Oltre l'inganno di shilyss (/viewuser.php?uid=21848)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'ombra che è rimasta di te ***
Capitolo 2: *** Se solo riuscissi a pregare ***
Capitolo 3: *** Promesse infrante ***
Capitolo 4: *** Vie di fuga ***
Capitolo 5: *** Sotto la superficie ***
Capitolo 6: *** Castelli di carta ***
Capitolo 7: *** L'oscurità dentro di noi ***
Capitolo 8: *** Ultimi sospiri ***
Capitolo 9: *** Vali ***
Capitolo 10: *** Forse era scritto nel destino - parte 1 ***
Capitolo 11: *** Forse era scritto nel destino parte 2 - La penna nera ***
Capitolo 12: *** Forse era scritto nel destino - parte 3 Il messaggio ***
Capitolo 13: *** Legarsi ***
Capitolo 14: *** Il palazzo ***
Capitolo 1 *** L'ombra che è rimasta di te ***
Avvertenze:
Questa
shot è la
prima di una raccolta e fa parte dell’universo che ho creato
nella long-fic
“Tutte le tue bugie.” In particolare, approfondisce
alcuni argomenti accennati
nella stessa. Nonostante alcuni riferimenti alla long fic, puoi leggere
la
storia anche considerandola come un testo scollegato dalla storia madre.
Vanheim,
il suo
ordinamento politico e culturale, Vili, Sigyn e tutti i personaggi
presenti
nella fiction oltre a Loki, Odino e Thor così come sono
descritti, sono una mia
elaborazione. Lo stesso dicasi per gli accenni alla gioventù
di Loki e Thor.
Per quanto concerne il canone del film, pur utilizzando aspetti,
considerazioni
e sviluppi provenienti di tutta la trilogia e della saga di Avengers ho
rimaneggiato
questo universo considerando solamente la fine di Thor: The Dark World.
Buona
lettura!
L’ombra
che è rimasta di te
L’ombra
che è rimasta di te, fa male
solo a guardarla. Fu questo il pensiero che gli attraversò
ingiustamente la
mente quando la porta si richiuse alle sue spalle. Tentò di
mascherare il
disagio di quell’ultima, straziante visita sgridando per un
nonnulla uno dei
domestici di Asgard, colpevole soltanto di non avergli portato
abbastanza
rapidamente il vino. In un’altra occasione, in un tempo
diverso, anzi, il
servitore avrebbe risposto con un inchino rigido e risentito al suo
sfogo
crudele. Invece abbassò il capo e gli porse le sue scuse.
No, bugia: disse “mi
dispiace,” e il dio degli inganni capì
immediatamente che si riferiva non alla
richiesta esaudita male, ma al suo,
di compito. Quello rinchiuso oltre le pesanti porte di quercia lavorate
con un
disegno che raffigurava l’Yggdrasill, il frassino sacro, e di
cui nessuno, su
Godhaimer, poteva parlare. Come spiegare a un popolo di guerrieri
feroci e
audaci che il loro fiero e capace Re cantava ninnenanne e si era perso
in mezzo
ai brandelli di un tempo passato, dimenticato?
Afferrò
bruscamente il corno che il
domestico gli offriva regalandogli uno sguardo carico di odio per
quell’intromissione inopportuna, scortese; pretendeva di
capire come stesse,
immaginava gli importasse di quel vecchio avido, bugiardo e crudele che
aveva
combattuto con tutta la forza e ogni mezzo e, infine, era riuscito a
sconfiggere nel peggiore e più doloroso dei modi:
spezzandolo dentro. Quando
aveva intravisto la mano tremante del padre firmare l’accordo
tra Asgard e
Vanheim, non era riuscito ad associare l’incertezza del gesto
con i primi segni
della malattia che lo avrebbe ridotto all’ombra sbiadita e
sfilacciata del
severo sovrano che era stato. Aveva attribuito all’ira e alla
vergogna per la
disfatta subita lo spasmo che aveva reso incerta la scrittura di Odino.
Un
segno di debolezza di fronte cui Loki Laufeyson aveva esultato.
Ricordava con assoluta
precisione quel momento. Aveva sorriso soddisfatto mentre parlava della
necessità che Vanheim e Asgard trattassero da pari, in pace,
nascondendo sotto
le sue parole brillanti e ponderate la gioia nervosa che la ratifica
del
trattato tra i due paesi gli provocava: Asgard costretta a venire a
patti, ad
accordarsi con lui, a causa sua. Sulla carta, i due stati avevano
cessato le
ostilità di comune accordo, ma il messaggio che era passato
nei Nove Regni
tutti era stato un altro: gli Asi avevano trovato pane per i loro denti
e, per
una volta, erano stati costretti ad abbassare le armi e ascoltare.
Odino lo aveva
visto, quel suo il
sorriso laterale e breve. Tra le dita stringeva ancora la lunga penna
intinta
di inchiostro. Fissandolo, gli aveva detto una delle ultime cose
sensate che
avrebbe pronunciato in vita. “Sei stato bravo, figlio mio.
Davvero bravo. Ma
ora toglimi una curiosità: sei soddisfatto?”
Maledetto Odino.
Maledetto vecchio
crudele, scorretto, bugiardo. Non era nella sua natura la
soddisfazione, non lo
sarebbe stata mai. La vittoria di un giorno non poteva cancellare
l’ingiustizia
che credeva di aver subito per una vita intera, né il
riconoscimento sporadico della
sua abilità era in grado di offuscare le numerose volte in
cui l’ombra troppo
grande di Thor avevano annichilito le sue imprese. Gli rispose come
avrebbe
dovuto, sfoggiando il suo tono più indisponente e arrogante,
sventolandogli
davanti il corno colmo di idromele con cui brindava a quel giorno
glorioso.
“Immensamente”
mentì, e poi rise
fingendo che il liquore sapesse meno di fiele.
Se ne era andato
masticando un’amarezza
che mal si accordava con la vittoria, irritato con Odino per le sue
parole
concilianti, per il tentativo sospeso di recuperare un rapporto
infranto, lacerato:
aveva revocato ufficialmente il bando troppo tardi, lo aveva chiamato
di nuovo
figlio forse presto. Sì, con tutta probabilità
era sempre stato quello il
problema, tra loro: non riuscivano a trovare il momento giusto per
confrontarsi
e scontrarsi, come se le Norne li avessero condannati a una perenne
mancanza di
tempismo che avrebbe esacerbato sempre di più tensioni e
contrasti, esasperando
il non detto e travisando il resto. Eppure le loro conversazioni erano
sempre
state brillanti, vivaci. Dispute affascinanti che si combattevano sul
filo
dell’astuzia, della retorica e della coerenza, messe in atto
da due
fuoriclasse: lo scaltro Re dotato di un’astuzia lupesca e il
suo furbo e
intelligente figlio che da lui aveva assorbito ogni gesto, frase, modo
di
pensare. Sì, Loki e Odino si assomigliavano come e
più che se fossero stati
davvero legati da un vincolo di sangue, e il motivo non era da imputare
solamente alla brillante capacità del dio degli inganni di
imitare alla perfezione
il genitore adottivo, ma a qualcosa di diverso, più
profondo. Condividevano il
modo di ragionare e formulare i pensieri, cui univano la sottile
sagacia che sfoggiavano
quando manipolavano e irretivano il loro prossimo per ottenere un
tornaconto
personale. Forse era stata questa estrema somiglianza a far nascere la
frattura. Ognuno dei due vedeva nell’altro i propri difetti
amplificati,
esasperati, ingigantiti, ed era pronto a giudicare azioni e pensieri
dell’altro
con una precisione spietata e crudele.
Poi
c’era la mancanza di tempismo,
certo. Quell’errore causato con godimento dalle Norne
beffarde e annoiate, che
avevano fatto cadere Odino nel suo Sonno proprio mentre cercava di
spiegare a
Loki come le peggiori intenzioni potessero tradire chi le immaginava e
trasformarsi inevitabilmente in qualcos’altro – una
lezione che anche il dio
degli inganni avrebbe appreso, suo malgrado, ma questa è
un’altra storia.
La maledizione
si era rinnovata
quando Thor lo aveva condotto in catene di fronte al trono:
c’era stato un
momento, prima che Loki si prendesse gioco di tutta la situazione
presentandosi
come un ragazzino arrogante di fronte al Padre di Tutto, battendo i
tacchi
degli stivali e imitando con malcelato spregio l’attenti dei
soldati, in cui
forse il cuore del dio delle forche avrebbe potuto ammansirsi. Se Loki
fosse
stato meno sarcastico, se nei suoi occhi chiari Odino avesse
riconosciuto
l’ombra di un sincero pentimento, le cose sarebbero potute
andare diversamente.
Ma Lingua d’Argento era stato sprezzante e tronfio e si era
presentato ammantato
di tutta la sua feroce eleganza di fronte al padre adottivo che non lo
aveva
chiamato figlio, ma prigioniero. Un altro imperdonabile errore dovuto
non alla
mancanza di discernimento di Odino, ma all’amara
constatazione di come Loki, il
suo brillante cadetto, non fosse poi così acuto come pensava
e sembrava. Come
poteva aver bisogno di sentirsi appellare figlio? Non lo era forse
stato? Come
osava sputare sopra il progetto di una vita intera schiacciando mondi,
con
quale faccia arrogante si azzardava a svelare di fronte a tutti le
necessarie
brutalità compiute per realizzare l’idea che si
era concretizzata sopra il
sangue e le ossa dei soldati morti in battaglia nella formazione dei
Nove
Regni? Se Loki fosse stato astuto come spesso dimostrava di essere,
forse Padre
Tutto non lo avrebbe fatto rinchiudere nelle prigioni sotterranee di
Asgard.
Solo che il dio degli inganni, prima di perdersi in un abisso senza
fondo e
lasciarsi cadere in un nefasto oblio, gli aveva confessato, sul ponte
del
Bifrost distrutto e spezzato, di aver tradito e tramato per Asgard, per
lui. Le
Norne erano state incerte su quale risposta Odino avrebbe dovuto dare
al figlio
penzolante oltre il ponte ormai a pezzi. L’interminabile e
incessante filare si
era interrotto un istante. Quale svolta dare al destino di entrambi,
dei Mondi?
La scelta era ricaduta su un errore, di nuovo. La frase era giusta, ma
il
momento sbagliato. Odino avrebbe dovuto salvare Loki e metterlo al
sicuro da se
stesso e dalle sue ombre e poi, solo poi, spiegargli il suo
imperdonabile
errore. Così non era stato, e Lingua d’Argento si
era affrancato da Asgard per
diventare il fiero e feroce principe perduto degli Asi, alleato o
avversario a
seconda del caso.
Ora il tempo era
finito, cessato: non
ci sarebbero più stati fraintendimenti perché era
impossibile ci fosse un
dialogo vero. La mente di Odino vagava senza riuscire a collegare tra
loro
volti e ricordi. L’improvvisa chiarezza di un momento si
trasformava in un
tunnel di oscura confusione un istante dopo.
Loki Laufeyson
bevve fino all’ultima
goccia di idromele, poi gettò con stizza il corno a terra.
Lo vide sbattere sul
pavimento lucido e rotolare fino alla punta degli stivali di Thor, che
lo
attendeva a braccia conserte e con un sorriso mesto sul viso stanco.
“Chi
eri stavolta?”
Loki
piegò le labbra in una smorfia
infastidita. “Ha importanza?”
“Non
posso parlarne che con te,” gli
ricordò il dio del tuono sfoggiando una sincerità
assoluta, perfetta,
inattaccabile, vera. Un’ammissione che nemmeno lui poteva
ignorare o aggirare.
Lo sguardo di
Lingua d’Argento si
puntò in quello del fratello. “Mi ha riconosciuto
all’inizio, per quello che
vale.”
“Sei
uno dei pochi fortunati. Io sono
il suo barbiere, il domestico, il palafreniere, un fastidioso
mendicante,
persino,” elencò il tonante nel tentativo di
rendere meno pesante l’aria che si
respirava in quel corridoio invaso dalla penombra.
“Chissà
che belle chiacchierate, che
vi fate.” Loki rispose con un certo divertito distacco, ma
era evidente come
avesse apprezzato il tentativo conciliante di suo fratello e le
lusinghe con
cui voleva renderlo parte di qualcosa da cui lui, invece, era fuggito.
Ogni volta che
attraversava il
Bifrost per tornare a Vanheim, dove il suo nome veniva pronunciato con
un misto
di soddisfazione e dispetto insieme, si riprometteva che quella sarebbe
stata
l’ultima visita che faceva alla figura sempre più
emaciata e smunta di suo
padre, perché quel vecchio debole e malato non era
più Odino. I loro discorsi
non erano che la replica sbiadita di altri già fatti o
l’ipotesi amara di un
passato inesistente. Ascoltare ciò che rimaneva di Padre
Tutto era una
straziante perdita di tempo capace solo di ricordargli, una volta di
più, le
ironiche contraddizioni della sua esistenza. Certamente non esclusive
– Loki
era troppo intelligente per credersi l’unica vittima di un
destino avverso e
sapeva perfettamente che ogni essere vivente è costretto a
sopportare le sue
personali tragedie –, ma non per questo meno dolorose.
“Ieri
mi voleva cacciare via con un
bastone. Ha chiamato le guardie, diceva che volevo rubargli
l’idromele,”
raccontò il maggiore dei due.
L’ingannatore
abbassò il volto per
nascondere il riso divertito che gli era salito inevitabilmente alle
labbra
immaginando la buffa scena, perché nonostante tutto faceva
ridere l’idea che
Odino avesse scambiato il suo erede designato per un furfante ubriacone
e si
fosse messo in testa di chiamare le guardie.
Un’ilarità che capitava
maledettamente a sproposito, a dire il vero, perché Loki non
era ancora
disposto a perdonare Asgard o suo padre o Thor e, forse, non lo sarebbe
stato
mai.
“Deve
essere stato spassoso,”
confessò nonostante tutto.
“Come
no, spassosissimo,” si lamentò
Thor indicandogli un livido che gli deturpava la fronte. “Lo
vedi, questo? Me
lo ha fatto lui. Con te è più
tranquillo,” aggiunse.
Il sorriso
divertito svanì dalle
labbra perennemente ironiche di Lingua d’Argento.
“Sono venuto fin troppo
spesso qui. I miei affari sono altrove.”
“È
nostro padre.”
“Era
mio padre quando mi ha rinchiuso
e poi bandito?”
“Ti ha
perdonato. Dovresti farlo
anche tu, viste le sue condizioni.” Com’era
cambiato suo fratello! Non era il
dio del tuono irruente e guerrafondaio con cui era cresciuto,
quell’uomo deciso
di fronte a lui che gli parlava del potere liberatorio della clemenza.
Aveva un
atteggiamento più posato, riflessivo, maturo. Di Re. Loki lo
guardò dall’alto
in basso e gli rispose con un ghigno tetro, amaro.
“Quanta
parte hai avuto in quella
decisione?”
“Non
ha importanza,” sospirò l’altro.
“Ritorna. Fallo per te o per me, se non per lui.”
Il dio degli
inganni aveva masticato
un’imprecazione tra i denti e si era allontanato per le volte
immense e buie di
Asgard senza voltarsi.
All’inizio
Odino lo aveva
riconosciuto, era vero. Loki era entrato senza farsi annunciare e lo
aveva
trovato intento a leggere un poema antico. Con l’indice
seguiva le rune che si
susseguivano le une alle altre sulla carta e muoveva le labbra senza
far uscire
alcun suono, come se volesse assaporare meglio il senso di quella
lettura.
Il dio degli
inganni aveva
riconosciuto immediatamente il libro dalla copertina e si era stupito,
perché
non credeva fosse il genere di suo padre. Si era domandato se lo avesse
scelto a
causa della malattia che tirava fuori la sua natura senza inibizioni
né controlli,
o se fosse un’altra delle cose scollegate e senza senso che
sempre più spesso
gli capitava di osservare. Gli chiese perché lo stesse
leggendo e cosa pensasse
della storia e dove era arrivato.
Padre Tutto
alzò lo sguardo un tempo
vivo e acuto su di lui. “Loki, sei tornato. La tua traduzione
era così
appassionata che volevo controllare l’originale.”
Il dio degli
inganni si irrigidì. Non
aveva la benché minima idea di cosa stesse dicendo suo
padre. Non leggeva quel
poema da anni e non ricordava di averlo mai tradotto. Forse,
rifletté, la mente
di Odino era rimasta impigliata in qualche punto indefinito della sua
adolescenza. Sì, forse in effetti poteva aver fatto una
traduzione di qualche
passo dell’opera quando ancora andava a scuola.
“Non
dico che non sia ben fatta,
Loki. È solo un po’ libera. Avvicinati,”
lo incalzò con un gesto. Loki si accostò
cauto alla poltrona dove era seduto il genitore. “Vedi qui?
Qui dove il Poeta
usa questo verbo? Tu hai tradotto usando dispiacere,
ma avresti potuto scegliere un termine differente. Nostalgia
o rimpianto
sarebbe andato meglio.”
Loki lesse le
righe incriminate e
cercò di difendere un lavoro che non ricordava di avere
svolto, ma dovette
ammettere a se stesso che le note di Odino erano esatte. Se avesse
dovuto
tradurre in quel preciso istante il brano nella lingua degli Asi,
avrebbe usato
la parola rimpianto,
senz’altro. Ma la
versione che gli veniva attribuita era comunque corretta e assecondarlo
faceva
parte del piano, della strategia che lui stesso aveva suggerito con
riluttanza
a Thor. Sarebbe stato inutile cercare di discutere con un vecchio
demente.
Meglio compiacerlo, nei rari momenti di serenità come quello.
“Capisco
la tua scelta, ma dovresti
essere più preciso e letterale. Ogni parola ha un senso
preciso, una sfumatura
particolare e tu devi scegliere quella giusta, tutto qui,”
insistette l’anziano
Re sottolineando la frase con un gesto delle sue mani un tempo grandi e
forti.
Loki non poté fare a meno di chiedersi se quella brillante
considerazione gli avesse
attraversato la mente quando lo aveva chiamato prigioniero,
anziché figlio.
“Il
fatto,” concluse Odino con una punta di
improvvisa dolcezza, “è che sei giovane, Loki, sei
solo un ragazzino e non sai
ancora cos’è il rimpianto, per fortuna.”
Quello non era
suo padre. Era la sua
ombra sbiadita e scollegata. Il signore di Asgard non aveva tempo per
interessarsi dei suoi compiti. Non si era mai speso nello spiegare
così
approfonditamente qualcosa. L’Odino che conosceva gli avrebbe
detto che il suo
lavoro era imperfetto, manchevole, inesatto. Voleva sapere
perché? Studiasse
meglio, allora. Non si aspettava certo che se un giorno avesse avuto un
trono sotto
le terga qualcuno gli sarebbe venuto a dire dove sbagliava, vero?
Certo, era un
padre più vigoroso, giovane
e sanguigno di adesso, quello di quando lui era adolescente. Non
sembrava
nell’aspetto un vecchio pallido e fragile, ma era un uomo
vigoroso e nel pieno
delle sue forze. A tradire una certa stanchezza ci pensavano la testa
già
bianca e le molte rughe che gli solcavano la fronte, ma per il resto
l’Odino di
quel tempo era stato un sovrano dotato di un pugno di ferro.
All’epoca in cui
Loki si spaccava la testa sulle traduzioni delle Rune, suo padre
schiacciava
senza pietà popoli ribelli ai confini dei Nove Regni.
No, al tempo in
cui quello stesso
volume che ora il vecchio sovrano stringeva tra le dita era posato
sulle sue
ginocchia, Loki non conosceva il rimpianto, ma era già
affondato fino all’orlo
degli stivali nel sangue e nel fango dei campi di battaglia di Asgard.
Aveva provato
la paura di morire che tiene svegli la notte e sentito in bocca il
sapore
metallico del sangue. Si era portato il poema – di questo si
trattava, in una
campagna militare particolarmente feroce e quella sua traduzione libera
l’aveva
fatta di sera, mentre accanto a lui Thor dormiva, anzi russava. Lui,
con una
luce fioca e un foglio trovato per caso, aveva aperto il libro, scelto
un passo
di media difficoltà e aveva cercato di trovare le parole
giuste che sapessero
restituire, nella lingua degli Asi, il senso del brano. Era un
ragazzino con il
moccio al naso, allora, e le aveva appena prese. Non riusciva a dormire
perché
nella foga della battaglia era stato colpito, e sul suo torace non
ancora
sviluppato spiccavano i segni bluastri di un grosso livido. Vanno in
guerra molto
presto i figli degli Asi, e questo è il prezzo da pagare
affinché diventino
guerrieri feroci e abili.
Il ricordo non
riaffiorò
immediatamente nella mente di Loki Laufeyson. Lo fece piano, con
lentezza,
piuttosto, risalendo quando Odino aveva ormai smesso di riconoscerlo e
parlargli come se fosse adolescente e si era messo a discorrere
scambiandolo
per qualcun altro, o forse no. In fondo, anche Padre Tutto parlava con
un’ombra, solo che non ne aveva la consapevolezza. Credeva di
spiegare un verso
straniero al suo giovanissimo figlio dallo sguardo offeso e con un elmo
vistoso
che gli calzava troppo grande sul capo, e invece quel Loki non
c’era più, non
esisteva che nella sua testa. Al suo posto c’era un altro, un
uomo nel pieno
delle sue forze cui non occorreva che nessuno chiarisse niente,
tantomeno cosa
fosse il rimpianto. Odino continuò il suo chiosare e poi gli
raccontò come
avesse sempre amato quel testo perché trovava che dicesse
cose vere e belle, e aggiunse
che il suo autore doveva aver avuto un animo davvero molto sensibile
perché
sapeva guardare con attenzione dentro al cuore degli uomini.
“Come
quel… come quel” s’incartò,
sfiorando tra loro i polpastrelli dell’indice e del pollice.
Il nome che gli
era salito alle labbra e stava per pronunciare davanti a
quell’adorabile
insolente di suo figlio improvvisamente svanì,
sfumò. Non era più di fronte a
un ragazzo brillante che andava educato, ma a un viso ben noto e
combattuto, di
cui non poteva non riconoscere lo sguardo grifagno e fiero.
“Cosa
sei venuto a fare, qui?” disse
quasi tremando.
Loki non rispose
immediatamente. Vide
l’occhio vacuo e azzurro di Odino fissarlo in modo cattivo,
riconobbe la paura
nella sua voce, ma non fu in grado di capire dove volesse andare a
parare il
genitore, così attese nuovi indizi, pronto a cogliere
qualsiasi mutamento
nell’aspetto e nelle parole dell’altro.
“Torna
da dove sei venuto. Torna in
mezzo ai ghiacci,” gridò il vecchio alzandosi
all’improvviso dalla poltrona.
Non fu solo il
riferimento alla
bianca e inospitale Jotunheim, a colpirlo. Fu il corpo di suo padre.
Nell’atto
di alzarsi la coperta che gli copriva le gambe cadde rivelando la
figura
emaciata e avvizzita di un vecchio. Dov’era il sovrano
prestante che, quando
batteva col suo pugno sui braccioli dell’Hlidskjalf, faceva
tremare l’intera
sala?
Il terribile Re
che non si era
commosso neanche vedendolo in ceppi dopo averlo creduto morto era
svanito,
perso. L’ultima volta che Loki lo aveva visto era stato
quando, con una punta
di esitazione, aveva firmato quel fottuto trattato. “Tu hai
permesso la mia
presenza,” gli ricordò.
Una mano
scivolò rapida sull’elsa del
pugnale che teneva sempre al fianco e le dita ne accarezzarono il
metallo
freddo. Non ce ne sarebbe stato bisogno, eppure era una precauzione che
non
poteva fare a meno di adottare. Una misura spiacevole che gli scatti
improvvisi
di Odino rendevano inevitabile.
“Non
ti appartiene,” esplose il
vecchio. “Non ne hai alcun diritto. Non puoi tornare e
ripensarci. Non è una
cosa tua, non è un oggetto.”
Le vene sulla
fronte di Odino si
gonfiarono e la sua voce tornò a essere improvvisamente
quella del dio delle
forche* spietato e inclemente. Una guaritrice, sentendo le urla,
entrò e gli
disse che forse era il caso che andasse via per non agitare
ulteriormente suo
padre e Loki uscì dalla stanza senza ribattere né
replicare. Di nuovo, il tempo
era loro nemico. A cosa, anzi a chi
si stava riferendo? Quale antico avversario gli aveva messo davanti la
sua
mente sfilacciata? Il dio degli inganni era troppo intelligente per non
aver
pensato a un nome in particolare e rifletté su quanto
fossero state
infinitamente meno penose, le volte in cui lo aveva scambiato per il
suo guaritore,
un lontano parente di Frigga o un commilitone conosciuto quando era
ragazzo. La
voce di Odino, gonfia d’ira, attraversò la soglia
ancora aperta e lo investì
per l’ultima volta.
“Un
picco di ghiaccio. L’ho trovato
su un picco di ghiaccio. Tu cosa ne vuoi fare, adesso?
Un’arma contro di me?”
Era stato allora
che Loki aveva
ordinato al servitore più vicino di portargli in fretta un
corno di idromele,
mentre l’urlo sguaiato di suo padre ancora gli rimbombava
nelle orecchie e un
pensiero lo coglieva: dal fondo del tunnel dove era precipitato, Odino
non solo
riviveva brandelli di ciò che era stato, ma anche di ciò che avrebbe potuto essere,
smarrendosi in un reticolo dove il
passato si confondeva con ipotesi, incubi e desideri. Il sovrano di un
tempo,
temuto e rispettato da tutti i Nove Regni, ora era schiavo delle sue
parole e
delle sue speranze, in una giostra senza fine da cui non sarebbe sceso
mai più.
Odino non aveva mai avuto modo di apostrofare in quel modo Laufey, il
signore
di Jotunheim, ma molto spesso, nel cuore della notte, gli era capitato
di
immaginarsi quel dialogo. Avveniva quando si affacciava nella camera
dei
bambini e osservava i suoi figli finalmente addormentati, due pesti fin
troppo
vivaci che riposavano scomposti in un letto con le coperte
aggrovigliate e
l’aria serena e beata. Non erano ancora il dio del tuono e
quello dell’inganno,
ma gli indifesi eredi del suo retaggio. Mentre loro sognavano di essere
già
grandi, Padre Tutto avrebbe voluto fermare il tempo e lasciare che
rimanessero per
sempre bambini rumorosi e felici, quasi che una parte di lui avesse
sempre
saputo, fin da allora – e come avrebbe potuto non essere
così, del resto? – che
un giorno la verità da cui cercava di proteggere la sua
famiglia sarebbe venuta
fuori, e la ragione di stato avrebbe fatto i conti con gli affetti.
Loki tutto
questo non lo avrebbe
saputo mai, né avrebbe potuto immaginare quanto il suo
lancinante pensiero si
fosse drammaticamente avvicinato al vero. Si maledisse mentalmente per
essersi
imposto una volta ancora di incontrare quell’uomo anziano e
malato che chiamava
padre, e gli parve di risentire la sua voce tristemente ironica, mentre
tornava
a rinchiudersi nel suo esilio volontario su Vanheim. Quella che aveva
quando
era ancora il sovrano degli Asi e la sua mente non se n’era
andata. Le parole
dell’ultima frase che gli aveva rivolto mentre siglava con la
sua firma il
trattato di pace tra Asgard e i Vanir gli risuonarono dentro in tutta
la loro
profonda semplicità. Toglimi una
curiosità: sei soddisfatto?
***
A Vanheim il
freddo era forse meno
pungente, ma tirava comunque un vento fastidioso e insolente capace di
infilarsi sotto i vestiti e gelare la pelle e le ossa. Loki Laufeyson
scelse di
entrare da una porta secondaria e, sgrullandosi il mantello dalla neve,
si
incamminò rapido e deciso verso un luogo neutro, silenzioso
e solitario dove
avrebbe potuto calmare i propri nervi esasperati: la biblioteca, il
posto
perfetto dove rinchiudersi se era troppo presto per dormire e non era
dell’umore adatto per cercare compagnia. Il vecchio Njord**
non era un lettore
accanito né un uomo particolarmente colto, ma amava
collezionare testi rari e
fare sfoggio della propria ricchezza. Nel corso del suo lunghissimo
regno,
aveva accumulato una quantità enorme di volumi, tanto che le
sale che
costituivano la biblioteca avevano dovuto essere ampliate per ben due
volte. A
usufruire dell’impressionante raccolta era quasi
esclusivamente Loki, motivo
per cui aveva sempre con sé una copia delle chiavi delle
ampie stanze ed era
solito entrare e uscire nelle ore più disparate. Fu questo
il motivo per cui vi
si rifugiò senza nemmeno prendere in considerazione
l’idea che avrebbe potuto
non essere solo.
Le sue
aspettative vennero
immediatamente disattese dalla penombra calda che regnava nella
biblioteca e
dall’odore sottile e amarognolo di brace. Il gigantesco
camino che scaldava le
stanze era acceso e un fuoco flebile e tremante, ormai vicino a
spegnersi,
gettava una luce rossastra sugli scaffali ordinati ricolmi di libri,
sui
pesanti tavoli di quercia dalle zampe intarsiate e sulle poltrone
rivestite di
pelle. Su una di queste dormiva, rannicchiata sotto a una coperta
leggera,
l’intrusa che aveva osato violare il suo spazio. Sigyn.
Al dio degli
inganni non poteva
interessare di meno del perché la nipote di Njord fosse
lì nel cuore della
notte. Gli sarebbe importato molto di più sapere il motivo
per cui la ragazzina
aveva scelto proprio la sua poltrona per addormentarsi.
Lanciò appena uno
sguardo sbieco e rapido ai libri posati sul tappeto, ma poi i suoi
occhi finirono
inevitabilmente per salire con lentezza sulla lana in cui era avvolta
la Vanir,
sulla figura snella che intuiva sotto lo strato spesso di stoffa, sulle
ciocche
bionde sparpagliate sul bracciolo e sulle labbra leggermente schiuse.
La
coperta penzolava da un lato scoprendole appena la dolce linea del
collo e il
principio della scollatura rotonda del vestito. Indovinò che
indossava un abito
semplice e femminile, capace di esaltarle le forme senza accentuarle e
si
sposava fin troppo bene con la sua carnagione chiara. Loki si
stravaccò sulla
poltrona gemella, sistemata di fronte a quella dove dormiva Sigyn.
Non avrebbe
cambiato posto perché lì
c’era lei. Aprì un testo zeppo di rune e formule,
appuntandosi su una pergamena
brevi sunti dei punti più salienti. Ciò che i
Vanir non capivano, quello che
non riuscivano a interiorizzare e a far proprio, era che non bastava
accumulare
libri od ottenere una vittoria, per poter dire di essere potenti.
Occorrevano
costanza, determinazione e fermezza per mantenere i punti fermi
acquisiti e
accaparrarsene di nuovi. Se
ora Njord poteva
trattare da pari con gli Asi era perché lui, Loki Laufeyson,
si era preso
l’onere di guidare le sue armate e decidere le tattiche
militari migliori e
continuava a lavorare per non perdere terreno e prestigio. Era anche
per questo
che tutti gli dovevano qualcosa, a Vanheim. Alzò la testa
per sgranchire il
collo contratto, e il suo sguardo pungente e accigliato si
posò di nuovo su
Sigyn addormentata. Oltre l’orlo del corsetto che le fasciava
il busto sporgeva
la dolce curva del seno che si alzava e abbassava con placida lentezza.
Una
visione disturbante, piacevole, rubata e per questo più
intrigante, soprattutto
in quell’ora della notte in cui ogni rumore o pensiero veniva
ingigantito dal
buio. Una scena simile sarebbe capitata in un altro luogo, in un tempo
diverso,
ma identico sarebbe stato il desiderio.
“Sigyn.”
La svegliò lui? Pronunciò
veramente il suo nome? La ragazza stesa davanti a lui
sospirò stirandosi appena
sotto la coperta di lana e poi batté lentamente le palpebre,
aprì gli occhi
assonnati e gonfi, sussultando nel ritrovarsi il suo sguardo verde
addosso a
quell’ora, nella penombra della biblioteca deserta.
Era bella e non
lo sapeva. Si sollevò
rapidamente dalla poltrona, senza accorgersi del disordine in cui
versava,
spettinata com’era. Loki Laufeyson ne approfittò
per guardarla ancora e di
nuovo, crogiolandosi nel suo disorientamento perché amava
ammirare il caos,
quando se lo trovava di fronte.
“Dove
sei stato?” Una domanda
insolente detta con voce impastata, ma non priva di una nota di
estranea
dolcezza e di una familiarità che non avrebbe dovuto
esserci.
Sigyn lo
disapprovava apertamente eppure,
alle volte, lo guardava negli occhi e gli faceva quelle domande
assurde, perché
nella sua realtà fatta di libri e grandi ideali
l’ipocrisia dei Vanir era
un’offesa e la gentilezza andava elargita a tutti, persino al
dio degli inganni
con cui litigava ai banchetti. A Vanheim, Loki era un cortigiano
indispensabile
e scomodo allo stesso tempo che non faceva parte di nulla, di niente.
Lei
conosceva ciò che si diceva su di lui, aveva cognizione di
chi fosse e cosa
avesse fatto, eppure talvolta si permetteva di bacchettarlo,
apostrofarlo,
litigare, perché l’Ase avrebbe potuto scegliere di
essere dalla sua parte nelle
varie conversazioni che si tenevano a cena e forse sotto sotto lo era,
ma
preferiva lasciare che si arrangiasse e assecondava Njord per mero
comodo. Lei
questo lo sapeva e con quei suoi begli occhi grigi non glielo
perdonava, ma
talvolta ugualmente gli riservava la dolcezza che l’aveva
resa cara a Njord e a
molti altri. Era stata premurosa, ecco. Loki arricciò le
labbra in una smorfia
di disappunto, perché gli affondi della sua lingua affilata
e crudele erano
meno potenti, se venivano contrapposti alla gentilezza e alla cortesia.
“Ti
stai interessando dei miei spostamenti.”
Più che una domanda retorica era un’annotazione,
un appunto che sottendeva
quanto fosse stata inappropriata la sua battuta.
Sigyn
inclinò leggermente il capo da
un lato e si passò una mano tra i capelli in un altro dei
suoi gesti sensuali e
irresistibili che faceva con infinita grazia e totale inconsapevolezza.
Se non
fosse stata la nipote di Njord, Loki avrebbe ghignato di fronte alla
sua
bellezza e avrebbe cercato un modo per avvicinarsi di più a
quel corpo snello e
invitante. Solo che toccare Sigyn o anche guardarla troppo intensamente
era più
di un reato: se solo l’avesse sfiorata, gli sarebbe pesata
immediatamente sul
capo un’accusa di alto tradimento, perché nelle
vene che spiccavano sotto i
polsi chiari della ragazza scorreva il sangue della stirpe che aveva
governato
Vanheim da sempre. Loki strinse leggermente le palpebre affaticate e
scosse il
capo come se volesse scacciare un pensiero fastidioso; l’ora
tarda e la
stanchezza gli avevano fatto guardare per un attimo la bionda Sigyn in
una
maniera sbagliata, diversa.
“Stasera
a cena mi sono mancate le
tue battute. Tutto qui,” sospirò lei lanciandogli
un sorriso d’intesa.
“Da
quando le mie battute ti mancano,
principessa? Non ricordo una cosa su cui siamo mai stati
d’accordo.” Il titolo
servì a ristabilire gerarchie e lontananze, a rammentare
all’Ase quanto fosse
impossibile ottenere la ragazza di fronte a lui. Deliziosamente
impossibile.
“No.”
Sigyn guardò in basso, verso il
tappeto finemente intrecciato con fili blu, verdi, bianchi e dorati che
la
scarsa luce notturna rendeva un’unica macchia indistinta.
“Noi su alcune cose
la pensiamo allo stesso modo, solo che a te non conviene dirlo. Non lo
ritieni
utile.”
Loki si protese
verso di lei e rise, freddamente
divertito per la compita serietà di Sigyn che si fissava la
punta degli
stivaletti scuri.
“Sarei
ipocrita?”
La ragazza
scosse la testa e lo
guardò con aria affranta. La puntuale perifrasi
dell’Ase era stata scarna e
pungente, ma non esatta. C’era troppa crudeltà
nella definizione che aveva
dato. “Ti chiamano dio dell’inganno”,
spiegò. “Esibisci atteggiamenti che non
ti appartengono. Solo che questo modo di fare tu non lo mascheri
né te ne
vergogni. Non te ne penti. Sei tu e basta.” Si
alzò tirandosi appresso la
coperta di lana che ancora tratteneva il calore del suo corpo.
“Sembrerebbe
un’amara constatazione,”
fu la laconica risposta.
“Non
è amara. Davvero. Tu valuti se
appoggiare un punto di vista rispetto a un altro, ma non pretendi di
essere ciò
che non sei. Ti fai chiamare dio degli inganni: chiunque scelga di
parlare con
te sa già cosa rischia,” puntualizzò
Sigyn. “Discutevano del Solstizio,
stasera,” proseguì, “mancano ancora tre
mesi e già si preoccupavano di quanto
dovessero essere grandi e sontuosi gli addobbi e i festoni.”
“Una
conversazione irrinunciabile.”
“Appunto.
Me l’avresti resa più
tollerabile.”
“Proprio
tu dici questo? È la tua
festa preferita,” ricordò l’Ase giocando
con le pagine del volume che aveva
scelto di consultare quella notte.
“Lo
è perché vivo dentro queste mura.
Se fossi povera o senza una famiglia non lo penserei, ti
pare?” Sigyn si morse
le labbra. Non riusciva mai a dire la cosa giusta, quando parlava con
Loki.
Discorrere con lui era qualcosa di esaltante e terribile. La viva
intelligenza
di Lingua d’Argento la irritava, la spronava, la lusingava e
la conquistava
allo stesso tempo, provocandole un miscuglio di sensazioni che nessun
altro
interlocutore era capace di farle provare.
“Godi
di quello che hai, allora.”
Sigyn
aggrottò le sopracciglia, si
strinse di più nella coperta. La frecciata era stata
involontaria, e questo
l’Ase senz’altro lo aveva capito o forse non gli
interessava, anche se la piega
nostalgica delle sue labbra ironiche suggeriva altro e contrastava con
la
durezza del suo sguardo. La ragazza pensò anche a cosa
avesse e cosa, invece,
le mancasse, e scoprì che le assenze avevano un retrogusto
amaro, come la
festività sontuosa e inevitabilmente tragica che si
avvicinava. No, gli occhi
di Loki non erano severi e protervi, tutt’altro. In loro
c’era un rimpianto
oscuro che lei non poteva conoscere né toccare.
“Le
Norne non hanno filato per noi un
destino eterno, Sigyn. Tutto quello che abbiamo, che odiamo, che
desideriamo
finirà, prima o poi.” Glielo disse senza
guardarla, continuando a sfogliare
distrattamente le pagine scritte fitte del volume, ma alla ragazza
sembrò che
il dio degli inganni stesse cercando non di convincere lei di quanto
fossero
provvisori e fugaci i mondi retti dall’Yggdrasill, ma se
stesso. Se ci fosse
stata una maggiore confidenza tra lei e l’Ase, forse Sigyn si
sarebbe
arrischiata a domandargli il motivo per cui parlava come se avesse
diverse
migliaia di anni sulle spalle, ma lei e Loki non condividevano nulla se
non
l’ironia con la quale alle volte osservavano quanto fosse
ipocrita il mondo e
un certo interesse per i libri, così tacque.
Addentrarsi in
una conversazione
sulla caducità dell’esistenza sarebbe stato
affascinante, ma la notte era
troppo profonda e dietro il sorriso laterale e breve di Lingua
d’Argento c’era
un’inquietudine che la ragazza riconobbe come pericolosa, in
qualche modo.
“Credo
che mi preparò una tisana, per
dormire,” annunciò. “Potrei farla anche
a te.”
Il dio degli
inganni le puntò addosso
il suo sguardo trasparente e aguzzo, come se volesse valutare le sue
reali
intenzioni. “Non c’è bisogno,”
si affrettò a rispondere ripristinando
all’istante posti e ruoli.
Sigyn
sospirò allontanandosi “Potrei
farne troppa comunque e lasciarla nelle cucine,” concesse
esitando, e sparì
nell’ombra assieme al suo profumo.
***
Loki
tornò ad Asgard quando mancava appena
un mese al Solstizio. Lo fece sfruttando sentieri noti a lui solo, con
il
favore delle tenebre. Thor gli aveva detto che Odino era peggiorato, e
anche se
si era ripetuto mille volte che ogni sua curiosità era stata
soddisfatta e non
voleva più vedere il disfacimento fisico e mentale
dell’uomo che aveva chiamato
padre, si era ritrovato suo malgrado a calpestare di nuovo la terra
brulla
degli Asi già ricoperta di soffice neve. Non si tolse il
mantello, al cospetto
di quello che era stato il sovrano di Asgard. Si lasciò
cadere sulla poltrona
più vicina osservando la figura indaffarata
dell’uomo che gli aveva insegnato a
trattare e a mentire e che, nascondendo sotto un’espressione
indecifrabile
l’ammirazione, si era accorto per primo del suo talento con
le Rune***. Se solo
glielo avesse detto.
Odino rovistava
nei cassetti e negli
armadi e sembrava non prestargli alcuna attenzione. Di tanto in tanto,
alzava
il suo unico occhio su di lui per esortarlo a cercare delle pinze, un
po’ di colla
o a prestargli uno dei pugnali che gli scintillavano al fianco e che il
vecchio
intravedeva sotto il mantello.
“Sei
pigro, sei pigro. Vivere lontano
da Asgard anziché fortificarti ti ha reso debole,”
sentenziò con voce
stentorea.
Loki attese
prima di rispondere,
chiedendosi una volta di più come facesse, la mente
scollegata di Odino, a
cogliere e a riconoscere in maniera sorprendente alcuni dettagli e
ignorarne
completamente altri. Forse aveva registrato il pesante mantello di lana
e aveva
notato i fiocchi di neve che erano rimasti aggrappati sulle sue spalle,
ragionò, ma questa spiegazione, per quanto fosse plausibile,
non bastò a
placare la sua inquietudine.
“Per
cosa?” domandò inclinando il
capo.
Padre Tutto lo
fissò come avesse due
teste o fosse ubriaco. “Lo hai sentito prima, no? Non riesco
a sopportare che
stia così e che mi guardi a quel modo. Devo fare qualcosa, e
ci riuscirei, se
solo trovassi le mie pinze.”
Se Thor era
stato più volte preso a
bastonate da Odino e scambiato per un ladro, il motivo era da imputarsi
solo e
soltanto alla sua scarsa, anzi inesistente capacità di
adattarsi alle
circostanze, rifletté Loki. Di fronte alle domande e alle
azioni del fratello
il vecchio genitore si innervosiva, perdendo ancora di più
il filo dei suoi
ragionamenti labili. Con lui, in effetti, generalmente era
più calmo perché lo
assecondava adattando risposte e reazioni al momento.
Batté
le palpebre, espirò con forza.
“Certo. Hai provato in quel cassetto?”
Aveva indicato
uno spazio qualunque
della stanza, ben consapevole di ritrovarsi all’interno di
una recita senza sapere
il ruolo che gli era stato assegnato. L’attimo di
disorientamento, l’istante in
cui Lingua d’Argento osservava suo padre chiedendosi cosa
l’altro vedesse al
suo posto, rappresentavano non solo per Thor, ma anche per lui un
momento di
puro, incalcolabile panico.
Odino
seguì il suo sguardo, si
accarezzò la barba bianchissima. “Può
darsi, in effetti.”
“Potresti
aspettare domani,” lo interruppe
Loki. “Non credo se la prenderà. Ormai
è sera: beviamo un po’ di idromele e
raccontiamoci qualche vecchia battaglia,” propose.
Odino
aggrottò la fronte e, per un
attimo, il suo occhio azzurro recuperò la severa durezza dei
passati fasti.
“Tu
non hai figli e non sai che vuol
dire vederli tristi.”
Lingua
d’Argento si mosse
nervosamente sulla poltrona. “Li vizierai.”
“Ma
figurati!” rise Odino. “Saranno
Asi. Cresceranno forti e sani e guideranno le mie armate,”
preconizzò con una
voce traboccante orgoglio. Strano, perché lui e Thor avevano
comandato
innumerevoli volte le truppe scelte di Asgard, e raramente il sovrano
era
sembrato soddisfatto del lavoro svolto. Quando il dio degli inganni non
era che
un ragazzo, capitò che rimanesse ferito durante un assalto.
Aveva perso i sensi
ed era svenuto in mezzo al sangue e ai cadaveri degli altri soldati.
Fortunatamente, Thor era riuscito a trovarlo e a trarlo in salvo,
caricandoselo
letteralmente sulle sue forti spalle. Odino lo aveva raggiunto quando
ancora
era ricoverato nell’infermeria del campo e, fissandolo
dall’alto in basso senza
soffermarsi con troppa attenzione sulle bende ben visibili che si
incrociavano
sul suo torace, gli aveva rivolto parole dure e secche. “Sei
tu che devi
mettere in salvo le Armate che ti affido, e non viceversa.”
La soddisfazione
non era nella sua natura, ma nemmeno in quella del suo vecchio padre,
rifletté.
Fu colto da un’idea crudele.
“Tutti saranno Asi, Odino? Che ne
sarà del figlio del gigante?” insinuò.
Un tremito.
L’anziano sovrano
interruppe la sua ricerca e aggrottò le sopracciglia
bianche. “È mio figlio.”
Loki si
alzò e gli girò attorno
incurante, per una volta, delle reazioni che avrebbe potuto avere
quell’uomo
stanco e malato di fronte alle sue parole. “No, e lo sai. Un
giorno scoprirà la
verità e sarà peggio.”
“Definisci
peggio.”
“Potrebbe
rivoltare le sue armi
contro di te.”
Odino
illividì e gli puntò il dito
contro. “Cosa dici, Vili? Hai forse smesso di bere al solo
scopo di diventare
insopportabile? Che ne sai tu, di Loki? Hai forse parlato con le
Norne?”
Lo aveva
apostrofato con il suo tono
più duro e tagliente, non privo di un certo crudele
sarcasmo. Il dio
dell’inganno si ritrasse appena, sorpreso per la reazione
caustica del
genitore. Ecco chi era, nella mente svagata di Odino: Vili****, il
fratello che
aveva scelto di vivere abbarbicato sui monti perennemente ricoperti di
neve posti
molto a nord di Asgard. Un guerriero dal fare spiccio e dai modi
decisamente
discutibili, non particolarmente buon visto a corte; un eremita
solitario che
Padre Tutto non era mai riuscito completamente a gestire e di cui
disapprovava
apertamente abitudini e pensieri, legato alla più pura
tradizione degli Asi.
Vili era un predone che aveva scelto di rifiutare la politica pacifista
che
Odino aveva abbracciato a un certo punto del suo regno, quando Thor era
nato.
Le divergenze sorte erano state tali che il fratello del re aveva
deciso di
vivere per conto proprio, palesandosi solo di rado ad Asgard. In
un’altra
occasione, Loki avrebbe trovato un filo offensivo il paragone, ma non
quella
notte.
“Prevedo
solo l’ovvio risultato di un tuo
comportamento,” precisò con voce cattiva
allargando le braccia. Non gli
interessava imitare Vili, né rispondergli in modo coerente
con il personaggio.
Le Norne avevano filato che non potesse esserci alcun chiarimento, tra
lui e
suo padre, ma sembrava si divertissero a tormentarlo con quelle recite
fini a
se stesse, dove Loki poteva parlare, sì, ma con
l’ombra sbiadita di Odino,
nient’altro. Sfidando la prudenza gli si avvicinò
fin troppo, tanto da vedere
il rancore e l’odio nell’unico occhio azzurro
dell’altro.
“È
mio figlio,” ripeté il vecchio
quasi tremando, avendo cura di scandire ogni sillaba con precisione.
“Non
l’hai portato qui con buone
intenzioni, e lo sai.”
“L’ho
cullato quando piangeva,
consolato quando era malato e accudito dal primo istante in cui
l’ho trovato su
quel picco di ghiaccio,” ricordò Odino.
“Tu c’eri! Tu hai visto dove lo avevano
abbandonato a morire, da solo,” tuonò, incapace di
contenere l’ira per l’accusa
che lo aveva tormentato per una vita intera.
“Se
non fosse stato il figlio di
Laufey, lo avresti fatto?” Era crudele, il dio degli inganni,
come solo un Asi
o uno Jotunn, nei Nove Mondi, poteva essere. Provava un piacere tutto
suo nel
rimirare gli avversari sconfitti: persino quando era stato rinchiuso
nelle
celle sotterranee di Asgard, non aveva resistito dal cercare con lo
sguardo i
prigionieri che scontavano lì la loro pena a causa sua, per
il solo gusto di
compiacersi della loro disperazione.
“È
un piano che mi è sfuggito di
mano, d’accordo,” ammise Odino tremando.
“Non lo avrei accolto nella mia casa,
se non fosse stato il figlio di Laufey, ma poi, poi,
è diventato mio figlio, Vili. Quando ha mosso i primi passi
e
iniziato a parlare, era già mio. E adesso passami almeno
della colla per
riparare questo giocattolo,” insistette.
Gli occhi di
Loki assunsero una
trasparenza quasi liquida. “Se lo sono conteso?”
sussurrò.
“Come
sempre, come tutto,” scosse il
capo il vecchio re, “ma Loki adora questo drakkar e voglio
ripararglielo.”
“Non
lo farai mai. Non ricordo tu
l’abbia mai fatto.”
La voce di
Lingua d’Argento era bassa
e roca e piena di un rimpianto incolmabile, insuperabile. Quella non
era la
realtà né la replica di qualcosa accaduto anni
prima. Si trattava
dell’esternazione di un antico rammarico di suo padre per un
momento che non si
era verificato, un gesto che non aveva avuto il tempo di compiere.
Qualunque
cosa fosse, faceva male a entrambi e basta, perché non
leniva le ferite del
passato né poteva risanare gli strappi in vista del futuro.
“Potrebbe
essere su quella mensola, è
sempre tutto in disordine qui.” Odino cercava ancora gli
strumenti per riparare
quel giocattolo fantasma che era stato distrutto da tempo e il dio
degli
inganni nemmeno ricordava.
“Avresti
potuto dirlo quando Thor mi
riportò in catene, dopo Midgard. Invece mi
condannasti.”
Incurante di
aver gettato la
maschera, osservò l’anziano genitore continuare ad
arrovellarsi nella sua
ricerca vana, consapevole di non stare parlando più con suo
padre, ma con
l’ombra sempre più inconsistente che era rimasta
di lui, fatta di brandelli di
ricordi, volontà e desideri, incapace di riconoscerlo o di
avere qualsiasi tipo
di conversazione. Odino era morto quando una notte si era sentito
soffocare e
il suo cervello era rimasto isolato un momento di troppo.
Ciò che rimaneva, era
un guscio vuoto che talvolta sembrava ascoltarlo e comprenderlo,
impossibile da
ascoltare.
“…
Ma dov’è la barca, Vili? Non la
trovo.”
Non
tornò più ad Asgard fin quando
Odino visse.
***
Le Norne sono
beffarde, ironiche,
crudeli. Giocano con il tempo in maniera imprevedibile, caotica, quasi.
Per
questo Loki Laufeyson ne ammirava spesso l’operato
fantasioso; il modo becero
in cui talvolta intrecciavano tra loro i destini e gli eventi era
divertente
agli occhi di chi, come lui, fingeva di non provare rimorsi per nessuna
azione.
Un pomeriggio nevoso anche il suo filo vibrò, e non
importò alle tre filatrici
che la loro vittima stavolta fosse proprio il dio
dell’inganno in persona. Del
resto, il fiero Ase avrebbe finito per accettare con principesca grazia
l’ennesima sarcastica trovata delle tre creature. Il punto
è che il tempo
scorre anche nei Nove Mondi legati tra loro dall’Yggdrasill,
il frassino sacro,
ma talvolta si arrotola e pare ripetersi in un circuito senza fine
né
cognizione.
Per Loki il
cerchio si chiuse quando erano
passati ormai diversi anni dalla sera grigia e triste in cui aveva
lasciato
senza voltarsi la stanza di Odino. Si ritrovò tra le mani un
giocattolo rotto,
il modellino di un drakkar. Rigirandoselo tra le dita ne
osservò l’albero
irrimediabilmente spezzato. Riconobbe la manifattura propria degli Asi
e
ipotizzò che dovesse trattarsi di un regalo di Thor.
Sua figlia era
entrata nello studio
come un tornado, arrampicandosi con proterva indifferenza sulle sue
gambe per
mostrargli il terribile danno. “Non adesso,
Sonje*****,” le aveva risposto con
voce severa.
Doveva scrivere
almeno una decina di
lettera, prima di potersi alzare da quella sedia. Missive urgenti che
giacevano
già da troppo tempo sulla bella scrivania di frassino dalle
zampe intarsiate.
Poi però vide gli occhi disperati della bimba già
in lacrime, grigi, rotondi e
dolci come quelli di lei, e disse
che
gli serviva un taglierino e della colla e, dopo aver pronunciato quella
frase,
si bloccò un momento, perché così
aveva detto Odino durante il loro ultimo
incontro. Di fronte al destino che si replicava con straziante e
impietosa
puntualità, non poté far altro che mascherare
sotto un sorriso storto e mesto e
una carezza distratta ai ricci neri della figlia, l’acuta
nostalgia per quel
vecchio crudele e spietato, bugiardo più di tutti, che lo
aveva ingannato e
solo nella pazzia gli aveva mostrato un pizzico di dolcezza. Troppo
tardi, si ripeté
per l’ennesima volta.
Sonje
alzò lo sguardo umido e
supplichevole verso l’Ase. “Non si può
riparare papà? È rotta per sempre?”
Già
le lacrime le bagnavano le ciglia
lunghe e nere. Il dio degli inganni si chinò verso di lei.
“No, questa no. La
aggiustiamo. Serve della colla,” ripeté e mentre
la bimba gli buttava le
braccia al collo, si mise a cercare l’indispensabile
armamentario che la mente
persa del vecchio Odino, una sera lontana, non aveva potuto trovare.
Per la
prima volta dopo molto tempo, gli parve di provare una sorta di
nostalgica
pietà per quel sovrano spietato che lo aveva tirato via da
un picco di ghiaccio
e gli aveva mentito per tutta la vita. Riparò
l’albero del drakkar spezzato e,
mentre lo faceva, Sonje rimase a fissarlo riempiendolo di mille
domande, perché
Loki Laufeyson si era messo a raccontarle le storie ormai lontane del
regno che
era stato di Odino e di come il Re degli Asi avesse combattuto persino
nella
terra dei ghiacci perenni, Jotunheim.
“Il re
degli Asi è zio Thor,” notò la
piccola a un tratto assottigliando gli occhi grigi.
“Odino
era suo padre.” Una pausa, una
smorfia impercettibile increspò le labbra concentrate di
Lingua d’Argento.
“Nostro padre,” si corresse.
Sonje non fu
l’unica ad ascoltare
quelle storie. Anche Sigyn le udì, oltre la porta socchiusa.
Sporgendosi appena
nello studio del marito, colse l’immagine del dio degli
inganni che consegnava
il giocattolo aggiustato nelle mani della loro saltellante ed
entusiasta bimba,
e le si strinse suo malgrado il cuore nel vedere la figura alta e
nervosa
dell’Ase chinarsi per ricevere dalla piccola un sentito
abbraccio e un sonoro
bacio sulla guancia. Poi Sonje si girò verso la porta e le
corse incontro per
mostrarle il prodigio di quella riparazione esemplare e perfetta. La
principessa dei Vanir sorrise al dio dell’inganno che
tornò ad occuparsi delle
sue molte scartoffie.
“Sto
preparando una tisana. Te ne
porto una tazza?” domandò prendendo per mano la
figlia.
Loki le
puntò addosso il suo sguardo
trasparente e aguzzo, come se volesse valutare le sue reali intenzioni
e capire
quanto avesse ascoltato delle storie appena raccontate. “Non
mi dispiacerebbe,”
rispose abbassando gli occhi verso la lettera che stava scrivendo.
Caro Lettore,
La neve che ha
imbiancato le città i
questi giorni ha fatto slittare – nota il gioco di parole, ti
prego, la
pubblicazione di questa storia che si inserisce nell’universo
di “Tutte le tue
bugie”. Ti aspettano altre storie legate a quella long fic,
oltre a un seguito
più corposo, quindi… tieni gli occhi aperti! Ma
veniamo a noi. Finalmente ti ho
svelato Sonje: ebbene sì, la nostra coraggiosa Sigyn era
incinta di una bimba.
Che dire? Come al solito ti ringrazio del tuo tempo e di essere giunto
fino a
qui. Se te la senti, fammi sapere cosa ne pensi lasciandomi un
feedback,
lanciandomi una ciabatta virtuale, scrivendomi una riga, o che so io. A
presto.
*Uno dei nomi
dati ad Odino dai
norreni è quello di “dio delle forche,”
perché fu impiccato all’albero
dell’Yggdrasill, ma questa è un’altra
storia.
**In questa
storia, Njord è l’anziano
re di Vanheim, nonno di Sigyn e padre di Freyr e Freya. La mitologia
norrena è stata
stiracchiata all’occorrenza, dato anche lì Njord
è padre di Freyr e Freya ma
non c’è alcun legame con Sigyn.
***Nella vulgata
dei film di Thor, è
Frigga, la moglie di Odino, la maga della situazione. In
verità anche Padre
Tutto utilizza incantesimi.
****Vili nella
mitologia norrena è
veramente il fratello di Odino, ma il suo carattere me lo sono
inventato.
*****Nel mito,
Loki e Sigyn sono una
coppia con due figli maschi. Nell’universo che ho creato
hanno una figlia
femmina, Sonje. Il nome dovrebbe significare qualcosa come saggezza,
stando a
una rapida consultazione di Google.
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Capitolo 2 *** Se solo riuscissi a pregare ***
Se solo riuscissi a pregare
La lama affondò nella carne con incredibile vigore e Loki rise per la precisione con cui il colpo era andato a segno. Thor gli rivolse un’occhiata laterale breve e fugace: conosceva suo fratello e non si aspettava da lui niente di meno che quella crudele violenza, ma non resistette al desiderio di farglielo notare.
“Sfoga le tue repressioni più rapidamente e su un numero maggiore di nemici,” suggerì caustico.
Il dio degli inganni estrasse con un gesto rapido del braccio il lungo pugnale. “Sono qui per farti un favore, fratello. Lo hai dimenticato?”
I capelli neri e scarmigliati contribuivano ad accentuare l’aria feroce dell’Ase assieme al ghigno perennemente obliquo, compiaciuto e tronfio che definiva le sue labbra ironiche e sottili e allo sguardo brillante. Tracce di polvere, terra e sangue non suo gli macchiavano uno zigomo violaceo e gli abiti scuri.
“Sei qui per fare un favore a te stesso. Da quant’era che non combattevi?” Loki sorrise scoprendo i bei denti bianchi perché suo fratello aveva ragione, non gli capitava di affondare gli stivali nel fango e tra i cadaveri dei suoi nemici da mesi e lui era un guerriero Asi: scontrarsi con avversari potenti era un piacere, un bisogno, qualcosa che lo faceva sentire vivo.
“Dietro di te,” gridò e si tolse rapido l’elmo cornuto per usarlo come arma impropria su uno degli uomini che si stava avventando contro di loro. Anche questa volta il colpo andò tragicamente a segno.
“Vedi?” notò Thor roteando il martello, “tu infierisci.”
“I miei non si rialzano,” puntualizzò il dio degli inganni.
Combattevano schiena contro schiena, replicando uno schema perfetto che avevano messo a punto un’infinità di volte, sfoggiando un affiatamento che avrebbe reso solamente più sconvolgente e assurda l’idea che un tempo i due guerrieri si fossero scontrati in una guerra quasi mortale. La forza bruta di Thor si mescolava ai fendenti rapidi ed efficaci di Loki, dando vita a una danza mortale che non risparmiava nessuno di quelli che si azzardavano ad avvicinarsi a loro. Il fatto era che si conoscevano da una vita intera e avevano condiviso ogni cosa per un periodo così lungo di tempo, da poter indovinare l’uno le mosse dell’altro prima ancora di vederle in atto.
