone e, calamitato da un’immagine tetra e nascosta tra le piaghe dei pensieri del dormiente, vi aveva posto sopra le mani al fine di schiuderla dinnanzi ai propri occhi.

Una paura, una paura segretamente alimentata dall’angoscia.


 “Schiudi il tuo segreto”, aveva mormorato con impazienza.

Poi aveva nuovamente visto, e questa volta era rimasto veramente basito.
 
Radamanto aveva mantenuto la propria promessa.
Non aveva più ricevuto notizia di quella dea, non aveva più saputo alcunché: niente, assolutamente il niente.
E non aveva saputo resistere, non dopo aver visto la promessa sposa del suo signore stesa morente e morta su un letto troppo grande e troppo freddo per quell’essenza pura. Non era riuscito a rimanere fermo in sé stesso, soprattutto quando non la giovane Persefone ma un’altra, piccola, calda e vestita verde gli aveva riempito la vista: un’immagine mentale che andava perfettamente a sovrastare la realtà che lo circondava.

Quella la paura di Radamanto.

L’aveva vista morta dinnanzi a sé, e anche se quella era solo un’immagine della sua mente, egli non aveva saputo resistere.
Quella la goccia che aveva fatto traboccare il cuore macilento del giudice avernale. Quell’essere temeva per la vita di Estia e immaginarla stesa e morente, proprio come Persefone, l’aveva raggelato dentro conducendolo al folle gesto.

Folle e inutile gesto.

 
“Adesso, Radamanto infelice, ristora il tuo animo”.

Ipnos, esausto, aveva dissolto il sogno del demone lasciandolo in balia di un riposo sereno e senza immagini tormentose, poi, aggraziato ma impensierito, aveva percorso agilmente il lungo corridoio che dalla soglia del sonno conduceva le anime alla soglia della morte: lì, a metà strada, nel luogo in cui il sonno diventa morte e la morte si fa sonno, aveva scorto il gemello di spalle, intento ad osservare l’orizzonte del nero Averno.

“Thanatos”.

“Uhm? Ipnos?”.

“Thanatos, un nome: Estia è tua anima infelice?”.
Con gli occhi persi oltre la porta schiusa sul profondo tartaro, il genio lugubre aveva risposto pacatamente,

“Estia è in balia del suo voto infranto. Giace sottoterra in costante tormento e in costante sofferenza, non può morire e non è mia preda. Non è la morte che per ella è stata decisa”.

Nessuna intonazione in quella frase.

“Fratello, sapresti indicarmi dove?”

“Ai piedi del suo tempio, uomini inconsapevoli calpestano la loro dea”, atono, Thanatos, si era limitato a stirare il labbro in modo da mostrare con un impercettibile sdegno i denti affilati.

“Uomini in preghiera calpestano una dea, giovane fratello, degli uomini, e la dea si dibatte in cerca di ossigeno, inascoltata”. Solo a quel punto la morte si era voltata verso il sonno con un’espressione scura e terribile in volto.
Thanatos, stretto nelle ali nere, teneva le braccia incrociate sul petto.

“Solo Ade, il signore dei morti, può trarla da questa situazione spinosa”, Ipnos aveva mormorato tetro al cospetto del genio taciturno e sdegnato.

“Solo Ade-”. Con quelle parole Thanatos aveva nuovamente dato le spalle al suo interlocutore: gli occhi questa volta persi nella direzione opposta: verso il mondo dei vivi alla ricerca di un qualcuno da prendere con sé.

“Se lo ritieni necessario dì a quell’infelice cosa tocca in sorte ad una dea per amore”.

Ipnos, raggiunto il fianco del fratello, aveva scosso in silenzio il capo.

Radamanto aveva già patito abbastanza.
 
 

°°°



“Ade, Ade mio signore”, Persefone, tremolante tra le mani del dio avernale, aveva sospirato quel nome con devozione e amore mentre godeva della guancia ruvida del dio che sentiva strofinarsi contro la sua alla ricerca di un contatto sempre più intimo.

“Zitta, fai silenzio, non disturbare il sonno del dio di questi luoghi”, Ade l’aveva fatta stendere sull’altare mentre un sorriso furbo gli aveva illuminato persino gli occhi rendendolo magnifico.
Senza fiato per poter dire alcunché, Persefone si era resa creta tra quelle mani che sapevano sfiorarla con delicatezza, facendola sentire amata.
Lo aveva toccato come mai aveva osato fare, aveva sentito i suoi gemiti strozzati quando la mano, guidata da quella gelida dell’avernale, l’aveva sfiorato nel punto più bramante del suo essere, lasciandolo sbigottito e trascinandolo in un vortice fatto di gemiti e sospiri.
Lei non si era fatta mancare nulla: con le gote imporporate di un qualcosa ben oltre la semplice pudicizia oramai resa lussuria, aveva percorso con la mano il membro del dio, assecondando i tremolii e i rochi ruggiti che sentiva risalire dalla profondità di quel petto muscoloso e definito sotto di sé. Lui la proteggeva dal freddo e, sempre tenendola stretta tra le braccia, non aveva smesso per un istante di guardarla negli occhi mentre quella carezza, intima e tormentosa, diventava la sua personale ossessione.
Voleva che lo guardasse, che guardasse in che modo riusciva a farlo stare bene e male al contempo, tormentato e soddisfatto tra quelle mani piccole e delicate e calde.

Se solo avesse potuto sarebbe morto.

“Persefone, mia signora, tornate con me, ora, ve ne prego. Non posso, non posso…”, le aveva bisbigliato quella preghiera sulle labbra con gli occhi stretti in due fessure e il respiro affannato per quella carezza che lo stava portando al delirio.


“Mio dio, sapete bene cosa devo fare prima di potervi donare tutta me stessa”, adesso era lei, la dolce dea, ad aver usato un tono malizioso mentre la mano, con più vigore, scendeva imperiosa sul membro del dio completamente travolto.

Lo aveva visto boccheggiare, sgranare gli occhi e stringerla per le spalle, poi aveva spinto la bocca verso il suo collo tenero e caldo e lì aveva affondato i denti assaporando quella carne profumata e pulsante.

“Non essere spregevole, kore, non posso essere ancora paziente. Esigo una regina”.
“Voi l’avrete, solo non ora. Abbiate fiducia, vi prego”.
L’aveva sentita gettare impercettibilmente la testa all’indietro per esporre ancor di più sé stessa e la propria debolezza al suo signore che, scosso da tremiti, si era ancorato a quelle spalle piccole nel vano tentativo di farsi forza.

Non era servito a nulla.

L’aveva sentito prepotente e incontrollabile salire dentro di lui come un’onda capace di prendere e distruggere tutto: aveva ringhiato roco mentre l’avida bocca si avventava sulle labbra schiuse e gonfie della dea.
Poi aveva perso tutto sé stesso tra le braccia di Persefone che, con amore, lo aveva cullato contro il suo petto ansante mentre il deliro lo svuotava in un gemito roco.
 
Si erano rivestiti in silenzio senza mai staccare gli occhi l’uno dall’altra.
Persefone, ben lontana dalla virginale pudicizia, lo scrutava centimetro per centimetro, amando quello di cui i suoi occhi si nutrivano avidamente e Ade, lusingato da quello sguardo per niente vergognoso, le si faceva vicino aiutandola a rivestirsi non esitando, a volte, a denudare lembi di pelle morbida per lasciare morbidi e devoti baci.

Poteva un dio vivere di felicità e angoscia al contempo?

Ade tremava di rabbia e sconcerto al solo pensiero di doversi allontanare da lei così come la dea che, incerta, sapeva che sarebbe stato ingiusto pregarlo di restare o di rivedersi presso quell’altare solitario e nero, col rischio di essere scoperti.

Eppure, addolorata, Persefone non poteva accettare quella separazione, nemmeno sapendo quanto fosse giusta e necessaria.

Voleva tutto, per una volta voleva tutto.

“Ade…”

“Sai bene quanto sia pericoloso, mia dolce signora”, Ade, mesto, aveva accarezzato il capo velato della giovane che, col volto triste, aveva stretto il labbro superiore tra i denti nel vano tentativo di frenare l’angoscia.
 
Ma entrambi sapevano, in cuor loro, che lei lo avrebbe supplicato ancora di raggiungerla solo una volta, una volta ancora e lui l’avrebbe esaudita,
tutte le volte.
















L'angolo di Avareil
Ecco svelato l'arcano! Ecco il senso della frase di Ade: ho fatto finta di non vedere!
Sorpresa! C'era un mondo nascosto dietro la storia di Estia e Radamanto ma volevo rivelarvela così: stile porta in faccia, all'improvviso.
Spero di essere riuscita a incastrare tutto per come lo avevo in mente, temporalmente il quadro dell'episodio è il momento in cui Ade, dopo aver discusso con Radamanto, prima si accinge presso lo Stige e poi, dopo aver assaporato le libagioni, accoglie la preghiera di Persefone, mentre Radamanto, nello stesso arco di tempo,  viene prima condotto da Eaco presso le porte del sonno e della morte e poi sprofondato nel sonno rivelatore.
E' un ripercorrere quello che è successo veramente ma che prima non era stato per intero svelato. Del resto l'unico modo per Radamanto di sopravvivere era proprio questo: relegare il tormento lontano.
Spero di avervi stupiti.
Un bacio 

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


 
Vino?

Si era svegliata con un sorriso radioso dipinto in volto.
Era felice, veramente felice, e nessuno avrebbe mai potuto sottrarle quel prezioso ricordo che serbava gelosamente nel cuore.
Nel buio della notte più nera, presso gli altari del signore della morte eterna, aveva osservato incantata il suo dio indossare le vesti, sistemare le fibbie sulle spalle, recuperare la kunée abbandonata ai piedi dell’altare, il tutto in un silenzio quasi surreale fatto di respiri veloci e occhiate incuriosite rivolte dal sovrano degli inferi alla sua dolce promessa.
Con un’espressione interrogativa in volto, l’aveva nuovamente stretta contro il suo corpo, ora rilassato e appagato, e con un bacio a fior di labbra le aveva domandato una spiegazione per quei dolci sguardi.

“Forse sentirete la mia mancanza?”, il dio aveva allargato il sorriso in un ghigno furbo.

“Non più di quanto voi sentirete la mia”, Persefone aveva risposto a tono, lo sguardo celato da lunghe ciglia nere.

Un gorgheggio gutturale aveva scosso il petto dell’avernale prima che due labbra devote cercassero quelle audaci di lei.
 
“Andate ora, mio signora. A breve il sole farà capolino da dietro le nubi e, con lui, due occhi curiosi e malevoli”, Ade alludeva al dio Apollo di cui serbava nel cuore uno spiacevole ricordo.

Con la fronte poggiata sul suo petto, Persefone aveva stretto le braccia intorno alla vita del dio: vano tentativo di allungare quel momento il più possibile.
Una bambina che faceva i capricci.
Il dio oscuro aveva sorriso lasciandole un altro bacio sulla fronte e quando ella, ancora desiderosa di carezze, aveva sollevato il volto verso il suo, lui le aveva morso con delicatezza le labbra.

“Andate kore, e fate attenzione”, la voce del dio leggermente incupita e preoccupata,

“e… una volta lontana, non volgete lo sguardo indietro, verso questi luoghi”.

Non capendo il motivo di quel monito, la dea aveva arcuato un sopracciglio,

“Fate come vi dico”.

“State tranquillo, dio serio e sibillino -”

“-spero con tutto il cuore di rivedervi presto, mio amato”. Persefone lo aveva osservato addolcire l’espressione in un sorriso e poi, dategli le spalle, aveva mosso i primi passi fuori dal fitto della boscaglia.

Prima che il piede fosse posato sull’erba verdeggiante, al di là della la coltre oscura, limite oltre il quale l’ordine di Ade doveva essere rispettato, si era nuovamente voltata alla ricerca di quel volto ma, stupita, i suoi occhi non ne avevano scorto nemmeno l’ombra.
 
Aveva dovuto lottare contro la parte più istintiva e animalesca di sé per non voltarsi nuovamente verso gli altari neri e, solo quando aveva sentito le membra illuminate dagli ultimi raggi della luna stanca nel cielo, aveva velocizzato il passo, rendendolo prima andatura lesta, poi corsa e, infine, diventando ella stessa vento leggero. Come brezza aveva raggiunto la casa materna e, ben lontana dall’infantile goffaggine, era sgattaiolata silenziosa nelle sue camere.
Un sorriso, amaro e dolce al contempo, le aveva increspato le labbra mentre le membra, stanche e rilassate, trovavano conforto sul comodo letto.
Sono la sua divina esistenza le aveva permesso di rispettare il sacro monito del divo nero.
Solo la sua perentoria forza di volontà l’aveva spinta alla corsa, lontana da quei luoghi, lontana da lui.
Solo la sua ragione, divina e sorda alle urla del cuore, le aveva impedito di venir meno alla parola vincolante del dio.

Un semplice mortale non sarebbe mai stato capace di una simile prodezza.
 
 
°°°


“…E perché saremmo state convocate sull’Olimpo? Non ditemi che Zeus vuole presentare un altro dei suoi figli?”.

Aveva parlato di getto, il volto era ancora impastato di sonno e gli occhi, semi chiusi, celavano il ricordo dei sogni segreti.

Era stata l’espressione sconcertata della madre a farla ridestare, regalandole un po' di lucidità.

“Madre, io…”

“Il motivo della convocazione non è specificato con chiarezza nella missiva di Hermes, mia dolce bambina, ma suppongo sia come dici, sebbene io non apprezzi tale tracotanza. È tuo padre quello che sbeffeggi”.

Demetra, stupita dalle parole pungenti della figlia, l’aveva folgorata con un cipiglio silenzioso di rimprovero sebbene, in cuor suo, nutrisse ella stessa dello sdegno per quel poco di buono del fratello.

Ciò che era peggio? Sapere, in cuor suo, della veridicità di quelle parole.

Una nuova divinità sarebbe stata presentata agli altri luminosi, ma non era questo il motivo del suo turbamento, palesato in un’espressione spenta e corrucciata. La mente, toccata dal lugubre ricordo della sorella, vedeva nell’incoronazione di Dioniso, il concretizzarsi della terribile sorte di Estia, una sorte, tra l’altro, sconosciuta ai più.
In aggiunta a ciò il cervello si rifiutava di richiamare la risposta a dei nuovi dubbi logoranti che le esacerbavano l’animo:

Sarebbe stato presente anche Ade?

Avrebbe nuovamente allungato le sue sudice mani fatte di morte sulla sua Kore?

Avrebbe nuovamente dovuto patire l’abbandono e la solitudine?

Tormentata da quegli interrogativi, la cui risposte risuonavano nel suo petto una più tragica dell’altra, aveva allungato una mano verso Persefone che, nel mentre, si era seduta compostamente sullo sgabello vicino al suo.

 “Madre mia, non vi lascerò sola, andremo insieme, come sempre. Non temete”.

Ma ella temeva, temeva eccome.

Facendo un leggero cenno affermativo col capo, Demetra aveva afferrato il calice di mielosa ambrosia al suo cospetto e, lentamente, lo aveva avvicinato alla bocca invitando la figlia a fare altrettanto.
Il divino giovane dai natali oscuri, Dioniso, sarebbe stato riconosciuto, gli si sarebbe concesso il nome e, per di più, per un qualche sconosciuto merito, avrebbe ricevuto il trono della sorella Estia senza che nessuno osasse levar voce contro lo strano comportamento del signore dei cieli, senza che nessuno avesse contezza di quanto avveniva sotto terra, proprio dirimpetto il tempio del fuoco domestico.

Lei, poi, con che coraggio ruggiva verso il fratello?

Non aveva nemmeno avuto il coraggio di recarsi presso quei luoghi.
Non aveva avuto il coraggio di calpestare, impotente, la tomba precoce della sorella.
Un singhiozzo: ecco il primo segno, il primo avvertimento del cedimento del cuore che, se fosse stata sola, si sarebbe sciolto in un pianto disperato.

“Madre, state bene?”, Persefone, impensierita da quello strano comportamento, aveva allungato il collo verso quella al suo fianco e, preoccupata, ne aveva ricercato lo sguardo ma Demetra, ricompostasi immediatamente, aveva portato repentinamente il calice alla bocca affinché la figlia non notasse lo strano e umido luccichio nel suo sguardo vuoto.

“Va a prepararti bambina mia, ti aspetterò nelle mie camere”.

Con quelle parole, la dea madre si era alzata dal tavolo imbandito e, con un gesto della mano a mo’ di saluto, l’aveva lasciata sola.
Cupa in volto, Persefone aveva seguito con gli occhi la madre allontanarsi e solo quando fu certa della sua assenza, si permise di allontanare il calice dalla bocca asciutta.

Sentiva freddo,
 e quell’ambrosia non le profumava più di buono.

°°°




Ipnos camminava freneticamente avanti ed indietro.
Di fianco a lui giaceva il povero Radamanto, beato e assolutamente inconsapevole dell’angoscia del genio alato che, tormentato, guardava prima lui e poi l’orizzonte spettrale e, di nuovo, vice versa.

Quante volte aveva interferito nella vita dei divini?

Sempre.

Quante volte i suoi sogni avevano giustamente rianimato le speranze?

Sempre.

Un piccolo singulto lo aveva strozzato in gola dimostrando la falsità di quel pensiero.
Non sempre le sue intromissioni avevano giovato, non sempre i suoi sogni avevano condotto all’azione logica.
Non sempre era riuscito a instillare pace nei cuori addormentati, anzi, molto spesso, l’effetto era stato esattamente l’opposto.

Dannato Thanatos e dannate le sue parole fuorvianti.

Il genio gemello, quello lugubre e mortifero dei due, aveva suggerito con sarcasmo una visione: Estia che, chiara e limpida nella sua dolorosa prigionia, avrebbe, a sua volta, gettato nel tormento l’animo del giudice avernale.
Quel suggerimento, balordo e spregevole, era stato partorito dalla mente vendicativa della Morte che, turbata nel vedere un essere divino sprofondato in una condizione di dolore e impotenza, esigeva che anche colui che avesse causato quell’ infausta situazione pagasse con la propria serenità.
Ipnos, però, aveva distorto, contorto e ripiegato quel suggerimento facendogli assumere connotati completamente differenti: se la visione fosse stata accompagnata dalla speranza di un ricongiungimento allora entrambi gli infelici avrebbero alleggerito i reciproci tormenti.
Un sorriso a trentadue denti aveva illuminato il viso del genio ma, schiacciato dal peso delle possibili conseguenze, quello stesso era durato poco, pochissimo, gelato dalle successive riflessioni.
Ipnos, infatti, oltre alla grande audacia, serbava cautela: non era uno sciocco.
Egli sapeva dalla punta delle ali sul capo fino agli alluci dei piedi sospesi per aria che, a volte, anche la sola speranza può essere pericolosa.
Uno sguardo al povero giudice sotto di lui, un altro sospiro sfuggito dalle labbra arricciate,

Se solo …

Gli sfortunati amanti giacevano in un sonno che poco aveva a che vedere sia con la morte sia con le funzioni biologiche.
Entrambi dormivano perché sotto malia del Fato e, se solo egli avesse avuto il coraggio, avrebbe unito quei destini giusto per pochi minuti, il tempo di uno sguardo o di una parola.
Del resto anche Thanatos aveva suggerito quella possibilità- maligno stronzo.

E sia.

Posta una mano sugli occhi del dormiente, Ipnos aveva recitato la sua nenia.
Pochi secondi e Radamanto non era più al suo cospetto, almeno non a livello mentale.
Un solo pensiero aveva rincuorato il genio:

se dovesse andar male…colpa di Thanatos.
 
 
°°°


“Vino?”

Il profumo selvatico della bevanda rosso cremisi impregnava l’aria dell’intera sala rendendola densa, inebriante e avvolgente come un velo.
Tutti gli dei erano riuniti tra le colonne imponenti dell’anticamera della cella di Zeus e nessuno, nessuno a parte lei e sua madre, sembravano conservare un briciolo di lucidità.

Un proposito, quello della sobrietà, che sarebbe durato ben poco, almeno per lei.

“Ragazza, vuoi del vino?”,
Persefone aveva osservato incuriosita il giovane sconosciuto che, con un bel sorriso stampato in faccia e due gote rosso acceso, le aveva offerto un calice traboccante con fare amichevole e fin troppo intimo.
Il voi, gli ossequi, i saluti, gli inchini erano qualcosa di totalmente distante da quell’indole rustica e travolta dai fumi dell’alcool.

Che fosse quello, Dioniso?

“Grazie, siete molto gentil-“

“Siamo una famiglia, ci si deve conoscere, fare amicizia, voler bene e chissà…magari…siete molto bella…il vostro nome? Io sono Dioniso, figlio di Zeus anche se, sapete, non è molto bello essere stati partoriti da una coscia”.

Dioniso l’aveva interrotta e, per di più, aveva iniziato a parlare rapidamente, troppo eccitato -sicuramente colpa del vino tracannato prima e durante la festa- ed emozionato dalla possibilità di poter finalmente conoscere quella famiglia che da tempo gli veniva negata per colpa delle gelosie di Era.
Persefone, letteralmente travolta da quel fiume di parole, aveva afferrato il calice al limite del tramortimento, non era avvezza a tutte quelle parole e a quei ragionamenti contorti dal vino.
Lei aveva sempre preferito il silenzio della natura, dei campi floridi abitati da creature pacifiche e aveva poi amato anche un altro tipo di silenzio, quello della notte senza ritorno, della giusta sentenza, della giusta morte. Il silenzio di chi sa ponderare le parole da usare, che dà il giusto peso ad ogni lemma… non a caso… Ade...

Ade?

Dov’era Ade?

Cercando di sopravvivere a quel dio che, brandendo in entrambe le mani due calici già vuoti per metà, ancora la braccava con modi un po' sconclusionati e al limite dell’indecenza, la dea aveva cercato con sguardo disperato il signore delle ombre, nella vana speranza che egli, nascosto magari dalla sacra kunée, potesse trarla in salvo da quel nuovo parente molesto.

Aiuto.

Con in volto un sorriso formale e una falsa espressione di interesse, Persefone aveva scandagliato l’intera sala alla ricerca di quel dannato avernale che sapeva essere lì e che sentiva visceralmente divertito.

Eccoti, disgraziato.

Lo aveva intravisto di sfuggita, un’ombra nera mescolata tra gli altri radiosi e brillanti.
Ade, appoggiato- celato- da una colonna, la osservava da lontano con due occhi divertiti e un volto stranamente ammorbidito da una barba ricciuta e incolta: rideva di lei e della sua spiacevolissima compagnia.
Eppure, dopo il primo sguardo, Persefone non era stata capace di fulminarlo con un cipiglio esasperato o furioso, troppo presa da quelle strane e familiari sembianze che, subito, già dal primo sguardo, l’avevano fatta sentire meno sola, meno fuori luogo, meno sbagliata tra quegli esseri chiacchieroni e superficiali dediti al vino e alle donne.
Quella barba, di cui ricordava il ruvido accenno contro la pelle del collo, sembrava vaporosa e morbida, assolutamente distante dallo stile rigido e severo del sovrano dei morti. Che fosse uno sfregio? Un segno di irriverenza nei riguardi di quelle divinità impomatate e tirate a lucido? Che fosse solo indice di distrazione e mancanza di tempo?
 
Forse, più semplicemente, il ricordo dei sospiri e dei gemiti strozzati generati dal leggero sfregamento di quella stessa peluria sul suo collo tenero, era stato un motivo più che sufficiente per lasciarla lì, al suo posto, nera, folta e ricciuta.
Persefone aveva sorriso tra sé e sé a quella riflessione, il brivido che le era corso dalla nuca fino al centro del suo essere era un chiaro testimone dei ricordi che le addolcivano la mente annebbiandole il cuore.
Non vista dalla madre- Dioniso e la sua logorrea erano un’ottima copertura-  aveva assaporato di sottecchi quei tratti, cercando in essi la ragione della sua sopravvivenza.

Aiuto, ti prego.

 “E dunque, basta parlare di me. Voi siete Persefone, la figlia di Demetra? Siete bellissima, incantevole, veramente. Ho sentito raccontare di voi e del vostro rapimento, brutta storia. So che nell’Ade non hanno del vino, sarà stato terribile”.

Lo aveva osservato per qualche secondo non riuscendo a elaborare una risposta coerente all’osservazione appena sentita: in vero non sapeva se ridere o piangere dinnanzi a quella mente sconvolta dal vino.

“Fratello, vi ringrazio per la premura ma devo smentirvi, il signore dell’Averno possiede innumerevoli cantine di vino dell’Erebo”.

“Un peccato non poterlo assaggiare, dunque! Per colmare questo terribile vuoto, ti prego, bevi questo che ti offro in segno di nuova amicizia. È un nettare dolcissimo e- a quel punto le aveva strizzato l’occhio- e non ti dico nemmeno la gradazione alcolica. Li stendo tutti questa sera”.
Dioniso aveva riso ebbro mentre con la mano la invitava a portare il calice alle labbra.
Ottimo. Era veramente ottimo.
E letale per una come lei che mai aveva osato bere vino fino a quel momento.
Aveva sentito subito che la bevanda, densa sulla lingua e dal sapore dolciastro, aveva iniziato a scorrerle dentro, riscaldandole prima la gola, poi lo stomaco e, infine, irradiando un piacevole tepore in ogni nervo del corpo.
Solo allora aveva sorriso e, stranamente rilassata in ogni terminazione di sé, aveva bevuto un’altra lunga sorsata divertita dal sorriso sorniose e ubriaco di Dioniso e confortata dalla presenza del dio dell’Averno che, poco distante da lei, la sorvegliava come un falco, stranamente più cupo in volto e rigido nel corpo.

Ben ti sta, farabutto.
 
Gli altri dei, invece, sembravano assolutamente inconsapevoli della presenza del dio nero: forse erano così abituati a evitarlo, a schermare gli occhi in sua presenza che, alla fine, non riuscivano nemmeno più a scorgerlo.

Per la fortuna di Ade.

“Mia dolce sorella, sto monopolizzando il tuo tempo. Sono sicuro che anche altri dei non vedono l’ora di parlarvi e avvicinarvi anche se, onestamente- non prendetevela- si sente ancora un leggero tanfo di morte intorno a voi. Prendete-“ a quel punto, barcollando, le aveva avvicinato al volto altro vino,

“Prendete, il profumo del vino sistema ogni cosa, fidatevi”.

Poi le aveva dato le spalle e, così come era arrivato, se ne era andato alla ricerca di un qualche altro parente da conoscere.
Persefone, non badando a quella strana puntualizzazione, stordita da quel primo calice di vino vuotato per disperazione e con in mano un secondo ancor pieno fino all’orlo, aveva assistito, più o meno lucidamente, al declino del dio che, sorsata dopo sorsata, parola insensata dopo parola insensata, si apprestava a ricevere il sacro nome da Zeus padre, ancora nascosto presso i suoi altari.
Infastidita e pizzicata da uno strato sdegno verso quell’essere che avrebbe dovuto considerar padre e che invece stimava al pari di uno sconosciuto, ella aveva vuotato anche il secondo calice offertole dal fratellastro e, ritrovandosi sola, lontano dallo sguardo attento della madre, e ben osservata dall’altro dio, quello oscuro e celato ai molti, aveva tentato la via della fuga invano; barcollante era stata braccata e presa sotto braccio dal corteo di ninfe della madre, incaricate di non lasciarla sola nemmeno per un istante.

Lì aveva perso le sue tracce.


°°°


A distanza, celato alla vista da una fumosa aria mortifera, il dio nero aveva osservato la sua dolce preda con sguardo adorante e addolorato: lui, il dio al quale niente sfugge e a cui tutto, prima o poi, ritorna, non poteva avvicinarsi a lei, non poteva offrirle la mano né, tanto meno, rivolgerle un saluto.
Era all’angolo, e lì, da lontano, unico sollievo per l’animo era poterla guardare, assaporare con gli occhi quello che, presso i suoi altari, aveva potuto saggiare con le labbra e con le mani.
Eccola, sola e brilla, tentare di scappare, dileguarsi da quei luoghi sapendo di averlo al suo seguito: ombra nera e fedele compagna di fuga.

Ma no. Perché illudersi di aver dalla propria parte un Fato benevolo?

Quelle maledette ninfe, cani da guardia al comando di Demetra, la vincolavano al centro della grande sala affinché gli risultasse impossibile raggiungerla.

Illuse.

Prima che Persefone venisse completamente circondata da danzanti creature, le aveva rivolto un sorriso disarmante, la seria linea delle labbra si era stesa in un ghigno malizioso e furbo.

No, non l’avrebbe lasciata sfuggire.

 Il disgraziato e bellissimo Ade sapeva che ciò che pulsava nel suo cuore era lo specchio di quello che, celato eppure alimentato dal vino dolce, batteva in quello della giovane dea: desiderio, desiderio nutrito dalla privazione.
Persefone era al centro delle danze, esposta ma al contempo protetta da un velo che mai nessuno avrebbe potuto attraversare: questa la speranza di Demetra.
Ma Ade non era stato mai un incauto: l’arte del temporeggiare lo avrebbe guidato al premio.
Persefone ben conosceva quello sguardo magnetico e esigente e, sperando di non venir sorpresa da nessuno, aveva risposto al sorriso con un muto bisbiglio che solo lui avrebbe potuto leggere sulle sue labbra.

Ti aspetto.
 
 
 
Che avesse osato troppo?
Ritrovandosi sola nel bel mezzo della sala, bloccata nell’osservare un angolo di quella, apparentemente vuoto, aveva distolto lo sguardo imbarazzata e preoccupata.
Un’espressione cupa le aveva intorbidito lo sguardo, fino a pochi istanti prima vibrante e luminoso.
Era stato questo cambiamento a gelare il sovrano degli inferi che, sempre a distanza e celato ai più, aveva sentito montare dentro di sé una rabbia cieca.
Aveva dovuto lottare contro l’istinto selvaggio di andar da lei, dinnanzi all’intera platea divina e baciarla, afferrarla, semplicemente stringerla e trascinarla con sé nel ventre della sua dimora, com’era giusto.
Per un solo istante quel sentimento gli aveva offuscato la mente: se fosse stato necessario si sarebbe reso ombra pur di avere la possibilità di rimanere al suo fianco, e come un’ombra si sarebbe fatto mutevole, cambiando al cambiare della sua posizione pur di poter godere della sua essenza.

Ma così, averla a pochi metri e doverle stare lontano era veramente terribile.







L’angoscia che aveva letto nello sguardo della dea lo aveva sospinto via, lontano e, trasmutato altrove saltando da un’ombra all’altra, era andato alla ricerca del fratello minore, stranamente assente dalla sala dei banchetti.

“Zeus?”
“Dove ti celi? Lo so che sai che sono qui. Ho bisogno di parlarti”.

Lo aveva trovato al riparo presso il suo altare immenso. Zeus stava stancamente poggiato sul bordo, rosso in volto e in compagnia del figlio Dioniso, fin lì precedentemente sorretto e sospinto in quei luoghi dai satiri del suo seguito.

“Fratello!”.

Zeus, palesemente già alticcio, lo aveva accolto con un sorriso a trentadue denti stampato in volto e, a seguire, anche il giovane dio aveva salutato lo zio di cui raramente aveva sentito parlare e di cui, ancor meno, aveva colto la presenza.
Del resto anche lui era nuovo di quella realtà fatta di luce e nuvole soffici.

