A un passo dalla scogliera

di Persej Combe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ( insieme soli ) ***
Capitolo 2: *** ( soli insieme ) ***



Capitolo 1
*** ( insieme soli ) ***



 

I
 

 
 
 
 
  «Data la centralità di questo fattore, possiamo quindi dedurre come le singole variabili verranno influenzate e il modo in cui esse, interagendo le une con le altre, a loro volta determineranno altrettanti valori a seconda del contesto preso in esame».
  La luce dello schermo bianco riprodotto sulla parete dal proiettore illuminò l’aula per un paio di minuti mentre il professore si accingeva a cambiare diapositiva e a fare mente locale su ciò che avrebbe dovuto introdurre a breve. Qualcuno ne approfittò per dare un’occhiata all’orologio, altri tirarono fuori dalla tasca il cellulare per sbirciarne le notifiche. Poi tornò quell’oscurità sospesa e azzurrina, le voci si attenuarono fino a zittirsi, le penne ripresero a puntare i fogli e rimase soltanto il ronzio pigro e lento dei ventilatori azionati sul soffitto.
  Il professore diede un rapido sguardo sopra la folla di teste e di facce e di occhiali che gli erano davanti per accertarsi di avere l’attenzione dei suoi studenti.
  Anche quel giorno se ne erano presentati diversi. La stanza era piena, molte persone lo guardavano da lontano poggiate con la schiena contro il muro, in piedi, poiché non c’erano più posti a sedere: un paio si erano persino acquattate silenziosamente a terra, mentre qualche coraggioso aveva deciso di arrampicarsi con tanto di zaino sul davanzale della finestra e seguire la lezione da lì.
  Diverse volte aveva reclamato a chi di dovere l’inadeguatezza dell’aula dato il folto numero di partecipanti al corso, tuttavia, come gli era sempre stato ribadito, gli spazi erano quelli e non si poteva far molto per cambiare la situazione. Alla fine si era dovuto rassegnare, pur continuando a rivolgere il massimo riguardo nei confronti di quei giovani che nonostante tutto si presentavano sempre interessati e puntuali allo scoccare preciso dell’ora – tralasciando qualche eccezione.
  «Se fin qui è tutto chiaro, direi che possiamo procedere. In caso contrario non esitate a farmi domande. Voi laggiù, il microfono si sente?».
  Ci fu un leggero brusio di voci, poi un ragazzo un po’ più deciso gridò ad alta voce che si sentiva, seguito subito dall’eco degli altri più timidi: «Sì, sì, sì». Il professore sorrise e aprì il file successivo dal computer.
  Dalle tapparelle abbassate filtrava una lama di luce sottile, calda. Le penne scrivevano, poi a tratti restavano sospese in aria in un momento di distrazione, quindi gli occhi si allungavano a spiare il foglio dei compagni vicini per riprendere il filo, e allora sottolinea, fai una freccia, un asterisco, scrivi, scrivi, scrivi...
  Ad un tratto la voce del professore venne intralciata dal cigolio della pesante porta che si apriva: un fascio giallo, dalle lampade dei corridoi, si riversò in fondo all’aula. Qualcuno entrò e qualcun altro si girò. Mormorii.
  Eccola qui, quella qualche eccezione. A differenza di altri insegnanti, lui non era tipo da prendersela troppo quando un alunno arrivava in ritardo: sapeva dei contrattempi che potevano crearsi, i corsi accavallati, i mezzi, il traffico, tutti imprevisti che egli stesso da giovane aveva dovuto fronteggiare. Eppure, di tanto in tanto non poteva fare a meno di prendere un po’ in giro qualche malcapitato, ma senza cattiveria: dopotutto, pensava, il bello di essere professore stava anche nell’avere un rapporto abbastanza umano con gli studenti, nonostante fosse cosciente del fatto che molti colleghi su quel punto si sarebbero trovati in disaccordo.
  «Excusez-moi1», lo richiamò «Lei, il ritardatario».
  Quell’appellativo provocò per un istante l’ilarità generale. C’era anche da dire che quando il professore spingeva su quell’accento nessuno poteva fare a meno di sentirsene attratto. Probabilmente in quella manciata di secondi qualche cuore ne era rimasto fatalmente trafitto, anche.
  «Potrebbe gentilmente chiudere la porta? La ringrazio molto».
  «Bien sûr», rincalzò l’altro «Ma certo, professore».
  Nel sentire quella risposta, per un attimo esitò. Tutti quanti lo videro farsi leggermente sorpreso e la sua postura diventò più vulnerabile rispetto a quella che aveva sempre, come se improvvisamente si fosse spogliato delle vesti di professore per essere semplicemente sé stesso. A quel punto, quindi, la folla di teste e di facce e di occhiali e i cuori trafitti si voltarono a curiosare laggiù, vicino alla porta. E di nuovo mormorii.
  «Abbiamo un ospite speciale, oggi, a quanto pare», disse lui dopo un po’, con un sorriso spontaneo e divertito stampato sulle labbra «Stavo per chiederti di recuperare fin dove siamo arrivati dagli appunti di qualche compagno e di venire nel mio studio alla fine dell’ora per eventualmente chiarire dei dubbi, ma non essendo tu uno studente, non credo che ce ne sia bisogno. A maggior ragione, però, non hai scusanti per aver disturbato me e i miei alunni nel mezzo del discorso. Per stavolta sarò buono e chiuderò un occhio».
  «Concordo sul fatto che non ce ne sia bisogno. Tuttavia, mi sento comunque di accettare l’invito nel suo studio, più tardi. Sempre che non sia di disturbo anche questo».
  I mormorii si fecero più forti fino a diventare voci che si mischiavano tra loro in un insieme confuso ed eccitato. Si aspettava di sentire quale sarebbe stata la replica stavolta, e in effetti il professore pareva avercela già bella pronta sulla punta della lingua, impaziente d’esser pronunciata, ma invece si fermò e seguì uno scialbo, quanto risolutivo: «Vedremo, caro mio, vedremo. Ora, ragazzi, dicevamo...».
 
 
  «Quindi, questo passaggio è corretto?».
  «Sì. Più o meno ha capito cosa succede, no? Quello che mi ha ripetuto prima e, infine, deve aggiungere questa ultima parte. Sul manuale lo spiega bene, comunque se dovesse avere ancora incertezze può tornare da me, d’accordo? Arrivederci!».
  «Certo! Arrivederci!» esclamò la ragazza riprendendo le sue cose e avviandosi verso la porta.
  «Bien sûr...» puntualizzò il ragazzo che l’accompagnava, facendo un po’ il verso e ridacchiando.
  «Ma che fai, zitto che ti si sente!» lo riprese velocemente afferrandolo per la manica con uno strattone. I due si affrettarono ad uscire in corridoio, ma prima di poter mettere piede fuori dalla stanza si scontrarono improvvisamente con l’uomo che era venuto ad interrompere la lezione. Lo guardarono intimiditi, il giovane smise persino di ridacchiare per trasformare il proprio sguardo in uno rispettoso e di stima da rivolgere nei suoi confronti.
  «Prego», disse egli facendosi da parte in modo che potessero uscire, nel frattempo allungando l’occhio intorno allo studio pieno di fiori per trovare il viso per cui era venuto. Il professore si accorse di lui, così alzandosi dalla scrivania gli andò incontro, salutando ancora gli alunni che se la filarono rapidamente.
  «Sono gli studenti del primo anno», spiegò affacciandosi e guardandoli allontanarsi verso l’uscita del Dipartimento «Ah, le matricole! Sono appena all’inizio e non immaginano nemmeno quel che dovranno passare... Cerco sempre di non essere troppo traumatico con loro, non ne vale la pena. Penso sia controproducente».
  «Credo però che un po’ di stress non gli farebbe male, per irrobustirsi le ossa».
  «Su questo in effetti hai ragione, eppure...».
  «Professor Platan!» lo chiamarono tutt’a un tratto, troncandogli le parole. Augustine si girò, trovandosi davanti un ragazzetto con già pronto il quaderno in mano da cui strabordavano una moltitudine di biglietti e di linguette colorate.
  «Mi scusi, vorrei chiederle una cosa», esordì, controllando qualche riga per assicurarsi di non commettere strafalcioni prima di continuare il discorso.
  Il professore sorrise gentilmente, rivolgendoglisi con considerazione: «Naturalmente, soltanto un attimo».
  Allora guardò il compagno e con un’espressione leggermente dispiaciuta gli si avvicinò.
  «Scusami, Elisio, potresti aspettare un istante? Torno subito», sussurrò avendo premura intanto di cominciare ad accogliere l’arrivato.
  «Se ho aspettato fino ad ora, qualche altro minuto non farà differenza», rispose, comprendendo che, dopotutto, si trattava pur sempre del suo orario di ricevimento. «Fai pure con calma».
  «Grazie».
  Si scambiarono un rapido sguardo, poi Augustine scomparve dietro la porta. Prima che essa si chiudesse, però, Elisio non aveva potuto fare a meno di notare la smorfia stupita che campeggiava sul volto del ragazzetto, che si era fermato ad osservarlo. Si sedette su una panca del corridoio e rimase pazientemente in silenzio, scrutando nel frattempo il gruppo sempre più folto che andava a crearsi davanti alla soglia dello studio.
  Ce n’erano di tutte le età e di tutti i tipi, e ogni volta che risbucava fuori Platan si dedicava meticolosamente ad ogni persona, generoso e incredibilmente cortese, senza mai farsi prendere in fallo dal rancore o dalla collera di fronte a qualche testa un po’ più cocciuta.
  Elisio pensò con rammarico che era troppo buono e che gli mancava il pugno di ferro. Già li vedeva lì, i suoi cari alunni, pronti, con gli artigli sguainati, ad approfittarsi della sua gentilezza nel momento propizio.
 
 
  Chi si somiglia si piglia, e gli opposti si attraggono.
  In questo caso però non si sarebbe potuto ben dire in quale delle due affermazioni dovessero essere collocati. Certo era che entrambi fossero uomini di grande intelletto, di ideali e interessi comuni, l’uno filantropo impegnato a garantire la felicità del prossimo, l’altro professore di Pokémon partecipe ad assicurare un opportuno legame tra gli umani e quelle creature. Eppure le differenze erano abbastanza lampanti, anche ad un occhio non troppo vigile, non tanto d’aspetto, quanto spiritualmente, caratterialmente. Nonostante questo, quando erano insieme, pareva come se quelle diversità si venissero incontro, amalgamandosi quasi a combaciare le une con le altre.
  Ma erano tutte congetture, e per quanto nel bar dell’ateneo in cui si erano fermati a mangiare un panino per pranzo sia studenti che professori si potessero accanire nell’osservarli da ogni angolazione, nel bisbigliare e nell’origliare i loro discorsi, non c’era nulla che fosse stato ufficializzato.
  Potrebbe sorprendere quanto persino in tali luoghi di fermento culturale e di rinnovamento germoglino con ostinata tenacia i germi dell'arroccamento, della negazione e dell'intolleranza, e non di rado.
  Essi, ben consci di come stessero le cose, lasciavano scivolare ogni sguardo e ogni parola sui loro corpi, senza che sopra di essi potessero trattenersi in qualche modo. Tutto quanto cadeva, soccombeva, senza che le loro armature ne venissero scalfite. Non un graffio, non un taglio. Nemmeno il più piccolo sfregio. Si crogiolavano reciprocamente in quell’intima coltre fatta di silenzio e di mistero, che li avvolgeva, separandoli dal resto, e che nessuno sarebbe stato in grado di valicare o rimuovere.
  Così, insieme, stavano.
 
 
  «Di’ un po’, alla fine sei riuscito a risolvere?».
  Augustine distolse lo sguardo dal finestrino per poterlo posare su di lui, alla sua sinistra intento a guidare l'auto.
  «Oggi erano in parecchi. Io non ho avuto problemi ad ascoltare la lezione in piedi, ma immagino che per chi debba effettivamente prendere degli appunti e stare attento a quel che dici sia piuttosto disagevole. Senza contare il fatto che dopo mezz’ora non si respirava nemmeno, là dentro», specificò meglio Elisio, indirizzandogli una rapida occhiata per capire se avesse sentito: sembrava avere la testa tra le nuvole, ma probabilmente si trattava solo di stanchezza.
  «Intendi per l’aula? Ah!» sbuffò seccato, un sorrisetto stizzoso gli si dipinse sulle labbra. Afferrò la bottiglietta d’acqua dal portavivande e bevve un sorso, asciugandosi poi la bocca col dorso della mano.
  «Ti pare?» disse «No, non c’è nulla da fare, anche se da una parte sono sicuro che un'altra aula debba esserci libera durante le mie ore. Comunque, come al solito mi hanno ripetuto di non preoccuparmi troppo perché: vedrà quando arriverà la prossima sessione come si sfoltirà! La moria!. Eppure io non ne sono troppo convinto. Anche prima e durante gli esami ho sempre tanta gente che viene a seguirmi. Che siano miei studenti di corso o infiltrati».
  «Non fatico a immaginarlo. Ormai devi riconoscere di aver raggiunto un certo prestigio, Augustine».
  «Ancora con questa storia…».
  «Dico sul serio. Trovo che come professore – e anche come persona, naturalmente – tu abbia delle qualità a dir poco eccezionali. Certo, non sei perfetto, ma non puoi capire quanto sia difficile riuscire a trovare qualcuno come te in questo mondo becero di oggi. Hai una mente splendida. E per questo motivo dovresti pretendere che ti trattino con il giusto rispetto. Non hai sopportato per anni quel burbero del Professor Rowan per finire come un miserabile. Devi farti valere di più».
  Platan si trovò a concordare in parte con il suo discorso. Dopotutto, sapeva quanto Elisio fosse selettivo nelle sue conoscenze ed era consapevole del fatto che se non fosse stato per quelle doti che egli diceva di aver visto dentro di lui, non sarebbe mai stato in grado di attirarlo a sé.
  Un giorno, a riprova di quanto il sapere e la cultura gli stessero a cuore, Elisio, da filantropo quale era, aveva donato un'ingente somma di denaro all'Università. C'erano stati grandi festeggiamenti, diversi incontri e una fastosa cerimonia era stata organizzata dal rettore per commemorare l’evento. Giornalisti e fotografi erano accorsi a immortalare il momento e ad intervistare l'uomo che così generosamente aveva fatto l'ennesima grandiosa offerta. Quello stesso giorno, tuttavia, Platan era stato impegnato in un dibattito con altri professori circa le ultime ipotesi mosse in campo evolutivo. Elisio, quasi per caso, si era fermato ad ascoltare sulla soglia della porta, aveva seguito con attenzione il lungo intervento di Platan, rimanendone piacevolmente colpito. Più tardi, a celebrazioni ormai concluse, in maniera del tutto inaspettata si era presentato umilmente nel suo studio, davanti ai suoi occhi. “M'insegni”, gli aveva detto. E così Platan aveva fatto, alla fine.2
  Avevano preso a frequentarsi, all’inizio in modo prettamente formale, poi qualcosa lentamente era scattato e avevano deciso di approfondire la reciproca conoscenza. A distanza di qualche mese, adesso, si trovavano in viaggio alla volta di Petroglifari per trascorrere un pomeriggio insieme, lontano da occhi indiscreti.
  «Bello», disse Augustine «Tutto molto bello quel che dici. Ma non mi sento di concordare pienamente. Per quanto la mia mente possa essere splendida, non è che ogni cosa mi sia dovuta».
  Elisio sbuffò, gli rivolse uno sguardo carico di scettiscismo.
  «Ne riparleremo quando sarai diventato Professore. Quello con la P maiuscola».
  «Tu credi davvero che io…?».
  «Dammi un motivo per dubitarne».
  Augustine sapeva che, qualunque ragione avesse dovuto esporgli, Elisio avrebbe sempre trovato da ribattere: non avrebbe accettato nemmeno la minima contestazione. Allora sorrise, un po’ timidamente, mentre si confortava della sua fiducia, e tornò a guardare di fuori.
 
