Dolce Malinconia di Jyushi (/viewuser.php?uid=929951)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** “Tutti possono essere tristi, ma la malinconia resta l’appannaggio delle anime superiori” ***
Capitolo 2: *** Un nuovo giorno ***
Capitolo 3: *** Un cuore infranto è un cuore che ha amato ***
Capitolo 4: *** Questa è la mia vita che va avanti, oltre tutto, oltre la gente ***
Capitolo 1 *** “Tutti possono essere tristi, ma la malinconia resta l’appannaggio delle anime superiori” ***
Ciao a tutti! Mi presento, sono Jyushi e nonostante sia qui su EFP da due anni è la prima volta che pubblico qualcosa. O meglio è la prima volta che scrivo qualcosa! Questa sera guardavo le lucine alla finestra e sono stata ispirata. Ho scritto i primi due capitoli e ho più o meno una visione generale della storia. Di Sasunaru ne ho lette tantissime, spero di essere all'altezza di tutto, di non aver commesso troppi errori e di incuriosirvi un po'. Fatemi sapere cosa ne pensate e se avete consigli da darmi. Buona lettura :)
"Tutti possono essere tristi, ma la malinconia resta l'appannaggio delle anime superiori"
Sulla finestra le lucine danzavano festanti creando giochi di luce, aldilà solo il buio della strada con qualche raro lampione ad illuminare la via. Sasuke fissava le luci che gli trasmettevano una sensazione di dolce malinconia. Sì, per Sasuke la malinconia era dolce. Non era tristezza vera e propria, piuttosto il potersi crogiolare in una tristezza senza causa. Anche nei suoi sentimenti era pigro. Da qualche parte aveva letto questa frase “Tutti possono essere tristi, ma la malinconia resta l’appannaggio delle anime superiori” e ovviamente si era ritrovato d’accordo. Sasuke non era pieno di sé, non era arrogante o borioso semplicemente aveva contezza che le sue capacità intellettive erano superiori alla media. Ciò comportava una bella dose di noia. Era spesso annoiato dalla gente che lo circondava, non lo stimolava in alcun modo il rapporto con i suoi coetanei, anzi più tempo passava e più diventava insofferente alle dinamiche sociali in cui si trovava coinvolto. Quando era al massimo dell’esasperazione spesso si rinchiudeva in casa rifiutando qualsiasi contatto. Dopo un po’ capiva che anche una mente come la sua sarebbe impazzita lasciata a se stessa. L’uomo è un animale sociale, del resto. Possibile che tra 7,5 miliardi di persone non ce ne fosse una che non lo annoiasse? Con questi pensieri il giovane rampollo degli Uchiha si rotolò (neanche fosse un gatto) sotto le coperte e si addormentò quasi ipnotizzato dalla danza delle lucine. |
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Un nuovo giorno ***
2.
Un
nuovo giorno
Alle 7 in punto
la sveglia suonò e un secondo dopo era già
stata spenta da delle affusolate dita bianche. Il proprietario si
portò la mano
tra i capelli color ebano e si lasciò andare ad un lieve
sbuffo << Che un
nuovo, noioso, giorno abbia inizio>> pensò. Si
alzò e dopo una rapida e
fresca doccia bevve il suo caffè, rigorosamente amaro,
probabilmente unica
consolazione della sua giornata. Prese le chiavi della macchina e
vestito di
tutto punto si recò all’Università di
Tokyo in cui svolgeva un lavoro di
ricerca nel campo della letteratura giapponese contemporanea. Ai tempi
in cui
dovette compiere una scelta universitaria Sasuke non ebbe dubbi sulla
facoltà.
Se c’era una cosa al mondo che non lo annoiasse questa era
proprio la lettura.
Sasuke era un divoratore di libri e leggeva veramente di tutto, anche
autori o
generi che non gli piacevano. Probabilmente la sua levatura
intellettuale
derivava da ciò e non solo da una buona genetica come suo
padre sosteneva. La
sua scelta, in ogni caso, non incontrò il gusto di suo padre
il quale aveva
tracciato per lui un futuro da avvocato nel prestigioso studio di
famiglia del
quale suo fratello, Itachi, faceva già parte. Beh se
c’era una cosa che doveva
alla genetica, oltre agli splendidi lineamenti tutti made in Uchiha,
era la
testardaggine e soprattutto l’orgoglio. Più gli
dicevano che non doveva fare
una cosa, più lui l’avrebbe fatta solo per il
gusto di sottolineare il suo
unico e totale dominio sulla sua vita. Quindi forte della sua
testardaggine e
del suo orgoglio aveva portato avanti la sua scelta di studio
prendendone pro e
contro. Suo padre, forte anch’egli della sua testardaggine e
del suo orgoglio,
lo aveva messo di fronte ad un ultimatum: o sceglieva legge o avrebbe
dovuto
cavarsela da solo. Ovviamente scelse la seconda opzione e con questa il
primo
contro. In realtà poi la situazione non fu così
tragica, sua madre lo amava
immensamente e non avrebbe mai lasciato suo figlio minore in mezzo ad
una
strada per la stupidissima cocciutaggine tutta Uchiha. Quindi gli aveva
dato le
chiavi di una delle tante proprietà Uchiha e aveva chiesto
ad Itachi di aiutare
il fratello con il trasloco. Grazie a sua madre, in quegli anni
universitari,
non gli era mai mancato nulla. Le tasse universitarie erano pagate,
idem le
bollette e la spesa. In più aveva un conto da cui poteva
attingere per le
piccole cose quotidiane come gli abbonamenti della metro o i tantissimi
libri
di cui sentiva il bisogno. Spesso Itachi lo andava a trovare insieme a
suo
cugino Shisui e nonostante Sasuke facesse il reticente era veramente
felice
quando potevano passare insieme le serate.
