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Say Something I’m Giving Up On You
Amarillo
30
dicembre, ore 21:07
La
città scorreva veloce.
Le luci si mescolavano ai fiocchi di neve sempre più grossi. Era come
osservare
la tela di un pittore un po’ troppo moderno.
Una
morsa mi strinse
il cuore. M’immaginai di essere a casa, avvolta in una coperta, a
chiacchierare
con Derek e a bere un tè, prima di andare a letto. Mi strinsi le
braccia
intorno al corpo e cercai di darmi un po’ di calore.
Una
coperta mi piombò
in grembo. «Copriti».
La
osservai per un
paio di secondi, indecisa se accettarla o meno. «Potresti alzare il
riscaldamento»,
borbottai.
Mi
lanciò un’occhiata
sufficiente. «È rotto».
Ignorai
il sarcasmo. Un
invitante tepore mi stava pervadendo. Mi ero promessa di non
fraternizzarci, ma
sapevo che quella convivenza forzata sarebbe durata più di quanto
avessi
voluto. E in più, il freddo era troppo pungente. Una coperta non
avrebbe fatto
male a nessuno.
Slacciai
la cintura,
mi avvolsi con la stoffa e la riallacciai. Avrebbe dovuto proteggermi,
ma mi fece
sentire in trappola.
Ritornai
nel mio
silenzio e lasciai vagare i pensieri. Sapevo già dove sarebbero andati,
ma non
potevo fermarli. Le parole di Derek mi avevano lasciata nello sconforto
più
totale.
Mai
prima di allora
avevo provato tanta paura per la sua partenza. Ogni volta ero sicura
del suo
ritorno. Doveva, altrimenti avrei rischiato di finire in una casa
famiglia, ma
ora… Il problema non si poneva più. Fra meno di tre ore sarei diventata
maggiorenne e anche se gli fosse accaduto qualcosa, lo avrei solo perso.
Un
terrore che non
avevo mai scordato mi avvolse. Mi si mozzò il respiro e dovetti
ricacciare giù
il nodo che avevo in gola. Mi aggrappai alla coperta per non affondare
nel vuoto
freddo che avevo nel petto.
«Ritornerà».
La sua
voce assunse un tono dolce.
Lo
fissai sospettosa.
Stava forse cercando di tirarmi su il morale?
Guidava
con una mano
sola. L’altro braccio era poggiato alla portiera e sfiorava il volante
con le
dita di tanto in tanto. Le luci della città gli carezzavano il viso
bello e rilassato.
Lo
invidiai. Avrei
voluto rilassarmi anche io, ma con tutti quei pensieri in testa era
quasi
impossibile.
«Fidati
di lui».
Distolsi
lo sguardo e
annuii, riluttante. Anche Derek me lo aveva detto, prima di andarsene.
«Fidati
di me,
sorellina», mi aveva sussurrato abbracciandomi. «Tornerò, te lo
prometto».
Sapevamo
entrambi che
era una promessa vuota. Non ero più una bambina, e per quanto avessi
voluto
crederci, il terrore rimaneva. Si nascondeva in un angolo, in attesa di
dilagarsi.
L’auto
si fermò.
Guardai
al di là del
vetro.
Un
distributore della
benzina ricambiò il mio sguardo. Dietro, un negozio ricoperto di
graffiti più o
meno osceni era più buio della notte. Aveva l’aria di essere
abbandonato da
decenni.
Il
mio accompagnatore
spense il motore e uscì. L’aria fredda entrò nell’abitacolo, ma non fu
quello a
farmi rabbrividire. Sapevo dove ci trovavamo.
Mi
affrettai a
slacciare la cintura e uscii anche io. Ignorai l’aria gelata e gli
bloccai la
strada.
«Chiudi
la portiera. Farà
un freddo cane».
Incrociai
le braccia
e non mi mossi. Il mio sguardo sprizzava scintille. «Non siamo a casa».
Lui
alzò le spalle e
mi passò di fianco.
Lo
presi per un
braccio. Una scossa elettrica mi attraversò dalla testa ai piedi. Il
formicolio
ritornò e aumentò quando i suoi occhi si fissarono nei miei. Le parole
mi
morirono sulle labbra.
Aveva
avvicinato il
viso al mio, a una distanza pericolosa. L’oro nelle sue iridi divenne
scuro e
profondo. «Torna in auto».
Il
suo tono non
ammetteva repliche. Avrei fatto come diceva, ma qualcosa nelle sue
parole mi
infastidì e la mia testardaggine non si fece pregare a uscire. Gli
lasciai il
braccio e accorciai la distanza fra le nostre facce, fino a sentire il
suo
fiato sulla pelle. Ignorando il rimescolamento che avevo nello stomaco,
lo
guardai severa. «I patti erano diversi».