“Zio!”, Dioniso, ovviamente ubriaco da un bel pezzo, aveva accompagnato il padre in quel saluto di benvenuto reso caloroso dall’ebrezza dell’alcool.

Ade, sconcertato dalla superficialità di quegli esseri, aveva tentato di mantenere la calma,

“Dioniso”, Ade lo aveva immediatamente liquidato 
con un cipiglio incredulo e un cenno del capo.

“Zeus dobbiamo parlare”. Il tono perentorio del dio nero aveva trovato eco in un’espressione inebetita sul volto del minore che, per metà inconsapevole, aveva inclinato il capo alla ricerca di risposte,

“E di cosa desideri parlare? Persefone te l’ho già concessa e Demetra non ne è stata molto felice. Le femmine, e tra queste in primo luogo le madri, diventano belve fameliche quando i piccoli sono minacciati”.

Se solo Demetra avesse avuto modo di udire quelle parole sarebbe rimasta sconvolta dalla leggerezza impressa nelle parole del padre di sua figlia, parole che vedevano Persefone trattata come un pacco o un sacco di granaglie ceduto al miglio offerente.
Ma non solo Demetra avrebbe reagito male.
Ade, cupo in volto, aveva iniziato a sentir formicolare le mani mentre l’odore dell’alcool si faceva insopportabile alle sue narici.

“Estia, tua sorella, mia sorella, giace sotto terra vincolata da un voto che tu, magistralmente, hai saputo ordire alle spalle di tutti. Sono qui con una proposta non pacifica: intervieni, sciogli e muta il tuo vincolo con lo Stige, libera nostra sorella o il tuo regno verrà scosso da un nuovo scempio fatto di sangue e sofferenza”.

L’aria intorno ai due fratelli si era fatta elettrica come elettrica era divenuta l’essenza oscura del dio dell’Averno.

“Estia? È di Estia il trono che mi viene concesso?” Dioniso, intromettendosi, aveva rivolto uno sguardo dubbioso al padre che, improvvisamente serio in volto, aveva distolto lo sguardo.

“Si, è il suo. Ella non era più degna”.
Infuocato, Ade, aveva afferrato Zeus per il bavero della lunga tunica

“Tieni il potere, tieni tuo figlio, concedi lui quel che ritieni più opportuno ma non strappare anche a tua sorella l’onore della preghiera”.

Sciolta la presa, il dio nero aveva ritrovato la solita compostezza.

“Agisci presto, sovrano. La mia pazienza non è infinita”.
Al centro tra Zeus e Ade, uno palesemente abbattuto e l’altro pronto alla guerra, Dioniso si era fatto avanti e, sempre consapevole nella sua ubriacatura, aveva sollevato il bicchiere proprio dinnanzi allo zio.

“Vino?”

Dinnanzi all’espressione ebete di Dioniso, seguita dal silenzio del fratello, il dio aveva preferito allontanarsi, attendendo pazientemente che la sostanza alcolica perdesse ogni effetto distorcente. Almeno lo sperava.




Perché non avrebbe sopportato oltre.



°°°



Ma dov’è?

Persefone, cercando di mascherare al meglio il turbamento del cuore, mostrava di tanto in tanto alla madre e alle ninfe del suo corteo dei sorrisi timidi e impacciati: non era mistero per nessuno che quel tipo di occasioni non le fossero congeniali.
In vita sua aveva avuto modo di partecipare a un solo grande concilio.

E non era un segreto come fosse andata a finire la serata.

Al solo ricordare il dolore di quelle parole, prima abbaiate dalla madre e poi ruggite dal signore oscuro, al solo ricordo della fuga e del tradimento della zia materna- conseguenza dell’originario tradimento compiuto a sua volta dalla madre-  brividi avevano iniziato a tormentarle la spina dorsale lasciando dietro di loro una spiacevole pelle d’oca.

Gli effetti del vino erano oramai svaniti, per sua sfortuna.
 
“Avete freddo, signora?”.

Un tremito, forse ancora più profondo dei precedenti, l’aveva turbata a tal punto da farle incassare il collo tra le spalle; una frase che sapeva di minaccia, malizia e lascivia.

Quel signora non aveva la dolcezza che solo lui sapeva trasmetterle.

Voltandosi lentamente verso la voce roca che aveva richiamato la sua attenzione, per poco aveva rischiato di palesare il proprio stupore lì, sul volto onesto e schietto, al cospetto di un Febo che, con occhio brillante e cattivo, lo squadrava impunemente dalla testa ai piedi.

“No, vi ringrazio divino Apollo”, con un leggero cenno del capo aveva cercato di ricollezionare i frantumi della sua regalità ma quando, al suo retrocedere verso la folla, aveva percepito la mano calda e forte del dio poggiarsi sul suo polso con l’intento di trattenerla, la paura le aveva attorcigliato lo stomaco in una matassa indistricabile.

Inebetita, aveva fissato prima la mano e poi il volto del dio che, assolutamente a suo agio, aveva continuato:

“Vostra madre, povera ingenua, mi ha invitato- in maniera sibillina, è ovvio- a prendere l’iniziativa con voi, magari per un ballo, o semplicemente per uno scambio amichevole di convenevoli. Non vi nascondo che la parte più divertente è stata udire dalle sue labbra: “la mia Kore è ancora troppo pura e innocente per arrischiare a chiedere una danza”.

Apollo aveva leggermente alterato la voce facendola sembrare simile a quella di Demetra: chiaro tentativo di sbeffeggiare sia lei che la madre divina.

“Povera, povera Demetra- lì il sole aveva allargato il sorriso malizioso in un ghigno malevolo- peccato che la povera madre non sappia che razza di scempio volgare e corrotto ha al seno, vero, Persefone βωμῶν ἀνηλιῶν?”

Persefone degli altari oscuri.

Quella frase, pronunciata in lingua sacra e carica di disprezzo, l’aveva scossa come una folgore in pieno petto. Pallida in volto e con il respiro praticamente mozzato in gola, aveva sgranato gli occhi

“Come… come fate, voi…?”.

“Selene, la luna, mia sorella, è tenuta prima di tutto alla fedeltà nei riguardi del fratello. Ella non può negarmi nulla del cielo notturno, soprattutto se questo diviene spettatore di simili comportamenti”.
Le si era avvicinato, lentamente e tanto da poter percepire il profumo di fiori corrotti, di erbetta appassita, di campi spogli: arricciato il naso con un impercettibile disgusto l’aveva squadrata da capo a piedi,

“Vi ha già presa, macchiata e legata a sé. Se vostra madre non vede è solo perché non vuol vedere”, a pochi centimetri da lei, resa statua di sale, Apollo la derideva a mezza voce.

“E dire che ho sempre nutrito nei vostri riguardi una certa stima e, sicuramente, è stato palese il mio interesse nei vostri riguardi fin dal primo momento in cui vi ho vista. Peccato-”, Febo le aveva sistemato un ciuffo scomposto dietro l’orecchio,

“Magari adesso, che avete saggiato i piaceri della carne con il peggiore dei reietti, potreste concedere i vostri favori a me che sono il sole che nutre le vostre fronte e i vostri prati fioriti…”, maligno e impregnato di gelosia aveva continuato,

 “…farò finta di non notare questo gelo mortale che vi avvelena da dentro senza rimedio”.

Via. Via. Via.

“Non osate toccarmi”, immobile, Persefone aveva sibilato quell’avvertimento.

“Se non ti concedessi di tua sponte potrei sempre farmi sfuggire accidentalmente qualcosa con qualcuno…vediamo…qualcuno a caso: tua madre”.

Viscido come il fauno che in fanciullezza aveva osato ricattarla allo stesso modo, viscido come un serpente e torbido come l’acqua di uno stagno, Apollo tentava in ogni modo di ottenere i suoi favori.

Povero illuso.

Stava parlando con una dea consacrata all’invisibile.

Riscossa dentro da un calore sconosciuto fatto di bile nera e rabbia cieca, aveva preso la mano del dio ancora saldamente poggiata sul suo polso e con le unghie aveva fatto pressione affinché la lasciasse libera.

“La verità, povero Febo, è che non mi avrete nemmeno così. Né con l’inganno né con la violenza. Non prendetevi disturbo. È tempo che mia madre sappia, sappia da me”.
Con determinazione aveva dato le spalle a quel dio di luce e, a passo celere, aveva abbandonato la sala dei bagordi alla ricerca di Ade.


Gli avrebbe comunicato le sue intenzioni prima di…

Prima di far scoppiare il finimondo.
 



°°°



“Ade…?”

Persefone, cercando di non farsi notare, aveva oltrepassato i soggetti alati, caprini e divini che, alticci e rubizzi, baccagliavano dispersi sull’Olimpo, alla ricerca del dio oscuro, avvelenata nel cuore dalle parole di Apollo.

Come poteva un dio di luce operare in quel modo losco e lascivo?

Ade, Ade il traditore, Ade il malevolo e l’impenetrabile, Ade l’oscuro, Ade il reietto… Ade, il suo amato, non aveva mai osato avanzare una proposta di quel genere, sempre consapevole del limite oltre il quale era impossibile addentrarsi.

E poco importava che fosse iniziata nella peggiore delle maniere.

Il Fato era stato benevolo con lei e lei era una stupida a voler ancora temporeggiare.
Avrebbe sacrificato altre cento e altre mille volte la sua essenza per lui che mai l’aveva forzata e che, anzi, l’aveva protetta e salvata dallo Stige vincolante, promettendola a sé e a sé e basta.

Con il cuore traboccante di orgoglio e consapevolezza, la dea aveva seguito il silenzio, unica traccia del dio nero e, sempre più distante dalle camere adibite alla celebrazione, aveva percorso il lungo corridoio, consapevole del suo dirigersi verso le camere solenni del padre.
Lì, nascosta nell’ombra, aveva sentito ogni cosa.

Ade che chiedeva udienza a Zeus.

Zeus che accampava risposte sconclusionate, accompagnato dal lucidissimo- e ubriaco- Dioniso.

Estia.

Cosa diamine era successo alla cara ed infelice Estia?

Quatta quatta contro la parete aveva atteso in silenzio che Ade, di cui sentiva nel cuore la rabbia e l’angoscia, abbandonasse quei due poveri ubriachi e, sperando di non essere scorta da altri all’infuori di lui, ne aveva agguantato il polso tirandolo dietro le colonne laterali.
Lì, con il cuore martellante e avvolta da una nuba nera che sapeva maledettamente di casa, aveva cercato la risposta negli occhi tetri e furiosi del dio.

“Estia…”

“Non preoccupatevi. Risolverò questa situazione, in un modo o nell’altro”.

Spaventata e intimorita dal tono perentorio e cupo con il quale egli aveva parlato, ne aveva cercato la mano, affinché, stringendola, potesse trarre da lui la forza di affrontare problemi che, come margherite, sbucavano uno dopo l’altro come in primavera.
Ma eccolo fissarla più intensamente, scrutarle l’anima attraverso le iridi.

“Cosa è successo?”.

Aiuto. Mantieni la calma, Persefone.

 “Pensavo… è ingiusto dovervi stare lontano, dover mascherare lo sguardo, far finta di non notarvi. A dire il vero, ogni volta che varco la soglia di questi luoghi qualcosa di perverso mi turba, instillando nel cuore il sano desiderio della fuga”, con le labbra tremanti, la dea aveva parlato sommessamente, le parole attutite dall’armatura di lui contro la quale si era stretta alla ricerca del suo corpo.

“Persefone- il tono non ammetteva altre perdite di tempo- cosa è accaduto mentre ero via dalla sala?”

Il dio dell’Averno aveva cercato di scandagliare il cuore della vergine ma quella, strettasi ancora più contro il suo petto, aveva miagolato a bassa voce

“Altri hanno visto…”

“cosa…?”

Inghiottendo rumorosamente, cercando di guadagnare tempo, la dea, impaurita da quello che il cuore voleva rivelare e le labbra, invece, tacere, aveva provato a distogliere lo sguardo, a rivolgere altrove i pensieri affinché Ade, già provato da grandi tormenti, non si adirasse ancor di più per colpa della minaccia di Apollo.

“Selene…Apollo… hanno visto e…”

Ma non aveva avuto bisogno di continuare.

Il ruggito fuoriuscito con ira dal petto del dio era il chiaro segno di come egli avesse avuto modo di capire e sentire il turbamento della dea, da poco scappata a quella proposta malsana e alle parole malevole e lussuriose.

“Io lo distruggo”. Ben lontano dal pacato essere fatto di espressioni serie e compite, Ade mostrava i denti in una smorfia feroce mentre le mani, strette in pugni lunghi i fianchi, tremavano per la rabbia.

“Ade, mio signore, vi prego… Badate al mio animo: vi desidero con tutto l’ardore di cui ha conoscenza un dio ma la mia felicità sarebbe macchiata se osaste levare la mano contro Febo o, ancor peggio, se la povera Estia non fosse tratta dalla sua terribile condizione il prima possibile. Quanto ha proferito Apollo non ha alcun valore. Sono pronta a dir anche ora stesso alla povera madre la decisione presa. Voi, però, riguadagnate la calma. Non è di questo tipo di dio, violento e irragionevole, che ho bisogno”.

Ade aveva scrutato il volto stranamente pallido della dea e, vedendola tremolante, l’aveva stretta ancora più contro di sé nella vana speranza che anche un corpo gelido come il suo potesse fare calore.

“Perdonatemi”. L’avernale aveva chinato il capo su quello della dea poggiando la fronte contro quella di lei, gli occhi stretti palesavano il tentativo di calmarsi.

“ Ricordate le mie parole: il vostro animo non è  oscuro come vi hanno a lungo fatto credere. Siete il miglior essere che potessi incontrare”.
Il sorriso dolce di Persefone, quasi materna mentre la mano si poggiava sulla testa corvina, illuminava le ombre nelle quali erano nascosti.

“Lasciatemi ora, fate ciò che dovete per la povera Estia. Io parlerò con la madre e…e vedrete: tutto volgerà per il meglio”.

“No… vi prego. Concedetemi ancora del tempo”, tenendola stretta contro il suo petto, Ade aveva mormorato quella preghiera contro le sue labbra, il bisogno di dover saggiare quella bocca che sapeva di miele e radici era oramai impossibile da ignorare.

“Ade, mio signore, chiunque potrebbe scorgerci”,

“La mia kunée offre sicuro riparo, mia dolce signora, ve ne siete dimenticata?”, suadente e roco, come non era stato fino ad allora, aveva baciato quelle labbra lentamente col chiaro obiettivo di farla perdere, ma quella, rianimata da buoni propositi, aveva opposto una leggerissima resistenza.

“Allora potrebbero notare la nostra assenza”, aveva bisbigliato a qualche centimetro da quella bocca tentatrice.

“Allora direte che eravate persa in qualche giardino pensile lussureggiante, intenta a rifuggire moleste proposte…”, le labbra sottili, tirate in un guizzo di focosa gelosia, sfioravano quelle rosee di lei, morbide e pure.

“E voi? Voi che direte?”.

“Nessuno oserà chiedermi nulla. Sono il signore dell’Averno, e voi, mia signora, ben presto saggerete la dolcezza di questa unione”, malizioso, amabile, passionale e dolce.

Non avrebbe saputo quale termine lo impersonasse meglio: Ade era tutto, ed era nulla. Era tormento e calma, pacatezza e passione, gelo e fiamma.

La verità era solo una: per quanto gelo e il fuoco possano sembrare opposti, in realtà, producono lo stesso effetto.

Bruciano e consumano.

Le aveva afferrato il capo e, con delicata forza, l’aveva sospinta contro di sé, contro le labbra esigenti e oramai al limite dell’astinenza e, sempre con quella bocca, aveva soffocato i gemiti della dea che, sedotta dalla voce del dio, si era lasciata sospingere contro la colonna, certa di essere tutelata e protetta dal velo dell’invisibile.



***
 

Era rientrata dopo qualche tempo. Il viso palesemente arrossato sembrava essere la conseguenza del vino e non dei baci sfrenati scambiati col dio ombra.

Le vesti erano in ordine così come i capelli, solo il cuore batteva all’impazzata tanto da poter essere sentito, qualora fosse stata posta in una camera silenziosa.

Il primo sguardo che aveva sentito su di sé era stato quello della madre che, sebbene impegnata in una discussione con altre divinità, aveva notato la sua assenza.

“Madre, cercavo un po' di refrigerio…sapete, il vino di Dioniso ha avuto un effetto stordente su di me. E poi…”

Ma Demetra, pacificato l’animo dai dubbi, l’aveva abbracciata con trasporto, presentandola, immediatamente dopo, alle altre divinità.

“Madre, avrei bisogno di parlare con voi. Il prima possibile”, forte della propria decisione, la nuova kore aveva afferrato la mano della madre che, stupita, aveva arcuato un sopracciglio,

“dimmi tutto bambina mia, sai che sono qui per te sempre…” ella aveva sorriso amabile accomiatandosi dalla compagnia alla ricerca di un luogo dove poter parlare in serenità.

“Madre mia, vedete…” distanti dalla ressa, Persefone l’aveva questa volta afferrata per le mani saldamente,

“mia amata mamma…io…ci sono delle cose che non vi ho detto”.

Demetra, in posizione d’ascolto, aveva incrociato le braccia al petto visibilmente agitata.

Ma…
 

“Ma dov’è Estia?”

Una voce, nel bel mezzo della festa, nel bel mezzo della sala, aveva posto il quesito proibito mentre il giovane Dioniso, con il capo oramai cinto di edera e viti, serviva ancora del vino.

“E’ vero, dov’è Estia? Che ne è stato di lei, Zeus?”, un brusio sommesso aveva accompagnato le parole di Ade che, rivelando la sua presenza, aveva puntato gli occhi di brace verso il minore dei fratelli, ora seduto sul trono della sala di marmo.
Anche Demetra aveva sentito un brivido gelido correrle lungo la nuca e, terrorizzata, si era fatta più vicina alla figlia.

“Dillo, Zeus, rivela alla folla il destino di Estia che tu hai mirabilmente tessuto-”.

“ e bada di dire tutta la verità ai tuoi sudditi, signore dei cieli. ”

Ade, sempre più furioso, aveva fatto correre la mano sull’elsa, mentre l’altra, stretta in pugno, serviva come sfogo per evitare l’esplosione.

“Rivela a tutti il destino dell’infelice sorella: Estia è vincolata dallo Stige sotto terra per un voto che non ha mai infranto ma che, furbescamente, giova a te, signore delle nubi”.
"Voi..."

Quella voce maledetta

“Voi che parlate tanto di verità, signore dei morti, perché non ci dite con chi vi intrattenevate le sere passate presso i vostri altari? Magari una giovinetta dei boschi?
…Avete già dimenticato la tenera Persefone…oppure…”

Apollo si era fatto avanti, sfoderando un sorriso acuminato da serpente velenoso.

“Oppure la giovane dea vista correre come brezza verso casa sul far del giorno, era proprio lei, la cara kore, la nostra pura ed innocente Persefone?-”
“-Demetra, rallegratevi. Vostra figlia ama il vostro nemico e da lui verrà portata via”.

Pallida come un cencio, Persefone aveva voltato lentamente il capo verso la madre che, ridotta in statua di sale, palesava il proprio dolore solo per mezzo delle copiose lacrime che, silenziose, le solcavano il viso.

“Zeus: o Estia o guerra” Ade, aveva rivolto quell’ultimo monito al minore con solennità e freddezza,

“e tu…nipote…” con occhi di fuoco e aria mefitica intorno, l’avernale aveva camminato spedito verso Apollo che, tronfio e certo, aveva atteso lo zio a testa alta

“Ditemi, zio”,

ma Ade non aveva detto nulla.

Si era limitato ad osservarlo in silenzio, avvolto dalla morte di cui era signore e padrone e la cui essenza penetrava fin sotto la pelle correndo fino alle ossa.

Il sorriso di Apollo, a poco a poco, si era incrinato e, infine, si era spento del tutto.

“La mia dimora attenderà te e la tua progenie, non dubitare del tempo, egli scorre e conduce tutti alle mie porte”.

Con quelle parole, pronunciate come sentenza inderogabile, Ade si era spostato oltre, al cospetto della sorella.

“ E voi, sorella, che mi odiate senza motivo, sappiate che non vi è inganno nelle mie intenzioni. Vostra figlia sarà presto la mia sposa. Ella lo vuole”.

Ella lo vuole.
 
A quel punto Ade aveva allungato una mano verso la giovane Persefone che, lanciato un ultimo sguardo carico di pena alla madre addolorata, aveva poi afferrato la mano del dio.

Non c’era stato bisogno di dir altro.
Dinnanzi allo sbigottimento generale solo una era stata la voce ad avere il coraggio di parlare:


“Vino?”









L'angolo di Avareil
Alla fine eccomi qui. E' stato veramente difficile scrivere questo capitolo, così complicato e ricco di coincidenze temporali. Spero di essere riuscita a carpire la vostra attenzione ancora una volta e, veramente, perdonate l'attesa: è stato un periodo super pieno e di certo la complessità della trama non ha facilitato le cose. ehehe.
Rallegratevi: il capitolo successivo è già ben delineato e spero di pubblicare molto più celermente di questa volta.
Se vi fa piacere sarei lietissima di sapere cosa ne pensate, se vi piace o meno, se vi annoio o meno.
Io sono qui e poter scambiare qualche parola mi farebbe tantissimo piacere.
Un caloroso abbraccio.
Avareil


 

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


Lasciare a metà
 
 
Va bene, fine dei giochi: Estia sei impazzita.
Adesso siediti in un angolo, prendi la tua bella testolina tra le mani e inizia a dondolare avanti e indietro.
Non sollevare lo sguardo, non osare guardarlo.
Non osare.
Non osare, ho detto!

Estia osservava basita, incredula e sconvolta ai limiti della rigidità fisica e mentale, l’essere palesatosi così, dal nulla, e ora, steso ai suoi piedi.

Radamanto.

Radamanto, il giudice dell’Averno, il suo povero demone, era veramente davanti a lei? Era veramente lui quell’ entità sfinita e pallida, lunga e rigidamente addormentata al suo cospetto?

Chi, quale dio le concedeva un simile dono?

Dono?

Ma hai idea di come tu sia ridotta? Quel disgraziato impazzirà di dolore al primo sguardo che oserà posare su di te, misera e infelice!

Profonde occhiaie viola, labbra secche e spaccate in più punti, viso sporco, livido ed emaciato, sgombro di capelli oramai rasati: questo ciò che avrebbe visto quel giudice una volta riguadagnata la consapevolezza di sé.

Terrorizzata da quel pensiero, impietrita da quella considerazione, Estia aveva tenuto ferocemente a bada il desiderio si stringerlo a sé e farlo rinvenire tra le sue braccia.

Anche lei sapeva, pur non vedendosi da tempo, quanto misero potesse essere il suo aspetto, quanta pietà avrebbe potuto colmare il cuore del giudice, quale rabbia avrebbe potuto renderlo alieno alla ragione.
In quelle condizioni, ricoperta di fango e disperazione, sarebbe stata capace di traumatizzare perfino una pietra.
Un riso amaro le aveva incurvato le labbra macchiate di sangue secco e, mosso un passo indietro, si era voltata in modo tale da dar le spalle al giovane giudice ancor dormiente ai suoi piedi.

“Radamanto…Radamanto…”

Un bisbiglio sottile aveva bussato alle porte della sua coscienza e, come il sibilo di un serpente seducente, aveva risvegliato un’immagine, la sua immagine, tanto vividamente da forzarlo ad aprire le palpebre.

“Estia?”, un gemito, il grido strozzato e stanco di chi insegue un ricordo evanescente e lontano.

“Estia…”, Radamanto, con una mano al volto, aveva nuovamente invocato la dea benevola: gli occhi, annebbiati dal velo sottile della malia di Ipnos, erano offesi e incapaci di scorgere figura alcuna.

“Si, sono qui, a un passo da voi, sciocco giudice”.

Anche nell’oscurità più fitta, cieco e lontano dall’oggetto della sua pena, avrebbe saputo dare un volto a quella voce che, amabile, si insinuava nell’orecchio per correre, libera e folle, verso il cuore. Era come vederle distintamente: le labbra, che ancora morbide e rosee, si arcuavano in un sorriso leggero, e le parole, calibrate e mai eccessive finanche nell’affetto, lo riscaldavano dentro, disperdendo il gelo della morte.
Avrebbero potuto mentirgli, avrebbero potuto tentar di convincerlo che no, no, quella non era Estia, non la sua Estia; che nel buio, oltre la parete del sogno, qualcuno, il Fato, Ipnos, gli dei o qualsiasi entità, si facevano beffe di lui e dei suoi sentimenti e che quella, no, non era lei.

Ma non ci avrebbe creduto.

Anzi.

In quel che i suoi occhi non riuscivano a scorgere, trovavano conferma tutti gli altri sensi.

Quella non poteva non essere Estia.

Tolta la mano dal volto, aveva scrutato con attenzione l’antro tetro nel quale si trovava -se non era più nelle camere profumate d’incenso, dominio del terribile Ipnos, dove si trovava?-

Fino a che punto aveva desiderato udire quella voce se adesso, ancora perso nei dubbi, gli sembrava di udirla distintamente?

“Non state delirando, giudice”.

Ancora lei, voce inconsistente nell’ombra.

Armato di coraggio, non riuscendo ancora a proferir alcun verbo, aveva mosso prima un passo, poi un altro e ancora ne avrebbe compiuti se una mano, protesa in avanti e alla ricerca di un qualcosa, non avesse sfiorato quello che pareva il profilo emaciato e curvo di un piccolo, piccolo, essere.

“No, vi prego, non siete voi, non così ridotta, non così trattata”, con il sangue gelato nelle vene dal terrore e dalla miseria che sentiva annichilirlo dal di dentro, Radamanto si era abbandonato in ginocchio; le mani artigliate alle vesti logore della dea ancora voltata di spalle.

“Si, sono Estia, la dea che ancora non è stata vinta dalla morte. Non piangente al mio cospetto, sono ancora viva”.

“Voltatevi, lasciate che nell’oscurità i miei occhi possano scorgere il vostro viso, vi prego mia dea, vi prego come il più misero degli esseri”, le mani, saldamente intrecciate alla veste, premevano affinché la dea si muovesse verso di lui: un invito, una preghiera a rivolgere su lui, misero e supplicante, il volto amato e disperatamente cercato.

“No, non posso, non osate voltarmi, non pregatemi. La mia immagine è turpe come questo luogo che mi imprigiona e sebbene nessun crimine sia stato commesso, oramai il mio corpo è pregno di sofferenza e curvo per il dolore”.

Sul limitare senza ritorno di un pianto disperato, Estia aveva implorato a sua volta, mentre le mani, piccole e ossute, si spingevano alla ricerca di quelle forti e artigliate sulle sue vesti: la prima carezza, la prima volta in cui riusciva nuovamente a percepire il senso d’umanità che le era stato strappato via con violenza.

Quel tocco, delicato e gelido, aveva agito direttamente sul cuore del secondo giudice che, ora pervaso da una strana ira, aveva stretto le sue mani con ancor più forza su quelle vesti di cui adesso, avvicinato il viso, riusciva finanche a sentire l’odore fatto di morte, lacrime e disperazione.

Per questo motivo aveva dovuto trattenere il fiato, contare mentalmente per un’infinità di numeri, prima di domandare, con voce più tetra del buio mortifero, cosa le fosse stato fatto, chi avesse osato trapparla alla vita e come, come si fosse convinta a fuggire via da lui, per andare incontro a quel fato bastardo.

Intimorita e al contempo incapace di provare paura o timore dinnanzi a quell’avernale spaventoso, Estia aveva stretto ancor di più le mani su quelle di lui: unico modo di trasmettere il suo amore pur rimanendo saldamente voltata di spalle.

“Ho semplicemente seguito la strada che mi era stata indicata dal Fato, questa cella che vi vede ospite, accoglierà me in eterno…perché sono venuta meno al mio voto. Ho desiderato con tutto il mio cuore avere un futuro felice, diverso, non solitario e siete arrivato voi e anche se per poco, pochissimo, mi avete fatto dono di splendidi ricordi”.

“Siete una stupida. Una stupida ed infelice dea che crede ancora alla benevolenza del cosmo e alla correttezza del creato. Vi avevo già avvertita, vi avevo supplicata di essere accorta, di non lasciarvi travolgere da parole decorate e alti ideali: nessun’entità celeste prova pietà di voi. Lo Stige, il Fato giocano solo il loro gioco in una lotta di interessi. Zeus…vostro fratello-“

“Non dite oltre, vi prego. Non dite oltre”.

“Vostro fratello vi ha venduta-“

“Ho detto di non dire oltre!”

Un grido di sofferenza aveva messo a tacere il furioso Radamanto mentre la dea, scossa da visibili brividi, si era ancor di più curvata su se stessa fino a che, stanca e afflitta, si era ritrovata anch’ella al suolo, in ginocchio e sconvolta da forti tremiti.
Solo vedendola in quello stato, piegata e sofferente, Radamanto aveva deciso di frenare la lingua, di mordersi l’interno della guancia, di calare il capo in segno di scuse e di protendersi verso quel mucchio fatto di carne e ossa spigolose, iniziando un lento percorso esplorativo su quel corpo distrutto, toccato dalla sventura.

Una carezza amorevole per lei,

bile nera e veleno iniettato in vena per lui che, al tatto, alla vista e all’odorato, la sentiva violata.

La pelle era gonfia, in alcuni punti lacera, in altri ruvida per colpa della terra e del sangue secco ed incrostato. Una mano si era poi allungata sulla schiena esposta e scossa da singhiozzi e, con dolore, aveva avuto modo di percepire distintamente gli anelli della spina dorsale far capolino sotto lo strato sottilissimo e tirato di epidermide.
Estia, immobile per quanto possibile, era rimasta in silenzio, stretta in un abbraccio e incurvata: era quella la posizione in cui era solita passare la maggior parte del tempo, in solitudine ed abbracciata a se stessa. Gemeva per la vergogna e il dolore di sapersi esposta e mostruosa per colpa della prigionia; eppure non voleva tormentare anche lui, povero infelice che, come lei, si ritrovava coinvolto in un piano ben più grande di lui, di loro.

“Vedrete, starò bene. Nessuno potrà mai piegarmi, nessuno potrà mai spegnere il mio fuoco”.

La dea aveva impercettibilmente volto il capo verso il silenzioso essere alle sue spalle.

Non l’aveva sentita?

Dinnanzi a quel lungo silenzio, ella si era stretta nelle spalle, triste e desolata per quella che sapeva essere una difficile e irrealizzabile speranza.

“Dovete”.

I pensieri di Estia erano stati frenati da quell’unica parola pronunziata a mo’ di monito: le labbra strette e tremati del giudice, avevano formulato quell’imperativo categorico mal celando la rabbia e lo sdegno e il sentimento d’impotenza che gli facevano fremere le mani.

“Dovete resistere, dovete sopportare questo tormento. Dovete”.
Radamanto aveva mormorato quell’ultimo lemma come una preghiera, a mezza voce, un bisbiglio annientato dalla paura della perdita.

“Radamanto…”.

“Voltatevi”.

