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Nonostante
Noah fosse scosso per quello che aveva passato, insistette ugualmente
per guidare. Ed io, seduta di fianco a lui, non potevo far altro che
guardarlo preoccupata. Il viaggio verso Richmond, Virginia, per
ritrovare sua madre ed i suoi fratelli era stato inutile, purtroppo.
Il vicinato in cui viveva e che, in teoria, era protetto da alte
mura, non aveva retto all’avvento del nuovo mondo. Una volta
scavalcati gli ostacoli, si era presentato davanti a noi uno scorcio
tranquillo, silenzioso. E ciò non aveva presagito nulla di
buono. Sembrava una delle tante città fantasma che già
troppe volte avevo incontrato, più che il tranquillo quartiere
di Shirewilt Estates. Avevo guardato Noah, che se ne stava al mio
fianco con la fronte corrugata dalla preoccupazione ed il corpo
rigido. «Credi che–», avevo provato a dire, ma
non mi aveva dato il tempo di completare la frase. «Andiamo.
Casa mia è poco distante dalle mura», aveva detto, con
un tono talmente spento che non avevo trovato la forza di
replicare. Rafforzando la presa attorno alla pistola, lo avevo
seguito, sperando con tutta me stessa che quella ispezione portasse a
qualcosa di buono per Noah. Le strade erano deserte e disseminate
di cadaveri, ma lui aveva continuato a stringere i denti nonostante
le lacrime che gli rigavano le guance scure, diretto verso casa
sua. Forse
sua madre e i suoi fratelli si sono salvati,
avevo pensato. Forse… Le
mie speranze si erano infrante definitivamente quando, entrati in
casa sua, la prima cosa che avevamo visto era stato proprio il corpo
di sua madre, riverso a terra e senza vita. «N-No…»,
aveva sussurrato Noah, guardando la scena davanti a lui con gli occhi
sbarrati e pieni di lacrime. Mi ero avvicinata con uno slancio,
stringendogli la mano e posandogli la fronte contro la spalla,
premendo per fargli avvertire la mia vicinanza. «Mi dispiace
tanto» erano state le uniche parole che erano riuscite a
vincere il nodo che avevo in gola. Era crollato per terra,
singhiozzando, prendendosi la testa tra le mani e accucciandosi su se
stesso. Ero rimasta in piedi in caso di necessità, pronta ad
attaccare, ma la mia mano non ci aveva messo molto a trovare la sua
spalla per stringerla. Gli occhi avevano iniziato a pizzicarmi, era
stato insopportabile vederlo così. Potevo capire come si
sentiva ad aver perso la sua famiglia, ma in realtà non potevo
comprendere fino in fondo il suo dolore. Lui non li vedeva da un
tempo troppo lungo, non era con loro quando il peggio era successo.
Aveva passato un anno lontano, senza sapere, aggrappato solo alla
speranza che fossero ancora vivi e alla paura che non fosse così.
Anche io avevo perso un padre, una madre ed il resto della mia
famiglia, ma ero stata talmente fortunata, a differenza di Noah, da
passare ogni minuto del mio tempo con loro, prima della fine. Solo di
Maggie non sapevo nulla, e pensarci fu inevitabile. Con cautela mi
ero avvicinata al corpo della madre e, vedendolo più da
vicino, avevo notato il cranio completamente sfondato, aperto, il
sangue incrostato e nero che scendeva fino alla spalla. Poco distante
c’era una stola, che usai per coprire il corpo in segno di
rispetto. «Riposa in pace», avevo sussurrato, conscia
del fatto che, ormai, stava riposando da tanto tempo. Avevo
rischiato di fare la stessa fine una volta entrata in quella che
doveva essere la camera dei fratellini di Noah. Uno dei gemelli mi
era piombato addosso dal nulla, pronto a mordere, la follia negli
occhi e la bramosia che smuoveva quel corpo morto che si esprimeva
nei versi tipici dei vaganti. Dallo spavento ero inciampata in un
giocattolo lasciato a terra, e mi ero ritrovata a dover resistere
all’irruenza del bambino, trattenendolo lontano da me per le
spalle. Noah, attirato dal mio urlo e dai ringhi era accorso in
mio aiuto, piantando la parte più appuntita della riproduzione
di una navicella spaziale nel cranio di suo fratello. Quella volta
era stato lui a coprire il cadavere con un lenzuolo, l’espressione
addolorata ma ferma, presente. «Finalmente può
riposare», gli avevo detto sorridendo, per confortarlo. Aveva
risposto al mio sorriso, aggiungendo: «Andiamo, è
pericoloso stare qui». Prima di lasciare quel quartiere,
avevamo cercato più provviste possibili sia in casa sua che in
quelle dei suoi vicini: quella zona, fortunatamente, era abbastanza
povera di erranti. Ne avevamo abbattuti cinque o sei, prima di
correre di nuovo al lato delle mura dietro al quale avevamo lasciato
il pick-up. Ed eccoci lì, di nuovo in fuga verso un posto
sicuro, di nuovo in viaggio senza una meta precisa. Eravamo stati
abbastanza fortunati con le provviste: diversi barattoli di cibo in
scatola, bottiglie d’acqua, vestiti puliti, carburante e acqua
per il motore. Il tutto raccolto in due grandi borse che ci avrebbero
permesso di stare tranquilli almeno per una settimana, prima di
cercare nuovi approvvigionamenti. «Il tuo vicino era
appassionato di armi, vedo», dissi, lanciando un’occhiata
al fucile d’assalto sistemato nel sedile posteriore, che godeva
della compagnia di un fucile a pompa, una pistola automatica e
diverse munizioni. Stiracchiò un sorriso. «Il signor
Spencer era leggermente fuori di testa e molto paranoico. Il classico
vicino che esce di casa imbracciando il fucile a canne mozze e
minacciandoti di morte perché gli hai sfondato la finestra col
pallone», replicò, tenendo gli occhi sulla
strada. Ridacchiai, abbassando il finestrino e godendomi l’aria
che stava iniziando a rinfrescare l’abitacolo. «Dove
credi che dovremmo andare adesso?», domandai poi, seria. Non
mi piaceva per niente l’idea di continuare a viaggiare soli,
nonostante fino a quel momento fossimo riusciti a cavarcela. Mi
sforzavo spesso di pensare “meglio in due che da sola”,
ma la verità era che, tutte le volte che non eravamo al sicuro
in macchina, avvertivo l’angoscia attanagliarmi lo
stomaco. Io... Io avevo paura. Guardavo i vaganti arrivare,
circondarci, e dovevo reprimere il terrore per rimanere lucida e
affrontarli, assieme a Noah. Mi sentivo sola, sentivo che io e Noah
eravamo soli. E mi mancava il mio gruppo, la mia famiglia; mi mancava
essere circondata da così tante persone sulle quali contare
per affetto, protezione, gioco di squadra. Io e Noah, inutile
negarlo, non eravamo fisicamente forti come molti di loro; non
eravamo combattenti esperti come Rick, Michonne, Glenn, Carol o
Daryl. Daryl… Solo
con lui, nonostante avessimo viaggiato in due, mi ero sentitasempreal
sicuro. Non solo perché conoscevo le sue innate capacità
di sopravvivenza, ma perché – contro ogni aspettativa –
il suo comportamento schivo, diretto e forte mi infondeva
sicurezza. Sapeva quello che faceva, e voleva dimostrarlo anche alle
persone che lo circondavano. Mi mancava Daryl. Mentre ero al
Grady avevo pensato spesso ai giorni passati da sola con lui, e
mentirei se dicessi che quei ricordi non avevano rappresentato per me
un rifugio dolce in cui nascondermi, quando le cose non andavano ed
il senso di prigionia si faceva sentire. Tutte le volte in cui mi ero
sentita sola avevo pensato al gruppo, ma ancora più spesso al
tempo che avevo trascorso con Daryl Dixon. Conoscendolo, sapevo
che si era messo alla mia ricerca, e quel pensiero mi destava
preoccupazione perché, se fosse arrivato all’ospedale,
avrebbe rischiato la vita inutilmente. Speravo che si fosse
ricongiunto con gli altri, e che non avessero trovato tracce per
raggiungermi. Era frustrante non sapere dove fossero, non sapere
se li avrei rivisti di nuovo. «Tu
non ti rendi conto, tutti quelli che conosciamo sono morti!». «No,
questo non lo sai!». «Beh, è come se lo
fossero, perché tanto non li rivedrai mai più!».
Il
nostro discorso mi tornò in mente senza che potessi farci
nulla, e speravo davvero che Daryl si fosse sbagliato. Non volevo che
restasse da solo, non volevo. Volevo che in quel momento fosse con
gli altri, al sicuro, insieme a persone a cui teneva e che tenevano a
lui. Quel pensiero mi faceva felice e mi sarebbe bastato. Mi
bastava sapere che forse erano davvero di nuovo tutti insieme, poco
importava se non li avrei rivisti mai più. «Pensavo
di andare verso Washington», rispose dopo un po’ Noah,
ridestandomi dai miei pensieri. «Perché Washington?»,
domandai, incuriosita. «È la città più
grande che possiamo trovare da qui in avanti. Forse hanno resistito,
o forse possiamo incappare in qualche rifugio in cui trascorrere
l'inverno», ipotizzò. L’idea, in tutta
sincerità, mi allettava, ma una parte di me voleva ancora
cercare la mia famiglia. Una grande parte di me lo voleva. Io sapevo
che non erano morti, sapevo che prima o poi si sarebbero ricongiunti
e avrebbero ripreso ad intraprendere lo stesso cammino. Noah ed io
non eravamo in grado di resistere troppo a lungo vagabondando, da
soli, senza un posto sicuro in cui rifugiarci. Se a Washington
avessimo davvero trovato una zona sicura o qualcosa di simile,
avremmo potuto sistemarci e tornare indietro a cercare la mia
famiglia, magari portando dei rinforzi con noi. E avevo fede che,
prima o poi, ci saremmo riuniti a loro, in un modo o nell’altro. «Ci
sto», dissi, sorridendo. «Però dovremmo riposarci
per un giorno o due. È stato lungo il viaggio da Atlanta fino
a qui», osservai. Ci avevamo messo quasi una settimana ad
arrivare; se non avessimo dovuto preoccuparci di cercare provviste e
rifugi, ci avremmo impiegato poco meno di mezza giornata. «Appena
troviamo un posto sicuro», annuì Noah. Fuggiti dal
Grady, non eravamo riusciti a fermarci nemmeno per un secondo, per
paura che gli uomini di Dawn ci trovassero e ci riportassero alla
prigionia. Noah aveva sentito dire che la gente era stufa della
leadership di Dawn, e che presto avrebbero provato a rovesciarla.
Sperai che, a quel punto, ce l’avessero fatta davvero. «Quanto
ci vuole a raggiungere Washington, da qui?», domandai. «Senza
troppi intoppi, un paio d'ore». Annuii, pensierosa.
«Possiamo trovare un posto in cui passare la notte, per poi
ripartire domani mattina», proposi, contenta che Washington non
fosse poi tanto lontana. Se la macchina avesse retto, sarebbe andato
tutto bene. «Aspetta, ma non volevi tornare indietro a
cercare la tua famiglia?», domandò con apprensione. «Non
voglio importi cose che ti ostacolerebbero». Sorrisi,
intenerita dai suoi riguardi. «Loro sono forti, sono sicura che
stanno bene. E se sono riusciti a ritrovarsi, sono numerosi e al
sicuro. A differenza nostra, che siamo solo in due»,
affermai. Mi lanciò uno sguardo preoccupato. «Sei
sicura?». «Assolutamente sì. Se saremo tanto
fortunati da trovare ciò che cerchiamo, potremmo addirittura
andarli a cercare aiutati da altre persone. Mal che vada, due ore di
macchina non sono poi così tante per tornare indietro a
cercarli», risposi, sorridendo. Tolse per un secondo gli
occhi dalla strada, rivolgendomi un'espressione poco convinta che
trovò il mio sorriso – speravo – rassicurante: la
questione era chiusa. A metà pomeriggio, appena fuori
Richmond, incappammo in un vecchio motel abbandonato, che sembrava
abbastanza deserto. Nascondemmo il pick-up in un vecchio garage lì
vicino e ci incamminammo con cautela all'entrata del motel.
Perlustrammo il perimetro del cortile in cerca di qualche vagante, e
ne abbattemmo due senza difficoltà. Decidemmo di sistemarci in
una camera al pianoterra, così, se ci fosse stata la
necessità, saremmo riusciti a correre fino all'auto più
facilmente. Sistemammo due sedie davanti alla porta, unendole tra
loro con una corda alla quale avevamo appeso dei vecchi cerchioni e
barattoli che avevamo trovato mentre cercavamo provviste. Era un
trucco che utilizzavano sempre Daryl e gli altri per essere avvertiti
nel caso un vagante si fosse avvicinato troppo al nostro rifugio;
riprodurre quell'espediente senza di loro mi provocò un
piccolo tuffo al cuore. Sistemate le sedie, ci barricammo nella
stanza, posizionando la piccola scrivania contro la porta e oscurando
le finestre con i camici del Grady. Era da un po' che non
riposavamo su un letto, perciò non ci pensammo due volte a
coricarci sul matrimoniale con sbuffi di soddisfazione, senza però
lasciare andare le armi. Chiusi gli occhi, respirando
profondamente e sorridendo tra me e me. Rimanemmo in silenzio per non
so quanto, ma non c'era bisogno di parlare. Noah non si era fermato
un attimo da quando avevamo scoperto il terribile destino di sua
madre e dei suoi fratelli, perciò volevo dargli il tempo di
elaborare, per quanto possibile, quello che aveva passato. «Non
vergognarti», sussurrai, fissando il soffitto. «Cosa?»,
domandò, la voce piatta. «Se senti il bisogno di
piangere, sfogalo. Non vergognarti», chiarii, voltando la testa
alla mia destra, per guardarlo. Lui non rispose, fissandomi per
qualche secondo. Il suo sguardo era così addolorato, così
stanco... si voltò dall'altro lato, dandomi le spalle. Con gli
occhi al sicuro dai miei, scoppiò a piangere, singhiozzando
piano e stringendo le ginocchia al petto. Osservai la sua schiena e
le sue spalle sussultare e, lentamente, mi avvicinai a lui, poggiando
la testa sul suo cuscino e la fronte contro la sua spalla. Pianse
per molte ore, ininterrottamente; quando crollò, esausto, le
fessure che i nostri camici non erano riusciti a coprire facevano
entrare le luci soffuse del tramonto. Mi alzai dal letto, attenta a
non svegliarlo, e controllai la situazione nel parcheggio del motel:
sembrava tutto tranquillo. Sperai con tutte le mie forze che sarebbe
stato così anche durante la notte e la mattina dopo. Quando
Noah si risvegliò dopo un paio d'ore, consumammo la nostra
carne essiccata e bevemmo un po' d'acqua, con parsimonia. Non eravamo
sicuri che a Washington avremmo trovato quello che cercavamo, perciò
dovevamo far durare le nostre scorte il più
possibile. Fortunatamente nel piccolo bagno della stanza c'era
ancora un po' di acqua corrente, perciò, dopocena, ne
approfittammo per rinfrescarci, a turno. Sistemammo le nostre borse
vicino alla porta, in modo che, la mattina dopo, fosse stato tutto
pronto per partire senza ulteriori indugi. La notte calò e
trascorse abbastanza tranquilla, anche se non riuscii a chiudere
occhio, se non molto tardi. Non sapevo se Noah fosse riuscito a
dormire, perché mi aveva dato le spalle tutta notte, perso nel
suo lutto. Alla mattina, dopo aver fatto una scarsa colazione,
guardammo fuori dalla finestra e scoprimmo che tre vaganti si erano
radunati nel cortile durante la notte: non erano molti, potevamo
cavarcela se avessimo agito con velocità e precisione. Provai
ad ignorare il nodo in gola causato dalla paura che quelle situazioni
mi mettevano, e mi sforzai di concentrarmi. Misi in spalla una
delle due borse e Noah prese l'altra, imbracciando il fucile che si
era portato dietro, mentre spiava i vaganti. «Se ci
sbrighiamo a raggiungere il pick-up, possiamo anche sparargli da
lontano», affermò, la voce intrisa di concentrazione e
fermezza. «Speriamo che il rumore non ne attiri altri»,
mormorai, guardando anche io fuori dalla finestra. «Se anche
dovesse succedere, saremmo già a bordo del pick-up»,
ribatté, sforzandosi di sorridere. Decidemmo di sparare ai
vaganti dalla finestra, liberare la zona e correre il più
velocemente possibile verso il pick-up. Una volta abbattuti,
aspettammo qualche secondo per vedere se ne sarebbero arrivati altri;
quando fummo certi di essere al sicuro, aprimmo con cautela la porta,
scavalcando la corda tra le sedie cercando di non farla muovere. Ci
osservammo intorno e, guardinghi, corremmo verso il capannone dentro
al quale avevamo nascosto il pick-up. Sul tetto di quella piccola
costruzione erano cresciuti muschio e rampicanti, che funsero da
perfetta copertura al nostro mezzo; ci eravamo curati persino di
sporcarlo per farlo sembrare fuori uso, nel caso qualcuno avesse
cercato di prenderlo. «Sali a bordo, Beth», disse
Noah, sottovoce ma concitato. Strappò velocemente i rampicanti
dal tetto, in modo che fosse più facile uscire da lì,
ma improvvisamente un vagante fu alle sue spalle, trascinandolo per
terra. Afferrai il coltello che mi portavo sempre appresso e lo
estrassi dal fodero, scendendo in fretta dal posto del guidatore.
Noah era a terra che tentava di mantenere le fauci del non-morto
accasciato sopra di lui lontano dal suo collo, prendendolo per le
spalle. Piantai il coltello nel cranio del vagante, e Noah spinse via
la carcassa con un verso strozzato. Gli presi la mano per aiutarlo
a rialzarsi. «Tutto okay?». Lui guardò il
cadavere ai suoi piedi, respirando pesantemente. «Sì,
grazie mille», rispose, cercando di tranquillizzarsi. Con un
movimento secco del braccio, tagliai di netto metà della
“tenda” che i rampicanti formavano, occupandomi poi del
resto. Rinfoderai il coltello e salii di nuovo al posto di guida,
mettendo in moto e partendo alla volta di Washington. «Sei
sicura che vuoi guidare tu?», domandò Noah con tono
spento. «Tu hai guidato molto più di me, dovresti
rilassarti un po'», lo rassicurai, sorridendo. Per qualche
secondo non disse nulla, ma non me ne preoccupai. Avevo notato che
era diventato più silenzioso da quando eravamo stati a
Richmond, ma era comprensibile. «Tu ce la faresti anche
senza di me», disse, all'improvviso. Nella sua voce ero
riuscita ad udire un misto di ammirazione e frustrazione. Gli
lanciai uno sguardo veloce, per mantenere gli occhi sulla strada.
«Non dire sciocchezze, Noah. Abbiamo bisogno l'uno dell'altra»,
ribattei, accorata. Gli sfuggì una risata amara. «Non
è vero. Tu sei forte, Beth, molto più forte di me. Se
mi lasci da solo per mezzo minuto vengo aggredito da uno di quegli
esseri», disse, con disgusto. «Sai quante volte mi
sono distratta io, mettendo in pericolo me e...», mi bloccai,
il nome di Daryl sulle mie labbra e il suo ricordo a pesarmi sul
cuore. «...chi era con me? Tante. Non devi sottovalutarti, così
come non devi sopravvalutare me». «Però vuoi lo
stesso andare a Washington, perché credi che io e te qua fuori
non ce la faremmo. Non sei al sicuro con me, Beth. Non sono riuscito
a proteggere mia madre ed i miei fratelli, figurati se riuscirei a
tenere al sicuro te!», disse con rabbia. «Per questo vuoi
arrivare là il prima possibile e trovare aiuto in qualcun
altro. Hai le ore contate assieme a me». Accostai con un
gesto rabbioso ed uno stridore di ruote, tirando il freno a mano e mi
voltai di scatto verso di lui. «Smetta di dire queste
cose!», esclamai alterata, incontrando finalmente il suo
sguardo. «Perché?!», domandò concitato,
allargando le braccia. «Perché sono tutte cazzate,
Noah!» Rimase interdetto dal mio eccesso d'ira, fissandomi
incerto e con gli occhi spalancati. In effetti, per lui che mi aveva
conosciuta come la dolce e gentile Beth, doveva essere stato strano
sentirmi parlare in quel modo. «Quello che hai trovato a
Richmond ti ha sconvolto, lo capisco. Ma sbagli ad insinuare di
essere tu il responsabile di quello che è successo a tua madre
e ai tuoi fratelli, perché non è così. È
Dawn che ti ha rinchiuso in quel maledetto ospedale per un anno, è
colpa sua se non sei riuscito a tornare prima. È colpa di Dawn
se non ho potuto ricongiungermi col mio gruppo. Non è colpa
tua, e nemmeno mia, se siamo stati separati dalle nostre famiglie –
sentii gli occhi riempirsi di lacrime e un nodo stretto stringermi la
gola – non è colpa nostra se qualcuno che amavamo è
morto. Entrambi abbiamo perso qualcosa di importante ed entrambi
abbiamo bisogno l'una dell'altro per andare avanti. Insieme
siamo
forti, okay? E invece che pensare a quello che non hai fatto, pensa a
quello che hai fatto: non saremmo qui, non saremmo liberi,
se non fosse stato per il tuo piano!». Presi una pausa per
respirare e calmarmi, ignorando le lacrime che erano scese a bagnarmi
le guance; mi passai il dorso della mano sul viso per
asciugarle. Noah era ancora immobile a fissarmi, anche se gli
occhi gli erano diventati lucidi; una lacrima gli rigò il
volto quando sbatté le palpebre. «Stai già
soffrendo abbastanza, non peggiorare le cose addossandoti colpe che
non hai», dissi, piano, guardandolo negli occhi. Le mie
parole sembrarono colpirlo così tanto che non trovò
nemmeno la forza di rispondere o replicare: si sporse verso di me e
mi abbracciò, stretta. «Non so se ringraziarti o
chiederti scusa», sussurrò, stringendo la
presa. Ridacchiai, scostandomi da lui. «Se proprio devo,
accetto il grazie». Lui mi rispose con un sorriso e si
rimise al suo posto, sospirando. Guardai nello specchietto
retrovisore, e notai che alcuni erranti si stavano avvicinando al
nostro pick-up. «Abbiamo compagnia; meglio andare»,
dichiarai. La successiva ora e mezza di viaggio scivolò
tranquilla e senza particolari intoppi. Noah sembrava riprendersi
lentamente di minuto in minuto, e lo provò il fatto che
conversammo come due ragazzi normali: mi parlò della sua vita
prima, di storie divertenti che coinvolgevano suo padre e i suoi
fratelli, di come era Noah nel mondo che conoscevamo; anche io gli
parlai di me, della fattoria, della mia famiglia e anche di come
avevo conosciuto il gruppo di Rick. Non so che espressione avessi in
faccia quando iniziai a raccontargli di loro,
ma qualcosa che vide nel mio sguardo lo spinse a cambiare subito
argomento. Come uno scherzo di pessimo gusto fatto da qualcuno con
un senso dell'umorismo orribile, il nostro pick-up iniziò a
tossire e ad arrancare qualche miglia prima di Washington, in una
zona fitta di boschi e zone rurali. Tanto per cambiare. «Merda,
abbiamo trovato ricche scorte di carburante e ovviamente la batteria
se ne va a puttane», berciò Noah, richiudendo il cofano
con un colpo secco; vi appoggiò le braccia e si guardò
intorno. «Non c'è neppure qualche macchina attorno, per
vedere se possiamo sostituirla». Il pensiero di non avere
un mezzo di trasporto con cui cercare un riparo e riprendere a
viaggiare a piedi mi fece ingarbugliare lo stomaco. «Proviamo
comunque ad andare avanti, ci siamo quasi», proposi, cercando
di nascondere l'ansia. «Non possiamo arrenderci ora». E
non ci arrendemmo: portammo sulla nostra schiena i pesanti borsoni in
cui trasportavamo provviste e le armi armi di scorta per un numero
imprecisato di chilometri. Per tre lunghissimi giorni vagammo per i
boschi, in costante pericolo, scappando di giorno e non chiudendo
occhio la notte, sempre in allerta, senza sapere se la strada fosse
quella giusta. Eravamo stanchi, demoralizzati e le provviste
cominciavano a scarseggiare. Fu in un vecchio fienile che Aaron ed
Eric ci trovarono. Si avvicinarono piano, senza far rumore, come
si fa nei confronti di animali che potrebbero spaventarsi. Quando
fecero capolino dall'ingresso della struttura, io e Noah scattammo in
piedi nello stesso momento, puntando contro di loro la pistola ed il
fucile in un gesto automatico. La sensazione di essere in trappola
mi offuscò la mente per i primi secondi, a tal punto che non
mi resi subito conto che i due sconosciuti non avevano, a loro volta,
tirato fuori le armi: si erano semplicemente limitati ad alzare le
braccia, con cautela, in segno di resa. «Salve»,
esordì uno dei due, con un sorriso. L'altro, anche se più
nervosamente, lo imitò. «State indietro», li
minacciò Noah, avvicinandosi di un passo allo sconosciuto.
Guardai il mio amico con apprensione, poi il mio sguardo gravitò
nuovamente sui due uomini di fronte a noi. L'uomo continuò
a sorridere, abbassando le mani. «Tu devi essere Noah,
vero?». Noah strabuzzò gli occhi, aumentato la presa
attorno all'impugnatura del fucile. «Come sai il mio nome?»,
domandò, accorato. «Chi siete?! Cosa diavolo
volete?!». «Io sono Aaron», si presentò,
conciliante. «E lui è Eric», proseguì,
indicando l'interessato con un cenno del capo. «Non vogliamo
farvi del male, vogliamo soltanto aiutarvi». «Certo»,
commentai con scetticismo sprezzante. «Ci credi tanto
sprovveduti?». «Niente affatto, Beth», replicò
Aaron con un sorriso. Un brivido mi risalì lungo la spina
dorsale e sussultai, inquieta. «Siete tutt'altro che
sprovveduti e abbiamo avuto modo di vederlo, in questi giorni». «Ci
hanno spiato», mormorò Noah, incredulo. «Sì»,
ammise Eric, «Ma non è come pensate. Non abbiamo cattive
intenzioni, tutt'altro: vogliamo solo aiutarvi», ripeté.
«Se avessimo voluto attaccarvi lo avremmo già fatto,
non credete? Vi avremmo presi alla sprovvista, puntandovi addosso
un'arma come state facendo voi», disse Aaron, senza smettere di
sorridere e cercando di essere il più convincente
possibile. «Siamo amici», aggiunse Eric. In quel
momento mi sorpresi ad elaborare un pensiero che fece capolino nella
mia testa in modo improvviso ed inaspettato: cosa
farebbe Daryl? Non
dovetti pensarci su molto: avrebbe intimato loro di andarsene e, se
fossero stati tanto stupidi da non ascoltarlo, li avrebbe uccisi lì
dove si trovavano. La
nostra sicurezza prima di tutto, sempre: mai fidarsi delle altre
persone, in un mondo del genere. Mi
sembrò quasi di sentire la sua voce avvertirmi ed ordinarmi di
non fare stronzate, di non fidarmi di loro, per quanto potessero
essere quasi rassicuranti i loro volti e i loro atteggiamenti.
Potevano volerci fregare e quella poteva essere tutta una finta bene
architettata... o forse no. Dopotutto, non era stato Daryl stesso
ad ammettere che stava iniziando a credere che esistessero ancora
brave persone? «Perché
hai cambiato idea?». Silenzio, ed uno sguardo talmente
intenso che le parole non erano servite. «Oh». Al
ricordo, il cuore mi si strinse in una morsa, che cercai di ignorare;
studiai di nuovo Aaron ed Eric, apertamente, senza dire nulla. Loro
sembravano brave persone, decisamente. Eppure, per una volta,
decisi di riflettere prima, e mi sforzai di trovare un equilibrio tra
la mia indole, troppo ingenua e ottimista, e quella di Daryl,
sospettosa e diffidente. Sorrisi ad Aaron ed Eric. «Immagino
che non sia bello parlare a due persone che ti puntano una pistola in
faccia», proferii. Aaron ridacchiò. «Avete
tutte le ragioni di farlo, non ci si può fidare degli altri in
un mondo come questo. Nemmeno io lo farei. E comunque, ci siamo
abituati». Mai
fidarsi delle altre persone, in un mondo del genere. «Vi
ascolteremo», dissi, guardando l'uomo negli occhi. «Beth!»,
mi redarguì Noah, guardandomi scioccato. Gli lanciai uno
sguardo di rassicurazione. «Ad una condizione: dovete posare a
terra tutto ciò che avete, armi comprese». «I
vestiti possiamo tenerli?», domandò Eric,
sorridendo. Una risata spontanea mi salì alle labbra.
«Certo. Ma il mio amico dovrà comunque perquisirvi»,
ribattei in tono tranquillo. «Niente in contrario»,
ribatté Aaron. Dentro di me rimase la paura che ci fosse
qualcuno, fuori dal capanno, pronti ad intervenire in caso di
bisogno. Sperai che fossero solo loro due e che non fossero in
maggioranza. Si tolsero gli zaini e li posarono per terra, per poi
dare una spinta col piede in modo che rotolassero a metà tra
noi e loro, il tutto tenendo le mani alzate. Con un cenno, diedi
a Noah il benestare per iniziare a perquisirli: lo fece, ma non trovò
nulla di sospetto addosso ai due uomini, che non smisero di sorridere
nemmeno per un istante. Noah si allontanò da loro e tornò
al mio fianco, puntando di nuovo il fucile contro di loro. «Sembrano
a posto», mi disse, poco convinto. Lanciai ai due un ultimo
sguardo, prima di abbassare la pistola. «Vi dispiace se tengo
lo stesso in mano la pistola?», domandai, retorica. «Per
sicurezza». «Assolutamente no», rispose Aaron.
Forse era la prima volta che gli veniva data la possibilità di
parlare senza vedersi puntare addosso qualcosa. «Bene»,
dissi, cercando di rilassarmi. «Volete accomodarvi?»,
chiesi, indicando la postazione vicino al fuoco con cui io e Noah
cercavamo di combattere il freddo autunnale. Ci sedemmo in
cerchio, come in un normale falò. Noah continuava a mostrarsi
sulla difensiva, rigido ma pronto a reagire in caso di bisogno.
«Allora, avete detto che volete aiutarci. Come?»,
domandai, senza troppi giri di parole. «Avete un
accampamento?», intervenne il mio compagno. Aaron scosse la
testa, più rilassato rispetto a quando era entrato. «No,
viviamo in una vera e propria comunità, una piccola città
eco-sostenibile protetta da mura di acciaio, che vive della risorsa
più importante che possiede: le persone che la abitano». Come
al Grady,
mi venne spontaneo pensare; mi irrigidii all'istante. «Siamo
appena fuggiti da un posto del genere», dissi in tono piatto.
Sentii lo sguardo di Noah su di me, e non ebbi bisogno di guardarlo
per capire che eravamo sulla stessa lunghezza d'onda. «Costretti
a vivere lì dentro senza possibilità di andarcene
finché chi comandava non lo avesse deciso di sua spontanea
volontà», aggiunsi, con tono disgustato e a pugni
serrati. «È di questo che stiamo parlando?». «No,
Beth. La zona sicura di Alexandria non è niente di tutto
questo», intervenne Eric, scuotendo la testa e parlando con
tono rassicurante. «Nessuno è costretto a rimanere ad
Alexandria, al contrario: chi non dà il proprio contributo
alla comunità viene, ehm, sollecitato
ad andarsene. È una regola, una condizione per rimanere al
sicuro, ma di certo chi arriva e decide di stabilirsi non ha debiti
da saldare. Viverci - e accettare le condizioni - è una
scelta, non un obbligo». «Proprio così»,
commentò Aaron, guardando prima Eric e poi noi. «Alexandria
è una comunità che funziona», continuò,
con il tono che si usava per descrivere una terra promessa. «Ognuno
degli abitanti ha un compito, un lavoro da svolgere che gli viene
assegnato in base alle proprie competenze e capacità; in
cambio gli viene data una casa, acqua corrente, elettricità,
cibo e tutto quello che serve per vivere dignitosamente. Tutto questo
al sicuro dal caos che vige qua fuori». «Noah, per
favore, guarda nello zaino di Aaron: dovrebbe esserci una busta con
delle foto all'interno», disse Eric, indicando la sacca alle
sue spalle. «Le foto vi faranno capire che non stiamo
mentendo». «Il vostro compito è cercare nuove
persone da accogliere?», domandai ad Aaron, mentre Noah si
alzava con cautela per prendere le foto. «Esatto. Abbiamo
iniziato ad osservarvi un paio di giorni fa, e ci siete subito
sembrate due brave persone», rispose con convinzione. «È
come se foste abituati a vivere qua fuori, come se sapeste come
comportarvi di fronte ad ogni evenienza: sarebbe una risorsa enorme,
per noi, avervi sotto la nostra protezione. Avremmo molto da imparare
da voi». Noah, che aveva già cominciato a sfogliare
le foto, si fece più vicino per farle osservare anche a me. In
quelle piccole immagini, che erano tutte in bianco e nero, c'era
tutto ciò che Aaron ed Eric avevano decantato: mura alte e,
all'apparenza, solide; case fotografate dall'esterno e che sembravano
grandi ed accoglienti; una cisterna d'acqua enorme; una torre alta
dalla quale si riusciva a vegliare su tutta la zona sicura; dei
pannelli solari che garantivano una risorsa energetica praticamente
inesauribile; una dispensa collettiva enorme e ben fornita, così
come lo era il deposito di armi. La zona sicura di Alexandria
sembrava la concretizzazione di tutto ciò che io e Noah
eravamo andati a cercare a Washington. «Cosa ne pensi?»,
domandai a Noah in un sussurro, fingendo che Aaron ed Eric non
fossero lì davanti a noi. «Sembrano dire la verità»,
rispose, pensieroso. «Se rimaniamo qua fuori, moriremo. Se
invece proviamo a fidarci, potremmo cadere in una trappola e morire
comunque o...». «Essere fortunati e trovare un posto
sicuro in cui vivere», terminai, abbassando lo sguardo sulle
foto. «Sei disposto a correre questo rischio?». Dopo
qualche secondo, rispose con un'unica parola: «sì». Il
mio sguardo corse prima a lui, poi ad Aaron ed Eric – che
avevano assistito a quello scambio di opinioni senza proferir parola
– ed infine alle foto che tenevo in mano: quella che ritraeva
le mura era la prima del plico. «Anche io».
~
Ci
rimettemmo in viaggio non appena presa la decisione di fidarci, anche
se rimanemmo comunque tesi e in allerta fino ai cancelli di
Alexandria. Durante il viaggio non parlammo molto con Aaron, che
guidava tranquillamente il SUV con il quale lui ed Eric – alla
guida dell'altra auto – andavano in giro a reclutare le
persone. Non so a cosa stesse pensando Noah che, in silenzio, se ne
stava al mio fianco sul sedile posteriore, guardando fuori dal
finestrino. Per quel che mi riguardava, non feci altro che sperare
tra me e me di non aver fatto una cazzata a fidarmi, tutto il tempo.
Mi sorpresi nuovamente a pensare a Daryl, a come si sarebbe
comportato lui e, soprattutto, cosa avrebbe detto se mi avesse vista
correre un rischio tanto grande riponendo la mia fiducia in persone
che non conoscevo. Sarebbe stato molto vicino a uccidermi, o forse
non lo avrebbe fatto semplicemente per non negarmi il piacere di
sentirlo inveire contro di me per la mia avventatezza. Immaginare il
suo volto distorto dalla furia, però, mi fece sorridere; avrei
anche accettato un'ora di insulti pur di averlo accanto a me, pur di
vedere con i miei occhi che era vivo e che stava bene. Una piccola
parte di me si domandò per quale strana ragione il mio
pensiero corresse così spesso a lui, ma non ebbi il tempo di
trovare una giustificazione o una risposta, perché la voce di
Aaron mi distolse dai miei pensieri. «Siamo arrivati»,
annunciò, voltandosi verso di noi per sorriderci. Scendemmo
dall'auto con cautela, le nostre borse ancora in spalla e le armi ben
salde tra le dita. Gli alti cancelli della zona sicura di
Alexandria interrompevano bruscamente la strada che avevamo percorso
in auto, ed era protetta ai lati dalla boscaglia che la contornava;
anche dall'esterno si notava la stessa torre di guarda che avevo
scorso sfogliando il plico di foto. Aaron ed Eric si fecero
riconoscere dall'uomo che stava di guardia al cancello d'ingresso,
che era costituito da una solida grata che lasciava intravedere
l'interno e da una lastra di acciaio che, invece, serviva ad oscurare
la città a vaganti e umani. «Nuove reclute?»,
domandò lo sconosciuto, con un ghigno. «Nicholas»,
salutò Aaron con un cenno del capo, avnzando verso di lui
mentre le barriere erano aperte. «Visitatori», lo
corresse. «Ma io spero ardentemente che decidano di rimanere»,
aggiunse, voltandosi verso me e Noah, facendoci l'occhiolino. Mi
venne da sorridere, spontaneamente. Ci avvicinammo all'uomo che
ancora imbracciavamo le pistole, quando con la mano fece fece segno
di fermarci. «Bellezza, devo chiederti di lasciarmi tutte le
armi che hai», disse, guardandomi dalla testa ai piedi con un
sorriso sghembo e lo sguardo viscido. «Anche a te, ragazzino»,
aggiunse poi con scherno, guardando di sfuggita Noah. Chi
distribuiva i compiti tra gli abitanti di Alexandria doveva essere
straordinariamente bravo a comprendere chi fosse più tagliato
per un certo ruolo di altri: se fosse stato Nicholas a trovarci in
mezzo al bosco, non l'avrei mai seguito. Cercai di ignorare il
disgusto per concentrarmi sulla sua richiesta, che aveva scatenato il
panico dentro di me: cosa?! Dovevamo entrare in quel posto
disarmati?! Guardai Aaron con gli occhi spalancati, in attesa di una
spiegazione. «Beth, fidati di me. Le armi non ti servono
qui dentro», spiegò, col tono che si riserva ai bambini.
«Sono le nostre armi», intervenne Noah, alterato,
sporgendosi in avanti. «E rimarranno vostre: potrete
usufruirne se andrete la fuori, in ogni momento; ma qua dentro non
servono», replicò, in tono gentile ma fermo. Come ci
aveva ridotto quel modo, se non riuscivamo a pensare di vivere senza
imbracciare un'arma? Ignorando la parte di me che si opponeva a
fidarmi di Aaron, allungai a Nicholas il borsone dentro il quale
avevamo raccolto tutte le armi in nostro possesso: ignorai
deliberatamente il ghigno vittorioso dell'uomo. Aaron ci sorrise,
come se fosse orgoglioso di noi e mi mise una mano sulla spalla.
«Venite, vi porto da Deanna». «Chi è
Deanna?», domandò Noah, mentre Aaron iniziava a
incamminarsi. «La leader - se così si può
definire - di questa comunità». Mi fu impossibile
evitare di pensare a Dawn e, scambiandomi una veloce occhiata con
Noah, capii che nemmeno lui ci riuscì. «La signora
Monroe si occupa di assegnare i ruoli a chi vive qua dentro, e riesce
a trovare il lavoro più adatto semplicemente parlando,
chiedendo ad ognuno la propria storia. È straordinaria, non
potremmo avere di meglio», continuò Aaron, senza
nascondere l'ammirazione ed il rispetto che provava per la
donna. Aaron mi condusseda lei, da sola, e appena entrata in casa
sua mi guardai attorno, girovagando per il vasto salotto: poche volte
nella mia vita avevo visto case così eleganti e belle. Era la
classica casa di città, così diversa da quella in cui
ero cresciuta io. «Ciao Beth, piacere di conoscerti»,
disse Deanna con voce soave, incurante del fatto che stessi
curiosando in giro. Mi voltai di scatto, trasalendo dalla sorpresa.
«Salve, signora Monroe», risposi in un mormorio,
rimettendo a posto il libro che tenevo tra le mani. La osservai,
ripensando alle parole di ammirazione che Aaron le aveva riservato:
effettivamente, Deanna Monroe dava subito l'impressione di essere una
donna tutta d'un pezzo, il volto rassicurante e l'atteggiamento
deciso. «Chiamami Deanna», ribatté, gentile,
per poi sedersi su uno dei due sofà e indicandomi l'altro.
«Prego, siediti». Titubante seguii il suo consiglio,
accomodandomi sul bordo del divano e stringendo le ginocchia tra le
mani. «Ti dispiace se filmo il nostro incontro?»,
domandò, e solo allora notai la telecamera ben sistemata sul
cavalletto alle sue spalle. Scossi la testa. «Allora, Beth,
parlami un po' di te», mi sollecitò sorridendo, dopo
aver capito che non avrei fatto il primo passo per iniziare la
conversazione. «Da dove arrivate tu e Noah?». «Da
Atlanta», risposi, nervosa. Il suo sguardo attento e carico di
aspettative mi metteva a disagio. «Avevate un gruppo?»,
domandò, interessata. «No. Cioé, non proprio»,
mi corressi. «Io avevo un gruppo, ma poi siamo stati divisi ed
io ho finito per ritrovarmi a vivere nella comunità dove
avevano imprigionato anche Noah». Deanna
alzò le sopracciglia. «Imprigionato?». Annuii,
abbassando lo sguardo. «Dawn, la leader, aveva il controllo
sull'ospedale in cui vivevamo. Per come la vedeva lei, averci salvato
la vita ci aveva messi nella condizione di esserle debitori. Avevamo
un debito da saldare, lavorando nella comunità ed eseguendo
ciò che ci veniva chiesto. Saremmo dovuti rimanere lì
finché lei non avesse deciso di liberarci da quell'obbligo»,
spiegai, senza nascondere il disgusto. «Poi cos'è
successo?», domandò Deanna, sporgendosi
inconsapevolmente verso di me. «Siamo scappati»,
risposi, lapidaria. I suoi occhi mi studiavano, pieni di
ammirazione. «E siete riusciti ad arrivare fino a qui. Due
ragazzi così giovani... Incredibile. Come avete fatto?». «Il
mio gruppo...», esitai un attimo, avvertento un groppo in gola.
«Loro mi hanno insegnato a sopravvivere là
fuori». «Siete stati fuori per tutto questo tempo?»,
chiese di nuovo, lo sguardo ancora più sorpreso di prima.
«Quasi dall'inizio, ma è una storia lunga»,
tagliai corto. Non avevo voglia di ripensare a quando eravamo ancora
tutti insieme, tutti vivi. Papà... «Lei
invece?», domandai, per evitare che approfondisse la questione,
più che per un interesse sincero. «Come è
arrivata qui? Chi ha creato tutto questo?». Se si
accorse del mio intento di sviare il discorso, non lo diede a vedere.
Mi raccontò invece che era stata un membro del congresso
dell'Ohio che era stata rieletta. Quando era scoppiata la crisi, lei
e la sua famiglia stavano cercando di tornare in Ohio, ma
l'esercito li aveva fermati e condotti verso la zona che, già
al tempo, era conosciuta come Alexandria Safe Zone. C'era, inoltre,
un enorme centro commerciale in costruzione, vicino ad Alexandria, e
lei e la sua famiglia avevano utilizzato i materiali del cantiere per
costruire le mura attorno alla comunità. Man mano che il tempo
passava, erano diventati sempre più numerosi: una comunità
in piena regola, eco-sostenibile e autosufficiente. «Perciò
siete qui dentro dall'inizio», conclusi quando finì di
parlare. «Esattamente, Beth», asserì, lo
sguardo deciso. «Per questo tu e Noah sareste un'enorme risorsa
per noi». «Noi non... Noi ce la caviamo, ma di certo
non bene come la mia famiglia», ribattei, con la voce che si
spezzò a fine frase. «Dove sono loro? In quanti
eravate?». Avvertii gli occhi gonfiarsi di lacrime e guardai
da un'altra parte, mordendomi un labbro. «Credo
che siano ancora in Georgia... All'inizio non arrivavamo a venti
persone, poi ci siamo stabiliti in una prigione e, essendo un luogo
ben protetto, abbiamo iniziato ad accogliere altri sopravvissuti. Li
andavamo a cercare, un po' come fanno Aaron ed Eric. Poi la prigione
è andata distrutta e da lì ci siamo dispersi. Adesso
non so quanti siano ancora vivi». «La
prigione è andata distrutta? Come?». «La follia
di un solo uomo può provocare danni enormi», risposi,
atona. «Siamo come entrati in guerra con un'altra
comunità, capeggiata da un omicida che si faceva chiamare
Governatore. E' lui che ha iniziato tutto, è lui che si è
presentato ai cancelli della prigione e li ha distrutti»,
raccontai, udendo ancora nelle orecchie il rumore delle esplosioni,
delle urla e degli spari; avvertendo la stessa paura di quella volta
scuotermi le membra, mentre le immagini del Governatore che
decapitava brutalmente mio padre mi riempirono i pensieri,
dolorose. «E per salvarvi,
siete stati costretti a scappare ma non siete riusciti farlo
insieme», concluse Deanna, gli occhi pieni di
compassione. «Sì», mormorai. «Capisco.
Mi dispiace moltissimo per quello che hai passato»,
disse con sincerità. Se
sapessi davvero tutta la storia, ti dispiacerebbe di più,
pensai fra me e me. «Per
quel che riguarda il resto del tuo gruppo, se fossimo certi del fatto
che si trovano più vicini, potremmo andare a cercarli».
Il mio sguardo guizzò sul viso di Deanna, speranzoso. «Ma,
ora come ora, non riusciamo a compiere un viaggio così lungo.
Un giorno, forse, ne saremo in grado», aggiunse subito dopo,
attenta alla mia reazione. Mi irrigidii, delusa. «Un
giornopotrebbe
essere troppo tardi», ribattei, in tono piatto. «Beth,
capisci che non posso mobilitare i miei uomini per cercare qualcosa
che non siamo sicuri di trovare, vero?», domandò con
fermezza. «Anche Eric ed Aaron non sono sicuri di trovare
persone da salvare, quando escono da quel cancello», mi
infervorai. «In questo caso ne abbiamo la certezza: io so che
sono vivi». «Eric e Aaron non sono mai andati così
lontano. È un viaggio lungo e rischioso, bisogna ponderare
bene una decisione del genere», ribatté Deanna, cercando
di farmi ragionare.«Prenditi
il tuo tempo per ambientarti qui, Beth. Se sono sopravvissuti fino ad
ora, saranno in grado di continuare a farlo. Poi, quando sarà
il momento giusto, ci mobiliteremo per andarli a cercare»,
disse, prendendo a guardarmi con uno sguardo che cercava di
trasmettere tutta la sicurezza possibile, le labbra piegate in un
sorriso. La
guardai per qualche momento, non sapendo bene cosa dire. Poteva dire
la verità, come poteva dire una bugia, ma in entrambi i casi
lo avrei scoperto solo rimanendo lì ed integrandomi nella
comunità. Avrei potuto rifiutare l'offerta e tornarmene là
fuori, in quel mondo impazzito; oppure avrei potuto attendere e
cercare, col tempo, di convincere Deanna o Aaron ad aiutarmi, il
tutto rimanendo al sicuro e conducendo una vita normale. Avrei avuto
più possibilità di rimanere viva per cercarli se fossi
rimasta al sicuro dietro le mura di Alexandria, lo sapevo. E
Deanna aveva ragione: ce l'avrebbero fatta in ogni caso. Mi fidavo di
loro, delle loro capacità, della loro forza, del loro
prendersi cura l'uno degli altri. «Okay», dissi,
espirando rumorosamente e appoggiando la schiena contro lo schienale
del divano. «Rimarremo qui, ma non mi dimenticherò della
mia famiglia», l'avvertii, con tono tranquillo ma fermo. Deanna
continuò a tenere i suoi occhi allacciati ai miei, sorridendo
soddisfatta. «Sarebbe grave il contrario», ribatté.
«Non potrei essere piùfelice
della tua decisione». Mi limitai a sorriderle in risposta,
senza trovare nulla da dire. Dentro di me, speravo che Noah fosse
d'accordo. «Giusto per capire a quale compito sarà
meglio assegnarti, cosa ti piaceva fare prima? In cosa eri brava?
Stavi studiando per specializzarti in qualcosa di particolare?»,
domandò, interessata. Ci pensai su un attimo. «Non
saprei», risposi, scuotendo la testa. «Quando tutto
questo è iniziato io ero ancora al liceo. Passavo le giornate
nella fattoria della mia famiglia», iniziai a raccontare,
fissando il vuoto e perdendomi nei ricordi. «Aiutavo mia
madre nelle faccende, davo una mano a svolgere le mansioni della
fattoria. Aiutavo mio padre, che era un veterinario e mi insegnava le
basi della medicina. Avevamo un vecchio pianoforte, mia madre aveva
cominciato a darmi lezioni... Mi piaceva suonarlo la sera, quando
papà smetteva di lavorare. E amavo cantare», sussurrai,
alla fine di quel discorso sconnesso e confuso. Deanna capì
cosa mi provocava ricordare la mia vecchia vita, e non mi fece
ulteriori domande. Mi ringraziò per il tempo che le avevo
dedicato e mi riaccompagnò da Aaron, mentre era il turno di
Noah per colloquiare con la leader di Alexandria. Seguii Aaron fino
ad una villetta che era più piccola rispetto alle altre che
avevo visto quando avevo camminato per la via principale, ma
altrettanto bella. Aveva un giardino, un patio e sembrava di
costruzione recente per quanto tenuta bene. «Questa sarà
la tua nuova casa», annunciò Aaron, con un sorriso.
«Quella lì vicina invece è destinata a Noah»,
aggiunse, indicando la villetta a destra della mia con un cenno del
capo. «Sono bellissime», sussurrai, facendo correre lo
sguardo sulla porta, sulle finestre e sugli elementi architettonici
che le caratterizzavano. «Sei sicuro che siano regalate?»,
domandai, voltandomi verso di lui con un'occhiata esageratamente
sconcertata. Scoppiò a ridere alla vista dei miei occhi
spalancati. «Sicurissimo, è regalata ed è tua».
Poi il suo sguardo si fece tenero e si avvicinò a me,
appoggiandomi una mano sulla spalla. «Non riesco
minimamente ad immaginare quello che tu e Noah possiate aver passato
là fuori. Capisco che questa realtà vi disorienti e che
facciate fatica a rilassarvi, ma adesso potete. Siete al sicuro,
Beth, davvero. Qui dentro non si tratta di sopravvivere, si tratta di
vivere. E voi ne avete il completo diritto». Il suo
tono di voce era talmente dolce, sincero e rassicurante che le
lacrime salirono agli occhi senza che potessi farci niente. Vivere,
finalmente, non solo sopravvivere. Se da una parte mi sembrava di
scappare dai problemi e da quella che era la realtà del mondo
fuori da quelle mura, dall'altra vedevo finalmente un nuovo inizio
dopo mesi e mesi di stenti e sofferenze. Se solo gli altri fossero
stati lì con me... Maggie, Glenn, Carl, Judith, Rick,
Michonne, Bob, Sasha, Tyreese, Carol, Daryl: i loro volti
cominciarono a susseguirsi nella mia mente ed il mio cuore si strinse
in una morsa dolorosa. «Vorrei che anche la mia famiglia
ricominciasse a vivere, Aaron», mormorai, la voce spezzata. Lui
si fece vicino a me, coinvolgendomi in una sorta di goffo abbraccio.
«Ci occuperemo anche di quello, Beth. Te lo prometto».
Allooora,
salve a tutte/i! Sono l'ennesima nuova leva nel fandom Bethyl -
come autrice più che altro, visto che di fanfiction su TWD ne
leggo/seguo parecchie - e, sì, ho deciso di uscire allo
scoperto con una storia che mi vortica in testa da un bel po'. Da
come avrete capito, è una "what if" con la quale
vorrei salvare la vita a Beth e regalarle un happy ending con
Daryl. Perché li amo smodatamente, e non si meritano per
niente quello che gli autori hanno avuto in serbo per loro nel
telefilm originale. Ci tengo molto a dare una versione alternativa
della storia, e ci tengo soprattutto che sia coerente e credibile:
sono molto attiva su Tumblr, e ogni tre per due incappo nei post del
Team Delusional (così si fanno chiamare il gruppo di fan della
Bethyl che credono che Beth sia ancora viva nonostante la 5x08), che
mettono in piedi mille teorie ricche di indizi secondo i quali il
colpo alla testa di Dawn non sia stato mortale per lei. Per quanto mi
piacerebbe che il Team Delusional avesse ragione, mi riesce molto
difficile crederlo. Mentre aspetto di essere contraddetta su tutta la
linea dalla sesta stagione - magari! -, pasticcio un po' per conto
mio con i miei due piccioncini preferiti :) Per cui sì, per
qualche fortunata ragione Noah e Beth sono riusciti a scappare con le
loro forze e ad allontanarsi il più possibile da quella
stronza di Dawn, alé alé! Posso capire se il fatto
che Beth non sia tornata indietro a cercare Daryl e gli altri possa
stonare un po', ma ho provato a immaginare come si sarebbe
sentita a viaggiare in coppia con qualcuno non forte quanto Daryl
(Noah ha passato quasi tutto il capitolo a piangere, per dirvi
ahahah) o qualcun altro del gruppo. Io sarei morta di paura. Tornare
indietro avrebbe comportato maggiori rischi, senza contare il fatto
che non avrebbe nemmeno saputo da dove iniziare a cercare la sua
famiglia. Dovevano
andare avanti. Questo
capitolo è lunghissimo, mi rendo conto, e probabilmente
piuttosto noioso (vista la mancanza del nostro arciere o di colpi di
scena), ma sarà l'ultimo così pesante. Dovevo
inquadrare bene le situazioni e dare una base a tutto ciò che
succederà nei prossimi capitoli e nel resto della storia. Lo
dico già da ora: non offrirò una versione tutta mia
della sesta stagione, semplicemente perché non ho in mente
niente di geniale o idee belle con le quali arricchire la trama
originale. Questa storia si occuperà semplicemente del
rapporto tra Beth e Daryl, episodi che trattano loro come coppia e
molto spesso saranno pure discordanti tra loro (forse non seguirò
nemmeno un ordine cronologico, chissà). Credo sarà una
longfiction/raccolta di slice of life dei nostri amorini.
Semplicemente ho dovuto dividere la parte iniziale da cui parte la
mia versione alternativa perché già solo questo
capitolo è lungo DICIOTTO PAGINE. Mi scuso già da ora
per eventuali episodi di latte alle ginocchia! Per aiutarvi a
capire quanto tempo passa, mi sono scervellata sulla wikia di The
Walking Dead e sono riuscita a elaborare una piccola linea temporale
che dovrebbe aiutarvi a far quandrare meglio l'arco di tempo in cui
si colloca tutto questo (e cosa succede lontano da Beth e Noah):
gg
504
→ la
prigione viene distrutta gg
504-507 →
Beth
e Daryl viaggiano assieme gg
507
→ Beth
scompare gg
510
→ Beth
e Noah scappano (4 gg per arrivare a Richmond) gg
511
→ il
gruppo si riunisce dopo Terminus gg
513
→ cercano
Beth ma non la trovano gg
514
→ il
gruppo si muove verso Washington/
Beth e Noah sono a Richmond/
Sostano nel motel gg
515
→ arrivano
a Washington gg
516 →
Beth
e Noah vagabondeggiano gg
518
→ Aaron
li trova/Arrivano ad Alexandria (Il
gruppo dovrebbe arrivare più o meno dopo un mese rispetto a
Beth e Noah) Vi
lascio inoltre il link al video che ho montato assieme, visto che un
AU del genere su youtube non l'ho mai trovato:
https://www.youtube.com/watch?v=bEl1UtvtjnU Potrebbe
contenere spoilers, ma lo so sia io che voi che tanto questi due
finiranno insieme, ahahah! Inoltre ci sono degli elementi di questa
storia che non sono riuscita ad inserire nel video, perciò
sono collegati, sì, ma non più di tanto :) Potete
anche visitare il mio tumblr che è tuuutto dedicato a loro,
nel caso voleste chiedermi qualcosa riguardo la storia o per
qualsiasi altro motivo! Potremmo anche seguirci a vicenda, non mi
stanco mai di vedere post sempre nuovi su Bethyl :F ecco il link:
http://itsbethylness.tumblr.com/e
http://itsbethylness.tumblr.com/tagged/bethylness-fanartse
volete vedere i disegni associati alla mia storia e alla Bethyl in
generale. Sì,
sono ossessionata.
Qui invece scrivo tutto quello che riguarda solo la mia storia: http://blakieefp.tumblr.com/ E
nulla, credo di avervi trattenuto anche troppo: prometto che è
la prima e ultima volta. Domani partirò per le
vacanze e credo che starò via un paio di settimane, dopodiché
mi rimetterò a scrivere e a completare il secondo capitolo,
che è già a buon punto! Grazie mille a chiunque
vorrà lasciarmi il suo parere, o anche a chi leggerà
silenziosamente.
Ci
provai, nel mese successivo, a sentirmi a casa lì ad
Alexandria: fu incredibilmente dura, molto più di quanto mi
sarei aspettata. La prima notte io e Noah dormimmo nel salotto
della casa che era stata assegnata a lui; dormimmoper
modo di dire. Per quanto mi sforzassi di ripensare alla gentilezza di
Aaron e alle parole rassicuranti di Deanna, non riuscii a chiudere
occhio. Ogni minimo rumore mi faceva scattare e attendere il momento
in cui qualcuno avrebbe sfondato la porta e ci avrebbe assaliti.
Essere disarmata, inoltre, non mi aiutava a stare più
tranquilla. Ma non successe mai nulla, nemmeno nella settimana
successiva, e all'ottavo giorno ero talmente stanca e distrutta che
dormii per dodici ore, dalle sette di sera alle sette del mattino
successivo, in casa "mia". Per me e Noah fu molto
difficile abbassare la guardia dopo che, per un anno e più,
aprire gli occhi la mattina significava stare in costante allerta,
col pericolo sempre in agguato e con la speranza di riuscire ad
arrivare vivi a fine giornata. La sopravvivenza non era una cosa
affatto scontata, là fuori, per questo fu strano rimettersi
nell'ordine delle idee che ora avevamo di nuovo una vita più o
meno normale. Inoltre, mi mancava la mia famiglia, fino a star
male. Sapere che loro erano ancora là fuori mentre io ero lì,
al sicuro, mi faceva scendere una lacrima tutte le notti prima di
addormentarmi. I primi giorni non ero nemmeno riuscita ad alzarmi dal
letto. Ero diventata più taciturna e avevo perso la voglia di
cantare, perché il mio cervello era impegnato il novanta
percento del tempo a pensare a come trovarli e salvarli. Avevo
cercato di descrivere ad Aaron ed Eric le persone da cui era composto
il mio gurppo, una ad una, per fare in modo che fossero riconoscibili
per i miei due amici (ormai questo erano diventati per me)
reclutatori. In un mese, Erano usciti dai cancelli di Alexandria tre
volte, e tutte e tre le volte non avevano portato notizie di loro,
non li avevano visti. Ma noi eravamo pronti ad
accoglierli. Eravamo persino riusciti a scattare un'altra
fotografia che mi ritraeva davanti ai cancelli di Alexandria, in modo
che Rick e gli altri non pensassero che fosse un trucco di Aaron per
attirarli in trappola. Per fare in modo che Aaron ed Eric
venissero presi sul serio dalla mia famiglia, ebbi l'idea di scrivere
qualcosa nel retro della mia fotografia.
Alla
mia famiglia: sono viva, sono al sicuro e sto bene: l'unica cosa
che mi manca qui siete voi. Vi aspetto tra le mura di Alexandria.
Vi voglio bene. Beth Ps:
esistono
ancora brave persone Richiusi
il pennarello, sperando con tutte le mie forze che la foto, le mie
parole e quelle di Aaron servissero a convincerli che non era tutto
un trucco e che stavo bene. Sperai soprattutto che il post scriptum
per Daryl servisse come prova del nove: solo e io lui sapevamo il
significato dietro quelle parole, nessun altro ad Alexandria avrebbe
potuto riferirsi al nostro ultimo discorso. Sperai che sarebbe
servito, di più non sapevo cosa fare. L'unico modo in cui
riuscivo a liberare la mente era lavorare come infermiera nel piccolo
ambulatorio della zona sicura, affiancata dal medico-chirurgo Pete e
dalla sua assistente, Josie. Passavo più tempo con Josie,
infermiera anch'essa, che si premurava di istruirmi su tutto quello
che mio padre non aveva fatto in tempo a insegnarmi; ma era successo
anche che andassi a casa di Pete, per cenare con la sua famiglia.
Jessie, sua moglie, era una donna giovane e deliziosa, così
come i suoi figlii Sam e Ron erano educati e sapevano metterti a tuo
agio; fu una bella serata, anche se qualcosa, nei modi materni con
cui Jessie accolse a cena me e Noah, mi scavò un senso di
vuoto nello stomaco. Noah invece aveva trovato in Reg, marito
di Deanna, un mentore che lo guidasse nello sviluppo della sua
passione per l'architettura, della quale non ero a conoscenza e che
mi sorprese. Passavano molto tempo insieme, discutendo su quale fosse
il modo migliore per rinforzare le mura di Alexandria e dove trovare
i materiali giusti, il tutto studiando, sulle mappe a loro
disposizione, i dintorni circostanti la zona sicura. Per rendersi
attivamente utile alla comunità, Noah si univa ogni tanto -
quando Reg lo permetteva - alla squadra addetta alla ricerca di
provvigioni e scorte. Avrei voluto unirmi a loro e non dover sempre
aspettare il suo ritorno in preda all'ansia, ma quando avevo avanzato
la richiesta, Deanna, seppur con gentilezza, mi aveva negato il
permesso, ribattendo che la comunità necessitava la mia
presenza lì.
Ma rimanere entro le mura significava non fare nulla di
entusiasmante per la maggior parte del tempo. Certo, ero grata per il
lavoro che Josie stava facendo con me e l'attenzione con cui mi
insegnava tutto ciò che sapeva: il problema era che non avevo
modo di metterlo in pratica. Era una fortuna che la salute degli
abitanti di Alexandria fosse tanto buona, ma in un mese mi ero
occupata di aiutare prettamente persone anziane con i fastidi dovuti
all'età e bambini che non avevano reagito bene al freddo che
avanzava di giorno in giorno. Mi sentivo inutile. Deanna lo
sapeva, per questo, una mattina nuvolosa e piatta, era arrivata
all'ambulatorio chiedendo a Josie se poteva sequestrarmi per un po'.
L'espressione interrogativa era permeata sul mio volto finché
non eravamo arrivate davanti al garage dove i bambini più
piccoli avevano scuola, e Deanna li aveva salutati con un sorriso,
annunciando: «da oggi in poi, ogni mercoledì, avrete una
lezione speciale con Beth, la vostra nuova insegnante di musica». Io
l'avevo guardata con gli occhi spalancati, mentre i pochi bambini
presenti sorridevano entusiasti assieme a Samantha, la loro
maestra. «Perché?»: ero riuscita a domandare
solo questo, esterrefatta. «In questo mondo si sta
dimenticando l'importanza della musica. Non voglio che i bambini di
oggi diventino adulti di domani che non sanno con quali canzoni far
addormentare i propri figli», aveva spiegato, come se fosse la
risposta più scontata da dare. La risposta più bella
che mi potesse dare. «Ti sono veramente grata, Deanna, ma...
senza di loro, io...», avevo sussurrato, gli occhi che si
riempivano di lacrime. «Non credo di riuscire più a
cantare». Mi aveva messo una mano sulla spalla come
gesto di conforto. «Se non te la senti posso capire, ma almeno
pensaci. Non ti vedo affatto bene, Beth, e non sono l'unica a
pensarlo», aveva replicato con lo sguardo preoccupato,
riferendosi chiaramente ad Eric, Noah ed Aaron. Per un secondo avevo
pensato che anche Aiden si fosse accorto del mio stato d'animo: dopo
avermi conosciuta alla festa di benvenuto che Deanna aveva
organizzato appositamente per me e Noah, ogni scusa sembrava essere
buona per parlarmi o passare del tempo con me. Era un bravo
ragazzo, più grande di me di qualche anno, e ancora non
avevo capito se da me cercasse un'amicizia o qualcosa di più
– o fingevo di non capirlo; ero certa solo del fatto che non ne
avessi voglia. Più volte avevo reclinato i suoi inviti,
persa com'ero nella mia bolla di malumore: sopportavo solo la
compagnia di Noah e dei due reclutatori, o di Josie; in certe
giornate, nemmeno quella. «Sto bene», avevo detto,
mentendo spudoratamente. «Credo solo di aver bisogno di tempo,
ma ti prometto che ci penserò». Deanna mi aveva
sorriso. «Quando avrai preso una decisione dimmelo,
qualunque essa sia». Quella sera riflettei molto sulla
proposta di Deanna, fissando il vuoto del soffitto comodamente stesa
sul mio matrimoniale. Ogni volta che pensavo ad un motivo valido per
accettare, la paura mi faceva fare un passo indietro; non sapevo
esattamente cosa mi spaventasse o cosa mi facesse credere che non ne
sarei stata in grado. Semplicemente, cantare non mi veniva più
naturale come una volta: era questo che mi faceva davvero paura, che
mi immobilizzava. La tristezza che mi provocava essere lontana dalla
mia famiglia mi stava impedendo di fare ciò che amavo di più,
e mi sembrava di non avere nessun mezzo per cambiare quella
situazione. Ero prigioniera della mia stessa mente. Forse, se
avessi provato a ricominciare, ad andare al mercoledì
successivo ce l'avrei fatta, questo pensai. E poi, così
dal nulla, improvviso come un lampo nel cielo sereno d'estate, mi
tornarono in mente la luce delle candele, i tasti d'avorio sotto le
mie dita e la presenza di Daryl alle mie spalle che mi ascoltava in
silenzio. Nella mia testa vissi di nuovo quell'episodio, avvertendo
nel mio cuore un senso di sollievo; questa era una delle emozioni che
mi provocava il pensare a lui: pace. Ricordai gli occhi di Daryl
fissi nei miei, mentre si accomodava nella bara e mi esortava a
continuare a cantare: era stato uno sguardo molto simile a quello che
ci eravamo scambiati nella cucina, poco prima di separarci. Intenso,
confortevole e di difficile interpretazione, quasi quanto lo erano i
sentimenti che mi suscitava qualunque cosa avesse a che fare con
Daryl Dixon. «Continua...
continua a suonare. Canta». Il
suo suggerimento trascese il ricordo ed arrivò al mio cuore
con un senso tutto nuovo: era come se allora mi avesse dato un
consiglio che avrei dovuto seguire sempre, nonostante tutto.
Qualunque cosa fosse successa, anche quando non ci sarebbe stato lui
a proteggermi, avrei dovuto continuare a cantare, perché era
questo che facevo io, questo che avevo sempre fatto: cantare, sempre.
Andare avanti e vivere, sempre. Il ricordo si srotolò
davanti ai miei occhi finché non vidi me stessa esaudire la
sua richiesta e iniziare a cantare, accompagnata dalla dolce melodia
del pianoforte; senza che me ne accorgessi, la mia voce uscì
da quel ricordo e mi ritrovai a muovere le labbra. «We'll
drink up our grief and pine for summer»,
intonai, a bassa voce,con
un lieve sorriso che sentii far capolino sulle mie labbra, «And
we'll buy a beer to shotgun, and we'll lay in the lawn, and we'll be
good... And
we'll be good». La
mattina seguente, dopo quelle parole canticchiate, mi sentii più
ben disposta nei confronti della proposta di Deanna: anzi, mi diede
qualcosa di nuovo di cui occuparmi, un nuovo obiettivo, che per una
volta non aveva a che fare con la routine dell'ambulatorio. Due
mattine dopo mi ritrovai, quasi senza accorgermene, a segnare su un
foglio tutte le canzoni che avevano fatto da sottofondo alla mia
infanzia e che ero solita cantare assieme a Maggie e alla mamma.
L'ambulatorio era vuoto come spesso accadeva, perciò ebbi
tutto il tempo di pensare a cosa avrei potuto far cantare ai bambini,
a come strutturare le lezioni e a come trovare un compromesso tra le
diverse età dei miei piccoli allievi. L'imbarazzo che
provai quando mi presentai alla porta di Deanna per comunicarle la
mia decisione era evidente, soprattutto a lei. Non ero sicura che
fosse la scelta giusta, ma ero sicura del fatto che fosse giusto
almeno provarci. Deanna accolse la notizia con entusiasmo,
riservandomi persino uno sguardo orgoglioso. Iniziavo a credere che
quella donna ci tenesse davvero a farmi diventare parte integrante
della comunità, a prescindere dal fatto che li aiutassi con la
sopravvivenza là fuori o meno. Che ci tenesse davvero a
me. Col mio verdetto, le portai anche la piccola lista di canzoni
che avevo stilato, in modo da avere un suo parere a riguardo: ne
discutemmo insieme e programmammo per bene gli orari e la struttura
delle lezioni. Mi chiese se avessi bisogno di qualche strumento e -
non senza un certo imbarazzo - le chiesi se potevo avere un
pianoforte o una chitarra. Deanna si offrì di spostare il
pianoforte che teneva in salotto nel garage adibito a scuola,
aggiungendo che per la chitarra avrei dovuto chiedere ad Aiden, che
mi avrebbe senz'altro prestato la sua. Andai da Aiden il
pomeriggio stesso, tanto per togliermi il pensiero, e la faccia
sbattuta che mi ritrovai dopo aver passato due ore buone a cercare di
dileguarmi fece ridere Noah; era venuto a prendermi perché
quella sera eravamo invitati a cena da Eric: si sentiva solo dato che
Aaron era uscito là fuori per cercare nuove persone e lui non
aveva potuto accompagnarlo per una storta che si era procurato
durante un'altra missione. Non ci avevo messo molto a scoprire che
erano una coppia: una bella
coppia,
a dire il vero. «Ce l'hai fatta a liberarti»,
esclamò, con le mani infilate nelle tasche della giacca. Feci
una smorfia infastidita, alzando gli occhi al cielo. «Non
so quante volte gli ho detto che dovevo andare. Trovava sempre una
scusa nuova per trattenermi», mi lamentai, iniziando a
camminare al suo fianco. Noah rise, arruffandomi i capelli in un
gesto affettuoso. «Le persone diventano pedanti quando prendono
una cotta per qualcuno, non lo sapevi?», affermò con
tono malizioso. Sbuffai mentre mi sistemavo il disordine in testa
regalatomi dal mio amico, stringendomi poi nel maglione. «Non
ha una cotta per me», ribattei, per niente convinta. «Come
no, Greene! E' già tanto se non gli vengono gli occhi a cuore
quando ti vede», disse, ridendo ancora. Gli colpii il
braccio con la mano. «Smettila, Noah!». Se mi sforzavo
di ignorare le prese in giro di Noah e l'insistenza imbarazzante di
Aiden, mi resi conto che alla fine ero felice di avere tutto pronto
in vista di quella nuova occupazione. Avrei iniziato, come stabilito
dal principio, il mercoledì successivo dopo la pausa di metà
mattina, dalle undici a mezzogiorno, cominciando con solo un'ora di
“lezione”, giusto per conoscerci. Mercoledì
mattina aprii gli occhi presto, in preda a una piacevole agitazione,
quella che si sperimenta nel momento in cui si sta per fare qualcosa
di nuovo: era tanto che non provavo un'emozione del genere, e fui
ancora più contenta di aver accettato l'offerta di
Deanna. Cercai di fare tutto molto lentamente, in modo da far
passare il tempo e resistere fino alle undici. Preparai la colazione
e la consumai con finta calma, perdendo tempo a ripassare il
programma che avevo preparato per quella prima lezione mentre
sorseggiavo il caffè e sgranocchiavo i biscotti preparati da
Jessie. Invece di lasciare le stoviglie nel lavandino come mio
solito, addirittura le lavai appena finita colazione, dirigendomi poi
al piano di sopra per scegliere i vestiti da mettere. Cambiai idea
due o tre volte, optando infine per dei semplici jeans abbinati ad
una maglia a maniche lunghe, abbellita da qualche inserto di pizzo –
tutti indumenti che mi avevano fornito i volontari al guardaroba di
Alexandria. Sentivo di non essermi vestita nel modo più
adatto, forse perché non assomigliavo affatto alle insegnanti
che avevo avuto quando ancora andavo a scuola, vestite sempre
eleganti e di tutto punto. Per qualche motivo volevo presentarmi al
meglio, nonostante sapessi che non era poi così importante –
per Samantha o per i bambini – il modo in cui ero vestita. Dato
che era ancora presto, decisi di acconciarmi i capelli in una treccia
più elaborata del solito, giusto per far trascorrere il tempo
in modo ancora più impegnato. Uscii di casa che mancava
un'ora abbondante alle undici, perciò feci un salto
all'ambulatorio per chiedere a Josie se avesse bisogno di aiuto:
nonostante la sala d'attesa fosse vuota – l'unico paziente
della mattina era stato Eric, che era andato lì per farsi
controllare la caviglia – rimasi con lei per farle compagnia.
Più il momento si avvicinava, più spesso il mio
stomaco si contorceva in fitte dolorose dovute al nervosismo; Josie
mi domandò se volevo qualche tranquillante, ma rifiutai con un
sorriso. Era bello, dopo tanto tempo, essere nervosa per qualcosa
di normale, di nuovo. Era bello che fosse l'emozione a provocarmi
fitte nello stomaco, e non la paura o l'angoscia. Quando
l'orologio sul muro bianco dell'ambulatorio mi rese noto che
mancavano venti minuti alle undici, mi alzai e mi congedai da Josie,
afferrando la chitarra che da quella mattina mi portavo appresso, per
raggiungere il garage adibito a scuola. La porta più grande
del garage era chiusa – quel giorno faceva particolarmente
freddo – perciò mi infilai nella porticina collocata ad
un lato della struttura; mi ci volle qualche minuto per trovare il
coraggio di bussare. E se fossi stata troppo in anticipo? E se avessi
interrotto Samantha? Inspirai dal naso ed espirai dalla bocca,
profondamente, appena prima di decidermi, finalmente, a bussare.
Samantha aprì la porta e, appena mi riconobbe, mi accolse con
un gran sorriso. «Ben arrivata, Beth!». «Buongiorno,
Samantha», mormorai. Era una donna giovane, e ciò mi
rincuorò, specialmente perché il suo sorriso era caldo
e rassicurante. «Spero di non essere troppo in anticipo». «Sei
in perfetto orario. Prego, entra!», esclamò, invitandomi
con un gesto della mano. «Bambini, è arrivata Beth!»,
annunciò, mentre richiudeva la porta alle sue spalle. Mi
sentii addosso otto o nove paia di occhi, incuriositi ma sorridenti.
Erano tutti bambini che non avranno avuto più di otto anni, ad
una prima occhiata. Erano seduti ognuno al proprio banco e stavano
disegnando tutto quello che a me parve avere a che fare con
l'autunno: l'arancione ed il rosso erano i colori che dominavano sui
loro fogli. Da lì partimmo con le presentazioni e cercai
subito di ricordarmi tutti i nomi e i volti: Claire e Jacob erano i
bambini più piccoli e avevano entrambi tre anni. Alyssa,
Grace, Joseph, William e Liam ne avevano sei e Cody e Paige, i più
grandi, sette. Avrei dovuto ricordarmene in modo da strutturare
al meglio le mie lezioni, infatti mi segnai tutti i nomi e le età
su un foglio. Inizialmente fu difficile trovare il modo di dare
il via alla lezione, perché avvertivo tutta l'inesperienza
dalla mia parte, e ciò mi bloccava di tanto in tanto facendomi
perdere il filo del discorso o facendomi inciampare nelle mie stesse
parole mentre parlavo. Ma i bambini erano tanto buoni e cari, così
come Samantha, che presto l'insicurezza lasciò il posto alla
voglia di insegnare loro quanto bella e importante fosse la
musica. Partii dalle nozioni fondamentali, illustrando loro un
pentagramma disegnato sulla lavagna bianca e riempendolo con le note
musicali. Ripetei le nozioni un paio di volte, per poi terminare la
lezione cantando assieme a loro una canzone che avevo imparato quando
ero stata a mia volta una bambina, una cantilena che rendeva più
facile ricordarsi i nomi delle note. Mi accompagnai con la chitarra
di Aiden, e quando finii di suonare i bambini mi applaudirono
entusiasti. Samantha li esortò a mettere a posto i
pennarelli e i fogli negli scaffali, prima di avvicinarsi a me con un
gran sorriso. «Sei andata alla grande, Beth», si
complimentò, posandomi una mano sulla spalla. Mi lasciai
andare ad un sospiro di sollievo, come se avessi finalmente ripreso a
respirare dopo un'ora di apnea. «Non lo dici solo per farmi
contenta, vero?», scherzai, sorridendo timida. «Assolutamente
no, sono sincera», replicò, serissima. «Deanna ci
ha visto lungo: ci sai fare con i bambini, oltre che con la
musica». «Beh, grazie», risposi, imbarazzata da
tutti quei complimenti, mentre il mio pensiero correva
inevitabilmente a Judith e al soprannome che le aveva dato Daryl.
Risi tra me e me. Visto che era quasi ora di pranzo e che le
parole di Samantha mi avevano trasmesso sicurezza, mi offrii di
aiutare lei e un'addetta alla dispensa, Macie, a servire il pranzo ai
bambini. Non c'era un reale motivo di trattenerli a pranzo, se non il
fatto che fosse un'occasione in più per permettere a quei
bambini di stare insieme, costruire amicizie e vivere il più
possibile una vita simile a quella di prima. Uscii dal garage
verso le due e mezza psicologicamente provata: lo stress, l'emozione
e il fatto che era parecchio tempo che non mi davo così tanto
da fare mi avevano dato il colpo di grazia. Avevo mal di testa e mi
sentivo stanca; l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era il momento
in cui mi sarei finalmente buttata sul divano e avrei riposato un
po'. Nonostante la stanchezza, però, ero felice di
quell'esperienza: il mercoledì dopo sarebbe sicuramente andato
meglio. Per un istante pensai di andare da Deanna per ringraziarla,
ma non ero sicura di riuscire a resistere, visto che il desiderio
pressante di riposarmi non mi lasciava stare. Arrivai finalmente a
casa e, chiusa la porta alle mie spalle, abbandonai la chitarra di
Aiden vicino all'entrata e mi tolsi gli stivali, fiondandomi in
salotto. La sensazione che mi pervase quando sprofondai tra i
morbidi cuscini del divano fu qualcosa di encomiabile che non provavo
da molto: per un attimo mi sembrò di tornare indietro nel
tempo, a quando mi stendevo dopo una giornata di scuola
particolarmente stancante. Mi sistemai a pancia in giù,
abbracciando il cuscino e chiudendo gli occhi, lasciando andare un
mugolio di soddisfazione: mi addormentai subito. Non so dopo
quanto tempo, ma ad un certo punto qualcosa mi trascinò
lentamente fuori dal sonno, anche se subito non mi resi conto di cosa
fosse. Ci vollero due o tre colpi alla porta per farmi finalmente
capire che qualcuno stava bussando. Socchiusi gli occhi per un
attimo, contrariata e senza la minima voglia di alzarmi. «Chi
è?», domandai scocciata e con la voce impastata dal
sonno e attutita per metà dal cuscino. «Ehi Beth,
sono Aaron!», esclamò il mio amico da dietro la porta.
Subito non riuscii a rendermi conto che era tornato da una delle sue
spedizioni, intontita com'ero dal sonno. «Entra»,
dissi a voce più alta, sbuffando e chiudendo nuovamente gli
occhi, «è aperto». Avvertii la porta aprirsi e
Aaron dire «permesso», con una strana euforia nella voce
alla quale non diedi subito peso. C'era qualcosa di strano nel modo
in cui stava muovendo per il corridoio, ma non avevo abbastanza forza
per aprire gli occhi e controllare. Tendendo l'orecchio e prestando
più attenzione alla frequenza e al rumore dei suoi passi, con
un po' di difficoltà, capii: Aaron non era solo. La nebbia
che mi pesava sugli occhi e rallentava la mia consapevolezza iniziò
a diradarsi piano piano. Aaron era stato fuori in perlustrazione,
era tornato, non era solo. Non era solo. C'erano altre persone con
lui. C'erano moltealtre
persone con lui. Non feci in tempo a capire – finalmente –
ad aprire gli occhi e a scattare seduta che Aaron era già lì,
di fronte a me. «Beth». Ma non era sua la voce che
aveva chiamato il mio nome: era stata la voce di Maggie. La
stessa Maggie che, in carne ed ossa di fianco a lui, mi stava
fissando con gli occhi spalancati e le labbra dispiegate in un
sorriso tremante. Ci impiegai un secondo a finire tra le sue
braccia, le mie gambe si mossero da sole; o forse fu lei a venirmi
incontro e ci incontrammo a metà strada, non lo sapevo. E non
mi importava. «Beth,
oh mio Dio, Beth», continuava a singhiozzare Maggie,
stringendomi a sé. Piangevamo, tutte e due. E ridevamo anche,
perché era impossibile liberare un'emozione a discapito di
un'altra, in quell'abbraccio che avevo creduto di non poter più
dare. Eravamo libere di esternare ogni cosa. Felicità,
sollievo, paura, era mischiato tutto insieme e buttato fuori assieme
alle lacrime che mi inzuppavano le guance. Si aggiunse anche il
cordoglio, quando mi resi conto che quella era la prima volta che
potevamo piangere in pace nostro padre, senza trattenere il dolore
perché dovevamo pensare a scappare, come era successo invece
alla prigione. Da sopra la spalla di Maggie incrociai lo sguardo
commosso di Rick: Rick, che era diventato il più caro amico e
alleato di mio padre, ed ora mi guardava con lo stesso sguardo
paterno. Mi venne da piangere ancora più forte. «P-Papà...»,
iniziai a dire, la voce spezzata dai sussulti del pianto. Non c'era
bisogno che formulassi una frase completa, anche perché non
avrei saputo come continuare. Maggie capì lo stesso. «Lo
so, piccola, lo so», singhiozzò, accarezzandomi i
capelli senza sciogliere l'abbraccio. Nelle sue parole colsi il
sollievo di poterlo finalmente piangere, lo stesso che avevo provato
io. Rimanemmo strette ancora per un po', finché i nostri visi
non diventarono completamente bagnati e convenimmo che,
effettivamente, sarebbe stato meglio sistemarci un attimo. Aaron ci
allungò due tovaglioli di carta che era andato a prendere
nella mia cucina, ed io e Maggie ci asciugammo le guance e soffiammo
il naso, ridacchiando imbarazzate. Gli altri si strinsero intorno
a noi, impazienti di salutarmi: era così bello rivedere i loro
volti dopo averlo sperato così tanto, che la sensazione quasi
mi frastornò. Li abbracciai uno ad uno, e per me fu come
tornare alla vita, una stretta dopo l'altra. I loro sguardi commossi
e felici non li avrei più scordati per il resto dei miei
giorni, assieme alla sensazione di felicità autentica che
provai. Rick mi abbracciò per ultimo, il viso serio ma gli
occhi accesi da una gioia che, in quegli ultimi minuti, avevo
imparato a riconoscere. «Beth, grazie al cielo», mi
salutò con la voce intrisa di sollievo, lasciandomi un bacio
sulla fronte poco prima di scostarsi da me per farmi salutare Judith.
Tirai su col naso, ridendo, mentre altre lacrime iniziavano a
scorrere. «Ciao, Rick. E ciao anche a te, piccola spaccaculi»,
mormorai verso la piccola, sfiorandole la punta del naso. Poi mi
bloccai: ecco cosa mancava, o meglio, chi. Nell'euforia del momento
che aveva annebbiato la mia vista, e guardando i loro volti come se
fossero qualcosa che faceva parte di una totalità indistinta,
non mi ero accorta che in quella schiera di volti, quello di Daryl
mancava. Daryl non c'era. «Dov'è Daryl?»,
domandai a bruciapelo, spalancando gli occhi per la preoccupazione.
Mi guardai intorno per cogliere un cambiamento nelle loro
espressioni, in particolare mi soffermai su quella di Carol: non si
era intristita o rabbuiata, perciò ne dedussi che a Daryl non
era successo nulla di male. «Credo che Deanna stia finendo
il suo colloquio con lui in questo momento», confermò
Aaron, ed io ripresi a respirare. Infatti, qualche attimo dopo,
sentii la porta di ingresso aprirsi lentamente e cigolare, seguita
dal rumore di passi incerti. Mi sembrò di vederlo, mentre si
guardava intorno diffidente, e non potei resistere un secondo di più.
Potevo finalmente rivederlo, era vivo, stava bene ed era finalmente
al sicuro, assieme a me e a tutti gli altri. In tre falcate
attraversai il salotto e mi affacciai al corridoio, rimanendo sulla
soglia: lo vidi subito, accompagnato da Deanna e altri sconosciuti. E
lui vide me. Era come se fosse uscito perfettamente dai miei
ricordi, dalla mia testa, con la balestra in spalla, il giubbotto di
pelle e i suoi occhi blu penetranti e sempre circospetti. Non mi era
mai sembrato tanto bello, mentre avvertivo il cuore battere impazzito
e le lacrime minacciarmi di uscire di nuovo. Ci fissammo, da un
estremo del corridoio all'altro, per quello che a me sembrò un
tempo infinito e breve nello stesso momento. Lui era lì, lo
vedevo, ma questo non mi bastava: io dovevo sentirlo, dovevo sentire
il suo corpo contro il mio e la sua vicinanza, per convincermi che
fosse davvero così. Daryl spalancò all'improvviso
gli occhi e lasciò cadere la balestra che aveva in mano –
come se solo in quel momento avesse realizzato che ero davvero lì.