Alla fine di
quegli anni universitari Sasuke si fece una
certa reputazione, non solo per il cognome che portava, ma anche per il
sorprendente talento che il ragazzo dimostrava ogni qual volta buttasse
giù un
pezzo. Era incredibile che da un ragazzo tanto austero e quasi privo di
emozioni potessero venir fuori tra le più belle parole mai
lette. Vinse
numerosi premi universitari e altrettanti concorsi. Si
laureò col massimo dei
voti e numerose furono le offerte da parte di quotidiani locali, tutte
rifiutate in blocco. A Sasuke non interessava edulcorare pettegolezzi o
scrivere romanzetti rosa per casalinghe cinquantenni insoddisfatte. No,
lui
voleva leggere il meglio che il mondo potesse offrirgli e voleva poter
dire la
sua in merito. Il critico letterario non era un lavoro semplice, spesso
si
cadeva nel soggettivo e Sasuke voleva essere il più
oggettivo e preciso
possibile. Così aveva finito per accettare una borsa di
ricerca presso la
stessa Università in letteratura giapponese contemporanea,
che lo aiutava sul
piano dell’indipendenza economica ma anche a fare dei passi
avanti verso il suo
obiettivo.
Conscio dei
successi del figlio, Fugaku fece, invece, un
passo indietro e dopo delle formali scuse per aver cercato di tarpargli
le ali
e dei complimenti per i successi ottenuti lo abbracciò come
non faceva da..
(beh in realtà Sasuke non ricordava un abbraccio di Fugaku).
Ciò stupì molto
Sasuke, conosceva il padre e sapeva che doveva essergli costato caro
mettere da
parte il suo orgoglio per riconoscere finalmente le sue scelte. Itachi
sosteneva che in realtà a Fugaku era mancato molto il figlio
minore, perché
anche se non esternava mai i suoi sentimenti, alla fine era un buon
padre che
voleva solo il meglio per i suoi figli e nella sua visione tradizionale
il
meglio era rappresentato dalla scuola di legge.
Sasuke
inchiodò, perso tra i suoi pensieri non si era accorto
di aver passato l’università. Parcheggiata la
macchina si recò presso il
Dipartimento di Lettere e nel tragitto fece cenno ad un paio di persone
che lo
salutavano allegramente. “Cosa avevano da essere
così allegri alle 8 del
mattino? Beh in generale cosa avevano da essere così
allegri?!” pensò stizzito.
Il suo ufficio lo condivideva con un altro borsista, probabilmente una
delle
pochissime persone che non odiava. Il suo nome era Shikamaru. Shikamaru
era un
tipo piuttosto singolare, incredibilmente pigro, sembrava non avere
interesse
per niente, a volte sembrava non sapere nemmeno lui come ci fosse
finito lì
dentro, ma nell’anno passato a condividere
l’ufficio Sasuke aveva capito che
Shikamaru aveva un’intelligenza di tipo analitico fuori dal
comune e inoltre si
faceva sempre i fatti suoi quindi andava abbastanza a genio
all’Uchiha. Certo,
lavorare con lui alla recensione di libri gialli era un incubo
perché finiva
sempre (involontariamente) per spoilerargli chi fosse
l’assassino. Già dalle
prime pagine lui capiva come andava a finire il caso. Inquietante e
incredibilmente irritante.
<>
salutò Sasuke entrando nell’ufficio.
<<
Buongiorno Sasuke, nuovo lavoro per noi. E’ arrivato
questo libro di un autore emergente e il professore Kakashi vorrebbe
che lo
leggessimo e che organizzassimo un incontro con l’autore a
cui possono
partecipare tutti gli studenti.>>
<<
Bene, quanto tempo abbiamo?>> chiese Sasuke.
<<
Due mesi. A fine gennaio dovremmo fare questo
incontro. A quanto pare il professore è rimasto talmente
colpito da
quest’autore che lo ha messo nel programma e quindi vuole che
il tutto avvenga
prima della sessione d’esami di Febbraio.>>
disse Shikamaru << Una
bella seccatura, proprio sotto Natale>>
continuò. << Avevi altri
programmi?>> domandò l’Uchiha.
<< Volevo rilassarmi e guardare le
nuvole>> risposte Nara guardando con sguardo sconfitto
fuori dalla
finestra. Sasuke scosse la testa, a volte era davvero bizzarro quel
ragazzo.
Colto dalla curiosità prese il libro che lo avrebbe
accompagnato nei mesi
successivi. Il titolo era “Dolce Malinconia” e
già questo lo colpì parecchio
visti i pensieri della sera precedente, e l’autore era un
certo Kyuubi
Namikaze. Non l’aveva mai sentito e sul retro del libro non
c’era alcun accenno
biografico. Guardò il libro, non vedeva l’ora di
leggerlo sperando che le sue
aspettative non venissero deluse.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Un cuore infranto è un cuore che ha amato ***
Salve a tutti! La scorsa volta mi sono dimenticata delle note..sorry, sono irrecuperabile! Comunque oggi sono un po' in anticipo sui tempi per vari ragioni tra cui il lavoro e il Natale. Quindi, avendo appena finito di scriverlo ho deciso di non rimandare a domani quel che posso fare oggi e pubblicarlo. Questo capitolo è bello corposo e abbastanza lungo per i miei standard. Inizialmente non lo avevo immaginato così, poi però mi è venuta un'idea e da lì ho sviluppato il capitolo. Mi ero più o meno delineata la storia, ma mi sa che cambierò spesso idea quindi chissà come andrà a finire, spero di non inguaiarmi! Spero davvero che vi piaccia e ovviamente attendo consigli e pareri nelle recensioni. Probabilmente ci sentiremo dopo Natale, pertanto Buon Natale a tutti voi, spero che sia felicissimo e ricco di cibo eheheh :) A presto!
PS Il titolo riprende una strofa della canzone "Supermarket Flowers" di Ed Sheeran.
3.
Un
cuore infranto è un cuore che ha amato
Quella
mattina al lavoro, come previsto, era stata un inferno. Aveva dovuto
sbrigare
tantissime pratiche burocratiche e non aveva avuto nemmeno 5 minuti di
tempo
per poter mettere le mani su quel libricino che tanto lo incuriosiva.
