La chiave del sorriso - Memorie infrante

di daniga
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0 ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***



Capitolo 1
*** 0 ***


0

 

But You Still Have All Of Me

 

 

Da qualche parte sulla Mother Road

31 dicembre, ore 03:07

 

 

«Che fai?»

«Me ne vado».

«Questo l’avevo capito».

La mia rabbia aumentò. Strinsi le mani a pugno e mi voltai sul piede di guerra. «Perché fai domande stupide, allora?»

Sorrise, consapevole d’infastidirmi. I suoi occhi riflessero la luce della luna, lanciando bagliori dorati.

Trattenni il fiato, un po’ per calmarmi, un po’ perché era così dannatamente bello da mandarmi in pappa il cervello. Soffocai l’impulso di sganciargli un diretto e ripresi il cammino.

Stavo pestando i piedi come una bambina, ma ero così arrabbiata da non preoccuparmi dell’impressione che stessi dando. Non volevo accettarlo e non lo avrei mai fatto.

«Andiamo, sali».

Lo ignorai e tirai dritto. Non m’importava un accidente che fosse in debito con mio fratello.

La sua faccia tosta mi si affacciò alla mente.

Sbuffai e aumentai il passo, due o tre diavoli per capello. Se pensavano che avrei permesso a due uomini di disporre della mia vita senza prendere minimamente in considerazione anche la mia opinione, si sbagliavano di grosso. Lui e quel pallone gonfiato.

Un’auto mi si accostò.

«Vuoi fartela tutta a piedi? Non si scherza col deserto, uccellino».

Di certo, il gelo sarebbe stato un compagno migliore. La morte piuttosto che stargli vicino. Espressione drastica, ma che rispecchiava appieno il mio stato d’animo.

«Credi che sia contento? Non fosse per te, ora sarei alle Canarie con un mojito in mano e due ragazze per lato».

Mi bloccai, esterrefatta. Lo fulminai con gli occhi, furiosa e sorpresa della gelosia che mi stava invadendo.

«Non fosse per te», cominciai a dire affacciandomi dalla portiera e puntandogli un dito contro, «ora sarei a casa con un tè e la mia vita in mano».

Alzò un sopracciglio. «Se scappare dalla realtà per te è vita, prego, tornaci pure», mi sbeffeggiò.

Questa volta trattenni il respiro per non andare dall’altro lato e ucciderlo. Stava ferendo il mio orgoglio e quel demonio lo sapeva.

Inghiottii gli insulti e m’infilai nella Volvo, sbattendo la portiera con tutta la forza che avevo in corpo. Tremavo dalla rabbia, ma mi limitai a fissare le miglia di asfalto che tagliavano il deserto di fronte a noi.

Mi lanciò un’occhiata divertita. «Touché», disse con voce acuta, come a parlare per me.

Strinsi gli occhi a due fessure e presi i voti del silenzio eterno.

Questa gliela concessi. Aveva vinto una battaglia, ma non la guerra.

 

***

 

Angolo autrice: Buonasera a tutti! Sono daniga, inguaribile sognatrice, amante della cannella e chiacchierona senza speranze. C’è voluto un po’, ma finalmente esordisco anche io con una storia. Sono emozionata e allo stesso terrorizzata al pensiero che qualcuno leggerà ciò che scrivo. Con questo, non abbiate paura di criticare ogni singola parola. Il mio è un esperimento e qualunque sia l’esito, so già che mi divertirò un mondo. Spero di divertire anche voi.

Questo capitolo 0 è una specie di prologo, anche se in realtà non lo è. Il primo capitolo sarà pubblicato da lunedì e cercherò di pubblicare settimanalmente, università permettendo.

Vi auguro una buona lettura e alla prossima.

dg.

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Capitolo 2
*** 1 ***


1

 

What Doesn’t Kill You Makes You Stronger

 

 

Amarillo

30 dicembre, ore 17:33

 

 

Dal colore rosso brillante, capii di averla combinata grossa.

Sospirai e frugai nelle tasche, alla ricerca di un fazzoletto. Sapevo di averne, ma come sempre sparivano al momento del bisogno.

Piccole gocce cremisi mi scivolarono all’interno della manica.

Trattenni un’imprecazione e sventolai la mano, con il risultato di macchiare di sangue il cappotto, di un candido color panna ormai sporco, e la lapide che avevo davanti.

L’imprecazione non me la tolse più nessuno. Scovai un fazzoletto e mi pulii prima di fare altri danni. Asciugai anche la pietra, chiedendo scusa all’anima che l’abitava e mi alzai. Recuperai lo skateboard, lo zenzero e i limoni che mi erano rotolati via e mi allontanai in fretta.

I fantasmi non mi spaventavano – mica esistono – ma non me la sentivo di far innervosire qualche abitante dell’altro mondo. Non ci tenevo a essere smentita. Non di oggi.