“No, vi prego, giudice-“ la dea, visibilmente provata, aveva scosso il capo spoglio con fare di diniego avvertendo subito il vuoto lasciato dalla mano dell’avernale, ritratta dalla schiena a quell’ennesimo rifiuto.

“Avete il timore che, guardandovi in queste condizioni, la mia rabbia e il mio sdegno possano condurmi al compimento di una qualche azione scellerata?”.

“Radamanto, vi imploro, l’essere che avete davanti è il vuoto involucro di un animo punito dal Fato e, giusto o ingiusto che sia, io conosco il vostro cuore e finireste per tormentarvi quando, in realtà, avete fatto solo bene alla mia povera esistenza solitaria”.
Quella mano, prima ritratta, al suono di quelle parole l’aveva delicatamente afferrata per una spalla sottile e, facendo una leggera pressione, la invitava a voltarsi.

“Non è questo ciò di cui dovete preoccuparvi. Il mio cuore è nero, impregnato di morte, ma se voi resistete, se voi mi fate dono anche di un solo sguardo, allora io placherò il mio tormento e mi rassegnerò all’attesa, ma non potete negarvi per paura che io mi disperi.

Sono già disperato”.

A quel punto, solo quando aveva percepito un brivido correre lungo la schiena sottile della dea, egli aveva fatto la sua mossa e con la delicatezza di un innamorato e il dolore di un animo tormentato, l’aveva avvolta in un abbraccio delicato e stretto: schiena contro petto, braccia annodate per non volerla lasciare mai, il respiro mozzo a solleticare l’orecchio.

“Rimanete di spalle se volete, lasciate le braccia al suolo se non volete ricambiare la stretta ma vi prego, vi prego, non lasciatemi ancora, non fuggite ancora”.

Angosciato dalla possibilità di un'altra fuga scriteriata, Radamanto aveva pregato col cuore gonfio di angoscia la dea che, riscaldata da quel corpo, gelido eppure fonte di un calore senza eguali, aveva nuovamente iniziato a singhiozzare.

“Questo nostro incontro è temporaneo, una visita concessa da qualche genio benevolo. Ipnos? Tanathos? Non importa, a breve andrete via e io resterò qui a scontare la mia pena. Io…Io non ho scampo ma voi, voi povero Radamanto, siate felice anche per me e fuori da queste nere pareti, ravvivate il mio fuoco-
è l’ultima preghiera che vi rivolgo: non osate levare la mano contro il cuore che sento battere con tragica disperazione, anzi nutritelo di speranze e nutrite il mio focolare. Vi sarò vicina così, come la fiamma che non si è mai spenta”.

“Allora sarò io a tornare”.

“No, ve lo proibisco”.

“Sarò io a tornare, e tornerò ancora e ancora finché non sarete voi a ravvivare il fuoco del vostro tempio. Tornerò in qualche modo, supplicherò il sovrano dell’Averno, implorerò i geni benevoli, farò tutto ciò che è in mio potere per voi, perché sono già morto e non ho alcuna intenzione di continuare a morire ogni istante per colpa della vostra assenza”.

Ma, a quel punto, il giudice aveva iniziato a sentir venir meno le forze: la vista si oscurava, le orecchie si spegnevano e il respiro, tormentato, si faceva più lento e inconsistente; a quel punto l’aveva stretta ancor più forte contro il suo petto.

“Vi supplico, aspettatemi e… e se non facessi ritorno invocate le Erinni, vendicatrici dei patti, e ordinate loro di darmi il tormento. Vi scongiuro, signora, vi imploro, non lasciate che io fallisca il mio compito, perché la mia vita è già dell’Averno, ma nemmeno l’Erebo riuscirebbe a contenere il mio animo macchiato di questa colpa vergognosa”.

Un bacio, un bacio lasciato sul capo della dea, adagiata contro il petto del giudice in un abbraccio che non lasciava via di fuga.

“Tornate da me, non lasciatemi solo…”

Debole, aveva sentito le mani cedere, le braccia allungarsi lungo i fianchi e le gambe, ancora piegate in ginocchio, perdere la forza di sostenerlo: si era lasciato cadere all’indietro, stanco e travolto da un’angoscia terribile.
 
Tra il sonno e la veglia, con gli occhi socchiusi e rivolti verso il tetto nero della cella microscopica, l’aveva, infine, vista.
Ella, con un gemito strozzato in gola, si era voltata e con le braccia protese lo aveva afferrato per il bavero della veste accompagnandolo morbidamente al suolo e, in quell’abbraccio intriso di pietà, l’aveva condotto con un bacio fino alla sponda del sonno.
 
 


°°°

Rivestita di stracci, tumefatta in volto e con la pelle lacera in più punti, aveva artigliato, mossa da disperazione, la scoscesa parete che la separava dal cielo nero e spento.

La puzza di zolfo si era fatta tanfo appiccicoso e sudicio incrostato sull’epidermide, il gelo del vento le fustigava il volto livido in un costante castigo.

Quanto scempio avevano visto i suoi occhi?

Quanta malvagità aveva riempito il suo animo, inebriandola di folle cattiveria?

L’odio, serpente giallo e velenoso, le serrava il misero cuore rendendola incapace di un qualsiasi ragionamento: era folle, folle e spregevole.

Un animale incattivito dall’esistenza.

Era forse colpa sua se si era innamorata?

Poteva qualcuno forse biasimare il suo comportamento?

No. Lei non aveva nessuna colpa. Nessuno avrebbe potuto puntare il dito contro di lei.

Questo credeva.

Di questo era profondamente convinta, e mentre con forza e sofferenza si inerpicava per la salita irta e ricoperta di punte acuminate, un’ira cieca riempiva le cavità del suo corpo vuoto.

Era solo una succube, demone inferiore delle piane d’Averno, che colpa aveva lei se il destino, beffardo e maligno, l’aveva resa succube a sua volta di un amore irrazionale?

Poteva forse incolpare lui?

No.

Nemmeno lui aveva colpa.

Il suo cuore, serio e giusto, non avrebbe mai operato quella scelta e anche se le parole rivoltele erano state perentorie e apodittiche, ella non poteva non biasimare unicamente il Fato che, mosso dall’egoismo dei potenti, le aveva strappato via il suo uomo.

Persefone

Quel nome, masticato tra i denti e sputato con sdegno, le riempiva la mente offuscandola e intorbidendola.

Persefone, la dea rapita e legata all’Averno.

Con un moto di stizza aveva afferrato un appiglio sulla parete: il solo pensiero che il suo gesto avesse sortito l’effetto contrario la mandava letteralmente in bestia.
Distogliendo a forza i pensieri dall’esito delle sue precedenti azioni, Menta aveva infine raggiunto la sommità della scoscesa montagna e da lì, stanca e sporca, aveva ammirato l’immenso cielo dell’Averno e, con esso, le lunghe mura di cinta poste a difesa dalla sponda del giudizio.
Un brivido le aveva percorso la spina dorsale al solo ricordo di quanto successo presso quei luoghi: la mano di Ade che le serrava la gola, la furia di quel dio placata unicamente dal pensiero della sua bella preda del Flagetonte, demoni che la circondavano per tradurla in catene presso il nero Tartaro.
Eppure, in tutto quel dolore, la speranza che ancora un briciolo di affetto li legasse era stata nutrita da quella scelta: la preferiva viva ma segregata nel luogo più restio alla vita, piuttosto che saperla morta.

Come poteva, quindi, odiarlo?

Ovviamente il signore avernale era preda di una qualche sordida magia e lei, devota innamorata, l’avrebbe riscattato.
Per questo, quando gli occhi di brace avevano scrutato attentamente quelle pareti nere, un’imprecazione le era sfuggita dalle labbra: aveva ancora bisogno di aiuto, la meta era ancora distante e le mura di cinta la rendevano irraggiungibile; l’entità che aveva avuto pietà di lei aiutandola nella rocambolesca fuga, doveva inventare un qualche altro modo, trovare una strada affinché lei potesse raggiungere quella terra santa.
Menta, infatti, non era una sciocca, non fino al punto di illudersi che un essere inutile e misero come lei potesse fuggire indenne dall’occhio del guardiano del Tartaro.

Ecco allora: se qualcuno l’aveva aiutata, e ciò era evidente e necessario, era giunto il momento che si manifestasse, si presentasse dinnanzi a lei rivestito di una dannata aura salvifica e che, come un deus ex machina, le offrisse su un piatto d’argento la soluzione adatta ai suoi bisogni.
Accompagnata da un buio interiore carico di aspri lamenti, bestemmie e urla disumane, Menta aveva ripreso lo strascicato cammino verso la dimora del signore avernale mossa unicamente da quel desiderio che aveva funto da ancora di salvezza lì, nel profondo Tartaro:

Sarebbe stata lei la regina dell’Averno.

Lei sola avrebbe mangiato il prelibato dono di superficie liberando il suo dio da spregevoli costrizioni.

Sarebbe stata lei, la sposa.
 
“Eccoti, ti stavo aspettando”.

Gelata da quel tono lugubre, la succube aveva mosso impercettibilmente il capo indirizzandolo verso la voce.

“Allora siete voi, il mio salvatore…”

“Taci, misera, non giungo per allietarti in amene conversazioni. Il tuo tempo è poco e la meta lontana”.

Piccata per quell’aspro richiamo, la succube aveva mostrato i denti acuminati mentre la lingua, biforcuta e saettante, sibilava odio.

“Non osare”, una mano, rapida come il vento, le si era poggiata all’altezza del collo e sempre quella mano, adesso stretta come una morsa, le stringeva la tenera carne col chiaro intento di soffocarla.
Dinnanzi agli occhi sgranati in una muta preghiera, il genio nero aveva mollato la presa restituendo il demone alle terra brulla e secca.

“Non osare mai più assumere questo atteggiamento. Se fosse per me saresti già morta, ovviamente. Agisco solo per volere del Fato, quindi taci. Taci e seguimi, demone”.

Allora non si era sbagliata! Il Fato stesso la voleva libera di riprendersi quanto le era stato sottratto.

Thanatos, oscuro come la morte di cui portava il nome, aveva indirizzato un ultimo sguardo pieno di sdegno alla malcapitata sognate e poi, datele le spalle, aveva fatto strada verso la sua porta, unico ingresso alternativo per regno dell’Ade.

Ella non aveva più osato pronunciare un solo lamento, travolta com’era da un unico e solo pensiero:

Vendetta.
 
Fregava le mani, si ripuliva alla bene e meglio il volto, ricomponeva le misere vesti, tirava indietro la chioma sporca in gesti tesi e concitati, troppo eccitata da quel piacevole risvolto degli eventi.

Solo un dubbio faceva capolino nella sua mente contorta:

“Perché voi? Perché siete venuto voi e non vostro fratello Ipnos?”

Thanatos non aveva risposto con parole udibili, si era limitato a fermare il passo, voltarsi lentamente e ad osservarla con occhi di brace, mentre le braccia, così come le ali, si aprivano ampie e maestose in un abbraccio che lo fondeva con il regno che lo circondava.



I mortali sanno che se la morte ti conduce per mano, vuole l’anima.



°°°
 
 
La discesa verso il regno dell’Ombra aveva avuto un sapore completamente differente.
Se la prima, quella che la vedeva rapita contro il proprio volere, era stata funestata dalle urla e dal suo scalciare contro il dio silenzioso, questa, invece, l’emozionava come quando si ritorna, dopo tanto tempo, in posti che si ha tanto amato e, proprio per questo, si ha il timore che qualcosa sia cambiato irrimediabilmente.

“Persefone”.

Nessuna risposta.

“Persefone”.

Il fragore era troppo perché ella sentisse il preoccupato richiamo del dio dinnanzi a lei: gli zoccoli infuocati e fumanti calciavano la roccia, i nitriti rimbombavano per le lunghe pareti e i pensieri, più rumorosi di un qualsiasi frastuono, echeggiavano nella mente, rendendola sorda a qualsiasi stimolo esterno.

Ella stessa ancora stentava a credere a quanto, poco prima, avesse avuto il coraggio di compiere al cospetto di una madre disperata e di una platea scioccata.

“Mia signora…”

Una mano le aveva cinto i fianchi distogliendola dalla fantastica attività di fissare il vuoto,

“Ditemi che siete qui, che siete presente, che non vi pentite della scelta che avete compiuto”.

Scossa da quella preghiera, l’ennesima che sentiva formulata con quel tono severo eppure incupito, la dea si era stretta a quel corpo che sentiva rigido e teso oltre la nera armatura, la fronte poggiata all’altezza del cuore del signore nero

“Sono qui, non mi pento di nulla. Non siate turbato: non è la scelta compiuta che mi distrae, quanto piuttosto ciò che ho lasciato alle mie spalle”.

“Se può consolarvi, la vostra scelta ha impedito la morte di un dio bastardo. Siete stata benevola…”

Una gomitata aveva colpito di sorpresa il costato dell’avernale facendolo impercettibilmente piegare in avanti con un sorriso dipinto in volto, il primo che ella avesse modo di vedere dopo lungo tempo

“Smettetela, non avrei mai permesso che questo accadesse. Vi amo troppo perché possiate macchiarvi di un simile crimine al mio cospetto”.

Oh dio Persefone, cosa dici?!

“Quindi, se l’avessi ridotto in cenere lontano dai vostri occhi, non avreste opposto resistenza?”

Che non si fosse accorto di quanto le era sfuggito dalle labbra?

Non…non fate lo stupido. Non l’avrei permesso in nessun caso e in nessun luogo. Placate il vostro animo, dio nero”, aveva deciso di far finta di finta di nulla, proprio come lui che, meno sorridente di prima, le lanciava occhiate sospettose.

“Non mi dite che avete a cuore quel misero animale”, piccato, ma sempre maligno, Ade aveva guardato dinnanzi a sé, le briglie strette per frenare i cavalli furiosi.

Siete geloso, signore dell’Averno”, Persefone aveva allungato il collo nella vana ricerca di quegli occhi che lui si ostinava a fissar lontano.

“Allora?”

Maliziosa, la dea aveva strattonato il dio nel vano tentativo di ottener risposta.

“Se volete posso sempre riportarvi da lui, ci metto un istante a girar il cocchio”,
cupo e serio in volto, egli l’aveva impercettibilmente smossa lontano dal suo braccio.

“Siete meraviglioso”, dolce Persefone, ella gli si era fatta ancor più vicino e, con l’arte della cozza, si era avvinghiata al suo braccio con fare molesto.

“Smettetela, avete ferito i miei sentimenti”.

“Siete un farabutto”.

Persefone si era allontana dal dio e con un dito aveva bussato sul suo petto, all’altezza del cuore

“Vi siete forse dimenticato che questo cosetto che batte qui dietro è molto più sincero di voi? Non solo voi leggete i cuori… quindi, cortesemente, smettetela di prendermi in giro. Lo so che siete felice”.

“Sono paurosamente felice”.

Un nuovo sorriso, radioso come una morte benevola, aveva rianimato il volto falsamente offeso e irato del dio che, sereno, l’aveva nuovamente stretta sé cercandole la bocca in un bacio a stampo, intimo, familiare.

“Pensate a ciò che vi attende, sposa”.

Rossa in viso, Persefone aveva distolto lo sguardo da quel volto, imbarazzata dalle pulsazioni del cuore impazzito alla ricerca disperata di altri baci, di altre carezze.
Per il resto del viaggio erano rimasti in silenzio, rilassati l’uno dal respiro regolare dell’altra, stretti in quella sorta di abbraccio che fungeva da ancora stabile per lei e da rilassante per lui.

Ade, infatti, con quel sesto senso che lo legava all’Averno, sapeva in anticipo che quella stilla di angoscia che sentiva pulsare nel cervello, era il segno di un qualcosa di spiacevole avvenuto in sua assenza.
 


“Datemi la mano, fate attenzione”.

Ade, sceso con un balzo dal carro, aveva allungato una mano verso la dea sorridente.

“Lasciate che vi scorti nelle vostre stanze, sarete stanc-“

“No, per favore, no”.

Imbarazzata dallo slancio con il quale si era opposta a quella semplice proposta, Persefone aveva rivolto lo sguardo cristallino altrove, nella vana speranza che quell’avernale non scorgesse l’emozione dipinta sul volto innocente, quasi innocente.

“Come dite?”

“Non voglio stare dove voi non siete. So che ancora il vincolo non è stato stretto e che la mia richiesta potrebbe sembrare assolutamente indecente e
indecorosa…”

“Va bene”.

“…vi assicuro che non ho alcun secondo scopo…”

“Va bene”.

Quanto era amabile osservarla incartarsi e ingarbugliarsi come il filo di una matassa?

“…non voglio rimanere sola. Non che abbia paura di questi luoghi, anzi…”

“Persefone”, Ade, adulto, paterno, amabile, le aveva preso il volto tra le mani e, con infinita dolcezza, le aveva parlato lentamente, affinché potesse osservare attentamente quella bocca formulare la risposta, sensuale e maliziosa.

“Capisco il motivo della vostra richiesta e non metto in dubbio i vostri nobili principi. State tranquilla, la mia parola è un voto: nulla vi sarà carpito, contro il vostro volere”.

Maligno e tentatore come solo il sovrano dell’Averno poteva essere, aveva opposto un casto bacio sulle labbra schiuse e sorprese per poi liberarla dalla presa.

“Andiamo allora, avrete alloggio nelle mie camere”.

Con il cuore in tumulto, la giovane dea aveva annuito felice, sollevata.

Magari, questa volta, non ci saranno tormenti o ostacoli.

O, magari no.

Il pensiero era corso lesto alla madre in lacrime.

Forse sarebbe stato più giusto spiegarle tutto, forse, sarebbe stato meglio aiutarla a capire.

Ma come spiegarle di Menta?

Della violenza subita e dell’ambrosia nera che l’aveva liberata dal Flagetonte a caro prezzo?

Come dirle di quella promessa divenuta voto troppo rapidamente eppure felicemente?

Ade era voltato di spalle e fortunatamente non aveva scorto quei pensieri trapassarle la mente incupendole il viso.

Sarebbe stata solo un’altra pugnalata per quel cuore che a lungo aveva sofferto e che, finalmente, riceveva in cambio un po' di amore; era nuovamente al centro, tra l’incudine e il martello, ago tra due poli in antitesi.

“Andiamo?”

Ade, nuovamente, l’aveva presa per mano.
 
 

“La mia domanda resta ancora senza risposta: siete stanca? Volete riposare?”

Aveva aperto la porta dei suoi appartamenti ma attendeva sull’uscio che fosse lei la prima ad entrare.

“Voi, voi siete stanco?”

“Attenta Persefone, orecchie meno sagge delle mie potrebbero scambiare la vostra premura per un invito”.

“Allora sono fortunata ad aver voi per interlocutore, saggio re”.

Avevano sorriso entrambi a quello scambio di battute che contribuiva a creare uno splendido ambiente che sapeva di casa.
In quello strano cosmo, in quel destino che era toccato loro in sorte, stavano costruendo qualcosa che fosse solo loro, e lo facevano con l’innocenza e l’inesperienza di due innamorati che, per quanto abbiano a lungo patito, sono ancora all’inizio della loro relazione.
Ecco, non si sarebbe potuto parlare di vera e propria innocenza dinnanzi agli sguardi rapaci che il signore dell’Averno indirizzava alla giovane intenta a sciogliere i lunghi capelli bruniti, e sempre l’innocenza di cui sopra, sembrava nascondersi in un angolo quando il ferino approfittava di ogni attimo di vicinanza per sfiorarla, lasciando che brividi saettassero dalla nuca fino al centro del suo corpo.

Ogni scusa era buona per ristabilire il contatto tra i loro corpi:
Ade doveva adagiare il lungo mantello sul triclinio? Eccolo allora allungarsi fino a cingere le sue piccole spalle in una carezza sfuggente.
Il dio aveva bisogno di bere? Allora, mentre la gelida bevanda scorreva giù per la gola, egli ne approfittava per accarezzarla distrattamente sul capo chino a sciogliere i sandali.

“Forse è stata una cattiva idea quella di condividere l’alloggio”.

“No, in verità è stata un’idea brillante, del resto nemmeno io avevo voglia di passare le notti da solo. In effetti, non capiterà più, da qui in eterno”.

Il sorriso, espressione di gioia, malizia e serietà, era il chiaro segno del suo sentirsi assolutamente a suo agio nel metterla a disagio con il losco intento di sedurla.

E lei con che forza si sarebbe dovuta opporre?

Avrebbe dovuto chiudere chi occhi mentre quello, sfacciato fino all’ultimo, sganciava le fibbie della pesante armatura con struggente lentezza?

Doveva, forse, volgere il capo quando quell’essere, provocatore come il demone che era, faceva scivolare al suolo la veste nera, protezione della muscolatura scolpita e nivea?

Guai a te, Persefone!

La vocina nella sua testa, espressione della parte più intima di sé, già irrimediabilmente sedotta, le impediva qualsiasi azione avesse avuto per obiettivo la privazione di quello spettacolo.

Perché doveva privarsene?

Non siete ancora sposi.

…Ma siamo promessi.

Non è lo stesso

Ti sei forse dimenticata delle parole del tuo signore, proferite sulla soglia dell’Averno quando Hermes ti riconduceva a tua madre?

“Siete legata all’Averno ma non siete ancora sposa benedetta. Tradite la mia fiducia e rimarrete vincolata all’Erebo, sola.”

Stava scherzando.

Tu credi?
 
 


“Ho bisogno di un bagno, mio signore…e vi prego, smettetela di fare quello che state facendo”.

“Ma io non sto facendo nulla”, il ghigno malizioso aveva trovato risposta nello sguardo accigliato della giovane.

“Bugiardo”.


 
 
Le nuvolette di vapore profumato l’avevano letteralmente inebriata.
Ad occhi chiusi e col capo morbidamente poggiato sul bordo della vasca- che si era rivelata essere un’intera piscina al coperto- Persefone godeva di quella calda carezza offertale dall’acqua bollente.

“Piacevole, non è vero?”

“Uscite”.

“E’ il mio bagno, anzi, è il mio regno e voi, piccola prepotente, mi chiedete di uscire? Siete spregevole”.

“Mio signore, non era mi intenzione offendervi”, con uno sbuffo, esasperata dalla lingua tagliente e furba del suo interlocutore, la dea, infine, aveva schiuso gli occhi trovando Ade, immerso anch’egli nella calda acqua.

Nudo, ovviamente.

“Ade…”

“Non potevo resistervi, così rilassata e quasi pacifica. Resistervi sarebbe stata un’impresa titanica”.

“Ma voi siete per metà titano!”

“Evidentemente non basta per tenere a freno il mio desiderio”.

Stupido dall’arrendevolezza beata con la quale ella lo osservava, aveva smosso le acque quel tanto che bastava affinché i loro corpi si sfiorassero.
Nel silenzio fatto d’acqua e vapori, potevano udirsi solo i sospiri della dea, presa lentamente di mira da baci esasperanti posti con dolcezza sul collo tenero e poi, solo dopo che le richieste si erano fatte preghiere, avevano infine varcato la soglia della bocca, già schiusa e sospirante.

Da quanto tempo non sentiva il suo respiro sulla pelle?

Ade, quasi con ferocia, aveva dato il via all’esplorazione e, ovviamente, all’invasione di quel corpo esposto e cedevole, eccitandosi ogni qual volta ella si rendeva creta tra le sue mani, pronta a spostare il capo, offrire il collo o la bocca o i seni ad un solo suo cenno. Per questo motivo non aveva saputo resistere e con la mano aveva artigliato la chioma bruna facendo pressione in modo tale tra tramutare quel leggero contatto in impudica pressione di corpo su corpo.
E lei non si era tirata indietro: provocata e soggiogata da quelle labbra tentatrici, aveva gettato le braccia introno al collo del dio e le gambe, snelle e tornite, si erano strette come per un riflesso condizionato, intorno ai suoi fianchi.
Lì, entrambi, bloccati per un istante ad occhi sgranati, facevano i conti con un’intimità che mai avevano avuto il coraggio di creare: lei per pudicizia, lui per rispetto.

“Persefone…” la voce roca, assolutamente irriconoscibile, aveva ruggito quel nome in una muta preghiera.

“State fermo, vi imploro”.
 
“Voi mi tormentate”, ma quella, con dolcezza, aveva preso il volto barbuto tra le mani e con lo sguardo perso in quelle pozze grigie e offuscate dal piacere, aveva dato il via ad una lenta danza accompagnata da gemiti e sospiri.
Ade, giaceva tra le braccia di Persefone completamente abbandonato e inerme, mentre la dea, stretta a lui e con la piena femminilità esposta e umida a contatto con il membro turgido, si era mossa in un dolce andamento dal basso verso l’alto e viceversa, sostenuta dalle acque e da mani voluttuose che ora la tenevano per i glutei sodi e contratti.
Perso in quella carezza ipnotica, il dio si era nuovamente saziato di quella bocca, cercando di tenere a bada con tutte le sue forze l’istinto animale che gli urlava di premere, stringere, entrare: voleva sentire la carne morbida schiudersi sotto la sua pressione, si disperava nella vana speranza di sentire quel corpo avvolgerlo, stringerlo, accoglierlo.
Un gemito più forte degli altri aveva pervaso la giovane da capo a piedi quando, mossa dalle mani che la sostenevano, aveva premuto con più forza quella parte di sé che sentiva gonfia e pulsante e lui, sadico e tormentato a sua volta, aveva continuato a muoversi in su e in giù insistendo su quel punto e sull’apertura che sentiva meravigliosamente aperta.

“Ditelo adesso, ripetete adesso quello che avete detto prima. Dite che mi amate”,
schiavo di chi aveva ridotto in schiavitù, la supplica era giunta prepotente alle orecchie della dea mentre la chioma lunga e umida veniva afferrata e tirata affinché ella esponesse il collo tenero a morsi voraci.

“Ade…”

“Ditelo”

Il ritmo si era fatto più rapido e folle: lo sfregamento, divenuta palese tortura, aveva ridotto Persefone in un ammasso di nervi scoperti e scattanti e gli occhi, lucidi e offuscati, osservavano, meravigliati e distanti, il viso del dio, ora trasfigurato da un nuovo piacere.

“Vi amo con tutto il cuore, Ade”.

“Presto sarete la mia sposa, e dividerete il vostro corpo col mio”, in quella che sembrava una promessa stravolta dal desiderio, Ade aveva mosso il bacino con rapidità e forza contro quelle intime labbra che mai avevano subito un assalto del genere.

 Poi, rapiti, avevano ruggito il loro piacere in un bacio,
che non si capisse dove il piacere avesse avuto inizio e fine.











L'Angolo di Avareil
E' stato un parto, giuro! EFP ha veramente messo a dura prova la mia pazienza con la sua lentezza! Lamenti a parte...
Brevi precisazioni: 
 
 La parte che trovate sottolineata nel dialogo di Persefone con sé stessa serve a indicare e a distinguere la sua parte razionale da quella irrazionale.
Il titolo poi è emblematico non solo della situazione dentro il capitolo ma anche di quella fuori: il capitolo è, di fatto, mozzo perché mi sono resa contro di aver scritto troppo quindi ho preferito spezzare la narrazione, affinché non venisse troppo pesante la lettura. Sono stata brava però, non ho tagliato sul più bello ;)
Questa precisazione serve per coloro che, dubbiosi, giustamente, troveranno poche novità: l’obiettivo era anche questo, dare la sensazione di un tempo che passa in attesa della decisione di Zeus, perché, di fondo, è lui che deve capire come agire.
Con questo mando un affettuoso saluto a tutti coloro che abbiano avuto la pazienza di seguirmi, recensire e anche solo leggere: pochi capitoli ci separano dalla fine ma molte sono le idee per il post Una vita promessa alla morte.
Battete un colpo se ci siete.
 A presto!

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


 
Il mostro nel cuore
 
Due occhi.
Due occhi opachi, quasi vitrei, la scrutavano dall’alto.
L’inquietudine trapelava da essi cristallina e lacerante, una vecchia angoscia appesantiva il respiro solitamente leggero.

Da quanto tempo la osservava?

Le palpebre mezze schiuse, la fronte corrucciata, il busto sollevato ritmicamente in respiri ancora assonnati: chiaro il tentativo di mettere a fuoco il volto di quell’esserino fluttuante al suo cospetto.

“Emisu.”

Unico rumore udibile: il sottile fiammeggiare ai piedi dello spirito.

“Emisu?” Un’altra invocazione a vuoto aveva accompagnato la rapida vestizione della dea: faceva freddo, il focolare stranamente taceva.
Impensierita dal quell’anormale silenzio, la dea dalle spalle ammantate aveva tentato di richiamare l’attenzione dell’essere avernale con una carezza sul viso sfregiato ma quella, forse distante secoli da quel luogo, continuava ostinatamente a fissare il letto vuoto dinnanzi a lei.
Repentino il presentimento di un qualcosa di inquietante le aveva folgorato la mente.

“Dov’è il tuo signore, ancella?”

“Il sovrano dell’Averno è lontano da questi luoghi. Egli si trova presso la sorella Estia.”

“E’ stata liberata?”

“A caro prezzo.”

Un singulto di gioia, sfuggito troppo rapidamente dalle labbra sorridenti, si era infranto contro l’amaro retrogusto di quel a caro prezzo mormorato gravemente dall’avernale.

“Sarà meglio che li raggiunga. Fa’ in modo che il carro di Ade mi attenda all’ingresso.”

“No, mia signora, è impossibile.”

Persefone, turbata dai modi di quella, non aveva esitato un istante e, rivoltole ancora uno sguardo carico di domande e timori, aveva ribadito la propria richiesta.

“Mia signora, non vi è alcun modo in cui io possa accogliere la vostra richiesta. Siete attesa altrove, il più celermente possibile”.

“Chi mi attende?”

Nemmeno quel quesito aveva ricevuto risposta: Emisu, divampata in piccolo fuoco smorto, aveva già raggiunto l’uscio, in attesa di esser seguita.
 

Tutto taceva.
L’Averno, di cui sempre aveva percepito la vita e l’essenza, sembrava adesso immobile, muto al suo incedere lento. La volta del cielo, nera e fumosa, appariva tetra e l’aria, pesante e umida, si appiccicava al corpo, alle narici, tra i capelli morbidamente acconciati in treccia ribelle.
Non un’anima incrociava la sua marcia, non un servitore l’accompagnava con lo sguardo, al riparo delle pareti nere. Le torce non ardevano, il vento non sferzava l’etere e, per questo motivo, il tanfo si era fatto miasma come al cospetto di cadaveri in decomposizione.
Essere ospite di quel luogo, al quale apparteneva ma che non possedeva a sua volta, la rendeva ansiosa, incapace di comprendere veramente ciò che la circondava: la preoccupazione si era fatta paura quando un lungo ululato aveva spaccato il regno dei morti.
Il primo era stato profondo, roco, di avvertimento, gli altri, invece, un misto di guaiti e uggiolii.
Cerbero puntava i musi verso le sponde, la coda rigida svelava il suo turbamento nell’aver percepito qualcosa tendersi verso il nucleo pulsante del dominio di Ade.
Nemmeno in quello stato, con gli occhi sgranati e il respiro leggermente accelerato, Persefone aveva osato rivolgere parola al fuocherello che la precedeva a quasi cinque braccia di distanza, né più sentiva il bisogno di invocare Ade in muta preghiera del cuore; le bastava rimanere in silenzio, tendere l’orecchio alla ricerca di quell’antico battito che sosteneva il regno delle ombre per coglierlo debole, quasi nascosto.

