Amico di Dio, nemico di tutto il mondo di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***
Capitolo 3: *** Parte terza ***
Capitolo 4: *** Parte quarta ***
Capitolo 1 *** Parte prima ***
AMICO
DI DIO, NEMICO DI TUTTO IL MONDO
Parte prima
Germania, da qualche parte
lungo le coste del Mare del Nord, circa 1420
Il cielo era un immane ribollire
di nubi livide e contorte. L'ululato del vento si mescolava al rombo
cupo del tuono e al crepitio dei fulmini, e dalla superficie
sconvolta del mare si levavano spruzzi che il bagliore dei lampi
rendeva sinistramente fosforescenti.
La Kogge[1] volava sulle onde
verdastre, immergeva la prua e riemergeva con fiotti di spuma che
sgrondavano dagli ombrinali. La vela si gonfiava investita dal vento
di maestrale, l’albero gemeva a ogni raffica, mentre il sartiame si
tendeva allo spasimo.
“Capitano, se continua così
affonderemo!” esclamò il nostromo, reggendosi alla struttura del
castello di poppa.
L’uomo cui si era rivolto,
alto, imponente, un mantello di cuoio lucido di pioggia che gli
svolazzava dietro le spalle, sollevò lo sguardo verso le
scricchiolanti strutture, e semplicemente ordinò: “Una mano di
terzaroli, Hein.”
L’altro trasmise l’ordine, e
subito due marinai afferrarono la vela per linea di scotta e
cominciarono a serrare i matafioni.
Tesa allo spasimo dalla tempesta,
la tela era dura come ferro. Si aggiunse un terzo uomo, ma un’ondata
più violenta delle altre gli fece perdere l’equilibrio, egli
rotolò investito dall’acqua che aveva invaso la coperta, e al
successivo sollevarsi della prua venne trascinato fino
all’impavesata. Si aggrappò spasmodicamente, ma un brusco
movimento della nave lo scaraventò con mezzo corpo fuori bordo.
Egli urlò terrorizzato, mentre
l’acqua tumultuosa sembrava addirittura protendersi per ghermirlo.
Una folgore squarciò il cielo come un colpo di spada, il tuono che
la seguì fu talmente forte da coprire per un attimo ogni altro
suono. L’uomo urlò di nuovo.
Il capitano abbandonò la sua
posizione sul castello, raggiunse rapidamente il ponte di coperta,
barcollò investito da un’ondata e il cappuccio gli scivolò
all’indietro, rivelando capelli biondi scoloriti dalla salsedine e
una cicatrice che gli tagliava il volto dalla tempia al mento.
Scrollò il capo per allontanare dagli occhi le ciocche bagnate, poi
afferrò il marinaio e lo issò di nuovo a bordo.
“Grazie, capitano,” ansimò
questi, ma l’altro stava già tornando sul castello. Chiamò il
nostromo.
Egli si fece avanti. “Capitano?”
Il primo strinse gli occhi.
Scrutò per qualche istante il cupo agitarsi delle onde, quindi
disse: “Con questo mare non riusciremo a passare dalla Bocca di
Lupo.”
“Ma non possiamo nemmeno
rimanere qui fuori. Dobbiamo comunque raggiungere Lüsum.”
“Passeremo dalle secche.”
“Dalle secche, capitano?
Rischiamo di arenarci.”
“No, se passiamo per il
canale.” Poi, dopo una pausa: “È l’unico modo. Dì a Lars che
lo sostituisco io al timone, tu occupati della vela.”
“Capitano, senti...” cominciò
il nostromo, ma l'altro lo interruppe categorico: “No, Hein, senti
tu: mi avete eletto come vostro comandante, e io ho giurato di fare
del mio meglio per guidarvi. Dovete fidarvi di me, conosco questo
tratto di mare.”
Si fissarono negli occhi per
qualche istante, un'ondata scrosciò sulla prua, schizzi di spuma
gelida arrivarono fino a loro. Un fulmine crepitò illuminando
dall'interno le nubi plumbee.
Infine il capitano si girò, e
senza dire altro raggiunse il timone.
L'uomo chiamato Lars aveva
circondato la barra con entrambe le braccia, e la teneva in direzione
puntellandosi anche con i piedi. Accanto a lui, un altro marinaio lo
aiutava a reggerla. Nonostante gli sforzi congiunti dei due, il
timone dava l'impressione di poter sfuggire alla presa da un momento
all'altro, lasciando la nave senza guida in balia dei flutti.
Il capitano si unì a loro. “Va'
ad aiutare gli altri alla vela, Lars!” ordinò poi. “Qui rimango
io.”
La nave si scosse, rollò
investita da un'ondata laterale, dalla stiva provenne il rumore secco
di qualcosa che si spezzava.
“Dannazione!” ringhiò fra i
denti il capitano. Poi, di nuovo rivolto a Lars: “Tesa a ferro la
scotta di dritta, voglio potermi affidare alla vela quando ce ne sarà
bisogno.”
“Sì, capitano.”
Le secche apparvero in
lontananza, annunciate da un maggiore ribollire di schiuma bianca e
da una disordinata frenesia delle onde. L'acqua era più chiara, e la
sabbia sollevata dalla burrasca la rendeva lattiginosa. Il capitano
diede un'occhiata ai suoi uomini e li vide scrutare preoccupati oltre
la prua della Kogge.
“Animo!” urlò, con voce
sufficiente a coprire il fragore della tempesta. “Dopo quello che
abbiamo passato, non vi farete spaventare da una secca!”
Un tuono sembrò suggellare
quelle parole di sfida.
La nave avanzò destreggiandosi
sui bassi fondali. A un tratto si udì un rumore raschiante, e lo
scafo si inclinò da una parte.
“Mollare i terzaroli!” ordinò
il capitano, “Tesare a ferro le scotte!”
La vela così liberata si gonfiò
con uno schiocco, e strappò in avanti la Kogge. L'albero emise un
gemito, sulla sua sommità si accese gelida la fiammella di un
corposant[2].
“È un segno di Dio!” gridò
qualcuno in coperta.
Con voce possente, il capitano
rispose: “Meno chiacchiere, uomini! Non sarà Dio a tirarci fuori
da questa situazione, ma il nostro coraggio!”
La nave scartò, beccheggiò
investita da ogni parte dalle onde impazzite, di nuovo raschiò il
fondo con la carena. Le fiamme azzurre del corposant
si torsero nell'aria livida mentre scrosci di pioggia e schiuma si
abbattevano sulla coperta.
Il capitano manovrò ancora una
volta la barra del timone, cercando di offrire al vento ogni minima
parte della vela. La Kogge parve scrollarsi, uno scricchiolio
sinistro percorse tute le sue strutture, l'albero si curvò come
sottoposto a una forza immane, ma subito dopo l'imbarcazione scattò
in avanti, lasciandosi a poppa i banchi di sabbia.
Gli uomini esultarono di nuovo,
con un urlo di selvaggia rivalsa nei confronti degli elementi
furibondi. Sospinta dalle raffiche di maestrale, la nave volava sulle
onde sollevando creste di spuma. In lontananza comparvero due luci
fioche.
“Lüsum,” sospirò il
nostromo, con lo sguardo fisso in quella direzione.
Il capitano annuì, poi proclamò:
“Audaces fortuna
iuvat, avrebbe detto
Magister Wigbold.”
“Già.”
“Berremo alla salute sua e
degli altri, stasera.”
“Come sempre, capitano.”
“Lo meritano.”
“Già.”
Lüsum era poco più di una
spiaggia che si allargava in un'insenatura riparata, circondata da
case fatiscenti. Da una parte c'era un corto molo di pietra, attorno
al quale erano ormeggiate un altro paio di Kogge e qualche Kreyer[3].
Le poche strade, trasformate dal temporale in torrenti di fango,
erano deserte.
Solo il più grande degli
edifici, ovvero ciò che restava di una chiesa sconsacrata e priva
del campanile, mostrava qualche fioca luce all'interno. Per il resto,
a parte due lanterne che cigolavano spinte dalle raffiche, il luogo
sembrava disabitato.
Di più: sembrava non essere mai
stato abitato. Le finestre erano serrate, dai camini non usciva fumo.
Alcune delle capanne avevano il tetto di paglia fradicio, nel quale
gli uccelli di palude avevano nidificato.
Rade erbacce crescevano ai piedi
dei muri sporchi.
La Kogge attraccò, il capitano
scese a terra. La porta di un capanno poco distante si schiuse, e da
essa fece capolino un volto magro, con una benda sull'occhio destro e
radi capelli rossicci a incorniciarlo.
“Salute, Tilo,” disse il
capitano.
“Ah, sei tu,” brontolò
l'altro, senza abbandonare il suo posto. “Fatto buona caccia?”
Il primo si strinse nelle spalle.
“Le navi dell'Hansa non escono con questo tempo.” Si aggiustò il
cappuccio di cuoio che una raffica di vento gli aveva spinto
indietro.
“Hanno paura di perdere il loro
prezioso carico?”
“Già. C'è qualcuno
all'Aringa?”
“Sono tutti là.” L'uomo
sputò da una parte, poi recuperò un bicchiere di coccio e bevve un
sorso. “Tranne me e Fiete. A noi tocca la guardia.”
“Prima o poi tocca a tutti.”
Tilo ghignò. “Certo, ci
spartiamo ogni cosa come dei veri fratelli[4].”
“Tieni gli occhi aperti.”
L'altro alzò le spalle. “Chi
vuoi che arrivi con questo tempo? Anche i pesci stanno nascosti.”
“Tu tienili aperti. Non ci
tengo a finire al Grasbrook[5].”
Il capitano si tirò il cappuccio
fin sugli occhi, e seguito dai suoi uomini si diresse alla chiesa.
Spinse la porta ed entrò nell'edificio: la navata era ingombra di
tavoli, sui quali ardevano numerose candele. Da una parte era stato
ricavato un grande camino, e il fuoco vi scoppiettava allegro. Su
spiedi e graticole cuocevano pesci di varie dimensioni.
Ovunque c'era gente che beveva,
parlava a voce alta e rideva, e la cacofonia delle conversazioni si
rifletteva e si amplificava contro le volte del soffitto.
Il capitano fece qualche passo
nella sala. Una donna che stava passando con un vassoio carico di
boccali si fermò a guardarlo e disse: “Ecco finalmente il vecchio
Eike! Va' vicino al fuoco, prima di prenderti un malanno: sei più
fradicio di un pagliolo.”
L'uomo annuì e si diresse verso
il camino. Mentre passava, gli altri gli davano pacche sulle spalle o
gli rivolgevano rudi parole di saluto. Uno gli porse addirittura il
boccale, dal quale egli bevve un lungo sorso.
Tese le mani verso le fiamme,
socchiudendo gli occhi con un sospiro di soddisfazione, poi si fece
scivolare giù dalle spalle il mantello di cuoio ormai fradicio e lo
appese a un piolo che spuntava dalla parete. Si stirò avvertendo le
ossa scricchiolare, poi si passò le mani fra i capelli bagnati per
tirarseli indietro, quindi li legò con un laccio che portava al
collo.
