La notte dei lemming di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte ***
Capitolo 2: *** Seconda parte ***
Capitolo 1 *** Prima parte ***
Lemming 1
LA
NOTTE DEI LEMMING
Prima parte
Jesús
Morales montò in sella alla sua cargo bike e prese a pedalare
lentamente lungo il marciapiede. Era un buon orario: si era fatto
buio e i turisti cominciavano a uscire dai casinò. Passeggiavano su
e giù per la Strip guardando i grandi alberghi pieni di luci, e dopo
un po’ ovviamente gli veniva fame.
Ne adocchiò un gruppetto che si
faceva fotografare davanti all’enorme piramide nera del Luxor
Hotel. Il cielo era già sufficientemente scuro e si vedeva bene il
raggio bluastro che usciva in verticale dalla cuspide dell’edificio.
Passò oltre, lasciandosi alle
spalle anche l’Excalibur, con le sue guglie dal tetto rosso e blu
che sembravano costruzioni per bambini.
Un paio di ragazzotti orientali
lo fermarono e si scambiarono selfie mentre compravano hot dog come i
tipici personaggi dei telefilm americani. Fecero la foto anche al suo
contenitore termico, su cui aveva disegnato, nera sulla superficie
bianca, la silhouette di un cane con una fiammata che gli usciva dal
culo, giusto per far capire che la sua roba era davvero
piccante.
I due ragazzotti non diedero
importanza al messaggio, o più probabilmente non lo colsero, fatto
sta che in un inglese più approssimativo del suo gli chiesero altro
chili, come se la salsa che aveva steso sulle salsicce non fosse già
abbastanza forte di suo.
Li accontentò e se li lasciò
alle spalle che rantolavano come asmatici, disposti anche a ficcare
la testa in una fontana pur di avere un sorso d’acqua.
Salutò con un cenno del capo la
Statua della Libertà posticcia davanti al NY Hotel e vendette un
paio di hot dog a una coppietta talmente impegnata a sbaciucchiarsi
che quasi dimenticava di fargli l’ordinazione. La cosa lo
indispettì, per cui prese dalla rastrelliera delle salse quella
contrassegnata con il teschio e le ossa incrociate e ne strizzò un
bel po’ sui panini. Scomparve nella folla prima che i due li
addentassero.
Ghignò tra sé e sé: niente
sesso anale per un po’, piccioncini.
Dal Caesar’s Palace uscì una
frotta di suoi connazionali che avevano fatto i soldi. Le femmine
indossavano sgargianti abiti da sera, che si tendevano su forme
perlopiù sovrabbondanti. I maschi erano rasati, vestiti di nero e
tatuati ed esibivano pesanti catene d’oro al collo e ai polsi.
Jesús
fece un rapido calcolo di quanti hot dog avrebbe dovuto vendere per
comprarsi il più semplice di quei monili e il risultato fu
sconfortante.
Considerò che invece degli hot
dog avrebbe fatto meglio a vendere cocaina come quei tizi.
Continuò a risalire la Strip e
nel passare gettò uno sguardo annoiato al Venice Hotel, con le
barche nere a forma di banana che andavano su e giù nel canale
finto.
Ricordava ancora quanto lo
avevano colpito la prima volta che le aveva viste. Ora aveva solo
voglia di cagarci dentro, in quel canale: un bello stronzo di quelli
lunghi sarebbe sembrato una barca a banana in miniatura e magari nel
buio qualche turista avrebbe anche cercato di prenderlo.
Raggiunse la Stratosphere Tower.
Come ogni sera guardò in su e si stupì nel notare che le giostre
erano tutte ferme. L’insanity pendeva immoto come una specie di
ombrello mezzo aperto e l’X-scream, che normalmente basculava nel
vuoto carico di turisti urlanti, era immobile e silenzioso.
Fu a quel punto che notò una
forma in movimento. Alzò lo sguardo e vide che si trattava di una
persona, una donna a giudicare dagli abiti ampi e svolazzanti, che
stava precipitando. Sulle prime pensò a un inconsueto
bungee-jumping, ma gli bastò un’occhiata per capire che nessun
cavo di sicurezza avrebbe frenato la caduta del corpo. “Madre
de Dios!” esclamò,
più per abitudine che per altro, giusto un attimo prima che si
udissero un tonfo sordo e poi delle urla di orrore.
Si voltò quasi con nostalgia
verso il punto in cui il corpo era atterrato, nascosto da alti
pannelli, e rimpianse di non aver avuto il cellulare pronto: a casa
si sarebbero goduti il filmato.
Era ancora immerso in quelle
considerazioni quando un secondo corpo, questa volta di un uomo,
seguì il primo.
Ci furono un altro tonfo e delle
altre urla, più forti delle precedenti, poi si udì una sirena della
polizia in avvicinamento.
Fece un rapido calcolo: suicidi,
casino, curiosi, folla. Zona transennata. Niente da mangiare per la
gente che voleva seguire lo svolgersi degli eventi.
Niente a parte i suoi hot dog, se
fosse riuscito a sistemarsi nel posto giusto.
Spinse il carretto alla base
della torre, quindi staccò dalla canna della bicicletta un tubo di
piombo che vi teneva assicurato per i momenti di necessità e si
diresse con fare deciso verso un concorrente, un altro messicano, che
si era accaparrato un posto decisamente migliore del suo e aveva un
chiosco più grande. “Smamma, qui ci sto io,” gli ingiunse torvo.
“E perché?” protestò
l’altro, “Io ero qui prima di te.”
Jesús
passò allo spagnolo: “Ma io ti spacco la faccia se non ti togli
dalle palle.”
“Chiamo la polizia!”
“Che per prima cosa controlla
se sei un irregolare.”
L'altro si mosse a disagio e
fissò lo sguardo sul tubo di piombo, che continuava a ondeggiare
sinistro a un palmo dalla sua vetrina dei panini. Ringhiò fra i
denti cavron
e hijo de puta,
peraltro attento a non pronunciare le parole in modo troppo chiaro,
poi però raccolse il carretto e si spostò di qualche centinaio di
metri.
Padrone del campo, Jesús
si installò nella piazzola, aprì l'ombrellone anche se ormai era
notte fonda e con voce stentorea cominciò a declamare: “Hot dog! I
migliori hot dog di Las Vegas! Patate fritte! Chili con carne!”
Frattanto sogguardava quasi con
affetto il nugolo di lampeggianti rossi e blu che si stava radunando
alla base della torre.
“Hot dog!” ripeté, a voce
ancora più alta. “I più piccanti! Mira
el perro, fuoco al
culo garantito!”
☺
L'agente Schneider smontò
dall'auto di servizio e per prima cosa rivolse uno sguardo torvo alla
cima della Stratosphere Tower. “Merda,” brontolò, “se quegli
stronzi avessero deciso di saltare dieci minuti più tardi, avrei
fatto in tempo a finire il turno e adesso sarei a casa mia a guardare
la partita in televisione.”
Smontando a sua volta, l'agente
Stevenson, che insieme al primo costituiva una coppia affettuosamente
definita dai colleghi SS, solennemente proclamò: “Tutti questi
tizi che salgono sui cornicioni e stanno lì a rompere le palle per
ore sono solo degli stronzi. Ti vuoi ammazzare? Fallo e non rompere i
coglioni, dico io.”
In quel momento, qualcuno balzò
dalla piattaforma del bungee-jumping, sembrò rimanere sospeso a
mezz'aria per un istante, quindi cominciò a precipitare, con gambe e
braccia allargate in quello che appariva come un comico tentativo di
rallentare la caduta.
I due poliziotti seguirono con lo
sguardo i trecento e passa metri di traiettoria, quindi Schneider
disse: “Questo è il terzo, stasera. Che cazzo c'è lassù, una
colonia di lemming?”
Stevenson si voltò a fissarlo.
“Di che?”
“Lemming. Sono quelle bestie
che a un certo punto diventano matte, saltano tutte insieme da
un'altura e si ammazzano.”
“Ma visti. Come sono fatti?”
Schneider alzò le spalle. “Boh.
Come dei topi, credo.”
“Perché saltano?”
“Te l'ho detto, diventano
matti.”
“E perché?”
“Che cazzo ne so? Se lo sapevo,
facevo il fottuto veterinario, non lo sbirro.”
Memori della strage del Mandalay
Hotel, andarono al bagagliaio, infilarono i giubbotti antiproiettile
e presero i fucili, poi Stevenson disse: “Guarda là, c'è quel
paraculo di Morales. Andiamo a prenderci un panino?”
Schneider annuì. “Per me, qua
si fa mattina. È meglio che andiamo a rifornirci prima che quel
mangia-tortillas vuoti la dispensa.”
“Ti ricordi quello che era
salito sul cornicione e voleva che chiamassimo sua moglie?”
“Pezzo di merda. Cinque ore a
parlare di cazzate per farlo scendere. Giuro che se alla fine non si
fosse buttato da solo, l'avrei sbattuto giù io con le mie mani.”
