I tarocchi della Papessa Nera di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Tarocchi 1
I
TAROCCHI DELLA PAPESSA NERA
Capitolo
1
L’agente
Hayes era quello che si potrebbe definire un poliziotto di
esperienza. La sua lanterna era così vecchia che a forza di
lucidature ormai brillava. Quello che aveva in testa era già
il
quinto casco che cambiava, e per la fine di ognuno dei precedenti
aveva da raccontare una storia talmente avventurosa che le reclute
rimanevano ad ascoltarlo con il fiato sospeso.
Conosceva
a menadito ogni strada, vicolo, cortile e anfratto di Whitechapel, e
anche se c'erano buio, nebbia o pioggia era in grado di orientarsi
nel quartiere con la sicurezza di un piccione viaggiatore.
Quella
sera, la nebbia era solo moderatamente fitta, la qual cosa
significava che la luce della lanterna era un cono lattescente che
gli rimbalzava davanti in sincronia con i suoi passi, ma consentiva
di distinguere almeno i contorni delle cose. Non come cinque anni
prima, quando in pieno giorno era quasi caduto nel Tamigi
perché non
si vedeva che la strada era finita.
Tirò
fuori lo sfollagente e con quello picchiettò qualche porta e
finestra chiusa per controllare che fosse effettivamente tale.
“'Sera,
Jeff,” disse a un viluppo di stracci raggomitolato sotto una
tettoia.
“'Sera,
agente Hayes,” provenne la risposta.
Arrivò
al Raglan's Rest, un pub orgogliosamente gestito da
un ex
combattente della guerra di Crimea. Il posto era aperto e illuminato
a giorno. Il padrone, in maniche di camicia e grembiule, era sulla
soglia e scrutava ansiosamente il fondo della strada.
“'Sera,
signor Olson,” disse il poliziotto, portandosi la punta dello
sfollagente al bordo del casco in segno di saluto.
“Buona
sera, agente Hayes,” rispose l'uomo. Tornò a
scrutare la strada
nebbiosa.
“Aspettate
qualcuno, signor Olson?”
L'altro
abbandonò l'osservazione e lo fissò orgoglioso.
“Potete
scommetterci. Un intero carro della migliore birra di Burton. La
faccio arrivare di notte perché le strade sono
più libere.”
Il
poliziotto annuì. “Molto ben ragionato, signor
Olson,” approvò.
“È
con la logistica che si vincono le offensive,”
sentenziò l'oste,
che nel corso della guerra aveva servito in una Compagnia Comando e
Servizi. Stava per aggiungere altro, quando dal fondo della strada
cominciò a farsi udire un lieve scampanellio.
“Eccolo!”
esclamò. Poi, rivolto verso l'interno del pub:
“Venite fuori, sta
arrivando.”
Alcuni
robusti operai si riversarono sul marciapiede.
Lo
scampanellio nel frattempo andava aumentando. A esso si associarono
lo sferragliare di pesanti ruote e il battere ritmico di molti
zoccoli equini. “Forza, belli!” esclamò
una voce possente.
Svoltò
l'angolo un carro che trasportava una piramide di barili di birra.
“Eccolo!”
ripeté Olson. Si fregò le mani soddisfatto.
Il
veicolo percorse l'ultimo pezzo del tragitto a un trotto vivace,
quindi si fermò davanti al pub.
Subito
vennero sistemate le rampe di legno, e gli uomini cominciarono a far
scendere i barili. I corpi poderosi dei cavalli fumavano nell'aria
fredda mentre essi lasciavano ciondolare la testa.
L'orologio
batté tre colpi. “È l'ora del
lupo,” constatò distrattamente
Hayes.
Olson
si voltò verso di lui. “Che cosa?”
Con
lo stesso tono di mistero con cui raccontava gli aneddoti alle
reclute, l'agente spiegò: “È l'ora in
cui il sonno è più
profondo e gli incubi sono più vividi. Ogni poliziotto la
conosce
bene, caro signore, perché è il momento in cui
vengono commessi i
crimini più efferati.” Tacque con fare
significativo, poi
soggiunse: “Con permesso.” Si allontanò
di qualche passo lungo
la via buia. Non era infrequente che bande di ladruncoli si
organizzassero durante le consegne per portare via qualcosa, e voleva
controllare i dintorni del pub.
Non
appena uscì dal cerchio di luce del Raglan's Rest, fu
investito da
una sensazione di gelo mortale. Nello stesso momento udì
delle urla
scomposte alle sue spalle, rumore di legno che si fracassava e un
baccano infernale di ruote e zoccoli. Si voltò e vide il
tiro a sei
al galoppo sfrenato nella sua direzione. Le bestie avevano gli occhi
fuori dalla testa e schiumavano dalla bocca.
§
“Questo
è tutto,” disse l'agente Jackson, “Se
qualcuno vuole lasciare
donazioni per la vedova, la procedura è la solita, andate
dal
sergente Kelsey.”
La
folla di poliziotti si disperse brontolando.
“È
un maledetto schifo,” sbottò a un certo punto
l'agente Wyndham,
uno dei veterani. “Uno stramaledettissimo schifo!”
“Ridotto
come il ripieno della cottage pie,” rincarò un
altro.
“Per
quale motivo nessuno ha tenuto a bada quei cavalli, eh?”
volle
sapere un terzo, guardandosi intorno come se il responsabile
dell'accaduto fosse in quella stanza. “Ma che accidenti
avevano in
testa?”
“Forse
pensavano già alla birra che si sarebbero bevuti.”
“E
intanto il povero George c'è rimasto secco.”
“Uno
schifo,” ripeté Wyndham.
Dall'angolino
in cui l'avevano relegato, l'agente MacLeod, sei mesi scarsi di
servizio, seguiva in silenzio la scena. Aveva conosciuto solo di
sfuggita l'agente Hayes. Lo ricordava come un uomo dai capelli
brizzolati, piuttosto imponente e con l'espressione bonaria. Si
chiese se fosse suo dovere andare da Kelsey e lasciare qualcosa per
la vedova. Quanto, poi? Non che ne avesse da sprecare, con sedici
scellini la settimana, tuttavia avrebbe donato volentieri una parte
della sua paga.
Mentre
era immerso in quei pensieri, l'agente Wyndham lo apostrofò:
“E tu
che hai da guardare?”
Il
giovanotto si affrettò ad abbassare gli occhi.
“Niente, signore.”
“Vedi
di andare a fare qualcosa, invece di stare qui a squadrarmi con
quella faccia da pesce lesso.”
“Scusate,
signore.”
Intervenne
a questo punto l'agente Jackson: “Lascia stare il ragazzo.
Dispiace
a tutti per Hayes, ma lui non ne ha colpa.”
“Non
sa neanche ammanettare un ladro come si deve, eppure è
ancora qui
che porta a spasso la sua faccia da poppante.”
“Dai,
James, lascia perdere,” disse l'altro. Lo prese per una
spalla.
“Andiamo a berci una birra dopo il servizio? Offro
io.”
Uscirono
dalla stanza che Wyndham stava ancora recriminando.
MacLeod
li seguì per un attimo con lo sguardo, poi si
girò e vide che
Kelsey lo stava fissando.
“Ho
detto qualcosa di sbagliato, sergente?” volle sapere.
“I
vecchi poliziotti sono più ombrosi dei cavalli guerci,
ragazzo,”
gli rivelò il superiore. “Ognuno ha i suoi
pallini.”
“Scusate,
sergente.”
“Ah,
lascia perdere. A stare dietro alle manie di tutti vai a finire al
Bedlam.”
§
Nonostante
fosse novembre, la notte era limpida. C'erano addirittura le stelle,
che facevano capolino qua e là tra le cime dei palazzi.
L'agente
Pierce fece girare la lanterna, mandando il pennello di luce a
frugare nel fondo di un vicolo. Un gatto saltò
giù dal davanzale di
una finestra e scomparve nell'ombra. Una figura rannicchiata, un
bambino a giudicare dalle dimensioni, si tirò sulla testa un
lembo
del fagotto di stracci nel quale stava dormendo.
Riprese
a camminare sulla strada. Una ragazza che non poteva avere
più di
quindici anni, pallida, con le labbra dipinte di carminio e un abito
troppo leggero per il freddo pungente della notte autunnale, si
ritirò in un adrone al suo apparire.
“Va’
a casa, Molly,” le disse il poliziotto passando.
“Me
la paghi tu la cena?” replicò la ragazza in tono
provocatorio.
L’agente
si fermò. “Molly, su, fa la brava.”
Illuminata
dalla lanterna, la giovane prostituta pallida aveva un’aria
spettrale. Cerchiati, brucianti di febbre, gli occhi erano enormi nel
viso emaciato. La pennellata di rosso delle guance sembrava dovuta
più alla tisi che al belletto.
Pierce
si frugò in tasca, ne trasse alcune monete e gliele mise in
mano.
“Tieni, ma non comprarti del gin, questa volta.”
Lei
gli rivolse un sorrisetto. “Non vuoi niente, in
cambio?”
“È
meglio di no, Molly. Buona notte.”
Riprese
a camminare.
Aveva
percorso quasi tutto il giro di ronda quando l’orologio della
chiesa batté tre colpi. Sollevò la testa in
direzione del
campanile, e quando tornò a fissare lo sguardo sulla strada
vide che
circa trenta iarde più avanti c’era una donna.
Vestita di nero, si
distingueva a stento contro il buio della via.
Ella
si voltò brevemente nella sua direzione – Pierce
percepì l’ovale
bianchissimo del viso – poi si girò e prese ad
allontanarsi a
passo svelto.
“Signora,
aspettate!” esclamò l’agente. Che ci
faceva una donna sola,
dall’apparenza rispettabile, in giro per Whitechapel
all’ora del
lupo? Decise di andarle dietro.
“Signora!”
La
donna proseguiva senza rallentare. La lanterna, che la illuminava a
sprazzi, mostrava un severo abito nero e uno scialle frangiato,
sempre nero. Portava un ampio cappello immerso in una nuvola di velo
nero.
“Signora,
aspettate!”
La
misteriosa figura sembrò indugiare per un attimo, quindi
voltò
bruscamente ed entrò nel cortile di una casa abbandonata che
nel
quartiere veniva chiamata ‘il castello’, per la sua
architettura
neogotica e le quattro torri angolari. Percorse il vialetto, quindi
salì i tre gradini che conducevano alla porta e spinse
l’anta, che
cedette cigolando. Scomparve all’interno.
“Signora!”
ripeté per l’ennesima volta il poliziotto, a
questo punto ben
deciso a scoprire chi fosse la persona che stava inseguendo e cosa
cercasse in quella casa. Considerò fugacemente che il
castello era
una magione antica e fatiscente, le cui strutture non erano
più
solide come apparivano, ma al momento gli parve preponderante
scoprire le intenzioni della misteriosa donna.
Entrò
a sua volta nell’androne buio, che puzzava di polvere vecchia
e
muffa. I suoi passi fecero scricchiolare le assi del pavimento.
Fece
girare tutt’intorno la luce della lanterna, ma non vide
nessuno.
“Signora?” chiamò. Si guardò
intorno e scorse il volto bianco
nel vano di una porta. Si mosse in quella direzione e
percepì un
suono di tacchi femminili che si allontanava lungo un corridoio.
Seguendo
quel rumore arrivò a una scala a chiocciola che andava verso
l’alto.
Cominciò
a salire. I gradini erano dissestati, e più volte si
trovò a fare
affidamento sulla luce della lanterna per poggiare il piede su
porzioni di essi relativamente solide. Guardò in su e per
l’ennesima
volta chiamò: “Signora? Siete qui?”
Quando
la scala finì, si rese conto di trovarsi in una delle
torrette. Era
in una stanza ottagonale, sulla quale si aprivano tre alte bifore,
che in alcuni punti conservavano ancora qualche vestigia dei vetri
colorati che le avevano chiuse. Le pareti erano attraversate da
profonde crepe, l’intonaco qua e là era caduto.
D’improvviso,
l’aria si era fatta mortalmente gelida. L’agente
fece un passo
avanti e il pavimento scricchiolò. Dai muri caddero altri
calcinacci. “Maledizione!” esclamò.
Cercò di farsi indietro, ma
con un rombo cupo la torretta collassò su se stessa.
§
“Ma
che accidenti ci faceva, nel castello, dico io! Che ci faceva? Lo
sanno tutti che sta in piedi per miracolo, che non si entra in quel
dannato tugurio.”
L’agente
Jackson girava in tondo e intanto sacramentava, imprecando contro gli
edifici pericolanti, il Governo che non faceva nulla per abbatterli,
la dabbenaggine dei colleghi e in generale il servizio di Polizia,
mal pagato e pieno di insidie.
“Due
incidenti mortali in meno di dieci giorni,” disse poi.
“Cosa
aspettano, che crepiamo uno dopo l’altro?”
Memore
dell’esperienza precedente, MacLeod se ne stava fermo nel suo
angolo, intento a fissarsi con il più grande interesse la
punta
delle scarpe.
Aveva
intravisto l’agente Pierce qualche volta, ma non si poteva
certo
dire che lo conoscesse. Sapeva solo che era uno dei vecchi, e che era
reputato da tutti un buon poliziotto.
“Sono
sempre i migliori che se ne vanno,” sentenziò
infatti l’agente
Gardner.
“Già,”
grugnì qualcun altro.
Calò
il silenzio. Anche le imprecazioni di Jackson erano andate pian piano
esaurendosi e l’unico rumore che si sentiva, a parte qualche
sospettato che sbraitava nell’altra stanza, era il camminare
nervoso dell’agente.
MacLeod
osò alzare lo sguardo. Temeva una sfuriata, ma nessuno fece
caso a
lui.
Fu
un altro agente giovane, Charles Campbell, che dopo un po’
andò a
chiamarlo. “Mi serve qualcuno per aiutarmi a registrare gli
arresti
di oggi,” gli disse. L’altro si limitò
ad alzarsi e a seguirlo.
“Poveraccio
Chris Pierce, vero?” gli disse il collega quando furono nella
stanza attigua.
MacLeod
annuì. “Già.” Poi, Dopo una
pausa: “Voi lo conoscevate?”
Campbell
sorrise. “Puoi darmi del tu, non ho tutti questi anni
più di te.
Comunque sì, lo conoscevo. È stato lui che mi ha
insegnato tutto
quando ero recluta.”
“Era
un agente esperto, vero?”
“Sì.
Ora non cominciare a dire anche tu che non ti spieghi come mai sia
entrato in quella casa pericolante.”
“No
no, non volevo dire niente di questo,” si affrettò
a rispondere il
ragazzo.
“D’accordo.
Andiamo a vedere questi sospettati, forza.”
§
L’agente
Banks fece girare la lanterna per lo spiazzo deserto. Un refolo di
vento spinse una cartaccia nel fascio di luce, ma per il resto non
colse il più piccolo movimento.
Era
notte fonda, il freddo era pungente. Dappertutto regnava un gran
silenzio.
Fece
qualche passo. Davanti a lui, visibile solo per il numero di stelle
che oscurava, si ergeva la mole imponente della Malley and co., una
fabbrica di tessuti.
Il
poliziotto si avvicinò all’edificio, di nuovo
sollevò la lanterna
e fece scorrere il pennello di luce lungo la recinzione.
Con
un moto di stupore notò che il cancello era accostato: la
catena che
lo chiudeva era penzoloni su un ricciolo di ferro battuto, e il
lucchetto giaceva al suolo aperto.
Si
avvicinò e guardò verso la porta della fabbrica,
trovando anche
quella socchiusa. Strinse gli occhi. Sapeva che c’erano bande
di
ladri che di notte entravano nelle fabbriche e portavano via quel che
trovavano, e probabilmente era incappato proprio in una di esse.
Con
l’intento di sorprendere i malfattori sul fatto, si
avvicinò cauto
all’edificio.
Quando
fu sul punto di entrare, schermò la lanterna in modo che il
fascio
di luce non lo tradisse, aspettò qualche secondo per
abituare gli
occhi al buio e si introdusse nella fabbrica.
All’interno
c’era un silenzio perfetto. La luce della luna entrava dai
finestroni, delineando i contorni dei grandi macchinari immoti e
facendoli assomigliare a strani mostri dormienti. Camminando lungo le
pareti, fece un giro d’ispezione dappertutto, senza
però trovare
nulla di insolito.
Fissò
lo sguardo su una scaletta di ghisa che saliva. Seguì il
percorso
dei gradini e notò che tutt’intorno al perimetro
della fabbrica
correva un ballatoio di metallo sospeso al soffitto, probabilmente
per controllare dall’alto il funzionamento dei macchinari.
Salì.
Nel silenzio che regnava ovunque, i suoi passi risuonarono come
altrettanti colpi di maglio.
Quando
fu arrivato al ballatoio si guardò intorno, e gli parve di
vedere
una sagoma in fondo alla passerella. Si sarebbe detta una donna, con
un abito nero e un ampio cappello.
Si
mosse in quella direzione, e quando raggiunse il punto in cui aveva
avvistato la misteriosa figura, udì il campanile battere tre
colpi.
Un attimo dopo, con un lungo gemito di metallo, una gigantesca ruota
dentata si mise in movimento.
“Che
succede?” disse l’agente a voce alta, guardandosi
intorno con
apprensione. “C’è qualcuno?”
D’improvviso
nell’enorme ambiente era calato un freddo mortale.
La
ruota intanto si stava muovendo sempre più veloce, solo che
non
c’era nessuno ad azionarla.
Si
sporse a guardare, e in quel momento una botta sulla schiena gli fece
perdere l’equilibrio.
§
Era
un mattino grigio. C’era una nebbia lattiginosa, che toglieva
i
colori alle cose. Di fronte alla Malley and co. Si muoveva un
insolito assembramento di poliziotti. Tutt’intorno, a
rispettosa
distanza, operai silenziosi attendevano il permesso di entrare,
chiedendosi nel frattempo di quanto il signor Malley avrebbe ridotto
loro la paga per quel ritardo nella produzione.
Si
avvicinò un carro chiuso dell’obitorio. Da esso
scesero due
uomini, che presero una barella ed entrarono nella fabbrica.
“Non
guardare quando esce,” suggerì Campbell a MacLeod.
“Perché?”
chiese ingenuamente il giovane poliziotto.
“Stanno
togliendo i resti da in mezzo agli ingranaggi. Se vedi
com’è
ridotto, vomiti anche quello che hai mangiato lo scorso
Natale.”
Mac
Leod deglutì. “Com’è
possibile?” chiese poi. “In neanche un
mese, tre agenti morti in servizio.”
“Ti
stai pentendo di aver scelto questo mestiere?”
“No,
ma...”
“Ma?”
Il
ragazzo scosse la testa e non aggiunse altro. Dopo un po’
vide
approssimarsi i due uomini dell’obitorio, che portavano la
barella
coperta da un lenzuolo, e previdentemente distolse lo sguardo.
“Non
mi sembra normale,” disse alla fine.
“Che
cosa?”
“Tutti
questi morti.”
L’altro
diede un’occhiata agli inservienti che chiudevano lo
sportello del
carro, quindi disse: “Hayes, Pierce e Banks erano poliziotti
esperti, gente che aveva vent’anni di servizio come minimo.
Chissà,
magari dopo tanto tempo che ne vedi di tutti i colori sei portato a
crederti invulnerabile. Pensi che a te non toccherà
mai.”
MacLeod
si voltò verso di lui. “Pensi che
toccherà anche a te?”
“Spero
di no,” rispose l’altro con un mezzo sorriso.
“In ogni caso,
farò del mio meglio per non abbassare mai la
guardia.”
Rientrarono
alla stazione di Polizia. Gli agenti in servizio li accolsero con
qualche saluto brontolato fra i denti. “Allora?”
chiese uno di
essi.
“Fatto,”
rispose Campbell. “Kelsey è qui in giro?”
“Di
là. Sta parlando con l’ispettore.”
“Come
mai?”
“Vuole
sapere di tutti questi incidenti. Saranno due ore che sta facendo
domande su qualsiasi cosa.”
Campbell
si sedette. “C’è un po’ di
tè?”
“Woods
lo sta facendo.”
L’altro
emise un sospiro. “Bene. Faceva un freddo cane su quel
piazzale. E
poi, Mike non è stato un bello spettacolo.” Si
girò verso la
recluta e disse: “Vieni a scaldarti, MacLeod.”
Il
giovane si avvicinò senza parlare.
Quando
furono tutti seduti intorno alla vecchia stufa di ghisa con una tazza
in mano, l’agente Woods domandò:
“Qualcuno di voi era in
servizio ieri sera?”
I
presenti scossero la testa.
“Ve
lo chiedo perché Brennan ha parlato con Lynch, che invece
era di
servizio, e lui gli ha detto che a un certo punto si è
trovato
davanti una vecchia vestita di nero che gli chiedeva di
Banks.”
“Una
vecchia? E chi era?” volle sapere Campbell.
“E
che ne so. Ha detto che era una vecchia con un cappello grande
così,”
allargò le braccia, “tutta vestita a
lutto.”
“Che
allegria,” commentò l’agente Dobbins
dalla finestra cui era
appoggiato, “Magari era la Morte.” Fece una risata
cupa, tirò
fuori qualcosa dalla tasca e si avvicinò ai colleghi intorno
alla
stufa. Mostrò quello che aveva in mano, ovvero una
fiaschetta di
metallo, e chiese: “Qualcuno ne vuole?”
“Siamo
in servizio, Sam,” gli ricordò Woods.
“E
dai, solo un goccio. Chi vuoi che se ne accorga?” Poi, dopo
una
pausa: “Io direi che ne abbiamo bisogno.”
In
quel momento la porta si aprì e sulla soglia comparve
l’agente
Wyndham. Sul gruppetto attorno alla stufa calò il silenzio.
Dobbins
rimase fermo con la fiaschetta in mano e l’aria irresoluta.
Il
veterano si avvicinò in silenzio.
“Cos’hai lì?” chiese alla
fine.
“È
solo un po’ di scotch, James.”
“Dà
qua,” disse, tendendo la mano con il palmo in alto. Dopo
un’esitazione, l’altro vi depose la fiaschetta.
“E
adesso una tazza,” ordinò Wyndham. Sotto gli
sguardi silenziosi
dei colleghi, vi versò una buona metà della
fiaschetta, vi aggiunse
il tè e poi rivolse un’occhiata storta a MacLeod,
che si affrettò
a cedergli il posto.
L’uomo
si accomodò con un sospiro, e per un po’ si
limitò a sorbire la
bevanda ignorando gli sguardi incuriositi dei colleghi. Infine disse:
“Non avete un accidenti da fare?”
Nessuno
rispose.
“Cosa
siete, agenti di Polizia o comari che passano la giornata a
spettegolare?”
I
presenti finirono in fretta le rispettive tazze di tè e si
dispersero in silenzio.
Campbell
e MacLeod si limitarono a uscire dalla stanza. “Il vecchio
Wyndham
non è mai stato molto amichevole, ma adesso
esagera.” disse il
primo.
“Sarà
preoccupato,” rispose l’altro.
“Dici
che ha paura che capiti anche a lui un incidente?”
“Forse.”
Poi, dopo una pausa: “Ma senti, quella donna…
quella vecchia...”
“Sì?”
“Secondo
te ha qualche correlazione con la fine del povero Banks?”
Campbell
scosse la testa. “Sicuramente era una di quelle che si
presentano a
denunciare il marito che le picchia ma all'ultimo momento
rinunciano.”
“Perché
a quell’ora? E perché avrebbe chiesto di
Banks?”
L’altro
alzò le spalle. “Magari il marito è
rientrato a casa ubriaco e ha
cominciato a dargliele. Lei non ce l'ha fatta più ed
è venuta qui.”
“Sì,
ma perché proprio Banks?”
“E
chi lo sa. Si vede che per quale motivo sapeva il suo nome e ha
chiesto di lui perché preferiva parlare con una persona
conosciuta.”
MacLeod
rimase in silenzio. C'erano ancora così tante cose che non
sapeva
del servizio di Polizia che non avrebbe avuto gli strumenti per
contraddire il collega. “Penso che andrò in
archivio,” disse
poi, “Webster aveva promesso di farmi vedere come
funziona.”
“Auguri.
Se comincia a parlare dei suoi faldoni, non finisce
più.”
Il
giovane agente andò a presentarsi al collega. Quando lo vide
arrivare, Webster si illuminò in volto e disse:
“È bello avere a
che fare con i nuovi, perché sono gli unici che stanno a
sentire
quando parlo.”
MacLeod
annuì con aria diligente.
L'archivista,
un uomo gracile e precocemente ingrigito, con l'uniforme larga sulle
spalle, si sistemò gli occhiali sul naso e
proseguì: “Eppure,
l'archivio è la memoria storica del posto di Polizia.
Sapendo
cercare bene, qui si trova tutto.” Si guardò
intorno con aria
fiera.
L'altro
fece a sua volta girare lo sguardo sugli scaffali carichi di faldoni.
“Bello,
eh?” gli chiese Webster.
“Ecco...”
“Ai
nuovi fa sempre questo effetto. Vieni, ti faccio archiviare delle
denunce, così cominci a prendere confidenza.”
“Sissignore.”
“Non
chiamarmi signore, siamo colleghi. Chiamami Paul. E tu
sei?...”
“Alistair.”
“Ah,
Alistair. Scozzese?”
“Di
Edimburgo. I miei sono venuti a Londra quando ero piccolo.”