La donna di prima lo raggiunse e
gli tese un boccale pieno, dal quale colava un rivolo di schiuma
candida. “Un po' di birra,” disse semplicemente.
“Grazie, Dörthe,” rispose
l'uomo.
“Vuoi da mangiare?”
Il capitano scambiò un'occhiata
con il nostromo, comparso nel frattempo alle sue spalle, quindi
indicò un pesce che stava cuocendo e rispose: “Un po' di
quell'halibut non ci dispiacerebbe.”
“Arriva.”
Trovarono un tavolo libero e si
sedettero. Poco lontano c'era un gruppetto di giovinastri che pareva
molto allegro.
Eike si voltò a osservarli: un
equipaggio arrivato a Lüsum da poco.
“Forse non hanno ancora capito
come funzionano le cose da queste parti,” brontolò il nostromo
quando il capo della banda salì in piedi su una sedia per farsi
acclamare dai suoi.
Il capitano scosse la testa. “Ah,
lascia stare. Sono riusciti a catturare una Vredekogge[6] e pensano
di essere diventati i padroni del mare.”
Detto questo cercò di
disinteressarsi al gruppetto, ma più i giovinastri bevevano birra,
più la loro allegria diventava invadente anche per i criteri
dell’Aringa Salata.
Più d’uno rivolse loro occhiate infastidite.
Sempre in piedi sulla sedia, il
ragazzo a un certo punto gridò: “Lo sapete chi sono io? Amico di
Dio, nemico di tutto il mondo!”
A quelle parole, immediatamente
il nostromo strinse la mano sull’avambraccio che il capitano aveva
posato sul tavolo. “Lascia stare,” lo ammonì a mezza voce.
“Branco di pivelli con la bocca
ancora bagnata di latte,” ringhiò questi. “Non sanno nemmeno di
cosa stanno parlando.”
“E dai, capitano.”
“Guardalo là: tronfio come un
galletto su un mucchio di letame.”
Il ragazzo salì in piedi sul
tavolo. “Amico di Dio, nemico di tutto il mondo!” ripeté.
“Questo è il mio motto!”
Eike si alzò in piedi e
allontanò bruscamente la sedia, poi si diresse a grandi passi verso
l’allegra combriccola, afferrò il giovanotto per una gamba e lo
scaraventò giù dal tavolo. Già alticcio, questi non riuscì a
opporsi e cadde con fragore, mandando in frantumi tazze e boccali.
“Ehi, che ti piglia?” urlò costernato. Nessuno si mosse in sua
difesa. Più d’uno, anzi, testimoniò la propria approvazione al
capitano con cenni del capo o parole.
Eike frattanto incombeva su di
lui con i pugni serrati e gli occhi iniettati di sangue. “Quello
non è il tuo
motto, specie di bamboccio idiota.”
“Non è nemmeno il tuo, se è
per questo,” replicò il più giovane, fissandolo con astio.
L’altro fece un passo avanti,
costringendolo ad arretrare bruscamente, poi chiese: “Lo sai
cos’hai appena detto? Lo sai di chi stai parlando?”
“Io...”
“Lo sai chi era Störtebeker?”
Nella sala era calato un silenzio
gelido. Gli unici rumori che si udivano erano il crepitare del fuoco
e l’ululato lugubre del vento. Gli occhi di tutti erano fissi sulla
scena. “Sai chi era?” ripeté il capitano.
[1] Imbarcazione in uso nel
medioevo nel Mar Baltico e nel Mare del Nord. Aveva funzioni sia
commerciali che militari.
[2] Anche noto come “Fuoco di
Sant'Elmo”, è una scarica elettro-luminescente provocata dalla
ionizzazione dell'aria durante un temporale.
[3] Tipo di chiatta coeva della
Kogge, in uso nelle stesse zone.
[4] Fa riferimento al nome che si
davano i pirati di quelle zone, ovvero Vitalienbrüder
(letteralmente: “i fratelli delle vettovaglie”). Il nome deriva
dal fatto che nel corso della guerra tra Svezia e Danimarca essi
furono ingaggiati dal re svedese Albrecht III per rifornire di
vettovaglie la sua capitale assediata.
[5] Spianata situata vicino al
porto di Amburgo, sulla quale anticamente si giustiziavano i pirati.
[6] Da vrede, forma più antica
di Friede, ovvero pace. Si trattava di Kogge armate che venivano
usate per i combattimenti contro i pirati. Il termine fa riferimento
al fatto che avevano il compito di “portare la pace” nei mari.
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Capitolo 2 *** Parte seconda ***
Salve a tutti, ecco la seconda
parte del mappazzone sui pirati del Mare del Nord. Ringrazio chi mi
ha letto e seguito fin qui, e in particolare chi mi ha lasciato un
commento, ovvero Saelde_und_Ehre, John Spangler, Syila,
alessandroago_94, innominetuo, Yonoi, Rose Ardes, TheWalkingNerd
e queenjane.
Parte
seconda
Avevo
vent’anni quando mio padre mi portò per mare per la prima volta.
Ricordo che al pensiero di quel viaggio non ero per nulla contento:
non ero ansioso di solcare le onde a bordo di una Kogge, né avevo
voglia di aggirarmi per mercati chiassosi a contrattare legna e
barili di aringhe.
Avrei
preferito starmene nella tranquillità della nostra casa di Lubecca a
studiare le sette arti liberali, o magari avrei voluto viaggiare, sì,
ma lo stretto necessario per raggiungere Parigi e la sua Università,
e poi da là non mi sarei più mosso.
Ma
a mio padre l’Università non piaceva. La considerava roba da
nobilastri sfaccendati, e non aveva la minima intenzione di
permettere a uno dei suoi due figli di infognarsi in quel truogolo di
teorie strampalate e gente dalla dubbia moralità.
Per
me aveva gettato le basi di una fiorente carriera nella Lega
Anseatica, e si aspettava che io la seguissi esattamente come stava
facendo mio fratello maggiore.
Quando
vi giunsi, il porto non mi parve per nulla diverso da come l’avevo
immaginato: il cielo era coperto, l’acqua grigia e sporca. Non
appena scesi dalla carrozza, i più diversi odori mi assalirono le
nari, e nessuno di essi mi risultò piacevole: ovunque stagnava il
puzzo del pesce marcio, ma vi erano anche quello del catrame, del
legno fradicio, della lana grezza e tanti altri che allora nemmeno
riuscii a identificare. Certi gabbiani enormi, col becco che sembrava
fatto di ferro, si contendevano stridendo i rifiuti.
Veicoli
carichi di mercanzie si incrociavano, si sorpassavano a vicenda, si
urtavano tra le maledizioni dei conducenti e della gente che li
attorniava. Un carro trainato da un paio di buoi, colmo
all’inverosimile di grosse balle biancastre, finì con la ruota in
una buca del selciato. Si udì lo schianto dell’assale che si
spezzava ed esso si inclinò pericolosamente. La folla che gli stava
sciamando intorno si disperse urlando e imprecando.
Una
donna dai capelli color stoppa, vestita di colori sgargianti, mi tirò
per una manica e chiese: “Vuoi farti un giro, signorino?”
Mentre
io saltavo indietro spaventato, intervenne mio fratello dicendo:
“Lascia stare, Antje. Un’altra volta, magari.”
“Hai
una moneta?”
“Vattene.”
“Una
moneta,” ripeté la donna. Lasciò andare la mia manica e si
aggrappò a una falda della sua veste bordata di pelliccia. “Una
moneta sola.”
“Lascia…”
cominciò Albrecht. Si fece indietro per sottrarsi alla presa della
donna, ma così facendo urtò un giovanotto che stava passando con un
rotolo di reti da pesca sottobraccio.
“Ehi,
che fai, specie di idiota?” urlò questi, per nulla impressionato
dalle ricche vesti di mio fratello.
Avanzarono
gli uomini d’arme che mio padre aveva ingaggiato per il viaggio, e
subito, ansiosi di dimostrare che avevano preso molto sul serio il
loro compito, cominciarono a spintonare e a malmenare il robusto
pescatore, che imprecando si difendeva vigorosamente.
Io
cercai stranito lo sguardo di mio fratello, ma Albrecht si sfilò
dalla cintura uno scudiscio, lo brandì, lo levò alto sulla testa e
balzò nella mia direzione. Istintivamente mi coprii il volto con le
braccia, ma il colpo non si abbatté su di me. Udii il sibilo della
frusta, poi uno schiocco e un grido. Vidi un ragazzetto coperto di
stracci allontanarsi con tutta la velocità che le sue gambe ossute
gli consentivano.
Fissai
stupefatto mio fratello.
“Ti
stava rubando la scarsella,” disse questi a mo’ di spiegazione.
“Ma…”
“Devi
stare più attento. Non sei più nella tua stanza piena di libri.”
Io
mi limitai ad alzare le spalle. “Purtroppo,” sospirai. Da qualche
parte, qualcuno aveva cominciato a suonare una ghironda, da una
taverna usciva un canto stonato da ubriachi. Una zaffata di fumo di
torba mi investì in pieno, facendomi tossire.
Albrecht
mi scompigliò affettuosamente i capelli, poi disse: “Vedrai che
tra un po’ ci farai l’abitudine.”
In
quel momento passò un uomo senza gambe che si trascinava su una
specie di carrello e intanto cantava con voce stridula un inno sacro.
Dietro di lui, un paio di cani randagi si contendevano ringhiando un
pezzo di pesce secco.
“Ne
dubito,” dissi con voce cupa.
“È
capitato anche a me: all’inizio mi sembrava un girone dell’inferno,
ma poi pian piano ho cominciato a vedere un ordine dietro a questo
apparente caos.”
Mi
guardai intorno smarrito, quindi replicai: “E che ordine ci
sarebbe? Nemmeno al carnevale si vedono tanti pazzi tutti insieme.”
Mio
fratello mi indicò dei carri che procedevano uno dietro l’altro.
“Li vedi quelli? Sono carichi di balle di stoffa. Direi tela di
Fiandra, così a occhio. E vedi quegli uomini che li circondano e non
li perdono d’occhio un attimo? Sono i guardiani ingaggiati per far
sì che nessuno ne porti via una.”
Seguii
con lo sguardo la fila di veicoli e non risposi. Fu di nuovo Albrecht
a parlare: “Un po’ diverso dai tuoi libri di filosofia, vero?”
“Decisamente.”
“Ricordati
però una cosa,” replicò lui. “La filosofia non riempie la
pancia, le aringhe sì.”
A
quel punto si avvicinò nostro padre. Si guardò intorno compiaciuto,
pose i pugni sui fianchi e disse: “Ebbene, Eike, che te ne pare?”
Frastornato
da tutta quella confusione, non riuscii a trovare una risposta
adeguata e mi limitai a chinare la testa.
Echeggiò
uno strillo femminile, poi rumore di vetri infranti. Qualcuno gridò:
“Al ladro!”
Un
paio di robuste guardie cominciarono a correre per raggiungere il
furfante, spintonando chi non era lesto a scansarsi.
Mio
padre dedicò appena uno sguardo annoiato alla scena, poi di nuovo si
rivolse a me: “Ora ti spiego come si svolgerà il nostro viaggio.
