The Gamma Code

di RadCLiff_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I. Clarke Griffin ***
Capitolo 3: *** II. Cinque centimetri ***
Capitolo 4: *** III. Valido ***
Capitolo 5: *** IV. Perfezione imperfetta ***
Capitolo 6: *** V. Come vino ***
Capitolo 7: *** VI. Falsità ***
Capitolo 8: *** VII. Imprevisto ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo




Era una fredda e piovosa serata di dicembre, il vento soffiava con insistenza quelle goccioline che scendevano senza sosta.
Una piccola figura tentava di ripararsi dal vento gelido, che le pizzicava il viso, tirando sulle guance un lembo della sciarpa che le avvolgeva il collo.
Con calma proseguiva in avanti mentre sfidava il mal tempo munita solo di un ombrello.
Era la vigilia di natale e procedeva solitaria per la strada illuminata di mille colori scintillanti in mezzo a vetrate addobbate.
Il suo tragitto venne deviato verso una stradina che incrociava la via principale, con circospezione si incamminò tra quelle viuzze labirintiche fino a trovarsi davanti a una porta sopra un paio di scalini che ospitava un cartello con la dicitura - Riservato al personale -. 
Pochi passi la accompagnarono sino alla porta mentre poteva finalmente chiudere l'ombrello riparata sotto una tettoia più coperta e asciutta.
Allungò il braccio con la mano rivolta verso la porta. Seguirono due colpi sulla superficie metallica, una piccola pausa e altri due colpi.
Il ciclo venne ripetuto per due volte.
Magicamente la porta sì aprii, ma non di certo grazie a forze soprannaturali, venne accolta dal silenzio dell’uomo che le aveva aperto, la giovane figura seguì quell'ombra senza interrompere il silenzio verso vari corridoi come se già sapesse cosa avrebbe dovuto fare appena varcata l’entrata.
Sarebbe stato bello se nella vita davvero qualunque porta le si fosse potuto spalancare con un gesto tanto semplice e scontato.
Eppure, esisteva chi deteneva privilegi simili nel mondo reale.
O perlomeno tutti potevano essere potenziali detentori di quel potere, quel qualcosa che faceva sì che la porta potesse essere aperta dall'altra parte, quel qualcosa che aveva appena sperimentato in un certo senso, quel qualcosa che cercava disperatamente, quel qualcosa che non aveva e che forse poteva avere.
Una volta nel mondo esistevano varie distinzioni segregative, tra cui in primis spiccavano la distinzione razziale e sociale, che la società aveva portato avanti nel corso dei millenni sino a un punti di svolta durante epoche storiche precise.
Con il tempo esse si erano evolute insieme alla società stessa, ed ‘era stata proprio la società e il suo sviluppo tecnologico e progresso nel campo genetico a portare all’estinzione nonché rinascita di esse, inglobandole tutte in una nuova forma di distinzione: la distinzione genetica o genismo.
Il mondo si era aperto a una nuova era, si era evoluto in una “società superiore” come dicevano sempre gli storici contemporanei, dove non esistevano più legami affettivi, dove gli individui erano filtrati e ricombinati in vitro per evitare inutili fallimenti genetici.
Il futuro di un nascituro era deciso già da quando era un insieme di piccole cellule.
Però non è oro tutto ciò che luccica, infatti se il mondo fosse davvero basato unicamente su individui perfetti, lei non si troverebbe di certo lì.
Nonostante il numero sempre più crescente di parti assistiti intenti a manipolare il patrimonio genetico che avrebbero dato alla luce individui geneticamente perfetti, esisteva ancora una fetta di popolazione che non poteva permettersi un figlio in vitro o semplicemente perché credeva ancora in quel mito che raccontava di bambini più felici se concepiti naturalmente.
Lei era uno di questi bambini, una bambina nata dall’unione tradizionale di un uomo e una donna che condividevano un profondo sentimento comune noto come amore.
Tutto ciò era molto poetico da parte dei suoi, doveva ammetterlo, ma non toglieva il fatto che lei fosse un insieme di errori genetici: un’imperfetta, e in questo mondo gli imperfetti erano relegati ai margini sociali della società, nella casta genetica più bassa.
 



 



                                                                                                 
L’uomo si dileguò in fretta dopo che venne fatta accomodare in una piccola stanza che aveva tutta l'aria di essere uno studio, il cui carattere distintivo era rappresentato dall’essenzialità: una poltroncina in pelle nera dietro una scrivania con un computer e stampante affiancate da una lampada da tavolo, due sedie del medesimo colore davanti a sé e pochi altri mobili arredavano il piccolo spazio. Le pareti, di un bianco asettico le davano un senso asfittico visto anche l'assenza di qualunque finestra o apertura verso il mondo esterno; esse erano vivacizzate solo da pochi quadretti colorati, probabilmente di qualche sconosciuto autore passato dimenticato nel grande corso che era stato il tempo. Nonostante la modestia dello studio, in cuor suo sperava - anzi voleva - che quello potesse divenire il luogo dove tutto sarebbe potuto cambiare.
Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto dal rumore di una porta che veniva fatta chiudere dietro di lei. Passi pesanti si fecero sempre più forti finché un uomo robusto non gli si presentò davanti,
«Sono davvero lieto della sua puntualità,» – allungò una mano davanti a sé, «e che mi abbia fatto finalmente visita alla fine, Signorina Griffin.»
La ragazza ricambiò con una veloce stretta di mano a quell’uomo di cui conosceva solamente il nome mentre ancora teneva nell'altra l'ombrello gocciolante di pioggia.

«Buonasera a lei Signor McCourt.»

Questo era un uomo sulla quarantina, il viso faceva trasparire un paio di rughe espressive su quel viso dai tratti così comuni. Il suo vestiario era impeccabile, nonostante fosse la vigilia di Natale e in un luogo tanto abbandonato, sembrava essersi preparato per una conferenza.

«Allora Signorina Griffin, a cosa devo la sua visita in una serata come questa? Non le nascondo che sono rimasto interdetto quando ho saputo che ha scelto proprio oggi per richiedere un incontro.»

La ragazza si sedette su una delle sedie di fronte alla scrivania.

Volevo porgerle i miei auguri di persona
» appoggiò la borsa e l’ombrello per terra, «Lo spirito natalizio mi ha pervasa.»

«Nonostante sia tentato nel credere che il suo spirito di natalizio sia stato tanto travolgente, purtroppo sappiamo entrambi che non è così» si strinse le mani come chi non volesse più perdere tempo.

«Mi dica cosa posso fare per lei?»

Clarke Griffin, quello era il suo nome, non riuscì ad impedire che un attimo di esitazione trasparisse dal suo giovane volto. L'uomo davanti a lei si era intanto accomodato sulla sua poltrona e impaziente aveva preso a ticchettare con la base del suo stilo sul tavolo. Probabilmente complice anche il fatto che la ragazza bionda, con lo sguardo esitante davanti a lui era piuttosto giovane, e si sa che i giovani hanno idee salde come il tempo londinese, oltre all’ovvio fastidio per la scelta della serata festiva, concluse, «Senta, chiaramente forse non sa nemmeno lei per quale motivo sia qui. Se non è interessata, io la inviterei a tornare a casa.»
Quelle parole tolsero ogni dubbio dal viso di Clarke, «Se non fossi interessata non sarei qui. Ho preso la mia decisione e vorrei che mi aiutasse.»

«È davvero convinta della tua scelta? Non mi faccia perdere ulteriore tempo.»

Senza esitare la ragazza seduta davanti a lui si fece più avanti e con convinzione disse, «Sono convinta al cento per cento.»
«Una volta intrapreso questo percorso non le sarà mai più possibile tornare alla sua vita di prima. È una scelta per sempre.»
«Ed è quello che spero» L’uomo aprì un cassetto sotto la scrivania e tirò fuori un fascicolo giallo.

Iniziò a sfogliarlo,
«Dunque… Clarke Griffin, 20 anni. Aspettative di vita medio. Tracciato clinico e psicologico» corrucciò un po’ la fronte e mormorò, «bè, poteva andare peggio.»

Hai un paio di predisposizioni a dipendenze. Meglio non iniziare mai a bere.
Clarke sapeva bene quello che stava dicendo, tutto quello era praticamente ciò che urlava ogni volta il suo genoma sin da quando ne aveva ricordo, ogni volta che andava ai colloqui di lavoro, ogni volta che aveva dovuto ripetere l’iscrizione a una scuola dopo il diploma, a ogni controllo medico.


«Ed infine classe genetica di appartenenza: G»

Gamma. G, che brutta lettera. G, come l'iniziale del suo cognome, davvero ironico. 
Era stato il suo stigma da sempre. Nonostante tutta la sua buona volontà e il suo impegno, Clarke era perseguitata da quella lettera. Era come un’enorme buco nero che risucchiava chiunque fosse nelle vicinanze senza alcuna distinzione. Non si poteva scappare, era il suo “marchio di fabbrica”.
Il marchio che tutti guardavano prima ancora di iniziare a parlarle. Il marchio che spaventava la gente e la faceva bollare come scarto genetico senza futuro.
Esisteva un divieto di fare genismo nella società, la classe genetica veniva tenuto nascosto nei documenti ma esistevano molti altri modi per ricavare la classe genetica di appartenenza di una persona durante un colloquio o incontro.
Si poteva ricorrere a un test medico in loco che veniva fatto passare per un legale accertamento antidroga quando in realtà il vero obbiettivo era stilare le potenzialità genetiche.


«Sa già chi può fare al caso mio?»

Il Signor McCourt mise la penna dentro il taschino interno della sua giacca, abbassò gli occhi sul suo computer e iniziò a digitare qualcosa. Il silenzio che era sceso veniva interrotto solo dal rumore dei piccoli tasti che venivano battuti con disinvoltura sulla tastiera. L’attesa venne interrotta quando venne girato lo schermo del dispositivo elettronico in direzione della ragazza.

«Ha davanti a lei il suo Babbo Natale.» Si grattò la barbetta che gli riempiva le guance, «Ho una candidata perfetta.»

Gli occhi di lei iniziarono a scorrere il foglio digitale che aveva dinanzi, era un file che conteneva ogni tipo di credenziale e dato relativo a una sconosciuta di nome “Sam Parker”.

«Con il suo nome potrà arrivare dove vorrà, il suo profilo è eccezionale con prestazioni fisiche e intellettuali al di sopra persino della media dei perfetti. Stima di vita eccellente, nessuna traccia di patologie e malattie ereditarie» si alzò e fece il giro del tavolo finché non si trovò a tu per tu con la sua interlocutrice, classe genetica A, «In un’unica parola: perfetta.»

«In realtà mi aveva già convinta a “potrà arrivare dove vorrà”» sorrise Clarke. 

Era questo l’inizio della scalata in quel mondo tanto agognato, nel mondo dei validi o uomini geneticamente perfetti.
I due discussero sul futuro di questo “investimento” che Clarke voleva fare su sé stessa, eventuali costi e procedure; la ragazza ricevette un fascicolo con i dettagli inerenti alla nuova identità che si accingeva ad assumere per iniziare a prendere confidenza con quelli che sarebbero divenuti i suoi dati, il suo passato, la sua vita. Prese il fascicolo e lo mise dentro la borsa che aveva posato a terra accanto all’ombrello.
Prima di concludere venne fatto scivolare sulla scrivania un paio di pratiche che avevano tutta l’aria di essere qualcuno di quei noiosi documenti battuti da qualche vecchio avvocato con mille clausole e occhielli a prova di tribunale in caso di imprevisti al limite della legalità.
Riprese lo stilo dal taschino interno della sua giacca e con un veloce click suggerì a Clarke di prenderlo. 


«Adesso deve solo mettere una firma qua e molto presto potrà fare il suo ingresso nella società come una donna dalle innumerevoli potenzialità.»
«Di che cosa si tratta?»
«Scartoffie legali in cui viene dichiarato che nega il coinvolgimento di qualsivoglia altra persona o società entro la sua decisione,» concluse con un sorriso che solo un uomo d’affari era abituato a fare, «dopotutto anche io devo prendere le mie precauzioni.»

Senza pensarci due volte la ragazza prese la penna dalle mani dell’uomo e firmò i documenti dopo aver dato una veloce occhiata.
Prima che Clarke uscisse dallo studio del Signor McCourt, si chiese chi fosse davvero questa Sam e come mai ora potesse passare a lei questa identità,
«Questa ragazza, Sam, che fine ha fatto?»
L’uomo la fissava in volto e con un cordiale saluto rispose, «Le auguro una buona vigilia e spero che quest’anno possa ricevere il regalo che desidera da tanto.
Clarke uscii da quel piccolo studio dove ad attenderla c’era di nuovo l’omuncolo che l’aveva accolta all’arrivo. Come prima, le fece strada nello stesso percorso con cui era arrivata sino alla porta che collegava con l’esterno. Una folata di vento le ricordò il tempo che l’aspettava fuori non appena la porta fu aperta. Le raffiche erano più terribili di prima e l’acqua non si risparmiava a scendere a catinelle.
Riaprì l’ombrello e, come era arrivata, ritornò in mezzo al maltempo mentre affondava il mento nel petto tentando inutilmente di coprirsi.    

 

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Capitolo 2
*** I. Clarke Griffin ***


I




Un raggio di luce filtrava timidamente dalla finestrella mentre l'orologio da tavolo segnava le 9.06. Una testa di capelli paglierini si rigirava nel letto. Il rumore insistente del campanello l'aveva fatta risvegliare dal sonno profondo in cui era immersa, diede uno sguardo distratto alla sveglia ancora disorientata. Velocemente si alzò e si sedette. Il disturbante rumore continuava imperterrito a spingerla ad alzarsi. Le ci vollero pochi passi per raggiungere la porta del suo piccolo locale con ancora indosso il pigiama e gli occhi rossi dal sonno. Sblocco la chiusura a mano e aprì un piccolo scorcio alla porta chiedendosi chi potesse mai essere. La sua vita era sempre stata scandita da continui alti e bassi familiari, le amicizie erano scarseggiate in particolar modo dopo che venne a trovarsi sola al mondo in seguito alla morte di entrambi i suoi genitori. Da allora la sua vita era stata mera sopravvivenza.
 L'ospite inatteso fu presto svelato, la ragazza infatti non era sorpresa nel trovare appoggiato all’uscio di casa sua il Signor McCourt.


«Buongiorno signorina Griffin» cappotto sul braccio, sorriso in volto e vestiario impeccabile come la notte precedente, ad eccezione dell'aggiunta di una vivace cravatta rossa, con un pattern di alberelli natalizi, che risaltava particolarmente all'occhio. 

L'uomo varcò la soglia di casa senza aspettare l'invito, la ragazza non oppose obiezioni.
Clarke viveva in un piccolo locale malridotto che aveva giusto l'essenziale per essere considerato spazio vitale. In fondo c'era la stanza da letto ma sembrava più un angusto corridoio più che stanza da letto. La camera vedeva una sedia abbandonata, un banchetto basso e storto trasformato in una scrivania di fortuna con fogli sparsi sopra, un grande letto austero, pochi indumenti sdruciti abbandonati nell'armadio logoro e un asciugamano lezzo buttato sullo schienale del letto. Quello era il luogo segreto di un’anima desiderosa di cambiare e aspirare a una vita migliore.


«Vedo che ha già dato un'occhiata al fascicolo» indicò il tavolino.

«Ho cercato di prendere confidenza con l'identità.»

«Capisco,» si grattò la barbetta sulla guancia con una mano, proprio come aveva fatto la sera scorsa, forse era un’abitudine la sua, «Molto presto dovrà andare via da questa città e sparire per un periodo di tempo. Riceverà istruzioni non appena sarà pronta a prendere il posto di Sam Parker, del resto non si deve preoccupare.»

Erano molte le domande che affollavano la mente di Clarke riguardo Sam. Dal fascicolo in suo possesso sapeva che, oltre alle prestanti credenziali scritte nel suo genoma, era una ragazza poco più grande di lei. Aveva una spiccata predisposizione per le materie scientifiche. Nessun legame. Origini russe nonostante il cognome.
C’erano anche informazioni molto più scientifiche e dettagliate, ma di poca utilità se non si aveva un base antropologica con cui decodificare le diciture come South_baltic e North_Central_Euro con contributi East_euro e West_Asian. Riassunto con Nordoide/Pontoide. Derivazione Yamnaya III.
Si chiedeva tante di quelle cose sul conto di Sam ma sapeva che erano questioni che andavano al di là di una semplice domanda e risposta.
Una cosa era certa, a volte era meglio non insistere a chiedere, una persona come il Signor McCourt non l'aveva di certo trovato sull’elenco telefonico.
Individui superiori come Sam Parker potevano ottenere qualunque cosa dalla vita, realizzare qualunque sogno, arrivare dovunque, ma persino loro non erano immuni a eventi probabilistici dettati dal caso. Dopotutto non esisteva qualcosa come il gene del destino e quando costoro andavano incontro a un fato avverso il loro patrimonio genetico diventava merce preziosa sul mercato nero. Molte identità venivano riciclate una volta che i portatori erano andati incontro alla morte; le morti naturali erano più difficili da riciclare mentre le morti per omicidio erano merce assai più appetibile. Più di rado succedeva che un proprietario rinunciasse volontariamente alla sua identità, per un motivo o un altro, in cambio di un compenso in denaro o di altro genere.
Prima di intraprendere questo percorso, Clarke aveva fatto le dovute ricerche in contesti poco legali e aveva scoperto molte cose.
Una parte di lei sperava che Sam non avesse fatto una fine troppo brutta, ma in cuor suo, avidamente desiderava trasformarsi in questa sconosciuta, aveva sacrificato troppo della sua vita ed era arrivato il momento di rigirare le carte.


«Non appena si sarà spostata, le manderò delle persone che la aiuteranno a correggere e mascherare difetti e differenze fisiche e/o visive. Ogni cosa che possa ricondurre al fatto che lei non sia veramente lei, ogni elemento che possa suscitare il minimo sospetto.»

«Cosa succederebbe se così non fosse?» Lo sguardo dell'uomo era serioso, la fissò senza lasciar trapelare alcunché, «Nel nefasto caso nella quale si possa verificare ciò, la parcella versata non sarà restituita, saranno restituite tutte le eventuali apparecchiature concesse, non sarà riconosciuto una nostra conoscenza di nessun genere ed infine lei finirà in prigione per pirateria genetica e truffa aggravata ai danni dello stato. Le prospettive migliori vedono una condanna di parecchi parecchi anni, nella peggiore delle ipotesi,» fece una pausa, «che prevedono aggravanti ulteriori, non rivedrà mai più la luce del sole.»

«Solo questo? Nient'altro?» scherzò ironica. Quelle parole erano scivolate fuori dalla sua bocca senza che se ne accorgesse.
Doveva fare molta attenzione da adesso in avanti, aveva scelto di giocare a un gioco pericoloso, di vivere in un costante fuoco e non poteva permettersi neanche una scottatura o la pena sarebbe stata insostenibile.


«Una volta stabilita e integrata, è consigliabile limitare i contatti interpersonali ma senza escluderli completamente. Sarebbe pericoloso per la sua identità esporsi quanto sospettoso astenersene.»

Fortunatamente Clarke non era una persona così socievole da intraprendere una conversazione con chiunque ma non legare con nessuno per il resto della sua vita, probabilmente sarebbe stato fonte di sofferenza persino per lei. In quel momento le balenò in mente che era arrivato il momento di andarsi a comprare un amico a quattro zampe, come aveva sempre sognato da piccola ma che purtroppo non si era mai avverato poiché sua madre era stata allergica al pelo animale. Si fece un appunto mentale su una delle cose da fare non appena sarebbe diventata Sam Parker.
Lo sguardo del Signor McCourt era posato insistentemente su di lei, forse aspettandosi dubbi e domande da parte sua.


