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La stanza era perfettamente cubica, non abbastanza piccola per risultare
raccolta e non abbastanza grande per sembrare spazios
La stanza era perfettamente cubica, non abbastanza piccola
per risultare raccolta e non abbastanza grande per sembrare spaziosa. Le
pareti, il pavimento e il soffitto splendevano di un bianco tanto bianco da
risultare abbacinante.
Ma non era il bianco della neve. Non era il bianco delle
nuvole vaporose in un cielo d’estate. Non era il bianco dei denti di un bambino
che sorride.
Era il bianco delle lenzuola vecchie, trattate fino
all’esasperazione con l’ultimo detersivo uscito sul mercato. Era il bianco
della mano d’intonaco passata sui muri scrostati. Era il bianco, risultato di
un trattamento dentistico di igiene, del sorriso ipocrita di un politico di
professione.
Ma la stanza non aveva porte, né finestre, né apertura
alcuna. Nessun condotto dell’aria condizionata. Nessuno spiffero, né pertugio.
Quindi in teoria nessuno avrebbe potuto mai fare considerazioni sulla
particolare sfumatura di bianco che tingeva le pareti.
In realtà, però, un essere che avrebbe potuto immergersi in
queste profonde riflessioni, c’era. Anzi, erano due.
In effetti la stanza non era affatto vuota. Due sorgenti di
calore, di entità oscillante tra i 36 e i 37 gradi centigradi, occupavano una
porzione dello spazio della stanza, stimabile in svariati decimetri cubi. Le
loro posizioni reciproche erano quantomeno curiose. Uno di essi sedeva a gambe
intrecciate sul pavimento. I palmi delle mani poggiavano saldamente sul bianco
color incrostazioni calcaree del pavimento, permettendogli di stare in una
posizione leggermente inclinata. I suoi occhi fissavano un punto imprecisato
del muro, che pareva avere una pennellata di bianco dalle tonalità
particolarmente uguali alle altre. Ad un paio di metri, invece, un altro essere
giaceva supino sul pavimento, che in quel punto era bianco come i campi vuoti
di un modello per la dichiarazione dei redditi. Il suoi occhi, al contrario del
suo coinquilino, non parevano fissati in un punto definito, ma vagavano
freneticamente attraverso le coordinate spaziali della stanza, forse nel vano
tentativo di scorgere qualcosa che sfuggisse alla disperante tranquillità di
quel bianco sempre identico a sé stesso.
Di tempo ne era passato sicuramente molto. Cioè, il tempo da
cui si trovavano lì. Ma in quella stanza perfettamente cubica, e perfettamente
bianca, di quel bianco che se provassi a grattarlo via probabilmente
scopriresti il grigio e poi il nero, in quella stanza lì, non c’erano orologi,
né clessidre, né meridiane e così, nessuno si era mai posto il problema di
quanto tempo in realtà stesse passando.
Bianco. Ho forse mai visto altro? I miei occhi si sono schiusi sul
bianco e da allora Egli è stato il taciturno testimone dei miei pensieri. In
ogni attimo, sempre e comunque, lo steso immutabile bianco. Forse ciò mi è
cagione di tedio? Niente affatto. Giacché Egli è disposto proprio come me.
Ordinato. Ineccepibile. Perfetto. Chi potrebbe mai rinfacciare alcunché a
questa parete, così liscia, levigata, senza la benché minima imperfezione? Chi
potrebbe esimersi da un sentire di ossequiosa deferenza, da un senso di colpa
strisciante, da un tacita professione di vergogna per la propria inadeguatezza,
di fronte ad un tale composto chiamarsi fuori dalle vicissitudini del mondo?
Nessuno. Tranne me, naturalmente. Il mio animo non è affetto da niente di tutto
questo. Perché, nel fissare quel soffitto, vi scorgo il riflesso perfetto,
l’ineffabile simulacro del mio stesso io. Perché, io sono. E dato che non
esiste altro all’infuori di questo, per logica ed inoppugnabile conseguenza, io
sono questo. Sì, non potrebbe essere altrimenti che così. Io ed esso. La stessa
cosa. Una cosa sola.