Presta attenzione, figlio mio, perché queste saranno le rotte che
poi dovrai percorrere da solo, quando avrai la tua Kogge e seguirai i
tuoi affari.” Mi diede una pacca sulla spalla e soggiunse: “O
magari i miei, quando io sarò troppo vecchio per certe cose.”
Gli
rivolsi uno sguardo afflitto, al quale egli non fece minimamente
caso. Continuando a tenermi una mano sulla spalla, mi indicò le navi
alla fonda e disse: “Vedi quella Kogge scura, con gli stemmi di
Amburgo sul castello? Dovrai stare attento a quella: è la nave di
Stubbe, quello che commercia aringhe, ambra, cera d'api e legname, e
non ce n’è una così veloce in tutto il Baltico. È più veloce
persino della Bunte
Kuh[1]. Gli ho chiesto
mille volte se me la vendeva, ma quel vecchio furbastro non ne vuole
sapere.”
“La
nostra non è veloce, padre?” gli chiesi.
“Le
nostre, vorrai dire.
Benedetto figlio con il naso sempre nei libri, non sai nemmeno quante
navi abbiamo? Ce ne sono due per le merci, belle robuste, e una
Vredekogge carica di uomini armati, che ci difenderà dai pirati.”
A
quelle parole mi sentii gelare e gli rivolsi uno sguardo smarrito.
Avevo sentito parlare dei pirati, ma li avevo sempre considerati una
minaccia vaga, più che altro una specie di leggenda. Una storia per
spaventare i bambini, come quella del Krampus.
“C’è
pericolo?” gli chiesi.
Mio
padre scosse la testa. “Non per noi. A parte che dopo la batosta di
due anni fa a Gotland[2], i pirati hanno capito che non c’è tanto
da scherzare. Inoltre partiremo con i nostri validi uomini d’arme,
che ci accompagneranno e ci difenderanno. Certo, ci costano
parecchio, ma il capitano, qui, è stato in mezzo ai Vitalienbrüder
per un po’, quindi sa bene come affrontarli.”
A
quelle parole si fece avanti un tanghero alto almeno un palmo più di
me, con la faccia coperta di cicatrici. Vestiva una cotta di maglia e
bracciali d’acciaio, e oltre alla spada, dalla cintura gli
penzolava una balestra leggera.
Io
lo fissai stupefatto, lui si limitò a chiarire: “Ero con loro ai
tempi della guerra contro la Danimarca.”
Deglutii.
“Conoscete Störtebeker?” gli chiesi.
Egli
alzò le spalle. “E chi non lo conosce? È l’amico di Dio e il
nemico di tutto il mondo.” Fece una brave risata, poi soggiunse: “O
almeno, è ciò che dice di sé.”
“È
davvero così terribile come si racconta?”
“Anche
di più,” confermò l’uomo d’arme. “I marinai tremano al solo
udire il suo nome. Egli…”
“Basta
così,” lo interruppe mio padre. “Portate a bordo i vostri, non
abbiamo tempo da perdere in chiacchiere.”
L’altro
aprì la bocca per replicare, ma poi si limitò a un lieve inchino e
si allontanò.
“Voleva
farsi alzare la paga,” mi spiegò disinvolto mio padre. “Questi
qua si inventerebbero qualsiasi cosa per spillare qualche marco in
più, ma quando un soldato si mette a contrattare con un mercante non
può che uscirne sconfitto. Non ti pare, figlio?”
“Sì,
padre,” risposi obbediente.
“Molto
bene. Ti stavo parlando della rotta che seguiremo, non è vero?” Mi
prese di nuovo familiarmente per una spalla, e sospingendomi in
avanti cominciò a narrare quello che avremmo fatto. A ogni tappa, io
diventavo più avvilito: la prospettiva era quella di salpare per
Göteborg con un carico di pelli conciate e lana, venderle là,
acquistare con i proventi pesce secco e barili di aringhe e salpare
di nuovo alla volta del fondaco di Londra. Là avremmo venduto il
pesce e comprato stoffe da portare ad Amburgo.
Mentre
mio padre mi spiegava soddisfatto quanto ci avrebbero fruttato tutti
quei commerci, io calcolavo smarrito quanto tempo sarebbe passato
prima che potessi rivedere la mia biblioteca. “Padre, devo proprio
accompagnarvi?” chiesi implorante.
“Ti
piacerà,” fu l’unica risposta che egli si degnò di fornirmi.
“Hai bisogno di guardarti intorno e vedere come va il mondo. Hai
bisogno di diventare uomo. Tra un po’ io sarò troppo vecchio per
queste cose, e allora chi se ne occuperà?”
“Pensavo
che l’avrebbe fatto Albrecht, padre.”
“Sciocchezze,
gli Hoelscher devono stare uniti. Che cosa vuoi fare, rintanarti in
un monastero a far niente per il resto della vita mentre tuo fratello
si spacca la schiena per tutti e due?”
Senza
darmi il tempo di rispondere, mi condusse lungo il molo fino a una
nave collegata a terra da una passerella. Sotto lo sguardo vigile di
gabbiani, mendicanti e ladruncoli, l’equipaggio stava portando a
bordo mercanzie e provviste.
Mio
padre la fissò compiaciuto e disse: “Porta novanta Last[3], non
uno di meno!”
“È
vostra, padre?”
“Ma
si capisce! È la Mädchen
von Lübeck[4], puoi
anche chiamarla solo Mädchen.
Poi ci sono la Zäh[5]
e la Löwin[6].”
Me le indicò.
“Sono
belle,” mi sentii in dovere di dirgli.
“Sono
le più belle.
Mi sono costate una fortuna, ma sono state fatte dai migliori
carpentieri.”
§
A
dispetto dell'entusiasmo di mio padre, trascorsi la prima tappa del
nostro viaggio sdraiato nella mia cuccetta in preda a un terribile
malessere. Le poche volte che riuscivo ad alzarmi, correvo per prima
cosa a piegarmi sull'impavesata e rigettavo fino a che non rimanevo
prostrato e ansante, con gli occhi che lacrimavano e il volto rosso
per lo sforzo. Poi, sfinito dai conati e dal digiuno obbligato, non
potevo fare altro che tornare a sdraiarmi.
Quando
le forze non erano sufficienti, mi limitavo a giacere in uno stato di
penoso dormiveglia, e affidavo le mie necessità a un secchio che
qualcuno mi aveva posto accanto.
Della
navigazione fino a Göteborg in pratica non vidi nulla. Mi ritrovai
in quella città di guglie e case dalle alte facciate come se
qualcuno mi ci avesse trasportato per magia, e per qualche giorno non
riuscii a fare altro che giacere in un letto finalmente fermo,
ringraziando Dio e tutti i santi che quel supplizio fosse finito.
Non
sapevo come sarei riuscito a proseguire il viaggio, perché la sola
idea di trovarmi di nuovo a bordo della Mädchen,
nell'aria al tempo stesso gelida e viziata della stiva, puzzolente di
cordame di canapa e pesce secco, era sufficiente a darmi il
voltastomaco.
Ripartimmo
alla volta dell'Inghilterra. Ci lasciammo alle spalle il Kattegat,
doppiammo rapidamente la punta di Skagen, percorremmo lo Skagerrak e
da lì entrammo nelle ferree immensità del Mare del Nord.
Nonostante
la mia ferma convinzione che non sarebbe mai accaduto, cominciavo ad
abituarmi al moto della Kogge. Trascorrevo più tempo in coperta, e
non solo piegato a vomitare fuori bordo. A volte mi sorprendevo a
contemplare il mare, a godere del blu profondo delle onde sotto i
raggi del sole e della loro forma, sempre uguale eppure sempre
diversa. Provavo un brivido di eccitazione quando le vedevo ergersi e
guizzare come cavalli selvaggi, coronate da una bianca cresta di
spuma.
La
salsedine agiva su di me come una pietra pomice, che pian piano mi
levigava e mi toglieva di dosso strato dopo strato la vita che avevo
condotto fino a quel momento. Mi rendeva nuovo, in un certo senso, mi
faceva scoprire il piacere fisico del sole sulla pelle e del vento
sul viso. I mille rumori della Mädchen
erano diventati un canto nel quale pian piano stavo imparando a
riconoscere ogni voce, dal frusciare delle onde sulla carena al
cigolio ritmico del sartiame stirato dai movimenti dell'albero. Lo
schiocco della vela che si distendeva gonfiata dal maestrale
svegliava in me segrete idee di libertà.
Cominciai
a conoscere anche i membri dell'equipaggio. La sera sedevo con i
marinai intorno alla cassa di ferro in cui il cuoco preparava le
braci per cuocere i pasti, e dividevo con loro aringhe affumicate e
galletta.
Mi
scoprii avido di racconti di mare, la poesia cortese di cui mi ero
fino ad allora dilettato cominciò a sembrarmi inconsistente e
frivola. Sciocca, in confronto alle storie tenebrose e terribili che
quegli uomini si raccontavano con gli occhi fissi sul fuoco,
abbassando la voce nei passaggi più carichi di mistero.
§
Ricordo
che quando avvistai le navi dei pirati all'orizzonte ne fui
inizialmente affascinato. Il sole si stava avviando verso il
tramonto, l'acqua aveva abbandonato il blu intenso del meriggio per
assumere una tonalità ferrea, e i raggi aranciati lasciavano sulle
onde vaghi baluginii di fucina.
Le
vele in lontananza erano un grappolo candido.
Mi
diedero l'idea di essere qualcosa di etereo, prezioso. Mi fecero
pensare a petali sospinti dal vento.
Mi
voltai verso mio padre per indicargliele, ma vidi che egli le stava
già fissando, e una profonda ruga verticale gli si era scavata al
centro della fronte. Al suo fianco il capitano, in viso la stessa
espressione di inquietudine tormentosa, le stava a sua volta
scrutando. A bordo della Mädchen
era calato un silenzio carico di cupa aspettativa.
Fissai
mio fratello rivolgendogli una muta richiesta di spiegazioni, ma egli
non ebbe bisogno di parlare, perché in quel momento echeggiò decisa
la voce del capitano: “Portate in coperta le armi, tutti ai posti
di combattimento.”
Il
clangore del metallo ruppe la quiete sinistra che aveva pervaso la
Kogge.
D'istinto
mi voltai verso le due navi che ci accompagnavano, la Zäh
e la Löwin,
e vidi che a bordo di entrambe gli uomini si stavano ugualmente
preparando allo scontro.
Tornai
a rivolgere l'attenzione a mio padre. Egli stava parlando con il
capitano: “Non potremmo invertire la rotta?” stava chiedendo.
L'altro,
un marinaio di Brema che portava il nome di Henning, fece un gesto di
diniego e rispose: “Siamo a pieno carico, ci raggiungerebbero prima
del buio.”
“E
quindi cosa possiamo fare?”
Il
capitano lo fissò. “Immagino che liberarsi delle merci sia fuori
questione?”
Mio
padre scosse la testa con fare deciso, poi replicò: “Sono barili
di aringhe di prima qualità, tra le migliori che abbia mai visto. A
Londra me le pagheranno a peso d'oro.”