«Cosa ne sarà di tutto questo?» indicò allargando le braccia a mezz’aria, «Cosa ne sarà della mia vita di ora? Le persone che ho conosciuto, quelli che mi conoscono?»

«Quello che sta per fare è per sempre e come tale, affinché lei possa ricominciare, deve lasciarsi dietro tutto quanto. Deve sparire dalle loro vite» un momento si silenziò scese sulla stanza - Clarke Griffin deve morire.»

«Cosa dovrò fare?»

Un sorriso apparve sul volto dell'uomo, «Lei non deve fare niente. Risulterà semplicemente vittima di uno sfortunato incidente, deceduta all'estero nel corso di un viaggio, tutti i suoi eventuali effetti personali saranno confiscati da un personale apposito.»

Dalla tasca interna della giacca appesa al braccio apparve un biglietto con uno stemma rossa racchiuso in una circonferenza verde, indicante la compagnia. Era un biglietto aereo di sola andata con il suo nome.

«Russia?!» chiese a bocca aperta con lo sguardo sconvolto appena focalizzò la destinazione.

«Si rilassi, è solo un biglietto per creare una falsa partenza. Spero che le piaccia la Russia perché Clarke Griffin rimarrà per sempre nelle gelide terre russe. La sua meta reale sarà Washington.»

Tirò fuori un secondo biglietto dalla stessa tasca, «Userà un nome di transizione e prenderà questo volo, all'arrivo si rechi al seguente indirizzo e ci resti. Riceverà presto visita» concluse allungando un biglietto su cui era appuntato un indirizzo in nero.

Che ironia, Clarke Griffin sarebbe morta dove è nata Sam Parker.
Clarke prese l'indirizzo e il biglietto dalle mani del robusto uomo.


«Non porti niente, cerchi di non attirare l'attenzione e...» fece una pausa per pensare a cosa dire, «Buon Natale.»
 

 


 
Il viavai di persone era notevole e questo consentiva una perfetta mimetizzazione. Passavano tutti con gran fretta senza badare minimamente alle altre persone nell’aeroporto. Nessuno sembrava veramente notarla.
Si sedette a un tavolino nella zona d’attesa per il gate che avrebbe ospitato il volo diretto a Washington DC. Dalla sua posizione poteva vedere fuori dalla vetrata la pista di volo, una piccola figura guidava un veicolo che tirava una fila di blocchi di valigie, scese dall’auto e iniziò ad aiutare i colleghi a scaricare i bagagli su un nastro trasportatore collegato con l’interno.
Guardò l’orologio su uno dei pannelli che segnava tutti i voli in partenza ed arrivo, 19.02. Sarebbe già dovuta essere sul volo ma purtroppo questo aveva subito un brutto ritardo per via di un tempo davvero poco simpatico. Con aria un po' scocciata si guardò intorno presa dalla noia e una leggera fame, decise di dirigersi verso il bar della zona ristoro, anche se dubitava fortemente della qualità delle materie prime.
Arrivata al bar, si sedette al balcone e ordinò un panino e una bevanda al volo. Il ragazzo che la servì le lanciò uno splendido sorriso malizioso, in tutta risposta Clarke ricambiò il sorriso mentre il ragazzo – Finn, da quello che si leggeva dal cartellino sul petto - le porgeva gentilmente un piatto con un panino caldo e le versava la bevanda in un bicchiere.


«Ritardo scommetto» le rivolse un caldo sorriso mentre appoggiava la bevanda sul balcone.

«È davvero così semplice leggermi?» sbuffò la bionda divertita.   

«I miei cari genitori mi hanno fatto il favore di includere i poteri paranormali nel mio genoma, quale lettura della mente» ridacchiò senza ricevere risposta, si schiarì la voce, «Perdonami forse sono stato un po' inopportuno. È che tutti quelli che vedi, sono qui per un ritardo o un altro» si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, «Piacere, Finn.»

Finn era un bel ragazzo dai capelli castani e occhi nocciola. I suoi occhi trasmettevano un senso di calore e il suo sorriso contagioso metteva quasi di buon umore.

«Piacere mio, Finn.»

Prese un morso del suo panino, mentre lo assaporava si rendeva conto che tutto quello era piuttosto surreale. Era lì, seduta al bar a parlare con un barista in attesa di prendere un volo per la capitale e non tornare mai più. Si era quasi dimenticata di quel giovane ragazzo davanti a lei, quando richiamò la sua attenzione dicendo qualcosa.

«Scusami Finn, cosa stavi dicendo?»

La fissò divertito con i suoi caldi occhi color nocciola, «Ho detto, e tu come ti chiami?»

Bella domanda.
E lei ora chi era? Sam Parker? O Clarke Griffin? No, quelli erano gli ultimi istanti di vita di Clarke Griffin, della sua vecchia vita. Tra meno di poche ore avrebbe lasciato tutto quanto alle spalle, tutto quello che l’aveva caratterizzata fino a quel giorno, la sua vita sarebbe cambiata totalmente.
Finn attendeva con un sopracciglio alzato mentre seguiva un silenzio riempito solo dal rumore caotico del un bar e il vociare di persone in mezzo all’aeroporto.


«Clarke. Mi chiamo Clarke.»

Seguì una piacevole conversazione con Finn che aveva distratto Clarke dalla noiosa attesa del suo volo mentre prendeva un morso dal suo panino ogni tanto, quando il ragazzo doveva allontanarsi per servire altri clienti.
Cercò sempre di centrare il discorso su Finn, evitando così le domande su sé stessa. Quell’incontro era stato inatteso e più di una volta non aveva saputo cosa rispondere. Aveva scoperto che Finn era una delle tante vittime indirette della perfezione umana, era un gamma. Voleva da sempre intraprendere la carriera militare ma, nonostante sembrasse un ragazzo in perfetta forma, era cagionevole di salute ed era stato respinto più volte poiché “geneticamente inadatto”. L’esercito, come moltissimi altri settori, ricercava e accettava solo il top dei giovani con classe genetica di tipo Alpha e Beta. Benché sulla carta fosse diverso, nessuno aveva interesse ad investire o accogliere tra le file individui geneticamente sfavorevoli per lavori in team, leadership, prestanza fisica, spirito d’iniziativa e così via in base a ciò che veniva richiesto, quando potevano avere uomini perfetti.
Dopo la diffusione e naturalizzazione dei bambini in vitro, la società ha iniziato a rimodellarsi su questa base. Nacquero le prime etichette di Alpha, Beta, Gamma e le prime tabelle di calcolo di perfezione. Gli Alpha erano i cosiddetti uomini perfetti, in tutto per tutto con imperfezioni genetiche al di sotto del 10%. Gli Alpha erano solitamente selezionati in vitro anche se era possibile la nascita di uno di loro attraverso il concepimento tradizionale, ma assai impossibile se le caratteristiche genitoriali non sfioravano la perfezione assoluta.
I Beta erano gli uomini quasi perfetti che avevano un margine di imperfezione che andava dal 10% al 50%, i Gamma erano gli scarti che, secondo complessi calcoli genetici, venivano determinati come tali poiché avevano un margine di errore che andava dal 50% in su.

Il suono di un avviso riempì l’aeroporto – Si avvisano i gentili passeggeri del volo 82ZYP3 diretto a Washington DC delle ore 21.00 di recarsi al gate 32 per l’immediato imbarco. – L’avviso fu ripetuto un paio di volte in più lingue.

Avrebbe voluto salutare il giovane ma visto che era impegnato con l’affluire sempre maggiore dei clienti e l’imbarco immediato, non poté fare altrimenti che alzarsi e andarsene.
Lasciò un semplice biglietto scritto al volo insieme a una piccola mancia.
Al ritorno di Finn, Clarke era già scomparsa in mezzo al viavai di persone, lasciando l’unica traccia del suo passaggio sul balcone.

 
Grazie della compagnia. Addio -Clarke
 
Mentre Clarke si dirigeva al gate pensava che quello era un addio non solo a Finn, era l ultimo saluto che volgeva alla sua città, alla sua vita, a lei.
Addio Clarke Griffin.

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Capitolo 3
*** II. Cinque centimetri ***


II




Il tempo passava con lentezza tra quelle mura che ormai considerava “di casa”. I giorni, le settimane, i mesi, ormai il tempo si era fossilizzato e tutto procedeva con un ritmo assai monotono.
Da quando era arrivata a Washington aveva fatto la conoscenza di Konstantin, questo l’aveva condotta nel luogo dove avrebbe passato il resto della sua permanenza prima del suo “debutto” nella società come Sam.
Konstantin non parlava mai di sé, era un uomo taciturno e serioso, sulla quarantina, sempre con il viso stropicciato come se gli avessero ucciso il cane. E a proposito di cane, Konstantin non fu felice di quando una sera Clarke si presentò con in braccio un cucciolo. L’aveva trovato in mezzo ai boschi, Konstantin e lei vivevano in una isolata zona dove non vi era anima viva. Luogo perfetto per commettere qualche omicidio o semplicemente per istruire una pirata genetica alla sua nuova vita.
Quest’uomo era divenuto la sua guida, il suo coach, colui che aveva in mano le chiavi del suo futuro. Le insegnò tutto quello che avrebbe dovuto sapere e dire per non tradirsi, iniziò sessioni giornaliere per aumentare la resistenza del fisico per avvicinarsi almeno minimamente alle credenziali di Sam. Ricevette spesso la visita di diverse equipe di medici e dottori che le correggessero i difetti più evidenti e divergenti dall’essere Sam Parker, come il suo evidente difetto visivo che non le conferiva una vista di 10/10.
Tutte le piccole cose venivano pian piano cancellate e corrette, ma una grande differenza rimaneva ancora tra Sam e lei.


«Sam era più alta di te.»

Clarke non pensò subito al significato di quelle parole, ingenuamente gli rispose che anche a lei sarebbe piaciuto essere stata più alta. Ripensò agli anni dell’adolescenza e al cruccio che torturava tutte le ragazzine durante gli anni della pubertà, essere alte e snelle. La bionda si stava perdendo dentro i suoi ricordi quando Konstantin la riportò con i piedi per terra.

«Non puoi assomigliarle se non sei alta quanto lei» A quelle parole, Clarke finalmente realizzò cosa intendesse davvero l’uomo quando le parlò dell’altezza di Sam.

Iniziò a mettere le mani davanti a sé e gesticolare come per respingere un’idea assurdamente malsana.


«No, aspetta Konstantin» disse in difficoltà, indietreggiando, «Basta mettere degli alza tacchi e non se ne accorgerà nessuno, te lo assicuro.»

In cuor suo, nemmeno Clarke credeva veramente in quello che stava dicendo.

«Sai bene che non funziona così, Clarke. Sei arrivata fin qui, non puoi tirarti indietro proprio ora.»
 


 



 
I mesi passarono con la stessa lentezza di sempre, ad eccezione del dolore che invece aveva iniziato ad accompagnarla. Ogni tanto malediva Sam per essere stata 5 cm più alta di lei, se solo fosse stata più bassa non avrebbe dovuto passare tutti quei mesi a letto immobilizzata con le gambe praticamente segate in due. Ma forse quella che veramente doveva essere maledetta era lei che era nata 5 cm più bassa, con un genoma imperfetto e semplicemente da scarto.
Clarke impiegò quei mesi a letto studiando e apprendendo nozioni di ogni genere, soprattutto di natura scientifica. Insieme all’altezza, crescevano in lei il sapere e la speranza di quello che l’avrebbe attesa una volta finito questo percorso pieno di sacrifici e fatiche.
La ripresa fisica non si fece attendere e pian piano la ragazza ritornò, non senza fatica, a padroneggiare completamente la sua mobilità nell’arco dei diversi mesi a venire.
 


 

 

«Perché fai tutto questo?» 

Konstantin le domandò a bruciapelo con le braccia incrociate appoggiato al muro. Clarke continuò a correre sul tappetto elettrico, gli elettrodi attaccati sul corpo che segnavano un battito ritmato sul monitor accanto. La mano di Clarke scivolò sulla schermata digitale e pian piano l’andamento divenne sempre più lento finché la ragazza non rimase immobile su quella pedana.

«Non hai mai desiderato qualcosa così intensamente da considerarti disposto a tutto pur di ottenerla?»

Konstantin la guardava inespressivo di fronte a quella domanda, attendeva che Clarke si spiegasse meglio probabilmente.
Vedeva nei suoi occhi una luce che non aveva mai visto fino ad ora, poteva scorgere la sua determinazione ma quella luce era un elemento nuovo che notava nel suo sguardo.


«Penso spesso che la notte sia più viva e intensamente colorata del giorno» si appoggiò a una scrivania vicino e guardando verso un punto indefinito continuò, «Da che ne ho memoria, le stelle mi hanno sempre trasmesso la loro luce, persino nei momenti più bui sono riuscite a portarmi via delle mie paure, a cucirmi il coraggio sulla pelle nelle notti più scure.»

Un leggero sospiro riempì il silenzio. Clarke stava pensando a tutti quei momenti del suo passato, soprattutto a quei momenti dove avrebbe solo voluto andarsene da lì, da quel vuoto che la uccideva dopo la morte dei suoi genitori, da quello spicchio di realtà, dove nessuno la vedeva più.

«Io voglio stare lassù» concluse.

Konstantin capiva perfettamente quello a cui si stava riferendo la ragazza, i suoi occhi brillavano di una determinazione che solo chi era disposto a fare tutto poteva avere, gli occhi di chi aveva un sogno.

L'ente Aerospaziale responsabile delle Missioni Interplanetarie, l’ AMI.
Nel corso della storia le varie enti interplanetarie e aeronautiche erano state spesso protagoniste di varie missioni e spedizioni spaziali che hanno segnato il corso del tempo, un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità, si recitava. Ogni nazione però cercava la gloria per il proprio paese.
L’ AMI è ciò che è nato dopo la rifondazione della società umana indirizzata verso la perfezione della stessa, pian piano era riuscito a inglobare la maggior parte degli enti mondiali convergendole in una nuova, che avrebbe raccolto gli sforzi di tutte le menti più perfette tra i perfetti e uomini più dotati tra i dotati verso un unico obiettivo.
L’esplorazione e lo studio dell’universo, l’insieme dei suoi mille misteri secolari, capire e vedere il perché e il cosa dell’oltre. Le leggi dell'informazione avevano incominciando a rivelare le risposte ad alcune delle più importanti domande della scienza e stavano solo aspettando chi potesse comprendere i misteri più oscuri sui quali l'umanità avesse mai riflettuto.
Clarke, però, non mirava a svelare quei misteri nonostante avesse voluto essere una di quelle menti brillanti, uno di quei cervelloni, che avrebbero urlato “Eureka” di fronte a una scoperta sensazionale.
No.
Clarke voleva solo essere tra le stelle, voleva stare nel posto dove nasceva la sua luce, la sua speranza. Voleva guardare e riempirsi gli occhi di quella luce. Era difficile da spiegare del perché si sentisse così desiderosa di trovarsi in mezzo a sferoidi luminosi di plasma, generatori di energia nel proprio nucleo. Sentiva di appartenere più a lassù che quaggiù.
Sam le avrebbe permesso di realizzare quel sogno, di camminare tra le stelle e raggiungere la sua meta. Per accedere alle file degli esploratori, colonie, astronauti spaziali vi era una rigida selezione che accoglieva solo l’élite umana. Le nozioni scientifiche non erano mai state un problema per l’accesso all’AMI, Clarke aveva studiato per anni e anni tutti i testi necessari per l’ammissione, nonostante nessuno le avesse mai dato credito per quel sogno, lei aveva continuato a studiare e impegnarsi. Ricordava tutte le notti, quando si arrampicava sul tetto di casa per osservare insieme al padre quei piccoli puntini tremolanti nel cielo nero. Le risate, il calore, l’amore che sentiva.
La problematica che le impediva di poter solo pensare a provare il test era la sua classe genetica piena di difetti. L’analisi genetica avrebbe rivelato ogni cosa. Le sue possibilità di accesso erano zero fin dal principio.


«Come ti senti?» Konstantin guardò la bionda che si era seduta mentre con le mani toccava le gambe, sapeva che nonostante i mesi già passati, la convalescenza da un’operazione del genere era ancora lunga e dolorosa, scandita dalle continue sessioni di riabilitazione. Nonostante Clarke non si lamentasse mai, l’uomo sapeva che non era un percorso indolore.

«Mi sento cinque centimetri più vicina» La risposta di Clarke fece affiorare un leggero sorriso sul volto dell’uomo.

Le intimò di riposarsi e senza troppe parole, scomparve oltre la porta.

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Capitolo 4
*** III. Valido ***


III




Clarke si trovava in una grande sala dai muri di un bianco brillante, quasi accecante quando i raggi del sole riflettevano su di esse. La sala era riempita da file di postazioni, con schermi implementati, che scorrevano senza sosta al tocco delle dita dei tanti uomini e donne in competizione per quei pochi posti all’AMI. Sul muro veniva proiettato un timer e orologio per ricordare il passare del tempo al gruppo dei partecipanti.
Per la conformazione del nostro sistema nervoso autonomo, la sudorazione era una risposta del corpo nel regolare la temperatura corporea attraverso l’effetto refrigerante dell’evaporazione, attività elettrodermica che aiuta a regolare il livello di stress di una persona.
La ragazza si asciugò i palmi delle mani sul tessuto dei pantaloni e riprese a guardare lo schermo davanti a sé. Sapeva benissimo che era una reazione del tutto naturale del suo corpo, ma non era il momento ideale per avere le mani umidicce e dita scivolose mentre stava svolgendo il test di ammissione per l’ente aerospaziale.
Il momento che aveva atteso una vita intera era finalmente arrivato e i cambiamenti fisiologici delle sue mani riflettevano lo stato psicologico del suo cuore.
La concentrazione rimase nei suoi occhi, lesse con sicurezza tutti i quesiti che scorrevano su quello schermo luminoso e inseriva uno dopo l’altro le risposte esatte. Erano tante le domande, lo scarto di tempo tra una risposta e l’altra era ridotto al minimo, solo le menti più brillanti avrebbero saputo rispondere nell’immediato del pensiero senza perdersi in ragionamenti superflui. Era uno di quei test infiniti, a cui Clarke si era preparata da tutta la vita, dove il limite del proprio punteggio era direttamente proporzionale all’intelligenza del soggetto.
I vari test si susseguirono durante l’arco della giornata, dalle prove psico-attitudinali fino a quelle fisiche divise in varie sessioni. La giornata si concluse con il test che preoccupava maggiormente la ragazza, quello dell’anti droga, o meglio il test che veniva fatto passare per un controllo dell’uso di sostanze stupefacenti o dopanti ma in realtà era un solo un modo come un altro, per l’ente, di svelare la classe genetica di tutti i suoi candidati.
Toc Toc


«Avanti»

La porta si aprì e Clarke entrò a passi sicuri dentro la stanza.

«Allora,» disse un ragazzo dai tratti orientali, «ho bisogno che fai la pipì qui dentro e poi ti preleverò un po’ di sangue» concluse allungando un contenitore.