Eppure…
No, niente.. Ciò è vero, indubbiamente. L’ho pensato io, che sono tutto
ciò che è, dunque vero e falso sono nomi che appongo a mia discrezione.
Però…
No, niente…Non può essere un dubbio. Non si può dubitare di una cosa
incontrovertibilmente vera. Il dubbio mina le fondamenta. Il dubbio incrina la
perfezione. Il dubbio sventa i piani più sublimi. Io non alcun dubbio. Solo
certezze.
Tuttavia…
No, niente…Un inganno? Non può essere. Del resto, inganno presuppone un
ingannato e un ingannatore…Qua non possono coesistere entrambi i soggetti, dato
che è chiaro come lo sono io, che nessuno c’è oltre a me.
Ma in fondo…anche se ne sono certo… potrei ugualmente cercare una
piccola quanto inutile conferma… E dopo potrò annientare questa ridicola idea,
che ha scosso la mia completezza.
Andrò dunque a vedere.
Bianco. Ne ho la nausea. Da quando sono
qui, nient’altro che questo fottutissimo bianco. Su. Giù. A destra. A sinistra.
Giro gli occhi, e solo bianco. Lo odio. Sai cos’è che mi andrebbe di fare? Fare
a pezzi questo bianco, buttare giù la parete, ucciderlo una volta per tutte.
Così la smetterà di prendermi per il culo. E’ da quando sono qui che lo fa.
Beh, MI HAI SENTITO STRONZO? Se volevi farmi incazzare ci sei riuscito. No, non
sono perfetto. Ho tanti difetti e lo so bene. Ma sia chiaro, questo non è un
buon motivo per farmi sentire una merda. Ma chi ti credi di essere? Pensi che
non sappia che sotto quelle due dita di vernice così perfetta non si nascondono
muri anneriti? Polvere a non finire? Scarafaggi, cimici e resti di cibo in
decomposizione? Pensi che creda alla tua maschera? Beh, sei un idiota. Io sono
quello che sono. Non mi incanta il tuo silenzio. No, non è il silenzio di uno
che se ne sbatte perché è superiore. E’ il silenzio di chi tace perché ha
appena sentito gridare il proprio segreto in piazza, davanti a tutti. E allora,
se anche dicessi una sola parola, tradiresti tutto il tuo imbarazzo. Ma tu non
vuoi darmi questa soddisfazione. Dopotutto, non è quello che hai sempre tentato
di fare, di ingannarmi? Ti diverti forse così tanto? E’ così realizzante per te
continuare a far finta che le mie parole non ti scalfiscano, che non stiano
instillando gocce di acido nelle tue microscopiche fessure, che presto o tardi
ti faranno crollare fragorosamente. Non ti faccio paura? Ti faccio vedere io,
adesso. Che dici? No, non ragiono. Non me ne fotte un cazzo se non ho alcun
modo per scalfirti. Non mi importa se non troverò un singolo appiglio su cui
fare leva, neanche cercandolo per l’eternità. Tanto dovrei stare comunque qui
per l’eternità, quindi tanto vale trovare un’occupazione interessante. Mi sono
rotto di stare seduto a guardare in qua e in là.
Ora sta’ a vedere di cosa sono capace.
E nello stesso, medesimo istante, i due si alzarono, e si
ritrovarono uno di fronte all’altro, guardandosi negli occhi.
Sedeva compostamente sulla comoda poltrona del treno
Sedeva compostamente sulla comoda poltrona del treno. I suoi
occhi scivolavano dal paesaggio fuori dal finestrino al viso dei viaggiatori
che si trovavano di fronte a lui, senza fissare l’attenzione su nessuno di
essi. Per un attimo chiuse gli occhi e sprofondò nell’atmosfera ovattata della
carrozza, mantenuta ad un livello ideale di torpore grazie al riscaldamento e
artificiosamente silenziosa grazie al sistema di insonorizzazione. Curioso che
quella calma artefatta stridesse vistosamente con il suo stato d’animo più
profondo.
