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di ntlrostova
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La sera, il cielo, le stelle ***
Capitolo 2: *** Un silenzio immobile, preparatorio ***
Capitolo 3: *** Ed era solo il primo giorno ***
Capitolo 4: *** Come una partita (Parte Prima) ***
Capitolo 5: *** Come una partita (Parte Seconda) ***



Capitolo 1
*** La sera, il cielo, le stelle ***


And summer's lease hath all too short a date.
Sometime too hot the eye of heaven shines,
And often is his gold complexion dimm'd
.
- Shall I compare thee to a summer's day? / William Shakespeare


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“Oh, vi scongiuro!” piagnucolò Tooru che, seduto contro il muro della palestra, stava cercando di toccarsi le punte dei piedi. “Di certo non sarei qui a pregarvi se non avessi seriamente bisogno del vostro aiuto.”

Tooru riuscì a percepire lo sguardo di disapprovazione che gli lanciò Sawamura Daichi da dove, alla sua destra, si stava passando un asciugamano sul retro del collo per asciugare il sudore. Sawamura trovava particolarmente importante portare rispetto a quelli che erano più grandi, ma, nonostante Tooru ci provasse, ci provasse davvero, Iwa-chan, la questione lo confondeva ancora molto. Dopotutto, qualche mese prima lo era stato lui stesso, un senpai.

Decidendo di ignorare Daichi, Tooru fissò gli occhi in quelli di Fuchigami Jūshirō, capitano della Shokei Gakuin, che se ne stava in piedi davanti a lui con un’espressione turbata stampata sul volto e una mano poggiata sul fianco.

Fuchigami aggrottò le sopracciglia ed arricciò il naso, tentando di comunicare a Tooru, con la sua smorfia, che era terribilmente desolato per le parole che stava per pronunciare, e disse, “Mi dispiace, Oikawa, ma è la mia ultima estate da studente, e non ho tempo da perdere con dei…” Fermatosi per un istante, fece con le mani un gesto il cui significato era noto soltanto a lui e riprese, “…ragazzini.”

Tooru si sforzò di reprimere un rantolo oltraggiato alla parola ragazzini e si rivolse ai suoi altri due compagni di squadra, impegnati ad armeggiare con la rete. “E voi? Okita-san, Kitabatake-san?”

“A dire la verità non mi interessa,” Okita non si voltò, lasciando la rete al compagno, e rimase inespressivo mentre si accovacciava per riallacciarsi le scarpe da ginnastica nuove di zecca, di un vibrante color rosa.

“Quest’estate ho dei piani,” la voce di Kitabatake attraversò limpida la palestra. “Entrerò in un coro e non vedo l’ora. Non posso aiutarti.”

Tooru guardò Okita e Kitabatake lasciare la palestra e pensò, che maleducati, perché non avevano neanche provato a mostrarsi dispiaciuti per lui. Fuchigami li seguì e, con più della metà del suo corpo fuori dalla porta urlò a Tooru e Sawamura, “Chiudete voi, qui? Siete grandi,” poi alzò un pollice e fece loro l’occhiolino, ripetendo, “Siete grandi.”

Quando non fu più possibile sentire le voci di Kitabatake e Okita che discutevano, Tooru sbuffò sonoramente, rendendo evidente la propria irritazione. Il sospiro gli sfuggì leggermente spezzato, ma Tooru dubitava che Sawamura fosse in grado di percepire, soltanto da quello, quanto vicino fosse allo scoppiare in lacrime.

Tooru piangeva per qualsiasi motivo, ed era seccante, davvero.

Guardò Sawamura stringendo gli occhi, in un’espressione che voleva dire, non parlare.

Sawamura ignorò la minaccia.

“La mia estate è libera,” sospirò. “Potrei… darti una mano. Volentieri.

Dalla piega che aveva assunto la sua voce nel pronunciare l’ultima parola, sembrava che Sawamura si stesse sforzando di essere gentile.

Tooru gli rivolse un sorriso scaltro, “Sei così galante, Sawamura-kun!”

“D’accordo,” Sawamura corrugò le sopracciglia in una smorfia disgustata, massaggiandosi il ponte del naso tra pollice e indice. “Se non vuoi il mio aiuto, vado via.”

Per Tooru non era facile volere l’aiuto di qualcuno, ed era ancora meno facile chiederlo. Soprattutto a Sawamura Daichi, ex capitano della Karasuno, che aveva detto volentieri stringendo i denti, sforzandosi, come se non credesse che fare qualcosa con Tooru volentieri fosse possibile.

Pensò ai duecentomila yen che doveva raccogliere per i Lil Tykes. Pensò che Sawamura era uno studente dell’università. Pensò a se stesso e Iwaizumi, sei anni, o forse di meno, che si lanciavano un pallone e ridevano.

Era impossibile.

“Ah, cosa vuoi che me ne importi,” disse Tooru, e sorrise di nuovo, cercando di assumere un tono di voce innocente. “E poi, non pensi che saresti un po’ inutile, Sawamura-kun?”

Senza aspettare una risposta da Sawamura, afferrò la sua borsa e lasciò l’edificio, fermandosi soltanto per dire, “Non dimenticare di chiudere a chiave, quando vai via.”
 
________________


Daichi mise piede nell’appartamento.

Tirando un grosso sospiro lasciò cadere la borsa da allenamento presso la soglia e si sfilò le scarpe, posizionandole accanto a quelle di Sugawara, gettate alla rinfusa, come se avesse avuto fretta di liberarsene.

Daichi le riallineò con attenzione, nel modo in cui a Sugawara piaceva trovarle al mattino.

Attraversò il corridoio e, guidato dalla luce intermittente del televisore acceso, sbucò in salotto.

Sugawara era sdraiato sul divano, guardando il suo canale di cucina preferito, mezzo sepolto da quelli che dovevano essere tutti i cuscini presenti in casa. Daichi riusciva a vederne solo la mano che stringeva il telecomando e un ciuffo di capelli chiari. Sorrise, sentendo sciogliersi la tensione accumulata durante l’allenamento e dopo il discorso con Oikawa. Per tutto il viaggio in treno di ritorno all’appartamento non aveva fatto altro che pensarci, ricordando gli occhi lucidi del suo compagno di squadra. Possibile che ci tenesse davvero così tanto a quell’associazione per bambini? E se era così, perché non aveva accettato l’aiuto di Daichi?

Sugawara lo stava guardando, adesso. Emerso per metà dalla prigione di cuscini, intrecciò il suo sguardo stanco con quello di Daichi e inarcò un sopracciglio.

Daichi si rese conto di essersi bloccato a fissare il vuoto nel bel mezzo del loro salotto e si riscosse. Dimmi qualcosa, pensò, concentrandosi sul viso di Sugawara e sperando che l’altro potesse allontanare i Lil Tykes e la muta preghiera di Oikawa dalla sua mente.

“Daichi,” sospirò Sugawara. “Ho ordinato i biryani.”

Daichi sorrise ancora, rilassando le spalle. Biryani. Il suo piatto preferito.

Nonostante molteplici tentativi, nessuno dei due era mai riuscito a cucinarlo nello stesso modo in cui lo facevano al ristorante indiano dietro l’angolo, perciò adesso lo ordinavano ogni volta.

A Daichi non importava chi lo preparasse, ma per Sugawara il sapore doveva essere lo stesso. Altrimenti gli occhi di Daichi non si illuminavano.

“Adoro il biryani,” Daichi prese posto sul divano e fissò distrattamente la torta matrimoniale sullo schermo. Si meravigliò per l’ennesima volta alla facilità con cui la sua mano trovò quella di Sugawara, alla naturalezza con cui le loro dita si intrecciarono. Per l’ennesima volta, rapito dal suo sorriso, Daichi si stupì di quanto Sugawara lo conoscesse, di come nel suo sguardo si riflettesse la complicità di quando erano compagni di squadra.

Alzala a me, Suga.

Forse non sarebbe dovuto andare via in quel modo. Forse avrebbe dovuto insistere. Chiedere aiuto poteva non essere tipico di Oikawa, ma offrirlo era decisamente tipico di Daichi.

“Grazie,” aggiunse, strizzando la mano di Sugawara. Voleva parlargli di Oikawa e della sua proposta, ma allo stesso tempo sperava di potersi godere quel momento di pace, il primo che la sua vita da universitario gli concedeva da qualche mese.

Quindi sprofondò nel divano e lasciò che i suoi occhi tracciassero la curva della mascella di Sugawara, il profilo delle sue labbra, le linee degli zigomi.

Impresse nella mente, per l’ennesima volta, l’espressione del suo viso offuscato dalle ombre che la luce del televisore proiettava nella stanza, la posizione esatta del suo neo, la sottile ruga tra le sopracciglia, il modo che aveva di arricciare il naso quando uno dei cuochi del programma sbagliava un passaggio e, proprio allora, il campanello della porta squillò, scuotendo Daichi dal suo torpore.

“Tocca a te,” disse Sugawara e gli rivolse un mezzo sorriso. “Io ho telefonato per l’ordine.”

Daichi ridacchiò e sciolse l’intreccio delle loro mani, alzandosi.

“Ho lasciato i soldi sul bancone,” Sugawara si concentrò di nuovo sullo schermo e Daichi, afferrate le banconote, andò ad aprire.

“Signor Yasue,” disse, salutando il fattorino che gli porgeva una busta fumante, con sopra stampato il logo del ristorante indiano. “Come sta?”

“Non c’è male,” il signor Yasue scrollò le spalle. “Due biryani appena usciti dalla cucina. Sono duemilaseicento yen.”

Daichi gli porse le banconote e l’uomo le contò. Yasue era il nipote della proprietaria del ristorante e passava a casa loro almeno una volta a settimana. Aveva un figlio piccolo, sei anni, o forse di meno, di cui non smetteva mai di parlare.

“Dovrei iscriverlo ad un campo sportivo,” stava borbottando adesso. “Non è che tu hai qualche suggerimento?”
 
Il pensiero dei Lil Tykes gli balenò nella mente con la velocità di una porta sbattuta dal vento. “Provi con la pallavolo. Qui a Myagi dovrebbe esserci un centro sportivo per bambini.”

Yasue lo ringraziò e se ne andò sorridendo.

“Suga?” chiese Daichi, mentre mangiavano guardando persone che preparavano portate da gourmet al televisore.

“Mh?” rispose Sugawara, la bocca piena e un sopracciglio inarcato.

“Hai mai sentito parlare dei Lil Tykes?”

“Ah, il club di pallavolo per bambini in cui insegnava anche il vecchio coach Ukai?”

Daichi annuì, “Oggi Oikawa ha detto che se le iscrizioni non aumentano entro l’inizio di settembre lo chiuderanno per sempre.”

“È un vero peccato…”

“Ha chiesto ad ogni membro della squadra di entrare a far parte di una raccolta fondi che sta organizzando.”

Sugawara inclinò la testa da un lato, mettendo giù le bacchette stracolme di riso fritto. “Oikawa? Oikawa Tooru, ex capitano dell’Aoba Johsai? Quell’Oikawa?”

“Quanti Oikawa conosci che frequentano la mia stessa università?”

Sugawara sospirò, lo sguardo perso nel vuoto. “Deve tenerci davvero tanto.”

“L’impressione che mi ha dato è quella.”

“Quindi cosa farai?” chiese Sugawara. “Parteciperai?”

“Gli ho detto che non avevo piani per l’estate, ma lui non ha voluto saperne,” Daichi si portò un altro morso di cibo alla bocca e lo masticò. “Sostiene che io sarei inutile.”

“Tu potresti fare ben poco,” ragionò Sugawara.

 “Suga…” Daichi si grattò la nuca, cercando di non sembrare offeso.

“Intendo, in due non potreste far funzionare una raccolta fondi.”

Sugawara si voltò a guardarlo, un enorme, luminoso sorriso a distendergli i lineamenti. Sembrava più giovane, come quando si erano incontrati al primo anno.

Sei anche tu nel club di pallavolo?

“E se non foste in due?” chiese.
 
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“Iwa-chan,” disse Tooru. “Avresti dovuto sentirli. Non m’importa, Oikawa. Sei un ragazzino, Oikawa. Preferirei cantare, Oikawa. Chi si credono di essere? Sono stato anche gentile.”

Sentì, sotto la sua testa, la schiena di Iwaizumi irrigidirsi. Stava studiando, o perlomeno stava fingendo di studiare, steso a pancia in giù sul letto ed un libro sotto il naso. Tooru immaginò che cominciare a studiare l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze estive fosse una strategia ideata da Iwaizumi per recuperare i cattivi voti che aveva nelle materie che non gli piacevano.

Una strategia per migliorare.

Iwaizumi allungò una mano nella direzione generale di Tooru, sdraiato sopra di lui, con l’intenzione di colpirlo, ma lo mancò. Probabilmente di proposito.

 “Ne dubito.”

Tooru aprì la bocca per obiettare, ma Iwaizumi parlò di nuovo, “Ti aiuterò io.”

“No, invece. Ormai ho abbandonato ogni speranza. Duecentomila yen, Iwa-chan. Sarebbe impossibile.”

“Tu? Che abbandoni le speranze?” disse Iwaizumi, la voce bassa, com’era quando pensava senza rendersi conto di star parlando. Poi, più forte, “Potresti almeno provarci, Idioikawa.”

Non è giusto, pensò Tooru, che mi conosci così bene. Perché la verità era che poteva provarci, e la verità era che non voleva arrendersi. Ma lavorare sodo e poi non riuscire a raggiungere il proprio obiettivo sembrava essere la maledizione che perseguitava Tooru. Secondo a Ushijima, secondo a Kageyama. Non poteva contare su un talento innato, non era mai stato un prodigio, ma aveva sempre usato la sua forza di volontà per combattere, combattere e vincere, e adesso le parole di Iwaizumi gli stavano scavando un buco nel cervello. Allo stesso modo, la voce con cui le aveva pronunciate si era insinuata nel suo cuore e gli stava facendo stringere il petto.

Tooru non disse niente perché, Ouch, Iwa-chan! Dove fa più male. Baciò lo spazio tra le sue scapole, il tessuto della maglietta ad impedire che le labbra di Tooru si posassero sulla pelle di Iwaizumi. Poi, rotolò giù dal letto.

In salotto, si lanciò sul divano e, acceso il televisore, cominciò a cercare un canale che trasmettesse The Arrival o una replica di X-Files o un documentario sullo spazio cosmico in attesa che Iwaizumi smettesse di studiare. Si sarebbe stancato presto, soprattutto se non era costretto a farlo. Soprattutto se Tooru era in un’altra stanza.

Dopo ben cinque minuti, Iwaizumi emerse dalla camera da letto.

Tooru gli rivolse un sorriso amabile. “Già finito? Come farai ad avere dei bei voti come i miei se continui così?”

Iwaizumi scosse la testa, ma Tooru lo vide sorridere di rimando.

“Il tuo cellulare continua a lampeggiare,” disse, sedendosi accanto a lui e passandogli il suddetto telefono.

Tooru lo sbloccò inserendo il codice. (4922426)

da: Sawamura-kun

Sugawara ha mandato un messaggio a tutta la Karasuno.

da: Sawamura-kun

E adesso tutta la Karasuno vuole aiutarti con la raccolta fondi. Alcuni sono più entusiasti di altri.

da: Sawamura-kun

Ho provato a fermarlo. A dirgli che non ti interessa.

“Oh,” disse Tooru, prendendosi la testa tra le mani. “Oh, no.”

“Che c’è?” chiese Iwaizumi.

Tooru gli mostrò lo schermo del cellulare.

“Ah. Che reazione drammatica. Digli che ti fa piacere e sei elettrizzato al pensiero di lavorare con loro.”

“Ma non lo sono!”

“Non fare l’idiota,” sbuffò Iwaizumi. “Sono soltanto dei ragazzi. E sono disposti a sacrificare la propria estate per fare del bene. Senza interessi. Prendi esempio.”

Tooru ignorò la frecciatina e ribatté, “Soltanto dei ragazzi? Sono Tobio-chan e il gamberetto e il resto di quella banda di mostri che ci ha battuti al Torneo Primaverile. Sono il nemico, Iwa-chan.”

“Non lo sono più,” Iwaizumi fece passare le dita tra i capelli di Tooru, e le fermò in modo che sfiorassero il suo orecchio. “Ti ricordi quando facevamo parte dei Lil Tykes? Da piccoli?”

Tooru si morse il labbro, inclinandosi verso la mano di Iwaizumi. Si ricordava.

a: Sawamura-kun

Gentile da parte sua!!! Dovremmo incontrarci, no? (^ε^)

da: Sawamura-kun

Non preoccuparti, Sugawara ha già pensato a tutto.

Oh, pensò Tooru. Oh, no.
 
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Le ruote della bicicletta di Shouyou solcavano il sentiero, accompagnando i suoi passi.

La brezza tiepida di inizio estate gli accarezzò i capelli con un sussurro; il cielo, un’esplosione di stelle, gli riempì gli occhi di luce.