Il primo campione fu semplice da fornire, facendo leva sul concetto di privacy, Clarke riuscì senza fatica a sostituirlo con un campione fornitogli da Konstantin quel giorno stesso. Non era riuscita a chiedere all’uomo dove avesse preso la materia corporea di Sam Parker e soprattutto finora dove l’avesse tenuta, complice la mancanza di tempo, nonostante non negasse che forse non voleva sapere la risposta.
Almeno per il momento.
Non si capacitava del fatto che Konstantin andasse in giro con una riserva di campioni biologici della sua identità, conservati da qualche parte, in qualche frigo sotto gelo.
Il secondo campione fu molto più complicato da sostituire ma se era arrivata fino a quel punto non sarebbe stata una fialetta di sangue a fermarla, quando era così vicina alla sua meta.
Clarke si sedette sulla poltroncina alzandosi una manica della camicetta intimato dal giovane dottore. – Stai tranquilla, sono bravo – le disse con un gran sorriso – o almeno nessuno si è mi lamentato del contrario – Concluse aggrottando le sopracciglia mentre alzava la siringa sterile.
Come dare torto a chi ha in mano una siringa.
La ragazza tese il braccio e in pochi istanti l’ago era dentro di lei. Strinse il pugno un paio di volte per far fluire meglio, come suggeriva Monty.
Era decisamente un ragazzo molto estroverso e chiacchierone, sempre con il sorriso stampato sulla faccia, aveva iniziato a conversare con lei del più e del meno senza sosta, forse per distrarla dai vari esami e prelievi che stava facendo.
Era senz’altro un ragazzo molto gentile nei modi, inizialmente intimorita, presto Clarke si rilasso dinanzi al suo fare molto gentile. Sempre col sorriso. Sorrideva un po’ troppo.


«Abbiamo finito» si strappo i guanti in lattice e li getto nel cestino vicino a un balcone.

Si alzò di scatto e face cadere degli strumenti riposti sul tavolo.


«Sono il solito sbadato» si grattò la testa e iniziò a raccogliere e sistemare il frutto della sua sbadataggine.

La bionda osservava in silenzio e capì che sarebbe stato fin troppo semplice.


«Potrei avere un bicchiere d’acqua, per favore? È da questa mattina che non mangio e bevo per via delle analisi.»

Monty si alzò più imbarazzato del dovuto, «Certo, te lo porto subito.»
Il giovane medico scomparve dietro una porticina.
L’occasione permise a Clarke di a scambiare celermente i suoi campioni con fialette diverse.
In pochi secondi il ragazzo tornò con in mano un bicchiere di acqua e una confezione di qualcos’altro che diede a Clarke.
La ragazza beve d’un fiato il liquido nel bicchiere mentre il medico si accingeva a trafficare con i freschi campioni appena ricavati.


«Congratulazioni signorina Parker» fece mentre guardava i risultati apparire sul suo schermo digitale.

Clarke lo fissò un momento e quasi con tono di scuse,
«Ma c’è ancora il colloquio finale.»

«Era questo il colloquio finale» asserì il ragazzo davanti a lei, mentre continuava a scrivere qualcosa su un fascicolo giallo, cerchiando una A.

Il cuore di Clarke era leggero, leggero e pesante allo stesso tempo. Le sue labbra si piegarono impercettibilmente in un sorriso sincero. Avrebbe voluto urlare di gioia ma allo stesso tempo sentiva che aveva preso una strada senza ritorno. Quelle parole sancivano la sua entrata nel mondo dei validi: lei che era un’esponente della genetica dei non validi, stava aprendo il vaso di pandora.
Il momento che aveva atteso una vita intera si era appena cristallizzato in quelle tre parole.

“Congratulazioni signorina Parker”

La sua anima era uscita da quella fase di impotenza esistenziale che l’aveva relegata a un circolo vizioso di inerzia vitale.
La totalità dell’essere ora la investiva completamente.
Si mise la mano tra i capelli sistemando un ciuffo ribelle dietro l’orecchio e, dopo una serie di istruzioni su quello che avrebbe dovuto fare da lì in poi, si avviò verso l’uscita, ma prima di andarsene si voltò verso quell’impacciato dolce ragazzo.


«Ti ringrazio.»

Monty sorrise come sempre, «Non ti preoccupare, nel refettorio è sempre pieno di biscotti. Ne ho solo preso uno per te.
Clarke guardò la sua mano che ancora stringeva la confezione,
«Si, grazie anche per quello» e si dileguò come era apparsa in quella stanza, lasciando solo perplessità sul volto di quel ragazzo tanto sorridente.
 


 

 
 

«Non pensi che avresti dovuto dirmelo prima che eri in possesso di materiale genetico di Sam Parker?» disse alterata, – Dove diavolo le tenevi?»
«L’obiettivo è quello di farti entrare e integrati nell’identità di questa ragazza, del resto non te ne devi preoccupare.»

Non era soddisfatta di quella risposta.

«Io ora sono quella ragazza, è affar mio il suo materiale genetico» disse guardandolo negli occhi, «Ho bisogno di sapere che non avrò problemi, altrimenti tutto questo» gesticolò aprendo le braccia, «sarà stato inutile per me.»

Konstantin la guardava serioso come solo lui sapeva fare, chissà se era capace di sorridere normalmente quell’uomo. Non amava quella conversazione, glielo si leggeva negli occhi da come gli si stavano scurendo le sue iridi azzurre.
Clarke stavolta si avvicinò all’uomo.


«Non ho mai avuto niente per cui lottare, questo sogno era così lontano e irrealizzabile che pensavo anche io fosse follia» si guardò le mani, «Senza nessuna scelta, la mia genetica aveva già scelto per me quando ancora non sapevo cosa fosse una scelta stessa.»

Silenzio.

«Il giorno in cui Clarke Griffin è deceduta, ho iniziato davvero a vivere. La speranza si è riaccesa e per la prima volta nella mia vita,» si sfregò la mano incerta, «ho sentito che il mio solo limite era la mia forza di volontà e la mia capacità. Ho sacrificato tutto e me stessa per essere qui. Di fronte a te.»

Konstantin la guardava, azzurro nell’azzurro. Negli occhi di quell’uomo c’era un costante velo di tristezza, nascosto in fondo alle sue iridi. I suoi lineamenti duri si erano rilassati.
Sospirò
«Molto presto ti farò preparare campioni in caso d’emergenza, non ti preoccupare di tutto quanto, ragazza.»
Con questo Konstantin si avviò verso la porta senza voltarsi.

«Ce l’ho fatta» ruppe il silenzio la bionda, guardando le spalle di Konstantin.
«Certo che ce l’hai fatta.»

E con quello scomparve, lasciando Clarke da sola con i suoi pensieri.
 


 

 
 
Sembrava che non fosse mai stata là e invece se guardava attentamente poteva accorgersi che era sempre la stessa vista, solo più bianca.
Dal tetto dell’edificio Clarke stava guardando il panorama davanti a sé, un bianco brillante e candido interrotto solo da un cielo rossastro che lasciava trapelare la sagoma di una timida luna. Un tramonto limpido se non fosse per qualche nuvola qua e là.
La città era coperta da un manto di neve. Poteva vedere un fiume attraversare lo spazio abitato, rompendo con il suo colore l’aspetto limaccioso del paesaggio urbano.
Una cupola si stagliava dal resto delle ombre e profili, per dimensioni e forma, questa si allargava circondata da edifici minori e sparpagliati. Era grande abbastanza da permettere di anticipare, con la sua mente, il ricordo della colossale piazza che si estendeva di fronte al complesso di edifici. Nonostante la distanza si accorse che, se si concentrava, la sua vista si arricchiva di dettagli sempre più precisi, come la punta dell’obelisco nella piazza, che era sormontata dallo stesso simbolo che svettava sulla sommità della cupola.
 


 

 
Il rumore del badge fece - bip - quando lo passò sotto al lettore prima di attraversa il tornello all’entrata. Quel luogo brulicava di persone che le passavano accanto indaffarate nei loro pensieri e udii conversazioni in merito ai nuovi codici di lancio e alle nuove traiettorie d’esplorazione. Vedeva molti camici svolazzare in giro, ma non mancavano uomini e donne vestiti elegantemente come se stessero andando in ufficio.
A grandi passi attraversò i corridoi e salì scale fino ad arrivare a una nuova zona dell’edificio est. Venne condotta da una giovane ragazza, presumibilmente una segretaria, verso la sua nuova postazione appena le disse di essere la nuova assunta.
Arrivata davanti a una fila di scrivanie le fece segno di aspettare e si allontanò.
Era un piano pieno di impiegati intenti a trafficare con il proprio computer, più in fondo anche uffici separati da muri di vetro che lasciavano l’interno allo scoperto da occhi indiscreti.
Una figura era seduta in uno degli uffici, l’unico al momento occupato, era appoggiata a una poltrona dietro una larga scrivania. Stava scrivendo qualcosa anche lei.
La figura guardò verso la nuova arrivata non appena la ragazza che l’aveva accompagnata sul piano entrò nel suo ufficio e le comunicò qualcosa.
Clarke seguì con lo sguardo la ragazza che avanzava verso di lei sicura dei suoi passi, i suoi capelli cadevano morbidamente attorno al suo viso ad ogni suo passo mentre uno sguardo altrettanto sicuro non la abbandonava.


«Signorina Parker, sono il supervisore del settore, Lexa Woods» tese la mano professionalmente, «Lieta che si unisca a noi.»

Davanti a lei si era presentata una donna dalla carnagione olivastra e dai lineamenti squisiti. Occhi profondi e brillanti la fissavano, un verde intenso, intenso come il colore dei boschi, della natura che si svegliava ogni primavera mentre gli animali erano ancora dormienti nelle loro tane. Capelli mossi e castani erano legati all’indietro conferendole una certa serietà nell’aspetto. In definitiva una piacevole figura femminile.

«Il piacere è tutto mio.»

La mattinata si susseguì velocemente, con il supervisore, Lexa Woods che illustrava a Clarke ogni sezione dell’ente e le spiegava tutte le prassi e regole non scritte. Le aveva raccomandato massima serietà e puntualità alle riunioni quanto al lavoro. Quel che diceva doveva essere sempre esatto e incuteva rispetto nelle persone accanto a lei con il suo modo di fare serio e preciso.
Clarke ebbe la possibilità di osservare dettagliatamente l’architettura interna dell’AMI e rimase affascinata. Nell’edificio in cui si trovavano al momento, Clarke riusciva a richiamare alla memoria l’aspetto della struttura, l’esterno assomigliava a un nastro bianco che si avvolgeva attorno a un cilindro. La progettazione era carica di personalità, l’esterno non rendeva giustizia all’architettura interna. Erano molte le rampe a spirale che richiamavano al concetto di continuità, continua come l’eterna esplorazione dell’uomo verso i misteri dell’universo.
Spesso la bionda si trovava più rapita dai miracoli della progettazione che dalle intimazioni senza sosta del suo capo.


«L’architetto che ha realizzato tutto ciò seguiva il movimento moderno architettonico. Il suo maestro d’ispirazione fu Wright1» disse Lexa interrompendo il flusso di pensiero di Clarke.
«Rimango affascinata ogni volta che vedo delle costruzioni di tale entità e perfezione» confessò la bionda.
«Ti comprendo perfettamente» sorrise guardando la sua interlocutrice, «avrai una vita intera per osservare la pianta degli edifici, io invece ho solo la mattinata» concluse voltandosi verso un corridoio di collegamento e intimando Clarke a sbrigarsi.

Durante la mattinata passata insieme, la bionda aveva inquadrato bene Lexa, donna d’alto profilo, piacente e dall’aura che gridava di perfezione assoluta da ogni sua singola cellula. Sicura e precisa nel suo essere come nel suo fare. Ammirava molto la sua dedizione al suo ruolo e al suo lavoro nell’ente. Brillante e dura. Una vera leader. Le veniva in mente una frase sola per riassumerla: un dito in culo.



 



NOTE:

1. Riferimento a 
Frank Lloyd Wright è stato un architetto statunitense, tra i più influenti del XX secolo, considerato uno dei maestri del Movimento Moderno in Architettura. Alcuni particolari del complesso descritto esistono veramente tra le creazioni dell'architetto.

Pubblicazione capitolo nuovo a cadenza settimanale, cercherò di caricare ogni domenica 😉

 

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Capitolo 5
*** IV. Perfezione imperfetta ***


IV




Nelle vesti di Sam Parker, Clarke scalò in fretta i gradi all’interno dell’ente aerospaziale, raggiungendo una posizione che le permettesse accesso alle riserve delle selezioni d’esplorazione spaziale.
Una figura era appoggiata sulla terrazza che dava in direzione della zona di lancio. Con gli occhi guardava in lontananza, verso un orizzonte che si perdeva con il cielo.
Un rumore sordo precedette una scia di fumo che si disegnava pian piano nel cielo con costanza.
Il razzo si era sganciato dalla piattaforma della Sky Space Center dell’AMI con un paio di ore di ritardo a causa del vento, ma la sua missione, era stata perfettamente riuscita.
Sentiva delle urla fin lassù. Gli ingegneri responsabili del progetto erano impazziti di gioia, seguendo l'evolversi delle varie sequenze di lancio e distacco con calorosi applausi e forse anche un pizzico di commozione. 

«Bello vero?»
«Così vicino, eppure così lontano» alzò la mano nel vuoto, come a cercare di prendere quella macchiolina che diventava sempre più lontana e impercettibile all’occhio nudo.
«Su col morale Parker,» le sorrise la ragazza a fianco a lei, «Vengono eseguiti di continuo lanci esplorativi, è solo una questione di tempo prima che mandino anche te.»
«Come mai ti hanno lasciata a terra?» chiese la bionda girandosi verso Raven.

La ragazza davanti a lei rise, con i suoi occhi nocciola ancora su Clarke. I capelli raccolti in una coda ordinata, le cadevano su una spalla.
 
«Mi hanno trovata a spasso fuori dalla navicella senza autorizzazione dalla base» confessò.
«Allora ho di fronte a me la Space Walker di cui si vocifera tanto dall’ultimo lancio. Hai creato davvero un bel trambusto, lo sai?»

Un flash di ricordi le attraversava la mente. Ricordava benissimo il pomeriggio in cui aveva visto tutta la sezione sul monitoraggio del lancio in crisi riguardo a una certa carenza di ossigeno in orbita. Persino Lexa che era solitamente sempre composta e posata, quel giorno si era precipitata da una sezione all’altra per riscontri su un rientro immediato. – Hai dato da fare persino a Lexa, se fossi stata davanti a lei ti avrebbe asfissiata lei stessa.
 
Lexa era di supervisione al lancio quel giorno. Quando seppe che la navicella in orbita aveva terminato l’ossigeno per via della passeggiata spaziale di Raven, le si erano colorate le iridi di nero. Non poté fare altro che dare l’ordine di rientro appena possibile, prima che la situazione si mettesse male.
Raven rise ancora di più, un sorriso genuino e divertito,
«Allora ringrazio di essere una delle menti più geniali e brillanti dell’ente, altrimenti non me la sarei cavata facilmente.»
Clarke diede un colpo al braccio dell’amica, spingendola, «Ringrazia piuttosto mamma e papà che ti abbiano selezionato i geni migliori per quella testolina, altrimenti staresti portando il caffè a Lexa in ginocchio.»
 
«Potrei dirti la stessa identica cosa, non credi?»
 
Lo sguardo cadde su Raven, e una risata risalì dalla gola, «Touché.»
Mai più falsa era stata quella verità.
 

 

 

Non avrebbe mai pensato che le parole di Raven sarebbero state tanto azzeccate. 
Era solo questione di tempo diceva sempre.
Un’addetta le comunicò che era stata convocata nell’ufficio del supervisore. Il vociare dei corridoi ovattava i suoi pensieri mentre si recava verso quelle vetrate oscurate con le tapparelle.
Lesse sulla porta.
Lexa Woods
Due bussate a cui seguì il permesso di entrare.
 
«Signorina Woods.»
«Signorina Parker, si sieda pure.»
 
Clarke si sedette a una delle due poltrone davanti a Lexa e attese mentre quest’ultima finiva di leggere una cartella. I suoi occhi si concentrarono sul contenuto del foglio e dopo una veloce firma, chiuse.
I suoi occhi verdi ora erano su di lei,
«Mi scusi se l’ho fatta attendere» ripose la cartella sulla scrivania. Si sedette con un movimento fluido ed elegante, accavallò le sue lunghe gambe mettendo la destra sulla sinistra e lanciò un'occhiata all'orologio che portava al polso prima di guardare negli occhi della bionda.
Nonostante il periodo che avesse passato in quella nuova realtà, erano state poche le volte che quegli occhi intensi e brillanti l’avessero guardata per davvero. La luce penetrava attraverso le pupille e rifletteva la sua anima.
 
«L’ho fatta chiamare per parlare delle sue ultime prove attitudinali. Deludenti.»
Se il buongiorno si vedesse dal suo capo, Clarke non vedrebbe mai un buon giorno.»
«Sono mortificata.»
«Lei è stata promossa nel programma di potenziali elementi per partecipare alle missioni esplorative, mi aspetto solo il massimo da questi individui» disse categorica.
 
Clarke non sapeva cosa dire, rimanere a galla in mezzo all’élite dell’élite umana era impegnativo. I continui test psico-attitudinali della sezione esplorativa per mantenere sempre ai massimi i loro componenti la stressavano molto. Chi veniva mandato nello spazio doveva essere sempre pronto fisicamente oltre che psicologicamente, per poter risolvere a sangue freddo qualunque problema. Oltre a tutto ciò vi erano nozioni di meccanica e fisica che non dovevano mai mancare a un buon astronauta o esploratore dello spazio.
In quel momento Raven riempì i suoi pensieri, l’esempio di perfezione per quel ruolo era lei.
 
«Ho letto il suo fascicolo e mi meraviglia che una persona con le sue potenzialità ottenga risultati tanto mediocri. Essendo suo superiore, è responsabilità mia che tutti gli elementi del mio team siano al massimo.» Quello sguardo duro stava demolendo l’essere di Clarke pezzo per pezzo, «Vi è qualche motivo in particolare che vuole segnalarmi?»
 
«Sono mortificata per la mia negligenza. Mi impegnerò molto di più da ora in poi.»
 
Lexa continuava a sostenere lo sguardo della ragazza davanti a lei. C’era qualcosa di Sam Parker che non la convinceva sino in fondo, aveva un qualcosa di strano. Forse era meglio dire particolare. O forse unico.
Non sapeva cosa fosse di preciso ma c’era un qualcosa di quella ragazza che non riusciva a farla stare tranquilla. Ogni volta che quel blu la guardava si sentiva strana. Era il colore del cielo, dell’infinito quando alzava lo sguardo in alto.
 
«La tengo d’occhio. E ora sparisca dal mio ufficio.»
 
Clarke si dileguò in fretta, lasciandosi alle spalle la bruna nel suo ufficio. Appena la porta fu chiusa, Lexa riprese, dalla catasta di cartelle, una in particolare, la riaprì e continuò a studiarla.
La ragazza ancora dietro la porta, in un sospirò pesante si avviò verso la sua scrivania, con lo sguardo preoccupato.
Era questione di tempo.
Aveva ragione Raven.
 

 

 
 
«Ehi Sam, ti fai bella al lavoro?» le disse scherzoso il ragazzo appoggiato al tavolo.
 
Clarke riponeva una spazzola in un suo cassetto, richiudendo senza cura.
 
«Certamente, aspettavo proprio te.»
 
Bellamy ridacchiò e si sedette alla scrivania senza tanti complimenti.
 
«Ti ho vista uscire dall’ufficio di Lexa» disse, «Ci è andata pesante?»
«Stronza come sempre, Blake.»
«È di buon umore allora. Questa sera si organizza una serata con i ragazzi, sarei felice se venissi anche tu» disse speranzoso.
 
