Sguardi al futuro

di _astronaut_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Zweisamkeit ***
Capitolo 2: *** Autumn Leaves ***
Capitolo 3: *** Let's hurt tonight ***
Capitolo 4: *** Say something ***
Capitolo 5: *** Vite appese a un filo ***
Capitolo 6: *** Moonlight ***
Capitolo 7: *** Nuvole Bianche ***
Capitolo 8: *** Perfect ***



Capitolo 1
*** Zweisamkeit ***


PERSONAGGI: Steve + Bucky 
QUANDO: Subito dopo il ritorno sulla Terra
 
 
Zweisamkeit(*)
 
Era notte fonda: le nubi coprivano il cielo di New York, avvolgendo la città in una coltre scura e minacciando di rovesciare pioggia scrosciante, ma c’era una calma surreale che pervadeva l’intera metropoli, quasi come se la Grande Mela si stesse ancora riprendendo dallo shock delle perdite subite e dei ritorni insperati, e l’unico modo per riuscirci fosse chiudersi nel silenzio del proprio piccolo nucleo famigliare.
Forse anche a causa della calma e del silenzio fuori dalla norma, Steve Rogers non riusciva a dormire, perso nella contemplazione della figura che, placidamente, era assopita al proprio fianco.
Il petto del Soldato d’Inverno si alzava e si abbassava regolarmente, scandendo il ritmo regolare del respiro rilassato di un uomo finalmente sereno, come se nulla fosse successo, come se il soggetto in questione non si fosse dissolto e ricomposto nel giro di qualche giorno.
Ma questo non contava: ciò che importava era che in quel momento Bucky fosse steso lì, accanto a lui, sul suo stesso letto, coperto dalle lenzuola calde di una notte d’amore. E sì, il solo pensare cosa fosse successo, qualche ora addietro, rendeva Steve l’uomo indiscutibilmente più felice dell’intero Universo.
James dormiva su un fianco, il volto privo di barba rivolto verso di lui, le palpebre calate a celare due magnifici zaffiri, le labbra appena socchiuse in un sorriso innocente, da bambino, incorniciate da qualche ciuffo di capelli ribelle fuggito al codino che l’uomo si era fatto appena uscito dalla doccia.
Finalmente privo di ogni paura, il suo viso era una maschera di appagamento e tranquillità, e la mano di vibranio appoggiata all’ombelico del Capitano era la prova lampante del fatto che James Buchanan Barnes fosse libero, davvero, dai fantasmi del passato, e che non avesse più bisogno di nascondersi da se stesso, dal mondo, ma soprattutto da Steve, per evitare di far soffrire quel suo cuore tanto grande quanto fragile, più di quanto avesse già sofferto in passato.
Era forte, il suo Stevie, ma anche le querce, se colpite continuamente, si spezzano. E il Sergente voleva evitare che il suo piccolo grande Capitano subisse un colpo da parte sua, che avrebbe potuto non farlo rialzare più: Bucky non lo avrebbe sopportato, si sarebbe odiato.
Aveva atteso tanto tempo, prima di trovare il coraggio di accettare se stesso, e solo quando aveva perso tutto – solo quando aveva perso Steve, per l’ennesima, dannatissima, volta, e poi lo aveva nuovamente ritrovato -, aveva capito che non sarebbe più riuscito a dissimulare i propri sentimenti, o ad aspettare il momento giusto per esternarli.
E quindi lo aveva baciato, su Titano, senza pensare, per una volta, alle conseguenze delle proprie azioni, senza pensare all’opinione altrui, senza pensare ad altro che non fosse Steve, lì, con lui, in quel preciso momento.
Le loro labbra si erano trovate senza alcuna incertezza, timide ma decise al contempo, senza ripensamenti: combaciavano perfettamente, meglio di due pezzi di puzzle fatti per stare l’uno accanto all’altro. Le mani di Steve sembravano essere state create apposta per stringergli i fianchi mentre quelle di Bucky gli stringevano il volto, a coppa, quasi come se la bocca di Steve stillasse acqua fresca e Bucky fosse un povero assetato, in un tacito messaggio, tanto profondo quanto semplice: “Resta qui, non scappare ancora”.
Abbracciati, dimentichi del mondo che li circondava, erano luminosi quanto un’esplosione di fuochi d’artificio, assordanti nel loro discreto silenzio pregno di sentimenti taciuti per anni, rotto soltanto dalla sinfonia dei loro respiri irregolari, e nel complesso, erano un’opera d’arte degna dei migliori artisti espressionisti, un turbinio di colori vivaci ed emozioni così contrastanti da lasciare gli spettatori letteralmente senza fiato.
Una volta rientrati sulla Terra, non erano mai stati a più di qualche metro di distanza, quasi come se la presenza reciproca fosse stata tanto necessaria quanto l’ossigeno che respiravano, come se fossero stati legati da un elastico, che si tendeva fino a un certo punto, e poi ritornava alla situazione di partenza; e forse, la loro esistenza, era davvero rappresentabile da un elastico indistruttibile.
Proprio l’ossigeno era venuto presto a mancare quando, superato l’imbarazzo iniziale, una volta tolte le divise e fattisi una doccia, si erano ritrovati avvinghiati l’uno all’altro, a ridere come bambini, gli occhi lucidi di gioia, spogli di paure, fantasmi, tristezza e vestiti.
“Steve” mormorò il moro con la voce impastata di sonno, accarezzandogli la pancia con un tocco delicato per accertarsi della sua presenza “Sei qui” aggiunse con un sorriso caldo, aprendo gli occhi e riempiendoli dell’immagine del bel Capitano.
Il biondo sentì il proprio cuore gonfiarsi di felicità, e intrecciò un po’ timoroso le dita della propria mano a quelle del compagno, sorridendo con dolcezza infinita. “Sì” rispose con voce roca, arrossendo violentemente al tocco delle labbra di James sulle dita delle proprie mani.
“E’ bello averti qui” sussurrò Bucky, senza filtri, diretto come una pallottola nel cuore, perforandolo con quei suoi occhi più limpidi del ghiaccio puro e più famigliari del suo stesso riflesso.
“E’ bello essere qui con te” rispose Steve con il fiato mozzo, spalancando i grandi occhi color del cielo quando Bucky si mosse sopra di lui, sovrastandolo e guardandolo con cipiglio divertito.
“Arrossisci ancora come ottant’anni fa” ridacchiò il moro, facendo sfiorare i loro nasi e beandosi della sensazione delle mani del biondo poggiate delicatamente sui suoi fianchi e della pelle d’oca sul corpo dell’amato.
“Sei l’unico con l’onore di poterlo dire” rispose il Capitano risalendo con le mani verso il petto dell’uomo, per poi sistemargli i capelli dietro le orecchie, in un gesto semplice, ma che tradiva tutto l’amore che provava nei suoi confronti.
“Dio, ti prego, fa che non sia un sogno” gemette Bucky baciandolo piano, quasi ad assicurarsi che tutto fosse vero, o almeno, tentando di prolungare il più a lungo possibile quello che – Steve lo aveva capito subito – era stato più volte, in passato, uno dei suoi sogni più desiderati e piacevoli.
La vena di tristezza in quella velata preghiera a un Dio in cui forse entrambi avevano smesso di credere da tempo, mise sull’attenti l’eroe d’America. No, si ripromise Steve, Bucky da quel momento in poi avrebbe solo sorriso: questa sarebbe stata la sua, personalissima, missione.
“Non sono Dio” disse Steve a mezza voce, baciandolo con trasporto “Ma posso giurarti sulla mia vita che è tutto vero”
“Giuralo su di noi” ribatté Bucky facendo aderire ancora di più i loro corpi, nella voce un pizzico di angoscia che fece intenerire ancora di più Steve.
“Lo giuro sudi noi, Buck. Siamo reali” sussurrò il biondo baciando la fronte di Bucky “Finalmente” aggiunse con un sorriso dolce.
“E’ tutto finito, Steve? Dimmi che è tutto finito, che abbiamo chiuso con guerre, armi, uccisioni, combattimenti. Sono stanco, voglio solo stare con te e vivere una vita normale. Dimmi che possiamo farlo, ti scongiuro” implorò il Sergente con sguardo disperatamente fiducioso.
Steve annuì, il cuore all’improvviso leggero come una piuma, farfalle impazzite nello stomaco: non attendeva altro dal momento in cui lo aveva ritrovato.
“Se tu lo vuoi, andrò a chiedere le mie dimissioni. Staremo qui a Brooklyn e ci troveremo dei lavori ordinari, tranquilli, e magari potremmo anche…”
Ma non riuscì a finire la frase, perché Bucky lo interruppe con un bacio appassionato, per poi scoppiare a ridere e abbracciarlo, felice come non mai, più entusiasta di un bambino davanti ai regali di Natale.
“Ti amo, Steve, ti amo!”
Il biondo quasi perse un anno di vita dopo quella dichiarazione così spontanea, ma si riprese subito e con un colpo di reni si mise sopra il compagno, baciandolo con tangibile emozione e felicità.
Casa? Sì, quella era casa. Un tetto sotto cui stare, un corpo a cui stringersi, un’anima da amare, un sorriso da ricambiare, un nome da portare nel cuore e sulle labbra, per sempre, dopo tanto, troppo tempo. Sì, decisamente, quella era casa. Era Bucky.
James e Steve, Steve e James: due facce della stessa medaglia, una storia d’amore travagliata, un salto nel buio durato più di settant’anni, un legame mai spezzatosi, e poi, il meritato e agognato lieto fine. Forse avrebbero persino potuto farci un film, in un futuro non troppo lontano, ma ciò che contava, ancora, era che la voce di Steve finalmente stava rispondendo alla chiamata di quella di James, con un’eco mondialmente conosciuta, sì, ma sempre e comunque unica e nuova nel suo genere.
“Ti amo anch’io, Buck”.
 
(1379 parole)
 
(*) “Zweisamkeit” è un sostantivo tedesco, difficilmente traducibile in italiano: il concetto è che due persone desiderano solo stare l’una accanto all’altra, talvolta disinteressandosi totalmente del mondo attorno a loro, tanto sono immerse nella loro paradisiaca situazione. E’ una “solitudine per due”, diciamo. Spero di essere stata sufficientemente chiara!

