Library Pictures

di Pisquin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Incontri ravvicinati ***
Capitolo 2: *** 2. Tutta colpa mia ***



Capitolo 1
*** 1. Incontri ravvicinati ***


Library Pictures

1. Incontri ravvicinati
 

Me ne stavo tranquillamente seduta sul muretto fuori dalla biblioteca scolastica. Era appena finita l'ora di pranzo e stavo aspettando la bibliotecaria che a quanto pareva era in un ritardo assurdo. Per pranzo avevo sbocconcellato un trancio di pizza dal bar fuori dalla scuola, non avendo poi molta fame. Vidi il cielo scurirsi, segno che tra poco sarebbe iniziato a piovere. Meglio per me. Tenevo tra le braccia dei libri di Letteratura Inglese che dovevo restituire alla bibliotecaria. Li avevo presi il giorno prima per avvantaggiarmi nello studio per la verifica dell'indomani. 

Come al solito la mia compagna di classe Grazia mi aveva dato buca dopo che la settimana precedente mi aveva assicurato di esserci. Sì, come no! Elisa e Giulia, le mie migliori amiche, frequentavano un'altra classe e l'unica altra compagna con cui avevo fatto amicizia era Rossella che però aveva deciso di fare ripetizioni con il suo ragazzo, Antonio. Immaginavo come avessero studiato Romeo e Giulietta: teoria o pratica?

Mi soffermai ad osservare l'etichetta incollata sul mio quaderno degli appunti; riportava scritto con una calligrafia tondeggiante 'Noemi Mancini – IVC – Liceo Virgilio'. Mi ero iscritta in quella scuola quattro anni prima e quello era il primo anno che collezionavo delle insufficienze. I miei genitori confidavano nelle mie capacità e scommettevano che le avrei recuperate in un batter d'occhio. Io non ne ero poi così sicura.

Visto che la bibliotecaria tardava ad arrivare, decisi di tirare fuori dal mio zaino di camoscio un romanzo e ripresi la lettura da dove era stata interrotta la sera precedente. Continuavo, però, a ripassare mentalmente la storia inglese e le correnti letterarie medievali. Tenevo gli occhi fissi sulla pagina del libro ma in realtà stavo lavorando di testa: sussurravo cautamente le date, pregando di non sbagliarle.

Mi ridestai quando udii un colpo di tosse provenire dalla mia destra. Scossi la testa e la voltai di scatto. La prima cosa che vidi furono due occhi castani intenti a guardare nella mia direzione. Spostai poi lo sguardo sui suoi capelli mossi, scuri come l'ebano, scossi leggermente dal venticello tardo autunnale. Mi scoprii a fissare i libri che teneva in mano, e la cinghia di uno zaino che pendeva oltre le sue spalle. Se ne stava appoggiato contro la parete, tinteggiata di un orrendo giallo. La porta di entrata della biblioteca troneggiava accanto a lui, facendolo sembrare più piccolo di quanto non fosse in realtà.

Mi fece un sorriso e mi ridestai. Lo avevo fissato per troppo tempo. Arrossii e, più che un sorriso, mi uscì una smorfia. Quando credetti di star per svenire dalla vergogna, sentii un rumore di tacchi in lontananza. Erano gli inconfondibili passi della bibliotecaria nelle sue scarpette dal tacco 10. Spuntò quasi subito nel mio raggio visivo, affrettandosi verso la porta con un mazzo di chiavi stretto nell'ossuta mano destra.

"Scusate ragazzi" esordì la donna, Anna, aprendo con un sonoro fragore la grande porta dell'edificio.

Aspettai pazientemente che, sia la bibliotecaria che il ragazzo carino, entrassero prima di riporre nel mio zaino il libro che avevo cercato di leggere. Mi alzai, lisciai il maglione e i miei capelli castano chiaro per poi afferrare la borsa e fare il mio ingresso nell'atrio della grande biblioteca della scuola. Da subito il profumo di carta stampata mi invase le narici, inebriandomi.

Adoravo i libri. Se ne stavano lì, placidi, ad aspettarti. Potevi sempre trarre conforto da loro; potevi abbandonarli, potevi dimenticarli, ma restavano fermi in quell'angolo, dove li avevi lasciati ad aspettare il tuo inevitabile ritorno.

Gli scaffali, addossati ai muri, li contenevano, straripanti; delle mensole si trovavano anche nei corridoi, che serpeggiavano nell'enorme edificio. I cartellini con le varie categorie di libri che poteva offrire la biblioteca erano appesi ad intervalli regolari vicino alla sezione interessata.

Sorrisi alla bibliotecaria, un'amica di mia madre e, dopo aver restituito i libri che avevo preso in prestito, firmai la presenza e mi incamminai verso la sezione dedicata alla letteratura. Girai a destra immettendomi nel già familiare corridoio che recava l'etichetta 'Letteratura inglese'.

Iniziai a perlustrarlo lungo tutta la lunghezza quando sentii dei passi al di là dello scaffale verso il quale ero rivolta. Mi sorpresi a scoprire tra i libri la chioma mora del ragazzo che mi aveva sorriso cordiale all'entrata. Mi voltai di scatto, spaventata dall'eventualità che mi riconoscesse. Iniziai a cercare uno dei tanti manuali che avrebbe potuto aiutarmi nel tentativo di recuperare la mia insufficienza durante il fatale esame del giorno seguente. Scorrevo con le dita i grandi volumi rilegati e mi immergevo nelle inscrizioni dei titoli stampate in rilievo sul loro dorso.

I colori scuri delle copertine di quegli antichi scritti mi piacevano. Non ero mai stata un'amante delle tinte accese, delle pareti delle camere sfregiate da colori tenui, dai capi d'abbigliamento per bambini con quei casti e scialbi toni pastello. Da sempre adoravo le sfumature scure, piene, a tratti tetre: nero pece, blu notte, bordeaux, viola vinaccia, verde bosco e così via. I miei vestiti, ovviamente scuri, facevano risaltare l'incarnato della mia pelle. Mi piaceva il mio colorito bianco latte, quasi vampiresco. Almeno non parevo sporca come quelli che si cospargono da dicembre a maggio di autoabbronzante; più che baciati dal sole sembrano arancione leone.

Presi alcuni libri, che mi sarebbero potuti servire per le prime due ore, ed entrai nella piccola sala adiacente, dedicata alla consultazione dei manuali della sezione sulla letteratura. Vi erano disposti ordinatamente cinque tavoli, i primi quattro ad ogni angolo della stanza ed il quinto era posizionato al centro, sul grosso tappeto blu. Scrutai la sala e stavolta non mi stupii per niente di trovare seduto al primo tavolo sulla destra il ragazzo dai capelli scuri. Non mi aveva notato – grazie al Cielo – poiché se ne stava chino su un grosso volume dalle pagine sottilissime, con un quaderno accanto al braccio destro; si rigirava lentamente una matita verde nella stessa mano, mordendosi il labbro inferiore, probabilmente il suo modo per concentrarsi.

Avanzai lentamente nella stanza, chiudendomi la porta di legno scuro alle spalle. Mi sedetti al primo tavolo sulla sinistra, di fronte a quello già occupato dal ragazzo. Sistemai lo zaino sulla sedia accanto alla mia e mi lisciai il maglione di lana rosso scuro che avevo deciso di indossare quella mattina. Tirai fuori dalla borsa un quaderno per gli appunti e il mio astuccio blu notte, che tutti definivano con un banale 'nero', che mi accompagnava dal primo anno di scuola superiore.

Presi una matita e una gomma e aprii il quaderno ad una pagina bianca, posizionandolo subito dopo accanto al grande libro che avevo davanti, preso dalla pila di manuali che dovevo consultare al più presto. Iniziai così il mio fantastico pomeriggio chiusa in quella stanza, in compagnia di un ragazzo che mi aveva troppo sorriso, mille appunti disordinati e la mia solita mania di torturarmi i capelli quando ero nervosa, affranta e confusa.




 

Sentii una sedia muoversi e dei passi avanzare verso di me. Alzai lo sguardo e notai che il ragazzo aveva raggiunto il mio tavolo.

"Ehm, scusa" iniziò, con una mano in tasca e l'altra nei capelli. Lo osservai confusa, aspettando che continuasse. Guardai le sue dita tra le ciocche scompigliate dei – sembravano sofficissimi – capelli d'ebano.

"Volevo chiederti se potessi prestarmi un evidenziatore. Sai, ho dimenticato il mio a casa e senza non riesco a studiare" concluse, sorridendomi imbarazzato. Beh, se lui in quel momento fosse stato imbarazzato quanto me io sarei stata vergine tanto quanto la regina Elisabetta I. Ovviamente ero arrossita come un peperone e continuavo a contorcermi le mani sotto la superficie del tavolo.

Annuii e cominciai a cercare freneticamente nell'astuccio il mio evidenziatore verde. Continuavo a frugare ma sembrava che, improvvisamente, l'ampiezza del mio piccolo astuccio fosse aumentata a dismisura, tanto da diventare la borsa di Mary Poppins. Alzai la testa e gli feci un sorriso alquanto imbarazzato, sapendo di stare per scoppiare dalla vergogna e che probabilmente gli sembravo una povera deficiente.

"Deve essere qui" farfugliai a fatica, cercando di giustificarmi per la mia goffaggine. Stavo per iniziare a tirare fuori tutto quando sentii la sua voce.

"Ehi, un evidenziatore è affianco al quaderno" mi suggerì, sorridendomi. Sbattei le palpebre varie volte, volgendo poi lo sguardo verso il quaderno e trovando 'magicamente' quello che stavo cercando come una disperata. Afferrai il pennarello porgendoglielo subito dopo con una smorfia imbarazzata ed una mano esageratamente tremante.

"Scu-scusami per averti fatto aspettare" cercai di giustificarmi, lisciandomi nervosamente i capelli con le mani sudate; da lì iniziai a sorridere come un'ebete, sperando non notasse la mia faccia da peperone.

"Tranquilla. Anzi, grazie mille." rispose 'capelli mori' tornando poi al suo tavolo. Abbassai repentinamente lo sguardo sul libro che avevo davanti agli occhi, anche se in quel momento mi sarei voluta sotterrare dieci metri sotto terra.