L’Averno taceva, astante silenzioso di uno spettacolo di cui sapeva essere la sfortunata protagonista.

Oramai immobile, a pochi passi dal suolo sacro che vedeva suggellato il patto tra Ade e il Fato in quella pianta oramai divenuta tronco robusto, percepiva distintamente come cento mani e cento corde e cento catene tirarla con forza.

Un ultimo passo e avrebbe varcato il confine.

 A distrarla,

solo un battito d’ali convulso.
 

°°°


 
 
Un barbagianni?
Il becco piccolo e affilato campeggiava al centro di un volto piumato e spettrale, bianco come un’anima trapassata.
Messaggero di cattive notizie, portatore di sventure, animale avernale dall’indole solitaria e macabra.

Demetra osservava impietrita l’animale al suo cospetto.

Mai aveva permesso che una simile bestia le si avvicinasse, mai era stato concesso a un simile mostro di poggiare gli artigli sulle messi, i prati, le sponde o i sentieri a lei sacri.

Eppure era lì, candido come una vergine, funereo come l’Averno dal cui cielo proveniva.
E la osservava, il disgraziato, la scrutava dal basso, silenzioso e immobile, in attesa di un cenno.

“Bestia dell’Ade, perché abbandoni la tua dimora? Perché ti presenti al mio cospetto lugubre come un morto?”.

“Mia dea” un verso, gracchiante e stonato, aveva accompagnato la mirabile metamorfosi, tramutandosi, infine, in armoniosa voce umana.

“Mia signora, voi che tanto mi disprezzate, apprezzerete, invece, quanto sto per rivelarvi. Vostra figlia è vittima di una cospirazione”.

Ascalafo, questo il nome dell’entità che aveva osato abbandonare l’Erebo, utilizzava giuste parole per turpi scopi: far leva sul cuore tormentato di una madre per ottenere riconoscenza.

“Cosa è successo a mia figlia?” Improvvisamente pallida, la dea un tempo maestosa, si era fatta presso al giovane e, a mani giunge sul petto, lo pregava per ottenere la conoscenza.

Ascalafo, figlio di Acheronte, dal naso appuntito e gli occhi piccoli e neri, sorrideva velatamente, compiaciuto dinnanzi alla miseria di quella.

“Vostra figlia verrà sacrificata all’Averno. La sua vita è posta su un piatto, di fianco al suo valore. Se non sarà ritenuta degna verrà consumata da colei che facilitò la sua discesa agli inferi”.

Vostra figlia verrà sacrificata all’Averno.
…verrà consumata da colei che facilitò la sua discesa agli inferi?

“Che cosa intendi? Ti prego, non capisco.”

Disperata e con le lacrime agli occhi, Demetra aveva afferrato la veste del mutaforma invitandolo a chiarire i suoi terribili dubbi.

“Vostra figlia già da tempo è legata all’Averno. Mani artigliate e violente hanno fatto scempio di lei, costringendola a ingerire le ardenti acque del Flagetonte. Ade, dinnanzi a quel tormento, ha deciso di recidere una promessa per suggellarne una più urgente: la vita di vostra figlia in cambio di un suo legame incondizionato all’Averno mortifero. La vostra innocente Kore ha bevuto l’ambrosia nera.”

Con le mani tremanti ora premute contro le labbra, la dea madre cercava di bloccare i terribili singulti che le scappavano feroci dal profondo del cuore; la furia, lo sdegno e il dolore le serravano la gola.

“Chi ha osato levare la mano su mia figlia? Ade forse? Per legarla a sé, privandola di qualsiasi possibilità di scelta?”

“Il mio signore le ha salvato la vita, quella stessa che Menta voleva sottrarle.”

Menta.

Con occhi di brace e voce cupa, la dea aveva posto una e una sola domanda.

“Chi è costei?”
“Una succube, mia signora.”

Silenzio.

Non aveva voluto sapere oltre, le labbra sigillate tra i denti testimoniavano un’ira cieca trattenuta a stento.

Ecco allora il legame, capiva adesso il perché di quella situazione.

Non era a Persefone che toccava l’ultima parola. Ella, già promessa all’invisibile, doveva venir scelta a sua volta. E poco contava il volere del fratello avernale.

Il sottosuolo esige una consorte all’altezza di sé.

Quell’amara constatazione, forse la più lucida nel caos del risentimento e della vendetta, aveva raggelato la dea.

“Vogliono metterla alla prova, pena il dissolvimento eterno, qualora fallisse…”

Il bisbiglio lugubre aveva accompagnato il volto in quella torsione verso il messaggero.

“Mia figlia verrà immolata alle acque, sacrificata se non asseconderà i voleri del Fato ancora una volta: è questo il tuo messaggio per me, terribile bestia? Con che coraggio ti mostri al cospetto di una madre disperata solo per acuire il suo dolore? Tu sai che sono impotente!”

Con gli occhi gonfi di pianto, aveva sollevato il dito contro il volto della sfinge: intimava la fuga.

“Fuggi lontano, Ascalafo, figlio di Acheronte, lontano dalla mia vista. Che tu sia maledetto, vincolato a quelle sembianze che si nutrono di morte!”.

Con quel castigo proferito a denti stretti, ella aveva osservato l’incerto volo dell’infausto messaggero e, con il passo lento di chi si rassegna, infine, alla sorte, si era rivolta verso la meta di ogni suo vano peregrinare.

L’avrebbe attesa a braccia aperte, al di qua della nera porta. 
 
Non poteva superare quell’angusta spelonca, il piede non poteva calpestare il suolo dell’Ade, lo sapeva bene, eppure l’avrebbe attesa lì, su quella soglia funerea;
come fa una madre,
sempre in attesa del figlio.

°°°

 

“Sei arrivata. Ti credevo già in fuga, alla ricerca disperata delle tuniche del tuo signore. Devo ricredermi.”

Avrebbe potuto riconoscere quella voce ovunque, anche travolta da una folla vociante, immersa nel peggiore dei caos.
Il suono stridulo di quella, lo strascichio melenso delle parole e il velenoso sibilo scolpivano nella mente turbata un solo volto:

Menta.

“Siamo in due a stupirci. Ben comprendo, ora, il motivo di questo fetore: eri tu, Menta”.

Cosa aveva detto?
Sei forse impazzita, Persefone? Quale demone dilania il tuo cuore innocente?

La dea, forte nella parola, ostentava, però, una sicurezza e una calma non sue: il sangue gelato nelle vene, le mani strette in pugni, il respiro placato a forza; tutto in lei svelava l’ignobile terrore che la vista della succube causava.
Non aveva dimenticato con che ferocia quella l’avesse trascinata verso il suo personale tormento, né, tantomeno, riusciva a sradicare da sé il ricordo della sua reazione nell’udire la sentenza scelta per il demone: aveva digrignato i denti quasi inconsapevolmente quando la voce cupa di Ade aveva pronunciato la pena.

Rinchiusa in eterno nel Tartaro”.

Quella condanna non aveva soddisfatto il mostro del suo cuore.

Anche questo l’aveva a lungo sconvolta.

“L’acqua del Flagetonte ti ha rivoltata come un cencio, bene”.

La succube aveva sorriso degna del peggior caino, i denti in bella mostra, gli artigli affilati minacciosamente puntati contro la dea.

“Il tuo posto non è qui, l’Averno, per mezzo di me, ti rifiuta. Abbandona questo terreno sacro o rassegnati al tormento. Questa volta nessuno interverrà in tuo soccorso”.

La minaccia, eco del turpe proposito di vendetta, trovava bieca conferma nella figura lugubre alle spalle dell’avernale.

Thanatos?

Voi? Cosa fate al fianco di una simile traditrice? Ella si è posta contro il sovrano del regno che voi servite”.

Sconvolta dalla vista del genio un tempo fedele ad Ade, Persefone aveva sgranato gli occhi alla ricerca di una qualche lucida spiegazione, invano.

“Mia signora, il mio voto è all’Averno. Non ho avuto altra scelta. Se un giorno sarete regina ben comprenderete il mio operato. Fino ad allora non preoccupatevi di me, il mio compito è giunto al termine”.

Svanito nel nulla dell’Averno nero, Thanatos lasciava la dea di superficie in balia di terribili pensieri.

“Se un giorno sarete regina?”
Non era forse già stato sancito dal Fato il suo legame con Ade?

“Qualcosa ti turba, piccola Kore?”

La succube ghignante, poneva quell’interrogativo con malcelata cattiveria.

“Non osare rivolgerti a me utilizzando quel nome. Ti avverto, Menta, le tue parole hanno un peso, proprio come le tue azioni. Non sfidarmi un’altra volta. Già in passato la tua opera si è rivolta contro di te; sono già sposa del dio che dici di onorare. La Terra ci vede uniti.”

Verde di bile, Menta aveva mosso feroce dei passi verso la dea,

“Tu non sei ancora regina, piccola stolta, e Ade non è il tuo sposo. Sei solo una misera bugiarda, come tutti quelli della tua razza!”

Uno sputo ai piedi di Persefone aveva concluso l’invettiva.

Tentando di tenere a bada quel cane bestiale che sentiva ruggirle dentro, la dea aveva modulato ogni parola, scandito ogni lettera con chiarezza, ferrea e razionale come il nero Erebo.

“Tu, misero essere, che ti rivolgi a un dio con infida cattiveria, con quale audacia mi dai della bugiarda?”

“I vostri riti di superficie non contano nulla qui, tra questa gente ignobile. L’Averno esige una sposa all’altezza del suo signore e io, Menta, la vera e giusta sovrana di questi luoghi, sono qui per porre rimedio a un tragico errore: quello della tua esistenza, Kore”.

Gelata da quella lacerante riflessione, Persefone, infine, vedeva comporsi davanti agli occhi i cocci di quella realtà capovolta.

L’assenza di Ade, Cerbero in vincoli, il lugubre incedere di Emisu, l’operato di Thanatos: ci si accingeva alla celebrazione di un sacrificio.

Molto probabilmente il suo.

“Il Fato ha gonfiato il tuo petto di odio, l’incarcerazione ti ha reso animale rabbioso, ma nessuno fugge dal Tartaro senza una ragione.
Non capisci, Menta? La tua morte sancirà il mio legame all’Averno”.

Lo sguardo vitreo della giovane dea, le parole profetiche in totale distacco dalla realtà, avevano scatenato l’ira della succube, incapace di veder oltre la linearità del Fato.

“La mia morte? Non hai proprio capito nulla, piccola sciocca.”

Aveva riso di gusto come quando si sente un’assurdità: la coda guizzava pericolosa a destra e a sinistra, mentre le chiome, terribili serpenti, sibilavano irrequieti.

Poi, l’aveva mostrata.

La mano sinistra, che sempre aveva tenuto dietro la schiena, rivelava il prezioso tesoro.

Meravigliosa.

Rosso brillante, lucida e dalla scorza dura, la melagrana, piena di succosi frutti, riempiva la mano nodosa della succube.

Emanava un profumo mischiato e sapeva di sole e luce e morte e terra bagnata.

“So per certo, stupida dea, che colei che si nutrirà di questi frutti diverrà consorte legittima dell’Averno e del suo signore. Ebbene, allora, ecco il mio invito ad assistere alla tua disfatta. Sarà un piacere poter godere del tuo dolore”.

Quasi blasfema, dimentica di un qualsiasi sentimento di rispetto verso la natura e i doni degli dei, aveva forzato la scorsa del frutto sacro rivelandone il contenuto fragile e prezioso.

Doveva forse assecondare l’impulso viscerale che la dilaniava dentro? Buttarsi contro quella, artigliarne le vesti, graffiarne il volto, mettere in salvo il suo dono?
A che sarebbe servito?

Come una profezia che si ripete ciclicamente nel corso del tempo, Persefone assisteva al ricordo vivido dell’ultima volta in cui aveva osato levar mano contro un demone in un regno che non era casa.

Il sorriso beffardo di Menta si era fatto smorfia sadica quando una manciata di chicchi profumosi era caduta sul palmo sporco.

“Alla tua”, aveva sghignazzato malata e poi, in un colpo secco, li aveva ingeriti tutti.

°°°

 
 
Due occhi.

Due occhi, opachi e stanchi, la scrutavano dall’alto. L’inquietudine trapelava da essi cristallina e lacerante, una nuova angoscia appesantiva il respiro, solitamente leggero.

Da quanto tempo la osservava?
 
La schiena doleva paurosamente, le gambe, scompostamente stese al suolo, presentavano tagli e tumefazioni mentre un generale intorpidimento le annebbiava la mente. Alcune ciocche rimanevano ostinatamente incollate al volto sporco e sudato, irritando, in questo modo, gli occhi gonfi e sensibili alla luce trasversale di quel posto.

“Emisu? Sei tu? Perché resti lì, immobile ed in silenzio?”

“Persefone…”

Quella voce, un tempo cara e amichevole ben oltre il vincolo del servizio, adesso le si rivolgeva quasi fredda e distaccata.

“Emisu, dove mi trovo?”

“Vi trovate nell’Averno, giovane dea di superficie, al di qua delle mura nere.”

“Cosa è successo?”

“L’Averno vi ha rifiutata e confinata: non siete più la benvenuta presso i luoghi sacri”.

Supplice ma regale, distrutta eppure non ancor spezzata, Persefone aveva chinato leggermente il capo.

“Capisco”.

Da tempo sentiva il corpo abbandonato stancamente contro quelle pareti di tenebra. Da tempo percepiva nascere dentro di sé la consapevolezza che un qualcosa di terribile aveva reciso ogni sua possibile felicità.
Dinnanzi a lei solo una brulla e aspra distesa fino al fiume traversato dal vecchio Caronte, alle sue spalle, in lontananza, la sacra terra che l’aveva vista nuovamente sconfitta.

“Dove si trova il tuo re?”

“Egli siede immutabile sul trono dell’Erebo, dal quale ode le preghiere dei mortali e dei trapassati”.

“Conducimi da lui”.

Il tentennamento dell’ancella era andato in frantumi dinnanzi alla sofferenza della giovane.

“Seguitemi, infelice, vi condurrò da colui che cercate.”

Ed era svanita, tramutata in piccolo fuoco, incapace di proferir verbo.

“Grazie”.

Cenci logori e sporchi mal celavano lembi di pelle tirata, violacea o, nel peggiore dei casi, imbrattata di sangue.

Perché?

Le mani sporche tentavano di ripulire alla bene e meglio quello scempio e più sfregava più le macchie si estendevano, e più le macchie si estendevano più lo strofinio si faceva convulso, sragionato.

Calma. Calma Persefone.
Non ha alcun senso perdere la testa.

Abbandonato qualsiasi tentativo di riguadagnare l’ordine e la compostezza, con fatica aveva imboccato la lunga via nera e, al termine di quella, al cospetto dell’immenso portone, la mano si era levata per bussare con forza.

Solo il silenzio come risposta.

Nemmeno chiamare il suo nome era servito a nulla.
Sordo, come l’Averno dinnanzi al suo tormento, Ade non l’accoglieva nei suoi domini né le offriva ospitalità.

Dimentichi, Persefone, il tuo fallimento?

Stanca delle occhiate, delle risate, dei motteggi osceni delle ombre che, in un lento logorio fatto di scherno e pietà, le mangiavano la dignità, aveva spinto quelle porte con tutte le sue forze, in barba ai dettami del rispetto: un gemito di grande sofferenza le era sfuggito dalle labbra…

… e maledizione a lei, maledizione a lei e a quell’azione compiuta.

Due troni di inimmaginabile bellezza si offrivano come comoda seduta ai sovrani dell’Averno.
Ade, capo cinto di severo metallo e spalle corazzate dalla pesante armatura da guerra, sedeva di fianco ad un essere dall’emblematica bellezza: non severità e rispetto per i caduti quanto piuttosto beffarda compiacenza illuminava quello sguardo.
Menta sedeva vittoriosa di fianco al dio di quei luoghi.

 “Tu.”

Il ringhio animalesco era sfuggito dalle labbra divine e spaccate.
Nessuno aveva rivolto lo sguardo verso di lei, misera e cenciosa.

“Tu.”

Occhi sgranati e iniettati di sangue tramutavano il bel volto in ghigno ferino.
Nessuno la percepiva, nessuno le rivolgeva la parola.
Menta, incoronata regina, sedeva fiera al fianco di Ade e, incurante delle preghiere umili elevate al suo cospetto, compiaceva con maliziosa intenzione, il suo sovrano.
A volte gli afferrava la mano, altre strusciava la testa contro la sua spalla, altre ancora allungava la mano dal bracciolo alla coscia fasciata dal serio chitone e dalla coscia muscolosa si spingeva ancora più in alto, assolutamente irrispettosa del luogo e della mansione sacra.
Il dio al suo fianco, ben lontano dall’imperturbabilità, anzi compiacente e bestiale, si prestava a quei giochi meschini.
Come davanti ai suoi occhi, poteva immaginarli già avvinti, stretti in un umido abbraccio perverso, giacere su quel letto che ella stessa aveva reso talamo insieme a quel sovrano di cui sconosceva le sembianze.
Mostruosi, terribili, ben lontani dal fulgore divino, i due regnati sprofondavano nella lascivia e nell’assoluto disinteresse verso quei compiti un tempo consacrati all’Ade.

“E’ questo ciò che desideri?”

Una voca, indistinta e fumosa, aveva annebbiato la sua mente, privandola di qualsiasi raziocinio.

“No, egli mi appartiene.”

“Non hai impedito che ella si nutrisse della vostra melagrana”.

L’Averno non legittima le mie azioni. Non ho alcun potere in questo regno”.

“Lo credi veramente?”

“Già una volta ella ha tentato di distruggermi, riuscendoci”.

“Tu l’hai permesso.”

Non è vero.”

“Il tuo cuore non è più innocente come quello di una fanciulla. Cuore di donna esso è nero, intriso di passioni e reclama ragione. Quando accetterai il fatto di non essere più Kore ma Persefone?”

“Chi sei tu?”

Il mostro che riduci al silenzio, il mostro a cui non dai una voce.”

“Furia?”

“Giustizia.”

°°°
 
 
 
Nessuno di loro aveva mai dovuto presenziare un rito simile, e questo non perché avessero cuore puro e nobile animo, anzi. Ognuno di quei volti esprimeva una preoccupazione, un’ansia, forse anche il ricordo di un antico timore, messo a tacere e nascosto nell’angolo più oscuro del cuore. Temevano, gli dei, quello che di lì a poco si sarebbe compiuto dinnanzi ai loro occhi; a mangiarli, il senso di colpa di sapersi illesi al cospetto di una dea punita ingiustamente.
Il sommo Zeus, ora col capo chino e coperto da uno spesso velo bianco, non proferiva parola e così, fiancheggiato dai fratelli, rimaneva in attesa del momento.  Solo Demetra mancava, cuore di madre sanguinante, la sapevano prostrata dinnanzi le porte nere, in disperata attesa della figlia.
 
“Sorella, ritorna alla vita.”

Con un cenno del capo e una folgore ad illuminare il cielo, Zeus si era infine chinato al cospetto del magnifico e solitario tempio e, dando l’esempio al suo seguito, con mano decisa aveva strappato all’ignobile sepoltura un pugno di terra.

Bisognava restituire Estia alla luce affinché il suo fuoco tornasse ad ardere. 

E in quell’incedere lento di divinità che con rispetto si inchinavano al suolo, il silenzio regnava sovrano; forse solo il respiro accelerato di Radamanto, invisibile a molti, imprimeva una certa nota di impazienza.
Il giudice avernale, celato dall’ombra della morte, osservava come un falco quanto si compiva ai suoi piedi. Ogni dio o dea del corteo si inginocchiava dinnanzi alla tomba sotterranea e, recitata una sacra invocazione, sollevava la terra per poi scagliarla lontano.
Anche lui avrebbe desiderato fare la sua parte, liberare il corpo che sapeva smunto e stanco da quella terribile condizione ma, ben conscio del grande dono che il suo dio già gli aveva fatto concedendogli di oltrepassare il sottosuolo,  rimaneva rigido, fermo, immobile; a stento sollevava il busto nel mimare l’atto della respirazione.
Perché lui era morto, e viveva una vita resagli da quella dea.
Ecco il secondo dono.
 
Tempo dopo aveva parlato il dio dell’Averno, colui che a ognuno il giusto dispensa:

“Pura sorella, il nostro benvenuto al mondo. Perdona…perdona se puoi il passato scellerato.”

Pochi bisbigli, il capo chino: egli, a nome dell’assemblea, porgeva la mano che avrebbe aiutato la gracile dea nel suo ritorno all’etere fresco.

Simile ad una bella stella, Estia poggiava il piede sul suolo a lei sacro, luminosa e piena di vita nuova. Un gemito di sollievo il saluto degli astanti al suo cospetto.

Il sorriso accennato, profondi solchi intorno agli occhi, vesti sfolgoranti su un fisico debole: tutto in lei palesava una contraddizione. Toccata dall’infamia e dal tormento, rinasceva dopo patimenti inimmaginabili, eppure irradiava bellezza.

I capelli corti, scomposti, sferzati dal vento fresco che l’accoglieva al mondo, incorniciavano un volto pallido e vibrante, come accesi erano gli occhi enormi e verdi.

Afferrata la mano del fratello, aveva lasciato alle sue spalle il loculo.

“Perdono me stessa, caro fratello. Mi perdono di tutto”, uno sguardo laterale aveva sfiorato il volto di Zeus per poi riorientarsi su quello del maggiore.

“A voi devo il ribaltamento della mia sorte. Grazie.”

Un bacio sulla guancia del signore nero suggellava il rito mentre un suo bisbiglio, precluso a tutti, le inondava il cuore:

“qualcuno è al mio fianco e gioisce di nascosto”.
Un sorriso materno, capace di contagiare gli occhi, aveva oltrepassato l’avernale, cercando nel buio delle tenebre spettrali finanche l’ombra di quell’essere che tanto aveva desiderato.

“Grazie, fratello”.

“Concludi il rito, cara sorella, tu stessa consacrati alla terra: gira intorno al focolare tre volte e raggiungi il trono olimpico”.

“No. No, caro Ade.” Dicendo questo aveva rivolto uno sguardo anche al resto delle divinità convenute,

“Non esigo né pretendo né desidero alcun trono. Estia, la dea che avete conosciuto in passato, è morta, uccisa da patto ingiusto sancito con inganno.
Ma ecco, fratelli, la dea che avete davanti è viva, piena di una nuova grazia.
Nessun vincolo impedirà alla mia fiamma di ardere e questo fuoco, da sempre confinato in bracieri, arderà vivido solo per coloro che si doneranno completamente al valore che l’alimenta: la famiglia.”

In piedi, piccola e solenne, ella aveva mosso i primi passi verso il suo immenso e non più desolato tempio.

Non si udiva più alcun tintinnio di catene,
le pesanti cavigliere erano oramai svanite.
 
 

°°°

Che sapore ha un dono destinato ad altri?”
Dimmi, succube, che cosa senti nelle viscere?”

Occhi sgranati e lingua dolciastra, Menta osservava stupita e ghignate la dea al suo cospetto.

Ignorava cosa avesse avuto luogo dietro le palpebre divine, sconosceva cosa la sua vittima avesse visto nella rivelazione di una qualche profezia, trascurava la forza con la quale il mostro nel suo cuore si dibatteva in cerca di giustizia, cruda e apodittica.
 
“Oramai è tardi per pentirsi, giovane dea. Arrivi tardi, il tuo dono è profanato”.

“Già.”

Gelida, Persefone scrutava i resti del dolce frutto rosso.

“Senti forse il rimpianto di esserti intromessa in un mondo non tuo?”

“Il sottosuolo mi appartiene. La terra che calpesti è mio dominio, l’aria che contamini è votata a me come l’Averno che adesso mi abita; il frutto che tieni stretto tra le mani, rendimelo, adesso”.

Un ringhio demoniaco aveva fatto vibrare l’etere.

“Non hai ancora compreso quanto inutile e insulsa sia la tua presenza qui? Quanto ancora vorrai illuderti di essere la dea di questi luoghi?”

“Tu”, il braccio, sollevato di scatto, sosteneva l’indice puntato contro l’essere avernale in una posa sacra e terribile.

 “Tu, china il capo al cospetto della tua signora”.

“Tu non sei…”

Prima che la voce compisse la frase, prima che il ringhio si facesse ruggito, ecco una forza calarsi imperiosa sul collo della succube, costringendola ad un inchino sofferto.

“Io sono Persefone, sovrana dell’Averno che tormenti. Abbandona questi luoghi prima che la mia condanna ti colpisca: che il tuo piede si muova lesto e celermente abbandoni il suolo a me sacro, pena il dissolvimento. Questo è il mio volere”.

Intimorita, quasi sconvolta dal tremore che sembrava pervaderla dal fondo di una coscienza che non ricordava di aver mai posseduto, Menta aveva sibilato il suo odio ancora una volta ma quella, ferrea, inamovibile e impenetrabile si limitava ad osservarla.

“Va’, prima che sia tardi: rendi meno aspra la tua sorte, Menta”.

Forse per l’aria che sentiva pungente e gelida trapassarle le carni, forse per lo sguardo vitreo della dea animata da un vigore spettrale, forse per la voce che continuava a risuonare nella mente come imperativo categorico, la succube si era data alla fuga.
E aveva corso, follemente e disperatamente, lasciando al suolo la melagrana violata al cospetto della regina avvolta di nera essenza.
Risaliva la brulla distesa, oltrepassava le mura accompagnata da scherno e vergogna e giungeva infine presso le porte dell’Ade, dove il sottosuolo diventava terreno ma, quando il sollievo di una condanna scampata iniziava a gonfiare il petto di tracotanza, lì, sulla terra dominio degli olimpici,

era stata colpita.

Accartocciata, rattrappita, ricurva e piegata su sé stessa, gemeva il suo nome e la sua pena ingiusta. Non distrutta, non svanita, non ritornata alla polvere nera che l’aveva generata ma viva e rigogliosa rimaneva immobile e impotente.

E quando il braccio si era tramutato in arbusto, il sangue in linfa e il vento iniziava a sibilare tra le sue fronde, ecco udibile solo un rumore, il vago ricordo di un nome.
Menta
 


Due occhi.
Due occhi, cerchiati da profonde occhiaie, la scrutavano dall’alto.
L’incredulità trapelava da essi con forza vibrante: uno strano sdegno accelerava il respiro, solitamente calmo.


Al suo cospetto un arbustino verde brillante dal profumo intenso.
Stupita, Demetra lo aveva scrutato con cipiglio attento alla ricerca di una spiegazione per quell’improvvisa presenza ma, quando il vento aveva soffiato e un nome, quel nome, aveva riempito la sua mente, ecco la verità sradicare ogni timore.  
L’attesa della madre era stata ripagata e mentre il cuore si riempiva di sollievo per le sorti della figlia, le viscere si contorcevano per l’odio nutrito nei riguardi di quell’essere di cui ora poteva ammirare la terribile condanna.

 “Menta, colei che offese la mia bambina, giace per sempre alle soglie dell’Ade, profumosa in onore della dea che disonorò, sterile per volere della madre privata troppo presto della figlia.

Questo il sugello finale della tua maledizione.”
 
 


 
 
Nell’Averno, spettrale e giusto, ora sazio e soddisfatto, Persefone raccoglieva il povero frutto.
Se ne era fatto scempio eppure lo sentiva ancora, vivido e pulsante tra le mani.
Sei chicchi superstiti, raccolti uno ad uno, nutrivano e addolcivano il cuore inasprito dalla violenza, restituendo pace e offrendo un posto.
Per ogni grumo rosso che assaporava sulla lingua, un senso di lei si acuiva, offrendole uno spettacolo inimmaginabile: l’Ade le si schiudeva dinnanzi come un magnifico fiore.

La regina dell’Averno era stata consacrata.






L'Angolo di Avareil
Eccomi qui, il 21esimo capitolo scioglie i nodi... e adesso viene il bello.
Estia e Radamanto, Ade e Persefone, siamo alle ultime battute.
Ma vi assicuro, non sarà una fine. 
Nella speranza che quello che avete appena letto vi sia piaciuto, vi rivolgo il mio più affettuso saluto, sempre ricordandovi che avere la possibilità di sapere che cosa pensate è un ottimo incentivo per la fantasia e l'autostima.
Un bacio e a prestooo
Avareil

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 20 ***


A caro prezzo


“Dannazione!”
Il pugno aveva colpito con forza l’altare di marmo ed una scossa, di pura e bianca elettricità, si era infranta contro il cielo stellato.
Secoli.
Era da secoli che non sentiva quella sensazione logorargli le viscere:
marcio senso di colpa.
 
Zeus, l’ultimo dei fratelli, il primo scelto dal Fato per amministrare il Cosmo, teneva saldamente il bordo di quella lastra solita accogliere preghiere, banchetti sacri e libagioni; cercava un punto che lo sostenesse, le gambe stranamente deboli.
La colpa, bestia dalle cento bocche, a poco a poco rosicchiava lo stomaco, il fegato, le interiora:
bussava alle porte del cervello l’amara consapevolezza che le azioni sconsiderate compiute in passato, prima o poi sarebbero state pagate. Il Fato, che nulla dimentica, come un gentiluomo avrebbe esatto, da lui o altri, il giusto tributo.
Un riso amaro deformava il volto barbuto:
uno stolto avrebbe trovato giustificazione negli infausti natali.
Un illuso si sarebbe fatto scudo con il tormento provato per colpa del parricidio subito: ma Ade? Estia? Era, Poseidone? Forse che gli altri avessero avuto in sorte natali più clementi? No.
Tutti avevano patito lo stesso destino eppure lui, lui solo, otteneva da millenni ciò che il suo cuore bramava.

Era aveva desiderato un matrimonio felice, egli una bella regina.
Aveva vinto lui.
Ade era stato tacciato di tradimento e condannato all’esilio.
Lui aveva avuto in sorte il cielo.
Estia, buona e cara, si era fatta trarre in inganno da promesse alte e sacre.
Egli si era assicurato il trono, in eterno.

La mano sudata, stretta ora intorno al boccale d’ambrosia, mal celava il legittimo nervosismo.
 “Posso venir meno alla mia parola? Posso mutare quel patto senza esiti funesti… per me?”

“Si, solo gli sciocchi non cambiano idea”.

“Si, altri potranno essere i vantaggi di una simile scelta, pensa alla gloria, al rispetto che potresti riguadagnare”.

“Si, se non desideri la guerra con il regno delle ombre che tutto, infine, divora”.

Una domanda, tre risposte.

Ad occhi chiusi era come averle lì davanti, impregnate di fumi sacri e velate dall’etere mistico.

Proto, Lachesi e Atropo, imponenti, si ergevano al suo cospetto, pronte a offrire risposte sibilline alla sua sofferenza.
La più anziana, curva, rattrappita e con gli occhi lontani velati dalla cecità, veniva sorretta da Lachesi che, attenta, puntava gli occhi di falco sul volto turbato del sovrano. Atropo era invece distante dalle due, avanti, quasi a un braccio di distanza dal divo olimpico: era stata la più cruda, la più schietta; bambina diabolica.

“E se ella decidesse di generare prole?”

