L'ombra del Beauceant di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
L’ombra
del Beauceant
Nel 1877, lo storico tedesco
Mertzdorff dichiarò di aver rinvenuto ad Amburgo, all’interno di
una loggia massonica, una copia del famigerato Codice Ombra dei
Templari.
Nonostante ne sia stato
redatto un documento riassuntivo, non vi è più traccia del libro
originale, che si suppone si trovi attualmente presso gli archivi del
Vaticano.
§
Spagna, dintorni di Murcia
Il fuoco ruggiva ovunque. L'aria
torrida, resa opaca dal fumo, risuonava delle urla terrorizzate dei
contadini, dei lamenti delle bestie tratte a forza dalle loro stalle
e delle grida di guerra dei saraceni. Dalla stia dei porci incendiata
provenivano le strida e i tonfi della scrofa impazzita di paura.
Nascosto sotto un carro,
Francisco ansava con il cuore che gli scoppiava nel petto. Tossì
investito da una folata di fumo acre e si asciugò gli occhi che gli
lacrimavano, ma si impose di non muoversi. Nel cortile, i mori
stavano radunando tutto ciò che poteva avere un valore: provviste,
animali e abitanti della fattoria, soprattutto donne e ragazzi, il
cui orribile destino, lo sapeva bene, sarebbe stato quello di finire
schiavi.
Li vide spingere avanti Nuria,
fin da quella distanza la sentiva piangere e invocare la Vergine. La
ragazza si buttò a terra, e uno dei saraceni la prese per i capelli
per costringerla ad alzarsi. A quel punto sbucò dal fienile il padre
di lei, armato di un forcone, e si lanciò in una carica disperata
contro il guerriero moro. Questi non fece altro che spostarsi da una
parte, e con un gesto quasi svogliato gli tirò un fendente. L'uomo
crollò nella polvere e vi rimase immobile, lo strillo disperato di
Nuria lacerò l'aria.
“Santa Madre di Dio,” mormorò
Francisco facendosi il segno della croce.
Mentre seguiva sgomento lo
svolgersi degli eventi, sentì una mano pesante piombargli sulla
spalla. Istintivamente cercò di farsi indietro, ma la presa si
rinsaldò impedendogli la fuga. Il ragazzo si voltò e si trovò a
fissare quelle che gli parvero le fattezze di un demonio: un volto
scuro e scavato, con un'appuntita barba nera e occhi di bragia che lo
fissavano come se avessero voluto trapassarlo.
“Madre di Dio...” ripeté
terrorizzato. Il saraceno lo trascinò fuori dal suo nascondiglio,
quindi staccò dalla cintura una corda arrotolata e fece per
legargliela al collo.
In quel momento, Francisco vide
sopraggiungere qualcosa di grande e bianco, colse un baluginio di
rosso, e il guerriero moro crollò a terra con un lamento.
Ancora tremante, frastornato, il
ragazzo si fece indietro fino ad appoggiarsi con la schiena al tronco
di un albero. Vide passare un'altra sagoma bianca: pur nella caligine
degli incendi, riconobbe il manto candido e la croce color sangue dei
cavalieri del Tempio. “Dio, ti ringrazio,” mormorò.
Arrivò un terzo cavaliere,
Francisco lo vide abbassare la lancia e caricare un saraceno,
sbalzandolo di sella. Il cavaliere abbandonò poi il ferro nel petto
del nemico, estrasse la spada e si diresse verso un altro avversario.
In breve si scatenò nel cortile
una mischia furiosa, nella quale si udivano nitriti, urla e clangore
di spade. Nel polverone, Francisco cercava di seguire lo scontro come
meglio poteva. Per quanto da lontano i cavalieri cristiani
sembrassero tutti uguali, ne notò uno, in groppa a un grande cavallo
nero, che combatteva come l’Arcangelo Michele. Rimase a seguirlo
con lo sguardo: il cavaliere si lanciò in avanti, disarcionò un
saraceno con un fendente, quindi ne incalzò un altro con una punta,
passandolo da parte a parte. Successivamente fece girare il cavallo
per fronteggiare un attacco sul fianco, e di nuovo il suo avversario
finì a terra.
Il ragazzo rimase a fissarlo
affascinato, constatando che nel combattimento faceva il vuoto
intorno a sé.
Fece un lungo sospiro passandosi
la mano sul volto madido, poi cercò di deglutire, ma aveva la bocca
più arida che se avesse mangiato sabbia, e l'atto non gli diede il
sollievo sperato. Volse lo sguardo verso il saraceno con la lancia
nel petto: l'uomo era immobile.
Si avvicinò cauto, si piegò a
osservarlo: un volto legnoso, scuro anche nel pallore della morte,
rigato di sangue. Gli occhi erano spalancati, e sembrava che lo
fissassero con odio, come se il saraceno si rammaricasse di non
poterlo più uccidere.
Francisco si fece il segno della
croce e arretrò di nuovo. Guardò verso il cortile, dove la
battaglia ormai era finita. Uno dei Templari era smontato di sella e
la gente gli si stringeva intorno. Una donna con i capelli grigi, da
quella distanza gli pareva che si trattasse della vecchia Rufina, si
inginocchiò e cercò di baciargli la mano, ma il cavaliere scosse la
testa e la fece alzare.
Gli occhi fissi sui saraceni che
scappavano, fratello Roland spronò il suo robusto morello e abbassò
la lancia in posizione di attacco. La punta dell’arma baluginò
sinistra sotto il sole.
I due infedeli, che procedevano
qualche centinaio di passi davanti a lui, si voltarono a guardarlo da
sopra la spalla, quindi si scambiarono una voce e girarono i cavalli,
mettendosi a loro volta in posizione d’attacco.
Il Templare rinsaldò la presa
sull’arma e spronò di nuovo il destriero, che emise un nitrito e
si lanciò in avanti.
Fratello Roland tese i muscoli
preparandosi all’impatto, quindi incassò la testa fra le spalle e
mirò al torace del più avanzato dei due saraceni.
L’arma colpì, l’uomo fu
sbalzato di sella. Il Templare si lasciò sfilare l’asta di mano, e
mentre passava oltre estrasse la spada. Parò con quella un fendente
alto dell’altro saraceno, fece girare il destriero e gli sferrò un
tondo dritto. Il colpo raggiunse il bersaglio e l’infedele si
accasciò sulla groppa del cavallo.
Il Templare rimase a fissarlo in
silenzio per qualche istante, quindi mormorò a fior di labbra una
preghiera, rinfoderò la spada, raccolse la lancia e tornò sui suoi
passi.
Il tetto della fattoria nel
frattempo era crollato, e per quanto i contadini si affannassero a
fare una catena di secchi d’acqua, le fiamme ormai ruggivano senza
controllo, divorando qualsiasi cosa. Le donne stavano radunando nel
cortile le poche masserizie che erano riuscite a salvare.
Fratello Roland raggiunse i suoi
compagni. Uno di quelli che erano smontati di sella sollevò lo
sguardo verso di lui e chiese: “Tutto bene?”
“A Dio piacendo,” fu la
sobria risposta, quindi il cavaliere smontò a sua volta e si tolse
l’elmo, rivelando un volto giovane, anche se già segnato su una
guancia dal filo bianco di una cicatrice.
“Li hai presi?”
“Tutti e due.”
L’altro lo occhieggiò attento.
“Sei ferito?”
“No, fratello Ignacio, sto
bene.”
Le redini dei cavalli alla mano,
i due si allontanarono di qualche passo dal cortile. Subito si fece
loro incontro un ragazzo con una brocca d’acqua e una tazza di
terracotta. “Volete bere, signori cavalieri?” domandò loro.
I due Templari si scambiarono
un’occhiata, poi fratello Roland rispose: “Non siamo signori,
siamo umili servi di Dio. Puoi chiamarci fratelli, se vuoi rivolgerti
a noi.”
Il ragazzo annuì volenteroso.
“Fratelli,” ripeté, come per imprimerselo nella memoria.
“Ti ringraziamo per la tua
gentile offerta, ma va' dal nostro comandante con quell’acqua, e
mostraci dove possiamo far bere i cavalli.”
“E voi signori… fratelli non
volete bere?”
“Prima i cavalli, che devono
sopportare le maggiori fatiche.”
“E il comandante della
pattuglia,” intervenne fratello Ignacio. Indicò un Templare alto,
imponente, con il cranio rasato quasi a zero e una corta barba venata
di grigio. “Fratello Léon.”
“Sì, signore,” rispose
subito il ragazzo, poi si accorse dell’errore e rettificò:
“Fratello… volevo dire fratello.”
I due si scambiarono un’occhiata.
“Fa niente,” gli rispose con un sorriso fratello Roland. “Come
ti chiami?”
“Francisco.”
“Allora va da fratello Léon,
Francisco. Sicuramente sarà assetato.”
“Sì, signor fratello.”
Il Templare sorrise di nuovo.
“Dimmi solo dov'è l'abbeveratoio, poi provvederemo noi ai
cavalli.”
Il ragazzo lo indicò con un
gesto, poi corse via.
Il sole stava calando, l'aspro
vento della costa fischiava attraverso i cespugli di sparto. Fratello
Léon in testa, i cavalieri procedevano ordinatamente in fila per
due.
“Quanti erano oggi?” chiese a
un certo punto fratello Ignacio. La domanda non era rivolta a nessuno
in particolare, ma fu fratello Miguel a prendere la parola: “Un po'
più del solito, direi.”
“Beh, lo credo bene che gli
infedeli abbiano mandato più gente,” considerò fratello Ambrosio,
“la fattoria di Pozo Aledo era un bel boccone.”
“E noi gliel'abbiamo fatto
andare di traverso!” intervenne fratello Fermín. Ci fu qualche
contenuta risata.
Passò qualche istante di
silenzio, poi fratello Jorge disse: “E avete visto quando quella
vecchia ha cercato di baciare la mano a fratello Léon? Credevo che
gli venisse un colpo!”
Stavolta le risate furono più
forti.
“Ragazzi!” si sentì in
dovere di brontolare il comandante del drappello.
“Fratello Léon, bisogna
guardarsi dalla compagnia femminile!” lo prese in giro fratello
Ambrosio.
“Tu smettila subito, razza di
insolente,” ringhiò il primo, girandosi addirittura sulla sella
per fissarlo in cagnesco, “altrimenti ti mando a fare lo
scritturale di fratello Rafael.”
“A contare i sacchi di grano
che entrano ed escono dai magazzini? No no, non ci tengo!”
“Ti ricordo che hai fatto voto
di obbedienza,” intervenne fratello Miguel, “e il Tempio si serve
anche contando sacchi di granaglie.” Di nuovo tutti risero.
Quando l'ilarità si fu placata,
fratello Ignacio si rivolse a fratello Roland: “E tu non dici
nulla?”
L'altro sorrise. “Scusami, ero
assorto nei miei pensieri.”
“Quanti ne hai fatti fuori
oggi?”
Fratello Roland parve quasi
imbarazzato. “Non li ho contati.”
“Dovresti lasciarne qualcuno
anche per noi, fratello. Non ti hanno insegnato nulla le Scritture
sul valore della condivisione?”
“Ragazzi!” si fece sentire
ancora una volta fratello Léon.
Fratello Ignacio si finse
piccato. “Ehi, io stavo parlando delle Scritture. È un argomento
decoroso.”
“Conosco il tuo modo di
trattare gli argomenti decorosi, quindi fa' silenzio.”
Fratello Roland era ancora
immerso nei propri pensieri quando raggiunsero il castello di Murcia.
Entrò in silenzio nel cortile, smontò da cavallo e consegnò
l'animale al suo scudiero, ma quando si apprestò a seguire gli altri
verso il refettorio, apparve sulla soglia delle proprie stanze il
commendatario e lo chiamò.
Il cavaliere lo raggiunse.
L'altro lo condusse in una camera
che fungeva da studio, raccolse da un tavolo un foglio sul quale
c'erano ancora i residui di un sigillo di ceralacca, lo dispiegò e
lo scorse brevemente, poi disse: “Questa lettera è giunta oggi
dalla Francia.”
Fratello Roland si limitò ad
annuire, quindi gli rivolse uno sguardo interrogativo.
“È una lettera che parla di
te,” spiegò il commendatario. “Evidentemente, sono giunte
all'orecchio di qualche maresciallo le imprese da te compiute
all'ombra del Beauceant, perché si richiede specificamente la tua
presenza.”
“Dove, signore?”
“Alla commenda di Vaux.”
Fratello Roland quasi non
credette alle proprie orecchie, e dovette fare uno sforzo immane per
impedirsi di reagire. Incupì comunque lo sguardo e si morse il
labbro inferiore. L'altro notò il cambio di espressione e gli
chiese: “Vuoi dire qualcosa, fratello?”
“Ho dato cattiva prova di me,
signore?” fu la domanda.
“Perché mi chiedi questo,
fratello?”
“Vaux è in Lorena, signore,
lontano da ogni zona di combattimento. Qual è la colpa che devo
espiare?”
Il commendatario emise un
sospiro. “Colpe ne abbiamo tutti, fratello. Inoltre, ti ricordo che
tu hai fatto voto di obbedienza.”
Il cavaliere si limitò a
stringere i denti. “Non ho intenzione di trasgredire gli ordini,”
rispose dopo un po', “solo mi chiedevo perché mi si allontana
dalla lotta contro gli infedeli.”
“Non devi chiederti nulla,”
replicò il commendatario in tono più duro, “devi solo obbedire.”
Poi, dopo una pausa, citò: “Ogni persona stia sottoposta alle
autorità superiori; perché non v’è autorità se non da Dio; e le
autorità che esistono, sono stabilite da Dio. Perciò chi resiste
all’autorità, si oppone all’ordine di Dio; quelli che vi si
oppongono si attireranno addosso una condanna [1].”
§
Lorena, dintorni di Metz
Gwenel de Jussy, figlio più
giovane del signore di Jussy, si affacciò alla finestra del palazzo
paterno e lasciò vagare lo sguardo sul sagrato della chiesa. Era
giorno di mercato, e dappertutto i venditori esibivano la loro merce.
C'erano donne con i prodotti della campagna, con uova, polli o latte;
c'erano venditori di stoffe, che esponevano pezze multicolori, nastri
e passamanerie ricamate; il fabbro con la sua fucina, che faceva
cantare l'incudine modellando ferri di cavallo; e poi c'erano i
venditori di pellami e quelli di cibi. In un angolo della piazza si
esibiva un saltimbanco circondato da un capannello di persone; da
un'altra parte c'erano dei musici, e qualche ragazza intrecciava
passi di danza al suono della viella.
L'aria era carica di odori, da
quello invitante dei cibi e delle spezie a quello sgradevole dello
strame e della carne appena macellata.
Un po' in disparte, come se non
avessero nulla a che fare con quello che si stava svolgendo nella
piazza, c'erano gli uomini della commenda templare, che vendevano i
prodotti della fattoria. Per la maggior parte erano servitori, ma li
accompagnavano anche uno scritturale e due cavalieri. Gwenel rimase a
fissarli assorto. Per quanto vestiti di un semplice manto bianco,
senza insegne se non la croce color sangue sulla spalla, quei
cavalieri gli parvero magnifici: imponenti, carichi di dignità,
autorevoli come patriarchi. Ricordò ciò che aveva sempre sentito
dire di loro: leoni con i nemici, agnelli con gli amici. Si chiese se
fosse per quello che il loro stendardo di guerra, l'onorato
Beauceant, era composto da due strisce orizzontali, una bianca e una
nera: forse simboleggiava i due diversi atteggiamenti.
Sospirò: avrebbe voluto essere
come loro.
Una voce alle sue spalle lo fece
sussultare: “Che stai facendo?”
Il ragazzo si girò di scatto e
si trovò di fronte suo fratello Vauquelin. “Ci sono i Templari
della commenda di Vaux,” disse per tutta risposta.
“Ci sono tutte le settimane,”
replicò l'altro noncurante, “non vedo cos'abbiano di strano questa
volta.”
Gwenel scosse la testa. “Niente.”
Tornò a volgere lo sguardo verso l'angolo della piazza dove si
trovavano i Templari. Considerò che intorno a loro c'era l'unica
zona pulita e ordinata. Un servitore stava spazzando via le deiezioni
di una capra, un altro raccoglieva i fili di paglia sparsi in giro e
ne faceva un mucchietto, un terzo allineava con cura le forme di
formaggio sul pianale del carro della commenda, sventolandole con un
ciuffo di fieno per scacciare le mosche.
Seduto a un tavolino portatile,
dopo ogni vendita lo scritturale contava le monete ricevute, poi le
metteva in una cassetta di ferro e scriveva qualcosa su un foglio.
Il ragazzo si girò verso il
fratello e disse: “Sono molto ordinati.”
“Sono molto furbi, più che
altro,” rispose Vauquelin, facendo adombrare il più giovane, “non
lo sai che il Papa li ha esentati da ogni decima, tassa e gabella?”
“Non ci credo.”
“Chiedilo a padre Guarin, se
non credi a me. Con i margini di guadagno che hanno, possono anche
sistemare le loro capre sulla porpora di Tiro invece che sulla
paglia, se lo desiderano.”
“Raccolgono denaro per
difenderci dagli infedeli,” rispose imperterrito il ragazzo.
“Lasciali perdere,” replicò
il maggiore. “Pensa a sposarti, piuttosto. Io alla tua età l’avevo
già fatto.”
“Non mi interessa sposarmi, io
voglio combattere per Gerusalemme.”
“Parli così perché non sai
ancora nulla delle donne.”
“E non voglio saperne nulla!”
ringhiò Gwenel in tono insolitamente duro, quindi abbandonò la sua
posizione vicino alla finestra e uscì dalla stanza.
Raggiunse le scale, le discese
rapido, attraversò il cortile del castello e da lì passò alla
piazza gremita di gente. Serpeggiò tra le bancarelle evitando i
mercanti, che attirati dalle sue ricche vesti cercavano di mostrargli
le loro merci migliori, quindi raggiunse la zona in cui si trovavano
i Templari.
Sembrava che qualcuno avesse
tracciato un cerchio invisibile intorno a loro, perché erano
circondati da silenzio e ordine. I musici non osavano avvicinarsi, i
saltimbanchi li scrutavano di tanto in tanto, indecisi se tentare una
burla, ma immancabilmente rinunciavano. Il selciato era sgombro da
ogni lordura.
Gwenel osservò le merci in
vendita: formaggi, capre ben pasciute, un vitello, vasi di miele. Si
sedette su un gradino poco lontano, puntò i gomiti sulle cosce e
appoggiò il viso sui palmi delle mani, poi fece girare lo sguardo
sulla piazza. In quel momento due donne stavano litigando a gran
voce, non riusciva a capire per cosa. Intorno al banco delle carni
c’era un tappeto di cascami, e rivoli di sangue riempivano le
commessure del selciato. Un cane randagio addentò una coda di vacca
e scappò inseguito dalle maledizioni del macellaio. Frattanto era
arrivato un mendicante storpio, accompagnato da un ragazzetto ossuto.
Il primo cominciò a cantare, cercando di sovrastare con voce
stridula gli strumenti dei musici, l’altro si infilò in mezzo alla
folla intenta a contrattare, e dopo poco si levò il grido rabbioso
di qualcuno che non trovava più la sua scarsella.
Si scatenò immediatamente un
parapiglia: tutti cercavano di agguantare il ragazzo, che schizzava
fra le gambe della gente come una specie di anguilla. Dopo aver
percorso in quel modo la maggior parte del mercato, il ladruncolo
corse nella direzione dei cavalieri, forse sperando di dileguarsi
attraverso il vicolo che si apriva dietro di loro, ma prima che
potesse raggiungerli, un uomo lo afferrò per la collottola e
trionfante esclamò: “Finalmente ti ho preso!”
Gli altri lo raggiunsero. “Ladro,
ladro!” si udiva gridare.
Si formò un capannello di gente,
e tutti sgomitavano per arrivare al ragazzo, per potergli dare almeno
un pugno o uno schiaffo. Colpito da tutte le parti, questi urlava e
si divincolava.
I due cavalieri si scambiarono
un’occhiata, poi uno di essi abbandonò il suo posto accanto allo
scritturale e si diresse a passi misurati verso il gruppo. Al suo
arrivo, la folla si divise come le acque del Mar Rosso al passaggio
di Mosè, ed egli si trovò faccia a faccia con l’uomo che stava
tenendo stretto il ladro.
“Che cos’ha fatto questo
ragazzo?” chiese pacato.
Il reprobo smise di agitarsi.
Alla vista del manto bianco, crollò in ginocchio e prese a
piagnucolare: “Pietà, buon signore, pietà! Vogliono uccidermi!”
protese una mano verso la veste del cavaliere, ma questi si fece
impercettibilmente indietro, e il ragazzo si accontentò di
appoggiarla al selciato e chinare la testa in segno di sottomissione.
“Pietà, buon signore!” implorò di nuovo con voce tremula.
“Che cos’hai fatto per
meritare l’ira di queste persone?” lo interrogò il Templare.
“Io? Niente, lo giuro sulla
Vergine!”
“Ha rubato!” intervenne un
uomo furibondo.
“Ha rubato, è un ladro!”
fecero eco altre voci.
Il cavaliere impose il silenzio
con un gesto. Fissò di nuovo il ragazzo. “Restituisci quello che
hai preso,” gli ingiunse.
“Non ho preso niente.”
“Non mentire. Posso fare
qualcosa per te se tu parli con cuore sincero e ti penti, ma se
permani nell’errore, come posso aiutarti?”
Il ladro fissò di nuovo il
cavaliere, poi fece girare lo sguardo sulla folla minacciosa che lo
circondava. Lentamente, a malincuore, si infilò una mano nella
camicia e ne trasse la scarsella rubata. La porse al Templare, che la
restituì al legittimo proprietario.
Fatto questo, il cavaliere
chiese: “Come ti chiami?”
“Mathias, buon signore.” Poi,
dopo una pausa, in tono accorato riprese: “Vi prego, salvatemi! Mi
vogliono uccidere.”
L’altro gli fece cenno di
tacere. “Sai lavorare, Mathias?”
Il ragazzo annuì energicamente.
“Sì, signore.”
“Allora puoi venire alla
commenda, ed espiare le tue colpe lavorando. Avrai da mangiare e da
dormire, e una veste nuova ogni volta che quella vecchia sarà
consumata.”
Per un attimo il ladro rimase
interdetto. Fissò poco convinto il suo interlocutore, poi volse lo
sguardo verso il mendicante storpio. “Signore, mio padre...”
cominciò esitante.
“È davvero tuo padre?”
L’altro annuì energicamente.
“Oh, sì. Certo che lo è. Mio padre, colui che mi ha generato. Io
sono sangue del suo sangue.”
“Voglio pensare che sia così,”
rispose il cavaliere. “Ma ricorda: posso avere pietà di chi ruba
per fame, ma non di chi mente per ottenere vantaggi.” Per quanto
fosse quieto, il tono lasciava trasparire un’inflessibilità
assoluta.
Mathias deglutì. “Come dite
voi, signore,” mormorò. Si voltò di nuovo verso il mendicante.
“Va’ da lui e portalo qui,”
gli disse il Templare, “se tuo padre, o quello che è, non può più
lavorare, lo accoglieremo come opera di carità.”
“Grazie, buon signore, che Dio
vi benedica.”
Gwenel, che aveva seguito tutta
la scena, si sentiva estasiato: che razza di uomini erano quelli, che
sapevano essere implacabili con i nemici di Cristo e al tempo stesso
pieni di carità con un povero mendicante?
Si avvicinò cauto, e subito uno
dei due cavalieri lo salutò. “Voi siete il figlio del signore de
Jussy?” gli chiese.
“È così.” Con le sue vesti
dai colori sgargianti, bordate di vaio, Gwenel si vergognava come se
avesse avuto addosso i più sordidi stracci. Ripensò al 'De laude
novae militiae', di Bernard de Clairvaux. Lo conosceva
praticamente a memoria, ma in particolare gli tornò in mente il
passo in cui il santo monaco criticava i costumi della cavalleria
laica: voi appesantite i vostri
cavalli con tessuti di seta; coprite le vostre cotte di maglia con
chissà quali stoffe; dipingete le vostre lance, i vostri scudi e le
vostre selle; tempestate d'oro, d'argento e di pietre preziose i
finimenti dei vostri cavalli... [2]
“Ammiro la vostra veste,” si
decise a dire.
“È gentile da parte vostra,”
fu la sobria risposta del Templare.
“Anche tutte queste cose...”
indicò i prodotti esposti, “...sono molto belle.”
“Siete molto cortese. Qual è
il vostro nome?”
“Gwenel... Gwenel de Jussy,”
rispose il ragazzo.
“Io sono fratello Séverin,”
si presentò il cavaliere, poi indicò il compagno, che stava
aiutando il mendicante a sedersi sul carro, e soggiunse: “E lui è
fratello Philippe.”
Il ragazzo prese un gran respiro,
e prima di pentirsene chiese: “Come si fa per entrare nell'Ordine?”
Con un sorriso di vaga
indulgenza, come quello di un nonno saggio che ascolta un nipotino un
po' sventato, fratello Séverin scosse la testa. “Non ve lo
consiglio, giovane signore.”
Il ragazzo, che aveva raccolto
tutto il suo coraggio per porre la fatidica domanda, trasecolò.
“Perché?”
“Voi siete nobile. Vorreste
rinunciare alla vostra volontà, e fare ciò che vi si ordina per
tutto il resto della vostra vita?”
Gwenel citò di nuovo Bernard de
Clairvaux, questa volta a voce alta: “Vanno e vengono a un cenno
del loro comandante; portano le vesti che egli dà loro, non cercando
né altri abiti, né altro nutrimento. Evitano ogni eccesso, nel cibo
come nelle vesti, desiderano solo il necessario. Vivono tutti
insieme, senza donne né bambini. E poiché nulla manchi loro della
perfezione angelica, vivono tutti sotto lo stesso tetto senza
possedere niente di personale, uniti dalla loro Regola nel rispetto
di Dio.” Si interruppe. Ansimava leggermente e si sentiva le guance
in fiamme. “In verità, fratello Séverin, io non ambisco ad altro
nella vita,” concluse.
Di nuovo, il Templare sorrise con
una certa indulgenza e disse: “Lo so, vista da fuori la nostra vita
può sembrare bella e perfetta, ma è intrisa di sacrificio e
rinuncia.”
Gwenel stava per ribattere quando
alle sue spalle echeggiò un richiamo. Il ragazzo si voltò e vide
suo fratello Vauquelin fermo al limitare della piazza. “Nostro
padre ci aspetta,” disse questi.
“Arrivo,” fu la svogliata
risposta, poi Gwenel rivolse nuovamente la propria attenzione al
cavaliere. “Non pensate che io parli con leggerezza,” gli disse.
“Se vi dico che non ambisco ad altro nella vita, fidatevi che è
così.”
Un secondo richiamo lo costrinse
ad allontanarsi.
§
Livonia, Castello di
Ritterswerder
Fratello Friedrich stava
misurando a grandi passi la sala del Capitolo. Percorreva lo spazio
in un senso, quindi faceva un dietro-front così brusco che il manto
bianco descriveva un arco di cerchio dietro di lui. Poi attraversava
di nuovo lo spazio, e arrivato alla parete opposta faceva la stessa
cosa.
A un certo punto si fermò, si
voltò verso una porta chiusa e la fissò torvo, quindi riprese a
camminare.
Passarono lunghi minuti, poi
finalmente la porta che ogni tanto il cavaliere scrutava si aprì, e
sulla soglia comparve uno scrivano. Fratello Friedrich interruppe il
suo nervoso camminare e si voltò verso di lui.
“Potete venire, cavaliere,”
disse questi, vagamente intimidito dal suo sguardo tagliente.
L'altro annuì senza parlare e si
mosse nella sua direzione. Piegando la testa all'indietro per
riuscire a guardarlo in faccia, lo scrivano disse: “Il priore vi
sta aspettando, fratello.”
“Lo so,” fu la secca
risposta, poi il cavaliere lo oltrepassò, percorse un breve
corridoio e senza bussare aprì una seconda porta.
Al di là c'era una stanza ampia
e illuminata da due alte bifore. Il soffitto era sostenuto da volte a
sesto acuto, le pareti erano di pietra chiara. Il fuoco che
scoppiettava nel camino rendeva la temperatura confortevole.
Al centro del locale c'era un
pesante tavolo di quercia, dietro cui sedeva un uomo imponente, dai
capelli appena venati di grigio, che indossava un abito bianco con
una croce nera sul petto. “Fratello Friedrich,” sospirò questi.
“Priore,” rispose l'altro. I
suoi occhi chiari, dallo sguardo acuto di rapace, non lo
abbandonavano.
“Vieni avanti, fratello.”
Il cavaliere si avvicinò,
fermandosi a un passo dal tavolo.
“Che cos'hai da dire a tua
discolpa, fratello?” gli chiese allora il priore.
L'altro si erse in tutta la sua
considerevole altezza e rispose: “Non devo discolparmi di nulla.”
A quella frase fece seguito un
silenzio rotto solo dal crepitare del ceppo nel camino e dal fischio
del vento che si insinuava tra le merlature.
“Di nulla, fratello?” fece
eco il priore dopo un po'. “Hai ucciso degli ambasciatori lituani,
mettendoci in una situazione piuttosto spiacevole con il loro
sovrano.”
“Non erano ambasciatori, erano
spie.”
Il priore sospirò di nuovo. “E
tu come fai a saperlo?”
“Li ho sorpresi sugli spalti,
mentre mandavano messaggi a qualcuno fuori.”
“Di nuovo, fratello Friedrich:
come fai a sapere che stavano mandando messaggi? E a chi, poi?”
Il cavaliere strinse gli occhi.
Per un attimo serrò le labbra, quindi sibilò: “Priore, non sono
due giorni che combatto qui in Livonia. Conosco benissimo le usanze
di quei pagani senza Dio, la loro lingua e i loro modi. So come si
scambiano messaggi, perlopiù a nostra insaputa.” Fece una pausa,
non scevra di un certo cupo compiacimento, quindi soggiunse:
“Purtroppo per loro, questa volta non si sono imbattuti nel solito
credulone ingenuo.”
Il più anziano non poté fare a
meno di aggrottare le sopracciglia. “Nella tua superbia, fratello,
dimentichi che io sono qui da più tempo di te.”
“E allora mi chiedo, priore,
perché non siate d'accordo con me. Quelli non erano ambasciatori, e
se li avessi lasciati liberi di comunicare con l'esterno, ora il
castello sarebbe perduto.”
“Avresti dovuto arrestarli e
chiedere l'intervento del Capitolo.”
“Sì, e intanto quelli facevano
la pantomima e smuovevano mezza Livonia per farsi liberare, e alla
fine avremmo dovuto lasciarli andare con tante scuse.” Fece una
pausa, poi soggiunse: “Così invece il problema è risolto.”
Di nuovo ci fu un lungo silenzio,
infine il priore si alzò lentamente in piedi, rivelando un'altezza
di poco inferiore a quella del suo interlocutore. Lentamente disse:
“Certo, fratello Friedrich, forse questo problema è
risolto, ma di certo la tua impulsività e il tuo orgoglio ne hanno
creati molti altri. Farai parte del contingente che scorterà i
cavalieri feriti alla Komturei [3] di Metz, e poi rimarrai là fino
anche non verrai richiamato; hai bisogno di schiariti un po' le idee,
e di meditare sul voto di obbedienza che hai formulato al momento di
entrare nell'Ordine.”
A quelle parole, gli occhi di
fratello Friedrich si accesero di furore. “A Metz?” ringhiò. “Ma
Metz è in Lothringen [4]!”
“So dove si trova Metz.”
“E quindi che cosa dovrei fare
laggiù? Imboccare i malati dell'ospedale? Tenere in ordine i
registri come una specie di scrivano zoppo? Io sono qui per
combattere i nemici della fede!”
“Tu sei qui per obbedire,”
replicò il priore con voce dura, “E finché non l'avrai capito te
ne rimarrai in Lothringen, a meditare sui tuoi peccati d'orgoglio.”
Fratello Theobald, priore del
castello di Ritterswerder, stava camminando sugli spalti. Al suo
fianco procedeva il suo più fidato aiutante, fratello Richard.
A perdita d'occhio, le campagne
erano coperte di neve, le bandiere con la croce nera dell'ordine
schioccavano investite dal vento gelido, mentre le loro corde
tintinnavano contro i pennoni.
“Allora lo mandi via?” chiese
a un tratto fratello Richard.
Il priore emise un sospiro. “Non
posso fare altro, questa volta l'ha combinata troppo grossa.” Poi,
dopo una pausa: “E considera che sono già stato molto generoso, un
altro gli avrebbe come minimo fatto perdere l'abito.”
“Il che sarebbe stato un gran
peccato,” considerò fratello Richard, “perché non c'è nessuno,
qui a Rittersewerder, più ardimentoso ed entusiasta di fratello
Friderich.”
“Non lo so,” replicò pensoso
il priore. Si fermò e per un po' rimase a guardare i soldati che
facevano esercitazioni con la spada. “Se ognuno di quelli durante
una battaglia decidesse di fare di testa sua, perché pensa di essere
il migliore e di aver capito la situazione meglio dei suoi
comandanti, tu cosa credi che succederebbe?”
Fratello Richard non rispose.
Ripresero a camminare.
Dopo un po', fratello Theobald
disse: “Capisci che questa volta non posso fare finta di niente,
anche per rispetto degli altri fratelli, che si aspettano da me
imparzialità e giusto rigore.”
“Fratello Friedrich è come un
cavallo selvaggio,” lo giustificò fratello Richard, “bisogna
saperlo prendere.”
Il priore scosse la testa, quindi
rispose: “Direi che hai usato un paragone appropriato: se un
cavallo selvaggio non accetta sella e briglie, può essere anche lo
stallone più bello e forte che si sia mai visto, ma non serve a
nulla.”
§
Lorena, Commenda di Vaux
Fratello Roland raggiunse la
commenda di Vaux salutato dalle ombre lunghe del tramonto. Il suo
destriero teneva la testa bassa per la stanchezza, e a lui stesso non
pareva vero di essere finalmente arrivato alla fine del suo viaggio.
Allontanarsi dalle zone di guerra
era stato come discostarsi da un fuoco ruggente. All’inizio,
dormire in pace tutta la notte e non dover fare la conta dei morti
dopo ogni uscita era stato quasi un sollievo, ma ormai lontano da
quelle fiamme sentiva solo freddo e nostalgia. Gli mancava il calore
dei suoi fratelli, quella sensazione unica di comunione spirituale
che nasceva dal condividere rischi e fatiche, e dava la
consapevolezza di potersi fidare ciecamente gli uni degli altri in
ogni momento.
Si guardò intorno: abituato ai
paesaggi aspri dell’Andalusia, alle dune flagellate dal vento e
alle forme contorte delle querce da sughero, la vista delle dolci
colline coperte di vigneti gli dava quasi una sensazione di disagio.
Per quanto la sua terra d’origine
non fosse distante da quella regione, si sentiva come un pesce fuor
d’acqua, e ogni casa a graticcio, ogni contadina che spingeva
placida un branco di oche, ogni bambino spensierato che lo salutava,
con nessuna preoccupazione se non quella di correre dietro a una
palla di stracci, gli faceva crudelmente rimpiangere le robuste mura
di pietra del castello di Murcia, il clangore del ferro e l’odore
salmastro del mare.
Gli era capitato spesso di
ripensare all’assalto della fattoria di Pozo Aledo, e qualche volta
aveva anche sorriso tra sé e sé rievocando le battute che i suoi
confratelli si erano scambiati sulla via del ritorno.
Una voce lo riscosse bruscamente
dai suoi pensieri: “Fratello!”
Rialzò la testa, istintivamente
la mano gli corse al pomo della spada.
“Fratello, affrettatevi, stiamo
per chiudere le porte.”
Roland si raddrizzò sulla sella:
la strada terminava davanti ai portoni della commenda, e un fratello
di mestiere [5] con le maniche rimboccate e i piedi nudi lo stava
chiamando con ampi gesti.
Osservò la struttura che gli si
profilava davanti: un insieme di edifici immacolati, dal tetto di
paglia, lunghi e bassi, disposti in un ampio circolo e circondati da
un muro di pietra. La porta che stava per essere chiusa non avrebbe
retto il più fiacco degli assalti dei saraceni. Vi erano solo due
edifici in pietra, ed erano la chiesa e la sala del Capitolo. Essi
apparivano decisamente più robusti degli altri, e il Templare si
domandò se fossero stati pensati come estrema difesa in caso di
attacco. Anche se di attacchi non si poteva certo parlare, nel cuore
della Francia cristiana.
“Fratello, non si può fare
tardi!” lo richiamò il portinaio.
Roland convinse il suo stanco
destriero ad aumentare un po’ l’andatura, oltrepassò la porta,
che in effetti venne subito serrata dietro le sue spalle, ed entrò
nel cortile.
Gli si fecero incontro latrando
due cani ben pasciuti, dal pelo lustro. Girarono un po' tra i piedi
del suo cavallo fiutandolo con interesse, poi tornarono ad
accucciarsi senza degnarlo di ulteriori attenzioni. Più lontano, un
garzone stava buttando del grano a polli e anatre, che gli si
assiepavano intorno chiocciando. Davanti alla scuderia c'erano due
cavalli da tiro che attendevano di essere strigliati, e dalla fucina
proveniva il battere ritmico del fabbro ferraio.
Fratello Roland fece girare lo
sguardo tutt'intorno e poi abbassò gli occhi sui propri abiti: cotta
di maglia, spada. La veste bianca sporca per il lungo viaggio. Emise
un sospiro.
Mentre si apprestava a scendere
da cavallo udì un rumore di passi, e subito dopo una voce lo salutò:
“Tu devi essere il fratello che stavamo aspettando!”
Si girò in quella direzione e
vide sopraggiungere un cavaliere che vestiva la tunica e il manto
bianco dell'Ordine, ma non aveva né spada né usbergo. Questi
procedeva a grandi passi verso di lui, con le braccia aperte in un
gesto di accoglienza e sul volto un sorriso benevolo.
Fratello Roland smontò da
cavallo e si presentò.
L'altro sollevò le sopracciglia
con espressione soddisfatta. “Ah, molto bene,” disse poi. “Molto
bene. Io sono fratello Geoffroy, commendatario di questa magione. Qui
abbiamo proprio un bel posticino, non trovi, fratello? È vero che la
Regola impone di bere con moderazione, ma sono ansioso di farti
assaggiare il nostro vino: sono certo che ti rinfrancherà meglio di
un'intera notte di sonno...”
Mentre il nuovo arrivato parlava,
si fecero avanti altre persone. C'erano dei fratelli, tutti
disarmati, dei garzoni, degli operai e addirittura, cosa che lo
riempì di stupore, un paio di donne. Vestite con la più grande
decenza e di età ormai matura, ma donne.
Tutti lo fissavano con curiosità,
e fratello Roland ebbe l'impressione che fosse tanto tempo che non
vedevano un cavaliere proveniente da una zona di guerra.
Notando che uno stalliere si
apprestava condurre il suo cavallo alle scuderie, egli staccò le
bisacce della sella, quindi frugò in una di esse e ne trasse una
lettera sigillata, che poi porse al commendatario.
Questi interruppe il monologo
sull'ultima vendemmia, abbassò gli occhi sulla missiva e chiese:
“Che cos'è?”
“È una lettera per voi,
signore. Ve la manda il commendatario di Murcia.”
“Ah, molto bene. Dev'essere
proprio la lettera che aspettavo.” Fratello Geoffroy lo prese
familiarmente per una spalla. “Vieni, fratello, andiamo dentro,
così potrai riposarti dopo che avremo parlato.”
Una volta che furono all'interno
dell'edificio del Capitolo, fratello Geoffroy lo condusse in una
stanza che fungeva da studio, e mentre lui lo fissava in rispettoso
silenzio, accese una candela, poi aprì la lettera, la spiegò e la
lesse con attenzione.
Alla fine sollevò lo sguardo e
semplicemente apprezzò: “Molto bene.” Poi si voltò nella sua
direzione, e notando la sua espressione tesa, chiese: “Qualcosa non
va, fratello?”
“Posso fare una domanda,
signore?”
“Ma sì, certo che puoi. È
ovvio.”
“Lì c'è scritto qual è la
mia colpa?”
L'altro sollevò stupito le
sopracciglia. “La tua colpa?”
“Il commendatario di Murcia non
me l'ha voluta dire, ma se mi ha mandato via, è chiaro che devo aver
commesso qualche grave mancanza.” Fece una pausa, poi soggiunse: “È
da quando sono partito da Murcia che ci sto pensando, signore, e il
fatto di non riuscire nella mia limitatezza a capirlo da solo mi sta
distruggendo: dove ho sbagliato?”
Fratello Geoffroy scosse la
testa. “Tu non hai sbagliato in nulla, fratello,” gli rispose.
“Proprio in nulla. Anzi: se vuoi saperlo, sei stato scelto.”
Fratello Roland incupì
l'espressione. “Scelto? Che significa?”
L'altro levò gli occhi su di
lui, e il primo notò che il suo sorriso bonario era scomparso per
lasciare il posto a un'espressione di serietà attenta. Vi era
silenzio nella stanza, e l'unica luce era quella che promanava dalla
candela che il commendatario aveva acceso. Il cavaliere fissò il suo
interlocutore con aspettativa.
“Ci sono compiti per cui non
tutti sono adatti,” disse questi. “Livelli di conoscenza
superiori, per i quali non è sufficiente essere prodi, coraggiosi e
leali.”
Fratello Roland si mosse a
disagio, facendo tintinnare gli anelli della cotta di maglia. “Che
significa?” chiese. Si accorse che aveva involontariamente
abbassato la voce, forse contagiato da quello strano clima di
mistero.
