Dolce Malinconia

di Jyushi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** “Tutti possono essere tristi, ma la malinconia resta l’appannaggio delle anime superiori” ***
Capitolo 2: *** Un nuovo giorno ***
Capitolo 3: *** Un cuore infranto è un cuore che ha amato ***
Capitolo 4: *** Questa è la mia vita che va avanti, oltre tutto, oltre la gente ***



Capitolo 1
*** “Tutti possono essere tristi, ma la malinconia resta l’appannaggio delle anime superiori” ***


Ciao a tutti! Mi presento, sono Jyushi e nonostante sia qui su EFP da due anni è la prima volta che pubblico qualcosa. O meglio è la prima volta che scrivo qualcosa! Questa sera guardavo le lucine alla finestra e sono stata ispirata. Ho scritto i primi due capitoli e ho più o meno una visione generale della storia. Di Sasunaru ne ho lette tantissime, spero di essere all'altezza di tutto, di non aver commesso troppi errori e di incuriosirvi un po'. Fatemi sapere cosa ne pensate e se avete consigli da darmi. Buona lettura :)      

"Tutti possono essere tristi, ma la malinconia resta l'appannaggio delle anime superiori"                                                                                                                

Sulla finestra le lucine danzavano festanti creando giochi di luce, aldilà solo il buio della strada con qualche raro lampione ad illuminare la via. Sasuke fissava le luci che gli trasmettevano una sensazione di dolce malinconia. Sì, per Sasuke la malinconia era dolce. Non era tristezza vera e propria, piuttosto il potersi crogiolare in una tristezza senza causa. Anche nei suoi sentimenti era pigro.  Da qualche parte aveva letto questa frase “Tutti possono essere tristi, ma la malinconia resta l’appannaggio delle anime superiori” e ovviamente si era ritrovato d’accordo. Sasuke non era pieno di sé, non era arrogante o borioso semplicemente aveva contezza che le sue capacità intellettive erano superiori alla media. Ciò comportava una bella dose di noia. Era spesso annoiato dalla gente che lo circondava, non lo stimolava in alcun modo il rapporto con i suoi coetanei, anzi più tempo passava e più diventava insofferente alle dinamiche sociali in cui si trovava coinvolto. Quando era al massimo dell’esasperazione spesso si rinchiudeva in casa rifiutando qualsiasi contatto. Dopo un po’ capiva che anche una mente come la sua sarebbe impazzita lasciata a se stessa. L’uomo è un animale sociale, del resto. Possibile che tra 7,5 miliardi di persone non ce ne fosse una che non lo annoiasse? Con questi pensieri il giovane rampollo degli Uchiha si rotolò (neanche fosse un gatto) sotto le coperte e si addormentò quasi ipnotizzato dalla danza delle lucine.

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Capitolo 2
*** Un nuovo giorno ***


2.    Un nuovo giorno

Alle 7 in punto la sveglia suonò e un secondo dopo era già stata spenta da delle affusolate dita bianche. Il proprietario si portò la mano tra i capelli color ebano e si lasciò andare ad un lieve sbuffo << Che un nuovo, noioso, giorno abbia inizio>> pensò. Si alzò e dopo una rapida e fresca doccia bevve il suo caffè, rigorosamente amaro, probabilmente unica consolazione della sua giornata. Prese le chiavi della macchina e vestito di tutto punto si recò all’Università di Tokyo in cui svolgeva un lavoro di ricerca nel campo della letteratura giapponese contemporanea. Ai tempi in cui dovette compiere una scelta universitaria Sasuke non ebbe dubbi sulla facoltà. Se c’era una cosa al mondo che non lo annoiasse questa era proprio la lettura. Sasuke era un divoratore di libri e leggeva veramente di tutto, anche autori o generi che non gli piacevano. Probabilmente la sua levatura intellettuale derivava da ciò e non solo da una buona genetica come suo padre sosteneva. La sua scelta, in ogni caso, non incontrò il gusto di suo padre il quale aveva tracciato per lui un futuro da avvocato nel prestigioso studio di famiglia del quale suo fratello, Itachi, faceva già parte. Beh se c’era una cosa che doveva alla genetica, oltre agli splendidi lineamenti tutti made in Uchiha, era la testardaggine e soprattutto l’orgoglio. Più gli dicevano che non doveva fare una cosa, più lui l’avrebbe fatta solo per il gusto di sottolineare il suo unico e totale dominio sulla sua vita. Quindi forte della sua testardaggine e del suo orgoglio aveva portato avanti la sua scelta di studio prendendone pro e contro. Suo padre, forte anch’egli della sua testardaggine e del suo orgoglio, lo aveva messo di fronte ad un ultimatum: o sceglieva legge o avrebbe dovuto cavarsela da solo. Ovviamente scelse la seconda opzione e con questa il primo contro. In realtà poi la situazione non fu così tragica, sua madre lo amava immensamente e non avrebbe mai lasciato suo figlio minore in mezzo ad una strada per la stupidissima cocciutaggine tutta Uchiha. Quindi gli aveva dato le chiavi di una delle tante proprietà Uchiha e aveva chiesto ad Itachi di aiutare il fratello con il trasloco. Grazie a sua madre, in quegli anni universitari, non gli era mai mancato nulla. Le tasse universitarie erano pagate, idem le bollette e la spesa. In più aveva un conto da cui poteva attingere per le piccole cose quotidiane come gli abbonamenti della metro o i tantissimi libri di cui sentiva il bisogno. Spesso Itachi lo andava a trovare insieme a suo cugino Shisui e nonostante Sasuke facesse il reticente era veramente felice quando potevano passare insieme le serate.

