Una storia d'amore oltre l'abisso della mente

di Lyla Vicious
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 18 Maggio 1990 ***
Capitolo 2: *** Sei mesi prima, 18 Dicembre 1989 ***
Capitolo 3: *** 18 Maggio 1990 ***
Capitolo 4: *** 21 Maggio 1990 ***
Capitolo 5: *** 21 Giugno 1990 ***
Capitolo 6: *** Più tardi, 21 Giugno 1990 ***
Capitolo 7: *** 25 Giugno 1990 ***
Capitolo 8: *** 27 Giugno 1990 ***
Capitolo 9: *** Più tardi, 27 Giugno 1990 ***



Capitolo 1
*** 18 Maggio 1990 ***


Una coda di ragazzi procedeva verso il refettorio con una cadenza regolare, come quella delle palpebre che battevano all'unisono, totalmente estranea a quella dei pensieri che si rincorrevano nel cervello di Mike.
Sì, era instancabile, talvolta, la sua mente non conosceva né limiti né freni.
La calca continuava ad infittirsi nell'andirivieni tra gli inservienti e i nudi tavoli, puliti in modo approssimativo.
Nel frattempo Mike si torturava il dito indice con l'unghia del pollice, segno di un nervosismo crescente: detestava il caos di quella sala.
No, in generale detestava il caos.
La confusione era per lui un universo estraneo e intimo allo stesso tempo, tentava costantemente di sfuggirgli e non faceva che tornare a tormentarlo.
Era troppo consapevole di quello che era, nonostante avesse soltanto diciassette anni, un'età in cui nulla appare certo.
Il brusio degli altri giovani pazienti -molti di questi erano anche più giovani di lui- era un'unica possente voce, esattamente come i camici color pastello che indossavano, identici in tutto e per tutto a quello del ragazzo.
E, come al solito, Mike si annoiava, toccava a malapena il porridge disgustoso che passava la mensa e, di tanto in tanto, sorseggiava una boccata d'aranciata.
Gliel'aveva consigliato lo psichiatra della clinica, in cui risiedeva da qualche mese.
L'uomo infatti sosteneva che bere una bibita innocua lo avrebbe allontanato dalla tentazione di ubriacarsi, per quanto non fosse così semplice procurarsi dell'alcol all'interno di una clinica psichiatrica.
Era un po' come il surrogato del pollice che si succhiano i neonati per cedere al richiamo del sonno, un gesto infantile per allontanarsi dalla bruttura della realtà circostante.
Quanto a lui, nessuno si prendeva mai la briga di sedere al suo tavolo, anche perché la sua reputazione lo precedeva.
Era definito intrattabile, schivo e talvolta violento, non proprio un animale sociale.
Ma chi mai voleva socializzare in un ospedale psichiatrico?
Mike osservava le sagome delle ragazze che gli stavano ballando davanti agli occhi, sceglierne una era come andare in un negozio di caramelle: quale scartare? E di che sapore?
Lo conoscevano tutti come un erotomane, ossessionato dal sesso al punto tale da andare a letto con un paio di ragazze al giorno.
In mancanza di queste, certo, ricorreva alla masturbazione, ma preferiva di gran lunga il contatto con una donna, benché fugace.
Spesso andava con le ninfomani, anche perché erano praticamente la sua unica possibilità: non tutte si concedevano a lui e con queste ultime giocava sul sicuro.
I suoi erano stanchi dei suoi scoppi d'ira e dell'abuso di sostanze che lo tormentava, ecco perché l'avevano sbattuto lì dentro, per riprendersi la sua vita, dicevano, per evitare che frequentasse cattive compagnie.
Ma per lui, la Sunrise Bay non era altro che un carcere, dove non faceva altro che trangugiare aranciata, prendere farmaci e fumare sigarette.
Il Mike di prima quasi non esisteva più, ora era divenuto l'ombra di sé stesso, quasi un agnellino addomesticato.

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Capitolo 2
*** Sei mesi prima, 18 Dicembre 1989 ***


Judy era ossessionata dal commettere brutte figure, non voleva farsi notare e desiderava passare inosservata, nonostante i demoni che la pervadevano.
In fondo non era che una ragazza come ogni altra, con la propria personalità, i propri dubbi e le proprie insicurezze.
A questo pensava mentre era seduta sull'autobus.
Se ne stava composta, con le gambe incrociate, eppure leggermente goffa tale e quale a una bambina di tre anni.
La sua posa era a dir poco infantile, graziosamente incerta.
Il sedile giallo e plastificato non era di certo tra i più confortevoli, mentre lei avrebbe desiderato sprofondarci dentro e distrarsi dalla realtà circostante.
Non c'era molta gente all'interno del mezzo di trasporto, il che era piuttosto insolito in una città gremita di persone come Londra.
Ciononostante si trattava di una preoccupazione in meno per la timida ragazza: non le andava certamente di sentirsi sotto esame più di quanto già non ne avesse la percezione.
Judy osservava il viavai della folla londinese fuori dal finestrino, pareva proprio un formicaio in balia di un enorme formichiere più simile a un sistema reticolato.
Un crocevia di persone, insomma, uno sciame d'api pronto ad aggredirla, in un modo o nell'altro.
“Troppi problemi per una ragazza di sedici anni.” asseriva continuamente sua madre, sebbene l'adolescenza altro non fosse che un coacervo di problemi.
Almeno era così che l'aveva vissuta lei fino a quel momento.
Non un istante che potesse classificare come positivo, solo alcolici alle feste (compreso lo scorso Hannukkah, che i suoi non mancavano mai di celebrare), nel tempo libero e profondi tagli che si rincorrevano da una gamba all'altra, come fossero una ventina di vagine.
Lei naturalmente, riservata com'era, non mancava mai di nasconderli alla vista dei parenti, dei conoscenti, di chiunque.
E quella volta, sotto un paio di jeans slavati, non faceva di certo eccezione.
Continuava ugualmente, benché fossero alquanto invisibili, ad avere l'impressione che tutti li avessero di fronte agli occhi, pronti a puntare il dito, a ridere e ad essere disgustati, a tacciarla di scorretto esibizionismo.
Ed ora era lì, su un autobus di linea diretto al cuore della città, giusto per farsi un giro durante le ore pomeridiane.
Ad un certo punto la vettura si fermò e ne salì un ragazzo completamente vestito di nero, chiodo di pelle, braccialetti pieni di borchie e tutto l'arsenale tradizionalmente affibbiato ad un tipo poco raccomandabile.
Notò che era davvero molto alto, il che la mise ancora più in soggezione.
Non disse una parola e si sedette sul sedile dietro al suo, le cuffie del walkman premute contro le sue orecchie emettevano un brusio che faceva facilmente presumere che si trattasse di musica rock.
Judy ne fu un po' messa in soggezione, ma contemporaneamente si scoprì affascinata da quel ragazzo, così diverso dal tipico principe azzurro e al contempo così schivo.
Come avrebbe notato, però, una ragazza con la coda di cavallo e piena di complessi?
No, non funzionava così, meglio toglierselo dalla testa.
Mentre rifletteva su questa linea, l'autobus si fermò alla stazione e la portiera, con un sonoro schiocco, si aprì.
La ragazza, per evitare di inciampare, si tratteneva ai manici posti tra un sedile e l'altro, mentre quel ragazzo faceva lo stesso.
Mosse la mano di un altro centimetro e, accidentalmente, le loro dita si sfiorarono, facendole un pochino perdere il contatto con la realtà.
“Scusami” bisbigliò impercettibilmente, sorridendo appena appena dall'imbarazzo.
Lui non le rispose, ma immediatamente ci fu un tonfo e il rumore di qualcosa che cadeva in mille pezzi.
Il walkman del ragazzo era caduto.
Uscì dall'autobus e non la guardò neppure.
“Vaffanculo.” bofonchiò.
Sì, era certa di non avere alcuna possibilità.


