L'INCUBO SONA

di revin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Buon compleanno Gwen ***
Capitolo 2: *** Sona ***
Capitolo 3: *** Addio Keath ***
Capitolo 4: *** Cruda realtà ***
Capitolo 5: *** Missione salvataggio ***



Capitolo 1
*** Buon compleanno Gwen ***


Era trascorsa una settimana da quando Michael e Lincoln erano partiti e da allora non avevo più avuto notizie da nessuno dei due.
Ero tornata nel New Jersey depressa e disperata come il presidente Roosevelt dopo essere stato informato dell’attacco dei giapponesi ai danni della flotta americana ancorata a Pearl Harbor.
Per giorni non avevo fatto altro che rimuginare sulla decisione presa di non partire insieme ai miei amici. Avevo cercato di farmene una ragione, avevo cercato di concentrarmi sui lati positivi che quella scelta avrebbe comportato ma per quanto m’impegnassi, non c’era stato verso di trovarne.
Keith era tornato a casa 24 ore dopo il mio arrivo a Newark. Non aveva sospettato nulla del mio viaggio a Chicago, né io avevo trovato il coraggio di parlargliene.

Le giornate all’improvviso si erano fatte tutte uguali. Non trovando la volontà di chiamare Michael per spiegargli quale contorto e insensato motivo mi avesse spinta a rimanere negli Stati Uniti, il mio nuovo passatempo preferito era diventato trascorrere pomeriggi interi in rete a caccia di aggiornamenti sugli ultimi evasi rimasti in circolazione.

Una notizia risalente alla prima settimana di giugno trattava la morte di Charles Patoshik, il detenuto della sezione psichiatrica di Fox River e anche ex compagno di cella di Michael, che inspiegabilmente aveva deciso di arrampicarsi su una torretta di controllo e di lanciarsi nel vuoto, sfracellandosi come un moscerino sul parabrezza. L’ex detenuto, la sera prima del suo folle gesto, aveva aggredito e assassinato una cinquantenne nella sua casa in un microscopico paesino a sud del Wisconsin. Anche questa volta si era occupato del caso l’infaticabile agente federale Alexander Mahone. L’uomo aveva dichiarato alla stampa di aver fatto del suo meglio per convincere Haywire a scendere dalla torretta e farsi arrestare, ma intanto il corpo del povero Charles aveva raggiunto quelli di Abruzzi e Tweener, aggiungendosi alla lunga lista di cadaveri disseminati in giro da quel farabutto in giacca e cravatta.

Nel frattempo, dopo le scottanti dichiarazioni rivelate dai due fratelli nel loro video mandato in onda da Canale 11, era partita un’indagine interna al Bureau contro Mahone. L’indagine aveva portato a galla insospettabili verità sul responsabile delle indagini relative alla cattura degli 8 di Fox River. Il corpo di Oscar Shales era stato ritrovato sepolto nel giardino di casa del poliziotto e immediatamente era stato emesso un mandato di cattura contro quest’ultimo, che purtroppo era riuscito a darsela a gambe, scomparendo dagli Stati Uniti prima di poter essere arrestato.

L’unica notizia positiva della settimana riguardava l’ex soldato C-Note Franklin che, secondo fonti attendibili, era riuscito a riconquistare la sua libertà e a farsi assegnare al programma di protezione testimoni, accettando di collaborare con l’FBI e testimoniare contro Mahone.
Alla fine, il più furbo si era rivelato proprio il caro C-Note. Si era aggiudicato una scala reale riconquistando famiglia, libertà e una parvenza di vita normale, e tutto in un colpo solo. Per lo meno, per qualcuno era finita bene. Ero felice per lui.

I giorni trascorrevano veloci e le notizie riguardanti gli evasi persero di interesse, riducendosi a sporadici trafiletti, relegati alle ultime pagine dei giornali. Senza accorgermene, il tempo era volato e il 15 Giugno comparve all’orizzonte, ricordandomi che anch’io avrei dovuto decidermi a vivere una parvenza di normalità. Non ero più a Fox River, la vita andava avanti e quel giorno compivo 25 anni. 
  • E’ bello riavervi entrambe qui a casa. Sembra che tutto sia tornato alla normalità, cominciavo a perderci le speranze.
Keith mi sorrise entusiasta. Sembrava davvero felice. Aveva organizzato il mio compleanno e costretto Meredith a tornare a casa per il fine settimana perché convinto che quel giorno dovesse rappresentare un nuovo inizio per tutti noi. Finalmente io ero fuori di prigione, Meredith era la prima del suo corso di Criminologia alla S. Diego State University e il pericolo Mahone sembrava essersi volatilizzato completamente dalle nostre vite. Per Keith doveva essere come il giorno di Natale e la festa del Ringraziamento messe insieme. Probabilmente lo sarebbe stato anche per me se, oltre a Keith e Meredith, avessi avuto accanto anche un’altra persona.

Michael. Chissà cosa stava facendo in quel momento.
Avevo cercato di fare del mio meglio per dimostrare un po’ d’entusiasmo di fronte a quel banchetto di compleanno, ai regali e a tutto il resto, ma quando il minuto di buon umore era finito, io ero tornata a chiudermi nuovamente in me stessa e quel compleanno era finito per risultare un disastro. La colpa era mia. Mi mancava terribilmente Michael. Avrei voluto trascorrere quel giorno insieme a lui, e sarebbe successo davvero se non avessi preso la stupida decisione di lasciarlo partire per Panama senza di me. Non è che non fossi felice di trascorrere una serata insieme al mio patrigno e Meredith, solo… non era la stessa cosa. 
  • Tu hai un vantaggio su di me.  -  mi disse improvvisamente Meredith mentre insieme ci stavamo occupando di rassettare la cucina, lavare i piatti e rimettere in ordine.
  • Ah si? E quale sarebbe?  -  chiesi svogliata.
  • Quando qualcosa non va, tu sai sempre come studiare una strategia per tirarmi su il morale, ma se qualcosa preoccupa te io non so mai come fare per aiutarti perché tu non parli con me.
Le passai i piatti asciutti perché li riponesse al loro posto.  -  Non è vero, io ti dico sempre tutto.
  • Se fosse così saprei perché la festa di stasera ha avuto lo stesso successo di un funerale del lunedì mattina, ti pare? Non so cosa ti stia succedendo e questo non mi piace. Parla con me, io potrei aiutarti.
Io non ci avrei giurato. All’improvviso, la persona con la quale ero sempre riuscita a confidarmi era come se si fosse trasformata in un’estranea.
  • Non mi succede nulla, Meredith.  -  mi avvicinai al frigo e presi una bottiglietta d’acqua per me.  -  Dovremmo andare a fare la spesa domattina, che ne dici? Questo frigo grida vendetta.
  • Stai sviando il discorso come al solito.  -  sbuffò, incrociando le braccia al petto.
  • Ti sbagli, guarda tu stessa.
Spalancai l’anta del frigorifero per mostrarle un pezzo di formaggio stantio conservato in carta d’alluminio e contenitori con dentro gli avanzi della serata, ma la ragazza mise il broncio e continuò a fissarmi scontenta.
Stavo per rifilarle una scusa qualsiasi che la convincesse a lasciarmi in pace ma fui interrotta da Keith che, dopo aver travolto la porta ed essersi voltato nella mia direzione, aveva esclamato:
  • Devi venire subito a vedere cosa sta succedendo. Presto!
Io e Meredith eravamo scattate senza farcelo ripetere, seguendo Keith in salotto dove la televisione accesa stava trasmettendo i fuori programma delle ultime notizie.
  • “Colpo di scena al processo contro la dottoressa Sara Tancredi accusata di favoreggiamento e concorso in evasione, oltre che di sottrazione alle autorità e mancata presenza in appello. La donna, discolpata da ogni accusa appena pochi minuti fa al tribunale di Chicago, è stata rilasciata grazie alle testimonianze shock di un personaggio inaspettato che avrebbe raccontato di aver avuto l’ordine di uccidere la dottoressa e il gruppo degli 8 evasi di Fox River da una compagnia di multinazionali americane a capo delle più alte sfere del governo, denominata la Compagnia. Ma mandiamo adesso in onda la confessione del testimone chiave al processo.”
Il servizio era partito immediatamente e una ripresa video dell’aula del tribunale dove si era tenuto il processo aveva mostrato sul banco dei testimoni Paul Kellerman, l’ex agente governativo che aveva lavorato per la Compagnia, decidendo in seguito di aiutarci a distruggere e ricattare Caroline Reynolds.
Con il consueto sorrisetto arrogante, Paul aveva raccontato per filo e per segno come Lincoln Burrows fosse stato incastrato da lui e dal lavoro dei tecnici della Compagnia che con maestria e minuziosa attenzione erano riusciti a far credere che ci fosse proprio lui dietro l’omicidio di Terrence Steadman, in realtà suicidatosi in un motel a 30 miglia da Blackfoot, nel Montana. Tutti i segreti della Compagnia erano stati finalmente svelati al mondo, gli intrighi del governo e il coinvolgimento di Caroline Reynolds resi noti e la piena innocenza di Lincoln e Sara, dichiarata pubblicamente. La testimonianza dell’ex agente della Compagnia, aveva permesso di fare luce su quella triste storia e riconoscere i veri colpevoli, ma aveva anche spinto le autorità ad occuparsi delle nuove scoperte e ritenere Paul Kellerman un complice del complotto governativo e un inevitabile capro espiatorio.
  • Oh mio Dio… Lincoln è libero… Lincoln è stato scagionato da ogni accusa…
Ero allibita. Dovetti avvicinare una sedia e mettermi seduta per evitare di stramazzare a terra, mentre percepivo un’ondata di sollievo scorrere impetuoso nel mio sangue. Mi sembrava quasi di essere sul punto di svenire.
  • Incredibile. Adesso che la colpevolezza della Reynolds è saltata fuori, anche le accuse che ti furono mosse tre mesi fa cadranno automaticamente.  -  esclamò Meredith.  -  Il governo dovrà riconoscere il suo errore e tu verrai scagionata da ogni accusa.
  • Non credo che sarà così semplice.  -  risposi, ancora piuttosto scombussolata.  -  Il governo sarà già abbastanza impegnato a dover riconoscere i danni fisici e morali comportati a Lincoln, Sara e probabilmente anche a Michael. Non penso proprio che vorrà preoccuparsi anche di una ragazzina finita dentro per un’accusa di diffamazione, la quarta per giunta. Tutto questo dimostrerà soltanto che Caroline Reynolds è colpevole e che il mio articolo postato mesi fa non era infamante, ma questo non cambierà le cose. L’espulsione dall’Albo è stata definitiva.
Sarebbe stato bello poter rimettere le cose apposto, riavere indietro tesserino e sogni, ma a dir la verità non me ne importava più niente della vendetta e di tutto il resto. Ne avevo passate così tante nelle ultime settimane che persino Fox River ormai mi sembrava lontana anni luce.
  • Al momento sono solo molto contenta per il mio amico Lincoln.  -  dissi sincera. Chissà se a Panama avevano già trasmesso la notizia.
  • Non avrei mai pensato che potesse esserci sotto una simile congiura. Dimmi la verità Gwen, tu sapevi dell’esistenza di questa Compagnia?  -  mi chiese Keith, parlando per la prima volta.
Riflettei un momento, valutando gli effetti devastanti che avrebbero comportato la mia decisione di raccontare tutta la verità e in un ventiquattresimo di secondo la risposta uscì dalla mia bocca senza che me ne rendessi conto.
  • Ne sento parlare adesso per la prima volta.
Quante altre bugie avrei dovuto raccontare a Keith prima di rendermi conto che stavo dando vita ad una vera e propria bomba nucleare? Dopo tutto quello che avevo combinato: aiutare 8 detenuti rinchiusi in un carcere di massima sicurezza ad evadere, minacciare il direttore del penitenziario e rischiare di essere nuovamente arrestata, avevo quasi perso per sempre la sua fiducia. Non me lo aveva detto espressamente ma sapevo che mi era stata concessa un’ultima possibilità, possibilità che certamente sarebbe andata in fumo se avessi raccontato del mio incontro con Lincoln a Los Angeles, del New Mexico e di tutto il resto. A quel punto avrei dovuto dirgli di essermi recata a Chicago mentre lui era a Pittsburgh, di aver aiutato Michael e Lincoln a scoprire le carte di un’organizzazione governativa che, secondo Kellerman, mi aveva tenuta d’occhio dal giorno in cui avevo messo piede negli Stati Uniti, e ovviamente avrei dovuto raccontargli di come mi fossi sentita persa e vulnerabile il giorno in cui avevo detto addio a Michael o di come ancora mi sentissi sbriciolare in pezzi ogni volta che pensavo a lui e a quanto sentissi la sua mancanza.
E alla fine cos’avrei ottenuto?
Soltanto il disprezzo di Keith, ecco cosa. Gli avevo fatto tante promesse che poi avevo infranto. Lo conoscevo bene e non avrebbe capito le mie scelte, né tanto meno il perché gli avessi mentito. Era meglio che le cose restassero com’erano. Avevo troppo da perdere per decidere così all’improvviso di farmi venire gli scrupoli di coscienza.

