Sulle rotte dei pirati

di Federico
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Donquijote Doflamingo- Oro e piacere ***
Capitolo 2: *** Orso Bartholomew- Il tiranno delle acque ***
Capitolo 3: *** Gekko Moria- Fine del mondo, fine dei sogni ***
Capitolo 4: *** Crocodile- Un comandante di ghiaccio ***
Capitolo 5: *** Occhi di falco- Cercando la solitudine ***
Capitolo 6: *** Boa Hancock- Per il bene di un popolo ***
Capitolo 7: *** Jinbei- Il giorno che sei partito ***
Capitolo 8: *** Barbanera- Fame di potere ***



Capitolo 1
*** Donquijote Doflamingo- Oro e piacere ***


 

Sulle rotte dei pirati

 

Donquijote Doflamingo- Oro e piacere

 

Rotta Maggiore

Alle prime luci dell’alba il vascello pirata “Royal Flamingo”, le vele e la bandiera decorate con uno strano teschio sorridente con sovrapposta una sbarra nera, era ancora all’ancora, silenzioso.

Nelle grande e lussuosa cabina di poppa, intanto, qualcuno si destò e scese dal letto sbadigliando.

Donquijote Doflamingo, capo dell’omonima ciurma, su cui pendeva una tagli di 340 milioni di berry, si trovò davanti due dei suoi tanti schiavi, deferenti e vestiti umilmente, rapiti in chissà quale razzia, che gli porsero gli occhiali da sole e lo aiutarono a indossare un grosso cappotto rosa e una pesante catena d’oro al collo.

Il pirata si sedette affamato al tavolo della colazione e gli furono serviti in brocche e piatti di porcellana cioccolata calda, pane, prosciutto e frutta tropicale.

Pochi minuti dopo che ebbe finito il pasto la porta della cabina si aprì cigolando e all’entrata si affacciò un ragazzo biondo, avvolto in una pesante giacca blu sotto di cui indossava una canottiera rosa, le braccia tatuate, il viso solcato da una cicatrice e solitamente beffardo e maligno, ma ora stranamente rispettoso.

“Oh, signor Bellamy ( lo so che non era nella sua ciurma, ma era comunque un suo subordinato e lo vedevo bene in questo ruolo nda)” disse pulendosi la bocca con un fazzoletto di lino.

“Signor comandante, ci preparavamo a salpare e ho pensato di avvertirvi”.

I due uscirono dalla cabina e si incamminarono per il ponte, fra gli sbuffi degli uomini che lavoravano all’argano e si arrampicavano sui pennoni imprecando.

In poco tempo il veliero acquistò velocità e si diresse in mare aperto; lo scafo pitturato di rosso- rosastro e la polena a forma di fenicottero potevano trarre in inganno chi non conoscesse la nave possentemente armata e il suo equipaggio assetato di sangue.

Doflamingo avrebbe voluto rivolgersi al suo primo ufficiale, così leale e ardimentoso in battaglia, in termini meno formali, ma preferiva non usargli trattamenti di favore perché la sua popolarità fra i marinai sarebbe decaduta parecchio se avesse concesso troppo a quell’attaccabrighe di Bellamy.

“A proposito signor Bellamy, andreste in cabina a prendere la mia spada?” gli chiese.

Il biondo fece appena in tempo a tornare e il capitano ad infilarsi l’arma nella cintura che l’uomo di vedetta urlò sporgendosi dalla coffa: “Nave in vista! Nave a tribordo!”.

Gran parte della ciurma si accalcò alla fiancata per vedere meglio, e l’ufficiale di guardia ringhiò abbassando il cannocchiale e agitando i pugni: “E’ la Marina! Riconoscerei quel fottuto simbolo da cento miglia con gli occhi bendati! Che siano maledetti”.

“Gente, ai posti di combattimento, subito!” ordinò perentorio il comandante mentre i centoventi uomini d’equipaggio correvano su e giù e scendevano dagli alberi e Bellamy rideva satanico portando la mano all’impugnatura del coltello che nascondeva nella tasca dei pantaloni.

“Ma sì, venite pure. Vi aspettiamo calorosamente” pensò ironico Doflamingo sorridendo e appoggiandosi al parapetto, mentre le palle di cannone sparate dal vascello nemico affondavano in acqua vicino al battello pirata sollevando fragorosi spruzzi.

 

***

Neanche dieci minuti dopo era tutto finito.

Era bastato che il capitano con un pugno di uomini abbordasse la nave per provocare una strage.

Doflamingo, seduto sulla fiancata, aveva usato i propri poteri per manovrare gli avversari e costringerli a uccidersi a vicenda, con suo grande spasso.

Bellamy, grazie al frutto del diavolo che aveva mangiato, si era messo a rimbalzare fra il ponte e gli alberi sparando con la pistola e prendendo a pugni o a coltellate chiunque gli capitasse a tiro.

Anche gli altri avevano fatto la loro parte, menando colpi furiosi a destra e manca.

Il capitano prese a calci un marine sanguinante, e, accorgendosi che era ancora vivo, lo infilzò nella gola con la spada, quindi passò le mani sulla ricca elsa dorata e pulì con un fazzoletto la lunga lama, fino a poco prima custodita al sicuro nel fodero e ora lorda di sangue scarlatto.

Un altro tentò di parlare, probabilmente per chiedere pietà, ma le parole gli morirono in gola perché Cirkeys, secondo ufficiale e grande amico di Bellamy, gli staccò la testa con il suo grosso pugnale.

“Questi bastardi non si meritano nient’altro” sentenziò acido facendo scorrere il dito lungo la lama per controllare che fosse ancora affilata a dovere.

Stavano per andarsene quando sentirono un fruscio e si accorsero di un marinaio che, appostato su un pennone, prendeva di mira il comandante pirata con un moschetto.

Con un tranquillo gesto della mano, Doflamingo lo costrinse a gettare l’arma, quindi egli stesso salì in piedi sulla fiancata e saltò giù.

La differenza fu che lui atterrò sulla “Royal Flamingo”, mentre l’altro precipitò nel vuoto gridando.

“Che ne facciamo capo della nave? Volete che la prendiamo a rimorchio?” chiese Bellamy.

“No, un veliero mi basta e avanza. Bruciatela o lasciatela andare alla deriva” replicò lui senza nemmeno voltarsi. “A proposito: Bellamy, Cirkeys, avete combattuto bene, quindi aspettatevi una quota extra di bottino. In più stasera siete tutti invitati a cena nella mia cabina”.

 

***

La sera trascorse veloce, e i convitati tracannarono fiumi di rum e vini fra i più pregiati del mondo, certo frutto di mille abbordaggi.

Per Bellamy, Cirkeys, il nostromo, il navigatore e il capo cannoniere erano rare le occasioni in cui cenavano nella grande e lussuosa cabina di poppa e non nel piccolo e puzzolente quadrato ufficiali, e ciò significava che il capitano era ben disposto nei loro confronti.

La stanza, interamente in legno pregiato, era tappezzata da tende e tappeti di seta intrecciati con oro e diamanti, predati da ricchissime navi, e da manifesti da ricercato di Doflamingo, in segno di narcisismo e vanteria.

Dopo il pasto, il comandante estrasse da una scatoletta argentata una coppia di dadi d’avorio e invitò gli altri a una partita.

“Come ben sapete signori” disse lui gettando i dadi e ottenendo dieci “la mia filosofia di vita è: goditi tutto finché puoi, e non avere rimpianti”.

“Ce ne eravamo accorti già da quando ci siamo imbarcati la prima volta signore” replicò Cirkeys fra il serio e il sarcastico. “Oh! Sembra che io abbia ottenuto due sei!”.

Doflamingo gli consegnò con assoluta noncuranza e una grossa risata una borsa piena di monete d’oro zecchino, quindi continuò: “Il mio stile di vita vi sembrerà esagerato e tendente al lusso e alla strafottenza, ma solo così l’uomo può vivere felice e senza preoccupazioni”.

“Senza dubbio capitano” annuì Bellamy mezzo ubriaco e probabilmente non molto cosciente.

“Che senso ha fare la vita del pirata, breve, pericolosa e faticosa, vagando per anni fra mari insidiosi e isole deserte, schiacciando chiunque incontri sul tuo cammino, se poi devi morire affogato, di febbre, avvolto nel tuo sudore, con una spada in corpo, tagliato in due da una cannonata o appeso a una forca fra lo scherno di quelli che fino al giorno prima ti idolatravano?”.

Tutti tacquero, in attesa della risposta a quella domanda retorica.

“Il senso lo ottieni se puoi vivere al calduccio o al fresco, con una bottiglia di rum in mano, una bella ragazza al tuo fianco, una montagna d’oro e gemme ai tuoi piedi e il tuo nome sulla bocca di tutti! Così deve ragionare un pirata, non come quegli stupidi che vivono inseguendo chimere e ideali…Citrulli…Non hanno ancora capito che con i sogni non ci si riempie la pancia e che uno come Gold Roger non nascerà mai più! Dovremmo spazzare via tutta quella gentaglia, e costruire una nuova generazione di bucanieri fedeli a me e a me soltanto. Una nuova era!”.

Tutti farfugliarono sottovoce fra di loro e, dopo aver escluso che il capitano fosse ubriaco, convennero che aveva ragione e decisero di suggellare le sue parole con un brindisi.

“Alla nuova era della pirateria! E alla salute del nostro beneamato condottiero, Donquijote Doflamingo!” gridarono sbattendo i boccali e ingoiando soddisfatti il vino dolce e nerastro.