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Capitolo 3
*** 18 Maggio 1990 ***


Un altro sorso d'aranciata si riversò nella gola di Mike.

Sì, oramai era lì dentro da poco più di sei mesi, per quanto gli sembrasse di non aver mai vissuto una vita precedente a quella.

Sveglia obbligatoria alle otto del mattino, rifacimento dei letti e colazione: oramai quella routine, soffocante e confortante al contempo, gli si era introdotta nell'organismo come una scarica di caffeina.

In un modo o nell'altro, non ne avrebbe più potuto fare a meno.

Il particolare che però più lo infastidiva era il fatto di non avere più la possibilità di indossare i suoi vestiti, solo un fottuto camice emotivamente e fisicamente soffocante.

Doveva fare i conti con quelle maledette imposizioni.

Ma era un punk dopotutto, perché diamine si era ammansito?

Il ragazzo trangugiò a forza una cucchiaiata del porridge insipido che doveva consumare ogni mattina mentre, con aria piuttosto annoiata e insieme nervosa, si osservava intorno.

Non stava accadendo nulla di particolarmente interessante, soliti inservienti, soliti sorveglianti e soliti compagni di disgrazia.

Giusto un paio di ragazze carine, ma nient'altro.

Il suo tavolo si trovava nel bel mezzo della stanza, in modo tale da garantirsi una visuale soddisfacente, per quanto non si confacesse alla sua naturale introversione.

Nel frattempo la coda di ragazzi continuava a proseguire, senza accennare un secondo ad esaurirsi com'era iniziata.

In quanto a quelle ragazze, magari avrebbe trovato il modo di agganciarle e di scoparsele in uno dei tanti ripostigli di quel luogo, perché no in fondo?

Era abbastanza probabile che sarebbe riuscito a convincerle, in fondo non falliva quasi mai.

Era così concentrato ad immaginare una strategia di rimorchio da attuare con quelle due, da non accorgersi quasi di ciò che gli si presentò a pochi passi.

In un primo momento notò il vassoio con il medesimo porridge con un succo d'arancia incluso, dopodiché la sua attenzione si spostò verso la camicia da notte che indossava, lunga fin quasi a coprire le gambe.

Quanto bastava perché lui non riuscisse a vedere i tagli che le coprivano, e che lei tentava di non far scoprire.

Quella ragazza quasi lo sfiorò, tant'è che lui le intimò:”Ehi! Attenta a dove...”.

Le parole gli morirono in gola nell'istante in cui si accorse di chi era.

Era la ragazza vista su quell'autobus diverso tempo prima, quella che gli aveva rotto il Walkman.

Involontariamente, certo, ma ciò non toglieva che si trattava di un aggeggio non più funzionante.

Ricordava in maniera vivida di essere scappato imprecando, senza neppure aver raccolto i pezzi.

La vicenda si era conclusa con lui che aveva sostituito il dispositivo circa una settimana dopo.

Credeva di essersi lasciato tutto alle spalle.

Eppure era lì, con i suoi capelli biondi e l'aria timida e innocente.

Quest'ultima arrossì visibilmente mormorando delle scuse al limite dell'imbarazzo e scappando via come di fronte a un pitbull, il che lo lasciò abbastanza attonito e interdetto.

Il suo flusso di coscienza seguito a quell'insolita scena fu fortunatamente interrotto dall'inserviente di turno che annunciò la fine dell'orario della colazione.

A quel punto Mike prese il suo vassoio, ancora pressoché colmo, e si alzò diretto verso il cestino della sala.

Lanciò un'occhiata furtiva verso quella ragazza bionda, certo che era carina.

“No Mike, non fare l'idiota.” Si disse.

Al momento il suo obbiettivo erano le due tizie di poco prima, chiaramente due ninfomani, dallo sguardo penetrante che entrambe gli avevano rivolto.

Era certo che non si sarebbero tirate indietro.

Il ragazzo percepì quindi una mano stringere la sua, una presa sicura e determinata.

Si voltò.

Una di quelle due ragazze gli si materializzò accanto.

Gli occhi scuri come fondi di caffè e il modo insistente con cui si mordicchiava le labbra comunicavano solo un'intenzione.

“Vuoi una cosa veloce nel ripostiglio?” gli domandò con malizia.

Come avrebbe potuto anche solo rifiutarsi?

 

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Capitolo 4
*** 21 Maggio 1990 ***


Judy ormai si trovava al Sunrise Bay da alcuni giorni.