«Beth!», esclamò, incredulo, mentre iniziava
ad avanzare verso di me; lo stesso feci io. Quasi gli saltai in
braccio, logorata dall'impazienza di sentirlo finalmente stretto al
mio corpo. Le sue braccia erano perfettamente strette e incastrate
proprio sotto le mie, tanto che i miei piedi smisero di toccare terra
molto presto, perché lui mi sollevò e mi strinse forte
a sé. Non avevo mai ricevuto un abbraccio del genere da
Daryl Dixon, infatti – le poche volte che era successo –
ero sempre stata io a prendere l'iniziativa o metterci più
calore, tra i due. Ma non quella volta. La sua fragranza mi inondò
le narici: tabacco, cuoio, bosco, sudore, pelle. Era proprio come me
lo ricordavo. I miei singhiozzi non mi sorpresero per niente, al
contrario degli strani respiri veloci e accorati che sentivo
provenire dalla mia spalla, dove era affondato il volto di Daryl. O
stava piangendo, o stava cercando di non piangere. Quel lato di Daryl
che avevo solo intravisto, il fatto che stesse reagendo in quel modo
per
me,
mi fece sciogliere il cuore come neve al sole. Quando non riuscì
più a tenermi sospesa, iniziò a barcollare e mi posò
gentilmente a terra, ma io lo trattenni a me e, nella foga del
movimento, finii con la schiena contro al muro, mentre Daryl mi
sovrastava ancora, stringendomi ancora più forte contro la
parete. Affondai il volto nel suo petto, mentre il suo braccio destro
mi circondava la spalla e l'altro mi teneva contro di lui premendo
sulla schiena. Fu come se il tempo si fosse fermato, tornando poi ad
avere un senso. Come se le altre persone che stavano assistendo alla
scena non esistessero; quasi mi sembrava di vedere la sorpresa sui
loro volti dato che, alla prigione, non avevamo certo dimostrato di
avere il tipo di rapporto che spinge due persone ad abbracciarsi in
quel modo dopo essere state separate a lungo. Ma non mi importava, ci
sarebbe stato tutto il tempo per le spiegazioni. Non ci potevo
credere: quel mese di agonia, paura, solitudine era stato difficile,
certo, ma la mia fiducia, la mia speranza, erano state ripagate.
Avevo di nuovo la mia famiglia, lì con me, e avevo Daryl.
Stretta nel suo abbraccio caldo e disperato, tutto quello che
avevamo passato insieme assunse ai miei occhi un nuovo significato,
assieme a tutti i pensieri su di lui che avevano popolato la mia
mente quando era lontano. Non potevo più ignorare il cuore
impazzito nel mio petto, né la gioia che stava facendo agitare
ogni mia singola cellula, o i miei occhi che agognavano nuovamente il
suo viso, diventato così dannatamente attraente quasi da un
momento all'altro. Non potevo più far finta di non capire
perché il mio pensiero fosse corso così spesso a lui,
mentre non c'era. Non sarei più stata in grado di fingere che
la voglia disperata di proteggerlo e tenerlo al sicuro, e soprattutto
di averlo vicino, fosse dettata da un affetto fraterno o da semplice
amicizia. Io provavo qualcosa per Daryl Dixon, ormai non aveva più
senso mentire a me stessa. Ne ero persino innamorata, forse. Al
culmine di tutti quei pensieri, Daryl mi diede il colpo di grazia
scostandosi appena da me, per posarmi una mano tra il profilo della
mascella e il collo e appoggiare, per un istante troppo breve, le
labbra e la guancia contro la mia tempia sinistra, tornando poi ad
abbracciarmi. Il mio cuore prese il volo e la testa iniziò a
girarmi. Se Daryl non mi avesse tenuta abbracciata così
saldamente, probabilmente sarei svenuta: troppe emozioni, per quel
giorno. Troppa confusione, in quel momento, per farsi domande e
trovare risposte. Avrei avuto tutto il tempo di pensarci e capire,
ora che il mio cuore era libero da qualsiasi altra preoccupazione. La
mia famiglia era lì, con me, al sicuro: nulla poteva più
spaventarmi.
"This
is a place where I don't feel alone this
is a place where I feel at home." w (The
Cinematic Orchestra - To build a home)
Angolo
autrice. Oh,
questa volta sono stata più brava, 12 pagine anziché
15! Stiamo facendo progressi :P Beh, che dire di questo
capitolo... finalmente Beth ha potuto riabbracciare la sua famiglia,
era una lagna che non si sopportava più! Ahahah, scherzo,
ovviamente. Mi dispiace farvia assaggiare il biscotto e poi
togliervelo, ovvero far comparire Daryl e finire il capitolo, ma
spero mi perdonerete! Come al solito, stava venendo troppo lungo, e
non volevo fare tutto frettolosamente solo per fare in modo che si
parlassero e facessero qualcosa di più dell'abbracciarsi.
Pensate solo che Daryl finalmente ha fatto la sua comparsa nella
storia, e non se ne andrà più. A me riempie di gioia, a
voi? Vi dico da subito che il prossimo capitolo sarà quasi
totalmente incentrato su di loro, quindi resistete un altro po' e
godetevi questa benedetta, agognata reunion! Mi dispiace per la
prima parte super pallosa, ma volevo cercare di sviluppare bene il
personaggio ed il ruolo di Beth all'interno della comunità, in
modo da non dover riprendere poi più avanti questo aspetto! Ci
tengo a puntualizzare una cosa sulla frase finale, che è
chiaramente il verso di una canzone (cercatela
su youtube, è stupenda!):
ho una playlist tutta mia che mi è servita di ispirazione per
questa storia; particolarmente ricorrente sarà il tema di
“casa” come posto in cui tornare, in cui arrivare, in cui
restare. Certo mi riferisco ad Alexandria come luogo, ma anche a Beth
che diventa la casa che Daryl ha cercato per tutta una vita. Quindi
si parla di legami affettivi; in particolare in questo capitolo,
volevo rendere accentuato il fatto che, come Rick e gli altri hanno
trovato una casa nuova, per Beth il vivere in Alexandria ha
riacquistato un nuovo significato appunto perché finalmente la
sua famiglia è lì con lei: finalmente, può
sentirsi a casa. Ah, belli i mappazzoni psicologici! Se vi
interessa vedere gli outfit (fa tanto fanfiction.net ahahah), le
immagini, le musiche e tutto ciò che mi ispira nella stesura
di questa storia, potete visitare il tumblr che ho aperto
appositamente per entrare in contatto più diretto con voi :)
http://blakieefp.tumblr.com/
è tutto qui! Niente, direi che anche per stavolta è
tutto! Ringrazio veramente di cuore le persone che hanno recensito lo
scorso capitolo, chi ha messo questa storia tra le
preferite/seguite/da ricordare e chi più ne ha più ne
metta, e anche chi ha letto soltanto. Spero che il capitolo vi sia
piaciuto, mi farebbe molto piacere ricevere qualche parere :) Alla
prossima! Un bacio, Blakie
Sciogliere
l'abbraccio con Daryl fu come ritornare coi piedi per terra, in due
entità di nuovo separate e distinte. Fu lui il primo a
scostarsi, facendo scivolare le mani dalle mie spalle lungo le
braccia e chiudendo delicatamente le dita attorno ai miei gomiti,
allontanandomi con gentilezza. Anche se mi sentivo leggermente
spaesata, riuscii comunque a chiedermi se avesse interrotto
l'abbraccio perché, più di tanto, non sopportava il
contatto fisico, o perché le persone intorno a noi erano stati
spettatori di quel ritrovarsi carico di emozione. Forse era
preoccupato di quello che avrebbero potuto pensare. Fece un passo
indietro, per darmi modo di respirare e riprendermi i miei spazi;
alla luce di quello che avevo capito di provare per lui, adesso mi
veniva difficile guardarlo in faccia senza provare un latente senso
di imbarazzo. Mi sforzai di alzare lo sguardo per captare la sua
espressione: era molto simile a quella che avevo scorto quella volta
in cui era scoppiato a piangere davanti a quella vecchia baracca, con
la differenza che sulle sue labbra aleggiava un sorriso appena
accennato. Gli occhi erano pieni di sollievo e...
qualcos'altro. Sorridere a mia volta fu spontaneo, nonostante le
lacrime e nonostante fossimo ancora al centro dell'attenzione. Avrei
potuto dirgli almeno un “ciao”, o qualcosa del genere, ma
nessun saluto avrebbe retto il confronto con quello che i nostri
occhi si stavano dicendo: così rimasi in silenzio a
sorridergli, mentre lui sorrideva a me. «Hai visto, Daryl? È
viva e vegeta, come vi avevo promesso», intervenne Aaron,
sorridendo e porgendo a Daryl la balestra che aveva lasciato
cadere. Daryl si voltò verso di lui, tornando diffidente e
riprendendosi l'arma, senza dire nulla. Dentro di me mi venne da
ridere, perché Daryl era stato l'unico che, evidentemente, era
riuscito a imporsi per tenere con sé l'arma con cui aveva
varcato i cancelli. «Quanto hai faticato per convincerli?»,
domandai al mio amico, sorridendo a trentadue denti. Ero talmente
felice che non riuscivo a crederlo. Mi guardai attorno, beandomi di
nuovo della visione dei loro volti, rendendomi conto di quanto il
corridoio fosse diventato improvvisamente affollato e
stretto. «Parecchio», rispose Rick al posto di Aaron.
«Forse, senza la foto, non avremmo creduto che fossi davvero
qui ad aspettarci». Maggie mi affiancò, circondandomi
i fianchi con un braccio. «Quando ti ho vista in quella foto,
quando ho letto... non potevo crederci», sussurrò,
baciandomi una tempia. Misi la testa contro la sua spalla. «Lo
sapevo che Aaron vi avrebbe trovati, prima o poi. Non ho mai perso la
speranza». Sentii lo sguardo indecifrabile di Daryl su di
me. Deanna, che fino a quel momento aveva assistito al tutto con
discrezione ed un sorriso ampio, si avvicinò a noi. «Né
la determinazione: sapeste quanto ho faticato per riuscire a
trattenerla qui dentro», esclamò la donna,
accarezzandomi il capo con affetto. «Non la ringrazierò
mai abbastanza per questo, Deanna», disse mia sorella,
stringendomi un po' di più a sé. Deanna sorrise ma
cambiò argomento. «Dammi del tu, Maggie. Immagino che
avrete molto da raccontarvi, ma prima permetteteci di mostrarvi le
vostre nuove abitazioni, così potrete darvi una rinfrescata e
mettervi a vostro agio». C'era qualcosa di diverso negli
sguardi di ognuno di loro: diffidenza, certo, ma li trovavo molto più
rilassati e ben disposti di come si sarebbero trovati in qualsiasi
altra situazione. Forse, il fatto che io fossi ad Alexandria da un
mese e più e che ci vivessi bene li rincuorava e li faceva
sentire più sicuri. Sperai che, almeno per una volta, Rick
potesse sentirsi al sicuro, assieme a Carl, Judith e a tutti noi. Mi
furono presentati gli sconosciuti che erano entrati assieme a Daryl:
padre Gabriel, un prete che li aveva accolti in una cappella in cui
erano rimasti per qualche tempo; Abraham, Eugene e Rosita, altri
sopravvissuti che Glenn aveva incontrato poco dopo essere scappato
dalla prigione, assieme a Tara, una ragazza che faceva parte del
gruppo del Governatore. Mi si strinse il nodo in gola e capii che lei
era stata semplicemente una pedina nelle mani di quel mostro, quando
mi abbracciò e mi chiese scusa con la voce spezzata. Poi, fu
il mio turno di abbracciare Sasha quando venni a sapere della morte
di Bob. Furono degli scambi davvero veloci, in confronto a tutto ciò
che era successo, perciò rimandammo i racconti a più
tardi. Alla mia famiglia vennero assegnate due grandi abitazioni,
che si trovavano nel mio stesso viale, solo qualche casa dopo. Avrei
voluto che Maggie e Glenn stessero da me, ma purtroppo la mia casetta
non era abbastanza grande per tutti e tre. In quel momento, realizzai
che Deanna non aveva voluto darmi un'abitazione con una camera in più
per non provocarmi ulteriore dolore nel caso l'altra camera fosse
rimasta vuota. Le case erano bellissime e spaziose come mi
aspettavo, e fu una gioia vedere i loro volti pieni di sorpresa,
sconcerto e diffidenza davanti alle imponenti stanze che si trovarono
davanti agli occhi. L'unico che non mostrò nemmeno il minimo
accenno di stupore fu, ovviamente, Daryl: entrò in entrambe le
case, guardandosi a malapena intorno, con lo sguardo indurito dalle
sopracciglia aggrottate. Non rimase presente nemmeno il tempo di
assegnarsi ad una camera da letto, perché scese le scale in
compagnia della fedele balestra e uscì nel portico della casa
che avrebbe diviso con Rick e i suoi figli, Michonne, Carol, Maggie e
Glenn. «Gli serve tempo», spiegò Carol,
sorridendo serafica a Deanna e ad Aaron per spezzare il silenzio
imbarazzato che era sceso quando Daryl era uscito. Noah, che avevo
già avuto modo di presentare alla mia famiglia – era
difficile non notare tutte quelle persone entrate e poi uscite da
casa mia – mi rivolse un sorriso di incoraggiamento; chissà
che espressione avevo assunto. Preoccupata, sicuramente. Terminammo
il giro delle case e li lasciai tranquilli a sistemarsi, rinfrescarsi
e prendere confidenza con l'ambiente; l'unico che non cedette alla
voglia di farsi una bella doccia rilassante fu proprio Daryl. Lo
trovai ancora appoggiato alla colonna in legno del portico, intento a
trafficare con la balestra, mentre uscivo da quella che ormai era
casa di Maggie – e, beh, anche sua. «Ti hanno lasciato
la balestra», notai, per non rimanere lì in piedi
davanti a lui a fissarlo in silenzio come un'idiota. Lui alzò
lo sguardo, con un'espressione perplessa stampata in volto. «E?». Mi
strinsi nelle spalle. «Beh, è strano, Nicholas non è
il tipo da fare sconti». «Chi è Nicholas?»,
domandò con tono piuttosto disinteressato, tornando a pulire
la sua amata balestra. «Il coglione che sta all'ingresso dei
cancelli», spiegai, con tono irrisorio. Non appena udì
la mia offesa, alzò la testa di scatto, con un sorriso
sardonico sulle labbra. «Non ti ricordavo così volgare,
Greene», affermò, alzando un ginocchio e poggiandoci
sopra l'avambraccio e facendo penzolare la mano, guardandomi
divertito. Mi sentii avvampare dall'imbarazzo e temetti di aver
esagerato, ma non riuscii a trattenere un sorriso. «Non ti
ricordavo così... - feci una pausa per squadrarlo dalla testa
ai piedi, fingendo di cercare l'aggettivo – nero, Dixon. Perché
non vai a farti una doccia? Ti farebbe bene», ribattei,
canzonatoria. Lui grugnì, sciogliendo la posa e riprendendo
in mano la balestra. «Sto benissimo così». «No,
davvero, se le altre sono occupate puoi venire da me». Accadde
nello stesso momento: io sbiancai, rendendomi conto dell'implicazione
maliziosa che avrebbe potuto avere la mia proposta, e Daryl mi guardò
a occhi spalancati, sorpreso. Stavo dispiegando le labbra per
balbettare qualche giustificazione, ma lui non si lasciò
scappare l'occasione di farmi morire di imbarazzo, ovviamente. «Sei
persino diventata sfacciata», ne convenne, ironico. Il suo
sorriso derisorio mi fece desiderare di sprofondare o di piantargli
qualcosa in fronte, ero indecisa. Gli rivolsi l'occhiata più
furiosa che riuscivo a fare, scendendo velocemente gli scalini con
passo pesante, per chiudermi in casa mia e buttare la chiave. «Vai
al diavolo, Dixon!», mi congedai, mentre sentivo il suo
sorrisetto idiota perforarmi la schiena. Meglio
stronzo che morto, meglio stronzo che morto,
ripetei tra me per provare a convincermene, mentre mi asciugavo i
capelli e mi preparavo per cenare assieme alla mia famiglia. La
doccia non era servita più di tanto a farmi passare le fitte
di imbarazzo che mi scuotevano lo stomaco tutte le volte che
ripensavo - o meglio, che il mio cervello mi faceva ripensare - allo
scambio con Daryl. Non avrei dovuto permettere alla mia bocca di
scollegarsi dal cervello e farmi fare una figura simile, che diavolo
mi era venuto in mente? Proporgli di fare una doccia. A casa mia. Per
un secondo, il mio cervello mi fece apparire il flash di un Daryl
nudo sotto il getto caldo della doccia alle mie spalle, senza che
potessi impedirlo. Mi sentii sprofondare di nuovo dalla vergogna.
Forse era la consapevolezza di ciò che provavo per lui ad
amplificare qualsiasi emozione lo riguardasse; in ogni caso, ero
fregata. Seriamente, come mi era saltato in testa di...
innamorarmi
- facevo persino fatica a pensarla, quella parola - di Daryl
Dixon? Era assurdo. Daryl era troppo grande per me, in fatto di
età, certo, ma anche di mentalità: non si sarebbe mai
sognato lontanamente di vedermi come qualcosa di diverso da una
stupida ragazzina lagnosa che doveva essere salvata in continuazione.
Mi era bastato stare separata da lui per un attimo, alla casa
funeraria, per farmi rapire da quelli del Grady. E poco importava che
fossi riuscita a fargli cambiare idea sulla bontà delle
persone, ero ancora troppo poco per lui. Avrei potuto considerarmi
fortunata se i suoi occhi non mi avessero più vista come
"un'altra ragazza morta", ma come quella che era riuscita a
scappare da chi la teneva prigioniera e che era riuscita ad arrivare
a Washington viva. Non avrei potuto aspirare ad altro, e andava bene
così. Daryl non si riteneva degno di essere amato da
qualcuno, né si rendeva conto di quanto le persone del gruppo
gli volessero bene: era questa l'impressione che avevo sempre avuto.
L'unica cosa sulla quale non aveva da ridire era il suo valore come
arciere, cacciatore e sopravvissuto, ma per il resto non si
considerava una gran persona: che
idiota,
pensai, con un sorriso. A parte l'imbarazzo dovuto alle sue
battutine e a tutte le mie paturnie su ciò che provavo per
lui, non mi sentii a disagio quando lo salutai appena arrivata a casa
sua, dove Maggie e gli altri stavano già iniziando a preparare
tutto per la cena. Ero passata dalla dispensa comune per prendere
quello che mancava, trasportando il tutto in una cesta piuttosto
pesante. Si alzò dallo stesso angolo in cui si era seduto quel
pomeriggio, nel portico, e mi chiesi se fosse rimasto lì da
allora. «Da' qua», disse in modo disinteressato,
liberando le mie braccia da quel peso. Gli aprii velocemente la porta
per aiutarlo e lo seguii non appena entrò, facendomi precedere
in cucina. C'era un familiare viavai tra la cucina e l'enorme sala da
pranzo: erano tutti lì, puliti, rinvigoriti, belli come non
mai. Ai miei occhi, quella scena si presentò come il ritratto
perfetto della felicità, ed ero talmente persa a godermela che
a malapena mi accorsi dell'abbraccio di benvenuto di Maggie. Da
quando ci eravamo ritrovate, sembrava che avesse il bisogno costante
di abbracciarmi o anche solo toccarmi, per assicurarsi che fossi
davvero lì con lei. «Ehi!», esclamò per
attirare la mia attenzione. Era radiosa. «Uh, ciao Mag! Ho
portato dalla dispensa comune quello che vi serviva», dissi,
ricambiando l'abbraccio con un sorriso e indicando il cesto che Daryl
aveva posato sulla penisola della cucina. Carol ci stava già
rovistando dentro, mentre qualcuno era già ai fornelli ed
altri si stavano occupando di apparecchiare la tavola. Quella sera
saremmo stati solo e soltanto noi, senza Aaron, Deanna o chiunque
altro, proprio come un tempo. Persino Noah aveva rifiutato con un
sorriso, per permettermi di passare del tempo tra di noi: lo avevo
minacciato promettendogli che, la prossima volta, non mi sarebbe
sfuggito. Gli unici "sconosciuti" che si sarebbero seduti a quel tavolo
erano Abraham e gli altri, ma capii che ormai facevano parte del
gruppo e la cosa non mi dispiaceva. Non fu la cena luculliana che
avremmo potuto preparare nel mondo di prima, dato che il cibo di cui
disponevamo era razionato equamente, ma fu lo stesso tutto
perfetto. Con il chiacchiericcio intorno a me che riempiva la
stanza, mi persi un paio di volte nei miei pensieri, assolutamente
incredula del fatto che fossi davvero lì con loro, perché
era tutto troppo bello per essere vero. Quando tornavo alla realtà,
incrociavo gli occhi di Daryl, a qualche posto di distanza dal mio,
che mi fissavano indecifrabili. Che si stesse preccupando per
me? «Beth, devi ancora dirci per bene cos'è successo
dopo che ti sei separata da Daryl», intervenne Carl ad un certo
punto, mettendo fine alle micro-conversazioni sparse per la
tavolata. «In realtà non mi sono separata da lui»,
precisai, lanciando un'occhiata al diretto interessato. Per un
momento, mi venne il dubbio che davvero avesse pensato di essere
stato lasciato indietro. Era forse impazzito? «Mi hanno rapita,
dopo che siamo stati attaccati dai vaganti in quella casa funeraria.
Non ricordo molto bene com'è successo, ricordo solo che mi
sono risvegliata in un ospedale, da sola. Per fortuna io e Noah siamo
riusciti a scappare: quel dannato posto era una prigione, avrei
preferito mille volte rimanere con Daryl», conclusi, senza
preoccuparmi di cosa avrei potuto far intendere con quelle parole.
Sentivo lo sguardo preoccupato di Maggie su di me. «Quel
fottuto
posto è pieno di pazzi ingenui che non sanno un cazzo di come
sta andando il mondo», mi corresse Daryl, prendendomi in
contropiede. Voltai il viso verso di lui con uno scatto, con gli
occhi spalacati dalla sorpresa. «Come... Come fai a saperlo?!»,
domandai, esterrefatta. «Buona parte di noi è venuta
a cercarti, ma non ti abbiamo trovato. Siamo arrivati lì
perché Daryl e Carol sono riusciti a trovare una tua traccia»,
spiegò Rick. Venni scossa da un brivido, quando mi resi conto
del rischio immane che avevano corso solo per trovare me. Ero
atterrita, completamente senza parole. Mi ci volle un grande sforzo
per aprire di nuovo bocca. «Come avete fatto a uscire vivi
da lì? Cos'è successo?», domandai con la voce
tremante. Maggie mi prese la mano e la portò sulla sua coscia,
per poi stringerla, mentre il mio sguardo orbitava da Rick, Daryl e
Carol. Fu quest'ultima a rispondere. «Siamo arrivati e
abbiamo chiesto di te. C'era una ragazza piuttosto giovane al
comando, abbiamo parlato un po'». Analizzai la sua frase,
capendo subito che non era di Dawn che stava parlando: anche se non
era vecchia era comunque adulta, vicina ai quaranta, e non le si
poteva certo addebitare la nomea di "ragazza piuttosto giovane".
Inoltre, era impossibile parlare con lei senza puntarsi qualcosa
addosso a vicenda. «Vi ha detto il suo nome?»,
domandai, impaziente. «Shepherd, il nome non me lo ricordo»,
rispose Carol, ma il nome non importava. Mi bastava il cognome per
capire che la leadership di Dawn era stata finalmente rovesciata. Mi
lasciai andare ad un lungo sospiro di sollievo, che non passò
inosservato. «Che c'è?», domandò Daryl,
burbero. «Non sapete a cosa siete riusciti a scampare...
Quando io e Noah siamo fuggiti, l'ospedale era sotto il controllo di
un'altra donna, Dawn Lerner. Era convinta che qualcuno sarebbe
arrivato a salvarli, un giorno, e noi eravamo costretti a stare lì
perché ci avevano salvato la vita, perciò avevamo un
debito nei loro confronti. Era la donna peggiore che potessi
incontrare. Se ci fosse stata lei al vostro arrivo, sarebbe andata a
finire peggio», spiegai, senza nascondere l'angoscia nella mia
voce. Glenn, accanto a me, mi accarezzò la nuca.
«Sinceramente dubito che Dawn sarebbe stata una minaccia più
grande rispetto a tutto quello che abbiamo passato», disse come
battuta, anche se il sorriso era abbastanza forzato. «Perché?»,
domandai, interdetta. Ciò che mi raccontarono fu qualcosa
al limite dell'orrore, dell'umanità, della ragione. Avevano
più o meno tutti seguito le rotaie al limitare del bosco - sul
momento non ricordai se anche io e Daryl ci fossimo mai arrivati - e
alla fine di esse, secondo i messaggi che si trovavano in giro,
avrebbe dovuto esserci questa comunità di accoglienza,
chiamata Terminus. Terminus altro non era che un covo di
cannibali, che si approfittavano della disperazione dei sopravvissuti
per attirarli in trappola e cibarsene, come i ragni fanno con le
mosche. Mi raccontarono che Carol li aveva salvati tutti, al che mi
voltai verso di lei e le rivolsi un'occhiata colma di riconoscenza:
era una donna meravigliosa, forte, la donna che avrei voluto
essere io. Dopo aver distrutto quell'angolo di inferno, si erano
rifugiati nella cappella di Padre Gabriel, dove i cannibali
superstiti li avevano trovati e minacciato di nuovo la loro
sicurezza. Erano riusciti ad eliminarli una volta per tutte, ma non
erano riusciti ad evitare che si cibassero di Bob - mi venne un
conato a pensare a ciò che quel povero uomo aveva dovuto
subire - quando lui in realtà era già stato morso: era
così che Sasha lo aveva perso. Mi raccontarono anche che
Abraham era determinato ad arrivare a Washington perché Eugene
aveva detto di avere in mano la cura per l'epidemia, anche se in
realtà non era vero. L'uomo, durante quel racconto, si limitò
a scolarsi tutta la bottiglia di birra che era rimasta sul tavolo,
per poi alzarsi e uscire, grugnendo e tirando fuori il pacchetto di
sigarette per fumare sotto al portico. Mi rabbuiai anche io, quando
venni a scoprire che Maggie, nel frattempo, non si era minimamente
curata di venirmi a cercare, ma aveva preferito partire con Abraham e
gli altri per venire a Washinghton e salvare il mondo. Cercai di fare
un respiro profondo e cancellare il rancore che provai in
quell'attimo, ripetendomi che non era importante e che, ad ogni modo,
ora eravamo insieme. Ma fu difficile, perché da quando ci
eravamo separati, il mio pensiero era stato trovarli tutti quanti,
mia sorella al primo posto, invece lei non era stata dello stesso
avviso. Tutto ad un tratto, la sua mano intrecciata alla mia
iniziò a darmi fastidio, e mascherai un gesto stizzito con
l'alzarmi per andare in bagno. Mi sciacquai la faccia, decisa a
sorvolare e tornai da loro facendo finta di nulla. Mi spiegarono
brevemente tutta la fatica e le dimostrazioni che erano costate ad
Aaron per convincerli del fatto che mi trovavo davvero ad Alexandria,
ad aspettarli. La prova inconfutabile, come avevo sperato, arrivò
quando Daryl riconobbe ciò che stava dietro il post scriptum,
e capì che nessun altro, nemmeno Aaron, poteva capire a cosa
si riferisse il mio messaggio. Il gruppo poteva non fidarsi di Aaron,
ma si fidava ciecamente di Daryl. Gli offrii un sorriso, che provocò
un'espressione perplessa sul suo viso. Il cuore mi si riempì
di gioia, quando realizzai che non aveva dimenticato tutto quello che
avevamo condiviso e che non fosse rimasto indifferente ai miei
segnali. Sapevo benissimo di non avere con lui la stessa connessione
che poteva vantare Carol, ma per me era già qualcosa. Qualcosa
di infinitamente prezioso. La cena si concluse quando Judith
iniziò a piangere per la stanchezza, così, mentre Rick
preparava la bambina per la notte a la poneva nel box del salotto, il
resto di noi si attivò per sparecchiare e sistemare la cucina
e le stoviglie. Rimasi leggermente interdetta quando Michonne mi
avvertì del fatto che, quella prima notte, preferivano dormire
tutti insieme nell'ampio soggorno. Ma bastò un secondo, perché
mi ritornò in mente che io avevo fatto lo stesso la prima
notte – beh, le prime sette notti – che avevo passato
qui, perciò non potevo proprio biasimarli. Michonne era un po'
incerta, come se accamparsi tutti insieme nel salotto fosse una
dimostrazione di scarsa fiducia nei miei confronti: le sorrisi e mi
offrii di darle una mano per stendere il sacchi a pelo e qualsiasi
cosa fosse utile per dormire sul pavimento e che poi avrei dormito
con loro. Rimanemmo svegli un'altra oretta e mezza, ma gli altri
erano veramente stanchi, così a turno si prepararono per
andare a dormire, mentre io facevo una corsa a casa mia per prendere
i pantaloncini e la maglietta che usavo come pigiama. Quando
tornai, l'unico che non si era cambiato per dormire era Daryl: se ne
stava vicino alla culla di Judith, accomodato alla seduta della
finestra e osservava il buio di fuori, come se le persone intorno a
lui non esistessero. Capii che si sarebbe sistemato lì per
dormire perciò, senza farmi notare troppo dagli altri –
alcuni erano già coricati e altri aspettavano il proprio turno
per il bagno chiacchierando in cucina – e con la scusa di
controllare Judith mi avvicinai a lui. Appoggiai con delicatezza
una mano al bordo della culla e mi chinai leggermente per guardare la
piccola dormire beatamente. «Non ti prepari per andare a
dormire come gli altri, Daryl?», domandai con un lieve sorriso,
senza smettere di ammirare la tenerezza della piccola Judith. «Sono
già a nanna, mamma; grazie. Fatti gli affari tuoi»,
rispose piatto, appoggiando il gomito sul ginocchio e mordicchiandosi
l'unghia del pollice della mano destra. «Hai intenzione di
dormire qui?», domandai, guardandolo finalmente in faccia. Anzi
no, visto che il suo viso era voltato e gli occhi ancorati a ciò
che c'era fuori dalla finestra. «Starai scomodo»,
aggiunsi, cercando di dimostrarmi gentile nonostante la sua
rispostaccia. «Preferisci forse che dorma con te?»,
ribatté, seccato. Lo sapevo che aveva tutta l'intenzione di
mettermi in imbarazzo nello stesso modo in cui l'aveva fatto quello
stesso pomeriggio. Non dovevo dargli la soddisfazione di abboccare
alla sua provocazione. «No, il mio sacco a pelo è troppo
piccolo per tutti e due. E poi devi ancora farti una doccia»,
controbattei senza guardarlo, sistemando velocemente la copertina di
Judith e raddrizzandomi. Lui mi guardò con un'espressione
illeggibile sul volto, e si mise a fissarmi; sostenni lo sguardo per
qualche istante, cercando di dare un significato a quel nostro
scambio silenzioso. «Buonanotte Daryl», dissi,
voltandogli poi le spalle e raggiungendo mia sorella in cucina. Poco
dopo, quando fummo tutti sistemati nel proprio giaciglio, chi per
terra e chi sui tre divani, e Rick spense le luci, ci impiegai
davvero poco a crollare: tutte le emozioni di quel giorno unite alla
stanchezza che mi aveva provocato lavorare coi bambini, mi fecero
addormentare praticamente subito, sprofondando in un sonno
profondo. Riaprii gli occhi nel buio del salotto qualche ora dopo,
il silenzio che faceva da sottofondo ai respiri lenti e regolari
della mia famiglia: dormivano tutti. Mi stropicciai gli occhi che ero
appena riuscita ad aprire a fatica, cercando di non muovermi troppo
per non svegliare Maggie che, stesa accanto a me, dormiva beatamente
tra le braccia di Glenn. I miei occhi appesantiti cercarono
l'unica fonte di luce, ovvero la finestra alla mia destra, che faceva
entrare l'illuminazione del lampione nel vialetto, attutendo il buio
con spiragli di luce sparsi per il salotto. Con molta fatica, il mio
cervello processò che la piccola seduta della finestra era
vuota, quando in realtà avrebbe dovuto esserci Daryl, che
l'aveva occupata quando era stato il momento di andare a dormire. Mi
sedetti, sforzandomi di guardarmi intorno per vedere se, magari,
avesse solo cambiato posto, vinto dalla scomodità di quel
piccolo spazio in cui si era costretto a dormire, ma mi sembrò
di non riconoscerlo in mezzo agli altri. Stando attenta a non
svegliare nessuno, mi alzai in piedi con cautela e scavalcai Carol e
Michonne, andando a recuperare la mia felpa e i miei stivali. Feci un
salto in cucina a bere un bicchiere d'acqua, avanzando a tentoni nel
buio e beandomi poi della luce che emetteva il frigo aperto. Non ci
fu nemmeno bisogno di riflettere su dove potesse essere andato Daryl
perché, da dove ero posizionata io, riuscii a vederlo oltre il
vetro della finestra, seduto per terra nell'angolo del portico che,
ormai, poteva considerarsi suo. Il suo viso era illuminato appena dal
tizzone acceso e arancione della sigaretta. Raggiunsi la porta di
ingresso, ma prima di uscire, indossai la giacca e presi il giubbotto
di pelle che avevano dato a Daryl, ma che lui si era limitato ad
appendere all'attaccapanni. Sicuramente stava gelando lì
fuori, coperto solo dal gilet smanicato con le ali che era la sua
firma. Aprii piano la porta, richiudendola altrettanto piano alle
mie spalle. Mi aspettai qualche commento infastidito, o uno sbuffo
seccato, invece si limitò a sollevare il volto verso il mio
per guardarmi. Anche se era buio, i suoi occhi ebbero effetto
ugualmente e mi sentii arrossire sotto il suo sguardo. Aspirò
e liberò il fumo, togliendosi la sigaretta dalla bocca per
parlare e tenendola tra l'indice e il pollice. «Te l'ho
detto che saresti stato scomodo», esordii con un sorriso,
avanzando verso di lui e sedendomi al suo fianco, il giubbotto
stretto al petto. Cercai di non arricciare il naso per l'odore di
fumo e respirare solo con la bocca. «Quello non c'entra»,
ribattè in tono neutro. «Non avevo più sonno». Lo
osservai attentamnte, provando a capire cosa si celasse dietro la sua
improvvisa insonnia; nello stesso istante, cercavo di mantenere la
calma davanti alla consapevolezza che quella fosse la prima volta che
ci ritrovavamo soli e così vicini da prima che ci separassero.
Mi ritornarono in mente le nostre confessioni da ubriachi nella
vecchia catapecchia a cui avevamo dato successivamente fuoco, e tutta
quella situazione sembrava essersi replicata lì ad Alexandria,
con la sola differenza che, quella volta, ero al suo fianco. «Devi
rilassarti. Nessuno vi farà del male qui dentro», cercai
di rassicurarlo, mentre lui buttava via la sigaretta, premendola per
terra e lanciandola poi oltre la colonna del porticato. «Immagino
che la tua proverbiale prudenza ti abbia spinto a fidarti subito di
questa gente, non è vero?», domandò sarcastico,
senza guardarmi. «Tutto il contrario», lo smentii,
porgendogli il giubbotto; lui lo afferrò, ma lo ripose accanto
a sé, dal lato opposto al mio. «C'è voluta una
settimana prima che dormissi nel mio letto e altre due prima che
smettessi di chiudermi a chiave in camera», raccontai,
facendomi più vicino a lui. Il mio gomito toccò il suo
braccio: se quel contatto lo infastidì non lo diede a vedere.
«La prima notte io e Noah abbiamo dormito in salotto,
esattamente come voi». Iniziò a fissarmi, serio, come
se stesse studiando ciò che gli avevo appena raccontanto:
nemmeno nell'ultima sera insieme, seduti al tavolo della cucina della
casa funeraria, eravamo così fisicamente vicini; il suo
sguardo era così intenso e pericolosamente vicino. Ero a
distanza di idiozia dalle sue labbra ruvide e invintanti, perciò
interruppi il contatto visivo, tossicchiando imbarazzata. Anche lui
volse lo sguardo altrove. «Non eri tu quella che credeva che
esistessero ancora brave persone?», domandò
retoricamente, quasi come se fosse sulla mia stessa lunghezza d'onda,
come se i suoi pensieri lo avessero portato a rievocare ciò
che stavo pensando io. «Essere prudente non denota una
mancanza di fiducia nel prossimo», mi giustificai. «Ero
da sola, Daryl», sussurrai tristemente, osservando le ginocchia
che tenevo strette al petto. «Eri col tuo amico», mi
ricordò. «Eravamo solo in due». «Anche
quando siamo scappati dalla prigione eravamo solo in due»,
ribatté, infastidito. «Non è
la stessa cosa». «Sì invece, i numeri non
cambiano». «Non è la stessa cosa»,
ripetei. «Perché?!», esclamò
spazientito e con una punta di esasperazione nella voce. Rimasi in silenzio qualche istante, prima di parlare.
«Lui non è te». Non ebbe nemmeno il coraggio di
guardarmi in faccia dopo quella che lui, sicuramente, considerava
come una “stronzata sentimentale” o qualcosa del genere.
«Pfff, che risposta del cazzo», sbottò. Infatti. Mi
formicolarono le dita, e mi voltai con uno scatto verso di lui. «Sarà
anche una risposta del cazzo, ma io - calcai sul pronome – almeno
rispondo chiaramente alle domande, a differenza tua!»,
esclamai, cercando di tenere un tono di voce basso. «Cosa
vorresti dire?», chiese, sulla difensiva. Stava stringendo un
pugno. «Voglio dire che non hai nemmeno avuto il coraggio di
rispondermi come si deve in quella stupida casa funeraria, ma ti sei
limitato a mugugnare e a fissarmi quando ti ho chiesto perché
hai cambiato idea sulla bontà delle persone!». Si
irrigidì di colpo, arretrando leggermente e guardandomi con
gli occhi socchiusi in una fessura arcigna e fredda. Lo guardai con
lo sguardo eloquente di chi avrebbe accettato una risposta anche in
quel momento, anche se molto dopo, non importava. «Parli
troppo, Greene», si lamentò invece, poggiandosi con la
schiena contro la palizzata del portico. Io non dissi nulla,
rimanendo immobile per qualche istante; poi, cogliendolo di sorpresa,
mi alzai e feci per allontanarmi da lui e rientrare in casa. Non ne
fui in grado, perché si sporse verso di me e mi afferrò
per un polso, trattenendomi. Abbassai lo sguardo verso di lui, senza
il minimo cambio di espressione: dentro, invece, mi sentivo bruciare
e il cuore batteva all'impazzata. Eccolo, il Daryl Dixon che mi aveva
abbracciato il pomeriggio prima. Sospirai, sforzandomi di
trattenere un sorriso. Mi voltai appena, cercando il suo sguardo con
la coda dell'occhio: era intenso e indecifrabile, come al solito. Con
un movimento leggero del braccio mi liberai dalla sua presa delicata,
intrecciando subito dopo le mie dita con le sue per sollecitarlo ad
alzarsi. «Vieni, ti faccio visitare Alexandria»,
dissi, con un tono dolce ma che non ammetteva repliche. Daryl
rimase per qualche momento a osservarmi, con le nostre dita
intrecciate, ma poi sciolse la presa con uno sbuffo e si alzò
in piedi, tirandosi dietro il giubbotto e infilandoselo. Quando si
apprestò a prendere anche la balestra, lo fermai. «Non
ti serve quella, Daryl. Prova a fidarti», sussurrai, con un
sorriso. Seppur con incertezza, la prese e aprì un istante
la porta per appoggiarla al muro vicino all'attaccapanni,
affiancandosi poi a me che lo aspettavo giù dagli scalini del
portico. Iniziammo a camminare lentamente tra le vie di
Alexandria, in quella notte fredda ma tranquilla, come se fosse un
piccolo tour improvvisato solo per lui, la persona che più di
tutti aveva mostrato un rifiuto sin dal primo giorno. Gli mostrai
l'ambulatorio, la casa di Pete, la scuola dove dalla mattina prima
avevo iniziato a lavorare, il guardaroba collettivo, la biblioteca,
la piccola cappella, il laghetto, la cisterna d'acqua. Lui ascoltò
tutto il tempo i miei racconti, senza proferire quasi mai parola, con
qualche «mmmh-mmmh» di asserimento per farmi capire che
mi stava seguendo. Quando arrivammo vicino alla dispensa, mi venne
un'idea. «E in questo deposito si trova la dispensa, la più
importante fonte di cibo di tutta Alexandria, nonché l'unica.
Dovremmo dare un'occhiata, non credi?», domandai, con un
sorriso furbo che Daryl non riuscì a interpretare. Ad
Alexandria vigeva la fiducia reciproca, per questo luoghi come la
dispensa non venivano mai chiusi a chiave e sempre per questo entrai
nella struttura senza alcun problema. Il lampione collocato dietro
quella costruzione faceva entrare abbastanza illuminazione, perciò
non accesi la luce, anche se avanzai con cautela e con Daryl dietro
di me. «Come hai avuto modo di notare, ad ogni famiglia di
Alexandria è destinato un certo quantitativo di alimenti e c'è
una razione equamente spartita per ogni categoria di cibo, mi
segui?», spiegai a Daryl, mentre mi aggiravo per le mensole in
modo da trovare ciò che mi serviva. «Sì,
quindi?», rispose lui, laconico. Mi voltai verso di lui, che
mi osservava appoggiato allo stipite dell'arco che separava quella
parte di dispensa dal resto. «Alcuni alimenti sono più
“rari” di altri, forse perché non fondamentali
alla sopravvivenza», continuai, aprendo il freezer e
lasciandomi scappare un «bingo!», soddisfatta, quando
vidi le barrette di cioccolata impilate e avvolte nella carta
argentata in fondo al congelatore. Afferrai una tavoletta e la
spezzai a metà, conservandone una e rimettendo l'altra al suo
posto. «Io e Noah non siamo molto soddisfatti della razione
di cioccolata che ci spetta, perciò ogni tanto cerchiamo di
arrangiarci a modo nostro», conclusi con un sorrisetto e
ponendogli un'eventuale metà della tavoletta. Le labbra di
Daryl si piegarono in un sorriso sottile e appena accennato, ma che
arrivò ai suoi occhi con un guizzo divertito. Riuscii a
scorgere tutto, nonostante il buio. «Quindi uno dei tuoi
passatempi preferiti qua dentro è derubare le scorte di
cioccolata assieme al tuo amico?», domandò, addentandone
un pezzo e masticando rumorosamente. Risi, compiaciuta. «Beh,
non c'è molto altro da fare qui», mi difesi,
appoggiandomi al congelatore e mangiando la mia parte. Non mi
sfuggì la velocità con cui aveva fatto sparire il suo
pezzetto di cioccolata, così non appena finii il mio,
incrociai le braccia al petto e lo guardai con un sorrisetto
ironico. «Da quanto non mangiavi cioccolata?»,
domandai, divertita. Smise di leccarsi le dita, mentre il suo viso
diventava una maschera neutra ed i suoi occhi si allacciarono ai
miei. Tossicchiò, pulendosi le dita nel tessuto dei jeans e
borbottando. «Da un po'», disse, cercando di trattenere
un sorriso. Mentre stavo per ribattere, il mio sguardo passò
sullo scaffale vicino a Daryl, e venne attirato da qualcosa che
catturò la mia attenzione: le mie labbra si dispiegarono in un
sorriso divertito e avanzai verso la mensola, allungando una
mano. «Oh, qui hanno qualcosa di tuo», dissi,
afferrando il barattolo di latta e rigirandomelo tra le mani. Quando
lo guardai, Daryl aveva uno sguardo perplesso, che scomparve non
appena gli misi davanti al naso ciò che avevo trovato.
«Zamponi!», esclamai, rievocando quella volta alla casa
funeraria in cui aveva reclamato gli zamponi dicendo che erano suoi.
Mi lasciai andare ad una risata leggera, continuando a porgegli il
barattolo e a guardarlo negli occhi, senza smettere di sorridere. Lui
invece, rimase serio. Abbassò lo sguardo su ciò che
tenevo in mano e lo prese lentamente, portando poi il braccio lungo
il corpo, con il barattolo ancora stretto tra le mani. E poi, come
già tante volte era accaduto in quelle poche ore, allacciò
gli occhi ai miei, serissimo, senza dire nulla e, senza che potessi
prevederlo, iniziò ad avanzare verso di me. Mi bloccai sul
posto, senza riuscire a scostare il mio sguardo dal suo, come se ne
fossi completamente ipnotizzata e quel volto immerso nelle ombre
avesse il potere di paralizzarmi. Era come se fosse più
facile, per lui, muoversi al buio ed agire, perché il suo
passo era sicuro così come il suo sguardo. Anche io,
nonostante i suoi occhi mi intimidissero, mi sentivo più a mio
agio: in quella piccola dispensa l'aria si era fatta carica di
elettricità, e non so se fossero i miei sentimenti per lui e
le conseguenti reazioni ai suoi gesti a farmi leggere ciò che
stava succedendo in un modo totalmente sbagliato. Si fermò che
le punte delle nostre scarpe quasi si toccavano, il suo corpo
vicinissimo e il suo calore che si mischiava al mio. E quello
sguardo... era tutto così intimo, nascosto, discreto. Come se,
una volta rimasti soli, fosse più facile avere a che fare
l'uno con l'altra, e in mezzo agli altri fossimo due persone diverse
e con un legame altrettanto diverso. Daryl non la smetteva di
fissarmi mettendo alla prova i miei nervi e, nonostante avessi la
gola improvvisamente secca, riuscii a bisbigliare: «cosa
c'è?». Lui, in tutta risposa, sollevò la mano
ed il braccio liberi e mi circondò le spalle, mentre la mano
con cui stringeva il barattolo l'appoggiò al congelatore
dietro di me e si sostenne nel momento in cui si sbilanciò
verso di me per abbracciarmi in modo goffo. «Per te»,
sussurrò, a voce talmente bassa che, per un momento, credetti
di essermelo solo immaginata. Quella frase voleva dire tutto e
niente ed espressa così fuori contesto, inizialmente, fu di
difficile interpretazione. Nonostante il suo corpo contro il mio
fosse una fonte di distrazione, dopo una giornata così non
potei non arrivare quasi subito a cosa significassero quelle due
semplici parole. Come poteva essere il contrario, se in ogni suo
gesto, parola o comportamento avevo trovato qualche rimando agli
ultimi giorni che avevamo passato insieme prima di essere separati?
Quella era semplicemente la risposta chiara e concisa alla domanda
che gli avevo posto infinito tempo prima: «perché hai
cambiato idea?» Per
te. Sei tu che mi hai fatto cambiare idea. Anche
se avevo capito dal primo istante quale fosse il responso, fu
incredibile sentirselo dire, ancora di più se pensavo che era
stato Daryl a esporsi così tanto. L'orgoglioso, distaccato
e burbero Daryl Dixon. L'unica cosa che riuscii a fare fu
affondare il volto nel suo petto e stringere le braccia attorno alla
sua vita, stringendomi contro di lui, mentre il mio cuore, il mio
corpo e la mia mente si animarono di emozioni tanto forti e luminose
che sentii l'elettricità sprizzare da ogni mio poro. Inspirai
a fondo il suo odore, incredula del fatto che tutto quello stesse
succedendo davvero e ancora più consapevole dei miei
sentimenti per lui. Ero troppo felice per farmi domande sul cosa lo avesse spinto a quei gesti – per lui –
tanto eclatanti. «Mi sei mancato così tanto mentre
non c'eri, Daryl Dixon», sussurrai, nascondendo il sorriso
nella sua camicia. La sua presa attorno alle mie spalle aumentò
appena, per poi allentarsi subito dopo, mentre sbuffava simulando una
risata, allontanandosi da me. «Sei ubriaca anche stavolta?»,
domandò, facendo un passo indietro. Dissimulai l'imbarazzo
ridacchiando a mia volta, portandomi un ciuffo di capelli dietro
l'orecchio. «Certo che no», risposi timidamente. Non
senza un certo impaccio, convenimmo che fosse ora di tornare a casa,
così uscimmo dalla dispensa, guardandoci intorno non appena
fummo fuori. Il cielo cominciava a schiarirsi a poco a poco, di
sicuro l'alba era vicina; camminammo fianco a fianco, in silenzio,
fino a casa sua. Quando vide che non lo seguivo su per gli scalini,
si voltò a guardarmi con uno sguardo interrogativo. Infilai le
mani nelle tasche della giacca, piegando la testa prima da un lato e
poi da un altro, facendo scricchiolare il collo. «Credo che
andrò a dormire a casa, il pavimento è un po' scomodo.
E poi non voglio svegliare Carol o Michonne inciampandoci sopra».
Tutto ad un tratto, il sonno si fece sentire, gravando sulle mie
palpebre e sulle mie spalle. Eppure, non mi ero mai sentita così
sveglia. «Giusto. Dirò io a Maggie che sei tornata a
casa tua», disse in tono neutrale – cioé, il suo
solito tono. «Beh, buonanotte», aggiunse,
voltandosi. «Ehi, Daryl», lo chiamai a voce un po'
troppo alta, prima che entrasse in casa. Si girò verso di me
con la mano già sulla maniglia della porta, in attesa. «Perché
domani non passi da me? Voglio darti una sistemata ai capelli»,
proposi, sperando che dicesse di sì. Aggrottò le
sopracciglia e arricciò le labbra, per niente allettato dalla
proposta. «Scordatelo!», berciò, enfatizzando il
tutto con un movimento brusco del braccio che non stringeva la
maniglia. Sorrisi angelica, incurante della sua risposta. «Bene,
è questo lo spirito. Ti aspetto da me per le tre»,
stabilii, iniziando a incamminarmi verso casa. Ignorando le sue
numerose proteste, quando fui ancora più lontana mi voltai,
aggiungendo: «ah, mi raccomando: devi venire da me pulito,
perciò fatti una bella doccia!». «Sei una
seccatura, ragazzina!», sbottò a voce alta, prima di
sparire dentro casa accompagnato dalle mie risate.
Angolo
autrice. Finalmente
ce l'ho fatta, questo capitolo è stato veramente infinito da
scrivere e mi dispiace di essere in leggero “ritardo”, ma
ho avuto un mini-blocco. Perché io sono così: non
scrivo per giorni, fisso per settimane una pagina che non vuole
sapere di essere riempita e poi, boom, tutto d'un colpo completo il
capitolo in una giornata. Vallo a capire il mio cervello... Comunque,
ci siamo: possiamo ufficialmente dare il via al rapporto tra i nostri
due amorucci! È incredibilmente difficile provare a costruire
caratteri e situazioni rimanendo fedele/rifacendosi alle poche
situazioni che sono state ricreate nel telefilm, ci ho provato
veramente in ogni modo e spero che il risultato sia abbastanza
buono. In questo caso ho odiato veramente l'italiano, che ha
veramente tolto molto ad un dialogo che, tra loro due, è
importantissimo: esatto, la famosa risposta sul perché Daryl
ha cambiato idea sull'esistenza delle brave persone. “What
changed your mind?” è stato tradotto in italiano con
l'odioso – per me – “perché hai cambiato
idea?”, la cui risposta è veramente troppo lunga per uno
di poche parole come Daryl. Mentre in inglese avrei potuto
cavarmela così: “What changed your mind?”
“You.” in italiano mi è uscito quel maledetto
“per te” che non ha veramente senso e toglie tutta la
poesia della risposta laconica in perfetto stile Dixon. Vabeh,
prima o poi mi riprenderò, non preoccupatevi, ahahah! È
l'una e mezza di notte e sto per crollare, ma volevo veramente
aggiornare il capitolo perché è passato molto tempo e
non volevo farvi aspettare oltre. Domattina controllerò gli
eventuali errori, intanto ringrazio veramente di cuore le sette
persone che hanno recensito lo scorso capitolo (vi risponderò
presto, giuro!) che sono state veramente di una gentilezza estrema,
chi ha aggiunto la mia storia alle seguite/preferite e anche chi ha
letto soltanto. Rinnovo l'invito a passare sul mio tumblr per
scambiare quattro chiacchiere e vedere tutto ciò che riguarda
questa storia (http://blakieefp.tumblr.com),
mi farebbe piacere! Spero che il capitolo vi sia piaciuto, vi
aspetto al prossimo aggiornamento! Un bacio, Blakie
Nell'euforia
del momento non mi resi conto che il giorno dopo non avrei potuto dare
una regolata ai capelli troppo lunghi di Daryl: avevo un turno in
ambulatorio che mi avrebbe tenuta occupata per tutta la giornata.
Quando mi ricordai quel particolare per nulla irrilevante, imposi a me
stessa di tenere ben presente, da quel momento in poi, che nonostante
l'aria di novità e felicità che aveva portato
l'arrivo della mia famiglia, le mie mansioni erano rimaste le stesse:
come prima, avevo il dovere di svolgerle per il bene della
comunità.
Così, la
mattina successiva, mi recai a casa loro, sia per salutare mia sorella
prima di andare in ambulatorio, sia per avvisare – e vedere
– Daryl. Lo trovai sotto al portico, intento a fumarsi
una sigaretta, coi gomiti appoggiati al parapetto; notai che non aveva
la balestra con sé e per questo mi venne da sorridere.
«Buongiorno,
Daryl», esclamai superandolo, mentre mi avvicinavo alla porta
d'ingresso.
«Beth»,
rispose, a mo' di saluto e voltandosi verso di me.
Che bello, sentirlo
pronunciare il mio nome. Come al solito non si lasciò andare
a troppe parole: in un primo momento, pensai che si fosse in qualche
modo pentito di quello che era successo poche ore prima, seppur non
avessimo fatto proprio nulla di male.
Forse credeva di
essersi avvicinato troppo? Cercai la risposta nei suoi occhi, che erano
due specchi di quiete limpida e blu. Ora che lo guardavo meglio, gli
angoli delle sue labbra erano appena sollevati.
Bussai alla porta,
udendo già da lì fuori il tintinnio dei piatti e
il vociare calmo della mia famiglia: stavano di sicuro facendo
colazione. Mi aprì Carol che, appunto, reggeva nella mano
una tazza fumante contenente, lo intuii dall'odore, del
caffè.
«Buongiorno
Beth», proferì con un sorriso, mentre si spostava
di lato per farmi entrare. «Sei arrivata giusto in tempo per
la colazione».
Prima che potessi
rispondere, notai subito che aveva cambiato gli abiti con cui era
arrivata qui il giorno prima. Non ero abituata a vederla
così, avvolta in un golfino colorato e con una camicia
piuttosto femminile addosso. «Wow, Carol, che cambio di look!
Ti dona».
«Grazie,
è per conservare le apparenze», disse, facendomi
l'occhiolino.
«A me
sembra soltanto ridicola», si intromise Daryl.
Carol si sporse
quel tanto che bastò per lanciargli un'occhiataccia e
dirgli: «Potrai parlare quando ti sarai fatto una
doccia».
Scoppiai a ridere.
«Speriamo accada presto», la appoggiai, seguendola
dentro casa e lasciando Daryl a inveire contro la porta chiusa.
Li ritrovai attorno
alla penisola della cucina che facevano colazione e, per un secondo, mi
venne da dimenticare che, fuori dalle mura, c'era ancora l'inferno.
Sembrava una mattina normalissima, di un giorno normalissimo, in un
mondo normalissimo.
Sorrisi d'istinto,
mentre Maggie mi abbracciava e mi augurava il buongiorno.
«Ehi, Beth, sei venuta a fare colazione con noi?»,
domandò mia sorella, sospingendomi verso la penisola.
«Ho
già fatto, sono venuta a salutarti prima di andare in
ambulatorio», dissi, lanciandole un sorriso di scuse.
«Ah,
giusto, i lavori di Deanna! Molti di noi la incontreranno
stamattina».
«Io e
Rick esclusi», intervenne Michonne. «Dice che deve
ancora pensarci bene».
Le sorrisi,
guardando prima lei e poi Rick, che stava dando il biberon a Judith.
«Deanna
è molto perspicace in questo. Quando vi assegnerà
un lavoro, sarà quello giusto per voi». Rick e
Michonne mi sorrisero a loro volta, senza rispondere.
«Io vado
allora», dissi, posando un bacio sulla guancia di Maggie.
«Fate in modo di non avere bisogno di me, per oggi! Non
voglio vedervi arrivare in ambulatorio», esclamai, con la
mano già sul pomello della porta, mentre sentivo la mia
famiglia liberare una risata.
Daryl mi dava
ancora le spalle, quando uscii di casa. Lo affiancai, appoggiando i
gomiti al parapetto per imitare la sua posizione. «Ehi, tutto
bene?», domandai, voltandomi verso di lui per guardarlo.
«Mi sembri serio. No, beh, più serio del
solito», mi corressi infine.
Mi
scrutò con la coda dell'occhio, prima di mugugnare un
«mmm-mmmh» di affermazione. Laconico come sempre.
«Se
è il taglio di capelli che ti preoccupa, per oggi puoi star
tranquillo. Ho il turno in ambulatorio e devo rimanerci tutto il
giorno, perciò non ho proprio tempo di occuparmi del tuo
restyling», lo resi partecipe, sorridendo.
Alzò gli
occhi al cielo, liberando un profondo sospiro di sollievo.
Mimò un «grazie» con le labbra, piegando
la testa all'indietro e volgendo il viso verso l'alto.
«Ehi!»,
esclamai, fingendomi offesa e tirandogli una gomitata nelle costole.
In tutta risposta,
si voltò verso di me, sghignazzando e guardandomi negli
occhi. Tutto d'un tratto tornò serio, le labbra gli si
appiattirono tanto velocemente quanto si erano dispiegate.
Lanciò un'occhiata fugace alle sue spalle, come ad
accertarsi che nessuno ci stesse guardando o ascoltando. Si vergognava
al tal punto di aver instaurato un legame con me?
«Devo
parlarti», disse a bassa voce, prima che le mie paranoie
prendessero il sopravvento.
Il mio cuore
accelerò il suo ritmo in un battito di ciglia.
«Accompagnami all'ambulatorio, ti va?».
Iniziammo fianco a
fianco a percorrere le strade di Alexandria e, nonostante ci fossimo
allontanati dagli altri – perché era evidente che
non volesse farsi sentire proprio da loro – l'arciere non si
decideva ad aprire bocca.
«Puoi
parlare, adesso», gli ricordai, abbastanza preoccupata.
Si mise le mani in
tasca, osservandosi le punte degli scarponi, mentre continuava a
camminare. «Stamattina sono stato fuori dalle mura con Rick e
Carol».
«Perché?»,
domandai, perplessa.
Lui
esitò qualche istante, ma poi parlò, serio.
«Siamo... Sono andati a riprendersi delle pistole che avevamo
nascosto prima di entrare qui».
Mi voltai verso di
lui, interdetta. «Cosa? Hanno delle armi?». Non
rispose, né annuì, ma non ce ne fu bisogno.
Il suo
atteggiamento la diceva lunga.
«Non
capisco...», mormorai, delusa. «Loro... Non vi
faranno del male! Non sono io stessa una prova sufficiente a
riguardo?!».
Lui scosse la
testa. «Non è questo il punto, Beth».
«Allora
qual è?».
«Rick e
Carol credono che questa gente, essendo vissuta sempre qua dentro, non
sappia cosa bisogna fare per rimanere al sicuro, per combattere i vivi
e i morti. Per sopravvivere», spiegò con tono
tranquillo e, per la prima volta, conciliante.
«Pensano
che ci metteranno nei casini...».
«Sì».
«E tu sei
d'accordo?», domandai, cupa.
Attese qualche
secondo, prima di rispondermi con un
«sì» netto. Precedendo qualsiasi
tentativo di protesta da parte mia, aggiunse subito dopo:
«Però non sono d'accordo col fatto di tenersi
delle armi di nascosto».
Lo guardai,
attonita, provando ad ignorare il calore intenso che iniziava a nascere
dal centro del mio petto. «Tu... non hai che la balestra,
quindi?».
«Non ho
che la balestra».
Provai a fermare le
mie gambe che mi proiettarono verso Daryl, provai a tenere lungo i
fianchi le braccia che, invece, si allargarono e andarono a
circondargli il collo, stringendomi a lui. Ci provai, davvero, ma non
ci riuscii. Fallii miseramente, perché più
passava il tempo e più mi rendevo conto di che persona
meravigliosa fosse Daryl. Non sapevo in che altro modo esprimergli la
mia gratitudine. Riuscii a immaginarmi la sua espressione interdetta,
mentre si domandava quale frase da lui pronunciata avesse scatenato
quello slancio di affetto. La verità è che non lo
sapevo nemmeno io il perché, ma ero orgogliosa di lui per
non aver accettato le pistole rimaste nascoste là fuori.
Voleva dire tanto per me, tutto. Era cambiato, tanto e in meglio. Stava
iniziando a fidarsi di me, stava iniziando davvero a credere che
esistessero persone buone.
«Grazie»,
dissi, stringendomi a Daryl e tenendomi in equilibrio sulle punte. Mi
allontanai da lui subito, per non risultare troppo appiccicosa.
«Per
cosa?», domandò, perplesso e cercando di restare
sulle sue.
«Per la
tua fiducia», risposi, le labbra piegate in un sorriso.
Daryl, in tutta
risposta, sbuffò, volgendo lo sguardo da un'altra parte in
evidente disagio. «Smettila con le tue cazzate
sentimentali», sbottò infastidito, ma la sua voce
era rimasta morbida.
«E tu
smettila di fare la parte del burbero di turno a cui non frega nulla
delle persone che ha attorno».
«A me non
frega nulla, infatti. Puoi dirlo forte».
Alzai gli occhi al
cielo. «Certo Daryl, per questo sei venuto a parlarmene,
vero? Perché non te ne frega niente».
«Sono
venuto a parlartene perché sapevo che sarebbe importato a
te», rispose con prontezza, stringendosi nelle spalle. Quando
voleva sapeva essere piuttosto abile nell'avere l'ultima parola. Rimasi
in silenzio qualche secondo, notando distrattamente che eravamo
arrivati davanti all'ambulatorio.
Lasciai il suo
fianco per fermarmi di fronte a Daryl, guardandolo con sguardo
preoccupato. «Pensi che dovrei parlare con Rick e
Carol?».
Lui ci
pensò qualche istante. «No»,
proferì, voltandosi poi ad osservare la porta dello studio
medico. «Non ancora, ecco».
Mi sentii
sollevata: non ero decisamente pronta per... affrontare? due membri
così importanti della nostra famiglia. Credevo che fosse
esagerato tenere delle armi di nascosto, certo, ma cosa avrei potuto
dire a riguardo? Era grazie alla prontezza di due persone forti e
decise come Carol e Rick se eravamo riusciti a sopravvivere fino a quel
momento. Grazie ai loro metodi non sempre ortodossi – ma
c'era rimasto qualcosa di ortodosso, in quel mondo? – e alla
loro diffidenza. Loro sapevano destreggiarsi nel mondo là
fuori, molto più di me e ancora di più rispetto
agli abitanti di Alexandria, che si erano protetti con alte mura sin
dal primo giorno, non sapendo assolutamente nulla di come si potesse
sopravvivere ad una crisi del genere. Se però avessero
cercato di fare del male – anche se mi riusciva molto
difficile crederlo – a qualche membro della
comunità, non sarei certo rimasta a guardare.
«Lo credo
anche io. Magari hanno solo bisogno di ambientarsi...».
Daryl non mi
rispose, ma dal suo sguardo capii che non riteneva quell'ipotesi
fondata. Cercai di ignorare la cosa e evitai di farmi ulteriori
problemi: tempo al tempo.
«Ad ogni
modo, grazie per avermelo detto», aggiunsi dopo qualche
secondo di silenzio, rivolgendogli un sorriso. L'arciere si strinse
nelle spalle, mugugnando qualcosa di incomprensibile e guardando da
un'altra parte. Sarei rimasta tutta la mattina con lui, se avessi
potuto, ma purtroppo il dovere mi chiamava.
«Beh, io
vado», lo informai, sollevando un braccio e indicando
l'ambulatorio dietro di noi con il pollice.
«D'accordo,
Infermiera Greene», rispose con un ghigno.
«Molto
divertente», replicai, alzando gli occhi al cielo e
lasciandomi scappare un sorriso. «Ah, a proposito: devi
vedere anche tu Deanna questa mattina? Per i lavori, sai».
Mi avvicinai alla
porta dello studio e lui mi seguì, sbuffando. «No.
Deve ancora inquadrarmi», mi
informò, enfatizzando l'ultima parola con tono sprezzante.
Scoppiai a ridere
per la voce che gli era uscita. «Deve mettersi in fila,
allora», commentai, lanciandogli uno sguardo eloquente.
Mi aspettai
proteste o sbuffi di ogni tipo, che, però, non arrivarono:
Daryl, contro ogni previsione, sollevò appena gli angoli
delle labbra, guardandomi negli occhi e sorridendomi con
spontaneità. Allacciai lo sguardo al suo, ricambiando il
sorriso e lasciando che il calore che si stava diffondendo dal mio
petto mi cullasse. Era un sorriso appena accennato, discreto, ma
sincero. E del quale non riuscii a carpire il significato. Senza che
potessi impedirlo, i miei occhi lasciarono i suoi e scivolarono verso
le sue labbra ancora atteggiate a sorriso: per un secondo, nella mia
mente balenò l'istinto di toccare il suo sorriso col mio.
Guardai da un'altra parte non appena mi resi conto di come lo stavo
guardando, rossa di imbarazzo, col cuore che iniziò a
correre.
«Fila al
lavoro, ragazzina». Il tono di Daryl era divertito, ma nella
voce, quasi roca, percepii una lieve nota di rimprovero: se n'era
accorto? Aveva captato il mio sguardo per nulla discreto?
Sentii il disagio
strisciarmi nello stomaco.
«Vado»,
mormorai, afferrando la maniglia in un gesto repentino. Feci un respiro
profondo e lo guardai di nuovo, provando a sorridergli per nascondere
la soggezione. «Buona giornata, Daryl».
Rispose con un
cenno del capo, sorridendomi in modo abbastanza enigmatico.
«Infermiera Greene», replicò, a mo' di
saluto: chiusi la porta alle mie spalle, con le labbra che ancora
ridevano e il cuore più leggero.
~
Si respirava
un'aria diversa, da quando la mia famiglia si era presentata ai
cancelli di Alexandria, ed ero convinta che non fosse solo una mia
impressione. Certo, per quel che mi riguardava era più che
normale - ero coinvolta emotivamente nell'arrivo di miei cari - ma mi
sembrava che questa novità avesse influito sulla
quotidianità di chi viveva qui anche prima di me. Questa
impressione si era accentuata quando Deanna aveva deciso che si sarebbe
data una festa per celebrare l'entrata di Rick e gli altri nella
comunità.
Deanna ce lo aveva
comunicato mentre eravamo tutti insieme a cena, due giorni dopo
l'arrivo della mia famiglia. A me era sembrata una splendida idea, ma,
dando un'occhiata generale ai visi seduti alla tavola tutti intorno a
me, gli ospiti d'onore della festa non sembravano essere dello stesso
avviso. Forse erano contrariati dal fatto di essere finiti sotto i
riflettori, forse organizzare una festa gli sembrava fuori luogo,
abituati com'eravamo ad avere la sopravvivenza come unico scopo nella
vita.
Le uniche reazioni
"positive" arrivarono da Michonne -- che, assieme a Rick, era stata
nominata poliziotto di Alexandria -- e da mia sorella. Ovviamente anche
Carol si finse entusiasta all'idea, per non far saltare la sua
copertura di casalinga mite e conciliante.
«L'organizzazione
coinvolgerà tutti gli abitanti della
comunità», ci informò Deanna
sistemandosi dietro di me, posandomi le mani sulle spalle e facendo
finta di non essersi accorta della perplessità dei miei
cari. «Ci tengono molto a darvi il loro benvenuto».
«È
da ieri mattina che continua ad arrivare gente alla nostra porta per
darci il benvenuto. Abbiamo afferrato il concetto»,
sbottò burbero Daryl, che era seduto di fronte a me.
Io gli lanciai
un'occhiataccia, ma Deanna scoppiò a ridere. «Beh,
signor Dixon, grazie a questa festa eviterà la seccatura di
sentire bussare ogni cinque minuti».
«Credo
che eviterò direttamente la festa, signora
Monroe», replicò Daryl, stringendosi nelle spalle
e avventandosi di nuovo sulle pietanze nel suo piatto.
Alzai gli occhi al
cielo, esasperata, tirandogli un calcio sotto il tavolo che non
sortì nessun effetto: mi ignorò spudoratamente,
continuando ad ingozzarsi con la sua solita grazia.
«Non
è obbligato a partecipare, Daryl»,
chiarì Deanna, sorridendogli. Poi si guardò
attorno, incrociando gli sguardi degli altri. «Nessuno di voi
lo è, ma vi farebbe bene staccare la spina, non pensare a
niente per una sera. In compagnia di persone amiche e della migliore
birra che siamo riusciti a trovare».
«Birra,
eh? Potrei fare uno sforzo», si lasciò sfuggire
Abraham. Io soffocai una risata, imitata da Carl.
Con un certo
sforzo, Rick sfoderò un sorriso appena accennato e diede il
benestare a Deanna per organizzare la testa, per la mia contentezza.
Non ero totalmente sicura, dopo la chiacchierata che avevo avuto con
Daryl, del fatto che Rick non avesse qualche piano in mente, ma mi
faceva piacere che ci stesse almeno provando. Deanna se ne
andò sorridente e ci lasciò, scusandosi per aver
interrotto la nostra cena.
Da quel momento,
due giorni passarono veloci più o meno nella stessa routine,
in un ritmo cadenzato e rassicurante.
A tutta la mia
famiglia Deanna aveva assegnato delle mansioni da svolgere, dei lavori,
che sembravano piuttosto azzeccati, a dire la verità. Maggie
era stata affiancata a Deanna per aiutarla con la gestione e
l'organizzazione della zona sicura; Glenn, Abraham e buona parte del
gruppo erano stati assegnati ai gruppi che si occupavano di uscire
dalle mura per raccogliere provviste e qualsiasi cosa fosse utile alla
protezione della città; Carol sarebbe rimasta dentro le mura
per cucinare e aiutare le persone poco autosufficienti, come gli
anziani.
L'unica persona per
la quale sembrava non esserci nulla di adatto era Daryl.
«Mi
dispiace che Deanna non ti abbia ancora trovato nulla da
fare», gli dissi, sincera, mentre fumava una sigaretta sotto
al portico. Avevamo appena finito di cenare assieme a tutti gli altri,
com'era diventata un'abitudine da quando erano arrivati.
Lui
scrollò le spalle, indifferente. Provai a capire se fosse
solo una facciata o se davvero non gliene importasse nulla.
«Credo che questa volta l'infallibile signora Monroe abbia
preso un grosso granchio», sghignazzò con
soddisfazione.
Lo guardai
contrariata. «Prima o poi assegnerà qualcosa anche
a te. Non puoi fare nulla tutto il giorno, Daryl. Ti
cacceranno».
«Che mi
caccino, se proprio devono. E poi non è vero che non faccio
nulla: ho ripulito la zona circostante da diversi vaganti, in questi
due giorni».
«Già,
sei stato fuori e non mi hai portato nemmeno un po' di stufato di
serpente», mi lamentai, fingendomi risentita.
«Esco anche domani, te lo posso portare fresco».
«Domani
sera c'è la festa, vedi di tornare per tempo».
«Ecco,
adesso che me l'hai ricordato spero vivamente che un'orda di vaganti
abbia la meglio su di me».
«Smettila!»,
esclamai, alzando gli occhi al cielo per nulla divertita.
Sapevo che stava
scherzando, perciò la mattina dopo, quando partì,
lo andai a salutare ai cancelli con l'animo piuttosto tranquillo. Lui
rispose alle mie raccomandazioni con un cenno del capo, girò
i tacchi e varcò le mura di Alexandria. Lo guardai
finché il cancello non venne chiuso da Nicholas e Daryl
sparì dalla mia visuale. Mentre tornavo indietro, incrociai
Aaron, chiaramente diretto verso l'uscita della città.
«Ciao
Beth», mi salutò, trafelato. Sembrava essere
piuttosto di fretta.
«Ehi,
Aaron. Stai andando a reclutare?», gli domandai, dubbiosa.
Strano, era domenica.
«È
il mio giorno libero», replicò infatti, con un
sorriso. «Devo parlare con Daryl».
«Oh,
è uscito poco fa! Se ti sbrighi dovresti riuscire a
raggiungerlo, era diretto a sud», replicai, abbastanza
sorpresa dalla sua risposta.
«Grazie!»,
esclamò, riprendendo la sua corsa.
Lo guardai
allontanarsi, sempre più perplessa: per quale motivo avrebbe
mai dovuto parlare con l'arciere? Forse non ero stata abbastanza
attenta e mi era sfuggito, ma mi sembrava che in quei giorni i due non
si fossero nemmeno rivolti la parola. Cercai di dare un freno alla mia
curiosità e mi diressi a casa: con tutte le cose che avevo
da fare, sarebbe stato facile non pensarci e attendere il ritorno dei
due per una spiegazione.
Finire i
preparativi per la festa mi impegnò per tutto il pomeriggio:
mi occupai delle pietanze che sarebbero state servite durante la
serata, con all'aiuto di Maggi e Carol e di altre volontarie di
Alexandria. Quando fu tutto pronto, lasciai la casa di Deanna per
tornare alla mia e prepararmi. Fui tentata dal fare una piccola
deviazione per passare da Eric e assicurarmi che Aaron e Daryl fossero
tornati, ma mi dissi che non ce n'era bisogno: stavano bene, erano
tornati.
Dovevo cercare di
non stare troppo addosso all'arciere: considerando il suo modo di
essere, assumere un atteggiamento assillante sarebbe stata la via
più facile per allontanarlo.
Mi rilassai sotto
il getto caldo dell'acqua e lasciai che la stanchezza della giornata
scivolasse via, preparandomi poi in tutta calma. Meditai a lungo su
come vestirmi: nonostante cercassi di evitare quel tipo di pensieri per
non sentirmi ridicola, non potevo fare a meno immaginare quale sarebbe
stata l'espressione di Daryl se, per una volta, mi avesse vista
truccata e pettinata al meglio.
Volevo che mi
trovasse desiderabile e non potevo farci nulla. Volevo che mi vedesse
come una donna bella e sicura di sé, almeno per quella sera,
e non come la ragazzina che era solito bistrattare con commenti poco
gentili. Probabilmente non gliene sarebbe fregato nulla del mio vestito
o del mio make up, Daryl non sembrava certo il tipo da dare importanza
a quelle cose. Forse avrei fatto solo la figura della ragazzina frivola.
Scossi la testa,
sbuffando e lasciando perdere l'idea di sistemarmi in modo troppo
elaborato. Aprendo l'armadio mi ricordai che, alla fine, non avevo poi
una scelta così ampia, per quel che riguardava gli abiti
eleganti. Puntai su un semplice tubino nero con fantasia floreale,
abbinato a collant scuri e stivaletti: sarei stata comunque
più carina di quando ci trovavamo in mezzo al bosco, almeno.
Decisi di stirare i
capelli e lasciarli sciolti lungo le spalle, e di applicare sulle
labbra del semplice lucidalabbra rosato, più una leggera
punta di mascara per far risaltare gli occhi.
Uscii di casa con
un sorriso, lo stesso che mi riservò Aaron quando
aprì la porta dopo avermi sentito bussare.
Mi fece accomodare
in cucina, dove Eric stava finendo di preparare la cena; mi offrii di
apparecchiare, cercando di non saltare i convenevoli per chiedergli di
cosa avevano parlato - se avevano parlato - lui e Daryl mentre erano
nei boschi.
«Non
pensarci nemmeno, Beth», mi rimbrottò Aaron.
«Sei nostra ospite. Rilassati, finché non viene
pronta la cena. I preparativi della festa devono essere stati
stancanti».
«Non
più di tanto», risposi, facendo spallucce e
appoggiandomi all'isola della cucina. «Anzi, è
stato bello mettersi così di impegno per qualcosa che non
riguarda la sopravvivenza».
«I tuoi
amici come si sono trovati? È ancora tutto nuovo, per
loro», commento Eric con comprensione.
Gli rivolsi un
sorriso. «Bene, tutto sommato. Credo solo che gli serva del
tempo, ad alcuni più di altri».
Aaron mi
lanciò un'occhiata allusiva. Risi, ricambiando lo sguardo
d'intesa. «Allora, com'è andata là
fuori? Lo hai trovato?».
«Ho
rischiato una freccia in fronte, ma sì, l'ho trovato alla
fine», rispose, ridendo e appoggiandosi al ripiano del
bancone con le braccia incrociate.
«Sono
sicura che gli sei arrivato alle spalle!», lo accusai con un
sorriso, puntandogli contro l'indice. «Non lo sopporta. Daryl
è un segugio, è lui che segue le persone a
distanza, non il contrario».
«Lo
conosci bene, eh?», commentò Eric. Notai una lieve
nota maliziosa, dietro al tono apparentemente neutro.
Alzai gli occhi al
cielo, ignorandolo. «Quindi, Aaron? Di cosa avete
parlato?», domandai, arrendendomi alla mia stessa
curiosità.
«Volevo
solo capire come mai per Deanna è così difficile
individuare il lavoro da assegnargli e capire un po' che persona
è», mi spiegò, tranquillo.
Sorrisi, provando a
immaginarmi un Aaron amichevole e un Daryl burbero e scostante,
desideroso soltanto di farsi gli affari propri ma costretto a
sopportare la compagnia indesiderata del reclutatore. «E ci
sei riuscito?».
Mi sorrise,
trionfante. «Sì, ci sono riuscito».
«I miei
complimenti! Io devo ancora riuscire a capirlo del tutto»,
scherzai.
«Gli hai
trovato anche un'occupazione?».
L'espressione
allegra di Aaron si spense: quella che la sostituì non
l'avrei definita preoccupata, più... indecisa, ecco.
Lanciò uno sguardo fugace ad Eric, che si voltò
subito per continuare a mescolare il sugo che stava preparando.
«Io...
sì. Gliene parlerò stasera», rispose,
titubante.
«Beh,
è fantastico!», commentai, sinceramente
entusiasta. Forse Daryl avrebbe cominciato veramente a sentirsi parte
di quel posto. «Di cosa si tratta?», domandai,
curiosa.
Aaron attese
qualche attimo, prima di decidersi a parlare. «Pensavo di
chiedergli se vuole prendere il posto di Eric e andare là
fuori con me. A reclutare le persone».
Spalancai gli
occhi, non sapendo bene cosa dire: la sua risposta mi aveva lasciata
basita, e non so come Aaron interpretò la mia reazione.
Mi guardava
intensamente, preoccupato. «Beth, ascolta, so che
è egoista da parte mia chiedergli una cosa del genere e
probabilmente mi odierai per questo-», cominciò,
accorato, parlando in fretta come se si volesse giustificare.
«Aspetta»,
lo interruppi, perplessa. «Perché dovrei
odiarti?!».
«Perché
per tenere al sicuro la persona più importante per me, metto
in pericolo quella più importante per te».
Strinsi le labbra,
abbassando lo sguardo e cercando di non farmi travolgere dall'ondata di
imbarazzo che mi montò dal fondo dello stomaco. Aaron aveva
appena paragonato lui ed Eric - coppia, innamorati
- a me e Daryl. Dovevo dire qualcosa, qualunque cosa. «Oh,
ecco, no Aaron, ti sbagli, io e Daryl non...», balbettai,
confermando ancora di più l'idea che si era fatto dei miei
sentimenti per l'arciere. «No», terminai, chiudendo
il mio intervento per nulla brillante. Feci un respiro profondo,
ignorando lo sguardo di intesa che si scambiarono i miei amici.
«Non ti considero egoista, né ti odierò
se chiederai a Daryl di diventare reclutatore», sorrisi,
ancora rossa d'imbarazzo. Lui mi studiò attentamente,
valutando se poteva credermi o no.
«Quell'uomo,
Beth», proferì, alzando un braccio e indicando con
l'indice un punto imprecisato di ciò che lo
circondava,«è incredibilmente bravo a capire la
differenza tra le brave persone e le cattive persone»,
affermò, la voce intrisa di ammirazione. «Per
questo voglio che diventi il nuovo reclutatore di Alexandria. Non
riesco a pensare ad un sostituto più adatto di
lui».
Lo fissai, senza
dire una parola.
«Quindi
credi che esistano ancora brave persone. Perché hai cambiato
idea?».
Daryl era passato
dal credere che non esistessero più persone buone,
all'essere scelto come reclutatore proprio perché riusciva a
riconoscerle, in quel mondo andato a rotoli. Ero orgogliosa di lui e
assolutamente felice che Aaron gli riservasse quelle parole e che lo
volesse con sé. Daryl aveva tanto da dare a quella
comunità e lo avrebbe fatto, pur agendo fuori dalle mura.
Sarebbe stata la soluzione perfetta per lui.
«È...
fantastico, Aaron», sussurrai, sincera. «Non ti
dirà di no. Hai trovato il modo perfetto per farlo rimanere
qui senza che si senta soffocato dalle mura».
Lui ed Eric mi
guardarono, sorridendo ampiamente. «Sei sicura?»,
domandò Aaron, avvicinandosi a me e posandomi le mani sulle
spalle.
Lo guardai negli
occhi, entusiasta. «Sicurissima. Sei un genio»,
dissi, abbracciandolo. Ero ben conscia di quello che mi aspettava se
Daryl fosse diventato reclutatore: giorni interi di perenne ansia e
preoccupazione, chiedendomi se, in quello stesso istante, ovunque si
trovasse, stesse bene e fosse al sicuro; giorni interi senza vederlo,
senza parlarci, senza averlo vicino.
Sarebbe stata dura,
lo sapevo, ma Daryl sarebbe stato felice: era un incarico perfetto per
lui, là fuori, nei boschi, in pericolo, certo, ma lontano da
quelle mura che sembravano intrappolarlo in una realtà nella
quale lui non si rivedeva.
«Parli
del diavolo», intervenne Eric, divertito, scrutando qualcosa
fuori dalla finestra. Seguii il suo sguardo, notando che Daryl, proprio
il quel momento, stava passando davanti a casa loro. Senza rendermene
conto, mi fermai a fissare la sua figura, resa poco visibile
dall'oscurità.
«Chiedigli
se vuole cenare con noi», mi suggerì Aaron, ancora
coinvolto nel nostro abbraccio, sorridendomi intenerito.
Annuii, sorridendo
imbarazzata e ignorando la risatina di Eric quando raggiunsi di corsa
la porta di casa.
«Ehi,
Daryl», lo chiamai quando fui uscita.
Lui si
voltò verso di me, fermandosi e lanciandomi un'occhiata
sorpresa. «Cosa ci fai qui?», domandò.
«Eric e
Aaron mi hanno invitata a cena, ci vado dopo alla festa»,
spiegai, indicando la porta aperta alle mie spalle.
«Piuttosto, potrei chiederti la stessa cosa».
«Lo
sapevi che non sarei andato a quella buffonata», mi
ricordò, burbero, mentre scendevo gli scalini e mi
avvicinavo a lui.
«Aaron ha
appena messo gli spaghetti in tavola, perché non mangi con
noi?», gli domandai, con un sorriso ed ignorando il suo tono
ostile. «Non hai cenato, immagino».
Daryl
guardò prima me, poi – con diffidenza –
la porta ancora aperta, alle mie spalle. «No,
infatti».
«Allora
vieni», lo esortai, prendendogli una mano tra le mie, con
tutta l'intenzione di trascinarlo con me nella casa dei miei amici. Con
mia enorme sorpresa, non oppose resistenza. Doveva essere davvero
affamato, pensai, divertita. Volevo che restasse a cena non solo per il
puro e semplice piacere di averlo vicino e al sicuro, ma
perché non vedevo l'ora che Aaron gli facesse la sua
proposta.
«Buonasera,
Daryl», lo accolse Aaron, non appena facemmo il nostro
ingresso in cucina. L'arciere rispose con un cenno del capo e uno
sguardo illeggibile.
«Siamo
contenti di averti a cena con noi», aggiunse Eric, mentre
spegneva il fornello sulla quale poggiava un'enorme pentola colma di
spaghetti al sugo. Aaron gli si avvicinò con fare premuroso,
obbligandolo a sedersi per non affaticare la caviglia e a lasciare il
resto a lui.
Io e Daryl ci
sedemmo l'uno accanto all'altra e non mi sfuggì la
rigidità con cui occupava il suo posto; Aaron mise la
pentola in tavola e lo aiutai a distribuire gli spaghetti nei piatti.
Ovviamente, a Daryl spettò la porzione più
abbondante.
Iniziammo a
mangiare in silenzio, un silenzio non proprio complice, ma nel quale si
avvertiva un leggero senso di imbarazzo. La situazione,
però, si alleggerì non appena fu palese la foga
con cui Daryl, con la sua solita eleganza, si era avventato sulla sua
porzione. Io ero abituata ai modi non proprio raffinati di Dixon di
stare a tavola, ma lo stesso non si poteva dire dei due padroni di
casa. Si guardarono con la coda dell'occhio dopo aver osservato
l'arciere, poi lanciarono un'occhiata fugace anche a me: Eric si stava
mordendo l'interno delle guance con disperazione, cercando di non
ridere, mentre Aaron non riuscì a trattenere un sorriso
appena accennato. Vedere come si sforzavano rischiò di fare
ridere anche me, mentre Daryl continuava beato a strafogarsi di
spaghetti, per nulla infastidito dal silenzio che aleggiava.
«Grazie», bofonchiò dopo un po',
divorando l'ultima forchettata di spaghetti.
«Felice
che ti siano piaciuti», rispose Eric, sorridendo divertito.
Daryl si raddrizzò sulla sedia, appoggiando la schiena
contro lo schienale per sistemarsi in una posizione rilassata,
liberando un sospiro soddisfatto e pulendosi le labbra con la manica
della camicia.
Gli lanciai
un'occhiataccia, guardandolo disgustata. «Daryl!»,
lo rimbrottai, dandogli una gomitata.
«Che
vuoi?», berciò lui, in tutta risposta.
«Esprimo il mio apprezzamento».
«Puoi
esprimerlo anche senza comportarti da uomo delle caverne»,
replicai, sollevando un tovagliolo e parandoglielo davanti alla faccia.
«Questi servono per pulirsi, lo sai?».
Daryl
alzò gli occhi al cielo e sollevò le braccia,
incrociando le dita dietro alla testa.
Aaron ed Eric ci
osservavano, con sguardi maliziosi che temevo Daryl avrebbe notato. I
loro occhi mi parlavano, senza che ci fosse bisogno di pronunciare
mezza frase: “sembrate proprio una coppia”. Li
guardai in modo piuttosto eloquente.