“Ma
pensa un po'.” Poi, dopo una pausa: “Beh, adesso
sei qui con
noi!”
Prendendolo
familiarmente per una spalla, l'archivista lo condusse a una
scrivania su cui era ammucchiato quella che a prima vista parve a
MacLeod una pila di carta straccia. “Queste sono le denunce
da
archiviare,” lo informò. “Io vorrei
sapere come diamine le
conservano, quelli di là.” Prese un registro, lo
aprì su una
pagina compilata a metà che lisciò quasi con
affetto, quindi disse:
“Qui va il nome di chi ha sporto denuncia, qui il motivo, poi
la
data e infine il nome dell'agente che l'ha raccolta. Tutto
chiaro?”
“Sì.”
“Molto
bene. Io vado a sedermi un po'. Sai, l'età... Se hai
bisogno,
chiamami.” Prese una sedia e si sistemò accanto
alla stufa con un
sospiro di soddisfazione.
MacLeod
cominciò a lavorare. Dopo un po' Webster, che evidentemente
si
annoiava, disse: “Certo che è triste quello che
è successo a
Banks, vero?”
“Già.”
“Beh,
qui in archivio non può succedere. Al massimo ti
può cadere un
faldone su un piede.” Fece una risatina.
MacLeod
sollevò la testa dal registro e disse: “Mi hanno
detto che è
venuta una donna a chiedere di lui, ieri sera. Secondo te
può avere
qualche attinenza con quello che gli è successo?”
Si
aspettava che Webster liquidasse la faccenda come l'eccessivo zelo
del novellino, invece l'altro rispose: “Ma tu guarda che
roba.”
“Che
cosa?” chiese il più giovane incuriosito.
L’altro
assunse un’aria di mistero e disse: “Io ero in
servizio, la sera
che morì il povero Pierce. Ero seduto nella sala grande, con
il mio
bel registro davanti. A un certo punto si è presentata una
vecchietta tutta vestita di nero, con un cappello che sembrava una
tinozza del bucato. Me lo ricordo come se fosse ieri, anche
perché
quando ha aperto la porta mi ha fatto gelare anche le chiappe.
È
venuta avanti a passettini, poi mi ha salutato e mi ha chiesto se
c’era l’agente Pierce. Credevo che fosse una sua
parente, magari
mezza stramba per l'età.”
“Che
ore erano?”
“Mah,
parecchio dopo mezzanotte, direi, perché le ragazze di Red
avevano
già smesso di lavorare.”
Perplesso,
MacLeod chiese: “Che ci faceva una vecchia signora in giro a
quell’ora?”
“E
che ne so. Però mi ha chiesto di Chris. Quando gli ho detto
che
stava facendo il giro di ronda se n’è
andata.”
“Che
aspetto aveva?”
“Non
l’ho vista in faccia, aveva un velo nero. Sai, di quelli che
portano le donne...”
“Certo,
ho capito.”
La
conversazione si arenò. MacLeod riprese il suo lavoro,
l'altro
rimase a sonnecchiare accanto alla stufa. Il giovane agente
ripensò
a quello che Webster aveva detto: Ero seduto nella sala
grande,
con il mio bel registro davanti.
Controllò
che il collega si fosse addormentato, quindi uscì in
silenzio e andò
alla ricerca dell'ultimo registro, che era ancora in uso e si trovava
su un tavolino.
Risalì
alla data in cui Hayes era stato travolto da un carro e
trovò una
nota: Ore 02.30: persona di sesso femminile e di
età avanzata
chiede dell'agente George Hayes, quindi si allontana evitando di
fornire le generalità.
§
Mentre
camminava per la strada accanto a Campbell, MacLeod disse:
“Sai che
la vecchia vestita di nero è arrivata anche quando sono
morti gli
altri due?”
L'altro
si voltò a fissarlo. “Sul serio?”
“La
sera che è morto Pierce c'era Webster in servizio, e l'ha
vista. Per
quella prima sono andato a controllare nei registri.”
“Hm.”
Al
silenzio del collega, il più giovane chiese: “Ho
fatto qualcosa di
sbagliato?”
“Ai
vecchi non piace molto che si vada a spulciare nei registri. Quello
che è fatto, è fatto, dicono. Se vuoi fare bella
impressione, è
meglio che non lo sbandieri troppo in giro che sei andato a
guardare.”
“Ho
capito.” Poi, dopo una pausa: “E se quella vecchia
in qualche
modo fosse implicata?”
“Hayes,
Pierce e Banks erano tre pezzi d'uomini. Cosa vuoi che possa fare una
vecchia contro un agente robusto e abituato a trattare con i peggiori
delinquenti?”
“Però
si è presentata tutte le volte. Tu come lo
spieghi?”
“Sarà
un caso.”
“Tre
volte? Io dico che è la madre di qualche delinquente. Magari
viene
ad accertarsi di dove siano gli agenti, poi manda qualcuno a
occuparsene.”
L'altro
non rispose.
“Dici
che è il caso di parlarne al sergente Kelsey?”
insisté MacLeod.
Campbell
stava per rispondere quando in un negozio poco lontano espose una
cacofonia di grida. Un ragazzino vestito di stracci schizzò
fuori
come un fulmine con un involto stretto al petto.
“Al
ladro!” gridò dalla soglia un uomo corpulento, con
un grembiule
che arrivava quasi fino ai piedi.
“Al
ladro! Al ladro!” fece eco la folla che si andava
raggruppando
intorno al negozio. “Io l'ho visto!”
strillò una donna, “ha
preso un intero pasticcio!”
I
due dovettero lanciarsi all'inseguimento del giovane malfattore e la
questione venne accantonata.
Per
quanto ancora inesperto, MacLeod una cosa l'aveva capita: i vecchi
non parlavano volentieri con le reclute, soprattutto se si sentivano
chiamati in causa su azioni passate. “Quel che è
fatto è fatto,”
ripetevano invariabilmente, “se non c'eri, non hai il diritto
di
entrare nel merito delle decisioni prese dai colleghi.”
Come
tutte le regole non scritte, anche quella veniva scrupolosamente
rispettata. Persino da Campbell, che pure gli era sembrato
più
disponibile rispetto agli altri.
Si
chiese se ci fosse qualcosa che accomunava i deceduti. La morte era
stata violenta per tutti e tre, ma non sembrava in nessun caso opera
umana: dei cavalli si erano imbizzarriti, un edificio pericolante
aveva avuto un crollo e infine un macchinario industriale si era
messo in movimento, e sembrava accertato che l'incidente fosse stato
causato da una valvola del vapore incautamente dimenticata aperta.
Entrò
in archivio. “Salve, Alistair,” lo accolse Webster,
“sei venuto
a farmi compagnia?”
La
recluta sorrise. “Sì, ecco... tu mi hai detto che
sapendo cercare,
qui si trova tutto, giusto?”
“Assolutamente
tutto!” asserì l'altro categorico. Poi,
sistemandosi gli occhiali
sul naso: “Che cosa cerchi?”
“Beh,
ecco...” Il giovane agente si chiese se fosse opportuno
spiegare a
Webster il motivo della sua presenza in archivio. Considerando
l'ammonimento di Campbell, preferì evitarlo. Con la massima
tranquillità, disse: “Vorrei leggere un po' di
cose, giusto per
farmi un'idea di come funziona questa stazione di Polizia.”
“Ah,
i casi più spettacolari? Ce ne sono da far accapponare la
pelle,
credimi.” Indicò uno scaffale che si incurvava
sotto il peso di
enormi faldoni gonfi di carte. “Qui ci sono le copie dei
rapporti
degli ultimi dieci anni, in ordine cronologico. Se mi prometti di non
mettere in disordine nulla, puoi leggerli.”
“Certo,
prometto.”
“Bravo
ragazzo. E guarda quello del cinque novembre dell'ottantadue, quando
arrivò un tizio che diceva di essere Guy Fawkes con la
pretesa di
far saltare la stazione di Polizia. Ci vollero dodici agenti per
ridurlo all'impotenza.”
“Va
bene.”
“Oppure
quella della notte di Natale dell'anno scorso, quando trovammo
un'intera famiglia fatta a pezzi con l'accetta, impacchettata e messa
sotto l’albero come i regali.”
MacLeod
estrasse il primo e più recente dei faldoni.
“Darò sicuramente
un'occhiata,” gli assicurò, quindi posò
il contenitore sulla
scrivania e sciolse i laccetti che lo tenevano chiuso.
Era
ormai notte fonda quando MacLeod trovò qualcosa di
interessante.
Data l’ora tarda, Webster se n’era andato a casa
affidandogli
l’archivio, per cui il giovane agente era solo nella stanza
semibuia.
Aprì
il faldone che risaliva a sette anni prima, e dopo aver sfogliato
alcune vicende di poco conto, si imbatté in un fascicolo
piuttosto
grosso, sul quale era scritto solo Malcolm
O’Hanigan.
Lo
tolse dal contenitore e lo posò sulla scrivania, quindi
cominciò a
sfogliarlo lentamente. Dapprima di imbatté in una lista di
reati
commessi da O’Hanigan. Il soggetto era giovane, ma aveva
già una
serie impressionante di violazioni a suo carico. Non solo banali
furtarelli, anche ricettazione, truffa, taglieggiamento e cose del
genere.
Successivamente,
trovò un accertamento di decesso, del quale però
era presente solo
il frontespizio. Su di esso si leggeva che Malcolm O’Hanigan
era
morto il primo di novembre, alle tre di notte. Mancava tutta la parte
relativa alle cause.
MacLeod
realizzò che il primo di novembre era anche la data in cui
l’agente
Hayes era stato travolto dal carro. Sulla base delle testimonianze e
dell’esame necroscopico, l’ora del suo decesso era
stata
approssimativamente fissata alle tre di notte.
Nel
fascicolo c’era anche il rapporto di un arresto. Malcolm
O’Hanigan
era stato fermato all’una del primo di novermbre, arrestato e
avviato alle celle del posto di Polizia, dove però non era
mai
giunto.
Lesse
la lista degli agenti che avevano partecipato all’operazione
e il
cuore gli saltò un battito: George Hayes, Michael Banks,
Clifford
Adamson, Alfred Taggart, Christopher Pierce, James Wyndham, Reginald
Jackson e Charles Campbell.
Emise
un fischio, che nel silenzio della stanza sembrò quello di
un treno
in avvicinamento.
Tutti
gli agenti che avevano partecipato a quell’arresto stavano
morendo.
Che fosse uno dei complici che voleva vendicarsi?
Pensò
alla stranezza dei modi usati per eliminare i poliziotti. Forse quel
qualcuno voleva che le morti sembrassero incidenti.
Quello
che non capiva, era come avesse fatto il misterioso attentatore a far
imbizzarrire i cavalli, a far crollare la torretta della casa e a
mettere in moto il macchinario proprio nel momento giusto.
Ripose
pensoso il fascicolo.
§
Il
giorno dopo, Alistair MacLeod andò dal sergente Kelsey.
L’altro
lo accolse affabile nel proprio studio, e gli offrì la sedia
che si
trovava dall’altra parte della scrivania. “Ebbene,
ragazzo mio,
stai cominciando ad ambientarti?” volle sapere.
“Sì,
signore,” rispose l’altro.
“Molto
bene. I giri di ronda come vanno? Le hai imparate le strade?”
Il
giovane annuì. “Sì, sergente. I
colleghi hanno molta pazienza con
me, mi spiegano sempre tutto.”
“Ma
certo, voglio essere sicuri che tu impari bene il mestiere.”
Gli
rivolse un sorriso compiaciuto.
MacLeod
annuì con fare diligente, quindi disse:
“C’è una cosa che credo
dovreste sapere, signore.”
“Che
cosa?”
“Ecco,
io penso di avere scoperto qualcosa a proposito della morte degli
agenti, signore.”
Kelsey
aggrottò le sopracciglia. Il sorriso da padre che guarda il
figlio
farsi la barba per la prima volta scomparve. “Sono solo
tragici
incidenti,” tagliò corto.
MacLeod
non abbandonò il suo proposito nemmeno di fronte
all’espressione
di fastidio che il suo superiore aveva assunto. “Signore, ho
scoperto che gli agenti morti erano tutti presenti a un fatto
verificatosi sette anni fa.”
“E
quindi?”
“Lì
morì un sospettato. Ho pensato che potrebbe essere qualcuno
che
vuole vendicarsi, signore, magari un complice del deceduto. Se
così
fosse, anche gli altri agenti coinvolti sono in pericolo.”
L’altro
lo fissò senza preoccuparsi di nascondere la propria
irritazione. “E
così, abbiamo qui un grande investigatore,” lo
schernì, “uno
che perde il suo tempo qui a Whitechapel, tra ladri e puttane, e che
dovrebbe come minimo finire nei ranghi di Scotland Yard.”
MacLeod
ritirò la testa fra le spalle.
“Chi
credi di essere, giovanotto?” lo redarguì il
superiore. “Sei qui
da neanche sei mesi e già pretendi di insegnare il mestiere
ai
detective?”
“Ma
io volevo solo...”
“Te
lo dico io, cosa volevi,” lo interruppe l’altro con
voce dura.
“Volevi metterti in mostra. Quelli che sono successi sono
solo
incidenti. Tragici, ma incidenti.”
“Sergente
Kelsey, forse avvisando gli agenti coinvolti potremmo salvare delle
vite,” si permise comunque di replicare la recluta.
“Chi
deve stare attento lo sa già da solo. E ora va’,
ho un sacco di
cose da fare.” Fece un gesto come per scacciare i polli.
MacLeod
si trovò in corridoio senza aver ben capito
perché il sergente si
fosse arrabbiato in quel modo. In fondo aveva solo cercato di dare
una mano.
Si
imbatté nell’agente Jackson, che lo
squadrò e disse: “Che
faccia! Oggi Kelsey era di cattivo umore?”
“Si
è arrabbiato su una cosa.”
“Che
cosa? Scommetto che hai lasciato aperta la finestra dello spogliatoio
ed è di nuovo entrato il gatto randagio che sta nel
vicolo.”
“No,
ecco… ho fatto delle ricerche in archivio e gli volevo far
sapere i
risultati, ma non mi ha voluto ascoltare.”
Mentre
parlavano si incamminarono verso la zona riservata agli agenti,
Jackson chiese: “Che genere di ricerche?”
MacLeod
si morse un labbro. “Ecco… ti dice niente il nome
di Malcolm
O’Hanigan?”
L’altro
si immobilizzò e gli rivolse uno sguardo di fuoco.
“E tu che ne
sai di quel bastardo di O’Hanigan?”
sibilò, stringendo gli occhi
fino a farli diventare due minacciose fessure.
Il
ragazzo dovette fare uno sforzo di volontà per impedirsi di
indietreggiare. “Com’è morto?”
chiese.
“È
morto e basta. E se vuoi saperlo, non meritava altro. Visto che ti
piace tanto frugare nell’archivio, perché non vai
a vedere la sua
fedina penale?”
“L’ho
già fatto, Reggie.”
“Agente
Jackson, d’ora in poi, per te, stramaledetto
moccioso.” Gli girò
le spalle e si allontanò.
MacLeod
rimase a fissarlo perplesso, poi con un sospiro raggiunse i colleghi.
Lì trovò Dobbins e Lynch che stavano smontando
dal turno. Il primo
aveva già la fiaschetta in mano e stava apprestandosi e
versarne una
discreta quantità nel suo tè e in quello del
collega. Il giovane si
accertò che nella stanza non ci fosse nessun altro e li
raggiunse.
“Ah,
il nostro ragazzo!” lo accolse Dobbins. Allungò
verso di lui la
fiaschetta. “Vuoi un sorso?”
MacLeod
scosse la testa. “No, grazie.”
“Molto
bravo,” approvò Lynch. Poi, con una risata
soggiunse: “Così ne
resta di più per noi.”
Forte
del fatto che quando la gente ride di solito è ben disposta,
il
giovane agente si avvicinò e chiese: “Posso farvi
una domanda?”
“Oh,
ma certo!” rispose bonario Dobbins. Si slacciò con
un sospiro di
soddisfazione il primo bottone dell’uniforme e tese una mano
verso
la stufa per scaldarsi. “Cosa vuoi sapere, qualcosa sul
servizio?”
“Ecco,
non proprio. Sapete qualcosa di Malcolm O’Hanigan?”
Il
sorriso scomparve dal volto di entrambi come neve al sole. I due si
scambiarono un’occhiata e Dobbins bevve un generoso sorso di
Whisky.
“Non
c’è niente da sapere su quel bastardo,”
disse infine Lynch. Il
tono era di quelli che non ammettevano repliche.
MacLeod
li fissò uno dopo l’altro: gli sguardi bonari con
cui l’avevano
accolto erano stati sostituiti da espressioni di rabbia mista ad
apprensione.
“Potete
almeno dirmi com’è morto?”
tentò.
“È
morto e basta,” fu la lapidaria risposta. “Ha fatto
la fine che
si meritava.”
§
Seduti
a un tavolino del pub dove erano soliti andare dopo il servizio,
MacLeod e Campbell stavano sorseggiando una birra.
“Che
ne dici, ti stai abituando al lavoro?” chiese il secondo.
“Sto
cominciando ad ambientarmi.”
“Beh,
hai fatto un bel lavoro ieri, con quel ragazzino che era scappato di
casa.”
“Ho
solo fatto quello che credevo giusto.”
“Sei
un bravo ragazzo, Alistair, lo dico sempre. Probabilmente oggi la
famiglia avrà rivenduto quel ragazzino a qualcun altro, ma
intanto
ieri non è finito in nessun bordello.”
Il
più giovane, che stava bevendo, appoggiò il
bicchiere e lo fissò
stupefatto. “Cosa?”
“Certo,
credevi che fosse andato via di sua volontà?”
L’altro
annuì in silenzio.
“Ti
sei guardato intorno quando l’abbiamo riportato ai
suoi?”
Di
nuovo, MacLeod annuì: l’aveva fatto. Un tugurio
sordido,
miserabile, buio e gremito di ragazzini di varie età
cenciosi e
sporchi. La madre era una donna ossuta, con i capelli scarmigliati e
la gonna rattoppata, del padre non s’era trovata traccia.
“Te
lo sto dicendo,” gli giunse la voce di Campbell,
“giusto per
farti capire alcune cose.”
Il
ragazzo si voltò verso di lui. “Quali
cose?”
“Che
hai ancora tanto da imparare, ad esempio. E che, per quanto
volenteroso e rapido nell’apprendere, solo
l’esperienza potrà
insegnarti che cosa è come appare e che cosa, invece,
è in
tutt’altro modo.”
McLeod
bevve un altro po’ di birra. Immaginava dove volesse andare a
parare il collega, tuttavia gli chiese: “Che cosa intendi
dire,
Charles?”
“Jackson
si scusa, dice che puoi continuare a chiamarlo Reggie, ma avrebbe
piacere che tu smettessi di andare a rivangare le cose del passato.
Quello che è successo, è successo, è
così che si dice da noi, e
se non c’eri, fai bene a non metterci becco.”
L’altro
emise un sospiro. “Quindi mi stai dicendo che dovrei smettere
di
far domande su quel Malcolm O’Hanigan.”
Campbell
sorrise. “Lo vedi che quando vuoi capisci le cose al
volo?”
“Ma
Charles, e se questo tizio aveva dei complici che adesso vogliono far
fuori tutti quelli che erano presenti durante il suo arresto?
Riflettici: sono già tre su otto. Quando arriverà
il prossimo?”
“Quando
un altro agente si distrarrà durante il servizio. Quelli che
hanno
ucciso i nostri colleghi sono solo degli incidenti.”
MacLeod
finì la birra. Rimase per qualche istante a guardare il
mondo
deformato dal fondo della pinta, poi riabbassò il bicchiere
e disse:
“Ci sei anche tu in quella lista, Charles.”
Il
collega fece una breve risata. “Vuoi che non lo sappia? Ero
appena
una recluta, forse più giovane di te. E come te, capivo le
cose solo
a metà.” Finì a sua volta la birra, poi
soggiunse: “Ci vogliono
anni per comprendere certe faccende fino in fondo. Per entrare
veramente nella mentalità
dell’agente.” Tacque con l’aria
di essere immerso nei suoi pensieri, infine propose: “Un
altro
giro?”
Il
più giovane scosse la testa. “No,
grazie.”
“Vuoi
fare bella impressione su Kelsey?”
“No,
è che non ne reggo più di una,” rispose
MacLeod quasi con aria di
scusa.
“Va
bene, allora ci vediamo domani in Centrale. E ricordati quello che ti
ho detto, Alistair: il passato è passato. Rivangarlo non
serve a
nulla.”
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Tarocchi 2
Capitolo 2
Alistair
MacLeod pensò che quella era la notte più tranquilla che avesse mai
trascorso in servizio. Non che avesse chissà quale casistica al suo
attivo, ma da quando era montato non aveva praticamente fatto altro
che alzarsi di tanto in tanto per andare a mettere un po’ di
carbone nella stufa.
Guardò
fuori dalla finestra. Nel cono di luce del lampione stavano
turbinando enormi fiocchi candidi, regnava il gran silenzio tipico
delle nevicate.
L’orologio
del campanile batté due rintocchi gravi e uno più acuto. L’agente
bevve un sorso del tè che nel frattempo si era preparato e prese a
scrivere sul registro. Gli unici suoni che si udivano nella stanza
erano lo scricchiolio della penna sulla carta e il raro cigolio della
sedia.
A un
certo punto, MacLeod udì distrattamente il rumore della porta che si
apriva e dei passi leggeri che si avvicinavano. Prima ancora di
alzare la testa dalla pagina che stava compilando, fu investito da
un’ondata di freddo che gli penetrò fin dentro le ossa. Alzò lo
sguardo e dovette farsi forza per non sussultare: di fronte a lui
c’era una signora anziana e vestita a lutto, con un gran cappello
velato in testa. “Buona sera,” salutò compita, con una voce che
sembrava lo sfiato di un vecchio mantice.
Il
giovane deglutì e rabbrividì per il freddo. Salutò a sua volta e
chiese: “Che cosa posso fare per voi, signora?” Nel frattempo
cercava di scrutare in viso la misteriosa visitatrice, ma sotto gli
strati di tulle riusciva a distinguere soltanto un ovale bianco con
due aloni neri in corrispondenza degli occhi.
La
signora tentennò il capo, giunse sul petto mani che anche sotto i
guanti si intuivano magrissime e disse: “Sto cercando l’agente
Jackson, per favore.”
MacLeod
sentì il cuore saltargli un battito. “Come… come avete detto,
signora?”
“L’agente
Reginald Jackson,” ripeté gentilissima la misteriosa avventrice.
“Per favore,” soggiunse poi, facendo un passo avanti e
incurvandosi appena verso il giovane poliziotto.
Questi
si trovò involontariamente ad arretrare. Prese comunque la penna e
la intinse nel calamaio. “Le vostre generalità, signora…
gentilmente...”
L’altra
inclinò appena la testa da un lato.
“Come
vi chia...” Una porta che si apriva lo fece letteralmente saltare
sulla sedia. Si girò verso la provenienza del rumore e vide arrivare
L’agente Brennan che disse: “MacLeod, vuoi che stia io al
registro per un po’?”
“Aspetta,”
rispose il giovane, poi si girò, ma la vecchia signora era
scomparsa. Alzò gli occhi sulla porta d’ingresso e vide che si
stava chiudendo lentamente.
In un
attimo saltò in piedi, infilò il pastrano e accese la prima
lanterna che gli capitò a tiro, poi si lanciò con quella in mano
all’inseguimento della donna. “Coprimi per un po’!” urlò
dalla soglia al collega, quindi si immerse nella notte silenziosa
senza nemmeno aspettare la sua risposta.
Tra
l’oscurità e la fitta nevicata, la vecchia signora era scomparsa
alla vista, ma erano ancora ben distinguibili le sue impronte.
MacLeod
cominciò a seguirle. Allungò il passo con l’intento di
raggiungere l’anziana donna, ma ella sembrava essersi dissolta nel
buio.
La
lanterna illuminava solo le sue tracce, che serpeggiavano sicure tra
i vicoli di Whitechapel. Il poliziotto aumentò l'andatura, certo che
avrebbe in breve sopravanzato la vecchia signora, ma non fu così:
per quanto corresse, c’erano solo le orme a condurlo, ed ebbe la
sensazione che come le briciole di Pollicino lo stessero portando a
perdersi dentro la foresta.
Proseguì
per un po'. I suoi passi suonavano soffici sul manto di neve fresca,
rompendo un silenzio misterioso e carico di attesa.
L'agente
arrivò a un vecchio magazzino intorno al quale erano state erette
delle impalcature. Lì lo strato di neve si assottigliava fin quasi a
scomparire, e le impronte si perdevano. Il poliziotto fece girare la
lanterna tutt'intorno: le tacce lasciavano supporre che la vecchia
signora fosse entrata nell'edificio.
“C'è
qualcuno?” chiese a voce alta. “Signora? Siete qui?”
Non gli
giunse risposta.
Fece
qualche altro passo, che all'interno del magazzino vuoto si riverberò
in decine di echi, poi di nuovo sollevò la lanterna e fece scorrere
il fascio di luce lungo le pareti, rivelando impalcature che le
coprivano completamente.
“Signora?”
chiamò di nuovo.
Il
campanile batté tre rintocchi, e quando si ristabilì il silenzio,
MacLeod si rese conto che da una delle impalcature proveniva uno
sgocciolio. Volse il fascio di luce in quella direzione, rivelando
una pozza rossa che si allargava sul pavimento.