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolino disagiato
Ecco qui una piccola OS su Bucky e Steve dopo che i nostri eroi sono tornati a casa. Me li sono immaginati così, ovvio che questo è solo il primo di tanti altri risvegli che i due vivranno assieme, nel piccolo appartamento di Brooklyn del Capitano, prima di decidere di pronunciare il fatidico “Sì” davanti a tutti i loro amici. Bucky lavorerà in un grande negozio di musica, mentre Steve verrà assunto a tempo pieno come professore di ginnastica, ed entrambi andranno, occasionalmente, alle conferenze stampa in veste di Avengers.
Lo so, è fluff, molto fluff, ma è un periodo in cui il mio cuoricino dà molto affetto a tutti, quindi ciò si traduce in dolcezza nelle storie che scrivo.
Spero solo di non avervi fatto venire il diabete, mi sentirei assai in colpa!
Detto ciò, fatemi sapere cosa ne pensate, se volete! Ogni parere è ben accetto!
Grazie a chiunque abbia letto fino a qui.
Appuntamento a DOMENICA 14 Ottobre, un abbraccio
 
_astronaut_

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Capitolo 2
*** Autumn Leaves ***


Sono tornata, e scusatemi.
Scusatemi, davvero. E’ stato un periodo costellato di problemi, pieno di impegni e stress, e non ho avuto né il tempo né la testa per scrivere qualcosa di decente. Spero che questa doppia pubblicazione infrasettimanale possa ripagarvi, almeno in parte, di tutta l’attesa a cui vi ho costretti e per la quale, di nuovo, vi porgo le mie più sentite scuse.
Spero mi perdonerete.
Ora vi lascio alla lettura, fatevi sentire, battete un colpo, lanciatemi pomodori, fatemi capire però che ci siete ancora. Anche se io non ci sono – purtroppo – stata per un lungo mese.
Un abbraccio
 
PERSONAGGI: Tony + Pepper
QUANDO: Sette mesi dopo il ritorno sulla Terra
 
 
Autumn leaves
 
L’autunno a Tony era sempre piaciuto, forse perché portava con sé quel pizzico di nostalgia per l’estate appena passata, misto alla aspettativa per un inverno pieno di neve, o forse per i colori caldi che gli coccolavano gli occhi e il cuore con le loro tinte accese di fuoco, tanto simili ai colori della sua armatura e al colore delle lentiggini di Pepper.
Ma a parte quello, il tramonto a Manhattan, quella sera, era davvero splendido: sembrava di indossare degli occhiali con le lenti rosse, da quanto l’atmosfera riluceva di arancio, e il tutto era reso più magico dal fatto che fosse anche l’anniversario del loro primo mese da sposini.
Gli piaceva quel momento: da quando aveva una famiglia, aveva assunto un significato tutto nuovo, speciale, fantastico. Il tramonto rappresentava non solo la fine di un’altra giornata – intensa, come sempre, tuttavia ricca di soddisfazioni -, ma anche l’avvicinarsi del momento in cui tutti e tre (a breve quattro) si sarebbero seduti allo stesso tavolo e avrebbero condiviso un magnifico momento di intimità famigliare, raccontandosi aneddoti e vicende accadute durante il giorno, ridendo alle battute di Peter ed esaltandosi alla vista del pancione di Pepper che si muoveva, testimonio della vita al suo interno che cresceva ogni giorno di più.
Stavano proprio tornando a casa, alla Stark Tower, lui e Pepper, le foglie sotto i suoi piedi scricchiolavano allegramente, ultime testimonianze di una verdeggiante estate americana, e l’uomo camminava lentamente, stretto alla moglie, al settimo mese di gravidanza.
Nonostante il viso un po’ stanco, l’espressione della donna era dolce, piena di serenità e di affetto, misti a orgoglio e impazienza: non vedeva l’ora di stringere tra le braccia la piccola Sophie Renée(*) – così avevano deciso di chiamare l’erede Stark – e di donarle tutto l’amore di cui disponeva. E se possibile, anche di più.
Una sua mano andò istintivamente al pancione, carezzandolo, mentre le sue labbra si distendevano in un sorriso dolce, ignara del fatto che Tony la stesse guardando di sottecchi, i grandi occhi scuri pieni di un sentimento profondo più dell’Oceano Pacifico.
Tony si perse per qualche istante a contemplare le lentiggini di Pepper, che come stelle costellavano gli zigomi della donna, e si morse il labbro, trattenendosi dal baciarle una ad una, come faceva per scherzo quando erano a letto, la sera, prima di addormentarsi. In compenso le carezzò la guancia, ricambiando il sorriso pieno d’affetto che la moglie gli aveva rivolto.
Erano così, loro due, un polo positivo e uno negativo, opposti ma complementari, capaci di bisticciare come cane e gatto e di fare la pace solo con uno sguardo, senza bisogno di chiedere scusa. Era come se giocassero a fare un girotondo: cadevano, si rialzavano, ricominciavano a ballare, ridevano, cadevano di nuovo, e ancora si alzavano, più belli di prima, più felici di prima. Ipnotici, costanti nel loro amore, sicuri dei loro sentimenti nonostante le avversità e i problemi che occasionalmente bussavano alla loro porta.
Era stato difficile, per Tony, abituarsi all’idea di indossare la fede, ma quando, la prima notte di nozze, si era svegliato e aveva visto le sue mani intrecciate a quelle di Pepper, con le fedi illuminate dalla luce fioca della luna di Malibù, si era ripromesso che quell’anello non se lo sarebbe mai tolto. Ed era stato davvero così: se non per lavarlo, quell’anello era sempre infilato al dito, e Pepper ne andava immensamente fiera.
A vederli da lontano, nessuno avrebbe detto che fossero la coppia più paparazzata di New York – tra gli Avengers, a causa del passato di Tony e della sua importanza a livello nazionale, erano sicuramente i più seguiti -, non si vedeva alcun segno di tensione dovuto alla paura che saltasse fuori qualche giornalista invadente. Eppure, i due cercavano in ogni modo di sfuggire alle fotocamere quando non era necessario mostrarsi, dato che a entrambi dava enormemente fastidio essere continuamente pedinati ovunque andassero.
E nel momento in cui i media avevano cominciato ad assillare Peter, Tony si era eretto a scudo della tranquillità della sua famiglia – e quindi eccoli lì, a passeggiare, sperando di concedere ai giornalisti qualche foto rubata su cui scrivere i loro gossip di scadente qualità senza doversi disturbare nemmeno per posare per una foto.
“A cosa pensi?” domandò Pepper carezzando il fianco di Tony e guardandolo con occhio clinico.
Tony sospirò, conscio del fatto che non sarebbe riuscito a nasconderle niente. “Penso all’inferno che sarà per Sophie, una volta venuta al mondo. Non voglio che la sua vita sia sempre in prima pagina come lo è stata la mia” baciò i capelli della donna, in un gesto che ormai era diventato un antistress per entrambi.
In realtà Tony aveva fatto di tutto per far sì che ciò che lo riguardava fosse sempre lo scoop del giorno, ma proprio quando aveva deciso di starsene tranquillo, ecco che la stampa si era messa a incalzarlo più di quanto avesse mai fatto in passato. A quanto pare sentivano la sua mancanza.
Stark voleva che Sophie vivesse la sua vita tranquilla: voleva che commettesse i suoi errori, ricevesse le sue soddisfazioni, comprendesse le sue debolezze e i suoi punti di forza anche attraverso delusioni, insomma, voleva che vivesse le sue esperienze senza che nessuno la giudicasse per ciò che faceva o non faceva, senza che nessuno le mettesse pressioni, senza che nessuno le domandasse di render conto delle sue azioni.
Questo era quello che lui aveva dovuto subire – un po’ anche per scelta, certo, non lo avrebbe mai negato -, e che non voleva assolutamente accadesse alla sua bambina.
Pepper sorrise, lasciando un bacio sulla guancia del marito. “Andrà tutto bene”
“Ti va di sederti un po’?” domandò l’uomo indicando con un cenno una panchina libera poco distante da loro.
“Abbiamo tempo? Peter…”
“Peter è grande abbastanza da riuscire a stare da solo in casa cinque minuti senza distruggere tutto. Spero, almeno” la interruppe Tony con un sorriso sornione.
Pepper ridacchiò, dando uno schiaffetto al petto dell’uomo. “E’ un ragazzo fantastico”
Spider-Man era diventato ufficialmente figlio di Tony Stark qualche settimana dopo il ritorno sulla Terra, merito degli agganci di Fury con la burocrazia, e si era rivelato un incredibile legante per Tony e Pepper, che insieme avevano cominciato a ragionare come veri e propri genitori e vedevano Peter davvero come un figlio.
Non li chiamava “mamma” e “papà”, ma non glielo avevano nemmeno chiesto: quando e se fosse stato pronto, lo avrebbe deciso lui.
Peter era così, spontaneo, vero, senza filtri, e aveva la straordinaria capacità di tirare fuori il meglio delle persone che lo circondavano. Gli piaceva stare con Tony e Pepper, non gli facevano mancare nulla, non era mai a disagio e si sentiva a casa. Non era una cosa così scontata: aveva avuto paura di sentirsi il terzo – quarto, a dire il vero – incomodo, e invece era stato subito coinvolto nelle vicende famigliari Stark. E non poteva esserne più felice.
“Già” convenne l’uomo, sedendosi accanto a Pepper e baciandole la spalla “E siamo fortunati ad avere te”
La donna rise, scuotendo il capo, carezzando il viso curato dell’uomo che aveva scelto di avere accanto per tutto il resto della sua vita.
I segni dell’età cominciavano a fare timidamente capolino sul volto di Tony, ma l’inventore rimaneva comunque attraente, anzi, forse lo era ancora di più: come il vino, invecchiando, Stark migliorava, pur rimanendo sé stesso. Aveva sempre quel sorriso sbarazzino, furbo, che si trasformava in un sorriso paterno e dolce tra le mura domestiche, gli occhi erano sempre vispi, intelligenti, pieni di vita, e lui, be’, lui era sempre lui, solo un po’ meno avventato e più disposto a valutare bene ogni opzione prima di partire in quarta e mettere a repentaglio la sua vita – aspetto che Fury e tutti gli altri Avengers apprezzavano molto, tra le altre cose, dato che non dovevano più preoccuparsi di vedere Tony immolarsi senza un minimo di esitazione.
“Tu, piccola peste, non sai che fortuna hai ad avere la signorina Potts come mamma” disse Tony a qualche centimetro dalla pancia di Pepper “Proprio non lo sai”
“Se solo è come te” rispose Pepper carezzandogli i capelli mentre lui le lasciava un bacio sul grembo “Lo capirà molto tardi”
Tony rise, carezzando il pancione e sorridendo felice, sentendo la bambina muoversi.
“Sbrigati, amore mio. Ti stiamo aspettando tutti”
 
(1329 parole)
 
(*) Renée è un nome francese, l’equivalente del nostro “Renata”. Ovviamente “Renata” = “Ri-nata”, per questo ho pensato che potesse essere un nome calzante, dato che Pepper si è dissolta – quindi è “morta” – e poi è tornata nel mondo dei vivi – quindi è “nata di nuovo”. Perché in francese? Perché a mio parere suona bene ed è molto raffinato, lol.
 