L’atmosfera era tranquilla. Gli uccelli cinguettavano, volando bassi sotto le nuvole, e l’aria sapeva di neve. L’anno volgeva al termine e forse la natura ci avrebbe spolverato dello zucchero a velo. Un po’ in ritardo sulla tabella di marcia, ma sempre ben accetto.

 Ero a un passo dalla tomba dei miei genitori quando lo sentii.

Un leggero formicolio alle ginocchia seguito da un vuoto nello stomaco.

Durò lo spazio di un secondo, ma bastò a farmi inciampare e cadere in avanti. Per non finire con la faccia sul marmo, lasciai cadere la tavola e la borsa e bloccai la caduta con le mani.

Il bruciore arrivò subito dopo. Sussultai e recuperai la posizione eretta. Osservai con una punta di irritazione ciò che mi aveva ferito.

Il numero tre nella data di nascita di mio padre era macchiato di sangue.

Sospirai ancora. Recuperai il gel per le mani da una delle tasche e cancellai l’impronta rossa del mio palmo. «Scusa, pa’. La solita maldestra».

Sulla lapide di fianco il sorriso di mia madre era largo e caldo.

Sentii la famigliare stretta al cuore. Mi accovacciai fra le due lastre bianche e raccolsi una foglia secca. «Che aria tira nell’aldilà?»

La mia voce fu un sussurro, velata dallo stesso dolore di sette anni prima.

Secondo una psicologa dal nome difficile da ricordare, l’elaborazione di un lutto ha cinque fasi e, a quanto pare, io non arrivavo all’ultima. Anche se sembrava che l’avessi accettata, la perdita dei miei genitori era ancora una ferita aperta. Col tempo il dolore sarebbe sbiadito, dicevano. Balle. Persino oggi, dopo tanto tempo, era una presenza che mi accompagnava ovunque.

«Qua bene». Mi tolsi una ciocca di capelli dalla fronte e chiusi gli occhi.

Il vento portò l’odore dell’erba tagliata, della cannella e della cioccolata.

Lasciai che i pensieri volassero via e che il dolore si allentasse, senza troppi risultati.

Ritornava sempre, senza preavviso e con prepotenza. E con lui, tutte le emozioni che avevo provato, il vuoto che non ero più riuscita a colmare. Perdere qualcuno è come amputarsi una parte del corpo, senza anestesia e senza alcuna fretta.

Succede e fa un male cane.

Il vento cambiò direzione.

Lo sentii per la seconda volta e il cuore prese a battermi all’impazzata. Aprii gli occhi e osservai il prato punteggiato di lapidi che mi circondava.

Non c’era anima viva. Solo un paio di cornacchie che volarono via, come disturbate da qualcosa di impercettibile all’orecchio umano.

Rabbrividii, ma non a causa della temperatura che si era abbassata dopo il tramonto. Non riuscivo a capire cosa mi stesse succedendo. Prima, la caduta appena entrata nel cimitero, che mi aveva lasciato come ricordo una mano sanguinante, poi, la vertigine. E ora, la sensazione di essere osservata.

Un pensiero mi balenò in mente. E se fosse stato… un fantasma?

Scossi la testa decisa e mi alzai. Mi stavo suggestionando da sola.

Un bagliore dorato entrò nel mio campo visivo. Proveniva dalla quercia che si trovava al centro esatto del Memory Gardens.

Ignorando la vocina che mi stava urlando di darmela a gambe levate, mi avvicinai silenziosa come una tigre. Della tigre, però, avevo ben poco. Mi sentivo il cuore in gola e un leggero terrore alla bocca dello stomaco.

Non era facile spaventarmi, ma – accidenti – ero in un cimitero. Quale miglior set per un thriller del sabato sera in seconda serata, se non terza?

Ero a un soffio dal tronco ampio e calloso e mi resi conto di star trattenendo il respiro. Inspirai nello stesso istante in cui qualcuno mi coprì gli occhi.

La paura mi attorcigliò le budella. D’istinto piantai una gomitata nel mio assalitore, gli pestai un piede e con una mossa che avrebbe fatto invidia a Bruce Lee, gli torsi il braccio dietro la schiena.

«Mi arrendo», mugugnò una voce famigliare, anche se distorta.

Sgranai gli occhi e lasciai andare mio fratello. «Derek!»

«In persona, con qualche organo in meno», sputacchiò. Si massaggiò la spalla e mi studiò da capo a piedi. «Sei Hulk con i capelli rossi?»

Scoppiai a ridere e gli saltai al collo, dimentica del mezzo infarto che mi aveva fatto venire. «Sono così felice di vederti, ma non farlo mai più».

«Poco ma sicuro.» Ricambiò l’abbraccio. «Ci tengo a tutti i miei pezzi».

