La fine di Zenigata e Lupin

di zenzero
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** ❀ ***



Capitolo 1
*** I ***


lup

Nickname: zenzero91, zenzero su efp
Titolo fanfic: La fine di Zenigata e Lupin

Pacchetto: Difficile, Introspettivo, Saudade
Fandom+Pairing: Lupin III, Lupin x Zenigata
Note: le righe non indicano i capitoli ma i paragrafi. E’ un what-if di parte di un episodio autoconclusivo di Lupin, serie “L’avventura italiana” (episodio 14), ma ci sono ben poche cose da sapere, non è necessario vederlo per capire la trama, vedi anche le note d’autrice in fondo. La premessa è che Lupin si trova in Italia, viene catturato da Zenigata e viene imprigionato in una prigione fatta su misura su di una piccola isola, ed è sorvegliato costantemente dall’Ispettore.

 

 

I

 

Le onde si abbattevano con forza sugli scogli, esplodendo in enormi schizzi d’acqua salata.

Zenigata si sistemò meglio il cappello in testa. Presto il vento invernale avrebbe preso a soffiare con maggiore forza, tagliente come una tempesta di coltelli, probabilmente portandosi dietro la pioggia, se non addirittura la neve.

Ormai conosceva quella minuscola isola e il suo clima come le sue tasche; dopotutto la abitava da ben due mesi.  Sospirando si rivolse al piccolo falò dove stava preparando la cena, e diede qualche mescolata al contenuto del pentolino che rischiava di attaccarsi al fondo. Lupin quella sera avrebbe avuto spaghetti al pomodoro per cena.  Sempre se si fosse miracolosamente deciso a mangiare, questa volta. Lasciò che il vento spegnesse la fiamma, che aveva fatto il suo lavoro. Versò il contenuto in un piatto di carta e aggiunse una forchetta, di plastica.

Niente metallo o coccio per un ladro che poteva trovare ben più di un uso impensabile in semplici stoviglie.

Raggiunse in un attimo la prigione in cui sorvegliava il suo ospite. Assomigliava ad un gigantesco e massiccio cubo di roccia e metallo, ma l’ispettore sapeva che era ben più di questo, se Lupin da ben sessantotto giorni non era ancora riuscito ad uscirne.  In effetti solo lui dall’esterno poteva aprire la porta, dall’interno era semplicemente impossibile farlo. Lui era l’unico contatto tra l’esterno e l’interno del cubo.  Bussò come sempre sullo spioncino di metallo.

“Ehi, Lupin. La cena è pronta!” annunciò con ben poco entusiasmo.

“Oh, Zazà. Quindi è già sera?” chiese la voce di Lupin, una voce bassa e sottile, da vecchio sotto dialisi.

Zenigata sollevò lo spioncino e introdusse il vassoio con il cibo, spiando l’interno della prigione.

Due occhi scuri, circondati da occhiaie violacee incontrarono i suoi.

La sua salute peggiorava di giorno in giorno, con lentezza ma inesorabilmente, tanto che probabilmente anche i suoi colleghi di furto avrebbero avuto difficoltà a riconoscerlo. 

“Prendilo e mangia tutto, questa volta.” gli intimò il poliziotto.

Lupin si limitò ad afferrare il piatto con le mani, le cui nocche sporgevano pericolosamente quasi a voler perforare la pelle, e ad alzarsi per portarlo ad un angolo della prigione. Zenigata poteva sentire chiaramente il secco scrocchiare delle giunture del ladro mentre compiva quei pochi passi. Non avrebbe mangiato neanche stavolta.

No, avrebbe lasciato il cibo in un angolo, per poi mettersi a dormire o mormorare, o semplicemente fissare il vuoto. L’ispettore lo aveva osservato spesso, i primi giorni di prigionia, sperando in un qualche suo tentativo di escogitare un piano di evasione, che lui avrebbe volentieri sventato, ma per ore e ore il manigoldo non si metteva a fare altro che…beh, nulla! Assolutamente nulla!

Non era quello Arsenio Lupin III, il ladro in grado di evadere da qualsiasi prigione, grazie alla sua incredibile astuzia? Il ladro capace dell’impossibile?

Zenigata si trovava a rimanere sveglio la notte nella sua tenda, assorto nel pensiero, nel desiderio di trovare la cella vuota la mattina successiva o anche solo assistere ad un tentativo di fuga. Desiderio che puntualmente non si realizzava. Un desiderio vergognoso per un poliziotto quale era, ma non poteva farci nulla.