 
 
Angolino disagiato
Eccomi quiii, e sì, è di nuovo fluff. E’ più forte di me T.T
Spero di avervi strappato almeno un sospiro intenerito alla vista di un Tony forse un po’ OOC, ma comunque un Tony che secondo me da qualche parte c’è per davvero, sotto le mille armature che indossa.
Un abbraccio, fatemi sapere, se volete!
_astronaut_

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Capitolo 3
*** Let's hurt tonight ***


PERSONAGGI: Stephen + Christine
QUANDO: Subito dopo il ritorno sulla Terra
 
 
Let’s hurt tonight
 
Stephen Vincent Strange era stato un neurochirurgo eccellente, geniale, fuori dall’ordinario – in poche parole, unico.
Ma era stato anche una persona arrogante, egoista, presuntuosa, egocentrica – insomma, un vero e proprio stronzo.
Poi era cambiato, era diventato un maestro nelle arti mistiche e aveva imparato a non agire d’impulso, a pensare agli altri prima che a se stesso e al suo tornaconto, ma nella sua fantastica mente era rimasto comunque un pensiero fisso, una persona a cui fare ritorno, un errore più pesante degli altri, un rimorso che gli attanagliava il petto, un elemento del suo passato che non riusciva – né voleva – cancellare: Christine Palmer.
Christine era tutto ciò che lui, prima di diventare il grande stregone custode della Gemma del Tempo, non avrebbe mai potuto nemmeno lontanamente sognare di essere: fedele, umile, affettuoso, altruista, gentile.
Per questo, quando su Titano l’aveva vista scendere da un Helicarrier, il cuore aveva smesso per un istante di battere; lei era viva, sana e salva, e come al solito stava facendo ciò che le riusciva meglio: salvare la vita delle persone.
Non ci era voluto molto prima che lei lo scorgesse e gli andasse incontro, i grandi occhi da cerbiatta spalancati di preoccupazione, fissi sul suo viso scavato, ferito e stanco, i capelli mossi dal vento causato dai motori degli Helicarrier, le labbra tese in un sorriso di gioia e sollievo.
Come era possibile che lei, la persona migliore al mondo, volesse, dopo tutto ciò che le aveva fatto passare, avere ancora a che fare con lui?
Non fece in tempo a darsi una risposta, perché la dottoressa lo abbracciò d’impeto, affondando il viso nelle pieghe del suo abito da stregone, lasciando che la tensione scivolasse via con piccoli tremolii mentre lui, incredulo, la stringeva a sé accarezzandole con delicatezza la testa, cercando di tranquillizzarla con dei rochi “Sono qui, sono qui. Va tutto bene”.
E a entrambi era bastato così, fino al momento in cui, senza dire una parola, lei si era staccata da lui per accertarsi che le persone che salivano, ordinatamente, sugli Helicarrier e sulle navicelle del Wakanda non avessero ferite mortali e fossero perciò in condizione di affrontare il viaggio.
Vederla così – impegnata, coraggiosa e determinata come sempre – fece ricordare a Stephen di essere anche uno stregone, oltre che un medico impossibilitato a svolgere le sue funzioni, e quindi cominciò ad aprire giganteschi portali per consentire alle navicelle di andare e venire dalla Terra nel minor tempo possibile, velocizzando le operazioni di salvataggio.
Ci volle molto, inutile nasconderlo, ma alla fine rimasero sul pianeta solo gli eroi e le persone a loro più care, finalmente pronti a lasciarsi alle spalle una brutta, bruttissima avventura.
Strange sospirò, spossato, lasciando che la stanchezza accentuasse il tremolio alle mani, cosa che Christine notò subito, a bordo della navicella del Wakanda, e, delicatamente, prese tra le proprie le snelle mani dell’ex collega.
“Sei sparito di nuovo” mormorò la dottoressa con estrema tristezza “Perché non ti sei più fatto sentire? Pensavo che… Che… Che fossi…”
“Christine, ti prego, non piangere” la strinse a sé e la cullò un po’, lasciando che la donna desse sfogo a tutta la paura accumulata in quei giorni, lasciandole dolci baci sui capelli, mentre la dottoressa si aggrappava alle sue spalle come se ne andasse della sua stessa vita.
“Sono un idiota. Sono un vero idiota. Non accadrà mai più, te lo prometto. Anzi, che ne dici se quando torniamo sulla Terra vieni da me? O andiamo a cena, o ci facciamo cucinare qualcosa da Wong, però se non…”
Lei non lo lasciò finire, lo baciò, senza preavviso, delicata come una farfalla nell’appoggiarsi a un fiore, e lui, dimentico di tutto e di tutti, non poté non ricambiare quel bacio tanto atteso quanto insperato, chiudendo a coppa le sue mani sul viso di lei, lasciando che poi i suoi pollici accarezzassero le guance della donna e asciugassero le lacrime che le avevano bagnate.
Una volta tornati a New York, Stark propose a tutti di andare a cenare alla Avengers Facility, dato che il posto c’era per tutti, ma i due medici rifiutarono, dato che Christine sarebbe dovuta tornare al lavoro e quindi necessitava di riposo.
Tony capì l’antifona, leggendo tra le righe il bisogno dei due di trascorrere del tempo da soli, lontano dal mondo, per sistemare delle questioni in sospeso tra loro, e quindi con una pacca sulla spalla augurò ad entrambi ogni bene.
“Spero di rivederti, per una prossima rimpatriata, Doc” Tony tese la mano destra, che Stephen strinse con decisione e stima.
“Non mancherò, Tony”
Un sorriso furbo sui visi di entrambi, e subito dopo Stephen e Christine attraversarono il portale che Strange aveva creato, giusto per ritrovarsi in una delle traverse che avrebbero condotto al loft di Stephen.
Faceva fresco, quella sera, e il cielo plumbeo non prometteva affatto nulla di buono. Ma la tempesta che si preannunciava non era nulla in confronto alla tempesta che si agitava nei cuori dei due.
Il loft di Strange era un luogo spinoso per entrambi: , solo un anno prima, avevano litigato furiosamente, , il cuore di Christine si era spezzato in mille pezzi di fronte alla rabbia incontrollabile di Stephen che, al momento, preso dallo sconforto, l’aveva trattata come un giocattolo vecchio e inutile, da buttare; Stephen aveva deciso di intraprendere un viaggio verso il lontano Oriente, lontano dal suo passato glorioso, lontano dal suo presente inaccettabile, lontano dal dolore di un rapporto desiderato, ma spezzato a causa del suo smisurato ego.
Sempre lì avevano consumato notti di passione, avevano racchiuso momenti di dolcezza di cui nessuno dei due aveva mai avuto il coraggio di parlare, per la paura di portare le cose a uno step più alto del semplice essere amanti, , erano stati semplicemente Stephen e Christine, non il dottore pluripremiato e la dottoressa sua ufficiosa compagna.
Era tardi, per strada c’erano pochissime persone, e l’aria era davvero fredda. Christine tremò, preda di un evidente brivido, e Strange diede un piccolo colpetto al suo mantello, sussurrandogli un: “Copri lei, ha solo la divisa da pronto soccorso addosso”.
Sul momento, la donna lo prese per pazzo – chi mai si sarebbe messo a parlare con un mantello?! -, ma poi il suddetto mantello si staccò con uno svolazzo dalle spalle di Stephen e si poggiò delicatamente su quelle di Christine.
Lei emise uno strozzato verso di sorpresa, ma poi, notando lo sguardo divertito e addolcito del suo ex collega, sorrise a sua volta, e, con una piccola carezza al collo del mantello, mormorò: “Grazie”. E un lembo del mantello, in risposta, le carezzò il viso.
“Gli stai simpatica” disse il neurochirurgo tirandola piano a sé, facendo passare un braccio attorno alle sue spalle “Di solito è molto più scorbutico con gli sconosciuti”
“Mi ricorda qualcuno di mia conoscenza” scherzò Christine respirando il profumo di Stephen, godendo del suono profondo della risata dell’uomo, due cose delle quali, se avesse potuto, non avrebbe mai fatto a meno.
“Touché, dottoressa Palmer” rispose lui con serenità, lasciando istintivamente un bacio lieve sui capelli di lei, inspirandone il familiare profumo di lampone.
Camminarono in silenzio, godendo semplicemente della presenza rassicurante l’uno dell’altra, e poi, all’improvviso, cominciò a scendere una pioggia lieve ma copiosa, che li infradiciò dalla testa ai piedi, tanto che quando arrivarono a casa di Stephen, egli dovette accendere il riscaldamento per evitare di far prendere a entrambi una bronchite poco simpatica.
 
When, when we came home
Worn to the bones
I told myself “This could get rough”
 
“Dovresti toglierti i vestiti bagnati, Christine, e farti una doccia calda. Ti va se preparo del thè?”
“Non ho nulla con cui vestirmi” obiettò lei, arrossendo un po’ “Però sì, qualcosa di caldo da bere sarebbe ottimo, grazie”
“Nulla a cui non si possa porre rimedio” il dottore le fece l’occhiolino, e aprì un portale che dava esattamente sulla cabina armadio della donna “Avanti, entra, io lo tengo aperto. Prendi ciò che ti serve”
Lei strabuzzò gli occhi, poi scosse la testa. “Non ci entro senza di te”
Lui abbozzò un sorriso intenerito. “Non hai nulla da temere”
“N-no” balbettò lei “Da sola non ci entro, non che non mi fidi di te, Stephen, ma nel giro di quarantott’ore ho visto troppe cose che vanno ben oltre tutto ciò che prima ritenevo possibile, io… Non ce la faccio”
Lui annuì, poi richiuse il portale. “Magari c’è ancora qualcosa di tuo, qui”
Christine arrossì. “Quando abbiamo litigato, ho lasciato qui le chiavi. Poi tu sei sparito, io non ho più voluto cercarti, poi sei tornato in fin di vita, e poi…”
“E’ colpa mia, Christine. Sono stato uno stronzo, un vero egoista, un narcisista di prima categoria, ho pensato solo a me stesso. Avrei dovuto farmi sentire, dopo che mi hai salvato la vita, ma ho avuto un sacco di cose da fare – Wong non mi lasciava nemmeno il tempo di respirare – e…”
“Basta” mormorò lei.
 
And when, when I was off, which happened a lot
You came to me and said, “That’s enough”
 
Basta” ripeté con più convinzione, prendendo il viso di Stephen tra le sue piccole mani “Va bene. Va tutto bene. Con il tuo sacrificio hai salvato il mondo, Stephen, hai salvato più vite di quante ne avresti mai potute salvare nella tua brillante carriera, e sai che ti dico? L’importante, per me, è che tu sia vivo e che tu sia felice. Vederti così distrutto, così spaesato, dopo l’incidente, mi ha spezzato il cuore. Ma ora hai nuovamente uno scopo, sei un eroe per davvero, e…”
“Non posso essere felice, se tu non sei al mio fianco” la interruppe lui puntando i suoi occhi di ghiaccio in quelli caldi di lei.
Christine sorrise dolcemente, colpita nel profondo dalla sincerità nella voce e nello sguardo di Stephen; del dottore tronfio e pieno di sé non era rimasto che il corpo: l’uomo che aveva di fronte era ben diverso, e indubbiamente migliore.
“Queste confessioni non sono nel Suo stile, dottor Strange” la donna appoggiò la fronte a quella dell’uomo, perdendosi nei suoi occhi dal colore indecifrabile, sentendo il proprio cuore battere più forte.
 
