Alien

di nuvolenere_dna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1: A Crack In My Soul ***
Capitolo 2: *** 2: I Like You Damaged ***
Capitolo 3: *** 3: When You Think You're Free ***
Capitolo 4: *** 4: Love The Abuse ***
Capitolo 5: *** 5: Hate Is Not Enough ***



Capitolo 1
*** 1: A Crack In My Soul ***


Eccoci, finalmente, non ci posso credere! *sospira di sollievo*
Ce l’ho fatta!
Allora. Partiamo dal presupposto che non so come presentare la mia storia, quindi vogliate scusarmi se questa introduzione non sarà che uno sproloquio confuso e sicuramente emozionato.
Inizio col dire che mi dispiace pubblicare i cinque capitoli di questa storia tutti insieme nello stesso giorno, ma dal momento che questa storia partecipa al contest “Au is the only way” indetto da meryl watase sul forum di Efp, che scade il 18/12, non ho potuto pubblicarla capitolo per capitolo perché, come potete immaginare, sono polla e ho finito di revisionare il tutto solo mezz’ora fa! *ride*
Confesso che non me ne intendo di AU, non sono solita leggerle e non ne ho mai scritta una, è un tentativo di uscire dalla mia zona di comfort e cimentarmi in qualcosa di diverso! Inoltre, questa è la prima volta che inserisco un OC con un ruolo consistente e spero di averlo fatto con dovizia, senza dare vita a una Mary Sue o a un personaggio comunque scialbo e poco interessante. Mi direte voi, nelle eventuali recensioni, cosa ne pensate.
Voglio ora ringraziare alcune persone, che mi hanno sostenuto e aiutato quotidianamente nella stesura di questa storia, alla quale ho dedicato la maggior parte delle mie serate negli ultimi due mesi.
Ringrazio Zappa e felinala, per essere una costante nelle mie giornate da tanto tempo, per avermi sopportato e supportato.
Ma soprattutto ringrazio Sibyl__V, per aver disegnato l’immagine che vedete qui sotto il titolo, è la copertina migliore che potessi immaginare e non ti sarò mai grata abbastanza per avermi fatto questo onore. Grazie per aver realizzato il mio desiderio, siamo veramente una bella squadra.
La colonna sonora portante della storia è rappresentata da cinque canzoni di Marilyn Manson, i cui versi più calzanti sono stati proposti in testa ai capitoli. Altre canzoni sono disseminate nel corpo del testo e vi invito in generale a prestare attenzione alla musica e a ciò che dice, le scelte non sono mai state casuali.
Mi preparo al lancio dei pomodori, ma siate gentili, Alien è un pezzo di me ormai e ci sono molto affezionata.
Spero che possiate apprezzare la storia e in attesa di vostri riscontri vi mando un grande e caloroso abbraccio.
Nu

Alien

 


1: A Crack In My Soul

 
If you’re not afraid of getting hurt/Se tu non hai paura di essere ferita
Then I’m not afraid of how much I hurt you/Allora io non ho paura di quanto posso ferirti
I’m well aware I’m a danger to myself /Sono ben consapevole di essere un pericolo per me stesso
Are you aware I’m a danger to others?/Sei consapevole che io sono un pericolo per gli altri?
There’s a crack in my soul/C’è una crepa nella mia anima
You thought was a smile/Tu pensavi che fosse un sorriso
 [Marilyn Manson – Leave A Scar]1
 
18 Novembre, sabato, ore 4.07
 
Occhi umidi fissano le sue spalle nude, lambite dalla coperta di lana finemente ricamata, i trapezi muscolosi scavati dal buio della stanza, immersa nella penombra. Percorrono la filigrana liscia della sua pelle esangue, costellata dalle cicatrici, fino a risalire la sua nuca rasata e sprofondare fra i suoi capelli lisci e tinti di viola, sparsi sul cuscino. Lo ascolta respirare, inquieto, come la risacca del mare mosso che divora il vento fra le sue onde e si infrange sulla riva.
I contorni del suo corpo sono scuri e incerti, come se provenissero da un’altra dimensione, lontana e irraggiungibile. Ha paura di toccarlo, il metro che li separa non è mai stato così sterminato, un immenso lago ghiacciato sul quale ogni piccolo movimento potrebbe rivelarsi mortale. Piange e singhiozza, tappandosi la bocca per non fare rumore, le lacrime che le colano dalle ciglia come mine vaganti di una pressione lancinante, sproporzionata per il breve tratto della sua gola.
“Ho bisogno di te
Vorrebbe urlargli, con tutte le forze che ha in corpo, fino a ustionarsi l’esofago, a strapparsi le corde vocali per lo sforzo. Si trattiene, cullandosi nell’ombra rassicurante dell’enorme salice piangente, oscillante dietro le tende e il vetro antiproiettile, in un inchino maestoso che riversa i rami sottili come fili d’erba sulla terra arida.
Vorrebbe essere come lui, tollerante di fronte alla morte, paziente nell’osservare le proprie foglie avvizzite che si allontanano trascinate lontano dal vento, stoico nel sopportare il dolore delle tempeste che lo frustano spietate. Si è illusa di essere come lui per tanto, troppo tempo, credendo di essere riuscita a seppellire in un angolo della sua mente e in un album di foto ingiallite tutto ciò che era la sua vita prima. Nient’altro che un banale, penoso, autoinganno.
Si è presentata alle quattro di notte a casa di Freezer, incontrando uno Zarbon dagli occhi impastati di ocra e di sonno, nervoso ed estremamente diretto nel dirle che svegliarlo nel bel mezzo di una delle sue rare dormite non era affatto una buona idea.
Eppure, condurla con garbo in una delle stanze degli ospiti e fornirle un cambio e degli asciugamani puliti non è servito a nulla. Non appena Zarbon è tornato nella sua stanza e ha spento la luce, si è infilata furtivamente sotto le sue coperte, nel lato destro del suo immenso letto matrimoniale.
No sente il cuore ridotto in frantumi, sbriciolato in un milione di piccoli pezzi che stridono, conficcati nella carne, mentre cerca disperatamente di attenuare un pianto talmente disperato da mozzarle il fiato. È ancora completamente vestita, con la giacca di pelle zuppa di pioggia e i pantaloni macchiati di fango, infreddolita sotto quelle sue lenzuola perfette e profumate di muschio bianco. Perfette, in una stanza perfetta e immacolata, dove l’unico tasto dolente è lei e il suo incontenibile eccesso di emotività.
È troppo turbata, il corpo soffocato nei radi centimetri della sua pelle, tenuto insieme soltanto dalle cinghie e dalle cerniere come un puzzle sul punto di disintegrarsi.
Eppure, anche se cerca in tutti i modi di trattenersi, i singhiozzi zampillano dalla sua bocca, urlanti, tuoni fragorosi nel silenzio screziato soltanto dallo scroscio lontano della pioggia battente.
«Eppure dovresti saperlo che detesto i piagnistei.»
Le iridi di Freezer squarciano la notte come lame incandescenti.
Si è girato e il suo volto è contratto nell’irritazione, bagnato da un astio che induce No ad abbassare lo sguardo per la vergogna, i singhiozzi che si moltiplicano in eco infinite, partoriti dalla sorgente delle sue viscere.
No ha appena infranto la più basilare delle loro regole.
Forse perché quella sera ha incontrato sua madre, all’uscita di un teatro, vestita elegantemente e circondata da un gruppo di amici. Il suo volto era completamente inespressivo nel guardarla, scolpito nella cera, come se non fosse altro che una fastidiosa illusione ottica.  
Non appena No aveva iniziato a camminare verso di lei, intenzionata a salutarla, una donna con una folta pelliccia di ermellino aveva detto qualcosa a sua madre, indicandola con le sopracciglia aggrottate, allarmata per la figura incappucciata che avanzava verso di loro con le catene appese ai pantaloni.
Aveva visto sua madre sillabare nitidamente «Non so chi sia, sarà solo una tossica», per poi voltarsi rapidamente dall’altra parte, il disprezzo incastonato nelle palpebre, veloci nel deviare lo sguardo lontano da lei e piegarsi alla battuta scherzosa di uno dei presenti.
No si era bloccata, come se il fulmine luminoso nel cielo avesse trapassato proprio lei, morendo nella terra attraverso i suoi piedi, tremanti e incerti sul lastricato della piazza vuota, improvvisamente smisurata, come spazio pregno di vento interstellare tossico per i suoi polmoni.
Forse perché si è fatta di eroina per la prima volta, dell’eroina destinata a un cliente che avrebbe dovuto incontrare, nello scalone di un palazzo la cui porta era stata lasciata distrattamente aperta.
Forse perché ha passato le ultime quattro ore a vagare nella metropoli notturna alla disperata ricerca di qualcosa, sovrastata dal fragore dei tuoni, il corpo traforato da brividi ghiacciati che le irrigidivano le ossa. Non voleva tornare nel posto che aveva imparato a chiamare “casa”, fra le vertigini del vuoto e della sua malinconia. Voleva soltanto qualcuno, qualunque cosa che fosse familiare e viva, un qualunque angolo in cui potesse crollare lasciando andare tutti i pezzi di sé. E quando è caduta rovinosamente in una pozzanghera, tradita dal pavé troppo levigato di un attraversamento pedonale, ha pensato soltanto al suo volto serpentino, mentre il cuore iniziava a putrefarsi nel suo petto come se fosse stato morso da una bestia velenosa.
Cerca di scusarsi, ma il pianto le divora tutte le parole e restituisce soltanto gemiti, mentre si alza a sedere stringendo spasmodicamente le coperte fra le dita, tanto da farle diventare bianche. Lo fissa nel viso pallido e delicato, annegando nei suoi lineamenti alteri e freddi come quelli di un alieno, una maschera candida quasi fosforescente nella penombra.
«Stringimi»
Sussurra, singhiozzando, sentendosi colpevole. È l’unica parola che riesce a sfuggire dal filo spinato delle sue labbra screpolate, piene di tagli dolorosi e riarsi, scavati dai canini che hanno cercato troppo a lungo di trattenere tutto il dolore che aveva dentro.
Quella parola è una condanna a morte. Lo sa, le sue viscere lo sanno, vibranti della tensione conseguente a un passo falso, lo sanno le viscere nauseate di Freezer, i cui occhi si adombrano di una strana liquidità, incatenati ai suoi come se volessero vomitarli, attratti da una morbosa ossessione nell’osservare quanto lei sia patetica, deludentemente patetica.
La mano pallida e vigorosa di Freezer si schianta contro il suo viso, colpendola con uno schiaffo così forte da farle sanguinare il naso e scaraventarle gli occhiali lontano, in uno schiocco metallico sul pavimento.
«Fuori da casa mia, all’istante.»
Sibila, brutale, mentre la folgore trapassa i suoi occhi di porpora, il lago ghiacciato del suo volto lacerato da una crepa, disciolta in un caleidoscopio di tagli geometrici che rischiano di far sorgere la crudeltà dell’oceano da un momento all’altro.
Sprofondata nel peccato, No non riesce a dire nulla, paralizzata dal dolore incandescente che le divide il volto, mentre il sangue caldo e denso le cola lungo il mento e il collo. Riprende a singhiozzare, sconvolta, mentre raccoglie gli occhiali, si infila gli anfibi gettati alla rinfusa sotto il letto, e corre giù dalle scale, la bocca dello stomaco che grida in un rincorrersi di voragini sempre più profonde.
Freezer, immobile, si riempie della vastità gelida e vuota dello spazio come un recipiente che trabocca, i timpani assordati da sussurri che accarezzano con le fauci assassine il dirupo al centro del suo petto. Si lecca lascivamente la mano, ancora rovente, sporca di sangue e di lacrime, il cuore come un tamburo frenetico, figlio della guerra.
Un sapore amaro.
L’immagine residua di No vaga nella stanza, un fantasma allucinato dai bagliori del giorno che continua a trapassarlo con occhi gonfi e accusatori, ovunque lui guardi, infestante e rabbioso come i rami del vecchio salice, fruste impietose che si abbattono contro il vetro della finestra, figlie dalla tempesta che ulula. 
 