«Okay,
prima che vi mettiate a litigare», proferì Aaron,
attirando la nostra attenzione, «Daryl, vieni un attimo con
me in garage».
L'arciere lo
fissò per qualche secondo, senza dire nulla.
«Perché?», domandò, in tono
diffidente.
Alzai gli occhi al
cielo. «Vai con lui», lo esortai, seccata dal suo
fare sospettoso.
Daryl si
alzò dalla tavola con uno sbuffo e, totalmente controvoglia,
seguì Aaron. Insieme, sparirono dietro la porta che
conduceva al garage. Nell'attesa che tornassero, aiutai Eric a
sparecchiare e a sistemare la cucina. Sentivo le loro voci, attutite
dalla porta che ci separava, ma non riuscivo a capire cosa si stessero
dicendo. Eric ridacchiò, notando la mia curiosità
impellente.
Tornarono mentre io
ed il mio amico stavamo chiacchierando, comodamente abbandonati sul
divano. La prima cosa che cercai fu lo sguardo dell'arciere: sapevo che
gli occhi con cui lo guardai erano pieni della speranza che accettasse.
«Allora?»,
mi lasciai sfuggire, impaziente.
Daryl mi
guardò, interrogativo. «Cosa?».
«Hai
accettato?», domandai, provocando la risata di Aaron.
«Tu lo
sapevi?!», sbottò l'arciere, contrariato.
Alzai gli occhi al
cielo, seccata dal suo rispondere alla mia domanda con un'altra
domanda. Mi rivolsi al mio amico. «Ha accettato?».
La voce di Aaron
coprì il grugnito di Daryl. «Martedì
partiamo», disse soltanto, con un sorriso. Rimasi in silenzio
qualche secondo, rivolgendo all'arciere un sorriso a trentadue denti.
«Lo
sapevo che avresti detto di sì!», esultai,
saltando in piedi e avvicinandomi a loro. Daryl borbottò
qualcosa di incomprensibile, sminuendo la cosa con un'alzata di spalle
e volgendo lo sguardo altrove; io continuai a fissarlo, sorridendogli
emozionata.
«Propongo
un brindisi per il nuovo reclutatore di Alexandria»,
intervenne Aaron. Stava per prendere la birra dal frigo, ma l'occhiata
truce di Daryl lo gelò sul posto: «non ti
azzardare», proferì con voce grave,
«là fuori saremo solo io e te. Non ti conviene
farmi incazzare».
Aaron
alzò le braccia in segno di resa. «Okay, okay,
niente brindisi», ritrattò, muovendosi tanto
lentamente come avrebbe fatto se Daryl gli avesse puntato la balestra
contro.
I ragazzi ci
invitarono a bere un paio di birra in compagnia senza fare
necessariamente un brindisi, ma rifiutai, dicendo che, in
realtà, dovevamo fare un salto alla festa a casa di Deanna.
Nonostante qualche
sua resistenza iniziale, riuscii ad uscire da quella casa con Daryl
che, nonostante l'espressione funerea, acconsentì ad
accompagnarmi alla festa.
La nostra famiglia
ci accolse in modo caloroso, immersa da prima di noi in quell'atmosfera
rilassata e quasi surreale. Tutti vestiti bene, tutti –
più o meno – sorridenti, con il vociare indistinto
e la musica a fare da sottofondo a quella realtà calda e
luminosa.
Ancora una volta,
in barba a quello che stava succedendo fuori dalle mura.
Studiai con
attenzione i volti dei miei cari e non mi sfuggì la
diffidenza che, nonostante tutto, continuava ad essere presente sul
fondo del loro sguardo. Non erano a loro agio, nonostante i sorrisi e
le voci allegre. Ma andava bene così: eravamo lì,
ed eravamo insieme.
Mentre li
osservavo, pensai che, forse, le cose avrebbero davvero potuto
funzionare, quella volta. Che un giorno sarebbe stato possibile per
loro fidarsi delle persone che mi avevano accolta. Che la mia famiglia
e la mia comunità sarebbero potute diventare una cosa sola,
cooperando in equilibrio perfetto.
Capacità
di sopravvivere e quotidianità rassicurante, unite in modo
vantaggioso.
La mia
ingenuità si scontrò ben presto con la
realtà. Fu un attimo, qualcosa di talmente improvviso che
non riuscii a cogliere appieno: un'occhiata sbagliata, una battuta
provocatoria della signora Neudermeyer nei confronti di Daryl, vicino a
me.
L'arciere,
ovviamente, si incazzò. Di brutto. La insultò,
ribattendo che la macchina per la pasta se la sarebbe dovuta infilare
in un certo posto.
Mi interposi tra
loro, bloccando sul nascere un'altra cattiveria che sarebbe uscita
dalla bocca di quell'arpia e difendendo apertamente Daryl.
«Cristo, Shelly, le sue stronzate se le tenga per lei ogni
tanto!», esclamai con rabbia.
Tutto questo,
ovviamente, davanti agli sguardi basiti dei presenti. Deanna e Rick
erano sul punto di intervenire, quando Daryl ci diede le spalle per
andarsene e sbattere rumorosamente la porta.
Lanciai un'occhiata
truce alla signora Neudermeyer, che mi guardava scandalizzata per le
parole poco fini che le avevo appena rivolto, e mi precipitai fuori da
quella casa per seguire l'arciere.
«Daryl,
aspetta!», lo pregai, sbattendo la porta alle mie spalle per
impedire agli altri di ascoltare. Si stava già allontanando
e non mostrò la minima intenzione di volermi dare ascolto.
Scesi di fretta gli scalini del porticato e lo raggiunsi, posandogli
una mano sulla spalla e stringendo la presa, per fermarlo.
«Daryl, resta! Possiamo sistemare tutto!».
Lui mi
afferrò il polso e mi tolse la mano dalla spalla con un
gesto brusco, poi si girò di scatto con un'espressione
furiosa. «Puoi scordartelo! Sapevo che era un'idea di merda
venire qui, lo sapevo, cazzo!».
«No,
è Shelly Neudermeyer ad essere una stronza!», mi
lasciai sfuggire. «Non devi ascoltarla,
lei–».
«Oh, ma a
me non frega un cazzo di quello che dice quella sgualdrina con le sue
amichette, che parlino pure», ribatté con foga,
interrompendomi.
Lo guardai
perplessa. «Allora... Allora perché te ne sei
andato?».
Mi
guardò dal basso verso l'alto, sprezzante.
«Perché non sopporto quella gente, ma sopporto
ancora meno di essere difeso da altri, specialmente da una ragazzina
testarda e impulsiva come te».
Sentii le mie
labbra dispiegarsi, ma non uscì nessun suono. Le sue parole
ebbero il potere di ferirmi e farmi sentire stupida per quello che
avevo fatto. Poi ci pensai su: mi stava umiliando semplicemente
perché avevo preso le sue difese?!
«Ma qual
è il tuo problema?! Io volevo aiutarti!», sbottai
con rabbia, stringendo i pugni e sporgendomi verso di lui.
«Non te
l'ho chiesto!», ribatté, facendosi avanti anche
lui e sovrastandomi in tutta la sua altezza. Il suo viso era distorto
dalla collera, rosso, e i muscoli del collo erano tesi. Non mi
intimorì per nulla, anzi, vedere quanto si stava
stupidamente arrabbiando mi fece infuriare ancora di più.
«Ed io
l'ho fatto lo stesso, perché voglio che tu ti senta
finalmente parte di qualcosa di normale!».
Lui
liberò una risata carica di disprezzo. «Oh,
perfetto, ora la signorina Greene vuole imporre alle persone come
sentirsi!».
«Beh,
scusami se odio vederti nei panni dell'emarginato!».
«Tu vuoi
solamente realizzare la fantasia della famigliola felice che vive in
una villetta del cazzo, come se fuori dalle mura il mondo non stesse
andando a puttane!», ribatté infervorato,
affilando ulteriormente lo sguardo.
Spalancai gli
occhi, basita. «Cosa stai dicendo?! Credi che abbia
dimenticato? Pensi che sia tanto sbagliato volere un po' di
normalità dopo tutto quello che abbiamo passato?!».
«Penso
che sia fottutamente stupefacente vedere quanto poco ti ci è
voluto per diventare una di loro!», affermò con
durezza e di nuovo a voce alta.
Sentii gli occhi
schizzare fuori dalle orbite, sempre più incredula di quello
che stavo ascoltando. Aveva battuto forte la testa durante il viaggio
fino a lì e non lo sapevo? «Una di loro? Io sono
una di voi – per rafforzare il concetto, gli puntai l'indice
contro il petto – siete voi la mia famiglia, cazzo, Daryl!
Dici sul serio?!».
Scostò
la mia mano con un gesto brusco. «Ormai parli come loro!
Quali sono i problemi più grandi che ti toccano qua dentro,
eh? Il fatto che non sei soddisfatta della razione di cioccolata che ti
spetta? I miei fottuti capelli che sono troppo lunghi? O ancora, il
fatto che non mi importa un cazzo dei discorsi vuoti delle persone
lì dentro e non ci penso proprio ad adattarmici?! Apri gli
occhi, ragazzina, e guarda le cose come stanno!», mi
aggredì.
Aveva ripescato una
ad una le cose che gli avevo raccontato e le aveva usate contro di me
per farmi sentire ulteriormente idiota. Quella volta mi aveva ferita in
un modo che probabilmente non avrebbe mai compreso. Non era stato come
la litigata di fronte alla baracca, quando si era arrabbiato e mi aveva
insultata per ragioni fondamentalmente giuste; Daryl mi stava accusando
ingiustamente, insinuando che fossi cambiata in peggio.
Mi vedeva come
l'abitante medio di Alexandria: inadatta a sopravvivere là
fuori, afflitta da problemi stupidi e frivoli se confrontati con la
crudeltà del mondo con cui io, Daryl e gli altri ci eravamo
misurati fino a poco tempo prima.
Come se mi fossi
dimenticata di tutte le persone che avevo perso.
Come se avessi
scordato tutto quello che lui stesso aveva condiviso con me nel breve
tempo in cui eravamo rimasti da soli.
Come se non avessi
trovato il coraggio di scappare con le mie forze – senza
aspettare tutti loro – per fuggire dal Grady Memorial.
Gli lanciai uno
sguardo carico di delusione: non avevo nemmeno più voglia di
urlare o spiegargli le mie ragioni, tanto non avrebbe capito.
Annuii, esibendo un
mezzo sorriso pieno di amarezza. «Vedo che, nonostante tutto,
la tua opinione su di me non è cambiata».
Per un secondo
soltanto, intravidi nei suoi occhi una luce nuova, come se nelle iridi
blu cobalto avesse lampeggiato il pentimento, ma fu qualcosa di
talmente fugace che probabilmente lo avevo solo immaginato.
Daryl rimase in
silenzio: non mi diede ragione né mi smentì.
Rimase semplicemente a guardarmi con la sua solita, indecifrabile
maschera di rabbia. Sentivo le lacrime spingere per uscire, non dovevo
assolutamente permetterlo: mi morsi le guance e respirai profondamente,
stringendo i pugni.
«Io torno
dentro», dissi soltanto, voltandomi e dirigendomi verso la
porta. Le lacrime scesero già prima che fossi in grado di
afferrare la maniglia: fino a quel momento sperai che mi fermasse, mi
chiamasse, facesse qualsiasi cosa.
Non fece nulla,
assolutamente nulla: quando mi richiusi la porta alle spalle, se n'era
già andato.
Angolo autrice.
Chi non muore si
rivede, eh?
Prima di tutto, vi
rinnovo le scuse per il ritardo. Sono stati dei mesi veramente di
fuoco: ho iniziato l'università, per un periodo ho lavorato
e a gennaio sono iniziati gli esami. Non ho avuto tempo per nulla. Ho
avuto anche un calo di ispirazione, oltre all'oggettiva mancanza di
tempo. Non so se sia stato dovuto alla (per me) deludente prima
metà della sesta stagione di The Walking Dead: le ho viste
tutte le puntate, ovviamente, ma ho fatto una fatica immonda. La prima
parte mi ha annoiata, la seconda invece mi fa paurissima (Negan, vade
retro!).
Voi invece che ne
pensate di TWD 6? Vi è piaciuta fino ad ora? :) fatemi
sapere!
Passiamo al
capitolo: questa, in realtà, è solo la prima
parte. All'inizio volevo pubblicarlo tutto, ma già fino a
qui sono 15 pagine e stava uscendo qualcosa di infinitamente lungo,
quindi ho deciso di tagliare e postare la seconda parte a breve!
Nonostante non
succeda niente di particolare, ne sono abbastanza soddisfatta ma ho
paura che a voi non piacerà, per la lunghezza appunto, o
forse perché manca di azione e potrebbe risultare noioso: se
è così, mi dispiace. Ma Beth, essendo coinvolta
così “internamente” nella
comunità di Alexandria – lavorando nello studio
medico la maggior parte del tempo la passa tra le mura – non
ha più molto modo di vivere situazioni che comportino
dell'azione; non come nella serie, se non altro.
Prometto
però che il prossimo sarà più
movimentato: senza spoilerare troppo, ci sarà un acceso
litigio tra le sorelle Greene e altre cose accadranno.
La festa in onore
della nostra famigliola non è ancora finita ;)
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto e che vogliate darmi il vostro parere
a riguardo :) ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo e chi
l'ha inserita tra le seguite/preferite, ne sono contentissima!
Rientrai in
casa tra le lacrime, chiudendo la porta con un'attenzione e lentezza
snervanti, in modo da non fare rumore e attirare su di me le occhiate
di mezza Alexandria. Per colpa di Daryl, mi vergognavo di quello che
avevo fatto e detto per difenderlo. Strisciai verso il bagno senza
farmi notare, per fortuna. Quando abbassai la maniglia e tirai la
porta, la trovai chiusa. Mi appoggiai al muro con la schiena e
incrociai le braccia, cercando di fermare quel pianto di nervosismo che
doveva ancora esaurirsi. Se avessi trovato il coraggio di ripresentarmi
in mezzo agli altri, la mia prima, stupida decisione sarebbe stata
quella di raggiungere il tavolo con gli alcolici, in modo da rendere
quella situazione imbarazzante più sopportabile. D'un tratto,
mi tornarono in mente le parole che l'arciere mi aveva rivolto quella
volta in cui litigammo davanti alla vecchia baracca: «pensi
solo ad ubriacarti come una stupida puttanella!».
A quel ricordo, sbuffai. Ero stufa di essere aggredita da Daryl Dixon
per ogni dannata cosa: se avessi iniziato ad avere comportamenti affini
alle sue accuse, almeno avrebbe avuto motivi validi per attaccarmi. Ero
già stufa di provare quello che provavo per lui, stanca di
essere... innamorata di un uomo tormentato,
scostante e lontano il più delle volte. Erano passati pochi
giorni da quando avevo realizzato i miei sentimenti per lui e non era
un buon segno che mi sentissi già così. Come
avevo potuto essere tanto ingenua da avere addirittura delle fantasie
sul fatto che Daryl, forse, potesse un giorno accorgersi di provare lo
stesso per me? Mi avevano sfiorato quelle fantasie, era stato piuttosto
inevitabile. È inevitabile che nasca la speranza dove si
custodiscono sentimenti così forti. Sei
la solita idiota sognatrice, Beth Greene, dissi a me stessa.
Dovevo smetterla di costruire castelli in aria e perdermi nelle mie
stupide fantasie romantiche: così, forse, avrei smesso di
essere costantemente vittima dei rimproveri di Daryl al quale,
chiaramente, non era mai passata per l'anticamera del cervello l'idea
di vedermi come una possibile compagna, fidanzata, amante o altro. Ero
troppo poco per lui: questa consapevolezza era nata nello stesso
momento in cui avevo capito la natura dei miei sentimenti per l'arciere. Lo scatto
della chiave nella serratura mi distolse dalle mie elucubrazioni e in
un gesto del tutto automatico provai ad asciugarmi le guance,
abbassando lo sguardo per non mostrare le mie pietose condizioni. «Beth!»,
esclamò Maggie, uscendo dal bagno. L'imbarazzo non mi
distorse lo stomaco in maniera meno violenta solo perché fu
mia sorella a parlarmi dopo il teatrino che avevo messo in piedi poco
prima, anzi. Continuai imperterrita a fissare il pavimento. «Ehi,
Beth», riprovò, posandomi dolcemente una mano
sulla spalla
e usando l'altra per farmi alzare il viso verso il suo. «Maggie,
io... Scusami», dissi soltanto, in un sussurro. A fatica,
feci incontrare il mio sguardo col suo. Mia sorella mi
guardò senza rispondere, stringendo le labbra con
preoccupazione. «Dai,
vieni», disse, sospingendomi dentro alla toilette e chiudendo
la porta a chiave. Mi
suggerì di rinfrescarmi il viso e accettai il suo consiglio:
l'acqua fredda fu un vero sollievo per le guance in fiamme e gli occhi
che bruciavano. Maggie mi passò un asciugamano e mi sedetti
con lei sul bordo della vasca. Quando finii di asciugarmi la faccia,
lasciai andare un sospiro. «Va
meglio?», domandò, sorridendomi. Ricambiai
il sorriso, cercando di apparire il più credibile possibile.
«Sì, Mag, sto meglio. Non ti
preoccupare». Lei mi
studiò, per niente convinta. «Cos'è
successo con Daryl?», chiese poi, affilando lo sguardo. «Nulla
di che. Non è la prima volta che ci urliamo
addosso», provai a rassicurarla, alzando gli occhi al cielo
per sminuire la cosa. Come se tutto quel casino non avesse l'importanza
che, in realtà, gli attribuivo. «Solo,
non avrei voluto coinvolgere la signora Neudermeyer». «Già
solo il fatto che abbiate qualcosa per cui urlarvi addosso mi
sorprende, visto che alla prigione vi rivolgevate a malapena la
parola», ribatté. Stiracchiai
una smorfia che avrebbe dovuto essere un sorriso. «Sono
cambiate molte cose da allora». «Spero
che non siano cambiate troppo...», sussurrò,
guardandomi con aria preoccupata. La guardai,
interrogativa. «Cosa intendi?». Maggie
non rispose subito, continuando a fissarmi con preoccupazione.
«Ascolta, Beth, non mi va di fare la parte della sorella
paranoica e iperprotettiva che vuole rinchiuderti in una campana di
vetro, ma... - sospirò, prima di riprendere a parlare - mi
sono
accorta di come lo guardi».
Anche se il mio cuore perse un battito quando pronunciò
quella
frase, finsi ugualmente di non capire a chi si stava riferendo.
«D-Di
come guardo chi?», domandai, col tono di chi cadeva dalle
nuvole. «Daryl»,
chiarì Maggie, secca.
Spalancai gli occhi, portando avanti la mia commedia. «Non
capisco a cosa ti riferisci», dissi, a voce un po' troppo
alta.
Senza rendermene conto, iniziai a torturare il tessuto del vestito.
Lei rise davanti al mio pietoso tentativo. «Beth,
andiamo, ti ho vista crescere! Vuoi che non veda quello che provi?». «Maggie...». «Posso
capire come ti senti», mi interruppe, posando la mia mano
sulla spalla e guardandomi dritta negli occhi. «Pensavi
che Daryl fosse l'ultima persona del gruppo che ti era rimasta, avete
passato molto tempo insieme, ti ha protetta quando siete scappati dalla
prigione; è normale che tra voi si sia creato un legame.
È un uomo straordinario, molti di noi non sarebbero qui se
non
fosse per lui, ma... è un uomo, appunto. È troppo
grande
per te, Beth».
Il cuore iniziò a martellarmi nel petto. «Non
sai di cosa parli», le dissi, abbassando lo sguardo sulle
mattonelle fredde del pavimento. «Non
ho mai, mai, mai creduto che Daryl fosse l'ultima persona che mi era
rimasta», aggiunsi, a denti stretti. «Ho
sempre saputo che ci saremmo ritrovati, tutti». Credeva
davvero che mi sentissi legata a Daryl solo per quello? «Questo
non cambia il fatto che ti sei presa una cotta per lui».
"Una cotta" non era abbastanza ampio e corretto come concetto per
descrivere quello che sentivo per Dixon, e mi arrabbiai al suono di
quelle parole: mi sembrò che Maggie volesse sminuire i miei
sentimenti, come se fossi troppo piccola o ingenua per capire certe
cose. «Ti
stai sbagliando, su tutta la linea. Ad ogni modo, non ho la minima
voglia di parlarne»,
sbottai, incrociando le braccia al petto e alzandomi in piedi. «Ti
ferirà, Beth; lo sta già facendo. Daryl non ti
vede come vorresti tu»,
rincarò la dose Maggie, con veemenza. Vedevo il suo sguardo
riflesso nello specchio di fronte a me. «So
quello che faccio», ribattei, piatta. «Non
se si tratta di lui! Sei ancora troppo giovane per queste
cose». «Smettila
con questa storia!», sbottai con esasperazione, voltandomi di
scatto verso di lei.
Maggie mi studiò per qualche istante, stringendo le labbra e
guardandomi con uno sguardo freddo. Abbassò gli occhi come a
decidere se dire o meno quella che, alla fine, uscì dalle
sue labbra come la più sbagliata delle minacce: «non
costringermi a parlargli».
Strabuzzai gli occhi, incredula per ciò che aveva appena
detto. «Cosa?!».
Aspettò qualche momento prima di rispondere. «Mi
hai sentita».
Rimasi a guardarla, interdetta e con le labbra appena schiuse; poi,
senza riuscire a mettere un freno alla mia rabbia, liberai una risata
che voleva essere sarcastica. «E
cosa vorresti dire a Daryl? "Quella stupida della mia sorellina si
è presa una patetica cotta per te e tu devi starle
lontano"?». Maggie fece per controbattere, ma glielo impedii.
«Sai,
Maggie, è curioso il fatto che adesso ti senti in
diritto di proteggermi e di esercitare la tua autrorità di
sorella maggiore su di me, quando siamo state separate per giorni e tu
hai comunque preferito andare a Washington con degli sconosciuti a
salvare il mondo, piuttosto che venire a cercare me! Ero già
tua sorella, te ne eri dimenticata?!».
L'avevo detta grossa, lo sapevo. Me ne ero resa conto non appena
terminata la frase, avvertendo quello slancio di rabbia e frustrazione
crescere e sfumare con le mie parole. Ma, d'altronde, era quello che
provavo. La delusione e il dolore di quando avevo scoperto come si era
comportata mia sorella si erano riversati fuori di me come fossero
veleno. Avevo cercato di dimenticare quella sensazione, di cancellare
il rancore, concentrandomi sul fatto che non avesse più
importanza, perché alla fine c'eravamo comunque ritrovate.
Mi sbagliavo: di importanza ne aveva eccome. Mi ero sentita
abbandonata da mia sorella, anche se "a scoppio ritardato", in un certo
senso. Il mio unico pensiero da quando era crollata la prigione e mi
ero ritrovata in fuga con Daryl, era stato quello di ritrovare tutta la
nostra famiglia, certo, ma Maggie soprattutto. Sarebbe stato un
pensiero dannatamente scontato e naturale per chiunque; non per lei,
evidentemente.
Lei, che ora mi guardava scioccata, con gli occhi spalancati di chi
avrebbe provato meno dolore se si fosse beccata uno schiaffo in pieno
volto. Sembrava che le parole che le avevo appena rivolto le avessero
tolto la capacità di parlare. Forse perché, alla
fine, avevo ragione. Maggie abbassò lo sguardo, non mi
parlava né mi guardava; io aspettavo una sua risposta che,
probabilmente, non sarebbe arrivata, mentre fissavo i capelli che le
ricadevano sulla sua espressione, nascondendola. In quel bagno
calò un silenzio di tomba che non riuscii a sopportare a
lungo.
Mi avvicinai alla porta, afferrai la maniglia e feci scattare la
serratura. Stavo per uscire da lì, ma mi bloccai: avevo
un'ultima cosa da dirle.
«Tanto per la cronaca», proferii, con tono
tagliente e senza voltarmi a guardarla, «è
principalmente grazie a lui se puoi dire di avere ancora una una
sorella. Se Daryl non si fosse fatto in quattro per proteggermi prima e
per venirmi a cercare dopo, ora non sarei qui ad ascoltare te che mi
imponi di stare lontana da lui».
Non aggiunsi altro: uscii dal bagno e sbattei la porta alle mie spalle,
le mani che mi tremavano. Abbandonai il piano di rientrare nel vivo
della festa, in mezzo agli altri, ma riuscii comunque a procurarmi tre
bottiglie di birra che erano rimaste nella cassetta che era stata
riposta nel sottoscala. Entrai di soppiatto in cucina, riuscendo a
prendere in prestito un apribottiglie. Cercando di non farmi notare, mi
riappropriai della giacca e uscii, raggiungendo il lagetto per fare la
stupida in santa pace.
La luna che si specchiava sulla superficie dell'acqua ed i miei drammi
furono l'unica, gradita compagnia, mentre stavo per finire la mia prima
bottiglia. Era meno forte dell'alcool che avevo bevuto quella volta
assieme a Daryl, ma non per questo il torpore dovuto al tasso alcolico
della birra tardò ad arrivare. Forse sono astemia e ci
metto meno tempo ad ubriacarmi, pensai pigramente,
portando la bottiglia quasi vuota davanti al viso, per osservarne il
fondo. La appoggiai sull'erba umida ed aprii la seconda quando,
all'improvviso, una voce familiare mi fece voltare. «Cosa
ci fai qui, Greene?», domandò Aiden, venendomi
incontro e sedendosi di fianco a me. Se fossi stata appena
più lucida, probabilmente la sua presenza mi avrebbe messa a
disagio; invece gli sorrisi, cordiale. «Potrei
farti la stessa domanda», ribattei, prendendo un sorso di
birra. «Ti
stavo cercando per vedere come stavi. Spero di non aver interrotto
niente», disse, ridacchiando ed indicato il recipiente nella
mia mano.
Lo osservai, sorridendogli. Nonostante la sua tendenza a dimostrare il
suo interesse nei miei confronti rendendosi troppo affettuoso o
insistente, Aiden non era un cattivo ragazzo, anzi: le prime volte era
stato davvero piacevole passare del tempo in sua compagnia. «Di
sicuro non hai interrotto una festa in maniera disastrosa, come ho
fatto io», mi lasciai scappare, volgendo lo sguardo alla
superficie scura del laghetto. «Non
è stata colpa tua», mi confortò,
dandomi un buffetto sulla guancia. «In
realtà-», proseguì, ma non lo lasciai
finire. «Se
stai per dire che è stata di Daryl la colpa puoi anche
andartene», biascicai, voltandomi verso di lui di scatto, in
un moto di rabbia. Aiden mi
guardò e rise. «Veramente
stavo per dire che la colpa è stata solo di
Shelly», mi rassicurò, facendomi sentire una
completa idiota. «Oh»,
mormorai, imbarazzata. «Scusami». «Tranquilla.
Non ti fa un bell'effetto la birra, eh?», scherzò.
Gli sorrisi, allungandogli la bottiglia che era rimasta sigillata. «Pace?»,
offrii.
Lui la afferrò, facendo indugiare per un attimo la mano
attorno alla mia. «Pace».
Trangugiai la seconda birra in silenzio, ignorando la testa che
iniziava a girare e ad alleggerirsi notevolmente. Possibile che
riuscissi a reggere meglio l'alcool di contrabbando? Poi mi riordai
che, prima che alla festa succedesse il disastro, senza accorgermene ne
avevo finita un'altra... e mezzo. Ciò significava che ne
avevo quasi bevute quattro, e tutto il mio corpo se ne stava accorgendo. «Ehi,
tutto bene?», domandò Aiden, riscuotendomi dalla
mia apatia momentanea.
Mi voltai verso di lui, smarrita. «Eh?
Oh, sì», risposi, la voce spenta. «Stai
pensando ancora alla festa?», tirò a indovinare,
bevendosi un sorso di liquido ambrato. «Già»,
risposi. Quello stato di ebbrezza, seppur non esageratamente pesante,
mi impediva di dire bugie. Tutte le mie difese si stavano abbassando,
non pensavo veramente alle conseguenze di quello che dicevo. Forse era
un bene che ci fosse Aiden con me e non Daryl, pensai confusamente:
chissà quali altri casini avrei combinato. «Non
pensarci. La signora Neudermeyer ha veramente esagerato,
stavolta». «Pfff,
peccato che mi dovrò scusare lo stesso»,
borbottai, sfregandomi le palpebre che iniziavano ad appesantirsi.
Tutto stava iniziando a scorrere più lentamente. «Non
è necessario», ribatté Aiden e con la
coda dell'occhio notai che scrollava le spalle. «Puoi
anche non parlarle più».
Mi voltai verso di lui, che ora mi appariva in maniera leggermente
annebbiata. «Ah,
se fosse per me non le parlerei più davvero, ma devo fare la
brava», biascicai, scatenando un suo sorrisetto divertito. «Sai
la cosa davvero divertente? Devo... Devo scusarmi anche con
Daryl». Il mio amico
mi lanciò un'occhiata sopresa. «Con Daryl?
Perché mai?».
Trovai la sua espressione estremamente divertente. «Ah
ah, vero che è assurdo? Eppure è
così». «Perché?»,
domandò ancora, paziente.
Mi strinsi nelle spalle. «Boh.
A lui non piace essere difeso. Non da me, perlomeno».
Se fossi stata pià lucida, mi sarei resa conto che non mi
ero spiegata proprio per niente, o almeno, non in maniera abbastanza
chiara. Infatti Aiden continuò a guardarmi perplesso. Mi
bevvi un altro sorso di birra. «Forse
era così arrabbiato con Shelly da prendersela con
te», ipotizzò, appoggiando la bottiglia vuota
vicino a sé. «Ma
io sono stufa!», esclamai arrabbiata, strascicando la voce in
modo irritante. «Non
è colpa mia, non è quasi mai colpa mia, ma lui se
la prende con me lo stesso». Finii anche la terza bottiglia
in un moto di rabbia. «Ehi,
Beth, calma»,
disse Aiden, circondandomi le spalle con un braccio. «Sono
sicuro che non è davvero arrabbiato con te. Tu non c'entri
nulla».
In un moto di sconforto, abbandonai la testa contro la sua spalla,
lamentandomi come se fossi improvvisamente regredita all'età
di cinque anni. «Daryl
Dixon mi odia». «Che
assurdità. È impossibile odiarti,
Beth», ribatté. «Non
per lui»,
mugugnai, chiudendo gli occhi e beandomi del calore del suo abbraccio.
Aiden mi strinse un po' di più a sé. «Sono
sicuro che non è così. E se lo fosse, allora vuol
dire che Daryl Dixon è un idiota»,
affermò, per consolarmi.
Aggrottai la fronte, tenendo gli occhi chiusi: quel commento mi aveva
infastidita. Nessuno poteva parlare male di Daryl, non in mia presenza.
Mi avrebbe dato fastidio da sobria, figuriamoci da mezza ubriaca, con
le sensazioni amplificate e nessun freno alla mia lingua. Eppure non
parlai, ma rimasi con la testa sulla sua spalla e mi lasciai andare
soltanto ad uno sbuffo contrariato che, evidentemente, Aiden
interpretò come un suono di assenso. Per un po',
continuò a tenermi stretta, dondolandosi appena e
sfiorandomi, di tanto in tanto, la fronte con le labbra, quasi come se
volesse farmi addormentare. In realtà, iniziavo davvero ad
avere sonno. Mantenni gli occhi chiusi e lasciai vagare i miei
pensieri, offuscati dall'alcool, che si presentarono alla mia coscienza
come flash confusi e aggrovigliati tra loro. Molti di essi avevano come
protagonista Daryl, o parole che mi aveva rivolto, o suoi gesti, o
situazioni che avevamo vissuto insieme.
La litigata di fronte alla baracca.
La sua schiena avvolta dal gilet con le ali.
La sua mano stretta alla mia. «Odio
gli addii». «Anche io».
Le lezioni di caccia.
Gli abbracci.
I giorni insieme che avevano cambiato tutto, tra noi e dentro di me. «Perché
hai cambiato idea?». «Per te».
Frammenti di ricordi che si susseguirono in maniera incoerente, uno
dopo l'altro. Riaprii gli occhi, sperando che passassero, assieme al
nodo alla gola. «Voglio
andare a casa», decisi, raddrizzandomi. Mi allontanai
da Aiden, cogliendolo di sorpresa; cercai di alzarmi velocemente da
sola, ma non fu un'idea brillante, perché, quando fui in piedi,
venni colta da un capogiro. Aiden si avvicinò subito per
sostenermi e rise, vedendomi in quelle condizioni. I nostri volti erano
vicinissimi, ma avevo la mente troppo annebbiata per allontanarmi.
Aiden mi cinse i fianchi con un braccio, mentre con la mano libera mi
scostò una ciocca di capelli che era finita fuori posto,
sfiorandomi il viso. «Sei
bella anche quando sei ubriaca, lo sai?»,
sussurrò, ma la sua voce mi sembrava lontana e distorta.
Avevo veramente esagerato, quella sera. La sua affermazione mi fece
ridere e scacciò il turbamento di poco prima: pensai a quale aspetto
potessi avere in quel momento e solo un aggettivo contrario a "bella"
avrebbe potuto descrivermi egregiamente. «Devi
essere cieco», ribattei, ridendo in modo fastidioso. Poi mi
fermai e biascicai: «o
troppo poco lucido. Sei ubriaco».
Questa volta fu lui a ridere, senza mollare la presa su di me. «Beth,
non sei la persona più indicata, adesso, per
accusare gli altri di ubriachezza».
Non seppi che rispondere, quindi mi limitai a guardarlo con un
sorrisetto divertito; inizialmente fu l'allegria ad animare il suo
volto, ma poi qualcosa cambiò. Il suo sguardo si fece serio
ma il sorriso rimase, seppur accennato. Mi posò una mano
sulla guancia, guardandomi con un'intensità che non mi
sfuggì, nonostante l'annebbiamento. «Beth...»,
mormorò, sempre più vicino.
Le mie braccia erano pesanti e abbandonate mollemente lungo i miei
fianchi, per nulla coinvolta da quel momento; notai che il tocco di
Aiden non sortiva su di me nessun effetto. Il cuore non mi batteva
forte, il respiro era rimasto uguale: continuavo ad osservarlo,
distante, indifferente nonostante una piccola parte di me avesse capito
ciò che stava per succedere. Come se osservassi la scena da
spettatrice esterna e non da protagonista.
Si chinò su di me lentamente, accompagnando il mio viso
verso il suo in quella carezza delicata: quando le sue labbra si
appoggiarono sulle mie, mi soffermai a studiare cosa si provasse ad
essere baciata dopo così tanto tempo e mi resi conto di
essermi dimenticata la sensazione di un paio di labbra contro le mie.
Ero talmente stranita, apatica e indifferente che non ebbi la prontezza
di respingerlo, ma ancora meno di ricambiare quel bacio a senso unico.
Inizialmente non pensai a nulla di particolare, tanto che Aiden avrebbe
potuto continuare a tenere le labbra contro le mie all'infinito, se
solo avesse voluto. Quando, però, mi ritrovai a realizzare
che erano state le sue labbra a baciarmi dopo mesi, dopo Zach, dopo
così tanto tempo e non quelle di Daryl, mi riscossi da
quella nebbia emotiva. Afferrai i suoi avambracci e mi allontanai con
lentezza dalle sue labbra, abbassando lo sguardo.
Aiden sospirò, appoggiando la fronte contro la mia nuca. «Non
si può fare, vero?».
Scossi la testa, stiracchiando un sorriso per il nervosismo. «Mi
dispiace», balbettai.
Aiden mi lasciò andare, chinandosi per raccogliere le
bottiglie vuote e l'apribottiglie. Senza il sostegno del suo corpo,
traballai appena.
«Non mi tirerai un calcio nelle palle, vero?»,
scherzò, cercando di nascondere la delusione.
Gli sorrisi lievemente, le percezioni annebbiate e la testa che mi
girava. «Se
mi accompagni a casa, no».
~
(Daryl)
Non appena rimasi solo,
maledissi con ogni parte di me il momento in cui avevo accettato di
andare a quella festa. Non lo feci prima perché la rabbia
che mi aveva offuscato il cervello era stata tale da impedirmi di
pensare a qualsiasi altra stronzata potesse venirmi in mente.
Riflettendo a mente fredda e dopo che la sigaretta riuscì
nel suo compito di distendermi i nervi, però,
cominciò a punzecchiarmi l'idea che forse avevo esagerato.
Non nei confronti di quella stronza della
Neuder-quello-che-è, ovviamente, ma nei confronti della
ragazzina.
Sbuffai, spegnendo la sigaretta contro il pavimento del portico e
allungando le gambe in modo poco elegante. Avevo una specie di
formicolio molto simile alla rabbia che mi tormentava le viscere, non
riuscivo a stare fermo per un dannato minuto di fila. Ero irrequieto.
Allo stesso tempo, però, sapevo che non sarei riuscito a
muovere un solo muscolo per alzarmi da lì. Era questo
l'effetto che avevano iniziato a farmi i litigi con Beth? Merda,
imprecai, tra me e me. Quella ragazzina mi avrebbe fatto impazzire, una
volta o l'altra. E realizzare che fossi io stesso a permettierglielo mi
fece ribollire il sangue nelle vene.
Una volta non me se sarebbe importato un cazzo di accontentare le sue
richieste: niente alcool, niente taglio di capelli, niente festa da
buffoni. Più che con lei, mi sarei dovuto incazzare con me
stesso. Perché era quella e soltanto quella, la
verità: non riuscivo a dirle di no. Non importava quanto
fossero fastidiose le sue richieste, non ci riuscivo perché
ancora mi sentivo responsabile per la morte di Hershel; in
più, avevo davvero temuto di non vederla mai più,
dopo l'agguato di quegli stronzi dell'ospedale. Mi ero sentito
colpevole della sua scomparsa e terrorizzato da quello che sarei stato
costretto a dire a Maggie, ovvero che non ero riuscito a proteggere sua
sorella.
Ma c'era dell'altro, oltre a quello. Un'altra motivazione che avevo
cercato di tenere lontano da me il più possibile, qualcosa
che mi seccava dannatamente ammettere.
Il fatto in sé di non vedere mai più Beth mi
faceva paura; e non c'entravano niente sua sorella o il senso di colpa
per la morte di suo padre, ma perché Beth... era Beth. E,
dato che provare tutto quello mi terrorizzava ancora di più,
preferivo nascondere tutte queste stronzate trattandola con poca
gentilezza, sperando che si allontanasse da me, che mi allontanassi io.
Se avessimo litigato in modo così acceso ai tempi della
prigione, probabilmente me ne sarei fregato altamente e l'avrei
semplicemente evitata, riducendo le conversazioni alllo stretto
necessario.
Il casino era che non ci riuscivo più. Se Beth avesse
scoperto di avere questo potere sconosciuto, che non sapevo da dove
cazzo arrivasse, su di me, beh, sarei stato fottuto.
Continuare a rimuginare in quel modo mi stava facendo venire la
sconcertante voglia di scusarmi. «Merda»,
sbottai, questa volta a voce alta, accendendomi un'altra sigaretta.
Per un lasso di tempo indefinito ma abbastanza lungo, cambiai idea una
ventina di volte sul da farsi: quando pensavo di lasciar perdere,
quando mi convincevo che le sarebbe passata senza il bisogno di
riparlarne, mi venivano in mente i suoi occhi bagnati dalle lacrime, la
sua espressione ferita, e qualcosa dentro di me smuoveva la mia
coscienza.
Spensi il mozzicone e lo lanciai lontano da me, con rabbia. Mi ero
già rotto le palle di quei pensieri fastidiosi: l'unica
alternativa sarebbe stata quella di mettere da parte l'orgoglio e
scusarmi con Beth.
Non sapevo quanto tempo fosse passato, né a che punto
fossero con la festa, quindi decisi che avrei aspettato Beth davanti a
casa sua; prima o poi sarebbe dovuta tornare. Prima di cambiare idea,
mi diressi a casa sua a passo spedito, impaziente di liberarmi da quei
pensieri seccanti. Sarebbe stata la prima e ultima volta,
perché, da quel momento in avanti, avrei ripreso il
controllo di me stesso e non avrei più permesso a quella
ragazzina di rigirarmi come voleva.
Un ghigno nacque sulle mie labbra, quando pensai a cosa avrebbe detto
Merle se solo fosse stato ancora vivo. Mi avrebbe sfottuto, quello
stronzo, ripetendomi all'infinito "quanto cazzo ti sei rammollito,
fratellino". Beh, per lo standard di sensibilità che
contraddistingueva noi Dixon, era vero. Il fatto era che -- e mi faceva
paura dirlo -- il modo naturale con cui Beth si comportava nei miei
confronti mi spiazzava, mi confondeva. Vedeva del buono in me che non
esisteva. Non ero di certo tanto figlio di puttana quanto lo era stato
il Governatore o altre persone schifose che avevamo incontrato sul
nostro cammino, ma non ero ugualmente una bella persona; non quanto
credeva lei, almeno. E da quando avevo ammesso di credere che
esistessero ancora brave persone, la sua visione di me si era fatta
ancora più distorta. Non capiva che erano stati i fatti a
farmi cambiare idea, lei, non sentimenti di fiducia assoluta
e speranza incrollabile che appartenevano a Beth: non ero
provvisto di cose tanto buone, dentro di me. Non c'erano tutti quei
buoni sentimenti, non in me. Per questo doveva finirla di ronzarmi
attorno: saebbe stato più... facile. Per tutti e due.
Il pensiero mi faceva innervosire, ma avevo provato cose strane quando
mi ero ritrovato a scappare assieme a lei, e anche quando ci eravamo
ritrovati ad Alexandria, ma non avevo assolutamente intenzione di fare
lo psicologo di me stesso del cazzo. O dare un certo significato alle
sensazione che Beth aveva suscitato in me. Dovevo tenermi lontano da
quel sentiero, altrimenti non sarebbe finita bene.
Era bella, Beth, sia dentro che fuori, ma era ancora una ragazzina e
non potevo permettere di fare evolvere il nostro rapporto in qualcosa
di equivoco, come uno schifoso depravato qualunque. Lei era troppo
pura, troppo cristallina, mentre io rovinavo tutto quello che toccavo.
Che lei non collaborasse e cercasse di far crollare le mie difese
rendeva tutto più dannatamente complicato.
Mi fermai per un secondo, fissando il vuoto davanti a me realizzando
che, puah!,
stavo pure iniziando a farmi paturnie degne di un adolescente.
Arrivai davanti a casa di Beth: era tutto spento e, a meno che non
fosse già andata a dormire -- ne dubitavo -- supposi che
fosse ancora alla festa. Per un attimo, mi sfiorò l'idea di
rimandare tutto alla mattinata successiva, quindi, onde evitare
ripensamenti, mi sedetti sugli scalini del portico e attesi. Se fosse
stato qualcun altro, me ne sarei sbattuto e sarei andato a dormire: mi
seccava immensamente riconoscerlo. Tirai fuori dal pacchetto un'altra
sigaretta e la fumai, senza spremermi troppo le meningi in merito a
quello che le avrei detto per scusarmi: avrei improvvisato. Dopo averla
fatta sfogare, ovviamente: era furiosa con me, ci avrei scommesso la
balestra.
Dopo non so quanto tempo, la vidi arrivare, barcollante, aiutata da
quel bamboccio del figlio di Deanna. Il ragazzo aveva avuto un
interessante scambio di ganci destri con Glenn: non avrei avuto
problemi ad occuparmi anche io del suo bel faccino. Mi convinsi che
fosse stato quel trascorso a smuovere un irritante senso di fastidio
alla vista del suo braccio attorno alle spalle di Beth. Mi fermai un
attimo ad osservare il volto della ragazzina: era pallido,
più pallido del solito. Aveva un aspetto orribile.
Scattai in piedi. «Che
cazzo le è successo?!». «Calmati,
Dixon. Ha solo esagerato con la birra», si
affrettò a giustificare il belloccio, interponendo un
braccio tra me e lui quando gli fui davanti. Lo ignorai, concentrandomi
su Beth. «Beth»,
la chiamai, posandole una mano alla base del collo e abbassandomi alla
sua altezza per guardarla in viso. Teneva lo sguardo incollato al
terreno. «Beth,
stai bene?». «Sta
bene», si intromise Aiden. «Non
sto parlando con te!», ringhiai, guardandolo in cagnesco. «Daryl,
non... urlare», mugugnò Beth, posando la mano
sulla mia. Cercai di ignorare il fremito che quel contatto mi
provocò. Si sforzò di alzare lo sguardo, puntando
gli occhi socchiusi e pesti di sonno nei miei. «S-Sto
bene, sono solo... stanca...».
Aiden stava supportando la parte sinistra del corpo di Beth,
così mi affiancai a lei a destra, accompagnando il suo
braccio attorno alle mie spalle e, circondandole il fianco, incontrai
come ostacolo la presa di Aiden. «Posso
pensarci io», protestò, gelido e aumentando la
stretta attorno a lei. «No,
non puoi. Sparisci, prima che prenda a pugni il tuo bel
faccino». «Daryl»,
mi redarguì debolmente Beth. «Ehi
amico, ma sei suo padre per caso?! Devo avere il tuo permesso per
parlarle?». «Suo
padre è morto, brutto coglione. Porta un po' di rispetto e
non azzardarti a parlare di lui», lo minacciai, cercando di
non strattonare troppo Beth, ma provando ugualmente ad allontanarla da
lui. «Smettetela»,
soffiò lei, appoggiandosi a me. «È...
tutto a posto, Aiden. Grazie per avermi accompagnata... e per aver
capito»,
concluse. Non sapevo a cosa si riferisse, quindi le sue parole
suscitarono la mia curiosità, ma non avrei fatto domande.
Il suo velato congedo fece sorridere amaramente il belloccio. «Ora ho
capito», mormorò, spostando lo sguardo da lei a
me. Anche se continuavo a non capire a cosa si stessero riferendo, mi
sentii improvvisamente a disagio, e cercai di nasconderlo fulminandolo
con un'occhiata.
«Buonanotte, Beth», aggiunse.
Non lo guardai nemmeno mentre se ne andava, voltandomi verso la casa
della ragazzina. «Riesci
a camminare?», le domandai, cercando di apparire il
più premuroso e paziente possibile. Non era da me, ma
già era arrabbiata -- anche se sul momento non lo rese
particolarmente esplicito -- e l'alcool non avrebbe giovato a tutta
quella situazione. Dovevo sforzarmi di essere gentile, almeno in
quell'occasione.
Lei annuì, ma quando arrivammo agli scalini si
scansò da me per sedersi. Si appoggiò al
corrimano con il capo e una spalla, chiudendo gli occhi. «Beth?»,
la chiamai, inginocchiandomi di fronte a lei. «Ho
sonno, Daryl», si lamentò, aggrottando la fronte. Diavolo, ragazzina,
l'altra volta non ti sei ridotta così male,
pensai , trattenendo un sorriso divertito. «Appunto
per questo sto provando a trascinarti a letto», risposi,
paziente.
Beth, per un istante, non disse nulla; poi, all'improvviso,
spalancò gli occhi, chiaramente rossa in viso. Inizialmente
non capii, poi ripetei mentalmente quello che avevo detto e trasalii. «Santo
cielo, ragazzina, ti sto trascinando
a dormire!», specificai con urgenza. «Okay,
okay», borbottò. Chiuse di nuovo gli occhi,
immusonita, e si schiacciò ancora di più contro
il corrimano. «Anzi,
no. Lasciami qui». «Perché
dovrei?». «Perché
mi odi». «Io
non ti odio, Beth». «Sì,
invece, ma hai ragione. Io... Io sono solo una stupida ragazzina che...
che non ha capito niente. Che non ha mai capito niente». Era
l'alcool, a parlare: Beth trascinava le parole senza abbandonare
quell'espressione corrucciata. Preparato com'ero ad una sfuriata, quel
suo discorso sconnesso mi prese in contropiede.
Sbuffai, alzandomi per sgranchire le ginocchia; poi mi sedetti accanto
a lei. Si voltò appena verso di me, come se si vergognasse
anche solo a guardarmi. Quella volta avevo davvero esagerato,
insultandola semplicemente per aver preso le mie difese. Avrei dovuto
dirglielo. Porgerle le mie scuse contornate da un bel discorso che le
avrebbe fatto capire la mia consapevolezza del mio sbaglio, e che non
pensavo davvero quello che le avevo detto.
Io, però, non ero così. Non ero quel tipo di
persona. Non me la cavavo bene con le parole, coi discorsi lunghi o con
i sentimentalismi di vario genere; preferivo i fatti, ma il problema
era che non potevo fare nulla di concreto per far capire a Beth che
sapevo di essere stato uno stronzo. Avevo bisogno di dirle qualcosa per
cancellarle dalla testa quelle insicurezze che le mie parole le avevano
provocato. Per qualche strana, assurda ragione, teneva all'opinione di
un coglione come me. Da dove
diavolo comincio? Allargai le
gambe, poggiandoci sopra i gomiti e fissando il terreno per un po'. Poi
volsi lo sguardo a Beth: ora teneva gli occhi socchiusi, fissi davanti
a sé. «Perché
sei qui?», domandò, in modo un po' più
chiaro rispetto a come aveva parlato fino a qualche momento prima. La
sua domanda mi arrivò come un salvagente e come un pugno
nello stomaco nello stesso momento. Decise di complicare tutto,
allacciando lo sguardo al mio: la guardai, serio, come avevo fatto in
quella dannata casa del becchino, sperando ch ei miei occhi dicessero
quello che la mia stupida bocca non era in grado di tirare fuori.
Sono stato uno stronzo.
Mi dispiace.
Grazie per avermi difeso.
Continuai a guardarla, ma non riuscii a dire nulla di tutto quello.
Beth, dopo un po' -- e stanca di aspettare e sperare in una mia
risposta -- sospirò, muovendosi per alzarsi, mentre io
guardavo impotente davanti a me. Si raddrizzò sulle sue
gambe, ma fu colta da un capogiro e si sedette di nuovo accanto a me,
finendomi addosso. Buona parte del suo corpo esile era premuto contro
al mio, le nostre tempie si toccavano e il suo profumo mi
svolazzò attorno, mentre i suoi capelli mi accarezzarono la
guancia. Non ero ancora abituato ad averla così vicina e se,
da una parte, mi sentii irrigidire, dall'altra desiderai che si
stringesse ancora di più a me. Quando realizzai quello che
avevo appena pensato, mi diedi del coglione da solo. «Stasera
ti va male, Dixon. Non sono abbastanza... lucida e autosufficiente da
lasciarti scappare da discorsi che non vuoi fare», mi
sbeffeggiò, sistemando un braccio lungo la mia gamba e
accasciandosi contro di me. «Devi
aiutarmi per forza», aggiunse, posando la testolina contro la
mia spalla. «Ti
stavo aiutando, prima che piazzassi il tuo culo su questi
scalini», ghignai, rivolto alla sua chioma bionda.
Beth tacque qualche secondo; poi, senza preavviso, alzò il
suo volto verso il mio.
Il mio sguardo andò ad allacciarsi al suo, così
verde e intenso anche nel buio della notte, che sentii ogni muscolo del
mio corpo tendersi e rendermi immobile, come un animale di fronte al
pericolo. Beth era fottutamente pericolosa per me e per la mia
sanità mentale, più di quanto io lo fossi per
lei. Mi guardava con quegli occhi dannatamente belli, in silenzio,
torturandomi con la sola forza dello sguardo. Non capivo cosa stesse
facendo, né a cosa volesse arrivare: i nostri corpi erano
incollati, il suo braccio riposava ancora sulla mia gamba e tutta
quella situazione, lo sapevo, non avrebbe portato a nulla di buono,
nulla di giusto. «Sei
uno stronzo, Daryl», sussurrò, senza smettere di
fissarmi in quel modo insopportabile. Deglutii, la
bocca secca. «Lo
so». «Sei
un idiota». «Lo
so».
Per un secondo brevissimo, il suo sguardo si abbassò sulle
mie labbra, per poi guizzare di nuovo contro il mio. Arrossì
e fremette. «Forse
io la sono più di te...», soffiò, in un
sussurro spezzato.
Non riuscii a muovere un solo muscolo e, dato che non ero in grado
nemmeno di allontanarmi, mi limitai a sperare che Beth non facesse
qualche cazzata. Una
cazzata in particolare. Ero consapevole del fatto che ciò
che aveva detto nascondeva tanto altro, ma non avevo nessuna intenzione
di approfondire la questione o rifletterci sopra: temevo la conclusione
alla quale sarei arrivato. Dopo qualche secondo, riprese a respirare,
tornando ad una distanza accettabile, almeno col viso. Volse lo sguardo
altrove, irrequieta. Per evitare che compiesse qualche gesto
imprevisto, trovai la spinta necessaria a dirle quello che avrei
dovuto.
«Scusa», mormorai, attirando di nuovo la sua
attenzione. Mi sforzai di guardarla negli occhi e di non fuggire il suo
sguardo. Anche se le usai come pretesto per evitare che compiesse
qualche gesto stupido, erano scuse sentite. Avrei potuto dire di
più, certo, ma sperai che capisse che dicevo sul serio,
anche con una semplice parola.
Le labbra rosa di Beth si incurvarono in un sorriso, mentre i
suoi occhi brillarono nei miei. Levò il braccio dalla mia
gamba, intrecciandolo invece al mio e accucciandosi contro il mio
petto, il capo contro il mio cuore. «Non
importa, Daryl. Scusami tu, sono stata troppo insistente. Mi
dispiace».
Il suo calore mi rilassò appena, mentre cercavo di abituarmi
a quella vicinanza e a quel gesto affettuoso. Inspirai il suo profumo,
sperando che non se ne accorgesse. Non riuscivo a decidere cosa fosse
più difficile per me, se dare affetto o riceverlo. Allo
stesso tempo, non mi riusciva spontaneo essere affettuoso come lei: mi
sembrava di fare qualcosa di cui avrei dovuto vergognarmi. D'altronde,
non ero nato e cresciuto in una famiglia amorevole quanto la sua. «Forse.
Ma io so essere un bello stronzo, quando mi ci metto»,
ammisi, ghignando. Lei rise con me, mentre io mi sforzavo di
aggiungere, in tono di nuovo serio: «Quello
che ti ho detto... Non lo pensavo. Non sei come loro».
Lei mi guardò, sorridendomi sollevata. «Quindi
non hai cambiato opinione su di me?».
Scossi la testa. «No».
Avrei voluto aggiungere che non capivo perché le importasse
tanto, ma qualcosa mi suggerì che avrei preferito non
saperlo, così evitai.
Sospirò, stringendosi di più a me. «Meno
male».
Deglutii: per quella sera era troppo. «Forza,
ti accompagno di sopra», dissi, scuotendola appena e
costringendola ad alzarsi, non senza incontrare una certa resistenza da
parte sua. Entrammo in
casa e, solo in quel momento, mi accorsi che fuori faceva piuttosto
freddo, quando avvertii il calore della casa di Beth avvolgermi.
Lei barcollava ancora un po', così la aiutai ad appendere la
giacca, sostenendola con un braccio intorno alla vita. Non sarebbe
riuscita a salire le scale, poco ma sicuro. Stavo per propormi di nuovo
come cavallo a dondolo quando, nella penombra del salotto, si
lasciò cadere sul divano con poca grazia. Uno sbuffo
sfuggì dalle sue labbra e mi accorsi che non si era nemmeno
tolta gli stivaletti. Sistemandosi a pancia in
giù, premette la faccia contro il cuscino, che
attutì la sua voce quando mormorò qualcosa di
incomprensibile.
Era dal giorno del nostro arrivo ad Alexandria che non entravo a casa
di Beth e mi sentii leggermente fuori posto. «Dormi
qui, allora?», domandai, in piedi vicino al divano ed
osservandola dall'alto. «Mmmh-mmmh»,
asserì, raggomitolandosi in posizione fetale. Le
sfuggì un piccolo brivido. Era talmente annebbiata da non
riuscire nemmeno a vedere il plaid che era sistemato sullo schienale
del divano. Lo afferrai.
«Beth, tieni», dissi, allungandoglielo. Lei
aprì gli occhi con fatica e lo prese, coprendosi e
stringendoselo attorno. Le sue palpebre tremolarono, segno che stava
già perdendo conoscenza. Non le dissi nulla per non
svegliarla: girai i tacchi e mi avviai verso la porta d'ingresso. «Daryl»,
mi chiamò debolmente, facendomi bloccare sul posto. Da
lì non vedevo il suo viso, quindi non sapevo se avesse gli
occhi aperti o meno. «Che
c'è?».
Beth rimase in silenzio qualche secondo, prima di rispondermi. «Resta
qui... per un po'. Per favore».
Il mio primo impulso fu quello di rispondere di no, uscire da quella
casa e andarmene a letto per ripristinare una certa distanza tra me e
lei.
Invece mi voltai, raggiungendola. Mi sedetti per terra, vicino a lei ma
di spalle, con le sue ginocchia che toccavano la mia schiena e la sua
voce che mi accarezzava l'orecchio sinistro. «Grazie»,
sussurrò, e dalla voce capii che stava sorridendo. Avvertii
improvvisamente le dita sottili di Beth sfiorarmi alla base delle
spalle, risalendo dal collo alla nuca e finendo per intrecciarsi tra i miei
capelli, in una carezza delicata. Mi irrigidii, cercando di non badare
al brivido violento che mi scosse la spina dorsale. Strinsi i denti,
imprecando mentalmente. Dopo qualche breve istante, le impedii di
proseguire con quella piacevole tortura. Le afferrai la mano con la mia
sinistra e la portai lontana dal mio collo. Per non lasciarle pensare
che la volevo respingere, mi voltai fino a quando non poggiai il
braccio sinistro sul divano e vicino alle sue ginocchia, abbandonando
la posizione di spalle e trovandomi finalmente il suo viso di fronte.
Nel buio, rischiarato appena dalla luce del lampione che arrivava
soffuso dalle finestre, il contatto fisico diventava più
facile, per me. Lasciai che la sua mano piccola e calda scomparisse nella mia e la strinsi, intravendendo il viso di Beth nella penombra. Non riuscii
a staccare gli occhi dai suoi chiusi, dalla sua espressione
rilassata, dalle sue labbra sottili incurvate in un piccolo sorriso. «Buonanotte,
Daryl», mormorò, prima di scivolare in un sonno
profondo. Buonanotte, ragazzina.
Angolo autrice. Santo.
Cielo. Pubblicare questo capitolo è stato un parto! Eh
sì, perché questo capitolo era già
pronto ieri sera presto, ma poi sono incappata in problemi
fastidiosissimi con l'HTML. Praticamente la formattazione che era
risultata usando Open Office mi deformava tutta la pagina di EFP,
spedendo le righe verso l'infinito e oltre.
Ho dovuto ricopiare tutto, riscrivendo di nuovo 15 dannate pagine in un
nuovo documento. E' stato un parto, ma finalmente sono qui.
Beh, che dire di questo capitolo? Succedono un sacco di cose. Sono
preoccupata di quello che penserete delle scelte che ho fatto e del
modo in cui ho scritto e sviluppato certe cose, in particolare:
- il pov di Daryl
- l'ubriacatura di Beth
- il bacio con Aiden (che è meno rilevante di
quanto pensiate) Non ho molti commenti
da fare a riguardo, anche per sono parecchio fusa a causa di questo
imprevisto e gli occhi ormai mi si stanno incrociando davanti allo
schermo. Spero che apprezziate tutto, o qualche parte, e che in ogni
caso mi facciate sapere cosa ne pensate.
Volevo ringraziare tantissimo chi ha recensito lo scorso capitolo e chi
ha messo la storia tra le preferite/seguite, ma anche chi ha letto
soltanto! Grazie di cuore!
Prima di lasciarvi, vi lascio il link al mio blog che è
tutto dedicato alla mia storia: https://blakiescrive.wordpress.com/ Avevo già
un tumblr per questo, lo so, ma in wordpress c'è la sezione
commenti e mi piacerebbe scambiare quattro chiacchiere con voi, ogni
tanto :)
Altra cosa, volevo chiedervi cosa ne pensate della 6x09 di TWD! Io l'ho
adorato come episodio, sono partiti davvero alla grande! Mi
sono emozionata tantissimo in più parti, l'ho trovato
perfetto dall'inizio alla fine! A voi è piaciuto? Fatemi
sapere!
Vi ringrazio ancora di cuore per tutto, al prossimo capitolo!
Un abbraccio,
Blakie
PS: scusatemi per le eventuali sviste, ma ad un certo punto mi è venuto un male agli occhi incredibile.
Non
appena riaprii gli occhi, il mattino seguente, mi colpii il mal di
testa più lancinante che avessi mai provato prima e dopo
l'inizio dell'apocalisse. Era come avere le tempie strette in una
morsa d'acciaio, mentre un peso invisibile mi gravava sul capo,
peggiorando la situazione. Chiusi gli occhi di scatto, vinta dalla
luce della mattina che inondava il mio soggiorno. Mi sentivo tutta
indolenzita e con le ossa di gelatina a causa della dormita sul
divano. Quando riuscii a riacquistare un po' di lucidità,
cercai di ricordare per quale motivo mi trovassi lì e non
nel
mio letto.
Con
un po' di fatica, rimisi ogni dettaglio al suo posto, nel confuso e
intricato groviglio dei miei pensieri. Una sensazione di imbarazzo mi
colpì lo stomaco un secondo prima che il ricordo della sera
precedente facesse capolino sotto il riflettore della mia
consapevolezza.
Non
ricordavo molto i dettagli, i colori, o le parole esatte, ma in
generale sì. Forse il – ugh – bacio di
Aiden aveva
avuto un impatto notevole sulla mia psiche; quasi quanto i discorsi
senza senso – oh mio Dio – con cui avevo ammorbato
Daryl
Uno
strisciante senso di imbarazzo invase ogni centimetro del mio corpo,
facendomi raggomitolare su me stessa e nascondere la faccia sotto al
cuscino. Quasi mi mancò il fiato. Non potevo credere di aver
fatto davvero una cazzata, anzi, diverse cazzate simili.
Che
diavolo mi era preso?
Respirai
profondamente, cercando di calmarmi e di armarmi del coraggio
necessario a uscire da quel plaid e alzarmi da quel maledetto divano.
Mi tirai su a sedere lentamente per non innescare nausea o capogiri,
liberandomi della coperta e stiracchiandomi appena. Ero
scombussolata, frastornata e spossata: uno straccio in tutto. Per non
parlare di quanto la mia bocca fosse riarsa.
Dovevo
bere dell'acqua al più presto e farmi una doccia per
riprendermi.
Dal
nulla, mi colpì il ricordo di Daryl, accanto a me, che mi
teneva la mano per soddisfare il mio capriccio di averlo lì.
Mi guardai intorno, controllando se fosse rimasto o meno: in quel
soggiorno ero da sola. Tirai un sospiro di sollievo: non sarei
riuscita a confrontarmi con lui, a guardarlo negli occhi dopo la
pessima figura che avevo fatto quella notte. Almeno, non subito. In
realtà, non ero nemmeno pronta ad incontrare Maggie, o Aiden. Forse,
per oggi, farei meglio a chiudermi in casa, pensai.
Facendo
mente locale, mi resi conto che era lunedì; per un attimo mi
prese il panico – sarei arrivata in ritardo in ambulatorio e
in
condizioni pessime, per giunta – ma poi mi ricordai che il
lunedì avevo la mattina libera.
Chissà
se Maggie avrebbe lavorato... Avrei potuto evitare di vederla durante
il giorno, okay, ma come avrei fatto a rifiutare l'invito della mia
famiglia a cenare con loro, quella sera? Come potevo giustificarmi?
Avrei dovuto risolvere le cose con mia sorella al più
presto,
ma ero ancora arrabbiata. Mi tornò in mente anche la scenata
della signora Neudermeyer che mi aveva spinta a urlare contro di lei
davanti a tutta Alexandria e, ovviamente, davanti a tutta la mia
famiglia. Altra fitta di imbarazzo nello stomaco. Sarebbe stata una
buona idea barricarmi in casa e non uscire mai più da
lì,
avevo combinato troppi casini in una sera sola.
Finalmente
mi alzai, con fatica immensa e mi trascinai su per le scale,
chiudendomi poi in bagno. Mi liberai degli indumenti e rimasi nuda,
entrando poi in doccia scossa da un piccolo brivido. L'acqua calda
sulla mia pelle mi rigenerò e distese i nervi, facendomi
passare un po' il male alla testa e la pesantezza che avvertivo sulle
palpebre.
Uscii
pulita e profumata, avvolgendo il mio corpo bollente
nell'accappatoio. Mi frizionai i capelli e li lasciai sciolti sulle
spalle, lavandomi bene il viso per rimuovere gli ultimi residui di
trucco. Dopo
la doccia, mi sentii subito meglio. Legai i capelli ancora
leggermente umidi in una coda e mi diressi in camera con indosso solo
la biancheria intima. Cercai nell'armadio la felpa più
comoda
che avevo e un paio di pantaloni da ginnastica neri, indossandoli con
piacere e facendoli scorrere sulla mia pelle rinvigorita. Visto che,
tutto sommato, era presto
–
saranno state le nove del mattino – decisi di dormire un
altro
paio di ore: presi il cuscino che di solito usavo a letto e lo portai
con me sul divano, sprofondando tra la morbidezza dei cuscini. Mi
coprii col plaid e chiusi gli occhi, per dar pace al mio mal di
testa. Crollai in uno stato di dormiveglia dopo poco e stavo per
addormentarmi definitivamente, quando sentii bussare alla porta.
Stropicciai gli occhi, sbuffando e raddrizzandomi con fatica. Mi
trascinai lungo il soggiorno e il corridoio, pensando che avrebbe
potuto essere mia sorella, o Daryl, o Aiden. In tutti e tre i casi,
non sarei stata felice di aprire la porta.
«Chi
è?»,
domandai nervosamente, avvicinandomi all'ingresso. «Sono
Noah».
Sospirai
di sollievo, girando la chiave e aprendo al mio amico.
«Wow,
Beth, hai una cera orribile», proferì non appena
mi
vide. Alzai gli occhi al cielo e lo ringraziai, invitandolo ad
entrare.
«Cosa
ci fai qui?», domandai, mentre raggiungevamo il
soggiorno.
«Sono
venuto a controllare che tu stia bene. Ieri sera ti ho persa di
vista, dopo… beh, hai capito».
Gli
sorrisi, grata delle sue premure. «Meglio così,
avrei
potuto creare problemi anche a te», sospirai, buttandomi sul
divano e facendogli posto. Noah si sedette accanto a me con
un'espressione perplessa.
«Cos'è
successo? Vuoi parlarne?». Sì.
Morivo dalla voglia di raccontarlo ad una persona amica, l'unica con
cui non avessi mai avuto fraintendimenti di nessun tipo: Noah era
diventato come un fratello per me, il mio migliore amico.
Sprofondai
tra i cuscini del divano, strinsi le ginocchia al petto e iniziai a
raccontare. Noah mi ascoltò senza fiatare, mentre continuavo
a
parlare, arrossendo e inciampando nel discorso di tanto in
tanto.
Quando finii, attesi, senza guardarlo in faccia, un commento del mio
amico.
«Avevo
il sospetto che provassi qualcosa per Daryl. Evidentemente avevo
ragione».
Mi
sfuggì un lamento. «Non ti ci mettere anche tu,
Noah. Ne
ho avuto già abbastanza di questo
discorso».
«Ehi,
noi non stiamo litigando!», si difese,
alludendo a
Maggie.
«Lo
so, ma è un discorso inutile».
«Sei
adorabile quando neghi certe cose a te stessa»,
affermò,
arruffandomi i capelli.
«Non
c'è nulla da negare!», sbottai.
«"Aiden
non ha una cotta per me"», squittì, imitando il
mio
tono di voce. «Qualche giorno dopo: "Aiden mi ha
baciata"».
Guardai
da un'altra parte, gonfiando le guance e provocando le sue risate.
«Chissà a cosa porterà il tuo "non
provo
niente per Daryl"», affermò con fare malizioso.
«Sei
veramente insopportabile, Noah», berciai, incrociando le
braccia contro il petto.
«È
per questo che sono il tuo migliore amico, no?».
«Umpf,
spero che un giorno ti innamorerai anche tu, così
sarò
io a torturarti e a ficcare il naso negli affari tuoi».
Noah
si aprì in un sorriso furbo. «Ma sentila, sei
addirittura innamorata?».
«Smettila!»,
urlai esasperata, afferrando il cuscino e colpendolo in
faccia.
«Okay,
okay, scusami», si affrettò a rispondere, cercando
di
difendersi da una seconda cuscinata.
Sospirai,
abbandonando le braccia lungo il corpo e appoggiando una tempia
contro la sua spalla. «Ho fatto un bel casino. Non
ho il
coraggio di uscire da questa casa…».
«Non
puoi evitare Daryl per sempre».
Alzai
gli occhi al cielo. «Noah, non riguarda solo lui,
sai?
Ora come ora non riuscirei a guardare in faccia nemmeno Maggie o
Aiden. Per non parlare del fatto che, quando ho sbraitato contro
Shelly, era presente mezza Alexandria. Ho rovinato tutto su
più
fronti».
«Secondo
me la vedi troppo tragica. Inoltre, toglierei subito Aiden
dall'elenco delle persone con cui credi di aver rovinato tutto. Direi
che tua sorella e Daryl vengono prima».
«Non
mi sono comportata bene nemmeno con Aiden», borbottai.
In
risposta, alzò gli occhi al cielo. «Non hai fatto
niente
di male, Beth. Non puoi costringerti a baciarlo se non
vuoi!».
«Okay,
questo te lo concedo. Cosa dovrei fare, invece, con mia sorella? Sono
ancora arrabbiata con lei e, beh, non sono sicura che sia ancora
pronta a riparlarne con calma».
«In
effetti non hai molti motivi per non esserla. Ti ha trattata come una
bambina».
Rimasi
in silenzio qualche momento, per decidere se chiederglielo o no. Alla
fine, parlai.
«Pensi
anche tu che… insomma, Daryl…».
«Mi
stai chiedendo se penso che Daryl sia troppo grande per
te?».
«Più
che altro, se sono io ad essere troppo giovane per provare…
questo nei suoi confronti».
Noah
si strinse nelle spalle. «Beh, se devi provare "questo"
per uno giovane quasi quanto te e il giovane in questione è
Aiden, allora, tra i due, è meglio quello più
attempato, non credi?».
Scoppiai
a ridere di cuore. «Attempato! Vedi di non farti mai sentire
da
Daryl, non quando ha la balestra a portata di mano, almeno».
«Quello
può uccidermi anche a mani nude»,
ribatté
rabbrividendo e facendomi ridere di nuovo.
«Dai,
non è così violento! - esclamai, raddrizzandomi e
dandogli una gomitata - È un po' burbero, okay, ma non ti
farebbe mai del male per una cosa del genere».
«Ma
guardatela come difende l'uomo dei suoi sogni», mi
provocò
con finta aria sognante, pizzicandomi un fianco. Mi allontanai da lui
per lanciargli un'occhiataccia.
«Comunque,
col tempo, Maggie capirà. Sei la sua sorellina, è
normale che si preoccupi per te», affermò,
ignorando il
mio sguardo truce.
«Vorrei
solo che capisse che non sono una ragazzina che confonde i propri
sentimenti e li scambia per qualcosa di diverso. Vorrei che
rispettasse il legame che sento di avere con Daryl. Non capisco
perché si preoccupa tanto, visto che, ad ogni modo, non
sarò
mai ricambiata».
«Perché
ne sei tanto sicura?», domandò Noah,
curioso.
«Perché
Daryl… è Daryl. Tiene troppo ai suoi sentimenti e
al
suo orgoglio per metterli in gioco per una ragazzina come me.
Io…
Io non sono temprata per questo tipo di vita, lui invece è
fatto apposta per questo mondo. Ha bisogno di una donna, una donna
forte quanto lui che combatta al suo fianco, non che debba essere
protetta», spiegai, attorcigliandomi attorno all'indice una
ciocca di capelli sfuggita alla mia coda disordinata.
«Devo
ricordarti che è merito tuo se siamo arrivati fino a qui?
Stai
dicendo un mucchio di cazzate, Beth», ribatté,
alzando
gli occhi al cielo.
«È
merito nostro, Noah – lo corressi
– E non è
questo il punto».
«Allora
qual è?», sbottò, con tono spazientito.
«Spiegamelo chiaramente, perché sinceramente a me
sfugge. Credi davvero che gli serva conoscere una donna della sua
età
e che sappia uccidere i vaganti ad occhi chiusi e su una gamba sola,
per innamorarsene? Ti sei messa in testa di non essere abbastanza per
lui, ma abbastanza cosa? Grande? Forte?».
«Entrambi»,
sussurrai a occhi bassi, colpita dalle sue parole.
«L'età
ha sempre avuto importanza fino a un certo punto, figuriamoci nel bel
mezzo di un'apocalisse di questa portata. Quanti anni avete di
differenza, meno di venti? A me non sembra un divario così
scandaloso. Ecco, se avesse avuto ottant'anni sarebbe stato
più
preoccupante». Lasciò che smettessi di ridere,
prima di
continuare. «La cosa che mi fa incazzare di più,
però,
è che non ti rendi conto del tuo valore e ti
svaluti».
Gli
lanciai un'occhiata abbastanza eloquente. «Da che pulpito,
Noah».
«Sei
una ragazza forte, Beth», proseguì, ignorando il
mio
commento. «Sei tenace, gentile e la speranza non ti lascia
mai.
Non ti arrendi. Non ti sei arresa con la tua famiglia, hai fatto di
tutto perché Aaron li riuscisse a condurre qui e, nel
frattempo, non hai mai smesso di sperare».
«Beh,
non sono qualità che servono molto a
sopravvivere»,
mugugnai, per nulla convinta delle sue argomentazioni.
«Servono
per vivere. Vivere davvero. Servono a vivere la
vita alla
quale non è possibile aspirare quando si è
là
fuori, in pericolo. Cosa ti importa se non sei abile con le armi o
non sei una cacciatrice esperta?».
«Sono
un peso morto, ecco di cosa mi importa! In una situazione di
emergenza Daryl, Maggie, Rick o chiunque altro, sarebbe costretto a
controllarmi per proteggermi».
«Puoi
chiedere a qualcuno di loro di aiutarti a migliorare la tua
abilità
con le armi, se pensi che questo serva a Daryl per vederti sotto una
luce diversa», suggerì, esasperato.
Quel
commento fece apparire incredibilmente stupido tutto quello che avevo
detto fino a quel momento. Io dovevo voler migliorare le mie doti di
sopravvivenza per me stessa, non per apparire migliore agli occhi di
Daryl. Mi incupii all'improvviso e Noah lo notò,
perché
mi diede una carezza affettuosa sulla nuca.
«Sono
proprio una stupida», mugugnai.
«No,
non la sei. Sei una ragazza meravigliosa, Beth. Sono sicuro che Daryl
lo sa ed è per questo che tenta di allontanarti».
Lo
guardai, esibendo un'espressione perplessa che fece ridere il mio
amico.
«Beh,
non è ovvio? Tenta di allontanarti perché ha
paura
degli stessi sentimenti che stai provando tu. Secondo me quell'uomo
si sta facendo più paranoie di te»,
scherzò.
«Noah,
non stai azzardando a dire che Daryl mi ricambia, vero?»,
domandai, scettica. Come poteva pensare una cosa del genere? Era...
Sarebbe stato assurdo.
«Secondo
me tiene a te più di quanto tu riesca a comprendere.
Altrimenti perché ti sarebbe venuto ad aspettare davanti a
casa? Se senti di avere un legame tanto forte con lui, non puoi
aspettarti che sia a senso unico. C'è un riscontro, da parte
sua, altrimenti non proveresti certe cose».
No,
no, no. Non potevo permettere a Noah di insinuare certi dubbi, certe
illusioni nella mia testa. Io per Daryl ero un membro della famiglia
esattamente come qualsiasi altro; come Rick, Michonne, Carol, Glenn,
Maggie o Carl. Mi proteggeva e mi trattava come avrebbe fatto con
qualsiasi altra persona nella nostra grande famiglia. Non potevo
lasciare che nemmeno la più piccola parte di me credesse che
i
gesti di Daryl fossero frutto di un sentimento più forte.
Dovevo farmi bastare quello che provavo io, senza pretendere nulla da
lui. A sua detta, grazie a me, aveva ricominciato a credere che in
quel mondo esistessero ancora brave persone, e questo bastava a
rendermi felice. Era anche troppo.
«Io
e lui facciamo parte della stessa famiglia, Noah, tutto qui.
Probabilmente mi tratta con un occhio di riguardo perché si
sente ancora responsabile per la morte di mio padre. Vuole mantenere
non so quale promessa proteggendomi e preoccupandosi per me. Tutto
qui. Non illudermi facendomi fraintendere certi suoi gesti. Ti
prego», sussurrai con la voce stanca.
«Non
volevo illuderti, Beth. Scusami», mormorò,
guardandomi
preoccupato.
Gli
sorrisi, scuotendo il capo. «No, non scusarti. Apprezzo tutto
quello che hai detto, davvero. Grazie».
«Però,
davvero, secondo me dovresti chiedergli se può insegnarti
come
muoverti là fuori!», propose, allegro, cercando di
sviare l'argomento.
Sbuffai.
«Come no. Prima dovrei ritrovare il coraggio di parlargli e
non
so quanto tempo ci vorrà».
Noah
allungò le gambe davanti a sé e poggiò
la testa
sullo schienale del divano, distendendosi. «Beh, potresti
venire stasera a cena, per esempio, e fare pace anche con tua
sorella. Via il dente, via il dolore».
Al
solo pensiero, sentii attorcigliarsi lo stomaco. «Io... Non
credo di essere ancora pronta». Mi voltai verso di lui.
«Ti
prego, Noah», lo supplicai. «Stasera di' agli altri
che
oggi, dopo il lavoro, mi sono sentita poco bene e che non riesco ad
esserci per cena. Per favore».
«Beth...»,
provò ad opporsi lui.
«Solo
per questa sera, Noah. Per favore».
«Lo
sai che alcuni partiranno in missione, domani? Daryl
compreso»,
mi rese partecipe. Io mi irrigidii all'istante: se fosse successo
qualcosa a qualcuno di loro e il nostro ultimo ricordo non sarebbe
stato una cena in famiglia, tutti assieme, lo avrei rimpianto per
sempre. L'idea di affrontarli così presto, però,
mi
faceva contorcere lo stomaco allo stesso modo. Mi ero comportata
troppo da idiota.
«Sanno
cavarsela, Noah», dissi stancamente. «Sono fatti
per
stare là fuori. Domani sera torneranno e ceneremo tutti
insieme e io mi scuserò, te lo giuro. Ma stasera... non ce
la
faccio», sbottai, raccogliendo le ginocchia al petto e
poggiandoci sopra la fronte.
Noah
mi osservò con uno sguardo di rimprovero. «Okay,
Beth,
va bene. Sappi solo che poi per rivedere Daryl ci vorrà un
po'
di più».
Non
mi servì chiedergli cosa volesse dire, perché mi
venne
in mente pochi istanti dopo: se Daryl fosse uscito con Aaron, sarebbe
stato via molto più tempo e non mezza giornata soltanto.
Almeno una o due settimane. Merda. «Lo
so», sussurrai, abbassando lo sguardo.
«E
non vuoi comunque vederlo prima che parta?!»,
esclamò
Noah, accorato.
Scrollai
le spalle. «Forse è meglio così. Se non
gli
parlassi più lo libererei da un bel peso».
Il
mio amicò grugnì per esprimere il suo disaccordo.
«Sei
veramente impossibile».
Scoppiai
a ridere e gli rivolsi un sorriso. «Tanto quanto
lui».
Noah
mi lanciò un'occhiata maliziosa. «Siete fatti
l'uno per
l'altra allora».
Lo
colpii di nuovo con un cuscino, mettendoci tutta la forza che avevo.
«SMETTILA!».
~~~
Noah
se ne andò poco prima di pranzo, ma non prima di avermi
chiesto almeno una decina di volte se fossi sicura di star meglio.
Quando finalmente riuscii a convincerlo e se ne andò, chiusi
la porta, ci appoggiai la schiena e sospirai, sollevata.
Volevo
rimanere sola, per un po'. Avevo ancora mal di testa, ma mi sarebbe
passato. Tornai a sonnecchiare sul divano e puntai la sveglia che
avevo trasferito dal comodino in camera mia al tavolino del salotto
per andare all'ambulatorio nel pomeriggio.
La
giornata proseguì tranquilla, come sempre. Balbettai le mie
scuse a Josie, presente alla festa la sera prima, dicendole che non
era stata mia intenzione rovinare la serata, ma lei mi sorrise,
rincuorandomi e dicendomi di star tranquilla.
«Non
è successo nulla di grave, Beth», mi
rassicurò,
mentre metteva in ordine degli antibiotici nella credenza dei
medicinali.
«Lo
so, ma è imbarazzante lo stesso», borbottai,
seduta alla
scrivania di Pete. I miei occhi si posarono su un grosso libro di
medicina che non avevo mai visto prima. «Di chi è
questo
mattone?», domandai a Josie, indicando il libro sotto al mio
naso.
«È
il manuale di Denise», mi informò, richiudendo la
credenza e avvicinandosi a me.
Denise era una sopravvissuta che
era arrivata ad Alexandria poco tempo prima; stava studiando medicina
al college prima che i morti riprendessero a camminare, ed era il
secondo dottore, oltre Pete. In ambulatorio, però, non la
vedevo quasi mai e non mi ero mai soffermata a interrogarmi sul
motivo.
Josie
prese il grosso libro tra le mani, sospirando. «Se continua a
lasciarlo in giro, prima o poi Pete cambierà la serratura
dell'infermeria e non la farà più
entrare».
Guardai
la mia collega, perplessa. «Perché dovrebbe fare
una
cosa del genere?».
«Pete
non la vuole attorno», rispose, rabbuiandosi.
Sgranai
gli occhi, interdetta. «Cosa? Dovrebbe insegnarle tutto
quello
che sa, invece. Avere due medici con noi è una grandissima
risorsa».
«Lo
so, Beth», rispose Josie, infilando il manuale nella sua
borsa.
«Ho provato a parlarne con lui, ma... Non era in vena di
discussioni».
«In
che senso? Ti ha trattata male?», domandai ingenuamente.
Il
suo sguardo saettò nel mio, con urgenza. «No,
Beth, no.
Lui... Non importa».
Il
suo tono si era fatto improvvisamente strano, come se avesse qualcosa
da nascondere. Josie mi voltò le spalle e si
trovò
qualcos'altro da fare per evitare le mie domande, fingendosi
impegnata.
Iniziai
a rimuginarci sopra.
In
effetti, ogni tanto Pete aveva dei comportamenti strani, e capitava
che non si facesse vedere in ambulatorio per qualche giorno. A volte
incrociavo Jessie per le vie della città e mi sembrava
pensierosa, distratta. Quelle uniche due volte in cui ero stata
invitata a cena a casa loro non lo avevo notato, ma in quel momento
mi resi conto che Pete, troppo spesso, dava ordini a sua moglie, o le
rispondeva male se non gradiva quello che lei gli diceva. Anche mio
padre ogni tanto – specialmente quando era nervoso o
stressato
– si sfogava con mia madre, senza volere; ma Pete era strano,
il modo quasi timoroso con cui Jessie si approcciava a lui era
strano. Come se misurasse ogni parola per non far scattare suo
marito, per non farlo arrabbiare. E adesso anche Josie parlava di lui
in maniera così affrettata, come se una parola di troppo
avesse avuto conseguenze negative. Senza dimenticare Denise, che si
teneva alla larga dall'ambulatorio perché Pete aveva deciso
così e non poteva essere il contrario.
Mi
sentii una perfetta idiota a capire tutto solo in quel momento.
Come
avevo fatto a non arrivarci prima? Pete era un uomo violento.
«Ti
ha fatto del male?», domandai a Josie, riprendendo il
discorso
arrivando dritta al punto.
Vidi
la sua schiena irrigidirsi e lei sospirò, voltandosi verso
di
me con aria preoccupata. «Beh, è stato aggressivo,
ma
no, non mi ha fatto nulla».
I
suoi occhi erano però così pieni di paura che non
riuscii a trattenermi dall'alzarmi e abbracciarla. «Mi
dispiace
Josie, io non sapevo nulla di tutto questo, non potevo
immaginare–».
«Non
devi dispiacerti per me, Beth», mi interruppe con un mezzo
sorriso. «Io sto bene, è Jessie che... che non se
la
passa bene, con lui», disse, con voce grave.
Deglutii,
mentre un fremito mi scuoteva la spina dorsale. «Lui la...
ecco...», balbettai. Non avevo nemmeno il coraggio di porre
la
domanda al completo.
«Sì»,
disse Josie, abbassando lo sguardo. «Va avanti Dio solo sa da
quanto. Jessie non mi ha mai raccontato nulla apertamente, ma una
sera, prima che tu arrivassi qui, se l'è vista davvero
brutta.
Si è precipitata in lacrime da me, pregandomi di medicarla
al
più presto in modo che i suoi figli non vedessero come Pete
l'aveva ridotta. Quella volta erano con altri ragazzini, per fortuna,
ma si è lasciata sfuggire che, quando questo succede, Sam e
Ron si chiudono nell'armadio e... mio Dio, non sembrava nemmeno
lei».
Immaginai
i figli degli Anderson chiusi a chiave in un armadio, mentre il padre
picchiava la loro madre. Ero scioccata. «Perché?
Perché
fa tutto questo?!».
Gli
occhi di Josie si riempirono di lacrime. «Perché
è
un alcolizzato figlio di puttana», sputò, con
rabbia.
La
afferrai per le spalle. «Josie, dobbiamo dirlo a qualcuno!
Non
possiamo lasciare che Pete continui così!».
Lei
scosse la testa con veemenza. «Non possiamo dirlo a nessuno,
non capisci? È l'unico dottore che abbiamo, non lo
allontaneranno mai dalla città».
«Non
sto dicendo di allontanarlo dalla città, ma da Jessie e i
suoi
figli. Quell'uomo va fatto ragionare, ha un problema di dipendenza
che va risolto prima che sia troppo tardi!».
