La Classe Più Pazza Del Mondo

di Afaneia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una strana classe. ***
Capitolo 2: *** Relazioni sociali. ***
Capitolo 3: *** Un secondo bell'insegnante. ***
Capitolo 4: *** Una lampada rosa. ***
Capitolo 5: *** La cena di classe. ***
Capitolo 6: *** Un pub per gente per bene. ***
Capitolo 7: *** Il Grande Buco. ***
Capitolo 8: *** La vita difficile. ***
Capitolo 9: *** Una ragazza fortunata in amore. ***
Capitolo 10: *** Come morire lentamente. ***
Capitolo 11: *** Crapulam edormio. ***
Capitolo 12: *** Quei diciassette gradini. ***
Capitolo 13: *** Rifulgente di normalità. ***
Capitolo 14: *** Come lui. ***



Capitolo 1
*** Una strana classe. ***


Questa storia cercherà di rappresentare la vita di una qualunque adolescente

Questa storia cercherà di rappresentare la vita di una qualunque adolescente; i personaggi sono inventati. Questo racconto non è scritto a scopo di lucro.

Vi sarò grata se vorrete lasciarmi un commento, anche breve.

La storia sta proseguendo ancora, cioè io la sto attualmente scrivendo. Poiché la sua stesura avviene a mano, per postare devo ricopiarla al computer. Cercherò di mettermi d'impegno, ma spero che chi vorrà seguire il mio racconto vorrà essere paziente.

Davvero non ho idea di quale sarà il risultato finale. Ho già molte idee, ma non so quanto la storia durerà, né so ancora cosa succederà di preciso in molti punti dell'anno. Per me questo è un progetto nuovo e molto complicato, perciò siate clementi.

Buon capitolo.

 

 

Ricordo il giorno in cui cominciai il liceo.

Le prime classi entravano prima delle altre perciò alle otto ero a scuola, in ansia, pantaloni corti sulle gambe ben depilate.

Avevo paura di chi avrei incontrato, di cosa avrei potuto dire di sbagliato, di diverso, di inadatto alla situazione.

Ero sola.

Me ne stavo lì, seduta accanto a qualche compagnia di classe delle medie, nell’auditorium del Liceo Fabrizio de André.

Avevo la gola secca e il cuore che batteva al rallentatore.

Mi mancava la mia classe.

Volevo scappare.

Forse era meglio, l’auditorium era pieno e nessuno se ne sarebbe accorto, ci sarebbe stato un posto in più.

- Febe, stai buona!- continuava a dirmi Alice. – Smettila di agitarti!

Eh, già. Perché mia madre ha avuto una bella idea, eh?, a chiamarmi Febe. E sciocco mio padre che gliel’ha lasciato fare.

- Scusa, è che sono un po’ nervosa.

- E che, io no?

Già, aveva ragione lei. Però io ero nervosa veramente. Insomma, lei al linguistico conosceva già metà delle persone che sarebbero state in classe con lei, almeno di vista, e io invece no.

Così me ne stavo lì con espressione idiota, a sentirmi ancora più idiota e a giocherellare con le cinghie del mio zaino.

- Guarda, guarda! C’è Vinci, c’è Vinci!

Ah, eccolo. Meno male. Il preside Giacomo Vinci, in codice Leo (LEOnardo da VINCI, no?). Si diceva che fosse lo spauracchio della scuola, eppure a vederlo non sembrava male. I suoi cinquanta suonati li aveva tutti, forse anche di più, eppure continuava a ostinarsi a venire a scuola in jeans, maglietta e giubbotto di pelle su una magnifica Harley Davidson.

Molto, molto sobrio.

Leo andò al microfono sul palco dell’auditorium e graziosamente si schiarì la voce.

- Allora, benvenuti per un altro anno di scuola- iniziò.

- Grazie!- urlò qualcuno dal fondo dell’auditorium e tutti risero. Mi guardai intorno per capire chi fosse stato, ma Leo rispose: - Prego- e andò avanti col suo discorso.

- Immagino che alcuni di voi siano spaventati all prospettiva di un nuovo anno di scuola in un posto così diverso dalle scuole medie. – Tacque e rimase zitto così a lungo che mi domandai se stesse per avere un infarto. – Il ragazzo di prima ha nulla da dire?

- No preside, io sono bocciato!- urlò di nuovo il tale dalle ultime file.

- Ah. Bene, ragazzi, non fate come lui.

Ridemmo e lui riprese: - Bene, a quelli di voi che sono nuovi qui, ho un consiglio da dare.

Ci fu un lungo attimo di suspance.

- Studiate!- urlò Vinci sbattendo la mano sul leggio. Il microfono cadde a terra con un crepitio che ci fece rabbrividire e una professoressa si precipitò a raccoglierlo e a metterlo a posto: purtroppo non ci stava e così ci trafficarono intorno in tre (Leo, la prof e un altro che nel frattempo era arrivato) per alcuni minuti prima di giungere a una soluzione di compromesso.

Fu così che Leo dovette abbassarsi a concludere il suo discorso con il microfono in mano.

- Bene, dove eravamo rimasti? Ah, che dovete studiare. Ragazzi, dovete studiare. Per davvero. Sennò come farete ad andare avanti? Ragazzo laggiù, me lo confermi?

Il Ragazzo Laggiù rispose: - Non concordo, preside, io avevo otto in tutte le materie tranne a greco che avevo nove, eppure sono bocciato lo stesso!