21 Novembre, martedì, ore 16:57
 
Una donna dai lunghissimi capelli neri, raccolti in una treccia a spina di pesce che si dissolve nel viola fosforescente di un iris perverso, velenoso e sibillino, seduce l’osservatore con uno sguardo licenzioso, gli occhi corvini come portali di un mondo oscuro e malvagio. La sua bocca carnosa, tinta di un bordeaux cupo, bacia Raggio della Morte, una Glock 18 bianca come il latte, intarsiata di ricami d’ametista arrampicati come edera lucente lungo il calcio e il carrello. Fra le dita si intravede la scritta “MUORI”, in un corsivo elegante, impressa a fuoco.
Gli occhi di Freezer vagano sull’enorme fotografia, quasi a grandezza naturale, racchiusa da una cornice di legno antico e impreziosita da una miriade di piccoli cristalli Swarovski, in un tripudio di rose stabilizzate che decorano l’altare, vermiglie e incantevoli come appena colte.
Come sua madre, quelle rose false e bugiarde non sono altro che carne bellissima ma priva di vita, cadaveri viventi che sorridono trafitti nel gelo di un tempo eterno. Il ragazzo inspira profondamente il profumo dell’incenso, acceso a ogni ora del giorno e della notte ormai da nove anni, che sale lungo la parete disperdendosi in volute geometriche.
Il corpo esile e muscoloso è fasciato da una vestaglia in velluto nero e i piedi nudi si contraggono sul marmo freddo del salotto. Le iridi sanguigne di Freezer sono ipnotizzate nel ripercorrere i suoi lineamenti, mentre il suo volto tradisce un ghigno atroce, scoprendo i denti e mordendosi le labbra.
È contento che sia morta, segretamente grato all’imprudente poliziotto in borghese che ha sparato in testa a sua madre, uccidendola sul colpo.
Si riempie nuovamente di gioia nel ricordare la veglia funebre e il funerale, il piacere carnale che aveva provato nello sputare nella bara, nel riempirsi gli occhi del suo corpo inanimato, impotente, senza vita, un fantoccio gonfio e inutile, riverso nel raso rosso come nella pozza di sangue in cui era morta.
Il suo unico nemico era stato annientato, per sempre.
Non avrebbe mai più potuto fargli male.
Il Requiem di Mozart, assordante nella chiesa barocca, si era tramutato alle sue orecchie in un canto di trionfo, un vero e proprio inno alla vita. Quando era iniziato il Dies Irae le sue vene avevano tremato, il piccolo corpo attraversato da un brivido di piacere insopprimibile, talmente forte che aveva pianto, singhiozzando inginocchiato con la fronte appoggiata alle dita intrecciate, cercando di trattenere le labbra dallo spalancarsi in una risata. Si era sentito finalmente risorto, libero di accarezzare e glorificare le cicatrici che lei gli aveva inferto senza provare nuovo terrore.
Freezer è stato un bambino silenzioso e solitario, che amava osservare i palazzi e le strade dal grattacielo più alto della città, le piccole gambe penzolanti nel vuoto e le mani incerte, combattute dal richiamo del vuoto.
Adorava fissare il precipizio, gli occhi innamorati dello strapiombo, le automobili e i passanti come puntini colorati, insetti inutili che ronzavano sulla terra credendosi importanti.
Inoltre, adorava fissare il cielo.
Sognava di essere un imperatore dello spazio, un tiranno galattico spietato e superbo, dalla forza illimitata. Mentre s’immergeva nella volta buia e costellata dagli astri, studiando con precisione millimetrica le configurazioni e i movimenti delle stelle, immaginava sempre, ripetutamente, di distruggere la Terra. Aveva ripercorso quella scena infinite volte, riavvolgendo la pellicola della sua fantasia e decorandola ogni volta con nuovi dettagli.
Il fragore della terra che si disgrega, sotto il tocco leggero delle sue dita, le rocce che si allontanano, sbranate dalle orbite circostanti, spezzate e disgregate dalla forza della tempesta interstellare in un moto centrifugo che in un solo istante infuoca il cielo. Il caleidoscopio armonico delle grida degli umani, delle loro speranze fatte a pezzi, disciolte nel sangue dei loro corpi spappolati, soffocati a morte. E infine, quel vuoto cupo, come l’occhio di un buco nero pronto a inghiottire, le viscere della terra, estirpate e agonizzanti, che levitano sfiorate dalla polvere, dalle ossa e dal sangue, mescolate al vento, che soffiano come una melodia sinistra fra gli anfratti di stelle e pianeti circostanti.
Ha sempre sentito dentro di sé il vuoto dell’abisso, il germoglio della decadenza che fioriva lento dentro di lui, un fiore di spine che dilaniava i suoi atri e i suoi ventricoli nutrendosi della sua carne.
Un giorno sua madre lo aveva sorpreso così, gli occhi talmente pieni di quel vuoto da essere vacui e inespressivi, e lo aveva picchiato così forte da rompergli quattro vertebre a furia di prenderlo a calci.
Non aveva neppure pianto, impassibile e indifeso, cercando con tutta la sua forza di estraniarsi in un antro buio della sua mente mentre le grida convulse di sua madre gli graffiavano i timpani.
“Tu non sei normale! Fai schifo! Sei sicuro di essere umano?” gli aveva urlato mentre sfracellava il suo volto contro il muro, il naso in una colata rossa, la piccola testa compressa come in una morsa fra le dita lunghe e inanellate di sua madre.
Gli occhi ardenti, pieni di rabbia di sua madre, sono impressi a fuoco nella sua mente e nei suoi incubi. E ora, di quegli occhi, non restano altro che polvere e vermi che imputridiscono in una cassa di legno.
Un rumore lo fa sussultare, è il fischio del bollitore proveniente dalla cucina. Il suo the Earl Grey delle ore 17 dovrebbe essere pronto, con una puntualità impeccabile. La sua mano spalanca con veemenza la porta ed è sufficiente un nanosecondo per fargli esplodere il cuore nel petto, suscettibile come una ferita aperta.
Qualcosa nel sorriso del suo servo non quadra. È troppo teso, come una corda sul punto di spezzarsi, scollegato dall’espressione maliziosa degli occhi, quasi lucidi e socchiusi. Come se ammiccassero.
Fissa le sue mani, velocemente impegnate ad afferrare il bollitore e inserire al suo interno l’infusore traboccante di foglie di the. Ma c’è qualcosa di strano, il colore di quella polvere non è lo stesso di sempre, più scuro, più chiaro, irrimediabilmente sbagliato, forse macchiato di una strana ombra rossastra.
«Mi scusi, signore, il bollitore era sporco e quindi ho tardato un minuto o due...» balbetta, intimorito nell’osservare l’espressione gelida dipinta sul volto del ragazzo.
Ora ne è certo, non ha il minimo dubbio, quel rifiuto, quella bestia sta cercando di avvelenarlo. La mano di Freezer si avviluppa come una radice intorno a Raggio della Morte, estraendola lentamente, godendosi l’espressione disorientata dell’uomo, le cui gambe iniziano a tremare.
Zarbon, seduto al capo opposto del tavolo, abbassa lo sguardo, tormentandosi le unghie per la paura. Ancora una volta, un’altra crisi, lo sa cosa sta per accadere ma non vuole guardare, perché la prossima volta potrebbe toccare a lui. Non ha mai sentito così ruvidi i vimini della sedia, sfregati freneticamente dalle sue gambe tremanti.
«Ci vediamo all’inferno» sussurra Freezer, algido, mentre allunga il braccio e spara, un colpo dritto al cuore.
Il servo resta immobile, paralizzato per un istante lunghissimo, per poi rovesciarsi in avanti sul tavolo e sfracellarsi a terra insieme al bollitore e alla tazza ricolma in un lago rovente di cocci.
Il sangue copioso si mescola ai vapori del the e ai vetri taglienti, risalendo lungo le narici dilatate di Freezer. Un odore stupendo, rassicurante e ferroso, un distillato purissimo di morte e di vendetta. Lo inspira a fondo, estasiato dal piacere, le dita ancora bianche per la pressione intorno al grilletto di Raggio della Morte. Eppure il silenzio è effimero, gremito da nuove domande che gli trapassano le viscere, contratte per l’angoscia di una nuova minaccia.
Era solo? Aveva dei complici? Chi poteva essere il mandante di quel tentato omicidio? Quell’uomo era fedele alla loro casata da moltissimi anni, cosa gli hanno offerto in cambio della sua lealtà? Perché l’avvelenamento, poi?
Un domestico ha molti modi per uccidere, specialmente nel sonno, perché ricorrere a una strategia così pacchiana? Freezer si morde le labbra, rimproverandosi ancora una volta per l’eccessiva impulsività. Sposta lo sguardo su Zarbon, ancora concentrato sulle proprie scarpe bianche, appoggiate sui pioli della sedia per non rischiare di sporcarle di sangue.
«Si può sapere cosa diavolo è successo qui?» la voce di Cooler, acida ed esasperata, riempie l’aria insieme al tonfo della porta che sbatte. Osserva la scena con sguardo freddo, una smorfia disgustata dipinta in volto, realizzando che suo fratello ha ancora una volta perso la testa, l’ennesima che gli ricorda che un pazzo come Freezer dovrebbe vivere soltanto in un ospedale psichiatrico e non nel piano terra del loro palazzo.
«Che c’è? Sorpreso che non l’abbia bevuto?» risponde Freezer, abbassando l’arma ma stringendola ancora spasmodicamente nel pugno. Sente la bocca secca e le vertigini iniziare a confonderlo. Potrebbe essere suo fratello il mandante dell’omicidio, lo ha sempre odiato e la coincidenza del suo arrivo tempestivo potrebbe essere un indizio.
«Bevuto cosa?» ribatte Cooler, sbuffando, girando il cadavere da terra per scoprire la voragine di porpora nel suo petto. Era il suo domestico preferito, in grado di preparare una torta di fragole senza pari, sempre attento ad aggiungere quel pizzico di cannella, come piace a lui e a lui solo.
Cooler si volta e osserva l’espressione terrorizzata dipinta sul volto di Freezer, le pupille nere come capocchie di spillo nel rosso innervato delle sue iridi, il pallore del suo volto sempre più esangue, quasi trasparente. Sta per avere una crisi, le labbra tremanti e gonfie di una rabbia trattenuta, le pareti della stanza troppo piccole, sempre più piccole e cupe, assillate di una luce stroboscopica che gli trapassa i polmoni mozzandogli il fiato.
È Cooler, non può che essere lui, il nemico, un altro nemico, agli occhi di Freezer è lampante nelle linee contratte e severe del suo volto, nel disprezzo con cui si rialza e continua a parlare, ma le sue parole sono come un bolo informe ai suoi timpani. Non bisogna credere alle parole dei bugiardi e dei fratricidi, si ripete, mentre rialza Raggio della Morte e la punta verso di lui.
Sente il fuoco ardergli dentro e le gambe cedere, vuole vendetta, mentre fissa le iridi colme di derisione di suo fratello, infastidito nel dover assistere all’ennesimo dei suoi crolli.
«Adesso me la paghi!» grida Freezer, attendendo un secondo di troppo prima di sparare. Quell’attimo di incertezza finisce per costargli molto caro: un turbinio di mani lo afferra, lo stringe, lo soffoca, gettando repentinamente la pistola a terra, mentre un ago gli penetra il collo. Il suo corpo si affloscia come un fiore appassito, le ciglia chiuse in un sonno artificiale. Una fiala vuota di Midazolam viene scagliata nel lago rosso di cocci, disperdendosi in frantumi.
Cooler lo guarda un ultima volta, pieno di repulsione, per poi andarsene sbattendo la porta, mentre Dodoria si carica il corpo di Freezer fra le braccia e lo porta in camera da letto, appoggiandolo lentamente sotto le coperte. I suoi occhi neri osservano il suo petto alzarsi e abbassarsi, tradito da una chimica ancora più forte della follia della sua mente.
Le crisi di Freezer si concludevano sempre con l’omicidio di qualcuno, il cui sguardo era stato troppo malizioso, le cui mani si erano mosse troppo velocemente all’interno della borsa o nelle tasche, le cui frasi tradivano sicuramente minacce velate.
Il signor Cold e Cooler avevano, infruttuosamente, sperimentato diverse soluzioni. La prima era stata sottrargli la pistola e batterlo fino a quando di lui non erano rimasti altro che denti rotti e vomito di sangue nero e denso, lasciandolo ad agonizzare come una larva priva di ogni energia, inoffensiva per chiunque. La seconda, applicata in più occasioni, era stata provare ad aspettare che si calmasse da solo, chiudendolo nella sua stanza o nell’automobile privandolo di qualunque arma per evitare di provocare ulteriori danni.
Si erano accorti che Freezer tendeva spontaneamente a dimenticare il contenuto di quelle crisi, riemergendo confuso e interdetto, la memoria in una nube incerta in cui fiorivano domande apparentemente senza senso. Non ricordava spesso di chi era il sangue che gli macchiava i vestiti, così come non sapeva perché si trovava in pieno giorno sotto le coperte, con Zarbon che gli porgeva una tazza di latte caldo.
Dodoria ricorda con un brivido l’espressione allucinata di Freezer, quando in una di quelle prime occasioni aveva riaperto la porta della sua stanza di fronte al suo silenzio, prolungato e totale. Lo aveva colto in flagrante, seduto sul letto, che guardava estasiato la propria coscia nuda e tatuata da cui sgorgava una corrente infinita di sangue. Aveva afferrato un taglierino e si era reciso una vena, ascoltando le risate sguaiate dei demoni allontanarsi fra le ombre. Freezer aveva soltanto riso, beandosi dello sguardo sbalordito di Dodoria, perché nessuno di loro poteva davvero comprendere cosa si provasse nel sentire il cuore esplodere di rabbia e di paura, paura di morire, di essere annientati fino a dover comprimere la propria anima in un millimetro, in una minuscola molecola di universo, per non morire.
Quei fantasmi e quei denti acuminati non possono abitare il suo cuore senza farlo esplodere in un impasto di carne spappolata e di nervi tranciati di netto, privi di elettricità. Li ha soltanto liberati, restituiti alle tenebre ghignanti da cui provenivano. A costo di ferirsi, a costo di farsi letteralmente a pezzi, lui deve vendicare e purificare, sacrificare e uccidere.
 

Continua...
 

1 Marilyn Manson – Leave A Scar
https://www.youtube.com/watch?v=xG7DoUR93yk

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Capitolo 2
*** 2: I Like You Damaged ***


2: I Like You Damaged

 
Someone like me/ Qualcuno come me
Someone like me can’t make it last/ Qualcuno come me che non possa durare
I like you damaged/Mi piaci danneggiata
But I need something left/Ma ho bisogno che rimanga qualcosa
Something for me/Qualcosa che io
Something for me to wreck/Qualcosa che io possa distruggere
[Marilyn Manson – Threats of Romance]2
 
 
22 Novembre, mercoledì, ore 17:37
 
Raggi di una luce calda e amarantina trapassano come laser le tende di lino chiaro, morbidamente increspate sul pavimento. Il sole si nasconde dietro l’orizzonte, colmo di vergogna, insieme a nuvole silenziose, omertose di pioggia, trattenuta amaramente fra i lombi del cielo.
Il cielo è porpora liquida, come la terra ferrosa divorata dai rovi, arida, innamorata del temporale che scorge sempre più vicino. Gli ultimi strali del sole autunnale accarezzano ancora una volta il comodino, colpito dalla luce, prima di ritirarsi nell’ombra dello spazio. Illuminano i fazzoletti usati, una siringa, una goccia ancora sospesa fra l’ago e il legno levigato, un bicchiere di vetro decorato in stile barocco, una boccetta di sonnifero, un pacchetto di Black Devil aperto, con le sigarette che si protendono verso l’esterno, in procinto di sparpagliarsi, e un posacenere consumato, il cui fiore al centro è sbiadito e coperto da una decina di mozziconi.
Una mano sorge dalle lenzuola, stizzita, facendosi strada nell’aria pesante della stanza, pregna di fumo e di aria stantia.
Il volto di Freezer si contrae in una smorfia di disagio: sente la testa esplodere, chiusa in una morsa, gli occhi talmente gonfi e irritati da renderne faticosa l’apertura. Le palpebre sembrano volersi richiudere, attratte dalla gravità, quando osserva l’orologio digitale appeso al muro di fronte al letto: sono le 17.37. Spalanca gli occhi, sorpreso e confuso. Il ragazzo cerca di tirarsi a sedere, indebolito dagli spasmi che gli contraggono lo stomaco in un moto di nausea.
Si accende una sigaretta, mentre l’aria fredda della stanza gli inturgidisce i capezzoli nudi, come stelle scure nella volta chiara del suo petto, esangue e sul punto di esplodere a ogni respiro, tradito dalle vertebre che spingono con veemenza.
Il silenzio regna nella sua mente. È soltanto quando volta il viso e vede la siringa che il suo volto si contrae di rabbia e di vergogna. Si tocca il collo e incontra un enorme livido, gonfio e pulsante. La mano destra corre sotto l’ascella destra, dove nella fondina riposa la sua Raggio della Morte.
È ancora lì, non gliel’hanno portata via, la sua pistola, la pistola che fu di sua madre.
«Zarbon?» grida, stizzito, perplesso per l’oscurità proveniente da sotto la porta.  In casa non sembra esserci nessuno. Si alza, tremando, con la testa rapita dalle vertigini, iniziando a insospettirsi. È decisamente strano che non ci sia, quel leccapiedi del suo servo è sempre lì, quando si sveglia, pronto a porgergli il metacarpo della sua mano affusolata su cui è appoggiata, con precisione millimetrica, una perfetta striscia di cocaina.
Non c’è nessuno in casa.
La porta d’ingresso dell’attico è chiusa a chiave, il pettine di Zarbon dimenticato nel lavello, con alcuni capelli smeraldini avvolti intorno ai denti, come se avesse avuto fretta di andarsene.
Freezer sente lo stomaco bruciare, l’aria diventare solida nella sua gola, un bolo di spilli che lo fa deglutire ripetutamente. Deve farsi, immediatamente, non riesce a pensare mentre il cuore gli batte sempre più insistentemente nel petto, fragile sotto le sue spinte furiose. Ritorna in camera da letto, sul tavolo trova il suo orologio da taschino, le dita febbrili nel ruotare la carica manuale fino a farle fare uno scatto. Il metallo si dischiude, rivelando un piano cavo, traboccante di polvere bianca.
Digrigna i denti mentre la vede rovesciarsi sulla superficie di vetro del tavolo, disciplinandola in una riga ordinata con una lametta. La fissa con cupidigia, famelico, le pupille nere che brillano di una luce sinistra, mentre i capelli lisci, tirati all’indietro, di un viola quasi fosforescente, ricadono sul tavolo come una cascata, nella foga con cui afferra una banconota arrotolata e la aspira dal naso, ringhiando come una bestia.
Le dita tremano, lasciando scivolare la cannula a terra, ancorandosi al tavolo. E ora deve soltanto aspettare, aspettare che il piacere arrivi. E il piacere arriva, lento come un’onda che risale cauta la battigia, poi fragorosa nell’infrangersi sulla sabbia. Una scarica elettrica irrigidisce tutto il suo corpo, eccitando il suo cuore e le sue vene, come radici impazzite che scavano fino a raggiungere le profondità della terra. Digrigna profondamente i denti, mentre sente il buco torbido nel petto restringersi, scivolare fra gli atri e i ventricoli e nascondersi, lasciando il posto all’euforia.
Rimane un attimo a occhi chiusi a godersi il piacere che lo infiamma, fino a quando non scorge un’ombra guizzare dietro le tende candide, luminose per la luce del lampione dietro di esse proveniente dalla strada. Gli sembra di scorgerla distintamente, un’ombra malvagia, l’ombra del nemico e di nuovo tutto arde di gelo, di freddo, di angoscia. Si abbassa istintivamente, stringendo Raggio della Morte fa le dita, adirandosi per quanto è stato vulnerabile: nessuno in casa, il silenzio martellante delle quattro mura abbandonate a se stesse e lui dentro, addormentato, in balia delle bestie.
Allunga l’altra mano verso il cellulare appoggiato sul tavolo, illuminando lo schermo: una chiamata persa da Dodoria alle 16:36, tre chiamate perse da No intorno alle 15 e un sms di suo padre che non ha alcuna voglia di leggere.
Richiama Dodoria, nessuna risposta, chiama Zarbon, nessuna risposta, i loro ultimi accessi su Whatsapp risalenti alle 16. La diffidenza contrae i suoi lineamenti affilati, stringendo le palpebre in una morsa. Non ricorda con precisione cosa sia successo prima di addormentarsi: solo un odore incantevole e le scarpe candide di Zarbon che si ritraggono per paura di sporcarsi.
I suoi seguaci lo hanno sicuramente tradito, lo sa, lo ha sempre saputo che questo momento sarebbe arrivato. Il ragazzo fa scrocchiare la cervicale con un gesto secco, stringendo spasmodicamente la mano intorno a Raggio della Morte, una bestia affamata che attende soltanto di mordere.
Si rialza, arrogante, sfidando l’ombra a rivelarsi. Il suo sguardo viene nuovamente attirato dallo schermo luminoso del telefono, un faro nella penombra, dove lampeggiano ancora le notifiche delle chiamate perse di No. Un gesto di stizza fa volteggiare le sue iridi cupe nella stanza, lontano da quel nome e da quel groviglio di rovi che si annida in un punto imprecisato del suo torace.
Le sue pupille dilatate ricadono sul cuscino destro del grande letto matrimoniale dove ha appena dormito, quello su cui non si appoggia mai: è stropicciato e macchiato da una serie di aloni nerastri, come sbuffi di acquerello nero slavato dall’acqua. Ricorda quella notte e un moto d’ira gli risale ancora lungo l’esofago, seguito di nuovo da un senso di vuoto.
Non l’ha più vista, dopo quella notte.
No è scomparsa insieme alle luci premature di un’alba livida, in cui il sole sembrava lontanissimo, inabissato in coltri spesse come cemento.
Elimina quell’immagine, sradicandola con precisione chirurgica, e attiva le applicazioni di localizzazione: Zarbon e Dodoria si trovano in periferia, insieme a molti altri dei suoi seguaci, in una località dispersa fra i campi e le industrie abbandonate, corrose dal tempo e dalla solitudine di una crisi economica che non ha avuto la minima pietà.
Improvvisamente, ricorda: il Namek Party del 22-23 Novembre, in cui aveva deciso di inviare alcuni delegati per incontrare un sedicente produttore di cocaina sudamericano, la cui purezza della sostanza sarebbe stata ben superiore a quella prodotta nei suoi laboratori. Un vero e proprio nettare del piacere dalle proprietà quasi leggendarie. Si era sentito furibondo al solo pensiero, combattuto fra la voglia di spegnere nel sangue l’insolenza di quello Shenron e il desiderio di incrementare il prestigio del proprio commercio.
«Vedete di non ritornare a mani vuote! Come osa, mancarmi di rispetto!» aveva ordinato infine, caustico, con un’occhiata gelida come il marmo alla quale nessuno aveva osato controbattere.
Riprova a telefonare a Zarbon e Dodoria, alterato, mentre si accende distrattamente una sigaretta, la fiamma dell’accendino che riempie di ombre danzanti la stanza buia.
Ancora nessuna risposta.
Infuriato per l’insubordinazione dei suoi seguaci che osano distrarsi sul lavoro, non riesce a impedirsi di pensare che gli umani siano come i cani, ottusamente distratti pur sapendo che potrebbero ricevere una punizione da un momento all’altro. Non tollera che le persone non siano sempre al suo servizio, sempre disponibili alle sue richieste. Ma troverà il modo di farli pagare, pagare e ancora pagare, come dicono i solchi impressi sul suo tirapugni di ferro.
Si infila il tight candido, perfettamente stirato e appeso su una gruccia all’esterno dell’armadio, allacciando i bottoni di perla del gilet viola e dando una stretta vigorosa alla cravatta dello stesso colore.
La mano corre, esperta, nel tracciarsi sulle labbra fini una linea di Instigator, il suo rossetto preferito. La pelle bianca come porcellana, carne di serpente albino che sibila nell’ombra, i lineamenti come coltelli, le occhiaie corvine, scavate nel volto diafano, Freezer non sembra neppure umano.
Il suo sguardo di porpora, sangue arterioso che trabocca di ossigeno, le iridi come ossa lontane, spolpate, divorate dall’oscurità delle pupille dilatate, non esprime nulla, un cielo indecifrabile che eclissa la neve.