Qualcuno aveva tremato, nei Nove Regni, quando era corsa la voce che le divergenze tra i due figli di Odino si erano momentaneamente appianate. Se quando erano ancora ragazzi scapestrati e fin troppo vivaci avevano sconvolto mondi con le loro bravate, ora che erano uomini fatti e finiti cosa sarebbe successo? Il dio degli inganni lanciò un incantesimo atroce congelando i suoi avversari per permettere al fratello di colpirli definitivamente con il Mjollnir in un tripudio di scintille, dolore e ghiaccio. Erano vere macchine da guerra, gli Asi, e in mezzo a loro Thor e Loki rappresentavano le punte di diamante. Il desiderio di Odino di vedere i suoi figli primeggiare sui campi di battaglia si era realizzato con assoluta precisione.
Il sole tramontò sul campo di battaglia sancendo una prima importante vittoria per i soldati di Asgard; si festeggiò con canti, balli e idromele versato a fiumi. Anche i due principi degli Asi brindarono alla buona sorte e risero e scherzarono, ma si ritirarono dopo poco in un’ampia tenda allestita a quartier generale. Somigliava, nell’aspetto, a quelle dove Odino vestito con la sua armatura scintillante pianificava attacchi e sortite. Loki osservava con aria severa la mappa spiegata della zona. Piccoli punti indicavano dove erano stanziate le truppe avversarie rispetto alle loro, e tutta la sua figura agile e nervosa era protesa verso il tavolo. Le dita di mago ancora portavano i segni degli scontri recenti.
“Aggirandoli non è detto che li sorprenderemo.” Fissò Thor negli occhi. La penombra della tenda gli restituì un’immagine del dio del tuono più solenne di quanto non fosse realmente.
“Oggi abbiamo vinto,” notò il primo figlio di Odino.
“Non è un buon motivo per cullarci dietro a questo risultato.” Il dio degli inganni girò attorno al tavolo ingombro di mappe, con la fronte aggrottata e le mani incrociate dietro la schiena. L’istinto del cacciatore che albergava dentro di lui gli diceva che stavano sottovalutando qualcosa, un dettaglio importante che forse una buona dormita e del riposo gli avrebbero reso più facile afferrare, ma che ora, dopo ore passate a combattere sul campo di battaglia, era più difficile individuare. Il rumore flebile della tenda che si sollevava attirò immediatamente l’attenzione di entrambi i comandanti su un messaggero incerto e dall’aria agitata.
“Un messaggio per Sua Altezza. Da Vanheim,” disse porgendo a Loki un foglio spiegazzato. L’ingannatore lo congedò con un cenno distratto del capo e ruppe il sigillo. Non era una lettera di Sigyn. Lei usava una carta di colore diverso e quando leggeva le sue righe l’Ase piegava involontariamente un angolo della bocca in un mezzo sorriso. Il mittente era differente e la notizia non certo buona. Thor vide suo fratello scorrere più volte con gli occhi sulle frasi vergate con cura e notò come avesse serrato la mascella affilata.
“Che è successo?”
Una pausa. Loki accartocciò il foglio, lo tenne stretto nel palmo. “È iniziato il travaglio,” spiegò con una voce innaturalmente incolore.
“Non è presto? Non doveva finire il tempo tra un paio di settimane? Voi due siete degli sprovveduti,” lo redarguì Thor. “Non sapete quando lo avete concepito, non sapete quando nascerà. Avevate dubbi persino su come è potuto accadere,” ricordò esasperato.
La risposta del dio degli inganni tardò ad arrivare perché gli sembrò che la lingua altrimenti svelta si fosse incollata improvvisamente al suo palato. Deglutì, non riuscendo nemmeno a offendersi per le frasi del fratello che trovò nella loro rudezza consolanti. “Non ci siamo sbagliati sul tempo. Sta nascendo prima e basta.”
Il Re degli Asi non si perse d’animo. “Vai. Heimdall, apri il Bifrost!” gridò. Il portale si aprì immediatamente in un fascio di luce biancastra, lasciando a terra un reticolo di rune potenti, antiche.
“Siamo nel mezzo di una battaglia,” Loki non era così indifferente alla notizia da non voler andare, tutt’altro, ma lasciare il fronte in quel momento era rischioso. Vincere una battaglia non significava affatto uscire trionfanti da una guerra, e per quanto lui e il dio del tuono fossero tornati a essere l’imbattibile squadra di un tempo, la rigida educazione di guerriero degli Asi lo frenava. E poi c’era il resto, quello che non aveva detto a suo fratello e che aveva intuito nella frase spiccia e accorata di Freya.
“Cos’è questo attacco di improvvisa responsabilità? Non me ne faccio niente di te, se stai con la testa altrove!” Il tono di Thor era severo, perentorio, inflessibile. Parlava con la stessa assertività di Padre Tutto per non avendone ereditato la malizia retorica. Il suo tono era quello di un Re e di un fratello maggiore. “Vai a Vanheim, bacia tua moglie e tuo figlio e torna qui. Non vinceremo né domani né dopodomani!”
Il dio degli inganni annuì e si lanciò nel portale scintillante e luminoso. Non appena fu sparito all’interno della colonna di luce, Thor chiamò di nuovo Heimdall. “Che cazzo gli hanno detto?” Sentita la risposta, si passò una mano sulla fronte. “Fottute Norne,” sospirò.
***
Fottute Norne. A Vanheim pioveva perché l’estate era finita e, sebbene ormai fosse quasi l’alba, il cielo continuava ad essere gonfio di pioggia, tetro, nero. Loki aveva le nocche sanguinanti ed escoriate e sedeva sull’unica poltrona non ancora distrutta dal seidr. La sua figura altrimenti altera e fiera era protesa in avanti senza tentare di mascherare l’ansia che l’attesa straziante gli provocava. Teneva gli avambracci posati sulle gambe e gli occhi fissi sulla porta chiusa a chiave di fronte a lui e con la suola degli stivali ancora inzaccherati di fango, tamburellava nervosamente il pavimento di legno.
Avrebbe potuto invocare Skuld e pregarla di risparmiarle, ma scoprì di non avere voce per quella richiesta. Cosa avrebbe detto alla bambina terribile che fila il destino degli dei e degli uomini e, implacabile, decide il loro futuro? Per quale stramaledetta ragione lui doveva essere così fortunato ed essere risparmiato da una sorte infausta? Era Loki di Asgard, il dio degli inganni, e una profezia antica, la Voluspa, diceva che un giorno avrebbe svegliato Surtur e distrutto il mondo così com’era e lui lo sapeva e così Thor, Odino, Frigga persino.
Sua madre, con una voce cantilenante e dolce che raramente ricordava, gli aveva detto per consolarlo che le veggenti spesso non sono in grado di scorgere con estrema chiarezza quello che hanno filato le Norne impietose, e che rivelando i loro sogni spesso fanno avverare la premonizione. Conoscere il futuro non era altro che una maledizione ingiusta, ma a rendere tutta la questione decisamente più crudele, era l’interpretazione che occorreva dare alle parole ambigue delle veggenti. Cosa significava, gli aveva suggerito la brillante Frigga accarezzandogli i capelli scuri, che voleva dire distruggere il mondo?
“Che non sarò un buon Re o non sarò affatto un Re. I miei antenati sono ricordati per le loro imprese eroiche e brindano nel Valhalla, mentre io…”
La voce di Loki, non ancora mutata, si era incrinata di fronte alla spaventosa tragedia che le parole di una vecchia pazza avevano mostrato. La sua fervida immaginazione di ragazzino era corsa a disegnare gli infiniti e disperati scenari possibili in cui un se stesso diverso, adulto e pieno di altezzoso sdegno, condannava Asgard a bruciare nel fuoco di Muspellheim. Ma che ne sarebbe stato di Thor, in tutto questo? Avrebbe impugnato lui il Mjollnir, la spettacolare reliquia degli Asi? Assieme a suo fratello si erano sempre raccontati un futuro diverso, luminoso, brillante, in cui avrebbero vendicato una volta di più i morti che li guardavano dal Valhalla affrontando e sconfiggendo Laufey e i suoi Jotunn dallo sguardo di fuoco, come aveva fatto Padre Tutto. Solo che ora il futuro era diverso e aveva i colori e i toni di un universo al contrario, dove lui e Thor non erano alleati.
“Il fuoco non distrugge solamente, Loki. Purifica. Permette la rinascita. Non guardare ogni cosa dal lato sbagliato,” lo ammonì con dolcezza. Il giovanissimo Ase dovette fare uno sforzo tremendo per cacciare indietro le lacrime e il magone che già gli stringevano la gola. La Regina degli Asi forse se ne accorse, perché continuò a tranquillizzarlo parlandogli del Caos che lui governava come di qualcosa di non necessariamente infausto. Era il mutamento, piuttosto, il disordine che dava vita al genio e poneva le basi per l’ordine, la giustizia, le regole. Tutti elementi di fondamentale importanza che ogni tanto dovevano mutare e rinnovarsi per permettere il cambiamento.
“Ma io porto il Caos e non posso beneficiare dell’Ordine. Ci hai sempre detto che non può esserci luce senza che ci sia anche l’ombra, che non esiste la felicità se non c’è stata prima la tristezza, ma in questo perfetto equilibrio io sono il Caos e non posso fuggire dalla mia natura.” Queste parole non gliele disse mai con la voce che ancora tratteneva in sé le tracce dell’infanzia, ma con quella sardonica dell’età adulta, resa leggermente più roca dall’umidità dei sotterranei dove lo aveva rinchiuso Odino. Camminando avanti e indietro entro i pochi metri quadrati della cella, le aveva gettato contro quella verità scomoda che solo chi, come lui, era un maestro nel mentire, sapeva riconoscere come inutilmente cruda.
Il Caos è una promessa di libertà, è l’ebrezza che si prova prima di un lancio di dadi, la disperazione di un campo di battaglia e la furia cieca che fa roteare più rapidamente le spade e le mazze dei soldati. Spaventoso e magnifico allo stesso tempo, vive anche nel disordine dei capelli biondi di Sigyn al mattino e nella serie di spasmi voluttuosi e nervosi che la colgono quando fa l’amore con lui. Per questo non poteva pregare le Norne sorde e spietate, perché Loki conosceva le regole del gioco e le apprezzava. Contestarle ora che ne aveva bisogno sarebbe stato vile. Avrebbe potuto minacciarle, però. Estorcere loro la promessa che sarebbero sopravvissute a quella notte, far cessare le grida che gli laceravano i nervi e fare sì che quell’attesa tremenda finisse, finalmente.
Sospirando si passò una mano tra i capelli scuri. Aveva distrutto la stanza in un impeto d’ira, spaccandosi le nocche contro la porta chiusa di fronte a lui, giurando sull’Yggdrasill che avrebbe punito con la morte qualsiasi errore o mancanza perché non poteva rimanere ad ascoltare le grida di dolore di Sigyn senza poter fare niente. Soffriva, e con lei la bambina e lui era lì, seduto su una poltrona, inutilmente vicino e disperatamente lontano.
Niente era mai stato davvero impossibile, per Loki di Asgard: c’era sempre un modo per manipolare a proprio piacimento gli eventi e far accadere ciò che desiderava: impedire a Thor di essere Re non era stato facile, ma senz’altro si era rivelato divertente, anche se il prezzo da pagare era stato altissimo. Tornare nei Nove Regni aveva avuto il suo prezzo e non sarebbe stato privo di ripercussioni – ma questo Loki non poteva ancora saperlo. Persino accarezzare il trono di Asgard, sedervi e governare anche se sotto mentite spoglie, per quanto assurdo e folle potesse sembrare, aveva trovato un posto nelle personali gesta di Loki Laufeyson. Ma salvare sua moglie e sua figlia no, non poteva farlo.
Se Njord non gli avesse concesso la mano di sua nipote, Loki non si sarebbe arreso né perso d’animo, anzi. Il rifiuto avrebbe inorgoglito il suo petto e lo avrebbe spinto a fare ogni cosa lecita e illecita, pur di avere Sigyn. Radere al suolo Vanheim e gettare sopra le sue rovine il sale, assaltare la nave che l’avrebbe portata al Tempio, mettere contro i Vanir i restanti Otto Regni, erano stati tutti piani che l’Ase aveva valutato e calcolato nella sua testa e avrebbe realizzato senz’altro, se gli fosse servito. Eppure, nonostante tutto, piegare un re e distruggere un regno intero era più fattibile che salvare una giovane donna al suo primo parto.
Il dio degli inganni contrasse la mascella affilata. Non era una giovane donna, quella: era Sigyn, la sua Sigyn. Desiderio vago, amante proibita poi perduta e ritrovata, infine moglie. Quando lui non c’era rovistava nel suo armadio e si infilava una sua tunica sulla pelle nuda, per addormentarsi con il suo odore addosso e a lui poi toccava svegliarla e spogliarla o addormentarsi accanto a lei conscio del fatto che, verso l’alba, si sarebbe destata quel tanto che bastava per cercarlo con una mano e assicurarsi che fosse tornato e rimanesse lì, accanto a lei. Le rimproverava di impiegare troppo tempo a prepararsi e la prendeva in giro perché la loro stanza da bagno era invasa da boccette di oli, creme, unguenti e cosmetici; lei, da parte sua, riteneva insopportabile che lui dovesse poggiare i lunghi pugnali sul comodino prima di addormentarsi – lo trovava inquietante, diceva, ma passavano le serate a ridere e a baciarsi e lui accettava di buon grado che lo viziasse massaggiandogli sui muscoli contratti e stanchi i suoi intrugli Vanir, perché adorava essere adorato.
Oltre la porta Sigyn gridava e Loki rabbrividendo rivide la sua fronte imperlata di sudore e i capelli sciolti, sentì nuovamente la stretta disperata della sua mano affranta. Una porta laterale si aprì, un paio di pesanti stivali si avvicinarono, ma l’Ase non alzò il capo verso il nuovo venuto. Non ce n’era bisogno: aveva riconosciuto il passo deciso del dio del tuono, avvertito senz’altro da Heimdall della gravità della situazione.
“Non vinceremo né domani né dopodomani né mai, se nessuno comanda l’esercito,” fu il suo solo commento.
Thor osservò la stanza distrutta, le mani insanguinate del fratello e gli si sedette di fianco. “Asgard vinceva le sue guerre prima di me e te,” rispose stappando il fiasco di idromele e porgendoglielo. Il dio degli inganni storse le labbra sottili in una smorfia e rifiutò con un cenno della testa l’alcool.
“All’epoca aveva Odino, Vili, Bor.”
La secca battuta non scalfì affatto il giovane re degli Asi. Gli passò una pezza umida imbevuta d’acqua e bevve un lungo sorso di alcool contenuto nel fiasco prima di offrirglielo nuovamente.
“Bevi, piaga. Bevi e datti una pulita. Fai davvero schifo, li spaventerai.” Il suo era stato un tono, allo stesso tempo, severo e bonario, detto con voce profonda e accompagnato da una sonora pacca sulla spalla che per poco non sbilanciò Loki.
“Le.”
“Cosa?”
“Le. È femmina,” confessò l’ingannatore.
“Da quanto lo sapevi?” si risentì l’altro. “L’unica volta che quella tua boccaccia malefica doveva parlare, te ne sei stato zitto.”
In una circostanza diversa, l’affermazione del dio del tuono avrebbe senz’altro scatenato una mezza tragedia. Lingua d’Argento si sarebbe infuriato e lo avrebbe zittito con qualcuna delle sue battute sardoniche e affilate, perché non avrebbe dovuto dare alcuna spiegazione su quello che decideva di condividere o meno della sua vita privata. Invece si limitò ad annuire senza nemmeno guardarlo, e così i due Asi rimasero in silenzio nella stanza distrutta per un tempo che parve interminabile a entrambi. Erano abituati ai mutismi reciproci: avevano vissuto insieme per anni, decenni, e si conoscevano loro malgrado in una maniera profonda e inevitabile. Lentamente e senza dare nessuna importanza al gesto, Loki iniziò togliersi il sangue che gli macchiava il dorso delle mani e le nocche spellate, concentrando tutta l’attenzione di questo mondo sul fazzoletto che stringeva e sulla sua pelle ora pulita.
La severa gravità del profilo dell’ingannatore aveva qualcosa di antico e familiare. A Thor ricordò Padre Tutto che non era più quando si alzava dal suo trono d’oro durante le cerimonie solenni e parlava agli Asi del Valhalla. Suo fratello teneva serrate le labbra nello stesso identico modo, imitando senza accorgersene movenze e gesti e sguardi. Persino il modo in cui arricciava le labbra quando era sovrappensiero, assomigliava a quello del genitore con cui non si era mai compreso.
“E adesso bevi o ti infilo di peso dentro una botte e ti ci affogo, nell’idromele.”
Thor sapeva essere insistente e petulante e, idiota com’era, avrebbe potuto tranquillamente rendere reali le sue minacce perché era un uomo senza fantasia e quando pensava qualcosa era inevitabile che la mettesse in atto. Così Loki afferrò con una maledizione il fiasco e bevve un lungo sorso di quello che credeva fosse idromele.
“È grappa di Jotunheim” disse fiero il Re degli Asi osservandolo tossire e sputare, “e sarebbe capace di stordire un drago.”
“Non ne dubito,” fu la sarcastica risposta. Non aveva bisogno di chiedergli perché fosse lì, anche se disapprovava il motivo per cui lo aveva fatto. Thor aveva sempre avuto nei suoi confronti l’indulgente comprensione dei fratelli maggiori, e certo Heimdall doveva averlo avvertito che Sigyn e la bambina rischiavano la vita. Forse era colpa sua: se fosse rimasto con lei, se il desiderio di sfoderare le armi e combattere contro un avversario tenace non gli avesse avvelenato lo spirito, avrebbe potuto fare qualcosa per aiutarla. Sarebbe stato accanto a lei nel momento in cui si era accorta che qualcosa non andava e una macchia rossa le aveva imbrattato il vestito. Invece non c’era: mentre sua moglie impallidiva dal terrore, lui godeva nell’ammazzare i suoi avversari per il gusto becero di far vedere loro quanto erano forti e invincibili gli Asi in generale, lui in particolare. Non lo avrebbe ammesso mai con lei, ovviamente, e nemmeno con Thor perché Sigyn non lo avrebbe mai incolpato ad alta voce per la crudeltà del loro destino e il fratello, dal canto suo, lo avrebbe capito troppo a fondo perché anche lui era intriso di orgoglio e non avrebbe rinunciato per nulla al mondo a combattere. Il giudice più severo, come sempre, aveva occhi verdi e un sorriso obliquo e lo guardava da dietro uno specchio, pronto a rivelargli tutte le incongruità e le bassezze della sua esistenza.
Sai perché non puoi pregare le Norne di risparmiare tua moglie e tua figlia, Loki? Perché non puoi pretendere la pietà, se non l’hai mai elargita. Thor sì, lui potrebbe nella sua infinita grandezza, ma tu non ne hai il diritto, e lo sai.
Per raggiungere i tuoi scopi non ti sei fatto scrupoli di nessun genere, per inseguire una vendetta che credevi giusta hai seminato distruzione e morte nei Nove Regni, e non solo. Hai agito valutando con spiccia grazia pro e contro, senza farti scalfire da dubbi morali e incongruenze, schiacciando sotto la suola dei tuoi stivali qualsiasi interesse che non fosse il tuo. Anche quando hai deciso che volevi lei non era per amore che l’hai corteggiata, ma per vendetta, sfida, interesse. Poi l’hai desiderata davvero, i lacci del tuo stesso piano ti hanno avvolto nelle loro maglie e ti hanno inevitabilmente incastrato, ma tu lo sai che l’hai baciata con le peggiori intenzioni. E adesso Loki Laufeyson, figlio di un gigante che ti ha abbandonato come una cosa rotta e di un uomo che ti ha mentito per tutta la vita, pretendi che le Norne non ti restituiscano ciò che hai seminato. Se ti fossi pentito per le tue azioni, forse potresti pregarle di non tagliare il filo troppo breve di Sigyn e della creatura che sta cercando di dare alla luce, ma tu non provi pentimento. Rifaresti ogni cosa nella stessa identica maniera, anzi. Correggeresti il tiro degli errori che hai compiuto affinché i tuoi piani possano, stavolta, essere ancora più efficaci.
Sigyn gli aveva chiesto di non andare. Si era accarezzata la pancia tonda e lo aveva guardato da sotto le ciglia nere con un fremito di agitazione. “Davvero è indispensabile la tua presenza?”
“Hai sposato un guerriero Asi, Sigyn. Cosa dovrei fare, rimanere qui a guardare gli altri che combattono per me, al posto mio? E poi magari ringraziarli per averci salvato?” Ogni parola gli era uscita dalla gola intrisa di un feroce orgoglio guerresco e con una decisione tale, che lei aveva capito immediatamente di non avere frecce al suo arco capaci di frenare il suo desiderio di andarsene. Si era allontanata offesa rannicchiandosi nel letto senza cercarlo. Quella dell’Ase era stata una bordata carica di un doppio senso velenoso e intrisa di una gelosia che, in un altro momento, l’avrebbe assolutamente divertita, ma non quella sera. C’era una critica velata a Theoric, nelle parole di Loki, che risentiva probabilmente del periodo di tempo non abbastanza breve in cui lei era stata la sua fidanzata. Nonostante il dio degli inganni fosse riuscito a strappargliela via e avesse affrontato a viso aperto le conseguenze delle sue azioni, gli era rimasto addosso il disprezzo per quell’uomo che non aveva avuto il coraggio di combattere contro di lui e si era fatto difendere da un campione. Forse, in un passato ancora troppo recente, Loki aveva dovuto nascondere il fastidio che gli provocava il solo vederli insieme sotto una coltre di imperturbabilità e disinteresse che ora finalmente poteva lacerare.
Si erano sposati in fretta, quando la figura sottile di Sigyn non suggeriva ancora che fosse incinta, sebbene si trattasse di una cosa nota a tutti, e Loki aveva ancora addosso i segni del combattimento cui si era cimentato per lei, come se sapessero entrambi, in qualche angolo recondito delle loro teste, che il tempo a loro disposizione avrebbe potuto essere scarso e volessero godere il più possibile l’uno della compagnia dell’altra.
Le nozze rapide e riparatrici non avevano avuto solo un’ovvia connotazione romantica; erano state una scelta precisa e deliberata del sagace ingannatore per non consentire a Njord o altri nobili Vanir inopportuni ripensamenti, e sancire definitivamente che chi toccava Sigyn, comunque rea di aver avuto una relazione al di fuori del matrimonio, colpiva Loki di Asgard e gli Asi ufficialmente.
Sposare il figlio di Odino aveva avuto il suo prezzo, ovviamente, un costo che la giovane donna stava iniziando a valutare e a comprendere giorno dopo giorno e che l’avrebbe portata, se avesse avuto un futuro, ad essere qualcosa di più che una semplice moglie o una compagna: sarebbe diventata la sua consorte, colei che per scelta avrebbe condiviso gioie e dolori, fortune e sventure, malattie e salute. Il requisito indispensabile per ottenere la devozione dello scostante Ase era quello di accettarne la natura volubile, pur non approvando molte delle sue azioni passate, presenti e future.
Sigyn sapeva chi era Loki e cosa aveva fatto, ma intuiva anche ciò di cui aveva bisogno. Soffocando le lacrime sulla federa candida del cuscino, ricordò quello che si era ripetuta allo specchio lisciandosi le pieghe del suo elegante ed etereo abito di sposa: non ci si può legare a un feroce e astuto guerriero signore del caos e dell’inganno e pretendere che, una volta stretto il vincolo nuziale, cambi improvvisamente il suo carattere e si trasformi in qualcos’altro. La giovane Vanir sapeva che Loki provava qualcosa per lei e che gli era cara, ma capiva allo stesso tempo che stare con lui avrebbe voluto dire inghiottire lontananze e convivere con scelte folli e feroci.
Non c’erano gare di forza o equilibri da difendere, ma l’ovvia considerazione che non si può chiedere a un guerriero di smettere di essere tale, neanche per amore, non nella vita reale almeno. Si era svegliata quando il dio degli inganni aveva lasciato il letto per andarsi ad allenare e, per una volta, non si era riaddormentata in attesa che lui all’alba tornasse per spazzolare via la ricca colazione che gli spettava. Lo aveva aspettato nella sala da pranzo invece, e lui nel coglierla lì aveva aggrottato con fare guardingo la fronte. Aveva ancora i capelli umidi per il bagno finito da pochi minuti e la casacca verde slacciata lasciava intravedere la muscolatura asciutta, tonica e perfetta, ancora tesa a causa degli sforzi compiuti poco prima.
Sigyn era arrossita di fronte alla sfacciata arroganza con cui sfoggiava il suo corpo agile e scolpito. Erano stati amanti appassionati, prima di diventare marito e moglie, e un brivido la colse nel vedere la virile perfezione della striscia degli addominali e il petto ampio e ben sviluppato oltre la casacca aperta. Era suo eppure non lo era; si addormentava abbracciandolo, respirando il suo odore, affondando il naso nel suo collo, o con una guancia poggiata su una delle sue forti spalle, gli si stringeva contro, eppure Loki non le apparteneva completamente, nonostante il legame che li univa. Lo avrebbe amato per sempre perché il desiderio nasce nell’assenza, si alimenta con lo sguardo, viene amplificato dalla lontananza, e si chiese come tutte le volte che questa consapevolezza l’attanagliava, come sarebbe riuscita a resistere alla disperazione il giorno in cui lui se ne sarebbe andato e lei non avrebbe avuto la forza di trattenerlo.
Si versò del latte caldo in una tazza, sbocconcellò un biscotto sotto lo sguardo attento dell’Ase.
“Ho fatto entrare in casa un lupo. Ora non posso pretendere che si comporti come una lepre o un gattino.”
Il dio dell’inganno la squadrò da capo a piedi, soffermandosi sulla camicia da notte candida, sulla pancia rotonda che lei accarezzava distrattamente, sulla vestaglia di lana che la proteggeva dal freddo mattutino.
“Non c’era bisogno che ti alzassi così presto per dirmelo,” commentò sedendosi. “Ti piacciono i lupi?” ghignò, fingendo di ignorare il riferimento.
Un sospiro. “Sono animali bellissimi e pericolosi,” concesse, “anche se a volte fanno i loro bisogni sul tappeto.”
L’Ase buttò il capo all’indietro e rise, compiaciuto per quel paragone lusinghiero e la battuta salace. “Sono stato così indisponente? Ti sei così tanto infuriata?”
Una parte di Sigyn quel mattino pregò le Norne che, di fronte al suo cedimento, lui scegliesse comunque di restare, rendendosi conto che aveva bisogno di lui e della sua presenza. Ma queste prove si risolvono positivamente solamente nei poemi d’amore e nei libri in cui la giovane donna affondava il naso. Nella realtà, lei aprì la porta di casa e il suo bel lupo dal manto nero, pur amandola per la libertà che gli stava riconoscendo, scappò via per andare incontro al suo destino. Baciò lei, si chinò per posare le labbra sottili e quasi sempre beffarde sulla pancia rotonda sempre più vicina al parto e andò a combattere, perché questo facevano gli Asi, erano gli Asi: guerrieri abili e potenti che anelavano sopra ogni cosa dimostrare la loro forza e Loki, sebbene usasse il seidr e facesse sfoggio delle molte arti con cui irretiva il suo prossimo, era e rimaneva a dispetto di tutto un figlio di Asgard fino alla punta dei capelli.
Questo era successo: la dolcezza racchiusa nel bacio con cui l’aveva salutata, l’orgoglioso affetto che era trapelato dalla carezza e dalle attenzioni al figlio ancora non nato, non rinnegavano il resto né potevano essere indice di un reale cambiamento della sua natura. Le ombre di Loki Laufeyson non si sarebbero diradate perché al suo fianco c’era Sigyn, ma avrebbero assunto, nel tempo, un peso più sopportabile. Tenere a lei e al figlio che avrebbero avuto – alla figlia, anzi, non voleva dire che le mire e le astuzie tipiche del sagace ingannatore si sarebbero annacquate in un brodo di buone intenzioni e sentimenti positivi. Lingua d’Argento aveva una natura volubile, orgogliosa, egoista, ma era sempre stato capace di sentimenti ed emozioni sconvolgenti. La freddezza di certe sue scelte passate, la cupa determinazione con cui aveva messo a segno tanti progetti di discutibile morale, non erano che una parte del suo spirito. Aveva odiato Odino e Thor e Asgard tutta tanto da arrivare a combatterli con ogni fibra del suo essere e con tutta l’abilità di cui era stato capace, ma il contrario dell’amore è l’indifferenza e in questo basilare concetto era racchiuso il motivo per cui anche l’irrisolto rapporto con il padre adottivo era un’ombra scura nel petto dell’Ase.
Così Loki aveva seguito Thor nonostante Sigyn gli avesse chiesto di restare, e il prezzo per quella scelta necessaria e azzardata era che ora doveva solo aspettare una notizia qualunque proveniente dalla porta sbarrata davanti a lui. Il forte sapore della grappa gli aveva allappato ancora di più la bocca.
La mano di Thor si posò sulla sua spalla chiudendosi in una stretta ferrea e dolorosa, ma consolante.
“Andrà tutto bene.”
Le labbra dell’Ase si piegarono in una smorfia nervosa, un sorriso beffardo e disperato insieme.
“Dall’alto di cosa giungi a questa conclusione?” Loki non desiderava parlare, eppure non poté fare a meno di insistere, ribattere, spiegare, perché non aveva un piano né una via di fuga sottomano. Era solo contro un destino che le sue conoscenze e abilità, per quanto riconosciute da tutti, non gli consentivano di mutare né migliorare. E allora a che serviva essere un maestro nell’uso del seidr e poter indovinare i pensieri della gente solo guardandoli con più attenzione, se poi era come tutti in balia degli eventi? Nell’attesa straziante parlò in fretta e con voce rapida.
Disse che Sigyn e la bambina stavano soffrendo ed erano in grave pericolo e raccontò come fosse riuscito a vedere sua moglie, appena arrivato a Vanheim. Le aveva preso una mano tra le sue, le aveva accarezzato i bei capelli biondi umidi e appiccicati al viso e le aveva promesso che tutto sarebbe andato bene, mentendole ovviamente. Non aveva idea, come non la potevano avere i guaritori e le levatrici che la assistevano, di come sarebbe andata a finire quell’infinita giornata. Lei gli aveva domandato se la guerra fosse definitivamente finita e anche lì Loki aveva mentito, confermando una vittoria che ancora non c’era stata. Poi lo avevano mandato via perché non si può pensare di far nulla sotto gli occhi vigili, giudicanti e vendicativi del dio dell’inganno che ti fissa con odio.
Gli avevano consigliato di andare a casa e di levarsi di dosso il fango, la polvere e gli altri segni della battaglia: Loki aveva spaccato il naso all’incauto suggeritore e aveva distrutto la stanza in un impeto d’ira. Non esisteva, una casa. C’era l’elegante dimora in cui avevano deciso di trasferirsi poco dopo le nozze per essere signori e padroni delle loro stanze: un palazzo non eccessivamente grande e con una vista incantevole, dove gli oggetti di Sigyn erano ovunque, persino negli spazi che avrebbero dovuto essere i suoi: uno scialle di lana rosa era senz’altro stato abbandonato sopra il suo mantello bordato di pelo, i poemi d’amore e le poesie avevano trovato posto accanto alle cronache storiche e ai libri di magia, nello studio troneggiava la poltrona sontuosa che lei gli aveva regalato, nell’anticamera si era impuntata per scegliere il colore delle tende: ogni cosa, in quelle stanza, raccontava di lei e delle abitudini che avevano instaurato nella manciata di mesi in cui avevano vissuto insieme. Non tornò per non dover vedere la stanzetta allestita per la nascitura che aveva definito come inutilmente leziosa, per non incappare, mentre cercava dell’idromele con cui stordirsi, nelle sue tisane alle erbe.
Ma questo non lo disse a Thor: si fermò prima, a lui che prendeva a calci mobili e sedie per sfogare la tensione accumulata ascoltando per dieci minuti le farneticazioni di quell’incapace di guaritore e alla levatrice rimbambita e non fracassare la loro testa. Finalmente la porta si aprì lasciando passare un’aiutante giovane e pallida, visibilmente spaventata. Loki la squadrò con palese dispetto, e quella balbettò in fretta che doveva entrare perché era necessario far nascere la bambina in quel momento e il parto non sarebbe avvenuto in maniera naturale. Non c’era altra scelta, spiegò.
Thor trattenne il respiro, Loki invece si alzò con naturalezza e seguì la giovane donna fin nella sala adiacente a quella dove era Sigyn: ascoltò le parole del guaritore con una tranquillità esasperante, annuendo distrattamente alle spiegazioni tecniche che ovviamente capiva, ma che non gli impedivano di pensare alla lunga sequela di difficoltà che aveva circondato quella storia. Lei era rimasta incinta e la sua gravidanza era stata scoperta nel peggiore dei modi e quasi era stata condannata a morte per aver disonorato i Vanir tutti, lui l’aveva salvata trattando e combattendo. La voce di Sigyn oltrepassava i muri – le sue urla, anzi. Ecco quanto costa, sposare il dio degli inganni.
“Non siamo in grado di garantire a Vostra Altezza che andrà tutto per il meglio,” esitò il guaritore, “è una situazione delicata e vostra moglie è giovane, ma noi faremo tutto quello che possiamo.”
“Lo farete, sì.” Loki Laufeyson non lo disse con un tono di voce severo o cupo, ma con una sicurezza spiazzante, come se fosse assolutamente certo che il gruppo di levatrici e guaritori davvero si sarebbe adoperato per il meglio affinché sua moglie e sua figlia sopravvivessero. Aveva ragione: non gli servivano le minacce per far capire all’uomo quanto feroce sarebbe stata la sua vendetta se. Per un istante troppo lungo, pensò che avrebbe fatto meglio a scalzare Njord quando poteva farlo senza posare mai i suoi occhi sulla figura snella e sottile di Sigyn: il potere sarebbe stato nelle sue mani e quella sensazione di sgomento non gli avrebbe scalfito il cuore, perché è sempre pericoloso circondarsi di punti deboli e Sigyn era diventato il suo, nonostante tutto. Entrò nella stanza per rincuorarla, salutarla, accomiatarsi da lei per un tempo che sarebbe stato dolorosamente breve o lungo fino alla fine dei tempi, regalandole la sua capacità di mutare il destino, sconvolgere le carte, deformare il presente. Lei gli prese la mano e gli disse che lo amava e che qualsiasi cosa fosse successa o avrebbero deciso le Norne, il suo primo pensiero doveva essere rivolto alla bambina di cui non avevano ancora deciso il nome e di cui conoscevano il sesso grazie al seidr dell’Ase e alle capacità divinatorie di un’anziana Vanir parente di Sigyn. Loki rise e scosse la testa e prese in giro la gravità delle sue frasi e con il tono più rilassato e sicuro del mondo, le promise sorridendo quello che nessuno avrebbe potuto garantirle, forse neanche le stesse Norne: una vita piena, lunga, felice; altri figli oltre a quella che sarebbe nata quel giorno.
“Aprirai gli occhi e la vedrai, te la ritroverai tra le braccia” le assicurò accarezzandole i capelli mentre l’addormentavano per procedere all’operazione, “e rideremo di queste tue frasi esagerate.”
Poi, mentre lei perdeva lentamente conoscenza e gli teneva ancora la mano, le ricordò quella sera disastrosa in cui, per colpa di un contrattempo, si erano ritrovati soli in casa e senza cuoca e l’Ase, preoccupato dalle scarsissime doti culinarie della neo-sposa, le aveva dimostrato come un vero guerriero di Asgard sapeva fare praticamente tutto, anche mettere su una cena commestibile: le aveva raccontato una serie di aneddoti buffi della sua giovinezza con Thor, spiegandole finalmente il senso di “Chiamate aiuto,” quella battuta che il dio del tuono ripeteva spesso, e si erano ritrovati sdraiati davanti al camino con degli spiedini improvvisati a ridere fino alle lacrime.
Sigyn chiuse gli occhi e il dio degli inganni, osservando critico i sensi che finalmente l’abbandonavano, si chiese se l’avesse convinta e fosse riuscito davvero a renderle più lieve quel sonno indotto. Non riuscì a trattenere oltre la maschera, né volle. Lanciò ai guaritori attorno a lui un’occhiata colma di gelida ira e se ne andò dalla stanza. Era il giusto compenso delle Norne per le sue azioni di cui non si sarebbe mai pentito, ma di cui riconosceva la gravità.
Passò troppo tempo e non fu solo Thor a pensarlo. Certamente il medesimo ragionamento si conficcò nella testa di Loki, che provava a celare lo strazio di quell’attesa battendo con inesorabile lentezza la suola dello stivale sul pavimento di marmo. Ad Asgard sarebbe stato di legno, e tra gli Asi forse lei avrebbe avuto meno difficoltà. Il recipiente che conteneva la grappa era stato interamente scolato, ma l’unico risultato evidente era stata l’ondata di caldo che aveva costretto Loki a levarsi il mantello e a slacciare il primo fermo della casacca e il dio del tuono a fare altrettanto.
“Non vuol dire che non stia andando bene,” si azzardò a ipotizzare il giovane re.
Loki si inumidì le labbra sottili e sarcastiche. “Dicono che io sia uno dei maestri di magia più potenti dell’Universo intero.”
“E anche un rompipalle di prima categoria,” gli fece eco il fratello.
L’ingannatore poggiò la schiena sulla poltrona. “Non c’è incantesimo che non mi riesca, né runa che non abbia studiato. Ho convinto popoli a trattare per la pace, altri a muoversi per la guerra. Mi basta sfiorare qualcuno per leggere i suoi pensieri e manipolarne le mente. Dicono che la mia voce sia incantata perché convinco, tratto, inganno. Imperi interi sono caduti sotto i miei attacchi, e persino Midgard ha beneficiato dei miei interventi, in passato. Ho stretto tra le mani il Tesseract e le Gemme…”
“Tutte belle cose,” commentò Thor. “Aggiungi che sei modesto, ti prego.”
“Sono un principe di Asgard, un grande guerriero,” lo ignorò Loki proseguendo, “ma queste mie abilità, conoscenze, capacità, intuizioni e poteri non mi servono assolutamente a niente, adesso. Non posso fare altro che aspettare inerte che quella porta si apra e dicano che non c’è stato niente da fare. Ecco il mio retaggio, fratello: il caos, la distruzione, la morte. Aveva ragione nostro padre e tu non avresti dovuto liberarmi.”
“Loki, non dipende da te. È il caso, sono le Norne.”
“Le Norne,” ripeté il dio dell’inganno, “sono tre esseri invidiosi che si divertono a tessere trame e destini per poi disfarli senza dar loro un senso.”
“Le Norne non hanno previsto per te un destino nefasto, ma hanno filato che ti prenderò a pugni se non la pianti!” si esasperò Thor.
La porta si aprì prima che il dio degli inganni potesse continuare a dare la sua versione cinica e disincantata dell’esistenza. Una delle donne che assistevano la levatrice aprì la porta concitata, e non fece in tempo a parlare che i due Asi erano balzati in piedi, in attesa. “Stanno bene,” disse in fretta, “stanno bene tutte e due.”
Loki Laufeyson non fece in tempo a rilassare la muscolatura tesa e contratta. Nel giro di pochi secondi entrò un’altra levatrice che gli affidò complimentandosi un fagotto avvolto in una copertina di lino e in una, più spessa, di lana, e l’Ase si rese immediatamente conto che quella cosina leggera e minuscola non sapeva neanche tenerla in braccio. L’aveva sentita scalciare decine di volte e si era messo in testa che sarebbe nata e avrebbe avuto il suo nome dal momento in cui Freya gli aveva detto che Sigyn era incinta, ma fu solo in quel momento, quando la vide per la prima volta, che capì di aver avuto una figlia. Il fragile esserino lo guardava da sotto le palpebre con quei suoi occhi dal colore indefinito che si sarebbero rivelati grigi come quelli della madre, e sulla testa spiccava un ciuffo nero. Aveva emesso un gemito quando dalla guaritrice era passata tra le sue braccia, un piccolo segno di protesta che già indicava come l’esserino avesse una sua personalità e una serie di bisogni che andavano soddisfatti e ascoltati. Gli afferrò un dito, e Loki Laufeyson si meravigliò di quanto minuscole e perfette fossero le manine e morbide le sue guance. Pensò che fosse bellissima. Il contrasto di quella giornata assurda si manifestò nella sua mente come un pensiero rapido ed evanescente, ma non per questo meno vero: all’alba era Loki di Asgard, il guerriero Asi astuto come nessuno e ora era quello di prima e qualcosa di diverso. Aveva rischiato di perderla, di non sapere mai come sarebbe stato il suo viso e invece ora era lì, tra le sue braccia, piccolissima e tenera e indifesa. Quella cosina avvolta nella lana e nel lino era loro: era l’imprevisto che aveva sconvolto la sua vita costringendolo a variare in maniera inesorabile la sua vita sregolata in cui piani e alleanze valevano il tempo di un effimero beneficio.
Aveva accarezzato l’idea di sottrarre un trono a un vecchio bilioso e malato e si era ritrovato a chiamare casa la terra dei Vanir. Non avrebbe smesso di essere ciò che era, il guerriero degli Asi abile nel padroneggiare il seidr come nessuno, ma la sua mente perennemente alla ricerca di uno scopo o di un vantaggio avrebbe mantenuto invariabilmente uno spazio per quella creatura che teneva tra le braccia.
“Sonje,” le disse, “tu sei Sonje Lokadottir,” e pronunciò la frase nel dialetto stretto degli Asi, perché voleva che le prime parole che si scambiavano in questo mondo fossero nella lingua che aveva imparato per prima, e lei rispose con un vocalizzo indefinito come se approvasse il nome scelto e amasse già la sua voce. Sarebbero diventate vere entrambe le cose: Sonje avrebbe sempre esibito con fierezza il suo nome Asi e nei momenti di infantile disperazione si sarebbe addormentata solo ascoltando le ninne nanne o le storie di Loki.
“Non ti assomiglia per niente, fratello. Lei è davvero bella,” decise Thor. Poi i due grandi guerrieri si resero conto di non avere la più pallida idea di come gestire una neonata che piangeva, e tutte le abilità apprese in anni di studi e combattimenti e guerre e viaggi si rivelarono nulle.
***
“Sonje, Sonje” mormorò Sigyn sistemandosi la camicia da notte e cullando dolcemente la neonata, “quello che vedi lì mezzo svenuto è tuo padre. Non sa ancora cambiarti né prenderti in braccio, ma imparerà, è un uomo pieno di risorse” affermò decisa. “Ora noi non piangeremo e lui forse riposerà ancora mezz’ora,” promise.
Stravaccato sulla poltrona e con le gambe poggiate sul letto, gli stivali gettati a terra ma la bandoliera ancora addosso, Loki Laufeyson dormiva con la testa leggermente inclinata sulla spalliera e le labbra schiuse. Si era seduto circa un’ora prima, dopo aver osservato con circospetta attenzione i gesti fluidi con cui le levatrici e Sigyn stessa si occupavano della bambina. Poi era crollato, sfinito per l’attesa, il tormento, la battaglia e la pianificazione della stessa, tutti eventi che lo avevano visto attore protagonista. La donna si soffermò sul profilo affilato e deciso, la fronte alta con i capelli nerissimi tenuti all’indietro, la figura agile e asciutta che pure nel sonno manteneva un’innata eleganza fiera e poi guardò i teneri lineamenti della bimba che teneva in braccio, riconoscendo nel broncio che entrambi avevano mentre dormivano il segno inequivocabile del loro legame.
Fine
Carissimo Lettore, eccoci alla fine del secondo capitolo di questa raccolta di shot. Se la storia ti è piaciuta e ti ha suscitato qualcosa – qualsiasi cosa – prendi il coraggio a due mani e lasciami una riga, una frase, un presente, lanciami una ciabatta, che ne so. I feedback aumentano la creatività e fanno sorridere gli Autori! Non credo servano note specifiche a questo capitolo: le Norne sono 3 nella mitologia norrena (Urd, Verdandi e Skuld), la Voluspa è la profezia che annuncia il Ragnarok (la fine degli dei) e Sonje è una mia invenzione. Occhio che settimana prossima farete conoscenza di Vili Borson, al secolo il fratello del caro Odino.
Un grazie di cuore a quanti di voi hanno inserito la storia tra le preferite/ricordate/seguite.
S. |
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Capitolo 3 *** Promesse infrante ***
Avvertenze: questa shot non è autoconclusiva. Il regno dei Vanir e la loro cultura, il Tempio e Sonje sono mie personali invenzioni. Buona lettura!
Promesse infrante
Heimdall attese prima di emettere il verdetto, non per il gusto malsano di vedere le labbra sottili di Loki incresparsi in un ghigno di malcelata ira, ma per ammirare una cosa che raramente aveva scorto guardandogli nel cuore. Il figlio cadetto del compianto Odino era stato a lungo il suo personale cruccio: troppo ambiguo, intelligente e astuto per essere compreso e scovato immediatamente, plasmava i propri piani con una tale rapidità da rendergli la vita difficile fin da quando era poco più di un bambino. La sua capacità di mutare forma aveva fatto tirare giù infinite imprecazioni non soltanto all’altrimenti austero Odino, ma anche a lui, guardiano sempre impassibile.
Loki, chiaramente, non gli diede eccessiva soddisfazione nemmeno in quell’occasione: non cercava una risposta da lui, ma una constatazione, la conferma di qualcosa che ovviamente aveva già intuito. Il dio dell’inganno puntò il suo sguardo nell’immensità dell’Universo di cui comprendeva i misteri esattamente come lui. Se il suo spirito non fosse stato l’intricata ragnatela di ambizione, orgoglio e fiero individualismo che era, avrebbero avuto molto a che spartire, ma così non era stato. Nessuno dei due se ne faceva un particolare cruccio: i loro rapporti erano ai limiti dell’urbana cortesia e pareva che ciò stesse bene ad entrambi.
“Non è più la ragazzina che hai sposato,” commentò con un sospiro.
Loki aggrottò le sopracciglia in silenzio, stringendo la balaustra che si affacciava sulle galassie fino a farsi sbiancare le nocche. Heimdall proseguì serafico. “Ma in fondo, quando si ostinò nel coprirti di fronte a Re Njord avresti già dovuto intuire che tipo di donna fosse, la tua Vanir.”
“Non ho mai avuto bisogno della sua protezione.”
“Lei però avrà bisogno della tua, adesso. Non le è ancora capitato nulla di davvero sgradevole, ma non andrei impreparato se fossi in te.” Heimdall era perfettamente a conoscenza di quanto fosse difficile sorprendere Loki Laufeyson. Il suo istinto lupesco lo rendeva guardingo e astuto come i fieri predatori che abitavano i boschi sopra Asgard, e altrettanto pericoloso. Pensò che c’era qualcosa di affascinante e fiabesco, nel fatto che l’irrequieto e tormentato Lingua d’Argento fosse finito per farsi avvinghiare dalla bionda ed esile principessa di Vanheim.
“Incauta e imprudente,” fu il commento gelido e irritato del principe Asi, “questo è stata.”
“Le sue motivazioni sono nobilissime.”
“La sua fretta ci causerà guai.” L’ingannatore si voltò con lentezza, scrutando il guardiano con regale sufficienza. Sigyn gli aveva disobbedito in maniera aperta, plateale, irriverente quasi. Avevano litigato come raramente gli era capitato di fare, da quando erano sposati. Del resto, la convivenza non è l’idilliaca unione di due anime innamorate, come certa pessima letteratura pareva suggerire: si trattava piuttosto del delicato compromesso parzialmente messo per iscritto la sera in cui, feriti e provati, avevano deciso che valeva la pena tentare di vivere insieme. Non si assomigliavano né per indole né per carattere, e avevano gusti e abitudini parzialmente differenti, ma erano stati a loro modo felici in maniera imprevista e totale; solo che alle volte le diversità che li contraddistinguevano e generalmente contribuivano a creare un equilibrio sottile, ma perfetto, provocavano incrinature pericolose perché Loki era e sarebbe rimasto sempre il feroce guerriero Asi capace di incantesimi terribili, e lei l’idealista Vanir fedele a se stessa e con il cuore gonfio di speranza. Sigyn cercava di rendere questo mondo un posto migliore, il dio degli inganni si accontentava di strappargli ciò che più gli era conveniente.
“Niente che tu non possa risolvere, Loki Lingua d’Argento,” gli ricordò Heimdall. Sgridava il dio degli inganni da quando era un ragazzino col broncio che non sapeva ancora leggere le rune e non lo aveva temuto mai, nemmeno quando quel disgraziato aveva deciso, in un delirio di onnipotenza, di allestire una messinscena per proporsi come colui che avrebbe liberato Asgard dall’ombra di Laufey e di Jotunheim.
L’ingannatore si concesse una risata breve e sarcastica. Il primo istinto che gli suggeriva la sua natura altezzosa e scostante, era di lasciare che la sua bionda e sprovveduta moglie si arrangiasse da sé. Che imparasse una buona volta cosa voleva dire, agire con il cuore e non usare la testa; poi però iniziò a ragionare lui stesso, e gli toccò ammettere tra i denti che doveva farsi trasportare direttamente al Tempio senza alcun indugio. L’idea non gli piacque, perché già una volta aveva accarezzato il progetto di irrompere nell’enorme tenuta, e una serie di considerazioni lo avevano convinto della difficoltà dell’impresa. Anzi, della sua infattibilità.
“Non provare a giustificare il suo comportamento irresponsabile, Heimdall: non ci si lancia nella mischia di una battaglia senza armi sperando che qualcuno ci verrà a salvare,” s’innervosì. Strinse le palpebre assottigliando gli occhi e puntò il dito contro il guardiano del Bifrost. “Hai detto che ancora non le è stato fatto del male, ma dimmi sinceramente: cosa sarebbe successo a lei e a Sonje se fossi tornato stanotte o domani?”
Era impossibile vincere una battaglia retorica con Loki, né il dio protettore del passaggio tra i mondi ne aveva l’intenzione. “Si fida di te. Ha fiducia nelle tue abilità e nel fatto che saresti corso da lei. Non ti lusinga, questo?”
Occhi al cielo, una smorfia disgustata sulle labbra sottili e, in altre occasioni. ironiche. “Apri il Bifrost,” ordinò secco.
Heimdall sorrise appena, negli occhi gialli gli brillò una luce divertita. “Per dove, Altezza?” lo canzonò.
“Quella cloaca putrida del Tempio, naturalmente” specificò con un filo di esasperazione il dio degli inganni.
“Porta i miei omaggi alla tua principessa.”
“Fottiti, Heimdall,” fu la gentile risposta di Loki prima di attraversare con passo deciso il portale.
Vanheim non era solo una terra fertile e verde, resa più mite dalle correnti calde del mare e dal clima piacevole, né rappresentava semplicemente lo specchio di una cultura sofisticata, ricca e leggermente in declino. Prima che gli Asi, a bordo delle loro navi dalle prue snelle e decorate con draghi marini e sirene, imponessero la loro egemonia sui Nove Regni, i superbi Vanir stabilivano e discutevano l’andamento dei Mondi che si reggevano sull’Yggdrasill. Poi, gli antenati di Bor avevano predato e conquistato le terre limitrofe, imponendo leggi selvagge e usi barbari, e i mondi erano cambiati, adattandosi ai nuovi dominatori.
Una delle poche vestigia ancora intatte di quelle ere lontane, era il Tempio: una zona franca dove il potere di Njord non poteva entrare. Loki Laufeyson calpestò la terra brulla e l’erba alta del prato che si estendeva davanti al pesante portone ricoperto di rune con la stessa arroganza con cui i primi Asi erano sbarcati su quelle terre. Si diresse verso Freyr e Njord, in attesa assieme a un corpo di soldati scelti nelle loro armature luccicanti.
Il vecchio Re e il suo inetto primogenito lo aspettavano sotto a una tenda montata per difendersi dal sole e dal vento. Si rilassarono appena nel vedere la figura alta e nervosa del dio degli inganni avanzare verso di loro, anche se credevano che nemmeno la protervia dell’Ase avrebbe potuto scalfire i millenni di dominio incontrastato dell’ordine monastico: nessuno aveva mai espugnato il castello dove le fredde incaricate celebravano i loro ignoti rituali. Il giorno prima, Njord aveva usato tutta la sua capacità persuasiva per chiedere alla Sacerdotessa Sublime che gli fosse restituita l’incauta nipote. Gli era stato risposto che lei non era lì. Si trattava di una menzogna patetica, resa ancora più offensiva dal fatto che la ragazza di cui Sigyn aveva preso il posto, piangendo e strappandosi i capelli era intervenuta spiegando come la principessa dei Vanir l’avesse sostituita per permetterle di scappare.
La Sacerdotessa Sublime, sorridendo in un modo che era parso a molti un po’ troppo compiaciuto, aveva risposto che se Sigyn era entrata nel Tempio allora non era più Sigyn e quindi nessuna Sigyn era presente.
“Così ha detto?” Loki Laufeyson fissò le imponenti porte di bronzo istoriate di rune, le mura alte e robuste. Con i polpastrelli sfiorò i simboli sacri, avvertendone il potere remoto nel calore che sprigionavano al suo tocco.
“Non ti ascolterà e le difese della fortezza sono inviolabili. È persa,” si lamentò Freyr.
L’ingannatore si voltò e, per un istante, parve non riconoscere affatto il Vanir. Batté le palpebre più volte, come per riprendersi, poi si concentrò un momento. “Ricordi il mio messaggio? Raduna i nobili che ancora appoggiano questo posto. Quando aprirò le porte li farai entrare. Dovranno guardare, ricorda”
Freyr tremò. Loki Laufeyson non gli era piaciuto mai, nemmeno un giorno, neppure le innumerevoli volte in cui lo aveva tirato su ubriaco dalle panche di una taverna saldando i suoi debiti, e il motivo gli fu chiaro e lampante quel momento come in altre occasioni: erano gli occhi. Chiari e quasi trasparenti, mortalmente espressivi e per questo perennemente carichi di un’ombra scura.
“E Sigyn?”
Loki serrò la mascella affilata, scrutò con attenzione le finestre buie della fortezza. “A lei penserò io,” tagliò corto. Poi pronunciò delle rune e posò il palmo della mano sul metallo spesso di cui era fatto il portone e, al contatto con la pelle dell’Ase, il bronzo vibrò e tremò come se la terra stesse sussultando.
“Sono Loki di Asgard e chiedo udienza,” annunciò sicuro. I pesanti stipiti non si aprirono ovviamente, ma l’Ase non si aspettava niente di differente. Guardò in alto, piuttosto, e vide oltre le grate il viso pallido e bianco della Sacerdotessa Sublime. Il suo era un volto senza tempo, un insieme di lineamenti estremamente puri e forse persino belli, che impedivano però nel loro complesso stabilire che età avesse la donna. Un dettaglio strabiliante che forse aveva preoccupato Njord, Freyr e gli altri soldati, ma che parve non impensierire affatto l’arrogante principe degli Asi.
Se solo Sigyn non fosse andata ad aiutare i guaritori nell’ospedale messo a disposizione per la povera gente come faceva ogni settimana da quando ne aveva memoria, se solo le Norne avessero indirizzato l’anziana donna zoppa e con una profonda ferita al palmo della mano in una stanza diversa da quella dove era, forse Loki non avrebbe varcato la soglia del Tempio scortato dalle guardie della sacerdotessa, né si sarebbe incupito fissando in maniera torva il pavimento lustro e lucido nel cui riflesso intravedeva qualcosa di indefinibile, eppure tetro.
Ma le tre filatrici beffarde si erano messe d’accordo per creare un intreccio irripetibile di conseguenze, e così la donna si era adagiata a fatica sulla sedia mostrando la mano ferita al guaritore e a Sigyn. Mentre quest’ultima puliva la ferita, l’aveva osservata a lungo, in silenzio, senza emettere nemmeno il più piccolo gemito.
“Siete gentile e bella, principessa. A mia figlia piacevate molto,” disse infine.
Lei aveva alzato il capo ringraziandola per le parole gentili e quella aveva continuato. “Era rimasta colpita dalla vostra storia e non si stancava mai di ascoltarla. Forse per questo le Norne sono state crudeli: hanno filato per lei un destino simile al vostro, ma noi povera gente non abbiamo la stessa fortuna di voi nobili.”
“Che le è successo?” i movimenti delle mani di Sigyn si erano fatti più lenti e accorti.
“Si è innamorata del figlio di un mercante. Quando vennero scoperti, lei fu mandata al Tempio, lui spedito lontano a seguire gli affari di famiglia” scosse il capo l’anziana, fissando sconsolata il tessuto scolorito della sua gonna di lana.
Un brivido aveva attraversato la schiena di Sigyn. Il pensiero del Tempio non l’aveva mai abbandonata del tutto e le era rimasto appiccicato addosso il terrore per il pericolo che aveva fortunosamente scampato. C’era stato un lungo e lento lavorio da parte sua affinché l’orribile istituzione fosse chiusa e, in quegli anni, diverse volte Loki aveva provato a sollevare la questione della sua abolizione, ma nessuna decisione era stata ancora presa in merito. Mentre loro si affannavano a cancellare l’antica pratica, ogni giorno delle ragazze vi venivano condannate senza che potessero scampare in alcun modo al loro destino, e il perché le fu chiaro una volta di più nelle parole amare e nostalgiche dell’anziana donna che stava medicando.
“Lui l’amava, ma era giovane e certo non un guerriero. Non ha avuto i mezzi per salvarla. Non tutti gli uomini sono fieri principi degli Asi, dico bene? Sapeste, principessa, quante volte le avrò detto che la vostra storia era come una fiaba e non andava presa a monito. In fondo, è la legge.”
“Vorrei cancellarla. Abolirla, farla sparire per sempre. È una pratica ingiusta.” Sigyn lo disse tremando, con il corpo sottile scosso dallo stupore, dall’ira, dalla vergogna persino: lei si era salvata perché era nobile e, soprattutto, fortunata. Aveva peccato esattamente come la nipote dell’anziana ferita, innamorandosi di un uomo con cui non era stato sancito alcun legame né contratto: la sua unica fortuna era che l’uomo in questione si chiamasse Loki Laufeyson ed era fiero e terribile: ma la cosa peggiore di tutte, che faceva male come una spina infilata nel petto, era che Sigyn si sentì direttamente responsabile non solo della disgraziata ragazza di cui aveva sentito la storia, ma di tutte quelle passate, presenti e future. Peggio di un destino ingiusto c’è solo una speranza disattesa e lei questo aveva fornito alla sua gente: l’illusione che il mondo offrisse opportunità inesistenti.
Qualcosa era cambiato, certo: il contratto che lei e il furbo dio dell’inganno avevano stipulato era stato preso ad esempio e copiato da diverse ragazze di differente ceto sociale. Cosa c’era di più affascinante e patriotticamente succoso di una giovanissima principessa Vanir che si impuntava affinché il marito, un orgoglioso guerriero Asi, la trattasse con considerazione e rispetto e promettesse di ascoltarne la voce e la volontà ogni giorno?
Si trattava di concessioni e progressi che, ad ogni modo, avevano influito solamente su quelle famiglie dove era presente un intento modernizzante. Nelle campagne e tra la povera gente, quella di Sigyn e Loki continuava ad essere una favola conturbante, nulla più. La principessa veniva giustificata solo e soltanto perché il dio dell’inganno ne aveva fatto la sua sposa. E poi, l’Ase apparteneva a una stirpe barbara dove anche le donne erano guerriere. La rigida morale dei Vanir non gli apparteneva. Una scelta anticonvenzionale, di questo si trattava.
Per tutte queste ragioni, Vanheim aveva finito per perdonare Lingua d’Argento e la nipote di Njord, ma la stessa condiscendenza non poteva valere per le persone normali. Quella sera, Sigyn aveva atteso che Loki tornasse dal palazzo reale camminando avanti e indietro per l’elegante camera da letto, torcendosi le mani sottili. Sonje dormiva già nel suo lettino, con la bocca schiusa e i bei boccoli neri sparpagliati sul cuscino.
Il dio dell’inganno era stanco e irritato per oscure ragioni che non desiderava condividere con la sua giovane moglie. Perché sì, Sigyn non solo aveva diversi anni meno di lui, ma anche un bagaglio di esperienze decisamente differenti. Smontò da cavallo con un gesto fluido ed elegante, varcando con decisione la soglia del suo palazzo. Le stanze erano buie e silenziose, ma nell’aria permaneva ancora il calore del camino che era stato acceso fino a pochi minuti prima.