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Capitolo 2
*** Orso Bartholomew- Il tiranno delle acque ***


Spazio autore

Schwarzweis: Non hai nulla di cui scusarti: anzi, io apprezzo chi fa recensioni lunghe e complesse e spero che continuerai a fare così.

Doflamingo non mi sembra poi troppo Ooc, visto che anche qui è cinico e strafottente e pensa solo a bere e a festeggiare con Bellamy e Co.

Riguardo al prossimo capitolo, parlerà del “caro” Orso Bartholomew, di cui tutti sappiamo la poco piacevole fama quando era un pirata…aspettati un capitolo piuttosto cruento.

E poi, chi lo dice che Mihawk è sempre stato solo e annoiato?

 

Orso Bartholomew- Il tiranno delle acque

 

Mare Settentrionale

Sarebbe anche potuta essere una bella, fresca e tranquilla mattina di primavera, se non fosse stato che Orso Bartholomew “il Tiranno” era a caccia.

Il suo vascello, l’ “Orsa maggiore”, fendeva fulmineo le onde, spinto da una grande massa di bianche vele, spaventando persino i delfini che saltavano davanti alla prua con il proprio scafo completamente dipinto di nero e ornato da grossi portelli per i cannoni.

Il comandante, enorme e vestito in modo singolare, si aggirava per il ponte come una furia sbraitando gelido: “Muovetevi bastardi! Dobbiamo prendere quel galeone prima di notte, o non mi chiamo più Orso Bartholomew”, indicando la scia della nave che inseguivano ormai da varie ore.

La ciurma era euforica per il ricco bottino di cui si sarebbe impossessata a breve, e si era sparpagliata per il veliero preparandolo allo scontro in ogni dettaglio: alcuni portavano in coperta palle di cannone e botti di polvere nera, altri riempivano secchi con acqua per prevenire gli incendi, altri ancora spargevano sabbia sul ponte per evitare che il sangue lo rendesse scivoloso.

Buona parte dell’equipaggio passò sottocoperta, nella stanza delle armi, dove a ognuno venivano distribuiti spade, moschetti e pistole, mentre gli artiglieri, preparati micce e munizioni, aprirono i portelli e fecero sporgere i cannoni, lucidati di recente.

Tutti però pregavano, in quanto Bartholomew e la sua ciurma erano molto religiosi.

Finalmente la preda fece la sua apparizione; era danneggiata e galleggiava incerta fra le onde.

“Sparate un colpo d’avvertimento” ordinò, e il comando fu eseguito.

“Signore, si rifiutano di ammainare la bandiera e continuano a fuggire” commentò il primo ufficiale scrutando i nemici con il cannocchiale, al che Orso rispose: “Al diavolo! Impareranno a proprie spese cosa significa mettersi contro di me! Preparatevi a far fuoco e issate il mio stendardo”.

Il Jolly Roger, nero, rappresentante il muso di un orso con due ossa incrociate, fu inalberato, e quando i due velieri si affiancarono fra loro cominciò il bombardamento.

I pirati centrarono il nemico a poppa, provocando varie esplosioni e abbattendo di netto un albero, ma il fuoco fu ricambiato e un pennone dell’”Orsa maggiore” fu tranciato, cadendo sul ponte.

Bartholomew tamburellò le dita sul parapetto, innervosito dal danno, e continuò a godersi l’andamento della battaglia, assicurandosi intorno al corpo una fascia di cuoio da cui pendevano due gigantesche pistole e un coltellaccio affilato come un rasoio.

La nave nemica era metodicamente distrutta dal fuoco dei filibustieri, ma con una serie di fortunate cannonate li colpì sotto la linea di galleggiamento costringendo il carpentiere a intervenire.

I vascelli si avvicinarono ancora di più, avvolti dal denso fumo dei cannoni e dei moschetti, mentre le granate volavano devastando i ponti e i pirati agitavano le spade sbattendole sulle fiancate per intimorire il nemico con quel suono di morte.

A un certo punto fu date il segnale dell’abbordaggio e i filibustieri, assicurando rampini e scale di corda alle fiancate e ai pennoni del galeone, lo invasero.

Il loro comandante li seguì subito, spiccando un balzo e atterrando sull’altro ponte, provocando un grave danno e facendo tremare l’intero veliero sotto la propria mole.

“Oh no! E’ Bartholomew il Tiranno! Ha una taglia di 296 milioni” gridò spaventato un marinaio.

“Avanti uomini”ordinò il comandante, fingendosi ardito ma in realtà altrettanto terrorizzato, impugnando la sciabola. “Combattete fino all’ultimo uomo o vi tortureranno fino alla morte!”.

Orso si gettò in mezzo alla battaglia, incedendo trionfalmente mentre gli uomini intorno a lui incrociavano le spade e morivano; nessuno sapeva fermarlo.

Con i suoi poteri deviava i proiettili di archibugi e balestre, e intanto spezzava con le possenti mani arpioni e alabarde, colpiva con i pugni gli avversari facendoli cadere defunti sul ponte o contro gli alberi oppure gli scagliava fuoribordo, molte miglia più in là, in mezzo al nulla.

Incalzato da una massa di marinai che, resi impavidi dalla forza della disperazione, correvano verso di lui agitando sciabole e asce, compresse un piccola quantità d’aria, quindi sussurrò: “Ursus shock”  e il vascello fu squarciato da una devastante esplosione, accompagnata da una luce accecante.

Dopo quest’ultimo attacco i morti erano sparsi ovunque, nei boccaporti, sui cannoni, sul ponte di comando, gli alberi erano crollati a terra e si erano aperte falle nel legname.

I pochissimi sopravvissuti, confusi e sanguinanti, si inginocchiarono disperati sulle assi di legno, mentre tutt’intorno i pirati sciamavano nella stiva e nelle cabine uscendovi carichi di botti, forzieri e sacchi pieni di ogni ben di Dio, confidando, anche se molto flebilmente, nella pietà o quantomeno nel senso dell’onore del capitano dei filibustieri.

Uno dei marinai fu ben sorpreso quindi di vedere Bartholomew portarsi una mano al petto, alzare il cane della pistola, puntarla e sparare.

IL malcapitato si accasciò morto sul colpo, la testa ridotta a pezzi.

“Non tollero che le prede oppongano resistenza” disse scuro in volto fissando i superstiti da dietro gli occhiali spessi. “Per questo vi ucciderò tutti. Portateli sottocoperta, e fateceli rimanere”.

Quanti si opposero furono brutalmente assassinati a sangue freddo; gli altri, dopo essere stati sottoposti a qualsiasi angheria possibile, furono condotti nella stiva, legati fra di loro a piccoli gruppi; quindi i boccaporti furono serrati.

Tornato sull’“Orsa maggiore” insieme al resto della ciurma, Orso ordinò di far sparare una cannonata: il proiettile bucò lo scafo del galeone, che prese ad affondare.

Per interminabili minuti si sentirono i prigionieri gridare di terrore, quindi anche la punta dell’albero maestro scomparve sotto le onde e lo strazio finì.

 

***

Felici per la conquista di una preda tanto ricca, gli uomini brindavano con tutti gli alcolici accumulati da mesi in cambusa, aspettando un’occasione simile.

Alcuni erano già svenuti, e dormivano ebbri sul ponte, altri cantavano e ballavano stando a braccetto, e certo nessuno avrebbe smesso di tracannare per molto tempo.

Sobrio in mezzo a un baccanale di tale proporzioni ( odiava l’alcool), Orso Bartholomew era seduto sopra i molti scrigni, pieni d’oro fino all’inverosimile, che avevano appena sottratto.

Ogni uomo si presentava da lui a reclamare la propria parte di bottino, e veniva esaudito.

I pirati erano molto democratici riguardo a questo argomento: è vero che al capitano e a figure importanti quali il primo ufficiale, il medico, il capo cannoniere e il navigatore, spettava una quota maggiore, ma tutti i componenti della ciurma in teoria avevano diritto a una fetta, a meno che non si fossero comportati vigliaccamente.

Chi si era distinto in battaglia, chi aveva avvistato per primo la preda o chi aveva guidato la prima squadra d’abbordaggio riceveva una ricca gratifica o le armi migliori trovate sulla nave.

A un certo punto sotto gli occhi del capitano si presentò un marinaio con il braccio destro mutilato e fasciato malamente in bende insanguinate, sorretto a fatica da un compagno.

“Richard! Cos’è successo al tuo braccio?”.

“Una dannata scheggia signore! Il nostro chirurgo è abile, ma ha dovuto amputare comunque…”.

“Mi dispiace! Ma non preoccuparti, riceverai un risarcimento in denaro o schiavi”.

Il capitano si rivolse poi all’uomo che accompagnava Richard.

“Allora Jack? Sei felice di essersi arruolato?”chiese con tono rassicurante.

“Così e così, signore. Devo ammettere che…”.

“Che la prima battagli è sempre sconvolgente, vero? Non preoccuparti, ti ci abituerai presto, così come ci siamo passati tutti. Come vedi, la vita del pirata ti dà molte soddisfazioni economiche e morali, ma anche dolori acuti e improvvisi” disse indicando Richard che barcollava.

“Dobbiamo essere pronti a quel che ci può capitare ogni giorno in questo mondo, e anche ad affrontare quel che troveremo nell’altro. Per questo dobbiamo pregare” continuò.

Contemporaneamente i corpi dei due uomini periti nel corso dell’abbordaggio, racchiusi in vele e appesantiti con palle di cannone, furono gettati in mare mentre i loro compagni si scoprivano il capo e alzavano le sciabole al cielo per commemorarli.

Conclusi i propri discorsi, all’antitesi di quelli di Doflamingo, Bartholomew aprì la Bibbia e si mise a leggerla pacificamente, sempre pronto però a trasformarsi di nuovo nel tiranno delle acque.