Oh, I know that this love is pain
But we can’t cut it from out these veins, no
 
“Credimi, Christine, Sei la parte migliore di me, mi conosci meglio di me stesso” proseguì lui “Ma se non vuoi avere più nulla a che fare, con me e le mie stranezze, lo capisco. Lo accetto. E va bene, ma…” il dottore si bloccò, incerto. Si morse il labbro inferiore, sentendosi perforato dagli occhi lucidi di Christine
“Ma?” lo incalzò lei con dolcezza, carezzandogli gli zigomi affilati con i pollici.
“Senza di te sono perso” mormorò lui “Non ho un punto a cui far ritorno”
Dagli occhi della dottoressa Palmer scesero due grosse lacrime di felicità, che lui baciò via, stringendola a sé posandole delicatamente le mani sui fianchi.
“Torna da me, Christine. Non sono più lo stesso di un anno fa. Non ti farò soffrire, mai più, lo giuro. Voglio essere responsabile del tuo sorriso, non delle tue lacrime. Ti prego, permettimelo”
La donna a quel punto scoppiò a piangere, sopraffatta dalle emozioni e dall’intensità del momento, e annuì, lasciandosi avvolgere dalle braccia forti dello stregone.
Il suo cuore stava tornando intero, ed erano bastate solo poche parole da parte dell’uomo che amava con tutta se stessa per riempirla di gioia e di pace.
Stephen stentava a credere che Christine fosse davvero lì, tra le sue braccia, e che lo avesse davvero perdonato, ma era felice. Finalmente si sentiva completo, e il sorriso che la donna ora gli stava rivolgendo era lo spettacolo più bello dell’intero universo.
Inutile negarlo: era sempre stato perdutamente innamorato della bella dottoressa, ma non si era mai concesso il lusso di accettarlo, troppo preso dal lavoro e dalla cura della sua fama personale. Aveva capito tardi che Christine fosse la donna della sua vita, ma fortunatamente non così tardi da negare a entrambi la felicità a cui avevano sacrosanto diritto.
“Vai a farti una doccia calda” disse lui “Stai tremando”
Christine non rispose, lo baciò e lo prese per mano, portandolo con sé nel gigantesco bagno dell’amato.
 
So I’ll hit the light and you lock the doors
We ain’t leaving this room ‘til we bust the mold
 
Stephen era rapito da ogni suo movimento e non riusciva a staccare gli occhi da Christine, che, come da vecchia abitudine, riempiva la grande vasca di acqua calda, sali e profumi, e lentamente si spogliava davanti a lui.
Non appena sentì le labbra della donna posarsi sulle proprie, il suo cervello si spense, e chiuse fuori ogni pensiero che non fosse legato a Christine: Stephen la baciò con trasporto, dandole una mano per togliersi i vestiti pieni di polvere e sangue, per poi prenderla in braccio e immergersi nell’acqua calda.
Non si rese conto di stare piangendo fino al momento in cui la donna gli baciò gli zigomi, bagnati di lacrime salate e paura repressa, gioia e piacere.
“Scusa” balbettò lui “Non so cosa mi succede, è…”
“E’ perfetto così” lo interruppe lei, tornando a baciarlo cominciando a insaponargli le spalle “Lasciati andare, Stephen”
Strange si fece guidare da Christine e, una volta sistematisi, appoggiò la sua schiena al petto di lei, facendosi coccolare dalle sue mani che, con estrema delicatezza, gli insaponavano i capelli e gli massaggiavano la testa, togliendo poi lentamente lo shampoo, cosa che, lei sapeva, lo rilassava alquanto.
Stephen appoggiò le mani alle cosce della donna, carezzandone delicatamente la pelle morbida e liscia, per poi lasciarle un bacio nell’incavo del collo, lo sguardo adorante di un fedele innanzi alla divinità.
Strange era ateo, non credeva in alcun dio e non professava alcuna religione, ma credeva nella vita, nella medicina, credeva, da un anno, nella magia.
E credeva in Christine, credeva, solo ora, nell’amore.
E lei, la dottoressa dal cuore grande e animo fiero, rappresentava tutte queste cose, e lui ne era totalmente, incondizionatamente, rapito e innamorato.
Christine sorrise, lusingata dallo sguardo che Stephen le stava rivolgendo e che mai le aveva riservato, in passato, e lasciò che l’uomo la facesse sua, lasciò che finalmente i loro corpi si fondessero in uno solo, lasciò che le loro mani tornassero a intrecciarsi e a tracciare disegni invisibili sul corpo di entrambi, lasciò che i loro occhi si perdessero gli uni negli altri, mischiando respiri e gemiti a baci e sussurri, al suo nome – Stephen, Stephen, Stephen -, mormorato sulla pelle bollente dell’uomo che, in un ultimo affondo, gemette sulle sue labbra il suo nome - Christine, Christine, Christine -, e venne in lei, con lei, per lei.
I loro battiti, lo stesso ritmo.
I loro cuori, una stessa melodia.
Le loro anime, una sola emozione.
 
Don’t walk away, don’t roll your eyes
They say “Love is pain”, well, darling, let’s hurt tonight
If this love is pain, then, honey, let’s love tonight
 
Resta” mormorò Stephen una volta che i due si furono avvolti in due accappatoi e, seduti sulle sedie della cucina, sorseggiavano un thè caldo mentre la città si tingeva pigramente dei colori dell’alba.
Christine sorrise. “In ospedale vogliono accertarsi che io stia bene, non posso”
“Ma io sono un medico, posso assicurare io che sei sana!” protestò Stephen intrecciando una mano a quella che Christine aveva appoggiato sul tavolo.
“Tu come stai, Stephen?” domandò lei.
Il dottore sorrise. “Ora sto bene”
“Mando un messaggio, allora. Attenderanno un giorno per rendermi uno scolapasta” ironizzò Christine prendendo in mano il telefono per comporre un messaggio.
“Ti aspetto a letto” Stephen si alzò, lasciandole una carezza sul viso, poi si diresse in camera, togliendosi l’accappatoio e mettendosi sotto le coperte, oscurando i vetri della camera per non far passare la luce del giorno.
Christine lo raggiunse poco dopo e si infilò a sua volta sotto le coperte; i due si mossero in contemporanea, lui la accolse sul suo petto e lei intrecciò le sue gambe alle sue.
Per un po’ il silenzio fu colmato solo dai battiti dei loro cuori e dai loro respiri rilassati; Stephen accarezzava dolcemente le spalle nude di Christine, che dal canto suo lasciava ogni tanto qualche bacio sulla cicatrice del petto di Strange (ricordo del primo combattimento di Stephen come stregone), accarezzandogli la mano libera con la propria, facendo scorrere le sue dita su quelle lunghe, chiare e piene di cicatrici di Stephen.
Baciò quella mano nello stesso momento in cui le labbra di Stephen si poggiarono sul suo capo, ed entrambi sorrisero, finalmente felici. Sereni. Completi.
“Ti amo, Stephen” mormorò Christine prima di addormentarsi tra le braccia dell’uomo.
“Ti amo anch’io” rispose lui dandole un ultimo bacio prima che lei scivolasse definitivamente tra le braccia del dio dei sogni.
Il mondo, per quel giorno, poteva aspettare.
 
(2790 parole)
 
 
 
 
 
 
Angolino disagiato
Eccomi di nuovo qui!
Per quanto riguarda questa OS, mi è capitato di ascoltare Let’s hurt tonight degli One Republic con più attenzione rispetto alle volte precedenti, qualche giorno fa, e be’, si è praticamente scritta da sola, anche perché era da un po’ che pensavo di scrivere qualcosa su questi due: spero di non aver fatto danno, perché è davvero, davvero lunga.
Se mai voleste lasciare un parere, positivo, negativo o critico, mi fareste davvero contenta, oltre a rendermi un’autrice migliore.
Grazie a chi ha letto fin qui, spero vi sia piaciuta!
Un abbraccio, a DOMENICA 11 NOVEMBRE!
 
_astronaut_

 
 

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Capitolo 4
*** Say something ***


