Soulbond-Anime Gemelle

di ChiaFreebatch
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno. ***


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 SOULBOND-ANIME GEMELLE

 

Fanfiction scritta per l'evento" Happy Birthday Ben" indetto del  gruppo Facebook Johnlock is the way...

 

Capitolo uno

 

La neve danzava lenta su Londra imbiancando ogni cosa.

Piccoli soffici fiocchi si posarono delicati sul nero Belstaff del primo ed unico consulente investigativo al mondo.

Sherlock Holmes arricciò il naso infreddolito e sollevò da terra  l’ultimo scatolone depositato con scarsa cura dal furgoncino dei traslochi.

Alzò il viso verso la finestra del salottino al 221b.

La luce fioca della stanza ben visibile in quel tardo pomeriggio di dicembre.

Sorrise scorgendo la sagoma di John Watson.

Inspirò a fondo e riportò la propria attenzione sulla scatola stretta tra le mani.

Leggera ma non troppo.

Camice dedusse, o forse maglioni.

Già, quei maglioni che tanto piacevano all’amico ma che personalmente trovava troppo grandi e sgraziati.

Varcò la soglia di casa e prese a salire i diciassette scalini.

Sorrise.

Era trascorso poco più di un mese dal suo burrascoso rientro dopo il finto suicidio.

Un mese in cui aveva cercato di recuperare quanto più possibile la fiducia da parte di John.

Era stato difficile, c’era stata quella litigata tremenda al Criterion in cui Watson aveva completamente perso le staffe  scordandosi d’essere ad una cena di gala tra dottori.

Ok, forse non aveva propriamente azzeccato il momento in cui fare la propria ricomparsa dal regno dei morti ma…Cielo! Venire scaraventato sul carrello dei dolci gli era sembrato decisamente eccessivo!

Quella crostata ai lamponi schiacciata sul pavimento doveva essere ottima a giudicare dagli schizzi di crema al cioccolato finiti dritti sui suoi zigomi! Che spreco!

Scosse il capo quasi divertito al ricordo e raggiunse il salottino.

Non vi trovò l’amico così proseguì dritto al piano superiore col il chiaro intento di consegnargli l’ultimo scatolone.

Riprese a rimuginare.

Il ritorno a casa da parte di John era stato più veloce del previsto.

Dopo quella scazzottata aveva seriamente temuto di essersi giocato definitivamente la possibilità di ritornare ad essere quello che erano  stati in passato.

Il dottore si era rivelato furibondo.

Quella sera lo aveva lasciato solo, sul marciapiede, con il naso sanguinante ed uno sguardo carico di sconforto come unico saluto.

Ecco.

Quello sguardo lo aveva ferito più delle botte.

Si era sentito perso e sfiduciato.

Fu per questo che aveva accolto con sommo stupore  il rivederlo solo un paio di giorni dopo senza baffi e con un sorriso titubante gironzolare attorno al 221b.

Il suo cuore aveva preso a battere con forza nel petto.

Il nome inciso sulla pelle ben nascosto dal bracciale nero a scottare.

Scosse il capo ritornando alla realtà.

La porta della stanza al secondo piano era aperta.

Holmes avanzò titubante.

Il capo corvino fece capolino.

John se ne stava alla finestra, indice e medio della mancina tamburellavano sul piccolo davanzale interno.

Il consulente trattenne il fiato, gli occhi acquamarina fissi sulla schiena avvolta dal maglione bianco a trecce.

Watson si voltò e gli sorrise.

Il cuore di Sherlock batté veloce.

Quella sensazione di pace, di casa, lo avvolse.

Non resse lo sguardo blu e profondo dell’altro.

Dissimulò la gioia e l’imbarazzo voltandosi e posando la scatola a terra.

“Questa è l’ultima” Si schiarì la voce.

“Grazie” Annuì avanzando verso il centro della stanza.

Holmes si tolse il cappotto guardandosi attorno.

Scatoloni ovunque invadevano quella piccola camera rimasta vuota troppo a lungo.

“Avrai un bel daffare John”

Watson storse le labbra in un mezzo sorriso infilandosi le mani in tasca.

“Sarà piacevole” Accarezzò con gli occhi quanto più poté.

Sherlock si morse il labbro inferiore titubante.

“Vuoi che ti aiuti?”

Il dottore rise, la sua risata così bella e aperta che aveva sempre stretto lo stomaco del consulente.

“Non farlo…” Scosse il capo inginocchiandosi a terra ed aprendo una scatola a caso.

Holmes corrugò le sopracciglia corvine e retrocedette di un passo.

“Fare cosa?”

“Fingerti gentile” Levò il capo in direzione dell’altro.

“Non sto fingendo!” Spalancò la bocca scandalizzato.

“Sì invece, il vecchio Sherlock non sarebbe così dolce e remissivo” Estrasse una buona dose di libri tenendo il capo chino.

“Il vecchio Sherlock?” Inclinò il viso.

“Sì, quello che si è buttato dal tetto del Bart’s ricordi?” Chiese ironico levando il viso ed incatenando le iridi trasparenti alla proprie così blu.

“John…” Sospirò.

“Lascia stare” Sbuffò gonfiando le guance .

“Io…”

“Senti, cerca solo di essere… Normale ok?” Gesticolò quasi volesse scacciare un insetto.

“Normale” Mormorò tra sé e sé.

Il medico si alzò raccogliendo una mezza dozzina di tomi ed avvicinandosi alla piccola libreria.

Prese a disporli in maniera ordinata.

“Sì, normale. Sii Sherlock, non cercare di fare il ruffiano… Quello che è stato e stato, non voglio più parlarne…” Interruppe i propri movimenti mordendosi un labbro.

Lo sguardo vuoto fisso su una copertina scarlatta.

“Non voglio parlarne…” Sussurrò di nuovo “ Non ora almeno” Deglutì seguitando a disporre i testi.

“Come vuoi John” La voce profonda vibrò tra le pareti.

“Ti ringrazio” Gli dette le spalle.

“Sono di sotto, ho delle analisi al microscopio da fare…” Retrocedette lentamente.

Il Belstaff malamente posato sul braccio strisciò sul parquet un poco consunto.

“Buon lavoro” Replicò il medico sfogliando una rivista ritrovata tra i libri.

Holmes annuì e con delicatezza si chiuse la porta .

Rimasto solo John espirò con forza, abbandonò i libri e si sedette sul letto.

Portò le mani alle ginocchia serrandole con forza.

Il denim ruvido sotto i polpastrelli.

Si morse il labbro inferiore.

Aveva deciso di tornare a vivere a Baker Street dopo innumerevoli notti insonni.

I dubbi lo avevano assalito giorno e notte, tarli incessanti che scavavano nella sua testa e nel suo cuore.

Era stata una decisione difficile al quale aveva ceduto ignorando quel forte senso di ripicca che gli suggeriva chiaramente di non cedere alla tentazione.

Lui ti ha fatto soffrire in maniera indicibile.

Ti ha mentito.

Sei finito in analisi e soprattutto quel forte grumo di emozioni scaturite grazie a lui ti ha reso un Bond.

Già.

John Hamish Watson nato No Bond ora si ritrovava inciso sulla pelle il nome della propria anima gemella come un Bond qualsiasi.

Per tutta la vita aveva desiderato rientrare nella casistica di No Bond in attesa.

1 caso su 1.000.000

Una media sconfortante.

Eppure una vaga speranza c’era. C’era per ogni No Bond.

Nessun laboratorio di ricerca era mai riuscito a spiegare scientificamente la dinamica di quanto avvenisse in quei rari casi.

Il concetto base era piuttosto semplice.

I No Bond risultavano essere in numero nettamente inferiore ai Bond. Buona parte della popolazione veniva alla luce con un piccolissimo nome inciso sul polso che con il passare degli anni aumentava leggermente di dimensione .

Esso , rosso e ruvido come fosse una cicatrice rappresentava il nome dell’anima gemella a cui si era destinati nella propria vita.

I No Bond invece ne erano privi ma esisteva tra di essi questa piccola percentuale di uomini o donne definibili latenti. Potenziali Bond che inconsapevolmente recavano sotto la propria pelle il nome della propria anima gemella.

Ben celato.

Invisibile.

Nascosto sino al momento in cui il soggetto in questione fosse sottoposto ad un’esperienza di forte impatto emozionale.

Così forte, fosse essa in positivo o in negativo da far esplodere in superficie il nome del proprio Soulbond.

John aveva perso le speranze di rientrare in quella casistica.

Le aveva perse al rientro dalla guerra .

I suoi anni in  Afghanistan erano stati carichi di un considerevole numero di esperienze chiaramente definibili - di forte impatto emotivo-  ed in nessuna di quelle circostanze il nome si era mai palesato.

Secondo questa linea di pensiero, John si riteneva a tutti gli effetti un  No Bond dichiarato.

Aveva persino smesso di indossare il bracciale nero con il quale quelli come lui camuffavano la propria condizione cercando di mimetizzarsi alla gente “normale”

Lo aveva gettato tra le sabbie del deserto il giorno in cui era stato colpito alla spalla.

Se il destino aveva voluto che fosse solo beh… che lo sapessero tutti e che lo ghettizzassero pure, era stanco di fingere, troppo stanco di tutto.

Così ragionava John Watson.

Così lo aveva conosciuto Sherlock Holmes, senza un bracciale al polso e con una zoppia psicosomatica.

Sherlock lo aveva accolto al 221b e lo aveva trasformato.

Lo aveva reso un uomo nuovo.

 Aveva dato uno scopo alla sua esistenza, lo aveva gettato di fronte al pericolo, immerso nell’adrenalina.

Lo aveva salvato.

Lo aveva riportato in vita.

 Sì, sino a quel giorno in cui aveva avuto la brillante idea di gettarsi dal tetto del Bart’s.

Quel giorno John Watson perse il proprio miglior amico guadagnandosi però un nome inciso sulla carne.

Esperienza di forte impatto emozionale.

Già.

Non la guerra afghana.

Non le bombe.

Non i propri compagni mutilati.

No.

Il proprio miglior amico schiantato sull’asfalto.

Eccola.

Quel dolore, così forte al cuore d’essere inspiegabile.

Quella voglia infinita di morire insieme a lui.

Quel bruciore accecante al polso destro.

John non vi aveva badato inizialmente.

Il sangue di Sherlock sull’asfalto e sulle proprie mani era l’unica cosa visibile ai suoi occhi.

Lo aveva notato un’ora dopo in centrale.

Greg lo aveva accompagnato al bagno quasi fosse un bambino piccolo ed incapace.

Le sua mani forti avevano stretto quelle più piccine portandole sotto il getto d’acqua fredda.

John teneva gli occhi chiusi.

Lestrade, premuroso, gli aveva lavato il sangue dell’amico.

Gli occhi grandi dell’ispettore si erano spalancati sfiorandogli i polsi.

Lo aveva chiamato un paio di volte ma solo alla terza si era deciso a levare le palpebre e ascoltare quanto l’altro avesse da dirgli.

Greg però non aveva emesso fiato.

Si era limitato ad indicargli con un cenno del capo il lavello.

Watson aveva abbassato gli occhi blu umidi ed arrossati.

Incredulo aveva fissato l’acqua limpida scivolare su quel nome rosso e gonfio.

William.

John scosse con forza il capo ritornando alla realtà.

Cercò di scacciare i ricordi con un gesto della mano sfregandosi gli occhi.

Inspirò a fondo e si levò in piedi.

Le mani sui fianchi.

Espirò.

Si guardò attorno, quella era la sua vecchia stanza.

Non il pulcioso monolocale in cui aveva passato gli ultimi due anni.

Squallido e dannatamente silenzioso.

No.

Era al 221b e le note del violino di Sherlock gli giungevano delicate.

Sorrise.

L’amico aveva probabilmente accantonato l’dea dell’esperimento per deliziarlo con della musica.

Sapeva quanto gli piacesse, quanto lo rilassasse.

Scosse il capo e sorrise di nuovo conscio di quella premura che Holmes aveva avuto nei suoi riguardi.

Il consulente seguitava chiaramente a sentirsi in colpa e John dal canto proprio riteneva che fosse giusto.

Il fatto che fosse tornato  a vivere a Baker Street, che avesse compreso le ragioni del finto suicidio, non significava che gli avesse completamente perdonato i due anni di inferno che gli aveva fatto passare!

La melodia era chiaramente una composizione nuova.

Non l’aveva mai udita prima, di questo ne era certo, dolce e malinconica.

Si morse il labbro inferiore e gettò uno sguardo alla finestra.

La neve seguitava a cadere lenta.

Sfiorò il vetro gelido ed un poco appannato.

L’impronta del proprio indice apparve netta.

John corrugò appena le sopracciglia e lasciò che il proprio indice scivolasse con un criterio preciso.

Scrisse.

Scrisse senza sentirsi infantile il nome di William sul vetro.

Retrocedette poi di un passo osservando quelle lettere.

Le sue mani si serrarono in pugni stretti per poi cedere stanche lungo i fianchi.

William.

Chiunque fosse era l’unica ragione per cui dopo il finto suicidio non avesse ceduto all’istinto di piantarsi un colpo di pistola alla tempia.

Non quella terapista inutile e profumatamente pagata.

No.

Non era stata una dannata psicologa a salvarlo dal dolore, dalla disperazione, dalla voglia di farla finita.

Erano state quelle sette lettere apparse sulla propria pelle.

Lo avevano tenuto in vita.

Lo avevano convinto che da qualche parte nel mondo, un certo William avesse bisogno del suo John e che fissare avido i proiettili della Browing non era cosa saggia.

No.

Era un atto di cattiveria nei confronti di un uomo in attesa del proprio Soulbond.

Sfiorò il bracciale. Nero, come quello che era solito indossare prima della ferita.

Lo strinse e si chiese quanto Sherlock ci avrebbe messo a chiedergli il perché di quella novità.

Si morse la lingua e tornò sul letto.

Si stese, lo sguardo blu fisso sulla scritta che andava lentamente sparendo.

Non avrebbe detto nulla ad Holmes, non ancora.

Chiuse gli occhi e si godette la comodità di quel materasso, la consistenza del suo vecchio cuscino.

William lo aveva salvato.

Un po’ come aveva fatto Sherlock anni addietro.

Parallelismo azzardato ma che non poté fare a meno di considerare più di una volta.

Imprecò rammentando nuovamente quel confronto.

In quegli anni si era imposto di non cercarlo.

Non ne sentiva l’esigenza e per dirla tutta, non era pronto.

Si convinse che se il destino avesse voluto renderlo un Bond in età più che adulta beh…Allora avrebbe dovuto semplicemente attendere che il fato agisse di nuovo per sé. Che una forza misteriosa gli facesse incontrare la sua anima gemella per caso e a tempo debito.

 Dal canto proprio doveva solo impegnarsi a restare in vita e possibilmente a non impazzire perché… Chi mai avrebbe voluto un dottore fuori di testa come Soulbond??

Le note della nuova composizione si fecero più alte.

John sorrise visualizzando nella propria mente la figura sinuosa di Sherlock.

Il viso inclinato sullo strumento, l’archetto stretto nella mano perfetta.

Il suo cuore si strinse un poco e per un istante si chiese se fosse tutto vero.

Se Holmes fosse vivo al piano di sotto , se non fosse tutto un sogno, se gli psicofarmaci che per parecchi mesi aveva ingurgitato stessero facendo effetto.