“Non può, egli è morto e con lui la possibilità di creare una discendenza”.

“Potrebbe, forse, o forse no. A quel punto occorrerebbe un nuovo voto, una nuova promessa. Lo Stige non l’accoglierebbe”.

“Pensi sempre e solo a te stesso, ai tuoi interessi, ai tuoi vantaggi: forse la guerra te la meriti”.

Nuova stoccata.

Atropo avanzava ferrea, la coda severa e lunga ondeggiava mollemente al suo incedere, l’espressione sdegnata la rendeva temibile.

“Prima che tu possa continuare col tuo comportamento insensato, sappi una cosa, sommo Zeus: una sola domanda ti è concessa, tre risposte verranno offerte. Ognuna di esse schiude un destino: sceglilo e Proto lo filerà per te, Lachesi lo tenderà ed io, infine, lo reciderò, a tempo debito. Ma adotta un comportamento ragionevole. Non viviamo in un mondo di caotiche matasse, tutto ha un ordine, tutto può essere disfatto. Sei un dio, Zeus.”
Non era passato molto tempo, la riflessione non era stata accurata, le parole avevano lasciato il palato prima di un’attenta analisi:

“Ade muoverebbe veramente guerra?”

“E’ questa allora la tua domanda, sciocco re?”

“Ebbene…”

“Si, la sua parola è vincolata allo Stige”.

“Si, egli non mente mai”.

“Si, il suo destino era opera nostra e del Fato che ci governa. Ma la sorte di Estia era costruita, plasmata da mani avide: il suo destino è reversibile. Ma se non ti fidi…”

Seccata dalla domanda banale rivolta a lei e alle sagge sorelle, Atropo, si era prostrata al suolo e con la piccola mano aveva colpito con forza il pavimento splendente.

“Che state facendo?” Zeus, incredulo, le si era fatto di fianco e, con l’accondiscendenza che si mostra ai bambini, aveva chiesto delucidazioni.

“Un colpo è saluto all’Averno”.

“Due colpi sono preghiera”.

Ella lo aveva guardato con occhi stretti e cattivi,

“Lascia che la mia mano colpisca il suolo per la terza volta: tre colpi invocano il nero dio. Potresti chiedere tu stesso quali siano le sue intenzioni in caso di rifiuto.”

“Ferma”, repentino, il dio aveva afferrato il braccino della bambina ma prima che gli fosse permesso di pronunciare alcun verbo, ella era già sgusciata via, ora al fianco delle sorelle impassibili.

“Avete timore della sua sola presenza, come potete pretendere di combattere contro di lui una guerra?” Proto, la vecchia, aveva posato una grinzosa mano sulla spalla della più giovane delle tre e allo stesso modo aveva fatto Lachesi: un intreccio di braccia sulle spalle del futuro.

“Modifica il patto. Ora, subito. Grandi saranno le glorie”.

Il coro delle tre immutabili era stato spezzato da Lachesi che, con un sorriso da fiera, aveva ghignato dispettosa,

“Almeno maschererete ai più la vostra vera indole avida e codarda, Apómuios”.

Scaccia-mosche.
 



°°°
 


Disperazione, dolore, impotenza.
Le uniche forze rimaste l’avevano sostenuta durante la vestizione: lunghe vesti nere, vesti da lutto, da lacrime e lamenti, le avvolgevano il corpo ora magro, ora smunto, un peplo funereo in segno di pietà veniva posto sul capo adorno di ciocche scomposte, mani fredde nascoste da lunghe maniche.
Col volto esangue rivolto al suolo aveva iniziato un lungo cammino di preghiera e sofferenza verso quel tempio che, brillante e imponente nella sua bellezza, aveva invece rappresentato la disfatta della sua povera bambina.
Perché Demetra sapeva, aveva sempre saputo che ruolo avesse giocato la temibile sorella in quel terribile piano ordito dal Fato.
Eppure, il cuore che pompava lento, il respiro sottile che si riversava nella brezza calda rivelavano la sofferenza di una madre, la rassegnazione di una donna: la sua esistenza era impregnata dal fetore del tradimento.
Zeus, colui per il quale ella aveva sacrificato la verginità e il pudore, l’aveva tradita, rimpiazzata in poco tempo e, a sua volta, quell’unione che dava i natali alla piccola Kore, era stata la celebrazione di un amore fedifrago e ingiusto.

In un gioco perverso in cui famiglia significava tradimento, che diritto aveva lei di biasimare Era?

Ma quello era il passato, terribile ed atroce, ben diverso dallo scenario che la sorte ora le prospettava.
Persefone aveva deciso di abbracciare l’Averno di sua sponte, senza costrizione alcuna e, tracotante nella sua giovinezza, aveva urlato le proprie intenzioni dinnanzi alla sacra platea.

Crack

Un dolore lancinante al cuore le aveva spezzato il fiato, i piedi, lenti e pesanti, fiancheggiavano distese d’erba ingiallita: faceva caldo, troppo caldo rispetto al clima mite e fresco di cui la vegetazione si era beata al cospetto di Kore.

Sarà felice?
Sarà rispettata?
Sarà trattata con i giusti onori?
Almeno lei…sarà amata?

Cuore di madre, Demetra si tormentava lungo la marcia accidentata e sofferta: un percorso spirituale che doveva compiere, un imperativo morale.
 
“Non osare”.

“Sorella”.

“Non osare presentarti al mio cospetto, Demetra”.

Resa immobile da quel monito pregno di ira, la dea delle messi aveva arrestato il passo dinnanzi alla soglia dell’immenso tempio.

“Sorella, vi prego”, Demetra, col capo coperto e chino al suolo, aveva supplicato la maggiore mentre le mani, giunte sul petto, erano le testimoni di un cuore penitente.
 
 “Perché ti presenti al mio cospetto, supplicante e col capo coperto da un velo nero? Sei forse in lutto, cara Demetra?”,
piccata e velenosa, Era aveva accolto presso la cella privata la povera divinità: non si era alzata dalla comoda seduta in segno di rispetto e anzi, placidamente scomposta l’osservava con un cipiglio sdegnato.

“Sai bene perché sono qui, sorella”.

“Smettila di chiamarmi in quel modo, hai perso il diritto di definirmi una tua parente”.

“Divina Era, sono qui, in ginocchio presso i vostri altari…”

“Come siamo formali adesso…”

“Adesso smettila!”, Demetra aveva urlato al culmine della disperazione,

 “non è della tua ira che ho bisogno! Persefone ha chiesto la tua protezione un tempo, e l’ha fatto come giovane, fuggiasca e novella sposa, dunque ti chiedo, sorella, ti prego
di concederle almeno la tua benedizione affinché queste nozze, che tanto mi addolorano, portino gioia a lei che le celebra”.

“Ecco il motivo della tua visita”.

“Non… non è solo per questo che sono qui al tuo cospetto”, mesta, la dea, aveva chinato il capo al suolo e in un nuovo sussurro aveva pronunciato delle scuse.

“Come dici? Non credo di riuscire a sentirti”.

“Sei insopportabile!” Nuovamente indispettita dal comportamento arrogante della signora dei cieli, Demetra si era tirata su e in due falcate l’aveva raggiunta: gli occhi verdi di lei immersi in quelli marroni e un tempo dolci di quella.

“Ti domando scusa, ti chiedo scusa. Imploro il tuo perdono per il gesto terribile compiuto alle tue spalle, sorella. Mi dispiace… ma adesso è per la mia bambina che ti prego, in nome di quella ti imploro: rivelami la tua decisione”.

“Mi fai pena”, gli occhi tremolanti di Era, oramai rivolti altrove, a stento riuscivano a mascherare la sofferenza che le albergava da secoli nel cuore.

“Sorella, Persefone è mia figlia”.

“E’ figlia di mio marito!”

Un urlo strozzato aveva fatto da sottofondo ad un sonoro colpo, uno schiaffo scagliato con disperazione sul volto della supplice.

“E’… mia figlia. Anche tu sai cosa significhi esser madre. Viene prima di tutto, viene prima di tutti. Perdonami”.

Era, incredula per quanto compiuto e silenziosa per colpa di quello strano vuoto che sentiva aver preso il posto dell’ira furiosa, osservava la dea al suo cospetto, in lacrime e penitente.

 “Estia, nostra sorella, era giunta già in soccorso della tua Persefone. Ho donato un melograno che se seppellito, curato e bagnato da acque pure, germoglierà nel legame tra vita e morte. Ella dovrà mangiarne e solo allora diverrà parte di quel regno, legittima consorte”.

“Questo me la porterà via per sempre?” con la voce adesso tremolante, Demetra aveva stretto tra le proprie le mani della sorella.

“Questo la renderà regina. Ade sarà lo sposo e l’Averno la dimora sacra rischiarata dal fuoco domestico che già Estia aveva donato in passato”.

“Ma Ade…”

“Ade non è l’essere spregevole che innumerevoli volte ci è stato narrato: apri gli occhi sorella, un terzo tradimento spacca la nostra famiglia. Zeus ha ingannato tutti noi e la nostra colpa sta nell’esserci fatti ingannare”.


Un altro schiaffo, questa volta scagliato dalla dea verità.
 


°°°
 
 
“Sapete, non credevo vi sareste schierata così apertamente. Mi avete piacevolmente stupito, mia signora”.
Ade, perso nelle sue riflessioni, giocava distrattamente con una ciocca arruffata e umida della dea amata, il cui capo giaceva mollemente sul suo petto.
Un mugolio infastidito aveva fatto da preambolo alla risposta assonnata,

“Non sono più la giovane Kore che avete conosciuto presso il tempio di Akragas, sovrano della morte. Sono stanca di inseguire un Fato disegnato per me da altri. È giunto il momento che mi assuma la responsabilità delle mie scelte”.

Sbadiglio poco aggraziato,

“e io ho scelto voi, per la superficie il nostro è già un vincolo. La mia parola è ferrea quanto la vostra”.
Con il cuore calmo e lo sguardo argento liquido, Ade aveva lasciato un bacio sulla fronte della dea, ora sollevata e intenta a fissarlo con sguardo adorante.

“Che faremo oggi, mio sovrano?”.

“Io mi recherò presso le camere del tempio. I miei sudditi esigono un sovrano. Da molto tempo trascuro i miei doveri e l’Averno non è un regno che possa essere lasciato in balia di sé stesso per troppo a lungo. Voi, invece, vi riposerete qui, su questo letto e non vi alzerete fino al mio ritorno”.

“Mmmm”, imbronciata, la dea si era fatta più vicina a quel corpo che sentiva sfuggente,

 “Lasciatemi venir con voi”,

“Rimanete e riposate. Ben presto sarete la signora di questo postaccio e il lavoro sarà incommensurabile. Riguadagnate le energie in vista di allora”.

Con un bacio provocante e dolce, egli si era alzato dal letto, rivestito di un semplice gonnellino di pelle nera.

“Non esiste alcun modo con il quale poter corrompere il sovrano nero?”

La domanda retorica, pronunciata con impudica malizia, aveva innescato una reazione di fuoco nel dio che, immobile e di spalle, aveva stretto le mani in pugni nel vano tentativo di placare l’istinto di farla sua lì, immediatamente. Una risata, un ringhio roco era sfuggito dalle labbra schiuse in sorriso:

“Cosa ne avete fatto della pudica Kore?”

Accattivato da quel gioco provocante, Ade si era nuovamente avvicinato alle coltri morbide in cui ella giaceva fino a sporgersi sopra di lei con fare predatorio.

“Credo che la piccola Kore si sia persa per sempre dentro la vasca da bagno, o presso il vostro altare o, ancor prima, su quel letto che mi vedeva in balia del fiume ardente: avete preso voi l’innocenza di Kore, e quella ha lasciato il posto a Persefone, colei che avete davanti.

Persefone degli altari oscuri”.

A quello strano epiteto le iridi del re si erano fatte nere, intrise di rancore e odio per quel misero essere che aveva osato etichettarla in quel modo.

Dillo che in realtà ti piace, dillo che, in fondo, le dona quell’epiteto, la rende tua. Solo tua.

“Ho rovinato la vostra reputazione”.

Quanta coscienza nel sovrano dell’Erebo?

“Mi avete reso quella che ero destinata ad essere. Io sono Persefone degli altari oscuri, perché quelli sono anche i vostri”.
Quel sorriso, ora spoglio della precedente malizia e rivestito di semplicità, gli aveva restituito la fanciulla che aveva conosciuto un tempo presso il concilio sacro.

Ella mi appartiene.

“Sapete, gli dei dell’Olimpo avevano ragione: sono un egoista, un dannato egoista, e voglio tutto. Voglio Persefone degli altari neri e voglio Kore, la dea primaverile e florida.
Siete una donna, la vostra natura è duale come la femminilità che incarnate. Il vostro corpo, che in potenza ospita la vita, rappresenta il mistero del fiore e del seme. Voi siete la dea speculare e complementare del mio regno”.

Un nuovo bacio era stato posto a sigillo di quella nuova dichiarazione.

“Riposatevi adesso”.

Facendo forza contro sé stesso, Ade si era infine allontanato dalla bella e, rivestito di abiti regali, aveva imboccato la via d’uscita.

Solo quando il piede aveva sfiorato l’uscio, era stato richiamato da una domanda posta con apprensione

“Quando?”

“Quando cosa, mia signora?”

“Quando diverrò la vostra sposa?”.

Si era voltato quel tanto che bastava per scorgerla in ginocchio sull’immenso letto, con le mani giunte sul petto a sorreggere la leggera coperta.
“non appena Estia sarà restituita alla luce voi diverrete mia e l’unico nome che le vostre labbra pronunceranno nelle preghiere notturne sarà il mio”.

Con quella promessa aveva lasciato le camere.
 



°°°



L’esperienza, crudele maestra, le aveva insegnato da tempo che alcuni esseri, nella loro infinita imperfezione, non erano capaci di alcun miglioramento e colui che, con spavalderia, occupava il suo orizzonte visivo, rappresentava interamente quella categoria di irrecuperabili e squalificati.
Il minore degli olimpici, Zeus, aveva varcato le soglie del tempio giunonico senza chiedere permesso, senza rivolgere saluto alcuno e, fiero e dritto, aveva raggiunto le due dee riunite in un abbraccio di conciliazione.
Ecco che la breve pace veniva immediatamente messa a dura prova dall’unico soggetto capace di distruggere ciò che fosse finito sotto il suo tocco.

In tre, presso la sacra cella privata, ora stranamente piccola e dall’aria soffocante, si erano osservati a lungo ed in silenzio.

“Marito”.

“Mia regina”, brevi cenni del capo avevano accompagnato quel saluto gelido tra divinità maggiori, poi, l’impudico saccente, aveva saettato un mezzo sorriso all’altra, madre di sua figlia Persefone.

“Demetra cara, sei l’ultima persona che credevo di trovare presso questi altari”,

una breve pausa aveva anticipato la nuova riflessione,

“è un bene trovarvi riunite, sorelle, perché oggi è necessario il compimento di una scelta e voi sarete le mie testimoni”.

Trepidanti nel cuore, le due dee avevano drizzato le orecchie, nuove speranze le rianimavano:

“Estia?”

“Hai deciso, marito? Salverai la sorella?”,

“Si. Estia verrà liberata, sarò io a scioglierla dal vincolo”.

“E’ giusto, fosti tu a imprigionarla”, la velata frecciata scagliata da Era non aveva però raggiunto il bersaglio: Zeus non l’aveva sentita, perso com’era in riflessioni oscure.

“Zeus, non nasconderci nulla: cosa hai visto? Cosa sai che non vuoi dirci?”.

“Il fatto che io la liberi non la rende automaticamente salva. Quella Estia, tradotta in catene sottoterra, è impura, macchiata dalla colpa, toccata dalla sventura di un patto infranto. Dovrà patire il peggiore dei dolori per rimediare alla peggiore delle colpe”.

“Ma ella sta già patendo pene indicibili!”

“Tu non immagini quanto superiore sia il tributo da pagare”.

“Zeus, ti prego…”.

“Ella dovrà partorire la propria colpa”.

Quella sentenza, assurda ed irrazionale, aveva riempito d’angoscia la cella.

“Partorire? Ella è pura, il corpo intoccato. Come può?”, Demetra, sconvolta, cercava una qualche spiegazione nello sguardo vitreo del fratello.

“Il suo corpo e il suo animo subiranno il dolore del parto, ma ella non genererà vita, non creerà una discendenza. Il suo reato è malattia che l’animo cercherà di espellere.
Sarà atroce e sarà sola. In questo modo il debito verrà ripagato e, nuovamente pura, verrà condotta presso l’Olimpo”.

Un conato di vomito aveva scosso la regina mentre Demetra, esangue, asciugava occhi inconsolabili col peplo nero.
Entrambe conoscevano il dolore di un corpo violato, entrambe sapevano quanto atroce potesse essere per una dea partorire vita: corpi immobili da millenni, forzati da alieni interni, sangue del sangue, un parto che squarcia dal di dentro e che solo nelle urla del bambino trova la propria estinzione.
Ma ella sarebbe stata sola, prima, durante e dopo quel parto dello spirito, con alla fine nulla di più di ciò che le era stato ingiustamente sottratto.

Il corpo puro, l’animo lacerato: quel dolore come eterna memoria della colpa.

Quale colpa?


 L’essersi fatta ingannare.


°°°


 
Ade sapeva.
Percepiva chiaramente che qualcosa di oscuro e maligno aveva varcato le soglie del neutro Averno.  
L’aria, elettrica e pesante, ne era testimone, così come l’odore acre di zolfo ed escrementi si appiccicava sulla pelle, sul volto, risaliva dalle narici al cervello, distogliendo da lucidi pensieri.
Le ombre, silenziose guardiane dei suoi domini, rimanevano celate al buio, negli anfratti delle immense dimore avernali, nei corridoi lunghi e mal illuminati; immobili, pronte all’assalto.

Attendevano qualcosa.

Cosa di preciso, non era dato sapere.

Il triplice ululato aveva squarciato il silenzio della morte, Cerbero segnalava il pericolo.
Per questo motivo, abbandonate le calde lenzuola, spinto da quella stilla di terrore che sentiva pulsare nella mente, aveva raggiunto i fedeli giudici. Solo uno di quelli era assente.

Ma quello, almeno, lo sapeva.

“Eaco”, la voce del re aveva accompagnato il tetro ululato, anche quella ugualmente cupa e in allerta.

“Mio signore”.

Egli lo aveva accolto con una reverenza del capo e poi, turbato, aveva rivolto lo sguardo anziano altrove.

“Parlate”.

“Ebbene…”
 
 
Il silenzio aveva colmato il dio nero.
Un silenzio attonito, sconvolto, turbato.
Gli occhi, sgranati e vitrei, vagavano vuoti per la cella nera, evitando la figura dell’anziano giudice addolorato.

“Il piede di colei che cercò di strapparmi la mia sposa, vaga insolente per le mie lande. Il respiro fetido di quella succube appesta la mia aria. Il mio seguace, la morte, le fa da guida.”

“Si, sire”.

“Era stata rinchiusa nel Tartaro senza esitazione e ora, invece, ella cammina beata per il mio regno, diretta alle mie sponde?”.

Sembrava il discorso di un folle, un folle che tenta di capire la follia che lo circonda.

“Si, sire”.

“Menta è stata lasciata fuggire, nel mio regno…”

Un ulteriore cenno del capo aveva segnato l’inizio della degenerazione.

Il ringhio disumano aveva squarciato il silenzio, mentre la bestia dentro il dio iniziava a scuotere le catene della pacatezza: non era più essere di ragione ma demone intriso d’odio. Il pugno serrato aveva colpito con furia l’altare scaraventando al suolo ogni genere di offerta; il fumo di miele dolciastro non ammansiva il mostro e gli occhi, un tempo grigi nube, ora erano neri, senza un briciolo di ragione che li illuminasse.
Oltre la furia, oltre la rabbia, Ade incarnava l’Averno, giusto e folle, onnipotente e leso; bile, veleno disgustoso, gli riempiva lo stomaco, risaliva per la gola, diveniva miasma in bocca dove denti affilati facevano capolino dietro labbra arricciate in ghigno.

“Tu sai perché ciò avviene, vero Eaco?! Non sei uno stolto come non lo sono io. Entrambi abbiamo capito il volere del Fato”.

“Non potete opporvi, mio re. Quella alla quale tentate di resistere è una sorte ben più antica di qualsiasi dio. Era già scritto. Potete solo lasciare che ella l’affronti.”

“Io l’ho già scelta”.

“Voi l’avete scelta come regina e l’Averno l’ha salvata dalla morte ardente; ma non di sola bontà respira questo luogo. Se quella dea non saprà amministrare castighi e penitenze, allora non sarà adatta a sedere di fianco a voi”.

Eaco, capo chino e mani giunte sul ventre, aveva mormorato quel consiglio al cospetto del dolore del dio del nero eterno.

“Bene”.

I passi erano stati lenti, calibrati, la suola dura batteva contro il pavimento lucido.

In silenzio aveva raggiunto lo scranno marmoreo e con un gesto marziale aveva indossato la corona di metallo intrecciato e opaco.

Solenne, maestoso.

Morto e vivo allo stesso tempo.

“Che lei non sappia nulla. Che nessuno si intrometta. Se è questo ciò che il Fato ha in serbo per lei, così sia ma…”

A quel punto gli occhi di brace del sovrano avevano folgorato il giudice al suo cospetto,

“Se è questo ciò che esige l’Averno che oltrepassa il mio volere, bene. Ma si osi levare una mano contro di lei e i cancelli di questo regno rimarranno sbarrati e un fiume di anime si riverserà sulla luminosa terra.
Questo è il mio disegno”.

“E se foste proprio voi a ferirla?”

Un perentorio gesto della mano aveva messo a tacere il primo dei giudici.

“Come volete, signore”.

Eaco, con un inchino, aveva lasciato le sale di Ade.
 


°°°


 
La prima fitta l’aveva immobilizzata più di quanto non facessero le corde strette intorno ai polsi e alle caviglie.
La seconda, terribile, lacerante, aveva mozzato il respiro, contratto le interiora, fatto digrignare i denti fino a farle sentire lo sconosciuto e amaro gusto del sangue.
Le altre, penetranti e dolorose, erano state solo un infierire su un corpo inerme e indifeso.
Le urla soffocate, mimate da labbra spaccate e secche, i tremiti, le convulsioni, le mani artigliate e aggrappate alle corde che la imprigionavano, facevano da sfondo ad un tormento di cui non riusciva nemmeno ad intravedere l’inizio o la fine.
Al cospetto della dea incatenata sull’altare votivo vi erano il passato, il presente e il futuro, invisibili testimoni di quella pena risanatrice dello status quo ante.
Nessuno, divo o essenza, le aveva spiegato alcunché: nel buio della cella mani nere l’avevano afferrata e stretta, trascinata in silenzio verso un luogo che mai aveva né visto né percepito e più le domande e le urla si facevano ruggiti di dolore, più quelle mani stringevano e spingevano.
Un bisbiglio pronunciato da chissà quale essere, infine, l’aveva accolta nel suo personale inferno:
 
“Resisti e la tua colpa sarà espiata”.


Poi tutto aveva avuto inizio.
 
Lachesi, occhi stretti, Proto col capo rivolto al suolo,
Atropo sola, muta e bianca, fissava la penitente e ne cercava gli occhi in una silente preghiera:
 non sei sola, non sei sola anche se non vedi nessuno e senti solo la tua sofferenza.
Giovane, tu non sei sola e da domani veglieranno su di te le forze benigne di questo mondo.

Credimi.

Piangeva.
 
 
 ...


“Tieni”.
Uno straccio bagnato era stato gettato ai piedi del padre dei cieli.
Confuso, quello, aveva raccolto il cencio umido.
Sangue, sudore e lacrime.
“anche questa volta la tua colpa è stata lavata nel dolore di un’innocente”
Atropo, feroce, l’aveva salutato con lo sdegno dell’impotenza.
 
°°°


“Estia!”
Quel nome, amaro sulla lingua e pesante sul cuore, era sfuggito dalle sue labbra in un sospiro addolorato.
Quello il modo in cui, volta dopo volta, sonno dopo sonno, si risvegliava dalle tenebre dell’inconscio.
Estia, la dea che amava e che sapeva soffrire, lo aspettava ogni volta dietro le coltri del riposo notturno: un dono che, per pietà, gli era stato concesso da Ipnos.
Ma quell’angoscia, prepotente e logorante, trovava una degna sfidante in quella strana sensazione che sentiva aleggiare per l’etere avernale.
Tiratosi su dal letto gualcito e lavato il volto con abbondante acqua gelida, aveva immediatamente imboccato la lunga via diretta alla cella del suo signore.
Troppo tempo era ormai passato, troppo lunga la sua assenza: era un giudice di quel regno che amava e onorava, non poteva rimanere rinchiuso nella sua camera alla ricerca di quell’amata immagine sfuggente.

Con un colpo aveva annunciato la sua presenza, poi, senza attendere un invito, aveva varcato come di consueto l’immensa soglia.

Eccolo, lo vedeva: seduto imponente sull’immenso scranno, interloquiva con il messaggero degli olimpici.

Hermes qui?
Che diamine è successo ancora?
Dannati dei dell'Olimpo.

Al suo inchino Ade aveva risposto con un secco cenno della mano:
“Vieni avanti giudice, le notizie che giungono dai cieli sono certo allieteranno il tuo cuore”.

Stupito, forse credendo di aver mal inteso quelle strane parole, Radamanto si era posto al cospetto del suo signore, di fianco a quell’essere dai calzari svolazzanti e la voce di giovinetto,
“Signore dell’Averno, la vostra richiesta è stata infine esaudita. Zeus, il grande, ha mutato il patto che vincolava la giovane Estia. Ella ora è libera da qualsiasi vincolo precedentemente imposto”.
Ad occhi sgranati, il giovane giudice aveva cercato lo sguardo del dio nero ma quello, stranamente rigido e col volto rivolto al cielo della cella, non aveva corrisposto quella ricerca.
“La guerra che voi minacciavate è dunque inutile. Pacificate il vostro cuore e amate vostro fratello, egli vi amerà a sua volta”.

Quanto false potevano essere quelle belle frasi?

“Riferite a mio fratello che accolgo con benevolenza le vostre parole, eco delle sue azioni”.

Alzatosi con regale mossa, Ade aveva infine congedato il giovane alato.

“Mio signore, scusate se mi permetto ma…la giovane Persefone? Ella sta bene?”.

Lontano dall’atteggiamento sospettoso con il quale la prima volta aveva avanzato quella domanda, Hermes palesava una strana nostalgia verso quella figura un tempo cara.

“Giovane messaggero, ella sarà preso sposa di questo regno che ha scelto di sua sponte. Sarò lieto di riferirle i vostri saluti, al momento ella riposa”.

Allo sbattito d'ali era seguito immediatamente il bisbiglio del demone avernale:
“Mio signore”
“sai bene che non ti è permesso lasciare l’Averno, Radamanto”.
Non avrebbe insistito, ben conosceva il suo vincolo ma il cuore, trepidante, batteva forsennatamente in quel corpo che, dopo tempo, sentiva vivo.

“Andremo insieme, giudice. In questo modo potrai vederla, non credo che ella ne avrebbe le forze”.

Allarmato da quella riflessione, Radamanto aveva chiesto spiegazioni.

“La tua amata è stata sottoposta a purificazione forzata. La sua colpa è stata estinta nel dolore e nella sofferenza. Il fantasma del tormento subito la perseguiterà a lungo”.

Con le lacrime agli occhi Radamanto si era inchinato al suo cospetto.

Ade, muto dinnanzi al terrore letto nello sguardo del morto, aveva mosso i primi di quei passi che l’avrebbero condotto al cocchio avernale.

Non era un caso che Menta vagasse libera per i suoi domini proprio quando veniva sancita la liberazione della cara Estia.



Il Fato esigeva la sua assenza.


Un ghigno terribile aveva incupito il volto del dio, ora forzato ad abbandonare i suoi domini.

Eaco, di fianco ai quattro cavalli, ne accarezzava i musi feroci.

In un solo sguardo, il vecchio e il dio, avevano capito la gravità della situazione.

“Ricorda il mio disegno”.
“Certo, sire”.






L'angolo di Avareil
Tante, troppe cose, troppe scene, tante emozioni.
Lo so, un capitolo pienissimo, eppure non poteva essere ulteriormente spezzato. I giochi sono fatti: è la fine dell'inizio.

In qualità di scrittrice, dall'alto del mio trono - la sedia della mia scrivania, mica poco-  vi invito a farvi sentire.
Per uno scrittore poter sapere cosa i lettori pensano è veramente importantissimo: lo aiutate a migliorare con le vostre critiche o favorite l'ispirazione con una parola buona.
Caso vuole che io sia un'infaticabile chiacchierona quindi se mi date da parlare, anche della storia, io vi parlo con moltissimo piacere.
Fate felice uno scrittore, lasciate un segno del vostro passaggio.
A presto, 
e soprattutto
Grazie.


Avareil


 

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


 
Quello che viene dopo
Parte 1 


Era lì, fisicamente.

Il cimiero vermiglio della kunée svettava imponente ai suoi piedi, una leggera brezza disperdeva l’odore malsano della tomba scoperchiata.

Nobile, austero, Ade presenziava il rito con espressione assorta e sguardo assente.

Distante da quella celebrazione, lontano da quei luoghi in cui la benevola Estia veniva onorata, il dio nero non aveva saputo ignorare il cuore colmo di amarezza e angoscia nemmeno per un istante.
Tutto sembrava trapassarlo, attraversarlo senza mai sfiorarlo: erano stati intonati canti, recitate preghiere, sparse libagioni sul sentiero che conduceva al piccolo e decorato seggio del tempio; alcuni ridevano, altri, emozionati, asciugavano timide lacrime ma lui, stretto nel pesante mantello per scacciare il gelo dell'animo, non era riuscito a non pensare a lei.

“Ade?”
Scosso da quel nome pronunciato con benevolenza e una nota di affanno, aveva riorientalo lo sguardo verso quella piccola mano richiedente supporto: la dea rediviva chiedeva il suo aiuto e la sua presenza.

Solo il quel momento gli occhi avevano riguadagnato una parvenza di vitalità.

Abbracci, urla di giubilo e carezze gentili avevano sancito la fine del rito: Estia ritornava alla luce, il suo tempio alla consueta calma solitaria.

Presso il braciere scoppiettante rimanevano in tre, quattro per la precisione, considerando il giudice avernale oramai prossimo ad una crisi di nervi per l’immobilità alla quale veniva da troppo tempo forzato.

“Caro fratello” Estia, in un sospiro affaticato mascherato da pacata compostezza, aveva richiamato l’attenzione dell’assorto avernale,
“come sta la vostra divina ospite? E' passato molto tempo dal nostro ultimo incontro…”

Sprofondato nuovamente in angoscia senza speranza, Ade si era limitato a distogliere lo sguardo, digrignare i denti, stringere le mani in pugni serrati mentre Zeus, al suo fianco, osservava a suo agio l’orizzonte lontano colorato di tinte aranciate.

“Ade?”

Preoccupata da quella reazione, la dea del focolare aveva provato a rialzarsi, farsi vicino all’oscuro fratello ma, infinitamente stanca, si era limitata a protendere una mano verso quel volto distante e logorato.

“Sua madre impedisce ancora la vostra unione?”