Davanti a lui, l’orizzonte, completamente sgombro.

La vista dalla cima.

Davanti a lui, un oceano di possibilità.
 
“Cosa farete, quest’estate?” Shouyou spostò lo sguardo su Kageyama e, guardandosi attorno, si accorse che erano soli.

“Gli altri sono rimasti indietro,” borbottò quest’ultimo. “Stai praticamente correndo.”

“Stavi facendo a gara?” lo canzonò Shouyou.

“Ero curioso di sapere quando te ne saresti accorto, idiota.”

Shouyou, trattenendo una risata, si fermò ad aspettare e guardò ancora il cielo.

“Stasera,” disse. “Sembra che ci siano tutte.”

Kageyama gli si avvicinò, il naso rivolto all’insù. “Già.”

Le loro braccia si sfioravano, senza quasi toccarsi, i loro cuori battevano all’unisono, ingranaggi diversi di uno stesso meccanismo, le loro menti incatenate dopo tutti i mesi passati ad allenarsi insieme.

Finché ci sono io, tu sei invincibile.

“Qualcosa non va, Hinata?” chiese Yachi a bassa voce, riscuotendo Shouyou dai suoi pensieri.

Yamaguchi distolse lo sguardo dalle stelle per posarlo su di lui, ma quello di Tsukishima indugiò ancora per un po’, riempiendosi dello spettacolo che il cielo aveva in serbo per loro, prima di arrendersi.

Shouyou scosse la testa e, riprendendo a spingere la bicicletta, ripeté la domanda che gli era scivolata dalle labbra poco prima.

“Non ho ancora deciso,” gli rispose Yamaguchi. “Tutte le estati mi metto in testa di fare qualcosa di fico tipo bunjee-jumping e finisco sempre per passarle a giocare a Pokémon da Tsukki. Quindi quello, credo.”

“Yamaguchi, guarda che espressione persa,” disse Tsukishima indicando Shouyou. “La prossima volta che rispondi ad una sua domanda usa meno parole.”

Yamaguchi nascose una risata nasale dietro la mano, “Oddio.”

Shouyou strizzò gli occhi. “Cosa vuoi, Tsukishima?”

L’altro gli lanciò un’occhiataccia e Shouyou balzò all’indietro, mollando il manubrio della bicicletta e stringendo le mani a pugno. “Fare a botte?”

“Dai, dai,” Yachi ridacchiò nervosamente e gesticolò in maniera complicata, come a scacciare il commento di Tsukishima e la sua reazione. “Shimizu sta per tornare dagli Stati Uniti e abbiamo già deciso di passare l’estate insieme. Magari andremo al mare.”

“Che fico!” esclamò Shouyou, raccogliendo la bicicletta e riprendendo a camminare. “Senti, Yachi-san, posso venire anche io al mare? Eh? Posso?”

Yachi si grattò la nuca, un po’ titubante. “Ehm… certo.”

“Oi, idiota,” fece Kageyama. “Forse vogliono stare da sole.”

“Eh? Ma no… Kageyama-kun!” Yachi avvampò e nascose il volto tra le mani.

“Mmmh,” Shouyou osservò l’amica mentre balbettava un insieme di frasi sconnesse e sorrise. “Vorrà dire che farò qualcos’altro.”

Per un po’ camminarono in silenzio, occupando tutta la larghezza del sentiero.

“E tu, Kageyama?” domandò Shouyou, rivolgendogli un’occhiata.

Kageyama emise un verso a metà tra il mph e il tsk.

“Non lo so,” rispose. “Mi allenerò?”

“Incredibile ed inaspettato,” commentò Tsukishima.

“Hinata, Hinata, Hinata,” fece Yamaguchi, la bocca contorta in una smorfia che significava che voleva ridere di nuovo per quello che aveva detto Tsukishima ma si stava impegnando ad essere un buon amico. “Facciamo qualcosa insieme quest’estate, sì?” E gli lanciò un sorriso asimmetrico.

Shouyou spalancò la bocca, riuscendo a malapena a contenere l’emozione.

Annuì con veemenza, “Andremo al bowling e al Karaoke e in un sacco di locali. Possiamo andare al centro commerciale o al cin-”

In quel momento il suo telefono lo interruppe, vibrando nella tasca dei pantaloni. “Mi è arrivato un messaggio.”

Mentre lo tirava fuori notò che tutti i suoi amici avevano fatto lo stesso. Rimasero fermi un istante, a guardarsi dubbiosi, gli schermi dei cellulari illuminati, la luce artificiale che cancellava in parte quella naturale delle stelle.

Strano, pensò Shouyou.

da: Sugawara-san

Stiamo organizzando una raccolta fondi per i Lil Tykes, che ne dite di riunire la vecchia Karasuno e partecipare insieme ai vostri senpai? ☆*:. o(≧▽≦)o .:*☆
Incontriamoci all’Izakaya Osuwari domani a ora di pranzo, va bene?


“Il mio è da parte di Sugawara-san,” disse Shouyou.

“Anche il mio,” Yachi gli mostrò lo schermo del suo cellulare, che recava lo stesso identico messaggio.

“Una raccolta fondi per i Lil Tykes,” mormorò Kageyama, pensieroso.

Yamaguchi aveva gli occhi piantati sul telefonino di Tsukishima, il mento appoggiato sulla sua spalla per controllare che anche lui avesse ricevuto il messaggio. “Wow. È davvero…”

“Eccessivo,” completò Tsukishima annuendo.

“Stavo per dire strano, Tsukki.”

Shouyou annuì fra sé e sé. “Strano, sì. Ma grandioso! Io ci vado di sicuro, e voi?”

Troppo emozionato per stare fermo, cominciò a camminare ad ampie falcate. Non ebbe il tempo di sentire neanche una risposta che un’idea gli fece breccia nella mente. “Magari anche Kenma può darci una mano!” Quasi lo urlò, rivolto agli altri, un paio di metri indietro.

“Lui vive a Tokyo, idiota,” gli gridò Kageyama.

Senza curarsene, Shouyou scrisse e inviò il messaggio per Kenma a una mano. Infilato il cellulare in tasca inspirò a fondo. L’aria gli solleticò i polmoni. Sorrise alla sera, al cielo, alle stelle.

Davanti a lui si stagliava un’intera estate.
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da: Kenma ♡

Shouyou mi ha chiesto di partecipare a una raccolta fondi a Miyagi. Devo andarci, secondo te?

Tetsurou stava per tornare a casa dopo i primi mesi passati alla Chuo University ed era impegnato a piegare i vestiti per l’estate e a metterli in valigia. La stanza del dormitorio era un caos che preferiva non guardare troppo a lungo, perciò fu grato del messaggio di Kenma.

Dalla sala comune proveniva un brusio generale, un cozzare di stoviglie e il ronzio della macchina del caffè. A sovrastare tutti gli altri rumori, la risata di Bokuto.

Nonostante la loro stanza fosse a una distanza ragionevole dalla sala, la voce dell’amico viaggiava attraverso il corridoio, arrivandogli direttamente alle orecchie.

Avrebbero dovuto prendere lo stesso treno, ma Bokuto si era limitato a scaraventare il suo intero guardaroba sul pavimento, a selezionare una manciata di T-shirt e pantaloni e a spingere quest’ultimi all’interno di un borsone.

Tetsurou, invece, aveva posticipato la preparazione dei bagagli fino all’ultimo secondo e adesso mancava poco più di un’ora alla partenza.

Stava cercando di rispondere a Kenma e di piegare una camicia allo stesso tempo quando Bokuto irruppe nella stanza, tenendo il cellulare al livello del volto, per inquadrarsi con la telecamera.

“Sono troppo rumoroso,” gli disse. “Se ne stavano lamentando.”

“Non stavano mentendo,” rispose Tetsurou, nello stesso momento in cui Akaashi, in videochiamata dal cellulare di Bokuto, diceva, “Lo sei.”

“Akaashi, mi hai fatto ridere,” Bokuto guardò il cellulare, imbronciato.

“Oi,” Tetsurou attirò la sua attenzione porgendogli il telefono con il messaggio di Kenma. “Guarda che roba. Il gamberetto della Karasuno ha organizzato una raccolta fondi.”

Bokuto diede vita a un sorriso enorme e guardò Tetsurou con occhi luccicanti, poi spostò lo sguardo sul volto di Akaashi sullo schermo del telefono. Un silenzio inquietante, quando si trattava di Bokuto, piombò nella stanza.

“No,” disse Tetsurou. “Non pensarci neanche.”

“Io voglio andarci,” annunciò Bokuto. “E tu, Akaashi? Ci vieni? Eh?”

“Bokuto-san, non credo sia una buona idea,” obiettò Akaashi, a bassa voce. “Significherebbe andare a Miyagi.”

“Per favore. Comprerò io i biglietti del treno e ti preparerò anche il pranzo. Così passeremo l’estate insieme.”

“L’avremmo passata insieme comunque.”

Bokuto sorrise un po’ di più, “Questo è un sì?”

Dal sospiro che fuoriuscì dal cellulare dell’amico, Tetsurou capì di aver perso un alleato e riprese a piegare camicie controvoglia, preparandosi a combattere da solo contro l’insistenza di Bokuto.

“Non verrò, Bokuto,”disse, prima che l’altro potesse chiedergli qualsiasi cosa, ma quando nessuna obiezione gli arrivò alle orecchie, concentrò la sua attenzione sull’amico e lo vide intento a pigiare i tasti del suo telefono.

“Che stai facendo?” chiese, strattonando l’oggetto via dalle mani dell’amico.

a: Kenma ♡

Certo!!! Sarà divertente. Magari vengo anche io.

Bokuto rise dell’occhiataccia di Tetsurou, “Adesso sei costretto.”

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Capitolo 2
*** Un silenzio immobile, preparatorio ***


Le persone che non fanno rumore sono pericolose
- Jean de La Fontaine
 

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Tornare a Miyagi per la prima volta fu come entrare nella propria casa d’infanzia, ormai abitata da qualcun altro, e ricordarla ma non riconoscerla, non davvero.

Miyagi non era più la stessa, o forse era stata Kiyoko a cambiare irreversibilmente, e ora Kiyoko e Miyagi si vedevano, ma non si capivano.

Non più.

Rimaneva il fatto che, non appena aveva messo piede a terra, il suo cuore aveva preso a battere all’impazzata. Le sue mani, impegnate a reggere i bagagli, erano sudate, come quando aveva un esame importante alla United States Military Academy. Non era una sensazione spiacevole, ma inaspettata, quello sì.

Rivedere i suoi genitori dal vivo fu la sensazione di soddisfazione e leggerezza che si prova dopo aver tirato un sospiro di sollievo.

Giocare di nuovo a Shogi con Nayako (che, dopo aver vinto, le aveva detto, il volto illuminato da un sorriso abbagliante, “Non vergognarti di aver perso contro una quindicenne, Nee-san, perché hai perso contro la quindicenne più furba dell’intero Giappone. No, no, che dico, del mondo!”) fu il sorso di acqua fresca che si beve alla fine di una gara, il supporto incondizionato e la complicità di chi conosci da sempre.

Stringere la mano di Yachi fu il calore che avvertiva ogni volta che le sorrideva dallo schermo del cellulare, ma amplificato, quasi paragonabile al calore che Kiyoko aveva sentito sotto le proprie labbra quando si era chinata per baciarla.

Rivedere i suoi compagni di squadra della Karasuno fu travolgente.

Quando lei e Yachi arrivarono al punto d’incontro di fronte all’Izakaya Osuwari e si accorsero che Sugawara e Sawamura erano gli unici già presenti, Kiyoko pensò, siete voi.

Il sorriso di Sugawara che si allargava un po’ di più ad ogni passo che le ragazze muovevano verso di loro, gli occhi gentili di Sawamura e la sua postura fiera, le braccia incrociate sul petto; era tutto così familiare che Kiyoko fu sopraffatta da una nostalgia quasi soffocante.

Adorava abitare negli Stati Uniti, adorava andare alla USMA e sentirsi responsabile e pianificare, lentamente, passo dopo passo, il proprio futuro.

Però.

Però gli anni del liceo, passare i pomeriggi con Sugawara e con Sawamura e con Azumane, il ruolo di manager della Karasuno; sarebbe dovuto durare di più.

“Siete voi,” disse Kiyoko, perché non poteva farne a meno.

“Sei tu.” Sawamura allungò una mano, la ritirò, si profuse in un mezzo inchino, solo per raddrizzarsi immediatamente.

Poi si fermò per un istante, sorrise a malapena e allargò le braccia.

Si abbracciarono, e i loro petti, schiacciati l’uno contro l’altro, cominciarono a muoversi all’unisono: un ritmo placido di inspira ed espira.

“Yachi-san, da quanto tempo," disse Sugawara. “Come va con la squadra?”

“Sì!” Yachi chinò la testa, poi arrossì. “Ehm… volevo dire, va tutto bene. I primini si stanno integrando e abbiamo disputato due o tre partitelle con delle squadre universitarie, perciò abbiamo buone possibilità di vincere il Torneo di Primavera, ma non vorrei attrarre la sfortuna, quindi non ci riporrò troppe speranze.”

Sugawara rise. “La Karasuno è proprio una squadra fortunata.”

Kiyoko provò un improvviso moto di affetto nei confronti di Yachi.

Goffa e impacciata e tenera Yachi; curiosa e brillante e diligente Yachi.

Quando si staccò da Sawamura, incrociò il proprio sguardo con quello di Sugawara. La sua mente divenne un’accozzaglia di come stai mi sei mancato com’è l’università sembri diverso ma non proprio e, prima che riuscisse a decidere esattamente cosa dirgli, parlò qualcuno dietro di lei.

 “È davvero esaltante rivedervi, senpai, ma, per favore, fateli smettere,” fece Ennoshita, indicando con la mano il punto da cui era arrivato.

“Riesco a vedere tutte le vostre teste da quassù.” La voce scatenata di Nishinoya, proveniente dalla strada alla loro destra, avrebbe potuto spazzare via le tegole dalle case, ma si limitò ad investirli con la potenza di una cascata.

Azumane lo portava in spalla e non ne sembrava particolarmente entusiasmato. Probabilmente la decisione non era stata sua. Barcollava a destra e a sinistra sulla strada deserta e, con voce preoccupata, continuava a pregare Nishinoya di stare attento.

Tanaka camminava un passo indietro, seguendo il percorso traballante di Azumane con le braccia tese in avanti e rideva, ma quando vide Kiyoko si fermò di botto.

“Kiyoko-san!” urlò. “Sei tornata! Per noi?”

“Kiyoko-san!” gli fece eco Nishinoya, sbracciandosi per salutarla. Quasi perse l’equilibrio e Azumane, per contro, quasi perse il battito cardiaco, a giudicare dall’espressione sul suo viso.

“Oi,” Sawamura non alzò la voce, non ne aveva bisogno. “Smettetela. State disturbando il vicinato.”

Tanaka e Nishinoya si zittirono immediatamente, e nel silenzio che calò si sarebbe potuto avvertire anche il suono di una piuma adagiata su uno specchio d’acqua.

“Scendi di lì, Nishinoya.”

“Daichi, fai paura,” piagnucolò Azumane, mentre Nishinoya si arrampicava giù dalla sua schiena.

“Asahi,” Sugawara gli si avvicinò e lo colpì su una spalla, strappandogli un gemito di dolore. “Non sta sgridando te.”

Kiyoko lasciò che le proprie labbra si piegassero in un sorriso alla familiarità della scena, e rise a tutti gli effetti quando Ennoshita le confidò, “Narita ha chiesto a me e Kinoshita di andare ad Okinawa con lui e la sua famiglia quest’estate. Kinoshita ha detto di sì, e io sto cominciando a pentirmi di non averlo fatto.”

Poi, di colpo Yachi prese a correre, e Kiyoko, voltatasi nella direzione in cui si era mossa l’altra, la vide chiacchierare animatamente con Yamaguchi e Hinata, che dovevano essere appena arrivati.

A qualche passo di distanza, Kageyama e Tsukishima si stavano avvicinando. Entrambi la salutarono con un inchino e Tsukishima le lanciò uno sguardo simpatetico che lei interpretò come, neanche io voglio essere qui, Shimizu-senpai.

In realtà, Kiyoko voleva essere lì.

Si sentiva leggera ed elettrizzata e sapeva che Tsukishima non era tanto infastidito quanto dava a vedere.

Nonostante pensasse di essere tanto piena di felicità da esplodere, il suo corpo riuscì a contenere una punta di sorpresa quando Hinata disse, “Che strano. Kenma dovrebbe essere già arrivato da un pezzo.”
 

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“I miei sensi mi dicono di andare di là,” dichiarò Bokuto, indicando l’ennesimo vicolo.

“Sei sicuro?” ribattè Kuroo e puntò l’indice verso un altro vicolo stretto e deserto. “Perché i miei sensi mi dicono di andare di qua.”

Keiji sospirò, “Scommetto che questa la vince Kuroo.”