La
sensazione di frenesia che lo assaliva ogni volta che trovava un nuovo
libro
che poteva soddisfare la sua brama infinita di lettura era allo stesso
tempo
frustrante e appagante. Frustrante perché non vedeva
l’ora di poter terminare
la lettura, eppure la vita con i suoi noiosi bisogni di sopravvivenza
ne
rallentava considerevolmente la fine ( che tedio ogni qualvolta che
doveva
interrompere la lettura perché doveva dormire, mangiare o
lavarsi). Appagante
perché quando poteva finalmente dedicarcisi una sensazione
di soddisfazione si
impossessava di lui. In un certo qual modo poteva capire le sensazioni
che
suscitava la droga nelle persone che sviluppavano una dipendenza. Ecco,
la
lettura per lui era come una droga. Respirava solo quando leggeva.
Viveva solo
quando leggeva. Per alcuni quest’ultima osservazione poteva
sembrare un po’
triste, eppure lui non era minimamente triste. Leggendo aveva la
possibilità
non solo di vivere la sua di vita, ma anche quella dei protagonisti dei
libri.
Aveva solo 26 anni, ma gli sembrava di aver vissuto centinaia di vite,
di
sensazioni, di emozioni. Pensava di essere un uomo vissuto. Purtroppo
si
sbagliava, infatti, non aveva idea di come affrontare ciò
che da lì a poco
sarebbe accaduto.
Uscito
da lavoro si recò a fare un po’ di spesa per la
settimana e proprio mentre
scendeva dalla macchina fu urtato da qualcuno che correva.
«Mi scusi signore,
sta bene?»
«Ehi
stai attento a dove vai!» ringhiò Sasuke
«Le
ho già chiesto scusa, dovrebbe
imparare
ad essere più gentile!» rispose per nulla
intimorito lo sconosciuto. Sasuke
alzò finalmente lo sguardo e si ritrovò di fronte
un ragazzo sui 20 anni
biondissimo, carnagione ambrata e occhi color del cielo. La sua
espressione
indispettita ricordò a Sasuke che ci stava litigando con
questo ragazzo. Doveva
ammettere che aveva del fegato, non molti erano in grado di tenere
testa al
gelido Uchiha, i più saggi nemmeno ci provavano, gli
incoscienti ne uscivano
bruciati. Il ragazzo, senza dubbio un incosciente, stava lì
a fissarlo con quei
suoi occhi in cui ci si poteva facilmente annegare. Turbato da questi
pensieri,
Sasuke distolse lo sguardo e disse seccamente: «E tu dovresti
imparare a
camminare come una persona adulta e non a correre come un ragazzino
senza regole.
Sta più attento.». Salì
sull’auto e se ne andò scosso. Era talmente su di
giri
che si dimenticò di fare la spesa e appena giunto sotto casa
si maledì
internamente. Perché quel ragazzo lo aveva spiazzato
così tanto? Probabilmente
per il suo aspetto inusuale per essere in Giappone. Sì,
doveva essere così…per
quale altro motivo sennò?! Tranquillizzandosi
salì le scale di casa e proprio
sul pianerottolo sentì il telefono di squillare. Non lo
chiamava quasi mai
nessuno a casa, se non i suoi genitori e pensando che si trattasse di
sua madre
si affrettò a rispondere. Sua madre lo capiva meglio di lui,
quindi non vedeva
l’ora di farsi avvolgere dalle confortanti e calorose parole
di Mikoto per
farsi scivolare di dosso quella giornata infernale, facendo
però finta che fosse
annoiato dalle varie raccomandazioni e rassicurazioni della madre.
«Pronto?»
rispose
«Sasuke!
Allora sei a casa.» si sentì dall’altra
parte della cornetta.
«Itachi?
Perché mi chiami a casa?» suo fratello aveva uno
strano tono, non sapeva
decifrarlo, non lo aveva mai sentito così.
«Sasuke
sono in ospedale. Dovresti raggiungerci il più in fretta
possibile. E’ per
mamma.»
La
cornetta gli scivolò dalle mani. Aveva gli occhi spalancati
e tremava da capo a
piedi. Dopo un paio di secondi sembrò ridestarsi, prese le
chiavi della
macchina e si diresse il più velocemente possibile in
ospedale.
Sasuke
non ricordava granché le ultime due settimane. Le parole di
Itachi, in quel corridoio
d’ospedale continuavano a rimbombargli nella testa.
«Sasuke, la mamma ha avuto un
terribile incidente d’auto e …purtroppo i medici
non sono riusciti a
salvarla.». Quelle parole lo perseguitavano, e da allora la
sua mente si spense
e iniziò a comportarsi come un automa. C’era stato
il funerale e tutti gli
uomini Uchiha erano impeccabili nei loro abiti neri con la loro
carnagione
pallida, i visi tirati. Effettivamente si sentiva come un contenitore
vuoto. Il
fuori era bello, come al solito, ma dentro non era rimasto
più nulla. Suo padre
era devastato, Mikoto rappresentava la parte umana che il suo orgoglio
soffocava. Lui e suo padre erano molto simili caratterialmente e
dipendevano
assolutamente da Mikoto anche se non lo avrebbero mai ammesso, almeno
non fino
a quel momento. L’unica persona sempre buona e gentile,
comprensiva e amorevole
e che riusciva a fronteggiare e placare il malumore tutto Uchiha era
scomparsa.
E probabilmente tutti loro erano morti con lei in quella maledetta sera
di dicembre.