Si alzò con uno scatto che gli procurò un capo giro.

Non vi prestò troppa attenzione barcollando vistosamente verso la porta.

La aprì con un gesto irruento e scese le scale sino a raggiungere il salottino.

Trattenne il fiato scorgendo l’amico alla finestra.

Seguitava a suonare con il volto rivolto verso Baker Street.

Watson si appoggiò con una mano allo stipite.

Inspirò a fondo ed il suo stupido cuore prese a battere con forza.

Troppa forza, lo avrebbe insultato se non fosse stata un’azione tanto ridicola.

Deglutì.

Gli occhi blu legati indissolubilmente a quel corpo aggraziato.

Trattenne un istante il fiato e si rese conto di aver ripreso a vivere.

Sì.

Era tornato dal regno dei morti proprio come Holmes.

A modo proprio certo ma era tornato.

Lì , scalzo, il violino del consulente nelle orecchie, il crepitio del fuoco ad insinuarsi tra le dolci note.

Era dannatamente vivo.

Holmes si voltò senza interrompere la propria esibizione.

Non si stupì alla vista del dottore.

Legò i propri occhi limpidi a quelli così blu.

Il cuore di entrambi accelerò il battito.

John avvertì il nome sotto il bracciale bruciare con forza.

Quasi fosse un monito.

Quasi William gli ricordasse la propria presenza.

Quasi si sentisse tradito dei sentimenti  che il proprio Soulbond stava avvertendo per qualcuno che non fosse lui.

Watson arricciò il naso e espirò deciso.

William lo aveva tenuto a galla, era stato il suo salvagente in un mare burrascoso ma Sherlock…

Sherlock era la sua isola.

Il suo porto sicuro.

Questa consapevolezza lo fece inspiegabilmente arrossire.

Holmes si accorse di quelle gote insolitamente colorite e sorrise voltandosi.

John gliene fu grato.

Raggiunse la propria poltrona e vi prese posto.

Strinse tra le braccia il cuscino con la Union Jack ed imprecò contro sé stesso e la propria incapacità di gestire le emozioni.

Si morse ripetutamente il labbro e chiuse gli occhi posando la nuca sullo schienale .

Cercò di respirare con lentezza, di  far pace con i propri pensieri.

Si concentrò sulla musica.

Le note del violino lo cullarono.

Sherlock suonò, suonò instancabile sino a  che Watson trovò pace con il sonno.

Quando al suo orecchio fino giunse un borbottio sommesso che gliene diede conferma , posò lo strumento.

Si stiracchiò braccia e collo intorpiditi e prese a fissare l’amico.

Gli si avvicinò con passo delicato e movimenti lenti.

Studiò quel viso con precisione maniacale.

Sospirò incredulo nel vederlo placidamente addormentato sulla sua storica poltrona.

Sorrise felice.

Gli era mancato in maniera indicibile.

Si sedette di fronte a lui e per un istante gli sembrò che nulla fosse cambiato.

Che fossero gli Sherlock e John di sempre, che da un momento all’altro Lestrade sarebbe entrato dalla porta richiedendo il loro aiuto o che la signora Hudson si intrufolasse proponendo loro un tè.

Sì, forse sarebbero potuti tornare quelli di un tempo.

O forse no.

Si morse il labbro inferiore osservando quel bracciale nero che fasciava il polso di John.

Lo aveva notato subito quella sera al Criterion ma non aveva ancora avuto l’ardire di chiedergli nulla a riguardo.

John era un no Bond .

Più volte gli aveva più volte narrato di come dopo la ferita in Afghanistan avesse deciso di palesare la propria condizione senza problemi gettando nelle sabbie del deserto quel simbolo di un qualcosa che in realtà non possedeva.

Dunque, quella novità com’era giustificabile?

Riteneva poco probabile che con il passare degli anni l’amico avesse deciso di tornare a nascondere la propria condizione, non ne vedeva un motivo logico, né una necessità.

L’ipotesi che aveva vagliato in alternativa era quella che Watson fosse un Bond latente.

Si sfiorò le labbra con la punta delle dita ripensando a quella teoria che lo tormentava da ormai un mese.

Avrebbe avuto il coraggio di chiederlo all’amico?

Sbuffò ripetendosi per l’ennesima volta che se John avesse mai voluto confidarsi lo avrebbe fatto di propria iniziativa. Il loro rapporto era ancora troppo fragile dopo quanto accaduto e non voleva che si incrinasse ulteriormente.

Il solo fatto che il dottore fosse lì, seduto dinnanzi a sé, era già più di quanto si sarebbe mai aspettato in un così ridotto lasso di tempo.

Gettò uno sguardo al proprio bracciale.

Nero, come quello dell’amico.

Lo sganciò assicurandosi prima con un’occhiata che l’altro fosse ancora tra le braccia di Morfeo.

Sospirò sfiorando con l’indice affusolato quella cicatrice che si portava sin dal giorno della propria nascita.

Aveva sempre detestato la propria condizione.

Riteneva tutta la faccenda dei Soulbond una cosa ridicola e sopravvalutata.

Avrebbe pagato pur di levarsi quel nome dalla pelle, pur di abbandonare quella sciocca convinzione globale che al mondo ci fosse qualcuno destinato a passare il resto della vita con Sherlock Holmes.

Lo trovava semplicemente assurdo, detestava i rapporti umani di qualsiasi tipo, fossero essi fisici o sentimentali.

Essere un Bond era per sé un enorme fastidio che avrebbe ben volentieri ceduto a qualche lagnoso No Bond .

Sì.

Erano questi i suoi pensieri di odio profondo verso la propria natura, verso quelle quattro lettere così marcate sulla pelle pallida.

Pensieri sprezzanti, già, sino a quel freddo mattino nei laboratori del Bart’s, quel ventinove gennaio, giorno in cui era cambiata drasticamente la sua visione del mondo.

Rabbrividì al ricordo.

La prima cosa che vide di lui furono gli occhi.

Gli occhi di John erano belli, blu, grandi e terribilmente espressivi.

Facevano male, male in un modo che non aveva mia sperimentato prima.

Male, come il nome sotto il bracciale che pulsava in maniera insopportabile.

La voce di Mike gli era giunta alle orecchie forte, così forte che i timpani gli dolsero a loro volta, eppure  Stanford aveva appena sussurrato il nome dell’ ex compagno di università. 

Il suo cuore si era fermato.

Sì.

Sicuramente si era fermato un istante. Gli era costata un’enorme fatica dissimulare il proprio turbamento ma ci era riuscito.

Le deduzioni lo avevano salvato come sempre.

Dedurre John era stato più difficile di quanto mai gli fosse capitato.

Non perché l’ex militare fosse una persona complicata ma per la propria condizione di instabilità momentanea.

Si era stupito di sé stesso, di quanto quell’uomo con una chiara zoppia psicosomatica lo avesse annientato ed il suo stupore crebbe quando vide chiaramente che Watson era un No Bond.

Vacillò.

Fisicamente e mentalmente, perché quell’esplosione di sensazioni non riuscì ad attribuirle se non a quella maledetta faccenda dei Soulbond che sempre aveva snobbato.

Com’era dunque possibile che Watson non avesse alcun nome inciso sul polso?

Lì per lì cercò di non darvi troppo peso promettendosi riflessioni successive ed uno studio dettagliato delle casistiche.

Lo promise a sé stesso e mantenne quella promessa nei mesi a seguire ma non ottenne spiegazione scientifica che potesse svelargli l’arcano.

Il legame che avvertiva nei confronti dell’amico era cristallino ed egli lo accettò con totale tranquillità.

Sentiva sotto pelle e nel cuore che il proprio Soulbond , il proprio John, potesse essere solo ed esclusivamente il dottor Watson , poco gli importava che fosse un No Bond.

Al diavolo le regole.

Al diavolo il resto del mondo.

Non avrebbe mai simulato la propria morte, non avrebbe mai vissuto due anni nel peggiore dei modi , rischiando la vita ogni santo giorno se non fosse servito a  salvare il suo John!

Un colpo di tosse del dottore distolse Sherlock dalle proprie elucubrazioni.

Sobbalzò con forza.

Il bracciale gli cadde a terra e con gesti scomposti si chinò a raccoglierlo.

Lo agganciò con rapidità nonostante il tremore della propria mano.

Ansimando cercò il viso di Watson.

Seguitava a dormire placido.

Sbuffò con forza ed allungandosi verso il tavolo afferrò un manuale di chimica organica.

Avrebbe tenuto impegnata la mente sino al risveglio di John in maniera più leggera e meno dannosa.

Numeri, formule, linee di pensiero limpide , concrete, dimostrabili.

Sì.

La chimica lo avrebbe rilassato relegandolo in quel contesto scientifico che tanto lo faceva star bene.

….

Un paio di settimane erano trascorse dal rientro di John a Baker Street e con il Natale era ormai alle porte il 221b necessitava di una dose di addobbi adeguata.

La signora Hudson aveva provveduto in maniera più che discreta a decorare l’ingresso e la scala che portava al primo piano quanto all’appartamento , il dottore si fece carico di quella mansione che Sherlock trovava utile quanto l’ombrello di Mycroft in una giornata di sole.

Quel tardo pomeriggio nevoso John terminò d’appendere la ghirlanda con le lucine attorno allo specchio del salottino dopo di che, con un movimento fluido, scese dallo sgabello fissando  soddisfatto il proprio lavoro.

Le mani sui fianchi, un sorriso sul volto.

Stava seriamente meditando di aggiungere una fila di luci colorate al bordo del caminetto quando lo sbattere deciso della porta del bagno lo fece sussultare.

Sbirciò in quella direzione inarcando un sopracciglio.

Sherlock avanzava verso il salotto stretto in un accappatoio blu e con in testa un asciugamano del medesimo colore.

John retrocedette lasciandolo transitare comodamente.

Deglutì , osservando la mano pallida ed elegante strofinare energicamente l’asciugamano sul capo.

 Si schiarì la voce e quasi inciampò in uno scatolone carico di addobbi.

Crollò sulla propria poltrona evitando una caduta quanto meno ridicola.

Sobbalzò avvertendo un qualcosa sul cuscino.

Si mosse convulso, la punta dorata da mettere in cima albero scivolò sul tappeto .

Holmes non si accorse di quel piccolo trambusto e prese posto di fronte all’amico.

I piedi nudi scivolarono sul tappeto.

Gli alluci presero a battere ritmicamente.

Con un gesto deciso levò la salvietta dal capo.

Il viso pallido e due occhi limpidi fecero capolino oltre i ricci umidi.

Watson si schiarì nuovamente la voce passandosi la lingua sulle labbra.

Si mosse nervoso sulla poltrona evitando accuratamente di guardare la porzione di torace ben visibile oltre la spugna blu.

“Ti consiglio di asciugarti i capelli e rivestirti… Siamo a metà dicembre Sherlock non  al 15 di agosto”

Il consulente inarcò un sopracciglio scostandosi il ciuffo dispettoso con un gesto consumato.

La chiusura argentea del bracciale brillò.

Watson indugiò su quel dettaglio.

“Non sono cagionevole di salute John, dovresti saperlo” Arricciò le labbra in un mezzo sorriso.

“Già” Annuì serrando lebbra in una linea dura “ Ma resta il fatto che sei…Umido…E non è cosa saggia con questo clima…” Si morse la lingua “ Vatti ad asciugare”

“Prima gradirei una tazza di tè” Fece spallucce.

John si perse ad osservare il viso perfetto dell’altro.

Si perse nel fissare le  labbra morbide che si mossero lente nel formulare quella richiesta.

Una fitta al petto.

Un bruciore intenso al polso.

Sbuffò con forza scattando in piedi come una molla.

Si appoggiò con una mano alla mensola del caminetto, il viso chino verso il fuoco scoppiettante.

Sherlock corrugò le sopracciglia non comprendendo appieno quell’atteggiamento nervoso.

“John… Stai bene?”

Il dottore sussultò voltando il viso verso l’amico.

Gli occhi limpidi  lo fissavano preoccupati.

“Si certo” Rispose esitante.

“Hai le guance rosse, non sarai tu quello con la febbre?” Indagò sfiorandosi il mento con pollice ed indice.

“No, sto bene ma… Devo uscire” Serrò i denti con forza.

“Ma non stavi…. Facendo l’albero?” Gesticolò ampiamente indicando quel marasma di decorazioni sparse ovunque.

“Certo , certo… Ma… Ma mi mancano i fili…” Aprì e chiuse la braccia lungo i fianchi.

Holmes inarcò un sopracciglio allungandosi verso  uno scatolone poco distante.

Seguendo i suoi movimenti l’accappatoio di spostò mostrando ampiamente le cosce toniche e pallide.

Watson trattenne un imprecazione strofinandosi con forza i palmi sul viso.

Sherlock riemerse ignaro di aver creato tanto disagio.

 “Fili tipo questi?” Estrasse una grossa matassa dorata.

“Hai detto bene! Tipo!” Lo additò “ Mi servono rossi!” Si voltò verso l’attaccapanni.

“Oh andiamo John! Non vorrai buttare altri soldi per queste idiozie?? Oro andranno benissimo, si intonano con…” Gettò un’occhiata alla testa del medico e distolse lo sguardo “Con le luci” Concluse rapidamente.

Holmes imprecò contro sé stesso.

Sul serio stava paragonando quei dannati addobbi kitsch ai capelli di John?

Santo Dio Holmes vergognati!

Vergognati immediatamente!

Nemmeno una ragazzina isterica si sarebbe azzardata a fare un pensiero del genere!

Si alzò in piedi e con rapidità si diresse alla finestra fingendo di osservare Baker Street così silente quel pomeriggio.

“Allora, è possibile avere questo tè?” Scostò la tendina.

Watson annuì senza replicare, come un automa raggiunse alla cucina.

Si sentì un dannato soldatino ed il fatto che effettivamente lo fosse stato non significava nulla.

Sherlock ordinava e  lui scattava.

Nonostante tutto quello che gli aveva fatto passare, nonostante quei due anni infernali era ancora lì, pronto ad eseguire gli ordini di Holmes.

Non seppe se commiserarsi o meno.

Recuperò un pacco di biscotti dallo scaffale e predispose un paio di tazze sul vassoio.

Sospirò posando poi le mani sul bancone e prese a fissare con sguardo vacuo il bollitore.

Si sentiva confuso.

Confuso come non mai.

Dal suo ritorno a Baker Street un’insana attrazione nei confronti di Holmes lo aveva colpito.

Non che non gli fosse mai capitato negli anni addietro ma gli episodi verificatisi erano sporadici, ridotti più a considerazioni oggettive che ad un chiaro istinto fisico nei riguardi dell’altro.

Si morse con forza il labbro inferiore.

Dal rientro dopo la caduta le vibrazioni che avvertiva nei confronti del consulente erano di chiara natura sessuale e la cosa lo spaventava.

Lo spaventava perché sapeva che Sherlock non era assolutamente interessato ad un qualsivoglia rapporto fisico o sentimentale ed anche in tal caso, il tizio o la tizia il cui nome capeggiava sul polso pallido avrebbe avuto priorità assoluta.

Imprecò pigiando il tasto rosso.

Gettò un’occhiata verso il salottino.

Sherlock stava fissando il filo di luci sullo specchio.

Era bello, di una bellezza totalizzante stretto in quel dannato accappatoio con le mani piantate sui fianchi sottili.

Si avvicinò titubante restando sulla soglia della cucina.