Quella sera stessa mi decisi a prendere il cellulare e chiamare Michael, non potevo più rimandare, non dopo tutto quello che era successo. Purtroppo non ottenni risposta. Lasciai diversi messaggi in segreteria e sul forum all’indirizzo e-mail che mi aveva lasciato quella volta in New Mexico, con la speranza che leggendoli o ascoltandoli potesse richiamarmi, ma non accadde. Sembrava che Michael si fosse completamente dimenticato di me, anche se in realtà ero molto più preoccupata che fosse successo qualcosa a Panama. Non riuscivo proprio a capire che fine avessero fatto i miei due amici.

La risposta arrivò in modo del tutto inaspettato quello stesso venerdì, mentre mi trovavo come al solito in casa, cercando di far passare più velocemente il tempo guardando la tv. Dopo 40 minuti di tortura forzata e sbadigli intermittenti di fronte a Law & Order, mi decisi a spegnere il televisore e salire nella mia stanza per riattivare almeno la circolazione nelle gambe e magari, con un po’ di fortuna, anche del mio cervello che sembrava essersi trasferito definitivamente in modalità ibernazione.

Avevo appena superato i primi dieci gradini quando sentii la suoneria del mio cellulare rimasto in camera, suonare all’impazzata. Il ritmo di Infinite Legend dei Two Steps From Hell mi convinse ad accelerare il passo per non perdere la chiamata che, come appurai pochi secondi dopo, proveniva da un numero anonimo. Risposi ugualmente.
  • Pronto.
  • Sawyer…
 Bastò un ventiquattresimo di secondo per riconoscere l’identità dell’interlocutore all’altro capo del telefono. Quasi non volevo crederci.
  • Linc...
  • Ciao piccola delinquente.

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Capitolo 2
*** Sona ***


  • Lincoln...
  • E' bello sentirti.  -  disse il mio amico sollevato, mentre sentivo improvvisamente sgretolarsi uno degli infiniti massi accumulati in quei giorni nel mio petto.
  • Io… io ho provato a contattarvi, credo di averci provato per 4 giorni di fila… Avete saputo le novità? Lincoln, sei un uomo libero, sei stato scagionato. Kellerman ha…
  • Si, si abbiamo saputo. E’ fantastico.  -  rispose in tono tutt’altro che entusiasto.
  • Beh… come va? Com’è Panama?
Stavo cercando il più possibile di suonare cordiale al telefono, ma in realtà ero impaziente. Avevo lo stomaco chiuso e una gran voglia di svuotare il cervello da tutte le centinaia di domande che mi vorticavano in testa. Iniziare con qualche domanda semplice mi sembrò la mossa più azzeccata, ma all’altro capo il mio amico non rispose. 
  • Linc, sei ancora lì?
  • Si.
  • Che cosa c’è? Va tutto bene?
Pausa.
  • Linc...
  • Si.
Rieccola quella sensazione inquietante, quel brutto presentimento che era diventato tanto familiare. Non avevo bisogno di avere il mio amico davanti per capire che dovesse dire qualcosa e che non riuscisse a trovare il coraggio per farlo.
  • Sei sicuro che vada tutto bene?  -  Nessuna risposta.  -  Lincoln!!!
  • No, sono nei guai fino al collo.  -  disse tutto d’un fiato.
  • Ma… sei stato appena scagionato da tutte le accuse che ti erano state mosse… che significa che sei nei guai? Dov’è Michael?  -  Di nuovo silenzio. Si stava proprio impegnando a tenermi sui carboni ardenti.  -  Linc, parla ti scongiuro, così rischio l’infarto. Dimmi di Michael. Sta bene?
Sospirò.  -  Lui sta bene, ma non è qui adesso.
  • E allora dov’è?
  • Io…  -  sospirò di nuovo.  -  …Sawyer, ho bisogno del tuo aiuto. Non avrei dovuto chiamarti e ti giuro che non era mia intenzione coinvolgerti nuovamente nel casino totale che è la mia vita, ma… non posso farcela da solo. Io non sono come Michael, non sono razionale come lui. Sono nel pallone, non so cosa fare.
Anche se non potevo vederlo, riuscivo ad immaginare benissimo l’espressione che doveva avere in quel momento. Avevo imparato a conoscerlo in quei mesi. Lincoln non era il tipo d’uomo che si lasciava prendere dal panico. Se stava chiedendo il mio aiuto poteva significare soltanto due cose: la prima, che era davvero nei guai fino al collo e la seconda, che Michael per qualche motivo non era insieme a lui.
Doveva essergli successo qualcosa, se non per quale altro motivo avrebbero dovuto tremarmi le ginocchia? Ovviamente riuscivo a pensare solo al peggio. 
  • Ok Lincoln, adesso piantala di blaterare, fa un bel respiro e dimmi cos’è successo a Michael.
  • La polizia panamense lo ha preso e portato in un posto chiamato Sona. E’ un posto strano, dentro non ci sono guardie, non c’è vigilanza, solo brutti ceffi e cadaveri in avanzato stato di decomposizione che continuano ad uscire da quel posto.  -  Lincoln aveva dato il via alla parlantina, ma come volevasi dimostrare era ancora molto agitato e io feci non poco sforzo per seguirlo.  -  Dopo che Michael è stato portato lì, mi sono recato all’Ambasciata per capire cosa fosse successo e ho chiesto che venisse trasferito da quel posto. Mi hanno detto che ci avrebbero pensato loro e che nel giro di 24 ore Michael sarebbe stato trasferito, invece non è successo niente, mio fratello è ancora lì e per giunta non me lo fanno vedere… Gwyneth, non sono ancora riuscito a parlargli e non so cos’altro fare… e non capisco una parola di spagnolo…
  • Va bene, ma sta calmo. Respira e fammi un favore, siediti.  -  dissi, afferrando il mio portatile per sistemarmi sul letto e dare inizio alla ricerca.
  • Sono già seduto.  -  sbuffò lui all’altro capo.
  • Meglio così. 
Innanzitutto dovevo farmi un’idea del posto in cui era stato rinchiuso Michael. Trovai quello che stavo cercando in un batter d’occhio, ma purtroppo nessuna di quelle informazioni proposte sul web riuscì a rincuorarmi e di certo non avrebbero aiutato Lincoln a calmarsi.
  • Scommetto che a Michael adesso manca tanto Fox River.  -  mormorai con sottile sarcasmo.
  • Cos’hai scoperto?
  • Si tratta di una prigione federale gestita dai detenuti. Un anno fa le guardie furono cacciate nel perimetro esterno della prigione, in seguito ad una rivolta… bla bla bla… spiega più o meno cosa accadde un anno fa, qualcosa di molto simile a ciò che accadde a Fox River durante la rivolta nel Braccio A, con la differenza che a Sona hanno decisamente avuto la meglio i detenuti… Mmm… brutta storia, qui dice che attualmente all’interno della prigione sono presenti detenuti che altre carceri si sono rifiutati di prendere perché troppo violenti o problematici. Vi è riportato qualche nome e posso assicurarti che si tratta dei tipi più loschi che io abbia mai letto in qualunque altro curriculum statale… Gli unici punti in cui sono presenti degli ufficiali, a parte nel perimetro esterno come ti dicevo, sono le torrette, il che non lo rende di certo il carcere più sorvegliato al mondo, bensì il più pericoloso. Ecco un bel posto dove manderei in vacanza perenne quel pervertito di T-Bag.  -  commentai tra me mentre Lincoln, sempre in ascolto, sospirava e imprecava di tanto in tanto.   -  Direi che è tutto, il resto non ci interessa. Qui c’è qualcosa sulla storia di Sona, quando venne edificata, condizioni igienico – sanitarie pressoché inesistenti… il più alto tasso di criminalità e morte e… oh, questo è interessante.
  • Cosa?
  • Secondo questo post, il carcere di Sona è attualmente gestito da un gruppo di uomini che amministrano a modo loro la giustizia e che hanno messo a punto delle regole per risolvere le faide tra i detenuti ed evitare che si arrivi a scatenare nuove rivolte.   
  • Comincio a capire perché in due giorni ho visto uscire da quel posto tanti cadaveri. Tentativi di evasione?
  • A centinaia,  -  risposi leggendo ciò che via via riuscivo a trovare.  -  ma tutti sventati e conclusisi con la morte dei malcapitati. Adesso, perlomeno, capisco l’utilità delle guardie nelle torrette. Direi che Michael è finito proprio in un gran brutto posto. Come ha fatto a farsi ribeccare e tornare dentro? Non avevate detto che una volta arrivati a Panama sareste stati al sicuro?
Dall’altra parte percepii un grugnito amareggiato.  -  Panama sembrava la soluzione a tutto. Avevamo tutto il necessario per ricominciare: una barca, un piano e poi eravamo insieme, finché quei farabutti di Mahone e T-Bag non hanno mandato tutto a puttane.
  • Che c’entrano Mahone e T-Bag?
  • E’ una storia lunga.
  • Beh spiegamela.  -  esclamai perentoria.  -  Me lo devi, visto che tu e tuo fratello siete partiti senza farmi avere più notizie. Hai idea di quanto sia stata in pensiero per voi in questi giorni? Io ho rischiato di finire di nuovo dentro per venire ad aiutarvi contro la Compagnia. Mi aspettavo almeno una telefonata!
  • Tu ti aspettavi una telefonata?  -  sbottò furioso.  -  Da quando ho messo piede qui a Panama sono stato preso a pugni, ammanettato ad un palo, sparato addosso, e quando credevo che fosse finalmente finita per il meglio, Michael è stato catturato. Non ho la minima idea di come tirarlo fuori, ma ho persino dovuto chiamare l’unica persona che mio fratello voleva tenere al sicuro e chiederle aiuto. Quando Michael lo scoprirà non ne sarà affatto felice. Ti sembra che io abbia avuto tempo da perdere per starmene in panciolle e farti una dannata telefonata?
Ma bene, rieccolo il vecchio Lincoln deciso e irriverente come al solito. Ero felice che almeno ad uno di noi due quella telefonata avesse giovato. 
  • Beh, grazie tante per esserti ricordato di me nel momento del bisogno.  -  bofonchiai, fingendomi offesa.
  • Non ricordarmelo, ti prego. Gwen seriamente, non so che cosa fare.
In quel momento avevo la sensazione che a separarci fosse solo un alito di vento.
  • Vedrai che Michael troverà un modo per uscire da quel posto.  -  cercai di rassicurare lui e me stessa.  -  E’ riuscito a tirare fuori 7 galeotti da una prigione di massima sicurezza. Andrà bene anche questa volta, vedrai.
  • Non sono tranquillo. Non è solo perché quel posto è pericoloso. Il fatto è che a Sona c’è anche quel dannato Mahone.
La notizia giunse del tutto inaspettata.  -  Mahone è stato arrestato? Per cosa?
  • Per droga… lascia perdere, anche questa è una lunga storia. Mi fido poco a sapere Michael rinchiuso in quel posto insieme a Mahone. Quell’uomo è pericoloso, è o era in combutta con la Compagnia che ci sta ancora dando la caccia. L’idea di starmene con le mani in mano mi sta uccidendo.
Comprendevo benissimo il suo stato d’animo. Più quelle informazioni arrivavano al mio cervello, più il mio corpo fremeva per agire.
  • Non capisco perché la Compagnia vi stia ancora col fiato sul collo. Tu ormai sei stato riconosciuto innocente e grazie a Kellerman tutta la verità sulla Compagnia è venuta a galla. Che vantaggio trarrebbero ora come ora dalla vostra morte?
La fiera dei sospiri si ripropose per l’ennesima volta.  -  Non ne ho idea.
  • Ehi, non abbatterti, sono sicura che si risolverà ogni cosa. Adesso torna all’Ambasciata e chiedi di parlare direttamente con il console, poi chiedigli di far trasferire Michael in un’altra struttura detentiva e racconta come sono andati realmente i fatti. Vedrai che ti ascolteranno. In caso contrario, minacciali, appellati a qualche articolo sconosciuto sulla tutela del detenuto in attesa di giudizio, insomma, inventati qualcosa e chiedi soprattutto che ti venga permesso di vedere tuo fratello. Devi essere convincente.
  • Sono stato più che convincente.  -  si difese punto sul vivo.
  • Allora dovrai esserlo di più. Devi solo resistere per un altro giorno, finché non sarò lì. Ho appena prenotato on line un biglietto di sola andata per Panama. Sarò da te domani pomeriggio, anzi, ti dispiacerebbe venirmi a prendere in aeroporto?
Il silenzio che seguì parve eterno.  -  Scusa… cos’hai fatto?
  • Ho prenotato un volo per Panama non rimborsabile perciò, prima che inizi ad elencarmi gli innumerevoli motivi per cui dovrei restarmene a casa e non farmi coinvolgere, voglio ricordarti che stiamo parlando di Michael. Non lascerò che resti in un posto col più alto tasso di mortalità della storia, quindi se hai intenzione di dissuadermi da…
  • Non ho intenzione di dissuaderti, sta tranquilla.  -  bofonchiò come se quell’ammissione gli costasse uno sforzo enorme.  -  Penso che sia pericoloso e che questa decisione non porterà altro che guai, a te e a me, ma… per quanto odi ammetterlo, ho bisogno del tuo aiuto per tirare fuori mio fratello da quel posto. Non posso farcela da solo.
  • Bene. Siamo d’accordo per una volta.
  • Michael questa volta mi farà fuori!  -  sbuffò sarcastico.
  • Arrivo in aeroporto domani pomeriggio intorno alle 16. Linc, non farmi aspettare.
Lo immaginavo mentre alzava gli occhi al cielo e sbuffava.
  • Ci sarò, non preoccuparti, e… Sawyer…
  • Si…
  • Grazie per esserti proposta di venire ad aiutarci. Non avrei mai osato chiedertelo, ma ci speravo.
Sorrisi al pensiero di poter riabbracciare il mio amico e rivedere Michael.  -  Prego.