Kozume scrollò le spalle, senza staccare gli occhi dallo schermo del suo cellulare. Era da più di un’ora che tentava di mettersi in contatto con Hinata, cercando un posto in cui la linea prendesse.

“E va bene,” capitolò Bokuto. “Andiamo. Ma sarà un’altra strada senza uscita.”

“Non puoi saperlo,” la voce di Kuroo si allontanò man mano che si inoltrava nel vicolo.

Quando Bokuto gli passò davanti per seguirlo, controvoglia, Keiji dovette trattenere uno sbuffo divertito.

A quell’ora la città era completamente deserta, schiacciata dal sole di un primo pomeriggio abbagliante.

Faceva già troppo caldo e Keiji si pentiva di aver acconsentito a prendere parte in quella follia. Doveva studiare per i test di ammissione all’università e concentrarsi sulla Fukurodani, non aveva tempo da perdere.

Non aveva estati da sprecare.

“Akaashi, avevo ragione!” Bokuto gli sorrise, riemergendo dal vicolo, con al seguito un Kuroo sconsolato. “Vedrai che il mio è quello giusto.”

In treno, nel giro di dieci minuti, Bokuto aveva elencato, contandole sulle dita, tutte le attività che era possibile mettere in piedi per organizzare una raccolta fondi.

“Sono stato sveglio tutta la notte a fare ricerche,” aveva detto. “Sapevate che c’è un’associazione contro la caccia ai rapaci? Io no. Ma dato che aveva un sito ho donato tutti gli yen che avevo messo da parte per comprare quell’enorme dipinto di un gufo, te lo ricordi, Akaashi? Ho pensato: meglio salvare un gufo vero, che comprarne uno finto da appendere in casa.”

Il modo in cui si era preso quella questione tanto a cuore, tanto velocemente e senza rifletterci due volte, era così Bokuto che Keiji se ne sentiva risucchiato.

Il suo petto si strinse in una morsa e le dita cominciarono a prudergli dalla voglia di accarezzargli il volto, di sfiorargli la curva delle clavicole, di passargli i palmi sulle spalle, toccandole appena, e di percorrere con i polpastrelli il profilo delle sue braccia.

Bokuto lo prese per mano e lo condusse attraverso una fila di abitazioni.

A Miyagi non c’erano i palazzi enormi di Tokyo, non c’era traffico, e in quel momento nessuno passava di lì.

Nessuno a cui chiedere indicazioni.

A Miyagi il tempo sembrava non scorrere e magari Keiji poteva lasciar perdere gli studi e la pesantissima sconfitta che la Fukurodani aveva subito agli Interscolastici.

Magari, a Miyagi, poteva concentrarsi su quell’istante in cui Bokuto si girò verso di lui con gli occhi brillanti, increduli per un secondo, e rise.

La sua risata crepò il silenzio e trafisse il cielo.

Tutta Miyagi rimase con il fiato sospeso, insieme a Keiji, per ascoltarla.

Questa non è un’estate sprecata, pensò.

“Disturberai il vicinato, Bokuto-san,” sussurrò, suo malgrado.

“Ma ce l’ho fatta!” esclamò Bokuto. “Ho trovato una strada. Kuroo, questo non è un vicolo cieco.”

Kuroo apparve dietro di loro e curvò le labbra in una smorfia. “Che direzione prendiamo, adesso? Destra?”

“Perché non sinistra?”

“Perché sento che il ristorante è a destra.”

Bokuto incrociò le braccia. “Ah, ma io ho ragione più spesso di te.”

“Non penso che dovremmo continuare a girare a vuoto,” intervenne Keiji. “Sono ore che andiamo avanti.”

“Akaashi, ci siamo già persi,” ribatté Bokuto. “Non vuoi perderti di più?”

“Io preferirei non essere perso. Non ho idea di che cosa tu stia parlando,” disse Kuroo.

“Perdersi è un’opportunità,” rispose Bokuto, gonfiando il petto.

Poi balzò in mezzo alla strada e svoltò a sinistra. “Forza andiamo!”

Keiji guardò la sua schiena allontanarsi, osservò la luce del sole che gli danzava attorno e allungava la sua ombra in terra e seppe di essersi perso per davvero.

Raggiunse Bokuto in pochi passi, strizzando gli occhi per proteggerli dal sole e lasciando che le loro spalle si toccassero, così avrebbero avuto una sola ombra.

Presto anche quelle di Kozume e Kuroo si unirono alle loro.

Procedettero così, affiancati lungo una strada sconosciuta e battuta dal sole, il rumore dei tasti del cellulare di Kozume l’unico elemento di perturbazione del silenzio, fino a quando non giunsero a un incrocio.

Bokuto si fermò di colpo fissando un punto preciso alla sua sinistra. “Ohoho?”

Kuroo, che stava per proseguire dritto, si voltò di scatto e sorrise. “Ohohoho?”

 
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“TSUKKI!”

La voce era tanto forte che Tobio dovette tapparsi le orecchie e stringere i denti, prima di voltarsi per scoprire da dove provenisse.

Vide l’ex capitano della Fukurodani, Bokuto Koutarou, che correva verso di loro, agitando un braccio in segno di saluto. Si fermò a pochi passi da Tsukishima e gli mollò una pacca su una spalla. “Vi stavamo cercando!” disse, chinandosi per riprendere fiato.

“Bokuto-san?”esclamò Hinata.

Tobio sentì Sawamura scongiurare tra i denti, proprio mentre Bokuto si portava le mani ai fianchi. “Hinata! Allora? Sei già diventato un asso?”

Hinata si grattò la nuca e prese a gesticolare furiosamente. “No, non c’è bisogno di farmi i complimenti. Non sono mica un genio.”

“Ehi!” fece Tanaka. “Sono io l’asso della Karasuno.”

Tsukishima schioccò la lingua in un verso di disappunto e Tobio spostò l’attenzione sulle tre persone che camminavano verso di loro.

“Oi, Tsukki,” Kuroo Tetsurou, mimò il gesto di Bokuto, poggiando una mano sulla schiena di Tsukishima, ma senza colpirlo.

Prima che Tsukishima potesse dire qualsiasi cosa, però, Kuroo si allontanò. “Sawamura!” esclamò. “È tanto che non ci vediamo!”

Akaashi Keiji e Kozume Kenma li salutarono con un inchino, scusandosi per il comportamento dei loro senpai.

“Kenma!” disse Hinata, quando lo vide. “Cominciavo a preoccuparmi.”

L’accenno di sorriso che Kenma gli rivolse era probabilmente l’unica cosa che non potesse essere messa in ombra da quello esageratamente grande, esageratamente luminoso di Hinata.

Tsukishima emise ancora quel verso, uno tch di disprezzo e Tobio alzò gli occhi verso di lui.

Il suo volto lasciava trasparire ben poco, ma Tobio aveva imparato a conoscerlo e sapeva che Tsukishima non era quasi mai quello che voleva dare a vedere.

“Ti hanno dato fastidio?” chiese.

Tsukishima si aggiustò gli occhiali con l’indice. “Sono troppo rumorosi.”

Poi si lanciò uno sguardo intorno, soffermandosi su Hinata e Bokuto e, di nuovo, fece schioccare la lingua. Ci mise più impegno, stavolta, come se volesse sottolineare qualcosa.

“Cosa sei? Un orologio?” disse Tobio.

“Purtroppo sono un essere vivente.”

Tobio non sapeva cosa ribattere, e, dato che era semplice stare con Tsukishima perché gli andava bene anche stare in silenzio, non disse niente.

Fu l’altro a parlare di nuovo.“Non capisco perché sono così esaltati.”

Tobio seguì il suo sguardo.

Hinata e Nishinoya discutevano animatamente con Bokuto di qualcosa. Ciò che fuoriusciva dalle loro bocche erano per lo più suoni eccitati e non vere e proprie parole, un insieme di fwah e guwa e woosh. Akaashi li osservava a breve distanza, un’espressione crucciata in volto.

Sawamura cercò di farli smettere, ma i suoi risultati furono alquanto scarsi, perché Kuroo gli stava addosso e gli parlava senza sosta.

Tobio guardò di nuovo Hinata, che adesso era impegnato a mimare una schiacciata con Tanaka.

Pensò al momento in cui gli aveva alzato la prima palla e a quando aveva fatto in modo che incontrasse direttamente il suo palmo.

Pensò a quando l’aveva visto per la prima volta.

Non abbiamo ancora perso.

Pensò a quando, finalmente, dopo essersi allenati tanto, era riuscito ad alzargli una palla che si fermava di fronte a lui, dandogli la possibilità di decidere dove indirizzarla.

Pensò alle partite contro l’Aoba Johsai, quella persa e quella vinta, e a quanto era stato vicino a raggiungere il livello di Oikawa, anche se solo per un istante.

La prossima volta lo farò di nuovo.

Infine, pensò all’ultimo anno alla Kitagawa Daiichi, quando tra lui e i suoi compagni di squadra si era aperta una voragine.

Il Re del campo.

“Le cose piccole possono farti molto felice, anche se per poco tempo,” disse Tobio, senza staccare gli occhi da Hinata. “Non bisognerebbe sottovalutarle.”

“Kageyama?” disse Hinata, battendo i denti. “Cosa ti ho fatto? Perché mi fissi come se volessi uccidermi?”

Tobio abbassò la testa. “Idiota.”

Tsukishima gli lanciò un ghigno sottile.

“Smettila.” Tobio corrugò le sopracciglia e si guardò le punte dei piedi.

“Le cose piccole, eh?”

Tobio spalancò gli occhi, sentendosi arrossire. Si affrettò a nascondere il volto con una mano e deglutì. “Basta.”

“Non ti stavo prendendo in giro,” sbuffò Tsukishima. “Lascia perdere. Tra i due sei tu l’idiota.”

“Non è vero.” Tobio prese ad esaminarsi le unghie, perfettamente limate. “Lo pensi sul serio?”

“Ti sei risposto da solo.”

Tobio gli colpì leggermente il braccio con una gomitata e Tsukishima gli restituì il gesto.

“Io ho fame,” esclamò Nishinoya all’improvviso, spaventando Azumane che stava conversando tranquillamente con Shimizu. “Mi era stato promesso il pranzo.”

“Sawamura, ci offrirai qualcosa?” disse Kuroo, ridacchiando.

“Davvero?” chiese Bokuto. “Allora andiamo, che aspettiamo?”

Sawamura si strinse il ponte del naso tra pollice e indice. “Nessuno ti offrirà niente,” disse, rivolto a Kuroo.

Poi guardò Bokuto. “Stavamo aspettando lui.”
Indicò la strada più grande dell’incrocio, quella esattamente di fronte al ristorante.

Tobio seguì con lo sguardo la direzione del suo dito.

A schiena ritta e ad ampie falcate, Oikawa si avvicinava nella loro direzione, parlando al cellulare.

Iwaizumi lo seguiva, camminando con le mani nelle tasche dei pantaloni.

Oh, pensò Tobio. Oh, no.

 
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“Makki, aiuto, sembra un film dell’orrore,” disse Tooru al cellulare che si stava premendo sull’orecchio. “Mi fissano tutti.”

Gli occhi della Karasuno (e anche quelli di qualcuno che si distingueva per via della particolare caratteristica di essere chiaramente non Karasuno) erano puntati su di lui e Iwaizumi, che avanzavano a passo spedito. Tooru gradiva, spesso e volentieri, l’attenzione di larghi gruppi di persone, ma, per qualche motivo, in quel momento avrebbe preferito non tenere ai Lil Tykes tanto quanto faceva.

Però era difficile dimenticarsi del broncio con cui Takeru aveva detto, tirando su con il naso, Chiuderanno, Tooru. Ed era altrettanto difficile scordarsi di come Iwaizumi aveva aggrottato le sopracciglia quando gli aveva riferito l’informazione.

Dobbiamo fare qualcosa, gli aveva detto, il mento alzato perché sapeva che era quello che Tooru voleva sentirsi dire.

Quindi, era difficile per Tooru voltarsi e tornare indietro sui suoi passi, ignorare così facilmente la gentilezza gratuita di Sugawara e Sawamura, per quanto volesse farlo.

La voce di Hanamaki gli arrivò a tratti.

“Pensavo ti piacesse—” poi silenzio, poi, “Oh, sta zitto, razza di imbecille—” poi silenzio, poi, “Oikawa?”

“Non ti sento,” rispose Tooru. “Aspetta, sono io l’imbecille?”

“No, no, dicevo a Matsu— Ugh, fottute Fiji—” poi silenzio, poi silenzio.

Tooru smise di camminare per fissare minacciosamente il suo cellulare.

Iwaizumi, qualche passo più avanti, lo chiamò da sopra la spalla. “Vuoi darti una mossa? Ci stanno aspettando.”

“Si chiama essere elegantemente in ritardo, Iwa-chan.”

Sistemarsi nel ristorante fu un’impresa ardua. Erano troppi, forse, ma, dopo aver manovrato qualche tavolo e infastidito l’intero locale, riuscirono a sedersi.

Tooru cercò di ignorare l’insistente sguardo di Kageyama e, dopo essersi schiarito la gola, parlò. “Okay, nonostante questa situazione sia piuttosto bizzarra, apprezzo davvero il fatto che siate tutti qui. Anche se non era assolutamente necessario che voi—”

“Oi,” lo interruppe Iwaizumi. “Non vedi che non ti ascolta nessuno?”

Rendersi conto del fatto che gli unici occhi concentrati su di lui erano quelli di Sawamura e Sugawara e, più lontani, quelli di Kageyama, scalfì Tooru nell’orgoglio più di quanto gli sarebbe piaciuto ammettere.

Sospirò debolmente.

Vide Akaashi, seduto qualche sedia alla sua destra, passare a Bokuto un tovagliolo, sul quale aveva scarabocchiato mentre Tooru parlava. Parve che il mondo si fermasse per qualche istante, immerso in un silenzio immobile, preparatorio, prima che Bokuto scoppiasse in una risata, cristallina e intensa. O forse sembrò così solo a Tooru: aveva la tendenza a drammatizzare, una cattiva abitudine che si manifestava quando veniva ignorato.

Dal lato opposto, Yachi stava discutendo con Tsukishima e Yamaguchi di un documentario sui cavallucci marini che aveva visto.

Fermò il suo monologo solo per chiedere, “Tsukishima-kun, sai perché sono così tanti?”

Tsukishima aprì la bocca per risponderle, ma una voce squillante catturò l’attenzione in costante movimento di Tooru.

“Woah,” disse Hinata. “Noya-san, che figata!”

Poi fu tutta confusione nella testa di Tooru.

La sua anima si trasformò in una versione appassita di se stessa, e prese a vagare lungo il perimetro della propria gabbia in attesa di essere notata e liberata.

Iwaizumi calciò una gamba del tavolo nel tentativo di catturare l’attenzione di qualcuno.

La confusione non cessò.

“Mi chiedo,” disse Sawamura, un sorriso glaciale stampato sul volto. “Perché presentarsi all’incontro e dire di voler partecipare quando non è vero?”
La confusione cessò.

Tooru si meravigliò (soltanto un po’) dell’autorità che esercitava su quei ragazzi, anche a distanza di tempo.

Un capitano era un capitano.

Poi, Sawamura gli lanciò uno sguardo che diceva, prego.

Tooru sorrise (soltanto un po’). Parlò dei Lil Tykes, del calo di iscrizioni e del loro disperato bisogno di pubblicità, tralasciando quanto fosse importante per lui che la raccolta fondi avesse successo. “Ci servono i soldi per delle attrezzature nuove, e poi potremmo organizzare un evento per pubblicizzarli, non sono ancora sicuro—”

“Ehm,” disse Ennoshita. “Mi sono perso. Come facciamo a raccogliere i soldi?”

Iwaizumi ridacchiò e Tooru gli rispose, “D’accordo, saputello, hai qualche idea?”

Ennoshita sembrava pronto a ribattere, ma Bokuto fu più veloce di lui. “Io lo so,” disse. “Organizziamo un mercatino dell’usato, o una lotteria. Potremmo fare una grigliata, ma allora ci servirebbero le griglie. E la carne.”

“Oppure ci mettiamo a vendere limonata,” aggiunse Kuroo, con tono annoiato.

“E biscotti,” concluse Akaashi.

Bokuto si illuminò. “Sì!”

“E se mettessimo su un autolavaggio?” Sugawara sorrise. “Spugne, secchi e sapone costano poco e a tutti fa piacere avere un’auto pulita.”

Ricominciarono a parlare tutti insieme, ma stavolta Tooru ne fu quasi soddisfatto. Perfino dopo che i piatti che avevano ordinato furono arrivati al tavolo, il chiacchiericcio dei ragazzi che discutevano animatamente permase, le parole distorte dal cibo che stavano masticando.

Nishinoya disse, a voce troppo alta, “Facciamo i dogsitter insieme, Asahi-san!”

“Non lo so,” rispose Azumane, stringendosi nelle spalle. “I cani mi terrorizzano.”

“Sopravviverai.”

“Non è vero Yachi-san,” fece Yamaguchi, in risposta a qualcosa che Tooru non aveva sentito. “Sai fare un sacco di cose.”

