Lo statista e il Generale

di swimmila
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La solitudine di una rosa ***
Capitolo 2: *** Chi, se non un marito? ***



Capitolo 1
*** La solitudine di una rosa ***


La solitudine di una rosa

 “Voi vi sposate?!”
Il mio contegno in fuga. La voce in falsetto. Il cuore in frantumi.
“Già, mio padre ha espresso il desiderio che io prenda moglie” .
Il distacco nella sua voce. Il vuoto nello sguardo.
Un minuetto in lontananza. Gli ultimi splendori di Versailles all’orizzonte.
Il mio contegno ripreso al volo.
I suoi occhi disperatamente verso il basso.
La mia mano imposta lungo il fianco. Con la mente ad accarezzargli i capelli. La voce a salvare le apparenze. Il silenzio, dove nascondere le ferite.
Fersen.
Amore. Dal primo incontro.
Vuoto. Dal ritorno in patria.
Emozione. Dal suo ritorno.
Struggimento. Dai giorni in America.
Dolore. Dolore. Dolore. Da queste parole.
 
“Voi potete andare, signore”.
Una regalità misurata. L’accortezza di un sorriso ad ingentilire l’ordine.
Le dame di compagnia di sua Maestà la regina si dileguano velocemente, chine negli occhi e nella schiena.
Rimaniamo sole. La Regina. Il comandante della Guardia Metropolitana Francese.
“Oscar….. Fersen ha deciso di prendere moglie.” La fermezza dello sguardo regale affonda nelle onde di un dolore di donna.
Siamo sole. Due donne in lacrime. Sgorganti le une. Represse le altre.
La resa della regina accolta nelle mani della donna. L’audace scioglievolezza di un singhiozzo che diventa pianto.
La mia attesa in silenzioso rispetto.
 “Oscar io….. vorrei che faceste una cosa per lui.”
 
“Allora Oscar, dimmi, che cosa voleva da te la regina?”
Il tedio dell’attesa che reclama una ricompensa. Te la nego. Non sono in grado di articolare suono che non sia strazio. Perdonami André.
Il galoppo furioso delle lacrime verso i miei occhi. César a pochi, distantissimi passi. La paura di non resistere. La sella sotto le mie gambe. L’urlo selvaggio che sprona il cavallo. Che libera le mie lacrime. In perfetta sincronia.
 
Sei sconvolta. Tenti di controllarti. Di nascondermi la piega amara delle tue labbra serrate. Lo spasmo dei muscoli del collo. Lo sgomento che trasforma il tuo splendido viso in una maschera di sofferenza.
Che cosa ti ha detto la regina?
So che me lo dirai. So che lo saprò presto. Quello che accende il mio dolore, adesso, non è il tuo silenzio. Questa tua fuga impetuosa dalle spiegazioni.
Quello che fa urlare la mia anima con l’accanimento di un carnefice è la visione di te.
Ho visto le tue spalle ritte sulla tua fedeltà allontanarsi verso le stanze della regina.
Vedo la tua figura accartocciata in un groviglio di dolore tornare dai suoi appartamenti.
Monto in sella.
Non so dove sei andata. Ma se pure lo sapessi ti lascerei al sollievo della solitudine.
Non so dov’è finita la tua felicità, amore. Se lo sapessi, andrei a riprendertela e la depositerei nel tuo cuore.
 