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Capitolo 3
*** Addio Keath ***


Il piano era molto semplice ed era stato congeniato attentamente.
Dato che il mio volo era stato fissato per la mattina seguente e che per nessunissima ragione al mondo Keith e Meredith avrebbero dovuto sospettare delle mie intenzioni prima che fossi partita, avrei preparato il borsone quella sera stessa e sarei uscita di casa prima della mezzanotte, quando ero sicura non avrei trovato nessuno.

Meredith avrebbe trascorso la notte dal suo nuovo ragazzo e Keith sarebbe dovuto rincasare sul tardi, come d'altronde faceva ormai da giorni a causa di quel nuovo caso a cui stava lavorando.

Dovevo solo ricordarmi di scrivergli un biglietto prima di andare via. Gli avrei scritto che ero mortificata di aver deciso così all’improvviso di partire, ma che ci avevo riflettuto attentamente e alla fine avevo preso la decisione di tornare in California per riprendere gli studi.
Naturalmente Keith si sarebbe arrabbiato molto leggendo quel biglietto. Il giorno dopo avrebbe chiamato per rimproverarmi di essere una stupida impulsiva e di essere partita senza nemmeno salutarlo, ma ero certa che l’avrebbe bevuta. Non era la prima volta che facevo le valigie e partivo senza avvisarlo, ma non ero mai sgattaiolata via in piena notte per non doverlo affrontare o essere costretta a rispondere alle sue domande.

Alle 22 in punto salii in camera mia per preparare tutto l’occorrente da portare con me in viaggio. Non andavo certo a Panama per godermi le vacanze, quindi avrei potuto risparmiarmi la fatica di caricarmi come un mulo da soma, ma mentre riempivo il borsone mi resi conto che, anche volendosi accontentare del minimo indispensabile, avrei finito ugualmente per riempire a tappo una valigia e uno zaino. Rinunciare a qualche vestito non era un problema, ma per nulla al mondo avrei rinunciato al mio portatile e alla mia piastra per capelli.

Nel giro di mezz’ora avevo già radunato tutto ciò che serviva. Ero pronta. Dovevo soltanto scrivere un biglietto a Keith, recuperare la borsa al piano di sotto e partire, ma qualcosa nel mio piano non andò esattamente come mi ero aspettata.

All’improvviso, la voce di Meredith a pochi passi dalla mia stanza mi fece trasalire e sopraffare dal panico.
 
“Merda, merda, merda”.
 
Avevo dato per scontato che non sarebbe rincasata prima della mattina seguente. Che diavolo faceva già di ritorno? Ormai non avevo neanche più il tempo di nascondere borsone e zaino. La ragazza era già dietro la porta. 
  • Ah eccoti. Non hai sentito che ti chiamavo?  -  esclamò, entrando senza fare complimenti.
Impossibile tentare di far finta di niente e sperare che non notasse il borsone ancora aperto sul mio letto. Ero appena stata colta in flagrante, per giunta con l’espressione della colpevole colta sul fatto.
 
La ragazza lanciò un’occhiata al borsone.  -  Che cosa fai?
 
“Bella domanda”. E adesso? Non avevo studiato un piano di riserva nel caso di venir scoperta prima della mia partenza, avevo contato sul fatto che al loro ritorno Keith e Meredith semplicemente non mi avrebbero trovata più lì.
  • Ti riferisci a questo?  -  dissi, indicando il borsone mentre tentavo di mettere insieme una spiegazione convincente.
  • Stai facendo le valigie?  -  chiese osservandomi confusa.
“Ottima osservazione”.  -  Si.
  • Ehi, so che è tardi ma ho comprato la cena…  -  disse Keith, entrando in quel preciso momento nella stanza con un cartone famiglia di pizza gigante.  -  … Ah siete qui. Che succede?
  • Indovina un po’, Gwen sta partendo!  -  esclamò Meredith, sottolineando l’imbarazzante evidenza.
“Merda, merda e ancora merda!” Neanche a farlo apposta sarei potuta essere più sfortunata di così.
Keith appoggiò il cartone di pizza sulla mia scrivania all’angolo, prima di squadrare a lungo il borsone aperto sul mio letto.
  • Che significa che stai partendo? Sei appena tornata.
  • Già… in effetti volevo dirtelo… ho pensato che cambiare aria per un po’ non potrà farmi che bene.
Keith e Meredith mi lanciarono lo stesso sguardo poco convinto e per diversi secondi non proferirono parola.
  • Mi sembra un tantino presto per ripartire, credevo che volessi prenderti una pausa e comunque è tardi. Dove vorresti andare?
Ero pronta. Sapevo esattamente cosa rispondere a quella domanda. Il mio piano di lasciare un bigliettino e svignarmela era fallito, ma avevo comunque una buona scusa per poterne uscire a testa alta. Dovevo solo tramutare in parole quello che avrei voluto scrivere a Keith su carta. Niente di più facile: “Keith, ho deciso di tornare a Los Angeles per riprendere gli studi”. Dovevo solo dirlo, solo pronunciare quelle 12 parole, ma non ci riuscii. Non potevo raccontargli l’ennesima bugia.

Il mio patrigno era ancora in attesa di una risposta. A disagio, non riuscii più a sostenere il suo sguardo e abbassai il mio in una muta ammissione di colpa. 
  • Ti ho fatto una domanda, Gwen.
  • Lo so, ma non ti piacerà la risposta.
  • Basta che tu mi dica la verità.
Si sbagliava. Questa volta la verità non sarebbe bastata.
  • Vado a Panama, Keith. Ho prenotato un volo diretto proprio oggi.  -  dissi tutto d’un fiato.  -  Lincoln Burrows mi ha chiamata stamattina. Si trova a Panama anche lui, insieme a suo fratello che è stato arrestato qualche giorno fa e portato in un carcere dalla pessima reputazione chiamato Sona. Secondo Lincoln non è prudente che Michael resti in quel posto, così è andato all’Ambasciata per chiedere che venisse trasferito. Il problema è che non gli hanno ancora permesso di vederlo, così Lincoln mi ha telefonato per avere un consiglio e… siccome sono preoccupata anch’io e penso che Michael sia stato arrestato con troppa leggerezza, gli ho promesso che lo avrei raggiunto per aiutarlo.
Avevo tirato fuori quella spiegazione così velocemente che temetti di dover ripetere tutto daccapo, ma né Keith né sua figlia mi chiesero di ricapitolare.
Per alcuni secondi la stanza precipitò in un silenzio così pregnante da permettermi di sentir volare persino una mosca in corridoio. Attesi che uno dei due parlasse e quando il colorito del mio patrigno cominciò ad assumere tonalità porpora, all’improvviso mi resi conto che non ne sarebbe uscito niente di buono.
  • E cosa… cosa si aspetta che tu faccia una volta arrivata a Panama?
  • Lincoln non si aspetta niente, sono stata io a propormi. Ho pensato che una volta lì potrei recarmi di persona all’Ambasciata per convincerli a fargli almeno incontrare suo fratello, dopodiché mi…
  • Credevo che avessimo messo una pietra sopra a questa storia.  -  ribatté torvo, reagendo esattamente come avevo temuto che facesse.
  • Lincoln e Michael sono in difficoltà.
  • Sono degli evasi!  -  ruggì cupo senza cambiare espressione.
  • Sono innocenti. Lincoln è stato scagionato da ogni accusa e adesso sta cercando di aiutare anche suo fratello che è vittima come lui del doppiogioco della Compagnia.
  • Ma se vuole aiutare suo fratello perché ha chiamato proprio te? Spiegami perché un uomo che è evaso da una prigione di massima sicurezza mesi fa, pensi proprio a te nel momento del bisogno. Come fa ad avere il tuo numero?
Respirai a fondo e attraversai la stanza per coprire la distanza che ci separava, mantenendo comunque quella di sicurezza. Il fuoco nero che leggevo nei suoi occhi pretendeva totale sincerità.
  • Sono stata io a darglielo… in realtà l’ho dato a Michael qualche settimana fa, dopo… dopo essere andata ad incontrarlo nel New Mexico insieme a Lincoln.  -  Keith continuò a fissarmi come se non mi avesse mai guardata prima. Sotto la luce cruda della lampada, gli occhi erano in ombra e la mascella rigida.  -  So che questa cosa ti fa arrabbiare. Ti avevo promesso che ci avrei dato un taglio con tutta questa faccenda e ti giuro che ci ho provato, ma poi è saltata fuori la storia della cospirazione governativa e della Compagnia…
  • Quindi hai deciso di prendermi in giro e volare in California per andare ad incontrare quegli evasi.
  • No Keith, te lo giuro. Sono andata in California perché volevo ricominciare. E’ stato Lincoln a rintracciarmi. Sapeva il giorno in cui sarei stata scarcerata e sapeva che studiavo alla UCLA di Los Angeles, così è riuscito a rintracciare il mio indirizzo e mi ha trovata. Era in difficoltà, la polizia e gli uomini della Compagnia lo stavano braccando. Aveva bisogno di aiuto per varcare il confine e raggiungere suo fratello in New Mexico, per questo è venuto da me.
  • E tu l’hai accolto a braccia aperte? Che cosa sarebbe successo se la polizia vi avesse fermati e ti avesse trovata insieme a loro? Eri appena uscita di prigione. Come… come ti è venuto in mente di fare una cosa così stupida e pericolosa? Non hai pensato a noi?
  • Keith…
La situazione stava precipitando e io non avevo la minima idea di come fermare il cataclisma che di lì a poco si sarebbe abbattuto su di noi.
  • Forse a te potrà importare poco della tua incolumità, ma invece a me importa. Se ti fosse accaduto qualcosa come avrei dovuto reagire? Io ero sicuro che tu fossi in California, mentre tu te ne andavi a spasso per il New Mexico, e per giunta insieme ad un gruppo di criminali che tu stessa hai contribuito a rimettere in libertà e non me ne importa un accidenti se quel Burrows è stato scagionato da ogni accusa o se gli consegneranno il Nobel per la pace…
  • Keith ti prego…
  • Mi hai disobbedito. Ti avevo chiesto di piantarla con quel dannato galeotto e la sua sfilza di guai, ma tu no, e quello che mi fa davvero infuriare è che mi hai mentito!  -  Parlava come fosse impegnato in un monologo, senza staccare gli occhi dai miei, gonfi e angosciati.  -  Non solo hai continuato a fare i tuoi comodi, ma sei addirittura arrivata a ricattare Henry e ad aiutare quei delinquenti ad evadere, rischiando di farti condannare per favoreggiamento… Dio Gwyneth, io ho cercato di mettermi nei tuoi panni, ho cercato di venirti incontro, ho chiuso non uno ma entrambi gli occhi quando mi hai confessato di esserti lasciata coinvolgere nell’evasione… ho persino creduto che fosse colpa mia.
A sentirgli pronunciare quelle parole, le lacrime cominciarono a sgorgare da sole, senza controllo. Ecco perché avevo fatto di tutto per lasciare Keith fuori da quella storia. Lui non era responsabile di ciò che mi era successo, non era responsabile del fatto che fossi finita in carcere, non volevo che si sentisse in colpa. Lui era tutta la mia famiglia, era una delle persone più importanti della mia vita, così come importanti erano diventati anche Lincoln e Michael. Non volevo rinunciare a nessuno di loro.
  • Ti prego Keith, stammi a sentire.  -  lo supplicai singhiozzando.
Mi ignorò categoricamente.  -  Te l’avevo detto che continuare con la storia della Reynolds ti avrebbe solo portato guai.  -  continuò imperterrito.  -  Ti avevo chiesto di tornare a casa con me, ma tu no, sei voluta restare a Chicago e sei finita in prigione. Ti avevo chiesto di smetterla con quel delinquente, ma come al solito da un orecchio ti è entrato e dall’altro ti è uscito e alla fine, ti ho soltanto chiesto di smetterla di correre dietro agli evasi. Non mi pare di avere chiesto tanto. E tu che cosa hai fatto? Alla prima occasione sei partita alla volta del New Mexico, fregandotene di me e delle promesse che mi avevi fatto. Tanto quel povero idiota di Keith Sawyer era dall’altra parte dello stato a preoccuparsi per te e a fidarsi.
 