«Ho avuto un buon maestro».

Si staccò e mi scompigliò i capelli. «E io una buona allieva».

Gli regalai un sorriso orgoglioso, reso grande dalla gioia di vederlo. «Che ci fai già qui?»

«Volevo farti una sorpresa, ma la prossima volta cambierò tattica».

Ridacchiammo insieme. Era così bello averlo qui. L’ultima volta che ci eravamo visti era stata più di sei mesi prima. Lui in partenza sul treno e io sulla banchina, in lotta contro le lacrime. Essere un Marine richiede sacrifici non indifferenti, come assentarsi da casa per periodi lunghi e senza comunicazione in tempo reale. Si ha grandi responsabilità e nonostante la paura di non vederlo tornare, ero orgogliosa della scelta che aveva fatto.

«Salutiamo i vecchi e andiamo a mangiare. Muoio di fame». Raggiunse le lapidi dei nostri genitori e vi si fermò di fronte, un velo di tristezza negli occhi identici ai miei.

Gli andai vicino e fissammo quello che restava delle persone più importanti della nostra vita, ognuno perso nei propri pensieri.

Si stava scurendo in fretta e la temperatura bassa cominciava a farsi sentire attraverso i vestiti. Nonostante fossimo in Texas, l’inverno non era meno freddo delle regioni più a nord. Gli uccelli si erano già ritirati per la notte e il vento aveva smesso di soffiare.

La suoneria di un cellulare ruppe il silenzio.

Sobbalzai.

Derek lanciò un’occhiata al display e fece una smorfia. Borbottò quella che sembrava una scusa e si allontanò.

Non voleva che sentissi, ma lo avrei deluso. Ero più curiosa di un gatto. Perciò mi avvicinai in punta di piedi quel tanto per origliare. Di solito riuscivo a non farmi beccare.

«Non sono un idiota, so cosa fare». La sua voce era più fredda del vento che aveva ripreso a soffiare. «No! Non ancora. Non è pronta, dannazione».

Si voltò per metà.

Raggelai, ma tirai un sospiro di sollievo quando mi diede di nuovo le spalle. Non gli andava a genio essere spiato, ma le sue parole avevano stuzzicato il mio radar da gatto.

«Non deve sapere nulla, chiaro?»

Il suo tono di voce non ammetteva repliche.

Provai pena per il suo interlocutore.

«Non m’importa. Ne abbiamo già parlato. Queste sono le mie condizioni. Se non ti vanno bene, puoi anche andartene al diavolo!»

Chiuse la chiamata e si voltò. Lo sguardo sorpreso si tramutò in rimprovero.

Cercai di nascondere il rossore che mi stava colorando le guance.

«Io… ehm… Hai il cappotto sporco», mi giustificai pulendogli una macchia inesistente sulla spalla.

Alzò un sopracciglio, leggermente irritato.

Non ero brava a mentire. Soprattutto con lui. Ci provavo con tutte le mie forze, ma la verità mi si spiaccicava in faccia e ogni tentativo era vano. E lui lo sapeva.

Si preparò a farmi una delle sue prediche da messa Pasquale, ma scosse la testa e guardò l’ora sul display. «Andiamo, è tardi. Ho prenotato per le sette».

Mi ritrovai a fissare la sua schiena, sorpresa. Raccolsi lo skateboard e gli ingredienti che avrei dovuto usare per la cena di quella sera e lo rincorsi. «Non mangiamo a casa?»

«No».

Attraversammo la parte dei mausolei. Il cielo si era scurito del tutto e la luce dei lampioni creava ombre sinistre.

La sensazione di essere osservata aumentò. Era inquietante, soprattutto perché il buio mi terrorizzava a morte.

Il verso di una cornacchia spezzò il silenzio.

Sussultai e mi aggrappai al braccio di Derek.

Sorrise leggero. «Stai per diventare maggiorenne e hai ancora paura del buio?»

Gli lanciai un’occhiata di fuoco e attraversammo il cancello, lasciandoci alle spalle quel luogo che avremmo fatto a meno di visitare. Ma ci saremmo tornati. Perché era l’unico ponte con la vita di prima.

 

 

***

 

 

Amarillo

30 dicembre, ore 18:54

 

 

«Volevo farti il ramen. La nonna di Misaki mi ha dato la ricetta, ma», abbassai il tono di voce, «acqua in bocca. È un segreto di famiglia».

Gli strappai un sorriso. Camminavamo da una buona ora e l’ennesimo semaforo ci obbligò a fermarci. Il traffico era già alle stelle, soprattutto perché era sabato.

Avevamo attraversato il centro di Amarillo, affollatissimo come sempre, passando davanti a ristoranti di ogni tipo. Ogni volta mi aspettavo di fermarci, ma Derek tirava dritto, diretto chissà dove. Io lo seguivo senza aprire bocca, un po’ interdetta per il fatto che non avrei cucinato.