Dopo
cinque settimane Sasuke non dava alcun segno di ripresa delle
funzionalità
vitali. Ovviamente nessuno si aspettava che continuasse a vivere la sua
vita
come se nulla fosse, ma da parte sua non c’era un minimo di
reazione a questo
stato. Era come se ci fosse un muro di vetro tra lui e i suoi
sentimenti. Non
riusciva ad assorbire quest’improvvisa e tragica scomparsa e,
quindi, non
sarebbe riuscito nemmeno a metabolizzarla. Ogni volta che Itachi o
Shisui
cercavano di coinvolgerlo in una qualche attività per
distrarsi tutti insieme,
lui partecipava eppure sembrava come se non fosse realmente presente.
Questa
sua forma di alienazione del mondo e dalla vita iniziava a preoccupare
un po’
tutti. Shisui era convinto che il tempo lo avrebbe aiutato ad accettare
la
situazione e a riprendere il controllo sulla sua vita, ma Itachi,
conoscendo
Sasuke come le sue tasche, aveva paura che questo muro di vetro con il
tempo
diventasse di cemento. Non c’era un secondo da perdere,
avrebbe dovuto rompere
questo muro. Il modo migliore era quello di fargli fare un bel pianto
liberatorio (non aveva ancora versato una lacrima), ma non aveva idea
di come
fare. Alla fine optarono per obbligarlo a prendersi cura di qualcuno
così da
risvegliare piano piano i sentimenti sopiti in lui. Per questo motivo
quando
quella sera Sasuke rientrò a casa, si ritrovò
fratello e cugino comodamente
seduti sul suo divano.
«Voi
non avete idea di cosa significhi privacy, vero?»
domandò atono Sasuke, in
realtà non gli importava particolarmente che fossero
lì o che avessero invaso
la sua proprietà senza consenso. Beh’ al momento
non gli importava di niente.
«Di
ottimo umore come al solito Sasuchan!» disse Shisui sperando
di ottenere una
qualche reazione al sentire pronunciare il soprannome che tanto odiava.
Ma
anche questa volta ottenne solo un’occhiata indifferente.
Itachi, allora, prese
la parola « Sai otouto, in realtà siamo qui
perché abbiamo un regalo per te» «E
cosa sarebbe?» domandò Sasuke non realmente
interessato alla cosa. «Ecco qui»
ghignò Shisui e gli piazzò nelle mani un gatto di
qualche mese, arancione e con
un enorme fiocco al collo. Lo guardò accigliato
finché non realizzò « State
scherzando spero? Portate sto coso fuori da casa mia, ora!»
ringhiò Sasuke.
Alla prima vera reazione di Sasuke dopo settimane, Itachi e Shisui
sorrisero e
poggiando a terra tutto l’occorrente per prendersi cura del
gatto fuggirono
veloci giù per le scale.
I
giorni successivi furono frenetici, quella maledetta palla di pelo gli
stava
dando del filo da torcere, sembrava quasi che doveva prendersi cura di
un
neonato e proprio come un neonato ogni due ore il caro micio voleva
mangiare.
Il poco tempo libero che gli restava lo impiegava a mandare messaggi
vocali a
Itachi e Shisui in cui li malediva in tutti i modi e gli intimava di
andare a
raccattarsi quello stupido gatto. Ovviamente non c’era
speranza che i due
andassero a liberare il più piccolo dalle grinfie di quel
micio anzi gli
rispondevano di smetterla di lamentarsi e di dare finalmente un nome
alla
suddetta palla di pelo. Sì, perché Sasuke lo
apostrofava in ogni modo possibile
ma ancora non aveva dato un nome a quel povero animale. Una sera il
gatto era
particolarmente in vena di giochi e stava facendo letteralmente
impazzire il
povero Sasuke, che lo inseguiva per tutta la casa.
All’ennesimo tonfo Sasuke
perse la pazienza e si mise a gridargli contro, sentendosi subito dopo
un
perfetto idiota, ma a quanto pare ciò bastò per
calmarlo. Sedato il tentativo
di distruzione dell’appartamento, Sasuke si mise a
raccogliere tutto ciò che il
gatto aveva buttato durante le sue nobili gesta. Tra i vari oggetti
(anche i
suoi occhiali da vista, maledetto!), uno attirò la sua
attenzione. Era un
libricino sottile di cui si era totalmente dimenticato e che sembrava
appartenere, ormai, ad una vita fa. Sì, perché
tutti quei sentimenti di
curiosità non gli appartenevano più. Non riusciva
più ad eccitarsi di fronte ad
un potenziale buon libro. Non riusciva più a respirare.
Eppure, quella sera,
dopo più di cinque settimane sentì un qualche
impulso che lo portò ad aprire e
ad immergersi nella lettura di “Dolce Malinconia”.
Il
libro altro non era che un diario tenuto da un ragazzo dalla sua
infanzia fino
ai 20 anni di età più o meno. Si rivolgeva ai
genitori scomparsi,
raccontandogli tutto ciò che si stavano perdendo della sua
vita. I primi litigi
con i compagni, la prima cotta, il primo bacio, ma soprattutto la
tremenda
solitudine che lo accompagnava sempre. Ciò che lo
colpì fu la crescita dei
sentimenti nell’arco di quegli anni. In alcune pagine era
estremamente triste
che non ci fossero i genitori a consolarlo o a dargli un consiglio, in
altre
terribilmente arrabbiato, in alcune l’autocommiserazione
faceva da sovrana ripetendosi
domande del tipo “Perché a me?”. Sasuke
aveva notato che il 10 ottobre di ogni
anno era stranamente laconico, scriveva giusto qualche frase ed era
estremamente triste. Altri giorni era assurdamente felice e asseriva
che
sarebbero stati fieri di lui. Questo crescendo di emozioni si arrestava
al 10
ottobre precedente, giorno dell’ultima lettera.