“Il Fato, torbido come di consueto, mi bandisce dai miei domini, mi preclude la conoscenza. Come un cane in catene mi tiene lontano da colei che amo e la sottopone a meschine prove per saggiarne il valore. Come credi che stia, sorella?”.

Gli occhi accecati, le orecchie sorde a qualsiasi preghiera, il corpo mutilo di quella parte che sapeva di vita: tutto in lui urlava mancanza e assenza di lei.

Un colpo di tosse aveva interrotto il silenzio grave,

“È giunto il momento che ritorni presso i miei altari”, Zeus, attento allo scambio di battute tra i due, decideva di lasciare campo libero.

In lui, per la prima volta, brillava una scintilla di buon senso, ed urlava sgraziatamente: “NON TI INTROMETTERE NELLE QUESTIONI ALTRUI!”.

Così, sorridendo bonariamente- come colui che conosce ma tace-, aveva prima rivolto un profondo inchino alla giovane sorella incoronata e poi, data una pacca sulla spalla del dio avernale a mo’ di saluto, aveva concluso enigmaticamente:

“Ti auguro serenità, fratello mio.”

“Cosa?”

Sovrappensiero, Ade non aveva sentito il fratello né notato Demetra giungere da lontano, a dispetto di Zeus che, sornione, non aveva esitato un istante per sfoderare un magnetico ghigno accattivante.

“Demetra, finalmente!”

Il dio del cielo a braccia aperte attendeva l’arrivo di quella mentre un’Estia basita, con una mano sul volto per schermare lo sdegno, bisbigliava il suo sconcerto dinnanzi a quell'ennesima spudoratezza.

“Fratelli…”

Demetra, mani giunte sul ventre e occhi lucidi, avanzava verso quelli con fare lento e sfinito.

“...sorella, perdonami. Perdonami divina Estia. Perdona la mia assenza.”

Gettatasi ai piedi di quella con fare supplichevole, Demetra aveva baciato i piedi dell’amata  prima di ricevere da questa una benevola carezza sul capo.

“Io so, disperata, il motivo della tua assenza. Cerchi la figlia di cui ignori la sorte ma dimmi, hai avuto notizia della tua dolce Kore?”

Estia, stanca ma furba, aveva modulato la voce affinché tutti, in quella grande sala, udissero la domanda, soprattutto Ade.

“Kore…Kore non esiste più.”

Demetra, a capo chino, proferiva parole in bisbiglio addolorato.

Impietrita, Estia aveva immediatamente rivolto il capo verso l’entità nera che sentiva improvvisamente pulsare all’angolo dell’immensa cella.

Aveva udito il dio dell’Averno, cupo in volto e ammantato di mortifera essenza.

Aveva udito e, con quelle parole, aveva perso senno e ragione.

Senza un cenno del capo o reverenza alcuna, aveva dissolto la propria entità per slanciarsi in una folle discesa verso i suoi domini.
 
“Demetra…”

Estia, ora con entrambe le mani poste a coppa sul volto esangue della sorella minore, aveva espresso tutta la propria angoscia in quel nome pronunciato in bisbiglio.

“Tenera Estia, non disperate. Kore, la mia bambina, è persa per sempre ma, al suo posto, è sorta Persefone, la dea che Zeus ha incoronato, colei che è capace di vedere ciò che oltre.”
Emozionata, sebbene con una stilla di tristezza nel cuore, Demetra aveva addolcito lo sguardo.


“Ma allora perché avete lasciato che lui intendesse nella peggiore delle maniere?”

Volevo tornasse da lei.”
 

°°°

 
Era sola.

Finalmente.

Il sorriso indossato con disinvoltura lasciava adesso posto ad una smorfia di dolore.

Ogni singolo centimetro di quel corpo ritrovato le doleva così tanto da toglierle il fiato. Il ventre, contratto e ritorto, la spingeva ad incurvarsi, abbracciarsi, farsi calore in quella parte di sé che sentiva gelida e vuota.

L’avevano aperta, rivoltata e svuotata del nulla e di tutto.

Entità benevole le restituivano l’esistenza a caro presso.

Ricordi degli atroci supplizi si presentavano all’occhio della mente in un caos fatto di immagini e sensazioni inumane: turbata, ben distante dalla calma apparente offerta in spettacolo ai divini convenuti, la dea si consumava in lacrime di pura sofferenza.

Con fatica, con dolore, aveva riguadagnato la stazione eretta tra gemiti e scricchiolii di ossa nuove e muscoli tesi come le corde dell’arpa di Apollo.

Il primo singhiozzo aveva squarciato il silenzio, il secondo i muscoli dello stomaco ritorti.

Dopo, il pianto trattenuto a stento tra i denti si era fatto urla di rabbia scagliate contro il nulla del bosco.

Tormentata da quell’immagine, quella dannata immagine di sé stessa intenta a cullare un cencio insanguinato, aveva coperto gli occhi con le mani e, tremando, si era inginocchiata al suolo.

E se i pugni colpivano con forza il marmoreo pavimento non era per invocare Ade, padrone del sottosuolo.
 



Eccola, la divinità che tutti celebrano senza vedere.
Ecco Estia, rediviva a caro prezzo.
Radamanto aveva osservato in silenzio la terribile e nascosta verità della dea e, folle di dolore e bruciante di desiderio, si era slanciato verso quella, adesso inginocchiata al suolo, intenta a battersi il petto e il volto e le gambe e le braccia con fare terribile e sragionato.

Una scena che sapeva di angosciante sogno sbiadito.
 
 

Due mani forti e gelide, calde, decise e delicate si erano strette intorno ai fianchi sottili rivestiti di candida veste mentre un busto di uomo o dio la cingeva da dietro in un abbraccio serrato e disperato.

“Estia, divina Estia…”

Quella voce.

Pietrificata e intimamente travolta, ella aveva stretto tra le proprie le mani che ricadevano intrecciate sul ventre piatto. Ad occhi sgranati e respiro mozzo percepiva con emozione quel corpo contro la schiena ricurva.

In un soffio aveva pronunciato il suo nome.

Poi, finalmente, si era girata.

I gemiti di dolore e paura avevano trovato consolazione contro l’ampio petto del giudice avernale, intento a cullare quel corpo di divinità nuovo e puro, infinitamente turbato.
La sentiva tremare, risate sottili si sostituivano ai gemiti di dolore in un ordine caotico, alcuni movimenti le creavano dolore, altri invece, ne distendevano le membra, regalandole sospiri di sollievo.
Con la morte nel cuore, lui che era un morto toccato da un barlume di vita, scrutava quel viso pallido in cui occhi gonfi, profonde occhiaie e colorito insano poco potevano contro un’innata forza, più simile alla disperazione che al coraggio.

“Vi amo. Perdutamente.”

In un bisbiglio proferito a fior di labbra, il giudice aveva suggellato la propria devozione con un bacio leggero.

Ci vuole un tocco gentile per sfiorare chi soffre. Ed una forte presa per poterlo aiutare.

Come scossa e ristorata da quel vi amo perdutamente che, come un’onda, rimbalzava da una sponda all’altra del suo cuore, ella aveva allacciato lentissimamente le braccia intorno al collo dell’avernale.

Era viva.
Respirava aria pura.
I suoi occhi avrebbero nuovamente scrutato la volta celeste alla ricerca del sole brillante.
Era viva…

E lui l’amava…perdutamente.

Un gridolino interno che sapeva di gioia e spensieratezza, lottava contro tutto il dolore ammucchiato negli angoli del suo corpo e, sebbene la battaglia fosse solo all’inizio, si mostrava determinato nel perseguimento del suo obiettivo: richiamare Estia alla vita per la quale aveva lottato con fierezza.

Staccatasi da quel giudice in un sospiro, ne ammirava ora le fattezze.

Anche lui sembrava distrutto.
Gli occhi cerchiati di viola, le pupille strette di un nero mortifero, la pelle del volto tesa, le spalle contratte. sembrava più vecchio e più lacero, un po' più morto dell’ultima volta in cui l’aveva visto.

Un sorriso, adesso, le incurvava le labbra: tutto in lui palesava malessere eppure, in quella bocca morbida da gatto e timidamente arcuata in sorriso, lei aveva trovato un nuovo braciere nel quale ardere.

Felice.
 

Ma la vita dei divini non è imperturbabile ed il Fato, balordo giocatore di dadi, sta sempre in agguato e con la mano tesa.

Oramai avvezza alle storture della vita, Estia aveva stretto gli occhi alla ricerca di una qualche fregatura e lì, dopo un attimo, l’aveva trovata.

“Radamanto, voi non appartenete alla terra.”

Sottotesto:

“Come diavolo fate ad essere al mio cospetto?”
 
Ne aveva cercato lo sguardo ma quello, assolutamente in pace con se stesso, giocava con una ciocca rosso fiamma.

“Il sovrano dell’Averno mi ha concesso del tempo. Egli sapeva del nostro legame e, benevolo, mi ha condotto con sé, affinché vedessi con i miei occhi il vostro ritorno alla vita”.

Stupita dalla calma appagata di quello, Estia aveva risposto in un soffio,

“Sarei venuta, anche solo per vedere la vostra faccia severa per poi scomparire nel fuocherello della vostra camera.”

Sorrideva Estia, un sorriso tirato ma genuino.

“Non voglio che vi affatichiate.”

“Avete promesso la vostra vita a me, Estia, dominatrice del braciere domestico. Dovrete rassegnarvi al fatto che sarò io a raggiungervi presso i vostri alloggi nel buio e ombroso e noioso…

Uno sguardo offeso aveva fatto sorridere la dea,

“noioso ma bellissimo Averno, la vostra casa. Non ho intenzione di lasciarvi fuggire.”

Fintamente offeso, intimamente felice, egli aveva sollevato il mento della dea per cercarne gli occhi verdi e brillanti.

“Ecco la mia pestifera dea, il pessimo e borioso caratteraccio ve lo siete portata dietro…”

“Baciatemi adesso, allora, se volete restituirmi un po’ di dolcezza.”

Ad occhi chiusi, ella offriva le labbra sorridenti all’avernale

e lui non aveva atteso oltre.

Lungi dal timido sfioramento di pochi istanti prima, l’aveva stretta a sé con calibrata forza e, chiedendo permesso a suon di baci, ne aveva schiuso la bocca per saggiarne la lingua. Un istante dopo, quando il bacio diventava lo sfondo di carezze delicate distribuite sul tutto il corpo, la dea si era scostata facendo una leggera pressione contro il petto del giudice:

“Sareste così gentile da aiutarmi ad alzarmi?”

La gentile richiesta, accolta con leggera sorpresa, aveva trovato compimento tra le braccia dell’avernale che, ora confuso, chiedeva indicazioni su dove poggiarla.

Mio dolce giudice, mi stupisco sempre della delicatezza che dimostrate nel farmi sentire una cesta di cenci sporchi”.

Una bellissima cesta di cenci sporchi”.

La correzione amabile aveva guadagnato al giudice uno sguardo incredulo e divertito mentre i piedi si dirigevano verso la camera da letto della dea, celata ai più da un’infinita serie di corridoi e viuzze.

Dinnanzi all’immenso letto Radamanto aveva arrestato il passo tanto bruscamente da farla gemere.
Desolato, mormorando scuse e pentimenti sconclusionati, l’aveva adagiata sulle morbide coltri mentre una mano correva al volto nel vano tentativo di nascondere turbolenti pensieri che, per la prima volta, trafiggevano la mente casta.

“Stendetevi al mio fianco, restate con me finché potete. Non lasciatemi sola. Ho paura…” la voce della dea, per un istante incrinata, rivelava il timore di abbandonarsi ad un sonno che sapeva costellato da terribili ricordi.

Così, con infinita cautela, le si era steso di fianco e, al pari di una bella statua, aveva offerto il braccio come cuscino e il petto come scoglio al quale aggrapparsi. Estia, raggomitolata contro di lui, aveva infine bisbigliato un grazie a fior di labbra per poi cadere tra le braccia di Ipnos.

Radamanto, in quel poco tempo rimastogli, contemplava, accarezzava, osservava il volto della dea tra le sue braccia.

Una timida speranza brillava in quel cuore rattrappito, eppure vivo e pulsante.
 
 
°°°

 
Silenzioso, il regno delle ombre, accoglieva il suo signore.

Un’aria fresca e leggera riempiva i polmoni contratti in rapidi respiri affannati.

A prezzo di cosa ti mostri florido?

Di chi hai esatto il sacrificio, regno di morte?

Il dialogo interiore, rapido e letale alterco tra razionale e irrazionale, faceva da sfondo ad una sconclusionata e disperata ricerca. Avvolto nell’ombra di cui era signore, si muoveva lesto per l’immenso regno ma, ogni passo compiuto in direzione ostinata e contraria rispetto all’immenso suo tempio, lo ancoravano al suolo. Incatenato, tirato come da cento corde, il dio veniva richiamato presso i suoi altari.
Un posto dal quale, inconsciamente, fuggiva.

L’immagine di lei, abbandonata al gelo della morte, stesa scompostamente su quell’altare a mo’ di offerta votiva con gli occhi vitrei rivolti verso di lui, lo faceva tremare nel profondo. L’angoscia, bestia famelica, divorava le sue interiora.

Rivelami il suo destino, ti prego.

Gli occhi stretti in due fessure scrutavano il presente, scandagliavano il passato ma nulla potevano contro la matassa intricata del futuro sempre in movimento.

Gli era stata strappata via, un vuoto poco più in basso rispetto allo sterno, gridava assenza e si contorceva dolorosamente alla ricerca di quel legame che, come scintilla fatua, aveva rischiarato gli ultimi flussi di quella vita promessa all’invisibile.

In mente echeggiava la promessa violenta fatta a sé stesso, ad Eaco e all’Averno tutto.

La kunée calata sul capo, il pesante mantello stretto intorno alle spalle, l’armatura scintillante e tetra: tutto in lui sapeva di aristocratico disfacimento.

Un respiro aveva separato il tormento dell’attesa dall’azione concreta.

Non vi era stato alcun bisogno di smuovere le pesanti porte: la sua essenza manifesta schiudeva il pesante uscio e lì, aveva veramente visto.

Immobile, sulla soglia di quella immensa sala che sapeva di casa e luogo sconosciuto al contempo, si ergeva contro il soffitto nero l’imponente trono
del dio, adesso stranamente occupato.
Lo sguardo fiero rivolto verso l’anima al suo cospetto, la dolcezza nelle labbra arcuate in sorriso, le mani giunge poggiate sulle cosce; era avvolta in una tunica lunga, purpurea, larga e semplice capace di far risaltare un volto stanco, pallido eppure sereno.
Incredulo, muto e celato alla vista dall’elmo prodigioso, Ade aveva lasciato libero sfogo alle emozioni represse: una mano corsa alla bocca nascondeva un sorriso luminoso e sollevato mentre il cuore batteva forsennato come un tamburo percosso a guerra.
Serena, Persefone amministrava quel regno terribile nella più materna delle maniere mentre il sovrano ne ammirava l’indole giusta e matura, quasi trasmutata.

Il sorriso sornione di Zeus, la terribile confessione di Demetra, tutto, in quel preciso istante, acquisiva un senso.

Non più Kore, ma Persefone, vera dea e vera regina, sedeva sullo scranno di marmo gelido: l’eterna bambina, custodita nel cuore, nascosta dietro una risata.
 
Eaco, poco lontano da lei, annotava con precisione la sentenza mentre un sorriso sereno incurvava le labbra raggrinzite.

Si respirava un’aria diversa, lì, nel buio e tetro Averno.


Dopo lunghi momenti, la mano, leggermente tremante, era corsa al cimiero e, afferratolo con incantata lentezza, lo sollevava, rimuovendo con l’elmo la malia che lo rendeva invisibile,
ed ella lo aveva percepito prima che visto.

Una stilettata al cuore, le viscere strette in spire attorcigliate, gli occhi socchiusi a trattenere lacrime emozionate: aveva alzato la mano in un gesto di saluto infantile e dolce, gli aveva detto “bentornato” e poi, incapace di rimanere seduta su quell’immenso e freddo trono, aveva mosso dei passi verso quel dio che, ancora muto, la fissava con una strana luce ad illuminare gli occhi di metallo liquido.

“Il mio sposo mi ha infine raggiunta. Vi ho aspettato tanto, mio signore.”

Una testa ricoperta di ricci morbidi si era poggiata su quel petto ricoperto di ferrigna armatura mentre braccia piccole lo cingevano in vita senza vergogna alcuna.

“Io…vi ho attesa per secoli.”

Parlava con lentezza, saggiando come si fa con un piatto prelibato, ogni parola di quella frase sconvolgente e, quando l’abbraccio si era fatto più stretto e Persefone aveva cercato i suoi occhi, non aveva resistito oltre calando impetuoso su quelle labbra che sapevano di vita e morte.

L’aveva afferrata, abbracciata, il volto immerso nell’incavo tra la spalla e il collo per respirare il profumo di quella donna potente e viva che, tra le sue braccia, sapeva di calore e passione; i baci casti e devoti intraprendevano la strada dalla fronte alle labbra tra sospiri e preghiere di ringraziamento – a chi fossero rivolte non lo sapeva nemmeno lui.

E quando, nell’impeto della gioia, l’aveva sollevata in un abbraccio sospeso, Persefone aveva riso di gusto, solleticata dalla barba ricciuta.

Kore, eccola Kore.

 “State bene? Veramente bene?”

Riaccompagnata al suolo, un’Ade improvvisamente preoccupato, la scrutava con attenzione alla ricerca di lesioni o, ancor peggio, tormenti.

“A dire il vero, mio signore, ho delle cose da dirvi.”

Persefone, prima sorridente, aveva mosso un passo indietro di modo che tra lei e il dio vi fosse il gusto spazio per una conversazione seria e sostenuta da sguardi profondi.

“Quando avete sancito la condanna per Menta, tempo fa, non ero contenta, non lo ero per niente. Ella, attentando alla mia vita, ha offeso me, mia madre, voi e questo regno che tanto amate.”

“Persefone…”
 
Pizzicata dall’immagine di Menta che, stretta ad Ade, si permetteva carezze che non le spettavano, la dea aveva continuato,

“È stata la vostra amante, lo so e, sebbene odi pensarlo, è stato un gesto di pietà mal riposto, il vostro. Ella mi ha cercata, tormentata e torturata. Ha profanato il nostro vincolo e l’ha calpestato senza alcun riguardo. Povera stolta, ha sancito il mio legame all’Averno con la sua disfatta: l’ho condannata all’immobilità perenne e…ora giace sulle soglie delle porte nere, profumosa e sterile in mio onore.”

Questa volta la dea aveva distolto lo sguardo, le guance imporporate testimoniavano una leggera gelosia,

“e mi spiace per voi che tanto volevate proteggerla, ma io non potevo tollerare la sua rabbia, il suo odio. Avrei dovuto mettervi a parte di questi miei sentimenti ma, mi vergognavo. Non avevo mai provato sensazioni tanto grevi e non volevo mi consideraste una sciocca ragazzina di superficie.”

“Mi spiace.”

Costretta al silenzio da quel “mi spiace” sospirato occhi negli occhi, Persefone osservava muta il sovrano chinato su di lei con devoto rammarico.

“Il mio giudizio era viziato ma non per quello che il vostro cuore teme. Menta era una creatura dei miei domini, questo mi ha mosso alla pietà. Non amore, non amicizia. Ma, per colpa mia e del mio giudizio, avete rischiato l’esistenza. Vi porgo le mie più sincere scuse, mia signora.“

Il volto serio, le guance smunte e le occhiaie profonde conferivano al dio un’espressione ancora più spettrale del solito ma, quel “mia signora”, pronunciato così, a pochi centimetri dalle labbra schiuse, con tono roco e profondo, aveva sancito il suo perdono: in punta di piedi e ad occhi chiusi, la regina aveva allacciato le braccia intorno al collo del sovrano e, in un impeto assolutamente poco serio, poco regale e poco solenne, l’aveva baciato con slancio.

Clap, clap, clap

Entrambi, persi l’uno sulle labbra dell’altra, avevano riguadagnato la consapevolezza di loro stessi per colpa di quel battito di mani allegro: Eaco, il volto della saggia vecchiaia, applaudiva compiaciuto alla felicità dei sovrani d’Averno ma, pur sempre legato ad un certo modo di fare le cose, li aveva richiamati con la leggerezza di un anziano benevolo.

“Signore, solitamente la sposa va baciata dopo la cerimonia di legame.”

Quella battuta, lanciata con leggerezza, aveva fatto arrossire mortalmente la giovane dea.

“Povera me, se solo sapesse con che spudorata audacia vi invocavo presso i vostri altari….”

 Persefone, occhi lucidi e sorriso malizioso, aveva bisbigliato a pochi centimetri dalla bocca di Ade.

“Andiamo, mia dea. Ho bisogno di sapere cosa è successo, seguitemi”.

Un cenno del capo affermativo aveva trasformato l’abbraccio in due mani intrecciate,

“Eaco, fa in modo che tutto sia pronto per questa sera e… richiama Radamanto.”

 “Certo mio signore.”

Un inchino profondo e un’espressione pensierosa dipinta sul volto di Eaco, accompagnava i sovrani fuori da quei luoghi.
 


“Non riuscivo a trovarvi, a sentirvi. L’unico cuore che a stento percepivo battere era il mio. Per il resto, tutto taceva”.
Iniziava in quel modo il lungo racconto di Persefone mentre, mano nella mano, procedevano a passo lento verso le profondità del regno, diretti verso quella conca che da tempo immemore fungeva da palco per i peggiori spettacoli.

Ade, in religioso silenzio, si limitava ad ascoltare, percependo di tanto in tanto l’angoscia e la paura nella voce di quella.

Il volto di Persefone segnato dalla gravità del ricordo.

 “Temevo di non rivedervi più…temevo di perdervi per sempre.”

Quella confessione, forse unica frase pronunciata con un disperato ardore, avevano fatto tremare il dio nel profondo.

“E poi… lo ha fatto. Spregevole mostro, ha osato prendere ciò che mi apparteneva.”

Trasfigurata in volto da una cieca furia, Persefone aveva puntato il dito contro il luogo in cui giacevano i resti della melograna, ora amabilmente interrata.

“Con rabbia ha strappato al suolo il frutto e con tracotanza folle ha osato spaccarlo dinnanzi a me, colei al quale quel dono era dedicato. Con le mani lorde di terra e sangue ha afferrato i semi e così, in un unico gesto, li ha ingurgitati. Alla mia salute, ha detto.
Poi ho visto.”

Immobile, gli occhi persi in chissà quale ricordo, rendevano Persefone essenza vera di quel regno ambiguo e incomprensibile: la dolcezza e la furia si intrecciavano in lei come il miglior capolavoro di sentimenti.

Pronta all’amore così come alla guerra.

 “Mia signora…”

Ade, grave, aveva cercato lo sguardo smarrito della dea ma quella, adesso nuovamente presente a se stessa, aveva svelato il turbamento.

“Ho visto lei incoronata al vostro fianco. Ho visto lei, stringervi con lascivia, ho visto lei, ridere di gusto dinnanzi alle sofferenze… in quel momento ho capito cosa mi veniva richiesto.
Sentivo nel mio orecchio la voce dell’Averno bisbigliare, mi chiedeva cosa volessi essere in questo regno fatto di ragione e sragione. Mi si domandava se fossi pronta ad abbracciare ciò che di più turbe avevo sempre allontanato dalla mia essenza. Ho capito che, a volte, il male è necessario.”

Con gli occhi lucidi ella aveva afferrato le mani gelide del dio,

“ma ho agito troppo tardi, sposo amato. Ho perso il tempo, l’occasione e, adesso, il mio animo risulta legato al vostro solo per metà. Io ho già mangiato il frutto sacro. Menta l’aveva spaccato, macchiato di spudoratezza, lacerato e ammorbato…io l’ho punita e dopo, pacificata con me stessa e col regno che mi metteva alla prova, mi sono nutrita dei chicchi superstiti allo scempio.”

“Quanti?”

Raggelato, egli aveva formulato una e una sola domanda.

“Sei. Sei chicchi”.

Occhi persi la guardavano senza vederla: un caos di pensieri gli affollavano la mente mentre una mano correva sugli occhi per celarne lo sgomento.

“Mio signore?”


“Sei chicchi, sei mesi. Allo scadere di questo tempo, ritornerete da vostra madre.”

Con le lacrime agli occhi, Persefone aveva accolto il monito del sovrano ma, turbata dal tono lugubre e assente di quello, ne aveva tirato con forza il mantello, vano tentativo di farsi guardare.

“Io non posso lasciarvi. Ne morirei”.

Disperata e in lacrime, la dea aveva continuato a strattonarlo.

“Guardatemi negli occhi!”

“Avete diviso voi stessa. Andrete e tornerete. La vostra natura è duale come il vostro fato. Vostra madre non soffrirà più la vostra perenne assenza ed io… aspetterò sempre il vostro ritorno. Siete già la mia sposa.”

Sconvolta, sentiva adesso una voce bisbigliarle all’orecchio:

“Dividi te stessa, giovane dea, mangia il frutto e dividine il tempo.
Questo farà di te una brava regina, un’amorevole moglie, una devota figlia.”
 
Le parole, percepite e mai comprese, adesso echeggiavano nelle cavità del suo corpo. Il Flagetonte l’aveva avvertita e lei, ora consapevole, sentiva un’amara gioia solleticarle il cuore.

Aveva tutto, poteva avere tutto.

Sorridente, sconvolta ma sorridente, aveva osservato con occhi lucidi quel sovrano misterioso calarsi su di lei in un bacio esigente.

Siete già la mia sposa, aveva mormorato ancora e ancora sulle labbra di quella tormentandole di baci ardenti.

 
 
Non avevano voluto aspettare.

A nulla erano serviti i rimbrotti anziani di Eaco, stupito dal fervore del suo sovrano che, spalancata l’immensa porta nera, aveva affermato a gran voce:

“Eaco, prepara tutto, adesso”.

Il vecchio giudice non era riuscito nemmeno a carpire dalla sua parte il giovane Radamanto, perso com’era in qualche splendido ricordo che gli annebbiava la vista e incurvava le labbra in un sorriso ebete.

“Mio signore, il rito necessita dei suoi tempi. Dobbiamo convocare il padre degli dei, la madre della giovane e tutte le altre divinità di superficie. Senza dimenticare, ovviamente, gli ornamenti e i doni che la cerimonia esige…”

“Fedele giudice, il tempo è l’unica cosa di cui non disponiamo a nostro piacimento. Procediamo adesso, una cerimonia semplice, pochi invitati, i più cari a me e alla mia dolce sposa. Ho bisogno di tempo, ho bisogno di lei.”

Il sorriso che fino a qualche secondo prima aveva illuminato il volto stanco, sembrava quasi oscurato da un’ombra fuggiasca.

“Farò come desiderate mio signore, non preoccupatevi di nulla se non del vostro aspetto”.

Lo scambio di battute avvenuto tra i due avernali non aveva affatto avuto un effetto calmante.
Persefone, labbra turgide di baci e petto ansante, accoglieva quell’inaspettato risvolto degli eventi con gioia e preoccupazione.

Era infine giunto il momento, per lei, di salutare solennemente l’infanzia.

Uno sguardo alla ricerca degli occhi grigi del sovrano, una mano corsa averso quella forte e gelida nella speranza di trovare sostegno e supporto.

“Conducetela presso le sue stanze. Che venga rivestita di pietre splendenti e abiti meravigliosi. Oggi Persefone diviene mia sposa, agli occhi dell’Averno e del cielo di superficie, saremo legati.”

L’emozione vibrante colorava la voce solitamente pacata.

Chiusa in un silenzio che sapeva di commozione, ella aveva fatto cenno affermativo col capo, un singhiozzo sfuggito dalle labbra denunciava il cuore tremolante. Solo a quel punto, incurante dei giudici e dell’ancelle richiamate per il corteo della sposa, il sovrano dell’Averno si era chinato su di lei e, con le labbra terribili aveva soffiato a pochi centimetri dal suo orecchio.

“Tornate da me quanto prima. Non ho più la forza di aspettare…”

Un bacio leggero sulla guancia rosata aveva fatto scattare il cuore in pericolosissime acrobazie.




Travolta, la dea aveva seguito il corteo di tenui fiammelle: un canto gioioso e frizzante riecheggiava per le lande avernali.
 









L'angolo di Avareil
Perdonate il ritardo ma oramai i giochi sono quasi alla fine e ci tenevo affinchè fosse tutto come l'avevo immaginato.
Questa è solo la prima parte di un capitolo altrimenti lungo più di trenta pagine. La seconda arriverà a breve, giusto il tempo per effettuare un'approfondita revisione.
Che dire? 
Vi ringrazio per ogni supporto e parola gentile, ribadendovi come sia fondamentale, per uno scrittore, poter sapere cosa si pensa di lui.
Nella speranza, dunque, di sentirvi presto, vi saluto e vi ringrazio di cuore.
Un bacio 

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


Quel che viene dopo
Parte 2 
(Rating rosso)
 
 
Tu che vivi, spirito benevolo,
sul colle d’Elicona e affidi,
al dio oscuro, la tenera vergine
rapita,
e le cingi il capo,
o Imeneo,
co’ fiori di maggiorana profumata.
Qui vieni col tuo piede
bianco fasciato d’oro:
eccitato dall’allegria
del giorno,
canta dolci inni nuziali.
 
Il nome di Imeneo, benevolo protettore degli sposi, veniva invocato dalle giovinette avernali e il suo canto nuziale, dolce come miele e caldo come ambrosia, si insinuava lento nella mente della dea trepidante.
Lo chiamavano, Imeneo, le ancelle di quei luoghi, in una nenia sottile pronunciata a fior di labbra; Emisu, davanti alle altre, fungeva da giuda e, con una candela in mano, illuminava il passo.
Tremava, Persefone, e il respiro, leggermente accelerato, piano piano si tramutava in bisbiglio intonato, preghiera sommessa rivolta a quell’Imeneo di cui tanto, da bambina, aveva sentito invocare il nome durante i riti nuziali.
Eppure era diverso, completamente diverso onorarlo lì, tra le ombre nere e luminose dell’Averno mortifero. Nessun rumore, nessun urlo sguaiato, non una goccia di vino vermiglio rendeva quella celebrazione sgangherata e sconcia mentre quella cantilena solenne faceva vibrare le corde del cuore in una lenta e intima preparazione dell’animo.
Presto sposa, Persefone piangeva sommessamente, emozionata dal pensiero di quella felicità afferrata e difesa con le unghie e con i denti in nome di un amore fin troppo ostacolato.
 
Oggi, Persefone, kore dei boschi,
abbraccia altari neri,
a Ade va sposa, sovrano d’Averno
giusto, e bella come la prima stella
del firmamento,
vergine si sposa
con gli auspici migliori, ornata
di bianchi asfodeli.
 
Le voci, ora ridenti e vive, celebravano il nome della sposa casta mentre una giovane dal volto pallido recava in offerta un mazzolino di narcisi gialli impreziosito con gemme e nastri variopinti. Così, accompagnata da volti amici, era stata condotta nei pressi delle sue stanze dove porte spalancante rivelavano uno stuolo di ninfe avernali benevoli.
Il suo corteo.
 