Fratello Geoffroy si alzò in
piedi facendo frusciare il mantello nel movimento. “Immagina dei
prigionieri, legati fin dalla nascita all'interno di una caverna, con
la faccia rivolta contro la parete,” cominciò. “E immagina che
ci sia un fuoco, alle loro spalle, che proietta su quella parete le
ombre di vari oggetti. Quei disgraziati si farebbero l'idea che il
loro mondo è costituito da quelle ombre, non ti pare?”
Il cavaliere ebbe qualche istante
di esitazione, poi rispose: “Sì, signore.”
Fratello Geoffroy annuì come il
precettore che vede l'allievo seguire attentamente la lezione. “Ora
immagina di liberare uno di quei prigionieri,” proseguì. “Che
cosa pensi che succederebbe?”
“Credo che quell'uomo vorrebbe
uscire dalla caverna, signore.”
“Certo, ma inizialmente sarebbe
abbagliato dalla luce e proverebbe dolore. Inoltre, all’inizio il
mondo reale gli sembrerebbe paradossalmente meno reale di quello che
ha sempre visto all'interno della caverna.”
Fratello Roland rimase in
silenzio.
“Quello che voglio dire,”
riprese l'altro dopo un po', “è che tutti noi viviamo all'interno
di quella caverna, ma solo i più forti e i più coraggiosi possono
sopportare il dolore di uscirne.”
“Non capisco, signore,”
mormorò il cavaliere. Illuminati dalla candela, gli occhi scuri di
fratello Geoffroy sembravano animati da una fiamma interna, che li
faceva ardere come tizzoni.
“Capirai,” disse il
commendatario. Prese la lettera, la piegò di nuovo e la infilò in
un cassetto, quindi proseguì: “Starai qui e ti ambienterai. Al
momento giusto, verrai presentato a fratello Urbain. Ora puoi andare
a riposarti.”
Fratello Roland uscì dallo
studio del commendatario in preda a pensieri contrastanti. Da una
parte lo sollevava sapere di non aver commesso alcuna mancanza, ma
dall’altra non gli era per niente chiaro che genere di compito
avrebbe dovuto svolgere.
Se non si trattava di combattere
per la fede, che cosa avrebbe dovuto fare?
Si guardò intorno disorientato.
Nel frattempo era calata la sera, ed egli riusciva a vedere qualcosa
unicamente grazie alla lama di luce che filtrava da sotto la porta
dello studio di fratello Geoffroy.
Ricordava la strada che portava
all’esterno, quindi pose una mano alla parete e cautamente prese a
camminare in quella direzione.
Non aveva fatto tre passi che
cominciò a sentire dei rumori alle sue spalle. Immediatamente si
irrigidì: qualcuno si stava avvicinando.
Si girò lentamente e vide un
alone di luce che andava facendosi man mano più intenso. Qualcuno
disse: “Fratello Roland? Sei qui per caso?”
“Chi mi chiama?” ringhiò
l’interpellato, facendo un istintivo passo indietro.
In fondo al corridoio comparve
una figura vestita di bianco con una lanterna in mano. “Sono
fratello Olivier,” si presentò.
Ancora diffidente, l’altro non
si mosse. “Come fai a sapere il mio nome?” chiese.
Il nuovo arrivato si avvicinò,
rivelandosi un giovane fratello di alta statura, con i capelli e gli
occhi chiari. “Diciamo che l’ho dedotto dagli indizi. Sapevo che
doveva arrivare un fratello di nome Roland dalla Spagna,” disse con
un lieve sorriso, “e quando ti ho visto nel cortile, ho capito
subito che eri tu.”
“Come hai fatto a capirlo?”
“Basta guardarti per accorgersi
che vieni da una zona di guerra, fratello.”
“Qui è buio,” replicò
Roland, senza abbandonare la posizione di guardia. “Come hai fatto
a capire che ero la stessa persona del cortile?”
“Oh, via. Sei appena uscito
dallo studio di fratello Geoffroy, nel quale praticamente non è mai
entrato nessuno di noi. Questo significa che sei un ospite di
riguardo.” Fece una breve pausa, poi soggiunse: “Come vedi, basta
osservare e ragionare.”
Fratello Roland rimase in
silenzio e lentamente assunse una postura più rilassata. “Scusa se
sono stato scortese,” disse infine, “Devo ancora abituarmi a
questi luoghi.”
L’altro annuì e chiese: “Dove
prestavi servizio?”
“Murcia.”
Fratello Olivier sollevò le
sopracciglia. “Un'assegnazione molto dura.”
“La conosci?”
“Ne ho sentito parlare.” Si
incamminò, facendo cenno a Roland di seguirlo. “Ora ti accompagno
in camerata,” disse poi, “così potrai lasciare l’usbergo prima
di venire in refettorio.”
L’altro si limitò ad annuire.
A Murcia si mangiava con usbergo, elmo e spada al fianco, e non era
raro che si abbandonasse il pasto a metà per rintuzzare qualche
assalto dei saraceni. L’idea di andare in refettorio con addosso
solo tunica e mantello lo faceva sentire praticamente nudo.
“Sai, per certi aspetti ti
invidio,” gli disse dopo un po' fratello Olivier. “In senso
buono, s'intende,” soggiunse poi.
“Perché?”
“Tu hai difeso davvero la fede,
con le armi in pugno.”
Fratello Roland non rispose. Un
po' per la stanchezza, ma un po' perché non avrebbe saputo cosa dire
per non offendere il suo interlocutore. Era passato da un castello
fortificato a una tranquilla fattoria, e ancora non riusciva a
capacitarsene.
Fu fratello Olivier che dopo un
po' aggiunse: “In ogni caso, la fede si serve in tanti modi, e a
Murcia non si potrebbe certo combattere, se non ci fosse chi
rifornisce il castello del necessario.”
“Già, hai ragione,” sospirò
Roland, più che altro desideroso di dargli ragione e far cessare il
chiacchericcio.
Fu fratello Olivier che concluse:
“Desiderare la gloria delle armi è sbagliato, bisogna desiderare
solo la gloria di Dio.” Tacque per qualche istante, forse in attesa
di una risposta, poi soggiunse: “Non nobis domine [6],
giusto?”
§
Fraello Roland pose le redini sul
collo del cavallo e afferrò un ciuffo di criniera per montare in
sella, ma qualcuno dietro di lui esclamò: “Aspetta!”
Il cavaliere si voltò: stava
arrivando a grandi passi fratello Adrien, uno dei cavalieri più
anziani di Vaux, che ormai a causa dell'età raramente usciva dalla
commenda. “Fatti vedere,” disse questi. Fece un passo indietro e
lo squadrò con una lunga occhiata dal basso verso l'alto.
Il più giovane colse uno sguardo
di disapprovazione, ma rimase in silenzio.
“Pensi di essere a posto?”
gli chiese allora l'altro.
Fratello Roland abbassò gli
occhi sulla propria tenuta, quindi rispose: “Spada affilata ieri
sera, usbergo, basilardo in cintura, elmo alla normanna, bendaggi di
emergenza nelle bisacce della sella e otre d'acqua. Credo di non aver
dimenticato nulla, fratello Adrien.”
Il maggiore emise un sospiro. “È
un mese che sei qui e ancora non hai capito niente,” brontolò
deluso, e prima che fratello Roland potesse replicare, proseguì: “La
fede non si difende solo con la spada in pugno, non si difende solo
tagliando la testa a chi la minaccia. Noi diamo un'immagine di
ordine, di pulizia fisica e morale, di rigore. Ci mostriamo
affidabili e disciplinati. Se tu vai in giro come se ti fossi appena
allontanato dal campo di battaglia, che immagine darai alla gente?”
Il più giovane non rispose.
“Cerca di adeguarti, fratello.
Ostinarsi a fare le cose a proprio modo quando tutti le fanno
diversamente è segno di superbia.”
Roland chinò appena la testa.
“Mi dispiace, fratello Adrien,” rispose, “sono abituato a
vestirmi così, l'ho fatto senza pensarci.”
L'altro occhieggiò il convoglio
che si andava formando nel cortile. In quel momento, due garzoni
stavano conducendo fuori dalla scuderia la mula bianca che ogni mese
trasportava a Metz le cassette con i guadagni della commenda.
“Parlerò col guardarobiere,” sospirò alla fine, “vedrò se ha
un mantello decente da assegnarti. Non puoi andare in città conciato
in quel modo.”
Fratello Roland rimase a
guardarlo mentre si allontanava, poi abbassò di nuovo gli occhi sui
propri abiti. A Murcia, nessuno si sarebbe sognato di riprenderlo
perché non aveva un mantello abbastanza candido. Anzi, laggiù era
raro che non ci fossero tuniche macchiate di sugna, polvere o sangue.
In quel momento, sopraggiunse
fratello Olivier. “Che voleva il Cerbero?” gli chiese.
“Al solito.”
Il nuovo arrivato sollevò le
sopracciglia. “Oh, capisco. Abiti disordinati, giusto?”
Fratello Roland si limitò ad
annuire. Sistemò meglio la testiera del suo cavallo, gli pettinò il
ciuffo con le dita, quindi soggiunse: “Non voglio essere diverso
dagli altri, ma vengo da un posto dove essere vestiti nella maniera
più comoda poteva fare la differenza tra vivere o morire. Certe cose
ormai le faccio senza nemmeno rendermene conto.”
Fratello Olivier sorrise. “Non
preoccuparti,” gli rispose, “fratello Adrien è solo dispiaciuto
di non poter essere lui a scortare la mula bianca. Devi avere
pazienza.”
Quando uscirono dalla commenda,
fratello Roland notò un ragazzetto vestito di stracci saltare in
piedi e allontanarsi di corsa. Si rivolse a fratello Olivier, che
cavalcava al suo fianco: “Chi è quello?”
L'altro si strinse nelle spalle.
“Non saprei. Ogni giorno vengono qui tanti poveri a prendere le
elemosine.”
“Ma quello l'avevi mai visto?”
“Mi pare di no.”
Fratello Roland si voltò nella
direzione in cui il ragazzo si era allontanato, ma non notò nulla di
strano.
“Che c'è?” volle sapere il
confratello.
Il primo si strinse nelle spalle.
“Niente, credo. Forse sono io che vedo pericoli anche dove non ce
ne sono.” Rivolse lo sguardo alla mula, che procedeva tranquilla,
tenuta per la cavezza da un fratello di mestiere, e poi si guardò
intorno: un contadino si fece il segno della croce quando li vide
passare, un paio di ragazze ridacchiarono fra loro. A parte ciò,
nessuno sembrava prestare loro attenzione.
Quando si furono allontanati di
qualche centinaio di passi, fratello Roland si voltò indietro,
addirittura girandosi sulla sella per vedere meglio, ma tutto gli
parve a posto.
Prese allora a osservare la
strada.
Dopo un po', fratello Olivier lo
affiancò. “Qualcosa non va?” gli chiese. “È da quando siamo
partiti che sei inquieto.”
“C'è troppa calma.”
L'altro si guardò intorno. “Non
più del solito, direi. Non c'è mai molta gente su questa strada.”
Il primo emise un sospiro.
“Scusami, fratello. Forse non sono ancora riuscito ad abituarmi a
questi posti. Penso sempre a qualche pericolo.”
La strada serpeggiava attraverso
un alternarsi di boschi e campi a maggese. Non c'era nessuno in giro
e gli unici rumori che si udivano erano lo stormire delle fronde e il
cinguettio degli uccelli.
Fratello Roland però rimaneva
inquieto. Continuava a pensare al ragazzetto che era scappato via
quando il convoglio era uscito da Vaux, e la cosa gli sembrava sempre
più sospetta. “Quanto manca a Metz?” chiese.
La risposta non fece in tempo a
giungere. Con la coda dell'occhio Fratello Roland colse un movimento
nella vegetazione. In un gesto istintivo afferrò fratello Olivier e
lo tirò verso il basso: la freccia che avrebbe dovuto piantarglisi
nel collo si perse tra le fronde.
Sfoderò la spada e si guardò
intorno: nel sottobosco c'erano delle sagome, gli parve anche di
riconoscere la giubba azzurra del ragazzo che era scappato a Vaux.
Smontò da cavallo.
“Che fai?” gli chiese
fratello Olivier.
“Prova tu a combattere in sella
qui in mezzo.” Colse un'ombra in avvicinamento, balzò in avanti:
tra le frasche c'era un uomo con una spada. Lo impegnò in
combattimento, ma già alle sue spalle si udivano nitriti e voci
concitate. La mula scartò, facendo tintinnare il carico che
trasportava.
Fratello Roland abbatté
l'avversario dopo appena due scambi, quindi si girò e corse accanto
a fratello Olivier, che nel frattempo era smontato a sua volta.
C'erano altri uomini intorno al convoglio, vide uno afferrare le
redini della mula. La bestia fece una mezza impennata e poi scartò
di nuovo, con maggiore forza, appiattendo le orecchie sul collo.
“Tenetela!” urlò fratello
Roland, “Non fatela allontanare!”
Nessuno si mosse: dei fratelli di
mestiere, un paio erano troppo spaventati per fare qualsiasi cosa,
uno era a terra sanguinante e gli altri non erano in vista. Fu
fratello Olivier che recuperò le redini della bestia e la trattenne.
Un brigante gli si avventò addosso, ma fratello Roland estrasse il
pugnale, lo afferrò per la veste e lo strattonò all'indietro, poi
gli piantò la lama nel petto. Subito dopo, estrasse l'arma e si girò
fulmineo, e con un tondo rovescio tagliò la gola a un secondo
brigante che stava per assalirlo alle spalle. A quel punto, i
superstiti si diedero alla fuga tra gli alberi.
Quando i passi dei
malintenzionati si persero nella foresta, Fratello Roland rinfoderò
l'arma, quindi fischiò per chiamare il suo cavallo, che si avvicinò
obbediente. Staccò l'otre dalla sella e bevve qualche sorso d'acqua,
poi lo porse al compagno. “Hai sete?”
“Mi hai salvato la vita,”
ansimò questi per tutta risposta.
“Te l'avevo detto che quel
tizio non mi piaceva.” Gli porse di nuovo l'otre. “Bevi un
sorso.”
Fratello Olivier si dissetò.
Si occuparono poi del ferito, che
era uno dei garzoni della scuderia. Il ragazzo, di nome Amé, giaceva
a terra col volto cereo, ma fortunatamente le sue condizioni non
erano gravi.
Fratello Roland tolse dalla
bisaccia della sella le bende che vi aveva riposto, quindi si chinò
accanto a lui e gli aprì la tunica, mettendo a nudo un taglio sul
fianco. La ferita era poco profonda, e aveva già smesso di
sanguinare. Il cavaliere la bendò con la disinvoltura
dell'abitudine. “Possiamo andare,” disse alla fine.
“Un momento,” intervenne
fratello Olivier.
Fratello Roland gli rivolse uno
sguardo interrogativo.
“Amé Non può venire in quelle
condizioni,” spiegò allora il primo. “Darebbe un'impressione di
debolezza e disordine, cosa che non sarebbe certo opportuna.”
L'altro aprì la bocca per
replicare, ma si accorse che tutti li stavano guardando. “Certo,
naturalmente,” si limitò a dire.
“È meglio che torni a Vaux.
Thibault lo accompagnerà.”
Il chiamato si fece avanti.
“Certo, cavaliere,” rispose con deferenza.
“Non date spettacoli
sconvenienti lungo la strada.”
“State tranquillo, cavaliere,”
assicurò Thibault per entrambi.
“Ora possiamo andare,” disse
fratello Olivier. “Anzi, muoviamoci. Non vorrei arrivare in
ritardo.”
§
La prima cosa che fratello Roland
notò quando arrivarono a Metz, fu un imponente castello a cavallo di
un corso d'acqua, con un giro di mura merlate e due alte torri dal
tetto conico ai lati del portone d'ingresso. Si fece schermo con la
mano per guardare le bandiere che garrivano sul maniero, ma col sole
del primo pomeriggio che gli batteva sugli occhi, non riusciva a
distinguerne il disegno.
“È quello?” chiese.
Fratello Olivier scosse la testa.
“No, quello è il castello dei cavalieri tedeschi.”
“I cavalieri teutonici?”
“Sì, ne vedrai qui in città.
Hanno anche un ospedale.” Fece una breve pausa, poi soggiunse: “E
quindi, capirai che a maggior ragione non possiamo sfigurare.”
“Non siamo in buoni rapporti
con i cavalieri tedeschi?”
“Ma certo. Dobbiamo mostrare
benevolenza per i nostri fratelli minori.”
Roland lanciò un’altra
occhiata al castello e tutto gli parvero quei cavalieri, fuorché
fratelli minori, ma preferì non replicare. Mentre stava ancora
osservando il maniero, vide il portone schiudersi lentamente. Da esso
uscirono alcuni uomini a cavallo.
Il primo montava un alto
destriero grigio, la cui corporatura poderosa era accentuata da una
gualdrappa bianca con le croci nere. Portava l’abito bianco,
l’usbergo e il mantello con la croce nera sulla spalla, ma la cosa
che lo colpì maggiormente fu che indossava un Grande Elmo che ai
lati aveva due imponenti ali bianche e nere, arcuate a semicerchio.
Rimase a fissarlo perplesso finché fratello Olivier non lo richiamò
alla realtà: “Non avevi mai visto un cavaliere tedesco?”
“Qualche volta, ma mai in
armi.”
“Hanno una certa predilezione
per le apparenze, non ti pare?”
Fermi sul ciglio della strada,
Michel e Bertrand, due membri della milizia, appoggiati alle
rispettive alabarde guardavano passare il gruppetto di Templari.
“Eccoli qui, come ogni mese,”
considerò il primo. “Puntuali come la Quaresima.”
L'altro rimase in silenzio.
“Mi piacerebbe proprio sapere
quanti soldi portano,” buttò lì Michel dopo un po'. “Sarei
curioso di dare un'occhiata a quelle cassette, una volta o l'altra.”
“Perché?” gli chiese
Bertrand.
L'altro assunse una vaga aria di
mistero, poi rispose: “Lo sai che nessuno è mai riuscito a mettere
le mani su uno dei loro libri mastri? Rispondono solo al Papa.”
“Conosco uno che è diventato
fratello di mestiere,” disse Bertrand dopo un po', “e lui dice
che sono bravi.”
“Bravi? Che significa?”
“Danno molte elemosine ai
poveri, curano gli infermi. Loro stessi non possono possedere più di
quattro denari a testa. Una volta un fratello cavaliere morì, e
quando guardarono nella sua scarsella trovarono più soldi del
consentito. Lo sai cosa successe?”
“No, che cosa?”
“Lo seppellirono senza la veste
bianca!”
Michel annuì. “Una punizione
terribile,” considerò poi in tono sarcastico.
Tra i due calò il silenzio. Di
comune accordo si misero in movimento e percorsero un tratto di
strada con passo misurato, sogguardando di tanto in tanto all'interno
delle botteghe, e ricevendone occhiate di torva diffidenza in
risposta.
Attraversarono la piazza della
cattedrale, e da lì Michel fece cenno di svoltare in un vicolo
stretto, al centro del quale correva un canaletto di scolo. Un paio
di bambini che stavano giocando sulla soglia di una casa scomparvero
all'interno dell'abitazione, da un davanzale un gatto li fissò e poi
scappò via. Rimase solo una vecchia silenziosa che filava seduta su
uno sgabello, ma probabilmente perché ormai non ci vedeva quasi più
e non aveva capito che erano sbirri.
“Perché passiamo per di qui?”
chiese Bertrand.
“Voglio vederli arrivare alla
commenda.”
“Sì, ma perché?”
“Voglio capire cosa fanno,
quella è gente strana. Non danno confidenza a nessuno, guardano
tutti dall’alto in basso.” Abbassò la voce. “C’è chi parla
di eresia, lo sai?”
“Eresia? Cavalieri della fede
che praticano l’eresia?”
Michel annuì energicamente. “Se
ne sentono tante, sui quei cari fratelli guerrieri. Anche che
facciano proprio tutto fra di loro.” Sogghignò, e dando una
gomitata nelle costole del collega, con aria complice gli chiese:
“Capisci cosa intendo?”
“Ecco, veramente no. Cosa vuoi
dire?”
“Tutto fra di loro, pensaci un
po’.”
[1] Romani 13:1,2 (NR)
[2] San Bernardo di Chiaravalle,
De laude novae militiae (In lode della nuova milizia).
[3] Equivalente teutonico della
commenda templare.
[4] Lorena.
[5] Contadini e artigiani
appartenenti all’Ordine, che svolgevano il loro servizio nelle
commende.
[6]
Non nobis domine, non nobis sed nomini tuo da gloriam
(Non a noi, Signore. Non a noi, ma al tuo nome dà gloria). Motto dei
Templari, tratto dal Salmo 114 della Bibbia (CEI).
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Salve gente, eccomi qui con un
altro mappazzone tutto per voi!^^
Scusate se posto i capitoli cosi
velocemente, e se sono così lunghi. Esigenze di contest, non posso
fare altrimenti.
Ringrazio per prima cosa
l’ottima, coltissima e gentilissima Saelde_und_Ehre, che ha
supervisionato il mio Medioevo e mi ha fornito i termini in
Mittelhochdeutsch. Sappiate che è merito suo se l’ambientazione è
credibile.
Ringrazio poi sentitamente tutti
coloro che sono passati a dare un’occhiata, e soprattutto ringrazio
chi è stato così gentile da commentarmi, ovvero Saelde_und_ehre,
John Spangler, by a lady, queenjane, mystery_koopa, evelyn80,
alessandroago_94, innominetuo, Syila, _Polx_
e Yonoi.
Capitolo 2
Ansante,
con gli abiti ormai fradici di sudore e farfalle bianche che gli
danzavano davanti agli occhi, Gwenel de Jussy disse: “Ancora una
volta.”
Giunse
lapidaria la risposta del maestro d'armi: “Siete troppo stanco,
juncherre.”
Il
ragazzo strinse i denti. “Devo imparare a combattere in qualsiasi
situazione, anche esausto, anche ferito. Andiamo avanti, meister
Wulf.”
L'uomo
lo fissò impassibile, quindi rispose: “Ho detto no, juncherre.
Vostro padre non mi ha fatto venire da Norimberga, dopo tutti i
maestri francesi che avete avuto, per insegnare a voi come spaccare
la legna. Vostro padre vuole che io faccia di voi un cavaliere
perfetto.”
Gwenel
aggrottò le sopracciglia in un'espressione adirata. “Il mio
futuro, meister Wulf, non è quello di fare qualche torneo
ogni tanto, quando gli impegni del feudo me lo consentiranno. Io
voglio diventare cavaliere del Tempio, e combattere contro i nemici
della fede.”
“A
maggior ragione, allora, dovete padroneggiare perfettamente l'uso
delle armi,” commentò l'altro.
“È
da quando avevo sette anni che ho maestri d’armi,” ringhiò il
ragazzo. “Ora le armi le voglio usare!” Scattò in avanti
caricando un fendente.
Meister
Wulf, che sembrava quasi distratto, in un attimo alzò la spada in
una parata alta, quindi con un secco movimento del polso girò l'arma
in un tondo dritto. Il ragazzo si immobilizzò con la lama
dell'istruttore sul collo.
“Capite
cosa voglio dire, juncherre?” domandò l'uomo in tono
pacato. “Dovete imparare a non farvi prendere dall'emozione, e a
dosare le vostre forze come un bravo amministratore.” Fece una
pausa, poi abbassando la lama soggiunse: “Se al posto mio ci fosse
stato un saraceno, voi sareste morto.” Il duro accento tedesco
rendeva quelle parole ancora più ferali.
Gwenel
abbassò lo sguardo.
“Riposate,
ora.”
“Va
bene, ma dopo voglio combattere ancora.”
“Al
momento giusto. Ora non serve.”
“Ma
perché?”
Il
maestro d'armi emise un sospiro. “Venite qui,” disse prendendolo
per una spalla. Lo condusse a una panca e gli fece cenno di sedersi,
poi prese posto accanto a lui. “Io ho combattuto in Outremer
[1],” disse poi.
Gwenel
fece tanto d'occhi. “Davvero?”
“Sono
stato crucesignato per dieci anni, all'assedio di San Giovanni d'Acri
sono stato tra gli ultimi ad abbandonare la città assieme ai
Tempelritter... ai Cavalieri del Tempio.”
“Non
me l'avevate mai detto, meister Wulf,” mormorò Gwenel, in
preda alla sensazione di vago imbarazzo di chi si accorge di aver
parlato a sproposito senza rendersene conto.
“Ecco
perché quando vi parlo di combattimenti veri so quello che dico,”
fu la secca risposta dell'uomo. “Con la preparazione che avete
adesso, voi non durereste un'ora in una guerra. Quello che sapete
fare va bene per le giostre di corte, non certo per veri nemici che
vogliono uccidervi con ogni mezzo.”
Il
ragazzo ebbe l'impressione che quel tono duro avesse oltre a quello
di educarlo anche il compito di rintuzzare qualche brutto ricordo, e
non replicò. Rimase in silenzio per un po', i gomiti appoggiati alle
ginocchia e il viso tra i palmi delle mani. Infine rialzò la testa,
si voltò fino a fissare il maestro d'armi negli occhi e gli disse:
“Allora insegnatemi, meister Wulf. Io voglio diventare un
Cavaliere del Tempio. Voi li avete visti combattere, io voglio
imparare a combattere come loro.”
L'uomo
annuì, i suoi lineamenti legnosi sembrarono vagamente addolcirsi.
“Voi imparerete a combattere anche meglio, se mi obbedirete.”
§
Fratello
Roland smontò da cavallo. Mathias, un ragazzo che a quanto aveva
capito era stato accolto per carità alla commenda di Vaux, si
affrettò a prendere l'animale per le briglie, quindi con deferenza
lo condusse accanto al carro, in una zona della piazza che si trovava
all'ombra. Il Templare lo udì parlargli a bassa voce.
Si
voltò verso il confratello Olivier, che era dritto in piedi,
immobile e con lo sguardo rivolto in avanti come se fosse stato a
guardia del Santo Sepolcro.
Fece
scorrere lo sguardo tutt'intorno: bancarelle, chioschi. Un venditore
di cibarie cotte stava magnificando a gran voce i suoi prodotti;
l'esposizione di una merciaia sedicente parigina aveva attirato una
compagine di donne e ragazze, che si stavano contendendo nastri,
stoffe e fili da ricamo. Il macellaio stava tranquillamente
eviscerando una carcassa appesa per le zampe posteriori, e alcuni
randagi appostati a distanza di sicurezza dalle sue pedate non lo
perdevano d'occhio.
Accanto
alla porta della chiesa era in corso una rissa tra mendicanti e
saltimbanchi su chi avesse il diritto di elemosinare lì. Un paio di
sbirri annoiati stavano seguendo da lontano la contesa, pronti a
intervenire ma al tempo stesso ben decisi a non effondere energie non
necessarie.
Per
l'ennesima volta, il suo pensiero andò a Murcia. Quando era arrivato
là, la prima notte c'era stato un assalto dei saraceni, e prima che
la pressione si allentasse quel tanto da consentire almeno qualche
ora consecutiva di sonno, erano passate due settimane. Aveva ancora
sul braccio la larga cicatrice biancastra di una ferita che era
guarita da sola, come Dio aveva voluto, perché non c'era stato il
tempo di darle nemmeno un'occhiata.
E
dopo tutto ciò, abito candido e usbergo lucidato a sabbia di fiume
dall'instancabile Mathias, era finito a montare la guardia ai denari
raccolti con la vendita degli ortaggi.
Probabilmente,
il Signore aveva voluto punire la sua superbia, costringerlo alla
giusta umiltà.
La
voce soddisfatta di fratello Olivier lo distrasse dalle sue
meditazioni: “Oggi è una buona giornata.”
“Cosa?”
“Non
vedi? Il buon fratello Nazaire quasi non riesce a stare dietro ai
conti.”
Chiamato
in causa, il tesoriere, un ometto curvo, con pochi capelli grigi e un
paio di lenti sul naso, annuì compiaciuto.
Fratello
Roland non replicò. Si chiese quanti giorni sarebbe durato un
cavaliere come fratello Nazaire a Murcia, e la risposta fu
chiaramente pochi.
Seguì
un lungo silenzio, rotto solo dal vociare lontano della piazza e dai
polli della commenda che chiocciavano piano nelle stie.
Alla
fine, fratello Olivier gli chiese: “Qualcosa non va?”
“No,
è tutto a posto.”
“Mentire
è peccato, caro fratello. Coraggio, aprimi il tuo cuore, dimmi cosa
ti turba.”
Roland
emise un sospiro. “Non lo so. È che non mi aspettavo… questo.”
Olivier
annuì consapevole. “Oh, certo. Capisco.” Lo prese per una spalla
e lo sospinse per qualche passo. “Credo che anche se ci
allontaniamo un po’ nessuno penserà di derubare fratello Nazaire,”
disse con un mezzo sorriso. “Non certo dopo la tua prodezza nel
bosco.”
Camminarono
per un po' fianco a fianco.
“Le
cose stanno cambiando,” soggiunse poi fratello Olivier quando si
trovarono a debita distanza. “Il mondo sta cambiando, e così anche
l’Ordine.”
Roland
aggrottò le sopracciglia. “Che intendi dire?”
“Outremer
è persa...”
“La
riconquisteremo!” lo interruppe l’altro con foga, ma il primo
scosse la testa con un sorriso quasi di indulgenza. “Costerebbe
troppo, e nessuno ha più tempo e voglia di imbarcarsi nell’impresa.
I saraceni sono sempre più forti, i margini di guadagno sempre
minori. A chi interessa ormai?”
“Ma
noi siamo i difensori della fede.”
“E
dov’è più minacciata, ormai, la fede? I Teutonici se ne sono
dovuti andare fino in Livonia, per trovare dei pagani. No, dà retta
a me, non è più questo il nostro compito. Presto smetteremo di
essere guerrieri sudici, che dormono per terra e vivono con la spada
in pugno.”
Fratello
Roland strinse gli occhi. “Per diventare cosa?” domandò cupo.
L’altro
alzò le spalle in un gesto noncurante. “Diplomatici, finanzieri,
uomini di studio. È così che manterremo il nostro potere:
consigliando e ispirando i regnanti, curando nel migliore dei modi i
loro interessi.”
“Ma
noi siamo cavalieri.”
“Non
più, ormai. Non solo, perlomeno. Prendi fratello Nazaire, per
esempio: io credo che non sappia tenere in mano nemmeno un coltello
da cucina, ma i libri mastri sono il suo pane. E non è neppure
nobile, è un borghese che è entrato nell’Ordine quando è rimasto
vedovo.”
Fratello
Roland rimase per un po’ chiuso in un silenzio meditativo, infine
chiese: “E i briganti nella foresta? Pensi che avrei dovuto usare
la diplomazia per convincerli ad andarsene?”
“Come
hai visto tu stesso, è bastato un solo cavaliere per farli scappare.
I tempi delle battaglie sono finiti.” Gli batté una mano sulla
spalla con fare amichevole, poi aggiunse: “Io me ne torno da
fratello Nazaire, è sempre bene non indurre i ladri in tentazione.
Tu resta qui ancora un po’, se vuoi. Magari puoi fare un giro per
la piazza, così la gente ti vede.”
“A
che serve che la gente mi veda?”
“Il
nostro manto bianco è sempre apprezzato. Farai buona impressione.”
“D’accordo.”
“Mantieni
atteggiamenti dignitosi.”
“Come
se ci fosse bisogno di ripeterlo,” brontolò fratello Roland,
quindi si allontanò torvo, con le braccia allacciate dietro la
schiena e le spalle ingobbite.
Nonostante
le raccomandazioni del confratello, il Templare si tenne lontano
dalla folla del mercato: aveva bisogno di riflettere. Si sedette sul
bordo di una fontana un po’ in disparte ed emise un sospiro. Aveva
passato anni a combattere, praticamente sapeva fare solo quello. Come
avrebbe potuto trasformarsi in un diplomatico o in un mercante?
Un
rumore alle sue spalle lo fece scattare: si girò rapido e si trovò
di fronte un ragazzo. Lo osservò attento: poteva avere sui diciotto
anni, e non era sicuramente un popolano. Aveva vesti pregiate, e
portava i capelli biondi lunghi fino alle spalle. Al fianco aveva una
spada di buona fattura.
Fratello Roland si alzò in
piedi. “Salute a voi,” gli disse.
“Salute
a voi, cavaliere,” rispose il giovane, e poi rimase fermo a
fissarlo. Il Templare si accorse che gli stava rivolgendo lo stesso
sguardo che anche lui, a suo tempo, aveva rivolto ai cavalieri
dell’Ordine. “Posso fare qualcosa per voi?” gli chiese.
Il
ragazzo si fece avanti. “Mi chiamo Gwenel de Jussy,” si presentò.
“De
Jussy?” fece eco l’altro, “Appartenete per caso alla famiglia
del signore di questo borgo?”
“Sono
suo figlio.”
“Piacere
di conoscervi, io sono fratello Roland.”
Il
ragazzo annuì. “Fratello Roland,” ripeté.
“Posso
fare qualcosa per voi?” chiese di nuovo il Templare.
L’altro
prese un gran respiro. “Posso rimanere qui a parlare un po’ con
voi?” domandò.
“S,
certo. Naturalmente. Che cosa volete sapere?”
“Qualcosa
sulla vita nell’Ordine, magari.” Fece una breve pausa, poi con
aria sognante soggiunse: “È bella, vero?”
A
quelle parole, fratello Roland si sentì invadere dall’amarezza.
Senza rispondere alla domanda, disse: “Voi state meditando di
entrare nell’Ordine.”
“Sì,
è così!” esclamò il ragazzo con slancio.
“Beh,
non fatelo,” lo raffreddò il Templare, “a meno che non abbiate
tutta questa voglia di passare la vita in povertà, a obbedire senza
discutere a ogni ordine che vi viene impartito dai vostri superiori.”
L’altro
abbassò gli occhi, poi rispose: “Io non sono fatto per la vita di
corte, signore. Non amo le feste e lo sfarzo, mentre ricerco la
semplicità e la vita in comune con altri fratelli. Voglio dedicare
la mia vita a combattere per Cristo e per la Vergine Maria.”
“No,
meglio di no,” replicò il cavaliere. “Magari sareste contento
per i primi mesi, forse per un anno, ma poi ve ne pentireste, e io
avrei il rimorso di non avervi dissuaso quando ne avevo la
possibilità.”
“Voi
non potete dissuadermi, signore,” fu la candida risposta del
ragazzo, “Io ho già preso la mia decisione. Non ambisco ad altro
che a portare la croce e a combattere i nemici della fede.”
L’amarezza
di fratello Roland si fece se possibile ancora più profonda.
“Combattere, dite? Guardate un po’ laggiù,” gli indicò il
gruppetto di fratelli di mestiere impegnati a vendere i prodotti
della commenda, “Quelli sono gli unici combattimenti cui potrete
anelare se entrerete nell’Ordine.”
Il
ragazzo lo fissò ammutolito.
“Voi
immaginavate Outremer, vero? Sconfiggere i saraceni, liberare
il Santo Sepolcro.”
“Sì,
è così.”
“Beh,
nulla di tutto questo vi aspetta, se entrerete nell’Ordine. Andate
a parlare con fratello Olivier, se non credete a me, è quello in
piedi laggiù.” Gli indicò il confratello. “E ora, scusatemi,
devo tornare ai miei doveri.” Si alzò, rivolse al ragazzo un
rapido inchino del busto, quindi se ne andò.
Gwenel
rimase per un po’ a fissare confuso le ampie spalle del Templare
che si allontanava. Forse aveva sbagliato qualcosa, aveva parlato a
sproposito senza rendersene conto. Non riusciva a spiegarsi,
altrimenti, perché il cavaliere se ne fosse andato in quel modo così
brusco.
Si
voltò verso il gruppetto di fratelli di mestiere, ponderando
l’eventualità di andare a parlare anche con quel fratello Olivier
di cui fratello Roland gli aveva parlato, ma mentre stava per farlo
udì un aumento dei clamori nella piazza. “I cavalieri!” sentì
gridare.
Subito
si infilò tra la folla e corse a vedere.
Quando
capì di cosa si trattava, stabilì che era il Cielo che gli stava
mandando un messaggio: stava passando un drappello di Templari in
armi. Cavalcavano a due a due, disciplinati e maestosi nei loro manti
bianchi con la croce scarlatta sulla spalla. Uno dei cavalieri della
prima fila reggeva il Beauceant, che sventolava lieve nella brezza.
Non provenivano dalla colonna altri rumori che lo scalpiccio degli
zoccoli e il tinnire del metallo.
Gwenel
sentì il cuore balzargli nel petto. Fu certo di non aver mai visto
uno spettacolo più bello, più solenne e più esaltante della
silente compagine che stava in quel momento percorrendo la strada
maestra, e desiderò con tutto se stesso di farne parte.
§
I
pugni puntati sui fianchi, fratello Adrien fece scorrere lo sguardo
critico sul cortile. “Spazzate di nuovo,” ordinò poi. I servi
raccolsero le ramazze e in silenzio cominciarono a darsi da fare.
Il
cavaliere si diresse alle scuderie. “Qui è tutto a posto?”
chiese, scrutando dubbioso il candido edificio.
“Sì,
signore,” rispose il capo dei garzoni di stalla.
“I
cavalli sono stati strigliati? I pavimenti sono puliti?”
“Sì,
tutto a posto, signore.”
“Vediamo.”
Si introdusse risoluto nella costruzione.
Poco
distanti, fratello Roland e fratello Olivier, le braccia conserte sul
petto, fissavano i servi che spazzavano l’immacolato cortile. “È
la terza volta che glielo fa rifare,” constatò il primo perplesso.
“Devi
avere pazienza,” rispose l’altro, “è un po’ agitato.”
“Perché?”
“Oggi
vengono i cavalieri tedeschi, non vuole sfigurare.”
“Arrivano
dei Templari dalla Germania?”
Fratello
Olivier scosse la testa. “No, i cavalieri Teutonici di Metz.
Fratello Adrien è preoccupato di non fare un’impressione
sufficientemente solenne sui nostri fratelli minori.”
L’altro
non rispose. Almeno i cavalieri Teutonici combattevano contro i
pagani in tutta l’Europa dell’est. Almeno non erano famosi perché
prestavano denaro al re, ma perché facevano le crociate. Rievocò
l’immagine dell’imponente maniero di Metz e di nuovo trovò la
parola ‘minori’ decisamente fuori luogo. “Cosa vengono a fare?”
chiese dopo un po’. Sperò che fosse un incontro in previsione
qualche attività marziale.
“Fratello
Geoffroy ha comprato da loro dei cavalli da tiro della Livonia. Oggi
ce li portano.”
“Capisco,”
fu la delusa risposta.
“Ti
aspettavi per caso una giostra?” chiese fratello Olivier, con
l’aria di considerare la cosa molto buffa.
L’altro
non rispose. Da qualche mese a quella parte, nulla di ciò che
accadeva corrispondeva più a ciò che si sarebbe aspettato, per cui
rinunciò a parlare.
Poco
dopo, vide il fratello portinaio saltare su dalla sua sedia. L’uomo
era lo stesso che lo aveva accolto al suo arrivo, ma questa volta gli
era stato categoricamente vietato di stare a piedi nudi e vestito in
modo sciatto: aveva le scarpe ben lucidate e una tunica di lana scura
[2] su cui spiccava la croce scarlatta.
Tutti
si voltarono in direzione del portone che si stava lentamente
aprendo.
Il
primo a entrare fu un cavaliere in sella a un poderoso destriero da
guerra grigio. Portava un semplice elmo alla normanna, l’usbergo e
il mantello bianco con la croce nera sulla spalla. Dietro di lui
venivano un sergente e alcuni soldati. Quattro di essi conducevano
per la cavezza altrettanti cavalli da tiro dal manto baio lucidato a
specchio, alti ciascuno non meno di diciassette palmi al garrese.
“Belle
bestie,” commentò qualcuno alle spalle di Roland.
“Quelle
a quattro zampe,” specificò un altro. Serpeggiò qualche risatina.
“Silenzio!”
ingiunse fratello Geoffroy, quindi andò incontro al cavaliere che
stava smontando di sella.
Fratello
Roland lo seguì attento con lo sguardo. Non riusciva a sentire
quello che si dicevano, ma vide il tedesco togliersi l’elmo e farsi
scivolare indietro il cappuccio di maglia, rivelando una capigliatura
biondo pallido. Era alto un bel po’ più di fratello Geoffroy, e
dava l’impressione di potersi caricare in spalla senza sforzo uno
dei quattro cavalli che aveva portato.
Evidentemente
parlava il francese, perché lui e fratello Geoffroy si scambiarono
una serie di convenevoli. Infine fece un cenno, e i soldati gli
condussero i cavalli da tiro.
Di
nuovo lui e il commendatario parlarono un po', poi le lunghine
passarono di mano, e le bestie vennero menate alle scuderie.
A
quel punto, fratello Roland si rivolse a fratello Olivier: “Che ne
pensi?”
L'altro
corrugò appena la fronte. “È uno abituato a stare con la spada in
mano, viene dal nord della Germania, tende ad essere di carattere
irruente. Posso anche ipotizzare che non sia qui in Francia da tanto
tempo, sebbene parli bene il francese.”
“E
tu come fai a saperlo?”
Fratello
Olivier si strinse nelle spalle. “Ho osservato, ho dedotto,”
rispose semplicemente. E al silenzio del confratello soggiunse:
“Sembra che stia parlando amabilmente, ma non vedi come tiene
d'occhio tutto? Questo è uno che ha imparato a sue spese a non
abbassare mai la guardia.”
Fratello
Roland annuì con uno strano senso di soddisfazione. “Vado a
presentarmi,” disse poi.
L'altro
aggrottò le sopracciglia. “Cosa? Perché dovresti farlo?”
“È
un cavaliere, sono curioso di conoscerlo.”