Da sempre – e molto probabilmente per sempre – è stato un mio problema parlare con qualsiasi esponente dell'altro sesso della mia stessa fascia d'età. Non avevo problemi ad esporre le lezioni ai professori uomini, a conversare con i miei zii o con il bottegaio anziano da cui andavo a fare spesa due volte la settimana. Il vero problema era rapportarmi con i ragazzi, non con gli uomini. Mi metteva a disagio solamente l'idea che mi volessero parlare, figuriamoci il fatto che qualche ragazzo potesse provarci con me o, addirittura, toccarmi – in quel caso probabilmente gli avrei vomitato in faccia. Sembravo davvero una bambinetta alle prese con l'Uomo Nero e quando quel tipo mi aveva chiesto un semplice evidenziatore ero entrata in iperventilazione. Non mi aveva mica invitata a scaldargli il letto, dannazione!

"Comunque io sono Alessandro, ma puoi chiamarmi Alex" affermò, sorridendo, il ragazzo davanti a me, mentre se ne stava tranquillo a giocherellare con il mio evidenziatore – sì, il mio. Ci stava mica provando con me?! Gli feci un sorrisetto imbarazzato e annuii come una stupida, spostando una ciocca di capelli, che avevo davanti agli occhi, dietro l'orecchio destro. Sorrise e io arrossii ancora di più, stringendo tre le dita sudate la mia matita spuntata. Continuò a guardarmi come se stesse aspettando qualcosa.

"E tu?" incalzò lui "Come ti chiami?" Sbiancai, qual tanto che potessi fare con la mia pelle già bianca di suo.

"Oh, certo. Che stupida" farfugliai, facendo un risolino nervoso. Asciugai le mani sudate sul maglione che indossavo. "Io sono Noemi, Noemi Mancini." Annuì e sorrise, stappando l'evidenziatore.

"Tanto piacere, Noemi" disse, articolando lentamente il mio nome. Feci di sì con la testa, da vera sciocca quale ero, e chinai di nuovo il capo sul libro. I miei capelli scesero sul mio viso, difendendolo dagli occhi di Alessandro come una tendina bucata della doccia.

Perfetto, non avevo mai visto quel tizio prima ed in quel momento non solo sapeva il mio nome, ma anche il cognome. Sbuffai prendendomela, come al solito, con me stessa e con il mio imbarazzo incontrollato per i rapporti con il genere maschile. Poco dopo sentii Alessandro schiarirsi la voce.

"Noemi?" mi chiamò, con la sua voce profonda, fin troppo mascolina. Alzai lo sguardo su di lui, che come al solito mi sorrise.

"Tu hai per caso come prof di francese la Chiari?" chiese sicuro, appoggiandosi con il gomito sul libro dalla copertina violacea che aveva davanti. In quel momento mi ritrovai ufficialmente in trappola.

Annuii rassegnata, aspettando che mi domandasse cose assurde sugli argomenti studiati, dato che per la Chiari ero la più brava della classe. Sfortunatamente non lo avevo mai notato a scuola, impegnata com'ero a seguire attentamente le lezioni e costringermi a non guardare i ragazzi. Quella lingua così elegante e sofisticata mi attirava, e non poco; sin da quando ero piccola volevo studiarla a tutti i costi.

"Ecco dove ti avevo già visto, la tua classe è accanto alla mia, la IVC, no?" domandò lui, battendo le mani. Annuii alla sua constatazione e realizzai che doveva frequentare la classe che sostava sul mio stesso piano, la IVA. Sorrise soddisfatto e si alzò, armato di matita e quaderno. Raggiunse il mio tavolo con pochi passi e si sedette sulla sedia di fronte alla mia, senza che io gli avessi dato o meno il permesso di farlo. Restai ad osservarlo mentre si ravvivava i capelli castano scuro, tendenti al nero, e si sistemava coi gomiti poggiati sul tavolo. Trovai coraggio e mi schiarii la voce.

"Cosa ti serve?" gli chiesi esitante, dopo che avevo sbirciato sul suo quaderno e avevo notato, scritto in una calligrafia disordinata, il nome 'Pierre de Ronsard', famoso poeta francese che avevamo studiato il mese precedente, e su cui la professoressa avrebbe fatto una verifica scritta l'indomani - almeno nella mia classe; probabilmente anche nella sua. Evidentemente Alessandro non aveva avuto né la voglia né il coraggio di rivolgersi ad uno dei tanti studenti che si erano proposti come tutores per aiutare i loro compagni a recuperare qualche materia. Aveva quindi sperato di poter leggere e studiare tutte le opere dell'autore, che avevamo analizzato per un intero mese, il pomeriggio prima della suddetta verifica di recupero. Povero illuso.

Fece un sorrisino imbarazzato, indicandomi il suo quaderno. Abbassai per poco lo sguardo, avendo già letto di cosa si trattava.

"Beh, la Chiari non fa altro che dire quanto è brava la Mancini della IVC perciò, quando ti sei presentata, non ho potuto non cogliere l'occasione, quindi mi chiedevo se potessi aiutarmi per il recupero di domani" chiese cauto, accompagnando il tutto con uno dei suoi soliti sorrisi. Arrossii alla richiesta di Alessandro.

Se avessi accettato sarei dovuta rimanere con lui a poca distanza da me tutto il pomeriggio, con il rischio di fare una figuraccia dietro l'altra e di confonderlo ancora di più, date le mie scarse capacità di spiegare le cose. Ingenua e ignara di tutto questo annuii, togliendo quasi meccanicamente i miei volumi sulla letteratura inglese davanti a lui, spostandoli sull'altro tavolo.

Il ragazzo sorrise ancora andando a recuperare le sue cose nel posto che occupava precedentemente; tornò subito dopo e le poggiò proprio di fronte a me che boccheggiavo confusa, tenendo ancora la matita spuntata tra le dita.




 

"Non, il n'est pas juste" iniziai a commentare le sue risposte, letteralmente esausta. Per un'ora e mezza Alessandro non aveva fatto altro che raccontare cose assurde sul conto di quel poveraccio di Ronsard. Lo vidi sbuffare e alzare gli occhi al cielo mentre si passava, nervoso, una mano tra i capelli. I suoi occhi indugiarono sul mio viso, aspettando che gli facessi le correzioni.

"Okay, adesso non parliamo in francese. Dimmelo nella nostra lingua. I temi della poesia di Ronsard sono l'amore, la bellezza e cos'altro?" lo incitai a continuare, arrossendo quando vidi che accennava ad un sorriso.

"Allora" iniziò Alessandro, dopo aver poggiato i gomiti sul tavolo e la testa sul palmo delle mani. "In poche parole Ronsard pensava che le ragazze sono belle solo da giovani." Lo guardai alzando criticamente un sopracciglio.

"Cioè, credeva che la bellezza fosse sinonimo di giovinezza" si corresse subito dopo; annuii e aspettai che continuasse. I suoi occhi castani, color cioccolato, si illuminarono e ricominciò ad espormi il pensiero del poeta. Parlò per un po' dei concetti filosofici ai quali si inspirava con tono calmo e tranquillo, sicuro di quello che stava dicendo. Articolò le parole lentamente, sorridendo di tanto in tanto. Accompagnava la sua esposizione del concetto gesticolando animatamente.

La sua voce profonda mi colpiva le orecchie come il rombo del motore di una supercar; guardai la sua bocca muoversi accompagnando il suono delle sue parole. Mi ritrovai ad annuire pur non ascoltando nulla di tutto ciò che diceva. Fissavo l'angolo della sua bocca e il modo in cui si increspava quando pronunciava determinate parole. La sua corta barba era appena visibile eppure lo faceva sembrare più maturo di quanto sembrasse. In quel momento se mi avesse raccontato la vita di Jay-Z io avrei annuito comunque. Tenevo il viso sul palmo della mia mano sinistra e nella destra continuavo a rigirare la matita. Sembravo – ergo, ero – intontita.

Quando vidi la sua bocca smettere di parlare e allargarsi per lasciarsi andare ad una risata di gusto, mi ricomposi. Evidentemente aveva capito che per gli ultimi cinque minuti non avevo fatto altro che fissargli la bocca. Fantastico. Arrossii non appena il suo sguardo si posò su di me. Lo guardai negli occhi, ancora ferma in quella posizione, e iniziai a boccheggiare non sapendo cosa dire o fare per giustificarmi. Le mie mani iniziarono meccanicamente a districare i nodi dei miei lunghi capelli e i miei occhi si spalancarono.

"Hai sentito quello che ho detto?" mi domandò divertito, giocherellando con la sua matita verde. Divenni più rossa di quanto già ero e scossi la testa. Cercai di asciugarmi le mani sudate sul maglione, ottenendo solo che quest'ultimo si stropicciasse ancora di più.

"Noemi, stai tranquilla." Mi sorrise e aprì il libro delle poesie che aveva davanti come se niente fosse successo appena un attimo prima. Annuii – perché continuavo ad annuire? – e mi spostai i capelli dagli occhi con una mano tremante. Evidentemente notò il tremore delle mie dita perché poco dopo mi fece una proposta.

"Facciamo così. Io leggo un po' di poesie e cerco di tradurle, mentre tu fai quello per cui eri venuta oggi. Tra un po' te le faccio vedere e me le correggi, va bene?"

"Va bene" risposi cauta, impugnando la matita e lasciando con lo sguardo la sua espressione rassicurante per abbassarlo sulla pagina del mio quaderno, piena per metà. Guardai l'orario sul mio iPhone e constatai che era ancora primo pomeriggio e sarei dovuta andare a fare la spesa tre ore più tardi; in seguito sarei tornata a casa a preparare la cena. Quella sera, come tutte le sere, non avrei potuto studiare poiché dovevo aiutare la mia sorellina Rachele con i compiti. Ed in quel momento, da brava stupida qual'ero, avevo accettato di aiutare Alessandro precludendomi la possibilità di studiare decentemente per l'esame del giorno dopo. Sbuffai e stetti ferma lì, a fissare il quaderno.