La cattura di Lupin non gli aveva portato la pace che cercava da tutta la vita. Tutt’altro.

 

Aveva impiegato gran parte della sua vita ad inseguirlo e questo, si era reso conto in quei giorni, era ciò che gli aveva dato maggiore soddisfazione, nonostante il continuo affanno.  Una vera e propria ragione d’essere. Ma ora che finalmente il manigoldo era dietro alle sbarre, lui non era felice. Anche lui passava ore di apatia e noia, in quell’isola minuscola in mezzo all’Adriatico. Certo, aveva un collegamento – non troppo diretto viste le interferenze- con il commissariato, grazie alla radio di linea. Ogni mese lo raggiungeva un poliziotto col motoscafo con una grossa scorta di viveri e altri generi di prima necessità, come era accaduto giusto la settimana prima.  Ma ciò non lo rendeva soddisfatto e passava giorni e giorni divenendo sempre più inquieto. Per quanto a lungo sarebbe andato avanti?

Quel giorno, osservò con attenzione il ladro poggiare il piatto in un angolo, assieme a decine di altri piatti intatti, come sempre. Poi alzarsi con la solita lentezza. E infine cadere a terra, praticamente a peso morto.

Stavolta Zenigata trasalì.

Questo non era mai capitato. Sapeva che il ladro era debole per via della mancanza di cibo, ma non aveva mai perso l’equilibrio. E non accennava a rialzarsi. Attese per minuti interminabili ma non accadde nulla. Pur appoggiando l’orecchio alla porta di metallo non riusciva ad udire niente, che assomigliasse lontanamente ad un respiro o un gemito. Solo i rumori naturali delle onde e del vento.

Iniziò a preoccuparsi seriamente, non sapendo cosa fare. Poteva trattarsi benissimo di un nuovo stratagemma di fuga del ladro. Ma mentre i minuti passavano l’idea risultava avere sempre minore credibilità. Del resto, anche la sua resistenza fisica doveva aver raggiunto un limite.

Forse stavolta stava veramente male. E aveva bisogno d’aiuto. Non era un medico, non poteva saperlo da una semplice occhiata.

L’incertezza e l’indecisione si affollavano nella sua mente. Alla fine, dato che il prigioniero non accennava a muoversi, decise di andare a controllare.

Le sue dita esitanti trovarono le chiavi che inserì una alla volta nella serratura del pesante portone della prigione.

Digitò il codice di apertura e attese.

Di lì a pochi istanti, la granitica porta si aprì con un cigolio basso.  Si sarebbe richiusa nello stesso modo, nei novanta secondi successivi, per cui l’agente di polizia doveva fare in fretta.

Lupin giaceva ancora lì sul pavimento, immobile.

Zenigata attraversò il portone senza neanche attendere che si fosse aperto del tutto e con uno scatto raggiunse il ladro e lo esaminò con attenzione. Notò subito un bernoccolo sulla sua fronte. Il battito, come capì stringendogli il polso magrissimo, c’era, ma piuttosto debole e irregolare.

Inoltre, notò con orrore un piccolo rivolo di sangue uscire dalla bocca del giovane, che gli bagnava la barba incolta.

Gli sollevò i piedi e lo chiamò per nome più volte ma lui sembrava non potersi svegliare per così poco.

Con controvoglia gli appioppò un paio di schiaffoni che però non parvero sortire effetto.  Sempre più spaventato, mentre la sua mente andava in tilt, lo strinse a sé con forza, sentendo che quel debole corpo non faceva resistenza. A dire il vero non aveva un vero motivo per farlo ma neanche cercò di trovarlo. E poi udì la voce fievole del ladro.

“..zà…”

“Cosa, Lupin? Sei… sveglio?”

“Orta….” Continuò il manigoldo.

L’agente accostò l’orecchio per sentirlo.

“Zazà…” ripeté Lupin debolmente.

“Cosa c’è, Lupin?” chiese preoccupato.

“La porta...”

“Quale porta?” chiese confuso.

Lupin la indicò. Indicò il portone di ingresso della prigione, mentre si stava ormai inesorabilmente chiudendo. Rimase un unico filo di spazio per la libertà, poi anche quello sparì.

“NOOOOOO!” urlò l’ispettore ma era troppo tardi. Non si era accorto del tempo che era passato e, un istante dopo, il portone si chiuse automaticamente, lasciandoli nel buio della cella.

 

II

 

“Ti ho detto che è inutile fare tutta questa scena, ormai il danno è fatto…” sussurrò seccato per l’ennesima volta Lupin III.