«Ho
deciso di
cambiarli».
Alzai
un sopracciglio
e trattenni un insulto. «E perché, di grazia?»
«Mi
andava di farlo».
E non mi risparmiò il suo solito sorriso di scherno.
Lo
avrei ammazzato
con le mie stesse mani, se non fosse stato tanto più alto e forte di
me. Era
l’essere più fastidioso che avessi mai conosciuto. Sarei impazzita a
rimanere
con lui.
«Bene,
va anche a me
di cambiarli», sibilai allontanandomi. «Puoi andare dove ti pare, ma
scordati
che io venga con te».
Gli
voltai le spalle e
presi la direzione dalla quale eravamo arrivati. Era un’idiozia, specie
perché
ero a piedi e lontana chilometri da casa, ma non lo avrei seguito. Ero
stata a
quel gioco abbastanza.
Mi
acciuffò per il
cappuccio, quasi strangolandomi.
Dovetti
indietreggiare, ma subito scattai in avanti per liberarmi.
Un
rumore secco
riempì la notte.
Rimasi
senza parole
per alcuni istanti. Non riuscivo a crederci. «Me l’hai rotto!»,
esclamai
furiosa e mi voltai, obbligandolo a lasciarmi andare.
Si
strinse nelle
spalle. «Avevi solo da non andartene».
Che
disgraziato.
«Sono
libera di fare
ciò che voglio».
Il
suo sorriso
ritornò. Incrociò le braccia sul petto e mi lanciò uno sguardo
divertito. «Assolutamente».
Aprii
bocca per
ribattere, ma proseguì il suo discorsetto. «Ma ricorda che le chiavi le
ho io,
e a meno che tu non voglia farti la strada a piedi, ti conviene
smettere di
fare i capricci e tornare in auto».
Strinsi
le mani a
pugno. Aveva ragione, dannazione. Non potevo vagare per la città di
notte.
Eravamo nella periferia ovest e la sua fama non era delle migliori. Non
avrei
trovato aiuto fra quegli edifici malmessi e poco invitanti. Ero più al
sicuro
con Mr. ti-porto-dove-voglio.
Con
gli occhi che
sprizzavano scintille, me ne tornai all’auto e ci salii.
«Ottima
scelta».
Chiusi
la portiera
con forza. Mi sentivo in trappola, altro che al sicuro. Ripensai a ciò
che mi
aveva detto Derek per legarmi le mani.
«Ti
prego, Mel, vai
con lui. L’ho promesso a mamma e papà di proteggerti a qualsiasi costo».
Come
potevo dirgli di
no? Sapeva bene che nominandoli non mi avrebbe dato scelta. Anche se
per legge
potevo benissimo starmene da sola e continuare a vivere la mia normale
esistenza, non potevo farlo per lui. Lo avrebbe preoccupato a morte e
non
poteva lasciarsi distrarre da nulla. Specie quando doveva andare in
missione.
Perciò
avevo
sospirato ed ero rimasta con quel tiranno odioso. Eravamo entrati nel
ristorante, ma mi ero rifiutata di toccare cibo. Non tanto per la
testardaggine, ma quanto per la mancanza di appetito. Cosa che mi
capitava solo
una volta l’anno, nell’anniversario della morte dei miei.
Poggiai
la testa al
sedile e chiusi gli occhi. Era disarmante la facilità con la quale la
vita
veniva gettata alle ortiche. Quella mattina mi ero svegliata nel mio
letto e
quella notte chissà dove avrei dormito.
Cosa
aveva in mente?
Mi
ero preparata a
vivere con la sua squisita presenza in casa, ma era dall’altra parte di
Amarillo. Era evidente che volesse prendere il deserto.
Rabbrividii.
Le
possibilità erano pressoché infinite. Per la prima volta mi sentii
infinitamente piccola di fronte all’immensità del pianeta.
Una
melodia proruppe
nell’abitacolo.
Sobbalzai
e mi resi
conto che era la suoneria di un cellulare. Mi osservai intorno e capii
che
proveniva dalle mie spalle. Una luce passava attraverso la tasca di uno
zaino.
Sapevo
di star per
fare una cosa non tanto onesta, ma non avevo tempo per farmi degli
scrupoli.
Lanciai un’occhiata furtiva all’esterno e, non vedendolo, mi allungai e
presi
il cellulare.
Il
nome Mynnie campeggiava
sul display. Non ebbi il tempo di rispondere perché la chiamata si
fermò e lo
schermo si spense.