«Pensi
davvero che Pete vorrà collaborare e fare il suo dovere,
quando avrà tutti apertamente contro?
Le persone lo
sanno, sanno tutto, ma fanno finta di non accorgersene. Lui non
accetterà mai di essere aiutato».
«Anche
noi, se non diciamo nulla, facciamo finta di non accorgercene e
diventiamo complici di questo schifo. Josie, io... Io posso parlarne
con Rick, posso–».
«No,
è inutile», mi interruppe. «Rick non
può
fare niente, Beth, niente! Abbiamo le mani legate»,
mormorò,
con la voce sconfitta.
La
sua voce esprimeva tutto il dolore che provava e la frustrazione di
dover lavorare accanto a un omuncolo del genere. Io stessa mi sentii
schifata e frustrata, senza la minima idea sul cosa fare e come.
Avrei
dovuto parlarne con qualcuno: era un bisogno che sentivo forte fin
dentro le ossa, perché non potevo sopportare di mantenere un
segreto del genere.
La
prima persona che mi venne in mente fu Maggie. Era l'unica che mi
avrebbe ascoltata e sarebbe stata abbastanza cauta da non dirlo a
nessuno, per il momento. Le altre persone a cui avrei potuto chiedere
aiuto nella mia famiglia erano troppo risolute e pratiche, avrebbero
ignorato le parole di Josie e le mie, risolvendo il problema alla
radice.
Un
motivo in più per fare pace con mia sorella al
più
presto.
La
giornata, a parte quello, proseguì tranquilla. L'imbarazzo e
la paura di rivedere la mia famiglia, dopo quello che era successo la
sera prima, non mi avevano ancora abbandonata: scappai a casa quando
terminò il mio turno in ambulatorio, sperando che Noah
mantenesse la promessa e si inventasse una scusa per coprirmi le
spalle, solo per quella volta.
Cenai
con una tazza di latte freddo e cereali, visto che non avevo molta
fame; poi mi stesi sul divano, cercando di immaginare come la mia
famiglia avesse commentato la mia assenza alla cena. Forse avevo solo
peggiorato le cose, facendo la figura della ragazzina immatura.
Avrei
avuto tutto il tempo del mondo per chiarirmi con Maggie, ma Daryl
sarebbe partito la mattina dopo e non sapevo a che ora. Dovevo
assolutamente scusarmi, chiarire con lui prima che partisse. Provai a
scavare nella memoria per capire se Aaron mi avesse mai detto, di
solito, a che ora usciva a reclutare.
Solitamente,
la quotidianità ad Alexandria prendeva il via verso le nove
del mattino ed era probabile che anche Eric e Aaron uscissero dai
cancelli per quell'ora lì. Avrei dovuto chiedere ad Aaron e,
per quanto potesse essere imbarazzante, era l'unico modo per sapere
quando avrei potuto incrociare Daryl prima che partisse.
Rimasi
in tuta e mi infilai la giacca, diretta verso casa dei miei amici.
Aaron
– che evitò di indagare troppo a fondo –
mi
informò che la mattina dopo, come previsto, avrebbero
lasciato
Alexandria verso le nove e che sarebbero rimasti fuori dalle mura per
un paio di settimane. Ringraziai il reclutatore e mi scusai per il
disturbo, tornando a casa mia in tutta fretta. Dovevo alzarmi in
tempo e, per esserne in grado, sarei dovuta andare a dormire non
troppo tardi: tolta la giacca e chiusa la porta a chiave, afferrai la
sveglia che era rimasta sul tavolino da quella mattina e mi diressi a
letto, puntandola per le otto della mattina successiva.
Prima
di addormentarmi, mi torturai pensando a cosa avrei potuto dire,
all'imbarazzo che avrei provato, a come avrebbe reagito Daryl, a come
mi avrebbe trattata e se fosse arrabbiato con me per la mia codardia.
La
mattina mi svegliai con un nodo stretto allo stomaco e l'ansia che mi
opprimeva il petto. Mi vestii, feci colazione e mi diressi ai
cancelli per aspettare di incrociare Daryl prima che uscisse per
andare in missione.
Chiacchierai
con chi era di guardia, finché non vidi l'arciere
avvicinarsi
assieme ad Aaron. Le parole mi si bloccarono in gola e mi dimenticai
all'istante di cosa stessimo parlando. Balbettai qualche scusa e
andai incontro ad un perplesso Daryl. Ci fermammo entrambi, a pochi
passi di passi di distanza l'uno dall'altra, guardandoci.
Aaron,
per lasciarci soli, blaterò qualcosa sull'aprire i cancelli
e
preparare le macchine e la moto di Daryl, che la sera prima avevano
parcheggiato vicino alla torre di vedetta.
L'arciere
aveva la balestra in spalla e mi osservava con occhi imperscrutabili,
l'espressione neutra dietro la quale era solito nascondere tutto
ciò
che provava.
Non
sapevo assolutamente cosa dire, ma sapevo che lui stava aspettando
che parlassi per prima; al pensiero mi si attorcigliò lo
stomaco e abbassai lo sguardo, a disagio.
«Così,
uhm, state andando a reclutare» fu il mio imbarazzante
esordire.
«Già»,
rispose lui, impassibile. Sembrava in attesa e sapevo bene di cosa:
aspettava che dicessi qualcosa di sensato, visto che gli era chiaro
che lo stavo aspettando e che ci fosse un motivo dietro. Non riuscivo
ad aprire bocca perché avevo paura, paura che qualsiasi cosa
avessi detto sarebbe stata stupida. Temevo di fare la figura della
stupida, ai suoi occhi. Provai a parlare, ma non riuscivo a fare
uscire dalla mia bocca nemmeno un suono; rimanemmo così per
qualche minuto, e per tutto il tempo pregai che una voragine si
aprisse sotto i miei piedi e mi inghiottisse una volta per tutte.
Poi, prendendomi in contropiede, mi superò e si diresse
verso
la sua moto, con la stessa espressione illeggibile.
Ecco,
si era seccato di aspettare che balbettassi una delle mie idiozie.
«Daryl»,
provai a fermarlo, voltandomi nella sua direzione con urgenza. Lo
raggiunsi oltre il confine del cancello, fin dove aveva spinto la sua
moto ancora spenta.
«Ci
metteremo due settimane al massimo», affermò dal
nulla,
mentre montava in sella alla sua moto e cercava di tenerla in
equilibrio. Mi sorprese: era forse un tentativo goffo di
rassicurarmi?
«Lo
so», dissi, avvicinandomi a tal punto che, con un movimento
del
braccio, avrei potuto toccare il manubrio della sua moto. «Io...
Io volevo chiederti scusa per l'altra sera», mormorai,
incoraggiata dalla sua rassicurazione malcelata.
«Sei
una seccatura, ragazzina», sbottò, alzando gli
occhi al
cielo. Accese il motore che, con un rombo, diede vita alla moto e
catturò la mia attenzione. Quando spostai di nuovo lo
sguardo
su Daryl, notai che aveva le labbra appena ricurve in un sorriso.
Gli
sorrisi di rimando, col cuore più leggero.
«Stai
attento», gli dissi con premura, appoggiando una mano sul suo
braccio teso, stringendo appena la stoffa della camicia e lasciandola
andare subito dopo. Mi pentii amaramente di aver sprecato il giorno
prima lontana da lui, soprattutto perché non trovai il
coraggio di abbracciarlo e salutarlo come avrei voluto.
Daryl
non disse più nulla: mi rispose con un cenno del capo e con
quel mezzo sorriso, lo sguardo legato al mio. Non serviva altro:
bastavano i suoi occhi blu per capire che, tra noi, era tutto a
posto. Il mio cuore si riempì di serenità.
Rimanemmo
a guardarci per qualche momento, finché la moto non
ruggì
nuovamente e lui partì, precedendo Aaron – alla
guida
del pick-up – sulla strada che portava lontano da Alexandria.
Salutai anche il mio amico con una mano e li guardai allontanarsi
finché non sparirono dalla mia visuale.
Sospirai
a fondo, pronta alla logorante attesa che mi separava dal ritorno di
Daryl.
Mentre
tornavo indietro in direzione di casa mia, incrociai Maggie. La sua
espressione era seria ma pacifica e probabilmente mi stava studiando
per capire se poteva rivolgermi la parola o no; la tensione tra noi
si era notevolmente allentata, ma forse non era il luogo migliore per
chiarirci, non lì, in mezzo ai viali.
Senza
che ci fosse bisogno di parlare, la seguii. Ci accomodammo sul
dondolo bianco situato sotto al porticato di casa sua, che oscillava
quieto.
Dal
nulla, mi viene in mente una domanda. «Maggie, ma
perché
non chiedi a Deanna di assegnare una casa solo per te e
Glenn?».
Lei
si strinse nelle spalle. «Potremmo, in effetti.
Non ci
ho pensato, ma comunque credo che Rick si senta più sicuro
se,
i primi tempi, rimaniamo qui tutti insieme».
«Giusto»,
ne convenni, annuendo. Dopodiché calò il silenzio
tra
di noi.
«Daryl
è andato via?»,
domandò Maggie dopo un po', tranquilla.
Annuii,
accennando un sorriso.
«Sei
preoccupata?»,
chiese ancora.
«Sto
provando con tutte le mie forze a non esserla. Mi fido delle sue
capacità e so che torneranno. Presto».
Lei
mi sorrise con un fondo di tristezza negli occhi. E di comprensione.
«È
partito anche
Glenn, ma loro torneranno in giornata. Se tutto va bene»,
mormorò infine, rabbuiandosi appena.
«Tutto
andrà bene»,
affermai con convinzione.
Maggie
rialzò lo sguardo su di me e mi rivolse un sorriso, che si
spense subito dopo.
«Senti,
Beth, riguardo l'altra sera…».
«È
tutto passato»,
la
interruppi.
«No,
ascoltami»,
insisté,
toccandomi un braccio. «Mi
dispiace, volevo che lo sapessi. Ho iniziato dicendo di non volere
fare la parte della sorella apprensiva e invece, alla fine, ho fatto
anche di peggio. Scusami».
«Ho
sbagliato anche io a rinfacciarti di non avermi cercata, scusa. Non
avrei dovuto».
«No,
avevi ragione. Ho cercato di importi di stare lontana dall'unica
persona che si è presa cura di te e ti ha protetta mentre io
ero in giro a cercare una cura che non esiste. Scusami Beth, anche
per non esserti venuta a cercare. Sono una sorella terribile».
La
abbracciai stretta, avvertendo un forte calore al centro del mio
petto.
«Non
dirlo nemmeno»,
la
minacciai, sprofondando il volto nella sua spalla.
Nel
suo profumo ritrovai i nostri ricordi di noi bambine, la fattoria in
estate, il volto di mio padre, le canzoni di mia madre, la risata di
mio fratello. Maggie era la mia famiglia, non potevo nemmeno pensare
di restare arrabbiata con lei a tempo indeterminato, di non parlarle
più. Era sangue del mio sangue.
«Promettimi
solo che starai attenta a non farti ferire, Beth»,
sussurrò Maggie, stringendomi più forte.
Mi
domandai quanto dovessero costarle quelle parole, ma sperai che col
tempo sarebbe arrivata a capire i miei sentimenti e ad accettarli.
Il
solo fatto che ci stesse provando mi riempì di gioia.
Mi
separai da lei, senza lasciarla andare. «Stai
tranquilla, Daryl non potrà mai ferirmi nel modo che intendi
tu».
Mia
sorella mi rivolse uno sguardo colmo di perplessità.
«Perché?»,
domandò, incerta. «Lui…
non credo che mi vedrà mai nel modo in cui lo vedo io».
Mia
sorella diede l'impressione di rifletterci sopra per un momento.
«Beh,
questo non puoi
saperlo. Daryl è molto bravo a nascondere quello che prova».
Sorrisi,
rendendomi conto che, in quell'aspetto, Daryl era un libro aperto per
tutti.
«Eppure,
in quei giorni che abbiamo passato insieme… è
stato
diverso. Non l'ho mai visto così»,
riflettei a voce alta.
«Ecco,
dimmi un po' cosa ti ha fatto perdere la testa per lui»,
mi prese in giro Maggie, ma non riuscì a nascondere una
sfumatura di apprensione, nel fondo di quelle iridi così
simili alle mie.
I
giorni passati con Daryl si srotolarono davanti ai miei occhi.
«All'inizio
è stato… difficile»,
proferii. «Daryl
non voleva cercarvi, non voleva fare niente, era come spento. Mi
sentivo a disagio e mi ripetevo spesso che avrei preferito essere
fuggita con qualsiasi altra persona che non fosse lui. Qualsiasi
altro mi sarebbe andato bene. Mi trattava con freddezza, tanto quanto
io mi comportavo da bambina capricciosa. Alla fine abbiamo litigato
furiosamente ed è crollato, confessandomi che si addossava
la
colpa per quello che il Governatore ha fatto alla prigione
e…
a papà…».
Con la coda dell'occhio vidi Maggie sussultare, ma continuai. Mentre
raccontavo, rivedevo tutto, come se fossi una spettatrice di quello
che io e Daryl avevamo passato insieme.
«Si
è aperto con me, capisci? Abbiamo passato una sera intera a
parlare dei suoi genitori, di suo fratello. Ho sentito quello che ha
provato lui, anche se in minima parte; come un'eco, ma l'ho sentito».
Maggie
rimase in silenzio, ammutolita dalla sorpresa. Sembrava incredibile
anche a me; come se non stessi parlando di Daryl Dixon, ma di
un'altra persona.
«Non
mi sono mai sentita così vicina a qualcuno che non fossi tu,
o
papà ovviamente»,
continuai. Evitai di tirare in ballo Zach o Jimmy,
qualcuno
che potesse corrispondere all'idea di un fidanzato, per non
preoccupare mia sorella. «Il
giorno dopo mi ha insegnato a seguire le tracce, a cacciare. Siamo
diventati una squadra e lui…»,
mi interruppi, travolta da un misto di imbarazzo e
un'altra
emozione indescrivibile quando ricordai i suoi occhi nei miei,
così
intensi ed eloquenti.
L'unica
volta in cui mi ero sentita davvero in grado di capire quello che
pensava.
«Lui?»,
mi spronò Maggie.
«Mi
ha fatto capire che, grazie a me, ha iniziato a credere che in giro
ci siano ancora brave persone. Ho visto della speranza, in lui».
Maggie
mi studiò per qualche istante, senza dire nulla. Poi si
sciolse nel sorriso di chi la sapeva lunga. «Come
potrebbe essere il contrario?».
«Cosa?».
«Anche
il più freddo degli uomini si scioglierebbe davanti ai tuoi
occhioni e al tuo sorriso»,
rispose mia sorella, accarezzandomi una guancia e facendomi
arrossire. Guardai da un'altra parte. «Smettila,
Maggie».
«Ma
è vero!»
esclamò,
circondandomi affettuosamente le spalle con un braccio.
«Peccato
che non abbia funzionato coi nemici che abbiamo incontrato per
strada»,
le ricordai,
rabbuiandomi.
«Quelle
erano persone cattive, non fredde»,
puntualizzò. «Comunque,
ora ti ho capita un po' di più».
Mi
voltai verso di lei. «Davvero?»,
quasi urlai.
Lei
sorrise del mio entusiasmo e annuì, perdendosi con lo
sguardo
davanti a sé. «Sai,
Beth, non so esattamente per quale motivo l'idea che tu provi questi
sentimenti per lui mi faccia così paura. Forse mi sento in
dovere di sostituire papà, perché lui non
può
preoccuparsi per te», disse, sorridendomi tristemente.
Le
sorrisi. «Non avete niente di cui preoccuparvi Maggie, te
l'ho
detto».
«E
se ti sbagliassi?», replicò, tranquilla. Una
vampata di
calore mi accese le guance, ma Maggie continuò.
«Se
Daryl ti ricambiasse?».
La
guardai, provando a capire cosa stesse pensavo veramente. «Tu
cosa faresti?», domandai, rivolgendole la domanda che lei
stava
facendo a me.
Mi
osservò per qualche istante, seria; poi, le sue spalle si
rilassarono e Maggie accennò a un sorriso. «Sei
giovane,
Beth», proferì, ed io ero già pronta a
controbattere, quando lei parlò di nuovo. «Sei
giovane,
ma non sei più una bambina. Quello che hai passato ti ha
resa
più forte, lo abbiamo visto tutti. Mi fido di te e del tuo
buonsenso, quindi, nel caso... Non farò
nulla»,
concluse, mentre i battiti del mio cuore mi rimbombava nelle
orecchie. «Sai, Beth, a volte penso a tutto quello che
abbiamo
perso, ed è così difficile da accettare che quasi
mi
sento mancare l'aria. Poi, però, mi viene in mente Glenn e
mi
ritrovo a pensare che, forse, tutto questo a qualcosa è
servito. Se Daryl rappresenta lo stesso per te, e tu lo rappresenti
per lui, non posso e non voglio ostacolarvi in nessun modo. Ma lo
terrò d'occhio comunque, okay? Se prova a farti soffrire
io–».
«Grazie»,
la interruppi, abbracciandola, mentre sentivo gli occhi inumidirsi.
Maggie,
dopo qualche secondo di sorpresa, ricambiò l'abbraccio e mi
strinse forte tra le sue braccia.
Mi
sentii incredibilmente stupida a ripensare a tutta la paura inutile
che mi aveva paralizzata. Le parole di Maggie significavano molto per
me, tutto.
Sapere
che accettava i miei sentimenti per Daryl, sentirla quasi paragonare
il suo legame con Glenn – che era l'amore della sua vita,
qualcosa che nessuno avrebbe mai messo in discussione – a
quello che univa me e l'arciere mi riempì il petto di un
calore dolce e rassicurante.
Si
allontanò appena da me e mi guardò, lo sguardo
colmo di
affetto. «Papà sarebbe così fiero di
te, Bethy.
Per tutto».
Quando
usò quel soprannome, la mia mente si riempì di un
ricordo: vidi me stessa, a letto e mio padre al mio capezzale. Teneva
la mia mano stretta nella sua, mentre mi canticchiava una filastrocca
che la mamma mi aveva insegnato quand'ero piccola.
Mi
mancava così tanto...
«Smettila
Mag, o mi farai piangere», scherzai, asciugando una lacrima
che
stava per sfuggirmi.
Lei
scoppiò a ridere e mi diede un'ultima stretta prima di
lasciarmi andare. Rimanemmo sul dondolo un altro po', a parlare: non
le raccontai di quello che era successo la sera della festa con
Aiden, né di Daryl, ma ne approfittai per condividere con
lei
la mia preoccupazione riguardo tutta la questione di Pete.
I
suoi occhi si accesero di inquietudine, ma mi promise che, per il
momento, non ne avrebbe fatto parola con nessuno e che avremmo
pensato a qualcosa, insieme. Insieme:
bastò quella parola, quella certezza, a
rasserenare il
mio animo.
Angolo
autrice.
Innanzitutto
mi scuso per il ritardo, ma sono stata talmente impegnata da non
rendermi pienamente conto che l'ultimo aggiornamento risale a
febbraio. Scusatemi.
Ma
oggi, che è un giorno nefasto perché in America
andrà
in onda il terrificante finale di stagione (NEGAN AIUTO NEGAN), mi
sembra una buona occasione per aggiornare la storia. Anche se non
succede nulla in particolare Beth sta bene, i guai sono lontani e
c'è
amore tra sorelle dappertutto, il che mi pare un buon alleviante per
quello che dovremo sopportare domani. Ho paurissima, non ce la posso
fare.
Mi
dispiace se Daryl in questo capitolo è stato quasi assente e
se il loro chiarirsi non è appassionato e grondante di
retorica, ma quello che ho deciso di inserire mi pare più
adatto al personaggio di Daryl. Ho preferito lunghi sguardi a lunghi
discorsi, e una promessa muta nascosta in un sorriso. Mi è
sembrato più da loro, ecco :)
Per
quel che riguarda Maggie, mi rendo conto che magari le ho fatte
riappacificare presto, ma ogni minuto è prezioso in una
situazione del genere e volevo che Beth prendesse la matura decisione
di chiarirsi subito invece di serbare rancore.
Il
prossimo capitolo, lo dico subito, sarà un po' difficile. Vi
tranquillizzo da subito e vi assicuro che a Daryl non
succederà
nulla, tranquille.
Per
esigenze di trama, mi serve dilatare il lasso di tempo da questo
giorno e gli avvenimenti del prossimo capitolo di almeno un
mese.
Anche se mi pare che nella serie originale sia questione di pochi
giorni. Quindi, tutti gli avvenimenti del telefilm saranno posposti
di un mese, e la prossima volta vi spiegherò meglio!
Come
sempre, vi ringrazio per le vostre visite, le vostre recensioni e per
aver inserito la mia storia tra le seguite e le preferite.
Ce
la possiamo fare ragazze, ce la possiamo fare.
Credo
che scriverò un post/muro del pianto sul mio blog
(https://blakiescrive.wordpress.com/)
dopo la puntata di domani, se volete discuterne/piangerne
lì,
siete le benvenute.
Forza
e coraggio, ragazze. Forza e coraggio.
Daryl
e Aaron tornarono ad
Alexandria poco più di una settimana dopo, il
mercoledì
successivo. Nel tempo che i due reclutatori passarono fuori dalle mura,
la mancanza di Daryl e la preoccupazione per la sua sorte mi seguirono
dappertutto, costantemente. Eppure, non riuscirono a scalfire nemmeno
per un attimo la mia fiducia in lui, la mia speranza, la mia certezza
che sarebbe tornato. Che lui e Aaron, insieme, sarebbero tornati.
Mentre Daryl era via, mi scusai con Aiden, con la signora Neudermeyer e
anche con la mia famiglia, liberandomi di un gran peso.
La vita
ad Alexandria proseguiva tranquilla: la mia famiglia
stava cominciando ad abituarsi alla vita tra quelle mura e ne fui
felice. Rick impose a Deanna di stabilire dei turni di guardia in modo
da sorvegliare il perimetro dalle torrette, e non solo davanti
al
cancello. Lei, per calmarlo, acconsentì subito, studiando in
fretta un ciclo di turni assieme a Maggie, che era diventata la sua
consigliera di fiducia. Insistetti per prendervi parte anche io,
perché volevo rendermi utile anche fuori dalle mura. Maggie
e
Deanna me lo concessero, anche se ebbi tanto l'impressione di aver
ricevuto un contentino. Un paio di giorni prima, infatti, avevo
avanzato la richiesta di partire con uno dei gruppi che andava a
cercare le provviste, ricevendo un rifiuto gentile ma secco da parte di
Deanna. Mi fece presente che il mio aiuto era necessario all'interno
delle
mura, a scuola e in ambulatorio e che i gruppi di ricerca erano
già stabiliti e andavano bene così.
Lì
per lì, mi arresi, convinta che avrei ritentato. Prima
dovevo migliorare la mia abilità con le armi,
perciò mi ripromisi di seguire il suggerimento di Noah e
chiedere a Daryl, a Carol o a chiunque altro sarebbe stato disposto, di
insegnarmi ad utilizzare un'arma al meglio. Dovevo solo aspettare che
Daryl tornasse.
Per non
sentire troppo la mancanza dell'arciere e non soffrire la
solitudine, mi circondai di persone: passai più tempo
possibile
con Maggie, con Noah e con il resto del gruppo. Raddoppiai il mio turno
di insegnante di musica per i bambini, cominciando ad andare il
mercoledì e il venerdì, affezionandomi sempre di
più a Samantha e ai miei piccoli allievi. Suonare per loro e
con
loro, insegnargli ciò che mia madre, a suo tempo, aveva
insegnato a me e portare un po' di leggerezza nella loro infanzia mi
faceva sentire bene. Inoltre, Samantha aveva solo otto anni
più
di me e questo contribuì a farci diventare amiche.
Quel
mercoledì rimasi a scuola fino al tardo pomeriggio,
aiutando Samantha a sistemare i materiali che avevamo usato coi
bambini. Le
chiesi se, quella sera, le avrebbe fatto piacere cenare assieme alla
mia famiglia; accettò di buon grado, ringraziandomi con un
ampio
sorriso. Era bella, col naso e le guance costellati di lentiggini e una
folta chioma di capelli rossi e ricciuti a contornarle il viso. E
un'espressione dolce che non la lasciava mai; nessun'altra, nella
comunità e fuori, avrebbe potuto fare la maestra al di fuori
di
Samantha.
Prima
di arrivare da Rick, decidemmo di fare tappa ognuna
a casa propria per rinfrescarsi e fare una doccia prima di uscire per
cena. Ci ritrovammo davanti a casa mia dopo esserci sistemate e ci
incamminammo fianco a fianco, chiacchierando.
Quando
arrivai davanti a casa di Rick e gli altri, mi morirono le
parole in gola e mi fermai, fissando la persona che stava fumando sotto
al portico.
Il
cuore iniziò a battere
furiosamente nel mio petto molto prima che realizzassi di avere Daryl
lì, a pochi passi da me.
Daryl
era tornato. Stava bene. Era vivo.
Si
accorse di me pochi secondi dopo,
ricambiando il mio sguardo con
un'espressione indecifrabile. Forse me lo immaginai soltanto, ma mi
sembrò che le sue labbra fossero curvate in un piccolo
sorriso.
Lasciai il fianco di Samantha e corsi sotto al portico, attenta a non
inciampare.
«Daryl!
Sei tornato!», esultai, parandomi di fronte a lui e
sforzandomi in tutti i modi di non saltargli in braccio.
Mentre
era via, avevo immaginato molte volte come sarebbe
stato
rivederci. Nelle mie fantasticherie, solitamente, gli buttavo le
braccia al collo e lo stringevo in un abbraccio soffocante, ricambiata
e stretta a mia volta tra le sue forti braccia. La realtà fu
molto diversa e non seppi spiegarmi perché. Forse dovevo
ancora
capire fin dove potevo spingermi, con le dimostrazioni d'affetto nei
confronti di un uomo così freddo e sprezzante del contatto
fisico.
«Te
l'avevo detto», rispose,
inspirando una boccata di fumo.
«Stai
bene?», domandai, avvicinandomi a lui senza rendermene
conto.
«Mmmh-mmh»,
annuì, senza scomporsi.
«E
Aaron?», domandai di nuovo.
«Sta
bene, sta bene», mi rassicurò, stiracchiandosi in
un gesto casuale.
Osservai
i suoi occhi, le sue labbra,
i suoi capelli, le sue mani, le sue spalle: Dio, quanto mi era mancato.
Tutta l'ansia, la preoccupazione e la paura che mi avevano seguita in
quei giorni si dissolsero dalle mie spalle, come se non le
avessi mai provate.
«È
bello rivederti, signor Dixon. Bentornato a
casa», mormorai, sorridendogli.
I suoi
occhi si legarono ai miei,
per qualche attimo, persi in uno sguardo intenso che disse
più
di mille parole.
Poi
sbuffò e guardò da un'altra parte, a disagio.
«Quante smancerie», sbottò, buttando la
sigaretta
ormai finita.
Risi,
intenerita, poi mi voltai verso Samantha, che aveva assistito al
nostro scambio con un sorrisetto divertito. Ci raggiunse sotto il
portico e si presentò a Daryl, che si sforzò di
essere
gentile. Avevo così tanta voglia di chiedergli di
raccontarmi
com'era andata là fuori, cosa lui ed Aaron avevano fatto o
visto, ma mi sarei sentita in imbarazzo a parlargli così
tanto
in mezzo agli altri. Io e Maggie non avevamo più discusso
l'argomento che ci aveva fatte litigare, ma sembrava che mia sorella
stesse accettando l'idea. Mi era stata molto vicina nel periodo di
lontananza da Daryl e le fui grata per questo.
Sentivo
il bisogno di stare con Daryl, da soli,
perché era solo da
soli che riuscivamo a trovarci a nostro agio in reciproca compagnia.
Quando eravamo insieme al resto della nostra famiglia, non ci parlavamo
molto. Non arrivavamo ad ignorarci, questo no, ma limitavamo le nostre
interazioni allo stretto necessario. Non sapevo se Daryl lo facesse per
non destare sospetti su di noi - sospetti per cosa, poi? - o per altri
motivi. Sapevo solo che volevo assecondarlo, nonostante pensassi che
non ci fosse nulla da nascondere. O forse era lui che temeva
di
far trasparire qualcosa di cui mi sarei accorta anche io?
Passammo
una bella serata, comunque, di nuovo tutti
insieme. Samantha si ambientò bene e parlò molto
con la
mia famiglia, mettendomi addirittura in imbarazzo, mentre decantava le
mie doti di "maestrina di musica". Io abbassai lo sguardo,
borbottandole, imbarazzata, di smetterla. Non mi sfuggì il
ghigno divertito di Daryl, che mi osservava dall'altra parte del
tavolo. Lo guardai male, col solo risultato di divertirlo ancora di
più. Maledetto.
Per
evitare di strozzarlo, pensai piuttosto a quando e come
chiedergli di insegnarmi a usare le armi, a cacciare, a qualsiasi cosa
sarebbe servita a tenere in vita me e gli altri in caso di bisogno.
Forse potevo chiedergli di accompagnarmi a casa, senza preoccuparmi di
cosa avrebbe pensato la nostra famiglia vedendoci andare via assieme.
Sarebbe stato più sospetto se avessimo continuato a
quasi-ignorarci in quel modo.
Con una faccia tosta di cui non mi credevo capace, mentre la serata
stava volgendo al termine e bellamente circondata dagli altri, avanzai
verso Daryl, che stava giocando con Judith sul tappeto del
soggiorno. Mi fermai un secondo ad osservarli: la piccola stava
giocherellando coi bicchieri di carta, il suo gioco preferito sin dai
tempi della
prigione. Daryl, seduto a gambe incrociate di fronte a lei,
l'assecondava, impilando i bicchieri e facendoli poi cadere, scatenando
le risate della bambina. Risate che, ogni volta, facevano comparire un
piccolo sorriso sulle labbra dell'arciere.
Poche cose mi facevano tremare il cuore quanto vedere un uomo
così forte e dall'aspetto talvolta poco rassicurante,
giocare
con un esserino fragile e piccolo come Judith. Per
un
secondo, mi domandai intimamente come se la sarebbe cavata Daryl
nei panni di padre. Sorrisi tra me e me, conoscendo la risposta:
egregiamente.
Scacciai
presto quel pensiero e mi
avvicinai a loro, accomodandomi dietro la piccola Judith.
«Cosa
state facendo?», domandai, prendendo la bambina in braccio.
Da quando lavoravo in ambulatorio e a scuola, non avevo più
modo di stare con lei spesso quanto avrei voluto, e la cosa mi
dispiaceva. Era una bambina
dolcissima, occuparsi di lei non era mai stata una fatica, alla
prigione.
«Stiamo
giocando coi bicchieri, roba
seria», scherzò Daryl, dando un buffetto alla
guancia di
Judith e allungandole un altro bicchiere.
«Accidenti,
roba serissima!»,
esclamai, chinandomi e cercando lo sguardo della piccola, come se mi
stessi rivolgendo a lei. Judith mi guardò con gli occhi di
Lori
e si aprì in un sorriso smagliante, agitando la coppa rossa,
divertita.
Mi beai
della morbidezza di quel piccolo miracolo che stavo
stringendo tra le braccia, poi guardai Daryl. «A proposito di
cose
serie, puoi accompagnarmi a casa? Devo parlarti», gli dissi,
senza smettere di sorridere.
Lui mi
lanciò un'occhiata
perplessa. «Sei ancora ubriaca e hai bisogno di qualcuno che
ti
trascini a casa?», domandò, aprendosi in un ghigno.
Avvampai,
tappando le orecchie a
Judith e sussurrandogli un «vaffanculo» a denti
stretti.
Tra le sue risate, cercai di continuare. «Per favore Daryl,
è importante».
L'arciere mi studiò, diffidente. «Cos'hai
combinato mentre ero via?».
Alzai
gli occhi al cielo, esasperata.
«Non puoi semplicemente fidarti di me e accompagnarmi senza
fare
tutte queste storie?!».
«Va
bene ragazzina, come vuoi»,
si arrese in modo sbrigativo, visibilmente seccato. Credetti che
volesse
solo farmi stare zitta e non attirare troppe attenzioni su di noi.
Paranoico.
Quando,
una mezz'ora dopo, uscimmo di casa assieme - Sam
se n'era andata prima - vidi le spalle di Daryl rilassarsi
vistosamente, mentre camminavamo lentamente fino a casa mia. Che si
trovava nello stesso vialetto, quindi dovevo sbrigarmi e
trovare
subito il coraggio di chiedere quello che dovevo all'uomo accanto a me.
Il rumore dei nostri passi sull'asfalto era l'unico sottofondo, nel
silenzio della sera.
«Sei
stato così sbrigativo prima, riguardo la
tua missione con Aaron. Sei sicuro che si andato tutto
bene?»,
esordii, spezzando il silenzio.
Daryl
si voltò a guardarmi.
«Si tratta di questo, quindi? Vuoi farmi il terzo
grado?»,
domandò. Il suo tono era tranquillo, nonostante tutto. Meno
sulla difensiva di quanto lo fosse prima.
«No,
Daryl, sto solo facendo conversazione»,
scandii. «Sai, è una cosa che le
persone fanno».
Si strinse nelle spalle. «Sono stato sbrigativo
perché non è successo niente che valga la pena di
essere
raccontato. Siamo tornati indietro prima per un motivo».
«Avete
trovato qualcosa di utile? Provviste?», domandai, curiosa.
«No.
Evidentemente, siamo andati nella direzione sbagliata».
Annuii,
senza sapere bene cosa
rispondere. Dopo qualche momento di
silenzio e quando, ormai, eravamo arrivati davanti a casa mia, presi il
coraggio a due mani e parlai. «Comunque, ti ho chiesto di
accompagnarmi per
chiederti una cosa», proferii confusamente, parandomi di
fronte a
lui.
Daryl
non disse niente ma mi guardò negli occhi, aspettando che
parlassi.
Feci un
respiro profondo, prima di
avanzare la richiesta. «Volevo chiederti se puoi aiutarmi a
migliorare con le armi».
La sua espressione rimase impassibile, ma notai un sussulto di sorpresa
che gli scosse appena le spalle. «Armi?».
«Sì.
Da fuoco, se possibile», spiegai, raddrizzando la schiena e
mostrandomi determinata.
«Vuoi
imparare a sparare», indagò. «Non
ti ricordi più nulla dell'addestramento alla
fattoria?»,
domandò. Per un istante, ebbi l'impressione che stesse
parlando
di una vita fa. Quanto tempo era passato, quante persone si erano unite
alla nostra famiglia, quante ne avevamo perse...
«Certo
che sì. So usare
la pistola, ma non bene come vorrei. Anzi, non bene come serve. Devo
migliorare la mira, imparare a utilizzare al meglio armi come fucili e
cose così. Devo imparare a cacciare e a seguire le
tracce».
«A
cosa ti serve tutto questo, qua dentro?».
La sua domanda mi sorprese. «Mi serve là
fuori».
Serrò
la mascella. «Tu
non esci dalle mura». Dal tono, più che una
considerazione, sembrò un ordine.
«Ora
come ora no, ma potrei, un
giorno.
Per qualsiasi motivo. Anche qua dentro potrebbe essermi utile essere
brava come voi. Voglio imparare a
difendere me stessa e gli altri, Daryl. Non è possibile che
io
ancora non ne sia in grado, dopo tutto questo tempo. Carl è
più piccolo di me eppure è già
esperto,
perché a me non è concessa questa
competenza?!»,
esclamai,
con una nota di esasperazione nella voce.
«Tu
sai difenderti e sai come difendere gli altri»,
replicò, studiandomi serio.
«Ah
sì? Con qualche colpo di pistola
sparato a caso e un coltello? Questo non mi aiuterà se
dovesse essere necessario
difendermi a distanza».
«Credo
che tu non abbia bene idea di quello che mi stai chiedendo,
Beth».
«Ti
sto semplicemente chiedendo di aiutarmi a non essere un
peso», replicai, accorata.
Daryl
affilò lo sguardo. «Lo sai
che sarai costretta ad uccidere? Non solo vaganti, ma anche essere
umani. Soprattutto
essere umani».
La cruda realtà che Daryl mi mise davanti agli occhi mi
ammutolì per qualche secondo. Non riuscivo nemmeno a
immaginare
di essere in grado di togliere la vita a un'altra persona viva. Certo, all'ospedale avevo provocato la morte di Gorman, ma era stata Joan a ucciderlo. Impugnare una pistola e premere il grilletto sarebbe stata tutta un'altra cosa.
Se qualcuno di crudele, come il Governatore, o Dawn, rappresentava una
minaccia, avrei dovuto essere pronta a uccidere. Non tanto per salvare
la mia vita, quanto quella della mia famiglia. Erano loro la cosa
più importante e la loro sicurezza aveva un prezzo.
Un prezzo che ero pronta a pagare. Finalmente mi sentivo
davvero pronta.
«Lo
so, Daryl. Ma se uccidere significa proteggere la mia famiglia... sono
pronta a farlo. Non voglio mai
più assistere alla morte di qualcuno di voi come ho dovuto
fare
con mio padre. Mai più», terminai sussurrando e
abbassando
lo sguardo per reprimere le lacrime. Quando lo rialzai, vidi che Daryl
mi stava osservando intensamente, combattuto, come se si stesse
preoccupando più del dovuto della mia innocenza, della mia
bontà. Dimenticandosi che lui stesso, pur essendo una delle
persone più buone, generose e disinteressate che avessi mai
conosciuto, aveva ucciso delle persone. E non si poteva fargliene
una colpa, perché, se non l'avesse fatto, sarebbe toccato a
qualcuno di noi morire.
«Okay»,
disse, alla fine, con la voce esausta.
Il mio cuore iniziò a battere forte. «Grazie,
Daryl. Significa molto per me».
Lui
borbottò qualcosa di
incomprensibile, salendo le scale del mio portico e sminuendo la cosa
con un gesto della mano. «Domani ne riparliamo. Ci
saranno
da chiedere le armi a Olivia ed il permesso per uscire da questa
gabbia», affermò, per distogliere l'attenzione
dalla mia
gratitudine.
«Da
quando sei il tipo di persona che chiede il permesso?»,
domandai ironica, appoggiando le mani sui fianchi.
Daryl
grugnì. «Devo chiederlo per te,
ragazzina», sottolineò, sprezzante. «Io posso uscire
quando diavolo mi pare».
Scoppiai a ridere per
l'espressione indisponente che gli animò il volto.
«Daryl
Dixon, il Ribelle dell'Apocalisse», lo sbeffeggiai,
stringendo i
pugni ed allargando le spalle, tutta impettita.
«Fila a letto, prima che la tua simpatia mi faccia cambiare
idea», disse con un ghigno, indicando la porta di ingresso
con un
cenno del capo.
«Sissignore!», esclamai, scoccando un saluto
militare.
Daryl
alzò gli occhi al cielo,
ma accennò appena a un
sorriso. «'Notte», si
congedò, dandomi le spalle e avviandosi verso casa.
Rimasi
a guardarlo, mentre si stava
allontanando. Poco dopo, inaspettatamente, qualcosa tremò
dentro
di me, formicolandomi
nelle dita e spingendo le mie gambe a muoversi.
Appena prima che Daryl scendesse il primo scalino del portico, afferrai
la sua mano. Preso di sorpresa, si voltò verso di me, ma non
gli
diedi il tempo di dirmi nemmeno una parola.
Gli circondai la vita con le braccia e mi strinsi a lui, affondando il
volto nella sua camicia.
Mi era
mancato il suo odore, il suo corpo
contro il mio, il battito del suo cuore sotto il mio orecchio. Averlo
lì, tra le mie braccia, al sicuro da un mondo dal quale,
là fuori, non potevo proteggerlo, mi fece sospirare di
felicità.
«Beth...»,
protestò
debolmente. Avvertii i battiti del suo cuore aumentare e il suo
respiro farsi più pensante.
«Stai
zitto», mormorai contro la stoffa della sua camicia,
stringendolo ancora di più a me.
Contro
ogni aspettativa, dopo qualche
momento di indecisione, Daryl abbandonò le braccia sulle mie
spalle e mi strinse a sé. Poi appoggiò il capo
contro al
mio, in un abbraccio protettivo. Era
tutto intorno a me. Deglutii, per trovare il coraggio di
esprimere quello che stavo per dire.
«Voglio proteggerti, Daryl.
Non mi importa di nient'altro. Se non posso farlo quando sei lontano da
me, voglio riuscirci quando siamo insieme», sussurrai,
talmente
piano che, per un momento, temetti che non mi sentisse. Quando finii di
dirlo, però, avvertii Daryl respirare profondamente e
stringermi, subito dopo, un po' più forte. Come in un muto
ringraziamento.
Ripensai
alle parole rabbiose che mi aveva rivolto in quel capanno che avevamo
bruciato insieme.
«Non ho mai contato su
nessuno per farmi proteggere. Cazzo, non ho mai contato su nessuno per
niente!».
Non avrei mai potuto comprendere fino in fondo la sofferenza che aveva
dovuto sopportare Daryl, sin da giovanissimo. Me lo immaginai da
bambino, con un padre violento, una madre troppo debole per proteggerlo
e un fratello che non aveva mai saputo comeessere un vero fratello.
Pensare a tutto quello che doveva aver passato mi strinse il cuore in
una stretta dolorosa, soprattutto perché Daryl non si era
meritato l'infanzia che aveva avuto.
La sua unica colpa era stata quella di nascere in una famiglia che non
aveva saputo prendersi cura di lui, amarlo, proteggerlo. E quella
consapevolezza mi faceva male.
Era questo che ammiravo così tanto in Daryl: nonostante il
suo
passato difficile, le ferite profonde che, lo sapevo, non avrebbero mai
smesso di bruciargli dentro, era diventato una delle persone migliori
che avessi mai conosciuto. E anche una delle più fragili.
Daryl
pensava di aver cambiato idea sulla bontà delle persone
grazie a me, in realtà era successo l'esatto opposto: ero io
a non
poter perdere speranza nell'umanità, se mi ero ritrovata
accanto
un uomo come lui. Era stato grazie a lui se le mie speranze non erano
morte del tutto. E grazie a mio padre, a Rick, a tutte le persone buone
che avevo incontrato sulla mia strada.
Avrebbe potuto tentarne di ogni per allontanarmi, non mi
sarebbe importato: gli sarei stata vicina, in qualsiasi modo possibile.
Ci sarei stata per lui, lo avrei protetto, lo avrei fatto sentire
importante e degno di essere amato. Volevo che capisse che esisteva
qualcuno a cui importava davvero di lui. Non sarebbe mai riuscito a
tenermi lontana, mai.
Rimanemmo allacciati in quell'abbraccio
per un tempo che, a me, parve infinito. Avrei potuto davvero rimanere
così per sempre. L'arciere, invece, fu in grado di
sopportare
quella vicinanza fino ad un certo punto. Dopo un po', in silenzio, mi
lasciò andare; mi guardò negli occhi senza dire
nulla e
si voltò, tornando a casa.
Mentre osservavo la sua schiena che si allontanava, coperta dal giubbotto con le ali
d'angelo, pensai che avevo fatto la scelta giusta
chiedendogli di insegnarmi a sopravvivere.
Avevo troppo da perdere.
Troppo
per cui combattere.
¨¨¨
La
mattina dopo, mentre camminavamo fianco a fianco verso casa di Deanna,
il nervosismo mi pervase, perché non ero affatto sicura che
la
mia richiesta sarebbe stata accettata. Sapevo che avrei trovato anche
Maggie, a casa Monroe: lei e Deanna stavano lavorando ad un progetto
sulle sementi da andare a cercare nei dintorni della zona sicura, in
modo da iniziare a coltivare pomodori, patate e altre verdure. Un po'
come quando eravamo alla prigione: io, Maggie e Rick avevamo avuto
l'insegnante migliore.
«Tutto
bene?», domandò Daryl, dopo il mio ennesimo sbuffo
agitato. Forse aveva notato quanto fossi silenziosa; maledetto lui ed
il suo spirito di osservazione.
«Sì,
sì. Sto solo pensando a quali parole usare per convincerle a
lasciarmelo fare», risposi, provando a contenermi.
Alzò le spalle con fare
strafottente. «Dici loro che lo vuoi fare
e che lo farai, punto».
Scoppiai a ridere, divertita dal suo
finto tono arrogante. «Convincente, ma ti ricordo
che solo tu puoi permetterti questo tipo di approccio»,
replicai, guardandolo.
Lui
mantenne un'espressione burbera per qualche momento, poi
ridacchiò a sua volta, scuotendo la testa e continuando a
camminare. «Anche questo è
vero».
La
presenza di Daryl, nonostante tutto, mi rassicurava e mi trasmetteva la
calma che mi serviva. Rimase in piedi, quando Deanna ci fece accomodare
nel suo salotto, come un angelo custode che mi guardava le spalle.
Provai a parlare con calma, a spiegare le mie ragioni e cercai di non
dare troppo peso all'espressione preoccupata di Maggie,
seduta sul
divano di fronte a me. Riuscivo a capire quello che pensava: era in
ansia, ma sapeva che avevo ragione. Dovevo puntare su quello, era
l'unica che poteva capirmi. Deanna non aveva mai vissuto quello che
avevamo passato noi, perciò non poteva comprendere cosa mi
spingesse a fare loro quella richiesta. Secondo lei, mi stavo mettendo
in pericolo inutilmente.
«Beth, noi abbiamo bisogno
di te qui», mi ripeté, come quando le avevo
chiesto di poter andare in missione.
«Per
fare cosa? Controllare che nessuno entri in ambulatorio? Non abbiamo
quasi mai niente da fare lì, Deanna. Ed è un
bene, significa che nessuno ha bisogno delle nostre cure
perché sta bene. Josie mi sta insegnando tanto e adoro
lavorare
a scuola con i bambini, ma ho bisogno di altro. So com'è il
mondo fuori da quelle mura e voglio essere in grado di
affrontarlo», ribattei, accorata.
Lei mi
studiò, l'espressione corrucciata e la postura rigida. Non
era
arrabbiata, lo capii, solo non sapeva come ribattere. Perché
avevo ragione. Si voltò verso Maggie, per chiedere la sua
opinione o per ricevere aiuto per riuscire a convincermi, non riuscii a
comprendere. Lo sguardo di mia sorella gravitò da me a
Deanna,
poi di nuovo si posò su di me e, infine, su Daryl. L'arciere
aveva assistito a tutto lo scambio, senza dire una parola, ma
ascoltando concentrato.
Maggie
sospirò. «L'idea non mi entusiasma, ma non posso
oppormi.
Questo posto è sicuro, ma va comunque difeso e serve gente
per
questo», spiegò Maggie, mentre il mio cuore
cominciava ad
accelerare. Maggie si voltò verso di me, guardandomi negli
occhi
e sorridendo. «Ognuno
di noi ha un compito», aggiunse ed era quello che ci diceva
sempre papà. Le sorrisi di rimando, sperando che potesse
vedere
il ringraziamento nei miei occhi.
Deanna sospirò. «E va bene», si
arrese. «Se per il signor Dixon non
è di disturbo».
Ci
voltammo tutte verso Daryl contemporaneamente, mentre lui si stringeva
nelle spalle, come se non desse importanza alla questione.
«Per il
signor Dixon non è un disturbo»,
rimbeccò l'arciere, con tono
annoiato. Il mio sorriso si allargò a dismisura: avrei
voluto
stringere sia Daryl che Maggie in un abbraccio soffocante, tutti e due
nello stesso momento.
Io e
Daryl ci recammo da Olivia per chiederle di dare un'occhiata
all'armeria,
dopo averle assicurato che disponevamo del benestare di Deanna. Mi
ritrovai assieme a Daryl di fronte a quel muro zeppo d'armi. Non ne
avevo mai viste così tante tutte assieme; quando avevo
visitato
Alexandria il primo giorno, avevo intravisto l'armeria solo
dall'esterno.
«Cos'hai usato fino a
questo momento?», domandò l'arciere.
Senza pensare, si toccò il mento con le dita, mentre
ispezionava
tutti quegli armamenti con fare interessato.
Provai a fare mente locale.
«Uhm, pistola e fucile d'assalto. E balestra»,
aggiunsi, rivolgendogli un sorrisetto.
«La
balestra non conta, hai fatto schifo quella volta»,
ghignò
Daryl, scansandosi prima che potessi colpirlo in qualche modo. «Ti sei trovata meglio con
la pistola o il fucile?».
«Pistola. Riesco a prendere
meglio la mira», risposi senza pensarci, sfiorandone una con
le dita. «Quale credi che sia
meglio?».
«Beh,
in teoria col fucile d'assalto hai più margine d'errore,
visto
che vengono esplosi più colpi, ma la pistola va benissimo.
Devi
allenare la mira. Ogni proiettile è importante».
«Pensi che ci siano armi
più adatte a me?», domandai, sentendomi
improvvisamente insicura di me stessa.
«Qualsiasi arma
è adatta se devi sopravvivere. Un fucile d'assalto, un
fucile a pompa, una carabina: non fa differenza»,
ribatté Daryl. «La
pistola è un buon punto di partenza. Quando avrai migliorato
la
mira e ci avrai preso la mano, maneggerai ogni arma con più
sicurezza e ti troverai bene anche con quelle più
impegnative», spiegò.
Non lo
avevo mai sentito parlare così tanto e in modo
così
appassionato. Era davvero bello, avere finalmente qualcosa di cui
discutere in modo tanto fluido. Aveva preso sul serio il suo ruolo di
"mentore" e ci teneva che mi sentissi tranquilla, rispetto le
mie
capacità, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Ero davvero
fortunata.
Nonostante
Daryl a volte si dimostrasse irruento e preda facile di attacchi d'ira,
quando insegnava qualcosa era la persona
più paziente e disponibile con cui avessi mai avuto
a che fare. Ne avevo già avuto
prova quella volta che aveva iniziato a insegnarmi a cacciare, e
lì ad Alexandria ne ebbi nuovamente conferma.
Passò le
successive tre settimane ad addestrarmi ogni volta che eravamo liberi
entrambi.
Mi
insegnò come migliorare la mira, usando una pistola
silenziata
simile a quella che aveva Carl. Avevamo un posto tutto nostro, un
piccolo spiazzo tra gli alberi, dove operare. Solitamente utilizzavamo
dei barattoli vuoti come bersagli: Daryl li posava su un tronco
d'albero tagliato ed io li dovevo colpire da varie distanze. Quando mi
sentii più sicura della mia mira, iniziai anche ad
esercitarmi
con i vaganti, che fungevano da bersagli mobili. In quel caso, per non
sprecare troppe munizioni, utilizzavo molto spesso la balestra di
Daryl. Non ero diventata brava come lui, ma almeno non aveva
più
pretesti per prendermi in giro. A Maggie non avevo detto nulla per non
farla preoccupare, io stessa non ero preoccupata: con Daryl mi sentivo
al sicuro. Mi sarei sempre sentita al sicuro. Avevo persino ampliato le
conoscenze base su come seguire le tracce,
sulla sopravvivenza e anche un po' di autodifesa se mi fossi trovata in
situazioni particolarmente ostili.
In quelle
settimane, sentii il mio
legame con Daryl rafforzarsi ancora di più. Era bello
passare
così tanto tempo in sua compagnia, uniti da un obiettivo
comune.
Lui non aveva iniziato ad essere più espansivo o affettuoso,
ma
riuscivo a capire che, finalmente, si sentiva a suo agio in mia
presenza. La sua postura era meno rigida, meno pronta alla ritirata in
caso di contatto fisico, e la sua espressione era rilassata. Qualche
volta ci era anche capitato di ridere assieme dopo un mio errore o una
battuta. Il suo viso cambiava totalmente, quando rideva: la prima volta
che lo fece me lo sognai persino la notte.
Anche le
prime lezioni sulla postura da tenere per migliorare la mira, le
sognai. Semplicemente perché, per farmi capire meglio
come dovevo posizionarmi, Daryl si era messo alle mie spalle. La sua
bocca era vicino al mio orecchio, il suo petto a pochi centimetri dalla
mia schiena: quella vicinanza mi scatenò istantaneamente dei
brividi per tutto il corpo. Aveva allungato le braccia accanto alle
mie, chiudendo le mani sull'arma che stavamo stringendo entrambi per
guidarmi alla posizione corretta.
«È
meglio se tieni le braccia così», mi aveva
istruita,
mentre io mi concentravo, invece, sul suo tono di voce: mi era sembrato
più basso e meno fermo del solito.
«O-Okay», avevo
balbettato, col suo respiro che mi solleticava l'orecchio.
Quando
era stato il momento di rispolverare la balestra, mi aveva aiutato a
sollevare meglio il gomito e a ruotare le spalle, posandomi
anche
le mani sui fianchi per sistemarmi la postura. Quegli avvicinamenti
erano stati così improvvisi che, per un momento, mi avevano
frastornata. Avevo sentito la pelle percorsa da piccole scosse di
elettricità, non riuscivo a stare ferma e calma, sapendolo
così vicino a me.
Non riuscii mai
a capire
se si accorse dell'effetto che mi fece averlo così vicino a
me.
Ad ogni modo,
il mio
addestramento si interruppe quando Daryl venne ingaggiato da Aaron per
una nuova missione di reclutamento. Me lo disse dopocena, due giorni
prima della sua partenza.
«Lunedì
parto», disse soltanto, avvicinandosi a me mentre stavo
cullando Judith per conciliarle il sonno, sul divano di Rick.
Mi voltai verso di lui e gli sorrisi.
«Va
bene», risposi a voce bassa, per non dar fastidio alla
piccola.
Lui mi osservò per qualche
momento, con le mani infilate nelle tasche e i suoi occhi blu che mi
scrutavano. Stava tentando di capire se ci fossi rimasta male? «Ho chiesto a Carol se
può allenarti lei, mentre io sono via», mi
informò, e notai una nota di apprensione nella sua voce
neutra.
«Carol ha già il
suo bel da fare, dovendo cucinare per mezza Alexandria»,
replicai, con voce ferma. «Non ti preoccupare Daryl,
aspetterò che torni», aggiunsi, addolcendo il
tono. Lo sguardo che gli rivolsi non riuscì a sostenerlo;
balbettò qualcosa e se ne uscì a fumare una
sigaretta, senza aggiungere altro.
Sorrisi tra me e me, riportando
l'attenzione su Judith, ancora stretta, in dormiveglia, tra le mie
braccia. Facendo attenzione a non sballottarla troppo, mi alzai in
piedi e salii le scale, per riporla nel suo box. La appoggiai con
delicatezza sul lettino e le rimboccai le coperte, chinandomi per darle
un bacio sulla sua testolina bionda. Salutai la mia famiglia e tornai a
casa con un'idea che mi ronzava in testa.
Il giorno dopo, l'ultimo prima della
partenza di Daryl, avrei dovuto fare addestramento di mattina. Pensai,
quindi, che sarebbe stata una bella idea fare
colazione insieme nel bosco. Preparai dei pancake, usando la
ricetta che mi aveva insegnato mia madre tanto tempo fa. Me li faceva
trovare nel piatto la mattina, per colazione, ma io ero sempre in
ritardo per la scuola e li trangugiavo mentre correvo verso l'autobus.
Sorrisi al ricordo, poi mi domandai se qualcuno avesse mai preparato
qualcosa di simile per Daryl. Poco importava: lo avrei fatto io, adesso.
La mattina successiva mi presentai
davanti ai cancelli di Alexandria con i pancake ben conservati in un
contenitore. Nessuno aveva trovato dello sciroppo d'acero da mettere
nella dispensa comune, quindi mi ero arrangiata portandomi dietro del
burro d'arachidi e la marmellata della signora Abbot. Nel
thermos che avevo riposto nello zaino, vi era del tè che
sarebbe servito a scaldarci. Infatti, quando ci allenavamo di mattina,
Daryl preferiva sempre uscire poco prima che sorgesse il sole. Faceva
freddo, ma le albe a cui avevo assistito in quelle settimane
difficilmente me le sarei dimenticate.
«Cos'hai
lì dentro?», mi domandò Daryl, una
volta usciti dalle mura, alludendo a ciò che tenevo stretto
tra le mani.
«Qualcosa
di
buono», risposi, scoccandogli un sorrisetto furbo.
«Vuoi
forse
avvelenarmi?», chiese, ghignando e sistemandosi meglio la
balestra in spalla.
Alzai gli occhi
al
cielo. «Mi hai beccata», sbuffai,
fingendomi infastidita.
Raggiungemmo il
nostro
solito posto, sedendoci su un tronco per consumare la nostra colazione.
Appoggiai il contenitore ed il thermos nello spazio tra noi, posandoli
sopra un tovagliolo. L'aria era ancora freddo, ma il sole stava
già iniziando a sorgere, rischiarando tutto il resto.
C'eravamo solo io, Daryl e la quiete tutta intorno a noi. Aprii il
contenitore e allungai a Daryl il coltello per spalmare i pancake,
lasciando che fosse il primo ad assaggiarli.
Mentre divorava
il primo,
osservai estasiata la sua solita eleganza, sforzandomi di non ridere.
Quando lo finì, si leccò le dita sulle quali era
rimasto del burro d'arachidi. Si accorse che lo stavo osservando.
«Cosa?»,
bofonchiò, ingoiando l'ultimo boccone.
Ridacchiai,
prendendo il
mio pancake e scuotendo la testa. «È sempre una
soddisfazione cucinare per te».
Rimanemmo in
silenzio a
gustarci la colazione, osservando il nuovo giorno nascere. Sarei
rimasta così per sempre, con Daryl, in quel bosco, a godere
della bellezza dell'alba.
Lo osservai mentre beveva il tè: avevo una cosa da dirgli,
prima che andasse via. Anche se non sapevo come avrebbe reagito, dentro
di me coltivavo la speranza che non si sarebbe opposto troppo duramente.
«Daryl»,
chiamai la sua attenzione.
Lui si
voltò
verso di me. «Mh?».
Feci un respiro
profondo
prima di parlare. «Partirò anche io, tra una
decina di giorni», confessai, tenendo lo sguardo fermo nel
suo.
Se fossimo
stati ai tempi
della fattoria o della prigione, quando ancora non lo conoscevo
così bene, non avrei notato l'irrigidirsi delle sue spalle.
Fu un cambiamento quasi impercettibile, ma io lo notai subito. I suoi
occhi mi guardavano, illeggibili. «Sì?».
Annuii,
abbassando lo
sguardo sulla terra bagnata ai miei piedi. «È solo
una di quelle spedizioni che finiscono in giornata. Parto col gruppo di
Glenn, è riuscito a convincere Maggie e Deanna a darmi una
possibilità».
Lui rimase in
silenzio
qualche istante. «Ci sono anche quegli idioti di Nicholas e
Aiden. Era la loro squadra, o sbaglio?».
Cazzo. Speravo
che non se
lo ricordasse. «Sì, ma--».
«Stai
attenta.
Quei due non sono affidabili», disse l'arciere, sistemando il
thermos nella sua sacca e raccogliendo ciò che avevamo usato
per la colazione. Sembrava che non volesse approfondire l'argomento; e
non capivo quanto c'entrasse Aiden di per sé, o il fatto che
già una volta Daryl avesse quasi fatto a botte con Nicholas
o se fosse semplicemente preoccupato per la loro inadeguatezza durante
le spedizioni. Glenn non ne aveva mai parlato bene e temeva che quei
due potessero mettere in pericolo sé stessi e l'intera
squadra. Rimasi in silenzio, senza sapere bene cosa rispondere. Certo
che sarei stata attenta.
«Hai
paura?».
Mi voltai verso Daryl e notai che mi stava fissando, col capo
inclinato, provando a capire cosa mi stesse passando per la testa.
Raddrizzai le spalle e sbuffai. «Certo che no!».
Lui
abbozzò un
sorriso, trasmettendomi coraggio e sicurezza in me stessa con la sola
forza del suo sguardo. «Ne ero sicuro»,
ribatté, e il mio cuore accelerò il suo
battito.
Dopo quelle
settimane
scandite dalla presenza costante di Daryl nelle mie giornate, fu ancora
più difficile guardarlo andare via. Come l'altra volta, non
ci dicemmo addio, odiando entrambi quella parola. Lo accompagnai
semplicemente ai cancelli, la mattina in cui partì; ci
scambiammo un lungo sguardo e poche parole. Ci trovai della
preoccupazione, nel fondo delle sue iridi cobalto e sapevo che aveva a
che fare con la mia spedizione, anche se Daryl non aveva più
detto niente a riguardo.
«Continua
ad
allenarti», fu l'unica raccomandazione che mi rivolse, prima
di andarsene.
«Quando
tornerai, sarò talmente brava che non avrò
più bisogno di te», risposi, sorridendogli. Lui
sorrise di rimando e si voltò, raggiungendo Aaron fuori
dalle mura.
Avrei voluto
abbracciarlo,
ma mi trattenni: avrei conservato quell'abbraccio per il suo
ritorno. Doveva tornare, ed ero sicura che l'avrebbe fatto. Ci
saremmo rivisti, saremmo andati entrambi in missione e saremmo tornati
a
casa, sani e salvi.
Ero sicurissima
che sarei
partita per la spedizione, finché, la mattina prima della
partenza, non mi svegliai con febbre, male alle ossa e gola
che bruciava. Imprecai tra me e me, mentre mi trascinavo al piano di
sotto per indossare la giacca più pesante che avevo e mi
recai da mia sorella - che, finalmente, si era trasferita in una casa
tutta sua assieme a Glenn - per dirle di avvisare suo marito e Deanna:
non sarei potuta partire per la missione.
Ero furiosa col mio maledetto sistema immunitario, specialmente
perché non sapevo quando mi sarebbe capitato di ricevere di
nuovo il permesso di uscire con una delle squadre di
spedizione.
«Lo
vedi che il
tuo posto è qui?», mi prese in giro mia sorella,
mentre mi preparava un infuso caldo. Io, avviluppata in una coperta e
priva di forze, la mandai a quel paese dal suo divano. Maggie, infatti,
aveva insistito affinché rimanessi da lei, così
si sarebbe potuta prendere cura di me.
«Hanno
trovato
qualcuno che mi sostituisca?», domandai, senza nascondere il
malumore.
Lei si sedette
sul
tavolino di fronte al divano e mi allungò la tazza.
«Noah si è offerto di prendere il tuo posto», mi
informò.
Mandai giù la prima
sorsata
dell'infuso. «Se stasera lo vedi per cena, puoi chiedergli di
passarmi a salutare domani mattina?», domandai, continuando a
bere.
«Stasera
restiamo con te, ma tranquilla, glielo dirà Glenn domani
mattina», disse Maggie, accarezzandomi la nuca in un gesto
affettuoso; io annuii, senza aggiungere altro. Era da moltissimo tempo
che non mi ammalavo in quel modo; persino quando c'era stata quella
terribile influenza alla prigione, ero riuscita a rimanere immune.
Sospirai, arrendendomi ai fatti e mi accoccolai su me stessa, vinta
dalla spossatezza.
¨¨¨
Anche l'impensabile, alla fine, accadde.
In
quei mesi che avevo passato ad Alexandria avevo cambiato
atteggiamento nei confronti della nostra quotidianità: ero
più
tranquilla, guardavo a tutto come se il pericolo non fosse
più
l'elemento principale delle nostre vite. Certo, ero preoccupata
comunque per la sorte della mia famiglia, ma ogni giorno mi alzavo
con la certezza che fossero al sicuro, dietro le alte mura che
proteggevano la città. E anche quando uscivano per cercare
rifornimenti, avevo troppa fiducia nelle loro capacità di
sopravvivenza, per preoccuparmi più del dovuto.
Non avevo perso
consapevolezza del pericolo, avevo semplicemente cercato di essere
ottimista. Mi ero adagiata, avevo abbassato appena la guardia, e quello
fu l'errore più grande che potessi fare.
Lo capii quando
Glenn
tornò dalla missione alla quale avrei dovuto partecipare
anche io.
Al mio secondo
giorno di
influenza, non ero ancora abbastanza forte per uscire fuori di casa, ma
lo ero abbastanza per andare in cucina a prendermi un bicchiere
d'acqua. Avevo mandato giù il primo sorso, quando sentii la
porta di casa aprirsi. Mi recai all'ingresso lentamente, per vedere di
chi si trattasse.
Entrò
Glenn,
con i vestiti sporchi, il volto emaciato e lucido di sudore. Non lo
avevo mai visto così. Gli andai incontro,
preoccupata: quando gli fui più vicina, notai che aveva le
mani imbrattate di sangue.
«Oh
mio Dio,
Glenn, le tue mani!», esclamai, reggendo il bicchiere in una
mano e afferrandogliene una con l'altra, per controllare che non fosse
stato ferito o morso. Non appena toccai la sua pelle, mi accorsi che
stava tremando.
Lo guardai in
faccia,
incontrando la sua espressione
sconvolta. «Cos'è
successo?», domandai, l'ansia che si stava espandendo in ogni
parte di me. Alle mie spalle udii Maggie scendere le scale.
«Cosa
diavolo
è successo?», quasi urlò Maggie,
allarmata.
Lo sguardo di
Glenn
gravitò da me a lei, poi tornò a me. I suoi occhi
si riempirono di lacrime, mentre mi guardava con l'espressione
stralunata, frastornata, confusa. Dispiegò le labbra e
cercò di parlare, ma era talmente sconvolto che non
uscì alcun suono.
Maggie mi
spinse
gentilmente da un lato per prendere il viso di suo marito tra le mani.
«Glenn, guardami», gli ordinò. Tremava
anche lei.
Per qualche
motivo,
respirare iniziò a diventare difficile. C'era qualcosa che
non andava. Qualcosa di tremendamente sbagliato, che mi
gravò sul petto tutto in una volta. Ma cosa?
«Glenn,
dimmi
cos'è successo», disse ancora mia sorella, la voce
rotta.
Glenn le prese
le mani con
le sue, imbrattate di sangue, e le abbassò, per potersi
voltare nella mia direzione. Il suo sguardo perforò il mio
con una disperazione straziante. Lasciò le mani di Maggie e,
con un'ampia falcata, si parò di fronte a me.
Prima che
potessi parlare,
respirare o tapparmi le orecchie, mi strinse forte a sé.
«Mi dispiace Beth, mi dispiace tanto»,
sussurrò, la voce rotta dal dolore.
La mia mano
lasciò andare il bicchiere, che cadde sul pavimento e si
frantumò in mille pezzi, assieme a una parte di me.
«Noah-»,
proferì, ma non gli lasciai completare la frase.
Sentii
le mie braccia allontanarmi dal corpo di Glenn, le gambe cedermi e le
mie ginocchia sostenere il peso del mio corpo;
udii l'urlo straziante e le lacrime bruciarmi sulle guance; vidi
Maggie afferrarmi le spalle e sostenermi come se fossi un pezzo di
materia inanimata. Vidi tutto, come se guardassi me stessa dal di fuori
del mio stesso corpo. Non
era vero, non poteva esserlo.
Noah
è morto.
|
Angolo autrice |
Eeee
iniziamo con le parti deprimenti, sigh.
Lo so che, essendo una fanfiction, una what if, avrei potuto decidere
di salvare Noah, ma... No. Ho preferito che Beth vivesse questo dolore,
in questo contesto. Perché capisse che non sempre tutto va
bene come si pensa. Vi posso già dire che si
sentirà in colpa, perché al posto di Noah ci
doveva essere lei e, beh, non la prenderà bene. Ma ne
parleremo al prossimo capitolo.
Non so quanto a voi piaccia Noah (a me piace, non è uno dei
miei personaggi preferiti ma lo apprezzo!), ma spero che la parte
triste sia stata ben compensata dalla luuunga parte pucciosa prima.
Dato che nel capitolo 6 Daryl non si è praticamente visto,
ho voluto rimediare a questo giro ;) spero che le parti
fluffose e sdolcinate vi siano piaciute! Ci volevano, dopo quel dannato
finale di stagione. AAARGH, le sofferenze.
Ad
ogni modo, niente, il capitolo è questo! Nonostante non sia
successo nulla di che, mi ha divertito scriverlo, soprattutto
perché è mooolto incentrato sui nostri
piccioncini!
Ho fatto uno schizzo della parte in cui Beth e Daryl giocano con
Judith, attenzione, rischio diabete:
Ultima cosa! Sto traducendo
una fanfiction molto conosciuta nel fandom Bethyl anglofono, 18 Miles Out!
Se vi va di darci una letta, la sto pubblicando in questo account:
http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=933022! (La aggiorno ogni
venerdì!)
E niente, per oggi mi fermo qui perché mi si stanno
incrociando gli occhi davanti allo schermo.
Grazie per le vostre letture, recensioni, seguite, preferite :)
significa molto per me!
Un abbraccio, alla prossima!
Blakie
Rimasi
letteralmente paralizzata dal senso di colpa e dal dolore. Il tempo
aveva smesso di avere un senso. Mi raggomitolai sul divano, guardando
il vuoto, chiudendo il mondo fuori. Glenn e Maggie parlavano, ma la
loro voce era lontanissima, mentre gli unici pensieri che ero in grado
di produrre si rincorrevano in circolo nella mia testa. Noah è morto.
Noah non c'è più.
Noah se n'è andato.
È stata colpa mia.
Se non mi avesse sostituito sarebbe ancora vivo.
L'ho ucciso.
Riuscivo a darmi la colpa nonostante
Glenn mi avesse detto chiaramente che Noah era morto perché
Nicholas aveva fatto il codardo. I miei occhi erano fissi sul suo
volto, mentre mi metteva al corrente dell'accaduto, ma non vedevo
nulla. Ero spenta. Sarei dovuta uscire da quella
porta e avventarmi su Nicholas, prenderlo a pugni finché non
mi
fossi ritenuta soddisfatta, ma la rabbia che montava dentro di me non
bruciava che per me stessa. Il rimorso mi aveva serrato le
viscere in un nodo indissolubile. Non riuscivo a parlare, a piangere, a
mangiare. La febbre mi si alzò un paio di volte,
nell'insieme di
quelle ore senza logica: furono gli unici momenti in cui riuscii a
dormire un po'. Ma il sollievo e quel poco di pace provati mentre ero
incosciente mi abbandonavano non appena riaprivo gli occhi nella vita
reale. Quel nodo doloroso non si scioglieva.
«Beth,
se domani stai meglio,
organizziamo una commemorazione per Noah ed Aiden», mi
informò ad un certo punto Maggie. Era piegata sulle
ginocchia,
di fronte a me - ancora abbandonata sul divano - e mi accarezzava il
viso con dolcezza.
La mia unica risposta fu un cenno
debolissimo del capo. Maggie sospirò e si alzò,
lasciandomi sola. Un funerale simbolico, perché Glenn e gli
altri non erano riusciti a recuperare i corpi di Noah e Aiden,
sbrindellati dai vaganti.
Arrivò il momento della
funzione. Mia sorella mi aiutò ad alzarmi dal divano, a
darmi
una rinfrescata e a vestirmi. Mi trascinò sottobraccio fino
al
piccolo cimitero collocato vicino alle mura, dove i nomi dei miei amici
scomparsi erano già stati aggiunti a quel memoriale di
acciaio.
La gente di Alexandria era riunita attorno a due croci che erano
piantate su due fosse vuote. Io ero circondata dalla mia famiglia, di
cui avvertivo gli sguardi preoccupati tutti su di me.
La mia
attenzione, però, era rivolta alla parte opposta
alla mia. Osservai
Deanna, devastata, accasciata contro Reg. Lo sguardo dell'uomo era
colmo di
dolore gravitava dalla croce di Aiden a quella di Noah. Il pensiero di
quanto lui e il mio migliore amico si fossero avvicinati in quei mesi,
per rendere Alexandria ancora più sicura, mi fece tremare il
cuore. Reg aveva perso due figli, non uno solo.
Accanto a Spencer che, come me, piangeva la perdita di
un fratello, si trovava Nicholas. Se il mio sguardo fosse stato in
grado di ucciderlo, quel bastardo si sarebbe accasciato al suolo in
quel momento. Vederlo di persona fece esplodere l'odio che, fino a quel
momento, avevo rivolto solo a me stessa. Incrociò la mia
occhiata torva, abbassando lo sguardo immediatamente, come il verme che
era.
Tornai a fissare la croce di Noah,
mentre la predica di padre Padre Gabriel era l'unico sottofondo a quel
silenzio. Mi sfiorò il debole pensiero di dire qualcosa a
Deanna, dirle che mi dispiaceva, ma non ne avevo la forza. Come potevo
confortarla, se io per prima ero distrutta?
Quando il funerale terminò, mi diressi a casa mia, tra le deboli
proteste di mia sorella. Quando
entrai non mi tolsi nemmeno il vestito;
ignorai Maggie, che mi aveva accompagnata, e mi trascinai su per le
scale, infilandomi sotto le coperte, a luci spente e chiudendo il
mondo fuori. Provò a convincermi a scendere, a mangiare
qualcosa, a
stare in compagnia con la nostra famiglia: non ne volli
sapere.
Non era difficile immaginare perché fosse così
preoccupata per me
e perché non
volesse lasciarmi da sola: temeva che ricadessi nello stato catatonico
che mi aveva colpita quando la mamma era uscita dal fienile come
vagante. Temeva
che volessi di nuovo farla finita.
Beh, si sbagliava. Il rimorso era
talmente opprimente che non avrei mai trovato la forza di suicidarmi:
sarebbe stato come mancare di rispetto a Noah, che era morto per
colpa mia. Sarebbe stato troppo facile rinunciare a tutto e liberarmi
di quel dolore: dovevo sopravvivere e trascinarmi dietro quello
sbaglio – e la sofferenza che ne conseguiva – per
tutta una vita,
perché era quello che mi meritavo.
Dentro di me, molto in profondità, sapevo che prima o poi
sarei
riuscita a rialzarmi, a scrollarmi di dosso quella apatia, ad
affrontare il mio dolore e i miei rimorsi. Ma era ancora troppo presto
per riuscire a reagire.
Nascondermi sotto le coperte, al buio, mi riempì di
sollievo.
Lì non dovevo fingere di poter sopportare tutto quello, non
dovevo confessare quanto in colpa mi sentissi, non dovevo sostenere e
affrontare lo
sguardo angosciato di chi mi voleva bene. Potevo elaborare la cosa, o
almeno provarci, a modo mio.
Le ore ripresero a dilatarsi in maniera sconnessa e lenta. Quando, non
so quanto tempo dopo, scesi per bere un bicchiere d'acqua, trovai la
cucina immersa nella penombra fredda del tramonto. Il piano di
sotto era deserto e silenzioso: Maggie se n'era andata, e ne fui
sollevata. Non aveva senso che restasse lì e io
volevo stare da sola.
Portai con me una bottiglia d'acqua, mi imposi di indossare qualcosa di
comodo e mi rintanai nuovamente sotto le coperte, persa nell'oblio
della mia mente. Mi addormentai a più riprese, il mio sonno
disturbato dall'incubo di Noah divorato in modi diversi. Quando non ero
incosciente, tenevo gli occhi fissi su un punto imprecisato davanti a
me, o li chiudevo, senza riposare.
Molte ore dopo, Maggie bussò appena prima di entrare in
camera mia,
chiedendomi con dolcezza se volessi fare colazione. Aprii gli occhi e
li fissai sulla finestra che, con gli scuri semi accostati, faceva
filtrare la luce del mattino. Un'altra notte era passata.
«Ehi, Bethy», mi chiamò,
sedendosi sul bordo della parte di materasso in cui mi ero
rannicchiata. Non risposi.
Mia sorella sospirò,
prendendo ad accarezzarmi la nuca con fare materno. «Beth, tesoro, parlami. Non
tenerti tutto dentro. Io sono qui, per te, siamo tutti qui per te, lo
sai questo?»,
domandò in un mormorio, guardandomi con lo sguardo pieno di
tristezza.
La
guardai, senza muovermi di un centimetro. Mi sforzai in ogni modo di
trovare la forza di parlare: non per raccontarle come mi sentivo, ma
semplicemente per assicurarle che non doveva preoccuparsi, che mi
sarebbe passata...
Ma non ci riuscii. Non mi
sentivo in grado di parlare, ma forse potevo trovare ugualmente un modo
per risponderle, per farle capire che la sentivo e che avevo capito.
Con lo
sguardo ancora legato al suo, annuii. Le sue labbra si
piegarono in un sorriso appena accennato, ma gli occhi erano pieni di
sollievo. Mi accarezzò nuovamente, fermandosi poi con il
palmo
contro la mia guancia. Mi studiò per qualche istante, in
silenzio.
«Beth, tu... non
è come alla fattoria, vero?», mi chiese, cercando di
non sembrare troppo in ansia.
Il mio sguardo,
senza che potessi controllarlo, corse al mio polso
sinistro, che riposava sul cuscino: osservai la cicatrice rosea e
chiarissima che era rimasta,
là dove avevo usato un frammento di specchio per tentare
farla
finita. Scossi il capo, continuando a fissare la linea che mi segnava
la pelle.
«Vuoi che rimanga al piano di sotto,
così se hai bisogno sono più
vicina?». Mia
sorella aveva capito che riuscivo a comunicare solo tramite domande
alle quali potevo annuire o negare, senza aprire bocca.
Scossi nuovamente il capo.
Lei si chinò verso di me,
lasciandomi un bacio sulla tempia. «Quando
vorrai parlarne, sai dove trovarmi», mi ricordò
con
dolcezza, alzandosi e allontanandosi da me. Aprì la porta e
mi
osservò per qualche istante, prima di andarsene.
Sperai che rispettasse davvero il mio
volere e che mi lasciasse sola. Non avevo bisogno d'altro. Dovevo
capire come superare quel vuoto che sentivo, come convivere con il
senso di colpa. Il dolore che mi portavo dentro era immenso, eppure non
riuscivo nemmeno a sfogarlo con un pianto o qualche reazione che mi
rimettesse finalmente in connessione col mondo esterno.
Per quell'aspetto, quello che stavo
passando era simile all'apatia che mi aveva costretta sul mio vecchio
letto, dopo la fine di mia madre. Questa volta, però, avevo
altri motivi
per vivere. Il primo fra tutti era proprio Noah. Sarei stata
un'ingrata a farla finita dopo che lui era morto per
avermi sostituita. Mi sarei rialzata e avrei difeso casa nostra,
onorando la sua memoria. Dovevo solo capire come fare. Come smettere di
incolparmi per la morte del mio migliore amico, come affrontare il
dolore.
Riuscii a dormire un paio d'ore nel
pomeriggio, andai in bagno e bevvi
un po' d'acqua per mantenermi idratata. Era più facile fare
certe cose, se nessuno mi guardava. Non mi sentivo ancora pronta ad
affrontare la mia famiglia, non volevo che si concentrassero tutti su
di me. Non mi sentivo pronta a condividere il mio dolore con loro.
Nell'intimità e nella solitudine di casa mia, invece, mi
sentivo
più libera. "Riposare" così tanto, inoltre, mi
aveva
fatto passare del tutto l'influenza. Un altro giorno
trascorse,
finché la luce fuori dalla finestra non lasciò
spazio ai
colori della sera.
Mi ero appena rimessa a letto dopo aver mangiato un po' della frutta
secca che tenevo in cucina, quando sentii dei rumori provenire dal
piano di sotto: qualcuno stava bussando. Chiunque fosse, sperai
ardentemente che desistette e se ne andasse. Quando iniziai a ragionare
su chi potesse essere, sentii la porta aprirsi e richiudersi.
Solitamente la chiudevo a chiave, ma, pensa com'ero, mi era
proprio passato di mente.
Forse Maggie, passando di lì per qualche ragione, mi aveva
vista in cucina. Magari aveva pensato che mi sentissi meglio, se avevo
trovato la forza di alzarmi e mangiare. Non mi venne in mente nessun
altro. Avvertii una specie di rabbia montarmi da dentro, pensando
all'eventualità che mia sorella non avesse tenuto in
considerazione ciò
che le avevo detto. Non volevo parlare, non stavo meglio: che diavolo
ci faceva in casa mia?
Sentii dei passi salire le scale: quel suono fu talmente angosciante,
nel buio della mia camera che, per un secondo, venni sopraffatta dalla
paura che potesse essere qualcuno con cattive intenzioni. Allungai una
mano verso il coltello che, riposto nella sua fodera, troneggiava sul
mio comodino: lo afferrai e lo nascosi sotto il cuscino, spinta da
un'irrazionale paura.
Quando udii bussare anche sulla porta di camera mia, mi tranquillizzai:
se fosse stato un malintenzionato, sarebbe entrato senza troppe
cerimonie. Sospirai, sollevata, prima che il senso di fastidio
tornasse
alla carica.
«Vattene, Maggie»,
sbottai, con una voce che non sembrava nemmeno la mia.
Tutto quel tempo
passato nel mutismo aveva reso le mie corde vocali stanche. Il suono
uscito dalle mie labbra risultò flebile e leggermente
roco.
Subito non ricevetti risposta.
Notai solo il fascio di luce che proveniva dal vano della porta e che
aveva appena rischiarato le ombre nella mia stanza. Poco dopo,
tornò la penombra e udii la porta chiudersi piano. Alzai la
testa dal cuscino, per allungare il collo oltre la coperta e accertarmi
se Maggie se ne fosse andata.
Riconobbi i suoi tratti anche nella semi-oscurità ed ebbi un
tuffo al cuore: Daryl mi
osservava, muto, in piedi vicino alla porta che aveva appena
chiuso.
«Sono io», rispose in tono basso, dicendo
l'ovvio.
Posai
nuovamente la
testa sul cuscino e mi tirai la coperta fin sopra i
capelli. All'improvviso, venni travolta dal panico: che cosa
ci faceva
lì? Non volevo
che mi vedesse in quelle condizioni, che mi guardasse, che mi parlasse.
Mi vergognavo troppo di me stessa.
Ero una ragazzina debole, come mi aveva sempre considerata lui; non
volevo
dargliene l'ennesima prova. Sarebbe stata un'umiliazione, farmi vedere
in quello stato. Udii i suoi passi leggeri aggirare il mio letto e
raggiungermi dal mio lato; sentivo la sua presenza al mio capezzale,
nonostante ci fosse la coperta a dividermi da Daryl e il mondo esterno,
come una barriera.
«Beth», mi chiamò, con la voce
ferma e grave. Mi raggomitolai
ancora di più su me stessa, e Daryl notò il mio
movimento, perché, a quel punto, la sua voce mi
arrivò più vicina. «Guardami, Beth», ritentò, e lo sentii
afferrare il lembo di coperta sopra la mia testa.
«No», mormorai,
schiacciando il mento contro il petto e coprendomi il volto con le mani
nello stesso momento in cui lui mi riportava la coperta sopra le
spalle.
Il vuoto dentro di me era talmente
grande che non riuscii
nemmeno a rendermi conto che Daryl era tornato dalla sua spedizione e
che stava bene. Non provavo niente, niente che non fosse
vergogna.
«Vai via, Daryl», sussurrai, senza forze, il viso
ancora nascosto tra le
mie dita.
«Puoi scordartelo, ragazzina»,
replicò, con voce un po'
più alta.
Forse sperava di suscitare la mia
stizza, chiamandomi
in quel modo. Credeva che sarebbe riuscito a farmi reagire, ma alla
fine fu come se non avesse aperto bocca. Forse potevo fare lo stesso
con lui. Se lo avessi fatto arrabbiare, probabilmente se ne
sarebbe andato e mi avrebbe lasciata stare. Dovevo sforzarmi di
rispondergli male.
Aggrottai le sopracciglia e mi
scoprii il volto, provando ad affilare
lo sguardo come meglio potevo. «Non ho intenzione di suicidarmi,
se è questo che temi anche tu. Chiaro? Perciò
vattene, ora, e lasciami in pace», sputai flebilmente, guardandolo
negli occhi.
Daryl non batté ciglio,
né si scompose. Si era seduto alla
mia altezza, con la schiena contro il muro dietro di noi, un ginocchio
alzato per
sostenersi il braccio e il volto verso di me. Continuò a
fissarmi coi suoi occhi illeggibili, che riuscivano ugualmente a
risaltare nell'oscurità.
Mi aspettai che si incazzasse, che mi insultasse, che se ne andasse,
invece non fece nulla. Il suo sguardo che scavava nel mio mi
spaventava a morte. Stava abbattendo ogni barriera che avevo alzato tra
me e il resto, mi rendeva nuda e vulnerabile. Eppure, non riuscivo a
guardare da un'altra parte.
«Vai via, Daryl. Vai via». Questa volta, dalle mie labbra,
uscì una supplica. Avvertii un
nodo chiudermi la gola; gli occhi, ancora fissi nei suoi, si
inumidirono.
Eccolo, il dolore che non ero
ancora riuscita ad esternare. Mi si aprì
nel petto tutto in una volta, espandendosi in ogni mia cellula,
scacciando il vuoto e facendomi sentire
tutto. E tutto questo perché c'era Daryl, a vegliare su di
me.
«D-Daryl»,
tentai ancora, ma il suo nome si spezzò in gola e si
trasformò in un singhiozzo disperato. Il primo di
tanti.
Fece scivolare una mano sul
materasso, lentamente, prendendo la mia.
Sussultai, guardando prima le nostre mani intrecciate, poi
lui.
Era lì, con me. Per me.
Fu quella, la consapevolezza che mi fece
crollare.
Come mille
altre volte, in sua presenza, mi sentii al sicuro. Protetta. Potevo
finalmente piangere, affrontare il dolore, combattere il rimorso, se
c'era lui al mio fianco.
Il baratro in
cui avevo rischiato di cadere... riuscivo finalmente a vederlo: era
lì, a pochi passi da me, ma la mano salda di Daryl era
stretta
alla mia, per impedirmi di scivolarci dentro. Mi raggomitolai ancora di
più, aggrappandomi alla sua mano con le mie, premendo la
fronte
contro il nostro groviglio di mani.
Scoppiai a piangere,
con un singhiozzo che provocò una fitta dolorosa al petto.
Fu
straziante e liberatorio, in
egual misura, sentire finalmente le lacrime bruciarmi sulle guance e
bagnare il cuscino, i sussulti scuotermi il petto, la sofferenza
scivolare in parte fuori da me e divenire più sostenibile,
dentro al
mio cuore. Daryl mi aveva salvata, ancora una volta. Era incredibile il
fatto che non fossi riuscita ad aprirmi con mia sorella,
così
dolce e materna, ma ci riuscii con Daryl, che non era certo maestro di
tatto. Forse, fu
proprio la sua solidità a darmi la forza di sfogarmi,
finalmente. Con lui non dovevo preoccuparmi di ricevere compassione o
pietà: avrebbe compreso il mio dolore, mi sarebbe stato
vicino,
ma senza soffocarmi.
