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di WYWH
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Grundshule ***
Capitolo 2: *** I:Wohltätigkeit ***
Capitolo 3: *** II: Allianz Arena ***
Capitolo 4: *** III: Eindringling ***
Capitolo 5: *** IV: Eignungstest ***
Capitolo 6: *** V: Warheit ***
Capitolo 7: *** VI: Fallen ***
Capitolo 8: *** VII: Kodomo no hi ***
Capitolo 9: *** VIII: Andréia ***
Capitolo 10: *** IX: Prellung ***
Capitolo 11: *** X: Glück ***
Capitolo 12: *** XI: Stipendium ***
Capitolo 13: *** XII: Alptraum ***
Capitolo 14: *** XIII: Hilfe ***
Capitolo 15: *** XIV: Hoffnung ***
Capitolo 16: *** XV: Adoptieren ***
Capitolo 17: *** XVI: Balance ***
Capitolo 18: *** XVII: Familienrecht ***
Capitolo 19: *** XVIII: Süße Traurigkeit ***
Capitolo 20: *** Epilogo: Kleine Schritte ***



Capitolo 1
*** Prologo: Grundshule ***


Prologo: Grundshule

 

Sento suonare la campanella, devo sbrigarmi a scrivere nel diario.

“...fino a pag 14. Fare Esercizi pag.15 dal numero 1 al numero 4”

Afferro diario e astuccio e li ficco dentro la cartella mentre sento i miei compagni di classe gridare e agitarsi, la signorina Bauer immediatamente urla un “Bambini!” che fa zittire tutti per qualche secondo, ma tanto le chiacchiere riprendono.

Mi sistemo la felpa e corro a prendere il mio berretto grigio fuori dalla classe, calcandomelo bene in testa, chissà chi mi prenderà la mano oggi, a nessuno piace stare in fondo alla fila; torno in classe a prendere lo zaino, e Gerta mi aspetta accanto al mio banco con un sorriso.

-Andrea! Andiamo?-

Ultimamente Gerta mi chiede spesso di giocare con lei, soprattutto a calcio, vuole imparare a fare il portiere come me, pensa che sia “fico”; io guardo le altre bambina della classe, come al solito non hanno l’aria contenta di vedermi accanto alla loro amichetta del cuore.

-Bambine in fila!-

La signora Bauer ci richiama di nuovo, e io prendo la mano di Gerta, è molto morbida e ha la pelle molto più chiara della mia. Gerta è una bambina bellissima: ha i ricci biondi e gli occhi azzurri, piace a tutti in classe, anche agli insegnanti e alle bidelle.

Però gli insegnanti dicono sempre che è “bella tanto quanto capricciosa”, ma secondo me si sbagliano: con me lei non si comporta mai così.

-Anche oggi ti alleni Andrea?-

-Si.-

-Domani mi insegni qualcosa allora?-

-La maestra mi ha detto che tua mamma non vuole, che ti fai male.-

Mi ha preso da parte oggi all’intervallo. Mi ha detto:

“Andrea, so che ti piace tanto il calcio, ma la mamma di Gerta si è lamentata perché l’ultima volta si è sbucciata il ginocchio e ha rovinato il suo vestito. E’ meglio se per un po’ fate giochi più tranquilli, ok?”

Mi dispiaciuto un sacco aver fatto arrabbiare la mamma di Gerta, sembra una signora così bella e buona.

-Ma no, non mi faccio male! Per favore!-

-Però ti sporchi i vestiti.-

-Dai Andrea, ti prego! Insegnami!-

-Guarda che io non sono così brava…-

-Ma sì invece! Ti ho vista! Sei bravissima, giochi con i maschi!-

Quando facciamo le squadre i maschi della mia classe mi prendono sempre per prima; oggi Gustav mi ha fatto vedere il suo album di figurine, è quasi completo. Mi piacerebbe poter scambiare figurine con lui, ma il mio ultimo album me l’hanno preso Albert e gli altri.

Ho ancora le mie figurine preferite ben nascoste nella mia scatola, ma quelle non le scambierei per niente al mondo.

-Dai, per favore!-

-...va bene.-

Non voglio che Gerta si faccia male o si sporchi, ma non voglio nemmeno renderla triste; forse potremmo fare qualche passaggio assieme, se faccio piano sono sicura di non rovinarle le scarpe.

Mi piacerebbe tanto dire a Gerta che i suoi vestiti sono proprio belli, ma le altre già glielo dicono e poi non riesco mai  a parlarle per prima, mi vergogno sempre.

Scendiamo le scale e la luce del sole ci colpisce gli occhi quando usciamo dal portone principale; io come al solito lascio andare la mano di Gerta, sua madre è sempre in prima fila che l’attende.

-A domani Andrea!-

Lei sorride e corre dalla mamma, che la prende in braccio e le dà un grande bacio sulla guancia. E’ proprio una bella mamma, bionda come Gerta.

Tutti i miei compagni raggiungono i loro papà e le loro mamme mentre io, come al solito, aspetto accanto alla maestra, oggi per altro sono da sola perché Cilly è a letto con la febbre, ho dovuto scrivere per bene tutto sul diario anche per poterle passare i compiti.

-Guarda Andrea, sono venuti a prendere.-

La signorina Bauer indica con il dito e guardo in quella direzione; vedo il signor Weiner salutarmi con la mano appena fuori dal cancello principale.

-Ci vediamo domani Andrea. Salutami Cilly.-

-Buona giornata signorina Bauer.-

Scendo le scale e mi avvio dal signor Weiner, è facile riconoscerlo perché ha una spessa montatura degli occhiali di colore nero; appena mi si avvicina mi porge il pugno chiuso, e io ricambio. Anche se mi sento un po’ in imbarazzo quando lo facciamo.

Lui di rimando mi da un colpo leggero sulla visiera del berretto.

-Tutto bene a scuola Andrea?-

-Si, grazie Weiner.-

Mi prende lo zaino dalle spalle e mi posa una mano sulla schiena, accompagnandomi al pulmino bianco con una scritta blu sulle portiere laterali con tre alberi stilizzati: “Drei Keifern Waisenhaus”.

Orfanotrofio dei Tre Pini.

Alzo lo sguardo, riconosco subito i capelli biondo scuro di Albert che sta ridendo e spingendo gli altri.

Vado dalla portiera, stavolta è aperta, ma davanti ci sta Sibo a bloccarmi l’ingresso.

-Paga pedaggio.-

Di tutta la squadra lui è il più grosso, litigare con lui è stupido: blocca con il corpo e picchia in faccia. Per fortuna non avevo mangiato la mia merendina stamattina, così la tiro fuori dalla tasca dei pantaloni e gliela porgo.

E’ una briosche, ma la forma è quella di una pizzetta.

-...che schifezza. Beh non mi aspetto niente di diverso da te.-

Si prende la merendina, schiacciata perché nello zaino era finita in mezzo a due libri; si scansa mentre passa il signor Weiner e vado velocemente a cercarmi un posto dove sedermi.

Gli altri ragazzi lo guardano con aria divertita mentre io guardo Brigida, che scansa il suo zaino per farmi sedere accanto a lei; a lei non piace stare accanto al finestrino, così ne approfitto per guardare fuori mentre il pulmino bianco parte.

Mi tolgo veloce il berretto grigio e me lo tengo sulle gambe, non voglio che me lo prendano o cerchino di togliermelo dandomi degli schiaffi; una volta Albert me lo aveva buttato fuori dal finestrino perché lo avevo fermato dal prendere in giro Lorenz, e il signor Weiner era stato costretto a fermarsi per farmi scendere e recuperarlo.

Non posso perdere questo berretto: è il regalo del mio papà prima di portarmi all’orfanotrofio.

Il pulmino fa tutta Effnerstraße, dal mio finestrino riesco a vedere il Giardino Inglese, con la mia classe ci siamo stati una volta in gita, è tanto grande e uno di noi si era allontanato troppo; a me e Cilly ci è piaciuta tantissimo la Torre Cinese, sembrava come quelle del libro che avevamo nella biblioteca dell’orfanotrofio.

Cilly mi dice sempre che le piacerebbe vedere Cina e Giappone, le piacciono tanto i castelli e i palazzi che si vedono nei cartoni animati e nei libri.

Il pulmino gira a destra, salendo a Johanneskirchen Strasse per poi prendere Furkhofstrasse, riconosco i tre pini accanto all’orfanotrofio alti e verdi; rallentiamo, e arriviamo al parcheggio. I ragazzi non aspettano neanche che ci fermiamo per mettersi davanti alla portiera.

Preferisco aspettare e scendere per ultima mentre vedo fuori dalla finestra, vedo degli adulti uscire dal nostro edificio.

-Ah, hai visto Andrea?-

-Si Brigida.-

-Secondo te sono venuti a visitare di nuovo Cilly?-

Annuisco e Brigida mi parla a bassa voce.

-Pensi la porteranno via presto?-

Di solito le mamme e i papà ci impiegano qualche mese prima di venire e portarsi via i nostri compagni, pertanto alzo le spalle non sapendo che dirle.

-Non lo so.-

Intanto c’è spazio per scendere, e Brigida recupera lo zaino sotto il sedile mentre la seguo e scendo per recuperare il mio nel bagagliaio.

Gli altri intanto entrano dentro mentre Weiner ci grida a tutti quelli della squadra.

-Ricordatevi che oggi pomeriggio abbiamo allenamento.

Mi raccomando Andrea, questo pomeriggio diamoci dentro, ok super portiere?-

Annuisco mentre lui fa l’occhiolino.

-Tra l’altro ho una bella notizia per tutti, l’allenamento di oggi andrà alla grande.-

Che fossimo riusciti ad entrare nel campionato scolastico? L’anno scorso avevano fatto storie perché io ero portiere della squadra, ma nel regolamento non era specificato che non potessero esserci femmine.

Ricordo che Albert e gli altri erano arrabbiatissimi, mi fecero dispetti per almeno un mese, fu davvero difficile allenarsi.

Mi metto lo zaino in spalla e mi avvio dentro l’orfanotrofio, se davvero siamo riusciti ad entrare nel campionato forse devo chiedere alla signora Abigail di tagliarmi i capelli: oramai sono lunghi fino alle spalle, senza berretto si vede subito che sono una ragazza, se me li taglio forse non sarà strano per le altre squadre vedermi in porta.

Ah, devo passare i compiti a Cilly.

Vado verso il suo dormitorio, purtroppo siamo agli opposti dell’orfanotrofio, però lei è da sempre la mia migliore amica; ultimamente due signori le fanno sempre visita e la signora Abigail sostiene che non ci sarebbe voluto molto tempo prima che lei li potesse chiamare mamma e papà.

Cilly però non è molto contenta, perché dice sempre che non vuole separarsi da me, e io le dico sempre che possiamo sentirci con le lettere e il telefono, senza contare che ci vedremo sempre a scuola.

Una volta ho sentito parlare la direttrice e la signora Abigail, entrambe erano molto contente che una bambina della nostra età stesse riuscendo ad avere un’adozione così serena.

Le mamme e i papà tendono a fare fatica ad adottare bambini con 10 anni di età.

Busso alla porta della stanza di Cilly e aspetto fin quando non mi viene dato il permesso di entrare.

La facciona della signora Abigail è sorridente mentre mi fa entrare.

-Buongiorno.-

-Buongiorno Andrea, tutto bene a scuola?-

Annuisco e mi volto verso Cilly, che sorride contenta, e subito mi metto seduta ai piedi del suo letto.

-Come stai?-

-Bene, la febbre è scesa.-

-Ho visto che sono venuti a trovarti i due signori. Com’è andata?-

La signora Abigail risponde al posto di Cilly, che non sembra troppo contenta dalla faccia.

-Per le vacanze estive Cilly andrà a stare con la sua mamma e il suo papà.-

Una settimana.

-Ma è fantastico Cilly!-

-Ho chiesto loro se potevo continuare a vederti e parlarti, e mi hanno detto che sei sempre benvenuta a farci visita, ok?-

Io annuisco.

-Verrò a trovarti quando mi daranno il permesso! Gli hai detto che vuoi fare il Ginnasio?-

-Si, gli ho fatto anche vedere i miei risultati. Loro erano molto contenti di questi, la signora Mariam dice che mi aiuterà con i compiti.-

-Cilly, oramai puoi chiamarla “mamma”.-

Entrambe ci voltiamo sorprese, poi guardo Cilly, che arrossisce e scuote la testa, guardando il comodino.

Lei è una dei pochi ad avere una foto dei suoi precedenti genitori, la tiene dentro il suo cassetto e non la fa vedere a nessuno, solo io ho avuto l’onore di poterla toccare e guardare; lei è piccola piccola tra le braccia della sua mamma, il suo papà aveva due bei baffi.

-Invece Andrea, com’è andata a scuola? Cos’è successo?-

Le racconto della giornata, e a bassa voce le dico di Sibo e lei commenta con un “quello è solo un ciccione!” con aria cattiva. Lei di rimando mi racconta che la mattinata era stata molto tranquilla, anche troppo dato che si era un po’ annoiata.

Poi le passo i compiti e cominciamo a studiare assieme sul suo letto, controllate dalla signora Abigail, fino a quando non mi richiama.

-Andrea, sarà meglio che ti avvii in camera a cambiarti se hai allenamento.-

Alzo la testa dal libro da cui stavo studiando con Cilly e le guardo l’orologio al polso: cinque e mezza.

-Accidenti.-

-Lascia pure qui lo zaino, te lo porto io in stanza.-

-Grazie signora Abigail. A dopo Cilly!-

-Ciao!-

Corro verso la mia camera e mi tolgo velocemente i pantaloni e la maglietta, buttandoli sul letto mentre mi infilo la divisa e sopra la tuta.

Ah cavolo mi sono dimenticata di dire alla signora Abigail dei miei capelli!

Divisa, c’è. Tuta, c’è. Berretto è in testa. Borsone è qui. Mancano i miei guanti.

Mi accuccio a terra e infilo il braccio sotto il letto, tastando. La scatola...la scatola...Eccola!

E’ una vecchia scatola da scarpe nera e la apro: dentro ci sono i miei guanti da portiere rossi e neri, controllo se lo scotch sul palmo si è tolto, ho dovuto usare quello per tappare i buchi, sono molto vecchi e pian piano si stanno rompendo.

Controllo velocemente la scatola, le mie figurine ci sono ancora. Ero stata davvero fortunata, quella bustina conteneva quattro doppioni di figurine rarissime; le guardo molto contenta.

Ah devo sbrigarmi! Chiudo la scatola e la infilo di nuovo sotto il letto, afferro il borsone e mi metto a correre senza nemmeno chiudere la porta della mia camera.

-Andrea! Non si corre nei corridoi!-

-Mi scusi sono in ritardo!-

Non mi volto nemmeno a vedere chi mi abbia richiamato, uscendo dalle porte dietro dell’orfanotrofio e correndo verso il parco; la Rot-Weiss FC ci lasciava usare il suo campo di allenamento a giorni alterni.

Gli altri sono già lì, rallento la corsa ed entro in campo, posando il mio borsone dietro la porta.

-Ed ecco la nostra super portiere! Allora, ci siamo tutti?-

Non mi piace che il signor Weiner mi chiami così, attira l’attenzione degli altri e, a fine allenamento, tendono sempre a prendermi in giro. Mi siedo in fondo al gruppo, non voglio avere nessuno alle spalle.

-Bene, prima di iniziare l’allenamento ho ottime notizie ragazzi: il nostro orfanotrofio è stato selezionato per la Summer Camp del Bayern Monaco!-

Cosa?! COSA?!

Gli altri gridano entusiasti, qualcuno salta perfino sul posto mentre io...io non so cosa pensare: potrò...potrò allenarmi anch’io? Ci sarà davvero Karl Schneider ad allenarci? Potrò...potrò imparare ad essere un vero portiere anch’io?

-Ehi un momento: ma c’è anche Andrea con noi?-

Albert mi punta il dito contro e io resto zitta. Oh ti prego dì di sì signor Weiner, dì di sì…

-Certamente, dopotutto è il nostro portiere.-

-Ma è una femmina!-

-Ci siamo informati a riguardo e abbiamo fatto sapere della nostra squadra agli organizzatori, i quali hanno valutato anche le riprese delle nostre ultime partite e hanno deciso di fare un’eccezione nei confronti di Andrea.-

Quindi...potrò andarci anch’io!!

-Oh no, ci mancava che ci seguissi anche lì.-

Albert lo dice a bassa voce, e anche gli altri non sono entusiasti, ma a me non me ne importa niente: potrò essere allenata da dei veri giocatori, potrò vederli all’opera!

So che l’SGGK non partecipa solitamente a questo tipo di attività, ma almeno potrò vedere Schneider, Katlz, o magari Levin Sephan!

-Ragazzi, questa è una grande occasione per tutti noi, pertanto diamoci sotto gli allenamenti, ok?-

-OK!-

-Ottimo! Iniziamo il riscaldamento! Cominciamo con dei giri di campo, forza!-

Devo impegnarmi, devo dimostrare a tutti che posso farcela! Devo farcela!

Mi calco il berretto sulla testa e parto a correre per prima.

 

**

 

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Capitolo 2
*** I:Wohltätigkeit ***


I:Wohltätigkeit

 

-Ecco qui le lastre, Mr Wakabayashi, e devo subito confermarle che non potrà giocare la prossima partita di campionato…-

Alzai la testa verso il medico, ebbi per un attimo la sensazione di aver già sentito quella stessa frase, un dejà-vu; forse era dovuto al fatto che mi ero fatto talmente tante volte male che oramai era una formula tarata nel mio cervello, cambiava soltanto il modo in cui mi si apostrofava: “Genzo, non potrai giocare la prossima partita”, “Wakabayashi, ho qui le tue analisi e non sono buone”.

Insomma, non c’era niente di assolutamente diverso da quella situazione: mi ero fatto seriamente male, di nuovo, ed ero genuinamente incazzato nero con il numero 11 dell’Eintracht mentre il dottore mi presentava le lastre sul tavolo bianco dello studio.

-Lei ha una lesione di II grado al retto femorale. Non le sarà possibile continuare la stagione, e badi Wakabayashi: non deve giocare, altrimenti peggiorerà ulteriormente la situazione, con il rischio di dover subire un’operazione chirurgica.-

Mi sono spaccato i polsi, fatto male alle gambe, e posso dire con certezza di aver fatto bere il mio sangue a diversi campi da calcio; pertanto non ero furioso per la lesione, ma per il modo in cui mi era stata fatta.

Quel maledetto attaccante, pur di fare gol, mi era entrato di prepotenza in scivolata, mettendomi al tappeto. Era in finale di partita, ma mi hanno dovuto tenere in cinque se no spaccavo la faccia al giocatore.

Lui aveva ricevuto il cartellino rosso, ma io avevo preso una prognosi di 30 giorni con riabilitazione inclusa!

-Inoltre le ho prescritto dei farmaci per il dolore, veda di prenderli. Prenderli, chiaro?-

Annuii seccato, non avevo neanche voglia di rispondere verbalmente al dottore, conscio del fatto che molto probabilmente non avrei resistito a fare il sarcastico sull’atteggiamento del dott.Shnauzer di farmi da balia; anzi, il mio cervello stava già caricando la frecciatina con il cognome dell’uomo e la razza canina, pertanto mi diedi alla fuga.

-Arrivederci Mr. Wakabayashi.-

-Arrivederci dottore.-

Mi aprì gentilmente la porta ma io digrignai i denti, stringendo la mano sulla stampella che mi stava sostenendo; io una stampella, ci rendiamo conto? Provai a fare la mia solita ampia falcata, ma il dolore mi bloccò quasi subito e, tirando giù qualche santo tedesco, rallentai il passo.

Ad aspettarmi fuori dall’ufficio il mio autista personale Friedrich e Karl; aveva insistito per accompagnarmi e adesso mi guardava con aria preoccupata mentre l’anziano uomo, ad un mio cenno, si allontanò a prendere la macchina.

-Allora?-

-Lesione di II grado.-

-Non ci voleva, proprio ora che dobbiamo finire le gare di ritorno.-

-Il Colonia è scarso, lo batterete anche senza me alla porta.-

-Mi preoccupa di più Stoccarda, è in ripresa.-

-Troppo indietro rispetto a noi, mal che vada basta pareggiare e rimaniamo in vetta.-

Avevamo uno stacco di 24 punti dallo Schalke, a meno che non ci fossero Tsubasa e Kojiro in campo con quella squadra la vedevo difficile per loro superarci in classifica; i tifosi avevano iniziato a cantare “Stern des Südens” per le strade di Monaco, certi che questo campionato oramai era nostro.

Mentre discutevamo del mio intento omicida contro l’11 dell’Eintracht ci avviammo all’uscita della clinica, dove fuori dalle porte ci aspettava un’orda di fotografi e giornalisti pronti ad assalirmi.

Già vedevo le testate sportive che annunciavano la fine della mia carriera.

Fortunatamente Friedrich era un autista molto efficiente e affidabile, e riuscì a mettere la macchina davanti all’entrata della clinica, costringendo i fotografi ad allontanarsi mentre si affrettava ad aprirmi la porta.

Ma non appena si aprirono le porte automatiche, il bombardamento di flash e domande ci fu comunque.

-Genzo, quali sono i risultati?-

-È vero che è una lesione grave?-

-Continuerai la stagione?-

-SGGK un commento!-

-La carriera è compromessa?-

-Genzo di qua!-

-Genzo!-

Per la seconda volta sentii una strana sensazione di dejà-vu mentre mi affrettavo, per quanto potevo, a salire in macchina mentre Karl si metteva sul sedile davanti per accelerare la partenza di Friedrich.

Mi irritava profondamente la tranquillità con cui mi chiamavano per nome: il mio cognome per loro spesso risultava troppo complicato da pronunciare, incredibile per un paese dove l’incastro delle parole è quasi a livello di sport nazionale, e la confidenza con cui usavano il mio nome era qualcosa di insopportabile.

Per questo odiavo e odio tutt’ora le interviste.

-Piuttosto, pensi di tornare in terra natia con la scusa della gamba? Magari potresti andare da tua sorella Yasu, so che è molto brava come fisioterapista.-

Gli occhi di mia sorella mi apparvero lucenti e decisi, e come sempre la prima cosa che pensai fu che era strano vedere il proprio riflesso: era diventata una donna bellissima, ma quello sguardo ci accomunava, oltre ad una testardaggine notevole e un profondo riserbo.

Oramai era da diverso tempo che i due convivevano, tanto che nostra madre stava aspettando la fatidica telefonata dove avrebbero annunciato il loro matrimonio; invece l’unica telefonata che ricevemmo fu la grande notizia che Yasu aveva aperto la sua clinica, vicino al dojo della famiglia di Ken.

Ultimamente mi aveva mandato una fotografia su Whatsapp di lei e Ken che erano andati a far visita a Hyuga e sua moglie, appena trasferiti in Italia.

Le avevo chiesto di tenermi costantemente aggiornato sulle condizioni di Hyuga dopo il loro incidente, la prima volta mi aveva telefonato in lacrime informandomi dell’accaduto, per poi richiamarmi sempre in lacrime per dirmi che entrambi erano fuori pericolo.

Per lei fu una montagna russa di emozioni, cercando di aiutare entrambi ma al tempo stesso non sapendo bene cosa fare di fronte alla loro crisi personale; io le consigliai di lasciare loro spazio e tempo, che “se volevano tornare insieme, lo avrebbero fatto”.

Mi disse che ero molto freddo con quell’affermazione, ma non me la presi molto: non sono mai stato bravo, e non ho mai avuto una vera relazione con una donna che non fosse per solo piacere sessuale.

Tornando però a quello che mi aveva detto Karl, storsi leggermente la bocca al pensiero di farmi ospitare e disturbare la quotidianità della famiglia Wakashimazu, pertanto scossi la testa.

-Troppo lungo il viaggio in Giappone, dopo un po’ avrei male alla gamba e non potrei distendermi; mi sa che dovrò rimanere inchiodato qui a Monaco.-

-Ah, allora questa volta non potrai sfuggirmi.-

Guardai il sedile anteriore dov’era seduto Karl, potevo scorgere la sua bionda capigliatura; alzando gli occhi incrociai il suo sguardo azzurro e divertito che mi guardava dallo specchietto retrovisore.

Capii qualche secondo dopo cosa voleva dire: non ero mai mancato a nessuna attività della società, mondana o meno, che fossero interviste, allenamenti, partite, ma anche serate di gala.

Però una cosa riuscivo sempre a sfuggire.

-No, scordatelo.-

I cancelli automatici della mia casa mi diedero il benvenuto, Friedrich non era tipo compassionevole e parcheggiò la macchina al suo solito posto, ovvero sotto il salice piangente vicino alla muratura: per la porta di casa mi sarei fatto i cinque-sei metri, ed ero pronto a sfuggire al discorso di Karl, peccato che mi stavo dimenticando di quella cosa in plastica e alluminio che doveva aiutarmi a camminare.

-Andiamo Genzo, sai bene che non ti chiederei mai di fare cose al di fuori del tuo elemento naturale.-

Me ne resi conto quando aprii la portiera e tentati di uscire fuori dalla macchina: non sembra, ma quando scivoli dal sedile usi entrambe le gambe, e come constatai con una fitta dolorante il “retto femorale” era coinvolto completamente; alzai gli occhi al cielo e mentalmente buttai giù dal Paradiso qualche altro santo, allungando la mano per afferrare la stampella come fosse stato il collo di una gallina.

-E tu sai bene che se c’è una cosa che non so fare è fare il babysitter.-

-Guardia che non siamo mai da soli a gestire i ragazzini: siamo sempre seguiti dai loro insegnanti o genitori, anzi a volte dobbiamo specificare che non TUTTI i genitori possono venire a partecipare al campo.-

Lui mi aspettò davanti alla portiera aperta, sapeva che se avesse osato provare a darmi una mano lo avrei ucciso con lo sguardo; con una lentezza che non faceva parte di me scesi dalla macchina, litigando con quella benedetta stampella e dirigendomi verso la porta di casa.

-Un esercito di ragazzini scalmanati da gestire assieme ai loro genitori iper protettivi che sembrano sapere sempre più di noi come si gioca a calcio? Scusami se non mi viene da saltare di gioia all’idea.-

-I genitori si ignorano, e i ragazzini sono molto più disciplinati e attenti di quanto possano sembrare.-

-Solo perché tu sei il Kaiser: Con la tua aura di luce probabilmente metteresti in soggezione San Benno.-

Karl ridacchiò divertito, ma sapevo che quel complimento non sarebbe bastato a fargli mollare l’osso su quella assurda idea; dopotutto era il Kaiser, se voleva una cosa, in un modo o nell’altro l’avrebbe ottenuta.

Isolde mi aprii la porta d’ingresso, aveva l’aria molto preoccupata e il volto leggermente pallido.

-Junge Meister, bentornato. Com’è andata dal dottore?-

-Niente di preoccupante Isolde: è solo uno stiramento, guarirà presto.-

Si, le ho mentito, ma potevo forse dirgli che avevo una lesione? Come avrebbe reagito alla notizia?

Invece sorrise sollevata, salutando Karl.

-Buongiorno signor Schneider.-

-Buongiorno a lei Isolde, tutto bene?-

-Si, la ringrazio. Mangiate qualcosa?-

-No siamo a posto. Ci mettiamo in salotto.-

La donna asserì con un cenno del capo mentre io cercavo, con la velocità che poteva darmi quella … cosa (il solo pensare che la stavo usando mi metteva i brividi) di accomodarmi sul divano.

Mi sedetti sul divano e anche quello mi fece male; oramai rischiavo di svuotare le file del Paradiso e mi voltai verso l’armadio degli alcolici.

Mi sarei dovuto alzarmi di nuovo, con tutta la manfrina del dolore, che si aggiungeva a quello per piegarsi e rialzarsi in piedi dopo essersi preso il mio Rumtopf.

La voglia di bere stava già passando quando Karl si mosse e si avvicinò all’armadio, tirando fuori il liquore e due bicchieri, facendomi sorridere divertito: me lo aveva sempre detto che, per sopportarmi, doveva essere sbronzo, altrimenti mi avrebbe preso la faccia a pugni.

Mi porse il bicchiere e si sedette davanti a me mentre sorseggiavo il liquore.

Restammo qualche momento in silenzio a sorseggiare il liquore, ma sapevo che mi stava tenendo d’occhio. Faceva sempre questo giochino psicologico con gli altri per convincerli ad accettare le sue proposte, ma la testardaggine Wakabayashi era a prova di bomba nucleare.

-Il trucchetto non funziona con me, Karl.-

-Dai Genzo, almeno per una volta non mandarmi da solo con il nostro allenatore. Sono assolutamente convinto che se siamo insieme ci divertiremo.-

-Divertirmi a fare la balia?-

-Almeno farlo per lo spirito di beneficenza. So che i Wakabayashi ne hanno molto.-

-Ti correggo: la signora Wakabayashi ne ha molto. Me l’ha sempre detto che io sono la pecora nera.-

Mia madre ha sempre cercato di aiutare il prossimo, e lo ha sempre fatto con successo e rispetto; tuttavia io, fin da piccolo, mi annoiavo da matti, o mi sentivo a disagio quando dovevamo partecipare agli eventi che organizzava.

Almeno eravamo tutti insieme, e quando i miei fratelli non c’erano più c’era sempre Yasu a tenermi compagnia. Ma adesso cercavo sempre di sgusciare via, mi bastavano già le iniziative della società.

-Il mio contributo economico non è mai mancato al Bayern quando ce n’è bisogno, ma non voglio essere coinvolto nell’organizzazione.-

-E se ti garantissi che ti occuperai soltanto della fase di allenamento? Tanto abbiamo fior fiore di organizzatori ad aiutarci, e se proprio c'è bisogno me ne posso occupare io.-

Odiavo ammetterlo, ma quell’insistenza stava cominciando a creare una piccola crepa nella mia testardaggine, ma non volevo mollare la presa.

Da sempre la Fußball-Club Bayern München era molto attiva nel sociale con la “FC Bayern – Hilfe e.V.”, la parte che si occupava di fare donazioni a fondazioni nel campo del sociale; al tempo stesso, la società era molto attiva anche nel settore giovanile, sempre a caccia di nuovi talenti per rimpolpare la squadra, sebbene adesso avessero me, Karl, Levin e Sho, praticamente uno squadrone della morte.

Negli ultimi due anni questi due rami della società avevano ideato un bando di formazione e solidarietà dedicato a tutte le strutture, fondazioni e società che avevano anche attività di tipo calcistico: chi rispettava i canoni e passava la selezione poteva mandare la sua squadra al Summer Camp della società, dove poteva esserci la possibilità per qualcuno di loro anche di entrare nel centro giovanile.

Ad allenare i “talenti del futuro”, come li chiamava il nostro presidente, di solito c’era Karl, aiutato da altri della nostra squadra.

Io, abile come sempre, evitavo.

Non ci voleva proprio quell’infortunio.

-Genzo, oramai tutti in squadra si sono fatti almeno un giorno di Summer Camp, persino Levin.-

-Ah, i bambini si devono essere divertiti come mai con quel pezzo di ghiaccio.-

-Puoi non crederci, ma si, si sono divertiti.-

Lanciai un’occhiata perplessa a Karl, che aveva un’aria soddisfatta mentre sorseggiava un altro po’ di Rumtopf, ritornando poi all’attacco.

-Ascoltami Genzo, ora come ora hai due possibilità: o rimani chiuso qui dentro, vieni mangiato vivo dalla stampa e ti finisci questa bottiglia di Rumtopf come un Trunkenbold, mentre io te l’ho comprata per le occasioni da festeggiare...-

-Grazie per le paroline dolci tesoro.-

-Oppure ti vieni a fare il Summer Camp, dai un’occhiata alle nuove leve e nel frattempo ti fai fisioterapia all’Allianz.-

-Cosa?! Fate il Camp lì?!?-

Karl sorrise compiaciuto.

-Solo il meglio dal Bayern Monaco.-

-Mio dio certo che voi cacate banconote dal culo, eh?-

-Guarda che tu non sei meno principino di noi, Junge Meister.-

Odiavo quando Isolde mi chiamava “padroncino” davanti a persone esterne alla villa.

Mi passai una mano in faccia mentre Karl si sporgeva, mi voleva prendere per sfinimento.

-Almeno vieni a vedere il primo giorno! Magari i tuoi occhi da SGGK troveranno il tuo futuro erede!-

-Eh no e, non mi puoi portare sfiga in questo modo!-

Mi toccai platealmente la mia zona inguinale mentre Karl ridacchiava divertito.

-Allora? Che mi dici?-

-...se ti dico che “ci penserò” riesco a buttarti fuori di casa?-

-Beh, è un inizio, vorrà dire che ti tartassero su Whatsapp.-

-Esci da casa mia, maledetto biondino.-

 

Finalmente comincio il nuovo capitolo del grande “What If” di Oriente&Occidente.

Aver riunito Kojiro e Maki ha cambiato drasticamente tutta la struttura, tanto che come vedete si è creato un nuovo mondo di possibilità!

Yasu non è mia, è della fantastica Berlinene.

Vi aspetto con il nuovo capitolo!

P.S. Mela, non ti preoccupare, sto riprendendo anche Kami e no negai XD

**

 

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Capitolo 3
*** II: Allianz Arena ***


II: Allianz Arena

 

Io e Cilly abbiamo passato l’ultima settimana sempre insieme, a parte quando andavo agli allenamenti; abbiamo supplicato la signora Abigail di dormire assieme nello stesso letto, e anche se i primi due giorni ci ha detto di no alla fine dal terzo giorno, a turno, stavamo una nel letto dell’altra.

Cilly la conosco dal primo giorno in cui sono arrivata all’orfanotrofio. Siamo arrivate nello stesso giorno, pertanto avevamo deciso che saremo state sorelle.

Volevamo stare insieme nelle stesse classi, nella stessa stanza, studiare e giocare assieme e anche se, spesso, eravamo separate riuscivamo sempre a trovarci la sera, chiacchierando e giocando fino a tardi quando la signora Abigail ci mandava a dormire.

-Non voglio andare senza di te. Ho chiesto che adottassero anche te, ma mi hanno detto che la loro casa è piccola per due bambine.-

Annuisco, siamo sulle altalene, il nostro posto preferito dove chiacchierare.

Sappiamo entrambe che è una bugia, ma non voglio arrabbiarmi con nessuno.

-Va bene così. Ci tengono tanto a te.-

-Hanno detto che passeremo l’estate qui a Monaco, così conoscerò pian piano...la mia famiglia.-

-Hai dei nonni? Degli zii?-

Cilly annuisce.

-Ho una nonna, dicono che non vede l’ora di conoscermi. Anche degli zii, ma vivono a Berlino, hanno dei figli. Ho perfino dei cugini.-

-Che bello…-

Comincio a dondolare sull’altalena, ma Cilly rimane ferma. Mi fermo e la guardo. Piange.

-Ehi, tanto ci rivediamo in classe, no?-

-E se cambio e non ti voglio più bene?-

-Allora io farò in modo che tu mi vorrai di nuovo bene. Fanno così le sorelle, no?-

Mi guarda e annuisce, sta piangendo tanto.

Mi alzo e tiro fuori il mio fazzoletto di stoffa, asciugandole gli occhi, le faccio soffiare il naso e le indico di tenerlo, tanto ne ho altri.

-Andrà tutto bene Cilly. Ti vogliono bene, non ti lasceranno mai. Ed io sarò a scuola e sarò qui se vorrai venirmi a trovare.-

Lei scuote la testa.

-Ti verranno a prendere anche a te Andrea, vedrai! Avrai anche tu una bellissima famiglia, una mamma e un papà, dei nonni, degli zii, dei cugini, dei fratelli! Io lo so.-

La guardo, mi piacerebbe crederci.

Lei prende il mio berretto grigio e me lo toglie.

-Però non tagliarti più i capelli, ok? Sei più carina con i capelli lunghi.-

Ho chiesto ad Abigail di farmi un taglio da maschio, insistendo tantissimo; me ne ha dette di tutti i colori, fino a dirmi che avrei messo nei guai anche lei se lo avesse scoperto la direttrice.

A quel punto sono andata dalla direttrice e gliel’ho chiesto.

“E sentiamo, perché vorresti i capelli come quelli di un ragazzo?”

“Perché così potrò partecipare al Summer Camp senza problemi.”

“...continuo ad essere convinta che sia una pessima idea permetterti di giocare con gli altri ragazzi.”

“La prego, mi faccia andare!”

“...la testa è la tua, non andare a piangere dalla signora Abigail o venire da me, intensi?”

Mi ha rasato i capelli ai lati e li ha fatti corti in alto, proprio come gli altri della squadra. Adesso sì che sembro un maschio, riuscirò a fare il Summer Camp senza problemi!

-E’ solo per il Summer Camp. Poi me li farò crescere, promesso.-

-CILLY!-

Ci giriamo. La signora Abigail la sta chiamando, vedo i suoi nuovi genitori aspettarla sull’entrata dell’orfanotrofio.

-Andrea, andiamo.-

Mi giro dall’altro lato, il signor Weiner mi sta aspettando con le mani in tasca.

Guardo Cilly, lei si alza e mi abbraccia.

Io ricambio, mi mancherà tantissimo.

-Passa una buona estate, ok?-

-Anche tu. Fa vedere chi è il portiere migliore del mondo.-

Annuisco, Cilly mi dà un bacio sulla guancia e mi mette qualcosa in mano.

Lo riconosco, è il suo ciondolo preferito, quello a campanella, con scritto sopra “Verliere dich nicht”. Non ti perdere.

-Così non ti perdo.-

Sto per darle il mio berretto, è l’unica cosa che ho al momento.

-Ho già il tuo fazzoletto. Basta così, ne avrò cura.-

L’abbraccio, le do un bacio sulla guancia. Mi mancherà da morire.

Ci separiamo, io vado dal signor Weiner e non mi volto, mettendomi invece il ciondolo al collo e nascondendolo dentro la maglietta. Mi calco il berretto in testa.

Arrivo dal pulmino bianco, Albert e gli altri sono già dentro che si agitano, di sicuro mi diranno che è colpa mia se faranno ritardo.

Prendo un respiro profondo e salgo.

-Finalmente! Eccola la prinzessin!-

-Hai finito di fare la piagnucolona con quell’altra?-

-Se arriviamo in ritardo sarà colpa tua.-

Mi tolgo il berretto, sento che sta per arrivarmi uno schiaffo sulla nuca, ma poi tutti si bloccano.

-Wow, ma che…-

-Che hai fatto ai capelli?!-

-Oddio.-

-Certo che sei proprio strana te.-

Si ritirano, il mio nuovo taglio li ha fatti allontanare. Meglio così, mi siedo più comoda che posso nel mio sedile, mi metto la cintura di sicurezza.

Il pulmino si accende, parte con un rombo, e solo a quel punto guardo dal finestrino mentre prendiamo la via principale; vedo immediatamente Cilly salire nella macchina dei suoi nuovi genitori, sua mamma le sta tenendo la mano.

Sarà bellissimo Cilly. Buona fortuna.

Poggio una mano sul petto, sento il ciondolo sotto la maglietta.

La macchina parte e ci segue, ma su Effnerstraße prende la direzione opposta e si allontana mentre noi ci dirigiamo su Fohringer Ring.

Attraversiamo Englisher Garten e sento salire un groppo allo stomaco, sono emozionata e sono triste; oggi inizia il Summer Camp, la più grande occasione di poter giocare con i giocatori del Bayern Monaco, ancora non riesco a crederci che siamo riusciti ad entrare.

Quante saremo? Quante squadre? Da dove verranno gli altri? Saranno più bravi di noi? Due anni fa siamo riusciti ad arrivare ai quarti al campionato scolastico.

Ci sarà Karl Schneider ad allenarci con suo padre, Rudi Frank Schneider. Dicono che ci sarà addirittura Genzo Wakabayashi l’SGGK.

Farsi allenare da Wakabayashi...stringo le mani, sento le dita freddissime, lo stomaco mi fa ancora più male.

Però mi manca già Cilly, l’idea di tornare oggi pomeriggio e di non trovarla sento che mi farà stare malissimo. Non piangere Andrea, devi farlo anche per lei: devi dimostrare di essere il portiere migliore.

-Guardate! L’Allianz Arena!-

Scatto in piedi assieme a tutti gli altri, guardo fuori dal finestrino. E’...enorme.

Mi ricorda una gigantesca nuvola bianca, gonfia di pioggia, con una scritta blu enorme sul lato; abbasso lo sguardo e noto altri due pulmini, con altri ragazzini che scendono e restano nei loro gruppi.

Vogliamo tutti scendere, facciamo fatica ad aspettare che il pulmino arrivi al suo parcheggio; quando alla fine si arresta, come al solito, aspetto che gli altri scendano prima di me mentre mi metto il berretto in testa, coprendomi i capelli.

In realtà non ne avrei più bisogno: adesso sembro un maschio persino per i miei compagni di squadra.

Scendo dal pulmino, mi sento rigida; recupero il mio borsone, sento il signor Weiner dirci di fare la fila mentre si avvia verso lo stadio.

Io resto indietro, sento che faccio fatica persino a camminare.

Mi metto una mano sul petto, sento il ciondolo tintinnare sotto la maglietta.

-Verliere dich nicht.-

Non ti perdere.

Recupero il metro di distacco da Sibo e mi copro il più possibile lo sguardo con la visiera del berretto, sento i cortissimi capelli dietro la testa, mi danno i brividi.

Seguendo il signor Weiner arriviamo all’entrata dello stadio, alzo lo sguardo e sento che la nuvola mi sta per coprire interamente, così abbasso di nuovo la testa.

-Siamo l’orfanotrofio Drei Keifern.-

-Drei Keifern...eccovi. I ragazzi devono tutti indossare il braccialetto e mostrarlo eventualmente alle guardie; se si perdono verranno subito riconosciuti e riaccompagnati.-

-Ottimo. Ok ragazzi, passatevi questi e indossatelo. Aiutatevi ok?-

Aspetto in fondo alla fila, lancio un’occhiata a Sibo che, sulle prime, non sembra volermi dare il bracciale. Poi me lo passa.

-Dammi prima una mano, poi ti aiuto io.-

So che non lo farà, non è mai stato gentile con me ed è un gran bugiardo con tutti, ma lo aiuto comunque, e quando ho finito si gira e mi ignora, così devo fare da sola. Per fortuna è semplice da sistemare, mi ricorda quelli che facciamo...che facevamo io e Cilly assieme.

-Ok ragazzi, questi sono in omaggio, benvenuti all’Allianz Arena.-

Passiamo uno alla volta, io sono l’ultima e mi viene data una maglietta con lo stemma del Bayern Monaco e un asciugamano. Devo nasconderli o gli altri me li porteranno via, fanno sempre così con la mia roba.

Un signore, mentre parla con il signor Weiner, ci accompagnano dentro la nuvola.

Non avevo mai visto l’arena dal vivo, abbiamo sempre seguito le partite dalla televisione della Sala Comune.

E’ così grande che cerco di stare più attacca possibile al gruppo, di sicuro mi perdo se rimango indietro.

Assieme a noi arrivano gli altri 2 gruppi di ragazzi, di colpo siamo tantissimi; continuiamo a camminare e sento le chiacchiere attorno a me.

-Voi da quanto giocate?-

-Io ci sono venuto con mio padre 3 volte!-

-Ma è vero che c’è Genzo Wakabayashi con Schneider?!-

-Sapevo che era infortunato, chissà se allena.-

-Ehi aspetta, ma tu sei quella dei Drei Keifern!-

Mi giro verso il ragazzino, lo riconosco: era della squadra che ci ha battuti ai quarti di finale.

-Che ci fa una ragazza come te?-

-...abbiamo un permesso speciale.-

-Wow, che forza! Sei una bomba in porta!-

-Grazie…-

-Io sono Leonhard Graf, della Weisse Taube, ti ricordi?-

-Certo, la tua squadra ci ha battuto due anni fa.-

-Non te l’ho mai chiesto, ma tu come ti chiami?-

-Andrea...Andrea Muller.-

-Ok ragazzi! Qui ci sono gli spogliatoi! Cambiatevi e poi, usciti dalla porta, andate a destra e aspettate fuori campo.-

Entriamo negli spogliatoi, restiamo quasi fermi a guardare la stanza.

Chi se lo sarebbe mai immaginato di poter entrare qua dentro?!

Alzo lo sguardo e vedo le foto dei giocatori sopra i loro posti negli spogliatoi, nella zona dove non possiamo accedere.

Vedo Genzo Wakabayashi, e stringo le mani sul mio borsone, per poi cercarmi un angolo abbastanza nascosto e togliermi la giacca e i pantaloni della tuta, sotto ho già messo addosso la mia divisa; avendo gli spogliatoi in comune con gli altri maschi evito di cambiarmi, l’ultima volta non hanno fatto altro che prendermi in giro per il mio “corpo da femminuccia”.

Chiudo bene il borsone e lo nascondo nella pila degli altri borsoni. Mi calco il berretto in testa, stringo i miei guanti da portiere in mano ed esco fuori dalla porta, andando a destra.

Vedo il verde del campo e mi batte forte il cuore, sento di nuovo le gambe irrigidirsi ma poi sento gli altri ragazzini che mi stanno raggiungendo e mi faccio coraggio.

Prendo un respiro profondo ed esco.

...è tutto così grande.

Cammino sull’erba verde, non oso andare oltre la linea del fuori campo.

L’erba sotto i piedi, l’odore dello stadio. Le porte bianche, gli spalti tutti attorno.

Sono dentro l’Allianz Arena.

-Wow, guardate che roba!-

-Ehi spostati!-

Mi scanso all’istante, lascio lo spazio agli altri mentre continuo a guardarmi attorno.

Com’è grande...quanti posti...le porte da qui sembrano gigantesche...

-Verliere dich nicht.-

Non ti perdere Andrea.

Noto in quel momento tre figure sedute lì dove ci sono i posti dei giocatori.

Oddio, sono loro!

-Benvenuti a tutti! Mettetevi seduti a terra!-

Ubbidiamo all’istante mentre guardo Karl Shneider, non posso crederci che è proprio davanti ai miei occhi! Riconosco suo padre, e lì seduto...il berretto rosso.

Genzo Wakabayashi.

Mi siedo e mi stringo forte le gambe al petto, ho gli occhi fissi su di lui, non riesco a crederci che l’SGGK sia davvero qui con noi!

Sto sognando, chiaramente sto sognando: che ci faccio io, una femmina, al Summer Camp del Bayern Monaco, con Karl Schneider, suo padre Rudi Frank e soprattutto con Genzo Wakabayashi?!

Ti prego sveglia, non suonare ancora, fammi stare in questo sogno ancora un po’.

-Benvenuti a tutti quanti al Summer Camp. Io sono Karl e, con mio padre Rudi, sarò il vostro allenatore per le prossime sei settimane.

Come vedete non siamo soli. Quest’anno a noi si è voluto aggiungere il nostro portiere Genzo Wakabayashi, ma forse voi lo conoscete meglio come SGGK.-

Sento gli altri ragazzini parlottare fra di loro, io continuo a tenere gli occhi fissi su di lui.

Prende una stampella e si alza in piedi, allora è vero che si è infortunato.

-Purtroppo nella nostra penultima partita di Bundesliga è stato infortunato, ma questo non gli impedirà di aiutarci ad allenarvi al meglio, soprattutto a voi portieri.

Alzino la mano tutti i portieri presenti.-

La mia mano scatta come una molla, non credevo che avrei risposto con così tanto entusiasmo a quella richiesta. Siamo in tre.

-Beh, il lavoro non ti mancherà amico mio.-

Alza lo sguardo e ci guarda uno ad uno.

Arriva a me. Sento una scarica elettrica.

-Bene, abbassate le mani.

Oggi vogliamo vedere il vostro livello di gioco, pertanto faremo un po’ di riscaldamento e poi vi metteremo alla prova su varie cose. Vi faremo fare allenamenti quanto più simili a quelli che facciamo noi giornalmente, ma non spaventatevi: abbiamo sei settimane per imparare e migliorare, ok?-

Rispondono alcuni.

-Vi voglio sentire sentire tutti con un “si, mister!”.-

-Si, mister!-

Grido anch’io, faccio sentire la mia voce.

-Ottimo. Ora ci alziamo e facciamo un giro del campo in corsa leggera. Seguite il mio ritmo, ok?-

Karl parte a correre, e noi tutti lo seguiamo.

-Cercate di fare una linea compatta da massimo due persone.-

Pian piano vado indietro fino a quando non mi incastro con un altro ragazzino e corriamo assieme in silenzio.

I miei occhi non possono fare a meno di guardarsi attorno mentre facciamo il giro del campo: è enorme in confronto a quello dove siamo soliti allenarci. La corsa però non stanca.

Alzo lo sguardo verso Karl, vorrei potermi avvicinare alla sua schiena, ma rimango accanto al mio compagno e cerco di mantenere il respiro.

-Cercate di respirare a tempo con il passo. Forza, siamo a metà campo.-

Noto che, dall’altro lato, stanno allestendo la parte con gli esercizi, i colori sono sgargianti.

Chissà che tipo di esercizi ci faranno fare. Da noi abbiamo pochi attrezzi, pertanto la parte di riscaldamento è più che altro ginnastica, di quella che faccio anche a scuola.

Ci stiamo avvicinando, riconosco dei trampolini. Ci faranno saltare sui trampolini?! Forse serve per le gambe…

Stiamo arrivando verso la fine del giro, ho un po’ di fiatone, non avrei mai pensato che un campo da calcio potesse essere così grande; voglio dire, in televisione si vede che è grande, ma cavolo! Dal vivo è tutta un’altra cosa!

-Tra poco passeremo agli esercizi di riscaldamento. Tutti pronti?-

-Si mister!-

 

**

 

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Capitolo 4
*** III: Eindringling ***


III: Eindringling

 

Si, alla fine Schneider mi aveva convinto.

D’altronde non avevo altra scelta: stava cominciando ad intasarmi whatsapp con continui messaggi e foto della preparazione del Summer Camp, era uno strazio!

Alla fine l’ho fatto smettere scrivendogli a caratteri cubitali: “Ok lo faccio, ora smettila di stalkerarmi dannato maniaco!”.

Lui, di rimando, mi rispose con un: “Sapevo di riuscire a convincerti ;)”

Lo avrei ucciso!

Mi feci accompagnare quella mattina da Friedrich, che però rimandai a casa: sarei ritornato a casa con gli Schneider, e gli chiesi di avvisare Isolde che li avremmo avuti ospiti a cena.

Guardai l’Allianz Arena, sorpreso ancora una volta che avremmo fatto il Summer Camp dentro quella struttura; ok, il campionato era finito, ma c’erano altri eventi sportivi ancora in corso, partite comprese, non potevano occupare per SEI SETTIMANE lo stadio!

O li avevano pagati fior fiore di quattrini, oppure era solo una location per la prima giornata e Schneider aveva sparato alto per convincermi a partecipare. Cosa che ancora non aveva fatto, ero lì solo per vedere.

Ad accogliermi una degli organizzatori, che mi riconobbe immediatamente e mi diede il bracciale di riconoscimento e un badge; la donna mi chiese, inoltre, se volevo che mi aiutasse a sistemarmi il braccialetto, e la freddai con un’occhiata che la fece scappare a gambe levate.

Sono solo MOMENTANEAMENTE azzoppato, non incapace.

Mi fu indicato che gli Schneider erano in campo, e mi ci avviai...lentamente.

Santo cielo, più del dolore della gamba mi rompeva da morire andare piano: io ho sempre camminato con passo sostenuto, il dover andare più lento della mia solita velocità mi disturbava profondamente.

Lanciai un’occhiata fugace allo spogliatoio chiuso dirigendomi invece verso il campo, e una volta arrivato nel vasto prato mi sentii di nuovo a casa.

-Santo Cielo, a quanto pare non basta romperti una gamba per tenerti lontano dal campo...-

Mi girai verso Rudi e sorrisi divertito.

-Mi sono presentato con i polsi scassati e una gamba conciata peggio nel campo da gioco, eppure ho sempre fatto il culo a tutti.-

-Sarai anche infortunato, ma la spacconaggine non ti è passata vedo.-

Mi allungò una mano e ricambiai la stretta, nell’altra mano teneva una cartellina con l’elenco di nomi.

-Quanti sono i marmocchi?-

Sospirò alla mia domanda.

-Sono 33 ragazzi dai 10 ai 12 anni provenienti da 3 diversi istituti: un orfanotrofio, un collegio cattolico e un istituto per l’introduzione di bambini stranieri alla lingua tedesca.-

-Tutti bambini che hanno iniziato il biennio delle superiori?-

Prima che pensiate che stia dando di matto vi spiego in breve come funziona l’istruzione tedesca: dopo quella che viene riconosciuta come scuola elementare, a 10 anni i bambini decidono il loro percorso di studi.

Piuttosto precoce, lo so.

Ci sono diversi percorsi di studi e i primi due anni di superiori, chiamati Orientierungsstufe, servono da orientamento per decidere definitivamente la propria strada.

-Alcuni sì, altri stanno terminando l’ultimo anno di elementari.-

Ripensai ai tre istituti.

-A Monaco esiste un orfanotrofio?-

-E’ una delle poche strutture di quel tipo ancora presenti in città, se non l’unica ancora attiva. E’ stata scelta proprio per essere una delle ultime strutture del suo genere.-

La legislazione tedesca propone diversi vantaggi alle famiglie con reddito basso o con minori sotto i 16 anni, senza contare la possibilità delle case-famiglia per molti bambini.

Mi misi a sedere nella nostra “panchina” dato che il dott. Schnauzer si era raccomandato (o meglio, mi aveva ordinato) di non sforzare troppo il muscolo; e poi quelli erano i pochi momenti in cui potevo liberarmi di quella maledetta stampella.