“Non ti piacciono?” Azzardò.

“oh John, sai quanto io ritenga superflue tutte queste cianfrusaglie natalizie” Borbottò.

 “ Vuoi che le tolga?” Domandò poggiandosi allo stipite della porta a vetri.

Il consulente si voltò con sguardo scandalizzato “Certo che no!”

John inarcò un sopracciglio divertito “ Come scusa?”

“A te piacciono, e lì restano. Fine della storia”

Watson sorrise, un sorriso così luminoso che fece arrossire un poco l’amico.

John gli piaceva.

Gli piaceva in ogni occasione e con qualsiasi espressione stampata sul volto.

Tuttavia quando sorrideva…Dio quando sorrideva gli occhi gli brillavano e lui si sentiva in pace con il mondo.

Davanti a quegli occhi blu avrebbe potuto fare qualsiasi cosa e…Bè, quella faccenda dei Soulbond non c’entrava nemmeno un po’.

Aveva accettato quella condizione di dipendenza dal buon dottore e non se ne rammaricava certo.

Era solo un piccolo aspetto di Sherlock Holmes che nessuno conosceva.

Un sentimento che custodiva gelosamente, come il nome inciso sul proprio polso.

John annuì sfregandosi i palmi delle mani l’uno contro l’altro.

“Bene, allora dopo il tè terminerò di addobbare l’albero, solo fili oro” Si voltò andando a recuperare il vassoio.

Holmes tornò alla propria poltrona attendendo d’esser servito.

Si fece spazio scostando dal tappeto  un’improbabile fiocco in velluto rosso, tanto grande che non riuscì ad identificarne un possibile utilizzo.

Il biondino arrivò sedendosi al proprio posto dopo avergli passato la tazza.

Restarono in silenzio per un po’, ciascuno immerso nei propri pensieri.

D’un tratto Sherlock sorrise o meglio ridacchiò.

L’altro inarcò un sopracciglio biondo “Che c’è?”

“Quelle cose, da dove sbucano?” Con la mano elegante indicò i piedi dell’amico.

Watson si sfiorò la nuca un poco imbarazzato e ritrasse i piedi contro la poltrona in un involontario tentativo di nasconderli.

“Antiscivolo natalizie “ Si schiarì la voce “ Sì bè, so che possono apparire infantili ma ogni anno nonostante i nostri malintesi, Harriet me ne manda un paio per Natale, è la tradizione e così….”

Holmes scoppiò a ridere, una risata felice che contagiò l’altro.

“Dai smettila…”

“Buon Dio, non te le ho mai viste addosso John!” La sua risata scemò e posò la tazza afferrando un biscotto.

“Sì, ti ho sempre risparmiato questa visione ma avevo i piedi gelati! A proposito come diavolo fai a rimanere scalzo??!”

“I miei piedi sono caldi ed anche se fossero congelati non mi sognerei mai indossare quella sottospecie di babbucce da elfo” Sgranocchiò un frollino.

“Caldi , sì certo come no…” Si portò la porcellana alle labbra soffiando sul liquido ambrato.

“E’ vero!” Battè le palpebre ostentando un’espressione  un poco risentita.

Watson sorseggiò il proprio tè, gli occhi sbirciarono oltre la tazza legandosi a quelli acquamarina.

“Sei perplesso?” Storse le labbra il consulente.

“Molto” Annuì posando il piattino sul piccolo tavolino accanto.

Sherlock assottigliò lo sguardo mentre John inclinò un poco il capo posando le mani sulle ginocchia.

Il silenzio calò tra i due amici.

Il crepitio delle fiamme unico rumore nel piccolo salottino.

Il movimento di Holmes fu lesto ed imprevedibile.

Sollevò la gamba destra in un gesto fluido e sfiorò con la punta del piede il dorso della mano di John.

Watson sussultò vistosamente.

Chinò lo sguardo senza muovere un muscolo.

Osservò serio quel lungo arto pallido posato sulla propria mano.

Inspirò a fondo.

Era effettivamente caldo.

Più di quanto si fosse aspettato.

Non emise fiato ma la mano libera da quella presa si mosse di volontà propria e titubante sfiorò il collo del piede di Sherlock.

Con delicatezza scivolò sino alla caviglia per poi ridiscendere verso le dita  in un movimento delicato e continuo che fece rabbrividire il consulente.

L’indice sfiorò curioso le vene ben visibili sotto la pelle diafana.

Holmes trattenne il fiato spalancando gli occhi limpidi, le ciglia corvine sfarfallarono .

Annaspò un poco e si chiese come diavolo gli fosse venuto in mente di azzardare un gesto simile.

Fissò il capo chino di John, lo sguardo concentrato.

Le labbra serrate in una linea dura.

Le iridi acquamarina si fossilizzarono poi sulla mano del dottore, su quel movimento ipnotico.

Catturarono infine il bracciale nero che sfiorava il polso muovendosi un poco.

Deglutì sonoramente ed in preda ad un insolito coraggio fu tentato dal domandargli per quale motivo avesse iniziato ad indossarlo.

Mosse le belle labbra piene, un suono flebile ne uscì.

Inspirò a fondo riprovando a formulare la domanda.

“John…”

Il dottore sobbalzò quasi si fosse scottato.

La mano si bloccò all’altezza della caviglia, la strinse appena.

Si morse la lingua legando i propri occhi a quelli del consulente.

“Io…” Seguitò con voce grave.

Il suono del cellulare del medico giunse forte e crudele ad interrompere quel momento.

La bolla invisibile che li aveva avvolti scoppiò miseramente riportandoli alla realtà.

Watson arricciò il naso ed espirò con decisione.

Holmes ritrasse il piede e si alzò afferrando il cellulare del medico posato sul tavolo.

Lo strinse.

Il trillo  metallico incessante.

Lo porse all’amico che con il volto all’insù lo fissava senza emetter  fiato.

John allungò la propria mano sfiorando quella dell’altro.

Indugiò più di quanto fosse necessario.

Le dita di Sherlock contro le proprie.

Lasciò scivolare la propria lingua sulle labbra.

Non si perse il guizzo che attraversò le iridi cristalline.

Deglutì e la ritrasse serrando lo smartphone tra le dita.

“E’ l’ambulatorio…” La voce del consulente vibrò nella mente e sotto la pelle di John “ Dovresti rispondere”

Watson annuì “ E tu dovresti proprio andare ad asciugarti” Sussurrò.

“Già” Sorrise storto.

Il dottore lo osservò allontanarsi a passo lento verso la propria camera.

Sbuffò con decisione e rispose a Sarah.

Una mano si sfiorò la fronte massaggiandola in un chiaro tentativo di rilassarsi.

Quel gesto non si rivelò molto utile.

La dottoressa parlava ma lui ben poco comprendeva  quanto gli stesse chiedendo.

Nella mente , nel corpo, il ricordo della pelle di Sherlock contro la propria.

Fissò il palmo della mano.

Il pollice accarezzò le altre dita.

Si morse il labbro inferiore e scosse il capo.

Il richiamo stizzito della collega gli impose un minimo di professionalità.

Si alzò in piedi e girovagando in tondo per il salottino cercò di apparire attento alle richieste della donna.

……

Gregory Lestrade varcò la soglia del Benny’s Bar (1), il pub che era solito frequentare con regolarità ed in cui, in ogni week-end ,aveva appuntamento fisso con John Watson.

Gettò un’occhiata nel locale affollato.

Gli occhi castani intercettarono quelli verdi di Victor, il barista, intento a spillare birre.

Lo salutò con un ampio sorriso ed un gesto della mano prima di farsi largo tra i ragazzi.

Si mosse a fatica tra gli studenti che nel week-end erano soliti affollare il pub e con un paio di imprecazioni ben serrate tra i denti, riuscì a raggiungere John al bancone.

Il dottore gli sorrise, abbarbicato su uno sgabello con un boccale di birra tra le mani.

Lestrade prese posto a sua volta ordinando una scura alla spina.

“Ehì amico… Dimmi che è il primo giro o inizio a preoccupami…” Si Tolse il lungo cappotto scuro piegandolo di malagrazia sulle gambe.

“Sì, è  il primo giro, rilassati ispettore “ Sorrise pulendosi le labbra dalla schiuma.

 “Come mai questa novità?  Non bevi mai prima del mio arrivo…”

John fece spallucce ed afferrò una patatina portandosela svogliatamente alle labbra.

“Umm… Non mi freghi doc….”  Replicò facendo l’occhiolino al barista ed afferrando il boccale colmo.

Victor arrossì un poco sulle gote e si defilò con un taccuino tra le mani verso una lunga tavolata.

Watson sorrise per metà , si sporse un poco verso l’amico .

“Gli piaci” Sussurrò.

Lestrade rise portandosi il boccale alle labbra “ Lo so” Replicò prima di bere un sorso generoso.

“Ah, lo sai” Si passò una mano nel ciuffo biondo.

“Si , ed è parecchio carino ma….” Scosse il capo, le dita sfiorarono la condensa creatasi sul vetro spesso.

“Ma?” Lo incitò l’altro.

Greg si voltò intercettando le iridi blu rese più scure dalla bassa illuminazione del pub.

“Ma c’è lui….” Lestrade sollevò la mano mostrando un bracciale ben serrato al polso abbronzato.

John si morse il labbro inferiore.

La chiusura argentea baluginò.

“Il tuo Soulbond non è un Victor quindi…” Sospirò tornando alla propria birra.

“No, non è un Victor” Annuì stringendo con  la mano sinistra il polso marchiato.

Il silenzio calò tra i due amici.

Il vociare intenso del pub unito alla forte musica scozzese colpì le loro orecchie ma non le loro menti.

Entrambi con uno sguardo vacuo fissavano il proprio bracciale.

“Non lo hai ancora trovato o… Non vuoi cercarlo?” John domandò mordendosi il labbro inferiore.

“E tu? Il tuo William?”

Il dottore sussultò in maniera che in prima persona giudicò eccessiva.

Gonfiò e sgonfiò le guance tornando ad incrociare lo sguardo calmo dell’amico.

“William… William non lo sto cercando…” Bevve.

“E’ per Sherlock?” Si azzardò a chiedere.

John storse le labbra in un sorriso triste.

Victor da lontano li osservava curioso.

Il dottore intercettò quelle iridi di giada.

Il barman gli dette lesto le spalle armeggiando con lo shaker.

“Non lo so Greg…” Ne uscì un sussurro appena udibile.

“E’ per Sherlock “ Confermò di propria iniziativa in risposta a quella replica evasiva.

Watson si passò la lingua sulle labbra.

Avvertì una mano dell’amico stretta al proprio braccio.

Il dorso abbronzato contrastava contro la lana bianca del proprio maglione.

“Cristo che casino” Scosse il capo “ Se su questo cazzo di polso ci fosse il nome di Sherlock….Sarebbe tutto più semplice” Ammise il dottore.

La presa si rafforzò. Le dita si contrassero.

“Semplice? Avere Sherlock Holmes  come Soulbond lo riterresti semplice?” Scherzò.

John sorrise divertito “ No , in effetti sarebbe terribilmente complicato ma farebbe chiarezza nei miei stupidi sentimenti…”

Greg inspirò a fondo.

Prese nuovamente il boccale e ne bevve un sorso . Il dorso della mano corse poi alle labbra levando  la schiuma con un gesto deciso.

Ponderò bene la propria replica indeciso se scoprire o meno le proprie carte.

Si morse la lingua ed imprecò.

Watson si volse incuriosito inarcando un sopracciglio.

“Terribilmente complicato dici….” Mormorò.

“Bè sì…” Annuì il medico.

Lestrade rise.

Una risata aspra.

Le dita scattarono agili alla chiusura del proprio bracciale.

“Greg non…”

L’ispettore lo interruppe.

“Se Sherlock Holmes lo definisci terribilmente complicato” Sbuffò “ Come cazzo lo definiresti questo?”

John si sporse verso il polso.

Le sopracciglia bionde si levarono verso l’alto incredule attribuendogli un’espressione decisamente buffa.

“Oh cazzo…”

“Già….” Borbottò l’altro in risposta.

Il dottore si morse il labbro inferiore con insistenza trattenendo una risata.

Una risata che presto scoppiò liberatoria destando la perplessità dei clienti attorno a loro.

Gregory si grattò la nuca borbottando mezzi insulti ad indirizzo dell’amico.

“Scusa Greg… Scusa ma…”

“Sì, sì falla finita….” Lo sgomitò afferrando dal bancone il proprio bracciale.

John cercò di porsi un freno posando il palmo sulle labbra ancora curvate in un sorriso.

Gli occhi blu luminosi e divertiti gettarono un’ultima occhiata a quel nome prima che potesse sparire sotto il metallo spesso.

Le sette lettere incise in  maniera netta e priva di sbavatura spiccavano rosse sulla pelle abbronzata.

“Direi che non dovresti avere difficoltà ad identificarlo…” Ghignò.

“Divertente John, molto molto divertente!”

“Scherzi a parte… In tutti questi anni, come mai non glielo hai mai detto?”

Lestrade posò i gomiti sul bancone , i premuti sulle tempie, gli occhi fissi sullo specchio oltre le bottiglie colorate.

“Ti pare facile??” Sbottò stizzito.

“No, ma il fatto che abbia un nome così poco comune dovrebbe darti il coraggio di farti avanti, non hai molti margini di errore” Gli sfiorò la schiena in una carezza consolatoria.

“La sola idea di poter avere una relazione sentimentale con lui è un errore”

“Adesso non esagerare” Replicò il medico.

“Cristo John, hai presente che cazzo di soggetto assurdo sia Mycroft Holmes??! Lo chiamano Iceman! Iceman cazzo! Vorresti intrattenere un rapporto di qualsiasi tipo con un tizio a cui hanno affibbiato un soprannome del genere? Con uno che muove come un dannato burattinaio i fili della nazione?!”

“No ma…”

“Sono un maledetto ispettore di polizia! Sono una persona semplice , terra a terra! Non sono un fottuto damerino che parla come se fosse sceso da un quadro del settecento! Non sono acculturato tanto quanto lui e soprattutto non sono così intelligente! Soffro già di sindrome di inferiorità prima ancora di averci mai cenato insieme, figuriamoci mostragli questo cazzo di polso” Ansimò.

John batté le palpebre.

Soppesò le parole dell’amico e si dispiacque di quel turbamento .

“Sei troppo severo con te stesso Greg”

“No, sono obbiettivo John, obbiettivo!” Piantò un pugno sul tavolo.

La cameriera gli riserbò un’occhiataccia ma tacque rassicurata dallo sguardo tranquillo di Victor.

“Non sei obbiettivo, sei distruttivo….” Scosse il capo gettando un’occhiata all’orologio.

Lestrade non replicò, afferrò una manciata di patatine e se le portò alle labbra.

“Vedi? Pensi che potrei comportarmi così con lui?!”Gesticolò.

“Mycroft non mangia patatine?” Inarcò un sopracciglio divertito.

“Eddai hai capito!! Ma te lo vedi qui al pub? In mezzo al casino? Lo vedresti sugli spalti a vedere una partita? O qui, davanti allo schermo gigante mentre grida per un goal al novantesimo minuto?” Afferrò un’altra manciata.

Watson scosse il capo ridendo e scese dallo sgabello.

“No, ma il fatto che non condividiate certi interessi non significa nulla, per quello ci sono gli amici…”

“Fai il saggio?”