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Capitolo 3
*** Gekko Moria- Fine del mondo, fine dei sogni ***


Gekko Moria- Fine del mondo, fine dei sogni

 

Nuovo mondo

Andava tutto bene.

Andava tutto bene quel giorno, finché non successe quel che successe.

Ma questo ovviamente Gekko Moria non lo poteva sapere, dato che, pur essendo un potente pirata, non poteva prevedere il futuro.

Ecco come i suoi sogni naufragarono, letteralmente.

Da mesi la “Night Bat” (a quei tempi Moria non comandava ancora Thriller bark così ho preferito sostituirvi questa nave inventata nda) solcava i mari della Rotta maggiore, diretta, come tutte le altre, alla fine di essa, alla leggendaria isola Raftel.

Il vascello era semplicemente perfetto; grandissimo, slanciato, dotato di tre alberi, pesantemente fornito di artiglierie, era in grado di tenere testa alla Marina o ai pirati che infestavano quel tratto di mare, di seminare i nemici a gran velocità quando essi fossero stati troppo potenti, di navigare in ogni condizione meteorologica e di raggiungere le terre più lontane e selvagge.

In breve tempo i marinai avevano imparato a temere ogniqualvolta vedessero avvicinarsi un grande bastimento sulle cui vele era riprodotto un teschio dal sorriso diabolico con ali da pipistrello.

I cento uomini d’equipaggio provenivano da ogni angolo del mondo, ed erano tutti professionisti, gente sempre vissuta in mare, risoluta e pronta ad ogni evenienza.

Il loro capo, sulla cui testa pendeva una taglia di addirittura 320 milioni di berry, poteva a buon diritto ritenersi uno dei bucanieri più potenti in circolazione: oltre alla forza sovrumana dovuta alla sua corporatura gigantesca, i poteri derivati dal frutto che aveva mangiato gli permettevano di manipolare le ombre, attaccando i nemici con la propria o sottraendo la loro.

Eppure non bastò ad evitare la catastrofe.

Dopo essere giunta a metà della Rotta maggiore, la ciurma aveva a disposizione due strade possibili per cui passare: una attraversava Marijoa, sede del Governo mondiale, la seconda l’isola degli uomini pesce, un pericolosissimo percorso sottomarino consigliato solo ai lupi di mare.

Dato che per ovvi motivi la prima via era impraticabile, i pirati optarono per la seconda, e, dopo aver superato l’isola senza grosse difficoltà, giunsero nel cosiddetto Nuovo mondo.

Là l’oceano e il cielo sembravano aprirsi all’infinito, estendendosi a perdita d’occhio, il cielo era sgombro da nuvole, le onde quasi assenti e il sole stesso appariva un presagio di buona sorte.

La navigazione proseguiva tranquilla e senza ostacoli, in un’atmosfera rilassata, ma la cosa più singolare è che non avevano ancora incontrato altre navi.

Moria non aveva solo pregi ma, ovviamente, anche difetti.

Il primo, e certamente più grave, era la pigrizia, talmente connaturata in lui che la sua frase preferita era: “Fallo tu!” e che perfino nei combattimenti raramente si muoveva di persona, ma preferiva che se la sbrigasse il suo clone d’ombra.

Inoltre, anche se questo per i pirati non è necessariamente un difetto, era spietato con i nemici, e non esitava neanche a mettere in gioco le vite dei suoi sottoposti, se gli tornava utile.

Ma fortunatamente sapeva anche come accattivarseli, mostrandosi come un padre generoso e interessato a loro o un severo e inflessibile padrone a seconda della situazione.

Un giorno, quando si erano ormai addentrati da tempo nel Nuovo mondo, Gekko radunò la ciurma sul ponte, dove avrebbe tenuto un discorso che avrebbe sollevato loro il morale spingendoli a impegnarsi ancora di più per il suo scopo.

“Salve a voi figli miei” disse allargando le braccia nel tono più solenne che gli riusciva. “Ormai siamo a più di metà del nostro viaggio. Sapete cosa ci attende in fondo a esso?”.

“Il grande tesoro di Gold Roger” rispose uno dell’equipaggio sbracciandosi.

“Proprio così! E ciò mi permetterà di realizzare il mio sogno, divenendo il prossimo re dei pirati.

Ma non preoccupatevi, ce ne sarà in abbondanza anche per voi! Nuove isole ci attendono, nuove avventure, tesori sconosciuti, ricche navi da saccheggiare. E’ anche se siamo nel territorio di caccia dei pirati più forti del mondo, non preoccupatevi! Raramente ho avuto ai miei ordini uomini arditi e esperti come voi, quindi non temete! La gloria e le ricchezze vi aspettano dietro l’angolo, ma ne sarete voi degni? Siete con me in questo viaggio?”sbraitò sempre più infervorato.

“Sì!!!!Fino alla morte!”gridarono tutti gli uomini alzando in aria i pugni.

Reso gioioso da una tale dimostrazione di fedeltà, il capitano rimase sul ponte attorniato dai propri fedelissimi, godendosi la brezza marina.

Vedendo uno scoglio sorrise perché in base ai suoi calcoli da quel punto in poi avrebbero imboccato una corrente favorevole che gli avrebbe fatti procedere ancora più velocemente verso il tesoro.

E invece, ironia della sorte, propria da dietro quella roccia sbucò un grosso e minaccioso vascello.

Prima che qualcuno potesse aprire bocca i cannoni tuonarono e investirono la “Night Bat” da prua a poppa, straziando gli uomini e aprendo ampi squarci nelle vele.

“Maledizione! E’ Kaido! Merda, siamo fritti!”urlò un uomo riconoscendo l’emblema dipinto sulle vele e sulle bandiere del veliero nemico che si avvicinava sempre più velocemente.

Moria, rimasto come intontito dalle cannonate, si rese conto che uno dei quattro pirati più forti del mondo stava piombando su di lui, ma si scoprì impotente.

Non riuscì a reagire o a pronunciare anche solo una parola neanche quando il vascello avversario li speronò con un urto terrificante, e i pirati di Kaido cominciarono a sciamare sulla “Night Bat” in mezzo al fumo, massacrando i suoi.

 

***

Dopo un tempo che gli parve lungo secoli Gekko riaprì gli occhi.

Giaceva supino sul ponte e un rivolo di sangue, proveniente dalla bocca e da una grande ferita allo stomaco, scorreva sul legno vicino al suo corpo.

Ma lo spettacolo più desolante era quello che gli si parava ai lati.

La sua nave, la sua possente ammiraglia tanto temuta che gli altri vascelli preferivano fuggire che affrontarla, era ridotta a poco meno di un relitto pieno di falle e con le vele strappate.

I suoi uomini, compagni fidati di una vita, impeccabili esecutori di ogni suo comando, quasi dei figli per lui, giacevano massacrati, sanguinanti e putrescenti.

Le spade con cui era stata operata la carneficina erano ancora conficcate nel ponte.

Alcuni uomini erano morti affondando l’arma nelle carni di un nemico o strangolandolo, e così erano trapassati insieme, odiandosi.

“Chi è stato, chi ha osato…” sibilava Moria cercando di comprendere la verità, purtroppo molto evidente, e sentendosi nel contempo come in un incubo.

Alzò gli occhi e davanti a sé, in piedi sul bordo della fiancata, vide un’alta e tenebrosa sagoma.

Indossava una lunga giubba svolazzante e un grosso cappello da comandante in testa, e anche se era voltato di spalle capì subito di chi si trattava.

“Kaido! Bastardo! Cos’hai fatto ai miei uomini?”.

“Non incolparmi. Piuttosto, tu sei stato stupido a portarli con te in questo tuo folle viaggio! La tua smania di gloria li ha condotti qua! Cosa credeva di fare un pivello come te nel Nuovo mondo? Non sai che solo i più forti possono sopravvivere? E, comunque, ho fatto loro un favore. Non credo che Shanks o Barbabianca avrebbero avuto tanti riguardi nei loro confronti. Addio”.

“FERMATI!!!!!”strillò Gekko alzandosi e gettandosi all’assalto sollevando un pugno.

L’imperatore spiccò un balzo appena prima che il colpo dell’altro sbriciolasse la fiancata e atterrò sul proprio vascello, quindi si allontanò a vele spiegate.

Per la prima volta in vita sua, Moria pianse calde, sincere lacrime.

Gettate fuoribordo le salme dei compagni e apprestate sommarie riparazioni al veliero, si mise al timone e puntò la prua verso sud.

In circostanze normali non si sarebbe mai abbassato a tanto, ma adesso era da solo e aveva fretta di lasciare per sempre quell’orrido luogo, prima così benigno e ospitale.

“Mi vendicherò, Kaido, ti giurò che ti ammazzerò!” pensava irato.

“Ho solo bisogno di una nuova ciurma…possibilmente che non possa morire così facilmente”.

L’esperienza con la morte lo spinse a ricercare la morte stessa per farsela alleata.

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Capitolo 4
*** Crocodile- Un comandante di ghiaccio ***


Spazio autore

ShessomaruJunior: Grazie tante, evidentemente ti è piaciuto vedere come Moria sia diventato il mostro che conosciamo, o come Orso abbia visto prevalere il alto “religioso”. In quanto a Occhi di falco ti avverto che il capitolo ribalterà completamente la concezione che hai di lui…Il suo passato è assai differente dal suo presente.

A proposito, avverto i lettori che quasi di sicuro domani sera non potrò aggiornare la fic, quindi il capitolo su Mihawk slitta a domenica. Stasera invece tocca al grande Crocodile.

 

Crocodile- Un comandante di ghiaccio

 

Rotta maggiore

La ciurma si annoiava.