-Quindi quella sarà la squadra dei “casi umani”.-

-Genzo, questo tuo sarcasmo è inopportuno per la situazione.-

Alzai le mani, non potevo controbattere.

-Ha ragione mister, chiedo scusa.-

-Lo so che non ci volevi venire, l’avevo detto a Karl di lasciarti stare, ma sai com’è fatto mio figlio.-

-Purtroppo lo so.-

-Sa che sono un ottimo amico che vuole coinvolgerlo nelle attività della società?-

Ci voltammo a guardare il biondino entrare in campo, addosso aveva la tuta del Bayern mentre io avevo scelto una delle mie tute meno appariscenti.

Gli risposi ad alta voce.

-Nel senso che sei un rompiscatole che vuole sempre averla vinta.-

Sorrise soddisfatto alla mia acidità, rivolgendosi poi al mister.

-Quella è la lista dei ragazzi? Posso vederla?-

-Tutta tua.

Ad ogni modo Genzo, anche se non volevi venire oramai sei coinvolto, perciò mi aspetto che ti comporti di conseguenza.-

Lo ammetto: Mister Rudi Schneider è una delle poche persone che accetto che mi faccia la paternale. Prima di tutto perché è il mio allenatore, ma in secondo luogo perché, in fondo, mi ha fatto un po’ da terzo padre quando diventai amico di Schneider.

-Cercherò di contenere il fastidio, Rudi, ma ti avverto che non sono per niente bravo con i bambini.-

-Lo so. Vedila in questo modo: hai solo 3 bambini effettivamente da allenare nel tuo specifico.-

-Giààà, e scommetto che sono tutti dei talenti eccezionali…-

-Non si può mai sapere Genzo.-

In quel momento il cellulare di Karl suonò, e l’uomo lo controllò velocemente, prima di rivolgersi a noi.

-Bene, sono arrivati i pullman. Prepariamoci a dare loro il benvenuto.-

-Salto dalla gioia.-

Anche Rudi sbuffò divertito alla mia battuta.

Mi sistemai il berretto sugli occhi e mi misi quanto più comodo potevo stare sulla seduta, guardando il campo davanti a me e facendomi tornare in mente la questione sulla location del Summer Camp.

-Scusami Rudi, ma davvero passeremo tutto il Summer Camp qui?-

-No, non tutto: oggi come giornata di apertura e quando ci saranno le partite.-

Karl mi aveva spiegato che, negli ultimi 10 giorni di Summer Camp, le varie squadre avrebbero partecipato ad un mini torneo organizzato con varie squadre giovanili under-14 delle altre società, oltre alla nostra; apparentemente l’obbiettivo era di mettere alla prova i partecipanti del Summer Camp, creando delle squadre miste.

Nella mia testa arrivò la silenziosa traduzione del tedesco: “Dobbiamo dimostrare quanti siamo bravi, belli, forti e cazzuti alle altre società che vogliono partecipare per farci fare una figura di merda.”

E sapete come sono: dimostrare la propria superiorità facendo sentire gli altri nettamente inferiori? Eccomi.

Pertanto quando sentii le prime grida dell’esercito di furie presi un respiro profondo e mi sistemai il berretto, pensando allo scopo di tutto questo, restandomene seduto mentre il primo ragazzino sbucava fuori sul campo e guardava, in silenzio, l’intero stadio.

Non potevo vederne l’espressione sotto il berretto grigio, ma potevo ben immaginare la sua meraviglia; ammetto che quello mi divertii, mi ricordava la mia prima volta che ero entrato nell’Allianz, la stessa meraviglia nascosta.

-Wow, guardate che roba!-

-Ehi spostati!-

Gli altri ragazzi interruppero il suo momento di meraviglia, e il ragazzino si unì silenziosamente al resto del gruppo, notando solo in quel momento la nostra presenza ma continuando a nascondere le sue reazioni sotto il berretto.

La cosa un po’ mi infastidiva, perché mi sarebbe piaciuto vedere i suoi occhi spalancarsi e la mascella cadere nel vederci, e quando mi resi conto a cosa stavo pensando mi venne da ridacchiare, perché io facevo la stessa cosa alla sua età: tendevo a nascondere le mie emozioni dietro al berretto per non dare a nessuno il gusto di vedermi e/o giudicarmi.

I ragazzini si misero seduti sul prato, e mi trovai di fronte 33 teste che guardavano, rapite, Karl che gli parlava.

Tzé, il Kaiser era sempre stato bravo ad incantare la folla con i suoi modi; come lui ne avevo visti solo altri due nella mia vita: El Cid Pierre e Jun Misugi.

-Quest’anno a noi si è voluto aggiungere il nostro portiere Genzo Wakabayashi, ma forse voi lo conoscete meglio come SGGK.-

E Karl mi fece cenno con la mano, come fanno gli attori per invitare i loro compagni in scena.

Da una parte avevo voglia di fare un semplice cenno del capo, ma avevo lo sguardo di Rudi su di me e gli avevo promesso che mi sarei comportato bene, pertanto dovetti prendere quel maledetto coso di alluminio e plastica made in china e alzarmi in piedi, facendo qualche passo e dimostrando ai ragazzini che si, mi ero infortunato.

Li vidi bisbigliare fra loro e mi salì un commento acido, che trattenni stringendo i denti mentre Karl riprendeva a parlare.

-Purtroppo nella nostra penultima partita di Bundesliga è stato infortunato, ma questo non gli impedirà di aiutarci ad allenarvi al meglio, soprattutto a voi portieri.

Alzino la mano tutti i portieri presenti.-

Vidi tre mani, separate fra di loro, alzarsi in aria; il biondo mi sorrise divertito.

-Beh, il lavoro non ti mancherà amico mio.-

Gli feci un sorriso alla soda caustica mentre osservavo i tre portieri: uno era piuttosto alto, l’altro era il classico bambino a cui facevano fare da portiere perché troppo grosso e lento (i bambini sanno essere crudeli). Il terzo...era il bambino con il berretto che avevo visto prima.

Abbassarono le mani al comando di Karl, che continuava a parlargli; io ignorai la maggior parte del discorso e mi rimisi a sedere mentre il Kaiser invitava tutti i bambini a farsi il giro del campo.

Mentre i 33 mostricciatoli si alzavano in piedi, io tenni d’occhio i “miei” tre portieri.

Quello più alto sembrava essere il più forte dei tre: aveva un buon andamento nella corsa e la sua statura gli dava una buona mano nella difesa, anche se ancora dovevo vederlo all’opera; il bambino grosso...si, era anche lento, ma al tempo stesso sembrava avere tenacia, a giudicare da come cercava faticosamente di mantenere il passo con gli altri nella corsa.

Il terzo...era abbastanza nella norma: fisico nella norma, andamento nella corsa costante, atteggiamento chiuso ma concentrato, e quel benedetto berretto a impedirmi di capire il suo stato d’animo.

I tre orsacchiotti insomma. Nessuno si azzardi a dire che io ero Riccioli d’oro, chiaro?

Nel frattempo che Rudi e gli altri collaboratori iniziarono a sistemare gli attrezzi per gli esercizi da far fare ai ragazzini.

Ad un certo punto mi alzai e mi avviai verso il campo, superai la linea esterna e feci qualche passo verso l’interno aspettando che passasse Karl con il gruppo; scambiai con lui uno sguardo mentre rallentava il passo, e non appena il ragazzino con il berretto mi passò accanto glielo sfilai dalla testa.

Si voltò a guardarmi con aria stralunata mentre tutti si fermavano, e per la prima volta potei vederlo bene in faccia. Aveva un volto apparentemente fragile, cortissimi capelli neri e grandi occhi scuri brillanti, addirittura scintillanti per quanto fosse possibile.

-Questo non ti serve per il momento.-

Si passò una mano tra i cortissimi capelli, sembrava a disagio per quello che avevo fatto; ci mancava solo che si mettesse a piangere! Sospirai, cercando di dosare le parole per nascondere il fastidio.

-Ascolta, te lo tengo io per il momento, va bene?-

-...Sì mister! Grazie mister!-

Mi sorprese tantissimo la risposta: si era messo sull’attenti e aveva parlato con voce decisa, facendo un cenno di ringraziamento con il capo e avviandosi successivamente dagli altri, che stavano ascoltando Karl.

Rimasi un po’ perplesso per quel comportamento, poi guardai il berretto: il grigio, in realtà, era dovuto dall’usura, guardandolo attentamente si notava che era molto rovinato e che il colore grigio era dovuto allo scolorimento delle bande nere nella parte interna, usurata dal continuo utilizzo. Oltretutto era stato stretto all’ultimo buco e ne era stato fatto uno aggiuntivo, segno che quel berretto non era neanche della misura adatta al ragazzino. Nonostante questo sembrava essere resistente.

In silenzio mi avvicinai a Karl mentre i 33 bambini, divisi in tre gruppi, facevano ognuno degli esercizi diversi; oltre a noi due e a Rudi c’erano altri due allenatori del nostro Staff tecnico, in più chiaramente i loro accompagnatori, fortunatamente per il primo giorno c’erano solo gli allenatori. Tutti si stavano muovendo in cerchio per dare consigli e valutarne le abilità fisiche.

-Come ti sembra come primo impatto?-

-Sei un venditore di ghiaccio agli eschimesi.-

-Me lo dice sempre anche mio padre. A parte questo?-

Guardai i tre portieri, quello alto stava superando le barre ad altezza terreno, saltellando e tenendo alte le ginocchia; quello in carne stava facendo esercizi di stabilità e resistenza, mentre il bimbo del berretto era negli esercizi di scatto e agilità.

-Non posso dare un giudizio immediato se non li vedo nel mio elemento, ma mi sembra che quello alto abbia più possibilità di essere un discreto portiere.-

-Come mai gli hai tolto il berretto al ragazzino?-

-Perché non riuscivo a vederlo bene in faccia e a capire cosa stava pensando.-

-Benvenuto nel nostro mondo di poveri comuni immortali, oh SGGK sempre con quel dannato berretto in testa! Mi piacerebbe a volte dare conferma ai sospetti sul fatto che tu in realtà sotto sei calvo e lo stai nascondendo.-

Sorrido togliendomi il berretto e mostrandogli che no, avevo una bella chioma di capelli neri.

-Geloso?-

-Tzé, esibizionista.-

Mi rimisi a posto il berretto, continuando a tenere d’occhio i miei tre marmocchi, si stavano dando il cambio negli esercizi.

Il ragazzetto in carne stava facendo la prova di scatto e agilità e, come volevasi dimostrare, era il suo tallone d’achille; quello alto era alle prese con la resistenza e il ragazzino del berretto teneva bene in alto le ginocchia.

-Come pensi di svolgere la giornata di osservazione?-

-Adesso faremo tutta una serie di esercizi su forza, resistenza, velocità e riflessi. I portieri verranno messi alla prova in maniera diversa dagli altri giocatori.-

-Fate le cose per bene, eh?-

-Anche se vengono da istituti “speciali” questi sono comunque atleti e vanno trattati come tali.-

Guardai Karl e riconobbi quello sguardo, era lo stesso che aveva durante gli allenamenti e nelle partite: era il professionista che dava il meglio di sé in quello che sapeva fare e che amava fare. In quei momenti non c’era più posto per lo scherno, ed era una delle cose per cui lo rispettavo come sportivo.

Decisi di impegnarmi seriamente, e cominciai anch’io a guardare quei 33 ragazzini come atleti. E vi dirò che fu meno difficile di quanti mi aspettassi: forse pompati dalle parole di Karl, o dalla nostra presenza, o dal fatto di essere all’Allianz, i ragazzini ascoltavano le istruzioni del mister e facevano i loro esercizi senza proteste, ascoltavano i consigli che gli venivano dati e cercavano di seguirli.

Pensai a come 3 generazioni fossero lì presenti per quella palla a scacchi, e di colpo mi sentii più adulto del solito.

No, non mi sentii per niente più maturo, anzi: mi venivano in mente le mie esperienze da ragazzino, la mia arroganza, il fatto che già allora fossi stato denominato SGGK.

Intanto iniziarono le varie prove che mi aveva detto Karl.

Mi avvicinai a Rudi, che mi parlò a voce bassa per non farsi sentire dai 3 portieri.

-Vuoi che ti lascio solo ad occupartene? Johan ti darà una mano.-

Era il secondo allenatore, piuttosto giovane ma aveva una buona tecnica; considerando che, fortunatamente, dovevo solo badare a 3 marmocchi, ritenni che la presenza di Rudi era più utile al figlio, intento a distribuire gli esercizi agli altri ragazzini con il resto dello Staff Tecnico.

-Ma si, vai pure che Karl ne ha bisogno. Se vedo che sono in difficoltà ti faccio chiamare.-

-Perfetto.-

E si avviò mentre io mi rivolgevo ai miei tre portieri.

-Ditemi i vostri nomi.-

-Radolf Schwarz.-

-Eusebiu Cristea.-

-Andrea Muller.-

Riconobbi subito l’ultimo bambino, era il signorino berretto. Si era di nuovo messo sull’attenti, e gli occhi scuri mi guardavano con intensità, come un gatto che osserva il giocattolo in movimento, pronto a scattare.

Per tutto il tempo degli esercizi di gruppo lo avevo visto molto concentrato nell’ascoltare, nell’eseguire gli esercizi. Insomma, sembrava sapere il fatto suo. Tuttavia era piuttosto taciturno, l’avevo visto parlare al massimo con un altro ragazzino e basta.

Un po’ mi fece impressione, mi ricordava troppo me stesso alla sua età; sapevo che la mia era spocchia, mentre la sua sembrava timidezza.

-Bene, adesso faremo degli esercizi con la palla medica. La conoscete? Sapete come si usa?-

Due teste annuirono, una negò: il bimbo del berretto.

Per i portieri si fanno degli esercizi con la palla medica, e in quel caso ne portarono 6, 3 di diverso peso: 1 kg, 3 kg, 5 kg; mi feci passare da Johan una delle palle più leggere, mostrandola ai tre ragazzini.

-La palla medica, come vedete, è un po’ più grande del pallone da calcio, e non è piena d’aria ma di sabbia. Questo vuol dire che è più pesante.

Cristea, prova a prenderla.-

Il ragazzino pertica prese la palla e fece attenzione a sollevarla, pesandola con le braccia mentre facevo un cenno con il capo agli altri due, che recuperarono velocemente le loro palle mediche da un chilo.

Schwarz sollevò la sua palla senza troppi problemi e la lanciò un paio di volte in aria, sapevo che sotto la massa grassa si nascondesse una discreta forza.

Mi voltai per vedere Muller, o come oramai il mio cervello l’aveva etichettato “soldatino berrettino”: prese la sua palla, si rese conto che pesava, la studiò attentamente, soppesandola con le braccia.

Nel frattempo Johan aveva tirato fuori anche le palle da 3 e 5 chili e una sedia pieghevole. Non appena la vidi mi sentii male: in tutto questo mi ero dimenticato che ero infortunato e che, tecnicamente, non dovevo sforzare la gamba, e già mi ero fatto i miei metri in giro per il campo. Con la stampella, chiaro, però ero andato parecchio a spasso mentre il consiglio del medico era il “risposo assoluto”.

Sospirai scocciato, mettendomi seduto con la voglia però di prendere quella sedia e scaraventarla oltre i primi spalti, ma chiesi comunque la palla da 3 chili, guardando i tre ragazzini con aria vigile, non volevo certo che pensassero di me cose come “ma l’SGGK è una mammoletta!” (Queste sono turbe che ho con il mio cervello, ok?).

-Fate in piedi quello che faccio io.-

Curl in piedi ed estensioni, usando gradualmente tutte e 3 le palle; come mi ero immaginato, Schwarz fu quello che se la cavò meglio, anche con la palla da 5 chili, tanto che nella mia testa lui era “Forzuto” mentre Eusebiu, chiaramente, era “Pertica” e, in quel momento, faceva un po’ fatica con la gestione della forza.

Il soldatino se la cavava con il chilo e i tre chili; con la palla da 5 faticava, si vedeva, ma lo sguardo rimaneva concentrato, e vedevo che ascoltava i miei suggerimenti, pertanto non volli intervenire se non quando si passò a fare sumo squat.

Notai subito che aveva il baricentro troppo alto e non piegava bene le ginocchia; dato che era davanti a me mi bastò alzarmi in piedi e, sostenendomi con la gamba sana, allungai la stampella, poggiandogliela più piano possibile sulla spalla, e mi guardò sorpreso. Feci una leggera pressione verso la punta.

-Scendi.-

Lui obbedì, scese un pochino, tornando sù. Scossi la testa.

-Puoi scendere di più, ti serve credimi. Riprova, apri di più le gambe e aiutati a scendere con il peso della palla.-

Lui obbedisce, allarga la base e scende.

-Tieni dritta la schiena, stringi qui, sulla pancia.-

Vedo le sue sopracciglia aggricciarsi, scende piano ma fa un bello squat.

-Ora risali piano, usa sempre il peso della palla. Esatto, così. Rifallo.-

Proseguimmo con qualche altro esercizio, passando alla resistenza, e qui Forzuto dimostrò subito le sue difficoltà. Pertica se la cavava egregiamente.

Soldatino aveva l’ostinazione dalla sua parte, stringendo i denti e aggricciando le sopracciglia; la cosa mi faceva sorridere, e lo mettevo costantemente alla prova.

-Tieni, braccia perpendicolari.

Occhio alle ginocchia, resta basso.

Respira, non restare in apnea.

Bravo. Forza, altri 5 secondi.-

Per gli esercizi di velocità non volli usare attrezzatura, avevo lo strumento perfetto proprio lì davanti a noi; con Johan che mi seguiva (e portava dietro quella dannata sedia) portai i tre nell’area di rigore e mi sistemai sul bordo dell’ultima riga.

-Perfetto. Ora, al mio segnale, dovete tornare alla porta il più velocemente possibile e mettervi in posizione per parare. Pronti.-

Li vidi mettersi in posa da corsa e lanciai uno sguardo a Johan, che aveva il cronometro pronto.

-VIA!-

 

 

**

 

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Capitolo 5
*** IV: Eignungstest ***


IV: Eignungstest

 

Corro con tutte le mie forze, mi è già capitata una situazione del genere: i difensori della mia squadra tendono ad essere sempre troppo in avanti, mi tocca spesso uscire dalla porta.

Cristea è più veloce di me, ha le gambe lunghe; Schwarz è dietro di me, non è forte nella corsa.

Mi metto al centro della porta frenando in scivolata e girandomi per mettermi in posa, spalancando le braccia. Sono pronta.

Mister Wakabayashi parla con Johan, poi ci fa segno di tornare da lui.

-Bene, ora riproviamo. Stavolta dovete tornare alla porta camminando all’indietro, capito?-

Annuisco, lo so fare.

Mi metto in posa, aspetto il segnale.

-VIA!-

Ricordo che le prime volte che lo facevo cadevo sempre perché scivolavo, così ho imparato a tenere la testa un po’ avanti e le braccia aperte; la distanza dalla riga dell’area alla porta è maggiore rispetto al nostro solito campo, devo controllare quando supero la riga. Ah, Schwarz è scivolato a terra.

Sono più veloce di Cristea, arrivo per prima alla linea, mi fermo.

Ci fanno correre da ogni punto dell’area di rigore, sempre verso la porta, sempre pronti per poter parare un tiro.

-Ok, adesso ascoltatemi bene: correte, il primo che arriverà in porta dovrà parare un tiro tirato da Johan. Appena uno di voi arriva alla porta gli altri 2 IMMEDIATAMENTE si spostano, ok? Non voglio che vi fate male. Chiaro?-

-Sì mister!-

-Ok, a posto.-

Devo arrivare alla porta. Devo parare quel tiro.

-VIA!-

Corri Andrea. Corri. Verliere dich nicht. Non ti perdere.

Devo essere più veloce di Cristea; lo supero, ora frena bene Andrea, non scivolare, perfetto. Pronta.

-PRONTO!-

Johan fa qualche passo indietro, tira.

Ah, è alto, devo anticiparlo. No aspetta, sale verso l’alto troppo in fretta, è un pallonetto! Non uscire Andrea!

La palla scende, lo afferro e lo stringo a me, mi spinge verso il basso e mi inginocchio a terra; mi fanno un po’ male le mani ma ce l’ho fatta, ce l’ho fatta!

Alzo lo sguardo verso mister Wakabayashi. Sta parlando con Schneider, gli altri sembrano aver finito, alcuni di loro si avvicinano al dischetto dei rigori ma si siedono a terra sull’erba.

Si gira a guardarmi.

-Ben fatto Muller. Tornate qui.-

Mi avvio con il pallone sotto il braccio, mi affiancano Cristea e Schwarz.

-Sei stato una scheggia, grande!-

-Grazie, ma tu sei molto più veloce di me.-

-Non fossi scivolato come uno stupido.-

-Ehi, niente chiacchiere.-

Ci zittiamo subito al richiamo del SGGK, restituisco la palla al mister Johan mentre mister Wakabayashi ci parla.

-Ok, adesso ascoltatemi: ognuno di voi andrà in porta e dovrete provare a parare 10 tiri.

Se sarà necessario io vi darò qualche indicazione, va bene?-

-Sì mister.-

-Perfetto. Recuperate i vostri guanti.-

Corro a prendere il mio paio, però vorrei anche il berretto.

Dovrei chiederlo a mister Wakabyashi, ma se non me lo vuole restituire? Mi sgriderà?

Devo chiederglielo, non voglio parare senza berretto. Mi serve.

Mi avvicino a lui, sta parlando con mister Schneider e il loro allenatore.

Forza Andrea, coraggio!

-Mister Wakabayashi, mi scusi.-

Si gira, non riesco a guardarlo in faccia.

No Andrea, è maleducato, guardalo e chiediglielo!

-Posso riavere il mio berretto? Se ci sono altri esercizi di gruppo me lo tolgo, promesso.-

Mi guarda stupito, poi si porta una mano dietro la schiena e tira fuori il mio berretto, lo aveva tenuto appeso ai pantaloni.

-Fammi vedere i tuoi guanti.-

Obbedisco, allungandogli i guanti, e lui mi rimette il berretto in testa.

...è la prima persona che mi fa una cosa del genere, neanche il signor Weiner si permette; gli altri me lo tolgono.

E’...stato piacevole, ma il berretto è un po’ storto, pertanto devo risistemarlo.

-Credi davvero di poter parare con i guanti ridotti così?-

Guardo i miei guanti, riparati con lo scotch; lo so che dovrei cambiarli, ma i miei guanti nuovi me li hanno rubati gli altri della squadra, perciò devo tenermi questi.

Non importa, posso parare anche a mani nude se necessario.

Voglio giocare.

-Sì mister.-

Mi guarda in silenzio. Per favore fammi giocare, per favore!

-Va bene, soldatino Muller, fammi vedere come pari con questi.-

Soldato?

-Sì mister!-

Mi restituisce i guanti, me li metto al volo correndo in direzione di Eusebiu, seduto con le ginocchia sotto il mento.

Sono stati scelti 10 ragazzi dal resto dei partecipanti.

Riconosco Sibo e Albert, loro hanno tiri molto forti; c’è anche Leonhard della Weisse Tube, mi ricordo del suo tiro ad effetto. Oltre a lui ci sono altri tre ragazzi della sua squadra, gli altri quattro vengono dalla squadra di Eusebiu.

Di colpo vedere quei ragazzini in fila mi innervosisce, chissà come sta Schwarz.

-VAI RADOLF!-

Eusebiu addirittura fischia al nostro compagno, e io batto forte le mani per incoraggiarlo mentre l’altro mi parla.

-Speriamo che se la cavi, i miei compagni di squadra hanno tiri molto forti.-

-Anche i miei, specie il capitano.-

Radolf riesce a prendere i tiri dei suoi tre compagni, ma quello di Leonhard fa la curva e non lo prende per un soffio.

Eusebiu aveva ragione: i suoi compagni tirano bene, ma Schwarz ne riesce a pararne un altro.

Tocca a Sibo: tira di angolo, Radolf riesce ad allontanarla con i pugni, grande!

Ultimo è Albert: tira dritto, come sempre, è una palla di cannone. Radolf tenta di prenderla ma gli arriva in faccia e lo manda a terra, e Albert fa gol.

Wakabayashi lo richiama.

-Schwarz! Stai bene?-

Si copre la faccia con una mano e alza l’altra, io mi giro verso Albert, non riesco a vedere da così lontano ma so che sorride: quando fa gol è sempre contento, anche se l’altro si fa male.

-Non male Schwarz, fatti vedere per il naso.

Cristea! In porta.-

-In bocca al lupo.-

Lui mi mostra il pugno, e io glielo batto, stringendomi poi le ginocchia al petto, odio essere l’ultima nel fare le cose, di sicuro farò una figura pessima, non riuscirò a parare nessun tiro.

Porto una mano al petto, sento il campanello di Cilly.

Non ti perdere Andrea, guarda i tiri.

Eusebiu viene massacrato: non riesce a parare nemmeno i tiri dei suoi compagni, ne para quattro ma quando tocca a Sibo non riesce a raggiungere l’angolo.

Tira Albert, lui si allontana dal pallone, deve averlo spaventato quello che è successo a Radolf. Non è la prima volta che mi capita di vedere qualcosa del genere.

-Non ci siamo Eusebiu, la devi prendere la palla santo cielo!

Muller, in porta!-

Torna da me con un’espressione imbarazzata, deve provare molta vergogna, cavolo.

Mi sento rigida, ho le gambe rigide. Ho paura.

Calma, calma Andrea. Verliere dich nicht. Non ti perdere.

La porta sembra ancora più grande mentre mi sistemo.

-Piega di più le gambe! Come con la palla medica.-

Obbedisco, piego le gambe, ci sono. Respiro, mi concentro sul primo giocatore.

Prende la rincorsa, usa il piede sinistro; colpisce con il lato del piede, la palla andrà a sinistra, alta, eccola. Mi allungo il più possibile e riesco ad afferrarla.

La rimando indietro; uno è andato.

Respira Andrea, non andare in apnea.

Ricordati, piega le ginocchia.

Arriva il secondo giocatore: va indietro e curva a sinistra, colpirà di destro, la palla sarà curvata; colpisce, è veloce, non posso prenderla, devo deviarla.

Salto e allungo la mano, la sento sulle dita, una spinta e colpisce la traversa. E due.

Il terzo giocatore resta fermo sulla palla, non prende ricorsa; carica il piede, colpirà di punta. Colpisce con il destro, la palla schizza troppo in alto, supererà la porta; resta ferma Andrea, conserva le energie.

Glielo faranno rifare? Mi fanno cenno che si fa il quarto.

Tocca a Leonhard, lui fa tiri ad effetto, i peggiori.

Va indietro di qualche passo verso sinistra, tira sempre di destro. Che effetto darà alla palla?

Respira Andrea, respira. Eccolo che tira.

La palla sembra troppo a destra ma non è vero, lo conosco quel tiro. Corro verso il pallone e riesco a colpirlo con il pugno, oh no prende l’interno del palo, devo spostarmi o mi prenderà in pieno! Inarco indietro la schiena e cado a terra di schiena, la palla schizza fuori.


Che rischio, sono stata stupida.

-Grande!! Grande Andrea!-

Mi giro verso Leonhard sorpresa, anche gli altri applaudono, sento Eusebiu fischiare.

Altri sette, mi sento stanca, questa porta è davvero enorme.

Respira Andrea, resta concentrata.

Ecco il quinto, è rasoterra, è facile da prendere.

Arriva il sesto, questo non riesco a prenderlo: è in angolo alto a sinistra. Provo ad allungarmi, ma mi entra in porta, non ho avuto abbastanza scatto.

-Le ginocchia Muller!-

Mister Wakabayashi mi urla, cavolo è vero, non avevo piegato le ginocchia!

Subito mi metto nella posizione corretta, il settimo arriva a destra, riesco a prenderlo in tempo.

-Esatto. Se tieni le ginocchia piegate fai un salto maggiore.-

Annuisco al mister e vedo Sibo che si mette in posizione. Albert però gli prende il posto, da qui non riesco a vedere ma so che vuole colpirmi, quando ci alleniamo non tira mai per farmi gol. Tira per prendermi.

Io non piaccio per niente ad Albert.

Prende la rincorsa, vuole tirare forte. Preparati Andrea. Tira, ha mirato alla pancia. Non tirarti indietro, prendila Andrea! Afferro la palla con entrambe le mani e la abbraccio, il colpo mi arriva e mi manca il fiato. Mi inginocchio a terra ma non mollo la palla. Sei mia, non farò mai fare gol ad Albert.

-Muller! Tutto bene?!-

Sento mister Wakabayashi gridare il mio nome, alzo il braccio, non è niente, ha tirato di peggio. Sento però il mister gridare ancora, sembra quasi ruggire.

-Che ti salta in mente ragazzino?! Vuoi rompere tutti i portieri?! Bada bene!!-

Tossisco, mi tasto petto e pancia, stanno bene, non mi fa troppo male; sto per calciare indietro il pallone, pronta per Sibo, quando vedo che c’è confusione sul dischetto dei rigori.

Mister Schneider sta tirando da parte Wakabayashi mentre mister Rudi Schneider allontana Albert, verrà sgridato? Il signor Weiner lo rimprovera sempre ma non lo ascolta mai, non credo servirà a molto stavolta.

Leonhard mi si avvicina.

-Ehi, tutto bene?-

-Si, certo. Che succede?-

-Ah, si stanno un po’ agitando per il tiro che ha fatto Albert, è da prima che fa il prepotente, a momenti io stesso gli tiravo un pugno durante i nostri esercizi.-

-Come mai? che è successo?-

-Si è messo a commentare ad alta voce su come uno dei compagni di squadra stava facendo un esercizio, credendosi chissà che. Gli ho detto di smetterla e lui mi ha minacciato, dicendo che se non chiudevo la bocca mi avrebbe messo a posto; a quel punto stavo per prenderlo a pugni, ma mister Rudi ci ha separato.-

-Albert cerca sempre di provocare gli avversari.-

-E’ uno spaccone.-

-Fa sempre così, è inutile che lo sgridano. Lo farà di nuovo la prossima volta.-

Alzo le spalle, intanto vedo che la situazione si sta calmando, mister Wakabayashi sta tornando con Schneider; Rudi Schneider invece rimane accanto ad Albert, rimasto seduto con gli altri ragazzi.

Sto per mettermi in posizione quando mi accorgo che c’è qualcosa che non va con i miei guanti.

Lo scotch del palmo si è rotto e si sono strappate alcune dita, ora sono proprio inutilizzabili. Devo avvisare i mister. Corro nella loro direzione, stanno ancora parlando tra di loro.

-Scusatemi mister, ma ho un problema con i miei guanti.-

E glieli mostro. Vedo mister Schneider spalancare gli occhi scioccato mentre Wakabayashi si passa una mano dietro la testa.

-Lo dicevo io che con questi guanti facevi poco.-

-Se mi date il permesso posso parare gli ultimi 3 tiri a mani nude. L’ho già fatto.-

Mi guardano sorpresi, poi si guardano tra di loro e si mettono a ridere. Ho detto qualcosa di buffo?

-Riposo soldato, direi che dopo questo tiro puoi evitarti gli altri tre.-

-Non sono stanco, posso farcela.-

Voglio finire il mio esercizio, non è giusto che gli altri parino 10 tiri e io solo 7; mister Schneider mi guarda ancora sorpreso mentre mister Wakabayashi sorride divertito.

-E va bene soldato. Togliti i guanti e vai in porta. Koch!-

Tolgo i guanti, li poso a terra e torno in porta, sistemandomi il berretto.

Sibo si rimette sul dischetto, prende una rincorsa veloce e tira di getto, dev’essere nervoso; il tiro è troppo tirato a sinistra, prende il palo. Ferma Andrea. Sento il rumore del palo.

Il penultimo tiro è rasoterra, riesco a prenderlo ma mi fanno male le mani e mi sfugge. Tieni duro Andrea, hai quasi finito.

Piego meglio le ginocchia, ecco l’ultimo tiro: l’ultimo giocatore prende la rincorsa e tira, palla alta, devo saltare; sento il cuoio sulle dita, sfrega e fa male ma stringo i denti e non mollo la presa. Decimo tiro. Presi otto su dieci.

-Ben fatto Muller. Ok ragazzi, per oggi ci fermiamo qui. Domani saremo al campo di allenamento della società, vi aspetto puntuali come oggi.-

Torno verso gli altri, Radolf ed Eusebiu mi si avvicinano, sono ancora agitati.

-Stai bene?-

-Si, tutto bene.-

-Wow Andrea, è stato pazzesco!-

-Già, per una ragazza è incredibile.-

-Eh?! Cosa, una ragazza?!-

-Andrea.-

Mi giro, mister Wakabayashi mi ha chiamata per nome. Mi ha chiamata...per nome…

-Davvero bravo. Hai dei guanti di riserva?-

Nego con il capo. Mi ha chiamata per nome.

Mi allunga i miei guanti distrutti, io li prendo e li stringo a me. Mi ha chiamata per nome.

-Beh, vediamo per domani di risolvere il problema. Ci vediamo.-

Se ne va. Mi ha chiamata per nome.

Adesso si che mi viene da piangere.

Non ti perdere, Andrea: c’è ancora tanto lavoro da fare.

 

**

 

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Capitolo 6
*** V: Warheit ***


V: Warheit

 

-Allora Genzo, come ti è sembrato il tuo primo giorno?-

Karl aveva la stessa posa di mia madre quando io e Yasu avevamo fatto il nostro primo giorno di scuola elementare: gomiti sul tavolo (strano da parte di mia madre) e mani sotto il mento, sguardo fisso su di me e tanta, tantissima aspettativa di ricevere una risposta affermativa (considerando che mia madre mi aveva mandato in una scuola pubblica perché aveva notato la mia tendenza solitaria e si aspettava che in una giornata mi fossi fatto amico l’intero edificio).

Rudi invece, proprio come mio padre, sorseggiava in silenzio il suo bicchiere di vino.

Io, con calma, presi il mio ultimo boccone di carne e me lo masticai con gusto, pasteggiando con il vino del mio calice; Karl non si mosse da quella posizione, ne perse il sorriso soddisfatto mentre mi osservava.

-...forse.-

Batté una mano sulla gamba.

-Lo sapevo, sapevo che ti avrei convinto.-

-Si, ma solo per stavolta, non abituarti alla mia presenza.-

-E i tre portier? Come ti sono sembrati?-

Il Kaiser, quando voleva, sapeva fare in maniera egregia le orecchie da mercante e continuare a portare avanti lui la conversazione, ma conoscendolo non abboccavo.

-Inutile che fai finta di niente, Karl: ti ho detto che sarei venuto solo a vedere oggi.-

-Dai Genzo, non mi sembra che tu ti sia annoiato. Anzi, ti ho visto particolarmente preso dai nostri tre piccoli portieri.-

L’unico piccolo, di quei tre, era soldatino berrettino, con quell’aria apparentemente concentrata e con la testa più dura del cemento armato, mi tornò in mente mentre cercava di tenere in alto la palla medica, stringendo i denti e sopportando la fatica. Sbuffai divertito.

-Ah, ti ho visto.-

Lanciai un’occhiata infastidita a Karl e suo padre decise di intervenire.

-Karl, non esagerare.-

Il figlio, di risposta, bevve dal suo bicchiere, ma l’occhiata che mi lanciò continuava ad essere soddisfatta.

Rudi, quando entrai nel Monaco, si rivelò un ottimo allenatore, e al di fuori del campo da calcio fu più di un amico, quasi un padre; ricordo ancora quando, ad un evento della società, i miei genitori lo conobbero: lui e mio padre si scambiarono una stretta di mano e un sorriso molto amichevole, finendo a parlare del più e del meno dei loro figli.

“-Sono entrambi due padri molto fieri, Genzo. Dopotutto, qualunque padre è fiero del proprio figlio quando questo riesce a realizzare i suoi sogni.-”

Mamma disse quelle parole con un sorriso, sistemandomi con gentilezza la cravatta che stavo indossando.

-Però seriamente Genzo, che ne pensi dei nostri tre portieri?-

La voce di Karl interruppe il mio ricordo, il tono si era fatto più serio così come il suo sguardo; voleva sinceramente un mio parere su quello che avevo visto.

Non esitai a dirgli quello che pensavo, partendo subito dal peggiore dei tre, “Pertica”.

-Eusebiu Cristea è quello meno preparato come portiere: è sia alto che veloce e resistente, ma si irrigidisce se gli arriva la palla incontro e finisce solo per allontanarla. Com’è la sua squadra?-

-Eusebiu Cristea...è dell’istituto Freundschaft, l’istituto per l’introduzione alla lingua tedesca giusto?-

Suo padre annuì, per tutto il giorno lui aveva tenuto la cartellina con i nominativi e provenienze, pertanto era quello che meglio conosceva i vari partecipanti.

-La loro squadra può variare di anno in anno: i ragazzini vengono per la maggior parte da famiglie straniere che li portano lì per imparare velocemente il tedesco, pertanto capita che una volta che hanno raggiunto un livello discreto di comprensione i genitori non li mandino più per farsi aiutare in casa.-

-Questo non aiuta certo l’andamento della squadra.-

Molto probabilmente Eusebiu era appena arrivato nella squadra e si era ritrovato coinvolto nell’attività del Summer Camp; lui se davvero voleva continuare come portiere avrebbe dovuto fare il lavoro maggiore, ovvero ripartire dalle basi.

Il fisico ce l’aveva, poteva recuperare velocemente gli altri due...

-E gli altri due?-

Il mio cervello mi ripropose i loro visi mentre ricordavo le loro capacità; lo ammetto, avevo voglia di discutere subito di “soldatino” e del suo talento, ma me lo volli tenere per ultimo, come ci si aspetta in un qualsiasi Spokon, perciò andai con “Forzuto”.

-Radolf Schwarz è molto forte e ha un’ottima resistenza, deve solo perdere un po’ di peso.-

-So che la sua squadra è una delle più forti tra quelle del campionato under 14, il loro capitano Leonhard ha grandi capacità e una buona leadership.-

-Già, ma è una testa calda: durante i loro allenamenti qualcuno ha fatto un commento su un compagno ed è subito andando in sua difesa, iniziando a litigare. Poco ci mancava che volassero pugni.-

Chi non conosce Rudi potrebbe pensare che le sue parole siano soltanto un commento negativo; in realtà aveva lo sguardo di chi aveva cominciato a trovare una soluzione.

Io incalzai sul discorso.

-Ci sono stati altri ragazzi che hanno attirato la vostra attenzione?-

-Quelli che ci hanno maggiormente interessato sono stati quelli che hanno tirato in porta.-

Ricordai chiaramente un volto con i capelli biondo paglia e i modi di fare da bullo che mi fece incupire; incrociai le braccia e appoggiai la schiena sulla sedia, sbuffando infastidito.

-Non mi piace per niente il biondo scuro con la maglietta del “Drei Keifern”.-

Schneider capì subito di chi stavo parlando, poco mancava che me lo mangiassi quando, per la terza volta, aveva tirato addosso al portiere e non in porta.

-Beh sì, è un po’ prepotente ma è un ottimo attaccante.-

-Non ha mai tirato per fare gol, lo hai visto anche tu.-

Conoscevo quel modo di fare: colpire il portiere abbastanza da spaventarlo e irrigidirlo, così da non fargli più parare il resto dei tiri. Efficace ma barbarica come tecnica.

Ripensai ad un certo attaccante con la pelle scura che si era trasferito in Italia, ricordando che quando eravamo bambini anche lui utilizzava questi metodi poco ortodossi per vincere. Per fortuna, con gli anni, era cambiato.

Vidi Rudi annuire alla mia affermazione e Karl prese un profondo respiro, passandosi una mano tra i capelli.

-Staremo a vedere come si comporterà, magari il confronto con gli altri lo farà calmare.-

Ero molto scettico a riguardo: se per lui quel metodo funzionava, avrebbe continuato ad usarlo fino a quando qualcuno non gli avrebbe fatto capire con le cattive che non andava bene.

-E l’ultimo portiere? Muller? Che ti sembrava?-

I miei occhi videro Karl mettersi sull’attenti mentre mi rivolgeva uno sguardo quasi nervoso, evidentemente aveva visto anche lui cos’era capace di fare quel piccoletto e voleva avere una risposta positiva da parte mia. Sorrisi divertito e subito si infiammò di entusiasmo.

-Ah, sembra che qualcuno abbia attirato l’attenzione dell’SGGK.-

Non nascosi quell’espressione, anzi alzai il mento con sicurezza.

-Ebbene sì, lo ammetto: Muller mi è sembrato in gamba.-

-Lo hai notato anche tu, vero? Lo sapevo che non ti sarebbe sfuggito. E’ un portento!-

Karl sorrideva con aria molto soddisfatta, ma stranamente Rudi fece una faccia contrariata e, anzi, scosse la testa mentre il figlio gli rivolgeva la parola.

-Hai visto? Te l’avevo detto che anche Genzo avrebbe subito notato il suo talento.-

-Non cambia il fatto che la sua è una presenza intrusa che non dovrebbe esserci.-

Quella frase mi stranì non poco: una presenza estranea? Muller?

Il mood eccitato del Kaiser si spense all’istante, e i suoi occhi si fecero decisi.

-Rudi ne abbiamo parlato con gli organizzatori, abbiamo visionato i filmati, sappiamo della situazione della squadra e abbiamo fatto tavola rotonda con tutto lo staff tecnico. Piegare una regola una sola volta non distruggerà la società.-

Karl era abituato, quando si parlava di calcio, di allenamenti, di partite e del Bayern in generale, a chiamare suo padre per nome, per rispetto nei confronti dell’essere il suo allenatore; di rimando Rudi trattava il figlio al pari di qualsiasi altro giocatore della squadra, senza alcun favoritismo.

-Io continuo ad essere contrario e con me lo sono anche il direttore sportivo e il mio vice.-

-Ma tutti gli altri no, e sai come è andato a finire il voto.-

Un voto tra lo staff tecnico per decidere di Andrea Muller?! Senza contare la tavola rotonda, le discussioni, visione di materiale?! Ma che stava succedendo?!

Intervenni prima che si mettessero a discutere in maniera più pesante.

-Aspettate un attimo, che sta succedendo? Qual’è il problema con Andrea Muller?-

Karl si voltò a guardarmi, sinceramente sorpreso.

-Non te l’ho detto?-

-Cosa?-

-Andrea Muller è una femmina.-

L’immagine del soldatino mi tornò in mente, con i suoi capelli corti e i suoi occhi scuri. Sospirai appoggiando la schiena alla sedia e incrociando le braccia.

-Non prendermi per il culo Karl, sono serio.-

-No no, te lo giuro Genzo! So che puoi non crederci, anch’io quando ho visto quel taglio di capelli sono rimasto perplesso, ma ti assicuro che Andrea Muller è una ragazzina.-

Rimasi ancora incredulo, il soldatino...una femmina?!

Rudi sospirò, alzandosi dal tavolo per andare a recuperare il suo zaino in salotto e tornare, pochissimi minuti dopo, con una cartellina con le schede del “Drei Keifern”, sfogliandole velocemente fino a trovare quello che cercava mentre io continuavo a parlare con il biondo attaccante.

-No dai, mi stai prendendo in giro.-

-No, davvero Genzo: Andrea Muller è una ragazzina che gioca in una squadra di maschi e che ha un talento pazzesco!-

-10 anni, dell’orfanotrofio dei Tre Pini.-

Il mio allenatore mi allungò la cartellina, davanti ai miei occhi la scheda del soldatino.

Riconobbi immediatamente quegli occhi scuri, ma i capelli neri che scendevano dietro la sua testa erano decisamente più lunghi, arrivando alle spalle, e quel volto di colpo mi era diventato molto più pallido e delicato di quello che avevo visto sul campo di allenamento; assieme a questo c’era quello sguardo deciso che gli...le avevo visto durante gli allenamenti, c’era la stessa intensità anche nella fototessera.

Intanto Rudi continuava a sciorinarmi informazioni.

-Arrivata all’età di 5 anni all’orfanotrofio dopo che è stata diagnosticato un problema mentale al padre ed è stato portando nel Centro di Riabilitazione dell’Ospedale Centrale.

Il suo allenatore dice che ha dimostrato subito un grande talento e l’ha messa in squadra, tuttavia l’anno scorso la squadra è stata squalificata dal campionato Under 14 proprio per via della presenza della ragazzina.-

Continuai a guardare la foto mentre la mia mente mi riproponeva il viso sorpreso e il gesto istintivo di portarsi le mani tra i capelli quando le avevo tolto il berretto alla fine della corsa intorno al campo.

Quel taglio maschile, quel modo di fare rigido e schivo...tutto per nascondere il fatto di essere femmina.

-...come ti è venuto in mente Karl?-

Questo strinse leggermente i pugni mentre suo padre si metteva comodo sulla sedia, le braccia incrociate e lo sguardo ben chiaro.

-Te l’avevo detto di dirglielo subito, che altrimenti se la sarebbe presa.-

-Con quale risultato? Che si metteva ad ignorarla perché era una ragazzina?-

-Ehi, non sono così retrogrado. Dico solo che…-

-Che non dovrebbe stare in una squadra di ragazzi? Ti prego Genzo non cominciare anche tu! Ha parato 8 tiri su 10, uno dei quali a mani nude dopo che si è fatta distruggere i guanti. E ti ricordo che si è presentata da noi, spiegando il problema e chiedendo comunque di finire il suo giro di tiri.-

Volevo dirgli che questo non cambiava niente, ma non era vero: mi ero messo a ridere quando aveva insistito, perché rivedevo in lei la tenacia che avevo avuto anch’io alla sua età, la stessa voglia di giocare e di dimostrare che poteva farcela anche in situazione di svantaggio.

-L’orfanotrofio ha subito spiegato la problematica e ci ha mandato i video delle loro partite per dimostrare che quella ragazzina è forte tanto quanto i maschi.-

Guardai di nuovo la foto, stringendo i denti; aveva un espressione diffidente ma coraggiosa, che guardava dritto alla lente della macchina fotografica.

-...Che hanno detto gli organizzatori del bando?-

Karl posò la schiena sulla sedia mentre il padre prendeva la parola, ribattuto però subito dopo dal figlio.

-Il bando chiaramente diceva che l’iscrizione era aperta alle squadre del campionato scolastico Under-14 Maschili...-

-Tuttavia nello stesso bando era stato scritto che potevano esserci eccezioni inerenti alle squadre se esplicate e supportate da materiale video visionabile dallo staff tecnico, che eventualmente avrebbe deciso se accettare o meno il caso...-

-Nel caso specifico il bando era rivolto a bambini con problemi fisici o mentali.-

-Non era specificato, lo abbiamo controllato!-

Il Kaiser tornò a guardarmi, non voleva mollare l’osso.

-L’orfanotrofio si è scritto e ha presentato la sua “problematica” (Karl fece il segno delle virgolette, cosa che a me manda in bestia) con il materiale richiesto.-

Decisi di interromperlo, volevo vederci chiaro: com’era possibile che avessero potuto accettare una bambina in questa situazione? Il Bayern Monaco ha una sua sezione femminile di giocatrici!

-Scusatemi, ma se il problema era solo per una bambina femmina perché il bando non è stato fatto in modo che potessero partecipare anche le femmine? In fondo la nostra sezione femminile è molto forte...-

Karl si girò verso il padre con una chiara occhiata, e a quel punto Rudi fece scena muta, con aria chiaramente imbarazzata.

Capii il problema: siamo nel 2018, ma il nostro presidente sessantenne fa davvero fatica a ricordarsi che la rosa della nostra squadra femminile vanta nomi che sono finiti anche nella squadra Nazionale femminile durante i Campionati e che è terza nella classifica mondiale FIFA. Insomma...per lui le femmine non giocavano a calcio.

Meno male che, per prendere le decisioni, doveva rivolgersi al consiglio della società, i quali lo fermavano dal compiere qualsiasi azione stupida.

Rudi fu uno delle persone che votarono per la sua carica di presidente; dire che Karl glielo rinfacciava in maniera costante era superfluo.

Sospirai, passandomi una mano in faccia.

-Mein Got, siamo di nuovo al Medioevo?-

-E’ quello che dico anch’io!-

Ma io mi girai verso Rudi, rivolgendogli la parola.

-Mi stai dicendo che vi da fastidio che vi siete fatti infinocchiare da un cavillo nel bando?-

Lui fece di nuovo scena muta mentre una mia mano si appoggiava vicino alla foto di Muller.

-Dovreste essere grati che c’è stato solo questo imprevisto, poteva capitarvi di molto peggio.

Per quanto riguarda te…-

E mi girai verso Karl.

-Innanzitutto non me l’hai detto subito, sai quanto la cosa mi dia fastidio.-

Non sopporto i bugiardi, o comunque le persone che non mi dicono subito le cose: la ritengo una mancanza di fiducia nei miei confronti. Sarò a volte uno stronzo infantile, ma avevo 30 anni santo cielo, sapevo bene che avevamo a che fare con dei ragazzini!

Senza contare che soldatino...soldatina si stava cacciando in una situazione pericolosa.

-Questa è comunque una trasgressione del regolamento, non adagiarti sugli allori: basta un errore e la piccoletta è fuori dal giro, senza contare che la società stessa rischia di perdere credibilità.

Immagino che questo metta a rischio anche il resto della sua squadra, giusto?-

Karl aveva subito in silenzio e con coscienza la mia sgridata, annuendo alla mia domanda.

-Purtroppo sì: per poter partecipare al Summer Camp le squadre devono essere complete. Per questo ho tanto insistito per farla comunque giocare, senza contare che questo è il suo ultimo anno.-

-Cioé? E’ stata adottata?-

Karl scosse la testa con aria sinceramente dispiaciuta, ero davvero colpito dal fatto che aveva preso a cuore questo caso specifico.

-Per niente: il fatto è che il suo orfanotrofio tiene i bambini solo fino all’età di 10 anni, quando si sceglie il percorso di studi; il Drei Keifern ha un accordo con un istituto professionale collegiale, invia lì i bambini che non sono stati adottati al collegio per fargli proseguire gli studi e garantirgli un lavoro. L’Hauptschule comprende e garantisce un tirocinio per inserirli nel mondo del lavoro.

Questo, chiaramente, obbliga gli studenti a limitare il numero di ore che potrebbero dedicare ad attività come quelle del praticare seriamente uno sport.-

Mi sembrava un procedimento barbaro, ma mi rendevo conto che era l’unico modo per quell’orfanotrofio di sopravvivere visto la legislatura.

-Pertanto questo è l’ultimo anno, per quella piccola, di inseguire il suo sogno, anche solo per tre mesi.-

-Ma scusa, il settore femminile non ha…-

Karl mi interruppe lanciandomi un’occhiata e poi rivolgendo lo sguardo nuovamente a suo padre, che non fece contatto visivo ma cercò nel fondo del suo bicchiere “il senso della vita”, o molto probabilmente la dignità che aveva perso con la decisione di votare per quel preside.

Una volta sorseggiata l’ultima goccia di vino, l’unica cosa che Rudi riuscì a dire è…

-Si vocifera che alla prossima riunione si parlerà di un suo eventuale ritiro.-

-Ci manca solo che non lo facciate, papà…-

Quel “papà” era così acido che avrebbe potuto corrodere il bicchiere da cui bevve Karl.

Mi ripassai di nuovo la mano in faccia, neanche il Medioevo, direttamente l’Età della Pietra!

Ripensai a quel soldati...quella soldatina, il mio cervello pian piano stava iniziando ad accettare l’idea che potesse essere una femmina, nella mia testa la rivedevo chiedermi il berretto e assicurarmi che avrebbe parato con quei vecchi guanti, per poi arrivare a togliersi i guanti distrutti sicura che ce l’avrebbe fatta.

Aveva dovuto mentire sulla sua natura, ma quegli occhi non mentivano sul fatto che amassero davvero quello che stava facendo: amava fare il portiere di calcio, ed era brava a farlo, aveva intuito, le sarebbe bastato solo un po’ più di preparazione atletica...

-Karl, senti.-

-Dimmi.-

-Hai ancora il materiale video di Muller?-

Non so se qualcuno di voi conosce “Mamma ho perso l’aereo 2: mi sono smarrito a New York”, ma il sorriso che apparve su Karl aveva la stessa lentezza e maliziosità di quello di Tim Curry quando scopre che Kevin usa la carta del padre.

Fece scivolare fuori il cellulare dalla tasca e pochi minuti dopo vibrò il mio telefono nella tasca della giacca. Nuovo messaggio whatsapp, o meglio, almeno 3.

-Ti ho passato quelli che considero i migliori.

Ti assicuro che, se non eri convinto prima, adesso vorrai proseguire con il Summer Camp.-

-Hmm-mmh.-

Non volevo dargliela vinta troppo facilmente, ma effettivamente sentivo che tornare al Summer Camp non sarebbe stato così male, nonostante la mia difficoltà di mobilità.

Karl su quel punto volle infierire dicendo che “se mi dava fastidio che Johan mi trasportasse la sedia, potevamo affittarne una a rotelle” e a quel punto gli mollai una sberla sulla nuca mentre suo padre commentava con un semplice “te la sei cercata”.

Continuammo a chiacchierare nel salotto accompagnati dalla bottiglia di Rumtopf mentre Isolde, in cucina, spreparava la tavola e lavava i piatti, fino a quando non fu abbastanza tardi da accompagnare Schneider e figlio fuori casa e vederli andare via sulla loro macchina.

-Junge Meister, io andrei a dormire.-

-Va pure Isolde, grazie e buonanotte.-

La domestica mi fece il suo solito sorriso affettuoso e si avviò per la depandance riservata a lei e Fredrich, il mio autista.

E rimasi solo.

Mi girai verso l’ingresso, guardando la scala che portava al piano di sopra, ascoltando il silenzio che aleggiava nella villa; con molta calma tornai verso il salotto, riempiendo per l’ultima volta il mio bicchiere di rum, avviandomi verso la mia stanza.