 
  La distesa del mare accoglieva dentro di sé il lugubre umore del cielo. Il vento soffiava e la sabbia si sollevava in alto. Augustine la sentiva a tratti schiaffeggiargli il viso. Qualche granello finì nel suo occhio ed esso subito cominciò a farsi lucido e a lacrimare. Ci strofinò due dita sopra per alleviare il bruciore.
  «Pare che oggi la giornata non sia delle migliori», disse Elisio guardandosi attorno mentre scendeva dalla macchina. Sulla spiaggia c’erano loro e pochi altri, stretti nei cappotti e in cerca di un rifugio nei chioschi. Un asciugamano era stato abbandonato vicino alla riva e galoppava con ampi balzi lungo la superficie sabbiosa, mosso e gonfiato dalla forte brezza. Si presagiva un’aria di pioggia.
  «Pensi che si possa comunque andare a vedere la scogliera?» domandò Augustine, invitando il compagno vicino a sé con un rapido sguardo, per poi tornare ad osservare mortificato l’orizzonte.
  «Temo di no, purtroppo, sai».
  «Potremmo provarci però».
  Elisio alzò la testa al cielo, a scrutare i nuvoloni che si ammassavano gli uni sugli altri. Mentre affondava le mani nelle tasche del trench nero per riscaldarsi le dita, sentì una goccia di pioggia scivolare sulla punta del naso. Si girò verso Augustine con l’intenzione di convincerlo che sarebbe stato meglio andare via, ma si fermò non appena notò quell’espressione un po’ imbronciata. I suoi occhi gonfi di lacrime gli diedero per qualche secondo un’impressione di pianto.
  «Ci tenevo tanto», lo sentì sussurrare.
  I cavalloni alti e massicci si accalcavano abbattendosi gli uni contro gli altri, scontrandosi litigiosi, disintegrandosi e morendo tra gli spruzzi di schiuma bianca. La sabbia era già macchiata di radi punti scuri che via via cominciarono a crescere e a moltiplicarsi, fino a formare una massa umida e bruna.
  Platan ed Elisio restarono sotto la pioggia ancora pochi minuti, finché il getto non divenne tanto forte da offuscargli la vista, rendendo ogni cosa nient’altro che un’indistinta macchia grigiastra e annebbiata.
 
 
  Sibilando tra i denti si maledisse per non aver controllato le previsioni metereologiche, anche se, effettivamente, quando si decidevano per quelle uscite così di punto in bianco era la norma partire senza che ci si fosse organizzati con molto criterio. Platan ascoltava Elisio mentre continuava a lamentarsi, nel frattempo sfregandosi le mani di fronte allo scaldino della macchina. Gli disse di non preoccuparsi, che alla fin fine andava bene anche così.
  La pioggia copiosa picchiettava contro i vetri dei finestrini fino a diventare un rumore sgraziato ed uniforme: un ammasso di colpi che battevano tutti quanti all’unisono, facendosi l’eco gli uni con gli altri. I tergicristalli faticavano a spingere via l’acqua dal parabrezza, così che sembrava fossero isolati da ciò che era fuori, rinchiusi insieme in una sorta di piccolo antro nascosto lungo il limite di una strada.
  «Dopotutto, mi basta stare con te».
  Poco dopo che quelle parole vennero pronunciate, la mano di Elisio si posò piano sul viso di Augustine, che la colse con una lieve sorpresa. Le sue tenerezze risultavano a volte ancora improvvise, inaspettate. Ancora, ancora dopo qualche mese. Che comunque non ci si può immaginare di conoscere una persona a menadito già dopo appena qualche mese, ad essere sinceri. Si voltò a scrutarlo, rannicchiandosi silenziosamente in un angolo dei suoi occhi azzurri e intensi come un gelido oceano del quale non è possibile toccare il fondo, provando brividi freddi e una sensazione simile all’apnea mentre avvertiva il dorso delle sue dita percorrere lentamente la sua guancia, finché non sentì i polpastrelli andare a infilarsi tra i capelli bagnati. A quel punto temette di star confondendo il proprio tremore per il fatto di essere intriso d’acqua con quello di chissà quale passione scaturita dall’aver ricevuto una simile e banalissima carezza. Ma durò poco.
  Nella penombra dell’abitacolo si stagliavano le loro sagome, due figurine colorate sommariamente con un pennarello e ritagliate con le forbici da un pezzo di carta sottile, rimuovendo accuratamente ogni sbavatura e tratto che fosse uscito dalla rigida linea di contorno. Tuttavia non si poteva far nulla per quelle macchie d’inchiostro che avevano trapassato il foglio da una parte all’altra.
  La chitarra alla radio strimpellava malinconicamente qualche nota agrodolce. Il segnale cominciava però ad interrompersi a causa del temporale che faceva interferenza, così via via che le battute si susseguivano una dietro l’altra, alla fine non rimase che uno stridore fastidioso, e la musica tacque.
  Elisio si allontanò dalla figurina a cui si era unito per riempire i propri difetti anche solo per dei miseri istanti, le fessure lasciate in bianco sovrapposte contro le sue campite in maniera più precisa, le loro labbra portate a combaciare le une sulle altre. Spense la radio.
  Silenzio.
  Un lampo di luce penetrò oltre i vetri. In lontananza vibrò un rombo di tuono.
  Non si sapeva che fare, e neppure cosa dire. Augustine allungò una mano verso il ginocchio del compagno, forse con l’intenzione di ristabilire un contatto simile al precedente, sentendo già la mancanza del calore del suo volto premuto contro il proprio. Mentre faceva scorrere il palmo lungo la sua gamba però si accorse di quanto il pantalone fosse impregnato d’acqua.
  «Dio, Elisio, sei zuppo», mormorò, notando solo in quel momento la barba arricciata e alcune ciocche ancora umide. Certo era, pensò, che se anche avessero deciso di spostarsi, in quelle condizioni non si sarebbero potuti muovere più di tanto.
  «Tu, piuttosto», fu la breve replica. E non ci fu bisogno che si aggiungesse altro, perché subito dopo stringendosi meglio nella giacca fradicia Augustine trattenne a stento uno starnuto e dovette ammettere che non aveva poi così torto. Elisio allora si affrettò ad aumentare il getto d’aria calda.
  «Dovrei avere una coperta nel bagagliaio. Te la prendo, se vuoi».
  «Lascia, lascia. Non è necessario».
  «Come preferisci».
  Lanciò un’occhiata di fuori e si lasciò sfuggire un sospiro. Arrestò i tergicristalli, dato che non avevano l’impressione di essere molto d’aiuto.
  «Beh, cosa vogliamo fare?» chiese a un certo punto «Proviamo ad aspettare che spiova?».
  L’altro annuì, accostandosi al finestrino, osservando le gocce che scivolavano irrequiete contro la superficie esterna. Con uno sbuffo appannò il vetro e si mise a tracciare distrattamente qualche forma con il dito.
  Il suono della pioggia si era addolcito, segno che il peggio doveva essere passato, tuttavia essa non pareva accennare a smettere di scendere. Ne avrebbero avuto ancora per molto, eppure l’atmosfera si era fatta così rilassata che ad Augustine non dispiaceva affatto.
  «Elisio».
  «Sì?».
  «Ti andrebbe di stenderci un po’ insieme dietro?».
  Le labbra già sottili di lui si affilarono ancor più leggermente in un sorriso malizioso, prima di schiudersi in una risata compiaciuta.
  «Oh, Augustine. Non credo che abbiamo più l’età per permetterci quel genere di cose».
  «No, eh?» rise sotto i baffi a propria volta, continuando a fissare i rivoli trasparenti che si intrecciavano ai suoi scarabocchi insignificanti «Peccato».
 
 
  Alcune gocce pendevano dalla pergola che precedeva l’ingresso all’Acquario.
  Dopo aver strofinato rapidamente le scarpe sullo zerbino, Elisio ed Augustine entrarono, provando nuovamente sollievo nel momento in cui si sentirono avvolti dal calore dell’ambiente. Subito vennero riconosciuti da qualcuno e mentre facevano la fila per la biglietteria non poterono ignorare la pressione di quegli sguardi che per quanto si sforzassero di essere discreti risultavano quasi ossessivi, magneticamente attratti dalle loro figure famose, due apparizioni sacre e benedette nel mezzo di una qualche manciata di vite vuote ed irrilevanti.
  Elisio pareva piuttosto avvezzo a quel tipo d’attenzioni. Ricambiava senza problemi ogni occhiata che gli veniva rivolta con un sorriso cordiale e modesto, impreziosito da quella sua caratteristica eleganza riservata che sapeva abilmente porre a barriera tra sé e gli altri. Augustine, al contrario, ci stava ancora prendendo l’abitudine. Tuttavia non doveva essere poi troppo diverso dall’essere puntato dagli occhi degli alunni quando attraversava il corridoio del Dipartimento o mentre aspettava che la macchinetta accanto alle scale facesse uscire il bicchierino di caffè dalla dubbia consistenza acquosa che gli spettava dopo ore di lavoro – spesso nemmeno gli lasciava il bastoncino per poterlo mescolare, così lo zucchero rimaneva tutto sul fondo.
  In quanto professore, Platan doveva costantemente fronteggiare un’enorme quantità di studenti. Nel corso della sua carriera non aveva mai avuto problemi a rapportarsi con i più giovani. Anzi, sin dal periodo scolastico si era sempre organizzato per dare ripetizioni ai compagni più piccoli, per cui si potrebbe dire che quel ruolo d’insegnante fosse stato già pienamente acquisito ancor prima dell’inizio dei suoi studi. Per quel che riguardava il lavoro attuale, gli faceva piacere assistere alla crescita dei suoi ragazzi e poterli avviare nei loro interessi che presto sarebbero stati in grado di seguire da soli: da questo punto di vista, poter essere un giorno Professore e avere l’onore di consegnare i primi Pokémon ai bambini di Kalos sarebbe stata la soddisfazione più grande, soprattutto quando, passato del tempo, avrebbe potuto toccare con mano i loro progressi e il rafforzamento dei legami durante il viaggio. Certo, sarebbe stata una grande responsabilità, tuttavia avrebbe sempre avuto la certezza che il suo lavoro sarebbe stato d’aiuto a qualcun altro. Anche come semplice professore, comunque, avrebbe potuto dire lo stesso, e nel caso in cui avesse fallito nel raggiungere i propri obiettivi si sarebbe volentieri accontentato di un titolo minore.
  Al contrario, quando durante un esame si ritrovava faccia a faccia con delle persone più anziane, che magari avevano frequentato il corso semplicemente per puro interesse personale, molto spesso faticava a mantenersi nel proprio ruolo: non poteva fare a meno di pensare a quanto avrebbe avuto più lui da imparare da loro, piuttosto che loro da lui. Avrebbe saputo spiegare alla perfezione i processi chimici e biologici innescati dall'evoluzione di un Pokémon, prevedere il mutamento di ogni singola molecola coinvolta nella trasformazione, capendo il perché e il come di ogni fase, pienamente in grado di andare sempre più in fondo, sempre più in fondo nei limiti del possibile, ma per quanto tutto questo fosse grandioso, gli sembrava nulla rispetto all’esperienza e alla saggezza che quelle persone portavano con sé di fronte alla sua cattedra. Ma forse non sarebbero state proprio queste le cose che un professore avrebbe dovuto valutare.
  Elisio, invece, era un caso un po’ speciale: praticamente suo coetaneo, li separava appena qualche anno di differenza, un battito di ciglia. Sebbene avesse iniziato ad accoglierlo sotto la propria ala e a farlo studiare presso di lui come faceva con tutti quanti gli altri, non lo si poteva definire propriamente uno studente o alunno, poiché sentiva che non erano termini che gli calzassero. Né comunque avrebbe potuto chiamarlo collega, dato che, chiaramente, non erano colleghi in alcuna professione né carica. C’era sempre una sorta di subordinazione fra di loro, l’uno docente, l’altro discente. A porli sullo stesso piano vi erano tuttavia degli interessi comuni, una sorta di strana affinità intellettuale, se così volessimo definirla. Allora il loro scambio di idee somigliava di più a quello che poteva avvenire tra un maestro e un suo discepolo.
  Ecco, un discepolo, appunto. Elisio era il suo discepolo.
  Così lo aveva definito quando il ragazzo della biglietteria aveva domandato loro come si fossero conosciuti, sorpreso di vederli assieme.
  «Mi piace essere il tuo discepolo», fu il commento che seguì dopo che ebbero fatto vidimare i biglietti all’entrata per gli acquari.
  In una vasca a parte erano stati isolati i Frillish e i Jellycent. Essi nuotavano aggraziati trascinandosi dietro in maniera sinuosa i lunghi tentacoli alla stregua di uno strascico di vestito, meravigliosi quanto letali. Sebbene Augustine sapesse del vasto spessore del vetro, si ritrovò più volte ad afferrare Elisio per un braccio in modo da tenerlo lontano quando un Pokémon minacciava di avvicinarsi troppo alla superficie trasparente.
  La maggior parte delle persone si era affollata davanti all’acquario più grande. Alcuni bambini si divertivano a muovere le braccia a tracciare un cerchio mentre un Buizel dall’altra parte nuotava seguendo il loro percorso, roteando vorticosamente le due code. I Mantine offrivano trasporto ai piccoli Remoraid, mentre banchi di Goldeen sfrecciavano veloci accanto a un enorme Wailord: presto probabilmente avrebbero tramato l’ennesimo colpo ai vetri per cercare di fuggire, erano Pokémon difficili da ammansire e bisognava prestare costante attenzione ai loro corni duri e affilati. I Corsola riposavano tra le rocce e in mezzo alle ramificazioni dei loro coralli volteggiavano dei Luvdisc e altri pesci minuti. Tutti quanti comunque davano l’impressione di star volando in un’aura magica e misteriosa, ed era spettacolare poterli osservare da una tale vicinanza, un’occasione come poche.
  Nessuno dei presenti quindi si fece avanti a strappargli qualche parola come ci si sarebbe aspettato, né comunque vennero presi di mira più di tanto. Ci fu giusto un momento in cui attirarono particolarmente l’attenzione. Platan stava raccontando ad Elisio dei Pokémon che erano all’interno della vasca, ed egli lo stava ascoltando interessato, ma i suoi occhi non si rivolgevano mai verso il vetro a cercare ciò a cui l’altro faceva riferimento, anzi restavano fermi su di lui con un’intensa premura. Vedendoli così, quindi, un Luvdisc aveva appunto deciso di premiare quella tenerezza mostrandosi davanti ai loro occhi.3 Augustine aveva smesso di parlare, preso alla sprovvista, ed anche Elisio non aveva potuto fare a meno di provare un leggero imbarazzo per una volta. I complimenti da parte dei presenti non avevano tardato ad arrivare, senza contare qualche augurio per delle future nozze che non si sarebbero mai celebrate, ma in linea di massima ci si limitò a quello, tralasciando un paio di frecciate più maliziose. Poi l’incanto dell’acquario riprese il sopravvento e quegli istanti vennero presto dimenticati.
  Non erano che un ammasso di ombre di fronte ad uno schermo blu oltremare, con le dita puntate verso l’alto, e in questo unico gesto ognuno sembrava del tutto simile al proprio vicino, sagome direttamente intagliate nella nera carta piuttosto che campite col semplice colore.
  Platan si era perso nelle proprie riflessioni. Se ne stava con una mano appoggiata sul vetro, e i suoi occhi vagavano assorti da una squama iridescente all’altra, soffermandosi sulla sfericità di una bolla o sull’insieme delle tinte che si mischiavano al passaggio di un banco di Pokémon in mezzo a un altro, per poi rincontrare sé stesso in un riflesso. Il suo viso era lambito da lumeggiature verdazzurre che ne mettevano in risalto l’incarnato pallido, il resto rimaneva nascosto nell’ombra del buio della sala.
  «Certe volte non posso fare a meno di chiedermi se i Pokémon che sono qui non si sentano a disagio a trascorrere la loro intera esistenza davanti a un vetro».
  A quelle parole improvvise Elisio rimase sorpreso: non si sarebbe aspettato che un commento del genere potesse uscire proprio da quella bocca.
  «Eppure, dovresti sapere meglio tu di me che questi Pokémon sono vigilati e protetti nel rispetto delle loro esigenze, Augustine».
  «Oh, no, questo lo so benissimo. Dopotutto, anche a me è capitato di fare qualche tirocinio qui, e conosco la prassi. Ma non intendevo in quel senso. Voglio dire, non pensi che sia logorante mostrarsi in questa maniera agli occhi di tutti, avere in ogni singolo momento lo sguardo puntato addosso senza alcuna possibilità di sottrarvisi, senza potersi nascondere neppure un istante?».
  «Cosa ti fa credere che non possano farlo?».
  Stavolta fu Platan a rimanere colpito, perché nell’animo intuì i sottintesi che recava con sé quella risposta.
  Abbassò lo sguardo e si accarezzò distrattamente un braccio. Aspettò che la sala si svuotasse quel poco che bastava prima di riprendere il discorso.
  «Oggi, quando sei venuto a lezione, non appena ho sentito la tua voce è stato come se mi fossi spogliato delle vesti di professore per essere semplicemente me stesso. Ero diventato improvvisamente nudo, nella maniera più esplicita che tu possa pensare».
  «Augustine».
  «Non intendevo essere volgare. È che non sentivo neppure il bisogno di coprirmi, capisci? Di fronte a te il mio corpo, che dico, il mio intero essere palpita in una maniera così spontanea che ogni inibizione svanisce e riesco ad accogliere qualunque sentimento di letizia, di dolore, di gentilezza, di paura, di lascivia e insicurezza dentro di me. Persino la rabbia e la violenza che non tollero acquistano un senso che mi permette di accettarle. Senza che escano fuori, vivo tutte queste sensazioni e attraverso di esse vivo ciò che io sono. Ed è splendido poter unire me stesso a te. Avrei continuato volentieri il nostro scambio di battute, ma poi ho sentito gli occhi degli altri addosso e mi sono reso conto di essermi esposto troppo e ho avuto paura. Il fatto è che non mi ero mai accorto di quanto il mio camice mi proteggesse. Per la prima volta ho avuto l’impressione di star indossando una maschera della quale non avevo mai sospettato l’esistenza. Ti sono sembrato così diverso quando mi sono tolto il camice davanti a te?».
  «Avevo stima di te quando ti ho conosciuto con il camice e ho continuato ad averne anche quando l’hai messo via, se è questo che vuoi chiedermi. Diverso, non direi. Più umano, forse. Ma per quanto tu possa essere spontaneo con me, Augustine, ci sarà sempre una parte di te più intima e vera che non vorrai mostrarmi. Non negarlo, sai che è così. Come non ti dimostri in un certo modo con i tuoi studenti, ugualmente non lo fai con me. Anch’io ho dei tratti del mio carattere che non posso rivelarti. Queste nostre barriere, comunque, non mi impediranno di amarti».
  «Vorrei che non fosse così. Vorrei che potessi aprirti».
  «Non è possibile».
  «Io ti accetterei. Ti darei tutto lo spazio di cui avresti bisogno. Sarei disposto a sacrificarmi e a farmi da parte in un angolo, se non dovesse bastarti».
  «Vorrei che non fossi così dimesso. Non ti accorgi che in questo modo è troppo semplice approfittarsi di te? Che cosa farai quando prenderanno il tuo cuore e lo spezzeranno? Quando gli altri ti lasceranno il vuoto dentro e ti sarai fatto talmente piccolo che non riuscirai più a colmarlo?».
  «Mi stai forse sottovalutando?».
  «Mi sto preoccupando. Perché anch’io una volta mi dedicavo agli altri come stai facendo tu. E non avrei dovuto. È stato un errore».
  Tacquero. Il silenzio si interpose tra di loro, e sembrò come se quelle parole in realtà non fossero mai state pronunciate. Forse rimasero a galleggiare in qualche pensiero o all’interno dell’acquario, relegate intenzionalmente oltre il vetro affinché annegassero, prive di qualunque fondamento. Se soltanto avessero avuto il coraggio di alzare un po’ di più la voce...
  Platan abbassò lo sguardo e si accarezzò distrattamente un braccio. Aspettò che la sala si svuotasse quel poco che bastava prima di riprendere il discorso.
  «Oggi, quando sei venuto a lezione, non ho fatto altro che averti in mente tutto il tempo».
  «A che cosa pensavi?».
  «Pensavo al modo in cui sospiri quando sei stanco. O a come ti accarezzi le tempie mentre rifletti su un problema. So che sono gesti che non mostri a nessun altro, magari perché segno di debolezza. Ecco. Ti ringrazio per esserti aperto a me».
  «Non avrei potuto farlo con nessun altro. Grazie a te per avermi accettato».
 