Ti ho vista, Oscar, una sera di qualche mese fa, quando tu e i tuoi uomini eravate impegnati nella cattura di quel diavolo di donna.
Quanto orgoglio ho provato per quella tua testa riversa all’indietro sullo schienale della poltrona. Per quel bicchiere di vino stretto in mani assopite. Per quelle gambe allungate sotto la coperta. Per quegli occhi abbassati su una stanchezza che veniva dal profondo.
Quanta fierezza, per quella immagine che mi ha raccontato tutte insieme le lunghe giornate trascorse a rincorrere falsi allarmi. Lo sfinimento in fondo ad artati depistaggi.
Nella piega dura delle tue labbra c’era la risolutezza del comando. La tenacia del soldato. La pazienza del combattente. La determinazione dell’obiettivo. Il rigore della disciplina.
Quanto onore mi hai rovesciato addosso quella sera!
Stavo per chiamare André, Nanny, Marguerite, qualcuno che ti destasse per accompagnarti a dormire. Ma qualcosa in quella tua espressione candita dal sonno mi ha gelato.
Ho guardato meglio. La gloria di poco fa, sulla tua bocca, era una contrazione di dolore. Uno sforzo di resistenza. E in un attimo, tutti i dubbi di questi lunghi anni mi sono piombati alle spalle, rovinosamente.
Orgoglio, fierezza, onore. Tralignati nel rammarico, nella pena, nel rimorso.
Un cretto che ha spaccato in due un cuore che pensavo indivisibile.
Eppure so di avere compiuto il tuo bene, oltre le mie intenzioni.
Volevo un figlio maschio. In cambio ti ho concesso l’indipendenza che spetta ad un uomo.
Ho modificato il corso del tuo destino. Ma i tuoi occhi erano due giare di gratitudine ad ogni visita delle tue sorelle, ad ogni ricamo di tua madre.
Il prezzo per tutto questo è stato alto.
Ti ho vista, Oscar, quelle due settimane che il conte Hans Axel von Fersen, al rientro dall’America, ha trascorso a palazzo Jarjayes come tuo ospite. La tua voce insolitamente dolce; il tuo sguardo sciolto di struggimento; il tuo sorriso luminoso. Poi è andato via, e la tua voce è tornata perentoria; i tuoi occhi solidi; il tuo sorriso raro. Prima di quelle due settimane pensavo fosse il tuo carattere. Ora so che è il prezzo che stai pagando.
L’America. Terra di sovversivi che il nostro tradizionale odio per l’Inghilterra ha spinto a difendere. L’America. Un focolaio contagioso che l’angoscia di un padre prende a prestito per affrancarti dal tuo tributo.
E dal mio.
 
“Oscar, tuo padre desidera parlarti nel suo studio”
La porta della mia camera fra me e le parole di nonna.
“Si, arrivo subito”.
L’ignavia delle mie braccia dietro la nuca.  Il lento trascinarsi delle gambe giù dal letto. Il peso del dovere nel sospiro che non trattengo. L’indolenza su un tasto qualsiasi del pianoforte.
L’assenza di fretta nei miei passi.
Oscar, vorrei che faceste una cosa per Fersen.
Il ricordo ancora piangente nelle orecchie. Lo stordimento ancora vibrante nella testa.
La porta dello studio di mio padre sotto le nocche.
Il Generale nei miei occhi.
L’uomo nel suo sguardo.
L’impeto nelle mie parole.
“Calmati, Oscar. Parliamo con calma, vuoi?”
Entri nel mio studio con l’irruenza delle proteste che ti porti dietro. Le interrompo con un gesto della mano, ti faccio cenno di sedere. Il tuo filiale istinto all’obbedienza mi asseconda. Ti scruto, mentre tu preferisci questo vaso di fiori al mio sguardo.
Mi hai sorpreso Oscar. Come solo tu sai fare. Mi sono sbagliato? No. Certo che no. Mi fido ciecamente delle mie sensazioni. E allora perché non ho visto i tuoi occhi severi illuminarsi di gioia, ieri sera, quando ti ho detto che volevo che ti spogliassi di quella divisa e accettassi la proposta di matrimonio?
Non ti ho detto che sono stato io a chiedere la mano del tuo futuro sposo, e non il contrario. Perché i dettagli fanno l’essenziale, e tu non sei una donna da compromessi. Non sei come le tue sorelle, per le quali il mio volere non è mai passato nel filtro delle loro volontà.
La sedia sotto la mia calma apparente. Il respiro che riavvolgo nella compostezza. Il vaso di fiori, fra me e mio padre. Una macchia di lillà. La solitudine di una rosa bianca. Nonna, la sua paura delle spine, nei primi. André, il suo amore per le rose, in quell’unico candore.
André. Il suo amore disperato, in quella sera della sua rosa e dei lillà….. Immediato, il dolore che sento sciogliersi negli occhi. Fulmineo, il pugno che raggrinzisce le viscere. Lontana, la voce qui di fronte di mio padre.
“Oscar se…se non vuoi sposare il conte di Fersen, troveremo qualcun altro che ti piaccia. Mi dicono che a corte non mancano pretendenti ansiosi di chiedere la tua mano. Il Generale Bouillé mi ha promesso che la prossima settimana darà un ballo in tuo onore. Saranno invitati tutti i migliori partiti di Francia. Potrai scegliere chi vorrai.”
La dolcezza, nella sua voce. Il silenzio, nella mia. La sua illusione del consenso. I nostri occhi, gli uni negli altri. La rosa bianca nel mazzo di lillà. Il coraggio della sua solitudine.
Non rispondi. Prendi una rosa dal vaso e la sfogli lentamente. Mi lasci parlare. Ascolti senza interrompermi. La tua espressione non sembra anticipare un rifiuto, ma io so benissimo che se tu non volessi mi troveresti impotente. Nell’istante in cui ti ho eletta mio figlio, ti ho dato la possibilità di scegliere quando non essere donna.
Se non vuoi sposare il conte di Fersen.
Rivoluzionario, nel suo conservatorismo.
Vorrei che faceste una cosa per Fersen.
Delirante, dal fondo del suo abisso di sofferenza.
Un Generale e la sua Regina. Ignari complici della stessa follia.
Fersen, che inciampa nel mio futuro.
La rosa bianca, scomposta in petalo. Un insieme che diventa frammento. Un soffio, il mio, che sa di sfinimento. Petali di infelicità nell’aria che piange.
 