Sospirai guardando le scale, la parte più difficile della giornata probabilmente; misi sottobraccio la stampella, appoggiandomi al corrimano, e con estrema calma salii le scale.

Mi sono fatto male molte volte e odio aspettare di guarire e la riabilitazione, ma non sono stupido: se so che non posso farcela cerco di limitare lo sforzo.

Alla fine arrivai in cima al piano e, mettendo di nuovo mano alla stampella, mi diressi in camera mia, chiudendomi alle spalle la porta.

Appoggiai il bicchiere sul tavolino e sfilai dalla tasca il cellulare, mettendomi comodo nella poltrona; non avevo tolto la notifica di Karl così potei accedere rapidamente ai video.

Il primo video era un allenamento, il soldatino era al suo posto sulla porta, berretto calcato in testa; notai subito che aveva le ginocchia poco piegate, probabilmente nessuno gli aveva insegnato la postura corretta.

Nonostante questo riusciva a raggiungere la porta da ogni lato e a fare egregiamente il suo lavoro; notai inoltre che non parlava con i difensori e questi erano troppo avanti rispetto a dove sarebbero dovuto essere, rendendole il lavoro difficile.

Eppure ancora una volta rimasi colpito dalla sua capacità di intuire la direzione della palla; non era forte con le prese ad una sola mano, la palla spesso gli scappava, ma riusciva quasi sempre a sistemarsi in modo da poter prendere il pallone.

Sentii un fischio e il cellulare si girò verso il loro allenatore, lo riconobbi subito perché era uno dei più giovani tra quelli presenti al Summer Camp.

> Ben fatto ragazzi! E complimenti al nostro superportiere.

Il cellulare tornò su Muller che in silenzio si allontanò dalla porta, palla in mano.

Gli altri intanto si parlavano tra di loro, evitandola, e il video si interruppe con l’allenatore che li chiamava a raccolta, il berretto di lei spiccava tra le teste dei suoi compagni, in fondo al gruppo.

Il secondo video veniva da una partita, doveva essere stato durante il campionato under-14; inoltre la ripresa doveva essere stata tagliata da una registrazione più lunga, chi riprendeva era nell’ultima fila degli spalti, si poteva sentire il baccano del pubblico presente, per lo più genitori e amici.

Riconobbi subito il berretto del soldatino, la porta era leggermente più grande di quella con cui si allenava eppure non sembrava sentirsi a disagio: era profondamente concentrata a seguire l’azione, muovendosi leggermente man mano che l’attaccante avversario stava arrivando.

I due difensori, come sempre troppo avanti, furono smarcati dal ragazzino che tirò in porta; l’effetto della palla mi fece mettere in pausa e rivedere la scena, riconoscendo il calciatore come Leonhard, era davvero in gamba a fare quell’effetto.

Vidi Muller saltare con tutte le sue forze verso sinistra, la sua mano allungarsi al massimo arrivando a toccare il pallone e deviandolo abbastanza da fargli prendere palo e allontanarlo.

> ...no dai non ci credo, lo ha fatto lei?!

Neanche quello che stava riprendendo poteva crederci.

Il video a quel punto s’interruppe, ma io stavo sorridendo: dieci anni e già agguerrita, oltre che incosciente, era caduta malissimo sulla spalla. Doveva imparare ad atterrare.

L’ultimo video era la ripresa di un calcio di punizione.

I giocatori erano tutti allineati proprio a davanti a lei, a coprirle la visuale; la vidi gridare qualcosa e fare cenno al ragazzino di spostarsi, ma lui rimase fermo al suo posto, continuando a coprire.

...Ah, è così? Ai suoi compagni bruciava che una femmina fosse in grado di correggere i loro errori?

Sapevo che avrebbe parato in qualche modo, ma una parte di me sperò che mi sbagliassi e che facessero gol.

Il ragazzino tirò ma la palla colpì la traversa, tornando indietro; tuttavia quello era già pronto a riprendersi la palla, con i giocatori che cercavano di andargli tutti addosso.

Che geni.

Chiaramente il bambino passò la palla alla sua destra dove c’era l’attaccante libero che, tranquillamente, stava per tirare, quando il soldatino gli arrivò praticamente in faccia e gli calciò via il pallone, facendosi prendere in pieno sulla gamba.

Folle! Poteva aspettare che tirasse e prendergliela!

La palla uscì fuori dal campo e l’arbitro fischiò la fine del primo tempo; a quel punto, nella confusione generale, notai che Muller si era seduta a terra con la gamba distesa a terra e l’altra verso di sé, il berretto mi impediva di vedere il suo volto, ma ero sicuro che non stesse piangendo, al massimo stava stringendo i denti.

Troppo caparbia per permettere al dolore di bloccarla.

A questo punto fu fatto un taglia e incolla, e all’inizio del secondo tempo vidi il soldatino di nuovo sulla porta, nella sua solita posa, pronta a prendere il pallone.

Incosciente e tenace.

“-Mister Wakabayashi, mi scusi.

Posso riavere il mio berretto? Se ci sono altri esercizi di gruppo me lo tolgo, promesso.-

-Scusatemi mister, ma jo un problema con i miei guanti.-

-Lo dicevo io che con questi guanti facevi poco.-

-Se mi date il permesso posso parare gli ultimi 3 tiri a mani nude. L’ho già fatto.-

-Per questo ho tanto insistito per farla comunque giocare, oltre al fatto che questo è il suo ultimo anno.-”

Quelle ultime parole mi risuonavano in testa mentre mi alzavo dalla poltrona e, lentamente, mi avvicinai alla cassapanca proprio sotto la finestra, soffrendo mentre l’aprivo perché non potevo certo inginocchiarmi e qualsiasi movimento stava infastidendo la lesione, stravolta dalla giornata.

 

**

 

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Capitolo 7
*** VI: Fallen ***


VI: Fallen

 

“-Chi ti credi di essere? Pensi di essere speciale?! Tu sei solo qui solo perché ci serve un portiere.

Stai al tuo posto, hai capito?-”

Albert e gli altri mi hanno obbligato a seguirli fuori dall’istituto; c’è un punto dietro uno dei pini, lontano dalla strada, dove si riesce a nascondersi dalle finestre ma, al tempo stesso, si è dentro i confini dell’orfanotrofio.

Hanno iniziato a spingermi, mi hanno tolto il berretto e lo hanno calpestato; io l’ho protetto con il mio corpo e Albert mi ha preso al fianco. Era molto arrabbiato perché avevo parato il suo tiro e non solo: hanno detto che Schneider e gli allenatori hanno parlato di me, di quanto sono stata brava.

Io ricordavo ancora che Wakabayashi mi aveva chiamata per nome.

“-Tanto non puoi andare da nessuna parte, chi la vorrebbe una strana come te? Non potrai mai diventare un vero portiere! Sei una femmina!-

-Andiamo Albert, prima che gli insegnanti ci vedano.-

-E vedi di tenere la bocca chiusa, chiaro? O ti brucio il berretto.-”

Non mi hanno colpito in faccia. Il berretto era solo molto sporco ma non si è rotto.

Anche il mio papà diceva che le femmine non erano capaci di fare niente.

“-Chi la vorrebbe una femmina? Io non ho mai voluto una figlia femmina. Lui è Andrea, è mio figlio. Diventerà un ottimo portiere.-”

La nonna mi aveva detto che papà non stava bene e per questo pensava che io fossi un maschio; lei mi tagliava i capelli quando ancora vivevamo tutti assieme e mi aveva raccomandato di non dire mai che ero una bambina, così da non farlo arrabbiare, perché in fondo papà non era cattivo.

Lo sapevo che papà non era cattivo: mi aveva regalato il berretto, mi aveva insegnato a giocare a calcio e mi aveva incoraggiato a diventare un portiere, lavorava per prendersi cura di me e di mia nonna.

Papà non era un uomo cattivo.

Sono ritornata all’orfanotrofio e, prima di andare a dormire, sono andata in bagno a lavare il berretto, poi l’ho messo vicino alla finestra aperta, tanto faceva caldo e si sarebbe asciugato prima.

Stanotte ho sognato che ero di nuovo a casa della nonna, stavamo mangiando e poi la porta di casa si apre ed entra papà; era arrabbiato, si è messo a gridare che ero una piccola bugiarda proprio come mia madre, che me l’avrebbe fatta vedere cosa significava dirgli le bugie.

Nonna gli diceva che era ubriaco e doveva smetterla, che non era colpa mia se ero nata così; papà ha spinto via nonna e mi ha trascinato in camera. Era tutto buio, sentivo ancora mio padre urlare, avevo tanto paura.

Poi sento che mi colpisce il fianco, mi fa male, mi fa malissimo.

Mi sveglio, e mattina, il fianco sinistro fa un pochino male.

Il soffitto bianco è quello della mia camera all’orfanotrofio. Papà non c’è più. Nonna non c’è più.

Mi metto una mano sul petto, cerco il campanellino di Cilly. Non ti perdere Andrea.

Scendo dal letto e vado allo specchio, mi guardo: ho un livido al fianco, fa un po’ male ma non importa, posso comunque giocare. Guardo poi la faccia, non ho niente per fortuna, sarebbe stato difficile nascondere eventuali segni.

Questa è la mia ultima occasione di giocare e di far vedere che posso fare il portiere. Questi sono solo lividi.

Mi metto velocemente la mia uniforme, preparo la borsa. Prendo i miei guanti, ho provato ad aggiustarli ma oramai non basta più neanche lo scotch; avevo dei guanti di ricambio, me li aveva dati il signor Weiner ma gli altri me li hanno presi gli altri perché volevano mettermi nei guai.

Posso parare anche a mani nude, l’ho fatto anche ieri, mi sono solo spellata un pochino sul palmo, non è niente di serio.

Rimetto i guanti nella scatola da scarpe sotto il letto, chiudo il borsone, vado a lavarmi la faccia e i denti poi mi metto il mio berretto e corro a fare colazione, alcuni della squadra sono già in mensa.

-Andrea! Vieni qui.-

Il signor Weiner mi chiama, con lui c’è la direttrice, la signorina Voigt; l’ultima volta le avevo chiesto se potevo tagliarmi i capelli come un maschio e non era stata contenta.

Che mi voglia sgridare davanti all’allenatore?

Mi avvicino, stringo la cinghia del borsone tra le dita.

La direttrice si gira a guardarmi, non sembra avere l’aria arrabbiata.

-Ho saputo che ieri sei stata molto brava durante gli allenamenti. Ti è piaciuto?-

La guardo sorpresa, poi annuisco.

Certo che mi è piaciuto, tutto questo me lo ricorderò per il resto della vita, non importa se poi smetterò di giocare a calcio: Wakabayashi mi ha chiamata per nome e mi sto allenando con il Bayern Monaco.

-Bene. Mi raccomando, fai sempre la brava, ok?-

-Sissignora.-

-Dovrai farti valere e dimostrarti sempre grata: siamo stati molto fortunati ad aver avuto la possibilità di entrare nella Summer Camp del Bayern Monaco nonostante tu sia una ragazzina.-

Alla signorina Voigt non piace affatto che io giochi a calcio: dice che mi fa male che continui a fare qualcosa che mio padre mi ha fatto fare perché credeva fossi un maschio. Crede che se io provassi altri sport o trovassi altri interessi smetterei subito di giocare a calcio.

Ma non è vero, io amo il calcio e amo essere un portiere.

Fossi stata un maschio lo avrei scelto come lavoro.

Ma sono femmina e questa è la mia ultima occasione di giocarlo, di dimostrare che sono brava tanto quanto i maschi, che posso parare tutti i loro tiri.

La signorina Voigt alza lo sguardo.

-Che hai fatto al berretto?-

-L’ho lavato, era sporco.-

-Portalo alla signora Abigail allora.-

-L’ho pulito, non ce n’è bisogno.-

Non voglio che mi prendano il berretto, temo che lo buttino via assieme ai miei vecchi vestiti.

Lo so che non ci entravo più in quelli, ma il berretto mi sta ancora.

Non voglio che lo buttino via.

La direttrice sospira.

-Va bene Andrea, vai pure a fare colazione.-

Faccio un cenno del capo, poi vado a cercare un posto dove sedermi e mangiare, non voglio stare con gli altri ragazzi ma se mi metto da sola in un tavolo il signor Weiner mi chiederà di sedermi con gli altri, ripetendomi che “devo imparare a fare gruppo”.

Prendo il mio vassoio e il mio piatto, mi prendo i cereali con il latte e il succo di frutta; poi mi giro verso la tavolata dei ragazzi, cerco il posto più lontano da loro e mi ci metto.

-Guardate un po’ chi c’è, il super portiere.-

Li sento ridere al commento di Sibo ma preferisco non rivolgere loro lo sguardo.

-Ehi, non sai che non si tiene il cappello a tavola?-

Sento una mano provenire da destra che cerca di togliermi il berretto, con uno scatto mi sposto verso sinistra.

-Che succede? Paura che ti porti via il regalo di quel pazzo del tuo papà?-

-Tanto non ti serve a niente, si vede che sei una ragazza: ti comporti come una femminuccia.-

Imitano il mio scatto aggiungendo un pianto, li guardo in silenzio.

-Sei pazza proprio come tuo padre, di sicuro prima o poi andrai fuori di testa.-

Non ti perdere Andrea. Lo hanno sempre fatto, non è niente di nuovo.

-Ehi! Se continuate arriveremo in ritardo e ve la prendete voi la sgridata di mister Schneider.-

Il signor Weiner li interrompe all’istante e io mangio velocemente i miei cereali; tra poco sarò di nuovo sul campo da gioco, resisti Andrea. Non ti perdere.

Finisco di fare colazione e sono la prima a portare ciotola e bicchiere sul bancone della cucina con il borsone in spalla, per poi dirigermi verso l’uscita dell’orfanotrofio; vedo le altre bambine che si stanno avviando a fare colazione.

-Ciao Andrea!-

-Ciao Brigida.-

-Vai alla Summer Camp?-

Annuisco mentre continuo a guardare gli altri bambini: vorrei tanto vedere la maglietta con le stelle di Cilly, vorrei tanto darle il buongiorno, lei però è con la sua nuova famiglia ed è giusto così.

Lei merita di avere una mamma e di un papà.

-Ehi, superportiere, pronta per oggi?-

Mi sistemo il berretto e annuisco al signor Weiner, gli altri stanno arrivando dietro di lui; velocemente mi scanso e li faccio passare. Arriviamo tutti assieme davanti al pulmino e lì il signor Weiner ci ferma un attimo.

-Ok ragazzi, oggi non siamo Allianz Arena ma andremo al Säbener Straße. Ci sarà un po’ più gente rispetto a ieri quindi restate tutti uniti e tenetevi stretti braccialetti e badge, ok?-

Säbener Straße, il campo di allenamento del Bayern, dove si allena la squadra.

Stringo le mani attorno alla cinghia del borsone, poi lo apro e tiro fuori il badge mettendomelo addosso, il braccialetto ce l’ho sempre al polso; ripongo poi il borsone nel bagagliaio e salgo al mio posto.

Il pulmino scende lungo Effnerstrasse, dal mio lato si vede il Giardino Inglese.

Spero che i nuovi genitori di Cilly la portino lì, a lei piace tantissimo quel posto; probabilmente la porteranno a mangiare da Hofbrau Munchen, dai tavolini si vede la torre cinese, avremmo sempre voluto fare pranzo lì, oggi è anche una bella giornata.

Mi manca parlare a Cilly la mattina e stringo il campanellino che ho al petto.

Il furgone gira a sinistra, e il giardino finisce dietro di noi.

Sento i miei compagni di squadra chiacchierare dietro di me mentre io mi stringo il berretto tra le dita.

-Siamo quasi arrivati ragazzi, guardate a desta.-

Mi giro e vedo grandi vetrate con i colori del Bayern Monaco, e come con lo stadio sento di nuovo lo stomaco chiudersi, mi viene quasi da vomitare per il nervoso ma stringo i denti.

C’è solo un pullman questa volta, riconosco Leonhard mentre il nostro furgone parcheggia, addirittura un cartello segnala che quelli erano “parcheggi riservati ai partecipanti del Summer Camp”. Ci tengono il posto!

-Ok ragazzi, recuperate i borsoni ma restate accanto al furgone.-

Noto ora che c’è parecchia gente vicino all’ingresso del posto, alcuni hanno con sé dei ragazzini, alcuni hanno facce familiari.

-Ciao Andrea!-

Mi giro e vedo Rudolf.

-Ciao. Chi sono quelli?-

Si gira a guardare la gente.

-Ah sono i nostri genitori e quelli dei ragazzi del Freundschaft.-

Giusto. Noi del Drei Keifern siamo gli unici senza genitori.

Mi calco il berretto in testa e seguo il gruppo dentro Säbener Straße, ad accoglierci Karl Schneider e il suo allenatore.

Non vedo Wakabayashi.

Oh, forse allenava solo per una giornata e basta...speravo potesse insegnarmi altro l’SGGK...lui è il migliore...

-Buongiorno a tutti, pronti per gli allenamenti?-

-Sì mister!-

-Ottimo, seguitemi che vi portiamo prima agli spogliatoi e poi al nostro campo di allenamento.-

Obbediamo, dietro di noi mister Rudi Schneider raccoglie gli altri ragazzini, evidentemente manca ancora qualcuno da Freundschaft.

Il posto è gigantesco, vediamo di sfuggita una palestra con tanti di attrezzi e mister Schneider ci avverte che la useremo “solo in caso di maltempo”.

Addirittura usare la palestra del Bayern?!

-Buongiorno Andrea.-

Mi giro, Leonhard mi si avvicina.

-Buongiorno.-

-Ehi Leo ho visto che c’è tuo padre oggi.-

-Già, era su di giri più di me stamattina, anche se non mi vede giocare. Te invece Rudolf? E’ venuto qualcuno?-

-Mio zio Fred con mio cugino. Volevano tanto riprendermi, per fortuna non li fanno assistere ancora.-

Sono venuti a vederli i loro parenti.

Mio padre voleva esserci sempre ai miei allenamenti; poi, quando hanno cominciato a dirgli che ero una femmina e che non potevo continuare a stare con i maschi ha litigato e non mi ha più portata.

“-Devono essere ciechi per non vedere che tu sei un maschio, no Andrea?-”

Appoggio il mio borsone nel punto più nascosto e Leonhard e Rudolf ci appoggiano accanto i loro.

Li guardo sorpresa.

-Non vi conviene metterli accanto ai borsoni della vostra squadra?-

-Nah, perché? Tanto siamo tutti assieme.-

-Già, siamo compagni di squadra, no?-

-So che ci divideranno in tre squadre miste alla fine del Summer Camp.-

-Scommetto che ti metteranno con Andrea in porta visto quanto è brava.-

-Sarebbe fortissimo! Che ne pensi Andrea?-

-Ah...sì, sarebbe bello.-

E’ la prima volta che qualcuno mi dice che siamo compagni di squadra anche se sono femmina.

Che forza. Mi sarò davvero svegliata stamattina?

Usciamo all’aperto e mi accorgo subito che c’è più di un campo da calcio. E’ tutto così grande, i miei occhi non riescono a capire quanti ne sono.

Però senza Wakabayashi come ci alleneranno? Faremo gli stessi esercizi degli altri? Forse ci faranno fare i passaggi o i tiri in porta.

-Ok ragazzi, facciamo la nostra solita corsa attorno al campo, ok? Mantenete il passo, oggi spingiamo un po’ di più.-

-Sì, mister!-

-Andrea.-

Sento un colpo leggero sulla testa e mi giro di scatto.

Mister Wakabayashi.

E’ qui...

-Che ti ho detto ieri?-

Punta il dito contro il mio berretto e subito me lo tolgo e glielo porgo; la sua mano lo afferra e poi mi fa un cenno con la testa.

-A correre ora.-

-Sì mister!-

Wakabayashi è qui.

Ci allenerà ancora!

Recupero velocemente il gruppo e cerco di mettermi avanti, non voglio stare in ultima fila. Affianco Eusebiu, mi saluta con un cenno del capo.

La corsa sembra più lunga dell’altra volta, dopo il mio scatto ho preso un ritmo più lento ma ci fanno fare almeno tre giri, sento dietro di me gli altri fare fatica.

Respira Andrea, respira come ti hanno insegnato, dentro il naso fuori la bocca.

Alla fine ci fermiamo e alcuni si siedono a terra o finiscono in ginocchio senza fiato, io sudo ma mi sento bene: Wakabayashi mi allenerà ancora.

-Ben fatto. Facciamo un po’ di stretching e poi via con l’allenamento separato.-

Vengono nuovamente portati attrezzi per gli esercizi, mi giro per guardare la porta e noto che viene steso un tappetino sul bordo della porta, di quelli che a scuola usiamo per fare le capriole.

Chissà cosa ci farà fare mister Wakabayashi?

-Un buon portiere dev’essere sempre pronto a difendere la porta in qualsiasi situazione. Vi sarà capitato un sacco di volte di allontanare il pallone ma, purtroppo, avere davanti un giocatore avversario che riprende la palla e fa gol mentre vi state rialzando.-

Annuisco con gli altri due, mister Wakabayashi è seduto su una sedia davanti alla porta con la stampella tra le mani.

-In quei casi bisogna imparare a cadere e rialzarsi il più velocemente possibile. E quando dico “bisogna imparare a cadere” voglio dire che si possono evitare un sacco di infortuni se si cade nella maniera corretta.

Qualcuno di voi tre ha fatto arti marziali?-

Rudolf alza la mano.

-Cosa?-

-Judo, mister.-

-Ottimo, quindi sai fare le cadute.-

-Si mister.-

-Falle vedere ai tuoi compagni sul tappetino.-

-Con le scarpe?-

-Si non c’è problema. Voi guardate bene.-

Rudolf va sul tappetino e cade di sinistra, battendo la mano sul tappetino; poi fa la stessa cosa di sinistra e poi cade all’indietro.

Wakabayashi grida alle mie spalle.

-Fa vedere anche la capriola Rudolf.-

Esegue, è diversa da quella che facevo di solito a scuola.

Appena ha fatto torna dal mister, che riprende a parlare.

-Ok, avete visto le cadute? Bene, qualche veloce domanda: quando cadeva, qualche parte del corpo scendeva per prima?-

-Il culo.-

-Esatto Eusebiu.-

Usa la stampella per indicare la pancia di Eusebiu.

-Qui è il centro del corpo, e pertanto è un punto fondamentale di equilibrio del vostro corpo.

Mettetevi in posa da parata.-

Obbediamo mentre lui si alza in piedi. Si avvicina per primo ad Eusebiu, e lo tocca con la mano.

-Cerca di restare in piedi anche se ti spingo.-

Lui prova, facendo resistenza, ma cade quasi subito di lato.

-Non mi dovete fare resistenza: se vi arriva il pallone e fate subito resistenza vi fate male.-

Prova con me, mi spinge sulla spalla; seguo il dito e sento che sto per cadere di lato.

-Non muovere i piedi, prova a recuperare equilibrio senza spostarti.-

Provo a spostare la testa ma, all’improvviso, sono culo a terra.

-Idea corretta ma ti sei mossa troppo velocemente con spalle e testa.-

Rudolf è il più bravo, riesce a sopportare più a lungo lo spostamento muovendo spalle e bacino.

-Esatto Rudolf. Avete visto? L’attenzione non è sul busto ma sul bacino.

Stessa cosa vale per quando si cade: Rudolf cadeva facendo partire la caduta dalla gamba e risalendo, così che dal bacino si può iniziare ad ammortizzare la botta con il braccio.

Quando si cade davanti è consigliato mettersi in posa da capriola per evitare colpi alla testa: la capriola corretta non parte dalla nuca ma dalla spalla e, aiutandoci sempre con il bacino, gestiamo la velocità con cui ci giriamo per poterci mettere dritti.

Ora vi mettete in fila e uno alla volta provate a fare le capriole e le cadute.-

Obbediamo e facciamo sempre partire per primo Rudolf, io cado seconda ed Eusebiu ultimo.

Mi piace molto fare le capriole, io e Cilly facevamo sempre gara su chi ne faceva di più a ginnastica. Però mi fa un po’ male il fianco se scendo di sinistra.

-Andrea fa toccare la spalla piegando il collo. Esatto ora scendi. Devi essere più veloce.

Perfetto Eusebiu, adesso provate a fare la capriola e, con la spinta, vi rimettete in piedi.

Bravissimi, adesso più difficile: Jonah vi butta il pallone, e voi lo prendete e fate la capriola in avanti come mostrato. Prendete i guanti.-

Io sono senza guanti, devo dirlo al mister. Temo non mi faccia fare l’esercizio.

-Mister, io non ho i guanti.-

Si gira a guardarmi.

-Vero, te li sei rotti ieri. Vorrà dire che dovrai usare questi.-

Mette le mani nelle tasche della felpa e tira fuori due guanti da portiere.

-Sono vecchi ma ancora in buono stato.-

Sono...i suoi guanti?

-...Sono i suoi guanti mister?-

-Lo erano, ma oramai mi stanno piccoli. Forse a te stanno un po’ grandicelli, provali.-

Me li allunga e io li prendo, che onore. Sono verdi sopra e gialli dentro, si possono stringere sul polso e sul dorso; sono un po’ rovinati sul palmo.

I guanti dell’SGGK...io non posso indossarli: se ha conservato i suoi vecchi guanti devono essere molto importanti per lui, non voglio rovinarglieli.

-Cosa c’è Andrea?-

-...sono i suoi guanti, non posso usarli, Glieli rovino.-

Li allungo verso di lui, per farglieli riprendere. Mi sorride, appoggia le braccia sulla stampella.

-Dimmi, a cosa servono i guanti di un portiere Andrea?-

-A parare i palloni e proteggere le mani, mister.-

-Quindi i guanti si rovinano a fare questo, giusto?-

-Si…-

-Allora direi che ha senso che li rovini.

Preferisco che rovini i guanti piuttosto che spaccarti un dito. Sei il portiere della tua squadra, no?-

Annuisco.

-Dai, provali.-

Li infilo, sono un pochino grandi ma riesco a muovere bene la mano. Mi indica di avvicinarmi, mi prende le mani e stringe meglio i guanti.

-Bene, meglio di quanto mi aspettassi. Non hai le mani così piccole come pensavo.

Ricordati però che sono un prestito: a fine allenamento me li ridai, ok?-

-Certo mister! Grazie mister!-

-Bene, ad allenarti ora.-

Corro dagl’altri, che si sono andati a sistemare in porta, stringendo fortissimo le mani e sentendo i guanti sulle dita.

 

**

 

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Capitolo 8
*** VII: Kodomo no hi ***


VII: Kodomo no hi

 

Yasu mi chiamò Domenica.

-Villa Wabayashi.-

> Buongiorno Genzo! Com’è il tempo a München?

Lanciai uno sguardo fuori dalla finestra e rividi i nuvoloni grigi che mi avevano dato il buongiorno prima di mia sorella, che si muovevano lenti e pigri verso ovest.

-Buongiorno Yasu, sembra stia per venire a piovere. Da te invece? Ti stai godendo il meritato riposo?-

Considerato che erano le otto di mattina a Monaco e stavo sorseggiando un cappuccino, da lei erano sicuramente le quattro del pomeriggio.

> Ad inizio mese c’è stato qualche scroscio d’acqua ma sai anche tu che qui vicino Tokyo è più che altro caldo e sole; tra l’altro ad inizio mese c’è stato il Kodomo no hi e siamo andati dai parenti della madre di Ken ad appendere le Koinobori, in una giornata che spaccava le pietre per quanto era bello.

Koinobori...ah si, le carpe di carta o stoffa che si appendono durante la festa dei bambini.

-Carta o stoffa?-

> Stoffa, la madre di Ken ha delle mani d’oro quando si tratta di fare questo tipo di lavori.

-Al contrario di te, signorina “mi sono incollata i capelli”.-

> E’ successo solo una volta ed avevo 4 anni!

Mi salì una risatina mentre sorseggiavo il mio cappuccino e mi spostavo verso il salone, Isolde e l’altra cameriera erano al piano di sopra a fare le faccende.

> Piuttosto, come sta andando con la lesione e lo squadrone?

-...come fai a saperlo? Te l’ha detto Karl?-

> Eh già, dato che QUALCUNO mica avverte sua sorella che si fa male e, soprattutto, che partecipa ad un progetto di beneficenza!

-Ti prego, dimmi che non lo hai detto a nostra madre.-

> Ti pare? A quest’ora ti avrebbe già chiamato, specie per il primo punto.

-Vero, ti ringrazio.-

Nostra madre ancora si agitava quando mi infortunavo.

> Aspetta a ringraziarmi, voglio sapere tutto, soprattutto del Summer Camp: Karl ha osato dire che ti stai perfino appassionando ed ho scommesso con lui 100 euro che alla prima occasione ti dai alla macchia.

-Grazie per la fiducia sorellina.-

> VUOL DIRE CHE HA RAGIONE?!

Allontanai il cellulare dall’orecchio leggermente infastidito, mettendomi a sedere accanto alla finestra più grande della casa, che dava sul giardino; avevo la piena vista del piccolo Acero Giapponese che mia madre aveva portato dalla terra natia e, lì accanto, dell’imponente Quercia dove ancora era appesa un’altalena di epoca preistorica, di cui Freidrich continuava ad occuparsene.

Riportai il cellulare all’orecchio quando Yasu mi richiamò.

> Genzo, mi stai ascoltando? Pronto?

-Evita di urlare e ti ascolto.-

> Ti sta davvero piacendo?! Ti piace allenare 33 marmocchi?!

Mia sorella, qualche tempo prima, mi aveva accennato alla voglia di Ken di diventare padre, ma Yasu ancora non era convinta, preferendo invece optare per un più tradizionale “prima matrimonio, poi consumonio. Altrimenti mandiamo tutto a putonio”.

A me e mia sorella piacciono i film di Mel Brooks.

-Io mi occupo solo dei portieri, che per fortuna sono 3. Karl e Rudi si occupano degli altri 30.-

> Decisamente più adatta a te questa situazione. E come ti trovi?

-Bene...direi quasi...che è divertente.-

> COSA?!

Ridacchiai, stavolta l’avevo fatto apposta per sentire la sua reazione, ma mentre ne parlavamo non potei fare a meno di pensare a Pertica, Forzuto e Soldatino.

Quando la mia testa mi ripropose la faccia della ragazzina mi venne da sorridere, e poi da imbarazzarmi ricordando come, a fine allenamento, era venuta a restituirmi i guanti ringraziandomi con occhi entusiasti e un sorriso trattenuto, entrambi a malapena nascosti dal suo berretto.

Non avrei mai creduto che l’ombra di un sorriso potesse colpirmi tanto: sembrava molto insicura nel farlo, tanto che si era morsa il labbro inferiore per nasconderlo. Ma la sua felicità era chiara, si percepiva negli occhi lucidi.

Da allora si era creato una specie di rito tra me e lei: ogni mattina si presentava, mi dava il suo berretto e andava a correre. Poi quando doveva fare gli esercizi in porta io le passavo i miei guanti e, eventualmente, le rimettevo il berretto in testa, che lei sistemava ringraziando. Alla fine della giornata mi riportava i guanti e ringraziava.

Le avevo detto le prime volte che poteva tenerli e portarseli all’orfanotrofio, ma lei aveva sempre scosso la testa con aria decisa.

“-Non voglio perderli, sono i guanti del mister.-”

> Questo sì che mi sorprende: mio fratello che si diverte ad allenare dei bambini. Allora è vero anche quello che scrivono sul Kicker.

Rivista sportiva di calcio. Alcune volte scriveva certi articoli che mi lasciavano perplesso. Usai un tono melodrammatico.

-Dai, spara, dicono che sono condannato per il mio infortunio? Che non ho speranze di tornare in campo? Che la mia carriera oramai è finita e dunque mi consolo allenando la futura generazione? Oh, me tapino!-

Sentii Yasu ridacchiare dall’altro capo del telefono.

> Dicono che la lesione che hai subito è più seria del previsto, tanto che hai mancato la finale di campionato; ci sono voci di mercato che affermano che il Bayern potrebbe cederti per un altro portiere.

-Ah si? Quindi rimetteranno in campo Neuer? Dopo un intero anno passato in infermeria? Che altre balle si sono inventati quelli del Kicker?-

> Beh, a quanto pare stai cercando il tuo erede, la tua “Aschenputtel” tra le giovani speranze del Summer Camp di quest’anno. C’è anche una bella foto di te con accanto uno dei ragazzini, ma non si vede in faccia per via del berretto. Anche per questo ti ho telefonato, per capire se questo sorriso fosse vero o un tuo tentativo di simulare empatia, dato che in ballo ci sono i miei soldi.

Mentre Yasu mi parlava ricordo chiaramente che mi si era congelato il sangue nelle vene:  il Summer Camp era gestito in modo tale che nessun fotografo o giornalista potesse ficcare il naso se non dopo inviti o permessi ufficiali, e i genitori non potevano ancora venire ad assistere agli allenamento.

Era stato fatto tutto questo per rispettare la privacy dei bambini e, chiaramente, per non incappare nello scandalo se fosse stato scoperto che nel Summer Camp maschile c’era una femmina; probabilmente la cosa si sarebbe rigirata a favore di una maggiore apertura verso la sezione femminile, ma comunque era a rischio “l’onore” della società.

-...Yasu, senti, per caso nell’articolo si fa il nome del bambino nella foto?-

> Del bambino no, lo chiamano solo “la possibile promessa del calcio”. Solo un nome esce fuori, un certo Leonhard Graf: pare che fosse stato già notato dalla società durante il campionato scolastico di Monaco…

Presi un respiro di sollievo, meno male: soldatino per il momento era salva dagli sciacalli. Ma ne avrei dovuto parlare con Karl e chiedere provvedimenti a riguardo.

Tuttavia non potei fare a meno di sorridere pensando che il giornalista del Kicker l’avesse definita “Aschenputtel”, Cenerentola.

Mi domandai se alla sua età le raccontavano ancora le fiabe.

> Come mai questa preoccupazione? Non vuoi che venga ancora rivelato il nome del prossimo SGGK?

-Fosse così semplice a quest’ora il Kicker ne avrebbe fatta una biografia completa adornando il tutto con l’incontro fatale tra me e lui, no?

Comunque puoi passarmi la notizia?-

> Ti mando il link sul cellulare. Non ti facevo così protettivo verso quei ragazzini, che ti succede? ...hai trovato qualcuno che ti ha colpito?

Nella mia testa cominciarono a formarsi una marea di domande per Andrea Muller: la squadra non aveva molto rispetto per lei, com’era la sua vita all’istituto? Aveva delle amiche? C’era qualcuno ad ascoltarla? Perché era stata abbandonata? Il padre era stato messo in un Centro di Salute Mentale, cos’era successo? Possibile che nessuno volesse adottare una ragazzina così in gamba? Forse il problema era perché non sorrideva? Che fosse insicurezza? Aveva talento, non c’era modo di aiutarla? Si sentirà sola?

-...Yasu, posso chiederti una cosa?-

> Dimmi.

-Come ti sentivi durante le elementari, quando siamo entrati nella squadra della Shutetsu?-

Ricordo ancora come Mikami aveva spinto Yasu ad allenarsi assieme a me, dandomi la spinta necessaria per fare il portiere; da parte sua lei si era rivelata molto brava ed, entrati in squadra, era diventata la mia seconda. Ricordo che tutti l’avevano accettata ed eravamo diventati una buona compagnia, ma oltre a quello i miei ricordi erano fumosi.

> In che senso? Io mi ricordo che ci siamo tanto divertiti con gli altri, eravamo un bello squadrone!

-Quindi non ti sei mai sentita esclusa o presa poco in considerazione perché eri femmina?-

> Assolutamente no! Anche perché se qualcuno si permetteva tu eri pronto a tirargli un pugno sul naso, caro il mio bullo.

-Non sono mai stato violento.-

> Di certo eri un arrogante, ricordi quando Ishizaki aveva chiamato i capitani dei club del suo istituto per convincerti a lasciargli il campetto?

E chi se lo scordava? Li avevo sfidati a farmi un gol in porta con la proposta che, se ci fossero riusciti, io avrei lasciato il campetto.

-Ah si, che soddisfazione: ricordo di aver parato tutti i loro tiri, la palla da rugby è stata la più divertente.-

> Capisci anche tu che, con un fratello così, io potevo stare tranquilla. Ma come mai mi chiedi questo? C’entra qualcosa il ragazzino nella foto?

Ci sono poche persone al mondo di cui posso fidarmi ciecamente, ed una di queste di sicuro è mia sorella gemella: siamo nati assieme, siamo cresciuti e ci siamo allenati insieme, ci siamo detti le peggio cose come ci siamo sostenuti nei momenti più difficili.

E anche quando lei ha scelto Wakashimazu, nonostante fossi ferocemente contrario, alla fine per me la sua felicità è stata la cosa più importante.

-...Yasu, quello che ti sto per dire non deve uscire da questa conversazione.-

> Non posso parlarne neanche con Ken?

-Preferirei di no al momento, è una questione molto delicata.-

> ...capisco, dimmi tutti fratellino.

Le parlai di Andrea, del fatto che era l’unica femmina in un gruppo di 33 ragazzini, del suo immenso talento e di come stesse migliorando ogni giorno; le parlai di quello che sapevo della sua condizione, del suo atteggiamento, del suo rapporto con gli altri e dei miei pensieri a riguardo.

Lei ascoltò in silenzio, l’unico commento che si permise all’inizio fu un “cosa?!” quando seppe che si trattava di una femmina; poi si fece silenziosa, mugugnando ogni tanto per farmi capire che era ancora al telefono.

-...Yasu, io lo dico solo a te: se continuasse ad allenarsi, quella bambina sarebbe in grado di superarmi. Potrebbe essere una nuova SGGK.-

L’idea mi affascinava: mi sembrava di vederla alla mia età, con la sua squadra che partecipava al Campionato e diventava un muro invalicabile per gli avversari. Me la immaginavo forte e sicura, con quel berretto in testa e l’uniforme del Bayern Monaco femminile.

> ...purtroppo Genzo, questo non puoi saperlo.

Il sogno svanì mentre sentivo da Yasu quelle parole che, dentro di me, continuavano a risuonare ogni volta che vedevo i progressi del soldatino.

> Karl ha fatto una scelta davvero stupida: capisco il suo punto di vista, ma capisco anche che questo alimentare i sogni della ragazzina non è una buona cosa se queste sono le sue ultime quattro settimane come sportiva. Una volta finito il Summer Camp, se non riuscirà a trovare una soluzione o se l’istituto non l’aiuterà in questo senso, dovrà per forza rinunciare. E a quel punto cosa le sarà rimasto?

“-Se mi date il permesso posso parare l’ultimo tiro a mani nude. L’ho già fatto.-”

-Lo so Yasu. Credimi, me le dico costantemente queste parole.-

> Ma non puoi fare a meno di pensare che sarebbe un peccato, vero?

Buttai fuori un sospiro con la mia risposta.

-...si.-

> Accidenti, ci ha preso il giornalista del Kicker: hai effettivamente trovato la tua Aschenputtel, letteralmente tra l’altro. Però non ti ci vedo come fata madrina, stai male in azzurro.

-Spiritosa.-

> Seriamente però, Genzo, avverti Karl e gli altri di questa soffiata del giornalista, soprattutto per la tranquillità di quella ragazzina: ormai il mondo è diventato una bestia affamata di storie strappalacrime come la sua, non si merita di finire in pasto ai social.

-Lo farò.-

Passammo qualche momento in silenzio, io terminai il mio cappuccino, pronto per uscire e andare agli allenamenti.

-Sarà il caso che mi avvii. Hai qualche novità interessante da raccontarmi?-

> Altroché: Maki si farà a breve l’intervento per la sua Endometriosi!

-Benissimo, come stanno i diretti interessati?-

> Su di giri, anche se Maki è anche un po’ spaventata. Pare andrà a farle compagnia sua nonna.

-Pensi di andare anche tu?-

> Ci spero, cercherò di far coincidere le mie ferie con quel periodo. E tuttavia mi dovrò giostrare tra lei e Yayoi: sembra che ci siano problemi abbastanza seri con Misugi.

La cosa mi sorprese molto considerando che loro erano una delle tre coppie “solide” del nostro vecchio gruppo.

> Tra l’altro a tutto questo si aggiunge… ah! Ecco, una cosa volevo chiedertela: pensi di riuscire a venire per le festività di Natale in Giappone?

In Giappone a Natale?! Sarebbe la prima volta che non si festeggia tutti assieme a casa dei nostri genitori, con tanto di albero gigante stile film natalizio americano.

-Beh si, ma a nostra madre verrà un infarto.-

> Nah, tranquillo: mi sposo il 23, quindi lei è pazza di gioia.

-TI SPOSI?!-

Stavolta fui i io ad urlare dalla sorpresa; tutto mi sarei aspettato tranno questa improvvisa informazione, e lei ridacchiò divertita.

> Sì, alla fine Ken mi ha convinta. Rito tradizionale, pertanto abbiamo deciso di farlo dopo il campionato, per farlo per bene. Una seccatura perché mi tocca mettere il kimono, ma mamma insiste tanto nel volermi far mettere il suo, spero mi stia! E, incrociando le dita, potrebbe capitarci la neve quest’anno, quindi sarebbe ancora tutto più bello.

-Non ti facevo così romantica.-

> Sono tua sorella gemella, ad uno dei due doveva venire il romanticismo.

-Io sono romanticissimo!-

> Se, come no.

-...congratulazioni sorellina. Sono tanto felice per te.-

> ...grazie Genzo. Ci tenevo a dirtelo il prima possibile: dopotutto tu sarai il mio testimone, giusto?

Sorrisi.

-Con grande piacere.-

> Ottimo! Invece, per quanto riguarda la tua riabilitazione?

Ne parlammo il tempo sufficiente per ricevere il messaggio di Karl che mi aspettava fuori casa per accompagnarmi al Summer Camp, poi dovetti salutare mia sorella e “correre” dal Kaiser che mi aspettava impaziente.

Ma in tutto questo, nella parte più profonda della mia mente mi ritornò l’immagine di una giovane portiere donna che prendeva posto tra i pali della porta tra le urla entusiaste di migliaia di tifosi.

 

**

 

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Capitolo 9
*** VIII: Andréia ***


VIII: Andréia

 

Apro gli occhi, la mia camera è al buio.

Mi devo essere svegliata presto; mi giro a guardare la sveglia, sono le sei di mattina. Ultimamente mi capita di svegliarmi presto. E’ che stamattina mi fa un po’ male il corpo.

“-Sapete ragazzi, anche oggi gli altri si sono messi a dire che Andrea è la più forte della nostra squadra.-

-Eh?! Ma sono scemi?-

-Che cretinata, è una stupida femmina.-

-Visto che sei così brava, perché non ce lo dimostri Andrea? Andiamo a fare qualche tiro quando arriviamo.-”

Prendo un profondo respiro e ripeto le esatte parole che ho detto ieri sera ad Albert quando si è messo a dire quella cosa dentro il pulmino.

-Solo perché oggi vi siete fatti sgridare dal mister non significa che ve la dobbiate prendere con me. Avete 10 anni, non 5.-

Butto fuori il resto dell’aria e mi guardo intorno: come ieri sera, tutto sembra più luminoso di prima. Mi viene da sorridere, non credevo che mi sarebbero uscite di bocca tali parole.

Quando le ho dette mi sono sentita...arrabbiata, ma anche coraggiosa. Forse anche contenta.

Scendo piano dal letto e sento le gambe farmi male, devo controllare il mio stato allo specchio.

Accidenti, la pallonata che mi hanno dato sull’occhio si vede, è tutto rosso; devo nascondermi per bene sotto il berretto, ma come faccio quando dovrò correre e darlo a mister Wakabayashi?

Ah! Potrei dire che sono caduta dal letto mentre dormivo e ho sbattuto la testa! Dovrebbe essere abbastanza convincente, vediamo il resto del corpo.

Mi tiro su la maglietta e mi tolgo i pantaloni.

“-Chi ti credi di essere, eh? Adesso vieni con noi!-”

Mi hanno presa per il colletto del pigiama e trascinata fuori dall’edificio a piedi nudi, loro si erano messi le scarpe; mi hanno messa davanti al muro vicino le altalene, lì dove il pulmino viene parcheggiato.

“-Adesso stammi a sentire, sarà bene che pari i tiri signorina “sono la più forte di tutti”, perché sai che se la palla sbatte contro la finestra daremo la colpa a te, chiaro?!-

-Albert non ti sembra di esagerare? Non ha nemmeno le scarpe.-

-Fai la femminuccia come lei? Vuoi metterti alla porta anche tu? Io non mi faccio mettere i piedi in testa da una femmina!

Questa qui non ci ha fatto partecipare al campionato e ci mette sempre nei guai con le altre squadre, se non fosse per me a quest’ora eravamo lo zimbello di tutti! E adesso tutti quanti a dire che lei è la più brava! Chi cazzo si crede di essere questa qua?! E’ solo una dannata femmina!-”

Prendo un profondo respiro, guardo i lividi sul mio corpo e ripeto di nuovo ad alta voce le stesse cose che ho detto ad Albert ieri sera.

-Tu e i tuoi tiri contro i portieri ti fanno prendere un sacco di ammonizioni, inoltre tutti sanno che sei solo un bullo, che te la prendi con i tuoi compagni quando è sempre colpa tua.

Io invece ho sempre difeso la nostra porta dalla tua incapacità di intercettare passaggi e dal fatto che tutti ti dribblano senza problemi. Una femmina è più brava di te ad aiutare la squadra.-

Ributto fuori l’aria, ieri sera non l’avevo potuto fare perché il pallone mi era arrivato allo stomaco, mozzandomi il fiato. Però lo avevo comunque parato, a mani nude e a piedi scalzi.

Mi guardo allo specchio, parlo al mio riflesso come avevo parlato con Albert ieri notte.

-Visto? Non sei capace neanche di tirare in porta, sempre contro il portiere. Unfähig.-

Incapace.

Rimango in silenzio a guardarmi allo specchio, fisso soprattutto il livido in faccia.

Non capisco come ho potuto dire quelle parole ad Albert mentre gli ridavo il pallone.

Forse è perché da due settimane che gioco con tutti gli altri miei compagni e loro mi considerano loro pari e un ottimo portiere; io e Rudolf oramai ci sfidiamo apertamente, mentre Eusebiu ha rinunciato a fare il portiere, chiedendo invece di fare un altro ruolo, che non se la sentiva.

E’ giusto così, se gli piace il calcio ma non il portiere può fare qualcos’altro.

La sua squadra temeva che sarebbero stati mandati via dal programma, ma oramai sono tre settimane e i mister hanno detto che non era giusto, che si era in mezzo al programma di allenamento. Mi ha fatto davvero piacere per loro.

Io e Rudolf facciamo più esercizi e ci dividiamo l’allenamento con la Freundschaft: a volte faccio io, a volte fa lui. E’ difficile ma mi piace, è bello poter fare il portiere per squadre diverse.

Da questa settimana, poi, cominceranno le squadre miste; visto l’andamento hanno deciso che faranno solo due squadre invece delle 3 iniziali. Rudolf ed io saremo rivali, sarà fantastico.

Ah, giusto, i lividi.

Allora...la pancia è a posto, dopo mi ha colpito alla gambe ma è solo arrossata.

Però mi ha colpito in faccia e si vede, questo non è buono; quando siamo tornati dentro ho usato l’asciugamano bagnato con acqua fredda fredda per l’occhio, però è rimasto il livido.

Ricordati Andrea, sei caduta dal letto stanotte. Sei caduta dal letto stanotte.

“-Albert andiamo via, ho visto accendersi una luce.-

-Non ne vale la pena Albert.-

-...ricordati che se qualcuno scopre qualcosa ti brucio il berretto, chiaro?!-”

Non ti perdere Andrea.

Sei caduta dal letto stanotte.

Mi tocco la schiena e sento male: me ne stavo tornando in camera ma quel vigliacco di Albert mi ha tirato un’ultima pallonata sulla schiena, sulla parte sinistra. Spero di riuscire a giocare, mi fa male anche mentre mi vesto quello sulla schiena.

Preparo il borsone, recupero l’uniforme pulita e mi metto in testa il berretto, i miei capelli stanno crescendo.

E’ meglio che non dica nulla di quello che è successo ieri sera, c’è il rischio che ci sospendano il Summer Camp e non voglio che accada, ho solo altre 3 settimane e poi dovrò smettere di giocare.

Tieni duro Andrea, poi dirai tutto quanto alla signorina Voigt e al signor Weiner.

Mi lavo la faccia, ma il livido fa male.

Sono caduta dal letto stanotte.

Provo ad imitare il signor Weiner.

-Perché hai quel livido, Andrea? Sono caduta dal letto stanotte.-

Sì, sono convincente.

Non voglio dire le bugie al mister Wakabayashi ma posso giocare. Ce la posso fare.

Mi dirigo in mensa, sono tra le prime.

-Buongiorno Andrea, pronta anche oggi?-

-Si signor Weiner.-

-Che ti è successo in faccia?!-

Ha una faccia sconvolta e preoccupata.

Sono caduta dal letto stanotte. Sono caduta dal letto stanotte.

-Sono caduta dal letto stanotte, ma sto bene.-

-Sei sicura?-

-Ho messo acqua fredda, posso giocare senza problemi.-

Mi guarda perplesso.

-Sto bene signor Weiner, davvero.-

-...va bene Andrea. Dai, vai a far colazione.-

Evvai, mi ha creduto!

Prendo velocemente la mia colazione e mi vado a sedere al tavolo.

Vedo la signorina Voigt passare e mi rivolge lo sguardo, bloccandosi all’istante.

-Andrea, che ti è successo?-

-Sono caduta dal letto stanotte, signorina Voigt.-

Lei è difficile da convincere, sa sempre quando diciamo una bugia, perfino Nicholas che è il più bravo a mentire si fa sempre beccare.

Si avvicina con la mano, mi prende il mento e mi fa spostare leggermente la faccia, continua a guardare il livido.

-...ultimamente ti sta creando parecchi problemi questo pavimento, eh?-

Non rispondo, ho paura. Non voglio smettere di giocare, mi viene da stringere i pugni.

-Immagino che tu non voglia che io sgridi il pavimento, giusto?-

-...per favore, signorina Voigt, non sgridi il pavimento. Non ancora. Giusto…-

-Tre settimane?-

Annuisco, ha ancora le dita sul mio volto e sento il profumo che usa sempre, è molto buono, ricordo che la prima volta che sono arrivata all’orfanotrofio mi ha abbracciato e la sera avevo i vestiti che avevano quell’odore, non ho voluto togliermeli e mi ci sono addormentata.

Sospira, mi lascia il volto e si siede accanto a me, nella mano libera ha il suo caffè; si aggiusta gli occhiali sul naso e mi guarda con aria preoccupata.

-Andrea, devo fare qualcosa: è una mia responsabilità come direttrice di questo far sì che i pavimenti non ti facciano male.-

-Tra tre settimane andrò all’Hauptschule e non avrò più problemi con i pavimenti. La prego.-

-Andrea, ti rendi conto che fai tutto questo per lo stesso sport per cui hai quasi rischiato di dimenticarti che sei una ragazzina? Ti ricordi quando ti abbiamo chiesto la prima volta di indossare una gonna?-

Si, mi ricordo: avevo paura che mio padre mi scoprisse vestita in quel modo e mi sono messa a piangere.

Sono riuscita ad indossare una gonna perché Cilly mi aiutò a provarla, dicendomi poi che stavo benissimo; anche in quel momento ricordo che la signorina Voigt mi aveva abbracciata.

-Io non riesco a capire come puoi amare così tanto il calcio, Andrea, ma non voglio che questo stupido sport ti faccia ancora una volta del male…-

-Signorina Voigt, il calcio non mi sta facendo del male: gli altri miei compagni di squadra mi dicono sempre che sono molto brava e mi rispettano. Mister Wakabayashi è fiero di me.-

“-Ben fatto Andrea, ottimo lavoro. Sono fiero di te.-”

Me lo aveva detto l’ultima volta, dandomi addirittura il cinque. Mi sono sentita sulle nuvole.

Mi guarda, non sembra convinta.

-...per te è importante quello che dice il mister Wakabayashi?-

Annuisco.

-E’ il portiere più forte di tutti! Posso imparare tanto da lui!-

Sospira, mette pollice e indice tra naso e occhi e li muove in cerchio, lo fa sempre quando non è contenta di qualcosa. Non le piace che parlo sempre di calcio.

Lo so: vorrebbe che la smettessi perché ha paura che potrei dimenticarmi di essere una ragazzina.

-Io so di essere una femmina, signorina Voigt.-

-Io però voglio che tu ne sia fiera, Andrea, è per questo che sono preoccupata per te: sei una ragazzina intelligente, educata e molto coraggiosa e sono sicura che, senza il calcio, avresti un futuro molto più sereno.-

Mi prende le mani e me le stringe, mi guarda con aria triste.

Mia nonna mi diceva sempre: “Ricordati sempre che sei una bellissima bambina Andrea. Il tuo nome ti deve dare forza, non incertezze.” ma allora non sapevo cosa volesse dire la parola incertezze. A dire la verità non lo so nemmeno ora.

So solo che non potrò continuare a giocare a calcio.

Voglio finire queste tre settimane. Solo tre settimane.

-Per favore, signorina Voigt.-

Sospira e alza gli occhi al cielo, lascia le mie mani ma io afferro una delle due e la stringo, voglio che mi guardi negli occhi.

-Per favore.-

La fisso con tutte le mie forze. Per favore, per favore.

Mi guarda, sembra arrabbiata. Poi annuisce.

-...va bene. Per stavolta non sgriderò il pavimento. Ma è l’unica volta, mi sono spiegata?-

Annuisco.