Il suo adattamento procedeva perfettamente, scandito da alcune amicizie sviluppate con le compagne di stanza.

Si trattava ancora di flebili rapporti in erba, ma comunque si sarebbe potuto considerare un inizio.

Lì all'interno del Sunrise Bay, altrimenti soprannominato “l'inferno a due piani”, a seconda delle evenienze, aveva conosciuto Margareth e Veronica.

La prima in quel momento se ne stava sdraiata supina sul letto sopra al suo, mentre la seconda tendeva a visitare la stanza soltanto quando arrivava l'ora di dormire, era una vera e propria eremita errante.

Di loro non sapeva quasi nulla, se non che la prima era praticamente reclusa lì per il fatto che soffrisse di continui episodi depressivi, mentre gli enormi solchi che campeggiavano vividi sulle braccia della seconda non avrebbero lasciato adito ad alcun dubbio riguardo alla sua permanenza in qualsiasi clinica.

“Cosa ti manca di più della vita qui fuori?” domandò Margareth torturandosi una ciocca ribelle di capelli scuri.

“Finora soltanto i miei vestiti, almeno potevo coprirmi le gambe.” ammise un'imbarazzata Judy.

“E' buffo come qui dentro si senta sempre la mancanza delle cose più stupide.”

Rimasero in silenzio per cinque minuti che sembrarono più simili a un'eternità.

Restarono immobili, ciascuna sul proprio letto, senza guardarsi.

Judy fece un lungo sospiro, e tornò con la mente a quando l'avevano mandata lì dentro.

Era accaduto tutto esattamente quattro giorni prima, quando suo padre non aveva più trovato le sue lamette da barba.

Per poi rivederle, grondanti sangue ormai rappreso, chiuse in un cassetto nella camera da letto di sua figlia.

Ne era seguito un interrogatorio pieno di tensione, finché non l'aveva immobilizzata e la madre non aveva scoperto tutto.

Era rimasti inorriditi e spaventati dalla visione delle ferite autoinflitte, la cui entità non era certo quella di una semplice sbucciatura ottenuta cadendo da una bicicletta, o quella dei graffi di un gatto, sebbene non avessero animali domestici.

E che lei quindi non avesse un felino poco attento a cui attribuire la colpa.

“Qui starai molto meglio, si prenderanno tutti cura di te.” L'aveva confortata la madre, ma Judy sapeva benissimo che si trattava di una bugia: in realtà il loro unico scopo era quello di salvare le apparenze, e una figlia che si tagliava come un affettato non forniva certo un biglietto da visita accettabile.

Li immaginava, dopo la sua partenza, a cenare all'ampio tavolo della loro altrettanto ampia e opulenta villa alla periferia di Londra.

Li visualizzava senza problemi mentre presentavano la solita immacolata facciata e ricevevano una ventina di ospiti, raccontando a tutti la classica menzogna della figlia partita per una lunga vacanza, fingendo forse di non aver mai avuto una figlia.

Tutto ciò per il semplice fatto che se ne vergognavano, di una mortificazione nera come pece, cupa e amara che li divorava come un verme solitario.

Ad ogni modo si trovava lì, e non poteva decisamente farci nulla, tanto da essersi dovuta costruire dei nuovi ritmi e quella che aveva la parvenza di una nuova vita.

Lei, che conferiva una grande importanza ai vestiti che indossava, essendo un'appassionata di moda, ora doveva muoversi con un'enorme camice da ospedale, o quantomeno avrebbe dovuto farci l'abitudine.

L'unico segno distintivo che le rimaneva era costituito dalla sua coda di cavallo.

Non conosceva la vera ragione del perché si ostinasse a legarsi i capelli in quel modo tutti i giorni, ma solo in quel modo si sentiva a suo agio, nonostante non le nascondesse il viso a sufficienza.

Era una strana contraddizione: non voleva attirare l'attenzione, eppure utilizzava una pettinatura che non le consentiva di fuggire completamente dal mondo circostante.

Com'era inverosimile che in una famiglia benestante potesse essere nata una ragazza così fragile e problematica, anche se in fondo non era il denaro a rendere qualcuno felice.

Un rumore improvviso arrestò le sue divagazioni e una degli infermieri aprì lentamente la porta:”Ragazze, è l'ora delle medicine.”

Perciò scesero nel refettorio, dove le avrebbero attese, oltre ai canonici tre pasti, le varie pillole da assumere quotidianamente.

Camminavano una accanto all'altra, quasi simili alle Charlie's Angels, dirigendosi verso la reception, dove avrebbero preso i farmaci una per una.

Quando arrivò il turno di Judy, un infermiere dai capelli biondi, quasi baciati dal sole di una vacanza estiva, le si fece incontro:”Ecco le tue medicine, alla prossima volta allora...come ti chiami?”

“Judy, mi chiamo Judy” balbettò senza alcun motivo apparente, quasi come le parole le sfuggissero dalla lingua.

Era anche piuttosto cordiale, almeno non si ritrovava il solito inserviente imbronciato.

Come si chiamava? Ah si, sulla targhetta che portava sul camice risaltava il nome “Nick” scritto a caratteri cubitali.

Non c'era alcuna necessità di presentazioni e convenevoli di varia natura, almeno si sarebbe risparmiata l'incubo di un'altra interazione sociale più o meno prolungata.

“Allora a domani, cara Judy.” le sorrise, mostrando una fila di denti curati e perfetti, quasi puri.

Faceva così con tutte?

La ragazza ne dubitò, sembrava così sincero, come se non fosse mai venuto a conoscenza del dolore universale e della negatività del mondo.

Ciononostante arrossì visibilmente e abbassò timida il viso imporporato, la gentilezza delle persone le faceva sempre questo effetto, e inoltre era un tipo niente male...

Anche Nick si congedò con una strana sensazione che faceva capolino alla bocca dello stomaco.

 

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Capitolo 5
*** 21 Giugno 1990 ***


21 Giugno 1990

 

Quella mattina la sveglia suonò come sempre, puntuale, alle otto.

Judy si stiracchiò pigramente sotto le coperte.

Era ancora troppo stanca per immaginare anche soltanto di doversi sbarazzare di quel comodo giaciglio, anche se solamente per alcune ore.