Shimizu annuì. “Sai disegnare.”

“Allora potremmo fare quello, no?” chiese Yachi raggiante.

Tooru si voltò verso Iwaizumi. “E tu?”

“So come si lava una macchina, credo,” rispose. “Tu, invece?”

“Non ho ancora deciso,” sospirò Tooru, il mento appoggiato su una mano.

Fu allora che Tanaka si alzò in piedi, le mani distese in avanti e un’espressione seria in volto, come se quello che stava per dire fosse molto importante.

“Un chiosco dei baci!”

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Capitolo 3
*** Ed era solo il primo giorno ***


Soles occidere et redire possunt;
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum;
dein, cum milia multa fecerīmus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum. 

- Carmen V / Gaio Valerio Catullo


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Ryuu si grattò la testa e sospirò rumorosamente, augurandosi che Oikawa, seduto accanto a lui, ne venisse infastidito.

Il sole del mattino allungava i suoi raggi roventi, minacciando di ghermirli da un momento all’altro. Già lambiva la punta delle scarpe di Ryuu e un angolo dello sghembo tavolo di legno che il coach Ukai aveva scovato per loro.

Presto l’ombra del tendone del Sakanoshita Store sarebbe retrocessa troppo e non li avrebbe più protetti.

L’aria era immobile e pesante, un silenzio fluido come miele gocciolava dai tetti di una città di campagna addormentata nell’estate.

Ronzando, un enorme coleottero lucido danzò nel cielo, seguendo una traiettoria complicata, ipnotica, e si andò a posare sul bordo del barattolo dei soldi.

Oikawa lo osservò con una certa curiosità, ma distolse immediatamente lo sguardo quando l’insetto riprese il suo viaggio, diretto chissà dove.

Ryuu incrociò le braccia e si accasciò scompostamente sulla sedia pieghevole, curvando le labbra in una smorfia.

Se nel barattolo c’erano degli spiccioli, era per miracolo.

E se il miracolo era successo, era grazie a Oikawa.

Tante persone facevano la spesa di mattina, anche d’estate. Quindi la loro postazione era più che adatta per attirare l’attenzione.

Tante persone erano passate nelle ore in cui erano stati lì, seduti dietro a un cartellone con su scritto — Chiosco dei baci — in rosa e fissato al tavolo con il nastro adesivo.

Tante persone si erano fatte una risata guardandoli e avevano proseguito per la loro strada, senza badare all’espressione minacciosa di Ryuu.

Alcune, però, soprattutto ragazze che passavano a prendere un gelato con le amiche, si erano fermate per baciare Oikawa e avevano lasciato un’offerta.

Nonostante fosse stato Ryuu a ideare l’attività, a chiedere il permesso di posizionarsi davanti al supermarket e a disegnare i cuori sul cartellone, Oikawa aveva più successo e si sarebbe preso il merito del loro misero guadagno.

La cosa lo irritava parecchio.

Ad enfatizzare il suo stato d’animo, Oikawa non era di gran compagnia. Non rispondeva se non in  maniera sarcastica, oppure piagnucolava, e Ryuu già non riusciva a sopportarlo più.

Ed era solo il primo giorno.

“Potresti smetterla di fissarmi in quel modo?” Oikawa si passò una mano tra i capelli.

Non sta sudando, si disse Ryuu, incredulo, sentendo un rivolo di sudore scivolargli lungo la spina dorsale.

La sua maglietta era zuppa, ormai; inoltre aveva dovuto arrotolarsi le maniche fino alle spalle, per cercare di combattere il calore in qualche modo.

Ma Oikawa era completamente asciutto. Anche sulle tempie e sulla nuca. Quella nuova scoperta lo fece infuriare ancora di più.

Continuò a guardarlo in cagnesco, fino a quando quello non si girò in un moto di stizza, “Ho detto pot—”

“Ehm…” Una ragazza si schiarì la voce. La sua sagoma alta incombeva su quel tavolo dalle dimensioni ridicole e su di loro.

Ryuu ci mise un po’ a riconoscere in lei la sua amica d’infanzia. “Kanoka,” esclamò poi, affrettandosi ad alzarsi in piedi. “Da quanto tempo.”

“Ryuu-chan!” lo salutò, sorridente. Anche così, Anamai Kanoka lo superava di quasi tutta la testa.

“Che stai facendo?” gli chiese.

“Raccolgo fondi per i Lil Tykes,” disse Ryuu, gonfiando il petto. “Gratuitamente.”

Lo sbuffo di disappunto di Oikawa venne oscurato dalle parole di Anamai. “Sei un eroe.”

Ryuu scoppiò a ridere. “Certo, lo sono!”

“Allora…” Anamai chinò la testa e i corti capelli neri le sfiorarono gli zigomi. “Posso contribuire?” chiese, mentre un rossore soffuso le si disegnava sulle guance.

“Un bacio sulla guancia costa sessantacinque yen, sulle labbra centotrenta,” la informò Ryuu.

Anamai guardò Oikawa sbattendo le ciglia e Ryuu, rassegnato, fece per sedersi di nuovo.

Mentre si piegava, però, Anamai afferrò il collo della sua maglietta stringendolo in un pugno e attirò Ryuu a sé, mandandolo a sbattere contro il bordo del tavolo.
Lo baciò, prendendogli il volto tra le mani e dischiudendo le sue labbra con la lingua, lasciandogli assaggiare un po’ di quel miele che permeava i silenzi estivi e la nostalgia dell’infanzia.

Fu un bacio duraturo e, quando finì, tutti gli anni trascorsi insieme indugiarono nello spazio tra di loro.

Ryuu borbottò qualcosa di incomprensibile e Anamai liberò una risatina nervosa. Lasciò cadere diverse monete nel barattolo. Tintinnando, fecero da sottofondo alla sua voce mentre diceva, “Ci vediamo, Ryuu-chan.”

Ryuu la guardò andare via e si afflosciò sulla sedia.

Poi si voltò verso Oikawa, permettendo a un sorriso sornione di segnargli il volto.

Oikawa ignorò deliberatamente la sua espressione e allungò una mano per afferrare il barattolo. Con un gesto fluido sparse tutti gli spiccioli che avevano guadagnato davanti a lui e prese a contarli.

Quando ebbe finito emise un altro sbuffo sonoro dal naso. “Che spettacolo osceno.”

Ryuu si strinse allegramente nelle spalle e indicò con il mento il mucchio di soldi. “Quanti sono?”

“Ti ha pagato il doppio,” Oikawa arricciò il naso, increspando la pelle della fronte in una singola, piccolissima ruga indignata e mise su il broncio più grande che Ryuu avesse mai visto.

Dopo un po’ si alzò e, senza rimettere il barattolo a posto, cominciò ad incamminarsi sotto il sole, il viso altezzosamente rivolto altrove.

Non salutò.

Ryuu osservò le sue scarpe da tennis bianche, immacolate, calcare il suolo polveroso con una certa fretta stizzita mentre si allontanavano.

Voleva chiedergli dove stesse andando e ricordargli che la giornata non era ancora terminata, ma, osservando il mucchio di denaro si disse che non aveva bisogno di lui.

Tanaka Ryuu era un uomo, un eroe, a detta di Anamai, ed era più che capace di far funzionare un chiosco di baci da solo.

 
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Hajime strofinò con la spugna insaponata il parabrezza dell’auto che gli era stata affidata quella mattina — sinistra, destra, sinistra, destra. La stringeva forte nella mano per bloccare l’impulso di tirare un pugno in faccia a Kageyama o Hinata (probabilmente Hinata, perché era il più irritante dei due e quello che Hajime conosceva di meno), che stavano discutendo ininterrottamente dall’inizio della giornata.

Il sole picchiava, e Hajime sentiva gocce di sudore scivolargli lungo la schiena, e il movimento regolare della propria mano — sinistra, destra, sinistra, destra — accompagnato dal pensiero, per Tooru, era l’unica cosa che gli impediva di impazzire completamente.

Hajime non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma fu estremamente sollevato quando sentì il sospiro afflitto di Oikawa a mezzo metro di distanza.

Non l’aveva visto arrivare, ma comunque non fu sorpreso quando, alzando lo sguardo dal lavoro che stava svolgendo meticolosamente, lo vide appoggiato con la schiena alla macchina. Oikawa dava sempre l’impressione di appartenere al luogo in cui si trovava: il suo posto era in un campo da pallavolo, ed era ai piedi del divano nel loro appartamento, ed era su un sedile della metropolitana con la spalla premuta contro quella di Hajime.

Il suo posto era anche contro un’auto sporca, con le braccia incrociate sul petto e le sopracciglia aggrottate e le sue stupide scarpe da tennis ai piedi.

Hajime lo amava.

“Che ci fai qui?” chiese ad Oikawa.

Oikawa tirò un altro sospiro teatrale. “Mi annoiavo.”

Hinata strillò qualcosa; Kageyama urlò qualcos’altro.

Hajime e Oikawa li ignorarono.

“Lo dici soltanto perché nessuno vuole baciarti.”

“Tutti vogliono baciarmi, o mi sbaglio, Iwa-chan?” disse Oikawa, sfoggiando un sorriso che significava, Ti conosco. “Sono io che mi rifiuto.”

Hajime rispose soltanto, “Ha!” e poi, perché sapeva che c’era qualcosa che non gli stava dicendo, gli diede una gomitata nel fianco.

Oikawa guardò Hajime dritto negli occhi, poi si guardò le unghie. “Non è abbastanza. Non guadagniamo abbastanza.”

Ah, pensò. Ecco cosa c’è.

“Troveremo qualcos’altro. Quella del chiosco dei baci era un’idea stupida comunque.”

“Oh, Iwa-chan è geloso!” cantilenò Oikawa. “Aspetta, noi?”

“Sì, non li sopporto,” disse Hajime guardando Kageyama e Hinata. “Non c’è niente di utile che sai fare, vero?”

Oikawa rise, rise per davvero. Afferrò Hajime per la maglietta e, tra le risate, ansimò, “Come ti permetti?!” ma era luminoso, e improvvisamente erano vicini.

Quella risata, nasale e imperfetta, gli ricordò Oikawa a tredici anni, che piantava con delicatezza dei boccioli di rosa nel giardino di casa sua come gli aveva insegnato la mamma di Hajime, e che chiedeva di non essere disturbato perché era un lavoro che richiedeva tutta la sua attenzione ma, nonostante ciò, dava corda ad Hajime se faceva una battuta poco intelligente.

Premette i polpastrelli sul pallido avambraccio di Oikawa. “Giardinaggio?”

“Non ci posso credere, tra tutte le cose, hai pensato a quello?” fece Oikawa. “Però hai ragione! Sei un genio, Iwa-cha, un genio.”

“È vero,” disse Hajime. “Nessuno lo capisce.”

Oikawa scosse la testa. “Insieme?”

Non aspettò che Hajime rispondesse. Non ne aveva bisogno.

Allontanandosi dall’autolavaggio, si portò una mano alla bocca, per poi staccarla con uno schiocco e muoverla nella direzione di Hajime.

Hajime afferrò il bacio volante, lo strinse in un pugno, forte come aveva stretto la spugna, e finse di lanciarlo via, lontano da sé.

Oikawa si esibì in un broncio e mimò con la bocca, Iwa-chan!

Hajime lo amava.

 
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Chikara li detestava.

Di solito, passare del tempo con Sawamura e Sugawara non gli pesava. A volte era persino piacevole. Ma questa mattina, questa mattina in particolare, Chikara li detestava.

Se non li stava guardando, o non gli stava parlando, i due, convinti di non essere notati, coglievano l’occasione per baciarsi o fare qualsiasi altra cosa smielata da coppia.

A dire la verità, erano quasi carini, ma c’era una quantità limitata di zucchero che lo stomaco di Chikara poteva sopportare.

Una signora si fermò davanti al loro stand per comprare una busta di biscotti, presumibilmente al bambino che teneva per mano. Chikara portò a termine la seconda vendita di quella giornata e, mentre posava i duecentosessanta yen nel salvadanaio che faceva loro da cassa, vide con la coda dell’occhio Sawamura sussurrare qualcosa all’orecchio di Sugawara.

Sarebbe stata un’estate lunga.
 
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Hitoka si strinse il blocco da disegno al petto e corrugò le sopracciglia, osservando intensamente l’ennesimo passante che lanciava un’occhiata nella loro direzione e si affrettava altrove.

Espirò rumorosamente e si posizionò meglio sul piccolo sgabello di legno, provocando uno scricchiolio.

La piazza era vuota e assolata, ma lei e Shimizu avevano trovato ombra sotto i salici, poco lontane da un ruscello che scorreva vivace alle loro spalle. Un vento impalpabile scuoteva le foglie degli alberi e faceva tintinnare debolmente i campanelli che avevano legato ai rami appena arrivate.

Hitoka non credeva possibile che nessuno fosse incuriosito abbastanza da loro da avvicinarsi.

Strinse le labbra con aspettativa quando vide una donna portare il suo cucciolo a giocare sul prato, ma curvò le spalle non appena passò senza neanche girarsi a guardarle.

“C’è qualcosa che manca,” disse Shimizu, riflessiva.

Sorrise un po’, atteggiando le labbra in una posa seria e pacata, ma nello sguardo che rivolse a Hitoka c’era una luce particolare, affilata, che le ricordò la luna quando in cielo era sottile come un’unghia.

“Potresti farmi un ritratto.”

Hitoka si girò, confusa. “Shimizu-senpa—san, non devi. Voglio dire: la situazione non è tanto disperata. Siamo solo al primo giorno, non c’è bisogno che tu contribuisca.”

Shimizu rise sommessamente, chiudendo gli occhi e nascondendosi le labbra con una mano.

Hitoka si zittì di colpo.

“Non intendevo quello,” disse Shimizu. “Magari se le persone vedessero cosa facciamo e che aspetto hanno i tuoi disegni avranno voglia di comprarli, perciò se vuoi io potrei essere la prima a posare per te.”

Hitoka la guardò a bocca aperta. “Sei un genio, Shimizu-san! Certo, certo che voglio, lasciami prendere le matite!”

Shimizu rise, di nuovo. “Hitoka-chan, fai con calma.”

Poi si sporse dal suo sgabello e si chinò. Un’ondata di profumo, dolce come zucchero filato, investì Hitoka e senza che lei se ne accorgesse, Shimizu le stava posando un bacio sul naso, leggero quanto il tocco di un ladro.

“Abbiamo tutto il tempo.”


______________


Kenma sfiorò il pelo del cucciolo acciambellato sul suo petto.

Era sdraiato sul divano di Azumane, concentrato nel respirare il più piano possibile per non svegliare Aoi.

Akaashi e Azumane, in cucina, stavano cercando di preparare il biberon della cagnolina, per la seconda volta.

La padrona di Aoi era stata categorica in proposito: doveva bere un litro di latte al giorno e dormire per il resto del tempo, salvo per la passeggiata pomeridiana.

Adesso mancava poco alle cinque, orario in cui aveva detto che sarebbe tornata dalla riunione fuori città che l’aveva tenuta impegnata per tutta la giornata, e loro dovevano ancora darle la sua prima dose di latte quotidiana.

C’entrava Nishinoya, che era riuscito a far esplodere il barattolo di latte in polvere e a perdere il ciuccio in quello che a Kenma era sembrato un solo gesto.

Dopo aver fatto una corsa al più vicino supermercato e aver recuperato il materiale necessario al nutrimento di un cane praticamente appena nato, Nishinoya era stato allontanato dalla cucina e da Aoi.

Ora stava ripulendo il disastro che aveva combinato sul pavimento di Azumane. “Ma non fa niente!” si lamentò, gesticolando nella sua direzione.

Per un attimo Kenma si sentì offeso dall’accusa, poi si rese conto che era ad Aoi che si riferiva.

“Che ti aspetti?” gli chiese.

Per tutta risposta, Nishinoya sbuffò e strinse la scopa con stizza, spazzando con più foga del necessario.

Kenma sentì il cellulare vibrargli nella tasca. Con un po’ di difficoltà, riuscì a districarsi e a estrarre l’oggetto dai jeans. Sullo schermo, brillava l’avviso di arrivo di un messaggio.

da: Kuro

Guarda che roba, Kenma.

In allegato al messaggio c’era una foto di Bokuto, mossa e parzialmente in controluce. Sembrava stesse gesticolando ampiamente con le braccia. Sullo sfondo una coppia di mezza età con un’espressione sconcertata sul volto lo fissava.

Kenma trattenne una risata.

a: Kuro

Si è scritto “Asso della Limonata” sulla maglietta?

da: Kuro

Con un pennarello indelebile.

da: Kuro

Bokuto porta le cose a un livello superiore.

a: Kuro

Dillo che sei invidioso che l’idea non sia venuta a te.

da: Kuro

No.

a: Kuro

Invece sì.

da: Kuro

Invece no.

a: Kuro

Sì.

da: Kuro

No.