-Chiedo alla signora Abigail di prepararti un po’ di ghiaccio. Tienilo durante il viaggio in pulmino, ok?-

-Grazie infinite.-

-Solo tre settimane, poi basta. E’ chiaro Andrea?-

Annuisco con tutte le mie forze, stringo i denti perché sento che mi salgono le lacrime.

Non devo piangere. Va tutto bene Andrea. E’ andata, potrai giocare ancora un pochino.

Non ti perdere.

Non ti perdere.

-Dai, finisci la tua colazione.-

Annuisco. Mi accorgo che nella mensa non siamo più sole: sono arrivati gli altri ragazzi.

Mi hanno visto parlare con lei, che sospettino che abbia detto tutto?

“-...ricordati che se qualcuno scopre qualcosa ti brucio il berretto, chiaro?!-”

Me lo tolgo dalla testa e lo metto dentro al borsone. Lo riprenderò dopo mangiato.


Volevo ringraziare tutti coloro che stanno leggendo questa storia e mi scuso se non rispondo ai vostri commenti, sappiate che li leggo tutti e mi danno molta spinta e voglia di fare.

Grazie per i consigli, i complimenti e il vostro coinvolgimento!

**

 

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Capitolo 10
*** IX: Prellung ***


IX: Prellung

 

Quel giorno forse mi resi effettivamente conto di quanto Andrea fosse un’anima delicata ma tenace.

Era chiaro come il giorno che qualcosa non andava, a cominciare da quando mi diede il berretto e vidi quel livido violaceo attorno all’occhio, poco ci mancava che saltassi sul posto! (cosa alquanto nociva dato che ancora non ero del tutto ristabilito e mi avrebbe provocato un dolore atroce.)

-Andrea che hai fatto all’occhio?!-

-Sono caduta dal letto mister. Sto bene, ho messo del ghiaccio.-

Quel livido NON ERA un livido da caduta, era palese. Ma lei mi guardava con aria talmente convinta che non volli indagare, sicuro che avrebbe continuato con quella scusa, facendole cenno di andare a correre con gli altri.

Li mi accorsi ulteriormente che qualcosa non andava: solitamente nella corsa aveva un ottimo ritmo, ma quel giorno rimase nel gruppo di dietro, era lenta e sembrava quasi stare male.

Affianco avevo Rudi che, con il passare dei giorni, pian piano si era dovuto ricredere sull’effettiva abilità di Andrea, anche se continuava ad avere un atteggiamento distaccato nei suoi confronti, e gli parlai a bassa voce.

-Lo vedi anche tu?-

-Sì: è lenta, sembra fare fatica.-

-Temo sia successo qualcosa, il suo allenatore non ha detto niente?-

-Solo che ieri sera era tutto ok e stamane l’aveva trovata con questo livido e con l’affermazione che…-

-E’ caduta dal letto.-

Continuammo a guardare, nonostante la fatica manteneva il ritmo e anzi, riusciva a non essere negli ultimi del gruppo.

-Sai, Karl da piccolo mi ha raccontato una scusa simile quando, prendendolo da scuola, lo avevo visto con un fazzoletto sul naso: le sue insegnanti mi avevano detto che aveva fatto a botte con un suo compagno di scuola.-

Mi girai sbalordito.

-Karl che fa a botte?!-

Il Kaiser è la persona più calma e razionale che io conosca, oltre ad essere dannatamente gentile. Per questo era così bravo con i bambini, al contrario di me che sono stronzo patentato.

Rudi annuì.

-Era il periodo poco dopo il mio divorzio, pertanto era una situazione difficile.

Per non farmi preoccupare lui mi disse che era scivolato a terra; per quella volta feci finta di credergli, però da allora non picchiò più nessuno.-

Tornai a guardare il gruppo, in quel momento stavano passando di corsa; vedere Andrea arrivare tra gli ultimi faceva male alla vista.

-Andrea non mi sembra il tipo che prende a botte i compagni.-

-Io non ho mai visto pavimenti fare un segno del genere. Bernoccoli sì, ma lividi?-

Rudi mi lanciò un’occhiata da “non ci credi nemmeno tu” e si avviò a sistemare gli esercizi mentre io mi domandavo cosa fosse successo.

“-...questo alimentare i sogni della ragazzina non è una buona cosa…-”

Il gruppo fece l’ultimo giro e poi, come sempre, si divisero nei vari gruppi; Rudolf e Andrea subito mi si avvicinarono, la bambina aveva l’aria sofferente ma sembrava cercare di nasconderlo dietro un’espressione seria e concentrata.

-Bene, oggi prima di comporre le squadre miste faremo un veloce ripasso dei vari esercizi. Rudolf, tu devi insistere con la corsa, ci siamo quasi; tu Andrea dovrai concentrarti sugli esercizi per le gambe.-

Mi ero già preparato quella tabella di marcia ma mi resi subito conto che era una pessima idea: se ad Andrea facevano male le gambe le avrei solo peggiorato il dolore.

Tuttavia, nonostante i miei dubbi il soldato stringeva i denti e andava avanti: faceva squat e sumo e alzava le ginocchia cercando di non decellerare, era impressionante.

Il punto di rottura però arrivò con le cadute e i salti. Perché li mi resi conto che il problema non erano solo gambe e faccia.

Johan le tirò un tiro basso e facile da prendere, e Andrea eseguì perfettamente la parata, facendo la capriola in avanti come insegnatole. Tuttavia, per tre secondi, non riuscì ad alzarsi.

Lì mi allarmai.

-Andrea, vieni qui.-

La vidi restituire la palla a Johan e avvicinarsi con aria preoccupata.

-Cos’hai fatto alla schiena?-

La vidi chiaramente spalancare gli occhi e la bocca un secondo prima di chiudere quest’ultima, su quel punto del corpo non aveva la bugia pronta.

-Girati e fammi vedere.-

Obbedì, ma si vedeva che non voleva mentre alzava pian piano la maglietta.

Un grosso livido violaceo, che chiaramente comprometteva il suo allenamento, era stampato sulla sua piccola schiena bianca.

Lì mi arrabbiai seriamente, perché se c’è una cosa che odio sono le bugie, e dette da lei mi davano profondamente fastidio, come poteva mentire a me, il suo allenatore?! Pensava davvero che fossi così cieco da non accorgermi che qualcosa non andava?!

-Anche questo te lo sei fatta cadendo dal letto? Sonno agitato stanotte? Allora?!-

Non mi ero reso conto che avevo alzato la voce e che avevo incattivito il timbro, ma vidi la sua testa andare in avanti come se le mie parole fossero state uno schiaffo sulla nuca.

-Cosa ti è successo?-

Andrea abbassò la maglietta e si voltò verso di me rivolgendomi lo sguardo, ma scosse il capo, testardamente non voleva dirmelo.

La cosa non fece altro che alimentare la mia rabbia, come si permetteva questa ragazzina impudente?!

Ad ogni modo, la prima cosa da fare era curarla, anche se in quel momento l’istinto era di urlarle ancora una volta contro: cercai di frenare lo scazzo crescente evitando di rivolgerle lo sguardo e parlandole con un tono basso di voce.

-Ti porto in infermeria.-

-...non posso più giocare?-

Mi voltai arrabbiato e le lanciai un’occhiataccia: cosa si aspettava, che la facessi giocare in quelle condizioni peggiorando il livido?! Cos’era, masochista?!

Incontrai subito il suo sguardo terrorizzato, dovevo avere un’espressione terribile in faccia, ma strinse i pugni tremolante e continuò a fissarmi decisa, voleva che le dessi una risposta.

Quella sua sfacciata testardaggine...ebbe l’effetto di sbollentarmi all’istante la rabbia, era la prima volta che mi succedeva: mi ricordava un certo portiere che, a sua volta, era sempre stato altrettanto cocciuto.

Presi un respiro profondo, passandomi una mano in faccia, e la guardai dritta negli occhi.

-No Andrea, però voglio far vedere i tuoi lividi al medico e farti mettere una pomata perché non ti faccia più male. Dieci minuti e sei di nuovo in porta, promesso.-

La vidi indecisa sulle mie parole, ma lentamente lasciò andare i pugni e annuì con forza con la testa, abbassando gli occhi e sistemandosi il berretto per coprirsi, restando apparentemente impassibile.

Mi venne da sbuffare, certe volte quella piccolina sembrava troppo il sottoscritto alla sua età: era così testarda, che pazienza che ci voleva per tipi così! Come avevano fatto a sopportarmi in famiglia?!

Feci cenno a Johan e lo avvicinai.

-Porto Andrea in infermeria.-

Subito fece la faccia preoccupata mentre parlavo a voce bassa per non farmi sentire.

-Cos’è successo?-

-Ho appena scoperto che ha un grosso livido sulla schiena, vado a farla controllare anche per quello sulla faccia. Tu continua con Rudolf, dopo le capriole fa parare tiri laterali.

Mi raccomando, insisti sulla resistenza.-

-Certo, lascia fare a me.-

Tornai a parlare con voce normale.

-Noi torniamo subito, giusto Andrea?-

Mi abbassai a guardarla e lei annuì, si vedeva anche con il berretto che era preoccupata da morire, mi parve di vedere le sue spalle tremare.

Johan le sorrise.

-Allora ci vediamo fra poco.-

Poi si rivolse a me.

-Se Karl ti cerca?-

-Gli mando un messaggio ora, non preoccuparti.

Andiamo Andrea.-

Mi avviai verso il lato del campo, accanto a me la piccola mi seguiva in silenzio con i pugni chiusi e l’aria preoccupata, ma neanche un singhiozzo o una lacrima usciva da quel corpo, tenendosi tutto dentro.

Temevo che, durante il tragitto, potesse esplodermi all’improvviso.

Presi il cellulare dalla tasca e digitai velocemente il messaggio.

“Porto Muller in infermeria.”

Mi girai in direzione di Karl mentre svoltavamo sul lato lungo e vidi la sua testa bionda girarsi verso di noi per poi tornare rapida sugli altri ragazzi, dando indicazioni con un braccio; il cellulare nella mia tasca vibrò.

“Tutto bene?”

“Pare che stanotte abbia avuto un contatto ravvicinato con “il pavimento”: ha un livido sulla schiena, sul volto e probabilmente qualcosa sulle gambe. Per favore chiedi informazioni al suo allenatore.”

“Ok. Avvisa Hans che state arrivando.”

“Sa della condizione di Andrea?”

“Si.”

Spostai la conversazione su quella con il medico, l’ultimo messaggio era di qualche giorno prima e riguardava l’andamento della mia riabilitazione.

“Hans sto venendo in infermeria con Andrea Muller.”

Non attesi risposta mentre io e la ragazzina uscivamo dal campo; quando aprii il cancello d’uscita lei lo guardò preoccupata, rivolgendomi poi uno sguardo tremendamente ansioso.

Sospirai e stavo per risponderle quando, per la mia presa d’aria troppo drammatica, la piccola velocemente uscì fuori dal campo, aspettandomi mentre chiudevo il cancello alle mie spalle.

Genzo non fare lo scocciato, è chiaramente intimorita e il tuo atteggiamento da incazzoso non aiuta! Quante volte ti ha detto tua madre e Yasu che “quando fai l’incazzoso sospiri peggio di una diva del teatro”?!

A sorvegliare quell’ingresso una guardia che mi si fece vicino e alla quale rivolsi la parola con aria distaccata.

-Porto il ragazzo in infermeria. Ho già avvisato Schneider e lo staff.-

-Va bene mister Wakabayashi.-

-Vieni Andrea.-

Ero sicuro che nessuno, a parte noi dello Staff Tecnico e i ragazzi, sapesse dell’effettiva condizione di Andrea, pertanto preferii rivolgermi a lei come maschio fino a quando non fossi sicuro che eravamo in un luogo appartato.

La bambina era silenziosa e apparentemente impassibile, seguendomi obbediente; tuttavia, mentre aprivo la porta dell’edificio centrale, notai con la coda dell’occhio che il tremore sulle spalle era aumentato e che ora le mani si stringevano tra loro, ancora dentro i miei vecchi guanti da portiere.

La feci passare, chiudendomi la porta alle spalle, e mi guardai attorno per assicurarmi che non ci fosse nessuno. Poi le rivolsi la parola.

-Andrea.-

Si girò, ma non mi guardava, facendosi scudo con la visiera del berretto.

-Guardami, Andrea.-

Alzò la testa e riuscii a vedere i suoi occhi castani: erano lucidi ma nemmeno un cenno di lacrime, stava stringendo fortissimo la mascella.

Non avevo mai visto un bambino con così tanta paura di non poter giocare ma, al tempo stesso, così caparbio da non mettersi a piangere.

Non fare l’orso buzzurro Genzo, non fare l’orso buzzurro.

Come avrebbe fatto Mikami-san in questi casi?

-...Andrea, ti fidi di me? Del tuo mister?-

Vidi la sua paura cedere il posto alla sorpresa per pochi secondi mentre annuiva il capo.

-E allora credimi: dieci minuti e ti rimetto in campo.

Forse oggi non potrai saltare o fare le capriole, ma ci sono altre cose che voglio farti fare: ad esempio voglio che diventi più forte a prendere i palloni con una sola mano, oppure a tirare pugni per deviare la palla. Dobbiamo anche lavorare sul passaggio della palla ai tuoi compagni...-

Mentre le parlavo vidi la paura farsi meno forte e la presa sulla mascella cedere, le mani aprirono leggermente i pugni. La stavo convincendo.

-Come vedi abbiamo un mucchio di cose da fare anche senza fare gli esercizi programmati, ma per farle tu non devi stare male per quel livido, per questo ti porto dal nostro medico.

Come portiere devi imparare a stare attenta quando ti fai male, tu sei fondamentale per la squadra.-

La vidi spalancare gli occhi dalla sorpresa.

-...io sono importante per la squadra?-

Annuì e le misi una mano sul berretto, per farle una carezza.

-Ma certo! Un portiere è indispensabile per poter giocare, altrimenti chi para i tiri?-

Lei abbassò lo sguardo, sembrava essersi rattristata di colpo.

-...anche se sono una femmina?-

Ci fu qualche secondo di silenzio e rialzò la testa verso di me.

Guardai di nuovo quegli occhi scuri: erano grandi, profondi, ancora lucidi di paura e ora un pochino sofferenti, ma al tempo stesso erano sempre decisi, sembravano guardarti fin dentro la pupilla.

Quegli stessi occhi potevano essere concentrati e fissi sulla palla con una serietà e tensione che fendevano l’aria. Erano gli occhi di chi non avrebbero mai accettato la resa.

L’immagine di lei nella porta dell’Allianz Arena a difendere come SGGK mi tornò prepotentemente in testa.

Presi un respiro profondo.

-Proprio perché sei una femmina e riesci a tenere testa a tutti loro sei la più forte di tutti.

Ma bada Andrea: io non ti farò mai favori perché tu sei femmina, anzi mi aspetto che tu ti impegni sempre tanto quanto gli altri, come hai fatto in queste settimane, anche più degli altri.

Ora andiamo.-

Annuì, seguendomi in silenzio verso l’infermeria dove il dott. Hans ci aspettava da solo.

Fece sedere Andrea sul lettino, le fece togliere guanti e berretto e le chiese di togliersi prima di tutto la maglietta.

-Ah, ma che bel ciondolo Andrea. Chi te lo ha regalato?-

-...La mia migliore amica.-

-Ma che bello, deve volerti molto bene.Dov’è ora?-

-Con la sua nuova famiglia.-

La notizia mi bloccò un attimo. Giusto, quasi me lo stavo dimenticando nel trambusto: Andrea era orfana.

-Ti manca molto?-

-Un po’, ma lei ora sta bene.-

-...sei una brava ragazzina Andrea. Su, ora vediamo il livido.-

Guadò quello sul volto e quello sulla schiena rimanendo apparentemente impassibile, controllandoli con aria cupa.

-Cosa ti è successo, Andrea?-

Stavolta non ebbe il coraggio di dire la sua bugia, ma mi guardò stringendo i denti; io mantenni lo sguardo fisso su di lei fino a quando non chinò il capo, parlando a voce bassa.

-Io...ho litigato con i miei compagni di squadra.

Per favore però non ditelo al mister Weiner! Non...non voglio...che gli altri perdano il Summer Camp.-

Ho sempre avuto un buon intuito a scoprire le bugie, fin da bambino: mia madre era solita raccontare quando, durante alcuni incontri mondani, da piccolo scappavo via con Yasu da determinate persone dato che mi sembravano “persone che non dicevano altro che bugie.”

Ebbene la confessione della bambina, anche stavolta, non mi sembrò sincera fino in fondo, ma non volli investigare con il medico presente, scambiandogli invece un’occhiata silenziosa mentre lui parlava.

-Tranquilla Andrea, sarà un segreto fra me, te e Wakabayashi, ok? Intanto vediamo di curare questi lividi.

Ne hai altri?-

-...uno alla gamba.-

E lo fece vedere, il suo aspetto era meno “brutto” di quello sulla schiena.

-Ok, ti metterò una pomata e una benda fredda così che non senti più dolore, ma poi devi metterti la pomata almeno altre 2 volte oggi; da domani te la metti la mattina e la sera fino a quando non vedi più il livido, ok?-

Mentre parlava il medico le mostrò la pomata e Andrea annuì, dicendo che l’aveva già vista all’orfanotrofio.

Hans applicò la pomata sui tre lividi e due cerotti refrigeranti, raccomandandosi di toglierli solo una volta tornata all’orfanotrofio.

Le fece rimettere i suoi vestiti, berretto e riprendersi i guanti.

Appena Andrea si girò la guardai cercando di sorriderle, ma sentii il volto bloccato come fosse ricoperto della calce: sola a combattere contro tutto, come poteva avere tanta forza e tenacia? Era da pazzi...

-Che ti avevo detto? Dieci minuti e siamo già di ritorno sul campo, soldatino.-

Lei annuì e, per la seconda volta, le vidi un piccolo sorriso sul volto, qualcosa di nascosto ma di estremamente contento che mi colpì più di un cazzotto in pancia, dovetti prendere due colpi di tosse per liberarmi da quella sensazione e le feci una carezza sul berretto, chiedendole di aspettarmi un attimo.

Appena soli, Hans alzò la mano.

-Lo so: non ne farò parola con il resto dello Staff tecnico. Già il fatto che mi hai contattato tu mi basta per capire che devo farmi gli affari miei.-

-Ti ringrazio Hans, però ne parlerò con Karl e Rudi e vedremo sul da farsi. Se succederà qualcosa farò in modo che tu non venga ripreso.-

Il medico sbuffò divertito.

-La fai facile, Wakabayashi, ma un caso come questo, purtroppo, avrà ripercussioni sull’intera società se non si agisce immediatamente: o si diventa eroi, o si verrà accusati d’ignavia.-

Mi passai una mano sul collo, ma Hans volle chiudere la conversazione.

-Ci rivediamo per la tua fisioterapia.-

Uscii dalla stanza, Andrea era in piedi con in mano i miei vecchi guanti che aspettava in silenzio. Si voltò a guardarmi pronta a tornare in campo, impaziente di riprendere gli allenamenti.

Vedere quel livido, per quanto fosse curato, mi fece storcere la bocca: dovevo andare in fondo alla faccenda, o non ci avrei dormito la notte.

Mi avvicinai a lei, l’infermeria era in un punto non illuminato dalle gigantesche vetrate, fatto apposta per evitare che eventuali paparazzi imboscati potessero scattarci foto in momenti difficili.

-Andrea.-

Alzò lo sguardo.

-Come ti sei fatta quei lividi?-

La vidi che stava per parlare ma si bloccò all’istante, stringendo invece la mascella e i guanti nelle mani.

Sospirai, ma perché era sempre difficile dire la verità per tutti, me compreso?

-Ascoltami: a me non piacciono le bugie e non mi piacciono i bugiardi, ma tu sei una brava ragazzina, sei rispettosa ed educata e voglio fidarmi di te.

Dimmi come ti sei fatta quei lividi, per favore.-

Le vidi salire il panico negli occhi e si portò una mano al petto; mi ricordai che sotto la maglietta aveva il ciondolo a forma di campanella.

-...hai mai raccontato bugie alla tua amica?-

-Mai!-

La reazione fu più forte di quanto mi aspettassi, doveva tenerci molto. Che fosse la sua sola amica in quel posto?

-Non diresti mai le bugie ai tuoi amici, giusto?-

Annuì.

-Allora voglio essere tuo amico.-

Spalancò gli occhi dalla sorpresa mentre mi inginocchiavo verso di lei.

Di sicuro non fu la mia idea migliore: fare uno sforzo tanto prolungato considerando la mia lesione, ma volevo che mi guardasse negli occhi senza cercare di nascondersi nella visiera del berretto.

-Ti ricordi cosa ti ho detto? Dieci minuti ed eravamo pronti a tornare. E lo stiamo facendo.

Ti puoi fidare di me, Andrea.

Io ti prometto che ti aiuterò, ti farò diventare il portiere migliore di Monaco, garantito, ma tu devi essere sincera con me, ok? Non possiamo lavorare assieme se non mi dici la verità.-

Mi guardò sbalordita, gli occhi erano ancora più grandi per la sorpresa e mi venne da sorridere per la tristezza: quante volte effettivamente aveva potuto sentire parole del genere o ricevere effettivamente ciò che le veniva promesso?

Sentii il mio cervello dirmi: “Genzo Wakabayashi, ti stai cacciando in un grosso, enorme guaio: stai promettendo ad una bambina che tu, l’SGGK, la farai diventare il portiere più forte di tutta Monaco, la più forte di tutti, quando lei tra tre settimane dovrà rinunciare! Senza contare che è una femmina!

TU che fai una promessa, tu che non sei mai stato il campione dell’altruismo nella tua vita!”

-Perciò per favore, Andrea: dimmi chi ti ha fatto questi lividi.-

La vidi mordersi le labbra, abbassare lo sguardo.

Per un attimo credetti che non ero riuscito a fare breccia quando la sua voce uscì bassa, quasi muta mentre le mani andarono verso la testa, sul berretto, come a proteggerlo.

-...Albert, è stato Albert.-

Ricordai quel ragazzino, il modo in cui tirava, la cattiveria che ci metteva e che aveva con gli altri ragazzi, e questa volta fui certo che Andrea non mi stesse mentendo.

Il mio primo istinto fu di andare da Albert con la marcia delle valchirie in sottofondo, a fargli capire che i suoi giorni da stronzetto erano terminati, quando la voce della ragazzina mi bloccò, facendomi voltare.

-Ti prego...ti prego, non dirlo a nessuno. Se...se lo scopre...mi brucerà il berretto…-

Guardai il berretto, il modo spasmodico in cui lo stava tenendo sulla testa; ricordai l’espressione sorpresa e confusa con cui mi aveva guardato la prima volta che glielo avevo tolto e l’atteggiamento serio e deciso con cui me lo aveva chiesto indietro.

-...è molto importante per te il berretto?-

Annuì con forza.

-Chi te lo ha dato?-

-...il mio papà…-

La vidi stringere i denti, non voleva proprio piangere.

“-Arrivata all’età di 5 anni all’orfanotrofio dopo che è stata diagnosticato un problema mentale al padre ed è stato portando al Centro di Riabilitazione dell’Ospedale Maggiore.-”

-Capisco. E’ stato il tuo papà ad insegnarti a giocare?-

Annuì di nuovo.

Di nuovo sentii quella pressione sullo stomaco e rialzandomi in piedi dovetti di nuovo tossire per liberarmene. Presi un profondo respiro, non potevo sdilinquirmi.

-Bene, non dirò niente a nessuno. In cambio però voglio che tu non dica niente e a nessuno della nostra amicizia.-

Un po’ perché non volevo che questo la mettesse di nuovo nei guai e un po’...perché volevo che fosse una cosa solo mia e sua, qualcosa di prezioso da costruire insieme e da proteggere. Dopotutto ora dovevo mantenere la mia promessa.

Lei mi guardò sorpresa per poi annuire con entusiasmo, continuava a trattenere il sorriso ma riuscivo a notare i lati della sua bocca che si sollevavano leggermente. Lo ammetto, morivo dalla curiosità di vedere un suo sorriso di gioia.

-Ora andiamo che ci stanno aspettando.-

D’istinto volevo offrirle la mano ma mi resi conto che dovevo rimanere distaccato, o mi sarei fatto coinvolgere troppo dalla sua storia e non sarei riuscito a mantenere la lucidità.

Tuttavia andavano presi provvedimenti…

“-...un caso come questo, purtroppo, avrà ripercussioni sull’intera società se non si agisce immediatamente: o si diventa eroi, o si verrà accusati d’ignavia.-”

 

**

 

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Capitolo 11
*** X: Glück ***


X: Glück

 

-Sbaglio o qualcuno ha mangiato pane e felicità?-

Mi giro a guardare la signora Abigail e lei mi fa un cenno verso le mie gambe.

Non mi sono accorta che le sto dondolando sopra il lettino dell’infermeria; mi fermo subito e lei mi passa la pomata sulle gambe, poi si occupa della schiena.

-Oramai anche questo brutto livido se n’è andato via. Ti fa ancora male tesoro?-

-No affatto, riesco a fare le capriole senza problemi.-

Non la sento rispondere ma continuo a sentire le dita con la crema fredda, pertanto rimango ferma.

-Sai, Adam racconta sempre tutto quello che fate e mi ha detto che il signor Wakabayashi è molto contento del tuo operato.-

Ah, che bello! E che imbarazzo! Sto seguendo bene gli esercizi del mister! Anzi...del mio amico Genzo, il solo pensarlo mi fa sorridere, non avevo mai avuto un amico adulto: la signora Abigail dice sempre che è nostro amica ma sembra più una zia, la signorina Voigt un insegnante e il signor Weiner è il nostro allenatore.

Invece Wakabayashi mi ha chiesto di essere sua amica; quando gli do il berretto mi chiede sempre come sto e a fine giornata parliamo degli allenamenti e di tutto quello che abbiamo fatto. Mi ascolta e mi da consigli.

Mi piacerebbe un giorno poter giocare con lui in campo, sarebbe così bello!

-Ah, ma guarda te che bel sorriso ha Andrea! E’ successo qualcosa di bello?-

Annuisco.

-Oh! E lo vuoi dire alla signora Abigail?-

Nessuno sa che sono amica dell’SGGK, è il nostro segreto. E mi piace un sacco.

-No, è un segreto.-

-Ah, ma come?! Un segreto nei miei confronti? Che monella!-

Mi fa il solletico sui fianchi e rido fino a quando mi manca il fiato, e allora si ferma.

-E’ bello vederti ridere, sai? E’ così raro, e sei così carina quando sorridi.-

Mi fa una carezza, non mi aspettavo questo; ammetto che, da quando non c’è più Cilly, tutto è diventato più triste. Mi manca tanto la mia amica.

-Mi dispiace.-

-E di cosa? Non ti devi scusare affatto, anzi: sono proprio contenta che tu abbia trovato qualcosa che ti fa sorridere così, vuol dire che ti rende felice.-

Mister Wakabayashi mi rende felice: mi allena e siamo amici, a volte mi sgrida ma altre mi fa i complimenti e mi accarezza la testa. Mi piace, è piacevole. Sì, mi rende tanto felice.

La signora Abigail si allontana e si lava le mani nel lavandino, prendendo invece i cerotti dall’armadietto dove ci sono tutte le medicine e la bottiglia dell’alcol.

-Ferma con la testa, ok tesoro?-

Annuisco e mi sporgo verso di lei.

Il livido sull’occhio si vede ancora così la signora Abigail ci mette sempre un cerotto; in questo modo, se ci passo la mano sopra, non mi tolgo la crema.

-Ecco qua. Ancora qualche giorno e anche questo brutto lividaccio se ne andrà e si vedranno di nuovo i tuoi bellissimi occhi.-

Anche la mia nonna mi diceva sempre che avevo dei bellissimi occhi.

-Signora Abigail, i miei occhi sono belli?-

-Ma certo Andrea! Tu sei tutta bella, soprattutto quando ti vesti da signorina! Non hai idea di quanto sia stata una sofferenza tagliarti i capelli all’inizio del Summer Camp.-

Passa una mano sulla testa, mi fa una carezza e mi sorride.

-Per fortuna stanno già ricrescendo. Sappi che non te li taglierò più così corti, intesi? Tu stai meglio con i capelli lunghi.-

Non li ho mai portati i capelli lunghi, nonna me li tagliava sempre molti corti così papà continuava a credere che fossi un ragazzo; all’orfanotrofio ho continuato a tagliarmeli da sola, di nascosto, fino a quando non mi hanno portato via tutte le forbici.

Avevo paura, quando vidi i capelli superare le mie orecchie cercai di nascondermeli costantemente dentro il berretto, e se qualcuno provava a togliermelo urlavo e scalciavo: temevo che mio padre, quando sarebbe tornato a prendermi, nel vedermi si sarebbe arrabbiato di nuovo e mi avrebbe picchiata ancora. Ancora non sapevo che mio padre non sarebbe più tornato.

Me lo disse la signorina Voigt.

“-Andrea, non avere paura: tuo padre è in un posto lontano e non verrà più a cercarti. Ora sei al sicuro.-

-...quindi papà non mi verrà a prendere?-

-No tesoro. Noi ci prenderemo cura di te.-

-E la nonna?-

-...purtroppo tua nonna è volata in cielo con Dio.-”

Ricordo...che non volli piangere, la nonna mi diceva sempre che i maschi non dovevano piangere, ma ero così triste che non mangiai niente quel giorno.

Io volevo bene al mio papà, avevo solo paura che mi picchiasse, ma io gli volevo comunque bene. Desideravo tanto che lui tornasse a prendermi, che avessi di nuovo la mia famiglia, stavolta avrei fatto il bravo bambino, sarei diventata un maschio e tutti si sarebbe sistemato.

Invece mio padre non venne mai a prendermi.

Chiesi alla signorina Voigt parecchie volte di poter andare a trovare mio padre, ma lei ogni volta diceva che era troppo pericoloso, che non potevo.

Intanto i miei capelli crescevano, ed io ero sempre più triste: mi mancava la mia famiglia, volevo tornare dal mio papà.

Poi ho conosciuto Cilly.

Lei ha cominciato a pettinarmi e a mettermi fermagli ed elastici quando eravamo da sole in camera; lei mi ha convinto a provare i vestiti da femmina, a parlare con voce normale, a stare dritta con la schiena, a mostrare che ero una bambina. E a continuare a giocare a calcio.

“-Per te non è un problema se continuo?-

-Stai scherzando? Sei bravissima! Non smettere!-

-Ma gli altri dicono che una femmina non dovrebbe giocare a calcio...-

-Che stupidaggine! Allora che dire di Nicholas e degli altri che giocano con con le bambole, con la cucinina e la casina fuori in giardino?

Non ascoltarli, Albert dice così perché non gli piace che tu sei più brava di loro!

Non devi smettere di fare quello che ti piace solo perché loro sono gelosi, capito?-

-Capito.-”

 

Mi manca tanto Cilly, ma lei ora è con la sua nuova famiglia, sarà felice con loro, di sicuro!

-Ecco fatto, sei a posto. Allora, non vuoi proprio dirmi questo tuo segreto che ti rende tanto felice?-

Penso a mister Wakabayashi e scuoto la testa: non lo rivelerò mai, me lo porterò dentro la tomba!

Abigail mi sorride, non sembra arrabbiata. Mi accarezza la testa.

-Va bene, l’importante è che ti renda così felice.-

Annuisco e ripenso alla carezza in testa che mi ha fatto il mister quando ci siamo salutati oggi.

“-Ci vediamo domani Andrea.-”

-Ehi, è qui Andrea?-

Mi giro a guardare, riconosco la signorina: si chiama Gela, è una volontaria che viene qui due volte a settimana ad aiutare con i neonati e i bimbi più piccoli.

-Sono io.-

Mi guarda e sorride, ha dei grandi occhiali con la montatura rossa e si tiene sempre i capelli legati con le matite e le bacchette.

-C’è una telefonata per te. Una tua amica di nome Cilly.-

CILLY!

-Cilly!-

-Ehi, dove credi di andare tutta nuda?!-

Ah, giusto: ho solo le mutande addosso. Mi metto velocemente maglietta e pantaloni, afferro il berretto e corro al telefono.

-Andrea non correre!!-

Esco dall’infermeria e corro lungo il corridoio evitando di sbattere contro qualcuno; il telefono si trova nell’ufficio della signorina Voigt, dove si trovano anche la nursery e la stanza dei giochi dei bimbi più piccoli. Ora stanno tutti andando a cena pertanto le luci sono spente e le porte sono chiuse.

Arrivo davanti all’ufficio e freno. Prendo fiato e busso la porta.

-Vieni pure Andrea.-

Apro la porta, la signorina Voigt è seduta sulla sua grande sedia dietro il tavolo e mi guarda.

-Non c’è che dire, sei diventata più veloce. Sai bene che non si corre.-

Tiene il telefono in mano. Oh no spero non mi impedisca di parlare con Cilly!

-Mi scusi signorina.-

Si alza in piedi e si avvicina.

-Si certo, come se mi stessi ascoltando. Vieni.-

Mi accompagna nella stanza giochi, lei tiene le chiavi dell’edificio quindi può aprire la porta e accendere le luci.

-Tra un quarto d’ora ti chiamo per la cena, ok?-

Annuisco e lei mi consegna il telefono portatile. Ci parlo subito, mi sono scordata di ringraziarla.

-Pronto?-

> Andrea!

-Cilly!! come stai?!-

> Tutto bene, tu invece? La signorina Voigt mi ha detto che hai avuto problemi.

Sapevo che glielo avrebbe detto, però non volevo farla preoccupare.

-Ora sto bene, davvero! Sono praticamente guarita da tutto.-

> Cos’è successo? Albert ti ha fatto qualcosa?

-Cilly…-

> Devi dirmelo lo sai! Le sorelle si dicono sempre tutto!

Accidenti, speravo non se lo ricordasse, non voglio farla star male. Prendo un respiro profondo e mi guardo indietro: sono sola nella stanza ma non vorrei che la signorina Voigt mi ascoltasse da dietro la porta, pertanto parlo a bassa voce, coprendo la bocca con la mano.

-Si, Albert mi ha preso a pallonate.-

> Perché non l’hai detto alla signorina Voigt?!

-Perché se sospende Albert non possiamo più andare al Summer Camp! E poi...mi ha detto che se lo faccio mi brucia il berretto...-

> Quello è solo un bullo! Non può continuare a fare quello che gli pare!

Sorrido, Cilly ha sempre cercato di proteggermi tanto quanto io difendevo lei all’orfanotrofio.

Ma adesso ha una mamma e un papà che la proteggono.

-Te l’ho detto, adesso sto bene. In più gli altri ragazzi dicono che sono una loro compagna e durante gli allenamenti sono sempre con loro. E poi…-

Ah, non posso dirle di Genzo. Però Cilly è come una sorella, le sorelle si dicono sempre tutto, come posso fare?

> E poi?

-Poi...gli allenamenti sono fichissimi!-

> Dai, raccontami tutto!

Comincio a parlarle degli allenamenti, di tutto quello che faccio, delle squadre miste e di quella mia, dove c’è anche Leonhart. Poi le parlo del mio allenatore.

> Ti allena Genzo Wakabayashi?!

-Si!!-

Le avevo mostrato le figurine e i ritagli di giornale con l’SGGK che tengo dentro la mia scatola sotto il letto.

> E com’è? Com’è?!

“-Ti puoi fidare di me Andrea.

Io ti prometto che ti aiuterò, ti farò diventare il portiere migliore di Monaco...-”

-E’ bravissimo, il migliore. Ci insegna un sacco di cose e ci fa migliorare.-

> E come si comporta con te? Cosa dice del fatto che sei una femmina?

“-Proprio perché sei una femmina e riesci a tenere testa a tutti loro tu sei la più forte di tutti.-”

-...dice che sono la più forte di tutti.-

> CHE TI AVEVO DETTO?! Ah, scusa mamma.

Ah, c’è sua madre lì accanto. Cilly ora ha una mamma.

...anche a me piacerebbe avere una mamma, anzi: vorrei avere di nuovo un papà. Ma non posso.

Va bene così Andrea.

-Com’è la tua mamma Cilly? E’ brava?-

> Si, oggi siamo andate dalla nonna.

Cilly con sua madre e la sua nonna. Che bello, Cilly ha una famiglia.

...non ti perdere Andrea, va bene così.

-E’ stato bello?-

> Si! Nonna mi ha insegnato a fare i biscotti! Ne abbiamo fatti tantissimi. Ho chiesto alla mamma di mandartene qualcuno, dovrebbero arrivarti tra uno-due giorni.

-Grazie Cilly.-

> Tu sei mia sorella per sempre, ricordalo!

Mi manca Cilly. Mi manca parlare con lei tutti i giorni, ma sembra così felice.

> Piuttosto sono così contenta Andrea! L’avevo detto che saresti stata la più brava di tutti!

-...hai mai raccontato bugie alla tua amica?-

-Mai!-

-Non diresti mai le bugie ai tuoi amici, giusto?

Allora voglio essere tuo amico.-

Non racconterei mai bugie a mia sorella.

-Ascolta Cilly, voglio dirti un segreto, ma devi promettermi che non lo dirai mai a nessuno.-

> Certo Andrea, te lo prometto sul mio campanello e sul tuo berretto!

-Giurin giurello!-

> Giurin giurello! Dai, di che si tratta.

Mi guardo intorno, ok non c’è nessuno. Parlo a voce bassissima.

-Genzo Wakabayashi mi ha chiesto di essere sua amica.-

Cilly fa un verso acuto soffocato e mi risponde a bassa voce anche lei.

> Davvero?!

-Si: mi ha promesso che mi farà diventare il portiere più forte di tutta Monaco e che per questo vuole essere mio amico.-

> Oh mio Dio Andrea, è fantastico!! Che bello!

-Però è un segreto, non deve saperlo nessuno!-

> Giusto, se no tutti vorrebbero essere suo amico. Invece è solo tuo!

Sorrido contenta, sento Cilly felice dall’altro lato. Poi però abbassa di nuovo la voce.

> ...mi manchi Andrea. Mi manchi tanto.

Mi porto una mano sul petto, sento il campanellino sotto la maglietta. Mi viene da piangere ma non devo farlo: devo essere tranquilla, altrimenti anche Cilly si mette a piangere.

-Anche tu mi manchi tanto Cilly, ma sta tranquilla: ti penso sempre.-

> Anch’io ti penso sempre. Non vedo l’ora di rivederti a scuola. Anzi: non vedo l’ora di vederti fuori da scuola per un’uscita insieme quando avrai la tua famiglia!

Cilly è sempre stata convinta che qualcuno mi avrebbe adottato, ma c’è una cosa che non le ho mai detto, è l’unico segreto che non ho mai potuto rivelarle.

Ho sempre detto di no alle persone che volevano adottarmi. Perché...io sono solo un problema, l’hanno detto anche le assistenti sociali.

Una volta al mese vengono sempre l’assistente sociale e una psicologa esterna per controllare che sia tutto a posto; di solito ci fanno diverse domande e ci chiedono se vorremmo avere una famiglia e come la pensiamo. A volte capita che ci fanno fare dei disegni mentre parlano con la direttrice.

Mi è capitato di sentire quello che pensavano su di me, anche se era una cosa che io non dovevo sapere, tanto che erano uscite dalla stanza.

Lo so che non si spia, ma ero curiosa di sapere se avrei mai potuto avere una famiglia, pertanto le ho seguite e ho aperto un pochino la porta per poter ascoltare.

“-E’ una bambina ancora instabile, potrebbe avere difficoltà a relazionarsi con gli altri ragazzini crescendo. Quando diventerà adolescente, poi, dovrà avere a che fare con le mestruazioni e, considerando la sua scarsa conoscenza di sé, potrebbe risultare traumatico l’avvenimento, potrebbe addirittura rifiutarlo.

Pertanto bisognerà pian piano farle conoscere il suo corpo e ciò che è, per aiutarla ad accattersi.

Inoltre temiamo che questo attaccamento all’attività calcistica sia dovuto al legame con il padre, sarebbe meglio se smettesse.

Ad ogni modo, la famiglia adottiva dovrà avere molta pazienza con lei, non è una situazione facile la sua...-”

Non ho capito tante cose, ma era chiaro che potrei creare problemi a chi mi vorrebbe adottare, pertanto ho deciso che non voglio avere una mamma e un papà.

E’ meglio così: non voglio più creare problemi a nessuno, in fondo...è colpa mia se il mio papà è stato mandato all’ospedale, è colpa mia se la nonna è morta. E’ stata colpa mia.

Va bene così Andrea: dopo il Summer Camp smetterai di giocare a calcio e, finita la scuola, ti trasferirai al collegio.

Puoi farcela, te la sei sempre cavata da sola.

-...addirittura questa estate Cilly? Non credo.-

> Fidati di me Andrea, me lo sento: troverai la tua famiglia. Te lo meriti! Sei così brava e intelligente!

“-Tu sei una brava ragazzina, sei rispettosa ed educata, perciò voglio fidarmi di te.-”

Non piangere Andrea, non ti deve sentire Cilly, altrimenti diventa triste.

-Grazie Cilly.-

-Andrea.-

Mi giro, c’è la signorina Voigt.

-Dobbiamo andare a cena.-

Oh no, di già?!

Guardo la signorina, sembra non volermi lasciare più da sola al telefono. Devo proprio andare.

> Devo andare anch’io a cena. Ma ti telefonerò di nuovo Andrea, promesso!

Forse è meglio di no: adesso Cilly ha la sua famiglia, non voglio che pensi troppo a me.

Io oramai ho deciso, mi va bene così.

Va bene così.

Non ti perdere Andrea.

-Va bene Cilly. Allora buon appettito, ci sentiamo presto.-

> A presto Andrea! Ti voglio bene.

-Ti voglio bene.-

Per sempre, Cilly.

Chiudo la telefonata e restituisco il telefono alla signorina Voigt.

-Grazie. E’ andato tutto bene?-

-Si, grazie mille.-

-Cilly sta bene?-

-Si, è molto felice con la sua nuova famiglia.-

-E tu sei felice per lei Andrea?-

-Certo! Cilly è una bambina bravissima, sono così contenta che abbia una mamma e un papà!-

La signorina Voigt si inginocchia verso di me e mi guarda.

-E tu non vorresti una mamma e un papà, Andrea?-

...si.

Però...non voglio più creare problemi a nessuno.

Pertanto scuoto la testa.

-Va bene così.-

La guardo negli occhi.

La signorina Voigt sospira, alzandosi in piedi e facendomi passare.

-Va pure Andrea, altrimenti ti si raffredda la cena.-

 

**

 

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Capitolo 12
*** XI: Stipendium ***


XI: Stipendium

 

Premessa: non conosco la legislazione tedesca e, sebbene ho cercato informazioni chiare e precise sull’argomento chiaramente una parte di quello che scriverò è inventato da me. Pertanto se individuate errori o imprecisazioni chiedo scusa in anticipo e fatemi sapere nei commenti. Grazie mille.

 

Nonostante le extra misure cautelari che erano state prese dopo la prima soffiata del Kicker e nonostante io, Karl e Rudi sembravamo dei grossi e incazzosi alani a difesa dei nostri piccoli calciatori ogni volta che eravamo sul campo, il numero di foto e articoli nelle riviste sportive che riguardavano il Summer Camp cominciò ad aumentare.

Informazioni estrapolate dal sito e intuite dall’organizzazione, gonfiate con qualche balla inerente all’intenzione della società di inserire nella loro squadra under-14 questo o quel giocatore riempivano almeno una mezza pagina di qualsiasi rivista sportiva.

Quello che però faceva più specie erano i titoli di suddetti articoli: “Il nuovo SGGK in Germania?!”, “Eccolo il futuro capitano del Bayern Monaco!”, “Schneider ha forse trovato il suo erede?!” eccetera eccetera eccetera.

Foto censurate dei ragazzini in fase di allenamento, con particolare attenzione a quelle inerenti me e Karl intenti a spronare o fare i complimenti ad alcuni di loro, per ricamarci sopra storie da libro per ragazzi spiccavano in copertina in diverse misure.

Con me fare foto “compromettenti” era più difficile del Kaiser: solitamente ero concentrato nello svolgimento degli allenamenti e, da quando avevamo creato le squadre miste, tendevo a farmi vedere sempre meno da solo con i portieri, urlandogli invece indicazioni dal lato del campo.

Ma il rito tra me e Andrea era diventato qualcosa a cui non potevo proprio fare a meno, pertanto le avevo cominciato a prendere il berretto vicino agli spogliatoi, nascosti da sguardi indiscreti, consegnandole i guanti che a volte teneva dietro i pantaloni, altre volte si metteva direttamente sulle mani.

Poi la sua piccola schiena correva via da Shneider a fare i soliti giri di campo, mentre io la seguivo con lo sguardo, impaziente di vedere cos’altro sarebbe riuscita a fare durante le partite delle squadre miste.

Tra l’altro, da quando avevamo deciso di sospendere Albert dagli allenamenti e di metterlo in riserva, la situazione era nettamente cambiata per Andrea: i suoi ex-compagni di squadra, solitamente bulli, avevano iniziato a rispettarla e addirittura, i due difensori che avevamo tenuto in squadra con lei, avevano preso ad ascoltare le sue indicazioni, migliorando nettamente.

“Quale magia!” avevo detto loro con profondo sarcasmo quando avevano commentato quella situazione, vergognandosi come ladri di fronte a tutto il resto dei ragazzini divertiti.

Riprendendo il discorso di prima, il biondissimo Karl spiccava nelle foto mentre era seguito dai ragazzini durante i giri o quando parlava con loro prima di iniziare la partita di allenamento; le didascalie sotto le immagini si perdevano in svenevoli descrizioni del momento, esaltando l’attaccante come fosse stato un santo o un angelo, dedito all’aiutare i poveri bambini bisognosi.

“Tra poco bisognerà iniziare ad accenderti i ceri sotto il culo e chiederti l’intercessione per conto di Dio se vanno avanti così.” Avevo commentato ulteriormente sarcastico mentre guardavamo le riviste durante una riunione dello Staff Tecnico, scatenando l’ilarità generale, compresa quella di Karl che capiva quanto la cosa fosse esagerata.

Non starò neanche a dire quante richieste di interviste da giornali, tv e media vari ci sono state richieste inerenti a quel Summer Camp, e sapevamo perfettamente che più rifiutavamo, più loro si facevano insistenti.

L’anno precedente, dopo migliaia di insistente, alla fine era stata data la possibilità ai media di assistere ad un allenamento e di scattare foto; Karl descrisse quella volta dicendo “fu la prima volta che il rumore dei click arrivò a sovrastare la mia voce in un paio di occasioni”.

Tuttavia stavolta la questione era diversa, e tutti sapevamo perché; e questo mandava Rudi fuori di testa: le litigate fra lui e il figlio potevano essere sentite fin nel campo, costringendomi ogni volta ad intervenire o per sedare la discussione, o per invitare i ragazzini a non ascoltarli o, più semplicemente, per fargli abbassare la voce.

Nonostante tali discussioni capitassero un giorno sì e l’altro pure, Karl non era affatto arrabbiato con il padre, anzi era estremamente comprensivo.

-Ci credo che la situazione lo rende nervoso: quando lo hanno cacciato via dall’Hamburg la stampa se lo è divorato, sfruttando anche il divorzio da mia madre per girare il dito nella piaga.

Adesso, nonostante l’evidente successo della squadra, sente l’ombra di quei tempi tornare su di lui con questo Summer Camp e, sopratutto, per via di Andrea. In fondo ha sessanta e passa anni, avere a che fare con una situazione come quella della ragazzina deve stressarlo parecchio.-

In questo momento Schneider rivelava una profonda maturità e un animo gentile, lasciando che il padre sfogasse la sua frustrazione per poi riportarlo sul campo di allenamento e farlo concentrare sui ragazzi.

-E poi non ascoltare tutto quello che dice: la verità è che anche lui adora Andrea, l’ho visto un paio di volte darle dei suggerimenti tattici nelle pause tra una partita e l’altra.

Però non dirgli che te l’ho detto, la sua esperienza è preziosa per quella piccola. E poi potrebbe ammazzarmi.-

Risi divertito mentre ci lasciavamo alle spalle il Säbener Straße e la sua macchina si avviava verso il nord di Monaco, quel giorno non avevo riabilitazione e Karl si era offerto di farmi da autista dopo gli allenamenti.

Nel tragitto iniziammo a discutere sull’avanzamento delle due squadre miste e sull’andamento di alcuni ragazzi, in particolare di quei tre che avevamo sempre tenuto d’occhio e, francamente, ci piacevano di più: Leonhard, Eusebiu e Andrea.

Il primo era nato per fare il leader e trascinava la squadra sempre con grande entusiasmo, anche se era ancora facile alla collera, specie se qualcuno faceva il bullo o si comportava male con gli altri.

-Il suo entusiasmo mi ricorda quello di Tsubasa durante il periodo delle medie, anche se non è altrettanto fissato con il pallone.-

-Anche a me ricorda Tsubasa quando l’ho conosciuto la prima volta, ma anche adesso non è cambiato molto. E’ ancora in Spagna, no?-

-Si si, col cavolo che Barcellona se lo fa scappare: ha firmato un contratto niente male che lo garantisce alla società almeno per i prossimi 3 anni.-

Karl annuì mentre la macchina entrava sulla Chiemgaustraße.

La giornata era stata calda e soleggiata, la giornata perfetta per fare la prima vera partita tra le due squadre, senza alcuna interruzione da parte nostra. Fino a quel momento fermavamo per fare dimostrazioni, e in un paio di occasioni mi ero ritrovato a mettermi in porta per fare da esempio alla zona della difesa.

In quelle occasioni vedevo chiaramente i ragazzini esaltatissimi per la mia presenza, cosa che non aiutava il mio ego.

Questa volta però li avevamo lasciati fare, con Johan che aveva fatto da arbitro, e la partita era stata molto interessante ed equilibrata, con la vittoria della squadra di Leonhard e Andrea, la squadra blu, solo per un calcio d’angolo un po’ disordinato.

Lo ammetto, in un paio di parate della ragazzina dovetti incrociare le braccia per non festeggiare, tossendo per soffocare l’entusiasmo; ma sia io che Karl eravamo su di giri per quei piccoletti, si vedevano chiaramente i frutti del nostro lavoro.

-Eusebiu comunque si è rivelato un eccellente difensore, è stato un buon acquisto per la squadra gialla, è stato uno dei pochi a riuscire a fermare l’avanzata di Leonhard.-

-Davvero non ti spiace che abbia rinunciato a fare il portiere?-

-Nah, sta meglio con il pallone tra i piedi che nelle mani, si vede. La gente può dire che “il portiere lo fa sempre il ragazzino più incapace”...-

-Ma senza portiere la squadra farebbe il doppio della fatica.-

Ultimamente la dicevo spesso quella frase per spronare Rudolf e Andrea, il ragazzino aveva perso peso e si stava dimostrando un ottimo portiere: con la pratica era diventato più veloce e riusciva anche a lanciarsi in parata.

-Te l’avevo detto che ti saresti divertito a fare l’allenatore.-

-Sono il peggiore che tu avessi mai potuto pensare.-

Mi passai una mano in testa per l’imbarazzo mentre Karl sorrideva.

-Dici? Senza di te dubito che Rudolf sarebbe migliorato così tanto, e dubito ulteriormente che Andrea si sarebbe rivelata quello che è.-

-Una piccola campionessa?-

Entrambi sorridemmo divertiti, quel pomeriggio avevamo lasciato andare i ragazzi e, mentre stavamo sistemando l’attrezzatura, lo Staff Tecnico aveva iniziato a parlare dei bambini e Johan, ad alta voce, aveva affermato “Andrea non è brava, è mostruosa”.

-Continuo ad avere il timore che i ragazzi della sua squadra possano sentirsi a disagio o “inferiori” a lei.-

-Per questo l’abbiamo affiancata a Leonhard: lui come il leader pompa gli altri ed è bravo tanto quanto lei, pertanto si equilibrano e danno sicurezza agli altri.-

-Tra l’altro si vede che stravede per quella ragazzina.-

-Ci mancava solo la cotta di un bambino, peggio di un film per famiglie.-

Karl ridacchiò al mio commento, cercando di tirare fuori tutto il mio sarcasmo peggiore in quei momenti.

Poi decisi di tirare fuori la patata bollente.

-Come vogliamo fare con Albert?-

-Beh...è bravo…è un peccato tenerlo come riserva...-

Gli lanciai un’occhiata di sottecchi e lui sospirò.

-So che non ti piace Genzo e mi rendo conto anch’io che quello che ha fatto è sbagliato. Ma è stato punito, “sembra” aver capito la situazione e anche lui è un buon trascinatore della squadra.-

Il biondino era riuscito a far incazzare un po’ tutti i ragazzini, tanto che quando avevamo annunciato il suo ruolo di riserva per la squadra gialla in parecchi avevano chiaramente tirato un sospiro di sollievo. I suoi ex-compagni di squadra, tuttavia, si erano tirati delle occhiate molto preoccupate, come se temessero ripercussioni su di loro.

-Non lo so Karl, quel ragazzino continua a non convincermi.-

Dopo che Andrea si era fatta curare i lividi avevo subito agito, parlandone in maniera schietta con Rudi, Karl e Weiner, il quale si era profondamente vergognato di quella situazione e aveva informato la direttrice dell’orfanotrofio.

A quel punto, prima di creare le due squadre, avevo proposto un allenamento diverso dal solito: i difensori in attacco, i centrocampisti in difesa e gli attaccanti in mezzo, con uno di loro a fare il portiere, Andrea  e Rudolf in panchina a godersi lo spettacolo.

