Fragmenta

di Blueeyedgirl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I: Casa dolce casa ***
Capitolo 2: *** Capitolo II: Ciò che è morto non muoia mai ***
Capitolo 3: *** Capitolo III: Fuori dalla finestra ***



Capitolo 1
*** Capitolo I: Casa dolce casa ***


3 giugno, 1971

 

Edgar si accorse che qualcosa non andava non appena lui, Amelia ed Evan misero piede sul vialetto, trascinandosi dietro bauli e manici di scopa. Le chiacchiere di Evan si interruppero di botto.
Il cancello del giardino era aperto. Suo padre non lo lasciava mai aperto, quando andava al lavoro, nonostante Villa Bones fosse protetta da numerosi incantesimi di protezione. Di questi tempi, diceva, è meglio chiudere a doppia mandata, incantesimi o non incantesimi. Sua moglie Julia, un tempo, avrebbe riso della sua prudenza. Julia rideva di molte cose. Ora, quando lo sentiva serrare porta e cancello a doppia mandata, si limitava a serrare le labbra, il viso pallido dalle occhiaie scure e profonde.
Molte cose erano cambiate, da quando suo padre era stato tra i firmatari di un appello in difesa di Babbani e Nati Babbani, pubblicato sulla Gazzetta del Profeta, due anni prima. Era l'estate fra il terzo e il quarto anno di Edgar e Amelia. Qualche giorno dopo, si erano svegliati una mattina e avevano trovato alcune finestre rotte, e altre imbrattate con la scritta FECCIA.
Sua madre aveva pianto. Anche Evan, che aveva dodici anni, era scoppiato a piangere di rabbia e di paura. Amelia ed Edgar si erano guardati, avevano guardato il padre, e senza fiatare lo avevano aiutato, per quanto fosse loro possibile, senza magia, a ripulire tutto e ad aggiustare i vetri rotti.
Anni più tardi, l'Edgar adulto, durante gli interminabili turni di guardia notturni, appoggiato alla finestra a guardare attraverso il vetro sporco di qualche infimo motel babbano, si sarebbe chiesto come avevano fatto a non accorgersi che quello era stato l'inizio della fine; l'anno in cui tutto era precipitato. Era l'anno in cui suo nonno, di cui Edgar portava il nome, si era ammalato. Una strana malattia babbana, aveva decretato il Guaritore del San Mungo che era venuto a visitarlo, nonostante le sue resistenze (da quando Brendan Lockhart, per aggiustargli l'anca sinistra, gli aveva deviato l'anca destra, Edgar Bones Sr non si fidava più dei Guaritori), quando Amelia, lavando uno dei suoi fazzoletti, lo aveva trovato completamente sporco di sangue. Probabilmente non contagiosa, aveva aggiunto; ma le sue supposizioni non avevano soddisfatto i genitori di Edgar, che ad ogni buon conto avevano preso la precauzione di separarlo dal resto della famiglia, trasferendo tutti i suoi averi nella stanza della torretta, un tempo laboratorio di fotografia di Benjamin.

Il nonno era morto dopo pochi mesi di sofferenze, qualche giorno prima che i tre fratelli tornassero dalle vacanze di Natale. La faticosa e sempre più disperata assistenza al malato, e il successivo lutto, avevano logorato sua madre, già cagionevole di salute e provata dalle preoccupazioni che le dava il marito. Inizialmente lo aveva appoggiato nelle sue opinioni sui diritti dei Babbani; più tardi, lo aveva accusato di aver messo in pericolo tutta la famiglia.