“Non
ci pensare nemmeno, si farà l'impressione che siamo un branco di
cialtroni insubordinati. Che figura fai fare a fratello Geoffroy?”
Fratello
Roland rispose: “Farà la figura di un commendatario cortese, che
presenta i suoi fratelli cavalieri all'ospite.” Detto questo, si
mosse per avvicinarsi ai due.
Non
aveva fatto il primo passo che il cavaliere tedesco aveva già
rivolto verso di lui uno sguardo acuto di rapace. Si fissarono, e
fratello Roland vide nella sua espressione una conferma delle ipotesi
di fratello Olivier. Gli sorrise.
L'altro
gli restituì il sorriso, poi si voltò verso fratello Geoffroy e
disse: “Tutti parlano con giusta ragione del grande valore dei
Templari. Posso avere l'onore di conoscere i cavalieri di questa
magione?”
“Questa
è solo una piccola commenda,” si schermì fratello Geoffroy, “ci
sono più che altro fratelli di mestiere e studiosi.” Fece una
breve risata e soggiunse: “Come me, ad esempio. Non ho più l'età
per combattere, per cui ora mi dedico ai libri.”
“Voi
non siete di certo più vecchio del priore che comanda il castello da
cui provengo, signore,” replicò il tedesco, “e lui è quello che
combatte più di tutti, a Ritterswerder.”
“C'è
anche da dire che qui, come vedete, non abbiamo molte occasioni di
combattere.”
L'altro
annuì. “Lo so fin troppo bene, signore,” rispose con un sospiro.
Roland,
che stava seguendo lo scambio, a quel punto si avvicinò
ulteriormente. Il commendatario sembrò accorgersi di lui solo in
quel momento. Sorrise in un modo che al cavaliere parve quasi di
sollievo, poi disse: “Ma ecco qui un vero combattente, direttamente
da un castello dell'Andalusia: fratello Roland.” Lo prese
familiarmente per una spalla, lo sospinse verso l'ospite. “Fratello
Roland, questi è fratello... Friedrich?” Il tedesco annuì,
l'altro assunse l'espressione dell'alunno che ha risposto a una
domanda tirando a indovinare e vede il precettore soddisfatto. “È
fratello Friedrich, dell'Ordine Teutonico. Vorresti essere così
gentile da fargli visitare la commenda?”
“Ma
certo, signore.”
“Ah,
molto bene. Molto bene. E ora scusatemi, ma i miei doveri mi
reclamano. È stato un piacere, fratello Frédéric.”
I
due lo guardarono allontanarsi, poi si scambiarono un'occhiata.
“Friedrich von Rotburg,” si presentò di nuovo il tedesco
tendendo la mano.
L'altro
la strinse. “Io sono fratello Roland.”
“Piacere
di conoscervi.”
“Piacere
mio,” rispose il Templare, quindi disse: “Beh, venite con me. Da
cosa preferite cominciare, la vigna, il forno o la stalla?”
La
risposta del tedesco giunse lapidaria: “Da dove vi addestrate con
le armi.”
L'altro,
che aveva già mosso qualche passo, si immobilizzò e si girò verso
di lui. Si scambiarono un secondo lungo sguardo. Alla fine, fratello
Roland ripeté: “Venite con me.”
Lo
condusse al campo di addestramento. Si accorse di guardarsi intorno,
e l’inconfessato motivo era evitare che altri confratelli si
unissero a loro. Aveva l'impressione di essere un animale selvatico
che ha finalmente trovato del cibo, e va a nascondersi nel folto
della foresta, al riparo da chi possa portarglielo via.
Arrivarono
al limitare di uno spiazzo circondato da una pista da galoppo e
disseminato di manichini di paglia e ostacoli di vario genere. Non
c'era nessuno. “Qui è dove ci alleniamo,” disse.
Il
tedesco annuì grave, poi replicò: “Il valore in battaglia dei
cavalieri Templari è leggendario. Tutti ne parlano, per cui ero
curioso di vedervi combattere.”
“Ecco...
come vi ha detto fratello Geoffroy, questa è solo una piccola
commenda.”
“Ma
voi siete un cavaliere.”
L'altro
sentì il cuore accelerare i battiti. “Che intendete dire?”
“Che
nessuno ci impedisce di combattere un po' fra noi.”
Fratello
Roland esitò qualche secondo, ma poi scosse la stessa. “Ecco,
veramente dovrei chiedere il permesso a fratello Geoffroy. La Regola
ci vieta di esercitarci senza l'autorizzazione di un superiore.”
L'altro
annuì grave. “Capisco,” disse. Poi, dopo una pausa: “Siete qui
da molto?”
“Qualche
mese.”
“E
vi piace?”
“È
il mio dovere, che mi piaccia o meno è irrilevante.”
Cominciarono
a camminare fianco a fianco. L'aria era tiepida, e piena del
cinguettio degli uccelli e del frinire di migliaia di insetti. Le
viti rigogliose mostravano già i frutti che di lì a qualche mese le
avrebbero piegate verso terra. Intenti alle loro occupazioni, i
fratelli di mestiere si inchinavano rispettosamente vedendoli
passare.
Oltrepassarono
i campi, raggiungendo una zona incolta nella quale c'erano i resti di
un’antica cappella. Il rudere era ombreggiato da grandi alberi e
coperto di rampicanti. “Questo è il posto che preferisco,” disse
il Templare.
Fratello
Friedrich si guardò intorno, poi si girò verso la commenda, che da
lì appariva come un insieme di casette bianche col tetto di paglia,
disposte intorno ai due edifici di pietra come le pecore intorno a un
pastore. Sembrava un pacifico villaggio di contadini, più che un
convento di frati guerrieri.
Si
voltò di nuovo verso il Templare: alto, dritto, una cicatrice bianca
che gli tagliava una guancia. La pelle era abbronzata, le mani
indurite dall’uso della spada. Gli occhi erano scuri, penetranti,
ma vi si coglieva una malinconia profonda, da animale selvatico
obbligato alla cattività.
“Dove
avete combattuto?” gli chiese.
L’altro
sembrò animarsi. “Sono stato tre anni ad Arcos de la Frontera, tre
ad Aguilar e poi uno a Murcia.”
“Avete
sempre combattuto contro i saraceni, quindi.”
“Sì,
è così. E voi?”
“Conoscete
la Livonia?”
“Ne
ho sentito parlare. Voi avete combattuto là?”
Il
tedesco annuì. “Quattro anni ad Ascheraden, due a Christmemel, uno
a Georgenburg e due a Ritterswerder.”
“È
da parecchio che combattete.”
“Da
quando avevo diciassette anni, e voi?”
“Diciotto.”
Fratello
Friedrich si sedette su una pietra. “E adesso siamo qui,”
concluse con un sospiro.
Fratello
Roland prese posto accanto a lui e disse: “Nemmeno voi siete
contento di aver abbandonato i combattimenti, vero?”
Il
tedesco si girò a fissarlo negli occhi. “Vi risponderò come avete
fatto voi con me: è il mio dovere, che io ne sia contento o meno è
irrilevante.”
L’altro
rimase in silenzio per qualche istante, quindi constatò: “Vedo che
ragioniamo allo stesso modo.”
“Mi
pare di sì,” assentì il primo.
Passò
un po’ di tempo, nel quale i due rimasero in silenzio ad ascoltare
lo stormire delle fronde agitate dalla brezza. Infine il Templare
chiese: “Come mai parlate così bene la mia lingua, fratello
Friedrich?”
L’altro
sorrise quasi con imbarazzo. “Da ragazzo volevo leggere i poemi di
Chrétien de Troyes e non li trovavo tradotti in tedesco, così ho
chiesto a mio padre di procurarmi un precettore che mi insegnasse il
francese.”
“Allora
sono stato fortunato.”
“Perché?”
“Perché
così posso parlare con voi.”
Fratello
Friedrich rimase in silenzio per un po’, quindi rispose: “Anch’io
sono stato fortunato.”
Simultaneamente
si voltarono l’uno verso l’altro, ma prima che il tedesco potesse
aggiungere altro, sentirono qualcuno chiamarli. Subito fratello
Roland scattò in piedi. “Temo che ci siamo attardati oltre il
consentito,” disse, e senza aggiungere altro si incamminò rapido.
Fratello
Friedrich lo seguì pensoso. Forse era ancora troppo abituato agli
spazi ampi della Livonia, alle pianure che si estendevano a perdita
occhio e alle galoppate nella neve, ma più passavano i giorni, più
i vigneti e i campi della Lorena gli sembravano soffocanti. E non
erano solo le coltivazioni a inquietarlo, ma anche la generica aria
laboriosa, pacifica e tranquilla che sembravano avere tutti, Templari
inclusi.
L’incarico
di portare i cavalli alla commenda, che inizialmente lo aveva
riempito di aspettativa e curiosità, gli stava suscitando una
sensazione di disagio simile a quella che avrebbe potuto provare nel
vedere una belva feroce costretta alla catena.
Nel
cortile c’erano altri tre cavalieri, che egli giudicò coetanei di
fratello Roland. “Eccovi qui!” li apostrofò uno di essi, alto e
con i capelli chiari. “Dove vi eravate nascosti?”
Ignorando
la domanda, l’altro rispose: “Fratello Olivier, ti presento
fratello Friedrich von Rotburg, dell’Ordine Teutonico.” Poi,
rivolto al tedesco: “Questi sono i miei confratelli: fratello
Olivier, fratello Philippe e fratello Séverin.”
Ci
fu uno scambio di strette di mano, poi fratello Séverin, un
giovanottone con le spalle larghe e l’espressione volenterosa,
domandò: “Avete già visitato la nostra chiesa?”
“In
effetti no,” rispose fratello Friedrich.
“Che
ne direste allora di vederla? Abbiamo un po’ di tempo prima che
suoni la campana della cena.”
Fratello
Friedrich annuì. “La vedrei molto volentieri.”
Intervenne
quello che era stato presentato come fratello Philippe: “Parlate
molto bene il francese, signore.”
Il
tedesco gli rivolse un leggero inchino del busto. “Grazie, i vostri
poeti epici mi hanno conquistato e mi hanno spinto ad apprenderlo.”
L’altro
parve stupito. “I nostri poeti epici?”
“Chrétien
de Troyes, Robert de Boron...” I volti perplessi dei suoi
interlocutori lo convinsero a interrompere l’elenco.
“Noi
non leggiamo queste cose,” concluse lapidario fratello Olivier,
“quando non siamo impegnati ad allenarci o a svolgere i nostri
servizi, preferiamo ascoltare le Scritture.”
“Capisco.”
Intervenne
di nuovo fratello Séverin: “Entriamo in chiesa, fratello?”
“Volentieri.”
Mentre
lo seguiva all’interno dell’edificio, fratello Friedrich lo
osservò: era sicuramente più muscoloso di fratello Roland, ma
non aveva certo la sua andatura elastica da predatore. Le sue mani
robuste davano l’idea di poter spezzare in due un ferro di cavallo,
ma erano lisce come quelle di uno scrivano. Pensò che sarebbe potuto
essere un ottimo boscaiolo, o magari un fabbro, mentre stentava a
immaginarlo nell’atto di combattere.
Cercò
con lo sguardo fratello Roland, che subito lo raggiunse e si portò
al suo fianco.
§
Il
primo mattino era la parte del giorno in cui nella commenda fervevano
maggiormente i lavori: c’erano gli animali da rigovernare,
bisognava cominciare a cuocere i pasti, si facevano le pulizie e si
sistemavano gli alloggi.
Un
po’ in disparte rispetto a tutta quell’attività, fratello
Friedrich e fratello Roland camminavano lentamente fianco a fianco.
“E così ve ne andate?” domandò il francese.
“Sì,
i miei doveri mi chiamano al castello di Metz,” rispose l’altro.
Si voltò verso i suoi soldati, che gli stavano sellando il
destriero, poi soggiunse: “Mi dispiace di non aver duellato con
voi.”
“Anche
a me dispiace.”
“Avremo
altre occasioni, spero.”
Fratello
Roland scosse la testa. “Non credo. Voi non conoscete la nostra
Regola, ma vi posso dire che su certe cose è molto rigida. Se io
combattessi senza permesso, perderei l’abito.”
L’altro
lo fissò stupito. “Davvero?”
“È
la Regola.”
“Come
fate allora ad allenarvi? Il valore dei Templari è leggendario, e
non posso credere che si acquisisca facendo poco esercizio solo
quando lo permettono i superiori.”
Fratello
Roland alzò le spalle e rispose: “L’avete visto anche voi: in
questo posto si privilegiano le attività dei fratelli di mestiere
rispetto all’uso della spada. Fratello Geoffroy è un uomo dedito
alla contemplazione e allo studio, più che altro.”
“Capisco,”
rispose fratello Friedrich, anche se in realtà non capiva affatto.
Che senso aveva essere cavalieri, passare una vita a imparare l’uso
delle armi, se poi tale uso veniva sottoposto a tali e tante
restrizioni da impedirne formalmente la pratica? Riconosceva i buoni
combattenti a colpo d’occhio, e quel fratello Templare lo era senza
dubbio. Possibile che i suoi superiori lo obbligassero alla sola vita
da monaco, togliendogli quasi del tutto quella del guerriero?
“Ci
deve essere un modo,” disse dopo un po’.
In
quel momento li raggiunse fratello Geoffroy. “Fratello Frédéric,”
lo salutò, “volete già lasciarci?”
“Come
dicevo a fratello Roland, signore, i miei doveri mi chiamano a Metz.”
“Ah,
già. Certamente, vi capisco. I doveri non si possono trascurare.”
Cercando
di ignorare il fatto che il commendatario appariva decisamente
sollevato all’idea di vederlo partire, fratello Friderich lanciò
una fugace occhiata a fratello Roland, quindi disse: “Avrei
un’ultima grazia da chiedervi, signore.”
Fratello
Geoffroy lo fissò stupito. “Una grazia?”
“Sì,
signore.”
“Ebbene,
che cosa vorreste, fratello? Se è in mio potere, ve la concederò
volentieri.”
Il
tedesco fece un lieve sorriso e rispose: “È di certo in vostro
potere, signore. Tutti conoscono il valore in battaglia dei cavalieri
del Tempio, vi chiedo la grazia di concedere a me e ai miei
confratelli l’onore di combattere con loro in un torneo.”
La
richiesta lasciò il commendatario per qualche istante senza parole.
“Un torneo?” ripeté alla fine.
“À
plaisance [3],” specificò il tedesco.
L’altro
scosse con decisione la testa. “Ma è un evento troppo mondano,
cavaliere. È contro la Regola.”
“Sarebbe
solo per allenamento, signore. Niente spettatori, insegne o altri
strumenti di vanità.” Lanciò uno sguardo a fratello Roland e
concluse: “Solo onorevole combattimento.”
Fratello
Geoffroy si sistemò la tunica con gesti vagamente nervosi, poi
borbottò: “Beh, cavaliere, la vostra richiesta non è delle più
usuali, lasciatemelo dire.”
“Ne
sono consapevole.”
Il
commendatario si prese il mento fra le dita con fare pensoso.
Fratello Friedrich ebbe l’impressione che volesse rifiutare, ma al
tempo stesso non volesse mettersi in cattiva luce con l’Ordine
Teutonico. “Voi cosa ne dite, fratello Roland?” chiese infine.
L’interpellato
prese un respiro e socchiuse gli occhi come assorto nell’intento di
dare la migliore risposta possibile. Infine disse: “Io credo che un
torneo senza pubblico e insegne non sarebbe un evento mondano, ma
solo necessario e utile allenamento.”
Fratello
Geffroi annuì grave. “Ci penseremo,” proferì infine.
“Valuteremo. Chiederò anche il parere del Siniscalco.”
“Vi
ringrazio, signore,” disse fratello Friedrich, poi fece un cenno al
sergente, che subito inquadrò gli uomini per la marcia. Un soldato
gli portò il cavallo.
Il
cavaliere controllò il sottopancia, poi mise le redini sul collo
dell’animale e si preparò a montare in sella. “Arrivederci,
signore,” disse al commendatario, “è stato un onore conoscervi.
Parlerò al mio priore della vostra cortese ospitalità.” Si voltò
poi verso fratello Roland. “Arrivederci anche a voi. Confido che
presto potremo incrociare le spade.” Si guardò intorno alla
ricerca degli altri cavalieri, ma non li vide da nessuna parte.
Salì
a cavallo, e con un ultimo cenno di saluto si diresse verso il
portone.
§
La
commenda di Vaux comparve dietro una curva. A quella vista, la mula
bianca allungò il passo con tale vigore che il fratello di mestiere
che la accompagnava rischiò di vedersi strappare dalle mani la corda
della cavezza. “E sta’ buona!” protestò l’uomo, cercando di
riportarla all’obbedienza con uno strattone.
Fratello
Roland, che cavalcava qualche passo più indietro, osservò muto la
scena. Pensò che bisognava proprio essere muli, per aver voglia di
tornare in un posto dove non c’era altro da fare che lavori
agricoli.
A
quel pensiero, il senso di colpa lo attraversò come una fitta di
dolore: stava mettendo in discussione il voto di obbedienza. Se i
suoi superiori, ispirati da Dio, avevano stabilito di mandarlo a
Vaux, dovevano avere delle ragioni che lui, nella sua imperfezione e
fallacia, non poteva capire. Erano la superbia e l’orgoglio a
instillargli pensieri simili, e probabilmente avrebbe fatto bene a
parlarne quanto prima a fratello Geoffroy, aprendogli il proprio
cuore e invocando il perdono. Si voltò verso fratello Olivier, che
cavalcava come se stesse scortando la reliquia della Vera Croce.
L’altro gli restituì lo sguardo e gli chiese: “Che c’è, sei
stanco?”
Roland
scosse la testa. “Stavo pensando.”
“A
cosa?”
“Niente
di particolare.” Tacque per qualche secondo, poi soggiunse: “Quando
a Metz siamo passati davanti al castello dei cavalieri Teutonici, ho
guardato se c’era fratello Friedrich.”
Fratello
Olivier sollevò le sopracciglia come di fronte a un’inaspettata
eccentricità. “E perché mai?” gli chiese.
“Mi
sarebbe piaciuto fermarmi a salutarlo.”
L’altro
assunse un’espressione incredula. “Bontà divina!” protestò,
con un tono a metà fra l’esasperazione e lo sbalordimento, “E
perché mai avresti dovuto fare una cosa del genere? Quando andiamo a
Metz non lo facciamo certo per svagarci, ma per servire il Tempio.”
“Credo
che potremmo intrattenere buoni rapporti con i cavalieri tedeschi.”
“A
che ci servirebbe?”
“Sono
cavalieri.”
“E
quindi?”
“Le
regole della cavalleria...” cominciò fratello Roland, ma fratello
Olivier, in tono brusco, lo interruppe: “Noi abbiamo solo una
Regola da seguire, ed è quella del Tempio.”
“Ma...”
“Ti
prego di non insistere, se la gente ci vedesse discutere tra noi,
potremmo dare un cattivo esempio. Ne riparleremo quando saremo
arrivati, se proprio ci tieni.” Detto questo, fratello Olivier
volse lo sguardo in avanti e si chiuse in un ostinato silenzio.
Fratello
Roland chinò appena il capo. Stava calando la sera, e intorno alla
commenda stava sorgendo un piccolo villaggio di ripari di fortuna,
eretti dai medicanti che di buon mattino sarebbero andati a prendere
le elemosine elargite dal Tempio. Qua e là brillava qualche piccolo
fuoco di bivacco, gruppetti di bambini sudici si rincorrevano
schiamazzando. Una vecchia che camminava reggendosi a una stampella
si fermò a guardarli mentre passavano e si fece il segno della
croce.
Fratello
Roland pensò per l’ennesima volta al ritorno dalla fattoria di
Pozo Aledo, e di nuovo una cocente fitta di nostalgia lo fece
soffrire.
Il
portone della commenda si spalancò, lasciando intravedere il
cortile, nel quale i fratelli di mestiere si muovevano intenti alle
loro occupazioni.
Anche
il suo cavallo a quel punto allungò il passo, ed egli non fece nulla
per trattenerlo. Si lasciò anzi portare quasi docilmente, e quando
ebbe varcato la soglia gli permise di raggiungere lo spiazzo davanti
alla scuderia.
A
quel punto smontò di sella, e rimase piuttosto stupito nel sentirsi
chiamare da fratello Geoffroy.
“Avete
bisogno di me, signore?” chiese rivolgendogli un breve inchino del
busto. Per un attimo fu attraversato dal pensiero che il
commendatario volesse riprenderlo per lo scarso entusiasmo con cui
serviva a Vaux, ma l’altro gli disse: “Finalmente sei arrivato,
fratello. Molto bene, ti attendevo con ansia.” Prima che l’altro
potesse replicare, proseguì: “Vieni con me.”
Lo
precedette all’interno dell’edificio del Capitolo. “Vieni,”
ripeté, quasi in tono di rattenuta urgenza, poi raggiunse la porta
del suo studio. La aprì e annunciò: “Eccolo.” Poi, rivolgendosi
di nuovo a lui: “Vieni, entra.”
Lo
spinse all’interno della stanza.
Fratello
Roland si guardò intorno, e alla luce incerta di una candela che
ardeva sulla tavola vide che sullo scanno normalmente usato da
fratello Geoffroy sedeva un’altra persona. Si fermò perplesso: il
nuovo arrivato portava il manto bianco dell’Ordine, ma il cappuccio
calato fin sugli occhi impediva di distinguere qualsiasi cosa del suo
volto. Le braccia erano conserte sul petto, e le mani infilate nelle
maniche della tunica.
“È
lui,” disse fratello Geoffroy, rivolgendosi al misterioso
personaggio.
Fratello
Roland volse lo sguardo verso il commendatario in una muta richiesta
di spiegazioni.
“Credo
sia quello più adatto,” proseguì questi, continuando a ignorarlo
in favore del misterioso ospite, “ma l’ultima parola spetta a
voi, naturalmente.”
Passò
qualche istante di completa immobilità. Il silenzio era rotto solo
dal lieve crepitare della candela, i tremolii della fiammella
gettavano ombre inquietanti sulla figura paludata di banco.
Fratello
Roland tese i muscoli mentre lo invadeva una sensazione di allarme, e
dovette fare uno sforzo di volontà per non arretrare verso la porta.
Il
commendatario sembrò accorgersene, perché gli mise una mano sulla
spalla e di nuovo lo spinse avanti.
A
quel punto, il visitatore si alzò lentamente in piedi. Il Templare
percepì uno sguardo acuto provenire dal buio del cappuccio. Uno
sguardo indagatore, attento, che lo scrutava con inquietante
meticolosità.
“Chi
siete, signore?” osò chiedere.
Alla
domanda fece seguito un lunghissimo silenzio. Poi, quando ormai
fratello Roland si era convinto che non avrebbe ricevuto alcuna
risposta, si fece udire la voce del nuovo arrivato: “Voi chi
pensate che io sia, fratello?”
Il
timbro era maschile, autorevole. Vi si percepivano saggezza e forza
d’animo, ma anche un’inflessibile durezza.
Il
Templare tentennò. “Non saprei, signore. Portate il mantello
dell’Ordine, ma non credo di avervi mai visto, né ricordo la
vostra voce.”
“Non
mi avete mai visto,” confermò l’altro pacato.
Seguì
un altro lungo silenzio, poi fratello Roland chiese nuovamente: “E
allora chi siete, signore?” Pur rispettoso, il tono aveva assunto
una lieve nota di durezza.
Fratello
Geoffroy fece per intervenire, ma l’uomo incappucciato liberò una
mano dal viluppo delle maniche, e protendendola verso di lui in un
gesto ieratico disse: “Lascia. Voglio vedere che indole ha.” Le
braccia tornarono a incrociarsi sul petto. “Voglio vedere se è
adatto ai nostri scopi.”
“Quali
sarebbero questi scopi?” ringhiò fratello Roland, facendo un passo
indietro. Fratello Geoffroy cercò di trattenerlo, ma il più giovane
si liberò con una nervosa scrollata di spalle. “Chi siete voi? Che
cosa volete da me?”
“Voi
avete formulato un voto di obbedienza,” gli ricordò con voce dura
l’uomo incappucciato.
“Un
voto di obbedienza ai superiori designati dal Tempio, non a
chicchessia.”
“Pensate
che io non sia uno di essi? Eppure vesto il manto dell’Ordine, e
come vedete il vostro commendatario mi porta rispetto.”
Fratello
Roland strinse i denti. “Dimostratemi che appartenete al Tempio.
Fatemi vedere il vostro volto.”
“Altrimenti?”
“Altrimenti
devo pensare che siate un impostore,” disse l’altro. Il suo
sguardo si fece cupo, ed egli arretrò mettendo mano all’elsa della
spada.
“Fratello
Roland!” esclamò il commendatario afferrandogli il polso. “Che
stai facendo?”
“Chi
è costui?” ringhiò l’altro di rimando. “Che cosa vuole da
me?”
L’incappucciato,
che aveva seguito impassibile la scena, a questo punto disse: “Ho
visto abbastanza.”
Seguì
qualche secondo di un silenzio carico di tensione, poi fratello
Geoffroy chinò il capo e sospirò: “Vi prego di perdonarmi se non
ho saputo scegliere in modo adeguato.”
“Al
contrario. La vostra scelta è stata ottima.” Si rivolse a fratello
Roland: “Domani inizieremo.”
“Domani
inizieremo che cosa?” fu la diffidente replica.
Intervenne
a questo punto fratello Geoffroy: “Torna agli alloggi, spogliati
dell’usbergo e va a consumare il pasto serale con i confratelli. A
tempo debito verrai informato sui tuoi nuovi doveri.”
Fratello
Roland abbandonò pensoso l’edificio del Capitolo. Paragonata alla
penombra opprimente che regnava nello studio del commendatario, la
morbida luce del crepuscolo gli fece stringere gli occhi come il sole
di mezzogiorno. Inspirò l’aria tersa della sera, cercando di
liberarsi della sensazione di disagio che l’aveva pervaso.
Riandò
con la mente al giorno in cui era arrivato a Vaux: qualcuno lo aveva
scelto, ma per cosa?
Ricordò
che in quell'occasione il commendatario aveva fatto un nome: fratello
Urbain. Si chiese se si trattasse dell'uomo con cui aveva appena
parlato.
Se
fosse stato davvero lui, con il comportamento che aveva tenuto nei
suoi confronti rischiava come minimo di perdere l'abito. La cosa in
realtà non lo spaventò particolarmente, non perché non gli
importasse di perdere l'abito, quanto piuttosto perché aveva avuto
la sensazione che il misterioso visitatore avesse in un certo senso
apprezzato la sua reazione violenta.
Ricordava
bene quello che l'uomo aveva detto a fratello Geoffroy: la vostra
scelta è stata ottima.
Fratello
Olivier gli si affiancò. Ancora immerso nei suoi pensieri, turbato,
fratello Roland reagì d'istinto facendo un salto indietro.
“Che
ti prende?” chiese l'altro stupito.
“Scusa,
ero distratto.”
“Togli
la mano dalla spada, almeno, prima che ti veda qualcuno.”
Fratello
Roland abbassò gli occhi e si accorse di aver istintivamente portato
la destra all'impugnatura dell'arma. “Scusa,” ripeté.
“Se
ti vede fratello Adrien è capace di farne un caso di stato.” Poi,
imitando il tono del cavaliere: “Un fratello che minaccia con le
armi un altro fratello, inaudito!”
“Ero
distratto, ho agito senza pensare.”
L'altro
annuì. “Me ne sono accorto. Qualcosa non va?”
“No,
no. Tutto a posto.”
“Mentire
è peccato, te l'ho già detto. Che cosa voleva il commendatario?”
Fratello
Roland si voltò a fissarlo negli occhi. “Perché vuoi saperlo?”
gli chiese.
L'altro
sollevò perplesso le sopracciglia. “Siamo confratelli,” rispose,
“Viviamo insieme, condividiamo tutto. Se ti vedo turbato, mi sembra
normale chiederti che cos'hai.”
A
quelle parole fece seguito un lungo silenzio. Infine, fratello Roland
rilassò le spalle, che un attimo prima aveva irrigidito, e si decise
a dire: “Scusami. Forse devo ancora abituarmi a questo posto,
prendo tutto come un'aggressione e reagisco di conseguenza. Fratello
Geoffroy non voleva niente di particolare, non preoccuparti.”
“Beh,
meglio così. Ti aiuto a togliere l'usbergo?”
“Sì,
grazie.”
Nello
studio del commendatario, i due uomini sedevano al tavolo uno di
fronte all’altro. Fra loro palpitava la fiamma della candela ormai
mezza consumata.
“Sono
contento che vi abbia soddisfatto,” disse fratello Geffroy, “ho
fatto molta fatica a trovarlo proprio come lo volevate.”
L’altro
si fece scivolare indietro il cappuccio, rivelando un volto ascetico,
magro fino all’emaciazione, solcato da profonde rughe. Nelle orbite
incavate brillavano occhi neri e acuti, dallo sguardo penetrante. “È
importante che risponda a certi requisiti,” rispose in tono grave,
“non possiamo rischiare di affidarci alla persona sbagliata.”
La
voce del commendatario vibrò di apprensione: “Siamo dunque a
questo punto?”
Il
primo annuì in silenzio. La fiamma danzante della candela giocava
con i suoi lineamenti scavati, conferendo loro l'aspetto grottesco
di una maschera. “L'Ordine si trova su un baratro,” rispose in
tono cupo, “e nessuno di noi ha il potere di impedire la sua
eventuale caduta. Possiamo solo attendere gli eventi e prepararci a
quello che verrà, e voglia Dio che non sia ciò che temo.”
Fratello
Geoffroy emise un sospiro e pregò: “Ditemi che idea vi siete fatto
della situazione in cui ci troviamo, fratello Urbain.”
“Outremer
è perduta,” esordì l'altro, e all'espressione incredula del
commendatario, proseguì: “è inutile farsi illusioni: dopo
l'assedio di San Giovanni d'Acri, nessuno ha più interessi per
quelle zone, e nessuno vuole più impegnarsi in una riconquista che
richiederebbe un immenso dispendio di uomini e mezzi.”
“Mezzi
che la maggior parte dei sovrani d'Europa non possiede o non vuole
impiegare nell'impresa,” interloquì fratello Geoffroy.
L'altro
annuì grave, quindi proseguì: “Stando così le cose, vedete bene
che il nostro Ordine è in pericolo: siamo nati per difendere i
luoghi santi, ma i luoghi santi non ci sono più. E quindi, i
migliori combattenti della Cristianità, un esercito di ventimila
cavalieri sparso in tutta l'Europa, che risponde del proprio operato
solo al Papa, cominciano a non essere visti di buon occhio dai
sovrani.” Fratello Urbain si alzò e cominciò a camminare lento
per la stanza, apparendo e scomparendo nel cerchio di luce della
candela. “C'è chi ci diffama,” giunse la sua voce dal buio, “chi
ci accusa di aver perduto i luoghi santi a causa della nostra viltà
e inettitudine.”
“Questa,
poi...” sbottò fratello Geoffroy. L'altro fece un gesto come per
scacciare qualche insetto particolarmente molesto e disse: “Lo
sdegno è fuori luogo, fratello. Quella che vi ho riferito non è
solo un'ignobile diceria: è uno degli arieti di cui si stanno
servendo per cercare di sfondare le porte della nostra cittadella.”
Fece una pausa, poi in tono sibillino soggiunse: “E vi dirò: non è
nemmeno il più pericoloso di essi.”
“Che
intendete dire?”
“Il
Codice Ombra,” fu la risposta, che giunse dal buio come se a
pronunciarla fosse stato un fantasma. “È trapelato, e già
cominciano a strisciare, come serpenti odiosi, le prime voci di
eresia.”
Al
costernato silenzio dell'interlocutore, fratello Urbain in tono
ammonitore aggiunse: “Lo sapete anche voi cosa succede durante le
investiture.”
L'altro
non rispose, e a quelle parole cariche di minaccia fece seguito un
lungo silenzio, rotto soltanto dal frusciare della veste e dai passi
di fratello Urbain, che continuava a camminare per la stanza. Dopo un
po' si fece udire di nuovo la voce del Templare: “E in tutto
questo, l'Ordine, che dovrebbe affrontare la temperie compatto come
un muro, si sta sfaldando in dissidi interni: da una parte abbiamo de
Molay che sta cercando con tutte le forze di conservare la nostra
struttura militare, ma dall'altra abbiamo il Visitatore
dell'Occidente, de Pérraud, che vorrebbe trasformarci in banchieri e
diplomatici.” Si sedette di nuovo. “Avrete sentito quello che è
successo con il Tesoriere de la Tour, immagino.”
“So
che ha concesso un prestito alle casse reali senza chiedere
l'autorizzazione di de Molay.”
“Conoscete
per caso l'ammontare del prestito?”
Fratello
Geoffroy scosse la testa.
“Allora
ve lo dirò io,” rispose fratello Urbain, piegandosi in avanti come
per confidare un segreto. “Trecentomila fiorini,” scandì.
L'altro
rimase in silenzio per un bel po', poi ripeté: “Trecentomila? Ma è
il bilancio annuale di una piccola nazione.”
“Precisamente,
e de la Tour gliel'ha concesso senza chiedere alcuna autorizzazione.
Era tutto denaro di creditori privati, per inciso. Non appena l'ha
saputo, de Molay l'ha espulso dall'Ordine, ma de Pérraud l'ha
protetto, e dicono che il Tesoriere si sia comportato nei confronti
del Gran Maestro con inaudita arroganza, come chi è sicuro della
propria impunità.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Il Re è
avido, il Papa incerto. Credo che dovremo prepararci al peggio.”
Fu
la volta di fratello Geoffroy di alzarsi in piedi. Il commendatario
prese a girare su e giù come in preda a una frenesia
incontrollabile. La fiammella della candela tremolava investita dalle
folate d'aria mosse dal suo mantello. “Che cosa dobbiamo fare?”
disse alla fine. “Non possiamo lasciare che vada perduto tutto
quello che abbiamo acquisito. Tutti gli studi, le ricerche... dove
andranno a finire?”
“È
per questo che vi ho suggerito di trovare un fratello cavaliere che
rispondesse a determinati requisiti. Non abbiamo più molto tempo,
credo.”
§
Fratello
Roland affiancò il commendatario all'uscita dalla chiesa. “Signore?”
lo chiamò.
L'altro
lo fissò, e al cavaliere parve di cogliere un vago moto di
imbarazzo. Pensò che temesse di sentirsi rivolgere domande su quanto
era accaduto la sera prima, per cui lo prevenne: “Chiedo il
permesso di fare allenamento con le armi, signore.”
A
quelle parole, Fratello Geoffroy parve in effetti sollevato. “Con
le armi?” ripeté, come se la cosa gli suscitasse qualche genere di
stupore.
“È
troppo tempo che non faccio addestramento, signore, e questo non è
bene.”
Il
commendatario annuì. “Ma certo, l'addestramento è importante. Va'
pure.”
“Posso
spingere il cavallo al galoppo [4], signore?”
Fratello
Geoffroy lo fissò diffidente, e fratello Roland ebbe l'impressione
che stesse valutando il rischio di un eventuale destriero azzoppato,
di cui avrebbe dovuto rendere conto all'Ordine. Infine l'uomo emise
un sospiro e disse: “Molto bene, va’ pure. Confido nel tuo buon
senso.”
“Grazie,
signore.”
Fratello
Roland si fece portare il cavallo dallo scudiero, montò in sella e
si diresse verso il campo di addestramento.
Gli
piaceva allenarsi, amava sentire in mano il peso dell’arma, e amava
dominare il destriero con la forza delle gambe mentre lo lanciava
alla carica, ma in quel frangente il piacere era l’ultimo dei suoi
obiettivi. Aveva bisogno più che altro di pensare, e riusciva a
farlo meglio se era impegnato in qualche attività marziale.
Aveva
ancora davanti agli occhi l’immagine inquietante dell’uomo
incappucciato. Ricordava la sua voce, autorevole e ferma, e i suoi
movimenti misurati. Ne aveva tratto un’impressione di forza morale,
come di chi sia in grado di porsi uno scopo e perseguirlo a discapito
di qualsiasi cosa, e se da una parte quel pensiero gli aveva
suscitato ammirazione, dall’altra lo aveva in un certo senso
impensierito.
Ancora
una volta, si chiese cosa significasse il fatto che era stato scelto.
Per che cosa, poi?
Spinse
il cavallo al piccolo galoppo, e a quell’andatura compì un giro di
pista. Una volta che lo ebbe completato, guidò l’animale verso un
rettilineo lungo il quale erano collocati a intervalli regolari dei
manichini di paglia. Sfoderò la spada, che brillò nel sole del
mattino, strinse le ginocchia e si piegò appena in avanti sulla
sella. Allentò la presa sulle redini, e il destriero, che conosceva
ormai bene il comando, si lanciò al galoppo sfrenato. Il vento nelle
orecchie, gli occhi che gli lacrimavano per la velocità, fratello
Roland oltrepassò i primi due manichini, godendosi semplicemente la
cavalcata, quindi raggiunto il terzo sollevò la spada e sferrò un
tondo dritto, decapitandolo di netto. Proseguì verso il successivo
senza rallentare, ma all’ultimo momento scartò sollevando una nube
di polvere, fece girare l’animale sulle zampe posteriori e invertì
la direzione della corsa. Colpì di nuovo il manichino che aveva già
decapitato, passò oltre e di nuovo scartò girando su se stesso. Il
cavallo fece una mezza impennata, quindi riprese il galoppo.
Si
allenò con intensità, sia a cavallo che a piedi. Da una parte
rimpiangeva che non ci fosse qualche fratello cavaliere a condividere
quell’attività, ma dall’altra si godeva quel momento di
solitudine, così raro nell’Ordine.
Quando
fu stanco, sedette su un tronco e si fece scivolare all’indietro il
cappuccio di maglia, poi si sfilò un guanto e si passò la mano tra
i capelli fradici di sudore. Piegò la testa all’indietro, e per un
po’ rimase semplicemente a contemplare il cielo di smalto.
Una
voce lo distrasse: “Fratello Roland?”
Con
un movimento istintivo, il Templare scattò in piedi, e la mano come
al solito gli corse al pomo della spada.
Fratello
Olivier si stava avvicinando. “Sono solo io,” disse.
Fratello
Roland emise il fiato che aveva involontariamente trattenuto.
“Scusami,” rispose.
“Fa
niente, tanto non c’è fratello Adrien in giro.” Fece una
risatina, poi soggiunse: “E io non ti denuncerò al Capitolo perché
hai fatto il gesto di estrarre un’arma di fronte a un fratello,
quindi puoi rilassarti.”
L’altro
allontanò la mano dalla spada, quindi chiese: “Sei venuto a fare
un po’ di allenamento, fratello?”
Il
primo scosse la testa. “Scusami, ma oggi non ho tempo. Sono qui per
chiederti un favore, in realtà.”
“Un
favore?”
“Sì,
un ragazzo vuole visitare la commenda, ma io ho da fare. Visto che tu
sei libero, potresti accompagnarlo? Tanto ormai la conosci bene
quanto me.”
“Veramente
mi stavo allenando,” gli fece notare fratello Roland.
“L’ho
lasciato in chiesa,” fu la risposta, “non farlo aspettare troppo,
oppure diranno che i Templari sono scortesi con gli ospiti, e questo
non è bene.” Detto questo, fratello Olivier si allontanò rapido.
“Grazie, a buon rendere,” aggiunse poi senza nemmeno voltarsi.
Quando
fratello Roland, dopo aver portato il cavallo in scuderia ed essersi
tolto l’usbergo e il gambeson fradicio di sudore, entrò in chiesa,
si trovò faccia a faccia con il figlio del signore di Jussy.
“Voi
qui?” gli chiese stupito.
“La
mia strada è questa,” disse il ragazzo per tutta risposta, “Io
voglio entrare nell’Ordine.”
L’altro
emise un sospiro. “Venite, visitiamo la commenda.”
“Che
cosa devo fare per entrare nell’Ordine?” insisté il ragazzo
senza muoversi, “Devo parlare con il commendatario?”
Fratello
Roland gli si avvicinò. Gli mise una mano sulla spalla, un gesto
quasi da fratello maggiore, poi scosse la testa e disse: “Voi
vedete le nostre belle armi e i bei cavalli, vedete la ricchezza
delle nostre commende, ma non avete idea di quello che in realtà
dobbiamo sopportare.”
A
quelle parole, proferite in tono carico di amarezza, il più giovane
dapprima gli rivolse uno sguardo interdetto, ma subito dopo la sua
espressione si fece nuovamente decisa, ed egli disse: “Allora
spiegatemelo voi, cavaliere. Voglio sapere tutto dell’Ordine.”
Annuì come per sottolineare il concetto, quindi chiarì: “Voglio
sapere cosa mi aspetta.”
Fratello
Roland distolse lo sguardo da quello carico di entusiasmo del
giovane. Per un attimo si rivide ragazzo, mentre rivolgeva le stesse
identiche domande a un cavaliere con la croce scarlatta sulla spalla.
Fugacemente
si chiese se, potendo tornare indietro, avrebbe fatto le stesse
scelte. Se avrebbe sopportato fatica, umiliazioni, disciplina,
ferite, digiuni… “Voi non sapete cosa vi aspetta,” ripeté, “Ma
sapete qual è la cosa peggiore? Che se anche io vi raccontassi tutte
le prove che Dio mi ha posto dinnanzi, una per una, esse non
farebbero che accrescere il vostro entusiasmo e il vostro desiderio
di entrare nell’Ordine.”
“Ed
è un male, cavaliere?”
“Lo
è per voi. Quella che l’Ordine ci impone è una vita molto dura, e
una volta fatta la scelta di donarsi al Tempio, essa è irrevocabile.
Voglio che pensiate molto bene al passo che avete in animo di fare,
valutandone i pro e i contro con mente serena.”