Non avevo saputo cosa replicare, avevo solo continuato a singhiozzare senza ritegno. Non meritavo il suo perdono, ecco la verità. Gli avevo fatto una promessa che per ben due volte avevo infranto. Persino Meredith era rimasta a fissarmi in silenzio per tutto il tempo con l’espressione di chi si era sentita tradita, ingannata. Per questo non se n’era ancora uscita con una delle sue battutine spiritose, così efficaci quando arrivava il momento di smorzare i toni.
  • Mi dispiace tanto. E’ vero, a volte… spesso non rifletto sulle conseguenze delle mie azioni perché sono impulsiva e testarda, ma io non ti ho affatto mentito perché non ti rispetto, Keith. 
Continuavo ad asciugarmi le lacrime che mi bagnavano il viso, sentendomi uno straccio. Volevo disperatamente che Keith e Meredith credessero alle mie parole e capissero perché quella faccenda fosse così importante per me. 
  • Sapevo che eri contrario e non volevo perdere la tua fiducia, per questo non te l’ho detto… scusami… Tu e Meredith siete molto importanti per me, molto, molto importanti ma la verità è che…  -  Con il dorso della mano asciugai gli ultimi residui di lacrime, ritrovando il controllo.  -  … la verità è che esistono delle persone ugualmente importanti per me e adesso loro hanno bisogno che io vada a Panama.
L’uomo, fino a quel momento rimasto immobile con il viso che sembrava fosse stato scolpito nella roccia, ammutolì di colpo e per diversi secondi, prima di parlare nuovamente, restò ad occhi chiusi con le narici chiuse nella mano destra.
  • E’ uno scherzo, vero? Non stai dicendo sul serio.
  • Si invece.  -  risposi ad occhi bassi.
Per la prima volta Meredith s’intromise, cercando di far calmare suo padre, ma non ci riuscì. Keith cominciò seriamente ad alzare la voce.
  • Non puoi dire sul serio, tu stai parlando di un gruppo di manigoldi che hai conosciuto in carcere, Gwyneth. Capisco che tu gli sia riconoscente per averti aiutata e difesa quando eravate a Fox River, ma adesso basta. Quel Lincoln Burrows sarà anche stato scagionato da ogni accusa, ma suo fratello è e resta un evaso.
  • Michael è innocente come Lincoln.
  • Non m’interessa. Non andrai a Panama!  -  replicò secco.
La tensione cominciava a farsi palpabile.
  • Non me lo puoi impedire.
  • Si invece, questa è casa mia e posso obbligarti a restare in casa finché non avrai recuperato la ragione!
Non potevo credere a quello che stava succedendo. Ok, immaginavo che Keith avrebbe preso male la mia confessione e mi odiavo per averlo deluso, ma mai e poi mai avrei pensato che quella discussione prendesse una simile piega. Quella non era una semplice lite, l’uomo sembrava seriamente intenzionato a non lasciarmi uscire di casa e io avevo un aereo da prendere.
  • Adesso basta, smettetela di litigare. Papà, Gwen, ne possiamo parlare con calma?  -  intervenì Meredith, intromettendosi per la seconda volta.
Né io né Keith le demmo retta. Al momento stavamo disputando una vera e propria battaglia di sguardi e nessuno dei due aveva ancora avuto la meglio.
  • Keith, non farmi questo. Ho già deciso, partirò stasera.  -  dissi perentoria.
  • Dovessi incatenarti al letto, tu non uscirai da questa stanza.  -  replicò con lo stesso tono e la stessa decisione.
  • E che cosa vorresti fare? Rinchiudermi in casa, sequestrarmi il cellulare e sorvegliarmi a vista? Non ti va giù il fatto che io voglia scapparmene a Panama, invece che restarmene intrappolata in questo buco. L’unico motivo per cui ho accettato di vivere qui è stato per te, ma non ho alcuna intenzione di continuare a restare in un posto dove le uniche cose interessanti sono gli scandali delle facoltose famiglie di Newark e le liti tra tua figlia e i suoi numerosi fidanzati.  -  Erano le parole più crude che gli avessi mai rivolto.
  • Non mi piegherai con queste stupidaggini Gwyneth, rassegnati. Resterai dove io ho deciso che tu stia: qui a Newark.
  • Non avere la presunzione di pensare che mi piaccia stare qui, io odio Newark!
L’uomo sorrise sardonico, per niente toccato dalle mie parole.  -  Oh, non mi illudo affatto che possa bastarti. Tu non sei come gli altri, sei una ragazza fuori dal comune. Il mondo intero ti sembrerebbe un posto troppo piccolo per poterti contenere, questo lo so e infatti se volessi trasferirti a Panama per qualunque altro motivo, non avrei nulla da ridire come non ho mai avuto nulla da ridire quando sei andata e tornata a tuo piacimento…  -  All’improvviso affilò lo sguardo e mi puntò un dito contro.  -  … ma non ti perdonerò mai per avermi preso in giro. Tu sapevi che non avrei mai acconsentito che tu partissi con quell’energumeno alla volta del New Mexico!
  • Te l’ho già detto, non potevo tirarmi indietro.  -  gridai ormai esasperata.
  • Perché?! Perché non potevi tirarti indietro? Nessuno ti stava puntando una pistola alla testa, nessuno ti stava obbligando a partire. Perché sei andata ad incontrare quel delinquente in New Mexico, Gwyneth, dimmi perché!!!
  • Perché lo amo!!  -  urlai, alzando la voce così da poter coprire le grida di Keith.  -  Lo amo, ok?! Sono innamorata di Michael Scofiled e non ci posso fare niente.
Un groviglio di sentimenti si dipinse in quell’istante sul volto del mio patrigno: stupore, furore, preoccupazione. Come se avessi appena sganciato una bomba al centro della stanza, sia Keith che sua figlia continuarono a fissarmi increduli.
Non riuscivo a credere di aver appena ammesso di amare Michael di fronte a loro. Era già stato difficile per Keith digerire che io volessi a tutti i costi salvare i due fratelli e non avevo idea di come avrebbe reagito di fronte alla notizia che mi fossi innamorata di uno dei due. Date le premesse, non avrei dovuto aspettarmi un abbraccio e delle congratulazioni.
  • Mi dispiace.  -  dissi senza guardare nessuno.  -  Non potete capire quanto Michael sia importante per me. Non posso e non voglio restare lontana da lui un attimo di più, soprattutto adesso che ha bisogno di me.
A quel punto credevo che la battaglia verbale fosse finita. Avevo affondato colpi su colpi confessando la cruda realtà, eppure ero certa che di noi 3 chi avesse accumulato più ferite fossi stata io. Ne sarei uscita sconfitta, in un modo o nell’altro.
Senza perdere altro tempo, presi lo zaino appoggiato accanto all’armadio, a terra, e lo infilai in spalla prima di voltarmi verso la porta dove Keith, ancora fermo e incredulo, continuava a fissarmi. Mi fermai a pochi passi da lui, aspettando che si spostasse e mi lasciasse passare. L’uomo distolse lo sguardo e fece un passo di lato perché avessi il passaggio libero. In silenzio uscii dalla stanza e scesi lentamente le scale, ma quando arrivai al pianerottolo accanto all’ingresso mi ricordai del borsone che avevo lasciato sopra il letto e mi voltai nuovamente verso le scale. Keith e Meredith erano lì. Non ebbi il coraggio di tornare nella mia stanza, non se questo avrebbe significato affrontare un altro scontro all’ultimo sangue.

Ormai ero sulla porta. Cellulare e portatile erano nello zaino, insieme ad un cambio di vestiti d’emergenza. Nella borsa appesa all’ingresso c’erano il portafogli con soldi e documenti e i mie farmaci. C’era soltanto un’ultima cosa che mancava. Per arrivare all’aeroporto avevo bisogno dell’auto. Non potevo andarmene in giro a piedi in piena notte. Sul solito piatto in ceramica accanto alle camelie finte trovai il mazzo di chiavi dell’auto di Meredith, le afferrai e mi voltai un’ultima volta verso le scale.

Keith e Meredith erano ancora lì. Avevo la sensazione di voltare le spalle alla mia famiglia per la seconda volta. Non avrei mai voluto che le cose andassero in quel modo.
Prima che potessi voltarmi e andare via, Keith mi richiamò per bloccarmi. 
  • Se esci da quella porta, puoi anche non disturbarti a tornare Gwyneth.
Gli rivolsi un’espressione sconcertata.  -  Non dici sul serio.
 
No, Keith non avrebbe mai e poi mai pronunciato quelle parole, non l’uomo che credevo di conoscere.
  • Al tuo posto non ci scommetterei.  -  rispose con voce piatta.
  • Papà, ma che dici?!  -  replicò Meredith sgomenta.  -  Ma non vi accorgete di cosa sta succedendo? Vi prego, parliamone con calma.
Senza badare alle suppliche della mia adorata sorellina, continuai a fissare l’uomo in cima alle scale, pietrificata.
  • Mi stai davvero ricattando?
  • Sei tu che mi hai portato a questo. Credevo fosse il tuo gioco preferito, tutto è lecito per ottenere ciò che si vuole e come vedi anch’io sono bravo ad usare trucchetti efficaci. Se per impedirti di commettere l’errore più grosso della tua vita devo arrivare a ricattarti, stai pur certa che lo farò, e se oltrepassi quella porta ti giuro che avvertirò anche i tuoi genitori, dopodiché otterrò un’avvertenza dal tribunale e ti farò interdire. Sei una ragazza mentalmente instabile Gwyneth e posso farlo, lo sai.
Non avevo mai visto una simile determinazione negli occhi di quell’uomo. Non mi aveva mai designata come una persona “mentalmente instabile” e non riuscivo a credere che lo stesse facendo proprio adesso.
  • Mi stai davvero chiedendo di scegliere tra voi e l’uomo che amo?
  • Ti sto chiedendo di aprire gli occhi, Gwyneth. Se adesso vai a Panama, non ne uscirai più. Burrows e Scofield ti hanno solo usata.
  • No.
  • Si. Dì la verità, loro sanno che il tuo quoziente intellettivo è superiore alla media?
  • Non è come pensi.
  • Ti hanno coinvolta nel gruppo perché li aiutassi ad evadere. Ti hanno cercata in California perché potessero varcare il confine e guarda caso, adesso che Scofield è stato arrestato in Messico, la prima persona che è venuta in mente di chiamare a suo fratello sei stata proprio tu. Ma come fai a non accorgerti di essere stata manipolata fino a questo momento?  -  Avrei voluto tapparmi le orecchie e gridare per non essere costretta a sentire quelle cattiverie.  -  Sono solo dei delinquenti che agiscono per il loro tornaconto e anche se non lo fossero, anche se fossero davvero innocenti come dici, sono diventati i bersagli di un’organizzazione segreta del governo che vuole eliminarli. Sarebbe da veri irresponsabili andarsi a tuffare nel bel mezzo dell’occhio del ciclone. Quando tua madre se n’è andata, le ho promesso che avrei badato a te, che avrei provveduto alle tue necessità e ti avrei tenuta fuori dai guai. Non ho rispettato la promessa 4 mesi fa, portandoti con me a Chicago, ma non farò lo stesso errore. Se scegli di oltrepassare quella porta, puoi considerare chiuso il nostro rapporto. Se non riesco ad impedirti di fare una sciocchezza del genere, significa che non sono degno di essere il tuo patrigno e se non sono più il tuo patrigno, non c’è alcun motivo perché tu debba tornare a vivere in questa casa.
Avevo stretto i pugni così forte che adesso mi facevano male.
Senza rendermene conto, avevo dato vita ad una situazione assurda. Più andavo avanti, più mi sembrava che la mia vita stesse andando a rotoli. Michael era di nuovo in prigione, Keith mi stava sbattendo fuori di casa. Ci mancava solo che Mahone irrompesse nella stanza proprio in quel momento con la sua scorta e minacciasse di riportarmi a Fox River e il quadro degli orrori avrebbe potuto dirsi completo. Ma a pensarci bene, quella era un’ipotesi che non avrebbe mai potuto realizzarsi. Mahone era a Panama, rinchiuso a Sona insieme a Michael; la giustizia almeno per questa volta aveva portato dentro un vero colpevole.

Mi veniva chiesto di fare una scelta: o sceglievo di rimanere a Newark insieme a Keith e Meredith o partivo per raggiungere Michael e Lincoln, ma era una scelta che dovevo fare subito e non avrei più potuto tornare indietro.
Che cosa potevo fare? Che cosa dovevo fare?
E di colpo, mentre il cuore mi batteva all’impazzata e il cervello era letteralmente in tilt per la tensione, ebbi la mia risposta.
Due occhi, azzurri più del cielo, comparvero davanti a me come un’apparizione. Erano splendidi, così intensi, così sinceri. Avevo scorto quegli occhi sotto il sole cocente del New Mexico, avevo assaporato ogni attimo mentre quel viso stanco e sudato si era materializzato di fronte a me e tutta la paura, tutta la preoccupazione accumulata in quei giorni era scomparsa come per magia. Ogni volta che ero al fianco di Michael tutto il resto del mondo scompariva. Non c’erano carceri infestati da depravati e tossici, non c’erano organizzazioni segrete criminali e poliziotti corrotti e morti, fughe, crisi e sangue. Michael era tutta la mia vita e io avevo aspettato anche troppo per riabbracciarlo, chiedendomi se lui amasse davvero me o un’altra.