Les jeux sont
faits.
Oramai le scelte erano state fatte. Il punto di non ritorno
era stato raggiunto e sorpassato da un pezzo. L’aveva visto passare poco prima,
di sfuggita, fuori dal finestrino, accompagnato dall’ultimo respiro dell’ormai
agonizzante ipotesi di lasciar perdere.
Oh, i dubbi c’erano stati ovviamente. L’operazione era
rischiosa, prevedeva numerose variabili incerte ed un altissimo rischio di
fallimento. In poche parole, era irresistibilmente attraente. Era come puntare
tutto alla roulette, la gioia della vittoria sarebbe stata direttamente
proporzionale al rischio corso. Ma il rischio c’era comunque. Anche se aveva
tentato di minimizzarlo. Anche se aveva, con il suo complice, pianificato ogni
singolo dettaglio, con precisione quasi ossessiva. Planimetrie, timing, frasi
da dire. Tutto era scritto nel copione.
Ma nella compattezza del piano si insinuava il cuneo del
dubbio. Il dubbio che qualche dettaglio differisse dal previsto. E, come tutti
sanno, i cattivi che vogliono conquistare il mondo, falliscono sempre per dei
piccoli, stupidi, insignificanti dettagli.
La mistura di timore strisciante, eccitazione crescente e
degustazione della probabile vittoria era un calice di dolce veleno, una
bevanda dolceamara, che gli fluiva in corpo, gelida come una raffica di vento
in un cimitero durante una notte d’inverno, e gli scatenava brividi di paura,
misti a perverso piacere. Nei fatti, non aveva ancora compiuto il misfatto, ma
la risolutezza della sua mente non lasciava spazio a ripensamenti.
L’assassino è da considerarsi innocente finchè non affonda
il coltello nel petto della vittima? O forse lo è anche quando, con il sorriso
più disarmante del mondo le da il benvenuto, sollevato dal pensiero che prima
che sorga il sole avrà posto fine alla sua insopportabile esistenza? E se
succedesse qualcosa che gli impedisse di trucidarla? Sarebbe forse cambiato
qualcosa nella sua mente?
Queste, e altre domande, avrebbe potuto porsi il Probabile
Criminale che sedeva in un posto vicino al finestrino in un confortevole treno
di ultima generazione. Ma, tutt’altra era la girandola di pensieri che gli
fluttuava in testa. Un senso di ineluttabile fatalità si era impossessato di
lui. Dato che la sua mente aveva già deciso che sarebbe andata così, si comportava come se ciò non
dipendesse da lui. Era lo spettatore esterno ed obiettivo di sé stesso. Sarebbe
stato a guardare, a vedere come andava a finire. Ma il suo animo era a tratti
scosso da un senso di puerile trepidazione. Non differiva molto, in questo, dal
bambino che ruba le caramelle, ben sapendo che non può farlo, e attende in ogni
occasione un rimprovero, che probabilmente non verrà mai. Ma tra il bambino e
il Reo Futuro, vi era il solco degli anni, che modellano ed erodono la sincera
ingenuità primitiva. Con l’abilità dell’attore consumato, il viaggiatore
ostentava tranquillità ed indifferenza. Guardava gli altri passeggeri, di
sfuggita, senza interesse, come se fosse uno di loro. E loro ci credevano. Non
sapevano che su di lui gravava una colpa orribile e raccapricciante, anche se,
solo nel piano della realtà, ancora non commessa.