In effetti, non c’era molto a disposizione per ingannare il tempo mentre il loro vascello, la “Golden Alligator”, procedeva lentamente con poche vele issate a causa della mancanza di vento.

La polena, una grossa testa di coccodrillo completamente d’oro, orgoglio del comandante, sembrava fiutare attentamente l’aria alla ricerca di nuove prede, mentre sulla bandiera si discerneva un Jolly roger, riprodotto anche sulle molte vele, composto da un teschio alato che sormontava due spade.

Un giorno sarebbe diventato l’emblema della celebre organizzazione criminale Baroque Works  (anche se non ne ho prove credo che prima fosse lo stendardo personale di Crocodile nda) ma per adesso indicava soltanto una delle ciurme più temute dal Governo mondiale.

Da giorni ormai i filibustieri non davano l’arrembaggio a un bel bastimento carico di tesori; la paga tardava da arrivare e, quel che è peggio, il capitano non permetteva loro di allentare la rigidissima disciplina neanche per un attimo.

Gli uomini non potevano trascorrere il tempo in altro modo che bevendo, anche se in realtà usavano fare ciò di continuo, giocando a carte o a dadi, ma sempre attenti a non frasi scoprire dagli ufficiali, o eseguendo piccoli lavori quali curare i delicati meccanismi di accensione di pistole e moschetti, affilare sciabole e coltelli, sistemare le artiglierie, pulire palle di cannone o controllare lo stato di assi, vele e cime.

Qualcuno, più coraggioso o forse più incosciente degli altri, si aggirava fra i capannelli di sfaccendati ed esponeva enigmaticamente sordi progetti di rivolta, non ricevendo però molti consensi e sapendo del resto che essi erano destinati a rimanere mere fantasie, o forse no .

“Ehi, secondo te dov’è il comandante in questo momento?” chiese un mozzo intento a pulire il ponte a un collega.

“Non lo so, ma è meglio non impicciarsi! Lo sai come si infuria se viene disturbato”.

Contemporaneamente,al sicuro nella sua grande e confortevole cabina, Crocodile, del tutto indifferente a noia, miseria, fatica e problemi dei suoi uomini, sedeva su una lussuosa poltrona posta dietro alla scrivania coperta di scartoffie.

Abbandonate momentaneamente letture, mappe e diari di brodo si stava provando su ogni dito dell’unica mano che gli rimaneva dei bellissimi anelli contenuti in una scatoletta decorata con rubini e smeraldi, sottratta sull’ultima nave da lui catturata.

Se ne stava infilando alcuni anche sull’uncino quando qualcuno bussò alla porta e il comandante preferì nascondere quel bottino di cui, contrariamente al codice piratesco, non aveva fatto parola con nessuno, poiché lo riteneva degno soltanto di sé stesso.

L’ “intruso” si rivelò essere un uomo di una certa età, alto e scarno, i capelli e i baffi brizzolati,

che indossava una giacca blu e un paio di occhiali, con un Log Pose fissato al polso.

“Accomodatevi signor Morgan” disse Crocodile riconoscendo il proprio navigatore. “Gradite un sigaro? Quale buone nuove ci portate?”.

Dopo aver sommariamente esposto le presenti coordinate e la velocità attuale, sorprendentemente elevate per un veliero di quella stazza e con così poco vento, il visitatore disse: “Signore, fino ad oggi abbiamo seguito questa rotta, ma da adesso in avanti dobbiamo imboccarne una fra tante. Quale sceglieremo? Ce ne sono circa sette o otto!”.

“Prendete un sedia e mettetevi accanto a me” replicò Crocodile alzandosi e tirando fuori da un cassetto una vecchia carta nautica ormai ingiallita.

“Questo è il percorso che intendo seguire” spiegò indicando con l’uncino una linea rossa da lui stesso tracciata.

“Attraverso le Isole degli squali? Signore, so che è un tratto di mare poco tempestoso, ma, con tutto il rispetto, non sapete che è pieno di covi di pirati? Rischiamo di trovarci da soli contro forze soverchianti!”.

“Ma è proprio per questo che ci sarà da divertirci” ribatté il comandante uscendo sul ponte, dove la sua attenzione fu attratta dagli schiamazzi di due uomini che si prendevano a pugni.

“Cosa diavolo combinate? Lo sapete che le risse sono proibite a bordo! Ai ferri, tutti e due!”.

 

***

In effetti, era stato divertente.

Giunto alle Isole degli squali, l’equipaggio di Crocodile aveva messo a ferro e fuoco l’intero arcipelago, racimolando un ingente bottino, e affondando dieci navi nemiche, per un totale di quattro ciurme eliminate dalla faccia della terra.

Adesso i pochi superstiti dell’ultima di esse erano tenuti prigionieri sulla “Golden Alligator”, in attesa del loro misero destino: morte o schiavitù, inequivocabilmente.

Il comandante, avvinto da pesanti catene e sorvegliato strettamente da truci guardiani, era custodito nella cabina di poppa dove Crocodile stava decidendo della sua sorte.

“Allora cane rognoso, dammi una buona ragione per cui dovrei risparmiarti” sentenziò durò accendendosi un sigaro e sputandogli nuvole di fumo in faccia.

“Perché ve lo chiedo per favore, signor Crocodile!” strillò il prigioniero, un ragazzone vestito con una lunga giacca verde e una bandana rosso fuoco stretta intorno alla testa, pronto a piangere.

“Vi scongiuro, lasciateci andare! Siamo nella Rotta maggiore solo da pochi mesi, e non vi arrecheremo certo alcun danno! Vi cedo la mia nave, i miei tesori, anche il mio stesso corpo se lo volete, ma per l’amor del cielo, liberate i miei amici!”.

Crocodile stava per infuriarsi: era sua abitudine sterminare completamente gli equipaggi avversari, per eliminare quanti più pretendenti alla carica di re dei pirati, perché avrebbe dovuto risparmiarlo?

Gli puntò l’uncino alla base della gola e stava per gridare di ucciderlo seduta stante quando rifletté.

Quel giovane non aveva tutti i torti: la sua era una ciurma davvero piccola, assolutamente incapace di competere con loro, e in più si dimostrava così nobile da sacrificarsi per i suoi uomini.

“E sia! Rilasciate tutti i prigionieri. Ma ti avverto: queste acque d’ora in poi saranno mio dominio, e se osi farti rivedere in giro ti spareremo a vista! Capito?”.

Sbuffando per il disappunto, i suoi subordinati eseguirono l’ordine.

“Speriamo che vada tutto liscio” pensò Morgan con apprensione. “Su questa nave tira una brutta aria” seguitò volgendo lo sguardo a un gruppo di marinai che parlava sottovoce in un angolo.

 

***

Crocodile stava dormendo profondamente quando fu svegliato dal rumore della porta che sbatteva.

Si alzò e vide davanti a sé il signor Morgan, ferito, che impugnava una spada.

“Signore, presto, venite! Gli uomini…” bisbigliò, ma fu zittito da una lama fra le costole.

Intorno al cadavere sbucarono alcuni dei più facinorosi dell’equipaggio, armati di asce e mazze, capeggiati dal primo ufficiale che brandiva due pistole.

“Cosa credete di fare? Questo è un ammutinamento!” gridò il comandante alzandosi e vestendosi.

L’ufficiale sparò un colpo in aria, quindi esclamò: “E’ ora che il tuo regno del terrore finisca Crocodile! Fai frustare gli uomini per un nonnulla, tieni tutto il bottino per te e fraternizzi con il nemico! Ma ora abbiamo scoperto la tua debolezza” aggiunse aprendo un barile d’acqua.

Schivando il getto di liquido che lo avrebbe privato dei propri poteri, il capitano spiccò un balzo, fece cozzare fra di loro due uomini che lo caricavano, ne stese uno con un calcio e infilzò un quarto con l’uncino; quindi fu addosso all’ufficiale, lo disarmò e lo uccise con una lama di sabbia.

Uscendo vide che i marinai, divisi fra lealisti e ammutinati, lottavano fra di loro: era così triste vedere quei fratelli e amici che si trafiggevano e si picchiavano selvaggiamente!

Fortunatamente per il partito di Crocodile, alcuni giovani mozzi e ufficiali riuscirono a intrufolarsi nel magazzino delle armi e dal ponte di comando bersagliarono i rivoltosi con moschetti e granate.

La ribellione era domata, ma i sopravvissuti restavano in silenzio, in attesa della reazione del capitano, solo sopra una catasta di cadaveri.

“Pulite il ponte, subito! E non venite mai più a parlarmi di ammutinamenti” fu la sua risposta.

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Capitolo 5
*** Occhi di falco- Cercando la solitudine ***


Spazio autore

ShessomaruJunior: Eh già, stasera tocca a Occhi d i falco. A proposito, avviso i lettori che non seguono le scans del manga di saltare i prossimi due capitoli perché si parla di alcuni membri spoiler.

Occhi di falco- Cercando la solitudine

 

Mare occidentale

“Certo che quel bastardo di Shanks il rosso te le ha suonate davvero stavolta, eh capo?” commentò ironico il medico di bordo prendendosi cura del convalescente Drakul Mihawk.

Lo spadaccino presentava tagli superficiali alla gamba e al fianco destro e sulla guancia

e sul braccio sinistro; inoltre era stato trafitto nella spalla sinistra e la ferita sanguinava moltissimo.

Occhi di falco resistette stoicamente mentre il chirurgo gli suturava le varie lesioni con ago e filo e fasciava strettamente, dopo averla bagnata in abbondanza, la lacerazione alla spalla.