PERSONAGGI: Carol + Loki
QUANDO: Circa un anno dopo la guerra contro Thanos
 
Say something
 
 
Prima di conoscere Loki, Carol avrebbe dato di tutto pur di partecipare a una missione, qualunque essa fosse: di recupero, di salvataggio, di spionaggio: andava bene qualunque cosa pur di tenersi occupata e non pensare alle stranezze del suo essere tanto diversa.
Quando lo SHIELD era caduto, si era sentita persa, tradita, usata. Ci aveva pensato Fury a metterle bene in chiaro cosa fosse successo, e da quel momento la sua missione era stata una e una sola: porre fine a ogni cellula rimanente di ciò che era rimasto dell’HYDRA, aiutando, in incognito, il trio Cap-Vedova-Falcon assieme alle Iron Legion di Stark.
Ora, invece, tra le braccia di Loki, voleva soltanto che tutto il mondo la smettesse di cercarla, che tutti si dimenticassero di lei, quelli dello SHIELD, i giornalisti, i fan, tutti. Voleva solo un po’ di pace, desiderava stare con il suo ragazzo come una normalissima coppia di innamorati terrestri.
Eppure, nemmeno a San Valentino, le era concesso di stare tranquilla, nemmeno dopo mesi dalla sconfitta di Thanos.
Il dio sonnecchiava tranquillo, stringendola a sé, le mani avvolte attorno alla sua schiena, i capelli corvini sparsi sul cuscino, il petto che si alzava piano, un sorriso velato a stirargli le labbra sottili. Sereno, felice di averla lì.
Carol sospirò, sentendo una stretta al cuore.
Gli aveva promesso che non sarebbe più partita, quel mese, ma la avevano chiamata, ed era un codice rosso, priorità assoluta e massima riservatezza. Ergo, terrorismo internazionale. La missione richiedeva almeno due mesi di spionaggio, durante i quali sarebbe dovuta stare lontano da casa senza possibilità di chiamare nessuno.
“Devi andare, vero?” mormorò l’uomo aprendo un occhio smeraldino e guardandola profondamente.
“Non voglio” ammise la ragazza stringendosi all’amante “Vorrei poter ignorare tutto e stare qui con te, ma non posso”
“Se venissi con te?” domandò allora il dio “Potrei aiutarti, facilitarti il lavoro…”
Carol sospirò. “Non penso si fidino molto di te, Loki. Hai… Un passato impegnativo, diciamo così”
Loki sbuffò, indispettito. “Però sono un Avenger”
“Non equivale ad essere un Agente SHIELD” obiettò la ragazza carezzando il petto pallido dell’asgardiano, assorta nei suoi lugubri pensieri.
“Dimmi che ci sarà qualcuno a coprirti le spalle” sussurrò l’uomo “Dimmi che i tuoi soldati daranno la vita per salvare la tua, nel caso ce ne fosse bisogno. Dimmi che ci sarà qualcuno che ti proteggerà”
Carol lo baciò con trasporto. “Non voglio farti promesse che so di non poter mantenere. Non posso prevedere il mio comportamento, figuriamoci quello dei miei uomini”
“Non sei sacrificabile” ribatté lui, duramente, guardandola con occhi supplichevoli, ma pieni di rabbia e… paura.
Sì, paura, perché per la prima volta nella sua incredibilmente lunga vita, Loki aveva qualcosa – qualcuno – da perdere. E quel qualcuno era proprio Carol, lei, che per prima aveva creduto in lui, quasi un anno addietro, quando solo Thor era disposto a fidarsi ciecamente di lui, lei, che per prima gli aveva teso la mano, sulla navicella degli Avengers, quando tutti non avevano altro che sguardi diffidenti e opinioni ostili nei suoi confronti, lei, che prima aveva riso a una sua battuta, lei, che prima, gli aveva regalato un sorriso vero, sincero, privo della paura e del timore soliti esserci in quelli di tutte le altre persone che aveva avuto occasione d’incontrare.
E proprio quel sorriso, da bambina, che illuminava persino i suoi occhi come le brillanti stelle del cielo di Asgard, lo aveva fatto innamorare, e di quel sorriso non avrebbe mai voluto fare a meno, fino al momento in cui la Morte fosse sopraggiunta.
“Ho sconfitto Thanos” ridacchiò lei “Non mi fanno paura le pallottole”
“Il male peggiore si nasconde nelle cose infime” mormorò Loki stringendola forte a sé, il cuore in tumulto, un groppo in gola che quasi gli impediva di parlare – dannazione, gli occhi gli pizzicavano di lacrime! - “Verrò con te, che ti piaccia o no. Non lo saprà nessuno, Carol. Avanti, concedimelo”
“Mi stai chiedendo il permesso di fare una cosa, per la prima volta da quando ci conosciamo, Dio delle Malefatte?” lo canzonò la ragazza facendo strusciare i loro nasi, distendendo le labbra in un sorriso sornione.
“Ti sto chiedendo l’onore. Prendilo come un invito per un ballo” ribatté Loki accarezzandole i fianchi.
“Un ballo della morte” puntualizzò lei con un sorriso amaro.
Loki alzò le spalle. “E’ pur sempre un ballo, no?”
“Non voglio che tu ti faccia del male, Loki” Carol accarezzò piano gli zigomi affilati del dio, perdendosi negli occhi brillanti del giovane uomo.
“Non voglio che tu muoia. Non voglio che tu vada in missione da sola, con persone che non conosco e di cui non mi fido” protestò Loki con voce dura “Non voglio che qualcuno venga a bussare a questa porta, o mi telefoni, dicendomi che tu non tornerai più da me”
Carol trattenne il fiato, il cuore gonfio di tristezza e amore, le lacrime agli occhi che aveva trattenuto sino a quel momento a inumidire le sue guance, e affondò il viso nella spalla di Loki, respirando appieno il suo profumo.
Eccolo, lui, nella sua fragilità, celata alla maggior parte delle persone. Eccolo, l’uomo, il dio, per cui Carol era disposta a dare la vita. L’uomo pieno di dubbi, celati dietro una ostentata arroganza e sicurezza, l’uomo furbo, che si era sempre protetto con mille menzogne pur di non mostrare le sue debolezze, l’uomo un po’ possessivo, geloso, ma infinitamente dolce e affettuoso nei momenti in cui era loro concesso di stare insieme. Sempre troppo pochi e troppo brevi, tra le altre cose.
Eccolo, il dio pronto a uccidere chiunque attentasse alla sua vita con un preciso colpo di pugnale, o un incantesimo di morte, eccolo, il dio dalla pelle fredda e il cuore infuocato come il nucleo di una stella. Eccola, l’anima che aveva salvato e a cui aveva ridato speranza, eccola lì, nel suo splendore accecante, mostrato solo a lei.
Dì qualcosa, Carol” sussurrò Loki “Qualunque cosa, ma parlami”
“Ti amo” bisbigliò Carol prima di baciarlo con passione “E voglio che tu venga con me”
Loki sentì il cuore fare una capriola nel petto, e un piacevole calore cominciò ad avvolgere tutto il suo corpo, irradiandosi in tutte le direzioni dal centro del torace.
“Ti amo anch’io, e verrò con te, ovunque andrai, se mi vorrai, io ci sarò”
Quella sera non pensarono a quanti mesi sarebbero passati prima di potersi stendere nuovamente sui loro morbidi materassi. Importava solo una cosa: il fatto che sarebbero stati assieme, anche solo per un bacio fugace prima che Loki si rendesse invisibile, loro due soli contro ogni regola, contro il mondo che li continuava a separare.
E la sera prima di tornare a casa, terminata la missione, sotto la curva del cielo d’oriente, avvolti da lucciole e stelle, si erano dati e presi tutto l’amore che provavano l’uno per l’altro, lasciando che i loro sospiri si mischiassero alle piccole raffiche di vento caldo di quelle calde sere d’estate, finalmente liberi di stringersi senza il timore di venire scoperti, o uccisi.
“Ovunque” mormorò Carol.
“Ci sarò” rispose Loki.
Come una litania, un antistress, quelle parole sussurrate tutte le notti prima di addormentarsi, avevano assunto un potere rassicurante su entrambi.
E mai, mai, come quella volta, i due sentirono che quella promessa sarebbe stata per sempre mantenuta.
 
(1203 parole)
 
Angolino disagiato
Stavolta, come promesso, puntuale!
Ehhhh insomma, ‘sti due me li immagino proprio a prendere in giro lo SHIELD, trasgredendo tutte le regole come se nulla fosse. Loro possono u.u, quindi caro Nick, fattene una ragione, e lasciali stare un po’ tranquilli.
Spero che vi sia piaciuta, nonostante sia un po’ corta – la OS su Stephen e Christine è stata un’eccezione, penso ve ne siate resi conto ahahah -, fatemi sapere, se volete!
Un abbraccio, appuntamento a DOMENICA 25 NOVEMBRE!
 
_astronaut_
 

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Capitolo 5
*** Vite appese a un filo ***