 Akaashi sbucò fuori dalla cucina, un’espressione trionfante in volto e i capelli schiariti dalla polvere bianca della formula.

Stringeva il biberon in una mano. “Dovremmo svegliarla?”chiese.

Kenma scrollò le spalle. “Mi sembra anche ora.”

“Con chi parli?” Akaashi accarezzò con delicatezza Aoi fino a quando quella non aprì gli occhi e sbadigliò, mostrando una dentatura quasi inesistente.

“Kuroo,” disse Kenma, raddrizzandosi dopo che Akaashi ebbe preso in braccio la cucciola.

Notò che Azumane aveva recuperato una paletta e stava aiutando Nishinoya a ripulire, cosa che sembrò mettere quest’ultimo di ottimo umore.

Mostrò la foto ad Akaashi che scosse la testa e distolse immediatamente lo sguardo, concentrandosi sul nutrire Aoi, ma Kenma lo vide sorridere e cercare di nasconderlo.

Gli arrivò un altro messaggio.

da: Kuro

Comunque la risposta è no.

a: Kuro

Ti stai annoiando, Kuro?

da: Kuro

No.

a: Kuro

Sì.

da: Kuro

No.

a: Kuro

Bene. Allora vado. Ci vediamo dopo. (ΦзΦ)

da: Kuro

Aspetta, Kenma. È un bacio, quello?

a: Kuro

No.

da: Kuro

Oh, sì che lo è. Non cercare di prendermi in giro.

a: Kuro

Ti sbagli.

da: Kuro

(~ ̄³ ̄)~

da: Kuro

|( ̄3 ̄)|

da: Kuro

( ̄ε ̄ʃƪ)

a: Kuro

Smettila.

 
______________


Kuroo stava sorridendo allo schermo del suo cellulare.

Gli fece uno strano effetto. Tadashi sapeva che era perché non lo conosceva, ma quel sorriso così affezionato sembrava non appartenergli. O, perlomeno, non all’idea di Kuroo che si era fatto.

Si chiese se era così che gli altri vedevano Tsukishima.

Bokuto, dalla sua postazione d’attacco di fianco al cartello che riportava nella calligrafia di Tadashi — Limonata artigianale a 130 yen! — lanciò un’occhiata a Kuroo. Dopodiché, si sporse oltre il bancone per dire qualcosa a Tsukishima, che se ne stava seduto con il mento appoggiato alla mano e un’espressione annoiata in volto.

Il suo intento era, evidentemente, quello di sussurrare, ma tutti e tre lo sentirono quando disse,  “Kuroo e Kenma si stanno baciando.”

Tadashi fece strisciare la sua sedia vicino a quella di Tsukishima.

“Ricordami perchè sono qui,” disse Tsukishima quando Tadashi gli fu abbastanza vicino da poter sentire la sua voce sottile sopra il battibeccare di Bokuto e Kuroo.

“Perchè sei una brava persona.”

Ghignò quando sentì Tsukishima sbuffare e aggiunse, “E anche perchè vuoi stare con me.”

Tsukishima, in risposta, scrollò soltanto le spalle, ma aveva le orecchie rosse mentre lo faceva. Poi si aggiustò gli occhiali sul naso, e la pelle sulle braccia di Tadashi prese a formicolare.

Due ore dopo, sulla strada di casa, erano lenti e muti e Tadashi formicolava ancora.

La giornata era stata estremamente noiosa. Avevano venduto soltanto due limonate: una ad una bambina con le ginocchia sbucciate e soltanto cento yen alla quale Tadashi non aveva saputo dire di no; l’altra ad Akiteru: aveva scompigliato i capelli al suo fratellino, e chiesto a Tadashi come stava, e alla fine aveva stretto la mano a Bokuto tre volte come se avesse portato a termine l’affare migliore della sua vita.

Ma nonostante ciò, Tadashi fremeva.

Era la sua reazione naturale a Tsukishima, ai suoi occhi dorati e alle sue sopracciglia aggrottate.
 
Voleva fare qualcosa.

“Tsukki?”

“Mh?”

Tadashi gli strinse il polso con l’indice e il pollice.

Tsukishima si fermò e si voltò per guardarlo negli occhi. Tadashi sentiva il proprio cuore battergli in gola, quello di Tsukishima battergli sotto i polpastrelli.

Molto lentamente, la mano a cui Tadashi era ancora aggrappato si mosse per spostargli una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Tadashi se la portò alle labbra, e vi stampò un bacio al centro del palmo. Tsukishima gli strofinò il ponte del naso con il dito medio.

Tadashi gli sorrise, trasparente ed onesto, e Tsukishima tremò alla sensazione di denti contro pelle.

Tum, tum, tum — erano così vivi.

 
______________


Aspettavano Bokuto da più di un’ora nel salotto di Asahi.

Nishinoya, disteso sullo stomaco, sfogliava svogliatamente le pagine di un fumetto sul pavimento; Akaashi era seduto a braccia conserte sul divano e continuava a lanciare occhiate al suo cellulare, che aveva posato sul tavolino.

Asahi si era offerto di ospitarli per tutto il tempo della raccolta fondi, dato che Kozume si era già messo d’accordo con Hinata e loro erano arrivati a Miyagi con le valigie e senza nessun posto dove stare. Bokuto ci aveva già passato una notte, quindi avrebbe dovuto conoscere la strada.

Eppure non tornava.

Asahi camminava a passo cadenzato davanti alla finestra, guardando la strada con insistenza e mangiando nervosamente dei cereali direttamente dalla scatola.

La padrona di Aoi era venuta a prenderla esattamente due ore fa, consegnando i tremilatrecento yen che doveva loro per il servizio, e Kozume era andato via quando Kuroo aveva chiamato per dirgli che stava andando al ristorante per incontrare Hinata.

“Sei sicuro che non si sia perso?” chiese ad Akaashi, masticando rumorosamente.

L’altro emise un mezzo sbuffo. “Oh,” disse. “Ma lui si è perso.”

Il suo tono lanciò un brivido lungo la spina dorsale di Asahi, che rimase fermo per un istante, stringendo una manciata di cereali nel pugno bloccato a mezz’aria.

“E non vuole chiamarmi perchè ha paura che io gli faccia la predica. Ma dovrà farlo, prima o poi.”

“Perchè non lo chiami tu?” Nishinoya rotolò sulla schiena, sollevando le gambe. Cominciò a pedalare per aria, raggiungendo una velocità tale che i suoi piedi non erano quasi più visibili.

“Perchè—”

In quel momento, il telefono di Akaashi si illuminò, rivelando una foto di Bokuto con un sorriso aperto e fiducioso, grande quanto il sole.

Akaashi scattò verso il telefonino, interrompendo la bicicletta di Nishinoya, e lo afferrò.

“Bokuto-san?” disse nel ricevitore. Ci fu una pausa, Asahi riusciva a sentire la voce di Bokuto dal suo posto vicino alla finestra, anche al di sotto dello scricchiolio dei cereali che stava masticando, ma non riusciva a comprendere ciò che stesse dicendo.

Akaashi sospirò. “Arrivo.”

Allontanò il telefono dall’orecchio e si rivolse ad Asahi. “Vado a recuperarlo. Dice di essere vicino alla drogheria dove ieri abbiamo preso i mochi.

“Ma quella è dietro l’angolo!” esclamò Nishinoya.

Per tutta risposta, Akaashi sollevò un braccio e lo lasciò ricadere lungo il fianco come a dire, cosa vuoi che faccia?

Uscì dalla porta, riportandosi il cellulare all’orecchio. Prima che la chiudesse, Asahi riuscì a sentirgli dire, “Sì, Bokuto-san, sono ancora qui.”

Nishinoya si sollevò sui gomiti per osservare la porta che sbatteva e reclinò il collo all’indietro per posare gli occhi su Asahi. “Ti preoccupi troppo.”

Asahi mise da parte la scatola di cereali mangiati a metà scrollando le spalle.

Scostò il tavolino e si sdraiò accanto a Nishinoya, che sorrise in quel modo che squarciava il petto di Asahi, solo a metà, solo uno spiraglio che fendeva la notte.

Il cuore prese a battergli più forte quando Nishinoya gli poggiò i polpastrelli su una tempia e fece scivolare le dita nei suoi capelli, in parte sfuggiti all’elastico. “Se continui a stressarti diventerai calvo.”

“È per non stressarmi che ho preso un anno di pausa,” gli rispose Asahi, guardandolo negli occhi. Di solito erano due fuochi divampanti, in incessante movimento, ma quando erano soli diventavano silenziosi e attenti, come un paesaggio venato di malinconia.

“È perchè hai paura di non farcela.”

Asahi deglutì. Non avevano mai affrontato l’argomento direttamente, ma Nishinoya lo conosceva. Con lui le parole diventavano superflue.

Gli sfiorò le ciglia. “Ti va di restare, stasera?”

“Il tuo appartamento è troppo affollato, Asahi-san.” Nishinoya districò le dita dai suoi capelli e si chinò lentamente, toccando appena con le labbra la pelle del suo zigomo per poi risalire lungo la curva del naso. Lo baciò in mezzo alla fronte per un lungo istante, prima di staccarsi con uno schiocco.

“Vado a casa,” disse. Lo baciò ancora, nello stesso punto in cui bruciava l’impronta che aveva lasciato prima, poi si mise in piedi velocemente.

“Ci vediamo domani, Asahi-san!” Quasi lo strillò e Asahi dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere.

Nishinoya era il fuoco. Indomabile, irrequieto, irruente.

Aprì la porta e si ritrovò davanti un Akaashi con il pugno sollevato, pronto a bussare, e un Bokuto che si torceva i lembi della maglietta, blaterando concitatamente.

Si bloccò quando vide Nishinoya e, più in là, Asahi, ancora sdraiato sul pavimento.

Fece un passo indietro e mise su un sorriso presuntuoso. “So benissimo cosa stavate facendo.”
 

______________


Akaashi non aveva detto una parola da quando era andato a prenderlo davanti alla drogheria, né durante il percorso del ritorno, assurdamente breve, né mentre salivano le scale.

Perciò era stato Koutarou a rompere il silenzio, parlandogli di quello che aveva fatto in giornata, di tutti i potenziali clienti che si erano lasciati sfuggire l’irripetibile occasione di assaggiare la limonata di Yamaguchi (“sul serio, Akaashi, è un nettare!”), di come aveva detto a Kuroo di poter ritrovare facilmente la strada per arrivare da Azumane e di come invece era finito a vagare per Miyagi, nonostante Akaashi l’avesse chiamato poco prima per chiedergli se lui e Azumane dovessero venirgli incontro (“no, Akaashi, so benissimo che strada fare.”).

Si era fatto prendere dal panico quando aveva visto tutte le saracinesche dei negozi abbassate. Solo allora aveva deciso di ingoiare il suo orgoglio e chiamare aiuto.

Ora, nella stanza degli ospiti di Azumane, spoglia tranne che per un letto, un cassettone e le loro valigie, Bokuto sedeva a gambe incrociate sul futon che Azumane gli aveva procurato, scusandosi profusamente perchè non aveva un altro letto.

I capelli umidi gli ricadevano in ciocche scolorite sulla fronte e lui guardava assorto le goccioline d’acqua cadere sulla stoffa del futon e disegnare cerchi scuri.

La porta si aprì, spinta da Akaashi, che sbadigliò, tirandosi un asciugamano attorno al  collo.
 
Koutarou sollevò la testa e sorrise. “Akaashi, ti ho lasciato il letto stasera. Hai detto che avevi mal di schiena.”

Akaashi lo guardò. “Il futon non c’entra nulla con il mio mal di schiena, Bokuto-san.”

“Non puoi saperlo, magari quel letto fa miracoli.”

“Mh.” Akaashi si sedette sul bordo del letto in questione e, senza una parola, si sdraiò su un fianco, dandogli le spalle.

“Grazie,” borbottò, rivolto ostinatamente al muro e tirandosi le ginocchia al petto.

“Devo… spegnere la luce?” chiese Koutarou.

“Fa’ un po’ come vuoi,” rispose Akaashi, la voce già impastata dal sonno. “Non c’è differenza.”

Akaashi riusciva a dormire a qualsiasi ora del giorno, in qualsiasi situazione. Persino sulle scale della Fukurodani durante la pausa pranzo.

Koutarou lo riteneva una specie di superpotere. Akaashi ne aveva tanti. Poteva fare un castello di carte in dieci secondi, disegnare un gufo con solo un tratto di penna e, due volte su tre, indovinava correttamente cosa sarebbe uscito dal lancio della moneta.

Riusciva sempre a capire la causa dei malumori di Koutarou e a trovare una soluzione.

Il suo era un superpotere.

Akaashi era bravo anche a nascondere i suoi sentimenti, ad accumulare la frustrazione e a tenersi dentro tutto, rischiando di esplodere.

“Ho fatto qualcosa, Akaashi?” gli chiese. “Sei arrabbiato?”

Koutarou lo guardò di sottecchi e lo vide alzarsi a sedere, stropicciandosi con forza gli occhi. Si sentì immediatamente in colpa perchè si vedeva che era stanco e forse era per quello che non voleva parlargli ed era del tutto comprensibile.

Anche se Koutarou aveva voglia di un abbraccio e di inventarsi una storia della buonanotte da raccontargli, una che l’avrebbe fatto ridere, come succedeva sempre ai campi di allenamento, quando Akaashi era costretto a nascondere la faccia nel cuscino per non rischiare di svegliare gli altri con le sue risate.

 Akaashi scosse la testa. “Mi manchi.”

Il cuore di Koutarou smise di battere per un secondo a quell’affermazione. “Ma sono qui,” sussurrò.

“Lo sai cosa intendo.”

Koutarou lo sapeva. Akaashi era occupato con la scuola e la squadra e lui con i suoi studi e con il capire cosa volesse fare della sua vita.

Non c’era tempo per loro.

Per quanto Koutarou provasse a fermarlo, a mandarlo indietro o a dilatarlo, non aveva quel superpotere.

E neanche Akaashi.

Annuì. Provò a dirgli che lo amava, ma Akaashi riprese a parlare e incrociò le braccia. “Volevo stare con te.”

Improvvisamente, Koutarou capì. “Akaashi!”

Sorrise. “Sei geloso!”

Akaashi emise un piccolo sbuffo dal naso. “No,” disse. “Non capisco perchè non possiamo badare ai cani assieme. Tu li adori.”

“È che io non sono bravo a prendermi cura di nessuno,” rispose Koutarou. “Ho paura di mandare all’aria tutto.”

Si strinse nelle spalle e prese a mordicchiarsi una vecchia pellicina.

Koutarou sollevò lo sguardo su Akaashi, che distese le braccia verso di lui, inclinando leggermente la testa da un lato, vieni qui.

Si sollevò dal futon e andò sedersi sul letto, provocando uno scricchiolio delle molle. Cinse la vita di Akaashi e incastrò la testa nell’incavo del suo collo. Il suo cuore batteva forte e regolare sotto il tessuto del pigiama, scontrandosi con il timpano di Bokuto.

Sentiva il respiro di Akaashi e l’odore del suo bagnoschiuma. Tentò di dirgli che lo amava.

Appena le parole gli affiorarono alle labbra, però, perdevano di significato e Koutarou restava muto, sopraffatto da quel sentimento soffocante e totalizzante.

“Se proprio non vuoi posso venire io da te,” Akaashi prese ad accarezzargli una guancia con le nocche, tanto delicatamente che Bokuto quasi non avvertiva il contatto.

“No, Akaashi.” Koutarou sollevò il volto per guardarlo negli occhi e si ritrovò a pochi centimetri dalle sue labbra. “Ti conosco. Tu adori i cani.”

Akaashi gli poggiò il palmo sul volto e rise piano. “Hai rubato la mia battuta.”

Koutarou sollevò una mano e percorse con le dita il profilo liscio di quella di Akaashi. Scese lentamente, sfiorandogli il polso e risalì lungo il dorso della sua mano. Con il pollice, Akaashi prese a disegnargli dei piccoli cerchi sulla pelle. Koutarou lasciò andare un respiro tremante.

Voleva dirgli che lo amava, ma aveva la gola riarsa, perciò girò il volto nel suo palmo e gli baciò il polso.

Una, due, tre volte, sperando di lasciare il segno, sperando che i superpoteri di Akaashi gli permettessero di capire anche ciò che lui non riusciva a dire.

“Dovremo trovare un altro modo per vederci, allora.”Akaashi appoggiò la fronte contro quella di Koutarou e chiuse gli occhi.

Koutarou lo vide sorridere. “Speravo che avessi una storia da raccontarmi,” disse, l’ombra di una richiesta nella voce.
 

______________


Erano diretti alla fermata dell’autobus.

Dopo aver passato l’intera giornata a strofinare finestrini di auto e a litigare con Kageyama, Shouyou non si sentiva per niente stanco.

Anzi, sperava che, una volta a casa, Kenma avrebbe avuto voglia di fargli qualche alzata e Kuroo di murare le sue schiacciate.

I due lo stavano seguendo, chiacchierando sottovoce.