Bellamy era il capitano del gruppo principale selezionato per le imprese d’esplorazione spaziale. Era anche il suo capitano, visto che faceva parte delle riserve. Ragazzo alto e di bell’aspetto, ottimo conversatore e guida; un leader, sapeva quali fili toccare per incitare il suo seguito e sapeva cosa dire per farsi ascoltare.
La bionda era titubante ma alla fine venne convinta dal ragazzo. Un’altra delle sue doti era che sapeva essere estremamente convincente. D’altronde di cosa si stupiva visto dove si trovava. Quel luogo brulicava di uomini e donne perfette, avevano ALPHA scritto in fronte, mentre lei era il pesce fuor d’acqua, il cavallo di troia che era entrato nel cuore della città.
La sera arrivò presto e il gruppo si ritrovò in un moderno locale al centro di Washington.
“Default” recitava l’insegna.
Era piuttosto esilarante che il locale consigliato da Bellamy si chiamasse così, dopotutto per certe accezioni del termine, andare in default era sinonimo di fallimento.
Il posto era uno di quei locali piuttosto altolocati, una parvenza ricercata e sofisticata. Musica piacevole riempiva il sottofondo, mentre tintinnii di bicchieri echeggiavano nella sala e le bollicine si liberavano nell’aria.
Clarke sbuffò durante la serata finchè Raven le prese la mano all'improvviso,
«Vieni con me.»
La ragazza si fece trascinare senza opporre resistenza e in pochi passi furono fuori dal locale.
 
«Raven, ma che ti è preso?»
«Per favore Sam, so che sei annoiata quanto me. Ti porto in un bel posto.»
 
La proposta fu allettante, si lasciò convincere definitivamente dal sorriso contagioso della ragazza, dopotutto aveva sperato per tutta la sera di poter avere l'opportunità di andarsene al più presto.
A pochi isolati da quel locale, vi era un pub con la luce al neon che catturava lo sguardo dei passanti.
Alcuni giovani parlavano appoggiati al muro mentre bevevano dalle bottiglie tra le mani. La musica risuonava forte, riempiva il silenzio di quelle strade scure, illuminate solo dalla luce dei lampioni accesi.
Entrarono e la musica le colpì in pieno. L’energia scoppiava entro quelle mura e ogni tipo di persona era presente ad intrattenersi quella sera. Dall’omaccione con la natica di fuori sullo sgabello a giovani ragazzi al tavolino, intenti forse a bere qualcosa al loro primo incontro. 
 
«Ehi barista. Un giro per me e la mia amica» urlò Raven al balcone.
 
Un giovane ragazzo con i capelli tirati e la camicia nera le si avvicinò e le passò due bicchieri.
 
«Da quanto tempo Reyes» disse il ragazzo a Raven.
«Sam ti presento Murphy, il mio Gamma preferito.»
 
Con quell’affermazione Clarke si girò di scatto verso il ragazzo. Lo guardava quasi sconcertata oltre che sorpresa, mai si sarebbe immaginata che Raven frequentasse posti e persone del genere. Ingannata dalla perfezione di quella casta genetica aveva dato per scontato, che a loro volta, cercassero solo la perfezione nel resto del mondo.
Murphy sospirò ironico,
«Non dovresti aspettare che me ne vada prima di sparlare di me?»
 
«Non ci fare caso a lui, è nato mestruato.»
«Ma ho anche dei difetti» intervenne il ragazzo, un miscuglio tra ironico e scocciato. 
«Barista, portaci un altro giro» lo interruppe Raven.
 
Clarke osservò la ragazza prendere dal taschino della sua giacca un pacchettino di qualcosa, lo aprì ed estrasse una sigaretta. Se lo portò alle labbra e dalla fiamma iniziò a uscire una leggera scia.
 
«Secondo me, Bellamy ha un debole per te» guardò in direzione della bionda che arrossì leggermente.»
«Peccato che a me non interessino le sue attenzioni.»
 
Clarke non aveva dimenticato chi fosse, doveva limitare al massimo i contatti troppo intimi, soprattutto sul luogo di lavoro. La sua identità era al sicuro finché avesse tenuto le dovute distanze da eventuali situazioni spiacevoli. Bellamy non faceva eccezione.
 
«Già me lo immagino, a quest’ora ti starà cercando ovunque. Gli ho rubato la dama da sotto il naso» alzò il bicchiere per brindare.
 
Risero entrambe. La musica copriva i silenzi.
 
«Diciamo di stare insieme così la smette di provarci» suggerì scherzando Clarke.»
 
Raven la guardò divertita, «Hai davanti a te la tua nuova fidanzata.»
La serata procedeva leggera, un’aura energica avvolgeva quel posto e chiunque entrava lasciava fuori dalla porta i propri problemi, portando dentro solo la sete di dimenticare.
 
«Non credi che ti faccia male fumare?» la incalzò mentre la guardava buttare fuori l’ennesima nuvola di fumo verso il soffitto, «Sei un’astronauta. Il fisico è una tua priorità.»
 
Raven fissò la sigaretta che aveva in mano mentre aspirava un’altra boccata di fumo, incurante di quello che stava succedendo attorno a lei «Sam, viviamo una volta sola. Non credi che la vita debba essere molto di più che semplice sopravvivenza?»

Quella frase si impresse nella mente di Clarke. Era stato come un sassolino gettato sul velo dell'acqua, pian piano disegnava attorno a sè le onde dell'urto, che si espandevano sempre di più. Una sola frase - no parola - risuonava nella sua testa. 

Sopravvivere 

Perfetto era colui che era sé stesso in modo maturo e compiuto, assolvendo al proprio scopo in maniera ottimale e trovando in questo la sua realizzazione.
Nonostante la perfezione dell’essere di Raven, lei non era perfetta come pensava Clarke. Il suo vivere imperfetto si scontrava violentemente con il suo essere perfetto. Il contrario di lei stessa che cercava disperatamente di vivere, emulando la perfezione, quando il suo essere era imperfetto. Entrambe erano anime tormentate che avevano solo fame di vivere.
La ragazza perfetta davanti a lei, le aveva insegnato qualcosa di nuovo.
Forse non tutto ciò che era perfetto, era perfetto.
 

 

 
 
Le giornate passavano tranquille tra allenamenti e piani di lancio all’AMI. Un via e vai di persone riempiva la piazzola.
 
«Ho sempre voluto chiedervelo ragazzi,» Clarke attirò l’attenzione del gruppo, «com’è stare lassù?»
«Beh,» Raven prese la parola, «si è liberi. Ti senti libera, leggera, volteggiante» stava cercando le parole esatte, «è come camminare nel vuoto.»
«Ma sei nel vuoto» interruppe un’altra ragazza, facendo notare l'incoerenza della frase.
«Com’è stare nello spazio dici?» ripeté retoricamente Bellamy, gli occhi nocciola rivolti verso il cielo mentre un'espressione interrogativa appariva sul suo viso. Stava riflettendo per dare una risposta.
 
Una voce sorprese tutti quanti.
La sua voce.
 
«Si raggiunge una pace spirituale. La vista della Terra dallo spazio è un sentimento che nasce dalla consapevolezza che il nostro pianeta non ha veri confini» fece una pausa, «il mondo intero non è che piccola grande forma che spicca sullo sfondo infinito dell’Universo nero.»
 
Quella risposta colpì Clarke, come un treno a piena velocità. Era una descrizione bellissima che alimentava ancora di più il suo desiderio di essere lì.
 
«Abbiamo fatto tanto nel corso della storia per esplorare la Luna e gli altri pianeti, ma la cosa più importante che abbiamo riscoperto è stata la Terra.»
 
Un brivido le percorse la schiena, facendola trasalire. 
Per la prima volta da quando era arrivata all’AMI, Clarke si sentiva più vicina a qualcuno di quanto non lo fosse mai stata con nessuno. Quelle parole avevano ispirato il cuore.
Forse Lexa non era dura e calcolatrice come l’aveva sempre immaginata.
I suoi occhi cercarono quelli verdi, di chi aveva pronunciato le riflessioni e le trovò che la stavano guardando di rimando, ma Clarke sapeva che quello sguardo non era rivolto a lei. Le folte ciglia che incorniciavano quegli occhi profondi e intesi, erano lontani da quel momento. Lontani dal tempo e dallo spazio, da dove stavano vivendo. Erano oltre.
All’improvviso era di nuovo con lei.


«Se volete scusarci, Parker le devo parlare.»

Clarke deglutì.
I colleghi si dileguarono in fretta.
Le due donne iniziarono ad incamminarsi senza una meta precisa, silenziosamente si seguivano a vicenda nei loro passi.

 
«Mi dica signorina Woods, cosa posso fare per lei?» disse Clarke.
 
La mora tentennò un attimo.

«Sa, non sono stata del tutto onesta con lei» i suoi occhi la cercavano, «Quando mi hanno proposto di promuoverla tra le fila per la sezione esplorativa non ero d’accordo. Ho respinto l’idea ma è stata una scelta obbligata dall’alto.»

Clarke non capiva dove volesse andare a parare.
 
«Lei non mi convinceva,» confessò Lexa, «ho fatto fare la sua sequenza, ho letto il suo profilo da alcuni campioni trovati sugli effetti personali nei suoi cassetti.»
 
In quel momento la ragazza ripensò alla spazzola lasciata appositamente nel cassetto, doveva ringraziare Konstantin se si era salvata in calcio d’angolo.
Si era sbagliata, il suo capo Lexa Woods, era calcolatrice proprio come l’aveva immaginata. Alla prima occasione era corsa a mappare il suo DNA per sapere se era meritava davvero di stare lì.
 
«Quello che ho trovato corrisponde a quello che è scritto nella sua cartella, anche di più» interruppe il contatto visivo, «E io le devo le mie scuse per aver dubitato di lei.»
 
A quelle parole la bionda non seppe cosa rispondere. L’onestà della mora la sorprese, i suoi occhi aspettavano un responso, ma quelli celesti la tenevano in attesa.
Calcolatrice sì, ma forse non era male come pensava.
Gli occhi di Lexa erano sinceri, sinceri e magnetici, da lasciar vedere cosa pensava e cosa sognava. Come quando aveva parlato dell’universo.
 
«Anche lei è stata lassù vero?» chiese Clarke, non nascondendo il suo interesse» Quello che ha detto prima mi ha affascinata.
 
Un leggero sorriso affiorò sul viso di Lexa. Un sorriso timido e sincero. Forse era la prima volta in assoluto che vedeva quella donna sorridere. Non poté far altro che ricambiare l’espressione.
 
«Lexa. Mi chiami Lexa.»
 
A quelle parole, Clarke ancora non se ne rendeva conto ma un muro era stato appena abbattuto. Impercettibile, silenzioso, ma era caduto.
La conversazione continuò scorrevole, quel che diceva Lexa rapiva completamente la sua interlocutrice. Non avrebbe mai pensato che sarebbe stato tanto stimolante parlare con il suo capo stronzo, che tanto stronzo non era.
Era affascinata dal modo di parlare di Lexa.
Era affascinata da quello che aveva visto, vissuto e sentito Lexa.
Era affascinata da Lexa.
 
 


 
 
«Ehi, Parker» l’attenzione di Clarke venne a focalizzarsi su Raven.
«Space Walker, mi stavi seguendo per caso?» scherzò.
«Sì, devo tenere d’occhio la mia fidanzata, Bellamy ti sta cercando» ammiccò, «A proposito cosa voleva Lexa da te? Un altro richiamo?»
«Nulla in particolare, voleva assicurarsi di alcune cose. Sai che non è male?»

 
Raven la guardò stranita, «Ma che ti ha fatto? È la stessa che ti guardava dall’alto in basso quando eri appena arrivata.»
 
«Beh, ci ho parlato. Non ha tentato di incendiarmi con lo sguardo» rifletté ad alta voce, quasi più per sé stessa che per rispondere alla domanda, Mi ha parlato dello spazio.»
«Certo che quando si parla di spazio perdi completamente la testa. Faresti salotto persino con Satana se solo ti parlasse dei crateri spaziali.

 
Non aveva tutti i torti.
Non voleva scendere ulteriormente nei dettagli - Dimmi un po' Rayes, dove mi porti di bello? È da un po' che non usciamo più.
»

Un sorriso si fece largo sul viso della ragazza.

 
«Sapevo che ti era piaciuto l’ultima volta. Non sbaglio un colpo.»
 
Il fardello della perfezione svaniva oltre quelle porte.
 
«A proposito tu- è vero che mi tradisci con quella della contabilità? Una certa Annie, An- Anya?» si ricordò il nome, Clarke.
 
Raven alzò gli occhi al cielo come se fosse l’ennesima volta che sentisse quella storia, «Vorrei sapere chi ha dato inizio a queste voci» disse stancamente, «Non ci ho nemmeno mai parlato con questa qua.»
«Lo so, ma ogni tanto tirano sempre fuori questa storia di te e Anya quando le teorie sui buchi neri iniziano ad annoiarli. Ti assicuro che da fuori è parecchio esilerante questa storia, sono una fan anche io» la latina la fissava con occhi annoiati e la testa piegata, «Che c'è? Mi guardi come se non alimentassi anche tu questa storia, un pò sicuramente ci godi anche tu. Te lo leggo nei tuoi piccoli occhietti da vecchia volpe.»
 
Era successo qualche volta - forse troppe - che Raven avesse rifiutato i continui inviti galanti, da parte di qualche collega insistente, facendosi scudo con la sua presunta fidanzata. Aveva continuato a buttare benzina sul fuoco a proprio vantaggio e ora, non aveva il diritto di esserne infastidita.
 
«Non essere gelosa, Parker. C’è abbastanza me per tutti quanti.»
 
Scoppiarono a ridere. Clarke scuotette la testa divertita dalla sicurezza dell’amica, da quei brevi attimi di spensieratezza assoluta, scandita solo dalle leggere risate di due semplici ragazze.

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Capitolo 6
*** V. Come vino ***


V



Clarke si sedette alla finestra con lo sguardo rivolto verso l’esterno mentre teneva in mano una tazza di tè fumante. Incrociò le gambe e il suo sguardo si perse fuori.
La finestra dava sul solito fiume in lontananza e, oltre gli alberi coperti di bianco, il cielo era di un curioso blu zaffiro, tipico di quelle fredde giornate invernali. Non nevicava più da un paio di giorni e le strade si erano riempite di fanghiglia ma il panorama che si vedeva dalla finestra di quella casa isolata era rimasta ancora candidamente immacolata.
Immersa nel silenzio del momento, Clarke sembrava talmente in pace con sé stessa e il mondo, che risultava difficile non invidiarla.
Davanti al biancore della vista, in un angolino della sua mente si ricordava di cosa vedeva prima, era ancora vivido il ricordo del muro che vedeva da fuori la sua finestra del suo piccolo appartamento. Il panorama era una distesa di mattoni, luogo adibito a ufficio, ma se saliva in piedi su una sedia poteva scorgere il fuoco del tramonto ogni giorno, oltre le barriere di cemento. Non era qualcosa che faceva spesso ma solo quando aveva bisogno di prendere qualcosa dai pensili e ogni tanto capitava di scorgere la vista di un tramonto che bruciava all’orizzonte. Era molto bello anche il cielo quando mancava il sole, in realtà, era tutto molto bello in confronto a un muro di mattoni.
Aveva scelto quella casa perché le serviva un posto vicino al luogo dove lavorava, senza spendere troppo. Scelta di dubbio gusto, sicuramente sua madre non sarebbe stata d’accordo. Ricordava sua madre come una donna apprensiva, dalla forte volontà che cercava di combattere per ciò che era giusto secondo i propri valori, forse tendente ad essere troppo impositiva verso gli altri nelle sue scelte. Non era stata una santa ma non si poteva nemmeno dire che non ci avesse provato ad essere una brava madre, ha resistito fino a dove ha potuto a differenza del padre che ha resistito fino alla fine. Le cose sono andate come sono andate ma ormai non aveva più importanza. Era tutto acqua passata. I morti non c’erano più ma i vivi bramavano la vita.  
Tutti i suoi sacrifici erano stati votati al momento in cui avrebbe incontrato quel tale McCourt che diede un capovolgimento totale alla sua intera esistenza.

«È questo il tuo hobby quando non lavori?» Konstantin era dietro di lei, gli scarponi innevati, aveva lasciato tracce bagnate dall’entrata fino a lì.«Avevo appena pulito il pavimento, sai?» sbuffò la ragazza mentre lo guardò «Mi chiedevo quando mi avresti degnata di una visita. Ho persino sentito la mancanza del tuo brontolare per tutto il tempo in cui sei mancato» rispose Clarke prontamente.

L’uomo la guardava con il suo solito sguardo inespressivo, forse non aveva senso dell’humor pensò la ragazza.

«Lo sai bene che dopo il tuo inserimento, i nostri contatti sarebbero stati limitati, visite prettamente di controllo o emergenza.»
«E questo è un controllo o un’emergenza?» chiese divertita.
«Nessuno dei due.»
«Ah! Lo sapevo che mi volevi bene – sorrise mentre un dito lo puntò prontamente.»

Kontantin la guardò interdetto, un leggero sorriso quasi apparve sul suo volto prima di essere stroncato. Si ricompose immediatamente. La vitalità di quella ragazza sarebbe stata contagiosa se non fosse per la sua posizione, difatti come per Clarke che doveva limitare i rapporti con il mondo esterno anche a lui erano state date precise istruzioni sul mantenere una certa distanza con Clarke, e quest’ultima lo sapeva perfettamente.
Dei lunghi passi annullarono lo spazio tra l’uomo e la scrivania posizionata nel centro della stanza, tirò da sotto il cappotto una cartella bianca, accuratamente chiusa e lo lasciò cadere sulla superficie.

«Documenti per te. Certificati di nascita, diplomi accademici, registri eccetera… Se ti serve un documento è qua dentro.»

L’attenzione di Clarke era fissa sulla cartella, le si avvicinò e lo aprì senza esitazione. Ne tirò fuori una pila di fogli e iniziò a scorrerli tra le mani. Ognuno con una propria dicitura, proprio come aveva detto l’uomo, però un particolare non trascurabile le saltò subito all’occhio.

«Non è la mia foto.»
«Sono i documenti originali di Sam. Le foto sono le sue, ma quella più recente risale a parecchi anni fa quindi possono benissimo essere le tue, non se ne accorgerà nessuno.»

I documenti originali di Sam. Clarke osservò i documenti con maggiore attenzione, per la prima volta poteva vedere il viso di questa ragazza. Poteva osservare molte fasi dell’età di Sam in base alle foto allegate ai vari documenti, dalla più piccola che accompagnava i documenti di nascita fino a quella più recente che raffigurava una giovane ragazza dai capelli biondi, come i suoi, e occhi azzurri. Uno sguardo vivo e allegro, un dolce sorriso che si piegava agli angoli della bocca. Una foto perfettamente attinente a un documento ma non troppo seria. Il pollice di Clarke tocco dolcemente l’angolo del documento che allegava la foto di Sam. Aveva ragione Konstantin, erano molto simili anche se non del tutto, un occhio più vigile poteva riconoscere subito le differenze ma dalla sua parte aveva il fattore tempo.
Il tempo cambiava le persone. Purtroppo, o per fortuna, il tempo strugge ogni cosa, fonde la memoria, i ricordi e i sentimenti, il tempo cambia anche i tempi stessi e stravolge le persone, le loro funzioni e le loro responsabilità tralasciate nel tempo ormai remoto e non per ultimo, il tempo cambiava l’esteriorità delle persone.

«In questa foto siamo quasi identiche però» Clarke alzò il documento girandolo verso l’uomo.

Lo sguardo di Konstantin si soffermò sulla piccola miniatura nell’angolino del documento per un lungo momento, aveva un non so che di stancamente nostalgico nei suoi occhi, come se stesse ricordando qualcosa o forse stava solo cogliendo l’effettiva somiglianza tra le due ragazze.

«I suoi occhi sono di un azzurro più bello.»