Non disse nulla e riprese a camminare.

Stavo per chiedergli se volesse arrivare fino in Cina, quando svoltò in un vicolo poco illuminato. Di fronte a noi, un edificio color topo, abbellito da un’insegna rossa e verde che recitava Ristorante cinese, chiudeva la strada. In realtà, diceva solo rante cinese, ma era scontato che fosse un ristorante – non poteva certo essere un carburante o un idrante.

Osservai mio fratello con un sopracciglio alzato. O l’apparenza davvero inganna e quella bettola era il posto migliore della città, o era impazzito. Non c’era altra soluzione.

«Andiamo», mi esortò.

Lo fermai per un braccio e alzai la borsa della spesa di un paio d’ore prima. «Siamo ancora in tempo per il ramen. Ho anche comprato lo zenzero».

Ricambiò il mio sguardo con una tristezza struggente.

Le parole scherzose mi morirono sulle labbra. Avevo la netta sensazione che la serata non sarebbe andata come programmavo. Gli strinsi la mano, confusa.

Mi abbracciò d’improvviso, quasi soffocandomi con la sua stretta micidiale. Rimase aggrappato a me per parecchi istanti, dopo i quali si staccò, gli occhi azzurri lucidi.

«Perdonami».

Lo stomaco mi si attorcigliò. Il suo tono di voce non mi piaceva per niente. Voleva dire solo una cosa.

«Non posso restare».

Ecco, per l’appunto.

Un terrore che conoscevo fin troppo bene mi investì con forza. Presi un respiro profondo e cercai di contenerlo. «Perché?»

Derek sospirò. «Missione speciale».

Annuii e accettai la risposta. Sapevo di non potergli chiedere di più. Ne andava della sua sicurezza e, soprattutto, della mia.

Mi prese il viso fra le mani e mi guardò. Negli occhi aveva mille parole, ma era combattuto, perciò rimase in silenzio.

Capii all’istante. Il mio cuore protestò e quasi mi mancò l’aria. Trovai il coraggio di chiederglielo e sperai che la voce non mi tremasse troppo. «Per quanto?»

Scosse la testa. «Non lo so», sussurrò.

Era troppo.

Ritrassi il viso e mi allontanai. Lasciai che la paura prendesse il sopravvento. Sarebbe stato inutile fermarla. Troppe volte lo avevo fatto, con l’unico risultato di pugnalarmi il cuore ogni volta che sentivo il campanello. Il terrore di vedermi davanti un ufficiale dell’esercito non mi abbandonava mai.

«Mel», mi chiamò, ma era troppo tardi.

Gli avevo voltato le spalle, decisa a mettere quanta più distanza fra noi. Avevo bisogno di calmarmi e ci sarei riuscita solo lontana da tutto e tutti.

Svoltai con passo deciso, ma qualcosa fermò la mia fuga. Persi ciò che avevo in mano e due braccia mi avvolsero.

Il formicolio ritornò, solo mille volte più intenso, e il vuoto nello stomaco mi mozzò il respiro. Alzai lo sguardo e ne incontrai uno color oro. Era incredibile.

«Non guardi dove metti i piedi?»

Ecco, lo sapevo. Occhi belli, carattere un po’ meno.

Mi staccai brusca, forse troppo. Mi sentii la testa leggera e sarei caduta, se il ragazzo contro cui mi ero scontrata non mi avesse afferrata per un braccio.

«Grazie», mugugnai invece di rispondergli a tono.

Sorrise.

Che dire, rimasi imbambolata a fissarlo come un pesce palla. Non avrei voluto farlo, ma – diamine – era bello da mozzare il fiato.

Mi lasciò andare e si passò la mano fra i capelli scuri. Capì il mio momentaneo smarrimento e mi lanciò un’occhiata maliziosa. Si stava divertendo.

Mi risvegliai e feci per rimetterlo in riga, ma mi sentii tirare indietro.

«Non toccarla!»

La voce aggressiva di Derek quasi mi perforò un timpano. Si mise in mezzo e mi spinse a distanza di sicurezza.

Il tizio non lo degnò di uno sguardo. Continuava a fissarmi, il sorriso più fastidioso. «Se mi salta fra le braccia, non posso evitarlo».

Che disgraziato. L’irritazione mi bruciò nel petto. Gli avrei fatto vedere chi saltava in braccio a chi.

«Che diavolo ci fai qui?», continuò mio fratello.

L’altro si strinse nelle spalle. «Facevo due passi, fino a quando un piccolo uccellino smarrito non mi ha aggredito».

L’avrei rifatto volentieri, solo per cancellargli quel dannato sorriso dalle labbra. Il piccolo uccellino smarrito mordeva, e anche forte.