Vieni dunque,
Imeneo, e senza fermarti
lascia le grotte delle Muse,
bagnate dalle fresche acque
e richiama la padrona, invitala
presso le stanze
stringendo in un nodo d’amore
lo sposo,
come intorno al tronco si avvinghia
con la sua forza, l’edera.
 
Le aveva abbracciate ad una ad una, a ciascuna mormorando un grazie umido e commosso.

Nessun dio è più implorato
da un amante riamato,
nessuno è più onorato
da noi, O Imeneo.
In tuo onore scioglierà
la vergine la sua veste e
col timore del desiderio
ti ascolterà il marito, e tu,
o Imeneo,
tu strappandola al grembo
della madre, concedi a un dio fiorente
e imperscrutabile una fanciulla appena
in fiore, ridente come la vita stessa.
 
Mani, piccole e fredde, poggiate con delicatezza sulle spalle, la conducevano nella camera adiacente dove un’immensa vasca di acqua calda era stata preparata per la sua detersione.
Allentate le fibbie, sciolti i lacci, Persefone rimaneva nuda al cospetto del suo piccolo corteo e, rivestita di umile nobiltà d’animo, si immergeva nelle acque ristoratrici affinché Emisu e le altre potessero sciogliere la crocchia scomposta, districare i nodi, frizionare le membra stanche per donar loro nuovo vigore.
 
Invocato dal canto, giungo presso
le tue camere e vedo che
il pudore colora le gote nivee ma,
sentendo da lontano la voce
dell’amato, ora che ti prepari ad
andare,
non piangere.
Non c’è pericolo
che i tuoi occhi si colorino di
tristezza.
 
Dove sei, dunque?
Esci, sposa bambina.
Ascolta Imeneo impetuoso e
guarda come s’è fatta brillante
per te
la volta del cielo d’Averno.
 
 
Massaggiavano la pelle morbida, pettinavano le chiome ribelli e fluenti, aspergevano il volto con olii e acqua calda affinché il tormento del ricordo lasciasse spazio alla gioia trepidante del futuro. Fresca e profumata, la giovane dea, apriva nuovamente gli occhi, ora felici e tormentati dall’attesa.
 
Esci, esci bambina.
Non hai un marito irrequieto
che per cercare in qualche avventura
il piacere del tradimento
voglia riposare lontano
dal tuo bianco seno.
Come la vite flessuosa
abbraccia gli alberi vicini, lui
dal tuo abbraccio sarà
vinto.
Ma il giorno corre:
esci sposa, chiama lo sposo presso
l’altare ornato.
 
Un meraviglioso lino candido cingeva il suo corpo ora ripulito, ora risanato, sottolineando le curve morbide dei fianchi e delle cosce; dietro di lei, Emisu, le offriva con reverenza un piccolo coltello affilato.
In un colpo secco, Persefone ridente, aveva reciso una ciocca di capelli e con un’espressione dolce dipinta in volto, si era recata al cospetto del caldo braciere avernale.

“Dolce Estia, dea del fuoco familiare, accetta il mio voto e lega la mia promessa agli dei benevoli. Rincuora la madre, sostienila e bisbiglia al suo orecchio la mia felicità”.

Compiuto l’amabile sacrificio si era nuovamente affidata alle cure delle ancelle, adesso intente nell’ acconciarle i capelli in modo da lasciare il capo sgombro da qualsiasi ornamento. La corona, ripetevano, andava posta su di esso affinché riflettesse la sua nobiltà di cuore e il voto imperituro ad Ade, signore e padrone di quei luoghi.

Il solo sentir pronunziare il suo nome le faceva tremare il cuore.

O Imeneo, dolce Imeneo,
conduci alla porta la sposa e
mostra lei il marito
impaziente
presso l’altare nero.
E dille, o Imeneo.
che anche dentro il suo petto brucia
la stessa fiamma che la infuoca
ma più profondamente.
 
Lo sguardo luminoso e perso in ricordi dolci, le labbra incurvate in sorriso tenue rendevano la sposa ancor più bella.
 
Accompagnatela, ancelle.
Tenete la sua mano e conducete
il passo incerto verso i luoghi
in cui lui l’attende.
Invocate ancora, col canto
 Imeneo, Imeneo benevolo,
finché la candida vecchiaia immortale,
con il tremito delle tempie,
li colga uniti.
 
Emisu, tremante, le aveva infine offerto un nuovo mazzo di fiori, ancor più bello e prezioso del precedente.

“Sono Asfodeli, dolce signora. Fioriscono spontanei e forti da quando siete qui”.

Sull’uscio di quelle camere che si apprestava ad abbandonare per sempre, Persefone aveva stretto al seno quel piccolo essere.

“Grazie”. Un bisbiglio umido di lacrime.

Poi, avevano ripreso il cammino: armonioso coro, le ninfe d’Averno, invocavano Imeneo, dio benevolo, protettore degli sposi.


°°°
 
 
Se gli avessero esplicitamente chiesto in che modo fosse arrivato lì, nelle sue camere, non avrebbe saputo rispondere con lucida certezza.
Pianificata la cerimonia, stabiliti i riti e i sacrifici, si era mosso a passo lento verso quelle stanze che, di lì a poco, avrebbe definitivamente salutato.
Da tempo, infatti, maturava nel cuore il desiderio di una vita intimamente vissuta in comunione con lei e lei soltanto. Avido della sua presenza, non avrebbe mai diviso con nessun altro il loro poco tempo.

Si dice, sposo d’Averno,
che il vostro regno non sia avvezzo
alla gioia, ma io leggo
sul volto sereno,
una speranza.
 
Si dice, sposo oscuro,
che non sappiate regalare sorrisi
ma dovrete farlo,
a volte.
Certo, la serietà è dovere lecito per voi,
re nero,
ma ad un marito nemmeno questo
è concesso se la sposa vive
sola e triste.
 
Radamanto, alle sue spalle, recitava quel carme con un sorriso dipinto sulle labbra morbide da gatto.
Distratto dal flusso di pensieri, il dio, non aveva colto la sua presenza ma, udite quelle parole, simili ad uno strano e barcollante inno, aveva riso di gusto allungando una pacca verso la spalla del giudice.

“E’ bene che non percorriate da solo questo lungo corridoio, mio signore.”

“E dunque vi fingete corteo di vergini avernali e intonate per me il canto dello sposo?”

“Certamente, mio re”.
 
Un riso sghembo illuminava il volto di entrambi.
 
“Vorreste preparare le mie vesti?”
 
Toccato da quella proposta fraterna, Radamanto aveva chinato il capo rispettoso.

“Ne sarei onorato, mio sovrano”.
 
“Andiamo allora”.

Sorridente, Ade aveva ripreso il passo verso le camere e lì, lasciato Radamanto alla scelta e alla cura degli abiti cerimoniali, si era recato presso il bagno, agognando il calore delle acque ristoratrici.
Non aveva guardato il letto ricoperto di morbide pelli nere, non aveva osato gettare alcuno sguardo verso il camino scoppiettante e caldo ai cui piedi si stendeva un morbido tappeto: la ferrea volontà di mantenere la mente sgombra da qualsiasi pensiero gli vietava di soffermarsi su quella parte di arredamento.
Per questo motivo, rapidamente raggiungeva il lavabo ricolmo di acqua limpida, e lì dava inizio alla sua purificazione.
La lama del rasoio scendeva impietosa sul volto barbuto rivelandone uno etereo, affilato e spigoloso in cui campeggiavano occhi grigi e liquidi, e sempre quella mano armata non aveva avuto pietà della chioma che, sciolta dalla severa coda che la imprigionava, era stata tagliata all’altezza delle spalle, conferendogli un aspetto regale e selvaggio al contempo. Li aveva poi lavati, profumati e tirati indietro, affinché gli occhi potessero saziarsi della figura candida che di lì a poco avrebbe riempito il suo orizzonte; il desiderio, bestia un tempo placidamente accucciata, iniziava a destarsi impetuosa.  

Ovviamente, il bagno nelle acque calde non aveva alleviato il suo tormento.

Neanche un po’.
 
“Mio re, vi aggrada la scelta?”

Ade, cinto in un morbido telo, osservava compiaciuto le vesti adagiate sul letto: la tunica nera, finemente lavorata in ghirigori argentati, la stola purpurea adorna di spilla raffigurante la testa di un lupo, animale sacro all’Ade e, infine, la kunée rosso vermiglio, emblema della forza invisibile del suo dominio.

“Grazie, Radamanto.”

In un inchino il giudice aveva lasciato le camere, e quando il dio, vestito da innamorato e dimentico della corona, si mostrava ai suoi occhi meraviglioso e fiero, aveva concluso lo sgangherato ma solenne inno:

E voi, dio oscuro, che il vostro amore
non nascondete a nessuno, che lo volete
al sole, e all’Orco, rischiarato dalla luce
degli astri,
abbracciate la sposa tremante e ditele
di quel tempo in cui
solo
l’attendevate.

 

°°°


 
Il casto corteo di giovani avernali aveva intonato un nuovo canto, sostegno lungo il cammino finale, alternando risate e scherzi gioviali a momenti di solenne raccoglimento in cui parole care venivano rivolte alla sposa agitata.
Persefone, infatti, gote rosse e sguardo umido, stringeva le mani intorno ai gambi dei fiori e tremava il cuore, sforzato dall’attesa.
Allo stesso modo procedeva il dio nero, accompagnato unicamente dal fedele giudice, ora entrambi silenziosi.
Il primo a varcare le soglie del tempio nero era stato proprio lui, il signore di quei luoghi, sebbene da lontano il coro di voci giovani fosse già percepibile;
questo lo aveva fatto sorridere.
In quelle immense sale, ora adorne di splendidi asfodeli bianchi e gemme e brillanti, campeggiava imponente l’altare rivestito di lussuosi drappi dorati.

Su di esso solo tre oggetti: un calice prezioso, un melograno avernale e la preziosa tiara.

“Mio signore, tutto è stato allestito come desideravate.”

Eaco, vestito di bianco, osservava benevolo il volto dell’avernale, ora segnato dall’impazienza, come è lecito per uno sposo.

“Ottimo, mio fedele. Adesso, manca solo la sposa”.

La battuta, divertente e assurda proprio perché proferita da labbra solitamente gelide e tirate, riscaldava l’animo dei convenuti: anime benevole, eroi illustri, saggi pensatori, esseri d’averno; pochi invitati, testimoni dell’unione sacra.

Ecco, dunque, un’attesa forse ancor più snervante della precedente: il coro di voci si udiva distintamente così come le risate pudiche delle ancelle, ma la porta nera, pesante e massiccia, non accennava a muoversi.

Per questo motivo, turbato, il re aveva dato le spalle al grande varco, incapace di reggere lo strazio della pazienza.
 
 

Un rumore strascicato di porta smossa, la voce armoniosa di Emisu presentava la dea sposa: solo in quell’istante, egli si era voltato.
 

Meravigliosa.
Semplicemente bellissima.
 
Immobile in quella posizione che tanto lo rendeva simile ad una statua di sale, il sovrano della morte aveva assaporato con ogni terminazione visiva lo spettacolo dinnanzi a lui. Persefone, dea splendida nel fiore della sua giovinezza, lo guardava e sorrideva emozionata.
Rivestita di lino candido come il suo animo, preziosa come i fiori che recava in mano e pura come il viso che, fresco, non nascondeva nessun sentimento, ella si mostrava come luce brillante in un regno fatto di ombre fumose.
Un dolore al petto, simile ad una stilettata rapida e acuta, aveva restituito a quella cavità toracica la pienezza di due battiti.
 
 
Meraviglioso.
Semplicemente bellissimo.

Varcata la soglia, lasciata dalle tenere ninfe avernali che, commosse, ne baciavano le mani e le rendevano onore con profondi inchini, Persefone cercava con gli occhi impazienti il dio.
Lo aveva trovato di spalle, intento ad adagiare la preziosa kunée al suolo e, solo quando la fedele ancella aveva annunciato il suo arrivo, egli si era voltato, regalandole uno sguardo di indicibile profondità.
Gli occhi, solitamente vitrei e imperscrutabili, si mostravano ridenti e liquidi, la bocca sottile, leggermente schiusa, mal celava l’emozione che rendeva tremolante il cuore.

Il cuore.

Come quando un arto intorpidito riprende vigore dopo una forzata immobilità, la giovane dea artigliava, adesso, la mano all’altezza del petto, dove il lino morbido celava allo sguardo dei più una generosa scollatura. Stupita da quella strana sensazione, aveva osservato il dio alla ricerca di una qualche spiegazione ma, scorgendo in lui lo stesso sbigottimento, accompagnato da un’azione simile – anche lui aveva posto una mano poco più in alto rispetto allo sterno – aveva sorriso commossa.
Occhi negli occhi, a una considerevole distanza, gli dei si osservavano in silenzio, incapaci di muovere alcun muscolo o proferire verbo.

“Mio re?”

Il bisbiglio impercettibile di Radamanto aveva riscosso il dio nero dall’intorpidimento e, riguadagnata una parvenza di lucidità, si era mosso verso la splendida giovane, ora sola e in attesa a pochi passi dall’altare.

“Persefone divina.”

Quel nome, accompagnato da una profonda reverenza, aveva dato il colpo di grazia al povero cuore tremolante, ora ridotto a poltiglia dolciastra.

“Signore d’Averno”.

Un sorriso tanto dolce e tanto beato aveva illuminato il volto della ragazza che, dovendo farsi forza per mantenere un certo contegno, si era limitata ad offrirgli una mano affinché l’accompagnasse presso la lastra finemente abbellita.

Ade, il suo sposo,

il suo sposo, diamine,

meraviglioso e regale, mostrava un viso affilato, ripulito dalla barba ispida che da tempo gli ammorbidiva il volto, e gli occhi, solitamente imperturbabili, rifulgevano di vita e speranza e desiderio.

Meraviglioso.

“Siete bellissimo.” Persefone, occhi fissi su quel viso amato, non era riuscita a trattenere la lingua, sconvolta da quello spettacolo che, di lì a breve, avrebbe chiamato marito.

Una risata roca, sincera, profonda, aveva riempito la sala.
“Voi, mia signora, siete semplicemente stupenda. La vostra anima lo è”.

La confessione, mormorata vicino al suo orecchio con fare intimo, le aveva rubato il fiato.
 
Un breve silenzio aveva preparato gli animi alla sacra celebrazione.

“Persefone, amata ospite, l’Averno vi accoglie benevolo ed io, che ne sono il signore, vi porgo gli onori e gli ossequi che si convengono a una dea luminosa. Oggi, presso questo altare, vi offro la mia devozione, il mio amore e il solenne rispetto: diventate mia sposa.”

Ade, che ancora la teneva per mano, la osservava intensamente, beandosi dell’emozione che le colorava il volto sincero.

“Vi domando, dolce signora: siete qui di vostra sponte?”

La domanda solenne aveva trovato risposta sulle labbra morbidamente arcuate della giovane.

“Nessuna forzatura, nessun obbligo o violenza mi vincola al vostro cospetto e a quello dell’Averno. Io, Persefone, figlia di Demetra, sono qui di mia volontà per prendere
Ade, sovrano giusto di questi luoghi, come legittimo e amatissimo consorte”.

Dopo quella risposta, segnata da voce sicura eppur addolcita da tremolii, il dio le aveva baciato la mano prima di stendere le proprie sopra l’altare.

“Oggi, Persefone, figlia di Demetra, si promette all’Erebo e al suo signore.”

Sovrano del suo tempio, sacerdote presso i propri altari, Ade celebrava il rito circondato da un’aria che sapeva di ancestrale e misterico potere.

“Vi offro, amata signora, l’ambrosia nera e dolce del sottosuolo, perché possiate berne, dissetando il cuore e pacificando l’animo trepidante.”

Il calice prezioso, preso con reverenza, veniva offerto con altrettanta cura alla dea che, tremante, bagnava le labbra di quel nettare amaro e dolce per poi porgere, a sua volta, la coppa all’amato, affinché anche lui ne saggiasse il liquido e dissetasse l’animo lacerato da tormenti passati.

“Persefone, figlia di Demetra regale, dea luminosa, vi offro un seme di melagrana, cibo d’Averno, perché le vostre labbra si abituino al sapore della vita e della morte, e il cuore si tinga di ombra brillante.”

Spaccata la scorza dura del frutto profumato davanti agli occhi lucidi della dea silenziosa, egli ne schiudeva le labbra con un chicco gustoso.

Nel silenzio cerimoniale, umido di lacrime e bisbigli d’amore taciuti nel cuore, il re aveva infine sollevato la corona e, con un movimento quasi incantato, l’aveva posta sul capo chino della dea.

“Io, Ade, re delle ombre, vi offro la corona dell’Erebo, preziosa ma grave sul capo di colui che, insieme alla bellezza e al potere, non accetti l’onere che questo ruolo comporta. Sarete una regina benevola e giusta, non negherete mai l’ascolto o il consiglio. Mi sarete fedele come moglie e sovrana. Promettete, dolce sposa”.

“Lo prometto”.

A gran voce, rivolto alla platea degli astanti, Ade aveva annunciato sorridente:

“Persefone, figlia di Demetra, è mia sposa. Io, Ade, signore dell’Erebo, sono il suo sposo e a voi, anime beate, la presento come regina d’Averno: onoratela con le vostre preghiere”.

Un bacio sulle labbra, caste e schiuse, suggellava il rito, mentre braccia tremanti di dea si allacciavano al collo dell’avernale.

“Marito amato, Ade, sovrano d’Averno, io Persefone, vostra sposa, lego i nostri destini eterni secondo gli usi di superficie. Che il nostro sia un sodalizio legittimo agli occhi di molti”.

Animata dall’amore e dalla devozione, Persefone aveva proteso le mani su quell’altare nero che ora la riconosceva come sovrana e, a sua volta, aveva recitato la promessa.

“La luce del sole, il vento fresco, le acque chiare siano testimoni di questo legame e la terra stessa, amata e cara, fiorisca di gioia. Io, Persefone, dea dell’oltre, annuncio il legame inscindibile: Ade è mio sposo.”

Un sorriso raggiante arcuava le labbra di entrambi mentre i convenuti intonavano peana vittoriosi in onore della coppia. Un altro bacio, questa volta ricco di gioia esplosiva, aveva fatto gemere e serrare gli occhi della dea tremante mentre Ade, felice, le prendeva il volto tra le mani invitandola ad osservarlo.

Un bisbiglio udibile solo per lei:

“Persefone degli altari oscuri, Persefone dei miei altari. Siete mia adesso”.
 

Per tutta la sera avevano mangiato, bevuto, danzato e rallegrato il cuore con i canti armoniosi ma giungeva, infine, il momento che lo sposo e la sposa lasciassero le sale per ritirarsi nella grande dimora che, da quel giorno in avanti, sarebbe stata la loro casa. Ecco, allora, i ritornelli allegri che fino a quel momento avevano riempito l’Erebo, assumevano la forma di nenia sottile, amabile sottofondo per i sovrani che, mano nella mano, si allontanavano dalla folla.

Sprangate le porte, ancelle:
Imeneo benevolo, adesso ritorna dalle
sue Muse, il rito è concluso,
l’amore incorato.
La sposa prende per mano
l’amato e gli cammina di fianco
verso la dimora familiare.
E lo sposo, fremente, si lascia
condurre, già perso in quel
sorriso che parla
d’eterno.
 
...

Il lungo cammino, condito da sguardi veloci, sospiri tronchi e sorrisi laterali, trovava la propria fine sulle labbra della dolce dea, non appena il piccolo piede aveva varcato la soglia intima. Come un assetato, il dio nero si era avventato su quella bocca impetuoso e passionale, nella disperata esigenza di un bacio che fosse solo loro.

Le spalle premute contro l’uscio appena chiuso, le braccia inermi lungo i fianchi: Persefone offriva le labbra, ardente allo stesso modo.

 “Mio signore”.

“Ade, chiamatemi Ade. Tra queste mura voi e io siamo sposo e sposa. Non sovrani, non dei, solo esseri promessi l’uno all’altra”.

L’avernale, voce roca e sguardo caldo, aveva accarezzato il volto rosato della giovane al suo cospetto. Le pietre preziose che le ornavano la chioma non potevano in alcun modo competere con gli occhi vivi e brillanti, dolci e liquidi della sua signora.

“Ade, amato sposo”.

Fronte contro fronte, perso nell’odore di vita e morte che in lei trovava un fatale equilibrio disturbante, aveva mormorato a sua volta:

“Il nostro tempo è eterno”.

Improvvisamente angustiata, la dea aveva portato alle labbra la mano del dio baciandone le nocche.

“Dovrò lasciarvi tra pochi mesi”.

“Finirà anche il tempo dell’assenza, sposa amata, tornerete da me. Questo, per sempre”.

Come un padre amorevole, come un compagno fedele, egli aveva modulato la voce in modo tale che ella percepisse la sincerità del suo cuore.

“Nessuno, oramai, può separarci”.

Il nuovo bacio era stato un sfioramento delicato, un assaggio di labbra lento. Indugiava su quella bocca dolce e schiusa mentre mani gelide la stringevano per la vita in una carezza intima.

“Avete paura?” Il sospiro roco, sibilo tentatore, si insinuava nelle profondità di quel corpo tremolante; il cervello, scosso da emozioni sconosciute, non la sosteneva in quella dolcissima lotta che sapeva voler perdere.

“Dovrei averne ma mentirei a me stessa e a voi. Vi ho invocato, pregato, cercato nelle ombre. Io vi appartengo, dio nero, vi appartengo da sempre e vi desidero con tale forza da sentirmi male”.

In uno slancio di pura sincerità, ella aveva parlato con gote imporporate e occhi scintillanti, scatenando nel dio atroci aggrovigliamenti al basso ventre.

Ade, ossimoro vivente, la sfiorava come un demone dannato, la guardava come un innamorato e la sorreggeva tra le braccia al pari di un sovrano: il volto affilato emanava regalità, dannazione e sentimento.

Sollevata tra le braccia la giovane sposa, l’aveva condotta senza sforzo presso le loro stanze e, adagiata gentilmente al suolo, la invitava a familiarizzare con quei luoghi che, adesso, per loro, significavano casa.

In un silenzio carico di aspettative aveva poi chiuso le porte e oscurato le luci con pesanti drappeggi, affinché solo la fiamma del camino riscaldasse le loro figure, ora strette in un abbraccio.

Ma lì, in quel primo contatto che li vedeva sposi e soli, l’avevano sentita, forte e vibrante.

Ahi loro.
 

“Fratello! Dolce Persefone!”

 Una voce, squillante e calda, riempiva la stanza privata degli sposi.

“Lasciate che vi benedica col fuoco domestico che nutre l’amore familiare”.

Estia, essenza fumosa e spettrale, parlava loro attraverso le fiamme ardenti del camino.

Il suo palesarsi improvviso aveva costretto gli sposi a sciogliere l’abbraccio ardente, preludio di carezze ancor più intime.

“Sorella…”

Ade, seccato e rassegnato, la guardava attraverso la fiamma e, offertale una mano, la conduceva fuori da quel braciere permettendole l’approdo sul duro pavimento nero.

Riguadagnata densità di corpo e spolverate le vesti, Estia si era gettata tra le sue braccia per poi rivolgere le sue attenzioni all’amata nipote.

“Persefone, bambina mia”.

La commozione rendeva gli occhi della dea brillanti.

“Il mio cuore tremava di gioia mentre le fiamme consumavano il vostro voto”, le aveva sistemato una ciocca fuggiasca dietro l’orecchio,
“state tranquilla per vostra madre, lei sa e accetta”.

Estia, materna, aveva preso il volto rosato della giovane tra le mani e dopo baci e carezze, nuovamente la rendeva allo sposo impaziente.

“Vi ho, per caso, interrotto?” Furba, assottigliato lo sguardo in un’espressione maliziosa, aveva scrutato i volti dei consorti, rosso e imbarazzato quello della dea, turbato dall’attesa quello del fratello.

Le risposte erano giunte immediate e contrarie:

“Si”, Ade secco e brutale.
“No, cara dea”, tenera Persefone.

Una nuova risata, questa volta fragorosa e divertita, aveva riempito la stanza quando, all’improvviso, un nome, quasi abbaiato impazientemente, richiamava l’attenzione dei tre.

Proveniva da oltre fiamma.

“Estia!”

Il silenzio ricevuto in risposta non aveva frenato la ricerca di quello.

“Divina Estia, per l’amor dell’Averno! Lasciate i sovrani in pace!”

Radamanto, molto probabilmente dal camino presso le sue camere, intimava perentorio la ritirata di quella, invitandola categoricamente a lasciare quelle camere private.

“Perdonatemi, sovrani d’Averno”.

Il sorriso genuino brillava sul volto della piccola dea.

“Volevo solo unirmi a voi in questo momento di gioia e di festa. Vi amo, teneramente. Tutti e tre!” L’ultima parte l’aveva urlata affinché anche quello dietro il braciere potesse udire le parole devote.

Era stato Ade ad abbracciarla, a stringerla al petto per primo, poi si era aggiunta Persefone.

“Andate adesso, anche voi siete attesa”.

Un raro sorriso illuminava il volto del dio nero.

“E ricordate, sarete sempre la benvenuta qui, nei nostri domini”.

Un grazie commosso era stato il tremolante saluto della dea di fuoco, risucchiata dalle fiamme ardenti.
 
 
 

Nuovamente soli, leggermente straniti ma divertiti da quella simpatica intrusione, gli innamorati avevano azzerato la distanza tra loro, ricongiungendosi in un bacio lento.

“Siete sicuro che nessun’altro varcherà queste porte?”

Dolcemente, Persefone, aveva baciato l’angolo delle labbra sottili per poi posarne altri sulla guancia liscia e su, ora sulle punte, sulla tempia.

“No, mia divina”.

Una malia, scagliata distrattamente, rendeva impetrabile la porta, il braciere, le finestre.

Soli, completamente soli e persi l’uno nello sguardo dell’altra, si erano nuovamente baciati e, questa volta, qualcosa ben oltre la castità e la purezza li animava.
Avvinti in un abbraccio serrato, si scambiavano bisbigli innamorati mentre, ad uno ad uno, monili, fibbie, lacci e stole, cadevano o frusciavano al suolo.
In un silenzio spezzato da respiri agitati, Ade l’aveva spogliata con lentezza beandosi della vista di quella pelle a lungo desiderata, e quando il corpo della dea si era mostrato in tutta la sua florida bellezza, non era riuscito a distogliere lo sguardo da lei che lo scrutava meravigliata a sua volta.
In quegli occhi grigi e liquidi come metallo fuso, ella scorgeva dannazione e pace eterna.
Anche lui si era spogliato, con lentezza.

Più precisamente era stata lei a denudarlo, sollevando e poi abbandonando al suolo la veste preziosa, rivelando la bellezza virile del dio.
Le fiamme ardenti del camino illuminavano i corpi nudi, vicini eppure separati.
Stranamente silenziosa, Persefone, lo osservava dal basso, gli occhi lucidi e grandi, la sottile pelle d’oca, il respiro sottile: tutto in lei testimoniava lo sconvolgimento del cuore.

E lui non aveva resistito oltre.

Come istigato da quello sguardo che sapeva di preghiera e supplica al contempo, il dio aveva poggiato le labbra su quelle della giovane, esigendo un bacio profondo, passionale, umido, trovando la morte su quelle labbra rosate e schiuse unicamente per lui, intente, tra un sospiro e l’altro, ad invocare il suo nome in un bisbiglio ciclico.
Afferrate le cosce tornite in un gesto lento, l’aveva adagiata sull’immenso letto; sopra di lei, come un predatore che bracca la preda, si era perso nella contemplazione spudorata di quel corpo morbido e seducente e quando quella, eccitata dalla profondità dello sguardo con il quale egli la divorava, aveva allargato le braccia in un silenzioso ma chiarissimo invito, egli l’aveva presa.
Ne aveva baciato le labbra con terribile lentezza e poi, mai pago, era sceso giù, verso il collo morbido in una meravigliosa tortura fatta di baci e suzioni che, infine, aveva raggiunto implacabile i seni bianchi e piccoli. Le aveva morso, succhiato, leccato le punte turgide mentre le mani, grandi e virili, la tenevano ancorata alle coperte, immobile ed esposta a quel piacere nuovo e troppo intenso perché fosse accolto silenziosamente.
L’aveva sentita gemere quando la suzione del seno si era fatta vigorosa; piccole ecchimosi comparivano sulle rotondità nivee per l’intensità di quelle carezze.

Ma non per questo era stato clemente, affatto.

Quella scia rovente non si era arrestata sui seni, no, aveva continuato il proprio percorso, fatto di baci e morsi delicati, fino a quando un singulto, più forte di altri, lo accoglieva tra le gambe di quella, sconvolta.

“Ade, no, vi prego”, aveva mormorato ad occhi sgranati e persi nella contemplazione della sua bocca, ora lontana presso lande intime e nascoste.

“Voglio farvi dono di ogni piacere”, aveva ruggito quello, travolto dalla passione.

Ancora il suo nome, Ade, sospirato sconclusionatamente, faceva da sottofondo a quelle carezze intime e nuove: la testa di lei, ricciuta e adorna di ciocche fuggiasche, spinta indietro, gli occhi umidi persi nella contemplazione di un punto nel vuoto.

 “Ade”, aveva singhiozzato con occhi umidi e gote rosse per il piacere.

“Ade”, aveva bisbigliato mentre mani artigliate sulle sue spalle lo spingevano sopra, verso di lei, in una disperata ricerca di quelle labbra gelide che da troppo mancavano
contro le sue; il corpo del dio, scivolando morbidamente sul suo, generava una terribile e meravigliosa frizione di nudità.  

“Vi amo”, il dio, accolto e bramato, le dichiarava il suo amore in un bacio solenne.

“Vi amo, ardentemente”.

Persa in quel caos di carezze, Persefone sentiva la sua erezione premere sul ventre; Ade, non meno travolto di lei, tentava in ogni modo la resistenza.
Occhi negli occhi, respiri affannati e condivisi, il dio dell’Averno aveva fatto pressione sulle braccia per trovare la giusta posizione tra quelle gambe che sapevano di terra dei beati. L’aveva osservata attentamente, scrutata fin alle cavità dell’animo alla ricerca di un qualche timore ma aveva trovato solo desiderio ed emozione.

“Ade, mio signore”, aveva ripetuto quella in un sospiro, mentre una leggera pressione schiudeva il delicato centro del suo corpo.

“Farà male?”

“Si, mia amata.” Consorte del vero, Ade accarezzava il volto della sposa impaurita e quando negli occhi di quella aveva letto la muta domanda:

sarete delicato?

Aveva risposto mormorando il suo nome con amore mentre una prima pressione, leggera ma tangibile, schiudeva le membra morbide e inviolate.

La prima vera spinta, più incisiva rispetto alla precedente, l’aveva fatta tendere come una corda di lira; le labbra strette e bianche per la pressione, trattenevano a stento gemiti di dolore e sorpresa mentre lo sposo forzava la virginea soglia.
La seconda spinta, decisa nella sua imperturbabile lentezza, l’aveva presa, conquistata, dominata.
Ade, in un lungo gemito gutturale, simile al ruggito di una belva feroce, la faceva sua, unicamente sua, mentre quella, interamente focalizzata sull’invasione che le tormentava il basso ventre, non percepiva che lui, solo e soltanto lui, ora centro del suo intero essere. Un dolore nuovo le stringeva in una morsa le viscere mentre il dio, tremante sopra di lei, tentava l’immobilità quel tanto che bastava per offrirle qualche istante di calma prima dell’ennesimo affondo.
Pochi istanti dopo, quando le labbra rosate si erano leggermente arcuate in sorriso amabile, si era nuovamente mosso, piano e cautamente, affinché ella saggiasse la profondità di quel nuovo legame.