“Ah, non dite così. Lo sapete che Shanks è mio amico e non mi farebbe mai del male realmente. E’ solo che stavolta si è fatto prendere la mano.. è un tipo un po’irruente. E poi, che duello sarebbe un duello dove non ci tocchiamo neanche con le spade?” concluse fissando enigmatico la ciurma.

“Hai ragione capo! Tre urrà per il nostro capitano! Bravo! Ben detto!” strepitarono gli uomini alzando i boccali al cielo stellato, vogliosi di festeggiare.

La ciurma di Occhi di falco, composta da circa una trentina di membri, tutti piuttosto giovani e vigorosi, era una di quelle che più grattacapi davano alla Marina.

La loro particolarità era che tutti erano provetti spadaccini e ripudiavano armi da fuoco e cannoni, anche perché non ne avevano bisogno: con un fendente il loro comandante poteva deviare un proiettile o tagliare in due dalla lunga distanza un galeone.

La loro nave era inconfondibile: grossa e slanciata ma non enorme, ricordava una bara (immaginatevi in pratica la barca di Occhi di falco cento volte più grande nda); lo scafo era completamente nero, così come le vele appese all’albero a forma di croce che, insieme alle candele sparse ovunque, conferiva al vascello un aspetto pittoresco e spettrale.

Il Jolly roger rappresentava due sciabole incrociate fra loro in modo da formare una croce.

Il comandante, da sempre amico fidato e rivale nella scherma dell’imperatore Shanks il rosso, era freddo e impassibile in ogni circostanze, ma almeno possedeva un “codice d’onore” personale: attaccava solo le prede che attiravano la sua attenzione, mentre disdegnava città costiere, velieri palesemente troppo piccoli per opporre resistenza, navi che issavano bandiera bianca e altri pirati.

Spesso andava volontariamente incontro a grosse flotte per il puro piacere di affondarle.

I suoi uomini, che si fidavano ciecamente di lui, apprezzavano tali dimostrazioni di abilità e potenza.

Il rapporto fra Mihawk e i suoi era fondato, più che sul sospetto o sull’imposizione tirannica, sul rispetto di ciascun membro che lo portava ad essere un fratello, non una guida, per i suoi marinai, e a partecipare alle loro feste e bevute.

Ripresosi un poco dalle ferite e dalle fasciature, Drakul si alzò dal proprio posto e si recò all’altro capo della nave dove, sdraiato su un’amaca, uno dei bucanieri giaceva febbricitante.

Con gli occhi chiusi e la fronte imperlata di sudore, il disgraziato si agitava rigirandosi nel giaciglio, gettando via le coperte e bisbigliando alcuni nomi confusi in preda al delirio.

“Sta’ calmo Jeremy” sussurrò lo spadaccino sedendosi vicino all’amaca. “Ci sono io qua”.

Il malato si risvegliò tutto d’un tratto, coperto di sudore, e fu ben felice di vedere il comandante.

“Capitano, io…” disse facendo per alzarsi.

“No, non occorre che tu ti sforzi. Allora, come ti senti?”.

“Meglio di prima, ma questa febbre continua ad andare e a venire…”.

“Lo so, la malaria è una brutta bestia. Ma fidati del medico e vedrai, fra poco solcherai di nuovo i mari con me” concluse Occhi di falco prendendo congedo dall’infermo.

Gli uomini nel frattempo bevevano, giocavano a carte e si raccontavano storie sconce o divertenti, ma al capitano non andava di parteciparvi.

In altre occasioni sarebbe stato ben felice di farsi vedere fra i marinai affinché questo non lo vedessero come un’entità distante e differente, ma stavolta era differente.

Infatti, periodicamente si sentiva divorato dall’inquietudine, da qualcosa di interno e inspiegabile.

“Perché? Perché non riesco a stare bene neanche con loro? Perché la solitudine deve sempre accompagnarmi? “.

 

***

Tre giorni dopo la nave approdò per rifornirsi di acqua  e cibo in un’isola apparentemente deserta.

Per evitare di far correre ai suoi uomini, forti ma non quanto lui, decise ( facendo bene) di scendere a terra da solo in avanscoperta.

Tirata in secca la scialuppa con cui era giunto, una vera e propria riproduzione in miniatura della nave, lo spadaccino si avviò lungo un sentiero che lo condusse nel folto di un bosco.

All’improvviso gli si parò davanti una figura che lo attaccò sferrandogli un calcio.

Mihawk si abbassò schivando agilmente la gamba dell’uomo, quindi entrambi balzarono all’indietro in direzione opposte.

Occhi di falco estrasse la spada e si preparò a combattere, notando tra l’altro con stupore che il terreno si era completamente ghiacciato; quindi fissò il suo avversario, un individuo alto e abbronzato, che indossava un giaccone e una bandana blu con l’emblema della Marina.

“Viceammiraglio Kuzan” sibilò infuriato e allarmato. “A cosa devo la tua presenza ?”.

L’uomo che un giorno sarebbe divenuto l’ammiraglio Aokiji si aggiustò gli occhiali da sole e  disse: “Sei un pericoloso ricercato, e vengo ad arrestarti. Arrenditi o preparati a morire”.

Drakul vibrò la sciabola, ma il marine evitò il colpo abbassandosi e la afferrò per la lama, cominciando a ghiacciarla.

Occhi di falco riuscì a liberare l’arma da quella presa mortale e la alzò in aria.

Kuzan creò una sciabola di ghiaccio e i due incrociarono le lame con uno schianto terrificante; Mihawk cedette alla forza dell’avversario e fu graffiato vicino alla gola.

Lanciandosi di nuovo all’assalto mancò di un soffio il busto dell’ufficiale, che lo afferrò.

Vedendosi la spalla che cominciava a ghiacciare, procurandogli un dolore tremendo, il pirata sollevò lo spadone e, come una furia, lo calò sulla mano del marine.

Kuzan si strinse la mano sanguinante: “Come hai fatto a ferirmi? Io, possessore di un Rogia!”.

“Ho un haki potente, sai? Altrimenti non potrei tenere testa a Shanks il rosso! E ora combattiamo!”.

Il viceammiraglio colpì Mihawk con un pugno e lo trafisse nella stessa spalla ferita da Shanks, ma ricevette una coltellata nel petto e una botta con l’elsa della sciabola al collo.

Credendo che l’avversario fosse allo stremo, Occhi di falco si preparò a dargli il colpo di grazia, ma Kuzan si rialzò all’improvviso e afferrò la lama con le mani, sferrando contemporaneamente un calcio che proiettò il pirata a vari metri di distanza, mentre la spada si conficcava vicino a lui.

Drakul tentò coraggiosamente di rialzarsi, ma fu colpito da una lancia di ghiaccio e cadde.

Il marine lo fissò stranito e annunciò a voce alta: “Ho cambiato idea. Sai, uno forte come te merita di sopravvivere. Credimi, non sei tagliato per la pirateria. Perché non passi al nostro servizio?” e così parlando sparì come era venuto.

Occhi di falco fu raggiunto dai suoi compagni che, preoccupati, lo avevano seguito con le spade in mano e lo aiutarono rialzarsi, ignari che il loro capo non sarebbe mai più stato lo stesso.

 

***

Quella sera stessa Occhi di falco, in condizioni critiche dopo lo scontro con Kuzan, venne sottoposto a cure d’emergenza e quindi, per ordine del medico, messo a mollo in una vasca per dare tempo alle ferite di rimarginarsi in santa pace.

Ma “pace” era una parola che Drakul Mihawk non conosceva.

Immerso nella vasca, poteva udire i suoi uomini ridere e fare baldoria, sentendo la loro mancanza.

Contemporaneamente fissava un proprio manifesto da ricercato, e solo allora si rese conto di essere considerato un nemico pubblico; gli dispiaceva moltissimo vedere la propria faccia proprio sotto la scritta “Wanted”.

D’un tratto le parole del viceammiraglio gli riecheggiarono nella mente.

Occhi di falco si rese conto che forse non era proprio tagliato per fare il pirata.

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Capitolo 6
*** Boa Hancock- Per il bene di un popolo ***


Spazio autore

ShessomaruJunior: In realtà non c’è nulla di perfetto ( ma grazie lo stesso) perché questa è solo una supposizione inventata da me, non dal maestro Oda, anche se comunque l’idea dello scontro con Aokiji mi alletta. A proposito, che te ne pare di navi, bandiere e membri delle varie ciurme? Ti sembrano plausibili o ho inventato troppo?

JhonSavor: Sin da quando conosco Bartholomew, mi sono sempre chiesto cosa avesse fatto di tanto orribile nel suo passato…. Spero di averci azzeccato.

Non capisco, perché paragoni Moria a Barbabianca? Comunque sai, la sua tipica risata mi sembrava troppo comica, e in mezzo a quel massacro non stava affatto bene…

In quanto a Mihawk anch’io ho difficoltà a vederlo come capo di una ciurma, ma quel che mi interessa mostrare è proprio quanto la sua caratteristica principale sia la solitudine, anche se è in mezzo a molti.

Nueblackcrowfriend: Per cominciare ti ringrazio della recensione che hai fatto sul quarto capitolo di “Carissimi Rogia”, mi ha fatto quasi più ridere della mia storia.

A quanto pare sei bene informato sugli sviluppi più recenti del manga, quindi non avrai problemi a seguire. E comunque non è che ce l’ho particolarmente con Rufy: se vuoi vedere come sono in grado di ridicolizzare anche gli altri personaggi ti consiglio di leggere  “ Arlong all’asilo” e “Questioni di testa”, sempre mie.

 

Boa Hancock- Per il bene di un popolo

 

Rotta maggiore, fasce di bonaccia

Un gabbiano lanciò il suo verso acuto, mentre il sole illuminava il ponte.