Così
parlando si spostarono nel cortile, e presero a camminare lentamente
fianco a fianco. Come ogni mattina, le attività fervevano e i
fratelli di mestiere andavano su e giù indaffarati come api intorno
a un alveare.
Il
giovane de Jussy si guardava intorno meravigliato. Vide passare un
paio di cavalieri e quasi inciampò per seguirli con lo sguardo.
“Fate
attenzione,” gli raccomandò fratello Roland afferrandolo per un
braccio. Avrebbe forse dovuto compiacersi di tanto entusiasmo, ma ne
fu invece intristito, perché sapeva a quali e quante prove quello
stesso entusiasmo sarebbe stato sottoposto nel corso degli anni di
appartenenza all’Ordine, cominciando proprio dai primi momenti di
essa, con la seconda parte della cerimonia di investitura.
“Ditemi,”
gli chiese, senza rallentare il passo, “Perché volete entrare
nell’Ordine?”
Il
ragazzo distolse a fatica lo sguardo dai due cavalieri e lo volse
verso il suo accompagnatore. “Voi credete che il mio sia una specie
di capriccio infantile,” disse, e il tono non era quello di una
domanda.
“Non
lo so,” rispose il Templare con un sospiro, “Proprio per questo
ve lo sto chiedendo. Ma vi avviso di una cosa: se la vostra
motivazione non è pura, ben ponderata e salda, rischiate di soffrire
molto nell’Ordine.”
L’altro
si fermò e si voltò a fissarlo. I suoi occhi lampeggiavano ardenti.
“Pensate che io adesso non stia soffrendo, imprigionato in una vita
di corte che detesto?”
In
tono duro, il Templare rispose: “Voi non avete idea di cosa
significhi soffrire.”
Il
ragazzo non replicò. Ripresero a camminare affiancati, fratello
Roland si limitava a illustrargli in tono neutro le varie parti della
commenda.
Alla
fine, il ragazzo chiese: “Cavaliere, posso farvi una domanda?”
L’altro
annuì. “Ma certo.”
“Voi
siete pentito della vostra scelta?”
Per
qualche istante il Templare rimase in silenzio. Era pentito della sua
scelta? Per un attimo rivide, nitidi come se li avesse avuti ancora
davanti agli occhi, i confratelli di Murcia. Rivide le battaglie,
risentì il clangore delle spade e gli acuti nitriti dei cavalli da
guerra. E soprattutto rievocò il senso di calore, cameratismo e
appartenenza che veniva dal rischiare la vita insieme tutti i giorni,
uniti nella sofferenza come negli ideali.
“No,
non lo sono,” rispose.
[1]
Con questo termine si intendevano genericamente i domini crociati in
Siria e Palestina.
[2]
L’abito bianco era riservato ai cavalieri. Sergenti, fratelli di
mestiere e servi vestivano di bruno scuro, grigio scuro o nero.
[3]
Ovvero un torneo nel quale ci si limita solo a lievi ferite.
[4]
La Regola templare vietava espressamente di spingere il cavallo al
galoppo negli addestramenti senza il permesso di un superiore.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Salve a tutti, ecco il temuto
malloppone!
Come
sempre, ringrazio tutti coloro che sono passati a dare un’occhiata,
e rivolgo un ringraziamento speciale a chi è stato così gentile da
lasciarmi un commento, ovvero Saelde_und_Ehre, queenjane,
mystery_koopa. John Spangler, alessandroago_94, molang, evelyn80, _Polx_
e Rose Ardes (ex by a lady^^).
Capitolo
3
Fratello
Roland uscì dagli alloggi talmente in ordine che nemmeno fratello
Adrien trovò nulla da ridire. Per l’occasione aveva detto a
Mathias di lucidare la cotta di maglia con la sabbia, e sorella
Agathe, una delle due donne presenti nella commenda, gli aveva lavato
tunica e mantello fino a renderli più bianchi della neve.
Così
vestito, andò alla ricerca di fratello Geoffroy.
Lo
trovò impegnato in una conversazione piuttosto animata con un uomo
in borghese.
Fermatosi
a debita distanza, rimase a osservare attento il nuovo arrivato:
poteva avere sui quarant’anni, vestiva abiti da nobile e teneva per
le redini un magnifico palafreno di razza turcomanna, bardato con
finimenti ornati d’argento.
L’uomo,
evidentemente contrariato da qualcosa, parlava a voce alta e
gesticolava.
Fratello
Roland ponderò se allontanarsi con discrezione, ma in quel momento
la voce del nuovo arrivato si alzò di tono: “Che cosa avete detto
a mio figlio?”
La
risposta del commendatario giunse invece decisamente pacata: “A
cosa vi riferite, barone de Jussy?”
“Mio
figlio ha perso il senno,” replicò l’altro adirato, “Non fa
che ciarlare di entrare nel vostro Ordine, di votarsi al Tempio! È
nato signore, e vuole diventare un servo!”
Fece una pausa, che utilizzò per far girare uno sguardo sprezzante
tutt’intorno, poi riprese: “Voi dovete avergli detto qualcosa per
convincerlo. Che cosa gli avete promesso?”
Fratello
Geoffroy fissò il furente interlocutore con espressione serafica,
quindi rispose: “In verità, barone, noi facciamo di tutto per
dissuadere i postulanti. Non promettiamo né ricchezze né onori, ma
solo privazioni e sofferenza.”
“Fandonie!”
berciò de Jussy. “Del resto, è ben noto quello che si dice di
voialtri cavalieri del Tempio!” Fece una breve pausa, quasi
aspettandosi che l’altro gli chiedesse conto delle sue
affermazioni, ma fratello Geoffroy si limitò a fissarlo in silenzio.
“Si sa quello che fate!” riprese allora, “Le voci girano. Avete
fatto voto di povertà e siete pieni di denari, avete fatto voto di
obbedienza e rendete conto del vostro operato solo al Papa, avete
fatto voto di castità e...”
“Basta
così, signore,” lo interruppe fratello Geoffroy con voce severa.
Il
barone de Jussy tacque, confuso dall’improvviso cipiglio del
commendatario, ma subito dopo ringhiò: “Sono io che dico basta,
lasciate perdere mio figlio. Lui non ha niente da spartire con voi.”
“Vostro
figlio ha l’età per scegliere da solo,” fu la gelida replica del
Templare. “Deciderà lui se entrare nell’Ordine o no. Noi non lo
incoraggeremo, ma di certo non lo scacceremo, se la sua volontà di
vestire la croce è pura e ferma.”
“Ci
sarà un modo per impedirvelo!”
Sempre
in tono tranquillo, il Templare rispose: “Nel vostro sproloquio,
una cosa giusta l’avete detta, barone: noi rispondiamo solo al
Papa.”
Incapace
di trovare una risposta, l’altro si limitò a rivolgergli uno
sguardo di fuoco, poi rimontò in sella al palafreno e scomparve al
galoppo.
Fratello
Geoffroy emise un sospiro. “Molto bene,” disse. Si voltò verso
fratello Roland e soggiunse: “Hai visto quanto può essere ingrata
la gente che vive nel lusso e nella sicurezza? Sono certo che dove
servivi prima, nessuno diceva queste cose dei cavalieri del Tempio.”
Fratello
Roland rievocò l’immagine della donna che aveva cercato di baciare
la mano a fratello Léon. “No, signore,” rispose.
Il
commendatario annuì con vigore. “Ma certo, chi viene difeso da
noi, chi deve a noi vita e beni, conosce il nostro valore.” Lo
squadrò dal basso verso l’alto. “Come mai quest’abito
impeccabile, fratello?”
L’altro
abbassò gli occhi. “Ecco, signore, vorrei chiedervi una grazia.”
“Dovevo
immaginarlo. Cosa vuoi, dunque?”
“Visto
che andrò a Metz con la mula bianca, vi chiedo il permesso di
portare i saluti della commenda di Vaux al castello dei cavalieri
tedeschi.”
Fratello
Geoffroy aggrottò le sopracciglia perplesso. “Vuoi andare a
salutare
i cavalieri tedeschi?”
“Magari
potrei dire loro che siamo soddisfatti dei cavalli, e poi informarli
sul torneo.”
“Ancora
con questo torneo?” sbuffò il commendatario. “Confusione,
disordine, spese
straordinarie, tutti i
lavori che rimangono indietro… pensi che siamo qui per sollazzarci
come dei nobilastri sfaccendati?”
Fratello
Roland scosse la testa. “No, signore, ma forse fratello Friedrich
sta aspettando una risposta.”
“Ah,
fratello Frédéric, certo,” borbottò l’altro. “Digli che ho
chiesto il parere al Siniscalco.” Tacque per qualche istante, poi
in tono ammonitore aggiunse: “Ma vi voglio qui entro sera,
ricordatelo.”
“Grazie,
signore.”
“Trascorrere
la notte fuori è un’infrazione che ti farebbe perdere l’abito.
Lo sai, vero?”
“Non
succederà, signore.”
Soddisfatto
forse per la prima volta da quando era a Vaux, fratello Roland
raggiunse fratello Olivier. Questi, che si stava preparando a montare
in sella, interruppe il gesto e lo squadrò come aveva fatto il
commendatario, quindi con voce pacata gli chiese: “Dobbiamo farci
accompagnare da qualcuno che sappia il tedesco, per caso?”
L’altro
lo fissò stupefatto. “Cosa?”
Fratello
Olivier si strinse nelle spalle e rispose: “Ti presenti vestito
come se dovessi scortare il Santo Padre in persona, stiamo andando a
Metz, quando sono venuti i tedeschi sei stato con uno di loro per
tutto il tempo e non ti risolvevi a lasciarlo partire, e adesso ti ho
visto parlare un bel po’ con fratello Geoffroy. Ne deduco che gli
hai chiesto di passare al castello dei cavalieri tedeschi, come
peraltro desideravi fare da tempo. Cosa ci troverai, poi, in quei
Sassoni...”
Fratello
Roland si limitò a far cenno allo stalliere di portargli il cavallo,
quindi montò in sella, si sistemò il mantello in modo che cadesse
bene sulla groppa del destriero, indossò l’elmo alla normanna e
chiese: “Andiamo?”
“Quanta
fretta,” lo prese in giro fratello Olivier. “Ricordati che prima
dobbiamo portare alla magione di Metz i guadagni della commenda.”
“Ma
sì, certo. Prima partiamo e prima finiamo, no?”
§
In
procinto di cominciare il giro di ronda, Michel e Bertrand, membri
della milizia reale, raccolsero le rispettive alabarde e se le misero
in spalla.
In
quel momento, entrò nel cortile della caserma un messaggero esausto,
in groppa a un cavallo schiumante. I due, che stavano per uscire
sulle strade, si scambiarono un’occhiata perplessa e si fermarono
incuriositi.
Il
nuovo arrivato si accorse di loro. Smontò da cavallo e chiese: “Dove
posso trovare il vostro capitano?”
Fu
Michel a rispondere per entrambi: “Si sta occupando dei novellini
assieme al sergente, che vuoi da lui?”
“Ho
qui un dispaccio urgente da Parigi.”
“Da’
qua, glielo porto io.”
Il
messaggero scosse la testa e si strinse al petto la pergamena
sigillata come se Michel stesse per portargliela via. “Ho ordine di
consegnarla solo al capitano,” disse poi con sussiego.
“Il
capitano è impegnato,” rispose l’armigero, “inoltre, io non so
nemmeno leggere, quindi cosa vuoi che mi importi di quello che c’è
scritto in quel foglio?”
“Fa
lo stesso,” fu la risposta, “Ho ordine di consegnare questa
missiva,” calcò
la voce sul termine,
“al capitano in persona.”
Michel
alzò gli occhi al cielo ostentando esasperazione. “E va bene, se
proprio ci tieni, vieni con me.” Fece qualche passo, poi girandosi
a guardare il messaggero da sopra la spalla, soggiunse: “Poi però
non te la prendere con me, se il capitano ti piglia a calci nel culo
perché l’hai disturbato.”
Scomparvero
all’interno della caserma.
Michel
raggiunse nuovamente Bertrand. “Andiamo,” disse, recuperando
l’alabarda che aveva lasciato appoggiata al muro.
“Che
voleva quel tizio?” gli chiese il commilitone.
“Mah,”
borbottò il primo, “Chi ci capisce qualcosa è bravo.” Si avviò
verso il portone che dava sulla strada. “Portava un ordine
sigillato, che deve essere aperto solo alla mezzanotte tra il dodici
e il tredici ottobre.”
“Un
ordine sigillato?” fece eco Bertrand
stupefatto, “E cosa dice?”
“Non
fare l’idiota: è sigillato, come faccio a saperlo?”
“Tu
sai sempre tutto,” rispose l’altro.
Presero
a camminare fianco a fianco lungo la strada. Come sempre, dalle
botteghe provenivano occhiate torve nella loro direzione, e la gente
faceva di tutto per non incrociare la loro strada. Un vecchio sputò
da una parte vedendoli passare, ma non appena Michel si voltò verso
di lui con fare minaccioso, si affrettò a rientrare in casa e a
chiudersi la porta dietro le spalle con un tonfo.
Udirono
poi un rumore di zoccoli associato al tinnire di metallo. Si girarono
e videro un gruppetto di Templari, cavalieri e fratelli di mestiere,
che procedeva al centro della strada.
Fu
la volta di Michel di sputare da una parte con disprezzo. “Eccoli
lì, i damerini,” ringhiò. “Tutti belli puliti sui loro cavalli
da guerra strigliati alla perfezione, e non certo da loro. Con la
loro mula bianca carica di denari, come ogni mese.”
“I
cavalieri del Tempio difendono la fede,” gli ricordò Bertrand,
seguendo con lo sguardo il silenzioso gruppetto.
“Beh,
io ho fede,” protestò l’altro, “perché allora non mi danno un
po’ di quei denari? Così posso difendermi dalla sete andando a
bere in una taverna.”
L’altro
lo fissò risentito. “A te non piacciono i cavalieri del Tempio,”
constatò.
Michel
scosse la testa. “Certo che non mi piacciono. Sono tanto marci
dentro quanto sono bianchi fuori.”
“E
tu come lo sai?”
“Te
l’ho già detto: basta ascoltare le voci che girano su di loro.”
Abbassò il tono, poi soggiunse: “Fra le altre cose, si parla di
sodomia e di eresia...”
“Non
ci credo,” lo interruppe Bertrand
categorico.
L’altro
usò il calzuolo dell’alabarda per sollevare il coperchio di una
cesta appoggiata sulla soglia di una casa, constatò che dentro non
c’era nulla e la lasciò perdere. “Vedrai se non ho ragione,”
disse sibillino al collega. “Ti ripeto che quelli sono sepolcri
imbiancati, bianchi fuori e marci dentro.” Si voltò a fissare i
cavalieri che si allontanavano e di nuovo sputò per terra con fare
sprezzante.
§
Fratello
Roland tirò le redini e per qualche istante rimase a contemplare il
maniero dell’Ordine Teutonico: dal punto in cui si era fermato,
riusciva a vedere le due alte torri bianche, dal tetto conico. Tra
esse si trovava un ampio portone, in quel momento aperto, oltre il
quale si vedeva un cortile immacolato, in cui transitavano figure
vestite di bianco.
Si
avvicinò piano, facendo risuonare il selciato sotto gli zoccoli del
cavallo. Subito due soldati si fecero avanti, ma quando si accorsero
che la croce sul suo mantello era rossa e non nera, si fermarono
interdetti. Si scambiarono qualche rapida frase, poi uno di essi
scomparve all’interno del corpo di guardia, e ne uscì pochi
istanti dopo accompagnato da un sergente. Il graduato lo squadrò a
sua volta perplesso per qualche istante, poi gli disse: “Sît
ir willekommen, herre.” Si
spostò da una parte come per farlo passare.
Il Templare fece avanzare adagio
il destriero, e quando fu all’altezza dei tre si fermò e chiese:
“Qualcuno parla la mia lingua?”
“Potete
parlare con me, herre,”
rispose il sergente.
Fratello Roland smontò da
cavallo e disse: “Sto cercando un cavaliere di nome Friedrich.”
“Bruoder
Friedrich,”
ripeté l’uomo, come tra sé e sé. Poi, a voce più alta: “Certo,
herre.
Vi accompagno.”
Disse qualcosa in tedesco, e
subito uno dei due soldati si fece avanti per prendere in consegna il
cavallo. Fratello Roland gli lasciò le redini dell’animale e si
dispose a seguire il sergente.
Oltrepassarono il posto di
guardia ed entrarono nel cortile principale, poi il graduato lo
condusse attraverso uno stretto corridoio a una porta che si apriva
su un cortile più piccolo, nel quale gli unici rumori che si udivano
erano il gorgogliare dell’acqua che scorreva alcune braccia più in
basso e lo stormire delle fronde dei salici.
Il
sergente si fermò sulla soglia. “Là in fondo, herre,”
disse poi, indicando due figure vestite di bianco, con la croce nera
sul mantello.
“Grazie.”
Il
Templare fece qualche passo avanti. Fratello Friedrich, lo riconobbe
subito dai capelli biondi, era in piedi, mentre l’altro, di
corporatura egualmente robusta ma con i capelli scuri, era seduto e
aveva un libro aperto sulle ginocchia. I due cavalieri erano assorti
in una conversazione e non si erano accorti di lui.
Rimase
per un po’ a guardarli e si sentì pungere da una fitta di
nostalgia. Quello che c’era fra quei due giovani uomini non aveva
nulla a che fare con la cortese, fredda consuetudine che si era
instaurata tra lui e gli altri cavalieri di Vaux. Era un sentimento
profondo, intenso, che lui conosceva bene, perché era il tipo di
amicizia che nasceva esclusivamente sui campi di battaglia. Anche a
quella distanza riusciva a percepirne il calore.
Il
cavaliere seduto fece per alzarsi, ma si muoveva con difficoltà,
come se avesse male da qualche parte. Subito fratello Friedrich corse
a sostenerlo. L’altro disse qualcosa, ed entrambi risero.
Il
Templare chinò la testa con un sospiro e per un istante ponderò
l’eventualità di andarsene senza disturbarli.
Era
ancora immerso in quei pensieri quando fratello Friedrich si accorse
di lui. Subito fece un gesto di saluto ed esclamò: “Bruoder…
fratello Roland! Questa è davvero una sorpresa.”
Disse
qualcosa all’altro cavaliere, facendogli cenno di sedersi di nuovo,
poi gli si fece incontro.
“Fratello
Roland,” ripeté, “sono contento di rivedervi.”
“Anch’io,”
rispose il Templare.
Si
strinsero la mano, poi il tedesco disse: “Venite, vi presento il
mio confratello, Adalbert von Hohenburg.”
“Io…
forse eravate impegnato, non vorrei disturbare.”
“No,
venite, sarà contento di poter parlare con un vero cavaliere del
Tempio.” Fece una pausa, poi in tono di spiegazione soggiunse: “È
un appassionato di Wolfram von Eschenbach, sapete.”
Così
parlando, raggiunsero l’altro cavaliere. Fratello Friedrich disse
dapprima qualcosa in tedesco, poi proseguì in francese: “Ti
presento fratello Roland, come vedi è un cavaliere del Tempio.
Fratello Roland, vi presento fratello Adalbert.”
L’altro
gli porse la mano. “Scusate se non mi alzo,” disse, “ma sono
stato ferito, e faccio ancora fatica a compiere certi movimenti.”
A
quelle parole fratello Friedrich fissò il confratello, e il templare
colse un barlume di apprensione nei suoi occhi grigi. “Ferito è
dire poco,” brontolò. “Per settimane siamo stati certi che Dio
volesse chiamarlo a sé.”
“Ma
non l’ha fatto,” replicò l’altro, “Però i miei superiori,
per punirmi di essermi lasciato colpire da un pagano, mi costringono
a oziare qui.”
“Vi
capisco,” sospirò fratello Roland. “Io non sono stato ferito, ma
sono qui a oziare esattamente come voi.”
“Davvero?
Che cosa avete fatto di male?”
“Non
lo so. Pensate che chi mi ha mandato qui l’ha fatto credendo di
concedermi un privilegio.”
“Valli
a capire. Sembra che arrivati a un certo punto non si ricordino più
che il più grande privilegio per un cavaliere è combattere.”
“Già.”
“Perché
non vi sedete un po’, fratello Roland?” propose fratello
Adalbert. “Mi piacerebbe farvi qualche domanda sul Tempio.”
“Volentieri,”
rispose l’altro prendendo posto, poi in tono scherzoso soggiunse:
“Ma non fatemi domande sul Graal, io servo a Vaux, non a
Munsalvaesche.”
Gli
occhi celesti di fratello Adalbert si illuminarono. “Conoscete il
Parzival?”
Fratello
Roland annuì. “Purtroppo non ho molte occasioni per dedicarmi alla
lettura, ma lo amo molto.”
“Questa
è davvero una bella notizia. Io e il Fritz, qui, amiamo leggere i
poemi epici. Magari ogni tanto potreste unirvi a noi.”
Il
Templare ripensò alla fatica che gli era costato strappare quell’ora
di permesso alla rigida programmazione della giornata. Emise un
sospiro e rispose: “Purtroppo non sarà così facile. Il Tempio non
vede di buon occhio certe attività.”
L’altro
lo fissò sinceramente stupito. “Davvero?”
“È
così.”
“Ach
so.” Fratello
Adalbert alzò lo sguardo sul confratello.
“Molti
di noi leggono,” disse allora questi. “Alcuni scrivono, anche.
Non è vero, Adalbert?”
L'altro
annuì.
“Voi…
scrivete?” chiese basito fratello Roland.
“Beh,
un po’. Adesso sto lavorando a un poema epico, Daz
liet von der vergezzenen helden…
Il canto degli eroi dimenticati, nella vostra lingua.”
“Di
cosa parla?” chiese il Templare.
“Antiche
famiglie delle Alpi. Io sono di quelle parti, e così sto riscrivendo
un poema epico di Frouwe
Mathilde, una contessa
bavarese.”
Stava
per aggiungere altro, ma comparve sulla porta un fratello di
mezz'età, corpulento, che portava una tunica grigia e un grembiule
bianco che gli arrivava quasi fino ai piedi. Questi disse qualcosa in
tedesco. Fratello Adalbert gli rispose nella stessa lingua, quindi in
francese spiegò: “Scusatemi, è l'ora della medicazione.” Si
puntellò per alzarsi, e subito fratello Friedrich scattò ad
aiutarlo. Si scambiarono qualche frase a bassa voce in tedesco, poi
fratello Adalbert si rivolse a fratello Roland: “È stato un
piacere conoscervi.” Gli porse la mano.
“Anche
per me,” gli assicurò il Templare, stringendogliela con calore.
“Spero
che tornerete a trovarci.”
“Mi
piacerebbe molto.”
Con
un ultimo cenno di saluto, fratello Adalbert si incamminò cauto.
Fratello Roland dapprima seguì con lo sguardo la sua andatura
incerta, poi si voltò verso fratello Friedrich e si accorse che
questi non aveva occhi che per il confratello. Lo vide fremere, come
pronto a lanciarsi in avanti, se mai l'altro avesse dato segno di
aver necessità di aiuto.
Alla
fine fratello Adalbert si appoggiò alla robusta spalla del fratello
infermiere e se ne andò in sua compagnia, e fratello Friedrich si
rilassò. Rivolse un'ultima fugace occhiata alla porta chiusa, poi
tornò a fissare il Templare. “Quando l'hanno riportato a
Ritterswerder,
tutti pensavano che non avrebbe nemmeno passato la notte,” disse
cupo. “Due ferite in pieno petto, l'usbergo squarciato come una
rete da pesca.” Aggrottò le sopracciglia, quindi soggiunse:
“Diciamo che il compito di scortare lui mi ha reso meno gravoso
questo trasferimento.”
Fratello
Roland rimase in silenzio per un po', poi chiese: “Perché siete
stato inviato qui, fratello Friedrich?”
L'altro
strinse i denti. Per qualche istante fissò lontano lo sguardo da
rapace, poi, come parlando a se stesso, rispose: “Ci sono momenti
in cui si deve scegliere, fratello Roland.”
“Che
intendete dire?”
“Momenti
in cui si è chiamati a decidere, e si accetta di rispondere delle
proprie decisioni.”
Il
Templare scosse la testa. “Non vi seguo, fratello.”
“Allora
sarò più chiaro,” rispose il tedesco. “Decidere se eseguire gli
ordini, e perdere il castello, o non eseguirli, e salvarlo.”
L'altro
lo fissò trasecolato. “Voi avete fatto questo?”
“Ho
ucciso degli ambasciatori che mi era stato ordinato di scortare. Se
non l'avessi fatto, ora Ritterswerder sarebbe in mano nemica, perché
gli ambasciatori erano in realtà spie lituane.”
Fratello
Roland rimase in silenzio, chiedendosi se in una situazione del
genere sarebbe riuscito a fare la stessa cosa. Il primo, e per lungo
tempo l'unico insegnamento che aveva ricevuto quando era diventato
cavaliere del Tempio era stato che gli ordini si eseguono. Sempre,
incondizionatamente, senza discussione. Era quella la forza del
Templari, gli avevano ripetuto fino alla nausea, era quello il
segreto della loro disciplina e del loro valore in battaglia.
Il
che era vero, naturalmente, in ogni situazione a parte quella che gli
aveva appena descritto fratello Friedrich.
Si
voltò verso il tedesco. “Mi dispiace,” gli disse, “posso solo
immaginare il vostro tormento nel prendere una decisione del genere.”
L'altro
emise un sospiro. “A volte il bene comune esige il sacrificio di
sé,” rispose lapidario.
I
due rimasero in silenzio per un po'. Di nuovo, gli unici rumori che
si udivano erano lo stormire dei salici e il gorgogliare lieve
dell'acqua. Alla fine, fratello Roland disse: “Non ho ancora
abbandonato la speranza di incrociare le armi con voi. So che il mio
commendatario ha parlato con il Siniscalco, per quanto riguarda la
vostra richiesta.”
Fratello
Friedrich sorrise. “State
parlando del torneo?”
“Ho buone speranze.”
“Ne
sono felice. Sono ansioso di misurarmi contro i celebri cavalieri del
Tempio.”
L’altro
non rispose. Pensò a fratello Olivier, sempre impeccabile,
sprezzante di ogni attività che comportasse l’uso delle armi; a
fratello Séverin, grande e grosso, ma con le mani lisce come quelle
di una fanciulla; e a fratello Philippe, bravissimo nel rimettere
giovani marioli sulla retta via con buone parole piene di saggezza.
In
quel momento, la porta si aprì di nuovo e sulla soglia comparve un
soldato. Fratello Friedrich gli rivolse la parola in tedesco, i due
si scambiarono qualche frase, poi l’armigero salutò e se ne andò.
“Ci
sono i vostri confratelli alla porta,” disse il Teutonico.
“Chiedono di voi.”
“Di
già?” non poté fare a meno di replicare fratello Roland. Il
commendatario gli aveva concesso un’ora, ma di sicuro non ne era
passata neppure la metà.
“Debbo
lasciarvi,” disse poi a malincuore. Si alzò in piedi e si voltò
verso la porta, come se si aspettasse di veder spuntare fratello
Olivier da un momento all’altro.
Fratello
Friedrich si alzò a sua volta. “Vi accompagno,” gli disse.
Raggiunsero
il portone. Fratello Olivier, a cavallo, tamburellava nervosamente
con le dita sull’arcione della sella. Dietro di lui c’erano i
fratelli di mestiere e la mula bianca, tutti già in formazione di
marcia.
“Eccoti
qui,” lo accolse. Salutò anche il tedesco con un cenno del capo,
poi disse: “Andiamo?”
Fratello
Roland si limitò ad annuire. Strinse la mano di fratello Friedrich e
montò in sella. “Ci rivedremo presto,” gli assicurò, fissandolo
dritto negli occhi.
L'altro
non distolse lo sguardo. “Lo
so,” rispose.
“Andiamo?”
ripeté fratello Olivier, questa volta in tono vagamente spazientito.
§
Quando
rientrarono a Vaux, fratello Geoffroy li stava attendendo.
“Ci
siamo attardati troppo, signore?” chiese fratello Olivier, quindi
scoccò un’occhiata risentita a fratello Roland.
Il
commendatario scosse la testa. “No, fratelli, non preoccupatevi. Ho
solo bisogno di fratello Roland.”
“Di
me, signore?” chiese stupito il Templare.
“Sì,
porta il cavallo in scuderia e poi raggiungimi.”
L’altro
spinse la cavalcatura verso l’edificio indicato. Fratello Olivier
gli si affiancò e disse: “Lo vedi? Ora ti assegnerà una
punizione, te l’avevo detto che avremmo fatto tardi.”
Fratello
Roland non rispose, ma pensò che non gli sarebbe importato di farsi
frustare davanti a tutti ogni venerdì, se questo gli avesse
conferito in cambio la possibilità di fermarsi al castello dei
cavalieri tedeschi ogni volta che andava a Metz.
Lasciò
il cavallo agli scudieri e poi raggiunse il commendatario.
L’uomo
lo accolse con un’espressione di serietà grave, tanto che fratello
Roland si convinse che effettivamente intendesse punirlo per il suo
ritardo e si preparò a ricevere un’aspra reprimenda.
“Il
momento è arrivato,” lo accolse invece l’altro. Gli mise una
mano sulla spalla. “Vieni,” disse poi.
Cominciarono
a camminare lentamente. Si staccarono dal cortile della commenda e
procedettero per un po' verso i campi. Nel tramonto di tarda estate
le ombre degli alberi si allungavano sui prati, nell’aria c’era
un silenzio estatico e raccolto. “Che cosa vedi?” chiese dopo un
po’ fratello Geoffroy.
Fratello
Roland si voltò stupito a fissarlo. “Signore?”
“Dimmi
che cosa vedi.”
L’altro
fece girare lo sguardo tutt’intorno. “La campagna?” propose
esitante.
Il
commendatario annuì come chi si sente dire esattamente quello che si
sarebbe aspettato. “Sai leggere?” gli chiese.
“Sì,
signore.”
“E
quando hai in mano un libro, ti accontenti di contemplare la sua
rilegatura?”
“No,
signore.”
Fratello
Geoffroy assentì con espressione compiaciuta. “È esatto, perché
l’esterno delle cose non ci rivela che una minima parte della loro
essenza.” Fece qualche passo, poi proseguì: “Tutto questo, vedi,
non è che apparenza, non è che uno, forse il minore, degli aspetti
del mondo e delle cose.” Annuì come per sottolineare il concetto,
quindi abbassò leggermente il tono: “Anche il Tempio è ben altro
rispetto a quello che i tuoi occhi non addestrati sono in grado di
vedere, fratello Roland.”
Di
nuovo, il più giovane lo fissò stupefatto. “Domando perdono?”
chiese, dopo qualche istante di silenzio.
“Il
Tempio è depositario di sapienza. Le conoscenze che abbiamo
accumulato in anni di studio e ricerca ci conferiscono la capacità
di vedere le cose quali esse sono, nella loro vera essenza.” Fece
una pausa, durante la quale continuò a camminare lentamente, quindi
in tono improvvisamente duro concluse: “Questa sapienza deve essere
preservata a ogni costo.”
Fratello
Roland si voltò verso di lui. “Non capisco, signore. È forse in
pericolo?” Si guardò intorno: erano nel cuore della Francia, in
una zona pacifica, dove tutti li amavano e dove il più grande
pericolo sembrava essere costituito da quattro briganti che si davano
alla fuga dopo i primi colpi di spada. Una zona prospera, tranquilla,
addirittura noiosa, per un cavaliere abituato a combattere ogni
giorno.
“Non
ti biasimo per ciò che hai appena detto,” rispose l'altro. “I
tuoi occhi vedono ancora gli idoli che il fuoco proietta sulla parete
della caverna.” Emise un lungo sospiro, poi soggiunse: “Tu devi
essere liberato, devi vedere il mondo com'è veramente.”
Fratello
Roland non rispose. Aveva l'impressione di trovarsi davanti a una
porta chiusa, oltre la quale c'era qualcosa che lo avrebbe cambiato
per sempre. “Perché io?” chiese alla fine.
“Sei
stato scelto.”
“Il
che vuol dire tutto e niente,” replicò in tono improvvisamente
duro il più giovane.
Lungi
dal risentirsi, l'altro parve compiaciuto. “Ogni cosa è tutto e
niente,” si limitò a rispondere. “Questa sera non ti ritirerai
con i confratelli. Verrai invece nella sala del Capitolo, e lì
attenderai i miei ordini.”
§
Fratello
Roland fu grato che la Regola imponesse di non parlare durante la
cena, perché aveva un disperato bisogno di riflettere. La pur breve
passeggiata con il suo superiore era stata in grado di stravolgere
completamente la sua idea del Tempio, e di già quando si guardava
intorno, e vedeva i confratelli chini sul pasto della sera, gli
sembrava di trovarsi fra estranei. Il passo delle Sacre Scritture, al
quale normalmente prestava orecchio devoto, aveva una musicalità
dissonante, come di uno strumento incrinato.
Quando
fu dato il segnale fu il primo ad alzarsi, e subito uscì dal
refettorio. Fratello Olivier gli tenne dietro. “Non vieni a
dormire?” gli chiese.
Bruscamente
riscosso dai suoi pensieri, fratello Roland rispose: “No, io...
devo assentarmi.”
“Le
latrine sono dall'altra parte.”
“Voglio
passeggiare un po', fratello. Devo pensare.”
Fratello
Olivier aggrottò le sopracciglia. Fece per aggiungere qualcosa, ma
l'altro gli girò le spalle con un movimento brusco e si allontanò
nel buio.
Quando
fu solo, fratello Roland si allontanò un po' e si sedette su una
staccionata. Da lì si girò a osservare il Capitolo, che si
stagliava nero e imponente contro un cielo che andava colorandosi di
indaco.
Cosa
sarebbe successo là dentro?
Si
accorse di essere teso, ma in un modo diverso rispetto
all'inquietudine che lo pervadeva nell'imminenza di una battaglia.
Inspirò profondamente l'aria calma della sera, cercando di farsela
entrare dentro come un balsamo benefico.
Raggiunse
l'edificio. La porta era accostata e da essa filtrava un debole
spiraglio di luce. Spinse l'anta, che cedette con un cigolio.
Al
di là il silenzio era perfetto. Una sola candela, posata su una
mensola, spandeva intorno un chiarore appena sufficiente a delineare
le strutture architettoniche. Nell'aria c'era il consueto odore di
cera d'api e incenso, sotto il quale serpeggiava però un sentore più
strano, come di umidità e chiuso.
Fece
qualche passo, che echeggiò contro la volta immersa nel buio.
“Signore?” chiamò guardandosi intorno. “Signore, siete qui?”
Avanzò
ancora, continuando a sondare l'ambiente con una strana sensazione di
inquietudine.
“Signore?”
Si
arrestò di colpo: dal buio erano emerse due figure. Entrambe
ammantate di bianco, avevano i cappucci calati sul volto, così che i
loro lineamenti erano sostituiti da una voragine nera.
Il
Templare si irrigidì, e come sempre la mano gli corse d'istinto alla
spada.
“Non
preoccuparti, fratello Roland,” lo tranquillizzò la voce pacata
del commendatario.
“Siete
voi, signore?”
“Sì,
non preoccuparti,” ripeté l'altro. “Seguici.”
I
due gli girarono le spalle e presero a camminare in perfetto
silenzio. Pur nel buio quasi completo, si muovevano con sicurezza,
come chi segue un percorso che conosce già perfettamente.
Raggiunsero
una porta. Fratello Roland ricordava di averla sempre vista chiusa,
ma in quel frangente era aperta, e da essa promanava l'odore che
aveva percepito entrando nel Capitolo.
Le
due figure, che il giovane cavaliere intravedeva come vaghi fantasmi
chiari, vi entrarono e scomparvero nelle tenebre più complete.
Fratello
Roland allargò cauto le braccia, e le sue dita incontrarono pareti
umide e fredde. Spinse avanti il piede e si accorse che c'era una
scala che portava verso il basso.
Scese
per un tempo che gli parve interminabile, con solo il rumore dei
passi di chi lo precedeva a guidarlo, e le mani che scorrevano lungo
muri via via più scabri e grezzi.
Alla
fine si trovò su un pavimento di pietre, in una stanza che a
giudicare dai rumori doveva essere piccola e col soffitto basso.
L'aria
era pesante, carica dell'odore greve degli ossari.
Brillò
dapprima una scintilla, che in quel buio colpì i suoi occhi come una
lama, poi un fiammella incerta rischiarò l'ambiente.
Il
Templare si guardò intorno: erano nel vestibolo di quella che gli
parve una specie di chiesa. Davanti a loro c'era una porta, oltre la
quale si intravedeva una sala sostenuta da colonne cerchiate di
ferro. Il pavimento e le pareti erano coperti di simboli che non
conosceva, in fondo c'era una specie di altare, sul quale era posato
un libro.
Si
voltò verso i suoi accompagnatori. Fratello Geoffroy si fece
scivolare indietro il cappuccio, imitato dopo poco dall'altro.
Fratello Roland si trovò a fissare i lineamenti scavati e lo sguardo
bruciante di fratello Urbain.
“Che
significa tutto questo?” chiese facendo un passo indietro. I suoi
occhi saettavano dall'uno all'altro senza riuscire a trovare pace.
“Le
labbra della saggezza sono aperte solo alle orecchie della
comprensione,” proclamò la voce autorevole di fratello Urbain.
Il
più giovane si immobilizzò. “Che significa?” ripeté.
“Fratello
Geoffroy ti ha parlato del vero scopo del Tempio,” disse l'altro.
“Conosco
lo scopo del Tempio,” rispose con voce dura fratello Roland.
“Difendere i luoghi santi, proteggere i pellegrini.”
“Questa
è solo la meno nobile delle sue funzioni.”
Nel
silenzio opprimente si udiva solo qualche lieve fruscio di vesti. Di
nuovo, fratello Roland fece girare lo sguardo dall’uno all’altro
dei suoi accompagnatori, poi lo fissò in quello di fratello Geoffroy
come chiedendogli spiegazioni. Questi si limitò a voltarsi verso il
confratello più anziano, come a significare di chi fosse l'autorità
in quel frangente.
Di
nuovo in tono duro, fratello Roland allora replicò: “Se combattere
per la fede è la meno nobile, quale sarebbe la più elevata?
Prestare soldi?”
Fratello
Urbain scosse la testa. “Sei ancora schiavo della concretezza.
Dovrai imparare i sette principi ermetici, dovrai compiere
l'iniziazione che libererà dai vincoli terreni la tua parte divina,
ovvero l'intelletto.”
Fratello
Roland scosse la testa. “Io non sono un sapiente,” disse dopo un
lungo silenzio. “Sono un uomo d'armi, avvezzo alla spada e alla
disciplina. Non so nulla di queste cose. Perché avete scelto proprio
me?”
“Perché
presto ci sarà da combattere,” rispose sibillino fratello Urbain.
“Presto saranno necessarie proprio le armi, per difendere il sapere
che abbiamo accumulato.”
Congedato
fratello Roland con l'obbligo della più stretta segretezza, gli
altri due fecero ritorno al tempio sotterraneo. Entrarono nella
navata e si avvicinarono all'altare su cui era posato il libro.
Fratello
Urbain vi passò sopra la mano. “Anni di studio,” mormorò come
tra sé e sé. “La filosofia sufi, i precetti del Vecchio della
Montagna, la sapienza orientale, lo gnosticismo, l'ermetismo...”
Alzò bruscamente la testa. I suoi occhi neri, illuminati dalla
fiammella danzante della candela, mandavano lampi. “Questo è il
vero Graal,” disse, alzando il tono della voce. “La sapienza,
fonte di vita eterna.”
Fratello
Geoffroy annuì grave. “E di lui che ve ne pare, maestro? Siete
ancora soddisfatto della mia scelta?”
“È
uno stallone turcomanno, focoso ma docile sotto una mano esperta. È
un bene che abbia carattere, se fosse troppo remissivo non servirebbe
al nostro scopo.”
Fratello
Geoffroy si limitò ad annuire, e l'altro riprese: “Il sapiente ha
il dovere di preservare con ogni mezzo le conoscenze che ha
acquisito.” I suoi occhi grifagni sembrarono farsi ancora più
brucianti. “Il sapere è tutto. Anche la vita di qualche non
iniziato è nulla, paragonata al sapere.”
“Questo
vuol dire che fratello Roland potrebbe morire, nel portare a termine
la missione?”
“Se
anche accadesse, non sarebbe nulla di diverso da ciò che ha giurato
di fare nel momento in cui è entrato a nell'Ordine.”
L'altro
emise un sospiro. “Che cosa dovrà fare?” chiese poi.
Fratello
Urbain fece scorrere di nuovo la mano ossuta sulla rilegatura del
libro. “Se sarà necessario, questo andrà portato al sicuro. Deve
essere preservato a discapito di qualsiasi altra cosa, non possiamo
rischiare che cada nelle mani di chi non ha gli strumenti per
capirlo, ma allo stesso tempo non posso affidarlo a chi non sia in
grado di comprendere almeno a grandi linee il valore inestimabile del
suo contenuto.”
“Quindi
volete istruirlo, maestro?”
“Almeno
nelle conoscenze di base. Spero
solo di averne il tempo.”
§
Conducendo
il cavallo per le redini, Gwenel de Jussy fece qualche passo nel
cortile, poi si fermò e controllò se il sottopancia era ben
stretto. Raddrizzò le bisacce che aveva fissato alla sella, poi
diede qualche pacca sul collo dell'animale. Si voltò indietro, e per
un po' lasciò vagare lo sguardo sulla facciata del palazzo paterno.
Non c'era nessuno alle finestre.
Emise
un sospiro, buttò le redini sul collo del cavallo e si apprestò a
montare in sella, ma in quel momento il rumore di una porta che si
apriva lo distrasse. Si voltò in quella direzione. “Meister
Wulf!” esclamò.