 
 *

Le inglesine immacolate si appoggiano con malcelato disprezzo su quel terreno, brullo e sporco, coperto da un tappeto di foglie autunnali che incespicano al vento fra i radi ciuffi d’erba ingialliti.
Freezer richiude la Lamborghini con un gesto stizzito, talmente brillante e lucida in quel panorama da non sembrare neppure reale. Si volta e inizia a camminare verso la fonte del frastuono, quasi stordito dal volume di un ritmo familiare.
La musica è talmente alta da sembrare solida, i bassi lo attraversano come onde mentre cammina, nella sterpaglia, verso la fonte del suono, scivolando in mezzo a un agglomerato di camper parcheggiati ai fianchi di un edificio abbandonato. Le rovine si contorcono al tramonto come interiora, rovesciate nella terra, tempestate di scritte, nomi di sedicenti padroni che hanno ritenuto opportuno incidere il loro nome sulle mattonelle ruvide. Le sopracciglia di Freezer hanno un fremito di perplessità e di indignazione nel percorrere quei graffiti bugiardi, orribilmente insubordinati.
Tutto, qui, appartiene a Freezer. La terra su cui camminano quegli insetti, l’aria che viene infettata da quei loro polmoni indegni, il cielo costretto a guardare i loro movimenti sgraziati e goffi, tutto è una graziosa concessione della sua bontà, che permette loro di continuare a vivere senza accorgersi della sua mano potenzialmente omicida.
Cammina a passo veloce, mescolandosi empiamente alla folla, una mosca bianca in mezzo a un centinaio di nere, giungendo infine in un grande spiazzo.
La distesa di terra nuda è circondata da un muro di casse, un anfiteatro di pietre di suono, parallelepipedi corvini di ogni forma e dimensione, che sprigionano vibranti e ringhianti bassi potenti. I piedi della gente battono come tamburi primitivi che scalpitano nella ghiaia sollevando una nebbia biancastra, che si alza dalla terra come un fumogeno.
«And now I let it go3» sussurra la voce del cantante, in una miriade di beat a frequenza elevatissima, moltiplicata in una eco che si accresce progressivamente, trascinata dal boato delle urla stridule che si ripetono ossessivamente.
Al centro della piazza una figura balla, schiacciata dalla gravità dei bassi, stella danneggiata al centro di una galassia di pianeti, satelliti, asteroidi, comete e polvere interstellare che gravita intorno a lei, attratta e respinta dal suo ballo spontaneo e sgraziato.
Freezer la osserva da lontano, colpita dalle luci stroboscopiche e celata dal movimento convulso della folla, divorando con occhi famelici il suo corpo da giocattolo rotto, plagiato in un’ipnosi che incarna il ritmo del battito della musica, una pressione invisibile che muove i suoi arti, dispersi in una ciclicità distorta e solida che sconquassa le viscere.
Il colore ombroso delle autoreggenti strappate che le fasciano le gambe, le catene che ondeggiano richiamate dal suo ventre, le asole e le cinghie delle Demonia che scintillano abbagliate dalle luci, una sciarpa di lana avvolta con cura intorno al collo, sfiorato appena dai capelli rasati della nuca. Ad ogni passo che Freezer compie verso di lei, il resto della galassia si disperde, annientato dalla sua potenza gravitazionale, la forza del suo sguardo che non ammette repliche, di un’oscurità soverchiante in cui si materializzano le lame.
«Imperatore» vede i denti di una ragazza, consumati dalla metamfetamina, sillabare il suo nome, gli occhi allarmati. Non prova neppure piacere, nauseato dalla vicinanza di quegli animali, scimmie, vermi, curandosi di evitare il contatto con chiunque come se avesse il terrore di sporcarsi. La gente si allontana, respinta dal candore delle sue vesti, dall’ardore ringhiante dei suoi occhi di fiamma, ossessionato alla vista di quel corpo magro e alto.
Dovrebbe andarsene, non ha proprio tempo per lei, deve cercare Zarbon e Dodoria, eppure il suo sguardo sprezzante continua a percorrere le sue spalle severe, segnate dalla giacca di pelle, sui capelli corti e spettinati che ondeggiano ballando.  
La ragazza finalmente si gira, compiendo una rotazione su se stessa.
Le iridi di No, dello stesso colore malinconico della foresta che decade lentamente alla seduzione autunnale sono spente, come lampadine bruciate, in frantumi, bistrate di un nero cupo, dalle occhiaie così profonde da scenderle lungo il volto come solchi. Le sue pupille sono tagliate dai bagliori fosforescenti delle lampade stroboscopiche, ma si rifiutano di chiudersi, salde su di lui, mentre i lineamenti del suo volto mutano come mosaici, una morsa le accoltella lo stomaco e le viscere, le gambe incerte sul punto di vacillare.
Si guardano, muti, per un numero interminabile di secondi. Il motivo giace nel naso ancora leggermente gonfio, tinto da una sfumatura violacea che illividisce la sua cute pallida. Nell’osservarla, la rabbia dirompente che attende soltanto della benzina per scatenarsi, brucia come veleno serpeggiante nelle vene di Freezer.
«Perché mi hai chiamato?» sputa, mentre le fa segno di allontanarsi dall’anfiteatro di suono. Si estraniano dalla musica e dallo sciame di gente, arrestandosi in uno spiazzo in cui il volume è meno assordante.
«Ho visto Zarbon e Dodoria qualche ora fa e quindi pensavo che fossi qui anche tu!» risponde, torva, aggrottando le sopracciglia mentre si accende una sigaretta.
«Quando, di preciso?» indaga Freezer, aggressivo, digrignando i denti e stringendo i pugni, un senso di fastidio crescente come un bolo doloroso che gli attraversa la gola.
«Non lo so. Non me lo ricordo.» ringhia, la voce che sale di tono, graffiante, mentre i suoi occhi evadono dal volto nervoso di Freezer. Non vuole guardare la maschera gelida del suo viso, non vuole ricordare la veemenza della sua mano algida e vigorosa incrinarle il setto nasale. Non ha paura, sente soltanto il vuoto morderle le viscere e un milione di parole affollarle i polmoni, affilate come ossa scheggiate e disperate come canti di balene.
«Non te lo ricordi?» incalza lui, mellifluo, le labbra scure in un sibilo di un serpente, la contraddizione morbida fra i suoi occhi crudeli e il suo viso fine, cesellato nella porcellana.
«Non sono riuscita a raggiungerli. Volevo che ti restituissero queste.»
Un mazzo di chiavi s’infrange ai piedi di Freezer, in un tintinnio sinistro che affonda nella terra arida. No ha imparato a riconoscere i muscoli del suo volto disordinarsi e riordinarsi come un puzzle e le loro infinite configurazioni, sa a memoria la gerarchia delle sue carni, della sua bocca e delle sue guance, le loro costellazioni, anche quel piccolo nervo sotto il suo occhio sinistro che si contrae proprio prima che esploda. I lineamenti delicati di Freezer si scompongono repentinamente al suono metallico che si moltiplica nei suoi timpani, sgranocchiati dall’ira, mentre si morde le labbra fino a scavarle con i canini.
Le chiavi del terzo piano dell’azienda abbandonata sul lungomare. La casa di No, dove ha il suo materasso sul pavimento e la coppia di valigie che racchiude tutti i suoi averi. Un peluche e un quartetto di cornici consumate, appoggiate per terra, fra la polvere: una con la sua migliore amica, una con una persona appartenente al suo passato, una con lui e una con la sua famiglia, la stessa famiglia da cui è fuggita un giorno lontano.
Ha dormito anche lui su quel materasso, una sola notte, e ricorda l’alba penetrare dai vetri appannati, una luce tenue e calda come la buccia di un’albicocca, illuminare la devastazione della nostalgia del tempo sfuggente, ovunque, nel pavimento ricoperto da oggetti e calcinacci, vestiti e fiori secchi, bottiglie d’acqua accartocciate e sacchetti di cibo take-away, pacchetti di sigarette finiti e posaceneri tracimanti.
«Mi piace la mia imperfezione» gli aveva spiegato No, facendo l’occhiolino e alzando spallucce, di fronte al suo sguardo disgustato nel contenere un disordine simile.
Era stato Freezer a regalarle quell’appartamento, esasperato nel sentire il calore del suo corpo così vicino al suo per più di una notte consecutiva, indispettito da sbadigli e occhiaie irritanti, da capelli sporchi e vestiti spiegazzati di quando dormiva per strada, in una muraglia di cartoni, in modo decisamente sconveniente per uno dei suoi subalterni. 
E adesso la porta di quel piccolo mondo, intriso dall’odore di No e dal suo insopportabile disordine, lambito dalle onde del mare, è ritornata a essere soltanto la chiave di una decadenza morta, di uno specchio destinato a dissolversi e accartocciarsi come una foglia avvizzita, decomposta nella neve.
«Ne vuoi ancora?»
Freezer spalanca le labbra rosse in un sorriso magnetico, bastardo fino al midollo, gli occhi come abissi di oscurità coagulata, l’elettricità che gli fonde il corpo attraversando ripetutamente le sue vene mentre la sua eccitazione cresce. Le dita algide e lisce della sua mano sinistra accarezzano il mento della ragazza, minacciose come serpenti, mentre con l’altra mano le punta Raggio della Morte alla tempia.
«Non era neppure la prima volta.»
Non era neppure la prima volta, No lo sa bene, la sua schiena ancora ricorda i lividi violacei scavati dai suoi tirapugni quando lei e Zarbon hanno smarrito cinque chili di cocaina su un treno, tallonati dai poliziotti che li inseguivano, lanciandosi dalle porte l’attimo prima che si chiudessero, sigillando pistole e manganelli dietro ai vetri sporchi.
Oppure quando, in compagnia di Dodoria, si era ubriacata in un locale ed entrambi avevano dimenticato di alzarsi in tempo per la riunione dedicata all’eliminazione di una serie di persone scomode per la loro organizzazione. Arrivati sul posto, trafelati e barcollanti, Freezer li aveva massacrati e No aveva sputato sangue sulle sue scarpe bianche, meritandosi un ulteriore calcio in faccia.
Eppure, nulla le ha fatto male come quell’unico manrovescio.
Le iridi scure di No gridano, brucianti come il verde di una foresta labirintica, germogliante sotto una coltre di cenere, incatenate saldamente a quelle di lui, pupille fameliche di sangue, dilatate nella porpora cupa.
È un contatto così intenso che No si sente mancare il fiato, come se tutto il mondo intorno al suo volto bianco si fosse disciolto in un mosaico muto e uniforme. La carotide di No sotto il mignolo di Freezer esplode, come un compressore impazzito, mentre la canna della pistola affonda lenta nella sua pelle rovente, scavando un solco.
«Avanti, sparami!» lo provoca, impastata dalla rabbia e dalla tristezza che le incrinano la voce.
Freezer spara, il sorriso che gli muore fra le labbra. Si gode il sobbalzo delle membra di No, la chiusura immediata delle sue ciglia spaventate e l’ottundimento dei timpani per il frastuono, tutti i muscoli del corpo contratti, in attesa di sfracellarsi a terra da un momento all’altro.
Si domanda se sia la volta definitiva. Non le dispiacerebbe affatto morire, specialmente per mano sua, trapassata al cuore da Raggio della Morte e dal suo occhio profondo, colmo di pietà.
No ha sempre pensato che lei e Freezer siano legati da un nastro rosso del destino. Entrambi sono innamorati della morte, lei sedotta dal suo richiamo e lui incarnazione, dominatore, armato della propria pistola, del proprio odio e della propria ira.
Eppure, anche questa volta, l’inevitabile epilogo non si è verificato. L’ha risparmiata, ruotando repentinamente l’angolatura della mano con un movimento impercettibile, gli anfibi di No restano ancorati come radici, sfiorati dai fili d’erba mossi dal vento.
«Sembra che, in fondo, io voglia continuare a farti male.» sibila lui, dolcemente, una confessione sadica soffiata dalle labbra scure che si sfiorano appena, respirando sulle sue. No sbuffa, stanca, ritraendosi e infilandosi una sigaretta in bocca, la brace incandescente che riluce sinistra nei suoi occhi tristi, mentre Freezer osserva quanto siano profonde le sue occhiaie, spenti i suoi occhi, bistrati da linee di kajal colate come acquerelli. 
No si perde per un attimo nei suoi pensieri, tirando una lunga boccata, disperdendo lo sguardo nei recessi della festa che si dirada nel bosco, da dove giungono solo radi echi di musica frammentata.
Ha ormai compreso che Freezer non potrà mai ucciderla.
Non perché la ama, ma perché non la odia a sufficienza.
«Non voglio più vederti» dichiara, determinata, mentre tutto nel suo viso e nel suo sguardo bisbigliano di lui, tradiscono la nostalgia cocente del suo corpo piccolo e muscoloso, del suo sguardo freddo e sicuro, delle sue spalle dietro le quali non si può nascondere.
Forse vorrebbe soltanto stringerlo e cancellare tutto, forse, vorrebbe soltanto strangolarlo a morte e ucciderlo per prendere il suo posto, forse vorrebbe soltanto fuggire senza voltarsi più indietro, ma si costringe a trattenere nel suo campo visivo la figura candida e nobile di Freezer, immobile come una statua di cera, i muscoli talmente tesi da respingere la musica frastornante come un muro.
La clessidra dentro Freezer si interrompe e gli rovescia le viscere, impazzita, incidendo ferite nelle sue ossa.
«Non riesco a credere a quanto sia minuscola la tua intelligenza.» ribatte lui, completamente inespressivo, sigillando le grida della sua furia in un luogo recondito nella sua gola «Pensi che ti lascerò andare?»
Non la tratterrà, non gliene importa nulla di lei, che muoia, che se la mangino i corvi, strappandole i muscoli e i nervi uno per uno.
È lei a non volerlo più, come un giocattolo rotto che ora vibra stridendo fra le sue costole, fastidiosamente acuto. L’ira trapassa le sue membra un centimetro dopo l’altro, umiliandolo. Come osa rifiutarlo, una nullità come lei? Dovrebbe punirla, picchiarla, calpestarle la faccia fino a renderla irriconoscibile, sente le mani in fiamme, ma Raggio della Morte è ancora stretta nel suo pugno, silenziosa come una bestia acquattata fra i rovi.
«Mai quanto è ingenua la tua, se pensi che m’interessi il parere di uno che mi ha abbandonato l’unica, l’unica fottuta volta in cui avevo davvero bisogno di lui.»
Bisogno di lui?
Freezer sbatte ripetutamente le lunghe ciglia, il volto di nuovo contratto, come se fosse stato lui a ricevere uno schiaffo in pieno volto.
Che cosa avrebbe dovuto fare? Continuare ad ascoltare quel pianto velenoso, sciocco e irritante come carta vetrata, forse? Porgerle un fazzoletto e chiederle cosa le fosse successo, colmandosi la gabbia toracica di informazioni inutili e piene di dolore patetico e incandescente? Abbracciarla e stringere quel suo corpo zuppo di pioggia e di fango, contaminandosi di lei e della sua sporcizia nell’omertà della notte?
Ha di nuovo voglia di farsi, di sentire il piacere bruciargli dentro come un incendio, il corpo derubato di ogni energia dal mostro della clessidra immobile, i granelli di sabbia ora trattenuti da tele di ragno invisibili.
No non attende una risposta e si inoltra di nuovo fra le fronde degli alberi, sfiorando lievemente con la sciarpa il solco tracciato dal proiettile.
Non è mai stata così ampia la distanza interstellare fra loro.
Non sono mai stati così sterminati i milioni di anni luce che li separano, siderali i vuoti e irreversibili le gravità che li allontanano.
Freezer digrigna i denti nel vederla camminare incerta sugli anfibi slacciati, una sagoma nera che si disperde nella folla, ma decide di non inseguirla, arrogante, riprovando a chiamare Zarbon e Dodoria. Non ha tempo per le sue cazzate, non adesso che i suoi seguaci si sono come volatilizzati, nessuna traccia, la localizzazione dei cellulari coincidente con la propria.
Riprende a esplorare il rave, infilandosi in ogni anfratto, le iridi affollate dal caleidoscopio di camper, muri di casse, greggi di persone che si muovono ipnotizzate al ritmo della musica, come involucri svuotati e posseduti da un ritmo morboso, sempre più sibillino nel possedere le loro coscienze.
Si infila nelle rovine dei palazzi decaduti, sempre più disgustato dal tappeto di vetri infranti, cartacce, colli di bottiglia che riflettono la luce lunare, preservativi usati, mozziconi, siringhe e polvere scalpitante che gli sfiora i pantaloni candidi.
Inizia a essere confuso, rapito dalla nausea, mentre si sforza di controllare ovunque.
«Ehi, ehiiii... scuuuusa... C’era Dodo prima che ti stava cercando!»
Una voce stridula e boccheggiante lo avvicina e non può che girarsi, dopo che una mano lo arpiona a una spalla. È un ragazzo dal sorriso ebete, il collo avvolto da una collana hawaiana di fiori, che gli traballa addosso come se i suoi piedi non fossero abbastanza per reggere il suo peso.
Un amico di Dodoria, della sua stessa stupidità.
Freezer deve reprimere un moto di orrore e di schifo e si trattiene dal mollargli un ceffone in pieno volto, mentre qualcosa di acido gli risale la gola, oltraggiata per il contatto con un essere così infimo, sporco, un animale dall’alito che sa di alcool e dalle dita sporche.
«E dov’è?» ringhia, staccandosi bruscamente, mentre lo osserva tentennare su se stesso, come un birillo sul punto di sfracellarsi colpito dalla palla da bowling.
«Eeeeeeh a dire il vero non lo so... anch’io l’ho persoooooo!» biascica, deglutendo un sorso di birra, continuando poi più pensieroso «L’ultima volta che l’ho visto era da quelle parti, laggiù... ma ero troppo impegnato con una gnocca, sai com’è, non potevo inseguirlo, eheheheh!»
Il ragazzo ammicca, facendo l’occhiolino e la linguaccia, ma Freezer non lo sta più guardando. Le sue iridi si spalancano, allucinate, punti minuscoli nel bianco immenso nel bulbo oculare, mentre una sinistra angoscia inizia a oscillare nell’aria autunnale di quel party in mezzo alla campagna.
Deve farsi, farsi adesso, non può più aspettare. Il tizio si dissolve, inghiottito da uno sciame di gente che muove la testa a ritmo di musica, sventolando le bottiglie e le sigarette come se fossero bandiere, lasciando Freezer solo nel camminare verso il punto indicato, mentre si esplora le tasche in cerca dell’orologio.
Non è che un normalissimo camper, dipinto di azzurro cielo, tappezzato da un migliaio di adesivi colorati di cantanti e di complessi rock, dalla cui finestra esce uno spiraglio di luce. Il silenzio è troppo profondo, spettrale e denso come catrame che inquina l’oceano riversando la vita intossicata e soffocata sulle coste.
Perché dovrebbero essere lì? Forse a dividersi qualche prostituta, ma quell’ipotesi non convince neppure il più piccolo dei neuroni di Freezer, il cui cuore ghiacciato batte piano, brancolante nella suspense, mentre sale gli scalini e apre la porta.
I corpi di Zarbon e Dodoria giacciono, supini, sul pavimento.
Immersi in abissi scarlatti che sorgono al centro dei loro petti e si propagano come ali liquide sul pavimento, lucide come specchi. Gocce di porpora restano sospese sul precipizio, coagulate nell’attimo prima di contaminare la punta delle inglesine candide di Freezer.  Li guarda, inespressivo, come se non li avesse mai visti, completamente indifferente, lo sguardo rapito dalla lunga treccia di Zarbon, il cui verde smeraldo è stato corrotto dal suo complementare, striato di bruno come la scorza di una castagna autunnale, come il marrone degli occhi scuri di No quando singhiozzava in preda alle lacrime, pregandolo disperata con lo sguardo. 