 
  Stavano girando dentro Petroglifari alla ricerca di un alloggio per la notte. Ormai aveva smesso di piovere da un pezzo e le nuvole si andavano via via diradando. Ad un certo punto si imbatterono in un cartello che suggeriva la strada per un villino in periferia che metteva a disposizione delle stanze per dormire e offriva la colazione alla mattina. A lato vi era una fotografia del posto e, sebbene i colori fossero decisamente sbiaditi dal tempo, sullo sfondo si riusciva a intravedere un accenno di paesaggio marino. Elisio e Augustine si confrontarono brevemente un paio di minuti sul da farsi, poi decisero di provare ad andare.
  Sotto alla tettoia c’era una donna anziana che stava controllando le Baccaprugne mature all’interno di un grande cesto di vimini poggiato sul tavolo. Non appena vide arrivare l’automobile, si alzò dalla sedia preparandosi ad accogliere gli eventuali clienti. Stese per bene il grembiule sulle ginocchia con le mani un po’ tozze e si apprestò ad avvicinarsi alla macchina appena parcheggiata. Quando riconobbe la persona che stava scendendo dal lato del volante rimase per qualche secondo come stordita.
  «Buon Gesù!» esclamò. Allora tornò a lisciare le pieghe del grembiule con ancor più foga e addirittura si mise a raddrizzare sulla capigliatura bruna dalle lumeggiature argentee il grosso chignon che ormai dopo un’intera giornata pendeva da una parte.
  «Buonasera», salutò Elisio accostandosi a lei. Augustine si era fermato più dietro ad accarezzare il Furfrou della signora che era corso verso di loro facendo le feste: il pelo che doveva essere il suo vanto era lungo e arruffato, non disciplinato come quello degli esemplari che si potevano vedere passeggiare in città, ma in compenso il barboncino sembrava molto felice di stare all’aria aperta ed era in ottima salute.
  «Monsieur Elisio, che onore averla qui! Sta per caso cercando una stanza per dormire?».
  «Sì. Io e il mio compagno siamo venuti in gita a Petroglifari questo pomeriggio e domani mattina torneremo a Luminopoli. Le saremmo grati se potesse ospitarci stanotte».
  La donna, cercando di capire se si trattasse anch’egli di qualche personaggio famoso, allungò lo sguardo sull’altro uomo che ancora si divertiva a giocare con il suo Pokémon, ma non lo riconobbe.
  «In gita, eh? Certo che siete capitati proprio male con questo tempo, oggi», commentò notando i loro abiti umidicci «Ultimamente è sempre così, però pare che già questa sera dovrebbe stabilizzarsi. Per fortuna non è ancora stagione di turisti... Ma venite, vi faccio vedere le stanze! Furfrou, lascia in pace l’ospite!».
  «Ah, non si preoccupi, non mi sta dando alcun fastidio! Sono professore di Pokémon e passo con loro la maggior parte del mio tempo», la rassicurò Platan mentre regalava l’ultima carezza, poi li raggiunse davanti la porta di casa «Mi chiamo Augustine».
  «Piacere, io sono Mireille!» si presentò cominciando ad entrare «In effetti non me ne intendo molto, per cui le chiedo scusa se non l’ho riconosciuta. Lei, Elisio, la vedo così tanto spesso alla televisione che in genere mi darebbe fastidio, ma con tutto il bene che fa per noi è sempre un piacere! È un sollievo sapere che ci siano ancora persone di buon cuore al giorno d’oggi».
  Attraversarono il salottino con la cucina e il caminetto e salirono al piano superiore, dove c’era un corridoio con cinque porte, tra cui quella del bagno. La signora Mireille mostrò loro una ad una le camere da letto, ma mentre la donna parlava con Elisio per chiarire cifre e prezzi, Platan rimase colpito dal paesaggio che si vedeva oltre la finestra di una in particolare, la cui luce si riversava pallidamente sulle tende bianche facendole splendere del loro colore.
  «Per qualsiasi cosa dovesse servirvi, io e mio marito Louis dormiamo nella stanza al piano di sotto. Scegliete pure quella che preferite, per stanotte non abbiamo altre prenotazioni».
  Elisio si mosse come per rivolgersi ad Augustine, ma egli si era già addentrato nella camera ad osservare il tratto scosceso di terra che dalla villa scivolava fino al mare. Se ne stava con una mano appoggiata sul vetro, e i suoi occhi vagavano assorti tra il grigiore del cielo e l’aspro color nero degli scogli più in basso, oltre le chiome fragili degli alberi arroccati lungo le pendici del giardino.
  «Questa pare che gli piaccia molto», disse Elisio senza smettere di guardarlo. Sulle sue labbra si impresse un tenue sorriso.
  «Da qui si vede la scogliera», spiegò l’altro. Si girò per chiedergli che prendessero quella. Soltanto allora si accorse che il letto era a due piazze.
  «Ti va?».
  Elisio semplicemente annuì.
  «Scegliamo questa».
  «La matrimoniale, quindi. Ottimo! Se mi seguite giù procederemo con la registrazione dei documenti e il pagamento».
 
 
  Cenarono in un ristorante in riva al mare, rigorosamente a lume di candela, godendosi le ultime sfumature del giorno nel cielo ormai quasi limpido, dove il rosso del sole si univa all’azzurro della sera. Più tardi si fermarono a passeggiare lungo la spiaggia dall'odore umido e salmastro, con la sabbia ancora bagnata che si attaccava sotto le scarpe. Restarono finché l’orizzonte non si fu tramutato in una distesa indistinta di nero, ravvivata appena in qualche punto dal bagliore delle stelle e dei pescherecci lontani. Allora camminarono un po’ sul lungomare costeggiato dai lampioni, tenendosi stretti a braccetto.
  Verso una certa ora si avviarono sulla strada del ritorno, consci del fatto che l’indomani si sarebbero dovuti svegliare presto. Nelle loro menti già facevano capolino la sagoma slanciata della Torre Prisma e l’immagine del traffico e i rumori molesti della città che presto però diventavano nulla in confronto alla quiete di Petroglifari che ancora li circondava. Si crogiolarono in essa fino a che non rimisero piede nella villa. A quel punto, mentre sbadigliavano, si dissero che in fin dei conti era stata una bella giornata e che potevano considerarsi soddisfatti.
  Così, stanchi, erano saliti in camera. Si erano spogliati degli abiti e coricati nel letto, assonnati si erano stretti tra le braccia a sussurrarsi parole. Forse per un bacio o una carezza di troppo, avevano finito per fare l'amore, in silenzio, lentamente. I loro corpi si sfioravano appena, cauti, godendo di ogni minimo tocco, d’ogni respiro che si posava fragile sulla pelle nuda e subito fuggiva via imbarazzato, per poi tornare di nuovo, inquieto e tremante. Le dita correvano a serrare le labbra dell'altro, più spesso sigillate da un bacio, con la bocca morbida che premeva, forte, per celare i sospiri, perché nessuno doveva sentirli, nessuno doveva scoprirli. Come due amanti clandestini favoriti dall’oscurità della notte, nel buio della stanza si cercavano, si perdevano, si ritrovavano.
  Erano due rami d’albero venutisi incontro e intrecciati, accavallati come edera che tutto ricopre, col desiderio o forse la presunzione di diventare insieme una cosa sola. Ma per quanto si stringessero e si avvinghiassero i loro corpi non potevano permettere la loro unione e così restavano divisi, scontrandosi e annaspando mentre affogavano nelle onde tortuose che erano le loro membra. Allora si tormentavano nell’impossibilità di entrarsi più affondo di così, di non poter aprire uno squarcio nelle carni per trovarsi veramente, e all'improvviso si sentivano soli, lontani, inconciliabili.
  Bastava uno sguardo, però, affinché si scoprissero l'uno cupido dell'altro e tornassero a esplorarsi, consci del desiderio di entrambi di venirsi l’uno dentro l’altro.
  Platan si smarriva in ogni dettaglio che gli presentava il corpo del compagno, senza riuscire a raccapezzarsi e tuttavia non anelando ad altro che al disperdersi della propria mente in quel groviglio di percezioni, di suoni, di umori che trapelavano alla vista dell’altro.
  Il fiato corto. Le guance arrossate. Lo sguardo languido e quell’espressione di assoluta estasi impressa sul viso. Il suo ultimo gemito basso e soffocato entrò dolcissimo nelle orecchie di Augustine.
  Mentre Elisio si ristendeva tra le lenzuola, gli lasciò quegli istanti d'intimità più pura senza intromettersi. Osservò il suo volto in silenzio, accarezzandogli delicatamente il petto ampio che si contraeva sempre più lento mano a mano che riprendeva a respirare regolarmente.
  I suoi occhi solcarono attentamente la capigliatura stravolta, le labbra socchiuse colme di sospiri, rosse, la presa allentata della mano che poco prima si era allungata a stringere il lembo del cuscino.
  Era forse questo il vero Elisio?, si chiese all’improvviso. Quello spoglio, privo di ogni inibizione, fiero, grandioso, ma allo stesso tempo indifeso, fragile, un giglio sull'orlo del pianto.
  Augustine pensò con rammarico che magari in un giorno lontano si sarebbero separati e che allora quella smorfia meravigliosa non gli sarebbe più appartenuta, mostrata ad un'altra persona. Dunque, che gli sarebbe rimasto del suo essere più spontaneo? Forse un vago ricordo, o una sensazione lancinante nel petto, ma non avrebbe mai potuto possedere neppure una singola parte di lui che gli restasse per sempre, cristallizzata nella sua forma più pura al di là del tempo e dello spazio. Gli sarebbe sfuggito completamente, e dal suo distacco non avrebbe colto altro che qualcosa della propria singola individualità, una propria opinione, una propria visione, di cui Elisio non sarebbe stato che una congettura imprecisa, un’ipotesi, una mera supposizione.
  Si chinò sopra di lui a baciarlo sulla fronte, stringendogli delicatamente la testa tra le mani, con le dita che si infilavano nella bella barba curata, nei capelli, pago di tutto quello che si erano dati a vicenda, con la sottile ed innata intenzione di imprimerselo dentro ancor più visceralmente di quanto avrebbe umanamente potuto. Sdraiandosi al suo fianco, si permise di osservarlo ancora, senza nascondersi, e fu dolce quando sentì la sua mano, denudata del guanto che sempre la copriva, raggiungere le sue labbra e tastarle, accarezzarle piano, al punto che non poté trattenersi dall’offrire un’altra volta a quelle dita i propri baci.
  Restarono a fissarsi l’un l’altro, i visi così ravvicinati che la vista mutava le loro sembianze. Si abbracciarono sotto alle coperte, i corpi ancora accaldati, pregni del piacevole odore del sesso. Poi il sonno cominciò a scendere lungo le palpebre, gli occhi si chiusero. E ormai stretti tra le braccia di Morfeo si addormentarono.