Non disse una
parola, continuò solo a tenermi la mano, senza allentare mai
la
presa. Quella crisi di pianto mi aveva totalmente stravolta: piansi
per ore, finché non crollai, esausta, ancora aggrappata
alla mano di Daryl. Col petto finalmente libero da quello strazio che
mi aveva tormentata per giorni, riuscii a dormire
profondamente.
Mi risvegliai supina, un paio d'ore dopo. Superato l'annebbiamento
iniziale, spalancai gli occhi e mi rizzai a sedere, allarmata. Mi
guardai attorno, ritrovandomi immersa nel buio soffocante della mia
camera. Abbassai lo sguardo sulla mia mano destra, libera
dalla
stretta di Daryl. L'uomo non era più al mio fianco, seduto
per
terra accanto al mio letto.
Confusa, spostai lo sguardo alla finestra: là fuori era
ancora
buio, probabilmente
era notte fonda. In
effetti, Daryl era arrivato a casa mia piuttosto presto, non
più
tardi delle sette, otto di sera... Guardando meglio, però,
notai
che il vetro era aperto. Mi domandai come non riuscii ad accorgermene
prima, visto che entrava l'aria fredda della notte.
Rabbrividii e mi alzai, avvicinandomi alla finestra. Scorsi la sagoma
di
Daryl, bellamente accomodato su quella porzione di tetto e mi sentii
subito sollevata: non se n'era andato. Prima che si accorgesse
che
mi ero svegliata, decisi di andare in bagno per darmi una rinfrescata
al viso. Mi sentivo gli occhi pesti, secchi e l'acqua fredda in faccia
non mi avrebbe fatto che bene.
Quando uscii, mi avvolsi
nel plaid che tenevo sulla testiera del letto e mi affacciai alla
finestra.
Eravamo circondati dal silenzio della notte e,
nonostante la situazione, essere lì assieme a Daryl mi
faceva
sentire più serena. Almeno un po'.
Mi schiarii la voce, sperando che non uscisse troppo impastata. «Cosa
ci fai qua fuori?», gli domandai in un sussurro, per non
rovinare
quell'atmosfera.
Lui non
sobbalzò, né si voltò, anche se di
sicuro mi aveva
sentita. Rimase semplicemente a fissare il vuoto davanti a
sé,
mentre io attendevo con ansia che volgesse la sua attenzione a me. A
dirla tutta, mi
intimidiva incontrare il suo sguardo, ora che ero
più
lucida: mi aveva vista crollare e ci eravamo tenuti per mano, a lungo.
Non sapevo cosa pensasse di tutta quella storia e mi intimoriva l'idea
di scoprirlo. Di nuovo quella irrazionale paura di non essere
abbastanza forte ai suoi occhi.
Si voltò lentamente verso di me e si
strinse nelle spalle. «Avevo
il culo piazzato sul tuo pavimento da qualcosa come quattro ore. Dovevo
sgranchirmi».
Mi scappò un
sorriso, senza che potessi farci nulla, e la cosa mi sorprese: era la
prima volta, da quando avevo perso il mio migliore amico, che mi veniva
spontaneo sorridere. Era sincero, inaspettato e non serviva certo a
rassicurare la persona con cui stavo parlando. Senti il cuore
accelerare il suo battito, sempre più meravigliata da quello
che
Daryl era in grado di fare per me, senza nemmeno rendersene conto.
Facendo
attenzione, scavalcai il davanzale, sistemando meglio la coperta in
modo che non mi fosse di intralcio, e strisciai lentamente affianco a
lui. Mi resi subito conto che il tetto, in quel punto, era abbastanza
piano; sarebbe stato possibile scivolare di sotto solo se l'avessi
voluto.
«Vai dentro,
se hai freddo», mi redarguì Daryl, continuando
a guardare un punto imprecisato davanti a sé.
«No, sto bene», lo
rassicurai, stringendo di più la coperta attorno al mio
corpo.
Rimanemmo in
silenzio per un po',
immersi nel buio e nella frescura notturna. Daryl finì di
fumare
la sua sigaretta e la lanciò nel vuoto, con un rapido
movimento
del braccio. Io continuavo a stare in silenzio, a capo chino, persa nei
miei pensieri. Per la prima volta, dopo giorni, riuscii a pensare a
qualcosa di diverso dai miei sensi di colpa, dalla mia sofferenza e da
Noah. Mi stavo domandando perché Daryl fosse rimasto e non
se ne
fosse semplicemente andato una volta accertatosi che mi ero
addormentata.
Avrei voluto chiederglielo, ma non volevo tirare fuori un argomento
che, di sicuro, lo avrebbe messo a disagio. Qualsiasi fosse stata la
sua motivazione, sapevo che difficilmente ne sarei stata messa al
corrente.
La cosa più sorprendente, in realtà, fu
l'incredibile e
improvviso bisogno di parlargli di come mi sentivo. Uno strano
formicolio mi corse lungo le braccia e le mani, mentre avvertivo dentro
di me una strana agitazione. Non potevo più tacere a
riguardo, o
sarei crollata. Inoltre, mi sentivo in dovere di giustificare il mio
comportamento degli ultimi tre giorni: volevo fargli capire che i miei
non erano i capricci di una ragazzina incapace di accettare che
esiste anche la morte.
Il mio era il dolore paralizzante di chi si
sentiva responsabile. E chi, meglio di Daryl - che si era incolpato
persino per la caduta della
prigione e per la morte di mio padre - poteva capirmi?
«È
stata colpa
mia», confessai, in un sussurro. Senza rendermene conto, mi
avvicinai di più a lui. Ormai le nostre spalle si
toccavano.
Lo sentii voltarsi verso di me e
guardarmi. «Cosa?», domandò Daryl, in tono
basso.
«Noah». Pronunciare il suo
nome mi provocò una fitta al cuore. Non lo avrei rivisto mai più; cielo,
non lo avrei rivisto davvero
più.
«Non dire
cazzate, Beth», ribatté.
«È la
verità», protestai stancamente.
«No, non è la
verità. Glenn mi ha raccontato la verità:
è stata tutta colpa
di quel figlio di puttana», ribatté, riferendosi a
Nicholas, «e di
nessun altro».
«Noah ha preso il mio
posto», ribattei con più energia, voltandomi verso
di lui. «Sarebbe
ancora vivo, se non avesse partecipato a quella spedizione».
Daryl mi
osservò qualche istante, con la sua espressione
seria e imperscrutabile. «Questo discorso non ha
senso»,
sentenziò, infine.
Rimasi
in silenzio, senza rispondere subito. Osservai il suo profilo, i
capelli appena mossi dal vento e lo sguardo saldo. Mi sentii
stupida
per aver temuto la sua reazione di fronte al mio crollo. Daryl non
spiccava per delicatezza, ma non era insensibile quanto voleva far
credere. Meditai sulle sue
parole: anche se potevano sembrare una conclusione affrettata, detta
tanto per
tirarsi fuori dalla conversazione, mi resi conto che non era
così. A
mente fredda, mi rendevo conto anche io che sarei potuta andare avanti
all'infinito, controbattere a
qualsiasi cosa mi avesse detto, ma non sarebbe servito. La
realtà era
quella e discuterne, provando a cambiarla, non avrebbe modificato o
cancellato ciò che era successo.
Di chiunque fosse stata la colpa, Noah ed Aiden erano morti.
«Lo
so», annuii dopo un po', stringendomi nel plaid,
«So
che non posso incolparmi per essermi ammalata. So che, se Nicholas non
avesse fatto il vigliacco, probabilmente non sarebbe successo. So che
Noah ha fatto il suo dovere, come tutti noi. So che, come tutti noi,
conosceva i rischi che comporta lasciare le mura. So tutte queste cose,
eppure...», mi interruppi, mentre la gola mi si stringeva in
un
nodo doloroso e gli occhi mi si riempivano di lacrime. «Eppure non riesco a smettere di
pensare che, se fossi andata io al suo posto, lui sarebbe ancora
vivo». Le
parole si spensero in un sussurro, mentre una lacrima mi
rigava la
guancia. Abbassai lo sguardo per nascondermi da Daryl e l'asciugai in
fretta, raccogliendo le ginocchia al petto. Il silenzio calò
nuovamente, finché non venne spezzato
«Beth, è
andata come doveva andare. Non farti del male addossandoti colpe che
non hai», disse, con un tono gentile che non gli avevo
mai sentito usare.
Alzai il viso e
incontrai i suoi occhi, che mi guardavano come se volessero scavarmi
dentro. Come se cercassero nuovamente il modo di tenermi
aggrappata a lui, per non lasciarmi cadere. Era convinto di quello che
mi stava dicendo, ci credeva davvero. Anche se in una maniera piuttosto
contorta, mi aveva detto che non voleva che soffrissi. Avrebbe potuto
riempirmi di attenzioni, di parole, di incoraggiamenti, ma mi bastava
guardarlo negli occhi per avere tutto quello, tutto insieme. Perdendomi
nel suo sguardo, le paure mi davano fiato e il dolore si allentava.
Spesso io e Daryl eravamo lontani fisicamente, ma con nessun'altra
persona che non fosse parte della famiglia, mi ero sentita tanto
vicina; e poco importava che ci toccassimo appena. Non avrei scambiato
ciò che provavo e che mi legava a Daryl con nient'altro al
mondo.
Quando un nuovo singhiozzo scosse il mio petto, mi sbilanciai appena
verso di lui, appoggiando il capo nell'incavo della sua spalla. Subito
lo sentii irrigidirsi, mentre gli sfioravo la pelle del collo con la
mia fronte. Avevo solo bisogno di sentirlo vicino a me e
inspirare il suo odore forte e avvolgente; non mi importava che non
fosse espansivo, che non usasse
troppe parole o gesti affettuosi.
Le lacrime continuavano a scivolare sulle mie guance, ma era un pianto
più silenzioso e composto rispetto a prima. Non ero
più offuscata dal dolore, ma ero consapevole di quello che
era
successo alla persona per cui stavo versando quelle lacrime. Stavo
finalmente facendo spazio alla sofferenza, accettandola, rendendola
parte di me.
Quando il mio corpo fu scosso da un brivido di freddo, mi accorsi che
la coperta, vista la mia postura sbilanciata verso destra, mi aveva
lasciato una spalla scoperta. Non feci in tempo a sistemarla, che Daryl
afferrò quel lembo di plaid, me lo risistemò
addosso e
usò quel gesto come scusa per stringermi un po' di
più a
sé. Sorrisi tra me e me, facendomi ancora più
vicina a
lui.
«Hai freddo?», bisbigliai,
in un confuso tentativo di offrirgli una parte di coperta.
«No»,
rispose, ma la sua voce mi sembrò più roca e il
suo
respiro più irregolare del normale.
«Neanche io», dissi, prima
di voltarmi nuovamente col viso verso il suo collo.
Avrei voluto fermare
il tempo e restare così per sempre, in quell'istante solo
nostro
e lontani da tutto. Se ne avessi avuto il coraggio, avrei posato le
labbra sulla sua pelle, gli avrei parlato a cuore aperto, gli avrei
chiesto perché era rimasto con me. Gli avrei chiesto quali
sentimenti si nascondevano dietro a tanti suoi gesti che non avevo
compreso chiaramente, ma per il momento andava bene così.
Volevo
aspettare di essere più lucida, se mai avessi desiderato
affrontare quell'argomento che avevo sempre cercato di evitare. Avrei
messo le carte in tavola un'altra volta.
L'abbraccio di Daryl era così caldo e accogliente che, ad un
certo
punto, nonostante la temperatura non proprio favorevole, mi appisolai.
Quando se ne accorse, mi riscosse appena e mi disse di andare a
dormire. Leggermente insonnolita, mi allontanai da lui e mi stropicciai
gli occhi, attenta a mantenermi in equilibrio sul tetto. Mi
aiutò a scavalcare il davanzale e rientrò in
camera mia
dopo di me. Richiusi la finestra e ci ritrovammo l'uno di fronte
all'altra, a fissarci in silenzio nella penombra della mia stanza.
Sentivo che avrei dovuto dire qualcosa, ma non trovavo le parole e non
riuscivo a capire perché. Per quanto avessi voluto
ringraziarlo,
dalla mia bocca non uscì un suono. Mi limitai semplicemente
a
sostenere il suo sguardo.
«Sarà meglio che vada», proferì Daryl,
interrompendo il silenzio.
Avvertii il mio
cuore sussultare e un opprimente senso di vuoto aprirsi nel mio
stomaco: no, non volevo che se ne andasse. Se lo avesse fatto, gli
incubi avrebbero preso di nuovo il sopravvento e il senso di colpa mi
avrebbe nuovamente impedito di dormire. O di svegliarmi e scendere dal
letto la mattina seguente. L'alba doveva ancora arrivare e
non ce l'avrei fatta ad affrontarla senza Daryl al mio fianco. Promisi
a me stessa che quella sarebbe stata l'ultima notte di apatia: mi sarei
rialzata assieme al nuovo giorno, ma avrei avuto bisogno di lui, per
farlo. Era un pensiero del tutto irrazionale, lo sapevo bene, ma non
potevo fare a meno di volere l'arciere con me.
«No!»,
proruppi, sentendomi subito in imbarazzo, davanti alla sua occhiata
perplessa. Presi un respiro profondo e cercai di controllare i battiti
impazziti del mio cuore. «Resta
con me», sussurrai.
«Beth...», cercò di protestare
lui.
«Ti
prego. Solo per stanotte», bisbigliai, imponendo a me stessa
di sostenere il suo sguardo.
Rimanemmo in silenzio, lasciando che fossero
soltanto i nostri occhi a comunicare. Come sempre. Dopo un tempo che a
me parve infinito, Daryl sospirò, pesantemente; non so cosa
lesse nella mia espressione, ma lo convinse. Borbottò
un «che seccatura» e mi
superò, tornando a sedersi dove si era sistemato per tutte
quelle ore, per terra accanto al mio letto. Io lo guardai, e rimasi
immobile dov'ero. Non era proprio quello che intendevo...
«Cosa c'è
adesso?», berciò, spazientito.
Deglutii,
prima di trovare il coraggio di parlare. «Sei scomodo, seduto
lì».
«Sei
tu che mi vuoi qua», mi fece presente in modo ostile,
allungando le gambe e incrociando le braccia al petto.
«Non
voglio che stai per terra. Ci sei stato anche troppo»,
temporeggiai, in difficoltà.
«Cristo,
Beth, deciditi. O ti metti a dormire, o me ne posso anche--».
«Puoi
dormire nel letto, con me»,
lo interruppi, tutto d'un fiato. Non potevo credere di averglielo
proposto davvero. Nemmeno Daryl riusciva a capacitarsene, vista la sua
espressione: mi guardava, gli occhi spalancati e le spalle rigide.
Nonostante la penombra, notai che stava stringendo un pugno.
«Non
se ne parla, Beth», affermò, con
asprezza.
Aggrottai le sopracciglia. «Perché?
Cosa ci sarebbe di male?», replicai, ritrovando un po' di
sicurezza.
«Non
posso dormire con te».
Incrociai le braccia al petto, irritata. «Abbiamo
già dormito insieme, quando siamo scappati dalla
prigione», gli ricordai.
«Non
è la stessa cosa», obiettò, con la sua
espressione illeggibile. Era nervoso, quasi imbarazzato, e quello non
poté nasconderlo. Il suo corpo parlava per lui, non
servivano i suoi occhi per capirlo. Pensai che dietro al suo rifiuto,
ci fosse lo stesso motivo che lo aveva spinto a rimanere con me; a
tenermi la mano; a tornare da me a scusarsi, quella sera in cui avevamo
litigato e io mi ero ubriacata; a tutti quei gesti che volevano
allontanarmi, ma che avevano sortito l'effetto opposto.
Daryl si sentiva così a disagio all'idea di dormire con me,
la rifiutava così fermamente, perché... forse
perché non gli ero indifferente. Avrei
potuto credere che fosse perché non mi sopportava,
ma, in quel caso, non si sarebbe preso la briga di venire fino a casa
mia, di sostenermi durante il mio crollo, di rimanere anche dopo. Ci
teneva a me. Forse Noah non aveva avuto tutti i torti, tutte le volte
che, dietro a una battuta, aveva nascosto la convinzione che l'arciere
provasse qualcosa per me. Sarei potuta andare avanti con quel botta e
risposta, chiedergli spiegazioni, ma ero stanca, e avevo solo bisogno
di sentirlo vicino a me.
«Ti
prego, Daryl», ritentai, addolcendo il tono e abbandonando il
tono di sfida. «Mi basta che rimani
finché non mi addormento, poi puoi anche
andartene», negoziai, incurvando le spalle.
Lui grugnì e alzò gli
occhi al cielo, rimettendosi in piedi con fare svogliato. «Forse
sarei dovuto andarmene quando me l'hai chiesto»,
borbottò, cercando di sgranchirsi il collo. Sentii un
sorriso enorme aprirsi sulle mie labbra e il cuore aumentare il suo
ritmo. Sarebbe rimasto con me; qualsiasi incubo mi avesse tormentata
quella notte - o quello che ne rimaneva, non sapevo più che
ore fossero - Daryl ci sarebbe stato. Non avrei affrontato l'arrivo del
mattino da sola. Leggermente imbarazzata, mi avvicinai al bordo del
letto dove dormivo di solito e mi sedetti, lanciando il plaid in fondo
al letto. Evitai di guardare Daryl, mentre si toglieva gli scarponi e
si buttava senza grazia sul materasso, facendomi rimbalzare appena. Mi
sistemai sotto le coperte, supina, fissando lo sguardo al soffitto. Gli
lanciai un'occhiata veloce, notando che era rimasto sopra le coperte e
seduto, con la schiena appoggiata alla testiera del letto.
«Se
hai freddo--», iniziai, ma lui mi interruppe.
«Dormi»,
mi ordinò, incrociando le braccia al petto.
Cercai il suo
sguardo nel buio, per lanciargli un'occhiataccia, ma sembrò
non notarla nemmeno. Appoggiò la nuca alla testiera e chiuse
gli occhi, inspirando profondamente.
Io tornai a
fissare il soffitto, la mente completamente sgombra per la prima volta
dopo giorni. Sentivo una strana frenesia percorrermi da capo a piedi,
che mi impediva di abbassare le palpebre e cercare il sonno. L'unica cosa a cui riuscivo a prestare
attenzione era il calore del suo corpo vicino al mio, al suo respiro
regolare che era l'unico rumore nel silenzio della notte. Era
insopportabile l'idea di averlo così vicino a me, di essere
da soli e non poterlo stringere. I sentimenti che provavo nei suoi
confronti stavano iniziando a crescere in maniera ingestibile, non
avrei potuto fare finta di niente ancora a lungo. Specialmente
perché una piccola parte di me era convinta che Daryl
sapesse, ma che avrebbe cercato in tutti modi di evitare
l'argomento.
Volsi lo sguardo a lui, attenta a non farmi scoprire: aveva ancora gli
occhi chiusi e dentro di me ne gioii, così avrei potuto
osservarlo. Osservai il suo profilo, la linea del suo mento, la frangia
che gli copriva gli occhi, i muscoli delle braccia che risaltavano. Dio
solo sa quanto avrei voluto toccarlo. Trattenendo il respiro e cercando
di muovermi senza farlo tornare vigile, mi avvicinai a lui. Mascherai
il movimento fingendo di sistemarmi meglio sul materasso, sperando che
non si accorgesse di quanto fossero ora vicini i nostri corpi. Quando
fui certa del fatto che avesse ancora le palpebre serrate, mi feci
ancora più vicina. Aspettai qualche secondo per trovare il
coraggio e, ignorando il cuore che mi batteva all'impazzata nel petto,
mi raggomitolai contro Daryl, sprofondando col volto nel suo fianco. Lo
sentii irrigidirsi subito.
«Beth»,
mi ammonì, ma con meno energia di prima.
Io non dissi nulla: chiusi semplicemente gli
occhi, ignorando la sua protesta. Sorprendentemente, non
insisté, né mi allontanò: rimase
fermo, lasciandomi accoccolata a lui. Avrei voluto vedere l'espressione
che aleggiava sul suo volto, ma non ero intenzionata a muovermi nemmeno
di un centimetro. Con il calore di Daryl attorno a me, ben presto mi
rilassai e il sonno mi trascinò dolcemente a sé.
Non ebbi incubi, né mi agitai durante quel che rimaneva di
quella lunga notte.
Aprii gli occhi nel chiarore del primo mattino: per la prima volta dopo giorni, non fu un
senso di oppressione al petto, la prima cosa che avvertii appena
sveglia, ma il calore di Daryl ancora accanto a me. Il suo braccio, che
mi offriva protezione, posato delicatamente sulla mia schiena.
Non se n'era andato.
| Nota autrice |
Non
ho molto da dire su questo capitolo, se non che è arrivato
dopo due mesi dall'ultimo e che ho fatto una fatica immane a scriverlo.
E che è più corto del solito. In
realtà, non sono nemmeno troppo soddisfatta del risultato,
ma non credo di riuscire a fare di meglio, in un periodo come questo.
Sono distratta, bloccata e piena di cose da fare. La mia allegria
è pari a quella di Daryl, tanto per intenderci, ahahah.
Sì lo so, capitolo triste e super deprimente, ma almeno
abbiamo una piccola svolta tra 'sti due. All'inizio avevo scritto una
cosa un po' diversa, poi ho perso il capitolo, l'ho riscritto ed
è uscito così. Avevo in mente più
dialogo tra i due, specialmente circa i sensi di colpa di Beth. Ma come
sempre, ho pensato di optare per qualcosa di più breve e
diretto, in pieno stile Dixon (o almeno, ce se prova). Spero vi
piaccia! Qualsiasi cosa ne pensiate, specialmente se negativa, per
favore, ditemelo. Perché ho notato che non ricevo
più molto feedback e il primo pensiero che mi viene
è di aver sbagliato qualcosa (sono un'insicura cronica).
Quindi, davvero, se secondo voi c'è qualcosa che non va non
fatevi problemi a dirmelo; ci tengo molto a questa storia e, se vi sono
errori, vorrei rimediarvi o comunque tornare sulla retta via con la
narrazione. Scusate il momento lagnoso ahahahah
Ringrazio chi segue questa storia, chi l'ha messa tra le preferite e
ricordate; anche chi legge soltanto :)
E nulla, sperando che la sessione estiva non mi risucchi di ogni
energia, ci sentiamo - presto - al prossimo aggiornamento.
Un abbraccio,
Blakie
Quando vidi Beth respirare più regolarmente e profondamente, capii che si era addormentata. Nella penombra, osservai i tratti rilassati del suo viso e le ciocche sottili dei capelli che le ricadevano sulla fronte e sulle guance. Era serena e rilassata per la prima volta da quando, quella sera, ero entrato in casa sua. Non potevo dire lo stesso di me. Io non ero rilassato, affatto. Sentivo la voglia irrefrenabile di scappare, eppure non riuscivo a muovermi. E non solo perché la sua fronte era appoggiata contro di me - sembrava dormire così profondamente che, anche se mi fossi mosso, non l'avrei svegliata - ma perché il mio corpo tutto mi impediva di farlo. Di andarmene, di mettere nuovamente dei paletti tra lei e me. Tutte le volte che cedevo e mi avvicinavo, ero sempre meno in grado di allontanarla nuovamente, dopo. Il desiderio di starle vicino era diventato più forte della volontà di distaccarmene e mi sentivo uno schifoso egoista, per questo.
Nelle settimane che avevo passato ad insegnarle come usare le armi, non avevo potuto non accorgermi di come mi guardava; di come la sua voce tremava quando mi mettevo alle sue spalle per correggere la postura delle braccia, di come il suo corpo si irrigidiva alla vicinanza col mio; dei sorrisi luminosi che mi rivolgeva di mattina non appena mi trovava davanti alla porta di casa sua; di tutte le attenzioni che mi riservava. Subito avevo detto a me stesso che, cazzo, lei è dannatamente gentile e sorridente con tutti, sempre; ma non potevo illudermi che fosse quella la verità. Non quando ero cosciente di tutto quello che avevamo passato insieme e di come era cambiato l'atteggiamento di Beth nei miei confronti. Lo avevo capito, così come mi ero reso conto di essere finito in un grande casino. Beth provava qualcosa per me, quindi era anche lei in un grande casino.
Incasinati entrambi, fino al collo. E io avevo ancora paura ad ammettere chiaramente con me stesso che c'era un motivo, se ricambiavo i suoi sguardi; se la mia voce diventava più roca, quando le correggevo la postura e avevo le labbra vicine al suo orecchio; se i suoi sorrisi alla mattina mi smuovevano qualcosa al centro del petto; se le sue attenzioni stavano diventando una necessità.
Le missioni con Aaron, da una parte, mi davano un po' di respiro da quei pensieri contorti e contrastanti. Là fuori dovevo tenermi sempre concentrato sulla sopravvivenza e compiere gesti meccanici - freccia, colpo, ricarica - senza arrovellarmi troppo. Ma quando la notte arrivava e il lieve russare di Aaron faceva da sottofondo al mio turno di guardia, avevo tutto il tempo del mondo per pensare. Subito dopo essermi chiesto come se la stessero passando ad Alexandria, il volto di Beth si accendeva nella mia mente e spazzava via tutto il resto. Era andata in missione con quei bambocci? Le era successo qualcosa? Stava bene? O era rimasta al sicuro tra le mura? Non potevo fare a meno di pensarci, dandomi del coglione per il fatto di non essere nemmeno più in grado di controllare quello che mi passava per la testa.
Avrei potuto allontanarla in ogni modo, ma in ogni modo sarebbe riuscita a rientrare con prepotenza nella mia vita e nella mia testa. Così era Beth e, probabilmente, non riusciva a rendersene pienamente conto. Non riusciva a capire fino in fondo la sua capacità di ottenere quello che voleva, non era in grado di comprendere il potere che aveva su di me. Beth era troppo buona per manipolare volutamente qualcuno: infatti bastavano i suoi occhi così puri, il suo maledetto candore e i suoi modi gentili per fare tutto il lavoro sporco al posto suo. E io ci ero caduto come l'ultimo degli allocchi, neanche fossi un adolescente in calore.
Merda, merda, merda.
Persino il suo dolore, ora, era in grado di farmi restare. Sollevai il palmo della mano che aveva stretto la sua per tutte quelle ore e lo osservai. Beth non era più la ragazzina debole che avevo conosciuto alla fattoria, ma, nonostante il suo notevole cambiamento, non era ancora in grado di sopportare il peso di un lutto. Anche se, probabilmente, tutta quella storia l'avrebbe presa diversamente, se Noah non l'avesse sostituita. Mi seccava ammetterlo, ma nel dolore di Beth e nel suo profondo senso di colpa, avevo visto una parte di me. Io stesso mi ero addossato la responsabilità di quello che era successo alla prigione e, ancora peggio, a suo padre. Davanti a quella baracca fatiscente, era stata lei a farsi carico dei miei sensi di colpa. Forse eravamo più simili di quantocredessi, anche se ammetterlo non aiutava certo ad allontanarmi da lei. Anzi. Non permisi che il pensiero che lei avrebbe potuto trovarsi al posto di Noah si facesse troppo vivido nella mia testa. Non riuscivo nemmeno a pensarci e mi sarei sentito un pezzo di merda a decidere chi avrei preferito che morisse tra lei e lui. Nessuno si sarebbe meritato di morire, forse solo quello stronzo di Nicholas. Prima o poi, gliel'avrei fatta pagare, in un modo o nell'altro.
Come se i miei tormenti interiori stessero toccando anche lei, Beth si agitò appena di fianco a me, facendo aderire ancora di più la fronte contro il mio fianco. Non l'avevo mai avuta così vicina, prima di allora. Il suo corpicino era caldo, accanto a me e il suo torso si alzava e abbassava regolarmente. La mano che tenevo ancora alzata, lentamente, andò a posarsi sulla sua schiena incurvata dalla sua posizione raggomitolata; il mio braccio la circondò, come a volerla proteggere da quello che aveva passato in quei giorni.
Mi sarei ucciso pur di non ammetterlo ad alta voce, ma, nella mia testa - seppur con riluttanza - potevo affrontare la realtà: ormai, tutto quello che succedeva a Beth, tutto quello che la feriva, tutto quello che provava, si rifletteva in me come in uno specchio, condizionandomi.
L'ho già detto "merda"?
Merda.
...
(Beth)
È rimasto. È rimasto qui, con me.
Non riuscivo a pensare ad altro, tanta era l'incredulità e la gioia di svegliarmi accanto a lui. Ed era un passo avanti, rispetto alle mattine precedenti in cui il dolore per la perdita di Noah e il senso di colpa mi avevano investita non appena aperti gli occhi. Per quanto l'emozione mi facesse battere il cuore e avvertissi una strana frenesia pizzicarmi nelle vene, mi imposi di rimanere immobile. Non volevo, per nessuna ragione al mondo, rischiare di svegliarlo. Non volevo che il suo braccio lasciasse la mia schiena, non ancora. Daryl non mi aveva mai degnato di un gesto così affettuoso, prima d'ora. Non di sua spontanea volontà: di sicuro, doveva aver simulato quella specie di abbraccio mentre dormivo. Non avrebbe mai avuto il coraggio, o la voglia, di farlo con me cosciente, perché così era l'arciere. Pensare che, di sua iniziativa, aveva deciso di compiere quel gesto - poco importava che l'avesse fatto di nascosto - accelerò ulteriormente il ritmo del mio cuore.
Lentamente, cercando di non muovermi troppo e di non fare rumore, alzai lo sguardo per cercare il suo viso. I suoi tratti erano rilassati, mentre era ancora addormentato. Avrei fatto qualsiasi cosa per fare in modo che provasse quella serenità anche da sveglio. Gli dovevo così tanto. Non mi aveva solo protetta, non si era limitato a salvarmi la vita: mi era stato vicino nel modo in cui ne avevo bisogno, senza sguardi di compassione o accondiscendenza. Trattandomi come una persona normale che stava provando emozioni destabilizzanti che, troppo spesso, in passato, avevano rabbuiato il cuore di Daryl. Lui mi aveva capita.
Avrei fatto qualsiasi cosa anche per potermi stringere a lui senza la paura di svegliarlo o di essere respinta, come se fosse una cosa normale nel nostro rapporto. Come se avessi il diritto di farlo ogni volta che lo desideravo. Ugualmente, ero grata per quel risveglio, per il suo corpo caldo accanto al mio, per il suo respiro profondo e regolare e la sua mano posata su di me. Sarei rimasta così per sempre, col cuore ebbro di gioia e l'animo così leggero.
Qualsiasi cosa avessi dovuto affrontare quella giornata, il giorno dopo e tutti quelli a seguire, non avrei avuto paura.
Qualsiasi pensiero doloroso mi avesse colta all'improvviso, che si trattasse di persone che avevo perso da poco o da tanto, non avrei avuto paura.
Quasiasi senso di colpa mi avesse bloccata e fatto dubitare di me stessa, non avrei avuto paura.
E, se mai l'avessi avuta, mi sarebbe bastato ricordarmi del volto di Daryl e della sua presenza discreta ma rassicurante accanto a me, per tranquillizzarmi.
Nulla poteva farmi davvero paura, con Daryl Dixon al mio fianco.
Compresi che stava iniziando a svegliarsi quando lasciò andare un sospiro pesante e le palpebre iniziarono a tremolargli. Si mosse appena, mentre io continuavo ad osservarlo. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui, non riuscivo ad allontanarmi dal suo calore. La sua mano rimase salda su di me. A fatica, sbatté le palpebre un paio di volte, prima di aprire gli occhi davanti a sé. Dopo aver lasciato vagare lo sguardo perso e assonnato per qualche secondo, focalizzò la propria attenzione su di me. I nostri occhi si incrociarono: io non mi mossi e lui continuò a cingermi col braccio. Ci guardammo, osservammo, studiammo per diversi momenti - o almeno, così mi sembrò. Le sue iridi cobalto erano un mare di quiete, seppur non del tutto leggibile; non riuscivo a immaginare che espressione potessi avere io in quel momento.
Avrei voluto dire qualcosa, ma temevo di far scoppiare la strana bolla nella quale i nostri sguardi ci avevano racchiusi. Parlare avrebbe significato mettere fine a tutto quello, tornare alla vita normale e rischiare di vedere Daryl allontanarsi nuovamente. Avrei tanto voluto sapere cosa gli stesse passando per la testa, ma era una battaglia persa cercare di capirlo o fargli ammettere quello che pensava.
«Ho qualcosa in faccia?», borbottò Daryl infastidito, spezzando il silenzio.
Il suo prendere l'iniziativa mi colse totalmente impreparata. «N-No», balbettai, scuotendo la testa.
«Allora piantala di fissarmi», ordinò con tono piatto, alzando lo sguardo verso il soffitto.
Perché mi trattava così ma non mostrava la minima intenzione di allontanarsi da me?
Io mi accucciai contro di lui, distogliendo lo sguardo senza dire niente; la sua mano e il suo braccio erano ancora appoggiati sulla mia schiena, con delicatezza. Il modo in cui si comportava era strano, era nuovo. Non aveva mai fatto così, prima di allora. Era bastato quello che era successo la notte prima - nulla di rilevante, in fin dei conti - a cambiare tutto? A cambiare i suoi comportamenti nei miei confronti? Subito mi imposi di tenere i piedi per terra, ma era difficile controllare il turbinio di emozioni e fantasie che mi stavano facendo tremare il cuore.
Avevo paura anche solo a pensarlo, ma, forse, avevamo compiuto un passo avanti. E questa volta davvero.
«Daryl», lo chiamai e, per la prima volta, in una situazione del genere, non mi fu necessario prendere un respiro profondo prima di parlare. Però non lo guardai in viso, rimasi dov'ero.
«Mh?».
«So che sarò ripetitiva e scontata, ma... grazie. Stamattina non mi sarebbe tornata la forza di alzarmi da questo letto, se tu non mi fossi stato vicino. Ti devo tantissimo», affermai con gratitudine, piano.
«Non ti sei ancora alzata», mi fece notare.
Non capii se mi sentivo più indignata per il fatto che avesse ignorato i miei ringrazianmenti, o più divertita dal suo irriducibile sarcasmo.
Mi alzai di scatto issandomi sui gomiti, voltandomi verso di lui per rivolgergli un'occhiataccia. «Un "prego" sarebbe bastato», sbottai, cercando di non ridere.
Lui alzò gli occhi al cielo, sbuffò e si tirò su a sedere, finendomi di fianco. «Ti è tornata pure la forza di rompere i coglioni», si lamentò, puntando l'indice contro la mia fronte e spingendo per punzecchiarmi.
«Ehi!», esclamai, colpendolo al braccio in un gesto automatico.
Fu come se non l'avessi nemmeno toccato. Mi ignorò nuovamente, dandomi le spalle per infilarsi gli scarponi che aveva lasciato dal suo lato del letto. Osservai il suo gilet con le ali d'angelo, sempre più convinta che fosse stato fatto apposta per lui. Perché quello era Daryl, per me.
Cercai di scacciare quei pensieri oltremodo diabetici e uscii anche io dalla coltre di coperte, lasciandomi scappare un brivido di freddo una volta uscita da quel giaciglio caldo. Mi infilai le pantofole e legai i capelli nella mia solita coda, mentre sentivo il materasso appiattirsi una volta privato del peso di Daryl.
«Da quanto non mangi?», domandò all'improvviso, severo.
Io mi voltai a guardarlo, imbarazzata. «Da ieri».
Alzò gli occhi al cielo. «Come si deve, intendo. Tua sorella mi ha detto che hai fatto lo sciopero della fame».
Maledii mentalmente Maggie. «Mia sorella è la solita esagerata. Avevo poco appetito, tutto qui. Ho mangiato», mi giustificai.
«Perfetto, allora vestiti: vieni a fare colazione con gli altri», ordinò, imperativo, aprendo la porta di camera mia. Aggiunse persino un piccolo cenno col capo, tanto per essere più eloquente.
Anche se Maggie mi aveva rassicurata dicendo che tutta la mia famiglia era lì per me, mi sentii molto in imbarazzo all'idea di tornare tra loro. Razionalmente, sapevo che si trattava di una paranoia infondata: non mi avrebbero mai giudicata per non essere stata in grado di gestire lucidamente la perdita di Noah, né mi avrebbero rimproverata di essermi isolata totalmente per tre giorni. Eppure, l'entusiasmo che avevo provato fino a poco prima si spense. Sentii le spalle abbassarsi e il capo chinarsi da un lato.
«Che c'è?», domandò Daryl, con la mano che ancora teneva aperta la porta.
Abbassai lo sguardo. «Non so se me la sento di vedere gli altri».
Lui grugnì. «Quante storie, ragazzina. Sei diventata asociale peggio di me o sbaglio? Cammina!».
Nonostante il tono imperioso di Daryl, che era autoritario e non ammetteva repliche, mi sfuggì una risata. Non lo avevo mai sentito prendersi in giro, prima di allora. Pensare che, forse, lo aveva fatto per aiutarmi ultieriormente a risollevarmi il morale, mi riscaldò in un punto imprecisato in mezzo al mio petto. Ero così fortunata ad avero accanto a me. Non sapevo quanto tempo ci avrei messo ad uscire, senza di lui.
Mi stiracchiai e, a fatica, mi alzai in piedi. «Dubito che riuscirò mai ad essere così tanto asociale», ribattei.
Daryl esibì un sorrisetto arrogante. «In effetti, è pregio di pochi».
Alzai gli occhi al cielo, stiracchiandomi e abbandonando finalmente il letto. «Certo Daryl, certo».
L'arciere fece un altro cenno con la testa, sempre in direzione della porta. «Avanti, ci stanno aspettando. Muoviti».
Allargai le braccia in un gesto esasperato. «Non posso venire in pigiama, devo vestirmi!».
«Allora vestiti! E sbrigati!».
Io rimasi a guardarlo in silenzio, incrociando le braccia al petto. Mi misi a fissarlo insistentemente, senza dire una parola.
«E adesso perché fai la bella statuina?», domandò Daryl, confuso e abbastanza irritato.
«Devo vestirmi», ripetei.
«Lo hai già detto», sbottò, spazientito. «Senti, o ti dai una mossa o—».
«Daryl, santo cielo, devo togliermi il pigiama! Vuoi assistere, per caso?!», lo interruppi, alzando la voce in un moto di esasperazione.
La sua espressione mutò ad una velocità inaudita. Quasi sbiancò e i suoi tratti si sciolsero in un'espressione imbarazzata, gli occhi spalancati e che non sapevano dove guardare. Balbettò qualcosa di incomprensibile a bassa voce e mi diede le spalle con uno scatto, trascinando la porta con sé e chiudendola rumorosamente. Mi misi a cercare nell'armadio qualcosa da mettere, sforzandomi di non ridere a voce troppo alta ripensando alla sua espressione. Daryl era un uomo forte, grande e grosso: così difficile da uccidere, ma così facile da mettere in imbarazzo. Erano due lati di lui che, nella loro coesistenza, mi facevano provare tenerezza nei suoi confronti.
Quando uscii dalla mia camera, lo trovai appoggiato contro al muro di fronte a me, a braccia incrociate. Ogni ombra di imbarazzo aveva lasciato il suo volto, anche se, ne ero sicura, era stata semplicemente nascosta dietro alla maschera illeggibile che il suo viso aveva assunto. Decisi di non torturarlo con qualche battutina e feci finta di niente.
«Sono pronta», annunciai, senza troppa convinzione.
Daryl rispose con un cenno del capo, precedendomi giù per le scale. Io lo seguii, mentre avvertivo il mio cuore accelerare il suo ritmo: l'ansia stava iniziando a farsi strada dentro di me. Ogni scalino che scendevo mi riportava verso una quotidianità che avevo messo in pausa per tre giorni, troppo persa nel lutto per riuscire a viverla. Il fatto che quel periodo fosse finito - solo la parte dell'isolamento; mi ci sarebbe voluto molto di più, prima di superare la perdita di Noah - mi sollevava e spaventava allo stesso tempo. Con Maggie, Rick o Michonne non era come con Daryl: se fossi stata in silenzio, magari con lo sguardo perso da un'altra parte, in compagnia dell'arciere, a lui non sarebbe importato. Mentre con gli altri - magari era una mia impressione - mi sarei sentita in dovere di farmi vedere tranquilla, magari fare qualche sorriso, di tanto in tanto.
«Ti stanno aspettando tutti», disse l'arciere ad un certo punto, senza voltarsi.
Io mi fermai, a metà scalinata, mentre le sue parole riempivano lo spazio tra noi. Ancora una volta, aveva provato a rassicurarmi, in modo celato e abbastanza contorto. Ma l'aveva fatto. E immaginare di rivedere gli altri, di parlarci di nuovo e inserirmi di nuovo nella comunità, con Daryl silenziosamente al mio fianco, era uno scenario che potevo sopportare più volentieri. Le mie labbra si aprirono in un sorriso, anche se lui non poteva vederlo, perché mi dava ancora le spalle.
Quando mi fui infilata il giaccone, Daryl aprì la porta. La mia casa, che era stata il mio rifugio durante quei giorni, era illuminata dalla luce del mattino che filtrava dalle finestre. Uscire di nuovo alla luce del sole, sentire la brezza fresca sul viso e respirare all'aria aperta mi fece stare meglio da subito. Il dolore per quel lutto terribile non mi aveva abbandonata, ma, ora, riuscivo a sopportarlo un po' meglio. Era molto meglio che stare al letto, al buio e in stato quasi catatonico. Percorremmo il tratto che ci divideva dalle due grandi case fianco a fianco, come già tante altre volte avevamo fatto. Era diventata una cosa normale, ormai; una cosa tra noi.
«Chiederò a Jessie di darti una spuntata ai capelli», dissi all'improvviso, come se quell'idea mi avesse sorpresa tutto d'un tratto.
«Ci risiamo», grugnì Daryl. La sua espressione contrariata mi fece sorridere.
«Guarda che lo faccio per te! Come fai a prendere bene la mira, con tutti quei capelli che ti coprono la visuale?».
«La mia mira va alla grande. Preoccupati della tua, piuttosto», replicò, piccato.
Scoppiai a ridere davanti alla sua espressione immusonita. «Dovresti essere contento che alla fine non sia io a tagliarteli».
«Ti sei ricordata che non sai nemmeno come prendere in mano le forbici?».
«Una cosa del genere», ammisi. «Appena me la sentirò, andrò a chiedere a Jessie se può occuparsene. Con Rick ha fatto un bel lavoro».
Daryl assimilò l'informazione, ma non rispose. A quel punto, mi accorsi che eravamo arrivati a destinazione. Il battito del mio cuore accelerò e una sensazione di pesantezza si fece strada nel mio petto. Ero nervosa e si vedeva benissimo. Daryl mi superò e salì la scala del portico; il mio sguardo si soffermò sulle sue spalle forti, sulla schiena ampia e i suoi capelli scuri e disordinati.
E lì ricordai: non ero sola. Non lo ero mai stata.
Con quella consapevolezza, il nodo stretto dell'ansia si allentò appena ed entrai in quella casa, preceduta dall'arciere.
Mi resi conto che tutte le mie paranoie su come si sarebbero comportati gli altri erano inconsistenti. La mia famiglia mostrò solo una grande gioia nel riavermi di nuovo tra loro. Mi trattarono normalmente e non mi parve di vedere nei loro occhi nemmeno un briciolo di compassione, nemmeno per un istante. Non fu difficoltoso, per me, stiracchiare un sorriso quado Carol mi passò uno dei suoi biscotti, o farmi scappare una risata quando Carl fece una battuta. Sentii che, nonostante tutto, stavo finalmente tornando alla normalità. Persino mia sorella aveva smesso di guardarmi con apprensione, come se fossi stata capace di crollare davanti a lei da un momento all'altro.
Mentre ero seduta a quel tavolo e cercavo di riabituarmi a vivere al di fuori del mio dolore, notai che Daryl non aveva preso parte alla tavolata. Me ne accorsi solo in quel momento, perché prima ero stata travolta dalle attenzioni degli altri. Mi guardai in giro e notai che, come suo solito, se ne stava appollaiato alla seduta della finestra, guardando di fuori. Forse stava cercando di rimettere distanza tra di noi; forse temeva che mia sorella e gli altri, vedendoci arrivare insieme, si fossero fatti delle domande.
Le mie congetture vennero interrotte quando Daryl si voltò e il suo sguardo incrociò il mio.
In quel momento, non pensai più a nulla. La mia mente si riempì di un unico pensiero che, sperai, l'arciere potesse leggere nei miei occhi.
Grazie.
...
| Nota autrice |
Scusate.
Credo che sia il modo più opportuno per iniziare, dopo ben sei mesi di assenza. Mi dispiace, davvero e me ne vergogno. Specialmente se penso all'entusiasmo e alla prontezza con cui avete messo a tacere le paturnie che vi ho esposto nell'ottavo capitolo. Alle mie insicurezze avete risposto con nove recensioni meravigliose. Vi ringrazio e vi chiedo scusa dal più profondo del cuore.
Sono stati mesi tosti, nei quali molte cose sono cambiate, ho dovuto studiare, dare esami; ho persino iniziato a lavorare per racimolare qualche soldino. E in tutto questo, ho iniziato a scrivere a rallenty. Scrivevo, ma poco e non di frequente. Qualcuna di voi potrebbe mettere in dubbio la passione che affermo di provare per la scrittura, ma vi assicuro che non è stato facile per me arrendermi al fatto che o non avevo tempo di scrivere, o ero bloccata.
Penso seriamente di avere addosso una "maledizione dell'ottavo capitolo"; praticamente arrivo all'ottavo capitolo di una long e mi blocco totalmente. Infatti, un'altra storia che ho scritto si è fermata inesorabilmente al capitolo ottavo. Spero, per questa volta, di aver scongiurato questa maledizione, visto che, alla fine, il capitolo 9 è uscito.
Già, il capitolo.
Per la prima volta da quando ho iniziato a pubblicare questa storia, pubblico un capitolo animata da una paura viscerale. Non la classica "ansia da prestazione", no; proprio paura nel vero senso della parola. Ho paura che non ci sarà quasi nessuno a leggere, che non vi piacerà, che rimarrete deluse. So che è corto rispetto agli altri, ma non mi sentivo davvero di aggiungere altro. Ho cancellato e riscritto la parte dopo il "grazie" venti volte e tutte e venti le volte sono rimasta insoddisfatta da quello che ho scritto.
Spero comunque che abbiate apprezzato il poco con cui sono tornata perché, davvero, non succede nulla. Capitolo di passaggio, se così si può dire. Ma nei prossimi succederanno più cose, ve lo prometto. Come vi prometto che non passerà così tanto tempo per il prossimo aggiornamento. Ho deciso che mi "imporrò" di pubblicare almeno un capitolo al mese e, se non ce la farò per il mese di gennaio, vi avverto subito che sarà colpa degli esami. Ma vi prometto ugualmente che ce la metterò tutta.
Mi fermo qui perché altrimenti le note diventano più lunghe del capitolo.
Ancora grazie e ancora scusatemi.
Un abbraccio,
Blakie
Il
pomeriggio,
Daryl lo passò in garage. Avevo saputo che lui ed Aaron
erano
tornati indietro così presto per un guasto al furgone.
Le coincidenze, a volte. Era bastata una cosa così piccola a
fare in modo che l'arciere tornasse giusto nel momento in cui avevo
avuto più bisogno di lui.
Questo pensavo, mentre camminavo per le vie della città,
intenta
a raggiungere il piccolo cimitero che avevamo allestito vicino alle
mura. Anche se sapevo che Noah non era lì, mi faceva sentire
meglio lo stesso, andare a posare qualche fiore sulla sua tomba. Il
piccolo mazzo di fiori di campo me lo aveva portato Samantha, che mi
era venuta a trovare subito dopo pranzo. Mi disse che quello era da
parte sua e dei bambini a cui insegnavo musica, che erano dispiaciuti
per me e che mi aspettavano tutti a braccia aperte, non appena me la
fossi sentita di tornare. Quel piccolo gesto mi commosse e mi fece
sentire fortunata. Avevo perso tanto, da quando la fine
dell'umanità era iniziata, ma avevo ottenuto altrettanto.
Vedi di ricordatelo più spesso, dissi a me
stessa.
Arrivai a destinazione e notai subito la figura esile di Deanna, in
piedi di fronte alla tomba di Aiden. Era stata sicuramente lei, assieme
a Reg e Spencer, quella più colpita da ciò che
era successo. La
osservai in viso, mentre mi avvicinavo: sembrava invecchiata di dieci
anni e la sua espressione era vuota. In quel momento, non assomigliava
per nulla alla leader forte e decisa che avevo conosciuto superati i
cancelli della città. Probabilmente, era addirittura la
prima volta che
perdeva qualcuno che amava, da quando il mondo era andato a
rotoli.
Mi avvicinai a lei, dato che le due tombe erano vicine. «Deanna»,
la chiamai, piano, poggiandole una mano sulla spalla.
Sembrò riscuotersi dal vuoto che aveva negli occhi e mi
guardò; la sua
espressione era talmente smarrita che, per un attimo, temetti che non
mi avrebbe riconosciuta. «Beth...
ciao». «Come
stai?», le domandai, quasi con timore. Non sapevo bene come
comportarmi.
Deanna
annuì distrattamente e distolse nuovamente l'attenzione da
me, posando
lo sguardo sulla croce di legno di fronte a lei. Io abbassai lo sguardo
su quella di Noah e mi chinai, appoggiando con cura i fiori
lì vicino. «Mi
dispiace tanto», sussurrai.
Lei non disse niente per un po', poi si rivolse nuovamente a me con lo
stesso tono spento. «Anche a
me, per Noah».
Annuii, in segno di ringraziamento. «Io... ti
posso capire».
Deanna fece incontrare i nostri sguardi e un sorriso amaro le
incurvò le labbra. «Hai mai
perso un figlio, Beth? Allora no, non puoi capire».
Nonostante fosse il dolore a parlare e provassi immenso rispetto per
quello, non potei frenare la mia lingua dal ribattere: «no,
ma ho perso una madre e un fratello per colpa dei vaganti.
E molte altre persone a cui volevo bene». Nella mia voce non
c'era risentimento, solo tristezza provocata dal ricordo di quello che
avevo perso. «Non sono
stati i vaganti a uccidere mio figlio», replicò a
denti stretti, dopo qualche secondo di silenzio.
Sentii perfettamente i miei occhi che si spalancavano dalla sorpresa. «Cosa?».
Le sue labbra sottili si strinsero, come a cercare di trattenere
qualcosa che non andava detto e i suoi occhi fuggirono i miei. «Deanna»,
la spronai, cercando di controllare la mia voce.
La donna espirò dal naso, rassegnata, incrociando le braccia
al
petto. Sembrò tentennare, alzando un braccio per posare le
labbra sopra le nocche, come a voler riflettere sul come
esprimersi. «Nicholas
c'era e... mi ha detto delle cose», ammise.
Solo a sentire quel nome mi si infiammarono le vene. E capii in un
secondo, dove stesse andando a parare Deanna. Cercai di mascherare la
rabbia che stava montando dentro di me, convincendomi che, a perdere le
staffe, non avrei risolto nulla.
«Lo
so che c'era. Forse è meglio parlarne altrove»,
suggerii, cercando di tenere un tono di voce controllato.
Alla
fine ci
ritrovammo nel suo salotto, sedute l'una di fronte all'altra come il
giorno in cui ero arrivata ad Alexandria. Questa volta,
però,
alle sue spalle non c'era nessuna telecamera pronta a registrarmi,
bensì un computer poggiato sul tavolino tra noi. Lo schermo,
che
mostrava un fermoimmagine di Nicholas, era aperto nella mia direzione:
lo aveva "intervistato" per capire meglio cosa fosse successo
là
fuori.
La guardai e lei annuì, così feci partire il
video.
Cercai
di prestare la massima attenzione agli sguardi e al modo in cui parlava
Nicholas in quel video. Sembrava a disagio, come se sperasse che
quell'intervista finisse il prima possibile. Come se non fosse in grado
di mentire ancora per molto.
«Aiden stava cercando di salvarci
da un vagante, gli stava sparando. Poi Glenn
lo ha distratto... Loro volevano andarsene, io no. Non lo avrei
lasciato lì».
Premetti
la barra spaziatrice con un gesto rabbioso, per fermare il video.
«Sta
mentendo!», sbottai, senza riuscire a togliere lo sguardo
dalla faccia di quello stronzo. «Glenn mi
ha raccontato tutt'altro. Sono tutte bugie, Deanna, Mio
cognato non lascerebbe mai indietro nessuno!».
«Continua
a guardare, Beth».
Strinsi
le labbra con stizza, cercando di calmarmi e proseguii con la visione.
«E
Tara?»,
domandò la voce fuoricampo di Deanna.
«Non
l'avrei lasciata lì»,
rispose Nicholas, con lo stesso tono accorato.
«Certo. E cos'è
successo con Noah?».
Sussultai
come
se qualcuno mi avesse toccato il braccio con uno spillo. Qualcosa mi si
mosse nello stomaco e sentii un grande bisogno di scappare.
Non
volevo il racconto dettagliato di com'era morto il mio migliore amico,
ma mi imposi di rimanere calma. Dovevo farlo per Glenn.
Quei
pensieri mi riempirono la mente a tal punto che, per fortuna, mi persi
una parte di racconto.
«Poi quando siamo arrivati
all'ingresso batteva contro il vetro, spingeva per aprire la porta
- continuò Nicholas, riferendosi sicuramente a Glenn. Io
sapevo
la verità ed era come se stesse parlando di sé in
terza
persona -
Mi avrebbero ucciso, o almeno ci stavano provando, o non gli importava
niente. E se non avessi respinto la porta sarei morto anch'io.
È
stata colpa loro, sono stati loro». «Ma siete tornati tutti insieme.
Com'è successo?».
Nicholas
che,
a quel punto, sembrò davvero in difficoltà, venne
salvato
dall'interruzione di Spencer, che domandava a sua madre cosa stesse
facendo. Deanna
sentenziò il divieto di uscire e di usare armi; in
particolare
disse di non permettere di uscire nemmeno a Glenn, finché
non
avesse esaminato la situazione fino in fondo. A quel punto, Nicholas
scattò in un moto di frustrazione che confermò
ancora di
più i miei sospetti sul suo conto.
«Che
c'è da esaminare?! Ti ho raccontato com'è andata.
Quelle
persone devono andarsene, loro non sono come noi. So che te rendi conto
anche tu». «Non sai di che cosa mi rendo
conto, Nicholas, e mi rendo conto di molte cose». Fu a quel punto
che il video si interruppe.
«Io... io
non capisco, Deanna».
Lei mi
guardò senza dire niente, come a esortarmi a continuare.
«Per
come me ne hai parlato prima, sembrava che incolpassi Glenn e gli altri
del mio gruppo per la morte di Aiden. Per il modo in cui hai risposto a
Nicholas, invece, sembra chiaro come il sole anche a te che sta
mentendo spudoratamente».
Lei
abbassò lo sguardo, ma non fece in tempo a nascondermi il
tormento che si celava in esso. «Non mi è chiaro
niente,
Beth».
«E allora
di cosa ti rendi conto?», incalzai. «C'era
anche Eugene, con loro. Hai fatto le tue domande anche a
lui?». «No, Beth.
Non ho ancora chiesto la versione di Glenn», ammise, lo
sguardo perso.
Mi soprese che una donna così pratica e sempre attenta ad
ogni
sfumatura della storia non avesse ancora pensato di interpellare la
controparte coinvolta in quella questione. Forse non voleva affrontare
la verità, non voleva realizzare che suo figlio era morto
per
colpa di uno della sua gente. Mi resi conto solo in quel momento di
quanto impatto avesse avuto la morte di Aiden su di lei; la vedevo
improvvisamente così diversa dalla Deanna che avevo
conosciuto.
«Ora
capisco perché hai ancora dei dubbi», affermai con
voce monocorde. «Se
ti fossi degnata di chiedere anche la loro versione della storia, non
ne avresti. Glenn ha cercato di aiutare Aiden, lo sai? Non è
come ha detto Nicholas. Anzi, è proprio lui che ha
abbandonato
per primo tuo figlio, Noah e Glenn hanno cercato fino all'ultimo di
aiutarlo. Il mio migliore amico è morto perché
quel
codardo è scappato. Stava per aggredire Eugene,
perché
voleva aspettare che tornassero Glenn e Noah e invece lui voleva
andarsene col furgone».
Deanna
fece un
sospiro profondo, appoggiando i gomiti sulle gambe e massaggiandosi le
tempie, come a volersi aiutare ad elaborare tutte quelle informazioni.
Cercai
di addolcire un po' i toni. «Deanna, c'è sempre
stata
molta chiarezza tra noi, fin dal primo momento in cui ci siamo
incontrate la prima volta. Io conosco quelle persone: se ti assicuro
che Glenn dice la
verità, perché non puoi fidarti di me?».
Lei
tornò a guardarmi, le labbra che formavano una linea
sottile. «Io
mi fido di te, Beth. So com'è fatto Nicholas e, certo,
è
molto più probabile che sia vero ciò che dice
Glenn. Ma
puoi davvero garantire per tutte le persone che ci sono nel tuo
gruppo?».
La
sua domanda mi lasciò interdetta per qualche istante.
Aggrottai le sopracciglia. «In che
senso?».
«Puoi
davvero dire che, tra loro, non ci sia nessuno di
pericoloso?»,
incalzò lei, ma dal tono in cui espresse la domanda,
sembrava
già avere la risposta. Ed
era negativa.
«Spiegati»,
la invitai, sentendomi improvvisamente tesa.
Fece
una piccola pausa, prima di parlare. «Parlo di
Rick».
«Cos'ha
fatto Rick?», domandai, cercando di trattenere l'allarmismo e
di controllare la mia voce.
«Nulla,
per adesso. Ma potrebbe, Beth. Ha un metodo che non è il
mio; che non è il nostro.
Non può venire da me e dirmi che possiamo decidere chi muore
e quando. Chi giustiziare
e quando».
«Chi vuole
giustiziare Rick?», domandai, ma mi resi conto della risposta
non appena finii di formulare la domanda.
«Pete».
Annuii,
trovando conferma nelle sue parole. Maggie mi aveva aggiornata su
quello che era successo mentre io ero stata assente; mi aveva detto che
Carol e Rick avevano capito che Jessie e i suoi figli venivano
picchiati
da Pete e mi aveva anche messo al corrente delle intenzioni di Rick. Il
nostro leader era sempre più contrario dal modo di pensare
che
vigeva in quella città, sempre più convinto che
chi
vivesse ad Alexandria non avesse la minima idea di quanto fosse
cambiato il mondo e le leggi che lo governano. La storia di Pete doveva
solo essere la goccia che aveva fatto traboccare il vaso e non aiutava
di certo Rick ad essere più conciliante. Mio malgrado, mi
resi
conto di trovarmi nel mezzo, esattamente a metà tra due modi
di
pensare che, per certi versi, erano giusti entrambi.
«Non posso
tollerare richieste tanto incivili», mormorò
Deanna.
Un
moto di stizza mi fece fremere sul divano. «Perché
lasciare che un uomo picchi sua moglie e i suoi figli è una
cosa
civile, vero?».
Deanna
mi scrutò, rabbuiandosi. «Sei
d'accordo con Rick?».
Iniziai
a stropicciare un lembo della camicia, stringendolo tra le dita.
«Io... è una questione delicata».
«Basterebbe
semplicemente esiliare Pete»,
replicò Deanna, cercando di ammorbidire il tono, «ma
Rick dice che potrebbe ritornare e rappresentare nuovamente un
pericolo. Personalmente, invece, credo che sia già una
condanna
chiuderlo fuori dalle mura e lasciarlo a se stesso. Non penso che
riuscirebbe a sopravvivere».
«E
se ci riuscisse e si verificasse ciò che teme Rick?»,
le domandai, preoccupata. «Jessie
e i ragazzi sarebbero di nuovo in pericolo. Ed io conoscevo la
situazione
degli Anderson già da prima che Rick lo venisse a sapere;
è stata Josie a dirmelo».
Deanna
sospirò e si alzò, fermandosi ad osservare fuori
dalla finestra. Di nuovo, con un braccio piegato sotto il seno e
l'altro appoggiato sopra di esso, mentre si sfiorava le labbra con la
punta delle dita, visibilmente preoccupata.
«È
sempre così difficile, là fuori, fare la cosa
giusta?»,
domandò con voce stanca.
Ci
pensai su qualche secondo, fissandomi la punta degli scarponi.
«Il mondo fuori dalle mura è cambiato. Anche io ci
ho
messo tanto ad accettarlo e, se mi conosci un po', sai che è
vero. Non sono solo i vaganti a costituire un pericolo per la nostra
comunità, ma anche le persone. In questo mondo non si
può permettere
che ci siano pericoli anche dentro le mura che ci proteggono».
«Quindi
dobbiamo ucciderlo»,
affermò, incerta.
Scossi
il capo. «Penso
che, per adesso, la cosa veramente importante sia mettere Jessie e i
suoi figli al sicuro. Poi si penserà al resto. Dobbiamo fare
in
modo che non vivano più sotto lo stesso tetto».
Deanna
annuì, preoccupata. «Non sarà facile...
Pete non accetterà tutto questo in silenzio».
Mi
alzai, avvicinandomi a lei. «Lo
accetterà. Glielo faremo accettare». Le
sorrisi, cercando di infonderle coraggio e le posai una mano sulla
spalla. «Non devi
farlo da sola, Deanna. Rick, o chiunque tu voglia del mio gruppo,
può aiutarti».
Lei
ricambiò, sfiorandomi l'avambraccio in segno di
ringraziamento.
Stavo
per dire qualcosa, quando la porta di ingresso si spalancò e
Reg fece capolino nel salotto.
«Deanna!»,
chiamò. Era entrato di corsa, concitato, l'espressione
intrisa
di angoscia e urgenza. L'interessata non fece domande e lo
seguì, cambiando repentinamente espressione. Ci fiondammo
tutti
e tre fuori casa, mentre avvertivo il mio stomaco attorcigliarsi per la
preoccupazione: cosa ci aspettava là fuori? Un vagante che
era
riuscito a sfuggire alla vedetta? Un gruppo di uomini che ci stava
attaccando?
Quando
la
nostra corsa si arrestò, il tempo sembrò scorrere
a
rilento per un attimo: prima notai che eravamo di fronte alla casa
degli Anderson, poi che c'era un gruppo di cittadini di Alexandria che
guardavano qualcosa, o meglio, qualcuno. L'ultima cosa che notai fu il
giubbotto con le ali di Daryl, di spalle assieme agli altri, prima di
avanzare e accorgermi che Rick era per terra, che stava lottando con
Pete.
In
quel
momento, nello sgomento generale, Jessie si buttò su suo
marito
che, a cavalcioni sopra Rick, stava tentando di avere la meglio su di
lui prendendolo per il collo. La donna tentò di trattenerlo
per
le spalle e fargli liberale la presa, col solo risultato di essere
scaraventata a terra da una violenta bracciata di Pete, che la
colpì in pieno viso. Non ci pensai due volte e corsi in suo
aiuto, chinandomi accanto a lei e trascinandola per
allontanarla.
Daryl
si
parò tra noi e i due uomini, mentre mi circondavo le spalle
con
un braccio di Jessie per aiutarla a rialzarsi. Quando fu in piedi, i
suoi occhi continuarono a seguire febbrilmente la colluttazione: vidi
di sfuggita Rick, col volto rigato di sangue, che spingeva via Carl
mentre riprendeva vantaggio sull'avversario. Il suo braccio si strinse
attorno al collo di Pete come un serpente, nel chiaro tentativo di
soffocarlo. La schiena ampia dello sceriffo era rigida e tutto il suo
corpo era impiegato per bloccare il dottore contro l'asfalto. Da dove
ero io, non riuscivo a vedere che espressione avesse.
Tutto
ciò di cui avevamo parlato io e Deanna qualche momento
prima, stava diventando tragicamente reale.
Rick
sibilò qualcosa all'orecchio di Pete, ignorando totalmente
la donna, che rincarò: «dannazione,
Rick! Ho detto basta!».
Tobin
e altre persone iniziarono ad avanzare verso lo sceriffo
nell'intento di dividerli, ma tornarono a fare un passo indietro quando
si videro puntare contro la revolver di Rick.
«Altrimenti
che fai? Mi cacci via da qui?», la provocò. Il
braccio era
ancora teso davanti a lui e gravitava da destra verso sinistra e
viceversa, puntando la pistola contro chiunque avesse davanti, come
l'ago di una bussola impazzita.
Ammutolii,
sgranando gli occhi, non riuscendo a credere a ciò
che stava facendo Rick. Cercai lo
sguardo di Daryl che, però, aveva lo sguardo puntato su
Grimes,
la mascella serrata e le spalle rigide. Sembrava pronto a scattare, nel
caso Rick avesse fatto qualche mossa troppo azzardata.
«Metti
giù quella pistola, Rick»,
gli ordinò nuovamente Deanna, il tono basso ma fermo.
Rick
si dondolava sulle ginocchia, la schiena incurvata e le spalle che
si alzavano e abbassavano a causa del fiato corto. Non potevo vedere la
sua espressione, ma non mi serviva per sapere che era fuori di
sé. «Ancora
non capisci», rantolò, continuando a dondolarsi
febbrilmente. «Nessuno
di voi capisce! Noi sappiamo cosa fa fatto e lo facciamo. Noi siamo
quelli che sopravvivono». E del "noi" a cui si stava
riferendo in
quel momento di delirio, io non sentii di fare parte.
«Voi?
Voi state qui seduti, a fare piani, a esitare»,
continuò,
senza nascondere il profondo disprezzo che celava la sua visione di
Alexandria.
Dall'espressione
di Deanna, capii che Rick stava guardando dritto negli
occhi, come se quel discorso fosse rivolto solo e soltanto a lei. «Fingete
di sapere, ma non è così. Vorreste che le cose
non
stessero come stanno... Volete vivere? Volete che questo posto rimanga
in piedi? Il vostro modo di gestire le cose è fallito. Le cose
non migliorano solo perché voi volete che migliorino. D'ora
in poi, dobbiamo vivere nel mondo reale. Dobbiamo controllare -
scandì - chi vive qui dentro».
Con
mia sorpresa, Deanna riuscì a ribattere. «Questo
concetto mi è chiaro adesso più che
mai».
«I-Io? Io? Tu...
eh, tu intend-intendi me?»,
domandò Rick, ridendo sprezzante. Poi si irrigidì
nuovamente. «I tuoi
metodi distruggeranno questo posto», sibilò,
finendo poi per gridare: «uccideranno
delle persone e hanno già
ucciso delle persone! E io non resterò fermo qui a lasciare
che
succeda. Se non combatti, muori! Non resterò fermo a-».
Il
momento di maggiore climax nel monologo dello sceriffo venne
bruscamente interrotto dal colpo che Michonne gli sferrò
alla
nuca. Rick cadde di lato, incosciente e Michonne ne
approfittò
subito per raccogliere la revolver e tenerla al sicuro nella sua mano.
Col fiatone, osservò l'uomo che aveva appena messo k.o. e
poi
guardò Deanna. In
quel preciso istante, la tensione che aleggiava
tra i presenti si sarebbe potuta tagliare con un coltello. Tutti si
scambiavano occhiate, nessuno
sapeva cosa dire, talvolta abbassavano lo sguardo su Rick. Ricordava la
quiete del mattino dopo una notte di tempesta.
«Portatelo
in isolamento»,
sentenziò Deanna, ancora scossa, rompendo il silenzio.
Spencer
e Tobin si chinarono per sollevare il corpo esanime di Rick,
aiutati da Michonne, Carl e Glenn. Jessie si scostò da me,
superando Daryl - che non si era mosso di un centimetro - e invitandoli
a trasporarlo prima in infermeria per medicargli le ferite. Altri
uomini
di Alexandria aiutarono Pete a rialzarsi; una volta in piedi, se li
scrollò di dosso con un gesto rabbioso, probabilmente dovuto
al
fatto che Jessie non fosse rimasta ad aiutarlo.
«Pete,
da questo momento ti sarà assegnata un'altra casa»,
stabilì Deanna. «Hai tempo
fino al tramonto per portare via le tue cose».
L'uomo ringhiò qualcosa e ritornò nella sua
abitazione, sbattendo forte la porta dietro di sé. «Andrebbe
medicato», mi lasciai sfuggire. E fu un secondo, una frase
dovuta
alla mia stupidità e ingenuità. Per un secondo
soltanto,
mi dimenticai di che razza di uomo fosse e provai solo un'infinita pena
per
lui. Chi non riuscì a provare pena nemmeno per un attimo fu
Daryl, del quale quasi avvertii il moto di rabbia accanto a me, come
un'ondata di
energia negativa. «Sei
impazzita?»,
sbottò, afferrandomi per la spalla e facendomi voltare nella
sua direzione. «Tu non ci
entri là dentro».
Quando
mi voltai, trovai il suo volto poco distante dal mio, assieme al
suo corpo che era completamente proiettato verso di me. Come se
volesse assicurarsi che non me ne andassi e avessi capito bene quello
che mi aveva appena detto. Ignorando il brivido che mi
procurò
quella vicinanza improvvisa, tornai a volgere lo sguardo verso la casa
degli Anderson; più per mantenere il controllo e sfuggire
allo
sguardo di ghiaccio di Daryl che per altro. In realtà,
rimasi
sorpresa dal fatto che avesse azzardato un contatto del genere in mezzo
ad altre persone, anche se alcune, turbate, erano tornate nelle proprie
case. Come se fosse riuscito a leggermi nel pensiero, il suo sguardo
saettò sulla mano stretta intorno alla mia spalla e mi
lasciò
immediatamente, come se si fosse scottato al contatto con la mia
camicia.
«Sì,
certo. Era solo per dire», risposi, con voce incolore.
«Tornate
nelle vostre case»,
ordinò Deanna, incrociando le braccia sotto il seno, cupa in
volto.
«Tutto
qui?!», sbottò Nicholas, poco distante da noi. «Quel
pazzo ci ha minacciati con una pistola e la tua soluzione è
mandarci ognuno a casa propria?! Questa gente va cacciata,
subito!».
Dopo
quello
che era successo a Noah per colpa sua, non riuscivo nemmeno
a guardarlo. Mi disgustava persino sentire il suono della sua voce e
sentire dei mormorii di assenso degli altri presenti mi fece ribollire
di rabbia. Anziché rispondergli a tono, iniziai a contare
fino a
dieci nella mia testa; non era il caso di scatenare un altro stupido
dissidio. La situazione era già abbastanza tesa.
Uno, due, tre.
«Non
spetta a te deciderlo, Nicholas. Ci troveremo tutti insieme, come
comunità - scandì - e parleremo di
quello che è
successo. Spargete la voce».
«Una
riunone?Vuoi
aspettare che uccidano qualcun altro?!».
Quattro, cinque, sei.
Ero
arrivata a sette nella mia testa e sarei arrivata con
tranquillità alla fine della conta, se quel codardo non se
ne
fosse uscito con la cosa più sbagliata che potesse dire.
Noah era morto, per
colpa sua. Era stato il suo essere smidollato a uccidere il mio
migliore amico e aveva persino il coraggio di dire una cosa simile? Le
mie mani iniziarono a tremare, incontrollate, la rabbia che
vibrò dalla punta dei capelli fino a quella dei piedi.
Otto, nove, dieci.
In
quei tre secondi che mi separavano dal punto di non ritorno raccolsi
tutto l'odio, il dolore e la rabbia che provavo nei suoi confronti. Ero
sicura che alla fine dei dieci sarei esplosa come una granata: sentii
che stavo per perdere il controllo, ero pronta a scattare e invece
accadde tutt'altro. Gli insulti mi morirono in gola quando vidi Daryl
passarmi davanti come un uragano e colpire in pieno viso Nicholas con
un pugno.
«Daryl!»,
esclamai allarmata, in mezzo ai sussulti sorpresi delle
altre persone presenti.
L'arciere
stava costringendo Nicholas a terra, afferrandolo per il
colletto della camicia e spingendolo verso il terreno. I capelli lunghi
gli ricadevano sul volto, quindi non riuscii a vedere quale espressione
potesse avere in quel momento, ma la potevo immaginare.
«Chiudi
la tua cazzo di bocca, stronzo».
«Daryl,
basta!»,
esclamai, provando a trattenerlo per le spalle.
«La
difendi ancora la tua biondina, eh? Come hai fatto con Aiden»,
sputò Nicholas e, vicina com'ero, riuscii a
sentirlo
nonostante avesse quasi sussurrato, come il codardo che era.
Non
mi ci volle molto per capire che si riferiva alla sera della festa
di benvenuto; Aiden doveva avergli raccontato il modo brusco in cui
Daryl l'aveva cacciato per prendersi personalmente cura di me.
Immaginai che fosse stato facile per quei due arrivare alla conclusione
più maliziosa sul perché Daryl fosse stato
così
protettivo nei miei confronti. Quella
provocazione idiota colpì nel segno: Dixon
inspirò dal
naso, sussultò di rabbia e alzò nuovamente il
pugno,
pronto a colpire di nuovo quel verme. Il fatto che ora Daryl avesse
meno presa su Nicholas, consentì a quel verme di liberare il
braccio destro e ricambiare il colpo con cui era stato atterrato. Daryl
lo schivò per un pelo, ferendosi di striscio solo il labbro,
da
quel che mi parve di vedere.
«Separateli!»,
ordinò Deanna.
«Adesso
basta», sibilai all'orecchio di Daryl, trattenendolo per il
gilet e cercando di bloccarlo. «Non
ne vale la pena».
Il
suo respiro accelerato ritornò nella norma poco a poco,
mentre continuava a tenere Nicholas a terra. «Basta,
Daryl. Basta».
Con
uno sbuffo pesante, seguito da un verso di disprezzo, mi diede
ascolto e si alzò da terra. Raccolse la balestra e si
allontanò da Nicholas, continuando a guardarlo, sorridendo
sardonico.
«Vieni
in ambulatorio
con me, ti disinfetto il labbro», dissi a Daryl, gentilmente
ma con una fermezza che non ammetteva obiezioni. Lui mi
superò senza dire una parola; lanciai
un'occhiata a Deanna, come ad assicurarle che era tutto a posto.
Almeno, Daryl non aveva puntato nessun'arma contro nessuno.
Quando
fummo abbastanza lontani dagli altri, accelerai il passo per
affiancarlo.
«Stai
bene?»,
gli domandai, appoggiandogli una mano sulla spalla. Lui se la
scrollò bruscamente di dosso, entrando in ambulatorio col
suo
passo pesante. Era visibilmente alterato e, mi dissi, forse aveva solo
bisogno di tempo per sbollire. Imposi a me stessa di non insistere e di
lasciar perdere il fatto che mi stesse apertamente ignorando. Sospirai,
raccogliendo tutta la pazienza di cui disponevo per non farmi irritare
dai suoi atteggiamenti burberi.
«Puoi
sederti sul lettino, così posso darti una
controllata», lo invitai.
Daryl
continuava a evitare il mio sguardo ma mi ascoltò,
lasciandosi
andare sulla branda in modo sgraziato. Fortunatamente, per
chissà
quale ragione, né Josie né Denise erano in turno
in quel
momento, perciò potevo occuparmi di Dixon in tutta
tranquillità. C'era Tara, che, purtroppo, era rimasta
gravemente
ferita alla testa durante la missione in cui Noah aveva perso la vita.
Lei, però, la tenevano in una stanza separata, di solito
controllandola a turno.
Avanzai
verso l'armadietto dei medicinali e ne
tirai fuori il disinfettante e una garza pulita. Mi
riavvicinai al mio paziente con l'occorrente in mano e lo appoggiai sul
lettino. Daryl era comodamente stravaccato su esso, le gambe aperte che
penzolavano appena e quasi toccavano terra, quindi non dovetti nemmeno
avanzare l'imbarazzante richiesta di allargarle per permettermi di
controllarlo meglio e più da vicino. Ero consapevole di
quanto
mi sarei dovuta avvicinare e la cosa mi elettrizzava e imbarazzava in
eguale misura. Sperai che non si accorgesse del mio battito accelerato.
Mi posizionai di
fronte a lui e mi avvicinai per vedere meglio. Non era
necessario ai fini del controllo, ma non potei fare a meno di cingergli
il profilo della mandibola per tenerlo fermo. Come se la sua pelle mi
chiamasse. Le mie dita si posarono leggere sull'ispido della sua barba
incolta, e avvertii Daryl irrigidirsi immediatamente. Sentii i suoi
occhi su di me,
perciò tossicchiai nervosamente a labbra
serrate, focalizzando lo sguardo nel punto in cui il suo labbro
era segnato da quel taglio rosso vivo. Un po' di sangue era uscito e
gli aveva leggermente bagnato le labbra e il mento.
«Ti fa male?»,
domandai, con voce malferma. «No».
Non ero mai stata
così
vicina alle sue labbra, prima di allora. Sarebbe bastato sbilanciarmi
leggermente in avanti, per ottenere quello che desideravo da tempo.
Deglutii a fatica, mentre il mio sguardo lasciava le sue labbra
invitanti e si scontrava con quello di Daryl. La tensione che avevo
avvertito prima, dopo la scenata di Rick, non era nulla rispetto a
quella che mi stava attorcigliando lo stomaco in quel preciso istante.
Non sapevo bene cosa stessi
facendo, né da dove arrivasse tutto quel coraggio.
Forse era stata la
notte prima a segnarmi nel profondo. Il modo in cui Daryl mi era stato
vicino aveva cambiato tutto, me ne resi conto solo in quel momento.
Sapevo che, da quel momento in poi, mi sarebbe stato impossibile
cercare di trattenere il mio entusiasmo e i miei sentimenti nei suoi
confronti. Il battito
del mio cuore mi pulsava nelle orecchie, mentre rimanevo
bloccata in quella bolla che solo lo specchiarci l'una negli occhi
dell'altro riusciva a creare. Tutto il caos che, fino a poco prima, si
era riversato in quella via di Alexandria, e gli stati d'animo che
aveva suscitato in me, si cancellò in un attimo. Dimenticai
persino che poteva esserci qualcuno, di là, nella stanza di
Tara
adiacente a quella in cui ci trovavamo. Non mi importava.
Né io, né Daryl sembravamo intenzionati a farla
esplodere, quella bolla. Avrebbe potuto fare davvero qualsiasi cosa per
farci tornare alla realtà; qualsiasi espediente,
più o
meno diretto, sarebbe stato sufficiente per mettere uno stop a quella
situazione che poteva trascinarci al punto di non ritorno. Proprio lui,
che di solito era quello che cercava di rimettere distanza tra noi,
quella volta rimase immobile come un animale di fronte al pericolo.
Da bambina, ero solita sfidare il destino con scommesse sciocche, del
tipo: "se la prossima canzone che passa il walkman non mi piace, mi
metto a fare i compiti"; oppure, da più grande, "se entro
cinque
minuti non mi scrive lui, gli scrivo io". Se nei prossimi dieci
secondi non dice nulla, lo faccio.
Uno,
due... Ti prego, stai zitto.
Tre, quattro, cinque... Perché
è diventato così difficile respirare?
Sei, sette, otto... Quando
la porta si spalancò, sobbalzai violentemente e mi scostai
da
Daryl con uno scatto. L'uomo, invece, balzò giù
dal
lettino ed io mi allontai ulteriormente. Disorientati, voltammo
all'unisono lo sguardo verso l'ingresso dell'ambulatorio, mentre Rosita
stava entrando. Era venuta lì assieme a Glenn. Diedi
un'occhiata
fugace alle loro espressioni: non sembravano essersi accorti di nulla.
«...è
un bel problema. Ehi,
ragazzi», ci salutò mio cognato, quando
finì di
rivolgersi a Rosita. Nonostante ci avesse rivolto un sorriso, i suoi
occhi tradivano preoccupazione. Forse, sarebbe riuscito a non notare il
fatto che io e Daryl fossimo in piedi in mezzo all'ambulatorio come due
stupidi.
«C-Ciao»,
balbettai, cercando di controllare la mia voce. «Avete
bisogno?».
«Sono
venuta a prendere dei cerottini per medicare Rick. Jessie li ha
finiti», mi rispose Rosita, sorpassandoci per andare a
rovistare
nell'armadietto. Poi si fermò e si voltò a
guardarci,
esibendo un'espressione perplessa quando il suo sguardo
gravitò
sul volto di Daryl.
Nello
stesso istante, Glenn domandò: «amico, che ti
è successo?!». «Ho preso
a pugni quel coglione di Nicholas», fu la fredda replica.
«Quando
ve ne siete andati con Rick, ha esortato Deanna ad esiliarci
tutti», aggiunsi, con voce grave. Anche per giustificare il
fatto
che l'arciere lo avesse colpito, sì.
Glenn
strinse le labbra e sospirò. «Nicholas dovrebbe
imparare a chiudere quella bocca». «Io ho
fatto», annunciò Rosita, uscendo dalla porta
reggendo a braccetto quello che le serviva. «Come sta
Rick?», domandai a Glenn, preoccupata.
«È
ancora incosciente. Lo stiamo per trasferire in una delle celle di
Alexandria, almeno per stanotte. Deanna vuole
così».
Annuii,
abbassando lo sguardo, provando una grande amarezza dentro di me.
Quando tutta la mia famiglia mi aveva raggiunta tra quelle mura, non
avrei mai creduto possibile che saremmo potuti arrivare ad una
situazione del genere. «Deanna
vuole parlare di quello che è successo, domani sera. Con
tutti», lo informai, scioccamente.
«Sì, ce
l'ha detto. Maggie vorrebbe parlare con gli altri abitanti di
Alexandria, sai. Per metterci una buona parola».
«Questa
gente è troppo stupida per arrivarci»,
sentenziò Daryl, cupo.
Gli
rivolsi un'occhiataccia. «Sono solo spaventati. Non sanno
tutto quello che noi abbiamo passato, che Rick
ha passato. Probabilmente, un uomo che punta una pistola contro altre
persone è la cosa più scioccante, vaganti a
parte, che
hanno visto qua dentro».
Lui non
rispose, volgendo lo sguardo altrove con uno sbuffo. Così mi
rivolsi nuovamente a Glenn. «Di'
a Maggie che la aiuterò io, domani, a parlare con gli altri.
Conosco voi e conosco loro e so che la convivenza è possibile».
«Contiamo
tutti su di te, allora, domani sera».
«Farò
il possibile».
«Lo
so»,
annuì Glenn, sorridendo. Si voltò e fece per
andarsene, ma, prima di congedarsi, disse: «io vado
ragazzi, vi lascio di nuovo soli».
E
chiuse la
porta alle sue spalle, mentre l'eco di quelle parole dette con tono
canzonatorio continuava ad aleggiare nella stanza. Merda, ci aveva
visti? Sospettava qualcosa? Maggie glielo aveva detto? Decisi di non
condividere i miei imbarazzanti dubbi con Daryl.
«Forza,
siediti, così finalmente ti disinfetto il taglio»,
lo
esortai, evitando il suo sguardo e afferrando nervosamente garze e
disinfettante.
«Per il
tempo che ci hai messo si è già
rimarginato», mi provocò, con sufficienza.
Non
potei evitare di guardarlo male. «Ah ah,
molto divertente».
Quando
la
garza fu abbastanza imbevuta di disinfettante, gliela tamponai con
delicatezza sulla ferita. Il taglio gli bruciò appena e lo
capii
perché, non appena appoggiai la medicazione sul suo labbro,
Daryl aggrottò le sopracciglia e sussultò
impercettibilmente. Fu impossibile trattenermi dal sorridere.
«Sadica»,
mi accusò, burbero.
«Io
ho fatto. Ti do un po' di ghiaccio, hai la guancia leggermente
gonfia», dissi, serafica. Presi il ghiaccio in gel dal
freezer e
glielo allungai, notando la sua espressione di sollievo non appena il
freddo entrò in contatto con la sua pelle.
«Va
meglio?», gli domandai.
Lui
annuì, senza dire una parola.
...
Camminammo
insieme fino alla cella dove avevano rinchiuso Rick.
Trovammo Carl e Michonne a vegliare su di lui, che giaceva
profondamente addormentato sulla brandina, spogliato della casacca da
poliziotto. Il viso, ora rilassato, era tempestato di cerottini
bianchi. Mi tornò in mente di quando Shawn, alle prese con
la
prima barba, li usava per medicare le piccole ferite che la sua mano
inesperta gli infliggeva col rasoio.
Le
celle di Alexandria erano dei seminterrati inabitati, in cui i vari
scomparti erano separati tra loro da porte di ferro che mi ricordarono
molto il cancello principale. Carl era seduto sull'unica sedia
disponibile, mentre Michonne se ne stava in piedi al suo fianco,
appoggiata al muro con le braccia incrociate. Quando io e Daryl
entrammo, non dissero nulla, ma continuarono a guardare Rick con aria
cupa.
Mi
avvicinai a Carl, appoggiandogli una mano sulla spalla. «Come
stai?».
Lui
mi scrutò da sotto la visiera del cappello da sceriffo. «Meglio di
lui sicuro».
In
risposta, come gesto di conforto, gli sfregai una mano contro la
schiena. «Non
cacceranno tuo padre; loro si fidano di me, mi conoscono e io non
permetterò che succeda. Andrà tutto
bene».
Carl
annuì, per nulla convinto.
«Domani
sera, alla riunione, sarà dura», intervenne
Michonne, realista.
Cercai
di sorriderle in modo incoraggiante. «Ce ne sono capitate di
peggiori e siamo sempre riusciti a cavarcela. Sono sconvolti, ma
capiranno. Troveremo un modo per collaborare e vivere tutti insieme, in
pace».
«E se non
capissero?».
«A quel
punto dovremo riporre la nostra fiducia in Deanna. Prenderà
lei la decisione definitiva, quindi, alla fine, è lei che
dobbiamo cercare di convincere», risposi.
Michonne
mi scrutò con i suoi grandi occhi scuri, poi
spostò lo sguardo sullo sceriffo. «Questo
non significa che il problema con Rick sarà risolto.