Senza ascoltarlo, Zenigata picchiò la testa contro il muro per la trecentesima volta.

Era l’unico modo che aveva trovato per esprimere la sua frustrazione.  Erano rimasti chiusi dentro ed era tutta colpa sua!

Aveva lasciato la ricetrasmittente, le sigarette, il cellulare, la pistola… ogni dannata cosa al di là di quella porta impenetrabile, che solo lui poteva aprire. Dall’esterno, dato che aveva preso ogni possibile precauzione. Erano completamente isolati dal mondo.

“Almeno tamponati quella ferita!” esclamò il ladro, indicando la propria fronte.

Stupito, l’ispettore ripeté il gesto, trovando del sangue sulla punta delle dita. Era talmente sconvolto da accorgersi a malapena del dolore.

La polizia avrebbe trovato il loro cadaveri di lì ad un mese, forse più tardi. Cadaveri già scheletrici, di due morti di stenti.

“Non pensavo fossi capace di concentrarti tanto, Zazà. Beh, in ogni caso, potrebbe servirti, in questa situazione.” scherzò Lupin ridendo tra i baffi.

“Ma fa silenzio. É anche colpa tua se ci siamo ritrovati chiusi dentro.”

“Non proprio, diciamo un cinquanta e cinquanta.” valutò Lupin. “Vedi, il piano era leggermente diverso. Dovevo cadere a terra fingendomi in fin di vita varie volte, fino a che tu non mi avresti aperto credendomi veramente morto… solo che… ho valutato male la mia fame e sono svenuto per davvero.”

“Lupin che fa un errore di calcolo? Mi giunge nuova!”

“Se tu mi avessi svegliato prima le cose sarebbero andate diversamente.” mormorò il ladro.

“Sì? Cosa pensavi di fare, di preciso?”

“Beh, mi sarebbe bastato sgusciare dalle tue braccia da gorilla e andarmene in qualche modo dall’isolotto. Molto semplice.”

Zenigata valutò o meno se tentare di strozzarlo per la battuta del gorilla. Decise che per il momento non ne valeva la pena.

“Quindi ora che si fa? Non hai escogitato nessun piano B?  Anche C, mi accontento.”

Lupin scosse la testa. “Veramente no. Questo era l’unico piano a cui avevo pensato. Ho dato indicazioni precise anche ai miei compagni, e non interverranno. Non ho modo di comunicare con loro.”

Zenigata lo osservò con attenzione. Sembrava insolitamente sincero.  “Mah… allora tanto per rimediare mettiti a pensare ad un nuovo piano, oppure qui ci lasciamo le pe….” Fu interrotto da un potente gorgoglio proveniente dal suo stomaco vuoto.

“Zazà, non hai cenato, sembra!” scherzò Lupin. “Cosa posso offrirti? Sei mio ospite, dopotutto!”

“Io non mangio con un criminale.” protestò l’ispettore. Un istante dopo un piatto familiare lo raggiunse, fatto scorrere sul pavimento da Lupin.

Un piatto carta colmo di spaghetti, assieme ad una forchettina di plastica.

“Credo sia buono ma non saprei, dovrei chiedere al cuoco.” lo avvertì ironico Lupin. “Ce ne è abbastanza per entrambi, ed è meglio se ci abituiamo subito a dividerci i pasti, perché ci rimane solamente quello che mi hai cucinato finora, e non tutto è in buono stato di conservazione!” commentò, e divise a metà il pasto, consegnandolo al commissario. “Comunque buon appetito!”

Zenigata era troppo affamato per pensare all’orgoglio. Mangiò in un misto di sentimenti di rabbia, imbarazzo e soddisfazione. Dovevano trovare un modo per uscire da quella prigione.

 

 

III

 

“Secondo me in questo modo consumerai troppe energie.” mormorò Lupin.

“Chiudi... quella fogna… criminale…” sospirò Zenigata, terminando l’ultima serie delle sue cinquecento flessioni e lasciandosi finalmente cadere a terra. Il corpo ringraziò rilassandosi completamente sul pavimento polveroso. Stava diventando troppo vecchio per queste cose. Un tempo avrebbe finito esercizi del genere senza neanche sudare, mentre adesso avrebbe impiegato un bel po’ anche solo per rialzarsi. Si limitò a voltare la testa per controllare Lupin.