L’Ase attraversò soggiorni e anticamere fino a raggiungere il suo studio: caotico, disordinato, ingombro di libri e reliquie. Interdetto, ma solo teoricamente, all’ingresso di una bimbetta di quattro anni e qualcosa, che si ostinava a eleggere quel luogo come sua personale dimora. Aggrottò le sopracciglia scure di fronte ai giocattoli di Sonje sparsi qua e là, ai disegni mezzo stracciati posati di fronte alla poltrona affinché lui li vedesse. Posò le carte, i documenti, un paio di ampolle contenenti pozioni che si premunì di chiudere a chiave dentro a una credenza posta abbastanza in alto da non poter essere raggiunta da sua figlia, e poi si allontanò sfilandosi i guanti di pelle dalle belle mani di mago. Entrò in camera da letto e capì immediatamente che c’era qualcosa che non andava.
Loki aveva un istinto di lupo per i pericoli e i guai. Rimase sulla soglia con un sorriso accennato sulle labbra ironiche, fissando la moglie visibilmente tesa di fronte a lui.
“Deve essere successo qualcosa di veramente spiacevole, se sei ancora in piedi,” notò con voce tranquilla. La guardava con attenzione, in attesa di un gesto o una parola da interpretare, valutare, sviscerare. Se fosse stata una serata normale, l’avrebbe trovata in tenuta notturna, avvolta in una nuvola di pizzo, con i capelli già sciolti sulle spalle sottili. Invece indossava ancora gli abiti che portava durante il giorno e si era tolta solo i gioielli, ad eccezione dell’anello che sanciva il loro legame. Oreficeria dei Nani che le brillava al dito in un reticolo di oro, diamanti e smeraldi a forma di fiori e foglie.
Sigyn si irrigidì tendendo la schiena. “Oggi, in infermeria è venuta una donna.”
Sentendola, l’Ase parve rilassarsi appena. Oltrepassò l’arco della porta, poggiò con noncuranza i guanti di pelle sull’elegante consolle di legno elfico intagliato, sfilò dalla cintura la coppia di lunghi pugnali che portava sempre con sé e li posò accanto a un portagioie di madreperla e argento che aveva regalato il Solstizio prima a Sigyn.
“Mi ha raccontato che sua figlia è finita nel Tempio e non l’ha più vista. Ha avuto una storia simile alla mia, alla nostra,” puntualizzò la donna scegliendo con cura le parole. “Quel posto deve chiudere, Loki,” si affrettò a dire seguendolo passo passo.
“E lo farà,” promise il dio degli inganni. “Al momento giusto ce ne libereremo.”
Lei scosse la testa. “No, non al momento giusto. Adesso. Oggi. Quella ragazza si è illusa che a Vanheim certe regole siano cambiate e si è ritrovata rinchiusa in quella specie di prigione. Con suo figlio. Il bambino dove sarà, adesso? Che ne hanno fatto?” insistette.
Stringeva i pugni e la sua voce aveva assunto una nota acuta e nervosa che, generalmente, non le apparteneva. La donna anziana con la mano ferita si era limitata a stringersi nelle spalle e a confessarle che l’unica cosa di cui si dispiaceva era di non aver potuto adottare suo nipote o sua nipote, chissà cosa avevano filato le Norne. Quel dettaglio aveva spezzato ancora di più il cuore di Sigyn, perché non solo il destino della ragazza assomigliava tragicamente al suo, ma la sorte oscura che era toccato al figlio che la sfortunata aspettava avrebbe potuto essere quella di Sonje, della sua Sonje che odorava di zucchero e biscotti e aveva i capelli morbidi come piume, e ora dormiva serena nel lettino posto nella stanza accanto, abbracciando la sua bambola preferita.
Loki alzò le spalle. “Ci sono comunque troppe resistenze, in seno al Consiglio dei nobili,” spiegò slacciandosi la bandoliera di pelle che indossava ad armacollo.
“Da quando il dio dell’inganno rifiuta di tramare, convincere, manipolare?” Sigyn tremava. Aveva utilizzato lo stesso tono pungente di quando voleva attirare la sua attenzione ai banchetti, molto prima di essere sua moglie. Anche l’Ase la guardò allo stesso modo di allora. Le lanciò un’occhiata attenta, puntuta, brevissima: se così non fosse stata, Njord e Freyr si sarebbero potuti accorgere del momento preciso in cui il dio degli inganni aveva capito di ritrovarsi di fronte non a una ragazzina, ma a una donna.
“Da quando il rapporto tra costo e beneficio è decisamente negativo,” la stroncò immediatamente, slacciandosi le placche dell’armatura che gli coprivano le spalle e le braccia. “Che ti aspetti che faccia, sentiamo? Che assalti quello schifo di posto perché tre contadine hanno voluto spassarsela?!”
Sigyn avvampò. “È la stessa cosa che abbiamo fatto io e te, mi pare.”
Conosceva Loki, capiva quale fosse la logica cinica e stringente che si celava dietro i suoi ragionamenti: una serie di valutazioni follemente precise, puntuali, pungenti, esatte come un taglio chirurgico, che lasciavano spesso fuori qualsiasi scampolo di misericordia o comprensione: i soli interessi dell’Ase erano se stesso, Asgard, il potere che si nascondeva dietro le rune, Sonje, Thor e lei, in qualche modo.
La verità, per il dio dell’inganno, non era che l’illusione di un branco di idioti incapaci di scorgere la parzialità che naturalmente caratterizzava ogni pensiero, confessione, genuina opinione. Oppure, era il punto di vista prepotente e inevitabile del vincitore sul vinto, che riscriveva la storia e le battaglie a suo uso e consumo, non necessariamente in maniera negativa. Loki era il dio del caos perché volutamente sceglieva di non abbracciare nessuna fazione né ideale. La sua volontà pendeva di volta in volta tra la luce e la tenebra con tragica casualità, in virtù di benefici effimeri come il vento o resistenti più del granito. Sigyn lo sapeva: se lo era detto quando tra loro non c’era niente e si allontanava infuriata dai banchetti dopo aver litigato tutta la sera con lui, e non aveva smesso di ripeterselo quando, anni dopo, si infilava sotto le coperte confusa e tradita dal suo stesso corpo, con le labbra gonfie per i baci che si erano scambiati in fretta e di nascosto e il cuore che le batteva forsennato nel petto. Aveva ripetuto come una litania quelle parole nel momento in cui, piegata in due a causa delle nausee mattutine, si era accorta di aspettare da lui un figlio e non lo dimenticò nemmeno in quel momento, nel silenzio della casa che condividevano, mentre la loro bambina sognava beata nel letto.
“E per te lo avrei raso al suolo, il Tempio,” ammise Loki con fierezza. “Ma tu e Sonje siete qui, adesso, e io ho altro da fare.” Si girò dandole le spalle per riempirsi un corno di idromele, perfetto per fargli rilassare i muscoli tesi e levargli il mal di testa che lo affliggeva.
Non si diede affatto per vinta. “Fammi parlare al Consiglio e dammi il tuo appoggio,” lo incalzò.
Suo marito aveva ragione, erano stati fatti dei timidi tentativi per cancellare l’ingiusta legge. Alcuni esponenti delle famiglie più influenti di Vanheim avevano cambiato finalmente idea sulla necessità di tenere in piedi un’istituzione antica e inquietante come il Tempio, ma ancora non c’era nessuna maggioranza. Loki le aveva spiegato che alcune rivoluzioni hanno bisogno di tempo per essere efficaci, e si era impegnato nel prometterle che quel luogo orrendo avrebbe chiuso i battenti o sarebbe stato posto sotto il diretto controllo della Corona dei Vanir, ma non poteva garantirle che tutto questo sarebbe avvenuto in tempi brevi, né aveva voglia di intervenire in maniera invasiva e massiccia.
L’ingannatore vuotò il suo corno. “È una perdita di tempo e a nessuno potrebbe interessare di meno,” tagliò corto.
“Vanheim è un regno vasto e molto popolato. Storie simile alla nostra e a quella della nipote di quella donna capitano ogni giorno. Io non posso più tollerare che ad altre ragazze e ai loro figli capiti quello che, per poco, non è capitato a me. Quindi andrò davanti al Consiglio anche tutti i giorni, se sarà necessario.”
Il dio degli inganni la fissò a lungo, prima di rispondere. Un orologio batté la mezzanotte, il corno gli penzolava ancora tra le dita di mago belle ed eleganti. “Qual è la vera ragione?” domandò avvicinandosi.
Le accarezzò una guancia, fissò i suoi occhi grigi carichi di decisione. Loki aveva un modo di estorcere la verità dalla bocca di chi si azzardava a discorrere con lui che aveva qualcosa di inquietante. Con alcuni era crudele, severo, con altri accondiscendete e amichevole. Sigyn lo aveva visto all’opera innumerevoli volte, tanto da essere riuscita a sviluppare, negli anni, una sorta di meccanismo di difesa nei confronti dell’ingannatore. Non sarebbe stata in grado di liberarsi da una delle sue trappole, se ci fosse caduta dentro, ma sapeva dove guardare per non finirci in mezzo. Evitare che la tenaglia le si chiudesse attorno, questo era il segreto.
Sposarlo aveva significato scegliere di condividere con lui la parte restante della sua vita, dormirgli di fianco, svegliarsi tra le sue braccia, essere odiata o compatita dai suoi nemici, comprendere la sua natura mutevole e scostante, furba e sagace, inesorabile e perfida, ma una parte dell’ingannatore le sarebbe sfuggita sempre. Erano diversi, e nel reciproco rispetto delle loro differenze stava il segreto della loro unione, per il momento, perché nessuna cosa dura per sempre, nemmeno tra gli Asi e tra i Vanir, Loki glielo aveva detto infinite volte; per questo occorreva vivere il presente come se non ci fosse nient’altro d’importante.
Sposarlo aveva e avrebbe avuto un alto prezzo, perché non si può decidere di unire la propria esistenza a quella del fiero Ase che aveva tradito Asgard e stretto patti con creature oscure e potenti, e credere di essere completamente al riparo dalle conseguenze, ma questa è un’altra storia*.
Sigyn si scostò appena, affinché l’Ase avesse una misura precisa della sua irritazione. La rete di Loki era ormai pronta: desiderava approfondire il discorso, aveva assottigliato le palpebre come per fissarla meglio e la nota seccata della sua voce si era addolcita notevolmente. E lei, voleva cadere nella trappola dell’Ase?
Si tormentò il dito inanellato. “Te l’ho detto. È passato troppo tempo e il racconto di quella donna, oggi, mi ha turbata.”
“Questo lo capisco. La mia domanda, però, si riferiva ad altro. Alla vera ragione che tu nascondi. Mettiti la camicia da notte e vieni a dormire, se non sei disposta a parlare chiaro. Non mi interessa estorcerti la verità.”
“Come sei magnanimo,” ironizzò la donna accennando un sorriso. “Avevamo un accordo, Loki. Anche riguardo il Tempio.”
L’Ase piegò le labbra con condiscendenza. Il contratto regolava la loro unione. Era stato scritto e sancito con una lunga serie di baci quando lui, ammaccato e con un braccio completamente fuori uso, era riuscito a strapparle il sì che li aveva visti, poche settimane dopo, unirsi in matrimonio. Le leggi degli Asi e dei Vanir si erano fuse assieme, stemperate e corrette dal buonsenso di Sigyn e dallo spirito fiero di Loki. Quella notte lei era rimasta nelle sue stanze, consolandolo per le ferite che aveva riportato nel più dolce dei modi**, prendendo l’iniziativa in una maniera che l’Ase aveva trovato semplicemente irresistibile. Gli era salita sopra, si era spogliata con studiata lentezza per farsi guardare e aveva diretto la loro unione fino a che lui non aveva gridato il suo nome. Così era iniziata la loro convivenza, ma il contratto presentava anche degli ovvi limiti.
“Nulla ti impedisce di andare al Consiglio, domani, e chiedere che venga abolito e proporre una votazione o chissà cosa. Vai, fallo,” le disse, “hai la mia approvazione, il mio appoggio, come lo hai sempre avuto. Perorerò la tua causa, se è questo quello che vuoi. Ma non farò niente di più, adesso. I tempi non sono maturi, affrettarli è uno sbaglio.”
Loki aveva iniziato a spogliarsi. Si liberò delle placche metalliche che componevano la sua armatura, slacciò con un gesto secco la corazza di pelle intrecciata, robusta e flessibile, capace di proteggere il suo corpo nervoso dagli attacchi degli avversari e di consentirgli, allo stesso tempo, di essere agile, veloce, letale.
Dei giganti di ghiaccio aveva ereditato la spietatezza, decise Sigyn. La fredda analiticità della sua mente acuta la irritò anche se era un aspetto di lui che aveva sempre finito con l’ammirare. Forse Loki aveva ragione, i tempi non erano ancora maturi per intervenire, ma non si può sempre ragionare in base ai vantaggi e alle opportunità: alle volte occorre lanciarsi in operazioni folli anche se non è il momento adatto semplicemente perché è giusto farlo. In questo, Sigyn era simile a Thor: non sarebbe più riuscita a dormire la notte o a sorridere vedendo sua figlia giocare, con la consapevolezza che il Tempio esisteva e continuava a inglobare nel suo misterioso ventre ragazze e bambini. Ma l’Ase detestava perdere, ed era solito lanciarsi in qualche impresa solo se c’erano delle ragionevoli possibilità di ottenere un successo: altrimenti, era meglio restare nell’ombra e aspettare condizioni più favorevoli, propizie. Solo che Sigyn non poteva non sentirsi in colpa per aver regalato alle donne di Vanheim un’illusione, l’effimera speranza di un cambiamento che non c’era, resa ancora più amara dalla constatazione che il mondo è oscenamente ingiusto perché privilegia pochi a discapito di molti: per questo insistette nel portare avanti le sue ragioni: sentiva di aver ingannato la sua gente.
“Non c’è più tempo, Loki,” insistette, vergognandosi nell’ammettere la sua colpa persino con lui. “Abbiamo aspettato abbastanza. Tergiversare in questo modo per me è insostenibile, non dopo oggi, almeno. Ho bisogno che tu intervenga,” mormorò. “Non mi ascolteranno. Tutti devono qualcosa al dio dell’inganno. Lascia che mi unisca anche io alla lista dei tuoi debitori.”
Sciolse la treccia che teneva acconciati i suoi capelli, si accarezzò le punte leggermente ondulate e bionde, in un gesto che l’Ase notò e apprezzò, come il tono tornato improvvisamente dolce e le ciglia nere e lunghe che si abbassavano, ventilando la promessa suadente di un delizioso dopo. La mano delicata della donna sfiorò la guancia affilata e sbarbata dell’ingannatore, scese sul suo petto ampio e sviluppato e sul torace scolpito, sfiorò l’orlo dei pantaloni ancora allacciati.
“Sto trattando affinché Vanheim abbia l’acciaio dei Nani,” sibilò tetro l’Ase, “sto lavorando giorno e notte per questo. Per te e per i Vanir. Non ho tempo né voglia di dedicarmi a una questione sociale e il nostro contratto non ti dà il potere di decidere delle mie giornate.”
“Non lo sapevo,” ammise la donna, “ma questo non toglie che noi abbiamo dei doveri verso quella gente.”
Il dio degli inganni, visibilmente scocciato, piegò le labbra in una smorfia tirata. “Affrettare i tempi è tagliarsi le gambe,” troncò il discorso.
Si allontanò dalla stanza, lasciandola sola per darle il tempo di addormentarsi e punire la sua insistenza, ma quando il fastidio per quella situazione svanì e decise finalmente di infilarsi nel letto accanto a lei, si accorse che nonostante fosse passato molto tempo lei ancora era sveglia, e non poté fare a meno di ritornare sulla questione per un’infinità di motivi. Anzitutto, detestava vederla imbronciata. Era una vera rottura di palle tornare a casa e trovare la propria moglie di pessimo umore o in vena di recriminazioni estemporanee. Il Tempio esisteva da prima di loro, la legge cretina che stabiliva come ogni donna che non avesse una morale più che irreprensibile ci finisse dentro non l’aveva emanata certo lui, smantellare un’istituzione del genere in pochi anni era semplicemente folle.
Sigyn era raggomitolata su un fianco e aveva tirato le coperte fin sul naso. Non disse niente sentendolo avvicinarsi, ma sussultò quando la mano fredda del marito le cinse un fianco per trarla a sé.
“Sei gelido,” sbuffò sentendo la stoffa della sua camicia da notte venire a contatto con la pelle tonica dell’uomo. Si sistemò all’interno del suo abbraccio, ma senza voltarsi. Era ancora offesa ma, allo stesso tempo, si sentiva lusingata per essere stata cercata. Forse Loki per sbollire l’irritazione aveva fatto il giro della casa e delle scuderie – ecco perché era così fredda, la sua pelle –, ed era andato a controllare Sonje. Una rapida sbirciata alla sua piccola erede non l’avrebbe convinto a lanciarsi in una battaglia senza speranze di vittoria, ma probabilmente poteva contribuire a renderlo un pizzico più indulgente nei confronti della sua bionda moglie piena di buoni propositi.
“Mi hai innervosito,” le soffiò all’orecchio. “Non ti ho mai detto no, ma non ora.” La voce di Loki era ferma, decisa, tagliente. “Domani fallirai,” preconizzò crudele.
Sigyn tentò di scostarsi. “Falliremo. Lingua d’Argento, come sei incoraggiante!”
Il dio degli inganni adorava sentirsi chiamare in quel modo da lei. Sua moglie pronunciava quelle due parole con un misto irresistibile di ammirazione e dispetto. La costrinse a voltarsi e la baciò sulle labbra, memore della carezza lenta con cui Sigyn era arrivata a sfiorargli l’orlo dei pantaloni, deciso a consumare la sua vendetta in maniera dolce. Il prezzo da pagare per quella loro momentanea tregua, era che lei, dopo, avrebbe insistito ancora con la questione del Tempio, ma Loki era un Ase e gli Asi non temevano nulla, mai. Non era vero, ovviamente. I tracotanti e fieri figli di Asgard conoscevano molto bene la paura, e quel bugiardo del loro principe cadetto lo sapeva perché l’aveva provata lui stesso, sulla sua pelle. E presto, il terrore sarebbe tornato a fargli visita.
Continua…
Chiacchiericcio dell’Autrice:
Che dite, Loki e Sigyn sono una coppia assolutamente normale?
Come al solito, colgo l’occasione per ringraziare con affetto tutti quelli che leggono, commentano, seguono inseriscono tra le preferite o le ricordate questa storia. Grazie, grazie e ancora mille grazie. Se vi va di condividere un pensiero anche semplice sull’andamento della raccolta, i personaggi o le situazioni, fatelo senza paura. Mi fareste molto felice perché è bello per un Autore ricevere un feedback dal Lettore.
Detto questo, ho in corso ben tre storie (e mercoledì ne vedrete una quarta): il mio intento è, nell’ordine, di aggiornare una settimana una e una settimana l’altra.
Un carissimo saluto!
*Come leggerete/state leggendo in “Giochi Pericolosi” che è il seguito di questa storia ambientato x anni dopo.
**Come in “Tutte le tue bugie.”
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Capitolo 4 *** Vie di fuga ***
LEGGIMI!
Caro Lettore, finalmente sono tornata ad aggiornare questa storia. Dato il tema delicato, ti chiedo di arrivare fino alla fine del testo e, soprattutto, leggere le note fino in fondo. Questo capitolo è la prosecuzione del precedente. Buona lettura!
Vie di fuga
Il Concilio era composto da un gruppo piuttosto eterogeneo di vecchi arcigni, giovani imbolsiti, molli nobili di toga(1) dai lineamenti marcati e la bocca piegata perennemente in una smorfia carica di disgusto. Rappresentavano degnamente una classe sociale e politica stantia, che viveva di privilegi acquisiti inamovibili, almeno all’apparenza. Tutti i presenti dovevano qualcosa al dio dell’inganno. Loki Laufeyson si era insinuato nelle loro vite e negli affari che gestivano da generazioni con una serie di abili colpi di mano che avrebbero, probabilmente, fatto di lui il signore di Vanheim anche a prescindere dal suo matrimonio con Sigyn. Ma degli Asi e degli Jotunn si diceva che fossero inclini ad assecondare i loro bassi istinti, ed ecco spiegato perché la nipote di Njord sfoggiava alta oreficeria dei Nani come fede. Quando Lingua d’Argento entrò assieme alla moglie, gli occhi di tutti i presenti si posarono con una certa curiosità sulla giovane donna. Che ci faceva Sigyn, in quel luogo?
Da un lato, la principessa suscitava nei membri del Consiglio un certo patriottico orgoglio: lo scostante e inafferrabile Loki l’aveva sposata e persino portata con sé durante alcuni suoi viaggi, per mostrarle le meraviglie dei Nove Regni. In pubblico la teneva sempre in gran considerazione, ma senza essere eccessivamente manierato. Dall’altro, lei aveva sposato uno straniero e alcuni non l’avrebbero mai perdonata per questo.
Ad ogni modo, Njord aprì la discussione del giorno e Loki prese la parola. Spiegò agli illustri Vanir i numerosi e strabilianti progressi ottenuti durante le trattative per l’acciaio dei Nani (2), sorprendentemente a buon punto, promettendo allo stesso tempo un futuro di prosperità e ricchezza. La sua voce era eloquente, vibrante, decisa e chiara. Incantò i presenti allettandoli con possibilità reali, intense, vere, succulente. In molti erano pronti a giurare che l’Ase fosse in grado di leggere nell’altrui pensiero. Raccontavano come necessitasse solo di posare le sue dita eleganti sulla pelle della sua vittima, per leggerne i pensieri anche più conturbanti e nascosti (3). Altri sostenevano, invece, che Loki non avesse bisogno di alcun contatto, per sviscerare dai suoi interlocutori ciò che gli serviva.
Sigyn rispondeva sempre con imbarazzo, a chi osava domandarle qualcosa del seidr in generale e di quell’abilità in particolare. Diceva di non comprendere la magia né di essere intenzionata a farlo. Era una caratteristica di suo marito, qualcosa che lo definiva e faceva parte del suo essere da prima ancora che iniziasse a parlare, da quando aveva mutato il colore della sua pelle di fronte a un sorpreso Odino. L’inganno perfetto per farsi accettare da un vecchio re spietato. Sigyn accarezzava i boccoli neri di sua figlia e, sorridendo appena, sosteneva che se Loki le avesse letto davvero nella mente, non si sarebbe messo a chiederle ogni volta dove tenesse le tuniche pulite e avrebbe saputo con esattezza cosa non dire per farla arrabbiare. Le si velava lo sguardo di un’inquietudine strana, quando capitava che facesse questi discorsi.
Durante l’udienza, Sigyn avvertì una strana sensazione di malessere. Un violento capogiro poco prima di entrare, l’aveva spinta a chiedere al marito di perorare la causa al posto suo. Ora sedeva poco distante da Njord, e il suo sguardo correva inquieto dalle labbra arricciate di suo nonno alle espressioni rapite degli astanti, fino a fermarsi su suo marito. Spigliato, affascinante, dotato dell’arte di convincere e incantare, Loki aveva messo su uno spettacolo da cui era difficile distrarsi.
Stava promettendo, anzi vendendo, l’ipotesi di un futuro felice, glorioso, magnifico. Garantiva la grandezza che i Vanir anelavano, ritenevano spettasse loro di diritto e si erano sentiti portare via, millenni addietro, dagli Asi sprezzanti. E ora, il figlio adottivo di quella massa di pirati dalle barbe bionde e fulve e gli occhi freddi come i laghi invernali, si impegnava a restituire a Vanheim ciò che le era stato rubato. Solo che Loki era un furfante travestito da principe, un cantastorie come nemmeno nelle piazze più oscure della città se ne trovava uno uguale. Assicurava la felicità, nascondendo abilmente l’ombra spaventata che Sigyn, talvolta, rintracciava nel suo sguardo chiaro.
Non avevano parlato mai di quel velo scuro che incupiva lo sguardo del dio dell’inganno, tranne una volta, non troppo tempo prima. Sonje dormiva nel suo lettino, con la bocca schiusa e i boccoli neri sparpagliati sul cuscino. Si era addormentata tra le braccia di Sigyn, durante un noioso ricevimento, e lei e Loki ne avevano approfittato per defilarsi e tornare a casa. Avevano messo la bimba sotto le coperte e, nel vederla riposare serena, Sigyn gli aveva confessato di essere felice e di averne paura. Le Norne sono crudeli, si era affrettata ad aggiungere, per divertirsi spesso ci tolgono quello che abbiamo di più caro. Loki inizialmente non le aveva risposto. Si era limitato a rivolgerle un’occhiata assorta, lunga, venata di qualcosa di indefinibile. Poi una mano era scivolata sul suo fianco.
“La felicità è fatta di attimi, istanti, brevi momenti. Non evocarla.”
Lo aveva detto col tono, lieve solo all’apparenza, con cui era solito consigliare e suggerire dalla sua posizione privilegiata accanto al trono Njord. Sigyn, rabbrividendo, comprese che la frase del marito era vera, ma incompleta. Fu tentata, più tardi, nel letto in cui non riusciva a dormire, dal chiedergli il conto della sua affermazione. Gli cinse la vita, affondò il naso sul suo collo, respirò il profumo piacevole e virile che emanava, crogiolandosi in quella vicinanza, ma le mancò il coraggio di domandargli quali fossero le sue paure, perché il cuore di Loki Laufeyson era nero e conteneva cose che sarebbe stato meglio non risvegliare.
Nell’affollata sala delle udienze, Sigyn aveva caldo, troppo. Agitandosi sulla poltrona, osservò Loki veicolare la discussione, finalmente, sull’unico punto che adesso avesse qualche rilevanza: il Tempio che doveva chiudere i battenti. Il dio degli inganni esordì in maniera meno cruda, ovviamente. Desiderava sottoporre una questione stringente, essenziale, vitale ai signori nobili, così disse.
L’Ase li detestava dal primo all’ultimo: reputava i vassalli di Njord un branco di incapaci, imputando la loro inettitudine all’ereditarietà delle cariche. Gli Asi erano un grande popolo non solo per la velocità dei loro drakkar e l’abilità dimostrata dai guerrieri durante le battaglie, ma anche perché le funzioni più importanti dello Stato venivano affidate alle personalità che maggiormente si erano distinte negli assalti. In caso di ingiusta assegnazione, uno scontro nella pubblica piazza risolveva liti e pretese di superiorità. Sorrise con amarezza, a quel pensiero.
Avrebbe dovuto sfidare Thor, un tempo, e scalzare la volontà di Odino. Gridare di fronte a tutta Asgard che Padre Tutto si era sbagliato, il suo unico occhio acuto si era offuscato. Aveva preferito qualcosa di più scenico e crudele, ma che avrebbe salvato il giudizio di suo padre, introducendo di nascosto gli Jotnar nel palazzo reale il giorno stesso dell’incoronazione del fratello. Scacciò il pensiero con un gesto nervoso della mano, catturando l’attenzione di Sigyn, che lo guardò perplessa.
Tutti gli dovevano qualcosa, in quella sala, persino lei. Introdusse la questione del Tempio ricordando all’immobile e incartapecorita sala come il santuario possedesse molta terra fertile e fosse un luogo senza controllo, dove la giurisdizione dei Vanir non contava nulla: era un affronto, un problema politico, una vecchia spina nel fianco che andava risolta. Insinuò dubbi sulla condotta scandalosa che le guardie fedeli alla Sacerdotessa Sublime – non a Njord né alla corona, ma a quella donna – tenevano nei confronti delle ragazze lì segregate. Alluse ad abusi, dipinse il Tempio come un bordello mascherato da tutt’altro, elencando ad alta voce le dicerie che, da sempre, circondavano il luogo. “Pettegolezzi”, sostenne qualcuno interrompendo Loki Laufeyson.
L’Ase incrociò le braccia dietro la schiena, inclinò il capo. “Dici?” sibilò perfido. “Girano voci strane da troppo tempo, perché siano solo menzogne. Fidati di me: nelle bugie c’è sempre un fondo di verità.”
Non tutte le battaglie sono destinate a essere vinte. Non lo fu nemmeno quella. Loki Laufeyson osservò con una punta di fastidio la votazione che, per un soffio, non fu favorevole alla sua proposta. Lanciò a Sigyn un’occhiata irritata: glielo aveva detto, che sarebbero stati sconfitti. I tempi non erano maturi. L’ingannatore detestava perdere, ma non poté far null’altro che tenersi a mente i nomi dei tre fottuti stronzi che avevano reso vane le sue parole brillanti. Theoric, suo padre e suo fratello erano i grandi elettori che avevano rifiutato di appoggiare Loki. Mentre scendevano dagli scranni per tornare alle loro case, l’ex fidanzato di sua moglie gli rivolse la parola (4).
“Non avrai mai né il mio voto né quello del mio clan.”
Gli tremavano le labbra e a stento sosteneva il suo sguardo, e aveva trovato il coraggio di parlargli solo perché tutta la nobiltà di Vanheim era presente. Loki era più alto di lui e, sebbene non indossasse che un’armatura leggera sulle spalle e sulle braccia, senz’altro teneva con sé delle armi. Se avesse voluto, sarebbe stato capacissimo di infilargli un pugnale in qualche punto vitale e ucciderlo lì, seduta stante, lasciandolo annegare nel proprio sangue. Questo era il dio dell’inganno. Solo che l’ultima guerra era terminata quattro anni prima e, da allora, Vanheim, Asgard e gli altri Regni vivevano in pace e serenità. Loki non aveva più indossato le sue insegne color oro, né l’elmo dalle grandi corna ricurve che, si diceva, spesso utilizzasse come arma impropria. Faceva il ministro, adesso, il consigliere di Njord: si occupava di economia, cultura, sicurezza a volte; la sua natura barbara sembrava sopita, domata. Un tempo aveva sfidato Asgard e Odino, si era alleato con Thanos e aveva portato guerra e morte persino su Midgard. La felice Vanheim sembrava aver domato l’orgogliosa fiera selvaggia.
l’Ase rivolse a Theoric un ghigno feroce. “Scommettiamo?”
“Finché sarò vivo io…” iniziò il Vanir, ma l’ingannatore lo interruppe con una risata bassa e beffarda.
“Appunto. Finché.”
Era una minaccia aperta, inequivocabile, oscura, che tutti avevano sentito. Theoric avvampò d’ira, perché apparteneva a una delle Casate nobiliari più importanti di Vanheim e sarebbe dovuto diventare re, ma Loki Laufeyson gli aveva fatto un torto antico, terribile: si era preso Sigyn. Aveva pagato per l’affronto secondo la legge dei Vanir, questo era vero, ma l’onore della Casa di Theoric era rimasto comunque macchiato e la gente non avrebbe dimenticato mai che quel bastardo straniero, figlio di un mostro, stregone e guerriero, allevato da un popolo di barbari insolenti, lo aveva umiliato e beffato come uomo e come nobile.
Commise un errore, Theoric, un errore terribile. Pensò che fosse giunto il momento di vendicarsi del dio degli inganni e rovinare la noiosa vita che si era creato. Lo volle punire per le volte in cui lo aveva visto baciarsi con Sigyn e per quella bambina dai capelli neri e gli occhi grigi che era inequivocabilmente figlia sua. Per essere stato costretto a guardare come si era trasformata la donna che avrebbe dovuto sposare: affaticata da una gravidanza, col ventre gonfio e tondo. Per averli dovuti immaginare insieme, anche.
Rabbrividendo, Theoric parlò. “Te la sei scopata, ma ha concesso qualcosa anche a me. Chiedile di quando vennero gli Elfi.”
Lo disse con voce svelta e cattiva, incurante del cuore che gli batteva nel petto, del sudore che gli macchiava le ascelle, l’inguine, il labbro superiore, persino. Loki era armato, ovviamente. Sarebbe stato da veri idioti pensare che non lo fosse, così come era sciocco credere che si facesse scrupoli nell’ammazzarlo lì, davanti a Njord malfermo sulle gambe e costretto a tenersi a Sigyn ancora ignara di tutto, ai nobili che, comunque, erano in debito con lui.
Il dio degli inganni reagì immediatamente: era un Ase. Lo afferrò per i capelli e, con un gesto repentino, gli fu dietro minando il suo equilibrio e lo costrinse in ginocchio, premendogli il pugnale sulla carotide. Lo avrebbe ucciso, stava per farlo. Njord lo supplicò di non versare sangue in quella sala, gli ricordò come avesse avuto, nella sua vita, avversari ben più degni. Loki rispose di aver tagliato la gola a guerrieri e disgraziati: uno in più non avrebbe fatto differenza.
“Principe Loki di Asgard, è disarmato.” La voce di Njord risuonò grave. Si aggrappava alla nipote e lei a lui, sconvolta dalla scena inaspettata. Il dio degli inganni stirò le labbra in una smorfia sarcastica, tetra. Il re dei Vanir si appellava al suo orgoglio di figlio di re, chiedeva che avesse giudizio, come Odino. E Sigyn, la sua devota e fedele moglie, lo fissava inconsapevole e spaventata.
Lasciò andare Theoric non senza avergli impresso un segno lungo e leggero lì dove la lama affilatissima lo aveva toccato, poi lo colpì con un calcio violento sulle costole, incrinandogliele. Andò via masticando la seconda sconfitta della giornata, senza voltarsi indietro. Non gli sarebbe sfuggito una terza volta. Lei rimase lì.
Sigyn. Tutta colpa di Sigyn. Che aveva quella donna? Quale potere si nascondeva, sotto le sue ciglia scure? Si era ritrovato in una posizione scomoda, con il fianco scoperto, e quel fottuto Theoric ne aveva approfittato. Era stato intelligente, dovette ammetterlo. Si era tenuto quel segreto dentro per anni, perché se lo avesse rivelato allora, quando Sigyn era incinta e lui stesso aveva provato a salvarle la vita, la confessione avrebbe avuto meno effetto. Invece, aveva atteso che lei fosse più di un mezzo per ottenere un trono o di un’amante desiderata con urgenza e intensità. Glielo aveva detto quando Sigyn era, da tempo, la sua compagna. Che colpo geniale. Non rientrò a casa che a notte fonda. Attraversò il cortile con passo marziale, varcò la soglia di casa con dispetto. Tutto era immerso nella penombra, ma lei era sveglia, lo attendeva nello studio. E sapeva.
I capelli biondi erano acconciati in una treccia bassa e molle, il viso era pallido e gli occhi cerchiati di scuro. Da qualche giorno non stava bene, e quello che era successo di fronte al Consiglio certo non aveva migliorato le cose, anzi. All’Ase non importò. Le rivolse un’occhiata breve, torva, irata. Attese.
“Capisco cosa provi, ma non ne hai il diritto.” Sigyn tremava offesa. Qualcuno le aveva riferito la battuta dell’ex fidanzato.
Loki non rispose. Un pessimo segno. Sfilò i pugnali che teneva nella bandoliera e iniziò a pulire quello ancora incrostato del sangue di Theoric. Avrebbe dovuto premere più a fondo, porre fine alla sua inutile vita. Guardò sua moglie dall’alto in basso, assottigliando gli occhi.
“La mia devozione nei tuoi confronti, la mia fedeltà,” gli si avvicinò Sigyn, “non è mai venuta meno. Non puoi fare questo adesso. Non hai il diritto di rimproverarmelo.”
Il dio degli inganni scoppiò in una risata fredda, tetra, spaventosa. E la principessa dei Vanir fece istintivamente un passo indietro. “Il mio diritto,” sibilò, “su questa terra, adesso, secondo le leggi di tuo nonno sarebbe quello di ripudiarti e pretendere dalla tua famiglia un risarcimento per il disonore subito,” le ricordò.
La donna arrossì. “Credevo che gli Asi e gli Jotnar dimostrassero il loro onore in battaglia, contro i loro nemici, e non nelle loro case,” gli ricordò fiera (5).
Loki annuì a metà strada tra il divertito e l’ammirato: adorava le battute argute e intelligenti e gli piaceva il coraggio di Sigyn. “Nella mia casa è successa una cosa strana. La tua fedeltà, Sigyn, presenta una crepa. Perché pensi che debba rimproverarti qualcosa? Una scusa non richiesta puzza di autoaccusa,” sorrise.
Le girò attorno e Sigyn si sentì in trappola, incastrata dal dio degli inganni. “Dove vuoi arrivare?” tremò. Non lo temeva, non lo aveva fatto mai, eppure in quel momento captò un pericolo. L’equilibrio perfetto e sottile della loro unione aveva subito una scossa tale che sarebbe bastata una sillaba sbagliata, per mandare in frantumi tutto. E lei, in fondo, lo voleva, comprese. Perché Loki era geloso e furente, ma voleva manipolare con lei la realtà per farla sentire colpevole di qualcosa che non aveva commesso, o meglio, non aveva importanza. Non doveva. Non più. Almeno così credeva.
“Ti senti in colpa, Sigyn. Altrimenti faresti l’offesa e rideresti della mia gelosia. Invece hai paura, ti sei messa sulla difensiva. Ma perché una donna come te dovrebbe sentirsi in colpa?” si domandò l’Ase retorico. Finse di pensarci su, poi si interruppe e le afferrò le spalle sottili. Lei sobbalzò. “Ma certo. Provi vergogna. Fammi indovinare… Ti è piaciuto.”
Sigyn provò a liberarsi della stretta, fece per dargli uno schiaffo, ma Loki ghignando la fermò.
“Come ti permetti? Non ti azzardare! Cosa ti ha detto? Cosa credi di aver capito?” esplose la donna. “Tu dov’eri, che facevi, quella notte?”
Loki la ricordava. Ci aveva dovuto pensare tutto il giorno, ma alla fine era riuscito a ripescare il ricordo lontano. C’era una delegazione degli Elfi, fu indetto un ballo. Lui e Sigyn erano già stati ad Asgard e, in quel periodo, non si frequentavano. Si lanciavano decine di sguardi, però, e le battute che si rivolgevano erano pungenti, sferzanti come lame. Lei era fidanzata con Theoric, allora, e l’uomo le aveva chiesto di ballare. Sigyn aveva rivolto uno sguardo fiero all’ingannatore, poi aveva accettato. Loki, ingollando idromele, si era domandato se la piccola Vanir si aspettasse ancora un suo gesto plateale e privo di senso: cosa doveva fare, fermare l’orchestra e strapparla via dalle mani di quell’idiota? Forse sì. Avevano ballato a lungo e, per un po’, lui li aveva osservati. Con il chiaro intento di farlo ingelosire, quando la danza li aveva portati vicino a lui, Sigyn aveva poggiato il capo sulla spalla del fidanzato. Loki gliela aveva fatta pagare, ovviamente.
C’era un’Elfa dai capelli corvini e il fisico slanciato, che conosceva di vista. Aveva occhi neri e ammiccanti. Un quarto d’ora di discorsi brillanti dopo e la stava baciando, mezz’ora e avevano lasciato la sala mano nella mano, sotto lo sguardo torvo di Njord, che mal sopportava quei costumi liberi nella sua casa.
Ecco dov’era Loki. Era sdraiato supino su un letto, mentre un’Elfa dai capelli nerissimi e le gambe toniche si muoveva sopra di lui. Quando, sudata e stanca, era scivolata accanto al suo corpo, gli aveva chiesto se fosse riuscito a dimenticare l’altra e l’Ase aveva aggrottato la fronte indispettito.
“Che farnetichi?”
La bruna aveva iniziato a rivestirsi. “Dio dell’inganno, non eri con me.”
Sigyn avrebbe voluto piangere di rabbia, gridare, lanciargli qualche oggetto, persino. Lo aveva visto baciarsi in maniera sfacciata con quella donna bella, bellissima. Si era accorta del ghigno soddisfatto con cui Loki l’aveva presa per mano e condotta via, aveva compreso il motivo della loro assenza. Si era seduta. L’idromele era in una caraffa accanto a lei e così aveva bevuto. Mezzo corno e le girava la testa (6). Theoric le aveva proposto di ballare ancora, e Sigyn si era immaginata Loki che spogliava l’Elfa affascinante e gli aveva offerto la mano. Dopo qualche piroetta, si era accorta di avere mal di testa, di non sentirsi affatto bene. Non sapeva come erano finiti sul divanetto di chissà che anticamera, ma aveva importanza, adesso, dopo quattro anni? Si morse le labbra e venne invasa dal ricordo offuscato del dopo.
“Ti ho visto andare via con quella donna,” soffiò. “Ero disperata, infelice, mi sentivo tradita, mi hai tradita (7). Ho bevuto troppo. Di questo mi sento in colpa.”
Gli occhi di Loki vagarono inquieti sulla stanza per posarsi, infine, sulle labbra serrate e il viso pallido di Sigyn. Qualcosa ha concesso anche a me. La vide disorientata, confusa, che tentava debolmente di allontanare da sé Theoric: un uomo tarchiato e basso, ma che pesava almeno venti chili più di lei, ragazzina debole e indifesa. Non uno del suo clan sarebbe rimasto vivo, decise. Fu tentato di scrutare quello che era stato: sarebbe bastato mormorare un paio di rune, stringerle più forte il polso sottile che ancora serrava tra le dita e avrebbe letto nella sua testa. Lo aveva già fatto, ma sul bastardo, e il risultato era stata una visione fugace, terribile, incompleta. Che gli aveva insinuato dubbi indegni di lui e del suo nome.
“Non lo hai mai detto,” disse.
Sigyn abbassò lo sguardo. Le tremavano le labbra. “Ho permesso che accadesse,” spiegò.
“Che dici?” esplose il dio dell’inganno. “Bere non dà automaticamente il diritto al primo cazzone che passa di metterti le mani addosso! Quand’è che avresti espresso il tuo consenso? Sentiamo!”
Loki aveva urlato. Vide sua moglie sobbalzare, spaventata per quel tono che non usava mai con lei, e che apparteneva, invece, alla furia distruttiva che lo animava sui campi di battaglia. Detestava quel modo di pensare ridicolo, assurdo, che ad Asgard sarebbe stato accolto con una grassa risata. Anziché punire il colpevole, si additava la vittima, in un meccanismo perverso. Sigyn teneva gli occhi bassi, si mordeva le labbra, ragionava come una preda, di più: credeva di aver meritato le disgustose attenzioni di Theoric perché aveva bevuto ed era pur sempre una Vanir e alle Vanir questo veniva insegnato. Così, la vittima finiva per dichiararsi colpevole giustificando il suo carnefice, fornendogli un alibi per i suoi gesti e atti sgraditi. Gliel’ho permesso. Che immensa idiozia. Provava la stessa rabbia feroce che gli aveva infiammato le vene quando aveva scoperto l’inganno di Odino, la verità sulle sue origini. Non sono nient’altro che un’altra reliquia rubata. Afferrando Theoric non aveva potuto fare a meno di vedere, scavare nei suoi ricordi, accertarsi che l’illazione non fosse una menzogna: era bastato soffiare fuori due rune, e aveva visto.
Il divanetto di un’anticamera non lontana dalla sala dei banchetti, Sigyn con la testa reclinata che lamentava di aver male alla testa e provava a scacciarlo, Theoric in ginocchio che cercava di sciogliere le sue resistenze in quella maniera, lei che si divincolava, per fortuna si liberava. Senza il dettaglio del vino, il contesto gli era parso un altro – stralci di lei che si abbandonava al desiderio con quel maledetto – ma adesso era diverso. E Sigyn era sincera, non aveva bisogno del seidr per accertarsene. Le lasciò libero il polso.
Mille volte, durante quel fidanzamento cretino, Loki aveva evitato che Theoric avesse l’occasione di rimanere solo con Sigyn. Era abbastanza scaltro e sveglio da intuire le situazioni potenzialmente pericolose e farle sfumare. Bastava coinvolgere, per via traverse, quell’idiota in una discussione da cui non sarebbe riuscito a liberarsi facilmente, o trovare il modo di circondare lei di dame solerti e dalla chiacchiera facile. Un paio di volte l’aveva persino provocata ad arte per iniziare un litigio mortalmente lungo, inutile e tedioso. Non era bastato.
“Avrei dovuto essere cauta.” Sigyn scosse la testa, si voltò per nascondere il viso. La sua voce non era null’altro che un sibilo sommesso, un sospiro strozzato.
L’Ase serrò i pugni. “Lui non doveva… stupida Vanir.”
“Mamma?” La voce incerta e squillante di Sonje, carica di una nota allarmata, catturò l’attenzione dei due. “Papà?” proseguì la bambina.
Li aveva sentiti gridare e si era svegliata di soprassalto. Intrepida com’era, aveva preso dal letto il grosso animale di pezza che doveva somigliare a un gatto e si era avventurata per il palazzo avvolto nell’ombra. Aveva cercato i genitori in camera da letto e, non trovandoli, si era decisa a raggiungere lo studio di Loki, nonostante temesse le ombre scure del lungo corridoio che doveva attraversare nella sua interezza. Non aveva mai sentito suo padre gridare, e non lo aveva riconosciuto immediatamente. C’era qualcosa di graffiante, in quella voce, di cattivo, eppure, allo stesso tempo, era riuscita a rintracciare una nota familiare nel tono sostenuto. Sonje aveva quasi quattro anni, e non era in grado di capire le dinamiche degli adulti. Con l’istinto proprio dei bambini, però, intuì che c’era qualcosa che non andava e si spaventò per questo. Suo padre era arrabbiato, teso, nervoso; sua madre, vedendola, si era asciugata in fretta gli occhi lucidi.
“Mamma piangi? Perché piangi?” domandò.
Sigyn si precipitò ad abbracciare la figlia. La strinse contro il petto, la prese in braccio e affondò il naso nei suoi capelli neri e ricciuti. “Papà ti ha fatto arrabbiare?” Sonje lanciò un’occhiata intensa e profonda all’Ase, che fissava la scena immobile e rigido. “È perché hai fatto tardi che mamma si è arrabbiata, papà?”
Loki era andato per la prima volta in battaglia quando ancora non gli era spuntata nemmeno la barba. Aveva combattuto centinaia di battaglie, visto mondi lontani, esplorato galassie remote, tramato e ingannato. Persino di fronte al Titano aveva sfoggiato il suo ghigno sicuro e beffardo. A Sonje rivolse un sorriso diverso, però. Era impallidito vedendola sbucare nella stanza, perché non sapeva da quanto tempo la figlia origliasse e non la vedeva da tutto il giorno. Assomigliava a entrambi in maniera perfetta. Gli occhi della bambina, ad esempio, erano innegabilmente dello stesso punto di grigio di quelli di Sigyn, ma il modo di guardare e quello in cui aggrottava la fronte, insieme al broncio che metteva su quando qualcosa la contrariava, erano assolutamente i suoi. Le vide abbracciate, indifese, sole e si maledisse mille volte.
“Sì, è per questo. Torna a dormire, tesoro.” Le sorrise, concedendole una carezza sulla testa bruna, sfiorando i ricci neri e morbidi. Gli tornarono in mente, per un istante, il gelo che lo aveva bloccato il giorno in cui Freya lo aveva atteso sulla soglia del palazzo, tormentandosi le dita inanellate, e l’immagine di Sigyn con il labbro spaccato al cospetto di Njord. Lo aveva guardato senza aspettarsi niente, nulla, consapevole che la ragione e il sentimento per lui non potevano legarsi assieme, certa che desiderasse più il trono di un re vecchio e dispotico, che lei. Gli vennero in mente i piani che non aveva rivelato, ma che erano rimasti al sicuro nella sua testa.
Sonje insistette per passare dalle braccia della madre a quelle del padre, e appoggiò la testolina arruffata sullo spallaccio di Loki.
“Non essere arrabbiato. Mamma ti perdona, ti perdona sempre,” sentenziò.
Con una mano reggeva ancora il grosso gatto di pezza senza cui non riusciva ad addormentarsi. Era rosso e aveva due bottoni blu al posto degli occhi. Si trattava di un regalo di Thor e la bambina, in onore dell’adorato zio, lo aveva chiamato proprio Gatto di Thor. La forma originale si era contratta in un buffo Gatto Thoor.
Non ci fu verso di mettere di nuovo Sonje a letto e farla addormentare. Ormai era sveglissima, ma soprattutto era animata dall’ansia di vedere i genitori insieme e di restare con loro. Non era abituata a sentirli litigare, e scorgere sui loro volti tirati l’ira e il risentimento l’aveva turbata. Sigyn era mortalmente stanca: il peso di una giornata infelice e pesante le gravava sugli occhi e la testa e, di fronte alle suppliche accorate della figlia che non voleva addormentarsi da sola nel lettino, fu quasi disposta a cedere alle sue suppliche rimanendo con lei nella stanzetta. Ma la piccola subodorò l’inganno e tirò fuori lo spirito guerresco paterno. Dagli Asi, Sonje aveva senz’altro ereditato la testardaggine e l’insolenza.
Si aggrappò al mantello del genitore, fissandolo disperata. “Nella stanza ci sono i mostri. Si sono nascosti nell’armadio. Papà, devi restare con noi.”
In una serata diversa, quella richiesta avrebbe dato vita a un vero spettacolo. L’Ase si sarebbe messo a ispezionare, con la serietà che avrebbe sfoggiato di fronte a Odino in persona, la camera della bambina raccontandole storie spaventose e buffe insieme, capaci di far ridere fino alle lacrime sia Sigyn che Sonje. Lo spettacolo teatrale, tuttavia, necessitava di tempo e di un equilibrio che, in quel momento, non c’era e la piccola se ne accorse e iniziò a frignare. Sapeva benissimo che Loki disapprovava che dormisse, sia pure sporadicamente, nell’ampio letto matrimoniale con lui e sua madre. Non era una cosa da Asi. I bambini di Asgard erano coraggiosi e rimanevano nelle proprie stanzette, senza intrufolarsi in quelle altrui. Lingua d’Argento evitava, ovviamente, di raccontare come anche lui, nell’infanzia, avesse chiesto spesso asilo al fratello, soprattutto quando c’erano spaventose bufere di neve o nei casi in cui le battaglie, ancora solo immaginate o lette nei libri, popolavano con troppa intensità la sua immaginazione fervida e febbricitante.
L’Ase finì per accontentarla, ospitando suo malgrado persino il grosso gatto di pezza, assicurandole che quella sarebbe stata l’ultima volta che le avrebbe concesso un simile privilegio. Sonje annuì, saltando allegra sopra le coperte ben tirate.
“È una richiesta da bambini piccoli la tua, Sonje.”
Lei gli rivolse il principio di un sorriso laterale, esatta copia del suo. “Io sono una bambina piccola, papà,” gli ricordò compita. Si infilò con Thoor sotto le coperte e prese a osservarlo con una serietà improvvisamente grave, solenne, spostando i begli occhi grigi da lui a Sigyn, che le diede un bacio sulla guancia e si mise accanto a lei.
“È davvero tardi, Sonje, e adesso devi dormire,” le sussurrò.
La piccola annuì, le si strinse contro. Aveva effettivamente sonno e voleva chiaramente essere coccolata dalla madre, ma mancava ancora qualcosa, secondo il suo punto di vista, affinché la nottata potesse proseguire. “Ora dormiamo. Ma papà deve darci il bacio della buonanotte, mammina.”
Loki sentì la richiesta fatta dalla vocetta acuta di sua figlia. Si stava togliendo l’armatura leggera di fronte all’ampio specchio del bagno padronale, comunicante con la camera da letto. Cercò di non guardare la propria immagine riflessa, concentrandosi sui lacci che stringevano la sua tunica intrecciata, sulle fasce che proteggevano la pelle dal cuoio dell’armatura. Cos’avrebbe fatto, se sua figlia non fosse entrata all’improvviso? Se ne sarebbe andato via imprecando, corroso dalla gelosia e dall’ira? Oppure avrebbe stretto Sigyn a sé, baciandola e trascinandola su quello stesso letto per cancellare l’orrenda lite? Il ricordo offuscato strappato dalla mente di Theoric lo aveva mandato fuori strada, oppure era stato lui a voler piegare la realtà interpretando male le immagini sconnesse di una memoria ghermita? Voleva vendetta: quel maledetto gli era sfuggito due volte. Non ce ne sarebbe stata una terza, lo giurò sul suo sangue di Re. Eppure, far pagare a quel viscido le sue azioni non lo avrebbe rappacificato con il mondo né avrebbe cancellato il passato. Theoric non era l’unico colpevole. Dov’era Loki, mentre Sigyn con il cuore spezzato si lasciava confondere la testa da un sorso di troppo di idromele?
A letto con un’altra e lei li aveva visti andare via. Se fosse rimasto nella sala, l’avrebbe osservata senz’altro bere dal corno, vacillare incerta. Si sarebbe accertato che quel fottuto idiota non le torcesse un capello. Ma così non era andata, e il giorno dopo lei era rimasta in silenzio, vergognandosi per quello che era successo quando avrebbe dovuto vendicarsi, gridare, dirlo a lui. Indossò i pantaloni di lino leggero che utilizzava per dormire e incontrò lo sguardo assonnato, ma tenace, di Sonje che cercava con il suo acume infantile di mettere le cose a posto.
Sigyn, invece, fuggiva i suoi occhi, e gli concesse le labbra solo per calmare la figlia. Si addormentarono abbracciate, loro, mentre l’Ase rimase sveglio a lungo e, quando riuscì a prendere sonno, venne quasi soffocato dall’insopportabile e necessario animale di pezza della figlia. Non chiarì con Sigyn, al mattino. Partì per Asgard, invece, sollevato dalla possibilità di allontanarsi da Vanheim, almeno per qualche giorno. Thor gli aveva scritto, un paio di giorni prima, chiedendogli aiuto per una questione di confini, attribuzioni, diritti arcaici. Il dio dell’inganno, inizialmente, gli aveva risposto con un laconico “arrangiati, idiota”, ma poi la situazione era peggiorata. Chiamò Heimdall prima che sorgesse l’alba: stava fuggendo, e questa era una cosa indegna di lui e del suo rango, ma aveva bisogno di trovare le parole giuste da dire e venire a patti con se stesso e gli errori commessi.
Non poteva immaginare che non ci sarebbe stato alcun confronto, né si aspettava che sua moglie fosse così disperata da tentare una mossa tanto pericolosa per minare dalle fondamenta l’istituzione del Tempio. Eppure, attraversando il colonnato antico e imponente che collegava tra loro gli antichi edifici della tetra congrega, rifletté come, al suo posto, non si sarebbe comportato diversamente. Sigyn aveva colto l’occasione di portare Vanheim tutta dalla sua parte. Si era fidata di lui, che certo non sarebbe rimasto a braccia conserte sapendola dentro l’inviolabile cinta muraria, e della sua gente. Incauta ragazzina. Aveva avuto ragione, per ora, ma a che prezzo?
C’era qualcosa di maligno, sotto il pavimento lastricato del portico che Loki stava attraversando a passo deciso. Lo avvertiva, lo sentiva, ne poteva percepire l’odore nauseabondo, persino. Fu introdotto in una costruzione antica, scura, buia. Contò i passi e prese nota di corridoi, stanze, guardie armate. Non si stupì nel non vedere né le donne né i bambini che lì erano rinchiusi. Dovevano trovarsi certamente in qualche corte interna, come Sigyn. Deglutì al pensiero che lei fosse dentro quello schifo di posto da un giorno intero.
Fu introdotto in una sala spoglia, sobria, tutto sommato elegante. La Sacerdotessa Sublime gli sorrise. Aveva i capelli coperti e un abito scurissimo, su cui spiccava il viso bianco ed etereo, ma non così bello, decise l’Ase.
“Loki Laufeyson, dio dell’inganno, principe di Asgard, erede di Jotunheim. Che onore,” sospirò la donna.
Lingua d’Argento le rispose con un cenno breve del capo. “Mia signora, vi ringrazio per l’onore che mi avete concesso,” replicò. “Non speravo in così tanta benevolenza.”
La donna rise. “La vostra fama vi precede. Il mio compito è garantire la sicurezza di questo luogo. Se non vi avessi fatto entrare, ditemi: cosa avreste fatto?”
Gli fece cenno di accomodarsi su una poltrona e Loki acconsentì e si sedette, sfiorando con le dita la stoffa pregiata della tappezzeria. Era a suo agio persino lì. “Credo che sarei entrato dal passaggio segreto che si trova sul lato est della cinta muraria,” ammise con un ghigno. “E poi avremmo parlato come adesso, ma voi avreste avuto uno dei miei pugnali all’altezza della pancia.”
“Non credevo foste così schietto.”
L’Ase appoggiò la testa sulla spalliera della sedia. “Io direi divertente.”
La Sacerdotessa, con un cenno, fece avvicinare un’ancella dal viso triste che reggeva una brocca e dei bicchieri.
“Bevete,” lo invitò. “Siete mio ospite. Credo di indovinare perché siete qui. Una delle mie figlie si chiamava Sigyn.”
Loki afferrò il bicchiere, ne osservò il contenuto. “Adesso come la chiamate?” domandò distante.
“Non ha nome,” fu la gelida replica.
“Scomodo.”
La Sacerdotessa Sublime inclinò il capo di lato, come per osservarlo meglio. “Fate dell’ironia. È curioso.”
“Sigyn…” Loki ne pronunciò il nome gustandone la musicalità cristallina. “Mia moglie è un problema e mi ha profondamente scontentato,” confessò. “Mi ha disobbedito di fronte ai Nove Regni tutti.”
“Imperdonabile. Cos’ha fatto?” La Sublime si sporse verso di lui, come se dovesse raccogliere un qualche segreto.
“Tanto per cominciare, è venuta qui. Un atto sconsiderato, non trovate?”
La donna s’irrigidì. “No. Vengono qui le donne che vogliono pentirsi.”
“Di cosa dovrebbe pentirsi, mia moglie?” Ora era Loki, a protendersi sulla sedia, verso di lei. La Sacerdotessa strinse le palpebre come se dovesse metterlo a fuoco.
“Siete il dio dell’inganno, ma c’è qualcosa che lei ha fatto, che vi ha ferito. Vedo dentro di voi, Loki: nel profondo del vostro cuore, voi siete… felice che lei sia qui. Non è più degna. Qualcosa si è spezzato e non si ricostruirà più.”
Loki si mosse sulla sedia, innervosito dall’affermazione della donna. “Non sai quello che dici.” La sua voce era stata fredda, severa.
“È per l’uomo che…”
“Basta. Il mio scopo non è portarla via da qui,” ammise Loki fissando senza bere il bicchiere che gli era stato porto. “Ma riprendermi qualcosa che le ho lasciato.”
La Sublime parve sorpresa. “Ah sì?” sorrise. “E le Armate dietro le mie mura, cosa sono?”
Il dio dell’inganno bevve il contenuto del bicchiere fino all’orlo e si alzò in piedi. “Un trucco. Un diversivo. L’illusione che ho creato. Sono Loki di Asgard. Non posso avere punti deboli. Lei lo è. Mi ha dato un’erede, ora non mi serve più.” Un sorriso feroce gli attraversò le labbra. “Devo solo sapere dove ha nascosto ciò che cerco.”
La donna rise sommessamente. “Oh. L’hai usata. Parli davvero bene e non una delle parole che ti sono uscite dalla bocca mi ha offeso. Sembra quasi che tu nutra davvero del rispetto per questo luogo.”
Loki rise gettando il capo all’indietro come se davvero trovasse l’arguzia della sacerdotessa sommamente divertente.
Continua…
Angolo dell’Autrice - leggimi, è DAVVERO importante!
Caro Lettore,
Certi avvertimenti e rating non sono casuali, e nemmeno talune scelte. In questo capitolo, è presente una scena scomoda e fastidiosa, sebbene NON gratuita. Non ho avuto dubbi, mentre la scrivevo: è funzionale al contesto e adesso ti spiegherò il perché. Quando si affrontano certe tematiche delicate, è importante farlo con consapevolezza. E realismo.