«E pensi che ti creda?»

«A te la scelta».

Derek s’irrigidì. Stava per mollargli un diretto, ma con mia sorpresa si trattenne. «Non te la lascerò mai».

Mr. sono-antipatico-da-morire mi liberò dal suo sguardo e lo posò su mio fratello. «Non sta a te decidere. Sarà mia. Come sempre».

Eh?

Derek gli si avvicinò. Era di poco più basso, ma non temevo per la sua incolumità. Era un Marine, dopotutto. «Dopo esser passato sul mio cadavere».

«Non aspetto altro».

Si osservarono in cagnesco per molti secondi.

Ero perplessa da quello che avevo sentito, ma per evitare uno spargimento di sangue e denti, mi infilai fra i due. «Non penso sia il momento adatto per una dimostrazione di forza».

Mi osservarono entrambi. Sembrava che avessero visto un fantasma, ma ero io quella più stralunata. Mi avevano trattata come la vicina della porta accanto.

«Chi sei?», chiesi a Mr. occhi-d’oro, per evitare a Derek di ricominciare il battibecco.

Non mi rispose e lanciò un’occhiata a mio fratello. Lui mi prese per un braccio e mi allontanò quel tanto da potermi parlare senza essere interrotto.

«Mi dispiace non avertene parlato prima», cominciò a dire, riluttante.

Una strana sensazione mi chiuse lo stomaco. Aggrottai la fronte.

«Non posso lasciarti sola, perciò…»

Non finì la frase, ma non ce ne fu bisogno. Mi voltai verso l’altro, scandalizzata.

Mi sorrise con malizia e i suoi occhi dorati brillarono pericolosi.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      

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Capitolo 3
*** 2 ***


2

 

Say Something I’m Giving Up On You

 

 

Amarillo

30 dicembre, ore 21:07

 

 

La città scorreva veloce. Le luci si mescolavano ai fiocchi di neve sempre più grossi. Era come osservare la tela di un pittore un po’ troppo moderno.

Una morsa mi strinse il cuore. M’immaginai di essere a casa, avvolta in una coperta, a chiacchierare con Derek e a bere un tè, prima di andare a letto. Mi strinsi le braccia intorno al corpo e cercai di darmi un po’ di calore.

Una coperta mi piombò in grembo. «Copriti».

La osservai per un paio di secondi, indecisa se accettarla o meno. «Potresti alzare il riscaldamento», borbottai.

Mi lanciò un’occhiata sufficiente. «È rotto».

Ignorai il sarcasmo. Un invitante tepore mi stava pervadendo. Mi ero promessa di non fraternizzarci, ma sapevo che quella convivenza forzata sarebbe durata più di quanto avessi voluto. E in più, il freddo era troppo pungente. Una coperta non avrebbe fatto male a nessuno.

Slacciai la cintura, mi avvolsi con la stoffa e la riallacciai. Avrebbe dovuto proteggermi, ma mi fece sentire in trappola.

Ritornai nel mio silenzio e lasciai vagare i pensieri. Sapevo già dove sarebbero andati, ma non potevo fermarli. Le parole di Derek mi avevano lasciata nello sconforto più totale.

Mai prima di allora avevo provato tanta paura per la sua partenza. Ogni volta ero sicura del suo ritorno. Doveva, altrimenti avrei rischiato di finire in una casa famiglia, ma ora… Il problema non si poneva più. Fra meno di tre ore sarei diventata maggiorenne e anche se gli fosse accaduto qualcosa, lo avrei solo perso.

Un terrore che non avevo mai scordato mi avvolse. Mi si mozzò il respiro e dovetti ricacciare giù il nodo che avevo in gola. Mi aggrappai alla coperta per non affondare nel vuoto freddo che avevo nel petto.

«Ritornerà». La sua voce assunse un tono dolce.

Lo fissai sospettosa. Stava forse cercando di tirarmi su il morale?

Guidava con una mano sola. L’altro braccio era poggiato alla portiera e sfiorava il volante con le dita di tanto in tanto. Le luci della città gli carezzavano il viso bello e rilassato.

Lo invidiai. Avrei voluto rilassarmi anche io, ma con tutti quei pensieri in testa era quasi impossibile.

«Fidati di lui».

Distolsi lo sguardo e annuii, riluttante. Anche Derek me lo aveva detto, prima di andarsene.

«Fidati di me, sorellina», mi aveva sussurrato abbracciandomi. «Tornerò, te lo prometto».

Sapevamo entrambi che era una promessa vuota. Non ero più una bambina, e per quanto avessi voluto crederci, il terrore rimaneva. Si nascondeva in un angolo, in attesa di dilagarsi.

L’auto si fermò.

Guardai al di là del vetro.