Un anno e mezzo più tardi, quando Edgar, dopo aver lanciato un'occhiata al cancello aperto, alzò gli occhi al cielo e vide la luce lugubre Marchio Nero splendere sul tetto di casa sua, quando sentì accanto a lui Amelia sobbalzare e lanciare un grido, quando il manico del baule gli sfuggì dalle mani e cadde in mezzo alla polvere, con un tonfo pesante, ebbe la certezza che sua madre aveva avuto ragione.
"No," mormorò. "No, no, no-" Edgar non riusciva a formulare un pensiero preciso. Avvertì confusamente, alla sua destra, che Evan stava urlando. Lo sentì divincolarsi dalla presa di Amelia, rafforzatasi dopo tanti allenamenti di Quidditch. "Lasciami! Lasciami!"
"Potrebbero essere ancora dentro, Evan!" disse concitatamente Amelia, in un sussurro "Dobbiamo-dobbiamo-" Si voltò verso Edgar, impotente. Nonostante il suo sangue freddo sembrasse non vacillare, nemmeno sotto il peso della consapevolezza che i loro genitori erano probabilmente morti – morti, morti, morti, Edgar sentì l'eco di quel pensiero dentro di sè, come se dentro gli si fosse aperto un precipizio – la sua espressione tradì per un attimo i suoi sedici anni. "Cosa dobbiamo fare, Ed?" aveva una nota di panico nella voce. Allungò un braccio e lo scosse quando non lo vide reagire. "Ed!"
"Non lo so!" quasi gridò Edgar. "Non lo so!" Il viso lentigginoso di Evan, accanto a quello altrettanto lentigginoso di Amelia, era rigato di lacrime. Cercava ancora di liberarsi dalla stretta di Amelia. Il cervello di Edgar non voleva saperne di mettersi in moto. Ci vorrebbe Florence, pensò disperatamente. Arriva dopodomani con il Nottetempo, gli ricordò una vocina dolce dentro la sua testa.
Il Nottetempo. Quest'ultima parola fece come risuonare un campanello nella sua testa. Afferrò il baule e corse verso la strada, sfoderando la bacchetta dalla tasca dei pantaloni. Amelia ed Evan lo seguirono a ruota. Una volta arrivato sulla strada principale, puntò la bacchetta verso la strada. Con l'altra mano, si frugò in tasca, sperando di avere abbastanza soldi per pagare il biglietto.
"Evan, vai da zio Elijah," mormorò, rivolto al fratello minore. "Digli cosa è successo. Tu resta da lui. Non tornare qui, capito?" Poi si voltò verso la sorella. "Noi entriamo."
Amelia annuì. Non disse nulla.
"Ma..." Evan guardò il fratello, sconvolto. "Edgar, dovete venire anche voi! Cosa farete se sono ancora dentro?"
"Noi siamo più grandi, ce la caveremo." Edgar gli mise una mano sulla spalla. "Andrà tutto bene, Evan, te lo assicuro. Fa' in modo che zio Elijah venga qui subito, okay?"
Dopo nemmeno tre secondi, un autobus viola a tre piani comparve dal nulla davanti a loro, strombazzando. Edgar sospinse il fratello in avanti. La porticina si aprì, ed apparve un ometto di mezza età, con occhiali tondi e spessi e una nuvola di capelli rossi che già tendevano al grigio ad incorniciargli la testa come un'aureola.
"Benvenuti sul Nottetempo, mezzo di trasporto di emergenza per maghi e streghe in difficoltà" cantilenò l'uomo, con l'aria di chi ha passato gli ultimi quindici anni a pronunciare le stesse identiche parole. "Mi chiamo Ernie Urto, e sarò il vostro bigliettaio per oggi."
"Un biglietto per Leoch," disse in fretta Edgar.
"Undici falci," disse l'ometto. Mentre Edgar contava i soldi per il biglietto di Evan, l'uomo si guardò attorno, fischiettando, ma non notò il Marchio Nero: era nascosto dalle cime degli alberi che circondavano Villa Bones. Poi, strizzando gli occhi, lanciò un'occhiata a Evan. "Ehi, che ti è successo, ragazzo?" chiese. "Hai l'aria di uno che ha bisogno di una cioccolata calda." Gli fece l'occhiolino. "Solo due falci aggiuntivi, eh."
"Solo il biglietto, per favore." tagliò corto Edgar. Dovevano muoversi. Dentro di sè, nonostante sapesse che i Mangiamorte non lasciavano mai testimoni, sperava ancora che i suoi genitori fossero vivi. Feriti, magari in fin di vita, ma vivi. Che potessero ancora fare qualcosa per aiutarli.
Ernie Urto aiutò Evan a trascinare il baule sull'autobus. Evan lanciò un'ultima occhiata a Edgar e Amelia, in piedi sul vialetto, poi l'autobus ripartì a tutta velocità.
I gemelli si guardarono. Amelia estrasse la bacchetta, poi, insieme, tornarono indietro, verso la casa. Oltrepassarono il cancello del giardino, vigili. Sul vialetto, almeno due paia di scarpe diverse avevano lasciato una serie di impronte nella polvere. I cespugli di rose bianche che Julia aveva piantato l'anno prima sembravano ridere di loro, ondeggiando al vento primaverile. Raggiunto il portico, Edgar esitò ad aprire la porta. Una parte di lui avrebbe voluto scappare, andare da zio Elijah con Evan, lasciare che fossero gli adulti ad occuparsene.
Non c'è niente di cui aver paura, Edgar.
Era la voce rassicurante di suo padre, questa. Ma stavolta non gli stava insegnando a volare su una scopa. C'erano molte cose di cui aver paura, questa volta. Edgar cercò di non pensarci. Aprì la porta.
L'interno della casa era in penombra, nonostante fuori splendesse il sole. Amelia e Edgar oltrepassarono la soglia. Il pavimento di legno scricchiolò sotto i loro piedi.
Amelia levò la bacchetta: "Homenum revelio," recitò. Non accadde nulla. Erano soli.
"Dove sono mamma e papà?" sussurrò Amelia.
Edgar non rispose. Stava già correndo in salotto.
Era tutto intatto. Nessuna traccia di Benjamin e Julia Bones. Passò in cucina. Sul tavolo c'era ancora il bollitore per il tè e due tazze sporche. L'orologio magico della famiglia, quello con cinque lancette che segnalavano dove si trovassero in qualunque momento, era al suo posto, appeso al muro. Tutte e cinque le lancette erano puntate su PERICOLO MORTALE.