“Ve
ne andate, juncherre?”
chiese il maestro d'armi avvicinandosi con passo misurato. Aveva
l'espressione di chi sa perfettamente cosa sta succedendo e perché.
“Sì,
vado,” rispose il ragazzo. “È la mia strada.”
Il
tedesco lo fissò negli occhi. Lo sguardo aveva una nota di solennità
grave. “Se avete capito che è la vostra strada, fate bene a
seguirla,” gli disse.
Il
ragazzo annuì, poi abbassò fugacemente gli occhi. “Mio padre non
ha neppure voluto salutarmi,” sospirò.
“Capirà,
juncherre. E
comunque, se non capisce, è la vostra vita, non la sua.”
Tra
i due calò il silenzio. Gwenel si girò ancora una volta verso il
palazzo, poi tornò a rivolgere l'attenzione al maestro d'armi. “Vi
ringrazio per tutto quello che mi avete insegnato, meister
Wulf,” gli disse.
Gli porse la mano.
L'altro
gliela strinse con vigore.
Il
ragazzo non abbandonò la presa, ma anzi si protese in avanti ad
abbracciarlo. “Grazie di tutto,” ripeté.
L’altro
dapprima si irrigidì vagamente imbarazzato, poi rispose
all’abbraccio. Infine gli pose entrambe le mani sulle spalle, e
fissandolo negli occhi disse: “Juncherre,
nû var, und gebe dir got sîne krefte [1].”
Il
ragazzo sbatté le palpebre e deglutì cercando di trattenere le
lacrime.
“Sî
tapfer unde wîs [2].”
Gwenel
annuì. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma si sentiva un groppo in
gola. Montò in sella e si allontanò senza voltarsi indietro.
Il
fratello portinaio si apprestava a chiudere le porte quando il
ragazzo arrivò a Vaux. “Che cosa fate qui?” gli domandò
stupefatto.
“Chiedo
asilo,” rispose semplicemente Gwenel. Poi, visto che l’altro
tentennava, aggiunse: “Fatemi parlare con il commendatario.”
“Ma
è quasi ora di cena, non posso disturbarlo.”
“Fate
come vi ho detto!” replicò il ragazzo, alzando leggermente la
voce. “Devo parlare con lui.”
“A
che proposito?”
“Devo
parlare con lui.”
Prontamente
chiamato, fratello Geoffroy si avvicinò al portone, e subito
riconobbe il figlio del barone de Jussy. “Voi qui?” gli chiese
stupito.
Il
ragazzo smontò da cavallo, prese un gran respiro e infine disse: “Vi
faccio formale richiesta di entrare nell’Ordine del Tempio,
signore.”
“Cosa?
Adesso?”
“Sì,
signore. Ho abbandonato la mia famiglia e sono pronto a lasciarmi
alle spalle anche tutto il resto. La mia vita è qui.”
Fratello
Geoffroy si grattò perplesso la testa. Fissò il ragazzo, che gli
rimandò uno sguardo di incrollabile entusiasmo, poi gli chiese: “Ci
avete pensato bene? Sappiate che è una scelta irrevocabile.”
Il
più giovane annuì, e quasi con vago compiacimento rispose: “Tutti
hanno cercato di dissuadermi, signore, ma io sono deciso: voglio
votarmi al Tempio.”
L’altro
lo fissò, ancora poco convinto. “D’accordo,” gli disse,
“allora tornate domani e vedremo quel che si può fare.”
Gwenel
scosse la testa. “Non posso tornare domani. Non ho posto dove
dormire, né altro a parte ciò che porto addosso.”
“State
scherzando?”
“Affatto,
signore. Ho lasciato la casa di mio padre senza la sua benedizione.”
I
due si fissarono in silenzio per qualche secondo, infine il
commendatario disse: “In tal caso, credo che non ci sia altro da
fare che darvi ospitalità, almeno per questa notte. Poi domani
vedremo.”
“Voglio
entrare nell’Ordine, signore. Sono deciso.”
“Per
ora venite con me, domani ne riparleremo.”
§
Fratello
Roland spinse il destriero al piccolo trotto. “E così, volete
proprio entrare nell’Ordine?” chiese.
Fece
fare una conversione al cavallo, che girò sulle zampe posteriori e
in un attimo partì al galoppo in senso opposto.
In
sella a un destriero da guerra, che gli era stato fornito per
l’occasione al posto del suo snello palafreno, Gwenel rispose:
“Sono deciso. So che questa è la mia vita.”
Fratello
Roland brandì la lancia spuntata da esercitazione. “E sentiamo,
cosa vi aspettate da questa vita che avete scelto con tanto ardore?”
“So
che è la mia vita,”
ripeté il ragazzo imperterrito. “Non lo so cosa mi aspetterà.
Quello
che decideranno i miei superiori, immagino.” Fece una pausa,
durante la quale rivolse lo sguardo al cielo, poi proseguì: “Di
una cosa però sono certo: voglio con tutto il mio cuore portare la
croce di sangue sul petto.”
“Può
darsi che sul vostro petto ci sarà solo il sangue, senza nessuna
croce,” ribatté brusco fratello Roland, quindi in tono duro gli
ingiunse: “In guardia, vediamo cosa sapete fare.”
Abbassò
la lancia in posizione di attacco. Fissò il ragazzo. L’avrebbe
colpito, era deciso a farlo. Gli avrebbe fatto assaggiare la polvere
un paio di volte, giusto per fargli capire che la vita dei cavalieri
del Tempio non era neppure lontanamente quella esaltante e colma atti
eroici che lui si aspettava.
Spronò
il destriero, che partì sollevando zolle di terra con gli zoccoli.
Il
ragazzo abbassò a sua volta la lancia e partì al galoppo.
Fratello
Roland tese i muscoli, e puntò la lancia verso la spalla destra del
ragazzo. Di solito lo faceva per trafiggere a morte l'avversario, in
quel caso avrebbe solo sfruttato la propria forza per disarcionarlo.
Lo vide mordersi il labbro inferiore e stringere la presa sulla
propria lancia, con una commovente espressione di buona volontà.
Spronò ancora.
L'esito
dell'impatto lo colse alla sprovvista: con una torsione del busto
eseguita all'ultimo momento, il ragazzo riuscì a schivare quasi
completamente il colpo che avrebbe dovuto scaraventarlo al suolo.
Perse la compostezza e per qualche istante lottò per raddrizzarsi
sulla sella, ma un attimo dopo fece fare una conversione al cavallo e
si mise di nuovo in posizione d'attacco.
Fratello
Roland strinse i denti: evidentemente il ragazzino voleva fare sul
serio.
Spronò
di nuovo. Questa volta puntò direttamente al fianco del suo
avversario: il colpo gli avrebbe mozzato il respiro e lo avrebbe
fatto piegare in due per il dolore, ma soprattutto gli avrebbe
insegnato che combattere contro i saraceni non era esattamente come
esercitarsi nel cortile del castello paterno.
All'impatto,
l'altro si lasciò sfuggire un gemito soffocato. Fu sbalzato
all'indietro, ma all'ultimo riuscì ad aggrapparsi a un ciuffo di
criniera, e pur senza la lancia ed evidentemente sofferente, si
raddrizzò alla meglio sulla sella. “Mi concedete un altro
assalto?” ansimò.
Il
Templare annuì. Lasciò che il ragazzo si procurasse una seconda
lancia, quindi mise il cavallo al piccolo trotto. Nel frattempo
fissava di sottecchi il suo avversario: aveva le labbra pallide,
probabilmente stava stringendo i denti per non lamentarsi, ma non
voleva cedere. Te la
sei voluta, pensò, e
spinse il cavallo al galoppo.
Forse
perché il dolore dei colpi precedenti gli rendeva difficile
muoversi, il ragazzo non riuscì come le altre volte a schivare la
maggior parte dell'impatto. Fu sbalzato all'indietro e cadde a terra,
ma in un attimo era di nuovo dritto sulle gambe. Sfoderò la spada.
Fratello
Roland tornò in posizione d'attacco. Notò che il volto del ragazzo
aveva assunto un'espressione sorpresa, e in tono duro gli disse:
“Pensate di essere in uno dei tornei che la nobiltà organizza per
svagarsi? Questa è guerra,
non aspettatevi cortesie cavalleresche.”
Spronò
il cavallo.
La
spada in pugno, ansante, Gwenel de Jussy fissò il cavaliere che gli
si stava facendo incontro al galoppo. Cercò di mantenersi freddo e
di pensare agli insegnamenti di meister
Wulf, ma aveva troppa paura: non del dolore o di eventuali ferite, ma
di essere considerato inetto nel combattimento e di essere
allontanato dal Tempio prima ancora di riuscire a entrarci.
Strinse
la presa sull'impugnatura dell'arma, i tonfi degli zoccoli in
avvicinamento rimbombavano come un cupo tamburo di guerra. Vista
dalla sua posizione, la mole del destriero lanciato alla massima
velocità sembrava una montagna in procinto di crollargli addosso.
Tese
i muscoli, si preparò a saltare di lato.
Il
cavaliere aveva evidentemente previsto la sua mossa, perché la
lancia lo intercettò a metà del balzo, e se fosse stava vera
l'avrebbe infilzato come un tordo. Essendo spuntata lo sbatté invece
semplicemente all'indietro, con il respiro mozzo per la violenza
dell'impatto e farfalle bianche che gli danzavano davanti agli occhi.
Gwenel
strinse i denti e si rialzò. Cercò con lo sguardo fratello Roland,
preparandosi a fronteggiare l'ennesima carica, ma il Templare era
fermo al limitare del campo e stava parlando con un confratello
appiedato. I due si scambiarono qualche frase, poi il primo smontò
di sella, e tenendo l'animale per le redini continuò a parlare con
il nuovo arrivato. Il ragazzo notò che di tanto in tanto si
voltavano verso di lui.
Nessuno
gli aveva detto di non muoversi, per cui pian piano, un passo dopo
l'altro, massaggiandosi il fianco indolenzito, prese ad avvicinarsi.
Il
fratello con cui aveva combattuto stava dicendo: “Sì, si muove
bene, ma...”
“A
me pare che sia sufficiente,” lo interruppe l'altro, alto e coi
capelli chiari. “Le armi le sa usare.” Fece una breve pausa,
quindi soggiunse: “E poi lo sai come stanno le cose, qui a Vaux.”
Il
primo assunse un'espressione contrariata. “Noi siamo i difensori
del Tempio,” replicò con voce dura, “combattere è la nostra
principale attività, e nell'uso delle armi ci è richiesta
l'eccellenza.”
Il
biondo fece un movimento come per scacciare un insetto molesto. “Ne
abbiamo già parlato,” disse con un sospiro, poi si voltò verso
Gwenel, che lo stava fissando in silenzio. “Voi, venite qui.”
Il
ragazzo lo raggiunse.
“Sapete
leggere e scrivere?” gli chiese quando si fu avvicinato.
“Sì,
signore.”
“E
fare di conto?”
“Sì,
signore.
L'altro
annuì. “È quello che serve,” disse poi. “E ora, scusatemi.”
Con un breve inchino del busto prese congedo e si allontanò a passo
svelto.
Gwenel
rimase a fissarlo in silenzio, poi si voltò verso il cavaliere in
armi.
L'altro
si strinse nelle spalle, come a fargli capire che non era in grado di
dargli una spiegazione. “Vi ho fatto molto male?” chiese.
Istintivamente,
Gwenel si portò la mano al fianco indolenzito. “No, non tanto,
signore,” si affrettò a rispondere.
“Bugiardo.
Siete talmente bianco che sembrate sul punto di cascare per terra.”
“Scusate,
signore,” si giustificò il ragazzo, come se fosse tutta colpa sua.
“Scusate
voi, piuttosto. Ma non serbatemi rancore: l'ho fatto solo per farvi
capire cosa vi aspetterà se mai scenderete davvero in battaglia
contro i nemici della fede.”
Gwenel
chinò appena la testa. “Vi ringrazio, signore.”
Presero
a camminare lentamente fianco a fianco. Sotto il sole della tarda
estate, le viti si piegavano verso terra, appesantite dai grappoli
gonfi di succo. Le fronde dei faggi frusciavano piano nella brezza,
uno stormo di oche cenerine attraversò il cielo.
“Stanno
già cominciando a migrare,” constatò fratello Roland.
Il
ragazzo le seguì con lo sguardo e chiese: “Significa qualcosa?”
“Che
ci aspetta un inverno molto rigido.”
Gwenel
non rispose, e per un po' continuarono semplicemente a camminare in
silenzio.
Alla
fine, fu il Templare a prendere la parola: “Presto saremo fratelli,
a quanto pare.”
“Lo
spero.”
“Ne
siete contento?”
“È
ciò che sogno dalla prima volta che ho tenuto in mano una spada,
signore.”
“Non
temete la durezza della nostra vita?”
Il
ragazzo scosse la testa, e quando parlò le guance gli si riaccesero
di colore: “Io anelo a essa, signore. Non chiedo altro che di
essere messo alla prova.”
§
Fratello
Olivier radunò i confratelli dopo il pasto serale. “Avete
sentito?” chiese loro, “Pare che tra un po' ci sarà da fare
un'inconvenientia.”
Il tono era infastidito.
“Odio
quella roba,” brontolò fratello Philippe.
Fratello
Séverin alzò le spalle. “È inutile recriminare, ci siamo passati
tutti.” Poi, dopo una pausa: “A chi la dobbiamo fare?”
Fratello
Olivier rispose: “Quel ragazzetto, il de Jussy. Il commendatario ha
provato a dissuaderlo in tutti i modi, ma niente: vuole diventare
cavaliere del Tempio.”
“Quasi
mi dispiace, poveraccio,” intervenne fratello Philippe, “Pensate
quanto ci rimarrà male.” Guardò gli altri e pose la ferale
domanda: “Chi la fa?”
Seguì
un silenzio imbarazzato.
“Dovete
essere almeno in due,” intervenne fratello Olivier dopo un po'.
“Come
sarebbe a dire dovete?”
chiese fratello Philippe. “Tu non ti conti?”
L'altro
scosse la testa. “Odio quelle stupide pantomime volgari,” replicò
infastidito.
Intervenne
per la prima volta fratello Roland: “Fanno parte della tradizione.
Sono necessarie.”
“È
roba da armigeri ubriachi. Se ci tenete tanto, fatele voi.”
“È
la regola, fratello Olivier,” gli ricordò l'altro.
In
quel momento sopraggiunse Gwenel de Jussy. In attesa che arrivasse il
Luogotenente del Gran Maestro per la cerimonia d'investitura, viveva
presso la Commenda, non avendo altro posto dove stare, e spesso la
sera si univa a quelli che presto sarebbero stati i suoi confratelli.
“Buona
sera, cavalieri,” li salutò.
Gli
giunse in risposta qualche grugnito. Fratello Philippe divenne di
colpo estremamente interessato al bordo del proprio mantello,
fratello Séverin prese a fissare con attenzione i ciottoli del
selciato.
Il
ragazzo fece saettare lo sguardo dall'uno all'altro, e infine lo
fissò su fratello Roland. “Qualcosa non va?” gli chiese.
Il
Templare scosse la testa. “Non preoccuparti, niente di importante.”
Il
più giovane fece girare un altro sguardo poco convinto sui
cavalieri, quindi di nuovo fissò fratello Roland.
“Stavamo
solo decidendo chi deve andare domani con la mula bianca,” disse
questi. Gli appoggiò una mano sulla spalla e propose: “Ti va di
passeggiare un po'?”
“Sì,
volentieri.”
Si
incamminarono verso le vigne, lungo quello che ormai era diventato il
loro percorso favorito. Le sere si stavano accorciando, e il cielo
era di un vivido color cobalto, contro il quale le strutture della
commenda apparivano come sagome nere punteggiate qua e là di luci.
L'aria era fresca, e vibrava del frinire degli ultimi insetti.
“Domani
possiamo fare un po' di esercizio?” chiese Gwenel.
“Domani
no, andrò a Metz con la mula bianca. E comunque non ti serve tutto
questo esercizio.”
“Sì,
invece. Devo migliorare.”
“Hai
avuto un ottimo maestro, sai già combattere molto bene.” Fratello
Roland fece scorrere lo sguardo tutt'intorno, poi soggiunse: “E
comunque, che occasioni avrai di combattere, stando qui? Il più
grande nemico, in questo posto, sono gli storni che beccano i chicchi
d'uva.”
“Diventerò
un cavaliere del Tempio, devo saper usare la spada meglio di chiunque
altro.”
Il
maggiore non rispose. Ancora una volta gli parve di rivedere se
stesso, alla vigilia della cerimonia d'investitura. Anche lui aveva
aspettato quel momento con la stessa trepidazione, attanagliato dal
terrore di non essere all'altezza del Tempio, e allo stesso tempo
anelando con tutto se stesso a farne parte.
Ripensò
all'inconvenientia,
e pregò di non essere tra coloro che sarebbero stati scelti per
portarla a termine.
§
Preceduto
da un soldato con la croce nera sul petto, fratello Roland giunse a
un ampio cortile. Lo spiazzo era delimitato da una parte da un alto
muro merlato, e dall'altra dalla sponda del fiume. Trasversalmente
correva uno steccato di legno, oltre il quale il fondo era di terra
battuta, e segnato da innumerevoli impronte di zoccoli.
Il
soldato disse qualcosa in tedesco, poi gli rivolse un breve inchino e
si allontanò rapido.
Il
Templare fece qualche passo avanti e si appoggiò con i gomiti sullo
steccato. Al di là c'erano fratello Friedrich e fratello Adalbert.
Il primo era fermo in piedi, l'altro invece era a cavallo e stava
trottando in un circolo che aveva il confratello come centro.
Rimase
a guardarli in silenzio. Fratello Friedrich disse qualcosa e l'altro
mise il cavallo al piccolo galoppo, allargando man mano il cerchio.
Il primo, dritto in piedi e con le mani sui fianchi, girava
lentamente su se stesso per seguire le evoluzioni del compagno.
Poi
fratello Adalbert fece rallentare il destriero, fece un altro giro al
trotto, infine raggiunse il compagno, e senza smontare di sella gli
disse qualcosa. Questi gli rispose, e per un po' i due rimasero a
conversare, uno appoggiato sull'arcione con le due mani, l'altro con
la testa piegata all'indietro per guardarlo in viso.
Poi
fratello Adalbert smontò da cavallo. Per quanto più fluidi rispetto
a quando l’aveva visto per la prima volta, i suoi movimenti non
dovevano essere ancora del tutto sicuri, ed egli perse l'equilibrio.
Subito fratello Friedrich scattò a sostenerlo, l'altro si schermì e
i due inscenarono ridacchiando una finta colluttazione.
Alla
fine il biondo scompigliò affettuosamente i capelli scuri del
compagno, che scrollò la testa e disse qualcosa. Entrambi risero.
Come
la volta precedente, fratello Roland fu attraversato da un’acuta
fitta di nostalgia. Mosse un braccio per attirare la loro attenzione,
e subito fratello Friedrich lo fissò attento. Aggrottò per un
attimo le sopracciglia, poi i suoi lineamenti si distesero ed egli
esclamò: “Fratello Roland!”
Gli
si fece incontro.
“Come
state, fratello Roland?” gli chiese quando furono faccia a faccia.
“Bene,
grazie,” rispose il Templare, poi volse lo sguardo verso fratello
Adalbert e disse: “Vedo che il vostro confratello sta migliorando.”
Fratello
Friedrich annuì. “Sì, grazie a Dio.” Gli fece cenno di
raggiungerli, e l’altro si avvicinò tenendo il cavallo per le
redini.
“Fratello
Adalbert!” lo accolse fratello Roland, “Sono contento di vedere
che state meglio.”
Il
tedesco sorrise. Era meno pallido della prima volta che l’aveva
visto, e gli occhi erano ancora più celesti di come li ricordava.
“Sto molto meglio, grazie. Voi come state?”
“Bene,
grazie. Il vostro libro?”
“Sta
procedendo spedito. L’unico vantaggio di essere qui è che almeno
ho tempo per scrivere.”
Fratello
Roland sorrise, poi fissò lo sguardo sul destriero e disse:
“Riuscite già a montare a cavallo, vedo.”
Il
sorriso dell’altro prese una nota impertinente. “Non ditelo a
nessuno: non avrei il permesso di farlo.”
Il
Templare trasecolò. “Cosa? Non avreste il permesso?”
“Se
dessi retta al fratello infermiere, passerei le mie giornate a letto
come un vecchio di cent’anni.”
Stupefatto
da quella disinvolta insubordinazione, fratello Roland disse: “Ma
forse… ecco, io penso che lo dica per il vostro bene.”
“Ach,
il bene di un cavaliere è combattere. Giusto, Fritz?”
L’altro
si limitò ad annuire. I due si scambiarono un’occhiata, poi
fratello Adalbert soggiunse: “Però adesso è meglio che vada a
riportare il cavallo in scuderia, prima che mi scoprano. Con
permesso.”
Si
incamminò. Fratello Friedrich lo seguì per qualche istante con lo
sguardo, poi tornò a dedicare la propria attenzione all’ospite.
“Sono contento che siate tornato,” disse.
“E
io sono contento di essere qui,” rispose fratello Roland. Emise un
sospiro, poi disse: “Sentivo il bisogno di parlarvi.”
L’altro
si voltò a fissarlo. “Qualcosa vi turba?”
“Sì.
E mi struggo, perché ciò che sto per dirvi dovrebbe invece
riempirmi di gioia.”
Fratello
Friedrich lo prese gentilmente per una spalla. “Venite,” lo
esortò, “Passeggiamo un po’ lungo il fiume.”
Il
Templare annuì e si incamminarono fianco a fianco. L’acqua
scorreva placida accanto a loro, gorgogliando di tanto in tanto fra
le pietre muscose delle sponde; il sole traeva luccichii dorati dalla
superficie mobile dell’acqua. Da qualche parte, lontano, una donna
stava cantando, forse mentre lavava i panni.
“Che
cosa c’è ce non va?”
chiese il tedesco dopo un po’.
Fratello
Roland trasse un lungo respiro e disse: “A giorni ci sarà una
cerimonia d’investitura presso la mia commenda.”
“E
non siete contento?”
L’altro
esitò a lungo prima di rispondere. Infine mormorò: “Dovrei, so
che dovrei.” Alzò gli occhi fino a incontrare quelli grigi e
trasparenti del suo interlocutore. “Ma non riesco a provare gioia
al pensiero di ciò che sta per accadere.”
“Perché?”
“Perché
so che la vita nel Tempio non è nulla di ciò che lui si aspetta.
Lui immagina battaglie, imprese eroiche, invece...” Si interruppe.
“Invece?”
“Una
banale esistenza da contabile. Da cane da guardia per i guadagni
della commenda, se sarà fortunato. Io non volevo crederci, ma ho
dovuto rassegnarmi: l’Ordine non è più quello che era, non siamo
più i difensori della fede, e sinceramente non so cosa diventeremo.”
“Voi
cavalieri del Tempio siete una leggenda,” replicò il tedesco, “e
anche solo per questo motivo fare parte del vostro Ordine dovrebbe
essere un onore di cui non tutti sono degni.” Di nuovo gli mise una
mano sulla spalla. “Non crucciatevi, chi fa questa scelta sa a cosa
va incontro.”
Fratello
Roland annuì in silenzio. Lasciò passare qualche istante, poi
chiese: “Voi vi siete mai pentito della vostra scelta, fratello
Friedrich?”
“No,”
giunse lapidaria la risposta.
“Mai
una volta?”
“Mai
sinceramente. Ogni tanto, forse, ho desiderato di avere dei superiori
diversi, o di essere assegnato ad altri castelli rispetto a quello in
cui servivo.” Si interruppe brevemente, si sistemò il mantello
bianco sulle spalle, quindi riprese: “Ma vedete, quando entriamo in
un Ordine, noi cessiamo di essere individui per diventare parti di un
tutto, e per ciò stesso, la grandezza dell’Ordine di cui facciamo
parte è anche la nostra, e al medesimo tempo, ogni nostra azione,
compiuta in seno all’Ordine, contribuisce a renderlo più forte.”
Fratello
Roland annuì pensoso. Procedettero in silenzio per un po’, poi il
tedesco riprese: “Svolgere il proprio dovere come se da esso
dipendesse il destino del mondo, questa è l’essenza di tutto.
Questo è ciò che rende la vita degna di essere vissuta.”
“Eppure
voi avete disobbedito, nel momento in cui avete ritenuto che eseguire
gli ordini avrebbe portato un danno al castello in cui servivate.”
“E
lo rifarei. In quel momento, il mio dovere era salvare il castello, e
io l’ho portato a termine, nella mia imperfezione, come meglio ho
potuto.”
“Ma
i vostri superiori vi hanno punito.”
Fratello
Friedrich annuì. “Non avrebbero potuto comportarsi in modo
diverso, un Ordine deve privilegiare il tutto a scapito del singolo.”
“Voi
dite, fratello?”
“Ne
sono fermamente convinto. E se il singolo non è disposto ad
accettare di essere subordinato al tutto, allora è meglio che non
entri in un Ordine come i nostri.”
“È
proprio questo il problema,” sospirò fratello Roland. “Non so se
il giovane che riceverà l’investitura ha capito tutto questo.”
Il
tedesco gli rivolse uno sguardo che le sue iridi grige rendevano di
ferro. In tono duro gli disse: “Prima lo capisce e meglio è,
fratello. Non risparmiategli nulla, perché tutto quello che gli
regalate adesso, lo pagherà cento volte più caro in futuro.”
[1]
Juncherre,
adesso va’, e che Dio ti dia la forza.
[2]
Sii valoroso e saggio.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Cari lettori e care lettrici,
ecco
un’altra orrenda mappazza per voi, spero che non mi odierete
troppo.
Ringrazio
come sempre tutti coloro che sono passati di qui. Come solito, un
ringraziamento speciale va a chi mi ha gentilmente commentato, ovvero
Saelde_und_Ehre, Jon Spangler, alessandroago_94, syila,
queenjane, evelyn80, mystery_koopa, Rose Ardes, Enchalott, molang
e _Polx_
Capitolo
4
Gwenel
percorse per l'ennesima volta la stanza in cui aveva trascorso la
notte, poi andò alla finestra e si rizzò sulle punte dei piedi per
guardare fuori. Finalmente era comparso il vago chiarore che precede
l'alba, e già i fratelli di mestiere stavano cominciando a svolgere
i primi compiti della giornata.
C'era
più fermento del solito, in realtà, perché presso la commenda si
trovavano alcuni ospiti: un Cappellano e il Luogotenente del Gran
Maestro che avrebbero dovuto officiare la sua investitura, più tutto
il loro seguito. Se ne sentì quasi in colpa. Ormai aveva imparato a
conoscere fratello Geffroy, perlomeno nelle sue caratteristiche più
salienti, e poteva solo immaginare quanta agitazione e preoccupazione
gli causasse quello che sarebbe di lì a poco successo.
In
effetti, lui stesso era agitato e preoccupato. Di non essere degno di
ciò che stava chiedendo, principalmente. Di dare cattiva prova di
sé, di rivelarsi una delusione per fratello Roland.
Ripensò
al ruvido guerriero che si era accollato l'onere di ultimare la sua
preparazione: per quanto tutti i cavalieri dal manto bianco gli
sembrassero meravigliosi e solenni, gli era chiaro che fratello
Roland, nel bene e nel male, a Vaux era un lupo in mezzo ai cani.
Era
una creatura selvatica, torva, spesso chiusa in silenzi
impenetrabili. L'aveva visto raramente sorridere, ma la sua non era
la puntigliosa acrimonia di fratello Adrien, per il quale niente era
mai come sarebbe dovuto essere. Dava piuttosto l'idea di tristezza
ardente, che come una fiamma lo rendeva luminoso ma al tempo stesso
inesorabilmente lo consumava.
Pensò
che nonostante il dolore interiore che sembrava tormentarlo, avrebbe
voluto essere come lui.
Rivolse
lo sguardo al crocifisso, appeso al centro di una parete
completamente bianca. Teoricamente avrebbe dovuto trascorrere il suo
tempo pregando. Avrebbe dovuto invocare Cristo e la Vergine Maria.
La
verità era che ogni volta che ci provava, il suo pensiero cominciava
a saettare in ogni direzione, sottraendosi alla sua volontà come un
cavallo riottoso.
Quando
la situazione si fece insostenibile, andò alla porta e la schiuse.
Si affacciò all'esterno: nessuno sembrava fare caso a lui. Non
sapeva se gli fosse permesso abbandonare la stanza, ma era certo che
non sarebbe riuscito a rimanere tra quelle quattro mura un istante di
più.
Quasi
non ricordava più l’entusiasmo che l’aveva pervaso all’inizio.
Come un prato fiorito che viene coperto da una tardiva nevicata, esso
era stato nei giorni raggelato da un tormentoso senso
d’inadeguatezza.
A
ogni momento sentiva su di sé il peso di ciò che stava per fare,
delle aspettative che gli altri nutrivano nei suoi confronti, e di
quelle che lui stesso aveva per la vita che da lì in poi avrebbe
condotto.
Fece
qualche passo all'esterno: l'aria era ancora fredda, le superfici
conservavano l'umidità della notte. La porta della chiesa era aperta
e da dentro proveniva una luce. Sorella Agathe stava lavando il
pavimento, e intanto canticchiava a bassa voce.
Passarono
due fratelli di mestiere, trasportando una tavola di legno su cui
erano disposte delle forme di pane bianco ponte per il forno;
l'addetto alle cantine uscì reggendo con cautela un'anfora
impolverata.
Gwenel
se ne sentì più che mai in colpa: tutto ciò stava accadendo a
causa sua. Immaginò il commendatario a fare i conti delle spese
straordinarie e dei mancati guadagni causati dall'impiego dei
fratelli di mestiere per allestire la cerimonia. Continuò a
camminare, rabbrividendo nei suoi abiti leggeri. Si sentiva la testa
pesante per la stanchezza della veglia notturna, ma al tempo stesso
era pervaso da una smania che non gli concedeva requie. Ancora e
ancora andava ai momenti in cui fratelli cavalieri che non aveva mai
visto prima gli avevano fatto visita, e gli avevano posto domande
sulla sua vita passata, e su quello che si aspettava dalla sua vita
futura. Si chiedeva se le sue risposte fossero state giuste, se
avessero fatto buona impressione.
Nessuno
del resto gli aveva dato suggerimenti su come e cosa rispondere,
nemmeno fratello Roland, che sulla cerimonia di investitura era stato
paradossalmente il più reticente di tutti.
Si
accorse infine di aver preso il sentiero che conduceva al vigneto.
Raggiunse quello che sapeva essere il luogo favorito del suo mentore,
ovvero le rovine della chiesa, e lì si sedette su una pietra in
attesa del sorgere del sole.
Fratello
Roland scivolò silenziosamente fuori dal dormitorio. Già il primo
lattiginoso chiarore della giornata cominciava a delimitare i
contorni delle cose, e nel cortile si udivano le voci e i passi dei
fratelli di mestiere.
Andò
alla porta che dava sull’esterno e la socchiuse. Fuori c’era
Gwenel che passeggiava a capo chino, con le mani allacciate dietro la
schiena. Persino con quella poca luce riuscì a cogliere la sua
espressione preoccupata.
Si
ritrasse. Probabilmente aveva ragione fratello Friedrich: quello non
era il momento di raggiungerlo, né di mostrarsi soccorrevole e
rassicurante come un bravo precettore. Il ragazzo doveva bere fino
alla feccia l’amaro calice, assaporare fino in fondo l’orribile
solitudine di chi è chiamato a prendere una decisione irrevocabile e
a sopportarne per sempre le conseguenze.
Tornò
al dormitorio. Nella luce tenue della fiammella ormai morente, i suoi
confratelli coperti dalle coltri bianche gli ricordarono corpi
avvolti nei sudari. Si sedette sul proprio letto, appoggiò la
schiena alla parete e si circondò le ginocchia con le braccia.
Inspirò
gonfiando il torace più che poteva, poi lasciò andare l’aria in
un lungo sospiro.
A
quel punto, fratello Séverin si girò verso di lui e a bassa voce
gli chiese: “Per caso vuoi diventare un suonatore di olifante?”
Fratello
Roland si voltò verso di lui. “Cosa?”
“Sei
preoccupato?”
“No,
io...”
L’altro
abbandonò le coltri e si alzò in piedi, poi gli disse: “Vieni,
andiamo di là.”
Lo
condusse nella stanza attigua, in modo da non disturbare i
confratelli ancora addormentati, poi gli chiese: “Che c’è, temi
che il ragazzo possa ripensarci?”
“Forse
vorrei che lo facesse.”
Fratello
Séverin lo fissò stupito. “Perché mai vorresti una cosa del
genere, dopo essertelo tenuto sotto l’ala come una specie di
chioccia per tutto questo tempo? Hai paura che ti faccia sfigurare?”
Fratello
Roland scosse la testa. “No, è un bravo ragazzo.”
“E
allora di cosa hai paura? Temi che dopo l’inconvenientia
sarà
arrabbiato con te?”
“L’inconvenientia
è necessaria,” si limitò a replicare l’altro.
Fratello
Séverin si grattò perplesso la testa. Dalla sua espressione era
chiaro che riteneva di aver passato in rassegna tutte quelle che
considerava possibili cause del malumore del confratello. Lo fissò
sconfitto. “E allora cosa c’è?” si risolse a chiedergli.
L’altro
si strinse nelle spalle. “Non lo so,” ammise. “È come un
macigno che ho sul cuore, e neppure io riesco a capire che cosa sia.
Forse dovrei confessarmi.”
“Beh,
giusto, fallo,” gli rispose fratello Séverin sollevato. “Svuota
il mastello, ripulisciti dentro. Vedrai che dopo ti sentirai meglio.”
Fratello
Roland scosse la testa. “Temo che non sia così semplice.”
Per
qualche istante i due rimasero immobili, prestando un orecchio
distratto ai rumori della commenda che pian piano si svegliava, poi
fratello Séverin disse: “Invece è semplice, fratello. Cosa c’è
di complicato nella nostra vita? Dobbiamo servire e pregare, tutto
qui.”
§
Due
cavalieri ammantati di bianco comparvero sulla soglia della stanza in
cui Gwenel attendeva. “È l’ora,” annunciò uno di essi.
Il
ragazzo si alzò in piedi in silenzio. Non aveva mai visto nessuno
dei due, e questo contribuiva ad aumentare il suo disagio. Ancora una
volta si chiese se stesse facendo tutto bene, se stesse dando buona
prova di sé. Tentò di ripassare mentalmente le parole che avrebbe
dovuto dire, ma nell’agitazione gli sembrava di avere una tabula
rasa al posto del
cervello.
“Venite
con noi,” disse il cavaliere, quindi gli girò le spalle e prese ad
allontanarsi con andatura misurata.
Gwenel
deglutì. Raggiunse la soglia e per un po’ rimase fermo a cercare
con lo sguardo fratello Roland. È
già in chiesa, si
disse ansioso, deve
essere già in chiesa.
Si
voltò verso l’edificio: le due ante del portone erano spalancate,
e da dentro proveniva il chiarore di innumerevoli candele.
Tutt’intorno
c’erano mantelli bianchi, e qua e là qualche abito nero da
sacerdote. I sergenti e i fratelli di mestiere osservavano da
rispettosa distanza.
Raggiunse
la chiesa e vi entrò. Fu attraversato da un onda di sollievo nel
momento in cui scorse fratello Roland.
Come
gli avevano insegnato, percorse la navata e si inginocchiò dinnanzi
all’altare, coperto per l’occasione da una tovaglia ricamata.
Giunse le mani, e cercando di non far tremare la voce si rivolse al
cappellano dicendo: “Signore, sono venuto davanti a Dio, davanti a
voi e davanti ai fratelli, e vi prego, vi imploro per Dio e per
Nostra Signora, di accogliermi nella vostra compagnia e di farmi
partecipe dei benefici della casa.”
Il
sacerdote, un uomo alto, imponente, con una lunga barba grigia, prima
di rispondere lo fissò grave. Infine disse: “Amato fratello, tu
chiedi molto, perché del nostro Ordine non vedi che la scorza che è
al di fuori. La scorza che tu vedi sono i nostri bei cavalli e le
nostre armature; vedi che mangiamo e beviamo bene e abbiamo begli
abiti, e per questo credi che con noi starai bene. Ma tu non sai
quali dure regole vigono all’interno: perché è cosa dura per te,
che sei nato signore, dover diventare servo altrui. Perché d’ora
in poi non farai più ciò che desideri. Infatti, se vuoi stare di
qua dal mare ti si manderà di là, se vuoi andare ad Acri ti si
manderà in terra di Tripoli, o di Antiochia o di Armenia, oppure
nelle Puglie o in Sicilia o in Lombardia o in Francia o in Borgogna o
in Inghilterra o in molte altre terre dove abbiamo case e
possedimenti. E se vorrai dormire ti si farà vegliare, e se qualche
volta vorrai vegliare, ti si farà andare a riposare nel tuo letto. E
quando sarai a tavola e vorrai mangiare, ti si comanderà di alzarti
e di andare dove un altro vorrà, e tu non saprai mai dove. Le dure
parole di rimprovero che tante volte ti saranno rivolte, dovrai
sopportarle. Ora considera bene, dolce fratello, se potrai sopportare
tutte queste difficoltà [1].”
Gwenel
deglutì e dovette fare uno sforzo per mantenersi immobile con le
mani giunte, perché nel caldo della chiesa piena di candele si
sentiva avvampare, e aveva l’impressione che il sudore gli
scendesse a rivoli sul volto. Con voce roca rispose: “Sì, signore.
Le sopporterò se così vuole Dio.”
Il
sacerdote riprese: “Amato fratello, non devi chiedere di entrare
fra noi né per possedere ricchezze, né per stare negli agi, né per
raccogliere onori. Devi invece chiederlo per tre cose: l’una, per
abbandonare il peccato di questo mondo; l’altra, per servire Nostro
Signore; la terza, infine, per essere povero e fare penitenza per
salvare la tua anima.”
Prima
di rispondere, il ragazzo cercò con gli occhi fratello Roland. Di
nuovo si sentì vacillare per il calore e la mancanza d’aria, e
ruppe la sua rigida posizione appoggiando una mano al pavimento.
“Ti
senti bene, fratello?” gli chiese qualcuno.
Sentì
delle mani afferrarlo e sostenerlo.
“Sto
bene...” mormorò, mentre un’ineffabile sensazione di pace lo
invadeva. Non chiedeva altro, in effetti, che quella comunione di
spiriti, quell’attenzione reciproca. “Sto bene,” ripeté con
voce più ferma. Si raddrizzò e giunse nuovamente le mani.
Il
sacerdote annuì e chiese: “Vuoi essere, d’ora in avanti, per
tutti i giorni della tua vita, servo e schiavo della casa?”
Gwenel
si volse ancora fugacemente verso fratello Roland. Cercò il suo
sguardo, ma il cavaliere lo teneva fisso in avanti. “Sì, a Dio
piacendo, signore,” rispose, questa volta con voce ferma.
“Vuoi
anche rinunciare alla tua volontà, d’ora in avanti e per tutti i
giorni della tua vita, per fare ciò che ti si ordinerà?”
“Sì,
a Dio piacendo, signore.”
L’altro
annuì grave e lo scrutò attento, come per valutare in anticipo la
saldezza dei suoi propositi, quindi concluse: “Ora esci, e prega
Nostro Signore che ti consigli.”
Gwenel
si alzò in piedi e percorse la navata in senso opposto. Si ritrovò
all’esterno, e l’aria fresca di nuovo lo fece sentire talmente
leggero che fu costretto ad appoggiarsi al muro con la mano per
mantenere l’equilibrio.
Una
voce attirò la sua attenzione: “Ce l’avete quasi fatta.”
Il
ragazzo si voltò. “Fratello Olivier?”
“Siete
sempre deciso?” chiese il cavaliere.
“Sì,
certo che lo sono.”
L’altro rimase in silenzio per
qualche istante, quindi in tono mellifluo soggiunse: “Siete ancora
in tempo a rinunciare, sapete?”
Gwenel aggrottò le sopracciglia
e lo fissò perplesso. “Perché mi state consigliando di
rinunciare?” gli chiese.
Fratello Olivier scosse la testa
con un sorrisetto di superiorità. “Non vi sto consigliando proprio
nulla,” rispose, “Vi sto solo facendo sapere che nel caso
decidiate di ripensarci, siete ancora in tempo.”
“E
questo l’avevo capito,” replicò il ragazzo. “Quello che non mi
è chiaro è perché me lo stiate dicendo. Pensate che io non sia
adatto all’Ordine del Tempio?”
“Oh,
voi siete indubbiamente adatto. Ma vedrete, vi aspetta una bella
sorpresa.”
Prima che Gwenel potesse
chiedergli a cosa si riferisse, un cavaliere uscì dalla chiesa per
richiamarlo.
Il ragazzo tornò all’altare e
di nuovo si inginocchiò e giunse le mani. Lo prese la vertigine di
poco prima, ed egli si sentì come fluttuare, investito dal calore
dei ceri e dall’odore pungente dell’incenso. Cercando come sempre
di mantenere ferma la voce, si rivolse al sacerdote: “Signore,
vengo davanti a Dio, davanti a voi e davanti ai fratelli, e vi
imploro, per Dio e Nostra Signora, di accogliermi nella vostra
compagnia e di ammettermi spiritualmente e temporalmente ai benefici
della casa, come colui che vuole essere servo e schiavo della casa,
ora e per sempre.”
L’uomo annuì grave e chiese:
“Sei ben deciso, amato fratello, a essere servo e schiavo della
casa, a lasciare la tua volontà personale per sempre e fare quella
altrui? Vuoi sopportare tutte le durezze che sono in uso nella casa
ed eseguire tutti gli ordini che ti verranno impartiti?”
“Sì,
signore, a Dio piacendo.”