Sulle prime a Rudi non aveva fatto impazzire quella decisione, descrivendola come una “bambinata”; al contrario a Karl, a cui piacevano parecchio le mie “bambinate”, gli si erano illuminati gli occhi e l’aveva subito fatta organizzare.

Era stato molto soddisfacente vedere Albert incazzarsi mentre prendeva l’ennesimo gol da parte di un difensore.

Da allora Andrea non si presentò più con segni o lividi: il suo allenatore ci aveva detto che lui stesso la scortava dentro e fuori dall’orfanotrofio e che l’altra docente, la signora Abigail, si assicurava che la bambina non incrociasse l’ex compagno di squadra.

Di sicuro Albert continuava a parlare male, specie negli spogliatoi, ma mi era capitato un paio di volte di vederla ribattere con altrettanta decisione.

“-Se ti credi così forte Albert allora prossima volta mira alla porta e non alla mia faccia, che tanto lo sai che non potrai mai colpirla. Ah, vero: tu ora sei una riserva.-”

Lo spogliatoio era esploso e, da parte mia, avevo ridacchiato con molta soddisfazione, il soldatino stava tirando fuori quella grinta che usava in allenamento.

-Genzo, so che non gli puoi perdonare quello che ha fatto ad Andrea, ma ammetterai anche tu che oramai la piccoletta non ha più bisogno di essere difesa da noi. Ora ha tutta la sua squadra a darle man forte.-

-Non durerà per sempre questa situazione, lo sai anche tu.-

-Per questo hai preso questa decisione?-

Presi un profondo respiro, buttando fuori tutta l’aria, ma la pressa di ansia all’altezza dello sterno continuava a premere

Il navigatore avvertì Karl di immettersi in Effnerstraße e sentii salirmi anche la tensione, la conversazione morì all’istante.

-Tutto bene Genzo?-

-Si si.-

-...sei nervoso?-

Non gli risposi, ma lui percepì il mio assenso e fece una faccia sorpresa mentre la macchina svoltava destra.

-Se vuoi posso sempre girarmi.-

-No, voglio andare fino in fondo.-

-...posso chiederti cosa ti preoccupa?-

Sentii la macchina rallentare e l’ansia salirmi; dopo un campo da calcio, sulla destra, apparve il profilo di un grosso edificio dalle alte vetrate con, parcheggiato davanti, un pulmino familiare e dei pini ad incorniciarlo.

-Non saprei. E che non credevo che avrei mai avuto bisogno dell’ aiuto dell’associazione di mia madre.-

Le avevo raccontato a grandi linee la faccenda e, ovviamente, era stata entusiasta di aiutarmi, chiedendomi se avessi preferito mandare lei a parlare con la direttrice dell’istituto, dato che la conosceva già da tempo per progetti pregressi.

La mia risposta fu: “E’ una cosa che devo fare io.”

> ...E’ giusto. Dopotutto è una tua idea. Sono molto fiera di te, Genzo.

La macchina si fermò su uno dei posteggi liberi e Karl mi diede una pacca sulla spalla.

-Beh Genzo, è sempre un buon momento per diventare adulti e responsabili, no?-

-Ma finiscila, cretino. Non la sto mica adottando.-

Allontanai la mano e Karl si mise a ridere, ma mi aiutò a stemperare un po’ la tensione mentre mi calcavo il più possibile il berretto in testa e uscivo dalla macchina.

Proprio come il suo nome, al Drei Keifern Waisenhaus c’erano tre grandi pini che adornavano il davanti dell’edificio; tutta la zona era avvolta nel verde e nonostante la strada fosse abbastanza vicina il rumore del traffico, man mano che avanzavamo verso l’orfanotrofio, veniva soffocato dagli alberi.

L’edificio era dipinto con un bianco crema ma, sul lato alla mia destra, vedevo il muro dipinto con diverse piccole manate colorate e vari disegni fatti con i pennelli; si potevano sentire delle grida provenire da oltre l’edificio, evidentemente doveva esserci uno spazio dove stavano giocando i bimbi.

Davanti alle prime gradinate sentii i miei muscoli irrigidirsi ma prosegui mentre Karl suonava il campanello dell’ingresso. Ad aprirci una signora rotonda con i capelli castani e grigi annodati in una crocchia in cima alla testa.

-Si?-

-Salve, siamo Karl Schneider e Genzo Wakabayashi, abbiamo un appuntamento con la direttrice Voigt.-

-Oh ma certo, certo! Venite pure. Piacere, sono Abigail, vi faccio strada.-

Lasciai al Kaiser il compito di fare i dovuti ringraziamenti mentre io nascondevo lo sguardo nei berretto e, dopo aver stretto la mano alla signora, mi guardavo attorno in silenzio: la struttura dentro aveva grandi corridoi, colorati non solo dai disegni dell’intonaco ma anche da cartelloni colorati, striscioni, disegni, anche qualche segno di pennarello indelebile.

Le urla che avevo sentito fuori dall’edificio le sentii nuovamente verso destra, lì dove uno dei corridoi si apriva su un grosso parco giochi; i bambini non avevano più di sei-sette anni e stavano giocando chi sull’altalena, chi sullo scivolo, chi altri ancora dentro una casetta di plastica un po’ sgangherata, con le mura sporche di pennarello.

-Quanti bambino ospita l’orfanotrofio?-

-Al momento ci sono una quarantina di bambini dai 0 fino ai 10 anni.-

-Avete anche neonati?-

-Sono casi eccezionali che non rimangono qui a lungo: a volte le madri vengono a prenderli oppure vengono portati in delle case-famiglia dedicate, ma comunque la nostra struttura è attrezzata per accogliere i piccoli al meglio.-

Il parco giochi scomparve dietro una muratura mentre, sulla sinistra, ci apparve di sfuggita una grande sala dalle lunghe tavolate, probabilmente la mensa, al momento vuota.

-La nostra struttura prevede come vedete un parco-giochi, mensa, una piccola biblioteca e, ovviamente, il dormitorio, oltre a due aule usate come asilo per i più piccoli e la nursery che vi ho detto prima.-

Approfittando di quella conversazione decisi di farmi avanti, per avere risposte ai miei dubbi.

-So che la struttura ha una convenzione con un Hauptschule dotata di collegio dove vengono accolti i bambini una volta terminato il ciclo delle elementari.-

-Si, è corretto.-

-Ma i bambini rimangono sotto la vostra tutela o diventa compito della nuova struttura occuparsene?-

-Dal punto di vista legale i bambini rimangono sotto la nostra tutela fino alla maggiore età mentre l’Hauptschule si occupa principalmente di accoglierli nel collegio e di garantire loro l’educazione necessaria per entrare nel mondo del lavoro.-

-E per i bambini che subito spiccano nello studio o nello sport?-

L’edificio compiva una curva ad L e la signora si fermò all’inizio della curva per potermi parlare guardandomi in faccia, sorridendo con aria gentile.

-In questo genere di situazioni cerchiamo di spingere sulle borse di studio e sui concorsi per poter aiutare il bambino o la bambina a poter accedere al percorso adatto, anche perché noi stessi non abbiamo molte possibilità di assicurare qualcosa di diverso dall’Hauptschule.-

-Come mai?-

-Perché tecnicamente questa struttura non dovrebbe esistere secondo la legislazione tedesca: alla fine degli anni 70 la maggior parte di queste strutture vennero chiuse in Germania e la legislazione dei diritti dei bambini ora prevedono per lo più case-famiglia e aiuti a famiglie in difficoltà.

Noi siamo probabilmente uno degli ultimi orfanotrofi ancora tali in tutta la Germania.-

A quel punto Karl intervenne.

-Come fate ad essere ancora aperti?-

La signora Abigail abbassò il tono di voce mentre riprendeva a camminare, superando la curva a L.

-Perché questo orfanotrofio, oltre all’accordo con l’Hauptschule, ne ha un altro con il Centro di Riabilitazione e Malattie mentali dell’Ospedale Centrale: molti bambini presenti vengono da ambienti familiari instabili o eventualmente dannosi, oppure presentano delle difficoltà psicologiche loro stessi e hanno bisogno di una costante interazione con altri bambini e adulti con competenze nel campo.-

-Quindi non tutti i bambini qui sono abbandonati volontariamente dai genitori.-

-In alcuni casi no, ma i genitori non sono in grado di garantire loro le terapie di cui necessitano: sono generalmente famiglie con un reddito molto basso o che hanno già a carico una persona in cura.

Altre volte, troppe volte però, sono i genitori stessi che ci consegnano i loro figli … non desiderati.-

Aveva fatto una pausa prima di utilizzare quel termine.

Sapevo che il bando del Summer Camp aveva delle specifiche su chi potesse partecipare, pertanto avevo fatto qualche piccola ricerca io stesso per capire cosa fosse effettivamente l’orfanotrofio dei Tre Pini, ed avevo scoperto che possedevano diversi accordi con istituti sanitari e istituzioni scolastiche che rientravano nella questione della riabilitazione.

Sentirlo così chiaramente da una persona che lavorava al suo interno mi fece comunque venire un brivido dietro alla schiena, nella mia testa uscì fuori la fotografia di Andrea nella sua scheda quando Rudi me la fece vedere la prima volta.

“-Arrivata all’età di 5 anni all’orfanotrofio dopo che è stata diagnosticato un problema mentale al padre ed è stato portando nel Centro di Riabilitazione dell’Ospedale Centrale.-”

-Ma c’è possibilità per questi bambini di riunirsi con i loro genitori?-

Superammo due stanze chiuse, che la signora Abigail ci informò essere le due aule dell’asilo, e arrivammo alla fine del corridoio, la targa in alto sulla porta recitava “Geschäftsführerin Rose Voigt” e prima di bussare la signora si girò a rispondere.

-E’ molto improbabile: i bambini con difficoltà psicologiche sono effettivamente abbandonati dai loro genitori, e i genitori in riabilitazione solitamente hanno diagnosticate patologie tali che gli è proibito ritornare con i figli.

Ci sono stati dei casi in cui bimbo e genitori si sono riuniti, come nelle situazioni che vi ho elencato prima.

Ma si preferisce sempre l’adozione: dopotutto parliamo del futuro dei piccoli.-

A quel punto si girò e bussò alla porta mentre l’Andrea della mia testa mi dava le spalle e si dirigeva verso la porta, la sua figura cresceva e diventava la giovane donna che mi ero immaginato al telefono con Yasu.

-Avanti.-

La signora Abigail aprì la porta e ci annunciò, per poi farci passare e richiudersela alle spalle, lasciandoci soli con la direttrice dell’istituto; e mentre mi toglievo il berretto rimasi sorpreso nel scoprire che era molto più giovane di quanto mi fossi aspettato.

-Mr. Schneider, mr. Wakabayashi benvenuti, sono la direttrice e dottoressa Rose Voigt.

Prego, accomodatevi.-

Superò la scrivania per stringerci la mano e indicarci le poltroncine lì davanti e ancora una volta mi resi conto che era davvero giovane, non le davo più di una quarantina d’anni, con corti capelli scuri e occhiali sottili ed eleganti con dietro due occhi bruni dallo sguardo molto serio.

Un paio di occhiali d’osso con una catenella dorata erano appesi sopra il petto, con il tailleur grigio scuro che portava dava la sensazione di essere improvvisamente entrati in uno studio medico.

Appena ci vide mettersi comodi tornò dietro la scrivania accomodandosi, in quel momento mi accorsi che la finestra alle sue spalle in realtà aveva una porta che le permetteva di uscire all’esterno.

-La nostra telefonata è stata piuttosto breve ma se ben ricordo siete qui per parlare di Andrea, giusto?-

Karl mi rivolse lo sguardo, a dirmi che adesso toccava a m.

Io mi strinsi il berretto in una mano mentre mi sporgevo in avanti con la schiena dritta.

-Esatto, signora Voigt.

Durante il Summer Camp abbiamo notato il notevole talento calcistico di Andrea e, conoscendo gli accordi che avete con gli istituti scolastici, vorremmo aiutarla a proseguire nella carriera sportiva con una borsa di studio della fondazione “Kleine Däumling”, creata e gestita da Kimiko Wakabayashi.-

-Ah si, conosco la signora Wakabayashi, ho avuto il piacere di collaborare più di una volta con lei. Lei è suo figlio, giusto? Il terzo assieme a sua sorella.-

-Si esatto.-

Fece un sorriso che non seppi capire se era divertito, sinceramente gentile o di pura cortesia. Mi fece un cenno con la mano.

-Mi scusi, l’ho interrotta, prego.-

-Dicevo, la borsa di studio le garantirà l’accesso ad una scuola che possa garantirle anche di portare avanti il suo desiderio di proseguire con il calcio fino alla maggiore età coprendo tasse scolastiche e assicurazione sanitaria...-

Mia madre aveva creato la fondazione e si occupava di aiutare bambini in diversi settori, con progetti europei ed esteri; aveva deciso di utilizzare la figura di Pollicino perché era una fiaba che le piaceva sempre raccontarci, in quanto “era il viaggio di un bambino per diventare coraggioso e prepararsi ad essere un adulto”.

Nel frattempo la direttrice aveva portato i gomiti sulla scrivania e aveva nascosto la bocca con le mani, i suoi occhi continuavano a rimanere apparentemente impassibili e questo mi creò un po’ di disagio: qual’era il problema? La fondazione era conosciuta e molto stimata, lei stessa aveva collaborato con mia madre, come mai non c’era reazione da parte sua?

Rimase qualche secondo in silenzio e lei prese un profondo respiro prima di parlare, distendendo le braccia sulla scrivania.

-Mi creda, è un grande onore che vi siate presi a cuore il caso di Andrea, grazie a voi abbiamo anche potuto segnalare il caso di Albert e intervenire sul ragazzo…-

-Ma?-

C’era quel ma che girava nell’aria come una fastidiosa mosca, e volli subito capire dov’era il problema; la donna mi lanciò un’occhiata, riprendendo il discorso.

-Ma, mister Wakabayashi, temo di dover rifiutare la sua generosa offerta, proprio per il bene della ragazzina.-

Rimasi pietrificato dalla risposta, lo ammetto non me lo sarei mai aspettato.

La direttrice sembrò intuire il mio stato d’animo.

-Lei conosce la storia di Andrea, mister Wakabayashi?-

-...in parte, so che è entrata nell’istituto a 5 anni dopo che il padre è stato ricoverato presso il Centro di Riabilitazione.-

La donna annuì mentre si mise gli occhiali sul naso, le sue dita si mossero verso il portatile, chiuso fino a quel momento, cominciando a digitare sulla tastiera mentre continuava a parlarmi.

-Il padre, Marwin Muller, è stato ricoverato presso l’istituto per una grave psicosi che risultava stata diagnosticata già precedentemente alla nascita della bambina, ma in forma meno evidente.-

Girò il portatile e ci fece vedere la foto della patente dell’uomo; per un momento ebbi un flash della foto di Andrea dentro il fascicolo di Rudi e riconobbi in quell’estraneo il colore degli occhi. Al tempo stesso, però, vidi un uomo dall’aria malata e scontrosa, con le guance un po’ scavate e le borse sotto gli occhi.

-La psicosi del signor Muller ha influenzato in modo netto la crescita e l’educazione di Andrea, dato che per i primi 5 anni della sua vita la ragazzina è stato convinta che lei fosse nata fisicamente sbagliata e che in realtà lei fosse un maschio.-

-Come scusi?-

Non ero sicuro di aver capito bene e cercai conferma nella direttrice, la quale si tolse gli occhiali e mi fece vedere meglio le sue iridi castane mentre mi spiegava quello che aveva detto.

-Marwin Muller era fermamente convinto che sua figlia Andrea fosse in realtà un maschio, e che tutta la società si stesse sbagliando nel crederla una femmina; quando ha compreso che in realtà lui era in errore ha incolpato la bambina e si è scagliato contro di lei, accusandola di essere un errore e una vergogna per lui e la sua famiglia.-

Non mi incazzai subito, ero ancora troppo stranito da quanto mi era stato detto, tanto che restai ammutolito e Karl prese parola al mio posto.

-Come mai non si è potuto intervenire prima sulla questione?-

-All’epoca il signor Muller conviveva con la sua compagna, Elsbeth Lange, la quale aveva denunciato già una volta l’uomo per violenza domestica; tuttavia la denuncia fu ritirata dalla stessa donna. Di conseguenza la polizia non ha potuto proseguire le indagini e il caso è stato archiviato.

In ospedale la bambina è stata registrata come femmina, ma al momento della registrazione all’anagrafe era presente solo l’uomo e la fece registrare come maschio sotto nome di “Andrea Muller”.-

-Non sono state fatte ricerche a riguardo con la cartella clinica della bambina?-

-Oh sì, ho anche con me le copie; tuttavia il signor Muller ha convinto la moglie a dire che i medici avevano fatto un errore e che in realtà Andrea era maschio, minacciandola nuovamente di picchiarla.

A questo punto la donna ha nuovamente sporto denuncia ed è stato aperto un nuovo capo di accusa sull’uomo, stavolta con anche l’intervento di uno psicologo che ha fatto presente della diagnosi sul signor Muller.

Non vi starò a raccontare come ha fatto tramite ricatti e corruzione, ma vi basta sapere che, con la promessa di andare a seguire una cura psichiatrica e con un reddito maggiore, il signor Muller ha comunque tenuto la bambina mentre la signora Lange ne ha perso i diritti di madre.-

Non cercai di sforzarmi a capire il perché di tutto questo, ma ero profondamente scosso mentre l’immagine di Andrea mi tornava continuamente in testa, dalla prima volta che l’avevo vista al suo attaccamento al berretto regalatole dal padre.

Sentii Karl sospirare mentre, con la coda dell’occhio, lo notavo mettersi comodo sulla poltroncina mentre la direttrice proseguiva.

-Per 5 anni la bambina è stata con il padre e la nonna paterna, la quale ha fatto da figura materna alla piccola ma ha continuato ad educarla con il discorso dell’essere “un maschio”. Nel frattempo il padre l’ha fatta “appassionare” al mondo del calcio, facendola iscrivere anche ad un corso.-

Notai subito la nota dispregiativa su quel “appassionare”, ma preferii stare zitto e sentire la storia fino alla fine.

-Quando, giustamente, gli allenatori hanno fatto presente al signor Muller che Andrea non poteva proseguire con i maschi, ma potevano inserirla nella squadra femminile, l’uomo è andato di matto e ha denunciato la società, che ovviamente ha vinto la causa.

A quel punto il signor Muller si è reso conto della realtà e se l’è presa con la bambina; fortunatamente la nonna ha fatto in tempo a chiamare la polizia, anche se successivamente all’arresto ha avuto un arresto cardiaco ed è venuta a mancare.-

A quel punto ci furono cinque secondi di silenzio, necessari a tutti per prendere fiato.

Mi passai una mano in faccia, sperando probabilmente di svegliarmi da quel sogno, mi sembrava la trama di un’orrenda telenovelas sudamericana ma, quando riaprii gli occhi, ero ancora in quello studio.

Karl si portò le mani dietro la testa e la direttrice prese ancora una volta la parola.

-Signor Wakabayashi, io posso capire le sue buone intenzioni nei confronti di Andrea e mi creda, so che la bambina ha questo talento: se dopo il suo allenatore anche voi lo avete notato che siete sportivi professionisti, io certamente non posso negarlo.

Tuttavia come direttrice di questo istituto e psicologa ho il dovere di allontanare Andrea da una delle cause principali della sua condizione familiare e psicologica.-

-Psicologica  di che tipo, dottoressa Voigt?-

La donna si alzò dalla poltrona e si portò verso la finestra.

-Entrata nel nostro istituto la bambina aveva chiari problemi di accettazione della sua persona: razionalmente sapeva di essere femmina, ma istintivamente lo rifiutava e, anzi, quando gli è stato proposto anche solo di indossare vestiti quali una gonna o un abito, ha avuto una reazione violenta nei confronti dei nostri volontari.

Non parlava con nessun bambino perché temeva che la potessero scoprire come femmina, usava un tono di voce anormale e rischiava di rovinarsi la gola ed era molto fredda e diffidente verso qualsiasi adulto. Per quanto educata, non voleva stabilire nessun rapporto affettivo.

Ci sono voluti almeno tre anni e la complicità di Cilly, una bambina con la quale si è subito trovata bene e con la quale è diventata molto amica, per riuscire a farle superare almeno in parte il trauma.-

“-...hai mai raccontato bugie alla tua amica?-

-Mai!-

-Non diresti mai le bugie ai tuoi amici, giusto? Allora voglio essere tuo amico.-”

In quell’istante mi resi conto dell’incredibile onore che avevo avuto nell’essere accettato da Andrea, e al tempo stesso mi resi conto che per tutto questo tempo avevo camminato spavaldamente sopra il suo animo come un trattore che passa sopra delle uova che, per chissà quale miracolo, non si erano rotte, anzi.

-Cilly è stata adottata circa quattro settimane fa, ma sfortunatamente Andrea si è ritrovata da sola con nessuno con cui parlare, tra l’altro inserita in un contesto come il vostro Summer Camp.

Io ero contraria e sono tutt’ora contraria alla presenza della bambina nella vostra attività: il continuare a giocare a calcio potrebbe portare la bambina ad avere una ricaduta psicologica e a ritrovarsi nuovamente a rifiutare la sua condizione di femmina che potrebbe renderle la sua vita da adulta ancora più difficile, soprattutto ora che è a pochi anni dalla pubertà.-

E qui tacque, si vedeva che era certa che il suo punto di vista fosse quello corretto, ed effettivamente parte di quello che diceva aveva senso.

Ma a quel punto decisi di intervenire, alzandomi a mia volta in piedi, quelle poltroncine erano troppo morbide e scomode.

-Con tutto il rispetto, signorina Voigt, adesso vorrei parlarle delle mie impressioni sulla giovane Andrea.

E’ vero: inizialmente ha cercato di nascondere la sua natura femminile tagliandosi i capelli e cercando di adeguarsi al resto del gruppo. Tuttavia il nostro Staff Tecnico sapeva, ancor prima di vederla di persona, che Andrea era una ragazzina: è stato il vostro stesso allenatore a farcelo sapere ma, anche, a dimostrare che Andrea ama giocare a calcio e che è molto brava a farlo.

Il suo essere una ragazzina forse ha influenzato inizialmente il giudizio di alcuni di noi, ma posso assicurarla che io e il qui presente Karl, dopo averla vista giocare, eravamo decisi a portare avanti il suo allenamento.-

Schneider annuì per darmi man forte.

Ricordai i video fatti con il cellulare, i commenti di chi stava riprendendo e l’atteggiamento del soldatino, seria e decisa.

-Abbiamo agito per far sentire Andrea accettata per le sue capacità e per quello che è e la risposta dei ragazzini degli altri istituti è stata estremamente positiva, al punto tale che è diventata un membro effettivo della sua squadre e, sopratutto, un’amica per tutti.

Al contrario di quello che ha vissuto con i suoi compagni di squadra.-

Ero deciso a non soprassedere mentre Karl restava in silenzio ad osservare la situazione; lo sguardo della direttrice si fece immediatamente impassibile mentre andavo avanti.

-I ragazzi della vostra squadra di calcio, in particolare Albert, bullizzavano Andrea già da prima di questo Summer Camp, e nonostante questo la ragazzina è andata avanti perché ama davvero il calcio.-

Non c’erano parole per descrivere l’entusiasmo che ci metteva quando era in campo, quando ascoltava le nostre indicazioni, quando si impegnava a migliorarsi.

-E’ vero: è una ragazzina chiusa che non tende a dire subito le cose, ma ritengo che questo Summer Camp la stia aiutando molto per quanto riguarda i rapporti con gli altri bambini.

Per questo sono convinto che una borsa di studio potrebbe essere un’ulteriore spinta a migliorare ancora: l’aiuterebbe a confrontarsi con altre ragazzine come lei, che come lei amano il calcio. Sarebbe per lei un grande occasione di rivincita.-

Vidi la direttrice prendere un profondo respiro e muoversi di nuovo verso la scrivania, aprendo un cassetto e tirando fuori una cartellina.

-Mister Wakabayashi, Andrea non ha bisogno di una borsa di studio per fare questo: ha bisogno di una famiglia.

Perché è vero: una borsa di studio può garantirle un’educazione e una prosecuzione della sua “carriera” calcistica e la possibilità di incontrare altre ragazzine come lei. Ma non potrà mai difenderla da questo…-

Aprì la cartella e la prima cosa che uscì fuori fu la foto scattata qualche settimana prima dal Kicker, con me e la piccola sul campo da calcio.

Ci fu un lunghissimo momento di silenzio nel quale io e la direttrice ci guardammo negli occhi e io prendevo atto di quell’unica, enorme falla del mio progetto: la fondazione di mia madre non poteva proteggere Andrea dall’invasione e distruzione dei media.

La donna parlò con voce bassa, come se anche in quel momento qualche giornalista potesse sentirci.

-La sua storia è molto, troppo delicata e complicata per finire in mano a giornalisti e ai media; vedo troppe storie simili alla sua essere giudicate, esaltate o criticate aspramente da migliaia di persone che non la conoscono affatto e non sanno di cosa o chi stanno parlando.

Conoscendo l’insicurezza di Andrea, si chiuderebbe ulteriormente e potrebbe solo andare a peggiorare: forse non l’ha notato, ma come tutti i bambini della sua età si fa influenzare dal giudizio delle persone che lei stima.-

E mi guardò per tutto il tempo negli occhi, facendomi intuire che io ero una di quelle persone.

-Cosa potrebbe pensare se tutto il mondo attorno a lei le dicesse che la sua è una condizione “anormale”?-

-E se invece tutto il mondo le dicesse che è davvero in gamba nel superare tutto questo?-

-Lei mi può garantire al 100% che TUTTI direbbero una cosa del genere? Sbaglio o ha appena detto che alcuni del vostro Staff erano contrari ad averla nel Summer Camp in quanto femmina?-

Touché. Mi morsi il labbro mentre lei tornava all’attacco.

-Una borsa di studio la butterebbe in pasto ad una marea di persone affamate di sapere di lei, della sua famiglia. Non oso immaginare cosa accadrebbe se venissero a contatto con il padre e come quest’ultimo o altri potrebbero sfruttare la situazione.-

L’uomo poteva strepitare le sue ragioni, rinnegare completamente la figlia o addirittura riuscire a convincere che in realtà “stava meglio” per entrare nuovamente in contatto con la piccola e farle non volevo sapere cosa.

-Allora perché non è stata ancora trovata una famiglia che la possa aiutare?-

-E chi le ha detto che non l’abbiamo trovata?-

La donna richiuse la cartellina e la rimise a posto nel cassetto mentre proseguiva nel parlare.

-In questi 5 anni ho raccontato la vicenda di Andrea ad almeno tre famiglie che erano decise ad adottarla, assicurandole amore e conforto.-

-E cos’è successo?-

-Andrea le ha rifiutate tutte.-

Di nuovo, silenzio. Stavolta non sapevo proprio cosa pensare o cosa dire mentre la direttrice si passava una mano tra i corti capelli sospirando, guardando fuori dalla finestra.

-Per noi la parola dei nostri bambini è importante, specialmente nelle loro delicate situazioni per evitargli di ritrovarsi di nuovo qua, in questo luogo, o in situazioni ancora più nocive.

Ho chiesto ad Andrea del perché rifiutasse queste occasioni, ma l’unica cosa che mi ha sempre detto è: “Va bene così”. E mi creda, ho cercato in tutti i modi di farle cambiare idea, ma è sempre stata testarda.-

Oh sì, lo era tanto.

-Quella bambina si aggrappa al calcio perché è rassegnata a credere che non potrà mai essere accettata per com’è nonostante tutti sanno che lei è in gamba, intelligente e sì, molto talentuosa.

Ha paura di non essere mai abbastanza. Ha paura di essere se stessa.

Questo ulteriore passo, purtroppo, deve venire da lei, oramai posso far ben poco: l’abbiamo seguita con una terapia e, apparentemente, ora sta meglio, ma dev’essere lei a voler avere una famiglia, a darsi un’occasione per essere felice e a superare tutto questo.

Ma purtroppo non è così. Non è ancora così. E non è così perché lei sta rinunciando, per quanti sforzi facciamo per convincerla del contrario.

Pertanto mister Wakabayashi, mister Schneider, vi ringrazio della vostra offerta, ma non possiamo accettare la borsa di studio, per il bene di Andrea.-

Perché Andrea non aveva bisogno di soldi.

Aveva bisogno di qualcuno che le facesse capire quanto poteva essere amata.

-Bene, se non c’è altro vi accompagno all’uscita.-

Fu Karl a ringraziarla, io ero rimasto muto e pensieroso dopo la nostra discussione. Anzi, più che pensieroso ero confuso: non volevo arrendermi a questo, non potevo accettare che il futuro di quella piccola era segnato.

Ma quello che era richiesto per assicurarle un futuro felice era molto più impegnativo e caro di quanto mi fossi aspettato; mi resi conto che ero stato molto superficiale, credendo effettivamente che dei soldi potessero darle il suo “happy ending” mentre le parole di Yasu e del dottor Heinz mi tornavano prepotentemente in testa.

> ...questo alimentare i sogni della ragazzina non è una buona cosa se queste sono le sue ultime quattro settimane come sportiva. Una volta finito il Summer Camp, se non riuscirà a trovare una soluzione o se l’istituto non l’aiuterà in questo senso, dovrà per forza rinunciare. E a quel punto cosa le sarà rimasto?

“-...o si diventa eroi, o si verrà accusati d’ignavia.-”

Quello di cui Andrea aveva bisogno era chiaramente calore umano, lo avevo visto da come la sua nuova squadra l’aveva accettata e tutti insieme si sostenevano a vicenda: in quei momenti si apriva, dimostrando un entusiasmo sempre celato.

Era chiaro che, con una famiglia alle spalle, la piccola sarebbe riuscita a superare anche difficoltà irrisorie come la questione economica, perché non le mancavano passione e tenacia. Ma le mancava qualcuno che la sera le potesse dire che era stata brava, che era fiero di lei che le volesse bene.

Io non ero in grado di poterle dare questo, ne ero convinto: ero e sono tendenzialmente solitario e poco propenso a dimostrazioni d’affetto. Certe volte ho perfino paura di avere troppo contatto umano con qualcuno.

Come poteva, uno come me, ad occuparsi di Andrea?

-Mister Schneider, mister Wakabayashi!-

Io e Karl ci voltammo a guardare la squadra dell’orfanotrofio che correva verso di noi con aria entusiasta, Albert chiaramente in testa che ci chiedeva cosa facessimo lì e la signorina Voigt che gli spiegava che eravamo venuti “a fare una visita”.

Io ignorai tutti loro cercando con gli occhi quel berretto bianco sporco e trovandolo in fondo al gruppo che guardava con aria sbalordita, tanto da farmi sorridere divertito, non se l’aspettava proprio una nostra visita.

-Ehi ragazzi, perché non mi fate vedere dove vi allenate di solito, eh?-

Ringraziai Karl con lo sguardo mentre lui si faceva letteralmente trascinare, da tutto il gruppo, fuori dall’istituto con la signorina Voigt che accompagnava, e mi fece l’occhiolino da complice; la donna, al contrario, mi lanciò uno sguardo preoccupato mentre mi avvicinai ad Andrea, rimasta indietro come al suo solito.

Mi guardò ancora molto sorpresa, per poi abbassare lo sguardo, silenziosa.

Sembrava...a disagio?

-Ti da fastidio che siamo venuti all’orfanotrofio?-

Scosse il capo, poi parlò.

-Non capisco il perché ci siete venuti…-

-Beh, gli amici si vengono a trovare. E noi siamo amici, giusto?-

Lei alzò lo sguardo, ma stavolta non riuscii a capire bene cosa stesse pensando: sembrava sollevata, quasi felice...ma era come se mancasse qualcosa.

O forse ero io che sentivo che ero arrivato a toccare l’invisibile barriera di quella ragazzina e non sapevo come andare oltre.

Poi la vedi fare un sorriso piccolissimo da cui sprizzava la sua gioia, nascondendolo poi sotto la visiore del berretto.

-Mister, dobbiamo raggiungere il resto del gruppo…-

-Andrea…-

Era vero che non volevi farti adottare? Perché non volevi una famiglia? Potevi accettarmi?

-...ti manca mai il tuo papà?-

Lei si fermò sorpresa, alzando nuovamente lo sguardo verso di me; poi, lentamente, si tolse il berretto e lo strinse al petto.

-...il mio papà non era un uomo cattivo, me lo diceva sempre la nonna...il mio papà mi voleva bene perché credeva che fossi un maschio e io...io non riuscirò mai ad essere quello che vuole papà.-

Aveva una tale tristezza negli occhi che non riuscivo a capire come non riuscisse a piangere; forse era un altro dei suoi pensieri, un meccanismo basato sul fatto che “non era come volevano gli altri” che la spingeva a non versare neanche una lacrima ma a tenersi tutto dentro.

Era davvero tenace e dura con se stessa.

Sospirai.

-Scusami, ti ho resa triste.-

Scosse il capo.

-...tu...cioé lei...lei mi rende molto felice, mister.-

Rimasi sorpreso.

-Ti rendo felice?-

Annuì, con i capelli che saltellavano intorno al suo volto.

-Come mai ti rendo felice?-

Abbassò lo sguardo e notai il suo crescente imbarazzo, al punto che arrivò addirittura ad arrossire, cosa che mi sorprese non poco; lei nascose parte del volto dietro il berretto, parlando con voce bassa.

-Perché...perché lei mi ha chiesto di essere mio amico. Lei, il portiere più forte di tutti.

Io...io l’ammiro molto...sono così contenta che è mio amico...-

Credo che in quel momento mi sia scoppiato il cuore mentre la vedevo fare un timido sorriso, la sua considerazione nei miei confronti era così alta che di colpo mi resi conto di quanto alla leggera avessi preso tutto, fin dal nostro primo incontro.

-...posso chiederti cosa ti piace del calcio Andrea? Come mai ti piace così tanto? Ti ricorda papà?-

Dovevo saperlo, forse sarei morto se mi avesse detto di sì ma non m’importava, volevo sapere da lei perché le piacesse così tanto.

Mi guardò stupita, poi le sue ciglia le diedero un’espressione corrucciata.

-Anche la signorina Voigt lo dice: dice che gioco a calcio perché non riesco ad accettarmi, ma non è vero.

A me piace il calcio perché mi piace poter giocare con gli altri! E mi piace tantissimo stare in porta! Mi piace osservare gli altri giocatori, cercare di capire dove tirano il pallone, indovinare e prendere la palla!

Non c’entra che io sono una femmina, anzi! Gerta, la mia compagna di classe, mi chiede sempre di insegnarle è anche lei è una femmina!-

Presi un profondo respiro di sollievo nel sentire quelle parole, poi la vidi guardarmi negli occhi di nuovo con quella timidezza tutta sua.

-Mister...lei mi farà davvero diventare il portiere più forte?-

Io volevo renderla felice.

-Se ti va la mia offerta è sempre valida.-

-...però io smetterò di giocare dopo il Summer Camp.-

-Vuoi davvero smettere, Andrea?-

Lei mi guardò, si morse il labbro inferiore e poi scosse la testa, alzando il berretto mentre stringeva gli occhi, coprendosi la faccia. Sapevo che, ancora una volta, si stava sforzando di non piangere.

-Non voglio smettere. Io adoro il calcio. E mi piace...mi piace farmi allenare da lei, mister.-

Sentii nuovamente il cuore esplodermi e a quel punto le accarezzai i capelli con forza, resistendo stoicamente all’impulso di abbracciarla. Non qui, non ora.

-Allora troveremo un modo, vedrai.-

Alzò lo sguardo sorpresa, e poi mi sorrise nel suo timidissimo modo.

Il sorriso che mi fece forse era uno dei più belli fatti fino a quel momento: era felice, ma come sempre era trattenuto con tutte le sue forze e velocemente si rimise il berretto in testa per nascondere gli occhi, correndo verso il resto della squadra mentre la signorina Voigt mi guardava con aria contrariata.

Io, per nascondere la commozione, dovetti fare i soliti colpi di tosse.

-Le ho già detto che…-

-Non si preoccupi, dottoressa Voigt: mi ricordo quello che ha detto.-

E raggiunsi il resto del gruppo, annotandomi mentalmente che quella sera dovevo fare qualche telefonata.

 

**

 

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Capitolo 13
*** XII: Alptraum ***


XII: Alptraum

 

Apro gli occhi, è tutto buio. Mi metto seduta e guardo le coperte, sono diverse da quelle del mio letto: di solito sono blu, queste hanno hanno sopra il disegno di astronavi.

Mi giro verso destra ma c’è il muro, il comodino è spostato a sinistra, con una lampada e il mio berretto.

Riconosco questa stanza: sono tornata nella mia camera nella casa di papà.

A sinistra, in fondo alla stanza, c’è la porta chiusa che dà sul salotto, sento dei rumori, che ci sia nonna davanti alla tv?

Scendo dal letto, vado verso la porta e la apro; vedo la nonna seduta sulla poltrona, sta lavorando a maglia, vedo il filo che dalle bacchette arriva al cesto di paglia vicino ai suoi piedi, probabilmente mi sta facendo un altro maglione.

La tv è spenta, sopra ha una fotografia, è quella di quando papà era piccolo ed era vivo il nonno. Non ho mai conosciuto mio nonno.

Nonna si gira a guardarmi. Mi sorride.

-Andrea, ti sei svegliato. Vieni qui.-

Mi indica il bracciolo della poltrona. La raggiungo.

-Veloce, prima che papà arrivi.-

Mi aiuta a sedermi sul bracciolo. Mi guarda e mi accarezza i capelli, sembra felice.

-Tutto bene Andrea?-

Annuisco.

-Vedo però che ti stai facendo crescere i capelli.-

Scuote la testa con aria scontenta, quando fa quell’espressione significa che i miei capelli non vanno più bene.

-Devi tagliarli?-

-Eh sì tesoro. I maschi non portano i capelli lunghi. Ricordati che tu devi essere un maschio, altrimenti papà si arrabbia; non vuoi far arrabbiare papà, vero?-

Mi tocco la testa, sento i capelli superarmi le orecchie.

Nonna ha ragione: non devo far arrabbiare papà, lui è buono. Papà è buono.

Annuisco di nuovo mentre la nonna si sporge verso il cesto di paglia e tira fuori le forbici; sono grosse e di metallo, mi fanno un po’ paura: a volte la nonna mi ha graffiato con la punta mentre mi tagliava i capelli.

Mi fa mettere seduta sulle sue gambe.

-Mi raccomando, ora fermo.-

Mi mette una mano sopra la testa e stringe, mi fa un pochino male.

Chiudo gli occhi e cerco di stare immobile. Va bene così.

-NON LO FARE!-

Mi giro sorpresa: Cilly esce fuori dalla mia stanza e corre verso mia nonna, scavalcando il bracciolo e colpendola con i pugni, strappandole via le forbici dalle mani.

-Non ti permetto di fare del male a mia sorella!-

-Cilly cosa…-

-Non permetterglielo Andrea. Tu sei una bambina così bella!-

La mia amica mi indica qualcosa con il dito e mi giro: sono davanti ad uno specchio, ho addosso la gonna che ho provato la prima volta all’orfanotrofio assieme a lei, è una gonna con le righe nere e blu e con le pieghe. Cilly mi ha anche dato uno dei suoi cerchietti, ha un fiocco da una parte.

Vedo le mie gambe nude, com’è strano, ci metto le mani sopra.

-...sento freddo alle gambe.-

-In questo caso bisogna mettersi un paio di calze pesanti, le chiederemo alla signora Abigail.

Ti sta proprio bene Andrea.-

-Davvero?-

Vedo il riflesso di Cilly sorridere e annuirmi.

-Sei la bambina più bella di tutte!-

Sorrido contenta, ma mi sento in imbarazzo. Nessuno mi aveva mai detto che ero carina.

-Ma no...Gerta è molto più carina di me.-

-Però Gerta non è brava come te a giocare a calcio.-

E Cilly sorride divertita. Sorrido anch’io, mi sento tanto in imbarazzo con quella gonna, davvero mi sta bene?

-Però Gerta vuole imparare, mi ha chiesto di insegnarle a giocare a calcio.-

-Ma dai!-

-CHE STRONZATA! Le femmine non possono giocare a calcio!-

E’ la voce di mio padre, mi avrà visto con la gonna?!

Mi giro, sta parlando con il signor Weiner, è molto arrabbiato.

-Non si permetta mai più di dire una cosa del genere! Andrea è un maschio e giocherà con gli altri bambini.-

-Signor Muller, Andrea è una femmina e per regolamento non possiamo metterla in squadra...-

-LA SMETTA! LE HO DETTO CHE E’ MASCHIO!-

Papà afferra il signor Weiner per la giacca e inizia a scuoterlo. Ho paura, gli farà di sicuro del male.

-Hai visto?! E’ colpa tua!-

Mi giro e mi arriva un pallone in faccia, mi butta a terra.

Alzo la testa, Albert ha un altro pallone tra i piedi e mi sta guardando male assieme a Sibo e tutti gli altri.

-Per colpa tua ci hanno squalificati!-

Mi tira la pallonata, faccio in tempo a coprirmi il volto con le mani.

-Maledetta femmina! Brutta stupida!-

Mi tira un’altra pallonata, mi prende le gambe. Sento le voci degli altri miei compagni gridarmi contro.

-Se solo tu non ci fossi! Sei solo un problema!-

Mi tira un’altra pallonata, mi prende di nuovo le braccia.

E’ colpa mia. Va bene così.

-SMETTILA!-

Non sento altre pallonate, tolgo le braccia per guardare.

Vedo Leonhard che si è messo a mia difesa, accanto a lui ci sono i miei compagni della nuova squadra, Rudolf mi porge una mano assieme ad Eusebiu.

-Andrea tutto bene?-

-Rudolf…Eusebiu.-

-Va tutto bene, ora ci siamo noi.-

-Non ti permetteremo di trattarla in questo modo! Andrea è un ottimo portiere e non importa se è una femmina!-

-Sparisci Albert!-

-Non ti avvicinare!-

-Tirale un’altra pallonata e te la facciamo vedere noi!-

Mi alzo in piedi e rivolgo lo sguardo ai miei compagni di squadra, mi sorridono tutti e Leonhard mi mostra il pollice alzato.

Vedo Albert che indietreggia, sembra spaventato mentre gli altri continuano ad urlargli contro.

All’improvviso sento qualcuno afferrarmi per i capelli e sollevarmi, facendomi girare.

-Cos’è questa storia?! MI HAI MENTITO?! PICCOLA MALEDETTA BUGIARDA!!-

Mio padre mi sta guardando furibondo, mi trascina dentro la mia stanza, mi butta contro il letto.

Oh no ha scoperto che sono una femmina! Mi picchierà! Fa così male quando mi tira gli schiaffi.

Sento la voce della nonna.

-Marwin! Ti prego non fargli male!-

-Non ti immischiare mamma, so io come educare mio figlio.

Anzi...mia figlia, visto che mi ha mentito per tutto questo tempo, tu e quella troia di tua madre!-

-Papà…-

-STA ZITTA!-

Nonna fa qualche passo indietro mentre arriva il primo ceffone; mi prende in pieno volto, brucia tantissimo sulla guancia. Sono sul pavimento della mia stanza

-Zitta, piccola bastarda, ti faccio passare la voglia di prendermi per il culo!-

-Marwin smettila!-

-Sta zitta o prendo a sberle anche a te!-

Nonna indietreggia ancora, mi giro a guardarla, sta piangendo, va sempre più indietro fino a  scomparire fuori dalla mia stanza.

-Che guardi eh?! Nonna non ti salva questa volta, piccola bugiarda!-

Papà mi colpisce, non riesco neanche a respirare; volto, spalle, schiena, testa, mi fa male dappertutto. Ho paura, mi viene da piangere ma non ci riesco.

Ho sbagliato io. Allora sono sbagliata. Sono sbagliata, perché sono nata così?! Perché sono così?!...va bene così Andrea. Accetta la punizione, va bene così. Hai sbagliato tu.

-LA SMETTA IMMEDIATAMENTE!-

Due braccia mi prendono e mi sollevano, riconosco il profumo della signorina Voigt, mi stringe forte.

Mi giro a guardare mio padre e vedo due uomini bloccarlo a terra, uno dei due è a cavalcioni sopra di lui mentre l’altro gli tiene ferme le gambe.

Nonna è stesa a terra e non si muove, cos’ha?!

-Nonna…-

-Non guardare tesoro.-

La mano della signorina Voigt mi fa girare dall’altro lato, mi stringe nell’abbraccio mentre ci allontaniamo ed entriamo nell’aula del nido dell’orfanotrofio, dove mi posa a terra.

-Aspetta qui, ok? Io vado a parlare con la signora Wagner.-

E’ l’assistente sociale.

-Signorina Voigt, qualcosa non va? Sono sbagliata come dicono tutti?-

Mi guarda, poi si inginocchia verso di me.

-Assolutamente no, Andrea. Non sei sbagliata.

Ma forse è il caso che tu smetta di giocare a calcio.-

Ho in mano il berretto che mi ha dato mio padre, lo stringo forte a me mentre lei allunga una mano e ne prende la visiera.

-Perché?! A me piace!-

-Siamo convinte che non ti faccia bene giocare ancora.-

-Ma ho i miei amici grazie al calcio! Io amo il calcio! Per favore!-

-Andrea è per il tuo bene. Fidati, starai molto meglio senza.-

-La prego mi lasci il berretto!-

La signorina Voigt mi strappa il berretto dalle mani e si alza in piedi.

-Ora resta qui.-

Si allontana e si chiude la porta alle spalle.

La inseguo, non voglio che mi porti via il calcio e il berretto! Cerco di aprire la porta della stanza ma è pesante, riesco ad aprirne a malapena uno spiraglio.

-E’ molto probabile che non verrà mai adottata.-

Riconosco la voce della signora Wagner, l’assistente sociale.

-E’ una bambina instabile, avrà difficoltà a stare con gli altri ragazzini crescendo.

Chiunque vorrà fargli da genitore finirà per impazzire come suo padre, dato che il problema è lei.

E’ il caso che, oltre a smettere di giocare a calcio, resti qui all’orfanotrofio. Chi mai vorrebbe prendere una ragazzina così strana?-

Lo sapevo, sono io il problema. Sono strana.

Mio padre, quando ha saputo che ero femmina, non mi voleva; Albert e gli altri non mi vogliono, la signora Wagner dice che non mi vorrà nessuno.

Non potrei mai essere presa perché sono troppo strana, farò star male chiunque.

E’ colpa mia.

Mi siedo a terra, prendo le gambe con le braccia. Resto ferma.

Va bene così Andrea. Starai qui, così non darai più problemi a nessuno.

Va bene così.

-Vuoi davvero smettere, Andrea?-

Alzo lo sguardo.

Mister Wakabayashi è davanti a me, inginocchiato, che mi guarda; non sembra arrabbiato o infastidito anzi: mi sta accarezzando la testa come ha fatto quando è venuto all’orfanotrofio.

Lui è diventato mio amico anche se sono strana, dice che sono un portiere davvero in gamba, mi ha anche promesso di farmi diventare il portiere più forte in Germania.

-Mister Wakabayashi, io sono strana?-

Mi guarda, continua a sorridere.

-Si, lo sei. Ma non importa: mi piaci così come sei. Per questo sei mia amica.-

Gli piaccio anche se sono strana.

-Anche se sono una femmina?-

-Proprio perché sei una femmina e riesci a tenere testa a tutti loro, tu mi piaci così come sei.-

Gli piaccio anche se sono una femmina.

A mister Wakabayashi io piaccio così.

Sento un tintinnio e mi tocco il petto: il campanellino che mi ha regalato Cilly sta tintinnando.

Verliere Dich Nicht.

Non ti perdere.

-A te piace il calcio Andrea?-

Alzo lo sguardo verso mister Wakabayashi e annuisco.

-Vuoi smettere di giocare?-

Scuoto la testa con tutte le mie forze. Non voglio smettere, non voglio smettere.

-Allora andiamo, forza.-

Sento che mi mette qualcosa in testa e mi porge i suoi guanti; tocco con le dita, è un berretto, alzo lo sguardo e mi accorgo che è il suo cappello.

Guardo i guanti e poi guardo il mister, sorride e me li porge ancora; lì prendo e li indosso, mi da la sua mano. La afferro e mi aiuta ad alzarmi in piedi, per poi accompagnarmi al campo da calcio.

Lo riconosco, è lo stadio dell’Allianz Arena, ed è pieno di gente: gli spalti hanno bandiere, striscioni, tifosi, sento cori e grida. Sul campo vedo che ci sono due squadre, sono tutte e due composte da altre bambine come me, riconosco anche Gerta e Cilly; si voltano verso di me.

-Andrea! Dai vieni che iniziamo!-

-Stiamo aspettando tutte te!-

Mi giro verso mister Wakabayashi e mi sorride, lasciandomi la mano e indicandomi il campo.

-Forza, vai, ti stanno aspettando. Io sarò in panchina.-

Lui vuole che continui a giocare a calcio. Lui mi fa giocare con altre bambine come me. Lui è diventato mio amico. A lui piaccio così come sono.

Abbraccio mister Wakabayashi, mi stringo forte a lui, poi alzo gli occhi e lo guardo.

-Mister Wakabayashi, potrebbe diventare il mio papà per favore?-

Per favore: almeno tu non dirmi di no.

Lui mi guarda sorpreso, poi sorride di nuovo.

E mi sveglio.

Ho sognato tutto. Era un sogno.

Mi metto seduta sul mio letto e mi guardo attorno, sono di nuovo nella stanza dell’orfanotrofio.

E’ tutto come sempre: sono all’orfanotrofio, tra due settimane finirà il Summer Camp, mi trasferirò al collegio, smetterò di giocare a calcio…

-Troveremo un modo, vedrai.-

Mister Wakabayashi vuole continuare ad allenarmi. Vuole continuare ad essere mio amico.

Io...sento che mi sale il pianto. Non posso, non devo.

Non ti perdere Andrea.

Metto una mano sul petto, sento il ciondolo che mi ha regalato Cilly.

Non ti perdere Andrea.

In questi momenti dormo abbracciando il mio berretto, mi fa sentire più tranquilla.

...dov’è il berretto? Di solito lo metto sul comodino. Che l’abbia lasciato nel borsone?

“-Ecco, per il mio campione. Vedrai Andrea, farai un sacco di strada!-

-Davvero papà?-

-Ma certo! Un talento come il tuo ti porta lontano! Potresti diventare il nuovo SGGK!-

-SGGK?-

-Super Great Goal Keeper, è il portiere più forte del mondo. E tu un giorno sarai come lui. A casa ti faccio vedere qualche articolo, ok?-”

Scendo dal letto, non vedo il mio borsone, questo è molto strano: di solito è sempre accanto al mio letto, lo metto lì apposta per evitare...che qualcuno lo prenda.

“-...ricordati che se qualcuno scopre qualcosa ti brucio il berretto, chiaro?!-”

Alzo la testa, la porta della mia camera è aperta. Di solito è chiusa.

Qualcuno è entrato in camera e mi ha preso il borsone e il berretto.

Corro verso la porta, mi affaccio a guardare, il corridoio è tutto buio; dove potrebbero essere andati? Torno in camera e apro la tenda della finestra, la mia stanza si affaccia sulle mura dell’edificio.

Vedo una luce che esce dall’infermeria.

Esco fuori dalla stanza e corro lungo il corridoio, sono a piedi nudi e il pavimento è freddo.

Di solito se vediamo qualcosa di strano ci dicono di chiamare la signora Abigail e il signor Weiner, che dormono nella struttura, ma voglio assolutamente il mio berretto, ho paura.

Ricordo quello che mi ha detto Albert l’ultima volta. Ho paura. Ho tanto paura.

“-Sono molto fiero di te Andrea!-

-Grazie papà!-

-Vieni qui campione!-”

Sento delle voci provenire dall’infermeria.

-Sibo passami l’alcol.-

-Albert sei sicuro che sia una buona idea?-

-Te l’ho detto: lo bruciamo nel lavandino e, se vediamo che il fuoco si propaga, apriamo l’acqua.-

-Ma non basta aver tagliato la sua uniforme?-

-Sai bene che è stata quella stronza ad aver parlato, per questo mi hanno sospeso dagli allenamenti e dalla squadra!

In panchina, io! Una riserva! E’ colpa di Andrea, è sempre colpa sua!

Ma adesso gliela faccio vedere io, con questo le passerà la voglia di parlare e di giocare. Passami i fiammiferi.-

Spalanco la porta dell’infermeria. Ci sono Sibo e Albert, si voltano a guardarmi.

-Andrea...-

-Bloccala Sibo.-

Albert accende il fiammifero. Oh no!!

Corro verso di lui ma Sibo si para davanti a me, è più grande, mi acchiappa per le braccia e mi spinge verso terra, facendomi inginocchiare.

Albert fa cadere il fiammifero nel lavandino. Si alza una fiamma alta.

Il mio berretto...il mio berretto!!

“-Sono molto fiero di te Andrea! Sei il mio ragazzo.-”

-NO! NOOO!!-

Comincio ad urlare, mi agito, devo liberarmi di Sibo! Cerco di colpirlo con il tallone, riesco a prenderlo, la sua presa cede.

-AH!-

Lo spingo via, corro verso il lavandino e spingo via Albert, guardando nel lavandino: il mio berretto sta diventando nero e sta bruciando.

Lo afferro con le mani, brucia, sento un dolore atroce e strillo; apro l’acqua del lavandino e faccio scendere il getto, mi fanno malissimo le mani ma devo salvare il berretto!

Qualcuno mi spinge e mi butta a terra, sento qualcosa colpirmi in faccia.