Se solo avessero saputo, se fossero venuti a conoscenza di tante
cose riguardo a quel passeggero, allora non l’avrebbero più guardato con tanta
tranquillità. Avrebbero gridato allo scandalo, avrebbero eretto tribunali
inclementi e sommari, con l’unico scopo di emettere il verdetto di
colpevolezza. E nella mente dell’Imputato, decine di altri personaggi – amici,
parenti, conoscenti, e soprattutto le innumerevoli istanze di sé stesso –
avrebbero popolato gli scranni di quell’assise immaginaria ove sarebbe stato
processato una volta per tutte. Non la sua colpa, ma lui stesso. Tutti i suoi
torti, tutti i suoi crimini, tutte le sue storture, sarebbero state brutalmente
messe a nudo dall’accusa, e allora lui non avrebbe potuto fare altro che
soccombere all’incalzare degli argomenti. E infine, dopo averlo sbeffeggiato e
deriso per tutte le sue debolezze, gli sarebbe stato comminato il massimo della
pena: il Disprezzo a Vita degli altri e di sé stesso.
Ma quando ormai la giuria sarebbe stata in procinto di
deliberare, avrebbe inaspettatamente fatto il suo ingresso l’avvocato
difensore. Nessun compenso avrebbe richiesto per svolgere il suo ufficio. Solo
amore. E una ad una, avrebbe smontato le accuse mosse all’imputato, e dove
invece esse avevano ragione di esistere, avrebbe chiesto alla corte di fidarsi
della capacità del suo assistito di redimersi. Con il suo sorriso, con le sue
parole talvolta criptiche, ma sempre incredibilmente giuste e armoniose,
avrebbe vinto una ad una le resistenze dei giurati più arcigni e avrebbe
ottenuto l’assoluzione.
Con questa prospettiva in mente, la gravità del crimine non
sussisteva. La redenzione sarebbe stata certa e quindi, non avendo niente da
perdere, perché non tentare? Quest’ultimo pensiero si accompagnò allo stridore
dei freni. Scese dal treno e si diresse a passo deciso verso l’esterno: era
deciso ad arrivare puntuale all’appuntamento.
L’idea per questa fiction mi è,
curiosamente, venuta, leggendo una discussione sul forum (A proposito di
Brothers). Quando Istrid ha proposto l’immagine dei bambini che giocavano sul
prato domandando (retoricamente) se fosse staccarla da un’idea di purezza, mi è
venuto in mente di scrivere questo. Stile sperimentale, come al solito.
Commentate, please ^_^
Il sole brillava nel cielo. Il prato era verde. Tante
margherite sbocciavano qua e là fra i fili d’erba. Un albero rigoglioso e nel
pieno della fioritura proiettava la sua ombra rinfrescante sulla terra e
forniva un riparo dal caldo intenso, ma tuttavia non esagerato di quella
giornata di fine primavera.
Un’allegra compagnia di bambini correva nei pressi
dell’albero. Sembravano divertirsi molto con i loro giochi. Si rincorrevano
lanciando grida scherzose. Fra un po’ giungerà la sera, se ne andranno, con larghissimi
sorrisi stampati sulla faccia.
Il sole brillava insistentemente
nel cielo. Il prato era forse
troppo verde. Tante margherite sbocciavano geometricamente disposte qua e là, tra i
fili d’erba tutti uguali. Un
albero stranamente rigoglioso e da molto tempo nel pieno della fioritura,
proiettava la sua squadrata ombra
rinfrescante sulla terra nascosta dal prato
e forniva un illusorio riparo dal
caldo notevolmente intenso, ma
tuttavia non esagerato per il clima torrido di
quella giornata di fine primavera. Un’apparentemente
allegra compagnia di bambini correva nei pressi dell’albero. Non sembravano però divertirsi molto con i loro giochi. Si rincorrevano
lanciando grida poco scherzose.
Fra un po’ giungerà la sera, se ne andranno, con larghissimi e inquietanti sorrisi stampati sulla
faccia.