Al piano di sopra, Amelia urlò.

Quando Henrietta Diggory aprì la porta d'ingresso e si trovò davanti il minore dei suoi nipoti, con il volto rigato di lacrime, la bacchetta in una mano e il baule stretto nell'altra, inizialmente non seppe cosa pensare.
"Evan, che-"
"Il Marchio Nero!" singhiozzò Evan. "Sopra casa nostra!"
Il cuore di Henrietta sprofondò. Fece entrare Evan, poi corse al caminetto del salotto, lanciò una manciata di Polvere Volante nel fuoco e dichiarò: "Ufficio di Elijah Diggory, Dipartimento Cooperazione Magica Internazionale, Ministero della Magia."
Il fuoco si tinse di verde smeraldo. Dopo pochi secondi, la testa di Elijah Diggory, un bell'uomo con un paio di baffetti scuri, comparve tra le fiamme. Era visibilmente scocciato.
"Henrietta, ti ho detto mille volte di non cercarmi in ufficio, ho una riunione con i danesi tra cinque minuti-"
"Elijah, sulla casa di tua sorella è comparso il Marchio Nero." tagliò corto Henrietta. Elijah impallidì. Subito dopo, scomparve.

Quando Elijah e una squadra di Auror si Materializzarono sul vialetto del giardino di Villa Bones, trovarono Edgar e Amelia seduti sul gradino della veranda. Amelia teneva la testa sulla spalla del fratello. Edgar alzò il viso lentigginoso e guardò lo zio.
"Sono al piano di sopra," mormorò.

 



NdA: con questa storia, ho voluto immaginare la vita di alcune figure di cui nei libri si parla poco, e soprattutto del loro ruolo nel corso della I guerra magica.

In particolare, i personaggi citati nella saga che avranno un ruolo fondamentale nella mia storia sono Edgar e Amelia Bones (che ho immaginato come gemelli), Sturgis Podmore, Emmeline Vance, i fratelli Prewett e Dorcas Meadowes.