“Cari
mamma e papà,
probabilmente
questa sarà l’ultima lettera che vi
scriverò. La vita ha continuato a scorrere
da quando non ci siete più e io per troppo tempo non ho
vissuto ancorato al
vostro doloroso ricordo. Sapete in qualche modo sono riuscito a
crescere, anche
se la maggior parte del tempo ho finto che andasse tutto bene. Facevo
lo
sbruffone, mi comportavo da pagliaccio con i miei compagni di scuola,
ma appena
tornavo nella mia stanza la maschera cadeva e davo sfogo a tutte le mie
lacrime
e a tutta la mia rabbia. Se c’è stata una costante
nella mia crescita, questa è
stata una domanda che mi ha accompagnato giornalmente negli anni. Mi
domandavo
“Perché a me?” quando andavo al parco
giochi e guardavo le mamme spingere i
propri figli sull’altalena, me lo domandavo quando camminando
per strada notavo
un padre comprare un gelato al figlio con la raccomandazione di non
dirlo alla
mamma. Me lo domandavo alle feste di compleanno, alle recite
scolastiche, alle
partite di basket quando vedevo i genitori sorridere radiosi ai loro
figli,
orgogliosi di quello che erano e di quello che sarebbero diventati. Me
lo
domandavo nel letto con la febbre alta quando le suore
dell’orfanotrofio in cui
stavo mi schiaffavano una pezza di acqua gelida sulla fronte e io tra i
deliri
della febbre immaginavo che lì accanto ci fossi tu, mamma, a
prenderti cura di
me e a dirmi che sarebbe andato tutto per il meglio. E ancora me lo
domandavo
quando in un tranquillo pomeriggio nel bel mezzo del mio programma
preferito,
il dolore arrivava improvvisamente ad ondate lasciandomi tramortito.
Sapete
quando si è soli, feriti ed impauriti i pensieri che si
fanno non sono del
tutto rosei e alla fine ho iniziato a manifestare la mia insofferenza,
soprattutto a scuola. Sono sicuro che non sareste stati fieri di me
quando
marinavo la scuola, non sareste stati fieri di me quando mi sono
trovato a far
parte di una gang di bulli, non sareste stati fieri di me quando ho
iniziato a
fumare e sicuramente non sareste stati fieri di me quando ho iniziato a
tagliarmi. E proprio quando sembrava che non mi sarei mai
più risollevato dai
miei stessi resti, il vostro infinito amore mi ha salvato.
All’età di 15 anni questo
bizzarro signore dai capelli bianchi (decisamente troppo lunghi per la
sua età)
mi prese con sé. Ero esterrefatto. Non mi aveva mai voluto
nessuno da bambino,
perché proprio adesso? Con il tempo scoprii che
l’Ero-sennin (appena leggerà mi
ammazza sicuro…ti voglio bene eremita porcello) era un
vostro carissimo amico e
addirittura il mio padrino, partito per un viaggio intorno al mondo che
lo
impegnò anni. Appena rientrato in Giappone seppe di voi e
quel vecchio pazzo
mosse mari e monti pur di potermi adottare. E sapete? Mi ha salvato da
me
stesso. Ed è stato allora che ho ringraziato il cielo ce la
vita avesse
continuato a scorrere impertinente, nonostante il mio dolore,
nonostante voi.
Sono ritornato ad essere protagonista della mia vita e non solo uno
spettatore
passivo. Nonostante gli errori, nonostante il dolore, ringrazio la vita
per
aver avuto, seppur per poco tempo, due genitori fantastici come voi. Mi
avete
amato incondizionatamente, mi avete fatto sentire al sicuro, mi avete
dato
tanta felicità e anche dalla vostra assenza ho appreso
insegnamenti di vita
fondamentali. L’amore è , probabilmente,
l’eredità più bella che mi potevate
lasciare e per questo vi sarò grato per sempre. Ho sprecato
anni ad arrabbiarmi
e ad autocommiserarmi, a chiedermi “Perché a
me?”. Beh il punto è “Perché
non a
me?”. Ho finalmente capito che le persone che abbiamo amato
anche se non
fisicamente con noi, non scompaiono mai del tutto. Io vi rivedo nei
miei
piccoli gesti quotidiani: rivedo papà ogni volta che mi
guardo allo specchio,
rivedo mamma quando rido sguaiatamente e senza nessuna grazia
terminando poi
con un bel ‘dattebayo, rivedo te, papà, quando
lascio correre e appiano le
divergenze per un bene superiore come l’amicizia o
l’amore e, infine, rivedo
te, mamma, quando lotto senza mollare mai anche quando ho tutto e tutti
contro
(sì, direi che la testa quadra l’ho presa proprio
da te). Voi siete qui,
proprio nel mio cuore, proprio nel mio sangue, proprio nei miei geni,
proprio
dentro di me e so che mi accompagnerete e mi sosterrete sempre in tutte
le fasi
della mia caotica vita. Ora posso finalmente lasciarvi andare, il
silenzio non
è più così assordante e il vostro
ricordo non è più così doloroso.
E’ dolce, è
triste ma a tratti è anche felice. Ora, quando penso a voi
non c’è più rabbia o
disperazione, ma solo un sorriso dolce amaro. Proprio come una dolce
malinconia.
Grazie
davvero di tutto. Vi amo.”
Il
libro finì e Sasuke ritornò in sé. Era
sul divano, il gatto si era accoccolato
contro di lui e faceva pigramente le fusa. Chiuse il libro e lo
posò sul
tavolino, si passò stancamente una mano sugli occhi e
proprio in quel momento
avvertì qualcosa di umido. Erano lacrime. Inconsciamente
durante la lettura
aveva pianto. Era davvero difficile in quel momento non immedesimarsi
con lo
scrittore. Capiva fin troppo bene la rabbia provata. Dannazione!
Lanciò il
cuscino contro la finestra del balcone e il gatto sobbalzò.
Perché tutto quello
era successo proprio alla povera Mikoto? Sua madre era la donna
più bella,
buona e dolce del mondo. Non aveva avuto una vita facile e non si
meritava
davvero quella fine. E Sasuke pianse. Finalmente dopo più di
sei settimane
pianse e tirò fuori tutto lo shock, il dolore, la tristezza,
la rabbia di
quella perdita. Pianse e urlò fino allo stremo, ricordando i
bei momenti legati
alla madre.