“Da solo? Ma non sei stato tu a
dirgli che sua moglie era a spassarsela alle Bahamas con dieci negri
superdotati?”
“E magari era anche vero.”
Camminarono per un po' in
silenzio, poi Stevenson considerò: “Però fece un bel botto, eh?”
“Sembrava che si fosse buttato
un cazzo di tricheco.”
“Fu lui che fece fuori la
macchina di Ross?”
“Nah. Una vecchia del cazzo gli
attraversò la strada durante un inseguimento.”
“Queste vecchie rincoglionite
creano sempre problemi.”
☺
Morales stava consegnando un paio
di panini a una coppia. Per quanto i due lo infastidissero –
continuavano a guardare il telefonino invece di guardare lui –
aveva rinunciato alla salsa super-piccante, per il semplice motivo
che non poteva allontanarsi da quel posto e non voleva che i due
spargessero la voce che la sua roba era immangiabile.
Probabilmente, considerò
comunque, avrebbe potuto spalmare sui panini anche la merda di
piccione, perché i due erano completamente assorbiti dalla visione
di una pagina Facebook.
Guardavano il cellulare come i re
magi avrebbero guardato Gesù bambino e ogni tanto si scambiavano
smozzicate esclamazioni di stupore.
“Ma...”
“Guarda qui!”
“Oh, cazz...”
“Noo! Non
ci credo...”
L'uomo spostò l'attenzione dalla
coppietta col telefonino a una coppietta decisamente meno simpatica:
gli agenti Schneider e Stevenson, appropriatamente noti come SS, si
stavano avvicinando.
“Buona sera,” li salutò
compunto, ripassando nel frattempo mentalmente tutte le scuse in
grado di giustificare la sua presenza in quella piazza, o più in
generale sul suolo statunitense.
Prima che i poliziotti potessero
rispondere, la ragazza della coppietta, gli occhi spalancati fissi
sullo schermo del telefonino, emise uno squittio particolarmente
acuto e si mise la mano sulla bocca.
Schneider buttò un occhio sul
filmato, forse aspettandosi un porno particolarmente spinto, ma
appena vide di cosa si trattava in tono professionale disse: “Faccia
vedere, signorina.”
Approfittando del fatto che
nessuno faceva caso a lui, Morales aggirò il chiosco e si piegò a
sua volta sull'apparecchio.
Il filmato ripartì. Una donna
con un lungo abito chiaro era in piedi contro un cielo notturno. Alle
sue spalle si estendeva la distesa di luci della città. Il vento le
scompigliava i capelli sciolti.
La donna rivolse a chi la stava
filmando un sorriso tranquillo, poi cominciò a recitare:
Possiamo passare la vita a
farci dire dal mondo cosa siamo.
Sani di mente o pazzi.
Stinchi di santo o
sesso-dipendenti.
Eroi o vittime. A lasciare che
la storia ci spieghi se siamo buoni o cattivi.
A lasciare che sia il passato
a decidere il nostro futuro.
Oppure possiamo scegliere da
noi.
E forse inventare qualcosa di
meglio è proprio il nostro compito.
Tacque per qualche secondo,
allargò le braccia come una specie di Cristo Redentore quindi
concluse: “Ho inventato qualcosa di meglio: scelgo da me. Decido da
sola del mio futuro.”
Dopodiché si lasciò cadere
all'indietro.
“Merda!” esclamò Stevenson
nella generale costernazione. Alzò lo sguardo sulla torre come per
avere una conferma che fosse proprio quella la struttura da cui la
donna si era buttata.
“Io l'ho vista con questi
occhi,” confermò Morales, fissando tutti con aria di importanza.
“È stata la prima che è saltata.”
☺
Quando i due agenti, ognuno con
un panino in mano e un altro in tasca, raggiunsero i colleghi, la
folla di volanti e ambulanze era aumentata ancora. La zona era stata
transennata e già frotte di curiosi si assiepavano contro le
barriere come se fossero stati a un concerto rock.
Il sergente Wilkes stava parlando
in tono concitato al cellulare di servizio.
“No che non ho fatto
irruzione!” sbraitò a un certo punto. “Vuole che quei pezzi di
merda saltino giù in massa? Ci parla lei, poi, coi giornalisti?”
Il graduato camminò su e giù un
paio di volte, come faceva solo quando era bestialmente incazzato.
Alla fine chiuse la comunicazione, buttò il cellulare sul sedile
dell’auto e ringhiò: “Vaffanculo! Possibile che me le devo
beccare tutte io, queste rogne di merda?” Si voltò a squadrare i
due poliziotti, poi proseguì: “Settantadue ostaggi del cazzo,
tutti asserragliati sulla cima della Stratosphere, vaffanculo a
loro!”
I due agenti si scambiarono
un’occhiata, poi Schneider disse: “Beh, chiuda tutti gli accessi,
sergente. Prima o poi dovranno scendere, in un modo o nell’altro.”
“Me le immagino già, le
associazioni politicamente corrette del cazzo, a frignare sulla
brutalità della polizia,” replicò Wilkes.
“La polizia deve anche essere
brutale, quando serve,” intervenne Stevenson. “Sono i pompieri
che trattano qualsiasi stronzo con i guanti bianchi.”
“Anche perché i pompieri
raramente hanno a che fare con negri strafatti di crack che gli
puntano delle pistole in faccia,” soggiunse Schneider.
Tutti annuirono, poi Wilkes
riprese: “La Centrale ci manda un negoziatore,
nientemeno.”
Schneider alzò un sopracciglio
con aria scettica. “Uno di quei tizi che vanno dai sequestratori e
li distraggono finché un cecchino non riesce a stenderli?”
“Già.” Il sergente emise un
sospiro che sembrava l'ultima esalazione di un bufalo morente.
“Settantadue, ce ne sono, di quegli stronzi. Settantadue. Mi
faranno il culo a strisce.”
“Ormai sono sessantanove,
capo,” gli fece notare l'agente.
☺
Il negoziatore arrivò due
suicidi dopo, quando ormai ai piedi della Stratosphere c'erano una
distesa di poliziotti e paramedici in fibrillazione, più giornalisti
che alla notte degli Oscar e un pubblico che sembrava quello di un
concerto dei Queen. Gli ospiti dell'albergo, evacuati in emergenza,
rumoreggiavano in un angolo miancciando interventi legali.
L'uomo dava l'idea del papà
buono, o del simpatico curato di campagna: sulla cinquantina, piccolo
di statura, un po' sovrappeso, brizzolato, espressione pacifica.
Emanava una potente aura di 'Tranquillo,
sono qui. Con me puoi parlare.'
Schneider lo scrutò con aria
critica, quindi proferì: “Non funzionerà.”
Stevenson scosse la testa. “No
davvero. Che cazzo crede di fare quello? È evidente che gli idioti
lassù non li sta spingendo nessuno.”
“Già, basta guardare i
filmati.” L'agente lanciò una fugace occhiata a un gruppetto di
ragazzi che aveva conquistato la prima fila, ma nondimeno era
avidamente chino su un cellulare. “Chissà quanto ci metteranno a
oscurare la pagina Facebook dove li pubblicano?”
“Bah. Zuckerberg di merda. Se
compare un porno, a farlo sparire ci mettono dieci secondi.”
Schneider annuì e imprecò:
“Pezzi di merda.” Si voltò verso Morales, che con un sorriso che
gli andava da un orecchio all'altro quasi faticava a gestire la
frotta di clienti assiepata intorno al suo carretto, e disse: “A
proposito di porno, non ti sembra che il mangia-tortillas assomigli a
Ron Jeremy?”
Stevenson si voltò a fissarlo,
poi rispose: “Cazzo, sai che non ci avevo fatto caso? È uguale.
Stessi capelli unti, stessi baffi.”
“Stessa pancia.”
“Chissà se anche la dotazione
è la stessa?”
L'altro fece una breve risata.
“Perché, ti interessa, per caso?”
“Vedi di non fare lo stronzo,”
replicò il primo piccato. “Sei stato tu a tirare fuori la faccenda
di Ron Jeremy.”
“Tutti i messicani assomigliano
a Ron Jeremy.”
In quel momento dall'alto
provenne un urlo che poteva somigliare a “Io scelgo!” e poi un
tizio saltò nel vuoto.
I due agenti non seguirono
nemmeno più la traiettoria.
“Imbecille,” commentò
Stevenson quando si udì il tonfo.
“Stronzo,” rincarò
Schneider. “È colpa di questi idioti se adesso non sono a casa mia
a bermi una birra e a guardare la partita.”
George Tabacchi, capo negoziatore
della Polizia di Las Vegas, fissò il sergente Wilkes con aria
comprensiva e gli chiese: “Lei è molto stressato, vero?”
Il graduato gli rivolse
un'occhiata velenosa. “Che cazzo fa, Tabacchi, le prove?”
L'altro annuì col sorriso di chi
si aspettava esattamente quella risposta, quindi gli assicurò: “Ma
la capisco. Anch'io lo sarei, al posto suo, se dovessi gestire tutto
questo.”