Alla fine di quegli anni universitari Sasuke si fece una certa reputazione, non solo per il cognome che portava, ma anche per il sorprendente talento che il ragazzo dimostrava ogni qual volta buttasse giù un pezzo. Era incredibile che da un ragazzo tanto austero e quasi privo di emozioni potessero venir fuori tra le più belle parole mai lette. Vinse numerosi premi universitari e altrettanti concorsi. Si laureò col massimo dei voti e numerose furono le offerte da parte di quotidiani locali, tutte rifiutate in blocco. A Sasuke non interessava edulcorare pettegolezzi o scrivere romanzetti rosa per casalinghe cinquantenni insoddisfatte. No, lui voleva leggere il meglio che il mondo potesse offrirgli e voleva poter dire la sua in merito. Il critico letterario non era un lavoro semplice, spesso si cadeva nel soggettivo e Sasuke voleva essere il più oggettivo e preciso possibile. Così aveva finito per accettare una borsa di ricerca presso la stessa Università in letteratura giapponese contemporanea, che lo aiutava sul piano dell’indipendenza economica ma anche a fare dei passi avanti verso il suo obiettivo.

Conscio dei successi del figlio, Fugaku fece, invece, un passo indietro e dopo delle formali scuse per aver cercato di tarpargli le ali e dei complimenti per i successi ottenuti lo abbracciò come non faceva da.. (beh in realtà Sasuke non ricordava un abbraccio di Fugaku). Ciò stupì molto Sasuke, conosceva il padre e sapeva che doveva essergli costato caro mettere da parte il suo orgoglio per riconoscere finalmente le sue scelte. Itachi sosteneva che in realtà a Fugaku era mancato molto il figlio minore, perché anche se non esternava mai i suoi sentimenti, alla fine era un buon padre che voleva solo il meglio per i suoi figli e nella sua visione tradizionale il meglio era rappresentato dalla scuola di legge.

Sasuke inchiodò, perso tra i suoi pensieri non si era accorto di aver passato l’università. Parcheggiata la macchina si recò presso il Dipartimento di Lettere e nel tragitto fece cenno ad un paio di persone che lo salutavano allegramente. “Cosa avevano da essere così allegri alle 8 del mattino? Beh in generale cosa avevano da essere così allegri?!” pensò stizzito. Il suo ufficio lo condivideva con un altro borsista, probabilmente una delle pochissime persone che non odiava. Il suo nome era Shikamaru. Shikamaru era un tipo piuttosto singolare, incredibilmente pigro, sembrava non avere interesse per niente, a volte sembrava non sapere nemmeno lui come ci fosse finito lì dentro, ma nell’anno passato a condividere l’ufficio Sasuke aveva capito che Shikamaru aveva un’intelligenza di tipo analitico fuori dal comune e inoltre si faceva sempre i fatti suoi quindi andava abbastanza a genio all’Uchiha. Certo, lavorare con lui alla recensione di libri gialli era un incubo perché finiva sempre (involontariamente) per spoilerargli chi fosse l’assassino. Già dalle prime pagine lui capiva come andava a finire il caso. Inquietante e incredibilmente irritante.

<> salutò Sasuke entrando nell’ufficio.

<< Buongiorno Sasuke, nuovo lavoro per noi. E’ arrivato questo libro di un autore emergente e il professore Kakashi vorrebbe che lo leggessimo e che organizzassimo un incontro con l’autore a cui possono partecipare tutti gli studenti.>>

<< Bene, quanto tempo abbiamo?>> chiese Sasuke.

<< Due mesi. A fine gennaio dovremmo fare questo incontro. A quanto pare il professore è rimasto talmente colpito da quest’autore che lo ha messo nel programma e quindi vuole che il tutto avvenga prima della sessione d’esami di Febbraio.>> disse Shikamaru << Una bella seccatura, proprio sotto Natale>> continuò. << Avevi altri programmi?>> domandò l’Uchiha. << Volevo rilassarmi e guardare le nuvole>> risposte Nara guardando con sguardo sconfitto fuori dalla finestra. Sasuke scosse la testa, a volte era davvero bizzarro quel ragazzo. Colto dalla curiosità prese il libro che lo avrebbe accompagnato nei mesi successivi. Il titolo era “Dolce Malinconia” e già questo lo colpì parecchio visti i pensieri della sera precedente, e l’autore era un certo Kyuubi Namikaze. Non l’aveva mai sentito e sul retro del libro non c’era alcun accenno biografico. Guardò il libro, non vedeva l’ora di leggerlo sperando che le sue aspettative non venissero deluse.

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Capitolo 3
*** Un cuore infranto è un cuore che ha amato ***


Salve a tutti! La scorsa volta mi sono dimenticata delle note..sorry, sono irrecuperabile! Comunque oggi sono un po' in anticipo sui tempi per vari ragioni tra cui il lavoro e il Natale. Quindi, avendo appena finito di scriverlo ho deciso di non rimandare a domani quel che posso fare oggi e pubblicarlo. Questo capitolo è bello corposo e abbastanza lungo per i miei standard. Inizialmente non lo avevo immaginato così, poi però mi è venuta un'idea e da lì ho sviluppato il capitolo. Mi ero più o meno delineata la storia, ma mi sa che cambierò spesso idea quindi chissà come andrà a finire, spero di non inguaiarmi! Spero davvero che vi piaccia e ovviamente attendo consigli e pareri nelle recensioni. Probabilmente ci sentiremo dopo Natale, pertanto Buon Natale a tutti voi, spero che sia felicissimo e ricco di cibo eheheh :) A presto! PS Il titolo riprende una strofa della canzone "Supermarket Flowers" di Ed Sheeran.