Potrebbe farlo di nuovo. Lo sappiamo tutti che Pete non è il
problema principale, è solo un capro espiatorio. E Rick,
stasera, l'ha ampiamente dimostrato».
«Cambierà
idea.
Dobbiamo soltanto dimostrargli che gli abitanti di Alexandria possono
imparare a difendersi», replicai, accorata e sporgendomi
verso di lei. «Io vi
conosco, e conosco loro. So che ciò è possibile.
Vanno soltanto addestrati».
Michonne
tornò a guardarmi, cercando di stiracchiare un sorriso. «Lo
so», rispose, con la voce di chi non ci credeva per niente.
Sentii
le spalle afflosciarsi e sospirai, lo stomaco attorcigliato su se
stesso. Io e Daryl rimanemmo lì un altro po',
finché Michonne non decise che per Carl era venuto il
momento di tornare a casa. Nonostante le proteste, riuscii a
trascinarlo con me e gli preparai la cena, aiutandolo poi a mettere a
letto Judith. Daryl rimase lì con noi, cercando di tirare su
il morale a Carl; ad un certo punto, mentre preparavo la piccola per la
nanna, vidi l'arciere uscire sul portico assieme a Carl. La porta era
socchiusa e, dal poco che riuscii a sentire, capii che Daryl aveva
voluto prenderlo da parte per infondergli un po' di coraggio; sorrisi
in direzione dell'ingresso e salii le scali con Judith in braccio. Non
avevo idea di dove fossero gli altri; forse, erano andati a fare
compagnia a Michonne. Me lo sarei aspettata da Glenn, Maggie e Carol.
Probabilmente, stavano studiando insieme un piano.
Dopo
che anche Carl ci diede la buonanotte, io e Daryl ci ritrovammo da soli
sul pavimento portico. Mi ero proposta di aspettare che finisse di
fumare la sua sigaretta, e poi sarei tornata anche io a casa mia.
«Come
pensi che andrà, domani?», domandai, spezzando il
silenzio.
«O male, o
di merda», sentenziò, inspirando una boccata di
fumo.
Gli
lanciai un'occhiataccia. «Pensavo che volessi dare una chance
a questo posto. Non è forse per questo che hai rifiutato le
armi da Rick e Carol?».
Lui
rimase in silenzio qualche attimo, senza guardarmi. «Infatti,
ma questo non significa che credo che questa gente sappia
difendersi».
«Devono
solo imparare», replicai di getto, poi mi illuminai. «Potresti
insegnarglielo tu! Sei un maestro formidabile!».
Daryl
si voltò a guardarmi, con un'espressione quasi
scandalizzata. «Non ci
penso nemmeno. Già faccio il mio sporco lavoro salvando il
culo ad Aaron ad ogni missione».
«Con
me ti sei prestato però, e devo dire che sei veramente bravo
ad insegnare»,
dissi, ammorbidendo il tono.
«Appunto,
basti e avanzi, ragazzina incompetente».
Mi
lasciai sfuggire un verso di indignazione, colpendolo forte al braccio.
«Come ti
permetti?!».
«La
verità fa male», sentenziò candido,
continuando a fumarsi la sua sigaretta.
Grugnii,
alzandomi in piedi con un moto di stizza. «Tolgo il
disturbo, così non faccio diventare incompetente anche
te».
Lui
ridacchiò poi si fermò, mentre io avevo
già sceso gli scalini. «Beth»,
mi chiamò.
Io
mi voltai. «Che
c'è?», domandai, sgarbata.
«Come
pensi che andrà, domani?».
Me
lo domandò con lo sguardo che perforava il mio. Mi sentii di
nuovo risucchiare nella bolla. Cercai di rimanere lucida e mostrai di
pensarci sopra qualche secondo, guardando altrove. Poi, i miei occhi
ritrovarono i suoi, e un sorriso speranzoso mi si aprì sulle
labbra.
«Andrà
tutto bene», risposi, con convinzione.
Daryl
perse qualche secondo a cercare conferma nei miei occhi, poi
piegò un angolo delle labbra.
«Lo
so».
Perché hai cambiato
idea?
Note autrice. Sì, ho
tardato nuovamente, quindi comincio le note con le solite scuse.
Perdonatemi, ero seriamente convinta di riuscire ad aggiornare prima
questa volta. Speravo, a marzo, di poter finire di scrivere e
pubblicare; ma, tra esami e lavoro (+ blocco di ispirazione) non ce
l'ho fatta. Perdonatemi ç_ç
Se può esservi di mera consolazione, almeno, questo capitolo
è mooooooolto più lungo del precedente e ricco di
avvenimenti. Speravo di poter "risolvere" la questione "Rick fa il
pazzo e minaccia tutti + Rick fredda Pete" in un capitolo solo, e
invece nada. Fingiamo che il prossimo capitolo sia il finale di
stagione, suvvia :D Anche perché mi sento indietro sulla
tabella di marcia, visto che sono ancora alla quinta stagione e
già mi serve tutto il supporto psicologico per risorbirmi e
fare il ripasso della prima parte della sesta (che ho trovato
noiosissima). Statemi vicine.
Non so bene come commentarlo, in realtà. Ho fatto tanta
fatica a completarlo forse perché non è la mia
parte preferita di storia, ma ho fatto il possibile. Spero che non
troviate il mancato sbaciucchiamento con Daryl fuori luogo o troppo
prematuro (per il loro stardard da lumaconi - anche se, ehm,
è colpa di Daryl). Nel caso, sono aperta alle vostre
opinioni, anche sulla posizione di Beth rispetto a Pete, su Daryl che
perde le staffe e malmena Nicholas, insomma, su tutto.
Ho voluto inserire sfacciatamente l'headcanon di Glenn che li
becca/sospetta qualcosa per primo perché è una
cosa che ho trovato in modo ricorrente su Tumblr e, personalmente,
l'adoro :'D Spero abbia fatto sorridere anche voi!
E niente gente, per questo capitolo è tutto. Ringrazio
veramente di cuore tutte le persone che hanno letto lo scorso capitolo,
che hanno aggiunto la storia alle seguite e alle preferite. Un grazie
particolare a chi ha recensito infondendomi coraggio e rassicurandomi,
nonostante la mia sparizione di sei mesi. Siete un amore <3
Ci sentiamo al prossimo capitolo.
Un abbraccio,
Blakie
PS: pareri sulla settima stagione? Io l'ho trovata noiosissima. Si
salvano solo la premiere (SIGH) e l'ultima puntata. Quello che
c'è nel mezzo MEH. PPS: ah stavolta niente immagine di testa, il mio html non collabora -.-
L'ottimismo
che avevo cercato di infondere a me stessa e a
Daryl, sembrò avermi abbandonata la mattina successiva,
quando mi svegliai.
Anzi, alzai la testa dal cuscino con un opprimente senso di angoscia
che mi
attanagliava le viscere. Mi sedetti sul bordo del letto non appena
uscita dalle
coperte, fissando il panorama fuori dalla finestra con una brutta
sensazione
addosso. Scossi la testa, cercando di scacciare quel malessere e mi
alzai,
tenendomi impegnata con la solita routine mattutina.
Dopo
colazione, uscii di casa per recarmi a casa di Maggie: ero ancora
intenzionata
ad aiutarla a parlare con gli abitanti di Alexandria, per convincerli
che Rick
non si meritava l’esilio.
Rick.
Chissà se si è ripreso,
pensai.
«Wow,
riusciamo a trovarci persino senza metterci personalmente
d’accordo».
Mi
riscossi
dai miei pensieri, mentre osservavo Maggie scendere dagli scalini del
portico e
raggiungermi.
In effetti, non mi ero accordata direttamente con lei, il giorno prima,
ma avevo
solo avvisato Glenn. Le
sorrisi. «Ormai
non c’è da sorprendersi più di
niente».
«Beh,
mi
sorprende che tu sia già sveglia, questo sì.
Stavo giusto venendo a casa tua,
convinta di doverti trascinare giù dal letto», mi
prese in giro.
Mi
strinsi
nelle spalle, prendendo a camminare accanto a lei. «Non sono
più la dormigliona
di un tempo. E comunque, stanotte non ho dormito molto bene, tanto
valeva
alzarsi».
Maggie mi
guardò, rabbuiandosi. «Sei preoccupata?».
Anche se non lo esplicitò, sapevo che quella frase aveva un
seguito: per oggi. E per stasera.
Era la prima
occasione, dal giorno prima, che mi si presentava per parlare con
Maggie di ciò
che era successo con Rick; quindi, puntai sulla sincerità.
Annuii,
incerta. «Tu?».
«Abbastanza.
Non pensavo che Rick sarebbe scoppiato in quel modo. Né che
la situazione con
Pete sarebbe precipitata così velocemente». A quel
punto, mia sorella mi
rivolse uno sguardo colpevole. «Non ne abbiamo più
parlato Beth, scusa. Con
tutte le cose che sono successe, non mi è venuto in mente di
fermarmi a
rifletterci sopra e trovare una soluzione».
Scossi
la
testa. «Non ti preoccupare. Lo sai che anche io ho avuto
altro per la testa».
Maggie
piegò
le labbra in un sorriso velato di tristezza. «Lo
so», rispose, accarezzandomi
di sfuggita una guancia con fare materno.
Cambiai
discorso in fretta. «Comunque, hanno spostato Pete in
un’altra casa».
«Sì,
Glenn
me l’ha detto. Ora dobbiamo occuparci della questione
più difficile».
«Già»,
commentai e mi sentii abbastanza stupida.
Maggie
sospirò. «Ho detto che sarei andata a parlare con
gli abitanti, ma non
so quanto servirà».
Abbassai
lo sguardo, calciando via un sasso con la
punta dello scarpone, mentre continuavamo a camminare in silenzio. Non
capii se
fosse frutto del mio cervello, ma mi sembrò di respirare
un’aria diversa,
quella mattina. Come se tutta la tensione esplosa il giorno prima
avesse
contaminato l’aria attorno a noi; c’era
un’atmosfera strana, di attesa. Era
tutto uguale, ma incredibilmente diverso.
«Dobbiamo
parlare con Deanna, prima di tutto».
Mia
sorella mi diede una gomitata. «Secondo te non
stiamo andando da lei? Sto solo allungando il giro perché
sto pensando a cosa
dirle di convincente».
Realizzai
solo in quel momento che avevamo iniziato a
camminare senza meta, assorta com’ero. Ridacchiai, scuotendo
la testa. «Non
arriveremo più, allora».
Maggie
si rabbuiò, così mi affrettai a rassicurarla.
«Sto
solo scherzando, Mags. Pensa un po’ le coincidenze, io e
Deanna stavamo proprio
parlando di Pete e Rick, quando ieri è successo quel
casino».
Lei
annuì. «Diciamo che, per alcuni di noi, non
è
stata una sorpresa».
«Esatto.
Ho solo… paura
di scoprire come la pensa adesso. Già ieri era preoccupata
per l’impazienza di
Rick e lo sai che ci serve il suo appoggio, per farlo restare. A questo
punto,
però, non sono più sicura di niente».
Maggie
si fermò e mi appoggiò una mano sulla spalla
per incoraggiarmi. «Riusciremo a convincerla. Lo sa anche lei
che Alexandria ha
bisogno di noi».
Mi
rabbuiai, pensando che il giorno prima ero stata io
a infondere coraggio agli altri, mentre quella mattina mi riusciva
più
difficile del solito. Non dovevo lasciarmi abbattere dagli eventi, era
sempre
stata quella la mia filosofia. Ma le tensioni tra la mia famiglia e le
persone
che mi avevano accolta quando io e Noah eravamo rimasti soli, si
riflettevano
in me come uno specchio e mi facevano sentire divisa a metà.
Arrivammo
a casa di Deanna e ci accolse Reg, facendoci
attendere in soggiorno mentre la cercava. Notai che mia sorella fissava
fuori
dalla finestra con sguardo torvo. Quando mi sporsi per vedere, capii il
perché:
fuori c’era Padre Gabriel. Mia sorella aveva sentito per
sbaglio una
conversazione tra il prete e Deanna, che veniva avvertita del fatto che
fossimo
pericolosi e che non ci si dovesse fidare di noi. Da allora lo avevamo
guardato
con sospetto; in realtà, mi amareggiava che un uomo di fede
potesse essere così
meschino con persone che lo avevano salvato.
Reg
ci invitò fuori, in veranda, dove ci attendeva
Deanna. Non appena uscimmo, parlò, saltando qualsiasi
convenevole. Non l’avevo
mai vista così seria.
«Di
che cosa mi dovete parlare?».
Maggie
prese da subito in mano il comando della
conversazione. Forse mi aveva visto troppo turbata, per permettermi di
mediare
ancora una volta. «Della riunione di stasera».
«Maggie,
se potessimo discutere–», intervenne Reg, che
venne subito interrotto da Deanna.
«Voglio
parare con tutti di quello che è successo e di
che cosa dobbiamo fare».
Mia
sorella mantenne un’espressione ferma. «Se questo
prevede cacciare Rick, non funzionerà».
«Dimmi
che cosa intendi», rispose la donna, alzando un
sopracciglio.
«Lo
hai lasciato entrare, come hai fatto con tutti
noi. Hai parlato con noi, hai deciso. E ora vuoi affidare questa
decisione a
della gente spaventata che non conosce l’intera
storia», continuò mia sorella,
poi fece una pausa, prima di parlare di nuovo. «Non
è da leader».
Deanna
aveva ascoltato tutto senza fiatare, lo sguardo
che gravitava da me a Maggie, indecifrabile. Reg intervenne nuovamente
e cercò
di tranquillizzarci, dicendo che, quello previsto per quella sera, era
solo un
incontro per raccogliere le opinioni di tutti.
«Ed
io prenderò la decisione finale, come ho sempre
fatto», concluse Deanna, scrollando le spalle.
Ci
avevo visto giusto, quindi.
«Era
solo frustrato. Ha visto tante cose, ha perso
tante cose. Tutti noi le abbiamo
perse».
Deanna
le rispose con la voce spezzata. «Anche noi
abbiamo perso tante cose».
Maggie
la osservò qualche istante, come me e Reg,
prima di parlare nuovamente e con sicurezza. «Noi ne abbiamo
perse di più».
A
quel punto, Deanna iniziò ad agitarsi. «Rick ha
puntato la pistola contro delle persone!».
Mia
sorella rimase impassibile. «Non ha premuto il
grilletto», le fece notare e io la guardai.
«E
ci basiamo su questo?!», esclamò la donna,
fissando
gli occhi nei miei, come a cercare un sostegno. Forse pensava che non
parlassi
perché, in realtà, ero d’accordo con
lei.
«Sì»,
risposi, per conto di Maggie.
«Beth,
tu dovresti sapere come funzionano le cose qui».
«So
anche come funzionano là fuori. E se lo sapeste
anche voi, Deanna, credimi che non sareste così sconvolti da
un uomo che punta
una pistola contro altre persone. Fuori dalle mura, questo non
è niente»,
risposi, cercando di non farmi sopraffare dalle emozioni.
«Là
fuori è là fuori, ma qui dentro cerchiamo di
mantenere una certa civiltà. Chi vive qui deve sentirsi al
sicuro, non uscire
di casa e vedersi minacciato con una pistola».
«Per
Rick la sicurezza è la cosa più importante. Era
solo frustrato», ribattei, accorata, riprendendo le parole di
mia sorella.
Avanzi verso Deanna e le presi le mani tra le mie.
«C’è bisogno di Rick, qua.
Lo sappiamo noi come lo sai tu. Se non vuoi fidarti di Maggie, o di
chiunque
sia qui da poco tempo, almeno fidati di me. Per favore».
Deanna
mi osservò per qualche istante, l’espressione
contrita e gli occhi che facevano da specchio per il suo conflitto
interiore.
Erano successe tante cose in poco tempo e ne era stata sopraffatta, lo
vedevo.
Abbassò
lo sguardo. «Beh… farò quello che devo
fare»,
mormorò a voce spenta. Si divincolò dalla mia
presa senza energia e ci voltò le
spalle, tornando a fare quello che stava facendo prima che arrivassimo.
Udii
mia sorella, dietro di me, sbottare di
frustrazione, e la vidi scendere le scale come un fulmine e per
andarsene.
Prima che potessi raggiungerla, quando ormai ero sull’ultimo
scalino, Reg mi
afferrò per un braccio. Mi voltai.
«Beth,
le parlerò. Parlerò con tutti, questa sera.
Dobbiamo
smetterla di scappare e iniziare a vivere tutti insieme, se vogliamo
“mantenere
una certa civiltà”», mi
rassicurò, citando ciò che aveva detto sua moglie.
Gli
sorrisi. Reg era un brav’uomo e in quel momento mi
tornarono in mente tutte le volte che lo avevo visto progettare
qualcosa
assieme a Noah. Vedere come il mio migliore amico pendeva dalle sue
labbra mi
aveva sempre fatta divertire, ma Reg era davvero una persona saggia.
Sperai che
le sue parole servissero a dare manforte alla nostra causa.
«Grazie»,
risposi, prima di voltarmi e raggiungere mia
sorella.
Il
dissidio avuto con Deanna non ci scoraggiò
minimamente. Impiegammo tutta la mattina per parlare con più
abitanti di
Alexandria possibili. Notai molta incertezza sui loro volti, confusione
e
paura; non potevo certo biasimarli, ma speravo che la mia parola
potesse
contare qualcosa, per loro. Dopotutto, mi conoscevano da prima che
arrivassero
i “nuovi, spaventosi individui” salvati da Aaron.
Seppur diffidenti, le uniche
persone dalle quali ricevetti apertamente supporto furono Josie e
Samantha, mie
colleghe. Anzi, Josie aveva sorvolato di cuore sul comportamento di
Rick,
gioendo con ferocia delle botte inferte a Pete e del suo successivo
isolamento
in un’altra casa.
«È
forte l’infermiera», disse Maggie con le mani in
tasca, mentre tornavamo a casa sua.
Ridacchiai,
ripensando alla risposta accorata di
Josie. «Chissà da quanto aspettava che qualcuno
rimettesse Pete al suo posto».
Mia
sorella sorrise, ma non disse nulla. La vedevo
pensierosa: sicuramente, si stava interrogando sull’esito del
nostro giro di
persuasione, se così si poteva chiamare. Camminammo per un
po’ in silenzio, poi
Maggie parlò di nuovo.
«Non
ho visto Daryl, in giro».
«Credo
che sia uscito stamattina. Per cambiare un po’
aria, sai».
Lei
sospirò, afflosciando le spalle. «Lo capisco, lo
farei anche io se potessi».
Sorrisi
tra me e me, contenta che Daryl potesse stare,
anche solo per qualche ora, lontano da quell’atmosfera
così opprimente. Era la
prima volta che provavo un vago senso di soffocamento, dentro quelle
mura. Se
avessi potuto, come Maggie, sarei scappata fuori dal cancello in quello
stesso
momento e sarei rimasta fuori con Daryl finché le acque non
si fossero calmate.
Solo io e lui, come era successo dopo la distruzione della prigione;
come gli
allenamenti all’alba del mese precedente. E invece sarei
rimasta dentro,
continuando col mio disperato tentativo di fare da cerniera[1]tra
due
mondi che, in quel momento, sembravano quasi inconciliabili.
~
L’assemblea
si sarebbe svolta nel cortile sul retro
della casa di Deanna; attorno al piccolo fuoco che era stato acceso per
scaldarci in quella fredda serata autunnale, c’erano gli
abitanti di Alexandra
da un lato e la mia famiglia dall’altro. Io mi trovavo
esattamente in mezzo e,
opposti a me, si erano sistemati Reg e Deanna. Maggie, di fianco a me,
continuava a lanciare occhiate ansiose all’ingresso del
cortile. «Dov’è finito
Glenn?».
Nel
suo sussurro avvertii tutta l’angoscia dovuta al
fatto che non lo vedeva da quella mattina e non potei biasimarla;
nemmeno Daryl
si era fatto vedere. In realtà, non erano gli unici ad
essere assenti:
mancavano Rick, Pete, Nicholas e Padre Gabriel.
Deanna,
con fermezza, sentenziò che l’assemblea
sarebbe iniziata ugualmente anche senza i due
“protagonisti” principali. Chi
aveva qualcosa da dire, poteva già iniziare a farsi avanti.
Fu come una specie
di strana coreografia parlata, in cui si alternavano le opinioni degli
abitanti
di Alexandria e le “nostre”, anche se, per quel che
mi riguardava, la divisione
non era poi così netta. Mi sentivo perfettamente in mezzo
alle due parti.
Vennero
espressi dubbi, più o meno blandi,
sull’affidabilità di Rick; da qualcuno venne
espressa la paura che, un giorno,
il nostro leader avrebbe potuto di nuovo perdere la testa e uccidere
senza
farsi troppi scrupoli. Ci fu anche chi gli diede ragione –
Josie, con Jessie
sottobraccio – affermando che Pete era pericoloso e che era
ora che qualcuno lo
rimettesse al suo posto.
Chi
conosceva Rick da ben prima, non mancò di
difenderlo con vigore: prima Michonne, poi Carol, Abraham, Maggie e
altri di
noi si alternarono per convincere i dubbiosi che la scelta migliore per
tutti
era che Rick rimanesse lì.
Mi
lasciarono il tempo di riflettere su cosa dire, come
fossi una mediatrice tra i due gruppi: nessun altro aveva vissuto
abbastanza
tempo con entrambi come me. Quando fu il mio momento di parlare, mi
sentii un
po’ nervosa; di certo, non era come cantare davanti a un
pubblico. Dovevo
scegliere le parole giuste, anche se molte cose che avrei voluto
esprimere
erano già state dette da mia sorella e dagli altri.
Feci
un respiro profondo e parlai.
«Io,
come mia sorella, come Rick, ne abbiamo passate
tante. Siamo cambiati, siamo dovuti
cambiare, per sopravvivere. Quell’uomo ha avuto il coraggio
di sobbarcarsi del
difficile incarico di leader, per permettere a tutti noi di andare
avanti e
proteggerci, dagli uomini e dai vaganti. So che i suoi modi possono
apparire
poco ortodossi, ma è grazie a questi se io posso essere qua
con voi, in questo
momento, a parlarne. È grazie a questi se io sono arrivata
fino a qui e sono
stata salvata assieme a… a Noah – feci una pausa
per ricacciare indietro le
lacrime – Abbiate fiducia in me, se ancora non riuscite ad
averla in chi è
arrivato per ultimo qua dentro. Avete bisogno di Rick, come Rick ha
bisogno di
questo posto, solo che ancora non lo sapete, come non lo sa lui.
Dobbiamo solo…
restare uniti».
Dopo
il mio intervento, seguì qualche istante di silenzio,
attenuato dallo scoppiettare delle braci di quel piccolo
falò. Sperai che,
nonostante quel silenzio, ciò che avevo voluto dire fosse
arrivato. Che chi mi
aveva ascoltata avesse capito.
Dato
che nessuno ebbe nulla da aggiungere, Deanna
riprese la parola e fece sapere – in
nome
della trasparenza – ciò che le aveva
riferito Padre Gabriel, aggiungendo
poi che ciò che aveva fatto Rick ne fosse la conferma;
strinsi i pugni, mentre
avvertivo un’ondata di rabbia invadermi. Dovevo stare calma.
«Io
speravo che Gabriel fosse qui, stasera», concluse,
facendosi nuovamente da parte.
«Io
non lo vedo, Deanna. Stai riferendo ciò che ha
detto qualcun altro», le fece notare Jessie.
«L’hai registrato?».
«Non
è qui», intervenne Maggie.
«Nemmeno
Rick», replicò Deanna con durezza.
Mia
sorella la fissò per qualche istante con la stessa
durezza nello sguardo; poi si congedò con un
«scusatemi» e se ne andò. Mi venne
spontaneo seguirla ma mi bloccai, ricordandomi che il mio compito era
rimanere
lì a difendere Rick.
Tutti
hanno
un compito.
Dopo
un iniziale momento di imbarazzo, decise di
prendere la parola Tobin, uno degli abitanti originari di Alexandria.
Stava
portando avanti il suo intervento incerto quando lo vidi bloccarsi e
fissare un
punto davanti a sé con aria sorpresa. Seguii il suo sguardo,
come fecero tutti:
all’ingresso del cortile di Deanna era apparso Rick, sporco
di sangue in volto
e con un corpo issato sulla sua spalla destra. Per un millesimo di
secondo,
ebbi il terrore che le gambe che penzolavano addosso a lui fossero di
Pete.
Rick
mi smentì – ci smentì tutti
probabilmente,
buttando per terra ciò che si rivelò essere il
cadavere di un vagante. «Non
c’erano sorveglianti davanti al cancello. Era
aperto!», proferì, con tono
concitato e aggressivo.
Vidi
Deanna chiedere spiegazioni a Spencer con un solo
sguardo.
«Avevo
chiesto a Gabriel di chiuderlo», si giustificò
il ragazzo.
«Vai!»,
gli ordinò Deanna, con espressione grave.
Rick
si fece avanti, avvicinandosi al fuoco. «Non l’ho
portato dentro io. È arrivato qui dentro
da solo», sottolineò. Poi, si
voltò verso Deanna e Reg, che lo osservavano interdetti
vicino al muretto. «Entreranno sempre, i morti e i vivi,
perché noi siamo qui e
la gente là fuori ci darà la caccia e ci
troverà. Proverà a usarci, proverà ad
ucciderci, ma noi uccideremo loro. Noi sopravvivremo: vi
mostrerò come».
Mentre
parlava, Rick si guardò intorno, incontrando
uno per uno lo sguardo degli altri abitanti di Alexandria; quando
incrociai i
suoi occhi chiari – che risaltavano in contrasto con il rosso
che gli
imbrattava il volto - sentii qualcosa smuoversi nel mio stomaco. Era la
consapevolezza che ciò che stava dicendo fosse vero e sperai
che quella presa
di coscienza scattasse anche in quelle persone che lo stavano guardando con
timore.
Guardai Deanna, che era sempre più scura in volto; forse,
stava iniziando a
rendersi conto che affidarsi a Rick fosse l’unica cosa che
Alexandria potesse
fare per salvarsi dal mondo esterno.
«Sapete,
stavo pensando…», Rick si grattò una
tempia
col dito e assunse un’espressione quasi neutra.
«Stavo pensando a quanti di voi
dovrò uccidere per salvarvi la vita».
Mi
sentii gelare, mentre incrociavo lo sguardo di
disappunto di Carol, come se fossimo entrambe d’accordo sul
fatto che quella
frase se la sarebbe potuta risparmiare. Non era certo una cosa da dire
a un
gruppo di persone spaventate e che stava discutendo del suo esilio.
«Ma
non c’è bisogno che io lo faccia: voi
cambierete»»,
aggiunse, con un tono di voce più… conciliante?
Poi, si rivolse direttamente a
Deanna. «Non mi pento di quello che ho detto ieri sera: mi
pento di non averlo
detto prima. Non siete pronti, ma dovete esserlo. Adesso
dovete esserlo… La fortuna vi
abbandonerà».
Le
sue parole riempirono il silenzio e continuarono a
galleggiare tra noi presenti, come l’eco di qualcosa che
spaventava, ma che
andava affrontato per non rischiare la distruzione. E poi lo vidi: il
volto
pieno di cerotti e l’espressione deformata da una rabbia
folle. Pete.
«Non
sei uno di noi», proferì, dando il tempo a tutti
e a Rick per voltarsi verso di lui. «Non sei uno di
noi!», ripeté con un grido.
Quando alzò le braccia in un gesto di frustrazione, mi
accorsi che aveva in
mano una katana. Un terrore improvviso mi arpionò allo
stomaco, mentre la paura
si faceva largo anche tra i presenti. Solo Rick rimase impassibile.
Reg
gli andò incontro, cercando di calmarlo, mentre
Deanna chiamava il nome di suo marito per avvertirlo di non stare
troppo vicino
a quel folle armato. Rick fissava Pete con uno sguardo di ghiaccio, la
mano
pronta sulla fondina della pistola. Sentii il cuore balzarmi in gola.
E
poi accadde. Quel momento di confusione, di
concitazione, raggiunse l’apice ed esplose il caos. Successe
talmente
velocemente che il tempo sembrò scorrere a rilento: Reg che
cerca di bloccare
Pete, Pete che, per liberarsi da quella presa indesiderata, lo spinge
via con
vigore. La katana stretta nella mano sbagliata che taglia la gola a Reg
con un
colpo solo; lo schizzo di sangue e il corpo dell’uomo che si
tende
all’improvviso; poi l’urlo di Deanna.
Le
orecchie presero a fischiarmi, ma le mie gambe
scattarono verso Deanna, che continuava ad urlare disperata mentre
accompagnava
Reg che si accasciava per terra. La mano che si era portato alla gola
tremava
furiosamente, ma non era nulla in confronto ai gorgoglii che emetteva
mentre
soffocava a causa del suo stesso sangue.
Mi
inginocchiai di fronte a loro, disperata, mentre
cercavo di scacciare l’immagine di mio padre che veniva
decapitato dal
Governatore. Mi accorsi che anche Josie era accanto a me,
così le sfilai il
foulard senza neanche chiederglielo e, tra le lacrime, provai a
tamponare con
urgenza il macabro sorriso che Pete aveva aperto sulla gola di Reg, dal
quale
continuava a zampillare sangue. Lo sapevo che non sarebbe servito a
nulla, eppure
non potei fermarmi, non con Deanna che continuava a gridare e piangere
dalla
disperazione. Il cuore mi batteva furiosamente nelle orecchie e il
respiro
quasi mi si bloccò in gola.
«Reg,
resta qui, resta qui», sussurrai, continuando a
premere la stoffa sul suo collo.
Sentii
la mano di Josie posarsi sulla mia spalla. «Beth»,
disse soltanto. È finita, non
c’è più
niente da fare.Come
conferma a
ciò che la mia collega aveva omesso, sentii sul dorso della
mia mano l’ultimo
respiro che Reg esalò, prima che il suo sguardo si spegnesse
e la sua mano,
inerme, rimanesse a mezz’aria.
No,
non doveva andare così, non doveva andare così.
«Come
pensi
che andrà, domani?».
«O
male, o
di merda».
«Come
pensi
che andrà, domani?».
«Andrà
tutto
bene».
Sollevai
il foulard madido di sangue e lo lanciai da
qualche parte alla mia sinistra, come se avesse improvvisamente
iniziato a
scottare. Mi allontanai dal corpo di Reg e mi accasciai contro la
ringhiera
degli scalini, mentre mi arrivavano indistinte e ovattate le grida di
Pete, che
continuava a ripetere: «è lui! È colpa
sua!».
Con
la vista annebbiata dalle lacrime, vidi che
Abraham aveva atterrato quell’assassino e lo teneva fermo, la
guancia premuta
contro il terreno. Vidi Deanna che cercava lo sguardo di Rick come
fosse un’ancora
di salvezza. La pistola che Rick stringeva tra le mani era puntata su
Pete.
«Rick»,
mormorò la leader di Alexandria.
Un
secondo di silenzio, il più lungo, prima che la donna
parlasse di nuovo.
«Fallo»
e mi venne istintivo guardare altrove.
Un
colpo, il rumore assordante del bossolo che
tintinnava sul terreno, un silenzio ancora più assordante
che venne interrotto
da una voce sconosciuta, in quel momento sospeso.
«Rick?».
Nonostante
fossi sconvolta, riuscii ad alzare lo
sguardo sull’uomo che aveva appena parlato. Lo vidi
offuscato, ma la persona che
si trovava accanto a lui la misi a fuoco subito; era l’unica
della quale avessi
bisogno in quel momento. O in qualsiasi altro momento.
Il
suo nome si formò sulle mie labbra e uscì in un
sussurro inudibile.
Daryl.
Non
capii come, ma l’arciere sembrò udire il mio
mormorio, perché subito dopo il suo sguardo
incrociò il mio: la sua espressione
mutò come se avesse appena visto un fantasma. Probabilmente,
sconvolta com’ero,
assomigliavo davvero a un fantasma. Le lacrime non accennavano a
fermarsi,
mentre con la coda dell’occhio vedevo Josie che aiutava
Deanna ad alzarsi;
qualcuno aveva spostato il corpo di Reg dalla pozza di sangue che si
era creata.
Avevo
sbagliato tutto: non era andata bene, per
niente. Era andata di merda, come aveva previsto Daryl. Ci sarebbe
stato un
momento in cui avrei smesso di essere un’illusa? Alzai lo
sguardo appena in
tempo per vedere Daryl che si inginocchiava di fronte a me.
«Beth»,
mi chiamò, con gentilezza.
Mi
bastò osservare il suo volto per sentirmi un po’
meglio e annuire. Feci per alzare le mani e sfregarmi le guance per
asciugarle
dalle lacrime, ma con un gesto fulmineo Daryl mi afferrò per
i polsi e mi bloccò.
Lo guardai interrogativa, poi lo notai e ricordai: le mie mani erano
impregnate
del sangue di Reg.
«Aspetta»,
disse, lasciando la presa e facendo sparire
la mano dietro la schiena. Quando la riportò avanti,
stringeva il suo
fazzoletto nero. In un flash, mi ricordai di quando eravamo appena
scappati
dalla prigione e mi era stato prestato per raccogliere le bacche, per
noi e per
la nostra famiglia. Sentii un tuffo al cuore.
Scossi
la testa e strinsi gli occhi, ritirando le mani.
«Te lo sporcherò», mormorai, con la voce
rotta.
Lui
sbuffò. «Da’ qua»,
mormorò, poi mi riafferrò con gentilezza il
polso.
Con la mano coperta dal fazzoletto, massaggiò la mia per
pulire via il sangue;
con meticolosità, passò la stoffa sul palmo, sul
dorso, sulle dita. Poi, fece
lo stesso con l’altra; il suo tocco era piacevole e delicato
come una carezza,
il cui conforto mi si irradiò fino al cuore. Nel frattempo,
non riuscii a
scostare lo sguardo dal suo volto, celato in parte dai capelli che gli
ricadevano sulla fronte.
«Fatto»,
disse, lasciando le mie
mani. Ripose il fazzoletto nel taschino anteriore della camicia che
indossava.
«Se
me lo lasci te lo lavo».
Si
strinse nelle spalle. «Dopo lo butterò nel lago.
Forza, alzati», mi invitò, spostandosi di lato e
poggiandomi una mano sulla
schiena. Tornare in piedi fu come essere immersa nuovamente nella
realtà. Il
vociare indistinto si era affievolito appena: molti degli abitanti non
c’erano
più – sicuramente Rick doveva aver dato
l’ordine di tornare ognuno a casa
propria – così come i due cadaveri; forse era
stato Abraham a portarli via. In
piedi attorno al fuoco erano rimasti lo sceriffo, l’uomo a me
sconosciuto e
Carol. Poi, Deanna, che era seduta per terra, di fronte alla pozza di
sangue di
suo marito e fissava il vuoto.
La
guardai, piena di compassione, mentre Daryl si
rivolgeva a Rick. «Che diavolo è successo,
amico?», ma non ascoltai la
risposta.
Mi
avvicinai a Deanna, chinandomi accanto a lei.
«Deanna…».
«Ho
sbagliato tutto», mormorò, senza guardarmi. In
realtà, non ero nemmeno sicura che si stesse rivolgendo a
me. Sospirai, piena
di dispiacere. Avevo capito a cosa si riferiva, che ragionamento stava
facendo:
se avesse allontanato prima Pete, se avesse ascoltato prima Rick, Reg
sarebbe
stato ancora vivo. Lo avevo fatto anche io, con Noah. E sapevo che
l’unica cosa
da fare, fosse quella di lasciarle spazio, seppur con riluttanza. Le
strinsi la
spalla per un secondo, poi mi alzai e mi allontanai. Lanciai
un’occhiata alle
mie spalle, gli “adulti” che stavano discutendo
fittamente di strategie,
scelte, cose che in quel momento non avevo la minima voglia di sentire.
Volevo
solo tornare a casa e farmi una doccia, provare a dormire e affrontare
tutto il
giorno dopo.
Me
ne andai silenziosamente, lasciandomi alle spalle
quel luogo di morte. Dopo essermi allontanata di qualche metro dal
cortile di Deanna, sentii dei passi alle mie spalle: mi voltai,
allarmata – da
cosa, poi? – per tranquillizzarmi immediatamente quando capii
che era Daryl. Mi
fermai in mezzo alla strada, osservandolo mentre mi raggiungeva.
«Ehi»,
proferii, quando si fermò di fronte a me. Che
strana voce mi era uscita. Mi schiarii le corde vocali, prima di
continuare. «Stai
andando da qualche parte per conto di Rick?».
Lui
tergiversò qualche istante, torturando la tracolla
della balestra con le dita, issata sulla sua spalla destra.
«Uhm, no».
Rimasi
in silenzio, osservandolo perplessa, in attesa
che aggiungesse qualcosa. Abbassò lo sguardo:
sembrava… in imbarazzo? Cosa gli
prendeva?
Stavo
per parlare, quando Daryl alzò nuovamente lo
sguardo nel mio.
«Stai
bene?», domandò, in tono basso.
La
nostra bolla ci risucchiò nuovamente, quando capii
che non stavamo andando nella stessa direzione per motivi diversi, ma
lui mi
aveva raggiunta perché era preoccupato per me. Voleva
assicurarsi che stessi
bene. Appena realizzai, mi si riempirono gli occhi di lacrime, mentre
una
sensazione calorosa si diffuse nel mio petto.
Cercai
di sciogliere il nodo che avevo in gola. «Potrei
stare meglio», ammisi.
Lui
annuì, studiandomi per qualche momento. Le perle
azzurre che aveva al posto degli occhi mi intimidirono, per qualche
ragione,
così abbassai lo sguardo sul terreno, torturando la stoffa delle tasche
del mio
giaccone. Non volevo usare nuovamente Daryl come muro del pianto, o
sfogare con
lui il malumore per tutto quello che era successo.
L’aria
frusciò accanto a me, e mi accorsi che Daryl mi
aveva superato e si stava incamminando. «D-Dove
vai?», gli domandai, incerta.
Lui
si fermò, rispondendomi senza voltarsi. «Andiamo a
casa», disse, nascondendomi la sua espressione.
Una
sensazione confortante, come quella che avevo
provato poco prima, raggiunse ogni terminazione nervosa nel mio corpo.
Io stavo
male e lui era lì, con me, per starmi vicino. Senza nemmeno
il bisogno di
chiederglielo. Gli occhi mi si inumidirono di nuovo, ma, questa volta,
non per
la tristezza. Per il sollievo.
Ricacciai
le lacrime che minacciavano di uscire,
raggiungendolo con uno scatto frettoloso. Daryl si assicurò
che fossi al suo
fianco, prima di riprendere a camminare, in silenzio. Il cuore
iniziò a
battermi forte, quando, con timidezza, allungai la mano verso la sua e
la
sfiorai. Avvertii il tremore che gli scosse la mano, ma non si
tirò indietro,
nemmeno quando intrecciai le mie dita con le sue. La sua mano era
calda, ruvida
e accogliente come mi era sembrata davanti a quella lapide, nel
giardino della
casa funeraria. Come mi era sembrata quando Daryl era stato con me una
notte
intera, mentre sfogavo il mio cordoglio per la morte di Noah.
Come
in un tacito accordo, ci dirigemmo verso casa
mia, raggiungendola dopo qualche minuto. Sulla porta di casa, mentre la
aprivo,
lo guardai con una domanda nello sguardo: mi seguì dentro,
senza lasciare la mia
mano. Chiuse la porta e mi guidò verso il salotto buio,
invitandomi a sedermi
sul divano. Lasciò la mia mano per appoggiare la balestra
contro il tavolino,
sul quale appoggiò il fazzoletto che aveva usato per pulirmi
le mani.
Scattai
in piedi. «Te lo lavo subito». Cercò di
protestare, il volto corrucciato visibile nella penombra, ma lo fermai.
«Per
favore», dissi, guardandolo negli occhi, mentre prendevo quel
pezzo di stoffa
imbrattato dal tavolino. Non so cosa intravide nella mia espressione,
ma mi
lasciò andare. Gli sorrisi per ringraziarlo.
«Torno subito».
Mi
recai piuttosto velocemente in bagno, accendendo la
luce – che, per qualche secondo, mi infastidì
– e presi la bacinella che tenevo
sotto il lavandino. Immersi il fazzoletto nell’acqua calda,
cercando di
ignorare i residui di sangue che rilasciò a contatto con
l’acqua. Aggiunsi il
detersivo e il disinfettante, usandoli per lavarmi bene le mani sotto
il getto
caldo, mentre la bacinella si riempiva. Diedi un’occhiata
alla mia immagine
riflessa, il mio viso emaciato che mi restituiva lo sguardo, fissandomi
con
occhi gonfi e arrossati. Decisi di darmi una rinfrescata anche al viso
e
sistemare la coda che, nel trambusto generale, si era disfatta. Chiusi
il
rubinetto e lasciai il fazzoletto ammollo, ritornando in salotto.
«Mi
sono lavata le mani, nel frattempo. Vuoi?», gli
domandai, indicando alle mie spalle con il pollice. Daryl mi aveva
aspettata in
piedi, tra il divano e il tavolino e lo trovai buffo, nel suo sentirsi
ospite.
«Mh»,
mugugnò, superandomi e raggiungendo il bagno.
Mentre
lo aspettavo, mi tolsi gli scarponi e mi
accoccolai contro lo schienale morbido del divano, raccogliendo le
ginocchia al
petto. Non so se fosse il frutto di tutto quello che era accaduto, ma
sentivo
che tra me e Daryl c’era qualcosa di diverso. Forse lo vedevo
più rilassato e
aperto nei miei confronti? Forse cercava di starmi vicino come poteva,
perché
doveva avermi vista molto scossa, a casa di Deanna. E, beh, la ero.
Quando
tornò, si sedette accanto a me, sul bordo del
divano e gli avambracci appoggiati alle cosce, sporto in avanti.
«Puoi
metterti più comodo, se vuoi», gli suggerii. Mi
sentii un po’
stupida.
Daryl
mi lanciò un’occhiata di sottecchi e
rizzò le spalle, impacciato,
appoggiando lentamente la schiena contro lo schienale e i palmi sulle
cosce.
Mascherai la risata che mi uscì spontanea con un colpo di
tosse. Rimanemmo in
silenzio per qualche istante, immersi nella penombra del soggiorno.
«Stai
meglio? Rispetto a prima, intendo», domandò
all’improvviso, cogliendomi di sorpresa. Era la seconda
volta, in una sola
serata, che me lo chiedeva. Non era da lui.
«Io…
più o meno. Dovevo solo allontanarmi da tutto
quel trambusto. Perché me lo chiedi?», domandai,
con cautela. Non volevo che si
mettesse sulla difensiva.
Si
strinse nelle spalle, con fare indifferente.
«Così.
Ti vedo strana».
La
sua risposta mi incuriosì. «In che
senso?».
Daryl
mi lanciò un’occhiata indecifrabile, per poi
guardare subito altrove. «Niente, lascia stare».
Lo
guardai, incurvando le labbra in un mezzo sorriso. «Sai,
penso di aver capito. Sono più silenziosa del solito, vero?
Almeno con te». Si
girò nuovamente a osservarmi, ma non mi smentì,
così continuai. «Beh, il fatto
è che non voglio usarti come muro del pianto e delle
lamentele come faccio di
solito», ammisi.
«Tu
parla, poi quando mi stanco posso sempre far finta
di ascoltarti», replicò, con finto tono burbero.
«Perché,
non lo fai sempre?», scherzai. Poi abbassai
lo sguardo, giocando con un filo sfuggito alle cuciture della manica
della
camicia. «Comunque, non saprei nemmeno cosa dire. Ho un tale
caos in testa, in
questo momento… Sono incazzata e delusa, delusa da come sono
andate le cose.
Delusa perché, ancora una volta, mi sono comportata come una
che vive nel mondo
delle fiabe. Che stupida – risi, amaramente – ero
convinta che la riunione di
stasera potesse risolvere tutto. Invece è finita con due
persone uccise».
«Certe
situazioni possono solo degenerare», commentò
Daryl.
«Sì,
ma… non l’ho mai preso in considerazione, quello
scenario. Ancora non ho imparato che bisogna sempre essere pronti al
peggio.
Ricordarsi che esiste quella possibilità che le cose
potrebbero andare male»,
mormorai, stringendo le braccia al petto. «Ieri sera, quando
ti ho detto che
sarebbe andato tutto bene, ne ero fermamente convinta. Non esisteva
un’altra
alternativa per me».
«Beh,
è il tuo ruolo, quello di sperare».
Sorrisi,
triste. «Sto iniziando a pensare che non sia
poi così positivo, come modo di pensare. Tutte le volte che
poi mi scontro con
la realtà è come ricevere un pugno nello stomaco.
Forse non sono ottimista,
sono semplicemente stupida».
«Non
dire stronzate», sbuffò Daryl. «Tanto
non si sa
un cazzo del futuro comunque, meglio essere positivi
nell’attesa che le cose
succedano, no? Belle o brutte che siano».
Il
suo incoraggiamento, brusco ma sincero, mi fece
sussultare. Mi voltai a guardarlo, senza riuscire a nascondere la
meraviglia.
Era sempre così incoraggiante, confrontarsi con lui, anche
se amava
interpretare il ruolo di persona burbera e indifferente. Quando non lo
era
affatto. Sentii gli occhi pizzicarmi, commossa
dall’abilità di Daryl di trovare
sempre le cose giuste da dirmi per farmi forza.
Abbassai
lo sguardo sulla sua mano e gliela strinsi, sbilanciandomi
verso di lui e accoccolandomi contro il suo corpo caldo.
«Grazie,
Daryl», sussurrai, la voce spezzata. Ma il
cuore era pieno di sollievo.
La
cosa che mi soprese fu che non si irrigidì, quando
mi appoggiai contro di lui: non riuscii a capire se fosse
perché se l’aspettava
– vista la piega che avevano preso le cose – o
perché, forse, stava iniziando
ad abituarsi al contatto fisico con me. Anzi, aumentò per un
secondo la stretta
sulla mia mano e appoggiò la guancia contro la mia nuca,
senza dire altro. Il
suo calore mi circondava e mi faceva sentire sicura, sicura anche del
fatto che
non sarebbe stato necessario chiedergli esplicitamente di rimanere. Non
quella
notte. Rimanemmo in silenzio per un po’; dopo non so quanto
tempo, mi venne in
mente una domanda.
«Chi
era l’uomo con cui sei arrivato?».
Pensai
che Daryl si fosse addormentato, perché ci mise
qualche istante a rispondere. «Si chiama Morgan. È
un amico di vecchia data di
Rick. Cioè, è la prima persona che Rick ha
incontrato in questo mondo di merda».
«Come
hai fatto a trovarlo?».
«Ci
siamo incontrati in mezzo ai boschi, a qualche
miglio di distanza da qui. Si era perso e mi ha mostrato una cartina,
sulla
quale era scritto il nome di Rick. Abraham gli aveva lasciato un
messaggio prima
di partire per salvare il mondo, te la ricordi la storia?».
«Sì».
In realtà, fu molto difficile concentrarmi su
qualcosa che non fosse la naturalezza con cui riuscivamo a parlare con
le mani
intrecciate.
«Ecco.
Non so come, è riuscito a trovarla. È tosto,
quel figlio di puttana».
Risi
dell’espressione colorita che gli uscì,
stringendomi di più contro la sua spalla. «Si
può dire che fosse nel luogo
giusto, al momento giusto».
«Si
può dire», asserì, facendo spallucce.
Ritornò
di nuovo il silenzio complice nella quale
eravamo immersi poco prima, ma, quella volta, fu lui a interromperlo.
«Domani
seppelliranno Reg», mi informò.
Sospirai.
C’erano troppi funerali in quel periodo, per
i miei gusti. «Immaginavo. E Pete?».
«Penso
che Rick lo voglia fuori dalle mura».
Mi
irrigidii e il mio pensiero corse subito ai suoi
figli, Ron e Sam. Immaginai come si sarebbero potuti sentire, vedendo
il corpo
del padre ripudiato dall’intera comunità.
«Oh».
Daryl
mi guardò di sottecchi. «Cosa?».
Mi
strinsi nelle spalle. «Nulla, è che… da
una parte
lo capisco, dopo tutto quello che Pete ha fatto. Ha distrutto la sua
famiglia e
quella di Deanna. Però penso ai suoi figli, soprattutto a
Ron. Se volessero
andare a trovarlo, per ricordarlo… non potrebbero. Non
è nemmeno giusto così».
«Pete
era un pezzo di merda, credo che anche i suoi
figli lo sappiano».
«Certamente,
però… è morto. Ormai non
può più fare del
male a nessuno. Secondo me è giusto che chi rimane abbia un
luogo dove piangere
le persone che ha perso». I miei pensieri corsero al mio
migliore amico e
sentii un nodo doloroso stringermi la gola. «Sai, sono
andata, per modo di
dire, a trovare Noah. So che è stupido, che è una
formalità, ma sapere che lui
lì non c’è, perché i vaganti
lo hanno ridotto in niente… sapere che non ha
nemmeno avuto diritto ad essere seppellito, se ci penso mi fa stare
male. Me ne
sono resa conto solo ieri mattina».
Non
so se lo immaginai, ma sentii la stretta di Daryl
aumentare, attorno alla mia mano. Continuai, la voce che mi tremava
appena. «Mi
sarebbe piaciuto avere qualcosa da portare sempre con me, per
ricordarlo. Ma
siamo arrivati qui con niente e io non ho ancora avuto il coraggio di
andare a
casa sua. Anche se penso che l’abbiano già
svuotata».
Daryl
rimase in silenzio, probabilmente per darmi il
tempo di ricompormi, o per rispettare i miei sentimenti. Non
c’era molto che
potesse dire o fare, per consolarmi. Ormai era andata così.
Il silenzio calò di
nuovo e, da lì in poi, non parlammo più. Ad un
certo punto, sbadigliai
sonoramente e Daryl, a quel punto, con un’insolita decisione,
lasciò la mia
mano per circondarmi le spalle con un braccio e farmi accoccolare
contro il suo
petto, mentre distendevo le gambe sul divano. Lo sentii rilassarsi: in
tacito
accordo, decidemmo di dormire lì, per quella notte. Allungai
un braccio per
afferrare il plaid che tenevo ripiegato sul bracciolo del divano e
cercai di
coprire entrambi alla bell’e meglio.
Cullata
dal respiro di Daryl nel silenzio, lasciai che
la stanchezza avesse la meglio e scivolai nell’incoscienza
del sonno.
Quando
mi svegliai la mattina dopo, mi ritrovai in
posizione fetale sul divano, coperta totalmente dal plaid. Mi alzai a
sedere e
mi stropicciai gli occhi, infastidita dalla luce che filtrava dalle
finestre,
leggermente indolenzita. La balestra era sparita, così come
Daryl: ero da sola.
Rimasi qualche istante a contemplare il vuoto, cercando di capire dove
potesse
essere andato, senza che me ne accorgessi. Mi trascinai fino al bagno e
mi
sciacquai la faccia: trovai il fazzoletto di Daryl strizzato e messo ad
asciugare sulla struttura della doccia. Forse doveva fare qualcosa con
Rick,
quella mattina.
Andai
in cucina, dove l’orologio segnava poco più
delle otto e mezza. Mentre ingurgitavo pigramente uno dei biscotti di Carol, mi ritrovai ad
osservare la mano che Daryl, la sera prima, aveva stretto per
così tanto tempo.
Si era pentito di essersi avvicinato così tanto a me? Aveva
bisogno di
riordinare un po’ le idee, dopo il caos della sera prima?
Cercai di non
pensarci e non farmi troppe domande. Decisi di farmi una doccia, mi
lavai i
denti poi andai di sopra a indossare dei vestiti puliti. Decisi di
andare da
Maggie e poi dal resto della mia famiglia, per vedere un po’
come fosse la situazione.
Mentre buttavo i vestiti del giorno prima nella cesta dei panni
sporchi, sentii
bussare alla porta.
Quando
andai ad aprire, mi ritrovai Daryl sulla porta.
«Buongiorno.
Posso?», esordì, indicando il corridoio
con un cenno del capo.
Gli
sorrisi, piacevolmente sorpresa. «Oh, buongiorno.
Sei venuto a riprenderti il fazzoletto? Non è ancora del
tutto asciutto»,
proferii, mentre lo lasciavo entrare. Quando raggiunse il soggiorno,
notai che
portava con sé uno zainetto nero, molto simile a quello che
avevamo trovato al
country club. Cercai di soffocare la mia curiosità, mentre
lo osservavo
fermarsi in mezzo alla stanza.
«Va
bene lo stesso, si asciugherà nella mia tasca»,
rispose, stringendosi le spalle.
Annuii.
«Pensavo fossi a casa, con gli altri. Stavo
per passare», lo informai. Lui mi squadrò per
qualche istante, poi si voltò e
si diresse in cucina, appoggiando lo zaino sul tavolo. Lo seguii,
perplessa. A
quel punto, non riuscii più a trattenermi.
«Daryl,
cos’è quello?», domandai, osservandolo
dall’altra parte del tavolo, mentre lo apriva.
Sembrava… teso?
«Sono
stato a casa del tuo amico, stamattina», disse,
senza guardarmi, mentre mi porgeva lo zaino aperto. Mi bloccai e per un
momento
mi sembrò di non riuscire più a respirare. Il
cuore iniziò a battermi
furiosamente, rimbombando nelle orecchie. «Non
l’hanno ancora sgomberata».
Mi
sforzai di non restare lì impalata e mi avvicinai,
per vedere il contenuto dello zaino: c’erano vari oggetti, al
suo interno. Con
la mano tremante, la prima cosa che estrassi furono tre o quattro CD di
un
cantante che non avevo mai sentito, ma che sicuramente piaceva a Noah.
Li
appoggiai sul tavolo, passando agli oggetti successivi. Estrassi un
blocco
piuttosto pesante e lo aprii: erano pieno di appunti e schizzi di
elementi architettonici
che doveva aver prodotto durante tutto il tempo che aveva passato con
Reg. Se
n’era fatto procurare uno, dopo che il suo
“mentore” gli aveva suggerito di
segnarsi tutto ciò che riteneva importante. Sentii gli occhi
riempirsi di
lacrime, che andarono a bagnare le guance quando tirai fuori
ciò che era finito
in fondo lo zaino: era una foto, scattata sicuramente da Aaron, che
ritraeva me
e Noah, che ridevamo per qualcosa. Riconobbi la cucina del reclutatore,
doveva
essere stata scattata dopo una delle varie cene a cui eravamo stati
invitati,
appena arrivati, spaesati. L’aveva avuta Noah, per tutto quel
tempo. Il mio
migliore amico…
Con
la mano che non stringeva la foto, mi asciugai le
guance, alzando lo sguardo su Daryl. Sentivo di avere
un’espressione sconvolta,
ma non riuscii a trovare le forze di ricompormi.
«È
tutto quello che sono riuscito a trovare», disse,
in tono basso, fuggendo il mio sguardo. Portò la mano alla
cintura, alla quale
era appesa una fondina, con una pistola al suo interno. «E
questa. Era sua».
Quando
me la allungò oltre il tavolo, la presi in mano
e la osservai: sulla guancetta in legno, era intagliata una
“N”, non molto
grande, ma dai contorni ben definiti.
«Olivia
mi ha permesso di prenderla. Io ho solo
intagliato la sua iniziale, così…»,
proferì, interrompendosi subito. Sbuffò,
ficcando le mani nelle tasche. «Beh, hai capito. È
tua, adesso».
Così sarà
sempre con te, sul campo di battaglia.
Io
continuavo a fissarlo, senza parole. Per la prima
volta, rimasi totalmente a corto di cose da dire: era tutto
troppo.
Cercai di elaborare tutto quello che avevo appena vissuto: Daryl era
andato a
casa di Noah, al posto mio, perché io non me la sentivo.
Aveva raccolto degli
oggetti del mio migliore amico, come ricordi in suo onore. Era andato
all’armeria e aveva inciso l’iniziale del nome del
mio migliore amico, come se
in quel modo potessi averlo sempre con me, a proteggermi dai pericoli
di quel
mondo.
Non
c’era niente di abbastanza che potessi
dire
per poter esprimere la profonda gratitudine che stavo provando per
Daryl, in
quel momento. Per tutto quello che aveva fatto per me. Gratitudine che,
lo
avvertii chiaramente, si mischiò assieme a tutti i
sentimenti che provavo per
l’arciere. Il mio cuore rischiava di strabordare, tutto
quell’insieme di
emozioni rischiava di sopraffarmi. Il nodo che mi stringeva la gola era
stretto, per quello capii che non sarei stata in grado di parlare: ero
arrivata
a livello. Non potevo più rimandare, fingere, accantonare
quello che provavo
per Daryl. Non dopo ciò che aveva fatto per me in quelle
ultime ore. Per una
volta, non mi sarei servita delle parole, sarebbero state inutili e
riduttive.
Sarei passata ai fatti, come era solito fare lui.
Cercai
di controllare il respiro, mentre con lentezza
appoggiavo la pistola sul tavolo. Il mio sguardo incrociò il
suo e, da quel
momento, non lo lasciò. Nemmeno mentre, con la stessa
lentezza, aggiravo il
tavolo per fermarmi di fronte a lui.
Tutto
ciò che a avevo intorno, sparì; tutto quello che
non era il suo sguardo di ghiaccio, animato dall’incertezza e
sì, anche dalla
paura – aveva intuito dove ci avrebbe portato tutto quello?
– il suo volto poco
distante dal mio, la sua pelle che mi chiamava scomparve dalle mie
percezioni.
Esisteva solo Daryl, c’era sempre stato solo lui. E sapevo
che poteva capirlo
dalla determinazione, mista a desiderio, con cui lo stavo guardando.
Con
lentezza snervante, iniziai ad avvicinare sempre
di più il mio volto al suo. Avvertii subito che il suo
respiro si era fatto
irregolare, così come il mio.
«Beth»,
protestò debolmente, con voce bassa e
arrochita. Cercò fino all’ultimo di sottrarsi,
allontanando il viso dal mio man
mano che mi avvicinavo. Ma non glielo permisi perché, nello
stesso momento in
cui mi issai sulle punte dei piedi con uno scatto, gli afferrai il
colletto
della camicia e lo avvicinai bruscamente a me, facendo scontrare le
nostre
labbra.
Frastornata
dall’impeto di quel gesto, ci misi qualche
secondo per elaborare che stavo baciando Daryl: a occhi chiusi, cercai
di
concentrarmi sulle sue labbra, ruvide ma calde. Avevo aspettato
così tanto di
scoprire che effetto facessero, contro le mie…
In
un primo momento, l’arciere oppose resistenza, afferrandomi
entrambe le braccia, probabilmente per allontanarmi da sé.
Ma non lo fece: dopo
qualche secondo, lo sentii rilassarsi – o, forse, rassegnarsi
– lasciando
andare un respiro profondo, spezzato da un tremito. Trovai il coraggio
di
dispiegare appena le labbra, per assaggiare le sue con la punta della
lingua.
Mi
allontanai da lui per mancanza d’aria, entrambi
avevamo il fiato corto. Riportai i talloni per terra, senza lasciargli
il
colletto, e lui si sporse verso di me, sovrastandomi, facendo scendere
le mani
sui miei fianchi, mentre riprendeva fiato con la fronte appoggiata alla
mia. Ci
guardammo, più vicini che mai:
l’intensità con cui mi guardava avrebbe potuto
farmi cedere le ginocchia, se non fossi stata aggrappata al suo corpo.
E
non capii cosa lesse nel mio sguardo, se fu quello
l’attimo esatto in cui si arrese totalmente a quello che
provavamo. Riuscii
solo a sentire la sua mano destra che risaliva il mio braccio e
arrivava a
posarsi sulla mia guancia, mentre con l’altro braccio mi
cingeva i fianchi per
stringermi a sé. Quella volta, Daryl ricambiò il
bacio con timido trasporto,
dispiegando le labbra e sfiorando la mia lingua con cautela, come se
non
volesse lasciarsi andare del tutto. Come se fossi un oggetto fragile da
maneggiare
con cautela.
E
invece, in vita mia, non mi ero mai sentita così
forte come tra le sue braccia.
Note
autrice
Eeeee
con questo, si conclude la stagione cinque in
questa storia! Non mi sembra vero di essere arrivata a questo punto di
svolta,
ma, finalmente, è successo. Sinceramente, vi "dono" questo
capitolo
con molta, molta ansia.
Un
po' (anzi, tanto) perché come al solito ho tardato
con l'aggiornamento. Ho passato veramente un brutto periodo questo giro
(ergo,
sono stata lasciata), non mi sentivo proprio in vena di portare avanti
quella
che è, a tutti gli effetti, una storia d'amore. Adesso mi
è passato tutto e sto
benissimo, l'unico problema, ultimamente, è stata la
mancanza di tempo. Ho
sempre avuto tanti problemi di organizzazione, ma ho iniziato
seriamente a
lavorarci. Questa storia va lenta, me ne rendo conto, ma
nonostante tutto non
ho mai pensato un secondo di mollarla, e non l'ho fatto. Ora
che ho finito
di lavorare, avrò del tempo in più da dedicare al
rewatch della stagione 6 e
alla scrittura, quindi, ecco, spero di poter aggiornare una volta al
mese. Ci
proverò, seriamente.
Altro
fattore d'ansia: il bacio. A) perché sono
arrugginita con la descrizione di baci B) perché sono Beth e
Daryl, e con loro
mi sembra sempre di camminare su un campo minato. Questo capitolo
è, a tutti
gli effetti, un finale di stagione. Perciò, ho cercato di
non calcare troppo la
mano sul bacio finale, che non è il punto focale di questo
capitolo, ma un
punto di svolta che serve per passare a una fase successiva della
storia.
Magari vi sarà sembrato un po' lasciato a metà,
non troppo approfondito, ma l'ho
fatto apposta. Come se fosse una specie di cliffhanger,
in un certo
senso.
Mi
dispiace se il capitolo vi può risultare pesante,
specialmente nella prima parte, ma volevo concentrare tutto qui per far
finire
la quinta stagione e passare alla sesta, senza ulteriori allungamenti.
Quindi, questo è. Spero che abbiate apprezzato il capitolo e
che vogliate
condividere le vostre impressioni con me :) Intanto, ringrazio di cuore
Tracey,
vannagio
(che mi ha "suggerito"
questo interessante spunto nella sua recensione[1])
e psichedelia95
che hanno recensito lo
scorso capitolo.
Grazie
per il supporto che mi date, anche solo
leggendo e mettendo tra le preferite/seguite, nonostante io sia un
disastro.
Alla
prossima,
Blakie
P.S.:
per questa volta, mi sono permessa di rubare il
titolo alla puntata. Buona parte di questo capitolo ruota intorno ad
essa.
Inoltre, lo vedo bene anche per quello che, finalmente, Beth riesce a
conquistare: il coraggio di farsi avanti con Daryl :P
Da
quando Pete era morto, Denise aveva
iniziato a venire in ambulatorio molto più frequentemente.
Nel giro di qualche
giorno, si era ritrovata ad essere il nuovo medico di Alexandria e la
cosa l’aveva
messa piuttosto in agitazione. Ne avevo parlato con Josie, che era
un’infermiera professionista, e avevamo convenuto che fosse
meglio lasciarle da
sole, in modo che Denise potesse sentirsi libera di
“ripassare” con Jo senza
sentire le pressioni di una terza persona che assisteva –
cioè io.
Per
questo, quella mattina, mi ritrovai
nel garage adibito a scuola assieme a Samantha e ai bambini, a vestire
nuovamente i panni di insegnante. Dovermi occupare di quei piccoletti
mi dava
la possibilità di non pensare a tutto quello che era
successo. E a quello che non
era successo. Anche se non funzionò molto bene.
«Beth,
stai bene?».
La
domanda di Sam arrivò a penetrare lo spesso strato
di pensieri che mi stava isolando dalla realtà. La sua voce
mi risvegliò come
da una dormita leggera. Non ero riuscita a capire bene cosa mi avesse
chiesto.
«Uhm?».
Lei
sembrò divertita dalla mia espressione di
smarrimento. «Ti ho chiesto se stai bene. Sono cinque minuti
buoni che fissi
quel libro, pensavo fossi caduta in uno stato catatonico».
Abbassai
lo sguardo sul libricino colorato che tenevo
in mano. Cosa stavo facendo?
Mi
strinsi nelle spalle. «Beh, il Ragno Itsy Bitsy mi
ha appassionata», scherzai, riponendolo nello scaffale
davanti al quale mi ero
incantata.
Samantha
sorrise, guardando i bambini che stavano
disegnando le avventure del ragnetto che poco prima avevo cantato
assieme a
loro. «Ci sono pennarelli e colori anche per te, se
vuoi».
Ridacchiai
e incrociai le braccia al petto, guardando
altrove con leggero imbarazzo. Sentii la sua mano che si posava sulla
mia
spalla, incontrando poi il suo sguardo preoccupato. «A parte
gli scherzi, Beth,
sei sicura che vada tutto bene? Ti vedo pensierosa».
Abbozzai
un sorriso, grattandomi una tempia. «Se ti
dicessi di sì non te la berresti, vero?».
«Non
sei molto brava a mentire, ti ho già scoperta.
Sei preoccupata per chi è andato alla cava? In tal caso
dovresti stare
tranquilla, stamattina fanno solo una prova generale», mi
ricordò.
Io
annuii, cercando di essere convincente. «Sì, lo
so.
Però sai, tutti quei vaganti… Forse è
la mia ansia inconscia che mi sta facendo
un brutto scherzo», bluffai.
Samantha
stava per rispondermi, quando uno dei bambini
richiamò la sua attenzione per farsi aiutare col proprio
disegno. Tra me e me,
sospirai di sollievo; mi sentii anche leggermente in colpa per essermi
chiusa,
di fronte alle premure di Sam. Però era tutto
così… assurdo, che non me la
sentivo di sfogarmi con qualcuno. Per evitare che la mia collega
tornasse alla
carica, iniziai a mettere a posto i giocattoli che avevano usato i
più piccoli
prima della canzone, voltandole le spalle. Con le mani impegnati e una
finta
espressione assorta, potei finalmente permettermi di far viaggiare i
pensieri.
Rick
aveva indetto quella riunione
con massima urgenza, esigendo che ci fossimo tutti. Ricordavo benissimo
la sua
espressione preoccupata ma irremovibile mentre ci raccontava di questa
cava
mineraria enorme, a qualche miglio – comunque troppo vicina
– dalla città.
L’aveva trovata quando, dopo il funerale di Reg, era uscito
assieme a Morgan
per lasciare il corpo di Pete da qualche parte nei boschi.
Deanna
– o meglio, l’ombra di quella
che era stata la leader di Alexandria – era caduta dalle
nuvole. Non ne sapeva niente,
nessuno degli abitanti si era mai accorto di niente, perché
non avevano mai
avuto nulla da cercare in quella zona. Ero riuscita a leggere
l’espressione
quasi di biasimo che aveva animato gli occhi di Rick davanti
all’ennesima
inconsapevolezza di chi era ad Alexandria dall’inizio. Ma non
ci sarebbero
stati problemi, Rick aveva un piano in mente: allontanarli e portarli a
miglia
e miglia di distanza dalla città. Lo sceriffo aveva ricevuto
un’adesione più o
meno unanime dai presenti, con qualche remora da parte di Carter, uno
degli
abitanti originari di Alexandria. Il piano sarebbe stato elaborato e
perfezionato comunque, a discapito degli scettici.
Io
avevo tentato di farmi avanti, ma
due perle azzurrissime e glaciali avevano bloccato la mia intenzione
sul
nascere, squadrandomi dall’altra parte del salotto di Deanna.
Che
razza di faccia tosta, avevo
pensato, con rabbia. Avrei voluto incazzarmi e dirgliene di ogni, ma
non avrei
potuto così, davanti a tutti. Perciò avevo
lasciato che la rabbia non logorasse
altri che me e me ne ero stata zitta.
Era
dal bacio del giorno prima che
Daryl non mi aveva più rivolto la parola. Eravamo stati
interrotti dal bussare
di Maggie, che mi era venuta a cercare per andare al funerale di Reg.
Sul
momento, mi ero concentrata per fingere che tra me e Daryl non fosse
successo
niente, mentre aprivo la porta a mia sorella, quindi non avevo avuto
modo di
dire qualcosa all’arciere. Qualunque cosa.
“Possiamo
parlarne più tardi, ti
va?”
“Va
tutto bene?”
“A
cosa pensi?”
Invece
non avevo avuto un’altra
occasione di parlare con Daryl perché, dopo il funerale, era
sparito per tutto
il pomeriggio. Si era ripresentato per cena, a casa di Rick e gli
altri, ma mi
aveva totalmente ignorata. Ed io non avevo potuto fare nulla. Il modo
in cui si
stava comportando con me, mi faceva sentire come se avessimo fatto
qualcosa di
male. La sua freddezza mi aveva totalmente paralizzata e non riuscivo a
darmi
una spiegazione. Non ero riuscita a capire perché il suo
atteggiamento, invece
di farmi infuriare e tendergli un agguato quando fosse rimasto solo, mi
aveva
resa totalmente incapace di reagire. Alla fine me ne ero andata con mia
sorella
e Glenn, dopo cena, senza cercare il minimo contatto con Daryl.
“Magari
ha solo bisogno di tempo,”
avevo pensato. “Forse domani gli sarà
passata.”
Avevo
cercato di rimanere positiva,
di escludere la possibilità che Daryl fosse caduto nelle sue
vecchie abitudini
e che stesse cercando di allontanarmi di nuovo. Forse aveva solo
bisogno di
tempo per accettare quello che aveva provato, accettare che le cose tra
noi
erano cambiate e che eravamo arrivati ad un bivio.
E
invece no.
La
prova generale della missione
progettata da Rick aveva offerto a Daryl la scusa perfetta per evitarmi
anche
il giorno successivo. C’erano state lamiere da radunare,
posti di blocco da
organizzare, squadre da coordinare e strategie da decidere a tavolino:
tutto
questo, Daryl l’aveva usato come escamotage per fuggire da
discorsi che non
voleva fare con me, togliendomi la parola ed il saluto. Ed io non
riuscivo a
capire. Non volevo fargli chissà quali discorsi, sentirmi
promettere amore
eterno o altre scemenze simili. Volevo solo che non scappasse
così, come il
vigliacco che stava dimostrando di essere.
«Stronzo»,
sputai tra i denti, a voce bassa.
L’irritazione scaturita da quei ricordi mi graffiava nel
petto e affiorava
sulla mia pelle con piccole scosse che quasi mi sembrava di percepire.
Quindi,
sì, ero preoccupata per la cava, ma, soprattutto, era stata
l’indifferenza di
Daryl a far calare a picco il mio umore. E a farmi incazzare, dopo il
tiro che
mi aveva fatto quella mattina…
I
miei pensieri vennero interrotti dal
grido che udii e che arrivava dalla strada. Scattai in piedi nel
silenzio che
era calato in garage ed incontrai lo sguardo di terrore di Samantha.
«Maestra,
chi ha urlato?», mugugnò Jacob, che era
più
vicino a me, nascondendosi dietro alla mia gamba.
«Jake,
vai vicino alla maestra Sammie», sussurrai,
invitando il bambino a raggiungere il gruppetto che si era radunato
attorno alla
mia collega. Con lentezza, mi avvicinai alla porta laterale del garage,
guardando oltre la finestrella in vetro per capire cosa stesse
succedendo in
strada. Ad un primo sguardo, sembrò tutto tranquillo. Poi,
vidi una persona –
che non era dei nostri – trascinare per i capelli una delle
amiche della
signora Neudermayer. Lo stomaco mi si rivoltò, quando quella
bestia calò un
machete sulla donna, tagliandole la gola.
Mi
venne istintivo, con uno scatto, appiattirmi contro
il muro e distogliere lo sguardo da quella scena orribile.
«Beth?»,
domandò Samantha a bassa voce, senza riuscire
a nascondere il panico.
Corsi
all’attaccapanni per indossare con gesti veloci
la cintura alla quale erano appese la fondina con la pistola di Noah e
il
fodero col coltello. Anche se Rick aveva caldamente consigliato di
essere
sempre armati, da quando era successo il casino con Pete, non me
l’ero sentita
di indossare delle armi mentre avevo dei bambini attorno.
«Sono
arrivati i mostri?», sentii mugolare Grace, la
voce spaventata.
Mi
parai davanti ai bambini, parlando
piano ma cercando di mantenere un tono controllato. «Ascoltatemi.
Adesso faremo il gioco
del silenzio, ma difficile: dovete tutti seguire la maestra Sammie e
nascondervi con lei nella stanzina della lavanderia. Starete un
po’ stretti, ma
fate finta di essere amici del ragnetto Itsy Bitsy, okay? Piccolini
come lui».
I
bambini mi guardarono un po’ incerti, così come
Sam.
Aveva capito che non sarei andata con loro, ma cercò di
mantenere il controllo
per non trasmettere panico ai piccoli.
«Forza,
bambini», proferì a bassa voce. «Tutti
in fila
e in silenzio».
Mentre
i nostri piccoli allievi si rintanavano uno ad
uno dietro la porta del piccolo stanzino adiacente, Sam mi si
avvicinò, non
riuscendo a celare il terrore e la paura che esprimevano il suo
sguardo.
«Beth,
vieni anche tu. Ti prego, non posso lasciare
che-».
«Sam,
ascoltami. Devi chiuderti lì e aspettare che
venga a liberarvi io, okay? C’è la nostra gente
che sta morendo, là fuori. Hai
il coltello con te?».
«Sì,
ma tu-».
«Io
non posso lasciare che chi ci sta attaccando entri
qui dentro e ne esca vivo. Non se poi andrà ad ammazzare
qualcun altro dei
nostri amici. Vi proteggerò, non puoi fare niente per
impedirmelo», sussurrai,
con decisione. Provò a dire qualcos’altro, ma non
glielo consentii. «Forza,
nasconditi adesso e chiuditi dentro. Vai!».
Con
riluttanza, mi ascoltò. Mi lanciò un
ultimo sguardo tormentato, prima di raggiungere i bambini e far
scattare la
serratura. Io sospirai di sollievo, contenta che almeno loro fossero al
sicuro.
Non sapevo come stesse mia sorella, o gli altri della mia famiglia che
erano
rimasti tra le mura. Non sapevo nemmeno se quello che avevo elaborato
fosse un
buon piano, ma dovevo provarci.
Mentre
mi assicuravo personalmente che la
porta fosse ben chiusa, sentii un rumore fortissimo e continuo di
clacson
squarciare l'aria.
«Merda»,
sibilai, raggiungendo la porta e facendo
scattare nuovamente la serratura per riaprirla. Cosa diavolo stava
succedendo? Proprio
mentre i più forti di noi erano fuori dalle mura...
Respirai
profondamente per non farmi prendere dal
panico e mi piazzai al centro della stanza, prendendo la pistola dalla
fondina
e puntandola contro la porta. Raccolsi tutte le mie forze per non farmi
vincere
dalla paura anche se, all’improvviso, era diventato veramente
difficile
respirare regolarmente.
Mi
tornò in mente ciò che mi aveva detto Daryl
quella
sera in cui gli chiesi se mi avrebbe insegnato ad usare le armi.
«Lo
sai che sarai costretta ad
uccidere? Non solo vaganti, ma anche essere umani. Soprattutto essere
umani».
Alla
fine, quello che aveva prospettato l’arciere si
stava per avverare, come la più inevitabile delle
verità. Ma era una verità che
dovevo affrontare, se volevo proteggere la mia famiglia. Era arrivato
il
momento di difendere le persone che amavo, la mia città,
anche se farlo avrebbe
significato uccidere.
«È
meglio se tieni le braccia così».
La voce di Daryl tornò
dal passato, portandomi alla mente i nostri giorni insieme durante gli
allenamenti. Pensarlo alle mie spalle, che mi correggeva e mi
consigliava, come
se fosse lì con me, mi aiutò a fare un respiro
profondo e mantenere la calma.
Dovevo fare ciò che andava fatto e ci sarei riuscita.
Devi
essere sicura di
te. Devi difendere Samantha e i bambini. Devi rimanere in vita,
così quando
Daryl tornerà –
I
miei pensieri vennero bruscamente
interrotti quando la porta del garage si spalancò e sulla
soglia apparvero un
uomo e una donna. Il cuore mi balzò in gola, bloccandomi il
respiro. Lui era
alto, massiccio e biondo; lei era bassa, tozza e
scarmigliata. Il mio
cervello ci mise mezzo secondo a registrare e elaborare i loro volti;
mezzo
secondo dopo, consapevole che fossero miei nemici, aggiustai il tiro,
premetti
il grilletto e colpii l’uomo in piena fronte.
Crollò
a terra, morto. Incredula, abbassai
lo sguardo sul cadavere che era scivolato sul pavimento. Ci ero
riuscita
davvero e mi sembrava impossibile. Nonostante il cuore che mi batteva
all’impazzata e l’adrenalina che mi scorreva nelle
vene, riuscii ugualmente a
leggere la sorpresa e il terrore che si dipinsero sul volto della
donna. Il suo
viso era sporco e una “W” era incisa sulla sua
fronte, notai, puntandola con la
pistola e caricando il secondo colpo.
Riuscii
a sentirla ringhiare, prima che
scappasse e scomparisse dalla mia vista.
«Merda!»,
esclamai questa volta, scattando nella
direzione verso cui era sparita.
Uscita
dalla
porta, mi guardai intorno, ma non c’era nessuno. La cosa
più logica fu pensare
che si fosse nascosta dietro al garage o che stesse girando attorno la
casa per
nascondersi dalla mia vista e guadagnare tempo. Alzai nuovamente le
braccia e
puntai la pistola davanti a me, iniziando ad avanzare verso destra per
andare
nel retro del garage. Girai l’angolo col cuore in gola ed il
colpo pronto, ma
non c’era nessuno. Abbassai la pistola e avanzai
nell’erba, cercando di non
fare rumore e strisciando contro la parete laterale del garage.
Mi
sporsi
con la testa oltre l’angolo, ma la via era libera. Non
riuscivo a trovarla.
Feci
appena in tempo a muovere un passo per tornare indietro, che la donna siavventò
su di me con violenza, strappandomi
un urlo di sorpresa. Caddi con la schiena sul manto erboso,
l’aria che mi sgusciò
fuori dai polmoni a causa dell’impatto improvviso col
terreno. La prima cosa
che mi venne istintiva fare, fu cercare la pistola che, per la
sorpresa, avevo
lasciato cadere. Non si trovava lontana da noi, ma ladonna,
che gravava
su di me con tutto il suo peso, mi impediva di allungarmi e
riappropriarmi
della mia arma.
Ero
stata presa talmente tanto alla sprovvista che, inizialmente, cercai di
concentrare tutte le mie forze per non venire sopraffatta. Non riuscivo
a
pensare lucidamente ad un modo per renderla inoffensiva e
riappropriarmi della
pistola. I pensieri andavanotroppo
veloce, la mia visuale era offuscata e l’unico punto fermo al
quale riuscivo a
prestare attenzione era la “W”, incisa sulla fronte
della sconosciuta come un
macabrotatuaggio.
Anche quell'uomo ce l'ha... fanno parte di qualche strana
setta?
Provai,
con difficoltà, a ignorare il
panico che mi stava assalendo, scacciando via la sensazione di essere
in
trappola. Raccolsi tutta le forze che avevo per resistere alla mia
nemica, che
stava cercando di immobilizzarmi per poter calare su di me il pugnale
che aveva
sfilato dalla cintura.
Nonostante
fosse una donna di mezza età –
forse un po’ più giovane di Carol – la
sua stazza le dava molta più forza di
quel che mi sarei aspettata. I suoi occhi folli erano piantati nei miei
e
brillavano, in contrasto con lo sporco della sua faccia. I muscolidelle
mie braccia bruciavano per lo sforzo
che stavo facendo nel cercare di respingerla, bloccando il polso della
mano che
stringeva il pugnale con entrambe le mie. La lama era
vicinissima al mio
occhio sinistro, se non fossi riuscita a fare qualcosa, per me sarebbe
finita.
Iniziai
a dibattere le gambe il più
possibile, spingendo col ginocchio sinistro verso di me, per liberarlo
dalla
morsa delle gambe della donna - a cavalcioni su di me. Era unosso
duro, più per il suo peso che per le
sue abilità di combattimento. Quando le braccia
iniziarono a tremarmi, un
senso di urgenza mi strinse lo stomaco ed un nuovo slancio di
determinazione mi
scosse.
Affondai
le unghie nella pelle della
donna, raccogliendo tutte le forze per strattonarle il polso e far
scontrare il
suo pugno chiuso contro la sua guancia, per distrarla. Nellostesso
istante, mi voltai verso destra,
dove col braccio libero si stava sostenendo alato
della mia testa. Mi allungai a
fatica per morderla, cercando di ignorare quanto fosse sporca la sua
pelle.
Grazie
a quella manovra dolorosa, mentre
si lasciava sfuggire un ringhio di dolore che ben poco aveva di umano,
riuscii
a sbilanciarla con uno strattone e trascinarla contro il terreno, a
sinistra
rispetto il mio corpo. Approfittai del suo sbilanciamento per liberare
una
gamba e disarcionarla da me, facendola crollare sull'erba. Le mie mani
erano
ancora strette attorno al suo pugno; ma non avevo calcolato la sua mano
libera,
che mi assestò uno schiaffo in pieno viso. Nonostante il
dolore, che mi
disorientò per un secondo, cercai di rimanere lucida per
contrastare la forza
del suo corpo. Se solofossi
riuscita a
sfilare il coltello dal fodero, avrei potuto mettere fine a tutto quello.
Era
quello,
il mio obiettivo finale.
Avevo
pensato di ribaltare le posizioni e
bloccarla come lei aveva fatto con me, ma con la ferrea resistenza che
stava
opponendo mi fu impossibile. Troppo impegnata a mantenere la presa
sulla sua
mano armata, mi ritrovai improvvisamente l'altra stretta attorno il mio
collo,
come
le spire di
un serpente. L’improvvisa mancanza d’aria mi
lasciò spiazzata e diventò
difficile concentrarsi su qualcosa che non fosse la sua presa che mi
stava
bloccando la respirazione.
Dovevo
afferrare il coltello a tutti i
costi, lo sapevo, eppure cominciavo a sentire le forze abbandonarmi. In
un
ultimo, disperato tentativo, riaffondai le unghie nei suoi polsi il
più
profondamente possibile, graffiandolo. Mentre lei grugniva dal dolore
ed io
cercavo di ignorare il mio, con uno slancio disperato e rabbioso,
sfilai
velocemente il coltello dal fodero. Con un singulto,
le affondai la lama
nello stomaco, come un pezzo di burro.
I
suoi occhi verdi si spalancarono, così
come la sua bocca, incatenandomi in uno sguardo incredulo che non avrei
mai
dimenticato. Senza riuscire a guardare da un’altra parte,
cercai di
regolarizzare il respiro e impedirmi di svenire mentre la sua mano
allentava la
presa attorno al mio collo. Anche la mano che stringeva il pugnale
iniziò
lentamente ad abbassarsi. Presa da un impulso che non avevo mai sentito
prima
dentro di me, rigirai la lama nella ferita, cercando di andare
più a fondo per
lacerarle il più possibile le viscere. Ricambiai lo sguardo
della selvaggia con
orrore, come se quella mano che la stava uccidendo non fosse mia.
Ero
terrorizzata da ciò che stavo facendo,
ma l’istinto di sopravvivenza aveva preso il sopravvento e,
allo stesso modo,
sentivo che non mi sarei fermata per nessuna ragione al mondo. Ero
molto più
consapevole e lucida di quanto mi sarei mai aspettata, pensandomi in
una
situazione del genere. Avevo già ucciso altri esseri umani,
in verità: avevo
spinto O'Donnell nella tromba dell'ascensore e lasciato che
Gorman venisse
divorato da Joan, al Grady Memorial. Ma accoltellare qualcuno con le
mie mani o
sparargli in fronte era tutta un'altra cosa.
Mi
scostai
da lei, togliendole il pugnale di mano e gettandolo alle mie spalle.
«Siete g-già tutti... tutti morti»,
gorgogliò la donna, cogliendomi di sorpresa. La osservai
sconvolta, mentre un
rivolo di sangue le colava dalle labbra, giù per il mento.
Cosa significa?
Seduta sull'erba, disorientata, le voltai le spalle quando capii che
non sarei
riuscita a guardarla un secondo di più. Raccolsi le
ginocchia al petto e mi
presi la testa tra le mani, cercando di respirare profondamente. Mi
imposi di
mettere in ordine i pensieri: va tutto bene, sei viva, hai
protetto Samantha
e i bambini, se non li avessi uccisi quei due avrebbero fatto
del male
alle persone a te care, sei capace di difendere le persone.
È tutto finito.
Potrai rivedere Daryl.
Daryl…
Dopo
due giorni interi,
mi ero stufata di giocare al gioco del silenzio. O meglio, mi ero
stancata di
subirlo da Daryl. La sera prima della prova generale, Rick aveva
organizzato un
incontro tra i vari gruppi per ripassare l’itinerario. La
riunione aveva avuto
luogo a casa di Deanna ed ero riuscita a partecipare semplicemente
perché ero
stata a cena da Maggie e Glenn – ottenendo così la
scusa perfetta per
intrufolarmi. Ero sinceramente curiosa di sapere a che punto erano
arrivati, ma
ancora di più avevo sperato di riuscire a mettere alle
strette Daryl.
Dopo
la riunione, molti
di noi si erano fermati a scambiare due parole e a fare compagnia a
Deanna;
l’arciere, invece, si era dileguato immediatamente. Senza
dare troppo
nell’occhio, avevo deciso di seguirlo; con una certa
sorpresa, mi ero resa
conto molto presto che non si stava dirigendo verso casa,
bensì verso il
laghetto.
Quando
si era appoggiato
alla staccionata sulla riva e si era acceso una sigaretta, mi ero
fermata ad
osservarlo, restandomene in disparte. Nonostante la rabbia per il suo
comportamento, mi era venuto spontaneo chiedermi – con una
certa preoccupazione
– che cosa gli stesse passando per la testa, tanto era
assorto il suo sguardo.
Forse voleva semplicemente rimanere solo?
«Vuoi
stare lì a fissarmi ancora per
molto?».
Quando
la sua voce aveva
spezzato il silenzio ed il flusso delle mie elucubrazioni,
l’imbarazzo per
essere stata colta con le mani nella marmellata mi aveva paralizzata
per un
secondo. Poi, all’istante, era subentrata la rabbia.