Lo osservò mentre dava gli ultimi ritocchi a quella che chiamava “L’asta della salvezza”.  Per l’ispettore si trattava semplicemente del “Bastone fatto di spazzatura”. Aveva legato tra loro, con i capelli, tutte le posate utilizzate finora in un’asta lunga più di due metri, assai instabile. Una volta sistemata, con accortezza la fece passare attraverso l’apertura dello spioncino. Puntava a raggiungere la tenda, e magari a riuscire a portarsi dietro qualche oggetto utile. Forse perfino la ricetrasmittente per chiamare aiuto. Zenigata non capiva il motivo per cui si ostinasse tanto. Ormai erano tre giorni che tentava inutilmente. Forse stava tentando di occupare il tempo in quella scatola di cemento. O magari stava semplicemente impazzendo, dopo tutte quelle settimane chiuso dentro, e inattivo. Ma era davvero completamente inattivo? Magari era tutta apparenza.

E se… tutto questo fosse stato architettato per prenderlo in giro? Forse Il farabutto sapeva già da tempo come uscire da lì, stava semplicemente cercando di distrarlo per poi fuggire nel momento più opportuno.  Poteva anche essere vero, si disse Zenigata, deciso a non abbassare la guardia.

Lupin era talmente concentrato sul suo lavoro che, quando l’asta si spezzò, non se ne accorse subito. Continuò a muoverla finché non la tirò a sé nella cella, ritrovandosi con un inutile moncherino tra le mani.

Imprecò tra i denti e si massaggiò la fronte, le dita ossute che si muovevano come zampette di ragno.

Poi si rimise nella posizione di meditazione che Zenigata conosceva ormai sin troppo bene.

“Beh, non costruisci un’altra Asta della Salvezza?” chiese il poliziotto, giusto per punzecchiarlo un tantino.

“Non ne avrei motivo, ho appurato che questa strategia non funziona, e ne inventerò un’altra.” mormorò lui, incrociando le gambe e le braccia, e chiudendo gli occhi. Zenigata sapeva che questo terminava la discussione, il ladro era già nel pieno della sua meditazione.

Questo è quello che dici a me, ma cos’avrai davvero in mente, Lupin?

 

                                                                             IIII

 

 “E siamo a dodici.” sospirò Zenigata, barrando le righe che aveva inciso con difficoltà grazie ad un coltellino di plastica, sul muro della prigione. Segnare il tempo era l’ultimo rimasuglio di quotidianità che gli rimaneva.

“Oh, sono precise, penso che tu stia imparando qualche trucchetto da galeotto!” esclamò Lupin, sollevando la testa dalla posizione del “Cane a testa in giù”.

Negli ultimi tre giorni si era dato allo yoga per sfuggire alla noia e all’apatia.

Zazà si limitò a fare una smorfia. Aveva imparato ad ignorarlo. Si accostò al minuscolo fuocherello in un angolo della stanza.

Lupin era riuscito a recuperare un paio di sassi, che se sfregati potevano produrre scintille. Ora potevano scaldarsi… il minimo indispensabile per non crepare di freddo. Cosa che negli ultimi giorni non sembrava troppo inverosimile, visto che le temperature si erano abbassate. La sera precedente refoli di neve erano filtrati dalle sbarre delle minuscole finestre, una delle poche fonti di luce di quel bugigattolo, ricoprendo di bianco parte del pavimento sottostante, come un tappetino di benvenuto.

“Sarà ora di spegnerlo, stiamo finendo il combustibile, e manca ancora qualche ora al tramonto.” osservò il ladro, voltandosi appena mentre ingarbugliava la testa e le braccia sotto le gambe.

“Sì, sì, fammi almeno finire il pranzo.” ribatté l’ispettore, arrostendo un paio di marshmallow, per quanto le mani tremanti gli permettevano. Odiava come gli desse degli ordini così liberamente; lui lo aveva arrestato, e lo aveva fatto imprigionare, dopotutto. Lui era il suo carceriere.

Se solo lo avesse catturato in Giappone, si sarebbe evitato tutto questo. Ma in quel caso Lupin avrebbe rischiato grosso, perfino la pena capitale, e allora…

Un paio di potenti starnuti lo dissuasero da quel pensiero. Da qualche giorno starnutiva sempre più spesso. Forse non si trattava di un semplice raffreddore. Anche i tremori che sentiva lo preoccupavano. Ma in quel caso, poteva trovarsi in guai seri, nessun medico poteva curarlo se neanche poteva raggiungerlo.

Ma quale carceriere? Erano entrambi due prigionieri, nelle stesse condizioni. Era una lotta alla loro resistenza fisica. Ma sarebbero arrivati i soccorsi, con i rifornimenti di cibo, questo era sicuro.