Il sole brillava insistentemente nel cielo scarlatto. Il prato era forse troppo verde
per essere vero. Tante margherite
di plastica sbocciavano
geometricamente disposte qua e là, tra i fili d’erba sintetica, tutti uguali. Un albero nero, stranamente rigoglioso e da molto
tempo, forse da sempre, nel pieno
della fioritura, proiettava la sua squadrata ombra fintamente rinfrescante sulla terra riarsa, nascosta dal prato, che la soffocava, e forniva un illusorio
riparo dal caldo notevolmente intenso, insopportabile
ai più, ma tuttavia non esagerato per quelli che subivano da sempre il clima torrido di quella interminabile giornata di fine primavera.
Un’apparentemente allegra compagnia di smagriti
bambini correva senza tregua nei
pressi dell’albero incombente.
Non sembravano però divertirsi molto con i loro angoscianti giochi. Si rincorrevano selvaggiamente lanciando grida poco
scherzose, che suonavano come imprecazioni.
Fra un po’, se mai giungerà la
sera, se ne andranno, con larghissimi e
inquietanti sorrisi stampati sulla faccia che avevano un tempo.
Il sole brillava insistentemente nel cielo scarlatto e saturo di esalazioni tossiche. Il prato
era viscoso e puzzolente, nonché forse
troppo verde per essere vero. Tante squallide
margherite di plastica dura sbocciavano,
geometricamente disposte qua e là, tra i fili d’erba sintetica, tutti uguali, che si stendevano fino al ciglio del burrone.
Un albero nero, stranamente rigoglioso e da molto tempo, forse da sempre, nel
pieno della fioritura, proiettava la sua squadrata ombra fintamente
rinfrescante sulla terra riarsa, nascosta dal prato, che la soffocava. Come a Tantalo un albero dava l’illusoria speranza di
poter soddisfare la sua fame, anche questo forniva agli sventurati prigionieri un illusorio
riparo dal caldo (che dire notevolmente
intenso sarebbe ironico),
insopportabile ai più, ma tuttavia non sufficientemente
esagerato da essere causa
dell’agognata morte per quelli che,
reclusi in quel limbo senza tempo, subivano da sempre il clima
torrido di quella interminabile giornata di fine primavera. Infatti una solo apparentemente allegra compagnia di anime di smagriti bambini correva senza
tregua nei pressi dell’albero incombente, tentando
di lanciarsi nella voragine che circondava quel pezzo di terreno, venendo però
ogni volta ricacciati indietro dai possenti rami dell’albero. Guarda caso, non sembravano però
divertirsi molto con i loro angoscianti giochi. Si rincorrevano selvaggiamente
lanciando grida disperate, assai poco
scherzose, che suonavano come imprecazioni cariche
di dolore. Fra un po’ di ere,
se mai giungerà la sera eterna,
se ne andranno verso l’oblio finale,
con larghissimi e inquietanti sorrisi stampati sulla faccia che avevano un
tempo, disfacendosi durante la lunga caduta.
Il viaggiatore arrancava faticosamente lungo l’erto sentiero che
risaliva dal fondo della vallata
Il viaggiatore arrancava faticosamente lungo l’erto sentiero
che risaliva dal fondo della vallata. Le tortuose curve di quella minuta
traccia, che si stagliava in tutto il suo nitore nel verde selvatico
dell’intricato sottobosco, si succedevano una dopo l’altra, in una teoria
infinita che sembrava non avere mai fine.
Lo sprovveduto camminatore era partito di buon ora dalla sua
comoda dimora, con la baldanza di chi si accinge ad una prova troppo infima per
le proprie capacità, quasi un’offesa per la propria grandezza. Osservando i
pochi centimetri di linea rossa che congiungevano la sua casa con la meta
finale, aveva sorriso divertito: che sarebbero stati mai quei quattro passi per
lui che la vita la conosceva, e che di difficoltà ne aveva superate tante? Sarebbero
stati, per l’appunto, una passeggiata.
E fu così, quasi per sfizio, che decise di intraprendere
quella gita. Per cercare un’ennesima, quanto scontata conferma delle proprie
capacità.
Era partito leggero, tanto –pensava- sarebbe stato
certamente di ritorno per ora di pranzo.