Wilkes alzò gli occhi al cielo.
“Senta, il matto è lassù. Veda di convincerlo a scendere prima
che qua sotto si riempia di cadaveri spiaccicati, vuole?”
Tabacchi sorrise come se il
sergente gli avesse appena augurato di fare Jackpot in tutti i casinò
della Strip, poi con calore gli rispose: “Ma certo, è un ottimo
suggerimento. I suoi uomini hanno già approntato una postazione, non
è vero?”
Il graduato si limitò a
indicargliela con un cenno del capo.
“Lo immaginavo, sono molto
efficienti.” Poi, in tono premuroso: “Nel
frattempo faccia salire degli agenti, ma per le scale di servizio, mi
raccomando. Non vorrei che gli ascensori in movimento mettessero il
soggetto sotto pressione.”
“Ok.”
“Sia gentile ancora una volta:
dica loro di non intervenire assolutamente, se non do il via libera.
La situazione è molto delicata.”
Wilkes si limitò a emettere un
grugnito.
“Non faccia avvicinare gli
elicotteri.”
“E che cazzo! Vuole anche un
pompino con l'ingoio?”
Tabacchi mantenne un cauto
silenzio.
☺
Schneider diede un'occhiata alle
scale che salivano e disse: “Col cazzo.”
Al suo fianco Stevenson, che
stava sbocconcellando distrattamente il secondo panino, chiese: “Col
cazzo, cosa?”
“Che mi faccio cento e passa
piani di scale.”
“Wilkes ha detto che il tizio
non vuole che si usino gli ascensori.”
“E io me ne sbatto i coglioni
del sergente, del tizio e di tutti i fottuti lemming che ci sono là
sopra. Non ci penso neanche a salire per le scale.”
Stevenson guardò in su. “In
effetti...”
“Sai che ti dico?” concluse
Schneider, “Che io adesso prendo l'ascensore e fanculo.”
L'altro appallottolò la carta
del panino e con un preciso lancio la spedì attraverso la porta,
verso la postazione allestita per il negoziatore, poi disse: “Ok,
fanculo le scale. Andiamo.”
☺
Il negoziatore raggiunse un
portatile e vi si sedette davanti. Sullo schermo c'era il primo piano
di un uomo vestito di nero. La scarsa luce rendeva difficile cogliere
i suoi lineamenti, inoltre aveva una specie di maschera che gli
copriva la metà inferiore del volto. Una corrente d'aria gli agitava
appena i capelli, lunghi fin sotto le orecchie. Dietro le sue spalle
si intravedevano i tavolini e il bancone illuminato di verde dell'Air
Bar. Tutt'intorno, le vetrate panoramiche del locale mostravano la
distesa di luci della città, fantasmagorica da quell'altezza.
Secondo le informazioni raccolte,
doveva essere una specie di santone e quelli che stavano saltando
erano i suoi adepti.
Tabacchi gli rivolse il suo
sorriso più amichevole, quindi disse: “Buona sera, Clifford, io mi
chiamo George.”
“Jim,” fu la risposta
dell'altro.
Il negoziatore si protese appena
in avanti. “Scusami, credo di non aver capito bene.”
“Jim. Ho assunto questo
pseudonimo quando ho capito qual era la mia strada.”
Tabacchi annuì come se la
risposta spiegasse ogni cosa, come se fosse proprio quella che stava
aspettando. “La tua strada,” ripeté. “Molto bene, trovo che
sia bello avere una strada da seguire, dà senso alla vita. Ti
andrebbe di parlami un po' della tua, Jim?”
Gli occhi dell'uomo si strinsero
leggermente come per un sorriso. “Ma certo, perché no?”
Il negoziatore pensò agli uomini
che stavano salendo, e che avevano bisogno di tempo per raggiungere
l’ultimo piano. Sorrise di nuovo. “Beh, ti ascolto.”
Dalla finestra panoramica alle
spalle di Jim si vide distintamente la sagoma di un corpo che
precipitava verso il basso, qualche secondo dopo su udì il tonfo.
Gli occhi dell'uomo si fecero
ancora più stretti, gli comparvero addirittura delle piccole rughe a
raggiera sulle tempie. “Ci sei ancora, George?” si informò in
tono cortese.
Tabacchi annuì. “Certo.”
Jim emise una risatina. “Avevi
una faccia...”
“Ecco, vedi... non sono tanto
abituato a certe cose. Sono rimasto un po' scosso, capirai.”
Le sopracciglia dell'uomo si
sollevarono. “Come mai?”
“Queste persone... ecco...
perché vuoi che saltino nel vuoto? Pensi che non potresti ottenere
quello che vuoi senza ucciderli?”
La risposta fu categorica: “No.”
“Possiamo parlarne? Magari
posso aiutarti a realizzare quello in cui credi. Magari possiamo
provarci insieme.”
“Ma tu mi stai già aiutando.
Tutti voi mi state aiutando.”
“Che intendi dire? Temo di non
riuscire a seguirti.”
Per tutta risposta, Jim chiese:
“Conosci i Veri Credenti?”
“I... Veri Credenti?” fece
eco George perplesso. Intorno a lui, fuori dal campo della
videocamera, ci fu un frenetico battere di tastiere alla ricerca di
notizie. Infine, un agente gli mostrò una schermata su cui compariva
la storia della setta russa del seicento.
Il negoziatore annuì e disse:
“Quindi stiamo parlando di un problema religioso?”
Jim parve deluso. “No. Masada?
Sai qualcosa di Masada?”
L'altro si illuminò. “Masada,
certo! La miniserie TV con Peter O'Toole, giusto?”
“Sbagliato.”
Tabacchi si passò una mano sulla
fronte per tergersi il sudore che cominciava a imperlarla. “Allora
temo di non capire. Puoi aiutarmi?”
“Vedrò di essere più chiaro.
Jim Jones. Ti dice niente questo nome?”
Di nuovo ci fu un frenetico
digitare, poi su tutti gli schermi comparvero file di siti sul
massacro del 1978.
Il negoziatore si costrinse
addirittura a sorridere. “Jim come Jim Jones. Ti chiedo scusa,
avrei dovuto capirlo subito. Vuoi creare una nuova società? È per
questo che stai facendo tutto quanto?”
“No.”
Da dietro le spalle di Jim
provenne una voce femminile che in tono ispirato gridava: “Possiamo
passare la vita a farci dire dal mondo cosa siamo. Sani di mente o
pazzi, stinchi di santo o sesso-dipendenti...”
Una voce infantile la interruppe:
“Mamma, che cos'è un sesso-dipendente?”
Inalterata, la prima voce
proseguì: “Eroi o vittime!”
“Mamma, ho paura, perché
andiamo così vicino al parapetto? Non voglio cadere!”
“A lasciare che la storia ci
spieghi se siamo buoni o cattivi!”
“No, mamma! Torniamo indietro,
ho paura!”
“Possiamo scegliere da noi!”
“No, aiuto! Mamma, non voglio!
No!” La voce del bambino si trasformò in un urlo raccapricciante.
Due figure passarono a tutta velocità fuori dalla finestra
panoramica, poi ci furono due tonfi, uno più grosso e uno più
piccolo.
“Stavamo dicendo, George?”
s'informò soavemente Jim.
Tabacchi si costrinse a
riflettere più veloce che poteva. Conosceva la situazione: fare
irruzione significava scatenare il suicidio di massa, ma d’altra
parte aspettare significava vederli saltare uno dopo l’altro dopo
aver proferito le loro massime deliranti, magari coi figli in
braccio, magari tirandosi dietro gente che non aveva la minima
intenzione di buttarsi.
“Perché lo fai?” chiese.
“Voglio dire, è un credo di qualche genere? Pensi che ci sia un
paradiso nel quale andrete tutti insieme? È la stella Sirio che vi
sta chiamando?”
Jim scosse la testa. “Nessuna
di queste cazzate.”
“Allora spiegami di cosa si
tratta, per favore. L’ultimo che è saltato era un bambino,
Jim.”
“Ho notato,” rispose lui con
distacco.
“E allora? Vuoi ammazzare i
bambini?”
“Tutti dobbiamo morire.”
“Sì, ma...” esordì di getto
Tabacchi, pensando ai suoi due figli. Poi ricordò il motivo per cui
si trovava lì, inspirò, espirò e in tono pacato proseguì:
“Correggimi se sbaglio: questa mi sembra più che altro una tua
questione personale, Jim. Dico bene?”
“Diciamo di sì.”
“E allora, perché non fai
scendere gli altri?”
Jim alzò le spalle, quindi
rispose: “È semplice: perché non vogliono.” Si alzò in piedi
portandosi dietro il telefonino col quale stava comunicando tramite
videochiamata, salì alcuni gradini, si affacciò su una terrazza in
cui si trovavano almeno una cinquantina fra uomini e donne e chiese:
“Amici, chi di voi vuole tornare nel mondo?”