“Un po’” Fece spallucce “ Guarda me… Potrei mai portare qui Sherlock?”

Lestrade lo fissò con un’espressione stupita dipinta sul bel viso.

“No ma…”

“Eppure stiamo benissimo insieme” Ammise sottovoce.

Greg si grattò la nuca perplesso mentre John si rese improvvisamente conto delle proprie parole.

Spalancò gli occhi e retrocedette di un passo.

“Vabbè lascia stare questo esempio, non è pertinente” Si allontanò un altro po’.

“Dove vai?!”

“A casa”

“A casa?? E’ presto, sono arrivato da poco!” Spalancò le braccia.

“Sì ma… Domani mattina ho la mia domenica mensile in pronto soccorso e devo alzarmi presto”

Si allontanò e tese una banconota a Victor appoggiandosi al registratore di cassa.

Greg si passò una mano sul mento.

La barba incolta sfiorò i polpastrelli.

Meditò sulle parole dell’amico e percepì chiaramente quanto la propria condizione dovesse creargli scompiglio.

La mano di John sulla spalla lo fece voltare.

“Offro io stasera…” Sorrise.

“Grazie amico” Sorrise.

Watson scosse il capo “ Non ringraziarmi… Piuttosto , fammi un favore, datti una chance con Iceman…”

“Un favore a te?” Inarcò un sopracciglio un tempo corvino.

“Sì, perché nonostante tu sia così negativo il destino ti ha dato una mano…” Indicò con un cenno del capo il polso “ Io devo lottare ogni fottuto giorno con un nome sul polso e un altro….” Si Morse il labbro “ nel cuore” Si schiarì la voce distogliendo lo sguardo.

“John io….”

“Buona notte Greg” Lo fermò.

Non voleva parole di conforto.

Non voleva pietà.

Nonostante Greg fosse un grande amico, nonostante fosse il suo confidente.

Non voleva leggere compassione in quei grandi occhi scuri.

Si allontanò verso la porta.

Il vento gelido lo accolse.

Le decorazioni natalizie illuminavano la strada un poco buia.

Inspirò  a fondo e fermò un taxi.

Le sue orecchie ringraziarono il silenzio della strada.

Quel pub sovraffollato lo aveva reso più nervoso che altro.

Aveva bisogno della calma del 221b.

Aveva bisogno del violino di Sherlock.

……….

FINE CAPITOLO UNO.

 

 

(1)    Citazione omaggio al film inglese del 1999 The Match .

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


“Soulbond – Anime Gemelle”

 

Capitolo due.

 

John Watson soffocò uno sbadiglio percorrendo a passo lesto Marylebone Road.

Raggiunse la  fermata della metropolitana di Baker Street  ed aggiustandosi la pesante sciarpa di lana varcò l’edificio.

Serrò un poco le palpebre colpito dalla forte luce al neon dell’ingresso.

Gettò uno sguardo al grande orologio appeso, la lancetta dei minuti si mosse in quell’istante.

Gli sovvenne un ricordo dell’infanzia e sorrise.

Tra i bambini girava voce che portasse fortuna posare lo sguardo sull’orologio nell’esatto momento in cui si muovesse la lancetta.

Sospirò ricordando a sé stesso quanto tutto fosse più semplice in tenera età.

Era una pensiero ovvio, dannatamente banale ma dal quale non poté sottrarsi.

Si infilò nel vagone sovraffollato a quell’ora del mattino trascinando con sé la propria borsa da medico.

Sbuffò infastidito da una gomitata secca sulla colonna vertebrale che lo fece vacillare.

La metropolitana partì e con un gesto lesto dovette posare il palmo della propria mano contro il vetro per evitare una caduta sicuramente comica ed oltremodo fastidiosa.

Il vociare dei londinesi era ininterrotto e Watson si chiese per la milionesima volta in vita propria, che voglia avesse la gente d’esser così tanto ciarliera alle sette del mattino.

Si morse il labbro inferiore ripetutamente riscontrando in sé un notevole peggioramento circa i rapporti con il prossimo.

Si sentì dannatamente simile a Sherlock Holmes e la cosa non seppe se spaventarlo o divertirlo.

Il vagone frenò stridendo fastidioso.

La prima ondata scese lasciando il posto ad un numero forse maggiore di loquaci esseri umani .

John venne pressato nuovamente contro il vetro.

Imprecò a denti stretti e sopportò uno studente con le cuffie alle orecchie tanto vicino alla propria schiena dal poter avvertire il fiato sulle orecchie.

Rap a tutto volume gli giungeva limpido e per un istante non seppe se concentrarsi su quella accozzaglia di rumori che i più giovani definivano musica o sul vociare dei suoi concittadini.

Optò per la seconda, tanto dal farsi incuriosire da un discorso politico portato avanti con piglio deciso da un paio di distinti signori seduti  li dinnanzi.

L’ombrello di uno dei due, sicuramente quello più anziano, colpì Watson sulla caviglia ed il medico si trattenne dall’imprecare solo per rispetto nei confronti di un tizio che a tutti gli effetti avrebbe potuto essere suo nonno.

Il ragazzo della musica rap scese alla fermata successiva.

John gliene fu grato e  non prestò attenzione a chi prese posto nuovamente contro la propria schiena.

La cosa certa fu che il nuovo arrivato possedeva un cellulare dalla suoneria particolarmente irritante. Il passeggero parve ignorare volutamente quei trilli continui ed il dottore fu seriamente tentato dal rispondere al posto suo.

Gonfiò e sgonfiò le guance con disappunto.

Dopo un numero improponibile di squilli,  la persona alle proprie spalle si degnò di far cessare quel suono fastidioso rispondendo alla chiamata.

John origliò non volutamente per l’ennesima volta quel giorno.

Mormorio sommesso, accento irlandese.

L’uomo alle sue spalle tese un braccio aggrappandosi ad un gancio apposito proprio sopra la testa di Watson.

L’ex militare levò il viso verso l’altro constatando quanto fosse alto il proprietario di quella voce.

Scorse la mano guantata di nero ed una porzione di polso oltre la stoffa del cappotto blu.

Acuì la vista cogliendo un bracciale del medesimo colore atto a coprire il nome inciso.

Si incuriosì, aguzzando la vista e notando una porzione rossa apparire oltre il bracciale.

Lo sconosciuto avrebbe dovuto provvedere ad acquistarne uno della propria misura, quello che portava era decisamente troppo sottile per coprire sufficientemente il nome.

Strinse un poco le palpebre assottigliando lo sguardo e scorse quella che a tutti gli effetti avrebbe potuto essere una  J .

Sì, l’arrotondamento alla base ed il proseguo in un’unica direzione non potevano rappresentare nessun’altra lettera concluse.

J.

J di John.

Si sentì un poco stupido ma il destino avrebbe potuto fargli incontrare il suo William in qualsiasi momento ed in quell’istante si disse che era bene tenersi pronti.

Gli occhi limpidi di Sherlock apparvero come un flash nella sua mente.

Inopportuni, come solo Holmes sapeva essere.

Si schiarì la voce e scosse la testa come ulteriore invito ad abbandonare quell’immagine.

Si passò la lingua sulle labbra in un gesto quasi maniacale e volse un poco il viso sbirciando in direzione dell’uomo.

Era biondo e vantava una barba del medesimo colore, piuttosto lunga ma ben curata.

Un paio di occhiali dalla montatura sottile scivolavano sul naso un poco adunco.

Non riuscì a scorgere gli occhi poiché  lo sconosciuto si mosse sbuffando al telefono.

Watson tese le orecchie .

Sì, esatto, gliel’ho già detto prima, prenotazione confermata per due a mio nome… William Walsh…no, Walsh con l’h finale per la miseria! Sì, arrivederci!”

John serrò con forza le dita attorno al manico della valigetta.

William.

La gola secca.

William.

Si voltò definitivamente scorgendo il biondino passarsi con un gesto lento le mani nel lungo ciuffo biondo.

John inspirò ed espirò.

L’uomo ignaro d’essere oggetto di tali attenzioni si avvicinò alla porta con il chiaro intento di scendere alla fermata imminente.

Watson gli fu accanto, si morse con forza il labbro inferiore e levò il viso cercando quello dello sconosciuto.

William avvertì quello sguardo su di sé.

Gli occhi gradi e castani catturarono quelli blu di John.

Un’espressione curiosa apparve su quel volto.

Le porte si aprirono , qualcuno spinse il medico.

Incespicando scese alla fermata sbagliata.

William seguì la fiumana di londinesi su per le scale.

Si volse tuttavia un paio di volte, forse tre, a guardare quell’uomo dall’aspetto ordinario che lo fissava con insistenza.

Non si turbò della cosa ma un senso di curiosità lo pervase.

Uscì all’aperto.

Il vento gelido colpì il suo viso , la barba si mosse un poco.

John poco distante si guardava attorno cercando di capire a che altezza della linea della metropolitana fosse sceso.

William si fermò alla pensilina dell’autobus, le mani nelle tasche del lungo cappotto blu.

Il dottore inspirò a fondo e guardingo si avvicinò fingendo d’interessarsi agli orari dell’autobus appesi.

Lo sconosciuto sorrise divertito e scosse il capo.

John si sentì un idiota.

Immaginò quanto dovesse apparire goffo agli occhi di quel biondino.

Visualizzò sé stesso collocandosi al livello di un impacciato uomo over trenta impegnato nel tentare l’approccio con un ragazzo più giovane facendo la figura dell’imbranato.

Si passò nervosamente una mano sul viso quando una voce squillante lo distrasse dai propri pensieri.

“William!!”

Il medico si voltò , in direzione opposta un ragazzo dai lunghi capelli corvini stretti in una coda correva a perdifiato.

“William!”

Il biondino sorrise, un sorriso ampio e tese le braccia verso quel corpo esile che gli si gettò al collo.

“Ciao James” Rise stringendolo a sé.

John si sedette sulla panchina.

Posò la borsa e si passò nervosamente le mani sul volto.

J di James.

Non di John.

Inspirò a fondo mentre i due si scambiavano un bacio che lasciava poco spazio all’immaginazione.

“Cristo…” Scosse il capo.

Una mano corse al bracciale, lo strinse con forza , lo odiò.

Levò gli occhi verso la coppia. Erano ancora stretti in un abbraccio.

Gli occhi nocciola di William si posarono sul viso stanco di Watson.

Gli sorrise indicando con un cenno del capo il bracciale.

Il dottore sorrise a sua volta intuendo che il biondino avesse capito quel malinteso.

Estrasse il telefono dalla tasca del proprio giaccone con l’intento di chiamare Sarah per avvisarla del ritardo.

La coppietta ormai lontana mano nella mano.

Sbuffò chinando il viso verso il telefono.

Prima che potesse effettuare la chiamata, un sms lampeggiò sullo schermo.

“Quando torni? SH”

John rise divertito e scosse il capo rispondendo.

Sono appena uscito di casa, devo lavorare, io. Si chiamano turni di otto ore Sherlock”

Sei acido, di prima mattina, deduco sia successo qualcosa SH”

Non è successo nulla, smetti di giocare alle deduzioni anche al telefono.”

“Io non gioco, ci lavoro con le deduzioni e comunque menti sapendo di mentire, brutta cosa John.SH

Sherlock, devo lavorare, ti saluto”

John si alzò in piedi infilandosi il telefono in tasca e tornò verso l’ingresso della metropolitana.

Un suono metallico lo bloccò sul limitare del marciapiedi.

Retrocedette recuperando nuovamente il telefono.

Mi ha chiamato Lestrade , ha bisogno di noi SH”

Il medico sorrise arricciando il naso e sfiorandolo con l’indice.

Di te semmai

La risposta tardò ad arrivare, tanto che John raggiunse il vagone della metro e miracolosamente trovò un sedile libero.

Vi prese posto, posando la propria valigetta sulle gambe.

E’ lo stesso, lo sai SH”

Watson si morse la lingua e prese a fissare un punto indistinto oltre il finestrino.

Sherlock, il sociopatico iperattivo per eccellenza, colui il quale evitava come la peste qualsiasi rapporto umano, qualsivoglia parola di dolcezza nei confronti di chiunque, gli riserbava talvolta certe repliche che avevano il potere si serragli lo stomaco.

Certo, lui non capiva sicuramente l’importanza di certe piccole frasi.

No.

Non lo capiva.

Come avrebbe potuto comprendere quanto gli si stringesse il cuore per quelle semplici parole.

Sbuffò con forza e si prese del tempo per rispondergli.

Il nome inciso bruciò come se scottasse e John sussultò infastidito.

Imprecò.

Dannato Soulbond.

“ Non posso finire prima delle quattro” Rispose passandosi la lingua sulle labbra.

“ Si ma finendo alle quattro, salteresti la pausa pranzo SH”

“Già, vorrà dire che questa sera non mi farai cucinare e mi offrirai tu il take-away” Sorrise inviando la risposta.

“Ok SH”

“Ok?”

“Ok per il take-away. Ti aspetto in centrale alle 4.30 SH”

“A più tardi”

“Ciao John .SH”

Watson inspirò a fondo, si appoggiò allo schienale e rilassò un poco il proprio corpo teso.

Giocherellò con il cellulare passandolo da una mano all’altra con gesti ripetitivi.

L’ultimo sms ancora aperto.

Gli occhi blu fissavano quel semplice saluto come se fosse scritto in una lingua incomprensibile.

Lo studiò mentre il telefono scivolava  a destra e a manca.

Ciao

John

S

H

Li stava rinchiusa la sua vita.

Nel saluto di Sherlock Holmes.

“Cristo” Imprecò.

Non voleva null’altro.

Solo poter godere della presenza confortante di quel sociopatico in eterno.

Non pretendeva poi molto.

Soffiò dalle narici , le membra nuovamente tese.

Perché doveva lasciare che uno stupido nome condizionasse la sua vita?

Perché non poteva semplicemente correre a casa, prendere Sherlock per il colletto della camicia e baciarlo come se fosse la cosa più naturale del mondo?

La vocina dentro di sé rispose lapidaria.

Perché quando avresti potuto farlo, quando non eri ancora schiavo di un nome inciso sul polso non hai avuto il coraggio di agire.

Chi è causa del suo mal… John Watson.

Il dottore si levò in piedi prossimo alla fermata.

Ragionò su quell’osservazione giunta gelida dalla propria coscienza e si rispose giustificando sé stesso.

Sherlock era nato Bond e nessuno sapeva quale fosse il nome inciso su quel polso pallido.

Per questo non si sarebbe mai permesso di agire nei suoi confronti in quanto No Bond.

Già.

Giustificazione misera.

Molto.

Ridicola azzardò.

Si aggiustò la sciarpa ed uscì raggiungendo lesto la strada.

Il freddo lo colpì e se ne compiacque.

Quella sferzata di gelo sulle guance lo riportò dritto alla realtà levandolo dai propri pensieri .

Accelerò  il passo gettando un’occhiata al proprio orologio.

Un uomo vestito da Babbo Natale lo sfiorò ciondolando lento lungo il marciapiede.

John gli riserbò un’occhiata distratta.

Mancavano pochi giorni a Natale.

Il primo, dal rientro di Sherlock dal mondo dei morti.

Sorrise ripensando al 221b addobbato a festa e si ripromise di parlare con la signora Hudson circa il pranzo del venticinque.

Martha insisteva ormai da parecchi giorni e lui non le aveva prestato l’attenzione che meritava.