Florence, che viene citata nel testo, è la fidanzata Nata Babbana di Edgar Bones, un personaggio creato da me, mentre Evan è il fratello minore di Edgar e Amelia.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II: Ciò che è morto non muoia mai ***


Il giorno del funerale di Benjamin e Julia Bones, piansero tutti. Tutti tranne Amelia. Edgar piangeva come una fontana, tremando nonostante la temperatura fosse mite, aggrappato alla mano di Florence come se fosse una scialuppa di salvataggio. Con l'altro braccio teneva stretto il fratello minore. Accanto a lui, Florence guardava in basso. Era seria, serissima, pallida come un cencio nel suo vestito nero, i capelli raccolti in una treccia, gli occhi rossi. Le lacrime le scivolavano sul viso una dopo l'altra, ma sembrava non curarsene.
Amelia non piangeva. Se ne stava lì in piedi, a pochi passi dalle bare dei suoi genitori, la schiena diritta, e non piangeva. La voce della strega rotondetta dal viso dolce che stava celebrando il funerale le giungeva lontana, come in un sogno.
"...ciò che è morto non muoia mai." 
Con un movimento della bacchetta, la strega Levitò le due bare in fondo alla fossa.
Amelia, come in trance, gettò una manciata di terra nella fossa. I suoi fratelli fecero lo stesso. Evan nascose il viso nella giacca di Edgar. I suoi singhiozzi la riportarono alla realtà.
Allungò una mano e la posò tra i capelli di Evan; poi alzò gli occhi, e vide che Edgar la stava guardando. Aveva smesso di singhiozzare, ma il volto era ancora fradicio di lacrime. Non le disse nulla, ma Amelia capì comunque. Forse per il legame che li univa, più profondo di quello tra due semplici fratelli, o forse perchè Edgar, come un tempo Julia Diggory, non riusciva a soffocare le proprie emozioni: gli si leggevano in faccia. Amelia era molto più simile al padre, in questo. 
Perchè non stai piangendo? Le domandava lo sguardo confuso e vagamente accusatorio di Edgar. Amelia si sentì un verme. Aveva ragione, pensò. Perchè non riusciva a piangere? I suoi genitori erano morti. E morti in maniera orribile: torturati a morte da chi li odiava, da chi voleva eliminarli dalla faccia della Terra semplicemente per mettere loro paura. Erano morti per una dimostrazione di forza e violenza e odio, e questo pensiero la riempiva di rabbia. Rabbia cieca, e dolore, certo, ma un dolore cupo e furioso che non vedeva l'ora di scatenarsi. Non voleva piangere: voleva vendicarsi. Voleva che i responsabili pagassero per ciò che avevano fatto, e voleva essere lei a fare giustizia. Questa consapevolezza la impauriva. Sapeva che non era sano pensare queste cose, e che i suoi genitori non avrebbero voluto essere vendicati da lei. Eppure non aveva altro a cui aggrapparsi, in quel momento. 


