Racconti

di myricae_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sogni in prestito ***
Capitolo 2: *** Le quattro età ***



Capitolo 1
*** Sogni in prestito ***


 SOGNI IN PRESTITO
 
Jo sognava ed era felice. Un sorriso beato le si era dipinto sul volto, sembrava una di quelle bambole di porcellana che aveva nella sua cameretta. A dire la verità, l’unica cosa che la faceva somigliare a quei pupazzi era il colore del suo viso: quel bianco pallido che più che essere simile alla purezza e al candore era come se fosse malata o insofferente.
Tutto era iniziato un paio di settimane fa, quando era tornata da una giornata di lavoro stressante e anche a casa non era riuscita a trovare di che essere appagata. Erano giorni che Jo si sentiva inquieta, insoddisfatta e con i nervi a fior di pelle, tranne quando chiudeva gli occhi e lasciava questo mondo per qualche ora. Non solo riusciva ad allontanare le ansie durante il sonno, ma anche a modificare i propri pensieri.
Gli scienziati li chiamavano sogni manipolabili, si era informata. Non aveva approfondito il meccanismo attraverso il quale riusciva ad avere il controllo sulla sua mente, lei che non aveva mai avuto potere su nulla. Le era bastato aver dato un nome a quello che lei con orgoglio definiva il suo talento.
I genitori – viveva ancora con loro anche se stava raggiungendo i trenta – non si erano accorti di nulla fino a quel momento. La figlia era sempre stata una dormigliona, anche se la madre avrebbe preferito il termine scansafatiche, e anche quando era una bambina doveva salire fino alla sua camera e svegliarla. Ma ancora a quell’età Jo non era in grado di sognare e comunque la sua mente non ne sentiva l’esigenza.
La notte in cui scoprì i sogni si svegliò eccitata. Non smise di pensarci nemmeno mentre era al lavoro e passava per i tavoli a servire i clienti con una felicità che i suoi colleghi non le avevano mai visto addosso. Aveva qualcosa per cui vivere quella giornata, pensava solo al premio che sperava avrebbe ricevuto. E lo ricevette quella notte e per tutti quelle successive.
Nella sua testa a occhi chiusi aveva creato la vita che voleva, osando sempre di più: la piccola villa a due piani delle prime notti adesso era diventata una reggia che distava di poco dal mare; il suo collega Peter che era diventato il suo fidanzato nel sogno fu presto sostituito dal suo attore preferito, poi da un cantante; e così via. Quando aveva sognato la sua prima volta con Peter si era svegliata ansimando e non era riuscita a rivolgergli la parola quel giorno, non che di solito parlassero granché.
Di notte tutto diventava più colorato e bello e ogni mattina alzarsi diventava sempre più faticoso. Un giorno dovette arrivare la madre a svegliarla: Jo quella notte aveva sognato di essere andata a una festa dell’alta società, stava sorseggiando dello champagne quando la sveglia suonò.
No, no! Devo ancora fare il mio discorso alla cerimonia! I miei amici hanno bisogno di me e poi Kevin mi avrebbe chiesto di ballare, esclamò nella sua testa spegnendo la sveglia. Solo cinque minuti.
Mezz’ora dopo la madre salì in camera sua e la tirò giù dal letto. “Scansafatiche, incapace, nullità, …” . Quella fu la prima mattina in cui i genitori iniziarono a sospettare che qualcosa non andava. Jo era diventata più tranquilla, ma anche più disinteressata alla vita. Che fosse depressa? Da quel giorno tennero d’occhio ogni comportamento della figlia, che nel weekend peggiorava: domenica rimase a letto fino alle tre del pomeriggio. Possibile che fosse così stanca a causa del lavoro?  Ne parlarono con lei mentre metteva qualcosa nello stomaco.
“Va tutto bene”, ripeteva mentre si rimpinzava di cibo fino a barcollare. Aveva letto che mangiare pesante aumentava la possibilità di addormentarsi.
I genitori accumulavano episodi su episodi, ma quello scatenante lo trovarono in settimana mentre Jo era al lavoro. Janette stava pulendo il bagno e dentro lo scaffale , nascosto accanto al beauty case che Jo non usava mai, trovò una boccetta di pillole. Con mani tremanti, lo fece vedere al marito.
“Che ti dicevo? Nostra figlia è depressa!”.
Alfred osservò il contenitore a cui Jo aveva staccato l’etichetta che permetteva di identificare il contenuto e strinse a sé la moglie. Quello stesso giorno chiamarono il medico locale e fissarono un appuntamento per quel pomeriggio. Guidò Alfred e non smise di stringerle la mano anche una volta dentro all’ufficio del dottor Rockwell. Fu ancora Alfred a prendere in mano la situazione e a spiegare il comportamento della figlia, mentre Janette tirava fuori dalla borsetta il contenitore delle pastiglie e lo porse al dottore.
“Queste non sonopillole per la depressione”.
Alfred si ammutolì, lasciando che il dottore proseguisse.
“Sono dei tranquillanti che aumentano il rischio di narcolessia”.
“Ma Jo non soffre di insonnia, anzi!”.
Il dottor Rockwell allora iniziò una digressione sintetica ma accurata riguardo ai sogni manipolabili.
“Vostra figlia si è creata una seconda vita, probabilmente più bella di questa quindi fa di tutto per ritornarci e rimanerci il più possibile”.
I genitori rimasero a fissare le pastiglie che portavano alla narcolessia, poi Janette spostò lo sguardo sul dottore. “E… c’è una cura?”.
“Un modo ci sarebbe”.
 