PERSONAGGI: THOR + MARIA
QUANDO: UN ANNO DOPO LA SCONFITTA DI THANOS
 
 
Vite appese a un filo
 
Gli occhi grigi della donna scrutavano malinconici il cielo privo di nuvole, di un colore tanto simile agli occhi dell’unico uomo al mondo ad averla vista così per come era veramente: una donna decisa, sì, ma fragile, e terribilmente terrorizzata dall’idea di amare – e di avere, di conseguenza, qualcosa da perdere – e pensava a come la sua vita fosse cambiata nel giro di pochissimo tempo.
Maria era così, e nessuno, eccetto Thor, aveva avuto l’onore, e l’ardire, di conoscerla davvero. E ora lei ne sentiva terribilmente la mancanza, e non poteva fare a meno di pensare alle braccia forti del dio che la stringevano come se fosse una bambina, o un vetro purissimo a rischio di rottura.
Per la prima volta, nella sua vita, si era sentita al sicuro in un paio di braccia estranee. Inutile negarlo, era una sensazione piacevole ed estremamente rilassante. E lei, di relax, non ne aveva mai avuto – essere il braccio destro di Fury aveva forse più svantaggi che vantaggi -, dunque si era resa conto di desiderarlo solo quando aveva avuto modo di assaporarne un po’ assieme a Thor, la sera del loro primo appuntamento.
Di galante non c’era stato nulla: si erano trovati per bere una birra a casa sua, giusto perché Thor era passato a farle visita, ed erano finiti per berne qualcuna di troppo. Ed era scappato un bacio rivelatore di sentimenti celati per paura di essere rifiutati.
Lui era il suo opposto: la vita gli aveva tolto molto, per non dire tutto, eppure continuava a riuscire a vedere del buono in tutto e in tutti, mentre lei era estremamente diffidente e non aveva per niente fiducia nel genere umano. Eppure, nelle loro altre innumerevoli differenze, avevano trovato il loro equilibrio, il loro punto d’incontro, e da lì non si erano più mossi, incapaci di fare a meno l’uno della presenza dell’altra.
Seduta sul letto, freddo dalla parte sulla quale solitamente era steso il suo uomo, la donna sospirò, sulle labbra il nome dell’amato, stringendosi le ginocchia al petto.
Si alzò di malavoglia, pronta ad iniziare un altro giorno da istruttrice SHIELD, ancora devota alla causa per la quale molti avevano lottato e perso la vita.
Fortunatamente Sharon e Sam erano ottimi addestratori, quindi non aveva nemmeno troppi grattacapi per cui rabbuiarsi, dato che collaborava con dei colleghi praticamente perfetti.
Sharon la guardò con occhio critico non appena la vide entrare nella sala addestramenti, e le andò incontro con sguardo dolce. “Non è semplice, lo so” le disse semplicemente “Anche a me manca Sam”
Maria annuì, sorridendo in maniera tirata. “Non hanno fatto sapere niente. Sono preoccupata”
Sharon alzò le spalle. “Se fosse successo qualcosa, Fury avrebbe mandato rinforzi, e ci avrebbe sicuramente coinvolte. Quindi stai tranquilla, staranno già tornando”
Proprio in quel momento il Direttore, come sempre vestito di nero, fece capolino davanti a loro.
“Ho bisogno di una squadra di specialisti di soccorso. Adesso”
Le due donne si guardarono, negli occhi per un momento il panico, sostituito immediatamente dalla determinazione. “Quanti uomini ti servono?” domandò pratica Maria.
“Voi due, FitzSimmons e altri due Operativi. Dei migliori. Avete due minuti”
A bordo del Quinjet il silenzio era così denso da potersi quasi tagliare con un coltello, pregno di preoccupazione, ansia, tensione e adrenalina.
Nel momento in cui raggiunsero il luogo dello scontro tra gli Avengers e una minaccia del Multiverso che era riuscita a penetrare nella dimensione terrestre, Fitz si lasciò scappare un gemito poco virile.
Gli Avengers avevano sterminato tutti gli alieni, sì, ma si reggevano a stento in piedi.
Thor era a terra, e stava subendo un massaggio cardiaco da Steve, che aveva la tuta pregna di sangue e bava di mostro, mentre Tony stava sostenendo un Bruce con la gamba rotta, Clint si stava facendo medicare una ferita al fianco da Natasha e Rhodey tamponava un taglio profondo alla gamba di Sam, il quale probabilmente era atterrato male su una delle affilate lamiere lì intorno.
“Immediatamente qualcuno da Thor e Wilson” ordinò Fury “E voi Operativi, controllate che non ci siano minacce in giro, chiaro?”
Maria annuì automaticamente, così come Sharon, Daisy e Liam, e uscirono tutti di fretta dal jet, eseguendo gli ordini. L’odore di sangue alieno e sangue umano si mischiavano in un connubio vomitevole, tale da far impallidire persino Maria, che di scene sanguinose e impressionanti ne aveva viste in quantità.
“Cosa diamine è successo?” domandò Fury “Cosa era?”
“Un mostro abbastanza grosso da metterci tutti in difficoltà, dato che non ne avevamo mai visto uno simile” ringhiò Tony “Quel bastardo viola ha pensato bene di complicarci la vita anche da morto, con i suoi cazzo di effetti collaterali”
“Appena Strange, Loki e Carol riusciranno a creare una nuova protezione alla Terra, non si verificheranno più episodi di questo genere. Per il momento dovete ancora fare quello che vi riesce meglio”
“Ovvero, rischiare il culo ogni volta?” ironizzò pesantemente Tony, reso più nervoso del solito dal fatto di avere una figlioletta di pochi mesi a cui pensare “Sam ha quasi perso una gamba, e Thor…”
“Non riusciamo a rianimarlo!” urlò Simmons “Chiamate Loki, o qualcuno, ma veloci, o sarà troppo tardi!”
Maria non riuscì a trattenersi, mandò la sua obbedienza nel cassetto più remoto della sua coscienza e si fiondò verso il corpo del biondo, steso inerme a terra, e cominciò a tempestarlo di pugni sul petto, misto a un massaggio cardiaco energico e disperato.
“Svegliati!” urlò disperata, piena di rabbia “Non puoi andartene così, svegliati, Thor!”
Ma a nulla valevano i suoi pugni, il dio non respirava.
Maria si accasciò accanto al corpo di Thor, senza più fiato né forze. “Ti prego, non lasciarmi” mormorò con voce rotta.
Il viso del dio era pieno di graffi, sulla fronte un taglio da cui il sangue aveva smesso di scendere, il labbro spaccato, i capelli umidi di sudore. E anche in queste condizioni, Maria non poteva fare a meno di trovarlo irresistibilmente bello.
“Svegliati” sussurrò Maria, dolce “Svegliati, ti supplico”
Dal dio, tuttavia, nessuna risposta.
Fury le appoggiò una mano sulla schiena, senza dire niente, partecipando muto al suo dramma mentre tutti gli altri Avengers si dirigevano lentamente verso il Quinjet, seguendo il suo ordine.
Maria, spezzata nel profondo all’idea di aver perduto l’unico uomo che avesse mai amato, si lasciò andare al pianto, stringendo tra le sue mani calde quelle fredde di Thor.
Rimase a lungo in quella posizione, incapace di muovere un solo muscolo che la portasse lontano dal dolore che stava provando, lontano da quel corpo che aveva più volte stretto al proprio, lontano da quell’anima che aveva incontrato la sua e l’aveva completata senza chiedere nulla in cambio.
“Dovremmo andare, Agente Hill” disse Fury con voce bassa e meno decisa del solito – Maria avrebbe giurato di averlo sentito trattenere il fiato per non lasciarsi sfuggire una lacrima – “Dobbiamo…”
Un movimento impercettibile, una stretta debole di mano, furono tutto quello che bastò a Maria per non prestare più alcuna attenzione alle parole del suo superiore e concentrare tutta la sua attenzione sul bell’asgardiano che, miracolosamente, aveva ricominciato faticosamente a respirare.
“Maria…”
Il proprio nome, sussurrato dalla voce roca e affaticata del dio, fu il suono più bello che Maria avesse mai sentito in tutta la sua vita. La donna annuì, commossa, incatenando i suoi occhi a quelli dell’uomo, sorridendo piena di sollievo.
“Cosa è successo?” domandò il dio carezzandole l’avambraccio con dolce debolezza.
“Avete vinto” mormorò Maria “Ma tu non ti svegliavi, abbiamo temuto che… che…”
“FitzSimmons, una barella qui, veloci!” ordinò Fury.
“Torniamo a casa?” domandò il dio socchiudendo gli occhi.
“Sì” Maria gli accarezzò i capelli, lasciandosi andare a un gesto di dolcezza non comune in pubblico “Torniamo a casa”

(1280 parole)

 
 
 


Angolino disagiato
Eccomi, ovviamente di nuovo in ritardo, e vi porgo nuovamente le mie più sentite scuse.
La sessione invernale si fa sentire più di quanto voglia, e purtroppo non sto avendo affatto tempo di scrivere. Devo preparare un sacco di esami, i lavori di gruppo non mancano mai, e il tempo a mia disposizione è pochissimo – e quello che ho, lo uso per dormire, dato che sono letteralmente stanchissima.
Spero comunque che sia uscito qualcosa di decente.
Ho visto il trailer di Captain Marvel e Avengers: End Game, e sono letteralmente in hype. Non vedo l’ora di vedere questi due film, dico sul serio. Voi che mi dite? Siete anche voi in trepidante attesa dell’uscita di questi due film?
Un affettuoso abbraccio, a DOMENICA 23 DICEMBRE!
 
_astronaut_

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Capitolo 6
*** Moonlight ***


PERSONAGGI: QUILL e GAMORA
QUANDO: QUALCHE SETTIMANA DOPO LA SCONFITTA DI THANOS

 
Moonlight
 
La Milano era decisamente messa male e necessitava indubbiamente di una manutenzione coi fiocchi: presentava numerose ammaccature – regalino di Thanos – e altrettante bruciature, cui si sommavano graffi profondi che minacciavano di farla aprire in due, se solo l’avessero fatta volare ancora attraverso qualche portale o atmosfera.
Shuri, guardando con occhio critico la navicella dei Guardiani, aveva capito che essa avesse bisogno di una bella puntata dai suoi meccanici. Ed era da ormai una settimana che il velivolo era “in cura” dai terrestri, ma Quill (pur fidandosi ciecamente) sentiva un peso sul cuore, tutte le volte che ci pensava.
Appoggiato al parapetto della grande terrazza del palazzo di T’Challa, Peter guardò in alto e si mise a contare le stelle, cercando di rasserenare la sua mente inquieta e confusa.
Troppe cose erano successe, troppi dolori aveva sopportato, troppe persone aveva incontrato: era stanco, avrebbe solo voluto ritirarsi nella sua piccola cuccetta della Milano e dormire per giorni, lassù, nel buio più profondo, circondato dalla sua famiglia, stretto alla sua donna, immerso nell’Universo infinito.
Perso completamente nei propri pensieri, non si accorse nemmeno del fatto che alle sue spalle ci fosse qualcuno che, come lui, quella notte non riusciva a prendere sonno: Gamora lo avvicinò da dietro, appoggiando il mento sulla sua spalla e facendo scorrere le mani sul suo petto, incrociandole all’altezza del cuore dell’uomo.
Quill sospirò, riconoscendo il suo tocco e il suo profumo, accoccolandosi a lei, guardando verso il cielo colmo di stelle. La Terra – e il Wakanda – erano posti magnifici, ma il loro habitat, la loro vera casa, era lassù: tra le nebulose e le stelle, tra portali e pianeti ignoti, pronti a offrire soccorso a chiunque li chiamasse, o semplicemente a scoprire mondi e posti nuovi.
“Ti va di ballare?” domandò Gamora con un sussurro, un pizzico di palese divertimento nella voce.
“Con te? Sempre” rispose Quill girandosi piano verso di lei, stringendola a sé per i fianchi e cominciandosi a muovere lentamente e dolcemente.
Lei sorrise, gli occhi più luminosi delle Galassie che avevano esplorato, due cieli scuri pieni di lucciole che guardavano solo ed unicamente lui, il viso illuminato dalla luce argentea della luna, che non faceva altro che far brillare i suoi piccoli tatuaggi sul viso.
Non si era mai sentito così fortunato come in quel momento: il solo riuscire ancora a percepirla, respirarla, guardarla, gli sembrava un miracolo. Sorrise, Peter, ricolmo di quel sentimento che era esploso in tutta la sua potenza quando Thanos gliela aveva portata via, prendendosi la sua vita in cambio di una dannatissima gemma, per raggiungere il suo scopo malato e folle.
“Dancing in the moonlight, don’t we have it all?” canticchiò a bassa voce la giovane donna, sorridendo invece serena, accarezzandogli il viso con estrema delicatezza, strappandolo ai suoi lugubri pensieri.
Peter sentì il cuore stringersi in una stretta piacevolmente dolorosa, si fermò, sorrise, e la baciò.
La baciò come sempre aveva desiderato fare, senza nessuno a spiarli o a guardarli storto. La baciò come se fosse l’ultima volta, la baciò come se volesse vivere solo di lei, e non di ossigeno. La sentì sorridere tra le sue labbra, e non poté fare a meno di sorridere a sua volta, rabbrividendo al tocco delle sue mani sulle sue spalle.
“Vuoi tornare nel cielo, vero?” domandò Gamora a qualche centimetro dal suo viso.
“Solo se ci sarai anche tu” mormorò Peter “Non ho intenzione di separarmi da te per nessun motivo al mondo”
Gamora ridacchiò, baciandolo sul collo senza alcuna malizia, abbracciandolo e respirando appieno il suo profumo. Quill non era l’uomo perfetto, non aveva i muscoli di Thor, la fermezza del Capitano, la presenza di Tony, o la scaltrezza di Loki. Quill era semplicemente Quill, un uomo mezzo dio, un ragazzo cresciuto da solo, tra le stelle e mille dolori, che aveva imparato cosa volesse dire essere veramente amato solo quando lei, una guerriera impietosa e letale, aveva deciso di offrirgli, anche un po’ inconsapevolmente, il suo affetto e la sua fiducia, per poi trovarsi a essere, incredibilmente, ricambiata.
Si erano trasformati, da brutti anatroccoli a favolosi cigni, assieme, grazie all’aiuto l’uno dell’altro, e se Gamora avesse dovuto nascere di nuovo, non avrebbe cambiato nulla, ma proprio nulla, del loro rapporto.
Sentì le labbra di Peter andare ad appoggiarsi dolcemente sui suoi capelli, un gesto che ogni volta la faceva sentire a casa, protetta, al sicuro. Un sentimento che, entrambi sapevano, non apparteneva a nessuno dei due e che solo in presenza l’uno dell’altro erano in grado di provare.
Erano indiscutibilmente la cura l’uno ai dolori dell’altra, l’antidoto al veleno che la vita aveva iniettato nelle loro vene, forse con l’intento di farli crollare, o più probabilmente, per farli incontrare, e renderli immuni a qualsiasi scherzo del fato.
Gamora credeva nel destino: credeva nel fatto che tutto, prima o poi, si risolvesse. E che coloro che fossero destinati a stare insieme trovassero sempre il mondo di ritrovarsi. Nonostante il tempo, lo spazio, il mondo, la guerra, la morte. L’esempio lampante che la sua teoria fosse vera era la storia del Capitano e di Bucky. Ogni volta che la donna ci pensava, sentiva un piacevole calore al centro del petto.
Come quei due, anche loro si erano risolti a vicenda, come un puzzle rotto in mille pezzi dalle asperità e dalla crudeltà delle persone che avevano incontrato, quasi bruciato dalla morte di Gamora e dalla scomparsa di Quill.
“You make my heart feel like it’s summer, when the rain is pouring down” intonò Peter facendo sfiorare i loro nasi, facendola sorridere di cuore.
“E se stessimo un po’ qui sulla Terra?” propose Gamora “Andiamo a vedere i posti più belli, io, te, Rocket, Nebula, Drax, Mantis e Groot… In fondo, tutti sanno chi siamo. Non ci guarderanno male”
“E’ più probabile che ci saltino addosso, visto che abbiamo salvato l’Universo” ironizzò Peter prendendola per mano e dirigendosi con calma verso l’interno del palazzo.
“E’ bello non essere odiati, no?” domandò lei con un pizzico di amarezza nella voce “E poi… Avere i piedi su di un terreno solido, non è così male”
“Non vuoi tornare lassù?” domandò Peter preoccupato.
“Non al momento” ammise Gamora “Voglio stare qui. Con te. Voglio vedere questo piccolo mondo per il quale ho combattuto assieme agli Avengers, per il quale ho visto tutti loro essere disposti a dare la vita. Thor mi raccontava delle meraviglie di New York, penso che dovremmo andare a farci un giro”
Peter annuì. “Appena ci sistemano la Milano”
“E’ un po’ ingombrante, non trovi?” chiese divertita Gamora.
“Noi siamo ingombranti” ironizzò Peter “Lo siamo sempre stati”
I due risero, sereni. “Allora, ci stai?” domandò Gamora.
Peter annuì, felice.
Quello era solo l’inizio di una vita che sempre aveva sognato: l’avere un luogo fisso a cui fare ritorno, avere degli amici che sempre stavano con lui, averne degli altri, dai quali avrebbe sempre potuto trovare aiuto in caso di necessità, una donna che amava con tutto sé stesso sempre a suo fianco, l’opportunità di vedere il mondo a cui era stato strappato da bambino senza timore di essere rigettato: sembrava una favola.
“Odio le favole” disse Gamora trascinandolo dolcemente con sé nella sua stanza “E il gran finale”
“Perché?” domandò Peter con la bocca secca.
“Perché quello che conta, è qualcosa per cui una fine non c’è”
“Non siamo una favola” Peter le accarezzò il viso “Siamo la realtà. E per una volta, la realtà è più bella dei nostri più rosei sogni”
 