Certo, di lì a poco meno di due settimane. Come avrebbero potuto sopportare altro tempo lì dentro?

Starnutì di nuovo. E stavolta Lupin lo zittì seccamente.

“Piano… spaventi la cena...” sussurrò, indicandogli qualcosa nell’angolo dove stipavano gli avanzi, quello che sembrava un batuffolino di pelo.

No… era un topolino.

Un minuscolo topolino che stava frugando tra i loro avanzi. Doveva essere entrato tramite lo spioncino della porta. Sembrava ignorarli, la coda lunghissima che si agitava in minuscole onde.

I baffetti fremevano mentre si muoveva attorno ad un piatto di patatine ormai dure quanto le mura della prigione. Ma ancora commestibili.

Lupin azzardò un paio di passi, aiutato da una vita di fughe e furti ad essere il più silenzioso possibile.

Il roditore parve non notarlo, impegnato com’era a masticare le patatine. 

Dodici giorni prima, l’ispettore avrebbe dato del pazzo a chi gli avrebbe proposto un topolino come cena.

Dodici giorni prima, però, non sapeva cosa significasse patire la fame. 

Valeva davvero la pena abbassarsi a tanto? si chiese l’ispettore in un sincero esame di coscienza.

Un istante dopo si avventò contro Lupin.

“NO, É MIO!!!” esclamò in preda alla fame.

Il ladro fu colto alla sorpresa e crollò a terra, sotto il suo peso.

“Che stai facendo?” esclamò.

Il topolino si accorse dell’aria che tirava e ne approfittò per afferrare quante più patatine poteva e sgusciare via a razzo, verso la libertà. Lasciando i due da soli.

“Stupido imbecille!” urlò Lupin, e colpì l’ispettore con un pugno dato da tutta la flebile forza che gli rimaneva. Fu abbastanza per scrollarselo di dosso.

Zazà si rialzò a fatica, e si massaggiò la guancia dolorante. Lupin non era mai stato un tipo manesco, ma la rabbia e la frustrazione dovevano aver preso il sopravvento. E mentre rifletteva su questo, il manigoldo lo accostò, pronto a tirargli un calcio. Stavolta, l’uomo non si fece trovare impreparato e gli acchiappò una caviglia, prima che il piede riuscisse a colpirlo, cercando di sbilanciarlo; Lupin però, facendo peso con l’altra gamba, riuscì a svicolarsi e roteando la gamba libera lo colpì ad una spalla.

A questo Zenigata rispose con un pugno rabbioso, che fu subito ricambiato dal manigoldo.

Continuarono a menare colpi l’uno all’altro, ormai spinti più dalla frustrazione che da un vero motivo. E nonostante l’ispettore fosse meno debilitato dalla fame, ebbe presto la peggio, e un ulteriore pugno preso in pieno naso lo fece crollare a terra, come un sacco di patate (che avrebbe mangiato volentieri).

E da lì non si rialzò.

“Cavolo Zazà, non sei molto bravo nelle risse.” commentò Lupin accostandosi a lui, il volto ridotto ad una maschera gonfia.

“Sta zitto, manigoldo!” fu la seccata risposta, seguita poi da un accesso di tosse che si fermò dopo parecchio tempo.

 “Non sembri ridotto molto bene.” disse lui ignorandolo, e gli toccò fronte e collo.  “Diamine, no, sei bollente!”

Lui tossì ancora.

“Quanto pensavi di nasconderlo?”

“Lasciami in pace, non è affar tuo… non toccarmi!” protestò, mentre Lupin gli puliva il sangue dal naso con un lembo della casacca da carcerato, ormai di un verde spento.

L’uomo oppose sempre meno resistenza, ormai sfiancato, mentre Lupin recuperò la coperta che usavano come letto e lo avviluppò completamente.

L’ispettore continuò a borbottare in maniera confusa ancora per un po’, finché come un bimbo, non crollò all’abbraccio del sonno e della stanchezza.

 

IIIII

Fu svegliato improvvisamente da dei suoni acuti che non riuscì a decifrare. Prestando ascolto capì meglio.

Erano uccelli, che anche in quell’isola sperduta salutavano l’arrivo del mattino.

L’ispettore si strofinò gli occhi che faticavano a mettere a fuoco con la tiepida luce dell’alba.

Nonostante la costrizione del vivere in quella prigione, in quell’attimo si sentì veramente in pace, e al caldo.

Cercò di voltarsi e si scontrò con qualcosa, che capì essere la schiena di Lupin.

Realizzò allora che dovevano dormito vicino, sotto la stessa coperta.