-Come ti sei permessa di colpirmi?! Brutta cretina, te la faccio vedere io! Ti faccio passare la voglia di toccare anche solo il pallone da calcio, brutta schifosa! Quelle come te devono stare al loro posto!-

Mi fanno male le mani, non posso pararmi dai pugni di Albert. I colpi mi prendono sulle braccia, il primo pugno mi ha preso sul volto, sento che fa male la guancia. Fa tutto male.

-Che succede qui?!-

-Oh mio Dio Andrea!-

Sono le voci della signora Abigail e del signor Weiner, il peso di Albert si toglie da sopra di me, non mi colpisce più, però mi fa ancora tutto male, soprattutto le mani, bruciano da morire.

-Cosa volevate fare?! Appiccare il fuoco?! Fermo Albert!-

-E’ stata lei! E’ stata Andrea, è impazzita!-

-Andrea, mi senti? Stai bene?-

Qualcuno mi prende in braccio, è la signora Abigail.

-Andrea ora chiamo l’ambulanza, andrà tutto bene gioia.-

-E’ stata lei! Voleva farci morire tutti bruciati! E’ solo una pazza!-

-Vieni via, andiamo nella tua stanza!-

-Ma vi ho detto che è colpa sua!!-

Il mio berretto…

Alzo lo sguardo, vedo del fumo alzarsi dal lavandino. Cerco di alzarmi per andare a prenderlo ma mi gira troppo la testa, non riesco a muovermi.

-Signora Abigail...il berretto…-

-Ferma Andrea, non ti muovere. Adesso chiamo i soccorsi.-

No, no voglio il mio berretto. Devo riavere il mio berretto.

Aiuto. Non riesco a svegliarmi da questo incubo. Mi fa tutto male.

Vi prego, qualcuno mi svegli. Qualcuno mi svegli...

 

La mia paura più grande era che questa scena fosse troppo forte, troppo estrema, ma ripensando anche a come le persone stanno diventando sempre più…”estreme”, specie negli atti di bullismo, ho deciso comunque di scrivervi questa scena.

Fatemi sapere che ne pensate, vi ringrazio.

**

 

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Capitolo 14
*** XIII: Hilfe ***


XIII: Hilfe

 

Mi telefonò quella mattina la direttrice Voigt, cosa che mi sorprese abbastanza, visto che avevo avuto la sensazione non gli fosse piaciuto il mio modo di fare nel nostro primo incontro.

-Pronto?-

> Buongiorno signor Wakabayashi, spero di non disturbarla; sono Rose Voigt, dell’orfanotrofio Drei Keifern.

-Ah buongiorno signorina Voigt. E’ successo qualcosa?-

Temevo che una rivista avesse pubblicato un articolo sull’identità di Andrea o avesse mostrato il suo volto in copertina, ed ero già pronto ad agire e, soprattutto, a ricevere in pieno petto le critiche e i possibili insulti della donna.

> Mi dispiace disturbarla di Domenica mattina ma è urgente che lei venga qui: Andrea ha avuto un incidente.

Penso che in quel momento il mio cervello, come poche volte nella mia vita, si sia spento e invece le mie budella avessero iniziato a contorcersi dall’ansia. Avevo chiara l’immagine della ragazzina che mi sorrideva timida e imbarazzata mentre mi confessava quanto la rendessi felice perché ero suo amico.

-...cos’è successo?-

> Uno dei suoi compagni di squadra ha distrutto la sua uniforme e bruciato il suo berretto, Andrea ha provato a fermarlo ustionandosi e il compagno l’ha picchiata.

-Arrivo immediatamente.-

Chiusi la telefonata senza attendere la sua risposta; non bevvi il mio caffé ma lo abbandonai accanto al telefono, recuperai il berretto, la giacca con il portafoglio e le chiavi della macchina, avvertendo all’ultimo Isolde che stavo uscendo, praticamente sbattendo la porta di casa senza nuovamente attendere risposta.

Montai in macchina mentre i cancelli si stavano aprendo, oramai ero in grado di guidare senza problemi; costretto ad attendere per via della lentezza dei cancelli, mi ricordai che comunque oggi sarei dovuto andare agli allenamenti e telefonai Karl.

> Ehi Genzo, che succede?

-Mi ha telefonato la direttrice Voigt. Andrea ha avuto un incidente.-

Finalmente la macchina poté uscire dai cancelli del giardino; sentii intanto Karl prendere un profondo respiro.

> ...ecco perché il signor Weiner ci aveva avvertiti che il suo gruppo non ci sarebbe stato oggi. E’ grave?

-La direttrice mi ha informato che è stata di nuovo vittima di bullismo, a quanto pare per cercare di recuperare il suo berretto si è ustionata alle mani.-

> Oh no...

-Sto andando da lei. Non aspettatemi agli allenamenti.-

> Va bene, tienici aggiornati, ok?

-Si.-

Chiusi la telefonata mentre sfrecciavo per la strada a velocità smodata, ero sicuro che avrei preso come minimo un paio di multe ma in quel momento non poteva fregarmene meno: Andrea, la mia piccola amica, aveva avuto un incidente grave e dovevo raggiungerla, dovevo vedere con i miei occhi come stava.

Parcheggiai malamente davanti all’orfanotrofio e quasi mi dimenticai di chiudere la macchina mentre mi precipitavo all’orfanotrofio.

Ad accogliermi stavolta non c’era l’amichevole figura della signora Abigail, ma la direttrice stessa, in faccia un’espressione turbata e il volto impallidito. Non perse tempo neanche a salutarmi.

-Mi segua.-

Quel giorno non aveva un tailleur elegante o scarpe con il tacco, ma jeans e snickers, i suoi occhiali d’osso con la catenella erano tenuti fermi sulla maglietta mentre, a passo svelto, mi accompagnava verso il dormitorio parlandomi a voce bassa e veloce.

-E’ stata portata al pronto soccorso: le mani hanno un ustione di secondo grado sulle palme delle mani, il dottore ha detto che ci vorranno almeno 3 settimane per guarire. L’abbiamo riportata all’orfanotrofio un’ora fa, preferiamo che stia in un ambiente a lei familiare...-

-E’ stato Albert, vero?-

Si fermò di colpo e prese un respiro profondo prima di voltarsi e guardarmi, aveva in volto un’espressione molto preoccupata.

-Noi due lo sappiamo, ma purtroppo non abbiamo alcuna prova a riguardo.-

-Cosa? In che senso?-

Riprese a camminare, mentre ci avviavamo verso il dormitorio mi resi conto dell’assenza di bambini in quella zona e mi domandai se fossero ancora tutti addormentati o se si fossero già diretti alla mensa o fuori dall’edificio, in quella zona i suoni erano ovattati.

-Assieme ad Albert c’era il suo amico Sibo, il quale ha raccontato tutto quello che è successo ma, quando gli abbiamo chiesto se era stato Albert, lui ha sostenuto di non ricordare con chi altri fosse nell’infermeria e che il suo amico non c’entrava nulla.-

-Che stronzata.-

-Linguaggio, signor Wakabayashi.-

Mi riprese all’istante, lanciandomi un’occhiataccia con la coda dell’occhio mentre continuava a camminare.

-Albert, purtroppo, è sempre stato un ragazzo con molto carisma per gli altri bambini...ma con gravi problemi di ego.-

Non volli indagare oltre: non volevo interessarmi di Albert, in quel momento sapevo che ogni spiegazione inerente al suo atteggiamento mi sarebbe suonata come “scusa” per non intervenire duramente su di lui. E non essendo uno psicologo infantile, ed essendo questo mio pensiero dovuto alla rabbia, preferii concentrarmi sul vero motivo per cui ero all’orfanotrofio.

-Andrea cos’ha detto?-

-...è da quando è stata portata al pronto soccorso che non parla.-

La notizia mi bloccò sul posto, tanto da costringere la direttrice a voltarsi verso di me, le sue sopracciglia arricciate in un’espressione cupa.

-Andrea in questo momento è in uno stato di shock e non risponde alle domande. Abbiamo provato a stimolarla in tutti i modi ma non mostra segni di reazione.-

Si fermò e prese un profondo respiro.

-Per questo l’ho chiamata: lei è la nostra ultima speranza.-

La cosa mi sorprese molto mentre la direttrice si spiegava.

-Mentre la portavano al pronto soccorso, in uno stato di semi-coscienza, mi è stato detto che Andrea ha fatto il suo nome.

Io ho visto come la guarda, signor Wakabayashi: Andrea la rispetta e si fida di lei, un tale atteggiamento gliel’ho visto solo con Cilly...-

-...tu...cioé lei...lei mi rende molto felice, mister.-

-Ti rendo felice? Come mai ti rendo felice?-

-Perché...perché lei mi ha chiesto di essere mio amico. Lei, il portiere più forte di tutti.

Io...io l’ammiro molto...sono così contenta che è mio amico...-

-Lei potrebbe essere l’unica persona in grado di farla uscire dal mutismo.-

Mi sentii molto emozionato e nervoso a riguardo: e se avessi fallito? Fino al giorno prima avevo preso tutto questo così sottogamba che adesso che avevo coscienza di quanto delicato fosse l’anima di Andrea avevo una paura fottuta di avvicinarmi, temevo sempre di incrinare o rompere qualcosa.

-...perché non chiamare Cilly? E’ la sua migliore amica...-

-Fuori questione.-

La direttrice Voigt seccò la mia affermazione con quelle due parole, prima di prendere un profondo respiro ed incrociare le braccia.

-Anche quella bambina ne ha passate tante ed era già parecchio restia a lasciare l’amica per la sua nuova famiglia. Farle sapere che Andrea sta così male la spingerebbe a rifiutare la famiglia che l’ha adottata e la spingerebbe a tornare qui. E visto e considerato che è felice con la sua nuova famiglia, non voglio coinvolgerla non se sono possibili altre strade.-

Lo ammetto, provai un po’ di vergogna a quel rimbrotto. Non risposi e ci fu qualche secondo di silenzio, prima che sentissi nuovamente la voce della direttrice.

-La prego, signor Wakabayashi.-

Alzai sorpreso lo sguardo, fu l’unica occasione in cui vidi gli occhi della donna supplicarmi silenziosamente mentre il volto di Andrea continuava ad apparire e sparire davanti ai miei occhi, assieme al pensiero che lei aveva bisogno di me e che dovevo aiutarla.

“-...tu...cioé lei...lei mi rende molto felice, mister.-”

Strinsi i pugni.

-Farò il possibile.-

Riprendemmo la marcia e raggiungemmo il corridoio mentre, per la prima volta, sentii rumori di passi e vociare di bambini, spingendomi a voltare verso la sorgente del rumore: un gruppo di bambini, accompagnato dalla signora Abigail, stavano andando all’esterno verso il parco giochi, con l’anziana donna che teneva aperta per loro la porta di uscita.

Uno dei bambini ci notò e ci indicò con un dito, spingendo la donna d alzare il capo e guardarci; incrociò il mio sguardo e la vidi sorprendersi e poi trattenere un’espressione commossa, dedicandosi invece al bambino e parlandogli sotto voce, facendolo uscire a chiudendo la porta alle sua spalle.

Arrivammo al dormitorio femminile, vicino all’infermeria, e tre bambine si fecero avanti, tutte si tenevano per mano.

-Signora direttrice, possiamo vedere Andrea?-

La donna si inginocchiò verso di loro scuotendo il capo.

-No Brigitte, ve l’ho già detto: Andrea non sta bene ed è meglio lasciarla in pace.-

-E’ vero che è andata in ospedale?-

-Si, è vero.-

-Cos’è successo?!-

-Ha avuto un incidente e l’abbiamo portata al pronto soccorso. Ora ha bisogno di riposo.-

-Ma potrà poi andare a scuola?-

-Ma certo, vedrete che appena starà bene tornerà con voi a scuola. Adesso andate pure.-

Si vedeva che le bambine non avevano molta voglia di andare, ma quella chiamata Brigitte spinse le amichette a seguirla tenendola per mano, e anche loro si avviarono verso lo spazio giochi mentre la direttrice sospirava, rialzandosi in piedi e guidandomi verso la porta della camera di Andrea.

Si avvicinò alla porta e la socchiuse, vidi uno spiraglio della stanza e notai subito la figura seduta sul letto e i bendaggi bianchi.

-Andrea, hai visite.-

Lo disse con tono basso e dolce, per poi voltarsi verso di me e farmi spazio guardandomi intensamente negli occhi, facendomi entrare e chiudendo la porta senza entrare, lasciandomi sola con lei.

Andrea sembrava una di quelle bambole buttate nei bidoni dell’immondizia: i suoi capelli erano spettinati ed era immobile, seduta sul letto con addosso un pigiama, le coperte sulle gambe e le braccia abbandonate sui fianchi.

In volto un cerotto che copriva un livido rosso, probabilmente era uno dei pugni di Albert; le mani erano coperte da bianche garze e stavano abbandonate sul letto, posate sopra le cosce. Sul suo grembo dei pezzi di stoffa e la visiera mezza bruciata di quello che rimaneva del suo berretto.

Strinsi i pugni e i denti di fronte alla scena, cercando di mantenere il controllo: all’inizio fui travolto da una profonda tristezza, poi sentii la rabbia e l’indignazione montarmi mentre mi avvicinavo al letto, cercando di vedere il volto di Andrea; l’espressione era assente proprio come le bambole, con gli occhi semi chiusi e un'espressione neutra.

Rallentai il passo fino a che non percepii di stare andando a rallentatore, ma avevo paura che qualche cenno brusco potesse innescare reazioni esplosive; al contrario lei sembrò non accorgersi della mia presenza e alla fine, con una lentezza esasperante, mi misi seduto al bordo del letto.

Questo era all’interno di un grosso armadio a muro, pertanto dovetti tenere la schiena piegata mentre mi toglievo il berretto e provavo a parlarle.

-...Andrea?-

Non reagì ed ebbi la netta sensazione che si era sentita chiamare un’infinità di volte per nome nell’arco di quelle ore, tanto che oramai era assuefatta a quel richiamo e non reagiva più.

Così non sarei mai riuscito ad attirare il suo sguardo.

Gli occhi erano sempre fissi sui brandelli di stoffa.

-...è molto importante per te il berretto? Chi te lo ha dato?-

-...il mio papà…-

Sentii di nuovo la rabbia salire e bruciare dalla base dello stomaco fino al cervello, una voce urlava e gridava vendetta peggio di Leonida; ero pronto ad andare in guerra, non mi importava se mi avessero considerato un mostro, ciò che era successo era fuori da ogni grazia di Dio.

Ma guardai di nuovo Andrea e la sua espressione impassibile bastò a calmarmi.

Non ero lì per vendicarmi, ero lì per lei. Ma come potevo farla uscire da quello stato?

“-Se mi date il permesso posso parare gli ultimi 3 tiri a mani nude. L’ho già fatto.-

-Riposo soldato, direi che dopo questo tiro puoi evitarti gli altri tre.-

-Non sono stanco, posso farcela.-

-E va bene soldato. Togliti i guanti e vai in porta.-”

-...Soldato.-

La vidi fare un piccolo cenno con il corpo.

Una reazione! La cosa mi fece sperare e provai ad insistere.

-Soldatino, sono io. Wakabayashi.-

Vidi i suoi occhi  aprirsi e la testa, lentamente, si alzò verso di me; non appena vidi le sue iridi castane sentii nel mio cervello arrivare una voce che gridava aiuto.

Le palpebre della bambina sbatterono e il suo corpo si mosse leggermente.

-...mister.-

-Ciao piccola.-

Cercai di sorriderle, pian piano la sua testa si piegò verso destra, sorpresa dalla mia presenza.

-...che...che ci fa qui?-

-La direttrice mi ha chiamato. Mi ha detto…-

Pesai le mie parole, rendendomi conto che ogni cosa che stavo per dire doveva servire a far uscire Andrea dallo shock.

-...mi ha detto che la mia amica Andrea stava male.-

-La sua amica…-

-Certo Andrea, noi siamo amici, no?-

Le sue sopracciglia andarono lentamente verso l’alto, la sorpresa stava lasciando posto alla commozione; vidi, lentamente, i suoi denti mordere il labbro inferiore e la cosa quasi mi fece saltare di gioia.

Io, Genzo Wakabayashi, stavo aiutando una bambina. Se qualcuno me l’avesse detto tre settimane prima gli avrei riso in faccia.

Al tempo stesso, però, la vedevo ancora una volta trattenere la tristezza dentro quel piccolo corpo, la cosa poteva solo peggiorare il suo stato d’animo.

Vidi la sua testa annuire leggermente e ciò per me era più che sufficiente, tanto che feci un piccolo movimento verso di lei.

-Andrea...Posso chiederti cos’è successo?-

La vidi distogliere lo sguardo e un brivido di paura mi scese velocissimo sulla schiena: avevo sbagliato, ora si sarebbe di nuovo ri-chiusa a riccio e quel piccolo passetto in avanti sarebbe stato cancellato da una distanza profonda come la fossa delle Marianne.

-Io...io ho fatto un sogno.-

Mi aggrappai al fatto che mi stesse parlando ancora e decisi di fare il giro largo.

A costo di impiegarci l’intera giornata, l’intera settimana o un anno io sarei riuscito ad aiutarla.

-Cos’hai sognato?-

-...ho sognato...che ero di nuovo a casa di papà…-

Volevo tenerle la mano ma le garze bianche mi bloccavano qualsiasi spinta a toccarla, pertanto mi avvicinai a lei il più possibile, arrivando anche ad abbassare il tono di voce.

-E cosa succedeva? Trovavi papà?-

-No...c’era nonna...e poi Cilly…-

-C’era la tua amica? Ti diceva qualcosa?-

Vidi di nuovo la tristezza mutare l’espressione del suo volto, percepii un movimento nelle sue mani e chiuse gli occhi, evidentemente per il dolore.

Istintivamente allungai la mia mano, portandola sotto la sua destra; lei lentamente appoggiò, potevo chiaramente sentire le garze sul palmo e rimasi fermo, avevo paura di toccarla o stringere, temevo di farle male con qualsiasi movimento.

-Diceva...che non dovevo tagliarmi i capelli...che sono carina.-

Mi sforzai di sorridere.

-La tua amica ha proprio ragione.-

I suoi occhi si spostarono di nuovo verso di me e rimasi in silenzio, aspettando.

-Io sono carina, Wakabayashi?-

-Certo, anzi: sei una bellissima bambina.-

Vidi chiaramente sorpresa e un rossore sulle guance.

-Io...ho sognato anche lei, mister.-

Sentii il mio petto scaldarsi e il cuore stringersi, ma non era dolore: era una reazione a non farmi trascinare dalla gioia di sentirle dire quelle parole. E’ sempre stato un mio meccanismo il rifiutare la felicità di quei momenti a favore della razionalità e di un certo cinismo.

-Davvero? Cosa ti dicevo?-

Vidi i suoi occhi spostarsi di nuovo, le palpebre sbattere e poi chiudersi, il volto tornava verso di me e si chinava in avanti, la mano destra adesso si era appoggiata sul palmo della mia mano.

-Mister…-

-Dimmi Andrea.-

-Io...lei…-

Faceva fatica, per un attimo ebbi paura che si stesse di nuovo chiudendo nel suo mutismo.

-Cosa? Non aver paura Andrea, non me ne vado da qui. Non ti lascio sola.-

Aprì gli occhi e alzò lo sguardo sorpresa, quell’espressione era simile alla prima volta che le avevo promesso che l’avrei fatta diventare il portiere più forte di Monaco.

-Non se ne va?-

Scossi la testa deciso.

-No, resto qui finché non starai meglio.-

-...promesso?-

-Promesso. Se vuoi chiedo alla direttrice di farmi portare un materassino e una coperta, così posso dormire qui con te.-

-Ah, no: il regolamente non lo permette. E poi deve allenare Rudolf...-

-Ma non posso lasciarti qui da sola, non è giusto.-

Mi guardò sempre sorpresa, poi sembrò notare la mia mano sotto la sua, e chiusi leggermente le dita attorno alle garze, parlandole ancora.

-Io resto qui.-

Aveva uno sguardo così sbalordito che mi fece sorridere divertito.

Ma quando vidi la prima lacrima scendere sulla sua guancia il sorriso mi morì sulle labbra.

-Ah...mi scusi...mi scusi…-

La sua mano abbandonò la mia, portandosi verso il volto, ma non appena le garze toccarono le guance sembrò rendersi conto della situazione, guardandosi le bende mentre le lacrime continuavano a scendere grandi, veloci come torrenti; i singhiozzi cominciarono a farsi sempre più forti mentre si guardava le mani e la vidi stringere i denti e tirare su la testa, in un ultimo disperato tentativo di frenarsi.

Smise di respirare, cerco di contenere i singhiozzi dentro il petto e chiuse le palpebre con tutte le sue forze. Sarebbe scoppiata, anzi: Andrea stava esplodendo, ma come sempre cercava di contenere.

-Andrea!-

Le gridai contro e lei si voltò spaventata, ma a quel punto le mie braccia le avevano già preso il corpo e la stavano trascinando verso di me, tanto da sollevarla dalle coperte mentre la facevo appoggiare sul mio petto.

-Va bene così. Va bene così Andrea, piangi pure. Piangi.-

Rimase ferma qualche istante, come in stasi.

Poi la sua voce lanciò un grido disperato, i singhiozzi aumentarono e le spezzarono la voce mentre gli occhi si nascosero sulla mia giacca.

La feci aderire il più possibile a me, usando il mio corpo per schermarla dagli occhi della direttrice e di chiunque avesse sbirciato dalla porta d’ingresso della stanza, sussurrandole da sopra il capo.

-Brava Andrea. Sei una brava bambina.-

-...non...non...an...andare...via...n-non...non an...andare via…-

-No Andrea. Non me ne vado. Resto con te.-

Posai le mie labbra su quei capelli mentre la sentivo contro di me, i suoi lamenti che soffocavano nella stoffa della maglietta umida delle sue lacrime, le sue mani avvolte nelle garze che tenevo appoggiate sul palmo della mia mano destra, la sinistra le accarezzava la schiena, piccola sotto le dita.

Quel rumore, che solitamente mi avrebbe dato fastidio, che ogni volta che sentivo mi spingeva ad allontanarmi dalla sua fonte, che trovavo odioso e spacca timpani, adesso mi spingeva a stringerla a me il più possibile, lasciando che tutto quel dolore scivolasse finalmente via da quel corpo.

Non ho idea di quanto durò il pianto, ma ad un certo punto il silenzio scese di nuovo e questa volta non metteva angoscia; sentii il respiro di Andrea farsi regolare e mi sporsi a controllare.

Si era addormentata, aveva le guance ancora rigate dalle lacrime ma un’espressione serena sul volto.

Pian piano, con tutta la delicatezza che non avevo mai saputo di avere, la rimisi a letto, notando ancora una volta i frammenti di stoffa del suo berretto sparsi sulla sua coperta.

Sentii la porta aprirsi delicatamente e la direttrice muoversi e avvicinarsi alle mie spalle; mentre rimboccavo le coperte alla bambina le parlai a bassa voce.

-Ho fatto quello che ho potuto.-

-Mi creda, è stato un miracolo. Credo di aver visto Andrea avere un tale sfogo solo una volta da quando è qui.-

Recuperai tutti i frammenti e la visiera, tenendoli fra le mani.

-Mi ha detto che era un regalo di suo padre.-

-E’ stato l’unico oggetto da cui non è mai riuscita a separarsi, una “coperta di Linus” con cui si è sempre protetta da tutti.-

Appoggiai quei frammenti sul suo comodino e tornai a guardarle il volto, disteso in un sonno profondo e ristoratore.

Quando si fosse svegliata...mi avrebbe trovato lì.

-Posso chiederle una cortesia, direttrice Voigt?-

-Mi dica.-

-Vorrei stare qui oggi: ho promesso ad Andrea che sarei rimasto qui fino a quando non si sarebbe sentita meglio. Le chiedo pertanto il permesso.-

Mi voltai a guardarla. Lei mi fissò a lungo negli occhi e alla fine sospirò.

-Solitamente non facciamo restare a lungo gli adulti, ma se lei mi garantisce che rimarrà in questa stanza e non si metterà a girovagare per l’istituto le accorderò il permesso.-

-Mi creda: per quanto vorrei dare una lezione ad Albert in questo momento l’unica cosa che voglio è spostare la sedia della scrivania qui accanto al letto e tenere d’occhio il sonno di Andrea.-

Un sorriso divertito apparve sul volto della direttrice, era la prima volta che le vedevo un’espressione diversa dalla sua solita aria distaccata.

-Signor Wakabayashi...non mi starà diventando un buon genitore?-

 

**

 

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Capitolo 15
*** XIV: Hoffnung ***


XIV: Hoffnung

 

Chiedo scusa del ritardo dell’aggiornamento per questa settimana: al momento sono in vacanza e dal cellulare è difficile pubblicare.

 

Mi sveglio.

Aspetta, stavo dormendo? Non ricordo di essermi addormentata.

Ho sete, sento gli occhi strani; li apro, riconosco la parete a sinistra della mia stanza. Mi giro verso il comodino.

Mister Wakabayashi?! Qui nella mia stanza?!

Alza lo sguardo verso di me e mi sorride.

-Ben svegliata Andrea.-

Perché è qui? Non ricordo, aspetta...il mister mi ha abbracciato? Ricordo che stavo piangendo e lui mi ha abbracciata.

Ma credevo fosse un sogno, che lo sia ancora? Da quanto sto sognando?

Ricordo che stavo sognando, poi che non trovavo il berretto, poi che Albert lo stava bruciando, io che provavo a riprendermelo…

Mi guardo le mani, sono coperte dalle bende.

Non...non capisco. Sento una grande sete, è tutto confuso.

-Ehi, piccola, che succede?-

Mister Wakabayashi si avvicina, è reale o un sogno?

-Mister...è un sogno? Sto sognando?-

Lui sorride e mi accarezza la testa, scuotendo il capo. Sento la sua grande mano sui miei capelli, è davvero qui...

-No, non stai sognando.-

-Che...che succede?-

Mi guarda stupito, rimane in silenzio e poi gira lo sguardo verso il pavimento, ho detto qualcosa di sbagliato? Lo vedo alzarsi dalla sedia e mettersi seduto sul letto affianco a me, mi sorride.

-Cerchiamo di non correre. Anzitutto dimmi come stai.-

-Ah...bene, ho sete.-

-Immaginavo.-

Si muove di nuovo, stavolta si sporge verso il comodino, vedo una brocca d’acqua e un bicchiere, lo riempie e poi me lo passa.

-Ecco qua.-

Allungo le mani per prenderlo ma mi ferma subito.

-Ferma ferma, vediamo di non farci male. Aspetta.-

Prende sul comodino una cannuccia e la mette dentro il bicchiere, poi me lo porge di nuovo.

-Non è aranciata o coca cola ma così non ti farai male.-

Che strano modo di bere, perché devo fare così? Ho una gran sete, bevo. Ricordo che con Cilly mi divertivo a fare le bolle con le cannucce...

Ma sono le mani il mio problema? Vedo che sono avvolte dalle bende, cosa mi sono fatta? Aspetta...io ho messo le mani nel fuoco...perché Albert stava bruciando il mio berretto.

Il berretto! Dov’è? Non lo vedo sul comodino o sul letto, non sarà ancora in infermeria?!

-Ehi, ehi Andrea che succede?!-

-Il mio berretto, dov’è il mio berretto?-

Mi guarda sorpreso, poi prende un profondo respiro. Oh no, non sorride, il mio berretto...

-E’ bruciato?-

Dimmi di no, ti prego dimmi che è solo un po’ rovinato, dimmi che si può aggiustare!

Lo vedo appoggiare il bicchiere sul comodino e mi accorgo in quel momento dei pezzi di stoffa bruciati lì accanto. Oh no...riconosco il colore della stoffa e la visiera…

Allungo una mano, voglio prenderlo in mano ma vedo di nuovo le bende.

Ora ricordo tutto: mi sono bruciata le mani mentre cercavo di fermare il fuoco, il fuoco che Albert ha appiccato perché mi odia; mi ha anche buttata a terra e mi ha picchiato, mi porto una mano lì dove mi aveva colpito. Fa male.

-Andrea…-

Giro lo sguardo, vedo il signor Wakabayashi preoccupato.

Ora ricordo, lui mi aveva detto che sarebbe rimasto qui...fino a quando non sarei stata meglio. Me l’ha promesso e ha mantenuto la sua promessa. Mi sento felice.

Però il mio berretto è distrutto...il berretto del mio papà...

Mi sorride e allunga una mano sul mio volto, passando il pollice sulla guancia, è ruvido, che strano gesto, perché?

Ah, ma sto piangendo, non me ne sono accorta. Che imbarazzo, piangere davanti al mister.

-Ah, mi scusi.-

-Ehi, è giusto così. Piangi pure, piccolina.-

Mi accarezza la testa, è così piacevole quando lo fa, mi piace un sacco quando lo fa.

E’ strano, sono confusa: il mio berretto è bruciato, però mister Wakabayshi è qui con me e sono felice. Lui ha mantenuto la sua promessa ed è rimasto qui, ma io...io adesso non posso mantenere la mia: non posso più fare il portiere, ed è colpa mia.

Oh no, adesso non potrò più giocare a calcio, non potrò più stare con il signor Wakabayashi...non potrò più vederlo...

-Mi...mi dispiace.-

-Di cosa Andrea?-

-Lei...lei mi ha detto che potevo diventare il portiere migliore...ma ora non posso più, mi dispiace…è colpa mia...-

Non riesco a sfregare le mani sulle guance, se faccio troppo forte mi fanno male; sento le mani del mister prendermi i polsi e allontanarmi le mani e lo guardo. Sembra arrabbiato, è normale che sia arrabbiato con me, ho di nuovo creato problemi.

-Non dirlo neanche per scherzo, non è colpa tua, la colpa è di chi ti ha fatto tutto questo. Ti ricordi chi è stato?-

Albert, ricordo ancora i suoi occhi che mi guardavano mentre mi picchiava, facevano paura, mi tornano in mente le sue parole e i pugni che mi dava.

“-Come ti sei permessa di colpirmi?! Brutta cretina, te la faccio vedere io! Ti faccio passare la voglia di toccare un pallone da calcio, brutta schifosa!-”

Mi ha bloccato a terra, mi ha preso a pugni così forte, le mie mani facevano così male; mi urlava contro, sento ancora quelle urla nella testa.

Cos’altro mi farà quando uscirò da questa stanza? Mi prenderà di nuovo a pugni? Mi tirerà altre pallonate in campo?

Ho paura, non so cosa fare.

-Andrea, guardami.-

Alzo lo sguardo, mister Wakabayashi ha ancora la sua mano sulla mia guancia e si è avvicinato.

-Andrà tutto bene, vedrai non ti farà più del male, te lo prometto. Ma devi dirmi chi è stato, non può non essere punito.-

Non posso, non posso permettere al signor Wakabayashi di fare anche questo, non devo creargli altri problemi.

Scuoto la testa e abbasso gli occhi, mi vergogno: mister Wakabayashi sta saltando gli allenamenti degli altri a causa mia, è colpa mia.

-Andrea guardami!-

Ha alzato la voce, si è arrabbiato di sicuro, alzo la testa di scatto e lo guardo; sì è arrabbiato, si vede. Mi sgriderà di sicuro. Prende un profondo respiro, adesso mi sgrida.

Mi afferra il volto con entrambe le mani, sono grandi e ruvide, i suoi occhi sono vicinissimi. Appoggia la sua fronte sulla mia.

Questo...era un gesto che facevo sempre con Cilly quando piangeva...è la prima volta che qualcuno lo fa a me; è piacevole, caldo come le mani del mister. Mi sento...mi sento bene così. Però mi viene ancora da piangere.

-Ti ricordi che ti ho promesso che sarei rimasto qui?-

Annuisco, me lo ricordo.

-Sappi che non manco mai ad una promessa. Se ti prometto che quella persona non ti farà più male, farò tutto ciò che posso per proteggerti. Credimi Andrea.-

Gli credo. Io credo al signor Wakabayashi. Però abbasso gli occhi.

-Non...non voglio crearle problemi. Io...io creo solo problemi.-

Sento le sue mani spingere la mia faccia verso l’alto, so che vuole che lo guardi negli occhi; me lo aveva detto la prima volta che mi aveva tolto il berretto che voleva guardarmi in faccia. Per questo avevo cominciato a tirare sempre in sù la visiera quando gli parlavo, oppure mi toglievo direttamente il berretto.

Io mi fido del signor Wakabayashi, non ho paura di mostrargli la mia faccia, perché a lui piaccio così come sono.

-Perché credi che mi crei problemi? Che problemi mi avresti dato?-

Mi viene da stringere i pugni ma mi fanno male le mani. Sento che mi sale il pianto, non riesco quasi a respirare, cosa mi dirà?

-Io...io...le ho fatto saltare gli allenamenti...io l’ho fatta arrabbiare con Albert. Io...io sono una femmina.-

-Ehi, cosa ti ho detto a proposito di questo? Tu mi piaci proprio perché sei così. Sei intelligente, tenace, quando vuoi sei combattiva, a volte anche timida.-

Io...io sono così per il mister? Davvero mi vede così?

-Non...non le da fastidio che io…-

-No Andrea no, tu mi piaci così. Tu sei bella così. Sei perfetta così. Noi ti vogliamo bene perché sei così.-

Noi?

-Noi?-

-Io, Karl, Rudi, i tuoi compagni di squadra, la tua amica Cilly, la direttrice Voigt, il tuo allenatore Weiner, la signora Abigail. Siamo in tanti a volerti bene.-

Sono...sono in tanti a volermi bene perché sono così?

Mister Wakabayashi sorride, pian piano le sue mani lasciano le mie guance.

-Noi ti vogliamo bene e vogliamo il meglio per te. E il meglio comincia con il dirci chi ti ha fatto questo. Chi è stato Andrea?-

Ho ancora paura.

-Ho paura.-

-Lo so, è giusto. Per questo voglio proteggerti, così che tu riesca a vincere questa paura.-

Il signor Wakabayashi mi proteggerà.

-E non sono un peso?-

-No, non lo sei.-

Il signor Wakabayashi mi vuole bene.

-Se...se sono così...non sono sbagliata?-

La sua mano mi accarezza la testa.

-Tu sei perfetta Andrea.-

Qualcosa...qualcosa dentro di me si sta agitando. Ricordo questa sensazione: è la stessa che avevo nel mio sogno, quando ho chiesto… quando ho chiesto al signor Wakabayashi di farmi da papà. E’ la stessa sensazione: mi sento felice, però ho anche paura.

Mi viene da piangere, non riesco a fermare il pianto, sono così confusa.

-...è stato Albert.-

Lo dico quasi sussurrato, c’è questa sensazione che mi preme fortissimo sul petto, mi sembra di esplodere, al tempo stesso mi fa pressione sulla pancia; credo di stare tremando, ora cosa accadrà?

Il signor Wakabayashi mi abbraccia. Mi piace, mi piace tanto quando mi abbraccia, mi sembra di stare dentro delle coperte calde.

-Grazie Andrea. Sei stata bravissima. Sono fiero di te.-

Vorrei ricambiare l’abbraccio, ma vedo le bende sulle mie mani.

-Signor Wakabayashi.-

-Dimmi.-

-Io non potrò più fare il portiere, vero?-

Sapevo che avrei dovuto smettere di giocare a calcio, ma è così presto, troppo presto, non ho potuto nemmeno giocare una partita con gli altri nel mini torneo. Non potrò più farmi allenare da Wakabayashi.

Lo sento staccarsi dall’abbraccio, non voglio ma non ho altra scelta.

Lo vedo mettersi davanti a me e guardarmi negli occhi.

-Ti fidi di me, Andrea?-

Annuisco.

-Tu potrai continuare a fare il portiere: il dottore ha detto che tra tre settimane sarai guarita.-

Tre settimane?!

-Salterò tutto il Summer Camp...-

-Tornerai in tempo per il mini-torneo con le altre società, garantirò io per Karl e Rudi.-

Tre settimane senza allenarmi, saprò ancora parare bene? Scuoto la testa.

-Rallenterò la squadra, non è giusto. Voglio che vincano. E’ meglio se giocano senza di me…-

-Non dire scemenze! Vuoi buttare così tre settimane di allenamento?!-

Quando il signor Wakabayashi si arrabbia e alza la voce fa paura, la sua faccia sembra quella di una delle creature cattiva che Cilly aveva nel libro di fiabe.

Però stavolta ho ragione io!

-Non potrò allenarmi fino alla partita!-

-Certo che puoi! Chi ti ha detto di no?-

-Ma non posso stare in porta con queste mani...-

-E credi che un portiere sia capace solo di usare le mani?-

Un portiere fa altro?

Sospira e un suo dito mi spinge sulla fronte, fa un pochino male.

-Guarda che un portiere dev’essere anche in grado di passare e calciare con i piedi come gli altri calciatori. Un attaccante è difficile che diventi portiere, ma è probabile che, in caso di emergenza, un portiere esca dalla sua porta e vada in campo.-

Ah, è vero, ho visto il signor Wakabayashi farlo in televisione: l’ho visto uscire fuori dalla porta e correre in campo con il pallone per aiutare la squadra. Lui è il portiere più forte di tutti.

-Pertanto, signorina, da oggi iniziamo un allenamento speciale per te: dovrai imparare ad usare meglio le tue gambe e i tuoi piedi…-

S’interrompe, mi guarda improvvisamente con aria sorpresa, poi sorride.

-...e credo di conoscere qualcuno che può aiutarti al meglio.-

Qualcuno? Quindi non mi allenerà il signor Wakabayashi?

Beh ha senso, c’è ancora Rudolf che avrà bisogno di lui, come il resto dei miei compagni. Va bene così, in fondo doveva restare fino a quando non mi sentivo meglio e adesso sto meglio.

Chissà chi è la persona che sta pensando il signor Wakabayashi, sarà un portiere anche lui? Che sia il secondo portiere del Bayern?

Sento una mano che mi accarezza la testa, ah mi ero persa tra i pensieri; alzo lo sguardo, il signor Wakabayashi mi guarda.

-Ehi, guarda che non ti lascio sola: verrò a trovarti tutti i giorni per sapere come stai, e quando starai meglio con le mani potrai tornare dagl’altri del Summer Camp.-

Mi verrà a trovare...tutti i giorni?

-Mi verrà a trovare?-

-Ma certo, devo controllare i progressi del mio miglior portiere...e assicurarmi che la mia migliore amica stia meglio.-

Il suo miglior portiere...la sua migliore amica…

Quanto mi piacerebbe che… che lui fosse...fosse il mio papà…

Oddio che imbarazzo, sento la faccia caldissima e la nascondo tra le mani.

-Ehi, ehi Andrea che succede? Stai male?-

Scuoto la testa, non voglio che mi veda così imbarazzata, non voglio che capisca cosa sto pensando.

-E’ che...sono felice...mister…-

Vorrei che il signor Wakabayashi diventasse il mio papà: lo so, ho sempre detto che non volevo farmi adottare da nessuno, per non creare problemi, per questo non posso dirglielo. Lui è così gentile con me, non posso chiedergli anche questo, ma il fatto che vuole che continuo ad allenarmi...che mi consideri sua amica...non avrei pensato che potesse accadermi...a lui piaccio così, mi accetta così.

Mi allenerò, mi impegnerò a fondo: se lui resterà con me per farmi diventare il portiere migliore, allora io continuerò a giocare.

-Io continuerò a giocare mister. Vedrà io diventerò il portiere più forte di tutta la Germania!-

Mi sorride, mi accarezza ancora la testa.

-Lo so che lo diventerai Andrea. Ah, un’altra cosa…-

Un’altra cosa? Lo vedo tirare fuori dalla tasca il suo berretto, glielo vedo sempre addosso durante gli allenamenti e gliel’ho visto anche nelle partite di calcio, alla tivù.

E’ un berretto bianco, è simile a quello che mi aveva preso il mio papà.

-Non credo potrà mai sostituire quello di tuo padre, però voglio dartelo, così potrai mettertelo quando riprenderai ad allenarti. Temo solo sia un po’ grande…-

Vuole...vuole darmi il suo berretto?! Davvero?! Lo vedo tenerlo per la visiera e mettermelo in testa.

Ho...ho il berretto di Wakabayashi...mi ha regalato il suo berretto…

“-Ecco, per il mio campione. Vedrai Andrea, farai un sacco di strada! Un talento come il tuo ti porta lontano! Potresti diventare il nuovo SGGK!-

-SGGK?-

-Super Great Goal Keeper, è il portiere più forte del mondo. E tu un giorno sarai come lui. A casa ti faccio vedere qualche articolo, ok?-”

Papà...grazie: ho potuto conoscere il signor Wakabayashi perché mi hai insegnato a giocare a calcio. E anche...anche se non mi vuoi bene perché sono una femmina...ora a tante persone piaccio perché sono così. Soprattutto al signor Wakabayashi.

Mi sorride, io mi tolgo pian piano il berretto e lo guardo, non voglio sgualcirlo.

Il berretto del signor Wakabayashi...

-Grazie, grazie mille mister.-

-...Andrea, puoi chiamarmi Genzo se vuoi.-

Davvero?!

-Davvero?-

Mi sorride e mi accarezza la testa.

-Certo!-

-...allora grazie...Genzo…-

...Genzo...posso chiamarlo Genzo...vorrei...vorrei tanto che lui fosse il mio papà. Genzo...Genzo mi da tanto felicità. Mi viene da piangere, calmati Andrea, non devi piangere.

Anche se non diventerà mai il mio papà so che non mi lascerà mai sola; lui ha promesso che mi aiuterà e starà con me.

Va bene così. Va bene così.


**

 

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Capitolo 16
*** XV: Adoptieren ***


XV: Adoptieren

 

Chiedo nuovamente scusa per il ritardo dell’aggiornamento, dalla prossima settimana dovrebbe tornare regolare.

 

> Tu vorresti fare COSA?! Sei impazzito?!

Appena uscito dall’orfanotrofio avevo chiamato Yasu per chiederle di venire in Germania con Ken per aiutarmi: ricordavo che Wakashimazu aveva giocato come attaccante in più di un’occasione e, dalle cronache di mia sorella, ancora si allenava in quel ruolo quando poteva, pertanto sapevo sarebbe stato un allenatore perfetto per Andrea.

La cosa aveva sorpreso parecchio mia sorella, dato che “era tanto che non mi vedeva così preso dal voler aiutare qualcuno a migliorarsi, men che meno un bambino”, tanto che mi aveva chiesto quali erano le mie intenzioni a questo punto, se avessi continuato ad allenarla anche dopo il Summer Camp.

Io non volevo solo allenarla: io...volevo adottare Andrea.

Oramai il sentimento che soffocavo a colpi di tosse, sforzandomi di essere sarcastico con tutti, ma attento e delicato con lei, era ben chiaro anche nel mio cervello: era un tipo di amore che aveva messo ed era cresciuto come una pianta, e probabilmente se avessi tentato di sradicarlo avrei strappato via pezzi del mio stesso cuore.

Io, Genzo Wakabayashi, provavo amore filiale verso una bambina conosciuta poche settimane prima.

Era folle, per questo Yasu ora mi stava strillando al telefono quando, da lei, erano circa le due di notte; si, l’avevo buttata giù dal letto, ma era un’emergenza.

-Occhio a non svegliare Ken.-

> Sono uscita in giardino, al massimo sveglio Genzo. Eccolo qui a proposito, ciao bello, scusa se ti ho svegliato.

Non mi ha mai fatto impazzire scoprire che Ken avesse un Akita con il mio nome, per quanto invece la cosa facesse molto ridere Yasu e anzi, se ne approfittava per prendermi in giro.

> Ma non cambiamo discorso. Ti rendi conto di quello che mi stai dicendo? Se non ricordassi che da te sono le sette di sera direi che ti sei sbronzato con i tuoi compagni in chissà quale pub.

-Invece sono sobrissimo e sto tornando a casa.-

> Genzo tu vuoi adottare una bambina. Lo capisci? Non si tratta di una situazione che durerà al massimo qualche mese: si tratta di una decisione che durerà tutta la vita, la tua e la sua!

Sentii una sensazione familiare mentre Yasu ripeteva ad alta voce i pensieri che avevo avuto negli ultimi due giorni, da quando avevo proposto la borsa di studio alla direttrice dell’orfanotrofio e questa mi aveva risposto per le rime: fin da piccoli avevamo sempre intuito l’uno i pensieri dell’altra e viceversa, dicendoceli ad alta voce e arrivando, in alcuni casi, a litigare.

Non ricevendo alcuna risposta Yasu continuò ad insistere.

> Genzo lo so che vuoi farlo a fin di bene, ti conosco, ma parliamoci chiaro: tu non sei un genitore, non sei nemmeno un marito!

-Questo perché non sono mai stato interessato ad essere un fidanzato.-

> Quello che voglio dire è che a parte la sottoscritta, per ovvi motivi di parentela, hai sempre preferito non condividere la tua vita con nessuno.

-Ehi, io ti voglio bene.-

>Anch’io te ne voglio, è per questo che ti parlo in questo modo!

-...lo so…-

> Adesso, improvvisamente, non solo vuoi condividere la tua vita, ma vuoi farlo con una bambina di 10 anni che conosci da quanto? 3 settimane? E per quale motivo? Perché ha talento come portiere?

-Ehi, non si tratta solo di questo!-

Alzai la voce dentro la macchina mentre superavo l’incrocio e mi sforzavo di non aggredire l’acceleratore, come al mio solito quando mi innervosivo.

-La sua è una situazione difficile, con ancora gli incubi del padre e il bullismo dei suoi compagni nel suo istituto: voglio portarla fuori da lì perché si merita una vita migliore e io posso dargliela.-

> Ma tu le vuoi bene?

-Che domande Yasu, certo!-

> E saresti disposto a fare per lei dei sacrifici? Non parlo solo dal punto di vista economico, mi riferisco anche dal punto di vista umano: i nostri genitori, per il nostro bene, a te hanno fatto andare in Germania mentre io sono rimasta in Giappone. Ci hanno assicurato il loro sostegno e il loro affetto sempre, anche nei loro momenti difficili. Riusciresti tu a fare qualcosa del genere per quella bambina?

Mi rendo conto che la nostra è una famiglia altolocata, quindi per molti può sembrare che io e Yasu abbiamo sempre vissuto nella bambagia: la certezza di ottime scuole, un tetto sulla testa, vestiti, cibo e tutto quello che potevamo desiderare.

Al tempo stesso per altri l’assenza dei nostri genitori poteva essere vista come una specie di loro “abbandono”, prediligendo invece il lavoro.

Posso dire, con una certa sicurezza, che il loro affetto è stato sempre presente e non mi sono mai sentito abbandonato o dimenticato: la nostra situazione era tale per cui, per garantirci tranquillità, i nostri genitori hanno dovuto allontanarsi e andare all’estero.

Questa è la nostra situazione, ed io e Yasu siamo sempre stati grati. Per tale motivo quelle parole risuonarono nella mia testa, mentre svoltavo verso la familiare via di casa.

> E se un giorno dovessi rinunciare ad un match o un importante contratto di lavoro per riuscire a stare con lei? Che faresti?

-Yasu, davvero stai insinuando che potrei comportarmi in maniera così meschina?-

> No, ti sto facendo presente che, se tu decidessi effettivamente di adottare la bambina, la tua vita, le tue decisioni e anche il tuo modo di fare dovranno inevitabilmente cambiare a suo favore. Io so che sei una persona buona Genzo, ma so anche che sei un solitario e hai un carattere difficile, già noi che siamo adulti a volte facciamo fatica a sopportarti, ma lei?

Era un altro dei dubbi che mi stava frenando dal compiere il grande passo, e ancora una volta Yasu lo aveva compreso.

> Oltretutto lei ha 10 anni, pertanto quando ne avrà 12-13 diventerà adolescente, e io so com’è l’adolescenza dal punto di vista di una femmina.

Tra l’altro Andrea era una bambina che faceva molta fatica ad accettarsi così com’era, ovvero come femmina; per un secondo mi venne un brivido nel pensare alle sue crisi appena gli ormoni ci avrebbero dato dentro.

Ma, al tempo stesso, non potevo fare a meno di pensare a quel viso arrossato dall’imbarazzo mentre mi confessava quanto era felice all’idea di me che continuavo a starle accanto, le lacrime quando le avevo regalato il mio berretto e la sorpresa nel potermi chiamare per nome...

La mia macchina entrò nel viale di casa, i cancelli automatici alti e neri si richiusero alle mie spalle quando ero arrivato davanti casa, spegnendo il motore e continuando a parlare.

-...so che ci saranno momenti da incubo, Yasu, ma nonostante questo voglio comunque farlo: lei merita il bene e io voglio darglielo. Al massimo sarà lei stessa a rifiutare la mia proposta.-

> Che intendi dire?

Le spiegai la situazione di Andrea e delle precedenti tre famiglie rifiutate dalla bambina.

Alla fine del racconto sentii Yasu, dall’altra parte della cornetta, prendere un respiro profondo e passarsi una mano in faccia.

> Santo cielo Genzo, ma perché hai sempre questa magica abilità nell’invischiarti in situazioni incasinate? Scommetto che se tu adottassi un cane sarebbe un pitbull salvato dai combattimenti e psicologicamente problematico.

Immaginai la situazione e mi venne da ridere.

-Di certo lo chiamerei Rocky Joe.-

> Certo! Ovvio!

La sentii ridacchiare e aprii lo sportello della macchina, mettendomi il cellulare all’orecchio e salutando con un cenno della mano Friedrich, che si stava occupando del giardino.

> Almeno hai raccontato a mamma di tutto questo?

-Al momento le avevo chiesto solo una mano con la sua associazione per la borsa di studio, ma di questo ancora non ne sa nulla.-

> Almeno avvertila in anticipo che tu sarai il primo che gli darà una nipotina...oh! Scusa, ti ho svegliato vero?

La sentii allontanarsi dal cellulare e capii che Wakashimazu si era svegliato; li avevo buttati giù alle due e mezza di notte, ammetto che mi sentivo un filo in colpa.

> Si è Genzo...insomma, diciamo che richiede la nostra presenza a Monaco...il prima possibile...davvero? Sicuro? E i tuoi?...mi spiace però per Haruki-san...se lo dici tu. Va bene allora, prenoto io? ...grazie amore.

La voce di Ken era più bassa e lontana di quella di Yasu ma a grandi spanne riuscii a comprendere che il problema di arrivare il prima possibile era dovuto dall’organizzare il loro matrimonio: “Haruki-san” era lo zio del mio futuro cognato ed era sacerdote, oltre che “proprietario”, di un tempio shintoista.

Avrei capito se non fossero riusciti ad arrivare prima di una settimana: si trattava dopo tutto del loro giorno più importante ed io, al mio solito, arrivavo a bomba a sconvolgere la situazione.

> Genzo?

-Dimmi tutto.-

> Io e Ken possiamo arrivare già domani in tarda serata, ci vieni a prendere tu?

Ero scioccato: così tanto presto?!

-Certo, ma sicuri che va bene?-

> Per Ken è un’ottima scusa per sfuggire da sua nonna e la sua presenza ammorbante nell’organizzazione del nostro matrimonio, alle volte quella donna mina la mia sanità mentale.

Sapevo che Yasu aveva un rapporto difficile con la signora mentre con la suocera andava d’amore e d’accordo; in diverse occasioni mi aveva telefonato stufa marcia e desiderosa soltanto di far tacere quella “vecchia rompiscatole” in qualche modo, anche infilandole in bocca un calzino. Cosa che, quando me lo disse la prima volta, mi fece ridere di molto gusto.

-Capisco. Come procedono i preparativi?-

> Avendo iniziato con mesi in anticipo siamo stato fortunati a trovare tutto quello che volevamo, praticamente adesso si tratta di trovare il completo per Wakashimazu e il mio secondo vestito, non ho alcuna intenzione di andare troppo in giro con il vestito da sposa di mia madre!

Aprii la porta di casa con una crescente tristezza: da una vita avevo accettato la sua relazione con Wakashimazu e, in fondo, lei era felice e la cosa mi tranquillizzava. Ma ora sapere che si stava addirittura sposando con quell’uomo...mi faceva sentire quanto oramai le nostre vite si erano separate.

In quei momenti, egoisticamente, mi mancava Yasu.

Anche per questo avevo sempre preferito di essere un solitario. Ma preferivo non dirle nulla di questo stato d’animo; tanto, nel bene o nel male, lo avrebbe comunque intuito.

-Sarai sempre e comunque bellissima sorellina.-

> ...Ani (fratellone), tu ci sarai vero?

Mi colpii profondamente sentirla chiamarmi in quel modo, era da quando aveva deciso di andare alla Tohou che non mi sentivo più chiamare così.

-Ma certo, che domande fai? Come potrei mancare al matrimonio di mia sorella?!-

> Lo so, però...in questi giorni ti ho pensato parecchio...a come le nostre vite ci hanno allontanato...e volevo solo dirti che, anche se ci sono 8 ore di differenza, io ci sono sempre per te, ok?

Maledetta Yasu, sempre stata quella più brava dei due ad esprimere i sentimenti di entrambi; mi commossi e mi diede dell’imbecille a pensare che oramai eravamo due entità separate.

-Vale lo stesso per me Shimai (sorellina). E credimi, non mi perderei il tuo matrimonio per niente al mondo, voglio vedere la faccia commossa di Ken quando ti vedrà entrare nel tempio vestita da sposa.-

> E io voglio proprio vedere se riuscirai a trattenere le lacrime.

Ridacchiammo e poi mi tornò in mente Andrea.

-Yasu senti.-

> Dimmi.

-Porterò anche Andrea al matrimonio, ok?-

> ...sei proprio convinto di volerlo fare, vero?