Continua...



2 Marilyn Manson – Threats Of Romance
https://www.youtube.com/watch?v=AgH1zQBmv1Q
 
3 Tarro – Flashpoint
https://www.youtube.com/watch?v=hDEih0h7SM4

 

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Capitolo 3
*** 3: When You Think You're Free ***


 

3: When You Think You’re Free

 
Just remember when you think you’re free/Ricordati che quando pensi di essere libera
The crack inside your fucking heart is me/La crepa nel tuo fottuto cuore sono io
I wish I could sleep/ Vorrei riuscire a dormire
But I can’t lay on my back/Ma non posso distendermi
‘Cause there’s a knife/Perché ho un coltello nella schiena
For every day that I’ve known you/Per ogni giorno da quando ti conosco
[Marylin Manson – Speed of Pain]4
 

8 Settembre, giovedì, ore 19:33
[Un anno prima]
 
«Just like a supernova exploding, our two worlds are colliding, we are endlessly falling! Just like a photograph aging, fading, the cracks are slowly breaking, and we are slowly changing!5»
La voce stridula di No canta determinata, in fibrillazione per il suono veemente delle chitarre elettriche che eccitano le sue vene e del ringhio aggressivo del cantante. È decisamente stonata, la sua pronuncia della lingua inglese decisamente scadente, ma l’energia del rock è visibile nei suoi occhi risoluti.
Mentre cammina, verso la stanza del piano in cui si trova la sua tana, seguita da uno strascico di gocce d’acqua, rimpiange amaramente di aver dimenticato il phon lontano dal bagno, infreddolita e tremante. È nuda, con un misero asciugamano appoggiato sulle spalle, sempre meno protetta dalla carica energetica della canzone man mano che i passi la allontanano dal cellulare in riproduzione su YouTube. Quando arriva sullo stipite della porta nota Freezer girato di spalle, le braccia incrociate dietro la schiena, che osserva dall’ampia vetrata il mare su cui sta tramontando il sole.
No sobbalza per la visita inattesa, bloccandosi, il corpo madido paralizzato da un brivido gelido. Freezer si gira, avvolto in uno smoking grigio che gli fascia il petto muscoloso, i bottoni leggermente increspati dalla tensione, le mani pallide oscurate dal bagliore dei gemelli, due diamanti che scintillano agli ultimi e morenti raggi del sole. Le sue iridi rosse la guardano, la divorano, facendola a pezzi, abilmente mimetizzate fra i lineamenti immobili, algidi del suo viso. Il suo sguardo percorre i suoi capezzoli turgidi, propaggini di seni piccoli e morbidi, percorsi da gocce d’acqua che attraversano il suo corpo in una lenta discesa verso il basso, disperdendosi nella piega fra le sue cosce.
«Ehi... ciao» No gli sorride, dolce, mentre gli si avvicina.
«Tre chili. Mi aspetto che entro giovedì sia venduta» dichiara lui, facendo un cenno al sacchetto di nylon appoggiato sulla scrivania, spostando fugacemente le pupille severe sul volto di No, che annuisce perplessa. Di solito Freezer non le porta personalmente la droga da vendere, ma la fa recapitare attraverso un sistema di corrieri che quasi tutti i giorni riforniscono tutti gli spacciatori della città, lei compresa. Alza leggermente il sopracciglio, non osando contraddirlo, quando un particolare attira la sua attenzione. Vicino al sacchetto ce n’è un altro, più piccolo, le cui maniglie sono annodate in un fiocco elegante.
«Cos’altro mi hai portato?» ghigna, cercando di scavare nel suo volto freddo e decifrare una qualche emozione, serpeggiante sotto la superficie. Freezer stringe impercettibilmente la mandibola, nel tentativo di deglutire l’impulso di elettricità che ha attraversato il suo corpo quando ha percorso con lo sguardo le sue carni. Odia quella sensazione, odia sentire il basso ventre contrarsi in balia di un istinto animale che non gli appartiene, odia sentire le cuciture dei pantaloni divenire tese e un bizzarro senso di fame riempirgli la gola di spilli.
«Vestiti, Cristo» sibila sprezzante, fissando questa volta il fianco sinistro di No, dove è tatuato lo scheletro di una lucertola che protende aggressivo una zampa verso il suo seno, gli occhi come sfere di plasma vermiglio e fosforescente che sfolgorano nelle orbite vuote.
Ricorda ancora il giorno in cui la hanno marchiata e la sua fibrillazione nel vedere il sangue colarle sulla sua pelle. Il segno della sua gang, il segno indelebile che lei è sua, soltanto sua e per sempre sua, che non potrà mai abbandonarlo a costo di scuoiarsi viva.
Il sorriso di No si spegne, come se i fili dei suoi muscoli fossero stati tagliati. Si asciuga frettolosamente e si infila il pigiama, tamponandosi i capelli corti con l’asciugamano, ormai non più intenzionata a usare il phon.
Sono immersi nel silenzio totale del tramonto quando si siedono al tavolo, uno di fronte all’altro. Non hanno mai parlato molto. No esamina minuziosamente i contorni e i movimenti del suo volto alla ricerca di qualcosa, magari del motivo per cui si sia presentato da lei senza avvisare e senza alcun motivo apparente se non quello di cenare insieme.
Ma lui non dice nulla, limitandosi a mangiare elegantemente i suoi nigiri di salmone con le bacchette, non facendo cadere neppure una goccia di salsa di soia. La sua eleganza è totale, schiacciante nelle labbra finemente disegnate e tinte, nella sua postura composta, nel modo raffinato in cui le sue dita inanellate si portano il tovagliolo di carta alla bocca.
No, invece, seduta a gambe incrociate sulla sedia di alluminio, sorride impercettibilmente quando nota sul fondo della scatola un quartetto di maki al gambero fritto, il suo piatto preferito di sushi, preso apposta per lei. Vorrebbe aprire bocca per ringraziarlo ma ha paura di rovinare quel momento perfetto con una profusione di emotività potenzialmente pericolosa, la rabbia di lui come una bestia acquattata negli angoli di tutte le stanze in cui lui è presente.
«Accendo? A quest’ora c’è il programma sulle stelle.»
Freezer annuisce, distratto, mentre addenta un temaki al tonno trattenuto abilmente fra le bacchette di legno. La televisione prende vita e una volta finito di mangiare i due si spostano sul letto, sprofondati fra i mille cuscini, vestiti e peluche che popolano la testiera del materasso di No.
Freezer non sembra avere intenzione di andarsene, il corpo affondato nel turbinio delle coperte spiegazzate, gli occhi ipnotizzati dalle immagini delle stelle che nascono, esplodono e rinascono nuovamente, in forme diverse. Non la guarda neppure, le vene del collo tese e ingrossate sotto la cute diafana, come se avesse inghiottito una bomba a orologeria sul punto di esplodere.
È teso, nervoso, senza alcuna ragione particolare. È semplicemente una di quelle giornate in cui il buio dentro di lui è un pozzo talmente profondo da dargli le vertigini. Uno di quei giorni in cui sente il richiamo oscuro delle voragini della terra corvina, che gridano strazianti la fallibilità del suo dominio.
Una città, tante città, centinaia di chilometri, non sono nulla, non sono che fazzoletti di terra sterile e di aria impura, privi di significato. Sogna l’universo e la vastità del cosmo, affondando nelle sue fantasie di bambino e sentendo qualcosa dentro morire. Mentre aspettava che No uscisse dal bagno, ipnotizzato dal proprio riflesso nel vetro della finestra, ha immaginato di infilarsi Raggio della Morte in bocca e di premere il grilletto, ha immaginato di impugnare un coltello e annegare nel suo stesso sangue, sbattendo ripetutamente le palpebre per scacciare quei simulacri assurdi.
Lei è contenta di averlo vicino, il suo respiro familiare quanto lo scroscio delle onde che borbotta lontano, per una sera nel silenzio totale della sua casa, non turbato dal passaggio di nessuno degli altri servitori.
Freezer ha fame, di una fame bianca e chimica, inquieto sul materasso. Si arrende e tira fuori l’orologio da taschino, facendogli fare gli scatti fino a salivare alla vista della copiosa polvere che trabocca. No sorride e si china, versandosi un grumo di cocaina sul dorso della mano e sistemandola fino a formare una lunga striscia, dal polso fino al dito indice.
«Sei pronto?» sussurra, avvicinandosi al suo volto, le iridi di Freezer come stagni torbidi ove riluce una luna di sangue. No striscia lentamente la mano sotto le sue narici che aspirano avide, fameliche, scatenate e voraci come bestie che hanno fatto a pezzi le loro gabbie, divorando anche l’odore dolce della sua pelle. Percepisce il suo corpo divenire elettrico e instabile, gli occhi disciolti in un brivido di eccitazione e il cuore aumentare velocemente, un tamburo che le sembra quasi di poter sentire.
«What can I say, what can I do... This is who I am and I am hurting you! What can I say, what can I do... No matter how strong my feelings are, I always end up hurting you...6»
Il cellulare di No inizia a squillare nell’altra stanza e lei ha un sussulto, iniziando a stiracchiare le gambe per alzarsi.
«Non ci provare» sibila Freezer, le iridi come catene arrugginite che la stringono e la soffocano, immobilizzandola in un intrigo di filo spinato. Si sente debole e furente, non sarebbe mai dovuto venire, non quando si sente così vulnerabile e pieno di vuoto, un vuoto dagli artigli di ossidiana che lo squarta dentro a ogni sfumatura della notte che si dilata.
Una vampata di calore gli infiamma il petto e la faccia, umiliazione e vergogna impartiti dal suo tribunale mentale che l’ha appena dichiarato colpevole. Non vuole che lei parli con nessuno, ha l’istinto di girarsi e strozzarla fino a ucciderla, affinché non sveli a nessuno di come si sia presentato come un ragazzetto patetico alla sua porta con una confezione di sushi take-away.
«Perché? Probabilmente è per lavoro, sei il primo ad arrabbiarti quando perdo le telefonate dei clienti.» ribatte, titubante, cogliendo per un attimo la scintilla dei suoi occhi spaventati sotto le milioni di gradazioni di porpora del suo sguardo, che si affrettano a richiudersi sotto la coltre glaciale del suo volto inespressivo.
Non le risponde, mentre il telefono ricomincia a suonare, una seconda chiamata e una terza, poi una quarta, con tutta probabilità un tossico disperato alla ricerca della prossima dose. A ogni nota della musica sente i muscoli di Freezer divenire più contratti sotto la camicia, come se si colmassero di qualcosa, vibranti di minacce silenti.
Decide di alzarsi, stufa di aspettare, infilandosi le ciabatte guardandolo dritto negli occhi assenti, sperduti fra le immagini di pianeti e di stelle che vorrebbe dominare, stringere e far levitare fra le dita come giocattoli.
«Pensi che mi interessi se tu rimani o te ne vai? È solo una questione di rispetto verso il tuo padrone.» la provoca infine, non degnandola neppure di uno sguardo.
Padrone. No alza le sopracciglia e piega la bocca in un’espressione di disgusto. Vuole offenderla, usando le parole che sa ferirla di più, parole false, riduttive, che anche lui sa essere false, anche se non lo ammetterebbe mai, propaggini di quegli strali di oscurità che sopravvivono sul suo volto inossidabile, forgiato nel metallo. Si volta e attraversa il corridoio, le punte dei piedi nudi che saltellano sul pavimento gelato, e controlla le chiamate perse: come previsto, un cliente in astinenza al quale, dopo un lungo giro di telefonate, invia un altro spacciatore. Risolto il problema, torna nella stanza soddisfatta, sdraiandosi nuovamente accanto a lui come se nulla fosse successo. Fuma lentamente una sigaretta, avvolta sotto il plaid tiepido, osservando il suo profilo serio e concentrato come quello di un rettile primitivo della terra, uno strano sorriso che le incurva le labbra.
No si addormenta, scivolando nel sonno cullata dal ronzio del televisore e dai bagliori di luce, appoggiando la fronte alla spalla di Freezer. Lo cerca, lo cerca sempre quando dormono nello stesso letto, come se tutte le attenzioni che presta durante il giorno per non toccarlo e non infastidirlo andassero in fumo non appena smarrisce il controllo di sé. Lui la respinge, brusco, scansandosi all’istante ma decide di non andarsene.
Quando anche lui si addormenta, all’alba, dopo una nottata passata a girare i canali e a fumare una sigaretta dopo l’altra, l’ultima immagine che catturano i suoi occhi irritati e gonfi è quella del volto immobile di No, l’eye-liner colato e un chicco di riso ancora fra i capelli.
 