3. Un cuore infranto è un cuore che ha amato

Quella mattina al lavoro, come previsto, era stata un inferno. Aveva dovuto sbrigare tantissime pratiche burocratiche e non aveva avuto nemmeno 5 minuti di tempo per poter mettere le mani su quel libricino che tanto lo incuriosiva. La sensazione di frenesia che lo assaliva ogni volta che trovava un nuovo libro che poteva soddisfare la sua brama infinita di lettura era allo stesso tempo frustrante e appagante. Frustrante perché non vedeva l’ora di poter terminare la lettura, eppure la vita con i suoi noiosi bisogni di sopravvivenza ne rallentava considerevolmente la fine ( che tedio ogni qualvolta che doveva interrompere la lettura perché doveva dormire, mangiare o lavarsi). Appagante perché quando poteva finalmente dedicarcisi una sensazione di soddisfazione si impossessava di lui. In un certo qual modo poteva capire le sensazioni che suscitava la droga nelle persone che sviluppavano una dipendenza. Ecco, la lettura per lui era come una droga. Respirava solo quando leggeva. Viveva solo quando leggeva. Per alcuni quest’ultima osservazione poteva sembrare un po’ triste, eppure lui non era minimamente triste. Leggendo aveva la possibilità non solo di vivere la sua di vita, ma anche quella dei protagonisti dei libri. Aveva solo 26 anni, ma gli sembrava di aver vissuto centinaia di vite, di sensazioni, di emozioni. Pensava di essere un uomo vissuto. Purtroppo si sbagliava, infatti, non aveva idea di come affrontare ciò che da lì a poco sarebbe accaduto.

Uscito da lavoro si recò a fare un po’ di spesa per la settimana e proprio mentre scendeva dalla macchina fu urtato da qualcuno che correva.

 «Mi scusi signore, sta bene?»

«Ehi stai attento a dove vai!» ringhiò Sasuke

«Le ho già chiesto scusa, dovrebbe  imparare ad essere più gentile!» rispose per nulla intimorito lo sconosciuto. Sasuke alzò finalmente lo sguardo e si ritrovò di fronte un ragazzo sui 20 anni biondissimo, carnagione ambrata e occhi color del cielo. La sua espressione indispettita ricordò a Sasuke che ci stava litigando con questo ragazzo. Doveva ammettere che aveva del fegato, non molti erano in grado di tenere testa al gelido Uchiha, i più saggi nemmeno ci provavano, gli incoscienti ne uscivano bruciati. Il ragazzo, senza dubbio un incosciente, stava lì a fissarlo con quei suoi occhi in cui ci si poteva facilmente annegare. Turbato da questi pensieri, Sasuke distolse lo sguardo e disse seccamente: «E tu dovresti imparare a camminare come una persona adulta e non a correre come un ragazzino senza regole. Sta più attento.». Salì sull’auto e se ne andò scosso. Era talmente su di giri che si dimenticò di fare la spesa e appena giunto sotto casa si maledì internamente. Perché quel ragazzo lo aveva spiazzato così tanto? Probabilmente per il suo aspetto inusuale per essere in Giappone. Sì, doveva essere così…per quale altro motivo sennò?! Tranquillizzandosi salì le scale di casa e proprio sul pianerottolo sentì il telefono di squillare. Non lo chiamava quasi mai nessuno a casa, se non i suoi genitori e pensando che si trattasse di sua madre si affrettò a rispondere. Sua madre lo capiva meglio di lui, quindi non vedeva l’ora di farsi avvolgere dalle confortanti e calorose parole di Mikoto per farsi scivolare di dosso quella giornata infernale, facendo però finta che fosse annoiato dalle varie raccomandazioni e rassicurazioni della madre.

«Pronto?» rispose

«Sasuke! Allora sei a casa.» si sentì dall’altra parte della cornetta.

«Itachi? Perché mi chiami a casa?» suo fratello aveva uno strano tono, non sapeva decifrarlo, non lo aveva mai sentito così.

«Sasuke sono in ospedale. Dovresti raggiungerci il più in fretta possibile. E’ per mamma.»

La cornetta gli scivolò dalle mani. Aveva gli occhi spalancati e tremava da capo a piedi. Dopo un paio di secondi sembrò ridestarsi, prese le chiavi della macchina e si diresse il più velocemente possibile in ospedale.

 

 

Sasuke non ricordava granché le ultime due settimane. Le parole di Itachi, in quel corridoio d’ospedale continuavano a rimbombargli nella testa. «Sasuke, la mamma ha avuto un terribile incidente d’auto e …purtroppo i medici non sono riusciti a salvarla.». Quelle parole lo perseguitavano, e da allora la sua mente si spense e iniziò a comportarsi come un automa. C’era stato il funerale e tutti gli uomini Uchiha erano impeccabili nei loro abiti neri con la loro carnagione pallida, i visi tirati. Effettivamente si sentiva come un contenitore vuoto. Il fuori era bello, come al solito, ma dentro non era rimasto più nulla. Suo padre era devastato, Mikoto rappresentava la parte umana che il suo orgoglio soffocava. Lui e suo padre erano molto simili caratterialmente e dipendevano assolutamente da Mikoto anche se non lo avrebbero mai ammesso, almeno non fino a quel momento. L’unica persona sempre buona e gentile, comprensiva e amorevole e che riusciva a fronteggiare e placare il malumore tutto Uchiha era scomparsa. E probabilmente tutti loro erano morti con lei in quella maledetta sera di dicembre.