Quella sera Jo finì in fretta di mangiare, salutò i suoi e corse in camera. Si infilò sotto le coperte e sorrise prima di addormentarsi. Stava crollando da tutto il giorno e al lavoro aveva rischiato di cadere addormentata nel magazzino, a causa delle pastiglie che aveva assunto. Doveva andarci piano, disse a se stessa, ma negli ultimi giorni aveva notato che le riusciva sempre più difficile prendere sonno, soprattutto dopo il weekend durante il quale dormiva per interi pomeriggi. Quelle pastiglie erano state la soluzione. Aveva letto le controindicazioni, ma la paura di non essere più felice era più forte della paura di farsi del male.
Tornò alla sua villa che aveva spostato in riva al mare, raggiunse i suoi amici sulla spiaggia e loro furono contenti di vederla. Jo si sentiva scaldata da un calore sincero mentre li abbracciava. La adoravano e lei adorava loro, era questa l’amicizia.
“Come è andata la giornata?”, chiese Lauren prendendola a braccetto.
Jo aveva trovato finalmente un’amica con cui confidarsi. Quindi, sbuffò.
“Il tuo capo ti dà ancora il tormento?”.
Jo annuì e raccontò tutti i problemi che c’erano sul lavoro e di come si sentiva nella vita… reale? Era più reale di quello che stava vivendo in quel momento?
“Sei una persona fantastica, Jo”. Si fece dire proprio ciò di cui aveva bisogno. “Leale, sincera e simpatica. Andrà tutto bene”.
“Sono felice di essere qui”, l’abbracciò.
“Ti stavamo aspettando”.
Quel giorno decisero di lanciarsi con il deltaplano dalla scoglierà. Iniziò Lauren, seguita subito dopo da Kevin. Mentre Jo si sistemava sul suo deltaplano, sentì Lauren gridare. Alzò lo sguardo e la vide precipitare in acqua. Jo avanzò fino al limite della scogliera. No, no, non deve andare così! Falla tornare su! Su! Cercò di capire cosa stava succedendo, ma Kevin fece la stessa fine e i suoi amici dietro di lei stramazzarono al suolo all’improvviso. Jo passò accanto ad ognuno provando a rianimarli. Decido io qua! Svegliatevi!
“È tutto inutile”, disse una voce che proveniva dal mare. Jo si girò e vide un uomo in abito nero fluttuare nel cielo sopra le onde, che si stavano agitando sempre di più.
“Chi sei? Vai via! VIA! Questo è il mio sogno!”, urlò con la voce e con la mente. L’uomo rise e un’onda prese la rincorsa scagliandosi contro la villa, facendola cadere come un castello di carte. Il suo castello. La vide sgretolarsi ed essere risucchiata dal mare. Tutto ciò che aveva costruito, tutto ciò su cui aveva potere era andato perduto; rimaneva solo un paesaggio desolante e silenzioso.
Jo cadde in ginocchio sulla scogliera e provò a richiamare la sua forza di volontà, che l’uomo fece tremare insieme al terreno sotto di lei.
 