Il coro dissonante di varie
espressioni di diniego fece tremare per un attimo l’impianto audio
del computer di Tabacchi.
Successivamente, i presenti
cominciarono a scandire in coro: “Possiamo
passare la vita a farci dire dal mondo cosa siamo. Sani di mente o
pazzi. Stinchi di santo o sesso-dipendenti. Eroi o vittime. A
lasciare che la storia ci spieghi se siamo buoni o cattivi...”
Jim li abbandonò alla loro
recitazione, tornò alla sedia nel bar, si accomodò e chiese: “Hai
sentito?”
“Sì,
certo.”
“A
me sembra che non vogliano scendere. Perlomeno non con l’ascensore.”
Fece una risatina. “Tu che ne dici?”
La risposta di Tabacchi giunse di
getto, aggirando alla grande di ogni regola della negoziazione: “E
allora spiegami, per favore. Fammi capire, perché tutto questo mi
sembra assurdo.”
Gentilissimo, l’uomo rispose:
“Ma certo. Vedi, è tutta la vita che mi preparo a questo. È tutta
la vita che studio come controllare gli altri, come spingerli a fare
quello che voglio dando loro l’impressione di essere essi stessi a
volerlo disperatamente. Ho studiato storia delle religioni,
psicologia, filosofia, comunicazione, motivazione e sociologia. Ho
raccolto i maggiori miti contemporanei, ne ho fatto una specie di
dottrina, ho cominciato a insegnarla alla gente e in breve ho avuto i
miei seguaci. Questa è una società povera di mitologie, affamata di
rituali, vuota. Convincerli ad abbracciare le mie idee è stato
facilissimo.”
“Quindi
la tua cosa sarebbe, una specie di religione new age?”
Jim alzò le spalle, gli occhi
gli si strinsero di nuovo come per effetto di ilarità. “Ma no,
figurati. La religione non è altro che l’oppio dei popoli. Io
voglio entrare nella Storia.”
“E
come conti di farlo?”
“Scatenando
un suicidio collettivo. Certo, non saranno i novecento della Guyana,
ma sono pur sempre una settantina, più o meno quelli di Waco. È un
bel numero. Inoltre, la location
è molto più suggestiva, non trovi?”
Un agente mostrò a Tabacchi un
tablet su cui era aperta la pagina di Wikipedia che parlava del
massacro di Waco, in cui i settantasei membri della setta dei
davidiani, assediati dalle forze speciali, avevano dato fuoco al
ranch in cui vivevano ed erano periti nell’incendio.
“Aspetta,”
disse il negoziatore, con una certa precipitazione nella voce.
“Aspetta, non puoi fare una cosa del genere.”
“Perché?”
“Non
puoi spingere settanta persone al suicidio solo per entrare nella
Storia, come dici tu.”
“Non
vedono l’ora di saltare, non vedono l’ora di scegliere, di
decidere da soli del loro futuro.”
“Solo
perché tu li hai plagiati!”
Jim emise un teatrale sospiro.
“Chi può dire di non essere plagiato da qualcosa o qualcuno al
giorno d’oggi? Loro almeno moriranno felici, convinti di essersi
liberati del controllo e delle imposizioni della società.”
“Ma
non è così.”
“Magari
sì. Magari siamo noi che non abbiamo capito niente, i veri saggi
sono loro.”
Il negoziatore respirò
profondamente. Ricordò a se stesso che aveva trattato con
dirottatori strafatti di crack, con rapinatori chiusi nei caveau
assieme a decine di ostaggi, persino con un’infermiera che si era
asserragliata nel reparto di neonatologia pieno di incubatrici e
minacciava di spegnerle tutte. Si costrinse a non cedere
all’emotività. Il tizio mascherato era chiaramente un narcisista
con una struttura megalomanica di personalità e come tale doveva
trattarlo.
In tono tranquillo chiese: “Puoi
dirmi quando hai sentito per la prima volta questa esigenza di
controllare gli altri?”
“Andiamo indietro nel tempo,”
fu la risposta, proferita col tono di una banale conversazione. “A
scuola lessi Demian, di Hesse, e capii tutto.”
Tabacchi annuì, tuttavia chiese:
“Puoi essere più preciso, per favore?”
“Hai presente l'interpretazione
di Demian del mito di Caino e Abele? Il marchio impresso sulla fronte
del fratricida non è segno di colpevolezza, ma di superiorità e
forza di carattere.”
“È questo segno che senti di
avere, Jim?”
“Avrei potuto diventare
un serial killer,” proseguì l'uomo, ignorando la domanda, “Avrei
potuto produrre snuff movie, ma a che pro? Che gusto c'è a uccidere
un corpo? Non c'è controllo in questo, non c'è superiorità. Dire a
qualcuno che farebbe bene a uccidersi e vederlo saltare da una torre
di trecento metri, felice di farlo e convinto che sia la cosa più
giusta e migliore: questo è controllo, questa è superiorità.”
“Ed è questo che stai
cercando?”
“La Storia dovrà fare i conti
con me. Potrà chiamarmi mostro, ma non potrà ignorarmi.”
“Ci sono altri modi per non
essere ignorati dalla Storia, modi che non comportano la morte di
persone innocenti.”
Jim alzò le spalle come di
fronte a una considerazione molto sciocca. “Questo è solo stupido
buonismo. La Storia va avanti sulla morte di innocenti,
come li chiami tu. Cento, mille, un milione muoiono affinché uno
possa vivere in eterno.”
“Beh, Fleming non ha ucciso
nessuno, eppure la sua memoria vivrà in eterno.”
“Ah, sì? Ferma cento persone
per strada e chiedi loro se sanno chi era Fleming, poi fermane altre
cento e chiedi loro se sanno chi era Hitler. Vogliamo scommettere su
quale sarà il gruppo che ti darà più risposte positive?”
Tabacchi annuì con l'aria del
cacciatore che ha appena preso di mira il cinghiale. Dovette faticare
per non sorridere fra sé e sé nel momento in cui si preparava a
sparare il siluro. Poi chiese: “E secondo te, Jim, quanti sono i
passanti che sanno chi erano Jim Jones o David Koresh? Più o meno di
quelli che sanno chi era Fleming?”
Alla domanda seguirono non meno
di venti secondi di silenzio, durante i quali si udirono
distintamente in sottofondo le frasi del proclama sulla libertà di
scelta recitate da due voci. Subito dopo, due corpi sfrecciarono
verso il basso.
Infine, Jim con calma chiese: “Mi
stai provocando, George? Vuoi sapere fino a che punto sono disposto a
spingermi?”
Il negoziatore deglutì. Gli
venne in mente un filmato che aveva visto su Youtube: un tizio
tagliava un albero, ma quando gli dava il colpo per farlo cadere,
esso invece di abbattersi sul prato si inclinava, dapprima con
estenuante lentezza e poi sempre più veloce, verso il tetto della
casa che aveva a fianco e infine vi piombava sopra sfasciando tutto.
Si rese conto con orrore di aver
appena dato la fatidica spintarella al tronco. “No, io...” si
trovò a balbettare.
Con surreale tranquillità, Jim
gli rispose: “Sono più di cento piani e ci sono tre ascensori, io
sto per uscire sulla terrazza. Pensi che i tuoi riusciranno ad
arrivare su prima che l'ultimo di questi stronzi sia saltato urlando
Geronimo?”
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Capitolo 2 *** Seconda parte ***
Lemming 2
Salve
gente,
eccoci alla fine della vicenda,
un enorme grazie a tutti coloro che mi hanno seguito e commentato.
Rimando alla fine del capitolo per gli spiegoni.
Seconda parte
Un piano sotto l'Air Bar, padroni
del ristorante evacuato, Schneider e Stevenson pescavano
distrattamente ghiottonerie dal carrello degli antipasti e intanto
parlavano fra di loro.
Silenziata quasi del tutto, la
radio di servizio che portavano appesa alla spallina gracchiava di
tanto in tanto qualche concitata comunicazione.
“Il
problema è che qui la sicurezza fa schifo,” disse il primo. Si
fece scivolare in gola un'ostrica, le mandò dietro una mezza birra
per non farla sentire troppo all'asciutto, poi proseguì: “Ci sono
i metal detector come in aeroporto, ma lo sai cosa successe a uno che
conosco?”
“No,
cosa?”
“Beh,
il tizio è un fotografo, ok? Foto d'arte, roba del genere.”
“Donne
nude?” chiese Stevenson speranzoso.
“Nah,
paesaggi. Comunque le vende e ci tira su un bel po' di verdoni.”
Altra pausa, altra ostrica. “Insomma, questo tizio va su per fare
le foto notturne. Anche un idiota sa che per fare le foto notturne ci
vuole il treppiede, dico bene?”
“Certo.”
Stevenson provò a sua volta un'ostrica, ma dopo tre secondi dovette
appropriarsi di un tovagliolo e sputarcela dentro. Optò per nachos e
guacamole.