Per
l’ennesima volta cercò lo sguardo di fratello Roland. Il cavaliere
lo stava fissando, ma non sembrava avere un’espressione
soddisfatta. Dava piuttosto l’idea di essere turbato, o teso. Si
chiese se avesse fatto qualche errore, se l’avesse in qualche modo
scontentato, e le parole di fratello Olivier gli risuonarono in
mente: siete
ancora in tempo a rinunciare.
Si morse il labbro inferiore, si
accorse che il sacerdote gli stava dicendo qualcosa. Levò
imbarazzato gli occhi verso di lui.
“Dicevo,
fratello: Hai una sposa o una fidanzata, che potrebbe reclamarti con
il diritto della Santa Chiesa?”
Gwenel scosse la testa. “No,
signore.”
“Hai
servito in un altro Ordine? Hai pronunciato voti o promesse?”
“No,
signore.”
Alle spalle del sacerdote di fece
avanti un cavaliere che reggeva solennemente una stoffa bianca
ripiegata. In un angolo di essa si notava qualcosa di rosso.
Il ragazzo ebbe un tuffo al
cuore: quello era il mantello.
Nonostante ogni suo proposito di
fermezza, la testa cominciò a vorticargli. Si rese conto che gli
venivano poste altre domande, alle quali rispose d’istinto, senza
riuscire a staccare gli occhi dal prezioso indumento.
Infine, in preda a un’emozione
che minacciava di sopraffarlo, tremante e col volto in fiamme,
ascoltò dalle labbra del sacerdote la formula di accoglimento
nell’Ordine: “Noi, in nome di Dio e della Vergine Maria, di San
Pietro e del pontefice romano nostro padre, e di tutti i fratelli del
Tempio, ti ammettiamo a tutti i benefici della casa. Ti promettiamo
pane e acqua, e la povera veste della casa, e molta pena e lavoro.”
A quel punto l’uomo gli fece
cenno di alzarsi, quindi prese dalle mani del cavaliere la cappa
bianca con la croce scarlatta, gliela pose sulle spalle e gliela
allacciò al collo: era un Templare.
Intorno
a lui, tutti intonarono il salmo Ecce
quam bonum et quam iucundum habitare fratres
[2].
Successivamente
fu recitato un Pater
noster.
Conclusa anche quella preghiera,
si fece avanti fratello Geoffroy, lo prese per le spalle e si piegò
a baciarlo sulla bocca [3].
Ancora frastornato, esausto,
ebbro di gioia, fratello Gwenel si sentiva abbracciare e dare pacche
sulle spalle da ogni parte. Fuori suonavano le campane, i fumi
dell’incenso erano più densi che mai.
Era ancora in quel trasognato
stato d’animo quando fratello Roland lo afferrò per un braccio.
“Vieni con noi,” disse in tono brusco. Assieme a lui c’era
fratello Séverin.
Gwenel lo fissò, e il cipiglio
del cavaliere raffreddò alquanto l’entusiasmo che l’aveva
pervaso. “Ho fatto qualcosa di sbagliato?” chiese.
“Vieni
con noi.” ripeté l’altro evitando il suo sguardo carico
d’apprensione.
Lo condussero in sacrestia, poi
fratello Séverin chiuse la porta e si infilò la chiave nella
scarsella. “E adesso baciami il culo, stronzetto,” gli disse.
“Che
cosa?” chiese il ragazzo stupefatto.
“Ti
ho detto di baciarmi il culo. Ora inginocchiati e obbedisci.”
“Ma...”
“Siamo
tutti sodomiti, qui, non lo sai? E la Regola impone l’obbedienza,
quindi se avrò voglia di scopare con te, tu non potrai rifiutarti.”
Gli strizzò l’occhio con fare complice.
Il ragazzo arretrò bruscamente.
“Che cosa significa questo?” Rivolse a fratello Roland uno
sguardo che sembrava chiedergli aiuto, ma il Templare si limitò a
mostrargli un crocifisso. “Rinnegalo tre volte,” gli ordinò in
tono duro, “sputaci sopra, e poi fa quello che fratello Séverin ti
sta ordinando. Hai sentito i discorsi sull’obbedienza, no? Credevi
che fossero solo delle frottole per fare un po’ di scena?”
“Io…
non posso rinnegare Cristo,” ansimò. “Non posso farlo.” Scosse
la testa, arretrando passo dopo passo. Si fermò solo quando arrivò
con le spalle contro la parete. Fratello Roland lo raggiunse e gli
disse: “Rinnega Cristo, avanti!” di nuovo gli mostrò la croce.
“Te lo sto ordinando!”
Gwenel scosse la testa
angosciato. Non riconosceva più il mentore in cui aveva imparato a
confidare nelle ultime settimane: i suoi occhi erano accesi d’ira,
brucianti. Il suo volto era una maschera feroce. “Ti ho ordinato di
rinnegare Cristo, dannato moccioso!” ringhiò. “Cos’è, esegui
solo gli ordini che ti piacciono?”
“N-no,
io…”
Un ceffone lo fece barcollare.
“Rinnega Cristo per tre volte!” urlò fratello Roland
afferrandolo per la veste, “Esegui l’ordine!”
Gwenel si accorse di avere le
guance rigate di lacrime. “Roland, io...” balbettò.
L’altro
gli diede un secondo violento manrovescio.
“Fratello
Roland, stronzetto! Credi di essere ancora nel castello di tuo padre?
Credi di essere un principino?
Qui non conti un cazzo, devi solo obbedire e stare zitto!”
“E
baciarmi il culo,” intervenne fratello Séverin, alzandosi la veste
e mostrandogli le terga. “Anzi, già che ci sei, prendimelo anche
in bocca. Tu devi essere uno che se la cava bene a succhiare il
cazzo.”
Stupefatto, terrorizzato,
indignato, fratello Gwenel arretrò brusco, sottraendosi
all’incalzare degli altri due. Si buttò contro la porta e prese a
percuoterla furiosamente col pugno. “Aiuto!” urlò. “Fratello
Geoffroy, accorrete!”
Alle sue spalle, fratello Séverin
ghignò. “Ma sentitelo, vuole il papà! Non è capace di difendersi
da solo!”
“Aiuto!”
urlò di nuovo il ragazzo, poi si sentì strappare all’indietro da
qualcuno che lo tirava per il mantello. Crollò al suolo, ma prima di
riuscire a rialzarsi si trovò di fronte fratello Roland. Il suo
sguardo bruciava come metallo fuso. “Sai quello che devi fare,”
sibilò.
Il più giovane scosse la testa.
“No, non voglio.”
“Sei
Templare da meno di cinque minuti e vuoi già disobbedire? È per
questo che sei entrato nell’Ordine?” Imitò la sua voce, dandole
però un’odiosa tonalità di falsetto: “Sì, a Dio piacendo,
signore.”
Fratello Gwenel si asciugò la
lacrime con mano tremante. “Ma… ma perché devo farlo?”
singhiozzò.
L’altro
lo afferrò di nuovo per i vestiti, lo strattonò in piedi. “Non
c’è un perché, testa di cazzo!” sbraitò. “Quando ricevi un
ordine devi obbedire, è chiaro? Devi obbedire!”
Accanto a lui, fratello Séverin
in tono sprezzante constatò: “Questo qui è meglio che vada a fare
il trovatore in qualche castello di effeminati. Con noi non ha niente
da spartire.” Estrasse da uno stipo una statua di legno che
rappresentava una specie di idolo barbuto, quindi aggiunse: “Dà un
bacio a Bafometto, almeno, se non sei capace di fare altro.”
“A…
Bafometto?” Di nuovo il ragazzo fece guizzare lo sguardo smarrito
dall’uno all’altro dei confratelli.
“Obbedisci,”
gli ingiunse fratello Roland.
“Che
cos’è quella statua? Che cosa significa?”
Il confratello lo fissò con
durezza. “Tu fai troppe domande. Il tuo confratello più anziano ti
ha appena dato un ordine, e tu non lo stai eseguendo.”
“È
un ordine blasfemo.”
“Osi
criticare?”
Il ragazzo aggrottò le
sopracciglia. “Che cosa significa tutto questo?” chiese per
l’ennesima volta, “Volete farmi credere che l’ordine del Tempio
sia un’accozzaglia di sodomiti eretici?”
Fratello Séverin gli diede uno
spintone. “Attento a come parli, moccioso.”
“Ma
se siete stato proprio voi a chiedermi di… fare certe cose!”
“Tu
devi stare zitto e obbedire,” replicò l’altro, continuando a
spintonarlo. “Obbedire, hai capito?”
Intervenne fratello Roland, che
in tono duro gli disse: “Vuoi già perdere l’abito? Perché è
questo che succederà, se non obbedisci.”
“Ma
mi stai chiedendo di rinnegare Cristo!”
“Non
te lo sto chiedendo, stupido moccioso, te lo sto ordinando!
Capisci
la differenza?”
Fratello Gwenel si trovò di
nuovo con le spalle contro il muro, ansante, frastornato, con il
cuore che minacciava di scoppiargli nel petto e brividi in tutto il
corpo. In piedi di fronte a lui, i suoi confratelli lo stavano
fissando con occhi di fuoco. Fratello Roland gli teneva il crocifisso
davanti al viso. “Sputaci sopra,” gli ordinò.
Il ragazzo piegò la testa da una
parte. “Non lo farò.”
A quelle parole seguì un
silenzio raggelante. I due Templari più anziani rimasero immobili a
fissarlo.
Fratello Gwenel sollevò adagio
lo sguardo, lo fece guizzare dall’uno all’altro, ricevendone in
risposta espressioni impenetrabili. Alla fine si slacciò il mantello
e se lo fece scivolare giù dalle spalle, poi lo porse a fratello
Roland. “Tieni,” gli disse.
Il maggiore non si mosse. “Credi
che sia così facile?” gli chiese sprezzante. “Scusate, ho
scherzato e ora me ne torno a casa mia? Credi che funzioni così?”
“Ora
sei un Templare,” intervenne fratello Séverin, “e le sanzioni
seguono la Regola. Sarai imprigionato fino a che non deciderai di
obbedire.”
Il ragazzo strinse i denti, ma
non si mosse.
Ci fu un altro momento di
immobilità carica di tensione, poi i due più anziani si scambiarono
uno sguardo. “Io penso che possa bastare,” disse fratello Roland.
“Sì,
basta,” rispose fratello Séverin, “non c’è bisogno di
strappargli anche i vestiti e sbaciucchiarlo da tutte le parti,
altrimenti questo moccioso si caga addosso e comincia a invocare la
mamma.” Raccolse l’idolo che aveva appoggiato su un mobile e lo
ripose nello stipo. “Ecco che il vecchio Bafometto è tornato a
casa,” ridacchiò.
Trasecolato, fratello Gwenel li
fissava incapace di proferire parola.
“Questa
è una prova,” gli disse allora fratello Roland, “serve a far
capire ai nuovi che quando si parla di vita dura e di obbedienza
assoluta non sono solo vuote parole. Ora rimettiti il mantello che ti
spiego il resto delle regole.”
“Come
sarebbe a dire?” chiese il ragazzo, senza abbandonare la sua
posizione.
“Hai
capito benissimo. Questa è una prova, e tutti la devono passare.”
“Mi
hai insultato e picchiato.”
“I
saraceni ti farebbero di peggio. Essere Templare non significa
leccare il miele, ricordatelo sempre. Significa sopportare e
obbedire.”
§
Fratello Roland entrò
nell’edificio del Capitolo. Ormai conosceva bene la strada per
quello che aveva scoperto chiamarsi Tempio Nero, ed era in grado di
percorrerla anche al buio.
Arrivò alla porta, che era già
aperta, e discese adagio la scala umida.
Giù c’erano ad attenderlo
fratello Geffroy e fratello Urbain, alla tenue luce di una candela.
“Ebbene,” lo accolse il primo, “com’è andata oggi?”
Il più giovane si limitò ad
aggrottare le sopracciglia.
“L’inconvenientia
è sempre spiacevole, ti capisco.”
“Fratello
Gwenel ne è rimasto molto turbato.”
“Come
è giusto che sia,” intervenne fratello Urbain. Poi, dopo una
pausa: “Ti sei mai chiesto che significato abbia l’inconvenientia?”
“So
bene a cosa serve,” rispose fratello Roland. “Viene utilizzata
per mettere alla prova i nuovi Templari, per valutare la forza del
loro carattere.”
Fratello Urbain assentì col
capo. “Anche,” concesse. “Mettere alla prova la debole mente
non addestrata dei nuovi Templari può avere forse un'utilità
pratica.” Lentamente si avvicinò all’altare e prese a sfogliare
il libro che vi era posato sopra. “Come sempre, però, ci sono vari
livelli di comprensione, fratello,” proseguì, lo sguardo fisso
sulle pagine miniate, “ci sono significati nascosti, che solo lo
studio permette di comprendere. Tu sai, per esempio, cosa significa
il bacio sulle terga?”
“Serve
a far credere ai nuovi Templari che si troveranno in mezzo ai
sodomiti, per vedere come reagiscono.”
Fratello
Urbain scosse la testa come di fronte a una cosa molto ingenua. “No,
no.” Addirittura gli aleggiò sul volto scavato un vago sorriso. “I
saggi dell’Oriente insegnano che c’è un serpente addormentato
alla base della spina dorsale. In questo serpente, che porta il nome
di Kundalini, è insita una grande forza, che si manifesta se esso
viene risvegliato.” Continuò a sfogliare le pagine una dopo
l’altra, fermandosi alla figura di un uomo seduto a gambe
incrociate, con fiori dai molti petali e dai vari colori dipinti
lungo la colonna vertebrale, dall’osso sacro alla testa. “Questi,
vedi, sono i Chakra,” disse fratello Urbain seguendoli col dito uno
dopo l’altro. “Sono quegli elementi del corpo
sottile
nei quali è conservata l’energia divina. E qui,” picchiettò su
una forma scura che si trovava all’altezza del coccige, “c’è
la Kundalini addormentata. Ora, tu sai come si fa a risvegliarla?”
Fratello Roland scosse la testa
in silenzio.
“È
l’alito di vita che la risveglia. Il respiro. Quello che viene
adesso interpretato come bacio, in realtà non è altro che un soffio
alla base della spina dorsale.” Indicò di nuovo la figura. “Il
soffio della vita,” chiarì, “che risveglia la Kundalini e fa sì
che essa scateni le sue energie.”
“Capisco,”
borbottò poco convinto il più giovane.
L’altro lo scrutò dubbioso.
“No, tu adesso non capisci, perché non ne hai ancora gli
strumenti. Ma avrai tempo per imparare.”
“E
lo sputo sul crocifisso, signore?” chiese allora fratello Roland.
“È sempre quel vostro serpente che lo richiede?”
Altre pagine scorsero con un
lieve fruscio. “E se io ti dicessi che quello che ti hanno sempre
insegnato su Cristo non è vero?” chiese poi con uno sguardo astuto
fratello Urbain. “Se ti dicessi che era un essere umano, perfetto
ma mortale?”
“Sarebbe
eresia,” rispose in tono glaciale fratello Roland.
L’altro non parve molto turbato
da quell’affermazione. “Sì, gli ignoranti potrebbero definirla
tale,” rispose, poi lo fissò dritto negli occhi, e proseguì: “Ma
noi rifiutiamo ogni rappresentazione fisica del divino, perché
significherebbe svilirlo costringendolo nella materia bruta, e
rifiutiamo la croce, in quanto odioso simbolo dello strumento di
tortura usato per ucciderlo.” Si raddrizzò nella persona, e con
voce solenne concluse: “Ecco perché sputiamo sulla croce, e perché
rinneghiamo Cristo. Non sono che vuoti idoli, che distolgono dalla
contemplazione della vera divinità.”
A
quelle parole, fratello Roland rimase immobile. Fugacemente si chiese
se anche quella che si stava svolgendo fosse una specie di
inconvenientia,
di tipo forse un po' più raffinato rispetto a quella normale, per
valutare la sua forza d'animo in vista di qualche compito importante.
“Ti
sei mai chiesto perché i Templari possono confessarsi solo ai
sacerdoti dell'Ordine?” lo riscosse fratello Urbain.
“Queste
cose non possono essere confessate a un sacerdote normale,” fu
l'immediata risposta.
Di nuovo, l'altro non parve
particolarmente impressionato. “La resurrezione della carne non
esiste, l'intermediazione dei sacerdoti è inutile. L'individuo è
solo nel contatto con Dio, e lo può raggiungere unicamente con un
percorso personale di purificazione e conoscenza.”
Il libro si chiuse con un tonfo,
lo spostamento d'aria fece tremare la fiammella della candela.
“Dovrai imparare ancora molte cose,” disse fratello Urbain, “I
principi dello gnosticismo e dell'ermetismo, il mitraismo, i precetti
di base della qabbalah e dell'alchimia, la dottrina di Zoroastro.
Colui che cerca, non cessi dal cercare, finché non trova. Quando
troverà sarà commosso, e quando sarà commosso contemplerà e
regnerà su tutto [4].”
“Non
capisco, signore.”
“Capirai.
Ora torna in camerata, e non fare parola con nessuno di quanto hai
visto e udito.”
Quando fratello Roland se ne fu
andato, gli altri due per un po' mantennero il silenzio. Infine,
fratello Geoffroy chiese: “Continua a sembrarvi adatto, maestro?”
“Più
che mai. È bene che non ceda facilmente, le menti deboli sono
influenzabili e prone alla paura.” Passò di nuovo la mano sulla
rilegatura del libro, come per togliere un invisibile strato di
polvere, quindi proseguì: “Ci serve qualcuno che sia intelligente
e disciplinato, ma che abbia anche volontà e forza d'animo. Non deve
cedere di fronte al primo che gli fa la voce grossa.”
Fratello Geoffroy si limitò ad
annuire pensoso.
Fratello Urbain prese un pezzo di
tela e lo stese sul libro, con un gesto che assomigliava a quello di
una madre che stende una coperta sul figlio neonato. “Alle volte mi
dispiace di non avere più tempo a disposizione,” sospirò.
“Sarebbe davvero esaltante trasmettere tutte le conoscenze che
abbiamo accumulato a quel cavaliere, e farne il guerriero perfetto.”
“Il
guerriero perfetto, maestro?”
“Per
prima cosa renderlo esperto di ogni dottrina ermetica, insegnargli i
principi della geometria sacra e metterlo a parte dei segreti del
Tempio di Salomone, e poi risvegliare la sua Kundalini, e renderlo in
grado di padroneggiarne l'energia. Diventerebbe un guerriero
invincibile.” Fece una pausa, durante la quale parve assorto in
profonde meditazioni, quindi annunciò: “Devo vederlo combattere.”
“Combattere?
Intendete con le armi?”
“Sì.
Non basteranno le teorie, per quanto profonde, a salvare ciò che
abbiamo accumulato. Saranno necessari il ferro e il sangue.”
§
Seduto al tavolo del suo studio,
Fratello Geoffroy diede una scorsa a un foglio coperto di scrittura
fitta e appesantito da numerosi sigilli, poi disse: “Sembra che
alla fine il Siniscalco abbia deciso di dare seguito alla richiesta
di quel cavaliere tedesco.”
Fratello Roland, in piedi davanti
a lui, ebbe un tuffo al cuore, ma si guardò bene dal farlo
trasparire. Si limitò a rimanere immobile, e fissò il foglio come
se fosse stato completamente bianco.
Il commendatario proseguì: “Oggi
andrai a Metz con la mula bianca. Quando sarai sulla strada del
ritorno, ti fermerai presso il castello dei cavalieri tedeschi, e
consegnerai al loro priore una missiva che io ti darò.”
“Sì,
signore.”
“Speriamo
solo che questa faccenda non crei troppa confusione,” sospirò
l'altro tra sé e sé. Poi, a voce più alta: “Torna qui prima di
partire, ti consegnerò la lettera per il priore del castello
teutonico.”
“Sì,
signore,” rispose fratello Roland, ma non si mosse.
Fu fratello Geoffroy che dopo un
po' alzò lo sguardo e chiese: “C'è altro, fratello?”
“Ecco,
signore, vorrei portare con me il nuovo confratello, in modo che
possa cominciare a impratichirsi dei servizi che svolgiamo per il
Tempio.”
Il più anziano annuì con
energia. “Ma certo,” approvò, “molto giusto. Dirai a fratello
Olivier che oggi andrai a Metz con fratello Gwenel.
“Sì,
signore.”
“Come
sta andando il nuovo fratello, dà buona prova di sé?”
“Sì,
certo, signore. Si impegna molto.”
“Molto
bene. Ora va', devo scrivere la lettera e ho bisogno di
concentrarmi.”
Fratello Roland uscì, e
percorrendo il corridoio del Capitolo non poté fare a meno di
lanciare una fugace occhiata alla porta che conduceva al Tempio Nero,
in quel momento serrata.
Talmente serrata, anzi, da far
dubitare che fosse mai stata aperta.
Pensò che quella porta era un
po' come fratello Geoffroy: umile e dimesso all'apparenza, ma nella
sostanza custode di segreti inimmaginabili.
Uscì pensoso dall'edificio e
vide che i servi stavano già preparando gli animali per il viaggio a
Metz. Un garzone stava sellando il suo morello, altri due erano
impegnati a bardare la mula bianca.
Era
un po' inquieto all'idea di rimanere solo con Gwenel. Per quanto si
fossero formalmente chiariti, capiva che il ragazzo non aveva ancora
superato del tutto i fatti dell'inconvenientia.
Era diventato cauto, guardingo.
Parlava raramente, e sempre osservandolo di sottecchi per spiare la
sua reazione. Se poteva, evitava di rimanere da solo con lui.
Trovò il ragazzo in chiesa. “Va’
a metterti l’usbergo,” gli disse semplicemente, “Oggi andiamo a
portare a Metz i guadagni della commenda.”
Gwenel si limitò ad annuire, poi
si alzò dalla panca su cui era seduto e sempre in silenzio si
allontanò.
L’altro preferì non seguirlo.
Tornò in cortile, montò in sella e fece fare al destriero qualche
passo sulla terra battuta, poi si piegò a controllare il sottopancia
e lo tirò di un buco.
Quando si raddrizzò vide
sopraggiungere fratello Gwenel in armi, con usbergo, spada ed elmo
alla normanna. “Monta a cavallo,” gli ordinò, “e poi seguimi.”
Si allontanarono di qualche passo
dai servi e dai fratelli di mestiere. “Adesso finiscila,” gli
disse brusco quando furono a una distanza sufficiente, “la commedia
è durata anche troppo.”
Il ragazzo gli rivolse uno
sguardo di pietra. “Io mi fidavo di te,” replicò calmo.
“E
puoi ancora farlo.”
“Dopo…
quella cosa?”
“Dì
un po’,” lo aggredì fratello Roland in tono duro, “dove
credevi di essere entrato, in un convento di Clarisse? Noi siamo
soldati, prima che frati, e saper sopportare certe cose è
necessario. Hai idea di cosa ti farebbero dei saraceni, se ti
prendessero?”
Il più giovane rimase in
silenzio.
“Te
lo dico io,” fu la brusca replica: “Se sei molto
fortunato, ti decapitano e basta. Se invece non lo sei, prima ti
torturano per giorni e giorni, e più a ungo duri, più loro si
divertono. E poi, quando si sono stancati di sentirti urlare, ti
uccidono.”
L’altro continuava a tacere.
“Quindi,
fratello
Gwenel,” riprese fratello Roland spazientito, “a me non interessa
se tu ti senti offeso e umiliato nel profondo. Hai voluto diventare
un Templare? Comportati di conseguenza.”
Detto
questo, spronò il cavallo e raggiunse i servi che stavano caricando
la mula. “Si parte appena pronti,” disse a voce abbastanza alta
da essere udito anche dal giovane confratello.
La strada per Metz era come
sempre quasi sgombra di viandanti. Gwenel ricordava di averla
percorsa qualche volta, in compagnia del padre e del fratello, ma era
stato anni prima, e non riconosceva quasi nulla di ciò che lo
circondava.
Il che poteva dirsi anche per
tutto il resto: non riconosceva più nulla. Si era ripetuto fino
all’ossessione che era solo una questione dei primi giorni, che
doveva prendere confidenza con l’ambiente, che poi si sarebbe
abituato, ma continuava nonostante tutto a sentirsi un pesce fuor
d’acqua.
Aveva ricevuto delle frustate un
venerdì mattina, dopo la riunione del Capitolo, e ancora non era
riuscito a capire perché. Non c’era un codice scritto cui
attenersi, del resto, solo il Gran Maestro e qualche alto dignitario
ne possedevano una copia. Gli innumerevoli obblighi della vita
monastica gli venivano comunicati giorno dopo giorno dai confratelli
più anziani, ed era impossibile ricordarseli tutti.
Fratello Roland, sul quale aveva
fatto affidamento fino al momento di prendere i voti, aveva rivelato
un aspetto di sé che l’aveva spaventato a morte. Ancora non
riusciva ad abbandonare la sensazione di disagio che lo coglieva
quando aveva a che fare con lui.
Ricordava bene, del resto, il suo
sguardo di fuoco, e la violenza che aveva messo nelle percosse che
gli aveva inflitto. Ne aveva avuto la testa indolenzita per ore.
Chissà, forse aveva sbagliato,
forse non era abbastanza duro per diventare un cavaliere del Tempio.
Si voltò verso fratello Roland come per dirgli qualcosa, ma subito
dopo rinunciò: una delle prime cose che aveva imparato era che non
si doveva mai discutere al di fuori delle mura della commenda, ma
anzi bisognava dare un’idea di concordia e mitezza: leoni con i
nemici, agnelli con gli amici.
§
“Andiamo
al castello?” chiese fratello Gwenel, fissando i possenti bastioni
della fortezza sul fiume.
Fratello
Roland non poté evitare un vago sorriso: anche lui, la prima volta
che l'aveva visto, aveva pensato che quel maniero appartenesse al
Tempio. “È quello dei cavalieri tedeschi,” rispose. Evitò di
definirli fratelli
minori
come era solito fare fratello Olivier. “Ci andremo dopo.”
Il
ragazzo non rispose, probabilmente temeva di parlare a sproposito,
quindi preferiva tacere. Fratello Roland rimpianse ancora una volta
di non essere a Murcia: se Gwenel fosse entrato nell'Ordine laggiù,
sicuramente le cose sarebbero andate molto meglio. Di nuovo sorrise
fra sé e sé, pensando al modo che avevano i suoi vecchi confratelli
di far superare al neofita le durezze dell'inconvenientia:
la cosa aveva a che fare con molto vino e molte risate, e
normalmente si protraeva fino all'alba del giorno dopo.
Si voltò verso fratello Gwenel e
disse: “Devo portare una lettera al loro priore da parte di
fratello Geoffroy, inoltre vorrei presentarti degli amici.”
Di nuovo silenzio da parte del
ragazzo.
“Ci
passeremo dopo aver lasciato i soldi alla nostra magione.”
Il
soldato alla porta sorrise vedendo fratello Roland avvicinarsi. “Sît
ir willekommen, herre,” lo
salutò, e poi si fece da parte per consentirgli il passaggio.
Il Templare avanzò adagio. Si
voltò verso il confratello, e vide che questi lo stava guardando
come avrebbe potuto fare con San Francesco mentre ammansiva il lupo.
“Vieni,”
gli disse in tono rassicurante.
“Tu
vieni spesso qui?” Il tono dava l'idea che Gwenel non si
capacitasse della cosa.
“Ogni
volta che vengo a Metz.”
Fratello
Roland smontò da cavallo e gli fece cenno di fare altrettanto,
quindi si rivolse alla guardia: “Bruoder
Friedrich?”
L'altro
annuì soddisfatto nel sentire usare la propria lingua, e con un
mezzo inchino del busto rispose: “Vi accompagno, herre.”
Li condusse al grande cortile
lungo il fiume. Questa volta non si udivano il gorgogliare dell'acqua
o lo stormire dei salici, perché l'aria risuonava di un furioso
clangore di spade.
Nel centro dello spiazzo, due
cavalieri stavano combattendo come belve inferocite.
Fratello Gwenel li seguì
dapprima per un po' con lo sguardo, poi guardò fratello Roland con
l'aria di chiedergli spiegazioni.
Questi
distolse a fatica l'attenzione dallo scontro e disse: “Vedi? Quella
è gente che viene da una zona di guerra. È gente che quando
colpisce fa male.”
Il più giovane non proferì
parola.
Fratello Roland tornò a
concentrarsi sui cavalieri: uno dei due incalzava con colpi che
sembravano quelli di un maglio, però di una precisione micidiale.
L'altro non si lasciava impressionare, parava e rispondeva con uguale
forza, tanto che a volte il primo era costretto a interrompere il
proprio avanzare per difendersi. Si girarono intorno per un po',
cercando dei punti scoperti senza trovarli, poi finalmente uno dei
due ruppe la guardia per un attimo. L'altro non aspettava che quel
momento, e di nuovo ripresero a duellare come se volessero uccidersi
a vicenda.
“Tedeschi...”
sospirò dopo un po'.
Il ragazzo si voltò a fissarlo
con espressione interrogativa. “Tedeschi,” ripeté l'altro, “se
non si picchiano come fabbri ogni volta che hanno una spada in mano
non sono contenti.” Detto questo agitò il braccio per attirare
l'attenzione dei due cavalieri.
I due letteralmente si
pietrificarono a metà di un assalto. Simultaneamente si voltarono
nella sua direzione, quindi abbassarono le spade e gli si fecero
incontro.
Quando si furono avvicinati,
entrambi si tolsero l'elmo alla normanna che portavano e si fecero
scivolare indietro i cappucci di maglia.
“Fratello
Friedrich, fratello Adalbert!” li salutò con calore fratello
Roland. Si strinsero le mani e si diedero pacche sulle spalle. “Come
state?” chiese poi, rivolto a entrambi.
“Vedo
che avete qui un confratello,” disse fratello Friedrich, rivolgendo
sul giovane Gwenel il suo sguardo di rapace. Il ragazzo abbassò gli
occhi intimidito.
Fratello Roland lo sospinse in
avanti. “È un nuovo acquisto del Tempio: ordinato meno di un mese
fa.”
“Questo
è molto bello,” apprezzò il cavaliere. Quindi, rivolto al più
giovane: “Come vi chiamate, fratello?”
“Gwenel
de Jussy, signore,” disse d'istinto il ragazzo, poi si corresse:
“Volevo dire fratello Gwenel, scusatemi.”
“Io
sono fratello Friedrich von Rotburg.” Indicò il compagno, poi
aggiunse: “E lui è fratello Adalbert von Hohenburg.” Il chiamato
si inchinò. “Piacere di conoscervi,” disse tendendo la mano.
Intervenne a quel punto fratello
Roland: “Vedo che vi siete ristabilito, fratello Adalbert.”
L'altro si schermì con fare
modesto. “Faccio ancora un po' di fatica, ma le forze mi stanno
tornando.”
“Allora
sono davvero preoccupato, perché temo che vi saranno tornate del
tutto quando ci incontreremo.”
A quelle parole, lo sguardo
fratello Friedrich si fissò sul Templare. “Ci incontreremo?”
chiese.
L'altro
sorrise e annuì. “Ho qui una lettera del mio commendatario per il
vostro priore. Chiede un torneo à
plaisance, fra
noi e voi.”
“Questa
è una magnifica notizia,” apprezzò il tedesco.
“Sì,
non so cosa l'abbia finalmente convinto, finora le mie preghiere non
avevano ottenuto nulla.”
“Dite
davvero?”
“Non
ama accadimenti insoliti, che possano turbare la quiete della
commenda.”
Il
tedesco annuì perplesso. “Ach
so,” commentò
alla fine.
§
Per quanto fratello Geoffroy
facesse del suo meglio per tentare di mantenere il decoro della
commenda templare, il clima festoso e insolito aveva contagiato un
po’ tutti. Dapprima erano stati i soldati tedeschi a fraternizzare
con i garzoni e i fratelli di mestiere: avevano cominciato a
comunicare, con il poco di francese che parlavano, o a gesti se non
c’erano altri mezzi a disposizione, e ormai loro e i francesi si
consideravano già amici e compagni d’arme.
Conservavano uno scrupoloso
silenzio alla presenza dei superiori, ma appena quelli voltavano
l’angolo, c’erano canti, risate e scambi di oggetti.
I sergenti mantenevano
formalmente l’ordine, ma la curiosità reciproca era molto alta e
anche loro, se solo ne avevano l’occasione, cercavano di
fraternizzare con i loro omologhi stranieri.
Quelli che fraternizzavano più
di tutti, poi, erano i cavalieri. Nonostante le vesti bianche e le
croci, per un attimo erano tornati giovani nobili in attesa di
battersi fra loro, e nel frattempo si raccontavano le rispettive
imprese.
“Vanitas
vanitatum, et omnia vanitas [5],”
borbottò fratello Adrien, lanciando intorno occhiate velenose.
“Guardali qua, questi bellimbusti: subito pronti a fare la ruota
come tanti pavoni.”
Non si rivolgeva a nessuno in
particolare, e anzi si affrettò a distogliere lo sguardo quando uno
dei cavalieri tedeschi lo fissò incuriosito.
Passò oltre, ingobbito, le mani
dietro la schiena e la testa incassata nelle spalle. Qualcuno gli
rivolse anche un’occhiata mentre si allontanava torvo, ma
l’interesse di tutti tornò subito ai discorsi di combattimenti e
giostre.
In piedi accanto a fratello
Roland, Gwenel osservava il gruppo di cavalieri. Nonostante fosse a
sua volta un Templare, nessuno faceva caso a lui, forse perché
invece di buttarsi nelle conversazioni, che procedevano imbastite in
uno strano miscuglio di tedesco, francese e latino, preferiva
rimanere in silenzio.
Fratello
Séverin stava ridendo e scambiandosi pacche sulle spalle con un
tedesco grosso quanto lui, ma con i capelli biondi e le guance rosse
da ragazzino. Fratello Philippe invece citava frasi delle Scritture
che si potevano adattare alle necessità della conversazione, e il
suo interlocutore, un tizio legnoso che sembrava un parente stretto
di meister
Wulf, gli rispondeva a tono.
Fratello
Roland stava conversando amabilmente con i due cavalieri che gli
aveva presentato a Metz e un terzo che lui non aveva mai visto, al
quale i primi due traducevano le parti in francese.
L’unico
che rimaneva in disparte, ostentando un’aria annoiata, era fratello
Olivier.
Incuriosito,
fratello Gwenel lo raggiunse. “Cosa fai qui?” gli chiese.
L’altro
alzò le spalle in un gesto sprezzante. “Non mi interessano gli
stupidi convenevoli con i cavalieri tedeschi. Dobbiamo batterci?
Bene, battiamoci e facciamola finita, non vedo il motivo di perdere
tutto questo tempo.”
“Ma
le regole della cavalleria...”
“Cominci
a parlare come il tuo amico Roland?” lo interruppe infastidito
fratello Olivier. “Noi abbiamo un’unica Regola, ed è quella del
Tempio. Tutto il resto sono solo vane chiacchiere.”
Fratello
Gwenel aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi decise di rinunciare
e si allontanò. Un passo dopo l’altro, abbandonò il cortile per
dirigersi verso lo spiazzo delle esercitazioni.
Il
posto non aveva nulla di diverso rispetto a come era sempre stato,
non c’erano né bandiere né ornamenti di sorta.
L’unico
elemento di novità erano un paio di fratelli di mestiere con dei
rastrelli e altri con delle ramazze che si davano da fare per rendere
il terreno liscio e senza asperità di sorta. Lungo la pista da
galoppo, un altro fratello spingeva una carriola piena di terra, e
dove gli zoccoli dei cavalli avevano lasciato le impronte più
profonde, ne faceva cadere una palata.
Altri
due stavano sistemando degli scanni lungo uno dei lati dello spiazzo.
Gwenel ne contò tre: uno era sicuramente di fratello Geoffroy e
l’altro del comandante del gruppo teutonico. Si chiese a chi fosse
destinato il terzo.
Mentre
era assorto in quei ragionamenti, sentì alle proprie spalle degli
improvvisi clamori. Si girò e vide che gli scudieri stavano portando
fuori i cavalli bardati.
Anche
da quella distanza riconobbe il riottoso morello di fratello Roland e
l’enorme, ma placidissimo castrone baio di fratello Séverin.
Sorrise fra sé e sé: avevano proposto al confratello un destriero
più nevrile per il torneo, ma la risposta era stata: “E se poi mi
si imbizzarrisce mentre sono in mischia? Molto meglio un animale
tranquillo.”
Il
che, in effetti, aveva anche senso.
I
cavalli dei Teutonici erano bardati con delle gualdrappe bianche
ornate di croci nere, tanto che tutti gli animali, a dispetto del
diverso colore dei manti, sembravano identici.
Mentre
era assorto nella contemplazione di quegli strani fantasmi, Gwenel si
accorse che fratello Roland lo stava chiamando.
“Cominciamo
a prepararci,” annunciò questi quando furono faccia a faccia. “Il
commendatario vuole vedere prima la mischia.”
Il
ragazzo si limitò ad annuire. Avrebbe dovuto essere contento di
battersi, normalmente lo sarebbe stato, ma come ormai spesso
succedeva, si sentiva messo alla prova, osservato.
Dalla
sua condotta in quel frangente forse avrebbero preso decisioni su
dove inviarlo, su cosa fargli fare. Aveva il terrore di essere
ritenuto poco adatto al combattimento ed essere destinato a mansioni
di scrivano o contabile. Maledisse la propria conoscenza del latino,
che lo metteva a rischio di svolgere tali umilianti compiti, ma
subito dopo maledisse anche il proprio orgoglio, che non lo rendeva
sufficientemente umile di fronte agli ordini dei suoi superiori.
Emise un sospiro.
“Che
c'è?” gli chiese fratello Roland. Gli mise una mano sulla spalla.
“Come
mai si fa questo torneo?”
L'altro
involontariamente sorrise. “È bello misurarsi con altri
cavalieri,” rispose volgendo lo sguardo verso il gruppo dei
Teutonici. “E poi è un ottimo allenamento. Quando combatti sempre
con le stesse tre o quattro persone, perdi flessibilità, non riesci
più a far fronte a mosse impreviste.”
“Tu
dici che fratello Geoffroy ha fatto questo ragionamento quando ha
chiamato i cavalieri tedeschi?”
Fratello
Roland scosse la testa. “Non lo so,” disse poi. “Avrà avuto i
suoi motivi, immagino.” Gli diede uno scherzoso pugno sulla spalla,
poi soggiunse: “Intanto però godiamocelo, che ne dici?”
Fratello
Gwenel fece un respiro profondo, e il fiato uscì come un sibilo di
drago dalle fessure dell'elmo. Visto con un gran pentolare in testa,
il campo era solo una striscia orizzontale, come il fondo miniato di
una pagina.
Strinse
appena gli occhi, il cavallo raspò il suolo con l'anteriore.
“Buono,”
gli raccomandò il ragazzo, dandogli qualche pacca sul collo, ma
l'animale sbuffò e raspò di nuovo.
Lo
schieramento dei Teutonici comunicava in effetti una vaga
inquietudine. Avevano dei cimieri sugli elmi, ma nessun colore a
parte nero e argento [6], così che sembrava di avere di fronte un
esercito di statue, o di figure di ghiaccio.
Il
morello di fratello Roland alzò la testa ed emise un nitrito, poi
scosse la criniera. Il cavaliere dovette tirare le redini per
trattenerlo.
Gwenel
stava ancora rivolgendo la propria attenzione al riottoso animale
quando giunse il segnale dell'attacco: in un istante si trovò
lanciato al galoppo assieme a tutti gli altri, poi i due schieramenti
giunsero in contatto, ed egli corse verso un cavaliere che sul
cimiero aveva due ali eleganti rivolte all'indietro, color metallo ma
con un bordo rosso e blu così sottile che da lontano non l'aveva
neanche notato.
Strinse
la lancia e le redini, tese i muscoli e si preparò all'impatto, ma
all'ultimo momento il cavaliere fece fare una scartata al cavallo e
sottrasse bersaglio, quindi fece girare l'animale sui posteriori e in
un attimo fu alle sue spalle. Gwenel cercò di girarsi, ma già
l'altro gli stava premendo la punta della lancia fra le scapole.
Rimasero
per un attimo immobili, al ragazzo parve di cogliere un bagliore
celeste nella fessura dell'elmo alato, poi il cavaliere tedesco si
fece indietro, lasciò cadere la lancia ed estrasse la spada, come
per fargli capire che gli concedeva un altro assalto.
Gwenel
sfoderò a sua volta la spada. Osservò l'avversario, cercando di
individuare un punto scoperto in quello che gli appariva più o meno
come una specie di muro invalicabile, e finalmente gli parve di
intravederlo: lanciò il cavallo in avanti, fintò un tondo dritto e
poi, quando l'altro alzò la spada per parare, deviò la lama
trasformando il colpo in un fendente rovescio.
Colpì
nel segno, ma aveva scoperto la guardia, e si trovò con la lama del
tedesco sul collo.
“Avete
vinto,” ansimò il ragazzo.
“Entrambi
abbiamo colpito,” fu la risposta, proferita in un francese
spigoloso ma corretto. “Prego, concedetemi un altro assalto.”
Quando
di comune accordo decisero di raggiungere i rispettivi margini del
campo, di assalti ne aveano disputati parecchi. Dopo i primi momenti
di imbarazzo, Gwenel aveva anche abbandonato le remore che fino a
quel momento l'avevano trattenuto, e si era semplicemente divertito,
dimenticandosi in quel breve lasso di tempo di ogni preoccupazione.
Smontò
dal cavallo, che subito venne preso in consegna dagli scudieri, e si
sedette sull'erba. Si tolse l'elmo e si fece scivolare all'indietro
il cappuccio di maglia. Fu quasi grato che in quella giornata di
inizio autunno non ci fosse il sole, perché i refoli d'aria fresca
erano piacevoli sulla pelle accaldata, e la luce bigia che filtrava
dalle nuvole non abbagliava.