Si
avvicinò: colore, odore e consistenza non davano adito a dubbi. Alzò
lo sguardo per scoprirne l'origine, e il respiro gli si mozzò in
gola
L'unica
cosa di lui per lunghi secondi fu sicuro, fu che si trattava di un
agente di Polizia. Dopo aver fatto alcuni profondi respiri guardò
meglio, e si accorse che era Reginald Jackson.
“Reggie...”
mormorò, mentre una sensazione di freddo glaciale lo invadeva.
L'agente
aveva una corda da cantiere attorcigliata a una gamba e pendeva a
testa in giù come una mezzena nella bottega del macellaio,
dondolando lentamente. Sul cranio aveva una profonda ferita, dalla
quale sgorgava il sangue che si stava raccogliendo sul pavimento. Gli
occhi spalancati e vitrei facevano capire che era morto.
Interpretarlo
come un incidente sarebbe stato facile: l'agente era salito per
qualche motivo sulle impalcature, nel buio aveva finito per mettere
il piede nella corda di una carrucola, se l'era attorcigliata alla
gamba e aveva perso l'equilibrio, sbattendo poi la testa da qualche
parte nella caduta.
Diventava
però sempre più difficile credere che quelli fossero solo
incidenti.
“Signora?”
chiamò di nuovo, “Siete qui?”
Fece un
giro tutt'intorno allo stabile: le impronte arrivavano, ma non
ripartivano.
“Signora?”
Controllò
ovunque, compatibilmente con le possibilità di una donna anziana e
in abito lungo di arrampicarsi su malsicuri ponteggi di legno, ma non
trovò anima viva. In quel magazzino c'erano solo lui e il corpo del
povero Jackson.
E una
pervasiva, angustiante sensazione di essere osservato, così intensa
che un paio di volte aveva spinto il giovane agente a girarsi di
scatto come per sorprendere qualcuno alle sue spalle.
§
“È
un maledetto schifo!” accolse la notizia James Wyndham. “Reggie
era un agente esperto, con vent'anni di servizio alle spalle. Come
accidenti ha fatto a cadere da quel ponteggio?” Si girò verso
MacLeod e in tono velenoso chiese: “Non è che gli hai dato una
spintarella tu, moccioso?”
“E
dai, Jim!” lo richiamò Kelsey.
“Il
moccioso sta facendo troppe domande, secondo me c'entra qualcosa,”
ribatté imperterrito il veterano.
Campbell
lo prese per un braccio come per invitarlo alla calma. “Sai bene
che il ragazzo non c'entra niente,” gli disse in tono
significativo. “Sai bene che il problema non è lui.”
L'altro
lo fissò teso e rosso in viso, ma pian piano si rilassò e riprese a
respirare normalmente. Si girò verso i colleghi riuniti a capannello
e chiese: “Dobs, ce l'hai ancora quella fiaschetta?”
“Sì,
certo, James.”
“Dà
qua.”
L'interpellato
gli porse il recipiente, Wyndham lo stappò, fece girare tutt'intorno
uno sguardo come di sfida e se lo portò alle labbra.
Bere in
servizio era un'infrazione grave, ma Kelsey preferì voltarsi
dall'altra parte.
L'altro
vuotò la fiaschetta, poi la restituì al legittimo proprietario,
rivolse un'altra occhiata storta a MacLeod e disse: “Beh, il giro
di ronda non si fa da sé. Sarà meglio che vada.”
Senza
aggiungere altro, si buttò il pastrano sulle spalle, si calcò in
testa il casco e uscì sbattendo la porta.
Nel
silenzio che l'agente si era lasciato dietro, echeggiò la voce mite
di Webster: “C'è da capirlo, poveretto. Reggie era suo amico.”
“Era
amico anche di tutti noi,” replicò ruvido Lynch, “eppure nessuno
sente il bisogno di fare il melodramma.”
Dal
capannello degli agenti si levò una voce: “E comunque, non penso
proprio che sia l'amicizia con Reggie il problema.”
Tutti
si voltarono in quella direzione. Le braccia dietro la schiena, Woods
disse: “Andiamo, lo sapete tutti di cosa stiamo parlando. Volete
scommettere con me su chi sarà il prossimo?”
Nessuno
rispose. Gli agenti si dispersero anzi brontolando e ognuno tornò
alle proprie occupazioni.
MacLeod
cercò di captare lo sguardo di Campbell in una muta richiesta di
spiegazioni, ma il collega gli girava ostinatamente le spalle.
§
MacLeod
si affacciò alla porta dell'archivio. “È permesso?”
Webster
gli rivolse un'occhiata indecisa. “Ah... ehm... Certo, certo. Vieni
pure.” Rimase a guardarlo con aria irresoluta.
“Avevi
da fare, Paul? Ti disturbo?”
“Ecco,
non proprio...” L'archivista dardeggiò intorno uno sguardo
apprensivo.
“Vuoi
che torni dopo?”
“Beh...”
Il
giovane si ritirò in buon ordine. Andò alla ricerca di Campbell.
“Hai un minuto?” gli chiese una volta che l'ebbe trovato.
“Certo,
per che cosa?”
“Andiamo
a bere un po' di tè,” gli disse l'altro, quindi lo prese
familiarmente sottobraccio e lo condusse nella stanza riservata agli
agenti, che in quel momento era vuota.
Quando
furono entrati, chiuse la porta, quindi preparò due tazze e ne fece
scivolare una verso il collega, che nel frattempo si era seduto al
tavolo. Campbell continuava a fissarlo senza dire nulla, ma il suo
sguardo faceva chiaramente capire che sapeva benissimo quale sarebbe
stato l'argomento della conversazione.
Alla
fine, MacLeod chiese: “Cos'è successo sette anni fa?”
L'altro
sollevò le sopracciglia. “Diciamo che sei uno che non si perde in
chiacchiere.”
“Io
sono un novellino e non so nulla,” fu la risposta, “ma non sono
stupido, Charles. Qui c'è qualcosa che nessuno dice, ma che tutti
sapete benissimo.”
“Tu
sei qui da nemmeno sei mesi,” replicò Campbell, in tono
insolitamente aggressivo, “e lavori con gente che a momenti è in
servizio da quando sir Robert Peel[1] andava ancora al college. È
normale che ci siano cose che sanno tutti tranne te.”
Sullo
stesso registro, MacLeod ribatté: “Certo, ma di solito, quando
chiedo qualcosa che non so, tutti me la spiegano. Quando si parla
degli agenti morti, invece, nessuno apre bocca. Anzi, mi prendo anche
degli insulti.”
“Lo
credo bene, per molti qui dentro i colleghi sono come la famiglia. Se
tu perdessi un fratello, ti farebbe piacere che l'ultimo dei
novellini ti venisse a chiedere se per caso è morto perché aveva
commesso qualche irregolarità sul servizio?”
“Con
la differenza che qui non siamo parenti.”
“Ma è
come se lo fossimo. In servizio bisogna potersi fidare ciecamente gli
uni degli altri. Bisogna essere certi che i compagni ci copriranno le
spalle, a prescindere da qualsiasi cosa.” Tacque per qualche
secondo, poi chiese: “Tu pensi che i colleghi possano fidarsi di
te, con tutto il casino che stai facendo?”
MacLeod
lo fissò negli occhi. “E io, posso fidarmi di loro? Posso essere
sicuro che non piegheranno le norme di servizio a loro uso e consumo
quando se ne presenterà la necessità?”
“Adesso
non esagerare,” disse Campbell. “A sentire te, sarebbero peggio
dei Fratelli della Costa.”
Il più
giovane non rispose. Si limitò a sorbire il tè in silenzio. Fu solo
dopo aver vuotato la tazza che chiese: “Che cos’è successo a
Malcolm O’Hanigan?”
Campbell
lo fissò negli occhi. “Niente.”
“Senti,
Charles,” disse il primo, “i tuoi colleghi, la tua famiglia,
per dirla in un modo che ti piace, stanno morendo uno dopo l’altro.
Sei anche tu in quella lista. Che cosa aspetti a fare qualcosa?”
“Non
c’è niente da fare.”
“Ma
in nome di Dio, perché?”
“Non
puoi capire,” tagliò corto Campbell. “Hai troppo pochi mesi di
servizio, non sai nulla, hai in testa solo norme e regolamenti, e ti
rifai a quelli come al Vangelo. Non capisci che sono più importanti
l’esperienza sul campo e la fiducia nei colleghi.” Si interruppe,
emise un sospiro, poi concluse: “Lascia perdere, Alistair. Non c’è
niente che tu possa fare.”
Detto
questo si alzò, depose sul tavolo la tazza ancora piena e uscì
chiudendosi la porta alle spalle. MacLeod rimase seduto per un po’,
forse sperando che l’altro tornasse sui suoi passi, poi si alzò,
rimise via le tazze e riempì nuovamente il bricco dell’acqua
calda.
Per
andare nell’archivio, MacLeod attese che Webster uscisse a pranzo.
Il collega era un uomo assai abitudinario: tutti i giorni smontava
dal servizio alla stessa ora, andava nel pub dall’altra parte della
strada, consumava un sandwich o una fetta di pasticcio, e poi, dopo
mezz’ora esatta, rientrava in centrale.
Non
appena Webster ebbe fatto il suo ingresso nel locale, MacLeod si
diede un rapida occhiata intorno, constatò che nessuno lo stava
osservando e si infilò nell’archivio.
Ringraziò
che nei giorni precedenti il collega gli avesse mostrato l’ubicazione
di tutti gli schedari, e andò subito ai fascicoli degli arrestati
alla ricerca di quello di O’Hanigan, già aspettandosi che fosse
infilato in qualsiasi posto tranne il suo.
In
realtà non faticò particolarmente a trovarlo, ma una volta che lo
ebbe posato sul tavolo e aperto, ebbe un’amara sorpresa: il suo
contenuto consisteva in fogli bianchi. Qualcuno aveva rimosso tutto
il resto. Rimaneva solo il frontespizio, sul quale si trovavano
scarne notizie anagrafiche: data di nascita, indirizzo e cose del
genere. Copiò tutto su un foglio, quindi rimise al suo posto il
fascicolo.
Abbandonò
l’archivio con il suo magro bottino. Per svolgere le indagini aveva
a disposizione l’ultimo indirizzo noto di O’Hanigan, la sua data
di nascita e il nome di sua madre: Catriona O’Hanigan. Il nome del
padre non era noto.
Andò
alla mappa del quartiere che si trovava nella sala principale: la
casa che stava cercando era situata nella zona più miserabile di
Whitechapel, vicino a una conceria di pelli che giorno e notte
ammorbava l’aria con i miasmi dei processi di lavorazione. In quel
posto, dicevano i suoi colleghi, non andavano nemmeno i cani randagi,
in primo luogo perché se no sarebbero finiti anche loro nella
conceria, e poi perché lì la gente era talmente miserabile che nei
rifiuti non c’era nemmeno il più misero avanzo da contendersi.
Si
annotò il posto, quindi andò dal sergente Kelsey e disse: “Signore,
chiedo il permesso di uscire.”
Il
graduato, che stava compilando delle carte, alzò lo sguardo e lo
fissò scettico. “Tu? Da solo?”
“Devo
controllare l’indirizzo di un sospettato, signore,” fu la
risposta, proferita nel tono più innocente che MacLeod riuscì a
tirare fuori.
L’altro
si raddrizzò, poi appoggiò le mani sul piano della scrivania come
per puntellarsi. Infine disse: “Senti un po’, lo sai che tu sei
la preda ideale di qualsiasi grassatore, delinquente e teppista del
quartiere, vero? Hai scritto in fronte ‘novellino’, scommetto che
sei più ingenuo della mia nipotina di sette anni.”
“Ho
già imparato molto, signore,” insisté il giovane.
Il
graduato emise un sospiro. “E va bene. Vedi di non rendere ridicolo
il corpo di Polizia.”
“Sissignore.
Grazie, signore.”
“Ora
va’, lasciami lavorare.”
MacLeod
si incamminò verso l’indirizzo che si era annotato. Man mano che
procedeva, i dintorni si facevano sempre più degradati. Frotte di
bambini magri e cenciosi, chi col moccio al naso, chi con la testa
rasata a zero per scongiurare infestazioni di parassiti, sedevano
sulla soglia di spelonche buie.
Alcuni
inseguivano schiamazzando una palla di stracci. Un ragazzino più
grande ne spintonò un altro, che si muoveva sostenendosi con una
stampella, e lo mandò a rotolare sul marciapiede. Il poliziotto fece
per intervenire, ma non appena si mosse verso di loro, i bambini si
dileguarono in ogni direzione come ratti sorpresi in un granaio. La
stampella rimase abbandonata al suolo.
Mentre
l’agente si guardava intorno stupefatto, uscì da una delle porte
una donna che poteva avere l’età sua madre. Aveva i capelli grigi
raccolti in una crocchia e un abito dall’ampia scollatura, che
lasciava vedere il seno vizzo. Sorrise mettendo in mostra pochi denti
giallastri.
“Hai
un penny, bel giovane?” gli chiese.
“Signora,
sono un poliziotto,” le ricordò MacLeod.
“E
non hai niente in mezzo alle gambe?” chiese lei, piazzandogli una
mano esattamente nella parte che aveva menzionato.
L’agente
fece un salto indietro e si allontanò inseguito dalle risate
inframmezzate a colpi di tosse della prostituta.
Controllò
che il borsellino fosse ancora al suo posto, quindi proseguì per la
sua strada.
L’aria
frattanto andava facendosi pesante, caliginosa e gravata sempre più
del tanfo della conceria. Resistendo all’impulso di mettersi il
fazzoletto su naso e bocca, MacLeod si chiese come fosse possibile
vivere in quel posto. L’odore di carbone delle altre fabbriche, in
confronto, poteva quasi essere considerato un profumo.
La neve
caduta negli ultimi giorni aveva già assunto una tonalità
giallastra, malata. Corde per il bucato tese attraverso i vicoli
sostenevano miseri panni che a loro volta si impregnavano di quel
veleno.
In giro
non c’era nessuno, probabilmente gli adulti erano al lavoro nella
conceria e i bambini chissà dove.
Nell’aria
vi era un silenzio raggelante, i suoi passi risuonavano cupi sul
selciato sconnesso.
Trovò
infine la casa che cercava. Si trattava di un piccolo edificio
isolato, situato al centro di quello che restava di un giardino.
L’abituro era buio, lugubre, con le pareti annerite e scrostate
dalle intemperie, chiaramente disabitato. Le persiane erano tutte
serrate, su quelle del piano superiore erano state inchiodate delle
assi disposte a X.
Il
piccolo appezzamento recintato che lo circondava conteneva ormai solo
qualche sterpo secco. Gli alberi probabilmente si erano già da tempo
trasformati in legna da ardere per qualcuna delle abitazioni vicine,
e delle statue rimanevano solo i basamenti.
Il
poliziotto spinse il cancello arrugginito, che cedette stridendo sui
cardini, quindi percorse il vialetto invaso dalle erbacce e salì i
tre gradini che conducevano alla porta d’ingresso.
Abbassò
la maniglia coperta da uno strato di polvere e l’uscio si
socchiuse.
MacLeod
aggrottò le sopracciglia. Dentro c’era una densa penombra, odorosa
di polvere e muffa. Non si udiva il più piccolo rumore.
“C’è
nessuno?” chiese.
Non
giunse risposta.
“Polizia,”
riprese l’agente a voce più alta, “Sto cercando la signora
Catriona O’Hanigan.”
Di
nuovo, non ottenne risposta.
Fece un
passo indietro e si guardò intorno, ma la zona continuava a essere,
o ad apparire, completamente deserta.
Scrutò
ancora una volta all’interno. Alla luce che penetrava dalla porta,
intravide qualche mobile coperto da lenzuola ormai ingrigite.
“Signora
O’Hanigan?”
Ancora
una volta, gli rispose solo un silenzio corposo, che gli evocò
l'attesa paziente di un ragno. Aprì adagio la porta e si trovò a
posare i piedi su un pentacolo che era stato tracciato con la vernice
rossa direttamente sul pavimento, proprio davanti alla soglia.
A parte
questo, lo colpì il fatto che dall’ingresso che stava contemplando
non era stato asportato il più piccolo oggetto. Eppure la porta era
aperta, e il quartiere versava in uno stato di povertà a dir poco
spaventosa.
Era
tutto lì, portacenere, quadretti alle pareti, persino il vaso da
fiori con ancora dentro un mazzo di ortensie polverose. Sul tavolino
c’era addirittura un cofanetto che conteneva dei bonbon di
zucchero. Possibile che a nessuno dei bambini miserabili che aveva
incrociato fosse passato per la mente di appropriarsene?
Notò
che le specchiere appese ai muri erano tutte velate.
Rabbrividì:
in quella casa c’era un freddo terribile, che penetrava nelle ossa.
Forse perché era stata chiusa per tutto quel tempo. Si guardò
intorno: gli occhi ormai si erano abituati alla scarsa luce, e man
mano riusciva a cogliere sempre più particolari di quello che stava
osservando. Appeso a una parete c’era il ritratto fotografico di
una donna, l’agente si chiese se fosse Catriona O’Hanigan. Era
una signora di mezz’età, olivastra, con uno chignon corvino e uno
scialle frangiato sulle spalle, che in una mano teneva un mazzo di
carte dall’aspetto antico, mentre l’altra era chiusa a pugno e
puntata contro il fianco. Posava orgogliosamente sullo sfondo di un
carrozzone dalla forma cilindrica, trainato da due robusti cavalli
pezzati.
Lo
colpì il suo sguardo: duro, imperioso, magnetico. Sembrava seguirlo
mentre si spostava nella stanza. Dava l’idea di una volontà
selvaggia, disposta a qualsiasi cosa pur di raggiungere lo scopo.
Tutt’intorno
al ritratto, direttamente sulla parete, erano stati tracciati dei
segni che l’agente riconobbe come celtici, ma ai quali non seppe
dare un significato.
Sul
pavimento, proprio sotto la fotografia, c’erano un polveroso
mozzicone di candela e delle foglie accartocciate.
Esplorò
altre stanze: dappertutto vi erano mobili coperti da lenzuola. Di
tanto in tanto si imbatteva in pentacoli o altri simboli, perlopiù
incisi con uno strumento acuminato sugli infissi delle finestre.
Salì
una scricchiolante rampa di scale e raggiunse il piano superiore. Si
guardò intorno, ma riuscì a scoprire ben poco: l’unica fonte di
luce proveniva dalle fessure tra le persiane, il che permetteva
giusto di distinguere i contorni delle cose. Intravide una camera da
letto, con lo specchio come sempre coperto, e un bagno dall’altra
parte del corridoio. Percepì una generica impressione di qualcosa
che non era come sarebbe dovuto essere, ma prima che potesse anche
solo analizzare meglio la strana sensazione, un richiamo lo fece
sussultare: da fuori una voce femminile chiamava: “Signor
poliziotto! Siete lì dentro, signor poliziotto?”
Il tono
aveva una strana nota di apprensione.
“Signor
poliziotto?”
La
persona che lo stava chiamando doveva trovarsi sulla porta di casa.
MacLeod
tornò al piano di sotto. “Eccomi!” disse. “Dove siete,
signora?”
Sulla
soglia c’era una giovane donna con le maniche rimboccate e le mani
arrossate allacciate in grembo. Aveva un abito grigio e una cuffia
bianca, dalla quale usciva qualche ciocca castana. Pur non osando
fare un passo all’interno, stava allungando il collo per guardare
dentro.
“Eccomi,”
ripeté l’agente raggiungendola.
Ella
sussultò all’udire la sua voce, quindi emise un sospiro di
sollievo. “Dio sia lodato!” esalò. “Sta calando il sole.
Presto, venite fuori.”
“Cosa?”
“Vi
ho visto entrare, sapete? Stavo lavando i panni e mi sono detta:
‘Gwen, quell’agente si sta cacciando proprio in un bel
pasticcio.’ Ho lasciato stare il bucato e sono venuta a cercarvi.
Dove eravate finito? È un po' che vi chiamo, stavo cominciando a
preoccuparmi.”
L’agente
le rivolse un lieve sorriso, quindi le disse: “Vi ringrazio molto
per la vostra premura, signorina, ma non dovete preoccuparvi: sono un
agente di Polizia, posso affrontare qualunque malvivente.”
La
ragazza scosse la testa. “Ho, no. No. Non ci sono malviventi là
dentro, solo fantasmi. Nelle notti senza luna si sente la strega che
urla, sapete?”
“Che
strega?”
La
giovane donna rivolse uno sguardo alla casa, che nella caligine
dell’imbrunire s’era fatta più che mai sinistra e incombente.
“Andiamo via,” mormorò. “Non vorrei che ci sentisse. Poi mi
manda il malocchio.”
“Ma
chi?”
“La
Papessa Nera. Ma non dite che ve l’ho detto io, mi raccomando.”
“Chi
è la Papessa Nera?”
La
ragazza si morse il labbro. Senza rispondere scese i gradini e
ripercorse a passo svelto il vialetto, quindi si fermò sul cancello.
“Venite, signor poliziotto, presto!”
MacLeod
la raggiunse. “Chi è la Papessa Nera?”
L’altra
prese un gran respiro e aprì la bocca come per rispondere, ma in
quel momento echeggiò poco lontano una voce che chiamava: “Gwen!
Gwen! Vieni qui subito!”
La
ragazza quasi sussultò. “È mamma. Devo andare.” Fece per
incamminarsi, ma dopo un istante si fermò e si girò di nuovo verso
di lui: “E andate anche voi, fatemi questa grazia. Sta venendo
buio.”
“Volete
dirmi perché, signorina? Cosa...”
Ma la
giovane donna stava già correndo via. “Andate!” gli gridò prima
di scomparire in un portone. Subito dopo si udì il rumore di
chiavistelli che venivano tirati.
§
MacLeod
rientrò al posto di Polizia quando ormai i primi lampioni erano
accesi. Inspiegabilmente, si sentiva stanco morto e indolenzito
ovunque, come se avesse svolto qualche lavoro pesantissimo. La
sensazione di freddo che aveva percepito all’interno di quella casa
non voleva abbandonarlo.
“Forse
con una buona tazza di tè andrà via,” disse fra sé e sé,
appendendo il pastrano all’attaccapanni.
Si
avvicinò alla stufa e tese le mani per scaldarsele.
“Alla
buon’ora!” esclamò il sergente Kelsey alle sue spalle. “Credevo
che ti avessero venduto al circo.”
“Scusate,
sergente,” mormorò il giovane.
“Dove
sei stato, eh?” Poi, imitando il suo tono di voce: “Devo
controllare l’indirizzo di un sospettato… dove abitava,
questo tizio, in Cina?”
“Nossignore.”
“Beh,
che non ti venga in mente mai più di andare a zonzo per mezzo
pomeriggio come se fossi ai giardini pubblici. Siamo poliziotti, qui,
non perdigiorno.”
“Sissignore.”
Si
sentì una porta sbattere: il sergente se n’era andato.
Con un
sospiro, MacLeod si lasciò cadere su una sedia accanto alla stufa e
chiuse gli occhi. Mentre si trovava in quello stato di torpore, udì
delle voci nella stanza attigua.
“Dà
qua, Dobbins. Un goccio è quello che mi ci vuole, con questa
storia.”
“Siamo
in servizio, Jim.”
“E
piantala, con lo stramaledetto servizio.”
Ci fu
qualche secondo di silenzio, durante il quale si udirono il rumore di
un oggetto metallico che veniva manipolato, e poi passi che si
allontanavano, quindi risuonò di nuovo la voce di Wyndham. MacLeod
non riuscì a capire bene, perché l’agente se ne stava andando,
tuttavia gli parve che dicesse: “Io non voglio essere il prossimo.”
Poi la
stanchezza finalmente lo vinse, ed egli si addormentò profondamente.
Quando
riaprì gli occhi era tarda notte. I suoi colleghi l’avevano
lasciato dormire, o più probabilmente non si erano nemmeno accorti
che lui era lì sulla sedia.
Si
guardò intorno stirando le membra intorpidite, aggiunse un po’ di
carbone alla stufa e fece qualche passo nella stanza in penombra.
Prestò un orecchio distratto a un agente, forse Woods, che nella
stanza attigua stava raccogliendo una denuncia. Colse le domande di
rito: quando, quanti erano, cos’hanno portato via…
Poiché
nessuno faceva caso a lui, andò alla ricerca del bricco dell’acqua
e lo mise a scaldare, poi si sistemò di nuovo accanto alla stufa e
prese a riflettere su tutta la faccenda.
Sette
anni prima, un tale di nome Malcolm O’Hanigan era morto in
circostanze misteriose. Gli agenti che avevano preso parte al suo
arresto stavano a loro volta morendo uno dopo l’altro,
apparentemente a causa di terribili incidenti. Prima di ogni decesso,
compariva presso il posto di Polizia una vecchia signora vestita a
lutto, che chiedeva dell’agente che sarebbe morto e poi scompariva,
letteralmente senza lasciare tracce.
C’era
di che farsi venire il mal di testa. Chi era la signora? E come
faceva a sapere chi sarebbe morto, se quelli che accadevano erano
incidenti, e quindi, in quanto tali, per definizione imprevedibili?