La mia vita non era più a Newark, non era mai stata in Italia e di certo non poteva più essere accanto a Keith e Meredith. E adesso sapevo cosa fare. 
  • Va bene Keith, ho capito.  -  dissi, guardandolo con affetto.
  • Gwen…
  • No, sul serio, va bene. Lo capisco. Addio Keith, addio Meredith.
La mano si abbassò sulla maniglia e la porta si aprì, facendo entrare l’aria fresca della notte e tanta desolazione.
Non mi voltai indietro, non mi girai a guardare la casetta bianca alle mie spalle, mentre sistemavo zaino e borsa sui sedili posteriori, salivo in auto e infilavo la chiave nel quadro per partire. Non lanciai nemmeno un’occhiata allo specchietto retrovisore, mentre facevo marcia indietro sul vialetto, sfrecciando via a tutta velocità.
Una volta raggiunto l’aeroporto, mi sarei preoccupata di lasciare l’auto nel parcheggio coperto, così Meredith avrebbe potuto riavere il suo mezzo.
Mi stavo lasciando alle spalle un capitolo importante della mia vita e questo mi faceva male. Keith era stato per me più di un padre. Mi era rimasto accanto, si era preso cura di me, sopportando il mio carattere impossibile e i miei repentini cambi d’umore. Non ero pentita della scelta fatta di andarmene, ma non potevo negare che avrei sentito tanto la mancanza del mio patrigno e di sua figlia, e le lacrime che da casa mi accompagnarono fino all’aeroporto lo dimostravano. Mi sarebbero mancati, si, ma dovevo andare.

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Capitolo 4
*** Cruda realtà ***


Lo riconobbi tra la folla ancor prima che lui riuscisse ad individuarmi, d'altronde era impossibile non notarlo, superava in altezza di diversi centimetri il gruppetto di persone rivolte come lui verso il terminal degli arrivi, ed era il solo che riuscisse a risaltare con quelle sue enormi e massicce spalle e quel suo sguardo serio e diretto che lo avrebbe fatto passare per un ispettore doganale.
Ogni volta mi stupivo di quanto fossi contenta e sollevata di rivederlo. Il troppo tempo trascorso insieme a Fox River ci aveva uniti indissolubilmente, nonostante a separarci ci fossero ben 9 anni di età e storie di vita completamente diverse.
  • Ciao galeotto.   -  esordii, comparendogli alle spalle con un enorme sorriso stampato in faccia.
Lincoln ricambiò il sorriso con naturalezza quando mi vide.  -  Ehi, ragazzina.
 
Lasciai cadere lo zaino a terra e mi gettai in quel suo abbraccio poderoso, godendomi il fresco profumo di pulito e dopobarba che emanava la sua pelle.
  • Grazie davvero per essere venuta. Com’è andato il viaggio?
  • Benissimo.
  • E i tuoi bagagli?  -  chiese, osservando scettico lo zaino poco voluminoso ai miei piedi.
  • E’ tutto qui.  -  mentii, ripensando al borsone che avevo dimenticato a casa di Keith.  -  Sai com’è, meglio viaggiare leggeri nel caso si presenti la necessità di saltare giù da un treno o calarsi da un muro recintato.
  • Molto divertente.
  • Allora, che novità ci sono? Sei riuscito a vedere Michael?
  • Si, l’ho visto proprio stamattina.
Mi illuminai, rincuorata.  -  Oh bene, finalmente una buona notizia. E come sta? Sei riuscito a parlare con il Consolato e far predisporre il trasferimento da Sona?
  • Oh si, eccome.  -  Il tono che utilizzò riuscì a mettermi addosso una nuova inquietudine. Doveva essere successo qualcosa, glielo leggevo in faccia.  -  Su andiamo. Ho parcheggiato l’auto poco lontano dall’aeroporto.
Prese lo zaino, caricandoselo in spalla e s’incamminò verso l’uscita dell’aeroporto, calcandosi sul naso gli occhiali da sole prima che superassimo le porte principali.
Avevo la netta sensazione che il mio amico stesse cercando di prendere tempo, come se non si sentisse ancora pronto a comunicarmi le brutte notizie.

Si, dovevano essere proprio brutte notizie.

Appena varcammo le porte lasciandoci alle spalle la fresca aria condizionata dell’edificio, una pesante cappa umida e appiccicaticcia ci avvolse, facendomi mancare quasi il respiro. Era un pomeriggio soffocante con un alto tasso di umidità. Il calore emanato dalla strada sembrava un castigo, ma per fortuna le nubi si stavano addensando basse all’orizzonte. Le lunghe ombre del pomeriggio cominciavano a delinearsi.
  • Sto ancora aspettando una spiegazione, Linc. Dimmi di Michael, per favore.  -  lo pregai.
Attorno a noi, flotte di panamensi e stranieri camminavano sopra i marciapiedi roventi con interi seguiti di valigie e pacchi sotto braccia.
L’uomo al mio fianco continuò a camminare, guardando dritto davanti a sé. Pensai che volesse ignorarmi fino alla macchina, ma poi finalmente parlò.
  • Michael non verrà trasferito da Sona.
  • Il Consolato ha negato la tua richiesta?
  • No. Ho chiesto io a mio fratello di restare a Sona.  -  Per un momento credetti di non aver capito.  -  Stamattina ho incontrato una donna. Lei ha detto che Michael non è finito a Sona per puro caso, ma che è stata la Compagnia a fare in modo che venisse spedito proprio in quel posto e tutto per far evadere un detenuto, un certo James Whistler.
  • Ancora la Compagnia. Ma come diavolo avete fatto a cacciarvi nuovamente in questi casini? Credevo che una volta fuori dagli Stati Uniti sareste stati al sicuro. Che cos’è successo?
Lincoln sospirò, riordinando i pensieri per qualche secondo.  -  Michael aveva pianificato tutto. Arrivati a Panama avremmo preso la barca, quella che mio fratello aveva acquistato prima di finire a Fox River, dopodiché avremmo preso il largo per qualche mese, giusto il tempo di far calmare le acque.  -  esordì, iniziando il suo racconto.  -  Visto che non eravamo riusciti a smascherare la Compagnia, volevamo buttarci tutto alle spalle e ricominciare, ma prima che partissimo Michael ha ricevuto un messaggio sul forum riguardo a T-Bag e al fatto che si trovasse a Panama.
  • Un messaggio di chi?
  • Di Sucre. Almeno così credevamo. In realtà ad inviare quel messaggio è stato Mahone. Voleva che abboccassimo all’amo per poterci attirare in trappola.
Ecco che fine aveva fatto il maledetto tossico. Era scappato dagli Stati Uniti per sfuggire al mandato di arresto ed era volato fino a Panama per finire il lavoro contro gli evasi, molto probabilmente per continuare ad avere le spalle coperte dalla Compagnia.
Dovevo ammettere che preferivo Alexander Mahone più come federale che come evaso. Come poliziotto dell’FBI perlomeno avrebbe perso la sua giurisdizione oltre i confini degli States.

Dopo aver raggiunto l’auto, Lincoln uscì a marcia indietro dal parcheggio senza più pronunciare una parola. Guidò in silenzio per un po’, mentre attraversavamo una zona periferica di Panama City, superando vetrine allestite grossolanamente, ristoranti da poco prezzo e piccoli alberghetti illuminati come transatlantici. 
  • Che cos’è successo dopo?  -  chiesi, sollecitando il mio amico a riprendere da dove c’eravamo interrotti.
  • Io e Michael ci siamo divisi. A me non importava niente di T-Bag, ma Michael voleva che il depravato tornasse dietro le sbarre. Non gli è andata giù dal primo istante che quel farabutto fosse tornato libero a causa sua.
Chiunque conoscesse Michael bene quanto me e Lincoln sapeva che uno dei punti deboli del ragazzo fosse proprio Bagwell. Dal giorno dell’evasione, Michael si era convinto che tutti i morti sparsi sul cammino di T-Bag fossero colpa sua. Molto probabilmente Mahone aveva capito che per arrivare a Michael avrebbe dovuto puntare su Theodore Bagwell. Ecco perché non era una buona cosa avere Mahone come nemico.
  • Per il resto non so di preciso cosa sia successo. So che Michael si è trovato a collaborare in modo del tutto casuale con Sucre e Bellick…
  • Bradley Bellick?  -  Lincoln scrollò le spalle.  -  Avevo sentito dire che quel celebroleso di un ex secondino fosse stato arrestato e portato a Fox River.
  • Credo che sia stato rilasciato su richiesta di Mahone perché lo aiutasse a rintracciarci,  -  borbottò, svoltando in direzione della costa.  -   e adesso sia lui che il suo tirapiedi sono finiti a Sona.
Ero senza parole. Prima Mahone che fuggiva a Panama e finiva in una squallida prigione federale e adesso anche l’ex capitano delle guardie di Fox River. Si era formato un bel gruppetto variopinto di brutti ceffi a Sona. Chi altro sarebbe arrivato, Gheddafi e tutto il suo esercito di Al-Quaeda?
E io che stupidamente avevo pensato che Michael si fosse dimenticato di me. La solita egocentrica!
  • Mi dispiace tanto che abbiate dovuto affrontare tutto questo.
  • E non hai sentito il resto.
Rabbrividii.  -  Scommetto che è tutto in caduta libera. Però mi sfugge un particolare. Mentre Michael, Sucre e Bellick  -  “Strano e improbabile trio”.  -  davano la caccia a T-Bag, tu dove ti eri cacciato?
  • Ero in un magazzino abbandonato con una pistola puntata alla testa. Volevo cercare di aiutare mio fratello, ma Mahone è riuscito a fregarmi e usarmi come merce di scambio per costringere Michael a cedergli la nostra barca. Quel bastardo voleva ucciderci e poi fare lo stesso con quel tizio della Compagnia, quel damerino asiatico, venuto a Panama per prenderci in consegna… Se ci ripenso adesso non mi sembra vero che siamo riusciti ad uscirne vivi. Michael è stato molto più scaltro di Mahone. Non so come gli sia venuto di riempire la nostra barca di droga e di segnalarlo poi alla polizia. Sta di fatto che finalmente il caro Alex è al fresco insieme ai delinquenti della sua specie…
  • E Michael gli fa compagnia.  -  evidenziai, sospirando di fronte a quell’immane disastro che non poteva far altro che triplicare le sue dimensioni.  -  Comunque continuo a non capire. Avete fatto arrestare Mahone e siete riusciti a far perdere le vostre tracce alla Compagnia, ma allora come diavolo c’è finito Michael a Sona?
Tacque. Ero sicura che si fosse accorto che lo stavo ancora fissando in attesa, ma Lincoln non mi degnò di uno sguardo. Adesso che ci pensavo, non aveva fatto altro che raccontarmi le peripezie alle quali erano scampati lui e il fratello da quando erano arrivati in Messico, ma sempre saltando l’ostacolo del secondo arresto di Michael, come se in qualche modo stesse cercando di evitare l’argomento.
  • Questa parte non ti piacerà.  -  confessò, dopo aver incrociato i miei occhi per un rapido istante.
Alzai gli occhi al cielo.  -  Non che il resto sia stato entusiasmante!
  • Il fatto è che dopo esserci liberati di Mahone e di Bill Kim…  -  Un’altra occhiata verso di me, mentre io restavo in attesa.  -  … abbiamo incontrato Sara.
  • Sara…  -  ripetei lentamente.
  • Si. E’ venuta a cercarci per avvertirci che tutte le accuse contro di noi erano cadute grazie alla testimonianza di Kellerman…
Oh si, è proprio per questo che è venuta a cercarvi”.
Annuii meccanicamente, imponendomi di restare calma. Non avevo ancora il quadro completo per poter dare libero sfogo a tutta la mia frustrazione e alla mia gelosia.
  • Noi ne eravamo totalmente allo scuro, non sapevamo niente di ciò che stava accadendo negli Stati Uniti. Mentre Sara ci metteva al corrente dei fatti, l’agente Kim ci ha trovati.  -  Il particolare riuscì a distogliere i miei propositi vendicativi contro Sara e mi convinse a concentrarmi sul racconto.  -  Ci ha puntato una pistola contro e stava per spararmi, ma Sara ha sparato per prima e ha ucciso Kim. La polizia panamense deve aver sentito lo sparo ed è accorsa, così noi siamo scappati e ad un certo punto ci siamo divisi. Io sono andato da una parte e Michael e Sara dall’altra. Evidentemente io ho scelto la parte giusta, perché la polizia ha seguito solo Michael e Sara…poi mio fratello è stato arrestato. Il resto lo sai.
  • No aspetta, il resto non lo so. Se è stata Sara a sparare, perché hanno arrestato Michael? Hanno arrestato anche Sara? Perché Michael non ha raccontato come sono andate davvero le cose?
Continuai a fissare Lincoln in attesa di avere dei chiarimenti, ma l’uomo questa volta si limitò a rimanere in silenzio, tenendo gli occhi fissi sulla strada.
Non capivo perché non volevo capire, ma le risposte a quelle domande erano così semplici. Troppo semplici.
  • Michael si è preso la colpa, non è vero?  -  dissi, constatando l’ovvio.
Perché mi stupivo tanto? Era proprio da lui un’azione del genere.
  • E’ fatto così Sawyer, lo sai. Al primo posto vengono sempre gli altri, mai se stesso. Da quando siamo evasi da Fox River si è fatto sopraffare dai sensi di colpa: per le vittime di T-Bag, per la morte di Westmoreland, Tweener, Abruzzi, Haywire e anche per quello che è successo a Sara. Si è convinto di averle rovinato la vita, prima per averle fatto perdere il lavoro e poi per averla coinvolta contro la Compagnia. Sono certo che si sia sentito in dovere di restituirle il favore, facendosi arrestare al suo posto… Conoscendolo, lo avrebbe fatto per chiunque.
  • Certo.  -  mormorai furente, voltando il viso verso il finestrino.
Lincoln poteva anche raccontarmi aria fritta, ma sapevamo entrambi che Michael non lo avrebbe fatto davvero per chiunque. Era un ragazzo sensibile, con uno strano senso dell’altruismo, su questo non c’erano dubbi, ma da lì a farsi arrestare per ricambiare un favore ce ne passava di acqua sotto i ponti.
A Chicago, Sara aveva lasciato che Mahone l’arrestasse per permettere a Michael e Lincoln di lasciare indisturbati gli Stati Uniti. Non è che servisse un interprete per capire cosa o chi l’avesse spinta a farlo, ma in quell’occasione, salvando i due uomini Sara aveva salvato anche me e questo di certo non l’avrei mai dimenticato. L’avevo giudicata coraggiosa, mi ero preoccupata per lei durante le fasi del processo svoltosi a inizio estate, ed ero stata sinceramente felice di venire a sapere che fosse stata scagionata da ogni accusa e rilasciata grazie alla testimonianza di Paul Kellerman. Però non potevo fare a meno di sentirmi salire il sangue alla testa scoprendo che meno di 24 ore dopo dalla sua scarcerazione, era salita sul primo volo diretto a Panama per fiondarsi da Michael. A rendere tutto più logorante per giunta, scoprivo che Michael era finito a Sona prendendosi la colpa dell’omicidio di Kim al posto di Sara. E Lincoln aveva il coraggio di dire che Michael lo avrebbe fatto per chiunque.