In cima all’albero maestro sventolava uno strano vessillo, nero, decorato con un teschio circondato da serpenti, come una delle mitiche Gorgoni.

Dalla foggia il vascello sembrava piuttosto antico, oltre che completamente diverso da qualsiasi bastimento costruito nei vari mari o nella Rotta maggiore.

La sua principale particolarità era che, muovendosi soprattutto nelle fasce di bonaccia, veniva trainato da due enormi serpenti multicolori, capaci inoltre di affrontare i mostri marini che infestavano quelle zone rendendole accessibili solo ai pirati e alla Marina.

Sul ponte di comando, all’ombra di uno dei robusti alberi, Boa Hancock, capitano dei pirati Kuja, nonché imperatrice di Amazon Lily, la terra delle leggendarie amazzoni, si aggirava altera e imperiosa, tenuta alla larga da tutti.

Se era ritenuta la donna più bella del mondo, c’erano fondati motivi per pensarlo: il suo fisico statuario, sottolineato dai succinti abiti che indossava, il viso puro e perfetto, incorniciato da due occhi enigmatici e da una coppia di orecchini dorati a forma di serpe, e la lunga chioma corvina che le ricadeva sulle spalle aveva fatto impazzire ben più di uno dei suoi avversari.

Camminava in modo esibizionista e arrogante, come per mostrare a tutte le compagne chi era la più forte e bella, seguita da un serpente che le strisciava fra i piedi, vicino la lungo mantello.

Era infatti una premura costante per la donna nascondere la propria schiena; ufficialmente diceva alle altre amazzoni che sotto i vestiti si celava un segno impostole da una maledizione che avrebbe pietrificato chiunque avesse osato fissarlo, ma in realtà voleva soltanto che nessuno vedesse il marchio dei Draghi celesti, simbolo della brutale schiavitù a cui era stata sottoposta in gioventù, la vergogna più grande della sua vita.

Fortunatamente il passato era passato, ma Boa non aveva certo cessato di odiare il Governo mondiale e, con una ciurma composta da guerriere sceltissime e fedelissime, si era messa a percorrere i mari in cerca di navi nemiche da combattere.

Infatti, nonostante l’apparenza fragile e viziata, Hancock era una formidabile piratessa che, grazie al potere del suo frutto, era capace di pietrificare chiunque fosse affascinato da lei, cioè la maggior parte degli avversari: per quelli più duri aveva in serbo altre risorse.

“Sorella, i prigionieri sono pronti  e a tua disposizione” annunciarono all’improvviso due voci.

Hancock trasalì, quindi bofonchiò con aria ammonitrice: “Marigold! Sandersonia! Potreste almeno aver avuto il buon gusto di farvi annunciare!”, riconoscendo le proprie sorelle che salivano frettolosamente la scaletta per raggiungerla a poppa.

Il comandante ebbe un moto d’impazienza e sbuffò.

Le due sorelle erano così petulanti, oltre che ben poco attraenti a vedersi!

Tuttavia anch’esse erano potenti, possedendo sia l’haki che un frutto del diavolo, quindi i loro consigli non erano sempre da disprezzare.

Boa si voltò e rivolse lo sguardo al veliero della Marina che avevano recentemente catturato e preso a rimorchio.

Sembrava un gigante abbattuto, le cui bandiere giacevano, in segno di resa, a mezz’asta, sovrastate dai vessilli dell’imperatrice pirata.

 

***

I prigionieri, stanchi e umiliati, erano sparpagliati per tutto il ponte.

Alcuni, i più alti in grado, erano strettamente legati intorno all’albero maestro, altri stavano quietamente seduti sulle assi di legno, stretti da corde, a formare macabri gruppetti.

Tutti erano tenuti sotto tiro dalle bellissime e fiere amazzoni con i loro archi.

Dal canto loro, molte delle guerriere non avevano mai visto un uomo, ed era quindi naturale che la curiosità per l’altro sesso, così a lungo repressa, le portasse ad avvicinarsi cautamente, come se quei marinai sconfitti potessero ancora mordere.

Hancock, scortata dalle sorelle, fece il proprio trionfale ingresso, quindi si mise in una posa da femme fatale e chiese, allusiva: “Sono bella?”.

Il gesto e la domanda suscitarono opposte reazioni: i marines semplici si misero a bramarla agitando le mani, per quanto possibile, e sbavando, mentre gli ufficiali scuotevano la testa, fieri e rassegnati.

“Allora? Cosa stavate facendo nelle nostre acque? Eravate in cerca di pirati?” continuò imperiosa Boa rivolta al capitano nemico.

Questi tacette, risoluto, e si prese quindi uno schiaffo in faccia.

“Stupido! Parla o farai una brutta fine!”.

Improvvisamente una delle ragazze più giovani della ciurma, il viso stravolto, cercò di interporsi fra i due e si lagnò: “Per pietà, principessa! Non fate loro del male, forse non sono cattivi!”.

“Idiota! Togliti di mezzo o pietrificherò anche te! Non sai che tutti gli uomini sono malvagi, specialmente se lavorano per il Governo?”.

Finalmente il comandante decise di sputare il rospo e annunciò, con fare malignamente enigmatico: “Sì, è vero, e infatti stavamo venendo proprio a catturarti. Lo sai che per i tuoi crimini il Governo mondiale ha messo una taglia di 80 milioni di berry sulla tua testa?”.

Hancock fu sconvolta da quell’inaspettata rivelazione.

“Anche se ci avete sconfitto, altri vascelli verranno mandati, e attaccheranno la tu isola, il tuo popolo di selvagge…Ci sono solo due modi per evitarlo…consegnarti come prigioniera ed essere punita per tutte le tue malefatte o passare dalla nostra parte…A te la scelta, imperatrice”.

 Ma la piratessa sembrava momentaneamente incapace di rispondere.

Abbattuta moralmente da quei discorsi, ordinò semplicemente di lasciare andare la nave.

 

***

“Ma lo capite! O me o voi! E questo che quei maledetti vogliono!”.

Boa Hancock, visibilmente irata, era pigramente sdraiata su un lussuoso divano nella propria cabina e stava nervosamente discutendo con le sorelle delle parole di quell’ufficiale.

“In effetti, è un modo di agire veramente vigliacco e spregevole” concordò Sandersonia. “Ma d’altronde è in gioco il futuro di Amazon Lily, ricordatelo bene se….”.

L’amazzone non riuscì a finire la frase perché Hancock, fuori di sé per la rabbia, si alzò di scatto e le lanciò contro un grosso boccale d’argento.

“Se cosa, razza di parassita?” strillò la principessa mentre la sorella si massaggiava il viso contuso.

“Credi che io non sappia valutare i pro e i contro di una situazione?” proseguì aggirandosi come un furia per la stanza e gettando sul pavimento bottiglie, gioielli e suppellettili dai vari mobili. “Ti ricordi quel che gli uomini ci hanno fatto quando eravamo bambine, vero? O forse te lo sei già dimenticato, stupida che non sei altro? Non possiamo perdonare il Governo e chi lo spalleggia, e non intendo certo umiliarmi di fronte a loro! No, continueremo a combattere, e se vorranno attaccare l’isola conosceranno cosa siano la forza e la collera delle amazzoni!”.

Stava per rincarare ulteriormente la dose quando la grassa Marigold, decisa come non mai, prese la parola: “Per favore sorella, non fare la bambina! Non sempre puoi scegliere quel che ti piace di più, ma devi anche saper accettare la realtà! Apri gli occhi! Siamo forti e numerose, ma il Governo e la Marina dispongono di ingenti forze e dopo molte battaglie ci annienterebbero. Non puoi neanche costituirti, perché ti giustizierebbero o ti farebbero marcire a vita a Impel down. Secondo me dovresti passare ai loro ordini, perché ho sentito che i corsari del Governo godono di grande indipendenza e pochi doveri verso di esso…e forse un giorno potrai avere la tua vendetta”.

Guardando il mare piatto e la notte stellata, Boa sospirò e disse: “Hai ragione sorella. Ti chiedo scusa per prima Sandersonia, ma ero oscurata dai miei capricci. Adesso mi rendo conto di avere le responsabilità di una regina che deve proteggere il suo popolo, quindi farò come mi avete consigliato. Ma non diverrò mai loro serva! Anzi, alleveranno una serpe in seno…”.

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Capitolo 7
*** Jinbei- Il giorno che sei partito ***


Spazio autore

Nueblackcrowfriend: Ma no, quello “schifo immondo” era solo per scherzare….e quando ho scritto che Zoro è analfabeta allora? Se proprio volessi farti quattro risate leggiti “Arlong all’asilo”, lì sì che prendo in giro veramente tutti…

Quanto a “Carissimi Rogia” non c’è bisogno che ti scomodi, visto che io stesso sto scrivendo gli ultimi due capitoli dedicati a Ace e Smoker ( ho preferito evitare i cattivi dei film che non conosco e Barbanera che non essendo intangibile è un po’ diverso dagli altri Rogia) e fra pochi giorni li pubblicherò, dopodichè tornerò con una nuova storia, la mia prima AU di One Piece.

ShessomaruJunior: Grazie di tutto, anche se continuo a pensare che le mie supposizioni siano un po’ troppo ardite. Spero solo che un giorno il maestro Oda ci illumini sul passato degli Schichibukai…

 

Jinbei- Il giorno che sei partito

 

Rotta maggiore, presso l’isola degli uomini pesce

Il mercantile continuava a veleggiare, le bianche ali gonfiate dal vento, lasciando dietro di sé una lunga scia di schiuma, interrotta soltanto dagli occasionali movimenti del timone.