Emise
un sospiro sconsolato. Per quanto sir Robert Peel si fosse
industriato a rendere scientifico il mestiere del poliziotto,
ogni agente aveva ben chiaro che nel servizio c’era anche un
aspetto irrazionale, che nulla aveva a che vedere con scienza o
statistica. Non si trattava del celebre istinto da poliziotto,
era piuttosto una messe di fatti inspiegabili, leggende e
superstizioni che venivano tramandati perlopiù a bassa voce, con
allusioni o giri di parole, nelle lunghe notti di servizio.
Il
sergente Kelsey in persona, poliziotto anziano con anni di esperienza
alle spalle, giurava sulla testa dei suoi figli che una volta il
cadaverino di un bimbo ucciso aveva riaperto gli occhi, l’aveva
fissato e gli aveva rivelato chi era stato a strangolarlo, poi era
tornato a un gelido rigor mortis.
Tra gli
agenti che pattugliavano le rive del Tamigi era diffusa la
convinzione che nelle notti di luna piena una bestia
scivolasse fuori dai sotterranei che si trovavano sotto i vecchi
docks e si aggirasse per i vicoli intorno al fiume, cosa che veniva
invocata per spiegare l’aumento dei ritrovamenti di cadaveri in
quei periodi.
Un
agente di nome Marsh sosteneva di averla anche vista. “Da qui a lì,
com’è vero Dio!” raccontava, normalmente a beneficio delle
giovani reclute, “era grossa come un pony, puzzava come una fogna e
aveva in bocca un braccio umano!”
Kirkpatrick,
un irlandese in forza al distretto di St. James, aveva un’autentica
collezione di simili fenomeni, dalle voci degli appestati che si
lamentavano sotto Haymarket – appestati morti nel seicento – ai
ratti posseduti dal demonio che si gettavano da soli nel fuoco e
bruciavano vivi.
Il
rumore dell’acqua che bolliva distolse il giovane agente dagli
episodi soprannaturali. Preparò la teiera, aggiungendo foglie anche
per i ragazzi del turno di notte, vi versò l’acqua calda e attese.
Nel
frattempo il pensiero corse di nuovo alla vecchia signora. Chissà,
forse era davvero la Morte, che veniva ad annunciare la sua decisione
di portarsi via questo o quell’agente.
Pensò
che indubbiamente sarebbe stata un’ottima storia per spaventare le
reclute – le altre reclute – ma che la presenza
dell’anziana doveva per forza avere una spiegazione logica.
Fece
mente locale: degli otto agenti che avevano partecipato all’arresto,
quattro erano già morti. In forza al distretto di Whitechapel
rimanevano Wyndham e Campbell, mentre degli altri due, tali Taggart e
Adamson, non aveva mai sentito parlare.
Raccolse
la teiera e raggiunse i colleghi.
“Ah,
ma sei qui!” lo accolse Woods. “Credevo che fossi smontato due
ore fa.”
“Veramente
mi sono addormentato,” confessò il giovane.
“Uhm,”
commentò l’altro, alzando con fare teatrale le sopracciglia.
“Addormentato in servizio? Male. Malissimo. Vi perdono unicamente
perché avete portato del tè caldo, agente MacLeod, ma che non si
ripeta più.”
Recuperò
una tazza da un cassetto della scrivania e gliela tese affinché
fosse riempita. “Ci voleva,” sospirò poi, stringendola fra le
mani. A voce più alta chiamò: “Gordon, vieni qui. Il ragazzo ha
portato del tè.”
Si
udirono lo scricchiolio di una sedia e lo scorrere del cassetto dello
schedario, poi anche l’agente Lynch si avvicinò con una tazza in
mano. “Ah, bello caldo come piace a me,” apprezzò notando la
teiera fumante.
MacLeod
sogguardò i due e per un attimo ebbe quasi la tentazione di chiedere
loro che fine avessero fatto Taggart e Adamson: il clima era disteso,
la situazione tranquilla. Sembrava il momento ideale.
Rinunciò
al proposito. Chiunque, compreso Campbell, col quale era sempre stato
più in confidenza, cambiava faccia al solo nominare la faccenda di
O’Hanigan, e al posto di sorrisi e battute, comparivano facce scure
e risposte sgarbate, peraltro di nessuna utilità per la faccenda,
giacché il più delle volte erano solo insulti diretti a lui.
Riempì
di nuovo la propria tazza e annunciò: “Beh, penso proprio che dopo
questa me ne tornerò a casa.”
“Perché?
Non vuoi restare qui con noi?” gli chiese Lynch.
“Ti
facciamo scrivere le deposizioni dei cittadini,” intervenne Woods.
MacLeod
scosse la testa. “Grazie, ma sono di turno anche domani notte,
vorrei cercare di dormire un po’.”
“Non
è quello che hai fatto fino ad ora?”
“E
dai,” disse Lynch, “lascia stare il giovanotto. Altrimenti poi
non ci porta più il tè.”
“Già,
hai ragione,” considerò l’altro. Poi, rivolto a MacLeod: “Va’
pure a letto, ragazzo. Sogni d’oro.”
Il
giovane raccolse la teiera ormai vuota, quindi tornò nella stanza
attigua. Si chiuse la porta alle spalle con cura, accese una lampada
ed entrò nell’archivio. Andò agli schedari che contenevano le
note personali degli agenti, poi rimase a fissarli esitante. Quella
era una violazione grave. Fino a quel momento non aveva fatto nulla
di diverso da ciò che qualsiasi altro poliziotto avrebbe potuto fare
per indagare su un caso. Andare a mettere le mani nel fascicolo
personale di colleghi, invece, peraltro senza alcun permesso, non era
decisamente un’azione consentita. Non senza motivi gravi.
Aprì
il primo cassetto.
Alla
fine delle sue ricerche scoprì che sei anni e mezzo prima, ovvero
circa sei mesi dopo la faccenda di O’Hanigan, Alfred Taggart aveva
chiesto il congedo e aveva cambiato lavoro. La faccenda era piuttosto
strana, perché le sue note caratteristiche e il suo stato di
servizio erano impeccabili, il che significava che di sicuro sarebbe
stato candidato a una fulgida carriera nella Polizia. Però, a quanto
pareva, se n’era andato in fretta e furia, adducendo come
motivazione solo questioni personali.
Nel
fascicolo trovò un indirizzo, lasciato per eventuali comunicazioni.
Se lo annotò ripromettendosi di andare a fare due chiacchiere con
l’ex collega il prima possibile.
Clifford
Adamson gli riservò qualche sorpresa in più.
A
quanto pareva, l’agente era impazzito. In un rapporto risalente a
circa tre mesi dopo la faccenda di O’Hanigan, lesse che Adamson
aveva avuto un accesso di mania furiosa che aveva richiesto
l’intervento di otto colleghi per essere contenuto. Nel corso di
tale episodio, egli aveva più volte ripetuto che una donna, da lui
definita Papessa Nera, parlava dentro la sua testa. Nessuno era
riuscito a dare un senso alle farneticazioni del disgraziato, che una
volta ridotto con fatica all’impotenza era stato immediatamente
trasportato al Bethlehem Royal Hospital.
MacLeod
rimase perplesso: anche Adamson era un agente scelto. Mai un
problema, mai un richiamo. Invidiabili nervi saldi.
Ed era
finito pazzo al Bedlam.
Se era
ancora là, ovviamente. Poiché non poteva chiedere ai colleghi,
decise che sarebbe andato a controllare di persona il giorno dopo.
Sistemò
tutto, uscì dall’archivio e si richiuse con cura la porta alle
spalle. “Beh, io penso che ora me ne tornerò a casa,” annunciò
a voce alta, a beneficio dei colleghi nell’altra stanza.
“Sogni
d’oro, piccino!” gli giunse la risposta di Lynch, alla quale fece
seguito la risata di Woods.
§
Gli
infermieri che lo accolsero erano due: un tanghero mal rasato e
corpulento e un piccoletto con la faccia da faina.
“Venite
per lo spettacolo?” s’informò il primo.
MacLeod
aggrottò le sopracciglia. “Che spettacolo?”
“I
pazzi,” rispose l’altro, col tono di chi sta parlando del tempo.
“Comincia fra dieci minuti. Posso farvi un buon prezzo, se volete.”
Tirò fuori una tabacchiera di latta, ne trasse una presa di tabacco
da fiuto, se la pose sul dorso della mano e la inalò. Fatto questo
lo fissò come se non stesse aspettando altro che il suo assenso.
“Non
vedete che sono un poliziotto in uniforme?” gli fece notare invece
l’agente.
Per
nulla impressionato, l’altro replicò: “Vengono qui nobildonne e
ministri, se è per questo.” La tabacchiera tornò nella tasca.
“Allora, questo spettacolo?”
“Insomma,
basta. Sono qui per parlare con un medico.”
Intervenne
a questo punto il piccoletto: “Lascia, Bob.”
L’altro,
che vedeva sfumare il guadagno, lo guardò storto. “Cosa?”
“Bob,
guarda le mostrine: è di Whitechapel.”
“Ah.”
Il tanghero annuì come se l’informazione spiegasse tutto. Tornò a
rivolgersi all’agente: “Allora voi lo spettacolo lo vedete gratis
tutti i giorni, nevvero?”
“Fatemi
parlare con un dottore,” ripeté MacLeod per tutta risposta.
“Sì
sì. Venite con me,” brontolò l’uomo. “Sta attento al
pubblico,” raccomandò al collega prima di allontanarsi.
“Certo,
Bob.”
I due
si inoltrarono nelle profondità dell’istituto. Man mano che si
allontanavano dalla zona di degenza, le grida dei furiosi si facevano
sempre più fioche, e l’unico rumore che si udiva, a parte i passi,
era il tintinnio del mazzo di chiavi che Bob portava in cintura.
“Perché
siete qui, se non vi interessa lo spettacolo?” chiese di punto in
bianco l’infermiere.
“Mi
servono informazioni.”
“Su
cosa?”
MacLeod
si voltò verso di lui e lo squadrò con espressione severa. “Dite
un po’, non vedete che sono un agente in servizio?” chiese per la
seconda volta.
Al
solito poco impressionato, l’altro alzò le spalle. “Sì, lo
vedo. Ma sapete, il vecchio Bob lavora qui da più tempo di qualsiasi
dottore, e sa tutto di tutti.”
Per
quanto ancora di poca esperienza, il giovane agente capì che
l’adozione della terza persona preludeva probabilmente a proposte
di trattative commerciali. “E il vecchio Bob cosa vorrebbe per le
sue informazioni?” chiese, rimpiangendo che non ci fosse con lui
qualcuno come Campbell o Woods, che si sarebbe cucinato
quell’insolente secondino di alienati come un pollo allo spiedo.
“Il
tabacco da fiuto che ho qui è di cattiva qualità, mi fa venire la
tosse.”
“Ah,
capisco. Ne vorreste di migliore, giusto?”
“Come
siete perspicace. Si vede proprio che siete un investigatore.”
MacLeod
si frugò in tasca e ne estrasse di che comprare un buon tabacco.
Porse la cifra all’infermiere. “Ecco qui. E ora le informazioni,
per favore.”
L’altro
contò i soldi, annuì soddisfatto e disse: “Ma certo, signor
poliziotto. Venite con me.”
Si
spostarono in una stanza che poteva essere un gabinetto di
consultazione, con una scrivania, un lettino e alcune sedie. Lungo
una delle pareti si trovavano armadietti dalle ante in vetro, con
dentro strumenti medici.
Bob si
accomodò alla scrivania e fece cenno all’agente di prendere posto
su una sedia. “Ditemi pure,” lo incoraggiò, assumendo il tono
del dottore che raccoglie i sintomi del paziente.
“Sto
cercando un mio ex collega,” esordì MacLeod, “che è stato
portato qui quasi sette anni fa dopo aver avuto un accesso di mania
furiosa in servizio.”
L’altro
annuì. “Ah, certo. Lo sbirro.” Captò lo sguardo torvo
dell’agente e si corresse: “Il poliziotto. Volevo dire il
poliziotto, naturalmente. Adamson.”
“Proprio
lui. È ancora qui?”
“Certo,”
fu la risposta, proferita col tono dell’ovvietà.
“Come
si comporta?”
“È
tranquillo. Dice solo che una donna gli parla nella testa, ma per il
resto non crea problemi.”
“Vorrei
parlargli.”
L’infermiere
si appoggiò all’indietro sullo schienale come se avesse ricevuto
la più strana delle richieste. “Parlargli, dite?” chiese dopo un
po’, grattandosi perplesso la testa.
“Precisamente.”
“Però
non volete vedere lo spettacolo, giusto?”
“No,
non voglio vederlo.”
“Questo
è curioso, sapete? Rifiutate di vedere gli alienati, cosa che
rappresenta uno spettacolo istruttivo e divertente, ma pretendete di
parlare a tu per tu con uno di essi. Io sono confuso.”
Il
poliziotto si protese verso di lui. “Ascoltatemi bene, Bob,”
parlava lentamente, scandendo le parole. “Io non voglio vedere lo
spettacolo, non mi interessa l’alienazione mentale. Ho solo bisogno
di parlare con il signor Clifford Adamson per un’indagine. È
chiaro?”
L’altro
lasciò passare qualche secondo, infine rispose: “Ah. Certo.
Potevate dirmelo subito, comunque.”
Il
parlatorio ricordava quello della prigione di Newgate: una stanza
dalle pareti imbiancate a calce, il pavimento di mattonelle grigie e
un tavolo al centro, con due sedie, una da una parte e una
dall’altra.
Da un
lato della stanza accedevano i visitatori, dall’altro i ricoverati,
che una volta seduti venivano assicurati con una catena a un anello
che si trovava sul pavimento, per evitare che facessero del male a
qualcuno se venivano presi da un accesso di mania furiosa durante il
colloquio.
MacLeod
era già seduto a uno dei due lati del tavolo quando udì lo scatto
metallico di una serratura, e subito dopo il cigolio di una porta.
Alzò gli occhi e vide che due infermieri stavano accompagnando verso
di lui un uomo alto e magro, con una zazzera scomposta di capelli
bianchi e il mento ispido. Gli occhi erano due biglie inquiete che si
spostavano in continuazione. Si posarono anche su di lui, indugiando
sulla sua uniforme, soprattutto sulle mostrine.
L’uomo
non disse nulla, ma ebbe un’esitazione, tanto che i due infermieri
dovettero spingerlo avanti.
“Buon
giorno, signor Adamson,” lo salutò MacLeod con fare incoraggiante.
L’altro
non rispose. Si sedette sulla sedia e si lasciò incatenare
all’anello del pavimento senza opporre resistenza, poi continuò a
fissarlo con espressione tesa.
L’agente
si rivolse agli infermieri: “Potreste lasciarci soli, per favore?”
Uno dei
due tentennò. “Ma veramente...”
“Sono
un poliziotto,” disse il giovane.
“Lo
vedo, signore, ma non è consentito dal regolamento… sapete
com’è...”
MacLeod
era una recluta, ma era perspicace. “Andate a bere una pinta,”
disse, mettendo qualche moneta in mano all’infermiere, “voi e il
vostro collega. Quando tornerete indietro, io avrò già finito e
potrete riportare il signor Adamson in corsia.”
“Molto
bene, signore, faremo come dite. Una mezz’oretta può bastare?”
“Sì.”
“Molto
bene signore. A dopo.”
I due
uscirono chiudendosi con cura la porta alle spalle.
Una
volta che lui e Adamson furono soli, MacLeod ripeté: “Buon giorno,
signore.”
L’altro
fece un cenno con la testa.
“Mi
chiamo Alistair MacLeod,” proseguì il giovane agente, “e sono
qui per un’indagine.”
L’uomo
non rispose.
“Hayes,
Jackson, Pierce e Banks sono morti,” lo informò allora il
poliziotto, “Se questo vi dice qualcosa.”
L’altro
rimase impassibile. Passarono lunghi secondi, infine con voce
incolore disse: “Lo so.”
“Come
lo sapete?”
“La
Papessa Nera me l’ha detto. È tanto che me lo ripete: sette anni,
e poi comincerà la vendetta. Ora il momento è arrivato.”
I due
si fissarono negli occhi. MacLeod fece fatica a sostenere lo sguardo
dell’altro, spalancato su abissi di follia senza nome. “In nome
di Dio,” gli disse alla fine, “Almeno voi volete raccontarmi
finalmente quello che è successo? Nessuno in Centrale ne vuole
parlare.”
Adamson
annuì grave, ma non rispose.
“Per
favore,” insisté il giovane poliziotto.
L’altro
rimase immobile, lo sguardo assorto nella contemplazione di qualcosa
che probabilmente solo lui vedeva.
Passò
in quel modo quasi un minuto, mentre in sottofondo di sentivano
sferragliare lontano di catenacci e un fioco echeggiare urla.
Infine,
con voce assente, Adamson cominciò a raccontare: “Malcolm
O’Hanigan era il peggior criminale di Whitechapel. Era una persona
malvagia, corrotta, che provava piacere nell’infliggere sofferenze
alle creature inermi. Una delle cose che faceva più spesso era
raccogliere orfani per la strada, portarseli a casa facendo loro
credere che li avrebbe nutriti e avrebbe offerto loro rifugio, e poi
torturarli fino alla morte. Non immaginate quello che faceva alle
donne, soprattutto se giovani e belle. È ancora in giro Beth Senza
Faccia?”
“Quella
poveretta che vende i fiori vicino alla chiesa del Sacro Cuore?”
“Non
era senza faccia, una volta. Anzi, era bella come un angelo, tutti
erano innamorati di lei. O’Hanigan le ha tirato addosso
dell’acido.”
“Ma
perché?”
Adamson
alzò le spalle. “Per divertimento, perché non sapeva cosa fare.
Per il gusto di rovinare qualcosa di bello.”
“Capisco.”
L’uomo
scosse la testa. “No, non potete capire. O’Hanigan rubava,
compiva rapine, taglieggiava. Voi non immaginate quanti piccoli
negozianti abbia ridotto sul lastrico. Sembrava che lo facesse
apposta, per il gusto di rovinare delle famiglie.”
“Ma
perché un delinquente del genere non era in prigione?” non poté
fare a meno di chiedere MacLeod.
“Sua
madre,” rispose l’altro.
“Cosa?”
“Non
era O’Hanigan il più cattivo della famiglia. Sua madre era una
zingara irlandese e una strega. Si faceva chiamare la Papessa Nera.
Per quanto fosse ormai invalida e costretta a letto, tutti ne avevano
il terrore, e per paura delle sue ritorsioni, sopportavano le
malefatte del figlio senza denunciarlo. Anche molti poliziotti la
temevano, motivo per cui spesso facevano finta di non vedere, quando
si imbattevano in Malcolm O’Hanigan intento a combinarne una delle
sue.”
“Ma
che cosa poteva fare questa Papessa Nera di così terribile?”
Adamson
lo fissò negli occhi, quindi con l’aria di dire qualcosa di ovvio
spiegò: “Entra nei sogni, ti parla nella testa, fa succedere
incidenti.”
“Che
cosa?”
“Avete
capito benissimo. A me parla tutte le notti, nei sogni. È stata lei
a farmi impazzire.”
L’agente
rinunciò a tirare in ballo la razionalità: ormai si erano
addentrati in un territorio che era decisamente molto lontano da
essa. “Perché a voi?” si limitò a chiedere.
“Perché
sono stato io a spingere tutti gli altri a fare quello che abbiamo
fatto.”
“Ovvero?”
L’uomo
sospirò, si passò una mano fra i capelli scarmigliati. Il suo
sguardo si spostò di nuovo verso un punto all’infinito, tanto che
il più giovane si sentì in dovere di chiedergli: “Va tutto bene,
signor Adamson?”
L’altro
ebbe un sorriso amaro. “No, nulla va bene.” Poi, dopo una pausa,
riprese: “A un certo punto, eravamo tutti stufi di tollerare che
O’Hanigan facesse il bello e il cattivo tempo, e così io proposi
di arrestarlo e di fare in modo che gli capitasse un incidente,
per così dire.”
“Cioè
volevate ucciderlo?”
“Proprio
così.”
“Senza
processo, senza niente?”
“Giustizia.”
MacLeod
scosse la testa con veemenza. “Oh, no. Questa non è giustizia. È
assassinio.”
Per
nulla toccato da quella manifestazione di sdegno, l’altro rispose:
“Se voi aveste veduto come riduceva quei poveri orfani, non
parlereste certo di assassinio.”
“Andate
avanti,” disse soltanto l’altro.
“Lo
arrestammo. Avreste dovuto sentire come strepitava: non riusciva a
crederci. Ci minacciava, tirava in ballo sua madre, ma noi avevamo
deciso che non ci saremmo lasciati piegare. Non quella volta.”
“E
poi?”
“Lo
abbiamo ammazzato. A calci e pugni, per fargli provare un po’ di
quello che si divertiva a infliggere alle sue vittime. All’ora del
lupo, il corpo è finito nel Tamigi, con un peso legato al collo.”
Il
giovane agente deglutì. Lo sguardo del suo interlocutore era
diventato talmente feroce che fu tentato di farsi indietro. “E la
madre?” chiese semplicemente.
“Ci
siamo occupati anche di lei. Ci ha pensato Wyndham, con un cuscino in
faccia.” Emise un sospiro, lo sguardo lentamente si spense. “Ma
ovviamente uccidere il corpo della strega non è servito a nulla,”
concluse sconsolato.
“Che
intendete dire?”
“È
ancora viva. Mi parla nella testa, mi promette vendetta. E io so che
arriverà, prima o poi. Non c’è modo di fermarla.”
MacLeod
avrebbe voluto chiedergli altro, ma in quel momento il chiavistello
della porta alle sue spalle scattò e l’infermiere si affacciò
dicendo: “Tempo scaduto, agente.”
[1]
Fondatore della moderna Polizia Britannica.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Tarocchi 3
Salve
a tutti/e! Eccoci qui con un nuovo aggiornamento del nostro horror
londinese e vittoriano. Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito, e
soprattutto chi ha avuto la
gentilezza di lasciarmi un commento.
E ora vi lascio ai nebbiosi vicoli di Londra^^
Capitolo 3
MacLeod
uscì dal Bedlam piuttosto perplesso. Ciò che aveva sentito era la
realtà dei fatti o la farneticazione di un pazzo?
Difficile
non pensare alla seconda opzione: come poteva esistere una donna che
moriva fisicamente ma continuava a parlare
nella testa delle
persone e a far succedere incidenti? Più probabilmente il povero
Adamson era impazzito, forse schiacciato dalla colpa di quello che
aveva fatto lui stesso e fatto fare ai colleghi, e la sua mente
sconvolta aveva elaborato la strana storia che poi gli aveva esposto.
Naturalmente,
dopo sette anni non avrebbe avuto alcun senso far dragare il fondo
del Tamigi, anche perché con ogni probabilità non avrebbero trovato
un solo corpo, ma almeno duecento: i suoi colleghi non erano certo
stati gli unici a pensare di disfarsi di un cadavere buttandolo nel
fiume con un peso al collo.
Si
chiese dove fosse la madre di O’Hanigan, quella Catriona che si
faceva chiamare Papessa Nera, e di cui tutti sembravano avere un
sacro terrore. Stabilì che doveva tornare il prima possibile al
Bedlam, per farsi dire da Adamson in cosa consisteva, concretamente,
‘ci ha pensato
Wyndham, con un cuscino in faccia.’
Mentre
stava così ragionando, l’orologio batté le dodici, ed egli
realizzò che era quasi ora di pranzo. Meccanicamente, si diresse al
pub che si trovava di fronte al posto di Polizia, dove tutti i
colleghi andavano a pranzare quando erano in servizio.
Appena
entrato si imbatté in Campbell, che era seduto al suo tavolino
preferito e stava mangiando una generosa porzione di kidney pie
annaffiata con birra leggera.
Non
appena si accorse di lui, il collega lo salutò e gli fece cenno di
avvicinarsi. “Non hai il turno di notte, Alistair?” gli chiese
quando si fu seduto.
Il
più giovane annuì.
“E
che ci fai in giro a quest’ora? Dovresti essere a dormire.”
L’altro
stava per rispondere quando arrivò il cameriere e chiese: “Che
cosa vi porto, agente MacLeod? Abbiamo la kidney pie, la cottage pie
e dei sandwich col prosciutto.”
Il
giovane fece distrattamente la sua ordinazione – dopo le ultime
rivelazioni non aveva una gran voglia di mangiare – e quando l’uomo
si fu allontanato, fissò Campbell negli occhi e gli disse: “Sono
stato al Bedlam stamattina.”
L’altro
non parve molto impressionato. “E quindi?”
“Ho
parlato con Adamson.”
All’udire
quel nome, Campbell gli fece bruscamente cenno di abbassare la voce,
poi dardeggiò un’occhiata apprensiva in giro. Quando fu certo che
nelle immediate vicinanze non ci fosse nessun volto conosciuto, emise
un sospiro e disse: “Ti avevo già chiesto di lasciar perdere
questa storia, se non sbaglio.”
“Charles,
quell’uomo mi ha raccontato la verità.”
“La
verità? I deliri di un ammalato di nervi, vorrai dire.”
Tornò
il cameriere, e i due si zittirono. L’uomo posò il piatto davanti
a MacLeod, gli consegnò anche una pinta di birra e gli augurò buon
appetito, quindi se ne andò.
Appena
furono di nuovo soli, Campbell disse: “Te lo ripeto, Alistair:
lascia perdere questa storia.”
“Perché?”
L’altro
emise un sospiro di esasperazione. “Sei un novellino con sei mesi
di servizio, non sai nemmeno allacciarti le scarpe se non hai un
veterano di fianco, cosa pensi di fare?”