Se ciò che succede a Sigyn fosse stato meno invasivo e disgustoso, la vergogna della ragazza, ma soprattutto l’ira che dilania Loki anche a quattro anni di distanza, sarebbero state assolutamente fuori contesto ed eccessive: in Tutte le tue bugie, la nostra pianta un casino incredibile pur di non fidanzarsi con Theoric e cerca aiuto in Loki. Il dio dell’inganno non è un idiota né uno sprovveduto: sa benissimo che Theoric è un uomo esattamente come lui, con pulsioni e desideri. Se si fidanzerà con Sigyn, giocoforza farà qualcosa con lei, prima o poi. Nonostante questa considerazione, non la salva. Lei è solo una che gli piace, o almeno questo è quello che si racconta. Con che faccia, a quattro anni di distanza, si infuria con Theoric, unico colpevole, come ci tiene a sottolineare? Come potrebbe esplodere in quella maniera per un bacio rubato o un palpeggiamento, per quanto fastidioso? Sarebbe da ipocriti. Poteva pensarci prima. E Sigyn, che dopo quattro anni ha difficoltà a parlarne con suo marito e si sente addirittura colpevole? La scena è funzionale anche perché Loki esprime un punto di vista decisamente moderno e importante, che in questo caso ho attribuito alla fiera cultura Asi: l’importanza del consenso in qualsiasi situazione. Perché quel gran verme di Theoric se ne stava approfittando.
Poiché si tratta di un cenno molto lieve e non descrittivo, e non c'è alcuna "consumazione" effettiva, il rating è stato mantenuto arancione. Grazie per essere arrivati fin qui!
- Nobiltà di toga e nobiltà di spada sono due concetti piuttosto complessi. In questo universo, ho mutuato e semplificato mortalmente alcuni elementi propri del feudalesimo e dell’età moderna piegandoli alle mie necessità di trama. Loki (oltre ad essere un principe), appartiene alla nobiltà di spada, perché gli Asi ottengono privilegi e terre dal re (Odino, poi Thor) che concede feudi a fronte di un impegno sul campo di battaglia e nella difesa di un territorio. Theoric acquista con moneta sonante il titolo nobiliare e le cariche.
- Rinnovare l’accordo per ottenere l’acciaio dei Nani è ciò che fa Sigyn in “Giochi Pericolosi.”
- Come con Valchiria in Thor: Ragnarok.
- Theoric (il nome, perlomeno) è l’unico elemento Marvel che ho ripreso nella storia tra Loki e Sigyn. Per i dettagli, leggiti “Tutte le tue bugie”!
- Questa frase è una citazione di me medesima: non la trovi qui su Efp, però…
- Ho deciso che un corno di idromele fa ubriacare un Vanir medio. Gli Asi come Loki, svezzati con questa simpatica bevanda, ne reggono di più. Sigyn, che è una ragazza esile, non regge la quantità, ovviamente.
- Tra Loki e Sigyn, in “Tutte le Tue Bugie”, la relazione era già a un determinato punto. Quale? Mica posso spoilerare.
La Fatina dell’Ispirazione ha bisogno di te! Lasciale un messaggio! La tua opinione conta e le sue alucce luccicanti faranno nascere nuove storie nella testa dell’Autrice! E non odiarmi per questa fine. Non troppo. Sento già gli accidenti che mi stai mandando.
S. |
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Capitolo 5 *** Sotto la superficie ***
Sotto
la superficie
Le
ossa di vecchio di Njord tremavano per il freddo e la
paura. Un vento impietoso e gelido aveva trasportato fin lì
nuvole scure
cariche di pioggia e si insinuava sotto gli abiti graffiando la pelle.
Era
passata almeno un’ora da quando il dio degli inganni aveva
oltrepassato svelto
e sicuro la pesante porta del Tempio; più i minuti
passavano, più le speranza
che uscisse con Sigyn si assottigliavano fino a diventare un filo
sottile e
impalpabile. Gli tornarono alla mente le immagini della nipote
quand’era una
bambina silenziosa e assorta, ripensò alla ragazzina serena
che era stata
quando lui credeva di essere quasi il padrone del mondo e persino il
figlio
reietto di Odino aveva scelto di inchinarsi suo cospetto.
Desiderò con
disperazione andare indietro nel tempo, a quei giorni lontani in cui
non
c’erano ombre sulla sua Casa e, per settimane, non
succedevano che piccole cose
di nessun conto – Loki che metteva sottosopra il palazzo per
cercare una penna,
ad esempio, ma questa è un’altra storia (1).
Un
tuono squarciò il cielo riscuotendo il sovrano dai suoi
rimpianti e, subito dopo, una pioggia di lampi illuminò
l’aria grigia e fredda,
la terra si coprì di strani simboli e il Bifrost si
aprì in tutta la sua
magnificenza. I nobili e i soldati riuniti tirarono un sospiro di
sollievo e
gridarono estasiati battendo le armi contro gli scudi,
perché Thor figlio di
Odino in persona era venuto a salvare il fratello insolente.
Che
i piani del tonante in realtà fossero leggermente
diversi da quanto presupposto, lo dovette suggerire la presenza della
piccola e
compita ospite che aveva accompagnato il prodigo eroe. Sonje reggeva
con un
braccio il fedele gatto di pezza e si guardava attorno curiosa,
osservando ogni
cosa con la stessa acutezza del padre. Quando vide Njord, sorrise
sventolando
la mano felice.
Il
vecchio re boccheggiò sgomento e fissò il tonante
disperato. “Perché l’hai portata qui?
Non è un luogo adatto a una bambina,
questo!”
“Scherzi?
Non c’è posto più adatto,”
sorrise Thor. Si chinò
verso la nipote e le indicò le torri austere del Tempio.
“La tua mamma e il tuo
papà sono lì e presto usciranno,”
spiegò sicuro. “E sarà uno spettacolo
divertentissimo.”
Sonje
saltellò dalla gioia. “Ci saranno i
fuochi?”
“Grandissimi.”
“E
poi si baceranno?”
Sonje
lo chiese con l’infantile cupidigia con cui attendeva
il finale di una fiaba, quando l’eroe sconfigge il drago e
libera la
principessa: dall’alto dei suoi quattro anni, si era convinta
che i suoi genitori
fossero i protagonisti dei racconti fantastici che le leggevano per
farla
addormentare e voleva che si comportassero come tali. L’idea
le era venuta
sentendo una domestica distratta che non si era accorta della sua
presenza e
aveva paragonato Loki non all’eroe, ma al drago. A detta
della donna, Sigyn era
e sarebbe rimasta per sempre prigioniera del dio degli inganni.
“Certo che si
baceranno,” promise il Re degli Asi accarezzandole con
dolcezza i ricci neri.
Njord non attese oltre per pararglisi davanti.
“Che
ti è saltato in testa?”
“Voglio
che veda suo padre uscire trionfante da quel
portone, mi pare ovvio. Tutti i bimbi Asi vengono portati ad assistere
alle
parate vittoriose e al rientro dei genitori dalle battaglie.”
“Questo
è il Tempio! Non ne avverti il potere nero, pesante,
insondabile? Non usciranno mai da quelle mura, forse saranno
già morti. Dovevi
arrivare prima, li avresti salvati.” (2)
Thor
prese in braccio la nipote, se la mise sulle spalle e
scrutò con attenzione il vecchio sovrano preoccupato.
“Per le Norne, tu sei
serio,” si rese conto mentre la coda del gatto di pezza gli
offuscava
parzialmente la vista. “Pensi davvero
che Loki non sappia uscire da un castello abitato da vecchie megere?
Lascia che
ti dica una cosa: se non ci riuscisse da solo, non berrei
più con lui.” (3)
“Tu
non hai idea di cosa sia il Tempio e quali insidie
nasconda: non esiste nemmeno una mappa precisa delle sue stanze. Dicono
che sia
un labirinto capace di mutare aspetto e orientamento per far impazzire
chi lo
attraversi e nessuno è mai riuscito a uscirne
vivo.” Njord era pallido in volto
e si pentì della frase appena pronunciata non appena
capì che Sonje aveva
ascoltato ogni parola. Quanto poteva aver compreso del lugubre
discorso? Dagli
Asi, Sonje aveva senz’altro ereditato la testardaggine e
l’insolenza, ma anche
l’intelligenza viva e acuta e l’indomita fierezza.
Lo guardò con attenzione,
strinse con maggior forza i capelli biondi dello zio ma rimase muta.
“Mio
fratello è diventato un maestro di magia quando nemmeno
si faceva la barba. Ha più vite di un gatto e una fibra
fottutamente robusta;
se pensi che non sappia uscire, beh, mi deludi Njord. Nessun Vanir
è mai uscito,
ma certamente nessun Asi è entrato,”
ribatté con una nota di risentito orgoglio.
“Vai
a salvarli,” supplicò nonostante tutto il re.
“Sonje è
così piccola.”
“Scordatelo,”
fu la convinta risposta. “Non rovinerò la
festa a mio fratello.”
Due
guardie davanti e due dietro più una per ogni lato. Loki
valutò con attenzione la corporatura robusta degli uomini e
le armature spesse
che li coprivano da capo a piedi. La Sublime avanzava come
un’ombra nera
davanti al piccolo drappello in un frusciare di seta nera. Il dio degli
inganni
accarezzò per l’ennesima volta l’idea di
fermarsi in mezzo al corridoio, liberarsi
una volta per tutte delle guardie e tagliare la gola a quella puttana,
ma
dovette frenare il desiderio. Prima era necessario trovare lei.
Giunsero
davanti a una porta blindata. La Sacerdotessa sfilò
dalla cintura un mazzo di pesanti chiavi e aprì la serratura
sotto lo sguardo
vigile dell’Ase. Nella stanza c’erano un numero
incredibile di telai e donne
smunte e dall’aria infelice che tessevano, controllate a
vista dalle adepte del
Tempio. Il dio degli inganni cercò Sigyn tra la folla di
disgraziate, ma non la
vide. Notò con orrore che alle donne erano stati tagliati i
capelli e pensò
alla magnifica chioma di sua moglie e a un torto antico che lui stesso
aveva
compiuto nei confronti di Sif, ma di cui non si era mai pentito. (4) La
Sublime
riconobbe immediatamente il suo ultimo acquisto e si diresse a passo
sicuro
verso un angolo dell’enorme sala. Uno dei telai si
fermò e, dal mare grigio di
donne chine, spuntò un’irriconoscibile Sigyn. Loki
avrebbe voluto stupirsi per
l’immagine della moglie, ma non ci riuscì; nella
sua vita aveva subito la
tortura e la prigionia e aveva perso il conto della battaglie che aveva
combattuto. Decine di volte i suoi stivali erano affondati nel fango e
nel
sangue, centinaia era sceso nei sotterranei di Asgard da trionfante
vincitore per
osservare i nemici sconfitti. Per questo non gli riuscì di
sorprendersi,
vedendo gli occhi spaventati di Sigyn, osservando l’aria
spaurita di bambina
che il taglio corto che le aveva regalato (5). Non la vedeva che da
pochi
giorni, eppure in quel lasso brevissimo di tempo il suo viso si era
trasfigurato. Riconoscendolo, lei si morse le labbra e non
riuscì a trattenere
un singhiozzo. Provò a corrergli incontro, ma fu bloccata
dalle guardie e Loki
non mosse un muscolo. Anche questo aveva imparato comandando per secoli
le
armate di Odino.
“Ora supplichi il
mio
aiuto? Potevi pensarci quando ti sei opposta ai miei
avvertimenti,” le disse
invece con sprezzo evidente. Sigyn sgranò gli occhi, colpita
da quella frase e
dalla rigidità dell’Ase. Era una messinscena,
ovviamente. La mascella
contratta, la smorfia sulle sue labbra, la compostezza della sua
postura non
erano che una maschera, una recita cui aveva assistito infinite volte. Solo che.
La
Sacerdotessa la sorpassò soddisfatta e lei fu presa per
le braccia e condotta in una lugubre stanza priva di finestre. Alle
pareti
erano appese fruste e catene.
“Puoi
interrogarla qui,” soffiò la Sublime congiungendo
le
mani serafica.
“Dove
cazzo è l’anello?” La porta non si era
nemmeno chiusa
che il dio dell’inganno aveva afferrato Sigyn per le spalle,
scuotendola con
forza. Di fronte al suo sbigottito silenzio, insistette.
“L’anello, la fede.
Non era un regalino d’amore per te, ma una nascondiglio per
qualcosa che ho
rubato,” disse tra i denti.
“Non
sei qui per salvarmi?” La sua voce era insolitamente
calma, piatta. Le tornò alla mente l’immagine che
le si era presentata davanti
solo poche settimane prima – Loki addormentato in camera di
Sonje, le lunghe
gambe stese sul tavolinetto basso dove la piccola organizzava i suoi
tè con le
bambole, un libro di fiabe tra le mani e l’indice a tenere il
segno delle
pagine. Lo aveva svegliato scuotendolo per una spalla e lui,
incredibilmente,
non era saltato in piedi come suo solito grazie ai sensi sempre
all’erta, ma
aveva bofonchiato un lamento leggero continuando a dormire.
La
porta dietro di loro venne chiusa a chiave e si accorse
che, in una mano, l’Ase stringeva qualcosa di cuoio: una
frusta. “Ti ci sei
ficcata tu in questa situazione, piccola stupida. Io te
l’avevo detto. Ho
sopportato abbastanza la presenza tua e di quel vecchio idiota di tuo
nonno.
Adesso che ho il campo libero, non mi servite
più.”
Aveva
usato un tono compiaciuto, cattivo come il sorriso che
gli tagliava le labbra, abbastanza alto perché fosse udito
al di là del muro. La
frusta schioccò con un colpo secco facendola gridare, ma non
si abbatté su di
lei. Fendette l’aria che si trovava nella direzione opposta e
la giovane donna
si ritrovò a fissare il marito appiattita contro la parete
umida. “Che farsa è
questa? Fammi uscire!”
“Nessuna
farsa, ti sbagli.” Le si avvicinò e Sigyn
poté
riconoscere l’odore di pelle e cuoio che le era
così familiare, in cui si
rifugiava quando lui era via e lei affondava il naso negli abiti
riposti nell’armadio.
Esplose in un pianto nervoso, disperato, convulso. Loki la
afferrò per la vita
e la strinse a sé.
“Ti
detesto davvero,
profondamente. Mi hai ingannato costringendomi a venire qui, hai
ignorato i
nostri accordi e non indossi l’anello. Contiene davvero
incantesimi e rune,”
sibilò caustico. “E ora, fammi il piacere: urla
come se ti stessi colpendo
davvero, avanti.”
“Portami
via, portami da Sonje.” Sigyn scosse la testa che
aveva adagiato sul suo petto, cercando le parole giuste per spiegare il
suo folle
gesto. Non fu certa di averle trovate, ma iniziò lo stesso
il discorso.
“Nessun’altra deve entrare qui dentro. Questo posto
è un abominio. Io dovevo
sapere e vedere per raccontare al mondo di fuori cosa succede qui. La
famiglia
di Theoric prima o poi dovrà adeguarsi alle decisioni degli
altri nobili o
verrà isolata, tagliata fuori.”
Il
nome dell’uomo fece irrigidire l’Ase.
“Questo è il
discorsetto che ti sei preparata per tuo nonno. Schioccò la
frusta e quella si
infranse contro la porta con un sibilo violento. Sigyn
cacciò un urlo sincero,
come le indicò il sopracciglio alzato del marito.
“La ragione vera è che ti sei
sostituita all’ultima derelitta che doveva finire qui dentro
perché ti ha fatto
pena e per espiare tu
stessa.” Il
potere delle parole di Loki stava nel dolore lancinante che sapevano
instillare.
Sigyn
guardò a terra. “Non perdere tempo con questa
recita,
fammi uscire.”
“Ti
sei sentita una piccola privilegiata e ti è
dispiaciuto.” Le diede un bacio rancoroso, disperato, che le
ricordò con vivida
precisione quelli che si scambiavano negli angoli nascosti del palazzo
di
Vanheim, quando giocavano a detestarsi; solo che non finì
lì. Sigyn soffocò un
grido artigliandogli i capelli. Loki delimitava il territorio usurpato.
Che
altro aspettarsi, dal figlio di pirati e guerrieri, dal gigante di
ghiaccio
cresciuto dai feroci Asi? Le stava chiedendo perdono in maniera barbara
e
arrogante, dimostrandole inequivocabilmente, con le sue labbra
beffarde, quanto
Theoric non significasse niente e non esistesse alcuna macchia, su di
lei.
Poggiò
la nuca contro la parete. “La porta potrebbe
aprirsi,” supplicò.
Nemmeno
i baci del dio degli inganni potevano cancellare del
tutto ciò che aveva visto in due giorni di permanenza in
quel luogo, specie se
erano conditi di astio come quelli che le aveva appena scoccato. Era
stata
picchiata, spogliata dei suoi abiti, offesa. Aveva visto le sue lunghe
ciocche
bionde di cui era orgogliosa cadere sul pavimento, si era addormentata
su un
giaciglio di paglia stretta in una tunica ruvida. Tutte cose che non le
erano
capitate per caso, ma perché, di sua spontanea
volontà, aveva deciso di
prendere il posto di un’altra ragazza nel folle tentativo di
attirare lì Loki.
E poi?
“Che
succeda. Sono qui per radere al suolo questa cloaca.”
Sigyn
aveva chiuso gli occhi, ma poté intuire che
l’ingannatore sorrideva feroce, mentre lo diceva, ed ebbe
paura. Lo aveva
costretto a intervenire; qualsiasi cosa gli fosse capitata, sarebbe
stata colpa
sua.
“Prima
però, tu andrai via da qui. Prenderai il mio aspetto
e io il tuo e uscirai dalla porta principale,”
spiegò l’Ase spiccio.
“Con
la magia? Non posso!”
“Non
sei una guerriera, non posso combattere e pensare anche
a te!”
“Mi
hanno visitato! Sono incinta! Non puoi usare la magia!”
Sigyn lo disse tutto d’un fiato, con il cuore che le
galoppava nel petto. Una
mano scese istintivamente a proteggere il ventre piatto. Gli occhi
quasi
trasparenti di Loki seguirono il gesto. C’era una punta di
azzurro, nel suo
sguardo. A volte, il verde lasciava spazio a quell’esigua
traccia celeste che
lasciava intravedere qualcosa della sua anima inquieta, nervosa.
“Tu
hai un tempismo orrendo!” Era impallidito perché
il dio
del caos, per contrappasso, doveva avere ogni cosa sotto controllo,
sempre. Di
fronte al suo piano che si infrangeva, esplose. “Sarebbe
andato tutto perfettamente!
Perché lo devo sempre
venire a sapere quando rischiamo il collo?” (6)
Lo
vide deglutire, capì che stava ragionando sulla
possibilità di un simile evento e su come avrebbe potuto
gestire la notizia. Strana
cosa che era, il seiðr. Una forza letale e perfetta che traeva
la sua forza
dalle rune e che, alle volte, si ingarbugliava o falliva. Una donna
incinta,
nelle prime settimane, non avrebbe dovuto subire incantesimi; il feto
avrebbe
potuto soffrirne, ma Sigyn non avrebbe dovuto essere in quello stato
perché i
loro incontri erano protetti. Loki si passò una mano tra i
capelli per
scacciare la tensione. Incontri.
Che
brutta parola aveva usato. Così avrebbe dovuto chiamarci il
sesso consumato in
fretta e di nascosto con Sif quand’era ragazzo o la breve
relazione intessuta
per noia qualche ancella di Frigga. (7)
“E
adesso, che facciamo?” domandò Sigyn aggrappandosi
al suo
braccio.
Loki
Laufeyson emise un profondo sospiro. “I miei piani
variano di momento in momento. Purtroppo.” Lentamente la
porta della stanza
iniziò ad aprirsi.
“Zio
Thor, io mi annoio. Facciamo un gioco? Giochiamo al tè
delle signore? Io preparo il tè per te e Gatto Thoor e poi
chiacchieriamo.”
Sonje lo disse tirando il mantello del prode dio del tuono e fissandolo
con quei
suoi occhioni grigi. Il suo broncio afflitto era la copia identica e
sputata di
quello che suo fratello, da bambino, sfoggiava di fronte a Odino e a
Frigga
subito dopo aver compiuto qualche tremenda malefatta. Prima di prendere
dimestichezza con bugie e fottuti giochetti retorici, l’arma
di Loki era
rappresentata proprio dalla sua aria fintamente innocente e dalle
guance
paffute.
“Sonje,
non preferiresti qualcosa di più divertente? Che ne
so, potremmo giocare al tiro con l’arco o dei coltelli. Il
tuo papà mi ha detto
che sei molto brava.” L’attenzione della piccola
era stata catturata dalla
proposta bellica, ma il riferimento al genitore le provocò
un pianto improvviso
e straziante. La bambina iniziò a singhiozzare disperata di
punto in bianco,
perché non vedeva Loki da quattro giorni e si sentiva
abbandonata; come se non
bastasse, anche la sua mamma era sparita e questa consapevolezza la
dilaniava.
Il re degli Asi, che si guardava bene dall’accasarsi e
dall’avere figli propri,
non era abituato alle improvvise tempeste emotive dei bambini: si
chinò
cercando di calmarla e promettendole le cose più fantasiose
finché Freya non si
avvicinò scoccandogli uno sguardo infuocato.
“Vieni
qui pulcino, adesso zia ti dà un biscotto e gioca con
te al tè delle signore,” disse prendendo Sonje
dolcemente per mano. La bimba
annuì, ancora sconvolta dalle lacrime. La donna si rivolse a
Thor. “Non credi
che tuo fratello ci stia mettendo decisamente
troppo tempo?”
Il
dio del tuono lanciò un’occhiata critica agli
imponenti
torrioni del Tempio. “Se la caverà. Se la cava
sempre,” mormorò, ma dentro di
sé si diede una scadenza: se entro il tramonto quello
stupido idiota non fosse
uscito dal portone principale di quel fottuto Tempio, decise, avrebbe
spaccato
con Mjollnir ogni singolo muro della lugubre costruzione.
Sigyn
incinta. Loki non riusciva a capacitarsene. Quando era
successo, come? Una guardia armata gli si lanciò contro, ma
l’Ase scartò di
lato, riuscì a immobilizzarla e la tramortì con
l’elsa del pugnale che aveva dimenticato
di consegnare alla
Sacerdotessa. Erano riusciti a uscire dalla stanza in cui erano
rinchiusi
grazie a uno stratagemma semplice, ma d’effetto. Il vecchio
Odino soleva dire che
i piani lineari erano in assoluto quelli più efficaci:
pochi, rapidi passaggi
avevano molte maggiori possibilità di riuscita rispetto ad
arzigogolate quanto
inutili trappole. Loki, che pure del doppiogioco e
dell’inganno era il signore,
si era sempre trovato d’accordo con questo principio. Nessuna
illusione,
dunque, sarebbe stato troppo banale. La porta della stanza dove erano
rinchiusi
si era aperta, e la Sacerdotessa sospettosa si era trovata di fronte la
scena
di Loki che strattonava Sigyn e le chiedeva il punto preciso dove aveva
nascosto l’anello. La scena doveva esserle parsa davvero
realistica: la
principessa era pallida, spaventata e con gli occhi rossi di pianto, il
viso
dell’Ase era trasfigurato da un’ira incontenibile
che alterava i suoi
lineamenti affilati.
“Non
hai qualche strumento più sofisticato per farle sputare
la verità?”
La
Sublime piegò il capo da un lato. “Che
intendi?”
Non
si fidava del dio dell’inganno, era evidente, ma
l’urgenza
con cui chiedeva del gioiello, unitamente al fatto che non le avesse
tirato
alcuno scherzo, le aveva fatto supporre che davvero le sue intenzioni
fossero
quelle confessate. Leggermente titubante aveva voltato le spalle alla
coppia,
certa comunque che le guardie che li accompagnavano
l’avrebbero protetta. Loki aveva
scelto di attaccare alla fine del corridoio.
Aveva
sorpreso gli uomini armati in un momento in cui quelli
credevano che non avrebbe fatto più nulla. Sigyn si era
appiattita lesta contro
la parete, mentre Loki sfoderava da uno stivale il pugnale che aveva
tenuto con
sé. Sei a uno non è buon rapporto, nemmeno se si
è un Ase, soprattutto se si
deve proteggere anche la propria donna. Far fuori il primo fu un gioco
da ragazzi,
l’uomo nemmeno se ne accorse, ma con gli altri
l’ingannatore mise in atto una
vera e propria danza mortale. Era rapido, sfuggente, letale e per nulla
intimorito dal fatto che le guardie che difendevano la Sublime fossero
armate
con lance, spade e asce.
Vedere
Loki combattere era uno spettacolo magnifico,
terribile, spaventoso. Il corpo di uno degli avversari del marito cadde
vicino
ai piedi di Sigyn e la donna, rapida, gli tolse dalle mani la spada che
stringeva ancora tra le dita, ma nel farlo sentì qualcuno
che la afferrava per
i capelli biondi ormai corti e le puntava contro la schiena una lama:
era la
Sublime. La principessa dei Vanir avrebbe voluto graffiarla, colpirla
con la
spada o fuggire, ma se si fosse mossa la sacerdotessa
l’avrebbe trafitta senz’altro.
Sentì
la bocca della donna che si avvicinava al suo
orecchio. “Userò uno dei pugnali di tuo marito,
per uccidervi. Getta la
spada.”
Sigyn
deglutendo obbedì e il rumore dell’arma che cadeva
sul
pavimento catturò l’attenzione del dio degli
inganni, ma la brevissima
distrazione gli fu fatale. I due uomini superstiti gli si gettarono
contro, uno
lo colpì al fianco, l’altro riuscì a
disarmarlo. Loki indietreggiò barcollando,
cadde a terra mentre Sigyn gridava. Un calcio sferrato con violenza
sulla
schiena gli strappò un grido, ma ebbe anche
l’effetto di far sì che le sue dita
arrivassero a sfiorare l’impugnatura della spada che sua
moglie aveva buttato a
terra. Sorrise inghiottendo il dolore e, con un gesto repentino,
afferrò la
lama e la infilò nel corpo di uno dei suoi avversari, tra le
giunture dell’armatura.
“Fermo!”
La Sacerdotessa Sublime gridò con tutto il fiato
che aveva in gola. Ora che i suoi piani sembravano, se non andati
letteralmente
in fumo, almeno deviati, il suo viso all’apparenza senza
età e contratto dall’ira
iniziava a mostrare rughe evidenti. “È incinta di
tuo figlio. Sarà un maschio,”
predisse leccandosi le labbra.
Loki
rimase in silenzio. Era ancora a terra e la guardia superstite
gli puntava alla gola una lancia.
“Li
ucciderò se muoverai anche solo un muscolo. Con uno dei
pugnali che tu mi hai consegnato,” minacciò.
Il
dio degli inganni piegò le labbra in una smorfia
beffarda, alzò le mani in segno di resa. “Se tu li
avessi voluti uccidere, lo
avresti già fatto,” osservò.
“Invece ti servono vivi, entrambi. Come è evidente
hai bisogno della mia presenza. Cos’è, ti servono
per ricattare Njord? Oppure c’è
qualcosa, qui sotto, nelle fondamenta di questo posto osceno, che tiene
prigioniera anche te?”
La
Sacerdotessa strinse le labbra come se le parole di Loki
avessero davvero colpito nel segno svelando le sue intenzioni.
“Fai
attenzione, Sublime Stronza,” proseguì
l’Ase. “Non
credere di avermi messo con le spalle al muro.”
“Se
muoverai un solo un muscolo, se pronuncerai un solo
incantesimo,” lo minacciò la donna stringendo i
capelli di Sigyn e strappandole
un lamento soffocato, “sfregerò per sempre il viso
della tua bella sposa.”
Si
raccontavano molte cose, del dio dell’inganno. Strane voci
si rincorrevano, da sempre, sulle sue abilità e sulle molte
astuzie che aveva
architettato per rovesciare imperi, sottomettere popoli, recuperare
reliquie
che si credevano perdute. Le sue gesta venivano cantate ai banchetti da
anni;
alcune storie erano divertenti e scanzonate e parlavano delle avventure
che
aveva vissuto con Thor, l’alleato di una vita, il nemico
più amato, l’avversario
più temuto. Altre, più oscure, venivano
sussurrate di notte, davanti ai falò,
quando i bambini già dormivano. Parlavano del seiðr
e di certe imprese che non
venivano messe in versi dai poeti e su cui nessuno osava ridere. Alcune
di
quelle storie stavano scivolando nell’oblio perché
i Nove Regni, da tempo,
erano in pace e il crudele ingannatore sembrava avesse voltato pagina;
non si
dedicava più a missioni tetre e spaventose, ma aveva sposato
una principessa,
governava alla luce del sole e aveva messo al mondo una bambina. Solo
che il
presente non cancella il passato, mai. Lo nasconde, lo occulta, lo
dimentica,
non di più.
Un
risata crudele riempì il corridoio. “Li ho
già recitati. Ho
evocato rune da quando ci siamo visti,” spiegò
Loki Laufeyson.
Continua…
L’angolo
di Shilyss
Ebbene
sì, è domenica e ho aggiornato il Ponicorno:
suonate,
campane! Questa storia doveva essere una raccolta di shot: sta
diventando qualcos’altro
e, non appena avrò capito cosa, provvederò ad
aggiornare gli avvertimenti. Grazie
per essere arrivate/i fino a questo punto e avermi dedicato il vostro
tempo. Prometto
che non farò passare ere bibliche per il prossimo capitolo!
Come sempre voglio
ringraziare coloro che nello scorso capitolo hanno voluto recensire e
tutti i
silenti che seguendo, ricordando e preferendo mi hanno testimoniato la
loro
presenza. Grazie di cuore, davvero. Scrivo per voi.
La
Fatina dell’Ispirazione attende fiduciosa di conoscere la
vostra opinione e svolazza spargendo glitter sulla mia tastiera
già provata dal
continuo digitare. Non deludetela o mi toccherà tossire
pagliuzze colorate per
settimane!
Buona
domenica e a martedì/domenica prossima per le nostre
prossime, mirabolanti, storie!
Shilyss
La
Sublime Str… Sacerdotessa è chiaramente ispirata
alla
Septa Unella di Games of Thrones. Il “Solo
che” a fine frase è una citazione a me
stessa in Sposami, Sigyn, mia fic.
A proposito di altre mie fic, ho postato
recentemente un paio di shot. Le avete già lette?! I miei piani variano di momento in momento è
una battuta presa da
Thor: Ragnarok.
1
Trattasi di un’anticipazione dei prossimi capitoli.
2
“Kronk, non ne avverti il nero potere?” Ovviamente
è una
citazione da “Le follie dell’imperatore.”
3
Bere insieme, anche nella Lokasenna (dall’Edda Poetica il
testo fondante della mitologia norrena), è indice di
comunione per gli Asi.
4
Nel mito, Loki taglia a Sif i capelli dopo essere stato a
letto con lei. Successivamente, sarà obbligato a recarsi
nella terra dei Nani e
degli Elfi per farsi fare una parrucca d’oro.
5
Come quelli di Isabeau in LadyHawke.
6
Come nella mia fic Tutte
le tue bugie, che anticipa questa. Ma come, non
l’hai ancora letta e/o non
mi hai fatto sapere che ne pensi?
7
Le interazioni seiðr/gravidanza sono un’idea mia che
non
ha alcun appiglio altrove se non in Tutte
le tue bugie.
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Capitolo 6 *** Castelli di carta ***
Castelli di carta
La Sublime
impallidì. Sentì uno
strano formicolio al braccio e, quando si risolse ad abbassare lo
sguardo, le
mancò la voce per gridare. La sua mano si era fusa con il
pugnale che, a sua
volta, aveva cambiato forma, tramutandosi in altro – un
insieme di carne e ossa
informe e molle. Osservò con orrore il moncherino che
sembrava un fiore marcito,
accompagnata dalle grida inarticolate della guardia superstite; anche
l’uomo
stava subendo la stessa, tremenda sorte.
Loki, invece,
ammirava soddisfatto il
risultato della sua stregoneria. “Trucchi, inganni,
illusioni? Credevi davvero che
il mio seiðr si limitasse a questo?”
Mentre la
Sublime boccheggiava fissando
l’arto scempiato, Sigyn ne approfittò per fuggire
al sicuro, tra le braccia
dell’Ase. Gli si strinse contro nascondendo il viso nella
corazza intrecciata:
la commozione stava vincendola. Aveva avuto paura di perdere la vita o
che
potesse capitare qualcosa al bambino, al maschio che avrebbe dato a
Loki, al
fratellino che presto avrebbe mostrato a Sonje, la sua bellissima
bambina dai
boccoli neri. L’ingannatore le sfiorò la nuca
esposta in un gesto consolatorio
rapido e troppo breve, e Sigyn non poté fare a meno di
pensare che lo aveva
appena visto evocare un incantesimo orrendo e sembrava crogiolarsi nel
dolore
inflitto. Si aggrappò con le unghie alla pelle della
corazza, respirò il suo
odore intenso e virile, di guerriero. Quanti racconti che per
protagonista avevano
suo marito si era ritrovata ad ascoltare, negli anni? Aveva forse
dimenticato
il ghigno ammiccante che il narratore di turno sfoggiava quando parlava
di Loki
e delle sue magie? Alcune erano illusioni più o meno
divertenti, trasformazioni
sceniche e stupefacenti, ma altre erano maledizioni orrende, oscure,
letali.
Torture, in taluni casi, e lei aveva appena assistito a una di queste.
Fatta ai
danni di una donna folle e crudele e di un esaltato che certo non si
era fatto
alcuno scrupolo, nello sfruttare le disgraziate lì rinchiuse
tappando loro la
bocca dopo essersi slacciato i pantaloni. Allora perché era
turbata, da cosa?
“Non
posso lasciarla andare via,”
spiegò la sacerdotessa inghiottendo il dolore,
“non posso, davvero. Attendevo
da tempo che venisse qui la principessa incinta del figlio di un re
straniero.
Lo dice la profezia. Ti scatenerò contro ogni guardia, Loki
Laufeyson.”
Il dio degli
inganni non s’impressionò
affatto, anzi. Roteò gli occhi al cielo perché
detestava i vaticini, non li
aveva mai tollerati. Era vissuto col peso della Voluspa addosso,
accarezzando
l’ombra di una distruzione che Frigga gli suggeriva essere un
rinnovamento e
proprio da lui si sarebbe generata, quindi non aveva alcuna voglia di
stare a
sentire le cazzate di quella donna. Era in questi particolari frangenti
che la
somiglianza con Thor si faceva più manifesta. Nel modo
spiccio con cui certe
questioni gravi venivano gestite con un’imprecazione e
un’alzata di spalle.
Spinse Sigyn verso l’uscita del corridoio, ignorando
bellamente l’oscura allusione
della Sublime, ma quella lo apostrofò inchiodandolo
dov’era.
“C’è
una creatura che dorme sotto le
fondamenta del Tempio. Per cosa sei venuto fin qui, Loki di Asgard? Per
il
capriccio della tua mogliettina o per porre fine a
un’aberrazione? Non vuoi
liberare le altre recluse?”
Era livida in
volto e si teneva con
il braccio sano quello, ormai inutilizzabile, fuso con l’arma
e marcito. L’Ase
scoccò un’occhiata gelida a Sigyn e alla
sacerdotessa. “Per il capriccio della
mia mogliettina. Me ne frego di quello che ci sta nelle fogne di questo
posto,”
tagliò corto, e s’incamminò nuovamente
verso l’uscita.
“Avevi
detto che avresti raso al
suolo questa cloaca!” Sigyn lo prese per il braccio,
costringendolo a voltarsi.
Doveva dare un senso all’orrore che aveva visto e
subìto negli ultimi giorni,
pulire la propria coscienza dal senso di colpa che da anni
l’attanagliava per
essere scampata dalla prigionia nel Tempio, salvare le donne dalle
occhiaie
profonde e lo sguardo vuoto che vagavano, come fossero già
morte, dentro le
mura livide di quella prigione, giustificare i modi da guerriero di
Loki,
persino. Che era venuto per salvare lei, non le altre. Il figlio di
Laufey non
era un eroe nel senso stretto del termine; non avrebbe sacrificato la
propria
vita per un ideale né per un’ipotetica massa senza
volto con cui non aveva
alcun legame e questo Sigyn lo sapeva bene, ma pure decise di
impuntarsi perché
Loki possedeva alcuni tratti
dell’eroe. Era oscuro, tetro, capriccioso, ma anche fiero,
audace, indomabile.
L’Ase
sgranò gli occhi, colpito dalla
totale mancanza di discernimento di sua moglie.
“Lo
avevi promesso.”
Sigyn era
giovane, troppo. Il taglio
corto con cui era stata mortificata la sua bellezza (1) la faceva
apparire
ancora più simile alla ragazzina che ancora era, quella con
le trecce che lo
guardava di sottecchi mentre lui studiava in biblioteca. Alle volte,
quando la
vedeva giocare con Sonje, aveva l’impressione dolorosa di
avere di fronte due
sorelle, e non una madre con una figlia. L’insolenza del suo
sguardo liquido e
grigio lo colpì come spesso era accaduto ai banchetti di
Njord, ma stavolta non
gli strappò un ghigno divertito. La fissò con
glaciale severità perché avevano
una bambina e nel suo ventre cresceva un’altra vita e Loki
non era generoso e
altruista, non era Thor. Non gli interessavano le donne spaurite e
indifese,
ridotte in schiavitù, rinchiuse in quella fortezza spacciata
per Tempio. Un leggero
terremoto gli fece intuire che le parole della Sublime riguardo alle
fondamenta
dell’edificio erano vere, almeno in parte. Qualcosa di oscuro
gli si agitò
dentro, un piacere sottile gli fece tendere i muscoli, increspare le
labbra in
un ghigno. “E tu credi alle mie parole?”
Lei
alzò il mento fiera. “Credo nel
tuo valore, dio degli inganni.”
Che mossa
sleale, scorretta. Degna
della moglie del Fabbricante di Bugie in persona (2).
Desiderò baciarla, ma non
c’era tempo. Alzò il braccio, invece. Lo
levò in alto e mormorò un incantesimo
o forse due – bisbigli di parole quasi impercettibili
– che, però, ebbero il
potere di scuotere fin nelle fondamenta il Tempio. Ho
evocato rune da quando ci siamo visti, aveva detto, e non
mentiva.
Il cielo era
arancione e Sonje si era
di nuovo imbronciata. Abbracciò sconsolata
l’animale di pezza grande quasi
quanto lei e pensò che, anche quella notte, sarebbe stata
messa a letto da sua
zia Freya. Cercò con lo sguardo Thor e lo vide avvicinarsi
guardingo alle
pesanti porte di quel castello nero dove dicevano che ci fossero i suoi
genitori. Aggrottò la fronte e a malapena riuscì
a inghiottire un singhiozzo,
al pensiero che la sua mamma e il suo papà fossero
lì dentro. Le mancavano in
maniera totale, assoluta, disperata. Il solo pensiero di non averli
accanto le
faceva salire le lacrime agli occhi. Ma lei era una bimba
metà Ase e Jotunn e non
poteva mettersi a
piangere come una mocciosa qualsiasi; affogando i singhiozzi
nel
morbido tessuto dell’animale, non riuscì a far
altro che credere ciecamente a ciò
che le aveva assicurato lo zio Thor fino a pochi minuti prima. Il suo
papà e la
sua mamma stavano vivendo insieme un’avventura bellissima di
cui le avrebbero
raccontato ogni dettaglio quella sera stessa quando –
meraviglia! – avrebbero
dormito tutti insieme in una delle tende che già
campeggiavano in mezzo al
prato che lambiva il castello. Dall’altro dei suoi quattro
anni, Sonje non
aveva potuto che credergli, perché zio Thor con lei era
sempre sincero e buono
e gentile. Suo padre non aveva, del resto, sconfitto più e
più volte il mostro
che si nascondeva nell’armadio? Non l’aveva
consolata – e recuperata – quando
si era persa nella Fucina dei Nani? Non aveva mai visto sua madre
così
arrabbiata con lei come quel giorno. In mezzo a quella foresta di
spade, lance
e strani oggetti mai visti né conosciuti, il suo fantastico
papà era riuscito a
scovarla e le aveva proposto un gioco per uscire da quel groviglio
luccicante e
freddo in cui era finita senza accorgersene e volerlo davvero, per poi
prenderla in braccio e avvolgerla nel suo mantello giusto una manciata
di
istanti prima che la magnifica capanna d’acciaio si
disgregasse in un milione
di pezzi. Un giorno, Sonje avrebbe ricordato in maniera diversa
quell’episodio.
Con un brivido si sarebbe resa conto di certi dettagli cui, da bambina,
non
aveva fatto caso. Il tono di voce troppo calmo di suo padre, ad
esempio, che
contrastava con i lineamenti del viso tirati e con i muscoli tesi, il
gesto
rapido con cui l’aveva attirata a sé non appena
aveva potuto, il balzo che aveva
fatto stringendosela contro per evitare che una delle lame la
sfiorasse. Si era
salvata per fortuna e per magia, ma questa è
un’altra storia.
Il Tempio
tremò violentemente,
sussultando e crepandosi all’improvviso. Il boato fu
tremendo. Un’onda d’urto
che sconquassò la terra e il cielo proveniente direttamente
dal centro della
costruzione nera e solitaria. Il segnale
di Loki. Sonje gridò stringendo a sé il
gatto di pezza, spaventata dal
rumore improvviso. Alla prima, violenta esplosione, iniziarono a
sommarsene
altre più o meno intense e ugualmente terrificanti. Una
delle torri del solenne
edificio collassò e cadde in un tripudio di detriti, grida e
morte. Attorno alla
bambina, i nobili Vanir iniziarono ad agitarsi e a urlare invocando le
Norne. Sonje
fu raggiunta da Freya, che la prese in braccio e corse verso il Re
degli Asi. In
mezzo al frastuono, il dio del tuono stringeva Mjollnir con
l’accenno di un
sorriso sulle labbra. Quanto amava mettersi in mostra, suo fratello! Si
voltò
e, vedendo le due, abbassò il martello.
“Vedi
piccolina? È stato il tuo papà a creare
questo caos,” spiegò accarezzando i ricci neri
della nipote.
Prima che Sonje
potesse ribattere,
Freya apostrofò Thor inclinando leggermente il capo.
“Che sta facendo?”
Il biondo Ase
alzò le spalle. “Fa
iniziare lo spettacolo,” ribatté compiaciuto,
“e ci invita a seguirlo.”
Thor aveva
ragione, perché il portone
del Tempio iniziò a disgregarsi, come se il metallo di cui
era fatto fosse
stato corroso dall’interno o mangiato, liquefacendosi sotto
gli occhi
esterrefatti della corte di Vanheim tutta e di Njord, di Freyr, di
Freya.
Sonje, dalla sua posizione privilegiata in braccio alla zia,
osservò la
grandiosa forza del seiðr di suo padre senza comprenderla
davvero. L’estasiava
il metallo che cadeva in pezzi e si arricciava su se stesso, prendendo
la
stessa consistenza di certe zuppe dense che la sua mamma si sforzava di
farle
mangiare, ma non capì perché quello spettacolo
ispirasse il terrore in chi la
circondava. Era spaventata dalle grida e dalla polvere che il crollo
della
torre aveva provocato, dall’ansia che Freya le trasmetteva
involontariamente
stringendola a sé, ma l’immagine del seiðr
che mangiava il metallo le si stampò
in mente in maniera nitida e indelebile e fu qualcosa di grandioso.
Sarebbe
rimasto per sempre uno dei primissimi ricordi della sua infanzia e un
giorno,
molti anni dopo, avrebbe raccontato la meraviglia che quella visione
tremenda
le aveva lasciato addosso. Vali avrebbe ascoltato dubbioso, annuendo
senza
riuscire a immaginare, ma anche questa è un’altra
storia.
Quello che Sonje
dimenticò subito e ovviamente
non comprese, sebbene vi assistette, furono le parole perentorie di
Njord. Si
avvicinò a Thor, che stava già varcando
l’arco ormai vuoto che segnava
l’ingresso del Tempio, dicendogli seccamente che non avrebbe
tollerato che gli
Asi liberassero da soli i Vanir.
“I
miei nobili ti accompagneranno, Re
degli Asi. Devono vedere. Tuo fratello l’ha chiesto. E ha
bisogno del suo esercito.”
Il dio del tuono
scrutò l’anziano
alleato soffermandosi sui suoi occhi ardenti, sulle labbra piegate in
una
smorfia orgogliosa eppure tragica.
“Nessuno
dica,” proseguì l’altero
sovrano ad alta voce, “che i Vanir non obbediscono agli
ordini e non seguono il
loro generale in battaglia.”
Thor non poteva
conoscere nei
dettagli le vicissitudini politiche di Vanheim perché Lingua
d’Argento era,
riguardo ai suoi affari, mortalmente laconico e avaro di notizie.
Sapeva
vagamente che Sigyn si batteva da anni per far chiudere il Tempio, che
qualche
famiglia ancora si opponeva alla tradizione e immaginava che, ormai,
buona
parte delle incombenze del regno passassero direttamente nelle mani di
Loki. Fu
preso da un moto d’orgoglio, sentendo le parole del vecchio
re. Riconobbe l’eco
della soddisfazione che l’arrogante Njord aveva sfoggiato
quando Loki lo aveva
accompagnato ad Asgard per ridefinire alcuni dettagli dei loro accordi
internazionali e, ancora prima, il giorno lontanissimo in cui Odino era
stato
costretto a firmare una pace. Suo fratello aveva finalmente il ruolo di
comando
che gli spettava, e la sua voce arrochita e incantata non serviva solo
per
irretire e confondere, ma per guidare un popolo intero (3).
“Allora
aiuterò i tuoi vassalli a
ritrovare il loro comandante,” sorrise. Fu così
che varcò l’entrata ormai priva
di difese del Tempio. Oltre le mura nere, continuavano a ergersi le
grida
straziate delle sacerdotesse e delle guardie in cerca di un riparo, cui
si
mescolavano anche quelle delle donne lì rinchiuse. I
numerosi crolli avevano
spinto alcuni membri della milizia privata della Sublime a fuggire
verso
l’uscita, e così stavano facendo anche le altre
religiose. I tortuosi cunicoli
dell’edificio rendevano più lenta e difficile la
fuga. Ma le prigioniere?
Qualche viso smunto iniziò ad apparire di fronte alla
nobiltà di Vanheim armata
di tutto punto e al re degli Asi: figure scalze, denutrite, con i
capelli
tagliati corti che incespicavano mentre si trascinavano dietro bambini
piagnucolanti con il moccio al naso. Erano le fortunate che si
trovavano nelle
cucine e nell’orto, non troppo distanti dalle esplosioni;
alcune di loro erano
gravide, segno inequivocabile che la squallida diceria riguardante la
milizia
del Tempio era vera, altre mostravano evidenti segni di percosse. Lo
sgomento
collettivo, quando varcarono la soglia nel disordine generale, fu
enorme. Nella
confusione del momento, il dio del tuono non notò affatto
che tra i nobili
spinti da Njord a varcare la soglia distrutta c’era anche
Theoric. Del resto, la
furia dell’eroe benigno lo aveva investito in pieno:
ordinava, sorreggeva,
bloccava. Aiutato da Freyr, che si occupò assieme ad altri
di fermare e
interrogare i miliziani e le sacerdotesse, prestò qualche
primissimo soccorso
alle smunte derelitte in fuga e poi si lanciò, seguito da un
manipolo ben armato,
oltre le mura del Tempio.
Loki Laufeyson
sfoggiava spesso la
maschera del salvatore di popoli. Regale e sicuro di sé,
provava sempre un
sottile piacere nel ricordare alla gente le sue imprese brillanti, la
natura spesso
subdola, ma senz’altro efficace, delle sue trovate perfide.
Assieme a Thor,
aveva rovesciato regni e sconfitto popoli interi, liberato ostaggi e
messo a
ferro e fuoco quartieri generali, città, palazzi:
perché stavolta, con il
Tempio, avrebbe dovuto essere diverso? Perché lei
non sapeva neanche tenere in mano un pugnale, per le Norne.
Il piano
dell’Ase aveva subìto un
brusco cambio di rotta, ma non per questo tutto doveva essere gettato
alle
ortiche. Dio dell’inganno, lo chiamavano. Nessuno ricordava
più il giorno in
cui Odino, a fior di labbra, aveva dato quel nome pesante e tremendo al
figlio
adottivo; c’è chi dice che avvenne quando Loki,
ancora ragazzino, riuscì a
sventare una congiura degli Elfi Neri volta a uccidere Padre Tutto in
persona,
chi sosteneva che il piccolo principino meritò quel nome per
aver convinto un
drago a cedere agli Asi il suo tesoro. Una notte d’inverno,
Sigyn lo aveva
abbracciato e, mentre avvinghiava le gambe sottili contro quelle del
guerriero
per scaldarsi, gli aveva chiesto proprio quello: da dove venisse
l’appellativo
che lo contraddistingueva. Loki aveva preso a carezzarle distrattamente
la
schiena nuda e i bei capelli d’oro, ma non le aveva risposto.
La
verità è che Lingua d’Argento aveva
preso il suo nome dopo aver deglutito e sfiorato con dita incerte la
morte.
Privo di ogni difesa, aveva fissato gli occhi bianchi del suo nemico e
si era
deciso a raccontargli una storia, sciorinando un indovinello che
nascondeva al
suo interno un inganno. Un sudore gelido aveva preso a scorrergli sulla
spina
dorsale, e mentre la bestia si confondeva appresso ai suoi
ragionamenti, Loki
era diventato il dio delle beffe e degli inganni. Di quella notte
lontana, il
figlio di Laufey e di Odino non conservava che un pugnale dalla lama
ritorta
con l’elsa finemente intarsiata; un pegno sottratto da un
tesoro maledetto (4).
La gola della
Sublime era esposta,
pulsante. “Devo solo premere più forte,”
le ricordò l’Ase con voce cupa, tetra,
stringendo quell’arma che teneva con sé ormai da
una vita.
Il viso della
donna si piegò in una
smorfia di compiaciuto dolore. Gettò uno sguardo oltre la
spalla di Loki
fissando Sigyn. Attorno a loro, l’ennesima scossa seguita da
grida sottolineava
con sempre più forza il potere dell’Ase.
“Allora fallo, Loki, avanti. Non temo
la morte che mi darai. Se ti lasciassi andare, me ne toccherebbe una
senz’altro
peggiore. Quella che avrai tu.”
La risposta
fiera non piacque
particolarmente al dio dell’inganno. “Non mi servi,
Sublime Stronza,” le soffiò
contro. Lasciò che l’acciaio si tingesse di rosso,
che affondasse nella carne.
La sacerdotessa boccheggiò e cadde scossa da un tremito,
fissandolo con i suoi
occhi ormai velati.
Loki non le
rivolse che un’occhiata
breve e veloce, poi si rivolse a Sigyn, che fissava agghiacciata la
scena.
Aveva detestato quella donna con tutte le sue forze dal primo momento
in cui
aveva incrociato il suo sguardo, ma vederla spirare in maniera tanto
repentina
fu sconvolgente. Davanti a lei, Loki aveva già ucciso, ma si
era trattato di
soldati, uomini armati pronti ad attaccarlo. A sorprenderla non era
stato il
gesto in sé, ma la rapidità con cui il dio degli
inganni aveva deciso che la
Sublime dovesse essere morire: una valutazione breve che nemmeno le
parole
sibilline e oscure dell’altra aveva potuto scalfire.
L’ingannatore
si passò il dorso della
mano sulla fronte per pulirsi da uno schizzo di sangue che gli
macchiava la
pelle, le labbra arricciate in una smorfia di disappunto. Le
scoccò un’occhiata
rapida e severa, una di quelle che era solito lanciarle
quand’era ancora una
ragazzina e faceva qualcosa di sbagliato, e poi la prese per mano e,
semplicemente, se la tirò dietro in quel reticolo di
cunicoli dove lui si
orientava senza alcuno sforzo. Merito del seiðr che gli
scivolava nelle vene
assieme al sangue e del potere che sprigionava pronunciando le rune. Si
incunearono nuovamente dentro i sentieri di pietra del Tempio,
scendendo verso
il cuore pulsante di quella costruzione fuori dal tempo e dagli schemi:
chi
l’aveva eretta? Quale popolazione era stata così
folle da tirare su un castello
fortificato che dentro era nient’altro che un labirinto dove
rinchiudere le
povere donne che avevano violato, per scelta o perché
costrette, la rigidissima
morale di Vanheim? Nei suoi due giorni scarsi di permanenza, la
principessa
aveva avuto modo di vedere solo pochissime sale: la cella dove
l’avevano
spogliata per poi tagliarle i capelli, il refettorio, il lugubre
dormitorio, la
sala dei telai. Tutto il resto era un insieme immenso di svolte e scale
e
angoli ciechi di cui non aveva contezza. L’Ase la
guidò senza interrompere il
loro contatto: una presa ferma e decisa che le punse il cuore.
Riconobbe la
forza di quella stretta e la sentì, la amò con
un’intensità schiacciante. Si
sentì al sicuro. Si
fermarono di
nuovo di fronte alla sala dov’erano i telai. La porta era
stata lasciata aperta
dalle guardie in fuga, ma alcune donne erano rimaste a terra, sconvolte
dalle
esplosioni. Le aiutarono a sollevarsi, scuotendole dal torpore che
l’esplosione
e la successiva fuga avevano causato. Quelle li guardarono con i loro
occhi da
animali spauriti e li seguirono piangendo. Sigyn deglutì. Se
Loki non l’avesse
liberata, anche lei si sarebbe trasformata in una creatura rassegnata e
mesta?
Non ebbe tempo di domandarselo. Alcune guardie più zelanti
delle altre, o forse
solo più disperate, si lanciarono contro lei e Loki. Alle
loro spalle, il
clangore delle armi li avvertì che ogni via di fuga era
appena stata tagliata.
Vedere Loki
Laufeyson combattere era
sempre uno spettacolo terribile e affascinante. C’era
qualcosa di feroce e
bellissimo, nella sua scelta di utilizzare, anziché una
spada a due mani o una
lancia, dei semplici pugnali. Armi del genere erano buone per tagliare
la gola
e necessitavano di avvicinarsi al proprio avversario fino a sentirne il
respiro, il battito del cuore. Non erano di foggia nanica, quelli che
ora
faceva roteare rapidamente tra le dita svelte; li aveva sottratti alle
guardie
della Sublime che ormai giaceva riversa in un lago di sangue. Cinque
contro uno
non è un buon rapporto, nemmeno se si è un Ase,
ma Loki non era semplicemente
un guerriero addestrato ad Asgard: era un capo, un comandante, un principe. La sua non era una lotta, ma
una danza. Una coreografia letale e precisa che non lasciava scampo
alle sue
vittime. Si
lanciò contro il soldato più
vicino, armato di una grossa spada, e scartò abilmente il
fendente già lanciato
nella sua direzione per avvicinarsi fin troppo all’uomo e
colpirlo due volte,
al petto e al cuore; e mentre quello boccheggiava agonizzando, Loki si
era già
lanciato sul secondo mirando alla gola, che recise con un colpo pulito,
preciso, essenziale: violento. Ecco cosa c’era, in lui. Una
furia feroce e
implacabile, unita a una velocità spiazzante che
disorientava l’avversario. Si
fece scudo col corpo ormai inerte della guardia giusto il tempo
necessario per
sfruttare una leva favorevole e gettarsi sugli altri due miliziani
rimasti.
Sigyn fissò la scena in apnea, con la stessa ansia con cui,
anni prima, aveva
osservato quello che sarebbe stato suo marito combattere in
un’arena allestita
per l’occasione (5). Non aveva paura di morire né
di essere colpito, Loki:
questo era il punto. Afferrò la guardia per la spalla, la
disarmò con un colpo schivando
la sua lama, la costrinse a roteare su se stessa in un gesto che alla
principessa di Vanheim ricordò una delle piroette che
l’Ase le faceva fare
quando la guidava durante un ballo e, quando ebbe la gola
dell’avversario a portata
di mano, ci passò sopra l’acciaio del pugnale.
L’ultimo miliziano della Sublime
tentò di scappare, ma Loki ghignò fissandolo con
quei suoi occhi dalla
trasparenza verdastra, color dell’acqua, e lo raggiunse con
un balzo, lo
afferrò per i capelli e gli piantò
l’arma nella schiena e infierì, spingendo.
“Avanti,
presto!” afferrò di nuovo
Sigyn e si affacciò a una delle strette finestrelle protette
da grate. Giù,
nella corte interna del Tempio, si affollavano insieme le recluse e le
sacerdotesse, le guardie della Sublime e quelle di Vanheim.
L’ingannatore vide
suo fratello e assottigliò le palpebre, ma non disse nulla.
Imboccarono le
scale, e fu alla fine
della rampa che incontrarono il tonante e gli altri. Le prigioniere
sciamavano
ancora nell’ampio atrio, incespicando nei loro stessi passi,
mentre alcune
sacerdotesse tentavano di gridare ordini ormai privi di senso e
invocavano il
nome della Sublime lanciando maledizioni e scongiuri. I soldati che
erano
entrati al seguito di Thor erano stati addestrati da Loki, ma avevano
avuto poche
occasioni per dimostrare il loro valore; l’ultima guerra si
era tenuta quattro
anni prima (6). Si guardavano attorno nervose, cercando di evacuare il
Tempio
e, allo stesso tempo, fare bella figura di fronte al loro generale che,
da
solo, era riuscito a violare una fortezza ritenuta impenetrabile.
“Controllate
il secondo piano e l’ala
est del primo,” ordinò l’ingannatore.
“Io scendo nei sotterranei e tu,” disse
riferendosi a Sigyn, “fammi un favore: esci fuori di qui con
Thor senza
voltarti indietro.”
“Vuoi
divertirti da solo?” Sigyn aveva
pronunciato la frase per sdrammatizzare, ma era ben conscia
dell’allusione che
la Sublime aveva fatto prima di morire. Per tutta risposta,
l’Ase ghignò e
lanciò uno sguardo d’intesa al fratello,
perché lei aveva colto nel segno, ma
questo non avrebbe certo cambiato la sua decisione. Sentiva sotto le
suole
degli stivali la terra fremere non per la serie di rune pronunciate, ma
per
quella cosa nascosta sotto il pavimento che doveva andare a stanare. Si
allontanò verso le scale buie che conducevano dabbasso,
accompagnato dalle urla
e dalle imprecazioni delle sacerdotesse rimaste.
I nobili Vanir
osservavano la scena
che gli si parava davanti in un misto di sdegno, sgomento, stupore,
incredulità
e ammirazione, persino. I più affezionati sostenitori di
Njord guardavano con
malcelata soddisfazione l’atrio del Tempio che si svuotava:
era la fine di un’epoca
buia e di una tradizione che ormai si stava percependo sempre
più come
ingiusta. Loki, inoltre, aveva la stoffa del re e del conquistatore,
del capo. La
sua lingua spesso tacciata d’essere bugiarda non lo era stata
quando aveva
promesso che si sarebbe occupato di Sigyn. Lei era lì,
pallida e vestita di
stracci, offesa dal taglio corto che le era stato inflitto, ma viva.
Lei
era lì e
l’aveva
scampata ancora una volta grazie a quel bastardo figlio d’uno
Jotunn. Il pensiero
attraversò Theoric come un lampo, insinuandoglisi nella
testa. La sua famiglia,
strenua sostenitrice del Tempio, aveva appena perso
l’appoggio dei pochissimi
clan che, fino a quel momento, avevano professato la
necessità di tenere in
piedi l’istituzione religiosa (7). Non occorreva essere un
abile stratega come
quel maledetto di Loki, per capirlo: bastava osservare le labbra
arricciate in
una smorfia di disappunto che gli alleati e gli amici con cui erano
soliti
banchettare lui e suo padre sfoggiavano fissando i bambini, troppi, che
sostavano incerti nell’atrio del Tempio. Forse il dio
dell’inganno aveva ragione
quando, sorridendo quel tanto che bastava per mostrare i denti bianchi,
sosteneva che i Vanir erano un popolo di bigotti (8). Loki. Un
guerriero alto,
ben fatto, slanciato, dotato di un fascino tale da conquistare non solo
Sigyn,
ma anche Njord e la Corte tutta. Eppure, senza di lei, l’Ase
sarebbe rimasto il
consigliere all’ombra di Njord, lo straniero da guardare con
un filo di
sospetto e a cui non credere mai fino in fondo. Non certo un comandante
e
futuro re. Il dio degli inganni godeva di fama e prestigio
perché Sigyn aveva
aperto le gambe, sì. Dalla sua posizione defilata,
l’uomo vide Thor procedere
verso i piani superiori del Tempio in cerca di altre persone da tirare
fuori,
Loki sparire in un cunicolo sulla destra. C’era chi, come i
figli di Odino, spiccava
ovunque si trovasse e chi, invece, rimaneva nell’ombra,
confondendosi con il
grigio delle pareti. Theoric non era certo che i due Asi lo avessero
notato. L’ingannatore
certamente no, era troppo impegnato a muovere le fila del suo sontuoso
spettacolo,
e gli occhi del re degli Asi si erano posati troppo frettolosamente su
di lui perché
potessero riconoscerlo. Nel tramestio generale, Sigyn gli
sfilò davanti.