«Diventi sempre più simpatico man mano che passa il tempo.»

L’uomo si scrollò leggermente le spalle «Come il vino d’altronde.»

Clarke non poté che ridere. Se Konstantin era un vino non poteva che essere acido acetico. Tagliente nel suo insieme.

«Alla gente non importa come appari in una stupida foto, tutto quello che le serve è scritto nella tua genetica, però per mantenere le apparenze si dice che conta anche il resto.»

«Ma perché mi porti solo ora queste cose? E se mi fossero serviti prima?»

«Se ti fossero serviti mi sarei occupato io di tutto quanto.»

Una cosa che non era cambiato affatto nonostante il tempo passato, erano le risposte evasive di Konstantin. Clarke aveva provato più volte durante il periodo passato insieme a fare domande all’uomo e sull’uomo ma quest’ultimo non si sbilanciava mai più di tanto. La lasciava sempre brancolare nel buio senza darle indizi, ma Clarke sapeva che non gliela raccontava giusta. Le domande erano tante ma le risposte tardavano ad arrivare, e lei non era una persona che lasciava le cose in sospeso.

«Come è morta?» ancora la foto tra le mani.

«È morta e basta, ti basta sapere questo.»

«Sì, ma vorrei sapere come è accaduto e ­-» prima che potesse finire di ribattere una voce le parlò sopra.

«Non sono affari che ti riguardano» disse imperativo Konstantin mentre l’azzurro delle sue iridi iniziarono a incendiarsi. Il tono si era alterato all’improvviso, forse un po' troppo per essere semplice fastidio da parte dell’insistenza della bionda «Tu pensa a quello che devi fare, del resto mi occuperò io.»

«Ora la sua vita è la mia, non pensi che abbia il diritto di sapere?»

«No. Tu hai pagato per la sua identità, la sua vita non ti apparterrà mai» scandii le ultime parole più duramente di tutte le altre, come a ricordarle che nonostante tutto lei rimaneva sempre Clarke, la ragazza dei bassi fondi che cercava disperatamente di entrare nel mondo dei validi, con ogni mezzo a sua disposizione.

Clarke assorbì il colpo in silenzio, si portò la tazza alla bocca e prese un sorso, pensierosa. Quelle parole la ferirono più di quanto avrebbe creduto potessero fare. Toccare certe corde con Konstantin era sempre stato difficile, soprattutto riguardo l’identità di Sam, ma era la prima volta che l’uomo reagiva così astiosamente alle sue domande.

«Era tua sorella?» Più che una domanda era un’affermazione per come aveva pronunciato la sentenza «Avete gli stessi occhi.»

Konstantin si trovò in un primo momento spiazzato, non sapeva cosa dire lì per lì, ma non cercò di negare. Rimase solo in silenzio mentre sbatteva furiosamente le palpebre. Clarke sapeva di avere ragione, aveva colto nel segno, lo si poteva leggere chiaramente sul viso dell’uomo davanti a lei.

«Avevo pensato a molte cose ma quando ho visto i suoi occhi ho finalmente capito. Mi dispiace per la tua perdita.»

«È viva» lo disse con rabbia, quasi a convincere sé stesso più che la ragazza a cui rivolgeva quelle parole «lei è viva, e tu non sarai mai lontanamente solo simile a lei.»

Clarke non voleva prendere il posto di Sam, non l’avrebbe mai voluto se non fosse stata la fatalità del destino a metterla davanti a quella scelta sofferta. Konstantin nascose il suo tumultuoso stato d'animo dietro un'espressione impassibile. Il suo sguardo gli voleva lanciare addosso altre accuse e lei le avrebbe accettate nel silenzio. Non poteva capire sino in fondo il dolore di Konstantin ma non poteva biasimare il dolore di un fratello per la propria sorella, avrebbe accettato tutto l’astio che avrebbe riversato su di lei, a lei che aveva rubato l’identità di Sam. Ora che ci faceva caso, l’uomo non l’aveva mai chiamata Sam da quando si conoscevano, forse non l’aveva mai chiamata affatto. Quelle tre lettere le riservava per qualcun’altra, per la sua legittima proprietaria.

«È in coma, non lo sa nessuno» interruppe il silenzio «Non avrei mai permesso niente di tutto questo» gesticolò con le mani «se non fosse stato per salvarla. Non avrei mai permesso ad agenzie senza scrupoli di prendersi l’identità di Sam se- Le cure erano troppo costose e solo questo avrebbe potuto salvarle la vita.»

L’uomo si coprì gli occhi con la mano. Il suo labbro inferiore tremò e il respiro si era fatto più veloce.

«Mi dispiace» sussurrò Clarke cautamente.

«Dispiace a me, era il mio orgoglio. Poteva fare tanto, era nata per fare tanto e invece…» lasciò la frase sospesa nell’aria.

Molte domande iniziarono ad affiorare nella mente di Clarke, avrebbe voluto chiedere di più di Sam. Avrebbe voluto chiedere quale fosse il ruolo di Konstantin. Avrebbe voluto chiedere quali cambiamenti comportasse per lei, in caso Sam si risvegliasse dal coma.
Ma tra tutte le cose che poteva chiedere sentiva che non poteva. Qualunque cosa avesse voluto dire, avrebbe solo fatto più male alla ferita ancora aperta di Konstantin. Non sapeva cosa dire o fare per alleviare il momento, alla fine appoggiò semplicemente la mano sul braccio dell’uomo e lo strinse, mettendo a tacere, momentaneamente, tutte le domande che le riempivano la mente.
 
                                                                                                                                       

 





Allungò le gambe e braccia e sbadigliò mentre il guinzaglio tirava. Al parco c’era poca gente per via del freddo, il cielo si era fatto violaceo e c’era un po' di nebbiolina che aveva un certo fascino, sarebbe stato bello catturare quel momento con una foto.
Il parco era lontano dalla sua abitazione, molto vicino alla sede dell’AMI, difatti aveva scoperto l’esistenza di quel parco in una delle tante volte che andava al lavoro. Clarke ci tornava ogni volta che poteva per scappare dalla solitudine senza dover per forza andare in un posto troppo frequentato o semplicemente quando voleva cambiare aria, inoltre era un luogo ideale per portare a spasso un animale.
Si sedette su una panchina, davanti a sé vedeva una sconfinata distesa di terreno erboso con alberi tutt’intorno e qualche coraggioso che aveva deciso di praticare jogging nonostante il freddo pungente. Si vedeva anche una coppia di anziani passeggiare sul sentiero.
L’aria fresca e frizzante invernale le penetrava prepotentemente nei polmoni donando al suo corpo una vigorosa sferzata d’energia. Una nuvola di respiro uscì dalla bocca di Clarke. Stava lì e osservava il cane giocherellare intorno a lei felice. Aveva discusso a lungo con Konstantin per tenersi il cucciolo la notte che lo trovò, alla fine era rimasto con lei fino a crescere e diventare un bel cagnolone.
Le piaceva molto quel parco. L’erba era sempre curata, le siepi potate e le panchine tirate a lucido. In primavera gli animali popolavano quei terreni, perlopiù scoiattoli, correvano da un ’albero all’altro destreggiandosi tra i vari rami. Il laghetto in mezzo al parco si riempiva di file di paparelle e talvolta di intravedeva anche qualche cigno che si lasciava trasportare dalla brezza sullo specchio d’acqua. Sorrise a ricordare quelle scene, le trasmettevano una pace dei sensi.
Clarke iniziava a dirigersi verso l’uscita, era persa nei suoi pensieri. Quel momento di pace stava svanendo man mano che usciva dal verde di quel posto, tutto quello che era accaduto con Konstantin stava riaffiorando alla sua mente e non poteva fare a meno di ricordare gli occhi dell’uomo. I passi si facevano sempre più veloci mentre il  guinzaglio iniziava a tirare in direzione di un grande obelisco, e prima che potesse accorgersene, si ritrovò con il suo amico peloso nella grande piazza dell’AMI.

«Non sapevo avessimo gli stessi interessi, avresti dovuto dirmelo prima» disse sorpresa Clarke mentre incrociava le braccia, come se fosse offesa verso l’animale, «poteva essere un ottimo argomento di discussione per legare all’inizio.»

Il cielo stava cambiando in fretta. Cupi brontolii scesero dalle nuvole, tuonando tra i palazzi della città. I colori stavano mutando a grande velocità. I lampi di moltiplicavano e come erano iniziati i tuoni anche timide goccioline iniziarono a scendere senza sosta.

«È l’ora di tornare a casa» annunciò Clarke.

Le goccioline si trasformarono presto in una violenta ondata d’acquazzone, così forte che Clarke non poté che rifugiarsi sotto uno dei tanti porticati di uno dei palazzi del complesso d’edifici. Nonostante il cappotto che indossava, l’umidità iniziava a penetrare nei suoi vestiti e un brivido le percorse la schiena. Si era messa braccia conserte mentre aspettava che la violenza di quell’acqua si placasse.

«Sam…»

Una voce dietro di lei aveva richiamato la sua attenzione, ma ancora prima di girarsi aveva già riconosciuto a chi appartenesse la voce.

«Lexa» uscì una voce più sorpresa di quanto avrebbe voluto «Che ci fai qui?» sbottò senza pensarci.

Sul viso di Lexa si leggeva più sorpresa di quanto non ci fosse sul viso di Clarke, solo in un secondo momento la bionda si rese conto ti aver appena dato del tu al suo capo. Presa del momento si era dimenticata degli appellativi.

«Oddio, mi scusi. Le ho appena dato del tu e le ho chiesto che ci facesse nel luogo dove lavora. Mi ha spaventata e -»

«Scusami se ti ho spaventata.»

Lexa la interruppe prima che potesse finire, l’aveva rassicurata  dato del tu di rimando, aveva acconsentito tacitamente all’abbandono della formalità tra di loro. La pioggia aumentava e tamburellava senza sosta su qualunque superficie incontrasse, era un velo perenne che faceva da sottofondo alla conversazione insieme al lieve fruscio del vento.

«Che ci fai qui Sam? Non hai la giornata libera?» chiese con l’ombrello in mano, ancora vestita con gli abiti da ufficio che si intravedevano dal cappotto pesante.

«Sì, ma cosa posso dire, mi è mancato il lavoro.»

«Mi chiedo cosa fai quando hai le ferie prolungate allora.»

Un abbaiare attirò l’attenzione di entrambe le figure sotto il porticato.

«Okay non è vero. Il mio cane era più interessato di me a venire qui, io volevo solo morire sul divano davanti a una tazza di tè» ammise imbarazzata mentre si spostava una ciocca di capelli bagnaticci dietro l’orecchio.

«Questo suona molto più allettante.»

C'era un leggera tensione nell'aria, lo sguardo delle due donne si cercavano a vicenda con una nota di palpabile imbarazzo. Nessuna delle due sapeva cosa dire ma non era sfuggito a Lexa il fatto che la ragazza davanti a lei fosse bagnata e infreddolita, probabilmente colta alla sprovvista dal brutto tempo improvviso.

«Dove abiti?»

Clarke venne colta alla sprovvista dalla domanda, «Perdonami?»

«Immagino che non staresti qua se avessi avuto la possibilità di tornare a casa, ti do un passaggio, tanto sto tornando anche io.»

«Ti ringrazio Lexa, ma non c’è bisogno che ti disturbi, tra poco il tempo si calmerà e io e questo giovanotto torneremo a casa; nel frattempo posso anche aspettare dentro, basta che mostro il tesserino alle guardie.»

«E ti porti il tesserino quando vai a passeggio con il tuo cane?» alzò un sopracciglio.

«Mi aiuta a sentirmi più vicina al lavoro quando sono a riposo?» era più una domanda che una risposta.

«Sicuramente sei più brava nel tuo lavoro che a dire bugie» Clarke arrossì, «So che gira voce che sono una gran stronza ma non lascerei mai una mia dipendente qui fuori, se ti ammalassi incideresti negativamente sull’efficienza del nostro reparto.»

Quella donna sapeva bene come farsi amare e odiare in un ciclo infinito; ti sorprendeva con gesti carini ma poi ti sbatteva la porta in faccia.
Lexa si avvicinò senza aspettare ulteriormente, fu inevitabile avvicinarsi oltremodo per cercare di ripararsi sotto lo stesso ombrello, erano così vicine che potevano sentire il calore l’una dell’altra. Insieme all’odore della pioggia e dell’asfalto bagnato, Clarke sentiva chiaramente un altro profumo giungere alle sue narici, era l’odore di Lexa. Un sapore fresco e inebriante, le ricordava il muschio dei boschi.
Cercava concentrarsi sulla pioggia che scendeva a catinelle invece che lasciarsi distrarre dalla vicinanza della donna accanto a lei, che la avvolgeva completamente senza nemmeno toccarla. Dal canto suo, Lexa invece, non sembrava minimamente in soggezione o a disagio da quella vicinanza inconsueta causata dal caso, anche se alla bionda parve di intravedere un leggero rossore affiorare sul suo viso. Ma non era sicura, il tempo si era fatto estremamente brutto nel frattempo e il cielo si era rabbuiato di un colore assai cupo con l’avvicinarsi della sera, e questo aveva contribuito a nascondere bene il viso di Lexa ai suoi occhi.

«Avvicinati altrimenti non riuscirai a ripararti» disse la voce interrompendo il flusso di pensiero di Clarke.

Iniziarono a camminare in silenzio, dirette verso l’auto della donna, Clarke cercava di concentrarsi sulla strada mentre aveva in una mano il guinzaglio, nell’altro l’ombrello.
Tentava di focalizzarsi su qualsiasi altra cosa altrimenti sarebbe stata portata via dal profumo di Lexa. Le loro mani erano molto vicine, tra un passo e l’altro sentiva le loro mani urtarsi.
Sotto quella pioggia incessante il tempo sembrava essersi dilatato, il cuore di Clarke batteva forte, forse per la corsa e l’essere fradicia, forse per la vicinanza e il calore di Lexa, o forse per entrambe. Sapeva solo che avrebbe voluto che quel tempo durasse di più, avrebbe voluto che il tragitto fosse stato il più lungo possibile cosicché avrebbero potuto semplicemente camminare insieme sotto il silenzio battente di quel cielo bagnato.
Si racconta che in epoca feudale giapponese, gli uomini e le donne che erano in intimità non dovevano mostrarsi vicini in pubblico, né tantomeno potevano tenersi per mano o a braccetto. Una delle rare occasioni in cui era lecito tutto ciò erano le giornate di pioggia, quando due persone potevano mostrarsi insieme riparandosi sotto l’intimità dello stesso ombrello; La conseguenza fu che quando un uomo regalava a una donna un ombrello, le stava dichiarando implicitamente il suo amore.1
Senza un motivo preciso, Clarke si sentiva un po' così, l’intimità del momento era forte quanto labile, un gesto tanto semplice quanto profondo, un istante intrinsecamente personale che solitamente non si condivide con nessun altro se non per necessità ultima ma Lexa l’aveva fatto. Tra le parole non dette le aveva dato il permesso di oltrepassare quel suo piccolo spazio privato.
Con la coda dell’occhio aveva continuato a guardare più e più volte il profilo della donna accanto a lei, un brivido le percorse la schiena, stava iniziando a bagnarsi troppo per pioggia e il freddo diventava sempre più pungente. Probabilmente.
L’auto non era parcheggiata troppo lontana e in poco tempo arrivarono al veicolo. Entrarono in auto a gran velocità e finalmente poterono tirare un sospiro di sollievo per il riparo asciutto.

«Che corsa» affermò Lexa spostandosi un ciuffo completamente bagnato dal viso.  

«Mi spiace, se non avessi dovuto dividere l’ombrello con me non ti saresti bagnata dalla testa fino ai piedi.»

«Sam smettila di scusarti o ti butto fuori, porto a casa solo lui» guardò nello specchietto retrovisore che dava i sedili posteriori «come si chiama a proposito?»

Clarke ci pensò un momento. Aveva sempre chiamato l’animale con appellativi come bello o cucciolo, quel cane appariva e scompariva in continuazione, come era apparso nella sua vita spesso spariva nei boschi per giorni se non settimane e infine tornava alla porta di Clarke. Era come un gatto, tornava ogni tanto ma preferiva stare fuori a bighellonare o a fare chissà cosa. Era un gatto nel corpo di un cane.

«Si chiama Mao.»

«Mao?» un velo di perplessità si distese sul viso di Lexa. Forse la bionda la stava semplicemente prendendo in giro, «Sei più comunista tu che chiami il tuo cane Mao o il tuo cane che si fa chiamare Mao?» non poté fare a meno di sorridere.2

«Entrambi magari» ridacchiò, «Questo cane è praticamente un gatto che abbaia, da piccola mi insegnarono che Mao significava gatto in qualche lingua che ora mi sfugge, così ho deciso di chiamarlo in questo modo.»

«È cinese.»

«No, è una tipica razza del nostro territorio. Ne vedo molti in giro quando vado al parco.»

«No, intendo che il nome deriva dal cinese.»

Clarke si sorprese nell’apprendere che Lexa aveva persino nozioni di lingue estere.

«Vi fanno uscire proprio perfetti» l’affermazione scivolò dalla sua bocca ancor prima che ne formulasse il pensiero.

«Cosa intendi?» aggrottò la fronte mentre iniziavano a muoversi in mezzo a file di macchine con i fari accesi.

«Beh… Sono tanti i meriti che si dicono di te ma la conoscenza delle lingue esotiche non l’avevano mai citata» salvataggio in calcio d’angolo, «Come mai conosci il cinese?» cambiò subito argomento.

«Alcuni progetti passati hanno richiesto la conoscenza della lingua per poter collaborare meglio con i paesi partecipanti, tra questi c’era la Cina.»

«Dicono sia una lingua difficile.»

«Ti dicono tante cose a quanto pare, dovresti provare a smettere di ascoltare e verificare di persona, non credi?»

«Probabilmente hai ragione.»

«Probabilmente.»

L’atmosfera si era fatta molto più rilassante e tranquilla, sembravano così lontani i giorni in ufficio quando si ignoravano a vicenda. Erano come vecchie amiche che si erano ritrovate a parlare. Il viaggio procedette senza intoppi, tra una conversazione e l’altra, Mao mugugnava qualcosa ogni tanto.
L’auto si fermò.

«Siamo arrivate. Dovresti pensare a prenderti una casa più in città sai?» disse Lexa osservando fuori dal finestrino.

«Ci penso spesso ma poi mi ricordo che odio la città» rispose Clarke, «Preferisco stare in mezzo al verde», verde proprio come il colore di quegli occhi che la stavano fissando sotto la poca luce che illuminavano i loro visi.

«Ti capisco, a volte anche io preferirei abitare in mezzo al nulla, con solo silenzio e verde tutt’intorno, ma poi mi ricordo che odio alzarmi presto e ho bisogno di un lavoro.»

«Ti ringrazio davvero per stasera, non sarebbe stato così semplice tornare a casa se non ci fossi stata tu» disse Clarke mentre scendeva dall’auto e faceva uscire Mao, che corse via non appena la porta si aprì, «E prima che te ne accorga tu stessa, mi vorrei scusare per come troverai i sedili posteriori, sono desolata.»

Lexa si girò verso i sedili posteriori un po' preoccupata di quell’anticipazione ma non notò niente di strano se non delle zampate qua e là, lavabili con un panno bagnato. Tirò un sospiro di sollievo.

«Pensavo molto peggio per come l’avevi detto. Comunque, non ti preoccupare, non mi è costato nulla ma puoi iniziare a scusarti lasciandomi usare il tuo bagno, mi vorrei dare tanto una veloce ripulita» disse Lexa mentre si teneva una ciocca di capelli ancora bagnati tra le lunghe dita affusolate. Nonostante il viaggio in auto, erano ancora entrambe bagnate fradice.