Henning
si strinse nelle spalle. “Se ci arriviamo, a Londra.”
“Abbiamo
uomini armati. Se non si può fare altro, combatteremo.”
“Combatteremo
di sicuro, a meno che non decidiamo di consegnare loro tutto ciò che
vorranno prendersi, ma solo Dio sa con quale esito.”
“Abbiamo
soldati esperti,” ripeté mio padre.
Il
capitano non rispose.
Ci
fu un lungo silenzio, durante il quale io continuai a fissare le vele
all'orizzonte, poi mio padre chiese: “Sei sicuro che sia lui?”
“È
impossibile sbagliare. Quanto è vero Iddio, quello è Störtebeker:
guardate la bandiera.” Sulla più grande delle vele bianche era
comparso un lungo drappo rosso, che si torceva nel vento come una
sinistra lingua di fuoco.
Il
capitano chiamò il nostromo e gli ordinò di far avvicinare la
Löwin,
sulla quale si trovava la maggior parte degli uomini d’arme.
Un
brivido ghiacciato mi corse lungo la schiena. I marinai si stavano
già spartendo le armi, la coperta veniva sgombrata per il
combattimento. Nessuno parlava e gli unici suoni che si sentivano
erano il tramestio dei passi e il rumore del ferro che veniva
maneggiato.
Anche
a me fu consegnata una spada.
La
strinsi in pugno irresoluto. Ero istruito nell’uso delle armi, ma
come può esserlo il figlio di un facoltoso mercante che ha trascorso
tutta la sua vita nella sicurezza della città natale. Se anche
vincevo scontri con gli altri rampolli dei benestanti locali,
cos’avrei potuto fare contro un pirata avvezzo a combattere senza
alcuna regola se non quella di dare la morte all’avversario?
Mi
avvicinai a mio fratello. “Cosa succederà?” gli chiesi. Lanciai
alle navi uno sguardo colmo d'apprensione.
Albrecht
le fissò a sua volta, poi mi indicò i soldati della Löwin
e rispose: “Vedi che Karsten e i suoi uomini si stanno già
preparando al combattimento? Ci difenderanno loro.”
Io
non replicai. Osservavo le espressioni dei marinai esperti, ed esse
non mi comunicavano niente di buono: nessuno sulla Mädchen
sembrava illudersi che i soldati sarebbero stati in grado di
proteggerci.
Seguii
con lo sguardo le navi che si avvicinavano lente ma inesorabili,
aprendosi a ventaglio sull'acqua per tagliare ogni via di fuga. La
luce calava adagio, le onde si facevano plumbee e all'orizzonte solo
una sottile linea luminosa indicava il punto in cui il sole era
scomparso. L'aria era fredda.
Il
silenzio era rotto solo dagli scricchiolii del fasciame e delle
sartie. Ovunque mi girassi, vedevo volti tesi, pallidi di paura.
Mio
padre si rivolse al capitano: “Fa buttare a mare i barili,”
ordinò, ma l'altro scosse la testa. “Sarebbe peggio. A questo
punto è meglio avere qualcosa da gettare nelle fauci dei lupi,
oppure essi divoreranno la nostra carne.”
Le
Kogge dei pirati erano ormai a un tiro di freccia. A bordo vi erano
delle fiaccole accese, che gettavano sull'acqua riflessi sanguigni.
Nella luce cupa del crepuscolo distinguevo sulle spettrali
imbarcazioni solo sagome nere e immobili, ma coglievo anche senza
vederli gli sguardi bramosi dei pirati, li sentivo addosso come
quelli di belve fameliche.
Quando
le navi si furono avvicinate ulteriormente, nel silenzio esplose
all'improvviso una cacofonia di grida. “Amico di Dio!” urlò una
voce così potente da sovrastare tutte le altre. A essa fece seguito
il terribile ruggito di decine di altre voci: “Nemico di tutto il
mondo!”
Un
istante dopo, cominciarono a piovere sulle nostre navi nugoli di
frecce e dardi. I micidiali proiettili squarciavano le vele, si
piantavano nelle carene o cadevano sulla coperta e costringevano
chiunque a cercare ripari di fortuna. Io rimasi a fissare irresoluto
quella pioggia mortale, affascinato dalla sinistra bellezza delle
punte metalliche che brillavano fugaci alla luce delle fiaccole, e fu
mio fratello Albrecht che mi afferrò per una manica e mi tirò al
coperto.
Vidi
arrivare in volo un involto dal quale si sprigionavano fiamme. Esso
cadde sulla coperta della Zäh
con
un rumore di cocci infranti e
il suo contenuto dilagò sulle assi, spargendo intorno un fuoco che
sembrava impossibile da estinguere.
Le
navi pirate continuarono ad avvicinarsi, i nostri tiravano frecce per
tentare di colpire gli equipaggi, da entrambi gli schieramenti
salivano lamenti e imprecazioni. Un grappino d’abbordaggio arrivò
in volo e si piantò nell'impavesata. La cima cui era collegato si
tese e la Mädchen
fu attraversata da una scossa. L'albero ondeggiò, facendo oscillare
la vela ormai a brandelli. Un secondo grappino si piantò accanto al
primo, un marinaio accorse con un’accetta, tranciò una delle cime,
ma prima di riuscire a tagliare l’altra fu trapassato da un dardo,
emise un roco grido e cadde in acqua. Arrivò un altro grappino, la
nave pirata era ormai così vicina che da essa gli assalitori si
stavano preparando a saltare sulla nostra.
Davanti
al nascondiglio nel quale ci eravamo rifugiati passò di corsa uno
dei marinai. D’improvviso crollò a terra con gli impennaggi
bianchi di una freccia che gli uscivano dal petto, si torse e poi si
irrigidì. Esalò l'ultimo respiro così vicino che mi parve di
essere investito dal suo soffio tiepido. Mi voltai smarrito verso
Albrecht, che con voce asciutta mi disse: “Dobbiamo combattere, o
ci uccideranno tutti!”
Azzardai
un'occhiata verso la coperta: alla luce degli incendi, i pirati che
vi stavano dilagando erano demoni feroci, dallo sguardo spiritato,
bramosi di sangue e rapina.
“Ci
uccideranno ugualmente,” gli risposi atterrito. Fui tentato di
buttare fuori bordo la spada che stringevo in mano. Forse Albrecht lo
intuì, perché in tono tagliente mi disse: “E non credere che
avrebbero pietà di te, se ti vedessero inerme. Saresti solo un
bersaglio più facile.”
Mi
afferrò per un braccio e si lanciò fuori dal nostro rifugio, ma un
istante dopo emise un lamento soffocato e crollò a terra. Con un
grido d’angoscia mi piegai su di lui e vidi che si teneva una gamba
con entrambe le mani. Il sangue scorreva a rivoli fra le dita.
“Albrecht!”
esclamai chinandomi accanto a lui.
Era
sbiancato in volto e aveva la fronte imperlata di sudore gelido.
Sulle sue mascelle i muscoli erano tesi come corde. “Vattene,”
ansimò a denti stretti, “va’ via, Eike. Mettiti al coperto.”
Qualcuno
crollò accanto a me, fui investito da un fiotto di sangue caldo che
mi intrise gli abiti, e quasi rischiai di venir meno quando il suo
odore ferroso mi invase le narici. Mi appoggiai con una mano al suolo
e chiusi gli occhi cercando di recuperare la lucidità.
La
voce di Albrecht mi richiamò alla realtà: “Va’ via, Eike!”
“Via,
dove?” gemetti smarrito. Gli uomini del capitano Karsten erano
saliti sulla Mädchen
e ormai la battaglia infuriava ovunque. L’aria era satura del
clangore delle armi e delle grida degli uomini, ovunque stagnava
l’odore acre del macello.
Senza
nemmeno ascoltare la sua risposta, strappai un pezzo della mia
camicia e ne feci delle strisce, con cui cercai di bendargli alla
meglio la ferita. Nella scarsa luce non vedevo nemmeno da cosa fosse
stata provocata, percepivo solo il sangue caldo e viscoso che mi
scorreva tra le dita, e non riuscivo a capire se i brandelli che
toccavo sulla sua coscia fossero di stoffa o di carne.
Cercai
di concentrarmi su Ippocrate, Galeno, Avicenna e tutti i grandi
medici del passato di cui avevo letto i trattati, ma essi non mi
furono di nessun aiuto: nella mia mente sconvolta dal terrore i
pensieri si susseguivano disordinati come animali in fuga da una
foresta in fiamme, e io non ero in grado di concentrarmi su nessuno
di essi.
Passò
un tempo imprecisato. Frattanto era calata la notte e l’unica luce
proveniva ormai da alcune fiaccole resinose, che ardevano
sfrigolando. Mi guardai intorno e sbattei gli occhi come svegliandomi
da un lungo incubo: la coperta era rossa di sangue, disseminata di
corpi e parti di essi. La vela era a brandelli, le manovre pendevano
tranciate e oscillavano lente a seconda dei movimenti della Kogge.
Non
riconobbi nessuno degli uomini rimasti in piedi. Mi strinsi a mio
fratello e mi rannicchiai in un assurdo tentativo di scomparire
nell’ombra, poi rimasi a fissarli mentre percorrevano la coperta a
passi lenti, sollevando i coperchi delle botti, guardando qua e là.
Uno raccolse qualcosa da uno dei morti e se lo infilò in tasca, ma
subito un altro gli diede uno spintone e lo costrinse a mettere
quello che aveva preso alla base dell’albero, dove si stavano
ammucchiando le monete e tutti gli oggetti di qualche valore.
Uno
dei pirati risalì dalla stiva portando uno dei miei libri. Fece per
buttarlo a mare, ma un altro pirata altissimo e magro, con addosso
una specie di sdrucito abito talare, glielo strappò di mano e gli
disse qualcosa in tono aspro, quindi aprì il volume e passò la mano
sulla prima pagina con fare affettuoso, poi lo appoggiò con
delicatezza alla base dell’albero con l’altra roba.
A
quel punto udii un tramestio in avvicinamento. C’era gente che
parlava, e mi balzò il cuore nel petto quando riconobbi la voce di
mio padre. “Dio ti ringrazio,” mormorai, poi mi piegai su mio
fratello e sottovoce lo chiamai.
“Che
c’è?” chiese lui.
“Papà
è vivo, l’ho sentito parlare.”
Albrecht
stava per replicare quando la luce mi investì e una mano pesante mi
agguantò per la collottola. “Ecco dov’è il topolino che
squittiva!” disse una voce profonda. Alla frase seguì una risata.
In
men che non si dica fui strattonato in piedi e spinto verso il gruppo
di pirati. Il terrore si impadronì di me: vidi volti sfigurati da
cicatrici, bende che coprivano occhi mancanti, ghigni sdentati.
Perlopiù avevano capelli e barbe incolte, alcuni esibivano qualche
treccia, o qualche ornamento prezioso. Indossavano abiti di stoffe
pregiate, ma sdruciti e sporchi. Uno aveva addirittura una
spelacchiata bordura di vaio nelle maniche.