 


~~~

 
1    Angolino del francese  
     Excusez-moi : Mi scusi ;
     Bien sûr : Ma certo/Certamente/Naturalmente ;
     Monsieur : Signore .
2  La prima volta che lo si incontra nel Laboratorio di Luminopoli in Pokémon X e Y, Elisio dice che: «Il Professore è stato per me una preziosa fonte di conoscenza sui Pokémon. Ciò che ho appreso mi sarà molto utile per il mio obiettivo di costruire un futuro migliore». Nella versione francese più precisamente dice: «Afin d'assurer un brillant avenir à ce monde, j'ai poussé mon étude des Pokémon aussi loin que je le pouvais, sous la bienveillante férule du Professeur», che tradotto in maniera molto molto spicciola sarebbe: «Al fine di assicurare un brillante avvenire a questo mondo, ho spinto/approfondito i miei studi sui Pokémon più in là che potevo, sotto la benevola autorità del Professore». Però se vogliamo andare un po' più a fondo, l'espressione être sous la férule de che poi si traduce con l'essere sotto l'autorità di, deriva dal fatto che la férule altro non è che il bastone che veniva utilizzato in ambito scolastico dagli insegnanti per disciplinare gli studenti, da qui per estensione ha iniziato ad indicare la sottomissione all'autorità in senso di potere di un'altra persona o cosa. Non avrei mai pensato che nella mia vita sarei mai riuscita a raggiungere simili livelli di ambiguità e doppi sensi vari in appena poche righe, ma facciamo finta che va bene anche così! Il punto a cui volevo arrivare era quello di mettere in risalto l'eventuale sottinteso del fatto che forse questi due potrebbero essere stati davvero alunno e professore nella maniera più propria. Dopotutto non sappiamo in che rapporti fossero effettivamente all'interno del gioco. È un'ipotesi che mi è sempre piaciuta molto e avrei voluto svilupparla meglio in una storia prima o poi, anche se qui in realtà ho provato a darle un taglio un po' particolare.
3  In realtà non so se ci sia bisogno di specificarlo, ma si dice che le coppie a cui capita di vedere Luvdisc siano destinate a vivere un'intensa passione che non avrà mai fine.


-

 
Ciao a tutti!
L'idea per questa storia in realtà mi era venuta in mente un anno fa, penso proprio verso questo stesso periodo, ma mi sono decisa a scriverla soltanto quest'estate e soprattutto durante l'ultima sessione invernale tra una pausa dallo studio e l'altra mi sono messa sotto per cercare di finire questo primo pezzo. È una storia in due parti, quindi finirà con il prossimo capitolo che pubblicherò. Stavolta non dovrebbe essere qualcosa di eccessivamente lungo.
Per quanto riguarda l'ultima parte di questo capitolo, è la prima volta che scrivo qualcosa del genere, per cui spero di non averla resa in maniera troppo poetica da farla risultare banale. Alla fine ho anche voluto mettere un mio disegno, era da un po' in effetti che non mettevo delle illustrazioni. Spero che possa piacervi! (Edit: L'ho modificato rispetto a prima e ho lasciato solo le teste perché tutto il resto dei corpi non mi convinceva più...)

Ringrazio di cuore JoksBK, GingerGin e HolyBlackSpear per il loro prezioso supporto, e tutti coloro che sono passati di qui a dare un'occhiata. Dato che probabilmente nel frattempo non riuscirò a pubblicare altro, ne approfitto anche per fare a tutti quanti tantissimi auguri di buona Pasqua: spero che possiate passare delle belle vacanze, anche se corte!
Un abbraccio,
Persej

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Capitolo 2
*** ( soli insieme ) ***




 
II
 

 
Con me tu il sacramento celebravi
e Voluttà pareva unirsi a Amore,
eppure a me giammai ti rivelavi.
Non decifravi quell’enigma inquieto
che sei, per affidarmelo in amore;
tu hai sempre custodito il tuo segreto.
 
Hermann Hesse, La misteriosa
 
 
 


  Erano le prime luci dell’alba. Il cielo notturno iniziava a sfumarsi in un azzurro più tenue e vagamente rosato, il chiarore delle stelle sbiadiva lentamente. Sulla scogliera ancora in ombra schiumavano le onde del mare col loro moto traballante ed incerto. Si poteva sentire in lontananza il rumore che facevano mentre si ritiravano a prendere la rincorsa per poi allungarsi e precipitare in tanti flutti e schizzi tra le rocce nel tentativo di sfiorare la cima più alta del promontorio.
  Gli occhi di Elisio si erano incastonati per qualche secondo in quella visione. Il tepore del cuscino e delle coperte stava cercando di indurlo a dormire ancora, ma egli non ne aveva voglia, sebbene la tentazione fosse forte. Percepiva ancora il profumo del compagno sopra di sé, sensuale e allo stesso tempo rassicurante, e tanto bastava a tenerlo sveglio. Si rigirò nel letto e restò a fissare il soffitto bianco con l’elegante lampadario a ventola. I tre bracci dei faretti si piegavano verso il basso terminando con dei delicati paralumi in vetro a forma di fiori.
  Augustine era già in piedi. Stava sistemando la borsa da lavoro poggiata sul tavolo in legno accanto alla cassettiera a specchio. Elisio rimase ad osservarlo diversi minuti. Si accorse che aveva già indossato i pantaloni, ma questo non gli impedì di crogiolarsi nella visione del resto delle forme scoperte del suo corpo. Soffermò lo sguardo lungo la linea tracciata dalla colonna vertebrale, fino ad arrivare alla nuca nascosta dalle ciocche dei capelli per poi proseguire verso le braccia magre, percorrendo una ad una le vene sottili che vi sporgevano. Alzandosi dal letto lo raggiunse, spingendosi contro la sua schiena per riempirsi un po’ del suo calore. Lo abbracciò con delicatezza, passando le dita tra la peluria rada del petto. Sollevando lo sguardo incontrò il suo sorriso in quell’espressione ancora assonnata, contornata da una manciata di ciuffi scuri e scomposti, e lo ricambiò dolcemente: quello fu il loro modo di dirsi buongiorno.
  Elisio pareva piuttosto rilassato, quella mattina. Nonostante l’uscita improvvisata il giorno prima non fosse andata secondo le migliori aspettative, gli aveva fatto piacere trascorrere del tempo con il compagno, lontani da Luminopoli e dalle scocciature del lavoro per il tempo di qualche ora. Alla fine era vero: bastava stare insieme. Ripensando a quelle parole che gli aveva rivolto in macchina, sprofondò un’altra volta nel sottile appagamento che gli avevano dato quando le aveva sentite, nella tenerezza che aveva provato nel momento in cui Augustine aveva esplicitamente confessato il semplice bisogno della sua presenza. Gli doleva che presto si sarebbero dovuti separare, sottratti sia l’uno che l’altro dai propri affari quotidiani. Si domandò quando avrebbero potuto rivedersi, ma l’impazienza che già lo logorava lo assalì violentemente, come accade ad un amante geloso. Allora riversò le proprie labbra sopra la pelle nuda dell’altro, a trattenere contro la bocca qualche labile lacerto della sua essenza, setacciando con cura il tratto che dal collo andava alla spalla per poi continuare oltre, senza riuscire a fermarsi.
  «Mon coeur, ma vie, mon tout...1» sussurrò contro il suo polso, dedicandogli quegli epiteti idillici e quasi stucchevoli, intrisi di un sentimentalismo disperato.
  Egli era quel tipo di persona che una volta trovato l’amore non poteva far altro che dedicarsi ad esso completamente. Non soltanto per quel che poteva essere un amore sentimentale, platonico, o più schiettamente fisico, carnale, ma generalmente con qualunque cosa riuscisse ad affascinarlo, generando in lui uno sconvolgimento estatico cui ci si dovesse sacrificare con ogni mezzo pur di mantenerne intatta quell’entità sublime. Così, poteva innamorarsi di un Prigione non finito del Michelangelo, di quel corpo ritorto e dalle masse possenti da cui traspariva il brutale vigore col quale la scultura pareva inutilmente tentare di liberarsi della nuda pietra che lo immobilizzava, oppure dei versi di un Keats, e, perché no, anche dei concerti visivi di un Kandinskij, fatti di forme, linee e colori che evocano i suoni dello spirito. Nello stesso momento però non poteva che piegarsi nell’udire la sinfonia di un Mozart, così come di un Haydn o di un Beethoven. E neppure poteva rimanere indifferente di fronte ad una formula che nella sua sintesi riuscisse a racchiudere l’energia di uno sconfinato universo.
  Per quanto riguardava Platan, invece, i fiori che venivano recapitati anonimamente di volta in volta nel suo studio non si contavano più. Elisio era quello che si sarebbe facilmente definito come un romantico d’altri tempi.
  Improvvisamente la porta della stanza cigolò. Probabilmente doveva essersi trattato di uno sbuffo di vento proveniente da qualche finestra aperta in una delle stanze affacciate sul corridoio. Augustine sembrava non essersi accorto di nulla, sempre intento ad armeggiare col contenuto della sua borsa. L’altro però era stato colto da una sensazione di opprimente vulnerabilità, la stessa che aveva provato ad un certo punto la notte prima. Ripensando alle effusioni che si erano scambiati, si chiese quindi se per caso non fossero stati sentiti. E il pensiero di questa possibilità in un certo senso lo intimoriva.
  Se c’era una cosa che adorava del sesso, di qualsiasi tipo si trattasse, era che esso non solamente lo costringeva a spogliarsi dei vestiti, ma anche a rimuovere ogni maschera e copertura che avrebbe potuto apporre al proprio essere più intimo, sempre tanto protetto e riparato agli occhi degli altri, così che si ritrovasse nella più completa e spontanea nudità. Al culmine del piacere allora sentiva la sua anima elevarsi, diventare un tutt’uno con l’universo e col divino, e per il tempo di due o tre secondi riusciva a cogliere il senso di una bellezza eterna e astratta, impalpabile, che lo riempiva completamente fondendosi con lui.
  Tuttavia, quella notte, nel riaversi dall’orgasmo, un sentimento insolito e violento aveva fatto irruzione all’improvviso. A riaccoglierlo dal proprio stordimento aveva incontrato la mano amorevole di Augustine, che passava piano sulle forme del petto, ed Elisio non aveva potuto fare a meno di lasciarsi sopraffare dalla vista di quel corpo snello e pallido accovacciato sopra di lui. Con lo sguardo aveva vagato distrattamente su di esso, finché non si era fermato sui suoi occhi malinconici e grigi, come che Saturno li avesse benedetti alla nascita col tocco delle proprie labbra. In quel preciso istante aveva ripreso bruscamente coscienza di sé, percependo la profondità di Augustine che ancora lo avvolgeva. E si era sentito così dannatamente fragile a stare dentro un’altra persona. Perché quando sei dentro un’altra persona diventa facile farsi manipolare a piacimento – non c’è modo che tu riesca a fuggire. Troppe volte gli era capitato che, anche affacciandosi soltanto un poco sul cuore di qualcun altro, da esso fosse stato rapito e imprigionato, egoisticamente trattenuto senza che potesse più separarsene, se non a forza, rimanendone stremato.
  Eppure, poi, altrettanto improvvisamente era sopraggiunto questo strano senso di sicurezza. Augustine si era allungato su di lui a baciarlo sulla fronte, a stringerlo, a carezzarlo, ancora, ed Elisio era sprofondato nelle sue mani, nelle sue braccia, a riposare stanco la testa contro la sua spalla, contro il suo petto dentro il quale sentiva il suo cuore battere, senza che però si spingesse oltre per catturarlo o sottrarlo a sé stesso. Allora aveva capito che da lui non avrebbe ricevuto nient’altro che questo: un prendere che allo stesso tempo era darsi incondizionatamente.
  Era vero, non si frequentavano che appena da qualche mese, e in effetti non ci si può immaginare di conoscere una persona a menadito già dopo appena qualche mese. Però non aveva mai percepito in lui alcun tipo di ostilità, e nonostante fosse cosciente del rischio che un simile gesto avrebbe rappresentato per la sua persona, in qualche modo egli stesso spontaneamente voleva, pregava di potersi fidare di lui nell’aprirglisi, per quanto lentamente gli venisse di farlo.
  Tanto profondamente si era immerso in questi pensieri, che l’altro, inconsapevole di tutto, aveva fatto scivolare via il polso dalla sua presa e aveva poggiato le dita sulla sua guancia, a spettinargli un poco la barba e ad avvicinargli il viso accanto al proprio, per tenerselo vicino e risvegliarlo dal suo incantamento.
  «Fatti baciare ancora un po’», gli aveva detto allora Elisio, riemergendo da quella massa indefinita di idee e accostandosi al suo orecchio, un’implorazione. Augustine l’aveva lasciato fare senza lamentarsi ed erano rimasti un po’ così, a stringersi soli nella stanza. Poi l’altro era andato a infilarsi la camicia e il resto degli abiti, si era avvicinato alla porta accennando ad uscire.
  «Vado a farmi una doccia».
  «Sì. Io finisco di sistemare queste cose e poi penso che mi rimetterò a dormire qualche altro minuto».
  «D’accordo. Più tardi ti sveglio io, allora».
  Dopo essersi scambiati un ultimo sguardo e un ultimo sorriso si erano separati.
  Elisio attraversò rapidamente il corridoio ed entrò in bagno. La signora Mireille aveva lasciato degli asciugamani puliti su una sedia. Il getto d’acqua calda della doccia fece sollevare un leggero vapore verso il soffitto. Poggiò prima un piede e poi l’altro sopra le piastrelle umide, e si immerse.
  Mentre pensava ancora ad Augustine, lasciò che l’acqua lavasse via ogni preoccupazione che era rimasta. Di tanto in tanto un turbinio di sensazioni lancinanti lo coglieva all’improvviso, ma poi riavvertiva concretamente il picchiettio delle gocce che scivolavano sulle sue spalle, ed esse subito tornavano a raddrizzarsi, riacquisendo la loro solita robustezza.
  Si asciugò, si rivestì. Si dimenticò di ogni timore.
  Fermandosi in corridoio, esitò di fronte alla porta accostata della loro stanza. La richiuse cercando di non fare rumore, preferendo che il compagno potesse riposare ancora un poco. Decise che sarebbe ripassato dopo la colazione: d’altronde era ancora presto.
  Scese al piano di sotto e percorrendo il salottino intravide oltre la finestra che dava sulla veranda la signora Mireille, che aveva già sistemato il tavolo di fuori.
  «Ah, bonjour!» lo salutò appena lo vide affacciarsi, rivolgendogli un caldo sorriso «Dormito bene?».
  Gli fece cenno di accomodarsi e di servirsi a suo piacimento, intenta a sparecchiare il posto di qualcun altro. Elisio si sedette e lei gli versò del caffè in una tazza.
  «Mio marito è andato proprio adesso ad occuparsi dell’orto. Gli avrebbe fatto tanto piacere incontrarla! Mi ha chiesto di salutarla».
  «La ringrazio. Ricambi i saluti da parte mia, quando lo vedrà».
  «Lo farò certamente. Ma la prego, prenda una fetta di crostata! L’ho fatta apposta per voi ieri sera mentre eravate fuori».
  «Volentieri».
  Elisio ne tagliò un pezzo e nel metterlo nel piatto lo raggiunse il profumo zuccherino dell’impasto amalgamato a quello della confettura di Baccaprugne. La marmellata dal bel color borgogna si era caramellata in superficie, ottenendo un aspetto lucido e invitante. Assaggiando la fetta, Elisio percepì un vago sentore di scorza di limone che gli piacque molto, e se ne complimentò con la donna, che subito cominciò ad esaltare l’orto di famiglia dove coltivavano le bacche e il duro lavoro del marito. Dopo un po’ si mise a frugare nelle tasche del grembiule e tirò fuori un pacchetto di sigarette e l’accendino. Se ne portò una alle labbra. Proprio mentre stava sul punto di accenderla ebbe un sussulto.