“Se
stare con i veterani significa imparare a fare quello che avete fatto
voi, grazie tante, sto con i novellini.”
Campbell
si passò una mano sul viso e rispose: “Pagherei qualsiasi cosa
perché tu ti potessi riascoltare fra dieci anni, così capiresti che
idiozia hai appena proferito. Tu non sai niente del servizio, vedi le
cose solo da fuori, come i giornalisti e i giudici, perché non ti ci
sei ancora calato dentro. E da fuori, caro mio, sono bravi tutti a
dirti cosa avresti dovuto fare.”
“Beh,
non ci vuole poi chissà che mentalità strana per pensare che
ammazzare di botte qualcuno per toglierlo di mezzo non sia
esattamente il comportamento dell’agente modello.”
“Ma
che bravo,” replicò l’altro con tono sarcastico, “sei come
tutti gli altri, solo pronti a puntare il dito e a giudicare. Uno
come te, che vive nel castello fatato, dovrebbe fare il reverendo,
non il poliziotto.” Si alzò bruscamente in piedi.
“Aspetta,
Charles,” lo richiamò MacLeod.
Il
collega lo fissò sprezzante. “Mi piacerebbe che l’avessi
ritrovato tu, uno dei bambini uccisi da quel bastardo. Forse adesso
ragioneresti in maniera diversa. Forse capiresti che ci sono
individui che nella loro schifosa vita non potranno fare altro che
del male, e vanno eliminati come se fossero bestie rabbiose.”
Detto
questo, gli girò le spalle e uscì.
§
Seduto
alla scrivania, MacLeod giocherellava con la penna. La sala era
talmente silenziosa che si percepivano distintamente il lieve sibilo
del gas che usciva dai cannelli delle lampade e il respiro pesante di
Gardner, che sicuramente si era già addormentato.
Tanto
per fare qualcosa, si mise a sfogliare il registro.
Ripensava
alle parole che Campbell gli aveva rivolto poche ore prima e si
chiedeva se e quanto Bene e Giustizia coincidessero. Davvero non
capiva quale fosse il modo giusto di comportarsi perché era solo una
recluta? Con l’esperienza avrebbe capito dove e fino a che punto
fosse lecito violare la Legge in nome di un bene superiore, e dove
invece essa fosse da applicare con il massimo rigore?
Ma
chi faceva le leggi? Chi stabiliva cosa fosse bene o male?
Posò
la penna e si passò una mano fra i capelli con un sospiro di
frustrazione. A pensare a certe cose c’era il rischio di farsi
venire mal di testa.
Si
alzò e andò nella stanza attigua a prendere il bricco dell’acqua.
Preparò
la teiera, prese due tazze e tornò alla sala principale. Quando
arrivò sulla soglia, fu investito da un’ondata di freddo mortale e
quello che aveva in mano minacciò di cadergli: al centro del locale
c’era la vecchia signora. La misteriosa figura era in lutto
strettissimo, portava come al solito uno scialle frangiato, un ampio
cappello con la veletta e i guanti.
Non
appena lo vide, prese ad avanzare a passettini nella sua direzione.
MacLeod
deglutì e dovette fare uno sforzo per impedirsi di indietreggiare.
Gettò una fugace occhiata a Gardner, che però era abbandonato sulla
sedia con la testa all’indietro e la bocca aperta, e non sembrava
in grado di intervenire in suo favore.
“Buona
sera, agente,” salutò la signora, al solito con una voce che
sembrava fatta di polvere e ragnatele. “Sto cercando l’agente
Clifford Adamson, per favore.”
“Non…
non è più in servizio, signora. Posso… ehm… sapere il motivo
per cui lo cercate?” Rabbrividì, il freddo sembrava farsi di
attimo in attimo più intenso. Ebbe la sensazione che se fosse
rimasto al cospetto di quella strana figura ancora per qualche
secondo, la teiera fumante gli si sarebbe trasformata in un blocco di
ghiaccio.
La
signora emise un suono rauco e fischiante che gli parve una grottesca
risata, quindi si voltò impercettibilmente verso Gardner.
Improvvisamente,
la sedia su cui l’agente dormiva scivolò, e con un fracasso da
fine del mondo egli rovinò a terra trascinandosi dietro tutto quello
che c’era sulla sua scrivania. All’improvviso rumore, MacLeod
fece un salto, la teiera di latta gli rotolò via rimbalzando sul
pavimento e versando tè bollente ovunque, le tazze andarono in
frantumi.
Quando
i due poliziotti riuscirono a riprendersi dallo spavento, della
signora non c’era più traccia.
William
Gardner si alzò dolorante e disse: “Per la miseria, MacLeod, ma si
può sapere che ti è preso? Un altro po’ e mi facevi venire un
colpo.”
“Tu
l'hai fatto venire a me.”
“Stai
scherzando? Che ti salta in mente di lanciare la teiera come se fosse
una palla da rugby?”
“Veramente,
io
ho mollato la teiera dopo che tu
hai fatto tutto quel fracasso.”
“Impossibile:
dormivo,” gli rispose candidamente Gardner.
“Devo
mandare un messaggio al Bedlam,” disse l’altro per tutta
risposta.
“Eh?
Un che? Dove?”
“Un
messaggio, al Bedlam. Un paziente è in grave pericolo.”
“Ma
cosa stai dicendo?”
“So
che è in pericolo. Non ho tempo per spiegarti.”
“Secondo
me ci devi andare tu, al Bedlam,” brontolò Gardner.
Senza
ascoltarlo, MacLeod si infilò nell’ufficio del sergente Kelsey,
dove si trovava l’apparecchio telefonico che metteva in contatto
tutti i posti di Polizia di Londra. Cercò il numero di quello più
vicino all’asilo per alienati e lo compose.
“Posto
di Polizia di Kennington, agente Harris,” rispose una voce
assonnata dall'altro capo del filo.
“MacLeod,
di Whitechapel,” disse rapido il giovane, “chiamo per segnalarvi
che un paziente del Bedlam si trova in grave pericolo.”
Seguirono
alcuni secondi di silenzio, poi l'agente Harris chiese: “E voi come
fate a saperlo da laggiù?”
“Ve
lo spiego dopo. Mandate qualcuno a cercare un paziente che si chiama
Clifford Adamson. È stato un nostro collega, e in questo momento è
in grave pericolo.”
Ma
l'altro sembrava ancora poco convinto. “Un agente impazzito?”
chiese, come se fosse quella la cosa più importante.
“Vi
ho detto che vi spiegherò tutto dopo,” replicò MacLeod con una
punta di fastidio nella voce, “Ora andate. Clifford Adamson.”
“Sì,
l'avete già detto.”
La
comunicazione si chiuse.
MacLeod
abbassò la cornetta e si girò: alle sue spalle c'era Gardner che lo
fissava con aria perplessa. “Sei sicuro di stare bene?” gli
chiese.
“Sto
benissimo.”
“Cosa
gli racconti domani, a Kelsey?”
“Perché?”
“L'apparecchio
telefonico. Lo sai che farebbe usare più volentieri sua moglie,
piuttosto che quell'affare.”
Il
più giovane emise un sospiro, quindi gettò un'occhiata alla sala e
disse: “Sarà meglio che vada a prendere uno straccio.”
Un'ora
dopo, squillò il telefono. L'insolito richiamo fece sussultare i già
tesi agenti.
MacLeod
abbandonò quello che stava facendo e si precipitò sull'apparecchio.
“Posto di Polizia di Whitechapel, agente MacLeod,” recitò nella
cornetta.
“Oh,
giusto voi,” disse l'agente Harris dall'altra parte del filo.
“Siete veggente, per caso?”
“Che
intendete dire?”
“Quel
paziente di cui mi avevate dato le generalità, Adamson.”
Il
giovane sentì che il cuore gli balzava nel petto. “Sì?”
“Beh,
appena ho smesso di parlare con voi, ci hanno chiamati dal Bedlam: il
tizio era stato strangolato da un altro paziente. Quando siamo
arrivati sul posto, il dottore ha detto che l'assassino era sempre
stato un pazzo tranquillo, che prima di allora non aveva mai fatto
male a nessuno, ma io dico che con quella gente non si può mai
sapere, giusto?”
MacLeod
rimase a guardare la cornetta come inebetito.
“Giusto?”
lo richiamò alla realtà la voce del collega.
L'altro
sussultò. “Ehm, certo. Certo, scusate.”
“Avreste
dovuto vederlo, l'assassino: un ometto alto come un soldo di cacio.
Ma dove la trovano, quella forza, dico io...”
Il
giovane agente ringraziò e chiuse la comunicazione. Deglutì a
fatica a causa della bocca secca e si passò una mano sul viso. “Mio
Dio...” esalò.
“Che
c'è?” chiese Gardner dalla sala.
“Sarà
meglio che vada a fare dell'altro tè. Bello forte, questa volta.”
§
I
dintorni della conceria avevano un aspetto sinistro anche nel pieno
di una mattinata di sole. La luce forte faceva impietosamente
risaltare i muri anneriti dalla polvere di carbone e le finestre
buie. Sembrava addirittura che il calore dei raggi rendesse più
disgustoso il tanfo che aleggiava dappertutto.
Come
al solito, per strada non c'era anima viva.
La
casa sorgeva lugubre al centro del suo giardino di sterpi. Nonostante
fosse sereno, si era mantenuta intorno all'edificio, forse a causa
dell'umidità del suolo, una lieve caligine che strisciava rasoterra
e si annidava negli anfratti più ombrosi.
MacLeod
salì i gradini che conducevano alla porta d'ingresso e abbassò la
maniglia, che come la volta precedente cedette morbida.
Nonostante
la temperatura mite dell'esterno, una volta oltrepassata la soglia
l'agente si trovò a rabbrividire nel pesante pastrano.
“C'è
nessuno?” chiese a voce alta. Non gli giunse alcuna risposta.
Si
addentrò nell'ingresso, alla ricerca di una fonte di luce. Ricordò
il mozzicone di candela che aveva visto sotto il ritratto della
zingara, lo raccolse staccando la colata di cenere che l'aveva
incollato al pavimento e lo accese. Con quello in mano, salì
cautamente al piano di sopra.
Il
primo ambiente nel quale entrò, ovvero una camera da letto,
conservava ancora biancheria e lenzuola, come se il suo occupante si
fosse assentato col proposito di fare ritorno quanto prima. Nei
cassetti c'erano abiti maschili, alcuni anche di un certo pregio.
Sotto il letto c'era un paio di scarpe di buona fattura. Sotto il
cuscino, l'agente trovò una rivoltella carica.
Proteggendo
con la mano la fiammella tremolante, si spostò nella stanza da
bagno. Lì trovò un assortimento di articoli da toeletta, sia
maschili che femminili. Di nuovo, oggetti di pregio, in avorio e
argento.
Sollevò
un lembo del telo che copriva lo specchio, e gli parve di vedere,
riflessa nella lastra, un'ombra alle sue spalle. Sussultò e si girò
bruscamente, ma i suoi occhi incontrarono solo il vuoto.
Aspettò
che il ritmo del respiro tornasse normale, quindi stabilì che si era
trattato di un gioco di luci causato dalla fiamma della candela e
proseguì con la sua esplorazione.
Il
corridoio si biforcava a T. La cosa che lo lasciò perplesso, e che
anche la volta precedente, ricordò, l'aveva colpito, fu la presenza
di un armadio enorme proprio nell'incrocio dei due bracci della T,
appoggiato al muro nel braccio orizzontale. Il mobile, di solido
rovere, era pesante e ingombrante, tanto che tra esso e il muro
antistante si passava a stento.
Con
fatica si spostò verso una stanza che fungeva da guardaroba
femminile. Dentro c'erano abiti dai colori sgargianti, ma di una
foggia che non si vedeva più in giro da almeno una quindicina di
anni. Trovò anche stivaletti, guanti, cappelli, biancheria e altro.
Le cose erano sia riposte negli armadi che abbandonate in cumuli
sulle spalliere delle sedie. Sollevò la candela per osservare
meglio, e notò su una parete la tipica sagoma lasciata da un mobile
che viene portato via.
La
fiamma ebbe un'oscillazione, e MacLeod si girò di scatto: la
sensazione di avere qualcuno alle spalle era tornata, più forte di
prima, ma di nuovo non vide nessuno. Emise in un lungo sospiro il
fiato che aveva trattenuto. Uscì dalla stanza dei vestiti, la fiamma
oscillò di nuovo minacciando di spegnersi. Il poliziotto vi mise
intorno la mano a coppa per proteggerla, ma non c'erano correnti
d'aria. “Questo è curioso,” mormorò a disagio.
Tornò
sui suoi passi, ripercorse il corridoio, oltrepassò l'armadio e
arrivò a un salottino che aveva al centro un tavolo rotondo coperto
da una tovaglia che arrivava fino a terra. Ne sollevò un lembo, ma
non vide nulla di particolare al di sotto.
Fece
girare intorno la fiamma della candela: c'erano delle vetrine con
dentro delle ceramiche, qualche fotografia alle pareti, una cornice
velata che doveva racchiudere uno specchio.
La
fiamma della candela cominciò a farsi sempre più piccola, come se
lo stoppino stesse per consumarsi definitivamente. Il che era
impossibile, dal momento che nel mozzicone ce n'era ancora almeno un
pollice.
Quando
la luce assunse l'intensità di una brace di sigaro, l'agente fu
costretto a interrompere le sue osservazioni.
Tornò
verso la scala, e la fiamma riprese ad ardere normalmente.
MacLeod
si girò, e di nuovo rimase a guardare le stanze buie che aveva
appena lasciato, faticando a convincersi che non ci fosse nessuno.
Andò
alla camera da letto e infilò la mano sotto il cuscino, ma la
pistola era ancora dove l'aveva lasciata.
Scese
al piano terreno, spense la candela soffiandovi sopra e la depose su
un tavolo, quindi si strofinò le mani infreddolito e uscì all'aria
aperta.
Per
quanto il posto fosse lugubre, quando fu nel giardino si concesse un
sospiro di sollievo. Realizzò di avere tutti i muscoli della schiena
indolenziti per la tensione. “Domani mi faranno un male d'inferno,”
borbottò.
Mentre
stava percorrendo il vialetto, vide due donne fermarsi a osservarlo
dalla strada. Si scambiarono qualche frase, poi una di esse a voce
alta lo avvisò: “Non ci abita nessuno, là dentro!”
Il
cancelletto era aperto, ma nessuna delle due sembrava essere
intenzionata a mettere piede nel giardino.
MacLeod
le raggiunse. “Buon giorno,” salutò, portandosi due dita alla
fronte come aveva visto fare ai vecchi, “Da quanto tempo è
disabitata questa casa?”
Le
due si scambiarono un'occhiata, poi una disse: “Saranno sette anni,
signore.”
“Di
chi era?”
Di
nuovo uno sguardo tra le due donne, poi quella che sembrava più
autorevole disse: “È meglio se andate a parlare con l'ebreo,
signore.”
“L'ebreo?
E chi sarebbe?”
L'altra
intervenne: “È uno che ha un negozio di libri vecchi. Sta a due
isolati da qui.” Sollevò un braccio per indicare la direzione.
“Lui
vi parlerà,” intervenne l'altra. “Parla sempre con tutti.”
“E
voi perché non mi parlate?”
“Di
questa casa?” replicò la più giovane, “Oh, no. Proprio no.
Scusate, signore.” Arretrò di un passo, come per sottrarsi
all'influenza nefasta della magione, poi disse all'altra donna: “È
meglio che andiamo.”
“Sì,
si è fatto tardi.”
Si
allontanarono rapide, piantando l'agente lì su due piedi,
attraversarono la strada e scomparvero dietro l'angolo camminando a
passo svelto.
All'agente
non rimase altro da fare che recarsi dove gli avevano suggerito le
due donne, ovvero al negozio di libri vecchi dell'ebreo.
Dovette
chiedere un po' in giro, ma alla fine riuscì a identificare il
luogo: si trattava di una vetrina polverosa, nella quale erano
disposti libri che sembravano usciti da un monastero benedettino. I
testi non davano l’idea di essere in esposizione, piuttosto
sembravano riposti come in un armadio. Tutto il luogo in effetti dava
l'idea di un ritrovo di intenditori, più che di un esercizio
commerciale.
Mentre
era fermo con aria irresoluta sul marciapiede, dal negozio uscì un
signore anziano, che gli si avvicinò e in tono cortese gli domandò:
“Posso fare qualcosa per voi, agente?”
L'uomo
aveva un'espressione buona, premurosa, faceva pensare al nonno che
ogni nipotino vorrebbe avere.
Aveva i
capelli grigi lunghi fin sulle spalle e una barba da patriarca che
gli arrivava al petto. Portava un dignitoso completo nero un po' liso
sui gomiti.
L'agente
gli rivolse un sorriso e rispose: “Sto cercando un negozio di libri
gestito da un ebreo. È questo, per caso?”
L'altro
accennò di sì. “Temo proprio che sia questo, agente,” rispose
in tono bonario, “anche se non sono ebreo, sono armeno.” Gli
porse la mano. “Petros Kasparian,” si presentò.
“Alistair
MacLeod,” si presentò a sua volta l'agente. “E allora perché vi
chiamano ebreo?”
L'uomo
alzò le spalle. “Forse perché si dà per scontato che chiunque
venga dall'est e venda libri antichi appartenga a una delle tribù di
Israele.” Gli accennò l'ingresso del negozio: “Prego, entrate.”
Il
poliziotto si piegò un po’ per oltrepassare la porta, e si infilò
con qualche difficoltà tra scaffali carichi di libri antichi. Si
mosse adagio cercando di non urtare nulla.
“Ebbene,
come posso aiutarvi?” gli chiese il signor Kasparian
raggiungendolo.
“Si
tratta di una vecchia casa abbandonata della quale nessuno sa o vuole
fornirmi informazioni. L’unica cosa che sono riuscito a cavare
fuori a due passanti è stato il consiglio di venire a parlare con
voi.”
L’altro
aggrottò le sopracciglia e annuì grave. “È la casa della
cartomante, vero?”
“Della
cartomante?”
Kasparian
annuì di nuovo, poi disse: “Una villetta isolata, con le persiane
del piano superiore inchiodate, giusto?”
MacLeod
si trovò involontariamente a sorridere. “Proprio quella.”
“Un
posto piuttosto sinistro, non è vero?”
“Già,”
rispose l’agente.
“E
ditemi, che cosa posso fare per voi?”
“Potete
raccontarmi quello che sapete. C’è un mistero, intorno a quella
casa, e non riesco a venirne a capo.”
Il
vecchio assentì con un vago sorriso. Persi tra decine di piccole
rughe d’espressione, i suoi occhi neri, straordinariamente vivi,
brillavano. “Omero diceva che Il fascino dell’ignoto domina
tutto. Voi siete d’accordo?”
“Io
voglio scoprire la verità,” si limitò a rispondere l’agente.
“E
non è anche questo un modo di addentrarsi nell’ignoto? Di portare
la luce dove regnavano le tenebre?”
MacLeod
non rispose.
Kasparian
lo prese gentilmente per una spalla, e sospingendolo verso un
retrobottega che sembrava ancora più piccolo e ingombro di carta del
negozio, gli disse: “Vi racconterò quello che so.”
Seduto
su uno sgabello fra due traballanti pile di libri, un bicchiere di
vino di melagrana in mano, il poliziotto fissava con aspettativa il
libraio.
Veramente
non avrebbe potuto bere, dal momento che era in servizio, ma
Kasparian aveva insistito per fargli assaggiare quella che aveva
definito una specialità della sua terra. Trovandosi così vicino
all’acquisizione di informazioni che aveva inseguito per settimane,
MacLeod non si era sentito di declinare l’offerta. Immaginò che se
Kelsey lo fosse venuto a sapere l’avrebbe spedito a contare i
merluzzi che scendevano dai pescherecci ai docks, ma si sentiva di
dire che quello era un caso di forza maggiore.
Il
libraio si versò a sua volta un bicchiere di vino, che alla luce
delle lanterne a gas prendeva una cupa tonalità di granato, poi
disse: “Bene, bene. Da dove volete che cominci?”
“Dall’inizio.”
MacLeod si bagnò appena le labbra con la bevanda, in un tentativo di
compiacere il suo ospite e al tempo stesso non venire meno
all’obbligo di mantenere la sobrietà.
“Dall’inizio,”
fece eco Kasparian. “Molto bene.” Bevve un sorso, poi disse:
“Avete mai sentito il nome di Malcolm O’Hanigan?”
“Sono
qui per lui.”
“Ebbene,
era Malcolm O’Hanigan il padrone di quella casa. Credo che sia
ancora intestata a lui, fra l’altro. Quando le sue azioni criminose
cominciarono a fruttargli, la comprò per viverci con sua madre.”
“Che
tipo era la madre?” chiese l’agente.
“La
gente diceva che era una strega e che i tarocchi che usava per
leggere il futuro erano quelli di Satana. Tutti la chiamavano la
Papessa Nera, e anche se andavano a consultarla ne avevano una paura
tremenda. Correva voce che le sue maledizioni fossero terribili.”
“Voi
l’avete mai vista?”
“Sì,
certo. Una volta andai addirittura a farmi leggere le carte da lei.”
“Davvero?”
“Ve
l’ho detto: il fascino dell’ignoto domina tutto. E poi in effetti
i suoi tarocchi erano veramente pregevoli. Dallo stile direi che
dovevano avere almeno cinque secoli, anche se le figure erano del
tutto particolari, e si mantenevano stranamente vivide, nonostante
lei manipolasse quel mazzo praticamente tutti i giorni.” Sollevò
le sopracciglia e soggiunse: “Io glieli avrei comprati volentieri,
anche pagandoli molto bene, ma figuratevi se ha mai accettato di
venderli.”
Affascinato
dalla narrazione, soprappensiero MacLeod bevve un generoso sorso di
vino e assunse un’espressione soddisfatta, poi chiese: “E adesso
dov’è la donna?”
“Dopo
aver spadroneggiato per anni con le sue fatture, a un certo punto
rimase invalida e fu costretta a letto. Ci furono parecchi che
tirarono un sospiro di sollievo, ma in breve si accorsero che la
Papessa Nera era più potente che mai, e a quelli che avevano
esultato maggiormente capitarono inspiegabili incidenti, naturalmente
mortali. Ricominciò a fare le carte, solo che invece del tavolino
tondo del salotto, adoperava una tavola di legno che si teneva in
grembo mentre era sdraiata nel suo letto.”
“Sì,
ma… adesso sarà morta, no?”
L’altro
assentì col capo. “Quando scomparve il figlio, scomparve anche
lei. Si sparse la voce che fosse morta, e nessuno ha mai avuto il
coraggio di entrare in quella casa per controllare. Un giorno trovai
le persiane inchiodate, non so se per impedire alla gente di entrare
o a chissà cosa di uscire, e da allora nulla è cambiato, a parte il
fatto che pian piano gli alberi e le statue del giardino sono
spariti.”
Il
poliziotto bevve un altro sorso. “Questo è strano,” disse poi.
“Sapete, la porta d'ingresso è aperta. Io ho abbassato la maniglia
e sono entrato come se niente fosse.”
Fu
la volta di Kasparian di fare tanto d'occhi. “Siete entrato?”
“Dovevo
controllare,” fu la candida risposta.
“La
gente del quartiere si sarà fatta l'idea che siate un pazzo, o che
abbiate il coraggio di un leone.”
MacLeod
fece una breve risata. “Nessuna delle due cose, signore. O almeno
spero non la prima. È compito dell'agente di Polizia addentrarsi
laddove altri non osano spingersi. Altrimenti, come potremmo
contrastare il crimine?”
L'armeno
assentì con un sorriso.
“Per
tornare a noi,” riprese il poliziotto, “Non capisco perché
abbiano inchiodato le persiane, se poi hanno lasciato la porta
aperta. È strano, non credete?”
“Di
solito, le cose ci sembrano strane quando non abbiamo abbastanza
elementi per comprenderle fino in fondo.”
“Voi
dite?”
“Se
ripercorrete la storia della conoscenza, vi accorgerete che è così.
Pensate a quante cose venivano credute magia nei tempi antichi. Ora
invece la Scienza ci spiega che sono solo fenomeni naturali.”
MacLeod
abbassò lo sguardo sul proprio bicchiere, che fra un discorso e
l'altro era ormai quasi vuoto. “Voi credete che la magia esista?”
domandò pensoso.
“Perché
mi fate una domanda del genere?”
L'altro
alzò gli occhi. “Non lo so. È che quello che sta succedendo non
ha una spiegazione logica, signor Kasparian.”
“Io
penso che l'acquisirà una volta che avrete in mano tutti gli
elementi della vicenda, agente.” gli disse il libraio con fare
incoraggiante.
“Voglia
il Cielo che sia così,” sospirò il giovane poco convinto.
§
“Stasera
non fai altro che sbadigliare,” disse Campbell. “Mi sembra di
fare il giro di ronda con un coccodrillo del Nilo.”
Contrito,
MacLeod rispose: “Scusa, Charles. Ho dormito poco.”
L'altro
fece girare intorno la lanterna, la fissò su un cumulo che si rivelò
essere una persona avvolta in una coperta e sbuffò. “Se non la
smetti di stare in servizio di notte e correre dietro ai tuoi
fantasmi di giorno, tra un po' cadrai per terra come una pera
marcia.”
“Sono
così vicino, che...”