Schneider
proseguì col racconto: “Insomma, il tizio sale su, passa il metal
detector e ovviamente gli beccano il treppiede che ha nello zaino.
Scoppia il casino, manco avesse cercato di portare su una nucleare
tattica. Quelli della security gli dicono che deve portarlo giù al
guardaroba. Il tizio fa: 'e sticazzi. Ve lo lascio qui un attimo e
intanto vado a fare due foto, poi lo riprendo quando torno giù.'
Ancora peggio. Salta su il capo di quegli idioti e fa: 'non possiamo
assumerci la responsabilità.' Gli affibbiano una squinzia che lo
accompagna giù al guardaroba, che rispetto al punto in cui si
trovava il banco controlli era praticamente nel culo del mondo. Lui
da bravo lascia il suo treppiede, si fa dare la ricevuta e quando è
a posto la squinzia gli fa: 'allora ciao, eh?' e se ne va. Lui torna
su, i tizi della security lo vedono arrivare da lontano, sempre col
suo zainetto in spalla, gli fanno vedere i due pollici alzati per
fargli capire che era stato bravo e non
lo fanno ripassare sotto il metal detector. È andato su senza fare
altri controlli.”
Tra un nacho e l'altro, Stevenson
si concesse una risata. “Cioè, quello poteva essere andato a
recuperare qualsiasi cosa, anche la famosa nucleare tattica, e la
security l'ha fatto passare senza controllarlo?”
“Te
l'ho detto, sono dei cretini.”
“Già.”
Stevenson guardò distrattamente la porta che dava sulle scale e
disse: “Chissà a che piano saranno gli altri?”
“Boh,
cazzi loro,” rispose Schneider. “Hai visto gente passare?”
“Un
paio.” L'altro indicò la vetrata panoramica con un nacho carico di
guacamole. “Di là. Sembravano un uomo e una donna, col buio non ho
visto bene.”
“Teste
di cazzo.”
“Già.”
Altri corpi sfrecciarono.
“Mi
sembra che ne stiano cadendo un po' troppi,” constatò Schneider.
Stevenson
ghignò. “Fanno
i lemuri.”
“Non
lemuri: lemming.”
“Sempre
bestie strane sono. Cazzo facciamo? Io ho il cellulare scarico.”
“Che
te ne fai del cellulare?”
“Per
le foto, se riesco a beccarne qualcuno.”
In quel momento, provenne dalle
radio una comunicazione concitata: “Stato d'allarme! Fare irruzione
immediatamente!”
I due, uno con un'ostrica e
l'altro con un nacho ancora in mano, si scambiarono un'occhiata.
“Irruzione?”
ripeté Schneider. Ingoiò il mollusco facendo il rumore di un sifone
ingorgato. “Che cazzo di irruzione vuoi che facciano quelli là?
Saranno al cinquantesimo piano, con la lingua che gli arriva per
terra. Andiamo su a vedere, va'.” Sfoderò la pistola e si diresse
a grandi passi verso l'ascensore.
☺
Sempre con l'immagine dell'albero
che cadeva davanti agli occhi, il negoziatore scattò in piedi.
“E
adesso dove vai?” gli chiese Jim in tono ironico. “A mettere le
reti tutt'intorno alla torre?”
Tabacchi si piantò con le mani
ai lati del portatile e lo fissò con durezza. “Vengo su,” si
limitò ad annunciare, quindi raggiunse gli ascensori.
Chiuso nella cabina, l'uomo
ascoltava la musichetta di sottofondo e fissava le pubblicità delle
varie attrazioni della torre che si susseguivano una dopo l'altra
sullo schermo a cristalli liquidi. Per quella settimana, il
bungee-jumping era scontato.
Regalato,
direi,
si trovò a pensare, nonostante gli innumerevoli corsi di
assertività, empatia e ascolto positivo frequentati.
Sollevò lo sguardo sul display:
i piani aumentavano con velocità crescente. Si mosse a disagio,
cercando di contrastare la sensazione che una mano enorme lo
schiacciasse sul pavimento.
Terapia d'urto. Per quanto nella
sua carriera non gli fosse mai capitato di dovervi fare ricorso,
aveva letto da qualche parte che quando tutto il resto falliva,
quando il criminale decideva di mettere comunque in atto il suo
piano, quello era l'unico tentativo che rimaneva da fare. Poteva
darsi che messo così brutalmente di fronte alle proprie
responsabilità, chi stava per compiere il gesto estremo decidesse di
desistere.
Oppure poteva darsi di no, ma
tanto in quel caso la situazione non avrebbe comunque potuto
peggiorare.
Il display si fermò sul 108, le
ante si schiusero adagio. Tabacchi lesse le indicazioni che si
trovavano sulla parete, quindi percorse un corridoio e raggiunse una
porta alla cui sommità si trovava un'insegna luminosa che recitava
'Air Bar.'
La varcò.
Al di là vi era un'ampia sala in
penombra. Riconobbe il bancone illuminato di verde e le vetrate
panoramiche. La sedia su cui sedeva Jim era vuota. Si guardò
intorno, poi tese l'orecchio e udì dei clamori, come di parecchie
persone che stessero urlando tutte insieme.
Seguendo le voci arrivò alla
scala che conduceva alla terrazza panoramica.
I
due agenti lo videro passare. Stevenson fece per seguirlo, ma l'altro
lo trattenne per un braccio. “Lasciamo che Papà Orso si diverta,”
ghignò. “Io quei negoziatori di merda non li ho mai sopportati,
quindi prima
gli andiamo dietro pian piano e vediamo cosa fa, poi,
se mai, interveniamo.”
“E
se il tizio lo fa secco?”
“Uno
stronzo di meno.”
I due si incamminarono
lentamente.
Dopo un po’, Schneider ripeté:
“Io non li ho mai sopportati, quei cazzo di padreterni. Arrivano
con la puzza sotto il naso, sanno tutto loro, sono bravi solo loro.
Hanno la pretesa di dare ordini ad agenti che stanno sulla strada
tutti i santi giorni, quando magari sono dieci anni che non sentono
uno sparo se non in televisione.”
Dall’alto cominciarono a
giungere clamori sempre più concitati.
“Mi
sa che stavolta ce lo togliamo dalle palle,” considerò Stevenson.
“Beh,
andiamo almeno a goderci lo spettacolo,” fu la risposta di
Schneider, che poi soggiunse: “Tira fuori il cannone: non si sa mai
cosa combinano quei fottuti suicidi, quando decidono di farla finita.
Capace che cercano di tirare sotto anche uno di noi.”
“Se
ci provano, sperimenteranno il suicidio per interposta persona.”
“Sarebbe?”
“Li
faccio secchi io, sparandogli in faccia.”
“Ottima
scelta.”
☺
I l negoziatore si lanciò verso
la scala della terrazza con tutta la velocità che i chili di troppo
gli consentivano. Salì i gradini incespicando, mentre i canti e le
grida si facevano di attimo in attimo più forti.
Già udiva dei vibranti ‘Io
scelgo,’ gravati da un inquietante effetto doppler. Le grida si
succedevano a grappoli, prima due, poi tre, poi altri due, poi
quattro...
Arrivò in cima alla scala e
quando fu sulla soglia della terrazza si offrì ai suoi occhi uno
spettacolo granguignolesco: uomini, donne e anche bambini erano
aggrappati ai parapetti e tutti ripetevano con foga il mantra del
loro maestro:
Possiamo
passare la vita a farci dire dal mondo cosa siamo.
Sani
di mente o pazzi.
Stinchi
di santo o sesso-dipendenti.
Eroi
o vittime. A lasciare che la storia ci spieghi se siamo buoni o
cattivi.
A
lasciare che sia il passato a decidere il nostro futuro.
Oppure
possiamo scegliere da noi.
E
forse inventare qualcosa di meglio è proprio il nostro compito.
Le voci erano perlopiù alterate:
incrinate dal pianto, non necessariamente di dolore, o vibranti di
fanatismo. Nonostante il vento, la zona emanava penetranti odori
umani: urina, sudore, il sentore acre del vomito.
Ogni tanto, qualcuno scavalcava
la barriera, si fermava oltre il parapetto qualche secondo a braccia
aperte e tra le acclamazioni degli altri si lasciava cadere.
Jim passeggiava su e giù con
aria soddisfatta, attento a evitare le chiazze di vomito o i convulsi
abbracci dei suoi seguaci, ai quali si limitava a indicare il
parapetto prima che essi giungessero a sfiorarlo.
“Fermi!”
urlò il negoziatore con quanto fiato aveva in gola. “Fermi! Ci
sono altre soluzioni, possiamo parlarne insieme, possiamo capire! Ci
sono tante cose che si possono fare, prima di decidere di morire!”
Tutti si voltarono a fissarlo, la
scena sembrò cristallizzarsi in una specie di quadro di Ensor, in
cui mille facce stralunate guardavano tutte nella stessa direzione.