Kageyama, invece, gli camminava a fianco. Aveva borbottato qualcosa sul fatto che casa sua era da quella parte ed era stato in silenzio per tutto il tragitto, procedendo con le mani infossate nelle tasche e un enorme cipiglio sul volto, come quando doveva decidere che tipo di latte prendere ai distributori durante la pausa pranzo.

“Pensi che Iwaizumi-san voglia cambiare lavoro perchè preferisce stare con il Grande Re?” gli chiese, tanto per riscuoterlo da ciò che stava pensando.

Kageyama distese i lineamenti, solo un po’, e lo guardò di traverso. “È colpa tua se se ne va. Non ti sopporta.”

Shouyou si fermò di colpo. “Eh?”

“Continuavi a urlare di voler usare la canna dell’acqua.”

“Questo perchè l’hai tenuta tu per tutto il tempo.”

“A lui danno fastidio i litigi.” Kageyama sollevò un angolo delle labbra.

Shouyou si rese conto che si erano fermati nel mezzo della strada solo quando Kenma e Kuroo li raggiunsero.

“Che succede?” chiese Kuroo, facendo oscillare lo sguardo tra loro due.

Shouyou riprese a camminare. “Non stavamo litigando.”

“È bello essere ignorati,” esclamò Kuroo.

“Di solito due persone che si insultano a vicenda stanno litigando,” ribatté Kageyama.

“Non noi.” Shouyou scosse la testa. “Non sul serio.”

Stavolta fu Kageyama a fermarsi. Sollevò la testa e fissò il vuoto per qualche secondo, pensando probabilmente a quella volta in cui avevano litigato davvero, quella volta in cui Shouyou aveva temuto di aver perso il suo miglior alleato; poi si girò a guardarlo, le rughe tra le sopracciglia completamente scomparse, un’espressione sorprendentemente vulnerabile in viso.

“Già,” disse solo.

“Ehi, ragazzi.” Kuroo li raggiunse di nuovo. “Dovete smetterla di fermarvi all’improvviso.”

“Andiamo avanti.” Senza staccare gli occhi da cellulare, Kenma strattonò Kuroo per il lembo della maglietta e lo costrinse a seguirlo.

Shouyou e Kageyama rimasero a fissarsi dai bordi opposti della strada.

“Come sanno dove andare?” chiese Kageyama, dopo un po’.

Shouyou scrollò le spalle. “GPS o qualcosa del genere, credo.”

Ripresero a camminare di nuovo.

“Perchè hai accettato di partecipare alla raccolta fondi?” domandò Shouyou, affrettandosi per tenere il passo.

“Perchè non avrei dovuto?” Kageyama se ne accorse e camminò più velocemente.

Shouyou lo maledisse mentalmente, pronto a disputare l’ennesima gara di velocità.

“Per via del Grande Re,” rispose Shouyou. “Non ti spaventa più?”

“È ancora terrificante.” Kageyama rallentò un po’. “Però i Lil Tykes sono davvero importanti.”

“Importanti?”

“Sì. Aiutano gente come noi a capire cos’è che vogliono veramente, chi vogliono essere fin da bambini.” Per la terza volta, si fermarono.“È una cosa importante, no?”

Dal modo in cui Kageyama posò lo sguardo su di lui, Shouyou capì cosa voleva dire. Loro erano uguali. Sapevano di voler giocare a pallavolo, solo quello. Senza non avrebbero avuto un obbiettivo. Senza non si sarebbero trovati.

“Non dovresti aver paura del Grande Re,” disse Shouyou, di getto. “Non dovresti aver paura di niente.”

Kageyama si avvicinò di un passo. “Vuoi giocare?”

“Eh?” Shouyou rimase interdetto per un istante, chiedendosi se avesse sentito bene. “Ora?”

Kageyama sembrò arrossire di colpo e si coprì la bocca con una mano. Emise una serie di versi concitati e incomprensibili, ma infine riuscì a sibilare tra i denti. “Lascia perdere.”

A testa bassa, le sopracciglia aggrottate e le spalle curvate, per la terza volta, Kageyama riprese a camminare.

Per la terza volta, Shouyou lo seguì.















 

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Capitolo 4
*** Come una partita (Parte Prima) ***


Quando una disgrazia è accaduta e non si può più mutare, non ci si dovrebbe permettere neanche il pensiero che le cose potevano andare diversamente o addirittura essere evitate: esso infatti aumenta il dolore fino a renderlo intollerabile.
- Arthur Schopenhauer

 
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Potare le astilbe del giardino della signora Miura non era un’attività del tutto soddisfacente, ma il rosa dei fiori lo tranquillizzava tanto quanto la consapevolezza che sarebbe stato pagato. Era un bel giardino, e quando diede voce a quel pensiero — “Mi piace stare qui.” — in risposta ottenne un grugnito.

Iwaizumi aveva appena finito di tosare l’erba, e continuava a passarsi il dorso della mano sulla fronte e a grugnire.

“Fai schifo,” disse Tooru.

Iwaizumi non reagì con un grugnito, e Tooru ci rimase un po’ male, però sbuffò mentre andava a ritirare il denaro. Quando tornò indietro, il bottino stretto in un pugno, Tooru gli chiese, “Siamo ricchi?”

“Estremamente,” rispose Iwaizumi, e gli consegnò i mille yen guadagnati.

Era poco in confronto a duecentomila, ma era tanto in confronto a niente, e Tooru si sentiva forte. Ma perché non riusciva a trattenersi dall’essere irritante, disse lo stesso, “Quanto tempo ci vorrà ancora? Sono passate due settimane. Due! E sembrano, tipo, otto mesi.”

Iwaizumi, prevedibilmente, replicò, “Oh, Dio, vuoi stare zitto?” ma, prevedibilmente, stava ridendo.

 
______________
 

Tetsurou sbadigliò sonoramente, fino a far lacrimare gli occhi. Reclinando la testa all’indietro, si stiracchiò e lasciò andare un grugnito.

Faceva caldo e la frangia gli si era già incollata alla fronte per il sudore. Come se non bastasse era stato costretto a svegliarsi prima di quanto avesse voluto, perché quando ti impegni in una raccolta fondi il tempo è denaro e non puoi dormire fino a tardi anche se è estate e te lo sei meritato dopo tutto quello che hai patito durante il primo massacrante trimestre all’università.

E ora Bokuto lo stava facendo aspettare sul ciglio di una strada assolata e desolata.

Dio, tutto a Miyagi sembrava desolato.

Ma perché, perché si era messo in quella situazione?

Era tardi per scappare? Kenma ce l’avrebbe avuta con lui, dopo?

Tetsurou sospirò e affondò i pugni nelle tasche dei pantaloni. Notò un bambino fermo sotto un lampione, a qualche metro da lui, con una palla da calcio stretta tra le mani.

“Ti interessa la limonata?” gli chiese.

Il bambino trasalì e si voltò a scatti verso di lui. Si portò un indice al petto come a dire, Ce l’hai con me? e, quando Tetsurou annuì, si guardò attorno, sperduto. Lentamente, scosse la testa e si scostò di un millimetro più lontano da lui.

“Davvero?” insistette Tetsurou chinandosi verso di lui. “Noi ne vendiamo una davvero buona.”

Il bambino trasalì di nuovo, tenendo la palla stretta al petto. “Non ho sete.”

Tetsurou scrollò le spalle e scrutò la strada, a destra e a sinistra. Di Bokuto neanche l’ombra.

Prima o poi avrebbe dovuto insegnargli a leggere l’ora.

“Allora…” disse, sempre rivolto al bambino. “Ti piace il calcio?”

“Io non ti conosco,” fece il bambino, tremando leggermente.

“Neanche io,” fece Tetsurou. “Come ti chiami?”

“Io… devo andare, mia madre mi aspetta.” Il bambino lanciò due rapide occhiate e attraversò la strada. “Non seguirmi, per favore.”

“Bella chiacchierata!” gli urlò dietro Tetsurou.

“Ehi, Kuroo.”

Un bisbiglio alle sue spalle gli fece fare un balzo. Tetsurou strillò come quando a tredici anni era andato a vedere The Grudge da solo e di nascosto dalla madre.

“BOKUTO!” gridò, tenendosi una mano sul petto. “Lo sai che ho il cuore debole. E perché hai quegli occhiali scuri? E quell’impermeabile nero? Sono appena le nove del mattino e ci saranno già trenta grad-”

Shhhhhhhhh,” Bokuto allungò un indice verso le labbra di Tetsurou, che fece per parlare di nuovo, solo per essere zittito ancora.

“Sono in missione.” Bokuto ammiccò nella sua direzione al di sopra degli occhiali. La quantità di gocce di sudore che gli imperlavano la fronte cominciava ad essere preoccupante.

“Bokuto, ti stai sciogliendo. Togliti quella roba di dosso, altrimenti dovrò raccoglierti con una cannuccia.” Tetsurou allungò una mano nella direzione dell’amico per aiutarlo ad uscire fuori da quella trappola di plastica che si era infilato addosso, ma Bokuto lo scansò.

“Ascoltami, Kuroo.”

“Perché continui a sussurrare?”

“E’ una faccenda segreta,” disse Bokuto sottovoce.

Tetsurou lo squadrò indispettito dall’alto in basso cercando di capire se fosse serio, poi, con un pff di scherno, gli voltò le spalle e lasciò perdere la faccenda.

Faceva troppo caldo per discutere. Se Bokuto aveva deciso di morire, gli stava bene. Si incamminò verso il parco dove vendevano la limonata, consolandosi al pensiero dei cubetti di ghiaccio nel frigo portatile.

“Kuroo, Kuroo… Ehi!” Bokuto gli arrancava dietro, con un po’ di difficoltà.

Fa’ finta di non conoscerlo, Tetsurou.

“Kuroo!” Bokuto accelerò il passo e alzò il tono di voce, “Ehi, ehi, ehi! Kuroo, aspetta!”

Testsurou aveva intenzione di cominciare a correre, solo per farsi quattro risate, ma decise che non ne valeva la pena, dato che avevano già attirato l’attenzione di una vecchietta e una donna sedute su una panchina lì vicino.

“Cosa c’è?” chiese, voltandosi.

“Guarda cos’ho qui,” Bokuto ridacchiò e fece per sbottonarsi l’impermeabile.

Tetsurou guardò le espressioni orripilate delle spettatrici e afferrò il polso di Bokuto.

“Scusateci,” disse, rivolgendo loro un sorriso forzato. Ascoltò il borbottio delle due signore mentre si allontanavano e raggiungevano l’ombra di un albero diversi metri più lontano.

“Avranno pensato che stavi per vendermi qualcosa di illegale,” Tetsurou sghignazzò, incrociando le braccia.

“Oh,” disse Bokuto, sollevando un sopracciglio e guardandolo al di sopra delle lenti, “Quello che sto per mostrarti non è illegale, ma dovrebbe esserlo.”

Si sbottonò l’impermeabile e Tetsurou vide una gran quantità di bottiglie d’acqua depositate nelle tasche interne e tre confezioni di gavettoni infilate nella cintura dei suoi pantaloni.

Tetsurou scoppiò a ridere, tenendosi la pancia. “Cos’hai, cinque anni?”

Bokuto ghignò maliziosamente, poi lanciò qualcosa in aria. Mentre questo qualcosa tracciava la sua parabola in cielo, Tetsurou si rese conto con rammarico di quale fosse la sua natura e cercò di scappare. Bokuto gli aveva appena tirato un gonfio gavettone rosa contro.

Tetsurou stava per darsela a gambe, quando Bokuto schiacciò il gavettone a mezz’aria, come se stesse giocando a pallavolo e lo colpì tra le scapole, inzuppandogli la maglietta.

La risata di Bokuto tranciò l’aria e, anche se a Tetsurou quell’acqua fresca addosso non era dispiaciuta, si voltò minaccioso verso l’altro ragazzo. “E guerra sia.”

Si rincorsero lungo tutta la strada ridendo e scagliandosi contro gavettoni, fermandosi solo per fare nuove munizioni e per schivare i poveri passanti innocenti.

Una volta arrivati al parco erano ormai zuppi, le loro acconciature completamente rovinate. Avevano finito l’acqua e Bokuto era parecchio contrariato dal fatto di avere ancora parecchi gavettoni da usare. Ciò che non sapeva era che Tetsurou aveva una piccola sorpresa in serbo per lui. Teneva nascosto dietro la schiena un palloncino pieno d’acqua e aspettava il momento giusto per attaccare.

Bokuto camminava a grandi passi sul prato. Si era tolto l’impermeabile e l’aveva legato in vita, adesso gli pendeva lungo i fianchi e gli faceva da strascico.

Quando arrivarono in cima alla piccola collinetta alla cui base c’era lo stand della limonata, con Tsukishima e Yamaguchi già seduti ai loro posti, Tetsurou calpestò l’impermeabile, tenendolo inchiodato a terra con il piede.

L’amico perse l’equilibrio e cercò di riconquistarlo mulinando furiosamente le braccia.

Tetsurou gli diede una spintarella con la punta delle dita e Bokuto, con un urlo, prese a rotolare lungo la collina. Tetsuoru vide Yamaguchi sollevare lo sguardo nella direzione del trambusto prima di precipitarsi a rotta di collo lungo il fianco della piccola pendenza, sfruttando l’umidità dell’erba per scivolare e guadagnare velocità, e in poco tempo raggiunse l’amico, sdraiato supino in terra. Stringeva il gavettone in una mano.

Con una risata di trionfo, prima che Bokuto potesse alzarsi, glielo scaraventò in faccia, facendolo annaspare. “Dolce è la vendetta.”

Bokuto, ansimando tra gli accessi di risa, si sollevò sui gomiti e si sforzò di mettere su un broncio. “Mi hai pugnalato alle spalle.”

Tetsurou tese una mano verso di lui e lo aiutò a sollevarsi. “Non frignare, hai cominciato tu.”

Tsukishima si voltò nella loro direzione, un sorriso sghembo a tagliargli il volto. “Giornata umida, senpai?”

Bokuto, al suo fianco, abbassò la testa ed emise un basso grugnito. “Non ne sono sicuro, ma credo che ci stia prendendo in giro.”

Tsukishima rise e Tetsurou credette di vedere il sarcasmo trasudare dalla sua risata. La cosa lo infastidì parecchio.

“Yamaguchi,” disse Tsukishima, guardando Kuroo negli occhi e senza smettere di sorridere. “Per caso ha piovuto?”

Tetsurou vide Yamaguchi coprirsi la bocca con una mano per smorzare una risata. Allargando le braccia disse, “Fatti abbracciare, Tsukki.”

“Già, vieni qui.” Bokuto avanzava verso l’altro ragazzo a braccia aperte, distendendo e contraendo le dita, come ad invitarlo. Tsukishima, però, lo ignorò completamente, appoggiando il mento sul palmo della mano e sbuffando piano, come se l’intera faccenda lo annoiasse a morte.Come se poco fa non si stesse divertendo da matti.

Bokuto era così serio che Tetsurou dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere. “Che stai facendo?” gli chiese.

“Cerco vendetta, no?”

Yamaguchi emise un’altra risata nasale, ma la sua attenzione venne catturata dall’arrivo di un cliente, un bambino con una palla da calcio sotto il braccio.

“Ehi!” esclamò Tetsurou. “Io ti conosco.”

Il bambino, che si stava frugando in tasca in cerca dei soldi, sobbalzò.

Tetsurou si avvicinò a grandi passi. “Avevi detto di non avere sete.”

Il bambino si strinse nelle spalle. “Adesso sì”

“Oh, bene.” Tetsurou sorrise, sporgendosi oltre il tavolo. “Spero che ti piaccia.”

Il bambino lo guardò ad occhi sgranati, prese il bicchiere colmo di limonata che Yamaguchi gli aveva preparato e lasciò gli spiccioli sul bancone. Poi se la diede a gambe.

“Non so se sia giusto,” disse Bokuto. “Spaventare così i bambini.”

“Volete andare a giocare con lui?” chiese Tsukishima, di nuovo con quell’odioso sorrisetto sul volto.

Tsukishima.” Bokuto strinse i pugni e digrignò i denti. “Ripetilo se hai il coraggio.”

Tetsurou gli strinse una spalla e gli fece segno di smetterla.

Tsukishima, completamente indifferente alla minaccia, riprese a guardare il vuoto. Yamaguchi gli disse qualcosa e i due cominciarono a parlare, dimentichi di loro.

“So come vendicarci,” sussurrò Tetsurou.

“Non ti ho sentito,” disse Bokuto, a voce troppo alta.

Ovvio, proprio ora che dovevano essere il più silenziosi possibile si metteva a urlare. “Shhhhhhh,” lo zittì Tetsurou. “Ho un piano. Ascolta…”

In una manciata di minuti, spiegò all’amico cosa aveva intenzione di fare.

“Sei sicuro che Yamaguchi non si arrabbierà?” chiese Bokuto.

“E dai, non hai voglia di divertirti un po’?” ribatté Tetsurou. Quella fu la fine della discussione.