Alcuni
portavano usberghi, altri esibivano pezzi di armatura, spesso
scompagnati fra loro. Tutti erano carichi di armi.
Tenuto
sotto tiro da una balestra, mio padre era immobile. Il volto bianco
di paura risaltava tra quelli rubicondi e abbronzati dei suoi
aguzzini.
“Chi
è questo bel bimbetto?” gli chiese uno dei pirati indicando me.
Mio
padre non rispose.
“Chi
è?” ripeté allora l’altro. “Di certo non un marinaio, così
ben vestito.” Si allungò a prendere fra le dita un lembo della mia
giubba, ne saggiò la consistenza e proclamò: “Roba di prima
qualità.”
“E
libri,” intervenne l’uomo alto e magro, entrando solenne nel
cerchio di luce delle torce. “Chi si può permettere libri di
filosofia, se non il figlio del padrone di queste navi?” Fece un
altro passo, poi proseguì: “Non ho mai visto un mercante
dell’Hansa dilettarsi di filosofia, in verità, non è certo
qualcosa in grado di riempire la pancia come le aringhe. Ma questo
giovanottino qui,” si volse verso di me, “con questa faccina
ingenua da poeta, dev’essere uno che non ha mai visto un’aringa
se non nel piatto, e sicuramente è il suo legittimo proprietario.”
Si chinò a raccogliere il libro, e solennemente lesse: “De rerum
natura.” Annuì grave. “Complimenti, un’ottima scelta. Ebbene,
anche se siamo i Likedeeler[7], ego
primam tollo, nominor quoniam leo.”
Fece sparire il libro in una saccoccia che aveva a tracolla, poi si
voltò verso di me. “Nessuno sa leggere, qui,” si sentì in
dovere di spiegarmi, “e nessuno vorrebbe come bottino un fascio di
pergamene nemmeno buone per la latrina. Preferiscono le foglie di
cavolo, per la bisogna, oppure l’acqua di mare.”
Io
lo fissai incapace di replicare. Solo dopo un po’ osai balbettare:
“Mio fratello, signore...”
L’uomo
alto sollevò le sopracciglia, poi mi fissò con fare incoraggiante.
“Tuo fratello, giovanotto…?”
Deglutii
con la sensazione di avere in gola un bozzello con tanto di cime,
quindi mormorai: “Mio fratello è ferito, signore. Ha bisogno di
cure.”
“Nientemeno,”
rispose l’altro.
Deglutii
di nuovo, ma il pensiero di Albrecht sofferente mi conferiva un
coraggio che mai avrei penato di possedere. “Ha bisogno di cure,”
ripetei.
“Gliele
daremo,” fu l’apodittica risposta. “lascia che sistemiamo le
faccende più importanti e...” Si interruppe: stava sopraggiungendo
un uomo dalla corporatura erculea, con una folta capigliatura
biondo-rossiccia che gli arrivava oltre le spalle. Portava una grossa
cotta di maglia stretta in vita da un cinturone, spallacci e
bracciali di armatura, ma tutto quel ferro dava l’idea di essere un
velo di mussola, su quel fisico poderoso. Si guardò intorno, e tutti
gli altri pirati si inchinarono in silenzio.
“Ben
arrivato, Klaus,” lo salutò quello alto e magro.
Questi
rispose con un secco cenno del capo, quindi si rivolse con sicurezza
a mio padre: “Cosa trasporti?”
Egli
lo fissò serio. “Barili di aringhe, pesce secco, pelli conciate,”
enumerò in tono neutro.
L'altro
non parve molto soddisfatto. Si massaggiò il mento e aggrottò le
sopracciglia, poi si rivolse all'uomo in abito talare e chiese: “Dice
il vero?”
“Dubitando
ad veritatem pervenimus,”
fu la risposta. “Lui dice di sì, ma per sicurezza sto facendo
frugare tutte e tre le navi.”
“Finora
hanno trovato qualcosa?”
L'uomo
alto si strinse nelle spalle. “Pesce secco e aringhe.”
“Niente
denaro?”
“Ancora
no.”
“E
non ne troverete,” intervenne mio padre, “se non quello destinato
al nostro sostentamento nel fondaco di Londra. Prendete il carico, se
volete, e lasciateci andare. Non abbiamo altro da darvi.”
L'uomo
erculeo annuì grave. Gli unici suoni che si udivano erano il
crepitare lieve delle torce e il lamento flebile di qualche ferito.
“Io credo invece che tu abbia molto da darmi, mercante,” proferì
infine, e si girò a fissarmi.
Immobile
sotto il suo sguardo, che in quel momento mi parve feroce come quello
di una belva, io non riuscii a fare altro che ritirare le testa fra
le spalle mentre una sensazione di gelo mortale mi invadeva.
“I
figli sono il bene più importante, del resto,” continuò l'uomo,
senza staccare lo sguardo da me. “Molto più delle aringhe, dico
bene?”
La
domanda cadde in un silenzio carico di angoscia.
“Prenderemo
i tuoi figli,” proseguì allora. “E se li vorrai rivedere, dovrai
portarci dei soldi.” Indicò l'uomo in abito talare, poi aggiunse:
“Magister Wigbold ti dirà la cifra e il luogo.”
[1]
Letteralmente: Vacca Pezzata. La Vredekogge Bunte
Kuh era l’ammiraglia
della flotta che sconfisse Klaus Störtebeker nel 1400.
[2]
Battaglia del 1398, in cui l’Ordine Teutonico assaltò l’isola di
Gotland, all’epoca roccaforte dei pirati nel Baltico, e la
sottomise, azzerando praticamente la pirateria in quelle zone. A
seguito di quello scontro, i Vitalienbrüder superstiti si spostarono
nel Mare del Nord.
[3]
Unità di misura in uso presso la Lega Anseatica. Corrisponde a 1,9
tonnellate.
[4]
Ragazza di Lubecca.
[5]
Tenace.
[6]
Leonessa.
[7]
Letteralmente: coloro che dividono in parti uguali. Era il nome che
si davano i pirati di Störtebeker.
|
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Capitolo 3 *** Parte terza ***
Salve a tutti^^
ecco
un altro capitolo dell’avventura marittima. Un grande ringraziamento
a chi mi legge, e in particolare a chi mi ha lasciato un suo parere,
ovvero alessandroago_94, Saelde_und_Ehre, John Spangler,
TheWalkingNerd, queenjane, innominetuo, Yonoi, Enchalott, Syila,
fiore di girasole, Rose Ardes e ovviamente mystery_koopa,
senza il quale questa storia non sarebbe mai esistita!^^
Grazie
a tutti!
Parte
terza
A
nulla valsero i pianti e le preghiere di mio padre. Gli furono
concessi la più piccola delle sue Kogge, ovvero la Zäh,
tutti i superstiti che accettarono di imbarcarsi con lui e provviste
sufficienti a raggiungere il porto più vicino, poi fu lasciato
andare.
Io
rimasi a bordo della Mädchen,
che in virtù del suo fasciame solido era stata promossa dai pirati
ammiraglia della loro flotta.
Ricordo
la luce lattiginosa dell’alba, e un leggero strato di nebbia che
copriva il mare liscio come olio. Dritto in piedi sul castello di
poppa, l’espressione corrucciata e grave, mio padre sembrava
un’anima in procinto di essere traghettata da Caronte.
Quando
il genitore non fu altro che una figura indistinta all’orizzonte,
abbandonai l’impavesata e mi accorsi che le lacrime mi stavano
scendendo lungo le guance. Me le asciugai col dorso della mano, ma
più le tergevo, più sembravano sgorgarne.
Con
lo sguardo annebbiato mi guardai intorno: nessuno sembrava fare caso
a me, i pirati erano assorti nelle loro occupazioni. Scesi
sottocoperta e la familiare stiva della Kogge non mi sembrò più
tale. C’erano uomini che non conoscevo intenti a spostare barili
tra risate e imprecazioni, qua e là erano disseminati oggetti e
armi. Da una parte era stato ricavato una specie di lazzaretto, in
cui erano stati ricoverati i feriti. Notai che tra essi c’erano
anche alcuni dei marinai di mio padre.
Raggiunsi
la mia cabina. Mio fratello giaceva incosciente nella cuccetta, sotto
le coltri c’era un archetto onde evitare che esse poggiassero
direttamente sulla gamba. Preso dal terrore, sollevai un lembo di
stoffa, e sospirai di sollievo nel vedere che l’arto era ancora al
suo posto. La ferita aveva smesso di sanguinare ed era chiusa da un
impacco che odorava di erbe medicinali.
“Albrecht?”
mormorai, ma non ottenni nessuna risposta. Presi il panno che aveva
sulla fronte, lo inumidii e glielo applicai nuovamente.
Mi
sedetti accanto a lui, poggiai i gomiti sule ginocchia e piegai la
testa in avanti. “Siamo nelle mani dei pirati,” dissi poi, come
parlando fra me e me, con lo sguardo fisso su un punto imprecisato.
“Vogliono che nostro padre porti dell’oro, poi ci libereranno.”
Emisi un sospiro. “O almeno questo è ciò che dicono.”
In
quel momento la porta si aprì facendomi sussultare. Nel riquadro
comparve l’uomo alto e allampanato con l’abito talare. “Lo
diciamo perché è così,” mi informò. “Noi manteniamo la parola
data.”
Avvampai,
e subito dopo impallidii di paura. “Io… scusate, non volevo...”
balbettai, poi mi zittii confuso.
L’altro
mi oltrepassò e si chinò sul letto di mio fratello. Scostò la
coperta come avevo fatto io, tastò tutt’intorno alla ferita, la
osservò e disse: “Non va male.” Si rialzò e si voltò verso di
me. “Non va male,” ripeté in tono rassicurante.
“Siete
voi che l’avete curato?” osai chiedere.
“Curo
un po’ tutti, qui. Ho studiato la medicina e la filosofia.”
Ricordai
che aveva preso il mio libro. “Davvero?”
“Sic
est. Ho studiato a
Oxford e a Parigi, ma le competenze mediche, ragazzo mio, sono nulla
rispetto alla conoscenza dell’uomo. È più importante sapere che
tipo di persona abbia una malattia, che sapere che tipo di malattia
abbia una persona[1].”
Rimise
a posto il panno che copriva la gamba di mio fratello, poi disse:
“Qui va tutto bene, ora il paziente deve solo riposare.” Mi
sospinse fuori dal cubicolo e su per la scala che portava in coperta.
Nonostante la sua bonomia, io ero spaventato e non osai opporre
resistenza.
Fuori
c’era la luce calda del tardo pomeriggio. Vidi che era stato aperto
un barile di aringhe, e da esso tutti attingevano liberamente. I
pirati erano seduti a gruppetti qua e là e consumavano il pasto.
Mi
voltai verso il mio accompagnatore.
“Vuoi
mangiare?” chiese questi.
Il
mio stomaco rispose per me con un brontolio.
L’altro
sorrise. “Ma certo che vuoi mangiare.” Mi indicò il barile:
“Prendi.”