Lo
riaccesi, ma
rimasi delusa. Era bloccato, naturalmente. Tentai di indovinare il pin,
ma
riuscii a bloccarlo per un minuto.
Imprecai
e mi guardai
di nuovo intorno. Poteva tornare da un momento all’altro. Non volevo
farmi
scoprire, ma dovevo capire cosa avesse in mente.
L’aggeggio
vibrò e si
illuminò ancora. Era arrivato un messaggio e l’anteprima mostrava parte
del
contenuto.
“Tutto
pronto. Dimmi
quando sei ad An…”.
Dannazione.
Doveva
proprio interrompersi sul nome della città?
Trattenni
una seconda
imprecazione e lo misi a posto giusto in tempo.
La
portiera si aprì e
il mio protettore/rapitore si sedette al volante. Mi porse un qualcosa
di nero.
«Mettila nel cruscotto».
Non
fu necessario
chiedergli cosa fosse. Derek ne aveva una simile. «Che vuoi farci con
una
pistola?»
«Proteggerci
le
chiappe, uccellino», mi rispose mettendo in moto. Bloccò le porte e
ripartì, verso
il deserto e lontano da casa.
***
Da
qualche parte sulla Mother Road
30
dicembre, ore 22:13
La
luce dell’alba filtrava
attraverso i rami. Gli uccelli stavano cominciando a cinguettare e
l’acqua del
torrente creava un sottofondo rilassante.
Chiusi
gli occhi e
inspirai profondamente. Il profumo della lavanda mi avvolse e mi
inebriò.
Sorrisi, rendendomi conto di essere finalmente felice.
«Siete
più splendente
del sole stesso, mia Signora».
Aprii
gli occhi e il
mio sorriso si allargò. «Guerriero, mi lusingate».
Un
paio di iridi
dorate ricambiarono il mio sguardo. Indossava un’armatura color rame e
in cinta
portava una spada che sapevo mi avrebbe protetta da qualsiasi minaccia.
La
mia guardia si
distese al mio fianco, a rispettosa distanza, e si perse a osservare il
cielo
schiarirsi.
Arricciai
le labbra
in una smorfia. Odiavo gli schemi imposti dalla società. E per
ricalcare la mia
opinione, mi strinsi a lui e poggiai la testa sul suo petto.
«Qualcuno
potrebbe
vederci», disse con tono divertito.
«Siamo
gli unici a
conoscere questo posto», ribattei stringendomi di più.
Mi
avvolse con le sue
braccia forti e un calore piacevole si diffuse nel mio corpo. «Ribelle
come
sempre».
Lo
guardai negli
occhi e gli feci una linguaccia.
«E
testarda»,
aggiunse facendomi scivolare sotto il suo corpo.
Cercai
di spingerlo
via, ma mi bloccò le mani con la sua, grande e segnata da anni di
combattimento. Il cuore perse un battito.
Mi
stava fissando con
uno sguardo carico di significati.
Rabbrividii,
consapevole di avere la stessa luce negli occhi. Non lo allontanai più
quando
si chinò, le sue labbra quasi sopra le mie. Aspettavo quel bacio da
tanto.
Mi
svegliai di scatto
e la notte ricambiò il mio sguardo. L’album dei Metallica era finito e
un
ronzio mi stava riempiendo le orecchie. Una voce ovattata mi riportò
del tutto
al presente.
Azzardai
un’occhiata
all’oggetto del mio sogno. Stava parlando al telefono che avevo cercato
di
sbloccare prima, un leggero sorriso sulle labbra.
Il
mio cuore accelerò
il battito. Perché diamine avevo fatto un sogno del genere? Dovevo
essermi
fumata il cervello.
Un’idea
mi lampeggiò
in testa. Ero quasi certa che l’interlocutore fosse la Mynnie del
messaggio.
Non potevo essere sicura che fosse una donna, ma conoscendo il soggetto
sapevo
che fosse così. Chiusi gli occhi e feci finta di dormire. Stando
attenta a non
farmi notare, mi tolsi la cuffia dall’orecchio di destra. Forse avrei
capito
dove fossimo diretti.
«Come
ai vecchi
tempi».
Il
tono dolce e
nostalgico mi fece rimescolare lo stomaco. Andiamo, non ero mica
gelosa.
Eppure, il bruciore era inequivocabile.
«E
va bene, lo farò»,
disse ridendo.
Mi
morsi le labbra
per stare zitta. Non potevo farmi scoprire.
«No,
siamo già fuori.
A circa due ore e mezza da Albuquerque».
Smisi
di respirare.
Cosa diavolo ci facevamo lì?