22 Novembre, mercoledì, ore 21:32
 
I brividi scuotono il corpo di No, fragile come una foglia tremula di fronte alla tempesta. Ha paura, le vene di carta vetrata che spingono sotto la pelle, l’energia che abbandona le sue membra, sempre più stanche. Corre, traballante, cercando di allontanarsi il più possibile, come se fosse sufficiente dissolvere la sua immagine dal campo visivo per dimenticarlo.
Continua a chiedersi cosa le sia balzato in mente quella maledetta sera, come abbia potuto pensare di chiedere aiuto, fra tutti, proprio a Freezer. Se solo fosse riuscita, come sempre, a rinchiudere quel dolore nelle segrete delle sue viscere, ad arginare la scarica di coltellate che le aveva trapassato il corpo con un respiro profondo, No avrebbe taciuto. Le sue labbra fini sarebbero state come guardiani e lei avrebbe dormito al suo fianco in silenzio, perfettamente consapevole del fatto che lui non avrebbe mai potuto darle nessuna delle risposte che cercava.
Stupida, stupida, maledetta stupida, si maledice, si è innamorata di Freezer e della sua freddezza, della sua sicurezza, del suo viso impassibile e dei suoi occhi eterni, plasmati nella stessa sostanza degli astri. E adesso osa offendersi perché lui ha manifestato, in piena coerenza con se stesso, la propria natura?
Ipocrita. Si morde le labbra, alterata, rifiutando di ammettere a se stessa ciò che chiunque le direbbe, che è più probabile trovare un ago in un pagliaio che farsi amare da un tipo come lui. Amare. Nel senso umano del termine, di quella stessa umanità che lei ha rigettato, vomitandola su un marciapiede insieme a tutto ciò che apparteneva alla sua vecchia vita, quella fatta di scadenze e di orari, di interrogazioni e verifiche, di gente più alta di lei sempre in diritto di dirle cosa fare. Qualcuno potrebbe dirle che ha soltanto cambiato padrone, ricadendo dalla padella alla brace, inginocchiata di fronte ad un’autorità ancora più suadente. Un’autorità più bassa di lei e dagli occhi iniettati di sangue.
Non si è mai sentita sottomessa da Freezer, neanche quando l’ha picchiata insieme al resto dei suoi scagnozzi, nemmeno quando le ha detto che faceva schifo, che a spararle le avrebbe fatto soltanto un favore.
Quell’unico schiaffo che le ha infiammato la faccia, quando si sarebbe strappata la pelle per farsi accarezzare da lui, per osservare le sue labbra chiuse e silenti, oppure per sentire le sue frasi misantrope che avevano sempre la speciale capacità di farla ridere, è stato più crudele di un proiettile.
Sei patetica
Mi disgusti
Ti odio
Le aveva lette nei suoi occhi di porpora. Anche se avrebbe dovuto aspettarselo, anche se la razionalità saccente dentro la sua testa lo aveva sempre saputo.
No non è mai stata in grado di avere rapporti sani con nessun altro essere umano. Si è sempre sentita un’aliena, calata dall’alto in una ragnatela di sorrisi, risate e convenzioni in cui non è mai riuscita a integrarsi.
Forse è per questo che ha scelto Freezer, perché le sembrava un alieno esattamente quanto lei.
Eppure, forse, mentiva soltanto a se stessa, cieca ai propri stessi desideri, cercando soltanto qualcuno che potesse amarla come è banalmente normale essere amati.
«Scusate! Permesso...» spintona fra la folla, sul punto di svenire. Ha bisogno di farsi, adesso, immediatamente, la nausea continua a vibrare nella bocca dell’esofago, sempre più intensa, accompagnata da crampi dolorosi al ventre. Suda, di un sudore gelido che sembra ghiaccio dentro i suoi vestiti, l’ansia così forte che potrebbe urlare. Non ha più un’altra dose e non ha soldi, non ha più un posto dove andare a dormire. Prova a telefonare a Zarbon, ma non ottiene nessuna risposta. Il panico la azzanna ripetutamente, disgregando il suo corpo in una miriade di brandelli. È da poco tempo che ha iniziato a farsi di eroina e non sa come fare a controllarsi, l’angoscia nel sentire tutto disfarsi, dolorante in ogni punto.
«Ehi! No! Come stai?»
È una voce cristallina, come di una cascata che scorre limpida lungo le rocce sotto il sole, sconosciuta e ambigua lungo i suoi timpani assordati dalla musica. Una ragazza con un caschetto bruno la saluta un gesto della mano, un sorriso smagliante dipinto sul volto. È veramente bellissima, No si smarrisce incantata nell’osservare le sue ciglia lunghe, seducenti, il corpo magro e prosperoso fasciato da un vestito a maniche lunghe di un colore simile al bordeaux.
«Scusa... ci conosciamo?» biascica, disinteressata, continuando a scorrere la rubrica del cellulare.
«Ma come?» ride, sorpresa e un po’ delusa, le sopracciglia chiare che s’increspano nella fronte lambita dalla frangia sfilacciata «Non ti ricordi di me?»
«N-No... proprio no.» ribatte, iniziando a sentire l’irritazione sfiorarle le clavicole. Non ha tempo per queste cose, deve trovarsi una dose e un posto per dormire. A come riorganizzare il resto della sua vita ci penserà domani, quando il sole e la sua pace torneranno a ricoprire la terra.
«Ma sì... sì... a quella festa il mese scorso, alla discoteca giù al molo, ti ricordi?»
La mente di No si riempie di immagini scure, indistinte, accomunate soltanto dai cerchi concentrici nell’acqua nera, sporcata della luce lunare. Il frastuono delle risate e della musica si dilegua condensandosi in un unico, opprimente silenzio profondo come le viscere della terra, dominato dalle gambe di Freezer sospese nel vuoto, ciondolanti sull’abisso del mare, i capelli viola frustati dalla brezza.
No, non se la ricorda proprio quella ragazza.
«Dai, ma così mi offendi! Mi stai dicendo che sono come tutte le altre?» ride, facendo la linguaccia.
«Senti, si può sapere cosa vuoi?»
No sta iniziando a innervosirsi, sente la gabbia toracica irrigidirsi intorno al suo cuore pulsante, la gola in una morsa arida, a disagio per l’audacia con cui la sconosciuta le afferra il polso trascinandola fra la folla. Inizia a domandarsi se potrebbe essere quella ragazza con cui aveva fumato a metà serata, stordita dai troppi bicchieri di assenzio, oppure quella a cui aveva tenuto la porta in bagno a causa della mancanza di serrature funzionanti.
Una bizzarra inquietudine inizia a invaderla mentre confronta quel viso gentile e sensuale con quelle immagini indistinte, sentendo che dovrebbe ricordarsi di qualcosa che in quel momento si nasconde come un gatto mimetizzato nell’erba del crepuscolo.
«In realtà sono venuta a cercarti per restituirti il favore...» dice la sconosciuta, bloccandosi in mezzo alle sterpaglie, nei pressi di un muro di casse in miniatura, assediato da almeno una ventina di persone, che ballano agitando le bottiglie di birra al ritmo di una melodia dubstep proveniente dalla cassa più vicina.
«Che favore?» ribatte No, sospettosa, analizzando minuziosamente il suo trucco impeccabile, inusuale per una frequentatrice di rave party. Sembra una ragazza ricca, di una classe sociale elevata, anche la borsa firmata sembra gridare lo stesso lusso dei suoi lineamenti.
«Questo!» sorride, infilandole qualcosa in mano e richiudendole il pugno con dolcezza «Sei stata veramente un angelo quella sera, se non mi avessi aiutata non so come avrei fatto...»
I suoi occhi si illuminano, blanditi da una luce cupa.
No si rilassa, un’immagine più potente delle altre si staglia nella sua mente, ricordando di aver dato una bustina di cocaina gratis a una ragazza che piangeva, seduta fuori dal locale con i collant strappati. La aveva tenuto compagnia mentre tirava, ascoltando i suoi racconti sconclusionati su quanto il suo ragazzo fosse uno stronzo e fosse scappato insieme alla sua borsa.
«Ah! Adesso forse mi ricordo di te!» mormora No, socchiudendo gli occhi.
Eppure quella ragazza se la ricordava più bassa. O forse bionda. Ma non ne è del tutto certa, quell’episodio si fonde nella sua memoria con almeno una decina di altri.
No non è per nulla adatta a fare la spacciatrice, nonostante le sue dichiarazioni ciniche tende a farsi impietosire fin troppo dal malessere dalla gente, specialmente dalle ragazze sole e disperate che le ricordano se stessa. E Freezer non è mai stato veramente severo con lei riguardo a questo suo deprecabile e infame altruismo, fingendo di non vedere come a volte i suoi ricavi fossero leggermente inferiori a quanto dovuto.
 «Non so se ho azzeccato i tuoi gusti... Ma qualcosa mi dice che ti piacerà.»
Questa è la prima volta in cui qualcuno si offre di ricambiare e un calore di imbarazzo misto a piacere divampa sul suo volto. Apre la mano tremante, dove un pacchetto di carta stagnola si dischiude lentamente nel mostrare della peccaminosa polvere bianca, quella polvere bianca.
Gli occhi di No scintillano involontariamente, mentre il suo intero corpo è attraversato da una scarica elettrica che le contorce i muscoli in un brivido doloroso. Non riesce a smettere di fissarla, ipnotizzata, mentre tutti gli altri pensieri, Freezer, la casa, la notte all’addiaccio, diminuiscono di intensità, come se si fosse abbassato il volume all’improvviso.
Se solo No alzasse lo sguardo in questo momento potrebbe di nuovo vedere la sconosciuta, immobile a una decina di metri da lei, celata fra le sagome fluttuanti della gente che brulica incessantemente, come un predatore mimetizzato fra le fronde degli alberi.
Se solo No non fosse posseduta dalla brama ringhiante che le ustiona le vene, potrebbe scorgere un sorriso sghembo dilatarsi trionfante su quel volto tanto aggraziato.
 
*
 
La trova subito, rovesciata a terra dietro un accampamento di tende vuote, le cui cerniere sono spalancate come bocche di enormi bestie rannicchiate.
È girata su un fianco, perfettamente immobile, la manica del braccio sinistro arrotolata maldestramente, la siringa ancora infilata nella piega del gomito. Vede soltanto i suoi capelli mescolarsi all’oscurità della terra e la sagoma del suo naso, mentre inizia a sentire qualcosa di liquido e gelido allargarsi lentamente dentro di lui. Ignora quella sensazione, mordendosi le labbra e spingendo con un piede il corpo di No a girarsi supino.
Pensi che ti lascerò andare?”
La mente di Freezer è un lungo corridoio infinito in cui si moltiplica l’eco di parole che adesso squarciano come lame.  
Si china leggermente su di lei, la coda candida del frac che affonda nel tappeto di foglie autunnali che scricchiolano sotto le sue scarpe eleganti. 
Il volto di No è intriso da una sfumatura bluastra, le labbra violacee, contratte e sporche di buio, come se avesse inghiottito la luna e gli oceani e li avesse intrappolati al suo interno, costretti a pulsare e rivoltarsi all’infinito dentro di lei.
Il suo petto si muove appena, impercettibile, gli occhi chiusi, le lunghe ciglia appoggiate sulla pelle come rami ricoperti di falene addormentate.
Il silenzio colma le vene e i ventricoli di Freezer come un soffio della bora. Non esiste più nulla, solo il corpo di No che si moltiplica infinite volte, in un caleidoscopio muto.
Non avrebbe mai dovuto lasciarla andare.
Ai lati del suo corpo, un accendino e un cucchiaio, su cui giace un sedimento granuloso, diverso dai soliti residui calcarei lasciati dall’eroina dopo essere stata aspirata. Freezer socchiude gli occhi, sospettoso, un ingranaggio della sua mente che scricchiola, un passo falso su un lago ghiacciato.
Zarbon è morto, Dodoria è morto, altri suoi seguaci sono completamente irreperibili da ore e adesso questo. Che diavolo sta succedendo? La rabbia e lo sdegno divampano sul suo volto, ridotto a una maschera deformata. Infila la mano nella tasca della giacca di pelle di No alla ricerca di indizi, non trovando nulla di rilevante eccetto il suo cellulare in standby.
Dovrebbe chiamare l’ambulanza e tentare di salvarle la vita, lo sa, in un anfratto minuscolo della sua mente sente soltanto il suono delle sirene, assordante, come un canto di guerra. Una guerra in cui lui ha perso, comportandosi come uno sciocco umano che si dispera per la sopravvivenza di una specifica vita, inutile e priva di significato come tutte le vite. No è soltanto una ragazza fra mille ragazze, si ripete, la sua vita non vale di più di quella di Zarbon o di Dodoria, ormai carne fredda e morta alle sue spalle, di cui ha già dimenticato persino l’odore. Non può perdere il suo tempo nell’aiutarla, mentre il suo nemico fiorisce alle sue spalle.
Inizia a esplorare il telefono di No, alla ricerca di qualunque dettaglio che possa fornirgli un’idea di come No, nota per la sua diffidenza, sia arrivata ad assumere droga probabilmente avvelenata.
Qualche chiamata di Zarbon, una ventina di clienti abituali, altri numeri di spacciatori del suo dominio, nulla di particolarmente sospetto. Nei messaggi un’unica recente conversazione, quella con Gibraltar, una sua amica che si è trasferita in una città a qualche ora di distanza per frequentare l’università.
«Ho paura. Mi sento annegare nella morte. È come se i muri della mia vita si restringessero ed io fossi costretta a fuggire verso il centro, arroccata fra le mie ossa, aspettando una fine inevitabile. Vorrei soltanto che mi stringesse. Che mi dicesse che andrà tutto bene, che potrò piangere sul suo completo elegante ogni volta che vorrò. La verità, invece, è che sono completamente sola.» dice il messaggio di No, al quale l’amica non ha ancora risposto.
Fra le conversazioni meno recenti, quella con Zarbon, risalente a quella notte.
«Cosa è successo? Ti ho sentita piangere e sbattere la porta. Mi era sembrato di essere stato chiaro. Richiamami», al quale No aveva risposto con un secco «Sono tornata al molo. Tutto nella norma, non preoccuparti.»
Il molo, qualcosa nelle gengive di Freezer brucia nel ripensare al tintinnio di quelle chiavi scivolare a terra. Una delle industrie abbandonate, sorte grazie all’abusivismo edilizio di una trentina di anni prima, una costruzione gigante come un colosso corroso dalla decadenza, consumata dal riverbero delle onde, tutta per lei, regalata in occasione del suo compleanno.
Quello che non vuole capire è che No preferisce di gran lunga dormire nel suo letto, rannicchiata nel lato opposto del suo materasso, cullata dall’odore della sua pelle e protetta dall’ombra oscillante del salice, al quale sono attaccati dei sonagli da vento che cantano nella notte.
Le è sempre piaciuto vedere il corpo immobile e silenzioso di Freezer mentre dorme, la curva della sua spalla nuda tendere le coperte. Non glielo ha mai detto, ma a volte lo toccava, pianissimo, al cardiopalma nella paura che lui potesse svegliarsi.
Si infila in tasca il telefono, rabbiosamente, non vuole più sapere niente di No, non vuole più vedere il suo corpo esanime, ricordare la sua voce, la luce malinconica dei suoi occhi, oppure ripensare a quanto fosse irritante senza occhiali la mattina, perennemente alla ricerca delle ciabatte disperse nel buio sotto il letto.
È onnipotente, lui.
È indistruttibile, lui.
Non ha paura dei vivi, né tantomeno dei morti. Non gliene importa più niente dei suoi occhi castani e della loro morbidezza, gelatina putrescente che nutrirà gli avvoltoi e i vermi. Niente, neppure delle sue mani piccole, che gli hanno confezionato una sciarpa fatta a mano con l’uncinetto, a fili alternati bianchi e viola. Era imperfetta, asimmetrica, il peso dei colori sgraziato, ma lunga e molto calda, della lana adatta ad affrontare l’austera stagione invernale. L’aveva guardata e aveva provato una rabbia cocente che lo aveva ustionato da dentro fino ad avvelenargli la lingua.
«Pensi forse che io indosserei uno schifo simile?» le aveva detto, mentre la gettava a terra, trapassandola con uno sguardo pieno d’odio. Lo stesso odio con cui la guarda adesso, vergognosamente esanime, vergognosamente morente, sempre così imbarazzante. Qualcosa attrae la sua attenzione e chinandosi di nuovo su di lei raccoglie una bustina trasparente, mimetizzata fra le foglie. I suoi occhi si dilatano in un misto di stupore e di rabbia: lo stemma dei Saiyan, impresso in un angolo, talmente piccolo da essere quasi invisibile.
Un boato d’ira sconvolge il suo corpo, veemente come un tuono, la pressione delle sue vene diventa insostenibile mentre pensa a quelle scimmie disgustose, scimmie più disgustose delle altre, rivali della sua famiglia da moltissimi anni. Come si sono permessi, come si sono permessi di invadere il suo territorio?
Freezer alza il mento e si morde le labbra, sentendo la bocca arida e tagliente, ha capito chi è il suo nemico, lo sa, lo vede, pregusta il suono del suo cuore spegnersi, le corde e i torrenti di carne dilaniati da uno dei suoi proiettili e ringhia, lasciandosi il corpo di No alle spalle.
Nessuno può permettersi di dominare nel suo territorio.
Nessuno.
Trascorre soltanto pochi minuti vagando per le centinaia di camper riuniti per il rave party, quando un odore particolarmente schifoso raggiunge le narici di Freezer. Un sinistro presentimento allerta la sua mano, che stringe Raggio della Morte come se facesse parte del suo corpo. È immerso fra gli alberi, alberi meccanici a quattro ruote che contengono vita: voci, gemiti, musica assordante, schiocchi di accendini che accendono sigarette, canne, riscaldano cucchiai o pipe, urla e schiamazzi dall’intensità irregolare.
Il ragazzo si gira, fino a osservare un camper diverso dagli altri. Le luci sono spente e non c’è nessuno, come se tutti fossero fuggiti, inoltre l’odore di un’acqua di colonia rivoltante permea l’aria, come quello del pelo di un animale bagnato nascosto nella boscaglia. Si avvicina, attento a non far schioccare le scarpe sulle foglie secche, fino a quando riesce a sporgersi dall’oblò e a osservare all’interno da un lembo della tenda lasciato dischiuso.
Il volto di Freezer si contrae in un’espressione di disgusto, socchiudendo per un attimo gli occhi, gli angoli della bocca rivolti verso il basso. Sta per andarsene, quando il suo sguardo viene di nuovo attratto dal volto di lui, sconvolto in un’espressione di intenso piacere.
Vegeta.
I capelli neri e scompigliati sul materasso, le iridi liquide ed eccitate, concentrate soltanto su di lei, bellissima e seducente, che si spinge voracemente contro il suo sesso come se non ne avesse mai abbastanza.
«Tutt-ah! Ah! Tutto... sarà nostro...» geme lei, chinandosi su di lui, i capelli azzurri e reclinati in curve morbide che si rovesciano sul suo petto.
Vegeta, il rampollo della famiglia Saiyan, il suo acerrimo rivale. Freezer alza le sopracciglia, nauseato: così sono le scimmie, dai grandi progetti, ma dalla carne debole in modo decisamente imbarazzante. Ai lati del materasso, nel cono d’ombra escluso dalla luce proveniente dai finestrini, scorge il brillio di cucchiai, aghi e polvere bianca sparsa ovunque, due cannule e una pipa. Gusci viventi che istigano all’omicidio, talmente intossicati da non rendersi più nemmeno conto di dove si trovano, sperduti in un piacere chimico e totalizzante.
«Prima i vermi e poi la puttana» ride lui, i denti bianchi come zanne aguzze in ghigno soddisfatto, la vista annebbiata in un caleidoscopio di capezzoli duri, saggiati rudemente dalle sue mani ruvide.
Ogni volta Bulma è in grado di stupirlo, scaltra come una serpe: sono bastate una parrucca castana e la sua parlantina, irradiata del suo irresistibile carisma, per ingannare No. Non è stato facile trovarla, No è un’ombra nella città, mai gli stessi orari, mai gli stessi posti, quasi sempre pedinata a vista da una delle guardie del corpo di Freezer. Invece, contrariamente alle aspettative, convincerla ad accettare quella bustina e a spararsela dritta in vena, si è rivelato paradossalmente troppo semplice.
Anche Bulma ride, il volto arrossato e rovente, mordendogli il collo e un orecchio, ben sapendo l’effetto che gli fa. Vegeta sa che non dovrebbe abbassare la guardia, sa che uno degli uomini di Freezer potrebbe presentarsi in qualunque momento e scoprire la strage che ha fatto, riempiendosi le mani di sangue malvagio, che ha ucciso tanta della sua gente e che meritava soltanto un lasciapassare per andare all’inferno. No è un effetto collaterale, una mera ripicca, con tutta probabilità una malata mentale che gioca a fare la fidanzatina, che Freezer avrebbe ucciso comunque, prima o poi, così come uccide tutti i suoi giocattoli, prima o poi.
Immagina di vedere l’occhio scarlatto di Freezer aprirsi sul soffitto, ovunque, come un frattale che si rigenera ovunque lui sposti lo sguardo. Ma non ha alcuna paura, lo farà a pezzi, perché finalmente è arrivato il momento della sua vendetta. Geme, confuso, annebbiato da un piacere travolgente che gli riempie le vene fino a scoppiare, immerso nella cavità bollente fra le cosce di lei.
Non immagina il sorriso aggraziato sul volto di Freezer, non immagina neanche lontanamente quanto profondi e pieni di perfidia possano essere i pozzi neri delle sue pupille che lo spiano, maliziose, al di là del vetro.
Inaspettato, Freezer scrocchia le ossa del collo a destra e a sinistra, irrigidendosi di superbia. Non ha intenzione di sprecare quest’opportunità di ucciderlo, leccando la canna metallica di Raggio della Morte in un gesto lascivo. Conosce quel tipo di camper e sa come fare: spara alla maniglia della porta, chiusa dall’interno, con una certa angolazione e fa saltare la serratura in un tonfo sordo. La porta si spalanca, in un cigolio, rivelando la ragazza nuda, in piedi e terrorizzata a pochi passi da lui. La guarda con maniacale attenzione, percorrendo con lo sguardo le ombre dei suoi seni formosi, su cui rilucono ancora le tracce umide dei baci di quella scimmia orribile. I suoi fianchi, così stretti e sinuosi. Il suo viso armonioso, le labbra carnose e sporgenti.
“Rivoltante sentenziano le sue sinapsi, spietate, mentre una smorfia gli deturpa la faccia.
Raggio della Morte grida, tremante fra le sue dita, trapassando il cervello di Bulma in un sibilo di frantumi, simile al suono delle onde violente che si infrangono sugli scogli durante una tempesta.
Si scopre a pensare a quanto No fosse più bella di lei, nella sua disarmante imperfezione.
Si gode lo sguardo allucinato di Vegeta, le pupille dilatate e traballanti, talmente intossicato da non riuscire a muoversi. Paralizzato, guarda la sua pistola troppo lontana, mescolata alla miriade di sostanze stupefacenti e di vestiti strappati nella foga di un festeggiamento rivelatosi troppo precoce.
«Perché non sei ancora in ginocchio?» sussurra Freezer, delicato, piegando appena il capo in un’espressione falsamente sorpresa. Si avvicina, lento e suadente, puntandogli Raggio della Morte addosso come un lupo feroce trattenuto a stento dalle catene. L’angoscia colma la mente di Vegeta come un recipiente, incatenando tutte le sue sinapsi in un unico grumo pulsante.
«Magari posso aiutarti...» ridacchia ancora, sparandogli due colpi alle caviglie. Vegeta stramazza al suolo ululando di dolore, le mani che si contraggono sul linoleum del pavimento, graffiando, cercando disperatamente una via di fuga. Ma non c’è alcuna via di fuga, non più, pensa lui mentre fissa il cadavere tiepido e nudo di Bulma, i capelli azzurri come un refolo d’acqua pura, inquinati dall’oscurità di un tramonto di sangue.
Lo stesso sangue che ora imperla i suoi piedi, le sue cosce, il distillato dell’arroganza di chi crede di avere potere ma è soltanto un misero plebeo, impotente di fronte all’Imperatore.
Freezer si china su di lui, afferrandogli il mento fra le unghie e sollevandolo per sprofondare nei suoi occhi corvini, oscurità come la sua ma scadente, di un nero slavato e fasullo.
«Scimmia... scimmia schifosa!» grida, liberando le bestie immonde nascoste nel suo volto, indemoniate e furiose come fantasmi maledetti. Lo colpisce con il calcio della pistola, ripetutamente, non è sufficiente ucciderlo, vuole vederlo soffrire, gemere, piangere e supplicare pietà, vuole che soffra come un cane, vuole vedere la sua carne aprirsi come un frutto maturo che secerne succo prezioso. Vegeta prova a colpirlo di rimando ma non riesce, troppo stordito dall’amalgama di alcool e droghe che rende i suoi nervi lenti e anestetizzati.
Soltanto quando Vegeta vomita sangue e succhi gastrici sulle sue scarpe, allo stremo delle forze, malmenato al punto che anche le sue mani iniziano a tagliarsi per la violenza dei colpi, Freezer si ferma, specchiandosi a lungo nei barlumi che restano dei suoi occhi, circondati da lividi neri e gonfi, nutrendosi del suo ultimo sguardo, vacuo e opaco.
Sazio di onnipotenza e di potere, tracimante di vendetta dolcissima, lascia che le sue dita accarezzino il grilletto di Raggio della Morte. Non riesce a non pensare al proiettile che sprecherà, conficcato nel suo disgustoso cranio di scimmia.  
«Se la incontri, all’inferno... dille di aspettarmi.»
Certe cose si possono dire soltanto ai morti.
 