Dopo il funerale, lo zio Elijah e la zia Henrietta si avvicinarono ai nipoti, ancora fermi accanto alle fosse nonostante la funzione fosse finita già da almeno venti minuti.
"Evan, torniamo a casa, inizia a fare freddo," mormorò Henrietta. "Amos sta preparando il tè." Evan alzò lo sguardo verso il fratello maggiore, in cerca di approvazione; Edgar annuì e liberò la mano dalla presa di Evan, il quale dopo un ultimo sguardo alle fosse si allontanò con la zia Henrietta. Lo sentirono singhiozzare finchè lui e la zia non si Smaterializzarono. Elijah guardò i due nipoti più grandi, i quali ancora non avevano detto una parola. Intervenne Florence: "Noi vi raggiungiamo, signor Diggory," disse, seria. "Tra un minuto." Con un braccio circondò le spalle di Edgar, quasi senza accorgersene. Elijah fissò i nipoti preoccupato, ma non obiettò. Si allontanò, per poi Smaterializzarsi.
Florence guardò Edgar e Amelia. Era quest'ultima a preoccuparla di più. Non era certo una psicologa, ma sapeva che l'assenza totale di reazioni emotive da parte di Amelia, in una circostanza simile, non era normale. Conosceva Amelia ormai da tempo e sapeva che era sempre stata piuttosto chiusa e schiva di carattere, restia a confidarsi con chiunque, compreso Edgar. Non erano mai state amiche: avevano passato molto tempo insieme (Edgar e Florence stavano insieme ormai da tre anni), e andavano d'accordo, ma non erano così in confidenza da giustificare ingerenze da parte di Florence.
Dei passi sull'erba interruppero le sue riflessioni. Sturgis e i fratelli Prewett si erano avvicinati. Avevano seguito la funzione mescolati in mezzo alla folla, perchè quando erano arrivati il cimitero era già gremito. Edgar si scostò da Florence per abbracciare Sturgis e poi i gemelli, rispondendo a mezza bocca alle domande timide degli amici ("Come ti senti? Possiamo fare qualcosa?"). Cercò anche di sorridere, ma non ci riuscì del tutto. Florence approfittò dell'arrivo dei tre ragazzi per avvicinarsi ad Amelia e posarle una mano sulla spalla.
"Ti senti bene?" le chiese, rompendo gli indugi. Anche lei, come Amelia, era generalmente timida e schiva, ma voleva esserle d'aiuto, per quanto possibile. "Voglio dire, so che è una domanda stupida, non puoi sentirti bene...volevo solo dire che se hai voglia di parlare puoi farlo." Amelia annuì, senza dire nulla e senza guardarla. In un primo momento Florence si sentì una stupida. Non poteva avere voglia di parlare, avevano appena seppellito i suoi genitori, per Merlino...poi Amelia alzò lo sguardo. "Grazie, Flo." mormorò.
Quello che Florence lesse nel suo sguardo non le piacque per nulla. Non era una psicologa, ma era sempre andata fiera del proprio intuito. Amelia non era disperata. Era determinata.

Note: Capitolo molto breve, me ne rendo conto, ma in realtà ho pensato questa fanfiction come una raccolta, più che come una storia con una trama organica. Quindi i vari capitoli saranno di lunghezza diversa, e probabilmente tratteranno momenti diversi, distanti tra loro nel tempo. 
Un appunto: viene citato un personaggio di nome Amos, che è proprio il padre di Cedric, Amos Diggory. L'ho immaginato come il cugino dei fratelli Bones, più grande di loro di qualche anno. 
Un grazie a tutti coloro che hanno letto il primo capitolo! 

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Capitolo 3
*** Capitolo III: Fuori dalla finestra ***


"Evan, muoviti, è tardi!" gridò spazientita Amelia, sporgendosi dall'ingresso della casa di zio Elijah, dove lei e i suoi fratelli si erano trasferiti subito dopo la morte dei loro genitori. Lanciò un'occhiata all'orologio con i pianeti che i suoi genitori le avevano regalato pochi mesi prima, per il suo diciassettesimo compleanno. Erano in ritardo davvero; erano le 10 e 30, e se avessero atteso oltre avrebbero rischiato di perdere l'Espresso per Hogwarts. "Guarda che se non ti dai una mossa me ne vado!"
"Arrivo, arrivo," borbottò l'interessato, precipitandosi giù dalle scale e facendo un gran baccano. Il suo gufo, Luthor, che sonnecchiava dentro la sua gabbia, si riscosse infastidito.
Zia Henrietta e zio Elijah li aspettavano davanti al camino da cui lei e Evan avrebbero raggiunto la stazione di King's Cross, via Polvere Volante. Edgar aveva raggiunto Florence in Galles da un paio di settimane, e sarebbe arrivato a Londra in auto con i genitori di lei. Amelia sistemò il baule e il manico di scopa nel caminetto, poi si avvicinò agli zii per salutarli.
"Fai la brava, mi raccomando," disse ironica la zia, ma Amelia sapeva che stava cercando di nascondere la sua reale commozione. Dopotutto, nei tre mesi che avevano passato a casa loro dopo la morte di Benjamin e Julia, si era occupata dei tre ragazzi come una madre. Abbracciò Amelia e le diede due baci sulle guance. Lo zio fece lo stesso, ma lui non si curò di dissimulare quello che provava; aveva gli occhiali già appannati, e non disse nulla, ma se avesse parlato probabilmente gli si sarebbe spezzata la voce. Dopodichè, Amelia entrò nel caminetto, prese un pugno di Polvere Volante dal vasetto che la zia le porgeva ed esclamò: "Stazione di King's Cross!"