«Ti
disgusta così tanto parlarmi
che, piuttosto, preferisci essere pedinato per tutta Alexandria e fare
finta di
niente?», avevo ribattuto, con una risata amara e il tono
ostile.
L’unica
risposta di cui
mi aveva degnata, tra una sbuffata di fumo e l’altra, era
stato uno schiocco di
lingua sprezzante. Mi dava le spalle, ma ero riuscita a immaginare
benissimo la
sua espressione: ci avevo impiegato un secondo a perdere le staffe. Con
qualche
ampia falcata, spinta dall’esasperazione dovuta a quei due
giorni di silenzio,
lo avevo raggiunto, parandomi davanti a lui.
«Si
può sapere cosa stai cercando di
fare?!».
«I
cazzi miei», aveva risposto
prontamente Daryl, con tono di ovvietà.
«Sai
benissimo che non mi riferisco
a questo», avevo insistito, avvicinando il viso al suo per
guardarlo negli occhi.
Lui aveva spostato lo sguardo altrove.
«Mi
hai seccato, ragazzina»,
aveva risposto, lapidario, prima di scansarsi e provare ad allontanarsi
da me.
In
un attimo, avevo
allungato la mano per afferrargli la manica della giacca di pelle per
trattenerlo e mi ero fatta sotto al suo volto con frustrazione.
«Non
puoi ignorarmi per sempre, lo
sai?!».
«Ti
stai facendo dei viaggi con la
testa, tu», aveva borbottato, sprezzante. La cosa
peggiore era stata sentirmi
davvero una stupida, nonostante fossi consapevole di essere nel giusto.
Era
stato capace di farmi sentire così, ma nemmeno lui sembrava
credere a ciò che
stava dicendo.
«Cristo,
Daryl, non farmi ridere!
Non mi guardi neanche in faccia!».
Si
era scostato bruscamente da me,
liberandosi il braccio dalla mia mano.
«Non
fare la voce grossa con me», mi
aveva avvisato, con tono severo. O meglio, quasi... minaccioso. Come
quella
volta, davanti al capanno.
Nonostante
la mia rabbia, le sue
parole avevano avuto effetto; avevo fatto un respiro profondo e cercato
di
ricompormi, senza però abbandonare il risentimento.
«E
tu non prendermi per il culo come
stai facendo con te stesso», avevo replicato, abbassando
leggermente i toni.
«Come,
scusa?».
«Hai
sentito bene. Fingi di non
avermi baciata – a dirlo ad alta voce, mi ero sentita
arrossire – e poi hai
preso nuovamente le distanze; non mi rivolgi più la parola,
mentre solo due
giorni fa sei stato di un premuroso nei miei confronti... Hai fatto una
cosa meravigliosa
per me. Per aiutarmi. Ti sei preoccupato per me, quando mi hai vista
scossa per
quello che era successo con Pete. Mentre adesso sembra che, per te, io
non sia
nessuno. Questo non si chiama prenderci per il culo?».
Daryl
era rimasto totalmente muto,
di fronte al mio sfogo. I suoi occhi, due specchi cupi e illeggibili,
mi
avevano scrutato senza tradire alcuna emozione. Lo avevo
capito subito
che non aveva nessuna intenzione di parlare, commentare quello che
avevo detto.
«Sono stanca,
Daryl. Ogni volta
mi illudo che abbiamo fatto un passo avanti, ogni volta tu scappi e mi
allontani. E perché? Perché è la
strada più facile e ti manca il coraggio di
parlarne da adulti».
Non
aveva aspettato nemmeno che
finissi di parlare: si era fatto avanti a muso duro, incenerendomi con
lo
sguardo a due centimetri di distanza dal mio volto.
«Ascoltami
bene, ragazzina», aveva
proferito, in tono basso e roco. Infuriato. «Io non scappo da
niente e da
nessuno, ficcatelo bene in testa. E non venirmi a dare lezione su come
ci si
comporta da adulti, quando tu stai
facendo tutti questi capricci semplicemente perché non hai
tutte le cazzo di
attenzioni che vuoi. Questo mondo di merda non gira attorno alla
Principessa
Greene e alle sue stronzate sentimentali, renditene conto».
Era
stato un duro colpo, quello. Mi
aveva ferita, tanto; le sue parole taglienti mi avevano fatto
più male di uno
schiaffo ben assestato e avevo sentito gli occhi farsi subito lucidi. E
forse
se ne era reso conto anche lui, ma non gli avevo dato modo di dire
nulla.
Con
lo stesso tono basso e la voce
che tremava incontrollata, avevo sibilato, sostenendo il suo sguardo:
«io,
almeno, non sono terrorizzata da quelle stronzate sentimentali. A
differenza
tua».
Non
credevo che ci sarei mai riuscita,
ma dopo quella frase lapidaria gli avevo voltato le spalle e me ne ero
andata.
Mi ero concessa di piangere solo quando fui sicura che non mi avrebbe
visto.
Non mi aveva mai fatta sentire così umiliata e denigrata;
come se fossi ancora
la stupida ragazzina che si era tagliata i polsi alla fattoria. Una
seccatura
con la quale avere a che fare, che si era costruita enormi aspettative
per un
semplice bacio, come l’ultima delle ingenue.
Quella
notte
avevo dormito malissimo, un po’ per la preoccupazione del
giorno dopo, un po’
per il litigio con Daryl; nonostante ciò, la mattina dopo mi
ero comunque
svegliata in tempo per salutare Glenn e gli altri che sarebbero partiti
in
missione. Ero ancora arrabbiata con l’arciere, tuttavia mi
ero ripromessa di
soffocare il risentimento e cercare di salutarlo civilmente, una volta
incontrato al cancello. La missione che stavano per andare a svolgere,
nonostante fosse un collaudo, non era priva di rischi: era bastato
questo –
senza perdermi troppo in paranoie – a dissuadermi
dall’ignorare Daryl.
Arrivata
al
cancello, avevo notato subito la sua assenza. Mi ero avvicinata a Rick,
teso e
concentrato, per chiedergli dove fosse finito Dixon. La sua
espressione, a
quella domanda, era diventata strana, quasi confusa.
«Daryl
è partito stamattina presto.
Voleva fare una ricognizione e controllare come sono messi gli
autoarticolati
che bloccano i vaganti, giù alla cava».
Era
stata
come una secchiata d’acqua gelida in piena faccia. Se
n’era andato senza dirmi niente,
semplicemente perché avevamo litigato. Odiavamo gli addii,
ma ero sempre
andata a salutarlo prima di una missione.
Quella mattina avrebbero
fatto una prova, ma avrebbero avuto comunque a che fare con una cava
mineraria
piena zeppa di vaganti. E se qualcosa fosse andato storto e non ci
fossimo
rivisti mai più? Non ci aveva pensato, a questo?
Il
peso che aveva gravato
sul petto in quei momenti, si trascinò fuori dai ricordi e
mi sorprese lì,
mentre ero ancora raggomitolata a terra, riportandomi alla
realtà. Non dovevo
permettere a quei pensieri di distrarmi, non in un momento del genere:
solo
perché ero riuscita a… sconfiggere due di loro,
non significava certo che il
pericolo fosse passato.
Stringendo
le labbra, guardai la donna stesa a terra,
al mio fianco: i suoi occhi erano chiusi, il suo corpo immobile tra i
fili
d’erba alti, che si muovevano appena sfiorati dal vento. Era
morta.
Respirai
profondamente e le affondai il coltello nella
tempia, per evitare che si risvegliasse. Leggermente riluttante, pulii
la lama
dal sangue alla bell’e meglio, utilizzando la maglia che
indossava. Mi alzai e
cercai la pistola che avevo perso poco prima. La trovai a pochi passi
dal
cadavere della donna e la raccolsi, fermandomi un attimo ad osservare
la “N”
che Daryl aveva sapientemente inciso sulla guancetta, seguendone gli
intagli
nel legno. Sospirai, riponendola nella fondina e ritornai dentro al
garage, per
assicurarmi che non fosse successo nulla a Samantha e ai bambini; erano
ancora
tutti stipati nella lavanderia, smarriti e spaventati, ma per lo meno
stavano
bene.
Dissi
a Samantha che sarei andata a cercare mia
sorella e le ordinai di bloccare la porta del garage con la libreria,
in modo
da non far stipare nuovamente i bambini dentro a quello stanzino
stretto. Lei
non mosse nessuna replica, cercando di mostrarsi forte.
«Io
vado. Se dovesse succedere
qualcosa, ritornate subito nella lavanderia», mi raccomandai,
prima di
schizzare fuori dal garage. Con la pistola ben salda tra le mani, mi
mossi
contro i muri delle varie abitazioni, cercando di non farmi vedere. Le
strade
erano disseminate di cadaveri di cittadini di Alexandria, orribilmente
mutilati
o marchiati con quella “W” maledetta sulla fronte.
Mentre percorrevo una
laterale del vialone principale, girato un angolo mi ritrovai la
pistola di
Rosita puntata in faccia: la abbassò subito, con un sospiro
e notai che alle
sue spalle c’era Aaron.
«Beth!
Stai bene?», domandò a voce
bassa il reclutatore, posandomi una mano sulla spalla.
Aspettò che mi
avvicinassi, prima di sfiorarmi sotto la guancia sinistra.
«Cosa ti è successo?
Sei ferita».
Passai
una mano sulla guancia
interessata e trovai del sangue tra le dita. La donna doveva avermi
ferito di
striscio, quando l’avevo trascinata a terra; dopotutto, la
lama era stata vicinissima
al mio viso. Ero stata fortunata a non farmi di peggio.
«Nulla di importante,
sono stata presa di striscio quando mi sono azzuffata con una di loro.
Ero a scuola
con Samantha quand’è successo, le ho detto di
chiudersi dentro coi bambini e dobbiamo
recuperarli al più presto. Avete visto Maggie?».
«L’ho
vista andare da Deanna, questa
mattina, ma con questo caos dubito che siano rimaste
lì», intervenne Rosita.
«Potrei
provare a vedere», dissi,
muovendo un passo.
«Dobbiamo
stare uniti, adesso. Tua
sorella sa cavarsela, ci verremo incontro a vicenda»,
replicò la ragazza,
sfiorandomi un braccio per invitarmi a restare.
«Tutti
i selvaggi che abbiamo visto hanno
asce o coltelli, sicuramente
tutti gli spari che si sono sentiti sono della nostra gente»,
sottolineò Aaron.
«Sono sicuro che la maggior parte delle persone che sono
entrate sono già state
fermate».
Annuii,
riluttante. «Allora andiamo
a fermare quelle rimaste».
Continuammo
ad avanzare in quella
fila di case, uccidendo altre quattro persone, fino alla via
principale. Lì,
infatti, avvenne proprio quello che aveva prospettato Rosita: trovammo
mia
sorella intenta a neutralizzare uno di quelli, che stava facendo a
pezzi uno
dei nostri; o meglio, che stava facendo a pezzi il suo cadavere.
«Maggie!»,
la chiamai, correndole
incontro.
Lei
si voltò verso di me,
afflosciando le spalle. «Beth! Stai bene»,
esclamò, piena di sollievo. Intercettai
il suo sguardo quando anche lei notò il taglio sotto
l’occhio sinistro. «Che
hai-».
Alzai
gli occhi al cielo con un
mezzo sorriso. «Sono stata affettata di striscio, non
è niente», la interruppi,
sbrigativa. «Hai visto qualcun altro di noi?».
«Carol,
mi ha dato questa», rispose,
mostrandomi la pistola, «e poi c’è
Spencer fuori dalle mura, a proteggere
Deanna».
«Noi
prima abbiamo portato Holly in infermeria, è
stata ferita gravemente. L’abbiamo lasciata con Denise e
Josie; ci sono anche
Tara e Eugene», ci fece il resoconto Aaron, incupendosi.
«Penso
che la maggior parte di loro siano
morti, di sicuro la situazione è più tranquilla
di prima»,
valutò Maggie, guardandosi intorno.
Mi
rivolsi a lei, posandole una mano sul braccio. «Volevo
solo assicurarmi che stessi bene. Devo tornare a scuola da Samantha: le
ho detto
di nascondersi con i bambini e aspettarmi. Quando avete finito con la
ricognizione
venite ad avvisarci».
«Ci
sono da recuperare anche Deanna e Spencer, trovare
Carol e gli altri. Inoltre, dobbiamo impedire a chi non è
stato colpito alla
testa di risvegliarsi», elencò Maggie, cercando di
ordinare i pensieri in tutto
quel caos. Le strade della città erano un disastro e,
sinceramente, in quel
momento non volevo pensare a quanti di noi avessero perso la vita.
Tornai
alla scuola assieme ad Aaron, che aveva insistito
per accompagnarmi. Ci muovemmo con cautela per i viali, ma la
situazione
sembrava davvero essere tornata alla normalità, se si
ignoravano i corpi e le
pozze di sangue sparse in alcuni punti dell’asfalto. Avevamo
quasi raggiunto il
garage, quando percepii Aaron bloccarsi dietro di me, chinarsi su un
corpo e
raccogliere qualcosa. Vidi il suo volto sbiancare nel giro di un
attimo. Si
accasciò contro gli scalini della casa che aveva di fronte,
uno zaino stretto
tra le mani.
«Aaron!»,
esclamai, allarmata, avvicinandomi a lui.
Non mi rispose, scavando nello zaino e pescando qualcosa
che aveva una forma quadrata. Erano… fotografie? Fotografie
di Alexandria, mi
resi conto, quando iniziò a guardarne una dopo
l’altra.
«Cosa
ci fanno queste, qui?», domandai confusa, guardandolo.
Aaron
inspirò a vuoto. «L’ho perso io, questo
zaino»,
mormorò, fissando la foto della recinzione che stringeva
nella mano tremante. Poi
si voltò e puntò gli occhi pieni di tormento nei
miei. «Sono arrivati qui per
colpa mia».
***
Il
reclutatore ripeté lo stesso, qualche ora dopo,
davanti ad altri abitanti di Alexandria, come in una confessione di
pubblica piazza.
Lo disse anche davanti a Michonne e a Rick, che era tornato di corsa
con un’enorme
orda di vaganti alle spalle. Ci raccontò che, per un
imprevisto, avevano dovuto
mettere subito in pratica il piano, senza prove generali. Altro
imprevisto, il
clacson – che scoprii poi essere quello di un camion che gli
invasori avevano
fatto schiantare vicino alla torre di vedetta, fuori dalle mura
– aveva
attirato metà della mandria della cava verso Alexandria.
Rick aveva perso i
contatti con Glenn e Nicholas, pur rassicurandoci che mio cognato
sarebbe
tornato; Michonne disse a Maggie che, nel caso, Glenn le avrebbe
mandato un
segnale quando possibile. Rick riprese la parola, aggiungendo che la
squadra
composta da Daryl, Abraham e Sasha era munita di mezzi e che sarebbero
riusciti
ad allontanare buona parte dell’orda che non era uscita dal
tracciato.
A
sentire parlare di Daryl, mi si rivoltarono le
viscere dall’angoscia. Erano solo in tre a condurre una
mandria di vaganti e
chi lo sapeva quando sarebbero riusciti a tornare? Scacciai quel
pensiero,
voltandomi verso mia sorella: la sua espressione era il perfetto
riflesso della
mia. Per lo meno, Daryl era con persone affidabili, a differenza di
Glenn che
era sparito assieme a Nicholas. Poi, scorsi con lo sguardo, uno dopo
l’altro,
tutti i volti che mi circondavano: erano emaciati, sfiniti.
L’attacco di quegli
stranieri era durato un’oretta, quella mattina, eppure ci era
voluta buona
parte del pomeriggio per raccogliere tutti i cadaveri, pulire le
strade, andare
di casa in casa per cercare i sopravvissuti.
Per
fortuna, non era successo nulla né a Samantha, né
ai
bambini; purtroppo, però, tre di loro avevano perso chi il
padre, chi la madre.
Nemmeno Holly ce l’aveva fatta e Scott – che aveva
partecipato al piano, in squadra
con Michonne – non si era ancora svegliato, a causa di una ferita
alla gamba che si
era procurato e che si era infettata. Senza contare altre vittime,
trovate
durante la ricognizione. Nonostante le perdite, però,
eravamo comunque riusciti
a difendere Alexandria, proteggendo più vite possibili.
Volevo
solo andare a casa farmi una doccia e stendermi,
dopo una giornata del genere. Proposi a mia sorella di andare da lei
per farle
compagnia – nessuna di noi aveva bisogno di stare da sola;
lei mi disse di
andare pure a casa sua e che sarebbe tornata per cena. Di fronte al mio
sguardo
perplesso, mi disse che doveva andare da Deanna per finire di parlare di alcuni progetti sui
raccolti.
Mi sembrò strano, ma non indagai ulteriormente: forse,
pensai, voleva
semplicemente distrarsi dal pensiero di avere Glenn là
fuori, disperso chissà
dove.
Maggie
tornò poco dopo il tramonto, con la faccia
sconvolta e i vestiti sudici; i pantaloni erano intrisi di melma, che
formava
delle incrostature sui suoi scarponi. Dopo essermi fatta la doccia, mi
ero
messa sul divano a leggere qualcosa, per cercare di non pensare a
Daryl. Mi
alzai da lì con uno scatto e le corsi incontro.
Le
posai le mani sulle spalle. «Gesù! Cosa ti
è
successo?», esclamai, guardandola da capo a piedi con gli
occhi fuori dalle
orbite.
Lei
mi rivolse un mezzo sorriso stanco; notai che
aveva gli occhi arrossati. «Mi sono comportata da sorella
irresponsabile». Il
suo sorriso ironico svanì dalle labbra e gli occhi le si
riempirono di lacrime.
«…E da madre irresponsabile».
A
quelle parole sussultai, il cuore che iniziò a battermi
furiosamente nel petto. Ho capito bene?
«Maggie…».
Affondò
il volto nelle mani, lasciandosi sfuggire un singhiozzo
dopo l’altro. Doveva essere stata una giornata
particolarmente dura, per lei. Senza
che potessi farci niente e cercando di arginare l’entusiasmo
dovuto a quella
che, ormai, era la realtà, un sorriso intenerito mi
incurvò le labbra.
«Vai
a farti una doccia, ne parliamo dopo», la
invitai, circondandole le spalle con un braccio e accompagnandola
davanti alla
porta del bagno. Maggie si asciugò le lacrime, strofinando
gli occhi contro il
braccio. Sparì per una buona mezz’ora e, quando
tornò, fu palese che fosse più
lucida, pulita e rilassata. Incrociai le gambe sul divano e la invitai
a
raggiungermi, tamburellando le dita sul cuscino e sorridendole.
Accennò
un sorriso e mi raggiunse, sedendosi al mio
fianco e appoggiando il braccio sinistro sullo schienale del divano,
rivolta
verso di me.
«Quindi,
cosa stavi dicendo poco fa?», le chiesi
impaziente, sorridendo sorniona.
Per
quanto fosse in pena per tutta quella situazione,
i suoi occhi non poterono fare a meno che accendersi di emozione.
«Vuoi la conferma
ufficiale?», domandò sorridendo, alzando gli occhi
al cielo.
«Assolutamente
sì!».
«Beth
Greene, presto sarai zia. Contenta?».
In
tutta risposta, mi sbilanciai verso di lei,
stritolandola in un abbraccio. «No, super-contenta! Oddio,
non ci credo. Ma ne
sei sicura? Da quanto lo sai? Perché non me lo hai detto
prima?».
Maggie,
ridendo, cercò di dileguarsi dalle mie spire.
«Vuoi
soffocarmi, per caso? Lo sappiamo relativamente da poco. Non so
perché ci ho
messo tanto a dirtelo», disse, in tono di scuse.
«Volevo che fosse una bella
sorpresa per tutti, ma ultimamente sono capitati solo casini e ho
preferito
aspettare un momento più tranquillo. È per questo
che Glenn non ha voluto che andassi
con lui, sai?». Dalla gioia iniziale, la sua voce si
abbassò gradualmente, così
come il suo umore. Ed il mio. «Dove sei stata,
prima?», domandai, seria.
«Ho
provato ad uscire dalle mura per andare a cercare
Glenn. Aaron mi ha intercettata nell’armeria e ha insistito
per venire con me.
Mi ha detto che conosceva una via alternativa per uscire, senza calarmi
dalle
mura. Siamo passati per le fogne, ma quando siamo arrivati
all’imboccatura del
sistema fognario, ho capito che saremmo stati in pericolo comunque.
Dovevo
capirlo già lì sotto, quando ho rischiato di
essere morsa da un vagante che era
più fango che carne», concluse, arrabbiata con se
stessa.
«Non
essere così dura con te stessa, è andata
bene»,
replicai, posandole una mano sulla spalla.
«Sì,
ma non avrei dovuto farlo. Così come non avrei dovuto
lasciare andare Glenn da solo».
«Maggie,
sono certa che Glenn stia bene. Sa quello che
fa; se non ti ha ancora mandato un segnale, è
perché non gli è stato possibile.
Ma succederà presto. Io sono contenta che tu sia rimasta
qui, avete fatto la
scelta giusta».
Lei
mi osservò in silenzio per qualche istante, forse cercando
di convincersi a credere a quello che le avevo detto. Il suo sguardo
era
tormentato, lontano dal mio, ma forse aveva iniziato a capire che, alla
fine,
potevo aver ragione. Fece un respiro profondo, poi aggiunse,
guardandomi con
aria colpevole: «Sai, ho dovuto dire ad Aaron
perché volevo fermarmi. Quindi,
tecnicamente, lo ha saputo prima lui di te. Mi dispiace, Beth. Sono una
sorella
pessima».
Sminuii
la faccenda con un gesto della mano. «Non dire
sciocchezze, dopo quello che hai passato è un miracolo che
tu sia riuscita a
tornare indietro per dirmelo».
Si
voltò verso di me, con un’espressione
finto-scandalizzata.
«Devi proprio rincarare la dose?!»,
esclamò, dandomi un leggero colpo sul
braccio.
Mi
scappò da ridere e, per un solo istante, mi
sembrò
di essere nuovamente a casa, nella fattoria in Georgia, a stuzzicarci
come due
sorelle normali. Poi pensai a nostro padre e a quanto sarebbe stato
felice nel
sapere che sarebbe diventato nonno. Una parte delle speranze che avevo
confessato all’arciere sotto a quel portico in mezzo al
bosco, era diventata
realtà. Avrei voluto condividere quella gioia con
papà; e con Daryl.
Stavo
per parlare di papà a Maggie, quando lei mi
anticipò. «Sei preoccupata perché
nemmeno Daryl è tornato?».
Mia
sorella mi scrutava, in pensiero e mi domandai che
faccia cupa doveva essermi venuta e come
diavolo ha fatto a capire che stavo pensando proprio a lui?
«Più
che altro, incazzata», replicai, stringendomi
nelle spalle e sorridendo senza allegria. «È
partito prima per evitarmi, perché
ieri sera abbiamo avuto una… discussione.
Ma lui è fatto così, quindi non ha nemmeno senso
parlarne», tagliai corto.
Maggie
aggrottò le sopracciglia. «Avete litigato? Come
mai?».
Nello
stesso istante, capii di aver detto troppo e mi
maledissi mentalmente. Sentii le guance andarmi in fiamme e presi a
torturare l’orlo
dei jeans, poggiando il mento sulle ginocchia piegate.
«Niente di grave,
davvero. Spero solo che torni presto, così potrò
presentargli il conto per
essere sparito senza dire nulla».
Mia
sorella, dopo qualche attimo di silenzio, si sporse
verso di me per darmi una carezza sulla testa. Alzai lo sguardo nel suo
e vidi sul
suo volto un’espressione intenerita. «Siete proprio
carini voi due, lo sai?
Comunque stai tranquilla, Bethy. Daryl tornerà sicuramente e
potrai fargli tutte
le ramanzine che vuoi. Anche se, a quel punto, credo che quasi quasi
rimpiangerà
l’orda di vaganti».
Ignorai
l’imbarazzo per il suo commento affettuoso e
scoppiai a ridere. «Non sai quanto hai ragione!».
Maggie
si diede una pacca sulle gambe con entrambe le
mani e si alzò in piedi. Mi allungò una mano per
invitarmi a prenderla con la
mia. «Mentre tornavo indietro, ho notato che qualcuno ha
aggiunto i nomi di
Glenn e Nicholas al memoriale. Li voglio cancellare, mi
aiuti?».
Nonostante
quello che mi aveva appena detto, mia
sorella aveva un sorriso che le piegava le labbra fini. E una nuova
determinazione nel suo sguardo che, irrimediabilmente,
contagiò anche me. Mi
alzai in piedi e le sorrisi a mia volta, prendendole la mano.
«Assolutamente».
Note
autrice.
Questo
capitolo è stato dannatamente impegnativo da
scrivere. Non solo perché è lunghissimo
(perdonatemi), ma anche perché sapevo
dall’inizio cosa sarebbe dovuto succedere, eppure
è stato ugualmente difficoltoso
metterlo nero su bianco. Intanto ho avuto un mezzo blocco dello
scrittore
(=leggasi, TWD mi ha talmente deluso nell’ultima stagione che
ci è andata di
mezzo pure la stesura di questa ff);
e poi, mi sono bloccata
quando è stato il momento di scrivere la scena di lotta tra
Beth e la tizia dei
Wolves. L’ho
scritta e riscritta, non sono del tutto
soddisfatta del risultato, ma sono contenta di essermela lasciata alle
spalle e
ad essere arrivata alla fine del capitolo ahahah!
Anche
questa volta sono stata in dubbio sul tagliare
il capitolo/lasciarlo così, ma ho preferito
“togliermi il pensiero” subito;
anche perché questa parte della sesta stagione non
è il massimo. Ho deciso di
adottare il metodo “flashback” delle scritte in
corsivo, per richiamare gli spezzoni
della prima puntata in bianco e nero, che alternano scene passate alle
scene
presenti. Ho usato questo escamotage per riuscire ad inserire anche
Daryl e quello
che è successo dopo il bacio dello scorso capitolo. Mi
dispiace se non c’è
stato molto Daryl in questo, ma vi assicuro che nel prossimo capitolo
sarà moooooolto
più presente! E c’è in particolare una
scena
super fluffy che muoio
dalla voglia di farvi leggere,
quindi portate pazienza :P
Spero
che l’aver cambiato il carattere semplifichi la
lettura – mi ero stufata del Tahoma,
viva il Segoe! :P
– e che la nuova impaginazione del titolo vi piaccia! E
ovviamente
spero che vi sia piaciuto anche il capitolo, nonostante la lunghezza e
la scena
di combattimento pessima. Brrr.
Ringrazio
psichedelia95, Heihei
e vannagio che hanno
commentato lo scorso capitolo; e,
come sempre, chi legge, aggiunge ai preferiti/seguiti/da ricordare
questa storia.
Significa molto per me <3
Anche
per questo giro, è tutto. Al prossimo capitolo!
Un abbraccio,
Blakie
EDIT: come al solito devo avere qualche problema col carattere e la formattazione, giustamente >:| mi ha cambiato il carattere e l'ha rimpicciolito, spero si legga bene comunque! *sigh* EDIT#2: il ragnetto a cui si fa riferimento a inizio capitolo è Itsy Bitsy, protagonista di una filastrocca molto popolare nei paesi anglofoni. Sarò scema ma mi fa una tenerezza unica ahaha https://www.youtube.com/watch?v=w_lCi8U49mY
Fu
questa la prima cosa che pensai quando le labbra di Beth sfiorarono
le mie. Un istante dopo, realizzai che, in realtà, ero
già fottuto
da tempo. Quel bacio ebbe lo stesso effetto di uno schiaffo in faccia
e un pugno nello stomaco, contemporaneamente: avevo passato il segno.
Abbassato la guardia, fine. Capolinea. Si era avvicinata più
del
dovuto, definitivamente, ed io non avevo fatto nulla per impedirlo.
La sera prima, insieme, sul suo divano a parlare, la notte passata a
dormire l'uno accanto all'altra... Tutti quei gesti a cui, sul
momento, non avevo dato eccessivo peso, li riconsiderai sotto una
luce nuova. Non ero mai stato così vicino a lei, prima di
allora e
sicuramente non di mia spontanea volontà. Che cazzo mi era
preso? Per quale fottuto motivo non riuscivo nemmeno a trovare
la forza di interrompere quel bacio? Per quale fottutissimo motivo la
stavo ricambiando?! Dovevo essermi fritto il cervello in qualche
modo. Qualcuno doveva avermi drogato nel sonno peggio dei tossici che
frequentava Merle. Perché nel modo in cui stavo baciando
Beth a mia
volta, nel modo in cui le mie braccia la stavano stringendo per
trattenerla a me, nel mio petto che quasi stava per aprirsi in due,
non c'era niente di razionale.
È solo una ragazzina,
fottuto viscido bastardo, provò a protestare una
voce
nell'angolo del mio cervello. La ignorai bellamente, troppo impegnato
a non lasciarmi travolgere dalla foga come un animale. Era
dall'inizio dell'apocalisse che non avevo più toccato una
donna,
certo, ma non avrei mai permesso che la ragazzina ne pagasse le
conseguenze. Io le donne le avevo sempre e solo baciate per poi
farmele, nulla di più. Quelle con cui ero stato
non
erano state niente, nessuno per me; se il bacio non fosse stato un pretesto per
arrivare a scoparci, in alcuni casi lo avrei evitato volentieri.
Ma
questo bacio era tutta un'altra storia. Non era possibile che fosse
una ragazzina come Beth a mettermi sotto scacco così. Io non
sapevo
nulla di quelle stronzate sdolcinate da liceali con cui si era sempre
misurata lei, eppure non potevo ignorare il cuore che mi si
schiantava in petto e quel familiare formicolio nei pantaloni. Ero
come un fottuto adolescente alle prime armi e Beth ne sapeva
sicuramente molto più di me, riguardo a quello che stavo
provando.
Quelle sensazioni totalmente sconosciute mi arrivarono addosso tutte
in una volta, a sopraffarmi. Il suo sapore era dannatamente buono, la
sua lingua era calda e morbida contro la mia, le sue mani stavano
bruciando le mie guance e il suo corpo piccolo stretto contro il mio
stava per scatenarmi delle reazioni non proprio innocenti.
Il
bussare improvviso alla porta arrivò come un salvagente. Ci
allontanammo repentinamente l'uno dall'altra, come se avessimo preso
la scossa. Beth aveva gli occhi spalancati, due biglie azzurre che mi
fissavano, smarrite. Le sue labbra erano socchiuse e leggermente
arrossate. Guardai altrove, deglutendo a vuoto.
«Beth,
sono Maggie».
La
voce della maggiore delle Greene arrivò attutita dalla porta
e dal
salotto che ci dividevano - grazie a Dio. Chissà in quanti
modi
diversi mi avrebbe torturato Maggie, se mi avesse beccato a baciarmi
la sua sorellina.
«V-Vado
ad aprire», farfugliò Beth con un'espressione
smarrita. Quasi si
mise a correre, per raggiungere il prima possibile la porta di
ingresso.
Rimasto
solo, un pensiero urgente mi riempì il cervello: devo
uscire da
qui. Avevo l'assoluto bisogno di rimanere per conto mio,
calmarmi, pensare a tutto quello che era successo. Sicuramente Beth
avrebbe voluto parlarne e io non ne ero assolutamente in grado, al
momento. Feci un respiro profondo e mi incamminai verso la porta di
ingresso. Beth e Maggie stavano ancora parlando di non so cosa sulla
soglia e fui grato di quella fortunata coincidenza: la ragazzina non
mi avrebbe mai fermato, con sua sorella lì. Le seguii al
funerale di
Reg senza dire una parola; arrivati lì, cercai di
confondermi tra le
altre persone per poter sparire senza che Beth se ne accorgesse. Mi
dileguai senza sapere bene dove andare. Mentre camminavo in fretta,
mi ricordai del laghetto che avevo intravisto la prima volta che
Aaron ci aveva fatto fare il giro di Alexandria. Era abbastanza
lontano dal cimitero della cittadina, quindi sarei riuscito a
starmene tranquillo per un po'.
Mi
piazzai sotto un albero, nel punto più nascosto possibile e
mi
accesi una sigaretta. Il silenzio che mi circondava rendeva tutto
quello che mi passava di mette fottutamente rumoroso. In testa avevo
una matassa informe di pensieri che mi colpivano tutti
insieme,
tutti nello stesso momento e tutti in disaccordo l'uno con l'altro.
Ma cosa cazzo mi era successo, per arrivare a farmi tutte quelle
seghe mentali per una ragazzina che aveva quasi vent'anni in meno di
me? Cosa mi era passato per la testa?
L'avevo
baciata, cazzo. E tanti saluti ai miei propositi di
tenerla a
giusta distanza. Mi era bastato vederla a casa di Deanna, sconvolta e
con le mani insanguinate, per rammollirmi come un idiota. Non
contento, avevo accettato di andare a casa sua e di dormire con lei,
tenendola stretta. La cosa che veramente mi lasciava incredulo era
che l'iniziativa l'avevo presa io. A parte il bacio, certo.
Sul
momento ero rimasto sorpreso, ma, riflettendoci col senno di
poi, tutto aveva riacquistato una logica precisa.
Si
parlava di Beth, che provava - assurdamente - qualcosa per me e che
non si era mai arresa, in quei mesi, nonostante i miei tentativi di
allontanarla in diverse occasioni. Non solo le avevo mandato dei
segnali, ma le avevo offerto su un piatto d'argento il pulsante che
avrebbe sganciato la bomba, l'occasione perfetta per farsi avanti.
Avrei dovuto far recuperare quello zaino a qualcun altro,
merda.
Cosa cazzo mi aspettavo, una pacca sulla spalla e un vassoio di
biscotti come ringraziamento? Non in quei giorni, non in quel
momento.
Idiota,
idiota, idiota. Ci ero caduto con tutte le scarpe ed era tutto un
dannatissimo, gigantesco errore nella quale non mi sarei dovuto
infilare. Avrei dovuto respingerla, allontanarla, impedirle anche
solo di provarci. Come potevo sperare che Beth dimenticasse quello
che era successo, se avevo praticamente ammesso che anche io provavo
qualcosa per lei?
Pensarlo
apertamente mi aprì una voragine nello stomaco e mi
assalì un
panico sottile.
Io
non andavo bene per lei e non c'entrava solo la differenza di
età:
Beth e io eravamo troppo diversi. Lei non aveva sperimentato che una
piccola parte della merda che sa essere il mondo; io, quella merda,
me la portavo dentro da ben prima che lei nascesse. Lei era
così
gentile, pura e ancora integra. Migliorava la vita delle persone che
aveva attorno col suo ottimismo e le sue assurde idee sulla
bontà
della gente - che erano riuscite a cambiare le mie convinzioni. Io,
invece, ero solo uno zoticone che se la cavava con la balestra, si
incazzava ogni tre per due e non riusciva a far avvicinare nessuno.
Sapevo riconoscere le brave persone, per questo io non pensavo di
esserlo fino in fondo. Certo, ero migliorato rispetto all'inizio, ma
la parte più buia di me non mi avrebbe mai abbandonato.
Anzi,
probabilmente, col passare del tempo, avrebbe solo oscurato la luce
che c'era nella ragazzina, se lei avesse continuato a ronzarmi
intorno. Tutti quei sentimenti positivi che Beth aveva conosciuto fin
da bambina, io non sapevo nemmeno cosa fossero. Avevo avuto una
parvenza di famiglia solo quando era iniziata l'apocalisse e a
malapena avevo capito cosa significasse avere un rapporto di amicizia
o fraterno sani.
"Romanticismo",
"dolcezza" o "innamoramento" per me erano solo
parole vuote, cazzate di cui avevo sentito parlare in uno di quei
film sentimentali che si sorbiva Merle quando, da strafatto o
ubriaco, si metteva a fare zapping. Non avrei mai potuto offrire
niente di tutto quello a Beth e rabbrividivo alla sola idea di fare
la parte del... fidanzato. Ugh. Ruolo che non avrei
comunque
interpretato a lungo perché, tanto, Maggie mi avrebbe ucciso
e dato
in pasto ai vaganti molto prima, non appena avesse scoperto di noi.
Con buona pace del resto del gruppo. Lo zotico che ha finito
per
traviare una ragazzina innocente: mi avrebbero ricordato
così,
nella storia di Alexandria.
Non
potevo permettere che accadesse. Allo stesso modo, non era nemmeno
possibile illudersi di riuscire a far tornare le cose come erano
prima. Ormai eravamo arrivati al maledetto "punto di non
ritorno" e le opzioni erano due: andare avanti o fermarsi. E
fermarsi significava fare finta di nulla. Fare incazzare talmente
tanto la ragazzina, con la mia indifferenza, da indurla a togliermi
anche il saluto. Dopotutto, Beth era giovane e tutto ciò che
non
avrebbe dovuto provare le sarebbe passato presto. Prima o poi sarebbe
arrivato ad Alexandria un ragazzo come Zach, coetaneo di Beth o poco
più grande e si sarebbero naturalmente trovati, senza troppi
problemi e senza troppo vociare. Tanto, anche se avessimo continuato
a parlare, prima o poi saremmo arrivati sempre allo stesso punto. La
piccola Greene sapeva essere testarda: se non ci avessi dato un
taglio netto, lei magari avrebbe pazientato ancora e ci avrebbe
riprovato più avanti.
I
primi due giorni era stato facile rimanere nelle mie convinzioni e
proseguire con i miei propositi: l'avevo ignorata tutto il tempo -
tenendomi lontano anche dal resto del gruppo, a dire il vero e lei
non era mai venuta a parlarmi. Inoltre, Rick che aveva trovato
quella dannata cava piena di vaganti mi aveva offerto la scusa
perfetta per rimanere fuori dalle mura. Lo sceriffo mi aveva anche
comunicato la sua idea di non accogliere più nuove
persone
nella zona sicura, lasciandomi con il culo per terra. Stavo
riflettendo sulla sua decisione, quando Beth mi trovò in
riva al
laghetto. Come un coglione, mi ero domandato - senza nemmeno
accorgermene - quale sarebbe stata la sua opinione riguardo ai piani
di Rick, e lei mi era comparsa alle spalle con una
puntualità
terrificante. A quel punto, urlarci addosso fu inevitabile. Sempre
la stessa storia. L'avevo trattata di merda, lo sapevo.
Avevo
esagerato, sicuramente. Ma era l'unico modo per mantenere le distanze
senza crearle spiragli di speranza.
"È
per il suo bene", ripetei a me stesso, osservando la figura
di spalle di Beth mentre si allontanava, delusa e incazzata. E ne ero
convinto, al cento percento; allora perché non riuscivo a
scacciare
quel peso che mi era strisciato sullo stomaco? Merda.
Tornai
a casa dopo un bel po' e incrociai Rick che teneva la Piccola
Spaccaculi in braccio, sul dondolo del portico. Salii gli scalini e
mi avvicinai a loro.
«Non
riesce a dormire?», domandai, sfiorando quella testolina
bionda.
«È
incredibile, sembra sempre capire quando qualcosa non va. Si agita e
fatica ad addormentarsi», spiegò Rick, iniziando a
cullarla. «Beth
è molto più brava di me, a fare addormentare
Judith».
Ignorai
la pesantezza al petto che avvertii al nome della ragazzina,
concentrandomi sulla piccola. «Forse sa che domani saremo col
culo
in una cava piena di vaganti».
«Sei
preoccupato?», domandò, quasi provocatorio.
Feci
spallucce. «Nah. Piuttosto, andrò a farci un giro
all'alba, per
vedere come sono messi gli autoarticolati». Avevo fatto in
modo che
fosse un'affermazione, più che una domanda. Non volevo il
suo
permesso e lo avrei fatto comunque, perché avevo bisogno di
sparire
prima che gli altri si radunassero davanti ai cancelli, prima della
partenza. Beth sarebbe di sicuro venuta a salutare e non era il caso
di farmi trovare. Anche se, ne ero consapevole, quello era il modo
per farmi odiare definitivamente.
Lo
sguardo dubbioso di Rick mi trapassò da parte a parte.
«Non è
necessario che tu vada là prima. Soprattutto, non da
solo».
«Ti
preoccupi per me, mammina?».
«Daryl...».
«Rick.
È solo uno scrupolo mio, okay? Guarderò il sole
sorgere assieme a
quei bastardi, sarà un'esperienza. Tu tieniti addosso la
ricetrasmittente, così ti informo in tempo reale della
situazione»,
lo liquidai, muovendomi verso la porta d'ingresso. Lui
sospirò, ma
non cercò di dissuadermi ulteriormente. Non poteva certo
dimenticare
quanto me la cavassi meglio di chiunque altro, là fuori.
Avevo
già la mano sulla maniglia, quando lo sceriffo
richiamò nuovamente
la mia attenzione. «Ehi». Tornai a
guardarlo, notando
l'espressione poco convinta che aveva ancora stampata in faccia.
«Va
tutto bene?», domandò, ma sembrava conoscere
già la risposta—no.
Mi
infilai le mani nelle tasche, stringendomi nelle spalle. «Va,
sceriffo».
Rick
soppesò le mie parole qualche secondo: il suo sguardo era
preoccupato, ma capii che non avrebbe indagato oltre e gliene fui
grato.
«Stai
attento, domattina», si raccomandò, per poi
aggiungere:
«buonanotte». Gli risposi con un cenno del capo e
mi infilai in
casa, il sollievo che mi inondò non appena varcata la porta.
Provai
lo stesso sollievo qualche ora più tardi quando, in sella
alla mia
moto, uscii dal cancello principale di Alexandria. La trascinai a
mano oltre la cancellata, parcheggiandola un attimo per riuscire a
sistemare la balestra sul retro. Il rumore dell'inferriata che si
richiudeva mi fece alzare lo sguardo e rimasi qualche istante a
fissare le lamiere di rinforzo, come se aspettassi qualcuno. O come
se quello che avevo davanti fosse tutto sbagliato e in
realtà il
cancello dovesse essere aperto, mentre salutavo la ragazzina che mi
raccomandava di fare attenzio—basta, cazzo! Montai
in sella
alla moto con un movimento brusco, partendo in quarta con la speranza
di lasciarmi indietro tutte quelle fottute seghe mentali.
Alla
cava, neanche a dirlo, era tutto a posto. Mi sedetti su un masso, a
distanza, per non attirare l'attenzione dei vaganti e mi accesi una
sigaretta. L'aria del mattino era fresca e un toccasana per la mia
mente incasinata. Riuscii a non pensare a nulla per un po',
osservando quell'orda di non-morti e fumando in pace. E la cosa
più
bizzarra fu rendermi conto che non ne avevo paura. Forse ero
diventato un non-morto anche io.
E
invece col cazzo. Perché realizzai, solo qualche ora
più tardi, che
di paura ne avevo ancora da vendere. Era bastata quella sola,
maledetta frase, pronunciata da Rick e arrochita dalle interferenze
della ricetrasmittente, a farmi rendere conto di quanto ancora fossi
capacissimo di provare terrore. Non-morto un paio di palle.
«Si
sono divisi. La metà sta andando verso Alexandria».
Smarrimento,
il cervello che si scollega dal resto del corpo.
Un
tempo infinito dopo, il buio momentaneo nella mia testa viene
rischiarato dall'immagine del volto Beth, che mi lampeggia davanti
agli occhi come un'insegna luminosa. La metà sta andando
verso Alexandria.
La
metà sta andando verso Beth.
Gli
ingranaggi ripresero a funzionare. Una paura viscerale mi fece
contorcere le budella, mentre accostavo il pensiero di quell'orda
immensa al corpo piccolo e fragile di Beth. Non mi ci volle molto per
arrivare ad una sola conclusione: dovevo tornare indietro. Per me non
fu più ammissibile nessun'altra opzione. Poco importava
degli ordini
di Rick o delle proteste di Sasha e Abe. Dovevo tornare ad Alexandria
ad ogni costo, 'fanculo le quindici miglia che ci mancavano da
percorrere per far disperdere la mandria. Le mie remore -
sicuramente provocate dagli occhioni da Bambi di Sasha - durarono un
istante e morirono nel momento esatto in cui superammo un vecchio
cartello che stava per essere inghiottito dal verde del bosco.
"Un
nuovo inizio: Alexandria, il principio della sostenibilità".
«Nah.
Ho fiducia in voi due», e accelerai, sperando di correre
più veloce
dei miei rimorsi.
***
Beth
Siamo
fottuti.
Eppure
le cose, fino al pomeriggio, erano scivolate via tranquille. Il
ritorno di Rick ci aveva dato un'enorme sicurezza in più:
era stato
confortante vederlo aggirarsi per le mura sin dal mattino per
rafforzare le recinzioni. I vaganti si erano ammassati contro di esse
e ne sentivo i versi vibrare oltre il ferro, ronzanti come uno sciame
d'api. Ero con Maggie sulla torretta di guardia, ad aspettare un
segnale di Glenn.
«Questo
rumore mi angoscia», borbottai, lanciando uno sguardo
più in basso.
Le teste dei vaganti ciondolavano e le loro mani battevano contro le
lastre di ferro che li tenevano fuori.
Lei
ridacchiò, per allentare la tensione. «Rick dice
che penseremo ad
allontanarli con calma. Fortunatamente sono sparsi e le recinzioni
reggono ancora».
Annuii.
«Purtroppo c'è il rumore che mi ricorda della loro
presenza, quando
cammino per la città».
«A
me un po' ricorda di quando infilzavo i vaganti oltre la rete, alla
prigione».
«Ma
se eri sempre sulla torretta di guardia con Glenn», replicai,
lanciandole un'occhiata maliziosa. «Lo sapevamo tutti come
passavate
il vostro tempo. Altro che guardia».
Il
volto di Maggie si aprì in un'espressione scandalizzata, ma
le
labbra erano piegate in un sorriso. Stava per rispondermi, quando
qualcosa alle mie spalle attirò il suo sguardo,
più in alto del mio
volto, fino al cielo. Gli occhi le si accesero di confusione,
incredulità e speranza. La guardai perplessa per un attimo,
poi mi
voltai a guardare anche io. In lontananza, fuori dalle mura e oltre i
tetti delle case di Alexandria, un gruppo di palloncini verdi si
stava librando nell'azzurro di quella giornata serena.
«Glenn...
Quello è il segnale di Glenn!», esclamò
mia sorella.
Mi
voltai a guardarla, gli occhi spalancati.
«Cosa?».
Ma
lei non rispose, anzi, scattò per scendere gli scalini della
torre
di guardia in tutta fretta. Mi limitai a seguirla, correndo con lei
per la via di Alexandria. Raggiungemmo Rick, che stava fortificando
le mura assieme ad altri uomini, nella zona dei pannelli solari. Con
lui c'erano Deanna e Tobin, tutti col naso all'insù.
«È
Glenn», affermò Maggie, guardando Rick con
sollievo. Lui annuì,
accennando un sorriso.
Ma
quell'attimo di felicità durò poco.
All'inizio
si sentì uno scricchiolio strano e non capii subito da dove
provenisse. Poi il rumore di qualcosa che vacillava, di legno che si
spezzava... Il mio udito si accorse da quale direzione provenivano
quei rumori e guidò il mio sguardo, molto prima che me ne
rendessi
conto. I miei occhi corsero alla torre esterna, quella che il giorno
prima era stata colpita dal camion guidato da quei selvaggi. Sentii
qualcuno - forse Maggie? - afferrarmi un braccio e trascinarmi via,
mentre continuavo a guardare, incapace di smettere. Ogni altro rumore
si azzerò, ogni pensiero venne congelato
dall'incredulità di quello
a cui stavo assistendo: la torre oscillò verso la nostra
recinzione
e, dopo un tempo breve e infinito contemporaneamente, crollò
rovinosamente su essa, con un frastuono assordante.
I
vaganti che ci avevano circondato tutta notte iniziarono a infilarsi
nella breccia, finalmente liberi di superare la recinzione ed
entrare. Emersero dalla nebbia di polveri che aveva provocato il
crollo, come da un incubo. Fu allora, che guardai in faccia la
spaventosa realtà. Siamo fottuti,
pensai, mentre la voce
rabbiosa di Rick che ci ordinava di andarcene mi riscuoteva dallo
shock. Le mie gambe seguirono il suo consiglio prima che il mio
cervello riuscisse ad inviare qualsiasi impulso, e cominciai ad
arretrare.
Poi
udii la voce di mia sorella che urlava qualcosa e tornai
completamente lucida: Maggie.
Dovevo mettere in salvo lei
e mio nipote. Iniziammo a correre fianco a fianco, per allontanarci
da quell'orda di non-morti. Quando uno di quelli si avvicinava troppo
a mia sorella o a me, mi voltavo per sparargli in fronte, senza mai
smettere di indietreggiare e lasciando sempre più avanti
Maggie. Non
dovevano nemmeno sfiorarla.
Dopo
qualche metro, intravidi la torretta di guardia più vicina e
capii
cosa avrei dovuto fare. I vaganti non erano solo alle nostre spalle,
ma ci stavano circondando anche sul lato destro.
«Maggie,
la torre!», urlai, fermandomi ad abbattere alcuni vaganti in
testa
all'orda.
«Sì!»,
rispose a sua volta, imbracciando il fucile e aiutandomi ad
ucciderli. Il nostro obiettivo era davvero vicino e, quando
finalmente ci fummo avvicinate abbastanza, mi fermai nuovamente per
rallentarli, dando le spalle a mia sorella.
«Sali!»,
le ordinai.
Avvertii
il suo sguardo pieno di preoccupazione incollato alla nuca.
«Beth...».
«Prima
sali tu, poi mi arrampico anche io!», la incitai, ricaricando
la
pistola e sparando un altro colpo.
In
realtà, non avevo la minima intenzione di salire assieme a
lei.
Innanzitutto, perché non saremmo riuscite ad
arrampicarci
entrambe prima di essere circondate totalmente da vaganti, erano
troppo vicini. Inoltre, se quei non-morti si fossero accalcati in
massa attorno alla fragile struttura della torretta, quella sarebbe
crollata nel giro di niente. Sarebbe servito che qualcuno ne
allontanasse buona parte e dovevo farlo io. Non mi rasserenava l'idea
di lasciare Maggie da sola, ma se fossi rimasta per terra sarei
potuta andare a cercare aiuto. Anche con una sola persona, forse
quella torretta non avrebbe retto a lungo. Avrei dovuto fare in
fretta.
Sparai
ai vaganti vicini, mentre mia sorella si arrampicava sulla scaletta.
Lanciai un'occhiata in alto, verso di lei, incontrando il suo sguardo
apprensivo. Si era sporta verso di me, guardando in basso da sopra la
torre. Era al sicuro. «Beth, sali subito!».
Respinsi
un vagante con un calcio. «Cerco di allontanarne il
più
possibile, poi andrò a cercare aiuto».
«Cosa?!
Beth, NO!», gridò Maggie.
«STAI
GIÙ, quelli più avanti non ti hanno ancora visto!
Tornerò presto»,
promisi, concitata.
Distolsi
lo sguardo da quello angosciato di mia sorella ed iniziai a
sbracciarmi e a urlare, attirando l'attenzione dei vaganti per
allontanarli dalla torre. Molti di loro mi seguirono ma, in un attimo
di distrazione, inciampai e mi ritrovai per terra. Il cuore
iniziò a
battermi furiosamente nel petto, le orecchie mi fischiavano.
Strisciai all'indietro, sparando verso i quattro vaganti che stavano
per sopraffarmi. Quando premetti il grilletto a vuoto, mi
riempì la
testa un solo pensiero: sono morta.
Poi,
all'improvviso, udii una lama sibilare, del sangue mi
schizzò
addosso e quei vaganti caddero ai miei piedi. Guardai in alto, al mio
fianco: Michonne.
«Alzati,
Beth!», gridò, parandosi tra me e altri che
stavano arrivando.
Obbedii, portandomi alle sue spalle e guardandomi attorno. Notai che,
poco distante da me, Deanna stava zoppicando aggrappata a Rick. Mi
voltai e incontrai lo sguardo di Michonne.
«VAI!».
Raggiunsi
Rick e Deanna, circondandomi le spalle con l'altro braccio della
donna per aiutarli. Ci allontanammo di fretta, ben presto seguiti da
Michonne. Incontrammo Jessie, che ci fece segno con urgenza di
entrare da lei. Una volta chiusa la porta, mi accorsi che casa sua
era piuttosto affollata: c'eravamo io, Rick, Deanna, Michonne e
lì
vi trovai padre Gabriel, Carl, Judith e i figli di Jessie. Mentre
trascinavo Deanna su per le scale per farla stendere, gli altri si
occuparono di barricare le finestre e le porte. La feci stendere sul
primo letto disponibile che trovai. Nello stendersi, Deanna si
lasciò
scappare un singulto di dolore.
«Dove
ti sei ferita?», domandai, sistemandole meglio i cuscini
dietro alla
testa.
«Alla
gamba. E al fianco. Sono caduta su qualcosa di affilato, vicino al
cantiere», boccheggiò.
In
tutto quel casino e sorreggendola dalla parte opposta, non mi ero
resa conto della grossa macchia scura che si stava espandendo sul suo
fianco sinistro. Strappai un pezzo di lenzuolo per pulire le ferite e
cercare di tamponarle. Mi sforzai di ignorare il pensiero che Denise
o Josie sarebbero state molto più utili di me, in quel
momento. Il
taglio alla gamba era abbastanza profondo: non era gravissimo, ma
sarebbe servita una garza per fermare l'emorragia. Corsi in bagno,
rivoltando i cassetti di Jessie e per fortuna trovai quello che
cercavo. Medicai la gamba di Deanna al meglio delle mie
capacità,
lanciandole un'occhiata di scuse ogni volta che sussultava dal
dolore.
«Tranquilla,
piccola. Stai andando alla grande», mi rassicurò,
tentando di
trasformare quella smorfia di tormento in un sorriso incoraggiante.
«Mi stai facendo un male cane, ma posso perdonarti».
Le
sorrisi, stringendole una mano. «Devi portare pazienza,
un'altra
medicazione e poi ti lascerò in pace», la
rassicurai, spostandomi
per essere più vicina al suo addome. Le sollevai con
delicatezza la
maglia, posandoci subito sopra le garze. Quando diventarono zuppe, ne
preparai altre per cambiarle. Fu allora che me ne accorsi, proprio
mentre Rick e Michonne entravano.
Deanna
si era tagliata, sì: e il taglio, poco profondo, era
collocato...
subito sopra un morso di vagante. Mi sentii sbiancare, anche Michonne
- che stava dicendo qualcosa - si interruppe. Alzai di scatto il
volto, guardando Deanna con espressione stralunata. Quello che lessi
nei suoi occhi mi fece male: era lo sguardo addolorato e rassegnato
di una donna fiera che si rendeva conto che il suo tempo stava per
scadere.
«Beh...
cazzo».
***
Tenevo
in braccio Judith, sbirciando dalla fessura di una tenda i vaganti
che avevano invaso le strade. Rick mi aveva chiesto di prendermi cura
di lei, mentre gli altri bloccavano le entrate al piano di sotto. In
un primo momento, tentennai, perché avrei preferito rimanere
assieme
a Deanna. Lei, con uno sguardo, lo aveva capito e mi aveva
rassicurata: «resisterò ancora per un po', Beth.
Quando avranno
finito, potrai salutarmi».
Avevo
cercato di essere forte, in presenza di Deanna: avevo trattenuto le
lacrime il più possibile ma, una volta chiusa la porta della
camera
di Jessie, mi ero lasciata andare, stringendo Judith al mio petto.
Deanna si sarebbe trasformata in uno di quei mostri, mentre
Alexandria aveva ancora bisogno di lei e delle sue idee. Ripensai
inevitabilmente al giorno in cui l'avevo conosciuta, a come mi era
sempre sembrata forte e materna al tempo stesso, specialmente con me
e Noah. Non riuscivo ad immaginarmi una Alexandria senza Deanna e
invece sarebbe andata proprio così. Sempre se fossimo
riusciti a
sopravvivere a quell'inferno. Come
se le mie emozioni negative la stessero disturbando in qualche modo,
Judith si agitò appena tra le mie braccia. La cullai,
accarezzandole
i capelli ricciuti, cercando di tranquillizzare lei e me stessa. Mi
sedetti sul bordo del letto, asciugandomi le lacrime e provando a
calmare i miei singhiozzi. In quel momento, la porta si
aprì, piano.
Alzai lo sguardo, allarmata, e scattai in piedi, sfoderando il
coltello. Da dietro la porta spuntò Deanna, aggrappata allo
stipite
e col volto smunto madido di sudore.
«Posso?»,
domandò, stiracchiando un sorriso.
Sussultai,
muovendomi in fretta per adagiare Judith nella culla e aiutare Deanna
a stendersi.
«Non
ti saresti dovuta alzare», la redarguii, con voce spenta,
mentre si
adagiava sui cuscini.
«Sarà
la mia ultima fatica», sdrammatizzò.
«Volevo vedere la piccola».
Io
rimasi in piedi accanto al letto, in silenzio, guardandola col
tormento che mi si agitava nel cuore, nello stomaco, in ogni cellula.
Non sapevo bene cosa dire. Probabilmente Deanna si accorse dei miei
occhi arrossati e gonfi, perché non riusciva a distogliere
lo
sguardo dal mio. «Perché
piangi, Beth?», domandò con dolcezza.
Sentii gli occhi
inumidirsi di nuovo e strinsi le labbra.
«Vieni
qui», mi invitò, tamburellando il materasso al suo
fianco con una
mano. Io obbedii, sedendomi accanto a lei con le spalle incurvate e
lo sguardo incollato al pavimento.
«Non
devi essere triste, bambina mia. L'ho detto anche a Michonne: me ne
vado sentendomi fortunata, perché ho fatto tutto quello che
volevo,
assieme alla mia famiglia. Non ho rimpianti», mi
rassicurò,
appoggiandomi la mano sulla coscia. La febbre la stava consumando al
punto da impedirle di riuscire ad alzare un braccio per accarezzarmi
la guancia. Strinsi la sua mano bollente tra le mie.
«Mi
dispiace farmi vedere così, ma... Non ci riesco»,
mi scusai, la
voce rotta dai singhiozzi che mi stavano scuotendo. «Dopo
tutto
quello che hai fatto per me, per il mio gruppo, per la gente di
Alexandria... non è giusto».
Deanna
sorrise debolmente, gli occhi improvvisamente più lucidi.
«Io sono
felice di essere riuscita a farlo. Adesso tocca a voi e sono sicura
che ce la farete. Alexandria è le
persone che la abitano,
Beth. Non sono solo io, non è solo Rick. Devo lasciare a te
il
compito di fare aprire gli occhi a chi ancora non vuole vedere quanto
nel profondo, in realtà, facciamo già tutti parte
della stessa
famiglia».
«Io
n-non so se ne sarò in grado», mormorai,
abbassando lo sguardo.
«Se
non ne fossi in grado, non te lo chiederei»,
replicò Deanna, con la
voce sempre più sottile, ma sempre più dolce.
«Tu sei sempre stata
il comune denominatore dell'alleanza che io e Rick abbiamo provato a
mettere insieme. Sei la prima, tra tutti noi, che ha capito quanto ci
apparteniamo tutti. Devi solo credere un po' di più nel tuo
ruolo
all'interno del gruppo».
Mi
passai un braccio sul volto, per asciugare le lacrime nella stoffa e
farmi vedere forte. Annuii, aumentando la presa attorno alla sua
mano. «Ti prometto che ce la farò. Te lo
giuro sulla mia vita» Le
sue labbra pallide si aprirono in un sorriso. «Brava la mia
ragazza».
Le
sorrisi, il cuore addolorato ma pieno di affetto. «Deanna,
io...
volevo solo dirti grazie. Grazie per avermi accolta. Grazie per aver
dato una possibilità alla mia famiglia. Sei stata una grande
leader».
Deanna
annuì, commossa. Si sforzò di darmi una carezza
sul viso, con la
mano tremante. La afferrai per aiutarla a sostenerla.
«Prenditi cura
di te e della nostra famiglia, Beth». Poi, improvvisamente, i
suoi
occhi si fecero più furbi, così come il suo
sorriso. «E, mi
raccomando, prenditi cura del signor Dixon».
Io
mi sentii avvampare, colta di sorpresa, ma non riuscii a trattenere
un sorriso. Annuii. «Ci puoi giurare».
Presi
in braccio Judith e, con cautela, la avvicinai a Deanna, che non
riuscì a far altro che darle una lieve carezza tra i capelli
biondi.
A quel punto, Rick entrò nella stanza, scuro in volto.
«Dobbiamo
andare. Al piano di sotto si sta mettendo male, siamo
circondati».
Mi
voltai istantaneamente verso Deanna, cercando di non ricominciare a
piangere. Lei stiracchiò un sorriso, comprensiva e
annuì nella mia
direzione. «Mi raccomando, Beth».
Rimasi
seduta, spostando Judith sull'altra spalla e stringendo la mano di
Deanna con la mia libera. Forte e per l'ultima volta. Annuii,
sforzandomi in ogni modo di sorriderle a mia volta, ma senza la forza
di dirle nient'altro. Poi mi alzai in fretta e mi allontanai con la
piccola in braccio, mentre Deanna chiedeva a Rick di scambiare due
parole.
Quando
ritrovai gli altri, l'ondata di lacrime che rischiava di travolgermi
venne spazzata via: seguii la voce di Michonne e, in un primo
momento, rimasi allibita sulla soglia. In mezzo all'anticamera, sul
pavimento, trovai ammassi di roba molliccia e rossa che registrai
quasi subito come interiora. Ad un'occhiata più attenta, mi
resi
conto che fuoriuscivano dai due vaganti che erano stati uccisi e poi
sventrati che giacevano in mezzo alla stanza. Sentii un'ondata di
nausea travolgermi, ero sicura di essere anche sbiancata.
Carl
mi si parò davanti, distogliendomi da quella visione
disgustosa.
«Beth, prendi un lenzuolo. Dobbiamo andare all'armeria e
coprirci
con le loro interiora per passare inosservati». Abbassai lo
sguardo e notai che mi stava porgendo un lenzuolo ripiegato. Ricordai
che
Glenn mi aveva raccontato di quella volta in cui aveva usato
quell'esperienza per salvarsi dai vaganti, assieme a Rick. Il
disgusto che avevo provato non era paragonabile a quello scatenato
dalla consapevolezza di doverlo fare davvero.
Annui,
tentando di controllare le ondate di nausea. «Okay,
dammelo»,
risposi a denti stretti, ignorando l'odore orrendo che stava
impregnando la stanza. Quando
Rick tornò, iniziammo a prepararci e a vestirci con quelle
tuniche
fatte di interiora. Puzzavano terribilmente, perciò iniziai
a
respirare con la bocca e a pensare a qualcos'altro. Sentii un ronzio
nell'orecchio, mentre tentavo di controllare l'ansia che mi provocava
l'idea di passare in mezzo a quei mostri. Sentivo la voce di Jessie
in lontananza che cercava di incoraggiare uno spaventatissimo Sam.
Scendemmo
le scale con cautela e in religioso silenzio e pregai che Judith, che
avevo nascosto sotto il mio lenzuolo, non emettesse un fiato. Quando
Rick scostò il materasso che ci divideva dall'orda che aveva
invaso
l'ingresso di Jessie, trattenni il respiro. Mi aspettai che uno di
quelli lo addentasse da un momento all'altro e, come aveva
pronosticato lo sceriffo, non successe: Rick iniziò ad
avanzare,
guardando il primo vagante negli occhi. Questo non ebbe nessuna
reazione e, a quel punto, capii che potevo riprendere a respirare. Il
piano di Rick funzionava, avrebbe funzionato e ce la saremmo cavata.
Il
cuore iniziò a battermi all'impazzata quando fu il mio turno
di
attraversare quella marea di non-morti ma, ovviamente, ignorarono
anche a me. Finsi di stare attraversando un locale troppo affollato
durante un concerto. Presi una boccata d'aria fresca, quando ci
ritrovammo sul portico. Le strade erano invase di vaganti e, per un
attimo, non ebbi nemmeno più l'impressione di trovarmi ad
Alexandria. Quello era un incubo fatto e finito; era come ritrovarsi
di nuovo fuori dalle mura, in un mondo immenso e pericoloso.
Rick
prese per mano Carl, che prese per mano Jessie e così via,
fino a
formare una catena umana. Io mi ritrovai penultima, tra Ron e Padre
Gabriel. Scendemmo in strada, camminando in mezzo ai morti. Per non
farmi prendere dal panico e per sentirmi meno sola, finsi che l'unica
mano che stavo stringendo – che era di Gabriel –
fosse di Daryl,
per infondermi del coraggio. Immaginai le sue dita ruvide e calde
strette alle mie, assieme alla sua presenza rassicurante che vegliava
su di me. Chissà se ci rivedremo...
Riuscimmo
a superare parecchi vaganti, prima che Rick si fermasse dietro a una
siepe, di nascosto dai non-morti. Lanciò delle occhiate
attorno a
sé, guardingo. «Nuovo piano: non andremo
più all'armeria. Ci sono
troppi vaganti e troppo sparpagliati, i razzi non basteranno ad
allontanarli. Riporteremo tutti i veicoli alla cava, guideremo tutti
così riusciremo a circondarli. Andiamo e torniamo».
Ebbi
un fremito, al pensiero di lasciare Alexandria mentre mia sorella era
ancora da sola su quella torre, per nulla al sicuro. «Rick,
Maggie è
intrappolata su una torretta di guardia, non posso lasciarla
lì».
I
suoi occhi di ghiaccio incontrarono i miei, traboccanti di
indecisione. «Beth...».
Jessie
venne in mio soccorso. «Io ci sto per il piano. Ma
Judith… È
troppo pericoloso per lei, andare e tornare dalla cava».
Istintivamente, strinsi la piccola – ancora nascosta
– a me.
«Posso
trovarle un posto sicuro e poi andare a salvare Maggie, il
camuffamento ha funzionato. Ti giuro che la proteggerò a
costo della
mia vita ma, ti prego Rick, lasciami andare», lo pregai,
mettendocela tutta per risultare convincente.
«Le
proteggerò io», si fece avanti Padre Gabriel. Io,
Rick, Michonne e
Carl ci voltammo a guardarlo contemporaneamente, con sorpresa e
diffidenza insieme. Ma lui non si scoraggiò.
«Accompagnerò Beth in
chiesa e lì terrò Judith al sicuro, mentre Beth
va ad aiutare
Maggie».
Nei
suoi occhi, nonostante i precedenti, scorsi una luce nuova. Stava
dicendo la verità, con un tono deciso che non gli avevo mai
sentito
usare. Ero molto vicina a fidarmi di lui. Rick si concesse qualche
secondo per rimuginarci sopra, ma si accorse presto che il tempo a
nostra disposizione era poco e correva veloce.
Scambiò
una lunga occhiata prima con me, poi con Padre Gabriel. Il prete si
fece più vicino a me, senza distogliere lo sguardo da quello
di
Rick. «Le terrò al sicuro».
Prima
di lasciarci andare, lo sceriffo ci lanciò un ultimo
sguardo,
indugiando su quello di Gabriel e ci congedò con una sola
parola:
«grazie».
***
Arrivammo
alla chiesa senza intoppi, grazie al cielo. Passammo dal retro senza
dare nell'occhio, ma ormai, fortunatamente, eravamo al sicuro. Anche
perché Judith aveva esaurito la sua pazienza e stava
iniziando ad
agitarsi tra le mie braccia, emettendo qualche lamento. Chiusi a
chiave la porta, lasciandomi andare a un sospiro. «Padre,
si tolga quella schifezza e prenda Judith. Non ne può
più,
piccolina», dissi, cullando la bambina. Lui
mi rivolse un sorriso stanco, felicissimo di accontentare la mia
richiesta. Sollevai il lenzuolo che ancora mi ricopriva e gli porsi
Judith, che si agitò contrariata. Lui la cullò,
cercando di
tranquillizzarla. In quel momento, sentimmo dei rumori provenire da
dietro la porta che conduceva all'altare. Io e Gabriel ci lanciammo
uno sguardo allarmato e gli intimai di fare silenzio portandomi
l'indice contro le labbra.
Mi
avvicinai silenziosa alla porta, aprendola senza fare rumore. Dopo
aver estratto il coltello dal fodero e aver preso un respiro
profondo, aprii di getto la porta e mi misi in posizione di difesa,
con la lama in offensiva.La
abbassai immediatamente, quando mi accorsi che, davanti a me, c'era
Glenn.
«Glenn!»,
esclamai, piena di sollievo.
La
sua espressione si distese e mi venne incontro, posandomi una mano
sulla guancia Evitò accuratamente di toccarmi dal collo in
giù.
«Beth, stai bene?», domandò concitato,
storcendo il naso per la
puzza di viscere.
«Sto bene, vestito di
interiora a parte».
«Ho visto Maggie sulla torre,
è
circondata. Dobbiamo andare a salvarla».
Repressi
un fremito di terrore. «Lo so. Sono venuta qui per mettere al
sicuro
Judith, l'ho lasciata a Padre Gabriel per tornare ad aiutare
Maggie».
Decidemmo
in fretta il da farsi e scoprii che anche Enid ci avrebbe aiutati.
Glenn aveva pensato di distrarre i vaganti, mentre la ragazzina si
sarebbe arrampicata sulla torretta per aiutare Maggie a scendere
dall'altro lato delle mura.
«Se
Padre Gabriel resta qui, potremmo usare il suo lenzuolo e darlo a
Maggie per camuffare il suo odore», proposi, cercando di
riflettere.
Glenn
ci pensò sopra. «Non so, è da molto che
ce l'avete addosso?
L'odore potrebbe essersi indebolito. Non posso permettere che Maggie
passeggi tra quei mostri».
«Va
bene, l'importante è muoverci», asserii. Con un
gesto stizzito, mi
liberai di quella veste disgustosa. «Facciamo le cose alla
vecchia
maniera. Ti aiuterò a distrarre i vaganti»,
replicai, con tono
deciso.
Mio
cognato annuì e mi porse un caricatore per la pistola. Mi
ricordai
in quel momento che ce l'avevo scarica. Lo afferrai senza esitazione.
«Andiamo!».
Uscimmo
nell'oscurità, iniziando a correre. Evitammo più
vaganti possibili,
muovendoci a ridosso delle mura. Quando arrivammo da Maggie, la
torretta aveva già iniziato a barcollare pericolosamente,
mossa dai
vaganti che vi si agitavano sotto, nel tentativo di arrivare a mia
sorella.Glenn
urlò a Enid «va' a prenderla!» e ci
separammo da lei, iniziando a
sparare e a urlare per attirare l'attenzione dell'orda. Negli spazi
vuoti, ne approfittai per sfoderare il mio pugnale e affondarlo nel
cervello di qualche vagante.
Le
nostre urla e i nostri spari non attirarono solo l'attenzione dei
non-morti. Ad un certo punto, sentii anche le grida di paura di mia
sorella, che chiamava una volta me e una volta suo marito. Eravamo
arretrati verso la direzione opposta alla torre, allontanandoci di
qualche metro. Da lì riuscii a vedere Enid che si
arrampicava,
mentre la folla attorno alla struttura in legno si stava diradando.
Il nostro piano stava funzionando, se non fosse stato per il fatto
che Maggie non riusciva a smettere di disperarsi mentre ci guardava
fare da esca, e per il fatto che, molto presto, io e mio cognato ci
ritrovammo circondati dai vaganti e con le mura alle nostre spalle. Mentre
guardavo il muro di zombie farsi sempre più vicino, e senza
nessuno
spiraglio di fuga disponibile, per la seconda volta in quella
giornata mi venne da pensare che ero spacciata. Non provai
disperazione, ma un vago senso di rassegnazione. I
pensieri mi si ammassarono nella testa uno dopo l'altro, mentre mi
preparavo a difendermi – inutilmente – solo con il
pugnale,
perché avevo fatto fuori anche quella ricarica di proietti.
Sono
riuscita a salvare Maggie. Glenn si deve salvare, mio nipote non
può
crescere senza un padre. Non potrò mantenere la promessa che
ho
fatto a Deanna. Spero che la mia famiglia sopravviva. Spero che Daryl
sia vivo e che torni presto a casa.
L'urlo
di Maggie fu l'ultima cosa che udii quando venimmo sopraffatti
dall'orda di vaganti. Per una frazione interminabile di secondo, vidi
solo vestiti sdruciti e mani che arrancavano verso di me, mentre li
spintonavo via come potevo. Ci fu un momento in cui loro ebbero la
meglio ed io mi arresi, accucciandomi su me stessa, in attesa del
primo morso… che non arrivò.
Un
rumore assordante di fucili d'assalto squarciò l'aria e,
nello
stesso momento, il muro di zombie crollò, come una schiera
di
birilli. Una pioggia di proiettili ci stava cadendo addosso, senza
ferirci, ma salvandoci. Cristo, eravamo ancora vivi! Mi
ritrovai accucciata a terra, una spalla contro la lastra di lamiera
alle mie spalle, a proteggermi con le braccia mentre mi lanciavo
un'occhiata esterrefatta con Glenn. Guardai
in alto, verso il cancello di ingresso: trovai Abraham e Sasha che
impugnavano due grossi fucili, rivolti verso di noi. Eccoli, i nostri
salvatori.
«Puoi
aprire il cancello? Lo apprezzerei, amico!», urlò
Abe all'indirizzo
di Glenn, esibendo un sorriso cameratesco e tornando a ripulire dai
vaganti lo spazio attorno a noi.
Quando
fummo liberi di muoverci, avanzammo verso il cancello principale e lo
aprimmo in tutta fretta, illuminati dai fari del grosso camion con
cui avevano fatto ritorno Sasha, Abraham e…Nel
momento in cui mi resi conto che c'era Daryl alla guida di quel
mezzo, un'emozione indescrivibile mi si schiantò nel petto e
respirare diventò improvvisamente difficile. Mi immobilizzai
a
fissarlo, mentre lui mi scrutava da sopra il volante, con
un'espressione indecifrabile. Le sue labbra erano socchiuse, i suoi
occhi sembravano avere appena visto un fantasma.
Sentivo
di avere anche io un'espressione incredula, mentre i miei piedi
iniziarono a muoversi verso la parte del guidatore, indipendenti
dalla mia volontà. Mi arrampicai su per la scaletta,
schiacciando il
corpo contro lo sportello e sporgendomi nell'abitacolo grazie al
vetro abbassato, mentre mi aggrappavo al finestrino. Alla
guida c'era davvero Daryl, ricoperto di sporco, ma era vivo. Ed era
tornato finalmente a casa.
Sentii
il sollievo travolgermi e gli occhi inumidirsi. «Bentornato,
signor
Dixon», sussurrai, con la voce spezzata.
Le
sue labbra ebbero un fremito ed annuì, ma non
parlò. Prendendomi
contropiede, posò la mano che non teneva il volante sulla
mia e la
strinse, forte. Le nostre dita si intrecciarono, proprio come avevo
immaginato quel pomeriggio, mentre Daryl mi guardava in quel
modo
– come alla casa funeraria.
Daryl
mollò la presa quando Glenn si infilò
nell'abitacolo, ma non mi
importava. Avevo riacquistato la fiducia per credere che Alexandria
ce l'avrebbe fatta, quella notte e che noi due avremmo potuto
riparlarne. Prima avevamo un'ultima battaglia da affrontare.Daryl
fermò il camion vicino alla sponda del lago, mentre Glenn,
Abe,
Sasha, Enid e Maggie ritornarono nel cuore della città per
aiutare
gli altri a resistere all'invasione. Io rimasi con Daryl, per
coprirlo mentre apriva il tubo del carburante e lo faceva fluire
nell'acqua.
Mi
aiutò a salire sul tetto del rimorchio, mi passò
un lanciarazzi che
aveva trovato chissà dove – ignorando la mia
reazione perplessa –
e salì, sparando dritto nel lago. Il razzo, a contatto con
la
benzina, trasformò quello specchio d'acqua in un lago di
fuoco. Il
rumore e la luce attirò moltissimi vaganti, che iniziarono a
camminare mollemente verso l'acqua, finendo per bruciarsi.
Osservai
la scena accanto a lui, con un sorriso allibito dipinto sulle labbra.
«Non ci credo… Ha funzionato! Hai avuto un'idea
grandiosa!».
Non
riuscii a capire se fosse la luce rossiccia dovuta alle fiamme, ma mi
parve di vederlo arrossire. Raddrizzò le spalle.
«Questo dovrebbe
richiamarne la maggior parte», commentò,
stringendosi nelle spalle.
Ritornai
improvvisamente seria. «Le strade sono comunque piene.
Dobbiamo
andare ad aiutare gli altri», replicai. Mi voltai e feci per
scendere da lì, ma sentii la sua mano afferrarmi il polso.
«Beth,
ascolta un secondo – », proferì, ma
scossi la testa, sollevai una
mano e abbozzai un sorriso.
«Ne
parliamo più tardi, okay? E so cosa stai pensando, che non
è detto
che vedremo entrambi l'alba con tutto il casino che c'è.
Invece, sai
che ti dico? Ce la faremo, tutti e due».
Prima che potesse
replicare, gli circondai il collo con le braccia e mi strinsi a lui,
forte. Quando, timidamente, posò le sue mani sui miei
fianchi, mi
scostai per guardarlo. «Non ho la minima intenzione di
fartela
passare liscia e stai pur certo che non ti basterà un
secondo»,
aggiunsi, con un sorriso serafico prima di sciogliere l'abbraccio.
Daryl
non riuscì a trattenere uno sbuffo, ma sembrò
più che altro una
risata. Alzò gli occhi al cielo e mi seguì
giù per l'abitacolo,
scendendo in strada al mio fianco.
Abbattemmo
un vagante dopo l'altro, facendoci strada per ricongiungerci agli
altri. Li trovammo fare lo stesso ed eravamo inarrestabili. Un corpo
e una mente unici, mentre difendevamo casa nostra con le unghie e con
i denti perché non ci venisse portata via. La determinazione
che ci
smuoveva tutti era tale che sembrava quasi di assistere ad una
coreografia. Io stessa, ad un certo punto, mi sorpresi di quanto
fosse diventato meccanico, come schema: schiva, afferra, affonda la
lama. Schiva, afferra, affonda la lama…
Volevamo
tutti vivere, non soltanto sopravvivere. Mentre mi avventavo su un
vagante, su quello dopo e su quello dopo ancora, alimentata da una
forza di cui non mi credevo capace, si susseguirono nella mia testa i
volti di tutte le persone per cui stavo combattendo così
duramente:
mio padre, mia madre, Noah, Maggie, Carl, Lori, Judith, Rick,
Samantha, Reg, Deanna, Daryl; per tutti quelli che avevamo perso e
per quelli che avrei continuato a proteggere con tutte le mie forze.
Mi
piace ricordare quella notte come quella in cui si dissolse qualsiasi
confine tra i due gruppi. Mentre combattevamo fianco a fianco,
cessò
di esistere un “noi” e un
“loro”, perché eravamo tutte
persone che stavano combattendo per riconquistare Alexandria e il
diritto di vivere al sicuro tra le sue mura. E,
per la prima volta, lo stavamo facendo tutti insieme.
|
Note autrice |
E
anche questo capitolo infinito è andato! Ho fatto il
possibile per
non tardare moltissimo con l'aggiornamento, ma purtroppo sono in
piena sessione d'esame e il tempo è quello che è.
Come
avete letto a inizio capitolo, sì: ho deciso di cimentarmi
nuovamente con il POV di Daryl. O almeno, ci ho provato ed è
stato
abbastanza impegnativo. Quando ho rivisto la puntata e mi sono
ricordata che Daryl ha voluto fare marcia indietro, ho gongolato e ho
voluto rigirare la frittata, facendo intendere che in realtà
voleva
solo correre a casa da Beth. Però, come avete capito, anche
in
questa versione il nostro biker ha dei ripensamenti e alla fine resta
con Abe e Sasha. Anche perché il suo incontro con Dwitght
nella
foresta bruciata servirà anche a me, quindi non potevo
farglielo
evitare.
Un'altra cosa che volevo
specificare: lo
scorso capitolo ho creato dell'attesa menzionando una parte fluffy
tra i nostri beniamini. Beh, quello che avete letto non è
quello a
cui mi riferivo. Come al solito il capitolo mi è cresciuto
tra le
mani mentre lo scrivevo e ho deciso di posticipare il chiarimento tra
questi due. Il prossimo capitolo sarà incentrato quasi
esclusivamente su Beth e Daryl, questa volta posso garantirvelo al
100%. Inoltre, l'ho già praticamente scritto tutto, mi
mancano solo
degli aggiustamenti e integrare delle parti (=aggiornamento
più
veloce). Per il resto, sarà davvero tutto cuore e ammore.
Spero che
l'assaggino di questo capitolo vi sia comunque piaciuto :)
Direi che ho finito di
ammorbarvi.
Ringrazio di cuore cuorissimo Tracey, keplerf62, Sil94 e ovviamente
vannagio per le recensioni allo scorso capitolo. Mi hanno fatto
felicissima, appena ho qualche secondo libero in più vi
rispondo
come si deve!
Spero che abbiate apprezzato
anche questo capitolo
e che mi farete sapere cosa ne pensate :) un bacio e alla prossima!
Blakie
L'alba arrivò finalmente a rischiarare la più oscura delle notti, a mettere fine alla più lunga delle giornate. Nel chiarore del primo mattino, avanzavo con stanchezza per le strade della città, disseminate di cadaveri di vaganti. Arrivai davanti all'infermeria, dove le stesse persone che avevano combattuto per proteggere Alexandria stavano aspettando di essere medicate. Ciò che si presentava di fronte a me era l'esatto ritratto della quiete dopo la battaglia. Scorsi con lo sguardo i loro volti esausti, la loro postura leggermente ricurva, mentre aleggiava il silenzio.
Ce l'avevamo fatta: eravamo riusciti a difendere la nostra città, a combattere fianco a fianco come una comunità unita, a proteggerci gli uni con gli altri. Il sole era sorto e Alexandria era ancora nostra, proprio come avrebbero voluto Deanna, o Reg, o Noah. Eravamo distrutti, sfiniti, ma ancora vivi.
Mentre attraversavo il porticato, sorrisi stancamente alla mia gente, felice di poterlo ancora fare. Avevamo perso delle persone, purtroppo, ma la zona sicura era ancora in piedi e noi, nonostante l'orda immensa di vaganti, eravamo sopravvissuti.
«Ho portato le bende e i disinfettanti», mi annunciai, chiudendo la porta alle mie spalle. Denise si stava occupando delle ferite riportate da Glenn, Maggie era stesa su un lettino mentre Josie controllava la sua salute e quella del mio futuro nipotino – il cuore ancora mi si riempiva di tenerezza e sorpresa, tutte le volte che ci pensavo. Michonne, sulla soglia della stanza da letto al piano terra e con in braccio Judith, osservava Rick al capezzale di Carl.
Quando lo avevo ritrovato in infermeria, con un occhio bendato e privo di sensi, ero rimasta scioccata. Lo shock era raddoppiato quando mi avevano raccontato come era successo: Sam aveva attirato l'attenzione dei vaganti ed era morto divorato, come Jessie. Ron, sconvolto, aveva provato a sparare a Rick, ma quando Michonne lo aveva trafitto per impedirglielo, era partito il proiettile vagante che aveva colpito Carl. Tutto quello mi era sembrato inconcepibile, assurdo.
«Come sta?», domandai a bassa voce a Michonne, osservando il mio amico.
Lei si lasciò andare ad un sorriso stanco. «Si sta riprendendo».
Annuii e sorrisi fiduciosa, appoggiandole una mano sulla spalla. «Carl è forte. Ed è già sopravvissuto a una cosa simile, dopotutto».
Michonne cullò Judith, che si era agitata appena, e le appoggiò le labbra sulla fronte. Poi si voltò verso di me.
«Rick ha cambiato idea, Beth».
«Riguardo a cosa?».
«Su Alexandria e la gente che è arrivata qui prima e che, stanotte, ha combattuto con noi. Rick... lui ha visto un cambiamento in loro: adesso è convinto che possano farcela, che tutti insieme possiamo riuscire a rendere Alexandria la comunità che Deanna ha sempre sognato. Vuole ricostruirla e vuole che Carl veda l'inizio di questo nuovo mondo. Alexandria è il nuovo mondo, Beth. Ora Rick lo sa, l'ha capito».
Se non fossi rimasta così imbambolata da quella rivelazione, probabilmente avrei gridato per la gioia. Era tutto quello che avevo desiderato sin da quando la mia famiglia si era presentata ai nostri cancelli: che Rick capisse il potenziale di questo posto e che il nostro viaggio poteva finalmente terminare, perché eravamo a casa. Ero così felice che l'unica cosa che riuscii a fare fu stringere appena la spalla di Michonne e appoggiare la tempia alla sua, i nostri sguardi rivolti al nostro leader e a suo figlio.
«Possiamo ricominciare da capo, tutti insieme. Come sognava Deanna», affermai, senza riuscire a smettere di sorridere.
Michonne, spostando Judith sull'altra spalla, sollevò la mano verso di me e mi accarezzò una guancia, in modo materno. «Deanna ci ha accolti ma, se non fosse stato per te, non sono certa che saremmo rimasti qui».
Scossi la testa, un po' imbarazzata e un po' emozionata. «Nah, ci sarebbe voluto un po' più di tempo, forse. Ma il risultato non sarebbe cambiato. Io sono semplicemente stata una garanzia in più sul fatto che qui sareste stati al sicuro».
«Quello ha aiutato molto, certo. Però sei tu quella che ha creduto sin dall'inizio in una convivenza pacifica, nonostante le difficoltà. Ed è proprio di questo che avevamo bisogno», replicò, materna.
Devi solo credere un po' di più al tuo ruolo all'interno del gruppo.
Mi tornarono in mente le parole di Deanna ed il cerchio si chiuse. Fu la prima volta in cui sentii di essere importante per il gruppo e non soltanto la ragazzina spacciata che andava sempre e costantemente protetta. In seguito a quella specie di epifania, emersero dai ricordi anche le parole che mi aveva rivolto Daryl qualche sera prima: beh, è il tuo ruolo, quello di sperare. Com'era possibile che lo avessero capito tutti e ben prima di me? Io ero utile, per la mia famiglia. Avevano bisogno di me e finalmente ero abbastanza forte per riuscire a proteggerli.