Mi metteva in soggezione la sua presenza e non riuscivo ad aprire neanche il libro. Sentivo il respiro regolare di Alessandro ed il rumore del tratto della sua matita sulla carta. Il ticchettio delle sue dita sul tavolo mi distraeva particolarmente ma non volevo parlare e quindi gli lasciai fare ciò che voleva. Alessandro era l'unico ragazzo adolescente con cui avevo parlato nell'ultimo mese – a ottobre Andrea Fimiani mi aveva chiesto scusa dopo che mi aveva accidentalmente spinto in corridoio.

Il mio comportamento era assurdamente anormale, soprattutto per una ragazza della mia età. Essendo un'adolescente avrei dovuto vivere per i ragazzi, interessarmi alle faccende amorose, spettegolare sulle relazioni altrui e cose così. Mettiamo in chiaro che non sono lesbica e ne sono realmente sicura. Ero solo determinata a trovare quello giusto, a costo di lanciare occhiatacce a qualunque altro ragazzo mi avesse guardata quel tantino in più. Sicuramente avrei avuto il desiderio di baciare qualcuno e magari anche di essere toccata da quello che poteva diventare il mio ragazzo. Solo non in quel momento, non era proprio il periodo giusto.

"Noemi?" sentii chiamarmi. Alzai gli occhi su Alessandro che mi osservava confuso. Il suo sguardo mi analizzava come uno scanner ed io non facevo altro che arrossire.

"Dimmi" lo incitai a parlarmi cercando di sorridergli in qualche modo.

"Perché non scrivi niente?" mi domandò inclinando la testa di lato. Guardai la pagina mezza bianca e poi lui. Accennai un piccolo sorriso imbarazzato.

"Sono indecisa su quali argomenti siano oggetto del compito di domani, tutto qui" mentii spudoratamente, pettinandomi i capelli con le dita. Stavolta fu lui ad annuire per poi alzarsi dalla sedia. Lo guardai stralunata e si portò una mano ai capelli, arruffandoli un po'.

"Che materia stai studiando?" mi chiese, iniziando a muoversi qua e là per la stanza, curiosando tra gli scaffali disseminati lungo le pareti. Lo seguii con lo sguardo mentre prese un libro e ne saggiò il numero di pagine, per poi riporlo nella nicchia dove si trovava.

"Non badare a me, piuttosto, rispondimi." disse lui, spezzando la tranquillità e facendomi sobbalzare. Girai il busto verso la sua direzione e mi schiarii cauta la voce.

"Letteratura inglese" risposi. Sorrise e si voltò verso di me, incrociando le braccia al petto. Era alto tanto quanto uno scaffale – credo circa un metro e ottanta – e sapevo che se mi fossi messa accanto a lui gli sarei arrivata a malapena all'altezza delle spalle. Non che fossi una nana, era lui che aveva il fisico di un giocatore di football.

"È il tuo giorno fortunato. Ho il massimo dei voti in Inglese e se hai la Bonanno so esattamente quali saranno gli argomenti." Lo vidi sorridere sicuro di sé e del suo evidente nove nella materia che più odiavo al mondo.

"Sì, purtroppo ce l'ho da due anni." Mi fece un sorriso – con tanto di fossette – e si riavvicinò al tavolo, poggiandovi sopra le mani. Lo guardai e lui fece lo stesso. Con quel suo sorriso stampato in faccia mi faceva venire voglia di vomitare. Ma in che razza di situazione mi ero cacciata? Afferrò il suo cellulare dal tavolo e se lo mise in tasca. Quei jeans scuri gli fasciavano magnificamente le gambe e io mi stavo maledicendo mentalmente per i pensieri poco sani che stavo facendo sul suo conto. Si allontanò dal tavolo per incamminarsi verso la porta. Continuai a guardarlo, ignara di quello che stesse facendo. Arrivato all'entrata della saletta si voltò per incontrare i miei occhi confusi.

"Che fai, non vieni?"

"Venire dove?"

"Come 'dove'? A cercare i libri giusti per il tuo compito" si rispose da solo sorridendo, facendomi cenno con la mano di raggiungerlo. Era impazzito e io non volevo assolutamente andare in giro con lui. Farmi vedere insieme ad un ragazzo, che scandalo! I muscoli delle mie gambe sembravano involontari, come il cuore, quando mi fecero alzare dalla sedia e camminare verso Alessandro. Arrossii appena la mia distanza di sicurezza venne infranta. Le mani mi continuavano a sudare e il suo sorriso non faceva altro che far peggiorare le cose.

Infilai l'iPhone nella tasca posteriore dei miei pantaloni neri e con mio immenso orrore iniziai a seguirlo lungo il corridoio. Come diavolo avevo fatto a ritrovarmi qui con lui? Dovevo restare ferma, arrangiarmi in qualche modo e, ovviamente, non offrigli il mio aiuto con Ronsard. Aveva ragione, mio padre, quando diceva che ero troppo buona. Mi sistemai il maglione osservando gli scaffali che stavamo velocemente superando. Le sue falcate erano il doppio delle mie e io mi dovevo affrettare a seguirlo.

Alessandro camminava con le mani in tasca e mi sorpresi quando riuscii ad affiancarlo, portandomi alla sua destra. Mi invase l'odore della sua colonia e non potei fare a meno di notare il leggero aroma di sandalo. Lo vidi con la coda dell'occhio guardarmi mentre stavamo svoltando nel corridoio dedicato a ciò che dovevo a tutti i costi studiare. Si fermò al centro, dirigendosi sicuro verso la scaffalata di destra.

Quei mobili erano molto più alti dei loro cugini nella sala di studio e delle scale erano sistemate lungo tutta la lunghezza, per poter consultare anche i libri posizionati più in alto. Le sue dita affusolate si posarono sul dorso di diversi volumi, scorrendo pazientemente i titoli. Regnava un completo silenzio e io me ne stavo tranquilla, seduta sul gradino più basso di una delle scale in legno. Osservavo la figura di Alessandro, i suoi tratti marcati, le linee fluide del suo corpo. Riuscii ad intravedere sotto il suo maglioncino come i muscoli del suo braccio si fletterono mentre afferrava un libro poco più in alto. Me ne stetti per un po' lì, ferma, e la mia mente vagò mentre con gli occhi lo analizzavo. Probabilmente doveva essersi accorto di essere osservato quando si voltò e mi vide lì seduta a fissarlo. Le sue labbra si distesero in un sorriso quando mi vide arrossire per l'imbarazzo.

"Ragazza chiacchierona, mi dicono" scherzò, raggiungendomi con pochi passi. Sotto il braccio teneva due libri che sembravano veri e propri mattoni per quanto erano grandi. Avevano anche l'aria di essere pesanti benché Alessandro li mantenesse disinvoltamente con una sola mano. Cercai di accennare un sorriso, fallendo miseramente. Si addossò con una spalla allo scaffale a cui ero appoggiata anch'io e continuò a studiarmi.

"Sei bravissima in francese e hai un'insufficienza in inglese; come mai?" domandò. Insisteva nella ricerca delle mie parole, parole che io, invece, non avevo per niente voglia di pronunciare.

"La letteratura inglese non è appassionante come quella francese" mi giustificai io, alzando le spalle.

"Non ti va di parlare con me, vero?" incalzò, facendo una risata sconsolata. Ci rimasi quasi male per il fatto che se ne fosse accorto. Dopotutto non volevo far vedere al mondo la mia repulsione verso i ragazzi.

Arrossii comunque alla sua constatazione e mi limitai ad annuire, abbassando lo sguardo sui miei stivali imbottiti. Vidi di fronte a me le sue sneakers nere, consumate, e sorrisi tra me e me costatando che non ero l'unica a possedere quel modello di scarpe. Dopotutto si era reso disponibile ad aiutarmi e io, ovviamente, non riuscivo neanche a chiedergli quali fossero gli argomenti del compito.

Mi lambiccavo con l'idea di poter conversare normalmente con un ragazzo, senza i miei soliti complessi e le mie papabili insicurezze. Non li guardavo nemmeno, i maschi, quando passavo per i corridoi e durante le lezioni. Era probabile che avessi già visto Alessandro una miriade di volte di sfuggita, per sbaglio ed io, ovviamente, non lo avevo notato, impegnata com'ero ad evitare i ragazzi.

"Sai, Noemi, a me non importa proprio niente!" esclamò – con molta sorpresa da parte mia. Alzai di scatto la testa e lo guardai stupita. Aveva un sorrisetto stampato in faccia e un'espressione alquanto impertinente.

"Vedrai che riuscirò a farti parlare con me, so che in realtà non sei timida" mi sfidò, accompagnando il tutto con un audace occhiolino. Arrossii per l'ennesima volta e mi ritrovai ad accennare un piccolo sorriso, sapendo che aveva ragione.

In realtà ero tutt'altro che timida. Con le mie amiche tendevo ad essere piuttosto logorroica e a straparlare. Mi piaceva esporre la mia opinione e non trovavo nulla di male nell'esternare ciò che pensavo. Tutto questo, ovviamente, in compagnia di chi volevo io. E in questa categoria non erano ammessi i ragazzi per più che note ragioni.

"Okay" gli risposi, in un sussurro. Sul viso gli comparve un sorrisetto divertito e tornò a posare gli occhi su di me, scrutando il mio viso. Sapevo di essere rossa e che probabilmente, dopo quella mattinata, la metà del trucco che avevo era già scomparsa. Eppure, anche solo con l'eye-liner, mi incuriosì il pensiero che aveva Alessandro di me. Che ne pensava di una povera ragazza restia a parlargli? Quando i suoi occhi iniziavano ad osservarmi mi sentivo analizzata da un'equipe di medici specializzati in malattie mentali. Mi metteva in un dannato stato di agitazione. Stetti ferma lì come avrei fatto se fossi stata davvero ad una visita medica. Il silenzio non sembrava un peso, piuttosto una di quelle leggere pioggerelline primaverili: piacevole e rivitalizzante, ricco di novità. Non sembrava farmi pressioni sul fatto che me ne stavo zitta e io lo lasciavo parlare, cosa che non avevo mai fatto con nessun ragazzo.

Si staccò dallo scaffale e si rimise dritto in piedi, sorreggendo ancora i libri sotto il braccio sinistro. Ricominciò a camminare verso la sala dove avevamo lasciato le nostre cose e io mi alzai e lo seguii. Lo affiancai e me ne stetti zitta mentre lui iniziava a fischiettare un motivetto allegro.