Dopo cinque settimane Sasuke non dava alcun segno di ripresa delle funzionalità vitali. Ovviamente nessuno si aspettava che continuasse a vivere la sua vita come se nulla fosse, ma da parte sua non c’era un minimo di reazione a questo stato. Era come se ci fosse un muro di vetro tra lui e i suoi sentimenti. Non riusciva ad assorbire quest’improvvisa e tragica scomparsa e, quindi, non sarebbe riuscito nemmeno a metabolizzarla. Ogni volta che Itachi o Shisui cercavano di coinvolgerlo in una qualche attività per distrarsi tutti insieme, lui partecipava eppure sembrava come se non fosse realmente presente. Questa sua forma di alienazione del mondo e dalla vita iniziava a preoccupare un po’ tutti. Shisui era convinto che il tempo lo avrebbe aiutato ad accettare la situazione e a riprendere il controllo sulla sua vita, ma Itachi, conoscendo Sasuke come le sue tasche, aveva paura che questo muro di vetro con il tempo diventasse di cemento. Non c’era un secondo da perdere, avrebbe dovuto rompere questo muro. Il modo migliore era quello di fargli fare un bel pianto liberatorio (non aveva ancora versato una lacrima), ma non aveva idea di come fare. Alla fine optarono per obbligarlo a prendersi cura di qualcuno così da risvegliare piano piano i sentimenti sopiti in lui. Per questo motivo quando quella sera Sasuke rientrò a casa, si ritrovò fratello e cugino comodamente seduti sul suo divano.

«Voi non avete idea di cosa significhi privacy, vero?» domandò atono Sasuke, in realtà non gli importava particolarmente che fossero lì o che avessero invaso la sua proprietà senza consenso. Beh’ al momento non gli importava di niente.

«Di ottimo umore come al solito Sasuchan!» disse Shisui sperando di ottenere una qualche reazione al sentire pronunciare il soprannome che tanto odiava. Ma anche questa volta ottenne solo un’occhiata indifferente. Itachi, allora, prese la parola « Sai otouto, in realtà siamo qui perché abbiamo un regalo per te» «E cosa sarebbe?» domandò Sasuke non realmente interessato alla cosa. «Ecco qui» ghignò Shisui e gli piazzò nelle mani un gatto di qualche mese, arancione e con un enorme fiocco al collo. Lo guardò accigliato finché non realizzò « State scherzando spero? Portate sto coso fuori da casa mia, ora!» ringhiò Sasuke. Alla prima vera reazione di Sasuke dopo settimane, Itachi e Shisui sorrisero e poggiando a terra tutto l’occorrente per prendersi cura del gatto fuggirono veloci giù per le scale.

I giorni successivi furono frenetici, quella maledetta palla di pelo gli stava dando del filo da torcere, sembrava quasi che doveva prendersi cura di un neonato e proprio come un neonato ogni due ore il caro micio voleva mangiare. Il poco tempo libero che gli restava lo impiegava a mandare messaggi vocali a Itachi e Shisui in cui li malediva in tutti i modi e gli intimava di andare a raccattarsi quello stupido gatto. Ovviamente non c’era speranza che i due andassero a liberare il più piccolo dalle grinfie di quel micio anzi gli rispondevano di smetterla di lamentarsi e di dare finalmente un nome alla suddetta palla di pelo. Sì, perché Sasuke lo apostrofava in ogni modo possibile ma ancora non aveva dato un nome a quel povero animale. Una sera il gatto era particolarmente in vena di giochi e stava facendo letteralmente impazzire il povero Sasuke, che lo inseguiva per tutta la casa. All’ennesimo tonfo Sasuke perse la pazienza e si mise a gridargli contro, sentendosi subito dopo un perfetto idiota, ma a quanto pare ciò bastò per calmarlo. Sedato il tentativo di distruzione dell’appartamento, Sasuke si mise a raccogliere tutto ciò che il gatto aveva buttato durante le sue nobili gesta. Tra i vari oggetti (anche i suoi occhiali da vista, maledetto!), uno attirò la sua attenzione. Era un libricino sottile di cui si era totalmente dimenticato e che sembrava appartenere, ormai, ad una vita fa. Sì, perché tutti quei sentimenti di curiosità non gli appartenevano più. Non riusciva più ad eccitarsi di fronte ad un potenziale buon libro. Non riusciva più a respirare. Eppure, quella sera, dopo più di cinque settimane sentì un qualche impulso che lo portò ad aprire e ad immergersi nella lettura di “Dolce Malinconia”.

Il libro altro non era che un diario tenuto da un ragazzo dalla sua infanzia fino ai 20 anni di età più o meno. Si rivolgeva ai genitori scomparsi, raccontandogli tutto ciò che si stavano perdendo della sua vita. I primi litigi con i compagni, la prima cotta, il primo bacio, ma soprattutto la tremenda solitudine che lo accompagnava sempre. Ciò che lo colpì fu la crescita dei sentimenti nell’arco di quegli anni. In alcune pagine era estremamente triste che non ci fossero i genitori a consolarlo o a dargli un consiglio, in altre terribilmente arrabbiato, in alcune l’autocommiserazione faceva da sovrana ripetendosi domande del tipo “Perché a me?”. Sasuke aveva notato che il 10 ottobre di ogni anno era stranamente laconico, scriveva giusto qualche frase ed era estremamente triste. Altri giorni era assurdamente felice e asseriva che sarebbero stati fieri di lui. Questo crescendo di emozioni si arrestava al 10 ottobre precedente, giorno dell’ultima lettera.