Proprio
mentre stava per addormentarsi, stremato dal pianto, il gatto gli
salì addosso.
Iniziò ad accarezzarlo distrattamente (per la prima volta) e
nel mentre pensava
che forse il ragazzo aveva ragione. Non poteva far passare la sua vita
nel
ricordo doloroso della madre, Mikoto non lo avrebbe di certo approvato
e questa
non reazione era di certo molto poco Uchiha. Avrebbe dovuto imparare a
convivere con il suo dolore, avrebbe dovuto imparare ad esternarlo e
magari
anche a condividerlo con chi stava provando lo stesso dolore come lui.
Proprio
in quel momento pensò a suo fratello Itachi e si
vergognò da morire. Si era
lasciato travolgere dallo shock e aveva smesso anche di sopravvivere,
lasciando
tutto sulle spalle del fratello maggiore. Non poteva continuare
così. Decise
che il giorno successivo sarebbe tornato a lavoro e che avrebbe fatto
tutto
quanto in suo potere per poter riprendere a vivere togliendo
preoccupazioni a
suo fratello e rendendo orgogliosa sua madre. Mikoto sarebbe stata
sempre con
lui, ora lo sapeva.
Mentre
si rigirava nel letto sentì il gatto sistemarsi ai suoi
piedi e sorridendo tra
sé e sé prese il cellulare e mandò un
messaggio ad Itachi: “ Sai Niisan penso
che il gatto lo chiamerò Kyuubi. Buonanotte.”.
Esausto dalle forti emozioni
provate tutte insieme in una sola serata il più piccolo
degli Uchiha si
addormentò al suono delle fusa del suo Kyuubi.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Questa è la mia vita che va avanti, oltre tutto, oltre la gente ***
4.
Questa è la mia vita che va avanti, oltre tutto , oltre la
gente
Alle 8 in punto
il telefono azionò la sveglia che partì con
la canzone dei Queen “Don’t stop me now”
ad un volume decisamente indecente per
quell’ora. Nonostante il volume la sveglia
continuò a suonare per un bel po’
finché nella stanza, perennemente in disordine, non irruppe
un uomo di mezza
età, con dei folti e scarmigliati capelli bianchi lunghi
fino alla schiena e con
indosso un kimono blu, assolutamente
troppo corto per il pudore di qualsiasi essere vivente sulla terra.
«Allora
ragazzo vuoi spegnere quell’aggeggio infernale o ci devo
pensare io come
l’ultima volta?» sbraitò
l’uomo. Avvertendo l’aura di pericolo che aveva iniziato ad aleggiare
nella stanza e in
particolare intorno al suo prezioso telefono, Naruto scattò
seduto sul letto e
pose, finalmente, fine a quella discoteca mattutina. Jiraya se ne
andò borbottando
contro il ragazzo il quale d’altro canto si mise a ridere.
Questa scena si
ripeteva ormai quasi tutte le mattine da 5 anni e nonostante ora
rappresentasse
la normale quotidianità della sua
“famiglia”, ancora non si era abituato al
clima familiare e non militaresco. Quindi mentre il buon Jiraya ogni
mattina si
svegliava innervosito dal frastuono, Naruto non solo non ci faceva
caso, ma
rideva bonariamente dei picchi isterici del suo tutore. Tutto quello,
per lui,
sapeva di reale, sapeva di casa, sapeva di famiglia e non si sarebbe
mai abituato,
probabilmente per la paura di perderlo, ma non smetteva mai ogni giorno
di
ringraziare per quella seconda
opportunità di vita.
Naruto aveva
appena 20
anni e diceva di essere venuto al mondo due volte. La prima ovviamente
il
giorno della sua nascita, avvenuta il 10 ottobre di 20 anni prima. La
seconda
quando Jiraya si assunse l’onere di crescerlo, di dargli una
casa, di dargli il
cibo, di toglierlo dall’orfanotrofio e soprattutto di dargli
affetto e di
credere in lui. In seguito ad un incidente stradale i genitori di
Naruto erano
morti quando lui aveva appena 3 anni. Lui era sopravvissuto, per
così dire, e
come unico segno dell’incidente si portava delle buffe
cicatrici sulle guance.
Da piccolo aveva odiato tantissimo quelle cicatrici, lo facevano
sentire
diverso, più di quanto non lo fosse (d’altronde
era un bambino biondo con gli
occhi azzurri, decisamente insolito per il Giappone), e ogni volta che
le
guardava un dolore al petto gli toglieva il respiro. Erano un monito
sempre
presente della morte dei suoi genitori. Gli altri bambini spesso lo
chiamavano
volpacchiotto per via della sua pelle ambrata e di queste bianche
cicatrici che
sembravano proprio dei baffi di una volpe. La sua infanzia non fu
propriamente
felice, la trascorse in un orfanotrofio dove a prendersi cura degli
orfani
c’erano delle suore, ma più che suore sembravano
arpie. Non avevano mai parole
gentili o sorrisi, ogni scusa era buona per sgridarli o metterli in
punizione.
Ovviamente Naruto aveva trascorso più tempo in punizione che
in camera sua.
L’unica persona che ricordava con affetto era il Maestro
Sarutobi che gestiva
l’orfanotrofio. Era stato lui a raccontargli la storia del
tragico incidente
dei suoi genitori, era stato lui a consolarlo, era stato lui ad
asciugargli le
lacrime. Crescendo Naruto non riusciva a metabolizzare il dolore per la
morte
dei suoi genitori, né riusciva ad afferrare il
perché fosse condannato a quella
vita così infelice, dove nessuno sembrava provare un
po’ di affetto per lui. E
allora la tristezza lasciò il posto alla rabbia. A
ripensarci ora Naruto non
andava molto fiero, effettivamente durante quegli anni si era
comportato come
un vero e proprio teppista. Non aveva alcun rispetto delle
autorità né
all’orfanotrofio né a scuola, si cacciava spesso
nei guai ad esempio scrivendo
sui muri della scuola con bombolette a spray o rubando documenti
importanti
agli insegnanti. Ciò ovviamente influiva con la sua media
scolastica che era
vergognosamente bassa. L’unica materia in cui eccelleva era
educazione fisica,
grazie ad essa si sentiva libero, si sfogava, riusciva a non pensare e
alla
fine era troppo stanco pure per organizzare il suo scherzo successivo.