Voleva godersi ancora per qualche minuto quel tepore, crogiolarsi in sé stessa e in un sonno interrotto da un trillo improvviso.

Ciononostante non sarebbe stato da lei trovarsi in ritardo per la colazione, perciò si decise, si infilò con un balzo le ciabatte ai piedi e si diresse verso il refettorio insieme alle compagne di stanza, divenute ormai amiche, quasi inseparabili.

Infatti, trascorso poco più di un mese dal suo primo giorno al Sunrise Bay, il rapporto con Margareth e Veronica si era ulteriormente consolidato.

La ragazza dai capelli biondi, per la prima volta nella sua vita, non avrebbe avuto difficoltà a dire di avere delle relazioni amicali durature, dei rapporti che avrebbe potuto comodamente definire tali e che non sarebbero scomparsi dopo lo schiocco di dita di un prestigiatore.

Raggiunsero la mensa dopo aver sceso una rampa di scale, seguite da un'orda terribilmente colma di persone da far immaginare senza non poca difficoltà il bacino di pubblico che aveva gremito il festival di Woodstock oltre vent'anni prima.

Immediatamente si trovarono quasi soffocate dalla folla che tentava di entrare nella sala, mentre si udivano le voci dei sorveglianti che richiamavano tutti all'ordine in sottofondo.

Il caos sovrastava l'ambiente asettico dell'ospedale, il quale ricordava un mostro che tentava di inghiottire tutto quanto ciò che gli capitava a tiro, tra pazienti e personale.

Comunque, in un modo o nell'altro, il trio riuscì a raggiungere il solito tavolo in cui consumava i pasti quotidiani.

Sì, le ragazze erano piuttosto abitudinarie, fossilizzate in una solida routine impossibile da squarciare.

C'era però da fare un piccolo appunto, qualcosa, da un paio di settimane a quella parte, era cambiato.

E quel qualcosa riguardava un mazzo di fiori che ogni mattina troneggiava accanto al posto in cui sedeva Judy.

Il mittente non era segnato, solo citazioni di Shakespeare, Keats e altri poeti rendevano il biglietto che accompagnava il grazioso regalo meno impersonale di quanto non fosse.

Quel giorno toccò ancora a Keats: Vorrei quasi che fossimo farfalle e vivessimo appena tre giorni d'estate, tre giorni così con te li colmerei di tali delizie che cinquant'anni comuni non potrebbero mai contenere.” Era scritto.

Judy arrossì lievemente, sia dall'imbarazzo sia per quanto si sentisse lusingata di ricevere quel genere di piccole attenzioni.

“Com'è romantico!” Sospirò Margareth con occhi sognanti:”Vorrei tanto che qualcuno mi regalasse dei fiori ogni mattina! Judy, sono ufficialmente invidiosa di te, sappilo.”

“Un po' troppo sdolcinato per i miei gusti, ma è pur sempre un gesto carino.” Aggiunse Veronica, più obbiettiva, per quanto la schizofrenia tendesse ad estraniarla dal mondo reale, rinchiudendola spesso in un universo visionario e fittizio.

“Sì ragazze, ma non so nemmeno chi sia! E se fosse uno scherzo?”

“Allora si tratterebbe di uno scherzo di due settimane, con tanto di ricerche accurate, chi avrebbe così tanta pazienza?” Domandò ancora Margareth.

“Beh...”

Judy alzò lo sguardo per un millesimo di secondo e si soffermò con gli occhi, come ogni mattina e come ogni volta che usciva dalla sua stanza, all'interno dell'abitacolo, aveva soltanto una persona in mente, quel ragazzo dai capelli corvini che non faceva altro che bere costantemente da una bottiglia di aranciata.

In quell'istante si trovava in fila per ricevere la sua razione mattutina, sempre vagamente deformato dal camice largo quanto una tenda che indossava, che tutti lì dentro indossavano, compresa lei.

Gli occhi smeraldini di lui incrociarono quelli nocciola di lei.

Ormai accadeva da qualche tempo, così tante volte che la ragazza aveva perso il conto, ma quel contorcimento delle viscere che le provocava quel gesto non si era minimamente esaurito dalla prima occhiata che si erano lanciati, né tantomeno era diminuito.

Ovviamente, come sempre, finirono entrambi per ritrarre lo sguardo, per evitare di risultare troppo invadenti.

E se fosse lui l'ammiratore segreto misterioso? Nah, non era così stupida da illudersi che un tipo del genere fosse il classico principe azzurro.

Assomigliava piuttosto a una versione punk e ulteriormente disadattata di un personaggio dei film di James Dean che andavano per la maggiore ai tempi dei suoi genitori.

Un ribelle senza causa, dunque.

“Toglitelo dalla testa” la fece rinsavire Margareth:” Non è assolutamente il tipo per una relazione seria.”

“M-ma io, non stavo guardando nessuno.” Balbettò Judy.

“Si, infatti si nota, hai un'espressione da ameba ogni volta che lo noti nei paraggi. Comunque si chiama Mike Sanders, è entrato qui poco dopo di me, o almeno l'ho notato intorno a quel periodo, si è già fatto tutte le mie conoscenti, quello ha solo una cosa in mente, e di sicuro quella cosa non sei tu, insomma, probabilmente punta solo al tuo corpo, o a quello che può notare.” Si interruppe:”Piuttosto dai una chance a questo dolcissimo ragazzo.” Le disse, riportando l'attenzione sul mazzo di rose rosse che giaceva sul tavolo.

Rose rosse dal sapore parigino e passionale su un tavolo metallico e incolore di un ospedale psichiatrico, che insolito contrasto, le venne da pensare.

Ad ogni modo Mike era sparito dalla sua visuale, come sarebbe dovuto sparire dai suoi pensieri.

Era ormai certo che con lui non avesse alcuna possibilità.

 

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Capitolo 6
*** Più tardi, 21 Giugno 1990 ***


Gemiti e respiri affannosi riempivano lo spazio minuscolo e limitato del ripostiglio, l'alcova che Mike utilizzava per consumare ogni rapporto sessuale.