«Ma certo, è il minimo che possa fare» iniziarono a dirigersi verso il portone d’entrata mentre Clarke faceva strada in mezzo al vialetto umidiccio, «Se non è fuori luogo, vorrei ringraziarti invitandoti a bere qualcosa insieme. Offro io. Ti ho fatto allungare la strada per tornare a casa, bagnare e sporcare l’auto, mi spiace davvero per il disagio» disse Clarke, speranzosa quasi che l’interlocutrice accettasse, non sapeva il motivo ma avrebbe voluto tanto rivedere Lexa ancora, oltre le mura lavorative. Era bello passare il tempo con lei, anche i momenti di silenzio avevano un loro fascino se erano insieme, voleva essere ancora in mezzo al suo verde.

La proposta lasciò sorpresa Lexa, non sapendo bene cosa rispondere alla bionda, tentennò quasi, scuotendo la testa inizialmente. Non era appropriato che accettasse un’offerta del genere, pensava già alle voci che si sarebbero sparse se qualcuno le avesse viste, ma l’insistenza di Clarke fu così forte che alla fine dovette accettare il suo ringraziamento.
La serratura si aprì non appena la chiave fu girata. Clarke avanzò nel buio ma ancor prima che potesse accendere la luce sentì la presenza di qualcuno.

«Dove sei stata?»

Clarke ebbe un sussulto comunque.

«Diventi sempre più inquietante, Konstantin. Che diavolo ci fai qui?»

«È tardi, ti aspetto da un bel po'.»

«Lo vedo che mi aspettavi, è casa mia. Potevi accendere la luce mentre lo facevi, avrei pagato io.»

«Sam? È permesso?» disse una voce da fuori la porta mentre dei passi iniziavano ad avanzare in casa.

Gli occhi di Konstantin stavano per uscire dalle orbite.

«Hai portato qualcuno qui???»

«Calmati, andrà via appena avrà usato il bagno, è il mio capo.»

«Regola numero uno di avere un’identità falsa è non farsi scoprire!» disse con gli occhi di fuoco, cercando di tenere la voce più bassa che poteva.

Il viso di Lexa si affacciò alla stanza illuminata dove aveva visto dirigersi Clarke quando era entrata in casa. Vide la ragazza intenta a parlare con un uomo piuttosto robusto, dai folti capelli biondi. Sguardo duro.

«Buonasera.»

«Sera a lei­» rispose l’uomo con la fronte aggrottata accanto alla bionda.

«Lexa, ti presento mio- mio zio. È venuto a trovarmi, a sorpresa, da fuori città.» disse Clarke un po' in difficoltà, «Ah, già il bagno è in fondo a destra. Lo troverai subito.»

Lexa si avviò verso il percorso delle indicazioni di Clarke e scomparve dalla loro vista.

«Signorina, dobbiamo fare un discorsetto noi due» la ammonì arrabbiato.

«Non era programmato, ha fatto tutto lei.»

Konstantin si portò le mani tra i capelli, «Sai perché si chiama nascondiglio? Perché ci si nasconde e nessuno lo deve scoprire. Mi sembra una cosa elementare» disse molto arrabbiato.

«Ti ho detto che non succederà niente, userà il bagno e se ne andrà via come è arrivata.»

«La prossima volta tieni le tue puttanelle lontane da questo posto, hai capito?»

Konstantin le puntava il dito quasi in faccia. Era furioso. Clarke non voleva dire altro per evitare di farlo infuriare ancor di più, o peggio, di farsi sentire da Lexa. Furioso o meno, lei era a due passi da loro e poteva tornare da un momento all’altro. Pochi instanti dopo, difatti, tornò Lexa. Si era data una sistemata veloce e si era ripulita. Incredibile come potesse stare bene anche dopo un acquazzone e camminato in mezzo alla fanghiglia pensò Clarke. Pochi istanti dopo, si stupì di star pensando a una cosa del genere invece che a come sistemare la faccenda.

«Sam, ti ringrazio per la cortesia. Tolgo il disturbo allora, avrai molto cose da raccontarti con tuo- zio» sentiva lo sguardo dell’uomo addosso, «È stato un piacere conoscerla.»

«Altrettanto» rispose velocemente.

«Grazie a te Lexa. Buonanotte.»

La presenza della bruna scomparve in fretta dall’abitazione, pochi minuti dopo il rumore di un motore si udì di sottofondo finché non scomparve anche quello, lasciando così, solo Clarke e Konstantin, soli in quella stanza.


 





Note:

1. Nella cultura giapponese l'Ai ai gasa (相合傘) (letteralmente condividere un ombrello) è il simbolo degli innamorati, equivalente ai cuori trafitti da una freccia in uso nel mondo occidentale. Viene rappresentato come un ombrello stilizzato, sotto al quale possono essere scritti i nomi dei due innamorati.

2. Gioco di parole con riferimento al politico comunista Mao Tse Dong, e l'assonanza del suo nome Mao  (毛) con la parola gatto Mao (猫) in cinese. Nonostante diverso carattere e alterazione di tono, entrambi riconducono allo stesso suono di base. 

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Capitolo 7
*** VI. Falsità ***


 
VI




Il silenzio era diventato assordante. Si poteva udire il ticchettio dell'orologio da parete della stanza accanto. Strano come la notte e il buio riescano ad amplificare così tanto i suoni.
Konstantin stava riflettendo. Tanti pensieri si stavano agitando nella sua testa, tumultuosi e pressanti, scontrandosi l’uno contro l’altro. Chiuse brevemente gli occhi e sospirò.
Stava cercando di riprendere il controllo di sé.
Clarke aspettava che l’uomo si calmasse, ma poi decise di prendere la parola.

«Si può sapere che diavolo ci fai da me a quest’ora?»

«Non è questa la domanda giusta da fare» i suoi occhi erano ancora chiusi, la mano teneva la sua fronte.

«Si può sapere che problemi hai? È più azzeccata ora?»

Forse stava tirando la corda ma anche Clarke era infuriata, infuriata per come l’abbia aggredita e trattata. La reazione che aveva avuto Konstantin l’aveva messa più in pericolo di quanto non l’avesse fatto il suo invito stesso a Lexa.

«Stai giocando con il fuoco.»

«Ah, sì? Tu invece non potevi trattenerti cinque minuti invece che dare spettacolo con lei ancora davanti a noi?» si mise le mani tra i capelli mentre prendeva un bicchiere di vetro e una bottiglia di vino da una mensola, «Speriamo solo che non abbia sentito troppo del tuo momento di isteria e ora si beva la storia dello zio.»

«Tuo zio?»

«Beh, cosa avresti detto tu con un uomo di mezza età, in casa tua, nel bel mezzo della notte, che aspettava il tuo rientro al buio? La scelta era tra stupratore o zio.»

Si versò un bicchiere di vino e lo portò alla bocca. Fece sparire il liquido gorgogliante dal bicchiere tutto d’un fiato, lasciandosi un leggero alone sull’angolo.

«Almeno è andata via subito.»

«Non capisci la tua posizione, non puoi permetterti di esporti così tanto svelando il luogo dove vivi. Tutti i tuoi segreti sono in questa casa, anche un capello, un solo ciglio e hai chiuso. Dove pensi sia il posto più facile dove reperire cose del genere?»

«Non lo so, sulla mia faccia?»

«Credi sia divertente?»

«Ma perché all’improvviso ti importa così tanto di me?»

«Non è questo il punto.»

«E qual è il punto?»

Konstantin avanza, finché le loro ombre non si fusero sul pavimento. Sapeva che l’uomo non le avrebbe fatto del male ma per un momento l’idea attraversò la sua mente e non poté fare a meno di indietreggiare di un passò.
L’uomo si guardò le mani e le strofinò insieme, come preso dal nervosismo «Non sono una persona molto brava con le parole. Ho avuto tempo di rifletterci e mi rendo conto che nel nostro ultimo incontro non sono stato tanto… giusto con te.» alzò gli occhi e sostenne lo sguardò corrucciato della ragazza, «So che non hai colpa di tutto quello che è accaduto.»
A volte, le risposte non sempre sono quello che cercano le persone ma piuttosto ricercano un motivo, una ragione che semplicemente le faccia stare meglio. Forse è più adatto parlare di causa che risposta. Una causa a cui dare la colpa, una causa per cui indignarsi, una causa a cui indirizzare la propria frustrazione e impotenza davanti alle fatalità della vita. Semplicemente una causa che faccia stare meglio. In quel momento della sua vita, quella causa era diventata Clarke.
Non le stava chiedendo apertamente scusa, ma almeno le stava facendo sapere che si era accorto che non era stato molto disponibile nella loro ultima conversazione.
La ragazza con ancora il bicchiere in mano, lo guardava cautamente.
Comprendendo l’esitazione, lui proseguì «Solo questo, stasera… era solo per questo.»
Con questa ultima frase, la invitava implicitamente a continuare la discussione a meno che non volesse terminarla lì, e a Konstantin sarebbe andato bene lo stesso.

«Che cosa succederà quando si risveglierà?» chiese a bruciapelo.

Era una domanda che avrebbe voluto fare all’uomo dal momento stesso in cui seppe che Sam era viva. Il percorso che aveva intrapreso era pieno di ostacoli, lo sapeva bene fin dall’inizio, ma quella notizia aveva segnato un’ulteriore complicazione nel suo percorso. Nonostante la sua umanità le suggerisse che non dovesse pensare alla vita di una ragazza come ostacolo, nella realtà dei fatti era tale. Si stupì lei stessa di come, in un angolino del suo cuore, avesse sperato per più di un momento, che quella povera ragazza non si fosse mai più risvegliata dal suo sonno.
Era una domanda che andava a toccare le ferite ancora fresche di Konstantin, «Non te ne devi preoccupare, non verrà a reclamare il suo nome.»

«Chi mi dà questa certezza?»

«La certezza sta nel fatto che, da contratto, continui a versare una percentuale di denaro all’agenzia che hai contattato. Non è tra i loro interessi che ti faccia scoprire o perda la posizione.»

«Tu ne fai parte, come potrei crederti?»

«Infatti, non devi. Il mio compito è proprio assicurarmi che non accada nulla di tutto ciò, sono solo un cane da guardia, non ho controllo su tutto questo» concluse con una nota di amarezza.

«Se tu avessi il controllo invece, cosa faresti?» Clarke voleva metterlo alle strette e ci stava riuscendo perché l’uomo scosse la testa alzando le mani in aria,

«Nono sono venuto qui per questo. Forse è stato uno sbaglio venire stasera» si volse in direzione dell’uscita intento ad andarsene.

«Cosa fai? Scappi?» gli urlò dietro, «Come puoi chiedermi di crederti se è questa la tua reazione? Non pensi che anche io meriti una risposta? Cerca di darmi un motivo per fidarmi di te.»

Konstantin fermò i suoi passi e cercò gli occhi di Clarke, un momento quasi interminabile, «Vuoi sapere cosa farei? Ti avrei detto che tutto ciò non è la risposta ai tuoi problemi, che la vita è molto più che una categoria in cui essere classificati, ti avrei detto che sei giovane e hai la vita davanti, ti avrei detto
di essere felice per quello che hai e vivere in serenità… con le persone che ami.»

«Non hai letto il mio file? Dovresti sapere che non mi è rimasto più nessuno.»

«Sei sicura di quello che dici?»

Gli occhi di Clarke erano diventati ostili, due fessure, «Ho detto che non ho più nessuno» sibilò, «Cosa ne puoi sapere Konstantin, se è davvero questo il tuo nome, di come sia stata la mia vita e di cosa non abbia fatto per arrivare fin qui? Persone perfette come voi cosa potranno mai sapere?»

«Siamo più simili di quanto credi, Clarke» era la prima volta che Clarke sentiva l’uomo chiamarla per nome, per un momento rimase sorpresa.

«Lo trovo difficile da credere.»

«Io non sono come Sam…» il silenziò calò, riempito solo dal ticchettio dell’orologio che era scomparso durante tutta la discussione, «Sono come te, Clarke. Imperfetto.»

Quella confessione improvvisa aveva fatto zittire la ragazza, forse era anche la prima volta che l’uomo diceva qualcosa riguardo sé stesso.

«Tu dici che non capisco, ma capisco meglio di tutti quello che si prova a non rientrare tra i perfetti, non esserlo è come un’ombra che certe volte ti inghiottisce, ma a me non importava, finché c’era Sam… la mia vita era piena con la mia famiglia. Avrei barattato tutto di me per salvarla, ma ironicamente, vale di più una ragazza morta di me.»

«Ti sei appena risposto, è questa la differenza tra noi. Non siamo uguali.»
 
 


 
 


Un leggero mal di testa aveva accompagnato il suo risveglio quel giorno. Il cielo era ancora buio quando Clarke si alzò e avvolse in un morbido cardigan di lana sui suoi vestiti stropicciati. Passando da una stanza all’altra si accorse che la luce era rimasta accesa tutta la notte, un piccolo conforto nel mattino ancora addormentato.
La sera prima, dopo che Kostantin era andato via, era stata a lungo seduta tra quelle quattro mura a finire la bottiglia, ma anche tra i fumi dell’alcol non poteva fare a meno di ripensare alla discussione avuta.
Quella mattina sentiva tutto quanto troppo pesante, complice la nottata insonne che aveva avuto probabilmente. Il sonno era stato così disturbato e agitato che si sentiva meno riposata di quando era andata a letto. 
Poteva avvertire la stanchezza del posto di lavoro con i suoi miti e riti sempre uguali e infrangibili: il risveglio, l’ingresso, la timbratura del badge, il pranzo, il caffè con i colleghi, i rapporti, gli aggiornamenti, le scartoffie e così dicendo.
Regole, procedure, processi. Avrebbe voluto solo non essere mai uscita dal letto quel giorno.

«Wow, ti sei data alla pazza gioia ieri? Hai una pessima cera» esclamò Bellamy appoggiandosi alla sua scrivania.

«Mi hai appena data della brutta?»

«Se lo fossi non ti avrei invitata ad uscire» rispose beffardo.

«Ma tu non mi hai invitata ad uscire.»

«Esatto» rise scherzosamente.

«Siamo simpatici stamattina, ti è capitato qualcosa di bello?»

«Bella no, ma brutta sì.»

Clarke fece una finta smorfia e cercò di tirare una gomitata al ragazzo, «Sei pessimo, Blake. È molto più carina tua sorella, lei sì che è una dolce ragazza.»

«Ma se non vi parlate nemmeno.»

«Esattamente».

Il ragazzo scosse la testa divertito, Clarke si alzò dalla sua scrivania e si voltò nella sua direzione «Senti, andiamo a prenderci un caffè. Se non fossi arrivato tu a darmi fastidio credo mi sarei addormentata sulla scrivania.»

«Quindi ti ho salvata.»

«Piuttosto mi hai disturbata.»

«Non importa se bene o male, l’importante è che se ne parli» affermò convinto.

«Ma non hai qualcun altro da tormentare?»

«Sì ma ora ho voglia di un caffè quindi devo per forza fare il tuo stesso tragitto.»

In caffetteria c’era un brusio assordante, affollata com’era dai dipendenti del complesso.
Era l’orario di punta dopotutto, nonostante fosse passata l’ora di pranzo, molti si fermavano a fare quattro chiacchiere con colleghi e conoscenti, un marasma di vita.

«Tu hai già mangiato?» chiese Bellamy.

«Sì, ho pranzato con Raven prima che finisse tutto. Ogni tanto mi fa piacere evitare la folla.»

Bellamy diede una veloce occhiata a cosa ci fosse da mangiare ma non c’era nulla che gli sembrasse invitante. Rimase sull’idea iniziale e optò per un caffè insieme a Clarke.
Lei vide che lo sguardo del ragazzo aveva vagato per un momento tra i piatti rimasti, «Non hai ancora pranzato?»

«No, ma non c’è niente che mi attiri. Rimango per un caffè.»
Clarke tornò con due bicchieri in mano ma, prima che i suoi riflessi potessero salvarla, una donna le piombò addosso, dandole una spallata.
Il liquido di uno dei due bicchieri si versò per terra mentre man mano la macchia si espandeva sul pavimento.

«Cazzo.»

«Mi scusi» disse una voce alterata. La donna aveva lo sguardo visibilmente nervoso, e come le era finita addosso, presto scomparve nella folla.

«Ma che modi sono questi?!» esclamò Bellamy, «Ma chi era quella pazza?»

«Una che aveva molta fretta direi» si chinò a pulire blandamente il disastro per terra, «Tieni, questo è per te. Io ne prendo un altro e ti raggiungo» guardò il pavimento «E magari avviso anche che devono pulire qui prima che qualcuno ci scivoli sopra.»

 Si diresse in direzione del bancone per ordinare un altro caffè, erano poche le persone che stavano lì. Avrebbe fatto in fretta almeno.

«Mi scusi, mi può fare un altro caffè?»

«Due, per favore» la voce corresse l’ordine di Clarke mentre si affacciava accanto alla ragazza.

«Lexa!»

«Spero non ti dispiaccia che mi sia aggiunta» disse, «Devo tornare subito al lavoro e non ho proprio tempo di fare la fila.»

«No, assolutamente. Se l’avessi saputo te ne avrei portato uno.»

Lexa le sorrise. Si scambiarono un veloce sguardo.
Il silenzio venne riempito dal vociare continuo delle persone, non avevano ancora avuto occasione di parlarsi dopo quello che era successo la scorsa notte. Chissà quanto di quella notte aveva sentito. E se così fosse cosa avrebbe fatto.
Le parole di Konstantin risuonavano nella sua testa, coprendo tutto il rumore di quella sala, si ripetevano insistentemente. Che le piacesse o meno l’uomo aveva ragione. Doveva assicurarsi che non trapelasse niente, doveva verificare se e quanto ne sapesse Lexa. Doveva scoprirlo.
Le bevande furono pronte pochi minuti dopo e Lexa non diede la possibilità di pagare a Clarke, era un ringraziamento per averle permesso di saltare la fila.

«Sei libera domani sera? Credo di doverti ancora un drink» scherzò, «devo ringraziarti ancora per ieri.»

«Sai, ho avuto modo di rifletterci. Non è molto professionale da parte mia uscire con un mio sottoposto.»

«Non ti sto chiedendo di sposarci, vorrei solo poterti ringraziare, Lexa» cercò di convincerla.

«Apprezzo il gesto ma-»

«Niente ma, senti ci penso io ok?»

Il suo sguardo vagò per un momento sul bicchiere che teneva in mano, «Domani sera non posso, sono libera solo il week end.»

«Conosco il posto perfetto.»

«Okay allora…» disse alla fine rassegnata, «e Sam… Fai in fretta e torna al lavoro, intesi?»

Clarke scattò sull’attenti, «Certo, capo.»
E con quello Lexa si congedò, sparendo verso l’uscita mentre si destreggiava ad evitare le persone che incontrava. La sua figura si muoveva con eleganza e sicurezza mentre il rumore dei tacchi accompagnava ogni suo passo, l’occhio veniva ipnotizzato della figura di spalle finché non scomparve dalla visuale.

«Da quando in qua siete amiche voi due?» la voce di Bellamy arrivò alle orecchie della ragazza.

«E tu da quanto tempo stavi ascoltando?» chiese di rimando.

«Da abbastanza direi, stavo venendo a dirti che non c’era posto qua dentro, dovremmo andare fuori.»

«Si ti prego, non riesco più a respirare qui.»

«Non mi hai detto da quando siete amiche voi due.»

«Perché non lo siamo.»

«Non mi sembrava, vi davate persino del tu» lo disse con un tono di fastidio.

«Ma perché stiamo parlando di questo?»