Purtroppo educazione fisica da sola non bastava e più volte
aveva rischiato di
perdere l’anno scolastico recuperando in calcio
d’angolo solo grazie alle
pazienti ripetizioni del maestro Sarutobi. Come
c’è da immaginare le suore
dicevano peste e corna di Naruto, mentre gli altri orfani avevano preso
ad
evitarlo intimoriti dal suo comportamento tumultuoso. Il buon Sarutobi
cercava
sempre di coprire le birbanterie, come le chiamava lui, di Naruto e
cercava di
spiegare alle suore che Naruto si comportava come un delinquentello
semplicemente perché si sentiva solo al mondo. Nessuno gli
dava affetto, anzi
tutti lo evitavano e quello era l’unico modo che conosceva
per imporre la sua
presenza, per dare un segno della sua esistenza e per sfogare tutta la
sua
rabbia e tutta la sua tristezza. In qualche modo Naruto si
trovò alle medie, la
sua rabbia aumentava e i suoi scherzi non erano più innocue
marachelle. Non
c’era nulla di innocente quando si ritrovò a
pestare un ragazzino solo perché
aveva battuto il suo record di corsa e, non c’era decisamente
nulla di innocuo
quando nel bagno della scuola iniziò a tagliarsi. Il dolore
fisico che provava
tagliandosi non era nulla paragonato a quello che aveva dentro da ben
10 anni.
Anzi quel dolore era la giusta punizione per un rifiuto della
società come era
diventato lui. Lo sapeva benissimo che tutto ciò che faceva
era incredibilmente
sbagliato, eppure non poteva farne a meno. Il mondo gli aveva causato
dolore e
lui voleva causarne al mondo. Che diritto aveva quell’idiota
ad usurpargli il
suo record di corsa? Aveva una casa, dei genitori, dei fratelli, un
cane e
degli ottimi voti. Perché gli aveva rubato l’unica
cosa che aveva lui? Quel
pugno sul naso se l’era proprio meritato. Che diritto aveva
di essere felice e
perché lui sembrava condannato
all’infelicità? E allora un po’ della
sua
infelicità la voleva spargere e voleva contaminare tutto
ciò che c’era di
ingiusto, secondo lui, nel mondo. E quando realizzava che stava
perdendo il
controllo si puniva e desiderava di avere il coraggio di incidere
più in fondo,
così, almeno una volta per tutta quella storia avrebbe avuto
fine. Un giorno si
trovava nel solito cubicolo nel bagno, quando, d’improvviso
si aprì la porta.
Era stato così stupido da dimenticarsi di chiudere a chiave.
Di fronte a lui si
trovava un ragazzino minuto, con dei capelli rosso acceso e la matita
per occhi
di colore nero che gli contornava uno sguardo a dir poco glaciale.
Nonostante
il suo aspetto singolare Naruto non lo aveva mai notato a scuola. Si
squadrarono per un secondo, fino a quando non vide lo sguardo del rosso
indugiare sul sangue che colava dal suo braccio. Naruto
indurì lo sguardo, non
voleva essere giudicato o compatito da nessuno ed era pronto a
dimostrarglielo
a suon di pugni. Il ragazzo, invece, lo prese dal braccio e
iniziò a
trascinarlo fuori dal bagno « Ma che fai? Sei impazzito?
Lasciami
immediatamente andare!» cominciò a urlare Naruto,
ma a nulla valsero le sua
urla perché il ragazzo non si fermò. Lo
portò in un’aula vuota e avvicinandosi
ad un banco cominciò a rovistare in uno zaino dal quale
cacciò un mini kit di
pronto soccorso. In silenzio gli medicò tutte le ferite, con
calma e
delicatezza. Naruto era paralizzato, non sapeva cosa significasse tutta
quella
premura e si sentì decisamente male al pensiero che fino a
cinque minuti prima
aveva pensato di picchiarlo. Finite le medicazioni, il misterioso
ragazzo
rimise tutto apposto, poi si girò verso di lui,
indurì lo sguardo e
improvvisamente gli diede uno schiaffo!
Con la mano ancora sulla sua guancia gli disse «
Non ti permettere mai
più a deturpare il corpo che ti hanno donato i tuoi
genitori. Il corpo è come
un tempio, è un luogo sacro e tu lo devi rispettare e amare.
Non penso che i
tuoi sarebbero contenti a sapere come tratti il tuo tempio.»
«Beh i miei sono
morti quindi non credo gliene freghi qualcosa di quello che
faccio» «Allora sei
doppiamente una testa quadra. I tuoi sono morti e tu pensi bene di
accanirti
sull’eredità fisica che loro hanno lasciato su
questa terra? » «Eredità
fisica?» «Tu, usuratonkachi! Medica quelle ferite
due volte al giorno e
tornerai come nuovo. Per le ferite del tuo cuore invece..»
«Le ferite del mio
cuore?» « Sì, quelle ferite che sono
invisibili ma che hanno un effetto
ancora più doloroso e sconvolgente .
C’è solo
una medicina che funzioni. Potremmo lavorarci insieme e sono sicuro che
con il
tempo il tuo tempio risorgerà più bello di
prima.». Detto questo con la mano
che aveva ancora poggiata sulla guancia di Naruto, gli
accarezzò le cicatrici e
se ne andò silenziosamente come era venuto. Quello fu il primo incontro
con Gaara, il suo
migliore amico. Gaara quel giorno non mise del disinfettante solo sulle
sue
ferite fisiche, ma anche su quelle della sua anima. E’ vero
all’inizio brucia
un po’, ma poi quando la ferita comincia a rimarginarsi ti
senti più forte di
prima. Poi se insieme al disinfettante hai anche delle bende sei a
cavallo. E se
il disinfettante glielo aveva fornito Gaara, le bende gliele aveva
decisamente
date Jiraya.