Mi
avvicinai piano, aspettandomi di essere scacciato da un momento
all’altro, pronto a rifugiarmi in un angolo come un cane randagio
se ciò fosse accaduto, ma nessuno sembrava fare caso a me. Estrassi
un pesce dalla salamoia, poi mi sedetti in un angolo riparato e
cominciai a spolparlo.
Poco
dopo, un ragazzo che poteva avere la mia età mi si avvicinò e con
naturalezza si sedette accanto a me. “Io sono Hein,” si presentò.
Spinse nella mia direzione un boccale.
Riconobbi
la nostra birra.
“Buona,
eh?” disse il ragazzo. Poi, dopo una pausa: “Sei dei nostri?”
Non
pochi dei nostri marinai erano passati con i pirati, alcuni li vedevo
anche seduti poco lontano, intenti a scambiarsi battute con i
precedenti nemici.
“Veramente
no,” sospirai.
L'altro
mi fissò sollevando le sopracciglia, come se non si capacitasse
della cosa. “Allora sei un... quelli che poi si restituiscono in
cambio di soldi?”
Istintivamente
precisai: “Ostaggio.”
Hein
parve ancora più stupito. “Hai studiato?”
“Un
po'.”
“Anche
noi abbiamo uno che ha studiato. È un gran dottore, sai? Parla
persino il latino dei preti.”
“Per
caso è Magister Wigbold?”
“Lo
conosci?”
“È
quello che ha stabilito il prezzo mio e di mio fratello.”
Il
risentimento di cui era intrisa frase scivolò addosso al ragazzo
come acqua sulle piume di un uccello. Annuì e disse: “Per queste
cose, Störtebeker si fida solo di lui.”
All'udire
quel nome, terrore di ogni mercante dell'Hansa da Wiborg a Rotterdam,
un brivido ghiacciato mi percorse la schiena. “È davvero lui il
vostro capo?”
Per
tutta risposta, il ragazzo mi indicò l'uomo erculeo che la sera
prima aveva guidato l'assalto alle nostre navi. “Störtebeker è
quello là,” annunciò, fiero come se si fosse trattato di un suo
parente.
Lo
fissai in silenzio. Con la luce del giorno perdeva un po’ dell’aria
truce che mi aveva spaventato. Appariva fiero e spavaldo, la sua
massa di capelli fulvi ricordava la criniera di un leone. Lo sguardo
era penetrante, imperioso, non scevro di una profondità ardente da
rapace.
La
cotta di maglia si tendeva sulle sue spalle ampie come un abito
troppo stretto.
Egli
non faceva caso a noi, naturalmente. Passeggiava lento sorseggiando
da un boccale, di quando in quando rivolgendo la parola a quelli che
dovevano essere suoi compagni da più lunga data. A un certo punto si
fermò davanti a un uomo coi capelli bianchi, privo di una gamba e
con una benda nera che gli copriva un occhio, scambiò con lui
qualche parola, gli porse il boccale e gli diede una pacca sulla
spalla. Il vecchio rispose con una risata chioccia.
Poi
Störtebeker riprese la sua lenta passeggiata. Lo raggiunse un uomo
che poteva avere la sua età, ma più snello e con corti capelli
neri.
Mi
voltai verso Hein, il quale con fierezza mi disse: “Quello è
Gödeke Michels. Sei fortunato: oggi li vedi proprio tutti.”
“Chi
è?”
“L’aiutante
di Störtebeker. Si consultano sempre, prima di un assalto. O subito
dopo.”
“Capisco.”
Rimasi
in silenzio a fissarli. Essi parlavano fra loro, e il moro sembrava
infervorato da qualcosa. Continuava a insistere, mentre Störtebeker
di tanto in tanto annuiva con l’aria di chi ha già sentito le
stesse parole decine di volte. “Sì, si,” lo sentii dire.
“Ce
la faranno pagare,” colsi da parte dell’altro. “Hai voluto
metterti proprio sotto il loro naso.”
Störtebeker
sollevò la testa baldanzoso, quindi esclamò: “Impareranno a
temermi. Io sono l’amico di Dio e il nemico di tutto il mondo!”
Michels
represse un sospiro. “Sì, ma Helgoland è troppo vicino ad
Amburgo. Andrà a finire come a Gotland.”
Parlando
si spostarono, e il resto della discussione si perse nel vociare
della coperta.
§
Albrecht
sedeva sul letto con la schiena appoggiata al cuscino. Seduto su uno
sgabello, lo aiutavo a sorbire una tazza di brodo che il cuoco aveva
preparato per lui su istruzioni di Magister Wigbold.
“È
buono?” gli domandai porgendogli il cucchiaio.
“Ti
lasciano girare da solo?” chiese lui per tutta risposta.
Io
annuii. “Hanno detto che tanto non potrei andare da nessuna parte.”
“Ma
puoi sempre vedere dove tengono le armi.”
Lo
guardai stupito. “A cosa mi servirebbe?”
Albrecht
mi fissò con le sopracciglia aggrottate, poi mi chiese: “Vuoi
startene qui ad aspettare che questi cani ti ammazzino appena non
servi più?”
Non
risposi. Ripensai a Hein, alle discussioni di filosofia che ogni
tanto intavolavo con il Magister, all’aspetto spavaldo e franco di
Störtebeker. Non gli avevo mai rivolto la parola, ma non l’avevo
mai nemmeno visto colpire un uomo senza motivo, o compiere atti
crudeli.
“Non
credo che ci vogliano ammazzare,” buttai lì infine. Gli porsi di
nuovo il cucchiaio pieno.
Lui
lo allontanò. “Lascia stare, mi è passata la fame. Quanti giorni
sono ormai che siamo nelle loro mani?”
“Quattro.”
“Dove
hai detto che ci stanno portando?”
“A
Helgoland.”
“A
Helgoland? È lì che hanno il loro covo, quegli sfrontati senza
Dio?”
Io
rievocai il motto di Störtebeker e pensai che Dio era come il pepe:
ognuno lo metteva dove più gli piaceva. “Mangia un altro po’,”
suggerii a mio fratello.
Egli
fece per rifiutare, ma poi mi prese dalle mani la tazza e disse: “Hai
ragione: è meglio essere in forze, per quando organizzeremo la
fuga.”
In
quel momento, percepimmo una variazione nell'assetto della Kogge.
Albrecht alzò la testa e strinse gli occhi. “Stiamo virando,”
constatò.
Ormai
conoscevo a sufficienza i movimenti della Mädchen
da capire che aveva ragione. “Vado a vedere,” gli dissi, poi
abbandonai la cabina e salii in coperta.
Mi
accorsi che ci stavamo dirigendo verso la costa. Mi schermai gli
occhi con la mano per vedere meglio, ma non notai altro che sabbia,
canne palustri e qualche stretto sentiero che si perdeva nella
vegetazione. Notai da una parte anche un vecchio molo rattoppato, al
quale erano ormeggiate delle piccole imbarcazioni a remi.
Poi
vidi spuntare una testa. A essa se ne aggiunsero subito dopo altre
due, poi ancora altre. Dalle canne emerse un braccio che salutava con
ampi gesti. Notai che dalla coperta della Kogge qualcuno rispondeva
al saluto.
Cercai
con lo sguardo Hein, e una volta trovatolo gli chiesi: “Perché non
scappano? Non si sono accorti che siete pirati?”
Frattanto
mi chiedevo quale motivo potesse mai avere Störtebeker, che
depredava solo i Pfeffersack[2]
dell'Hansa, per prendersela con quello che aveva tutta l'aria di
essere un povero villaggio di pescatori.
“Festa
grande, stasera,” disse Hein per tutta risposta. Mi strizzò
l'occhio.
Lo
fissai perplesso. “Che significa?”
Lui
sorrise. “Lo vedrai.”
La
Kogge avanzò fino a che la carena non strisciò sulla sabbia del
fondale, le altre la imitarono. A quel punto, era già sciamata fuori
dai canneti un'autentica folla: c'erano uomini, donne, bambini
vocianti, addirittura qualche vecchio che camminava aiutandosi col
bastone. Si fece avanti un personaggio più autorevole degli altri,
con addosso una sdrucita cappa bordata di pelliccia, e rivolse un
inchino alle navi in avvicinamento. Störtebeker rispose dalla
coperta con un cenno di saluto.
Io
ci capivo sempre meno.
Furono
calate delle passerelle, i pirati scesero a terra. Invece di
disperdersi in preda al terrore, la gente si affollò intorno a loro.
Tutti allungavano il collo alla ricerca di volti conosciuti, e
trovatili, parevano più felici che mai.
Rotolò
giù la prima botte, in un coro di grida di giubilo. Altre furono
portate in coperta, e imbracate con i paranchi. Un giovanotto tirò
fuori dalla tasca un piffero e improvvisò un'allegra melodia. La
gente rideva, una ragazza fece qualche passo di danza.
Di
nuovo fissai Hein.
“Störtebeker
ruba ai ricchi per dare ai poveri,” mi spiegò, ergendosi con
fierezza.
Fu
improvvisata una grande festa. Venne acceso un fuoco nella piazza del
paese, e mentre pesce secco e aringhe cuocevano in ogni modo
possibile, la gente cantava e ballava.
Le
ragazze avevano indossato i loro abiti migliori, e avevano fiori
intrecciati fra i capelli. Notati che di quando in quando una di esse
usciva dal cerchio di luce del falò in compagnia di uno dei pirati,
e faceva ritorno tempo dopo, con gli occhi accesi e le guance
arrossate.
Poi
udii i clamori cessare bruscamente, e subito dopo rimbombare in una
selvaggia acclamazione. Mi guardai intorno per scoprire il motivo di
tale entusiasmo, e vidi sopraggiungere Störtebeker. Egli aveva abiti
di broccato, e al collo portava una catena d'oro che gli arrivava
fino alla cintura. I capelli fulvi gli ricadevano sulle spalle, gli
occhi avevano la consueta espressione spavalda. Stringeva in pugno un
boccale di stagno colmo di birra.
“Störtebeker! Störtebeker!” gridava la
gente.
Egli
passeggiò un po' su e giù, quindi sollevò il boccale alto sopra la
testa. Il gesto suscitò un'autentica ovazione. “ Störtebeker!”
presero a urlare tutti a più non posso.
L'uomo
inclinò il boccale, e un fiotto di birra cominciò a riversarglisi
in gola. Io immaginavo che si sarebbe soffocato, ma lui continuava a
bere con la massima disinvoltura, e nemmeno una goccia andava persa.
Man mano che il recipiente si vuotava, le acclamazioni della gente si
intensificavano, tanto che alla fine ebbi l'impressione di essere
capitato in mezzo a una ridda di demoni.
Di
nuovo venne in mio soccorso Hein, che sembrava provare una
soddisfazione particolare nel descrivermi tutte le virtù di
Störtebeker. Si piegò verso di me, e alzando la voce per sovrastare
il frastuono, disse: “Un boccale intero, senza mai fermarsi. Solo
lui ci riesce[3].”
Pian
piano l'entusiasmo si placò. Gli abitanti del villaggio rientrarono
nelle rispettive abitazioni, il fuoco ruggente si trasformò in un
ammasso di braci.
La
maggior parte dei pirati si stese a terra per dormire.