-Yasu...quella bambina ha bisogno di me...e io ormai credo di avere bisogno di lei.-

“-Non credo potrà mai sostituire quello di tuo padre, però voglio dartelo, così potrai mettertelo quando riprenderai ad allenarti. Temo solo sia un po’ grande…-

-Grazie, grazie mille mister.-

-...Andrea, puoi chiamarmi Genzo se vuoi.-

-Davvero?-

-Certo!-

-...allora grazie...Genzo…-”

L’aveva stretto a sé e aveva stretto fortissimo le palpebre per non mettersi a piangere ancora una volta, e io stesso sentii la commozione salire, tanto che dovetti ri-cacciarla dentro a colpi di tosse, alzandomi in piedi e uscendo fuori dalla stanza con il cuore che tremava, come un vulcano che minacciava di esplodere.

E la direttrice Voigt, quando mi accompagnò fuori dall’edificio, mi apostrofò decisa.

“-Mi aspetto che quando si ripresenterà, signor Wakabayashi, vorrà parlare dell’adozione di Andrea...-”

-Oltretutto la direttrice dell’orfanotrofio mi ha fatto ben capire che, se non ho buone intenzioni nei confronti di quella bambina, sarà il caso che sparisca.-

> Beh almeno quel posto è diretto da una persona con i piedi per terra.

La figura severa e gli occhiali con la catenina mi fecero ridacchiare.

> Genzo...che dire, non vedo l’ora di conoscere questa piccola campionessa.

-Credimi Yasu: l’adorerai anche tu.-

E ci salutammo mentre Isolde, rimasta in attesa, mi si avvicinava incuriosita.

-Viene la padroncina?-

-Si Isolde, prepara la camera per gli ospiti. Ah, un’altra cosa.-

La vecchia cameriera si fermò dall’avviarsi e si girò a guardarmi.

Cavolo, ora che avevo Isolde davanti e dovevo dirglielo mi fece così strano che anche la mia voce suonò più roca del solito.

-...prepara anche la mia vecchia camera da letto. Presto questa casa avrà una nuova padroncina.-

Isolde spalancò gli occhi sbalordita e si portò una mano sul petto; le parlai nuovamente con aria tranquilla.

-Te ne parlerò a cena con Friedrich presente. Adesso devo telefonare a mia madre.-

-...va bene Junge Meister.-

E la vecchia cameriera si allontanò ancora un po’ stranita, poverina l’avevo sconvolta!

Successivamente a cena, quando le spiegai la situazione, si commosse molto e cominciò ad elencare tutta una serie di piccole modifiche da fare alla stanza e le lasciai campo libero: mi fidavo di chi, per più di vent’anni, era stata cameriera personale di mia madre e balia di noi piccoli Wakabayashi. Lei sapeva cosa poteva andare bene per Andrea.

Ma prima di quel momento, prima di cenare, mi spostai nel salotto mentre scorrevo tra i contatti della rubrica fino ad arrivare al cellulare personale di mia madre, controllando al volo l’orario: quasi le otto, oramai era a casa a preparare la cena.

Feci partire la chiamata e dovette squillare almeno due volte prima che mio padre rispondesse.

> Pronto?

-Raffreddata mamma?-

> Che spiritoso.

-Buonasera papà. Mamma è occupata?-

> Sta cucinando il Kartoffelauflauf, hai bisogno?

-...guarda, se ci sei anche tu meglio, metti il vivavoce?-

> ...ok, aspetta un secondo. Tesoro, è Genzo, metto il vivavoce ok?

> Ciao Genzo! Come stai caro?

Sentii la voce squillante di mia madre e mi sentii come da ragazzino quando dovevo annunciare il brutto voto in storia: nervoso. Presi un respiro profondo e il mio primo istinto fu di girare attorno alla questione.

-Tutto bene grazie. Voi che mi dite?-

> Ah, il solito. Poi con la questione della borsa di studio com’è andata?

Tuttavia ricordavo che mia madre era una donna a cui piaceva andare dritta al sodo, dopotutto avevo preso da lei.

-Insomma, purtroppo non è andata bene: la direttrice ha rifiutato.-

> Immaginavo: quella struttura ha casi molto delicati e preferiscono l’adozione. Almeno ci hai provato tesoro, sono comunque fiera di te.

Sorrisi intenerito, mia madre era stata entusiasta quando glielo avevo proposto semplicemente perché era stata una mia scelta. Ma come l’avrebbe preso il resto della storia?

> Adesso che hai intenzione di fare? Continuerai a seguire la piccola?

-Si, purtroppo ha avuto un incidente e non può partecipare agli allenamenti…-

> Oh poverina, cos’è successo? Puoi dirci qualcosa?

Non feci alcun nome ma gli spiegai in breve l’incidente. Mio padre commentò con un “meine got” e mia madre disse che “purtroppo non si può riuscire sempre a controllarli, sono bambini con un passato difficile”.

> Sei andato a trovarla?

-Sì sono tornato da poco.-

> Come ti sembra che stia?

-E’ una bambina incredibilmente forte, sta cercando di superare il momento.-

> Meno male.

-...mamma, senti, io…-

> Dimmi tesoro.

-...io…-

Genzo, mi disse il mio cervello, ora o mai più!

Al tempo stesso avevo le budella che gridavano in coro di NON FARLO!!

Dovetti prendere un respiro profondo come se stessi per buttarmi in acqua.

-Ho deciso di adottare la piccola.-

Ci furono, non sto scherzando, tre secondi di silenzio, e poi fu mio padre a prendere la parola.

> Aspetta cosa? Vuoi adottare una bambina?

-Si.-

Altri tre secondi e poi sentii mia madre battere una volta le mani.

> AH! Te l’avevo detto io!

> Oh cielo.

> Dai tesoro, tra poco diventi nonno!

> Pensa te, avrei giurato che il primo sarebbe stato Akio.

> Ma figurati, lui e Amelia sono troppo presi dal loro studio fotografico.

-Aspettate un attimo.-

Che razza di reazione era quella?!

Mi aspettavo sì lo sconvolgimento, ma poi una reazione preoccupata come quella di Yasu, non certo mia madre che si gongolava perché sapeva che io avrei adottato una bambina.

Che poi, scusatemi, come faceva a saperlo?!

-Mamma come facevi a sapere che l’avrei fatto?!-

> Genzo ti avevo detto che conosco il Drei Keifern e la sua direttrice: abbiamo fatto qualche progetto insieme con i bambini, non ricordi?

-Quindi te l’ha detto lei?-

> No, ma mi ha chiesto che tipo di uomo sei e se eri abbastanza coscienzioso, o pazzo, da voler davvero adottare la piccola Andrea.

-Quindi tu conosci già Andrea?-

> L’ho conosciuta quando era ancora molto chiusa, all’epoca era sempre insieme ad una sua amichetta e preferiva non parlare mai con gli adulti.

Cilly. In quei momenti mi cresceva la curiosità di conoscere questa ragazzina.

> Il modo in cui me ne hai parlato e la successiva telefonata di Rose Voigt mi avevano fatto sospettare qualcosa, ma ho preferito aspettare che me ne parlassi tu; dopotutto un’adozione è qualcosa di estremamente delicato da discutere.

-Ma quindi voi...sareste d’accordo?-

> Insomma...

Ah ecco, mi sembrava tutto troppo liscio; sentii mia madre chiedere qualcosa a mio padre e poi riprendere la conversazione.

> Anzitutto hai pensato che, data la sua attuale situazione, avrai bisogno di farti aiutare da uno psicologo pediatrico?

-Si, ma non ho la più pallida idea a chi rivolgermi: lo sai che non conosco bene questa branca e non mi fido troppo.-

Da solo non sarei mai riuscito ad aiutare Andrea ad uscire dal guscio, ma al tempo stesso uno psicologo per me era una figura così estranea, misteriosa e di cui fidarsi molto poco che mi sentivo a disagio soltanto a pensare di contattare qualcuno.

> Lo so, ma ne avrai bisogno per Andrea. Se me lo permetti avrei già pensato a qualcuno con cui potresti sentirti a tuo agio.

Mia madre sembrava già essere entrata nella mentalità “sono la nonna di questa bambina e devo occuparmi di lei come nonna” e la cosa mi tranquillizzò parecchio.

-Mi fido di te.-

> Molto bene. Per quanto riguarda la sua camera da letto?

-Ne parlerò con Isolde e, eventualmente, la lascerò fare.-

> Bravo, stavo per suggerirtelo io. Hai già pensato alla sua iscrizione scolastica?

-Onestamente no, ancora non l’ho adottata mamma!-

> Lo so, per questo ci sto pensando io: mi rendo conto che è ancora presto per pensare ad una cosa del genere, ma siamo a Luglio e purtroppo se vuoi spostarla dall’Hauptschule per un altro istituto tecnicamente sei in ritardo e dovresti farle perdere almeno un mese di scuola.

Non avevo la benché minima idea di tutto questo ma, pensando all’istituto, mi venne d’istinto pensare che sì, io Andrea in quel posto non ce la volevo mandare; non perché non fosse un buon istituto scolastico, ma perché volevo allontanarla dalle ombre di quel possibile futuro.

-E tu come puoi fare tutto questo?-

> Perché la nostra associazione, occupandosi e sostenendo bambini in difficoltà, ha diversi contatti nell’ambito dell’educazione, pertanto posso tirare qualche filo in privata sede e assicurare ad Andrea una buona scuola.

-Davvero? Per lei?-

> Certo che sì! Dopo tutto lei è la mia futura nipotina, no? Se posso fare qualcosa per darle il meglio allora mi do da fare.

> Si ma non esagerare, che smonti tutta Monaco con il tuo modo di fare.

> Ma sentilo tuo padre!

-Ma...se lei mi dicesse di no? Se non mi volesse?-

Era sempre presente quella vocina che mi sussurrava nell’orecchio...

“-In questi 5 anni ho raccontato la vicenda di Andrea ad almeno tre famiglie che erano decise ad adottarla, assicurandole amore e conforto. Andrea la ha rifiutate tutte.-”

Quella vocina mi bisbigliava sempre questa cantilena quando ero deciso ad adottarla, e dopo la cantilena, proprio come un incantesimo, arrivavano una marea di dubbi ed incertezze: perché dovrebbe volermi come padre? Io sono solo il suo allenatore. Non sono in grado di fare il padre! E se la faccio soffrire? Se dirà di no? Dovrà restare lì? Ci sarà mai qualcuno a cui dirà di sì?

> Perché pensi che ti dirà di no?

In quei momenti tornava il burbero e chiuso Genzo a bloccare ogni mia intenzione.

-...Beh, io sono il suo allenatore e niente più.-

> ...Genzo, la direttrice Voigt mi ha confessato che non ha mai visto Andrea così felice da quando ti conosce. Tra l’altro credo che te l’abbia detto lei stessa, no?

“-E’ che...sono felice...mister…-”

-Però io non so fare il padre.-

> Credi che noi siamo nati imparati tesoro? Anzi, quando ho scoperto che aspettavo proprio voi due io e tuo padre non sapevamo proprio che pesci pigliare: un conto è avere un figlio per volta, ma due in un colpo!

> C’erano giorni che tua madre aveva i capelli dritti come spaghetti quando eravate piccoli.

> Da che pulpito viene la predica, l’uomo che un giorno era svenuto dal sonno nella stanza con voi due che di addormentarvi non ci pensavate proprio!

Ridacchiai a quell’immagine di mio padre sdraiato a terra più morto che vivo e io e Yasu che facevamo i fatti nostri.

> Ma con il tempo siete stati proprio voi due ad insegnarci cosa dovevamo fare e come comportarci. Nessuno all’inizio, quando ha un figlio, sa bene cosa fare Genzo: per queste cose ci vuole tempo e pazienza, quella che di solito ti manca.

La cosa non mi fece sentire più tranquillo, anzi.

> Però sono sicura che andrà tutto bene: se ti conosco so che sei capace di amare e proteggere come nessun altro.

E così mia madre mi mise in profondo imbarazzo, perfino mio padre la riprese per quell’affermazione e lei ridacchiando disse “se non posso approfittare ora per dire cosa sdolcinate a mio figlio quando potrò?!” obbligandomi a risponderle a tono e a cambiare velocemente la conversazione.

 

**

 

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Capitolo 17
*** XVI: Balance ***


XVI: Balance

 

Apro gli occhi.

Davanti a me il berretto bianco. E’ troppo bianco per essere il mio...no aspetta, è il mio: Wakabayashi...no...Genzo me lo ha regalato.

Genzo. Mi ha detto lui di chiamarlo per nome, mi ha promesso che resterà con me, mi ha regalato il suo berretto. Sono felice.

E’ venuto a trovarmi anche ieri pomeriggio, dopo gli allenamenti; mi ha raccontato come sono andati, mi ha parlato della partita di prova e che tutti aspettano il mio ritorno. Non credevo mi stessero aspettando.

“-E perché non dovrebbero aspettarti? Sei la loro compagna di squadra!-

-Ah...io…-

-Ti faccio vedere una cosa...-”

Ha tirato fuori il suo cellulare e mi ha mostrato che mister Schneider gli ha passato un video con tutti i miei compagni di squadra.

“> Ehi Andrea! Volevamo dirti che noi ti aspettiamo e ci alleneremo sodo per te, giusto ragazzi?

> Giusto!

> Inoltre torna perché Liam è un orribile portiere.

> Ehi! Non è vero!

> Andrea ti aspettiamo anche noi, non è lo stesso senza te e le tue parate da superare!

> Ti aspettiamo!

> Ciao Andrea!!”

E’ la prima volta che ricevo un video con così tanti...amici…

Ora sono tutti miei amici e compagni di squadra. Quando ho finito di vedere il video ero così felice che ho pianto, ultimamente piango spesso ma la signorina Voigt dice che è un’ottima cosa, che facevo male a tenermi tutto dentro.

Genzo mi ha detto che oggi verranno a trovarmi sua sorella con il suo fidanzato, ha detto che è un eccellente portiere e può insegnarmi a parare usando anche le gambe.

Potrò continuare a giocare.

Accanto al berretto c’è la mia mano, è avvolta dalle garze.

La signora Abigail mi ha detto che è una cosa molto seria; anche la signorina Voigt mi ha detto che ho fatto una cosa molto stupida e che ho rischiato di perdere le mani, ma non hanno alzato la voce e non mi hanno sgridata. In compenso la direttrice, quando ho finito di fare colazione, mi ha chiesto se sono felice che il signor Wakabayashi fosse venuto a trovarmi anche ieri pomeriggio.

-Ti ha fatto piacere?-

Annuisco e sorrido mentre riesco a portarmi il berretto verso il petto e lo guardo: il regalo di Genzo, ancora non ci credo che me lo ha regalato, non riesco a sentirne la consistenza con le garze e a malapena riesco a toccarlo con la punta delle dita ma è qui.

-Si, tanto.-

-Ti piace molto il signor Wakabayashi?-

-Si!-

-Cosa ti piace?-

-Il fatto che mi ha chiesto di essere sua amica...che si preoccupa per me e che lui crede che possa diventare un portiere di calcio! Lui...lui crede in me…-

“-Io continuerò a giocare mister. Vedrà io diventerò il portiere più forte di tutta la Germania!-

-Lo so che lo diventerai Andrea.-”

Sento la signorina Voigt accarezzarmi la testa e alzo lo sguardo, sento la faccia calda e cerco di smettere di sorridere: mi sento in imbarazzo, non riesco a trattenere la gioia.

-Andrea…-

Si ferma, prende un respiro profondo, deve dirmi qualcosa di importante.

-...saresti felice se Wakabayashi diventasse il tuo papà?-

...

...Si...si!!

Mi mordo il labbro inferiore e abbasso lo sguardo, non voglio dirlo ad alta voce, mi vergogno: so che il signor Wakabayashi...che Genzo non mi vuole adottare, che io gli piaccio solo come amica e portiere. Io non potrei...non posso...non potrò mai essere sua figlia…

-Andrea...lo sai che mi puoi dire queste cose: non lo dirò a nessuno, sarà una cosa tra me e te.-

Alzo lo sguardo verso di lei, mi sorride. Siamo sole nella stanza.

Mi manca Cilly, a lei potevo dire tutto, non so se me la sento di rispondere alla signorina Voigt.

Ma in fondo lei è sempre stata gentile con me, è lei che mi ha accolto qui all’orfanotrofio anche se ero strana.

-So che non sono come la tua amica Cilly, ma credimi Andrea: so mantenere i segreti.-

La guardo ancora, continua a sorridermi, fa strano vederla con la maglietta e i jeans: di solito è sempre con la camicia e la gonna. Assomiglia alle volontarie che ogni tanto vengono a dare una mano.

...forse mi posso fidare?

-Non lo dirà a nessuno?-

-A nessuno, promesso.-

-Neanche a Ge...al signor Wakabayashi?-

Non voglio chiamarlo per nome davanti agli altri. Lui è mio amico, è una cosa nostra.

-Se non vuoi che glielo dica sarò muta come un pesce.-

-Allora lo giuri. Per favore.-

Mi guarda ma non dico altro: se davvero devo rivelare questo voglio che giuri di stare zitta su quello che ha di più caro.

Prende un respiro profondo e alza la mano destra.

-Lo giuro sui miei occhiali e sull’orfanotrofio. Non dirò nulla.-

Sull’intero orfanotrofio? Cavolo, se mancasse la parola l’orfanotrofio crollerebbe. Forse posso davvero fidarmi.

-Giurin giurello?-

-Giurin giurello.-

Mi porge il mignolo e io ci metto il mio.

Ha giurato, non si può tornare indietro.

-Allora?-

Mi vergogno tantissimo, mi nascondo la faccia dentro il berretto di Genzo. Poi annuisco.

-Si. Mi piacerebbe tanto.-

Che imbarazzo, mi sento calda in faccia, devo essere arrossita. Adesso mi dirà che sono una stupida.

Qualcosa mi tocca i capelli, alzo la testa: è la sua mano, mi sta anche sorridendo.

Ah, che imbarazzo! Devo farle capire che so che non è possibile!

-Però so che non mi vuole! O meglio...io so che sono solo sua amica e che non è interessato ad adottarmi. A me va bene così.-

Chiudo gli occhi e mi nascondo la faccia, non voglio che mi veda, è troppo imbarazzante; c’è silenzio ma sento ancora la sua mano sulla testa. Pian piano scopro di nuovo il volto e la guardo, non sembra arrabbiata con me.

-Perché pensi che non ti voglia adottare?-

Stringo il berretto tra le mani.

-Io lo so che a 10 anni è difficile essere adottati...-

-Eppure Cilly ha la tua stessa età e ha trovato una mamma e un papà. Non pensi possa succedere a te?-

“-E’ una bambina ancora instabile…-”

-...signorina Voigt, io so che…-

Aspetta, ferma Andrea!

-Cosa?-

Devo dirglielo che l’ho sentita parlare con l’assistente? Però così scoprirebbe che ho spiato. ...Meglio stare zitta.

-...so che va bene così.-

-No Andrea. Non va più bene così.-

Le sue mani mi prendono le spalle e avvicina la testa, mi sta guardando dritta negli occhi, mi fa un po’ paura.

Poi sospira e mi lascia la spalla sinistra, accarezzandomi la faccia.

-Andrea...io non ho mai voluto insistere con te perché hai sempre avuto poca fiducia in noi adulti. Io so...che hai rifiutato quelle famiglie perché hai paura che non ti vogliano per come sei.-

Lo sa. Lo ha sempre saputo.

Che vergogna, mi nascondo la faccia nel berretto, mi viene anche da piangere: cosa mi dirà? Che sono stupida? Che è colpa mia?

-Mi...mi dispiace…-

-No Andrea, non ti devi dispiacere perché non è colpa tua, nessuno ha colpa.-

-Però io ho detto di no tutte le volte…-

-Va bene così Andrea. Tutti voi qui state aspettando la famiglia giusta, anche tu.-

Io sto aspettando?

-Sto aspettando?-

Mi annuisce, sorridendo e mi tiene il volto tra le mani.

-Ogni bambino che è qui sta aspettando la famiglia giusta, quella che non solo gli darà affetto, una casa, dei vestiti, ma che lo aiuterà a realizzare i suoi sogni, a superare i momenti più difficili, ad aiutarlo nel conoscere e accettare le sue paure.

Ma non tutte le famiglie vanno bene: ci sono quelle per i neonati come Gustav, ti ricordi la giovane coppia?-

Annuisco.

-Loro erano giovani e inesperti, ma desideravano tanto tanto avere un bambino. Gustav era un bambino che aveva bisogno di tante cure e attenzioni e loro erano pronti a dargliene.

Poi vediamo…-

Mi ha preso delicatamente le mani e sta pensando guardando verso l’alto.

-Beh c’è stata Cilly. Ricordi che anche Cilly ha rifiutato una famiglia?-

-Si. Diceva che non voleva nessuno se non poteva stare con me.-

-Cilly aveva paura di lasciarti sola e di restare sola anche lei, per questo ha aspettato la famiglia giusta, fino a quando non sono arrivati la sua mamma e il suo papà: loro abitano qui a Monaco, hanno una nonna, degli zii, dei cugini, tante persone che non la lasceranno mai sola.-

-Meno male.-

-Ma, al tempo stesso, hanno accettato che Cilly continuasse a mantenere i contatti con te perché sanno quanto vi volete bene.-

Annuisco, mi viene un po’ da piangere: mi manca ma sono contenta che Cilly abbia trovato la famiglia giusta.

La signorina Voigt mi accarezza la guancia sinistra.

-Come vedi, Andrea, non tutte le famiglie vanno bene per tutti i bambini, e ogni bambino aspetta quella giusta, anche tu.

Magari non hai bisogno di una famiglia grande come quella di Cilly, o di due genitori giovani come quelli di Gustav, ma sono sicura che quando arriverà le persone o la persona giusta saprai dirgli di sì.-

Una famiglia...tutta per me?

“-E’ una bambina ancora instabile, potrebbe avere difficoltà a relazionarsi con gli altri ragazzini crescendo...-”

-E se creassi problemi alla mia famiglia?-

La vedo sorridere e con le mani sulle mie guance mi muove la testa a destra e sinistra.

-Guarda che nessuna famiglia è senza problemi, con o senza figli; quello che importa è che si voglia trovare una soluzione che renda tutti felici.-

Tutti felici...io avere una famiglia felice? Una famiglia felice...con Genzo?

“-Tu mi piaci così. Tu sei bella così. Sei perfetta così. Noi ti vogliamo bene perché sei così.-”

Mi sento di nuovo calda la faccia, mi nascondo nel berretto bianco.

Sento una mano accarezzarmi i capelli ma non ho il coraggio di guardare la signorina Voigt, mi vergogno troppo.

All’improvviso qualcuno bussa alla porta della mia stanza, appare la signora Abigail che mi sorride.

-Direttrice Voigt, ci sono visite per Andrea.-

Oh, la sorella del mister e il suo fidanzato sono arrivati!

Sento il cuore iniziare a battere forte, sono nervosa.

-Ottimo, falli pure accomodare. Mi raccomando Andrea: comportati bene e non sforzare le mani, va bene?-

Annuisco e cerco di mettermi seduta sul letto con il berretto sulle gambe: come li posso salutare? Che penseranno di me? Respira Andrea, non ti perdere.

La porta si chiude per un attimo mentre la direttrice si alza dal letto; poi si apre e due persone si fanno avanti, l’uomo ha i capelli lunghi ed è alto, la donna invece prende la parola ed ha un bel sorriso.

-Permesso?-

-Prego, benvenuti. Sono Rose Voigt, la direttrice.-

-Molto lieta, Yasu Wakabayashi. Questo è il mio fidanzato, Ken Wakashimazu.-

Lui non parla, fa un inchino e poi offre la mano.

Ken Wakashimazu, Ken Wakashimazu, ho già sentito questo nome. Ken Wakashimazu...ah! E’ il secondo portiere della Nazionale Giapponese! L’ho visto giocare durante gli ultimi mondiali in mensa con gli altri, i giornalisti dicono che il suo modo di parare derivi dai suoi allenamento con il karate.

Ricordo che, dopo aver visto le sue partite, ho provato a copiare qualche suo movimento, ma i miei compagni mi prendevano in giro, così ho smesso.

Guardo la sorella di Genzo, è molto bella, assomiglia un po’ al mister: oltre al colore dei capelli ha lo stesso taglio degli occhi, anche il naso è lo stesso.

Si gira a guardarmi, mi hanno nominata? Non stavo ascoltando, ero distratta.

-Tu sei Andrea, vero? Piacere di conoscerti. Io sono Yasu, la sorella di Genzo.-

Ingoio a vuoto, mi sento così nervosa.

-Pi...piacere…A-andrea Muller.-

Ha gli stessi occhi di Genzo, che impressione. Abbasso lo sguardo, mi sento così in imbarazzo.

-L-lei assomiglia molto al signor Wakabayashi…-

Mi sorride e annuisce.

-Io e Genzo siamo gemelli.-

Oh, adesso capisco; la guardo con più attenzione, ci sono altri punti del viso simili a Genzo, è così strano guardarla.

-E’ un po’ strano, vero?-

-Un pochino. Le chiedo scusa.-

-Ma figurati! Piuttosto, parliamo di te: mio fratello mi ha detto che sei il portiere migliore che abbia mai visto.-

Il signor Genzo...pensa questo di me? Davvero?!

-Davvero?-

-Oh sì e lui non è tipo da dire bugie! Però mi ha detto che hai avuto un incidente e che ti serve un aiuto, vero?-

-Ah, si...mi ha detto che devo...devo imparare ad usare di più le gambe…-

Vorrei che fosse qui in questo momento, mi sento a disagio; lentamente metto le mani sotto la coperta con il berretto, non mi piace che vedano le garze.

La signorina Yasu mi sorride.

-Scusami, ti ho messo a disagio. Andiamo un passo per volta, ok?-

Annuisco e mi metto comoda nel letto mentre il suo fidanzato, nel frattempo, le porge una sedia...cosa gli ha detto? Non è tedesco. E’ giapponese? E’ la prima volta che lo sento.

-Mi scusi, il signor Wa...Wakashi...mazu, Wakashimazu, non parla tedesco?-

-Sta cercando di imparare ma preferisce che io traduca per lui.-

-Ah capisco. Posso...posso chiedergli una cosa?-

-Certo!-

-E’...è vero che quando para usa i movimenti di karate?-

Mi sorrise, poi si gira verso il signor Wakashimazu e gli parla in giapponese.

Oh, che lingua...strana, mi piace. Sarà difficile da imparare? So che la scrittura è completamente diversa dalla nostra.

La voce del signor Wakashimazu e bassa, ha un tono gentile.

-Sì, è vero: il suo papà insegna karate e lo ha imparato fin da piccolo, e visto che amava tanto il calcio ha deciso di mescolare le due cose.-

Il suo papà insegnava un altro sport? Andava bene che il signor Wakashimazu giocasse a calcio?

-Posso...posso fare un’altra domanda?-

-Ma certo, siamo qui per te!-

-Allora io vado Andrea, devo incontrare una persona.-

La direttrice si allontana verso la porta e io annuisco. Lei mi sorride e rivolge un ultimo saluto alla signorina Yasu e il signor Wakashimazu, poi chiude la porta.

Sono sola con loro. Mi sento nervosa.

-Cosa volevi chiedere Andrea?-

-Io...io volevo...volevo sapere se suo padre...se suo padre era contento che giocasse a calcio…-

Vedo la signorina tradurre e l’uomo ridacchia, passandosi una mano tra i capelli, sono molto lunghi; si parlano, ridono di nuovo, ho fatto una domanda così buffa?

-All’inizio suo padre era assolutamente contrario al farlo giocare, lo riteneva quasi una disgrazia.-

-Davvero?!-

-Poi, con il tempo e parlandosi, si sono chiariti e adesso è un suo grande fan.-

“-Guarda che nessuna famiglia è senza problemi, con o senza figli; quello che importa è che si voglia trovare una soluzione che renda tutti felici.-”

-Adesso...adesso sono tutti felici?-

Lei traduce, lui si gira e mi guarda.

-Si...tutti felici.-

Anch’io vorrei essere felice così…

-Hai altre domande?-

-Ah si...-

Gli chiedo del perché ha giocato anche come non portiere, se era stato difficile, se il karate aveva aiutato e se poteva aiutare anche me. Poi chiedo scusa per le troppe domande e i due ridacchiano divertiti.

-Non preoccuparti, a Ken fa molto piacere poterti rispondere; anzi, ti chiede se ti piacerebbe vedere qualcosa di karate.-

-Oh si! SI!-

-Ottimo! E’ l’entusiasmo che ci vuole. Allora ti facciamo cambiare e poi ci accompagni dove ti alleni che ti facciamo vedere qualcosa, va bene?-

Andrei al campo d’allenamento anche in pigiama, ma non è il caso; li vedo uscire e la signora Abigail entra a darmi una mano.

-Sei contenta Andrea?-

Annuisco mentre mi aiuta a mettermi pantaloni e maglietta, mi accompagna in bagno e mi aiuta a lavarmi i denti.

Mi sento di nuovo piccola senza poter usare le mie mani, non mi piace per niente.

-Signora Abigail, quando potrò usare le mie mani?-

-Purtroppo devi avere pazienza Andrea, dovrai tenere le garze fino a quando tutte le bolle sulle mani non se ne saranno andate.-

Pian piano mi toglie le garze per cambiarmele, credo sia la prima volta che vedo le mie mani: sono coperte da tante bolle gialle di diverse misure, le più grandi sono sui palmi, fanno male mentre mi mette la pomata.

Le mie mani...come sono ridotte...che disastro...

-Guariranno Andrea, queste brutte bolle se ne andranno vedrai. Devi solo avere pazienza.-

Annuisco però...però non sono sicura che torneranno come prima. Sarò ancora in grado di prendere il pallone in mano? Ho paura.

“-Tu potrai continuare a fare il portiere…-”

Verliere dich nicht.

Andrà tutto bene: Genzo ha fatto venire qui il signor Wakashimazu e la signorina Yasu per aiutarmi. Andrà tutto bene, non ti perdere Andrea.

La signora Abigail mi aiuta a mettermi il berretto in testa.

-Ora sei pronta. Divertiti e attenta alle mani.-

-Si!-

E corro all’entrata, il signor Wakashimazu ha già con sé un pallone da calcio mentre la signorina Yasu ci apre la porta.

Li guido fino al campo da calcio mentre parlano tra loro e mi fanno qualche domanda.

-Hai sempre fatto il portiere?-

Annuisco.

-E da quanto tempo giochi?-

-Da quando ricordo: mio padre mi ha insegnato e poi mi ha iscritto al corso.-

Sento la voce del signor Wakashimazu, è più chiara rispetto a quella di Genzo.

-E le arti marziali? Le hai mai provate?-

-No, mai. Però le vedevo in televisione quando eravamo a mensa.-

-Ti piacevano?-

Annuisco mentre indico il campo da calcio, la mattina d’estate è sempre vuoto e disponibile per allenarsi.

Mentre entriamo sento il signor Wakashimazu parlare di nuovo e passare la palla a Yasu, che la recupera con i piedi. Sembra brava a giocare a calcio, era anche lei un portiere?

-Allora, prima Ken vuole spiegarti velocemente cosa significa “Karate” e perché è molto utile come disciplina per un portiere, va bene?-

Annuisco.

-Karate si divide in due parole: Kara, che significa vuoto, e Te che vuol dire mano.-

Mano e vuoto.

-Quindi Karate...Mano vuota?-

-Brava! Hai già capito la base.-

Il signor Wakashimazu mi mostra il braccio e la mano continuando a parlare; irrigidisce leggermente il muscolo e vedo la mano stesa con le dita verso di me.

-Il vuoto di “kara”, in questo caso, non indica l’assenza di qualcosa, ma il liberarsi di qualcosa, “fare il vuoto”.-

-Tipo liberarsi di qualche ostacolo?-

La signorina mi guarda sorpresa.

-Sono davvero contenta che questo concetto è comprensibile per te, spiegarlo è sempre complicato.-

Mi sento un po’ in imbarazzo e torno a guardare il signor Wakashimazu.

-Gli ostacoli di cui il karate aiuta a liberarsi non devono essere sempre fisici, come un avversario o un pallone: possono anche essere le paure, o l’orgoglio e cose di questo tipo.-

Il karate può fare questo? Mi giro verso la signorina Yasu.

-Davvero? E come si fa?-

-Con la pratica.-

Mi fa un cenno verso il signor Wakashimazu e vedo che ha cambiato posizione, adesso tiene le braccia avanti a sé e prende profondi respiri. All’improvviso si gira e si para la testa con le braccia, poi tira due pugni e si ferma. Fa la stessa cosa dall’altro lato.

La signorina Yasu mi sussurra mentre continua il signor Wakashimazu muoversi, tirare un calcio dietro di sé e poi girarsi nella mia direzione con le mani aperte.

-Insegno al corpo i kata, ovvero le varie tecniche, la mente pian piano si svuota di tutte le cose negative e crea il vuoto, permettendo così di ritrovare l’equilibrio.-

Il signor Wakashimazu lancia un urlo e quasi salto indietro, mi ha colta di sorpresa; si muove ancora, è veloce e preciso. Poi si ferma, torna in posizione, respira profondamente e le braccia scendono ai fianchi, facendo infine un inchino.

Quando la testa torna su il signor Wakashimazu mi sorride a mi parla.

-Come ti è sembrato?-

-...forte. E veloce. E preciso.-

La signorina traduce e lo vedo imbarazzato.

-Ti ringrazia.-

-Posso fare una domanda?-

-Assolutamente Andrea, riempici di domande.-

Mostro le mani nelle garze.

-Ma posso farli anche con le mani così?-

Lei parla, lui guarda le mie mani. Poi mi si avvicina e mi parla, indicandomi le mani.

-No importanti queste. Importanti questi.-

E mi indica i piedi. Poi si rivolge alla signorina Yasu.

-Il karate di solito si fa a piedi nudi perché il piede si deve adattare al suolo e deve essere in grado di reagire senza il bisogno della vista.

Ken ritiene che questo sia fondamentale per un portiere, dato che i suoi occhi devono essere fissi sulla palla e non può pensare a dove mettere i piedi.

Pertanto non ti preoccupare delle tue mani adesso, Andrea: prima devi imparare a mettere bene i piedi. E vedendo come hai capito in fretta, non ci vorrà molto per te.-

La signorina Yasu mi sorride e mi fa l’occhiolino, imbarazzandomi. Ma ha ragione: ora non sono importanti le mie mani, me lo aveva detto anche Genzo. Ora devo imparare ad usare le gambe.

-Ho capito. Grazie. Come si dice “grazie” in giapponese?-

-Arigatou.-

Lo ripeto un paio di volte, poi mi giro verso il signor Wakashimazu: mi sta aiutando, è giusto ringraziarlo.

-Arigatou Wakashimazu.-

Lui mi guarda e annuisce con un sorriso, poi riprende a parlare con la signorina Yasu che traduce.

 

**

 

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Capitolo 18
*** XVII: Familienrecht ***


XVII: Familienrecht

 

Wer nicht verheiratet ist, kann ein Kind nur allein annehmen.

Se non si è sposati, è possibile adottare solo un bambino.

 

Die Annahme soll in der Regel erst ausgesprochen werden, wenn der Annehmende das Kind eine angemessene Zeit in Pflege gehabt hat.

L’adozione diverrà effettiva solo nel momento in cui l’adottante si sarà adeguatamente occupato del bambino.

 

Zur Annahme ist die Einwilligung des Kindes erforderlich. Für ein Kind, das geschäftsunfähig oder noch nicht 14 Jahre alt ist, kann nur sein gesetzlicher Vertreter die Einwilligung erteilen.

L'accettazione richiede il consenso del bambino. Per i bambini con età inferiore ai 14 anni solo i loro rappresentanti legali possono dare il consenso.

 

(Bürgerliches Gesetzbuch-BGB 1741, 1744, 1746)

 

L’avvocato di famiglia fu molto sorpresa dalla mia richiesta, specie perché dovette riprendere in mano alcuni suoi vecchi libri di studio per ripassare il Familienrecht, la materia dedicata al diritto di famiglia del Codice Civile; nonostante questo mi ringraziò per la possibilità di ripassare un argomento così delicato e affascinante invece che presentargli la solita questione economica.

Io, nel mio piccolo, avevo sfogliato quella parte di Regole del Codice Civile e da una parte mi sentivo rincuorato che la legge supportasse la mia decisione.

D’altro canto non potevo fare a meno di essere inquieto per l’importanza di quello che stavo facendo e la severità con cui sarebbe stata giudicata la mia persona: dalla mia condizione economica al mio carattere, tutto sarebbe stato controllato e verificato.

Anche in quel momento, mentre l’avvocato stava semplicemente rivedendo i documenti da portare al Pretore, avevo la sensazione che da un momento all’altro si sarebbe fermato, avrebbe alzato lo sguardo, si sarebbe lentamente tolto gli occhiali da sopra il naso e mi avrebbe interrogato su qualcosa della mia vita privata.

Solitamente non mi turbava essere osservato e giudicato, anzi fin da giovane ho sempre cercato di dare il mio massimo per attirare l’attenzione di tutti, ma qui chiaramente si trattava di qualcosa completamente fuori dal mio elemento e dalla mia persona.

Tra l’altro anche la mia casa aveva iniziato a cambiare d’aspetto: avendo dato carta bianca ad Isolde questa aveva ri-organizzato e arredato la mia vecchia camera da letto: le pareti erano state dipinte di un colore caldo e le tende furono tolte e lavate, risultando più bianche del solito; il baule dei miei vecchi giocattoli fu spostato in soffitta e sostituito con una cassa panca con dei cuscini. La scrivania venne messa accanto alla grande finestra, ripulita e riverniciata.

Isolde aveva messo tutti al lavoro, Friedrich compreso che, in giardino, adesso sistemava l’altalena fischiettando “Mein kleiner gruner kaktus”.

C’era una vibrante e malcelata gioia in tutta casa, assieme alla crescenta impazienza di accogliere a casa il nuovo membro della famiglia e la cosa, inevitabilmente, mi faceva sorridere divertito, non mi sarei mai aspettato una tale e...frizzante reazione in quella vecchia e pigra casa.

Al tempo stesso, però, mi sentivo salire l’ansia: mi rendevo conto che era tutto pronto, mancava soltanto accordarsi per l’udienza dal giudice, le firme e...sarei diventato padre. Ma restava sempre un problema: Andrea mi avrebbe accettato? E se mi avesse detto di no?

-Bene, direi che la documentazione è tutta apposto. Manca solo prendere appuntamento dal Pretore e sbrigare la prima parte della pratica; una volta che l’assistente sociale avrà appurato la nuova situazione della bambina, se vuole, posso farle da rappresentante per la seconda udienza.-

-No non si preoccupi: voglio essere presente in entrambe le udienze.-

Mi sembrava quantomeno doveroso essere presente; il rischio era che i media, alla seconda udienza, si sarebbero presentati in gran massa a tempestarmi di domande e a tentare di ottenere qualche informazione sul Drei Keifern.

Già qualche testata di quelle riviste da parrucchieri avevano scritto qualche articolo sulla visita mia e di Karl all’orfanotrofio e non era passata inosservata la presenza di Wakashimazu nella “ridente” Monaco.

-Perfetto signor Wakabayashi, allora la lascio andare ai suoi doveri. Ci risentiamo per la prima udienza.-

-La ringrazio mister Brunner.-

Strinsi la mano all’avvocato alzandomi in piedi e mi feci accompagnare fuori dall’ufficio, dirigendomi in silenzio alla mia macchina per andare al Summer Camp, sentendo che una leggera morsa aveva preso la mia base dello stomaco mentre pensavo che ora si trattava di fare la cosa più semplice e, al tempo stesso, più difficile: parlare e chiedere ad Andrea.

Gli allenamenti di Wakashimazu stavano dando già i primi frutti: la bambina era affamata di allenarsi e migliorarsi pertanto fin da subito aveva seguito le istruzioni con la sua attenzione e passione, rinforzando la sua stabilità e le sue gambe.

Dalla prima sera, a cena, Ken aveva raccontato entusiasta di quella bambina, delle sue domande e di come riusciva a capire subito i vari esercizi, tanto che mi arrivò a chiedermi che poteva proporle anche qualcosa di più impegnativo.

Invidiavo Ken: desideravo poter di nuovo allenare Andrea personalmente, ma dovevo concentrarmi su Rudolph e sugli allenamenti delle due squadre, uno dei compagni della squadra di Andrea si era offerto di fare da portiere fino a quando non sarebbe tornata e Leonhard incoraggiava sempre a dare il meglio per accogliere al meglio il ritorno del loro portiere.

Albert, dopo le ultime vicende, era stato definitivamente espulso e questo aveva stimolato Sibo a rivelare la sua vera natura, molto più amichevole e timida.

Ogni pomeriggio, finiti gli allenamenti, andavo a trovare Andrea ed era quasi sempre nel campo da calcio ad allenarsi, a tentare di parare con le gambe o ripetendo i kata che gli aveva insegnato Ken.

Io, silenziosamente, mi avvicinavo a Yasu che mi faceva un resoconto su come era andata la giornata, ma veniva quasi sempre interrotta dalla ragazzina che mi vedeva e correva verso di me. Alla fine era lei a dirmi cosa aveva imparato e io le raccontavo come stava la squadra; un giorno mi rivelò che i suoi compagni di squadra andavano a trovarla e le andavano a chiedere come stava.

-Vai a trovarla anche oggi?-

Karl si girò verso di me mentre i ragazzini andavano nello spogliatoio a cambiarsi alla fine degli allenamenti.

-Si.-

-Senti un po’, quando potrò farmi chiamare “zio Karl”?-

-E da quando tu diventeresti suo zio?-

-Eddai, ci conosciamo da una vita! E poi sono stato io il primo a “vederla” effettivamente, se non ti dicevamo niente ancora credevi che era un ragazzino!-

In effetti non ero stato un campione di attenzione allora. Anzi, effettivamente la prima volta che l’ho vista avevo solo voglia di fuggire da quel Summer Camp; ora mi ritrovavo ad adottarne uno dei partecipanti!

-Hm, forse hai ragione…-

-Allora, quando firmi le carte?-

-Oggi io e la direttrice troviamo un accordo per la prima udienza.-

-E Andrea? Glielo hai chiesto?-

Presi un profondo respiro mentre uscivamo dal campo da gioco.

-No, ancora no, ma devo farlo entro oggi o domani altrimenti rischio di rimandare il processo.-

-Ammetto che è la prima volta che ti vedo così nervoso con il genere femminile...-

-Vero?! Quella bambina mi sta facendo impazzire! Non sono io questo!-

-Forse lo sei. Ma solo per lei.-

Karl mi sorrise divertito e mi diede una pacca sulla spalla mentre io lo guardavo un po’ stranito, in effetti io ero così solo con Andrea. Era imbarazzante.

Salutai il resto dello staff tecnico nascondendo la faccia con la visiera del berretto e uscii dal Säbener Straße, cercando di respirare per non andare in apnea, la morsa allo stomaco si era fatta un po’ più forte.

Guidai la macchina senza riuscire a sentire la musica dalla radio, innervosendomi più del solito con le macchine tedesche e irrigidendomi mentre parcheggiavo vicino all’orfanotrofio, lanciando diverse occhiate in giro per vedere se c’era qualche giornalista.

No, tutto deserto. Potevo uscire dalla macchina. Se il mio corpo me lo avesse permesso.

“Genzo Wakabayashi per l’amor del cielo! Esci da questa maledetta macchina!”

Mi sembrava di essere fatto di pietra mentre obbedivo al mio cervello e prendevo un profondo respiro, dirigendomi verso il campetto.

Li trovai con Andrea che era alla porta e cercava di prendere al volo i palloni utilizzando le gambe, le braccia, le spalle e qualsiasi altra parte del corpo che non fossero state le mani.

E, come sempre, fu la prima a notarmi.

-Genzo!-

Nel vedere quel volto entusiasta mi sentivo prendere da quella sensazione frizzante che girava per casa e, al tempo stesso, mi saliva la morsa allo stomaco all’idea che dovevo chiederglielo. Non ho mai avuto così tanti problemi con il genere femminile, quella bambina mi stava ribaltando tutto!

-Tutto bene?-

-Si! Oggi sto provando a parare con i piedi.-

-E come te la cavi?-

-Con i tiri bassi ci arrivo ma con quelli alti è impossibile! Ma prima o poi ce la farò a prenderne uno!-

-E le mani? Ti fanno ancora male?-

Con il permesso della direttrice, Yasu assisteva durante il medicamento delle mani di Andrea e mi raccontava come stavano migliorando, adesso la piccola riusciva ad aprire e chiudere le mani senza sentire eccessivo dolore.

Andrea scosse la testa e mi fece vedere che riusciva a muovere le dita.

-Ora riesco ad afferrare gli oggetti, ma fanno ancora un pochino male.-

Quello sarebbe stato un momento perfetto per chiederglielo, e approfittai delle sue parole per farle una carezza.

Forza Genzo, forza…chiediglielo!

-Mi fa davvero piacere. Torna pure a  finire di allenarti.-

Annuì e si allontanò di corso mentre io mi diedi mentalmente dell’idiota e mi passai una mano in faccia.

Yasu mi si avvicinò.

-Di questo passo potrà di nuovo parare un tiro con le mani in una settimana.-

-Meno male.-

-Devo ammetterlo Genzo: Andrea...è una bambina in gamba.-

Le sorrisi mentre la guardavamo allungare la gamba verso una palla ma mancandola e facendola finire in porta, con Ken che le gridava di provare ancora, oramai tra il suo tedesco stentato e il pochissimo giapponese che Andrea ora capiva i due riuscivano a parlarsi senza che mia sorella traducesse continuamente.

-Te l’avevo detto che l’avresti adorata.-

-Mamma e papà ne saranno entusiasti quando la conosceranno.-

-Di sicuro mamma la sfrutterà per invogliare Akio a mettere su famiglia con Amelia.-

-Già, sarebbe proprio da lei.-

-Credi che piacerà ad Ichiro?-

Nostro fratello maggiore, di tutti noi, era quello più geloso della sua famiglia e non gradiva molto l’arrivo di nuovi estranei: quando Akio presentò Amelia la prima volta fu molto diffidente, e quando Yasu annunciò la sua relazione con Wakashimazu lui gli fece un interrogatorio che quasi gli provocò una lite con nostra sorella. Stranamente io, con Akio, dovetti sedare gli animi.

Yasu girò leggermente la testa da un lato continuando ad osservare Andrea mentre, testarda, tentava di prendere i palloni con i piedi.

-Secondo me farà meno fatica che con Ken.

Invece, è tutto pronto? Con i documenti intendo.-

Sospirai e passai una mano dietro il collo, la morsa allo stomaco si fece di nuovo sentire. Dovevo dirglielo, dovevo chiederglielo quel pomeriggio.

-I documenti sono in regola e con la direttrice devo accordarmi per la prima udienza.-

-Ottimo, allora ci siamo.-

-Non proprio: manca la cosa più importante.-

Continuai a tenere lo sguardo fisso su Andrea, in quel momento usò la spalla e il gomito per allontanare la palla e Ken le fece i complimenti, proponendole di fermarsi, ma lei scosse la testa e fece un inchino, chiedendo di provare ancora.

Percepii Yasu che si voltava verso di me.

-Non glielo hai ancora chiesto?-

-Mi rendo conto che è ridicolo da parte mia, ma non mi sono mai sentito così in ansia come di dover chiedere una cosa del genere ad una ragazzina.-

-...no, ti capisco: al tuo posto sarei nervosa uguale. Però devi chiederglielo, è giusto.-

-Lo so, ma...credo di essere spaventato… no, nemmeno: sono terrorizzato all’idea che lei mi dica di no.-

-E perché mai? Lei ti adora!-

Vidi Ken recuperare di nuovo qualche pallone e tirare nuovamente in porta, con Andrea che continuava a provare.

-Un conto è essere il suo allenatore, un altro è chiedergli se mi vuole come padre.-

-Ma come, ti tiri indietro? Tu, il grande SGGK?-

-Non mi sembra il caso Yasu.-

-Invece credo che sia il momento migliore di ricordarti chi sei, ovvero il portiere che non si è mai arreso davanti ad una sfida e che non si è mai fatto prendere dalla paura.-

-Io ho sempre avuto paura.-

-Eppure sei sempre riuscito nei tuoi intenti.-

-Si ma in questo caso si tratta di un’altra persona…-

-La tua squadra da cosa è composta? Comodini?-

-Tsk.-

Avevo capito cosa stava cercando di fare: stuzzicandomi in quel modo voleva togliermi dal mio impasse mentale. Feci un sorriso storto e lei aprì il suo con aria divertita, tornando poi a guardare la bambina.

-Andrà tutto bene Genzo. Sei arrivato fino a questo punto, oramai non si torna più indietro.-

-No infatti.-

Ken tirò il pallone e mi resi subito conto che era più forte di quelli tirati fino a quell’istante; sia io che lui gridammo verso Andrea, allarmati che si facesse male alle mani.

-Andrea!-

-Keikoku!- (attenzione!)

La scena passò al rallentatore: la palla sfrecciò verso la porta da calcio e Andrea le tenne gli occhi incollati, spostando il corpo verso la sua direzione, saltando leggermente e caricando la gamba, riuscendo a colpire la palla appena sopra la sua testa, rimandandola all’indietro mentre, per il contraccolpo, cadeva a terra di schiena evitando di usare le mani.

Corsi immediatamente da lei assieme a Ken e la vidi mettersi seduta, con il berretto caduto da una parte.

-Andrea, tutto bene?!-

-Ce l’ho fatta...ce l’ho fatta!-

Aveva il volto che sprizzava entusiasmo da tutti i pori e gli occhi spalancati dall’incredulità; guardò in direzione della palla e poi della porta e si alzò in piedi da sola, entusiasta, girandosi verso di me e praticamente investendomi con la sua gioia contenuta, stretta a sé mentre mordeva il labbro inferiore e cercava di non sorridere troppo.

-Ce l’ho fatta Genzo, sono riuscita a parare usando la gamba!-

Rimasi...completamente spiazzato da quella reazione.

E poi mi ricordai che lei era fatta così: che aveva bisogno di essere protetta ma, al tempo stesso, che voleva sempre riuscire a superare ogni sfida, senza mai arrendersi, per poi timidamente cercare di contenere i suoi sentimenti. A quel punto sbuffai divertito, passandomi una mano dietro al collo, per poi sorridergli e accarezzarle la testa libera dai capelli..

-Sei stata grande, sapevo che ce l’avresti fatta.-

Spalancò gli occhi e la vidi arrossire, mormorando che doveva recuperare il berretto e allontanandosi dalla mia carezza, imbarazzatissima; era maledettamente tenera quando faceva così.

Probabilmente i primi giorni a casa sarebbe stata ancora più timida e incerta; poi forse, pian piano, si sarebbe abituata al mio tocco. A quel punto avrebbe cercato lei i miei abbracci? L’immagine di lei che mi corre incontro e mi buttava le braccia al collo mi irrigidì leggermente, era una cosa così lontana dal mio modo di fare, sarei riuscito a dimostrarle quel tipo di affetto?

Andrea raccolse il berretto, pulendolo sui pantaloni, prima di tornare nuovamente da te, ancora con il volto arrossato.

-Grazie Genzo.-

-E di cosa? Dovresti ringraziare invece Ken, che ti ha allenato.-

Scossa la testa tenendo gli occhi bassi, non si era ancora rimessa il berretto ma lo stringeva forte tra le dita delle mani.

-No, io...ti ringrazio di essere con me, di avermi allenato questa estate...e di essere mio amico. Io...io...-

La vidi arrossire ulteriormente e incespicare con le parole, per poi fermarsi e prendere un profondo respiro con il naso. Ci furono dei secondi di silenzio e io non avevo la minima idea di cosa aspettarmi, ero anche preoccupato: cosa voleva dirmi?

-...Andrea?-

-...io...io...Genzo!-

Alzò lo sguardo e mi guardò dritto negl’occhi, nonostante le guance che stavano chiaramente andando a fuoco aveva un’espressione maledettamente seria.

-Io ti voglio bene Genzo. Arigatou!-

E fece un profondo inchino.

Non avevo la minima idea che avesse imparato quella parola in giapponese; non mi sarei mai aspettato mai nella vita che mi dicesse qualcosa di simile. Neanche l’inchino era aspettato, benché lei fosse solita ringraziare con cenni del capo.

I suoi capelli, oramai, stavano superando le orecchie ed erano spettinati come al loro solito; le sue mani erano coperte dalle garze, ma ora riuscivano a tenere con le punte delle dita il berretto.

Quando rialzò la testa aveva il volto arrossato, con quegli occhi grandi e scuri che mi guardavano intensamente, sembravano quasi avere le lacrime per quanto brillavano.

“-Lei ti adora!-

> La direttrice Voigt mi ha confessato che non ha mai visto Andrea così felice da quando ti conosce...

-Signor Wakabayashi...non mi starà diventando un buon genitore?-

-E’ che...sono felice...mister…-”

Non ha i miei occhi, né ha il mio sorriso. Non abbiamo alcuna somiglianza fisica.

-Ti voglio bene anch’io, Andrea…-

La vidi spalancare gli occhi dalla sorpresa, poi nascondere il viso dietro il berretto e soffocare un singhiozzo, asciugandosi con la maglietta mentre cercava di coprirsi al mio sguardo.

-Mi...mi scusi…-

-Aspetta, Andrea.-

Mi abbassai al suo livello, piegando le ginocchia e mettendone una a terra; lei abbassò il berretto e mi guardò ancora sorpresa, il rossore lentamente stava lasciando le guance ma gli occhi brillavano ancora.

E’ timida, testarda, diffidente verso le persone e tremendamente insicura di sé; decisamente un carattere tosto quanto il mio.

-Ascolta…-

Aveva subìto e sofferto, si era chiusa in se stessa credendo di essere sbagliata, aveva sempre cercato di nascondere la sua natura e anche in quel momento, con quella tuta addosso, sembrava continuare a negare chi era.