(1243 parole)

 
Angolino disagiato
Eccomi qui (per Natale, eheheh, dovevo farvi un regalino per farmi perdonare dei clamorosi ritardi, o no? E infatti, ho postato due capitoli, andate a leggere anche il prossimo!), sorpresi, vero? “Solo” un giorno di ritardo, ma scusatemi, ero a sciare.
Fatemi sapere cosa ne pensate! Un abbraccio
 
_astronaut_
 
P.S.
Credits to: Lost Frequencies, Kodaline ed Ermal Meta per le frasi delle loro canzoni che ho inserito in questa OS.

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Capitolo 7
*** Nuvole Bianche ***


PERSONAGGI: TONY e SOPHIE
QUANDO: ANNI DOPO LA SCONFITTA DI THANOS

 
Nuvole Bianche
 
Le note di Nuvole Bianche, di Einaudi, risuonavano leggere nella grande sala dell’immensa villa di Malibù, e riempivano il silenzio assorto che si creava sempre quando Tony, sentendo la figlia mettere mano al pianoforte, si stendeva sul divano e chiudeva gli occhi, lasciando che la dolcezza di quelle note gli entrasse nel cuore e nella mente, rilassandolo e ponendolo in una condizione di pace con il mondo intero.
Schiudendo appena gli occhi, Stark non poté fare a meno di restare a bocca aperta alla vista della sconcertante bellezza di quella bambina prodigio, che a soli dieci anni, già aveva scritto i suoi primi brani e dato dei concerti a delle serate di gala.
Bella, delicata e dolce come un fiocco di neve in una sera invernale, dal sorriso splendente come il sole di un tiepido pomeriggio primaverile, si muoveva con sinuosità, perfetta e composta nella sua postura, elegante come una regina, un tutt’uno con lo strumento che stava abilmente suonando, gli occhi chiusi, le mani piccole ed esperte che si muovevano sicure sui tasti bianchi e neri.
Bianchi come la sua anima, pura e innocente, neri come l’inchiostro che già aveva scritto tre canzoni: una dedicata a Peter, una a lui e Pepper, una alla sua famiglia.
Con un moto di commozione, si trovò ad asciugarsi una piccola lacrima che, traditrice, gli stava solcando il viso. Non riusciva a credere che una creatura del genere fosse davvero sua figlia.
Sembrava un angelo, sceso apposta dal cielo per sanare con il suo amore tutte quelle ferite che nessun essere umano, nemmeno Pepper, avrebbe mai potuto curare, per mettere a tacere il suo dolore con l’avvolgente melodia del battito del proprio cuore. Da quando lo aveva sentito, era diventato il suo suono preferito, accompagnato dalla risata di Peter e dalla voce di Pepper.
Sophie possedeva numerosi tratti che la rendevano simile a Pepper, tra cui la dolcezza e la passione per la musica classica, ma altrettanti che non avrebbero fatto dubitare nessuno del fatto che fosse anche figlia sua, come per esempio la genialità, o il carattere un po’ diffidente e bisognoso d’affetto.
Tony si perse ad osservare i capelli che, con delle onde appena accennate, le ricadevano sulle spalle: osservarla in controluce aveva un non so che di straordinario, dato che i capelli castano chiaro rilucevano di riflessi dorati, e sembrava che il sole la avvolgesse in un abbraccio caldo e confortevole.
Il pensiero tuttavia di lasciarla andare, la consapevolezza che un giorno lui, Tony Stark, l’indomabile Iron Man, non avrebbe più aperto gli occhi e non avrebbe più potuto sorridere a un miracolo vivente come Sophie, gli metteva più angoscia di quanto fosse disposto ad ammettere.
Non poter più essere lì per lei, non poterle più accarezzare la testa nei momenti di sconforto, non poter più trascorrere del tempo con lei in laboratorio, anche senza parlare, semplicemente immersi ognuno nei propri lavori, erano tutte cose che lui amava e che, sapeva, prima o poi sarebbero finite.
“La fine fa parte del viaggio” si era detto, una mattina, allo specchio, notando i primi capelli bianchi e le rughe dell’età che, impietose, solcavano il suo viso ancora attraente. Quella sera, aveva stretto a sé Pepper come se fosse l’ultima volta che gli fosse concesso di starle accanto. Lei, che aveva capito tutto, si era limitata a stringerlo a sé con quanto più amore potesse, facendogli capire che, tutto sommato, era una cosa che entrambi avrebbero dovuto accettare.
Il mondo sarebbe andato avanti anche senza di loro. Ed era giusto così.
Sophie stava crescendo a vista d’occhio, e lui, d’altro canto, invecchiava inesorabilmente.
Non si accorse nemmeno del fatto che la melodia fosse finita fino al momento in cui gli occhi color caramello di Sophie andarono a incontrare i suoi, umidi di lacrime.
“Papi?” domandò la bimba con voce sottile “Perché piangi?”
Tony si riscosse, accogliendo tra le braccia la piccola che, preoccupata, era corsa davanti a lui, prendendogli il viso rigato di lacrime tra le mani candide e sottili.
 “Cosa succede, papà?” continuò la piccola, seria, appoggiando la guancia sulla sua spalla, stringendolo forte.
“Niente” negò Tony, accarezzandole la schiena, il labbro che tremava “Ti voglio bene, Sophie”
“Lo so che mi vuoi bene” mormorò la piccola “Ma io te ne voglio di più”
Tony sentì una fitta al cuore. Una fitta piacevole, di quelle che mai, prima che Sophie nascesse, avrebbe mai pensato di poter provare. Una di quelle fitte che lui non era mai stato in grado di regalare a suo padre, una di quelle fitte che tanto avrebbe voluto donare, almeno a sua madre, prima che fosse troppo tardi.
L’uomo trattenne un singhiozzo. Sophie lo disarmava, gli leggeva dentro con una facilità e una naturalezza tali da fare impressione.
“Oggi è il tuo compleanno” sussurrò la bimba “Io ti ho scritto una canzone, te la volevo fare sentire, prima che arrivassero la mamma e Peet, e tutti gli altri zii, perché voglio che tu la senta per primo, da solo, ma se non vuoi…”
Tony sorrise, lasciando che lacrime calde gli scorressero lungo il viso, poi le diede un bacio sulla testa, pieno di tutto l’affetto che avrebbe voluto poterle dare in eterno. “Sei un tesoro. Fammela sentire”
Sophie sorrise, e corse al pianoforte, cominciando a suonare una melodia nuova, immensamente dolce. Il cuore di Tony prese a battere velocemente, pesante di commozione, ma alleggerito dall’immensa gioia che stava provando.
Sophie terminò, voltandosi verso di lui con un sorriso carico d’aspettativa.
“Grazie, piccola. E’… il più bel regalo di compleanno che io abbia mai ricevuto”
La bambina si alzò felice, e corse ad abbracciarlo stretto, dandogli un bacio sulla guancia. Rimasero così per un po’, poi lui la prese in braccio e la sollevò in aria – non senza sentire un po’ tirare la schiena – facendola ridere come non mai.
“Mettimi giù!” urlò la bambina, ridendo serena.
“Mhm… Cosa mi dai in cambio?” domandò Tony caricandosela come un sacco sulle spalle.
“Peet! Peet!” la bambina chiese aiuto al fratello, appena entrato in casa, ancora vestito di tutto punto.
“Ciao, Peet!” lo salutò Tony, ridendo e lasciando che Sophie si liberasse e andasse ad abbracciare il fratello, che la prese in braccio senza fare alcuna piega dopo aver appoggiato la giacca sul divano.
“Ciao, papà” rispose Peter dopo aver salutato la piccola “Mamma?”
“Qui!” si palesò Pepper “E ho compagnia!”
Tutti gli Avengers, con figli al seguito, fecero capolino dalla porta della villa di Malibù.
Quel compleanno fu il migliore della vita di Tony. E guardandosi in giro, vedendo Sophie ridere assieme al figlio di Strange e al figlio di Rogers e Barnes, notando lo sguardo sempre attento di Peter verso la sua sorellina, non poté fare a meno di sentirsi, finalmente, tranquillo.
Sophie non sarebbe mai stata sola.
 