  «Do fastidio?» chiese riguardosa.
  «No, no» rispose lui con gentilezza.
  Mireille allora mise mano al gas, riparando con le dita la fiammella dal vento. Diede il primo tiro e una nuvoletta di fumo si disperse nell’aria. Se ne stava con la schiena reclinata pesantemente sulla spalliera della sedia, un braccio lasciato penzolare oltre il bordo del tavolo. Per un po’ rimase così, pensosa, concedendo di tanto in tanto qualche carezza a Furfrou che le gironzolava attorno reclamando il suo interesse. Lei raccolse una bacca dal cesto della frutta, lasciò che il Pokémon l’annusasse, stuzzicato dal suo buon profumo, e la lanciò in mezzo al prato. Furfrou corse dietro ad essa, non riuscì ad afferrarla al volo, ma appena caduta a terra cominciò a mangiarla avidamente. Mireille sospirò con leggero disappunto di fronte all’ingordigia del proprio Pokémon. Poi però sorrise, incalzata da qualche altra cosa che doveva esserle venuta in mente.
  «Certo che è proprio un bel ragazzo, eh?» disse «Avessi avuto qualche anno di meno, ammetto che ci avrei fatto un pensiero sopra anch’io».
  Elisio capì che si stava riferendo ad Augustine. Si passò il tovagliolo sulle labbra a nascondere la propria espressione.
  «Lo è, in effetti».
  «E non ne prova gelosia?».
  «Se anche fosse, non ne vedrei il motivo».
  L’anziana lo guardò sorpresa. Avvicinò a sé il posacenere e vi scrollò sopra la sigaretta. Poi diede un’altra tirata e sorrise di nuovo.
  «Beh. Dopotutto, mi pare di capire che siate piuttosto affiatati. Non è così?» disse, rivolgendo ad Elisio lo sguardo di una persona che sapesse, senza lasciar adito a dubbi su cosa effettivamente sapesse.
  Generalmente, per semplice prudenza, ci si era decisi tramite tacito accordo per la scelta di camere dai letti separati, in modo da non destare attenzioni sgradite ad entrambi. Però quella volta Augustine era rimasto così entusiasta di quella stanza, che Elisio non se l’era proprio sentita di dirgli di no, desiderando nello stesso momento stargli vicino e colmare quella lontananza che talvolta si ponevano tra l’uno e l’altro per difendersi e pararsi da quegli altri che li scrutavano fissamente senza sosta. Perché neppure Elisio era in grado di mantenere troppo a lungo l’armatura addosso, e a volte sentiva il bisogno di gettarla, di concedersi una tregua. Tuttavia, non sopportava che qualcun altro all’infuori di Platan lo potesse scoprire: a lui e a lui soltanto aveva deciso di darsi. Pochissimi altri erano stati capaci di smuoverlo allo stesso modo nel corso degli anni. Perciò, sebbene anzi provasse un certo e arrogante piacere nel lasciare intendere ad estranei, magari anche volutamente, quel che non si poteva dire più esplicitamente, in quel mostrarsi ancor più inarrivabile e inconoscibile di quanto già non fosse, c’era sempre questa grande cautela, una particolare cura, nell’atto, in quella nudità inerme che doveva rimanere tra loro, segreta.
  «Mi perdoni», disse, lievemente turbato, ma senza esporsi più del necessario.
  «Oh, no, figuriamoci se mi sconvolgo per due uomini che vanno a letto insieme», lo confortò «Al contrario. E anzi, siete stati molto più discreti dei clienti che ospitiamo di solito. Sa, facendo questo lavoro, negli anni ho conosciuto tante persone e ho sentito tante storie. Ci sono troppe cose sbagliate in questo mondo, e credo che spesso la gente si accanisca su dei falsi problemi per poi perdere di vista ciò che è realmente importante. Per questo io la stimo molto, Monsieur. Le persone come lei mi danno la speranza che forse non tutto il bene finirà per essere messo da parte. Ho fiducia in lei, e che potrà cambiare le cose».
  «Se soltanto ne fossi in grado, rivolterei questo mondo da cima a fondo», sussurrò lui sovrappensiero. Poi mise su un sorriso modesto e la ringraziò caramente.
  Continuarono a parlare finché Elisio non ebbe finito di fare colazione. Stava aiutando la signora Mireille a sparecchiare la sua parte quando Furfrou iniziò ad abbaiare rivolto verso il declino che portava alla scogliera. L’anziana si voltò: «Eh, ma che succede? Buono, buono!» gli disse, ma il Pokémon ringhiava e latrava senza smettere. Allora dovette andare da lui e acquietarlo con le proprie carezze. Una volta che si fu calmato, Elisio si accomiatò per tornare in stanza e prepararsi al viaggio di rientro.
  Mentre saliva le scale pensò ad Augustine che dormiva. Se lo immaginava già, disteso sul letto come Endimione addormentato, e sarebbe rimasto a guardarlo a lungo così, nel suo sonno, come Selene, pregando che su di lui si posasse il riposo eterno in modo da poterlo contemplare per sempre nella sua tenera, intatta bellezza. Si sarebbe chinato accanto a lui e avrebbe fatto scorrere le dita sopra il suo torso bianco, portando l’attenzione sulle curve di quei muscoli leggeri, che gli ricordavano il calmo ondeggiare del mare, dolci rilievi in cui si susseguivano alternatamente le ondulazioni delicate della carne. Si sarebbe lasciato andare a quella sua nobile semplicità e quieta grandezza che gli apparteneva, e alla fine si sarebbe piegato a svegliarlo con un bacio sulla bocca.2
  Aprì la porta ed entrò. Le tende si scuotevano, stropicciate dal vento che penetrava dalle finestre spalancate, e faceva freddo e le coperte erano sfatte. Ma lui non lo trovò. Perplesso, Elisio si guardò attorno, poi uscì nel corridoio e bussò in bagno. Non ottenne risposta. Cercò nelle altre stanze setacciandole una per una, scese al piano di sotto. Mireille lo vide accigliato, e lo seguì con lo sguardo mentre andava a controllare la macchina. Egli tornò indietro e si stava accarezzando le tempie con le dita.
  «Monsieur, va tutto bene?».
  «Dov’è Augustine? Voglio dire, il professor Platan».
  «Ah, è andato via poco prima che arrivasse lei per la colazione. Ha mangiato una fetta di crostata ed è partito. Voleva vedere la scogliera. Ma non gliel’ha detto?».
  Elisio si arrestò. Si girò verso di lei e la squadrò con esitazione.
  «La scogliera?».
 
 
  Alle volte accadeva che Augustine se ne andasse. Non era qualcosa che facesse intenzionalmente o con lo scopo d’indispettire qualcuno. Semplicemente sentiva il bisogno di starsene un po’ da solo: fin troppo si dedicava agli altri rischiando di dimenticare sé stesso. Allora diventava all’improvviso sfuggente, scivolava via da qualunque presa gli si cercasse di porre, scappava. E lui, Elisio, lo rincorreva, come un Apollo che andasse dietro alla sua Dafne, per poi non ritrovarsi che fiori e foglie tra le dita, ed Augustine era albero che abbandonava i propri frutti sulla terra.
  Inerpicandosi tra le pareti di roccia, era riuscito a giungere su un alto scoglio. Assorbì dentro di sé l’immagine del mare che gli si parava sconfinato davanti agli occhi, quasi nauseato da quell’odore salmastro e dal rumorio sommesso delle onde che oscillavano, ricordandosi soltanto dopo che qualche momento prima non aveva fatto altro che desiderare di perdersi in esse. Chiamò Augustine, ma alle sue orecchie non tornò nulla.
 
 
  Si dice che la scogliera designi un limite di protezione, oltre il quale sia pericoloso andare. Al di là di essa regna incontrastato il mare aperto. Questo vale anche per le persone.
  Augustine se ne stava sul punto del promontorio più sporgente oltre la costa, ed osservava in basso gli scogli scuri e appuntiti, che come sentinelle sorvegliavano quel confine che non gli era permesso d’oltrepassare. Il gorgoglio dell’acqua gli sfiorava le orecchie tramutandosi in una cantilena nostalgica e inquieta, ma forse era soltanto un riflesso prodotto dai pensieri in cui era andato a ritirarsi.
  Si strinse nella giacca: non si era nemmeno ancora asciugata del tutto.
  I suoi occhi si dilatavano sulla massa di eguale colore del mare che si spingeva a toccare l’orizzonte, dove ogni cosa pareva immobile e inerte, fissa al proprio posto a rinforzare una struttura salda che non fosse possibile compromettere.
  Platan sapeva che la vera natura di Elisio, quella che non riusciva a cogliere, risiedeva laggiù, e si domandava quali segreti e quali misteri celasse nel profondo dei suoi abissi. Doveva esserci qualcosa, soprattutto, che egli custodiva in silenzio e che era vitale, di cui forse non sarebbe dovuto venire a conoscenza e di cui tuttavia Elisio stesso gli aveva fatto inavvertitamente parola. E voleva intendere che cosa ciò fosse.
  Era successo circa un mese prima in una sera di marzo, quando le temperature cominciavano a diventare più miti e loro ormai facevano coppia fissa già da un po’. Augustine se lo ricordava bene, perché aveva tirato fuori un’altra volta le lucine bianche dell’albero di Natale per metterle sul balcone al posto delle candele, dato che il vento ancora spirava, seppur leggero, con il rischio che esse si sarebbero potute spegnere di continuo. Alla fine si era rivelata una sistemazione molto apprezzata, e ne era stato incredibilmente fiero per l’intera serata, dimenticandosi degli scatoloni e dei festoni che aspettavano sparpagliati alla rinfusa nell’armadio dell’ingresso di essere rimessi a posto.
  Elisio aveva avuto una giornata particolarmente pesante quel giorno e cenare assieme appartati sul balcone, senza dover neppure pensare a cucinare, avrebbe dovuto in qualche modo distoglierlo dalle preoccupazioni, ma così non era stato. Anzi, per tutto il tempo non aveva fatto altro che rammaricarsi e recriminare alcune questioni sulle quali non poteva avere potere e che però lo assillavano in una maniera incomprensibile. A nulla erano valsi i tentativi di Augustine di consolarlo e lenire le sue pene.
  Così, alla fine, dopo cena era successo questo.
  Se ne stavano seduti sul divano a dondolo, a cullarsi, parlare e bere vino: Elisio aveva portato una bottiglia di un rosso pregiato, d’altronde si sapeva che su certe questioni egli non badasse a spese. Era stato un perfetto accompagnamento per i piatti e dopo cena avevano continuato a gustarne qualche bicchiere per far passare il tempo.
  La testa di Augustine poggiava teneramente sulla spalla di lui, rivolta verso il suo bel viso, mentre con le dita di una mano gli sfiorava le punte della barba folta. Elisio godeva in silenzio delle sue carezze, ma con la mente sembrava essere altrove. Con un’espressione pensosa si era allungato sul tavolino ad afferrare la bottiglia e a riempire per l’ennesima volta il calice. Quella sera in effetti aveva alzato un po’ il gomito. Aveva chiesto a Platan se ne volesse ancora anche lui, ma egli aveva rifiutato, poiché aveva già bevuto abbastanza. Mentre assaporava il vino a piccoli sorsi, Elisio si era fatto improvvisamente taciturno. Fu in quel momento che venne allo scoperto la storia della rivoluzione del mondo. Aveva detto proprio così: «Ho bisogno di rivoluzionare il mondo. Ormai, non resta più molto tempo».
  «Rivoluzionare il mondo?» aveva ripetuto perplesso Platan, perché le sue parole gli erano sembrate senza senso «Che cosa significa?».
  Elisio si era riscosso, come se si fosse appena reso conto di aver inavvertitamente rivelato un segreto che andava tenuto nascosto, un sentimento o una paura puramente intima e personale che si doveva mantenere al sicuro nel proprio animo. Si era chinato ad appoggiarsi con i gomiti sulle gambe, una mano portata alla fronte per massaggiarsi le tempie. Iniziava a percepire gli effetti dell’alcol e aveva capito di essersi ubriacato, sebbene non in maniera eccessiva. Allora aveva immediatamente tagliato di netto il discorso: «Sono stanco, Augustine. Andiamo a letto. E ferma questa cosa, per favore, mi gira la testa».
  Aveva lasciato il bicchiere ancora pieno vicino ai piatti sporchi di panna e di crema dove avevano mangiato il dolce che aveva portato anch’esso per l’occasione dalla caffetteria ed era rientrato nell’appartamento. Il mattino seguente, quando Platan l’aveva trovato già in cucina intento a preparare la colazione e aveva provato a chiedergli ancora che cosa fosse questa fantomatica rivoluzione del mondo cui gli aveva accennato, Elisio aveva brevemente risposto: «Cazzate, Augustine. Un mucchio di cazzate».
  Da allora non ne avevano parlato più, ma era stato chiaro fin da subito che si fosse trattato del pilastro su cui probabilmente egli aveva fondato la propria intera persona. Augustine non aveva mai capito, però, se gliel’avesse nominato intenzionalmente e poi fosse intervenuta la ragione a bloccarlo, o se fosse stato un banale incidente, un errore compiuto per distrazione. In qualunque caso, l’armatura di Elisio si era aperta, anche se per pochissimi istanti, e aveva rivelato una fragile frattura. Augustine voleva scoprirla e rivelarla completamente.
  Perché, sebbene non l’avesse mai dato a vedere, Augustine si era perfettamente accorto che dietro la bella facciata del filantropo si nascondeva in realtà un misantropo. Ed era questo, in sostanza, il discrimine fra le loro nature.
  Eppure, nel sollevare lo sguardo al cielo, un sentimento di insicurezza si era calato nel suo cuore, nelle fragili fratture che anch’egli sapeva di possedere, non camuffate al pari di quelle di Elisio, ma altrettanto profonde ed interiori. Perché c’erano persone e sensazioni dentro di lui, che non poteva mostrare all’altro, inconfessabili pulsioni ed amori passati con cui ancora neppure lui aveva trovato pace. Dunque, non stava forse facendo lo stesso? Non si stava anche lui ostinando a dissimularsi, a ricoprirsi di veli quando avrebbe dovuto invece spogliarsi e denudarsi? E tuttavia sentiva nello stesso momento che di fronte alla sua presenza riuscisse a cogliere ogni sfaccettatura della propria essenza. Ci si può nascondere nella propria stessa essenza? E a quel punto che cosa rimarrebbe?
  Si ritrasse di un passo, pensando che forse avrebbe dovuto desistere. Alzò le braccia ad accogliere il vento.
  C’era in Elisio qualcosa che lo intimoriva, ma non avrebbe saputo dire precisamente che cosa fosse. Derivava di certo da quella divergenza di cui si era reso conto, nonostante non si trattasse al momento che di un insieme di impressioni senza in realtà un fondamento concreto che si riflettesse nei suoi gesti e nelle sue azioni. Tuttavia l’aveva percepita distintamente nelle sue parole, nei sottintesi di alcuni discorsi, e non potevano esserci dubbi sul fatto che quello spettro fosse effettivamente presente da qualche parte nel suo animo, nei suoi pensieri.
  Sentì che, in qualità di maestro, sarebbe dovuto intervenire per correggere quelle anomalie e riportarlo sulla retta strada, ma d’altra parte quante persone potevano condividere il suo stesso pessimismo? Quanto spesso si ritrovava anch'egli a comprenderlo? Allora si disse che sarebbe stato un pessimo maestro, e che piuttosto avrebbe preferito il ruolo dell’amante per spingersi più lontano che poteva in modo da riuscire a capirlo, senza penetrare dentro di lui a ritoccare spudoratamente realtà che non gli competevano.