Quando arrivammo al nostro tavolo ci sedemmo esattamente dove eravamo prima e Alessandro prese uno dei libri dalla pila che aveva portato e lo aprì proprio davanti ai miei occhi. Guardai la stampa ordinata delle pagine e la rilegatura blu, consunta. Mise un gomito sul tavolo, e si appoggiò con la testa sul palmo della mano. I suoi occhi castani mi scrutarono mentre io osservavo l'impaginatura, rifiutandomi di iniziare a leggere quello che vi era scritto sopra.

"La Bonanno ti chiederà sicuramente la vita di Shakespeare. Eccola qui, completa di tutte le opere." Sbuffai, alzando lo sguardo su di lui. Ammiccò e alzò le spalle, come per dire 'Questo è, non ci sono molte alternative.'

"C'è qualcosa di assurdo che devo assolutamente sapere su William Shakespeare?" gli domandai, calcando la voce sulla parola 'assurdo'. Amavo studiare per prime le particolarità degli autori. Quelle storie che nessuno trova sui libri, curiosità e aneddoti che avrei ricordato sicuramente anche dopo la scuola.

"In che senso 'qualcosa di assurdo'?" mi chiese, aggrottando la fronte confuso.

"Un aneddoto divertente o un mistero che lo contraddistingue. Qualcosa che non molti sanno."

"Oh" commentò lui, iniziando a pensare a cosa potesse dirmi. Iniziai a giocherellare con le pagine del libro, spiando qualche data qua e là.

"Ce l'ho!" esclamò, sorridendo soddisfatto. Attesi che parlasse, volendo sapere a tutti i costi cose strane sul conto di Shakespeare. "Nessuno sa con certezza com'è morto. C'è, però, chi sostiene che all'età di 52 anni, niente male per un'epoca in cui l'età media di vita era tra i 30 e i 40 anni, si sia ammalato dopo una notte furiosa di bevute con il drammaturgo Ben Jonson" sciorinò, facendo un sorrisetto soddisfatto non appena ebbe finito.

"Figo" commentai, sorridendo. Quindi anche Shakespeare era un ubriacone. Nulla di nuovo, ma molto stimolante. Alessandro era evidentemente fiero di aver soddisfatto le mie richieste.

"Vedi come parli quando vuoi sapere qualcosa" concluse, tornando sul suo libro di poesie di Ronsard. Arrossii e abbassai anch'io lo sguardo sulla storia della vita del Bardo. Prima di riprendere lo studio aspettai qualche secondo per concedermi un sorriso.

Mi stava davvero facendo parlare, ed era un ragazzo! Cose da pazzi.





 

Guardai fuori dalla finestra della sala e constatai che aveva smesso di piovere. Il cielo era grigio e i nuvoloni neri si stavano spostando lontano da Roma. Sbuffai, tornando al mio libro di letteratura, conscia che Alessandro, davanti a me, stava per addormentarsi sulle pagine di 'Quand vous serez bien vieille'. Battei ritmicamente la matita sul tavolo mentre ripetevo sussurrando la trama di Macbeth.

Vidi il ragazzo chiudere gli occhi e battere la testa sul libro. Si svegliò di soprassalto. Una piccola risata riuscì ad uscire dalla mia bocca e mi scoprii divertita dal suo sonnellino ronsardiano. Rise anche Alex e si stiracchiò, come per risvegliarsi da un coma popolato di poesie in francese antico. Guardò l'ora sul suo orologio e riuscii a sbirciarla anch'io. Tra poco sarei dovuta andare via. Sembrò leggermi nel pensiero.

"Tu quando devi andartene?" mi chiese con voce roca, confuso dalla stanchezza. Arrossii quando lui tornò a guardarmi, dopo essersi sistemato i capelli. Si era letteralmente addormentato sui libri e mi sembrava molto buffo.

"Tra mezz'ora. Devo andare a fare la spesa" mi giustificai, chiudendo il volume che stavo consultando e riponendolo nel mio zaino. Me lo sarei portato a casa, trovando, in qualche modo, un po' di tempo per finire di leggere quel capitolo. Il giorno seguente lo avrei riportato in biblioteca, dato che dovevo studiare chimica. I suoi occhi saettarono dalla mia borsa al mio viso. Si passò le mani sugli occhi e si ritrovò a sbadigliare.

"Allora anch'io me ne vado tra mezz'ora." Annuii e presi il quaderno per cercare di riordinare gli appunti che avevo preso.

"Ti serve un passaggio?" chiese Alex, passandosi ancora la mano tra i capelli mossi. Arrossii a quella sue proposta e ricominciarono a sudarmi le mani, che prontamente asciugai sui miei pantaloni.

"N-no, grazie" trovai il coraggio di rispondergli, stampandomi un imbarazzante sorrisino sul viso. Se, invece della sottoscritta, davanti ad Alex ci fosse stata un'altra delle quattrocento studentesse di quella scuola, probabilmente avrebbe colto la palla al balzo per passare un po' di tempo in sua compagnia. Io, invece, non vedevo l'ora di tornare a casa, anche se non mi era dispiaciuto poi così tanto il suo aiuto in letteratura. Beh, almeno aveva ricambiato il favore.

"Domani torno, ho da studiare chimica" esordì di nuovo, facendomi destabilizzare. Anch'io dovevo studiare chimica, dannazione. Questo significava che avevamo un altro professore in comune. Che lo dovessi incontrare ancora a scuola era ben accetto, ma troppe volte in biblioteca non ce l'avrei fatta. A scuola potevo evitare di parlargli, ma qui se non lo avessi fatto mi avrebbe preso per un'ingenua ragazzina tanto cotta di lui da non spiccicare parola in sua presenza. Ed io, ovviamente, non ero quel genere di ragazza. Per niente.

Annuii, come al solito rossa in viso. Probabilmente neanche con l'acqua fredda si sarebbe tolto quel rossore sulle guance. "Anch'io" risposi poco dopo, vedendo i suoi occhi sorridermi non appena sentì quelle parole. Ammiccò nella mia direzione.

"Allora domani parliamo un po'" affermò, facendomi l'occhiolino. Il mio imbarazzo era palpabile. Non avevo intenzione di conversare con lui come fosse un pomeriggio passato con la mia amica Elisa. Non ne vedevo il motivo. Ero impacciata, scorbutica, noiosa e non spiccicavo parola e lui aveva deciso così, di punto in bianco, di parlare con me. Mi sentivo a disagio nel vederlo così disinvolto quando io non riuscivo ad esserlo.

Il mio corpo reagì alle sue parole sudando – come al solito – e la mia faccia divenne più rossa che mai. I suoi occhi mi scrutarono, attendendo una risposta che tardava ad arrivare. Se ne stava lì a braccia conserte, con il telefono in una mano e tentava di farmi credere che fosse davvero interessato a me. Ovviamente mi dava corda perché gli servivo per le ripetizioni. Era tanto ovvio da sembrare abbastanza evidente.

Annuii sconsolata, alzandomi dalla sedia. Iniziai a riporre nella borsa le mie cose e lui fece lo stesso con la sua roba. Quando chiusi la zip dello zaino mi fermai sul posto. E Alessandro fece lo stesso. E stemmo lì ad osservarci, lui con lo zaino in spalla e io con il giaccone in mano. La prima mossa la fece lui riposizionando la sedia, che aveva precedentemente occupato, al suo posto. Mi sistemai per uscire dalla sala, infilandomi il giacchetto.

"Allora ciao, ci vediamo domani" concluse lui, salutandomi con la mano. Mi sorrise quando vide che mi stavo dondolando sul posto, incapace persino di salutare una persona. Patetica. Mi sistemai i capelli e spostai lo sguardo dalle sue scarpe al suo viso. E lui ancora sorrideva! Che faccia tosta.

"Ciao" risposi monocorde, girando i tacchi e incamminandomi spedita verso l'uscita. Sentii uno sbuffo alle mie spalle ma non me ne curai più di tanto. Pensai che prima o poi me lo sarei tolto di torno e avrei continuato con la mia vita.

Quello che non sapevo era che Alessandro era determinato a starsene lì, nella mia testa, a farmi parlare e a propormi tutte le sue pazze idee. Non ne sarei uscita così presto. 

 

////

Amici, è questa la storia che alla fine ho eletto per la pubblicazione nell'attesa di finire il prossimo capitolo di "Keglevich". E' una sorta di esperimento che ho intrapreso circa due anni fa e che ho ripreso anche quest'anno, quindi un po' più vicino al mio stile attuale, quel tanto da poterla continuare per bene in futuro, a differenza, per esempio, delle altre che, comunque, sono ancora sul mio profilo.

Spero che possa invogliarvi a recensire e visualizzare in tanti, per farmi sapere cosa ne pensate, di quanto sia strana Noemi e di quanto sia pazzo Alessandro nell'assecondarla. So che non è una storia troppo usuale e mano a mano che andrà avanti lo sarà ancora di meno!

Grazie mille per un futuro riscontro e alla prossima, se tutto va bene!

Un abbraccio, 

 

Sara xo

 

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Capitolo 2
*** 2. Tutta colpa mia ***


Library Pictures

2. Tutta colpa mia


Il vento continuava a soffiare su Roma dalla sera precedente così quella mattina mi ero attrezzata con un cappello ed una sciarpa di lana, cercando di evitare le fredde folate autunnali. Mi resi conto di essere in un ritardo assurdo per i miei standard proprio mentre mi affrettavo verso l'enorme edificio tinteggiato di giallo che ospitava la biblioteca. Quella mattina era stata una corsa continua fino a quando non c'era stata l'ora di letteratura inglese ed il fatidico compito di recupero. 