Solo
Störtebeker vegliava. Egli si guardò intorno, poi si accorse di me.
“Vieni qui, ragazzo,” mi ordinò.
Mi
avvicinai titubante. Nonostante i giorni di navigazione trascorsi a
stretto contatto con lui, non avevo ancora superato la soggezione che
mi incuteva.
Egli
mi appoggiò una mano sulla spalla. “Vedi questa gente?” mi
disse. “Per un mercante come tuo padre un barile di aringhe non è
niente, per loro può fare la differenza tra vivere e morire.”
Non
risposi. Senza abbandonare la mia spalla, Störtebeker prese a
camminare in direzione delle Kogge. Dopo un po' proseguì: “Tutti
hanno il diritto di nutrire i loro figli, non è giusto che sia
concesso solo ad alcuni, mentre altri devono rassegnarsi a vederli
morire di fame.”
Ancora
una volta, non osai contraddirlo. Un po' perché temevo che fosse
ubriaco, e un po' perché in effetti nelle sue parole non trovavo
nulla da eccepire.
“Non
rispondi?” mi chiese lui dopo un po'. “Hai paura di me, per
caso?”
Deglutii.
“Ecco...”
In
tono vagamente deluso, egli replicò: “Eppure non ti ho mai fatto
del male, non è vero?”
Stavo
per parlare quando dalla coperta si udì la voce di Gödeke Michel
che chiedeva: “Klaus, sei tu?”
“Chi
vuoi che sia?” brontolò il pirata.
Lo
aiutai a salire a bordo e lo accompagnai verso la scala che conduceva
sottocoperta, ma lui volle fermarsi sul ponte. “Lascia,” mi
disse, la voce stranamente distante, come persa in pensieri remoti.
“Lascia, voglio guardare questo bel cielo stellato, finché ne ho
la possibilità.”
Si
sedette su una gomena arrotolata e appoggiò la schiena contro
l'albero, poi emise un sospiro.
Io
gli rivolsi un inchino, che lui probabilmente nel buio non vide, e
poi mi allontanai.
Avevo
fatto pochi passi quando sentii la voce di Gödeke Michel dire: “C'è
una cosa che devi sapere.” Il tono era grave, cupo. Mi fece
serpeggiare giù per la schiena un brivido freddo.
“Che
cosa?” chiese Störtebeker.
“Uno
degli uomini del villaggio è appena tornato da Amburgo e dice che
hanno approntato una grande flotta per combatterci.”
“Di
nuovo l'Ordine?”
“No,
stavolta Simon van Utrecht.”
“Quello
stupido batavo non mi preoccupa,” fu la sprezzante risposta.
“Si
presenterà davanti a Helgoland con decine di navi. Ci impedirà di
entrare in porto.”
“Che
ci provi. Ne troverà altrettante ad attenderlo.”
La
discussione proseguì per un po'. Di nuovo, non riuscivo a capire se
Störtebeker parlasse in quel modo perché era ubriaco o se veramente
pensasse che le navi dell'Hansa non avrebbero rappresentato un
problema.
Scesi
pensoso sottocoperta. Mi accolse la voce brusca di mio fratello: “Sei
tu, Eike?”
Entrai
nella cuccetta. Albrecht era come al solito seduto con la schiena
appoggiata al cuscino. Notai che qualcuno gli aveva acceso un lume e
aveva appoggiato sullo sgabello accanto al letto una scodella con
dentro qualcosa da mangiare.
Mi
fissò con riprovazione, quindi chiese: “Dov'eri sparito?”
Gli
raccontai quello che era successo nel villaggio.
Lui
ascoltò con attenzione, quindi proferì: “È logico che quella
gentaglia aiuti i poveracci delle coste, ha il suo tornaconto nel
farlo, così come i poveracci hanno tutto da guadagnare nell'aiutare
i pirati.”
“Che
intendi dire?”
Albrecht
parve stupito della mia ingenuità. “Suvvia,” mi disse asciutto,
“Mi hai parlato tu stesso di orge e festini.”
“Veramente
non ho parlato di orge.”
“Ragazze
del villaggio che si appartano con i pirati mentre gli uomini si
ubriacano con la birra di nostro padre. Se non è un'orgia questa,
non so davvero cosa lo sia.”
“I
pirati portano da mangiare ai poveri.”
“Ma
certo che lo fanno: vorranno essere sicuri di avere gente dalla loro
parte lungo le coste.”
Non
risposi. Sollevai un lembo di coperta e osservai la fasciatura alla
gamba. “Ormai la ferita è quasi chiusa,” buttai lì.
“È
quello spilungone che parla mezzo in latino. Viene tutti i giorni a
medicarla.”
Mi
sedetti, e per un po' rimasi con i gomiti puntati sulle cosce e il
viso fra le mani. Infine dissi: “Ci sarà una grande battaglia.”
Albrecht,
che aveva raccolto il piatto e aveva cominciato a mangiare, abbandonò
il pasto e mi chiese: “Che stai dicendo?”
“Da
Amburgo è in partenza una flotta dell’Hansa diretta a Helgoland.”
“Questa
è una magnifica notizia,” apprezzò lui, “finalmente qualcuno
che si occuperà di estirpare per sempre l’immonda peste della
pirateria.” Fece una pausa meditativa, poi si guardò rapido
intorno, come per accertarsi che nessuno fosse in ascolto, infine
abbassò la voce e disse: “Dobbiamo fare qualcosa.”
“Che
cosa intendi?” chiesi stupito.
Albrecht
spiegò: “Dobbiamo fare la nostra parte. Tu vai sempre in mezzo a
loro, non sospetteranno certo di te.”
“E
cosa dovrei fare?”
“Non
lo so. Qualche danno di cui non possano accorgersi immediatamente, ma
che li ponga in condizione di svantaggio in battaglia.”
Rimasi
in silenzio. Solo dieci giorni prima avrei accolto quella proposta
senza alcuna obiezione, ma a quel punto non ero più così pronto a
tradire chi mi aveva così spontaneamente offerto la sua fiducia.
Mio
fratello sembrò intuirlo, perché si protese ad afferrarmi per le
spalle e in tono brusco disse: “Ti sei già dimenticato cos’hanno
fatto? Ti sei dimenticato i marinai uccisi, le navi rubate, nostro
padre depredato e costretto a procacciare soldi per riscattarci?”
Scossi
la testa. “No, certo che no.”
“E
allora, come puoi esitare?”
Rimasi
in silenzio per lunghi istanti. Infine chinai la testa, emisi un
sospiro e risposi: “Non posso esitare. Hai ragione, fratello.”
“Bravo,
non dubitavo di te.”
§
Quando
vidi le navi all'orizzonte, mi sentii gelare il sangue nelle vene: il
mare ne era pieno. Dappertutto vele rosse, blu, verdi, bianche o
rigate. Intorno alle massicce Vredekogge guizzavano rapide le
Schnigge[4], e già le vedevo manovrare di bolina, per portarsi
sopravento alle nostre Kogge.
Davanti
a tutte procedeva veloce la celeberrima Bunte
Kuh, una Vredekogge
poderosa, dalla vela immensa, e anche senza vederlo con chiarezza,
immaginavo Simon van Utrecht dritto sul castello di poppa, che
scrutava il mare con sguardo predace.
Corsi
giù da mio fratello e gli descrissi la situazione.
Alla
notizia che il mare era coperto di vele, egli sorrise soddisfatto. “I
pirati avranno quel che si meritano,” sentenziò.
“Ci
siamo anche noi a bordo,” gli ricordai.
“Infatti.
Faremo quel che c'è da fare.”
Rimasi
in silenzio. La ragione capiva tutto ciò che mio fratello stava
dicendo, capiva che i pirati rubavano e uccidevano, che distruggevano
famiglie e mandavano a monte commerci, privando altre famiglie del
loro sostentamento, ma il cuore non poteva fare altro che rievocare
la luce che era comparsa negli occhi dei poveri pescatori quando si
erano trovati di fronte i barili di aringhe, o il modo in cui
Störtebeker, il terrore dell'Hansa, si era avvicinato al vecchio
marinaio sciancato, gli aveva rivolto parole gentili e gli aveva
offerto la birra dal suo boccale.
Tanti
uomini del nostro equipaggio erano passati con i pirati, del resto,
ed ero certo che il motivo non fosse solo l'ipotetica prospettiva di
lauti guadagni.
La
voce di Albrecht mi distolse dalle mie meditazioni: “Il nostro
vantaggio è che conosciamo la Mädchen
meglio di loro.”
“A
che servirebbe?” gli
chiesi.
Albrecht
mi rivolse uno sguardo di degnazione e rispose: “Ma è ovvio:
saremo in grado di procurare un danno che la immobilizzi. Se tagli i
cavi del timone, ad esempio, la Mädchen
diventerà ingovernabile.”
“E
questo cosa comporterà?”
“Dai,
Eike, non fare lo stupido. Con la nave in quelle condizioni, quel
maledetto senza Dio sarà catturato e farà la fine che merita.”
“In
fondo cerca solo di aiutare la povera gente.”
A
quelle parole, Albrecht rispose con una fragorosa risata, poi disse:
“Svegliati, Eike. A lui non importa nulla della povera gente,
distribuisce cibo solo per avere degli alleati lungo le coste in caso
di bisogno. Ma ora smetti di dire queste scempiaggini, dobbiamo
decidere cosa fare.”
Salii
in coperta. Gli uomini si stavano preparando al combattimento, le
armi venivano distribuite, i posti di combattimento raggiunti.
Nonostante la quantità di nemici, la gente sembrava fiduciosa, tutti
guardavano verso Störtebeker, che sul castello di poppa stava
parlando con Gödeke Michel e Magister Wigbold.
Raccolsi
un’ascia. Uno dei pirati mi vide mentre lo facevo e mi rivolse un
sorriso come di incoraggiamento. Io mi limitai a chinare lo sguardo.
Sbirciai
il timone, e i cavi che al momento giusto avrei dovuto tranciare.
Mi
ripetei di nuovo tutte le argomentazioni di Albrecht: delinquenti,
assassini, ladri…
La
voce possente di Sörtebeker mi distrasse da quei pensieri
angosciosi: “Non abbiate paura, uomini! Ne siamo usciti tante
volte, ne usciremo anche questa!”
Gli
risposero veementi acclamazioni, poi la Kogge mise tutta la vela al
vento e balzò in avanti.
Raggiunse
la prima delle Vredekogge, un massiccio vascello dalla vela rossa,
carico di uomini armati. Prima che essa potesse abbozzare una
manovra, la Mädchen
virò portandole via il vento. La vela rossa si sgonfiò come un otre
bucato. Störtebeker virò di nuovo, e mentre gli arcieri e i
balestrieri costringevano gli uomini dell’Hansa a stare al coperto,
fece lanciare dei grappini d’abbordaggio, che si piantarono
nell’impavesata della Vredekogge.
Quando
essa giunse alla distanza giusta, i pirati si riversarono sulla nave
come lupi rabbiosi.
Aggrappato
a una sartia, la mia inutile ascia stretta in pugno, vidi altre navi
uscire dall’insenatura del porto di Helgoland e correre a dare man
forte a quelle di Störtebeker.