L’equipaggio era in apparenza tranquillo, ma in realtà la tensione era palpabile; non era mai consigliabile navigare troppo vicino all’isola degli uomini pesce, per il rischio di incontrare questi ultimi, non proprio bendisposti verso gli uomini, o temibili pirati diretti verso il Nuovo mondo.

Ma la nave portava un carico importante, e al comandante premeva di consegnarlo presto.

La calma era addirittura innaturale, come se stesse per essere rotta da qualcosa di terrificante e inaspettato: ed era ciò che quasi accadde.

Infatti, ad un certo punto, i marinai che si riposavano indolenti sul ponte scorsero i loro colleghi sui pennoni e sulle coffe agitarsi improvvisamente in preda al terrore, come posseduti.

Uno di essi abbassò il binocolo e, balbettando fuori di sé per lo spavento, disse, indicando con il dito la macchia nera all’orizzonte che veniva verso di loro a gran rapidità: “La nave di Jinbei…Che il cielo ci aiuti o moriremo tutti…”.

A sentire quel nome, i marinai imprecarono o cominciarono a tremare, poiché era assai temuto il nome del capo dei pirati uomini pesce, e non si potevano certo aspettare pietà.

Il comandante optò per la fuga e fece spiegare tutte le vele, ma per precauzione ordinò che si distribuissero i moschetti alla ciurma.

Passarono i minuti e il vascello nemico gli raggiunse; i malcapitati potevano sentire il rumore del vento che faceva sbattere le vele e delle onde che si infrangevano sulle fiancate.

La nave pirata era grossa circa tre volte la loro, e in proporzione ben più armata; le vele e gli alberi, estesi e in ottimo stato, potevano sospingerla sui flutti a velocità difficilmente eguagliabili.

La prua, dolcemente arrotondata, era decorata con un sottile strato d’oro sovrapposto al legno su cui spiccavano le pesanti ancore e la polena a forma di squalo, mentre la poppa, impreziosita nella stessa maniera, ospitava la pala del timone, una cabina dalle grandi vetrate e tre lanterne per la navigazione notturna.

Sulla velatura, sulle bandiere e su ogni parte dello scafo pitturato di giallo e blu si distinguevano rosse figure rappresentanti pescecani e rotondi soli circondati da una corona di raggi.

Curiosamente, non vi era traccia né uditiva né visiva degli occupanti, forse nascosti per tendere un imboscata; ma gli sbalorditi marinai dovettero certo tirare un insperato sospiro di sollievo vedendo che i bucanieri cambiavano rotta, come disdegnandoli.

La verità era che il vascello era di ritorno da una lunga crociera attraverso gli oceani fatta di arrembaggi, massacri e saccheggi, e quindi, pieno di bottino, non poteva certo permettersi di inseguire altre prede ormai inutili.

Sul ponte vi erano poi pochi uomini pesce, che si occupavano di governare il timone e la velatura, mentre gli altri erano ai livelli inferiori a fare baldoria per celebrare i ricchi successi.

I pirati erano seduti attorno ai tavoli, ovviamente di misure proporzionate alle loro, e festeggiavano cantando, mangiando i cibi più prelibati che si potessero trovare nella stiva e bevendo fiumi di rum e gettando a terra bottiglie e bicchieri in preda all’euforia.

Alcuni, stretti in  un angolo, contavano in silenzio i propri piccoli patrimoni, derivanti dalla somma di varie quote di bottino, e facevano affari; altri, al centro della mensa, si improvvisavano ballerini e piroettavano al suono di flauti, violini e tamburelli.

A un tavolo più lussuoso degli altri sedeva capitan Jinbei, enorme, valido combattente, avvolto in un kimono colorato e, come spesso accadeva, di buon umore.

Era orgoglioso della propria ciurma, composta da giovani esuberanti e ardimentosi, membri di tutte le razze: infatti, come gli uomini si dividevano in vari popoli a seconda dell’aspetto, della cultura, della lingua, gli uomini pesce si distinguevano in vari tipi a seconda dell’animale marino cui somigliavano: polpi, anguille, squali, pesci spada, pesci rossi, triglie e altri ancora.

Jinbei era uno squalo balena, il più poderoso pesce che abitasse gli oceani, il re delle bestie.

Quel che gli dispiaceva era che i veterani, gli ex membri dei pirati del sole, coloro che erano stati sottratti a un destino di misera schiavitù dal leggendario Fisher tiger, fossero sempre meno: in effetti dopo la morte di quel glorioso comandante la ciurma si era divisa in tante altre, come quella di Jinbei, mentre altri compagni si erano messi a viaggiare per il mondo, come il celebre Tom, carpentiere a Water 7, divenuto famoso e giustiziato per aver costruito il veliero di Gold Roger.

Ma fortunatamente c’erano le nuove generazioni con il loro entusiasmo a riempire i vuoti.

“Capitano, perché non ci raccontate una delle vostre avventure?”domandò uno dei commensali.

“Certamente Francisco. Dovete sapere che era una notte buia e tempestosa…”.

 

***

Il giorno stesso la nave gettò l’ancora davanti all’isola degli uomini pesce.

Il comandante scese dalla passerella, osannato da una folla in delirio che aveva preso letteralmente d’assalto il molo e lo invocava come il loro re e salvatore, che li proteggeva dalle minacce esterne.

“Grazie, grazie gente” diceva alzando le mani per salutare la popolazione esultante. “Ma ricordate che c’è un altro angelo che veglia su di noi”.

Alludeva al pirata Barbabianca, uno dei pochi umani di cui si fidasse, che da quando si era imposto come il filibustiere dominante nella regione impediva che avventurieri senza scrupoli sbarcassero sull’isola per farne schiavi gli abitanti, come purtroppo accadeva spesso in passato.

Mentre i più giovani membri dell’equipaggio ostentavano orgogliosi ai connazionali gli ingenti bottini o si pavoneggiavano davanti a capannelli di sirene adoranti, Jinbei si recò su una spiaggia solitaria per riposarsi dalle fatiche del viaggio.

Stava per tuffarsi in acqua, dove si sarebbe trovate perfettamente a proprio agio, quando vide

un’altra figura passeggiare sulla battigia e la riconobbe.

Era Arlong, uno dei suoi migliori capitani, evidentemente anche lui in cerca di quiete.

Era un pesce sega molto alto e sconciato, estremamente muscoloso, di colore, blu; aveva lunghi capelli neri, mani palmate, labbra carnose da cui spuntavano denti acuminati e indossava sandali, un lungo cappotto blu, pantaloni corta, una cintura di seta verde, una sciarpa e un cappello.

Nei calzoni teneva una grossa pistola, mentre con una mano imbracciava un’enorme spada dalla lama a forma di sega con tutta noncuranza.

I due si videro e si salutarono calorosamente, dati i buoni rapporti che scorrevano fra loro: “Allora signore, come è andata la scorreria? Purtroppo non ho potuto partecipare per via dei preparativi”.

Jinbei assentì, toccato in un punto particolarmente dolente.

Entrambi i pirati avevano tatuato sul petto un sole rosso, che indicava la loro passata condizione di schiavi, ma il tatuaggio di Arlong raffigurante un pesce sega, ora nascosto dalle maniche del cappotto mostrava la sua inequivocabile decisione di fondare una ciurma tutta propria.

I “preparativi” a cui accennava erano quelli della nave che lo avrebbe portato lontano, sin nel Mare orientale, dove avrebbe iniziato la conquista di quelle terre che, seguite da tutte le altre isole del mondo, avrebbero dato vita all’impero degli uomini pesce, dove questi ultimi avrebbero potuto vivere finalmente liberi e non discriminati.

A Jinbei dispiaceva che un amico tanto fidato dovesse separarsi da lui, forse per sempre, ma non doveva biasimare altri che sé stesso: egli infatti aveva dato l’ordine ad Arlong.

“Guardate comandante, non è un gioiello?” chiese il pesce sega indicando un grosso veliero pitturato di rosso che giaceva placido in una baia riparata.

“Arlong…Un’ultima raccomandazione. Sii fedele e non dimenticarti mai della tua missione. Addio amico mio” disse lo squalo balena in tono solenne, al che l’altro fece per rispondere ma non poté, scorgendo il proprio ufficiale Kuroobi che lo cercava incespicando su una duna.

Pochi minuti dopo il vascello sciolse le vele e si avviò verso il mare aperto, mentre una bandiera nera decorata da un pesce sega rosso e due ossa incrociate sventolava sull’albero maestro.

D’un tratto Jinbei, ancora addolorato per la partenza del proprio braccio destro, fu colto dai dubbi: e se la missione di Arlong fosse stata sbagliata? Non era ingiusto sottrarre agli uomini le loro case?

Ma cosa importava ormai: erano pirati!

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Capitolo 8
*** Barbanera- Fame di potere ***


Spazio autore

Nueblackrowfriend: Aspetta Nue, non te ne andare! C’è ancora il capitolo dedicato al nostro amico Barbanera per terminare la storia. Comunque sia l’appuntamento con “Carissimi Rogia” è fissato a venerdì e sabato, non mancare!

ShessomaruJunior: Eh già, Jinbei mi da’ tanto l’idea di essere la fotocopia di Tom, il maestro di Franky….Il tempo ci darà ragione o forse no .

 

Con Teach termina la nostra raccolta dedicata agli Schichibukai, che spero sia stata di vostro gradimento. Ringraziamo calorosamente Schwarzweis, ShessomaruJunior e JhonSavor che hanno messo la storia fra i preferiti e i seguiti e hanno recensito con regolarità, più Nueblackcrowfriend che dopo tanto tempo mi ha convinto a terminare “Carissimi Rogia, e anche tutti coloro che hanno letto e basta. Come al solito chiedo a chi vuole di recensire per segnalarmi i pezzi, i capitoli o i personaggi preferiti.