“Possiamo
parlare,” ripeté Tabacchi, facendo qualche passo avanti. Gli
adepti, che si erano avvicinati, si ritrassero come una specie di
marea. “Possiamo capire insieme cosa fare,” insisté il
negoziatore, catturando ora l’uno ora l’altro degli sguardi che
lo stavano seguendo, e che perlopiù erano accesi di furore mistico.
Passarono alcuni secondi di
silenzio, durante i quali si udì solo il rotolare di qualche
cartaccia spinta dal vento, poi una donna fece un passo verso di lui.
Era un’afroamericana di mezz’età, obesa, alta non meno di un
metro e ottanta. I capelli le si appiccicavano alla testa per effetto
del sudore, sulle guance aveva righe di lacrime ormai disseccate.
Gli occhi nerissimi lasciavano
vedere un’ampia porzione di sclera, il che le conferiva
l’angosciante espressione di un vitello al mattatoio.
“Io
scelgo,” disse. Fece un altro passo.
Tabacchi tese una mano a
incontrare quella che la donna gli stava porgendo, le dita si
intrecciarono, ella strinse la presa con tale forza che il
negoziatore dovette impedirsi di strattonare indietro il braccio. “Io
mi chiamo George, tu chi sei?” le chiese in tono affettuoso,
rivolgendole un sorriso.
Tutt’intorno, gli altri
rumoreggiavano incerti. L’uomo colse una specie di calo di
tensione, un lieve venir meno dell’energia mistica.
“Vuoi
dirmi il tuo nome?” insisté in tono soave.
“Georgine.”
“Ma
guarda, ci chiamiamo quasi nello stesso modo. Hai voglia di scendere
giù con me, Georgine? Ti prometto che troveremo insieme una
soluzione ai tuoi problemi.”
Mosse un cauto passo verso la
scala. Dopo un iniziale tentennamento, la donna lo seguì.
“Molto
bene, Georgine, molto bene. Sei davvero molto brava. Ora andiamo a
sederci da qualche parte, vuoi?”
“No.”
La donna si immobilizzò.
“Coraggio,
non succederà niente di male,” disse Tabacchi. Lanciò un’occhiata
di sbieco a Jim, che in piedi al centro della terrazza, le braccia
incrociate sul petto, lo stava osservando con gli occhi socchiusi.
“Andrà tutto bene.” Poi, a voce più alta, girandosi a parlare
da sopra la spalla aggiunse: “Amici, questo vale per tutti. Venite
con me, troviamo insieme un modo per risolvere i problemi!”
Un altro paio di persone si
mossero nella sua direzione.
“Venite,
amici!” ripeté il negoziatore con maggiore entusiasmo, “Torniamo
giù tutti insieme. Io vi ho a cuore, voglio che stiate bene.”
Jim era ancora immobile.
Quando
Tabacchi e la donna raggiunsero il primo gradino, egli disse: “Mi
deludi, Georgine. Io credevo in te, mi fidavo
di te.” Il tono era quello dell’amara constatazione di qualcosa
di molto brutto e completamente inaspettato.
“Non
dargli ascolto,” intervenne prontamente il negoziatore. “Sta solo
cercando di far leva sul tuo senso di colpa. Ma tu non puoi sentirti
in colpa se scegli di vivere, non credi?”
Silenzio da parte della donna.
“Non
credi, Georgine?”
“Io
pensavo che tu fossi diversa, Georgine,” disse Jim. “Ti credevo
più decisa, più libera.
Pensavo fossi superiore a questi miseri espedienti da grossista di
pentole. Eppure io ti ho insegnato tante cose, ti ho insegnato a
riconoscere le menzogne del sistema. Ti ho insegnato che possiamo
scegliere, al di là di quello che il mondo cerca di imporci.”
La donna tentennò.
Per quanto fosse già ferrea,
Tabacchi risaldò la presa sulla mano dell’adepta, quindi le disse:
“Non ascoltare, Georgine, decidi con la tua testa. Tu vali, tu hai
ancora tante cose da fare.”
“Davvero?”
fu la timida domanda della donna.
“Non
farti fregare,” intervenne Jim alle sue spalle. “Cosa vuoi,
Georgine? Cosa cerchi veramente? Un’esistenza misera, triste, fatta
di regole imposte da altri, oppure una scelta definitiva,
irrevocabile, che toglie al sistema il potere che ha su di te? Vuoi
essere tu a decidere o vuoi che sia il sistema a decidere per te?”
“Io
voglio essere libera,” mormorò Georgine.
“E
allora salta! Lanciati nel vuoto, dimostra che sei capace di prendere
in mano la tua vita!”
“Non
farlo,” intervenne il negoziatore. “Scegli me, Georgine, scegli
la vita.”
Tutt’intorno, i presenti
seguivano in silenzio lo scambio. Una ragazza che non poteva avere
più di quattordici anni, con un ampio abito bianco e i capelli
sciolti, crollò a terra con un gemito e cominciò a contorcersi in
preda alle convulsioni mentre un rivolo di schiuma bianca le colava
da un angolo della bocca. Un uomo ossuto si inginocchiò, levò le
mani al cielo e cominciò a recitare il mantra di Jim mentre copiose
lacrime gli scendevano lungo le guance ispide.
“Non
lasciarci, Georgine!” invocò un’altra donna di colore.
Sempre
fermo al centro dello spiazzo, Jim disse: “Coraggio, amici miei!
Fatemi vedere che scegliete davvero!
Fatemi vedere che non date ascolto alle menzogne di questo emissario
del sistema inviato apposta per farvi dubitare!”
L’uomo che aveva recitato il
mantra si rialzò in piedi. Inspirò a occhi chiusi inclinando la
testa all’indietro, quindi si raddrizzò e in tono fervente disse:
“Io non mi faccio dire dal mondo cosa sono. Io scelgo.”
Salì sul parapetto.
Tabacchi, che aveva seguito la
scena senza abbandonare la presa ferrea di Georgine, fece per
muoversi verso di lui.
“Aspetta!”
gridò. “Non farlo, possiamo parlare, possiamo risolvere tutto!”
Ma l’uomo era già nella
posizione del Cristo Redentore. Un istante dopo ripeté “Io
scelgo!” e si lasciò cadere all’indietro.
“Aspetta…!”
urlò comunque il negoziatore, ma in quello stesso momento Georgine,
con voce stentorea, proclamò: “Io scelgo!” E partì decisa verso
il parapetto. Tabacchi tentò di ritirare la mano, o perlomeno di
fermare l’impeto della donna, ma non riuscì a fare nessuna delle
due cose.
☺
“Che
fine del cazzo,” commentò Schneider.
“Già,
spiaccicato per colpa di una negra,” rispose Stevenson.
“Bella
grossa, però.”
“Attaccato
a un bisonte del genere, ci credo che quello stronzo è finito di
sotto.”
Si scambiarono un’occhiata.
“Beh, sarà ora che ci guadagniamo la paga, direi,” proclamò il
primo, quindi si mosse a grandi passi verso Jim. Gli puntò contro la
pistola, estrasse le manette con la mano libera e in una frazione di
secondo, con un’abilità degna di un prestigiatore, gliele fece
scattare intorno a un polso. L’altro bracciale lo assicurò a un
tubo d’acciaio. “Saltano tutti fuorché te, Zorro,” lo informò
con un ghigno.
I due poliziotti rimasero poi a
osservare la gente che in una frenesia di fuga si assiepava contro le
ringhiere, le scavalcava con gesti resi maldestri dall’urgenza e si
lasciava cadere.
Schneider si sollevò la visiera
del berretto con la canna della pistola, quindi disse: “Chissà a
che punto saranno gli altri?”
Stevenson alzò le spalle con
indifferenza. “Boh. Guarda come saltano quegli stronzi. Bisognerà
che dabbasso stiano attenti a non beccarsene uno in testa.”
“Già,”
assentì Schneider.
Passò qualche minuto, poi
Stevenson chiese: “È vero quello che dicono?”
“Cosa?”
“Che
anche se arrivano giù da quest'altezza non si sfracellano.”
L’altro annuì. “Il coroner
dice che restano interi, tanto che quando la gente trova un suicida
stecchito per la strada, di solito crede che gli sia venuto un
colpo.”
“Sì,
ma anche da trecento e passa metri?”
“Non
lo so. Quando torniamo giù possiamo dare un’occhiata, se sei
curioso.”
“Non
che me ne freghi poi più di tanto. È solo che una volta avevo
sentito raccontare la storia di uno che era caduto dal deltaplano e
il tizio l’ha trovato in mezzo al suo campo pensava che fosse morto
d’infarto, solo che non sapeva come cazzo avesse fatto a finire lì,
dato che ovviamente non c’erano impronte da nessuna parte.”
Stevens fece una pausa, facendosi da parte per lasciare spazio a una
donna che stava correndo con aria spiritata verso il parapetto,
quindi proseguì: “Volevo vedere se è vero che da fuori sembrano
ancora interi, anche se dentro sono sfracellati.”