Dunque, a che pro appesantire il suo fardello con chili di
viveri? Nello zainetto aveva messo solo una borraccia e, guardando il sole
sfolgorante aveva reputato inutile caricarsi di indumenti più pesanti di una
semplice maglietta bianca.
Col cuore leggero come lo zaino che aveva a tracolla, aveva
poi chiuso la porta dietro di sé –le chiavi in tasca.
Il silenzio dei prati grondanti di rugiada evaporava nel
caldo sole di metà mattina. Non una nuvola macchiava l’azzurro purissimo, che
faceva da cornice alla sublime imponenza dei massicci, che scrutavano severi la
vallata.
Era il più grande di essi che l’improvvisato escursionista
si apprestava a sfidare.
Una montagna nota in tutto il mondo, che faceva bella mostra
di sé in più della metà delle cartoline esposte nelle tabaccherie del paese.
Fotografata da ogni luogo, da tutte le angolazioni possibili, in ogni mese
dell’anno, all’alba e al tramonto, con la neve o con il sole sfolgorante. Quasi
a volerne rapire l’essenza, a carpirne il segreto nascosto, quell’aura arcana e
recondita che getta un’ombra di timorosa meraviglia sull’osservatore attonito e
inietta una mistura di terrore e attrazione direttamente nel suo cuore.
E una volta scoperto questo potere nascosto, assorbirlo,
farsene portatori, succhiare ogni goccia di questa ascetica disciplina, che è
l’ossessione di tanti. Diventare dunque immortali, in quanto padroni di quella
montagna, che è di fatto immortale, perlomeno nelle menti degli uomini.
Da una tale profonda aspirazione era forse, in fondo,
animato anche il novello alpinista. Del resto, se fosse riuscito a superare gli
ostacoli che la montagna gli avrebbe posto, se avesse evitato le sue insidie,
si sarebbe dimostrato superiore ad essa, e, nel suo piccolo, avrebbe compiuto
un impresa che avrebbe potuto ambire a gloria immortale.
Ma se, nei profondi recessi della sua mente, egli pensava
questo, di certo non ne era cosciente. In quel momento la sua attenzione si
concentrava sui suoi muscoli tesi nello sforzo di muovere il passo successivo,
tutte le aspirazioni che nutriva nella vita si potevano riassumere nel
raggiungere il termine della curva successiva.
Tornante dopo tornante, l’entusiasmo scemava repentinamente,
fino a crollare esangue al tappeto, messo K.O. dalle difficoltà del cammino.
Inscindibilmente legata alla caduta precipitosa di questo entusiasmo, vi era
però un’altra iperbole, questa volta ascendente, un climax che tendeva
vertiginosamente ad infinito: quello del dubbio.
Tutto poteva riassumersi nella banale domanda “ma chi me
l’ha fatto fare?”. Le risposte plausibili a questo quesito cadevano una ad una,
sotto le brucianti sferzate dell’acido lattico, che gli invadeva il corpo. Si
sentiva ad ogni passo più stanco, e più vicino alla resa.
In corrispondenza di quella linea immaginaria dove le alte
conifere iniziavano a cedere il passo a pini mughi e bassi arbusti, dove il
sentiero iniziava a scalare gli scoscesi ghiaioni, in ascesa sempre più rapida
verso la vetta, lì, il dubbioso gitante si trovò di fronte ad uno straziante
dilemma.
Guardò verso la valle da cui era venuto, là lo aspettava una
strada conosciuta, in discesa, e presto, il ritorno a casa e una zuppa calda e
saporita, anche se avvelenata dal sapore amaro della sconfitta. Però in fondo,
aveva fatto un errore di valutazione. Aveva creduto di poter affrontare con
tanta sicurezza quella montagna che ora lo squadrava emanando un riflesso, che –ne
era sicuro- assomigliava ad un sogghigno beffardo.
Lei era lì, e ci sarebbe rimasta sempre, monumento perenne
al suo fallimento, al suo essere impotente di fronte alle sfide della natura.