Ancora birra nel boccale, nella gola, nella testa.
Ho perso il conto di quante ne ho bevute. Delle lacrime che ho versato. Che serata! Birra e lacrime. Amaro e amarezza.
Il Generale Jarjayes è impazzito.
Se qualcosa di buono c’è stato finora nella tua divisa è stato poter crescere al tuo fianco. Ma ora quest’unica prospettiva in cui ho nascosto il mio futuro è stata scoperta. Il mio futuro, cancellato.
Quand’è che tuo padre ha cominciato a meditare di trasformarti in moglie? Come ha concepito l’idea di unire la volontà dello statista svedese a quella del Generale francese? E tu, Oscar, cosa hai provato quando ti ha messa di fronte al matrimonio con il conte di Fersen? Cosa ha gridato il tuo cuore? Il mio, ha emesso un urlo di ghiaccio. Un alito di vita che ha trovato istantanea morte nel gelo assoluto in cui è esalato.
Del delirio di tuo padre mi ha ucciso mia nonna la stessa sera in cui in esso tu probabilmente sei rinata. Anche se non vuoi darlo a vedere. Anche se il tuo viso è una maschera impassibile dietro cui ti sforzi di contenere il fermento della gioia che ti pervade.
Perché non riesco ad essere felice al pensiero della tua felicità? Sono così egoista? Così meschino da amarti con riserva? Mi sono illuso di credere che se avessi scoperto il nascondiglio della tua felicità sarei andato a prenderla e te l’avrei restituita. Ora so dove si nasconde. Ma non muovo un dito. Sono immobilizzato in un’armatura di sofferenza che mi inchioda su questo sgabello di legno marcito come la mia anima. Sono un pusillanime che ha solo il coraggio della viltà, la forza dell’accidia.
Non abbiamo più parlato, io e te, da quel pomeriggio in cui sei andata dalla regina e ne sei tornata sconvolta. Ancora non mi hai detto cosa voleva, ma ora non ha più importanza. Nulla può essere più immane di questa tragedia che ti sta portando via da me.
La birra scende rumorosamente in gola e io voglio assordarmi col suono di questo deglutire selvaggio, brutale, animalesco.
Tutto converge nella stessa direzione. Il tuo amore per Fersen. I suoi progetti di matrimonio. Il tardivo ripensamento di tuo padre. Il mio amore che si nutre della tua gioia. Tutto, verso l’altare che ti unirà a lui.
E la regina? Come reagirà? E’ di questo che voleva parlarti, Oscar? E’ per questo che eri sconvolta?
Se non fossi così irrimediabilmente lacerato, ricomporrei questo mosaico di dolore in un quadro di ilarità.

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Capitolo 2
*** Chi, se non un marito? ***


Chi, se non un marito?