Quella sera, o al più tardi l’indomani, si sarebbe preso del tempo da dedicarle per organizzare la cosa.

Attraversò lesto la strada.

La neve iniziò a cadere lenta.

L’ambulatorio lo attendeva già carico di pazienti.

25 dicembre.

Sherlock Holmes chiuse con un gesto secco la porta del salottino al 221b.

Levò le mani al cielo in un gesto di liberazione e sospirò.

“Ed anche quest’anno è fatta! Grazie al cielo per altri dodici mesi siamo esentati da riunioni del genere!”

John apparve sulla soglia della cucina con un sorriso divertito impresso sul volto ed uno strofinaccio tra le mani.

“Non ti sembra di essere un tantino esagerato? Stiamo parlando di un semplice pranzo di Natale…”

“Hai detto bene John, pranzo. Sono le otto della sera! Buon Dio perché la gente ha il brutto vizio di intrattenersi a casa altrui in questo modo?!” Si lasciò scivolare sul divano con movenze teatrali.

Posò il capo sullo schienale ed abbassò le palpebre.

“Capita talmente di rado, non lagnarti troppo…” Si gettò lo strofinaccio su una spalla.

Sherlock aprì un occhio, uno soltanto ed inarcò un sopracciglio.

“Mi lagno eccome e dovresti farlo anche tu! Guarda, non hai ancora finito di rassettare! Alla faccia del giorno di festa” Borbottò incrociando le braccia al petto “ E’ schiavismo!” Sollevò anche l’altra palpebra.

John sorrise e spense la luce della cucina per poi dirigersi a passo lento verso il divano.

“Ho finito proprio adesso Sherlock e smetti di  preoccuparti così per me o potrei farci l’abitudine…” Si sedette con poca grazia accanto all’amico.

Holmes sbuffò e cercò di recuperare nella propria mente una replica quantomeno decente, possibilmente non troppo sdolcinata o equivoca ma non ci riuscì.

Non ci riuscì e la cosa lo irritò perché detestava non portarsi a casa l’ultima parola.

Non che poi fosse una novità con John.

Sbirciò un poco alla propria sinistra osservandolo.

Lo vide sporsi verso il basso tavolino afferrando il telecomando della televisione.

Il basso chiacchiericcio della BBC riempì la stanza.

John prese a fare zapping nella speranza di trovare un qualsiasi programma che potesse interessare al detective.

Sherlock catturò con le proprie iridi cristalline il movimento ipnotico del pollice contro il tasto nero.

Notò un graffio piuttosto evidente sul dorso e si chiese quando e come se lo fosse procurato.

Seguitò la propria analisi furtiva focalizzandosi sul bracciale nero.

Era un modello semplice e di altezza considerevole.

Quel tipico modello indossato da chi, vanta sul proprio polso, un’incisione di dimensioni notevoli.

Si morse il labbro inferiore indispettito.

Voleva sapere le ragioni di quel bracciale e Watson seguitava a non fornirgliele.

Il vociare della tv fece da capro espiatorio alla propria frustrazione.

“Potresti scegliere un solo programma e fermare questo incessante saltellare?” Additò lo schermo” Mi stai facendo venire il mal di testa”

“Scusa tanto se sto cercando qualcosa che tu possa gradire!” Lo ribeccò Watson.

Holmes scrollò le spalle e raccolse le gambe sul divano piegandole alla propria destra.

Le ginocchia spinsero contro la coscia di John.

“A me non piace la tv lo sai” Borbottò.

“E allora guardiamo quello che voglio io!” Stoppò la propria ricerca con cipiglio severo.

Il silenzio avvolse il salottino, la luce dell’abatjour illuminava la stanza in quella sera buia.

“Cos’è?” Domandò dopo un po’Holmes grattandosi un ginocchio con l’indice.

“Il Grinch” Rispose atono a braccia conserte.

“Ah…” Fissò lo schermo.

John storse le labbra in un sorriso sbirciando in direzione dell’amico.

Notò il suo cipiglio turbato, chiaro segno di non comprensione.

Attese senza dire nulla un ulteriore richiesta di chiarimento.

Non dovette aspettare poi molto.

“E cosa sarebbe….” Gesticolò indicando ampiamente la tv.

“Non conosci il Grinch? Sei serio?” Si voltò incrociando lo sguardo del consulente.

“Se lo conoscessi non ti avrei posto questa domanda! Direi che è piuttosto ovvio” Blaterò indispettito.

“Bene, è altrettanto ovvio il fatto che io non intenda spiegarti chi o cosa sia quindi guarda il film…” Si accomodò meglio contro lo schienale, i talloni scivolarono sul tappeto.

“Sei matto? Durerà quanto? Una novantina di minuti?” Rabbrividì.

“Centocinque per la precisione” Annuì senza distogliere lo sguardo dalla schermo.

“Buon Dio, centocinque minuti del mio tempo sprecati  per vedere cosa? Un tizio pitturato di verde con delle orrende  canzoncine natalizie di sottofondo ed una bambina dalla voce petulante al seguito?” Si agitò sul divano, le ginocchia premettero ulteriormente contro la coscia di John.

Il dottore si grattò con l’indice un sopracciglio inspirando profondamente.

“Jim Carrey non è pitturato… Gesù questo film ha vinto l’Oscar come miglior trucco!” Gesticolò vistosamente.

“L’Oscar è un premio totalmente sopravvalutato” Si stiracchiò.

“Vabbè… Al di là di questo, è incredibile che tu non conosca il personaggio del Grinch!! Andiamo Sherlock, tutti conoscono il libro del Dottor Seuss! Ne sono state tratte diverse pellicole!”

“Ti sembra plausibile che io intasi il mio palazzo mentale con del materiale tanto poco utile?” Si voltò verso l’amico col busto e le braccia conserte.

John corrugò le sopracciglia e lo fissò voltandosi nella medesima maniera.

“Bè non ti farebbe certo male alleggerire le tue…Stanze con delle cose un poco più … Leggere!”

“Quel tizio verde non è una cosa leggera, è una cosa priva di utilità” Seguitò caparbio.

Il dottore scosse il capo e decise di rinunciare com’era solito fare quando Holmes ergeva dinnanzi a sé un muro di ostinazione così alto e spesso.

“Come vuoi…” Sospirò riportando lo sguardo sullo schermo.

Il consulente borbottò qualcosa di non meglio identificato prima di afferrare la coperta posata sul bracciolo e stendersela sulle gambe.

La accomodò attorno al proprio corpo e si coprì sino alle spalle.

Posò il capo sulla spalliera del divano, il busto scivolò un poco e gettò occhiate distratte a quel film che seguitava a ritenere la fiera dell’inutilità.

Stette in silenzio per parecchio tempo, troppo per i gusti di Watson.

Il dottore si volse per osservarlo quando avvertì un peso eccessivo contro il proprio braccio.

 Lo trovò assopito, il capo reclinato verso sinistra.

Nel girarsi il ciuffo ciondolante di Sherlock sfiorò la sua guancia.

Watson trattenne il respiro e si prese il permesso di osservare quel volto splendido a pochi centimetri dal proprio.

C’era un che di dolce nel viso di Sherlock durante il sonno.

Un’espressione distesa che non mostrava mai da sveglio e che trasmetteva un senso di tenerezza infinita.

John rise di sé stesso consapevole di quanto potesse risultare sdolcinata quella considerazione.

Ebbe l’istinto di baciargli le palpebre ma si trattenne.

Si perse a studiare quella pelle perfetta, quelle labbra tentatrici.

Holmes mosse nuovamente il capo in maniera naturale. Dondolava instabile alla ricerca di un appoggio.

Il dottore sorrise e sollevò una mano sfiorandogli il capo.

Fece pressione sui ricci corvini invitandolo a cedere definitivamente e prendere posto sulla propria spalla.

Il consulente si mosse docile, la tempia contro la spalla destra del medico.

Il naso sfiorò la lana soffice del maglione natalizio, lo arricciò mugugnando un poco e si accoccolò meglio contro l’amico.

John inspirò a fondo ed espirò.

Batté le palpebre fissando lo schermo senza vederlo realmente.

Si beò di quel contatto inaspettato e non fece movimento alcuno, timoroso di spezzare quella magia.

Sherlock si mosse dopo un tempo indefinito, tastò la coperta quasi si trovasse nel proprio letto e la tirò un poco nella direzione di John con l’intento inconscio di coprirlo.

Il dottore sussultò appena e sorrise.

Le mani, sino ad allora serrate in grembo si ritrovarono così nascoste sotto il pile scarlatto.

Il fuoco nel camino avrebbe necessitato di una piccola smossa. John gli dette uno sguardo dalla propria posizione e si ripromise di non alzarsi nemmeno se si fosse spento totalmente.

Sbadigliò inclinando il capo a sua volta.

La tempia contro i ricci soffici.

Chiuse gli occhi, non seppe dire per quanto , si appisolò. Quando li riaprì le sue certezze a quel punto si rivelarono essere un paio : il film era finito lasciando il posto ad una televendita  e la mano di Sherlock era stretta alla sua.

Il palmo di quella del consulente , posato in una presa sicura sul dorso della propria.

Avvertì le lunghe dita di Sherlock muoversi lente.

Piccoli tocchi, disegni invisibili sulla propria pelle.

Si mosse appena sbirciando il volto dell’altro.

Trovò le palpebre ancora serrate ma l’indice curioso del consulente  salì sfiorando più volte l’osso del polso per poi indugiare sul bracciale.

John si mordicchiò il labbro inferiore e non seppe proprio come interpretare quei gesti di Holmes.

Inspirò a fondo ed  il profumo dello shampoo dell’amico colpì i propri sensi.

Affondò meglio il naso nei ricci corvini, poi la voce profonda di Sherlock vibrò nella quiete della stanza.

Watson sussultò.

“Pensi di tenermi nascosto ancora per molto il motivo di questo?” Sussurrò .

Il dottore non ebbe bisogno di sentirsi specificare il soggetto in questione.

Avvertì la mano dell’amico serrarsi con forza al polso e quello gli bastò.

“Non te lo tengo nascosto” Deglutì.

Nessuno dei due si mosse.

John parlò piano, la bocca sfiorò i capelli soffici  mentre Sherlock con la tempia ancora posata sulla spalla dell’altro fissava la coperta nel punto preciso sotto la quale le loro mani erano in contatto.

“Ah no? “ Una punta ironica colpì il dottore.

“No, solo che non mi va ancora di parlarne” Sospirò.

Holmes allentò la presa, abbandonò il bracciale ma non la mano di John.

Il palmo grande scese nuovamente sul dorso più piccino in un gesto coraggioso.

Lì si fermò ed entrambi poterono avvertire il cuore accelerare il battito ed il nome inciso sulla pelle bruciare con decisione.

Tremarono appena.

“Non vuoi parlarne… Questa tua affermazione mi porta ad escludere una delle due ipotesi che avevo formulato” Si morse la lingua.

John non replicò subito, pensò a cosa potesse comportare una risposta interrogativa e non seppe fino in fondo se sarebbe stato pronto ad una spiegazione dettagliata in pieno stile Sherlock.

Sbuffò ed un paio di ricci scuri si mossero aggraziati.

“Muori dalla voglia di espormi la tua deduzione immagino…”

Sherlock storse le labbra e non ripose.

John mosse il proprio mignolo , sfiorò quello lungo ed affusolato.

Lo strinse al proprio come faceva da piccino, quando per promettere un qualcosa, promettere davvero,  bastava quel semplice gesto.

Holmes replicò la stretta. Il mignolo uncinò quello del dottore.

“Coraggio dimmelo…” Watson seguitò con un sospiro rassegnato.

L’altro si morse il labbro inferiore e si promise di essere semplice e coinciso, non voleva far sfoggio della propria capacità deduttiva.

Non questa volta.

Non con John.

“Quando ti ho conosciuto mi hai detto espressamente di esserti tolto il bracciale dopo quella ferita in Afghanistan, hai detto di essere stato stanco di fingere di essere ciò che non sei e che la tua condizione di No Bond da quel momento sarebbe stata chiara a tutti…”

“Sì” Annuì e sfiorò il proprio labbro inferiore con la lingua , gli occhi blu fissi sul capo corvino.

“Bè trovavo piuttosto strano che un uomo di parola quale tu sei si rimangiasse un pensiero simile, non trovavo necessità alcuna da parte tua di dover tornare a fingere di essere un Bond, non dopo quelle tue considerazioni… ” Sospirò prima di riprendere parola “ Tuttavia non avevo la certezza di potere escludere completamente questa ipotesi “

“A no?” Sorrise.

“No, perché l’alternativa ha una così bassa percentuale di possibilità dal dovermi per forza aggrappare a questa più semplice…”

“Tu non ti aggrappi mai alle cose semplici” Constatò John.

“No… Direi proprio di no” Sussurrò.

Le sue labbra sfiorarono il maglione scuro.

Si morse quello inferiore e si incupì appena.

I mignoli ancora legati.

“E la mia risposta di oggi quale ipotesi ti ha fatto escludere? Questa o l’opzione più complicata?” Sospirò.

“Questa ovviamente. Se l’indossare un bracciale fosse semplicemente un tentativo di simulare una condizione di Bond non mi avresti detto di non essere ancora pronto a parlarne… Non può trattarsi di una cosa così banale, me lo avresti confessato ed avresti sopportato il mio disappunto per esserti rimangiato le tue stesse parole e la questione sarebbe finita lì”

Watson annuì e prese tempo consapevole ormai di quanto la seconda ipotesi di Sherlock corrispondesse alla realtà.

“Quindi…” Tentennò “ Quando parli di alternativa con bassa percentuale di possibilità…” Attaccò lento.

“Mi riferisco al fatto che tu possa essere un Bond latente… Bè che tu lo sia stato e a questo punto tu sia un Bond a tutti gli effetti”

John non rispose e Sherlock attese sin troppo per i propri standard prima di sollevare il viso e cercare gli occhi blu dell’amico.

“Ho ragione?” Chiese senza spostare la tempia da quella spalla confortevole.

Watson chinò il capo e vide il naso dell’amico all’insù, terribilmente vicino al proprio mento e quegli occhi felini fissi nei propri.

Si morse la lingua e si perse in quelle iridi trasparenti.

“Hai ragione” Sussurrò.

Cristo.

Lo aveva detto? Lo aveva detto sul serio a Sherlock o se lo era solo immaginato?

Sì, lo aveva detto ad alta voce , a giudicare dallo scatto a sedere di Holmes e dalla sua espressione.

“Tu…Cioè…Sei…T…Tu…” Serrò con forza una mano a pugno sulla coscia, l’altra piantata nel cuscino.

“Stai balbettando Holmes, non è nel tuo stile” Si schiarì la voce cercando di non mostrare quanto fosse in realtà turbato.

Il consulente inspirò a fondo e si impose contegno.

Scostò la coperta e ostentando sicurezza si alzò in piedi.

Prese a camminare innanzi ed indietro nel salottino. Le mani giunte sotto il mento.

Lo sguardo pensieroso.

“Potresti smetterla di muoverti così rapidamente mi stai…Innervosendo!” Sbottò Watson.

Sherlock interruppe il proprio andirivieni.

Si volse verso l’amico e lo fissò silente per svariati secondi.

Watson si innervosì ulteriormente, si morse il labbro inferiore e si alzò in piedi a sua volta.

Lo fissò di rimando ponendosi le mani sui fianchi.

“Sei un Bond” La voce profonda vibrò nel salottino.