Bastò
strattonarla per un braccio e
tapparle la bocca. Lo poté fare perché era nei
pressi di una porta che
conduceva alle cucine, o forse alle stalle e, nella confusione, nessuno
notò la
scena. Lei scalciò, graffiò, si
divincolò, ma era rimasta la ragazza sottile e
minuta di sempre e fu facile, dopotutto, trascinarla in quella che era,
effettivamente, la cucina del Tempio.
“Tu
non uscirai viva da qui,” le promise
all’orecchio. “Penseranno a un tragico
incidente.”
Il primo
pensiero di Sigyn fu per l’erede
di Loki che non aveva più di qualche settimana di vita e per
Sonje e i suoi
morbidissimi ricci neri. Poi venne suo marito che, nei sotterranei
sotto di lei,
affrontava chissà quale pericolo e la credeva ormai in
salvo. Fu spinta contro uno
stipite e si ritrovò schiacciata tra la porta e Theoric. Era
agitato più di
lei: Sigyn lo dedusse dall’odore acre che emanava, dal fiato
cattivo, dai gesti
nervosi, dalle gocce di sudore che gli imperlavano il labbro superiore
e la
fronte. Era nervoso perché aveva poco tempo e non sapeva che
cosa doveva fare,
e come. Anche questo spaventò Sigyn. L’idea che
l’avrebbe fatta soffrire
inutilmente. Theoric le disse che nessuno l’avrebbe sentita
gridare e che
sarebbe morta in quella stanza: la giusta fine di una puttana come lei,
che si
faceva sbattere da un Ase, uno straniero.
“Mi
hai tradito,” le ricordò all’orecchio.
La afferrò per i fianchi e Sigyn fu scossa da un brivido di
repulsione e di
odio. “Non ti interessiamo noi Vanir, vero principessa?
Preferisci gli Asi. Gli
Jotunn, anzi. Eppure…”
Supplicarlo di
lasciarla andare in
nome della vita che le cresceva dentro sarebbe stato inutile, anzi,
controproducente.
L’ex fidanzato non aveva dimostrato alcuna pietà
quando lei era rimasta incinta
di Sonje e certo non si sarebbe smentito quel giorno.
Cos’avrebbe fatto Loki,
al suo posto? Theoric era meno alto e forte del dio degli inganni, ma
era pur
sempre un uomo dalla stazza robusta; annullò la distanza che
c’era tra loro e
Sigyn avvertì il ventre abbondante di lui che spingeva
contro il suo corpo, la
bocca dell’uomo che premeva sulle sue labbra tentando di
aprirsi un varco. Si
divincolò, ma non ottenne altro risultato che rafforzare la
presa del Vanir su
di lei. Chiuse gli occhi tentando di affogare la repulsione per il
contatto
indesiderato, e le vennero in mente le battute e i racconti cui
l’Ase si
abbandonava alle volte, dopo un banchetto. Cosa avrebbe fatto, al posto
suo? La
voce del dio degli inganni, ironica e beffarda come sempre, le
risuonò nella
testa. Ne approfitterei. Fu per
questo che morse con tutta la forza.
Theoric
gridò premendosi la bocca e
si allontanò non prima di averle dato un manrovescio che la
fece cadere a
terra. Per un istante, Sigyn non vide nulla, la vista annebbiata dal
colpo; poi
arrancò, si mise in ginocchio, incespicò e infine
si rimise in piedi in mezzo
alle vettovaglie e ai detriti causati dall’esplosione e
tentò di correre,
scappare, allontanarsi dalla cucina. Dietro di lei, Theoric aveva preso
un
mattone o forse un coltello; con il cuore in gola, si accorse che
l’atrio era
deserto e l’uscita troppo lontana. Sarebbe stata raggiunta
prima di poter
uscire definitivamente dal Tempio. Ricordò vagamente quella
diceria lontana su
come l’assetto delle stanze, all’interno
dell’edificio, sembrasse mutare, e
scelse di infilarsi in quello che le pareva essere proprio il buio
cunicolo
sulla destra che conduceva nei sotterranei dov’era sparito
Loki. Vi si gettò.
Theoric le andò dietro.
Continua…
L’angolo di Shilyss
Cari Lettori che
siete
arrivati fin qua,
Ecco finalmente
il nuovo
capitolo di questa raccolta! Voglio ringraziare tutti coloro che hanno
recensito, preferito, ricordato e seguito questa storia ♥.
Grazie davvero, ogni
riga è per voi ♥
Vi informo che
ho
revisionato il capitolo 1 di questa raccolta.
La Fatina
dell’Ispirazione promette che non passeranno i secoli prima
di un nuovo
aggiornamento e vi ricorda che per info, date, scemenze,
curiosità e domande c’è
la mia pagina facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/
Ricordo che Jotunheim
e Vanheim così come sono intese e descritte, con questo ordinamento sociale, politico e
culturale sono una mia idea, così
come il personaggio di Sonje:
vi pregherei di non utilizzarle o, se proprio vi sentite ispirati, di
inserire
un disclaimer apposito in cui dichiarate i credits
♥. Anche
il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su Wikipedia, è una mia
personale interpretazione/reinterpretazione.
Passando alle
note tecniche, fatemi
sapere se il rating arancione è
congruo
agli eventi narrati oppure no. In caso, provvederò a
modificarlo. Questo è stato
un capitolo difficile, non ve lo nego, soprattutto nella sua parte finale.
Volevo che
ci fossero una serie di cose senza, per questo, scadere nel banale o
nel
gratuito.
1 Come
ricorderete nello scorso
capitolo.
2 Appellativo
che viene dato da Loki
nell’Edda. Chissà perché.
3 Per ulteriori
dettagli, leggete la
mia fanfiction “Tutte le tue bugie.”
4 Sono eventi
completamente inventati
da me, quindi giù le mani!
5 Come
raccontato in “Tutte le tue
bugie.”
6 In occasione
della nascita di
Sonje.
7 Come nel
capitolo 3 di questa
raccolta.
8 Questi
elementi, così come i Vanir
intesi in questa maniera, sono un’idea mia.
Un caro saluto e
grazie per aver
letto fin qui! A martedì :)
Shilyss
|
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Capitolo 7 *** L'oscurità dentro di noi ***
L’oscurità
dentro di noi
Non
aveva mai avuto così paura, in vita sua. Correva e tremava
mentre il dolore
alla guancia si faceva pulsante e un sapore metallico le invadeva la
bocca. Il
cunicolo buio dava accesso a una scala ripida, dagli antichi gradini di
pietra.
Sigyn incespicò incontrando il dislivello; solo per un caso
riuscì a parare la
caduta poggiando una mano sulla pietra ruvida della parete, ma la
superficie di
quest’ultima non era liscia e l’attrito dovette
provocarle un’abrasione
dolorosa sul palmo della mano. Continuò a scendere,
consapevole che la gonna
lunga le intralciava i movimenti e di avere Theoric alle calcagna. A
mano a
mano che s’inoltrava nel corridoio, avvertì sempre
più distintamente un rumore
di sottofondo basso e martellante, che le ricordò quello che
si sentiva nelle
fucine dei Nani. Gridare sarebbe servito? Se Loki fosse stato davvero in fondo
a quel
cunicolo, sarebbe riuscito a sentirla? La terra sotto di lei
sussultò e Sigyn
perse inevitabilmente l’equilibrio. Urlando, Theoric nel buio
avrebbe capito
esattamente dove lei fosse, se già non le era tragicamente
dietro, mentre il
marito, probabilmente, non l’avrebbe udita.
I
Nani. Sonje era andata con loro, durante quell’ambasceria;
adorava viaggiare con loro e i buffi e imbronciati fabbri le mettevano
addosso
una curiosità esagerata. L’avevano persa di vista
per non più che una manciata
d’istanti e la bambina, trascinandosi dietro
quell’enorme animale di pezza a
forma di gatto, si era intrufolata nell’armeria, dimostrando
tutta la cattiva
influenza che avevano su di lei le gesta del padre e dello zio. Loki
era
impallidito, quando finalmente l’aveva scovata nella piccola
e precaria tana in
cui Sonje si era nascosta senza rimediare nemmeno un graffio. Tirarla
fuori di
lì senza che si ferisse, prima che il fragile castello fatto
di armi affilatissime
le precipitasse contro, era stata una sfida che il dio
dell’inganno aveva vinto
solo grazie al sangue freddo che Sigyn non possedeva.
Ricordò che Thor l’aveva
allontanata intimandole di non mostrarsi spaventata, di lasciar fare a
Loki,
che se Sonje si fosse mossa, allora tutte quelle armi avrebbero potuto
crollarle addosso. Sonje. Sonje e il bambino che sarebbe nato, da un
rapido
calcolo, nel cuore dell’inverno.
Theoric
la strattonò per un braccio tappandole la bocca,
interrompendo il grido strozzato
e disperato che le era uscito dalle labbra. “Non ti
troverà. Non ti sentirà.”
Di
nuovo il suo fiato acre sul collo, il corpo gonfio premuto sul suo, una
mano a
ghermirle la vita. Aveva paura anche lui. Lo capì dal
bisogno che aveva di
zittirla, dalla necessità di convincerla che sarebbe morta
lì, in quel
corridoio, presumibilmente a pochi passi da Loki. Non sapeva che doveva
fare
con lei – di lei, e Sigyn ripensò al gesto
rapidissimo e deciso con cui suo
marito aveva tagliato la gola alla Sacerdotessa Sublime. Lei era
soffocata nel
suo sangue nel giro di pochi secondi, senza rendersi nemmeno conto di
cosa,
realmente, le stesse succedendo. Il pensiero che la sua morte non
sarebbe stata
altrettanto rapida e clemente le si insinuò nella testa.
Theoric l’avrebbe
fatta soffrire, perché non sapeva nemmeno dove infilare il
coltello per
ucciderla. Ucciderli. Le salirono
le
lacrime agli occhi e non riuscì a fermarle. Erano calde e
scivolarono sulle
gote sfiorando la mano larga e robusta di Theoric.
“Piangi,
piccola principessa?”
La
costrinse con il viso contro la parete e la pietra ruvida le
provocò un
bruciore sulla guancia. Nel buio, avvertì che la presa sulla
sua vita
s’allentava e lo sentì armeggiare con la fibbia
dei pantaloni. Tentò di
divincolarsi, di graffiare, di mordere e Theoric la agguantò
di nuovo per
sollevarle la gonna. Era impacciato e goffo e sudato e voleva
vendicarsi, ma
qualcosa s’era inceppato, nel suo piano. Allentò
la presa sulla sua bocca
mentre tentava di risolvere l’incresciosa situazione,
spostandola più in basso:
cercò di infilarle una mano sotto la scollatura del vestito,
le ghermì un seno.
Armeggiò nel tentativo di ottenere il vigore necessario per
proseguire e Sigyn
ebbe un conato, al pensiero di quello che Theoric stava facendo. Di
nuovo, si
sforzò di richiamare alla memoria i ricordi delle imprese di
Lingua d’Argento,
del suo affascinante e pericoloso marito forse a pochi metri da lei che
la
credeva al sicuro e non sarebbe corso a salvarla.
“Se
mi uccidi, Loki lo capirà, lo scoprirà e si
vendicherà. Lasciami andare: non
dirò niente, te lo giuro. Non hai ancora
fatto niente. Non è troppo tardi.” Aveva parlato
con calma, cercando di frenare
l’impulso di gridare ed esasperarlo, ma le tremavano le
labbra. Cos’avrebbe
fatto il dio degli inganni, al posto suo?
Loki
Laufeyson era davvero a pochi passi da lei. Alla fine del cunicolo, si
apriva
un’enorme grotta sotterranea dove, come nelle migliori e
più scontate delle
tradizioni, dimorava un mostro. Avrebbe scommesso qualsiasi somma sulla
presenza di un grosso drago, ma quando aveva fatto il suo ingresso
sotto la
volta di pietra, era rimasto piacevolmente stupito e sorpreso. Una
creatura di
ben altra natura, lo attendeva immersa in un lago sotterraneo.
“Avanti,
mostrami il tuo vero aspetto,” la blandì. In una
mano stringeva uno dei pugnali
con cui aveva ucciso le guardie del Tempio, nell’altra una
spada rimediata
quando i nobili Vanir erano entrati al seguito di Thor. La cosa
mostrò i denti
aguzzi e la terra vibrò, l’acqua in cui era
immersa ribollì creando una spuma
quasi luminosa.
Era
una donna o, perlomeno, ne aveva parzialmente l’aspetto.
C’era, in lei,
qualcosa di mostruoso e diverso. I denti aguzzi e le labbra
incredibilmente
vermiglie, per esempio, come la pelle d’un biancore inumano e
spettrale,
svelata e nuda. Quasi riluceva nella luce fioca della caverna.
“Mago,
moriresti se ti svelassi il mio vero volto,”
ghignò.
Loki
assottigliò le palpebre, feroce. “Mettimi alla
prova,” l’incalzò. “Potrei
stupirti.”
Si
avvicinò alla spuma ribollente che agitava la riva con un
sorriso perfido sulle
labbra, indugiando con lo sguardo sul corpo assolutamente statuario e
perfetto
dell’essere dalle forme femminee. Su un altro uomo, con tutta
probabilità, la
figura avrebbe sortito un qualche tipo di fascinazione, ma
l’ingannatore
riusciva a intuire e quasi a vedere la natura abilmente mascherata
della
creatura. Era lei che mangiava le povere recluse del Tempio; era per
saziare il
suo ventre, solo all’apparenza piatto, che le mura robuste
della sua tana erano
rimaste intatte per secoli. Era lì che sarebbe finita Sigyn
se, quasi cinque
anni prima, Loki non avesse deciso di raccontare una lunga storia a
Njord.
La ricordò com’era allora, con lo sguardo fiero e
il labbro spaccato da uno
schiaffo di Freyr, decisa a non rivelare il nome dell’uomo
che l’aveva messa
incinta – il suo – per ribadire il concetto
fondamentale che lei era l’unica
padrona del proprio corpo. Piccola, coraggiosa, indisponente Sigyn.
L’essere
lo scrutò quasi offeso con le sue pupille biancastre,
colpito dalla studiata
arroganza del principe degli Asi. Lo vide avanzare nell’acqua
bassa, immergere
gli stivali di pelle nell’acqua, sollevare appena le lame.
Buttò teatralmente
il capo indietro e rise, stupito da quel mago armato di tutto punto che
non
dimostrava di temerlo. Ma così erano gli Jotnar e gli Asi:
il mostro li
ricordava dall’alba dei tempi o, forse, la sua conoscenza
delle cose e del mondo
traeva origine dal brodo primordiale in cui era immerso, una sorgente
forse
collegata persino con la fonte di Mimir.
“Tu
sei pazzo, mago.”
Un
ghigno. “Possibile, probabile. Mostrami la tua vera faccia,
non costringermi ad
avvicinarmi ancora. Sono il re straniero che attendevi, quello della
profezia
che vai blaterando.”
Fu
allora che la terra iniziò a tremare, a sussultare.
L’essere femmineo lanciò un
grido acuto e mutò pelle e sembianze, tramutandosi in una
creatura che non era
né un drago né un grifone né nulla di
conosciuto. Somigliava, piuttosto, a un
enorme insetto, uno di quelli che Loki e Thor catturavano da bambini
quando
giocavano nella radura adiacente al bosco, colorati e terribili. Il dio
degli
inganni sorrise di fronte al disgustoso cambiamento e pensò
al palese
disappunto che avrebbe tentato invano di mascherare Thor, quando gli
avrebbe
raccontato come aveva ucciso l’orrendo mostro.
“A
mio fratello saresti piaciuta moltissimo,”
confessò leccandosi le labbra.
“Invidierà il nostro appuntamento per almeno un
secolo.”
La
cosa rimase interdetta per una frazione di secondo, stupita
dall’atteggiamento
irriverente e sfrontato di quel guerriero che pareva non temerla. Lo
smarrimento,
tuttavia, durò meno d’un attimo. Si
lanciò contro Loki decisa a farlo a pezzi,
a cibarsene e a uscire incontro al destino che le era stato
profetizzato prima
che esistessero il Tempo e lo Spazio, forse.
Il
corpo, divenuto ormai d’una orrenda grandezza, si protese nel
tentativo di
afferrare il dio dell’inganno e ci sarebbe riuscito, se solo
l’Ase fosse stato davvero
lì. Uno degli artigli affilati
della creatura si abbatté con violenza sulla superficie del
lago, smuovendola e
creando onde e spruzzi che subito si congelarono, imprigionandola
irrimediabilmente.
Loki
ghignò. La sua illusione aveva decisamente funzionato. Era
decisamente più
spostato sulla destra rispetto a dove avrebbe dovuto essere.
“Sorpresa, cara?
Credevi forse che sarei rimasto a fissarti immobile mentre mi
attaccavi?”
Cosa
avrebbe fatto il dio degli inganni, al posto suo?
Sigyn
non ne aveva idea ed era troppo spaventata per fermarsi a ragionare, ma
pensò a
una cosa che, una volta, Thor aveva detto sul fratello durante
l’indimenticabile ambasceria ad Asgard.
“Oh, ma il suo essere
insopportabilmente
pedante è una strategia, mio buon Njord. Provoca i nemici
per distrarli e
approfittarne”. Lo aveva detto fissando Loki negli
occhi e l’Ase si era
limitato ad accennare un ghigno soddisfatto.
Il
suo aguzzino era nervoso, incapace e il coltello non era
l’unica arma che non
sapeva usare, a quanto pareva. Deglutì e parlò
con una voce falsamente ironica
e sicura.
“Ti
spavento così tanto? Non riesci nemmeno a essere uomo,
Theoric? A Loki faresti
una gran pena.”
“Sta’
zitta! Zitta!” La voce dell’uomo suonò
esasperata. Era in una situazione
incresciosa e svilente. L’ansia di doverla uccidere,
lì e ora, paralizzava il
resto, inibendolo, e il fatto che Sigyn scalciasse e si divincolasse,
graffiasse e tentasse continuamente di liberarsi, non gli rendeva certo
il
compito più facile. Era a braghe calate, in un cunicolo da
cui in ogni momento poteva
uscire fuori qualsiasi cosa e anche toccandole il seno piccolo e
morbido o i
fianchi che aveva sempre considerato invitanti, non riusciva a
eccitarsi al
punto di riuscire a possederla. Troppa ansia, troppo rumore –
quello che
proveniva dal fondo lontano dello stretto corridoio e la voce di lei,
che,
mentre si divincolava e blaterava inutilità, lo distraeva
con quel fottuto,
spaventoso nome: Loki.
Insistette,
ma in testa presero a risuonargli le parole aspre di suo padre, che lo
accusava
di essersi lasciato sfuggire il trono di Vanheim per un soffio,
consegnandolo a
uno straniero.
Si
distrasse per quello e per il sussulto improvviso della terra sotto di
loro e
mollò ulteriormente la presa; Sigyn ne approfittò
per assestargli una gomitata
e sgusciò via, incespicando nel buio e sui gradini scoscesi,
invocando aiuto. Theoric
tentò di afferrarla per i capelli e per poco non
riuscì a ghermirla, ma il
taglio corto si rivelò provvidenziale per la donna e,
impedito com’era dagli
abiti in disordine, non poté inseguirla, regalandole
così preziosi, ma flebili,
secondi di vantaggio. Era riuscita a sfuggirgli ben due volte, ma non
sarebbe
sopravvissuta a una terza. Non dopo averlo provocato a quel modo.
Desiderava
punirla e ucciderla e, presto, ci sarebbe riuscito. Gridò
ancora, nella vana
speranza che Loki o qualcun altro degli Asi o dei Vanir a lei fedeli,
potesse
udirla.
Il
dio degli inganni camminò lentamente nell’acqua
bassa e spumosa, ammirando
soddisfatto la statua di ghiaccio e carne che aveva creato. In pochi
minuti il
mostro si sarebbe liberato, riversandogli contro tutto il suo rancore
folle: doveva
agire in fretta. Lanciò in aria il lungo pugnale affilato
riprendendo al volo:
lo avrebbe colpito a un occhio, facendo ben attenzione a non rimanere
ferito
lui stesso a seguito degli spasmi incontrollati dell’essere.
Nel mezzo di
questo ragionamento, lo sorprese il grido, non troppo distante,
d’una donna,
forse. L’eco attutita di una violenza o di un incidente di
cui l’Ase non poteva
certo occuparsi, perché c’erano cose
più urgenti, da risolvere. Aveva fatto,
per le donne rinchiuse nel Tempio, più di quanto fosse nei
suoi progetti fare:
salvarle tutte non era possibile e l’unica di cui gli
importasse qualcosa ormai
era al sicuro, all’accampamento con Freya e Njord.
Valutò scientemente che quel
grido non poteva distrarlo e scagliò il pugnale, che
andò a segno. Il resto, lo
aveva previsto fin troppo bene: il ghiaccio si frantumò,
spezzato dal dolore e
dal rancore del mostro. Subito dopo, l’intero sotterraneo
tremò e vibrò
orrendamente. Il dio degli inganni evitò i colpi ciechi e
furiosi del mostro e
si diresse, rapido, sotto la sua pancia esposta, dove il carapace
lucente
mostrava qualche punto debole. Era da lungo tempo che non gli capitava
d’affrontare un simile abominio e fu contento di non avere
sempre quella piaga
dell’inopportuno fratello alle calcagna. Avrebbero litigato
su chi dei due avesse
il merito dell’uccisione del mostro per decenni, almeno.
Infilò la spada tra
una delle zampe della creatura e il corpo, intuendo che il colpo
avrebbe potuto
debilitarla: una strategia assolutamente perfetta, solo
che.
Solo
che il grido
lontano si fece
improvvisamente vicino e aumentò in intensità e
volume assumendo una nota conosciuta,
familiare. Le zampe del mostro mulinavano rabbiose nel tentativo
d’infilzarlo e
Loki trafiggeva, parava, scansava, mormorava rune, ma non
poté fare a meno spendere
una frazione di secondo per voltarsi e vedere chi cazzo aveva deciso di
venire
a crepare in quel sotterraneo.
La
terra sussultava, l’acqua ribolliva, il mostro lo cercava,
accecato dalla lama
del pugnale e dal rancore. Il dio degli inganni vide Sigyn incespicare
sugli
ultimi gradini crepati e parzialmente distrutti che congiungevano il
cunicolo
alla dimora della creatura, venire afferrata da uno stravolto Theoric,
rotolare
assieme a lui. Lo fulminò il pensiero che una simile caduta
le avrebbe fatto
perdere il figlio maschio che aspettava, a cui lui non aveva fatto
nemmeno in
tempo ad abituarsi.
Allora
era lei, che gridava. Lei.
Fu
raggiunto da una delle zampe del mostro che non riuscì a
parare né a evitare –
aveva commesso l’errore di perdere la concentrazione
– e si ritrovò in acqua,
quasi senza respiro. L’arto dell’abominevole
creatura ruppe le protezioni
robuste dell’armatura d’Ase di Loki, perforando il
metallo e incuneandosi,
sebbene di poco, nella carne. Tentò di sollevarsi, ma la
zampa dell’essere
continuava a bloccarlo in quei pochi centimetri d’acqua che
gli arrivavano alle
ginocchia. Affogare così era svilente, ma certo non
impossibile, se non fosse
riuscito a rialzarsi in fretta. E poi c’era lei, per le
Norne, lei. Loro,
forse.
“Loki!”
Il grido di Sigyn fu qualcosa di terribile, straziante.
Non
poteva averlo visto davvero. Doveva trattarsi di un incubo o
un’allucinazione.
Il dio degli inganni era un Ase addestrato da Asi – anzi, uno
Jotunn. Gente
fiera, forte, abile e potente, tanto da essere considerata quasi
invincibile.
Invece Lingua d’Argento s’era voltato giusto il
tempo per riconoscerla e poi
era caduto sotto il fendente, implacabile, del mostro inferocito.
L’acqua si
tinse di rosso. Sigyn, ancora a terra, tentò di strisciare
verso il bordo
dell’acqua e di liberarsi del peso di Theoric. Anche
l’uomo era sconvolto.
Improvvisamente, la sua vendetta nei confronti della principessa dei
Vanir
aveva perso parte della sua attrattiva. Urlò, cercando di
fuggire nuovamente
verso il cunicolo, ma l’ultimo movimento tellurico aveva
parzialmente coperto l’imbocco
del cunicolo. Si rese conto con orrore che era intrappolato;
l’unica sua
fortuna era che, con tutta probabilità, il dio degli inganni
sarebbe morto.
Continua…
L’angolo
di Shilyss
Cari Lettori che
siete
arrivati fin qua,
Non
mi ammazzate. Ho aggiornato
questa
storia dopo mesi e ho fatto finire il capitolo in maniera crudelissima,
lo so,
ma il prossimo episodio è già mezzo scritto e a
stretto giro saprete come andrà
a finire la storia. Il capitolo presenta numerose scene di violenza, me
ne
rendo conto, ma poiché non vi è alcuna
descrizione né c’è niente di gratuito,
ho
lasciato il rating arancione. Se lo riterrete opportuno,
provvederò ad alzare
il rating a rosso.
Perdonatemi per
questa
botta di realismo che ho voluto regalarvi col personaggio di Theoric, che è negativo
(voi direte: c’è
bisogno della specifica? Purtroppo, non sapete quanto).
Rappresenta la banalità del male,
l’uomo della porta
accanto che di fronte ai nostri “no” cerca
vendette, che attribuisce l’infelicità
del suo destino al fatto che Sigyn ha scelto Loki. Sigyn fu, in Tutte
le tue
bugie, sempre estremamente chiara nei confronti di Theoric,
confessandogli
immediatamente di amare un’altra persona.
Voglio
ringraziare tutti coloro che hanno recensito,
preferito, ricordato e seguito questa storia dal primo capitolo
a… ora.
Grazie davvero, ogni riga è per voi. Mi commuovo
♥. Parafrasando l’infinita
Melania G. Mazzucco, posso dire che “solo
chi crea conosce la gioia di sapere che la freccia scoccata verso il
cielo non
è caduta ai nostri piedi, ma ha colpito il cuore di qualcuno.”
Se la storia vi
ha
colpito, utilizzate le liste: farete felice un’Autrice
♥ (Fa anche rima). La
Fatina dell’Ispirazione necessita sempre delle vostre cure
per poter spandere i
suoi glitter! Per ulteriori info e un po’ di
divertimento… c’è la mia pagina
facebook
♥ https://www.facebook.com/Shilyss/
Ricordo che Vanheim,
con questo ordinamento sociale,
politico e culturale è una mia idea
e il
Tempio eccetera è una mia idea: vi pregherei di non
utilizzarla o, se proprio
vi sentite ispirati, di inserire un disclaimer apposito
in cui
dichiarate i credits ♥. Anche
il
personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla
voce “Sigyn” su
Wikipedia, è una mia personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.
A prestissimo,
Shilyss
|
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Capitolo 8 *** Ultimi sospiri ***
Ultimi sospiri
Il
dio degli inganni sarebbe morto, sì. Annaspava senza
riuscire a liberarsi nel
lago sotterraneo tinto di rosso, imprigionato nell’acqua
bassa, ma ugualmente
letale. Il mostro gridava di soddisfazione e dolore. Il sangue nero
colava
dall’occhio ormai perso attraverso il muso, scivolava sul
naso e sulle fauci
spalancate, si raggrumava sul corpo troppo simile a quello di un
insetto. Theoric
era sul punto di rigettare tutto quello che aveva nello stomaco. I Nove
Regni
ospitavano un numero impressionante di creature mostruose, molte delle
quali
calpestavano da sempre il suolo fertile e verde di Vanheim, ma nella
capitale
tali bestie non si erano mai viste. In passato, era capitato che
qualche eroe
in cerca di gloria s’inerpicasse nelle zone più
isolate del territorio nel
tentativo di portare a Njord un trofeo, ma da quando Loki Odinson si
era
installato alla corte del vecchio re, questi omaggi erano apparsi ai
più come
il vano dono d’un bambino a un adulto. E come poteva essere
altrimenti, del
resto? Nelle sale di rappresentanza dei sovrani dei Vanir, spiccavano i
resti
imbalsamati di un drago marino dalle fattezze gigantesche. Loki lo
aveva ucciso
e offerto a Njord quando il tentativo di infiltrarsi nella sua famiglia
era ben
lungi dal realizzarsi – ancora non si sbatteva
Sigyn – e lui non era che uno zelante rifugiato in cerca di
un tetto.
Theoric
se lo ricordava ancora, il ghigno soddisfatto e sornione che aveva
attraversato
il viso affilato di quell’Ase furbo e astuto che si
comportava come un principe
anche nella terra degli altri. Il re era rimasto incantato
dall’eccezionale
omaggio, e i pochi nobili che erano soliti andare a caccia di
mostruosità per
offrirgliele, incapaci di competere con Loki, da quel giorno avevano
smesso di
praticare ogni attività venatoria che avesse per oggetto una
qualche creatura
d’incubo. Nessuno, a Vanheim, aveva mai ucciso un drago
marino. Sigyn era quasi
svenuta di fronte all’immagine del cadavere della bestia, lo
sapevano tutti.
Portava ancora le trecce e non era che una ragazzina, certo, ma a
nessuno era
sfuggito lo sguardo spaventato che aveva rivolto al dio degli inganni.
E
invece, adesso, arrancava in direzione del mostro impazzito che lui non
riusciva neanche a guardare. Le afferrò un lembo della gonna
per impedirle di
scappare anche se farlo avrebbe significato finire tra le fauci del
mostro, non
per salvarla, ma per lavare una volta per tutte l’onta di cui
lo aveva fatto
oggetto rifiutandolo due volte: la prima, quando l’aveva
chiesta in moglie e
lei aveva nettamente rifiutato, la seconda, quando si era fatta mettere
incinta
dal dio degli inganni. Doveva essere lui a farlo, lui. Estrasse dalla
cintura
la daga che gli aveva dato suo padre per l’occasione, ma lei,
scalciando,
riuscì a rimettersi in piedi e a correre verso il lago
sotterraneo e insidioso.
♥
Il
dio degli inganni stava annegando. Theoric la tirava per la gonna, la
terra
tremava, l’acqua era rossa. Sigyn iniziò a correre
verso lo stagno sotterraneo,
torbido e mortifero. Gridò il nome di suo marito attirando
su di sé
l’attenzione della creatura, che la guardò col suo
unico occhio furente.
Dalle
fauci uscì una voce metallica, aliena. “La
principessa incinta di un re
straniero,” cantilenò la bestia. “Ti
aspettavo da tanto, tanto tempo.”
La
donna scosse i capelli biondi, ora corti. Il terrore le ghiacciava le
vene, le
paralizzava i muscoli. Loki era sottacqua e si dibatteva senza riuscire
a
emergere, Theoric era alle sue spalle e, non fosse stato per il
ribrezzo e
l’orrore causato dall’immonda creatura con le sue
forme imprecise e sconclusionate,
l’avrebbe afferrata per ucciderla, ma intanto gridava
all’essere di prendersi
ciò che gli spettava, lei.
Quanti
pensieri possono affastellarsi nella mente in pochi, tragici, istanti?
Il
tempo si dilatò, per Sigyn. Assistette alla scena della
sconfitta dell’Ase
senza guardarla davvero. Loki sarebbe morto. Una delle zampe del mostro
l’aveva
infilzato e bloccato sott’acqua. Lui, il principe di Asgard
dal sorriso furbo e
affascinante che raccontava le sue imprese come fossero fiabe,
tessendosi
addosso l’immagine del condottiero invincibile, del mago
sagace, del guerriero
letale. Perché Loki era inafferrabile, sfuggente,
imprevedibile. Lo specchio
d’acqua divenne improvvisamente placido e calmo, segno che la
lotta furiosa di
Lingua d’Argento si era tragicamente compiuta. Sigyn cadde in
ginocchio, gridò
ancora. Pensò che voleva gettarsi in acqua, che Sonje non
avrebbe visto più suo
padre e doveva avere al suo fianco almeno lei. Col fiato corto, si
premette la
pancia, conscia della vita che le cresceva dentro.
Doveva
proteggere la piccola cosa inconsapevole di tutto insediatasi in lei
una notte
in cui Loki, rientrato stanco e ammaccato da una spedizione assieme
all’immancabile fratello, l’aveva cercata con
più urgenza del solito e Sigyn,
accarezzandogli i capelli umidi, cingendogli con le cosce i fianchi
asciutti,
gli aveva fatto una domanda terribile cui l’Ase non aveva
risposto. Che hai fatto, Loki? Cosa stai
cercando di
dimenticare?
Ghignante,
la creatura sollevò l’arto col chiaro intento di
mostrare il cadavere
dell’arrogante mago che l’aveva sfidata, ma
qualcosa non andò esattamente come
aveva previsto. Il corpo del dio degli inganni, che fino a poco prima
aveva
sentito dibattersi sotto il peso della sua zampa, non era infilzato:
c’era solo
lo spallaccio scheggiato e fracassato dal colpo. L’essere
roteò su stesso,
cercando la preda che credeva sconfitta, ma si paralizzò,
perché l’arto che
aveva immobilizzato l’Ase si era gonfiato e pulsava. Di
più, la struttura ossea
che lo ricopriva si sfaldava e così avvenne pure a un'altra
estremità, come se
le zampe ossee fossero venute a contatto con qualche terribile veleno.
“Non
è così facile uccidermi, temo.” La voce
ironica di Lingua d’Argento risuonò per
la grotta carica di una sottile nota di divertimento, ma
l’eco presente nella
caverna rendeva difficile individuare il punto esatto da dove era
giunta la
frase, o forse anche quello era un incanto del mago. Sigyn si
coprì la bocca con
le mani e si voltò di scatto, credendo che le parole del
marito provenissero da
dietro le sue spalle. Così, in effetti, era. Loki era
fradicio e ferito, ma
vivo. Accanto a lei.
Le
rivolse uno sguardo breve e attento e poi puntò lo sguardo
oltre la sua testa,
su Theoric, che si era faticosamente tirato su. Socchiuse le palpebre,
come se
volesse metterlo meglio a fuoco e quello, istintivamente,
indietreggiò, mentre
la giovane donna si alzava per assicurarsi che fosse vivo e accertarsi
che la
ferita alla spalla non fosse troppo grave.
“Tu!
Tu sei qui!” boccheggiò, sollevata e sconvolta
assieme.
Loki
non rispose, limitandosi a frapporsi tra lei e tutto il resto,
proteggendola,
allo stesso tempo, da Theoric e dal mostro.
“Ne
dubitavi, mia signora?”
I suoi
piani variavano di minuto in minuto. Doveva mettere di
nuovo e in via definitiva
Sigyn al sicuro, spaccare la faccia a quel gran figlio d’un
cane di Theoric – non
gli era affatto sfuggito il disordine dell’abito di sua
moglie e il corsetto
slabbrato – porre fine alla miserabile esistenza del
disgustoso mostro,
persino.
“Cosa
dice la tua bella profezia, mostro? Raccontacela, sono proprio
curioso,” domandò
a voce alta.
La
bestia, furibonda e sofferente, gridò e si diresse verso
l’Ase nel tentativo
d’ucciderlo, spingendosi con tutto il suo peso verso
l’angolo dove si stagliava
la figura pallida e furente del suo avversario, esasperata dal continuo
sparire
e riapparire di quel mago beffardo e arrogante dalla lingua decisamente
troppo
lunga. Il dio degli inganni sorrise soddisfatto di fronte a quella
scena spaventosa;
debilitare il suo nemico deconcentrandolo, esasperandolo e facendogli
smarrire
la ragione faceva parte del suo astuto progetto.
“Scappa,
Sigyn!” ordinò, lo sguardo fisso
sull’ammasso di carne e sangue e artigli della
creatura. “Tu no, fottuto bastardo: se ti muovi di un altro
passo, ti aprirò
dalla gola alle palle,” esordì, riferendosi a
Theoric e puntandogli addosso,
per un solo momento, i suoi occhi acuti e verdissimi.
“Che
mi hai fatto? Che mi hai fatto?”
Il
mostro si trascinò urlando verso la riva, sollevando acqua e
sangue,
assecondando inconsapevolmente la volontà del dio degli
inganni, ma gli altri
due presenti parevano non aver capito una parola di quanto il principe
di
Asgard aveva detto loro. Theoric si era avvicinato
all’apertura della grotta,
Sigyn non si era mossa di un passo ed era palese che non avrebbe
lasciato il
suo fianco.
Il
dio degli inganni era furibondo. Doveva agire in fretta e il dolore
alla spalla
trafitta gli toglieva lucidità e forza, minando la sua fibra
robusta. Non era
certo la prima volta che veniva ferito in battaglia,
tutt’altro, ma gli era
capitato di rado che i suoi ordini non venissero prontamente eseguiti.
Con un
movimento rapido della mano, si preoccupò di creare uno
scudo che bloccasse per
qualche istante gli artigli ancora efficaci del mostro, quindi si
rivolse al
Vanir in fuga.
“Ma
come, già ci lasci?”
Fece
cadere a terra Theoric e lo bloccò, congelandogli le
estremità per impedirgli
di muoversi.
“Tu
creperai qui,” gli spiegò crudele, ferendolo sulla
guancia con l’ennesima delle
sue lame nascoste, sottile e affilatissima. “Verrai sbranato
da quell’essere.”
L’uomo
gridò d’orrore e di dolore e lo
maledisse con sommo disinteresse del mago, che già aveva
preso a concentrarsi
sull’unica creatura che considerasse sua avversaria.
La
bestia immonda distava solo pochi passi, ma non era ancora abbastanza
vicina –
Sigyn, invece, lo era troppo.
“Tu!
Maledetto
Jotunn travestito da Ase! Che mi hai fatto, che?”
“Esistono
rune oscure che disfano il corpo: le ho usate su di te,”
spiegò Loki serafico,
sorridente, mentre nel palmo della sua bella mano di mago si andava
formando
qualcosa di tremendo, oscuro. L’acqua ormai rosata del lago
iniziò a bollire, la
terra sotto gli stivali del dio degli inganni vibrava sollevando
polvere e
piccoli detriti.
“Qual
è la profezia, mostro? Cosa ti hanno promesso le Norne,
dimmi. Perché ci
aspettavi?”
Pallida
in volto, Sigyn si accorse di quanto stava accadendo. Avrebbe dovuto
– voluto –
fuggire, ma l’idea di allontanarsi nuovamente da Loki la
paralizzava. Stava
cedendo a un panico irrazionale, che sopraggiungeva dopo giorni di
tensione, un
inseguimento, Theoric intrappolato che gridava insulti.
Avvenne
tutto troppo velocemente perché la principessa dei Vanir
potesse capire. Sentì
pronunciare le rune, le ascoltò e pensò che
fossero terribili, ma la loro
memoria svanì dalla sua testa nel giro di un battito di
ciglia. Il dio degli
inganni era un mago potentissimo: lei lo aveva saputo da sempre, da
quando, ancora
bambina, lui aveva mutato il suo aspetto solo per il gusto di
terrorizzarla.
Così era iniziata la loro conoscenza. Anche adesso la stava
spaventando. Il
sollievo si unì al terrore che le ispirava una simile
propagazione d’energia
che traeva le sue origini da qualcosa di antico come il mondo intero,
se non di
più.
Loki
aprì il palmo della mano e, al suo centro, iniziò
a formarsi qualcosa di così
luminoso che Sigyn dovette chiudere gli occhi per non rimanerne
abbagliata.
Quello che avvenne dopo, non lo seppe mai descrivere né
comprendere a fondo.
Sentì freddo: un gelo glaciale l’avvolse
strettamente, quasi mozzandole il
respiro.
Dopo,
ci fu il terremoto. Loki la strinse a sé cingendole con un
braccio la vita
sottile: così facendo, la sostenne – di nuovo, la protesse alla sua maniera silenziosa e
fiera, ma efficace, senza
concederle null’altro se non quella stretta virile e decisa,
eppure, allo
stesso tempo, concedendole tutto.
Seguirono
una serie di sussulti che parevano provenire dal centro della terra
stessa e
anticiparono di pochi istanti un boato tremendo. Allora vennero le urla
disarticolate
e sentì la presa di Loki farsi più forte, le
sembrò di udire la sua voce che
cercava di tranquillizzarla. Batté le palpebre e i suoi
occhi si abituarono con
difficoltà alla luce, ma l’immagine che le si
parò davanti, sconvolgente, per
poco non la fece rimettere lì, nei sotterranei del Tempio.
La
forza scaturita dalle belle dita di Loki non traeva la sua origine
dalle
viscere del sottosuolo, né dal cielo. Nasceva dal cuore
impetuoso di quell’Ase
bugiardo dal cuore fatto di ghiaccio, il cui battito, lento e regolare,
Sigyn
aveva imparato a riconoscere e ad amare. E quello che il dio degli
inganni era
capace di fare grazie alle sue oscure conoscenze era spaventoso. La
bestia
immonda gridava in preda a un dolore infinito, perché la sua
carne era stata
tagliata in più punti dall’affilato incantesimo
del mago. Il corpo, ferito e
martoriato, si corrodeva, si squagliava per effetto del primo attacco
di Loki e
del secondo.
Solo
che la maledizione lanciata era costata
molto anche all’astuto e infuriato principe di Asgard,
costretto a pagare un
prezzo che avrebbe
tenuto nascosto fin
quando le forze glielo avessero concesso.
“Morirai
così, dissanguata, soffrendo,” annunciò
tra i denti rivolgendosi alla creatura,
mentre la testa gli girava e un preoccupante ronzio alle orecchie gli
succhiava
via la lucidità. “Tuttavia, visto che sono un dio
misericordioso,” ironizzò,
“posso rendere la tua morte più rapida e
veloce,” promise – mentì.
“Dimmi della
profezia. Dimmi che ti aspettavi succedesse.”
La
bestia si avvicinò ancora, trascinandosi
nell’acqua sempre più bassa. Se non fosse
stata ferita da Loki, da quella distanza con una delle sue zampe
adunche
avrebbe potuto ghermire lui o Sigyn o persino Theoric.
Il
dio degli inganni era un guerriero spietato e fissava senza battere
ciglio la
scena orrifica, nonostante la bestia incespicasse rabbiosa nel
tentativo di
ucciderlo e vendicarsi di lui.
“Dimmelo,”
l’incalzò e mosse le belle mani eleganti, ancora,
per rendere ancora più atroce
il tormento del suo incantesimo.
“Se
usi tutto questo seiðr adesso,” boccheggiò
la creatura, “come farai a salvare
tua moglie e tuo figlio dopo?”
Raccogliendo
improvvisamente le ultime forze, l’essere alzò la
coda nel tentativo di
abbatterla sul mago e su Sigyn.
“Se
uso tutto questo seiðr è perché posso
permettermelo!”
Loki
sollevò il braccio e l’acqua del lago si
piegò al suo comando creando uno scudo
scintillante, magnifico, ricoperto di punte aguzze, che parò
il colpo
infliggendo nuove ferite al mostro e rompendone in alcuni punti il
carapace.
Migliaia di schegge di ghiaccio volarono nella sala.
Il
dio degli inganni piegò le labbra in una smorfia di
dispetto: avrebbe potuto
uccidere l’orrendo essere: ne aveva ancora
l’occasione e la forza, ma, se l’avesse
fatto in quel preciso istante, non
avrebbe mai saputo nulla dello strano presagio. La conoscenza in cambio
di una
salvezza certa. Se non ci fosse stata Sigyn, lì con lui,
forse il dio degli
inganni avrebbe tergiversato ancora, stuzzicando l’essere,
spingendolo a
confessarsi.
♥
“Thor,
dove sono Loki e Sigyn?”
Il re
degli Aesir si guardò attorno, cercando di individuare la
corta chioma bionda
della cognata nella confusione causata dalle guardie Vanir e dalle
povere donne
finalmente liberate. Da qualche minuto la terra aveva preso a vibrare
persino
lì, nello spiazzo erboso che circondava la struttura ormai
violata del Tempio.
“Lei
non c’è,” insistette Freya,
“non la vedo da nessuna parte.” Per mano teneva
Sonje, incuriosita e, allo stesso tempo, impaziente di rivedere i
genitori. Si
era aspettata di vederli uscire trionfanti dal portone del tetro
palazzo e
invece, con sua somma delusione, non era ancora accaduto nulla di tutto
ciò.
“Mio
fratello sta usando il seiðr,” riconobbe il dio del
tuono individuando l’origine
delle scosse telluriche, ma evitò di dire alla donna che
Sigyn avrebbe dovuto
essere lì, con loro, finalmente libera. “Tua
nipote sta bene. È con Loki,” la
rassicurò. Il crollo improvviso di una buona parte
dell’arco d’ingresso fece
impallidire Freya e preoccupò il tonante.
“Zio
Thor,” domandò la bambina tirando il guerriero per
il mantello, “dove sono
mamma e papà?”
Sono
a uccidere chissà che mostro e ci stanno mettendo troppo
tempo, pensò il
giovane re.
“Si
stanno divertendo senza di me,” sospirò. Diede una
carezza leggera ai ricci
neri della nipote e alla testa del gatto di pezza che la piccola
portava sempre
con sé e si diresse a passo svelto verso la tetra porta del
Tempio. Vedendolo, quell’idiota
di Loki si sarebbe senz’altro infuriato, ne era certo.
♥
“Consegnami
la principessa. Questo vostro figlio sarà la tua condanna,
dio degli inganni.”
La conoscenza
aveva un prezzo, sempre. Così si era pronunciato una volta
Odino, quando lui e
Thor non erano bambini. Forse, qualcosa di simile il vecchio sovrano
l’aveva
detto anche nelle giornate lugubri in cui la malattia gli corrodeva la
ragione,
ma a questo Loki non riuscì a pensare. Nei suoi ricordi, la
voce di Padre Tutto
era carica di una amarezza che sapeva di fiele e l’Ase si
accorse di avere
improvvisamente la gola e la bocca secche.
“Se
nascerà,
una catena indistruttibile ti condannerà a un supplizio
eterno,” insistette il
mostro.
Dopo che
la protezione fatta di ghiaccio si era infranta sotto le zampate della
creatura,
il dio degli inganni aveva deciso che la profezia non gli interessava
– non gli
doveva interessare – e,
così, aveva
inflitto all’abominio il colpo letale, quello che avrebbe
posto fine alla sua
orrenda esistenza e sfiancato lui: un compromesso che gli era parso
decisamente
adeguato. Il seiðr si era liberato fluendo via dal suo sangue,
dalla sua carne,
dalla sua anima, persino, scatenando un terremoto che, nel giro di
pochi minuti,
avrebbe fatto crollare l’intera volta della grotta
sotterranea e inghiottito
per sempre il Tempio.
Grazie
al sortilegio invocato dall’Ase, le ferite già
inferte all’essere immondo
avevano iniziato a peggiorare, la carne attorno a marcire sempre
più
rapidamente; il mostro, furibondo, era impazzito dal dolore e aveva
tentato di
avventarsi ancora una volta su di loro. Loki era riuscito a proteggere
Sigyn e
se stesso, a guadagnare l’imbocco del tunnel che conduceva
verso l’uscita, persino.
Qui, Theoric, ancora bloccato nel ghiaccio, lo aveva afferrato per una
manica.
“Non
puoi lasciarmi qui!”
“Non
posso?” Loki si era voltato e aveva sorriso, furibondo.
Approfittando del
momento, il mostro morente aveva tirato fuori la sua ultima
possibilità di
vincere svelando il segreto che custodiva da millenni. Ma la sua voce,
spaventosa e melliflua insieme, aveva tolto colore al viso di Sigyn e
impietrito
lui, Lingua d’Argento.
“Consegnami la principessa. Questo vostro figlio sarà la tua condanna, dio degli inganni. Ecco quello che volevi. Nel suo grembo c’è il lupo che divorerà tutti voi.”
La conoscenza
ha un prezzo, sempre.
Sigyn
si volse verso l’unico occhio del mostro, per poi spostare
lentamente lo sguardo
sul marito e osservarlo. Tremando, scrutò il suo profilo
affilato e si accorse che
l’ingannatore giudicava vera
la frase
del mostro agonizzante, per via di quel suo potere in grado di separare
la
realtà dalla menzogna. Lo vide serrare la mascella, battere
le palpebre e, infine,
scuotere appena la testa, per poi riprendersi e rispondere
immediatamente a
tono.
“E io
scatenerò il Ragnarok: così dice la
Voluspa.” La voce di Lingua d’Argento era asciutta,
incolore. “È solo una profezia,” decise
noncurante, ricordando Frigga che vedeva
il futuro e, quand’era bambino, la sera gli carezzava i
capelli scuri spiegandogli
che le predizioni spesso erano ambigue e nascondevano nelle loro frasi
oscure
più sensi, infiniti significati.
Continua…
L’angolo
di Shilyss
Cari
Lettori che siete arrivati fin qua,
Quando
ho iniziato a scrivere “Oltre
l’inganno”
desideravo che fosse una raccolta di shot che coprissero i missing moments esistenti tra Tutte
le tue bugie e Giochi Pericolosi,
nonché la comica Altro che il
Ragnarok.
Il risultato è stato questa storia ibrida che, tuttavia, ha
una sua coerenza
interna. Il prossimo capitolo sarà l’ultimo della
vicenda del Tempio e, credo,
della raccolta. Piccole precisazioni: non sono una fan sfegatata del
fantasy,
quindi il mio modo di intendere la magia potrebbe farvi storcere il
naso, ma a
me fanno storcere il naso gli incantesimi in generale,
quindi… boh XD.
Theoric,
è un personaggio negativo (voi
direte: c’è bisogno
della specifica?
Purtroppo, non sapete quanto). Rappresenta la
banalità del male, l’uomo della porta
accanto che di fronte ai nostri “no”
cerca vendette, che attribuisce l’infelicità del
suo destino al fatto che Sigyn
ha scelto Loki. Sigyn fu, in Tutte le tue bugie, sempre estremamente
chiara nei
confronti di Theoric, confessandogli immediatamente di amare
un’altra persona.
Più chiara di così.
Voglio
ringraziare tutti coloro
che hanno recensito, preferito, ricordato e seguito questa storia dal
primo
capitolo a… ora. Grazie
davvero, ogni riga è per voi.
Mi commuovo ♥. Parafrasando l’infinita Melania G.
Mazzucco, posso dire che “solo chi
crea conosce la gioia di sapere che
la freccia scoccata verso il cielo non è caduta ai nostri
piedi, ma ha colpito
il cuore di qualcuno.”
Se
la storia vi ha colpito, utilizzate le liste: farete felice
un’Autrice ♥ (Fa
anche rima). La Fatina dell’Ispirazione necessita sempre
delle vostre cure per
poter spandere i suoi glitter! Per ulteriori info e un po’ di
divertimento… c’è
la mia pagina facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/
Ricordo che Vanheim, con
questo ordinamento
sociale, politico e culturale è una mia
idea e il Tempio eccetera è una mia idea: vi pregherei di
non utilizzarla o, se
proprio vi sentite ispirati, di inserire un disclaimer apposito
in cui
dichiarate i credits ♥. Anche
il
personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla
voce “Sigyn” su
Wikipedia, è una mia personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.
A prestissimo,
Shilyss
|
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Capitolo 9 *** Vali ***
Capitolo 9
Vali
“Consegnami
la principessa. Questo
vostro figlio sarà la tua condanna, dio degli inganni. Ecco quello che
volevi. Nel suo
grembo c’è il lupo che divorerà tutti
voi.”
“E io
scatenerò il Ragnarok: così dice la Voluspa.
È solo una profezia,” ribatté Loki.
Si liberò con un gesto secco e infastidito di Theoric, che
ancora osava trattenerlo
per la manica e sfidò il vaticinio del mostro morente con la
protervia
ereditata suo malgrado da Odino, ma aveva visto. La
visione gli era
penetrata nella mente incuneandosi come una freccia e lasciandogli
addosso la
gelida sensazione di un destino ineluttabile, di una sofferenza che
prometteva
di essere lunga e atroce. Per un momento aveva sentito davvero
il veleno
scorrergli sulla pelle già martoriata, aprendo ferite
vecchie e nuove. Raddrizzò
ulteriormente le spalle già altere e promise morte e
distruzione all’essere di
fronte a lui – pronunciò nuove rune a costo di
sfidare la sorte, per punire
quell’essere orbo che osava predire una fine oscura non solo
a lui, che ne era
senz’altro degno, ma al figlio che la sua giovane moglie
portava ancora nel
grembo. Sarebbe morto meno in fretta, decise, ma con più
dolore.
“Ha
usato un altro incantesimo, mostro! Ti vuole distrarre!”
proruppe Theoric
troppo tardi perché la creatura potesse fare qualcosa, con
la voce lamentosa e
infinitamente bassa di chi sa di aver perso.
L’incubo
emise un urlo inarticolato, perché la carne putrescente
aveva preso a bruciare
e quelle grida terribili, atroci, si accompagnarono a una scossa
violenta, a
una luce abbacinante che ferì l’occhio ancora sano
della bestia sorprendendo
sia Theoric che la principessa dei Vanir. Loki si spostò di
lato per proteggere
col proprio corpo la moglie e mosse il braccio sano per sfiorarla
– la profezia
riguardava anche lei, loro, e Sigyn ignorava che
conoscere il futuro non
regalava alcuna certezza. I profeti parlavano per enigmi, metafore e le
loro
parole avevano senso solamente quando ormai appartenevano al passato.
Prima
erano un’incomprensibile maledizione, nient’altro.
Gli
antichi tunnel scavati nella terra tremarono per l’onda
d’urto provocata dal
seiðr e dai colpi ciechi che la bestia, resa pazza dal dolore,
dava senza
cognizione alcuna nel disperato tentativo di ucciderli. Desiderava
portarli con
sé nell’oltretomba, ma se non ci fosse riuscita
lei, ci avrebbero pensato senz’altro
i corridoi sotterranei del Tempio, tragicamente sul punto di
collassare. Uno degli
artigli scarnificati colpì il soffitto dello stretto
passaggio e poi graffiò la
parete più vicina a dov’erano loro, nel solo e
unico tentativo che gli restava
per ghermirli.
“Dobbiamo
allontanarci,” sibilò Loki. La tracotanza che gli
era propria venne seppellita
dalla puntuale consapevolezza che stavano correndo il serio rischio di
morire
lì sotto, intrappolati come topi, tra le fiamme.
L’estremità
ossea e sanguinolenta grattò ancora il muro e, ritraendosi,
scheggiò e ruppe la
trappola di ghiaccio in cui era imprigionato Theoric. Il Vanir,
terrorizzato,
afferrò il mantello nero di Loki e prese a gridare
nuovamente con tutto il
fiato che aveva in gola, tra le schegge trasparenti. “Non
puoi lasciarmi
morire! Andrò dai Nani, dagli Elfi, lascerò
Vanheim! Mio padre…” boccheggiò, ma
l’ingannatore lo afferrò per la gola e strinse,
sentendo la carotide pulsare
sotto le sue dita. Sulla pelle l’uomo aveva ancora il segno
rosato lasciato dal
pugnale dell’ingannatore nella sala del consiglio.
Avrebbe dovuto solamente premere con più forza le dita.
“Tuo
padre saprà che sei crepato accidentalmente qui
sotto,” ghignò l’Ase, “e che
io
ho tentato con tutte le mie forze di salvarti. Che sfortuna!”
sorrise, e lo
spinse via, verso l’imboccatura, in direzione
dell’artiglio cieco e rabbioso
che, ancora, cercava le loro carni. Lo aveva condannato a qualcosa di
peggiore
che morire per mano sua; uno spettacolo cui avrebbe voluto assistere,
che
attendeva da tempo – dal giorno in cui, nella sala del trono,
aveva osato
intervenire per vendicarsi della libera scelta di Sigyn o forse da
prima, dal
momento in cui aveva preteso che lei si fidanzasse con lui, ma avrebbe
dovuto
rinunciare a un simile piacere e scappare, percorrere i tunnel prima e
uscire
di lì, mettersi in salvo.
Theoric incespicò, cadde; il mostro, avvolto dalle fiamme e
animato da una
qualche forza millenaria e oscura, gli si avventò contro.
Tentò di rialzarsi e
fuggire tra le urla, ma subì la stessa infelice sorte di
Loki: la sua carne
venne perforata dallo scheletrico artiglio.
“Andiamo,
presto!” L’ingannatore spinse Sigyn verso
l’uscita; non c’era niente da vedere,
ma lei fece resistenza e gli si appese al braccio.
“Così suo padre penserà che
è morto da eroe.”
“Lo
so, ma non abbiamo tempo, è
spacciato,” replicò stizzito. In un altro
momento, avrebbe senz’altro apprezzato l’arguta e
analitica valutazione di sua
moglie; le avrebbe detto con una punta di soddisfazione che era
così che
parlava una regina, ignaro del fatto che, nel giro di pochissimi mesi,
Sigyn
avrebbe davvero sfoggiato la corona dei Vanir sul proprio capo.
Sì,
senz’altro si sarebbe messo a
lodarla per le sue considerazioni razionali e brillanti, ma non
l’avrebbe
ascoltata perché Theoric doveva pagare per ogni volta che
aveva posato le
labbra sulla sua pelle, per ogni occasione in cui si era illuso che gli
appartenesse.
La tirò via ripetendole che era troppo tardi e dovevano
mettersi in salvo; non
poteva più usare incantesimi perché era sfinito e
i cunicoli stavano diventando
insicuri. Non riuscirono a fare nemmeno un paio di passi: una scossa
improvvisa
fece crollare il soffitto e Loki dovette fare un balzo indietro per
impedire di
venire colpito dai sassi e dai detriti. Dietro di loro, Theoric urlava.
Erano
rimasti intrappolati.
♥
Thor
non raggiunse mai la grotta sotterranea col suo lago, non vide il
mostro morto
dopo aver infilzato con un artiglio l’ultima delle sue
vittime. Osservò con
orrore il tunnel crollato, però, chiedendosi se Loki e sua
moglie fossero
ancora vivi o meno. Il re degli Æsir aveva già
pianto la morte di suo fratello
in almeno due occasioni: con un brivido rammentò la fitta di
dolore provata
quando l’altro s’era lasciato cadere
nell’abisso oltre il Bifrost, la
disperazione assoluta che gli aveva stretto il cuore nel vederlo esalare
l’ultimo
respiro nella terra degli Elfi Neri. Morire sotto una frana non gli si
addiceva,
non era possibile: Loki era troppo scaltro e pieno di sé per
accontentarsi di
una fine del genere – eppure c’era una qualche
grandezza nel rimanere sepolti
vivi sotto un Tempio vecchio quanto l’Yggdrasill dopo averlo
distrutto. Pensò a
Sonje e all’occhiata supplichevole che gli aveva rivolto
vedendolo andare via,
al suo broncio così simile a quello dell’unica
persona capace di capirlo con
uno sguardo, in grado di ricordare il tempo in cui Odino e Frigga erano
i
sovrani di Asgard e i Nove Regni erano diversi. Se suo fratello fosse
morto,
una parte di Thor – la giovinezza – sarebbe svanita
con lui per sempre. Alzò
Mjollnir, limitandone l’intensità in maniera tale
da evitare nuovi crolli e
pregando intimamente le Norne che il muro di detriti di fronte a lui
non fosse
la tomba di Loki e di Sigyn, che il suo intervento non peggiorasse le
cose. La
potenza dell’antica reliquia scaturì in tutta la
sua violenza, incanalata da
una forza che non dimorava unicamente nel braccio poderoso del dio del
tuono,
ma risiedeva nella sua anima volitiva di re guerriero. I detriti si
fecero
polvere e Thor davanti a sé non vide né
udì nulla. Poi, lo raggiunse un fascio
di luce che anticipava qualcosa di potente, vibrante, vivo e
conosciuto,
un’onda di potere che si scontrò con quella del
proprio martello: il seiðr di
quell’impiastro di Loki.
A
causa della fitta nube generata dai detriti, Thor iniziò a
tossire. Lo
raggiunse un rantolo sofferente e pensò che suo fratello
fosse ferito. Lo
chiamò, muovendosi alla cieca.