*
 
È tutto perfetto, meravigliosamente perfetto.
Si è liberato di tutti i suoi nemici. Il bastardo, la puttana e dopo i seguaci del bastardo e della puttana, uno stuolo di amebe mediocri e imbambolate, attirate dagli spari, che vagavano come vegetali decerebrati intorno al loro camper. Freezer ha ricaricato la pistola e ora siede su un divano sfondato sorseggiando un bicchiere di whisky, le labbra contratte nell’aspirare il fumo di una sigaretta insoddisfacente.
Ha perso alcuni seguaci in una trappola a dir poco demenziale, ma non ha la minima importanza: nessuno verrà a sapere delle circostanze della loro morte e a nessuno importerà di indagare. Le vite di Zarbon, Dodoria, No e degli altri uomini che ha ritrovato sgozzati in un fossato celato dai rovi, non hanno mai avuto nessun valore. Pedine di carne scagliate su un campo di battaglia a farsi a pezzi, pienamente sacrificabili. 
È tutto perfetto. Ha ancora l’impressione di sentire, in un gioco di echi che sussurrano sotto la musica assordante, il suono del sangue dei suoi nemici scorrere e ricongiungersi alla terra affondando nel suolo gelido. Il suono dei bossoli dorati della sua Glock 18 che tintinnavano a terra è stato solo un talismano fatuo, un illusorio amuleto nei confronti dei demoni che stanno ricominciando a sorgere più forti di prima, mostri che gridano e piangono sangue nei recessi delle sue viscere.
Tenta di rilassare i muscoli, abbandonandosi completamente sul divano, rovesciato come un liquido che si espande su una superficie, circondato dallo sciame di persone che gridano, si accalcano e ballano intorno a lui, nel caleidoscopio vorticante di bottiglie di birra che riflettono le luci stroboscopiche di ogni colore, la cui frequenza è talmente elevata da far sembrare tutto tremante, scisso in fotogrammi staccati.
«Feel the agony, I come down like false gravity…We're here to take you back with us7»
Il beat lento della canzone esordisce come un’onda lontana, una piccola increspatura all’orizzonte, le vibrazioni delle casse che iniziano a tormentargli lo stomaco e a distorcere l’aria, divenuta polvere di sassi disgregati dall’ipnosi inarrestabile del muro di casse.
Una delle sue canzoni, ma quando esplode in tutta la sua potenza non prova alcun piacere, soltanto l’angoscia che sale sempre di più, a ogni nota, come colpi di pistola che si avvicinano minacciosi alle sue spalle, mitragliatrici graffianti che lo fanno sussultare come se fosse circondato, lo scroscio dei piedi della gente divenuto un rullo di tamburi di guerra.
«Listen…We're here to take you back with us»
Ripete la voce, suadente, mentre i brividi ghiacciati iniziano a scendergli lungo la schiena. Cerca frettolosamente l’orologio da taschino per farsi una dose, ma ciò che gli finisce tra le mani per primo è il telefono di No. Lo guarda, come se fosse una bomba a orologeria sul punto di esplodere, e guidato da un movimento istintivo lo sblocca, aprendo di nuovo i messaggi. Legge e rilegge, fiumi di sms inutili, fino a quando decide di aprire la propria conversazione e nota un messaggio, non inviato, in cui lampeggia ancora il cursore: “Parliamone. Non voglio perderti...”.
Una vampata di rabbia gli incendia il volto e il petto, incandescenti, e d’istinto getta il cellulare fra i piedi della folla scalpitante. Non vuole più vederlo, quello stupido surrogato bugiardo, lei lo ha rinnegato e ha avuto la fine che si merita, la fine dei traditori e dei creduloni, avvelenati a morte per la propria ingenuità.
Anzi, dovrebbe proprio ringraziarlo quel Vegeta per averlo liberato di una seguace tanto stupida e sprovveduta, tanto ingrata, tanto inutile, tanto infedele e tanto maldestra.
Eppure, dentro di lui, non risuona altro che il silenzio.
Non il fruscio sconnesso degli astri e dei pianeti che gravitano, un silenzio di morte. Di buio e di lutto, di radici strappate ed esposte al vento impietoso che le divora, le consuma e le uccide, centimetro dopo centimetro, di terra arida e nera, incenerita dal fuoco. Una gravità rovesciata e sinistra, che risucchia tutte le sue forze verso il cuore dolorante, gli arti come propaggini robotiche, svuotate di vita. Una striscia non basta, due, tre, non guarda nemmeno con attenzione la quantità di polvere che si versa sul dorso della mano e inspira, ripetutamente, lasciandosi cadere sulla schiena e osservando il cielo stellato, indenne al frastuono e alle luci, immobile e silente dominatore della terra.
“Parliamone. Non voglio perderti...”
È un’eco che inizia a corrodergli i timpani, un richiamo lontano e impossibile, perché l’ha lasciata morire, perché ha guardato impassibile i suoi occhi chiusi e la sua pelle diafana, intessuta di una sfumatura blu. Freezer trema convulsamente, mentre il cuore batte sempre più forte, intossicato dalla cocaina, le vertigini che invertono cielo e terra come una clessidra alimentata a sangue. Geme, rabbioso, rinchiudendosi in se stesso e coprendosi il volto con le mani.
«Ora lei è mia, mia, mia...» strilla una voce nelle sue orecchie, così forte da farlo sussultare terrorizzato. Riapre gli occhi, non riesce più a distinguere nulla e nessuno nei dettagli, tutto disciolto in un ribollire di colori e di luci a cui è stato azzerato il volume.
No si avvicina con Raggio della Morte stretta fra le dita, puntandogliela addosso, sul volto uno sguardo folle, tinto di porpora, metà del volto scarnificato, carne viva e pulsante, sotto la quale brulicano le ossa e i tendini. Il sangue la ricopre come un manto lucido, copioso lungo il collo e il vestito viola che indossa, raso lucido e aderente sui suoi seni, morbido nel lasciarle scoperte le lunghe gambe.
«Saresti dovuto morire tu, quel giorno, al suo posto.» sibila No, increspando la metà inviolata delle labbra in un ghigno di derisione. Freezer spalanca gli occhi, allucinato e incredulo. Quella non è No, non può essere lei, No è morta e non sa le origini delle sue cicatrici del suo corpo pallido, non sa nulla di quel che accadde quel giorno del suo compleanno.
Rovente, ustionato dall’interno e tremante, Freezer tace, sconvolto dall’immagine intermittente di No, che si morde lasciva la lingua.
«Tu saresti voluto morire al suo posto.» sibila una donna, avanzando lentamente dall’oscurità alle spalle di No. Il suo volto delicato e sibillino si moltiplica, gigantesco, sempre più vicino, lacerato da un sorriso talmente ampio da spalancarsi in modo innaturale lungo le guance, lambendo addirittura le orecchie in una fila di zanne acuminate da cui stilla il veleno.
Freezer non può ascoltare quelle parole, non può specchiarsi in quegli occhi scarlatti, liquidi e vischiosi come il sangue, che lo fissano con la stessa bramosia delle bestie della foresta, impazienti di trangugiare il suo dolore.
Si sente lo stesso bambino di allora, impotente e solo, in balia delle sue mani curate che gli tappavano la bocca per sopprimere le sue urla e i suoi gemiti mentre lo tormentavano, ogni volta più della precedente, rinchiudendo ogni volta la sua anima in uno spazio più piccolo.
Trema in preda alle vertigini, sudato, un senso di nausea che gli attanaglia lo stomaco. Grida in mezzo alla folla fino a quando la voce non gli muore, sentendosi il cuore compresso in una morsa dolorosa, arpionandosi il petto con le unghie attraverso la camicia candida. Fa male, fa tanto male, vorrebbe solo strapparselo, il cuore batte così forte nel suo petto da eliminare ogni silenzio. Esiste solo un’unica contrazione, eterna, che rimpicciolisce e comprime sempre di più il suo centro fino a ridurlo a un puntino. Annaspa e geme, non vuole più soffrire, il vuoto infuria nei suoi occhi, disperato, non più controllato, come gli inferi rovesciati sulla terra.
Ricorda all’improvviso il gusto dei biscotti a forma di fiocco di neve, mordendosi le labbra a sangue, ricorda il sorriso timido di No, che lo fissa e poi distoglie lo sguardo imbarazzata continuando a sorridere ai fiori sgargianti di un tiepido pomeriggio primaverile.
Bugie, soltanto bugie. Non è mai stato un dominatore della morte, soltanto un bambino troppo impaurito e non lo sopporta, non vuole quei pensieri, non vuole quei ricordi, non vuole più nulla. Freezer afferra Raggio della Morte e se la punta addosso, sotto gli occhi trionfanti delle due donne. Fa male, fa troppo male, non riesce a chiudere quei sentimenti affilati nella scatola degli astri.
L’occhio silente di Raggio della Morte lo fissa, buio come la porta dell’abisso.
Pensa che vorrebbe tornare indietro nel tempo e rimanere immobile quella notte, ascoltando il pianto di No come si ascolta lo scroscio di un temporale, con la malinconia addosso e una sottile angoscia di annientamento, i vetri della casa sempre troppo sottili di fronte alle bufere. Il suono di quel pianto era terribilmente simile al proprio, a quell’ultimo canto di tristezza che si è concesso prima di tramutarsi nel tiranno dei propri sogni di bambino.
Due spari trapassano il corpo pallido di Freezer, Raggio della Morte che scivola lentamente dalle sue dita. Le sue membra si sparpagliano a terra, i fantasmi dissolti e trucidati, richiamati dal precipizio.
Dalla sua spalla destra e dal suo petto sbocciano fiori di sangue, cascate di un rosso fosforescente che si mescola sul suo completo candido a quello di Vegeta, divenuto scuro. 
Sorride lievemente, arrogante anche di fronte alla morte, le iridi di porpora lambite dalla pace dello spazio buio e silenzioso, la luce che muore nelle pupille opache. 


Continua...



4 Marylin Manson – Speed Of Pain
https://www.youtube.com/watch?v=zP5-qj58FBc
 
5 Dead By April – Our Worlds Collide
https://www.youtube.com/watch?v=fqKi94PKI_o
 
6 Dead By April – What Can I Say
https://www.youtube.com/watch?v=KQXEt1JNUhE
 
7 Angerfist – Take U Back
https://www.youtube.com/watch?v=PiZd2jV7XXg

 

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Capitolo 4
*** 4: Love The Abuse ***


 

4: Love The Abuse

 
Hey, we love the abuse/Hey, noi amiamo l’abuso
Because it makes us feel/Perché ci fa sentire
Like we are needed now/Come se fossimo desiderati
But I know/Ma lo so
I wanna disappear/Io voglio scomparire
 
[Marilyn Manson - I Want to Disappear]8


 
6 Maggio, giovedì, ore 20:10
[Molti anni prima]
 
Il timer del forno suona in un trillo elegante, distogliendo la donna dai suoi pensieri, ipnotizzata nell’osservare la neve scendere lenta, come polvere illuminata da un fascio di luce intensa. Non c’è nulla che lei apprezzi di più della neve primaverile, inaspettata ed elegante sui fiori che sbocciano, come esili dita della terra. Le montagne si estendono lontane, come muti guardiani, rivestite da un manto silenzioso che strangola l’erba e le radici. Le guarda per un ultimo attimo, finendo per osservare il proprio riflesso nel vetro della finestra, su cui è dipinta una smorfia corrucciata. Si affretta a cancellarla e a sorridersi, facendosi forza, ripetendosi che sta facendo del suo meglio e che il resto è nelle mani di Dio.
Cerca di nasconderlo a tutti, anche e soprattutto a se stessa, ma Njna è molto preoccupata. Nel corso della sua vita ha accolto diversi bambini provenienti da famiglie problematiche, ma nessun caso si è rivelato complesso come questo. La avevano avvertita, la neuropsichiatra e l’assistente sociale sono state molto schiette nel colloquio preliminare all’affidamento, scrutandola con sguardo allarmato di fronte alla sua apparente tranquillità.
«Signora, noi apprezziamo la sua buona volontà e siamo certe che farà del suo meglio come per gli altri bambini, quello che cerchiamo di dirle è di non farsi troppe illusioni. Freezer è un bambino gravemente traumatizzato e potrebbe non collaborare affatto, neppure di fronte ai suoi migliori sforzi.»
Se lo era ripetuto, razionalmente, come una cantilena, quando sono arrivate le forze dell’ordine a consegnarle quel bambino muto e ostile, fasciato da un elegantissimo completo bianco, profumato e perfettamente stirato. Le sue scarpe di cuoio lucido avevano attraversato il suo campo di fiori come se camminassero sui carboni ardenti, tradendo il tremore assente nel suo volto gelido, perfettamente abituato a rimanere inespressivo.
Freezer vive in casa sua da cinque mesi e dice a malapena qualche parola, circondato da voragini e baratri invalicabili, le pupille ricolme di un vuoto tetro e indecifrabile, sfiorato soltanto della foresta piena di alberi che si estende incommensurabile di fronte alla sua abitazione sperduta in mezzo alle montagne. Non mangia molto e non piange mai, pallido come un fantasma, le ossa degli zigomi pronunciate sul volto delicato e spigoloso, sempre imbronciato in un’espressione cupa. Fissa l’orizzonte di continuo, come se si aspettasse di vedere il bosco bruciare e la calotta del cielo frantumarsi da un momento all’altro, come una fragile campana di vetro.
A volte lo sente urlare, un fulmine che le trapassa il silenzio denso della notte, trovandolo sudato e urlante in un letto completamente zuppo, una macchia gialla e densa che si espande sul materasso candido. Vorrebbe chiedergli cosa vede in quegli incubi, cosa sorge dietro le sue palpebre chiuse, ma le sue pupille sono spilli corvini pieni di vergogna e di odio, talmente penetranti da impiccare le sue parole ancora prima di sgorgare.
Njna sospira, infilandosi il guanto da forno e aprendo lo sportello. Il suo sorriso si espande ancora di più riempiendosi di una luce soddisfatta: i biscotti sono riusciti alla perfezione, secondo la ricetta di sua madre ormai defunta da molti anni. Il suo sguardo indugia un attimo sulla fotografia incorniciata al muro di una donna anziana e sorridente, facendo poi tintinnare con la mano un lungo rosario dai grani variopinti appeso allo stesso chiodo.
Sono dei biscotti semplici a forma di fiocco di neve: farina, burro, zucchero, nocciole tritate, gocce di cioccolato, uova ed estratto di vaniglia. Li copre con una spolverata di zucchero a velo, iniziando a sentire un filo di tensione solleticarle lo stomaco, sospeso nel vuoto.
Ne afferra tre e li appoggia, ancora caldi, su un piatto blu leggermente scheggiato, dirigendosi verso il salotto in penombra, illuminato soltanto dai bagliori ronzanti della televisione accesa.
«Ehi, magari questi ti invogliano a mangiare qualcosa!» dice energica, ma ancora una volta la voce le muore in gola.
Freezer dorme, rannicchiato su un fianco, le piccole mani chiuse a pugno vicino al volto. Njna appoggia il piatto sul tavolino del salotto, facendo attenzione a non fare alcun rumore. Non ha mai visto Freezer dormire, nei cinque mesi in cui ha tentato di prendersi cura di lui con tutte le sue forze. Si scopre a osservare le sue ciglia lunghe, morbidamente incurvate sulle guance, il volto altero rilassato, le labbra leggermente socchiuse a causa del naso chiuso.
Non riesce proprio a trattenersi, è più forte di lei. Le sue dita si allungano piano, come armi spuntate, accarezzando il suo viso sulla pelle diafana, fra i capelli fini. È rovente, consumato dalla febbre.
Tutti i bambini dovrebbero soltanto essere accarezzati.
Ricorda con angoscia i lividi della sua schiena nuda, i segni delle cinghiate, dei tacchi a spillo e delle sigarette, sepolti sotto i suoi vestiti eleganti, perfettamente stirati e profumati, inusuali per un bambino di quell’età.
«Vattene, so fare da solo» le aveva ringhiato, combattuto fra la vergogna e l’odio, mentre la spingeva fuori e le chiudeva la porta in faccia, lasciandola sbalordita di fronte alla porta del bagno. Ne era uscito un quarto d’ora dopo, perfettamente pulito, i capelli lisci ancora imperlati da qualche rara goccia d’acqua, con uno sguardo sprezzante sul volto, degnandola di un unico, pungente, sguardo.
Non sono un bambino” le avevano minacciata i suoi occhi cupi, atroci, colmi di una disperazione che la aveva risucchiata, pestata, lasciando di lei soltanto le ossa infreddolite. Tutto di lui suggeriva l’abnorme sforzo che faceva per rimanere gelido, indifferente, intoccabile da chiunque e da qualunque cosa.
Eppure, ai suoi occhi di madre, la postura rigida e le mani sempre ghiacciate, la cute pallida ed emaciata, le labbra morse a sangue dai denti, non facevano che gridarla quella debolezza, vomitare i singhiozzi che non piangeva.
Lo accarezza ancora, più delicatamente, avvolgendolo meglio con la coperta. Njna si trattiene dal chinarsi e stringerlo completamente fra le braccia, quando nota le sue palpebre aprirsi di scatto, lucide per la febbre e inquiete.
«Mamma?» biascica, confuso, un’espressione di terrore che attraversa come un fulmine tutti i suoi lineamenti, contorcendoli. Ha paura, il suo sguardo analizza in fretta l’ambiente ma non trova nulla di pericoloso, soltanto una televisione muta che mostra immagini di un talk show pomeridiano, alcuni libri impolverati e un vaso di vetro, da cui scaturiscono una moltitudine di rami di cotone.
Lei dov’è?
Si volta di scatto, il cuore impazzito nel petto e il corpo debole, sfibrato dall’influenza, gli occhi torbidi, come se fosse ancora addormentato.
«Dormi... sei al sicuro...» gli dice, cercando di sorridere in modo rassicurante. Stringe i suoi piccoli pugni fra le mani segnate dall’età e dai lavori domestici e glieli accarezza con lentezza.
All’improvviso ricorda, è lontano, disperso in mezzo a un caleidoscopio di montagne e di cieli austeri che non sembrano avere mai fine. La città e la sua frenesia, i semafori e i tram, la fretta e la pioggia che scava pozzanghere nell’asfalto, il vento freddo negli androni dei palazzi dove dormono i barboni, tutto è irraggiungibile e opaco, come sbiadito.
Freezer vorrebbe confidarle che nessuno è al sicuro, che lui da sua madre non lo sarà mai, ma tace, il cuore silenzioso e stanco, incantato dalle sirene del sonno. Le sue pupille brune sono abissi liquidi che la scrutano a lungo, come macchine della verità, esaminandole l’anima fino all’ultima goccia, fino a richiudersi repentinamente e ripiombare nel sonno.
 