Quando riaprì gli occhi, poco dopo, si trovava nel familiare vicoletto dietro la stazione che nascondeva uno dei camini ministeriali. Un giovane inserviente in divisa verde smeraldo la aiutò ad uscire dal caminetto e, mentre lei si ripuliva le mani e i vestiti macchiati di fuliggine, le riconsegnò i bagagli. Un attimo dopo, anche Evan emerse da una nuvola di fumo, tossendo.
"Buon anno scolastico," li salutò il ragazzo. Amelia e Evan ringraziarono con un cenno e si allontanarono, diretti al binario 9 e 3/4. Entrambi si guardavano intorno attenti, in cerca di volti familiari. Una volta oltrepassata la barriera, Evan adocchiò un gruppetto di amici del quinto anno e, dopo aver bofonchiato un "Ci vediamo più tardi," ad Amelia, si allontanò e li raggiunse. Amelia, intanto, aveva visto da lontano la sua amica Rosalind, un'altra Grifondoro come lei, e aveva allungato il passo per raggiungerla.
Rosalind Price era una ragazza robusta, mascolina, dai tratti asiatici, con i capelli neri e mossi. Lei e Amelia erano compagne di dormitorio dal primo anno, e al secondo anno erano entrate insieme nella squadra di Quidditch, nel ruolo di Cacciatore, Amelia, e di Portiere, Rosalind. Oltre che compagne di squadra, Amelia e Rosalind erano soprattutto amiche del cuore, da sempre; ma Amelia di questo non era più così sicura. Il fatto era che, nell'ultimo anno, i suoi sentimenti per l'amica si erano evoluti in qualcosa che non sapeva bene come definire. Rosalind non aveva mai nascosto la propria sessualità; aveva fatto coming out al terzo anno, con la sua solita disinvoltura, e chiunque aveva anche solo provato a farla sentire a disagio si era beccato un cazzotto sui denti senza troppe cerimonie. La sua relazione con Bertha Jorkins era durata circa un anno e mezzo, e si era conclusa quando quest'ultima si era improvvisamente resa conto che dopotutto non era lesbica; tant'è che stava giusto giusto salutando con grandi effusioni e bacerie un ragazzotto occhialuto dalla pelle scura che Amelia non riconobbe. Rosalind ci era rimasta molto male; e ora Amelia si ritrovava, da circa un anno, con una bella gatta da pelare. Non aveva più visto Rosalind dal funerale dei suoi genitori, e si può dire che allora avesse altri pensieri per la testa.
"Ciao, Ames," la salutò Rosalind quando la vide. "Tutto a posto?"
"Ehi," Amelia ricambiò il saluto. "Sono arrivata adesso con la Metropolvere. Saliamo? Mio fratello è già sul treno con Flo."
Aiutandosi a vicenda, riuscirono a caricare i bauli, le scope e la gabbietta con il gatto di Rosalind, Shiva, sul treno; poi si allontanarono lungo il corridoio, scansando studenti sovraeccitati che correvano su e giù, in cerca di uno scompartimento libero. Trovarono Edgar, Florence, Sturgis Podmore ed Emmeline Vance stravaccati in uno scompartimento, con l'atteggiamento tipico degli studenti dell'ultimo anno.
Oddio, sono tutte coppie.., pensò Amelia, a disagio, ma intanto Rosalind era già entrata e aveva già preso posto, così fu costretta a fare lo stesso. Un coro di saluti le accolse quando entrarono.
"Ciao, ragazze," le salutò Edgar, che teneva un braccio attorno alle spalle di Florence e aveva al collo la sua immancabile macchina fotografica. Non sorrideva; negli ultimi mesi, sorrideva poco. Si rivolse ad Amelia: "Tutto a posto a casa? Dov'è Evan?"