«Alle
nove. Mi
fermerò al motel di sempre. Preferisco non abbassare la guardia, almeno
fino ad
Anchorage».
Per
poco non mi venne
un colpo. Anchorage? Sperai vivamente di aver sentito male. Non mi
stava
portando in Alaska, vero?
«No,
è con me».
Abbassò la voce. «Sta dormendo».
Almeno
non si era
accorto che lo stessi ascoltando.
«No,
non sa nulla.
Non posso dirglielo». Una nota di dolore gli spezzò la voce. «Non
voglio
perderla. Se fallisco, è la fine».
Fine?
Perderla?
Cos’era questa storia?
Avrei
voluto
chiedergli spiegazioni, ma così facendo mi sarei tradita. Perciò rimasi
muta e
continuai a fingere di dormire. La mia mente, però, era un ammasso di
pensieri
senza senso. Ero più confusa che mai, soprattutto dalla sua intenzione
di
portarmi al Nord.
Non
aveva aggiunto
altro, probabilmente perché aveva chiuso la chiamata. Un paio di minuti
dopo,
l’auto si fermò e il motore si spense.
Il
motel di sempre, immaginai. Aspettai
che
uscisse per potermi svegliare, ma mi venne un mezzo infarto.
Mi
stava accarezzando
una guancia.
Quel
contatto mi
turbò profondamente. Mi stupii dell’autocontrollo che stavo avendo, ma
non
reagire era quasi impossibile. Specie perché dentro avevo un tornado di
emozioni.
«Ti
proteggerò anche
questa volta, anche se dovessi morire», mi sussurrò e mi posò un bacio
sulla
fronte. Poi, il suono della portiera che si chiuse riempì la notte.
Aspettai
un paio di
minuti, dopo i quali spalancai gli occhi. Cosa diavolo gli era preso?
Non era
lo stesso ragazzo che mi chiamava uccellino
e che era fastidioso oltre ogni limite. Era stato di una dolcezza
disarmante. Un
dolore da mozzare il fiato mi strinse il cuore.
Mi
passai una mano
sul viso e la sentii bagnata. Stavo piangendo, e non ne capivo la
ragione. Era
come se il mio corpo non mi fosse più appartenuto.
Due
colpi sordi mi
disturbarono i pensieri.
Mi
voltai verso il
finestrino e incontrai i suoi occhi. Colsi una nota diversa nelle sue
iridi
dorate. Qualcosa che prima non avevo visto.
«Andiamo»,
mi disse
dopo avermi aperto la portiera.
Mi
asciugai le
lacrime, imitando il gesto di strofinarmi gli occhi dopo un risveglio
forzato,
e uscii. «So aprirmela anche da sola», sibilai. L’unica arma che mi era
rimasta
era la mia lingua tagliente, perciò l’avrei usata senza remore.
Alzò
un sopracciglio
e ignorò il mio tono battagliero. Recuperò il suo borsone e un secondo
dal
bagagliaio.
Impallidii.
«Dove
l’hai preso?»
Sorrise.
«Penso che
tu lo sappia». Prese qualcosa dalla tasca del cappotto e me lo porse.
Mi
ritrovai in mano
il mio passaporto. Ero troppo sorpresa per ribattere.
«Ho
sonno». Detto
questo partì verso l’edificio. La luce blu dell’insegna lo illuminava.
«Sei
entrato in casa
mia!» Lo raggiunsi di corsa.
«Quando?»,
gli
chiesi, immaginando già la risposta.
Superò
le porte
scorrevoli. Si fermò davanti al banco della reception. Una signora
sulla
cinquantina mi sorrise.
«Mentre
eri al
cimitero».
«È
illegale, lo sai?»
«Tecnicamente
no, se
per entrare ho usato le chiavi».
Gli
improperi mi
morirono sulle labbra. Portai automaticamente la mano alla tasca e
constatai
che le chiavi non c’erano.
Me
le sventolò sotto
il naso. «Dovresti stare attenta a ciò che perdi quando cadi».
Il
ricordo di un
bagliore dorato mi mozzò il respiro. «Eri tu al cimitero!»
Non
annuì, ma il suo
sguardo affermò la mia supposizione.
Rabbrividii.
Altro
che al sicuro, ero nelle mani di uno psicopatico.
«Buona
notte», ci
augurò la donna, cordiale.
«Anche
a lei, Cindy»,
rispose Mr. ti-seguo-ovunque-peggio-della-tua-ombra. Sparì su per le
scale.
Prima
di seguirlo,
decisi che me ne sarei scappata quella notte stessa. Ne andava della
mia stessa
vita.
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