“Cari mamma e papà,

probabilmente questa sarà l’ultima lettera che vi scriverò. La vita ha continuato a scorrere da quando non ci siete più e io per troppo tempo non ho vissuto ancorato al vostro doloroso ricordo. Sapete in qualche modo sono riuscito a crescere, anche se la maggior parte del tempo ho finto che andasse tutto bene. Facevo lo sbruffone, mi comportavo da pagliaccio con i miei compagni di scuola, ma appena tornavo nella mia stanza la maschera cadeva e davo sfogo a tutte le mie lacrime e a tutta la mia rabbia. Se c’è stata una costante nella mia crescita, questa è stata una domanda che mi ha accompagnato giornalmente negli anni. Mi domandavo “Perché a me?” quando andavo al parco giochi e guardavo le mamme spingere i propri figli sull’altalena, me lo domandavo quando camminando per strada notavo un padre comprare un gelato al figlio con la raccomandazione di non dirlo alla mamma. Me lo domandavo alle feste di compleanno, alle recite scolastiche, alle partite di basket quando vedevo i genitori sorridere radiosi ai loro figli, orgogliosi di quello che erano e di quello che sarebbero diventati. Me lo domandavo nel letto con la febbre alta quando le suore dell’orfanotrofio in cui stavo mi schiaffavano una pezza di acqua gelida sulla fronte e io tra i deliri della febbre immaginavo che lì accanto ci fossi tu, mamma, a prenderti cura di me e a dirmi che sarebbe andato tutto per il meglio. E ancora me lo domandavo quando in un tranquillo pomeriggio nel bel mezzo del mio programma preferito, il dolore arrivava improvvisamente ad ondate lasciandomi tramortito. Sapete quando si è soli, feriti ed impauriti i pensieri che si fanno non sono del tutto rosei e alla fine ho iniziato a manifestare la mia insofferenza, soprattutto a scuola. Sono sicuro che non sareste stati fieri di me quando marinavo la scuola, non sareste stati fieri di me quando mi sono trovato a far parte di una gang di bulli, non sareste stati fieri di me quando ho iniziato a fumare e sicuramente non sareste stati fieri di me quando ho iniziato a tagliarmi. E proprio quando sembrava che non mi sarei mai più risollevato dai miei stessi resti, il vostro infinito amore mi ha salvato. All’età di 15 anni questo bizzarro signore dai capelli bianchi (decisamente troppo lunghi per la sua età) mi prese con sé. Ero esterrefatto. Non mi aveva mai voluto nessuno da bambino, perché proprio adesso? Con il tempo scoprii che l’Ero-sennin (appena leggerà mi ammazza sicuro…ti voglio bene eremita porcello) era un vostro carissimo amico e addirittura il mio padrino, partito per un viaggio intorno al mondo che lo impegnò anni. Appena rientrato in Giappone seppe di voi e quel vecchio pazzo mosse mari e monti pur di potermi adottare. E sapete? Mi ha salvato da me stesso. Ed è stato allora che ho ringraziato il cielo ce la vita avesse continuato a scorrere impertinente, nonostante il mio dolore, nonostante voi. Sono ritornato ad essere protagonista della mia vita e non solo uno spettatore passivo. Nonostante gli errori, nonostante il dolore, ringrazio la vita per aver avuto, seppur per poco tempo, due genitori fantastici come voi. Mi avete amato incondizionatamente, mi avete fatto sentire al sicuro, mi avete dato tanta felicità e anche dalla vostra assenza ho appreso insegnamenti di vita fondamentali. L’amore è , probabilmente, l’eredità più bella che mi potevate lasciare e per questo vi sarò grato per sempre. Ho sprecato anni ad arrabbiarmi e ad autocommiserarmi, a chiedermi “Perché a me?”. Beh il punto è “Perché non a me?”. Ho finalmente capito che le persone che abbiamo amato anche se non fisicamente con noi, non scompaiono mai del tutto. Io vi rivedo nei miei piccoli gesti quotidiani: rivedo papà ogni volta che mi guardo allo specchio, rivedo mamma quando rido sguaiatamente e senza nessuna grazia terminando poi con un bel ‘dattebayo, rivedo te, papà, quando lascio correre e appiano le divergenze per un bene superiore come l’amicizia o l’amore e, infine, rivedo te, mamma, quando lotto senza mollare mai anche quando ho tutto e tutti contro (sì, direi che la testa quadra l’ho presa proprio da te). Voi siete qui, proprio nel mio cuore, proprio nel mio sangue, proprio nei miei geni, proprio dentro di me e so che mi accompagnerete e mi sosterrete sempre in tutte le fasi della mia caotica vita. Ora posso finalmente lasciarvi andare, il silenzio non è più così assordante e il vostro ricordo non è più così doloroso. E’ dolce, è triste ma a tratti è anche felice. Ora, quando penso a voi non c’è più rabbia o disperazione, ma solo un sorriso dolce amaro. Proprio come una dolce malinconia.

Grazie davvero di tutto. Vi amo.”

 

Il libro finì e Sasuke ritornò in sé. Era sul divano, il gatto si era accoccolato contro di lui e faceva pigramente le fusa. Chiuse il libro e lo posò sul tavolino, si passò stancamente una mano sugli occhi e proprio in quel momento avvertì qualcosa di umido. Erano lacrime. Inconsciamente durante la lettura aveva pianto. Era davvero difficile in quel momento non immedesimarsi con lo scrittore. Capiva fin troppo bene la rabbia provata. Dannazione! Lanciò il cuscino contro la finestra del balcone e il gatto sobbalzò. Perché tutto quello era successo proprio alla povera Mikoto? Sua madre era la donna più bella, buona e dolce del mondo. Non aveva avuto una vita facile e non si meritava davvero quella fine. E Sasuke pianse. Finalmente dopo più di sei settimane pianse e tirò fuori tutto lo shock, il dolore, la tristezza, la rabbia di quella perdita. Pianse e urlò fino allo stremo, ricordando i bei momenti legati alla madre.