"Non so, se n'è andato con i suoi amici," sbuffò Amelia. "Speriamo non perdano il treno."
Sturgis leggeva la Gazzetta del Profeta insieme ad Emmeline, che teneva la testa bionda appoggiata sulla sua spalla; in prima pagina, accanto al titolone: TERRORISMO; SIAMO DAVVERO IN PERICOLO?, campeggiava una foto che fece rabbrividire Amelia. Il teschio verde che pochi mesi prima era comparso sopra la casa di Edgar e Amelia ghignava, e dalla sua bocca si srotolava un serpente.
"Non se ne sono ancora convinti?" chiese Amelia ad alta voce, indicando il giornale.
"Sai come sono alla Gazzetta," commentò Florence. "Non riconoscerebbero la verità nemmeno se ballasse nuda davanti a loro." Emmeline ridacchiò alla battuta. Amelia rimase seria. "La gente muore, e nessuno fa niente. Mi chiedo chi saranno i prossimi."
"Ne stavamo parlando ieri, io e Flo," disse Edgar, serio. "Che gli eventi degli ultimi mesi...non so tu, ma a me hanno fatto incazzare. E mi hanno fatto venire voglia di fare qualcosa." Florence annuì. Sturgis riemerse dalle pagine del giornale. Era un ragazzo alto e magro, estremamente espansivo e vivace, ed era il migliore amico di Edgar. E come lui, in quel momento non sorrideva.
"Tipo cosa?" chiese Rosalind.
Edgar tacque. Lanciò un'occhiata eloquente ad Amelia e poi alla porta dello scompartimento. Amelia si alzò e la chiuse.
"Vogliamo unirci all'Ordine della Fenice, dopo i M.A.G.O," disse Florence a bassa voce.
"Che cos'è l'Ordine della Fenice?" chiese Amelia, guardando dritto il fratello.
"E' una società segreta che sta mettendo insieme Silente, per combattere Voi-Sapete-Chi. Mi ha scritto una lettera un paio di settimane fa per parlarmi del progetto," spiegò Edgar, "e mi ha chiesto di diffondere la voce fra gli studenti del settimo anno, quelli che reputo più affidabili, ovviamente. Non te ne ho parlato per evitare che ne giungesse voce a Evan o agli zii," disse ad Amelia, in tono di scusa. "So che non approverebbero."
Nessuno disse nulla per qualche attimo. Poi Sturgis chiese: "Chi ha reclutato, finora?"
"Non me lo ha detto," rispose Edgar. "Solo i membri possono sapere i dettagli sull'organizzazione. Io e Flo ci fidiamo di Silente, comunque." I suoi occhi grigi si spostarono da Emmeline, a Sturgis, a Rosalind, e infine ad Amelia. La conversazione finì lì.
Intanto il treno era partito, e si allontanava veloce per la campagna inglese. Amelia guardava Edgar. Si era lasciato crescere la barba, si atteggiava a uomo, ma lei vedeva che sotto la superficie aveva paura. E non ha torto ad averne, pensò. Vuole schierarsi in prima linea contro un mago potente, che sta terrorizzando il Mondo Magico. Anch'io avrei paura.
Anch'io ho paura.
Di colpo la prese il terrore profondo di perdere anche Edgar. Non doveva toccare a lui, pensò. Non era giusto. Non deve toccare a noi combattere per sopravvivere. In silenzio, Amelia posò la testa contro il finestrino e guardò fuori. Il paesaggio era dolce e sereno, come solo la campagna inglese di fine estate sa essere. Amelia pensò che avrebbe dato qualunque cosa per essere un filo d'erba, una coccinella, una nuvola, una parte della natura, ignara del male.

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