Sbuffai.

Avrei potuto disintegrare il parabrezza a testate per sfogare la rabbia che provavo in quel momento. Che stupida pensare di rivalutare Sara per il suo gesto eroico al molo. Altro che buone intenzioni! Poteva comportarsi da santarellina quanto voleva, ma io sapevo che Sara era innamorata di Michael. Lei aveva cercato di approfittare della mia assenza. Lei voleva allontanare Michael da me.
  • Sawyer, ti prego non prendertela… Michael è innamorato di te, lo sai.  -  Lo sapevo? Avrei voluto crederci nello stesso modo in cui ci credeva Lincoln.   -  Senti, lo so che questo non è esattamente quello che avresti voluto sentirti dire, ma devi restare concentrata. Ho bisogno del tuo aiuto e questo non è il momento di fare la parte della fidanzata gelosa. Abbiamo problemi più gravi al momento.
  • Si, è vero. Dobbiamo tirare Michael fuori da Sona e tu gli hai chiesto di restare per fare i comodi della Compagnia.  -  sbottai seccata.  -  Non riesco proprio a capire che ti prende. Sai che Michael potrebbe rischiare la vita restando lì dentro. La Compagnia vuole che tuo fratello faccia evadere da Sona quel tizio? Beh, che ci pensino da soli a farlo evadere se ci tengono tanto. Nessuno vi obbliga ad essere i galoppini di quella gente.
  • Ti sbagli.  -  rispose, prima di svoltare lentamente nello stretto vicolo che costeggiava due edifici di mattoni. A quel punto girò la chiave e spense il motore, ma trascorsero diversi secondi prima che si decidesse a voltare il viso dalla mia parte e parlare.  -  Gwyneth, la Compagnia ha preso mio figlio e Sara per ricattarci e costringere Michael a fare quello che gli hanno chiesto.
Il sangue defluì dal mio volto alla velocità delle parole appena pronunciate e non seppi più cosa dire.
Finalmente capivo tante cose, primo fra tutti perché dal primo momento che avevo ritrovato il mio amico avessi avuto la sensazione che stesse per crollare. Non poteva trattarsi solo della preoccupazione per il fratello in carcere.
Si trattava di suo figlio, ma certo. Povero Lincoln, e povero L-J, di nuovo in balia di quegli assassini senza scrupoli. Era già la seconda volta che veniva preso di mira a causa dei problemi del padre e dello zio. 
  • Mi dispiace… io non lo sapevo…
Non riuscivo a trovare le parole. Vedevo l’angoscia riflessa negli occhi verdi del mio amico e non sapevo cosa fare o cosa dire per tirargli su il morale. Lentamente, appoggiai la mia mano sulla sua, ancora stretta sul cambio.
  • Vedrai che lo salveremo. Tuo figlio starà bene. Ti prometto che ti aiuterò a tirarlo fuori.
  • A tirarli fuori. -  mi corresse.  -  Anche Sara è prigioniera.
“Ah si? Ma che razza di sfortuna!”
  • Certo, certo, tireremo fuori anche Sara.
Lincoln sospirò, alzando gli occhi al cielo e per un secondo credetti di avergli strappato un sorriso.
Scendemmo dall’auto uscendo a piedi da quel vicolo claustrofobico e svoltammo verso sinistra, dirigendoci verso un ordinato fazzoletto d’erba cintato da una rete metallica che circondava un piccolo alberghetto alla mano, poco distante dalla città.
  • Carino. Mi hai portata in albergo… ma che gentiluomo!  -  esclamai sarcastica mentre superavamo l’ingresso.
  • Per il momento resteremo qui. Questo è l’unico posto che disti un paio di chilometri da Sona.
  • Bene. Quando andiamo a trovare Michael?
Avevamo appena percorso una breve rampa di scale fino alla stanza numero 2555 che a quanto sembrava era la nostra.
Mi sentivo un po’ stanca del viaggio, ma non vedevo l’ora di riabbracciare Michael e scrollarmi di dosso l’inquietudine accumulata come un peso. Se Lincoln mi avesse proposto di recarci subito a Sona non avrei avuto nulla da ridire, ma lui non me lo propose e, come al solito, ci mise poco a fare a pezzi tutto il mio entusiasmo.
  • Ecco un’altra cosa che non ti piacerà… Ascolta, io non ho detto nulla a Michael di te, di averti telefonato e di averti chiesto aiuto. Lui non sa che tu sei qui a Panama.
  • Beh, tanto meglio. Facciamogli una sorpresa.
  • Gwyneth…  -  sospirò con il tono di chi spiega ad una bambina una lezione di vita.  -  … è molto meglio che lui non lo sappia, credimi. E’ già piuttosto sottopressione da quando ha saputo di L-J e Sara e l’ultima cosa che gli serve al momento è sapere che sei coinvolta anche tu.
“Cosa??!”  -  Vuoi dire che non potrò vederlo?
  • Ti prego, cerca di capire. Lo sai com’è fatto, non farà altro che preoccuparsi ancora di più se viene a sapere che ti ho cacciata di nuovo nei nostri casini e io non voglio che si deconcentri. Deve rimanere concentrato e portare a termine quest’evasione. In ballo c’è la vita di mio figlio e quella di Sara.
  • Va bene, ho capito.  -  risposi, mentre dentro di me sentivo frantumarsi tutte le mie speranze.
Lincoln mi lanciò uno sguardo sorpreso, probabilmente non aspettandosi di sentirmi così conciliante, poi sorrise sollevato. Il boccone amaro però restò ugualmente al centro del mio petto.
Avevo scoperto un nuovo lato di me. Ero capace di controllare gli istinti animaleschi quando insorgevano, per esempio quello di correre fuori per la strada, raggiungere la prigione di Sona e chiedere di Michael.
  • Bene, tu inizia a sistemarti mentre io vado a comprare qualcosa da mangiare. Di là c’è una cassettiera. Puoi metterci la tua roba se dentro quello zaino hai portato dei vestiti, io ho preso l’armadio. Hai qualche richiesta particolare?
  • Pizza al formaggio?  -  azzardai, sforzandomi di sorridere.
  • E pizza al formaggio sia.
Poco dopo Lincoln aveva già lasciato l’albergo, lasciandomi da sola per concedermi del tempo per ambientarmi e sistemare le mie poche cose. Nell’attesa che il mio amico tornasse feci una doccia, ma fui costretta ad indossare nuovamente gli stessi vestiti che avevo tolto. Purtroppo avevo lasciato a Newark tutta la mia roba e portato con me soltanto un cambio, che certamente avrei indossato la mattina seguente per andare a comprare il resto che avevo dimenticato quindi, almeno per il momento, avrei dovuto accontentarmi e magari cercare di rilassarmi. Col casino apocalittico che era diventata quella storia, chissà quando mi sarebbe ricapitato di poter nuovamente tirare il fiato.
Lincoln tornò in albergo ben due ore dopo essere uscito quando ormai, preoccupata che potesse essergli successo qualcosa, avevo rimesso le scarpe pronta per uscire fuori a cercarlo.
  • Ma dove ti eri cacciato?  -  lo aggredii, prima ancora che potesse raggiungere il tavolo al centro della stanza e appoggiarci sopra le due buste di carta che aveva con sé.
  • Scusa. Ho incontrato Susan.  -  si giustificò come se bastasse a spiegarsi.
  • Susan?
  • E’ la donna che mi ha parlato dei piani della Compagnia e del rapimento di L-J e Sara. La prima volta che l’ho incontrata si è presentata come Susan B. Anthony, dopodiché abbiamo fatto un accordo: devo incontrarla ogni giorno alla stessa ora per farle rapporto sui progressi di Michael con l’evasione. In cambio lei mi dà notizie di L-J e Sara.
Aprì una delle buste di carta per passarmi un involucro triangolare di carta d’alluminio. Senza fare troppi complimenti, presi posto attorno al tavolo e scartai il mio trancio di pizza come fosse un pacco di natale. Stavo letteralmente morendo di fame. Speravo che Lincoln si rendesse conto che per mettere in moto il flusso dei miei neuroni, un solo trancio di pizza non sarebbe bastato.
  • Michael come ha preso la storia del rapimento?  -  chiesi, dimenticando la buona abitudine di deglutire prima di parlare.
  • Non tanto bene.  E’ preoccupato, si sente sottopressione perché deve organizzare un’altra evasione da un carcere dal quale non è mai evaso nessuno e non sa ancora come fare. Come se tutto questo non bastasse, abbiamo solo una settimana di tempo.
  • Cosa?!  -  quasi soffocai.  -  Come pensano che si possa portare un uomo fuori da una prigione in soli 7 giorni? Per portarvi fuori da Fox River, Michael ha impiegato un mese e mezzo e aveva tatuate addosso le planimetrie del carcere.
  • Lo so benissimo, ma questo è il tempo che ci hanno concesso e che dobbiamo rispettare.
  • Mi sembra una stronzata!  -  sbottai, mettendo di lato l’involucro argentato.
  • Conosco fin troppo bene quella gente e non esiterebbero ad uccidere L-J e Sara se ne fossero costretti. Tutto ciò che a loro importa è raggiungere lo scopo e al momento, per un motivo che non riesco a comprendere, vogliono questo Whistler vivo e fuori da Sona.
  • Allora cercheremo di capire qual è questo motivo.
L’uomo prese dalla busta di carta un secondo involucro per passarmelo, visto che avevo già finito di spazzolare il primo, e questa volta ne prese uno anche per sé.
  • Un regolamento di conti?  -  provò, addentando il trancio.  -  Forse quel tipo è finito a Sona per sfuggire alla Compagnia.
  • Molto poco probabile. Con i mezzi che quella gente ha a disposizione, sarebbe stato molto più semplice spedire a Sona un sicario che uccidesse Whistler piuttosto che mandare qualcuno per farlo evadere, solo per il piacere di dargli il colpo di grazia personalmente.
  • Forse il problema non è solo farlo evadere, ma anche trovarlo. Michael è a Sona già da 3 giorni e non è ancora riuscito a trovarlo. Là dentro ci saranno si e no un centinaio di uomini o poco più. Secondo me quel dannato Whistler si è nascosto per non farsi trovare.
  • Che cosa ti ha detto la donna misteriosa riguardo a questo tizio? Perché proprio lui? 
Lincoln continuò a masticare lentamente il suo trancio di pizza, come se mangiare fosse solo una delle tante pause previste per la giornata.
  • Non molto. Ha solo detto che la Compagnia ha bisogno di quell’uomo, ma niente di niente sul perché… a proposito, quasi dimenticavo… Michael stamattina mi ha dato questo.
Tirò fuori dalla tasca posteriore dei jeans un piccolo bigliettino spiegazzato che mi allungò sopra il tavolo. Era logoro e sporco di fango, ma la scritta riportata sopra era ben leggibile.
  • Versailles. 1989. V. Madrid.  -  lessi ad alta voce.  -  Che cos’è?
Scrollò le spalle.  -  Non lo so. Michael dice che è stato Bellick ad infilarglielo in tasca e che a darglielo è stato un uomo nascosto nelle fogne.
  • Whistler?
  • Probabile. Cosa pensi che sia?
  • Non ne ho idea, ma ci penserò. 
Presi il biglietto e me lo infilai in tasca, troppo stanca anche solo per pensare di potermi scervellare subito e risolvere qualunque tipo di enigma. E poi la mia mente era occupata da tutt’altro tipo di pensieri.
  • Domattina andrai a trovare tuo fratello?  -  chiesi, cercando di fingere indifferenza.
  • Si, voglio scoprire se è riuscito a fare qualche passo avanti e se ha scovato questo fantomatico uomo del mistero.
Annuii, ingoiando l’ultimo boccone e con esso, l’amara speranza di poter rivedere Michael.  -  Beh, ti chiederei di fargli avere i miei saluti, ma non penso che lo farai.  -  Avrei voluto suonare ironica, ma finii per suonare solo molto amareggiata e delusa.
  • Gwyneth…
  • Lo so, è per il suo bene.
A me il bene di Michael importava molto, ma il mio bene non importava a nessuno? C’erano solo pochi chilometri a separarmi dall’uomo che amavo e invece che correre da lui, dovevo starmene in una camera d’albergo a spremermi le meningi per scoprire la verità su un perfetto sconosciuto e poter strappare alle grinfie della Compagnia la mia rivale in amore. Che macabra ironia della sorte!