Proprio mentre stava per addormentarsi, stremato dal pianto, il gatto gli salì addosso. Iniziò ad accarezzarlo distrattamente (per la prima volta) e nel mentre pensava che forse il ragazzo aveva ragione. Non poteva far passare la sua vita nel ricordo doloroso della madre, Mikoto non lo avrebbe di certo approvato e questa non reazione era di certo molto poco Uchiha. Avrebbe dovuto imparare a convivere con il suo dolore, avrebbe dovuto imparare ad esternarlo e magari anche a condividerlo con chi stava provando lo stesso dolore come lui. Proprio in quel momento pensò a suo fratello Itachi e si vergognò da morire. Si era lasciato travolgere dallo shock e aveva smesso anche di sopravvivere, lasciando tutto sulle spalle del fratello maggiore. Non poteva continuare così. Decise che il giorno successivo sarebbe tornato a lavoro e che avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per poter riprendere a vivere togliendo preoccupazioni a suo fratello e rendendo orgogliosa sua madre. Mikoto sarebbe stata sempre con lui, ora lo sapeva.

Mentre si rigirava nel letto sentì il gatto sistemarsi ai suoi piedi e sorridendo tra sé e sé prese il cellulare e mandò un messaggio ad Itachi: “ Sai Niisan penso che il gatto lo chiamerò Kyuubi. Buonanotte.”. Esausto dalle forti emozioni provate tutte insieme in una sola serata il più piccolo degli Uchiha si addormentò al suono delle fusa del suo Kyuubi.

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Capitolo 4
*** Questa è la mia vita che va avanti, oltre tutto, oltre la gente ***


4. Questa è la mia vita che va avanti, oltre tutto , oltre la gente

Alle 8 in punto il telefono azionò la sveglia che partì con la canzone dei Queen “Don’t stop me now” ad un volume decisamente indecente per quell’ora. Nonostante il volume la sveglia continuò a suonare per un bel po’ finché nella stanza, perennemente in disordine, non irruppe un uomo di mezza età, con dei folti e scarmigliati capelli bianchi lunghi fino alla schiena e con indosso un kimono blu,  assolutamente troppo corto per il pudore di qualsiasi essere vivente sulla terra. «Allora ragazzo vuoi spegnere quell’aggeggio infernale o ci devo pensare io come l’ultima volta?» sbraitò l’uomo. Avvertendo l’aura di pericolo che aveva  iniziato ad aleggiare nella stanza e in particolare intorno al suo prezioso telefono, Naruto scattò seduto sul letto e pose, finalmente, fine a quella discoteca mattutina. Jiraya se ne andò borbottando contro il ragazzo il quale d’altro canto si mise a ridere. Questa scena si ripeteva ormai quasi tutte le mattine da 5 anni e nonostante ora rappresentasse la normale quotidianità della sua “famiglia”, ancora non si era abituato al clima familiare e non militaresco. Quindi mentre il buon Jiraya ogni mattina si svegliava innervosito dal frastuono, Naruto non solo non ci faceva caso, ma rideva bonariamente dei picchi isterici del suo tutore. Tutto quello, per lui, sapeva di reale, sapeva di casa, sapeva di famiglia e non si sarebbe mai abituato, probabilmente per la paura di perderlo, ma non smetteva mai ogni giorno di ringraziare per quella seconda  opportunità di vita.