Quella volta aveva scelto Frances, una ragazza bionda dalle forme prorompenti vagamente somiglianti a quelle di Marilyn Monroe.

L'aveva osservata e le aveva allungato un bigliettino, come faceva di solito, se era costretto a dover sostenere il primo approccio.

Ormai si trattava di una strategia collaudata, che non falliva mai.

Dopodichè, lei gli aveva sorriso con fare malizioso e, una volta visto in corridoio, gli aveva fatto palpare uno dei suoi seni ampi e turgidi dall'eccitazione.

Ora si trovava lì, dedicandosi all'esplorazione del suo corpo, come di una nuova terra incontaminata, mai sfiorata da anima viva.

La toccava in mezzo alle gambe in maniera quasi rude, violenta dal desiderio sessuale che lo pervadeva, quasi fino ad ucciderlo e ad accecarlo.

La ragazza gemeva, per quanto tentasse di trattenere ogni mugolio.

Era soltanto una ninfomane dagli ormoni impazziti, come almeno la metà della popolazione del Sunrise Bay, una ninfomane intenta a scopare con uno sconosciuto, ma in quell'istante anche quel dettaglio perdeva importanza.

Era come drogata, inebriata da quel potente afrodisiaco che era il sesso e intontita da un piacere carnale che si mescolava ad un dolore primitivo, ad un torpore osceno, un formicolio che le annodava lo stomaco.

Si eccitava con i suoi stessi gemiti, mentre Mike le tastava spudoratamente i seni scoperti in un secondo di foga.

Dal canto suo, il ragazzo tentava di distogliere la mente da un pensiero martellante, quasi ossessivo.

E allora aveva proposto quell'incontro sessuale, quella sveltina, da consumarsi come una sigaretta, con un'emerita sconosciuta, una ragazza senza neppure un nome utile a stamparla nella sua memoria.

Le sue dita scavavano senza ritegno tra le pieghe della zona più segreta di Frances, inviandole scariche di dolce piacere, inumidendole le mutandine, già infradiciate, e facendola sussultare senza tregua.

Ci mise un secondo ad arrivare all'orgasmo, da quanto era in preda all'eccitazione.

Quasi urlò, mentre Mike, non volendo essere udito da nessuno -neppure dall'eventuale custode di passaggio- le tappava la bocca con la mano grande quasi come un guantone da baseball.

“Ora è il tuo turno.”

gli disse, guardandolo dritto negli occhi e ammiccando, abbassandosi verso l'evidente protuberanza dei suoi genitali, nascosta a fatica perfino dal camice che indossava.

Almeno era lieto e insieme sollevato che il suo corpo continuasse a rispondere agli stimoli esterni, a funzionare a dovere senza metterlo in situazioni di défaillance imbarazzanti.

Poteva ancora utilizzare il sesso come modalità di evasione, per scappare dai propri problemi, come quella ragazza che continuava a tormentarlo.

Quella ragazza, sì.

Mike chiuse gli occhi e si concentrò sul momento presente, svuotò completamente il proprio cervello e fece un respiro profondo, mentre Frances gli sollevava il camice fino alla vita.

La ragazza gli disse di toglierselo, o quantomeno di aiutarla.

Lui eseguì, tentando di persuadersi del fatto di doversi divertire e distrarre.

Successivamente Frances gli tolse le mutande, liberando la sua ormai palese erezione.

Cominciò a masturbarlo lentamente, con movimenti decisi dal basso verso l'alto, avvicinando le labbra al suo membro.

Mike chiuse lentamente gli occhi e provo a lasciarsi andare, perdendosi nella bolgia confusa della sua mente, o di come sarebbe dovuta essere.

Insomma, in fondo era con una bella ragazza, di cosa si preoccupava?

Ma saresti dovuto essere da lei

“Smettila!”

Serrò le palpebre con uno scatto, come a voler scacciare quel rapido pensiero, rapido e invasivo.

Aprì gli occhi e smise di ansimare, tanto che Frances si bloccò a propria volta e liberò la bocca:”Tutto bene?”

“Sì, ricomincia per favore. Perché ti sei fermata?” tagliò corto il ragazzo.

Perciò lei riprese, velocizzando ulteriormente i propri movimenti.

Lui immaginava tutto, mentre le stringeva il seno.

Il suo corpo, le sue tette, i suoi capezzoli turgidi come sassi e la sua figa bagnata...

Come vorrei che al suo posto ci sia...

come si chiamava? Non aveva importanza, comunque.

Il suo cervello cominciò a generare un altro flusso di pensieri, ormai incontrollato.

Come diamine si chiamava quella ragazza che vedeva ogni giorno in mensa?

Quella che gli aveva rotto il Walkman.

No, doveva fermarsi.

Tutto questo non aveva alcun senso.

“Smettila...” biascicò, come intontito.

Frances non gli diede ascolto e proseguì incurante delle sue parole.

“Smettila cazzo!” Quasi gridò, da quanto era imbarazzato dalla situazione, spazientito dal fatto che quella troia non gli desse il benchè minimo ascolto.

“Che c'è, cos'hai?”

“Niente, vai via, levati dal cazzo.”

“Ma...”

“Ho detto di levarti dal cazzo.”

“Vaffanculo.” sibilò lei, sbattendosi la porta del ripostiglio alle spalle.

 

Mike, completamente solo, disse a bassa voce:”Ho proprio bisogno di una birra.”

Cosa cazzo gli stava succedendo?

Prima il maledetto giorno in cui gli si era rotto il Walkman e poi questo...

non aveva certo intenzione di innamorarsi, non dopo aver perso Theresa, il suo primo amore.

Si era promesso che non sarebbe mai più accaduto, mai in vita sua avrebbe più perso la testa per un'altra, perché tanto l'avrebbe abbandonato, prima o poi.

Tanto lo avrebbe lasciato, o si sarebbe uccisa, come Theresa.

Teresa.

A pensarci sentiva quasi le lacrime che tentavano di oltrepassare la barriera segnata dalle palpebre.

Si era suicidata l'anno prima, per una depressione che la stava lentamente divorando.

“Non ce la faccio più, questo mondo non è fatto per me.” gli aveva confessato.