Un giorno mentre
Naruto era chiuso in camera sua nell’orfanotrofio, con le
cuffie nelle orecchie
a scrivere distrattamente qualche pagina del suo diario, quel vecchio
pazzo
entrò come una furia rischiando di scardinare la porta.
Appena lo vide gridò il
suo nome e prese ad abbracciarlo convulsamente. Qualche minuto dopo
quando si
fu calmato, entrambi furono accompagnati nello studio del Maestro
Sarutobi e lì
Naruto scoprì un altro pezzo del puzzle della sua vita. Quel
folle altro non
era che il migliore amico dei suoi genitori, nonché suo
padrino, mancato per
anni dal Giappone perché era impegnato a svolgere il suo
lavoro di scrittore in
giro per il mondo. Era un tipo eccentrico, spesso si assentava per anni
e poi
ricompariva come se nulla fosse, raccontando aneddoti e storie
incredibili da
ogni parte del mondo. Era appena rientrato in Giappone quando venne a
conoscenza della tragica fine di Minato e Kushina, ma dopo lo shock
iniziale fece
il possibile e anche l’impossibile pur di trovare Naruto e
cercare di dargli un
futuro sereno. Naruto non poteva crederci, per anni aveva sperato che
qualcuno
lo adottasse per poter avere finalmente una vita normale, e ora, quando
non ci
sperava più arrivava il suo padrino dal nulla. Sembrava
quasi di stare dentro
Harry Potter. Ovviamente accettò di buon grado il cambio di
vita e superate le
difficoltà logistiche iniziali, Naruto sentì
finalmente di aver trovato il suo
posto nel mondo. Sentì, finalmente, di essere a casa.
Jiraya e Gaara
erano la sua famiglia, e anche se non
incarnavano lo stereotipo della famiglia tradizionale, quei due negli
anni gli
avevano somministrato alte dosi di quella medicina speciale che Gaara
aveva
nominato durante il loro primo incontro. Quella medicina era
miracolosa, ed era
stata in grado di guarire, lentamente, tutte le ferite del cuore del
giovane
Naruto. Il suo tempio era finalmente restaurato. Grazie a Gaara. Grazie
a
Jiraya. Grazie al loro amore.
Naruto si
stiracchiò felice e sorrise alla giornata che stava
per iniziare. Controllò i messaggi e ne trovò uno
di Gaara che molto
gentilmente gli intimava di alzarsi “Alzati testa quadra o
farai tardi agli
allenamenti anche oggi! Ti passo a prendere alle 8.45.
Muoviti.”. Strabuzzò gli
occhi, erano già le 8.30. Gaara lo avrebbe ucciso, ma cosa
ancor peggiore
rischiava di perdere il posto che si era guadagnato nella squadra
locale di
basket. Non era andato all’università,
perché al di là della sua infanzia
turbolenta, di studiare non aveva decisamente voglia. Era invece molto
bravo
nel basket e considerando che si trovava in Giappone i suoi 180 cm lo
collocavano
tra i giganti e tra i favoriti di questo sport. Suo padre aveva origini
australiane e da lui aveva decisamente ereditato i colori e
l’altezza. Era
riuscito ad ottenere un posto da professionista nella squadra di basket
di
Tokyo solo da qualche mese, ma visti i suoi continui ritardi agli
allenamenti
il coach aveva iniziato a minacciarlo di cacciarlo dalla squadra.
Quindi si
preparò il più velocemente possibile e quando
scese sotto casa trovò già Gaara
ad aspettarlo. Salito in macchina gli porse una busta di carta senza
dire nulla
come suo solito. Dentro ci trovò un cornetto al cioccolato.
Gaara lo conosceva
troppo bene e cominciando ad addentare il cornetto gli
regalò un sorriso a
trentadue denti. Sorriso che Gaara si era faticosamente conquistato
negli anni.
Naruto Uzumaki
aveva 20 anni ed era nato due volte. Naruto
Uzumaki aveva una casa e una famiglia da 5 anni. Naruto Uzumaki aveva
una
lavoro che gli piaceva. Naruto Uzumaki stava finalmente bene.
NOTE DELL’AUTRICE:
Buonasera a tutti carissimi e perdonate la mia scomparsa. Potrei dirvi
che ho avuto tantissimi impegni e pochissimo tempo per continuare la
storia, ma anche se ciò è vero corrisponde
parzialmente alla verità. Poco tempo a parte, vorrei che
questa fosse una bella storia e per essere veramente una storia ci deve
essere qualcosa da raccontare o almeno ci deve essere
quell’urgenza di voler tirar fuori un universo, qualunque
esso sia. E io in questi mesi non sapevo di quale universo scrivere e
non ne avevo proprio la voglia. Ma la mia urgenza di raccontarvi una
storia è tornata e mi ci sono buttata. Ho fatto del mio
meglio e spero davvero che vi piaccia. Buona lettura!
- Il titolo riprendere il ritornello della canzone
interpretata a Sanremo da Ermal Meta e Fabrizio Moro. Riadattandola
alla situazione di Naruto lo interpreto così: nonostante
tutte le avversità che la vita ci può porre di
fronte, essa non smette di scorrere e siamo noi a dover decidere se
sopravvivere o se vivere. E Naruto dopo un percorso travagliato ha
scelto di vivere.
- Il kimono blu troppo corto di Jiraya è un
riferimento al kimono blu troppo corto di Schimdt di New Girl.
Ovviamente non è importante, ma per chi segue New Girl
può facilmente immaginarsi la scena come l’ho
immaginata io :’)
Grazie dell’attenzione e alla prossima! Un
bacio
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3727098
|