“Ah,
finalmente. Muoviti, aiutami a togliere questi massi; non ci
passiamo.” La voce
di Loki era carica di un velo di dolore che il tonante riconobbe subito.
“Sei
ferito!?”
“Un
graffio,” fu la risposta laconica e vagamente scocciata
dell’Ase, che ancora
non era altro se non una voce seminascosta dalle pietre
“Ha
una spalla ferita!” Lo corresse Sigyn e, nella nota ansiosa
che colse nella
voce di lei, Thor capì che le condizioni di suo fratello
erano peggiori di
quanto lui non volesse ammettere.
“La
stessa che gli ho rotto?” s’informò con
sospiro avanzando nel cunicolo liberato
e spostando i vari massi.
Si riferiva all’ultimo scontro avuto col fratello, quando
Loki aveva chiesto la
mano di Sigyn. “Sì,” sospirò
la donna.
“Allora
gli farà male. Arrivo.”
Spostò
un enorme macigno che ostruiva il passaggio e, finalmente, se li
ritrovò
davanti, scarmigliati e impolverati. Lo colpì immediatamente
l’aspetto sofferente
di suo fratello. Parte dell’armatura era stata spazzata via
ed entrambi gli
spallacci erano andati distrutti. L’ingannatore era pallido,
segno evidente di
come avesse usato troppa magia e perso un’eccessiva
quantità di sangue. Si
teneva in piedi più per la propria determinata insolenza che
per altro, decise.
“Ti
sei perso il meglio,” l’informò Lingua
d’Argento con uno scintillio divertito
negli occhi, ma faceva fatica a parlare. “C’era un
mostro. All’inizio pareva
una noiosa ninfa, ma poi… oh, avresti dovuto vederla: aveva
degli artigli
spaventosi,” raccontò stirando le labbra in un
sorriso sofferente. La
difficoltà nell’articolare le frasi non nascondeva
l’entusiasmo per aver ucciso
da solo un mostro tanto orribile, ed era lo stesso di
quand’erano ragazzi e
ogni creatura affrontata e abbattuta era una meraviglia da condividere.
Il re
di Asgard si sporse per cercare di vedere i resti
dell’essere, ma un altro
crollo aveva chiuso definitivamente la sua tomba. Sospirò
scocciato. “Lo vedo
dall’armatura che è stato un incontro
interessante. Vi siete abbracciati? Hai
un aspetto orribile Spero ti sia preso almeno una reliquia.”
“Troppo
seiðr.” Loki s’inumidì le labbra
accostandosi a suo fratello. “Lei… lei
è
incinta,” spiegò, “devo portarla subito
via di qui. Tu…” Raccolse le
parole, aggrottò la fronte. Era stremato.
“Tu
occupati di Theoric, Thor. Non vogliamo che muoia come un eroe, qui
sotto,”
concluse per lui Sigyn.
“Ma meriterebbe di crepare,” sibilò l’ingannatore
gettando un’occhiata al corpo che giaceva poco
distante da loro.
Il
giovane re seguì lo sguardo di suo fratello e vide Theoric
riverso a terra. Un
pezzo d’osso – l’immenso artiglio del
mostro – era conficcato nella sua carne,
vicino alla schiena. Sigyn fissava il ferito a labbra strette; aveva
gli occhi
accesi da un furore inaspettato e il re di Asgard pensò che
il tono secco usato
da sua cognata tradiva una storia che non gli era stata ancora
raccontata, ma
di cui erano intuibili diversi dettagli.
“Ecco
dov’è la tua reliquia,”
commentò con un filo d’ironia rivolgendosi
all’ingannatore.
“Incantevole,
non trovi?”
La
risposta di suo fratello era stata ironica e caustica e Thor lo
fissò negli
occhi. “Non guarirà mai del tutto. Farlo
sopravvivere potrebbe essere una
crudeltà.”
Loki
stirò le labbra mostrandogli i denti bianchi e regolari,
sfoggiando un sorriso
feroce, senza gioia. “Tutti devono qualcosa al dio degli
inganni. Riportagli
suo figlio,” concluse.
Il
tonante spostò lo sguardo su Sigyn e, vedendola appoggiare
silenziosamente il
marito, annuì.
♥
Sonje
sollevò il grosso gatto di pezza e fissò i suoi
occhi fatti con due bottoni.
“Mamma e papà torneranno presto, Tooh. E anche
zio. Tu non devi piangere,”
spiegò con aria grave. Era quasi ora di cena e Freya le
carezzò la testolina
bruna sperando che la smettesse di fare capricci e mangiasse qualcosa.
Consolava
l’animale per tranquillizzare se stessa, ma c’era
una scintilla di fierezza, in
lei, che le fece pensare a Loki.
La
piccola si girò verso la prozia scuotendo la testa,
trattando. “Cinque minuti, ancora
cinque minuti!” supplicò preparando delle lacrime
strazianti.
Sigyn,
ricordò la donna, era stata una bambina più
tranquilla, mite, silenziosa.
Bastava darle un libro e si metteva a leggere per delle ore,
addormentandosi
col volume tra le dita. Freya all’epoca aveva lodato il
carattere obbediente
della nipotina, ma si era chiesta che destino l’attendesse e
quale uomo avrebbe
potuto farle da marito. Aveva creduto che un nobiluomo cortese e
gentile riuscisse
a farla felice e non si era opposta affatto quando Theoric aveva
chiesto di
fidanzarsi con lei. Chi altri avrebbe potuto invaghirsi di una
ragazzina troppo
seria com’era lei?
Il
più improbabile e meno indicato di tutti: Loki. Il feroce
Ase che si era trasformato
nel padre di una bimbetta a cui persino la figlia di Njord trovava
difficile
dire di no, specie se entrambe non desideravano altro se non vedere le
ombre di
Sigyn e dei due Æsir spuntare dalle macerie del Tempio.
“Sonje,
non puoi restare qui, andiamo,” mormorò con un
filo di voce prendendole la
mano. La bambina obbedì trascinandosi dietro
l’inseparabile animale di pezza e
mettendo svogliatamente un piede davanti all’altro, ma prima
di arrivare alla
tenda della donna si voltò un’ultima volta e
proruppe in un grido estasiato.
Erano
tornati.
La
bambina corse incontro ai genitori e puntò senza esitazione
alcuna l’adorato
padre. La penosa risalita aveva messo a dura prova Loki; il pallore che
rendeva
ancora più affilati i suoi tratti era evidente e non
riusciva più a nascondere gli
effetti del colpo inferto dal mostro, ma questo non impedì a
Sonje di avvicinarglisi
e buttargli le braccia al collo scoccandogli un sonoro bacio sulla
guancia,
felice che fosse tornato. Fu Thor a venire in soccorso del dio degli
inganni; prese
in braccio la bambina, mentre, con l’altro, sostenne appena
il fratello e
imboccò la direzione che conduceva alla tenda dei guaritori,
seguito dappresso
da Sigyn. Vedendo la madre con i capelli corti Sonje scoppiò
in un pianto
rapido e breve – amava toccare le lunghe ciocche bionde e
s’incantava nel
vedere come fossero simili all’oro delle collane, identica,
anche in questo, a
suo padre.
“Ricresceranno,”
la consolò Thor, gettando un’occhiata divertita
alla smorfia dipinta sul volto
affilato suo fratello, anche lui profondamente indispettito per la
drammatica
perdita dell’incantevole capigliatura d’oro della
principessa dei Vanir.
♥
Era
scesa la notte, ormai. Sigyn trasse un lungo, lento respiro:
l’incubo era
finito. Stava bene. Era stata visitata e le sue condizioni, salvo un
paio di graffi
e di lividi che le erano stati prontamente medicati, erano
più che buone.
Nonostante il terrore provato e la caduta, anche il bambino stava bene.
Era
opportuno che trascorresse per precauzione qualche giorno a letto,
tutto qui. E
Loki era già in piedi, ovviamente. Aveva preso a girare per
l’accampamento con
un braccio appeso al collo, come se niente fosse. Di fronte alle sue
perplessità
circa la mancanza di riposo cui si costringeva il marito, Thor si era
stretto
nelle spalle. “È un Ase e un guerriero
valoroso,” aveva commentato laconico.
A
Sigyn si era stretto lo stomaco. Non aveva mai visto suo marito nelle
oscure
vesti di mago. Le era capitato diverse volte di vedere il dio degli
inganni
tornare da una battaglia e, in un paio di occasioni, il principe era
stato
ferito in maniera anche abbastanza seria, ma non lo aveva mai osservato
mentre
usava il seiðr per offendere né uccidere i propri
nemici. Si era sentita male
quando, tronfio e pieno di sé come al solito, aveva offerto
in dono a Njord
nientemeno che un serpente marino e lui l’aveva canzonata
bonariamente, ma
questo accadeva molti anni prima, quando ancora lei e quello che
sarebbe
diventato suo marito neanche litigavano ai banchetti.
“Piccola
principessa, adesso non ti può fare niente. Dovevi vederlo
prima,” le aveva
detto sfoggiando il suo sorriso di lupo.
Un lupo.
Al ricordo, il suo cuore perse un battito: presa com’era dal
desiderio di
mettersi in salvo assieme alla propria famiglia, Sigyn aveva relegato
in un
angolo della mente la profezia fatta dal mostro prima di morire. Si
toccò la
pancia dove cresceva suo figlio: davvero avrebbe dato alla luce colui
che sarebbe
stato in grado di distruggere Loki? Sentì il palato farsi
secco, la bocca amara.
Per un momento la creatura dentro di lei le apparve estranea
– il figlio
maschio del dio dell’inganno, un uomo che, a sua volta, si
era macchiato della
colpa di aver ucciso il proprio padre naturale e combattuto contro
quello
adottivo. La scia di sangue che legava tra loro Odino, Laufey e Loki si
sarebbe
allungata coinvolgendo anche lei, loro, Sonje, il piccolo senza nome?
Erano
maledetti, costretti a ripetere i loro errori?
Si
sedette lentamente sul morbido giaciglio della tenda, chiedendosi
quanto dolore
le avrebbe riservato il futuro, se l’amore potesse frenare
una catena
inevitabile di eventi, cosa Loki pensasse davvero
del vaticinio cui
aveva risposto con tanta leggerezza e perché il mostro
voleva lei. Cosa
avevano interrotto distruggendo il Tempio retto dalla Sacerdotessa
Sublime, la
cui morte era ancora impressa nella sua mente?
Il
flusso di pensieri e ricordi venne bloccato dall’entrata
nella tenda del dio
degli inganni in persona, seguito a ruota da Sonje, che gli saltellava
attorno
entusiasta e lo tirava per la lunga giacca.
“Ho
parlato con i guaritori,” annunciò diretto.
Lei
annuì, pronta ad accogliere tra le sue braccia la bambina,
in cerca di un bacio
e un abbraccio. La strinse a sé respirando il suo profumo
dolce, di biscotti e
infanzia. La profezia era sempre lì, in un angolo del suo
cuore, spaventosa.
“Mamma,
tu e papà avete fatto pace, dovete baciarvi,”
ordinò la bimba, “l’ha detto zio
Thor.”
Sigyn
lanciò un’occhiata interrogativa al marito e
l’Ase, sospirando, si avvicinò
alla branda dove lei era seduta.
“Da
quando obbedisci alle richieste di tuo fratello?”
domandò lei inarcando un
sopracciglio.
“Tua
figlia non mi lascia in pace,” spiegò il dio degli
inganni tra i denti, “ed è
una proposta che non trovo poi così
sgradevole,” ammise. Le mise una
mano sulla nuca scoperta e l’attirò a
sé, baciandola, finalmente, sulle labbra,
ghermendole un sospiro. Si guardarono negli occhi e l’Ase
vide un’ombra scura
negli occhi di sua moglie. Sigyn abbassò il capo e Loki si
rivolse alla figlia
col tono grave che usava quando voleva spiegarle qualcosa
d’importante o
desiderava che le obbedisse.
“Adesso
vai da tuo zio, ho bisogno di parlare da solo con la mamma.”
Sonje
sarebbe voluta rimanere con i genitori, ma annuì con una
certa riluttanza e,
dopo aver riempito Sigyn di baci, si decise a imboccare
l’uscita della tenda.
L’ingannatore
seguì con lo sguardo la bambina finché non vide
che Thor l’intercettava. “Si
chiamerà Vali,” esordì guardando sua
moglie negli occhi. “Avrà i tuoi colori.”
Lei
si accarezzò il ventre piatto. Voleva chiedergli cosa
avrebbe preso da lui,
invece. “Ti farà del male?”
Loki
non rispose immediatamente. Socchiuse gli occhi e si concesse un lungo
sospiro.
“Le profezie sono oscure e vanno interpretate. Ce ne sono di
orribili su di me.
In effetti, alcune si sono rivelate esatte,”
proseguì osservandola, in attesa
di una reazione.
Sigyn
si guardò le mani piccole e bianche, prive della bella fede
fatta dai Nani. Poi
volse il capo verso di lui. “Cos’hai
visto?”
“Scene
senza importanza e altre che sembravano fondamentali. Ma sono frammenti
di
futuro. Allontanate dal loro insieme sono incomprensibili,
ingannevoli.” Nei
suoi occhi verdi scintillò una luce feroce e Sigyn si chiese
con un brivido se
Vali avrebbe ereditato quello sguardo. “Dimmi quello di cui
hai paura,”
l’incalzò lui.
“Tu
hai ucciso Laufey. Tu hai combattuto Odino. Lui combatterà
te? Che voleva dire?”
Loki
s’inumidì le labbra, in cerca di un modo semplice
per spiegarle un concetto
ostico su cui lui aveva riflettuto per anni senza giungere a una reale
soluzione. Infine, trovò l’esempio calzante.
“Per
Sonje sei quasi morta. Se ti avessero fatto una profezia su di lei,
sarebbe
venuto fuori che tua figlia ti avrebbe quasi uccisa due volte. Sono
solo
parole,” concluse sfiorandole le dita e intrecciandole con le
sue.
Al
ricordo del parto e dello scampato processo, gli occhi di Sigyn si
fecero
lucidi. “E sarei morta, per lei. La amo più di me
stessa,” gli confessò. Fece
una pausa e poggiò la testa sulla spalla sana del marito.
Lui la lasciò fare.
“Perché
mi aspettava? La principessa incinta di un re straniero,”
ripeté.
“Le
era stato promesso che, se ti avesse incontrata, sarebbe stata libera. In
effetti è
così, non è più prigioniera.”
Sigyn
sospirò accigliandosi. “Non è la
verità. Non tutta, almeno.”
“Non
eri tu. È Vali. È lui che temevano. Non volevano
che nascesse.” Loki sciolse
l’intreccio delle loro dita e le sfiorò il ventre
snello. Sentì la nuova vita
che cresceva in lei e aveva già visto.
“Perché?”
l’incalzò la dea della fedeltà.
“Perché
per difenderlo avremmo distrutto il loro ordine. Perché lui
è legato a Vanheim
in un modo che noi non comprendiamo ancora e che a
loro non piaceva.”
“Prima
dicevi che le profezie sono solo parole,” mormorò
Sigyn alzando appena la testa
dorata per guardarlo negli occhi.
“Dicono
che nostro figlio sia il lupo della profezia,” ammise Loki,
“quello che distruggerà
il mondo così come lo conosciamo. La Sacerdotessa e quelle
prima di lei desideravano
mantenere l’ordine e difenderlo dal caos. È il
prezzo da pagare per avermi
sposato, temo. Un destino avvelenato. In fondo, io scatenerò
il Ragnarok,
Sigyn. Ma che significa, davvero? Nostro figlio non
può essere da meno. Non
fidarti delle profezie: se ci crederai, si risolveranno nel peggiore
dei modi.”
“Tu
menti e vuoi solo consolarmi.”
“Tu
hai sposato il dio degli inganni e hai scelto di essere la madre dei
suoi
figli. Sei coraggiosa, piccola Vanir.”
♥
“Un’altra
volta! Raccontamela un’altra volta!”
Nonostante
l’ora tarda, Sonje era ancora sveglissima. Gli occhi verdi e
vispi
scintillavano d’ammirazione per la storia magnifica che Thor
le aveva
raccontato già tre volte, facendo ben attenzione a usare
sempre le medesime
parole. La bambina stringeva tra le braccia il grosso gatto di pezza e
non
riusciva a stare ferma con i piedi. Colpa della comparsa scenica dei
suoi
genitori e della notizia magnifica che l’aveva riempita
d’orgoglio.
“Com’è
avere un fratello, zio Thor?”
Una
gran seccatura, una che non t’immagini neanche, avrebbe
voluto rispondere il re
di Asgard. Invece, l’Ase si limitò a scompigliare
i ricci neri della nipote.
“Vi
divertirete un sacco, insieme,” predisse fiducioso, lanciando
un’occhiata alla
tenda semiaperta dove si intravedeva la testa bruna del dio degli
inganni e
parte della sua spalla fasciata. Rannicchiata accanto a lui, con la
testa
posata sul braccio sano, dormiva Sigyn. Thor sapeva benissimo che suo
fratello
stava astutamente fingendo di dormire. Gli tornò alla mente
una conversazione
antica, avuta in una fredda alba, ad Asgard.
“Come
tu e papà?”
“Ma
certo, piccolina,” la rassicurò e, con stoica
pazienza, prese a raccontare per
la quarta volta e forse non ultima volta di come l’astuto dio
degli inganni
fosse riuscito, da solo, a
espugnare
il Tempio e a salvare la sua sposa prigioniera e tutte le altre donne
lì
rinchiuse, arrivando persino a uccidere un orrendo mostro.
Loki,
poco distante, socchiuse appena un occhio e valutò che suo
fratello era un
pessimo narratore e che il motivo del suo fascino era racchiuso nel suo
ristretto pubblico: una bambina che non aveva ancora sviluppato il buon
gusto e
mostrava per il tonante una dubbia predilezione e un gatto di pezza
che, per
sua fortuna, di stoffa aveva anche le orecchie. Quasi senza
accorgersene,
lasciò scivolare una mano sulla pancia piatta e tesa di
Sigyn e così
s’addormentò.
Continua?
L’angolo
di Shilyss
Care Lettrici e
cari
Lettori,
Anzitutto, grazie
e scusate.
Scusate per aver aggiornato dopo un anno esatto dall’ultimo
capitolo, grazie
per aver avuto fiducia nel fatto che finissi questa storia.
Significa tanto
♥, soprattutto in
questi giorni. Scrivendola ho scoperto di amare immensamente
quest’universo che
ho creato e Sonje e Vali, tanto che ho deciso di proseguire
“Giochi pericolosi,”
che è il diretto seguito di questa storia. Avendo tante long
in ballo non sarà
semplicissimo, ma… ho fiducia. E spero di sentire il vostro
sostegno ♥♥ è
importante, davvero.
Per questo
capitolo il merito va al
pungolamento di Ciop ♥: con insistenza,
pazienza e intelligenza mi ha
convinta a mettere la parola fine alla storia del tempio.
Come avrete
notato, non ho chiuso la
raccolta. Questo perché sono previste altre due shot (nel
progetto originario erano
plottate) quindi… può darsi che le troverete,
ecco.
Sul finale: Loki doveva
salvare Sigyn e l’ha
salvata, ma Theoric non è morto. So che lo volevate vedere
stecchito, ma Loki gli
ha riservato una fine peggiore. Gli ha salvato la vita e lui non
guarirà mai
del tutto dalle sue ferite. In questo modo non sarà mai un
eroe. Sul tempio:
Sigyn e suo figlio dovevano essere divorati dal mostro
perché su Vali pesa una
maledizione, un presagio. È un qualcosa che viene accennato
appena e troverà
spiegazione in Giochi
pericolosi. Vi ho dato un bello spoiler, sappiatelo.
Per ulteriori
info, tante foto di
Loki, di Sigyn e di Tom e un po’ di divertimento…
c’è la mia pagina facebook
♥ https://www.facebook.com/Shilyss/
. Sbirciate pure nel mio profilo per leggere altre storie: vi consiglio
la
madre di questa saga, “Tutte
le tue
bugie” l’ultima Scintille
nel
buio , ormai ufficialmente una long! ♥
^^. Tra l’altro anche questa
storia parla di Sigyn e di un ordine religioso, ma in verità
questo è un mio
kink e le due storie non hanno niente in comune. ^^
Ricordo che
Vanheim, il Tempio, così
come sono intesi e descritti, con questo ordinamento sociale, politico
e
culturale sono una mia idea: vi pregherei di non utilizzarla
♥. Anche il
personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su Wikipedia,
è una mia personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Questo è un
enorme “What if.”
Il personaggio
di Sonje è un
mio OC, il personaggio di Vali no, ma
ciò che vale per Sigyn vale anche
per lui.
A presto e
grazie per tutto
l’affetto/sostegno/cose – e continuate a
sostenermi, non m’abbandonate in una
valle di lacrime XD,
Shilyss
|
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Capitolo 10 *** Forse era scritto nel destino - parte 1 ***
Forse era
scritto
nel destino
Via
del Campo, c'è una bambina
Con
le labbra color rugiada
Gli
occhi grigi come la strada
Nascon
fiori dove cammina
(Via
del Campo, Fabrizio De Andrè)
Parte 1
Sonje sapeva
essere
furtiva quasi quanto il suo splendido papà. Certo, non
possedeva ancora la
cautela e la grazia del genitore, né tanto meno il suo passo
felpato, ma quando
voleva riusciva già a passare inosservata. Ad aiutarla
inconsapevolmente
nell’impresa ci pensava Vali, su cui, nelle ultime settimane,
si erano
concentrate quasi tutte le attenzioni della casa. Era un bimbo
adorabile, ma
quando stringeva i pugnetti e iniziava a piangere disperato –
o, per essere più
precisi, a strillare come un’aquila venuta giù da
Helheim per fracassarci i
timpani, come sibilava Loki tra i denti, la casa tremava. E lei,
trotterellando
col suo fedele gatto di pezza tra le braccia,
ne approfittava per riflettere su tutto quello che gli adulti non le
dicevano e
per scivolare, non vista, lungo i corridoi arredati con gusto dello
splendido palazzo
circondato dai giardini che Loki aveva scelto per vivere con Sigyn.
Sonje avrebbe
scoperto solamente da adulta certi dettagli circa il modo in cui i suoi
genitori si erano sposati e ci sarebbero voluti ancora molti anni,
affinché
capisse che alcune scelte architettoniche richieste esplicitamente dal
dio
dell’inganno avevano il preciso scopo di ricreare il gusto
sobrio e barbaro e
splendido della magnifica Asgard.
Quel pomeriggio,
la
bambina scelse come meta della sua missione un luogo che generalmente
non le
era affatto precluso, anzi: era uno dei posti che preferiva di tutto il
palazzo,
dove si infilava appena poteva, ma che manteneva un suo fascino
particolare,
perché, pur essendole familiare, era pieno di dettagli e di
oggetti che non
capiva o, al contrario, che desiderava toccare: la camera da letto dei
suoi
genitori. C’era quel profumo, innanzi
tutto. Quello di sua madre Sigyn,
della sua pelle, che proveniva dalle boccette di cristallo ordinate con
cura
davanti alla allo specchio della toletta. E poi c’erano le
coperte morbide, le
pellicce candide dal pelo soffice disposte alla fine
dell’elegante baldacchino.
Sonje avanzò nella stanza calpestando il tappeto intrecciato
a mano dagli Elfi
chiari con le loro dita pazienti, mostrando a Gatto Tooh, che con i
suoi occhi
a bottone e il suo sorriso indecifrabile pareva registrare ogni cosa,
la
bellezza delle tappezzerie scelte da Sigyn, sfiorando con le sue manine
di
bambina gli intarsi raffinati dei mobili che abbellivano le ampie
pareti.
C’erano anche gli effetti personali del dio
dell’inganno, ovviamente. Non i più
pericolosi e gli artefatti magici, ovviamente – quelli
l’Ase li teneva
sottochiave, nel suo studio privato, ma alcuni mantelli pregiati, le
numerose
tuniche verdi ricamate con un bordo dorato, le corazze di pelle nera
intrecciata, gli stivali di cuoio alto, le bandoliere
all’apparenza vuote, ma
dove, se avesse frugato, avrebbe senz’altro trovato qualcosa.
Il dio
dell’inganno e la
principessa sua moglie erano al piano inferiore, nel salone che usavano
per
ricevere gli ospiti. Sapevano Sonje in compagnia della bambinaia ed
erano
impegnati a ricevere certi ambasciatori elfici venuti a vedere il
figlio
maschio di Loki Odinson. Un frugoletto piangente che sembrava
assomigliare ora
alla madre ora al padre, col merito manifesto di aver tolto un
po’ del
fascinoso contegno all’ingannatore. Le notti in bianco
avevano reso sia lui che
Sigyn più stanchi e scarmigliati del solito, anche
perché la coppia non si era
ancora decisa ad affidare Vali a una balia. E mentre rispondevano alle
cortesi
domande degli illustri ed eleganti ospiti, non potevano sospettare che
la loro
adorabile e pestifera primogenita fosse intenta a sfoggiare, del tutto
inconsapevolmente, l’indole piratesca degli Æsir.
C’era qualcosa di più
attraente delle giubbe di suo padre, nella camera da letto dei suoi
genitori. I
cofanetti in cui Sigyn teneva i propri gioielli. Qualche volta Sonje
aveva
avuto modo di sbirciare al loro interno. Quando la sua bella mamma dai
capelli
d’oro doveva prepararsi per andare a qualche festa o per
accogliere il suo papà
che tornava da qualche avventura, si sedeva di fronte allo specchio
della
toletta e si provava a una a una le sue gioie splendenti, molte delle
quali le
erano state regalate da Loki in persona. Sonje adorava osservarla
mentre si
vestiva e ingioiellava: desiderava essere già grande per
potersi abbellire con
gli stessi monili, con gli abiti dalle stoffe soffici e preziose.
Qualche
volta, ridendo, Sigyn, che era ancora poco più di una
ragazzina, le infilava
qualche collana delicata o le spolverava un po’ di cipria sul
naso, ma le aveva
vietato severamente di aprire i cofanetti da sola o di frugare. Ma in
quel
momento Sigyn non c’era e Sonje si ritrovò a
ringraziare quel piccolo diversivo
che era Vali, perché le avrebbe permesso di aprire i
portagioie indisturbata.
Non sapeva
ancora se il
fratellino le piacesse o meno. Da quando era nato l’avevano
riempita di regali,
coccole e attenzioni, ma Vali piangeva troppo e troppo spesso e la sua
dolce
mamma era sempre stanca. Si chiedeva come avesse fatto a uscire dalla
sua
pancia rotonda e che intendesse lo zio Thor, quando diceva che il suo
papà
aveva l’aria stravolta. Fece spallucce e si avvolse nella
vestaglia di
finissima seta di Sigyn. Poi posò il suo fedele alleato di
pezza con gli occhi
fatti a bottone sulla toletta e aprì il cofanetto
più grande e lontano,
rivelando le meraviglie dell’oreficeria che Sigyn vi
custodiva dentro. Per
prima tirò fuori una splendida collana di perle impreziosita
con opali e
smeraldi; poi fu il turno di un diadema tempestato di diamanti e
zaffiri blu,
bianchi e gialli. Infine esaminò i bracciali in cui si
alternavano ametiste,
smeraldi e diamanti scintillanti e degli anelli le cui fogge
ricordavano spesso
gli intrecci dei rami carichi di fiori e di frutti. Sigyn era una donna
minuta
e sottile, non particolarmente alta. I preziosi che preferiva indossare
erano
piccoli capolavori d’oreficeria, leggeri ed eleganti. E Loki,
che, come tutti
gli Æsir, adorava le gemme e aveva un gusto spiccato per i
gioielli, provava
una profonda soddisfazione nel regalarle le pietre più pure
e belle e nel farle
dono di preziosi che commissionava e disegnava lui stesso, quando non
li
forgiava di persona.
Sonje s’infilò tre
collane una sull’altra e storse la bocca in una smorfia
pericolosamente
somigliante a quella del genitore, quando si rese conto che gli anelli
stupendi
di Sigyn erano ancora troppo grandi per essere indossati.
Però quella cascata
di oro, perle e gemme luccicanti che faceva risaltare i suoi riccioli
neri la
riempì di orgoglio. Desiderosa di trovare altre meraviglie
da indossare tirò
fuori spille, orecchini, diademi e decine di altri monili, ignara del
caos che
stava gettando nel cofanetto. Dopo che l’ebbe completamente
svuotato, si dedicò
con perizia a uno più piccolo, di semplice legno intarsiato,
dove Sigyn teneva
i gioielli che indossava abitualmente. Era quasi vuoto e Sonje
s’imbronciò, ma
poi la sua attenzione fu catturata da un piccolo cassettino in fondo
allo
scrigno. Lo aprì e inarcò un sopracciglio,
imitando, di nuovo, l’affascinante
dio dell’inganno. C’era una penna per scrivere,
dentro. Nient’altro. La prese
in mano, soppesandola. Era bella. Diversa da tutto il resto –
strana – decise,
aggrottando le sopracciglia. La piuma era nera, abbellita con delle
pietre
scure alla base. Come se non bastasse, c’erano delle rune
incise sopra. Si
trovava di fronte a un oggetto fatto a mano dai giganti di ghiaccio,
con una
sua ricca storia, ma non lo sapeva né era in grado di
riconoscerla.
L’intrinseca diversità di quell’oggetto
era l’unica cosa che risultasse chiara
ai suoi occhi di bambina. Se fosse stata più grande, avrebbe
ravvisato che in
quella penna preziosa e un po’ pesante dal deciso gusto
barbaro non sembrava
una cosa scelta da sua madre, ma mentre era ancora intenta a valutarla,
la voce
di Sigyn la riportò alla realtà.
“Sonje!
Che cosa stai
facendo?!” Sobbalzando, la bimba fece cadere a terra la
penna.
♥
“La
conservi ancora.” Non
era una domanda, ma una constatazione. Sigyn sollevò le
ciglia scure sul
riflesso dello specchio, da dove l’immagine di Loki Odinson
sfoggiava un
sorriso tronfio. Era ancora vestito di tutto punto dopo aver fatto
finta di
sgridare la loro primogenita e trovato un modo efficace per far
addormentare
Vali.
Sigyn
inarcò la schiena
coperta appena da una vestaglia di seta leggera. La ricca chioma dorata
era a
malapena fermata da un nastro di raso chiaro e tra le dita teneva le
perle che
Sonje aveva indossato e intrecciato tra loro. Ma ciò a cui
si riferiva il dio
dell’inganno non erano i gioielli di squisita fattura o le
gemme non ancora
incastonate che splendevano davanti a lei, no. Era la penna finemente
intarsiata dalla lunga piuma nera.
“Scrive
molto bene.”
“Credo
sia la stessa
scusa di allora.” Prima che lei potesse rispondere, si
avvicinò alle sue spalle
e si sporse appena. Due grosse gemme color dell’acqua
sfioravano dei quarzi
violacei, creando un contrasto interessante. Nel caos, a volte, era
possibile
rintracciare disegni perfetti, trovare la bellezza.
“Disegnerò qualcosa per
queste pietre,” aggiunse, soffiandole sul collo esposto e
reattivo, come se
l’argomento appena evocato potesse svanire, essere riposto
nel cofanetto dove
Sigyn l’aveva nascosto con cura. La principessa Vanir
annuì. Loki investiva in
gioielli, oro e terre per accrescere il proprio potere: per disporre di
qualcosa da rivendere all’occorrenza, per creare
proprietà terriere allodiali. Molto
prima di sposarla – al tempo in cui seguiva suo nonno Njord
con quella medesima
penna scura tra le dita per appuntarsi le disposizioni del vecchio
sovrano e
non dimenticare nulla, possedeva già mezza Vanheim per
averla acquistata dai
membri della vecchia nobiltà caduti in disgrazia, dai
mercanti poco accorti, da
chiunque non riuscisse a resistere al fascino delle sue trattative.
Sonje e
Vali, nonostante la giovanissima età, possedevano
già molte di quelle terre e
forzieri zeppi d’oro. I piani del dio dell’inganno
variavano di minuto in
minuto, ma certe mosse prevedevano una pianificazione lunga e
oculatissima.
“Dormono
tutti e due,” le
sibilò all’orecchio, facendo scorrere le dita
sulla seta che le copriva le
spalle. La vestaglia scivolò rivelando la pelle nuda e Sigyn
fremette – fremeva
sempre, quando Loki le si avvicinava, fin da allora.
Solo, non lo voleva
ammettere.
Socchiuse gli
occhi,
mentre le labbra ironiche del dio dell’inganno le sfioravano
la pelle sensibile
e reattiva del collo e le mani scendevano lungo la camicia da notte di
seta,
accarezzando i seni rotondi, ghermendoli e sfiorandone le punte
reattive sotto
la stoffa. La voleva. Sigyn strinse le gambe,
sciogliendosi a quel tocco,
volgendosi verso di lui per sfiorargli la bocca con un bacio leggero e
insolente,
carico di promesse come lo sguardo velato di desiderio che gli
lanciò – era
impaziente come lui. E avevano poco tempo a disposizione, come nei
primi tempi
della loro burrascosa relazione, quando si davano appuntamenti segreti
e litigavano
in pubblico per non essere scoperti. La penna dalla lunga piuma nera
c’era già,
allora – c’era da molto prima, da quando, per lei,
Loki era solo un fremito
basso e indefinito, che nascondeva accuratamente, senza nemmeno
rendersene
conto, sotto uno strato di fredda indifferenza. Ma poi
quell’involucro si era
crepato – il dio dell’inganno girò la
sedia della toletta per averla davanti a sé
e s’inginocchiò sul morbido tappeto tessuto a mano
dagli Elfi, scostandole le ginocchia
già frementi, affondando la testa tra le sue gambe,
sorprendendola con le sue
carezze sfacciate e improvvise, a cui era impossibile resistere. Non
attesero di
raggiungere il grande letto, ma consumarono l’amore
lì, ai piedi della toletta,
con la furia e l’urgenza degli amanti, soffocando i sospiri
che avrebbero
potuto tradirli – come allora.
Dopo, raggiunto
il
baldacchino, l’Ase ne approfittò per far scorrere
la morbida piuma nera sulle
curve sinuose di Sigyn, accarezzandola dalla base del collo al seno,
scendendo fino
ai fianchi rotondi e alle gambe scoperte e strappandole un ansito
divertito.
“Smetti
di usare la mia
penna. Me l’hai regalata.”
“No, tu
l’hai
sottratta con l’inganno e io te
l’ho ceduta in uno slancio di
generosità,”
puntualizzò lui. “Non ricordi?”
Era una
ragazzina
sgraziata, allora. Insicura, impacciata, preoccupata del poco seno
stretto dal corsetto,
dei capelli folti e crespi, degli abiti inadatti che Freya si ostinava
a farle
indossare per farla sembrare ancora una bambina quando lei
già si sentiva una
ragazza. Non era vero e, col senno di poi, Sigyn sapeva che la sua
scaltra zia aveva
tentato di proteggerla dalle rigide regole di Vanheim il più
a lungo possibile
– le donne della sua terra non erano libere come quelle di
Asgard.
Loki aveva
chiesto asilo
a Njord offrendo in cambio i suoi servigi e infilandosi nel letto di
Freya già
da alcuni anni ed era in guerra con Odino e Thor: avrebbe trionfato,
costringendoli a patteggiare e a firmare un trattato di pace in cui si
sarebbe
manifestata la prima avvisaglia della malattia degenerativa che avrebbe
condotto Padre Tutto alla morte.
L’ingannatore lavorava con un’energia e una
determinazione ammirevoli,
contentandosi solamente di trascorrere qualche sera in totale
solitudine, con
un calice di buon vino e un bagno caldo e rigeneratore. Sembrava che
ogni cosa
dovesse passare o riguardasse lui, che sommava incarichi su incarichi.
Attirava
su di sé l’invidia e l’odio della
vecchia aristocrazia sclerotizzata, delle
famiglie nobili più giovani e scalpitanti, ma
finché otteneva dei risultati
nessuno poteva lamentarsi di lui presso il re dei Vanir. E, chi lo
faceva,
temeva le sue vendette spietate e repentine.
Sigyn sentiva
continuamente storie e racconti terribili su quel giovane uomo dal
sorriso
indecifrabile che spesso incrociava in biblioteca. Quand’era
più piccola, Loki
l’aveva deliberatamente spaventata più di una
volta, mutando aspetto
all’improvviso per il solo gusto di leggere il terrore nei
suoi occhi,
ma per il resto non la riteneva interessante e, apparentemente, si
accorgeva a
stento di lei. Non era del tutto vero, di questo Sigyn avrebbe avuto
contezza
solo una manciata di anni dopo. In quanto nipote del re dei Vanir era
un membro
della famiglia importante da tenere d’occhio con discrezione,
esattamente come
tutti gli altri.
Sigyn era
mattiniera,
soprattutto in estate. Un giorno commise l’imperdonabile
errore di scendere in
biblioteca in camicia da notte e vestaglia, prima che le sue cameriere
personali le avessero acconciato i capelli. L’alba aveva
appena tinto di rosa
il cielo, la servitù assonnata non aveva ancora iniziato le
proprie faccende. Era
assolutamente certa che non avrebbe incontrato nessuno. La porta non
cigolò
quando l’aprì e le sue scarpine di mussola
attutirono il rumore dei suoi passi.
Gli scaffali colmi di libri le nascosero l’angolo dove erano
posizionate le
scrivanie finché non si trovò davanti quella
meglio disposta, occupata da una
pila di libri, scartoffie, pergamene e mappe srotolate bloccate da dei
pesanti
fermi in ferro.
Loki Odinson
alzò gli
occhi verdissimi, cerchiati di scuro e arrossati per via del lungo
studio, su
di lei. In mano stringeva la lunga penna dalla piuma nera. Sul viso
affilato e
stanco comparve una smorfia di dispetto e un momentaneo stupore. Non
l’aveva
riconosciuta immediatamente, con quella massa dorata che le ricadeva
sulle
spalle. Lo aveva interrotto mentre lavorava – e lavorava da
tutta la notte,
senza dubbio. Sentì il suo sguardo affilato che la scrutava
da capo a piedi e
poi, a fatica, si distoglieva da lei per tornare sulle righe scritte
fittamente.
Aveva trascorso
la notte
in bianco. Gli impegni della giornata, numerosi e complicati, che
dipendevano
unicamente da lui, sebbene fosse Njord a sfoggiare la corona e a sedere
sul
trono, si affastellavano nella sua mente insieme alla presenza
fastidiosa di
quella ragazzina. Dell’unica erede di Vanheim. Un pensiero
maligno gli
attraversò la mente svelta, uno che aveva già
fatto, ma che ora, vedendola nella
luce soffusa dell’alba, si fece concreto. Solo che Njord non
gliel’avrebbe mai
lasciato fare ed era una bassezza.
“Pensavo
non ci fosse nessuno,”
boccheggiò lei, a disagio. Poteva intuire quanto fosse tesa,
sentire il suo
respiro corto. Se qualcuno fosse entrato in quel momento, cosa avrebbe
pensato,
supposto, raccontato? Si mosse a disagio sulla sedia, immaginando tutti
i
risvolti che il suo spirito carico di malizia poteva contemplare e che
Sigyn,
educata come tutte le Vanir, non avrebbe colto.
“Una
valutazione errata,
principessina. Dove sono le vostre dame, le cameriere?”
“Non
lo so, dormono
ancora, credo,” rispose Sigyn, cauta. Si mosse verso di lui,
in direzione di
uno scaffale. Prese un paio di libri, li strinse contro il seno piccolo
e
morbido. Presto avrebbe avuto dei pretendenti, valutò Loki.
Nel giro di un paio
d’anni al massimo, quella ragazzina guardinga si sarebbe
fidanzata. “Perché vi
importa? E perché vi infastidisce che io sia nella mia
biblioteca, Lingua
d’Argento?” Lo disse fremendo, sputando
quell’appellativo come fosse un
insulto. Come aveva visto e sentito fare da tutti, i suoi zii compresi.
Loki
s’inumidì le labbra,
posò la penna. Sigyn era pericolosa. Se una cameriera
distratta fosse entrata
nella biblioteca e li avesse trovati insieme, cosa sarebbe successo?
Uno
stupido incontro casuale avrebbe potuto trasformarsi in una
chiacchiera, in un
pettegolezzo difficile da arginare, che avrebbe potuto mettere a
repentaglio il
lavoro di anni nel momento più delicato di tutti. Quello del
trattato con
Asgard che ridefiniva accordi commerciali, ristabiliva confini, segnava
una
nuova epoca. Lo aveva visto accadere altre volte – aveva
fatto in modo che
alcuni suoi nemici venissero travolti da scandali simili. La voce
iniziava con
loro due nella biblioteca e, passando di bocca in bocca, certi dettagli
innocenti si ingigantivano. Lei in tenuta da notte, all’alba,
con lui. A quante
inquietanti distorsioni si prestava una scena simile? Come ne avrebbero
approfittato i suoi molti nemici?
“Non
è adeguato farvi
trovare in tale abbigliamento.”
L’unica
erede di Vanheim
sgranò gli occhi. Non possedeva la malizia di Loki e non
aveva pensato a quanto
il loro incontro casuale potesse essere fraintendibile. E poi, Sigyn
era
assolutamente certa di non essere bella.
L’Ase
raccolse i suoi
appunti in fretta, chiuse con un paio di gesti secchi i volumi ancora
aperti,
arrotolò le pergamene, pronto ad andarsene. Se la nipotina
di Freya non lo capiva
da sola, non sarebbe stato lui a spiegarle di dover tenere di
più a sé stessa e
al proprio ruolo di nipote del re. E poi, non desiderava suggerirle
–
instillare – nella sua mente, che sapeva già
fervida, l’immagine che lui fosse
un possibile pretendente. Sarebbe bastata una chiacchiera fatta
scioccamente
con una dama di compagnia, una parola fuori posto sfuggita con Freya e
lui si
sarebbe ritrovato con un’accusa per alto tradimento e una
scure tra capo e
collo. Forse non si accorse di aver lasciato lì la penna che
soleva utilizzare
per scrivere. Sigyn, però, vedendola abbandonata sul tavolo,
la prese e se la
rigirò tra le dita, incuriosita, valutandone il peso,
sfiorando la morbida
piuma scura, osservando da vicino, finalmente, gli intarsi, scoprendone
la
delicata lavorazione, le pietre incastonate – agata verde,
spinello, zaffiri
gialli. La penna di un principe dal gusto sofisticato e aristocratico.
La penna
con cui il consigliere di suo nonno, il terribile mago che aveva
gettato nel
caos tutti i Nove Regni, utilizzava per scrivere le sue lettere, per
correggere
le bozze delle leggi che sarebbero state approvate da Vanheim, per
tessere
intrighi. Doveva essere intrisa di seiðr. Fu colta alla
sprovvista da un rumore
improvviso: ripensando alle parole del dio dell’inganno, si
chiese cosa sarebbe
successo se qualcuno, entrando, l’avesse vista in camicia da
notte con qualcosa
che apparteneva a Loki tra le dita. Così, senza pensare, la
nascose nella
vestaglia, rapida.
L’aveva
rubata. A conti i
fatti il suo gesto poteva leggersi unicamente così. Loki
sarebbe potuto tornare
indietro e cercare l’elegante penna e non l’avrebbe
trovata più. Una volta
tornata in camera, non poté fare altro che sfilarla dalla
tasca e chiuderla in
un cassetto della sua toletta, come se scottasse. Perché lo
aveva fatto? Per
paura, per curiosità, per necessità. Non lo
sapeva con precisione, ma nei
giorni seguenti, mentre era sovrappensiero, le tornò in
mente l’immagine di lui
seduto alla scrivania, con i capelli tirati all’indietro
scarmigliati e gli
occhi stanchi, che la metteva a fuoco con malcelata sorpresa. Lo
rivedeva
mentre tracciava appunti su appunti con mano rapida e sicura,
completamente
padrone di sé e delle circostanze. Le sue dame di compagnia
e le cameriere
bisbigliavano tra loro che era bello, suo zio Freyr malediceva il suo
nome ogni
giorno, ma si infuriava se non riusciva a parlare con lui
perché impegnato
altrove. E suo nonno, quando discorreva fittamente con lui, aveva dato
ordine
che non fosse assolutamente disturbato, mai.
Avrebbe dovuto
restituirgliela. In fondo, era come se l’avesse presa per
sbaglio, per
cancellare ogni traccia di un incontro che lui, Loki, aveva giudicato
inopportuno. Lo era? Si chiese se e quanto fosse trasparente la camicia
da
notte che indossava sotto la vestaglia, se lui avesse indovinato le sue
forme
ancora acerbe. Come la vedeva l’ingannatore, come la
percepivano le guardie, i
notabili, la servitù? Cos’era, lei? Chi?
Domande che si faceva già da diverso
tempo, a cui non riusciva a trovare una risposta. Comprese che i suoi
gesti non
erano più neutrali, ma avevano un peso, una conseguenza.
Poteva scegliere chi
essere e come farlo – Loki, in lei, aveva scorto, se non la
ragazza, la donna
che si apprestava a divenire. Soffocò le domande a cui non
riusciva a dare una
risposta esaustiva nella lettura, nello studio che, da sempre,
considerava un rifugio.
Il dio
dell’inganno non
fu l’unico ad accorgersi che Sigyn stava diventando una
ragazza: mentre la
penna dalla bella piuma nera giaceva nascosta dentro un cassetto,
occultata ma
non dimenticata, la giovane principessa ottenne il permesso di
intrecciare meno
fittamente i capelli, di indossare abiti di foggia e colore
più adatti alla sua
età. Fu in quelle settimane che Freya decise di farla
partecipare al suo primo
ballo. Non fu un trionfo, nient’affatto: si
appartò in un angolo senza sapere
cosa fare finché il re suo nonno, indispettito, non
ordinò a Loki di farla
danzare. Sigyn pensò che fosse una scelta infausta,
soprattutto perché a
nessuno era sfuggita la mancanza di spontaneità nascosta in
quell’invito.
Decise di dirgli che aveva raccolto lei la penna e che
gliel’avrebbe ridata, ma
il ballo fu breve, non colse il momento e cercarlo dopo sarebbe stato
strano. Attorno
alla sua persona si affastellavano continuamente questuanti in cerca di
delucidazioni, risposte, promesse, favori. Di lui non bisognava
fidarsi:
manipolava, irretiva, confondeva e usava chiunque gli capitava a tiro.
Si
muoveva con grazia e la sua guida era sicura e decisa –
ripensò alle dita agili
che impugnavano la penna, che sfioravano la stoffa del suo abito,
immaginò la
sua calligrafia appuntita e precisa, come il suo ghigno. Le girava la
testa.
Quella sera,
dopo aver
ballato con il dio dell’inganno, Sigyn si sedette di fronte
alla toletta e
prese, per la prima volta, la bella penna elegante. La usò
per rispondere al
messaggio di un’amica. L’impugnatura era
perfettamente bilanciata, il tratto
preciso e fluido. Alla prima occasione, decise, gliel’avrebbe
restituita –
forse, si convinse, l’aveva presa unicamente
perché era bella e temeva che qualcun
altro la sottraesse.
L’angolo
di Shilyss
Care Lettrici e
cari Lettori del mio
cuore ♥ ♥!
Avevo detto che
avrei ripreso in mano
anche i vecchi lavori ed eccomi qui, infatti, con questa storia in 2
capitoli
(il secondo è praticamente solo da ultimare e penso che lo
metterò a
strettissimo giro) con protagonisti Loki e Sigyn nella
versione di Tutte
le mie bugie, la mia prima long (la trovate a
pagina 3 del profilo).
Non è
necessario averla letta, ma tenete
presente che la Sigyn
che vedete per buona parte del racconto è molto giovane,
alle prese con i
primi turbamenti instillati da un giovane uomo affascinante come Loki,
ma anche
con quella fragilità propria di chi si trova in quella fase
in cui si è adulti
per certe cose e per certe cose no. Poi crescerà,
perché si andrà a raccordare
con quella di Tutte le bugie, ma ‘sto capitolo stava
diventando troppo lungo (poi
mi dite che non mi regolo).
Rispetto ad
altre storie (Accordo,
Scintille) tenete presente che il divario
d’età è maggiore, sebbene nei limiti
della legalità.
Ringrazio con
tutto il cuore chi listerà,
recensirà o semplicemente leggerà questa storia: a parte gli
scherzi (lokini) siete
importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi
mangio. Spesso
non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto
alla mano,
ecco. Per gli aggiornamenti, come dicevo entro la settimana
arriverà la
conclusione di questa storia e poi Ciò che resta
delle tenebre.
Ricordo che il
personaggio di Sigyn,
tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su
Wikipedia, è una mia personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Loki e Sigyn nel mito
hanno dei
figli insieme, Vali e Narvi. Vali me lo sono tenuto, Narvi
l’ho sostituito con
Sonje, personaggio di mia invenzione. Nel mito Sigyn non eredita
proprio
niente, quindi anche qui è una mia idea. Non vi
autorizzo a ispirarvi o
peggio a questa versione o alle altre storie da me postate
né qui né altrove
(peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su
Vanheim,
su Loki o su Asgard stessa. Lo stesso vale per il ruolo di Loki presso
Njord,
per le cariche che Loki ricopre in questa Vanheim. Creare un mondo con
usi e
costumi non è uno scherzo.
Comprendetemi
per queste precisazioni,
ma scrivo su questo fandom dal 2017 e ne ho viste di tutti i colori.
A presto e
grazie per tutto
l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate
me).
Vostra,
Shilyss
|
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Capitolo 11 *** Forse era scritto nel destino parte 2 - La penna nera ***
La
penna nera
If you're
lost, you can look and you will find me
Time after
time
If you
fall, I will catch you, I'll be waiting
Time after
time
(Time after
time, Cindy Lauper)
Parte 2
A pochi giorni
dalla
firma del trattato tra Vanheim e Asgard, la notizia era stata
confermata in
tutti i Nove Regni: Thor aveva assunto il ruolo di reggente e sedeva
sull’Hliðskjálf.
Il trionfo bellico di Loki aveva avuto, come diretta e immediata
conseguenza,
che il detestato fratello e rivale occupasse finalmente il ruolo per
cui era
nato, dimostrandosi la guida di cui gli Æsir avevano bisogno.
In uno slancio di
feroce lucidità, il dio dell’inganno si era reso
conto di non aver fatto altro che
accelerare il processo che si era sforzato di ostacolare per una vita.
Thor
governava il loro popolo, lui era il consigliere di
un re che non si
dimenticava mai di ricordargli il suo posto. Sarebbe potuto tornare ad
Asgard.
Fissare Odino negli occhi – dicevano che, nel giro di pochi
giorni, fosse
diventato irriconoscibile, la sua mente acutissima e brillante ridotta
a una
scatola dove ogni informazione, emozione e ricordo era confusa
l’una con l’altra.
A Sigyn capitò di ascoltare sua zia chiedere al resto della
famiglia cosa
avrebbero fatto, se l’imprevedibile Loki fosse andato via da
un momento
all’altro. La sua voce recava traccia di un freddo timore e
così il suo viso
dall’ovale perfetto: i Vanir avevano dato troppo potere al
dio dell’inganno.
Con la sua ipotetica partenza, loro avrebbero perso, rapidamente come
l’avevano
ottenuto, il prestigio acquisito presso i Nove Regni.
Ma Loki non se
ne andò.
Disse che preferiva il clima di Vanheim, più mite e generoso
di quello di
Asgard, aggiungendo che non aveva ragioni per tornare tra i fiordi. E
siccome
spiegare come mai Sigyn avesse preso la penna sarebbe stato strano e
mentire al
fabbricante di bugie era fuori discussione – i suoi occhi
ironici e taglienti
l’avrebbero smascherata immediatamente e lui
l’avrebbe trafitta con le sue
battute perfide e salaci, continuò a tenerla nel cassetto
della toletta, come
se si trattasse di un qualche artefatto magico. Forse fu per questo
motivo,
perché era la prima a dare un significato differente alla
particolarissima
penna dalla piuma nera, che Sigyn iniziò ad attribuirle dei
poteri particolari.
La usava per tradurre i passi più difficili dei suoi poemi
preferiti o quando
doveva studiare qualcosa di particolarmente ostico, come se
l’intelligenza
vibrante del suo primo possessore fosse stata assorbita
dall’elegante oggetto. Quando
una delle sue amiche o qualche dama di compagnia alludeva alla
circostanza in
cui aveva ballato con Loki, lei alzava le spalle, serrava le labbra.
Com’era
stato danzare con un uomo giovane, forte e bello? Niente di speciale,
tanto più
che Lingua d’Argento si era limitato a obbedire al volere di
suo nonno. Non
gliene faceva una colpa: lei non si sentiva affatto bella e cambiare
gli abiti
e l’acconciatura non era servito a convincerla del contrario.
Loki aveva il
passo
svelto ed elastico di chi ha troppe cose da fare in troppe poche ore.
Il
calpestio dei suoi stivali di cuoio, alti e ben lucidati, risuonava
tetro lungo
i corridoi rivestiti in marmo del palazzo di Njord. Se pure una parte
di lui
avrebbe preferito il familiare scricchiolio del legno ben curato di
Asgard, non
lo dava a vedere. Gli capitò davanti una scena che gli fece
storcere il naso:
Sigyn, la giovane nipotina di Njord, che passeggiava a braccetto con
un’amica e
veniva intercettata dallo sguardo troppo lungo di una guardia.
Lei aveva i
capelli
scarmigliati e rideva per qualcosa che doveva averle detto
l’altra ragazza; con
la mano libera, reggeva le ingombranti gonne da donna che Freya le
imponeva di
indossare, incurante dell’attenzione che catturava.
L’Ase
raggiunse il
soldato e gli si fermò davanti, incrociando le braccia
dietro la schiena. “C’è
chi è finito nelle segrete per molto meno,”
sibilò infastidito. L’uomo
impallidì e batté i tacchi, mettendosi in riga,
come se la postura rigida ed
eretta potesse cancellare il fastidio dallo sguardo del maledetto
ingannatore
che aveva le mani in pasta ovunque.
Sigyn e
l’amica si
girarono come fossero una cosa sola, incuriosite. Lei lo
sfidò con lo sguardo,
schiuse le labbra come se dovesse iniziare a parlare, ma poi si
voltò di scatto
e tirò via la compagna. Accadeva sempre più
spesso.
Ho preso io la
tua
penna. Volevo restituirla prima, ma non ne ho avuta
l’occasione. Sigyn si era
preparata con cura il
discorso da fare. I primi raggi del sole facevano splendere le
altissime
vetrate della biblioteca. Alcune casse di libri, acquistati su
consiglio di
Loki per accrescere il prestigio della collezione di re Njord,
giacevano in un
angolo, ancora imballate, pronte per essere aperte, i volumi catalogati.
Sigyn aprì nervosamente uno dei suoi volumi preferiti di
poesie e srotolò una
pergamena intonsa davanti a sé. Visto che doveva aspettarlo,
tanto valeva
occupare il tempo in maniera proficua, studiando. Si
concentrò sulle rime,
sulle figure retoriche, sulla bellezza dei versi, cercando di trovare
il
corrispettivo migliore nella sua lingua, ma era inquieta, nervosa.
S’immaginò
il sorriso sornione che Loki le avrebbe rivolto – davvero
non ne aveva avuta
mai l’occasione? Cos’è,
le ripeteva la voce immaginaria del dio
dell’inganno nella sua testa, avevi paura di
avvicinarti a me o ti faceva
piacere avere nella tua camera da letto un mio trofeo?
È che
sei crudele,
spietato, bugiardo. Di te non ci si può fidare. Potevi lasciarla in
biblioteca mesi fa,
allora, anziché usarla per scrivere lettere e appunti.
È bella, bellissima.
L’ho desiderata per me e temevo la vostra reazione, si
giustificava lei nel suo
discorso immaginario.
La porta si
aprì e Sigyn
si alzò di scatto. “Ti aspettavo,” disse
rapida.
L’ingannatore,
un fascio
di pergamene e missive sotto il braccio e una smorfia annoiata sulle
labbra
sottili, la fissò inarcando un sopracciglio, raggiungendo la
sua scrivania senza
rallentare né diminuire l’andatura.
C’era una proposta di matrimonio, tra le
lettere che si era portato dietro. Un buon accordo commerciale che
riguardava
lei, la cui graziosa e sottile mano veniva chiesta da un nobile della
marca
orientale.
“A che
devo il piacere?” s’interessò,
sistemando la corrispondenza e le carte sul ripiano davanti a
sé. Non si era
preoccupato di mascherare il suo sarcasmo.
“La
tua penna. L’avevo
io. Mi dispiace,”
soffiò, porgendogli
rapida l’oggetto.
Loki la
squadrò da capo a
piedi, esaminando la sua figura sottile e graziosa nella tenue luce
dell’alba. Erano
trascorsi una manciata di mesi da quando aveva visto la piuma nera per
l’ultima
volta, più o meno dalla sera in cui lei aveva fatto il suo
timido ingresso nel
mondo degli adulti partecipando a un ballo. Era più sicura e
bella di allora – nelle
segrete c’era sempre posto, per chi la guardava
così. Apprezzò il modo
diretto con cui era andata dritta al punto, ma volle sapere come mai
aveva
atteso tanto.
“L’hai
usata?”
Sigyn
sbatté le palpebre,
interdetta: non si aspettava quella domanda.
“Sì,” concesse infine. Negarlo
sarebbe stato sciocco – e poi, gli occhi chiarissimi del dio
dell’inganno
riconoscevano immediatamente le bugie.
Le dita rapide
del dio
dell’inganno sistemarono la corrispondenza.
“Avresti potuto lasciarla qui o ridarmela
in qualsiasi altro momento. Perché l’hai fatto
solo ora?”
“C’è
sempre troppa gente,
attorno a te. E, se l’avessi lasciata qui, qualcuno avrebbe
potuto prenderla al
posto tuo e non volevo.” Sigyn si tormentava le dita sottili,
libere da
qualsiasi gioiello. “Non riuscivo a trovare il momento
adatto. È così bella,”
concluse infine.
“Ti
piace,” constatò
Loki. “Non vorresti separartene, ma non riesci a dormire la
notte al pensiero
di avermi fatto un torto.” Osservò la ragazza
impallidire e giudicò di aver
indovinato i suoi pensieri. Così insistette, avvicinandosi
al tavolo dove
c’erano le carte di lei. “A voi Vanir piace che gli
altri vi definiscano pii e
nobili, ma siete esattamente come tutti noi. La soddisfazione non
è nella
vostra natura e volete di più, sempre di
più.”
La ragazza
arretrò di
fronte a quella frase tagliente. Loki, si rese conto, non era grato a
Njord per
averlo accolto. Riteneva che quello che dava a Vanheim fosse
più di ciò che
riceveva in cambio e accusava i suoi abitanti di essere ipocriti. Era
un
pensiero che anche Sigyn, nonostante la giovane età, si era
ritrovata a fare di
fronte a certi comportamenti ingiusti e fiacchi o alle numerose leggi
vecchie e
obsolete che suo nonno si rifiutava di modificare per non inimicarsi
l’aristocrazia. Sempre più spesso si scontrava con
la facciata splendente che
la sua famiglia tentava di sfoggiare per nascondere il vuoto che lei
intuiva
esserci sotto. E Loki Odinson, con la sua voce roca e beffarda e un
sorriso
divertito sulle labbra, non aveva fatto altro che dirle le stesse
identiche
cose confermando i suoi risentimenti. Solo che se era il dio
dell’inganno a
svelare le bassezze altrui, queste parevano ancora più
ignobili e
intollerabili.
“Sto
cercando di ridartela.
Non rendere le cose più difficili di
così,” lo pregò. La luce trionfante che
vide nel suo sguardo la convinse a non commettere mai più,
per nessun motivo,
un simile errore.
“Io la
usavo per scrivere
leggi, lettere, ordini e incantesimi, tu per scrivere poesie
d’amore,” osservò
Loki girandole attorno col solo scopo di vederla mentre lo seguiva con
gli
occhi. Raggiunse il tavolo dove c’erano i fogli di lei,
lasciando scorrere le
dita di mago sulla pergamena porosa. “Ti è venuta
bene, questa traduzione. Tieni
la penna, forse vorrebbe essere usata per argomenti più
lieti.”
Lei
s’irrigidì. “Non voglio
essere in debito con te.”