“Interi
o sfracellati, sono sempre degli stronzi. Io potevo essere a fare i
cazzi miei, adesso, invece per colpa di questi idioti sono qui.”
“Però
ti sei rimpinzato di ostriche. Quant’era che non ne mangiavi?”
“Veramente
non le avevo mai mangiate, però costano un sacco di soldi, ho
pensato di approfittarne.”
“Sei
sicuro che erano ostriche?”
“Sì,
a parte il colore, somigliavano a delle fighe. E avevano quasi lo
stesso sapore.”
“La
figa è molto meglio di quegli affari.”
“Solo
perché sai che dopo segue una scopata, se no farebbe schifo
esattamente come quegli affari.”
“Uhm.
Preferisci il cazzo?”
“Fottiti,
Stevenson.”
“Scherzavo.”
La gente frattanto aveva finito
di saltare. Era rimasto uno sparuto gruppetto di sei o sette persone
rannicchiate in un angolo. Un paio piangevano, un altro si dondolava
avanti e indietro gemendo parole smozzicate mentre si circondava il
torso con le braccia.
Di quando in quando, essi
lanciavano qualche fugace occhiata all’uomo con il volto coperto,
che rimaneva silenzioso e cupo, saldamente immobilizzato dalle
manette d’acciaio.
“E
voialtri?” chiese Schneider col tono che usava di solito per farsi
consegnare i documenti dai fermati.
Nessuno rispose.
L’agente fece un passo avanti.
“Dico: che cazzo fate voialtri? Chi siete, i più stronzi?”
Di nuovo i superstiti mantennero
un circospetto silenzio.
“Ah,
benissimo,” disse allora Schneider, puntandosi le mani chiuse a
pugno sui fianchi. “Mi butto, scelgo, decido della mia vita… un
cazzo! Tutti ammucchiati come delle pecore di merda! Ma li avete
visti gli altri?”
Il tizio che si stava dondolando
smise di farlo. “Noi vogliamo andare via,” rispose timidamente.
“Ah
davvero? E pensate che la faccenda si chiuda così? Scusi tanto,
scherzavamo, arrivederci e grazie?” Poi, a voce più alta: “Pensate
che sia così facile? Avete visto cosa c’è là sotto?” Fece una
pausa, in attesa di una risposta che però non giunse. “C’è
tutta la fottuta polizia di Las vegas,” proseguì allora, “Mezzo
ospedale, una dotazione di ambulanze che non c’era neanche durante
lo sbarco in Normandia, elicotteri, profiler, negoziatori e scommetto
che sta arrivando anche la Guardia Nazionale. Avete idea di quanto
verrà a costare questo casino?”
Alla domanda seguì un silenzio
siderale.
“Senza
contare che vi prenderanno per matti,” insisté l’agente
imperterrito. “Vi beccherete un ricovero al mattile come minimo, vi
riempiranno di medicine fino a ridurvi come larve sbavanti, poi
verrete schedati, apriremo un fascicolo su ognuno di voi.”
A quelle parole fece seguito un
silenzio carico d’angoscia.
“E
forse – anzi, quasi sicuramente – vi faranno anche pagare tutto
quanto,” intervenne Stevenson raggiungendo il collega. “Dovrete
vendervi la casa per far fronte alle spese, dovrete tirare fuori i
soldi che avete messo via per mandare i figli all'Università e
comunque non basteranno.”
I superstiti si scambiarono
sguardi smarriti.
“Saranno
cazzi da cagare,” promise Schneider in tono sinistro.
Stevenson annuì grave. “Al
posto loro, io salterei. Hai idea dei casini che li aspettano appena
tornano giù?”
“Se
tornano giù con
l’ascensore.”
“Già,
nell’altro modo invece avrebbero risolto tutti i problemi.”
☺
Quando gli agenti che erano
saliti per le scale raggiunsero la terrazza panoramica, trovarono il
sospettato numero uno ammanettato a un tubo d’acciaio e gli agenti
Schneider e Stevenson appoggiati al parapetto, che si indicavano l’un
l’altro gli alberghi della Strip con l’aria dei turisti in
vacanza.
I nuovi arrivati si fecero avanti
col fiato grosso e le uniformi fradice di sudore. “Ci sono gli SS,”
ansò un agente, in un tono a metà fra stupore e risentimento.
“Ben
arrivati, ragazzi,” li accolse Schneider, gentilissimo.
“Cosa
ci fate qui?” volle sapere il poliziotto di prima.
“Abbiamo
catturato un pericoloso criminale.” Indicò l’uomo ammanettato.
“E
gli altri?”
Schneider fece un gesto vago con
la mano. “Andati. Del resto, erano saliti quassù con l’intento
di suicidarsi, sarebbe stato impossibile fermarli.”
“Non
è vero!” sbraitò a quel punto il sospettato, strattonando la
catena che lo teneva prigioniero. “Questi due hanno spinto al
suicidio tutti quelli che avevano rinunciato a saltare.”
Schneider lo fulminò con uno
sguardo di ghiaccio. “Nientemeno,” disse. In tono professionale
soggiunse: “Signore, a me risulta che sia lei quello che ha spinto
tutte queste persone al suicidio. Non ci troveremmo qui, se lei non
avesse portato su i suoi fedeli e non avesse cominciato a suggerire
loro di saltare nel vuoto.”
“Anche
voi l’avete fatto.”
L’agente scosse la testa
ostentando un’espressione costernata. “Che lei cerchi di negare
l’evidenza è non solo meschino, ma anche decisamente
controproducente. Scaricare le sue responsabilità su due agenti che
fanno con coscienza il loro dovere, poi, è veramente uno schifo. Che
idea pensa che si faranno i giudici di lei, se si comporta in questo
modo?”
Stevenson intervenne: “Che è
uno che cerca di scaricare le sue responsabilità addosso agli
altri.”
Schneider scosse la testa. “Gran
brutta cosa.”
“Veramente
brutta,” confermò il collega.
☺
“Ma
tu guardali, quei due stronzi,” brontolò l’agente Keller.
“Teste
di cazzo,” replicò il suo compagno, l’agente Page.
L’oggetto delle invettive erano
Schneider e Steveson, che si ergevano tronfi, ostentando la loro aria
da poliziotti dei manifesti di propaganda, sotto i riflettori
improvvisati di un’importante emittente nazionale.
Una giornalista li stava
intervistando. Rivolta alla telecamera, cominciò: “Abbiamo qui gli
agenti Schneider e Stevenson, coloro che hanno materialmente
catturato il pericoloso criminale che ha plagiato e indotto al
suicidio settantadue persone.” Si rivolse ai due poliziotti:
“Potreste raccontare ai telespettatori qualcosa sulla cattura di
Clifford ‘Jim’ Hardy?”
Fu Schneider a rispondere: “Ma
certo, signora. A un certo punto è giunto l’ordine di salire sulla
torre. Io e il mio collega, il qui presente agente Stevenson, abbiamo
valutato la situazione e abbiamo capito che non era possibile
esitare. Invece di salire a piedi come ci era stato ordinato, abbiamo
utilizzato l’ascensore e siamo arrivati giusto in tempo.”
“Avete
salvato delle vite innocenti?”
Schneider scosse la testa con
l’espressione di chi deve sottostare all’ineluttabilità del
destino. “Purtroppo no, signora. Quei poveretti erano stati
plagiati, non avevano più una loro vita, non avevano più una loro
volontà. Non sarebbe stato possibile salvarli.”
La giornalista emise un sospiro.
“Capisco.”
“Ma
abbiamo catturato Hardy, signora. Lui non ci è sfuggito.”
A qualche passo di distanza,
Keller grugnì: “Lo credo bene che non vi è sfuggito, teste di
cazzo. Era su una torre presidiata da cinquecento sbirri, dove poteva
andare?”
“Che
paraculi,” disse Page. “Gli SS sono stronzi come sempre. Noi a
farci scoppiare le emorroidi su per quelle fottute scale e loro in
ascensore, alla faccia degli ordini, dei colleghi e di tutto quanto.”
“Bastardi.”
“E
adesso finiscono al telegiornale, come se fossero loro i due eroi di
tutta la faccenda.”
“Scommetto
che il capo li proporrà anche per un encomio, fanculo a loro.”
☺
“Beh,
questa cazzo di notte dei lemming è finita,” sospirò l’agente
Schneider. Seguì con lo sguardo l’ultima ambulanza che si
allontanava, a sirene debitamente spente, quindi si voltò a guardare
la Strip. Ormai albeggiava e la magia di luci e colori dei grandi
alberghi cedeva implacabilmente il passo a statue di plastica e
impalcature polverose.
Passava qualche veicolo, perlopiù
furgoni di fornitori diretti ai vari hotel. Una squadra di spazzini
stava raccattando le cartacce lasciate in giro da chi aveva seguito
la vicenda aggrappato alle transenne.
Arrivarono un paio di tizi in
tuta bianca e mascherina sterile e cominciarono a spargere
disinfettante sulle macchie di sangue che erano rimaste un po’
ovunque.