Sul
campo erano rimasti un paio di cavalieri per ogni schieramento.
Riconobbe i due francesi, più che altro dai loro destrieri, visto
che portavano l'elmo: erano fratello Roland e fratello Olivier.
Il
primo stava duellando con un cavaliere che montava un animale
poderoso, e portava un elmo con due grandi ali a semicerchio, con la
parte inferiore nera e quella superiore bianca.
Per
un po' rimase a fissarli affascinato: erano così veloci che faceva
quasi fatica a seguire i loro movimenti. In pratica, tutto quello che
vedeva era un vorticare di stoffe bianche su cui di tanto in tanto
riusciva a distinguere qualcosa di nero o rosso. Il ferro non
brillava in quella luce smorta, e se ne udiva solo il suono, quando
le spade cozzavano l'una contro l'altra.
I
due cavalli scalpitavano girandosi furiosamente intorno, e ogni
scartata sollevava schizzi di sabbia che arrivavano fin sull'erba.
“Quei
due vanno avanti fino a domani,” sospirò qualcuno al suo fianco.
Gewnel
si girò e vide uno dei due cavalieri che aveva conosciuto a Metz.
Assorbito dallo scontro, non si era nemmeno accorto che si fosse
seduto accanto a lui. “Cosa?” domandò stupito.
L'altro
indicò il Teutonico. “Quando combatte, è peggio di un mastino che
ha azzannato un osso, e mi sembra che il vostro confratello abbia la
stessa indole.”
“In
effetti sì,” rispose il Templare.
L'altro
annuì. “Sarà meglio che ci mettiamo comodi,” suggerì poi.
Fratello
Gwenel seguì per un po' lo scontro, poi chiese: “Come mai portate
quegli ornamenti sugli elmi?”
“Per
riconoscerci l'uno con l'altro, principalmente,” fu la risposta. “E
forse anche per conservare un piccolo ricordo della nostra vecchia
vita.”
“La
vostra Regola lo permette?”
“In
Livonia si combatte solo d'inverno,” spiegò il cavaliere, “Tutti
bianchi, in mezzo al bianco: potete immaginare le difficoltà. I
bracci delle croci a volte si confondono con i rami degli alberi, che
contro la neve sembrano neri, ma un cimiero come i nostri si
riconosce da lontano.”
Gwenel
annuì. “Sì, credo di sì.” Fissò ancora una volta i due
cavalieri sul campo, poi fece girare lo sguardo tutt'intorno. Notò a
quel punto che uno degli scanni era occupato da qualcuno che portava
un mantello bianco con il cappuccio tirato fin sugli occhi, tanto che
da quella distanza sembrava avere solo un buco nero al posto della
faccia. Cercò di capire se aveva sulla spalla una croce rossa o
nera, ma non ci riuscì. “Conoscete quell'uomo?” chiese al
cavaliere tedesco.
Questi
lo osservò, poi scosse la testa. “Mai visto prima.”
Il
Templare stava per replicare quando uno scoppio di acclamazioni li
distrasse: sul campo, i due cavalieri si erano finalmente fermati.
“Parità!” decretò fratello Adrien, che in virtù della sua
acribia era stato scelto come giudice.
Fratello
Roland smontò ansante da cavallo. Sin da quando era sceso in campo,
e aveva riconosciuto l'elmo alato, si era aspettato che non sarebbe
stato facile tener testa a quel cavaliere.
Non
sapeva perché: forse si era fatto l'idea che un cimiero così
vistoso dovesse necessariamente comportare equivalenti virtù
guerriere, oppure, più semplicemente, il suo occhio addestrato da
anni di combattimenti aveva riconosciuto nel modo di muoversi e nel
portamento di quel cavaliere i tratti caratteristici di un avversario
di valore.
Fatto
sta che non aveva mai sudato tanto, e per strappare un pareggio, per
di più!
Si
tolse l'elmo e lo consegnò a uno scudiero, poi si liberò del
cappuccio di maglia e si passò una mano sul volto rigato di sudore.
“Ach!”
esclamò il Teutonico quando lo vide in faccia, la voce ancora
falsata dalla barriera di metallo. Si sfilò a sua volta il Grande
Elmo.
“Fratello
Friedrich?” chiese quel punto fratello Roland stupefatto.
“Voi!
Dovevo aspettarmelo.”
“E
voi! Mi avete fatto sputare sangue.”
“Anche
voi!”
D'impulso
si abbracciarono, dandosi ampie pacche sulle spalle.
“È
stato un piacere duellare con voi,” disse il tedesco.
“Anche
per me,” fu la risposta. “Il più bel combattimento degli ultimi
anni.”
“E
ci restano ancora da disputare gli scontri individuali,” rispose
fratello Friedrich, con l'aria di chi sta dicendo che rimane ancora
da gustare il piatto migliore di un banchetto.
“Sarà
un piacere.”
In
quel momento, fratello Roland vide arrivare fratello Gwenel in
compagnia di fratello Adalbert. “Un bellissimo scontro!” apprezzò
quest'ultimo, non appena si fu avvicinato. Il più giovane rimase in
silenzio, limitandosi a riguadagnare la sua posizione accanto a
fratello Roland.
“Ti
sei battuto bene?” gli chiese il maggiore, circondandogli le spalle
con un braccio. Gli rivolse uno sguardo affettuoso.
“Ho
fatto del mio meglio.”
A
quelle parole, intervenne fratello Adalbert: “Per caso montavate un
baio con le balzane agli anteriori?”
“Sì.”
Il
tedesco si rivolse direttamente a fratello Roland: “Si è battuto
bene, ve lo confermo.”
“Eravate
voi?” chiese il ragazzo stupito.
L'altro
annuì.
Continuarono
a parlare per un po' delle mischie disputate, scambiandosi pareri e
consigli.
Dopo
un pomeriggio di scontri, arrivarono a sera talmente stanchi che
nessuno ebbe bisogno di imporre il silenzio in refettorio. Persino
fratello Adrien, che di solito vigilava su certe cose peggio di un
Cerbero, poté trascorrere la cena tranquillo come se fosse stato da
solo.
Solo
quando i cavalieri uscirono all'aperto le conversazioni
ricominciarono, anche se su un tono minore rispetto a quelle del
mattino.
Fratello
Roland si allontanò da solo nel buio. Non si sentiva così felice,
così appagato da molti mesi, e il suo carattere lo portava in casi
come quello a cercare un beato isolamento. Inspirò socchiudendo gli
occhi, poi emise il fiato lentamente, lasciandosi pervadere dalla
sensazione piacevole dei muscoli che pian piano si rilassavano.
A
un tratto, sentì un fruscio non lontano. Subito si immobilizzò, i
muscoli si tesero nuovamente ed egli portò d'istinto la mano alla
spada. “Chi c'è?” ringhiò.
Si
fece avanti fratello Olivier. “Solo io.” Poi, dopo una pausa: “E
togli quella mano, non sei più a Murcia.”
“Che
fai qui?” gli chiese fratello Roland, tornando lentamente alla
posizione rilassata.
L'altro
alzò le spalle. “Troppo chiasso. Non mi piace la confusione.”
“Non
ti sei divertito oggi?”
“Non
vedo il motivo di abbandonarmi a certi divertimenti stupidi,” fu
la tagliente risposta.
Fratello
Roland si voltò a fissarlo: un fisico snello ma robusto, che
ricordava quello di un levriero. L'aveva visto combattere, e ne aveva
tratto impressioni discordanti. Di velocità e di forza,
principalmente, ma anche di una strana, serpentina freddezza.
Era
bene, ovviamente, mantenere la mente fredda in battaglia, ma fratello
Olivier gli aveva comunicato l'idea di qualcuno che svolge una
professione ormai nota e nemmeno tanto interessante.
Non
l'aveva visto appassionarsi al combattimento, né l'aveva sentito
parlare dei duelli o della mischia, né a francesi né a tedeschi.
Eppure
era un cavaliere, e teoricamente avrebbe dovuto esaltarsi come tutti
gli altri per certe cose.
“Con
permesso, fratello,” gli disse, poi gli girò le spalle e raggiunse
gli altri in preda alla strana sensazione che nel suo confratello ci
fosse qualcosa di strano, come una nota dissonante in una musica, o
una parola sbagliata in un testo.
[1]
Testo originale della cerimonia di investitura, come riportato nella
Regola. Anche la descrizione della cerimonia segue fedelmente lo
schema di quella reale.
[2]
Com’è bello abitare tutti insieme tra fratelli.
[3]
Non insorgano i detrattori dello slash: si tratta del bacio di
omaggio feudale.
[4]
Vangelo gnostico di Tommaso.
[5]
Vanità di vanità, tutto è vanità. (Ecclesiaste; 1, 2 e 12, 8)
[6]
Il bianco in araldica.
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Salve a tutti/e! Ecco l’ultimo
capitolo dell’orrendo mappazzone.
Grazie
a tutti coloro che hanno avuto la pazienza di seguirmi in questo
delirio nonostante la sua lunghezza. Un ringraziamento in particolare
va a chi mi ha lasciato un parere, ovvero Saelde_und_Ehre, John
Spangler, mystery_koopa, Enchalott, alessandroago_94, evelyn80,
Yonoi, Syila, queenjane, _Polx_, molang e innominetuo.
Capitolo
5
La
stanza era piccola e quasi buia, vi regnava un odore di cuoio, ferro
e grasso rancido. Dal soffitto basso pendeva una piccola lanterna a
olio, che gettava tutt’intorno una luce fioca e tremolante.
Due
uomini sedevano uno di fronte all’altro a un vecchio tavolo
sbilenco, con il piano segnato da punte di lama e macchie di unto.
L’orologio
del campanile batté il dodicesimo colpo.
“Ci
siamo,” disse Renard Desprez, capitano della milizia reale a Metz.
L’uomo che sedeva di fronte a lui, il sergente anziano Antoine
Coutier, annuì lentamente, e in tono grave proclamò: “È l’ora.”
Il
capitano annuì a sua volta, poi si girò a fissare lo sguardo su uno
stipo chiuso a chiave. Fece l’atto di alzarsi per raggiungerlo, ma
all’ultimo desistette.
Di
nuovo i due uomini si scambiarono uno sguardo teso.
“Lo
stanno aprendo in tutto il regno, signore,” osservò poi il
sergente. Anche lui si girò verso lo stipo, come per suggerire al
suo superiore cosa fare.
“Lo
so,” rispose l’altro, che comunque ancora non si risolveva a
muoversi. “La mezzanotte fra il dodici e il tredici di ottobre, gli
ordini erano chiari.”
“Direi
ce ci siamo, signore.”
Il
capitano non rispose, e nella stanza calò un silenzio carico di
inquietudine. In lontananza si percepì flebile il richiamo di una
sentinella, da qualche parte un gatto gnaulò in tono spettrale.
“Gli
ordini sono ordini,” sospirò alla fine Desprez. Si alzò facendo
cigolare la sedia, quindi estrasse dalla camicia una chiave che
portava al collo e la infilò nella serratura del piccolo armadio.
Trasse
dal mobile un rotolo pesante e coperto di sigilli, e per un po’ si
limitò a fissarvi sopra lo sguardo, come se i suoi occhi avessero
avuto il potere di penetrare gli strati di pergamena e leggerne
direttamente il contenuto, prima che esso divenisse manifesto a
chiunque e fosse necessario ottemperare a ciò che ordinava. Infine
con un sospiro tornò al tavolo e si sedette. Estrasse dalla cintura
il pugnale e con la punta della lama fece leva sotto il primo dei
sigilli, che si spaccò con un crepitio da vecchio osso.
Gli
altri seguirono la stessa sorte, e il rotolo si aprì docile,
rivelando un testo fitto e disposto su due colonne.
Il
capitano vi fissò sopra lo sguardo, e dapprima sollevò le
sopracciglia stupefatto, quindi le aggrottò in una torva maschera di
disappunto. “Per la lancia di San Giorgio,” borbottò. La sua
espressione si fece se possibile ancora più cupa.
Il
sergente si piegò appena in avanti. A bassa voce chiese: “Che cosa
dice, signore?”
“Te
lo leggo,” fu la risposta, quindi il capitano si schiarì la voce e
cominciò a declamare: “Siamo venuti a sapere che i fratelli del
Tempio, camuffando il lupo da agnello, nascondendosi dietro l’abito
dell’Ordine, insultando miserabilmente la nostra religione,
crocifiggono di nuovo Nostro Signore Gesù Cristo, e lo coprono di
ingiurie più terribili di quelle che sopportò sulla croce. Quando
nuovi fratelli entrano nell’Ordine, viene presentata loro la sua
immagine: essi la rinnegano tre volte, e con orribile crudeltà le
sputano tre volte in faccia; poi vengono condotti nudi di fronte a
colui che li riceve o a un suo sostituto: egli, secondo l’odioso
rito dell’Ordine, li bacia prima sul fondo della spina dorsale, poi
sull’ombelico e infine sulla bocca, con profonda vergogna
dell’umana dignità. Essi sono costretti, per i voti che
pronunciano e senza timore di offendere la legge umana, a darsi l’un
l’altro per effetto del terribile vizio del concubinaggio. Questa
gente immonda ha abbandonato la fonte di acqua viva e l’ha
sostituita con la statua del vitello d’oro, immolando vittime agli
idoli. Vista la preventiva e diligente inchiesta fatta sulle dicerie
del popolo dal nostro caro fratello in Cristo Guillaume de Paris,
inquisitore degli eretici ed eletto dall’autorità apostolica, noi
abbiamo decretato che tutti i membri dell’Ordine nel nostro regno
siano arrestati, senza alcuna eccezione, fatti prigionieri e
destinati al tribunale ecclesiastico [1]”
Il
capitano smise di leggere e alzò gli occhi sul subalterno.
Questi
scosse stupefatto la testa. “Ma che cazzo...” cominciò, poi si
interruppe. “Scusate, signore,” borbottò.
L’altro
fece un gesto come per dire che non importava, ma non aggiunse altro.
Fu
il sergente Coutier che dopo un po’ disse: “Il problema, signore,
è uno solo: e se quelli non vogliono farsi arrestare?”
“C’è
un ordine del re,” fu l’asciutta risposta.
“Con
tutto il rispetto, capitano, secondo voi quanti dei nostri uomini
sarebbero necessari, per tenere testa a un Templare che non ha
intenzione di obbedire all’ordine del re?”
Michel
si bilanciò in spalla l’asta dell’alabarda, poi rabbrividì
nella luce sbiadita dell’alba. “Dannata stagione,” brontolò.
“Umida e fredda come un pesce morto.” Si voltò verso il
commilitone Bertrand, che con espressione turbata guardava gli altri
soldati uscire dalle camerate e allinearsi nel cortile, poi in tono
trionfante lo apostrofò: “Hai visto che avevo ragione?”
L’altro
si voltò verso di lui. “Su cosa?”
“Quelli
là sono da arrestare tutti. Te l’avevo detto, io, che erano dei
poco di buono.” E al silenzio del primo insisté: “Eretici e
sodomiti. Avevo ragione, vedi? E tu a ripetere come uno scemo: ma no,
mio cugino dice che sono bravi, che danno molte elemosine… Te lo
dico io che elemosine danno!” Fece un gesto osceno.
“Adesso
non ricominciare,” brontolò Bertrand.
“Io
dico solo quel che è vero. Se il re ha deciso di farli arrestare, ci
sarà un motivo, no?”
L’altro
grugnì qualcosa di inintelligibile.
“Non
sai cosa rispondere, eh?” lo provocò Michel. “Il re non è mica
stupido, l’ha capito benissimo che questi qua sono tanto marci
dentro quanto sono bianchi fuori.”
§
Sugli
spalti del castello di Metz, Fratello Friedrich girava avanti e
indietro come un animale in gabbia. Di tanto in tanto si fermava,
appoggiava le mani sulle merlature e si sporgeva come se avesse
voluto balzare giù, poi riprendeva il suo nervoso camminare.
A
distanza di sicurezza, le guardie lo fissavano mute.
Appoggiato
a un muro con le braccia conserte sul petto, fratello Adalbert
seguiva il suo irrequieto passeggiare con una sorta di rassegnata
indulgenza.
“La
vuoi piantare?” disse dopo un po’.
L’altro
si fermò sui due piedi, quindi gli rivolse uno sguardo cupo. “Hai
sentito cosa stanno facendo?” si limitò a ringhiare.
“Dipende.
Di cosa stai parlando?”
“Arrestano
i Templari.”
“Chi
li arresta?”
“La
milizia reale.”
Fratello
Adalbert sollevò stupito le sopracciglia. “E tu come fai a
saperlo?”
“L’ha
detto sorella Bertha [2] al rientro dal mercato. Ha detto che tutta
la città è bloccata per questo motivo, e che ci consigliano di non
uscire da qui, per non essere confusi con i cavalieri del Tempio.”
L’altro
scrollò le spalle. “Lo sai anche tu quanto parla sorella Bertha.”
“Ha
detto che all’alba sono entrati nella magione templare e hanno
portato via tutti,” replicò fratello Friedrich, poi tornò a
sporgersi dal bastione, e per un po’ rimase a scrutare la città
stringendo gli occhi come un astore.
“Fritz?”
lo richiamò dopo un po’ fratello Adalbert.
L’altro
si girò torvo. “Che c’è?”
Il
primo aprì la bocca per rispondere, ma in quel momento sbucò da una
strada laterale un carro coperto trainato da una pariglia di cavalli.
A cassetta c’erano due soldati della milizia reale.
Il
veicolo curvò per immettersi nella strada che costeggiava le mura, e
attraverso la grata che ne chiudeva la parte posteriore, i due videro
al suo interno dei mantelli bianchi con la croce scarlatta sulla
spalla.
Si
scambiarono un’occhiata perplessa.
“Donnerwetter,
non
è possibile,” disse alla fine fratello Adalbert. “Perché mai
dovrebbero fare una cosa del genere?”
“È
quello che voglio scoprire,” disse in tono duro fratello Friedrich.
Si girò come per andarsene.
L’altro
lo fermò afferrandolo per una spalla. “Aspetta. Cosa vuoi fare?”
“Vado
a parlare col priore, ovviamente. Lui saprà cosa sta succedendo.”
“Ne
saprà quanto noi, immagino.”
Fratello
Friedrich si liberò dalla presa con una brusca scrollata, poi
rispose: “Ma può informarsi, a lui spiegheranno perché stanno
arrestando i Templari.”
“Potrebbero
anche dirgli che non sono faccende che riguardano i tedeschi.”
“Oppure
noi potremmo essere i prossimi, e in ogni caso voglio capire perché
arrestano i cavalieri del Tempio. Voglio sapere cosa sta succedendo.”
“Fritz...”
“Vado
a parlare col priore,” fu la risposta. Un attimo dopo, il cavaliere
scomparve nella tromba delle scale.
Fratello
Adalbert alzò gli occhi al cielo.
Fratello
Luitpold, priore del castello di Metz, sollevò lo sguardo dalla
lettera che stava scrivendo. Sulla soglia del suo studio era comparso
fratello Otto, un ministeriale che aveva mansioni di segretario.
“Ebbene,
che c’è?” gli chiese.
L’altro
si inchinò. “Un cavaliere chiede di vedervi, signore.”
Il
priore aggrottò le sopracciglia. “Un cavaliere? E chi sarebbe?”
“Fratello
Friedrich, signore.”
All’udire
quel nome, fratello Luitpold alzò gli occhi al cielo con un sospiro.
“Cosa vuole ancora?”
“Non
lo so, signore. Sembra molto inquieto.”
Il
giorno che non sarà inquieto sarà morto,
pensò tra sé e sé il priore, che ben conosceva ormai le
intemperanze del subalterno, poi a voce alta disse: “Fa passare,
sentiamo cosa vuole questa volta.”
Trascorse
qualche minuto, poi Fratello Friedrich entrò a grandi passi e si
fermò a guatarlo come avrebbe fatto un toro prima di incornare un
rivale. “Priore,” ringhiò a denti stretti.
“Che
cosa c’è, fratello?” chiese l’altro in tono neutro.
“Stanno
arrestando i cavalieri del Tempio,” fu la secca risposta. “Voi
per caso sapete per quale motivo?”
La
notizia suonò talmente inaspettata che fratello Luitpold aggrottò
le sopracciglia e semplicemente replicò: “Cosa?”
Il
cavaliere emise uno sbuffo di impazienza. Si erse in tutta la sua
notevole altezza e lentamente scandì: “Stanno arrestando i
cavalieri del Tempio.”
“Voi
come fate a saperlo?”
“Li
ho visti. Vengono portati via dalla milizia del re.”
“Chissà
cosa avrete visto. E poi, comunque, non sono faccende che riguardano
il nostro Ordine.”
Gli
occhi di fratello Friedrich parvero mandare lampi. “Sono fratelli
cavalieri!” replicò brusco. “Voglio sapere cosa sta succedendo,
datemi il permesso di uscire.”
L’altro
lo fissò con durezza. “Assolutamente no.
Voi rimarrete qui e non farete nessuna delle azioni dissennate che di
certo avete in mente. Non voglio che replichiate l’incidente di
Ritterswerder.”
“Con
quell’incidente,
priore, ho salvato il castello,” ringhiò il cavaliere fissandolo
come se avesse voluto incenerirlo. Fratello Luitpold lo vide
stringere i pugni con tale forza che le nocche sbiancarono.
“Basta
così,” disse allora, raddrizzandosi con fare autorevole sulla
sedia. “Voi non andrete da nessuna parte. Obbedirete ai miei
ordini, tanto per cambiare, e ve ne starete qui. Se vi vedo anche
solo avvicinarvi al portone, giuro che questa volta vi faccio perdere
l’abito per sempre [3].”
“Sono
fratelli cavalieri,” ripeté il più giovane imperterrito.
“Dobbiamo aiutarli.”
Fratello
Luitpold emise un sospiro. “Prima dobbiamo capire cosa sta
succedendo,” replicò in tono esasperato, “dobbiamo capire se è
vero che il re li sta facendo arrestare, e perché, magari. Lo sapete
anche voi che girano voci strane sul Tempio.”
“Sono
false.”
L’altro
alzò gli occhi al cielo. “Mi informerò. In ogni caso, poiché la
carità e l’aiuto non si negano ai fratelli, se i cavalieri del
Tempio verranno qui, li accoglieremo.” fece una pausa, poi in tono
ammonitore aggiunse: “Ma vi proibisco formalmente di uscire dalle
mura del castello e prendere iniziative personali.”
Fratello
Friedrich si limitò ad annuire torvo, quindi rimase immobile al
centro della stanza.
“Che
cosa c’è ancora?” gli chiese il priore dopo un po’.
“Mi
concedete mandare un messaggio alla commenda di Vaux?”
“Prima
devo informarmi su ciò che sta accadendo. E ora andate.”
§
Fratello
Roland sussultò e aprì gli occhi. Fece girare lo sguardo
tutt’intorno: nel debole chiarore che precede l’alba, intravedeva
solo le vaghe sagome dei suoi confratelli addormentati. Si passò una
mano sul viso, e la ritrasse umida di sudore. Eppure non era caldo,
in camerata. Cominciava anzi la stagione in cui la coperta bastava
appena per non sentire freddo la notte.
Si
mise a sedere e di nuovo si guardò intorno. Gwenel dormiva
rannicchiato, con la coperta tirata fin sulla testa: probabilmente
non si era ancora abituato ai rigori della vita monastica. Fratello
Séverin, invece, disteso sulla schiena russava beatamente con la
coperta a mezzo corpo. Gli altri erano bozzoli bianchi che si
perdevano nella penombra.
Attento
a non fare rumore si alzò in piedi, recuperò l’involto dei
vestiti e uscì dalla stanza. Guardò fuori: era ancora presto per la
Prima [4], eppure avvertiva una strana inquietudine, un senso di
urgenza tormentosa.
Inspirò ed espirò lentamente cercando di fare il vuoto in testa:
era la stessa sensazione che lo prendeva prima delle battaglie.
Sentì un fruscio provenire dalla
camerata. “Gwenel?” chiese a bassa voce.
Non gli giunse risposta.
Si affacciò alla porta.
“Gwenel?” ripeté, ma il ragazzo dormiva immobile. Rimase per un
po’ fermo a guardare, ma non vide alcun movimento.
Tornò sui suoi passi, finì di
vestirsi e uscì all’aperto. L’aria del mattino era immobile,
umida. Non si udiva il minimo rumore, gli uccelli tacevano.
Si guardò intorno, la sensazione
che stesse per succedere qualcosa era più opprimente che mai.
Improvvisamente, dei colpi sul
portone lo fecero sussultare. Uno stormo di corvi si alzò in volo
gracchiando, i cani della commenda cominciarono a latrare.
“Aprite!”
urlò una voce dall’esterno. “Aprite, in nome del re!”
Istintivamente, fratello Roland
portò la mano al fianco, solo per rendersi conto che non si era
ancora affibbiato la spada.
Subito dopo, successero molte
cose: i colpi contro il portone si ripeterono, più imperiosi di
prima, e di nuovo qualcuno urlò: “In nome del re, vi ordino di
aprire!”
Il fratello portinaio uscì di
corsa da un edificio e si precipitò a tirare i catenacci, ma nello
stesso momento anche fratello Geoffroy uscì dal capitolo e urlò:
“Non farlo!”
Fratello Roland lo fissò: era
scarmigliato, sommariamente vestito e aveva il volto di un pallore
spettrale.
Attirati dalle urla, anche gli
altri fratelli cavalieri uscirono dal dormitorio, e così fecero i
fratelli di mestiere e i garzoni. “Che cosa sta succedendo?”
chiese qualcuno.
“Non
aprite!” ripeté fratello Geoffroy, poi raggiunse la porta, e a
voce alta chiese: “Chi è che vuole entrare?”
“Aprite,
in nome del re! Abbiamo un mandato di arresto!”
“Un
mandato di arresto? Per chi?”
“Tutti
i cavalieri del Tempio sono in arresto, per ordine del re, e la
commenda è sotto sequestro con tutto ciò che contiene. Consegnatevi
spontaneamente, oppure saremo costretti a entrare con la forza.”
“Cosa?
Ma...”
Un colpo violento fece
scricchiolare l’anta di legno.
“Aprite
o sfondiamo la porta!” urlò la voce dall’esterno.
Fratello Geoffroy arretrò, si
volse verso i fratelli cavalieri. “Alle stalle!” ordinò.
“Sellate e andatevene! Aprite il cancello che dà sui campi e
passate da lì.”
Gli altri si guardarono l’un
l’altro stupefatti, ma non si mossero.
“Andate!”
ripeté il commendatario, con la voce incrinata da una nota stridula
di paura.
Fratello Roland lo fissò ed ebbe
la sensazione che egli sapesse perfettamente cosa stava succedendo.
“Muoviamoci!” urlò ai frastornati confratelli, “Prendete le
armi! Possiamo difenderci!” Afferrò fratello Séverin per un
braccio e lo sospinse verso il dormitorio.
I cani continuavano a latrare,
qua e là si sentivano mormorii preoccupati. I servi e i fratelli di
mestiere si dileguavano alla ricerca di nascondigli.
In
quel momento, fratello Geoffroy lo raggiunse. “È il momento,”
ansimò con sguardo spiritato, stringendogli un braccio come se
avesse voluto conficcarvi le dita. Sul volto livido gli scendevano
grosse gocce di sudore.
“Che
cosa sta succedendo?” chiese fratello Roland.
“Vieni
con me!” disse l’altro per tutta risposta, quindi lo trascinò
all’interno del Capitolo. Raggiunse la porta che conduceva al
Tempio Nero, con mani tremanti estrasse la chiave che portava al
collo e fece scattare la serratura. “Il Codice Ombra deve essere
portato in salvo a tutti i costi,” gli disse. “Questo è il
motivo per cui sei stato chiamato qui, e il motivo per cui sei stato
introdotto ai primi segreti gnostici.”
“Ma
cosa sta succedendo?”
“Accuse
di eresia! Sapevamo che sarebbe successo.”
Fratello
Roland lo fissò stupefatto. “Eresia?”
“Sì,
tutto è partito da quella maledetta abitudine dell’inconvenientia.
Ma ora non c’è tempo di spiegarti,
devi salvare il libro.”
“Dove
lo devo portare?” gli chiese il più giovane. “E gli altri? Che
sarà di loro?”
“Il
sapere è più importante.”
“Più
importante dei fratelli cavalieri?” ribatté l’altro con una
punta di durezza nella voce.
Fratello
Geoffroy non rispose: stava già scendendo verso il Tempio Nero.
Quando
furono giù, scomparve nelle tenebre muovendosi con la sicurezza
dell’abitudine, quindi ricomparve con il libro ancora avvolto nel
panno bianco e glielo mise in braccio. “Portalo via,” gli ordinò.
“Portalo a Sainte-Ruffine, da fratello Urbain. Lui saprà cosa
farne.”
“Ma
gli altri?” Fratello Roland non si risolveva ad andarsene in quel
modo.
“Fa’
quello che ti dico!” gli ingiunse il commendatario. “Ogni minuto
di ritardo può essere quello fatale!”
Corsero
su. Nel frattempo i colpi al portone erano aumentati di intensità e
frequenza, e già intorno ai cardini cominciavano a cadere
calcinacci.
Fratello
Roland si guardò intorno: fratello Séverin e fratello Philippe
avevano indossato l’usbergo.
“Gli
altri?” chiese.
“Gwenel
è dentro,” rispose fratello Séverin indicando il dormitorio.
“Arretrate,”
ordinò fratello Roland, con il pesante libro stretto al petto, “ci
attesteremo vicino alle scuderie. Chiamate gli altri.”
Guardò
verso il dormitorio, e con sollievo vide affacciarsi Gwenel. “Porta
la mia spada!” gli urlò. Il ragazzo tornò dentro.
“Che
cosa sta succedendo?” gli chiese fratello Philippe.
“Niente
di buono,” rispose, “preparatevi a difendervi.” Si guardò
intorno. “Fratello Olivier?”
Come
in risposta alla sua domanda, in quel momento il confratello apparve,
armato di tutto punto, ma senza il mantello dell’Ordine, né la
croce vermiglia sul petto. Andò alla porta e afferrò il catenaccio.
“Ma
che fa?” trasecolò fratello Séverin.
Fratello
Olivier fece scattare il primo dei chiavistelli. Il fratello
portinaio si era già dileguato, ma il commendatario si fece avanti
per fermarlo.
In
un attimo, l’altro si sfilò il pugnale dalla cintura e glielo
conficcò nel petto fino all’elsa, lo rigirò e lo estrasse, quindi
spinse via l’uomo morente con indifferenza, e tirò i catenacci uno
dopo l’altro.
Le
due ante si spalancarono, e una moltitudine di sbirri armati fino ai
denti si riversò nel cortile.
Fratello
Roland fu il primo a riprendersi. “Indietro!” urlò, “Alle
scuderie!” Adocchiò Gwenel e gli disse: “Corri!”
Il
ragazzo lo raggiunse. “La tua spada.”
L’altro
se l’affibbiò in cintura. “Ora va’ con gli altri alle
scuderie, svelto! Sellate i cavalli.”
“E
tu?”
“Muoviti!”
I
soldati avanzarono. Fratello Roland impegnò in combattimento un paio
di essi, ma gli altri gli dilagarono intorno come un’onda di piena,
e dopo poco il Templare dovette arretrare per non venire accerchiato.
Si
unì ai compagni. “Non facciamoci circondare,” ordinò conciso.
Fissò
i soldati in avvicinamento. Armigeri di paese, perlopiù. Nessuno di
loro valeva il decimo di un cavaliere, ma anche un cinghiale alla
fine soccombe, in una muta di cani.
Appoggiò
il libro e lo coprì con un mucchio di paglia, poi si mise in
guardia. “Fratello Olivier è un traditore,” informò secco gli
altri, “fratello Geoffroy è morto. Non fateli avvicinare e
cerchiamo di andarcene da qui.”
Per
dirigersi dove, poi, era un problema che avrebbe affrontato dopo.
“Non fateli avvicinare,” ripeté. “L’alternativa è finire
nelle prigioni del re.”
“Ma
non abbiamo fatto niente,” si lamentò una voce smarrita alle sue
spalle.
“Meno
chiacchiere, e ammazza tutto quello che si avvicina,” ribatté
brusco fratello Roland.
Si
scatenarono numerosi scontri. Come sempre capitava durante la
battaglie, il Templare fece il vuoto in mente e lasciò che fossero
l’istinto e l’esperienza a guidarlo.
Vide
Gwenel abbattere un soldato con un fendente, e fratello Séverin
spingerne via un altro come se fosse stato uno straccio vecchio.
Fratello Philippe arretrò incalzato da un armigero, ma riuscì a
sottrarre bersaglio e a contrattaccare. Poi si udì uno schiocco, e i
Templari videro un dardo che finiva di vibrare conficcato nella
parete di legno.
“Hanno
le balestre!” esclamò fratello Séverin.
A
quelle parole fecero seguito un secondo e un terzo schiocco, poi si
udì un grido, e fratello Philippe rovinò al suolo. La spada gli
scivolò di mano e cadde con un sinistro clangore. Subito dopo anche
fratello Séverin, a sua volta colpito da un dardo, stramazzò con un
lamento.
Fratello
Roland a quel punto si lanciò in avanti a testa bassa. Abbandonate
tecnica e strategia, cercava solo di fare il vuoto intorno a sé,
nella speranza di costringere la milizia ad arretrare quel tanto che
avrebbe permesso a lui e Gwenel di montare a cavallo e abbandonare la
commenda.
Era
impegnato in un ennesimo assalto, quando una voce fredda lo
apostrofò: “Ora basta, per favore.”
L’assurdità
di quel richiamo costrinse fratello Roland a fermarsi.
Il
Templare si voltò ansante e si trovò davanti fratello Olivier che
stringeva contro di sé fratello Gwenel, e intanto gli puntava il
pugnale alla gola.
“Giù
la spada, per favore,” ordinò gelido.
Fratello
Roland rimase immobile.
“Giù
la spada,” ripeté allora l’altro. Premette leggermente la lama,
e lungo il collo del ragazzo scese adagio
una goccia di sangue.
L’arma
cadde a terra.
“Molto
bene,” apprezzò fratello Olivier. “Vedo che sai anche ragionare,
quando vuoi.” Poi, a voce più alta: “Guardie!”
Due
robusti soldati si avvicinarono a fratello Roland e lo presero per le
braccia. Questi alzò sul confratello uno sguardo di fuoco.
“Traditore,” ringhiò.
L’altro
assunse un’espressione di sufficienza, quindi rispose. “Al
contrario, direi. Mai si vide fedeltà più incrollabile della mia.”
Fratello
Roland si limitò a fissarlo cupo. L'altro spinse via Gwenel, che
venne subito afferrato da due guardie, poi disse: “Sono tre lunghi
anni che mi sorbisco tutte le idiozie del Tempio facendo finta di
essere uno di voi.”
“Che
significa?”
“Il
re ha infiltrato spie nell’Ordine, e ovviamente nessuno si è mai
accorto di nulla. Per tutto questo tempo, io e tanti altri abbiamo
raccolto informazioni e le abbiamo riferite a chi di dovere, ed ecco
che ora esse vengono messe a frutto.” Fece una pausa, poi con un
sorrisetto soggiunse: “Nascondere la Regola [5] non è servito a
gran che, non ti pare?”
L’altro
ignorò l’osservazione. “Quindi non sei un cavaliere?” si
limitò a chiedere.
Il
primo fece una risata sprezzante. “Non ho nulla a che fare con
idioti della vostra risma, capaci solo di masticare giaculatorie e
vendere polli. Sono il capitano Olivier D’Airelle della milizia
reale.”
Fratello
Roland incupì lo sguardo e tese i muscoli.
“Non
fare stupidaggini,” lo ammonì il capitano, “Ti ricordo che non
ci metto nulla a tagliare la gola al tuo amichetto.”
“Si
vede proprio che non sei uno di noi,” fu la sdegnosa replica,
“altrimenti sapresti che un cavaliere del Tempio non teme la
morte.”
Detto
questo, con uno strattone liberò un braccio dalla presa degli
armigeri, estrasse il pugnale di uno di essi e lo usò per colpire
quello che gli stava tenendo l’altro braccio. Vide che qualcuno
sollevava la balestra, quindi afferrò un’altra guardia e se ne
fece scudo, poi ne gettò il corpo contro il capitano, facendolo
cadere a terra. Subito dopo prese Gwenel per la tunica e lo tirò a
sé.
Corsero
alle scuderie, estrasse il libro dal mucchio di paglia, poi montarono
in sella ai due cavalli già sellati e si allontanarono al galoppo,
inseguiti dai rabbiosi sibili dei dardi.
§
Dal
folto di una macchia, fratello Roland scrutava Sainte-Ruffine. Era
ormai mattino inoltrato, ma non si vedeva alcun segno delle milizie
reali. La vita della commenda, anzi, sembrava procedere nel solito
modo.
“Torna
a casa tua, Gwenel,” disse senza distogliere lo sguardo dal gruppo
di edifici.
Il
ragazzo lo fissò stupefatto. “Cosa?”
“Jussy
non è lontano. Rientra a casa tua, riprendi la vita di prima. Non è
troppo tardi.”
Il
ragazzo spronò il cavallo fino ad affiancarsi a lui, quindi rispose:
“No, io voglio rimanere con te. Andremo insieme a Jussy, se vuoi.”
Il
maggiore scosse la testa. “Non lascerò il Tempio.”
“Allora
non lo lascerò neppure io.”
Fratello
Roland si voltò fino a fissarlo negli occhi. “Tu devi andartene,”
gli disse. “Non so cosa stia accadendo, perché ci mettano in
prigione, ma una cosa mi è ben chiara: non voglio che questo succeda
a te. Quindi vattene, per favore.”
“E
tu?”
“Devo
compiere un’ultima missione.”
Gwenel
chinò la testa. Si girò nella direzione in cui si trovava Jussy,
poi tornò a rivolgere lo sguardo verso di lui. “La compiremo
insieme,” disse. Gli rivolse un pallido sorriso.
“Gwenel...”
“Neppure
io voglio lasciare il Tempio.” Si morse il labbro inferiore, poi a
voce più bassa soggiunse: “E non voglio lasciare te. Compiremo
l'ultima missione, e se Dio riterrà di chiamarci a sé, moriremo
come cavalieri.”
Fratello
Roland non rispose. Come spiegare a quel ragazzo così pieno di
entusiasmo e coraggio che la morte era forse la migliore delle
prospettive che li attendevano? Sarebbe stato dolce, anzi, morire in
combattimento, con la croce di sangue sul petto.
Più
probabilmente, ciò che li attendeva era un'odiosa prigionia,
trascinati nel fango, accusati di ogni nefandezza, destinati a subire
gli interrogatori dell'Inquisizione.
Non
lo sfiorò neppure l'idea che l'Inquisizione avrebbe anche potuto
giudicare l'Ordine innocente. Primo, perché non accadeva quasi mai
che l'Inquisizione abbandonasse la preda che aveva ghermito. Secondo,
perché capiva che un'accusa di quel genere, proveniente addirittura
dal re, non aveva alcun bisogno di essere provata. Era la fine
dell'Ordine, e loro ci erano capitati in mezzo.
Fece
scivolare la mano alla bisaccia della sella e le sue dita
incontrarono la sagoma del libro che vi aveva riposto. Trasse un lungo
respiro, poi disse: “Andiamo, Gwenel.”
In
fondo era bello, nella tempesta che si stava preparando, guardare al
proprio fianco e incontrare lo sguardo limpido di un amico.
Sporchi,
esausti e insanguinati com'erano, quando entrarono nel cortile della
commenda fecero calare un costernato silenzio. I pochi fratelli di
mestiere che non erano nei campi rimasero a fissarli stupefatti, e
per parecchio tempo nessuno ebbe il coraggio di proferire parola.
Solo
un fratello cavaliere, che si affacciò a un certo punto da una
porta, si avvicinò e sconcertato chiese: “Che cosa vi è successo,
fratelli?”
Fratello
Roland si voltò a fissarlo: faccia pulita, abito candido,
l'espressione di chi non si capacita di ciò che sta vedendo.
Smontò
da cavallo. “Non sai niente, fratello?”
“A
che proposito?”
Roland
rinunciò a rispondere. “Devo parlare immediatamente con fratello
Urbain,” disse.
“Ora
sta lavorando, gli farò presente che... qual è il vostro nome,
fratello?”
“Fratello
Roland, mi conosce già.”
L'altro
annuì con un sorriso volenteroso. “Glielo farò presente
senz'altro,” gli assicurò. “E ora, se volete entrare per
ristorarvi un po'...”
Fratello
Roland lo afferrò bruscamente per un braccio, e strinse la presa
fino a strappargli uno stupefatto gemito di dolore. “Devo parlare
con fratello Urbain adesso,”
ripeté con minacciosa lentezza. “È cosa della massima
importanza.”
Di
fronte a quel cipiglio, l'altro non ebbe il coraggio di ribattere, e
si limitò a fargli strada. Seguito da Gwenel che portava l'involto
con il libro, fratello Roland fu condotto nella chiesa, e da lì a
una stanza della sacrestia dalle pareti coperte di librerie alte fino
al soffitto. Affogate tra le scaffalature, le snelle bifore quasi
scomparivano, e la luce proveniva perlopiù da alcune candele.
Al
centro della stanza si trovava un tavolo, al quale fratello Urbain
sedeva, curvo su un tomo dalle pagine coperte di scrittura e strane
immagini.
Al
loro arrivo, egli si alzò con inaspettata energia, aggirò il tavolo
e li raggiunse, scrutandoli attento. Il suo sguardo li percorse
rapido, infine si fissò sull'involto che il ragazzo teneva fra le
braccia. “Il libro?” chiese.
Fratello
Roland ebbe di nuovo l'impressione che il suo interlocutore fosse
perfettamente al corrente di ciò che era accaduto, tuttavia gli
domandò: “Sapete cosa sta succedendo, signore?”