Un distributore della benzina ricambiò il mio sguardo. Dietro, un negozio ricoperto di graffiti più o meno osceni era più buio della notte. Aveva l’aria di essere abbandonato da decenni.

Il mio accompagnatore spense il motore e uscì. L’aria fredda entrò nell’abitacolo, ma non fu quello a farmi rabbrividire. Sapevo dove ci trovavamo.

Mi affrettai a slacciare la cintura e uscii anche io. Ignorai l’aria gelata e gli bloccai la strada.

«Chiudi la portiera. Farà un freddo cane».

Incrociai le braccia e non mi mossi. Il mio sguardo sprizzava scintille. «Non siamo a casa».

Lui alzò le spalle e mi passò di fianco.

Lo presi per un braccio. Una scossa elettrica mi attraversò dalla testa ai piedi. Il formicolio ritornò e aumentò quando i suoi occhi si fissarono nei miei. Le parole mi morirono sulle labbra.

Aveva avvicinato il viso al mio, a una distanza pericolosa. L’oro nelle sue iridi divenne scuro e profondo. «Torna in auto».

Il suo tono non ammetteva repliche. Avrei fatto come diceva, ma qualcosa nelle sue parole mi infastidì e la mia testardaggine non si fece pregare a uscire. Gli lasciai il braccio e accorciai la distanza fra le nostre facce, fino a sentire il suo fiato sulla pelle. Ignorando il rimescolamento che avevo nello stomaco, lo guardai severa. «I patti erano diversi».

«Ho deciso di cambiarli».

Alzai un sopracciglio e trattenni un insulto. «E perché, di grazia?»

«Mi andava di farlo». E non mi risparmiò il suo solito sorriso di scherno.

Lo avrei ammazzato con le mie stesse mani, se non fosse stato tanto più alto e forte di me. Era l’essere più fastidioso che avessi mai conosciuto. Sarei impazzita a rimanere con lui.

«Bene, va anche a me di cambiarli», sibilai allontanandomi. «Puoi andare dove ti pare, ma scordati che io venga con te».

Gli voltai le spalle e presi la direzione dalla quale eravamo arrivati. Era un’idiozia, specie perché ero a piedi e lontana chilometri da casa, ma non lo avrei seguito. Ero stata a quel gioco abbastanza.

Mi acciuffò per il cappuccio, quasi strangolandomi.

Dovetti indietreggiare, ma subito scattai in avanti per liberarmi.

Un rumore secco riempì la notte.

Rimasi senza parole per alcuni istanti. Non riuscivo a crederci. «Me l’hai rotto!», esclamai furiosa e mi voltai, obbligandolo a lasciarmi andare.

Si strinse nelle spalle. «Avevi solo da non andartene».

Che disgraziato.

«Sono libera di fare ciò che voglio».

Il suo sorriso ritornò. Incrociò le braccia sul petto e mi lanciò uno sguardo divertito. «Assolutamente».

Aprii bocca per ribattere, ma proseguì il suo discorsetto. «Ma ricorda che le chiavi le ho io, e a meno che tu non voglia farti la strada a piedi, ti conviene smettere di fare i capricci e tornare in auto».

Strinsi le mani a pugno. Aveva ragione, dannazione. Non potevo vagare per la città di notte. Eravamo nella periferia ovest e la sua fama non era delle migliori. Non avrei trovato aiuto fra quegli edifici malmessi e poco invitanti. Ero più al sicuro con Mr. ti-porto-dove-voglio.

Con gli occhi che sprizzavano scintille, me ne tornai all’auto e ci salii.

«Ottima scelta».

Chiusi la portiera con forza. Mi sentivo in trappola, altro che al sicuro. Ripensai a ciò che mi aveva detto Derek per legarmi le mani.

«Ti prego, Mel, vai con lui. L’ho promesso a mamma e papà di proteggerti a qualsiasi costo».

Come potevo dirgli di no? Sapeva bene che nominandoli non mi avrebbe dato scelta. Anche se per legge potevo benissimo starmene da sola e continuare a vivere la mia normale esistenza, non potevo farlo per lui. Lo avrebbe preoccupato a morte e non poteva lasciarsi distrarre da nulla. Specie quando doveva andare in missione.

Perciò avevo sospirato ed ero rimasta con quel tiranno odioso. Eravamo entrati nel ristorante, ma mi ero rifiutata di toccare cibo. Non tanto per la testardaggine, ma quanto per la mancanza di appetito. Cosa che mi capitava solo una volta l’anno, nell’anniversario della morte dei miei.

Poggiai la testa al sedile e chiusi gli occhi. Era disarmante la facilità con la quale la vita veniva gettata alle ortiche. Quella mattina mi ero svegliata nel mio letto e quella notte chissà dove avrei dormito.