“Sei
vicino al collasso,” lo interruppe l'altro bruscamente. “Devi
dormire. Hai una faccia che sembri scappato dal sanatorio.”
Continuarono
a camminare fianco a fianco per un po’. La notte sembrava
tranquilla, nemmeno particolarmente fredda, considerando la stagione.
Alla fine, MacLeod disse: “Perché invece non mi aiuti, Charles?”
“Non
ci voglio entrare in questa storia.”
L’altro
si fermò, costringendo il primo a imitarlo. Infilò la lanterna
dentro una finestra semiaperta e diede un’occhiata a quello che
c’era dall’altra parte, facendo scappare un paio di gatti
randagi. “Ci sei già dentro,” disse poi, apparentemente parlando
fra sé e sé. “Ci sei dentro fino al collo, dal momento che in
quella lista di sei anche tu, e di otto che eravate, siete rimasti in
tre.”
“Sei
premuroso a farmelo notare.”
“Sono
realista. Ora non puoi alzarti e andartene come al pub, quindi mi
devi stare a sentire. Io non so se qualcuno ti abbia ordinato di
tenere la bocca chiusa o che altro, fatto sta che gli agenti che
hanno partecipato a quell’arresto stanno morendo uno dopo l’altro.”
“Lo
so.”
“Mancate
tu e altri due.”
“So
anche questo, dannazione!” ringhiò Campbell. “Credi che non ce
l’abbia sempre scolpito in mente, il fatto che siamo rimasti in
tre?”
“E
allora aiutami, no? Cos’hanno fatto per te i veterani, a parte
ordinarti di non parlare?”
“Tu
non capisci. La fedeltà al corpo viene prima di tutto.”
“Anche
prima della verità?”
“Tu
non capisci,” ripeté Campbell, quindi lo distaccò di qualche
passo.
Il
più giovane lo seguì per un po’ in silenzio, poi disse: “Almeno
posso raccontarti quello che ho scoperto finora? Magari tu riesci a
capire cosa sto trascurando.”
L'altro
sospirò con fare esasperato e replicò: “Pensavo di essere uno
scozzese cocciuto, MacLeod, ma in confronto a te sono più volubile
di un'adolescente ubriaca.”
“Non
sono cocciuto,” fu la piccata risposta, “non mi piace lasciare le
cose a metà, ecco tutto. E ora, vuoi aiutarmi o no?”
“Va
bene, senti, ti aiuto. Basta che la smetti.”
“Grazie!”
“Bah.
Fermiamoci a bere una tazza di caffè mentre parli, almeno. Sto
gelando.”
Fecero
una sosta a un chiosco che teneva aperto fino a tardi, ordinarono la
bevanda e diligentemente il più giovane cominciò a esporre i fatti.
Alla
fine della narrazione, Campbell lo stava fissando con tanto d'occhi.
“Da non credere,” disse.
MacLeod
rispose: “Te l'avevo detto che c'era qualcosa di strano.”
Il
primo vuotò la tazza e la spinse sul bancone per farsela riempire di
nuovo, quindi brontolò: “Quasi quasi mi dispiace che non ci sia
Dobbins con la sua fiaschetta. Mi sono venuti i brividi, e non per il
freddo.”
“È
una brutta storia,” assentì il più giovane.
“Quella
roba che hai visto nella casa… insomma, sembra magia nera.”
“Probabilmente
lo è. Ma c’è qualcosa che non sto capendo, qualcosa che mi
sfugge. Dove dormiva la donna? Perché non ho trovato la camera?”
L’altro
si strinse nelle spalle.
MacLeod
finì a sua volta il caffè, quindi si voltò verso il collega e gli
chiese: “Cos’è successo quella notte? Io so che...”
“Zitto!”
lo interruppe Campbell. Fece girare una rapida occhiata, ma nessuno
sembrava fare caso a loro. “Vieni, andiamo a controllare come
stanno le cose verso Spitalfields,” gli disse, prendendolo per una
spalla e sospingendolo avanti.
Quando
si furono allontanati dalla mescita, l’agente disse: “Quello che
è successo lo sai, no? Hai detto che te l’ha raccontato Adamson.”
“So
che qualcuno di voi è andato anche alla casa.”
“Non
io. So che ci andarono Wyndham e Taggart. Quando tornarono, dissero
che la vecchia non sarebbe più stata un problema.”
“Non
sai cos’hanno fatto?”
“Non
l’hanno mai detto. E nessuno l'ha mai chiesto, ovviamente.”
Continuarono
a camminare per un po’, i fasci di luce delle lanterne danzavano
sul selciato davanti ai loro piedi, i passi echeggiavano cadenzati.
Alla fine, MacLeod propose: “E se provassimo a chiedere qualcosa a
Wyndham? In fondo, anche lui è in pericolo.”
“Non
ti parlerebbe mai.”
“Dici
che preferisce morire?”
Campbell
alzò le spalle. “Forse.”
“Allora
è più matto del povero Adamson.”
“Un
dubbio che ho sempre avuto.” Poi, dopo una pausa: “Non andare a
stuzzicarlo, Alistair, va bene?”
“Perché?”
“Lascia
perdere e basta. Piuttosto, possiamo andare alla casa di O’Hanigan
domani pomeriggio, se vuoi.”
MacLeod
non poté impedirsi un sorriso. Subito dopo però chiese: “Perché
non domattina?”
L’altro
sospirò. “Chi sei, lo scozzese testardo delle storielle comiche?
Domattina dobbiamo dormire. Puoi anche fermarti da me, se ti va,
tanto vivo per conto mio.”
“Posso
andarci anche da solo,” replicò caparbio il più giovane.
“Non
è il caso.”
“So
badare a me stesso.”
“L'ho
notato, ma se non ti accompagnassi non sarei un buon poliziotto.
Siamo colleghi, in fin dei conti.”
MacLeod
avrebbe voluto chiedergli da dove spuntava, all’improvviso, tutta
quell’etica, ma preferì non rischiare di rovinare l’alleanza che
si stava così faticosamente creando.
“Colleghi,
certo,” ripeté, poi continuò a camminare al suo fianco senza più
aggiungere altro.
§
I
due poliziotti si fermarono di fronte alla casa. Questa volta si
erano portati le lanterne, ognuno la propria, e una buona scorta di
fiammiferi.
Appoggiati
al recinto, rimasero per un po' a contemplare la sinistra magione,
poi MacLeod chiese: “Tu ci eri mai stato, qui, Charles?”
L'altro
scosse la testa. “Tutti sapevano della casa di O’Hanigan. Io però
non ci sono mai entrato.”
Percorsero
il vialetto.
Campbell
si guardava intorno, l'espressione faceva chiaramente capire quanto
poco gli piacesse quello che stava vedendo. “Mette i brividi,”
brontolò.
“Aspetta
di vedere com’è dentro,” replicò l'altro.
Salirono
i tre gradini che conducevano alla porta, poi MacLeod abbassò la
maniglia e spinse l’uscio, che cedette con un cigolio. Da dentro
giunse l'ormai consueto odore di muffa e polvere, accompagnato da
un'ondata di freddo che spinse Campbell a indietreggiare brontolando
un'imprecazione.
Entrarono.
Al chiarore che proveniva dall'esterno accesero le lanterne, quindi
si chiusero la porta alle spalle. Cominciarono a esplorare il luogo
facendo girare dappertutto i fasci di luce.
Campbell
indicò il pentacolo di vernice rossa subito davanti alla soglia. “E
questo?”
MacLeod
alzò le spalle. “Ce n'è così tanti che ci si stanca di contarli,
soprattutto sulle porte e sulle finestre. Tu sai cosa significhino?”
“Protezione,
credo. Ci vorrebbe un'altra strega per dircelo con sicurezza.”
“Quella
che abbiamo qui basta e avanza, direi.”
Esplorarono
il piano inferiore, incluse le stanze che MacLeod non aveva
ispezionato le volte precedenti, ma trovarono solo altri pentacoli,
principalmente graffiati sugli infissi delle finestre, e i residui di
qualche genere di rituale, candele, rami secchi e un ritaglio
bruciacchiato di pergamena, sul tavolo di marmo della cucina.
Si
scambiarono un’occhiata: il silenzio era assoluto, non si sentivano
nemmeno i pochi rumori dell’esterno. Dappertutto gravava un tanfo
di chiuso che si mescolava all’odore della conceria dando luogo a
una mistura venefica, putrescente, che sembrava succhiare pian piano
le energie con il suo lezzo nauseabondo.
“Peggio
di un cimitero,” commentò Campbell. “Vediamo cosa c’è di
sopra?”
Salirono
al piano superiore, ispezionarono le camere presenti. A un certo
punto, Campbell si fermò a metà del corridoio, puntò il fascio di
luce contro l’armadio che si trovava esattamente di fronte a loro e
disse: “E questo qui?”
MacLeod
lo fissò con aria interrogativa.
“Non
ti sembra un posto strano, per un armadio? Voglio dire, proprio qui,
nell’incrocio tra i due corridoi...”
Le
lampade si affievolirono, i fasci di luce presero una tonalità
giallastra.
“Ecco
che ricomincia,” disse MacLeod.
“Cosa?”
“È
successo anche l’altra volta: quando sono arrivato qui, la luce ha
cominciato a fare così.”
Per
tutta risposta, l’altro allungò la mano verso una delle maniglie
dell’armadio e tirò. Si udì uno scricchiolio, l’anta si schiuse
e qualcosa cadde sul pavimento con un rumore metallico. I due
sussultarono e fecero un salto indietro.
Simultaneamente
puntarono gli ormai fiochi fasci di luce sull’oggetto, e videro che
si trattava di un ferro da stiro. Illuminarono l’interno del
mobile, e lo trovarono pieno delle cose più pesanti che si potevano
rinvenire in una casa: alari del caminetto, pentole di ghisa, ciocchi
di legno, addirittura un sacco di carbone.
“Togliamo
questa roba,” disse Campbell.
Posarono
le lanterne da una parte e cominciarono a estrarre cose dall’armadio.
La sensazione di aver fatto una scoperta importante li riempiva di
un’aspettativa febbrile, che conferiva loro una foga sempre
maggiore nel portare a termine il compito.
Alla
fine, ansanti, contemplarono il mobile vuotato di ogni suo contenuto.
MacLeod
si terse il sudore dalla fronte e propose: “Lo spostiamo?”
Fianco
a fianco, si posero con la schiena contro un lato di esso e fecero
forza con le gambe. Dopo qualche tentativo, il pesante armadio di
rovere ebbe un sussulto e si spostò leggermente.
“Forza!”
esclamò Campbell.
Continuarono
a spingere, guadagnando pollice dopo pollice. Sul pavimento comparve
il cerchio esterno di un pentacolo.
Alzarono
gli occhi sulla parete e videro il telaio di una porta.
Raddoppiarono
gli sforzi.
Alla
fine, ansanti e sudati, i due agenti si trovarono a contemplare
quello che verosimilmente era l’ingresso alla camera di Catriona
O’Hanigan. Sull’anta era stato disegnato un pentacolo che ne
occupava tutta la larghezza, accompagnato dagli stessi simboli che si
trovavano anche intorno al ritratto fotografico. Per terra c’erano
mazzetti ormai disseccati di erica e vischio.
Si
scambiarono un’occhiata, poi MacLeod allungò lentamente una mano
verso a maniglia e la abbassò, ma la porta era stata chiusa a
chiave.
Sollevò
le sopracciglia e disse: “Curioso: quella d’ingresso no e questa
sì.” Fece una risatina nervosa.
“Di
là ci dev’essere qualcosa di importante,” gli suggerì Campbell,
quindi arretrò di un passo e colpì sotto la maniglia con una
potente pedata. La porta scricchiolò ma rimase al suo posto. “È
bella solida,” constatò l’agente, “Normalmente le faccio
saltare al primo colpo.”
Ci
vollero altri due tentativi, poi l’anta si spalancò bruscamente,
andando a sbattere contro la parete con uno schiocco che fece
sussultare i due. Dall’interno della stanza, immerso in tenebre
picee, provenne l’odore greve che si respirava negli ossari.
Fermi
sulla soglia, i due agenti si scambiarono un’occhiata, poi MacLeod
andò a prendere la lanterna e guardò dentro. Si trattava di una
camera da letto femminile. Sulla sinistra c’era un armadio con
l’anta a specchio, sulla destra una pettiniera con il piano
disseminato di cosmetici. Accanto a essa era disposto un paravento
che pur coperto dalla polvere conservava il brillio di sete cinesi.
La parete centrale e opposta alla porta era occupata da un
monumentale letto a baldacchino con i cortinaggi tirati.
Il
pavimento era coperto di tappeti e disseminato di capi di vestiario e
oggetti.
MacLeod
in testa, i due entrarono cauti, facendo scorrere qua e là il fascio
di luce delle lanterne. Girarono intorno al letto, cercarono di
scrutare all’interno, ma pesanti strati di broccato rosso e oro lo
impedivano.
Alla
fine, Campbell sottovoce suggerì: “Bisogna guardare dentro.”
L’altro
annuì e tese la mano verso il bordo della tenda. Deglutì
irresoluto. Un po’ si vergognava a dirlo al collega, ma da quando
aveva messo piede in quella camera aveva cominciato a provare una
sensazione terribile: come la paura, ma più forte. Un terrore
ancestrale, che gli faceva tremare le gambe e battere il cuore come
se avesse voluto saltargli fuori dal petto. Percepì gocce di sudore
gelido corrergli lungo le tempie.
“Alistair?”
sussurrò Campbell in tono interrogativo.
L’altro
deglutì. “A posto,” gli assicurò, poi afferrò il lembo di
stoffa e lo tirò da una parte.
Subito
dopo, entrambi sussultarono e fecero un salto indietro. MacLeod quasi
si fece sfuggire di mano la lanterna.
Rimasero
qualche secondo a guardarsi, come per raccogliere un coraggio che
sembrava sul punto di abbandonarli, quindi si riavvicinarono adagio.
Nel
letto c’era un cadavere mummificato. Era sotto le coperte, con la
schiena appoggiata a due cuscini. Gli abiti e la pettinatura lo
identificavano come femminile. Il volto era brunastro, scavato. Gli
zigomi protrudevano come creste. I denti, di un inquietante candore,
sporgevano come quelli di una fiera. Luce fioca conferiva alle orbite
ormai vuote l’aspetto di buchi neri, dal fondo dei quali uno
sguardo carico di malevolenza sembrava seguire i due agenti.
Le
mani, lunghe, rinsecchite, con il bianco delle falangi che spuntava
qua e là nelle giunture, erano posate su una tavoletta di legno,
proprio sotto una fila di otto carte.
Gli
agenti le osservarono incuriositi: si trattava di arcani maggiori dei
tarocchi. Erano grandi circa il doppio di carte da gioco normali, e
sembravano fatte di pergamena. Sul dorso avevano un intricato disegno
nero e rosso nel quale brillava ancora qualche residuo di foglia
d’oro.
MacLeod
si chinò a osservarle meglio. Da una parte c’era un mazzo coperto.
Le otto carte erano in fila, e da sinistra a destra le prime cinque
erano scoperte e le ultime tre coperte.
L’agente
allungò cautamente una mano e raccolse la prima. Rappresentava un
carro visto di fronte, trainato da due cavalli. A bordo del veicolo
c’era un re con scettro e corona. “Il carro,” lesse.
La
posò e prese la seconda: una torre colpita da un fulmine, che
crollava facendo precipitare un uomo. “La torre.”
La
terza rappresentava una ruota alla quale erano avvinghiati degli
animali grotteschi. “La ruota.”
Nella
quarta c’era un uomo a testa in giù, sospeso per un piede.
“L’appeso.”
La
quinta rappresentava un uomo vestito come un giullare, ma con gli
abiti stracciati. Teneva un fagotto in spalla, aveva un bastone da
viaggio ed era seguito da un cane. “Il matto.”
A
questo punto, MacLeod alzò gli occhi sul collega. “Tutto questo
non ti suggerisce niente?” mormorò con voce incerta.
Campbell
annuì. “Il povero Hayes travolto da un carro, Pierce precipitato
nel crollo della torre, Banks stritolato sotto la ruota dentata,
Jackson impiccato a testa in giù, Adamson ucciso da un matto. Qui
bisogna immediatamente chiamare un prete.” Fece per muoversi, ma
l’altro lo trattenne. “Aspetta, vediamo quelle coperte.”
“No!
E se scoprendole li fai morire?” Deglutì. “Cioè… ci fai
morire?”
“Riflettici,
Charles: questa stanza era sigillata, chi avrebbe potuto girare le
carte? L’entità che sta agendo qui dentro non è qualcosa di
umano.”
“Già,
forse hai ragione.”
Mac
Leod prese la prima carta coperta e la girò. “Questa è strana,”
disse aggrottando le sopracciglia. C’erano due torri o colonne ai
lati di una spianata. In primo piano si vedeva un lago, sulla cui
sponda c’erano due cani, o due lupi. Nel cielo brillava una luna
che però sembrava un mezzo sole, perché era circondata da raggi
arancioni. “La luna.”
La
seconda era una donna in abiti eleganti, con un ampio cappello, che
spalancava le mascelle di un leone. “La forza,” lesse l’agente.
Si
scambiarono un’occhiata. “Prendi l’ultima,” suggerì
Campbell.
L’altro
la sollevò e la girò. Rappresentava una donna dall’aria
autorevole seduta su uno scanno, con una mitria papale in testa e un
libro aperto sulle ginocchia. “La papessa.”
Seguì
un lungo silenzio. MacLeod rimise la carta al suo posto e si fece
indietro, richiudendo i cortinaggi sul sinistro spettacolo. “Da
brividi,” commentò.
Fece
qualche passo nella stanza, quindi andò all’armadio e lo aprì:
dentro c’erano un abito nero, uno scialle frangiato, sempre nero,
un cappello con un’ampia veletta di tulle e un paio di scarpe. Ne
prese una e osservò la suola: era infangata. La toccò e si accorse
che era ancora umida.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Tarocchi 4
Ciao cari/e,
rieccoci
qui per la chiusura della faccenda.
Ringrazio
sentitamente tutti coloro che sono passati di qui, mi hanno letto o
addirittura mi hanno lasciato un parere!^^
Capitolo
4
Raccolta
lungo i marciapiedi, una piccola folla seguiva con attenzione quello
che stava succedendo intorno alla casa di O’Hanigan.
Il
movimento era iniziato al mattino presto: era arrivato un gruppetto
di poliziotti, che avevano cominciato a girare su e giù
davanti alla
tetra magione scambiandosi commenti. Nessuno era entrato.
Successivamente
erano arrivati due veicoli: un carro chiuso dell’obitorio e
una
carrozza di strada. Dalla seconda era sceso un reverendo con tanto di
paramenti e Sacra Bibbia, che appena messo piede a terra aveva tirato
fuori un fazzoletto inamidato e se l’era premuto su naso e
bocca
con aria disgustata, poi si era guardato intorno con l’aria
di chi
si rende conto di essere sceso dalla carrozza nel posto sbagliato e
non sa come tornarsene indietro.
Dalla
piccola folla un uomo, mani in tasca e cappello calcato in testa,
sprezzante osservò: “Sembra uno che deve farla e
non trova la
latrina.”
Al
suo fianco, un altro brontolò: “E tutte queste
aragoste crude[1],
qui in giro, che vogliono? Non è bene svegliare il cane che
dorme.”
“Già,
eravamo stati tranquilli per un bel po’, e
adesso...”
Sopraggiunse
un altro veicolo, che scaricò un’ulteriore piccola
frotta di
agenti. Gli spettatori rivolsero al gruppetto dei nuovi arrivati
sguardi poco amichevoli.
Un
poliziotto passò lungo la folla e ruvidamente disse:
“Non c’è
niente da vedere. Circolare.”
Fece
un gesto inequivocabile con lo sfollagente.
“Circolare,” ripeté.
Gli
astanti si dispersero. I più audaci si spostarono solo
più
indietro, chi ne aveva la possibilità si affacciò
alle finestre che
davano sulla scena. Gli altri tornarono scontenti alle rispettive
occupazioni.
L’agente
MacLeod spinse il cancello arrugginito, quindi si fece da parte e
disse: “Se volete seguirmi, sergente Kelsey, vi
farò vedere quello
che l’agente Campbell e io abbiamo scoperto.”
L’altro
annuì e si incamminarono lungo il vialetto. Quando furono a
una
certa distanza dai colleghi, disse: “Mi è venuto
il dubbio che tu
fossi ubriaco, quando mi hai raccontato quella storia,
ragazzo.”
“Nossignore,
ero perfettamente sobrio.”
“Intendo
dire: che tu e Campbell abbiate trovato un corpo nascosto in una
stanza ci può stare, in fondo non sarà il primo
crimine che rimane
impunito, ma il resto...”
“Ci
sono correlazioni molto chiare, signore, mi riesce difficile pensare
che siano semplicemente coincidenze. In ogni caso, se volete
seguirmi, vi mostrerò tutto.”
Entrarono
in casa, l’agente vide il sergente Kelsey rabbrividire quando
la
ben nota sensazione di freddo lo colse all’atto di mettere
piede
nell’ingresso. “È una dannata
ghiacciaia,” brontolò con fare
risentito. Abbassò gli occhi sul pavimento. “E
questi segni cosa
sono?”
“È
un pentacolo, signore.”
“Un
pentacolo? Cos'è, roba di magia?”
“Temo
di sì, signore. Abbiate la bontà di seguirmi,
prego.”
“E
quel ritratto?” Kelsey stava indicando la zingara davanti al
carrozzone.
“Credo
che si tratti di Catriona O’Hanigan.”
“Ma
perché ha tutti quei segni intorno?”
MacLeod
tolse il piede dal primo gradino della scala e raggiunse il
superiore. Fissò lo sguardo imperioso e spiritato della
donna. “Qui
ci sono cose che la logica non può spiegare,
signore,” gli disse
in tono tranquillo. “All’inizio ho provato
anch’io a trovare
una ragione scientifica per tutto questo, ma vi renderete conto anche
voi che non esiste. E ora, se volete seguirmi, vi faccio vedere cosa
c’è al piano superiore.”
Arrivarono
su, e subito MacLeod diresse il fascio di luce della lanterna verso
la porta che lui e Campbell avevano scoperto. “È
là, signore,”
disse.
Entrarono.
Il
corpo era ancora dove l’avevano lasciato, le carte nel
frattempo
non si erano mosse. MacLeod si chiese speranzoso se per caso non
fosse bastato l’intervento suo e di Campbell per vanificare
l’incantesimo, un po’ come succedeva quando da
ragazzino toccava
le uova di un nido, e poi chi le aveva deposte percepiva
l’odore
estraneo e non le covava più.
Kelsey
intanto stava osservando le spoglie mummificate con il distacco
dell’abitudine. “Non è la prima vecchia
stecchita che trovo,
ragazzo,” gli disse alla fine dell’ispezione,
“e non vedo il
motivo di fare tanto teatro. Ora chiama su il reverendo Smith e gli
inservienti dell’obitorio e sistemiamo le cose.”
MacLeod
lo fissò sbigottito. “Ma signore...”
mormorò.
“Che
c’è?”
“Ecco…
volete farla portare via e basta? Senza fare nient'altro?”
L’altro
sospirò. “MacLeod, tu sei un bravo ragazzo e
diventerai un agente
coscienzioso, ma devi imparare a non farti prendere
dall’emotività.
Alla vecchia sarà venuto un colpo mentre faceva le carte, e
suo
figlio l’avrà chiusa qui dentro per non pagare i
soldi del
becchino. Considerato che tipo era, non mi stupirebbe
affatto.”
Il
più giovane trasecolò. “Ma signore, e
quelle carte? Non vedete
che sono tutte collegate ai modi in cui gli agenti sono morti? Il
carro, la torre, la ruota...”
“Tu
sei troppo suggestionabile, ragazzo,” lo interruppe Kelsey.
Raccolse le carte, le unì al resto del mazzo e
appoggiò il tutto
sul comodino. “Ecco qui: i tarocchi cattivi non ci sono
più.
Adesso va', in Centrale mi aspettano cose importanti.”
“Ma
signore,” tentò ancora il giovane poliziotto,
“Tutti gli agenti
morti avevano partecipato alla stessa operazione.”
“A
quella e a mille altre. Ora su, da bravo.” Gli
indicò la porta con
fare significativo.
“Sissignore.”
MacLeod
uscì dalla stanza sentendosi un cretino. Aveva fatto muovere
mezzo
posto di Polizia per delle superstizioni da comari? A sentire Kelsey,
sembrava proprio di sì.
Eppure,
anche Campbell la pensava come lui, e non era mica una recluta. I
suoi quasi otto anni di servizio li aveva.
Poco
dopo, una piccola processione composta da lui, l'agente Campbell, il
reverendo e i due becchini che trasportavano una bara da poco prezzo
si mosse verso la casa.
Quando
furono dentro, i necrofori non guardarono né a destra
né a
sinistra. “Dov'è?” chiese soltanto il
più vecchio dei due.
“Al
piano di sopra,” rispose Campbell.
L’altro
si rivolse al proprio collega e severamente gli disse: “Che
non ti
venga in mente di inciampare come l'ultima volta.”
Alzò gli occhi
sui due agenti e soggiunse: “È caduto per le scale
e ha mollato la
bara. Vi lascio immaginare il resto. C'è da dire che era
ubriaco,
comunque.”
“Non
ero affatto ubriaco,” protestò il primo.