  Avendo vissuto nel crogiolo di etnie e diversità che era Ponte Mosaico, non aveva mai guardato come a un problema quella compresenza di modi di vivere e di pensare con cui di volta in volta era venuto in contatto. Eppure quanto pareva difficile, stavolta, accettare quell’unica differenza che sembrava essere tanto in conflitto con la sua natura. Ma, se fossero riusciti ad incontrarsi senza scontrarsi, sarebbe andato tutto bene e il loro sentimento si sarebbe accresciuto spontaneamente: di questo era sicuro.
  «Augustine!».
  Nel voltarsi, Platan scorse Elisio, fermo qualche metro dietro di lui, col fiatone e gli occhi lucidi. Restò a fissarlo in silenzio, non potendo fare a meno di accorgersi di quanto si sentisse felice di vederlo e di aver udito la sua voce. Voleva corrergli incontro, col cuore strabordante di amore, e stringerlo contro il proprio petto in una qualche parvenza di unirglisi pur rimanendo separato da lui. Allora si mosse, il corpo alleggerito da ogni preoccupazione, e fece per rivolgerglisi, ma improvvisamente un senso di vertigine si incastonò nella testa e riuscì a sentire appena la voce dell’altro che lo chiamava, ancora, e scompariva lentamente.
 
 
  Ciò che gli era rimasto più impresso della figura di Elisio quando si erano incontrati la prima volta erano stati i suoi occhi. All’inizio era rimasto rapito da quell’azzurro che così poco spesso gli era capitato di vedere, poi si era accorto dell’intensità del suo sguardo, tanto rispettoso e sottomesso, e solo infine l’aveva guardato in viso e l’aveva riconosciuto. Quindi si era alzato di scatto, profondendosi in mille ossequi e inchini, eppure gli era sembrato che l’ossequio più grande provenisse silenziosamente proprio da quegl’occhi, ed era rivolto a lui: da allora avevano preso a frequentarsi.
  Dopo l’iniziale periodo in cui si erano rapportati a vicenda su un piano prettamente formale, Elisio aveva lentamente cominciato a farsi avanti con alcune proposte, invitandolo una sera a cena per discutere di certe questioni che non erano riusciti a chiudere in sede accademica. Augustine si era ritrovato di punto in bianco a dover accettare e aveva vissuto con evidente irrequietezza i giorni che avevano separato il momento dell’invito dalla fatidica sera, fino a che non era arrivato l’orario stabilito per l’incontro e si era ritrovato ad esitare molto tempo prima di recuperare lo slancio con cui attraversare la strada ed entrare nel ristorante: già vedeva oltre le vetrine uomini e donne riccamente agghindati nei loro abiti eleganti e ne provava soggezione. Sarebbe volentieri rimasto ancora qualche minuto a riflettere sulle parole, sul modo in cui avrebbe dovuto presentarsi agli occhi di quel filantropo, perché troppo improvvisa era stata la richiesta e troppo poco l’aveva conosciuto nel frattempo, ma il semaforo si era fatto di nuovo verde e non era possibile tergiversare più di così. Con un po’ di coraggio, quindi, s’era stretto il nodo alla cravatta e aveva mosso il primo passo.
  All’ingresso era stato prontamente ricevuto dal maître, che subito aveva preso il suo nome e con un sorriso cordiale gli aveva detto di pazientare qualche istante. Augustine allora si era guardato attorno ad osservare quella sala maestosa e colossale, con le pareti coperte dai grandi specchi lucidi e i soffitti da cui pendevano i meravigliosi lampadari tempestati da cascate di cristalli. Doveva esserci un’orchestra, siccome sentiva le note di un pianoforte e di un’arpa suonare per allietare l’atmosfera, ma non riusciva a vedere dove. Scrutando i commensali aveva provato un’altra volta quel senso di pudore e inadeguatezza che l’aveva colto di fuori. Poi, all’improvviso, aveva scorto da qualche parte un tavolo a cui erano seduti un padre e i suoi figli, e per un attimo aveva percepito un vuoto e uno sgomento nel petto, un vago dolore, come quando si passi a toccare sopra una ferita ormai rimarginata, ma non del tutto.
  «Monsieur Platan,» l’aveva richiamato a un tratto il maître.
  «Ah. Sì?» Augustine si era accorto che il suo sorriso cordiale si era fatto ancor più sentito.
  «Venga, l’accompagno al tavolo».
  Allora gli aveva fatto strada tra le sedie e le tovaglie e i calici e le mani e le dita ingioiellate e con gesto cortese gli aveva indicato le scale per il piano superiore. Una volta saliti, l’aveva lasciato attendere di fronte ad una tenda ed era scomparso pochi secondi oltre di essa. Dopodiché, tornato in corridoio, si era premurato di accoglierlo con estremo riguardo.
  «Prego, Monsieur, si accomodi pure. Porterò subito le carte e dirò al sommelier di venire a dare consiglio per i vini. Prego, prego».
  Al che Augustine non aveva potuto far altro che accondiscendere e ringraziare. Varcando la soglia era rimasto sorpreso dal fatto che Elisio avesse addirittura deciso di prendere una sala specifica per il loro incontro, ma era rimasto ancora più sorpreso quando aveva visto che tipo di sala avesse effettivamente scelto. Si era aspettato di ritrovarsi in una qualche grande stanza, sfarzosa come quella al piano inferiore, invece si era rivelato qualcosa di ben più modesto. Era una piccola saletta privata, organizzata appositamente affinché vi rientrassero non più di due persone. La cosa gli era risultata sinceramente gradita, dato che probabilmente non avrebbe resistito nemmeno un attimo alla pressione dell’ambiente pomposo che aveva subito in precedenza, ma adesso il pensiero di essere ancor più solo insieme a quell’uomo si era fatto opprimente e decisamente scomodo. Perché non sarebbe affatto stato come quando lo riceveva nel suo studio per ascoltare e rispondere alle sue mille domande, no: quell’ambiente fatto di cene e di ricchezze e altri riti mondani gli era del tutto estraneo e faticava a sentirsi a proprio agio.
  Elisio, intento a parlare di affari al cellulare, aveva distolto lo sguardo dalla finestra e si era voltato, l’aveva guardato. Chiudendo la telefonata gli aveva sorriso di uno di quei sorrisi ammirati che spesso gli aveva rivolto in Università, durante gli incontri fugaci ritagliati tra una lezione e l’altra per approfondire alcune questioni in particolare cui egli s’interessava e per le quali aveva bisogno del suo appoggio.
  «Buonasera, professore. Sono contento che alla fine abbia accettato il mio invito, nonostante il così poco preavviso. Mi perdoni se la sala non è delle migliori, ma avrei preferito qualcosa di più appartato dove potessimo conversare tranquillamente senza distrazioni inutili. Immagino abbia constatato lei stesso la confusione del salone di sotto. Ma la prego, si sieda».
  Per diversi minuti non si erano più detti nulla, ed erano semplicemente rimasti a studiarsi l’un l’altro, per comprendere le reciproche mosse che si sarebbero messe in campo. Poi il maître era tornato col sommelier, Elisio si era consigliato a lungo con loro, erano state prese le ordinazioni, dopodiché erano rimasti nuovamente soli. Platan aveva provato a farsi avanti.
  «Allora. Di che cosa vorrebbe parlare stasera, precisamente?».
  «Vorrei che continuasse il discorso dell’altro giorno. Quello sulle megapietre e la mutazione genetica dei Pokémon».
  «Certo. Mi ricordi un attimo, dove ci eravamo fermati?».
  Così aveva ripreso ad approfondire la discussione che avevano interrotto e col passare del tempo, tra una pausa di esitazione e il conseguente incitamento a continuare da parte dell’altro, era finalmente riuscito ad abituarsi a quel clima, all’intimità della stanza, alla compagnia e alla vicinanza di quel filantropo che fino a qualche ora prima gli aveva creato tanta agitazione. Non aveva mai fatto caso a quanta attenzione egli versasse nell’ascoltarlo. Se ne stava col busto rivolto verso di lui e questi due occhi penetranti lo fissavano con cura, completamente assorti. Le domande che gli poneva erano mirate e ben ponderate, i ragionamenti che gli esponeva soppesati con la giusta misura, e Augustine si era sorpreso di quanto in realtà Elisio effettivamente intendesse di quel che stavano discorrendo e di come, in fin dei conti, si trovassero sulla stessa lunghezza d’onda. Aveva capito come mai avesse avuto così tanto interesse d’incontrarsi privatamente e da una parte aveva iniziato a chiedersi per quale motivo non lo avesse desiderato altrettanto lui stesso. Nonostante le differenze che intercorrevano tra di loro, Platan era rimasto piuttosto compiaciuto dall’intesa che era venuta a crearsi e aveva provato uno spontaneo e inaspettato piacere nel confrontarsi con quella persona.
  «Dunque, in definitiva, quale crede che sia l’origine della megaevoluzione?».
  «Oh, quello è un discorso piuttosto lungo, temo che non basterebbe il tempo per affrontare l’argomento».
  «Non si preoccupi, dopotutto abbiamo ancora un’intera serata da trascorrere. E se effettivamente non dovesse bastare, in tal caso sarò lieto di invitarla a cena un’altra volta».
  Sul viso di Augustine era spuntato un sorriso imbarazzato. Oltre quella faccia un po’ timida, però, in realtà si era sentito particolarmente onorato da una simile affermazione. Allora si era lasciato sfuggire un sospiro, ci aveva riflettuto qualche secondo. Poi, come se in qualche modo si fosse sentito provocato da quelle parole, aveva guardato Elisio con due occhi allettati e allettanti essi stessi: Platan sapeva bene come esibire la propria conoscenza in maniera attraente e renderla piacevole ad un interlocutore.
  «Beh, se la mette così, suppongo di non avere altra scelta... Mi dica, quindi: lei sa, Elisio, che cos’è l’arma suprema?».
  Quella sera Augutine era tornato a casa di buonumore e si era addormentato con un sorriso decisamente appagato e soddisfatto sulle labbra, come non gli era accaduto da tanto tempo. Conseguentemente, le uscite e gli inviti avevano preso a succedersi con sempre maggiore frequenza e loro due si erano ritrovati ad attardarsi spesso anche fino a notte fonda per discutere insieme delle tali questioni che puntualmente offrivano nuovi spunti da rimandare necessariamente a un altro giorno e a un’altra ora, davanti a un altro bicchiere di vino.
  Poi, una volta in cui l’aveva visto particolarmente taciturno, Augustine gli aveva chiesto se ci fosse qualcosa che non andasse, e allora Elisio, un po’ titubante, aveva incominciato a confidarglisi e la loro conoscenza si era fatta più intima. A quel punto, ogni barriera aveva iniziato lentamente a cedere, non c’erano più stati muri che li separassero ed erano arrivati ad una fase del loro rapporto in cui alcune certezze finivano per crollare in modo da lasciar spazio soltanto all’idea, all’immagine dell’altro, che si ripresentava incessantemente nei momenti più vari, senza dar tregua.
  Platan se n’era reso conto di essersi innamorato. Ma non l’aveva mai ammesso e neppure si era mai permesso di provare gelosia quando gli era capitato di vedere Elisio con un’altra persona, perché gli bastava sapere di averlo incontrato, di aver trovato qualcuno di così stimolante nella propria vita, e questo era quanto. Eppure, pensava a lui sempre intensamente, e si chiedeva come stesse, che cosa facesse, se fosse felice. E di nuovo il ricordo di quegli occhi lo tormentava, tuttavia era un dolcissimo supplizio, in cui spesso e volentieri si andava a cacciare egli stesso di propria sponte, per percepire il brivido di qualcosa che gli riempisse l’esistenza ridotta ormai a uno studio, a una sedia, a una scrivania e a delle aule troppo piccole in cui fare lezione – ma c’era altro, c’era ben altro fuori che valesse la pena di essere vissuto, e questo altro veniva sempre accolto ogni qualvolta che arrivava come il sole di fronte al quale si scostano le tende e si aprono le finestre, per poter godere del suo calore, del suo tepore, della sua luce.
  Le cose erano andate avanti così per diverso tempo, finché un giorno Elisio si era presentato con l’ennesimo invito e Platan aveva accettato di buon grado, raccogliendo da parte gli ultimi bollettini e chiedendogli se ci fosse un argomento di cui volesse disquisire nello specifico.
  «Intendevo come un appuntamento, Augustine», era stata la risposta, del tutto inaspettata.
  Allora si era dovuto ripassare in rassegna tutto quello che era avvenuto, e i sorrisi, e gli sguardi, e le parole, e i silenzi, e soprattutto i sentimenti che fino a quel momento erano rimasti relegati e zittiti da qualche parte nel cuore, che adesso reclamavano a gran voce la gioia che era stata preclusa. Così, un’altra sera ancora si erano incontrati di nuovo e con un bacio si erano scelti.
  Avevano parlato, e poi parlato, e poi parlato. Per un primo periodo era sembrato che non ci potesse essere altro, sebbene Augustine avesse qualche volta premuto, più o meno discretamente, per andare oltre, bisognoso di quella corporeità con la quale completarsi assieme a lui. Ma non si era mai lamentato del suo ritrarsi, ed anzi si era sempre mostrato paziente e comprensivo, avendo comunque percepito forte nell’altro il suo stesso desiderio che talvolta lo logorava. Poi era finalmente giunto il momento tanto sospirato in cui aveva potuto sentirlo fisicamente oltre che già mentalmente, e gli si era schiuso come la corolla di un fiore tra le dita, contro la bocca che indugiava laddove prima non le era stato dato di passare. Eppure, camuffato in mezzo a quella gioia e a quel trasporto di cui si era scoperto ricolmo, ad un tratto aveva percepito uno strano spavento, perché lo aveva sentito all’improvviso diverso, lontano da come l’aveva creduto fino a quel momento. Certo, era cosciente del fatto che chiunque libero da inibizioni potesse mostrarsi assai differente da ciò che era nella vita di tutti i giorni. Dopotutto, quante ragazze e quanti ragazzi casa e chiesa gli era capitato di conoscere che sotto le lenzuola si svelassero persone completamente opposte? Ma quella volta aveva avuto la precisa sensazione di trovarsi davanti a qualcosa che era costruzione e dissimulazione. Perché questa naturalezza spensierata con cui Elisio si raccoglieva in lui era così estranea e diversa al punto che il suo essere quotidiano si rivelava una finzione. Questo voleva dire che non lo aveva mai conosciuto veramente. Possibile che fino a quel momento non se ne fosse reso conto? Ma erano entrambi già stesi mezzi nudi sul letto, immersi nel proprio calore, con la neve gelida che scendeva fuori dalla finestra, e lui aveva fatto appena in tempo ad avvertire concretamente il peso di quel corpo robusto sopra di sé e lo sfregarsi eccitato dei loro petti che era stato immediatamente abbandonato da ogni minimo briciolo di razionalità. Ci aveva ripensato soltanto dopo, e soltanto dopo aveva capito che l’armatura di Elisio avrebbe richiesto tanto tempo e tanta fatica prima di poter essere rimossa.
  A volte gli pareva di amare un estraneo. Un’astrazione imprecisa. Ma non ne aveva mai fatto parola.