Bokuto andò a prendere il suo posto, in piedi vicino al cartellone e pronto a intercettare clienti. Iniziò fin da subito a sproloquiare a gran voce sulle proprietà benefiche della loro limonata.

“Questo ragazzo qui, signori e signore del parco,” diceva, indicando Yamaguchi. “Spreme i limoni in maniera esemplare.”

Sfruttando così la distrazione di Tsukishima e l’imbarazzo di Yamaguchi, Tetsurou aveva il tempo di trafugare delle bottiglie di limonata dal frigo portatile senza essere visto e di versarne il contenuto nei gavettoni, che nascondeva poi nelle tasche dell’impermeabile di Bokuto, poggiato su una delle sedie.

Una volta finiti i gavettoni e gran parte della limonata di scorta, Tetsurou iniziò a pentirsi e a dubitare della moralità di quell’azione, ma si sforzò di scrollarsi il senso di colpa di dosso. Ormai era fatta, e non c’era spazio per le esitazioni.

I clienti erano stati veramente pochi, considerando i convincenti discorsi di Bokuto, ma l’amico aveva fatto bene il suo lavoro, concentrando l’attenzione degli altri due ragazzi su di sè.

Quando Bokuto smise di parlare per un secondo, Tetsurou gli fece segno di avvicinarsi.

“Allora, sono stato bravo?” gli chiese, quando fu vicino, guardandolo con occhi scintillanti di aspettativa.

“Sì, Bokuto.” Tetsurou gli batté una mano sulla spalla. “Sei il migliore.”

Bokuto ridacchiò e incrociò le braccia. “Lo so.”

“Adesso prendi dei gavettoni dall’impermeabile,” gli disse Tetsurou, dopo essersi accertato che Yamaguchi e Tsukishima non stessero ascoltando.

Proprio in quel momento il fratello di Tsukishima, Akiteru, fece la sua comparsa abituale. Da quando avevano iniziato la raccolta fondi, due settimane prima, quel ragazzo era venuto a comprare un bicchiere di limonata regolarmente. Ogni tanto portava gli amici, o una ragazza, e un paio di giorni era tornato più di una volta: lo stand della limonata guadagnava migliaia di yen grazie ad Akiteru.

La bevanda nella brocca da versare ai clienti era finita e Yamaguchi doveva riempirla di nuovo. Bisognava agire in fretta, prima che qualcuno si accorgesse delle bottiglie mancanti.

Tetsurou incitò Bokuto ad essere più veloce e prese due gavettoni a sua volta.

Quando furono armati si avvicinarono di soppiatto a Tsukishima, che stava parlando con il fratello, mentre Yamaguchi guardava nel frigo e corrugava le sopracciglia. Tetsurou annuì verso Bokuto, poi lanciò i gavettoni. Quattro palloncini ricolmi di limonata esplosero addosso a Tsukishima.

“Vendetta!” esclamarono Tetsurou e Bokuto all’unisono e il loro grido risuonò nel parco prima che un silenzio glaciale calasse attorno a loro.

 
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“Whaaa, Tanaka-san!” esclamò Hinata. “Che figo!”

Tobio doveva ammettere che la rapidità con cui Tanaka strofinava i finestrini era davvero sorprendente. Li faceva brillare in men che non si dica e riusciva anche ad occuparsene di due contemporaneamente. Le sue braccia si movevano velocissime, tanto da lasciare solo una scia nell’aria.

“Ha, ha, ha!” Tanaka si fermò per un secondo, asciugandosi la fronte con il dorso della mano. “Sono nato per questo lavoro.”

Aveva deciso di venire all’autolavaggio perché il chiosco dei baci non aveva funzionato granché e perché Iwaizumi aveva abbandonato Tobio e Hinata mormorando di non riuscire a sopportare i loro continui battibecchi.

“Voglio provare anch’io,” esclamò Hinata, mollando il secchio ricolmo d’acqua che trasportava a fatica proprio quando Tobio stava per offrirsi di aiutarlo.

Mentre Tanaka istruiva Hinata, Tobio prese il secchio da terra, osservando i due da lontano e andò svuotarlo nella grata alla base della strada in salita che avevano scelto come posto di lavoro.

In realtà era stato Iwaizumi a sceglierlo perché sapeva che c’era una pompa dell’acqua che potevano usare pagando poco il proprietario e perché, in questo modo, tutta l’acqua sarebbe defluita dal fianco dell’altura direttamente nel tombino.

Quella mattina avevano avuto solo un cliente, della cui auto si stavano occupando Tanaka e Hinata.

Iwaizumi preferiva lavorare da solo, perciò, quando c’era lui, Tobio e Hinata passavano un sacco di tempo insieme e, per questo, trovavano anche tutti i motivi possibili per litigare. Quindi, forse era meglio che adesso l’attenzione di Hinata e la sua energia fossero rivolte verso Tanaka.

Tobio si incamminò lungo la salita, il secchio vuoto che gli ballonzolava al fianco, quando un’auto griffata, forse una Lamborghini, gli sfrecciò accanto e andò a fermarsi sulla spianata in cima alla strada.

“WOHAAAAA!” esclamò prevedibilmente Hinata.

Tobio raggiunse la Lamborghini in tempo per vedere un uomo in giacca e cravatta uscirne. Parlava concitatamente e gesticolava in maniera frenetica. Sembrava che stesse conversando con l’aria, ma poi Tobio si accorse che aveva degli auricolari nelle orecchie.

“Ti ho detto che sto arrivando,” disse. “Non puoi farlo aspettare un’oretta?”

Hinata osservava la costosa auto con tanto d’occhi, muovendosi a gran velocità da un punto all’altro della macchina per poterla guardare da punti di vista diversi, non mascherando la propria ammirazione.

Tobio doveva ammettere che era un’auto impressionante e non poté fare a meno di fissarla a sua volta.

Il cliente terminò di parlare negli auricolari e salutò Tanaka stringendogli la mano. “Mi serve che splenda dentro e fuori e ne ho bisogno tra un’ora. Pensate di farcela?”

Tanaka annuì con vigore, senza riuscire a spiccicare parola.

L’uomo gli consegnò le chiavi, li salutò distrattamente e si avviò a piedi lungo la discesa, premendo un pulsante sugli auricolari.

“Ho detto fra un’ora, devo ancora comprare le bibite…”

“Pensate che sia l’autista di qualche pop idol?” chiese Hinata coprendosi la bocca con entrambe le mani.

“Idiota,” disse Tobio. “Che ci farebbe un pop idol qui a Miyagi?”

“Kageyama.” Hinata sventolò una mano in aria. “E’ ovvio. Ci verrebbe in vacanza. Miyagi è un posto bellissimo.”

Se doveva essere sincero, Tobio non trovava niente di entusiasmante nella prefettura in cui vivevano. Stava per ribattere proprio questo quando Hinata si allontanò da lui e catturò l’attenzione di Tanaka.

“Tanaka-san, mi occupo io di questa,” disse, riferendosi alla Lamborghini.

Tanaka emise un sospiro incerto. “Hai un bel coraggio, Hinata. Io ho paura che si graffi solo a guardarla.”

“Ci penso io ad evitare che combini guai,” intervenne Tobio

Tanaka si grattò la nuca, combattuto, poi si strinse nelle spalle. “Massì,” disse, indicando il van rosso che aveva alle spalle. “Io finisco quella e poi vengo a dare una mano. Ma non trasformatela in una competizione, capito?”

Tanaka porse le chiavi a Hinata, ma le ritirò immediatamente prima che l’altro potesse prenderle. “Capito?” disse, squadrandoli entrambi in cagnesco.

“Sì, Tanaka-san,” esclamò Hinata e, finalmente, prese le chiavi. Le guardò e un sorriso determinato gli si disegnò sul volto. “Io pulisco gli interni.”

“Che?” ribatté Tobio. “Volevo farli io, quelli.”

“Tu non hai il telecomando.”

“Tu non sai come usarlo.”

“Certo che lo so.” Hinata prese ad armeggiare con il telecomando legato al mazzo di chiavi che gli tintinnava tra le mani. “Devo premere questo pulsante, o questo… Mh, forse questo!”

“Da’ qua,” sbraitò Tobio e gli prese il telecomando dalle mani. Premette uno dei pulsanti a caso, e le luci dell’auto lampeggiarono.

“Eh?” fece Hinata. “Finiscila di sorridere a quel modo. Fai paura.”

Hinata fece per aprire la portiera, ma Tobio gli afferrò il lembo della maglietta e lo tirò lontano.

“Io ho le chiavi,” disse e tirò la maniglia del conducente. Hinata lo spinse di lato, facendogli perdere l’equilibrio e cadere sul lastricato.

“Idiota!” urlò.

“Ehi, voi due!” gridò di rimando Tanaka. “Che cosa vi ho appena detto? Fate a turno.”

Tobio si rialzò da terra, raddrizzandosi la T-shirt. Hinata era seduto dietro al volante della Lamborghini. “Oi, Kageyama!” esclamò, sporgendo la testa fuori. “Quando sarò il miglior giocatore di pallavolo del Giappone avrò una macchina come questa. E tu te la potrai sognare.”

Tobio emise uno sbuffo di scherno. “Non arrivi ai pedali.”

“Come ti permetti?” disse Hinata agitando il pugno. “Guarda che li tocco e che quando avrò preso la patente sarò molto più alto.”

Tobio andò a girare la manopola per attivare la pompa d’acqua, poi la tirò fino alla macchina e puntò il getto contro Hinata che lo prese in piena faccia e annaspò.

“Smettetela subito!” gridò Tanaka. “Ma non avete imparato niente?”

Tobio si scusò con Tanaka, poi prese a strofinare il parabrezza, cercando di imitarlo nella velocità, mentre Hinata si occupava di lucidare con uno strofinaccio umido gli interni. Anche se, più che lavorare, sembrava che stesse curiosando in tutti i cassetti.

Quando Tobio ebbe riempito un secchio di acqua insaponata si rivolse a Hinata attraverso il vetro ripulito. “Io vado a svuotare questo, quando torno farai meglio ad essere uscito da lì.”

Hinata soffocò ciò che stava per dire con un pfft divertito. “Che paura, Kageyama-kun.”

Tobio si limitò a fissarlo per qualche istante, fino a quando Hinata non cambiò espressione, poi per la seconda volta quel giorno, si avviò lungo la discesa per versare l’acqua nel tombino.

Erano passate due settimane e Tobio e Hinata non facevano altro che litigare. A Tobio non dispiaceva discutere e fare a gara e, come gli aveva detto Hinata due settimane fa: Noi non facciamo sul serio. Aveva accettato di far parte della raccolta fondi perché era importante per lui. Tuttavia non poteva negare a se stesso che era da quando l’estate era iniziata, da quando Hinata gli aveva chiesto come l’avrebbe passata, quella sera piena di stelle, che Tobio sperava di trascorrere del tempo con lui. Voleva parlargli, ma non sapeva cosa dirgli e voleva stare in silenzio e ascoltarlo e sederglisi accanto, spalla contro spalla. Voleva tutte quelle cose, ma non sapeva come ottenerle. Forse Tsukishima aveva ragione, forse era davvero lui l’idiota.

“Kageyama!” Il grido di Hinata lo riscosse dai suoi pensieri. “Spostati, va’ via di lì!”

Stava correndo a rotta di collo giù dalla spianata e urlava come un pazzo. Tobio spostò lo sguardo in cima alla salita, e capì perché. Sgranò gli occhi quando vide la Lamborghini scendere a retromarcia verso di lui e guadagnare velocità. Si faceva sempre più vicina, sempre più vicina.

Più su, notò Tanaka che strillava e gesticolava. Tobio sapeva di doversi scansare, lo stava ordinando al suo corpo, ma le gambe non si muovevano.

Poi si sentì strattonare di lato e vide arancione e perse l’equilibrio.

Mentre sbatteva sul lastricato, un boato di vetri infranti e lamine di acciaio distrutte si riversò tutto intorno.

Hinata era sdraiato supino accanto a lui, ansimante. Si alzò di scatto su un gomito e tastò il petto di Tobio, incredulo.

“Oddio,” sussurrò, con un groppo in gola, prima di sdraiarsi di nuovo, lasciando andare un grosso sospiro.

Tanaka li raggiunse in gran fretta e si piegò con le mani poggiate sulle ginocchia, tossendo per via del fumo che li avvolgeva. Aprì più volte la bocca per dire qualcosa, poi la richiuse, sconvolto.

Si passo le mani sulla testa, freneticamente. “State bene? Oh, mio… Che avete fatto?”

Tobio si alzò a sedere, tremando come una foglia, e vide cosa era successo. La Lamborghini era completamente devastata, spiaccicata contro il muro. Il secchio di plastica che Tobio teneva in mano pochi secondi fa era andato in pezzi.

Se non fosse stato per Hinata, ora Tobio sarebbe stato lì, tra l’auto accartocciata e il muro, ridotto a una maceria.

 
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Yuu camminava, anzi, correva, trascinandosi dietro il guinzaglio. Spostava lo sguardo dappertutto, veloce come un bolide, più veloce, ma niente.

Com’era potuto succedere?

Per le strade e i vicoli di Miyagi, sotto il sole di mezzogiorno, le poche persone presenti osservavano Yuu passare loro accanto come una furia e sollevavano le sopracciglia, sorpresi.

Forza, pensava, guardando tra i cespugli.

Forza, e le sue scarpe da ginnastica calpestavano il lastricato con un ritmo frenetico.

Forza, e non gli veniva in mente niente, niente, niente.

Dove sei?

Yuu andò al parco, supponendo che lì avrebbe avuto più fortuna.

“Puchi!” urlava, incurante delle coppiette sdraiate all’ombra dei salici. “Puchi!”

Continuò a strillare quel nome fino a quando uno scampanellio raggiunse le sue orecchie e dalle fronde dei salici comparve, come attraverso una tenda, la testa di Yachi.

“N-Nishinoya-senpai?” disse. “Che ci fai qui?”

Yuu notò la presenza di Kyoko che osservava la scena al di sopra della spalla di Yachi.

“Ho bisogno del vostro aiuto,” disse, mostrando loro il guinzaglio per cani che si era portato appresso. “Ho perso un cane.”
 

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Note:
Oof, questi otto mesi sono sembrati due settimane. A chiunque stia leggendo: scusa.
Vi vogliamo ancora bene. Voi?
Seconda parte domani (✿◠‿◠)

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Capitolo 5
*** Come una partita (Parte Seconda) ***


La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la piú diametralmente contraria ad essa speranza e la piú decisiva.
- Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura / Giacomo Leopardi


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Koushi sbadigliò sonoramente. “Non si vede proprio nessuno, eh?”

Sawamura aveva incrociato le braccia sulla superficie del banchetto e le stava usando a mo’ di cuscino. Lo guardò da quella posizione e accennò un sorriso. Lanciandosi un rapido sguardo attorno, Koushi si piegò verso di lui e gli posò un fugace bacio sulla guancia. “Oh, insomma, dov’è finito Ennoshita?” disse, dopo. “Doveva solo prendere altre confezioni di biscotti dal magazzino.”

Sawamura si raddrizzò sulla sedia. “Sarà dentro a godersi l’aria condizionata,” rispose.

“Vado a controllare,” aggiunse e si diresse verso le porte automatiche dello Shimada Mart.

“Vedi di non perderti anche tu, Daichi,” lo raccomandò Koushi. “Il signor Shimada è già abbastanza gentile da lasciarci stare qui.”

Dopo alcuni istanti silenziosi e solitari, Koushi stava cominciando a ponderare l’idea di entrare a sua volta: non c’era nessun cliente in vista e avrebbe portato il barattolo dei soldi con sè. Tuttavia, all’improvviso si manifestò all’orizzonte una sagoma alta, che Koushi non riuscì a riconoscere subito perché era in controluce.

Quando si fu avvicinata abbastanza, si rese conto che era Azumane.

“Asahi?” chiese, alzandosi in piedi. “Che ci fai qui?”

Azumane aveva un aspetto orribile: i capelli gli erano sfuggiti a ciocche dall’elastico perché lui continuava a farci passare nervosamente le dita e sembrava aver pianto, perché aveva gli occhi arrossati.

“Che ti è successo?” Koushi gli si avvicinò, improvvisamente preoccupato.

“Hai visto un cane?” gli chiese l’amico, che sembrava sull’orlo di un attacco isterico. “Un cane grosso, peloso e grigio?”

“Asahi, siediti per favore.” L’espressione di Azumane fece rabbrividire Koushi. “Spiegami che succede.”

“Daichi non deve saperlo, ti prego.” Azumane gli strizzò  un braccio, mentre si sedeva al suo posto.

“Va bene, va bene,” lo rassicurò Koushi, cercando di forzare le dita dell’altro a mollare la presa. “Sta’ tranquillo, però.”

“Nishinoya l’ha perso.”

“Perso?”

“Il cane!” Azumane cominciò a singhiozzare. “Puchi!”

“Puchi? Aspetta… Nishinoya ha fatto cosa?”