Quando gli occhi di Freezer si riaprono, si trova in stanza da letto, accarezzato dai primi, timidi raggi di sole. Ha dormito tutta la notte e la neve è cessata, richiamata dal cielo e dalle nuvole frettolose, scomparse all’orizzonte nell’oscurità della notte, lasciando il posto a un cielo terso, quasi fosforescente contro le montagne impassibili.
«Ti senti meglio?» sorride Njna, incoraggiante, stringendo fra le mani un vassoio da letto e avvicinandosi, appoggiandolo a cavallo del suo petto.
Freezer sbatte ripetutamente le palpebre, ancora umide per il sonno, annuendo in silenzio. La febbre è scesa e la nebbia nel suo cervello inizia a diradarsi, disorientato da una sensazione di calore e di sicurezza che ustiona ancora la sua pelle come una sostanza tossica, letale. Sente di nuovo, come un’eco, il percorso delle dita di Njna sulla sua pelle, delle sue carezze, il colore del suo sorriso, la sua voce calda cullarlo nel sonno, trapassato da un intenso senso di angoscia.
Come ha potuto permettere a quella sconosciuta di toccarlo?
«Ieri sera ho fatto i biscotti di mia madre, magari questa volta puoi provare ad assaggiarli...» dice, esitante, porgendogli uno dei biscotti a forma di fiocco di neve, mentre gli versa il the Earl Grey nella tazza, il vapore che risale in parabole morbide verso il soffitto.
Eppure, quel piacere velenoso continua a bruciargli i circuiti, come un’ossessione che attraversa il suo cervello in loop, il cuore che trasale e inizia a spingere assillante nelle sue vene.
Freezer lo afferra, le piccole dita che affondano timorose nello zucchero a velo, leggermente tremanti. Lo osserva per alcuni secondi, è disturbante, imperfetto, ma lo morde, frantumandolo fra i denti con rabbia. Il biscotto è delizioso, talmente semplice e caldo, gustoso e nostalgico come il tocco di quella mano nodosa e ruvida, da aprirgli lo sterno e accoltellarlo, tagliente come una lama che lo squarta scavando voragini, pozzi umidi e bui nelle viscere della terra. Sente la gola sigillarsi in una morsa fastidiosa, mentre continua a ghermire altri biscotti e a divorarli, quasi interi, nel tentativo di spegnere quel dolore, di riempire quel buco nero che lo divora dall’interno.
«Ti piacciono?» mormora Njna, preoccupata dall’espressione allucinata degli occhi di Freezer, spalancati in modo innaturale. Tenta ancora una volta di sorridergli, ma le sue labbra si arrendono sul suo viso come funi spezzate, quando Freezer si alza di scatto e rovescia il vassoio a terra, uno specchio di latte caldo e di the che si espande in un fragore di cocci sul parquet.
Njna rimane paralizzata, le pantofole schizzate dal liquido bollente, iniziando solo dopo una decina di secondi a raccogliere i cocci di dimensione più grande per impedirsi di pensare, il volto sconvolto dall’emozione.
Un ingranaggio ha preso fuoco nel cervello di Freezer. Non può accettare quei biscotti, non può accettare quella sensazione, quelle mani, non può accettare niente, non vuole niente, vorrebbe solo andarsene. Inginocchiato di fronte alla tazza del water, si infila bruscamente tre dita in gola e vomita tutto, liberandosi del veleno che lo sta intossicando. Quando Njna si affaccia dallo stipite della porta e lo vede, scosso dai conati, i capelli fini sudati per lo sforzo, sentono un soffio di oscurità circondarla gelido come uno spiffero.
 
*
 
«Ti trovo bene oggi, Freezer. È proprio carina la tua felpa.» si complimenta la donna in camice bianco, sistemandosi gli occhiali sul naso. Si appoggia al tavolo con le braccia incrociate, sporgendosi verso di lui, ammiccante verso l’indumento nero che gli fascia il petto, dominato da un’ancora di velluto grigio stampata sul lato anteriore.
«Per chi mi hai preso? Ormai l’ho capito che dopo la sviolinata arriva sempre la richiesta noiosa.» ghigna lui, togliendosi gli occhiali da sole e piegandoli sul tavolo.
È il suo regalo di compleanno, ricevuto quella mattina stessa. Non lo avrebbe mai detto a voce alta, ma quel genere di abbigliamento non è poi così male. Comodo e caldo, ben diverso dagli asettici completi raffinati in cotone o in raso che sua madre lo costringeva a indossare in tutte le stagioni dell’anno.
Ha iniziato da poco tempo a rivolgere la parola a quella strana dottoressa che invece di visitarlo con lo stetoscopio e ascoltare il suo respiro vuole soltanto parlare, fissandolo negli occhi con sguardo attento.
«Oh, oh, mi hai beccata questa volta...» ride lei, non facendosi scalfire dal suo sguardo austero. La psicologa è molto soddisfatta per i suoi progressi. Da tre mesi ha iniziato la terapia farmacologica, accettando finalmente di deglutire le “vitamine” prescritte dalla neuropsichiatra, e da due mesi ha iniziato a comunicare anche con lei. Appare più rilassato e socievole, il volto leggermente meno rigido e gli occhi più malinconici, l’oscurità mordace appena lambita dal riflesso del sole che si riflette al loro interno.
«Come stai, piccolo?» domanda, questa volta seria, sistemandosi meglio sulla sedia e porgendogli la scatola di un puzzle da duecento pezzi. Ha capito ormai che per sciogliere il ghiaccio con lui bisogna coinvolgerlo in qualche attività, per evitare di metterlo troppo in imbarazzo con il contatto diretto. Ha scoperto a sue spese quanto Freezer odi disegnare o colorare: trova estremamente stupidi quei disegni stereotipati e allegri, dominati dalle solite figure sorridenti e felici, preferendo raffigurare tragedie nere e piene di sangue, di denti aguzzi e di occhi.
«Mai stato meglio!» ribatte, arrogante, distratto dal suono di un trapano lontano, iniziando a rimescolare i pezzi di cartoncino fra le dita.
«Sai, a volte, queste date, questi anniversari... creano un po’ di tristezza. Uno si sente in obbligo di essere felice, perché gli altri ti fanno gli auguri, magari ti fanno dei regali, ma le ricorrenze attraggono i ricordi e non tutti i ricordi sono felici.»
«Vuoi sapere se mi manca la mia famiglia?»
Le iridi carminie di Freezer la trapassano, strali spietati che sfavillano come il metallo lucido di una pistola, ricordandole ancora una volta che quello non è un bambino normale, ma il figlio di una criminale ricercata a livello internazionale.
Le sue dita si contraggono intorno a un tassello, sottolineando le nocche ossute e pallide, costellate di lesioni e di calli.
«Spero che siano tutti morti.»
Sussurra piano, come se le stesse svelando un segreto, un ghigno feroce dipinto sugli occhi, il buio delle pupille così profondo da assomigliare a un buco nero, folle e pieno di rabbia, divoratore della materia, in cui il tempo si distorce in una linea aggrovigliata.
 
Una graziosa torta, decorata con ciuffi di panna e torrone sbriciolato, riempie il campo visivo di Freezer, imbarazzato nel notare la perfezione dei piccoli fiori blu di ostia, la scritta “Auguri Freezer!” disegnata col cioccolato fuso, e le otto piccole candele blu che emergono, infilate come spade nel dolce soffice e profumato.
Non osa neppure alzare lo sguardo per incontrare quello di Njna, trionfante per l’orgoglio di aver realizzato la torta perfetta e divertita di fronte alla sua reazione schiva.
«Esprimi un desiderio, eh!» ride la donna, mentre lo osserva gonfiare le guance e soffiare fino a spegnere tutte le candeline con veemenza. Njna gliene porge una fetta con un sorriso premuroso, quando un suono di vetri rotti rompe il silenzio in un fragore assordante. Solo lo stereo continua a cantare, a basso volume, una melodia conosciuta. I cani non abbaiano, il vento non muove le foglie dei pini e degli abeti. La radura è come immersa in una palude densa, in cui la gravità sembra raddoppiata. Ancora prima di avere il tempo di alzarsi e andare a vedere, Freezer avverte un suono di passi, felpati e leggeri, avvicinarsi sempre di più.
La porta della cucina si spalanca in un cigolio e c’è lei.
Fasciata da un corpetto viola e una pelliccia bianca di ermellino, i lunghi capelli raccolti in uno chignon austero sulla nuca, sua madre stringe Raggio della Morte fra le dita, puntandogliela addosso.
«Buon compleanno, amore
Lo insulta, con un sorriso feroce che si dilata come un’ombra sul suo volto finemente truccato, privo di imperfezioni. I suoi occhi di porpora si specchiano in quelli del figlio, paralizzato dal terrore, la schiena in un brivido gelido e umido, le gambe sempre più disconnesse, i nervi come fili recisi di netto.
Incatenato dalla rabbia e dalla follia negli occhi di sua madre, Freezer sente il pranzo risalirgli lungo la gola, misto all’acido del suo stomaco, e deglutisce ripetutamente per non vomitare, tutto il corpo dominato da un tremore inarrestabile.
«Mamma...» biascica, la voce scomparsa nei recessi delle viscere triturate, contratte in spasmi dolorosi. Un senso di sollievo, di colpa, di terrore e di morte, tutti simultaneamente infestanti il suo cuore, pulsante così forte da incrinargli la cassa toracica, un rombo martellante che scuote tutto il suo piccolo corpo, il fiato sempre più corto e ansimante.
Gli occhi allucinati di Njna si spostano dal bambino alla madre, riconoscendo in lei gli stessi lineamenti delicati e aggraziati di Freezer, snaturati, lacerati da fili di ferro che sostengono il suo ghigno, da una luce maligna che riempie le sue pupille fino a farle scoppiare.
«Signora... lei non può stare qui! Deve andarsene!» inizia a dire, la voce e le gambe tremanti, paralizzata per l’arma che la donna tiene stretta fra le dita.
«Stai zitta, puttana!» ringhia, furente, distendendo il braccio di fronte a sé e puntando alla testa di Freezer. Lo odia, lo ha sempre odiato, quel bambino silenzioso e superbo al punto da guardarla dall’alto in basso fin dal giorno della sua nascita. L’ha capito subito, nell’attimo in cui glielo hanno messo fra le braccia, ancora viscido e sporco di sangue. Quel bambino era un mostro, una perversione del demonio, indesiderato e orrendo. Avrebbe voluto soffocarlo nella culla non appena si è specchiata nei suoi occhi muti e vi ha riconosciuto i propri, ma non ci è riuscita.
«E tu, piccola merda, lo sai quanto tempo ci ho messo a trovarti? Un anno, un anno del cazzo! Un anno in cui te ne stavi qui, a giocare all’allegra famigliola!» grida, mentre avvampa di collera sul petto e sulle guance «Ti odio! Ti odio!»
Il volto di Freezer non tradisce alcuna emozione, scolpito nel marmo, nel tentativo disperato di rinchiudersi, una porta dentro l’altra, in una matrioska di serrature, nell’angoscia divorante che qualcosa di orribile stia per verificarsi. Tenta di riprodurre la vista del cielo stellato a Luglio, il triangolo estivo di astri luminosi che costituisce il suo riferimento per orientarsi quando, sdraiato nell’erba con le onde della terra che lo attraversano come vibrazioni, si lascia annientare dalla potenza dello spazio.
«Whenever I'm alone with you, you make me feel like I am home again. Whenever I'm alone with you, you make me feel like I am whole again9»
Sussurra, roca e malinconica, la voce del cantante dei The Cure proveniente dal salotto. A Njna piace cucinare e pranzare con il sottofondo di uno dei suoi cd, dei quali ha una collezione sterminata.
«Ti ammazzo, Freezer, giuro che questa volta ti ammazzo!» sbraita, afferrandolo per i capelli e scaraventandolo a terra, con la canna della pistola che affonda nella sua nuca scoperta. Lo odia talmente tanto che ha passato gli ultimi mesi a immaginare di calpestare la sua faccia imperturbabile. Lo odia e di lui ha odiato ancora di più il fatto che si ostinasse a non morire, a non ribellarsi abbastanza da darle una scusa per ucciderlo. Sorride, sollevata al pensiero che finalmente potrà avere un bambino normale, carino, con uno sguardo malizioso e un sorriso identico al suo.
«Lascialo stare! Chiamo la polizia!» si intromette Njna, cercando di racimolare le ultime briciole di coraggio rimasto, facendosi forza per lui, guardando Freezer negli occhi con tutto l’amore di cui è capace.
Sente una forbice incespicare sul fragile filo della sua vita. Ha la sensazione che non le rimanga molto tempo, un presentimento di ineluttabile fine è calato in quella cucina come una coltre nera, un vapore tossico che inizia a espandersi in ogni anfratto in attesa di avvelenarle i polmoni.
«Lascia stare il bambino! Lo stai spaventando!» grida, più decisa, avanzando un altro passo. Sa che probabilmente nessuno approverebbe, ma lei ha sempre agito secondo le sue regole, rispondendo ai dettami della propria coscienza. E non ha alcuna importanza che Freezer non sia suo figlio, che sia uno sconosciuto ostile e ritroso come un animale selvatico.
Lo difenderà, a qualsiasi costo, perché tutti nella vita hanno bisogno di sapere che qualcuno li ama veramente, non perché è comodo, non perché è facile, non per obbligo o per convenzione sociale, ma per pura e semplice debolezza del cuore. Perché è un bambino così buffo quando guarda le stelle con un cipiglio serio e concentrato, talmente intenso da far immaginare che sia tramando loschi traffici galattici. È così carino quando beve imbronciato il the caldo alla mattina con il pigiama stropicciato e gli occhi sospettosi, ancora impastati di sogni. Così dolce quando si sente solo ma si amputerebbe un arto pur di non ammetterlo, restando in salotto a guardare la tv fino all’alba con gli occhi gonfi e rossi.
Non merita di morire affatto, ma soprattutto non merita di morire da solo, sbranato dall’oscurità, senza nessuno a porgergli uno scudo, anche se di carta velina.
«Come fa a non vedere la merda che sei? La pagano, forse?» ride la donna, stringendo i suoi capelli corti e sottili fino a farlo voltare verso di lei, ancora più furiosa, e li strattona così forte da strapparglieli.
«Mamma...» biascica Freezer, il mento tremante e gli occhi traboccanti di una vergogna bruciante. Gli argini della sua mente stanno iniziando a cedere e non ce la fa più, annientato da un terrore talmente violento da paralizzarlo, il cavallo dei pantaloni divenuto fradicio e tiepido.
«Lascialo stare! Prenditela con me!»
L’urlo di Njna è come uno scoppio di dinamite, bagnato di una paura vivida e coraggiosa che scaturisce dal suo spirito antico e potente.
Fasci di nervi tesi sono attraversati da un unico, inesorabile, impulso elettrico, accompagnati dal bagliore famelico di due occhi rossi, impregnati dalla furia cannibale.
Un bossolo dorato rimbalza sul pavimento lucido della cucina, un sasso scagliato in uno stagno, epicentro di onde concentriche che si espandono nel piccolo viso di Freezer, incredulo e increspato dall’orrore.
«Guarda cosa hai fatto... guarda!» sibila suadente, soffiando delicatamente sui timpani di Freezer, le labbra sadiche che si sfiorano appena, labbra dello stesso colore del sangue scuro e denso che cola dalla voragine nel petto di Njna, stillando sul pavimento. La donna sorride, ammirando estasiata la precisione millimetrica della propria mira, appurando come sia stato sufficiente un unico colpo per cancellare dall’universo una puttana decisamente inutile e fastidiosa.
«È solo colpa tua!» incalza, sempre più divertita. Finalmente ha trovato un modo per distorcere i lineamenti di suo figlio, i cui contorni del volto sono divenuti incerti, gli occhi lucidi e gonfi di lacrime che iniziano a scorrere impetuose lungo le sue guance. Freezer piange silenziosamente, fissando gli occhi di Njna divenire opachi, la luce che muore in un boato privo di suono, sepolta da una nebbia inorganica.
Sente qualcosa nella gabbia toracica contorcersi e spezzarsi, frantumarsi in un milione di piccoli pezzi che si conficcano nei suoi polmoni come radici tossiche. Non si accorge neppure di quando le sue ginocchia cedono, concentrato a guardare le mani di Njna, gentili e premurose, la fede e gli anelli di un passato perduto che scintillano, ruvide e nodose, consumate dalla vecchiaia. Le mani che l’hanno accudito e accarezzato, anche se lui era solito respingerle.
Ora singhiozza, senza ritegno, tossendo, le dita affondate nei fianchi in un tentativo di stringersi, di non disperdersi sul pavimento come un liquido, disgregato dalla gravità schiacciante del dolore.
Sua madre, il volto increspato in un’espressione perplessa, si domanda perché abbia sparato a lei e non a lui, forse per punirlo con una vita peggiore della morte, forse perché ha osato sostituirla, forse per invidia, forse per gelosia, forse perché quella creatura seppur odiata è comunque carne del suo utero e non permetterebbe a nessuno di portargliela via.
Afferra bruscamente Freezer per un braccio e lo trascina via, impaziente di fuggire da quella cucina dozzinale, il tribunale perfetto di quanto lei sia e sarà sempre una pessima madre. Lui si lascia portare via, il polso rinchiuso nella morsa violenta della sua mano, un guscio svuotato e privo di speranza, annientato sotto uno stivale che ha sbriciolato tutte le sue ossa. Non sente niente, non pensa niente, le iridi e i timpani affollati da quel pianto atroce, inconsolabile, l’ultima roccaforte che decade corrosa dalla tempesta.
L’unica immagine che scorge, prima che quella stanza diventi troppo lontana e il loro ricordo un rovo maledetto, è quella della torta sciolta, i refoli di panna che scivolano lentamente sul tavolo, scorci di nuvole umide, accanto alle candeline spente, martiri utopisti di un desiderio divenuto irrealizzabile solo per aver osato esprimerlo.
Quel pensiero rimbomba ancora nella sua mente, un sussurro di ectoplasma che continua a inquinare le sue sinapsi all’infinito, prolificando in ogni anfratto del suo essere, in un ululato disperato e lontano, infranto nelle voragini screziate delle sue iridi che hanno perduto ogni innocenza.
«Vorrei restare qui»
Aveva scandito nettamente, per paura che Dio non lo comprendesse.