A nulla erano valse le suppliche del ragazzo, e Theresa Dover era morta a quindici anni, soffocata da un barattolo di antidepressivi.

Solo quindici anni.

No, non poteva in nessun modo andare così, non di nuovo.

Aveva dunque deciso di non aprire più il suo cuore a nessun'altra.

Mai più.

Queste le sue parole, il suo monito.

Non avrebbe sofferto mai più.

Ma ora era arrivata quella ragazza bionda con la coda di cavallo, e stranamente la sua mente era andata in titl, non riusciva a farne a meno, nonostante fosse una completa sconosciuta.

Doveva fare in modo di poterla vedere ogni giorno, anche se soltanto per una manciata di secondi in mensa o in cortile, quando passeggiava avanti e indietro con le sue amiche.

Scosse la testa:”Dannazione Mike, ti stai comportando come un idiota.” si rimproverò.

 

 

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Capitolo 7
*** 25 Giugno 1990 ***


Lo studio del dottor William Mortimer era quanto di più remoto ci si aspettasse dall'ambulatorio dello psichiatra di un ospedale lineare e minimale come quello.

Tanto per cominciare, le pareti erano ricolme di scritte motivazionali del genere “io valgo” o altre simili parole dalla positività quasi nauseante, riproduzioni a buon mercato di quadri di Picasso, e ovviamente non mancavano neppure acchiappasogni quasi esoterici e mandala che immergevano i pazienti in un'atmosfera dalle tipiche vibrazioni New Age.

Tra tutte quelle decorazioni, troneggiava perfino il dipinto di un gatto siamese, che dava l'impressione di fissarti in maniera ossessiva con i suoi occhi penetranti e indagatori, per tutta la durata della seduta.

Quel giorno, come ogni Lunedì, era il turno di Judy, la quale si sentiva quasi in soggezione al cospetto di tutta quella vitalità scoppiettante e si chiedeva perché il medico non puntasse ad un altro genere di arredamento, meno intimidatorio e più confortante, di fronte al quale a nessuno venisse l'istinto di fuggire.

Come sempre, la prassi dell'appuntamento era consistita nel salutarla con fare solare, farla accomodare e porle le usuali domande di ruotine.

Il dottor Mortimer non si limitava a somministrarle i farmaci, come sarebbe stato prevedibile da parte di qualsiasi psichiatra, ma -e questo si sarebbe potuto facilmente dedurre dalla targa quasi nascosta dai numerosi dipinti della stanza- esercitava anche in qualità di psicoterapeuta.

Perciò si trattava di un'effettiva seduta da uno psicologo.

E in quel preciso momento l'aveva scrutata pensieroso, chiedendole:”Come procede con quel tipo che continua a metterti i fiori sul tavolo?”

Lui ovviamente conosceva tutta la vicenda, essendo sempre stato aggiornato dalla sua paziente.

“Non è cambiato nulla, succede ogni mattina.” Sorrise, in fondo queste attenzioni la lusingavano.

E in cuor suo si augurava che non terminassero.

Infatti non ne aveva praticamente ricevute da nessuno, neppure dai propri genitori, che la riempivano di oggetti e cose materiali, per compensare alla loro costante anaffettività.

“Pensi di fare qualcosa in merito?”

“Vorrei scoprire chi sia, ma ho anche paura...”

Ho paura che finisca tutto.

Nonostante questo, la curiosità la stava lacerando da settimane, e non sarebbe stata in grado di attendere anche soltanto una settimana in più.

Doveva fare qualcosa e porre fine a quella storia una volta per tutte, saziare la propria curiosità, per quanto fosse anche piuttosto probabile che si trattasse di un maniaco.

Tutto sommato si trovava nel posto giusto.

“Vai avanti, ma stai molto attenta, potrebbe anche trattarsi di un malintenzionato.”

“Certo, ma c'è anche un'altra cosa, non gliel'ho mai detto, non ancora...c'è un ragazzo che vedo ogni giorno, costantemente...so soltanto che si chiama Mike, Mike Sanders...” Bisbigliò quasi Judy.

“Ovviamente vedo anche lui, ma non mi è consentito divulgare informazioni sui miei pazienti, sai, il segreto professionale.”

“Capisco, naturalmente.” le guance della ragazza si imporporarono lievemente.

“Noto che un po' ti piace.”

“N-non, non è vero.” Judy si mordicchiò il labbro inferiore.

“E allora perché sei arrossita così all'improvviso? Ti dico solo di lasciarlo perdere.” il dottor Mortimer tornò serio:”una relazione di qualsiasi genere potrebbe scombussolarlo al momento.”

“D'accordo.” Fece Judy con un filo di voce, abbassando la testa.

Ancora una volta si ritrovava con le spalle al muro, a sentirsi dire di non avere alcuna possibilità.

Il rifiuto era una costante matematica della sua esistenza.

“Comunque.” puntualizzò lo psichiatra:”Io e la commissione dell'ospedale abbiamo esaminato la tua situazione nel corso di quest'ultimo mese, e riteniamo che tu, alla luce dei tuoi progressi, abbia diritto ad una libera uscita settimanale, a partire da questo Venerdì.”

La ragazza lo ringrazio, almeno si trattava di una nota di velato ottimismo che si aggiungeva ad una giornata dalle premesse fosche.

Si guardò nervosamente intorno, tamburellandosi le cosce con le dita, finché non si decise:”Sì, credo che mi piaccia, anche se non ho alcuna possibilità, a quanto pare.”

“Sono lieto del fatto che sia stata sincera.” le sorrise.

Proseguirono la seduta conversando del più e del meno, anche poiché il dottor Mortimer era un tipo piuttosto gioviale, che ben si prestava a discorsi lunghi e articolati.

Quindi risero a lungo, gesticolando come una coppia di vecchi amici e non come un medico e la sua paziente.

Finché l'uomo di mezza età non si risistemò sul naso gli occhiali dalle lenti spesse come un fondo di bottiglia e la congedò con un saluto.

Judy si sentì da una parte maggiormente sollevata rispetto a quando il suo interesse nei confronti di Mike costituiva un segreto tra lei e le sue amiche, ma, dall'altra, si scopriva sopraffatta da una sensazione molto vicina alla vergogna, perché quella sua cotta era qualcosa da celare e non rivelare, qualcosa che non si sarebbe mai realizzato nella vita reale.