Shhhhhhhh,” fece Azumane, agitando una mano nella sua direzione e guardandosi attorno, con un espressione di puro terrore dipinta in volto. “Daichi ci ucciderà.”

Koushi si frugò in tasca in cerca di un fazzoletto e quando lo ebbe trovato lo porse ad Azumane. “Asciugati quelle lacrime, Asahi,” disse, riboccandosi le maniche della camicia con risoluzione. “Non serve a niente piangersi addosso. Abbiamo un cane da cercare.”

Azumane lo guardò incredulo mentre prendeva il denaro dal barattolo e se lo infilava in tasca, per evitare che qualcuno lo rubasse. Quei soldi erano un magro guadagno, ma pur sempre qualcosa.

Koushi lanciò uno sguardo ad Azumane, che sembrava aver recuperato il suo colore ed essere tornato in sè.

“Che dirai a Daichi?” gli chiese, mentre si legava i capelli in una crocchia.

Koushi agitò il cellulare e gli sorrise. “Gli mando subito un messaggio. Non preoccuparti, lo troveremo in men che non si dica, Asahi.”

Con una mano, colpì la spalla dell’amico, mentre con l’altra digitava il messaggio per Sawamura.

a: Daichi (⺣◡⺣)♡*

Ad Asahi serviva una mano con i cani. Sono andato con lui.

P.S. Ho preso io il denaro.
A dopo, ˶⚈Ɛ⚈˵


“Bene,” disse Koushi. Prese un gran respiro e sollevò lo sguardo su Azumane. “Qual’è l’ultimo posto dove lo hai visto?”

 
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La prima cosa che attirò l’attenzione di Kotarou fu l’espressione di Yamaguchi quando si alzò dalla sua posizione accovacciata accanto al frigo.

Tsukishima, invece, era impietrito sulla sedia. Gli occhiali gli erano volati via dal volto e lui se ne stava lì, rigido, a ribollire di rabbia, mentre Akiteru ridacchiava, stringendosi il mento tra indice e pollice. “I tuoi nuovi amici sono… ehm… esuberanti.”

“Quella è la mia limonata?” chiese Yamaguchi camminando verso Kotarou, che era più vicino. “Avete appena gettato dei gavettoni pieni di limonata addosso a Tsukki?”

Kotarou non l’aveva mai visto così. Con le sopracciglia aggrottate e l’incredulità dipinta in volto, spostava lo sguardo da una parte all’altra, in cerca di qualcuno che gli dicesse che era tutto uno scherzo.

“Era uno scherzo,” disse, stringendosi nelle spalle.

“Cosa?” ribatté Yamaguchi, avanzando di un passo verso di lui. “Ti sembra divertente?”

Kotarou indietreggiò di un passo.

Okay, forse non voleva sentirsi dire che era uno scherzo.

“Senti, hai ragione,” intervenne Kuroo. “Ci dispiace. Vero, Bokuto?”

Kotarou annuì vigorosamente. “Non li abbiamo neanche usati tutti.”

“Eh?” fece Yamaguchi.

Kotarou andò a frugare nelle tasche dell’impermeabile e tirò fuori una manciata di gavettoni che porse a Yamaguchi. “Ecco, forse possiamo riutilizzarla,” gli disse, mentre li spingeva verso l’altro ragazzo.

E così, all’improvviso, senza che Kotarou li lanciasse, i gavettoni esplosero tra lui e Yamaguchi, inondando entrambi di limonata.

“Ma perché li hai riempiti così tanto, Kuroo?” esclamò Kotarou, ormai zuppo dalla vita in giù.

“Colpa mia,” disse Kuroo, grattandosi la nuca. Kotarou lo conosceva abbastanza da capire, guardandolo, che era più divertito che dispiaciuto dal fatto e la cosa lo urtò parecchio.

Yamaguchi era così furioso che smise di parlare e gli voltò le spalle. Quello era il modo che aveva di arrabbiarsi anche Akaashi e Kotarou sapeva, per esperienza, che adesso qualunque cosa che lui o Kuroo avrebbero detto, avrebbe innescato una mina invisibile.

Perciò chiuse la bocca e anche se voleva chiedere scusa di nuovo, si morse la lingua.

Tsukishima era tornato a respirare normalmente e faceva di tutto per ignorarli. L’unica cosa che uscì dalla sua bocca fu un mormorio infastidito, un patetici, che un po’ — solo un po’ — ferì Kotarou nell’orgoglio.

Si sentiva appiccicoso in maniera spiacevole e quando vide che Yamaguchi e Tsukishima stavano radunando le loro cose per andarsene, tirò un sospiro di sollievo al pensiero di una doccia.

Proprio in quel momento, però, guidato dal suo cellulare, sopraggiunse Kenma, che, passandoli in rassegna ad uno ad uno arricciò il naso e strinse gli occhi. “Che hai fatto, Kuro?”

“Lunga storia,” rispose l’interpellato. “Tu che ci fai qui?”

“Abbiamo perso un cane,” rispose Kenma a bassa voce, lanciando uno o due sguardi verso Tsukishima, Yamaguchi e Akiteru. “Sembra che sia scappato mentre Nishinoya lo portava a passeggio.”

Tsukishima emise un tsk e scosse la testa, come se non fosse sorpreso da una notizia del genere.

Kenma girò lo schermo del cellulare verso di loro. La foto che mostrava era quella di un cane adorabile, grosso e dal pelo grigio e lungo, che gli copriva anche gli occhi.

“L’avete visto?” chiese Kenma.

Kotarou scosse la testa e Kuroo si strinse nelle spalle.

“Bè, Azumane ha pianto e qualcosa mi dice che Oikawa non sarà contento se lo viene a sapere.” Kenma si infilò il cellulare in tasca.

“Ti aiutiamo noi a cercarlo,” disse Kotarou, anche se per oggi avrebbe preferito allontanarsi da Yamaguchi e Tsukishima che, così ricoperti di limonata, lo facevano sentire in colpa. “Vero?” aggiunse poi, rivolto agli altri.

“Certo,” disse Kuroo e si vedeva che non ne era per niente entusiasta. Ma Kuroo era Kuroo e, anche quando si trattava di aiutare Kotarou a studiare a ore assurde della notte, non si tirava mai indietro. Non l’avrebbe fatto neanche stavolta.

 
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Era da un’ora che Keiji cercava Puchi e l’intera faccenda sembrava essere ormai senza speranza.
Miyagi era un posto sconosciuto, con più vicoli e anfratti di quanto ci si potesse aspettare e lui non aveva idea di dove andare.

Com’era possibile perdere un cane tanto grande? Come aveva fatto Nishinoya a non accorgersi che si era allontanato?

Keiji sospirò, stringendosi il ponte del naso tra indice e pollice per alleviare l’emicrania che minacciava di fargli esplodere la testa a momenti, poi si guardò attorno.

Nessuna traccia di Puchi. Si trovava in un quartiere residenziale, con villette ordinate e affiancate su entrambi i lati della strada, ognuna fornita di un giardino frontale.

Mentre camminava, vide Oikawa e Iwaizumi, inginocchiati sul prato di qualcuno che piantavano dei fiori in un’aiuola.

Keiji si avvicinò alla staccionata.

“Ehi,” esclamò, alzando una mano in aria per attirare la loro attenzione.         

Iwaizumi fu il primo a voltarsi, e rispose a Keiji imitando il suo gesto. Oikawa spalancò gli occhi per la sorpresa, ma si riprese quasi immediatamente una volta riconosciutolo e gli sorrise nel dire,  “Ah, Akaashi! Come mai sei venuto a trovarci?”

Sembrava felice e spensierato, inginocchiato tra l’erba con le mani piene di terriccio e Akaashi lo conosceva da abbastanza tempo da sapere che quello che stava per dirgli gli avrebbe fatto cambiare completamente umore. Gli dispiaceva infrangere così la sua calma, ma Keiji non era del luogo e aveva bisogno di qualcuno che conoscesse le strade e lo aiutasse e gli era appena capitato di incontrare due delle persone più adatte.

“Abbiamo perso un cane,” disse, cercando la foto di Puchi sul cellulare e mostrandola agli altri due ragazzi. “Mi dispiace interrompervi, ma non so proprio dove possa essersi cacciato.”

“Oh,” sospirò Iwaizumi. “Oh, no.”

 
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Kei aveva passato l’ultima mezz’ora della sua vita a cercare di capire quale delle scelte che aveva preso l’avesse condotto fin qui. Non riusciva a decidere se dare la colpa a i suoi compagni di squadra — amici? — che l’avevano spinto a passare la sua estate così, o se far risalire la causa dei suoi problemi ad Akiteru, senza il quale non avrebbe neanche pensato di entrare in un club di pallavolo. Però, la pallavolo, e la sua squadra, addirittura, gli piacevano più di quanto desse a vedere, quindi forse era ingiusto colpevolizzarla tanto. Si stavano dirigendo in via Hirose, perché era il luogo che Oikawa aveva segnalato in un messaggio che diceva, semplicemente, “Tutti qui immediatamente!!!” e, forse, la colpa era di Bokuto e Kuroo se aveva la maglietta appiccicata alla schiena e i suoi capelli avevano l’odore della limonata.

“Ti dà fastidio?” chiese Yamaguchi, indicando il torso di Kei.

“Sapere che sono stati quei due idioti a farlo, più che la sensazione vera e propria,” rispose. Si aspettava quantomeno un sorriso da Yamaguchi, perciò, quando l’altro non diede segno di reagire disse, “Ti danno fastidio?” e indicò con il pollice Kuroo e Bokuto, che camminavano dietro di loro a qualche passo di distanza insieme a Kenma.

“Che? No, no, per niente! Cioè —” Scrollò le spalle, un gesto insolito da parte sua: Yamaguchi era raramente indifferente. “Non lo so, Tsukki. Sono tuoi amici.”

L’ultima frase era un’affermazione, perciò, piuttosto che negarlo, Kei disse, “Non per mia scelta.”

“È che sei irresistibile, Tsukki, attiri tutti a te.”

“Sono gli occhiali, vero?”

Yamaguchi annuì solennemente, e Kei si sentì immediatamente meglio. Però, nonostante lo adorasse quando gli reggeva il gioco, si sentì in dovere di tornare alla questione iniziale. “Allora qual è il problema?”

“Problema?” gli fece eco Yamaguchi, confuso. Poi, sembrò ricordarsi di cosa stavano parlando e continuò, “Nessun problema. Ho solo notato che se non hanno abbastanza paura di te da tirarti un gavettone e chiamarti Tsukki, allora sono davvero tuoi amici.”

Yamaguchi aveva pronunciato la parola paura con incredulità, come se fosse impossibile per lui pensare a Kei come pericoloso, e fu su quello che si soffermò inizialmente. Solo dopo si rese conto di quello che Yamaguchi voleva dire: era geloso.

“Non essere stupido,” fu tutto quello che riuscì a dire prima di essere interrotto dalla voce imponente di Bokuto.

“Ora ho un po’ paura.”

Erano arrivati al punto d’incontro. Tutti i loro compagni erano raggruppati all’ombra di una zelkova, con l’eccezione di Azumane e Sugawara. A fare paura a Bokuto, però, probabilmente era stata la presenza di un uomo evidentemente infuriato che discuteva con Oikawa e Sawamura.

Kei non aveva idea di cosa si trattasse, ma per qualche motivo era sicuro di sapere di chi fosse la colpa.

“Hinata!” disse Yamaguchi quando furono abbastanza vicini al gruppo. “Chi è quello?”

“Un nostro cliente,” rispose Hinata, a testa basta e stranamente poco rumoroso. “Noi… ehm… io ho urtato per sbaglio il freno a mano mentre stavo ripulendo la sua macchina ed è andata a schiantarsi contro un muro.”

Tipico, pensò Kei, e quasi rise.

“Non ci credo,” fece Yamaguchi. “Non è vero.”

“Credici,” disse Kageyama. “Oikawa gli darà tutti i soldi che abbiamo guadagnato per riparare i danni.”

Nessun altro parlò. Anche se alcuni di loro non erano realmente interessati alla causa della raccolta fondi, tutti avevano lavorato. Sarebbe stato impossibile riguadagnare tutti quei soldi in breve tempo.

Avevano perso, e non potevano sopportarlo.

Fu difficile guardare Oikawa consegnare il denaro a quell’uomo, ma quando Sawamura si schiarì la gola Kei decise che era il momento di andare via, perché era ancora appiccicoso e lo sguardo dell’ex-capitano era terrificante.

“Quando vi ho rivisti dopo tanto tempo ho pensato che eravate cresciuti e maturati, lo credevo davvero. Invece non siete cambiati per niente. Avete mandato all’aria qualcosa per cui ognuno si stava impegnando con tutto se stesso. Non è questo che abbiamo imparato, non è così che giochiamo. Siete una squadra o no, Tanaka? Eravamo — siamo — una squadra, e lasciatemi dire una cosa: questa raccolta fondi è, in tutto e per tutto, simile a una partita di pallavolo in cui bisogna contare sui propri compagni. Oggi avete distrutto la nostra fiducia. Non vi siete comportati da compagni di squadra e l’anno scorso potevo perdonarvelo: non vi conoscevate bene, dovevate abituarvi l’uno all’altro. Mi ero illuso che ci foste riusciti, che sapeste quando è il momento di rimanere concentrati e quando ci si può lasciare andare. Hinata, Kageyama, avete sfasciato un’auto che costa quanto l’intera Miyagi, probabilmente, e siamo fortunati che il padrone si sia accontentato dei nostri novantamila yen. Avrebbe potuto denunciarci e Oikawa ne avrebbe pagato tutte le conseguenze, è lui che ci ha messo la faccia. Abbiate per lo meno rispetto. Ora dobbiamo ricominciare da zero ed è tutta colpa vostra. Senza contare il fatto che potevate ferirvi seriamente, o peggio. E tutto per cosa? Per uno dei vostri litigi? Tanaka, non ti avevo forse detto di evitare che succedessero cose del genere? Dovete ringraziare il cielo che il vostro capitano sia Ennoshita, quest’anno, e dovete sperare nel suo buon cuore, perché se ci fossi io al suo posto chiederei al preside di bandirvi dal club di pallavolo, intesi? E ora, non una parola di protesta. Fate un respiro profondo e scusatevi con tutti gli altri. Sto parlando anche per te, Nishinoya! Non ho dimenticato che siamo qui per cercare un cane che tu hai perso.”

Kei non poteva credere che fosse riuscito a pronunciare tutte quelle parole in un solo fiato. Guardò Kageyama, Hinata e Tanaka scusarsi, incapace di fare altro, e sentì Oikawa dire, “Ora basta. Ormai è fatta.”

Poi nient’altro, e nell’aria era tangibile la sconfitta.

Quando Nishinoya ruppe il silenzio teso urlando, “Puchi!” però, l’atmosfera cominciò a cambiare. Sugawara e Azumane stavano correndo verso di loro, accompagnati da un cane — Puchi, presumibilmente — e Kei non era mai stato così felice di vederli.

“Ci siamo persi qualcosa?” chiese Sugawara.

Iwaizumi sbuffò così forte da attirare l’attenzione dell’intero gruppo. Oikawa, alla sua sinistra, disse, “Grazie a tutti per l’aiuto, ma i soldi che ci servono sono troppi e il tempo che abbiamo è troppo poco.”

“Troppo poco?” ribatté Sugawara. “Cos’è successo?”

Sawamura gli spiegò la situazione con molte meno parole di quelle che aveva usato per rimproverare i ragazzi. Sugawara non si dimostrò per niente colpito dalla faccenda. “Non è finita. Dobbiamo soltanto darci da fare di più.”

“È vero,” fece Nishinoya. “E poi non partiamo da zero. Abbiamo i soldi di Puchi.”

Hinata parlò per ultimo. “Questa raccolta è come una partita, no?” disse. “Allora, non abbiamo ancora perso!”

 
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Tooru avrebbe voluto darci un taglio, tirare fuori dalla faccenda tutte quelle persone estranee. Era abituato a lottare e voleva vincere, come lo voleva sempre, ma era anche abituato a perdere, e se avesse perso, perlomeno sarebbe stato da solo. Era una speranza vana, e lo sapeva, perché avevano cominciato tutti insieme, e la Karasuno era tremendamente orgogliosa, perciò avrebbero anche finito insieme.

Tooru tirò un sospiro di rassegnazione.

“Non ci posso credere che li hai ringraziati,” disse Iwaizumi. Erano le prime parole che gli rivolgeva da quando avevano lasciato gli altri e si erano incamminati verso casa.

“Cos’altro avrei dovuto fare? Sawamura li ha sgridati abbastanza,” rispose. “Pensi che ce la faremo?”

Iwaizumi si fermò di colpo e inspirò profondamente, come se si stesse preparando a fare un discorso. Perciò, Tooru fu estremamente contento quando disse solo, “Sì.”

 
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Note:
La filipicca infinita di Daichi è ispirata a quella di Neil Josten in The Raven King di Nora Sakavic, chiediamo scusa.
 
 

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