Jo salutò i suoi genitori prima di andare al lavoro, ancora un paio di mesi e sarebbe riuscita a prendere un appartamento tutto per sé in un quartiere che puntava da tempo. Entrò in ufficio salutando i suoi colleghi prima di mettersi in postazione. Mentre il computer si avviava, infilò le cuffie, quindi iniziò a digitare senza sosta a testa bassa.
Due ore più tardi il dottor Rockwell entrò nell’ufficio. “Dunque, che cosa mi farete sognare stanotte?”.


Gli uomini in stato di veglia hanno un solo mondo che è loro comune. Nel sonno, ognuno ritorna a un suo proprio mondo particolare.
Eraclito

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Capitolo 2
*** Le quattro età ***


LE QUATTRO ETÀ
 
Lucien fermò il fuoristrada ai piedi della montagna.
Faceva quella strada quasi ogni weekend sia d’estate che d’inverno per fuggire dalla città, o meglio: dalla civiltà. Aveva preso una casa lassù, in una paesino che collegava alle piste da sci o a passeggiate per i boschi durante la bella stagione. Ormai lo conoscevano tutti in quel luogo e lui conosceva chiunque: il falegname che lavorava il legno in piccole opere d’arte, la tessitrice che filava alla finestra della casa di fronte alla sua. Si sentiva in famiglia. Chissà se Jane sarebbe venuta con lui in quelle escursioni, chissà se avrebbe taciuto come lui a contemplare la natura selvaggia e rassicurante. Era ovviamente troppo presto per chiederglielo, si frequentavano da poco.
Lucien mise in moto la macchina. Impiegava quasi due ore per risalire la montagna fino alla cittadina, spense la radio per sentire le gomme della macchina giocare con la neve, l’ululato di un lupo che salutava la luna. Lucien affrontò con grinta i primi ampi tornanti. Era partito non appena  uscito dall’ufficio per godersi appieno i due giorni del weekend, non sentiva né il sonno né la stanchezza. Gli abeti si protendevano verso di lui dal basso quasi a volergli dare il bentornato. Lucien guidava con sicurezza, quando – prima di imboccare l’ennesimo tornante – vide un ragazzino sul ciglio della strada. Non appena il bambino sentì il rumore dell’auto, alzò la testa e puntò gli occhi dritti su Lucien che si fermò all’istante. Rimasero a guardarsi per qualche secondo, poi Lucien scese dalla macchina. Non poteva certo lasciare lì un bambino.
“Ehi, piccolo, come ti chiami?”.
Il bambino indietreggiò di un passo e Lucien si fermò decidendo di parlargli a distanza. “Cosa ci fai qui tutto solo?”.
Piangeva. Piangeva e nascondeva il viso nella sciarpa.
“Abiti in città lassù?”.
Il piccolo annuì.
“Vado anche io lì”. Lucien aprì la portiera e il bambino accettò l’invito salendo sul sedile posteriore non senza un certo timore.
Lucien risalì in macchina, accese il riscaldamento perché il bambino si scaldasse quindi gli regalò un sorriso nello specchietto, aveva la finestrella tra i denti. Continuarono a non parlare, che gli si fosse congelata la lingua? Lucien lasciò perdere, lo avrebbe portato in città, a quel punto avrebbero trovato la strada di casa. D’altronde, era il primo ad apprezzare il silenzio. Di solito i bambini erano così rumorosi, almeno i suoi nipoti. Da quanto tempo si trovava nella neve lì da solo? Preferì non pensarci e gli passò una barretta energetica che si era portato per il viaggio. Il bambino mangiò di gusto sporcandosi la bocca e il mento di cioccolato.