Quella nuova consapevolezza mi riscaldò il petto e mi diede la grinta per mettermi al lavoro e aiutare Josie e Denise a occuparci dei feriti. Non ci fermammo un attimo, se non per mantenerci idratate; la notte era stata un inferno e non avevamo dormito, ma nessuna di noi sembrò essere tanto stanca da non riuscire a prendersi cura delle persone a cui disinfettammo, ricucimmo o bendammo qualsiasi ferita ci venne presentata. Eravamo inarrestabili e non ci saremmo fermate fin quando non ci fossero più stati abitanti di cui prenderci cura.
Solo quando controllai nuovamente Carl – stava ancora dormendo, ma i segni vitali erano molto buoni – mi lasciai andare su una sedia, stravolta, ma con un gran sorriso sulle labbra e la gioia che traboccava dal mio cuore.
Ora che avevo più tempo per pensare, mi resi conto che l'unica persona che mancava all'appello dei pazienti era Daryl Dixon. Mi alzai e andai a disinfettarmi le mani, in vista della mia ultima fatica.
«Denise, sai dov'è Daryl?», domandai alla mia collega, mentre buttava via ciò che le era servito per medicare Rosita.
«Ha preferito lasciare andare prima gli altri, si è accontentato solo di un tampone per coprire la ferita», mi rese partecipe. «È qui fuori, ora lo chiamo e lo ricucio».
«Non preoccuparti, ci penso io. Vai a riposarti, te lo meriti».
«Ma Beth, hai una faccia esausta e–», tentò di protestare, ma la interruppi.
«Dovresti vedere la tua», ribattei, con un sorriso. «L'intervento che hai fatto a Carl è stato difficile, in più ti sei occupata anche degli altri. Vai a riposare: tra qualche ora, se vuoi, puoi darmi il cambio».
Prima di ritirarsi in camera sua, al piano di sopra, provò ad opporsi e a ringraziarmi un altro paio di volte, ma non mi sfuggì il sollievo che le infondeva l'idea di stendersi, finalmente, su una superficie morbida. Il chiarore dell'alba stava lasciando lentamente posto alla luce del mattino, anche se i toni erano rimasti tenui e l'aria era ancora fredda. Trovai Daryl abbandonato su una poltroncina del portico, che sonnecchiava con le braccia incrociate al petto e il busto leggermente inclinato da un lato, per non gravare sulla ferita alla schiena, le gambe allungate davanti a sé.
Guardando il suo viso, la consapevolezza che ero stata vicinissima a perderlo si accese nel mio petto con un'intensità dolorosa. Fissai i suoi tratti, le sopracciglia aggrottate e gli occhi chiusi, ricordando quanto mi fossi dannatamente spaventata quando se n'era andato in missione senza dirmi una parola, sparendo i successivi due giorni. Tutta la rabbia che avevo represso quando lo avevo rivisto, iniziò a ribollirmi sul fondo dello stomaco, cancellando qualsiasi altro sentimento amichevole.
Ero grata di potermi ancora arrabbiare con lui, di poter litigare con lui.
«Daryl, è il tuo turno», lo svegliai, con fermezza.
Sussultò appena, aprendo gli occhi fissi sul pavimento. Si stiracchiò, attento a non farsi male alla schiena e si alzò in piedi.
Prima che entrasse, aggiunsi: «lì devo sistemare tutto. Ti medicherò di sopra, prima stanza a sinistra».
Annuì, superandomi senza degnarmi di una parola.
Sapeva che ero arrabbiata e che le cose tra di noi non erano a posto: se non altro, aveva preso sul serio il mio avvertimento di poche ore prima.
Entrò nell'ambulatorio, lasciandomi sotto il portico da sola: dopo qualche secondo di esitazione, lo seguii. Mi fermai un momento a prendere l'occorrente per mettere dei punti alla sua ferita. Salii le scale e, quando entrai nella stanza, lo trovai che mi aspettava, scrutando fuori dalla finestra, vicino al lettino.
Quando sentì la porta chiudersi, si voltò verso di me, incatenando lo sguardo al mio. Anche se erano una decina di passi a separarci, i suoi occhi ebbero lo stesso effetto che avrebbero avuto se me lo fossi trovata davanti: erano profondi, freddi ma accoglienti. Erano capaci di ipnotizzarmi e farmi dimenticare qualsiasi cosa, qualsiasi dolore. Ci stavamo studiando, stavamo discutendo senza dire una parola: dal canto mio, lo guardai con l'espressione più seria e sostenuta che riuscissi a fare. I primi momenti li passammo così, ad osservarci l'un l'altra.
Tossii nervosamente, per schiarirmi la gola e avanzai verso di lui. «Siediti».
Lanciò uno sguardo a quello che avevo in mano, mentre prendeva posto sul lettino. «Non mi servono i punti».
Gli andai alle spalle, notando subito quanto fossero logori i suoi vestiti. Le sue braccia erano ricoperte di sangue, terriccio e... cenere?
«Lascia che sia io a deciderlo. Avresti potuto farti una doccia, rischi di beccarti un'infezione così», sbuffai, aiutandolo a togliersi il gilet; anche la camicia che indossava sotto si era sdrucita irrimediabilmente: la parte che copriva la schiena si era del tutto scucita dal colletto. Chissà cosa gli era capitato.
Daryl borbottò qualcosa, contrariato; sussultò, quando gli posai la garza imbevuta di acqua fredda sul braccio destro e iniziai a strofinare, per pulirlo. Ripetei lo stesso procedimento con l'altro braccio e finii sulla schiena, cercando di levare lo sporco, soprattutto attorno alla ferita. Non era molto profonda, ma sarebbero stati comunque necessari un paio di punti.
Lo asciugai con un tovagliolo di carta e imbevetti una nuova garza col disinfettante, tamponando la ferita con cura. «Il taglio non è molto grave, ma va comunque cucito», lo avvisai, distaccata.
«Avevo proprio voglia di fare la bambola di pezza», mi schernì con uno sbuffo, ma lo ignorai.
Iniziai a ricucirlo con delicatezza, concentrandomi su quello che stavo facendo per evitare di fargli male. Era tosto, Daryl: anche se non avevo anestetizzato la zona attorno al taglio, stava sopportando il dolore come se nulla fosse. Riuscivo a notare i muscoli della schiena ben tesi, nonostante cercasse di mantenere una postura rilassata.
Mi resi conto che non avevo mai visto Daryl senza maglia e, mentre tagliavo il filo da sutura in eccesso, mi ritrovai ad indugiare con lo sguardo sulla linea delle sue spalle nude. La sua pelle era calda e tesa sotto le mie dita e la sua schiena, libera da ogni indumento, sembrava ancora più ampia e accogliente. Pensai alle volte in cui mi ero stretta a lui, affondandoci il volto e sentendomi a casa. A quando lo avevo tenuto stretto a me mentre sputava fuori la rabbia per se stesso, fuori dal capanno. E a quanta voglia avevo, anche in quel momento, di toccare la sua pelle per sentirmi al sicuro.
Era dolce e doloroso insieme, perché le vecchie cicatrici che gli solcavano la schiena mi ricordarono quanto Daryl avesse sofferto fin da giovanissimo. Era la prima volta che le vedevo e scatenarono subito un forte senso di protezione, dentro di me; mi venne da pensare che lui, in realtà, fosse ancora più fragile di quel che pensavo, nonostante la sua facciata da duro. Il nodo allo stomaco si strinse e la mia mente cominciò a riempirsi sempre più di pensieri, consapevolezze e immagini: avrei potuto perderlo, quella notte. Avrei potuto perderlo, mentre era là fuori, disperso assieme ad Abraham e a Sasha. Ed io non potevo, per nessuna ragione al mondo, perdere Daryl Dixon. Tutto il terrore e l'angoscia che avevo provato in quelle ore interminabili che ci avevano separato mi si riversarono addosso, attanagliandomi lo stomaco, gonfiandomi la gola e riempiendomi gli occhi di lacrime. Misi ago e filo da parte, e, lentamente, appoggiai la fronte contro la sua spalla.
«Non farlo mai più», singhiozzai, arrabbiata. «Non ti azzardare mai più ad andartene senza dirmi una parola»
Daryl ebbe un fremito ma non si scostò, né mi rispose.
«Sono morta di paura, stronzo. Sono morta di paura, lo sai?», inveii in un sussurro, circondandogli i fianchi con le braccia e stringendolo a me.
In un primo momento, l'arciere rimase immobile, mentre continuavo a singhiozzare contro la sua pelle e a tenerlo stretto. Poi, ad un certo punto, sentii una sua mano posarsi sulle mie, ancora allacciate sul suo ventre. Le sue dita scivolarono poi sulla pelle del mio braccio e si chiusero attorno al mio gomito, come a trattenermi. Non potevo vederlo in viso, ma ormai lo conoscevo abbastanza da riuscire ad immaginare la sua espressione.
«Odiavamo entrambi gli addii, o sbaglio?», mormorò, la voce spenta. Mi sembrò improvvisamente stanchissimo, con la schiena ricurva e le spalle afflosciate.
Sentii l'irritazione pervadermi e formicolarmi sottopelle. Continuai a tenerlo stretto ma alzai il capo per per cercare i suoi occhi, ma non voltò la testa di un millimetro.
«Non rigirare la frittata, adesso. Sei sparito nel nulla, Daryl!», lo accusai con rabbia, divincolandomi poi dalla sua stretta, come se scottasse. Raggirai il lettino e mi parai di fronte a lui. «Sei sparito senza dirmi niente mentre qui andava tutto a puttane!». Tutto il nervosismo, la paura, il terrore che avevo provato in quei giorni infernali stavano scivolando fuori da me in quello sfogo rabbioso; era come se la bolla d'aria che mi stava opprimendo il petto si stesse lentamente svuotando.
«Prima l'attacco di quei selvaggi, poi Glenn che sparisce, le mura che crollano, la gente che muore. Ciliegina sulla torta: tu che te ne vai senza dire una parola, perché sei Daryl Dixon! E sei incazzato puoi fare il codardo, puoi fare quello che ti pare e non degnarmi nemmeno di un “ciao”, prima di andartene! Hai pensato, anche solo per un secondo, a come mi sarei sentita io, se ti fosse successo qualcosa?! A maggior ragione se l'ultima volta che ci siamo visti abbiamo litigato, tanto per cambiare».
Daryl continuava imperterrito a sorbirsi tutte le mie accuse, guardandomi con un'espressione indecifrabile, resa torva e illeggibile a causa capelli gli ricadevano sul volto. Sembrava quasi… triste. E tormentato. Ma la sua espressione ricordava vagamente anche quella con cui aveva cercato di farmi capire che aveva cambiato idea sulle persone, grazie a me. Un'espressione alla quale non potevo restare indifferente. Ero incazzata, certo, ma Daryl mi stava guardando così. Dannazione. I pensieri si stavano facendo sempre più confusi nella mia testa, ma provai comunque a sostenere il suo sguardo.
Dopo qualche istante di silenzio, Daryl si degnò di rispondermi. O meglio, provocarmi.
«Non credevo di doverti chiedere il permesso per uscire da qui», disse, con lo stesso tono di voce indifferente.
Sentii chiaramente il sangue salirmi al cervello e gli occhi spalancarsi dall'esasperazione. «Che ragionamento è?! Solo perché una persona tiene alla tua incolumità vuol dire che vuole automaticamente farti da balia? Pensavo che lei fosse più intelligente, signor–».
Daryl chiuse gli occhi e grugnii. Ed io non riuscii a continuare, perché si era improvvisamente allungato verso di me, mi aveva afferrato per un polso e strattonato contro il suo petto, intrappolandomi in un abbraccio.
«Mi sono mancate le tue chiacchiere estremamente irritanti, ragazzina», sospirò tra i miei capelli.
Sentii la mia rabbia disinnescarsi in un secondo, stretta così tra le sue braccia, ma cercai disperatamente di rimanere coerente ai miei propositi.
«Vaffanculo, Daryl», sbottai, la voce spezzata attutita dalla sua spalla.
Lo sentii sbuffare una risata e, a quel punto, non ci fu più niente da fare per me: ricambiai quella stretta con energia, beandomi del calore della sua pelle nuda contro la mia – e desiderai segretamente di avere qualche strato di tessuto in meno anche io. Ripensai alle cicatrici e lo strinsi ancora più forte.
Rimanemmo abbracciati per un po', finché non mi scostò con gentilezza da sé.
«Sei stata brava», disse all'improvviso, cercando di mantenere un'espressione neutrale. Appoggiò gli avambracci sulle cosce, facendo dondolare le gambe.
«Perché?».
«Perché ce l'hai fatta anche senza di me».
Rimasi interdetta per qualche secondo. Cosa diavolo significava, quell'uscita? Pensai che, probabilmente, stava solo cercando di sdrammatizzare, o prendermi per il culo. O forse, in maniera molto contorta, mi stava facendo... un complimento? Era orgoglio, quello che sentivo nella sua voce?
La mia confusione doveva essere evidente, perché si schiarì la voce e cambiò posizione, distendendo il busto all'indietro e appoggiando le mani sul lettino. «Ti sei fatta valere».
In quel momento, mi sentii esattamente come quando si era presentato a casa mia con le cose di Noah: con il cuore che traboccava di emozioni che non sarei mai riuscita a trasmettergli a parole. La voglia di rispondergli con un bacio si fece spazio dentro di me con l'irruenza di una tempesta. Pensai al fatto che avrebbe potuto respingermi fermamente stavolta e rifiutarmi; che avrebbe potuto allontanarsi di nuovo; o, ancora, che avrebbe potuto insultarmi per essermi presa troppe libertà, contro il suo volere e le sue maledette paranoie.
In tutti e tre i casi, trovai un'unica risposta: al diavolo!
Approfittando del fatto che fosse seduto e che la sua altezza fosse più accessibile, gli presi il viso tra le mani e mi sbilanciai verso di lui, intrappolando le sue labbra in un bacio – che preferii non approfondire. Lui, ovviamente, si irrigidì dalla sorpresa, ma la sua reazione non fu repentina come l'altra volta. Dopo qualche attimo separò le nostre labbra, ma con gentilezza. Contro ogni previsione, nelle sue iridi non trovai tormento, rabbia o dubbi, ma un mare di calma.
Io, invece, mi sentivo le guance in fiamme e il cuore mi martellava nel petto, ancora incredula per la reazione pacata che Daryl aveva avuto. Sfiorai il suo naso col mio e appoggiai la mia fronte alla sua, chiudendo gli occhi per cercare di reggermi sulle mie gambe di gelatina.
Ha lasciato che lo baciassi, realizzai. Il che non equivaleva a dire “mi ha baciata”, ma eravamo sulla buona strada. Chissà cosa era mutato in lui, per arrivare a cambiare atteggiamento così repentinamente, da un giorno all'altro.
Deglutii a vuoto, sentendomi la testa leggera. Era un po' come essere brilla, ma era il suo respiro contro il mio ad essere così inebriante.
«D-Dovremmo parlare di alcune cose. Sempre che tu non te ne voglia andare di nuovo, ma questa volta ti rincorrerei con ogni mezzo. Perché, sì, sai, dobbiamo assolutamente parlare», vaneggiai in un sussurro, tenendo ancora gli occhi chiusi.
Daryl inspirò dal naso, rispondendomi solamente con un «mh-mh» e scostò la fronte dalla mia, raddrizzando la schiena.
«Bene», conclusi, riaprendo gli occhi e allontanandomi a mia volta. «Se provi a sparire di nuovo, l'invasione di ieri ti sembrerà una passeggiata», lo minacciai, raccogliendo tutto quello che avevo usato per medicarlo per portarlo al piano di sotto. La mia voce aveva riacquistato un po' di vigore.
«Brrr, me la sto facendo sotto – mi schernì, alzando le mani in segno di resa – Sono a posto?», domandò, indicandosi la schiena con un cenno del capo. Era stranamente calmo, quasi rassegnato. Non volevo illudermi che quella fosse la volta buona per riuscire a mettere le cose in chiaro una volta per tutte, ma il suo atteggiamento era piuttosto promettente.
«Vorrei cucirti quella boccaccia, ma non posso. Quindi sì, per ora sei a posto».
Lui balzò in piedi ed indossò il gilet, raccogliendo anche la camicia che giaceva appallottolata sul ripiano vicino al lettino.
«Fatti una doccia, se puoi; bisogna tenere la pelle pulita per evitare le infezioni», gli suggerii, mentre scendevamo le scale.
«Se non c'è la fila», replicò. «Devo anche aiutare a sgombrare le strade da tutti quei putridi, là fuori è un macello».
Storsi le labbra, un po' impressionata dall'idea del tappeto di vaganti, un po' contrariata. «Dovresti riposarti, per non avere fastidio ai punti».
Daryl sminuì il mio consiglio con un'alzata di spalle e non disse nulla. Quando arrivammo al piano terra, notai che la porta della camera di Carl era mezza aperta. Io e Daryl sbirciammo dentro, trovando Rick addormentato, disteso contro lo schienale e la testa appoggiata al muro. La sua mano era ancora stretta a quella di suo figlio.
La socchiusi, cercando di fare meno rumore possibile.
«Come sta il ragazzo?», domandò Daryl.
«Non è ancora del tutto cosciente, ma si sta riprendendo». Mentre rispondevo, notai che non aveva distolto lo sguardo dalla porta. Le sue sopracciglia erano aggrottate e la mascella tesa.
Gli appoggiai la mano sul braccio e lui si riscosse, voltandosi verso di me.
«Starà bene», cercai di rassicurarlo, con un sorriso.
Daryl rispose con un sorriso appena accennato, avviandosi poi verso la porta.
«Possiamo parlare, più tardi? Per favore», gli chiesi, poco prima che iniziasse a scendere gli scalini del portico.
Lui si voltò verso di me e mi lanciò un’occhiata indecifrabile che, tuttavia, non sembrava ostile. «Mi sono offerto per il turno di guardia».
«Oh…», mormorai, leggermente preoccupata. Non sarebbe stato meglio se si fosse riposato, dopo tutto quello che aveva passato fuori dalle mura?
Daryl si voltò e pensai che stesse per andarsene, quando aggiunse: «puoi venire a farmi compagnia. Mi è toccata la torretta a sud. Monterò la guardia dopocena».
Il sole del primo mattino, che filtrava timido dalle nuvole, mi sembrò tutto d'un tratto più luminoso.
Gli sorrisi, rimanendo sulla soglia. «Ci sarò».
***
«Dovresti ricucirti anche il gilet», proferii sovrappensiero.
Avevo raggiunto Daryl sulla torretta, dopocena, come prestabilito. Quella macchia di sangue incrostato e lo squarcio sull'ala sinistra erano state le prime cose che avevo notato dopo aver salito la scaletta: avevo trovato l'arciere di spalle, intento a controllare la situazione oltre la recinzione. Era una serata tranquilla, senza nuvole; la luna illuminava lo spazio attorno a noi quasi a giorno.
Lui si voltò a guardarmi, poi il suo sguardo scese sulla sua schiena e alzò la spalla per riuscire a vedere meglio. Mi avvicinai a lui di un passo, sfiorando lo strappo col pollice. In quel momento, realizzai che – in tutto quel casino – non gli avevo ancora chiesto cosa fosse successo là fuori.
«È un bel taglio, come te lo sei fatto?», domandai, cercando di non sembrare troppo apprensiva.
«Siamo stati trattenuti», mi liquidò, mentre nella mia testa si stava ammassando una marea di domande.
«Da persone o vaganti?», domandai stupidamente.
«Come qui, da persone. Aaron mi ha raccontato tutto».
Annuii, affiancandolo e appoggiandomi in avanti sul parapetto della torre. «Non ce la siamo passata bene. Sono stati giorni movimentati per tutti, a quanto pare», commentai. Studiai la sua espressione assorta, le nostre braccia che quasi si toccavano. «Non vuoi parlarne?».
L'arciere rimase in silenzio per un po', ed io arrivai a dubitare che mi avesse sentito. Quando provai ad aggiungere qualcosa, parlò.
«Degli stronzi hanno iniziato a spararci addosso, mentre stavamo tornando qui. Mi sono dovuto separare da Sasha e Abraham e nel bosco ho trovato delle persone. Ho cercato di aiutarli, di convincere a venire qui, ma alla fine me l'hanno messa nel culo», raccontò. La sua voce era bassa e neutrale, ma notai che stringeva un pugno.
Che begli ingrati, pensai.
«Sono loro che ti hanno ferito?».
Daryl scosse la testa. «Mi hanno solo fottuto la balestra e la moto e mi hanno lasciato andare».
A quella rivelazione, trasalii: immaginare Daryl senza la sua arma di fiducia, giù dalla sella della moto che gli aveva regalato Aaron… non riuscivo nemmeno a concepirlo.
«Comunque sono riuscito a ritrovare gli altri due. E stavamo tornando a casa con quel mostro di furgone, quando un altro gruppo di stronzi ci ha sbarrato la strada per prendere le nostre cose e minacciato di ucciderci. L'abbiamo scampata, ma a me hanno lasciato il ricordino», concluse, accennando alla ferita con un movimento del capo.
Annuii, sorpresa di essere riuscita a scucirgli un racconto che superasse in lunghezza mezze frasi, sillabe e mugugni. Vagai con lo sguardo nell'oscurità, leggermente turbata dal resoconto di Daryl.
«Tutto bene?».
Mi riscossi, raddrizzando la schiena. «Sì, è solo che a stare sempre qui dentro mi sono dimenticata che razza di persone girano là fuori». Mi voltai verso di lui, appoggiando la mano sulla sua. «Sono davvero felice che siate tornati a casa sani e salvi. Eravamo molto preoccupati per voi». Io soprattutto, perché temevo che non ti avrei più visto, ma quel pensiero lo lasciai al sicuro nella mia mente.
L'arciere scrutò la mia espressione, quegli occhi blu che cercavano di indagare se ci fosse dell'altro. Mi sentii quasi nuda, sotto quello sguardo. Interruppe il contatto visivo e guardò un punto indefinito davanti a sé, trattenendo la sua mano calda sotto la mia.
«Sono stati solo due giorni di merda, semplice sfiga; la gente là fuori… non sono tutti così», replicò, stringendosi nelle spalle.
Sorrisi tra me e me, rendendomi conto di quanto si fossero invertiti i ruoli: adesso era il suo turno di rassicurarmi sulla bontà delle persone.
Per un po' rimanemmo in un silenzio complice: io tenevo la mia mano sopra la sua e gli occhi chiusi, godendomi la frescura della sera. Daryl sembrava molto assorto da chissà quali pensieri e mi ricordai che non ero andata lì soltanto per parlare di quello che ci era successo in quei giorni. Lo sapeva anche lui.
Mi schiarii la voce, scostando la mano dalla sua e incrociando le braccia sotto al seno, rimanendo appoggiata al parapetto.
«Senti Daryl, riguardo l’altra sera… quando ti ho detto quelle cose…».
«Non è necessario», disse, infilandosi nervosamente le mani nelle tasche.
«Sì invece. Mi sono comportata da stupida, ancora una volta. Avrei potuto parlartene con calma, invece di aggredirti... come se ormai non conoscessi il tuo modo di affrontare le cose», proseguii, ridacchiando. Lui mi lanciò un'occhiata fugace, poi abbassò lo sguardo. «È che il tuo silenzio mi ha scoraggiata, ho pensato due giorni interi a come iniziare il discorso e... beh, forse avevo anche paura di essere rifiutata».
«Non ti dovresti preoccupare di questo», replicò, alzando gli occhi al cielo.
Io mi voltai verso di lui di scatto, con gli occhi sbarrati e una stretta allo stomaco. Cosa intendeva? Che un rifiuto da parte sua non era un'opzione?
«C-Come?».
Non appena si rese conto del significato che avrebbe potuto assumere la sua affermazione, spalancò gli occhi a sua volta e si irrigidì, raccogliendo le braccia al petto.
«Intendevo solo dire che non ci dovrei essere io in questa situazione, con te».
Aggrottai le sopracciglia, provando ad ignorare il colpo che la delusione mi aveva inferto ad altezza dello stomaco. «E chi altri ci dovrebbe essere?».
Sospirò profondamente e mi scrutò da sotto la frangia, che gli celava in parte gli occhi. Sempre a braccia incrociate. «Lo sai».
«L'unica cosa che so è che sei l'unico che ne sta facendo un problema. Perché è la differenza di età che ti preoccupa, non è vero?».
«Non dovrebbe?», replicò, incupendosi.
«No. Per me non conta niente, ad esempio».
«Questo perché sei molto meno assennata di me».
«Non è vero», lo rimbrottai, fingendomi offesa; poi tornai seria. «Sono abbastanza grande per capire cosa voglio, Daryl».
L'arciere si concesse qualche istante di silenzio, prima di incatenarmi sul posto con i suoi occhi di ghiaccio.
«E cosa vuoi?».
Era una mia impressione, o la sua voce si era fatta improvvisamente più profonda e... calda? Lo stava sicuramente facendo apposta, per mettermi in difficoltà e farmi desistere. Il suo tono provocatorio non mi lasciò indifferente, anzi, mi intimidì; eppure mi sentivo determinata, e non avevo la minima intenzione di cedere. Arrivati a quel punto, non aveva più senso lasciar perdere; dei discorsi lasciati in sospeso mi ero già bella che stancata. Il cuore iniziò a battermi furiosamente nel petto, schiacciante quanto la consapevolezza che, da lì, non sarei più potuta tornare indietro. Era giunto il momento di mettere le carte in tavola.
Lo guardai di sottecchi, per cercare di carpire una sua qualche reazione. Aveva il mento alzato e osservava il buio, che vegliava sopra le nostre teste come una cupola.
O la va o la spacca.
«Ormai non posso più nascondere quello che provo, né voglio farlo. Le cose sono irrimediabilmente cambiate e siamo arrivati ad un punto in cui penso sia impossibile fare finta di nulla, o dimenticare quello che è successo». La voce mi tremava leggermente e non mi accorsi di quanto mi stavo torturando le mani, incrociando le dita tra loro senza una logica. Eppure, allo stesso tempo, avvertivo il sollievo di chi si stava liberando di un gran peso.
«Dovremmo, invece», mormorò lui.
«Se lo pensassi davvero mi avresti respinta, stamattina!», sbottai, voltandomi verso di lui. «Io vorrei solo capire quello che vuoi tu, Daryl. È chiaro a entrambi quali sono i miei sentimenti, ma non si può dire la stessa cosa di te. Avrò sbagliato il modo di dirlo, l'altra sera, però è vero che tutte le volte che ci siamo avvicinati, subito dopo sei finito per prendere le distanze». Totalmente presa da ciò che gli stavo dicendo e che mi ero tenuta dentro per troppo tempo, non mi ero resa conto che, dal suo fianco, mi ero ritrovata faccia a faccia con lui. «Ti allontani, ti riavvicini e facciamo sempre finta di niente. Io non voglio cambiare ciò che sei; vorrei solo che, se provi i miei stessi sentimenti, tu ti conceda di provarli. Se per te, invece, quei baci non hanno significato nulla, o vuoi veramente dimenticare questa storia, me ne farò una ragione. Ma per favore, per favore, sii sincero. Con te stesso e con me».
Daryl mi osservava assorto, senza dire una parola. Il silenzio che ci circondava era assoluto: mi sembrava di essere sospesa in una fetta di realtà nella quale il tempo aveva uno svolgimento tutto suo. Le mie parole rimbombavano ancora in quel silenzio, ronzandomi nell'orecchio. Le parole che avrebbe pronunciato Daryl di lì a poco mi avrebbero resa la persona più felice sulla terra, o mi avrebbero annientata. In entrambi i casi, ero pronta: avremmo chiarito la situazione una volta per tutte, a prescindere dal verdetto finale - che spettava solo e soltanto a lui.
Si lasciò andare ad un respiro profondo, incurvando le spalle e lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Poi puntò il pugno di una mano su un fianco e, con l'altra, si massaggiò la nuca con nervosismo. Quando i suoi occhi, quasi ridotti a due fessure, si specchiarono nuovamente nei miei, feci in tempo ad udirlo sbottare un «'fanculo», prima che la mano abbandonasse il suo collo e mi afferrasse per la vita. Mi attirò a sé, si chinò su di me e premette le labbra contro le mie.
Quel gesto impetuoso spazzò via ogni mia cautela: gli presi il volto tra le mani e gli accarezzai subito il labbro inferiore con la lingua, in modo da stimolare Daryl ad approfondire il bacio. Venni presto accontentata.
Le mie mani lasciarono il suo volto e si insinuarono tra i suoi capelli lunghi, circondandogli, infine, il collo con le braccia. Mi strinsi a lui, fortissimo, mentre con un braccio mi tratteneva per la vita e con l'altra mano percorreva la mia schiena in una carezza desiderosa e possessiva. Le nostre labbra continuavano a muoversi in modo febbrile e cambiammo spesso inclinazione della nuca in modo da assecondare la danza delle nostre lingue. Il suo sapore mi confondeva, il suo respiro contro il mio mi inebriava, il calore del suo corpo mi fece impazzire il cuore nel petto. Quanto tempo avevo aspettato quel bacio.
Dopo un tempo che parve infinito, separai le labbra dalle sue quel tanto che bastava per far riprendere fiato a entrambi, ma non mi mossi di un millimetro in più. Sentire il respiro di Daryl accelerato e concitato contro il mio mi fece rabbrividire di piacere e mi sfuggì un tremito, stretta ancora nel suo abbraccio.
«Lo sai che, dopo questo, non potrai più tirarti indietro, vero?», sussurrai affannata contro la sua bocca, guardandolo negli occhi.
Il suo sguardo era incollato al mio, così serio che mi provocò una fitta al petto. Non aveva lasciato la presa su di me.
«Lo so», disse soltanto.
Mi scostai leggermente per guardarlo meglio, ma abbandonai le braccia sulle sue spalle per non farlo allontanare. Con mia grande sorpresa, mi posò entrambe le mani sui fianchi e si fece un po' più vicino a me.
«Sei sicuro?», sussurrai.
«Non troppo, però... È come hai detto tu: ormai non possiamo più fingere». E qualcosa, nel suo sguardo, mi suggerì che nemmeno avrebbe voluto.
Mi accorsi improvvisamente che ci eravamo messi entrambi a parlare sottovoce. Era tutto così intimo che, per un instante, mi sembrò di essere gli ultimi due esseri umani rimasti sulla terra. Mi sforzai notevolmente per non soccombere a quella frenesia gioiosa che, tutta in una volta, rischiava di travolgermi, dopo quel bacio.
Daryl si accorse del mio sorriso da ebete e mi squadrò, leggermente in imbarazzo. «Che c'è?».
Coi polsi incrociati dietro alla sua nuca, giocherellai con le dita tra i suoi capelli, tentando di riportare il mio sorriso a dimensioni normali. «Niente, sono solo felice».
Lui sospirò. «Non dovresti».
«Perché non dovrei? Smettila di mugugnare», borbottai.
Si separò da me, appoggiandosi al parapetto della torre di guardia. Qualsiasi traccia di allegria sparì dal suo volto. Rieccolo, il Daryl tormentato che pensava troppo.
Il suo sguardo vagò nel buio per qualche istante, mentre sul suo viso aleggiava un'espressione seria. «Perché non ti rendi conto che io sono diverso da quei ragazzini sdolcinati con cui sei stata fino ad ora, Beth. Non so quali aspettative tu ti sia fatta, ma potrei deluderle tutte». Il suo tono era quasi derisorio, amaro, eppure non mi sfuggì la nota di insicurezza che tradivano i suoi modi.
«L'unica cosa che mi delude è vedere la pessima opinione hai di me. Credevo che ormai avessi capito quanto sono cambiata. Non sono più la ragazzina sognante di una volta, come potrei? E quando mi sono-», mi bloccai improvvisamente, avvampando. Non dire "innamorata"! «Cioè, q-quando ho iniziato a provare certe cose per te, sapevo a cosa sarei andata incontro».
«Ad una montagna di merda e casini, ecco cosa».
Io lo fulminai con un'occhiataccia. «Ho capito cosa stai cercando di fare e, mi dispiace, non ci riuscirai. Non puoi dire nulla per convincermi a vederti come ti vedi tu».
Daryl rimase in silenzio, a scrutarmi. Più ricambiavo il suo sguardo, più mi veniva voglia di baciarlo di nuovo, per calmare le sue insicurezze e la poca considerazione che aveva di se stesso, ma non volevo tirare troppo la corda.
«Ti ricordi quando mi hai detto che avevi cambiato idea sulle brave persone grazie a me?».
L'arciere non rispose, ma presi il suo incrociare le braccia al petto come un “sì”.
«Poco tempo dopo, mi sono resa conto che a me era capitata la stessa cosa. O meglio, ho realizzato che, se credo che esistano ancora brave persone a questo mondo, è solo perché ne ho molte al mio fianco. E tu, Daryl Dixon, sei una di quelle. Hai i tuoi difetti e certe volte, giuro su Dio, non so cosa darei per riuscire a capire cosa ti passa per questa testa – ridacchiai, avvicinandomi per puntargli l'indice contro la fronte - ma ci sei sempre stato, quando ho avuto bisogno di te. Se la nostra differenza di età è così tanto un ostacolo, allora com'è possibile che tu mi capisca meglio di chiunque altro? Come riesci a farmi stare meglio sempre, pur parlando così poco?».
Daryl non rispose a nessuna delle domande - retoriche - che gli avevo posto, ma continuò a guardarmi. La patina di tormento sui suoi occhi si era sgretolata, la sua espressione era cambiata. Sembrava che lo avessi zittito, più che altro. Tutto quello che gli avevo detto, aveva fatto centro. Era il suo sguardo a dirmelo ed era impossibile da descrivere a parole.
Mi avvicinai a lui, sfiorandogli la barba ispida con la punta delle dita. «Sai, parlando tanto io stessa, mi sono sempre sentita più confortata da chi spendeva tante parole per me. Da quando ti conosco, invece, ho capito che le parole non possono tutto. Quando ti ho confessato di stare ancora male per Noah, tu non hai detto nulla, ma hai fatto qualcosa per me; invece di rifilarmi le solite frasi di circostanza, hai agito per fare in modo che potessi portare il ricordo del mio migliore amico sempre con me. Ed è un gesto che non dimenticherò mai, Daryl, mai».
Presi un attimo fiato per non lasciarmi travolgere da tutto quello che stavo provando, usando il suo sguardo saldo come ancora. Il cuore mi batteva così forte da farmi temere uno svenimento.
«Tutto questo sproloquio infinito - cielo, sono senza speranze! - per farti capire che non mi importa un fico secco se non sei come i ragazzi che ho avuto. Tu non sei come gli altri, e...», feci un respiro profondo, prendendo il coraggio a due mani, «ed è proprio per questo che sei la persona di cui ho più bisogno al mio fianco».
Daryl continuò a non dire nulla, fissandomi insistentemente. Se prima ero riuscita quasi a perdermi in quello sguardo, ora iniziava a mettermi a disagio. Il suo silenzio mi stava facendo innervosire; mi sentivo le guance in fiamme e il cuore galoppante per la dichiarazione che gli avevo appena fatto. Con tutte quelle emozioni in circolo ad amplificare tutto, il fatto di non sapere cosa gli stesse passando per la testa, o quale fosse la sua opinione, mi fece innervosire. Incrociai le mie braccia al petto come lui.
«Puoi dire qualcosa, per favore?», sbottai.
In un gesto repentino, si scostò dal parapetto, raddrizzandosi e parandosi davanti a me. Alzai il mento verso di lui per guardarlo, perplessa. In quel momento, mi sembrò più alto; mi sovrastava e, con le sue ampie spalle, nascondeva la luce della luna dietro di lui. I suoi occhi erano due specchi neri che guizzavano da sotto la frangia scomposta, che mi dicevano tutto quello che non sarebbe mai riuscito a uscire dalla sua bocca.
Prese una ciocca di capelli che era sfuggita alla mia coda tra le dita e la sfiorò, come fosse seta. «Tu parli troppo. E sei davvero senza speranze, ragazzina ma, cazzo, io lo sono molto più di te», mormorò con tono rassegnato.
Cosa avrei dovuto rispondere ad una affermazione del genere? Rimasi qualche secondo perplessa, finché non iniziai ad ascoltare la reazione del mio cuore a quello che aveva appena detto Daryl; a cosa si stava scatenando dentro di me, mentre mi guardava con quegli occhi. Ciò che poteva sembrare un banale rimprovero, una banale autocritica, detto da Daryl in quel modo, suonò alle mie orecchie come una dichiarazione meravigliosa. Eravamo finiti nei casini, ma ci eravamo finiti insieme.
«Daryl...».
«Sai quanto questa... roba sia difficile per me. Ero sicuro di fare la cosa giusta allontanandoti, ma sono stato un coglione a dirti quelle cose», ammise.
Inspirai a vuoto, colta dalla sorpresa. Si stava scusando?
«N-Non importa», balbettai, abbassando lo sguardo sulle sue dita, che stavano ancora giocando nervosamente coi miei capelli.
Anche lui stava guardando in quella direzione, assorto. «Arriverà il giorno in cui mi manderai a fanculo, in cui ti renderai conto che so essere anche più coglione. Però, ecco, fino a quel momento ci proverò. A far funzionare... questo», continuò tentennante, aumentando, per un istante, la stretta delle dita sulla mia ciocca. Poi la lasciò andare e mi guardò negli occhi. «Ricorda una cosa, però: io non sono quello che credi. Quando mi incazzo divento uno stronzo e questo, probabilmente, non cambierà mai. Inoltre non so un cazzo di romanticismo, o di quelle smancerie che si vedevano in TV, né voglio saperne».
«Non mi importa», replicai subito.
«Ma ti importerà, il giorno in cui manderò tutto a puttane. Prima o poi succederà, solo che adesso ti rifiuti di capirlo. Tu non mi conosci così bene come pensi, Beth».
Sentirlo pronunciare il mio nome con quella voce bassa e arrochita dal nervosismo, mi provocò una cascata di brividi che si riversò giù per la mia spina dorsale.
Mi avvicinai ancora di più a lui, così tanto da sentire il suo respiro sul mio viso.
«Voglio conoscerti sempre meglio, allora», sussurrai. Gli strinsi la mano che, poco prima, aveva giocato nervosamente con i miei capelli.
Osservando l'espressione quasi smarrita di Daryl, mi venne in mente un animale ferito e selvatico che viene addomesticato per la prima volta e che si arrende alle cure che aveva sempre rifiutato. Era lo stesso, identico sguardo che mi aveva riservato nella casa del becchino, quello del mio «oh», quando pensavo di aver capito e invece non avevo capito un bel niente. In quell'istante di silenzio assoluto, mi invase lo stesso calore al petto e mi sembrò di essere catapultata di nuovo in quella villa, seduta ad un tavolo imbastito a lume di candela e con un uomo che avevo appena imparato a conoscere. Totalmente ignara di quanto quei sentimenti ancora flebili si sarebbero trasformati, nel corso del tempo, e quanto sarebbe diventato importante per me quell'uomo così burbero.
Daryl mi riportò alla realtà, con la stessa veemenza di sempre: approfittando delle nostre dita intrecciate, mi strattonò contro di sé e fece collidere le nostre labbra, la mano libera a trattenermi per la nuca.
Non ho paura di quello che sei, avrei voluto dirgli, ma l'irruenza con cui mi stava baciando non mi permise di dire nient'altro, così gli buttai le braccia al collo e mi lasciai baciare.
Ebbi così l'assoluta conferma che Daryl Dixon preferiva dimostrare quello che provava a fatti, più che a parole. E quello che mi stava dimostrando valeva più di mille discorsi.
Rimasi sulla torretta a fargli compagnia, cercando di comportarmi normalmente nonostante l'euforia. Mi sentivo sempre la stessa, eppure, al contempo, totalmente diversa e piena di consapevolezze nuove. Ci avrei messo un po' a processare il fatto che, finalmente, tutti quei mesi di confusione, passi falsi e parole non dette, avevano trovato la loro conclusione... la più meravigliosa delle conclusioni.
Era passata da poco la mezzanotte, quando mi riaccompagnò a casa dopo essersi fatto dare il cambio da Tobin. Evitai di prenderlo per mano perché non mi aspettavo certo che, tutto d'un tratto, si comportasse come un fidanzato normale. In realtà, persino nella mia testa mi risultava difficile accostare quella figura stereotipata a Daryl, mi veniva quasi da ridere. Aveva accettato di non ignorare più i sentimenti che nutrivamo l'un per l'altra, e tanto mi bastava. Avrei imparato col tempo fin dove potevo spingermi con le dimostrazioni d'affetto.
Una volta arrivati sotto al portico di casa mia e sicura che fossimo al riparo da sguardi indiscreti, mi alzai in punta di piedi per salutarlo con un bacio. Ero sicura che non ci fosse nulla di male, invece Daryl mi bloccò seduta stante: posò la sua grande mano contro la mia clavicola, irrigidendosi e allontanando il volto dal mio.
«Beth», sibilò.
«Daryl - lo scimmiottai - non c'è nessuno in giro! ».
L'arciere grugnì, ficcando le mani nelle tasche. «Non voglio dare spettacolo».
Cercai di trattenere un sorriso per non dargli l'impressione di prenderlo in giro.
«Lo so, lo so, l'avevo messo in conto. Però non puoi dare spettacolo se non hai spettatori, no?», replicai, circondandogli il collo con le braccia e arrivando a sfiorare il suo naso col mio.
Daryl sbuffò, posando controvoglia una mano sul mio fianco destro.
«Mi stai già dannatamente seccando, ragazzina», mormorò sulle mie labbra, prima di zittirmi in maniera piuttosto convincente.
Erano state usate abbastanza parole, per quella sera.
| Note autrice |
Avete presente quando scrivete pezzi di capitoli, che vi esaltano e che non vedete l'ora di postare, ma che dovete tenere lì perché ancora non è il momento?
Ecco, questo capitolo è costituito per l'80% da frammenti scritti mesi e mesi fa. Anzi, addirittura arrivano all'anno e mezzo di età. E' cominciato tutto quando ho iniziato a vedere Beth nella battaglia di Alexandria, dalle prime righe in giù. Avevo scritto l'embrione della scena in infermeria secoli fa e, al tempo, era molto diversa. Il capitolo era quasi tutto completato, se non fosse che l'ho aggiustato e riaggiustato, perché volevo essere totalmente soddisfatta, in ogni dettaglio.
Morivo dalla voglia di scrivere di questa loro svolta, quindi sono stata più puntigliosa del solito.
Tutti questi preamboli, per spiegarvi come mai questo aggiornamento giunge così presto - rispetto ai miei vergognosi standard.
Ho appena deciso di battezzare questo "il capitolo dei limoni" e direi che era anche ora! Onestamente sono troppo contenta di essere arrivata all'avvicinamento definitivo di questi due, perché fino ad ora li ho sempre fatti trattenere, forse anche troppo. Ma è così che mi sono immaginata il loro percorso, fin dall'inizio, e spero che questo capitolo praticamente tutto incentrato su di loro vi abbia ripagato di tutta l'attesa. Ora mi sento finalmente libera di sbizzarrirmi con tutte le scene fluff che voglio, ovviamente nei limiti del carattere schivo di Daryl :) forse si scioglierà appena, chi lo sa! Già in questo capitolo ha fatto dei passi avanti, che spero non stonassero col personaggio. Diciamo che ho voluto presentare un Daryl finalmente "rassegnato" a quello che prova. Vedete quanto insegna, avere un'orda di zombie che rischia di distruggere una città con una certa ragazzina dentro? :D
Finisco di importunarvi che è meglio ahaha
Ringrazio tantissimo ancoranoi, keplerf62 e psichedelia95 che hanno recensito lo scorso capitolo e le persone che hanno messo tra le seguite/preferite/ricordate questa storia. Spero che il nuovo capitolo vi sia piaciuto e che vogliate condividere la vostra opinione (in questo, più dei precedenti). Ci tengo e mi farebbe molto piacere! ;)
Alla prossima!
Blakie
Era
passata poco più di una settimana da quando l'orda aveva
invaso
Alexandria, dalla morte di Deanna e da quando io e Daryl ci eravamo
finalmente avvicinati, una volta per tutte. In una sola giornata si
erano condensate tante cose brutte, ma anche qualche cosa bella. Il
lutto per le persone che avevamo perso e il senso di vittoria per
essere riusciti, alla fine, a difendere la nostra casa
si
intrecciavano in uno strano miscuglio di sensazioni e consapevolezze,
che da
quel momento in poi aveva
permeato ogni cosa.
Tutte le
attività e quotidianità che
avevano reso Alexandria una realtà molto simile a quella
precedente
l'apocalisse
erano
state sospese. Tutti i cittadini che si erano salvati dal
massacro erano stati ingaggiati per occuparsi di quelle che erano
diventate le priorità: ricostruire le mura,
ripulire la città,
bruciare i corpi dei vaganti. Si era rivelata una cosa lunga,
dal momento che i resti dei vaganti erano molti e si doveva fare
avanti e indietro fuori dalla zona sicura diverse volte, per
bruciarli. Perciò, anche io mi ero
ritrovata ad aiutare a
raccogliere corpi, a ripulire le strade dal sangue, a dare una
mano all'ambulatorio.
La
parte più difficile, però, era stata aggiungere
più di un nome al
muro commemorativo: Deanna, Jessie, Sam, Ron, Ted, Lucy, Maya e
Pascal. Purtroppo, di tanti di loro non era rimasto praticamente
niente da poter seppellire in maniera degna.
In
quelle giornate difficili, mi tornava
spesso
in mente il versetto che (un neo-redento) Padre Gabriel aveva scelto
per concludere la commemorazione in onore di chi ci aveva
lasciato: Davide
disse a Salomone suo figlio: "Sii forte, coraggio; mettiti al
lavoro, non temere e non abbatterti, perché il Signore Dio,
mio Dio,
è con te. Non ti lascerà e non ti
abbandonerà finché tu non abbia
terminato tutto il lavoro per il tempio".
E, come Salomone, anche noi stavamo cercando di ricostruire il nostro
tempio.
«Ormai
la breccia è stata liberata dalle macerie
della torre collassata. Anche con lo sgombero dei corpi abbiamo quasi
finito».
Dopo una
settimana così estenuante, le parole
con cui Rick iniziò quella riunione di fine giornata
arrivarono come
la più bella delle notizie. Ci eravamo riuniti nel vecchio
studio di
Deanna, come era ormai d'abitudine. Al centro del tavolo attorno al
quale eravamo raccolti, svettavano una mappa e i progetti per
l'espansione di Alexandria che Deanna aveva lasciato a Michonne e
Rick.
«Quindi
non rimane che issare il telaio delle
pareti e trovare
i
pannelli per richiudere quella dannata breccia», ne convenne
Abraham.
«Mentre
tornavamo dall'ultima spedizione, io
e Daryl abbiamo visto dalle parti di Ashburn un grosso cantiere
edile. Forse anche quello serviva per la costruzione di un centro
commerciale», intervenne Aaron, cerchiando con la matita la
città
sulla cartina al centro del tavolo.
«Dal
momento che il
cantiere qui vicino lo abbiamo ripulito, si potrebbe dare
un'occhiata. Se siamo fortunati, potremmo trovare lo stesso tipo di
pannelli. Invece il materiale per l'intelaiatura che ci è
rimasto
dovrebbe essere sufficiente», commentò Abraham. «Ashburn
non è molto lontana da qui. Possiamo tornarci
domani», si offrì
Daryl, guardando Aaron. Il quale, però, si scusò,
dicendo che per
il giorno dopo era già impegnato con un'altra squadra. A
quel punto,
prima che qualcun altro potesse farlo, mi offrii di accompagnare
Daryl per recuperare quelle lamiere: con mia grandissima sorpresa,
nessuno mosse chissà quali obiezioni, lui in primis.
Dopo
aver stabilito tutti i dettagli di quella spedizione ed aver messo
appunto l'organizzazione delle squadre per la giornata successiva,
Rick sciolse la riunione ed ognuno tornò alla propria
abitazione.
Dopo quello che era successo, avevo deciso di tornare a vivere
assieme al resto della mia famiglia nella grande casa che gli era
stata assegnata, perciò seguii Rick, Michonne e gli altri.
Si era
infatti liberata una camera per me quando Maggie e Glenn avevano, al
contrario, deciso di occupare la casa degli Anderson, ormai
inabitata. Si trovava subito dopo la casa in cui abitavano Abraham,
Rosita, Eugene, Tara, Sasha e Tyreese: il perfetto compromesso tra il
rimanere vicini e avere un nido tutto per loro nel quale prepararsi
per l'arrivo di mio (o mia?) nipote.
Mia
sorella mi
affiancò mentre camminavamo nella stessa direzione. Accanto
a lei
c'era Tara. «Come ti senti alla vigilia della tua prima
spedizione?».
Mi
voltai per sorriderle. «Tutto
sommato, tranquilla. È giusto che mi renda utile».
«Perché,
non ti sei resa utile, fino ad ora?», domandò
Tara. «Denise
mi ha detto che è stata più volte sul punto di
portarti fuori
dall'ambulatorio di peso, per convincerti ad andare a
casa».
Abbassai
lo sguardo e scalciai via un sassolino,
sorridendo imbarazzata. «Denise esagera. Intendevo
dire che è
giusto che ogni tanto esca anche io, non posso stare sempre al sicuro
dietro ad una recinzione».
«Non
mi pare che siamo stati molto al sicuro qua dentro,
ultimamente»,
commentò Maggie.
Sospirai.
«Già. Però penso che mi farà
bene uscire un po'».
Quando
arrivammo davanti a casa sua, Maggie mi
abbracciò. «Stai
attenta, domani».
«Ehi,
dimentichi forse chi verrà con me? Sono in una botte di
ferro», la
rassicurai, sciogliendo l'abbraccio.
Lei mi
diede un
buffetto affettuoso sulla guancia, accompagnato da un sorrisetto
malizioso. «Non l'ho affatto dimenticato»,
mi rispose,
lanciandosi uno sguardo d'intesa con Tara.
«Ma
smettetela», le rimbrottai arrossendo, ma senza riuscire a
impedirmi
di sorridere.
Le
salutai con una linguaccia e, quando
entrai, trovai Judith sul divano assieme a Michonne e Carol. Mi
fermai un po' lì con loro: era bello tornare a casa sapendo
che ci
sarebbe sempre stato qualcuno della mia famiglia ad
attendermi.
Non rimpiangevo per niente il fatto di non avere più una
casa tutta
per me, non dopo quello che avevamo passato e non dopo l'enorme
rischio di perderli che avevo corso. In quelle giornate difficili,
era stato bello sapere che, una volta finiti i miei doveri, non sarei
rimasta sola in una casa troppo vuota per me.
Michonne
mi
disse che Rick era passato in ambulatorio a dare la buonanotte a
Carl, che si stava lentamente riprendendo dopo la grave ferita che
aveva subito all'occhio. Daryl, invece, si era fermato a preparare il
furgone per il giorno successivo, assieme ad Abraham.
Quando
l'arciere rincasò, nel soggiorno ero rimasta solo io. Stavo
leggendo
un libro alla luce della lampada ad olio posizionata sul tavolino,
avvolta in una coperta e circondata dal silenzio. Nel momento in cui
sentii la porta aprirsi, mi voltai e guardai oltre lo schienale del
divano.
«Ehi»,
mi salutò non appena mi vide,
chiudendosi la porta alle spalle.
Gli
sorrisi, chiudendo
il libro. «Ehi».
Mi
raggiunse sul divano, sedendosi accanto a me. Si lasciò
andare sui
cuscini con una sonora sbuffata, allungando le gambe per appoggiare i
talloni sul tavolino. Si voltò verso di
me. «Che ci fai ancora
sveglia? Domani partiamo presto».
Osservai
il suo viso,
illuminato di arancione dalla lampada che, in contrasto al buio
attorno a noi, creava un'intima penombra. Lanciai un'occhiata al
corridoio, immerso nell'oscurità: quando fui sicura che non
ci fosse
nessuno, lo presi sottobraccio e mi accoccolai a lui. Sentire
il
suo corpo contro il mio e la pelle del suo collo così calda
contro
la mia fronte mi provocò un senso di tranquillità
e sollievo
istantanei.
In
quelle giornate così frenetiche, in cui
rimanevamo distanti la maggior parte del tempo, impegnavo buona parte
della mia mente a immaginare il momento in cui saremmo potuti,
finalmente, stare un po' vicini. Le ultime sere nella mia
vecchia casa, prima di tornare a vivere con la mia famiglia, le
avevamo trascorse guardando dei vecchi DVD, parlando del
più e
del meno (beh, per la maggior parte del tempo era stato lui ad
ascoltare le mie ciance), oppure appollaiati sul tetto mentre Daryl
fumava ed io stringevo la coperta attorno ai nostri corpi, in un
silenzio complice. Una sera, vinto dalla stanchezza, aveva
sonnecchiato per un po' sul mio divano, con la testa sulla mia
coscia, mentre leggevo un libro che avevo recuperato dalla libreria
comune. Altre volte, gli facevo compagnia mentre era di guardia. Dopo
aver passato un po' di tempo insieme, Daryl se ne era tornato sempre
e comunque a casa. Era bello vivere nuovamente sotto il suo
stesso tetto, anche se avevamo dovuto dire addio ad un po' di
privacy.
«Lo
so, ma volevo vederti un attimo, prima di andare a dormire. Sei stato
fuori tutto il giorno».
«Quelle
carcasse non si bruciano
da sole», replicò,
posando la sua mano destra sulla mia coscia avvolta nella coperta. La
naturalezza con cui, ormai, si era abituato a toccarmi mi faceva
sussultare di emozione ogni volta. Sembrava molto
più a suo
agio quando era con me: non si irrigidiva più quando cercavo
il
contatto fisico e mi lasciava fare.
Tutto
questo,
ovviamente, quando eravamo soli. In compagnia degli altri, Daryl
aveva continuato a mantenere il massimo riserbo, per non far capire a
nessuno cosa stesse succedendo. A me non importava niente
delle
opinioni altrui, anzi: talvolta era una faticaccia trattenere i gesti
affettuosi mentre eravamo insieme ad altre persone, specialmente se
Daryl faceva una delle sue battute sagaci oppure mostrava il suo lato
più tenero mentre giocava con Judith. Ma avevo comunque
intenzione
di rispettare questo suo bisogno di riservatezza. Ogni tanto mi
concedevo di sfiorargli la mano di sfuggita, quando ero sicura che
nessuno ci guardasse; era capitato che anche lui indugiasse in
maniera discreta con la mano sulla mia schiena, o che mi desse una
carezza leggera sulla nuca, di nascosto da tutti. Nonostante
io
non sentissi lo stesso bisogno di discrezione di Daryl, nonostante
fossi consapevole che, se anche lui fosse stato dello stesso avviso,
avrei vissuto il tutto molto più liberamente anche davanti
agli
altri... dovevo ammettere che era bello avere qualcosa solo per noi,
da custodire con cura.
«Sembri
esausto», sussurrai
dopo
un po', osservando Daryl che teneva la testa mollemente
appoggiata allo schienale del divano, con gli occhi chiusi.
«Lo
sono», confermò.
«Andiamo
a letto?».
«Vai,
vai», mi
spronò, accompagnando le parole con dei leggeri colpetti
sulla
gamba. «Appena
ritrovo le forze ci vado anche io».
Lo
guardai di
sottecchi, mordendomi nervosamente il labbro. Non aveva
capito. «Veramente... Insomma, dormono tutti al
piano di sopra
e tu ti sei sistemato nel seminterrato, no? Intendevo che, magari,
almeno per questa sera potevo fermarmi da te», spiegai, con
titubanza.
Si
voltò di scatto ed il suo sguardo allarmato
fu immediatamente nel mio, mentre sibilava: «Beth».
Pronunciò il
mio nome come se fosse un rimprovero e la cosa non mi sorprese:
sapevo benissimo quale sarebbe stata la sua reazione.
«Domattina
partiamo prestissimo, nessuno si accorgerà che non sono in
camera
mia. Anche perché nessuno verrebbe mai a controllare, a
prescindere», replicai.
«Non
è il caso», borbottò, togliendo la mano
e alzandosi in
piedi.
«Certo,
non sia mai che a qualcuno venga in mente
di fare irruzione nel seminterrato in piena notte».
Nella
semioscurità, notai che Daryl si era lasciato sfuggire un
sorrisetto
divertito: non era la prima volta che lo vedevo beffarsi della
mia esasperazione davanti alle sue
paranoie. Inaspettatamente,
mi prese per il polso, costringendomi con poca
grazia ad
alzarmi. La coperta scivolò sul pavimento, mentre le sue
mani mi
circondarono i fianchi per far aderire il suo corpo al mio. Le sue
labbra erano ad un soffio dalle mie ed il suo sguardo mi stava
facendo diventare le gambe molli come gelatina.
«Non
tirare troppo la corda, Beth».
Appoggiai
le mani sul suo
petto, provando a rispondergli a tono. «E tu non metterti
sulla
difensiva. Non ho in mente niente di strano».
«Ci
mancherebbe altro!».
Sbuffai.
«È solo che, per
svegliarmi all'alba, di solito mi servono le cannonate. Se invece
dormiamo insieme, non rischio di svegliarmi tardi o di farti perdere
tempo. Quando ti alzi tu mi alzo anche io, te lo assicuro. Sto
semplicemente pensando al lato pratico della questione»,
spiegai,
con un tono esageratamente innocente.
«Il
lato pratico,
ah?», ironizzò.
«Assolutamente
sì. Prometto
solennemente che non attenterò in nessun modo alla sua
virtù,
signor Dixon».
«Pfft,
la mia virtù!», berciò sottovoce,
alzando gli occhi al cielo.
Non
riuscii a fare a meno di sorridere divertita, sollevando il mignolo
della mano sinistra, ben dritto. «Possiamo fare sul
serio col
giuramento del mignolo, se non ti fidi».
«Pure
le stronzate da boy scout», borbottò,
scrollandomi di dosso.
Mentre aggirava il divano ed io, ridendo sottovoce, raccoglievo la
coperta che era caduta per terra, lo sentii
aggiungere: «muoviti,
prima che cambi idea». Sentii nascere sulle labbra un sorriso
trionfante e lo seguii, ma non prima di aver spento la lampada ad
olio, facendo piombare nuovamente il soggiorno nel buio.
Ne
è valsa la pena insistere,
mi ritrovai a pensare un quarto d'ora dopo, beatamente accoccolata a
Daryl sul letto a una piazza e mezzo che era stato sistemato
nel
seminterrato apposta per lui. Non era spazioso quanto il matrimoniale
che troneggiava in camera mia, ma mi offriva la scusa perfetta per
stargli avvinghiata.
Anche
quella volta, Daryl si
era coricato su un paio di cuscini che lo mantenevano in posizione
leggermente rialzata rispetto alla mia. Nonostante ciò, ero
riuscita
a sistemarmi contro di lui, la fronte appoggiata contro la sua spalla
e la mia mano aggrappata al suo braccio, che teneva incrociato
all'altro sul suo petto. Era palesemente sulla difensiva e mi
divertiva il pensiero che un uomo grande e grosso come lui assumesse
certi atteggiamenti nei confronti di una ragazzina. Come se
rappresentassi realmente un
pericolo per la sua incolumità.
«Non
stai scomodo così?», sussurrai nel buio.
«No.
Dormi».
«Hai
una certa età, stare in quella
posizione può rovinarti la schiena», rincarai,
dopo qualche
istante. Lo stavo deliberatamente punzecchiando, più del
solito. In
risposta ottenni soltanto un grugnito seccato e a quel punto non
riuscii a trattenere una risata sommessa. In realtà, dormire
stava
risultando più difficile del previsto: avevamo
già dormito insieme,
prima e dopo l'arrivo ad Alexandria, ma quella volta era diverso.
L'euforia di avere Daryl così vicino sotto le coperte,
nell'intimità
della sua stanza buia e considerata la svolta che c'era stata tra
noi... Sì, era decisamente diverso. Mi strinsi di
più a lui,
sfregando la punta del naso contro la maglia che usava per dormire,
inspirando il profumo del bagnoschiuma che aveva utilizzato per farsi
la doccia. Sarebbe stato un insulto non approfittare di quel momento
di intimità così raro e miracoloso.
«Daryl...»,
lo
chiamai in un sussurro.
«Ti
ho detto di dormire». Il suo
tono era secco ma calmo, anche se avvertii i muscoli del suo
avambraccio guizzare per la stizza.
Strinsi
le labbra per
soffocare un'altra risata. «E il bacio della
buonanotte?».
«Domani
ti lascio a casa», mi minacciò in tutta risposta,
abbassando il
volto verso il mio. Grazie alla luce del lampione esterno che
filtrava dalla finestra sopra di noi, riuscii a distinguere nella
penombra i suoi occhi, ridotti a due fessure.
«E
daaai!
Giuro che poi mi metto a dor-».
La mia
promessa venne
bruscamente interrotta dalle sue labbra, che si erano
avventate sulle
mie con un sospiro esasperato. Daryl sciolse il mio abbraccio,
sbilanciandosi verso di me per farmi stendere sulla schiena;
puntellò
il gomito per non gravarmi addosso col busto, le gambe ancora distese
sul materasso vicino alle mie. Quando dischiuse le labbra per
approfondire il bacio, la mia lingua rispose con entusiasmo alla sua,
assecondandone i movimenti. Gli allacciai le braccia al collo per far
aderire i nostri corpi, completamente in balia del suo sapore e delle
sensazioni che mi provocava sentirlo così vicino dopo
un'intera
giornata lontani. Era come un'onda di impaziente calore che
cresceva: più ne ricevevo, più ne volevo.
Faceva
correre
le sue mani
lungo le
spalle,
le
braccia, le
costole
e
i fianchi
con
gesti febbrili, separando di tanto in tanto le nostre bocche per
riprendere fiato. Sentivo il suo respiro concitato contro il mio e
avvertii una fitta nel bassoventre, quando la sua mano
sollevò il
mio ginocchio per fare in modo che la mia gamba gli circondasse
il fianco. Quando le sue labbra scesero a baciare e a mordere la
pelle del mio collo mi lasciai scappare un gemito. Passai una mano
tra i suoi capelli, facendo correre l'altra sulla sua schiena per
cercare la sua pelle calda sotto la maglia. Con una manovra
inaspettata, mi fece rotolare sul fianco e si stese alle mie
spalle, continuando a lasciarmi baci umidi sul collo. Poi
appoggiò
la testa al cuscino, mi allacciò un braccio intorno alla
vita e mi
strinse a sé.
«Adesso
dormi», ordinò. La sua
voce arrochita e il suo respiro, alterato e caldo contro il mio
orecchio, mi provocarono una cascata di brividi che scese lungo tutta
la spina dorsale, fino all'ultima vertebra. Annuii, incapace di
parlare e restando ad ascoltare i nostri respiri affannati che, pian
piano, tornavano ad un ritmo regolare.
Avere
Daryl stretto
a me, con il suo corpo che aderiva perfettamente al mio, mi
provocava una sensazione talmente bella e appagante, che avrei voluto
rimanere vigile tutta la notte, per non perdermi un solo istante. Ma
la giornata era stata lunga e sfiancante e quel bacio della
buonanotte mi aveva dato il colpo di grazia. Complice il silenzio
assoluto, mi addormentai, cullata dal respiro di Daryl e dal calore
del suo corpo che avvolgeva il mio.
***
«Non
riesco ancora a
credere
che tu mi abbia lasciato venire con te», proferii, seduta al
posto
del passeggero nell'abitacolo del furgone su cui viaggiavamo. Presi
il pacchetto di sigarette che svettava dal vano portaoggetti,
sfilandone una e offrendola a Daryl.
«Non
che ci fossero
alternative», replicò, tenendo lo sguardo fisso
sulla strada mentre
afferrava
la sigaretta e se la portava alle labbra.
Gli
sfilai lo
zippo dalla tasca e gli accesi la sigaretta. «Ah ah,
molto
divertente».
Prese
la prima boccata. «Sono serio come la
morte», disse, ma stava sorridendo.
«Sei seriamente uno
stronzo», mi lamentai, distendendomi contro il sedile e
accavallando
le gambe sul cruscotto. Guardai fuori dal finestrino abbassato,
sorridendo tra me e me. A quell'ora del mattino, la nebbia che
si infilava tra gli alberi del bosco e che nascondeva l'orizzonte
rendeva l'atmosfera ovattata. «So che è strano, ma
sono contenta di
essere finalmente uscita da Alexandria. Avevo bisogno di
allontanarmi, prendere un po' d'aria...». Mi voltai verso di
lui,
senza smettere di sorridere. «Tutto questo non ti
ricorda
qualcosa?».
Lui
mi lanciò un'occhiata interrogativa,
continuando a fumare in silenzio.
«Beh,
io e te, soli qua fuori... Come quando siamo scappati dalla prigione.
Che di per sé non è stato un bel momento,
ovviamente, ma è
stato in quei giorni che abbiamo iniziato a conoscerci. Ci
parlavamo a malapena, prima».
«Ah
sì, è stato quando
mi hai dato del criminale».
«Ehi,
tu hai detto che mi
stavo comportando come una puttanella del college che pensa solo a
ubriacarsi!», replicai, colpendolo sull'avambraccio e
fingendomi
offesa. Daryl, le mani sul volante e la sigaretta tra le
labbra
piegate in un mezzo ghigno, cercò di ritrarsi dalle mie
proteste,
lanciandomi uno sguardo furbo da sopra la spalla destra.
Decisi
di essere clemente e incrociai le braccia al petto. «Ti ho
anche
fatto cambiare idea sul fatto che ci siano ancora brave persone in
giro. Questo non lo ricordi, eh?», aggiunsi, con un sorriso
sornione. Se c'era una cosa in cui Daryl non era cambiato, era la sua
ritrosia a parlare di sentimenti, emozioni o altri argomenti che
potevano farlo sentire troppo esposto a livello emotivo.
Infatti, si
limitò a minimizzare la cosa con una scrollata di spalle ed
un'espressione in volto che voleva simulare indifferenza. La
presi con filosofia, tanto lo aveva già ammesso una volta e,
per me,
era stata più che sufficiente. Però mi venne in
mente una domanda
che volevo fargli da qualche giorno.
«A
proposito, tu ed
Aaron ricomincerete a reclutare, quando sarà tutto
sistemato?».
Daryl prese
l'ultima boccata di fumo e
buttò il mozzicone fuori dal
finestrino. «Non credo».
Annuii,
gettando lo sguardo sulla strada. Mi aveva messa al corrente del
fatto che Rick, il giorno prima della missione alla cava, gli avesse
detto che non dovevamo più accogliere persone nuove.
«Prova a
riparlarne con Rick. Sono sicura che ha cambiato idea, nel
frattempo».
Mi
voltai a guardarlo: stava tamburellando
nervosamente le dita di una mano sulla sommità del volante,
senza
dare segno di voler rispondere. Fin troppo concentrato sulla strada
davanti a noi. Lo studiai ancora per qualche istante, prima di capire
quale fosse la verità.
«Oh...
Sei tu ad aver cambiato
idea».
«Non
è così», si mise sulla difensiva, la
postura improvvisamente più
rigida. «Cioè, non lo so. Avere
delle bocche in più da sfamare, scommettere su nuova
gente...
Abbiamo altro a cui pensare, al momento».
Tolsi
le gambe
dal cruscotto e mi avvicinai a Daryl.
«Non
vergognarti di pensarla così», lo
rassicurai. «Quello che è
successo ha lasciato il segno, in tutti noi. È per questo
che ho
avuto bisogno di uscire, sai? Volevo evitare di chiedermi, almeno per
oggi, chissà
quando capiterà la prossima volta.
Sono giorni che non penso ad altro».
Daryl
ascoltò in
silenzio ciò che non avevo avuto il coraggio di dire neanche
a
Maggie, mantenendo gli occhi sulla strada.
«Non
è facile
rimanere positivi con tutti i casini che sono successi, eh?»,
commentò poco dopo, lanciandomi un mezzo sorriso.
Gli
sorrisi di rimando, sentendo gli occhi inumidirsi per il sollievo di
essermi tolta quel peso. «Per niente», risposi,
scuotendo la
testa. «La Beth sempre ottimista si è
presa una vacanza, a
quanto pare».
«Spero
torni presto. C'è bisogno del suo
ottimismo irritante», disse, senza guardarmi.
Tirai
su
col naso, lasciandomi scappare una risata. Il cuore mi si era
alleggerito all'improvviso, come se Daryl avesse afferrato a piene
mani il peso che lo opprimeva e lo avesse gettato via.
«Glielo
riferirò», promisi, rilassandomi contro il sedile.
Il viaggio
verso Ashburn, che durò poco più di una
quarantina di minuti
totali, filò liscio e senza intoppi. Viaggiammo attraverso
le vie
deserte della cittadina, prima di arrivare alla periferia e trovare
ciò che stavamo cercando. Per
nostra fortuna, il cantiere, a differenza di quello vicino ad
Alexandria
era delimitato da reti: se fossimo riusciti a chiudere il perimetro,
avremmo potuto raccogliere quello che ci serviva in
tranquillità,
senza temere l'arrivo di vaganti dall'esterno. Superammo l'entrata
del cantiere a bordo del furgone, per dare un'occhiata generale
restando in sicurezza.
Lo
spazio che ci ritrovammo davanti era delimitato, dal lato opposto al
nostro, dall'enorme struttura che costituiva lo scheletro
dell'edificio, attorniato dalle impalcature. Lo spazio attorno a noi
era disseminato di cumuli di terra rossiccia, grosse tubature sparse
quà e là, blocchi di cemento impilati,
escavatori, bulldozer e
macchinari di vario tipo.
«Questa
impresa edile
doveva essere una di quelle coi controcoglioni, guarda che
ufficio»,
disse Daryl, indicandomi una specie di prefabbricato costituito da
due livelli.
«Vale
la pena darci un'occhiata. Ci sono
molti mezzi, forse hanno anche delle taniche di carburante, da
qualche parte. Viste tutte le spedizioni che stiamo facendo, non
è
mai abbastanza».
«Priorità ai
pannelli», mi
ricordò, indicandomi con un cenno del capo una pila di
lamiere
ondulate che erano state lasciate nelle vicinanze
dell'ufficio. «Anzi, prima di
tutto chiudiamo il
perimetro».
Il
cantiere non era molto affollato,
dal punto di vista dei vaganti: lo spazio ampio li manteneva
sparpagliati, perciò riuscimmo ad affrontarne non
più di due per
volta. Usai il pugnale non soltanto per evitare di fare troppo
rumore, ma anche perché alcuni indossavano ancora il casco
di
protezione, quindi dovevamo trafiggergli il cervello passando per il
bulbo oculare.
«È
troppo strano vederti combattere senza
la balestra», commentai, mentre mi rialzavo dopo aver
atterrato
l'ultimo vagante presente nello spiazzo. Invece le ali d'angelo del
suo gilet, dopo una piccola rammendata, erano tornate belle e
dispiegate sulla sua schiena.
Daryl
si strinse nelle spalle, buttando per terra il bastone di ferro che
aveva utilizzato come arma. «Di sicuro non vado a cercare
quello
stronzo per farmela ridare».
«Te
ne troverò un'altra
io, infatti», gli promisi, puntellando i pugni
sui
fianchi e allargando le spalle con atteggiamento spavaldo.
Lui
mi sospinse verso il cumulo di lamiere, senza nascondere un mezzo
sorriso divertito. «Ma cammina».
I
pannelli erano
lunghi e larghi, ma fortunatamentenon
molto pesanti: sollevandoli io da un lato e Daryl dall'altro,
riuscimmo a caricarli sul cassone del furgone, che avevamo
già
parcheggiato vicino alla pila di lamiere. Trovammo anche qualche
tanica di benzina vicino ad un escavatore, che riponemmo nel
cassoneinsieme
ai pannelli.
«Diamoci
una mossa. Non voglio stare fuori
troppo».
«Abbiamo
raccolto tutto quello che dovevamo e
non è nemmeno mezzogiorno», dissi,
alzando lo sguardo verso il
sole. «Possiamo dare un'occhiata con calma e
fermarci un
attimo»,
«Prima
torniamo meglio è», replicò Daryl,
guardandosi attorno con aria
diffidente ed estraendo la pistola dalla fondina.
Mi
addossai alla porta del prefabbricato, una mano sulla maniglia
e l'altra sulla mia pistola, mentre Daryl si sistemava
a
lato della soglia. Quando mi fece cenno col capo, aprii la porta di
scatto e lui si infilò nell'ufficio, con le braccia
tese e
l'arma puntata davanti a sé.
«Libero»,
sentenziò la
sua voce da dietro la porta, così lo seguii.
Il
primo
livello dell'ufficio era composto da un corridoio abbastanza stretto,
sul quale si affacciavano due porte ravvicinate tra loro. La prima
porta era socchiusa e Daryl vi sbirciò dentro, assicurandosi
che
fosse vuota: quando mi diede il suo benestare, entrai anche io. Era
una sorta di sala riunioni, con un tavolo tondo posizionato al centro
della stanza, attorniato da sedie, e un piccolo schedario sotto la
finestra; addossata al muro, si trovava una lavagna magnetica,
tappezzata dai progetti del cantiere. Daryl si mise a rovistare
frettolosamente nei cassetti dello schedario e, non trovando nulla di
utile, mi invitò ad uscire dalla stanza con un colpetto
sulla
schiena.
La
seconda porta celava una specie di mini
deposito con scorte di calcestruzzo, legno, attrezzi da lavoro e
altre diavolerie da cantiere che non avevo mai visto. Daryl raccolse
nel suo zaino degli strumenti che potevano servirci anche ad
Alexandria, poi ci recammo al secondo livello del prefabbricato,
salendo la scala che si trovava all'esterno del box. Dietro alla
prima porta, come enunciava la targhetta, si trovava il bagno.
L'ultima stanza che ci attendeva doveva essere stato l'ufficio del
capo-cantiere. Contro le pareti verde scuro erano posizionati
schedari e scaffali con portadocumenti vari. Opposta
all'entrata, c'era una scrivania di legno ricoperta da scartoffie e
cianfrusaglie varie; in tutta quella confusione, svettava la foto di
famiglia di un uomo, calvo e sulla quarantina, che mi sorrideva dalla
cornice assieme alla moglie e alle loro due figlie. Un altro viso che
mi guardava, questa volta però in maniera lasciva, era
quello della
bambolona mora e svestita stampata sul calendario appeso al muro. Al
centro della scrivania era sistemato il computer, spento da
chissà
quanto tempo e ingrigito dalla polvere. Anche il resto della stanza
sembrava ricoperto da una cortina polverosa. Se non fosse stato per
la coperta di lana stesa sotto alla scrivania, avrei giurato che quel
posto non vedesse visitatori da un sacco di tempo.
Daryl
interruppe il suo frugare in giro per osservare quel picnic
improvvisato con le sopracciglia aggrottate. Abbandonati sul
pavimento c'erano anche un binocolo, un piede di porco e due
bottigliette d'acqua piene.
«Ci
vive qualcuno, qui», azzardai, affiancandolo.
«Può
essere. O forse hanno dovuto levare le tende e non
torneranno»,
rimuginò. A lato della scrivania vi era un castello fatto
con dei
barattoli di latta vuoti, che Daryl fece crollare toccandolo con la
punta dello scarpone.
«Magari
sono solo andati a cercare
provviste», dissi. Sfilai due latte di cibo in scatola dal
mio zaino
e le posizionai per terra, sulla coperta. Daryl mi
lanciò
un'occhiata di traverso. «Che
c'è?», domandai,
risistemando lo zaino sulle spalle.
«Lo
sai che a casa
stanno iniziando a diminuire le scorte».
«Olivia
mi ha
detto che c'è stato un leggero calo rispetto ai mesi scorsi,
sì. Ma
sicuramente ce la stiamo passando meglio di chi vive accampato sotto
ad una scrivania», replicai, facendo spallucce.
«Rischi
di lasciarle qui per niente. Nessuno ti assicura che, chiunque fosse
qui, tornerà».
Allungai
un braccio all'indietro per
recuperare due cucchiai da una tasca laterale dello zaino. Ne feci
sventolare uno sotto il naso di Daryl. «Facciamo
così, allora:
una la mangiamo noi e una la lasciamo qui. Questo posto non
è male
e, sicuramente, prima o poi ricapiterà che si fermi
qualcuno. Se
possiamo aiutare qualche sconosciuto, perché no? Non
sarà un
barattolo in meno a farci morire di fame».
Daryl
si allontanò da me e si lasciò andare sul divano
malandato che si
trovava sotto la finestra. «Come ti pare».
Raccolsi
la lattina di fagioli stufati e mi sedetti accanto a lui, offrendogli
nuovamente il cucchiaio. Mantenni il barattolo sollevato tra noi per
attingervi a turno e iniziammo a mangiare in un silenzio complice.
Mentre masticavo mi guardai in giro, cercando di individuare cosa
avrei potuto portare via tra tutta quella roba. Sarebbe stato utile
prendere i fogli e la cancelleria, per la riapertura della scuola:
Sam sarebbe stata felicissima di avere del nuovo materiale con cui
poter lavorare. E Michonne avrebbe apprezzato quel blocco di
fogli per la progettistica,dal
momento che lei e Rick avevano accennato ad un ampliamento delle
mura. Se avessimo setacciato anche il bagno, forse, avremmo potuto
trovare qualche scorta medica per l'infermeria.
Mentre
mettevo insieme un inventario tra me e me, Daryl continuava a
mangiare in silenzio.
«Non
sono tutti come i due che hai
incontrato nel bosco», mi venne da dire, all'improvviso.
Lui
alzò lo sguardo nel mio, senza nascondersi dietro a finte
espressioni sorprese e senza falsi interrogativi. Aveva capito
benissimo quello che volevo dirgli. Scrollò le spalle,
avvicinando
il barattolo a sé e scavandoci
dentro
col cucchiaio per guardare altrove.
«E
me lo stai dicendo
perché...?».
«Perché
ti comporti diversamente, da
quando li hai incontrati. Era da tanto che non ti vedevo
così
diffidente», ammisi con cautela.
«Essere
diffidenti ci
ha salvato il culo molte volte».
«È
vero, però mi
seccherebbe molto sapere che sono bastate due persone spaventate a
farti invertire la marcia sui reclutamenti», replicai, con un
sorriso. «Lo hai detto tu stesso, quella sera:
è stata
semplice sfiga e non sono tutti così. Ci hai forse
ripensato?».
«Ho
solo fatto due calcoli, a mente fredda... La paura rende stronzi e
gli stronzi sono una minaccia. Quella volta è andata bene
perché
c'ero solo io, ma avrebbero potuto aspettare, entrare ad Alexandria e
fare del male a qualcuno. Non mi va di correre ancora rischi inutili
e mettervi in pericolo». Quando smise di parlare,
ebbi
l'impressione che si fosse tolto un gran peso. Chissà da
quanto
covava quell'idea e chissà quanto ci aveva rimuginato
sopra.
«Sappiamo
difenderci», gli ricordai. Il fatto che Alexandria
fosse ancora
in piedi, dopo tutto quello che era successo, ne era la prova. A
prescindere da tutte le ricadute emotive del caso. «E stiamo
cercando di rimetterci in piedi dopo un brutto momento. Rialzarsi non
significa dimenticare il dolore della caduta, o che scompaia la paura
di cadere di nuovo».
Daryl
mi guardò di sottecchi. «Non
sembravi pensarla così, prima. Cos'è, la
Beth ottimista è già
tornata dalla vacanza?».
Appoggiai
il barattolo ormai
vuoto per terra e gli sorrisi. «Ha dovuto farlo, nel
momento in
cui hai iniziato a dire assurdità. Tu non potresti
mai metterci
deliberatamente in pericolo, Daryl, non l'hai mai fatto. Anzi, hai
salvato molti di noi, più volte. Una minima parte di rischio
c'è
sempre... Non vivremmo dove viviamo ora, se Aaron non avesse
rischiato. Fa parte del gioco». Gli sfiorai il volto
e la punta
delle mie dita passarono tra le ciocche della sua frangia
scompigliata. «Devi solo darti del tempo. Sono
sicura che,
quando le mura saranno di nuovo in piedi e torneremo alla
normalità,
tornerai là fuori a cercare persone. Perché
è questo ciò che fai,
è questo ciò che sei».
Sul
viso di Daryl c'era
un'espressione che poche volte gli avevo visto assumere: era distesa,
con un angolo delle labbra appena arricciato
in un sorriso e uno sguardo più tenero del
solito. L'azzurro
delle sue iridi che, fino a quel momento, era stato incupito dai
pensieri, si schiarì nuovamente. Mi ricordò il
cielo terso che si
apre quando il sole spazza via le nubi dopo una mattinata di pioggia
incessante. Si sporse col busto verso di me, sistemandomi una
ciocca di capelli dietro all'orecchio. Poi, cinse il mio volto con
una mano e mi baciò morbido, senza aggiungere altro.
Mi
sentivo molto meglio di quanto mi fossi sentita in quella settimana.
Riuscire a condividere certi stati d'animo con Daryl, rendermi conto
che anche lui poteva aver bisogno del mio ascolto, che potevo
aiutarlo a stare meglio, anche solo parlando... riusciva a spazzare
via qualsiasi pensiero negativo mi avesse tormentata in quei giorni.
Rassicurando lui, ero riuscita a rassicurare anche me stessa, a
ricordarmi che, qualunque cosa fosse successa, non sarei stata
sola.
«Andiamo?»,
chiese Daryl, schiarendosi la voce
dopo aver separato le nostre labbra.
Annuii,
allontanandomi da lui controvoglia. «Sai,
pensavo
di raccogliere
qualche materiale
di cancelleria, per la scuola. Potremmo anche
trovare qualche rifornimento per l'infermeria se
ci fermassimo un attimo a ricontrollare nel bagno».
Daryl
si alzò, offrendomi la mano per tirarmi su. Con un balzo,
fui di
nuovo in piedi.
«Okay»,
concesse, «ma cerchiamo di
spicciarci».
«Buongiorno,
stranieri!».
Il
mio corpo reagì prima che potessi rendermi pienamente conto
di
quella voce sconosciuta: con un gesto fulmineo, la mano destra
andò
a recuperare la pistola dalla fondina, spianandola davanti a me. Con
la coda dell'occhio, notai che anche Daryl era scattato in posizione
di difesa.
«Una
domanda veloce: siete stati voi a mettere
in sicurezza il perimetro, qua fuori?».
Daryl
non
rispose. Chissà che sguardo aveva, in quel momento. Di
sicuro non
molto amichevole.
«Lo
prenderò come un sì. Vi devo ringraziare,
è stato bello tornare e
trovare il cortile di casa libero dai masticatori. Posso...».
«Ce
ne stavamo andando».
«E
dai, amico, sto solo cercando di
avere una conversazione civile! Era da tanto che non mi succedeva di
avere degli ospiti. Non che mi dispiaccia essere un lupo solitario,
eh, ma quattro chiacchiere ogni tanto fanno sempre piacere e non
hanno mai ucciso nessuno».
«Lo
dici tu».
Durante
quello scambio, misi a fuoco il ragazzo davanti a noi: sembra avere
poco più di trent'anni, indossava un paio di camperos e,
sotto la
giacca di jeans, svettava su una maglietta il logo di qualche band
metal a me sconosciuta. Aveva i capelli neri e ricciuti, lo sguardo
era scuro e gentile. Ci sorrideva, per nulla intimorito dal proprio
svantaggio numerico; anzi, continuava a parlarci senza difendersi
dietro qualche arma, a differenza nostra. Lo studiai, per
cercare di capire se avesse qualche asso nella manica, nonostante
entrambe le braccia fossero abbandonate lungo i fianchi. Nel momento
in cui notai l'arma che lo sconosciuto stava tenendo
mollemente
appesa alla spalla, non potei fare a meno di sorridere. Continuai a
tenerlo sott'occhio, sporgendomi appena verso Daryl.
«Te
lo avevo detto, che ti avrei trovato un'altra balestra».
Note autrice
Ciao, a chiunque stia
leggendo. Sono passati quattro anni dall'ultimo aggiornamento e
l'ultima cosa che credevo è che, un giorno, sarei tornata a
pubblicare. Un po' perché ho
avuto un blocco enorme che non mi ha permesso di scrivere nemmeno una
riga, un po' perché l'entusiasmo per The Walking Dead
è scemato nel tempo, a causa delle ultime stagioni che - a
mio parere - non hanno nulla da spartire con le prime. Non mi hanno
appassionata come le prime e quindi anche la mia voglia di scrivere di
questo mondo mi ha abbandonata per tanto tempo. Il fatto, però, che
la storia principale sia conclusa e che, per sapere come finisce, io
abbia recuperato il tutto... mi è servito a riprendere in
mano questa storia. Anche perché il mio ammore per i Bethyl
è sempre stato lì, nonostante non sia riuscita a
scriverne per tanto tempo. Ad ogni modo, per chiunque sia ancora qui:
SCUSATE. Passando al capitolo... ci
sono praticamente solo Beth e Daryl perché io per prima ho
avuto bisogno di riprendere confidenza con loro due, ora che sono
diventati essenzialmente una coppia. La trama non è andata
avanti più di tanto, me ne rendo conto, ma spero abbiate
apprezzato questa panoramica del loro rapporto e di come stiano
cercando entrambi di rapportarsi all'altro, alla luce
dell'avvicinamento che c'è stato tra loro. Guardando Daryl nelle ultime
stagioni, ho notato che si è lasciato andare, a livello
interpersonale, e che ha molto ridotto l'idiosincrasia per
affetto/emozioni/contatto fisico (specialmente grazie ai bambini). Ho
immaginato, quindi, che avrebbe potuto fare questa evoluzione anche
grazie a Beth, che si sarebbe ammorbito prima se le cose avessero preso
una piega diversa. Spero di non averlo snaturato, ecco. Prima di lasciarvi, devo dire
un grazie E N O R M E a vannagio che ha
accettato di betare questo capitolo con grande disponibilità
e cura <3 e un grazie altrettanto grande adAkaneT87che con il suo
sostegno inaspettato via dm mi ha spronata a riprendere in mano questa
storia. E anche ad Ariane, che mi sprona sempre off-line <3 Dovrei riuscire ad
aggiornare tra un mesetto (questa volta mi rifiuto di far passare gli
anni, giuro); intanto ringrazio chiunque avrà
voglia di leggere e di lasciarmi un suo parere. Alla prossima!