Oppure… percorse con lo sguardo l’incerta traccia, appena
accennata tra i sassi, che lo avrebbe condotto –forse, e tra chissà quanto-
alla tanto agognata vetta.
Guardando in alto vedeva fatica, rischio, incertezza, e alla
fine, in bocca il sapore della saliva impastata di sangue, ma addolcita dal
nettare della vittoria.
Ma il cielo andava oscurandosi e il sudore gli imperlava la
fronte. Dilaniato dalla difficoltà della Scelta, riflettè a lungo.
E alla fine scelse.
Fu solo però molto tempo dopo, seduto davanti ad un
computer, nella tranquillità della sua stanza, che, leggendo un testo scritto
da un autore sconosciuto, ripensò alla sua scelta, e la capì fino in fondo.
Un mormorio sommesso usciva dalle sue labbra, mentre camminava a testa
bassa, immerso nei suoi pensieri. Pensieri che lo isolavano e, come in una
bolla, lo separavano dalla luminosa gaietà di quel paesaggio di primavera
inoltrata.
Un pezzetto di verde ritagliato a fatica tra le periferie urbane, ma
tutto sommato, o forse proprio per questo, gioioso e solare.
Ma lui non vedeva niente di tutto questo. Non vedeva bambini che
giocavano spensierati sulle altalene, ma l’incarnazione di uno stereotipo ipocrita.
Pensava che avessero poco da essere allegri, che presto avrebbero scoperto che
la vita non era un gioco, che era pianto e stridore di denti, che era farsi il
culo, che era prendersi responsabilità senza ricavarne niente, che era lottare,
soffrire da cani, inseguire sogni inutili e fallaci speranze per rendersi
infine conto che non erano altro che bolle di sapone, destinate ad essere fatte
scoppiare da qualcuno, o forse solo dal vento.
Continuava a camminare per il vialetto, incurante del sole che scaldava
impietoso i suoi abiti –invariabilmente neri-. Del resto il sole stava in quel
momento cominciando ad offuscarsi: alcune nuvole si stavano addensando su di
esso.
Ne fu compiaciuto. Detestava vedere tutti pateticamente contenti di
“stare all’aria aperta”, di ubriacarsi di luce e di finti sentimenti positivi.
Detestava in fondo ogni atmosfera idilliaca, positiva, e dunque ipocrita,
mendace sull’effettiva condizione umana. Quei poveri illusi che lo
circondavano, come li compativa!
Ridevano. Ride bene chi ride ultimo. Ridete pure ora –pensava-. Ma
verrà un giorno in cui non ci sarà sole per voi, e non ci sarà gioia, solo
lacrime. E dovrete pure inghiottire le lacrime perché il mondo se ne fregherà
del vostro dolore e voi dovrete andare avanti. Sospinti da altri ingranaggi,
dovrete continuare a girare in questa infernale macchina. E a poco a poco ne
sarete macinati, fino a diventare inutili granelli di sabbia. Polvere. Memento pulvis es et in puliviris
reverteris.
E allora riderò
io. In mezzo alle macerie fumanti, in mezzo ai lamenti io riderò, e la mia
risata riecheggerà in eterno nelle menti di coloro che non mi hanno ascoltato.
Concluse questa
breve invettiva mentale con una punta di sadico piacere. Après moi, le dèluge.
Continuò il suo
giro, guardando di sfuggita le persone che passavano. Ora stava uscendo dal
parco, e si avviava verso la zona industriale. L’Ora di Punta vomitava sul
viale che stava percorrendo fiumi mefitici di auto.
Cosa fate?
Perché andate invano avanti e indietro? Qui
prodet? Per guadagnare? Cosa vi serviranno i soldi nella tomba?
Corromperete forse i vermi affinché non vi mangino? Per i vostri figli? E
perché nascono i vostri figli? Per piangere al vostro funerale.
L’anatema
silenzioso si scagliava anche sui pendolari che aspettavano l’autobus annoiati.