Era ancora troppo intorpidito per potersi sconvolgere, e troppo debilitato per spostarsi. E inoltre non vedeva buoni motivi per scappare dall’abbraccio di quella coperta, comunque confortante.

In effetti, si rese conto di non aver mai dormito tanto bene, da quando era rimasto rinchiuso. Di solito si limitava a prendere un esile lembo di coperta solo per sé, ben poco calorosa, allontanandosi il più possibile dal manigoldo, e ciò che ne risultava erano solo dolori alla schiena nei giorni successivi, e un riposo sempre frammentato.

Provò almeno a mettersi a sedere, ma fu scosso da tremende vertigini che lo costrinsero a desistere. Non era guarito, non ancora.

“Siamo mattinieri, Zazà.” lo salutò la voce roca del ladro, che al contrario di lui era in grado di mettersi seduto. “Vuoi una mela per colazione? Dovrebbero essercene almeno quattro o cinque ancora buone.”

L’ispettore accettò con un grugnito e cominciò a mangiare.

“Se il tempo peggiorerà ancora dovremo trovare dei nuovi modi per non congelarci. Magari cercare più combustibile, per accendere il fuoco più spesso. Potremmo anche cominciare a dormire vicini, eh! Non è più il tempo di essere schizzinosi!” propose il manigoldo, ridacchiando, e dando un morso alla sua mela, di un giallo pallido.

Zenigata finì di masticare un boccone. Deglutì. La mela era dolciastra ad un livello nauseante, per lo più coperta da un velo di un marrone malaticcio, ma doveva mangiarla.

“Hai mai pensato a cosa farai una volta uscito da qui?” la buttò lì. Non c’era un grosso motivo per cui fare conversazione, ma era effettivamente curioso.

“Vediamo…” rifletté il ladro, incrociando le lunghe gambe “Direi che prima di tutto vorrei mangiare un piatto gigante di spaghetti. A Roma c’è un ristorante che li cucina benissimo, e sono, come dicono in Italia, la fine del mondo! Poi una doccia di un’ora, e ovviamente, dopo…” e sorrise malizioso, riducendo gli occhi in due minuscole fessure “L’amore con le donne che amo. Fujiko e Rebecca, non necessariamente in quest’ordine. O magari entrambe assieme, perché no?”

Zenigata sbuffò, ma lo conosceva troppo bene per scandalizzarsi. “E come le convinceresti a farlo?”

“Beh, non vedrebbero l’ora, dopo mesi di attesa. E poi credo sia una innocente richiesta, dopo tutto questo tempo passato a dormire da solo… o con uno scimmione come te.”

Se ne avesse avuto la forza, l’ispettore lo avrebbe per lo meno colpito ad un braccio, ma lo sentiva come annegato nella melassa.

“Sono un uomo semplice, dai bisogni semplici.” disse il ladro. “E tu, invece?” chiese, dandogli una gentile gomitata.

L’ispettore ci rifletté seriamente. “Voglio mangiare una porzione gigante di katsudon in un ristorante giapponese. Voglio farmi una doccia. Ma più che altro, voglio guidare l’auto della polizia a tutta velocità, mentre ti inseguo, Lupin.”

Il ladro ne fu talmente sorpreso da quasi far cadere la mela ormai quasi ridotta ad un torsolo.

“Cos’è questa, Paparino, una dichiarazione, eh?” chiese dandogli un’altra gomitata.

“No… è solo che… mi manca…”

“Cosa?”

“La routine che abbiamo noi due. Sai, darti la caccia in giro per il globo, cercare di arrestarti e fallire miseramente. Beh… quasi sempre.”  Guardò il muro dipinto di un grigio chiaro dalla luce dell’alba e sospirò. Riuscì a piegare le gambe e avvicinarle al petto, in modo da far circolare meglio il sangue. “Ma questo eterno e infinito inseguimento … mi dà uno scopo. In un certo senso è come se sapessi che non potrei vivere in altro modo, una vita normale non avrebbe senso. E il bello è che me ne sono accorto solo quando sono finito qui, solo quando la caccia era finita. Giorno dopo giorno si è fatta sempre più forte… questa strana nostalgia.”

Lupin non disse neanche una parola, ma guardò anche lui i muri della loro prigione.

“Vorrei tornare tanto alla mia vita di prima… la nostra vita, Lupin. E ho la sensazione che manchi molto anche a te.” sussurrò, mentre la chiudeva gli occhi, perché la luce dell’alba poggiata su un semplice muro non valeva quanto vederla veramente, sotto il cielo invernale.