Senza
rispondere, l'altro batté un paio di volte la mano aperta
sulla
cassa e indicò le scale con un cenno della testa.
La
bara cominciò a procedere verso il piano superiore.
A
questo punto, l'agente Campbell si rivolse a Smith: “Dopo di
voi,
reverendo.”
Quando
arrivarono in camera, i due becchini avevano già deposto la
cassa a
lato del letto, e anche loro con la disinvoltura dell'abitudine,
stavano tirando vie le coperte. “Almeno non puzza,”
osservò uno
dei due.
“Già,
e neanche si disfa, visto che è rinsecchita.”
“Quelli
rinsecchiti sono i migliori.”
“Già.”
Per
sollevare il corpo, usarono il lenzuolo sul quale esso giaceva. Lo
deposero nella bara, poi il più giovane chiese:
“Che cosa facciamo
con questo?” Sollevò un lembo di stoffa.
L'altro
gettò un'occhiata significativa alle varie uniformi che
giravano su
e giù e scosse impercettibilmente la testa. Il lenzuolo
ricadde
nella bara.
A
questo punto si avvicinò Kelsey, che diede un'occhiata al
corpo
avviluppato nel percalle e disse: “Una benedizione e poi
chiudiamo,
reverendo.”
Smith
si fece avanti e prese a recitare: “Il Signore è
il mio pastore,
non manco di nulla...[2]”
Tutti
si scoprirono la testa e rimasero ad ascoltare le parole del
reverendo con espressione compunta.
Mentre
l'uomo parlava, MacLeod fece cenno a Campbell di spostarsi. Quando si
furono allontanati di qualche passo, sottovoce gli chiese:
“Adesso
dove la portano?”
“Immagino
al Tower Hamlets.”
“E
lì la seppelliranno?”
“Non
scavano con questo freddo, la metteranno da qualche parte
finché non
si riescono a fare le fosse.”
Si
spostarono in corridoio, e il più giovane chiese:
“Cosa pensi che
succederà?”
Campbell
si strinse nelle spalle. “Non lo so. Niente,
immagino.” Poi, dopo
una pausa: “O almeno lo spero.”
“Dici
che basterà una sepoltura cristiana per fermare la
maledizione?”
“Di
solito funziona così, no?”
Dalla
camera provennero i colpi del martello che inchiodava il coperchio
della cassa. Successivamente uscirono dapprima il sergente Kelsey e
il reverendo Smith, quindi i becchini che trasportavano la bara.
I
due agenti rimasero a guardarla in silenzio. MacLeod avrebbe voluto
avvisare il collega che sentiva ancora invariati sia il freddo
mortale che la sensazione di essere osservato, ma di fronte alla sua
espressione sollevata non ne ebbe il coraggio.
§
Era
mattino presto, e l'agente MacLeod era appena montato di servizio.
Era passata una settimana dagli ultimi eventi, e sembrava che la
signora in lutto non fosse più ricomparsa. Campbell
cominciava ad
avere un'espressione più distesa e Wyndham era leggermente
meno
intrattabile.
Il
poliziotto stava preparando il necessario per uscire di ronda quando
proprio Campbell lo raggiunse nella stanza riservata agli agenti. Era
di un pallore mortale, e aveva la faccia di chi ha appena visto un
fantasma.
Il
più giovane lo fissò stupito e gli chiese:
“Cosa c'è, Charles,
stai male?”
“Lynch
l'ha vista,” esalò lui per tutta risposta. Si
passò fra i capelli
una mano vagamente tremante.
MacLeod
non ebbe nemmeno bisogno di domandare chiarimenti.
“Quando?”
chiese soltanto.
“La
notte scorsa. È arrivata come al solito verso le due e
mezza.”
Il
più giovane deglutì, lo sogguardò
incerto. “Chi...?” osò
chiedere alla fine.
“Il
vecchio Fred.” Poi, notando l'espressione perplessa del
collega,
precisò: “Alfred Taggart, quello che ha cambiato
mestiere.”
“E
lui sta... bene?”
“È
quello che vorrei sapere,” fu la cupa risposta.
Si
scambiarono un'occhiata, poi MacLeod chiese: “Sta nel nostro
distretto?”
“No,
in quello di Rochester Row.”
“Magari
possiamo andare dopo il servizio a sentire se sanno qualcosa, che ne
dici?”
L'altro
emise un sospiro. “Sì, mi sembra l'unica cosa da
fare.”
Uscirono.
Nonostante la stagione, il tempo era sereno e non faceva nemmeno
particolarmente freddo. Ogni tanto si vedevano piccole ghirlande di
agrifoglio o nastri rossi attaccati alle finestre. “Tra un
po' è
Natale,” buttò lì MacLeod.
“Già.”
“A
me piace il Natale, e a te?”
Campbell
esitò un po' prima di rispondere. “Non
particolarmente.”
Il
più giovane lo fissò stupefatto.
“Perché?”
“È
triste, Ally. Mentre chi può si rimpinza di roast beef,
pudding di
prugne e salmone, qui c'è gente che non ha da mangiare
nemmeno una
crosta di pane, e invece di passare la sera a guardare un bel fuoco
che scoppietta nel camino, se ne starà rincantucciata in
qualche
angolo a tremare con addosso pochi stracci. Fai presto a perdere
l'innocenza, quando lavori in un posto come questo.”
L'altro
non rispose. Procedettero per un po', poi riprese il discorso:
“Ma
tu... stai coi tuoi per Natale...” Esitò qualche
secondo, poi con
tono incerto, quasi temendo di venire redarguito per la
libertà che
stava per prendersi, soggiunse: “...Charlie?”
“Penso
che mi farò mettere di servizio.”
“Perché?”
“La
mia famiglia sta troppo lontano.”
Il
più giovane lo fissò con espressione triste.
“Mi spiace.”
L'altro
alzò le spalle. “Ci ho fatto
l'abitudine.”
“Ma
senti... e se vieni da noi per Natale? I miei sarebbero contentissimi
di conoscerti, gli parlo sempre di te.”
L'altro
serrò le labbra mentre la sua espressione si induriva.
“Non credo
sia il caso.”
“Per
favore, Charlie.”
“Ho
già promesso a Kelsey che faccio il giorno di
Natale.”
MacLeod
sospirò avvilito, ma non ebbe il coraggio di ribattere.
Aveva notato
che il collega era teso, e non voleva infastidirlo con un'eccessiva
insistenza.
Mentre
immerso in quei pensieri procedeva al suo fianco lungo il giro di
ronda, si avvicinò un ragazzino con un fascio di giornali
sul
braccio. Tolse da esso una copia, la porse agli agenti e disse:
“Daily Telegraph, signori?”
Il
giovane stava per rifiutare quando si accorse che sulla prima pagina
c'era una fotografia che rappresentava uno spiazzo con due torri ai
lati e uno specchio d'acqua in primo piano.
Trasse
di tasca qualche moneta e la allungò al ragazzino, quindi
prese il
quotidiano e lo osservò. La didascalia dell'immagine
recitava:
Rotten Row, il luogo
in cui si è consumata la tragedia.
Fece
scorrere lo sguardo sulla pagina. Il titolo dell'articolo era: Muore
sbranato dai cani randagi.
Si
voltò: Campbell era sbiancato. “È lui,
vero?” disse con voce
atona.
MacLeod
scorse rapidamente il testo. Sembrava che la vittima fosse rientrata
tardi dal pub. Una volta raggiunta la zona di Rotten Row, isolata e
piena di vegetazione, sarebbe stata assalita e sbranata da una muta
di cani. Dappertutto erano state trovate tracce delle bestie, sebbene
i motivi della letale aggressione rimanessero ignoti. Il corpo,
orribilmente sfigurato, era stato identificato solo grazie a un
tatuaggio che risaliva al periodo trascorso sotto le armi.
“Alfred
Taggart,” confermò MacLeod alla fine.
“I
cani, come nella carta,” mormorò Campbell.
“Sbranato dai cani.”
Si appoggiò con la spalla al palo di un lampione.
“Stai
bene, Charlie?” chiese il più giovane.
“Tu
che ne dici?” fu la ruvida risposta.
“Beh,
no. Ovvio che no. Ma senti, ci dev’essere un modo per fermare
questa cosa.”
“E
se non ci fosse?”
“Ci
deve essere,”
L’altro
gli rivolse un pallido sorriso. “Dimenticavo che hai la testa
più
dura della mia.”
“In
certi casi è utile, come vedi.”
Ripresero
a camminare affiancati. Il sole nel frattempo stava cominciando a
coprirsi, l’aria si era fatta fredda e prometteva altra neve.
Passò
una vecchia scarmigliata, con tre cappotti uno sopra l’altro,
che
spingeva una carrozzina malandata con dentro i suoi pochi averi. Si
allontanò borbottando qualcosa di incomprensibile.
“Andiamo
dall’armeno,” disse MacLeod dopo un lungo silenzio.
“Da
chi?”
“Il
libraio. Quello che mi ha detto delle carte. Magari sa darci qualche
informazione utile.”
Campbell
lo fissò, sul volto un’espressione a
metà fra diffidenza e
ottimismo. “Tu credi?”
“Tentare
non costa nulla. È poco lontano dalla nostra zona, possiamo
andarci
anche subito.”
Sembrava
che Kasparian li stesse aspettando. Uscì dal negozio
sorridendo ed
esclamò: “Bentornato, agente MacLeod!”
Poi scrutò l’altro
poliziotto e disse: “Temo di non conoscere il vostro
collega.”
“Lui
è l’agente Charles Campbell.”
“Molto
piacere,” disse il libraio, tendendo la mano.
“Petros Kasparian.
Ma entrate, non restate qui sulla porta.”
Li
condusse all’interno, e come già aveva fatto
quando MacLeod si era
presentato da solo, li invitò a sedere tra malferme pile di
libri.
Offrì loro vino di melagrana.
Campbell
tentò di rifiutare, ma il collega gli fece cenno di non
offendere
l’ospitalità armena.
“Ebbene,
agenti, cosa posso fare per voi?” chiese il libraio, una
volta che
si furono tutti accomodati.
“Ricordate
le carte?” gli chiese MacLeod, “I tarocchi della
Papessa Nera?”
“Certo
che li ricordo. So che c’è stato un po’
di movimento ultimamente
intorno alla casa.”
“Sì,
è stata condotta un’operazione di Polizia
all’interno.”
Il
libraio sogguardò alternativamente i due agenti e chiese:
“C’eravate
anche voi?”
MacLeod
annuì grave.
“E
i tarocchi? Li avete visti?”
“È
proprio di quelli che vorrei parlarvi, signor Kasparian,”
rispose
il giovane poliziotto, “Io temo che siano veramente quelli di
Satana. Oppure sono maledetti.”
L’uomo
lo fissò stupefatto. “State scherzando,
spero.”
“Vorrei
potervi dire di sì, signore, ma quando vi
racconterò quello che è
successo, temo che anche voi mi darete ragione.”
L’altro
scosse la testa. “No, agente, la Scienza è in
grado di spiegare
tutto.”
“Non
quello che sto per narrarvi, signore.”
Alla
fine della storia, Kasparian era comprensibilmente senza parole.
Prese la bottiglia di vino di melagrana e si riempì il
bicchiere
fino all’orlo, quindi fece lo stesso con quelli dei due
agenti, che
nel frattempo si erano vuotati esattamente come il suo. Sebbene
fossero in servizio, i poliziotti non obiettarono.
“Che
cosa ne pensate, signore?” volle sapere MacLeod. Bevve un
cauto
sorso.
L’uomo
aggrottò le sopracciglia e borbottò qualcosa
nella sua lingua,
quindi si alzò e imboccò uno stretto corridoio
ricavato fra due
pareti di libri. Campbell fissò il collega, poi
sollevò il mento
nella direzione in cui era sparito Kasparian e si picchiettò
una
tempia con la punta dell’indice. L’altro scosse la
testa e gli
fece segno di abbassare la mano.
Si
sentiva il rumore di antichi tomi sfogliati e spostati.
“Eccolo
qui,” disse alla fine il libraio. “Eccolo, proprio
quello che
cercavo.”
Si
udirono i passi di ritorno, poi il volto barbuto del vecchio
spuntò
dalla penombra. “Eccolo qui,” ripeté.
Aveva in mano un libro
grande e rilegato in pelle, che dava l’idea di essere molto
antico.
Lo aprì: le pagine erano spesse e coperte di scrittura e
disegni. In
alcuni punti erano strappate o macchiate.
I
due agenti si scambiarono un'occhiata, poi Campbell chiese:
“Che
cos'è?”
“Il
titolo non vi direbbe niente, è un trattato di magia del
diciassettesimo secolo, verosimilmente proveniente dall'Europa
centrale. Per quanto, ribadisco, io sia devoto alla Scienza,
riconosco che ci sono in cielo e in terra anche fenomeni che la
Scienza non può, o forse non può ancora,
spiegare. Qui si parla di
argomenti che potrebbero fare al caso vostro.”
“Ovvero?”
“Oggetti
in grado di incanalare o serbare potere magico, come sembrerebbe il
caso di quel famoso mazzo di tarocchi.”
I
due poliziotti si chinarono sul libro, ma i caratteri parvero loro
del tutto incomprensibili. Si scambiarono un'occhiata e
simultaneamente alzarono sul libraio uno sguardo che esprimeva una
muta domanda.
“È
ebraico,” chiarì Kasparian, “scritto con
la grafia di due secoli
fa. È abbastanza normale che non ci capiate
niente.”
“Cosa
dice?” chiese Campbell.
Il
libraio emise un sospiro e rispose: “Qui c'è
scritto che è
necessario compiere un rituale sull'oggetto. Una volta effettuato
quello, viene eliminato il tramite della persona con il nostro piano
di esistenza.”
“Il
nostro... che?”
“Lascia
perdere,” si intromise MacLeod, “l'importante
è che adesso
sappiamo come liberarci di quella maledetta strega.” Poi,
rivolto
Kasparian: “Vi siamo molto obbligati, signore. Quindi adesso
cosa
dobbiamo fare?”
“Dovete
procurarvi quei tarocchi.”
“Sì,
ma chi sa fare... il rituale? Che rituale, poi?”
“Quando
la Papessa Nera sparì, la gente del quartiere
chiamò una cosiddetta
maga bianca a sigillare
la casa, qualunque cosa significhi. Dovrebbe essere la persona
adatta.”
“Voi
sapete dove trovarla?”
“La
chiamerò per voi.”
MacLeod
si rialzò in piedi, imitato subito dopo dal collega.
“D'accordo,
signor Kasparian,” disse, “torneremo il prima
possibile con
quelle carte. Per il momento grazie, siete stato molto
gentile.”
“E
grazie anche per il vino,” soggiunse Campbell, “ne
avevo
bisogno.”
§
“E
adesso?” chiese Campbell, allontanandosi a grandi passi dal
negozio
di Petros Kasparian. Teneva le mani allacciate dietro la schiena e lo
sguardo incupito rivolto al marciapiede.
“Beh,
adesso andiamo a prendere quelle maledette carte e le portiamo
all'armeno.”
“E
stiamo a controllare che faccia quel che deve fare. L'hai visto anche
tu quando ne parlava: gli brillavano gli occhi.”
“Cosa
vorresti dire?”
“Che
secondo me non gliene frega niente se un paio di aragoste crude in
più o in meno ci lasciano la pelle, per lui è
importante mettere le
mani su quei dannati tarocchi.” Fece una pausa, poi
soggiunse:
“Quindi Ally, se permetti, io starò a guardare
cosa fa e mi
accerterò che sia veramente la cosa giusta. Altrimenti,
quant'è
vero Dio, prima di crepare glieli brucio assieme a tutto il suo
negozio di carta straccia.”
“Ma
se li bruci, forse non si potrà più sciogliere la
maledizione?”
“Scherzi?
Da che mondo è mondo, queste cose sono sempre state
combattute col
fuoco. Hai presente che fine facevano le streghe?”
“In
effetti...”
“Ecco
perché la faccenda del rituale mi sa di fregatura. Avremmo
dovuto
dare fuoco a quella maledetta casa, invece di chiamare Kelsey.
Comunque, intanto mettiamo le mani su quei dannati tarocchi, poi
vedremo.”
Continuarono
a camminare per un po'. Nel frattempo aveva cominciato a nevicare, e
radi fiocchi fluttuavano lenti verso terra. MacLeod si voltò
verso
il collega e timidamente gli chiese: “Senti... per Natale,
allora?”
“Cosa?”
replicò l'altro senza voltarsi.
“Voglio
dire...” si morse un labbro con fare indeciso. “Ti
va di venire
da noi?”
“Sono
di servizio. Posto che sia ancora vivo, naturalmente.”
“Ma
che stai dicendo?”
“Rimaniamo
solo io e Wyndham. Considerato che oggi è il venti, e che da
qualche
giorno la vecchia non si presenta, direi che tra un po'
toccherà o a
me o a lui.”
L'altro
si trovò involontariamente a deglutire. “Troveremo
un modo,”
disse, quasi più per rassicurare se stesso che il collega.
Raggiunsero
la casa di O'Hanigan. Il cancelletto semiaperto sembrava quasi
invitare la gente all'interno, ma la neve caduta negli ultimi giorni,
perfettamente intatta, faceva capire che gli abitanti del quartiere
si erano mantenuti a rispettosa distanza dalla magione.
MacLeod
in testa, i due percorsero il vialetto e raggiunsero la porta
d'ingresso, che come al solito cedette dolcemente quando venne
abbassata la maniglia.
Fuori
era già freddo, ma l'interno parve a entrambi una
ghiacciaia.
Addirittura il fiato si condensava in nuvole bianche, e sulle
superfici metalliche si stendeva un sottilissimo velo di brina.
“Ci
vorrebbe una candela,” disse Campbell rabbrividendo.
“Non si vede
niente.”
MacLeod
si guardò intorno e ritrovò il mozzicone che
aveva lasciato giorni
prima sul tavolo. “Eccola qui.”
La
accesero, e alla sua luce tremolante notarono che era successo
qualcosa al ritratto della Papessa Nera: sembrava che qualcuno avesse
malamente cancellato con una spugna bagnata tutti i segni che erano
stati tracciati intorno alla cornice. Righe di colore rosso colavano
giù come sangue imbrattando il vetro. “Chi
accidenti ha fatto una
cosa del genere?” disse Campbell, “Non è
entrato nessuno a parte
noi.”
L’altro
aggrottò le sopracciglia, la sensazione di non essere soli
nella
stanza era più intensa che mai. “Muoviamoci,
Charlie,” disse
soltanto, reprimendo un brivido di freddo.
Salirono
rapidi su per le scale. Tutto appariva esattamente come
l’avevano
lasciato, l’armadio era ancora dove lo avevano trascinato
giorni
prima, il suo contenuto anche. La porta della camera da letto era una
voragine oscura che sembrava inghiottire ogni luce.
Di
nuovo, quando si avvicinarono la fiamma si affievolì fin
quasi a
diventare una brace di sigaro. Sebbene l’aria fosse immobile,
MacLeod vi mise intorno la mano a coppa. La candela pian piano
riprese un po’ di vigore.
“Prendiamo
quelle dannate carte e andiamocene,” ringhiò
Campbell, “Questo
posto mi dà i brividi.”
“Sono
sul comodino.”
Entrarono
nella camera, e pur alla scarsa luce si accorsero che le carte erano
sparite.
“Qualcuno
le ha prese,” disse MacLeod.
“Qualcuno,
chi? Hai visto anche tu che non c’erano tracce intorno alla
casa.”
“Allora
è stato qualcuno di quelli che sono entrati qui quando
l’abbiamo
portata via.”
“Controlla
meglio.”
MacLeod
guardò dappertutto, spostò le coperte, si
chinò addirittura a
scrutare sotto il letto, ma delle carte, e della tavoletta sulla
quale esse erano state disposte, non c’era alcuna traccia.
I
due agenti si scambiarono uno sguardo preoccupato. “E
adesso?”
chiese Campbell. Aveva l’espressione del naufrago che vede
l’ultima
scialuppa allontanarsi.
“Non
possono essersi volatilizzate,” disse il più
giovane. Poi, in tono
conciliante, aggiunse: “Ragioniamo: nella casa sono entrati
solo il
reverendo, i nostri colleghi e i due tizi del cimitero.
Basterà
chiedere a costoro, vedrai che a un certo punto salteranno
fuori.”
“Dio
benedica gli ingenui,” sospirò l’altro,
“E pensi che chi le ha
prese te lo venga a dire come se niente fosse?”
“Perché?”
“Gesù,
Ally, perché prendere cose in casa di un morto significa rubare,
e nessuno confessa a un poliziotto di aver rubato.”
“Non
ci avevo pensato,” borbottò MacLeod con
espressione contrita.
“Scusami, Charlie.”
Seguì
qualche secondo di silenzio, infine Campbell disse: “Scusami
tu, è
che questa faccenda mi rende un po’ nervoso.”
§
L’agente
Wyndham si sedette accanto alla stufa e mise i piedi
sull’angolo
della scrivania. Lanciò un’occhiata fuori dalla
finestra: alla
luce dei lampioni, non si vedeva altro che il turbinare furioso della
neve. “È un maledetto schifo,”
brontolò.
Si
stropicciò le mani al calore, poi disse: “Quasi mi
dispiace per i
giovani. Pensa, Dobbins, essere di ronda con questo tempaccio. Ma noi
ai nostri tempi l’abbiamo fatto, e ora tocca a loro.
Giusto?”
Poi, senza attendere risposta: “Ehi, che ne dici di tirare
fuori
quella tua fiaschetta?”
L’interpellato,
che stava sistemando dei rapporti in uno schedario, si voltò
verso
di lui e come al solito rispose: “Ma James, lo sai che non si
può
bere in servizio. E se ci beccano?”
“Lo
voglio proprio vedere, Kelsey che fa un’ispezione alle due di
notte. Cos’hai portato stasera, dello scotch?”
“Sì.”
“Allora
dà qua.” Tese la mano con una certa
imperiosità. Dopo una breve
esitazione, l’altro vi depose il contenitore di metallo e si
diresse verso la porta. “Vado a vedere come procedono le cose
di
là,” annunciò.
“Sì,
vai, così ne resta di più per me.”
L’altro
si spostò nella stanza attigua, quella alla quale avevano
accesso i
cittadini. Anche lì c’era una piccola stufa in un
angolo, e un
paio di scrivanie, alle quali sedevano Woods e Northwood.
“Come
va?” chiese il secondo.
Dobbins
alzò le spalle. “Ne approfittavo per mettere via
delle scartoffie.
Voi?”
“Almeno
con questa neve non c’è nessuno in giro.
È una notte calma.”
“Vuoi
il cambio?”
“Vorrei
un giro dalla tua fiaschetta, se non se la scola tutta Jim.”
Dobbins
alzò le spalle. “Ah, lascialo perdere. Almeno se
beve non viene di
qua a rognare.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Del
resto, posso
capirlo: ormai non ne mancano più molti.”
Northwood
annuì. “Lui e il Jock[3], giusto?”
“Sì,
anche se il Jock era un moccioso, all’epoca.”
“Però
mi dicono che non si è tirato indietro, quando gli hanno
chiesto di
fare la sua parte.”
“Non
vuol dire niente, poveraccio. I mocciosi fanno sempre quello che
dicono i vecchi, lo sai. Ti ricordi quando il povero Jackson
ordinò
al quel ragazzo di buttarsi nel Tamigi per cercare le tracce del
tizio che era scappato a nuoto?”
“Diavolo,
sì. Che risate.” Si appoggiò
all’indietro contro lo schienale e
soggiunse: “Lo tirarono su bagnato come un pulcino.”
L’altro
annuì. “Io mi ricordo ancora Jackson che
sbraitava: e
me lo dici adesso che non sai nuotare, razza di idiota?”
I
due ridacchiarono un po’ al ricordo dell’episodio.
Nel frattempo
li raggiunse Woods con la teiera fumante in mano. “Ne
volete?”
chiese.
“Un
sorso di tè non si rifiuta mai,” rispose Dobbins,
poi rabbrividì
e disse: “Cos’è questo freddo,
all’improvviso?”
“Sembra
di essere in una ghiacciaia,” confermò Northwood.
Si alzò e si
diresse verso la stufa nell’angolo. “Ora controllo
se questo
dannato ferrovecchio sta funzionando a dovere.”
Mentre
Northwood era così impegnato e Woods stava versando il
tè, Dobbins
vide la porta che dava sull’esterno schiudersi lentamente. In
un
silenzio mortale, da essa entrò una vecchia signora in lutto
strettissimo, con uno scialle frangiato e un ampio cappello con la
veletta. Nonostante fuori nevicasse forte, non un fiocco turbava il
nero integrale della sua tenuta. Si avvicinò a passettini,
emettendo di tanto in tanto un sinistro scrocchiare, come di giunture
ferme da molto tempo.
Quando
fu a pochi passi dalla scrivania, disse: “Buona sera. Sto
cercando
l’agente James Wyndham, per favore.”
Dobbins
deglutì come se stesse mandando giù un dado da
due pollici. “Che…
che cosa?” riuscì appena a balbettare. Gli altri
due agenti,
rispettivamente accanto alla stufa e presso lo stipo delle tazze,
erano diventati statue di sale.
“James
Wyndham,” scandì la misteriosa signora. La voce si
sovrappose ai
tre colpi del campanile.