“Qui
siamo al sicuro,” fu la risposta, proferita con uno strano tono
sbrigativo. “Siamo al sicuro, per ora.” Scrutò di nuovo
l'involto. “Il libro?” ripeté.
Fratello
Roland fece cenno al compagno di consegnarlo. Fratello Urbain glielo
strappò letteralmente di mano, quindi fissò torvo Gwenel. “Non
l'avrai guardato, spero,” ringhiò diffidente.
“No,
signore,” fu la candida risposta del ragazzo.
“Meglio
così,” brontolò sbrigativo l'altro. “E sia ringraziato Dio, che
ha guidato la scelta di fratello Geoffroy su un uomo ardimentoso e
fedele.” Passò le dita sull'involto, dando l'idea di riconoscere
attraverso la stoffa ogni chiodo e ogni piega della rilegatura,
quindi andò a riporlo in una cassapanca.
Fatto
questo, si rialzò a fissare i due Templari.
Fratello
Roland gli restituì lo sguardo, quindi chiese: “Che sarà di noi,
signore?”
“Di
noi, di noi...” borbottò l'altro, come in risposta a una domanda
molto sciocca e anche un po' impertinente. “Intendi di te e del tuo
confratello, oppure di tutti noi?”
“Entrambe
le cose, signore.”
“Fiat
voluntas Dei,” si
limitò a proferire fratello Urbain. “E ora lasciatemi,” aggiunse
poi in tono infastidito, “Fratello Louis vi aiuterà a sistemarvi.”
Fratello
Gwenel si mise sulle spalle il mantello – un mantello pulito e
intatto, che il guardarobiere di Sainte-Ruffine gli aveva consegnato
al posto del suo – e uscì dall'edificio del refettorio. La notte
era fredda, le stelle erano nascoste da uno strato di nubi. Vide
passare un paio di fratelli di mestiere che trasportavano un
calderone fumante, dalla fucina proveniva il battere ritmico e
musicale del martello.
Sospirò
e mosse qualche svogliato passo, mentre un'angosciante sensazione di
irrealtà lo pervadeva: com'era possibile che a poche miglia di
distanza li avessero quasi uccisi, e lì invece tutto fosse come al
solito?
Non
c'erano le milizie del re, a Sainte-Ruffine? Non era arrivato fin lì
l'ordine di arresto?
O
forse quello di Vaux era stato solo una specie di strano incubo?
Di
nuovo si voltò verso la direzione in cui si trovava Jussy: a qualche
ora di cavallo da lì c'era la sua vita precedente. Gli sarebbe
bastato davvero poco per farvi ritorno, e poi avrebbe potuto
dimenticarsi dell'Ordine come avrebbe fatto con una brutta avventura
fortunatamente finita bene.
Ripensò
all'abito, al senso di appartenenza. Fino ad allora, non si era mai
sentito veramente a casa da nessuna parte. Aveva sempre cercato
qualcos'altro, qualcosa che spesso non riusciva bene a definire
neppure lui, qualcosa di più.
Non
era certo di averlo trovato nell'Ordine, ma al contrario era certo
che ormai la sua vita precedente, quella del figlio minore di un
piccolo feudatario, non rivestiva più per lui alcun interesse.
Si
voltò verso l'edificio, e sorrise quando vide comparire sulla porta
la sagoma imponente di fratello Roland. Questi rimase un po' fermo
sulla soglia, con un atteggiamento che a Gwenel ricordò quello di un
lupo intento a fiutare l'aria, poi si avvide di lui e risoluto lo
raggiunse. “Come stai?” gli chiese quando furono vicini. Il
ragazzo vide che pur nella scarsa luce lo stava scrutando attento.
“Bene,
sono solo un po' stanco.”
“Hai
mangiato a sufficienza?”
“Sì,
non preoccuparti,” gli assicurò il ragazzo. Rimase per un po' in
silenzio, poi timidamente chiese: “Roland, posso farti una
domanda?”
L'altro
assentì. “Dimmi.”
“Perché
sta succedendo tutto questo?”
Fratello
Roland trasse un lungo sospiro, infine in tono grave rispose: “Lo
sa Dio.”
“Di
che cosa siamo accusati?”
L'altro
scrollò le spalle. “Di tutto e di niente.” Fece una lunga pausa,
poi soggiunse: “Non dobbiamo più esistere, questo è il punto.”
“Che
significa?”
“Dove
va un cacciatore, se non c'è più selvaggina? Dove va un cerusico,
se non ci sono più ammalati?”
Il
ragazzo alzò gli occhi su di lui: ormai il suo viso era solo una
vaga sagoma bianca nella quale tuttavia si coglieva il baluginare
dello sguardo. “Non ti capisco,” sussurrò.
La
risposta giunse carica di amarezza: “Dove va il guardiano, se non
c'è più nulla a cui fare la guardia?”
§
Fratello
Roland si rigirava inquieto sul pagliericcio. Lui e Gwenel erano in
una stanza al piano di sopra del dormitorio, di quelle dove
normalmente venivano alloggiati gli ospiti.
L'ambiente
era piccolo e sobriamente arredato, ma rispetto all'essenzialità
delle camerate appariva addirittura opulento. Il fatto che non ci
fosse la lucerna accesa [6] suscitava nel Templare una strana
inquietudine, come se il venire meno di quella consolidata usanza
rappresentasse il primo segno della rovina incombente.
Si
alzò adagio, attento a non far cigolare il letto, e poi uscì in
corridoio. Era completamente vestito, e aveva impedito anche a Gwenel
di spogliarsi: non si fidava di quella strana calma, e voleva essere
pronto a ogni evenienza.
Camminò
un po' su e giù, poi si sedette accanto a una finestra. Nel
frattempo la luna era uscita dalle nubi, e la sua luce fredda
delineava i contorni delle cose.
Lasciò
vagare lo sguardo sulla commenda addormentata e per un po' rimase
così, semplicemente assorto nei suoi pensieri, ad ascoltare un vago
lamento di gufo lontano.
Non
sapeva quanto tempo fosse passato quando notò dei movimenti nel
cortile: un uomo magro, molto alto e vestito di scuro attraversò lo
spiazzo con una strana andatura un po' curva e si diresse verso il
portone. Per un po' rimase in ascolto di qualcosa, poi si guardò
intorno, e infine protese una mano che nella luce fredda della luna
sembrava quella di uno scheletro, afferrò i catenacci e uno dopo
l'altro li fece scorrere nelle loro guide.
Fratello
Roland aggrottò le sopracciglia e rimase a osservare. Aveva fatto
fatica per via degli abiti borghesi, ma l'andatura gli era risultata
inconfondibile: si trattava di fratello Urbain.
Sotto
i suoi occhi stupiti, egli schiuse la porta quel tanto da consentire
il passaggio di una persona, e pochi istanti dopo, qualcuno si infilò
effettivamente dentro: era un uomo della milizia alto e snello, molto
probabilmente giovane, dal portamento elastico e marziale.
I
due parlarono rapidamente fra loro, poi il nuovo arrivato aprì
maggiormente il portone, e da esso sgusciarono dentro numerosi
soldati. Fratello Roland notò che avevano annerito con la fuliggine
le lame delle alabarde e gli elmi, per evitare che brillassero sotto
la luna.
Gli
uomini si mossero verso l’edificio che lui e Gwenel occupavano.
A
quella vista, egli tornò rapidamente in camera e scosse il ragazzo,
che sbatté gli occhi, poi mormorò: “Cosa succede?”
“Zitto
e seguimi,” rispose fratello Roland sottovoce.
“Ma
cosa...?”
“Andiamo.”
Si
mossero cauti, mantenendosi rasenti ai muri. Dal piano inferiore
cominciavano a provenire grida soffocate, tramestio e clangore di
armi.
“Cosa
succede?” ripeté il ragazzo allarmato.
“I
soldati del re.”
Gwenel
non replicò, e i due procedettero guidati dalla luce incerta che
filtrava dalle finestre. Trovarono infine una scala che portava verso
il basso.
Fratello
Roland fece segno di attendere e per un po' rimase in ascolto, poi
cominciò a scendere adagio, un gradino dopo l'altro, fermandosi su
ognuno ad ascoltare.
I
rumori che provenivano dal basso si facevano sempre più intensi e
inquietanti: ora si udivano grida di dolore e invocazioni, frammiste
al rumore di suppellettili infrante e di metallo che cozzava contro
altro metallo. Evidentemente, pur sorpreso nel sonno, qualche
fratello stava cercando di difendersi.
Fratello
Roland fece mente locale: non avrebbe avuto alcun senso scendere ad
aiutare i confratelli. Non aveva più una spada, tanto per
cominciare: la sua era rimasta sul selciato di Vaux quando il
capitano D'Airelle gliel'aveva fatta buttare. Non sapeva poi quanti
fossero laggiù, e in che ambiente si muovessero.
L'unica
cosa che verosimilmente avrebbe ottenuto, sarebbe stata spingere fra
le braccia della milizia se stesso e Gwenel.
Percepì
sulla nuca lo sguardo acuto del ragazzo. Si girò e nel buio colse il
brillio liquido dei suoi occhi azzurri. “Cosa facciamo?” mormorò
Gwenel.
“Dobbiamo
andarcene.”
“Ma...
i fratelli?”
Fratello
Roland scosse la testa. “Non possiamo fare più niente per loro.”
Da
sotto provenne il rumore di qualcosa di fragile che andava in
frantumi, e poi di legno spaccato. Una voce gridò 'per l'amor di
Dio', ma subito dopo si udì un tonfo ed essa si spense in un gemito.
Continuarono
a scendere, raggiungendo infine un vestibolo sul quale si aprivano
alcune porte. Da una di esse proveniva un tremulo chiarore, che
lambiva le pareti come una risacca.
Di
nuovo fratello Roland fece cenno al ragazzo di aspettare, poi avanzò
lentamente e tenendosi a ridosso dello stipite azzardò un'occhiata
al di là.
La
stanza era una camerata rettangolare, in quel momento ingombra di
soldati. I letti erano per la maggior parte rovesciati e privi delle
coperte, che erano sparse in giro. Uno era addirittura rotto, come se
ci fosse finito sopra qualcosa di molto pesante. Il contenuto dei
pagliericci squarciati fluttuava ovunque.
Sorpresi
con ogni evidenza nel sonno, i cavalieri, perlopiù con solo la
camicia e le brache addosso, avevano le mani legate dietro la schiena
ed erano addossati contro una parete. Uno di essi giaceva immobile,
con un rivolo di sangue che da una ferita alla testa dilagava
lentamente sul pavimento.
Vide
uno dei soldati avvicinarsi a un prigioniero che per età avrebbe
potuto forse essere suo padre, con una venerabile barba bianca,
spintonarlo e strappargli via la sottile cintura [7] che la Regola
imponeva durante la notte. “E questa cos'è, pezzo di merda?”
gridò poi, colpendolo in faccia con un manrovescio. “Che cos'è?
Te la intendi con Satana? Hai stretto un patto con lui?”
Il
Templare dovette faticare per impedirsi di correre in aiuto del
confratello: c'erano almeno venti guardie nella stanza, sarebbe stato
solo un inutile suicidio.
Si
fece avanti a quel punto l'uomo che aveva visto alla porta, quello
snello e dal portamento marziale. “Basta, Laurent,” ordinò in
tono vagamente annoiato, “non rubiamo il mestiere al tribunale
dell'Inquisizione.”
“Scusate,
signore.”
Fratello
Roland si sentì invadere dall'ira: avrebbe riconosciuto quella voce
sprezzante fra mille. Rimase tuttavia immobile a seguire le mosse di
quello che fino a poco prima aveva creduto un fratello e compagno
d'armi.
Il
capitano D'Airelle diede qualche conciso ordine, e i soldati
cominciarono a spingere fuori i Templari prigionieri. Fratello Roland
non poté fare a meno di pensare ai rigori della stagione, e a come
quei poveretti avrebbero potuto affrontarli con l'abbigliamento
sommario che indossavano.
Strinse
i denti e i pugni in modo spasmodico, costringendosi più che mai a
rimanere immobile.
La
stanza, nel frattempo, si era vuotata. Il capitano fece per andarsene
a sua volta, ma sopraggiunse fratello Urbain a fermarlo.
“Siamo
d'accordo allora?” chiese il nuovo arrivato.
“Potete
andarvene,” concesse l'altro.
Il
primo non si mosse.
“Ebbene?”
lo incalzò il capitano.
“Ecco...”
cominciò fratello Urbain, “L'accordo comprendeva anche altro... se
ben ricordate.” Gli scoccò un'occhiata dubbiosa.
D'Airelle
assunse l'espressione di chi si è appena ricordato di una
commissione un po' fastidiosa da portare a termine. “Ah, già.”
rispose, e non aggiunse altro, limitandosi a fissare l'interlocutore
con sguardo neutro.
“Il
libro,” gli ricordò dopo un po' fratello Urbain.
L'altro
annuì grave, quindi lo corresse: “I
libri.”
Di
nuovo tra i due calò un silenzio carico di tensione. “Io vi ho
aperto la porta, vi ho consegnato i miei confratelli risparmiando
sangue e fatica ai vostri soldati,” ringhiò fratello Urbain. Fissò
torvo il militare. “Gli accordi erano chiari: a me sarebbe rimasto
il libro.”
“Gli
accordi erano altrettanto chiari per me,” replicò D'Airelle.
“Potete tenere tutta la vostra biblioteca, oltre alla vita e alla
libertà personale naturalmente, ma il Codice Ombra va al tribunale
dell'Inquisizione.”
A
quelle parole, l'altro si erse costernato. “Ma il Codice è la
summa del nostro sapere,” replicò agitato, “È tutto quello che
abbiamo raccolto in decenni di studio.”
“Mettiamola
così,” fu la risposta, pronunciata quasi in tono di sarcastica
degnazione: “Conservando la vita, potrete acquisire nuovo sapere.
Senza la vita, godere del sapere accumulato vi sarà impossibile.”
A
quel punto, fratello Roland arretrò silenziosamente: aveva sentito
abbastanza. Se non poteva liberare i poveretti che aveva visto
spingere via come bestie, poteva almeno privare il tribunale
dell'Inquisizione di un'arma.
Raggiunse
Gwenel. “Cerchiamo un’uscita,” sussurrò.
“Cosa
sta succedendo di là?”
“Dobbiamo
portare via il libro,” disse fratello Roland per tutta risposta.
Il
ragazzo si limitò ad annuire.
L’altro
considerò che probabilmente i soldati stavano tornando tutti nel
cortile, e una volta svuotata dei suoi occupanti la camerata, non
avevano motivi per rimanere nell’edificio. Posò l’orecchio
contro una porta chiusa, rimase in ascolto per un po’ e poi provò
ad abbassare la maniglia, che cedette docilmente. Alla scarsa luce
del vestibolo videro che si trattava del refettorio, arredato con
lunghi tavoli già coperti delle tovaglie bianche per il pasto del
mattino. Più oltre, nella parete di fondo, intravidero un’altra
porta. “Quella darà sulle cucine,” disse il Templare, “e le
cucine comunicano sempre con l’esterno.”
Attraversarono
rapidi la sala.
Oltre
la porta c’era in effetti una cucina. La bocca del forno aperta e
un pasticcio crudo abbandonato su un tavolo fecero capire ai due che
i fratelli di mestiere si erano allontanati in tutta fretta.
Percepirono
un soffio d’aria fredda, e si accorsero che in effetti c’era una
porta socchiusa. “Laggiù,” disse fratello Roland.
Sbucarono
in un cortile ingombro di ceste vuote e cataste di legna da ardere,
nel quale nulla si mosse, a parte un gatto che al loro apparire fuggì
via. I due si guardarono intorno, e subito individuarono la mole
imponente della chiesa.
“Muoviamoci,”
disse il maggiore.
“Ma
non hai neanche una spada, e fuori è pieno di soldati.”
“E
i soldati hanno armi, giusto?”
“Sì,
ma...”
“Andiamo.”
Fratello
Roland scivolò silenzioso lungo il muro dell’edificio. Più
avanti, di spalle rispetto a lui, un soldato appoggiato all’alabarda
fissava distrattamente i suoi commilitoni che facevano salire i
prigionieri sui carri.
Il
Templare si avvicinò adagio. Recitò mentalmente una preghiera, per
la salvezza dei suoi poveri confratelli, principalmente, ma anche per
l’anima del soldato. Quando l’ebbe terminata, fece un cenno a
Gwenel, poi balzò in avanti, e prima che l’armigero riuscisse a
rendersi conto di quello che stava succedendo, gli aveva già rotto
l’osso del collo.
Mentre
accompagnava la caduta del corpo perché non facesse rumore, il
ragazzo afferrò l’alabarda.
Trascinarono
il cadavere in una zona buia.
“Ora
ho un’arma,” sussurrò fratello Roland, afferrando l'asta che
Gwenel reggeva ancora tra le mani. La soppesò provandone il
bilanciamento, eseguì un paio di affondi, poi disse: “Andiamo
alla chiesa. Dobbiamo portare via quel libro.”
“Come
faremo a entrare?”
In
quel momento, videro passare una figura vestita di nero, alta e
curva. Roland si appiattì contro la parete e spinse Gwenel a fare
altrettanto. “È quel traditore,” sussurrò con voce appena
udibile.
Fratello
Urbain si guardò fugacemente intorno, poi, constatato di essere
solo, estrasse dall'abito una chiave che teneva legata al collo. Andò
al portone della chiesa, la infilò nella toppa e fece scattare la
serratura, poi sgusciò dentro e accostò l'anta dietro di sé. Non
si udì alcun rumore di chiavistelli.
“Bene,
andiamo,” disse fratello Roland. Si mossero cauti ai margini del
sagrato, quindi salirono i tre scalini che conducevano al portone e
silenziosamente scivolarono dentro.
All'interno
l'aria era fredda, e aveva un vago odore di incenso e di fiori
appassiti. L'oscurità era completa, a parte un vago chiarore da un
lato dell'abside.
I
Templari vi si diressero, e videro che la luce proveniva da una porta
socchiusa, oltre la quale c'era un corridoio rischiarato da una
piccola candela. Si udiva un frenetico tramestio.
Avanzarono
cauti, badando a non fare alcun rumore. Fratello Roland, che
procedeva per primo, si trovò a un certo punto sulla soglia dello
studio tappezzato di libri nel quale il traditore li aveva ricevuti.
Questi era chino su una cassapanca e vi stava rovistando dentro.
Sul
tavolo erano ammucchiati alla rinfusa dei volumi, tutti dello stesso
colore e di dimensioni simili.
Il
Templare si fece avanti e beffardo chiese: “Vuoi tradire di nuovo,
cane?”
L'altro
sussultò e scattò in piedi con tale rapidità che perse
l'equilibrio e dovette appoggiarsi con una mano a uno degli scaffali.
“Non
contento di aver condannato a morte i tuoi fratelli per i tuoi
sporchi interessi, vuoi far credere al capitano che gli hai
consegnato il Codice Ombra mentre in realtà gli stai dando
tutt'altro?”
Fratello
Urbain lo fissò con occhi grifagni. “Che cosa vuoi?” lo
apostrofò. “Come osi entrare qui dentro senza il mio permesso?”
Per
tutta risposa, il Templare recitò: “Or
io vi dico: chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il
Figlio dell'uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio. Ma chi
mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli
angeli di Dio [8].”
Fratello
Urbain assottigliò lo sguardo e sibilò: “Ma guarda un po',
l'asino che vuol farsi dottore. Tu pensa a eseguire gli ordini, e non
chiederti perché ti vengono impartiti, tanto non capiresti.”
L'altro
fece un passo avanti. Si fece scivolare l'alabarda dalla spalla e la
impugnò. “Sei un lurido traditore,” gli disse per tutta
risposta. “Il male che hai fatto forse non si può riparare, ma
almeno eviterò che tu ne faccia ancora.”
“Ah,
davvero?” lo provocò fratello Urbain, nello sguardo una luce
sprezzante e gelida. “Hai la presunzione di avere gli strumenti per
combattere il male? Tu non sei nessuno, sei solo un piccolo uomo
aggrappato alle sue misere cognizioni da chierico di campagna. Anche
se quel povero ingenuo di fratello Geoffroy ha voluto cominciare a
istruirti, tu non sai ancora niente, i tuoi occhi sono ciechi, le tue
orecchie sorde. La tua mente è piccola, attaccata alle minuzie di
tutti i giorni.” Fece una pausa, in cui rimase a fissarlo vagamente
ansante, poi in tono più basso, addirittura amaro, riprese: “Che
cos'è la tua miserabile esistenza, o quella dei tuoi fratelli,
paragonata al sapere? Gli uomini si possono rifare, sono meri ammassi
di carne imperfetta, ma il sapere... il sapere è Dio! Il sapere è
perfezione dello spirito, è vita eterna, è...”
Non
fece in tempo a finire la frase. Fratello Roland spinse in avanti
l'alabarda e lo passò da parte a parte, quindi estrasse la lama e si
preparò a colpirlo di nuovo, ma in quel momento si udì il passo di
svariate persone in rapido avvicinamento.
“Roland!”
esclamò Gwenel.
L'altro
fece scorrere lo sguardo sui libri sparsi, ma non riconobbe fra essi
il Codice Ombra. Prima che avesse il tempo di cercare altrove, però,
irruppero nella stanza il capitano D'Airelle e alcuni soldati. “Ma
guarda chi si vede,” disse questi ironico. “Pensavamo di trovare
quel vecchio avvoltoio,
ed ecco che invece spunta fuori il buon Roland. Butta quel bastone,
prima di farti male.”
“Vieni
a prenderlo,” fu la risposta.
Il capitano fece una breve
risata. “Cosa vuoi fare con un'alabarda qui dentro?”
“Passarti
da parte a parte come ho fatto con lo schifoso che è sul pavimento.”
“Ma
ti devi avvicinare, prima, non ti pare? E intanto i miei uomini ti
hanno già abbattuto come un bue al macello.”
“Vediamo
chi sarà il bue al macello,” replicò brusco fratello Roland, poi
cercò lo sguardo di Gwenel e gridò: “Non nobis, domine!”
Il grido di guerra colpì Gwenel
come una sferzata: egli d'impulso strinse la spada che aveva in pugno
e si gettò sul più vicino dei nemici. Lo trapassò con una punta
alla gola, poi ritrasse la lama e colpì un altro con un fendente
rovescio.
Vide fratello Roland far girare
l’alabarda talmente in fretta che la lama emise un sordo sibilo,
poi si abbatté contro uno dei soldati tagliandolo praticamente in
due, e infine esaurì la sua forza contro uno scaffale, facendone
schizzare via grosse schegge.
Il Templare abbandonò
l’ingombrante asta, raccolse il pugnale di un caduto e incalzò un
altro dei soldati, che arretrando nel luogo angusto travolse quello
che si trovava dietro di lui. Egli in un attimo gli fu addosso, lo
trafisse al petto, estrasse la lama e squarciò la gola al secondo,
poi balzò da una parte per evitare l’assalto del capitano
D’Airelle, rotolò all’indietro, ma perse l’equilibrio, e
l’altro ne approfittò per farsi più vicino.
Gwenel vide la scena, e corse
verso i due. Si buttò in avanti con una punta, ma l’altro lo vide
arrivare, si girò fulmineo, prese ferro deviando il colpo, e subito
dopo rispose con un tondo rovescio. Il ragazzo tentò di sottrarsi,
ma non fu abbastanza veloce, e il morso della lama sulla spalla gli
strappò un gemito di dolore.
“Gwenel!”
urlò fratello Roland.
“Sto
bene,” gli assicurò il ragazzo. Tentò di incalzare l’avversario,
ma questi rispose tirando a sua volta una punta, che gli trafisse il
fianco.
“Ecco
cosa succede a combattere senza usbergo,” disse il capitano in tono
sarcastico. Avrebbe voluto aggiungere una risatina, che però
fratello Roland gli fece morire in gola con un violento assalto.
Sotto gli occhi
di Gwenel, che era scivolato alla base di una parete
col respiro mozzo dal dolore, il Templare riuscì a oltrepassare la
guardia di quello che era stato il suo confratello. L’altro,
consapevole del pericolo, tentò di arretrare, ma il primo lo afferrò
per una spalla. “Dove vai?” ringhio. Ora, sotto misura e con un
pugnale in mano, era lui ad essere in vantaggio.
Il capitano
abbandonò la spada ed estrasse a sua volta la daga.
La vista
annebbiata, Gwenel li vedeva girarsi intorno come animali
rabbiosi, colpendosi fulminei, e un attimo dopo allontanandosi per
sottrarsi ai colpi dell’altro. Li vide studiarsi in un teso
silenzio per lunghi istanti, e poi balzare l’uno contro l’altro.
Sentì entrambi
gemere più volte di dolore, e presto la tunica
bianca di fratello Roland fu rigata di sangue.
Il ragazzo
cercò di alzarsi per aiutarlo, ma era come se il suo
corpo non volesse obbedirgli, ed egli era costretto a fissare,
impotente, i due uomini che si scontravano all’ultimo sangue.
Alla fine
crollarono a terra ancora avvinghiati, rotolarono
ringhiando e gemendo di dolore, colpendosi come forsennati.
Poi lo scontro
si fermò. Il capitano della milizia emise un ultimo
lamento, poi si afflosciò come uno straccio vecchio e rimase supino,
con gli occhi vitrei fissi al soffitto.
Fratello
Roland, abbandonato prono su di lui, ansava pesantemente.
Gwenel si
sollevò in ginocchio alla meglio, lo raggiunse, lo rivoltò
sulla schiena e a fatica trattenne un grido d’orrore: il suo
confratello aveva un pugnale piantato nel petto fino all’elsa.
Subito lo afferrò per estrarlo, ma l’altro lo fermò. “Lascia...”
gli disse con voce incerta.
“Ma
Roland,” protestò il ragazzo, e già sentiva le lacrime pungergli
gli occhi, “Devo curarti, e poi dobbiamo andare via.” Deglutì.
“Devo tamponare la ferita.”
“È
troppo tardi,” mormorò l’altro. “Devi andare tu, io non potrei
seguirti. Prendi il libro che è nella cassapanca, e portalo al
sicuro, non deve cadere nelle mani degli inquisitori.”
“Ma
io...” Gwenel si rese conto di avere la voce rotta e le lacrime che
gli scorrevano lungo le guance. “Ma io non posso… senza di te.”
“Devi
andare. Sei un cavaliere del Tempio, e questo è l’ultimo ordine
che ti do.”
L’altro si
asciugò gli occhi con la manica, poi tentò di farlo
alzare. “Roland, per favore,” lo implorò.
Il maggiore
sollevò con fatica la mano e la pose sulla sua, poi
strinse debolmente la presa. “Va’,” mormorò, “porta al
sicuro il libro, mettilo dove nessuno possa trovarlo. Ho fiducia in
te.”
“Roland...”
ripeté il ragazzo, ma non gli giunse più alcuna risposta.
Si alzò
malfermo, stremato, attraversato da fitte di dolore
lancinante. Come in sogno andò alla cassapanca, e ne estrasse
l’involto bianco. Si girò un’ultima volta verso fratello Roland:
il cavaliere giaceva immobile, e già il pallore della morte si era
diffuso sul suo volto severo. La sua espressione indomita si era
fatta nella morte remota e carica di dignità.
“Addio,
Roland,” singhiozzò, poi corse fuori.
Si allontanò
nel buio, dolorante, sanguinante, accecato dalle
lacrime. Si tenne lontano dal bagliore delle fiaccole e nessuno lo
vide, forse perché Dio, consapevole del suo strazio, aveva steso una
mano pietosa su di lui. Fuggì verso la campagna brulla. Corse
malfermo fino a che le luci di Sainte-Ruffine non scomparvero, e a
quel punto, ormai sul fare dell’alba, si lasciò cadere nel letto
di un canale secco, dove si nascose tra le radici dei salici.
§
Fratello
Adalbert fissò perplesso fratello Friedrich. “Dove vai?”
gli chiese.
“A
Vaux,” rispose l’altro. Controllò il sottopancia del destriero
da guerra bardato di tutto punto, con tanto di gualdrappa.
Il primo lo
fissò poco convinto. “Il priore ti ha dato il
permesso?”
“Ha
detto che posso accertarmi di come stanno le cose.”
“Di
persona?”
Fratello
Friedrich alzò le spalle. “Non l’ha specificato.”
“Fritz,
sta attento,” lo ammonì fratello Adalbert. “È la volta che
fratello Luitpold ti manda davvero a badare i polli.”
L’altro si
voltò a fissarlo negli occhi e in tono grave rispose:
“Voglio andare a controllare, ho un brutto presentimento.”
“E
ci vai in armi?”
“Così
non c’è rischio che mi scambino per un Templare.” Montò in
sella.
Fratello
Adalbert prese il cavallo per le redini. “Fritz, senti...”
“Sì?”
“Aspettami,
vengo anch’io.”
§
Gwenel riaprì
gli occhi tremante di freddo e torturato da una sete
atroce. Il cielo era di nuovo coperto, per cui faceva fatica a
rendersi conto dell’orario. Provò a muoversi, e il suo corpo gli
rimandò fitte di dolore talmente intense che gli fecero correre dei
brividi sottopelle.
Abbassò gli
occhi sull’involto di tela bianca che stringeva ancora
fra le braccia, e le lacrime minacciarono di ricominciare a
scendergli lungo le guance.
Si rialzò
adagio, serrando i denti per trattenere i gemiti. La
manica destra dell’abito era dura di sangue secco, e così il
fianco sinistro. Con gesti esitanti prese un lembo del mantello e lo
strappò per confezionare bende di fortuna, che poi strinse sulle
ferite.
Fatto questo,
sporse cauto la testa dal letto del canale: la campagna
era deserta, gli alberi ormai spogli protendevano rami neri verso il
cielo. I lunghi solchi paralleli dei campi arati si perdevano in un
orizzonte nebbioso.
Dove portare il
libro?
Non aveva
soldi, era ferito, era esausto, indossava abiti che
potevano comportare il suo arresto immediato, che cosa poteva fare?
Si sedette di
nuovo. Scartò subito l’idea di raggiungere Jussy:
forse ce l’avrebbe fatta, in fondo non era lontano, ma non voleva
esporre la sua famiglia a inutili rischi. Tutti sapevano che il
figlio minore del barone de Jussy era entrato nell’Ordine del
Tempio, e quello era il primo posto dove le milizie del re sarebbero
andate a cercarlo, una volta accertato che non era fra i Templari
arrestati a Vaux.
“Le
milizie del re,” ripeté a mezza voce.
Il re di
Francia non aveva alcun potere sui tedeschi.
Guardò di nuovo
fuori dal canalone, e rimase a scrutare fino a che
non fu certo che non ci fosse nessuno. Dopo di che si inerpicò fuori
a fatica, e con il libro stretto al petto prese a camminare in
direzione di Metz.
Era quasi grato
alla stanchezza e al dolore fisico, perché essi lo
distoglievano al pensiero di fratello Roland.
Raggiunse
finalmente la strada per Metz. Aveva fatto larghi giri per
evitare masserie e villaggi, perché temeva che i contadini,
riconoscendo la sua croce scarlatta, l’avrebbero denunciato agli
sbirri. Aveva anche pensato di indossare la tunica alla rovescia, in
modo che il simbolo dell’Ordine non si vedesse, ma non era sicuro
di riuscire, ferito e dolorante com’era, a togliersela, rovesciarla
e indossarla di nuovo. Senza contare che andando in giro sporco,
insanguinato e con gli abiti a brandelli avrebbe in ogni caso
attirato l’attenzione.
Si nascose in
una macchia sul ciglio della strada e per un po’
rimase immobile in ascolto, poi, quando fu certo che non ci fosse
nessuno, riprese la marcia in direzione della città.
Guardò il
cielo: ormai doveva essere primo pomeriggio. Avrebbe
dovuto trovare un nascondiglio nei dintorni della città, per
entrarvi verso sera, protetto dalla luce fioca del crepuscolo.
In quel
momento, cominciò a sentire alle sue spalle un abbaiare di
grossi cani.
Si irrigidì in
ascolto, i muscoli già tesi e pronti alla fuga, e
dopo un po’ si sovrapposero ai latrati delle urla di incitamento.
“Hanno trovato la pista!” gridò qualcuno.
Cominciò a
correre con tutta la velocità che le sue gambe doloranti
gli consentivano.
L’abbaiare
aumentò.
“Eccolo
là!” sentì urlare alle sue spalle.
“Deve
avere un libro!” disse qualcun altro. “Non rovinate il libro!”
Gwenel continuò
a correre senza voltarsi indietro, ansante, con il
cuore che sembrava volergli balzare fuori dalla gola a ogni battito.
Qualcuno lo
afferrò per il mantello e lo fece cadere all’indietro,
il ragazzo rotolò via, si rialzò e riprese la fuga, solo per
vedersi correre incontro altri due armigeri. Tutt’intorno c’era
il latrare furioso dei mastini, che tiravano le catene bramosi di
avventarglisi addosso.
Riuscì a
riguadagnare la strada, ma un dolore lancinante alla
schiena gli strappò un grido di dolore. Crollò in avanti, si
sollevò sui gomiti in un ultimo tentativo di trascinarsi via, ma
ecco che a un tratto le grida di incitamento e trionfo dei suoi
aguzzini cessarono per lasciare il posto a un silenzio attonito, nel
quale si udì poi poderoso galoppo.
Incapace di
alzarsi, Gwenel sentiva vibrare il terreno come percosso
da qualcosa di molto pesante.
Alzò gli occhi
ormai annebbiati: contro il cielo si stagliava un
cavaliere in armi. Questi montava un destriero dalla gualdrappa
bianca, e portava un Grande Elmo ornato di ali bianche e nere.
Si sentì
invadere da una sensazione di sollievo. “Dio, ti
ringrazio,” mormorò, e poi perse la cognizione delle cose.
§
Vestito di una semplice tunica
lunga e di una sopraveste pesante, Gwenel sedeva nel piccolo cortile
sull’acqua. In piedi accanto a lui, Fratello Friedrich reggeva un
involto di tela un tempo bianca, incrostato di sangue secco e
sporcizia. “Era questo che volevate?” gli chiese.
Il ragazzo annuì. Era ancora
smagrito e pallido, ma ormai, dopo alcun settimane trascorse
nell’ospedale teutonico, stava cominciando a riprendersi. “Sono
felice che l’abbiate salvato.”
L’altro sorrise. “Non avrei
potuto fare altrimenti: anche nell’incoscienza continuavate a
stringerlo così forte che hanno faticato a togliervelo quando è
stato il momento di medicarvi.” Lo appoggiò sulla panca.
“Mi
dispiace,” rispose Gwenel. Fece scorrere le dita sull’involto
come se lo stesse accarezzando. Un velo di malinconia gli incupì i
lineamenti.
“L’importante
è che ora stiate meglio,” rispose il tedesco, mettendogli una mano
sulla spalla.
Il ragazzo si limitò a emettere
un sospiro.
“Lo
so,” assentì l’altro, stringendo appena la presa, “Perdere
fratello Roland è stato un duro colpo per tutti. Ma almeno è caduto
da eroe, prima che trascinassero nel fango l’Ordine che aveva
giurato di servire.”
Gwenel deglutì, faticando a
trattenere le lacrime come ogni volta che si parlava di lui, poi
disse: “Non credo che avrebbe voluto vedere quello che sta
succedendo adesso.”
Fratello Friedrich stava per
rispondere quando sopraggiunse fratello Adalbert.
I tre si scambiarono alcuni
convenevoli, poi il nuovo arrivato adocchiò l’involto di tela e
chiese: “Finalmente possiamo sapere cosa c’è dentro?”
Il più giovane abbassò lo
sguardo. “È un libro.”
“Un
libro?” fece eco l’altro, subito interessato.
“Sì,
un libro che fratello Roland mi ha ordinato di proteggere a costo
della vita.”
“Cosa
che peraltro stavate per fare,” rispose fratello Adalbert. Poi,
dopo una pausa: “Possiamo vederlo?”
Il ragazzo spostò
alternativamente lo sguardo dall’uno all’altro dei due Teutonici.
Doveva a loro se era vivo, in salute e al sicuro. Ricordava la stima
che entrambi avevano per fratello Roland, e quella che il suo mentore
aveva sempre nutrito nei loro confronti.
Sollevò l’involto e lo porse a
fratello Adalbert.
Questi lo prese e ne estrasse un
libro dalla semplice rilegatura di pelle marrone. “Non ha titolo,”
disse perplesso, rigirandoselo fra le mani. Lo appoggiò sulla panca,
e con fratello Friedrich che guardava da sopra la sua spalla, lo aprì
a caso e cominciò a sfogliarlo. Comparvero strane figure di corpi
umani con fiori dai molti petali lungo la spina dorsale, simboli
alchemici, testi scritti con alfabeti sconosciuti, l'Albero
Sefirotico, principi ermetici e gnostici.
“Che
cos’è?” chiese fratello Adalbert. Teneva la voce bassa, come se
non volesse farsi sentire.
“Fratello
Roland ha detto di nasconderlo e non farlo vedere mai più a
nessuno,” disse Gwenel per tutta risposta.
“Lo
credo bene,” intervenne fratello Friedrich. Sfogliò anche lui
qualche pagina del misterioso libro, e si fermò sull’immagine del
vessillo bianco e nero dell’Ordine. “Qui parla del Beauceant,”
disse rivolto a Gwenel, poi lesse: “Il dualismo espresso da questo
emblema rappresenta le due forze cosmiche opposte e complementari, la
lotta tra il Bene e il Male, il costante dinamismo dei due principi
fondamentali che muove e governa il mondo.” Richiuse il volume, lo
scrutò per un po’ con le sopracciglia aggrottate, infine disse:
“Lo metteremo nella biblioteca, lì sarà al sicuro. Nessuno può
cercare qualcosa di cui non conosce l’esistenza.”
“Vi
ringrazio, fratello Friedrich,” rispose Gwenel.
“Fratello
Roland è morto per difenderlo,” commentò l’altro, come per
sottolineare l’importanza del volume, ma il più giovane con
voce pacata rispose:
“Io credo che fratello Roland sia morto per difendere la sua idea
di Tempio, in realtà.”
Fratello Friedrich si voltò a
fissarlo. “Che intendete dire?”
“Avrebbe
potuto lasciare il libro a Sainte-Ruffine e far perdere le sue tracce
senza alcuna fatica, ma ha preferito sacrificare la vita per portarlo
in salvo a tutti i costi.” Fece una pausa, durante la quale si
passò una mano sugli occhi, poi proseguì: “Io credo che lui abbia
voluto dimostrare che nonostante il fango e le accuse infamanti, gli
ideali di eroismo e sacrificio del Tempio sono
rimasti
puri.”
Nessuno rispose, e sul gruppetto
calò un silenzio solenne.
Soffiò a quel punto un refolo di
vento freddo, che sibilò tra i rami ormai spogli dei salici. Ancora
debole per le ferite ricevute, il ragazzo rabbrividì.
Il Teutonico si tolse il mantello
e glielo pose sulle spalle. “Ecco, va meglio così?”
L’altro lo fissò stupefatto.
“Ma… fratello Friedrich...”
“Puoi
tenerlo. Sei uno di noi, ora.”
[1]
Testo originale dell’ordine di arresto dei Templari, probabilmente
redatto da Guillaume de Nogaret.
[2]
Nell’Ordine Teutonico c’erano anche delle sorelle, che avevano
principalmente il compito di assistere i malati negli ospedali.
[3]
Perdere l’abito (ovvero perdere il diritto di portare il mantello
bianco con la croce dell’Ordine) era una pena che veniva applicata
per gravi infrazioni della Regola, e di solito durava per un periodo
limitato di tempo, durante il quale il fratello decaduto subiva varie
umiliazioni, come ad esempio quella di mangiare per terra e non a
tavola con gli altri. Perdere l’abito per sempre significava essere
espulsi dall’Ordine (e trascorrere il resto della propria vita in
convento, o nei casi gravi imprigionato).
[4]
Preghiera che viene recitata verso le 06.00 del mattino.
[5]
Il testo che raccoglieva tutte le regole e le usanze del Tempio era
posseduto solo dal Gran Maestro e da alcuni alti dignitari, per
evitare che potesse essere letto da estranei. Tutte le norme di
comportamento all’interno delle commende e delle magioni erano
tramandate oralmente.
[6]
Nelle camerate dei Templari era d'uso tenere una lanterna accesa
tutta la notte.
[7]
Poco più di una cordicella che tutti i Templari portavano sotto i
vestiti. Aveva la funzione di impedire che durante la notte la
camicia si arrotolasse lasciando il torso scoperto. Nel corso dei
processi fu considerata un simbolo di idolatria e stregoneria.
[8]
Lc. 12:8-9
PICCOLO
ANGOLO DELL’AUTORE: lo so, non pago di avervi trifolato le gonadi
con questa storia praticamente infinita, ho anche la pretesa di
scrivervi un pensierino di chiusura. Non odiatemi, giuro che sarò
breve.
Questa
è la mia versione del “mito” dei Templari. Mito che nella realtà
non è mai esistito, ma è stato essenzialmente creato ad arte
dall’Inquisizione quando le circostanze storico-politiche hanno
reso necessaria l’eliminazione dell’Ordine.
I
riferimenti al Tempio Nero e al Codice Ombra prendono spunto da dati
storici, ma la forza mitopoietica dell’Ordine è tale che non
sapremo mai con quali e quante discipline misteriose i Templari
vennero in contatto, e cosa effettivamente acquisirono da esse.
Tutti
questi segreti – che forse segreti non sono mai stati – sono
perduti per sempre, e rimane a colmare i vuoti solo la fantasia degli
scrittori (o degli scribacchini, come nel mio caso).
Detto
ciò, io vi ringrazio di nuovo, perché sono i lettori che rendono le
storie vive, e voi avete fatto vivere la mia storia.
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