Cominciavano
a brillare qua e là i primi focolai d’incendio, l’aria si era
fatta caliginosa e opaca. Ovunque vibravano le urla di guerra, i
lamenti dei feriti e il crepitare secco del legno squarciato.
Vidi
passare una Schnigge con tutte le vele al vento. Da una delle navi
pirata, un uomo la puntò con un cannoncino. Ci fu uno schianto così
forte che mi fece dolere le orecchie, poi comparve uno squarcio sul
fianco della leggera imbarcazione, che un attimo dopo s’inabissò.
Sulla nave da cui era partito il colpo esplosero selvagge
acclamazioni.
La
Mädchen
frattanto si stava disimpegnando dalla prima nave, ne raggiunse una
seconda, per un po’ si inseguirono sulle onde ribollenti cercando
di rubarsi il vento a vicenda, poi Störtebeker riuscì a virare più
stretto della Vredekogge, che subito perse l’abbrivio. Di nuovo
partirono i grappini d’abbordaggio.
“Ce
la possiamo fare, uomini!” urlò il pirata. “Il vento sta
cambiando, presto non riusciranno più ad inseguirci, resistete
ancora un po’!” Saltò sulla nave avversaria e cominciò a
mulinare la spada, facendo il vuoto intorno a sé.
Passarono
molte ore. Non ero in grado di quantificarle, dal momento che l’aria
opaca rendeva impossibile seguire il corso del sole. Ovunque c’era
una foschia grigia, che puzzava di fumo e sangue. La battaglia, per
quel che potevo vedere, si era frantumata in decine di scontri fra
singole navi, i cui equipaggi si arrembavano a vicenda e combattevano
poi ferocemente all’arma bianca. L’acqua era grigiastra,
disseminata di detriti. Qua e là affioravano le schiene dei morti
che fluttuavano a faccia in giù.
In
mezzo a quell’orrore, la Mädchen
filava veloce, e già le Vredekogge che la inseguivano, la Bunte
Kuh in testa, stavano
cominciando a perdere terreno.
Una
voce irata alle mie spalle mi fece girare bruscamente: “Ma si può
sapere cosa stai aspettando?” Pallido, lo sguardo spiritato, mio
fratello claudicò faticosamente verso di me e cercò di strapparmi
di mano l’accetta. “Cosa stai aspettando?” ripeté. “Ti sei
già dimenticato cos’ha fatto questa gente a nostro padre?”
Io
mi feci indietro, ma inciampai in un mucchio di cordame e caddi.
Lesto, lui fu sopra di me. “Dammi quell’ascia!” urlò. “Se
non vuoi farlo tu, lo farò io!”
“No!”
“Dammela!”
Qualcosa
colpì la Mädchen,
che vibrò fino alla stiva, scricchiolando paurosamente. Colsi nel
fragore la voce di Störtebeker: “Animo,uomini! Io sono l’amico
di Dio e il nemico di tutto il mondo, e voi siete i Likedeeler!
Facciamo vedere a questa gente di che pasta siamo fatti!”
Mi
voltai in quella direzione e lo vidi ergersi fiero e buttare indietro
i capelli con un orgoglioso scatto del capo.
Mio
fratello approfittò di quel momento e mi sfilò l’accetta di mano.
Si allontanò zoppicando, cadendo, strisciando sul sangue che
invadeva la coperta. Io mi rialzai, mi aggrappai all’impavesata,
cercai di inseguirlo.
Egli
raggiunse il primo dei cavi, alzò l’arma, la cui lama scintillò
sinistra.
“No!”
urlai.
Si
udì un colpo secco, poi la Mädchen
sussultò come un animale ferito e si torse su se stessa. Feci in
tempo a cogliere l’espressione di rabbia e sgomento che attraversò
i lineamenti di Störtebeker, poi fui sbalzato fuori bordo.
[1]
Ippocrate.
[2]
Letteralmente: sacco di pepe. Era un nome dispregiativo che indicava
i mercanti più ricchi.
[3]
Tradizionalmente, si fa risalire il nome “Störtebeker” alla
versione in basso tedesco di “Stürz den Becher” (scola il
boccale), perché il pirata era celebre per la sua capacità di
vuotare un boccale di birra con un solo sorso.
[4]
Imbarcazione a vela leggera, caratterizzata da velocità e
manovrabilità.
|
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Capitolo 4 *** Parte quarta ***
Carissimi/e,
eccoci
alla fine di questa breve avventura. La storia di Störtebeker è
intrisa di leggenda e ormai è difficile separare la realtà dei
fatti dalle costruzioni successive, comunque pare che effettivamente
durante la battaglia di Helgoland un traditore abbia sabotato il
timone della sua nave, rendendo impossibile al pirata ogni manovra.
Ringrazio
mystery_koopa, che mi ha dato la possibilità di scrivere questa
storia, ringrazio tutti i lettori che sono passati di qui, e che
hanno reso viva questa storia, e ringrazio chi mi ha lasciato il suo
parere, ovvero TheWalkingNerd, Saelde_und_Ehre, Yonoi, fiore di
girasole, John Spangler, alessandroago_94, Enchalott, Syila,
queenjane, innominetuo e Rose Ardes.
Parte
quarta
Eike
fissò l’uditorio silente, poi in tono grave disse: “Se sono
vivo, lo devo solo al qui presente Hein,” Indicò il nostromo, “che
si è tuffato quando mi ha visto cadere fuori bordo e mi ha portato a
terra.”
Un
mormorio di approvazione attraversò la folla.
“La
battaglia proseguì,” continuò il capitano, “so che durò ancora
una notte e un giorno. Alla fine Störtebeker fu catturato insieme a
settanta dei suoi, e fu portato ad Amburgo.”
I
giovinastri lo fissavano con gli occhi spalancati dalla meraviglia.
Il capo di essi alzò la mano per attirare l’attenzione.
“Sì?”
chiese Eike.
“Voi
c’eravate ad Amburgo?”
“Vuoi
dire al Grasbrook?”
“Sì,
signore.”
Il
più vecchio annuì lentamente. Scambiò un’occhiata col nostromo,
poi ripeté: “Noi c’eravamo. Ci andammo sotto mentite spoglie.”
“È
vero che in cambio della libertà Störtebeker offrì una catena
d’oro in grado di circondare tutta la città di Amburgo?”
Eike
scosse la testa. “I Likedeeler dividevano tutto in parti uguali. A
parte il suo coraggio e la sua autorevolezza, Störtebeker non aveva
certo chissà che tesori in più degli altri.”
Il
giovanotto parve deluso. Dopo qualche secondo di silenzio, chiese:
“Quindi non c’erano neanche oro e argento dentro l’albero della
sua nave?”
“L’avrebbero
appesantita troppo.”
“Allora
il rivestimento d’oro della cupola della Frauenkirche non viene da
quello?”
“No.”
I
ragazzi si scambiarono qualche frase a bassa voce, poi uno di essi si
rivolse a quello che sembrava essere il capo del gruppetto e gli
suggerì: “Chiediglielo, dai.”
“Ma
no, è una stupidaggine,” bisbigliò questi di rimando.
“Tu
chiediglielo. Ha detto che c’era, quindi saprà com’è andata
veramente.”
“E
va bene.”
Il
ragazzo si rivolse a Eike. “Signore, è vero quello che dicono
sull’esecuzione?”
“A
che proposito?”
“Ecco…
è vero che Störtebeker chiese al borgomastro
di Amburgo di lasciare liberi tutti i suoi compagni davanti a cui
sarebbe riuscito a camminare dopo essere stato decapitato?”
Eike
crollò il capo. “No, purtroppo no.”
“Ma
dicono che il suo corpo senza testa camminò davanti a undici
uomini!” insisté il giovane. “Dicono
che alla fine il boia dovette fargli lo sgambetto per farlo cadere.”
L’altro
ebbe un sorriso amaro. “No, no. Sicuramente Störtebeker avrebbe
dato la vita per ognuno dei suoi, ma il suo corpo dopo la
decapitazione non si rialzò e tutti quelli che erano stati catturati
nella battaglia, ovvero una settantina di uomini, furono
giustiziati.”
A
quella frase seguì un gran silenzio. Qualcuno si fece il segno della
croce, altri scossero la testa. Dörthe tirò fuori dalla scollatura
un fazzoletto e con quello si tamponò gli occhi.
Di
nuovo si fece udire la voce di Eike: “Non rividi più né mio padre
né mio fratello. Auguro loro ogni bene, ma il periodo trascorso con
Störtebeker mi ha fatto capire che la mia strada non avrebbe mai
potuto essere la loro.”
“Non
vi hanno cercato?” chiese uno dei ragazzi.
“Forse
credevano che fossi morto nel naufragio, o forse mi hanno cercato ma
io non ne ho mai saputo niente. Io non ho mai più cercato loro,
comunque. Con Hein ci rifugiammo nell’entroterra, dove dopo qualche
giorno incontrammo Magister Wigbold. Fu lui a dirci che Störtebeker
era stato catturato e portato ad Amburgo.”
A
quelle parole nessuno replicò e gli unici rumori che si udivano
erano il crepitare del fuoco nel camino e l’ululato del vento. Eike
voltò le spalle al gruppetto e fece per tornare al suo tavolo.
In
quel momento, qualcosa mandò in frantumi una delle vetrate, e
schegge colorate piovvero sugli avventori. Un oggetto descrisse una
parabola in aria, atterrò in mezzo alla sala
e
immediatamente cominciò a mandare un fumo denso e grasso, che faceva
lacrimare gli occhi e tossire. La gente saltò in piedi e raccolse le
armi, alla porta si udirono dei tonfi violenti.
“Aprite!”
urlò qualcuno dall’esterno. “Aprite, in nome della Legge!”
“Tutti
con me!” urlò Eike sovrastando il vociare confuso della sala. Il
nostromo e il resto dell’equipaggio gli si radunarono intorno.
La
porta cadde, nel riquadro apparvero uomini armati che portavano i
colori di Amburgo. Un istante dopo, anche la seconda porta
dell’Aringa
Salata
venne abbattuta.
“Siete
tutti in arresto!” gridò una voce imperiosa. “Arrendetevi, siete
circondati!”
A
quelle parole, Eike fece un cenno a uno dei suoi uomini. Questi puntò
la balestra, e in un attimo il più avanzato dei soldati cadde con un
dardo nel petto.
“Ecco
la nostra risposta!” esclamò il capitano. Sfoderò la spada.
Rivide,
nitido come se l’avesse avuto ancora davanti agli occhi, Klaus
Störtebeker alla battaglia di Helgoland, dritto sul castello di
poppa, lo sguardo ardente che sfidava il mare e gli uomini.
I
mercenari dell’Hansa stavano dilagando all’interno della navata,
l’aria era ormai irrespirabile. Dappertutto vi erano tramestio e
clamori.
“Amico
di Dio!” gridò con quanto fiato aveva in corpo. Animate di
selvaggio entusiasmo, decine di voci di rimando ruggirono: “Nemico
di tutto il mondo!”
E
poi tutti, come un sol uomo, si lanciarono nella battaglia.
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