«Perché non dovremmo parlarne?»

«Perché sembra quasi che tu sia geloso, Bellamy.» gli disse compiaciuta, prima di dirigersi verso l’esterno.

Bellamy rise, «Stavo solo cercando di conversare, Sam.»
Era forse geloso? Forse semplicemente Sam aveva colpito nel segno. Se quella era gelosia, beh, quell’emozione proprio non gli piaceva. Era abbastanza facile per lui trovare qualcuno con cui soddisfare la propria libidine, dopotutto. Erano tante le donne che si sarebbero offerte a lui, ma Clarke non sembrava una di quelle, e questo un po' feriva il suo ego.
Si fermarono in una zona che dava l’enorme piazzale come vista, l’aria era frizzantina e rinfrescava i polmoni ad ogni respiro. Clarke si portò alla bocca la bevanda che aveva in mano, dopo tutto quel tran-tran finalmente poteva permettersi un momento di tranquillità per bere in santa pace. Prese un sorso.

«Dio, che schifo» una smorfia di disgusto apparve sul suo viso.

«Eh già, a volte mi chiedo anche io come possano chiamare questi biberoni caffè. Sembra sempre annacquata.»

«E ho perso pure tutto questo tempo per farmelo rifare. A saperlo stringevo la mano a quella che me l’ha buttato per terra e l’avrei ringraziata.»

«Conosco un posto dove fanno un caffè fantastico. Si trova non troppo lontano da qui, dovremmo andarci qualche volta.»

Alzò un sopracciglio e lo stuzzicò, «Bellamy Blake, mi stai forse invitando ad uscire con te? Non mi hai dato della brutta giusto mezz’ora fa?»

«Infatti, non ti sto invitando fuori. Voglio far conoscere a una mia amica un posto dove bere caffè decente senza avere conati» le sorrise con una certa complicità, «Che ne dici quindi?»

«Ti lascio con il dubbio, devo tornare al lavoro. Siamo stati anche per troppo tempo qui fuori.»

«Ora che Lexa è tua amica possiamo anche fare tardi, no?»

«Hai il coraggio di provarci?» gli chiese sfidandolo.

«Credo di no. Quella donna mi metti in soggezione, è sempre così stronza, credo di non esserle simpatico. Meglio che torniamo dentro, mi stanno aspettando in laboratorio.»

 
 

 




 
«Quindi anche voi esseri perfetti vi aggirate nei bassifondi. Pensavo fosse un vizio solo della tua amica.»

Due occhi, quasi rettiliani, la fissavano mentre le mani erano occupate a lucidare un boccale. Murphy, era questo il suo nome se non ricordava male, capelli tirati e camicia nera, stava dietro al balcone proprio come l’altra volta.

«Chi ti dice che sia una di loro?»

«Chi ti dice che sia scemo?»

Clarke rise.

«Non si risponde a una domanda con un’altra domanda» lo ammonì.

«Mi dispiace principessa ma qui è già tanto se ti rispondono.»

«Toglimi una curiosità, che ci fa Raven con uno come te?»

Murphy la guardò con un sopracciglio alzato.

«Ci stai provando con me, biondina?» le chiese divertito.

Forse aveva capito perché Raven amava passare il tempo nel pub di Murphy, il sarcasmo tagliente del barista era una boccata d’aria fresca nelle noiose giornate passate in mezzo ai colleghi.

«Meno chiacchiere e più alcool, grazie.»

«Sai, potrei farti la stessa domanda. Che ci fai con una come Raven? Hai l’aria di una che ha la puzza sotto il naso» concluse mentre le versava un drink nel bicchiere.

«Non sai quanto ti sbagli, amico mio.»

«Beh ti sei appena sbagliata, non sono tuo amico.»

«Sei sulla strada giusta per perdere una cliente, lo sai?»

Murphy si stava divertendo in quel battibecco, alzò le mani in segno di resa, «Offre la casa questo giro» e scomparve dalla vista di Clarke, impegnato a servire altri clienti che stavano iniziando a popolare il locale.
Mentre si portava il boccale alle labbra, soltanto un tremito quasi impercettibile della mano rivelò la sua sorpresa per quella voce profonda che si era levata alle sue spalle, «Buonasera.»

«Eccoti Lexa!» si girò alle sue spalle, «Spero che tu non abbia avuto difficoltà a trovare il posto.»

Lexa presto si sedette al balcone insieme a Clarke e prima ancora che ordinasse, Murphy le porse un cocktail davanti.

«Spero non ti dispiaccia, ho ordinato un giro anche per te. Il barman ha detto che i cocktail con l’ombrellino piacciono a tutti quanti. C’era anche la variante con la bandierina ma mi sembri più tipo da ombrellino.»

«Molto scenografico.»

«Mi fa piacere che ti piaccia.»

Lexa prese un sorso e il sapore fruttato le riempì la bocca. Aveva ragione in effetti, non era affatto male. Doveva farsi dire il nome del cocktail prima di andarsene.

«Come conosci questo posto? C’è un’atmosfera molto… originale qui» lo disse con poca convinzione.

«Me l’hanno fatto conoscere alcuni amici. C’è sempre un’aria molto interessante in questo posto e inoltre è un locale che difficilmente i nostri colleghi frequenterebbero» ripensò a Raven, «In teoria.»

Se Lexa era preoccupata che sarebbe stato poco professionale farsi vedere in giro insieme allora se nessuno le avesse viste, il problema non sussisteva.

«Come sta tuo zio?» chiese a bruciapelo, quasi disinteressata mentre giocherellava con la cannuccia.

Clarke non si lasciò sorprendere da quella domanda, anzi, se lo aspettava «Sta bene, grazie. È dovuto andare via subito dopo. Emergenza di lavoro.»
Quando sapeva realmente Lexa di quella sera?

«Purtroppo, quando il lavoro chiama bisogna rispondere. A proposito, che lavoro fa?»

«Non mi parla mai del suo lavoro, preferisce lasciare le questioni di lavoro al lavoro. Mi pare abbia un impiego in un’azienda, ma lo riempiono di mansioni e lo caricano di cose da fare.»

«Capisco, è un vero peccato. L’altra notte mi sembrava davvero arrabbiato quando sei tornata a casa.»

«A tal proposito, volevo chiedere scusa per l’accaduto. Era venuto a trovarmi e non mi ha trovata, si era preoccupato.»

«E ha pensato bene di aspettarti al buio in casa.»

«Sì, potrebbe sembrare strano ma-»

«Non sembrava strano. È strano» stava testando Clarke, il tono quasi fosse una battuta ma gli occhi erano indagatori.

Quella conversazione stava andando nella direzione più sbagliata possibile ma almeno Clarke ora aveva la certezza che a Lexa quella notte qualcosa non era quadrato. Doveva rimediare prima che potesse scavare ancora più a fondo. Doveva farlo al più presto possibile.
Serviva solo una versione credibile.

«Mio zio è piuttosto strano e ha modi molto insoliti nel fare le cose. A volte non può fare a meno di essere inquietante e spaventare tutti» cercò di ridere e sembrare più naturale possibile, «Da piccola mi spaventavano le sue visite, dicevo sempre ai miei genitori che mi metteva paura e piangevo ogni volta che lo vedevo» il suo sguardo si perse come se stesse avendo un flashback di quei giorni, ormai passati. Lexa la ascoltava raccontare di quei piccoli momenti d’infanzia, mentre con la coda dell’occhio cercava di scrutare le sue reazioni.

«E quindi-»

«Sam!» una voce fece girare entrambe.

Il tempismo, quello perfetto, a volte è capriccioso e può cambiare la vita delle persone, letteralmente. In quell’occasione, se fosse esistito un premio per il tempismo, Clarke gliel’avrebbe conferito con tutti gli onori.

«Raven!»

La ragazza si stava facendo largo tra gli altri presenti del locale, in una mano teneva un drink mentre con l’altra cercava di salutare agitandola sopra la testa. Si avvicinava tenendo gli occhi fissi sull’amica, probabilmente non aveva notato la presenza della compagnia con cui era.

«Che sorpresa, Sam! Perché non mi hai detto che eri qui?»

Clarke non riuscì a trattenere un sorriso, «Raven! Che bello vederti» e lo pensava per davvero, «Come mai anche tu qui?»

«Ma che domande» alzò poi la mano dove teneva la bevanda, «Quello per cui sei qui anche tu no? E inoltre non sarei una brava fidanzata se non ti tenessi d’occhio, ho saputo che oggi qualcuno ti ha chiesto di prendere un caffè , eh» disse con un tocco di malizia verso l’allusione.

Lexa si schiarì la gola attirando l’attenzione di entrambe, «Buonasera, Reyes.»
Raven girò verso l’altra figura, le ci volle un momento per realizzare chi fosse di fronte a lei, «B-Buonasera, signorina Woods. Che cosa- che bella coincidenza.» era piuttosto disorientata, aggrottò le sopracciglia con un’espressione perplessa, «Anche lei qua. Seduta accanto a Sam. Mh…» solo allora ipotizzò che probabilmente le donne erano venute insieme, «Ehm... forse ho disturbato, mi stanno aspettando. Dovrei proprio andare, vi auguro buon proseguimento» disse infine imbarazzata.
Nel mentre, a Clarke balenò in testa un’idea. Forse la risposta a tutti i sospetti di Lexa era davanti ai suoi occhi.
Raven.

«No, Raven. Per favore, resta.» si spostò in direzione dell’amica e dolcemente le prese per il polso, un gesto che la bruna notò subito come inconsueta, «Lexa, credo sia inutile nasconderlo adesso» prese un sospiro e lo disse tutto d’un fiato, «Io e lei stiamo insieme.»

Raven non stava capendo più niente di tutto quello che le stava accadendo attorno, forse era la musica assordante che le comprometteva l’udito e la comprensione delle cose dette ma aveva giurato di aver sentito Sam che affermava davanti al loro capo che intrattenevano una relazione insieme.

«Noi due, cosa?» chiese perplessa.

Lexa era perplessa quanto Raven, perché Sam le stava dicendo una cosa del genere? E da quanto andava avanti la loro storia? Non aveva notato mai nulla che potesse indicare un legame sentimentale tra le due, eppure era quello che le stava dicendo.
Fece mente locale e ripensò a quelle piccole cose e gesti che aveva sempre visto e che avrebbero potuto essere cariche di sentimento tra quelle due ragazze. Alla fine, le vere risposte, come le vere domande, non sono fatte di parole: sono fatte di azioni, di gesti, di atti, di opere in cui possono anche essere compresse le parole e i significati più profondi.
Da qualche parte dentro di lei, c’era qualcosa che le dava fastidio di quella confessione.

«Sì, era un segreto che volevamo tenere per noi, anche per evitare situazioni spiacevoli sul lavoro, ma credo di dovertelo confessare per poterti spiegare come stanno le cose» affermò guardando l’amica, con i suoi occhi azzurri cercava di chiederle un segno di complicità, «Mio zio, purtroppo non approva tutto ciò e… non avendo mai incontrato Raven, ti ha scambiata per lei. Sono davvero desolata che si sia comportato in quel modo irrispettoso.»

«Sì, lo zio di Sam è molto conservatore ed è sempre stato molto restìo ad accettare la nostra relazione» ammise complice, «È davvero dura per Sam» concluse portandosi la mano sugli occhi, come presa da un momento di emozione, «Per noi.»
Il segreto era trovare una versione credibile e aggiungere quel tocco di ingiustizia e sentimentalismo, atto a scuotere l’empatia delle persone.
Clarke rimase stupita di come Raven fosse entrata immediatamente nella parte, senza nemmeno tante spiegazioni. Non era brava solo con la meccanica, fisica e quant’altro, era una vera maestra anche nella recitazione. Se non fosse stata lei l’altra bugiarda, sarebbe stata ingannata dalle sue parole.

«Mi spiace molto per la vostra situazione» disse Lexa, si sentiva a disagio per come si erano messe le cose. Un senso di colpa iniziò a pervaderla, le dispiaceva davvero per quello che dovevano vivere, aveva anche messo Sam in una posizione difficile. I suoi sospetti l’avevano costretta a venire allo scoperto, dopotutto non erano affari suoi.

«Lexa non potevi saperlo, mi vorrei solo scusare per il disagio e tutta la situazione surreale che si era creata. Oltre al passaggio, vorrei ringraziarti anche per la tua pazienza e comprensione.»

«Se ti serviva un passaggio potevi chiamarmi sai?» si intromise la sua presunta ragazza, «Non c’è bisogno che ti dica che puoi chiamarmi in qualunque momento.»

La serata continuò così, leggera e scorrevole. Dopo un primo momento di disorientamento, Raven aveva iniziato a divertirsi a sguazzare in quella situazione. Forse fin troppo. Ci stava prendendo la mano.

«Da quanto tempo state insieme?»

«Da poco tempo in realtà, ma Sam mi veniva dietro già da molto» rispose Raven, «Mi ha confessato che si struggeva per me.»

«Sì, ma non scendiamo in questi dettagli imbarazzanti» cercava Clarke di salvare almeno un po' della sua dignità.

Probabilmente era una delle serate più inusuali e divertenti a cui aveva mai partecipato ultimamente, non capitava tutti i giorni di bere con il proprio superiore e ubriacarlo a furia di alcool e frottole.
Quell’incontro inaspettato aveva ribaltato tutta la situazione, poteva considerarsi un incontro molto pasticciato ma di fatto aveva cambiato la situazione. Durante il corso della serata l’atmosfera si era allentata e la spigliata Raven era riuscita con le sue risposte a confermare quella nuova verità, a cui Lexa sembrava ormai essersi abituata.




 

 
 

Ciao, scusate per il ritardo. Da una parte per i vari impegni, dall'altra ho voluto rifare tutta la presentazione dei vari capitoli e ammetto di aver perso un pò di tempo.
​Dovrebbe risultare più semplice e fluido 
da leggere ora. 
Per quanto riguarda la storia spero che non vi stiate annoiando, la narrazione sta procedendo un pò lentina perchè vorrei andare per gradi. Fatemi sapere cosa ne pensate. 

Un abbraccio °u°

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Capitolo 8
*** VII. Imprevisto ***


VII





«Normalmente ti direi che non mi devi nessuna spiegazione perché siamo adulti, ma qui mi obblighi a fare la ficcanaso e chiedertelo» si girò verso Clarke, «Allora da dove vogliamo incominciare?»

«Da dove posso iniziare…» ripeté.

Ad essere sincera, non le andava di proprio di spiegare nulla ma la scelta era stata obbligata tra il minor male, e quello era Raven.

Da dove poteva iniziare? Si poteva iniziare da qualunque parte e procedere da lì per arrivare al cuore della questione. Alla fine, ogni cosa è connessa, ogni cosa è legata, ognuna inevitabilmente conduce all’altra.

Di fatto non importava da dove iniziasse a spiegare dato che aveva mentito spudoratamente dall’inizio fino alla fine.

Le passò un braccio sulle spalle ridacchiando, «Sai che alla tua fidanzata puoi dire tutto, ora che la terza incomoda ha levato le tende, puoi raccontarmi tutti i tuoi più oscuri segreti» le fece un occhiolino, «Magari inizia nel dirmi qualcosa che non so» le sorrise Raven.

Risero.

«Ho un cane… ogni tanto» disse girando lo sguardo, quasi dubitasse lei stessa di quell’affermazione.

«Questa sera sei piena di sorprese. Mi piace».

Clarke ordinò un altro giro nel frattempo.

«Raven, grazie mille per avermi coperta con Lexa. Tra l’altro sei stata fenomenale, se fallisci nel campo aerospaziale datti alla recitazione.»

«Ehi, non spostiamo l’attenzione su di me, i riflettori sono tutti puntati su di te stasera. Hai per caso avuto una tresca con Lexa? La stessa Lexa rompicoglioni Woods, che uccide tutti con lo sguardo al lavoro?» sottolineò l’ultima parte, «Fammi sognare con i vostri drammi.»

Clarke con disinvoltura disse, «Abbiamo avuto una super tresca al lavoro, ora è innamorata pazza di me e io cerco di scaricarla senza ferirla.»

«Davvero???» era rimasta a bocca aperta a mezz’aria. Sopracciglia alzate, lo sguardo incredulo dalla sorpresa.

«Ma certo che no. Cercavo di darti dramma» fece spallucce mentre prendeva un sorso, «Un paio di giorni fa è capitato che ero a passeggio e senza volerlo sono finita all’AMI-»

«L’AMI?» chiese perplessa, interrompendo.

«No, non la amo. La trovo una bella donna, ha uno sguardo davvero magnetico, per non parlare dei suoi maledetti bellissimi capelli sempre perfetti» i suoi occhi si persero un momento nel vuoto mentre cercava di ricordare mentalmente la morbidezza che suscitava quella chioma insieme al quel taglio verde che le caratterizzava lo sguardo, «L’hai mai notato?»

Raven la guardava con un sopracciglio alzato, «Sam, mi riferivo alla sede, non volevo sapere quanto sbavassi dietro Lexa. E no, non ho mai fissato così a lungo Lexa da notare l’intensità dei suoi occhi o… i suoi fantastici capelli perfetti» concluse scimmiottando le ultime parole che aveva detto l’amica.

«Io non sbavo dietro Lexa» rispose corrucciata.

«Se ti fossi vista mentre lo dicevi non mi risponderesti così»

«Ha ragione» intervenne la voce di Murphy, mentre ripuliva un tavolo adiacente alle due ragazze.

Si era fatto molto tardi e il locale aveva iniziato a svuotarsi pian piano. Rimanevano piantati solamente ubriachi e veterani etilici, impegnati a bere e ridere come fossero solo alla prima birra. Murphy aveva già iniziato a pulire e riordinare il locale in attesa che gli ultimi clienti decidessero di concludere la serata per tornare a casa.

Senza nemmeno guardarlo, Raven gli urlò di smettere di origliare e tornare a lavorare.

Clarke ignorò i due e continuò con la spiegazione, «Tornando al discorso, quella sera ha incontrato il mio… tutore quando mi ha dato un passaggio a casa. Lui era molto arrabbiato perché avevamo avuto dei diverbi e quella notte era venuto a sistemare le cose, ma quando ha visto Lexa ha pensato che avessi ignorato tutte le cose che mi ha sempre detto di non fare.»

«Come portarti a casa il tuo capo? Non ha tutti i torti, potrebbe risultare piuttosto equivoco.»

«Qualcosa del genere…» sospirò, «Si preoccupa che potrei perdere il lavoro se fossi cacciata nei guai con i miei superiori» cercava di spiegarlo meglio, «Diciamo che, quando mi hanno assunta, non tutto quello che hanno saputo e sanno sul mio conto è vero, e se le cose andassero storte potrebbero essere guai molto seri. È complicato. Vorrei solo chiederti di fidarti di me» l’ultima frase lo disse con un filo di voce.

Clarke aveva optato per mentire anche a Raven, costruire un’altra versione di sé stessa da presentarle per giustificare quello in cui l’aveva trascinata, ma alla fine forse la versione più semplice e credibile era la verità stessa. Certo, con qualche piccola omissione e qualche dettaglio in meno.

Puoi ingannare poche persone per molto tempo, puoi ingannare tante persone per poco tempo, ma sicuramente non puoi ingannare tutti per sempre. La verità viene sempre a galla. Sempre. Tanto vale abbracciarla. Anche quando si mente a sé stessi, il cervello presto o tardi si ribella, inizia a comunicare, attraverso sintomi e disagi.

In un modo o nell’altro, la verità riesce ad emergere incondizionatamente, meglio anticiparlo fornendo una versione più vicina alla realtà possibile. Dopotutto, la verosimiglianza era qualcosa d’intermedio tra la verità e la bugia. Non le stava mentendo ma non si stava nemmeno esponendo completamente.