John annuì con un gesto secco , la lingua lambì le labbra lesta e non emise fiato.

“Sei un Bond…Da…Da quando?” Domandò incerto e timoroso di conoscere già la risposta.

Un sorriso amaro si dipinse sul volto del dottore.

“Lo sai” Inclinò il capo.

“No, non lo so”

“Sì che lo sai, tu sai…Sempre tutto” Gracchiò additandolo.

“Io non so le cose io le deduco, io…”

“Falla finita con ste stronzate” Gesticolò quasi volesse scacciare una mosca.

Sherlock si passò entrambe le mani sulla nuca.

Si morse le labbra piene e con un tono di voce più dolce di quanto volesse realmente replicò.

“Dopo la mia caduta al Bart’s”

Quella frase cadde pesante come un macigno al centro della stanza.

Le immagini di quella giornata infernale scorsero dinnanzi agli occhi di entrambi alla velocità della luce.

John inspirò a fondo e strinse con forza il proprio polso.

“Hai ragione, di nuovo” Rispose sprezzante.

“Bè, i Bond latenti possono essere stimolati da azioni causanti forti impatti emozionali e…”

“Chiudi il becco cazzo” Lo superò raggiungendo il camino.

Sherlock si ammutolì passandosi una mano sul viso in un gesto nervoso.

Il dottore si inginocchiò posizionando un nuovo ciocco di legno.

Si rialzò con gesti lenti e con un attizzatoio smosse le braci residue.

Il consulente lo fissava a debita distanza, le braccia conserte, le dita artigliate alla vestaglia blu.

“John…” Lo chiamò piano.

“Buffo vero?” La voce dell’altro giunse cupa.

Le spalle un poco ricurve, il capo chino.

Lo sguardo perso nelle fiamme calde.

Non attese una risposta di Sherlock, proseguì.

“Buffo quanto tu riesca in un modo o nell’altro a condizionare la mia vita”

“John…” Tentò di nuovo.

Il medico si volse con uno scatto che fece sussultare l’altro.

“Pensa, se non ti fossi buttato da quel cazzo di tetto questo maledetto nome” Levò il braccio “ Non sarebbe mai apparso” Inspirò a fondo “ Mai!” Ringhiò.

“Io…”

“Zitto, se tu non ti fossi buttato, io non avrei avuto qui il nome di un maledetto sconosciuto che mi avrebbe condizionato il resto della vita!” Lo additò.

Sherlock a quel punto si incupì, perse quel fare colpevole e remissivo e si prese il diritto di replicare a dovere.

“Se io non mi fossi buttato , tu una maledetta vita non ce l’avresti avuta! Volevano ammazzarti! Quante altre volte te lo devo dire?? Eh? John?! Quante prima che tu possa apprezzare il mio gesto e smettere di farmene una colpa!” Spalancò le braccia , le grida riempirono il salotto.

John vacillò, dinnanzi a quelle parole gridate in maniera così insolita.

Retrocedette di un passo e si sfregò nervosamente le mani sul viso.

“Ok senti, non torniamo sull’argomento va bene?”

“Sei tu che ci sei tornato” Borbottò Holmes dandogli le spalle.

Le lunghe mani si posarono sul tavolo insolitamente sgombro grazie a quella giornata di festa.

Fissò la superficie lignea concentrandosi sulle venature più scure.

“Ci sono tornato grazie a te! Tu e le tue deduzioni! Tieni tanto a farti i fatti degli altri senza mai svelare i tuoi!” Seguitò caparbio John.

Avrebbe dovuto cedere.

Cedere come al solito, lasciare Sherlock a sbollire e andarsene in camera propria.

Tuttavia una vena isterica si era impossessata di lui e si sentiva particolarmente propenso alla litigata.

Si dette dello stupido ma solo per un istante.

Sherlock si voltò con una lentezza tale d’apparire irreale.

Un sguardo tagliente sul viso perfetto.

Watson rabbrividì, preferì non comprenderne il motivo.

“Svelare i fatti miei” Scandì gelido.

“Esatto!” Annuì serrando i pugni lungo i fianchi.

“A cosa ti riferisci nello specifico Watson?” Si mosse elegante verso l’amico.

IL dottore si ritrovò a deglutire con forza tuttavia resistette all’impulso di retrocedere.

“In generale…” Rispose , poi ci ripensò ed aggiunse “ E anche nello specifico”

Gli occhi blu corsero al polso pallido dell’uomo che gli stava ormai a mezzo metro di distanza.

“Vuoi sapere cosa sono John? Perché non spremi le meningi e provi tu a dedurmi una volta tanto” Inclinò il capo.

Watson lo trovò irritante e sexy al tempo stesso e la cosa lo turbò.

Si morse la lingua e serrò maggiormente i propri pugni, le unghie conficcate nei palmi.

William bruciava sulla sua pelle, bruciava parecchio ed apparentemente senza motivo.

“Non c’è molto da dedurre, saresti un coglione se fossi un No Bond ed indossassi un bracciale, non rientra nel tuo modo di essere, tu sei un sociopatico e saresti stato ben felice di essere un No Bond, odi i rapporti umani quindi non lo indosseresti mai per conformarti alla massa, non fingeresti di essere ciò che odi”

Holmes piegò le labbra in un mezzo sorriso “ Quindi?”

“Quindi posso dire che sei quasi certamente un Bond che però come dicevo prima odia i rapporti umani di qualsiasi genere e quindi aborra l’idea di trovare la propria anima gemella, tanto dal non rivelare quel dannato nome nemmeno al suo migliore amico” Ne uscì una nota acida, sin troppo.

Il consulente infilò le mani nella tasca della vestaglia e si guardò attorno quasi si trovasse in un posto sconosciuto.

Si allontanò dal corpo dell’altro per poi varcare la soglia della cucina.

Aprì il frigorifero e si versò silenzioso un bicchiere d’acqua.

John seguì quei gesti con un sopracciglio inarcato e le braccia conserte.

Sembrava che Sherlock volesse temporeggiare, che cercasse una risposta da fornirgli ma che faticava a trovarne una adeguata.

Trangugiò avido il liquido gelido e posò il bicchiere con poca grazia nel lavello.

Watson si appoggiò allo stipite e non disse una sola parola.

Attese.

“Ebbene, vuoi che ti dica bravo?”

“Cinque minuti di riflessione per rifilarmi questa risposta?” Rise.

Sherlock inarcò un sopracciglio corvino e sbuffò distogliendo lo sguardo.

“Non mi va di parlarne” Lo superò tornando in salotto.

“Lo vedi che ho ragione io? Che quando si tratta di te, tu non ti sbottoni mai!” Lo additò.

Sherlock sussultò arrossendo un poco sulle gote e solo allora John si rese conto di quanto potesse essere equivoca la propria frase.

Serrò le labbra in una linea dura prima di scuotere il capo.

“Vabbè hai capito dai!”

“Certo che ho capito, lungi da me pensare che l’eterosessuale per eccellenza John Watson desiderasse vedermi sbottonare i pantaloni” Levò i palmi al cielo.

 “Cosa diavolo c’entra adesso l’eterosessualità??!”

“Non lo so, ma non avevi ancora trattato l’argomento nell’ultima ora sai com’è” Inarcò nuovamente un sopracciglio.

John aprì e chiuse la bocca senza emettere fiato.

Sherlock arricciò le labbra divertito allontanandosi verso la propria stanza.

“E con il tuo silenzio direi che abbiamo chiuso l’argomento”

Il dottore si riebbe imprecando a denti serrati.

“Sherlock!” Urlò.

Il consulente si fermò sulla soglia della propria stanza, una mano sullo stipite, il viso si volse di tre quarti.

Gli occhi cristallini resi scuri dalla scarsa luce del piccolo corridoio.

“Sì?”

“E’ un uomo” Deglutì “ Il mio Soulbond è un uomo” Ne uscì un sussurro.

Holmes sorrise.

Un sorriso piccino e scosse il capo.

“Anche il mio” Replicò. “Buona notte John”

Watson lo vide sparire in camera.

Il suono secco della porta chiusa.

Sbuffò con forza gonfiando le guance in maniera innaturale.

Levò gli occhi al cielo in cerca di una risposta che non gli sarebbe arrivata.

Si volse lentamente e spense l’interruttore dell’abatjour.

Il buio lo avvolse.

Con passo strisciato raggiunse le scale e si diresse verso la propria camera da letto.

Aveva di che riflettere.

Molto.

Sherlock dal canto proprio raggiunse il comodo letto e vi si lasciò cadere sopra.

Fissò il soffitto e sorrise.

Un sorriso ampio.

Il sorriso divenne poi una risata.

Forte, felice.

John era un Bond.

Un Bond con il nome di un uomo impresso sul polso.

Si levò il bracciale e baciò in maniera infantile la pelle arrossata.

C’era dunque una possibilità.

….

Il nuovo anno giunse senza che nessuno dei due facesse più cenno a quella spinosa questione. 

Sherlock troppo timoroso del nome inciso sul polso dell’altro e John sempre più turbato dai propri sentimenti nei confronti dell’amico.

Viveva un eterno conflitto  tra cuore e coscienza.

Ogni notte prima di coricarsi, posizionava metaforicamente parlando i due nomi su una bilancia nella propria mente e con regolare puntualità, il piatto pesava sempre e comunque verso  quella scelta poco saggia dettata dal cuore.

Sbuffava, si rigirava dozzine di volte nelle coperte imprecando verso sé stesso ma soprattutto verso William.

Forse, se questo fantomatico Soulbond si fosse palesato, avrebbe almeno avuto la possibilità di allontanare Sherlock dalla propria mente.

Avrebbe potuto prender in considerazione l’ipotesi di conoscerlo, di frequentarlo.

Nel caldo del proprio letto storceva poi le labbra, poco propenso a credere a quelle convinzioni con cui cercava di farsi forza.

Due occhi cristallini giungevano puntualmente molesti minando quei tentativi di riflessione.

Fu grazie ad una di quelle nottate moleste che la mattina del sei gennaio John si svegliò con un grande mal di testa.

Si portò le mani alle tempie serrando gli occhi.

Il polso gli bruciava, tanto che dovette spalmarvi della crema lenitiva prima di scendere al piano inferiore.

Faceva freddo in casa e si pentì a metà scala di non avere indossato un maglione sopra il pigiama.

Sbadigliò platealmente entrando in cucina in quella gelida domenica mattina.

Sherlock levò lo sguardo dal proprio microscopio e sorrise.

Un sorriso dolce alla vista dell’amico infreddolito e con i capelli arruffati in maniera assurda.

Lo trovò adorabile e la consapevolezza di aver utilizzato quell’aggettivo nei confronti di John Watson lo fece arrossire e vergognare di sé.

Si schiarì la voce tornando a concentrare la propria attenzione su un campione di sangue .

Watson si chiuse malamente la porta alle spalle e biascicò un Buongiorno che di buono aveva poco nulla.

Holmes rispose cercando di trovare minimamente interessante le analisi ma con scarsi risultati.

Sbirciò nuovamente in direzione di John.

Gli ampi pantaloni blu del pigiama scivolavano sin troppo grandi.

La mano del medico scese  con un gesto distratto verso il sedere, serrò l’elastico tra le dita e li aggiustò prima che potessero cascare a terra.

Il consulente si voltò e si impose calma.

“Non hai fatto colazione immagino…”

La voce di John gli giunse particolarmente bassa, particolare che lo contraddistingueva per una mezzora buona dopo il risveglio.

Sherlock rabbrividì un poco “Certo che no” Replicò scribacchiando un appunto sulla propria agenda consunta.

Watson aprì il frigorifero ed estrasse una confezione di uova e del bacon.

“Ok, preparo per due…” Mormorò.

“Non ho fame John…”

Il dottore di voltò un poco, un sopracciglio biondo inarcato, le labbra arricciate in un mezzo sorriso.

“Qual è la novità? E in ogni caso non mi interessa, devi mangiare….” Fece spallucce tornando ai fornelli.

“Mangiare quella roba al mattino è noioso…” Borbottò chiudendo con un gesto secco l’agenda.

“Lo dici a qualsiasi ora del giorno… E comunque oggi è necessario che tu sia in forze!” Gettò le uova in pentola.

“Perché?” Si raddrizzò meglio sulla sedia incrociando le braccia al petto.

“Perché oggi dobbiamo festeggiare!” Sorrise rigirando il bacon , il malumore dettato dal mal di testa improvvisamente scemò.

Holmes sussultò vistosamente e fortunatamente il medico si perse la scena troppo occupato con le padelle.

Sussultò perché temette che John avesse scoperto che il sei gennaio fosse il giorno del suo compleanno.

Non glielo aveva mai rivelato, era stato spesso evasivo portando l’altro a rinunciare a quella curiosità.

Detestava festeggiare il giorno della sua nascita.

Regali candeline e altre stupidaggini del genere.

“Festeggiare?” Domandò quindi guardingo.

Watson sospirò in maniera sin troppo teatrale.

“Sì Sherlock, in caso tu non lo abbia notato oggi è il sei gennaio! La dodicesima notte! E casca persino in domenica quest’anno!”

Holmes tirò un sospiro di sollievo e si dipinse in volto un’espressione perplessa.

“Ecco, questa cosa è ancora più inutile del pupazzo verde di Natale…” Si alzò in piedi mettendosi le mani in tasca”

“A parte il fatto che il Grinch non è un pupazzo ma vabbè…” Abbassò la fiamma “…Come diavolo puoi ritenerti un inglese se non festeggi la dodicesima notte?! Non hai mai visto lo spettacolo davanti al Globe Theatre??”  Gettò malamente la paletta in acciaio sul ripiano.

“No, vuoi uccidermi per questo?” Cantilenò ironico allontanandosi verso il salottino.

“Eddai…E’ uno spettacolo folkloristico bellissimo! L’arrivo sul Tamigi del Green man , che sbarca proprio davanti al Globe con la banda e tutto il resto!” Lo seguì concitato “ C’è anche la battaglia di San Giorgio, quella è imperdibile!”

“Oh mio Dio che cosa meravigliosa!” Portò una mano al viso fingendosi estasiato.

“Non prendermi in giro idiota” Scosse il capo.

Sherlock sbuffò ed additò la cucina “ Brucia il bacon”

John arricciò il naso e con uno scatto si voltò correndo ai fornelli.

L’amico rise prendendo posto al tavolo in salotto.

Un’imprecazione del medico gli giunse limpida.

Gettò uno sguardo oltre il vetro.

La neve si era quasi completamente sciolta e delle nuvole minacciose cariche di pioggia coprivano il cielo.

Il rumore secco di un piatto posato dinnanzi a sé lo fece sussultare.

“E’ mezzo bruciato ma te lo mangi così…” Borbottò allontanandosi.

Ritornò pochi istanti dopo con un vassoio.

Due bicchieri di spremuta d’arancia svettavano traballanti accanto a delle posate e del pane tostato.

Sherlock silenzioso lo aiutò a posare il tutto sul tavolo.

“E se dovesse piovere? Che faranno?” Cercò di porsi in maniera un po’ più morbida.

“Aspetteranno che smetta” Replicò addentando una fetta di pane.

“E se non smette?” Seguitò il consulente torturando le uova con i rebbi della forchetta.

John deglutì con forza, bevve un sorso generoso di spremuta e si pulì le labbra con il tovagliolo.

“Sai che facciamo?” Sospirò.