Continua...


8 Marilyn Manson - I Want To Disappear
https://www.youtube.com/watch?v=r3tm4hxu7bQ
 
9 The Cure – Lovesong
https://www.youtube.com/watch?v=ks_qOI0lzho



 

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Capitolo 5
*** 5: Hate Is Not Enough ***


5: Hate Is Not Enough

 
Sometimes hate is not enough/A volte l’odio non è abbastanza
To turn this all to ashes/Per ridurre tutto questo in cenere
Together as one/Insieme, come una cosa sola
Against all other/Contro tutti gli altri
 
[Marilyn Manson – Running To The Edge Of the World]10
 

11 Dicembre, lunedì, ore 23:11
 
Gli occhi di Freezer si spalancano bruscamente, in un rimbombo di porpora che riempie di brividi la sua schiena, adagiata in un letto di ospedale qualunque, debolmente illuminato dal neon bluastro del corridoio.
Il suo corpo annega nel bianco, pallidissimo, come se fosse stato sbranato dalle coperte e di lui restassero soltanto le ossa, rivestite da uno velo traslucido di pelle. Osserva a lungo il soffitto sconosciuto, dominato da un lampadario sobrio, di forma circolare, la mente diradata in una nebbia caotica. Cerca di alzarsi bruscamente, ma i muscoli non lo seguono, svuotati di energia e incatenati da una moltitudine di fili attaccati al suo petto fasciato.
Inspira lentamente, trafitto da un dolore acuto che si irradia in tutto il torace. Il suo sguardo stanco indugia sulla sua mano destra, abbandonata fra le coperte, avvolta strettamente da un bendaggio regolare.
Al posto del pollice e l’indice, recisi alla base del palmo, si stagliano due vuoti roventi come lava che ustiona la sua carne viva. Deglutisce mentre si avvicina la mano al volto, osservando le altre tre dita leggermente vibranti, come se potessero ancora vedere la lama amputare vorace e implacabile le altre.
La mano di un alieno, storpia e deforme.
Vorrebbe soltanto gridare con tutte le forze che gli restano, ma si trattiene. È il segno dell’infamia e sa che da suo padre non poteva aspettarsi nulla di diverso: l’onore è tutto per la sua famiglia e lui l’ha infangato, facendosi decimare i seguaci in una trappola ridicola per poi spararsi di fronte a tutti in preda a una crisi psicotica dovuta alla troppa cocaina.  
E non solo alla cocaina, anche all’immagine di No riversa nell’erba come una bambola rotta, il cuore flebile come un orologio a pendolo silenzioso e immobile, corroso dal tempo e avvizzito.
Non sei più nessuno
Questo significano le due dita mozzate, le dita che vivevano in simbiosi con Raggio della Morte, dotate del potere divino di scegliere chi uccidere e chi risparmiare. Questo significa il vuoto abissale di quella stanza, in cui nessuno ha appoggiato un fiore, in cui nessuno ha vegliato il suo corpo nella speranza di vederlo ritornare alla vita come un albero che rifiorisce dopo l’inverno.
Vorrebbe soltanto vomitare, rovesciare lo stomaco e l’anima su quel letto di ospedale che non gli appartiene. Ma niente gli appartiene più, ormai. Né la città, né i suoi scagnozzi, né i suoi abiti raffinati, né la sua automobile, né la droga, né la sua pistola, né la moltitudine infinita di lussi e ricchezze di cui è da sempre abituato a circondarsi.
I conati di vomito gli risalgono lungo l’esofago, violenti, così violenti da riempirgli gli occhi di lacrime, ma nulla sgorga, pozzi prosciugati nel deserto del suo volto increspato da dune di angoscia. Tossisce e avvampa, infiammato dalla vergogna per aver permesso al mondo esterno di toccarlo, di sfiorarlo ancora una volta, proprio quel mondo che giurava di aver rifiutato.
Per quanto Freezer si sforzi di riprodurre dentro di sé il silenzio del cosmo e il moto lento degli astri, il dolore continua a gridare dentro di lui, implacabile, come il lamento disperato di una bestia morente. L’ira illividisce le sue vene, risale lungo il suo viso fino a contrarre i suoi lineamenti delicati, rocce sul punto di sgretolarsi in un sisma che capovolge la terra.
I suoi occhi sanguigni si riempiono di una cupa oscurità, tremanti e indifferenti alle rade lacrime incastonate fra le sue ciglia, rinnegate con lo sdegno altezzoso di chi ha avuto bisogno di separarsi da tutto per non morire.
Mentre si osserva riflesso nel buio della finestra, come in uno specchio, notando la spigolosità delle proprie guance scavate e le labbra screpolate, si accorge che il cassetto del comodino è leggermente aperto. Infila lentamente le dita e lo apre, estraendo un pacchetto nuovo di Black Devil e un accendino.
 
*
 
I suoi passi sono pesanti e stentati nell’inerpicarsi sui pochi scalini che lo separano dal tetto dell’edificio. Vagando fra i corridoi alla ricerca delle scale si è accorto di conoscere bene quell’ospedale: Zarbon era stato ricoverato in seguito a una brutta sparatoria l’anno precedente nel suo stesso reparto. Ricorda anche lo sguardo di deferenza che gli aveva rivolto allora il personale ospedaliero, mescolato a qualche rara occhiata di disprezzo, subito inginocchiata di fronte al suo cipiglio sicuro, accecato dall’arroganza.
Zarbon era stato servito ossequiosamente dopo aver capito che era suo, un oggetto di sua proprietà. La stessa deferenza ora la hanno rivolta a lui, fingendo di non vederlo mentre usciva dalla sua stanza traballante, con un pacchetto di sigarette stretto nel pugno. Non possono capire fino in fondo come in questo momento Freezer non valga un centesimo in più di nessuno di loro, una formica fra le formiche, tutte equamente indifese di fronte allo stivale che le riduce in poltiglia.
La porta del tetto è socchiusa, leggermente tremolante per la corrente d’aria.
Gli manca il fiato, il torace perforato da un dolore pungente come quello di una coltellata, ma si obbliga a inspirare a fondo e spingere con la pantofola consumata il legno cigolante della porta.
Il cielo notturno è un tessuto di nubi rossastre, gonfie di umidità e di luce soffocata, tradito da alcuni fili spezzati, venature di liquida oscurità in cui balena la luce pallida di stelle rade.
L’aria gelida lo schiaffeggia in pieno volto e si irrigidisce serrando la mandibola, mentre avanza e si accorge di una sagoma lontana, che si staglia luminosa contro l’orizzonte tetro.
È un pigiama chiaro, con un motivo geometrico a figure romboidali, sfiorato da volute di fumo e di vapore che si disperdono nell’aria. A lato della figura si erge un’asta di acciaio con le ruote, a cui è attaccata una flebo.
Freezer si avvicina, inalando avido il suo odore.
Vaniglia e cannella.
È un’allucinazione, non può che esserlo, si ripete, mentre osserva con attenzione maniacale il ritmo delle sue spalle alzarsi e abbassarsi, la mano destra gettare la sigaretta a terra in un gesto sbrigativo che conosce anche troppo bene. I suoi capelli corti sono leggermente mossi dal vento, increspati in direzione del mare che ulula lontano, già tormentato dalla tempesta.
Si ferma a pochi centimetri da lei, vuoto come un cratere lunare, sopravvissuto all’assalto mortale di asteroidi e meteoriti spietati nell’incidere le sue carni di roccia.   
Le iridi scure di No fissano il punto il cui il mare e il cielo si fondono in un’unica tenebra impenetrabile, ipnotizzata dal silenzio della città ancora addormentata e del fruscio sfocato delle onde. Fatica a tenere gli occhi aperti, è esausta ed è soltanto grazie agli antidolorifici che penetrano sinuosi nelle sue vene che riesce a stare in piedi. Nota la sua ombra avvicinarsi, lenta come una condanna, sentendosi il cuore esplodere nel petto.
È quasi morta, avvelenata dall’eroina contaminata che si è iniettata in vena, soltanto per essere sua amica.
Per colpa sua, di quel bastardo, figlio di puttana, ingrato essere umano che ora è immobile dietro di lei come se non osasse parlarle, come se lei non fosse neppure reale.
È sopravvissuta per miracolo, salvata dalla stessa telefonata al 118 che ha salvato anche Freezer, a una punizione che doveva essere letale, un astuto castello di carte fondato sul suo bisogno bruciante e famelico di godere, sulla sua disperazione e sulla sua, frastornante, solitudine. Di quel momento ricorda soltanto l’orgasmo, il piacere cocente e diffuso del suo corpo che si sparpagliava, come un’enorme foglia autunnale in un tappeto di milioni di altre foglie, appassendo al contatto con la terra. Il nero di un incubo muto e roboante, il rosso degli occhi di Freezer e un lampo di emozione che gli aveva attraversato le iridi. E poi, soltanto un soffitto sconosciuto.
La morte ha perforato il corpo di No come una cascata di acqua gelida, che irrigidisce e toglie il fiato, inducendo i polmoni a contrarsi per urlare. Vorrebbe farlo, ci ha provato nella vastità solitaria di quel tetto elevato, un gigante fra i palazzi della città, ma dalla gola non è sbocciato nulla.
No sa perfettamente quello che vuole e questa volta non accetterà un “no” come risposta. Dovrebbe odiarlo. Lo odia. Lo odia con una tale violenza da desiderare soltanto di girarsi e farlo a pezzi come un boa, avvolgendolo fra le sue spire in un abbraccio fatale.
Non le interessa se è inappropriato, da quando si è risvegliata in quel letto di ospedale che non fa che sentire le maldicenze della gente, indispettita per come lei, una brava ragazza di buona famiglia, sia diventata una sporca tossica, frequentatrice di luoghi immorali come quel festino in cui l’hanno trovata, svenuta e quasi asfissiata. Le ha sempre sentite, quelle voci, una gorgogliante torre di babele che è cresciuta, secondo dopo secondo, ora dopo ora, giorno dopo giorno della sua vita. Gli sguardi di disapprovazione delle infermiere, dei medici, di sua madre, si sono moltiplicati come erbacce nelle stanze infinite e sterili dell’ospedale.
Ma, adesso, non le interessa più.
Non le interessa più nulla.
La mano sinistra di No arretra lentamente, cercando il volto di Freezer nel buio dello spazio retrostante alle sue spalle. Le sue dita cieche sfiorano la sua fronte liscia e altera come spifferi di vento. Freezer sussulta, spaventato dalla solidità di quel contatto, cercando di ritrarsi.
«No»
Dichiara lei, perentoria, le dita che si chiudono come artigli nella carne della sua tempia. I piedi di Freezer restano immobili, invischiati dalle ortiche di un rovo che ha iniziato a germogliare intorno a lui molto tempo prima.
Le dita di No discendono, delicate e sospinte dalla gravità, ad accarezzargli le sopracciglia, le lunghe ciglia, la pelle diafana e affilata degli zigomi.  
Freezer è una stella moribonda, intossicata dall’oscurità, priva di ogni fonte di energia. Si spezza e precipita in un vuoto senza fine, dilaniato dalla pressione interna che grida, strepita e si dimena per esplodere. La cute esangue del suo volto trema di paura e di rabbia folle, di furia omicida, acciaio inossidabile nelle ossa della sua mascella.
Il collasso gravitazionale della sua anima increspa la sua pelle, come il vento che culla le spighe di grano, mute e fiduciose danzatrici. Ha paura di perdere il controllo, ma forse l’ha già perso quando si è puntato Raggio della Morte addosso con l’intenzione di uccidersi.
No dischiude le sue labbra umide, nude e bagnate dal suo respiro, per poi ritrarsi come un’onda nella compostezza dell’oceano.
Ipnotizzato dall’incavo morbido del suo collo, Freezer immagina la pressione delle dita necessaria per soffocarla, il suono del suo cranio andare in frantumi, sbattuto ripetutamente contro il pavimento. Vorrebbe soltanto batterla, ammazzarla di botte fino a farsi implorare pietà con il volto tumefatto di sangue e di lividi.
Se solo No si girasse, se i loro sguardi si incontrassero, lui sarebbe costretto a ucciderla per aver osato lacerare la maschera perfetta del suo volto ordinato, per aver osato sprofondare nei suoi occhi vermigli e allucinati.
No non vuole girarsi, desidera soltanto continuare a osservare la città e lo spazio in compagnia dell’unica persona al mondo che ama veramente.
Freezer è l’unico che si sia affacciato dentro di lei, colmandosi gli occhi del suo abisso, annusando la sua attrazione per la morte, dotato di un istinto naturale nel percepirne l’odore e nel rilevare la sfumatura obliqua del suo sguardo, plasmato nella stessa sostanza del suo desiderio inaccettabile, impronunciabile a voce alta.
Forse è per questo che ha scelto Freezer, perché le sembrava un alieno esattamente quanto lei.
«Stringimi»
È un ordine, il primo che lei gli abbia mai dato.
Le loro pupille sprofondano all’orizzonte, specchi bui per gli astri radi, intrappolati nei labirinti delle nuvole tremanti di ocra e di porpora. Eppure, ora, mentre si trovano su quella terrazza che domina tutto, la città e le sue luci fosforescenti, No e Freezer non sono mai stati più lontani dal cielo, dal moto paziente dei corpi celesti, dalla grazia eterea delle stelle nevrotiche, dalla frenesia degli asteroidi, dalla muta oscurità dello spazio interstellare.
Sono ciechi, ormai, annientati dalla potenza di una collisione inevitabile, quella avvenuta fra i cieli cupi e glaciali di Freezer e quelli malinconici e decadenti di No.
Perché, anche se la ammazzerebbe pur di non ammetterlo, è contento che lei sia viva.
Le dita di Freezer si intrecciano alle sue e affondano nel suo dorso, violente e impetuose, non abituate a manipolare qualcosa di diverso dalla morte, furiose come propaggini di metallo gelido intorno alla carne tiepida della sua mano smaltata, in una morsa così decisa da far scricchiolare le sue ossa.
La stringe e poi si calma, come una catena che ricade a terra in un tintinnio, soffocando lo stupore di No che per un attimo sussulta, le lacrime come strali di luce timida lungo il suo volto emozionato.
La neve inizia a scendere lentamente sulla città, bianca polvere di vetro che lambisce i loro corpi, adulandoli piano in un sussurro che muore nel silenzio.
Freezer non si è mai sentito così umano.
Fragile e disperato come un fiocco di neve l’attimo prima di sciogliersi nella terra.
 

 
Fine

 
10 Marilyn Manson – Running To The Edge Of The World
https://www.youtube.com/watch?v=_bacm20rFO4

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