Mi costava ammetterlo ma se non fosse stato per Alessandro probabilmente avrei risposto alla metà dei quesiti. Mi aveva indicato esattamente quali argomenti studiare e aveva avuto assoluta ragione quando mi aveva suggerito di studiare la vita di Shakespeare perché la Bonanno la inseriva in ogni compito. Mentre stavo rispondendo ad ogni domanda del compito avevo sorriso tra me e me. Dovevo sembrare proprio una cretina ma non potevo non sorridere ricordando la bocca di Alessandro muoversi mentre il pomeriggio precedente mi elencava la cronologia delle opere di Shakespeare. Nella risposta alla domanda sulla morte del Bardo avevo aggiunto la curiosità che mi aveva rivelato Alex, assicurandomi un bonus se avessi avuto qualche amnesia durante il compito e sbagliato qualche risposta. Avevo apprezzato il fatto che Alessandro non mi avesse mentito, fuorviandomi o ingannandomi come avrebbe potuto fare qualcun altro. Speravo, dentro di me, di essere riuscita ad essere chiara nella spiegazione di letteratura francese e che il suo compito fosse andato altrettanto bene. 

Raggiunsi boccheggiando l'entrata della biblioteca e cercai di sorreggermi con la mano allo stipite della porta per riprendere fiato. Non ero affatto allenata nella corsa e avevo il fiatone come se pesassi cento chili e avessi appena raggiunto il traguardo della maratona di New York. I libri che avrei dovuto restituire alla bibliotecaria pesavano nello zaino sulle mie spalle e stavo iniziando a risentire del sudore perché avevo corso tutta incappucciata. Appoggiai lo zaino sul muretto vicino la porta; continuava a tirare un vento gelido ed insistente ma, incurante del futuro malanno che avrei preso, tolsi il cappotto, mettendolo sottobraccio. L'aria fredda mi avvolse nel mio maglione non troppo pesante e mi sentii subito meglio. 

Mi strinsi nelle spalle e mi accinsi a rimettere lo zaino in spalla quando, guardando il parcheggio subito davanti la biblioteca, oltre un'aiuola con tre grandi alberi, ebbi una sorta di visione. Un ragazzo dai capelli scuri scendeva da una Opel Corsa. I jeans neri gli fasciavano le gambe mentre la camicia a quadri gli aderiva perfettamente alle spalle. Indossava un berretto di lana nera che lasciava uscire qualche ciocca sbarazzina. Chiuse la macchina che lampeggiò con un clic. Si voltò nella mia direzione. Dato che il pomeriggio precedente non avevo fatto altro che osservarlo, lo riconobbi immediatamente; Alessandro stava vendendo verso di me. Restai lì, ovviamente immobile, ad aspettarlo. Iniziai a sudare come se non lo avessi fatto negli ultimi dieci minuti. Trovai i miei capelli inevitabilmente fuori posto quando le mie mani corsero a districare nodi che in realtà non esistevano. Le ciocche disordinate, che fuoriuscivano dal suo cappello, gli incorniciavano il viso. La sua bocca se ne stava lì, tirata in un sorriso che lo illuminava. Era una visione, ma non potevo di certo ammetterlo a me stessa. 

"Buon pomeriggio" esordì, agitando due dita in segno di saluto. Arrossii ­– tanto per cambiare – mentre Alex ancora attendeva una mia risposta. 

"C-ciao" balbettai, riacquistando il dono della parola. I suoi occhi dardeggiarono su di me, mi analizzarono, neanche fossi un oggetto non identificato. Ed io me ne stavo lì a farmi studiare in silenzio. Lo sguardo di Alessandro si soffermò sui miei stivaletti neri, abbastanza alti. Non avevamo grosse limitazioni riguardanti l'abbigliamento scolastico, dato che la nostra scuola era pubblica. Ogni tanto mi piaceva sentirmi un po' più alta. In quel caso il tacco non aveva sortito alcun effetto dato che Alex era un soggetto particolarmente dotato in fatto di altezza. 

"Che dici, entriamo?" Annuii, prima di voltarmi, zaino in spalla e giacca in mano, per avanzare verso la porta d'entrata. Alessandro mi seguì a passo svelto, fischiettando un motivetto che odiavo. La bibliotecaria mi fece un cenno di saluto mentre poggiavo i libri da restituire sul bancone della segreteria. I suoi occhi si poggiarono su di me e, in seguito, su Alessandro, addossato ad uno scaffale alle mie spalle. La signorina Anna Roma – la bibliotecaria – registrò i libri restituiti sul vecchio computer della struttura e mi fece un sorriso non appena ebbe finito. 

Sentii i passi di Alessandro allontanarsi e mi voltai, trovando che camminava lungo il corridoio dedicato alle Scienze. 

"Aspetta!" esclamai, fermandomi sul posto. Si arrestò anche lui e, voltando la testa, mi mostrò un sorriso soddisfatto. 

"Dai, vieni" concluse, tornando a camminare. Mi affrettai al suo fianco, mentre lo zaino, ormai alleggerito, sbatteva contro la mia schiena. Quel giorno avevo decisamente corso troppo. I suoi occhi mi guardarono per un secondo quando svoltammo nella sezione di Chimica. Quella parte dell'edificio era circondata da scaffali poco più alti di Alessandro; delle scale erano comunque posizionati accanto alle mensole, ad intervalli regolari, per permettere anche a chi fosse basso come la sottoscritta di consultare i volumi posti più in alto. 

"Che professore hai?" esordì, rompendo il silenzio che si era creato. 

"Palmieri" gli risposi, quasi sussurrando. 

"Lo sapevo" concluse, aggiungendo poco dopo: "Ce l'ho anch'io." 

"Allora perché me lo hai domandato?" azzardai. I suoi occhi si spostarono sul mio viso, studiandone l'espressione. Ero determinata ma, allo stesso tempo, ero arrossita non appena mi aveva guardata. Cercavo, invano, di superare i miei blocchi. La notte precedente, mentre me ne stavo sotto le coperte a luce spenta, avevo pensato ad una strategia per l'indomani. Volevo superare il mio blocco con i ragazzi, ma quando Alessandro mi osservava e mi parlava entravo in crisi. Mi sentivo assoggettata. Se non avessi parlato, ai suoi occhi sarei risultata una cretina. Continuavo costantemente a chiedermi perché con le mie amiche ero così logorroica mentre con i ragazzi non riuscivo ad esprimermi decentemente neanche sotto tortura. Dovevo trovare una via d'uscita e subito, prima di rendermi più ridicola di quanto non avessi già fatto. Sorrise alla mia domanda, riportando lo sguardo sullo scaffale davanti a lui. 

"Per farti parlare" rispose, alzando le spalle. Alzai gli occhi al cielo. Era chiaro lo avesse fatto per quel motivo. "Vedrai che riuscirò a farti parlare con me, so che in realtà non sei timida." Quella frase continuava a rimbombarmi in testa dal pomeriggio precedente. Le sue parole, più che spaventarmi, mi coglievano impreparata. Ma perché mai avrebbe voluto farmi parlare con lui? A cosa gli serviva? Sbuffai, ridestandomi dai miei assurdi pensieri. Vidi che Alex teneva tra le braccia quattro grandi volumi dalle copertine scure. 

"Che fai, non vieni?" mi chiese, battendo un piede per terra, quasi spazientito. 

"Sì, ecco." Camminai alle sue spalle, mentre continuavo a tormentare i miei poveri capelli. Quando arrivammo alla Sala Consultazione dedicata a quella sezione mi stupii nel constatare che fosse minuscola, con solamente due tavoli molto piccoli, sistemati agli estremi della stanza. Le pareti erano nascoste dagli scaffali contenenti altri volumi. Una moquette rosa chiaro, sporca e impolverata, ricopriva tutto il pavimento. 

Alessandro poggiò rumorosamente i libri su uno dei due tavoli, quello nascosto da una libreria in legno chiaro. Sistemai il giubbotto sullo schienale della sedia e mi sedetti sulla stessa, poggiando il cellulare di fronte a me. Fu quasi comico quando togliemmo i berretti all'unisono. Alex sorrise e lo appoggiò su una sedia, per poi occupare quella accanto a me. Si passò le dita tra i capelli, districando le ciocche scure. Mi sorrise e prese uno dei libri, aprendolo per scorrere l'indice. 

"Su cos'è la verifica di domani?" domandò, mentre già ero intenta ad arrossire per la troppa vicinanza. La sua gamba sinistra stava per sfiorare il mio ginocchio destro e mi allontanai repentinamente, spostandomi sulla sedia. 

"È sulle formule chimiche, almeno per noi, ma penso sia uguale" risposi, tormentandomi le mani e abbassando lo sguardo su uno dei libri che avevamo preso. Stavo osservando la copertina rosso scuro con fregi dorati quando Alex aprì il volume che stava consultando alla pagina indicata, facendo sbattere la copertina del libro sul tavolo. Sussultai e alzai gli occhi su di lui, intento ad esaminare gli argomenti dei paragrafi. 

"Iniziamo con gli ossidi?" esordì, sistemando il libro sul tavolo in modo che anch'io potessi vedere. "Va bene" risposi, immergendomi con tutta l'ansia che avevo in quel pomeriggio di studio disperato.

 

 

 

Dopo due ore passate in compagnia delle peggiori formule chimiche esistenti nell'universo, da anidridi solforiche o solforose ai più complessi Sali, potevo certamente concludere di averci capito poco o niente. Ero troppo agitata e sotto pressione per potermi concentrare al meglio su qualcosa, soprattutto qualcosa che contemplasse insiemi di elementi chimici dai nomi più svariati. 

Alessandro non faceva altro che peggiorare la situazione, anche se non ne aveva idea. Era esageratamente vicino per i miei standard. Quando chiariva dei concetti che mi erano sembrati assurdi, voltava il busto ed il viso verso di me, sembrando più vicino di quanto già non fosse. Aggrottava le sopracciglia quando leggeva un paragrafo che non riusciva ad afferrare e teneva la testa appoggiata sulla mano sinistra mentre con la destra trascriveva qualcosa sul suo quaderno disordinato. 

Invece di prendere esempio dalla sua solerzia mi perdevo ad osservare le ciocche nere dei suoi capelli che, sfuggite al berretto che aveva tolto precedentemente, gli finivano sugli occhi scuri mentre continuava a scrivere. Quando non ero occupata con queste sciocchezze mi limitavo a leggere le formule e a cercare di capirle, dopodiché le appuntavo sul quaderno limitandomi con gli errori, altrimenti sarebbe risultato qualcosa di incomprensibile quando avrei dovuto ripassare la mattinata seguente. 