Intanto il cielo si oscurava, coperto da nuvole grevi. Un forte vento
imperversava ora. Gli sparuti passanti si stringevano nelle loro magliette per
il freddo. Lui invece li guardava sogghignando, stretto nel suo cappotto nero
che poc’anzi sembrava così ridicolo.
Le ciminiere
delle fabbriche punteggiavano l’orizzonte. Fumo grigio su cielo nero. Le sue
tonalità preferite. Chissà perché… Forse perché ispiravano alla gente
sentimenti autentici, invece delle solite patetiche emozioni sintetiche da
sceneggiato televisivo. Cose come amore,
speranza, felicità. Cazzate.
Non esistevano.
Per quanto ne sapeva, esisteva solo la morte. A dire che lui stesso esisteva ci
aveva rinunciato da tempo. Di fatto viveva come
se lui stesso esistesse, ammettendo un ipotetico concetto di “se
stessi”. Questa cosa gli seccava abbastanza. Come si può credere in qualcosa? Per credere bisogna fidarsi. E di chi? Chi mi da la prova?
Dio? Se non gli
fosse sembrata una cosa inutile, oltre che stupida, prorompere in una fragorosa
risata nel bel mezzo della strada, l’avrebbe senz’altro fatto.
Dio è morto.
Possibile che ci fosse ancora qualcuno che non lo sapeva. Quante volte aveva
immaginato l’uomo folle di Nietzsche che gridava al mercato, che entrava nelle
cattedrali, “tombe di Dio”, per annunziarne la morte. No, Dio non c’era.
Un tuono
riecheggiò nella città. Le cartacce abbandonate lungo i marciapiedi venivano
sollevate in mulinelli dal vento sibilante. Tutti correvano a tapparsi in casa.
Lui no. Proseguiva, fendendo l’aria con passo deciso. Proseguiva verso la
fonderia. Suo padre lavorava lì. Quel posto, stranamente, l’aveva sempre
affascinato. Era una delle poche cose per cui non nutrisse un sentimento di
indifferenza, o di odio.
Amava le alte
ciminiere, gli altiforni, il mare di magma incandescente che ribolliva là
dentro. Più volte aveva sognato che strabordasse da quei forni e invadesse la
città, il paese, il mondo intero, e l’universo. Sogni di annientamento. Erano i
suoi preferiti. Non dover più sopportare la moltitudine vociante, le
sciocchezze supreme spacciate come Verità dal mondo, il tedio che
inesorabilmente lo assaliva.
Sì, perché lui
non era come gli altri. Lui era serio. Portava avanti le cose che pensava, le
portava fino alle estreme conseguenze. Gli altri pensavano che le dicesse per attirare l’attenzione, che fosse una fase, che fosse tipicamente adolescenziale. Può darsi, rispondeva lui. Non
aveva elementi per dire di no, ma nemmeno per dire di sì. Sospendeva il
giudizio. E intanto tutto cadeva in lui, per la resina corrosiva del dubbio. Si
insinuava nelle cose, e le minava dall’interno.
Altro che
Cartesio! Quello non aveva le palle per andare fino in fondo! Lui invece si. E
presto tutti lo avrebbero saputo.
Entrò alla
fonderia, disse che voleva parlare con suo padre. Lo conoscevano, era venuto
spesso. Salì lentamente gli scalini che portavano all’altiforno numero 3.
Ammirò quello spettacolo che tante volte lo aveva colpito. Quel metallo fuso
–pensava- poteva distruggere ogni cosa, annichilirla. Era come il dubbio. Si
infiltrava in ogni interstizio, e nell’attimo di un pensiero, disintegrava ogni
cosa. Lui, ormai, aveva disintegrato ogni cosa. Certezze, convinzioni,
speranze. Una sola cosa gli restava.
Fece un solo
passo.
Sospeso nel
vuoto, nella manciata di millisecondi che lo separava dalla fine ebbe solo il
tempo di pensare