“So che vostro padre, il Generale Jarjayes, ha intenzione di farvi accettare una proposta di matrimonio”
Il primo colpo. Una lama nelle viscere. L’urlo soffocato nella disciplina. La sorpresa nascosta nella paralisi dell’attenti.
“Oscar io….vorrei che foste voi la donna che sarà al fianco del mio Fersen.”
Il secondo. L’affondo della disperazione. L’ottundimento che lo incassa.
Eravamo sole. Due donne deliranti. Di dolore l’una. Di stordimento l’altra.
L’agonia di un amore che cerca l’amicizia della propria morte. L’ardire di un tormento che vuole almeno scegliere l’arma del suo supplizio. La supplica di un cuore dilaniato ad un cuore raggelato.
L’erba soffice sotto la mia mano. La passione di un sole morente che si spegne nell’imperturbabilità del fiume.
I rebbi dell’angoscia a farmi sanguinare l’anima.
Il bagliore di una lacrima nel lucore di un’alba. Lo splendore di un diamante nella promessa di un nuovo giorno.
Sono contento che sia stato ferito io all’occhio e non tu, credimi Oscar.
L’infinito, in quella dolcezza. L’immensità, nel tuo cuore. L’eternità, nel tuo starmi accanto.
La tua solitudine scambiata per riservatezza, la gioia negata ad una paternità innata: improvvisa, la risposta sempre schivata a domande mai formulate.
La naturalezza del tuo coraggio specchiata nel disagio della mia codardia.
L’urlo della stoffa lacerata, il grido soffocato nel mio petto, l’orrore nei tuoi occhi, le tue lacrime sul mio viso.
Una rosa non sarà mai un lillà.
Quale amore sublime ha la forza di tornare indietro dall’inferno prima di compiere l’irreparabile? Quale animo tenace ha la potenza di sedare l’esplosione di un magma covato nelle viscere del tempo?
Chi, se non un marito, è già tutto questo?
Chi, se non una pazza, ama l’infinitamente meno?
La mia scelta: la tua rinuncia, nella mia rinuncia.
 