Appoggiai, esausta, la schiena contro la sedia imbottita sulla quale mi ero costretta a mantenermi rigida per più di due ore. Alex si stiracchiò, poggiando poi i gomiti sullo schienale della sua sedia. Aveva finalmente trascritto l'ultima formula che ci interessava sapere ed era stravolto tanto quanto me. Probabilmente aveva capito tutto una decina di volte meglio di me, dato che la sua presenza mi metteva sotto pressione. Non ero riuscita a combinare un granché, anche se ieri, grazie al suo aiuto, ero riuscita ad ottimizzare il mio studio di Shakespeare. Dopotutto non era stato male nello spiegare le pagine da studiare e gli argomenti da trattare. Ed in quel momento ricordai del mio aiuto con Ronsard e della sua verifica di quel giorno. Non ci volle molto per farmi coraggio e azzardare una domanda. 

"Ehm, la tua verifica di francese com'è andata?" Alex sembrò essere stato appena punto da un'ape non appena gli arrivò il suono delle mie parole. Si voltò verso di me, completamente, inclinando la testa appoggiata sulla sua mano destra. 

"In realtà non lo so, spero bene. La cosa positiva è che ho risposto a tutte le domande, ma in realtà quello che mi preoccupa è la traduzione della poesia. Non credo di averla fatta decentemente" mi spiegò, alzandosi subito dopo dalla sua sedia per sgranchirsi le gambe. "Ho da sempre dei problemi con la lingua francese, soprattutto con la grammatica. La letteratura si studia e si capisce, ma per la lingua ci vuole impegno costante e, insomma, il francese mi annoia!" concluse, avvicinandosi ad uno degli scaffali e scorrendo le copertine dei libri sulle scienze. 

Non ero affatto d'accordo con la sua visione del francese. Probabilmente per il fatto che adoravo tutto ciò che fosse solo lontanamente francese, o quell'idea di fascino irraggiungibile, l'allure romantico della vita francese ed i monumenti da capogiro che, solo all'idea di contemplarli da vicino, iniziava a battermi il cuore all'impazzata. Adoravo i film francesi, soprattutto quelli della Nouvelle Vague, anche se li guardavo solo saltuariamente perché li dovevo affittare dalla videoteca in centro, dato che in streaming non si trovavano neanche per sbaglio. Per non parlare dell'originalità ed il fascino della moda francese, quella vena di eleganza irraggiungibile che io non avrei nemmeno lontanamente sperato di poter acquisire. Tutto, della Francia, mi dava l'idea di bello, sfarzoso ed un po' bohemien e adoravo le sensazioni che mi suscitava il solo pensiero di poterci andare, un giorno, a Parigi e di vedere tutto questo da vicino, sentire gli odori, toccare i marmi ed i tessuti setosi di Chanel, udire un francese perfetto e non il solito, così annacquato dall'italiano, della professoressa Chiari. 

"Non credo che il francese sia noioso" mi ritrovai a rispondere, conscia di star facendo un errore nella mia visione del mondo in cui non esprimevo le mie idee davanti ad un ragazzo. Si voltò verso di me appena udì le mie parole e mi sorrise, riponendo poi nello scaffale il libro che aveva preso in mano. Incrociò le braccia e venne avanti, pericolosamente avanti. Grazie al cielo, si posizionò in corrispondenza di una sedia e continuò a guardarmi. Arrossita, confusa e terribilmente presa nell'accarezzare i miei capelli, dovevo sembrare un'incapace. Sì, un'incapace nel continuare un discorso.

 "Perché non è noioso? È la lingua più piena di accenti e lettere strane che io abbia mai visto!" ribatté, appoggiando le mani sullo schienale della sedia. 

"È elegante e ha delle belle sonorità. Mi piace perché ha tante declinazioni, può essere estremamente dura ed estremamente soffice allo stesso tempo." Mi stupii quando, quasi involontariamente, pronunciai quelle frasi. Non erano programmate e svelavano la parte più istintiva di me, quella che non si fermava mai nella difesa delle sue idee e convinzioni. Alessandro mi guardò sbalordito e, subito dopo, mi fece un sorriso. In tutta risposta abbassai la testa sul mio quaderno pieno di formule, mentre le mie mani, sotto la superficie del tavolo, continuavano instancabilmente a tormentare la stoffa del mio povero maglione. 

"Lo sapevo" mi sentii dire, mentre Alessandro tornò a prendere posto proprio accanto a me. I suoi pantaloni neri erano entrati nel mio campo visivo, mentre mi scrutavo le mani in cerca di risposte. Erano diventate rosse a forza di sfregare sulla stoffa e lo smalto sbeccato che le ricopriva mi dava un'aria sciatta che mi faceva atterrire ancora di più. Nella mia mente passavano strane scene in cui Alessandro rideva di me, raccontava ciò che gli dicevo alla sua presunta ragazza e mi prendevano in giro; e l'ultima, la più terrificante, in cortile, a ricreazione, mentre mi copriva di ridicolo davanti a tutti. 

"Noemi" sentii chiamarmi, mentre continuavo a tenere lo sguardo fisso in basso, sulle mie mani, sulla stoffa ormai stropicciata del maglione. "Noemi" sentii più forte e trasalii, ricordandomi di stare in biblioteca e di avere Alessandro accanto a me. 

Alzai gli occhi di scatto e mi voltai nella sua direzione. Sapevo quanto fosse esagerata la mia reazione, o le mie paranoie ed i miei pensieri infondati o tutto ciò che mi passava per la testa, così inutile e dannoso, ma mi resi conto solo allora che tutto ciò che era accaduto, era accaduto davanti a lui. Mi sentii morire guardando i suoi occhi incupiti, quasi tristi, che mi osservavano e mi sorpresi intenta a sistemarmi i capelli dietro le orecchie. 

"Sto bene" mi ritrovai a rispondergli, ignara dei suoi pensieri su di me e dubbiosa del fatto che stessi davvero bene. 

"Stai tranquilla" mi rispose, avvicinando la sua sedia alla mia, quel tanto che bastava per permettere alle due estremità dei sedili di toccarsi. Rimasi immobile, mentre mi voltai ancora verso di lui. 

"Sto bene" ripetei, calcando sulla parola 'bene' e tornando ad impugnare la matita per sistemare una formula che sapevo essere già scritta correttamente. 

"D'accordo" mi rispose, chiudendo il suo quaderno. "Che ne dici se andiamo a fare una passeggiata tra gli scaffali?" mi propose, chiudendo la zip del suo astuccio. Tornai ad alzare lo sguardo su di lui. Dopo le mie parole e la conseguente reazione esagerata, credevo avesse abbandonato l'idea di stare con una povera pazza. Invece aveva raddoppiato la posta in gioco ed io mi trovavo sospesa tra l'idea di accettare e quella di fuggire a gambe levate da quel casino. Purtroppo avrei dovuto considerare la seconda il giorno prima, quando mi ero offerta di dargli ripetizioni di Francese; dovevo, invece, abbracciare la prima, concedendomi una pausa meritata dalla Chimica e buttandomi in un vortice senza ritorno.

 

 

 

La sezione di Narrativa era la mia preferita dell'intera biblioteca. Da uno stretto corridoio che comprendeva tutta la storia della lingua inglese, si accedeva ad un'ampia stanza rettangolare. Al centro vi erano dei divanetti – gli unici in tutta la biblioteca – ed un piccolo tavolo da tè tra di essi. Tutti i quattro lati che circondavano la sala erano ricoperti da alti scaffali, con un soppalco che li percorreva lungo tutto il perimetro ed una scaletta ad ogni angolo per permettervi l'accesso. I libri toccavano il soffitto e c'era quello giusto per ogni genere di lettore. 

Mi stupii come sempre non appena accedetti alla stanza, con accanto Alessandro che lì, invece, diceva di non esserci mai stato. Era accogliente e calda, grazie alla luce proveniente dai lampadari pendenti. Percorremmo la moquette giallo-arancio per raggiungere una delle scalette. Salii ed Alessandro mi imitò. Non appena arrivata sul soppalco, mi ritrovai ad osservare la sezione di Narrativa Storica, una delle mie preferite. Scorrevo con l'indice i titoli dei volumi, stipati con cura all'interno degli scaffali, in ordine alfabetico. 

"Tu leggi molto?" mi chiese Alessandro, avvicinandosi allo scaffale per osservare i libri da cui ero stata catturata da alcuni minuti. Mi fermai non appena sentii le sue parole, proprio mentre stavo leggendo la trama di un romanzo ambientato nell'Antica Roma. 

"Abbastanza, tu?" risposi cauta alla sua domanda, alzando gli occhi sul suo viso. Si era appoggiato con una spalla contro lo scaffale, nel mentre accarezzava il dorso di un libro rilegato in verde bottiglia. 

"Non troppo. Leggo soprattutto classici, credo siano la miglior cultura per un lettore, o per qualsiasi persona voglia poter riflettere su grandi temi e ampliare i propri orizzonti" argomentò Alessandro, mantenendo gli occhi su di me, che dopo aver riposto il romanzo al suo posto me ne stavo immobile. Mi imbarazzavano i suoi sguardi così insistenti; a volte mi ritrovavo a pensare a come doveva essere per le altre ragazze essere guardate e desiderate. Cosa si prova nel momento in cui un ragazzo mette gli occhi su di te? Quali sensazioni suscitano gli sguardi rubati in cortile, i saluti timidi in corridoio e le occhiate indiscrete durante le lezioni? Non ero mai riuscita a cogliere i sentimenti e le emozioni provati da qualcun altro in questi casi. Forse perché non ero mai stata oggetto di occhiate fugaci e sguardi rubati. E probabilmente sarebbe stato traumatico da subire a scuola, vista la mia totale incapacità di gestire emozioni forti e inaspettate. 

Lo sguardo di Alessandro, curioso e attento, non mi metteva a disagio – poiché ogni sguardo da parte di un ragazzo aveva il potere di farlo, anche se in maniera fortuita. Quella era, invece, una sensazione più profonda. Gli occhi interessati di Alessandro erano molto più pericolosi. Alex mi faceva parlare, cercava di mettermi a mio agio e farmi uscire fuori dal guscio. Io, in qualche modo, lo assecondavo, benché riluttante. La mia riluttanza doveva però essere imputata all'appartenenza di genere del ragazzo, più che alla persona che si era rivelato essere. Non volevo aprirmi tanto con un ragazzo ma, allo stesso tempo, era inevitabile farlo con lui e sentivo il bisogno impellente di dover parlare in sua presenza, dover esprimere il mio credo. E quella, proprio quella, era una sensazione che non avevo mai provato prima di quei momenti. 