A partire da venerdì pubblicherò gli ultimi due capitoli sui Rogia, mentre la prossima settimana pubblicherò una AU di cui anticipo qualcosa: vi compariranno alcune supernove, Garp, Barbabianca e tanti altri, sarà ambientato sulle navi a vela dell’800 e la trama sarà liberamente ispirata a “Moby Dick”, ma al contempo basata su fatti storici. Ci vediamo al più presto!!!!

 

Barbanera- Fame di potere

 

Rotta maggiore

“Zehahaha!!!” schiamazzò qualcuno, in apparenza impazzito, rompendo il silenzio della notte.

Per lunghi istanti il grido non si udì più, e fu sostituito dal dolce rumore del mare, scuro come il carbone e appena increspato dalla brezza notturna.

Sull’oceano si specchiavano nubi di stelle e una pallida luna, che contribuiva a creare un’atmosfera da quadretto idilliaco fornendo una discreta visibilità dell’ambiente circostante.

A quell’ora non c’era molta vita nei dintorni; in cielo volteggiavano pochi e grossi uccelli solitari, instancabili navigatori, mentre in acqua immensi banchi di pesci e calamari guizzavano appena sotto la superficie, veloci e coordinati come se si trattasse di un unico individuo, richiamando i predatori: difatti le sagome argentee e affusolate di tonni e delfini fendevano con rapidità gli abissi e le pinne degli squali solcavano le acque, sconsigliando a chiunque di farsi un bagno.

Poi l’urlo, assai simile a una risata umana, si levò ancora, e si poté accertare che proveniva dall’unica nave che attraversasse al momento quella zona.

Era una sorta di grossa zattera, composta da robusti tronchi legati insieme, da cui facevano capolino numerosi cannoni; aveva due alberi sulle cui vele, nere come la notte, era riprodotto un Jolly roger rappresentante tre teschi che guardavano a destra, davanti e a sinistra, e che facevano riconoscere i suoi occupanti come pirati.

Al centro della barca, seduti sul ponte e illuminati alla bell’e meglio da una lanterna appesa a un pennone, stavano cinque uomini e un cavallo.

Uno, molto grasso e alto, aveva una rada barba e lunghi capelli neri, indossava una lunga giacca nera e rossa con spalline e la sua cintura era piena di pistole e fiaschette di rum; uno, dal portamento

nobile ed educato, portava una camicia, un mantello, uno strano copricapo e una sorta di mirino su un occhio, imbracciando fra le mani un lungo archibugio; un altro, di corporatura massiccia e gigantesca, aveva il viso celato su una maschera; un quarto, vestito miseramente e in apparenza malato, si appoggiava all’animale, anch’esso piuttosto male in arnese; l’ultimo sembrava un ballerino, indossava una calzamaglia e un cappello e stringeva un bastone: il viso pallido e contornato da due orecchini risaltava sinistramente alla luce della lampada.

“Zehahaha!!!” proseguì il capitano pirata Marshall D. Teach detto “Barbanera” bevendo avidamente. “Anche oggi è stata una giornata proficua, per mille balene!” tuonò indicando un forziere pieno di gioielli che giaceva accanto all’albero.

“E promette di esserlo ancora di più, se riusciremo ad attaccare quel villaggio dove ci stiamo dirigendo, vero capo?”chiese il timoniere Jesus Burgess alzando le possenti braccia.

“Certamente figliolo! Il destino sarà con noi, vero Van Ooger?”.

Il cecchino, senza scomporsi, disse: “Sì, il fato ci sarà favorevole, vedrete”.

“Ah, la fortuna, la sfortuna…” prese a sospirare Doc Q, il medico di bordo.

“Se ne vanno e vengono quando più aggrada loro, vero Stronger?” continuò rivolgendosi al cavallo che fece fuoriuscire la lingua ed emise un verso a metà strada fra un nitrito e un colpo di tosse.

Lafitte, l’uomo con la faccia bianca come quella di uno spettro, si accostò a Teach e gli domandò: “Capo, ma cosa intendi fare con tutti bottini che stiamo razziando?”.

Il comandante sputò un immane torrente di liquore e lanciò una grossa risata, tenendosi la pancia per non scoppiare: “Zehahaha!!! Che domanda insulsa, caro il mio Lafitte! E io che ti credeva più intelligente! Ma è ovvio che ci permetteranno di nuotare nell’oro per il resto dei nostri giorni! Potremmo ritirarci su qualche isola a fare la bella vita! Ma il mio obiettivo finale è un altro. Lo conoscete di già, uomini?”.

I suoi quattro compagni avevano già sentito quella frase migliaia di volte, ma preferirono cedere la parola a un Barbanera ormai infervorato per non togliergli il divertimento.

“Una volta finito con questo villaggio, andremo in cerca di pirati per riscuotere le loro taglie, così il Governo si accorgerà di me e mi permetterà di entrare nella Flotta dei 7. A quel punto nulla ormai mi impedirà di trovare il tesoro di Gold Roger, e diventerò l’uomo più potente e temuto di tutti i mari. Realizzerò il mio sogno! Voi, invece, che sogni avete?”.

“Vorrei diventare il lottatore più forte del mondo!” esordì energicamente Burgess.

“Io vorrei continuare a fare la vita del cecchino” gli fece eco Van Ooger.

“Il mio desiderio è quello di vivere una vita fortunata” proseguì Doc Q .

“A me invece piacerebbe diventare un grande capitano al servizio di Barbanera” ammise Lafitte.

“Zehahaha! Andiamo gente! Brindiamo ai nostri sogni, perchè sono quello che di più prezioso abbiamo!” sbraitò il capitano levando in alto il boccale.

 

***

Verso l’alba, una terra fece capolino all’orizzonte.

“E’ l’isola che cerchiamo! Ne sono sicuro!” gridò il cecchino dalla coffa.

Barbanera, in piedi sul ponte, fissò la meta con sguardo combattivo e sghignazzando selvaggiamente disse: “Ci siamo uomini! Preparatevi a vederne delle belle! Ricordatevi: nessuna pietà e niente prigionieri! Chi non riesce a fuggire, tanto peggio per lui! Arraffate tutto!”.

Spinta con potenti colpi di remo dal timoniere e dal medico, la barca giunse a circa un miglio dall’imboccatura del porto: fortunatamente per i filibustieri, nessuno sembrava averla notata.

Teach afferrò di persona una miccia, e dopo il rituale: “Mirare…puntare…fuoco!”la usò per far sparare un cannone.

Uno dopo l’altro i proiettili, che prima seguivano traiettorie casuali o finivano, cominciarono a colpire gli edifici, mentre dalla coffa Van Ooger centrava i marinai dei vascelli ormeggiati.

Mentre sulla terraferma scoppiavano incendi ed esplosioni, il ballerino e il dottore rimasero a controllare la zattera, mentre il comandante, Burgess e il cecchino saltarono giù e cominciarono ad avanzare nell’acqua bassa e calda: erano in tre, ma sarebbero bastati.

Un uomo fuggì urlando per la via principale, probabilmente per raggiungere la propria famiglia, ma fu raggiunto da una pallottola nella nuca.

“Li odio quando fanno troppa confusione” sentenziò Barbanera soffiando sulla canna di una pistola.

Il lottatore sradicò dal suolo una casa e la lanciò in aria, seppellendo vivi alcuni fuggiaschi terrorizzati, mentre il tiratore sparava continuamente in tutte le direzioni.

All’improvviso alcuni reparti di marines di stanza sull’isola comparvero armati di sciabole e moschetti e caricarono i tre bucanieri.

Burgess li respinse scagliandoli via con calci e pugni, mente Van Ooger continuava imperterrito a far fuoco, freddando gli avversari con una micidiale pioggia di pallottole.

Barbanera, usando i propri poteri, cosparse di oscurità la zona davanti a sé, e dopo aver gridato: “Black hole!” risucchiò macerie e oggetti, che un attimo dopo rilasciò, coprendo i militari sopravvissuti sotto tutta quella massa.

Contemporaneamente anche gli altri due pirati restanti sbarcarono, e la ciurma si diede alla razzia e alla distruzione più sfrenati, compiendo innumerevoli barbarie: Barbanera gettò a terra una donna con il suo bambino per strapparle la collana, che subito indossò; il timoniere schiacciò la testa con un piede a un marine ferito; il cecchino sterminò un’intera famiglia a colpi di fucile e depredò la loro dimora di ogni cosa di valore, Doc Q saccheggiava i cadaveri e caricava il cavallo d’oro e argento; Lafitte uccise un vecchio con una bastonata fortissima sul cranio e gli prese il borsellino.

Quando tutto fu finito, del villaggio non rimasero che poche macerie fumanti e qualche solitario fuoco che ancora ardeva qua e là, mentre le navi che erano in porto erano già state affondate dai cannoni della barca e gli abitanti superstiti si erano rintanati al sicuro.

I membri dell’equipaggio, felici e festanti, caricavano sulla zattera sacchi pieni di oggetti preziosi cantando, mentre Teach si metteva tutti i gioielli su cui era riuscito a posare le mani nella cintura, sui vestiti, intorno al collo, intorno ai polsi e sulle dita.

Ad un certo punto un foglio abbandonato al suolo attrasse la sua attenzione.

Lo raccolse, comprendendo che si trattava del manifesto di un ricercato, quindi tuonò, leccandosi i baffi: “100 milioni di berry? Preparatevi a partire! Andiamo a prendere la testa di questo tizio!”.

 

 

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