Alle dieci decisi di sdraiarmi sul grande letto a due piazze, gentilmente concessomi da Lincoln, mentre lui accettava di dormire sul divano.
Provai a prendere sonno ma ovviamente non ci riuscii, così finii per trascorrere ore intere a girarmi da una parte all’altra senza concludere nulla.
Continuavo a pensare a Michael, chiuso in quello squallido posto infestato da criminali e balordi. Chissà se anche lui, come me, stava cercando di prendere sonno senza riuscirci. Chissà se gli mancavo. Lui a me mancava terribilmente.
Certo, non era solo Michael il mio unico pensiero quella notte. Quando il giorno prima Lincoln mi aveva confessato al telefono di essere finito in un mare di guai, mi ero aspettata di tutto, ma poi una volta arrivata a Panama avevo capito che fosse peggio del previsto. Con Michael rinchiuso in un posto che sembrava la location per un film di guerra, L-J e Sara catturati e tenuti in ostaggio dalla Compagnia e io e Lincoln alle prese con una città sconosciuta che cercavamo di combattere contro i mulini a vento, c’era davvero da aspettarsi di tutto.
 
“Se adesso andrai a Panama, non ne uscirai più”.
Le parole di Keith prima che lo piantassi in asso, mi ritornarono alla mente scavando un solco sul mio cuore già provato.
Avrei tanto desiderato chiamare Keith per chiedergli consiglio, senza dubbio come uomo di legge lui avrebbe saputo cosa fare meglio di me, ma non avrei potuto chiamarlo. Non questa volta. Gli avevo mentito, lo avevo deluso e Keith non mi avrebbe più perdonata.
Intorno alle 4 del mattino, la vista cominciò a venir meno a causa della stanchezza e del sonno, quindi decisi di abbandonarmi ai morbidi cuscini. Quando finalmente la mia mente riuscì a liberarsi dell’immagine di Michael rinchiuso dentro quelle 4 mura a meno di 5 chilometri da me, allora mi addormentai.

Il mio Michael, di nuovo dietro le sbarre. Questa volta senza di me. 
 

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Capitolo 5
*** Missione salvataggio ***


Aprii gli occhi svegliata da un fastidiosissimo bip a poca distanza dall’orecchio. Avevo ancora la testa sprofondata sul morbido cuscino, quando decisi di scostare il lenzuolo e allungare la mano verso il comodino alla ricerca della fonte di disturbo che mi aveva infastidita. Trovai la sveglia e l’avvicinai al viso per sbrigarmi a capire come si spegnesse quella diavoleria trillante.

Erano appena le 7,30 del mattino. A chi diavolo era venuta l’idea di puntare la sveglia ad un'ora del genere?
Ben presto mi resi conto che il maledetto bip non poteva provenire dalla sveglia, e solo allora il mio cervello riuscì finalmente a riconnettersi e ricordare che quel suono segnalava l’arrivo di una mail sul mio account di posta. Il portatile era rimasto acceso, dovevo aver dimenticato di spegnerlo mentre crollavo in catalessi intorno alle 4 del mattino.

Mi voltai sul fianco destro, verso il pc appoggiato sul letto, e lo richiusi. Non mi preoccupai minimamente di aprire la mail e di leggerla. Potevo immaginare chi me l’avesse inviata e perché, se mi concentravo bene potevo anche visualizzare il contenuto ripetitivo e supplichevole della mia instancabile, fiduciosa e ottimista ex sorellina Meredith. Era ancora convinta che si potesse tornare indietro, che si potesse rimettere tutto apposto con delle semplici scuse. Io non ero dello stesso avviso. Non avevo nessuna intenzione di tornare a Newark, non prima di aver tirato fuori di prigione Michael ed aver aiutato Lincoln a salvare Sara e L-J dalle grinfie della Compagnia.
Visto che ormai mi ero definitivamente svegliata, non mi restava che alzarmi dal letto.

Trovai Lincoln seduto nello stesso posto della sera prima e per un attimo pensai che non si fosse mosso da lì per tutta la notte, ma ovviamente sapevo che non era così. Aveva già fatto la doccia, aveva fatto colazione e senza alcun ombra di dubbio aveva un aspetto migliore del mio. Io non sarei riuscita ad avere un aspetto decente alle 8 del mattino neanche se fossi riuscita a riposare per 8 ore di fila. 
  • Buongiorno.  -  esordì, sollevando gli occhi dal quotidiano che stava leggendo.
Sbuffai.  -  Forse per te. Non sarà un buongiorno finché non avrò mandato giù almeno un litro di caffè, per quanto mi riguarda.  -  risposi, sprofondando nella sedia accanto alla sua.
 
L’uomo mi allungò un bicchiere di carta con dentro del caffè ancora fumante e una busta con dei cornetti dall’aspetto invitante.
  • Sei riuscita a chiudere occhio stanotte?
  • Se per stanotte intendi intorno alle 4 del mattino la risposta è si, e visto che adesso sono ancora le 8, questo significa che i miei muscoli si rifiuteranno di mettersi in moto per almeno le prossime due ore.
  • Beh, io invece sono sveglio già da tre ore e non ho intenzione di starmene a poltrire, mentre mio figlio è chissà dove a rischiare la vita.
Sbaglio o avevo avvertito una nota di malcelato rimprovero nella sua voce? Ero ancora un po’ addormentata per riuscire ad esserne certa.
 
Gli sorrisi languida.  -  Linc, ma per chi mi hai presa? Ho detto che i miei muscoli si rifiuteranno di mettersi in moto… non i tuoi. Ieri notte, visto che non riuscivo a prendere sonno e non avevo di meglio da fare, ho fatto una ricerca su internet per cercare di capire chi fosse il nostro uomo misterioso e ti dirò che sono rimasta molto sorpresa quando, neanche dieci minuti dopo, sono riuscita a risalire a lui.
Lincoln, rimasto di sasso, mi puntò subito gli occhi addosso, interessato.  -  Sei riuscita a scoprire qualcosa?
  • Si, James Whistler è una sorta di celebrità qui a Panama City e credo anche di aver capito perché Michael non è ancora riuscito a trovarlo.
  • Beh? Chi è?
Bevvi una lunga sorsata di caffè.  -  Sembra che questo tizio, durante una lite in un bar, abbia ucciso il figlio del sindaco di Panama City. E’ per questo che è finito a Sona. Qualche tempo dopo il sindaco per vendicare la morte del figlio ha fatto mettere una taglia su Whistler, facendo intendere che chiunque fosse riuscito ad ucciderlo, sarebbe stato processato in tribunale da un giudice pagato dal sindaco in persona. Molti hanno interpretato questa dichiarazione come una possibilità per tornare liberi, così da quel momento si è scatenata una caccia spietata al nostro uomo, ma nello stesso momento Whistler è scomparso da Sona. Alcuni detenuti credono che sia già morto o che sia riuscito a scappare. Io credo che sia lo stesso uomo nascosto nelle fogne del carcere che ha dato il bigliettino a Bellick.
  • Già. Adesso che sappiamo chi è, dobbiamo solo scoprire perché la Compagnia è tanto interessata a lui.
  • A questo potrai facilmente dare risposta recandoti in banca.
Lincoln aggrottò la fronte, confuso.  -  In banca?
  • Credo di essere riuscita a decifrare per sommi capi il bigliettino che mi hai dato ieri sera. Versailles. 1989. V. Madrid… Qui a Panama esiste una banca tra le più grandi del paese, meglio nota come Banco de Versailles. Il primo punto potrebbe riportare a questo. Immagino che 1989 possa riferirsi al numero dello sportello di deposito e V. Madrid possa essere una password o un’identità falsa collegata a quel deposito. In quella banca si possono depositare o custodire oggetti, oltre a somme di denaro. Forse il nostro caro Whistler ha depositato qualcosa di prezioso che la Compagnia vuole trovare.
Saltò giù dalla sedia con un movimento fluido e mise di lato il quotidiano.  -  Lo scoprirò andandoci. Tu vieni con me?
Gli sorrisi di nuovo.  -  Te l’ho detto, per altre due ore non sarò disponibile. Sai come funziona, io sono la mente e tu il braccio. Io il mio lavoro l’ho fatto, adesso tocca a te.  -  Lo vidi lanciarmi uno sguardo perplesso, cercando di capire se stessi scherzando.  -  Dico sul serio. Tu vai e cerca di scoprire il più possibile. Io per stamattina ho delle commissioni da fare.
 
Restammo di incontrarci nel giro di un paio d’ore nuovamente lì, nella nostra stanza d’albergo a Plaza del Sol per fare il punto della situazione.
Lincoln uscì meno di un minuto dopo per recarsi al Banco de Versailles, mentre io persi più di mezz’ora per prepararmi e finire di fare colazione.
Non avrei voluto mandare Lincoln da solo, tuttavia non avevo dimenticato di essere arrivata a Panama con un misero cambio di vestiti. Dovevo procurarmi qualcosa al più presto prima di ritrovarmi a chiedere al mio amico anche abiti e biancheria intima, e dovevo trovare immediatamente una farmacia o presto o tardi, l’evasione di Michael e il rapimento di L-J e Sara non sarebbero stati gli unici problemi all’ordine del giorno.

Quando tornai a Plaza del Sol erano già passate le undici. Ero sicura che Lincoln si sarebbe arrabbiato per quel ritardo. Da un certo punto di vista, Lincoln era molto simile a Keith, tendeva a preoccuparsi facilmente quando si trattava della mia incolumità.
Mentre salivo di corsa le scale per raggiungere al secondo piano la stanza 2555, me lo immaginavo appoggiato alla finestra, a braccia conserte, imbronciato e con gli occhi fissi sulla porta, in attesa di vedermi comparire. All’improvviso, dopo aver svoltato l’angolo del primo piano e corso verso la successiva rampa di scale, m’imbattei in una donna, finendole quasi addosso.
La giovane, vertiginosi tacchi a spillo ai piedi e costosi occhiali da sole calcati sul naso, riuscì a bloccarmi prontamente prima che la travolgessi, ma quando cercai di scusarmi lei si voltò sdegnosa dall’altra parte e se ne andò, lasciandomi di sasso sul pianerottolo. 
  • Sono tornata Linc, scusa il ritardo.  -  dissi, spalancando la porta della camera prima di entrare.
Come avevo immaginato, trovai il mio amico appoggiato alla finestra, braccia conserte ed espressione corrucciata. Pensai che stesse aspettando me, ma mi sbagliavo.
  • Non importa. Forse è un bene che tu abbia ritardato.  -  Il tono di voce era basso, preoccupato.
  • E’ successo qualcosa?
Scosse la testa.  -  Sono rientrato anch’io a momenti e… lei era qui. Susan.
  • E che cosa voleva?
Questa volta Lincoln mi puntò addosso uno sguardo mortificato.  -  Ha solo voluto precisare qualche punto precedentemente concordato. Ci tengono d’occhio Gwyneth e sanno di te, che mi stai aiutando.
  • Ah. Ok, piuttosto prevedibile che seguissero a distanza le nostre mosse.
  • E non sei preoccupata? Hai dimenticato quello che ha detto Kellerman? La Compagnia ti tiene d’occhio per qualche sconosciuta ragione. Io… io non ho pensato… quando ti ho chiesto aiuto io… E se provassero a rapire anche te?
Non capivo perché Lincoln avesse deciso di preoccuparsi della mia sicurezza proprio adesso. Ormai la Compagnia sapeva del mio coinvolgimento, che fossi stata con lui a Panama o nascosta in un bunquer che differenza poteva fare?
 