Naruto aveva appena 20 anni e diceva di essere venuto al mondo due volte. La prima ovviamente il giorno della sua nascita, avvenuta il 10 ottobre di 20 anni prima. La seconda quando Jiraya si assunse l’onere di crescerlo, di dargli una casa, di dargli il cibo, di toglierlo dall’orfanotrofio e soprattutto di dargli affetto e di credere in lui. In seguito ad un incidente stradale i genitori di Naruto erano morti quando lui aveva appena 3 anni. Lui era sopravvissuto, per così dire, e come unico segno dell’incidente si portava delle buffe cicatrici sulle guance. Da piccolo aveva odiato tantissimo quelle cicatrici, lo facevano sentire diverso, più di quanto non lo fosse (d’altronde era un bambino biondo con gli occhi azzurri, decisamente insolito per il Giappone), e ogni volta che le guardava un dolore al petto gli toglieva il respiro. Erano un monito sempre presente della morte dei suoi genitori. Gli altri bambini spesso lo chiamavano volpacchiotto per via della sua pelle ambrata e di queste bianche cicatrici che sembravano proprio dei baffi di una volpe. La sua infanzia non fu propriamente felice, la trascorse in un orfanotrofio dove a prendersi cura degli orfani c’erano delle suore, ma più che suore sembravano arpie. Non avevano mai parole gentili o sorrisi, ogni scusa era buona per sgridarli o metterli in punizione. Ovviamente Naruto aveva trascorso più tempo in punizione che in camera sua. L’unica persona che ricordava con affetto era il Maestro Sarutobi che gestiva l’orfanotrofio. Era stato lui a raccontargli la storia del tragico incidente dei suoi genitori, era stato lui a consolarlo, era stato lui ad asciugargli le lacrime. Crescendo Naruto non riusciva a metabolizzare il dolore per la morte dei suoi genitori, né riusciva ad afferrare il perché fosse condannato a quella vita così infelice, dove nessuno sembrava provare un po’ di affetto per lui. E allora la tristezza lasciò il posto alla rabbia. A ripensarci ora Naruto non andava molto fiero, effettivamente durante quegli anni si era comportato come un vero e proprio teppista. Non aveva alcun rispetto delle autorità né all’orfanotrofio né a scuola, si cacciava spesso nei guai ad esempio scrivendo sui muri della scuola con bombolette a spray o rubando documenti importanti agli insegnanti. Ciò ovviamente influiva con la sua media scolastica che era vergognosamente bassa. L’unica materia in cui eccelleva era educazione fisica, grazie ad essa si sentiva libero, si sfogava, riusciva a non pensare e alla fine era troppo stanco pure per organizzare il suo scherzo successivo. Purtroppo educazione fisica da sola non bastava e più volte aveva rischiato di perdere l’anno scolastico recuperando in calcio d’angolo solo grazie alle pazienti ripetizioni del maestro Sarutobi. Come c’è da immaginare le suore dicevano peste e corna di Naruto, mentre gli altri orfani avevano preso ad evitarlo intimoriti dal suo comportamento tumultuoso. Il buon Sarutobi cercava sempre di coprire le birbanterie, come le chiamava lui, di Naruto e cercava di spiegare alle suore che Naruto si comportava come un delinquentello semplicemente perché si sentiva solo al mondo. Nessuno gli dava affetto, anzi tutti lo evitavano e quello era l’unico modo che conosceva per imporre la sua presenza, per dare un segno della sua esistenza e per sfogare tutta la sua rabbia e tutta la sua tristezza. In qualche modo Naruto si trovò alle medie, la sua rabbia aumentava e i suoi scherzi non erano più innocue marachelle. Non c’era nulla di innocente quando si ritrovò a pestare un ragazzino solo perché aveva battuto il suo record di corsa e, non c’era decisamente nulla di innocuo quando nel bagno della scuola iniziò a tagliarsi. Il dolore fisico che provava tagliandosi non era nulla paragonato a quello che aveva dentro da ben 10 anni. Anzi quel dolore era la giusta punizione per un rifiuto della società come era diventato lui. Lo sapeva benissimo che tutto ciò che faceva era incredibilmente sbagliato, eppure non poteva farne a meno. Il mondo gli aveva causato dolore e lui voleva causarne al mondo. Che diritto aveva quell’idiota ad usurpargli il suo record di corsa? Aveva una casa, dei genitori, dei fratelli, un cane e degli ottimi voti. Perché gli aveva rubato l’unica cosa che aveva lui? Quel pugno sul naso se l’era proprio meritato. Che diritto aveva di essere felice e perché lui sembrava condannato all’infelicità? E allora un po’ della sua infelicità la voleva spargere e voleva contaminare tutto ciò che c’era di ingiusto, secondo lui, nel mondo. E quando realizzava che stava perdendo il controllo si puniva e desiderava di avere il coraggio di incidere più in fondo, così, almeno una volta per tutta quella storia avrebbe avuto fine. Un giorno si trovava nel solito cubicolo nel bagno, quando, d’improvviso si aprì la porta. Era stato così stupido da dimenticarsi di chiudere a chiave. Di fronte a lui si trovava un ragazzino minuto, con dei capelli rosso acceso e la matita per occhi di colore nero che gli contornava uno sguardo a dir poco glaciale. Nonostante il suo aspetto singolare Naruto non lo aveva mai notato a scuola. Si squadrarono per un secondo, fino a quando non vide lo sguardo del rosso indugiare sul sangue che colava dal suo braccio. Naruto indurì lo sguardo, non voleva essere giudicato o compatito da nessuno ed era pronto a dimostrarglielo a suon di pugni. Il ragazzo, invece, lo prese dal braccio e iniziò a trascinarlo fuori dal bagno « Ma che fai? Sei impazzito? Lasciami immediatamente andare!» cominciò a urlare Naruto, ma a nulla valsero le sua urla perché il ragazzo non si fermò. Lo portò in un’aula vuota e avvicinandosi ad un banco cominciò a rovistare in uno zaino dal quale cacciò un mini kit di pronto soccorso. In silenzio gli medicò tutte le ferite, con calma e delicatezza. Naruto era paralizzato, non sapeva cosa significasse tutta quella premura e si sentì decisamente male al pensiero che fino a cinque minuti prima aveva pensato di picchiarlo. Finite le medicazioni, il misterioso ragazzo rimise tutto apposto, poi si girò verso di lui, indurì lo sguardo e improvvisamente gli diede uno schiaffo!  Con la mano ancora sulla sua guancia gli disse « Non ti permettere mai più a deturpare il corpo che ti hanno donato i tuoi genitori. Il corpo è come un tempio, è un luogo sacro e tu lo devi rispettare e amare. Non penso che i tuoi sarebbero contenti a sapere come tratti il tuo tempio.» «Beh i miei sono morti quindi non credo gliene freghi qualcosa di quello che faccio» «Allora sei doppiamente una testa quadra. I tuoi sono morti e tu pensi bene di accanirti sull’eredità fisica che loro hanno lasciato su questa terra? » «Eredità fisica?» «Tu, usuratonkachi! Medica quelle ferite due volte al giorno e tornerai come nuovo. Per le ferite del tuo cuore invece..» «Le ferite del mio cuore?» « Sì, quelle ferite che sono invisibili ma che hanno un effetto  ancora più doloroso e sconvolgente . C’è solo una medicina che funzioni. Potremmo lavorarci insieme e sono sicuro che con il tempo il tuo tempio risorgerà più bello di prima.». Detto questo con la mano che aveva ancora poggiata sulla guancia di Naruto, gli accarezzò le cicatrici e se ne andò silenziosamente come era venuto.  Quello fu il primo incontro con Gaara, il suo migliore amico. Gaara quel giorno non mise del disinfettante solo sulle sue ferite fisiche, ma anche su quelle della sua anima. E’ vero all’inizio brucia un po’, ma poi quando la ferita comincia a rimarginarsi ti senti più forte di prima. Poi se insieme al disinfettante hai anche delle bende sei a cavallo. E se il disinfettante glielo aveva fornito Gaara, le bende gliele aveva decisamente date Jiraya.