(1128 parole)

 
Angolino disagiato
Oh, vi giuro, ho ancora le lacrime agli occhi.
Spero di aver scritto qualcosa di decente, perché il clima natalizio, la malinconia tipica della consapevolezza del fatto che un altro anno sia passato, e il bellissimo brano di Einaudi a cui mi sono ispirata per scrivere questa OS, hanno fatto sì che uscisse una cosa a metà tra il fluff e il profondamente malinconico. Ho sempre voluto scrivere qualcosa di serio su Tony e Sophie, soprattutto su come Tony si comporti come padre, cosa pensi nelle vesti precedentemente ricoperte da Howard, ma non avevo mai trovato il contesto adatto, né l’ispirazione adeguata. E poi, dovevo ancora capire che tipo volevo che fosse la piccola erede Stark. E niente, ecco tutto, alla fine ho trovato il coraggio di scrivere questa OS. Spero che vi sia piaciuta tanto quanto è piaciuto a me scriverla, fatemi sapere, se vi va!
Per il resto, volevo ringraziarvi per tutto il supporto che mi avete donato, è stato un anno fantastico e ricco di soddisfazioni. Grazie.
Non posso fare altro se non augurarvi un felicissimo Natale e un grandioso anno nuovo, vi abbraccio immensamente. Ci vediamo a Gennaio!
 
_astronaut_

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Capitolo 8
*** Perfect ***


PERSONAGGI: Bruce + Natasha
QUANDO: Quattro anni dopo la sconfitta di Thanos

 
Perfect
 
Natasha era fredda come la neve dell’inverno russo, ma lì, tra le sue braccia, il suo corpo bruciava di un calore segreto, celato a tutti coloro che non erano riusciti a rapirle il cuore così come invece, incredibilmente, aveva fatto lui.
Sì, lui, il goffo, timido, per niente palestrato, dottor Banner. Lui, Bruce, che cercava di non uccidere nemmeno una mosca, se solo poteva liberarsi della sua fastidiosa presenza con metodi pacifici. Lui, che fuggiva da tutte le guerre e da tutti i conflitti per non uccidere. Lui, che invece, aveva ucciso più di quanto fosse disposto ad ammettere.
Forse, rifletté Bruce, era proprio per questo che Natasha si era innamorata perdutamente di lui.
Natasha era stata plasmata come un metallo, affilata come una spada, creata come una macchina, al fine di uccidere con efficacia e senza farsi alcuno scrupolo. E, si disse Bruce, lui rappresentava tutto ciò che, in fondo, Natasha aveva sempre sognato: un paio di braccia da cui farsi avvolgere che le potessero dire che ormai, di guerre, non ce n’erano più da combattere. Che erano state tutte vinte, che non c’era più alcun bisogno di fuggire, nascondersi, fingere di essere qualcuno per salvarsi la pelle. Bruce era la pace che Natasha cercava da tuta la vita.
Quasi svegliata dal rumore dei suoi pensieri, la donna aprì i due grandi occhi verdi smeraldo, incastonandoli in quelli scuri di lui, che si persero nel contare le pagliuzze dorate al loro interno.
Natasha sorrise al suo uomo, carezzandogli il petto e lasciandogli un bacio a fior di labbra, inspirando a fondo il profumo del suo dopobarba.
“Che ore sono?” domandò la russa, alzandosi dal letto senza alcun pudore per il proprio corpo nudo alla vista di Bruce, cercando pigramente qualcosa da mettersi tra i vestiti che erano stati abbandonati alla rinfusa sul parquet della loro baita in montagna.
“Non ne ho idea” riuscì a rispondere Banner, sentendo agitarsi qualcosa ai piani bassi, tentando con tutte le sue forze di non diventare paonazzo.
La spia infilò una sua camicia, che andò a coprirle il corpo fino a metà coscia, poi indossò un paio di pesanti calzettoni di lana e sbadigliando uscì dalla stanza, diretta probabilmente verso la cucina.
Natasha sogghignò, sentendolo sospirare di sollievo non appena sparì dalla sua visuale. I suoi attenti occhi da spia avevano registrato ogni minimo movimento di Bruce, ogni minimo cambiamento nel suo respiro, e si era dunque perfettamente resa conto del fatto che il dottor Banner stesse operando su sé stesso uno sforzo di autocontrollo non indifferente per non saltarle addosso e trascinarla di nuovo a letto con sé.
La donna alzò lo sguardo verso l’orologio sopra le credenze: erano le sei di sera, l’ora ideale per un the caldo nel silenzio e nella pace della loro piccola baita di montagna.
I due erano ancora distrutti dalla serata passata con tutti gli altri Avengers e i loro pargoletti: incredibile come passasse il tempo, erano già trascorsi più di quattro anni da quando tutto era tornato alla normalità, e ancora nessuno di loro riusciva davvero a credere che il peggio fosse passato.
Proprio Bruce in quel momento le cinse la vita e le lasciò un piccolo bacio sul collo, distogliendola dai suoi pensieri.
“Senti anche tu?” domandò Natasha irrigidendosi e tendendo l’orecchio, stringendo forte le mani delicate dell’uomo, che ricambiarono immediatamente la sua stretta.
Bruce si immobilizzò, e il lieve rumore che aveva percepito Natasha si fece più chiaro, più vicino e minaccioso.
“Se è un altro mostro inter-dimensionale, giuro che sgozzo Strange” brontolò Natasha prendendo un coltello da cucina, pronto a usarlo in caso di necessità.
“Non diventare verde, Bruce” sussurrò “Non voglio spendere soldi per riparare la casa che abbiamo appena comprato”
Bruce si lasciò scappare un sorriso tirato, e si diresse quatto verso la porta, sentendo grattare sul porticato mentre il rumore di un respiro animalesco gli giungeva fastidiosamente alle orecchie.
Natasha si avvicinò a lui, ed era già pronta a spalancare l’uscio e uccidere chiunque stesse osando disturbare la loro quiete, quando Bruce le poggiò delicatamente una mano sulla spalla.
“Guarda, Nat”
La donna obbedì, e dallo spioncino vide un cucciolo di cane lupo, tremante di freddo, raschiare sulla loro porta. Il cuore di Natasha si sciolse nel giro di pochi secondi e, abbandonando il coltello su un mobile dell’ingresso, aprì la porta, pronta a prendere in braccio l’animale.
Ma il cucciolo ringhiò, diffidente, mostrando i denti e allontanandosi da lei, per poi guaire, leccandosi una zampa (probabilmente ferita).
“Ha fame, freddo, e paura” sussurrò Bruce “Vado a prendere del latte caldo e una coperta”
“Se non si sbriga mi prendo una polmonite” borbottò Natasha, lasciandosi annusare dal tartufino del cucciolo e azzardandosi a carezzargli piano la testa morbida, ghiacciata e umida di sangue.
Il cucciolo accettò le sue coccole e le leccò la mano, mordendola appena, per gioco. Natasha sorrise dolcemente, e nel momento in cui con la coda dell’occhio vide Bruce arrivare con coperta e latte, prese con delicatezza in braccio il piccolo cane, che abbaiò felice quando, una volta in casa, Bruce gli offrì il latte.
“Chissà cosa gli è successo” pensò a mezza voce l’uomo, notando il pelo grigio chiazzato di sangue scuro, probabilmente non suo.
“Cosa ne facciamo?” domandò Natasha sedendosi a fianco del cucciolo e accogliendone la testolina sulla sua gamba, una volta che aveva finito di sfamarsi, e cominciando a coccolarlo ancora.
“Lo teniamo?” propose Bruce non riuscendo a non sorridere vedendo la sua donna così amorevole nei confronti dell’animale spaesato.
Forse era proprio una dote di Natasha, quella di provare affetto per soggetti senza apparenti speranze.
Come quel cucciolo, Bruce era stato trovato da Natasha nel momento di maggior bisogno, e come quel cucciolo, Bruce non aveva potuto fare altro se non fidarsi di quella mano candida che, sicura, si era tesa verso di lui, senza alcuna paura o esitazione, né ribrezzo, nei suoi confronti.
“Non… Non lo so” disse Natasha lasciandosi annusare, senza distogliere lo sguardo dagli occhi eterocromi del cucciolo “Tu vuoi tenerlo?”
“Perché no?” sorrise l’uomo, abbassandosi alla stessa altezza della donna, alzandole il mento nella propria direzione “Tu vorresti tenerlo?”
“Non voglio importi niente” mormorò Natasha “E’ comunque un impegno, e volevamo stare tranquilli io e te, e…”
Bruce la baciò piano, accompagnato dai versetti felici del cane. “Teniamolo”
Gli occhi della spia si illuminarono di gioia, e fecero scorrere lo sguardo verso Bruce che, gattoni, faceva amicizia con il cucciolo, che cercava di prendere le grandi mani dell’uomo con le sue zampette pelose.
Natasha non aveva mai visto Bruce così in pace con se stesso: i riccioli scuri, un po’ disordinati, gli ricadevano sulla fronte e la barba incolta di due giorni faceva capolino sul suo viso privo di ogni preoccupazione, e gli occhi, privi dello schermo degli occhiali, erano ancora più neri di quanto si immaginasse, caldi e dolci come il cioccolato fuso. Bello di una timida bellezza, rideva di una felicità pura, senza filtri, contento del suo essere, finalmente, uomo. Non il dottor Banner, non Hulk il supereroe, ma semplicemente Bruce.
“Argo” disse Natasha, catturando l’attenzione anche del cucciolo.
“Sì. Argo è un bel nome” approvò Bruce, seguito a ruota dal cane, che prese a leccargli il viso.
Presa da uno strano moto, si diresse verso il salotto, dove prese la vecchia Polaroid di Banner, che nel frattempo l’aveva seguita, tampinato da Argo.
Non ci vollero parole: seduti sul divano, tra loro il cucciolo, scattarono una foto.
La loro prima foto nella loro nuova casa, oltretutto.
E quando essa si asciugò, mostrando finalmente i soggetti, Natasha sentì il cuore librarsi leggero verso il cielo bianco di neve: quei sorrisi se li sarebbe portati per sempre nel cuore.
 
(1281 parole)

 
 
 
 
 
Angolino disagiato
Ho visto il video di Perfect di Ed Sheeran, qualche giorno fa. E niente, sommato al desiderio che ho sempre avuto di ricevere in regalo un cane, ha fatto sì che io scrivessi questa OS. E non avete idea di quanto invidi la Natasha di questa breve storia, proprio no.
Spero che abbiate passato delle bellissime vacanze, io domani torno in Università e sarò di nuovo estremamente impegnata, dato che ho altri esami da dare. Ci aggiorniamo a febbraio (lo so, è un mese, ma penso possiate capirmi T.T)
Sentire i vostri pareri è sempre un piacere, quindi se volete, lasciate una recensione!
Un abbraccio forte
 
_astronaut_

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