Cosa aveva in mente?

Mi ero preparata a vivere con la sua squisita presenza in casa, ma era dall’altra parte di Amarillo. Era evidente che volesse prendere il deserto.

Rabbrividii. Le possibilità erano pressoché infinite. Per la prima volta mi sentii infinitamente piccola di fronte all’immensità del pianeta.

Una melodia proruppe nell’abitacolo.

Sobbalzai e mi resi conto che era la suoneria di un cellulare. Mi osservai intorno e capii che proveniva dalle mie spalle. Una luce passava attraverso la tasca di uno zaino.

Sapevo di star per fare una cosa non tanto onesta, ma non avevo tempo per farmi degli scrupoli. Lanciai un’occhiata furtiva all’esterno e, non vedendolo, mi allungai e presi il cellulare.

Il nome Mynnie campeggiava sul display. Non ebbi il tempo di rispondere perché la chiamata si fermò e lo schermo si spense.

Lo riaccesi, ma rimasi delusa. Era bloccato, naturalmente. Tentai di indovinare il pin, ma riuscii a bloccarlo per un minuto.

Imprecai e mi guardai di nuovo intorno. Poteva tornare da un momento all’altro. Non volevo farmi scoprire, ma dovevo capire cosa avesse in mente.

L’aggeggio vibrò e si illuminò ancora. Era arrivato un messaggio e l’anteprima mostrava parte del contenuto.

“Tutto pronto. Dimmi quando sei ad An…”.

Dannazione. Doveva proprio interrompersi sul nome della città?

Trattenni una seconda imprecazione e lo misi a posto giusto in tempo.

La portiera si aprì e il mio protettore/rapitore si sedette al volante. Mi porse un qualcosa di nero. «Mettila nel cruscotto».

Non fu necessario chiedergli cosa fosse. Derek ne aveva una simile. «Che vuoi farci con una pistola?»

«Proteggerci le chiappe, uccellino», mi rispose mettendo in moto. Bloccò le porte e ripartì, verso il deserto e lontano da casa.

 

 

***

 

 

Da qualche parte sulla Mother Road

30 dicembre, ore 22:13

 

 

La luce dell’alba filtrava attraverso i rami. Gli uccelli stavano cominciando a cinguettare e l’acqua del torrente creava un sottofondo rilassante.

Chiusi gli occhi e inspirai profondamente. Il profumo della lavanda mi avvolse e mi inebriò. Sorrisi, rendendomi conto di essere finalmente felice.

«Siete più splendente del sole stesso, mia Signora».

Aprii gli occhi e il mio sorriso si allargò. «Guerriero, mi lusingate».

Un paio di iridi dorate ricambiarono il mio sguardo. Indossava un’armatura color rame e in cinta portava una spada che sapevo mi avrebbe protetta da qualsiasi minaccia.

La mia guardia si distese al mio fianco, a rispettosa distanza, e si perse a osservare il cielo schiarirsi.

Arricciai le labbra in una smorfia. Odiavo gli schemi imposti dalla società. E per ricalcare la mia opinione, mi strinsi a lui e poggiai la testa sul suo petto.

«Qualcuno potrebbe vederci», disse con tono divertito.

«Siamo gli unici a conoscere questo posto», ribattei stringendomi di più.

Mi avvolse con le sue braccia forti e un calore piacevole si diffuse nel mio corpo. «Ribelle come sempre».

Lo guardai negli occhi e gli feci una linguaccia.

«E testarda», aggiunse facendomi scivolare sotto il suo corpo.

Cercai di spingerlo via, ma mi bloccò le mani con la sua, grande e segnata da anni di combattimento. Il cuore perse un battito.

Mi stava fissando con uno sguardo carico di significati.

Rabbrividii, consapevole di avere la stessa luce negli occhi. Non lo allontanai più quando si chinò, le sue labbra quasi sopra le mie. Aspettavo quel bacio da tanto.

Mi svegliai di scatto e la notte ricambiò il mio sguardo. L’album dei Metallica era finito e un ronzio mi stava riempiendo le orecchie. Una voce ovattata mi riportò del tutto al presente.

Azzardai un’occhiata all’oggetto del mio sogno. Stava parlando al telefono che avevo cercato di sbloccare prima, un leggero sorriso sulle labbra.

Il mio cuore accelerò il battito. Perché diamine avevo fatto un sogno del genere? Dovevo essermi fumata il cervello.

Un’idea mi lampeggiò in testa. Ero quasi certa che l’interlocutore fosse la Mynnie del messaggio. Non potevo essere sicura che fosse una donna, ma conoscendo il soggetto sapevo che fosse così. Chiusi gli occhi e feci finta di dormire. Stando attenta a non farmi notare, mi tolsi la cuffia dall’orecchio di destra. Forse avrei capito dove fossimo diretti.