  Riaprì gli occhi. Attorno a sé vide il buio e non riusciva a respirare. Allora realizzò di essere caduto in acqua. Batté le gambe dandosi la spinta per risalire in superficie, tuttavia venne bloccato da un banco di Luvdisc che gli serrava il passaggio. Li scostò via con un movimento brusco delle braccia, eppure continuando a nuotare ebbe l’impressione che qualcosa non andasse, e si sentiva osservato. Di nuovo, fu fermato dai Mantine che offrivano trasporto ai piccoli Remoraid, mentre i Goldeen sfrecciavano veloci accanto a Wailord. Si voltò confuso, poiché sembrava non potesse allontanarsi da lì e sussultò nel momento in cui, girandosi, vide mille occhi puntati su di sé, che lo scrutavano al di là del vetro, sagome nere col dito puntato in alto e imperscrutabili. Augustine si ritrasse di scatto, nel tentativo di nascondersi e farsi piccolo in modo da non essere scoperto, arrovellandosi perché ovunque fosse andato non gli sarebbe stato possibile diventare invisibile. Si spinse fino alla parete opposta della vasca, cercando di confondersi con le sfumature azzurre dell’ambiente, fino a che non poté più indietreggiare. Quindi restò a guardare spaurito, finché non gli tornarono alla mente le parole che Elisio gli aveva rivolto il giorno prima. Ma come era possibile sfuggire a quegli sguardi se ogni cosa era mostrata chiara e limpida oltre il vetro trasparente? Si poggiò stanco contro il muro, ma fu in quel momento che si accorse che in realtà non ve ne era alcuno. Spaesato, allungò una mano per toccarlo, tuttavia le sue dita oltrepassarono la barriera, e scoprì che l’acquario era molto più profondo di quel che sembrava, di quel che si poteva vedere dal confine esterno. Si mosse in avanti e con i piedi tornò a toccare per terra, mentre intorno riemergeva l’oscurità.
  Camminò, sentendo i battiti del suo cuore che rimbombavano nelle orecchie. Pareva non esserci nulla nelle vicinanze, e voltandosi a guardare indietro, ciò che aveva abbandonato non era più distinguibile. Così se ne stava sospeso in questo limbo indefinito, scandito dal suono sordo dei suoi passi. Ad un tratto giunse di fronte ad un portale in pietra di dimensioni monumentali, impreziosito da una decorazione a intreccio il cui nastro si attorcigliava e ripeteva sempre inesorabilmente nella sua identica forma, senza mai cambiare, anelando a nient’altro che a sé stesso. Le pesanti porte erano spalancate, e oltre di esse campeggiava al centro della visuale un piedistallo, sul quale era posta un’urna. Augustine vi si avvicinò e si addentrò in quella nebbia violacea che dimorava al di là del portone, in un’armonia vaga e lontana che lo accarezzava teneramente.
  Sul vaso si ammassavano figurine rosse di dei ed eroi trionfanti, immobili nel fulgore delle loro masse possenti, e fanciulli che giocavano a rincorrersi, cupidi d’amore, e cacce e sontuosi banchetti; tutti fermi in una fissità immutabile, in cui la gloria, l’onore e la delicatezza di un bacio perduravano in un istante fatto di eterno. In basso Augustine lesse: Bellezza è verità, verità bellezza.3
  A quel punto capì di aver oltrepassato la scogliera.
  Alzò gli occhi. Oltre l’urna si dispiegava una distesa di bare. Fra le tante che vedeva e che non riusciva a contare, ne scorse una in posizione preminente rispetto alle altre, intarsiata d’oro e sulla quale era adagiato un bocciolo dalle tinte rosse e nere. Su di essa trovò inciso il proprio nome. Corse a sfiorare quelle lettere, a spingerci contro i polpastrelli. Scrutò lo stelo e i petali raggrinziti che campeggiavano sulla superficie dorata. In silenzio sollevò il coperchio e ne svelò il contenuto.
  Dentro trovò un letto di fiori. Calendule, orchidee, camelie, intrecciati fra loro e innumerevoli, insieme ad altri di cui non conosceva né la forma né il nome, che recavano con sé altrettanti significati di cui non comprendeva l’origine. Molti li riconobbe come quelli che Elisio gli spediva abitualmente. E tutti si aprivano sopra una distesa interminabile di gigli bianchi e profumati.
  Provò ad allungare una mano, per scostare quelli che erano in alto e scoprire cosa ci fosse più in basso, ma si punse il dito con la spina di una rosa. Istintivamente ritrasse la mano di getto e se la portò alle labbra, per inumidire il taglio. Osservò il rivolo di sangue che scendeva lungo il palmo fino a raggiungere il polso, dove scivolava giù in tiepide gocce. Una cadde sulla corolla di un giglio, macchiandone i petali candidi. Augustine colse il fiore con espressione mesta, ma proprio mentre lo stava portando a sé, vide un bagliore metallico provenire dal fondo della cassa.
  Lasciò il giglio. Si accovacciò sul letto di fiori e insinuò le dita fra di essi, a raggiungere l’oggetto di cui distingueva a malapena le sembianze, tuttavia era troppo lontano, e dovette infilare l’intero braccio fino ad immergere completamente il proprio corpo. Finalmente lo avvistò. Si protese verso di esso, ma era ancora troppo distante. Allora si spinse più in fondo, le rose dai vari colori che lo trattenevano con le spine aguzze, squarciandogli la pelle e lacerandogli i vestiti. Contenendo i gemiti, afferrò saldamente l’oggetto nelle mani, e tornò in superficie, respirando profondamente. Scoprì le dita, e ciò che rivelò lo lasciò perplesso.
  Una chiave, dal gambo lungo e sottile, una gemma rossa incastonata nell’impugnatura. La rigirò per studiarne ogni dettaglio, ma non ricavò nulla che gli indicasse il suo utilizzo. Di colpo prese a scansare i fiori, li tirò via ferendosi ancora, svuotò la bara fino a ritornare un’altra volta a toccare il fondo, continuando a non capire. Non c’era nient’altro che fosse stato nascosto. Con impeto nervoso strinse la chiave nelle mani e la sollevò con l’intenzione di gettarla. Si bloccò.
  Improvvisamente fu buio e lampi di giallo scoppiavano fragorosi nelle tenebre, sempre più forti, sempre più forti, a distorcere la melodia tranquilla che aveva regnato fino a poco prima, sempre più grandi, sempre più grandi. Fu in quel momento che apparve, col cristallo lucente, manifestazione di tormento funesto: la rivoluzione del mondo.
 
 
  Quando riaprì gli occhi, di fronte a sé intravide Elisio che lo scrutava apprensivo e percepì il proprio corpo adagiato sopra la schiena squamosa di Gyarados e il nuoto ondoso del Pokémon. In mezzo a quell’affetto che lo circondava, lasciò cadere le palpebre e si addormentò.
 
 
  Gli Wingull strillavano richiamandosi gli uni con gli altri, descrivendo grandi archi bianchi nel cielo. Alcuni scendevano a lambire di striscio la superfice del mare, poi di colpo si risollevavano facendo cadere nell’acqua qualche goccia cristallina e si allontanavano per ricongiungersi allo stormo.
  Il contatto distratto delle loro spalle era l’unico calore che lo scaldasse, nonostante Elisio gli avesse espressamente offerto, senza però risparmiarsi prima una bella cazziata, la giacca asciutta e se la fosse poggiata appena sulla schiena. Augustine si allungò piano su di lui, stanco e infreddolito, cercandolo ancora nonostante ciò che aveva visto, suo unico sostegno, ma percependo per l’ennesima volta una sorta di assenza da parte sua. Allora alzò il viso e restò a guardarlo senza rompere il suo silenzio, e notò il suo sguardo provato, rivolto indefinitamente all’orizzonte, e i capelli bagnati, spettinati, che ricadevano pesanti a toccare il collo incorniciandogli il volto.
  Perché in quella situazione di pericolo Elisio gli si era aperto tutto insieme inavvertitamente e all’improvviso, senza essersi preparato, e se da una parte si tormentava per lo sforzo che questo aveva richiesto, dall’altra temeva e considerava senza trovare una soluzione le ripercussioni che ciò avrebbe comportato, non riuscendole però a focalizzare lucidamente.
  Augustine abbassò la testa. Posò la mano sul suo braccio e vi fece scorrere le dita, pensoso, soltanto per accarezzarlo. Elisio non gli si rivolse, ma rimase a fissare davanti a sé, lontano, sebbene il suo pensiero fosse saldo e inchiodato al suo stesso posto. Sospirò, rendendosi conto che il gesto del compagno si era fatto nervosamente più pressante per la mancanza di un riscontro, tuttavia quello sbuffo parve acquietarlo, così Platan si fermò, e tornò a stringersi a lui mollemente, senza infastidirlo ancora.
  Non sapendo cosa fare, Augustine iniziò a scavare con i piedi nella sabbia e a nasconderveli dentro. Ad un tratto gli parve di urtare qualcosa, e da lì venne allo scoperto uno Slowbro. Se ne imbarazzò e con un leggero inchino tentò di scusarsi, ma il Pokémon non reagì e si limitò appena ad osservarlo qualche secondo prima di andarsene via con la sua andatura fiacca e pigra. Egli lo seguì con lo sguardo finché non scomparve dalla sua vista.
  «Sei stato con altri uomini prima di me, vero?» gli arrivò poi inaspettatamente alle orecchie la voce di Elisio.
  Augustine sollevò gli occhi su di lui, un po’ sorpreso da quella domanda. Si girò a guardare distrattamente le onde che sfioravano la sabbia di fronte a loro.
  «Sì», rispose «Sono stato sia con donne che con uomini. Mi pare ne avessimo già parlato altre volte».
  Gli sembrava di essere stato abbastanza esaustivo, ma vedeva che c’era qualcos’altro che Elisio tentennava a chiedergli. Aspettò senza forzarlo.
  «C’è qualcuno a cui ripensi più spesso?» disse infatti, ed Augustine si stupì un’altra volta: sospirò e abbassò lo sguardo, scrollando lentamente le spalle.
  «Oh. Beh…» disse pensieroso. Si prese del tempo per rifletterci, sebbene in realtà già sapesse la risposta. Per un istante considerò anche l’idea di far finta di nulla o di mentire. Ma ora che Elisio gli aveva rivelato le sue fragili fratture, forse avrebbe dovuto fare altrettanto con le proprie. Non ne andava particolarmente fiero, eppure in un certo senso gli sembrava come se glielo dovesse. Allora si strinse nel trench che aveva il suo profumo, cercando di soppesare intanto con prudenza le parole che gli venivano in mente ricordandosi dell’altro.
  «Ecco», mormorò «C’era quest’uomo, una volta, che mi aiutava nelle mie ricerche. Aveva certe belle braccia forti da lavoratore... Separato, due bambini piccoli. Io mi prendevo cura del suo Blaziken, ma non ti nascondo che spesso mi dilungavo nei miei discorsi sulle condizioni del Pokémon soltanto per trattenerlo con me nello studio qualche minuto di più, per poterlo guardare ancora. Sai cosa intendo... C’era un forte interesse da parte di entrambi. Così, doveva essere l’avventura di una notte – siamo stati insieme più di due anni».
  Elisio lo ascoltava senza interromperlo, la vista irremovibilmente puntata sul confine tra il cielo e il mare.
  «Non me ne sono neppure accorto...», continuò l’altro dopo una pausa in cui non aveva potuto fare a meno di sentirsi ridicolo «Non me ne sono neppure accorto che la cosa si stava facendo così seria. Io, vedi, ero molto preso dal lavoro in quel periodo. Un giorno è venuto da me e mi ha fatto la proposta».
  «Ti ha chiesto di sposarlo?».
  «Sì».
  La spuma stagnava tra le scanalature a ridosso degli scogli, scoppiando in tante bolle.
  «E tu?».
  Augustine lo osservò di nuovo, ma Elisio ancora pareva ostinarsi a non voler ricambiare il suo sguardo.
  «Sì, insomma. Immaginarti con un’altra persona, così vicino ad avere una famiglia e così lontano da me... Magari ci saremmo incontrati comunque, ma non avrebbe funzionato allo stesso modo».
  «Perché pensi queste cose? Perché ti spaventi tanto di fronte a quello che potrebbe essere? Tu fai sempre così. Ma mentirei se dicessi di non farlo a mia volta».
  Il vento si alzava a sollevare un po’ di sabbia. Augustine si tirò indietro un ciuffo di capelli che penzolava fastidiosamente davanti agli occhi e si allisciò il colletto della giacca.
  «Sai,» riprese, posando il mento tra le dita, abbassando il tono della voce «io mi sento un po’ in colpa. È vero, mi ero approcciato a quella storia come all’ennesimo rapporto occasionale: lui piaceva a me, io piacevo a lui, lui aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno e io ero disponibile a farmi avanti. Un giorno mi ha preso e mi ha detto: “Vieni da me, Augustine. Stasera i bambini sono con la madre. Vieni da me”. E forse il punto era proprio quello. Che io nella questione dei bambini e della madre non ci volevo entrare. Invece poi mi sono affezionato e in un certo senso ho cominciato anch’io a far parte della famiglia. Ma continuavo a vedere tutto dall’esterno, come se la cosa non mi dovesse tangere, capisci? Sapevo quel che succedeva perché lui me lo raccontava, dopo il sesso rimanevamo spesso a letto per parlarne anche ore prima di addormentarci e io lo consolavo. E tutto questo mi piaceva. Ero felice che si aprisse così spontaneamente a me e che lui fosse disposto ad ascoltarmi a sua volta. Perciò le cose sono cambiate. Credo di non essermi mai sentito così sicuro in una relazione. Mi dava tutto quello di cui avrei potuto avere bisogno. I bambini poi erano così carini, ho il presentimento che da grandi diventeranno degli ottimi Allenatori! Mi dispiace aver rovinato qualcosa di bello. So che tutti si fidavano di me, che contavano sul mio appoggio. Invece me ne sono andato».
  «Perché l’hai fatto? Se dicevi di essere felice, perché?».
  Ci fu un lungo silenzio. Augustine ebbe come l’impressione di starsi spogliando un pezzo alla volta, e di riuscire man mano a scorgere le sue nudità, sorprendendosi come se le stesse guardando e riconoscendo proprie per la prima volta. Sulle sue labbra spuntò un tiepido sorriso. Da una parte doveva ammettere che raccontarsi così ad Elisio, pareva quasi più appagante di quello svestirsi frenetico cui si dedicavano il più delle volte, troppo impazienti di annullarsi fra i gemiti e i mugolii disarticolati l’uno dell’altro, nel furore incosciente e annebbiato dell’istinto fino a distruggersi e diventare una sensazione tanto intensa quanto inafferrabile. Invece, sentire queste domande e poter cogliere distintamente l’imbarazzo e l’insicurezza dell’altro, gli sembrava uno dei doni più sacri che gli avesse mai fatto. E voleva preservarlo con la maggior cura possibile.