“Cosa?” Si portò il bacon alle labbra.

“Facciamo che tu te ne stai a casa mentre io ci vado con qualcun altro ok?”

Holmes masticò svogliatamente e deglutì a fatica.

“Tipo?”

“Tipo cosa?” Il dottore tornò a concentrarsi sulle uova.

“Con…Con chi ci vai?” Replicò sbirciando verso l’altro.

Watson si passò la lingua sulle labbra e serrò un poco le palpebre.

Studiò incuriosito il volto di Sherlock speranzoso di leggervi tracce di gelosia.

“Non ti riguarda”

Holmes spalancò la bocca ostentando un’espressione offesa.

Non rispose, si limitò ad ingurgitare una forchettata di uova e deglutire il tutto aiutato da un sorso di spremuta.

John ridacchiò tra sé e sé soddisfatto e non replicò, si limitò a terminare silente la propria colazione.

Sherlock lo studiò di sottecchi.

La sua mente in fermento, la punta delle orecchie un poco rossa quando prese parola qualche minuto dopo.

“Che poi, sei il solito esagerato, non ti ho detto che non sarei venuto con te! La mia era semplice curiosità, su  cosa avessero in programma se si fosse messo a piovere” Borbottò abbandonando  forchetta e coltello sul piatto mezzo vuoto.

Il dottore si passò la lingua sulle labbra tamburellando ritmicamente sul tavolo.

Il capo un poco inclinato, gli occhi blu divertiti piantati sul volto dell’amico.

“Stai dicendo che vuoi venire con me?” Ghignò.

Sherlock fece spallucce e prese a giocherellare con un pezzo di pane.

Torturò insistentemente la mollica creando una pallina.

“Se ti va” Mugugnò.

John si alzò in piedi e prese a sparecchiare.

Sherlock levò il viso in direzione dell’amico incrociando finalmente gli occhi acquamarina in quelli più scuri.

Un ampio sorriso illuminava il volto del medico.

“E’ logico che mi va, l’ho proposto io a te Sherlock….”

Il consulente annuì pigiando con forza l’indice sulla mollica.

“A che ora?”

“Alle 3,00” John si allontanò verso la cucina con le stoviglie traballanti.

Holmes ai alzò arruffandosi i capelli sulla nuca , il nome sotto il bracciale bruciava ed egli dovette inspirare a fondo strizzando gli occhi in preda ad una fitta particolarmente forte.

Watson se ne accorse per caso, voltandosi verso il salotto dopo aver deposto i piatti nel lavello.

Corrugò le sopracciglia e lo fissò.

“Stai bene?”

Sherlock sussultò voltandosi in un gesto rapido.

“Io… Devo andare al Bart’s, ma per le 2,30 sarò di ritorno…”

“Non mi interessa Sherlock, so che tornerai in tempo, ti ho chiesto se stai bene”

Il consulente si morse con forza il labbro inferiore ed annuì.

“Sì, sto bene” La mano serrata al bracciale “ E’ solo che… Oggi fa male, parecchio, ed è insolito perché non mi succedeva da anni, solo nelle ultime settimane mi si è ripresentato il problema.”

Il dottore si sfiorò il proprio in un gesto automatico.

Con la punta delle dita tastò il bracciale senza distogliere lo sguardo da quello cristallino.

“Anche a me oggi fa male, prima di scendere, ci ho passato la crema, ma a me succede spesso ”

Il silenzio calò sul salottino.

Un ciocco particolarmente secco nel camino scoppiettò con decisione facendo sussultare entrambi.

“Devo andare!” Sherlock si mosse agile raggiungendo l’attaccapanni.

John silenzioso lo osservò infilarsi il Belstaff ed aggiustarsi la sciarpa con quella grazia infinita che tanto bene lo contraddistingueva.

“Non vuoi metterci della crema?” Riprese parola sfiorando con la mano lo stipite della porta.

Holmes con un piede già sulle scale si voltò.

Sorrise all’amico serrando le labbra e scuotendo piano il capo.

“No John, non credo possa essermi d’aiuto”

Il dottore annuì “ Come vuoi” Espirò.

“Ma grazie…” Concluse l’altro infilandosi i guanti.

“Ci vediamo dopo…”

“Sì certo, a più tardi.”

Watson rientrò in cucina chiudendo con lentezza la porta.

Raggiunse il lavello fissando i piatti senza in realtà vederli.

L’ennesima fitta della giornata lo fece imprecare.

Si tolse il bracciale e guardò con cipiglio severo quelle sette lettere.

Le vene sotto di esse piuttosto gonfie.

Le punte della W particolarmente infiammate.

Ne tracciò i contorni con l’indice dell’altra mano.

La pelle scottava.

Girò la manopola dell’acqua fredda.

Un sospiro di sollievo abbandonò le labbra al contatto lenitivo.

Serrò gli occhi ed inspirò a fondo.

Un tuono squarciò il cielo ed una risata divertita gli uscì spontanea dalle labbra.

Le previsioni di Sherlock si stavano forse avverando?

Quella dannata pioggia avrebbe rovinato i festeggiamenti della dodicesima notte?

Si augurò che smettesse entro mezzogiorno.

Chiuse il rubinetto e si volse verso la finestra del salotto.

Il lampo anticipò un altro tuono.

Si chiese se Sherlock avesse un ombrello con sé…

Alle 2,30 la porta del salottino di Baker Street si spalancò con un gesto irruento.

Il vetro tremò.

John Watson sobbalzò sulla propria poltrona, il romanzo che teneva posato sulle gambe scivolò a terra.

L’impatto attutito dal tappeto, il tonfo dai tuoni su Londra.

Si voltò con un gesto istintivo e colse la figura del proprio miglior amico bagnata fradicia sulla soglia.

“Sherlock??”

“Sì, John…” Si mise le mani sui fianchi.

“Sei….”Tentennò alzandosi in piedi.

“Zuppo?” Suggerì.

“Sì, direi di sì” Arricciò le labbra in un sorriso divertito.

“Quell’idiota del tassista non voleva farmi salire!” Si scrollò il capo.

John sparì per pochi istanti per poi tornare con un asciugamano.

“Tieni asciugati almeno un po’ i capelli….”

“Ti rendi con John?! Capisco quella volta in cui cercai di salire con l’arpione insanguinato, ma buon Dio è solo acqua!!” Si frizionò il capo.

“E dimmi, quanti tassisti ti hanno scartato? Perché a giudicare da quanto sei fradicio direi che hai camminato sotto l’acqua per parecchio…”

“Stai diventando bravo con le deduzioni dottore” Sorrise sbirciando oltre l’asciugamano.

Watson si beò di quel sorriso oltre la bianca spugna e si perse nei ciuffi corvini che scendevano impertinenti su quella pelle pallida.

“Beh è una considerazione piuttosto elementare” Borbottò.

“Già, in effetti ho mentito parlando al singolare… I tassisti che mi hanno ignorato sono stati tre… “

“Che stronzi” Scosse il capo raccogliendo il romanzo ancora a terra.

Sherlock annuì vigorosamente prima di togliersi l’asciugamano e serrarlo nella mano destra.

Gli occhi limpidi fissi sulla finestra.

“Non volevo portare sfortuna questa mattina…” Indicò con un cenno del capo la pioggia battente.

John si infilò le mani in tasca e raggiunse il camino.

Il tepore delle fiamme riscaldò la schiena un poco infreddolita.

“Non è colpa tua, molto probabilmente rimanderanno alla prossima domenica”

Holmes annuì mordendosi le labbra pensieroso.

“E noi ci saremo” Sussurrò.

Il dottore sorrise “Sì ci saremo, ma tu adesso vai a farti una doccia, non vorrei ti ammalassi”

“Ti preoccupi per me John?” Inarcò un sopracciglio avvicinandosi un poco.

“Sono il tuo dottore” Replicò levando il capo verso l’altro.

Un luccichio attraversò le iridi cristalline ed un sorrisetto increspò le belle labbra piene.

“Vai “ Seguitò Watson.

“Sissignore” Rise allontanandosi verso il corridoio.

John lo osservò dileguarsi in bagno.

Sospirò e con passo lento raggiunse la finestra.

Uno sbuffo abbandonò le sue labbra, gli occhi blu fissi sul cielo grigio.

Restò diversi istanti a rimuginare dinnanzi al volere di madre natura.

Si dispiacque della sicuramente mancata esibizione di quel pomeriggio.

Storse le labbra e si diresse in cucina con il chiaro intento di preparare due  tazze di tè.

Mise a bollire l’acqua e accese la radio a basso volume in attesa di Sherlock.

Il vassoio disposto al centro del tavolo, le tazze ordinate in maniera maniacale ed il barattolo di biscotti allo zenzero.

Sorrise addentandone uno quando il telefono squillò.

Raggiunse curioso il salottino, non erano molti ad effettuare chiamate sul fisso e suppose potesse essere un cliente.

La voce che rispose al suo saluto era quella di una donna.

Anziana suppose.

Il sopracciglio del dottore si inarcò perplesso alla richiesta di quell’interlocutrice dal tono fermo e deciso.

-Guardi signora qui non abita nessun William- Fu la replica.

Il suo cuore vacillò nel pronunciare quel nome, ormai non vi badava nemmeno più, era consuetudine reagire così.

Un riflesso involontario si diceva.

La donna non parve perdersi d’animo ed insistette un paio di volte pretendendo di parlare con il figlio che pareva quel giorno compisse gli anni.

-Signora non glielo ripeterò una quarta volta, ha sbagliato numero!- Si alterò.

Lo sbattere deciso della porta del bagno lo fece voltare con la cornetta tra le mani.

Sherlock avanzò scalzo ed in accappatoio additando l’amico e l’apparecchio telefonico.

“Problemi  John? Un cliente?”

“No, ma c’è questa tizia che non si rassegna al fatto che qui non abiti nessun William che compie gli anni oggi” Scosse il capo.

Holmes sbuffò levando teatralmente gli occhi al cielo.

Tese un braccio verso Watson e mosse la mano in un gesto indicativo.

“Dammi, è sicuramente mia madre”

John batté ritmicamente le palpebre.

Le ciglia bionde sfarfallarono rapidamente.

“Non ho capito”

Non riconobbe la propria voce.

Ne uscì un sussurro.

Quasi un pigolio.

“William Sherlock Scott” Sciolinò afferrando la cornetta “ E’ il mio nome completo” Fece spallucce.

Il dottore non mosse un muscolo, tanto che il consulente dovette scansarlo per poter raggiungere l’apparecchio.

Solo al tocco dell’amico John si riebbe e retrocedette sino a raggiungere la propria poltrona.

Vi prese posto.

Il fiato corto.

Gli occhi spalancati fissi sulla finestra del salottino.

La pioggia batteva implacabile contro i vetri.

I tuoni seguitavano a squarciare il cielo.

Watson serrò le mani alle ginocchia.

Le dita si fecero artigli.

Il denim spesso sotto i polpastrelli gelati.

Aprì la bocca incamerando aria.

Quanta più aria possibile, mentre Sherlock chiacchierava svogliatamente al telefono con la madre.

Non riuscì a formulare un singolo pensiero.

Nemmeno uno.

Si passò la lingua sulle labbra fattesi secche e si volse verso l’altro.

Lo osservò poggiare un piede nudo sul divano e grattarsi distrattamente la caviglia.

L’asciugamano che teneva posato attorno al collo cadde a terra.

Si chinò a raccoglierlo.

La cintura dell’accappatoio ciondolò minacciando di sciogliersi.

Holmes sbuffò con la cornetta posata tra guancia e spalla, gettò la spugna sul divano e fece un nodo bello stretto in vita.

La telefonata terminò in un minuto e mezzo al massimo.

Sherlock posò con sin troppa forza il ricevitore borbottando circa  l’inutilità degli auguri aggiungendo poi una serie di parole mezze sussurrate e ben poco identificabili.

Quando vide John rigido sulla poltrona corrugò le sopracciglia.

“John?”

Il dottore non rispose nell’immediato.

Il consulente dovette richiamarlo un paio di volte prima di poterlo vedere scattare in piedi ed allontanarsi verso la cucina.

“Il tè” Borbottò.

Sherlock inarcò un sopracciglio e lo seguì fermandosi sulla soglia.

Lo studiò attentamente e poté scorgere con chiarezza le mani tremare mentre versava il liquido ambrato nelle tazze.

“Tutto bene?” Domandò appoggiandosi allo stipite.

Watson sollevò i propri occhi blu intercettando quelli acquamarina.

Il vassoio appena preso tra le mani vacillò.

“Vai di là che ti porto il tè” Distolse lo sguardo.

Holmes si voltò e con grazia prese posto sul divano.

L’amico evitò accuratamente di guardarlo in viso.

Posò il vassoio miracolosamente senza versare una goccia della bevanda senza però passargli la tazza.

Retrocedette mettendosi le mani sui fianchi ed inspirando a fondo.

Sherlock non riuscì a comprendere quell’atteggiamento a suo dire bislacco e la cosa lo irritò non poco.

Afferrò un biscotto e prese a masticarlo nervosamente.

Il silenzio calò nel salottino interrotto unicamente dal crepitio delle fiamme e  dall’incessante scrociare della pioggia.

John inspirò ed espirò uno svariato numero di volte.

Troppe a gusto del consulente, tanto che si ritrovò a deglutire forzatamente il biscotto ed ammonire l’amico.

“Potresti smetterla di iperventilare come una partoriente?” Afferrò con stizza la tazza.

Watson fulminò l’altro con un’occhiata  prima di additarlo sporgendosi un poco oltre il tavolino.

“Tu…Tu…”

“Io?” Bevve un sorso di tè.

“Tu…io…”

“Sì John, conosci i pronomi personali, molto interessante, vorresti procedere e magari sederti? Mi stai innervosendo!” Posò la tazza sul piattino con sin troppa forza.

Il dottore deglutì passandosi nervosamente una mano sugli occhi per poi stringere tra pollice ed indice la radice nasale.

“Molto bene” Sospirò “ Ti faccio una domanda”

“Attendo” Incrociò le braccia al petto.

“Ti chiami davvero William?”

“Perché fai domande stupide? Non è da te… Non sempre almeno”

“Rispondi” Ringhiò.

Sherlock sussultò sotto quella replica e quello sguardo severo.

“Sì mi chiamo William” Gli riserbò un’occhiata risentita.

“E dimmi, nella tua quantomeno assurda esistenza, non hai mai pensato che al mondo ci potesse essere uno stronzo alla ricerca del suo William e che non lo abbia mai trovato perché tu…Tu hai deciso di farti chiamare Sherlock??!” John strinse i pugni lungo i fianchi.

Le ossa delle dita emisero un suono simile ad uno scrocchio, particolare che fece rabbrividire  Holmes.

“Non ho mai dato particolarmente importanza alla cosa” Distolse lo sguardo .

“Ma non mi dire!!! Ovviamente non lo hai fatto, sei un cazzo di sociopatico iperattivo, refrattario ai sentimenti, convinto che la faccenda dei Soulbond sia tutta una buffonata vero?” Urlò.

Sherlock sospirò e si alzò in piedi.

John retrocedette istintivamente e gli dette poi le spalle fissando le fiamme del camino.

“Non è totalmente esatto quello che hai detto” Sussurrò il consulente.

La voce vibrò grave nella stanza.

John si passò la lingua sulle labbra e chiuse gli occhi cercando di ritrovare quella calma che riteneva d’aver ormai perso.