Un giorno mentre Naruto era chiuso in camera sua nell’orfanotrofio, con le cuffie nelle orecchie a scrivere distrattamente qualche pagina del suo diario, quel vecchio pazzo entrò come una furia rischiando di scardinare la porta. Appena lo vide gridò il suo nome e prese ad abbracciarlo convulsamente. Qualche minuto dopo quando si fu calmato, entrambi furono accompagnati nello studio del Maestro Sarutobi e lì Naruto scoprì un altro pezzo del puzzle della sua vita. Quel folle altro non era che il migliore amico dei suoi genitori, nonché suo padrino, mancato per anni dal Giappone perché era impegnato a svolgere il suo lavoro di scrittore in giro per il mondo. Era un tipo eccentrico, spesso si assentava per anni e poi ricompariva come se nulla fosse, raccontando aneddoti e storie incredibili da ogni parte del mondo. Era appena rientrato in Giappone quando venne a conoscenza della tragica fine di Minato e Kushina, ma dopo lo shock iniziale fece il possibile e anche l’impossibile pur di trovare Naruto e cercare di dargli un futuro sereno. Naruto non poteva crederci, per anni aveva sperato che qualcuno lo adottasse per poter avere finalmente una vita normale, e ora, quando non ci sperava più arrivava il suo padrino dal nulla. Sembrava quasi di stare dentro Harry Potter. Ovviamente accettò di buon grado il cambio di vita e superate le difficoltà logistiche iniziali, Naruto sentì finalmente di aver trovato il suo posto nel mondo. Sentì, finalmente, di essere a casa.

Jiraya e Gaara erano la sua famiglia, e anche se non incarnavano lo stereotipo della famiglia tradizionale, quei due negli anni gli avevano somministrato alte dosi di quella medicina speciale che Gaara aveva nominato durante il loro primo incontro. Quella medicina era miracolosa, ed era stata in grado di guarire, lentamente, tutte le ferite del cuore del giovane Naruto. Il suo tempio era finalmente restaurato. Grazie a Gaara. Grazie a Jiraya. Grazie al loro amore.

Naruto si stiracchiò felice e sorrise alla giornata che stava per iniziare. Controllò i messaggi e ne trovò uno di Gaara che molto gentilmente gli intimava di alzarsi “Alzati testa quadra o farai tardi agli allenamenti anche oggi! Ti passo a prendere alle 8.45. Muoviti.”. Strabuzzò gli occhi, erano già le 8.30. Gaara lo avrebbe ucciso, ma cosa ancor peggiore rischiava di perdere il posto che si era guadagnato nella squadra locale di basket. Non era andato all’università, perché al di là della sua infanzia turbolenta, di studiare non aveva decisamente voglia. Era invece molto bravo nel basket e considerando che si trovava in Giappone i suoi 180 cm lo collocavano tra i giganti e tra i favoriti di questo sport. Suo padre aveva origini australiane e da lui aveva decisamente ereditato i colori e l’altezza. Era riuscito ad ottenere un posto da professionista nella squadra di basket di Tokyo solo da qualche mese, ma visti i suoi continui ritardi agli allenamenti il coach aveva iniziato a minacciarlo di cacciarlo dalla squadra. Quindi si preparò il più velocemente possibile e quando scese sotto casa trovò già Gaara ad aspettarlo. Salito in macchina gli porse una busta di carta senza dire nulla come suo solito. Dentro ci trovò un cornetto al cioccolato. Gaara lo conosceva troppo bene e cominciando ad addentare il cornetto gli regalò un sorriso a trentadue denti. Sorriso che Gaara si era faticosamente conquistato negli anni.

Naruto Uzumaki aveva 20 anni ed era nato due volte. Naruto Uzumaki aveva una casa e una famiglia da 5 anni. Naruto Uzumaki aveva una lavoro che gli piaceva. Naruto Uzumaki stava finalmente bene.

NOTE DELL’AUTRICE:
Buonasera a tutti carissimi e perdonate la mia scomparsa. Potrei dirvi che ho avuto tantissimi impegni e pochissimo tempo per continuare la storia, ma anche se ciò è vero corrisponde parzialmente alla verità. Poco tempo a parte, vorrei che questa fosse una bella storia e per essere veramente una storia ci deve essere qualcosa da raccontare o almeno ci deve essere quell’urgenza di voler tirar fuori un universo, qualunque esso sia. E io in questi mesi non sapevo di quale universo scrivere e non ne avevo proprio la voglia. Ma la mia urgenza di raccontarvi una storia è tornata e mi ci sono buttata. Ho fatto del mio meglio e spero davvero che vi piaccia. Buona lettura!

 - Il titolo riprendere il ritornello della canzone interpretata a Sanremo da Ermal Meta e Fabrizio Moro. Riadattandola alla situazione di Naruto lo interpreto così: nonostante tutte le avversità che la vita ci può porre di fronte, essa non smette di scorrere e siamo noi a dover decidere se sopravvivere o se vivere. E Naruto dopo un percorso travagliato ha scelto di vivere.
 - Il kimono blu troppo corto di Jiraya è un riferimento al kimono blu troppo corto di Schimdt di New Girl. Ovviamente non è importante, ma per chi segue New Girl può facilmente immaginarsi la scena come l’ho immaginata io :’)

 Grazie dell’attenzione e alla prossima! Un bacio 

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