Si prese la testa tra le mani, l’espressione distorta dal dolore.  -  Non avrei dovuto trascinarti di nuovo in questa storia, è pericoloso e tu non c’entri niente.
  • C’entro eccome se c’è di mezzo Michael.  -  scattai.
  • Si, ma non a questo prezzo!  -  replicò risoluto.
L’entrata in scena di Susan evidentemente aveva fatto precipitare Lincoln al livello del disfattismo. 
  • Linc,  -  ripresi calma e comprensiva, avvicinandomi.  -  so che sei preoccupato per me e ti ringrazio, ma non ce n’è bisogno e poi abbiamo già tanto di cui doverci preoccupare. La Compagnia non ha alcun motivo per essere interessata a me e più ci penso, più mi convinco che quella volta Kellerman abbia un po’ esagerato. Sapeva chi ero e conosceva i miei trascorsi a Fox River. Secondo me ha solo voluto abbellire un po’ la storia per tenere te e Michael sulla corda. Se la Compagnia fosse davvero interessata a rapirmi, potrebbero farlo con la stessa facilità con cui hanno rapito Sara e L-J, e questo che io sia qui con te a Panama o nascosta sotto una coltre di ghiaccio in Alaska, ti pare?
Volevo suonare convincente per Lincoln ma in realtà, la prima a non credere alle mie stesse parole ero io. In qualche modo, ero sicura che in mezzo ai piani sconosciuti e subdoli della Compagnia, oltre a Michael e al misterioso Whistler, ci fossi anch’io ma il motivo continuava a sfuggirmi. 
  • Non lo so…  -  sbuffò l’uomo indeciso.  -  … è comunque molto pericoloso. E questa Susan non è un tipo da sottovalutare.
  • Hai detto che quella donna è stata qui poco fa. Beh, credo di averla incrociata per le scale e non mi ha neanche degnata di uno sguardo. E adesso piantala con queste stupidaggini e dimmi com’è andata al Banco de Versailles.
Se conoscevo bene Lincoln ci avrebbe impiegato qualche secondo a rispondere. Lui era fatto così, vagliava pro e contro, capiva che i contro erano molti più dei pro e finiva per arrendersi all’amara verità, vuotando il sacco.
  • Ho incontrato una donna.  -  rispose finalmente, confermando le mie aspettative.  -  Era la stessa che ricordavo di aver già visto fuori dalle mura di Sona quando sono andato a trovare Michael la prima volta, così l’ho seguita. Si è diretta ad uno degli sportelli della banca e ha chiesto di poter prelevare il contenuto di una delle cassette di sicurezza a nome di James Whistler, presentandosi come la sua fidanzata.  -  Da una delle tasche dei pantaloni, Lincoln tirò fuori un piccolo libricino e me lo passò.  -  Ecco qua. L’ho preso alla donna di Whistler non appena è uscita dalla banca. Lei ha detto che il suo fidanzato è un pescatore.
  • Oh, ma che fantasia!
Osservai attentamente il libretto, rigirandomelo tra le mani come se potesse svelare chissà quale mistero. Per me era un comunissimo manuale sugli uccelli tascabile. Non riuscivo proprio a capire a cosa potesse servire un libro del genere ad un uomo rinchiuso in carcere. 
  • Sai che cos’è?  -  chiesi.
  • E’ un manuale sugli uccelli.
Alzai gli occhi al cielo.  -  Questo lo vedo, intendo se hai scoperto qualcosa che lo riguardi. Perché Whistler è tanto interessato a questo libro?
Fece spallucce.  -  Non ne ho idea. Prima, mentre ti aspettavo, ho provato a sfogliarlo e ho notato che in alcune pagine ci sono scritte annotazioni e numeri, ma non so a cosa possano riferirsi. Prova a dargli un’occhiata, il tuo cervello funziona meglio del mio, magari riesci a capirci qualcosa.
  • Ho solo una buona memoria Linc, non faccio miracoli.
  • Si, questo lo so.  -  disse, accarezzandomi i capelli con fare paterno.  -  Ah, quasi dimenticavo… mentre eri via qualcuno ha infilato sotto la porta una busta con dentro queste.
Afferrò da sopra il tavolo una busta gialla e ne tirò fuori due piccole foto che mi passò. Si trattava di due istantanee di L-J e Sara, entrambi rivolti verso l’obiettivo con il giornale del giorno in mano. Evidentemente lo scopo era quello di rendere ben visibile la data sul quotidiano così da provare che gli ostaggi fossero ancora vivi. 
  • Dio… non hanno un bell’aspetto…  -  commentai preoccupata.
  • Guarda meglio. Non noti niente di strano nella foto di Sara?
  • Il suo colorito sembra quello di un malato terminale?
  • Guarda come tiene il giornale.
Osservai più attentamente la foto e finalmente capii a cosa si stesse riferendo il mio amico. Il particolare ad una prima occhiata non aveva catturato la mia attenzione, ma in effetti adesso che Lincoln me lo aveva fatto notare mi stupivo di non essermene accorta subito. Sara nella foto teneva il giornale in modo strano, premendo l’indice sulla parte sottostante, quasi volesse indicarci qualcosa.
  • Sta indicando l’articolo in basso a destra. Forse vuole dirci dove la tengono prigioniera.
E senza attendere conferma, corsi a recuperare il quotidiano che quella mattina avevo lasciato su una mensola accanto alla finestra. Lo presi per stirarlo sul tavolo alla ricerca del punto esatto indicato da Sara. 
  • Ecco, è questo. E’ una notizia che riguarda Santa Rita. Se non sbaglio esiste un piccolo paesino a 30 chilometri da qui con questo nome. Pensi che L-J e Sara siano tenuti prigionieri lì?
Lincoln sospirò frustrato.  -  Se anche fosse, come facciamo a sapere dove si trovano esattamente? Non possiamo certo sfondare ogni porta e controllare personalmente.
  • Hai ragione. Servirebbe qualche altro indizio.
  • Vado a parlare con Michael.  -  disse, afferrando giornale e chiavi per dirigersi nuovamente verso l’uscita.  -  Magari lui ha qualche idea in proposito. Nel frattempo, puoi farmi avere una mappa di Santa Rita?
  • Certo, ma non credi che…
Non mi stava più ascoltando.  -  Chiudi a chiave e non fidarti di nessuno.  -  concluse prima di sparire.
  • Si, come se questo potesse bastare.  -  mormorai alla stanza vuota, prima di recuperare il portatile e mettermi al lavoro. D'altronde avevo una mappa da stampare e un manuale sugli uccelli da decifrare.
Per ore non feci altro che restarmene davanti al computer, cercando di reperire il più banale dei collegamenti tra l’uomo misterioso che Michael doveva far evadere e quel libretto, anche se avevo la sensazione che fosse una colossale perdita di tempo. Quello era uno stupidissimo libro sugli uccelli e avrei potuto scommettere che Whistler non fosse affatto interessato al libro in sé, ma ai nomi, i numeri e le annotazioni riportate sopra, che personalmente non significavano nulla per me.
Più mi scervellavo su quel quesito, più mi convincevo che qualcosa di fondamentale mi stesse sfuggendo. Perché la Compagnia era tanto interessata ad un uomo accusato di omicidio e rinchiuso in un pericoloso carcere come Sona? Forse James Whistler era innocente. Forse anche lui era una povera vittima presa di mira dalla Compagnia come lo eravamo noi, oppure era un loro affiliato e il compito di Michael era quello di liberarlo per permettergli di tornare dai suoi “amici”. In ogni caso, dubitavo fortemente che l’uomo fosse un semplice pescatore, come lo aveva definito la sua fidanzata.
Quando ormai stavo per perdere la pazienza e spegnere il pc, stufa di cliccare a vuoto finestre e link dai percorsi sconosciuti, il mio cellulare prese a suonare. 
  • Lincoln…  -  risposi, riconoscendo il numero.
  • Sawyer, avevi ragione. Sara ha provato a dirci dove si trovano lei e L-J, ma non si tratta di S. Rita. Loro sono qui a Panama City.  -  Suonava affaticato.
  • Come lo sai?
  • Michael ha parlato con Sara. Susan ha accettato che si sentissero per telefono e Sara ha cercato di fargli capire in codice dove li tengono prigionieri. Ha detto che da dove si trovano riescono a vedere una statua di S. Rita. Si riferiva alla statua, non alla città. Adesso sto raggiungendo quella statua. Ho scoperto che qui a Panama esiste solo un posto con una di queste statue.
  • Ottimo. Se non altro è una pista. Posso fare qualcosa?
  • Beh… Sara ha detto una cosa al telefono che né io né Michael siamo riusciti a decifrare. Pensiamo volesse indicarci dove li tengono rinchiusi. Ha detto: “E’ come se ci trovassimo a mezzanotte e ci chiedessero di guardare alle 3 del mattino” … Gwen, che può significare? 
“Oh ma dai!” 
  • Ma che diavolo di similitudini vengono in mente a quella donna? Tanto valeva dire: continuate a brancolare nel buio che state andando alla grande!
  • Gwen, ti prego…
 Sbuffai rumorosamente, mentre lasciavo la sedia per cominciare a misurare la lunghezza della stanza a forza di andata e ritorno. 
  • Ok, vediamo… fammici pensare…
  • Fa pure con comodo, tanto non sono ad un passo dal collasso!  -  si lamentò impaziente.
  • Ehi, non mettermi fretta! Mi hai scambiata per una centralinista del servizio informazioni?  -  Odiavo quando mi si metteva fretta, non riuscivo a pensare bene.  -  Allora… abbiamo detto mezzanotte e 3 del mattino… mezzanotte… 12 e 3 del mattino…
 “Pensa Gwen, pensa… che avrà voluto dire?” 
  • Sono arrivato in piazza S. Rita, vedo la statua.
Ecco che tornava a mettermi fretta, lo odiavo quando faceva così. Poi finalmente il lampo di genio che aspettavo arrivò. 
  • Linc, dov’è posizionata la statua?
  • Direi… al centro della piazza. Forse Sara parlava di un edificio con un orologio, ma da qui io non vedo nessun orologio…
  • Perché cerchi la cosa sbagliata. E’ solo una metafora. Sara non si riferiva davvero ad un orologio. La statua di S. Rita si trova al centro della piazza, quindi segna mezzanotte su un ipotetico orologio, per questo lei riesce a vederla. Deve trattarsi di un edificio che dà sulla piazza.
  • Si, ma quale? Ce ne saranno almeno una decina che danno sulla piazza!
  • Guarda a destra!!!  -  urlai come se fossi lì e potessi agire al posto di Lincoln.  -  Le 3 del mattino segnano un angolo retto rispetto alla statua. Guarda a destra!!
  • Ok, ho capito.  -  disse trafelato, interrompendo la comunicazione.
 
Me ne stavo sdraiata sull’enorme letto a due piazze, fissando in silenzio il soffitto di quella deprimente e silenziosa camera d’albergo, quando sentii la porta aprirsi. Scattai in piedi con un balzo e corsi nella stanza attigua come un razzo, sicura che il mio amico Lincoln fosse di ritorno.
All’improvviso mi ritrovai a desiderare disperatamente che fosse andato tutto bene, che Lincoln fosse tornato insieme a Sara e L-J e che quell’assurda storia del rapimento fosse finita. Ero pronta ad accogliere tutti e tre con un sorriso e un abbraccio e, sì, avrei abbracciato anche Sara e mandato al diavolo le mie paranoie di fidanzata gelosa per una volta. Ma quando Lincoln spalancò la porta, caricato sulle sue spalle stava solo un uomo semincosciente, con le braccia e le gambe che ciondolavano pesanti e il capo reclinato all’indietro come un moribondo. Di L-J e Sara non c’era traccia.
  • Ma è… Sucre? Che cosa gli è successo?  -  chiesi, riconoscendo subito il malcapitato, nonostante il suo aspetto trasandato.
Lincoln avanzò affaticato dal peso del portoricano che aveva addosso, lo scaricò sul divano e mi passò una bottiglia di vodka quasi vuota alla quale mancava il tappo.
  • E’ soltanto sbronzo, non preoccuparti. L’ho trovato disteso fuori in corridoio.
Dovevo essermi persa qualche passaggio. Che cosa ci faceva l’ex compagno di cella di Michael nel corridoio di un albergo in quello stato comatoso? Avrei voluto chiederlo al mio amico, ma prima avevo domande ben più urgenti che mi frullavano per la testa.
  • Com’è andata la missione di salvataggio?
Lincoln sospirò stanco.  -  Non ci sono riuscito. Quando ho trovato l’edificio degli uomini stavano già caricando L-J e Sara su un furgone e non ho potuto fare niente.
  • Ma… stavano bene?
  • Si, erano vivi.
Peccato che fosse andata in quel modo. Lincoln aveva sfiorato la possibilità di salvare suo figlio, e potevo solo immaginare come si sentisse al pensiero di esserci andato così vicino ed aver fallito. Però tutto sommato c’era un aspetto positivo: adesso sapevamo che i due ostaggi erano vivi ed L-J e Sara avevano capito che eravamo lì per aiutarli e che avremmo fatto qualsiasi cosa per liberarli.
  • Che cosa facciamo adesso?  -  chiesi, puntando gli occhi sul povero Sucre accasciato sul divano.
  • Devo andare a parlare con Michael. Anche lui vorrà sapere com’è andata. Nel frattempo cerca di occuparti dell’ubriacone qui, rimettilo in sesto. Io faccio presto.
  • Certo, ci penso io.
  • Grazie.
Lo vidi sospirare di nuovo e dirigersi verso l’uscita con fare stanco e l’espressione avvilita.
  • Linc.  -  dissi, bloccandolo con la mano sul pomello della porta. Si voltò a guardarmi, distrutto.  -  Mi dispiace.
Annuì prima di richiudersi la porta alle spalle.

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