Ed infine, nessuno può ricordare alla perfezione le proprie menzogne se adeguatamente sollecitate e messe in discussione, e Raven non era certo stupida. Oltre a essere più facile da ricordare, per qualche ragione non voleva mentirle più dello stretto necessario.

«Beh», fu l’unica cosa che uscì inizialmente dalla bocca di Raven, «Sai, sono tante le cose che mi sto chiedendo in questo momento ma non te le porrò. Credo che tu abbia avuto le tue buone ragioni per fare ciò che hai fatto ma tutto è questione di equilibrio e così anche la bilancia tra verità e menzogna. Da amica ti vorrei raccomandare solo di stare molto attenta a quello che fai» le strinse le spalle con una mano, «E ovviamente quando vorrai potrai raccontarmi tutto quanto».

Clarke si allungò e abbraccio Raven, «Grazie.»

«Non fare la sentimentale, puoi sempre contare su di me, cosa ti aspettavi che ti dicessi eh?»

Di tutta quella serata forse quel Grazie era stata l’unica cosa vera e genuina, dall’inizio fino alla fine, che era uscita dalla bocca. La sua voce non era strozzata perché era commossa dalle parole di Raven ma lo era perché la disponibilità e gentilezza della ragazza avevano provocato in lei un fastidio.

Un senso che le risaliva dalle interiora e si aggrappava fino alla sua gola, un turbamento di energia negativa.

Senso di colpa probabilmente, perché sapeva che la ragazza seduta davanti a lei non si meritava un’amicizia basata sulla menzogna, eppure eccola lì che continuava a mentire e mentire pur di proteggersi.

Sotto una facciata di perfezione si nascondeva la sua paura di essere rifiutata o abbandonata per quello che era. Un gesto poco coraggioso nonostante le scelte “coraggiose” che aveva fatto.

Sentiva che se quella notte avesse raccontato tutto a Raven, questa l’avrebbe accettata lo stesso ma in fondo aveva solo avuto paura perché era una codarda. Paura di ferirsi, paura di ferirla. Paura.

La voce calma e calda di Raven interruppe i pensieri di Clarke mentre ancora la teneva quell’abbraccio, «Cambiando discorso, lo sai che mi hanno riammessa per la prossima missione nello spazio?».

«Cosa? Ma è fantastico!» l’abbraccio si sciolse mentre l’entusiasmo di Clarke prendeva il sopravvento, «E dimmi quando parti?»

«Tra un paio di giorni, hanno dei problemi con la stazione in orbita. Serve un ingegnere molto ingamba che si occupi della faccenda» continuò a elogiarsi mentre Clarke roteava gli occhi, «E tu che ti preoccupavi, te l’avevo detto che non mi avrebbero ripresa in un batter d’occhio. Non possono farcela senza di me» ridacchiò.

«Non montarti la testa ora. Un giorno di questi potresti scoprire che sono persino più ferrata di te in meccanica.»

«È una minaccia questa?»

«Hai forse paura?» la stuzzicò.

«Ti farò rimangiare tutto quanto» disse accettando quella amichevole velata sfida.



 


 

 

È incredibile come alle volte le cose accadano. Ci si ritrova in mezzo a persone e situazioni che mai si avrebbe immaginato, eppure quei giorni arrivano per tutti.

Come semplici fantocci guidati dal caso, ci si ritrova con le gambe all’aria tra le stelle, e si ha soltanto il tempo di dire Wow, mentre il mondo che si è sempre avuto alle spalle scompare.
Basta un attimo, un solo sguardo, un solo istante e un’intera vita cambia, per sempre.

Non è mai facile tirare fuori dal nulla un inizio. I romantici amano il finale, il finale che in qualunque modo andasse a finire lasciava sempre un vuoto dentro e un senso di desolazione. Ma l’inizio, l’inizio è sempre un dramma, una parte da saltare o quanto meno da affidare al cieco destino. La strada però avanti, non si ferma. E alla fine siamo noi a inseguirla, non tanto per giungere alla meta, semplicemente per andare avanti, perché quel che conta realmente non è l’inizio né tantomeno la fine del viaggio, ma i singoli passi e le emozioni che ne accendono l’anima.

Era una mattina come tutte le altre. Il solo faceva fatica ad alzarsi, mentre Lexa si rigirava sudata fra le lenzuola bianche.

Una luce pallida s’insinuava nelle fessure della persiana riflettendo strane figure sul pavimento freddo, mentre il soffitto, squarciato dai sogni, restava muto a fissarla.

Aveva passato tutta la notte in compagnia dei suoi pensieri e, come capitava spesso, l’alba non aveva fatto che amplificare quelle preoccupazioni riciclate.

Si mise a sedere con un peso sul petto e il fiato smorzato, come se avesse corso per tutta la notte appresso al passato, e dentro di sé si diceva che aveva esagerato notte passata e avrebbe sicuramente smesso ma neanche il tempo di mettere un piede per terra e già aveva un’altra cartella tra le mani. «Non farò più notte in bianco a lavorare».

Purtroppo, la verità era che ogni singolo giorno c’era un motivo per non smettere, c’era sempre qualcosa da controllare e sistemare. Doveva e continuava a farlo.

Era brava in quello che faceva e lo faceva meglio degli altri. Il suo vantaggio comparato.

Era come se fosse nata per essere lì, per svolgere quel ruolo ed essere parte di quella grande macchina che era il sistema.

Un ingranaggio perfetto.

Quel giorno era un giorno come tutti gli altri, o avrebbe dovuto esserlo.

Era il giorno del grande lancio, grande per dire, perché sarebbe stato il lancio di una semplice missione di 2 giorni – seppur quei due giorni avrebbero pesato sulla bilancia della vita più di qualunque altro giorno già trascorso, e senza saperlo, avrebbe segnato una sorta di spartiacque fra ciò che era stato e ciò che sarebbe stato.

Quella mattina la radio parlava di un accoltellamento da qualche parte in qualche lontana città, la notizia non stupì minimamente la donna al volante.

La vita era una continua battaglia e purtroppo c’era chi perdeva. Non possono esserci vincitori senza vinti e purtroppo, a volte i vinti uscivano di scena nella maniera più ingiusta e tragica possibile.

La parola giustizia aveva mutato il suo significato nel corso degli anni, o forse era sempre stato quello, alla fine dei conti la giustizia era la legge di chi deteneva in pugno tutto quanto.

Spesso si chiedeva perché lei era nata per fare quello che faceva, era sempre stata dalla parte del giusto nel concetto più relativo del termine, ma non per questo le piaceva quella giustizia.

C’erano state volte che si chiedeva come sarebbe stato essere qualcun’altro, non dovere più essere quello che tutti si aspettavano che fosse. Non dover più fare quello che tutti aspettavano che facesse.

Forse tra la scelta di essere o non essere, dovere o fare, lei voleva semplicemente capire.

«Buongiorno Lexa» disse un uomo con un camice bianco e una cartella in mano, «Abbiamo ricevuto l’aggiornamento dello schema di lancio che ci hai mandato. È tutto pronto, stiamo ultimando gli ultimi preparativi.»

«Molto bene, grazie.»

Quel giorno, come tanti altri, tutti i membri dell’equipe sedevano alla lunga scrivania intenti a trafficare con i loro sofisticati calcoli ai computer. Lavoravano insieme e ognuno per conto suo, per occuparsi di un aspetto o un altro del lancio imminente.

I preparativi procedettero senza intoppi e presto una grande nuvola bianca avvolse interamente la rampa di lancio.

Il razzo iniziò la sua salita verso il cielo.

Lo schermo luminoso si focalizzava sul punto più alto della rampa, si vedeva il razzo passare rapidamente. La luce accecante generata dai potenti motori, non permettava di distinguere la parte sottostante che veniva avvolta da un’immensa nuvola di fumo mentre il razzo passava dentro le nuvole nel cielo.

«Grandi!»

«Evviva!»

Mentre il vociare per la riuscita del lancio alimentava la sala, Lexa si diresse verso l’esterno.

Una volta che osservi così tante volte la stessa identica cosa, perde il suo fascino naturale ma più tra tutte essa resuscitava un ricordo che cercava di lasciarsi alle spalle da troppo tempo.

La vista di una schiena ricurva, braccia incrociate e la testa rivolta verso l’alto catturò la sua attenzione.

«Se andavi nella sala di controllo potevi vedere meglio il lancio» disse mentre si avvicinava alla figura affacciata.

«Lexa, anche tu qua» rispose sorpresa Clarke.

«Avevo bisogno di una boccata d’aria fresca, è stata una giornata intensa» il suo sguardo si posò sul profilo della ragazza davanti a lei, mentre quest’ultima era come ipnotizzata da quella scia che pian piano scompariva nel cielo, «Lavori qui già da un bel po', non ti sei ancora stancata di vedere i lanci?»

«Ogni lancio è diverso, e non credo mi stancherò mai di guardarli» i suoi occhi brillarono per un momento, «Per tutta la vita li ho visti solo dietro un piccolo schermo, ora finalmente li posso vedere ogni volta che ci sono, dal vivo. Tutto questo rende sempre più vero il giorno in cui anche io sarò lassù.»

«Perché vuoi andarci? Non c’è niente lì» chiese, quasi con una nota di tristezza.

Clarke prese un momento per pensarci, «Molte volte mi hanno chiesto quale fosse il motivo e io ho sempre risposto che è stato da sempre il mio sogno fin da quando ero bambina» fece una pausa, «Ma la verità probabilmente è che lì puoi dimenticarti di chi sei.»

Partire per lo spazio era un po' come sparire, il nome della persona veniva anagraficamente sospeso, ufficialmente non risultava nemmeno partita ma nella pratica era sparita dalla terra.

Sulla terra ma irraggiungibile. Era lo strano e primitivo modo in cui si metteva rimedio al vuoto legislativo in materia di spazio.

Lexa aggrottò le sopracciglia davanti a una risposta tanto criptica, «Non ti piace essere chi sei, Sam?»

Clarke ridacchiò, le si formò un nodo in gola al pensiero di averle confidato quella mezza verità che metteva a nudo sprazzi del suo io, «Scusami Lexa, era solo una riflessione fuori luogo. Con tutte le cose che sono accadute, sono solo sovrappensiero.»

Una mano calda si posò sul braccio di Clarke, stringendolo delicatamente. «Anche Reyes era nel lancio di oggi. Le comunicazioni sono sempre attive nella sala di controllo, puoi seguire i suoi aggiornamenti da lì.»

«A-ah sì, certamente. Grazie Lexa» il tocco inaspettato della donna accanto a lei l’aveva colta alla sprovvista. Un battito le saltò alla gola.

«Ci tieni molto a lei» lo disse quasi più per sé stessa che per Clarke, «E lei tiene a te»

Onestamente, Lexa non sapeva nemmeno cosa stesse dicendo o perché lo stesse dicendo. Non le doveva riguardare cosa facesse o chi frequentasse Sam, ma stranamente le importava.

C’era una nota di fastidio in tutta quella situazione, aveva iniziato a rendersi conto che nutriva forse dell’affetto per Sam. Ma non aveva sempre imparato che i sentimenti erano meglio tenerli incatenati da qualche parte, così in profondità nel suo cuore da poter convincere persino sé stessa che cose simili non esistessero?

Eppure c’era qualcosa di quella ragazza che l’attirava a sé, sembrava diversa e sfuggente e la luce dei suoi occhi, che cercavano ogni volta le stelle più luminose, erano più determinate di qualunque altro sguardo avesse mai visto.

L’ultima frase di Lexa non sfuggì alla sua interlocutrice, per un istante sentì l’impulso di dirle la verità, di smettere di fingere e abbandonare la sua maschera ma tacque.

Aveva lavorato troppo duramente per abbandonare tutto ora.

«Lexa, io-»

Un flebile boato si sentì nell’aria in contemporanea a dei veloci passi che si facevano sempre più vicini. «Dottoressa Woods! Venga subito, abbiamo avuto un problema!»

L’attenzione di Lexa si diresse subito verso l’uomo con il camice bianco che affannosamente la stava chiamando appoggiato all’entrata. Corse subito incontro all’uomo, sperando che non fosse niente di grave.

«Dmitri, dimmi cosa succede?»

«Il lancio è fallito! Pochi minuti dopo la partenza abbiamo rilevato un problema ai propulsori. La navicella ha subìto un arresto dei motori ed 'è andato in stato di emergenza”

Una mano prese il polso di Lexa, «Lexa, che succede?» gli occhi visiblmente preoccupati, non aveva potuto fare a meno di sentire parole come lancio fallito ed emergenza.

«Scusami Sam, devo andare» scostò il braccio e la lasciò lì.

Si diressero in fretta nella sala di controllo, dove pochi minuti prima si sentivano solo frasi entusiaste, adesso regnava il caos più assoluto.

«Che n’è dell’equipaggio a bordo?» chiese preoccupata mentre si metteva una mano tra i capelli, «Ho detto che ne è stato dell’equipaggio!»

Una donna seduta accanto a lei rispose al posto di Dmitri, «Abbiamo perso i contatti quando hanno iniziato la discesa balistica. Forse i contatti si sono danneggiati nell’esplosione di uno dei motori.»

Perfetto. Praticamente il suo equipaggio era caduto dal cielo come una pera cotta, schiacciata dalla forza di gravità in seguito a un’esplosione. Nella migliore delle ipotesi Reyes e Richards erano disperi e feriti, nella peggiore...beh non voleva nemmeno pensarci. Oltre a tutto l’iter burocratico per chiudere la faccenda avrebbe dovuto pure occuparsi dell’ondata dei mass media. Lo sciacallaggio giornalistico era sempre un tema molto caldo.

«Secondo gli ultimi segnali satellitari, l’astronave deve essere caduta nell’oceano atlantico settentrionale. Abbiamo le coordinate»

«Che diavolo aspettate? Mandate una squadra di recupero, adesso!» gridò Lexa, «Voglio un resoconto dettagliato di tutti i controlli degli ingegneri al più presto.»

Doveva occuparsi della faccenda personalmente, con l’equipaggio disperso in mare e senza contatti, non sapeva nemmeno l’entità dei danni. Velocemente si diresse in mezzo a quei lunghi corridoi, doveva andare subito sul luogo dell’impatto.

A un certo punto la vide e non potè fare ameno di chiamarla «Sam! Vieni con me, si tratta di Reyes.»

«Lexa, cosa è successo al lancio?» le sue iridi azzurre la scrutavano preoccupate della risposta che avrebbe ricevuto.

Lexa non sapeva come dirglielo nel modo migliore, Raven poteva essere o dispersa o morta, o semplicemente morta dispersa.

«Forza andiamo.»


 





Come previsto i giorni successivi furono un inferno in mezzo alla stampa. La ricerca fu più difficile del previsto, i danni ai motori erano stati ingenti e l’impatto con la superficie dell’acqua non aiutò affatto. In pochi attimi la struttura interna della navicella era allagata e affondò in fretta, inghiottita dalle profondità marine.

Raven e Mike dovettero appoggiarsi a superfici di fortuna, staccatesi dalla navicella, per rimanere a galla. Inutile dire che furono in balìa delle correnti, erano come pupazzi nelle mani del destino.

I soccorritori ci misero un paio di giorni a ritrovarli. Disidratati e gravemente feriti, ma almeno erano vivi.

Entrambi furono ricoverati urgentemente nella sede dell’ospedale militare.

Clarke osservava attraverso il vetro il viso sereno e quieto di Raven. Qualche ciocca di capelli spuntavano indomati dalla leggera fasciatura sulla fronte. Una gamba ingessata, era davvero ridotta male.

Molti macchinari erano attaccati in un modo o nell’altro alla ragazza, mentre leggeri bip risuonavano entro le mura interne.

Da quando Raven era in quella stanza, Clarke aveva notato che spesso incrociava un ragazzo mentre veniva a trovarla, e anche quel giorno era lì.

«Ciao» disse Clarke, «Ho notato che ci incontriamo spesso. Sei un’amico di Raven?»

Il ragazzo le sorrise imbarazzato, «Piacere, mi chiamo Kyle. Sono un’amico di Raven, spesso lavoriamo insieme nella sezione di ingegneria.»

«È ingamba»

Una risposta infelice che fece voltare Kyle.

Fortunatamente il ragazzo ignorò la cosa, «Sì, non c’è persona più ferrata di lei in queste cose» ammise tristemente, «E tu sei...Anya!»

Una risata le risalì in gola, «No, non sono affatto Anya» la fantomatica storia con Anya non aveva proprio risparmiato nessuno, «Sono Sam, della sezione spaziale. Ma in realtà scaldo solo le scrivanie dell’ufficio» scherzò, «Raven non mi aveva mai parlato di te.»

«Voleva tenermi tutto per sè» rispose scherzando, ma l’ironia aveva lasciato la ragazza confusa. Possibile che Raven frequentasse questo tipo? «Non fraintendermi, sono solo un amico. Mi ha respinto tante volte perché è già impegnata con questa Anya, vedendoti spesso qui pensavo fossi tu. Ti prego non dirglielo se la conosci, mi ha detto che sa picchiare forte.»

Clarke rise tra sé e sé, pensò che aveva proprio ragione, Raven più di chiunque altro si divertiva ad alimentare questa storia per tenere lontani gli inconvenienti. Si lamentava per il puro gusto di farlo ma poi era la prima a farne le veci. «Tranquillo non le dirò niente»

Kyle si scostò come se fosse intimorito improvvisamente, imbarazzato si congedò in fretta. Il motivo era presto svelato.

«Come sta?» chiese Lexa.

«L'hanno messa in coma farmacologico. Inoltre non sanno i danni effettivi alla gamba fin quando non si sarà risvegliata.»

«Mi dispiace, se posso fare qualcosa...»

«Grazie Lexa»

Alla fine, l’unica cosa che sentì di fare fu di cingerla in un caldo abbraccio per cercare di alleviare quel momento «Starà bene vedrai.»

Clarke potè sentire tutto il calore della donna in quel gesto del tutto inaspettato, riusciva ad avvertire il piacevole solletichio del respiro di Lexa sul suo collo.

Un brivido le risalì fino alla nuca mentre il suo cuore iniziava ad accelerare più del dovuto.

Dopo un momento di sorpresa, si abbandonò in quel contatto tanto rassicurante e dolce, i suoi polmoni si riempirono della sensazione della foresta ogni volta che le sentiva davvero.

Quando il suo stomaco iniziò a contorcersi, le sue braccia scivolarono in automatico all'altezza della vita della donna. Fu un gesto che non sfuggì alla sua sensazione, il corpo di Lexa si irrigidì all’improvviso.

«Sam...»

La sua voce l’aveva risvagliata da quel momento. All'improvviso era di nuovo lì, si accorse di essersi lasciata troppo andare e di aver commesso un passo falso.

Sciolse immediatamente il contatto. Occhi verdi iniziarono a cercarla.

Clarke iniziò a farfugliare cose senza senso e prima che l’altra potesse ribattere era già sparita dalla sua vista. Mentre scappava via da quel posto, da quegli occhi, un unico pensiero di faceva perentorio nella sua testa: non poteva continuare così, doveva stare alla larga da Lexa.



 





Note: Probabilmente i capitoli non usciranno più a cadenza settimanale, purtroppo con la ripresa degli impegni di tutti i giorni dopo le vacanze, è difficile trovare sempre il tempo e rispettare la scadenza (⌣̩̩́_⌣̩̩̀) Cercherò comunque di aggiornare entro le 2 settimane o al più presto. Grazie per il vostro interesse, anche se non rispondo sempre ai commenti, li apprezzo tanto e me li leggo sempre. Un abbraccio * u*

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