 

IIIII I

 

 “Bevi.”

Resistere, non si tratta altro che di questo.

“Bevi, avanti!” insistette Lupin, accostandogli alla bocca un bicchiere fumante.

Zenigata accettò con una smorfia. Deglutì a fatica quella robaccia amara che il ladro gli stava propinando da almeno quattro giorni. O forse erano sette. Non lo capiva più.

Ma ormai mancava poco. Solo qualche giorno di prigionia. I soccorsi arriveranno.

A volte si metteva seduto a guardare i fiocchi di neve che danzavano nell’aria. Altre volte riusciva perfino a stare in piedi per qualche minuto. Dannata febbre. Mai come in quel momento avrebbe desiderato un paio di aspirine annegate in un bel bicchierone di whiskey.

“Bravo. Adesso riposati un po’.” disse il ladro. Come se avesse fatto altro che vegetare negli ultimi giorni!

Voltandosi a fatica lo vide intento a perfezionare un altro di quei bastoni, o Aste della Salvezza. Stavolta avevano dei ganci, e sembravano più resistenti. Con quella era riuscito a prendere dei mestoli, qualche bastone per il fuoco, addirittura una giacca, e a strappare qualche strana erba, che usava in quei decotti disgustosi. Avrebbero dovuto abbassargli la febbre, o almeno così diceva Lupin, ma riuscivano giusto a riscaldarlo. Meglio di niente.

Qualunque cosa tu abbia in mente, è meglio che la faccia alla svelta, manigoldo, riuscì a pensare, mentre si abbandonava a quello che poteva essere il quarto o quinto pisolino della giornata.

 

IIIII II

 

Voci, tante voci quante non ne sentiva da una eternità. Voci allarmate, e poi uno schianto.

Poi la luce, sempre più accecante, che i suoi occhi abituati a giorni di oscurità non riuscirono a sopportare.

Un’altra voce, stavolta di Lupin, che urlava “Presto, muovetevi! É in fin di vita! Soccorrete lui! Presto!”

Chi sarebbe in fin di vita? Provò a chiedere l’ispettore, ma la sua lingua era una spugna secca, e la bocca era serrata, impossibile da aprire. E intanto lo sollevavano mani robuste. Lo coprivano fino al mento. E lo portavano fuori, anche se non poteva vederlo; perché la mattina risplendeva in tutta la sua gloria inondandogli gli occhi di luce, e l’odore della salsedine si insinuava prepotente nelle sue narici, e il rumore degli schizzi sugli scogli lo frastornava.

E qualcuno urlava “Prendetelo! Sta scappando!”

“Dannato farabutto!”

“Torna qui!”

L’agente di polizia abbozzò una specie di sorriso.

Chi sarebbe in fin di vita? Io no di certo, ho appena ripreso a vivere.

 

 

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Capitolo 2
*** ❀ ***


 

“Diamine, ho già visto questo episodio.” Commentò Zenigata seccato.

La tv dell’ospedale italiano non era niente di che, troppa pubblicità e programmi stupidi. Si salvava giusto qualche episodio della Signora in Giallo, o del Detective Conan. E non poteva neanche cambiare canale quando voleva, dato che il telecomando era evidentemente in custodia di qualcuna di quelle sadiche infermiere, che quando non lo punzecchiavano, gli rifilavano quei piatti rivoltanti all’ora dei pasti. Sempre meglio delle flebo a cui lo avevano attaccato nei giorni precedenti.

Non vedeva l’ora di rimettersi in sesto e di indossare altro rispetto a quella ridicola camiciona azzurrina, ma stando alla cartella della sua prognosi per intossicazione alimentare e inedia doveva rimanere in quel dannato ospedale ancora per un bel pezzo, ma almeno era fuori pericolo.

“Paziente 23, Koichi Zenigata?” chiamò affacciandosi alla porta un’infermiera che evidentemente avrebbe voluto fare tutt’altro, visto come arrotolava una colorata rivista di moda e la cacciava nella tasca del grembiule.

“É ora di quella terribile pasta scotta? O ho altre punture da fare?” si informò l’ispettore, ben poco ottimista.

“Non stavolta, hanno portato questo per lei.” risposte, e l’uomo vide che recava con sé un enorme mazzo di fiori, che si premurò di alloggiare in un vaso comune, alla finestra accanto a lui.

“Certo che sono strani, i suoi amici, non la vengono a trovare ma le portano i fiori! O sono da parte di qualche amica?” commentò leggermente incuriosita la donna. Zenigata sollevò le spalle, fingendo indifferenza.