Alessandro ti portava a scoprirti almeno un po' in sua presenza poiché si dimostrava gentile, non troppo indiscreto, andava dritto al punto, ma amava allo stesso modo argomentare le sue idee. Io mi ritrovavo insicura, anche se nel profondo non lo ero, pacata, ma dalle emozioni decisamente strabordanti, silenziosa, ma solo con chi non avevo confidenza – ed ovviamente con il genere maschile. 

I suoi sguardi, così decisi e mai banali, centrarono il punto. Ed il punto non era farmi imbarazzare, affatto, ma permettere di adattarmi, interagire e tastare il terreno per far sì che le mie parole fluissero velocemente e la mia mente si aprisse alla novità, al "mistero" ed al contatto con qualcuno che, per una maniera o per l'altra, tendevo a repellere. Io ero sicura Alessandro volesse far sì che entrassimo in contatto, e non in maniera effimera ma intellettuale; altrimenti non mi avrebbe domandato cosa mi piaceva leggere. Secondo me le letture di una persona esprimono, in un modo o nell'altro, una parte dello spirito e dell'interiorità di quel lettore. Quindi era più che lecito domandare, se proprio deciso a stabilire il famoso contatto. E questo contatto ero sicura volesse fosse fatto di idee ed opinioni condivise, dibattiti e tante, troppe parole; quelle parole che io non riuscivo - ancora - a pronunciare. 

"Anche a me piacciono molto" concordai, muovendomi verso lo scaffale successivo, quello contenente la sezione di Narrativa utopistica. Quello era uno dei generi narrativi che preferivo in assoluto. "Però amo molto anche questo genere di letture" aggiunsi, indicando il cartellino che specificava la sezione, ben visibile al centro dello scaffale. 

"Come mai? È strano trovare una ragazza appassionata di questo genere. Lo dico per esperienza, eh. Piace molto anche a me" rispose immediatamente Alessandro, ponendomi un quesito interessante quanto difficile da argomentare in poche parole. E dato che non riuscivo, in pochi minuti, a formulare una frase il più breve possibile per riassumere il mio enorme pensiero sulla questione, decisi di prendere coraggio e affrontare, non senza difficoltà, il flusso di parole che avevo sulla lingua e che aspettavano solo l'okay dal mio cervello per poter invadere il padiglione auricolare di Alessandro. 

"Io credo sia uno dei modi migliori per poter riflettere sul futuro" iniziai, prendendo pian piano coraggio per procedere, "immaginare un giorno cosa potrebbe accadere e trovarsi a pensare come sarebbe stato se fosse accaduto esattamente ciò raccontato in uno di questi libri. Se adesso fossimo immersi in una guerra contro uno Stato che cambia in continuazione anche se noi restiamo dell'idea che sia sempre lo stesso, se non potessi parlare, o leggere, o scrivere seguendo i miei pensieri in maniera libera e se persino i miei pensieri fossero manipolati, io come reagirei? Cosa farei della mia vita se tutto questo non esistesse? Se questa biblioteca fosse bruciata, se l'insegnamento scolastico fosse ridotto in propaganda spicciola e se perdessimo il potere esercitato dai nostri pensieri e dalla libertà di poterli esprimere? Ci hai mai pensato a come potrebbe essere o come potrebbe essere stato?" conclusi, appoggiandomi di peso alla ringhiera alle mie spalle e respirando, in maniera libera ed evidente, mentre il mio cervello mi portava incondizionatamente a guardare negli occhi Alessandro, come d'altronde avevo fatto durante tutto il mio discorso che, mi resi conto solo in quel momento, potevo benissimo tradurre in un'unica frase, la prima che avevo pronunciato. Alex mi sorrise, di un sorriso sincero e colpito, passando, subito dopo, una mano nei suoi folti capelli scuri. 

"Beh, sei decisamente una ragazza appassionata di questo genere" esordì, facendo spuntare un piccolo sorriso anche sul mio viso, che fino a quel momento era rimasto immobile nel suo rossore post-trauma. "Penso anch'io sia importante riflettere su cosa avrebbe potuto essere il passato e cosa potrebbe essere il futuro. Credo, però, che sia altrettanto importante capire davvero ciò che è successo in passato, per non commettere più errori simili" mi rispose Alessandro, riprendendo a camminare lungo la passerella che permetteva la consultazione degli alti scaffali. 

Mi ritrovai a seguirlo quasi automaticamente, per poi affiancarmi a lui mentre completava l'ultima frase che stava dicendo. Sistemai una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro e, intanto, scorrevo con la tremante mano sinistra la balaustra della scaletta che Alessandro aveva deciso di scendere per tornare alla zona dei divanetti. Avanzò verso le sedute e si accomodò; lo imitai, sedendomi di fronte a lui. 

"Io credo che la storia sia fondamentale, se alludevi a questo" ripresi stranamente il discorso, tormentando le mie mani sul maglione. Alex puntò i piedi per terra e si posizionò con i gomiti sulle ginocchia, le mani verso il basso, piegato nella mia direzione. Tornò sul suo viso un sorriso e non riuscii a capire, a primo impatto, perché sorridesse – o forse avrei dovuto dire "ridesse di me" – tanto. Aggrottai le sopracciglia e presi a tormentare le punte dei miei capelli, inumidendole con le mie dita sudate e facendole increspare ancora di più. 

"Finalmente" dichiarò, puntando i suoi occhi nei miei come era, ormai, abituato a fare nel momento in cui si rivolgeva a me. Continuai a non capire anche se doveva sembrare ovvio. Purtroppo stavo ripiombando in quello stato di confusione da cui ero riuscita a riemergere poco prima, ma in cui la vicinanza di Alessandro mi faceva ricadere. Forse fu la mia espressione che lo portò a riprendere la parola, per spiegare meglio quello che aveva già detto e, probabilmente, credeva avessi afferrato. 

"Finalmente è successo. Finalmente hai pronunciato più di due frasi, hai fatto un discorso. Ci volevano proprio i libri per stimolare la tua eloquenza" sorrise, e mi fece piegare le labbra in quello che doveva sembrare un sorriso, ma appariva probabilmente come una smorfia, una delle peggiori, "Qual era il problema? Da cosa eri imbarazzata?" mi domandò, sembrando sinceramente interessato alla mia risposta. 

Avevo argomentato, avevo parlato ed ero stata eloquente; ma su quel punto non potei dire nulla, il mio cervello non me lo permise anche se le parole erano incastrate tra la lingua ed il palato, vogliose di uscire, assetate di essere comprese e comunque incapaci di spiegare qualcosa che non poteva essere spiegato, né compreso. Tutto l'orgoglio che mi pervadeva dopo essere riuscita a spiegarmi si spense alla stessa velocità con cui una folata di vento spegne una candela. Tornai a sentirmi in imbarazzo, incapace di esprimermi, impaurita dalle conseguenze, restìa ad abbandonarmi alle parole, parole che mi tenevano per le briglie come fossi un cavallo da domare. Abbassai il viso sulle mie mani, mi morsi le labbra, tormentai le mie unghie l'una con l'altra, le gambe di Alessandro nel mio campo visivo si muovevano, flettendosi per permettere al ragazzo di alzarsi. 

Non sarei mai stata capace di spiegargli il problema, se solo avesse potuto entrare nella mia mente si sarebbe potuto rendere conto del caos che vi regnava, dell'inquietudine che mi pervadeva, dell'inettitudine che provavo nei confronti della società che mi circondava, dei rapporti convenzionali che avevo stabilito che mi costringevo a mantenere per pura facciata e della profonda, irreversibile e malata infelicità che mi accompagnava ogni giorno. In quei pochi istanti di luce, di felicità, di emozioni nuove e vere non avevano spazio le paure e le incertezze. Ma quegli istanti volavano via in pochi secondi e non restava che l'aridità, la solitudine e l'incomprensione. 

Notai le sneakers di Alessandro davanti i miei stivaletti, anche se la vista era appannata e i miei occhi immersi in un mare salato che iniziava ad essere sempre più profondo. Udii in modo ovattato la voce di Alessandro che diceva qualcosa che suonava come "va tutto bene? Scusami se ti ho messo a disagio." 

Mi alzai di scatto, ritrovandomi il corpo del ragazzo a pochi centimetri. Mi rifiutai di alzare lo sguardo su di lui e scivolai via, ripercorrendo velocemente il corridoio verso la sala dove avevo lasciato le mie cose. Non mi preoccupai di cosa potesse pensare Alessandro, di cosa potesse dedurre dal mio comportamento e, soprattutto, dal mio fuggire dai problemi, grossi ed enormi problemi. Chiusi velocemente quaderno e astuccio che infilai alla rinfusa nella borsa. Fare tutto di corsa richiedeva concentrazione, e concentrazione significava non dover pensare all'accaduto e al fatto che Alessandro poteva ripresentarsi lì da un momento all'altro. Mi infilai meccanicamente sia cappotto che cappello e, raccattando lo zaino, tornai a percorrere velocemente i corridoi della biblioteca, fino all'entrata. 

Quando uscii, dopo che neanche la bibliotecaria mi ebbe notato, il cielo era plumbeo e una fitta e pungente pioggia iniziò a minare i miei stivaletti di camoscio, mentre inumidiva le mie guance già provate dalle lacrime. Mi lasciai così alle spalle la biblioteca, per poi varcare spedita il cancello della scuola, incurante di auto, pedoni, traffico e dei miei pensieri.

 

 

 

Il materasso si abbassò quando mi gettai di peso sul letto. Grazie allo specchio accanto al mobile, mi resi conto solo in quel momento dello stato pietoso in cui versavo: il trucco era colato sulle mie guance, striate di nero e grigio, i capelli bagnati dalla pioggia sembravano un cespuglio umidiccio, gli occhi rossi e gonfi davano risalto al mio pallore cadaverico, frutto del freddo, della pioggia e dell'arido interiore. Il mio maglione era umido e avevo la schiena ed i piedi congelati. Per non parlare dei miei poveri stivaletti di camoscio ridotti in poltiglia dalla pioggia. Stivaletti che avevo messo nonostante le previsioni, solo per sembrare più alta. In un moto di rabbia ne gettai un contro il muro, intenta com'ero a sfilarmeli mentre pensavo al motivo per cui li avevo indossati e ridotti in quel modo.