  «Vedi», disse, voltandosi per l’ennesima volta verso di lui pur sapendo ormai che non avrebbe avuto modo di attirarlo a sé «Nel momento in cui mi ha chiesto di sposarlo, mi sono reso conto che fino a quel momento non avevo fatto altro che correre continuamente dietro la prima persona che mi attraeva come un ragazzino di vent’anni. Non avevo mai preso in considerazione l’eventualità di un ulteriore passo in avanti. Andava bene stare insieme, andava bene stare con i bambini. Ma spingerci così tanto in là: sapevo che non sarei mai stato in grado di affrontare la situazione con la stessa serietà con cui la stava affrontando lui. So che probabilmente ho commesso degli errori, che magari involontariamente ho fatto credere cose a cui io non pensavo minimamente. Però, anche se mi fossi ritrovato nella condizione di poter accettare, loro non meritavano un ragazzino di vent’anni. Avrei solo peggiorato le cose, nonostante paradossalmente si fossero in parte sistemate per la mia presenza. Per questo me ne sono andato. Poi hanno iniziato a venirmi tutti pensieri, che non posso permettermi con gli anni che ho di comportarmi ancora come un bambino spensierato che prende la vita come viene. Che invece magari dovrei accasarmi anch’io e preoccuparmi di mettere su famiglia. Trovare una persona con cui condividere le mie ambizioni. O insomma, perlomeno aspirare ad una relazione seria. Così sono andato in crisi. Avevo deciso di fermarmi e prendere del tempo per pensarci. Poco dopo sei arrivato tu. Non stavo cercando nessuno, né stavo aspettando qualcuno che venisse a risolvere i miei problemi, volevo farlo da solo. Con te non ci ho nemmeno provato. Non immaginavo che tu mi avresti ricambiato, forse neppure lo desideravo più di tanto. Perché tu eri lì e io ero accanto a te, in qualunque caso. Non c’era bisogno che ti facessi mio, e a dire il vero mi sembrava pure un po’ squallido. Mi sono innamorato di te, e non volevo rovinare anche questo. Probabilmente non te lo avrei neppure detto se non ti fossi fatto avanti tu. Ti avrei amato lo stesso in silenzio. Però. Noi siamo qui insieme adesso, e anziché preoccuparci di quello che potrebbe essere, forse dovremmo pensare di più a quello che è ora nel presente. Per questo vorrei che tu ti aprissi. Perché potremmo anche lasciarci tra dieci anni, stasera o persino in questo stesso momento, ma a quel punto ciò che avremo provato sarà stato sincero e non avremmo alcun tipo di rimpianto, perché ci saremmo detti già tutto quel che c’era da dire. Io non so che cosa significhi quello che ho visto. Tuttavia, sono pronto ad ascoltarti e anche ad aspettarti nel caso in cui non volessi spiegarmelo adesso. Ma ti prego, Elisio. Permettimi di amarti veramente».
  Restò a fissarlo supplichevole, sperando in una sua risposta, di qualsiasi tipo sarebbe stata. Lo vide abbassare la testa e portarsi le dita ad accarezzarsi la fronte. Gli giunse alle orecchie un sospiro pesante e profondo.
  Elisio si chiuse per un istante nelle spalle, come a volersi allontanare per il tempo di qualche minuto nel suo intimo rifugio che era stato insidiato. Restò così per molto tempo, poi, tornando in sé, si rese conto di aver perso la cognizione del tempo. Distrattamente scostò via la manica dal polso per vedere che ore fossero, ma l’acqua era entrata nel quadrante e le lancette dell’orologio erano ferme, non sapeva nemmeno da quanto. Si fermò interdetto. Un’espressione languida si impresse sul suo viso, ad addolcire i tratti duri e seriosi del volto.
  «Ascolta», disse. Silenziosamente raggiunse la mano di Augustine abbandonata sulla sabbia e la strinse con gentilezza nella propria. Allora finalmente si rivolse verso di lui e lo guardò negli occhi.
  «Ti va di parlare un po’?».
 
 
  «Eh! Ma che vi è successo, voi due?» li riaccolse sconvolta più tardi la signora Mireille, squadrandoli da capo a piedi con espressione confusa, ferma sulla soglia della porta di casa: erano di nuovo zuppi e fradici, più di come li avesse visti la sera prima. Provò a fare pressione con qualche altra domanda, ma loro non diedero risposta, eludendo con accortezza i suoi tentativi.
  Vennero recuperate le borse e il resto delle cose lasciate in camera. Mentre Elisio sistemava tutto nel bagagliaio della macchina, l’anziana signora si avvicinò con un sacchetto di plastica in cui stava riponendo la tortiera e insistette che portassero con loro la parte di crostata rimasta, che altrimenti sarebbe andata sprecata e sarebbe stato un peccato.
  Ci si scambiarono gli ultimi saluti e gli auguri, Augustine regalò un’altra carezza a Furfrou e montò in auto. Partirono per Luminopoli senza mai fermarsi ad alcuna sosta, dandosi appena il cambio al volante a metà strada. Con l’orologio sempre alla mano, percorsero a passi svelti il marciapiede e salirono rapidi le scale per l’appartamento di Platan. Si fecero una doccia insieme, si asciugarono, misero addosso dei vestiti puliti. Non ci fu il tempo per un caffè, ed Elisio non poté nemmeno lamentarsene mentre Augustine gli passava il pettine in mezzo alla barba e lui gli richiudeva i bottoni della camicia azzurra sul petto.
  «Andiamo, andiamo!» lo esortò più tardi con la valigetta tra le mani, già con lo sguardo vigile da professore negli occhi. Richiusero il portone e risalirono in macchina, fu di nuovo una corsa fino in Università, e solo quando arrivarono Augustine si diede finalmente pace.
  Entrarono nel Dipartimento scambiandosi qualche parola sottovoce e furono subito adocchiati dal tecnico, immerso in qualche conversazione animata con un paio di altre persone, tra cui il responsabile di portineria e uno studente un po’ attempatello, dai modi troppo adulatori e lusinghieri per i gusti di Platan – ecco, doveva ammettere che non sempre coloro che si presentavano davanti alla sua cattedra si dimostravano provvisti di saggezza e misura.
  «Ah, eccolo qui, il professore! Insieme al suo discepolo prediletto!».
  «Bonjour a voi», li salutò garbatamente Augustine, mentre Elisio si limitò ad un sorriso leggero. Stavano per oltrepassarli, quando lo studente li richiamò, e si voltarono a sentire che cosa avesse da dire.
  «Scusi, professore, avrei una domanda sulla lezione dell’altro giorno».
  «Sì, ne parliamo dopo quando mi sarò sistemato», lo bloccò subito, mettendo mano alle chiavi dello studio. Elisio gli tenne la giacca mentre rovistava nella borsa per tirarle fuori. Sentirono gli altri confabulare qualcosa, di cui gli giunse chiaramente soltanto il commento del tecnico che si chiedeva scherzosamente se ai professori di Botanica sarebbe interessato aprire una succursale nel loro Dipartimento. Al che, spingendo la porta, Platan non poté fare a meno di soffocare una risata.
  Lasciò le proprie cose sulla scrivania e subito spalancò le persiane, poi dal rubinetto versò dell’acqua nell’Irrigalotad e si fermò ad annaffiare i tanti fiori che un anonimo ammiratore continuava a fargli recapitare ancora a distanza di mesi.
  «Ho ancora un po’ di tempo prima che inizi lezione. Puoi rimanere, se vuoi».
  «E mi avresti comunque fatto fare tutto di fretta».
  «Hai ragione, scusa. Per farmi perdonare ti offro il caffè».
  «Non credo che quella roba che tu avresti intenzione di offrirmi possa minimamente definirsi caffè. Ma per farti perdonare andrà bene lo stesso».
  «Dio, la tua modestia mi fa arrossire».
  Ripose l’innaffiatoio sul davanzale della finestra e andò ad aprire l’armadio per prendere il camice. Si osservò qualche istante nello specchio incassato nell’anta del mobile, passandosi una mano tra i capelli per scompigliarli un po’, riflettendo sulle ultime ore trascorse, realizzando da quanto tempo fosse già in piedi effettivamente quella mattina. Nascose uno sbadiglio dietro le dita e assorto nei propri pensieri si sbottonò leggermente la camicia, lasciando scoperto quel poco che bastava. Infilò un braccio e poi l’altro nelle maniche del camice bianco e se lo stirò con cura addosso, sotto lo sguardo di Elisio che lo osservava raccolto, di fronte a lui, seduto al tavolo. Augustine gli rivolse un sorriso, ed era particolarmente delizioso, immerso in quel candore riflesso dalla stoffa dell’indumento. Lui vi fissò gli occhi sopra, languidi e insistenti, come sedotto.
  «Non sei affatto diverso», mormorò a mezza voce.
  Si spostarono in corridoio, in fila alla macchinetta accanto alle scale per prendere il caffè. Platan gli porse il suo bicchiere, ma si lasciò quasi sfuggire un’imprecazione quando afferrando il proprio si accorse che per l’ennesima volta mancava il bastoncino per mescolare lo zucchero. Elisio gli diede il suo senza fare complimenti e si andarono a sistemare vicino alla finestra, con gli studenti e gli altri professori che passavano indaffarati a fianco a loro.
  Parlavano del più e del meno, fermandosi di tanto in tanto per bere un sorso di caffè o per dare un’occhiata vaga in corridoio o di fuori, sulla strada che andava via via a riempirsi di ragazzi e ragazze dai visi impigriti. Si scrutavano qualche secondo per poi indirizzarsi a vicenda sorrisi complici, saltando da un argomento all’altro come se niente fosse. E guardandoli si aveva l’impressione che fossero uniti, ma che si unissero restando separati l’uno dall’altro e non diventando qualcosa di unico e indefinito assieme.
  Ad un tratto Elisio lasciò cadere l’occhio sull’orologio da polso, ma solo allora si ricordò che era rotto. Augustine allora distese il braccio e lasciò che potesse controllare l’ora dal suo.
  «Bene. Penso sia ora che vada, adesso», disse quindi Elisio.
  «Certo, lascia che ti accompagni», fece lui di rimando mentre gettava i bicchieri nel cestino.
  Si avviarono insieme verso le scale per uscire dall’edificio della Facoltà, scambiandosi ancora qualche battuta prima di separarsi. Arrivati di fronte alla macchina, Elisio si attardò a cercare le chiavi nelle tasche dei pantaloni, temporeggiando di proposito in attesa di finire il discorso che avevano appena iniziato pochi istanti prima. Si poggiò con la schiena contro lo sportello e restò ad osservare l’altro. Disse qualcosa di spiritoso soltanto per il gusto di vederlo ridere, poi la conversazione scemò e si fermarono a guardarsi. Allungando le dita su di lui, Augustine gli sistemò l’ascot al collo e rinfilò il lembo nello scollo della camicia, avvolgendolo con cura.
  «Così che nessuno possa scoprirti», sussurrò allontanandosi.
  Ma, commosso da quel gesto, Elisio si sporse per trattenerlo vicino a sé, la mano guantata di nero sopra il camice bianco, che in basso si piegava come cresta di onda nel vento. E sebbene non fosse passato che appena qualche mese, stavolta Platan non si stupì, non tremò al suo tocco, e non si imbarazzò quando le loro labbra si incontrarono e sentì il suo respiro sul viso.
  Allentando la presa delle loro dita, si lasciarono in silenzio. Rimase ancora il tempo per un ultimo saluto distratto al di là del vetro, poi Elisio partì, e Augustine restò finché l’auto non si fu fatta tanto piccola da confondersi e svanire in lontananza, tra i palazzi chiari e il cielo azzurro di una mattina di aprile.

 





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1    Angolino del francese  
     Mon couer, ma vie, mon tout : Cuore mio, vita mia, mio tutto ;
     Bonjour : Buongiorno ;
     Monsieur : Signore .
2  Nobile semplicità e quieta grandezza è la definizione che Winckelmann dà nel '700 per esplicare il concetto di bellezza e armonia all'interno dell'arte greca. In generale Winckelmann utilizza spesso nei suoi scritti figure e metafore in riferimento al mare nella descrizione della statuaria classica, ma questa in particolare si ispira molto vagamente a quella che fa del Torso del Belvedere, che nel Rinascimento era considerato uno dei pilastri su cui si fondava l'idea dell'antico e a cui moltissimi artisti guardarono per la realizzazione delle proprie opere, tra cui soprattutto Michelangelo - anche se generalmente lo si tende ad identificare con un Ercole e Platan è decisamente più mingherlino in confronto, ma dettagli...
3  John Keats, Ode su un'urna greca.


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Eccoci qui! Con qualche mese di ritardo rispetto al previsto, ma eccoci qui! ♥
Come va? Spero di non avervi fatto aspettare troppo!
Penso che questa sia la seconda storia a più capitoli che chiudo, quindi sono un po' emozionata. Spero tanto che vi sia piaciuta e vi ringrazio di cuore per essere tornati di nuovo a leggere!
Diciamo che la cosa centrale che mi ero prefissata era cercare di mantenermi il più vicino possibile a una caratterizzazione pseudo-canon di questi due personaggi, soprattutto magari per alcuni aspetti che fino ad adesso ancora non avevo affrontato (ad esempio mi sentivo terribilmente in colpa per non aver mai parlato di Platan come un playboy quando nei model sheets ti fa l'occhiolino con il sorriso da marpione). So che magari non era possibile trattare tutto quanto in questa storia, ma spero che come ritratto di uno spaccato di vita quotidiana sia andato bene lo stesso!
Penso di dover spendere qualche parola sul misterioso ex di Platan. Ero già partita all’inizio con l’idea di accostargli questa persona che fosse stata importante per lui nel passato e che si potesse contrapporre ad Elisio. Siccome avrei reso la cosa la più generica possibile, avevo pensato di inventare io un personaggio, ma poi mi è tornato in mente questo: tutto è iniziato con l’episodio dell’anime
Il mega legame di Garchomp! (XY068) in cui Blaziken Mask/Maschera di Blaziken aka Meyer, il papà di Lem e Clem (che sicuro tutti conoscerete da questo meme), salva il Professor Platan dal Team Rocket che ha rapito la sua Garchomp per farla megaevolvere artificialmente. Addirittura gli cede la sua pietra chiave – non vi dico nemmeno da dove la prende – per contrastare le onde dei macchinari del Trio, e, alla fine dell’episodio, Platan si rivela essere l’unico personaggio in tutte e due le serie che riesce a capire la sua identità segreta nella maniera più stupida in assoluto: da lì parte la loro alleanza. Ovviamente Tumblr è impazzito come impazzisce sempre per ogni minima cosa ed è nata la ship. La cosa bella è che si era ancora sospesi al secondo atto degli special sulla megaevoluzione in cui Elisio se ne esce con: «Il Professor Platan verrà protetto ad ogni costo. Questo è il mio giuramento!» (e noi poveri shipper sciocchi ci credevamo), per cui è stato un periodo di perle tipo questa di rmagpfs (♥) o questa di foxflakes. Non ha mai suscitato troppo il mio interesse, ma comunque ho sempre trovato carina questa coppia, così ho pensato di utilizzarla – anche perché quanto può essere adorabile questa Clem che zitta zitta si porta via il Professore per ballarci insieme? Il contesto però resta quello dei giochi, dato che nell’anime tutta la parte sull’arma suprema è eliminata e anche per il fatto che con l’intervento di Zygarde tutto il senso della storia andrebbe perso (e anche perché nell’anime Elisio e Platan non si conoscono ma dettagli).
Poi vi devo confessare che nel 2013 nella mia vita c’è stata la collisione nello stesso momento di Pokémon XY e Kunihiko Ikuhara, che è tuttora uno dei miei registi di anime preferiti in assoluto (la mia icon [EDIT: adesso l'immagine della bio] parla da sola), perciò alcune influenze si sono contaminate tra di loro, soprattutto per come poi ho concepito il rapporto tra questi due personaggi. Quindi anche se alla fine sono presenti più o meno già nella vicenda di AZ e Floette, i toni della rivoluzione del mondo e della bara sono ripresi dal suo immaginario – anche perché si sono da poco conclusi i festeggiamenti per il 20esimo anniversario di
Utena e ci tenevo a fare nel mio piccolo un qualche tipo di omaggio (anche se sicuramente questi temi non sono per niente assimilabili a quelli e rimangono soltanto i termini, ma forse qui è una cosa più mia personale che altro).
E nulla, credo di aver finito. Non mi resta che ringraziare ancora una volta Afaneia, Myzat e Barbra per le loro dolcissime recensioni alla prima parte, e poi chiudo perché sono la solita chiacchierona :P
Un abbraccio e grazie ancora di cuore a tutti! ♥
Persej

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