Proseguirono così per mezz’ora, quando vide il volto del bambino assumere un colorito biancastro. “Hai ancora fame?”.
Il piccolo scosse la testa e si portò una mano alla bocca.
Oh, no! Non vomitare in macchina! Doveva essere colpa dei tornanti che si susseguivano sempre più frequenti e ripidi, ormai lui ci aveva fatto l’abitudine ma ricordava che le prime volte – quando andava in montagna con i genitori – aveva lasciato la merenda sui tappetini della macchina del padre. Decise di accostare e sedersi accanto al bambino, lasciando aperta la portiera. Lo prese tra le braccia, sentendo la pancia brontolare rimescolando i liquidi acidi. “Scendi un momento, starai meglio”.
Il bambino lo guardò impaurito.
“No, non ti lascio qui. Devi solo sentire la terra ferma. Vieni. Scendo anche io insieme a te”.
Lo tenne per mano aiutandolo a saltare il gradino del SUV. Si inginocchiò per allacciargli la giacca e sistemargli il berretto. Il piccolo sembrò calmarsi.
“Ehi, voi! Tutto bene?”.
Lucien si girò: dall’altra parte della strada c’era un ragazzo accanto a una piccola motoslitta. Gli fece il segno di OK con il pollice, ma lui si avvicinò lo stesso. Era imbacuccato quanto il piccolo, ma i lunghi capelli neri sfuggivano dalla sciarpa.
“Sta poco bene?”.
“Ci penso io”, lo liquidò Lucien.
“Ehi, qui ci aiutiamo tutti”.
“Lo conosci?”.
“Perché, ora serve conoscere qualcuno per aiutarlo?”. Quindi porse al bambino un braccialetto antinausea blu, con un piccolo cerchio bianco nel mezzo.
“Intendevo… Anche tu abiti in città?”.
“E dove altro vuoi che viva? Nei boschi?”.
“Be’, io ho trovato questo bambino in strada e lo sto portando in cima”.
“Vedi che lo aiuti senza conoscerlo?”.
“Ma è un bambino!”.
Il ragazzo si fermò a guardarlo. “Forse mi potresti essere d’aiuto”.
“Come?”.  Perché?
Il ragazzo gli spiegò che non riusciva a far ripartire la motoslitta. Lucien lasciò il bambino in macchina e provò ad aggiustare il veicolo di quel ragazzo, ma non c’era molto da fare e poi non era un meccanico anche se durante l’adolescenza era stato appassionato di motori.
“Ascolta, anche io sto andando in città. Se non è di troppo disturbo…”.
“D’accordo, aiutami a caricare questa cosa sul pick-up”.
Dopo una manciata di minuti, Lucien riprese a guidare con i due ragazzi sui sedili posteriori. Ancora, non riuscì a estorcere il nome del nuovo arrivato che invece riusciva a far parlare il bambino. Lucien apprese che i cugini del piccolo – invece di prendersi cura di lui come avrebbero dovuto fare quella sera – erano scesi in valle a divertirsi e lo avevano scaricato in strada altrimenti non ci sarebbe stato posto per le ragazze che avevano rimorchiato.
Lucien strinse il volante nei pugni, la cicatrice che suo cugino gli aveva procurato quando erano bambini ricominciò a pulsare sulla schiena.
Allora capì.
Uscito dagli ultimi tornanti si ritrovò il cuore in gola e un vecchio sul ciglio della strada. Si accostò e sbloccò la portiera per farlo entrare.
“Ce ne hai messo di tempo, giovanotto”.
“Mai quanto me ne manca ancora per diventare te”.
 
I Monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi.
Johann Wolfgang von Goethe

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