Non rispose, attese che l’altro proseguisse di propria iniziativa.

“Non ho mai pensato che la faccenda dell’anima gemella fosse una buffonata”

Watson trattenne una risata amara e scosse il capo.

“Ma il fatto d’aver nascosto ai più il mio vero nome è effettivamente legato a questo motivo. Non ho mai avuto l’intenzione di prendere in giro chicchessia … Ho solo voluto tutelarmi” Si morse il labbro inferiore.

John incrociò le braccia al petto e replicò senza voltarsi.

“Tutelarti?”

“Sì, il nome del mio Soulbond è estremamente comune ed ho preferito analizzare personalmente chiunque capitasse sul mio cammino con questo nome senza mai rivelare il mio…”

Un nome comune.

Il cuore di John vacillò.

“Perché?” Sospirò.

Holmes serrò le labbra e sorrise per metà “ Perché non volevo che l’altro potesse essere in qualche modo influenzato, potesse giudicarmi in altro modo solo perché aveva quel William inciso sul braccio”

“Hai preferito continuare a comportarti come uno stronzetto e fare scappare tutti” Replicò il dottore.

Il silenzio calò per pochi istanti.

Sherlock poi riprese parola.

“Tu non sei scappato”

Quelle quattro parole appena sussurrate giunsero a John come se fossero state urlate.

Il suo cuore prese a battere furiosamente.

Il polso a bruciare.

Il volto scottare.

Avvertì il suono metallico del bracciale di Sherlock aprirsi.

Il tonfo leggero dell’impatto col tappeto.

Chinò lo sguardo e lo vide rimbalzare tra i suoi piedi.

Chiuse gli occhi.

Le mani grandi dell’amico scivolarono sulla sua vita.

Le avvertì tremare.

Il torace asciutto contro la propria schiena.

John ansimò.

Colse quegli zigomi perfetti ed accaldati premere contro il proprio collo.

Il ciuffo umido corvino sulla guancia.

Si morse la lingua e pregò con tutto sé stesso che quello non fosse un sogno.

Tenne gli occhi bassi, fissi su quelle belle mani che lentamente sfiorarono le proprie.

Le dita agili armeggiarono con il proprio bracciale nero.

Lasciò che Sherlock glielo togliesse.

Cadde a terra accanto a quello del consulente.

Un silenzio irreale riempì la stanza.

Il respiro pesante di entrambi unico suono percepibile.

Holmes gli strinse delicatamente il polso.

Avvertì il suo viso sporgersi oltre la spalla.

Gli occhi limpidi sbirciarono verso il basso.

Le belle labbra piene si piegarono in un sorriso dolcissimo.

Sospirò.

Un sospiro liberatorio.

John avvertì su di sé le dita dell’altro così calde contro la propria mano gelida.

Tremò visibilmente e trovò il coraggio di afferrare il polso di Sherlock.

Chiuse gli occhi con forza ed inspirò a fondo prima di aprirli.

“Cristo” Sussurrò “Oh Cristo”

Holmes strinse maggiormente la vita di Watson con la mano libera.

Il torace premette con decisione contro la schiena.

Avvertì un tremore debole ma costante nel corpo del dottore.

Quattro lettere.

Quattro lettere di dimensioni considerevoli incise sulla pelle lattea dell’unico consulente investigativo al mondo.

Quattro lettere ad indicare che il portatore di quel nome fosse il Soulbond della persona più assurda e meravigliosa al tempo stesso che il mondo potesse vantare.

John.

Il dottore portò il polso dell’altro all’altezza del proprio viso.

Le iridi blu fissavano incredule ciò che aveva dinnanzi agli occhi.

Sorrise e posò esitante le labbra su quella pelle che vibrò al suo tocco.

Sherlock arrossì in maniera deliziosa sulla punta delle orecchie e nascose il volto contro la nuca dell’amico.

“E’ tutto vero?” Mormorò John.

L’altro annuì senza emettere fiato.

“Sei sicuro che non mi sia addormentato sulla poltrona e questo sia un sogno?”

La risata bassa dell’altro vibrò contro la schiena del medico.

“No John, sei sveglio, siamo svegli entrambi”

Watson annuì piano intrecciando le dita a quelle di Holmes.

Il silenzio tornò ad impossessarsi di quelle mura.

La pioggia cessò d’intensità.

“John…”

“Sì?” Posò la mano libera contro il dorso di quella di Sherlock ancora ben salda alla vita.

“Mi spiace che sia successo quel giorno…” Sussurrò contro il suo orecchio.

“Anche a me” Sospirò voltandosi in quell’abbraccio.

Holmes sussultò nell’intercettare le iridi blu dell’altro.

Avvertì le mani ormai calde di John contro il proprio viso.

Chiazze rosse apparvero dispettose sul proprio collo pallido e sulle gote.

Chiuse la palpebre non sentendosi in grado di reggere lo sguardo di quello che ormai era a tutti gli effetti il proprio Soulbond.

Non in quel momento.

Non mentre aleggiò tra di loro lo spettro del proprio finto suicidio.

“Ma ci ha portati a questo….” Mormorò Watson.

La voce pacata e dolce gli fece battere furiosamente il cuore.

Avvertì le mani dell’altro abbandonare il viso per poi scivolare sulla nuca ed invitarlo ad abbassarsi un poco.

Holmes seguì docile quell’invito senza tuttavia aprire gli occhi.

Avvertì la fronte di John contro la propria.

Strinse le mani alle spalle e sospirò.

“Esperienza di forte impatto emozionale” Citò Watson.

“Legata al proprio Soulbond…” Concluse Holmes.

“Già, evidentemente non avevo mai considerato che per noi Bond latenti potesse esistere un collegamento tra l’azione scatenante  e l’anima gemella”

“Non per tutti è così” Levò lentamente le palpebre.

John scosse piano il capo e sorrise, un sorriso ampio.

Strinse con maggior intensità le mani sulla nuca di Sherlock.

“Ti chiami William”

“Sì” Rise.

“Ti chiami William cazzo”

“Sì John, direi che mia madre te ne ha dato conferma poco fa”

Watson rise “ Ed è il tuo compleanno”

“Una croce che tocca portare anche a me” Sospirò teatrale.

Il dottore sfiorò il naso del consulente con il proprio.

“Buon compleanno William” Sussurrò a fior di labbra.

“No” Rispose abbracciandolo con decisione.

“No?”

“Chiamami Sherlock”

Watson rise, una risata aperta, quella preferita da Holmes.

Scosse il capo ed annuì.

Il ciuffo corvino ancora un poco umido sfiorò quello biondo.

“Bene, buon compleanno Sherlock” Posò delicatamente le labbra su quelle soffici.

Holmes sussultò a quel contatto.

Inspirò con forza avvertendo la bocca di John scostarsi più volte per poi tornare delicata contro la propria.

Piccoli baci, quasi infantili.

Sherlock li trovò adorabili.

Adorabili perché percepì chiaramente la volontà di John di non volerlo turbare.

Era cosa risaputa quanto poco fosse avvezzo al contatto fisico.

Avvertì le mani di Watson scivolare lente lungo le braccia per poi stringersi alle proprie.

Lo tirò a sé.

Holmes gemette nell’impatto del proprio torace con quello del dottore.

Aprì un poco le labbra e John ne approfittò per lambirle con la punta della lingua.

Sherlock emise un suono così basso  che vibrò nella mente e nel corpo del dottore.

Ringhiò, afferrandolo con decisione per i lembi dell’accappatoio lasciando scivolare la lingua nella bocca del consulente.

Sherlock spalancò gli occhi emettendo un pigolio che colpì il dottore ancor più del gemito roco precedente.

 Morse piano quelle labbra piene e si perse nel percepirne quel sapore così nuovo mischiato alla dolcezza dei biscotti allo zenzero.

Holmes replicò un poco maldestro ma desideroso di voler imparare.

John sorrise di questo contro le labbra piene lasciando che la lingua timida del suo Soulbond scivolasse curiosa sfiorando i propri denti.

Si separarono dopo un tempo indefinito.

John prese quella decisione sofferta ma necessaria.

Ansimò posando le mani sulle spalle nude del consulente.

L’accappatoio scomposto.

“Ok , ok…Time out” Ansimò sorridendo.

Sherlock lo fissò con gli occhi lucidi e le labbra gonfie.

Watson fece violenza su sé stesso ma si staccò da quella visione.

“Vai ad asciugarti e… A rivestirti…” Si passò una mano sul viso.

“Sul…Serio?” Tentennò aggiustandosi l’accappatoio.

“Sì” Annuì con le mani piantate sui fianchi e lo sguardo sfuggente.

Un velo di tristezza attraversò quelle iridi cristalline, un’espressione turbata si dipinse su quel volto accaldato.

“Non… Non andava bene?” Avvampò formulando quella domanda mentre con nervosismo si grattò la nuca.

Watson aprì e richiuse la bocca incredulo.

Scosse il capo e capì.

Capì d’aver agito in modo avventato instillando nel consulente il dubbio che non stesse agendo come sperato.

“Cos…No! No Sherlock!” Gli si avvicinò nuovamente prendendogli il volto tra le mani.

In risposta ricevette uno sguardo corrucciato.

“Andava bene, troppo bene ed io…Non sono molto bravo a gestire…” Si morse il labbro inferiore cercando le parole maggiormente adatte.

“A gestire cosa John?” Sospirò appoggiando le proprie mani su quelle dell’altro ancora posate sul suo viso.

“L’eccitazione Sherlock. Non sono in grado di fermarmi tanto facilmente e… Gesù non voglio metterti fretta…”

La punta delle orecchie di Holmes si fece scarlatta.

Watson lo notò e ne fu deliziato.

“Oh… Capisco” Sussurrò.

“Quindi, vai a finire di sistemarti così ho il tempo di darmi una calmata” Rise “ E poi potremmo uscire a festeggiare il tuo compleanno…Guarda ha anche smesso di piovere”  Lo abbracciò per la vita voltandosi verso la finestra.”

Holmes scosse il capo.

“Non voglio uscire a festeggiare il mio compleanno” Borbottò “ Lo detesto”

John inarcò un sopracciglio alzando un poco il viso verso quello dell’altro “ Non vuoi?”

“No” Scosse il capo.

“Allora facciamo così, usciamo a festeggiare questo”

Sollevò la propria mano e quella del consulente avvicinando i due polsi.

Sherlock trattenne il fiato osservando quei due nomi così vicini.

“Se non vuoi uscire adesso, ti porto da Angelo questa sera, sii buono fatti portare a cena” Sussurrò.

Holmes sfiorò con indice tremante il proprio nome inciso sul polso di John.

Ne percepì la consistenza.

Le vene in rilievo sotto di esso.

“Facciamolo John!” Sollevò il viso di scatto.

Il cipiglio deciso.

Le iridi impossibili legate a quelle blu.

Watson si schiarì la voce cercando di rammentare a sé stesso di non leggervi nulla di equivoco in quelle parole.

“Cosa esattamente?” Chiese “ La…Cena?” Suppose visualizzando tuttavia nella propria mente ben altro.

“No!” Scattò un passo indietro scandalizzato “ Il legame!”

“Oh…” Innalzò le sopracciglia con stupore “Vuoi già provare?” Si morse il labbro inferiore.

“Tu no?” Si incupì.

“Sì ma… Se non dovesse funzionare?” Si sfiorò nervosamente un sopracciglio.

Sherlock scosse il capo con forza.

I capelli ormai quasi asciutti oscillarono vigorosamente.

“No no no! Deve funzionare, sei tu il mio John!” Spalancò le braccia.

Il cuore del dottore perse un battito.

Il mio John.

Con un movimento lesto lo abbracciò.

Lo strinse con forza.

Forse troppa.

Avvertì il profilo perfetto di Sherlock premuto contro il proprio collo.

“Ok Holmes, facciamolo” Sussurrò baciandogli una tempia.

Sherlock si scostò un poco sorridendo.

Tese il polso.

Watson gli scostò la manica in spugna arrotolandola con cura.

Cercò poi di fare lo stesso con la manica del proprio maglione ma il consulente lo interruppe, prendendosi il diritto di replicare quel gesto.

Quando entrambi gli avambracci furono scoperti, i due presero un profondo respiro.

“Pronto?”

“Sono sempre pronto John!” Inarcò un sopracciglio.

“Sbruffone” Rise.

“Un po’” Fece spallucce con un ghigno.

Il dottore tornò serio e con lentezza posò il proprio polso contro quello di Holmes.

Nome contro nome.

Cicatrice contro cicatrice.

John e Sherlock.

Sussultarono entrambi a quel contatto.

Il bruciore fu così intenso che entrambi gemettero piegandosi un poco in avanti.

Serrarono gli occhi.

John imprecò.

Sherlock si morse con forza il labbro inferiore.

Il dolore come giunto se ne andò.

Il bruciore attenuato.

Il calore sfumato.

 Entrambi regolarizzarono il respiro aprendo lentamente gli occhi.

Tremanti si allontanarono un poco.

Occhi negli occhi.

Annuirono decisi primi di abbassare lo sguardo.

Un ampio sorriso illuminò il volto di entrambi.

Le due incisioni mutate in una sola ed identica.

Una J ed una W legate dal simbolo dell’infinito.

“Cristo….” Un sussurro.

“Te l’avevo detto che sei tu il mio John” Sussurrò Holmes.

Il dottore rise, rise baciandolo poi con foga mentre un bel sole fece capolino nel cielo di Londra.

“E tu sei il mio Sherlock” Gli sussurrò all’orecchio.

Il consulente annuì baciandogli una guancia “Vedo che ci siamo capiti”

“Allora…Posso portarti a cena questa sera?”

“ E va bene portami a cena” Finse fastidio levando gli occhi al cielo.

“E adesso vai a cambiarti”

Il consulente annuì posando un bacio leggero sulle labbra dell’altro.

“Vado” Sussurrò allontanandosi con un sorriso.

“Sherlock” Lo richiamò.

Holmes si voltò posando una mano sullo stipite della porta della propria camera.

“Sì?”

“Buon compleanno” Si sfiorò la parte sinistra del petto.

“Grazie John” Sorrise replicando quel gesto.

Watson raccolse i due bracciali ancora a terra e si sedette incredulo alla propria poltrona.

Fissò quel nuovo simbolo sulla propria pelle.

Lo sfiorò ripetutamente e sorrise.

Scosse il capo.

“William… Sherlock è il mio William….”

Rise.

Rise forte, tanto che Holmes lo richiamò perplesso dalla camera.

“E’ tutto ok Sherlock…” Si appoggiò allo schienale.

Le mani sui braccioli.

“E’ tutto meravigliosamente ok…”

Le nuvole abbandonarono definitivamente il cielo di Londra.

Il sole illuminò la citta.

I ragazzi del Globe Theatre decisero di non rinunciare allo spettacolo…

La dodicesima notte stava per andare in scena.

 

Fine.

 

Eccomi alla fine. So quanto questo argomento sia spinoso , molti lettori sono restii a riguardo ed io spero con la mia interpretazione di aver reso giustizia al concetto di Soulbond. Mi auguro con tutto il cuore che la storia vi sia piaciuta.

Un abbraccio Chia.

P.s.  Per chi stesse seguendo la mia “Punk Mood…Again” non l’ho abbandonata, abbiate fede che a breve posterò il capitolo, ho dovuto momentaneamente sospenderla per terminare questa in tempo per l’evento <3

 

 

 

 

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