Era lo stupido sogno di una ragazzina ingenua, che temeva addirittura di alzare la propria voce.

Era comunque contenta del fatto di aver ottenuto quel giorno di libera uscita, grazie al quale avrebbe potuto riprendere con più facilità il contatto con il mondo civile, lontano dalle sbarre alle finestre del Sunrise Bay.

E lontano da Mike.

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Capitolo 8
*** 27 Giugno 1990 ***


Judy osservava con attenzione la calca di pazienti diretta verso gli inservienti nella sala mensa.

Anche quella mattina, come ormai d'abitudine, aveva ricevuto il solito mazzo di fiori con tanto di citazione poetica allegata, a fare da sfondo a un momento romantico.

Sempre quella mattina, aveva incontrato nuovamente Mike.

L'unica differenza tra questa e le altre volte era che avesse rifuggito il suo sguardo.

Perché? Voleva per caso prendersi gioco dei suoi sentimenti?

Non aveva importanza in fondo, le era stato sconsigliato come un bagno in piscina dopo pranzo.

Quello che si stava accingendo a consumare al tavolo insieme alle ormai inseparabili Margareth e Veronica.

“Che fortuna! Hai l'uscita libera ogni Venerdì, e io rimarrò a marcire qui dentro solo perché sono stata trovata in stato catatonico!” Si lamentò la prima.

“Ad essere sincera non so proprio che farmene, tranne che un giro in piazza o qualcosa di simile.”

“Sicuramente qualcosa di diverso dallo starsene ad ammuffire qui, almeno Veronica sembra avere una vita più interessante della mia, cosa darei per vivere nella sua mente! Sembra non annoiarsi mai.” Sbuffò una demoralizzata Margareth.

“Piuttosto, guarda qui Judy.”

l'amica voltò il biglietto sulla parte del retro, che riportava scritto a mano quello che aveva l'aria di essere un messaggio.

Voglio incontrarti, vediamoci stasera alle 22 sul tetto dell'ospedale. Oddio Judy, sono emozionata per te, finalmente lo incontrerai!” sorrise scrollandole le spalle.

“Sì, ma continuo a credere che si tratti di uno scherzo, però...e se mi venisse incontro con un'ascia o qualcosa del genere? Avete presente la scena della doccia di Psycho, quel vecchio film?”

“Ma se è sempre stato così carino e gentile? Al massimo vi darete qualche bacio e trascorrerete una serata romantica. Andiamo, perfino tu vuoi vederlo!”

Sorrise timidamente:”Sì, voglio scoprire chi sia, facciamolo.”

“Ommioddio! Ti aiuterò a prepararti per il grande evento, dovrai essere una figa da paura. Non potrà resisterti! Giusto Veronica?”

“Cosa? Ah si.”

Dopodichè le tre ragazze finirono di pranzare e si diressero nel loro dormitorio, sempre tenendo la porta socchiusa, come da regolamento.

Una serata importante attendeva Judy, e non poteva di certo presentarsi in abiti da ospedale al cospetto di un ragazzo così dolce.

Fortunatamente il giorno prima le erano stati restituiti gli abiti che era solita indossare prima di aver varcato l'alto cancello metallico del Sunrise Bay, perciò poteva godere di una certa varietà di scelta.

Inoltre, la libera uscita settimanale rappresentava un traguardo tra le mura della clinica.

Significava che una persona era ritenuta in grado di badare a sé stessa.

Judy non era più un pericolo pubblico.

Pensava a questo mentre la fantasia di quelle ore di libertà le balenava nella mente.

Erano ormai due mesi che doveva sottostare ad ogni genere di ordine per quanto riguardava cibo, abiti da indossare e perfino il divieto di chiudere la porta della camera e del bagno.

Quel giorno sarebbe stato soltanto suo, privo di imposizioni e saturo di divertimento, come quello di una qualsiasi sedicenne.

Una sedicenne che non era lei e che non era finita in coma etilico neppure una volta.

 

Sì, i ricordi di quel giorno erano alquanto sbiaditi.

Nonostante questo, la voce del medico e quelle dei genitori le risuonavano ancora nel cervello.

“Vostra figlia ha moltissimi tratti del disturbo di personalità borderline, anzi, è un caso quasi da manuale. Non è di certo la prima overdose che l'ha trascinata qui, come anche voi sapete, è seguita da anni e il suo psicologo può confermarla. E le sue gambe poi...”

I signori Bloom erano interdetti:”Disturbo borderline? Ma ha soltanto sedici anni, è così piccola!”

“L'età dell'esordio si aggira intorno alla seconda adolescenza, quindi il caso di Judy è regolare.”

“Come farà ad adattarsi? Dobbiamo assolutamente non far trapelare nulla, sa, la nostra immagine pubblica non deve assolutamente risentirne.”

Il medico fu perentorio:”Neppure lei deve venirne a conoscenza, le diagnosi tendono spesso ad influenzare gli schemi comportamentali dei pazienti. E comunque, le vostre priorità sono piuttosto discutibili, se ponete l'accento solo sulla vostra immagine pubblica, con una figlia che sta visibilmente male.”

“Ma...”

“Piuttosto aiutatela, fate il possibile.”

“E cosa possiamo fare?”

“Per prima cosa, non può essere dimessa e riportata a casa, date le condizioni in cui versa. Suggerirei un ricovero immediato al Sunrise Bay, questa struttura è la più adatta a fornirle assistenza.”

Nel frattempo la ragazza si rigirava nel letto, tutto era annebbiato.

Ricordava solo questo, sì, subito prima di essersi svegliata.