“Mia”.

Ade, persa ogni razionalità, la osservava beandosi spudoratamente di quel corpo imperlato di sudore ed esposto a lui e al suo volere.

“Mio” aveva mormorato quella, stordita dalle prime fitte di piacere che trovavano eco nel volto trasfigurato del marito.
 
Quando i loro corpi, uniti e tremanti, avevano trovato l’equilibrio, Ade si era fatto più deciso e intrepido, aumentando l’intensità con la quale sanciva quel legame. Le spinte diventavano rapide, accecate dalla brama e dal desiderio, al pari di una danza cadenzata fatta di scivolamenti e frizioni.
E se lui percepiva distintamente l’odore di femminilità e piacere, quella tra le sue braccia godeva per la dolce e passionale intrusione, cullata dal profumo di anice, ambra e sudore del dio che l’avvolgeva tra le braccia forti.
Stretto dalle carni tenere in una serrata e dolcissima morsa disturbante, aveva definitivamente smesso di controllare il suo io più brutale e passionale quando Persefone, gemente, lo aveva implorato chiamando per nome.
Ade, sospiro turbato dal piacere mormorato contro le labbra sottili, aveva sciolto definitivamente la fiera che da dentro ruggiva feroce: le aveva sollevato le gambe sopra le spalle affinché quella tormentata unione si facesse più profonda, appagando lui, stravolgendo lei.
L’aveva vista sgranare gli occhi, schiudere le labbra a forma di piccola “o” prima che una nuova scarica di piacere, più intensa e brutale delle precedenti, la costringesse ad aggrapparsi alla sua schiena in una sequenza di gemiti disperati e contorcimenti; consacrata a lui e a lui soltanto.
Preso il suo viso tra le mani con l’ultimo barlume di coscienza rimastole, la dea aveva bisbigliato in gemiti spezzati:

“Il mio corpo è il vostro tempio”, poi, abbandonata a quelle labbra fameliche e alle spinte veloci e profonde, in poco tempo si era sentita come squarciata, rivoltata e tremante
mentre un lungo e gutturale gemito fuoriusciva dalla bocca.

Bruciato da quel voto, eccitato dal parossismo violento della sua sposa, Ade aveva intensificato la forza delle spinte e, in pochi colpi profondi, ognuno capace di strapparle ulteriori singulti scomposti, aveva perso se stesso, in lei.
 
 

 

Un movimento, leggero frusciare di lenzuola, un respiro lento e profondo.

Luci soffuse provenienti unicamente dalle fiamme del camino.

Un piacevole calore le avvolgeva il corpo, concentrandosi soprattutto all’altezza del basso ventre indolenzito.

Nell’inconsistenza del sonno che in breve diventa veglia, aveva spostato il peso del suo corpo sulla schiena e, con lei, aveva distintamente percepito qualcosa, o meglio, qualcuno, seguirla in quel movimento.

Un attimo di sfolgorante confusione aveva preceduto il ricordo.

Ade.

Sbattute le palpebre assonnate, Persefone finalmente metteva a fuoco quanto la circondava.

Stesa sull’immenso talamo nuziale, ricoperta da un leggerissimo lenzuolo, giaceva adesso stesa sulla schiena mentre il dio, profondamente addormentato al suo fianco, la teneva stretta a sé; la sua mano gelida posata morbidamente sopra un seno bianco.

Uno, forse due respiri erano andati persi nella contemplazione di quello spettacolo intimo e nuovo.

Eppure, non provava alcuna vergogna, anzi.

Alcune immagini indistinte le riempivano le mente, riportando a galla momenti di insaziabile passione vissuti con lo sposo florido che, adesso, le riposava vicino.

Per la prima volta dormivano insieme.

Per la prima volta si sarebbero destati dalle ombre di Ipnos insieme.

Sollevata lentamente la mano sinistra, come fa una madre amorevole, aveva accarezzato il volto dell’amato. Un filo di barba ispida ombreggiava il volto etereo, ora disteso nella serenità del sonno.

Ricordava, Persefone, con quanto amore, lui l’avesse guardata quando, esausti dopo l’amplesso, erano caduti tra le morbide coperte.

Stretti l’uno tra le braccia dell’altra, Ade le aveva mormorato il suo affetto a fior di labbra e poi, costringendola a guardarlo negli occhi lucidi di desiderio appagato, le aveva rivelato con quanto ardore avesse desiderato quel momento e con quanta emozione avesse accolto il voto pronunciato durante la loro unione.

Solo a quel punto lei si era stretta a lui e osservandolo con infinita dolcezza, aveva ripetuto il medesimo vincolo:

il mio corpo è il vostro tempio, mio signore amato. Il mio cuore è la vostra dimora”,

e tra quelle braccia che amavano con passione, stringevano con desiderio e sorreggevano con solenne devozione, ella si era addormentata felice.
 






 
 


 
L’angolo di Avareil
Carissimi lettori, carissime lettrici, spero con tutto il cuore che l’attesa sia stata ben ripagata. Questo capitolo è stato il più emozionante dell’intera storia, nonchè il più complesso da un punto di vista psicologico: volevo che Ade e Persefone fossero veri, reali, umani per quanto legittimo per delle divinità, senza mai banalizzare il sentimento.

Il canto di Imeneo è ideato sulla scia della mente geniale di Catullo.

Con tutto il cuore spero di avervi emozionati e vi sarei infinitamente grata se voleste condividere con me i vostri pensieri e le vostre opinioni.

Inoltre, vorrei salutarvi ma non posso,  la storia non finisce qui.

Come ringraziameto per voi, sempre presenti, sto ideando un breve epilogo che posterò prima di sabato.


Un bacio e a presto.

La vostra Avareil.

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***


 
Epilogo
 
Se ne era andata dalle sue camere con un sorriso furbo disegnato sulle labbra.
Aveva detto:
“A presto, mio amato giudice. Ho in serbo qualcosa per voi”, ed era sparita tra le fiamme, lasciandolo solo e con un’espressione atroce dipinta sul volto.

La curiosità, strana belva sconosciuta, si presentava al suo cospetto brutta e ambigua.

Turbato, incapace di capire quello strano comportamento, Radamanto l’aveva chiamata per nome nella vana speranza che fosse ancora lì, raggiungibile dalla voce, nascosta tra le scoppiettanti lingue di fuoco ma, non era giunta nessuna risposta.

A presto, mio amato giudice.
Ho in serbo qualcosa per voi.
 
Il primo giorno aveva atteso pazientemente, cullato dal ricordo del sorriso amato.
Il secondo, la bestia da poco conosciuta, era giunta in visita e con essa, indesiderati, uno stuolo di interrogativi:

“Ma cosa starà facendo?”
“Dove si sarà cacciata?”
“Starà bene?”

Ma il terzo dì, infausto per l’Averno che l’aveva per abitante, Radamanto aveva dato il peggio di sé.

Né il sonno né la veglia gli recavano conforto: ferito da quell’assenza immotivata, turbato da domande alle quali non sapeva trovare una risposta, si sentiva in gabbia, trattenuto lontano da colei che amava e che, però, si nascondeva alla sua vista.

Aveva dovuto aspettare sette giorni, sette dannatissimi giorni prima che quella facesse ritorno.

Furioso, divorato dalla rabbia e dall’assenza, non aveva sollevato un sguardo verso le fiamme ed anzi, non volendo proprio incrociare quegli occhi brillanti, aveva dato le spalle al camino vivace, intento nella quotidiana abluzione delle membra.
 
“Radamanto!”
“Mio signore?”

Estia, entusiasta e allegra come chi non sta più nella pelle per l’impazienza, lo chiamava con ardore mentre il fumo si faceva corpo e l’incenso profumo di donna.
Ostinandosi in quella guerra di logoramento, il giudice aveva continuato a darle le spalle, offrendole, però, uno spettacolo senza eguali: ella, infatti, si era come ammutolita quando lo sguardo desideroso si era imbattuto sulla schiena tonica e definita dell’avernale sulla quale rotolavano goccioline di acqua limpida; un caloroso, sicuramente sensuale, benvenuto.

“Radamanto, volete sedurmi? Perché io sarei già sedotta, ora, subito”,

ella, scherzando – o forse no? – si era avvicina col chiaro intento di abbracciarlo da dietro ma il giudice, ora mal celando l’astio represso, si era scostato emettendo un cavernoso ruggito.

“Radamanto?”

Intristita da quella reazione, la dea gli si era fatta dinnanzi nella vana speranza di incrociarne lo sguardo ma, quello la evitava.

“Si può sapere che vi prende, cocciuto di un giudice?”

Mani sui fianchi ed espressione impettita, Estia esigeva una risposta, chiaramente offesa.

“Niente, assolutamente niente”.

“E allora perché fate così?”

“Così come, di grazia?”

“Come uno stupido, arrogante e gelido avernale”. Estia, dura perché toccata da quel comportamento distaccato, l’aveva affrontato a muso duro esigendo il suo sguardo, strattonandolo per un braccio.

“Se mi ritenete tale fulgido esempio di vizi, perché non ve ne andate altrove?”

L’aveva fulminata con uno sguardo laterale, l’espressione vitrea, i denti stretti per la rabbia che esplodeva nel cuore.

Rabbia nutrita dal veleno dell’assenza.

Ferita da quella risposta, Estia, non riuscendo in alcun modo a capire il motivo di quella feroce reazione, si era morsa l’interno guancia nel vano tentativo di evitare risposte di cui si sarebbe potuta pentire.

“Bene, vi lascio solo. Non vi disturberò oltre”, un mormorio glaciale aveva preceduto i veloci passi verso il camino.

Un piccolo tonfo, poi solo il silenzio.

Un’imprecazione sfuggita con ira dalla bocca, la bacinella scagliata per terra con rabbia.

Bravo Radamanto, l’hai rifatto!
Sei riuscito a farla scappare, nuovamente!
Non è proprio questo che odi?
Che lei vada via senza la possibilità, per te, di seguirla? Non è questo che avvelena il tuo sangue?
Un essere più furbo eviterebbe di farla scappare.

La voce dell’animo, unica lucida in quel fiume di rabbia, rimproverava l’avernale irato.

Ma cosa poteva la razionalità contro la gelosia e la preoccupazione?

Dove era stata?
Con chi era stata?
Che cosa aveva fatto?
Che cosa aveva in serbo per lui?

Una gelosia stupida, lo sapeva, simile a quella dei bambini, che nulla aveva a che vedere con la fiducia quanto piuttosto con l’impossibilità di poterla seguire, di poter vivere con lei ogni giorno e ogni notte.

Questo lo uccideva dentro.

…Ed era già morto.
 
Raggiunto il letto vi si era seduto con un tonfo, la testa stretta tra le mani.
Un sottile alito di vento, le pesanti tende scosse da una brezza frizzane, il fuoco ondeggiante tra le braci: questo l’aveva ridestato dal suo rammarico e, solo in quel momento, l’aveva visto.

Un pacco sottile, avvolto in carta finemente decorata, stava immobile ai piedi del focolare, e sembrava osservarlo con rimprovero.

Il regalo.

Mosso da una curiosità intossicata dal senso di colpa, l’aveva raccolto con infinita delicatezza e lì, sul letto, l’aveva scartato.
 
Non aveva mai sorriso in quel modo, un calore avvolgente lo riscaldava dentro.

Tra le mani reggeva un quadro, un piccolo e delizioso quadro raffigurante il tempio della dea Estia, vivido per colori e realistico oltre misura, in cui ella stessa era stata ritratta sorridente e benevola. Sembrava vera, gli occhi brillanti lo fissavano con amore.  

“Sarà come avervi sempre qui, ospite amato.”

Recitava la dedica scritta con grafia di donna, morbida e rotonda, dietro la tela.

“Sarà come avervi sempre qui, al mio fianco, ospite amato.”

L’aveva letto e riletto con tale ardore da sentire nelle orecchie la voce amabile della sua dea, oppure…

Con il cuore in tumulto si era voltato con lentezza per scorgerla dietro di lui, in piedi sul letto; ella lo fissava con gli occhi lucidi.

“Mi dispiace, sono stato un idiota”.

“E’ vero, lo siete stato”.

Ora inginocchio alle sue spalle, Estia gli aveva allacciato le braccia intorno al collo e con un bisbiglio solleticava il suo orecchio:

“E io non mi sarei dovuta assentare per così tanto tempo senza offrirvi una spiegazione. Perdonatemi, cocciuto giudice”.

Un bacio sulla guancia non aveva ammansito l’avernale:

“Cocciuto io? E voi allora?”

“Nel mio caso il termine giusto è determinata”, ma le risate l’avevano travolta quando Radamanto, adesso più sereno, in una mossa delicata l’aveva spostata tra le sue braccia per zittirla in un lungo e profondo bacio.

“Radamanto?”

Il nome, mormorato labbra contro labbra, aveva avuto il potere di ridestarlo dal tornado di sentimenti.

“Si, mia signora?”

“Vi amo”.

Aveva sorriso, la dea, piacevolmente toccata dallo sbigottimento sincero di quello.

 “Mi amate anche se sono uno stupido, arrogante e gelido avernale?”

“Non vi amerei se foste diverso da come siete”.

La carezza sul volto, delicata e leggera, si era spinta oltre, verso le labbra da gatto ora distese in sorriso innamorato.

Le aveva baciato le dita prima di ritornare famelico sulla sua bocca, esigendo quel contatto di cui aveva sentito terribilmente la mancanza.

“Appenderete il quadro presso le vostre camere?”.

“Certamente, mia signora. Ma dopo”.

Il sorriso sghembo si era perso in un bacio umido mentre la faceva stendere sul letto rivestito da scure lenzuola.

“Vi siete assentata per sette giorni. Ora dovrete risarcirmi”.

“Cosa posso fare per voi, mio signore?”, il sorriso rendeva frizzante la parola.

“Dovrete rimanere con me, al mio fianco, per sette giorni e sette notti”.

Una risata divertita era sfuggita dalle labbra rosate, la felicità, adesso, le aveva contagiato gli occhi.

“E al termine di questi? Mi manderete via?”

“Sciocca dea”, aveva mormorato contro le sue labbra,

“a quel punto troverò un altro modo per legarvi a me”.

E affondato il volto nell’incavo tra la spalla e il collo, si era perso in quel profumo che sapeva d’incenso e fuoco.

Oh dei, quanto gli era mancata.
 


°°°
 

Poteva, solo la sua voce, ridurla in quello stato?

Persefone sedeva compostamente sul grande scranno nero. La schiena rigida, le mani strette in grembo, lo sguardo fisso dinnanzi a sé: sembrava attenta, la dea, eppure, turbata, non riusciva a focalizzarsi su nulla che non fosse quella maledetta voce.
Ade, sovrano e giudice massimo di quel regno, parlava con tono di comando, impassibile, imperscrutabile, solenne, e la sua voce, solitamente pacata, acquisiva come un gusto metallico capace di procurarle all’udito quel sottile e sibilante piacere simile a un bacio brutale, che termina in un morso o in un gemito roco.
Aveva distratto la mente, rivolto altrove gli occhi, stretto le mani tanto serratamente da ferirle con le unghie ma nulla, assolutamente nulla, l’aveva resa sorda.
All’ennesimo comando, formulato con ferma volontà, le mani affusolate erano corse ai braccioli di pietra, le gambe, per istinto incondizionato, ora strette, frementi, sbandieravano al vento l’incapacità della dea di star ancora seduta.

“Persefone?”

“Persefone?”

“Sì?”

Come colta in flagranza di un qualche reato terribile, ella aveva risposo al secondo richiamo con voce tesa.

“Sì, mio signore?”

Ade, stranito dal fare di quella, aveva cercato il suo sguardo mentre la mano gelida afferrava quella piccola e calda.

“State bene?”

Come ustionata da quel contatto, la dea si era ritratta maldestramente e, vergognosa, non aveva avuto il coraggio di dire alcunché.
Non si era fatto attende lo sguardo, ora sottile e indagatore, con il quale Ade tentava di eviscerare i desideri più profondi e proibiti della dea e, per questo motivo, scattata in piedi, si era data alla fuga.

“Mio re, perdonatemi”.

Rossa in volto, vergognandosi per quella sua mancanza di serietà, aveva lasciato la sala per trovare riparo nella cella in cui si ergeva l’altare del dio.

Ma cosa ti passa per la mente, sciocca dea?
Il tuo sovrano svolge un compito delicato, che richiede risolutezza e saggezza e tu, dea impulsiva, pensi alla sua voce?
Sì, magari fosse solo la sua voce… svergognata!

Una mano sul volto vergognoso celava gli occhi, ora pieni di lui.

“Persefone”.

Dal buio delle ombre, come richiamato dai suoi più oscuri pensieri, si era, infine, palesato Ade: le spalle ancora cinte dal mantello regale, gli occhi attenti alla ricerca di una qualche spiegazione.
Ma la bocca della dea, serrata dall’imbarazzo, si manteneva muta, incapace di formulare risposte.

“Parlatemi. Adesso.”

Fulminata da quel comando, da quella voce che, nuovamente si faceva brutale e dolcissima per le sue orecchie, ella lo aveva guardato negli occhi, ostinandosi in un tombale silenzio.
Illogicamente, irrazionalmente, se contrariarlo significava poter sentire ancora e ancora quel tono metallico e vibrante, ella allora sarebbe rimasta zitta in eterno.

Stupida, stupida kore.

Aveva scostato la mano rivelando occhi fieri e letali.

Silenziosa e immobile, lo fissava implorante.

“Voi, dea d’Averno, osate mancarmi di rispetto?”

Ade, ora palesemente infastidito da quella situazione, per lui assolutamente priva di senso, aveva mosso dei passi verso la dea, spogliandosi della carità matrimoniale e assumendo il tono del re.

Quel tono.

“Parlatemi, ho detto.”

Un nuovo ordine, una nuova fitta al basso ventre, e più quello si avvicinava, più le gambe si facevano tremolanti e incapaci di sostenerla.
Chiaramente furioso, come ombra le si era fatto dinnanzi, a pochi centimetri e, sollevatole il volto con fare scrutatore, aveva osservato gli occhi, incapaci di qualsiasi menzogna.

“Persefone...”

Il tono, ora stupito, smascherava la debolezza del cuore della dea.

E…non c’era stato bisogno di aggiungere altro.

Ella, infatti, incapace di ogni ulteriore resistenza, si era praticamente gettata tra le sue braccia, esigendo con foga la bocca sottile e gelida.
Gli aveva preso il volto tra le mani, baciato con passione le labbra che, schiuse, le concedevano adesso un umido incontro di lingue.
Pur desiderando sentire ancora e ancora quella voce, non era stata capace di allontanarsi, di porre fine alla sragionata mania che la pervadeva, e l’aveva baciato sul volto, sulle guance, sul filo della mandibola squadrata e giù, sul collo, dove i baci si alternavano a delicati morti.
Ade, letteralmente assalito e braccato dalla passione di quella, l’aveva accolta ridente prima che le iridi, grigie e placide, venissero offuscate dal desiderio.
 
Persefone, mani tremanti e sottili, aveva slacciato il mantello, sciolto la cinta regale e, emozionata e impaziente, accarezzava quel corpo ricoperto dalla tunica nera. Tenui ruggiti rochi risalivano dal petto del dio.

“Ferma”. Un bisbiglio cupo, mani gelide stringevano i piccoli polsi.

L’aveva sentita tremare, come scossa da un brivido lungo la schiena e sedotto da quella visione di donna, innocente e desiderosa, l’aveva afferrata per le cosce tornite e, sollevata sul bordo dell’altare nero, in un gesto ne aveva tirato su anche le gonne.
Persa negli occhi di demone, Persefone aveva tentato di liberarsi, ma un solo e secco
ferma, kore”, comandato direttamente a pochi centimetri dall’orecchio, l’aveva completamente soggiogata permettendo al dio di schiuderle le ginocchia per trovar posto tra le gambe affusolate.

Ma era stata lei a stringerlo più vicino affinché i loro corpi si sfiorassero, era stata lei a sollevargli con lenta spudoratezza la pesante tunica. Era stata lei a baciarlo, invitandolo a saziarsi di quella bocca e di quelle carni che gli venivano offerte con devozione e amore.

 L’aveva fatta sua in un solo e umido movimento.

Quasi brutale, quasi selvaggio, infinitamente giusto.

In un gemito strozzato lo accoglieva in sé e, finalmente accontentata, languida aveva allacciato le gambe intorno alla sua vita.  
Ade, stretto in una morsa di puro piacere, le aveva nuovamente ordinato di stare ferma, di non emettere un solo gemito fino a che lui non l’avesse ordinato e, presso quel luogo a lui infinitamente caro, l’aveva posseduta con ardore, lasciandosi travolgere a sua volta. 
Le spinte si erano fatte folli, umide, profonde, la carne tenera lo avvolgeva stretto, donandogli un piacere senza ragione; poi l’aveva sentita tremare, bagnata da umori.

“Mio signore”, aveva bisbigliato tra i denti, occhi sgranati per il piacere e imploranti.

“Dite il mio nome”.

Poderose spinte l’accartocciavano, riempivano, distruggevano.

“Mio re.” Aveva mormorato disperata e persa nel piacere eppure intenta, fino all’ultimo, nel contraddirlo per ottenere quella voce impietosa e maledetta.

“Ho detto: invocate il mio nome”.

 La voce ferrea era giunta al suo orecchio come fuoco bollente, a dispetto del grande gelo lasciato dall’assenza di quel corpo.

Tradita da quel vuoto che lui le imponeva –Ade, infatti, si era distaccato e adesso la osservava implacabile e intimamente compiaciuto– lo guardava supplichevole.

Quegli occhi, maledetti, l’avevano stregato.

Afferrata per i fianchi e fatta scendere dall’altare nero, l’aveva girata di spalle, denudandola completamente in un unico gesto impaziente.

“Irrispettosa, osate ignorare i miei ordini?”

Alle sue spalle, carezzevole come un demone, le aveva sfiorato la schiena prima che una mano, gentile ma decisa, afferrasse la chioma oramai scarmigliata. Una leggera pressione, il volto della dea sollevato, un altro sibilo vicino al suo orecchio.

“Dite il mio nome”.

Un altro ordine, accolto con un leggero cenno del capo, faceva da preludio ad una nuova invasione.
Si era spinto in lei lentamente, perché saggiasse, istante per istante, il dominio che lui era capace di esercitare sul suo corpo.
Poi, l’aveva invocato. Gemito roco e strozzato, lei lo chiamava per nome, lo supplicava, lo implorava, tormentata dal piacere che quella strana posizione le regalava.

Ade” sospirava la dea e più gemeva più lui la prendeva, costringendola a urlare più forte, in onore di quell’altare a lui sacro sul quale ella veniva posseduta con ardore.

Un ruggito roco. Due mani le afferravano le cosce con foga, le ultime spinte, poi si era perso in lei, gemente.

Due braccia forti l’avevano stretta contro il suo petto, leggere carezze le riscaldavano le spalle; l’aveva chiamata mio amore, e poi aveva esatto un bacio.
Si erano guardati a lungo, avvinti in quell’abbraccio.

“Non voglio lasciarvi, non voglio, mio amato”.

Angosciata dallo scadere dei giorni, Persefone aveva affondato il viso nel petto del dio.

Per la prima volta, Ade, non aveva trovato parole gentili con le quali consolarla.

°°°      
 

Non era stato facile.

Non era stato facile sciogliere quell’abbraccio.

Non era stato facile sapere che quel bacio, scambiato con amore, sarebbe stato l’ultimo.

Assolutamente impossibile guardarlo negli occhi e leggervi lo stesso tormento che la logorava dentro; per questo motivo si era voltata di scatto, incapace di resistere, e aveva varcato le immense porte nere senza più voltarsi.

Che fosse il giorno giusto l’aveva sentito dentro.

Il richiamo vibrante della vegetazione, il frusciare delle foglie verdi, il respiro del grano smosso dal vento frizzante. Non era più tempo di riposare: il sottosuolo, ricco di nutrimenti, offriva la vita alla flora verdeggiante e piena.
Ma per quanto sentisse quelle voci richiamarla alla luce e al cielo azzurro, non era riuscita a mantenere il cuore saldo, l’animo sereno o la mente sgombra da tristi pensieri.
Per questo motivo aveva intrapreso quella via senza più rivolgere uno sguardo al suo amato: che almeno lui non vedesse il volto rigato da lacrime. Questa la speranza.

Gli occhi persi nella contemplazione di un punto lontano, spenti e aridi, avevano trovato sollievo nello scorgere all’orizzonte una piccola figura allegra e saltellante.

Estia, benevola, le veniva incontro; tra le mani reggeva le monete d’Averno, lasciapassare incontrovertibile.

I loro passi si erano arrestati a metà strada; la prima giungeva, la seconda andava.

“Divina Estia”. Un sorriso mesto illuminava il volto etereo della giovane dea, l’aria d’Averno pungente sulla pelle.

“Mia regina”, un cenno del capo ossequioso precedeva un’espressione materna; la dea del fuoco aveva capito.

“Come state, zia?”

Cosa avrebbe dovuto rispondere?
Che era felice, maledettamente felice al pensiero che il giudice l’attendeva lì, oltre le mura nere?

Con che cuore rivelarle la propria gioia sapendo che quella, invece, si apprestava ad affrontare un momento di grande sconforto?

L’incertezza, lampo sul volto silenzioso, aveva trovato risposta nel sorriso sereno della sovrana.

“Potete confidare tranquillamente la vostra felicità, mi rallegrerò per voi e con questa certezza di sapervi felice e vicina anche al mio sposo, affronterò meglio la distanza”.

Stupita da quelle parole pacate che con solenne nobiltà d’animo Persefone proferiva, Estia ne aveva afferrato le mani fredde e strette sopra il ventre.

“Sarete la felicità di vostra madre, dolce sovrana e, al vostro ritorno, farete quella del dio di questi luoghi”.

Un leggero sospiro aveva schiuso le labbra rosate,

“La sento, lo sapete? Sento chiaramente l’essenza di mia madre, pronta alla fioritura ma monca, lacerata dalla mia assenza, sebbene si ostini nel celebrare i riti in solitudine”.

“Senza di voi non la rallegrano più i cortei di satiri e ninfe”.

“Lo immagino, dolce zia. Eppure so che sentirò terribilmente la mancanza di questi luoghi… di questo silenzio”.

“Ade vi ha corrotta, giovane dea, vi ha arruolato alla causa delle ombre silenti”. La battuta alleggeriva l’aria già grave di nostalgia.

“Il mio sposo abita dentro di me, io sono il mio sposo. Non potevo non lasciarmi travolgere da lui che amo oltre ogni ragione”.
 
Una reverenza del capo poneva fine alla conversazione.

“Arrivederci, cara dea”.

“A presto, Persefone degli altari neri”.

Lì i loro passi si erano nuovamente separati.
 



Era rimasta ferma, immobile sulla soglia d’Averno, meravigliata dai colori della natura che adesso le riempivano gli occhi non più turbati dalla forte luce: poteva vedere il cielo sereno, coperto da cirri bianchi e paffuti o il grano dorato in distese infinite.
E l’aveva fatto, aveva poggiato il piede leggero sull’erba umida di rugiada ma, il coraggio che l’aveva animata, era andato completamente dissolto quando il pensiero di lui si era nuovamente fatto vivido e tangibile.
Con un macigno sul cuore troppo grande da sopportare, si era slanciata nuovamente verso il tetro ingresso e lì l’aveva invocato disperata.

“Non sono abbastanza forte, non posso farcela, mio signore”.

Persefone, consapevole della densità dell’ombra, aveva allungato le braccia, trovando il fantasma del suo sposo pronto a stringerla.

“Calmatevi, mia signora. Vi prego”.

Ade, ombra silenziosa, l’aveva seguita, e adesso, invocato, la stringeva contro il petto, vano tentativo di offrirsi come conforto.

“Persefone”.

Eccola Kore, la sua dolcissima Kore.

“Persefone, guardatemi”.

Serio, aveva modulato la voce affinché fosse pacata ma decisa.

“E’ il vostro destino, abbracciatelo con serenità”.

“Ma voi? Io non voglio separarmi da voi”, afferrate le vesti del dio, ella lo aveva stretto in lacrime.

“… E lo so che vi sembrerò una sciocca, una patetica bambina, ma io vi amo, dio nero, vi amo”.

L’aveva baciata.
L’aveva baciata con foga, cancellando con le sue labbra, il tormento di quelle lacrime. La cullava tra le braccia gelide.

“Invocate il mio nome e io, in un istante, sarò lì, al vostro fianco. Questo, per sempre”.

La dea aveva sorriso leggermente,

“Promettete”.

“Ve lo prometto e, se vostra madre vi tormentasse in qualche modo, fuggite presso il tempio di Estia. E’ totalmente isolato e difficile da raggiungere”.

La battuta aveva avuto il potere di farla ridere flebilmente.

“Andate adesso, prima che ci ripensi e vi trascini con me nell’Erebo terribile”, sguardo liquido, Ade la guardava con un sorriso d’incoraggiamento dipinto sulle labbra.

Un bacio sulla fronte, uno per ogni guancia, uno sulla bocca rosate e schiusa.

Così il dio nero aveva consolato la dolce sposa.
 

Era rimasto lì, sull’uscio, nascosto nelle ombre per lei. Ne aveva seguito l’incedere incerto come un falco tiene d’occhio la propria preda e, quando ella si era voltata per un ultimo saluto, aveva sorriso a suo modo, bellissimo e terribile, per poi disperdersi nell’oscurità.
 
 


Nuovamente sola, ma forte nel cuore per la promessa del dio nero, Persefone, persa nel vento, si era slanciata in una corsa ridente sino al tempio della madre, amata casa della fanciullezza spensierata.
L’aveva trovata in ginocchio, sporca di terra, intenta, come suo solito, nell’esame attento del terreno; le dava le spalle.
 
 “Mamma”.







Fine
Una vita promessa alla morte




L'angolo di Avareil
Emozionata, felice, sull'orlo delle lacrime annuncio la fine di questa storia.
Una storia amata, terribile, fedele compagna per un anno. Grazie a lei ho avuto modo di conoscere lettrici meravigliose, amiche, me stessa.
Ringrazio tutti coloro che mi sono stati vicino con parole di conforto e d'incoraggiamento: sappiate di essere stati ancora solida alla quale aggrapparmi quando sopraggiungevano tempeste. Un sentito grazie anche alle anime silenti: lo so che ci siete e spero di aver allietato il vostro tempo.
Spero con tutto il cuore di sentire i vostri pareri e le vostre opinioni, amerei poter parlare di questa storia e mantenerla viva.

Ho dei progetti, grandi progetti per il futuro.
Prima verrà una revisione massiccia di quest'opera, poi penserò al seguito che, ahivoi, ha già iniziato a delineasi nella mia mente.
A presto, dunque, e buone vacanze estive.
La vostra Avareil. 

 

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