In
quel momento si spalancò la porta che dava sulla stanza
degli
agenti. Nel riquadro c’era proprio l’agente
Wyndham, con lo
sfollagente in mano e lo sguardo spiritato. “Specie di lurida
baldracca!” sbraitò.
Tutti
si girarono stupefatti nella sua direzione.
“Vuoi
ammazzarmi, eh? Ma ti ammazzo prima io!” Il poliziotto stava
per
aggiungere altro, ma il rumore della porta che si richiudeva gli
impedì di continuare.
Wyndham
balzò in avanti, ghermì il pastrano e lo
indossò mentre si
precipitava fuori.
Sparì
nella notte.
Il
primo a riprendersi fu Dobbins. “Bisogna andargli
dietro,” disse
in tono concitato, “è fuori di sé e
mezzo ubriaco. Poi sapete
anche voi come va a finire.”
“Già,”
brontolò Northwood. “Si caccia sicuramente nei
guai.” Raccolse
il pastrano e lo indossò, quindi accese una lanterna.
“Dobs, vieni
anche tu?” chiese.
“Arrivo.”
I
due agenti uscirono. Fuori nevicava forte e c’era un gran
silenzio.
I rumori erano attutiti e la visibilità ridotta al minimo.
L’unica
testimonianza del passaggio di Wyndham era una fila di impronte che
si sovrapponeva a quelle della vecchia e si perdeva con esse nel buio
.
Dobbins
vi avvicinò la lanterna, quindi disse:
“Recuperiamo Jim, prima che
ne combini una delle sue.”
Procedettero
veloci per un po’, seguendo le impronte del collega, poi
cominciarono a sentire un frenetico galoppo di cavalli, accompagnato
da sferragliare di ruote e nitriti.
A
un certo punto dovettero farsi bruscamente da parte per evitare di
essere travolti. Quello che passò era un carro chiuso,
trainato da
due cavalli imbizzarriti con gli occhi spiritati e la schiuma alla
bocca. A cassetta non c’era nessuno.
Il
carro si trascinava dietro una lunga e pesante catena con un gancio
alla fine, che tintinnava rimbalzando sul selciato.
Subito
dopo videro una figura che correva più avanti.
“Eccolo!”
esclamò Dobbins.
Il
carro curvò bruscamente, la catena si tese sotto l'effetto
della
forza centrifuga, si allungò e il gancio
intercettò Wyndham. Fin da
quella distanza, gli altri due agenti sentirono un rumore come di
rami spezzati, poi il collega venne sollevato, si torse in aria e
ricadde in uno spruzzo di neve rossa. Fu trascinato per un
po’, poi
arrivò contro un ostacolo. Si udì un suono
lacerante e il carro
proseguì da solo. I due videro che attaccata al gancio,
saltellante
dietro il veicolo che si allontanava, era rimasta una cosa rossastra,
che a ogni rimbalzo lasciava impronte sanguigne sulla neve fresca.
§
Campbell
aggrottò le sopracciglia e disse: “E tu che ci fai
qui?”
MacLeod
si strinse nelle spalle. “Visto che sei di servizio, ho
pensato di
venire a farti compagnia: ho chiesto un cambio a Gardner.”
“Ma
è Natale.”
“E
allora buon Natale, Charlie.” Mise sulla scrivania un involto
che
fino a quel momento aveva tenuto con ogni cura fra le braccia.
“Questi sono dolci delle nostre parti, li ha fatti mia madre.
Ha
detto che così ti sentirai a casa anche tu.”
“Non
dovevi.”
“Scherzi?
Mi fa piacere.” Aprì il pacchetto, rivelando
biscotti e pasticcini
di varie fogge, poi a voce alta disse: “Ragazzi, venite anche
voi a
mangiare qualche dolce?”
Woods
si avvicinò dubbioso. “Non sarà mica la
vostra robaccia da
montanari, vero?” chiese, scrutando il contenuto
dell’incarto.
Annusò odori misti di cioccolato, cannella e vaniglia.
“Uhm, che
profumino, però. Ne assaggio uno.”
Sparì
il primo biscotto.
A
quel punto Lynch lo raggiunse. Gli diede una scherzosa gomitata e gli
disse: “Fatti in là, se non sai apprezzare la
buona pasticceria.”
Poi, rivolto a MacLeod: “Bravo ragazzo. Forse non sei poi
così
male, per essere una recluta.”
Il
più giovane sorrise. Gli piacevano quei momenti: vi coglieva
spirito
di corpo e cameratismo. C’era quella speciale vicinanza che
derivava dal condividere tutti i giorni la stessa missione e gli
stessi pericoli.
“Prendete
e mangiatene tutti,” disse con una risata, accompagnando le
parole
con un gesto benedicente, poi aprì il pacco in modo che si
vedesse
meglio il suo contenuto.
Dopo
un po’ si voltò verso Campbell, che era
l’unico che non aveva
ancora preso nulla. Stava per dirgli qualcosa, ma l’altro si
allontanò di qualche passo e rimase a fissare fuori dalla
finestra
dandogli le spalle.
MacLeod
gli rivolse un’occhiata, ma prima che potesse decidere di
fare
qualsiasi cosa, la voce di Woods lo richiamò alla
realtà: “Ci
vorrebbe un po’ di tè, ragazzo, se no questa tua
roba delle
Highlands fa fatica a scendere.” Con fare significativo, si
batté
il pugno all’altezza dello sterno, come a mostrare dove si
verificasse l’ostruzione del canale.
“Arriva,”
disse il più giovane.
Preparò
l’infuso e lo portò ai colleghi, che
l’accolsero con gioia. “Ci
vorrebbe solo la fiaschetta di Dobs e poi sarebbe il
paradiso,”
sospirò Lynch.
Woods,
che stava per addentare uno shortbread, abbassò il dolcetto
e
assunse un’espressione triste. “Quando parli della
fiaschetta di
Sam mi viene sempre in mente il povero James.”
“Già,
poveretto. Una fine veramente schifosa.”
MacLeod non disse nulla. Non
aveva visto il corpo di James Wyndham, ma aveva sentito i racconti
degli inorriditi colleghi: il gancio che pendeva dal carro gli si era
piantato sotto il mento per effetto della forza centrifuga, gli aveva
rotto il collo, l’aveva trascinato e alla fine gli aveva
strappato
via la mandibola. La cosa lo aveva colpito per due motivi: il primo
era senz’altro l’orrore di quella fine spaventosa,
ma il secondo
era ancora una volta l’attinenza con l’arcano dei
tarocchi.
La
Forza rappresentava una donna che spacca le mascelle a un leone, e
Wyndham era morto con le mascelle spaccate.
Lanciò
un’occhiata a Campbell, che nel frattempo aveva abbandonato
la
posizione accanto alla finestra per sedere alla scrivania
dall’altra
parte della stanza. Aveva davanti un registro aperto, ma invece di
compilarlo si limitava a tamburellare nervosamente con la penna sulla
pagina bianca.
Lo
vide passarsi l’altra mano fra i capelli, stringendo come se
avesse
voluto strapparseli via.
Versò
due tazze di tè e lo raggiunse.
“È
appena fatto, Charlie,” disse, spingendone una verso di lui.
“Grazie,”
rispose l’altro senza guardarlo.
“Ti
spiace se mi siedo?”
Campbell
si limitò ad alzare le spalle.
MacLeod
prese una sedia e si accomodò. “Che stai
facendo?”
“Niente.”
“Vuoi
che ti porti un paio di shortbread per quel tè?”
L’altro
emise un sospiro. “Ally, per favore...”
Il
più giovane assunse un’espressione costernata.
“Vuoi che me ne
vada?”
“Sì,
per favore. Scusa, ma non sarei molto di compagnia.”
MacLeod
aprì la bocca per replicare, poi ci ripensò,
raccolse la sua tazza
e tornò dagli altri.
§
La
giornata era stata singolarmente tranquilla. Poche persone avevano
turbato la quiete del posto di Polizia, e gli agenti in servizio si
erano limitati a mangiare i dolci, bere tè e fare di tanto
in tanto
qualche giro di ronda nei dintorni.
Il
cielo era coperto, per cui non si vedeva il movimento del sole, ma la
luce stava comunque scemando verso un cupo crepuscolo.
MacLeod
ripercorse per l’ennesima volta tutto ciò che
sapeva sulla
faccenda dei tarocchi.
Per
prima cosa, c’era un collegamento tra le carte estratte e gli
agenti morti, questo era indubitabile. Il modo in cui essi morivano
aveva a che fare con l’immagine delle carte, e sembrava che
il
decesso sopraggiungesse una volta scoperta la carta.
Il
che implicava, visto che gli agenti continuavano a morire, che ci
fosse qualche posto in cui le carte continuavano a venir scoperte una
dopo l’altra.
Si
prese la radice nel naso fra pollice e indice, chiuse gli occhi come
per concentrarsi meglio. Dove potevano essere le carte?
Ciò
che gli venne in mente andava contro ogni logica, ma in effetti in
quella faccenda di logico non c’era molto.
“Vale
la pena di fare un tentativo,” disse a mezza voce alzandosi
in
piedi. Poi, più forte: “Sapete se il Tower Hamlets
è aperto?”
“Oggi
è Natale,” gli rispose Lynch,
“Però se bussi alla porta del
guardiano, puoi farti dare le chiavi. È la
comodità di avere
addosso un’uniforme.”
“Bene,
faccio un salto prima che venga buio.”
“A
fare che?”
“Devo
assolutamente controllare una cosa. Vado e torno.”
Si
infilò il pastrano, raccolse la lanterna e uscì.
Prese
a percorrere a passo svelto le strade innevate. La luce stava calando
rapidamente, e in giro non si vedeva nessuno. Fiochi lampioni
emettevano coni di luce giallastra, che per contrasto rendevano
ancora più oscuro quanto si trovava intorno.
Non
si fece intimidire: man mano che procedeva verso il cimitero,
l’idea
che gli era balenata in mente, e che all’inizio gli era parsa
assurda, si stava facendo sempre più plausibile.
Poco
dopo si stagliò in fondo alla strada, sinistro nella luce
calante,
l’ingresso neogotico del Tower Hamlets, una sorta di frontone
di
cattedrale con guglie e statue dolenti. Il cancello di ferro era
serrato, ma dall’edificio del custode filtrava una debole
luce.
Il
giovane poliziotto si avvicinò alla porta: da dentro
provenivano un
lieve cicaleccio di conversazioni, risa di bambini e gli accordi di
un pianoforte malamente strimpellato.
Bussò
alla porta: i rumori si interruppero, ma non successe altro.
Bussò
più forte.
Passò
un tempo imprecisato. MacLeod stava per bussare ancora, quando da
dentro si udirono un passo strascicato e una voce maschile che
diceva: “Lascia in pace tuo marito almeno il giorno di
Natale,
Edith!”
“Polizia,
signore. Aprite la porta!” ordinò
l’altro per tutta risposta.
“La
Polizia?”
“Sì,
signore. Abbiate la bontà di aprire.”
Seguì
ancora qualche secondo di silenzio, poi il chiavistello
scattò e
l’uscio si schiuse. Nella fessura comparve un volto rubizzo e
adorno di due rispettabili favoriti. Da dietro l’uomo
provenne una
voce femminile: “Chi è, Archibald?”
“È
veramente la Polizia, cara.” Poi, rivolto a MacLeod:
“Scusate per
prima, signore. Pensavo fosse di nuovo la vedova Brewster. Non manca
un giorno, sapete.” Poi, dopo una pausa: “Che cosa
posso fare per
voi?”
“Sono
l’agente Alistair MacLeod,” si presentò
innanzitutto il
poliziotto, poi chiese: “Dove tenete i corpi in attesa di
sepoltura?”
L’altro
trasecolò. “Eh?”
“Un
paio di settimane fa dovrebbero aver portato qui il corpo di una
donna trovato all’interno di una casa chiusa da molti anni.
Catriona O’Hanigan.”
Il
custode annuì. “Ah, quella,” disse.
“Ma certo, agente. Non
l’abbiamo ancora seppellita, è ovvio. Come si fa a
scavare una
tomba con questo freddo? La terra è dura come la pietra,
sapete? E
allora li teniamo nella cripta fino al disgelo. A parte quelli delle
tombe ricche, naturalmente. In quel caso non si può certo
rimandare
il funerale, dico bene?”
“Posso
vedere questa cripta?”
Il
custode si guardò alle spalle e assunse
un’espressione afflitta:
non aveva chiaramente la minima voglia di indossare pastrano e
stivali e uscire per accompagnare un poliziotto in una ghiacciaia
piena di morti. “Non potreste tornare domani?”
propose
speranzoso.
L’altro
fu inamovibile. “No, non posso.”
L’afflizione
del custode si fece più profonda. Dai recessi della casa, la
voce
femminile di prima ripeté: “Ma chi è,
Archibald?” Il tono aveva
una punta di stizza.
“Ti
ho detto che è la Polizia, cara.”
“La
Polizia? Ma è Natale!”
“Facciamo
una cosa,” propose MacLeod, “Datemi la chiave e
spiegatemi dove
trovo la cripta. Io vado, controllo quello che mi serve e poi ve la
riporto. Può andare bene?”
Preso
tra i due fuochi dell’atmosfera familiare e del dovere
civico, il
custode non ebbe che una breve esitazione, poi si staccò
dalla
cintura un mazzo di chiavi e lo tese a Macleod. “Quella lunga
apre
il cancello. Abbiate la bontà di richiuderlo dopo che siete
passato,
se no poi mi trovo chiunque a fare i suoi comodi in mezzo alle tombe.
Quella di fianco apre la cripta, che è alla fine del viale
principale sulla destra, non potete sbagliare. Mettete le chiavi
nella cassetta della posta quando avete finito. E ora, scusatemi ma
devo proprio rientrare.”
Lo
piantò lì su due piedi.
MacLeod
andò al cancello di ferro. Dovette armeggiare parecchio,
prima di
riuscire a far scattare a serratura, quindi per non perdere tempo a
richiuderlo. Lo lasciò solo accostato, più che
altro nel timore di
rimanere poi chiuso dentro.
Facendosi
precedere dal fascio di luce della lanterna, percorse il viale
principale, che appariva come un’inviolata distesa bianca,
lievemente scintillante nei punti dove si era formato più
ghiaccio.
Ai lati si intravedevano monumenti funebri coperti di neve e lapidi
variamente corrose dal tempo. Mausolei si levavano oscuri tra gli
alberi, alcuni con la porta socchiusa in un sinistro invito.
Il
silenzio era tale che all’agente sembrava di riuscire a
sentire il
battito accelerato del proprio cuore.
Finalmente
giunse a uno spiazzo intorno al quale erano disposti alcuni edifici:
vi erano sulla sinistra una chiesa neogotica, di fronte una specie di
grande mausoleo in stile vagamente egizio, con tanto di sfingi
addormentate ai due lati della porta, e finalmente sulla destra un
terzo edificio, dall’aspetto molto più funzionale
e chiuso da una
porta di ferro.
L’agente
si avvicinò, estrasse il mazzo di chiavi, scelse quella che
avrebbe
dovuto aprire la cripta e la inserì nella toppa. La
serratura
scattò, il rumore del meccanismo si riverberò in
decine di echi
metallici.
Tirò
la porta, che cedette cigolando, e proiettò
all’interno il fascio
di luce: vide una specie di ampio vestibolo, sui lati del quale erano
allineati tipici carrelli da cimitero. Nella parete di fronte
c’erano
un largo montacarichi e una scala che scendeva.
Di
sotto c’era un’enorme sala con il soffitto
sostenuto da colonne.
Sui due lati lunghi c’erano scaffali a più piani,
sui quali erano
appoggiate innumerevoli bare, da quelle di legno pregiato ornate di
maniglie di bronzo, a quelle da poco prezzo, messe su alla buona con
assi di recupero.
Il
silenzio di quella lugubre necropoli era così profondo che
faceva
quasi male alle orecchie. MacLeod tossì, e il rumore si
riverberò
sulla volta come un colpo di cannone.
Il
poliziotto mosse qualche cauto passo, facendo girare
tutt’intorno
la luce della lanterna. Si accorse che su ogni bara era appuntato un
cartellino con il nome del defunto e altri dati.
Trovò
alla fine la bara di Catriona O’Hanigan in un angolo, accanto
a una
specie di tavolo di lavoro. Probabilmente donata da qualche
associazione benefica, essa era talmente misera che stava insieme per
miracolo. Evidentemente il guardiano aveva pensato di consolidarla in
qualche modo per evitare che gli si sfasciasse durante la sepoltura.
Si
avvicinò e per un po’ si limitò ad
osservarla. C’erano un paio
di fessure sul lato, da una parte sporgeva un lembo del lenzuolo con
cui avevano avvolto il corpo. Il coperchio era incurvato come se
fosse rimasto per anni in qualche posto molto umido.
L’agente
deglutì e si guardò intorno reprimendo un
brivido. L’idea di fare
quel controllo, che nel rassicurante tepore del posto di Polizia gli
era sembrata così buona, presentava sempre minori
attrattive. Posò
la lanterna sul tavolo, in una posizione dalla quale illuminasse bene
il feretro, quindi prese un piede di porco e lo infilò con
decisione
sotto il coperchio. Fece forza verso il basso.
In
quel silenzio raggelante, lo scricchiolio del legno che cedeva
risuonò come un lamento. Subito dopo il coperchio cadde a
terra con
un rimbombo cupo.
Il
corpo giaceva nella cassa esattamente come era giaciuto nel letto:
ieratico e composto. Le mani scheletrite erano posate sulla tavoletta
di legno, proprio sotto una fila di nove carte, sette delle quali
scoperte.
MacLeod
si fece indietro, indeciso se pregare, scappare o spaccare il cranio
del cadavere con il palanchino che stringeva ancora in mano. Si
accorse di ansimare, il cuore gli batteva come se avesse voluto
scoppiargli nel petto. Si sentiva la bocca più secca di una
manciata
di segatura.
Per
un po’ rimase a fissare la scena impietrito, poi adagio si
fece
avanti. Le carte scoperte erano quelle che aveva già visto,
esattamente nella sequenza in cui le aveva viste la prima volta.
Allungò
una mano tremante verso la prima delle carte coperte e la
sollevò:
la papessa. Anche quella l’aveva già vista.
La
posò e volse lo sguardo verso l’ultima carta
coperta. Era sicuro
che quella non ci fosse quando avevano trovato il corpo.
La
prese e la voltò: la morte.
In
quel momento, dal piano di sopra provenne un poderoso rimbombo
metallico: qualcuno aveva chiuso la porta. MacLeod sussultò
e si
voltò verso la scala, ma un nuovo, spaventoso rumore
comparso alle
sue spalle lo indusse a girarsi di nuovo bruscamente verso la bara.
L’orrore
di ciò che vide minacciò di fargli perdere i
sensi: in un osceno
scrocchiare di giunture irrigidite, il corpo stava sorgendo dalla
cassa. I suoi movimenti, dapprima scoordinati e lenti, si facevano
con inquietante velocità sempre più rapidi e
più precisi.
Volse
verso di lui il volto scheletrito, nel quale le orbite scavate erano
nere voragini di malvagità.
MacLeod
si fece indietro con l’intento di colpirla, essa si
spostò sul
pavimento con la rapidità fluida di un serpente, quindi si
raccolse
e gli si avventò addosso.
Ribaltato
all’indietro dall’impatto, il poliziotto perse la
presa sul piede
di porco, che sferragliò sul pavimento. Annaspando
cercò di farsi
indietro, ma le mani ossute della Papessa Nera gli percorsero
l’uniforme come orrendi, giganteschi ragni, risalirono fino a
circondargli il collo e presero a stringere con forza sovrumana.
Il
giovane agente si divincolò con tutte le sue forze, ma era
come
cercare di togliersi un collare di ferro, che però si stava
inesorabilmente stringendo.
Un
velo nero gli oscurò la vista.
Poi
qualcosa d’improvviso sembrò trarlo dalla melma
nella quale stava
sprofondando: l’aria gli entrò di nuovo in gola,
una luce gli si
proiettò in faccia facendogli sbattere gli occhi.
“Ally!”
esclamò una voce.
“Charles?”
mormorò il giovane agente con voce roca.
“Alzati,
presto!” disse l’altro per tutta risposta. Lo
tirò con urgenza
per un braccio. “Alzati, prima che quello schifo
ritorni.”
Tossendo
e barcollando, MacLeod si alzò. Il corpo si stava
raddrizzando come
una grottesca marionetta.
“Cristo...”
mormorò l’agente.
“Via!
Vattene!” urlò l’altro. Raccolse da
terra il palanchino e si
parò fra lui e il corpo animato. Sotto gli occhi inorriditi
di
MacLeod, Campbell si fece avanti e colpì con tutte le forze
la
Papessa Nera, che però non fece altro che barcollare appena
ed
emettere la sua raschiante, orribile risata. Poi ghermì lo
strumento
che l’agente aveva ancora in mano, glielo strappò
via e glielo
piantò nel petto con tale forza che la punta uscì
dalla schiena.
Prima
che MacLeod potesse fare qualsiasi cosa, la Papessa Nera gli fu
addosso, e di nuovo gli strinse le mani intorno al collo.
Il
giovane si divincolò annaspando, ma presto gli
mancò il fiato, e si
trovò a lottare per mantenere la lucidità.
L’orrendo
teschio chino su di lui, di cui nel buio percepiva solo il candido
ghigno, divenne pian piano una macchia sfocata.
E
poi la Papessa Nera abbandonò la presa, e si fece indietro
emettendo
un urlo raccapricciante. Sebbene ancora stordito, MacLeod
percepì
danzanti bagliori rossastri.
Il
corpo della donna nel frattempo si contorceva sul pavimento, e man
mano si consumava, spargendo intorno una polvere impalpabile.
Sollevò
lo sguardo e vide che dalla bara si stavano levando delle fiamme.
Accanto
alla cassa c’era Campbell, riverso in una pozza di sangue. E
di
fianco a lui, la sua lanterna con il serbatoio dell’olio
aperto.
“Charlie!”
gridò MacLeod. Corse a inginocchiarglisi accanto.
L’altro
schiuse faticosamente gli occhi, tossì facendosi scorrere un
rivolo
di sangue lungo il mento. “Quella là…
è morta?” chiese
faticosamente.
MacLeod
si girò a guardare. “Un mucchio di
cenere.”
“Lo
dicevo che ci voleva… il fuoco.”
“Sì,
avevi ragione.” Si tolse di tasca il fazzoletto, lo premette
sulla
ferita, ma era come cercare di arginare un torrente in piena. Si
guardò intorno: doveva chiamare soccorsi, ma come? Dove?
La
voce flebile di Campbell lo distrasse dalle sue angosciose
meditazioni: “Alla fine avrei fatto meglio ad accettare il
tuo
invito, Ally.”
“Ti
inviterò tante altre volte,” rispose il
più giovane. Una lacrima
gli rotolò lungo la guancia.
“Temo
di no.” Un altro colpo di tosse, che strappò al
ferito una smorfia
di dolore. “Mi dispiace di non aver assaggiato i tuoi
dolci.”
“Mia
madre ne farà altri,” gli assicurò
MacLeod precipitosamente, “li
mangeremo insieme.” Le lacrime continuavano a scendergli
lungo le
guance.
Passò
qualche secondo, scandito solo dal respiro sempre più
faticoso di
Campbell, che alla fine disse: “Ora rimani tu
l’unico Jock di
Whitechapel.”
L’altro
avrebbe voluto dire che non era vero, che presto l’avrebbe
rivisto
in salute, ma riuscì solo a mormorare:
“Insegnerò a questi
Sassenach[4] di che pasta sono fatti i veri scozzesi.” In
quel
momento cominciò a sentire passi e voci, e fasci di luce si
proiettarono fuori dalla tromba delle scale. Sentì Lynch
dire
qualcosa.
Si
chinò su Campbell. “Glielo insegnerò
io,” ripeté, ma l’amico
non rispose. MacLeod lo sollevò, ma era come se qualcosa,
nella
consistenza e nell’abbandono del corpo del compagno, gli
comunicasse che non c’era più niente da fare, che
ormai Charles
Campbell era in un posto dal quale non avrebbe più potuto
richiamarlo indietro.
Svariati
agenti sciamarono nella stanza.
Avrebbe
volentieri continuato a piangere, ma ricordò la promessa che
aveva
appena fato all’amico. Si asciugò gli occhi con la
manica.
“È
tutto finito,” si limitò ad annunciare agli
attoniti colleghi.
[1]
“Raw Lobster”, nomignolo dispregiativo in uso nella
Londra
vittoriana per definire i poliziotti. Fa riferimento al colore delle
uniformi (all’epoca blu/grigio).
[2]
Salmo 23.
[3]
Diminutivo di John con cui gli inglesi definiscono genericamente gli
scozzesi, tipo “Fritz” per i tedeschi o
“Tommy” per gli
inglesi.
[4]
Termine scozzese derivato dal gaelico saussnach (sassone) per
definire gli inglesi.
Piccolo
angolo dell’autore
Inclito
lettore, inclita lettrice,
ora
che siamo arrivati a questo punto, e che mi hai seguito così
fedelmente per i vicoli di Londra e per le case infestate, voglio
ancora una volta ringraziarti, e assicurarti come sempre che senza di
te
(sì, proprio tu che mi stai leggendo) questa storia non
sarebbe mai
esistita.
Grazie
ancora a chiunque mi abbia commentato, ma anche a chi ha messo la
storia in qualche lista o si è anche solo fermato a leggere.
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