La curiosità dell’infermiera svanì veloce come era comparsa, e riprendendo dalla tasca la sua rivista, uscì in fretta dalla stanza del malato.

Ma non era affatto passata a Zenigata, che allungando entrambe le braccia riuscì ad afferrare la boccia e osservò meglio il bouquet. Giacinti viola e girasoli? Che razza di accostamento ignorante era? E poi chi diamine glieli aveva mandati?

Non c’era traccia di biglietto legato ai fiori, ma l’ispettore notò dei ciuffi particolari al centro del mazzo. Avevano qualcosa di familiare.

Li estrasse con difficoltà, e notò che vi era avvolto un foglio di carta. Una scrittura a mano tondeggiante diceva chiaramente:

Ehi Zazà! Per ovvi motivi non posso visitarti all’ospedale ma spero tu stia guarendo bene!

Sai, all’inizio non avevo un autentico piano di fuga, e quando siamo rimasti imprigionati pensavo che avremmo semplicemente tentato di resistere fino all’arrivo dei soccorsi. Poi tu ti sei ammalato e mi hai dato un’idea. Ti ricordi di quell’infuso che ho iniziato a darti ogni giorno? Coglievo delle erbe che crescevano fuori dalla prigione, non proprio benefiche. Non ti hanno mai diminuito la febbre. Diciamo che possono dare stato di confusione, paralisi e apatia. Però ti hanno aiutato, e paradossalmente eri troppo confuso per accorgerti dello scorrere del tempo, e mangiavi molto meno. I poliziotti che sono venuti a salvarci ti hanno creduto in fin di vita e sono accorsi per te, dandomi modo e tempo per scappare!

Così adesso sono di nuovo libero in giro per l’Italia, ma aspetterò che tu ti riprenda prima di architettare un nuovo colpo, va bene? Lo devo al mio vecchio compagno di cella!

 Quindi torna presto in salute che non vedo l’ora di tornare a scappare da te!

Alla prossima, Zazà!!!

P.S. Rebecca e Fujiko hanno accettato! 💋

 

 

 Zenigata rimase un secondo ad osservare il foglio. Poi lo appallottolò pressandolo con forza e lo scagliò dalla finestra.

L’ospedale risuonò delle sue urla rabbiose.

“Beh, si sta rimettendo in fretta!” commentò l’infermiera, sfogliando un’altra pagina della sua rivista nella zona relax.

“Lupin, questa me la pagherai una volta per tutte! Aspettami, e ti darò una lezione che non dimenticherai!” gridò, e finalmente, dopo tutto quel tempo, si sentì finalmente pieno di energia e forza, desideroso di acchiapparlo.

Si sentì finalmente tornato in sé stesso.

 

 

 

 

Note autrice:

Mioddio, da quanto tempo avevo in mente di sviluppare questo racconto! Lo avevo iniziato secoli fa e avevo più o meno idea di come continuarlo ma non come finirlo! Allora, questa storia riprende l’episodio 14 della serie “Lupin L’Avventura italiana”, che è autoconclusivo. Credo basti sapere anche senza vederlo che la serie è ambientata solamente in Italia, Lupin viene catturato da Zenigata e imprigionato in questa prigione-cubo fatta su misura per lui, in quello sputo di isolotto, dato che in quelle normali non fa che scappare. Nella serie inoltre Lupin è sposato con una certa Rebecca ma viene solo citata nella storia. Tutto qui.

Il katsudon è una ricetta giapponese con cotoletta di maiale, Zenigata in altre occasioni dice di apprezzare questo piatto. Le erbe raccolte da Lupin sono pura invenzione, mentre i fiori portati all’ospedale sono un accostamento non casuale, nel linguaggio dei fiori. Il giacinto viola significa “ mi dispiace!”, i girasoli possono significare allegria, vita, ma anche un augurio di guarigione.

Mi sono presa un paio di licenze narrative, nel senso che nell’episodio si vede che la porta della prigione non si chiude allo scadere del tempo, ma tramite chiave. Inoltre non dovrebbe avere delle finestre. E Zenigata doveva tecnicamente avere con sé qualche oggetto utile, ma quello che volevo fare era lasciarli senza aiuti, sfinirli entrambi. In effetti scriverlo ha sfinito anche me (non sono abituata ad avere solo due personaggi e praticamente una sola ambientazione), spero di non aver sfinito anche i lettori. Detto questo grazie per la lettura!

 

 

 

 

 

 

 

 

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