 

 

 

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Capitolo 9
*** Più tardi, 27 Giugno 1990 ***


Più tardi, 27 Giugno 1990

 

Il Sunrise Bay era una struttura che si ergeva in una zona isolata della città di Londra.
Era grigia e decadente, nonostante avesse approssimamente soltanto vent'anni.
Infatti era stata costruita negli anni settanta per essere destinata ad ospitare i primi pazienti, quando ancora non rappresentava un tabù il termine “manicomio” e quando era ancora comune definire qualcuno come pazzo.
All'epoca esisteva ancora l'elettroshock, per curare gli individui che soffrivano di depressione e catatonia, e ci si accingeva ancora a considerare l'omosessualità come una malattia.
Fortunatamente era tutto cambiato, per quanto talvolta il personale medico si comportasse tutt'ora in maniera aggressiva e prepotente.
Ma Judy non aveva in mente nessuno di questi fatti, anzi, tremava dall'emozione di incontrare il mittente dei fiori che riceveva ogni giorno.
Si era dedicata alla ricerca dell'abito perfetto durante tutto il pomeriggio, aiutata come sempre dalle sue compagne di stanza.
Si era quasi trattata di una sfilata di moda, da quanti vestiti aveva provato e scartato in quasi quattro ore.
In parte le aveva dato l'impressione di trovarsi nel camerino di un centro commerciale anzichè nella stanza fredda e impersonale di una clinica psichiatrica, mentre Margareth la attendeva fuori dalla porta socchiusa e Veronica era distratta dalla lettura di un romanzo.
Dopo ore e ore trascorse a vestirsi, spogliarsi tentando di nascondere le sue cicatrici e a rovistare in mezzo a tutti gli abiti che si era portata da casa, finalmente Judy trovò ciò che faceva al caso suo.
Era un vestito color turchese che aveva comprato alcuni anni prima.
Aveva delle spalline piuttosto ampie, come si usava ancora in quel periodo, e fasciava perfettamente il suo corpo esile, fino ad arrivare appena sopra alle ginocchia.
Ovviamente, per coprire le sue gambe martoriate, aveva optato per delle calze nere.
In fondo non faceva neppure troppo caldo.
Le due amiche, inoltre, l'avevano sistemata e truccata, sciogliendole i capelli.
Si era sentita nuovamente carina dopo quella che le era parsa un'infinità di tempo.
Dopo un mese trascorso ad indossare camici deformi, finalmente aveva ripreso a piacersi e aveva ricominciato a percepirsi come un essere umano.
Era una sensazione strana, ma molto piacevole.
E nel frattempo barcollava sui tacchi mentre si accingeva a salire verso il tetto dell'enorme edificio.
Aveva il cuore a mille, batteva come un intera orchestra di percussioni.
Non riusciva a frenare il sorriso che le si stampava sulle labbra a causa dell'emozione dell'imminente incontro.
Si sentiva stupidamente felice e non riusciva a farne a meno.
Di lì a qualche minuto avrebbe incontrato colui che le dedicava così tante piacevoli attenzioni da diverse settimane.
Era così idealista da immaginarselo come il classico principe azzurro dall'armatura lucente e dal cavallo bianco che apparteneva alle favole di quando era bambina e di quando i sogni sembravano più vicini e concreti.
Tutto sembrava possibile durante l'infanzia.
Era l'adolescenza a creare le prime disillusioni e a mostrare ciò che l'esistenza ci aveva nascosto in realtà.
Un compito ingrato, certo, ma pur sempre necessario.
Judy continuava a salire la scalinata che conduceva al tetto, piano dopo piano, sempre in equilibrio precario sui tacchi delle scarpe nere che portava ai piedi.
Aveva l'impressione che sarebbe svenuta nel lasso di qualche secondo, non era abituata a una simile quantità di emozioni positive.
La sua sensibilità l'aveva costantemente posta nelle condizioni di dover soffrire, farsi del male e infliggersi punizioni dolorose.
Era sempre stata così dannatamente fragile, da inghiottire le proprie emozioni in qualsiasi modo le fosse possibile.
Ma in quell'istante non intendeva rendersi un facile bersaglio per i propri pensieri negativi, non si sarebbe autosabotata.
Mentre era imbambolata nelle sue riflessioni, intanto aveva raggiunto il tetto.
L'atmosfera notturna rendeva il tutto ulteriormente angoscioso e inquietante, soltanto il flebile bubolio di un gufo contribuiva a rompere il silenzio.
La ragazza controllò l'orologio che aveva al polso.
Mancavano giusto cinque minuti, era palese che si trovasse lì da sola, in balìa dei rumori della notte.
Chiaramente non era concesso, ma vietato in modo categorico, l'accesso al tetto del Sunrise Bay.
Specialmente una volta trascorso l'orario del coprifuoco.
Ogni paziente era tenuto a rimanere a dormire nella propria stanza, nessuna eccezione, quindi era stata piuttosto oculata nell'eludere la sorveglianza, uscendo quatta quatta e non facendosi né vedere né sentire da anima viva.
Per fortuna nessun membro del personale aveva notato quella sospetta fuga in penombra.
Ormai i giochi erano fatti.
Chi si sarebbe trovata davanti? Forse quel ragazzo strano, Mike?
No, non si avvicinava neppure lontanamente all'archetipo del ragazzo dai gesti romantici nascosti nel cilindro.
O almeno era più semplice che nascondesse un coltello a serramanico.
Durante quegli ultimi cinque minuti passò in rassegna una carrellata di possibili ragazzi, perfino tutti i Pet Shop Boys e Dave Gahan dei Depeche Mode.
Ma no, non poteva di certo essere così stupida da crederci sul serio, Dave Gahan non avrebbe assolutamente messo piede in un ospedale psichiatrico solo per lei, tra l'altro non nella Sunrise Bay.
Il campanile lì vicino scoccò i rintocchi delle dieci, ben scanditi l'uno dall'altro, come bambini in fila indiana.

Uno.

Mancava l'ultimo piano.

Due.

Judy si approcciò ai primi gradini, i piedi traballanti dai tacchi delle scarpe.

Tre.

Il suo cuore saltò un battito.

Quattro.

Le mani le iniziarono a sudare.

Cinque.

Omioddio, lo stava facendo davvero?

Sei.

Era troppo tardi per tornare indietro.

Sette.

Era troppo tardi per pentirsi.

Otto.

Lo voleva, lo voleva così tanto.

Nove.

Era giunta agli ultimi gradini.

Dieci.

Ancora un passo, un piccolo passo, e avrebbe conosciuto quel ragazzo misterioso.

Fece un respiro profondo.

 

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