Ho rifiutato l’invito di Alain ad unirmi al suo boccale e alla sua boccaccia. Il suo spirito dissacrante, stasera, non mi sarà di alcun aiuto. E poi la morte, al contrario della vita, è un atto che si compie in solitudine.
Non sono nemmeno passato da casa, a fine turno. Non volevo vederti cambiata d’abito. Non volevo vedere la tua trepidazione a stento contenuta mentre ti avvii verso un futuro che mi esclude. Non voglio immaginare le braccia di Fersen che ti sostengono nella danza della vostra promessa di matrimonio.
Per quanto mi riguarda, ho tutta l’intenzione di morire qui, adesso. Bevo birra e lacrime e attendo la magnanimità della morte che mi libererà dalla tortura di questa vita.
Alzo il boccale vuoto per attirare l’attenzione dell’oste. Questa birra disseta come sabbia. Sento la gola arsa, gli occhi in fiamme.
Una mano si chiude attorno al mio polso. La morte è venuta a prendermi con una rissa. Mi volto per esprimerle gratitudine. Inciampo in due occhi azzurri in cui non so leggere.
“E’ la terza bettola in cui ti cerco.”
Brume d’alcol e di disperazione nei tuoi occhi. Il tuo stupore candito in parole mute. La febbre del rimorso a scavarmi dentro. Un pugno, un altro, e un altro ancora, nel mio stomaco.
La tua voce è salda come lo sguardo in cui a poco a poco ritrovo casa. Ci metto un’eternità a darti un senso. La divisa. La terza bettola. Che vuol dire? Eri di turno stasera? Accidenti, mi sono sbagliato. Non è stasera il ballo in tuo onore. Non è stasera il mio appuntamento con la morte.
La sedia dura sotto le mie gambe. Le parole ancora in fuga dalla tua bocca. La mollezza del dubbio nel tuo sguardo. La fermezza della decisione nel mio. La mia occhiata sottile tutt’intorno.
“André. I tuoi gusti stanno peggiorando”.
Ti siedi davanti a me. Sono ancora incapace di articolare suono. Tu, invece, parli e ti muovi con la determinazione del comando, anche se non sembrano ordini quelli che scandisci. E poi, finalmente, riconosco quella minuscola scintilla nei tuoi occhi. Quella con cui tante volte hai dato fuoco alla tua voglia di provocarmi. Per scherzo. Per rabbia. Per ripicca. Metto a fuoco con il solo occhio che mi è rimasto, interpreto con l’istinto dell’anima e dell’esperienza, e capisco che vuoi provocarmi per sdrammatizzare. Capisco che era stasera il ballo in tuo onore. Il mio appuntamento con la morte.
Negli occhi della mente, un salone che ho lasciato di stucco. La mia assenza, lì, bruciante come uno schiaffo. La complicità del silenzio, qui, a spiegarti la mia presenza. Con l’anima a pezzi, a sollevarti dal tuo dolore. Con una birra, a sopportare il mio.
Afferri il mio boccale vuoto e lo agiti in aria. L’oste ti vede subito. Mi concedo la distrazione dell’offesa. A me, poco fa, mi aveva ignorato. Ma io non ho i tuoi capelli d’oro. L’azzurro penetrante dei tuoi occhi. La bellezza apodittica del tuo viso. L’uomo si asciuga le mani arrossate nel grembiule cencioso, caracolla verso di noi, lascia due boccali pieni e si porta via questo vuoto. Questo vuoto.
Un ufficiale e l’ordine della sua sovrana. Una donna a respingerlo. Un’altra donna a lavarne l’onta con le lacrime. L’irriverenza di un pensiero fugace, l’angolo di un sorriso tirato su: il Generale mio  padre non saprà mai di avere un traditore in famiglia.
Ritrovo la compostezza nei miei pensieri. Accarezzo con gli occhi la tua divisa che mi ha riportato in vita. Mai mi sei apparsa così donna in una uniforme. Mai ho amato questi titoli e questi gradi che oggi ti hanno sfilato l’anello dal dito. Segui il mio sguardo, intuisci i miei pensieri. Non ho vergogna di mostrarteli. Sai da un pezzo che il mio cuore è tuo. E tu, stasera, ne hai ricomposto i cocci e lo hai riadagiato nella speranza. Allisci una piega immaginaria sulla tua manica impeccabile mentre i tuoi occhi impediscono ai miei di muoversi dai tuoi: è il tuo modo per dire quello che non dici. Lasci che sia la tua divisa a parlare per te. La ascolto, e sono le parole più belle che abbia mai udito.
Un uomo e il suo immenso amore per me. Il mio dolore a scrivere il tuo conforto. La nostra magnifica amicizia a consolare il tuo amore. L’angolo del dolore inumidito negli occhi: non saprai mai quanto la dolce follia di un padre abbia sfiorato la felicità della figlia. Quanto il prezzo della tua serenità abbia sfiorato la mia pazzia.
Ad un tratto sollevi il boccale nell’intenzione di un brindisi. Sarebbe troppo complicato spiegare a chi ce lo chiedesse a cosa stiamo brindando. Ma noi lo sappiamo. L’incontro dei nostri boccali risuona nella confusione del locale. Il sorriso, nei nostri sguardi, si accende di connivenza.
Alzo il boccale. Aspetto il tuo. Si trovano. Tintinnano. Il lampo di una lacrima nei tuoi occhi. Lo splendore di un diamante nella limpidezza della tua gioia.
Stasera, André, sono contenta che sia io a soffrire e non più tu.
 
 “Ecco qua, alla salute ragazzi!”
Metto altri due boccali colmi di fronte ai due avventori. Cade un po’ di birra sul tavolaccio. Accidenti, un’altra macchia nel legno imputridito. Mi allontano e lascio il soldato e l’ufficiale a tracannare le loro birre. Mah, chi li capisce questi uomini d’armi? Il soldato bruno fino a poco fa sembrava sul punto di svanire. Ora, invece, ha ritrovato favella e voglia di brindare. A che cosa, poi!
E l’ufficiale biondo….per Dio! Ho dovuto assicurarmi che in mezzo alle mie gambe non si fosse smosso niente. Non ho mai visto un soldato così bello in vita mia!

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