“Un
cazzo di casino, eh?” buttò lì Stevenson.
“Già.”
“Laggiù
c’è ancora Ron Jeremy col suo carretto, andiamo a vedere cosa gli
è rimasto? Metterei volentieri qualcosa sotto i denti.”
Schneider si fermò a squadrare
il messicano che stava chiudendo l’ombrellone, poi rispose: “No,
ho voglia di farmi una pisciata, levarmi di dosso questo cazzo di
giubbotto antiproiettile, andare a casa mia e buttarmi sul letto. Va’
tu, se vuoi.”
Stevenson alzò le spalle. “Nah,
hai ragione. Ho mangiato troppo messicano stanotte.”
“Robaccia.
Andiamo a prendere la macchina.”
“Ok.”
Edmundo
Vasquez seguì con lo sguardo i due imponenti poliziotti che si
allontanavano. Quando fu sicuro che se ne stessero effettivamente
andando, chiamò i quattro amici che durante la notte si era
procurato e indicò loro il carretto degli hot dog di Morales.
“Vedete quel cavron?”
chiese. “Mi ha minacciato con un tubo di piombo, mi ha cacciato via
dal mio posto e si è preso tutti i soldi che sarebbero spettati a
me. Voi mi aiutate a sistemarlo e io vi do il cinquanta per cento.”
“Settanta.”
Un tirapugni brillò sinistro nella luce del mattino.
“Sessanta,”
rilanciò Vasquez.
Ci fu un giro di sguardi, infine
l’uomo col tirapugni disse: “Andata. Quanto male dobbiamo
fargli?”
“Non
deve darmi più problemi.”
L’uomo mise via il tirapugni e
fece scattare la lama di un coltello a serramanico.
☺
“Agenti,
agenti! Vi prego, agenti, correte!”
Schneider e Stevenson si
fermarono. “Che cazzo c’è ancora?” brontolò il primo fra i
denti, “Eppure mi sembrava che si fossero ammazzati tutti, quegli
stronzi.”
“Agenti,
per favore!”
Si girarono. Una donna orientale
– una cameriera appena smontata dal turno di notte, a giudicare dai
vestiti – stava indicando concitata un capannello di gente riunito
intorno a un ombrellone chiuso.
“Ma
guarda un po’, è il carretto di Ron Jeremy,” constatò
Stevenson. Poi, in tono professionale: “Qual è il problema,
signora?”
“È
morto!” strillò la donna.
“Beh,
se è morto non c’è più tanta fretta, non le pare?”
Schneider staccò comunque la
ricetrasmittente dalla spalla e comunicò il fatto alla centrale,
quindi si diresse assieme al collega verso il capannello vociante.
Ron
Jeremy, al secolo Jesús
Morales, appariva in effetti decisamente morto: giaceva supino, in
una posizione che ai due ricordò quella che assumevano gli aspiranti
suicidi un attimo prima di saltare, e aveva la gola aperta da un
orecchio all’altro.
“Ma
porca merda,” ringhiò Schneider, i pugni puntati sui fianchi.
“Volevo solo tornarmene a casa dopo una notte di servizio. È
chiedere troppo, forse? Ce l’avranno anche gli sbirri il diritto di
riposarsi, dico io.” Abbassò lo sguardo sul corpo, intorno al
quale il sangue cominciava a farsi nero, quindi in tono risentito
proseguì: “E invece no. Arriva questo stronzo a rovinare tutto.”
Poi, rivolto al collega: “Chiama il coroner, va’. C’è bisogno
di un furgone porta-morti.”
“L’ultimo
è appena partito.”
“Merda!”
imprecò Schneider. “Adesso si alza il sole e questo stronzo si
copre di mosche.” Fece girare lo sguardo sulla gente, che lo stava
fissando perlopiù ammutolita, e in tono professionale disse: “Via,
circolare. Non c’è niente da vedere.” Afferrò per il braccio un
ragazzino che si era sporto a vedere il corpo e lo strattonò
indietro. “Fuori dalle palle, moccioso. Va’ a vendere crack
davanti alle elementari, invece di startene qui a intralciare
un’azione di polizia.”
☺
Schneider rimase per un po’ a
guardare i paramedici che raccoglievano le spoglie mortali del
messicano, quindi si rivolse al collega e disse: “Che palle. Facci
caso, ‘sti stronzi scelgono sempre il momento peggiore per farsi
ammazzare: quando devi smontare, quando c’è un tempo del cazzo o
quando stai per intervenire in un locale di lap dance.”
“Che
ci vuoi fare,” replicò Stevenson con filosofia, “mio zio lo
diceva sempre: il rompicoglioni ha un sesto senso.”
“Andiamo
a fare colazione da Hooters?”
“Ottima
idea, così ci rifacciamo gli occhi. È ancora aperto?”
“Hooters
è sempre aperto.”
“Mi
piacerebbe che fosse così anche per le gambe della bionda che serve
al banco. Quella piccoletta, hai presente?”
“Nah,
quella è talmente piccola che ti può fare un pompino stando in
piedi. Preferisco la sua amica mora.”
“È
sua amica?”
“Uh-huh.”
“Dici
che se la brucano?”
“Se
lo fanno, voglio un posto in prima fila.”
Montarono in macchina. Per prima
cosa Schneider spense la radio di servizio, quindi avviò il motore.
Il veicolo prese a percorrere la Strip, a quell'ora quasi deserta.
Dopo un po', Stevenson buttò lì:
“Certo che... quanti ne sono crepati stanotte?”
“Settantaquattro,
alla fine.”
“Un
bel po', eh?”
“Avranno
intasato l'obitorio,” rispose Schneider. Poi sorrise e disse:
“Guarda là: ecco Hooters. Tettone, arriviamo!”
SPIEGONE
Ok,
gente, prima le cose pratiche:
- La Strip è la strada di Las
Vegas dove ci sono gli alberghi e i casinò più famosi, ovviamente è
anche molto frequentata dai turisti.
-
La Stratosphere Tower è questa:
https://it.wikipedia.org/wiki/Stratosphere_Las_Vegas
- I lemming sono roditori artici.
La leggenda vuole che quando le colonie diventano troppo grandi
saltino in massa dagli scogli uccidendosi. Ovviamente non è vero, ma
la faccenda è rimasta nelle credenze popolari.
-
Ron Jeremy è un celeberrimo attore porno, molto amato dagli uomini
perché è brutto, laido e con la pancia, ma nonostante ciò ha
centinaia di donne.
-
La faccenda del Mandalay Hotel è questa:
https://it.wikipedia.org/wiki/Strage_di_Las_Vegas
-
Per i suicidi di massa, rimando all'ampia letteratura presente in
internet. Jim Jones fu l'ispiratore di uno dei più grandi suicidi
collettivi della storia, in cui morirono più di 900 persone.
-
Hooters è una catena di locali famosa per le cameriere dal seno
particolarmente abbondante e vestite in modo succinto (Hooters in
inglese significa “Tettone”).
-
La vicenda del metal detector è accaduta, esattamente come la
descrivo, al sottoscritto, al momento di salire sulla Stratosphere.
Da allora, il treppiede della mia macchina fotografica è
soprannominato “Arma di fine di mondo”.
-
La storia del deltaplano è a sua volta un fatto vero, raccontatomi
dal medico legale che eseguì l'autopsia sul soggetto.
L'idea
per la storia:
tutto
è partito dalla citazione che ho scelto: mi è sembrato un proclama
da imbonitore, una specie di mantra new age nel quale riconoscersi
mentre si coltiva l'illusione di aver capito tutto della vita e di
essere in grado di scegliere quando in realtà non si sta scegliendo
proprio nulla, ma si sta semplicemente aderendo a un'idea massificata
e stereotipata di “comportamento alternativo.”
Uno
dei protagonisti della storia è infatti un furbastro che ne ha fatto
il motto della sua “setta”. La sua intenzione non è ovviamente
promuovere una nuova consapevolezza nei suoi adepti, ma spingerli al
suicidio collettivo, cosa che a suo parere rappresenta la massima
manifestazione di controllo sulla volontà altrui. La sua idea è
quella di passare alla Storia per quel motivo, e in pratica ha
impostato tutta la sua vita su tale obiettivo.
Fanno
da contrappunto al Jim Jones dei poveri i due sbirri SS, cinici e
paraculi, che in pratica ci forniscono un commento diretto e
politicamente scorrettissimo di quello che succede sulla torre.
Ho
aggiunto poi alcuni personaggi collaterali, il negoziatore, il
venditore di hot dog, il sergente Wilkes e l'altro messicano (quello
che viene sloggiato dal primo) per mostrare un'umanità avida,
cinica, che in pratica se ne sbatte le balle del fatto che settanta
persone si stanno suicidando e pensa solo a trarre un tornaconto
dalla faccenda, a non perdersi lo spettacolo o a non sprecare
comunque troppe energie.
Nessuno si salva, e i pochi che
più o meno si salvano moralmente non si salvano comunque
fisicamente.
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