«Come ai vecchi tempi».

Il tono dolce e nostalgico mi fece rimescolare lo stomaco. Andiamo, non ero mica gelosa. Eppure, il bruciore era inequivocabile.

«E va bene, lo farò», disse ridendo.

Mi morsi le labbra per stare zitta. Non potevo farmi scoprire.

«No, siamo già fuori. A circa due ore e mezza da Albuquerque».

Smisi di respirare. Cosa diavolo ci facevamo lì?

«Alle nove. Mi fermerò al motel di sempre. Preferisco non abbassare la guardia, almeno fino ad Anchorage».

Per poco non mi venne un colpo. Anchorage? Sperai vivamente di aver sentito male. Non mi stava portando in Alaska, vero?

«No, è con me». Abbassò la voce. «Sta dormendo».

Almeno non si era accorto che lo stessi ascoltando.

«No, non sa nulla. Non posso dirglielo». Una nota di dolore gli spezzò la voce. «Non voglio perderla. Se fallisco, è la fine».

Fine? Perderla? Cos’era questa storia?

Avrei voluto chiedergli spiegazioni, ma così facendo mi sarei tradita. Perciò rimasi muta e continuai a fingere di dormire. La mia mente, però, era un ammasso di pensieri senza senso. Ero più confusa che mai, soprattutto dalla sua intenzione di portarmi al Nord.

Non aveva aggiunto altro, probabilmente perché aveva chiuso la chiamata. Un paio di minuti dopo, l’auto si fermò e il motore si spense.

Il motel di sempre, immaginai. Aspettai che uscisse per potermi svegliare, ma mi venne un mezzo infarto.

Mi stava accarezzando una guancia.

Quel contatto mi turbò profondamente. Mi stupii dell’autocontrollo che stavo avendo, ma non reagire era quasi impossibile. Specie perché dentro avevo un tornado di emozioni.

«Ti proteggerò anche questa volta, anche se dovessi morire», mi sussurrò e mi posò un bacio sulla fronte. Poi, il suono della portiera che si chiuse riempì la notte.

Aspettai un paio di minuti, dopo i quali spalancai gli occhi. Cosa diavolo gli era preso? Non era lo stesso ragazzo che mi chiamava uccellino e che era fastidioso oltre ogni limite. Era stato di una dolcezza disarmante. Un dolore da mozzare il fiato mi strinse il cuore.

Mi passai una mano sul viso e la sentii bagnata. Stavo piangendo, e non ne capivo la ragione. Era come se il mio corpo non mi fosse più appartenuto.

Due colpi sordi mi disturbarono i pensieri.

Mi voltai verso il finestrino e incontrai i suoi occhi. Colsi una nota diversa nelle sue iridi dorate. Qualcosa che prima non avevo visto.

«Andiamo», mi disse dopo avermi aperto la portiera.

Mi asciugai le lacrime, imitando il gesto di strofinarmi gli occhi dopo un risveglio forzato, e uscii. «So aprirmela anche da sola», sibilai. L’unica arma che mi era rimasta era la mia lingua tagliente, perciò l’avrei usata senza remore.

Alzò un sopracciglio e ignorò il mio tono battagliero. Recuperò il suo borsone e un secondo dal bagagliaio.

Impallidii. «Dove l’hai preso?»

Sorrise. «Penso che tu lo sappia». Prese qualcosa dalla tasca del cappotto e me lo porse.

Mi ritrovai in mano il mio passaporto. Ero troppo sorpresa per ribattere.

«Ho sonno». Detto questo partì verso l’edificio. La luce blu dell’insegna lo illuminava.

«Sei entrato in casa mia!» Lo raggiunsi di corsa.

«Quando?», gli chiesi, immaginando già la risposta.

Superò le porte scorrevoli. Si fermò davanti al banco della reception. Una signora sulla cinquantina mi sorrise.

«Mentre eri al cimitero».

«È illegale, lo sai?»

«Tecnicamente no, se per entrare ho usato le chiavi».

Gli improperi mi morirono sulle labbra. Portai automaticamente la mano alla tasca e constatai che le chiavi non c’erano.

Me le sventolò sotto il naso. «Dovresti stare attenta a ciò che perdi quando cadi».

Il ricordo di un bagliore dorato mi mozzò il respiro. «Eri tu al cimitero!»

Non annuì, ma il suo sguardo affermò la mia supposizione.

Rabbrividii. Altro che al sicuro, ero nelle mani di uno psicopatico.

«Buona notte», ci augurò la donna, cordiale.

«Anche a lei, Cindy», rispose Mr. ti-seguo-ovunque-peggio-della-tua-ombra. Sparì su per le scale.

Prima di seguirlo, decisi che me ne sarei scappata quella notte stessa. Ne andava della mia stessa vita.

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