 In quel momento pensai al compito del giorno seguente, quello di Chimica per cui avevo tentato di studiare tutto il pomeriggio. Tornai al mio zaino, ormai più che umido dopo che era stato sotto la pioggia per più di mezz'ora. Era appoggiato sulla sedia della mia scrivania, di fronte al letto da cui mi ero alzata riluttante. Ne trassi astuccio e quaderno, per poi decidere di svuotarlo e metterlo ad asciugare sul calorifero, accanto alla scrivania che in quel momento sembrava un campo di battaglia, cosparsa di libri e vari articoli per lo studio. Portai il quaderno sul letto e presi la pagina che mi interessava. 

Nel frattempo sentii aprire il portone d'ingresso, segno che mio padre e mia sorella erano appena rientrati, l'uno da lavoro e l'altra da scuola. Mio padre sarebbe andato dritto in doccia, mentre mia sorella avrebbe acceso la tv in camera sua per guardare la sua serie tv preferita che andava in onda proprio a quell'ora. Ricordai allora che mamma sarebbe rientrata di lì a poco da lavoro e che aveva lasciato una cesta di biancheria da sistemare dopo il bucato. 

Mi alzai svogliatamente dal letto e dal mio ripasso di chimica per percorrere il corridoio che mi separava dal soggiorno. L'acqua della doccia già scorreva in bagno, segno che mio padre stava rispettando la sua routine. Raggiunsi il soggiorno non troppo di corsa, individuando la cesta appoggiata su uno dei divani che arredavano il nostro living. Nel momento in cui mi chinai per afferrare i manici della cesta, un trillo mi interruppe. Poi un secondo ed un terzo. Individuai la sorgente di provenienza nel cellulare di mio padre, poggiato sulla spalliera del divano, collegato al caricatore perché tendeva a scaricarsi in continuazione, come ogni smartphone che si rispetti. 

I messaggi di WhatsApp comparvero sul display a pochi centimetri dal mio viso e qualcosa, in quella visione, mi disturbò. Due dei messaggi avevano come mittente un certo 'Amore'. Pensai fosse mia madre, dato che mio padre usava apostrofarla in quel modo. Ma ciò che mi sconvolse fu il messaggio seguente, il cui mittente era 'Angela'. 

Angela è il nome di mia madre. E Angela gli comunicava che avrebbe fatto tardi a lavoro, a causa di un'urgente riunione dell'ultimo minuto. Angela non era 'Amore', che invece usava un tono carezzevole per chiedergli se quel fine settimana sarebbe stato occupato. Angela non aveva usato la quantità sproporzionata di cuori di 'Amore', perché non era sua abitudine farlo. 

Mi alzai e mi posizionai di fronte al cellulare. Alzai gli occhi alla parete di fronte e rimasi a fissarla, anche se nella mia testa la parete non occupava neanche un centimetro di pensiero. Mio padre tradiva mia madre. Mio padre aveva qualcuno chiamato 'Amore' sulla sua rubrica che gli inviava messaggi con cuori rossi. Mio padre stava pianificando il fine settimana con qualcuno chiamato 'Amore' sulla sua rubrica. Eseguii quasi meccanicamente il compito impartitomi da mia madre, quello di mettere a posto la biancheria, mentre la mia mente militava in uno stato disastroso, si rifiutava di pensare ad alcunché se non alla corretta disposizione degli asciugamani nel settimino della camera da letto dei miei. Una volta finito, riposi la cesta nella lavanderia, chiusi la porta e tornai in camera. 

Nel frattempo la doccia continuava a far scorrere acqua e presero a scorrere anche i mei pensieri. Come aveva solamente potuto fare una cosa del genere? Da lì iniziai a capire il motivo per cui alcune sere rientrava tardi, troppo tardi, da lavoro, il motivo per cui sosteneva di avere importanti impegni di lavoro nel weekend o improrogabili riunioni a cui doveva partecipare obbligatoriamente. 

Incominciò a prendere piede nella mia mente la consapevolezza di aver avuto diversi indizi che non avevo saputo sfruttare: l'incuranza con cui si rapportava con mia madre alcune volte ed i regali totalmente fuori luogo in altre occasioni, come se volesse scusarsi implicitamente per il suo comportamento fraudolento. I trolley che il venerdì mattina comparivano nella sua macchina quando mi accompagnava a scuola; lui sosteneva fossero viaggi di lavoro nel weekend ed io, in quel momento, mi resi conto fossero ben altro. Da quanto tempo andava avanti quella storia? Mia madre aveva capito qualcosa o era all'oscuro di tutto? 

Iniziai a pensare troppo, alle conseguenze delle mie possibili rivelazioni, ad una mia dichiarazione in un'aula di tribunale, ai messaggi proiettati dagli avvocati, alle invettive e al gelido clima che si sarebbe creato in casa. Pensai a cosa avrebbe pensato la società benpensante del quartiere, alla parrocchia che frequentava mia madre tutti i venerdì, alle amicizie che avevano i miei nei club che frequentavano, amicizie di borghesi, perbenisti, amanti delle convenzioni sociali, delle apparenze e dei "valori familiari". Gli stessi che erano i genitori delle mie amiche più vicine, quelle che conoscevo da anni, quelle con cui facevo gli sleepover da piccola e gli scout. Le stesse "migliori amiche" che, se avessi detto loro solo qualcosa di quello che avevo visto, lo avrebbero spifferato incuranti alle loro madri e sarebbe finito in pasto alle loro voraci fauci, assetate di pettegolezzi, che non vedevano l'ora di rovinare la vita altrui e di fare la morale sugli errori degli altri perché tanto, i loro errori, chi li avrebbe mai scoperti? 

Dovevo tenere tutti i miei dubbi, le incertezze e le scoperte per me. I dolori di una famiglia che poteva andare in pezzi, di un matrimonio che dipendeva dalle mie parole, quelle parole con cui ero tanto brava, ma con cui avevo fatto un disastro poco tempo prima. Tutto poggiava sulle mie sottili spalle, già piene di ossessioni, già piene di difficoltà e problemi che non riuscivo a superare. 

Un altro pesante macigno si aggiungeva all'insicurezza e all'inettitudine; questo macigno era l'omertà. Avevo visto e non potevo parlare. Non potevo rivelarlo, ci sarebbero state troppe conseguenze ed io non potevo sopportare tutte quelle conseguenze. 

Seduta sul letto fissavo assente una pagina del quaderno di chimica, mentre la mia mente vorticava in un abisso senza ritorno, sempre più profondo e sempre più buio. Quando tornai a vederci chiaramente notai dei numeri in sequenza alla fine della pagina. Erano scritti a matita e non li avevo scritti io, non era la mia calligrafia. Era una grafia disordinata e lunga. 

Aggrottai le sopracciglia e notai subito sopra i numeri delle parole: "Quando vuoi studiamo insieme." Alzai di scatto gli occhi dalla pagina. Alessandro mi aveva dato il suo numero. Nessun ragazzo prima d'ora l'aveva mai fatto. Arrossii di colpo e mi morsi il labbro inferiore. Cosa avrei dovuto fare? 

Quel moto di imbarazzo e strane sensazioni piacevoli cessò quando il mio sguardo si fissò su una foto incorniciata appesa alla parete che ritraeva la mia snella figura da undicenne tra mio padre e mia madre, con mia sorella al mio fianco, ancora molto piccola. I miei pensieri tornarono alla disastrosa scoperta di pochi minuti prima. Mi passai una mano sulla fronte, i capelli ancora umidi per la pioggia ed il viso probabilmente ancora macchiato di nero. Dovevo tenere tutto per me. Dovevo mantenere lo stesso comportamento di sempre, dissimulare con tutti. Con la mia famiglia, con le mie amiche, a scuola... 

Quando tornai a posare gli occhi sul quaderno e sulla sequenza di numeri aggrottai le sopracciglia. Ritornai a guardare la foto e poi di nuovo quei tratti a matita. Nel momento in cui presi il cellulare dalla mia tasca e lo sbloccai probabilmente avevo staccato la spina al mio cervello. 

Ero in uno stato così nuovo, così pieno di problemi, fino all'orlo, che dovevo in qualche modo non pensare. E fu proprio frutto del mio 'non pensiero' quello che feci subito dopo: digitai quel numero come destinatario di un testo che recitava "Ho bisogno di te. Noemi"

Il secondo successivo all'invio del messaggio, quando l'adrenalina era sparita e avevo riattaccato la corrente che alimentava la mia coscienza, mi resi conto di ciò che era accaduto e della portata della mia azione. Avevo inviato un messaggio ad Alessandro. Gli avevo inviato quel messaggio dopo quello che era successo in biblioteca circa un'ora e mezzo prima. Avevo scritto che avevo bisogno di lui. Avevo instaurato un contatto con un ragazzo e l'avevo fatto di mia spontanea volontà. 

Ipotizzai, allora, che probabilmente il mondo sarebbe finito l'indomani e che era, irrimediabilmente e profondamente, tutta colpa mia.

 

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Salve a tutti, eccomi tornata di nuovo con Library Pictures!

Siamo arrivati ad una piccola svolta nella storia, non molto piccola perché in realtà questo sarà un nodo fondamentale: il tradimento del padre di Noemi. Come risolverà la cosa la ragazza? Lo scopriremo solo vivendo!

Nel frattempo vi voglio consigliare l'altra storia originale che sto scrivendo, a quattro mani con la mia BFF. La storia si chiama "Keglevich" (basta che cliccate sul titolo per accedervi direttamentee spero vi incuriosisca anche questa.

Grazie mille per le recensioni, le visualizzazioni, le seguite e le ricordate, mi fa tanto piacere ricevere dei pareri sui miei scritti! 
Come sempre fatemi sapere cosa ne pensate con tante recensioni anche stavolta. 

A presto,

 

Sara xo

 

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