“Perché?”
s’interessò,
guardandola in viso – naso deliziosamente a punta, labbra
morbide, sguardo
chiaro contornato dalle ciglia lunghe e nere, pelle che si arrossava
quando
l’emozione la tradiva. Avrebbe stracciato e gettato nel fuoco
la proposta che
la voleva già sposa e lontana. Meglio che rimanesse a
Vanheim, ad arrossire alle
sue battute, a tradurre versi d’amore e di guerra.
“Tutti
ti devono
qualcosa, qui a Vanheim.”
“È
una diceria che
nasconde un fondo di verità, lo ammetto,” si
compiacque. “Ma è solo una penna,
Sigyn.”
“Potrebbe
essere
sconveniente, per te, offrirmela.” Glielo disse senza
guardarlo – nel giro di
un paio di primavere lo avrebbe fatto fissandolo negli occhi,
bellissima e
sfrontata. Ma questo, Loki, ancora non poteva saperlo.
“E per
te riceverla,
principessina. Tienila come hai fatto finora e usala per
studiare,” suggerì.
Scrivere appunti
e
pensieri tracciando le frasi con quella lunga piuma nera le sarebbe
piaciuto,
si rese conto Sigyn. Desiderò fortemente accettare,
perché amava guardare la
propria mano sottile impugnare quell’oggetto incantevole. Ma
Loki, con il suo
passo elastico e felino, col quel suo ghigno perenne disegnato sulle
labbra
sottili, con la sua voce roca e beffarda, la spaventava. Qual era il
prezzo del
trofeo del dio dell’inganno che avrebbe stretto tra le dita?
Suo nonno diceva
che Loki figlio di Odino sapeva usare ogni cosa come arma –
anche i favori e i
sorrisi.
Lasciò
la piuma nera sul
tavolo e se ne andò senza nemmeno recuperare le sue cose,
raccogliendosi le
gonne per camminare più velocemente. Nel farlo,
scoprì la caviglia sottile e
ben modellata, in un gesto involontario che l’Ase
seguì, suo malgrado, con
troppa attenzione.
♥
Col passare dei
mesi,
Sigyn acquisì una grazia e una sicurezza tali da poter
partecipare ai banchetti
indetti da Njord e intervenire nelle varie discussioni, commentando,
con i suoi
modi delicati e le sue frasi pungenti, le notizie che provenivano dagli
altri
paesi e i fatti interni. Sempre più spesso si scontrava con
Loki Odinson – o
Laufeyson, come il più delle volte preferiva farsi chiamare,
che trovava sommamente
divertente contraddirla e fare sfoggio delle sue spiccate
capacità retoriche. Lei
usciva da quelle liti immancabilmente sconfitta, senza sapere quanto
quell’allenamento sfiancante le sarebbe stato utile, un
giorno. Quello che
intuì quasi subito, invece, fu che Loki mentiva. Se pure era
d’accordo con lei
su un qualsivoglia argomento, sosteneva proditoriamente la tesi
opposta, forse
per compiacere Njord oppure, semplicemente, per stizzirla e rovinarle
la
serata.
Per lui,
probabilmente, farla
infuriare equivaleva a rendere meno tediosa una cena. Apprezzava le
occhiate
furenti che gli lanciava, il suo contegno, la passione che metteva nel
sostenere
le cause in cui credeva, l’amore per i libri che la spingeva
a varcare le
soglie della biblioteca nonostante ci fosse lui. Sapeva anche che,
ultimamente,
aveva espresso l’assurdo desiderio di poter assistere alle
riunioni tra suo
nonno e i nobili. Njord non voleva deluderla, ma trovava assurdo
l’assecondarla. Non ci voleva chissà che
immaginazione per ipotizzare che, nel
giro di qualche settimana, il vecchio re lo avrebbe fatto chiamare per
gravarlo
dell’incombenza di trovare un posto a sedere per la sua
irriverente nipotina.
Si sarebbe messo a giocare con i numerosi anelli che sfoggiava sulle
dita
adunche e ritorte, sfidandolo affinché trovasse una
soluzione ragionevole. Fu
esattamente così che avvenne.
Sigyn poteva
ascoltare e
prendere appunti, ma se avesse alzato la mano per intervenire, nessuno
l’avrebbe ascoltata. Dalla corte questo favore era stato
inteso come il
capriccio di una ragazzina esaudito da un re magnanimo. A lei, che
studiava con
slancio, fece orrore la leggerezza di certi lord imbolsiti che sedevano
stancamente attorno al trono e commentavano sfoggiando la loro
ignoranza. Per assistere
alla riunione accanto a Njord aveva scelto l’abito
più serio e scuro di tutto
il suo guardaroba. Non voleva confermare il pregiudizio che la voleva
una
ragazzina svagata che esaudiva un capriccio, ma dimostrare di essere
una
principessa colta e interessata al benessere della sua gente. Al
consiglio
c’era anche Loki, ovviamente, immancabile braccio destro di
suo nonno, per le
cui belle mani di mago passavano tutti gli affari di Vanheim. Si erano
incontrati in biblioteca, qualche sera prima.
Sigyn si era
addormentata
su una poltrona e, risvegliandosi, lo aveva trovato sfacciatamente
seduto a poca
distanza da lei, con le labbra strette in una smorfia e
un’ombra cupa negli
occhi. Tornava da una straziante visita ad Asgard, una delle poche che
si era
concesso da quando Thor era diventato reggente; le aveva parlato
più del solito,
tanto che lei si era offerta di lasciargli una tisana per quando avesse
deciso
di andare a riposare. Un semplice atto di gentilezza, nulla di
più, su cui
aveva scelto di non indagare. Che Loki avesse bevuto la tisana o meno
non aveva
importanza, in fondo.
L’ingannatore
si alzò in
piedi e fece ciò che gli riusciva meglio –
incantare il suo pubblico,
convincerlo, trascinarlo con sé lungo le strade ora tortuose
ora lineari dei
suoi ragionamenti. Sigyn non perse una parola del suo discorso preciso
e
brillante. Lo ascoltò senza accorgersi del cuore che batteva
più forte,
ammirando la precisione delle sue deduzioni, la rapida sicurezza con
cui
rispondeva alle obiezioni. Quando litigavano ai banchetti, lui la
canzonava e
la provocava, ma non tentava mai di convincerla a passare dalla sua
parte.
Sotto le molte paia d’occhi del consiglio di Vanheim, invece,
sfoggiava la sua
arguzia avvolgendo i nobili del regno nelle spire delle sue teorie
mirabilmente
esposte, convincendoli. La sua figura altera e slanciata sembrava
essere stata
plasmata perché fosse lì, in quel preciso
istante, a convincere un mucchio di
anziani aristocratici e un re compiacente a promulgare una legge. Se
solo fosse
stato un uomo diverso, pensò Sigyn. Se solo quel ghigno
sardonico non gli
avesse increspato le labbra, ricordando, a chi riusciva a resistere al
suo
incanto, del pericolo che voleva dire seguirlo. A parole Loki stava
rendendo
grande Vanheim, ma fino a quando e a quale prezzo?
La riunione
finì nel modo
che tutti si aspettavano – col trionfo di Loki, il volere di
Njord esaudito.
Sigyn guardò il dio dell’inganno e riconobbe
qualcosa di noto e conosciuto, sul
suo volto affilato. L’Ase osservava il suo trionfo come se si
trovasse a
un’incredibile distanza dal consiglio, dal vecchio re, da
ogni cosa. Nonostante
il ruolo che aveva giocato nell’approvazione della legge, era
e rimaneva un
elemento estraneo, uno strumento. La vittoria che stringeva tra le dita
non era
sua e non gli apparteneva – sapeva di fiele.
Sigyn,
spettatrice muta
di un dibattito in cui non avrebbe mai potuto prendere la parola,
sentì sulla
propria pelle quel medesimo disagio e se ne spaventò. In
Loki – nel suo sguardo
acuto – c’era un abisso di oscurità e di
rancore che la spaventava, che lui
indossava con fiero disprezzo, come se si trattasse di
un’insegna o di
un’armatura.
“Divertita?”
Le domandò
passandole accanto con un fascio di pergamene arrotolate sotto il
braccio.
“Illuminata,”
ribatté. “Delusa,”
aggiunse aggrottando le sopracciglia. Camminavano l’uno di
fianco all’altra, a
passo svelto, sotto le volte a tutto sesto del ricco palazzo di Njord.
Loki
sghignazzò. “Avevi
delle aspettative troppo alte, principessina.” Non le disse
quanta parte avesse
nella decisione di ammetterla: sarebbe stata una mossa troppo meschina
persino
per lui.
“Li
manipoli.”
“Si
chiama governare, credo.”
“Mio
nonno governa,”
puntualizzò rapida, provando a sfoggiare lo stesso disprezzo
di suo zio Freyr e
degli altri cortigiani. Se ne pentì immediatamente, e Loki
colse il suo
imbarazzo.
“Peccato
che, per farlo,
mi debba coinvolgere così spesso.”
“Sono
stata ingiusta. Ti
reputa importante,” ammise. “Pensi che stia
perdendo il mio tempo?”
Loki la
squadrò da capo a
piedi. Prima lo insultava, poi chiedeva il suo parere.
“Se
fossi in te, non mi
farei scappare nessuna occasione di arricchirmi. Mentalmente,
intendo,” la
provocò, ben sapendo che lei avrebbe pensato a
tutt’altro – alle voci,
assolutamente vere, circa la mole dei suoi possedimenti.
“Ascoltarli
è un
vantaggio. Capire come ragionano, anche. Che ti sottovalutino, un
bene,”
concluse con sottile perfidia, lui che era cresciuto nella lontana e
feroce
Asgard, dove nascere maschio o femmina non precludeva alcuna
possibilità.
Sigyn non
rispose, ma
continuò ad assistere alle riunioni – e fu
così che la bella piuma scura
finemente lavorata tornò tra le sue dita.
♥
Avvenne tempo
dopo, in
quelle settimane in cui prestavano una particolare attenzione al non
sfiorarsi,
in cui, quando la vicinanza si faceva eccessiva, tentavano di smettere
persino
di respirare, come se persino quello potesse tradirli. Sigyn prendeva
appunti
seduta accanto a Njord, concentrata sull’ennesima discussione
gestita da Loki.
Le parole del brillante Ase risuonavano sicure e convincenti lungo le
pareti
dell’imponente sala, ma incontravano la resistenza
dell’aristocrazia Vanir.
Njord, accanto a lei, si accarezzava meditabondo la lunga barba
candida. I
nobili rinfacciavano al re che avrebbe dovuto stringere, molti mesi
addietro,
un accordo con uno dei più potenti vassalli
dell’est, al confine con la terra
dei Nani. Se accettato, avrebbe garantito alla capitale di Vanheim un
approvvigionamento
costante di metalli lungo strade sicure. Ma questo, per qualche
inspiegabile
ragione che tutti conoscevano tranne lei, non era successo. Di
più: Njord, per
bocca di Loki, aveva ribadito di non volerne sapere, di riflettere
ulteriormente sulla proposta fatta e declinata più volte.
Sigyn inarcò un
sopracciglio, sorpresa da tanta rigidità, e forse fu per
distrazione o perché s’interrogò
sulla motivazione nascosta dietro a quel rifiuto, che premette troppo
la piuma
con cui scriveva rompendone la punta.
Loki vide tutta
la scena
e s’interruppe, fissandola un momento. “Permettimi
di offrirti la mia,” disse.
Prima che lei potesse rispondere, fece comparire la penna scura e
intarsiata e
gliela porse.
“È
bellissima,” boccheggiò
Njord, che aveva avuto modo di ammirare l’artefatto
già molte volte.
“Manifattura di Jotunheim?”
s’interessò.
“Hanno
artigiani
interessanti anche lì, sì,”
confermò l’ingannatore.
Sigyn
allungò le dita
mormorando un grazie, stando attenta a non sfiorare quelle
dell’Ase. Perché
solo la notte prima, al termine dell’ennesimo banchetto,
quelle stesse dita agili
e veloci le avevano slacciato completamente il corsetto liberandole i
seni,
saggiandone la morbidezza, sfiorandone le punte frementi. E lei,
anziché porre
fine a quella follia, aveva sospirato,
nell’oscurità del loro nascondiglio
precario, mentre gli accarezzava i capelli scuri e leggermente
arruffati,
cercandogli le labbra beffarde per lambirle con le sue, per sfiorarle e
accarezzarle fino a perdere il conto dei baci che si sarebbero
scambiati. Gli
aveva concesso – no, bugia, aveva desiderato ardentemente
– che osasse posare
la sua bocca irriverente sulla pelle calda e tesa dei suoi seni piccoli
e sodi,
si era morsa le labbra, senza nemmeno tentare di fermarlo, quando le
mani
dell’Ase avevano percorso i suoi fianchi rotondi e sollevato
la stoffa del
vestito leggero che indossava quella sera. Un abito incantevole a detta
di
tutti, tranne che di Loki – l’unico a non
concederle un solo complimento, il
solo a scoccarle un’occhiata di fuoco e a mormorarle con voce
roca che il viola
chiaro della stoffa si sposava benissimo con il gioiello dei Nani che
avrebbe
voluto le scendesse fino ai seni.
Il consiglio
riprese tra
il borbottio scocciato di un paio di vecchi conti seduti
dall’altra parte
dell’ampia sala, infastiditi dal fatto che la nipotina di
Njord avesse
interrotto il dibattito gestito dall’ingannatore. La mano di
Sigyn scorreva
rapida sulla pergamena, tracciando, grazie al perfetto bilanciamento
della
penna del dio dell’inganno, lettere chiare e precise e
aggraziate. Come quando,
ancora ragazzina, la tirava fuori dalla toletta col cuore che le
batteva nel
petto ogni volta che doveva studiare qualcosa di particolarmente ostico
o
affascinante, a seconda dei casi. Le aveva sempre attribuito una
qualche sorta di
potere o di malia e anche quel giorno, mentre i raggi del sole si
posavano
sulle trecce che aveva appuntato sul capo, sulle ciocche che le
ricadevano lungo
il semplice vestito grigio scelto per l’occasione,
pensò che, forse, lo
stupendo strumento potesse proteggerla dalla sensazione che tutti
sapessero
cosa faceva di notte con Loki, dal rossore che, forse, le invadeva il
collo e
le guance.
Era iniziata per
sbaglio
e, qualunque cosa fosse, non aveva futuro, ma nonostante questa nitida
consapevolezza
non riusciva a rinunciare a lui, a loro, ai minuti rubati nascondendosi
dentro
una nicchia, alle mani impazienti e nervose che frugavano sotto gli
abiti, ai
baci disperati e insolenti che non avrebbero mai dovuto scambiarsi. Non
erano
ancora amanti, anche se ogni notte pareva a entrambi di esserlo
più di quella
precedente. Le labbra insinuanti e beffarde del dio
dell’inganno avevano esaudito
il suo desiderio segreto sfiorando le sue, per poi scendere sul collo
reattivo,
sulle scapole abbellite da una finissima collana d’oro, sul
seno esposto, sulle
punte tremanti e sensibili, pronte a ricevere quelle carezze sfacciate.
Si era
inarcata nell’oscurità, mordendosi le labbra per
non sospirare, finalmente persa
tra le sue braccia, supplicandolo mentalmente di osare per entrambi
– ma non conveniva
a nessuno dei due varcare il confine tacitamente segnato e rendere quei
loro
incontri probiti una relazione. Poteva lasciare che la toccasse e la
baciasse,
che percorresse con le dita o le labbra ogni parte di lei, persino, ma
non che
l’avesse. Eppure, Sigyn voleva sciogliere quel patto mai
pronunciato e fare
l’amore con lui. Lo desiderava durante i loro convegni
clandestini così come si
ritrovava a desiderarlo di giorno, quando le passava accanto fingendo
di
ignorarla e lei lo fissava dall’alto in basso. Negarlo
sarebbe stato sciocco –
eppure ci aveva provato, con tutte le sue forze. E Loki? Per quanto
ancora sarebbe
riuscito a resistere al fascino di cui solo i divieti sono ammantati?
La voleva
come Sigyn desiderava – sognava, sperava – o la
considerava un’alternativa alla
noia, la spietata vendetta che si prendeva dall’arrogante e
ipocrita famiglia
reale di Vanheim?
Si morse le
labbra sotto
lo sguardo attento e indagatore del dio dell’inganno,
perfettamente a suo agio
in ogni situazione, anche in quel momento, di fronte a lei.
Tentò di
concentrarsi sul dibattito, di seguirne il filo e coglierne
l’essenziale,
mascherando il più possibile i propri ragionamenti, tentando
di scacciare via
la sensazione che lui potesse leggerle dentro e scrutare nei suoi
pensieri più
profondi così come, ogni notte, la spogliava lentamente di
ognuno degli indumenti
che indossava, slacciando e sfilando con la consumata
abilità di chi ha avuto
troppe amanti e ogni tipo di esperienze. Mani ammaliatrici, che
sapevano farla
sciogliere.
Il consiglio
terminò
senza aver raggiunto alcuna decisione, ma né Njord
né l’ingannatore parevano
preoccupati da questo esito, anzi. Si appartarono rapidamente per
consultarsi
fittamente. Sigyn raccolse le pergamene e si avvolse una sciarpa di
seta sul
collo – quello che lui aveva baciato –
raggiungendolo. Il dio dell’inganno
ascoltava il sovrano con pacata tranquillità, ma nei suoi
occhi brillava una
luce inquieta, feroce, pericolosa. S’intromise appena
possibile, porgendogli la
penna, ringraziandolo con la fredda cortesia che gli tributava sempre.
L’Ase
guardò lei e la
piuma nera. Manifattura Jotunn. Era un regalo di un tempo passato,
fatto da
Frigga, così intelligente e accorta da cercare di rendergli
meno estraneo e
odioso il popolo dei giganti di ghiaccio. Anche gli Jotnar erano abili
maghi.
Anche loro possedevano il senso del bello e, nelle notti invernali
tanto lunghe
da far temere che il sole non sarebbe sorto mai più,
scolpivano, creavano,
lavoravano.
“Puoi
tenerla, Sigyn. Ne
sarei onorato,” disse, accennando un breve inchino col collo
e con le spalle.
“Un
regalo generoso,”
commentò Njord soddisfatto, troppo sicuro di sé
per cogliere i sottili segnali
che il bel viso di sua nipote lasciava intravedere.
Sigyn
avvampò di
imbarazzo. Se suo nonno non fosse stato presente, avrebbe restituito la
piuma e
rifiutato il dono non per una, ma per mille ragioni, tutte ottime. Ma
Vanheim
distava troppo dalla terra dei giganti perché il vecchio re
non desiderasse per
la nipotina quel piccolo, delicato tesoro.
“Non
dovevi, Loki,” lo
rimproverò a bassa voce.
“Non
dovevi, Loki.” I
capelli di Sigyn erano sciolti sulle spalle e si aprivano a ventaglio
sul
mantello nero dell’Ase, steso sotto di lei. Lo sguardo
liquido e grigio della
ragazza era rivolto al cielo trapunto di stelle.
“La
desideravi da anni.
Impara a prenderti quello che vuoi, dalla vita,” la
rimproverò l’ingannatore
puntellandosi su un gomito. Erano sdraiati sul tetto di
un’ala abbandonata del
palazzo di Njord: uno dei luoghi che l’ingannatore scovava
con cura per
incontrarsi con lei – le rispettive stanze erano troppo
pericolose e le sere
piacevolmente fresche di Vanheim invogliavano a trascorrere qualche ora
a
fissare la luna e le stelle.
Lei volse il
capo per
guardarlo. “Come fai tu?”
Il buio non
celò il sorriso
scaltro e audace del mago. Si chinò verso di lei saggiandole
le labbra piene e
morbidi, dolci da baciare, per poi ghermirle il fianco con una mano,
sollevando
la stoffa impalpabile e sottile della sua gonna –
l’altro vantaggio del clima
mite della terra dei Vanir era che le temperature consentivano alle
donne di
indossare abiti leggeri, con fluttuanti gonne di seta e scollature
generose. La
sentì tendersi, quando le accarezzò le gambe
snelle, ma non scostarsi o tentare
di fermarlo. Valutò che potesse osare di più e,
di nuovo, le cercò le labbra,
baciandola con perfida attenzione, approfittandone per insinuarsi fino
a
risalire le cosce, carezzando con le dita l’inguine proteso,
la carne morbida e
fremente, pronta per essere sfiorata. Dalle labbra di Sigyn
sfuggì un sospiro
sorpreso, che lui raccolse con le sue. Non stavano facendo niente di
irreparabile, ma entrambi erano disposti a perdere il controllo
– e presto,
nonostante tutto, sarebbe accaduto.
Andare a letto
con Sigyn,
nipote di Njord, era alto tradimento. Baciarla tutta la notte, sotto le
stelle,
accarezzandola e stringendola a sé, desiderandola per mille
ragioni,
immaginando di farla sua ogni volta che lei, con i suoi abiti chiari e
finissimi, col suo profumo di miele e fiori, col suo sguardo grigio e
profondo,
gli passava accanto o si sedeva vicino a lui ai banchetti, era il modo
migliore
per finire con la testa su un ceppo, in attesa che il boia gli
concedesse una
morte rapida in linea col suo rango.
Non stavano
facendo ancora
niente d’irreparabile, in quella notte accompagnata dal
frinire incessante
delle cicale. Dopo, l’avrebbe riaccompagnata fino al punto in
cui il corridoio
mostrava la porta della sua stanza, per assicurarsi che rientrasse non
vista – che
fosse al sicuro, anzi, che fossero, si corresse. Smise di
accarezzarla e Sigyn
gli lanciò un’occhiata interrogativa e guardinga,
ma non disse nulla. Il modo
in cui si scioglieva quando lui la toccava o la teneva tra le braccia,
la
frenesia dei loro baci, la facilità con cui consentiva al
dio dell’inganno di
spogliare, cercare e sfiorare, unita alla certezza di stare violando
ogni
regola di Vanheim, la spaventava, facendola sentire colpevole. Si
corresse. Era
colpevole. E viva. Il desiderio pulsante che le avevano
lasciato le
attenzioni di Loki ne era la prova schiacciante.
E cosa succedeva
alle
ragazze che, come lei, sceglievano di assecondare passioni e sogni?
Espiavano i
loro comportamenti nel Tempio.
Si
sollevò a sedere,
stringendo le ginocchia che prima aveva volutamente scostato.
“Perché hai
insistito per rifiutare l’accordo di cui si discuteva al
consiglio? Era
vantaggioso. E generoso, anche.”
Cominciava ad
avere
freddo sulle braccia e sul seno dal corsetto appena slacciato, che
lasciava
intravedere le curve invitanti dei seni. Iniziò a riannodare
i nastri sciolti,
ma Loki la interruppe, cingendole la vita con un braccio. Non volle
fermarlo –
aveva la pelle d’oca e l’Ase
l’attirò a sé, per il piacere di
sentire il corpo
sodo e snello di lei contro il proprio.
“Non
ho nessuna voglia di
dargli ciò che chiede,” ammise con voce roca.
“Perché?”
domandò Sigyn.
“Tu lo
conosci?”
“Forse
l’ho visto una
volta, un paio d’anni fa.” La ragazza
recuperò dalla memoria l’immagine di un
vecchio dalla barba fulva striata di bianco, appesantito da un ventre
prominente, che si muoveva per la sala trascinando con
difficoltà una gamba
gonfia e malata e facendo sfoggio di un gran numero di gioielli.
Dicevano che
soffrisse per una vecchia ferita capitatagli cadendo da cavallo
più di dieci
anni prima. “Aveva un aspetto imponente e
spaventoso.”
Loki
stirò le labbra in
un ghigno perfido. Non aveva dimenticato i giri di parole con cui
l’uomo chiedeva
la mano delicata di Sigyn. “Cerca una moglie che abbia la
metà dei suoi anni,”
le confidò. “Crede che con questa, che sarebbe la
terza o la quarta, ho perso
il conto, riuscirebbe ad avere il figlio maschio che cerca.”
Trovandosi
improvvisamente la gola secca deglutì, pensando
all’enorme errore in cui stava
impaludandosi, ma da cui non si risolveva a liberarsi. Avrebbe dovuto
smettere
di corteggiare di nascosto Sigyn, interrompere quei convegni pericolosi
e
interessanti e dimenticarla nell’unico modo possibile.
Portandosela a letto una
volta per tutte, strappandole via il mistero e l’attrazione
che possiedono le
donne intoccabili come lei.
“Pensava
a te.”
La frase la
colpì come
avrebbe fatto un pugnale. Se il cielo non fosse stato un drappo scuro
illuminato dai bagliori argentei delle stelle, Loki avrebbe visto le
gote di
Sigyn scolorire, le labbra tremare, gli occhi sgranarsi per la
sorpresa, prima
ancora della paura. Lei non aveva mai pensato al matrimonio e
l’unica proposta
che aveva ricevuto veniva da un suo affezionato amico
d’infanzia, l’inetto
rampollo di un’importante famiglia di Vanheim, Theoric che
non sapeva nemmeno
andare a cavallo. E lei gli aveva rifilato una risata da ragazzina,
come
risposta – presto avrebbe dovuto pagare per
quell’insolente rifiuto, ma questo,
Sigyn, ancora non lo sapeva. Ma che si discutesse del suo futuro nel
consiglio
presieduto dal re suo nonno, che si valutasse l’idea che
potesse dare dei figli
a un vecchio dispotico reso più crudele dalla malattia con
cui non aveva niente
da dire, le mostrò la misura della sua prigionia –
la prigionia di tutte le
ragazze aristocratiche di Vanheim. Altri avrebbero scelto il suo
destino per
lei, usandola come una pedina in un gioco politico. Prima o poi sarebbe
arrivata una proposta che Sigyn non avrebbe potuto rifiutare, e,
sebbene
sapesse da tutta la vita che questo era il suo destino, trovarselo
davanti
all’improvviso la turbò. Credeva di avere
più tempo, era certa che la sua
famiglia l’avrebbe interpellata. Ora non ne era
più così sicura – certo, non
c’era motivo per agitarla rendendole nota una proposta di
matrimonio inadatta,
ma nulla le garantiva che in futuro sarebbe stata chiesta la sua
opinione. E
quel futuro era comunque più vicino di quanto Sigyn volesse.
“Non
l’avrei mai
permesso,” concluse Loki con secco orgoglio, ricordando a
entrambi come avesse
tra le mani il potere di convincere Njord a darla in sposa a un uomo
tanto più
vecchio e gretto.
Sigyn
rabbrividì, ma non
per il freddo. “Perché?” scelse di
chiedergli. Non parlavano mai di loro. Del
perché ogni sera si incontravano, di cosa li spingesse a
litigare ai banchetti,
ignorarsi durante il giorno e cercarsi con disperazione la notte, per
baciarsi
e accarezzarsi finché il desiderio inappagato o
l’ora tarda non li costringeva
a separarsi, protetti dalle tenebre e osservati dalle stelle.
Non parlavano
nemmeno del
futuro, perché non c’era, non ne avevano nessuno.
L’unica cosa che Loki si era
premurato di dirle al riguardo, concerneva
l’eventualità che venissero
scoperti. Avrebbe dovuto negare qualsiasi coinvolgimento, in ogni caso.
L’Ase
aveva la risposta ferma
in gola. Troppo giovane. Troppo bella. Non ancora mia – ma se
fosse stata
un’altra, una che non fosse Sigyn dai capelli
d’oro, Sigyn dallo sguardo di
metallo fuso, gli avrebbe fatto comodo che diventasse la devota moglie
di un
nobile distratto e imbolsito. Incastrata in un matrimonio infelice,
avrebbe
acconsentito con più slancio a vivere un rapporto
clandestino e a tenerlo ben
nascosto, senza pretendere niente in cambio. Ma accanto a
sé, su quel tetto
accarezzato dalla brezza notturna, c’era lei.
La prima volta
che aveva suggerito
a Njord di ignorare quella proposta, era ancora una ragazzina acerba e
un
pizzico insolente: era stata la pietà a fermarlo –
ad Asgard fidanzamenti e
matrimoni si celebravano più tardi. Ma dopo, quando Sigyn
era cresciuta e l’età
era, effettivamente, quella giusta, aveva sentito lo stomaco
accartocciarsi
all’idea che quella ragazza che una notte aveva osato entrare
nelle sue stanze
per curargli una ferita, facendo scorrere le sue dita delicate sulla
sua pelle
e lasciando che respirasse il suo profumo, diventasse la moglie di
qualcun
altro.
Sigyn era
intoccabile –
prima o poi avrebbe dovuto rinunciare a lei, stancarsi di lei, ma non
ancora. Quella
consapevolezza, così lucida e spiazzante, gli si
conficcò nella testa,
suggerendogli perfida di aver lasciato scoperto il fianco.
“Perché?”
insistette
Sigyn a voce più bassa, condendogli le labbra, assaggiando
le sue con lentezza,
come se avessero tutta la notte davanti e un letto sicuro dove amarsi.
Lasciò
che intrecciasse le braccia sottili dietro al suo collo, premendo il
corpo
sottile e sinuoso contro il suo.
L’unica
risposta che
aveva senso darle era continuare a baciarla. Tutto il resto erano
parole vuote
e pericolose, o menzogne che lei non meritava.
Continua,
perché i
miei piani sono come quelli di Loki, che variano di minuto in minuto
L’angolo
di Shilyss
Care Lettrici e
cari Lettori del mio
cuore ♥ ♥!
Rieccoci qua con
i Loki e Sigyn
nella versione di Tutte le mie bugie, la
mia prima long (la trovate
a pagina 3 del profilo).
Non è
necessario averla letta, ma tenete
presente che la Sigyn
che vedete per buona parte del racconto è molto giovane,
alle prese con i
primi turbamenti instillati da un giovane uomo affascinante come Loki,
ma anche
con quella fragilità propria di chi si trova in quella fase
in cui si è adulti
per certe cose e per certe cose no. Poi crescerà,
perché si andrà a raccordare
con quella di Tutte le bugie, ma ‘sto capitolo stava
diventando troppo lungo
(poi mi dite che non mi regolo).
Rispetto ad
altre storie (Accordo,
Scintille) tenete presente che il divario
d’età è maggiore, sebbene nei
limiti della legalità.
Ringrazio con
tutto il cuore i vecchi
lettori, i nuovi lettori e tutti coloro che listeranno, recensiranno o
semplicemente leggeranno questa storia: a parte gli
scherzi (lokini) siete importanti e sappiate
che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo
pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano,
ecco. Pensavo
di concludere in due capitoli, ma purtroppo le cose si sono ampliate e
dirottate. Spero in un agosto abbastanza sereno e tranquillo che mi
consenta di
sistemare le ultime storie e gli aggiornamenti – di questa,
di confessioni, di
Accordo, di Scintille, di Ciò che resta delle tenebre,
PERDONATEMI.
Seguitemi sulla
pagina fb (o scrivetemi
anche lì) per info, curiosità, aggiornamenti
(trovate il link in bio) e…
Ricordo che il
personaggio di Sigyn,
tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su
Wikipedia, è una mia personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Loki e Sigyn nel mito
hanno dei
figli insieme, Vali e Narvi. Vali me lo sono tenuto, Narvi
l’ho sostituito con
Sonje, personaggio di mia invenzione. Nel mito Sigyn non eredita
proprio
niente, quindi anche qui è una mia idea. Non vi
autorizzo a ispirarvi o
peggio a questa versione o alle altre storie da me postate
né qui né altrove
(peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su
Vanheim,
su Loki o su Asgard stessa. Lo stesso vale per il ruolo di Loki presso
Njord,
per le cariche che Loki ricopre in questa Vanheim. Creare un mondo con
usi e
costumi non è uno scherzo.
Comprendetemi
per queste
precisazioni, ma scrivo su questo fandom dal 2017 e ne ho viste di
tutti i
colori.
A presto e
grazie per tutto
l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate
me).
Vostra,
Shilyss
|
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Capitolo 12 *** Forse era scritto nel destino - parte 3 Il messaggio ***
Il
messaggio
We don't
bleed when we don't fight
Go ahead,
go ahead, throw your arms in the air tonight
We don't
bleed when we don't fight
Go ahead,
go ahead, lose our shirts in the fire tonight
(The
National, Runaway)
Parte 3
L’accordo
era di non
scriversi, mai. Per nessuna ragione. Qualsiasi
traccia avrebbe potuto
tradirli, e Loki, che pure era il signore del caos, non amava che
fossero altri
a demolire i suoi piani. Strinse nel pugno il lungo biglietto di lei e
lo
infilò nella giubba, consapevole che avrebbe dovuto
distruggerlo immediatamente
e che anche tenerlo addosso equivaleva a voler mettere la testa su un
ceppo, in
attesa che il boia calasse la sua ascia affilata. Sperando per
loro che
fosse ben affilata, ragionò, piegando le labbra in un ghigno
crudele e feroce,
pregustando il piacere che avrebbe provato nel prendersi ciò
che gli spettava.
Un giorno avrebbe insegnato ai Vanir l’ultima delle lezioni
che restava loro da
imparare: quanto fosse rischioso riporre troppa fiducia nei lupi. Diede
un paio
di ordini secchi e precisi, senza immaginare che Sigyn aveva scritto
quella
lettera usando proprio la penna dalla piuma nera che lui le aveva
donato,
custodita nel doppiofondo di un cofanetto ricolmo di gioielli.
A Freyr, accanto
a lui, non
era sfuggita la lettera e il disappunto che aveva provocato.
“Guai per Lingua
d’Argento?” gracchiò, senza mascherare
un malcelato piacere all’idea che
qualcuno dei suoi mirabili progetti andasse in malora.
“Fastidi,
più che altro,”
rispose Loki tra i denti. “Risolvibili, per tua
fortuna,” aggiunse
tetro, scoccandogli un’occhiata indefinibile, carica di un
feroce divertimento
che mise a disagio l’altro. Freyr si difese provando a
drizzare la schiena e si
passò una mano sulla barba ispida e disordinata che gli
copriva le guance
pallide. Era raro vedere Loki così contrariato e lui aveva
bisogno del suo
aiuto – dell’ennesimo prestito per coprire i debiti
che non riusciva a
sostenere, della menzogna giusta da rifilare al proprio padre per
precipitare
ancora più in basso nella rete di finzione e disperazione in
cui era caduto per
non aver potuto né voluto fuggire da una società
sclerotizzata e asfissiante,
per nulla disposta a tollerare nessuna deviazione dal cammino
prestabilito.
Seguì
Loki – passo
elastico, spalle diritte e portamento da principe – lungo i
corridoi del
palazzo, chiedendosi rabbiosamente quanto oro possedesse nei suoi
forzieri,
quali terre fertili e rigogliose avesse strappato alle grandi famiglie
di
Vanheim. Tutte quelle che hanno potuto vendermi,
gli aveva detto una
volta l’Ase con voce allegra e una luce ferina negli occhi.
Chi sollevava – e
ciò avveniva piuttosto spesso – il dubbio che il
dio dell’inganno avesse
acconsentito ad aiutare i Vanir solo perché puntava al loro
trono, dimenticava
che c’erano tanti modi per avere in pugno un regno. Prestare
denaro alla
famiglia del sovrano era uno di quelli. Loki Laufeyson era il signore
di
numerosi feudi situati in zone strategiche e puntava
all’acquisto di un sontuoso
palazzo che, una volta ristrutturato, gli avrebbe garantito una
maggiore
autonomia e la possibilità di fare sfoggio di tutta quella
ricchezza che si
vociferava possedesse, perché tutti, a Vanheim, in un modo o
nell’altro, gli
dovevano qualcosa.
Loki scelse la
biblioteca
per compilare il foglio che avrebbe concesso a Freyr un po’
di credito; un modo
per unire l’utile al dilettevole – per rintracciarla
e fare in modo che
il loro appuntamento non saltasse anche quella sera. Ma Sigyn non
c’era, le
ampie sale tappezzate di libri erano vuote.
“Perché
qui?” chiese
Freyr, a disagio, guardandosi attorno.
L’ingannatore
scriveva
rapido, inghiottendo il disappunto, celandolo con cura nel petto.
“Non era una
richiesta urgente, la tua?” ribatté con voce
secca. La sua firma graffiò il
primo strato di pergamena, tracciando un solco netto e deciso. Gli tese
il
foglio senza aggiungere altro, compiacendosi per le labbra serrate e lo
sguardo
basso di Freyr, che calpestava con rabbia ciò che rimaneva
del suo orgoglio
continuando a chiedere favori all’unica persona da cui
avrebbe dovuto guardarsi
– ma la sola che non lo giudicasse. E questo non
perché Loki amasse il
prossimo, ma per via della massima che aveva fatto propria: chiunque
poteva
essere e fare ciò che voleva. Le scelte altrui non
lo riguardavano a meno
che non lo coinvolgessero direttamente.
Il figlio di
Njord
afferrò il foglio come se volesse strapparglielo dalle mani.
Era l’ennesima
prova di come fosse bravo a deludere suo padre e a infangare il suo
rango,
perché quello che più gli bruciava era che, se
avesse saputo resistere al
fascino dell’idromele e del vino, se fosse stato sagace e
sfrontato la metà di
Loki, il suo posto gli sarebbe appartenuto. Invece era il primo a
essere
indebitato con lui e a dovergli oro, terre, favori. Aveva permesso
all’ingannatore di scoprire tutte le sue debolezze e se Loki
non gliele
ritorceva contro era solo perché non gli conveniva ancora
farlo. Una
mera questione di tempo e di opportunità. E la cosa
peggiore, la più miserabile,
era che se anche Freyr avesse immaginato in quali altri modi il dio
dell’inganno stava esautorando lui e la sua casa, non avrebbe
potuto fare assolutamente
niente per fermarlo. Mesi dopo, la sua ira si sarebbe abbattuta su
Sigyn,
colpevole di aver accolto nel suo letto, tra le sue gambe, proprio il
feroce e
spietato dio dell’inganno, vincolandolo a sé,
consegnandosi a lui, al mago
straniero ricusato dalla sua gente. Entrambi sarebbero rimasti
intrappolati in
un legame che li avrebbe lasciati esposti. O forse lo erano
già, ma non avevano
la lucidità per rendersene conto.
Il dio
dell’inganno
attese in piedi che Freyr se ne andasse, ascoltandolo masticare tra i
denti una
maledizione che non avrebbe mai osato rivolgergli a viso aperto. Quando
fu
finalmente solo, si concesse il lusso di sedersi su una delle belle
sedie
rivestite in pelle, di accarezzarne con dita distratte il bracciolo, di
poggiare le spalle altere e la testa sullo schienale accogliente. Le
sciagure
che quel fallito gli augurava gli strapparono un mezzo sorriso.
C’era qualcosa
di crudelmente divertente nel vedere un principe umiliarsi al punto di
chinare
il capo e mendicare aiuto – lui non era venuto a Vanheim
pregando che gli
venisse dato asilo, ma aveva offerto a Njord onore e gloria e
ricchezza. Promesse
che aveva mantenuto, ottenendo persino più di quanto
inizialmente pattuito. Il sorriso
si trasformò in una smorfia. La biblioteca, senza di lei,
gli sembrò
innaturalmente silenziosa e presto qualcuno sarebbe comunque venuto a
chiamarlo. Non c’era decisione, scelta, festa, pettegolezzo,
matrimonio,
adulterio, transazione che non passasse per le sue mani svelte. Njord
era un re
vecchio e svagato, che si limitava a firmare decreti scritti da lui
senza
neanche leggerli, perché farlo gli avrebbe portato via del
tempo prezioso da
dedicare ai suoi passatempi. Era lui, Loki, a governare di fatto, a
lavorare
fino a notte fonda affinché Vanheim diventasse sempre
più prospera e ricca.
Questo era l’accordo mai pronunciato tra lui e
l’anziano sovrano: era libero di
agire come meglio gli pareva finché tutto andava bene
– ma cosa succede ai
cortigiani, ai consiglieri, quando chi possiede la corona si stanca di
loro?
Ogni servizio reso si sgretola, diventa polvere. La gratitudine
ostentata e il
favore in cui si è vissuto si tramutano velocemente in odio.
E allora bisogna
agire in maniera rapida e silenziosa, strappando ciò che si
è costruito,
mostrando lo spirito indomito e fiero dei popoli del nord a cui Loki
apparteneva – agli Æsir, pirati feroci, e agli
Jotnar, che vivevano in quelle montagne
nate dal mare di un biancore spettrale e abbacinante. Fece schioccare
la lingua
nel palato, avvertendo il peso immaginario del biglietto di lei
ripiegato con
cura. Prima di sera voleva incontrarla, e ci sarebbe riuscito. Il caso
– il
caos – poteva essere manipolato, plasmato, allestito come se
si trattasse di
uno spettacolo. Si alzò sfoggiando un sorriso sghembo,
lasciando a passo svelto
le fresche stanze della biblioteca per l’afosa e tranquilla
calura estiva offerta
dalla fertile Vanheim ricoperta di fiori e di verde, ammirando la
placida
bellezza dei suoi pomeriggi pigri che facevano da palco al concerto
offerto dalle
cicale. Che ne sarebbe stato di Sigyn, della graziosa Sigyn dai capelli
d’oro,
se lui avesse detronizzato Njord?
Non è
questione di “se”,
Loki, ma quando.
Sigyn aveva
chiacchierato, sorriso e spiegato tutto il giorno ed era stanca,
terribilmente
stanca. La madre e la sorella di Theoric, un suo vecchio amico
d’infanzia,
erano venute a farle visita e l’avevano riempita di domande e
di racconti.
All’inizio lei aveva risposto con piacere alle loro
curiosità, ma col passare
del tempo si era sentita braccata dalla presenza delle due donne, tanto
da
desiderare ardentemente un momento di tranquillità e di
silenzio. Di
solitudine, anche, indispensabile per smettere un momento la maschera
della
brava e diligente nipote del sovrano ed essere sé stessa
– Sigyn che
giocherellava con la collana d’oro con l’ametista
che Loki aveva desiderato
vederle addosso, sul seno; Sigyn che carezzava la pelle tesa del dio
dell’inganno per curargli una ferita e lasciava che le sue
dita scorressero
dove non c’era bisogno di alcun medicamento; Sigyn che
lasciava che la baciasse
e la spogliasse negli angoli più inaccessibili del palazzo
dei Vanir e, fingendo
di non essere la nipote del re e che le proprie azioni non avessero
conseguenze, decideva di diventare la sua amante. Il dio
dell’inganno non aveva
avuto nemmeno bisogno di ingannarla, per averla nel suo letto
– anzi, forse, se
lo avesse fatto, lei per prima avrebbe raccolto le gonne voltandogli
per sempre
le spalle.
Le sue ospiti
stavano
parlandole di Theoric – di quanto fosse generoso e amabile
– quando la
principessa Vanir era stata interrotta da una delle sue ancelle. Poteva
recarsi
un momento nella sua serra e raccogliere una delle erbe medicamentose
che
coltivava? Senza, l’infuso che sua zia Freya beveva per farsi
passare le
emicranie non avrebbe avuto lo stesso effetto. La ragazza non si chiese
come mai
l’ingrediente fosse terminato all’improvviso e
colse l’occasione per lasciare
le due. Raggiunse i giardini lussureggianti, tenuti con cura e
attenzione,
respirando l’odore di foglie e di fiori. Davanti a lei si
stagliava la serra:
un rifugio nient’affatto neutrale, legato, una volta di
più, al dio
dell’inganno. Era stato lui a sistemarla e a curarla, pochi
mesi dopo il suo
arrivo a Vanheim. Molte di quelle piante gli servivano per le sue
oscure
attività di mago – per creare incantesimi e veleni
non servivano solamente le
rune, ma anche ciò che cresceva sulla terra nera e fertile
dei Vanir. Incuriosita
dal progetto e interessata ad aiutare i guaritori di Vanheim a curare
la povera
gente, ancora ragazzina aveva chiesto e ottenuto da Njord che una parte
dell’ampia serra le fosse donata.
L’Ase non aveva apprezzato la richiesta di quella ragazzina
acerba e petulante
che portava le trecce. Scoccandole un’occhiata torva, aveva
rammentato al
sovrano che lui non usava la serra per il piacere di vedere una pianta
crescere, ma per distillare veleni e pozioni. C’era il
rischio di incorrere in
incidenti e fastidi, dividendo lo spazio con una bambina o poco
più. Njord era
riuscito ad accontentare entrambi, ordinando che l’ambiente
fosse diviso in
maniera netta e che venisse costruita un’altra entrata
indipendente. Ma a Loki
non era bastato. L’aveva ammonita personalmente
dall’invadere i suoi spazi per
curiosare in maniera inopportuna.
Non era mai
accaduto che
si incontrassero lì, in nessuna occasione, neanche di
sfuggita. Sigyn aveva
coltivato fiori e creato i suoi unguenti con dedizione e amore,
visitando quasi
quotidianamente la serra e portando spesso amici e parenti a visitare i
frutti
del suo lavoro, ma, nonostante questo, non le era mai capitato di
incrociare
neanche per un momento Loki. Più di una volta, quando ancora
non c’era nulla
tra loro, aveva tentato di sbirciare oltre il vetro che separava le due
ali
della serra per capire se l’Ase avesse abbandonato o meno le
sue strane colture;
da quel poco che era riuscita a scorgere, aveva dedotto che
l’ingannatore non
amava mettere a punto le proprie stregonerie in compagnia e che si
adoperasse
per agire nell’ombra.
Così,
entrò in
quell’ambiente ovattato e protetto senza aspettarsi di
incontrare nessuno, a
passo svelto, controllando sovrappensiero i fiori e le erbe che
servivano per i
suoi unguenti, mordendosi le labbra al pensiero di quello che, mesi
prima,
aveva spalmato sulla spalla di lui
– quanto sarebbe stato più semplice seguire i
ragionamenti delle sue ciarliere
ospiti e assecondarle, innamorandosi di un ragazzo come Theoric? Uno
che l’avrebbe
invitata a ballare di fronte a tutti, corteggiandola come si usava a
Vanheim,
un po’ alla luce del sole e un po’ mandando avanti
fratelli, genitori, cugini. Che
non avrebbe avuto alcun problema a chiedere la sua mano a Njord, il cui
passato
non era pieno di sangue, vendette e battaglie. Invece, fremeva per un
principe
maledetto, reietto, spietato, che nutriva nei confronti di tutti loro
un nero
disprezzo e tramava per rubare il trono di suo nonno. Intelligente e
acuto fino
alla crudeltà, diceva di non amarla, ma la cercava
– facendola sentire viva
come non era mai stata.
Arrivò
nel punto in cui
custodiva le erbe già sminuzzate e spezzate, pronte per
essere messe in un
sacchettino e utilizzate per creare la tisana di Freya.
Immaginò di accontentarsi
dei discorsi scialbi di Theoric, di accettare la sua visione del mondo,
di vivere
come la brava ragazza che non era più – che non
era mai stata, forse. Pensò agli
insignificanti e tediosi dialoghi con Theoric, fatti di niente, alle
volte in
cui si era annoiata nello starlo ad ascoltare, al sollievo provato
quando aveva
avuto l’occasione di abbandonare la sorella e la madre di lui.
“Scrivermi
è pericoloso,
Sigyn.” La voce roca e beffarda del principe di Asgard la
raggiunse mentre le
sue dita sottili chiudevano con un nastrino sottile il sacchetto,
facendola
sussultare – un brivido la sciolse, uno che dalla nuca
scendeva lungo la
schiena.
“Non
volevo che mi
aspettassi invano,” mormorò, voltandosi
lentamente. Erano amanti da mesi, ma nonostante
ciò, ogni volta che lo incontrava le sue gambe diventavano
molli e il cuore le
batteva più velocemente nel petto, come durante il loro
primo appuntamento. Il
suo corpo era attirato da quello di lui – se fossero stati
più vicini, avrebbe cercato
un contatto qualsiasi, fosse pure uno sfioramento leggero. Loki la
aspettava
seduto su una panca di pietra, le lunghe gambe accavallate con
malagrazia, un
ghigno sbieco disegnato sulle labbra sottili; si alzò con un
movimento fluido e
scattante. Aveva escogitato un modo per attirarla lì senza
chiamarla
direttamente, facendo sì che Freya sentisse il bisogno di
prendere una tisana e
che, per prepararla, mancasse un ingrediente e fosse dunque necessario
chiederlo a lei, Sigyn. Questa consapevolezza la fece sentire
desiderata,
cercata, sciocca, forse – ma viva come non si era mai
sentita, se non tra le
sue braccia, felicemente intrappolata nella tela tessuta da lui,
signore degli
inganni e del caos.
“Ci
vedremo comunque
stanotte,” le promise – la informò.
Sigyn finse che
quelle
parole non la facessero sussultare, non la sciogliessero. “E
la tua riunione
con Njord e i nobili dei confini?”
“La
farò finire prima. Ho
ottenuto la restituzione del tuo ritratto,” aggiunse. Si
riferiva a un piccolo
quadro che il suo primo pretendente, di molti anni più
vecchio di lei,
era riuscito a ottenere per chissà che vie traverse. Quando
Loki, che aveva
suggerito a Njord di rifiutare senza alcuna remora la pur allettante
proposta –
lei era troppo giovane e bella, lo aveva scoperto,
si era speso affinché
il dipinto fosse restituito e tutte le copie esistenti distrutte, anche
quelle
nascoste. Vedendo la determinazione e l’energia profuse
dall’Ase in una
questione in fondo piuttosto marginale rispetto ai problemi di Vanheim,
Sigyn non
aveva potuto fare a meno di chiedersi se lo zelo impiegato dal dio
dell’inganno
in quella vicenda venisse applicato senza distinzione alcuna in ogni
questione,
fosse il frutto di una gelosia celata ad arte o, addirittura, facesse
parte di
un grande scherzo. Certo, suo nonno aveva sempre lodato
l’ingannatore per
l’efficacia dei suoi interventi, ma cosa c’era di
più intrigante, per Loki, che
farsi restituire il ritratto in nome dell’onore di una
principessa che tutti
ritenevano vergine e che, invece, ogni notte ansimava a ogni sua
spinta,
inarcandosi contro di lui?
“Dato
che il nostro
ultimo nascondiglio è attualmente occupato, ho pensato a
qualcosa di
leggermente più rischioso, ma decisamente
appagante,” riprese l’Ase con tono
faceto, avvicinandosi fino a varcare la necessaria distanza che
tenevano in
pubblico. Le porte della serra erano aperte e accessibili: chiunque
sarebbe
potuto entrare e vederli uno di fronte all’altra, intuendo la
loro relazione
dal modo in cui l’ingannatore la fissava ghignando mentre le
cingeva la vita
sottile con un braccio, attirandola a sé con sfrontata
audacia. La
pregiatissima seta della gonna e del corsetto aderente di Sigyn
sfiorò gli
abiti sobri e marziali di Loki, fatti apposta per esaltare il suo
fisico alto e
slanciato, di guerriero. Corpo di cui lei conosceva cicatrici e
muscoli, contro
cui amava stringersi nei brevi momenti di dolcezza che si ritagliavano
prima di
rivestirsi, col respiro ancora corto. Lo desiderava.
Sigyn
sollevò un
sopracciglio, allacciando le braccia attorno al suo collo.
“Rischioso?”
L’ingannatore
rise e osò
ghermirle un bacio lambendole appena le labbra, compiacendosi della
schiena di
lei, che si tendeva al suo tocco.
Avrebbe dovuto
stancarsi di
quella ragazza già da mesi, ma non era successo, anzi:
più andavano a letto
insieme più separarsi diventava difficile,
l’intesa tra loro, quell’alchimia
profonda e ineluttabile che li portava a cercarsi e a desiderarsi,
profonda. Ogni
notte, Sigyn, anziché perdere il fascino della scoperta, lo
attirava
inconsapevolmente a sé sostituendo
l’ingenuità con la curiosità,
trasformandosi
al suo tocco dall’irriverente principessa di Vanheim in una
donna capace di
affidarglisi e di tentarlo – lei aveva
scritto un biglietto
compromettente, spingendolo a una reazione, impugnando tra le sue dita
delicate
la penna dalla piuma nera di cui lui aveva riconosciuto il tratto
deciso ed
elegante.
“Mai
come il tuo messaggio.
Le mie stanze,” le sussurrò sulla bocca,
gustandone la morbidezza. A renderlo
meno cauto era qualche calcolo che Sigyn non poteva intuire e, forse,
il
bisogno scaturito dall’assenza, dalla mancanza. Prima di
lasciarla, le insegnò
le rune che le avrebbero permesso di entrare nei suoi appartamenti.
Quell’intesa,
che li
portava a cercarsi e a non saziarsi mai l’uno
dell’altra, li avrebbe rovinati,
preconizzò. E allora una domanda, insolente come lei, gli si
insinuò nella
mente, come facevano le mani di Sigyn quando lo accarezzavano, incerte
e
meravigliosamente sfrontate a un tempo: se avesse strappato la corona a
Njord,
l’avrebbe voluta accanto a sé? Sapeva con
esattezza dove avrebbe spedito Freyr,
in che modo si sarebbe liberato dei nobili che più gli si
opponevano, in quale
dimora avrebbe ritenuto più appropriato che Freya si recasse
per sempre, ma di
Sigyn, che ne sarebbe stato?
Spalle nude,
perle e
coralli rosa tra i capelli d’oro, un velo di bistro sulle
palpebre. Sigyn era
bella – di più, incantevole. Sulla generosa
scollatura che esaltava il seno
piccolo e sodo non si posavano solamente i suoi sguardi rapidi e
fugaci, ma
anche molte altre occhiate. La stoffa, di un tenue color albicocca, si
sposava
alla perfezione con la sua carnagione. Non era più la
ragazzina del ritratto né
quella che aveva rubato la sua penna per poi restituirgliela tra mille
imbarazzi. Era una donna. Una che gli lasciava graffi sulla schiena e
gli
cingeva i fianchi con le gambe. La vide puntellarsi sui gomiti,
sfiorarsi il
mento con la mano e ridere di una battuta un po’ fiacca,
accettando subito dopo
un invito per un ballo. Alzandosi, gli lanciò da sotto le
ciglia scure uno
sguardo lungo, audace, brillante.
Che ballasse con
chiunque. Lui l’avrebbe avuta dopo, nel suo letto, per tutta
la notte.
Njord e i membri
dell’aristocrazia con cui si era dato convegno non riuscirono
a catturare
completamente la sua attenzione, quella sera. Non del tutto, almeno. E
questo
fu motivo di profondo fastidio, per Loki. Concentrarsi, studiare,
riflettere,
erano attività che erano congeniali alla sua natura astuta e
manipolatoria, ma
la musica ovattata che proveniva dalla sala accanto, dove Sigyn,
bellissima e
con le guance rosse, ballava e rideva, lo distraeva. Non al punto di
rendere meno
efficaci e pungenti i suoi ragionamenti, era ovvio, ma abbastanza da
indispettirlo, da svegliare un’insoddisfazione oscura nel suo
petto. L’immaginazione
lo tradiva, ricostruendo con ferocia lo scenario che si svolgeva poco
distante
da lui – lei tra le braccia di un altro, chissà
fino a che punto innocue. Inezie
che non dovevano interessargli, ma che, nonostante tutto, lo
infastidivano.
Perché? Forse era a causa dello sguardo grigio di Sigyn, che
lo rimproverava in
silenzio di non aver voluto chiedere la sua mano, preferendo quella
relazione
illecita e pericolosa? Accantonò l’idea con una
scrollata di spalle, perché il
vecchio Njord, sentendosi offeso da un re vicino, desiderava scatenare
una guerra,
incurante del fatto che per simili imprese, sempre e comunque incerte,
occorre
una quantità di oro capace di gettare in ginocchio sovrani
come il fu Odino. Ma
il re dei Vanir, che era stato cauto e parsimonioso per tutta la sua
vita, ora,
grazie a Loki, nutriva sogni di gloria. Voleva vivere gli ultimi anni
che gli
restavano – frase che ripeteva da almeno un decennio, da
molto prima che Loki
gli chiedesse asilo, in una corte splendida e temuta com’era
Asgard. Quindi,
per una volta, all’ingannatore toccava lo sgradevole compito
di dissuadere l’anziano
e capriccioso sovrano dall’idea malsana che fosse opportuno
muovere guerra,
facile ottenere una schiacciante vittoria. Freyr non c’era,
era scappato nel
quartiere dei bordelli a trovare consolazione tra le braccia del suo
amore
proibito e a sperperare nel vino il denaro che gli aveva prestato. A
caldeggiare la volontà del vecchio re c’era, in
particolare, un ricco nobile, padre
di un pusillanime che l’Ase aveva sorpreso mentre era intento
a fissare Sigyn
col suo vestito di seta color tramonto.
“Come
mai Lingua
d’Argento si rifiuta così ostinatamente di
assecondare il re che lo ha così
tanto favorito?” disse a un certo punto l’uomo.
Loki
s’inumidì le labbra
sottili, inghiottendo il rancore che quella frase volutamente arrogante
causava. Lui era un principe di Asgard, il legittimo erede di
Jotunheim. Nelle
sue vene ribolliva il sangue di condottieri e sovrani, non di oscuri
cortigiani
saliti alle vette del consiglio per aver pagato il proprio posto.
“Perché ho comandato le armate di Asgard mentre
voi cardavate la lana e
sceglievate il colore con cui tingerla,” sibilò.
L’altro impallidì e l’Ase ne
approfittò per riservargli la stoccata finale. “Io
ho perso il conto delle
battaglie a cui ho partecipato – delle vittorie ottenute. E
voi?”
Il Vanir non
ebbe il
tempo di rispondere. Sigyn, che aveva smesso di ballare, fece il suo
ingresso
ufficialmente per augurare la buonanotte a suo nonno, ufficiosamente
per far
sapere a lui, Loki, che si sarebbe recata nelle sue stanze. Aveva le
guance
rosse e le ciocche dorate erano a malapena trattenute dai fermagli che
le
imprigionavano da inizio serata. Loki l’osservò
chinarsi verso il vecchio,
ammirò la rapidità con cui il suo sguardo si
posò su di lui senza far emergere
nulla. Ancora una mezz’ora di discussione, utile
affinché nessuno sospettasse
nulla, e poi l’avrebbe raggiunta, vendicandosi per la bella
risata di lei, per
la linea flessuosa del suo corpo snello e attraente.
Sciorinò numeri, stime,
considerazioni anche accese, mentre le dita nodose di Njord cercavano
di
placare gli animi. Il re dei Vanir gli avrebbe dato ascolto, alla fine,
perché
pur cercando la gloria non era uno sciocco e sapeva che il suo ministro
più
sagace non amava giocare partite in cui non era certo di poter ottenere
il
massimo risultato. Ma era poi vero? Quando, molto
più tardi di quanto
avesse inizialmente pronosticato, riuscì a incamminarsi
verso i suoi
appartamenti, non riuscì a stupirsi completamente della
situazione in cui si
trovava, governata sempre più dal caos che dalla
pianificazione. Aveva un
evidente vantaggio tra le mani, ma preferiva sfiorare con le dita le
fiamme,
sentirne il calore sui polpastrelli, che agire.
Lei lo attendeva
con
l’abito con cui aveva ballato per tutta la sera ancora
indosso, ma aveva
liberato i capelli dorati dal giogo dei fermagli. Così, ora,
la chioma ricca e scarmigliata,
illuminata dalla luce calda delle lingue di fuoco che si rincorrevano
nel
camino, le ricadeva sulle spalle nude, sulla schiena diritta.
“Njord
è diventato un
guerrafondaio,” spiegò, tralasciando di
rimproverarla per le perle e i coralli
che aveva posato su un grande tavolo di quercia dove avrebbero potuto
perdersi,
confondersi, tradirli.
Sigyn gli
rivolse un
sorriso triste e chiuse il libro che stava sfogliando. “Siamo
più ambiziosi di
quanto meritiamo.”
“Il
potere inebria. Corrode.
Chiede un prezzo sempre più alto,” le rispose,
scoprendosi con la gola secca.
Sotto lo sguardo liquido e attento di lei, si versò una
coppa d’idromele e
gliene offrì una, ma la ragazza scosse il capo con lentezza,
perché i gesti di
lui e quelli di lei erano la replica esatta di altri, vissuti mesi
prima, quando
erano ancora liberi dall’incanto che li aveva avvolti.
Se Sigyn non gli
avesse
scritto, forse Loki avrebbe continuato a discutere con Njord, senza
preoccuparsi di far terminare il consiglio. Senza quel pericoloso
biglietto che
doveva diventare cenere il prima possibile, ma che, per qualche
immotivata
ragione, l’Ase teneva ancora nella giubba di fine pelle di
Asgard, lui si
sarebbe gettato nell’ampio e sontuoso letto a baldacchino da
solo, senza
trascinarci lei, che aveva desiderato per tutto il pomeriggio e la
sera. Sigyn
gli aveva teso una dolcissima trappola e lui aveva scelto di abboccarvi.