Eppure, mai come in quel momento, desideravo abbracciarla e farle sentire quanto affetto mi stava facendo uscire dal cuore; non avrei mai creduto che il mio muscolo cardiaco fosse capace di battere così forte al di fuori dello sforzo atletico.

-E’ da un po’ che volevo chiederti una cosa. Mi prometti che mi rispondi sinceramente?-

Mi guardò e annuì con forza la testa, il suo sguardo era tornato molto serio, probabilmente la stavo facendo preoccupare con il mio atteggiamento.

Presi un respiro profondo, la guardai.

Ora o mai più.

-Vorrei essere il tuo papà. Ti posso adottare?-

Spalancò gli occhi e anche la bocca, le scappò il berretto dalle mani.

Ci furono dei momenti di silenzio che mi parvero infiniti mentre lei continuava a guardarmi, incredula; pian piano notai che stava tremando e che le lacrime cominciarono a uscirle di nuovo dagli occhi mentre tentava di parlare, portandosi le mani verso la bocca per controllare i singhiozzi.

-...da...davvero? Il mio...il mio...papà?-

Papà. Sentii una scarica attraversarmi il corpo quando la sentii pronunciare quella parola.

Annuii con forza e recuperai il suo berretto, porgendoglielo e sforzandomi di parlare anche se avevo la commozione che mi strozzava.

-Solo se tu lo vuoi, Andrea.-

Si avvicinò timidamente, arrivando a pochi centimetri da me. Afferrò timidamente il berretto che lo avevo offerto, stringendolo sempre di più tra le dita ed ero sicuro che si stesse facendo male mentre, con le lacrime che continuavano a scendere, mi guardava.

Poi annuì leggermente. Ripeté il movimento, più decisa. Poi ancora più decisa. Infine annuì con tutte le sue forze.

-Si...si…si, si, si!-

E a quel punto scoppiò a piangere.

L’abbracciai e mi alzai in piedi, stringendola a me il più possibile mentre sentivo le sue braccia attorno al mio collo, la sua vocina si era ridotta ad un pigolio per via delle lacrime  ma sentii perfettamente.

-Papà...il mio papà…-

Ebbi la sensazione che qualcosa, come il pezzo di un puzzle, fosse entrato dentro di me e si fosse inserito perfettamente nell’incastro: di colpo tutta l’ansia fu spazzata via da una marea di gioia che poche volte avevo provato nella vita.

Sentivo ancora, dentro di me, una voce che mi ricordava che ci sarebbero stati momenti difficili, ma quel corpo tra le mie braccia, i suoi singhiozzi e i suoi sussurri mentre continuava a chiamarmi “papà” mi donarono una grande serenità.

Molto lentamente la posai a terra, lei stava cercando di frenare il pianto e subito tolsi dalla tasca il fazzoletto, asciugandole il volto mentre le parlavo.

-Ci sono ancora delle cose che io e la direttrice Voigt dobbiamo fare, ma ti prometto che, per la fine dell’estate, saremo assieme.-

Annuì, ancora tremante di gioia. Le accarezzai la guancia e le sorrisi.

-Grazie Andrea.-

Mi guardò sorpresa, per poi scuotere la testa e tentare, per la prima volta, di farmi vedere un sorriso. Come sempre, era timidissimo su quelle labbra.

-Grazie a te...papà.-

Sorrisi e mi alzai in piedi offrendole, finalmente, la mia mano.

-Dai, rientriamo che devi cenare, così diamo la bella notizia alla direttrice, va bene?-

Annuì, asciugandosi ancora gli occhi con il fazzoletto.

Poi mi diede la mano bendata e la tenni con estrema delicatezza fra le dita, lasciando che fosse lei a trovare la presa più confortevole. Mi resi contro, in quel momento, che la sua mano era incredibilmente piccola tra le mie dita.

Davanti a noi Yasu e Ken ci aspettavamo, vidi chiaramente che mia sorella aveva gli occhi rossi mentre il suo fidanzato sorrideva con aria contenta; quando li raggiungemmo lei prese la parola, anche se aveva la voce ancora commossa.

-Visto? L’avevo detto che sarebbe andato tutto bene.-

-Avevi ragione.-

Si voltò verso Andrea, piegandosi verso di lei e sorridendole.

-Benvenuta in famiglia.-

Lei la guardò sorpresa, poi arrossì e cercò rifugio dietro di me, provocando in tutti noi un sorriso.

C’era ancora tanto lavoro da fare.

Le posai una mano sopra il berretto.

-Ringrazia Ken per gli allenamenti di oggi.-

Spalancò gli occhi sorpresa e sgusciò fuori dalle mie spalle, fece un inchino simile a quello che aveva fatto prima.

-Arigatou!-

Mi girai verso Yasu mentre Ken sorrideva e le parlava, facendosi tradurre da mia sorella.

-Spera di poterti allenare ancora, è stato molto divertente.-

-Ma gli hai insegnato tu a dire “grazie”?-

-Ah lo ha chiesto lei come si diceva; in realtà ha chiesto qualche altra parola come “buongiorno” o “buon appetito”. Sembra piacerle molto il giapponese.-

Mi voltai a guardarla, non me l’aspettavo da lei questo interesse. Ma c’erano tante cose che ancora non conoscevo...di mia figlia.

Ancora una volta quella serenità mi venne incontro e con l’animo sollevato ci dirigemmo verso l’orfanotrofio.

 

**

 

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Capitolo 19
*** XVIII: Süße Traurigkeit ***


XVIII: Süße Traurigkeit

 

Sette giorni dopo…

 

Apro e chiudo le mani. Stringo forte i pugni. Niente, non mi fa male più niente.

Le mie mani adesso hanno tante chiazze chiare, la signorina Yasu...no, mia zia Yasu dice che sono le cicatrici dell’ustione e che quando sarò più grande, se vorrò, si potranno togliere.

Mia zia Yasu...ancora mi fa strano pensare che ho una zia; ho anche tre zii, un’altra zia, una nonna e un nonno. E soprattutto ho il mio papà.

Genzo è diventato il mio papà.

-Andrea, sei pronta?-

Alzo la testa, vedo la direttrice Voigt davanti alla mia camera; annuisco, alzandomi dal letto e sistemandomi il berretto sulla testa, davanti a me ci sono le mie due valigie e il mio borsone.

Oggi esco dall’orfanotrofio. E non ci torno più.

Tutte le mie amiche e i miei amici mi sono venuti a salutare tra ieri sera e stamattina in mensa, le bambine mi hanno fatto un braccialetto con le perline e i maschi mi hanno fatto un biglietto con tutte le loro firme.

I miei compagni di squadra sono andati avanti al Summer Camp e io lo raggiungerò tra poco; finalmente posso tornare a giocare! Posso partecipare al torneo del Summer Camp! Ho fatto vedere loro le mani guarite e le nuove mosse ed erano tutti elettrizzati come me!

Quando le mani non mi facevano più tanto male ho ricominciato, di nascosto, a prendere il pallone tra le mani; so che era troppo presto, ma avevo paura di aver perso la sensibilità con le dita. Per fortuna era tutto a posto.

Non voglio essere un peso per i miei compagni, in fondo mi hanno aspettata.

-Andrea, c’è il tuo papà che ti aspetta fuori, prendi le tue cose.-

La signora Abigail è molto sorridente mentre mi avverte che...che il mio papà mi aspetta.

Ancora non riesco a crederci: Genzo è diventato il mio papà!

Ricordo che, il giorno dopo che me lo ha chiesto, la mattina sono corsa dalla signorina Voigt appena sveglia, a chiedergli se per caso mi ero sognata tutto quanto. Lei si è messa a ridere e mi ha detto di no, che anzi quella mattina dovevamo andare dal giudice per la mia adozione. Pertanto mi ha detto di andare a togliermi il pigiama e di cambiarmi prima di fare colazione.

Quando Ge...papà...oddio, è ancora difficile dirlo, mi sento tutta la faccia rossa!

Quando...papà è venuto a trovarmi, quel giorno, gli ho chiesto se davvero voleva adottarmi e lui mi aveva detto di sì. Mi sono scusata per la domanda, ma lui mi ha risposto: “puoi chiedermelo tutte le volte che vuoi, ti risponderò sempre di sì.”

La direttrice prende una delle mie valigie assieme alla signora Abigail mentre io prendo il borsone. Mi giro a voltarmi a guardare la mia stanza: adesso è spoglia delle mie cose, alcune sono già nella mia nuova casa, Ge...papà è venuto a prenderle ieri e l’altro ieri.

Mi fa strano pensare che non ci tornerò più qui: voglio dire, un po’ mi fa tristezza e un po’ sono contenta. Questa è stata la mia casa, con tutti gli altri bambini e adesso...adesso me ne vado e forse non li vedrò più. Ho promesso loro che sarei tornata a trovarli, però non sarà la stessa cosa.

-Tutto bene Andrea?-

Mi giro verso la signorina Voigt e annuisco, chiudendo la porta della mia camera.

-Darete la mia stanza a qualcuno?-

-Beh, Brigida oramai è diventata abbastanza grande da avere la sua stanza. Gliela lasci?-

Annuisco, poi mi blocco un attimo, oddio mi stavo scordando una cosa!

-Arrivo subito, scusatemi!-

Torno dentro la camera e mi allungo sotto il letto, la scatola!

L’acchiappo con una mano e la stringo, portandola verso di me.

No, neanche questa volta mi fanno male le mani, sono proprio guarite; metto la scatola sotto braccio e ritorno dalla signorina Voigt, la signora Abigail si era avviata per aprire la porta.

-Hai preso tutto?-

-Si, mi scusi.-

-Non preoccuparti. Forza.-

Mi da una leggera spinta sulla schiena e mi avvio lungo il corridoio.

Mi volto per guardare di sfuggita il corridoio dietro di me, stamane mi sono lavata per l’ultima volta i denti al bagno e mi hanno controllato le mani nell’infermeria; guardo tutti i disegni appesi nel corridoio, mi sporgo sulle finestre di passaggio per vedere il piccolo parco giochi al centro dell’edificio, alcuni bambini ci stanno giocando.

Quando arriviamo alle porte d’ingresso il corridoio va verso la mensa ma da qui non si riesce a vederlo.

-Vuoi farti un giro dell’edificio?-

Mi giro sorpresa verso la signorina Voigt.

-Posso?-

-Certo, in fondo è l’ultima volta che sei qui. Intanto mettiamo le tue valigie in macchina.-

-...Albert è in giro?-

Ho un po’ paura ad incontrarlo: dopo che gli altri bambini avevano saputo che ero stata adottata è venuto a cercarmi, ma il signor Weiner lo ha fermato prima che potesse picchiarmi. Ricordo che aveva cominciato ad urlare.

“-Hai rovinato la mia vita! Sei una maledetta bastarda! Spero che Wakabayashi ti abbandoni come tuo padre!-”

I miei compagni di squadra, anche se erano intimoriti quanto me, si sono subito avvicinati per chiedermi se stavo bene e Albert ha insultato anche loro.

Una volta mi è capitato di sentire le volontarie parlare della situazione con la signora Abigail; lei disse che il comportamento di Albert è dovuto dalle violenze che assisteva in casa: la sua famiglia non era povera, anzi lui poteva avere tutto quello che chiedeva e i suoi genitori dicevano sempre che lui era il bambino più bravo e talentuoso che esistesse.

Però poi sua madre e suo padre litigavano sempre tra di loro, fino al punto che, quando si sono separati, nessuno dei due volle tenere la custodia del figlio, ed è stato portato in una casa-famiglia, per poi finire qui all’orfanotrofio.

Mi sono sentita triste per lui e ne ho parlato con Genzo. No aspetta, con papà, pa-pà.

Lui mi ha accarezzato la testa e mi ha detto che sono una brava bambina, ma che purtroppo possiamo fare poco per lui, solo sperare che un giorno stia meglio.

La signorina Voigt intanto scuote la testa.

-Oggi è dalla psicologa per tutta la mattinata. Va pure Andrea.-

-La ringrazio.-

-Vuoi darmi il borsone?-

-Non è pesante, grazie.-

Me lo sistemo in spalla e mi avvio verso la mensa, notando che al lavoro c’erano solo le volontarie a spreparare e mettere a posto, una di loro mi fa un cenno del capo.

-Andrea, perché sei qui? Non vai via oggi?-

Annuisco, restando sulla porta. Loro sorridono.

-Sii felice, va bene?-

Annuisco di nuovo e le saluto, per poi allontanarmi dalla mensa e dirigermi verso le due stanze dell’asilo; sento del vociare da entrambe, una delle due porte è socchiusa e vedo i bambini più piccoli alle prese con le loro maestre e dei giocattoli.

Tra le due stanze, alla fine del corridoio, c’è l’ufficio della signorina Voigt. Guardo la targa con il nome della signorina, Rose.

“-Ciao Andrea, io sono Rose Voigt, ti ricordi di me?-

-...la signora che mi ha preso in braccio a casa.-

-Esatto, sono contenta che te lo ricordi.-

-Mi scusi, ma dove sono mia nonna e il mio papà? Quando tornerò da loro?-

-...per il momento starai qua Andrea, giusto un pochino, fino a quando non sarai pronta ad andar via, va bene? Dai, ti mostro la tua camera e le tue compagne di stanza.-”

Mi viene da piangere, trattengo il fiato e mi asciugo gli occhi con la mano; poi mi sistemo il berretto e corro via verso l’uscita.

Ad aspettarmi la signora Abigail, la signorina Voigt e... il mio papà.

Mi sorride, ma io mi sento tanto in imbarazzo.

-Eccoti qua. Pronta ad andare?-

-Si.-

Mi prende il borsone e mi da una carezza sul berretto, allontanandosi mentre la signora Abigail mi abbraccia e mi stringe come al suo solito.

-Mi raccomando Andrea: sii felice con il tuo papà e la tua famiglia, ok? Qui non ci devi più tornare.-

-Promesso. Grazie mille.-

La vedo commuoversi e io l’abbraccio di nuovo. Lei mi stringe un po’ di più.

Mi mancherà: è stata una maestra e una mamma, si è sempre presa cura di me. Si stacca leggermente e tira su il volto, qualche lacrima le scende dagli occhi e mi sento un po’ triste.

-Le scriverò.-

-Ci conto, ok? Voglio sapere tutto quello che fai.-

Si passa una mano sugli occhi e io annuisco mentre mi fa girare verso la direttrice Voigt.

Lei sorride, non piange ma sembra molto felice; s’inginocchia verso di me e mi fa l’occhiolino.

-Te l’avevo detto che stavi solo aspettando solo la famiglia giusta.-

Mi sistema il berretto. Mi sento salire le lacrime e mi mordo le labbra prima di parlare, non devo piangere, non ti perdere Andrea.

-Grazie mille signorina Voigt. Grazie.-

Sento una sua mano accarezzarmi una guancia e la guardo, i suoi occhi mi ricordano il giorno che sono arrivata qui all’orfanotrofio; che strano, ho la sensazione che sia successo da pochissimo, ma sono passati 5 anni.

-E’ stato un piacere e un onore Andrea. Credimi.-

Lei mi ha portata via da mio padre; lei mi ha fatto conoscere Cilly. E nonostante fosse contraria, lei mi ha lasciato continuare a giocare a calcio; ed ora mi ha aiutato a trovare il mio papà.

L’abbraccio e la stringo, forte forte: mi dispiace così tanto, so che...sono strana, ma lei non ha mai smesso di seguirmi. Ora lasciarla mi fa sentire così triste.

-Grazie...mi scusi…-

La sento scuotere la testa e, pian piano, mi stacca dall’abbraccio. Sta continuando a sorridermi.

-Ora va.-

Annuisco e mi giro. Genzo...il mio papà, mi apre la porta posteriore della macchina.

-Forza, ti stanno aspettando.-

Annuisco, sistemo il berretto e salgo sulla macchina, mettendomi la cintura di sicurezza mentre il portello si chiude; alzo lo sguardo verso il finestrino, vedo...papà che stringe le mani della signora Abigail e della signorina Voigt che poi si girano a salutarmi, la prima piange e la seconda le mette una mano sulla spalla, continuando a sorridere.

Sono sicura che, quando me ne andrò, piangerà anche lei.

-Tutto bene Andrea?-

Mi giro, vedo gli occhi di Ge...del mio papà dallo specchietto mentre accende la macchina.

-Non lo so. Sono felice...ma è strano.-

-Immagino. Se vuoi tornare a visitarle basta che me lo dici, va bene?-

Annuisco, stringo le mani sulla cintura mentre la macchina si avvia.

Guardo dal finestrino, l’orfanotrofio si allontana sempre di più e mi giro per vederlo scomparire dietro la curva; non è la prima volta che vedo l’edificio sparire dietro di pini e la curva, quando andavo a scuola o agli allenamenti era sempre così. Ma stavolta è diverso, tutto è diverso.

Avrò preso tutto? Ho la sensazione di aver lasciato dietro qualcosa; però i miei vestiti sono nelle valigie, nel borsone ho la mia uniforme e le mie cose per giocare a calcio, la scatola è sul sedile accanto a me...allora perché mi sembra di aver perso qualcosa?

La strada prosegue e non parliamo, c’è tanto silenzio in macchina; mi sento imbarazzata, non so cosa dirgli.

Sento un trillo molto forte e mi sorprendo, mi sporgo e G...papà risponde al cellulare, appoggiato vicino al volante. La voce risuona in tutta la macchina.

-Pronto.-

> Ehi, come va? Qui stiamo per iniziare il riscaldamento.

Ah, è la voce di mister Schneider!

Oh no, siamo in ritardo!

-Cominciate pure, noi arriveremo tra poco.-

> Come sta Andrea?

-Direi bene, tu che mi dici?-

Alzo lo sguardo e lo vedo che mi guarda dallo specchietto.

Arrossisco e annuisco, mi sento così in imbarazzo!

-Arriviamo.-

> Perfetto, a fra poco!

Sento la macchina accelerare e guardo fuori dal finestrino, le macchine sfrecciano via, è così diverso da quando andavo con il pulmino; l’Englischer Garten appare alla mia destra si allontana molto più velocemente del solito, a malapena riesco a vedere la torre cinese.

Non vedo l’ora di dire a Cilly di tutto questo! Sarà così felice! Forse...forse finalmente potremmo andare alla Torre insieme! Papà...papà avrà voglia di portarmi?

-A cosa pensi?-

Gen...papà mi richiama, vedo di nuovo i suoi occhi.

-Ah...non...non vedo l’ora di parlare con Cilly.-

-Giusto, la signorina Voigt mi ha dato il suo numero di telefono. Vuoi parlarle ora?-

-Adesso?! Posso??-

-Certo, se vuoi.-

Stringo le mani sulla cintura, posso davvero parlare adesso con Cilly?! Mi viene da gridare!

Calma Andrea, non ti perdere. Sii educata. Respira.

-Per favore...p-papà, posso telefonare a Cilly?-

-Certo tesoro.-

Mi...mi ha chiamato “tesoro”... ah, mi...mi sento così in imbarazzo, sento la faccia in fiamme.

Sento il suono del telefono risuonare nella macchina e, poco dopo, una voce femminile rispondere.

> Pronto?

-Buongiorno, parlo con la famiglia Hahn?-

> Si, con chi parlo?

-Salve, sono Genzo Wakabayashi, ho ricevuto questo numero dalla signorina Voigt dell’orfanotrofio Drei Keifern.-

> Ah! Lei è il papà di Andrea allora! Certo, la direttrice Voigt mi ha informata che avrebbe chiamato. E’ un piacere.

-Piacere mio. Ho qui Andrea che vorrebbe parlare con sua figlia Cilly, è possibile?-

> Certo, un attimo solo che la chiamo! Cilly! E’ per te.

-Rispondile tu, ok? Mi raccomando parla con voce decisa.-

Annuisco mentre mi sporgo in avanti, sono così nervosa, non vedo l’ora di sentire la sua voce…

> Pronto?

-Cilly!-

> Andrea! Che bello sentirti! Come mai mi chiami a quest’ora? Perché non sei all’allenamento?

Ah giusto: lei non sa di quello che mi è successo alle mani, la signorina Voigt ha detto che era meglio tenerglielo segreto per questa volta.

E’ giusto, nemmeno io glielo avrei detto, non volevo spaventarla; glielo dirò quando ci vedremo faccia a faccia, così vedrà che sto bene.

-Sto andando agli allenamento adesso... sono in macchina...con...con il mio papà.-

> COSA?! DAVVERO?!?! Mamma! Mamma hanno adottato Andrea! Andrea! Andrea è fantastico! Lo sapevo che anche tu avresti avuto una famiglia! Lo sapevo!

Mi metto le mani in faccia per nascondere il rossore, mi viene anche un po’ da piangere.

> E chi ti ha adottato? Com’è la tua mamma? E il tuo papà?

Guardo nello specchietto, vedo gli occhi di … papà fissi sulla strada.

-Il mio papà...è Genzo Wakabayashi.-

> ...EH?! DAVVERO?! WOW! Mamma! Mamma l’ha adottata Genzo Wakabayashi, il portiere! Sì è vero, piace tanto a papà! Andrea! Andrea senti, il tuo papà è bravo con te?

Guardo di nuovo lo specchietto, oddio no che imbarazzo, ma devo risponderle o continuerà a chiedermelo.

-Si...si è bravissimo.-

Voglio sprofondare! E’ così imbarazzante!

> Sono così felice per te Andrea! Non vedo l’ora di rivederti!

-Anch’io Cilly.-

> Finalmente possiamo andare alla torre cinese! Chiederò a mamma e papà se possiamo andarci assieme! Ok?

Andare alla torre insieme, magari mangiare al ristorante lì vicino...possiamo farlo finalmente!

-Certo! Non vedo l’ora!-

-Andrea, siamo quasi arrivati.-

-Ah, devo andare Cilly. Oggi ho partita.-

> In bocca al lupo, sarai fantastica!

-Grazie, ti voglio bene.-

> Anch’io ti voglio bene. Ciao!

La telefonata si chiude mentre la macchina passa accanto all’Allianz Arena, è vicinissimo da qui! Non entriamo nei parcheggi dove ci avevano lasciato la prima volta con il pulmino, ma la macchina entra in un ingresso con un cartello con su scritto “Privato, accesso consentito solo ai calciatori e al personale autorizzato.”

Wow, entro da un ingresso riservato! Che emozione!

-Buongiorno signor Wakabayashi.-

-Buongiorno.-

Mi sporgo a vedere la guardia e lui mi guarda stupito tanto quanto me.

E’ incredibile! Vedo la macchina parcheggiare accanto a delle altre e il motore si spegne.

-Forza soldatino, si scende.-

Obbedisco togliendomi la cintura e aprendo lo sportello. Scendo e mi guardo attorno, è un parcheggio coperto e mi sento un po’ persa, dove siamo esattamente nell’Allianz Arena?

-Dai vieni, se no ti perdi il riscaldamento.-

Papà ha preso il mio borsone e se lo è messo in spalla e mi offre la sua mano.

Ah...proprio come nel mio sogno...gliela prendo e stringo con le dita, non voglio lasciarla andare; lo seguo mentre mi accompagna fuori dal parcheggio e dentro l’Allianz.

-Tu e la tua amica Cilly volete andare alla Torre Cinese?-

Mi volto a guardarlo stupita. Annuisco, mi sento in imbarazzo ma questa è l’occasione perfetta per chiederglielo.

-Possiamo p...papà?-

Lui sorride, sento che mi stringe la mano.

-Ma certo: dopo il torneo avrai ancora qualche giorno di vacanza, possiamo organizzarci con i loro genitori e passare lì una giornata, che ne dici?-

Ah, ha detto di sì! Andrò davvero alla Torre con Cilly! Annuisco con forza, sento lo stomaco pieno di farfalle!

Riesco a riconoscere il corridoio degli spogliatoi e mi passa il borsone.

-Forza a cambiarti ora.-

-Ah papà!-

Mi sfilo il berretto e glielo passo. Lui mi sorride e lo prende, io entro negli spogliatoi e mi cambio più velocemente che posso, tornando nel corridoio e correndo fuori nel campo.

Sono di nuovo qui!

-Andrea!!-

Mi giro e vedo i miei compagni di squadra che mi corrono incontro superando mister Schneider.

Leonahrd è il primo, assieme a Rudolph, ad abbracciarmi mentre io sono sorpresa, non mi aspettavo che mi accogliessero così.

-Bentornata!-

-Finalmente! Ci mancavi! Liam è pessimo come portiere!-

-Che hai detto?!-

Li sento ridere e mister Schneider mi si avvicina sorridendo.

-Bentornata.-

-Grazie.-

-Dai ragazzi, ancora un giro di campo così Andrea riprende il ritmo.-

-Va bene!-

Rispondiamo tutti all’unisono e partiamo a correre. Mi giro solo un momento per vedere...il mio papà che parla con l’allenatore.

Poi corro via e raggiungo i miei compagni di squadra.

 

**

 

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Capitolo 20
*** Epilogo: Kleine Schritte ***


Epilogo: Kleine Schritte

 

I primi giorni in casa furono...beh, l’unico aggettivo che potrebbe descriverli al meglio è “strani”: non credo piaccia a nessuno sentirsi a disagio o in imbarazzo di fronte ad altre persone, specialmente se si tratta dei proprio figli. Ho sempre creduto che un genitore dovesse dimostrare sicurezza in ogni situazione dove si trovasse coinvolto il proprio figlio.

Questa era la sensazione che mi avevano sempre dato i miei genitori, assieme al loro affetto e la loro onestà.

Personalmente ho sempre cercato di evitare di mostrare il mio imbarazzo a chiunque: l’ho sempre vista come una forma di debolezza, un modo per gli altri di vedere la mia persona più segreta, ed essendo un noto stronzo la cosa non mi faceva per niente impazzire.

Preferisco che gli altri mi vedano come “il cattivo” piuttosto che mi conoscano nell’intimo e, magari, sfruttino le mie debolezze per i loro scopi. Sì, sono un uomo profondamente diffidente.

Ma come potevo esserlo nei confronti di una bambina di dieci anni con un difficile passato alle spalle e che aveva vissuto in un orfanotrofio per la maggior parte della sua vita?

Era la domanda che mi ponevo ogni volta che sentivo l’istinto di irrigidirmi, allontanarmi o fermare Andrea in situazioni a me estranee, come ad esempio la possibilità di aiutarla a farsi il bagno, in particolare ad asciugarsi i capelli.

Sapevo che era una bambina indipendente, e fin da quando entrò in casa la prima volta cercò di mostrarmi che se la cavava da sola: si sistemò da sola le sue cose nella sua nuova camera, da sola si mise a tavola a mangiare, da sola si preparò l’acqua per il bagno. Isolde, in tutto questo, era stata una silenziosa ombra, per niente invadente ma pronta se la piccola avesse avuto bisogno di qualcosa.

Io le lasciai fare, sentendomi molto impacciato e preferendo nascondermi in salotto come un animale selvatico nella sua tana; peccato che la domestica apparve all’improvviso alle mie spalle, tra le braccia un accappatoio color carta da zucchero. Era la prima volta che vedevo quel colore in casa e mi accorsi, guardandolo meglio, che aveva anche delle farfalle gialle stampate.

-Junge Meister, potrebbe portare questo ad Andrea? Credo le farebbe piacere se fosse suo padre ad aiutarla ad asciugarsi i capelli. Mi raccomando le asciughi e pettini bene i capelli, che temo possa raffreddarsi.-

Le avrebbe fatto piacere se l’avesse aiutata suo padre.

Pensai che, effettivamente, fosse una cosa normale per i padri aiutare le loro figlie, pertanto presi l’accappatoio e salii al bagno, bussandole alla porta.

-Andrea, sono io. Posso entrare?-

-...prego.-

Mi rispose con voce timida ed entrai. sentendomi investire dal vapore caldo che sapeva di pesca; lei era immersa fino al naso nell’acqua e teneva lo sguardo basso, chiaramente imbarazzata, l’acqua era piena di schiuma bianca e sbucavano a malapena le ginocchia della bambina.

Il silenzio era asfissiante, come il calore nella stanza e sentii, chiaramente, salirmi quella fastidiosa sensazione di disagio; presi un respiro profondo provando ad allontanarla, avvicinandomi e sedendomi al bordo vasca, sistemando l’accappatoio sulle gambe.

-Ti sei lavata per bene?-

Lei annuì con il naso che entrava ed usciva dall’acqua, per poi immergere per un momento la testa e tirarla su subito dopo, togliendosi l’acqua dagli occhi con le mani.

-Ti lavavi da sola all’orfanotrofio?-

-Si, anche se la signora Abigail ci insaponava di nuovo i capelli: diceva sempre che eravamo stati troppo veloci a lavarci.-

-Ed era vero?-

-Non lo so.-

-Ma ti faceva piacere che la signora Abigail ti insaponasse la testa?-

La vidi immergere di nuovo la testa ma questa volta si limitò ad affondare il naso sotto il pelo dell’acqua, per poi annuire timida.

L’ultima volta che avevo insaponato i capelli di qualcuno era stato a mia sorella Yasu quando avevamo sei anni e facevamo per l’ultima volta il bagno insieme; presi un profondo respiro e posai l'accappatoio da una parte, cercando con lo sguardo lo shampoo e prendendone un po’ sulle mani, una zaffata dolce di pesca mi colpì in faccia.

-Vieni qui.-

Lei si avvicinò e si mise seduta dandomi la schiena, ora che potevo vedere bene i capelli erano praticamente neri e le arrivavano quasi alle spalle; le chiesi almeno due volte se le facevo male mentre le mie dita si muovevano sulla sua testa, strofinando, e in entrambi i casi lei scosse la testa.

Non ci parlavamo, ma l’imbarazzo iniziale si stemperò nell’aria calda del bagno, dove si diffondeva il profumo del sapone; quando fui abbastanza soddisfatto del mio operato usai il soffione della doccia per sciacquarla, assicurandomi di togliere ogni traccia di sapone.

-Bene, direi che ci siamo. Forza che si esce.-

Recuperai l’accappatoio e la vidi alzarsi nella vasca continuando a darmi la schiena, vedere la pelle chiara della schiena mi fece tornare in mente il livido che le avevo scoperto appena due-tre settimane prima; vedere ora la pelle perfettamente pulita mi diede sollievo mentre le porgevo l’indumento.

-Mettiti questo.-

Guardò l’accappatoio sorpresa, per poi infilarlo velocemente e stringerlo, guardandosi le maniche con le farfalle bene in vista; aveva uno sguardo meravigliato, come se non si aspettasse di ricevere un accappatoio per coprirsi.

-Ti piace? Lo ha scelto Isolde.-

Si voltò verso di me annuendo, stava trattenendo il sorriso e la cosa mi rallegrò: oramai avevo imparato che Andrea tratteneva i sorrisi quando era particolarmente felice.

La presi sotto le ascelle e la sollevai dalla vasca, posandola sul tappetino per poi prendere un asciugamano e iniziare ad asciugarle la testa.

-Ah, posso fare da sola.-

-Isolde si è raccomandata che ti asciugassi e pettinassi per bene, come un buon papà.-

-Un papà fa questo?-

Alzò la testolina e mi guardò sorpresa.

Le annuii, facendole scendere lo sguardo con una leggera pressione delle mani e tornando ad asciugarle la testa, quella sua domanda mi aveva leggermente inquietato: se chiedeva una cosa del genere forse non era stata una cosa solita nella sua vecchia dimora, o comunque era una cosa di cui si occupava sua nonna.

Ricordo che prima di entrare in aula di tribunale, al primo incontro con il Pretore, avevo chiesto alla Direttrice dell’orfanotrofio se il padre di Andrea, nonostante quello che era successo, avesse voluto un po’ di bene alla figlia; la donna mi guardò chiaramente stupita e mi domandò perché ne fossi interessato.

“-Vorrei sapere...se un giorno verrà messo in discussione il mio affetto per lei per qualsiasi motivo...vorrei solo avere la certezza di averle dimostrato che anche se non ha il mio sangue, ha di certo il mio cuore.-”

Allontanai quel ricordo come l’asciugamano dalla massa confusa di capelli di Andrea, prendendo invece una spazzola e cercando, con la delicatezza che io potevo avere, di pettinarla, facendola sedere sulle mie ginocchia mentre io mi ero oramai accomodato sul bordo della vasca; fortunatamente solo una volta fui sicuro di averle tirato troppo i capelli, ma alla fine riuscii nell’intento di districarle i nodi e le presi il phon, cercando di far soffiare aria calda ma non bollente, come io ero solito fare con i miei capelli.

Il silenzio accompagnava i miei gesti ma sentivo che l’imbarazzo iniziale di Andrea stava pian piano passando, avevo visto le sue rigide spalle sciogliersi e mentre passavo il getto d’aria calda, e la mia mano scivolava sui suoi capelli, mi accorsi che si era rilassata, tanto che provai a sporgermi un pochino per guardarla: le vidi un sorriso che le sollevava le guance arrossate. Mi sentii contagiare da quel sorriso e continuai ad asciugarle i capelli.

Ammetto che mi piacque molto e fu una cosa che continuai a portare avanti fino a quando lei me lo permise (l’ultima volta che mi ha chiesto di asciugarle i capelli è stato l’altro ieri, quando aveva bisogno di essere consolata per una partita andata male).

Tornando invece a quel momento, quando ebbi la certezza che i suoi capelli erano asciutti spensi il phon, facendola girare verso di me per controllare bene.

-Si, mi sembri asciutta. Vai in camera a cambiarti.-

Obbeddii con un cenno del capo mentre io mi alzavo dal bordo della vasca, sentendo l’effetto della ceramica sulle mie natiche doloranti, riponendo il phon e stappando la vasca per far scendere l’acqua.

-E’ andato tutto bene?-

Mi girai e mi trovai Isolde che sporgeva la testa nel bagno. Non potei fare a meno di mettere le mani sui fianchi e squadrarla.

-Si, ma tu lo sapevi già, giusto?-

-Forse.-

Scossi la testa mentre la vecchia domestica gongolava, facendomi uscire dal bagno mentre continuava a parlarmi.

-Ha chiamato la padrona: mi ha detto di riferirle che lei e Andrea siete invitati per le prossime domeniche da loro a pranzo.-

-Immagino che muoia dalla voglia di vederla, forse però è ancora presto per portarla...-

-Lei gliene parli, magari se non per questa potete andare la prossima settimana. Di sicuro, per una cosa del genere, non c’è fretta: d’altro canto lei è appena arrivata, e non credo abbia già voglia di andarsene.-

-Si, hai ragione Isolde.-

La domestica mi sorrise affettuosa, permettendosi di farmi un buffetto sulla guancia: lei è stata una seconda madre per me e i miei fratelli, pertanto il nostro era un rapporto decisamente più profondo di una semplice domestica con il padroncino.

-Forza, vada a darle la buonanotte. Mi raccomando non le spenga lei la luce: aspetti che si addormenti, così si sentirà tranquilla.-

Annuii e, prendendo un respiro, mi avviai verso la camera da letto, trovando Andrea già sotto le lenzuola che stava guardando il soffitto con aria assente.

-Tutto bene? E’ comodo il letto?-

La vidi annuire mentre mi avvicinavo, mettendomi sul bordo del letto; la vidi nuovamente nascondere la faccia, stavolta sotto il lenzuolo, con gli occhi che guardavano un punto nel vuoto per l’imbarazzo.

-Posso darti la buonanotte?-

La sua testolina annuì nuovamente e, d’istinto, le accarezzai i capelli, anche per controllare che avessi fatto un buon lavoro in bagno.

Ora si trattava di...darle un bacio sulla fronte? Abbracciarla? Cosa avrei dovuto fare in quel caso? Mi sentii nuovamente irrigidirmi, perciò cercai di fare quello che ero solito fare: ascoltai l’istinto.

-Ehi soldatino, sei stata bravissima oggi alla partita.-

La sua squadra aveva vinto con un gol di scarto ma era stata una lotta dura, chiaramente una under-14 che si allenava regolarmente all’interno di una grossa società calcistica aveva più vantaggi di una squadra fatta e allenata in poche settimane di Summer Camp, ma nonostante il gol Andrea si era dimostrata all’altezza delle aspettative, anzi: gli avversari avevano dovuto abbassare la cresta quando era riuscita a parare due tiri, uno dietro l’altro, proprio pochi minuti dopo il primo gol.

-Davvero?-

-Certo! Quelle due parate una dietro l’altra hanno lasciato tutti a bocca aperta, hai visto le loro facce?-

La vidi trattenere un sorriso e d’istinto sorrisi a mia volta, accarezzandole i capelli asciutti mentre lei prendeva la parola.

-Domani posso venire a fare il tifo per Ralphar e gli altri?-

-Ma certo, anzi: devi venire, è tuo compito come loro compagna di squadra e, soprattutto, come loro amica.-

Annuì decisa mentre vedevo il lenzuolo scendere ulteriormente e le sue mani sbucavano; le accarezzai nuovamente il capo e poi decisi di riprendere la parola.

-Isolde mi ha detto che ha chiamato mia madre, tua nonna: ha detto che le piacerebbe molto conoscerti e ci ha invitato ad andare a pranzo da lei.-

-Quando?-

-Una di queste domeniche, dipende anche da quando ti va.-

-Io devo decidere?-

-Certo: se tu non te la senti ancora di conoscere i tuoi nuovi nonni loro possono aspettare. Nessuno vuole metterti fretta tesoro.-

Mi guardò sorpresa, poi abbassò di nuovo lo sguardo, pensandoci prima di parlare, stavolta con voce più bassa e timida.

-Vorrei...conoscerli dopo il torneo.-

Mi venne da ridere, fossi stato nei suoi panni avrei detto la stessa identica cosa: prima le partite, poi i nonni.

-Va benissimo Andrea. Dai, ora mettiti a dormire, che domani ci svegliamo presto.-

Le accarezzai di nuovo il capo e mi sporsi, dandole un bacio sui capelli dal forte profumo di pesca; poi mi alzai e mi avviai fuori dalla stanza.

-P-Papà!-

Mi voltai sorpreso, la vidi che si era alzata facendosi leva con il gomito e mi guardava con aria preoccupata.

-P-Per favore...puoi...puoi tenermi la mano? Solo fino a che non mi addormento. Per favore…-

Me lo disse con la voce che si faceva sempre più bassa per l’imbarazzo e gli occhi scendevano sul letto.

-Certo.-

Fortunatamente Isolde aveva messo una poltroncina nella stanza, così potei sedermi accanto a lei; ancora adesso sono convinto che Isolde abbia qualche sorta di potere di divinazione, non poteva essere un caso quella poltroncina dove potevo starci comodo anch’io…

Ad ogni modo le porsi la mia mano, e lei timidamente la prese tra le sue dita, guardandomi con quell’aria un po’ imbarazzata e un po’ persa che mi faceva sempre sorridere; le accarezzai i capelli con la mano libera.

-Io resto qui, tranquilla Andrea.-

Un timido sorriso fece capolino sulle labbra e la piccola annuì, mettendosi più comoda nel letto.

-...buonanotte...papà…-

Fu un fortissimo calore al petto e le sorrisi, stringendo leggermente la sua mano.

-Buonanotte tesoro.-

La vidi chiudere gli occhi e la sua mano stringere leggermente la presa; lentamente, con il passare dei minuti, sentii chiaramente la presa farsi sempre meno forte, fino a cedere e lasciare andare la mia mano, il respiro si fece più calmo e ritmico e l’espressione del volto si rilassò in maniera più dolce e serena dell’ultima volta che l’avevo vista addormentarsi, quando era scoppiata in lacrime dopo l’incidente all’orfanotrofio.

Quella non fu l’unica volta che le tenni la mano: la prima volta che si ammalò, per esempio, mi chiese di nuovo di tenerle la mano, o quando aveva qualche incubo e si svegliava nel cuore della notte turbata. Io potevo sentirla perché avevamo messo uno di quei walkie-talkie da neonato, era stata la Direttrice e lo psicologo infantile a consigliarlo.

Ammetto che, le prime notti che era a casa, mi addormentavo solo quando sentivo chiaramente il respiro di Andrea sereno mentre dormiva, e mi svegliavo all’istante quando la sentivo agitarsi troppo, raggiungendola in camera.

Il mattino dopo la prima notte nella nuova casa, la bambina mi raggiunse a colazione con un’aria così confusa e arruffata che mi fece un’enorme tenerezza, tanto che la presi in braccio e la feci sedere accanto a me mentre Isolde le preparava latte caldo e le briosche; ancora adesso si presenta con quell’aria arruffata, ma l’aria persa ha lasciato posto ad un sorriso sereno.

Fu nella seconda domenica da quando arrivò a casa, quando oramai il Summer Camp si era concluso, che decise di conoscere i suoi nonni; ovviamente mia madre fu su di giri quando la avvisai e, in quattro e quattr’otto, era riuscita a richiamare anche i miei fratelli, perfino Yasu che, stavolta da sola, si fece la traversata in aereo per assistere al momento.

Ma se mia madre era emozionatissima, Andrea era molto nervosa: le avevo detto che poteva mettersi tranquillamente la sua salopette di Jeans, che le stava bene, ma lei insistette per mettersi una gonna anche se le creava sempre tanta insicurezza, così assieme ad Isolde andammo a comprargli un completino.

Ovviamente per la domestica fu un ottimo pretesto per mostrarmi che abiti comprarle e quale taglia.

-Sempre una taglia più grande, Junge Meister, specie per le scarpe: i bambini crescono in fretta. E al massimo il vestito si aggiusta con un po’ di filo.-

Così la mia piccola portiera, quasi sempre in tuta da ginnastica e berretto sulla testa, mi si presentò la domenica mattina con un vestito color cioccolato e bianco perla con la gonna, le calze bianche e le ballerine scure, una giacchina abbinata e un cerchietto bianco a fermarle i capelli.

Era deliziosa. E molto preoccupata.

-Sei bellissima. Pronta ad andare?-

Annuì ma avevo le sopracciglia aggrottate; mi inginocchiai di fronte a lei, prendendole le mani. Erano ghiacciate.

-Te la senti? Possiamo anche restare a casa.-

Scosse il capo. Io continuai a stringerle le mani.

-Non ti succederà nulla. Io sarò accanto a te tutto il tempo e appena me lo chiedi prendiamo la macchina e torniamo a casa, ok?-

Mi guardò con le guance piene di rosso imbarazzo e gli occhi lucidi, e mi buttò le braccia al collo, stringendo forte. Ricambiai l’abbraccio e la sentii sussurrare.

-Ho paura papà.-

-Lo so. Ti prometto che andrà tutto bene.-

-Gli piacerò?-

Annuii, accarezzandole i capelli.

-Senza alcun dubbio.-

Lasciò l’abbraccio e mi guardò con aria tremendamente decisa.

-Anche se gioco a calcio?-

Le feci un buffetto sul mento.

-Non si aspettano niente di diverso dalla figlia dell’SGGK.-

Ancora si imbarazzava all’idea di essere “mia figlia”, ma si vedeva chiaramente che le faceva un enorme piacere, pertanto mi alzai in piedi e mi sistemai la camicia e la cravatta, prendendo la mia giaccia.

-Forza, andiamo soldatino.-

Le porsi la mia mano e lei la prese decisa mentre io mi rivolgevo ad Isolde in cucina.

-Noi andiamo.-

-Divertitevi.-

Quel giorno decisi di guidare io e portai la macchina oltre i cancelli esterni, fino all’interno del giardino che circondava la casa; ad accogliermi come al solito l’abbaiare di Getupft, l’alano arlecchino dei miei genitori.

-Ti piacciono i cani, Andrea?-

La vidi annuire e le indicai fuori dal finestrino: Getupft stava scodinzolando con la sua solita aria festosa, in bocca aveva portato la sua pallina da tennis.

La bambina spalancò gli occhi dalla sorpresa.

-Che grande!-

-E’ l’alano dei tuoi nonni. Non è cattivo ma aspetta a scendere, ok?-

Lei annuì e uscii dalla macchina, ignorando i richiami del cane fino a quando non lo vidi mettersi seduto in attesa; a quel punto aprii la porta.

-Adesso vorrà annusarti. Niente movimenti bruschi, ok?-

Annuì di nuovo e scese piano dalla macchina. Ovviamente, alla vista del piccolo essere umano, Getupft rimase colpito, tanto che girò da un lato la testa, sporgendo poi il muso per fiutare l’odore; guidando le mani di Andrea, gli feci accarezzare la testa e il collo dell’alano.

Magicamente i due diventarono immediatamente migliori amici, tanto che fu Andrea a lanciargli la palla e fu sempre lei a comandargli di sedersi prima di lanciargliela di nuovo; tecnicamente Getupft era un cane da guardia, ma in quel momento sembrava solo un cucciolone con una nuova amica con cui giocare.

Dovetti separarli a malincuore e portare Andrea dentro casa, man mano che salivamo le scale verso la sala da pranzo la sentii nascondersi sempre di più dietro la mia schiena, tanto che non potei allontanarmi da lei quando mia madre ci accolse.

-Ben arrivati! Vi abbiamo visto intrattenervi con Getupft.-

-Si, sembra che non sia un granché come cane da guardia.-

-Lo sai che quando riconosce odori familiari diventa un cucciolone.-

Mia madre mi abbracciò e poi fece qualche passo indietro, rivolgendo uno sguardo alla signorina che sporgeva da dietro le mie gambe.

-Piacere, io sono Kimiko.-

-...piacere...Andrea.-

-Andrea, che bel nome. Ti piace Getupft?-

Mia figlia annuì, continuando però a tenermi per mano mentre mia madre si inginocchiava verso di lei.

-Se vuoi, dopo pranzo, puoi tornare a giocare con lui. A lui piace tanto la compagnia.-

-...grazie.-

Andrea fece uno dei suoi soliti sorrisi timidi e poi si accorse di una faccia familiare, dato che il sorriso le si aprì un pochino: Yasu era poco dietro a mia madre, con le braccia aperte.

-Guarda un po’ chi c’è!-

-Z...zia Yasu.-

-Posso avere un abbraccio?-

Andrea si avvicinò timida e mia sorella praticamente la stritolò tra le sue braccia.

-Sai che sei bellissima? Il tuo vestito è proprio carino! Te lo ha preso Isolde?-

-Assieme a papà.-

Percepii chiaramente lo sguardo di tutti spostarsi da Andrea a me e mi sentii incredibilmente a disagio, facendomi forza con l’istinto paterno che, pian piano, stava uscendo fuori dal mio essere orso.

-Voleva vestirsi bene per l’occasione.-

-Hai fatto proprio bene, sei bellissima.-

Con anche l’aiuto di Yasu, Andrea conobbe il resto della sua nuova famiglia: nonno Hiroshi, zio Ichirou che, con mia grande sorpresa, l’accolse con un sorriso affettuoso e con un “te l’avevo detto” di mia sorella bisbigliatomi all’orecchio, e infine gli zii Akio e Amelia.

Ovviamente tutti volevano fare domande alla piccola, ma avvertiti da me e da nostra madre sul suo “stato momentaneo” cercarono di spostare la conversazione su altro, permettendole di respirare e di sentirsi pian piano a suo agio, fino a che si sentì abbastanza coraggiosa da prendere la parola a tavola se le veniva fatta qualche domanda.

-Com’è andato il torneo?-

-La mia squadra è arrivata seconda.-

-Wow, che bravi!-

Mi permisi di farle una carezza dietro la testa.

-E’ stata bravissima fin dalla prima partita, ha difeso egregiamente la porta.-

-Tale padre tale figlia insomma.-

Fu mio padre a dire quella frase e Andrea lo guardò sorpresa, rivolgendomi poi il suo sguardo, come al solito un po’ perso. Io ricambiai con un sorriso, rispondendo poi a quell’affermazione.

-Proprio così.-

Il pranzo continuò serenamente e, dopo il dolce, alla fine Andrea mi chiese di poter tornare a giocare con il cane.

-Va pure tesoro, ti chiamo quando andiamo a casa, ok?-

Lei annuì e scese dalla tavola, allontanandosi con calma ma poi correndo fuori in giardino, dove Getupft non aspettava altro che far finta di inseguirla, potevo tranquillamente vederli dalle grandi vetrate della sala.

-Mi sembra che stia andando bene.-

Mia madre mi sorrise con aria contenta mentre Amelia prendeva la parola.

-E’ una bambina buonissima.-

-Già, ma aspetta Amelia: tra qualche mese la vedremo girare perennemente con il berretto in testa come il padre e presentarsi a pranzo da mamma con la tuta.-

-Ah no eh! Non pensarci nemmeno Genzo!-

-Ma che c’entro io, è tua figlia che si è messa in testa questa idea!-

Tra le risate generali mio padre cambiò direzione del discorso.

-Piuttosto, tra quanto hai l’ispezione dell’assistente sociale?-

-A fine Settembre, quando sarà iniziata la scuola.-

-Alla fine sei riuscito ad iscriverla all’istituto?-

-Si non preoccuparti mamma, abbiamo già i libri e i quaderno nuovi.-

-Cos’ha scelto di fare?-

-Un percorso di lingue: pare che sentire Ken parlare giapponese l’abbia stimolata.-

Yasu quasi batté il pugno sul tavolo per l’entusiasmo.

-Ah se la caverà alla grande! E’ molto sveglia ed impara in fretta.-

-L’importante è che le piaccia, i bambini come lei meritano un futuro sereno.-

-Beh, adesso ha papà Genzo a badare a lei, no?-

Akio fece quella domanda porgendomi il suo bicchiere di vino e io lo colpii leggermente con il mio sorridendogli. A quel punto Ichirou, che l’aveva seguita in giardino con lo sguardo per tutto il tempo, si lasciò andare ad un commento.

-Ha tutti noi. Sarà felice qui.-

-Quindi sarai un buon zio?-

Yasu si sporse a vedere nostro fratello, che si sistemò gli occhiali sul naso mentre distoglieva lo sguardo dalla finestra.

-Certo. Lo sarai anche tu, no?-

-Assolutamente, non vedo l’ora di viziarla come solo una zia sa fare!-

-Meno male che vi incrocerete poche volte nel corso dell’anno.-

-Che fosse la scusa ideale per vederti più spesso!-

-Guarda che non è una passeggiata venire qui mamma…-

E il discorso si spostò sui soldi, la situazione economica di tutti e il matrimonio imminente di mia sorella mentre io, in silenzio, continuavo a guardare mia figlia correre felice dietro quel grosso alano arlecchino, pensando a come tre settimane avessero cambiato completamente la mia vita: ero partito con uno strappo muscolare e il fastidio di dover far da spalla ad un Summer Camp e mi ero ritrovato ad essere padre di una bambina di dieci anni.

-Genzo.-

Mi girai verso mia madre, sia lei che mio padre mi stavano guardando con aria attenta.

-Sei felice della tua scelta?-

-Come mai questa domanda? Non sembro felice?-

-Al contrario: non ti abbiamo mai visto con un’espressione così attenta e felice verso qualcuno.-

Mi sentii molto in imbarazzo per quelle parole, ma mia madre aveva ancora qualcosa da dire, tanto che posò una sua mano sopra la mia.

-E questo ci rende molto fieri e felici di te.-

Sorrisi e le strinsi la mano, ricambiando l’affetto.

A quel punto eravamo pronti a tornare a casa, pertanto recuperai la mia giacca e quella di Andrea, salutando tutti e promettendo, ancora una volta, a Yasu di arrivare qualche giorno prima in Giappone che voleva portare sua nipote a provare qualche kimono e chissà, magari a comprarne uno, per la gioia malcelata di mia madre.

Scesi le scale con la mia famiglia che ancora chiacchierava alle mie spalle e aprii la porta sul giardino, riconoscendo una macchia vaniglia e cioccolato che stava lanciando una palla lontano, con un gigantesco alano che andava a recuperarla.

-Andrea.-

Mia figlia si voltò a guardarmi e mi raggiunse, aveva l’aria scomposta ma gli occhi allegri.

-Andiamo?-

-Si. ti sei divertita con Getupft?-

Lei annuì.

-Possiamo tornare a trovarlo?-

Approfittai della sua domanda per prenderla in braccio.

-Certamente, farà di sicuro molto piacere alla nonna. Ti piacciono i tuoi nuovi nonni?-

Annuì di nuovo. Io la girai verso le finestre che davano sulla sala da pranzo, indicandogliele con un dito.

-E tu piaci a loro. Guarda.-

La mia famiglia la salutò dalla finestra; lei, all’inizio un po’ imbarazzata, ricambiò contenta, lo si vedeva dagli occhi lucidi, tanto che si morse il labbro inferiore, com’era solita fare per trattenere un singhiozzo.

-Ehi tesoro, che succede? Perché piangi?-

Si girò a guardarmi con una lacrima che scendeva dalla guancia.

-Papà, resterò con voi per sempre?-

Le sorrisi, posandole la mia fronte sulla sua.

-Per sempre: ora sei Andrea Hotaru Wakabayashi. E sei mia figlia. Nessuno ti porterà via. Promesso.-

Le sue braccia mi avvolsero in un abbraccio e io la strinsi forte, avviandomi verso la macchina.

-...ti voglio bene papà.-

-E io voglio bene a te, figlia mia.-

 

**

 

E si conclude qui questa storia.

So che avreste voluto vedere altre scene di intimità familiare tra Andrea e Genzo, ma considerandoli al pari di persone vere preferisco lasciare loro privacy e godere di questi ultimi momenti.

Ringrazio tantissimo Fafanella e Innominetuo che hanno seguito assiduamente questo percorso, sono davvero contenta che vi sia piaciuto così tanto.

Ora mi dedicherò a portare avanti e concludere “Kami e no negai” per poi tornare nuovamente con questo filone What If e concludere con l’ultimo personaggio coinvolto in questa serie: Yayoi.

Vi ringrazio ancora una volta, al prossimo aggiornamento!

 

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