Accarezzò
la seta calda
che le cingeva la schiena, scostò la massa dorata dei suoi
capelli per
liberarle la zona sensibile della nuca e le spalle scoperte,
leggermente
infreddolite – i suoi appartamenti erano posti nella parte
posta più a nord di
tutto il palazzo, le finestre si affacciavano verso il confine con
Asgard dai
fiordi di ghiaccio, invisibile all’occhio nudo, ma presente
laggiù, oltre la
linea dell’orizzonte. Il regno di Padre Tutto e di Thor, il suo
regno,
quello che aveva difeso e combattuto a viso aperto nonostante i
tradimenti e
gli inganni. Le dita dell’Ase ghermirono il seno di Sigyn
protetto dal corsetto
di seta, scivolarono verso la gonna vaporosa che celava i fianchi sodi
e
rotondi, così squisitamente femminili. Chi
catturava chi, in quel loro
gioco iniziato per colpa di una gentilezza inopportuna – una
porzione di
biscotti al miele, ma tessuta dalle Norne invidiose
senz’altro prima?
Sigyn sospirava al tocco delle sue dita – si scioglieva,
piegava il collo per
assaggiargli le labbra e ottenere un bacio lungo, capace di annullare
il tempo,
di far sparire gli eleganti appartamenti del dio
dell’inganno, sempre ingombri
di artefatti magici, libri, pergamene arrotolate e armi luccicanti.
Erano perduti.
L’angolo di Shilyss
Care Lettrici e cari Lettori
del mio cuore ♥ ♥!
Rieccoci qua con i Loki e Sigyn
nella versione di Tutte le mie bugie, la
mia prima long (la trovate
a pagina 3 del profilo). La storia si è ampliata, loro mi
impongono di
continuare a raccontare e io obbedisco senza fiatare, barcamenandomi
con la
real life e lo scarso tempo a mia disposizione. Poi ci si sono messe
pure un
paio di idee niente male, quindi, si continua. ^^
Per quanto concerne
“Tutte
le tue bugie” non è necessario averla letta, ma tenete presente che la Sigyn
che vedete per
buona parte del racconto è molto giovane,
però ve la consiglio perché è una
storia che secondo me merita – se avessi tempo la
revisionerei per bene, ma
anche così credo sia fruibile. Nel prossimo capitolo
torneranno Sonje e Vali;
in questo ho voluto mostrarvi il periodo più roseo della
relazione tra Loki e
Sigyn, quello dopo Asgard, ma prima che Theoric si facesse avanti.
Spero sia
cosa gradita. Da domani, mi metto sotto con la fine di Ciò
che resta delle tenebre
♥.
Ringrazio con tutto il cuore
i vecchi lettori, i nuovi lettori e tutti coloro che listeranno,
recensiranno o
semplicemente leggeranno questa storia: a parte gli scherzi (lokini)
siete importanti e
sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non
rispondo
pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano,
ecco.
Seguitemi sulla pagina fb (o
scrivetemi anche lì) per info, curiosità,
aggiornamenti (trovate il link in
bio) e…
Ricordo che il personaggio
di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su Wikipedia, è una mia
personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Loki e Sigyn
nel mito
hanno dei figli insieme, Vali e Narvi. Vali me lo sono tenuto, Narvi
l’ho
sostituito con Sonje, personaggio di mia invenzione. Nel mito Sigyn non
eredita
proprio niente, quindi anche qui è una mia idea. Non
vi autorizzo a
ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate
né qui
né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale
per gli headcanon su
Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Lo stesso vale per il ruolo di
Loki presso
Njord, per le cariche che Loki ricopre in questa Vanheim. Creare un
mondo con
usi e costumi non è uno scherzo.
Comprendetemi per queste
precisazioni, ma scrivo su questo fandom dal 2017 e ne ho viste di
tutti i
colori.
A presto e grazie per tutto
l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate
me).
Vostra,
Shilyss
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Capitolo 13 *** Legarsi ***
Legarsi
I
fell in to a burning ring of fire
I
went down, down, down
And
the flames went higher
And
it burns, burns, burns
The
ring of fire, the ring of fire
(Ring
of fire, June Carter, cantata da Johnny Cash)
Vali Lokason era
vispo
come sua sorella Sonje e aveva la testolina ricoperta di ciuffi soffici
e
chiarissimi, che facevano presagire come avesse ereditato i capelli
d’oro di
sua madre. Lo sguardo, per diverso tempo, era stato di un colore
incerto, ma
poi si era attestato sulla medesima sfumatura brillante di suo padre,
quel
verde intenso che però, in lui, avrebbe assunto una
sfumatura più dolce, meno
spietata. Guardando suo figlio, Loki avrebbe sempre riconosciuto
quest’immensa
differenza, tra loro. L’anima di Vali, pure se corrosa da
ombre cupe quasi
quanto quelle del dio dell’inganno, avrebbe sempre posseduto
una luce in più.
Qualcosa di scintillante ereditato da lei
– una fiducia nelle persone e
nelle cose che lo scaltro mago non aveva mai posseduto. Ma soprattutto,
era il
primo maschio a nascere nella schiatta reale di Vanheim da lunghissimo
tempo. Era
sano, forte e bello e tutti volevano rendergli omaggio, per vedere da
vicino
quella famiglia così strana di cui si era tanto parlato. Di
Sonje si sarebbe
sempre detto che era stata lo strumento con cui Loki si era insinuato
nella
famiglia di Njord, ma Vali era la prova che quell’unione su
cui nessuno avrebbe
mai scommesso reggeva. Sigyn sfoggiava la radiosa stanchezza di una
madre
felice, ma dietro allo sguardo innamorato che riservava ai suoi bambini
e al
marito c’era un velo di preoccupazione che non sapeva
spiegarsi né spiegare.
Era come
un’onda che
l’avvolgeva, sommergendola, nei momenti più
disparati, un senso di pericolo
impossibile da scacciare. Aveva sentito della profezia fatta dal mostro
sotto
il tempio. Vali, che s’addormentava tra le sue braccia o in
quelle di suo
padre, era stato chiamato lupo. Su di lui pesava un destino incerto, ma
già
filato. E se Loki, nella sua regala tracotanza, ignorava e anzi sfidava
quelle
parole oscure e cariche di presagi, lei non riusciva a farlo.
Le sembrava che
la
felicità che le scaldava il petto anche il quel momento
fosse fatta di
cristallo: davanti a lei Loki, fiero ed elegante come suo solito,
cullava il
loro secondogenito col piglio sicuro di chi sa esattamente cosa sta
facendo,
mentre Sonje seduta sulle sue ginocchia, si impegnava in un disegno. Un
simile
momento così tenero e raro doveva essere protetto e
custodito con cura: non
meritava di essere sprecato preoccupandosi inseguendo problemi futuri e
lontani, incontrollabili. Alcune minacce potevano essere sventate e
contrastate, ma altre no, andavano affrontate solo quando e se si
fossero
presentate. Questo le diceva Loki con la sua voce ammaliatrice e sicura
–
questo si ripeté sperando di convincersi e dando un bacio ai
ricci neri della
sua bambina.
“Mamma,
perché tieni una
penna in mezzo ai gioielli?” domandò di punto in
bianco Sonje, voltandosi verso
di lei e fissandola con quei suoi occhi indagatori.
Sigyn sorrise,
scostandole
una ciocca ribelle dal visino. “In qualche modo lo
è. Me l’ha regalata il tuo
papà,” spiegò.
La bimba
assottigliò le
palpebre in un modo che le ricordò terribilmente Loki: la
spiegazione che le
aveva dato non la convinceva del tutto, dedusse.
“Perché
non la usi mai
per scrivere, allora?”
“L’ultima
volta che l’ho
usata è stato al nostro matrimonio.”
Quell’affermazione
fece
scintillare d’interesse lo sguardo grigio di Sonje. Amava le
storie che le
raccontava zio Thor su suo padre e moriva dalla curiosità di
sapere come i suoi
genitori si fossero conosciuti e innamorati. Non era un racconto che
potesse
ascoltare una bambina, ma, per fortuna di Sigyn, la
curiosità della figlia si
concentrò sulla cerimonia. Lasciò stare il
disegno, afferrò per la coda il
coraggioso Gatto Too, fedele animale di pezza che si portava dietro
ovunque e,
con la vocina più supplichevole di cui era capace, chiese a
sua madre di
raccontarle tutto, ogni cosa.
***
Erano state
nozze
sontuose ed elaborate, organizzate in poco meno di due cicli lunari.
Njord
aveva posto come condizione che il popolo non individuasse nessuna
rotondità
capace di ricordargli le circostanze in cui quell’unione si
celebrava. Loki
aveva acconsentito: quando stringeva degli accordi o stipulava dei
contratti,
amava che le firme dei contraenti fossero apposte il prima possibile,
per
evitare scomodi ripensamenti e sugellare il prima possibile quanto
deciso.
Sigyn portava in grembo un figlio loro – una figlia, per
l’esattezza.
L’ingannatore non poteva assolutamente tollerare che Njord,
spinto da Freyr, da
qualche famiglia nobile fintamente offesa come il casato di Theoric o
vittima,
come Odino, di una turba mentale di quelle che prendono in vecchiaia,
osasse
sfidare apertamente lui e Asgard dopo quanto era stato detto e fatto in
sua
presenza. L’ombra scura del Tempio non era stata ancora del
tutto cancellata e
non lo sarebbe stata finché Sigyn non fosse diventata
ufficialmente sua moglie.
Prima si
celebravano
quelle nozze e con più facilità i rapporti tra
lui e il vecchio re si sarebbero
ristabiliti.
Sigyn non ebbe
nulla da
obiettare, al riguardo. Comprendeva e condivideva le loro ragioni. In
quanto
nipote del re, aveva sempre saputo che il suo matrimonio sarebbe stato
più
fastoso di quanto lei stessa avrebbe desiderato. Se avesse sposato un
nobile di
Vanheim, però, il rituale sarebbe stato più
semplice, la cerimonia, per quanto
sfarzosa, molto più contenuta e meno d’impatto. Ma
lei, contro ogni sua
previsione, sarebbe diventata la sposa del dio dell’inganno,
del principe
perduto di Asgard, dell’erede al trono di Jotunheim, del
grande mago e
condottiero il cui nome era noto a tutti, nei Nove Regni. Tra le cose
messe in
chiaro da Loki, su cui l’Ase non intendeva trattare,
c’era che la loro unione
mescolasse i riti dei tre grandi regni di Asgard, Jotunheim e Vanheim.
Una
serie di passaggi e di formule che lo scaltro ingannatore avrebbe
memorizzato e
sfoggiato con la consueta eleganza spigliata, ma su cui lei, che pure
era una
principessa dei Vanir, avrebbe potuto inciampare.
E poi,
c’era l’altro
grande interrogativo, quello messo su pergamena la notte in cui aveva
accettato
la sua proposta, prima di fare l’amore con lui – la
prima come coppia
ufficiale, mentre Loki sfoggiava ancora i segni della battaglia contro
il
fratello e aveva il braccio immobilizzato e steccato. Un contratto
sottoscritto
da entrambi, che conferiva a Sigyn la libertà che aveva
sempre sognato e un
matrimonio in cui non fosse schiava di suo marito, ma la fiera
compagna. Parole
che l’inorgoglivano, che sperava potessero cambiare le cose
nel suo paese, ma
che si augurava non rimanessero lettera morta. Per far sì
che questo accadesse,
l’unione con Loki avrebbe dovuto funzionare, ma i sentimenti
e le relazioni hanno
evoluzioni impreviste, sono soggette alle tempeste della vita. Non
c’era nulla
che le garantisse che sarebbe stata felice con lui, che
l’amore che le
scioglieva il cuore, capace di farle fare follie, l’avrebbe
protetta dalla
sofferenza. Loki era mutevole, ambizioso, volitivo, audace ed egoista.
Si
sarebbe stancato di lei e del figlio che aspettava? Oppure sarebbe
venuto il
giorno in cui lei stessa, Sigyn, non sarebbe stata in grado di
sopportare
quelle ombre che gli avvelenavano il cuore, così dense da
essere quasi
tangibili?
Nel corso della
loro
relazione burrascosa non aveva mai immaginato un futuro con Loki.
Anche
solo osare sognarlo le era sempre parso
un desiderio bambinesco, a cui era folle abbandonarsi. Per un momento
aveva
osato sperare, ma quel suo sogno era stato brutalmente soffocato dal
dio
dell’inganno stesso. Ma ora che tutto era diventato reale e
possibile, ora che
le migliori sarte di Vanheim si erano già messe al lavoro
per confezionare il
più bell’abito della loro vita mostrandole le sete
più pregiate e i pizzi più preziosi,
temeva che qualsiasi cosa ci fosse tra lei e il dio
dell’inganno potesse
infrangersi contro i flutti dell’esistenza.
Le sembrava di
osservare
la vita di un’altra Sigyn – non poteva essere lei,
quella ragazza in piedi,
fasciata dalla seta più candida, futura moglie
dell’uomo di cui era innamorata,
futura madre di un figlio che già cresceva dentro di lei.
Solo dieci giorni prima
la sua vita era completamente differente – si era trasformata
in incubo da cui
non sapeva come svegliarsi.
“Sorridi,
Sigyn. Sarai
bellissima.”
Freya guardava,
insieme a
lei, il suo riflesso nello specchio. Ma mentre l’esperta zia
pareva soddisfatta
dalla sua immagine riflessa, lei continuava a non riconoscersi. La
struttura
imbastita e appena abbozzata della gonna e del corsetto la fasciava con
delicata
grazia, i capelli erano acconciati in modo da caderle graziosamente su
una
spalla lasciandole, però, scoperto il viso. Ecco i primi
tentativi di
trasformarla nella moglie del dio degli inganni. Era la Sigyn di
sempre, quella
che la fissava nella cornice? Lo sguardo preoccupato, le labbra serrate
ancora
offese dallo schiaffo di Freyr, le guance pallide che risentivano delle
nausee
mattutine? Si aggiustò la stoffa all’altezza del
seno.
“Ho
troppe cose da tenere
a mente, per questo matrimonio,” iniziò,
accennando un sorriso debole, tirato.
Dentro di lei c’era un bambino. Questa consapevolezza ancora
la meravigliava.
Il terrore di perderlo e l’ostinata volontà di
nascondere la sua relazione con
Loki non le avevano concesso di riflettere su ciò che le
sarebbe capitato,
sulla trasfigurazione della sua esistenza il cui primo segno era la
donna,
identica a lei eppure differente, che la fissava con
curiosità attraverso lo
specchio.
Freya le cinse
le spalle.
“Sei stata educata come una principessa per questo, Sigyn. Te
la caverai, lo
so. E poi, se anche l’emozione dovesse vincerti, vederti
commossa piacerà al
popolo. Ti adoreranno.”
“Anche
se ho
contravvenuto alle nostre leggi?”
“Lo
hai fatto per amore e
rimedierai nel più consono dei modi. Come in una
fiaba,” sentenziò la donna
senza alcuna incertezza nella voce cristallina. Si alzò per
prendere delle
stoffe e avvicinargliele al viso, scartandone immediatamente uno.
“Non essere
severa con te stessa, non pensare più a ciò che
è stato. Avrete un bambino – che
sarà l’erede di Vanheim e di molte altre cose.
Pensa solo a questo.”
“Mi
spaventa, questo. Non
so se sarò adatta,” confessò Sigyn
rapida, lisciandosi la gonna. “Non so se
sarò pronta. Non so se sarò una brava madre. E
non so se sarò una brava moglie.”
Sospirò. “E se a Loki, questo,
basterà.”
“È
normale che tu sia
preoccupata, che tu abbia dei dubbi e sia piena di
interrogativi,” sorrise
Freya dopo averla ascoltata, accarezzandole le spalle nude.
“Ti sono successe
troppe cose impreviste in troppo poco tempo, bambina mia. Se tu fossi
certa di
essere una buona moglie e un’ottima madre, sono sincera, mi
preoccuperei. Ma nella
vita certe cose si imparano vivendole e basta, giorno dopo giorno,
domandandoci
sempre se stiamo facendo la cosa giusta per coloro che amiamo. Non
c’è un altro
modo, Sigyn. E non c’è modo di sapere, oggi, se
Loki si accontenterà di questa
vita o vorrà dell’altro – non lo sa
neanche lui. Lo conosco da più tempo di te,
però, e posso dirti che per quanto sia imprevedibile e
inafferrabile, le sue
scelte sono sempre ponderate. Non ti avrebbe chiesto di sposarlo, mai,
se non fosse stato assolutamente certo di volerlo.
Ora, però, pensiamo
al tuo vestito. Potremmo rendere la gonna più ampia e
vaporosa, così, e
mostrare un po’ le spalle. Che ne dici?”
Sigyn si
guardò critica
allo specchio. “C’è ancora qualcosa che
non mi convince, zia.”
“Dell’abito,
spero.”
La ragazza
esitò. “Dell’abito,
sì.”
“Sii
sincera.”
Sigyn si
voltò verso
Freya. “Le discussioni non sono terminate, zia. Ogni
particolare della
cerimonia, ogni dettaglio, è approvato solo dopo trattative
sfiancanti. Di
alcuni non mi preoccupo, ma di altri sì,” si
sfogò, tormentandosi con le dita la
splendida collana d’ametista forgiata dai Nani.
“Immagino lo avrai saputo. Loki
vuole che abbandoni del tutto le mie stanze e mi trasferisca qui. Non
gli
interessa lo scandalo che nasce dal vivere insieme. Il nonno
è furioso: temo una
sua reazione sconsiderata. Queste nozze potrebbero saltare da un
momento
all’altro, insieme alla pace, per un dettaglio
così insignificante?”
Freya
annuì. “Njord deve
essere infuriato. Ne va del suo ruolo. Ma non muoverà mai
guerra contro Loki e
Thor insieme.” Sospirò, prima di concludere.
“La decisione di Loki è la più
saggia – è la migliore per te.”
Sigyn
inarcò un
sopracciglio. “Lo dici come se sapessi qualcosa che non
so.”
“Per
favore. Pensiamo
al tuo vestito, alla tua acconciatura, ai fiori più belli
con cui decorare il
palazzo, agli arredi della tua nuova casa – il castello di
Loki, dove vi
trasferirete, è quasi pronto. So che ti ha chiesto di
scegliere gli arredi e di
controllare che tutto sia di tuo gradimento. In questi giorni, ti
prego, dedicati
al meglio che questa situazione può offrire.”
“Njord
mi ha chiesto di
essere ragionevole e di lasciare queste stanze. Di convincere Loki a
cedere su
un punto così offensivo, per lui. A rinunciare a qualche
notte insieme per
Vanheim.”
“Rinunceresti
a qualcosa
che prima cercavi nonostante fosse rischioso?” Freya le
girò attorno,
appuntandole un lungo pezzo di stoffa ricamato sulla gonna.
“Dai retta a Loki,
Sigyn. Contraddirlo ai banchetti, come facevi, sarà stato un
modo involontario
per attirare la sua attenzione, ma non è utile,
adesso.”
“Vorrei
passare ogni
minuto con lui, zia. Ma conosco i miei doveri verso Vanheim.”
“Sarai
una principessa
responsabile, ma dovresti smetterla di sentirti così
colpevole e fare quello
che ti ho detto: dargli retta. Tutti, a Vanheim, lo
abbiamo sempre fatto
e finora non ce ne siamo mai pentiti.” Stavolta nel tono
della figlia di Njord
c’era una nota severa, che non sfuggì alla
ragazza. Era vero, si sentiva in
colpa. Di più, una parte di lei riteneva di essere in debito
col proprio destino
– un giorno, questo sentimento si sarebbe tramutato in un
peso insostenibile, che
l’avrebbe spinto fino alle soglie di quel Tempio che
l’aspettava, accogliendo
tante ragazze come lei, ma più sfortunate.
“Mi
nascondi qualcosa?”
domandò abbassando le lunghe ciglia scure.
“Vuole
che tu rimanga qui
per tenerti al sicuro, Sigyn,” sospirò stancamente
la donna. “C’è chi protesta
e non desidera affatto questo matrimonio, tanto da preferire una
guerra. Chi ti
vuole vedere marcire al Tempio e non esiterebbe a tentare un colpo di
mano, con
la scusa che Njord vuole consegnare il suo regno a Loki figlio di
Odino. Ma il
tuo promesso sposo, lo sai bene, è un uomo molto furbo e
accorto. Per gli Æsir
vivere insieme è, di fatto, per sé stessa,
un’unione regolamentata e valida.
Qui Loki può proteggerti e reclamare il suo diritto. Vivendo
insieme e portando
in grembo un mezzo Ase, siamo abbastanza certi che non ti
succederà niente.”
Sigyn
sentì il cuore accelerare
i battiti. Le dita smisero di tormentare la bella collana e scesero sul
ventre
ancora piatto. “Sarà sempre così, non
è vero?”
“Fino
al giorno delle
nozze, sì. Dopo, nessuno oserà toccarti,
Sigyn.”
C’era
un’altra buona ragione
che aveva spinto Loki Laufeyson a volere nei suoi appartamenti la
giovane
principessa di Vanheim: una che Sigyn intuiva – la stessa che
l’aveva spinta a
considerare la proposta del vecchio Njord. Loki cercava lo scandalo.
Desiderava
che tutti li sapessero una coppia. Sfoggiare in questo modo il loro
legame era
un attacco non solo alla rigidissima morale di Vanheim, ma
rappresentava anche
una tutela per la proposta estorta a Njord. Il vecchio re avrebbe
incontrato
non poche difficoltà nel tentare di stringere un altro
accordo matrimoniale per
Sigyn, se nessuno avesse dubitato che fosse stata la sua amante.
L’ingannatore
fece
schioccare la lingua contro il palato: presto avrebbe dovuto dare un
nome
diverso al legame che aveva con lei. Entrò nei suoi
appartamenti che era notte
fonda, grato di non trovarli ancora invasi dalle stoffe preziose che
Sigyn
stava scegliendo, come era accaduto nelle ultime sere. Forse quella
piccola
Vanir insolente aveva, finalmente, scelto, dedusse piegando le labbra
in un
ghigno breve e soddisfatto. Il braccio che Thor gli aveva rotto nel
loro
ultimo, fatale, scontro, gli faceva ancora un male dannato, ma Loki era
un
guerriero di Asgard, abituato a ingoiare la sofferenza e a preferirla
al potere
stordente di intrugli e medicine, di cui era bene non abusare. In quei
giorni
concitati doveva occuparsi di troppe questioni e i suoi compiti, che
già lo
vedevano perennemente in movimento, si erano amplificati. Si
sfilò la
bandoliera con un sospiro di dispetto, avanzando a passi decisi verso
la camera
da letto. Lì, al tenue bagliore di un fuoco ormai
semispento, Sigyn, avvolta in
una delle sue tuniche, con i capelli sciolti sulle spalle, scriveva con
la
bella penna dalla piuma nera che le aveva regalato. Sentendolo
avvicinarsi si
voltò nella sua direzione, stropicciandosi col dorso della
mano gli occhi
assonnati.
“Ho
trovato un modo per
riuscire a dotare almeno altre dieci ragazze,” gli
spiegò. Aveva le dita
macchiate di inchiostro e uno sbaffo scuro le aveva sporcato la guancia.
L’ingannatore
arcuò le
labbra in una smorfia divertita. Sigyn, fedele alla sua indole, stava
cercando
di trasformare le loro nozze in un’occasione per agire in
prima persona contro
le storture di una società chiusa, per molti aspetti meno
libera della
selvaggia Asgard, temuta e invidiata, ma anche guardata con un misto di
curiosità e di interesse.
Era un costume
di
Vanheim, ma non solo, che il popolo beneficiasse di unioni principesche
come le
loro. La consuetudine voleva che gli sposi offrissero in dono a delle
ragazze –
generalmente una decina – una buona dote e pagassero anche
ogni spesa relativa
alla loro cerimonia. Nella consolidata usanza, Sigyn aveva scorto la
possibilità e il dovere di aiutare più giovani
donne possibili, perché il suo
spirito irrequieto le aveva fatto scoprire già da tempo la
povertà in cui versava
buona parte della sua gente.
“Dovresti
essere a letto.
A riposare.”
“I
giorni scorrono
velocissimi e certe questioni non possono attendere.” Si
alzò per abbracciarlo
e poggiare la testa contro il suo petto ampio e largo, in un gesto
d’affetto
che le era sempre stato negato. L’Ase rispose
all’abbraccio dopo un momento di
esitazione, cingendola per le spalle sottili, sfiorandole le ciocche
sciolte.
Sigyn socchiuse
gli
occhi. “E poi, ti stavo aspettando,” gli
confessò.
Non aveva idea
di cosa
sarebbe diventata Vanheim, se un Loki sconfitto e traboccante di
orgoglio
ferito non avesse bussato alla porta di Njord, promettendo onori e
gloria in
cambio di ospitalità. Il suo futuro marito era stato bravo
anche in questo, nell’individuare
certe correnti sottese in un popolo stanco e nel porvi, lentamente e
inesorabilmente, rimedio. Prima del suo intervento, Njord, Freyr e
Freya
generavano malcontento per la loro lontananza dai problemi della gente
affamata
e stanca, per la strascicante mancanza di decisioni, per lo sperpero
dovuto al
mantenimento di una corte troppo fastosa. Loki era riuscito
nell’impresa di
rendere nuovamente grande Vanheim, trasformandola in un regno potente
tanto da
tenere testa alla ricca Asgard di Odino, premendo affinché
importanti riforme e
razionalizzazioni diventassero realtà. In un certo senso,
era riuscito a usare
anche Sigyn per i suoi scopi. Sfruttando la sua inclinazione nel voler
aiutare
il prossimo e approfittando delle discussioni in cui lo coinvolgeva nei
banchetti – liti esasperanti per lei, divertentissime per lui
– le aveva
suggerito, in maniera più o meno velata, di esporsi come
poteva per raddrizzare
almeno un po’ tutte quelle situazioni che la indignavano.
Njord era anziano e
stanco, Freyr aveva problemi con l’alcool e sperperava tutte
le sue energie nei
bordelli, Freya passava le sue giornate a occuparsi di stregonerie e a
farsi
corteggiare dai suoi numerosi spasimanti, ma la piccola Sigyn, che
nelle sue
pur rare apparizioni pubbliche ascoltava con partecipazione le
lamentele della
gente, contribuiva a ridare un pizzico di fiducia in una casa regnante
altrimenti avvertita come disinteressata e lontana.
Ora lei si era
abbandonata contro il suo petto, in cerca di una protezione che aveva
fieramente ricusato quando era stata accusata di fronte a tutta la
corte di aver
avuto un amante, di aspettarne il figlio. Loki sospirò e
s’inumidì le labbra.
Il braccio gli doleva sempre di più e desiderava sopra ogni
altra cosa bere un
corno di idromele per attutire almeno un po’ quelle fitte
persistenti, ma era
troppo acuto e intelligente per ignorare che Sigyn stava affrontando le
loro
importanti, improvvise e sontuose nozze nel modo sbagliato –
lasciandosi
vincere da un passato che non aveva ancora lasciato andare, cercando di
accontentare chi non doveva essere accontentato, tacendo su questioni
che,
invece, sarebbe stato meglio affrontare.
“Ritengo
sia più che
normale, nella tua posizione, avere paura, sentirsi incapace di gestire
tutti
questi cambiamenti inattesi, avvertire il peso di tante incombenze,
troppe
novità,” iniziò
l’ingannatore. “Sposare me è
più complicato che sposare
quell’idiota di Theoric – e poi, con lui avresti
aspettato almeno un altro
anno. Quant’è passato da quando sono tornato e ti
ho trovata in piedi di fronte
a tuo nonno, col segreto di cui non mi avevi graziosamente messo a
parte
svelato? Sette giorni,” le
sibilò. “Solo sette giorni fa
non
eravamo niente, tu eri fidanzata con un altro, tra noi era tutto
finito.”
Sigyn
annuì e si scostò.
“Avrei dovuto dirtelo prima che partissi, anche se non avevo
la completa
certezza di essere incinta. Ho cercato di farlo in biblioteca, ma non
mi è
riuscito. Che mi abbiano scoperta è stato un
sollievo.”
“Avevo
intuito che fosse
stato quello il motivo della tua improvvisa dolcezza nei miei
riguardi,” ghignò
Loki, pensando alla sera strana in cui lei lo aveva cercato. Era di
pessimo
umore e non perché l’alba successiva sarebbe
dovuto partire per un’importante
ambasceria – gestire gli imprevisti era un qualcosa che gli
riusciva benissimo
e che si adattava alla sua natura incredibilmente duttile, ma per il
fatto di
aver dovuto insistere più del dovuto con Njord
affinché il vecchio re
comprendesse l’importanza di quel viaggio. Non si aspettava
di incontrare Sigyn,
così come lei non credeva che le sarebbe mancata la voce per
raccontargli della
spaventosa scoperta che aveva appena fatto e non sapeva come gestire.
Lui era
stato troppo tagliente e perfido.
Si erano amati e
cercati
in segreto per molti mesi, prima del fidanzamento di lei. Poi Theoric,
pusillanime amico d’infanzia, erede di una discreta fortuna,
aveva chiesto e
ottenuto la sua mano recandosi da Njord in persona, nonostante il netto
rifiuto
della ragazza. Sigyn si era rivolta a Loki chiedendogli di esporsi, di
dichiararsi al re dei Vanir. Lui aveva rifiutato, determinando la fine
della
loro relazione. Una scelta di cui non si era pentito, che aveva
ponderato con
molta attenzione, ma che, nonostante questo, gli era costata
– ma di questo se
ne era reso conto col tempo, osservando la coppia male assortita,
scontrandosi
con la freddezza scaturita dal cuore offeso di lei. Certi eventi, uniti
a una
passione feroce, li avevano momentaneamente riuniti, ma Sigyn non
poteva
tollerare di vivere una doppia vita o d’ingannare un uomo
verso cui pure non
provava niente. L’aveva avuta tra le sue braccia per un paio
di sere, non di
più.
La biblioteca
era avvolta
da una luce irreale e lei gli era andata incontro, sussurrandogli di
dovergli
parlare di una questione urgente, fatale. Loki era stato scostante e
maligno –
lei gli invadeva già troppo spesso i pensieri, mutando i
suoi piani, rendendo
amare le sue vittorie. Quali questioni urgenti poteva mai avere, per
rubargli
tempo e intrappolarlo in un incontro in un luogo tanto malsicuro?
Se non avesse
scoperto
solo da poche ore di aspettare un bambino certamente suo, Sigyn gli
avrebbe
risposto a tono, ma era troppo spaventata e sconvolta dalla notizia per
essere
abbastanza lucida da affrontarlo e iniziare una delle loro schermaglie.
Si era
difesa con nostalgico rancore, cedendo a
un’emotività che stupì e
infastidì
Loki.
Per zittirla e
consolarla
la strinse a sé e la baciò, anziché
domandarle che le fosse preso. Se lo avesse
fatto, temeva di dover stare a sentire l’ennesimo problema
riguardante il
fidanzamento con Theoric, che gliela avrebbe fatta desiderare ancora di
più,
perché vogliamo disperatamente solo ciò che non
possiamo avere, che abbiamo
perduto. Sigyn rispose al suo bacio, ai suoi baci. Era arrendevole come
non capitava
da mesi. La consolazione che cercava da lui passava anche da quello
– dal
bisogno che la stringesse, la proteggesse, le ghermisse le labbra,
facendola
sentire amata. Lo lasciò fare quando le labbra
dell’Ase scesero sul collo e sul
seno, gli concesse di slacciare il corsetto, sollevare la gonna, per
poi
consumare l’amore in fretta, sul pavimento, tra le colonne
piene di libri della
biblioteca deserta. Loki avrebbe desiderato spogliarla completamente,
per
percorrere con la bocca ogni sua curva, dal collo delicato ai seni
piccoli e
sodi, fino alla dolce linea dei fianchi protesi, del ventre piatto,
dalla pelle
morbida. Ma non c’era tempo, mancava l’occasione.
Poteva scostare e maledire la
seta pregiata che la ricopriva, spostandole con un gesto secco e
urgente la
stoffa ricamata dei suoi indumenti intimi per non perdere tempo
prezioso. Sigyn
non lo fermò, ma lo cinse tra le braccia in preda al
medesimo desiderio, grande
quanto la consapevolezza di stare commettendo un errore – ma
come dire a Loki
che aspettava un figlio? Come l’avrebbe guardata, poi, lui?
Prima di entrare in
lei, l’ingannatore avrebbe potuto interrogarsi
sull’opportunità di unirsi a lei
in quel modo, sulle strane circostanze che li avevano condotti
lì e sul pallore
sospetto di Sigyn, sul suo sguardo da cerva braccata. Non lo fece
– la
desiderava e basta, e quando il caos li avvolse, improvviso e violento,
dovette
chiuderle la bocca con una mano e mordere la propria,
affinché i loro sospiri
rotti dal piacere non li tradissero.
Dopo, si
sistemarono in
fretta per rendersi presentabili. Loki disse, con voce maligna, che non
avevano
più tempo, nessuno dei due, per discutere di
alcunché. Sigyn, avvampando, si
rese conto che era vero – era in ritardo per
l’ennesima, sfiancante e inutile
festa.
E quella sera,
quando si
era seduta accanto a Theoric e lui l’aveva baciata sulle
labbra, lei si era
sentita la peggiore delle donne di Vanheim, perché aveva
addosso il profumo di
Loki e il ricordo delle sue mani di mago che percorrevano il suo corpo,
perché
aveva ansimato amandolo con l’intensità di sempre
e perché aveva in grembo suo
figlio, ma il suo destino era di sposare un altro. Uno che stava
ingannando suo
malgrado, che non avrebbe mai saputo né potuto amare.
Da quella notte
erano
passati solo dieci giorni. “Vorrei dirti cosa avrei fatto, se
quella sera
avessi potuto dirtelo o se non mi avessero scoperta prima,”
sospirò Sigyn, a disagio.
L’angolo
di Shilyss
Care
Lettrici e cari Lettori del mio cuore ♥ ♥!
Rieccoci
qua con i Loki e Sigyn nella versione di Tutte le
mie
bugie, la mia prima long (la trovate a pagina 3 del
profilo). Non è
necessario averla letta, ma tenete presente che la Sigyn
che vedete per
buona parte del racconto è molto giovane e vi si fanno
parecchio riferimenti,
però ve la consiglio perché è una
storia che secondo me merita – se avessi
tempo la revisionerei per bene, ma anche così è
più che fruibile e ne sono
abbastanza fiera. Mi sono resa conto che non ho mai scritto nel
dettaglio del
matrimonio di Loki e Sigyn: in Accordo è accennato, qui
viene saltato a piè pari:
non posso spoilerare, ma è presente in una long breve e in
una shot molto vecchia
e a me molto cara, In direzione ostinata e contraria ♥.
Ma
torniamo a Sigyn: qui siamo a sette giorni dalla fine di Tutte le tue
bugie: la vita di Sigyn ha subito uno scossone enorme, la sua
normalità è stata
spazzata via e al suo posto c’è qualcosa che
nemmeno osava sperare. Inoltre, sa
da pochissimo di aspettare Sonje (vi ricordo che Loki sa, grazie alle
rune, che
avranno una bimba, ma lei no). Gli ultimi anni ci hanno insegnato che
basta un
giorno a cambiare le nostre esistenze in maniera indelebile, quindi
sono
fiduciosa che capirete questo scoramento di una ragazza che pur amando
infinitamente Loki ha paura.
Ringrazio con
tutto il cuore i vecchi lettori, i nuovi lettori e tutti
coloro che listeranno, recensiranno o semplicemente leggeranno questa
storia: a parte gli
scherzi (lokini) siete importanti e sappiate che leggo
tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo
pubblicamente, ma
se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco.
Seguitemi
sulla pagina fb (o scrivetemi anche lì) per info,
curiosità,
aggiornamenti (trovate il link in bio) e…
Ricordo che il
personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su Wikipedia, è una mia
personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Loki e Sigyn nel mito
hanno dei
figli insieme, Vali e Narvi. Vali me lo sono tenuto, Narvi
l’ho sostituito con
Sonje, personaggio di mia invenzione. Nel mito Sigyn non eredita
proprio
niente, quindi anche qui è una mia idea. Non vi
autorizzo a ispirarvi o
peggio a questa versione o alle altre storie da me postate
né qui né altrove
(peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale per gli headcanon su
Vanheim,
su Loki o su Asgard stessa. Lo stesso vale per il ruolo di Loki presso
Njord,
per le cariche che Loki ricopre in questa Vanheim. Creare un mondo con
usi e
costumi non è uno scherzo.
Comprendetemi
per queste precisazioni, ma scrivo su questo fandom dal
2017 e ne ho viste di tutti i colori.
A
presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si
lovva (e spero
voi lovviate me).
Vostra,
Shilyss
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Capitolo 14 *** Il palazzo ***
Il palazzo
If you, if you could get by
Trying not to lie
Things wouldn't be so confused
And I wouldn't feel so used
But you always really knew
I just want to be with you
(Linger, The Cranberries)
Loki riprese a spogliarsi, liberandosi del mantello di un verde talmente cupo da sembrare nero, slacciando la bella corazza di pelle intrecciata, ma senza smettere di guardarla. “Ha davvero importanza, piccola Vanir? Ogni nostra singola azione genera una serie infinita di futuri possibili, soggetti a un’incalcolabile quantità di nostre varianti,” chiosò sfoggiando un mezzo sorriso furbo e ammaliatore. “Ha davvero senso immaginare ciò che presumi sarebbe accaduto se, ignorando la quantità di variabili che ci circondano?”
“Per me lo ha, Loki. Per favore.”
L’Ase rifletté sulle sue parole, scrutando la figura sottile ed eterea della principessa che sarebbe diventata sua moglie. Si sedette sul letto e con un gesto della mano la invitò a sfogarsi, ad aprirgli la sua mente.
Sigyn abbassò lo sguardo. Era ancora in piedi di fronte a lui, ma valutò che fosse più opportuno sistemarsi accanto al mago. Il segreto della sua gravidanza, disse, era emerso a causa di uno svenimento improvviso. Visitandola, i guaritori avevano scoperto la verità che lei celava solo da pochi giorni, di cui era abbastanza sicura, ma non certa, avvertendo immediatamente Njord e Theoric.
“Sono tutte cose che so,” osservò Loki.
“Se Theoric non avesse subito negato di avermi toccata, avrei comunque dichiarato che non aspettavo alcun figlio da lui. Non sarei mai stata capace di fingere.”
“Ma farlo ti avrebbe evitato un considerevole numero di problemi,” osservò il mago, pungente. “Se si fosse dimostrato comprensivo, se avesse deciso di aiutarti nonostante tu l’avessi ferito, davvero avresti rinunciato alla soluzione più comoda, che ti avrebbe salvata dal Tempio, che avrebbe protetto anche ciò che cresce dentro di te?”
Lei annuì con forza, scattando in piedi e sfiorandosi il ventre ancora piatto. “Certi inganni non mi appartengono, Loki di Asgard. Theoric si è dimostrato un uomo meschino imponendomi un fidanzamento e attenzioni che non desideravo. Non lo avrei mai reso padre. Se non fossi svenuta, avrei chiesto il tuo aiuto,” dichiarò in fretta. Le sue guance erano rosse dall’emozione, la lingua si fece improvvisamente muta. “Ma tu, tu che tipo di aiuto mi avresti dato?”
Era una domanda dolorosa, che non aveva avuto il coraggio di porgli quando erano in attesa della sentenza di Njord. L’aveva temuta quella sera in biblioteca, vicina e lontana al tempo stesso, così come ne aveva paura ora che Loki sarebbe diventato suo marito. Si rendeva conto che la loro relazione era ancora fragile, sottile come la serie di clausole e di trattati che avrebbero determinato la loro unione. Sapeva anche che, giunti a quel punto, se la risposta dell’ingannatore fosse stata troppo crudele o spietata, lei non avrebbe avuto la possibilità di annullare le nozze. Facendolo, avrebbe perso quella piccola cosa che già amava disperatamente e cresceva dentro di lei.
Ma Loki, sempre così svelto nel ribattere, tanto sicuro delle sue idee, stavolta pareva dover ragionare a lungo sulla questione, come se non se la fosse mai posta prima d’ora. Era un’illusione, naturalmente. Ci aveva pensato, sciorinandone ogni singolo dettaglio.
“Perché esiti, Lingua d’Argento?” gli sorrise Sigyn debolmente.
L’Ase s’inumidì le labbra. “Ti avrei chiesto cosa volevi fare. Sarebbe stato un tuo diritto, scegliere. Ad Asgard è così che funziona, in questo io credo. Ma tu sei la principessa dei Vanir. Questo bambino sarà l’erede al trono di Vanheim, di Jotunheim e di Asgard stessa. Non so se lo avrei reclamato subito come mio figlio, però. Probabilmente, avrei suggerito un tuo viaggio ad Asgard, per trascorrere lì gli ultimi mesi di gravidanza. Dopo la sua nascita, lo avrei consegnato a qualcuno di fidato. Tu saresti tornata qui.”
“No, Loki: non sarei mai tornata.”
“Questo avrebbe provocato una situazione simile a quella che abbiamo vissuto, presumo.” Si alzò anche lui e Sigyn, guardando il volto di lui affilato e segnato dalla stanchezza, si rese conto di quanto fosse esausto. Immaginò gli dolesse il braccio e si sentì terribilmente sciocca ed egoista, perché anziché limitarsi a essere felice per le sue nozze imminenti col padre del suo bambino, che amava, doveva rovinare quella preziosa serata insieme con recriminazioni, dubbi e ipotesi che non avevano alcun senso, cui Loki rispondeva di malavoglia. Avrebbe desiderato essere più serena, più felice. Accoglierlo come meritava, col sorriso – sarebbe stata una sorta di promessa, un assaggio delle notti che dovevano venire dopo, ma invece non sapeva sciogliere quel groppo che le prendeva alla gola impedendole ogni felicità. E questo non perché non provasse dei sentimenti intensi e veri per il dio dell’inganno, né perché non credesse di pronta ad affrontare la cerimonia lunga e complessa che li attendeva. Si sentiva prigioniera di una fragilità senza nome, profonda e oscura, a cui non era abituata, che non riusciva a razionalizzare o a contenere.
Loki le aveva detto più di quanto avrebbe sperato di sentirsi dire, questo era un fatto, e se anche fosse stato meno loquace ed esplicito ci avrebbero pensato le sue azioni a rendere palese il suo volere. Fino a quel momento si era sempre valsa di questo ragionamento per provare a capire, a interpretare il volere di un uomo che non si abbandonava alle emozioni o ai sentimenti, abilissimo nel mistificare le proprie reali intenzioni e a mutarle per meglio favorire i propri scopi. Ma ora che alcune di quelle volontà si erano fatte palesi, Sigyn cercava in esse l’inganno. Nel momento in cui avrebbe dovuto fidarsi di più di Loki, la sua razionalità veniva meno, i dubbi aumentavano, la sua fedeltà si piegava su sé stessa.
Le disse che avrebbe gradito immensamente sorseggiare un goccio di idromele e stendersi nel letto – e forse, aggiunse, avrebbe fatto meglio a farlo anche lei. Non si dissero altro, per quella sera. L’ingannatore si addormentò sul fianco sano, dandole le spalle. Il suo era il sonno rapido e leggero dei comandanti e dei guerrieri, abituati a cogliere ogni momento di pausa per ritemprarsi da ogni fatica, ma sensibile a qualsiasi mutamento esterno. Vicino al letto, abbastanza da poter essere afferrata in caso di un repentino bisogno, scintillava l’elsa di un pugnale infilato nella sua fodera. Sigyn, accanto a lui, registrò il suo respiro farsi più profondo, lento e regolare, e solo allora osò abbracciarlo, cingendogli il fianco, pensando a tutte le volte in cui, sola nel suo letto, aveva provato una nostalgia cocente e inopportuna per quel semplice gesto – dormire insieme, respirare ognuno l’odore della pelle dell’altro. Doveva scacciare ogni inquietudine, qualsiasi timore e pensare all’incantevole abito che le sarte già stavano iniziando a preparare, alla profusione di fiori che avrebbero abbellito Vanheim, ai gioielli che Freya le avrebbe donato. L’ultimo pensiero, però, lo rivolse a quella vita che cresceva dentro di lei.
Loki era nato per essere re. Nelle sue vene scorreva l’aristocraticissimo sangue di Laufey ed era stato educato alla corte di Odino, credendo di essere suo figlio. In ogni sua azione c’era un che di energico e assertivo e trascinante, capace di ammaliare chi aveva la fortuna di osservarlo più del suo aspetto innegabilmente bello o della sua voce roca e convincente. Sigyn, con gli occhi ancora gonfi di sonno, lo sentì alzarsi quando il cielo aveva appena iniziato a schiarire. Si raggomitolò nelle coperte che trattenevano ancora un po’ del calore dell’ingannatore, certa del fatto che anche quella mattina, come la precedente, non sarebbe riuscita a mandare giù nemmeno un biscotto al miele. La nausea l’avrebbe travolta, ma quel malessere era uno dei tanti segni del figlio che aspettava, ancora così infinitamente piccolo.
“Oggi penso che andrò a vedere il palazzo,” annunciò puntellandosi su un gomito.
L’Ase si voltò appena. La giudicava una mossa sensata, le disse infilandosi i pantaloni nonostante le difficoltà. Il braccio steccato, pur limitandogli i movimenti non gli avrebbe impedito né di occuparsi dei compiti giornalieri, né di cimentarsi nel suo consueto e immancabile allenamento, indispensabile affinché il suo fisico asciutto continuasse a mantenere la forza e l’agilità che lo contraddistinguevano. L’immobilità non rientrava nei piani sempre mutevoli di Loki neppure se bende e stecche tentavano di porvi un freno e forse era questo che preoccupava Sigyn: l’ambizione sfrenata del dio dell’inganno lo avrebbe portato ad allontanarsi da lei – da loro? Quel trono accarezzato a lungo, desiderato con risentimento e ferocia e che ora, grazie alla loro unione, gli sarebbe spettato di diritto, avrebbe spento quel fuoco che lo corrodeva? E lei, desiderava questo – imprigionare uno spirito inquieto e affascinante, che aveva amato e ammirato per la sua spietata coerenza, così com’era?
Loki era mutevole nelle alleanze e nelle modalità con cui perpetuava i propri obiettivi, ma questi ultimi erano fissati con pervicacia e seguiti con puntualità. Quando aveva deciso di umiliare Asgard sul campo militare, per esempio, aveva escogitato molte astutissime trappole, ideato un numero incredibile di manovre geniali e ispirate, allo scopo di contrastare un esercito che conosceva come le proprie tasche per averlo comandato, ma alla fine si era accontentato di stipulare una pace particolarmente vantaggiosa per Vanheim. Alcuni sostenevano che sconfiggere completamente Odino era una cosa che Loki non sarebbe stato comunque in grado di fare e che inchiodare il vecchio re al tavolo per trattare da pari era il massimo cui l’ingannatore e i Vanir potessero aspirare. Altri ritenevano, però, che Loki non aveva mai voluto sconfiggere completamente gli Æsir: secondo questi ultimi, la parità e il rispetto erano esattamente quello che l’ingannatore andava cercando, perché erodere il prestigio di Asgard non voleva dire sconfiggerla e Loki, pur odiando Odino, amava troppo quel regno immerso nei fiordi per causarne volontariamente la distruzione.
Il palazzo dove l’ingannatore aveva deciso di dimorare insieme a Sigyn era uno dei più belli e sontuosi di tutta Vanheim: lo aveva acquistato anni prima da una famiglia caduta in disgrazia per una somma ridicola, tale da far nascere la diceria che i vecchi proprietari, andandosene, lo avessero maledetto. Loki aveva riso di cuore, quando gli avevano riferito per la prima volta quello che aveva bollato come uno sciocco pettegolezzo. Sigyn, che era ancora solo una ragazzina, non era riuscita a nascondere il proprio stupore.
Possibile che un mago potente come Lingua d’Argento si facesse beffe di una maledizione? Davvero non temeva nulla, né in cielo né in terra?
Più volte si era ritrovata ad ammirare la bellezza sfiorita di quell’enorme costruzione abbandonata a sé stessa: l’architettura snella e svettante catturava il suo sguardo, il giardino incolto cresceva traboccando di piante infestanti che si arrampicavano sui muri, le finestre, alte e a sesto acuto, fissavano cieche il mondo sotto di loro: tutto, nel castello, suggeriva l’incuria – un’incuria che era avvenuta ben prima che Loki trasformasse un affare vantaggioso in un misericordioso salvataggio. La famiglia che lo possedeva non era in grado di mantenerlo e aveva smesso persino di lottare contro il tempo che rodeva ogni pietra, il giardino che avanzava ogni giorno di più. L’idea che il palazzo avrebbe cambiato proprietario, forse salvandosi dall’inevitabile oblio, era sembrata alla piccola Sigyn qualcosa di sbagliato, come se il riparare il tetto e tinteggiare le pareti corrispondesse a togliere alla casa quella che, in qualche modo, era la sua anima. Nelle sue passeggiate casuali solo all’apparenza, in cui troppo spesso costeggiava il castello, si era ritrovata spesso a pensare che sì, quella costruzione era meglio se rimanesse inviolata e abbandonata al suo destino – essere divorata dal tempo e dai rampicanti nonostante la sua incontestabile bellezza, spezzandole il cuore.
Ma Loki aveva un’opinione del tutto diversa riguardo al futuro del castello che aveva appena acquistato. Nelle pareti crepate e nelle rovine da ritirare su, nel tetto sfondato e nel patio avvolto dalla vegetazione, vedeva la bellezza perduta di quel luogo che, effettivamente, sembrava stregato. Sigyn non poteva saperlo, ma l’ingannatore non era del tutto immune dal fascino trasandato del palazzo: tuttavia, ne scorgeva anche le potenzialità, con lo stesso acume che gli consentiva di individuare in una città assediata o in un campo di battaglia cosparso di cadaveri il principio di una ricostruzione grandiosa.
Il palazzo era antico e malmesso, ma comunque ancora splendido: per restaurarlo ci sarebbero voluti anni interi, ma l’ingannatore non sembrava dare peso al tempo: gli interessava il risultato e aveva supervisionato personalmente il progetto nonostante i suoi molti impegni, quasi si trattasse di un passatempo con cui liberare la propria mente.
Una sera, però, durante un banchetto, Sigyn aveva sollevato la questione di quel castello. Era il tempo dei loro battibecchi furiosi, delle infinite e quotidiane liti che irritavano la principessa e divertivano il mago. Si concludevano quasi sempre nello stesso, identico modo, con lei che si alzava da tavola furiosa, sollevando le gonne fruscianti di seta e andandosene senza nemmeno guardarlo, ma la sera successiva lo spettacolo si sarebbe svolto di nuovo; in un modo o nell’altro avrebbe coinvolto di nuovo Loki, come se le fosse impossibile resistere allo scabroso piacere di sentire la sua opinione, di stuzzicare la sua lingua affilata.
Il restauro del castello era iniziato da qualche settimana e Sigyn aveva chiesto all’Ase se intendeva mantenere lo stile puramente Vanir della sua struttura o preferisse conferirgli un aspetto più nordico. Loki aveva stirato le labbra in un sorriso compiaciuto, non privo di un piacevole stupore, perché sebbene fosse bravissimo nel mascherare ogni emozione, aveva un volto espressivo e ogni suo gesto o movenza conteneva un’infinità di sottintesi e sfumature. La sua risposta fu esaustiva e cortese. Apprezzava la struttura originaria del palazzo e l’avrebbe mantenuta soprattutto per quanto riguardava l’esterno, ma nell’assetto interno ci sarebbero state delle modifiche, necessarie affinché potesse considerare confortevole la sua nuova dimora.
Sigyn non poté che ritenere impeccabili le parole di Loki – e lo erano quasi sempre, in effetti, perché anche quando i suoi ragionamenti prendevano una piega moralmente distorta o crudele, l’ingannatore non abbandonava mai la sua logica affilata e stringente. La domanda seguente era stata più insinuante: non credeva alle dicerie che circolavano sul castello? E se non fosse stato Loki a raggirare i precedenti proprietari, ma loro a ingannare lui, facendosi pagare per lasciare una dimora bellissima, ma invivibile e maledetta? Non credeva forse nei sortilegi, il potente Loki, maestro del seiðr?
Sigyn non poteva saperlo, ma in quel momento l’Ase l’aveva fissata come si guarda una donna desiderabile – desiderata, e non come la nipotina di Njord che alla fine si era fatta proprio graziosa. Si era trattato solo di un momento, nient’altro che un’occhiata indecifrabile e fugace, che la ragazza aveva completamente frainteso, immaginando che Loki la guardasse in quel modo perché infastidito dalla sua insolenza. Non sapeva quanto il principe degli Æsir fosse bravo a celare i propri pensieri, né quali dettagli avesse raccolto di lei, dalla collana di perle bianche, rosa e dorate che le arricchivano la scollatura al punto di rosa vivace dell’abito, che si sposava così bene con la sua carnagione, fasciandola tanto da sottolineare con grazia squisita le curve che lei, al contrario di Freya, non sapeva esibire.
“Cara Sigyn,” esordì, sorseggiando l’Ase senza fretta il vino rosso e corposo di Vanheim, che a lei faceva girare la testa non appena vi accostava le labbra. “Credo nelle maledizioni e nei sortilegi, ma temo solo quelli scagliati da chi è più potente di me.” Le sue labbra sottili, che sapevano certamente di vino, si stirarono in un ghigno sardonico e arrogante. “Ma senza dubbio hai ragione: sono stato generoso, avrei potuto chiedere molto di meno per quel palazzo.”
Sarebbero diventati amanti solo qualche mese dopo, cedendo a una tensione che già allora iniziava a infiammare i loro spiriti, a far convergere verso un unico punto i loro pensieri. Il restauro del palazzo era proseguito senza intoppi e talvolta alcune delle sue stanze erano servite per qualche breve e concitato convegno, ma Loki riteneva – e Sigyn con lui – che fosse scontato e pericoloso incontrarsi in una delle proprietà dell’ingannatore. Meglio scegliere qualche angolo nascosto e neutrale del palazzo reale di Njord. Così, la giovane principessa di Vanheim non aveva mai avuto modo di visitare approfonditamente quell’elegante castello che aveva acceso la sua fantasia fin da quando era bambina: poteva farlo ora che sapeva di doverla chiamare presto casa, adesso che nel suo ventre ancora piatto sapeva esserci il figlio o la figlia del dio dell’inganno in persona. Njord e Freya avevano accolto con grande favore la scelta dell’Ase di accelerare gli ultimi ritocchi della sua imponente dimora. La ritenevano degna di una principessa di Vanheim e credevano così di potersi in qualche modo rimpossessare di un castello che avevano sempre desiderato possedere, ma che non erano riusciti ad acquistare.
Sigyn raggiunse il palazzo nel pomeriggio e chiese di poterlo visitare da sola, ma fin dal momento in cui ne varcò il cancello non poté fare a meno di trattenere il respiro, di sfiorare la bellissima collana d’ametista dei Nani che teneva sempre al collo fin da quando Loki non gliela aveva descritta. Ricordò di aver detto all’ingannatore che amava l’aria romantica di quel vecchio palazzo, di adorarne lo spirito, ma non credeva che Loki avrebbe potuto o voluto preservare l’originaria bellezza di quel luogo. Il giardino non era più una selva incolta, ma manteneva la sua traboccante opulenza. Le facciate erano state ristrutturate e rese più vicine al gusto sobrio dell’Ase, ma senza perdere l’eleganza e la leggerezza dei palazzi Vanir. Anche entrando Sigyn ritrovò applicato lo stesso principio, sebbene, come promesso, il castello all’interno ricordasse molto di più la bella Asgard: regnava sovrano il legno nelle sue calde sfumature rossastre, accostati ad affreschi di indubbio gusto, a particolari scelti con cura nel corso dei continui e numerosi viaggi di Loki in lungo e in largo nei Nove Regni.
La solitaria perlustrazione di Sigyn procedeva incurante del tempo: oltre le finestre nuove e scintillanti la luce si faceva più soffusa e aranciata, regalandole lo spettacolo di un tramonto pieno di colori diversi. Mentre sfiorava alcuni degli arredi già sistemati in quello che sarebbe stato lo studio del dio dell’inganno, la ragazza si chiese se in quel palazzo sarebbe stata felice – sarebbero stati felici, perché iniziare a pensare a loro due come a una coppia vera, reale, le sembrava strano, incredibile. Era qualcosa a cui non avrebbe mai potuto abituarsi del tutto: ci sarebbero sempre state giornate in cui, alzandosi dal letto, si sarebbe chiesta se quella era veramente la sua vita – svegliarsi ogni mattina accanto a Loki, figlio di Odino.
“Spero che quello che hai visto fin qui sia di tuo gradimento,” la sorprese la voce sempre velatamente ironica dell’ingannatore.
Era nel vano della porta, diritto e altero come sempre, con le braccia incrociate dietro la schiena e un ghigno beffardo dipinto sulle labbra. Vedendola sorpresa non poté fare a meno di ridere brevemente. “Ti ho spaventata? Eppure si diceva che qui abitassero i fantasmi.”
“Non ti ho sentito entrare,” rispose lei. “È bellissima, Loki. Hai fatto un lavoro magnifico.”
L’Ase sorvolò con eleganza sul complimento. “Hai qualche idea per rendere ancora più accogliente questo posto?” s’interessò.
Lei gli andò incontro: sì, replicò, aveva mille progetti, che sperava fossero realizzabili in tempo per le loro nozze e si augurava gli piacessero: cominciò a parlare di arredi, di tendaggi e di soluzioni architettoniche con un entusiasmo che divertì senza dubbio Loki, ma quando la distanza tra loro si fece quasi nulla, l’ingannatore aggrottò la fronte e Sigyn, sfiorandogli il braccio, si accorse di stare parlando non col suo futuro marito in carne e ossa, ma con una sua illusione. Ritrasse la mano, rapida.
“Dove sei?” soffiò.
“Lontano. Per qualche giorno ti lascerò sola, Sigyn,” ammise l’ombra, avvicinando due dita al suo volto, come se volesse accarezzarle la guancia. “Ho chiesto a Thor di tenere d’occhio Njord e te, naturalmente,” concluse. Nel modo in cui serrava la mascella diritta e ben definita, Sigyn indovinò più di quanto l’ingannatore avrebbe ammesso ad alta voce: che, probabilmente, erano entrambi in pericolo.
L’angolo di Shilyss
Ok, qualche precisazione prima di ringraziarvi <3
Il matrimonio di Loki e Sigyn in “Tutte le tue bugie” viene celebrato in tempi brevissimi non appena Njord accetta di dare la mano della nipote al dio dell’inganno. Mentre lui sa che avranno una figlia, Sonje, lei ancora non lo sa. L’episodio della biblioteca si situa, come detto nello scorso capitolo, circa una settimana prima degli svolgimenti di “Tutte le tue bugie.” La pena per le ragazze che rimangono incinte al di fuori del matrimonio in questo mio personale universo (bigotto) è di essere rinchiuse in un orribile tempio, come detto nei primi capitoli di questa storia che è una raccolta di shot un po’ sui generis ^^. Il prossimo dovrebbe essere l’ultimo capitolo dedicato a questa raccolta, perché poi sarà ora di continuare “Altro che il Ragnarok” e, soprattutto, Giochi pericolosi, che è ferma da 4 anni e di questo me ne vergogno profondamente. Vi anticipo che probabilmente cambierà nome.
Allora, grazie, grazie, grazie per essere giunti fin qua e per la pazienza che avete con i miei aggiornamenti caotici e discontinui.
Ringrazio con tutto il cuore chi listerà, recensirà o semplicemente leggerà questa storia: sono piccole cose, ne convengo, ma danno più di quanto crediate e so’ pure gratis XD. A parte gli scherzi (lokini) siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio e sono molto alla mano, ecco.
Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate né qui né altrove (peggio mi sento con le fiabe, come questa) e lo stesso vale per gli headcanon su Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi non è uno scherzo.
A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate me).
Shilyss
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