Leo ci rimase un po’ male. – Beh, e in condotta?

- Anche lì nove, prof.

- E allora perché sei bocciato?

Ragazzo Laggiù esitò. – Il mio professore non apprezzava la mia satira.

Vinci assunse uno sguardo a metà strada tra l’illuminato e il perplesso. – Ah, mi ricordo di te. – Poi proseguì come se nulla fosse: - Beh, ragazzi, fate in modo che i vostri insegnanti apprezzino la vostra satira, okay? Ah, e vestitevi decentemente, fate sempre i compiti, ricordatevi di portare la merenda a scuola e arrivate in orario. Ora se non avete domande iniziamo a fare l’appello, così poi potete andare in classe, okay?- Tacque un attimo e iniziò: - Adesso chiamo la quarta alfa del liceo classico.

Vinci cominciò a snocciolare una lunga serie di nomi che dimenticai prima ancora di aver sentiti. Restai seduta al mio posto finché non sentii: - Doria, Febe.- Allora mi alzai e mi diressi verso il piccolo gruppo di gente radunato suo fondo dell’auditorium. C’erano due prof a tenere le fila.

Una era una donna piccola, con un fisico da mettere invidia a Marilyn Monroe, solo che con il sedere venti volte più piccolo. Avrà avuto quarant’anni.

L’altra era una insignificante signora di mezza età vagamente stempiata e vestita in modo intonato col proprio personaggio: insignificante.

Alla fine fu chiamato anche l’ultimo nome “Zadini, Michela” e uscimmo dall’auditorium raggiungendo l’ingresso della scuola.

- Ci siamo tutti?- chiese Marilyn. Si guardò intorno sollevandosi sulle punte per sovrastarci. – Beh, direi di sì. Allora, io sono la professoressa Bini, Ada Bini.- Sbatté un paio di occhioni esaltati dalla matita azzurra e dalle ciglia lunghissime, probabilmente ci stava contando in silenzio, e proseguì: - Questa è la professoressa Agata Corsi, la vostra insegnante di latino e greco. Ciao.

- Ciao- dicemmo noi in coro come alle riunioni degli alcolisti anonimi.

- Prof, e lei cosa insegna?- chiese una ragazza piccola e mora. Aveva una gran brutta voce, del suo viso non si poteva dire lo stesso. Appassionata di doppiaggio com’ero, non potevo fare a meno di registrarmi le voci dei miei compagni.

- Matematica- rispose lei. La ragazza assunse una strana espressione delusa e imbarazzata e la prof aggiunse: - Non avrete pensato che solo perché siete al classico vi saranno risparmiati i quaderni a quadretti, eh?

- Se lo avete pensato, dispensateci- disse un ragazzo vicino a me.

Lo avevo notato anche prima, ma solo quando lo sentii parlare mi accorsi che era il Ragazzo Laggiù. Era nella mia classe.

La Bini lo guardò per qualche istante. Poi sorrise e disse: - Niccolò, facciamoci riconoscere come al solito, mi raccomando!

- Prof, non è stata colpa mia!- esclamò Niccolò. Il suo volto era l’immagine della solarità, ma i suoi occhi mascheravano altre cose, ch’egli forse voleva tenere per sé. – Eppoi il preside non si è mica arrabbiato!

- E ringrazia!- sbottò la prof, ma aveva il volto sorridente e gli occhi luminosi.

- Allora Ada, saliamo, prima di confonderci con gli scientifici?- domandò la Corsi.

La Bini annuì, dandoci un’ultima occhiata prima di intraprendere il cammino.

Entrammo nell’edificio e raggiungemmo la nostra nuova classe.

Era nascosta nell’angolo più buio di un lungo corridoio,dietro una colonna portante, tra tante classi. “4a”, si leggeva sulla porta.

La grandezza era quella di una qualunque classe e i banchi sembravano alti giusti. Le finestre si affacciavano su un angolo di prato chiuso tra due mura di mattoni rossi, ovviamente spazio sacro alle cartacce (nel senso che ce ne erano tantissime).

Ci mettemmo a sedere. Io mi scelsi un posto in seconda fila, il penultimo prima della finestra. A sinistra avevo una ragazza con lunghi capelli rossi molto mossi. Dall’altra parte, sulla destra, c’era una ragazza bionda.

Bene, per ora era andato tutto bene. Restavano da affrontare le prossime quattro ore.

La professoressa Corsi si era messa a sedere alla cattedra e aveva aperto il registro. Lòa bini invece si era appoggiata al muro alle sue spalle e ci guardava.

- Possiamo fare l’appello, ragazzi?- chiese la Corsi dolcemente. Guardò il registro e cominciò:

- Agostani, Oscar.

- Io- fece un ragazzo della mia fila, il penultimo in fondo. Era un ragazzo molto alto.

- Ambrosini, Sandra.

- Io- disse la ragazza alla mia sinistra.

- Bindi, Alberto.

- Bassi, Elisa.

- Calvani, Paolo.

- Cassia, Raffaele.

- Caponi, Elisa.

- Doria, Febe.

Avevo un bel nome, non c’è che dire. Cognome del nord e nome greco. Tutti si voltarono a guardarmi e scorsi qualche sorrisetto. Alle medie però era peggio.

- Grossi, Barbara.

- Filosa, Albina.

Beh, forse questo era più strano ancora. Era la ragazza alla mia destra.

- Lapi Letizia.

- Lauri Sara.- Era la ragazza con la voce bruttina che aveva parlato poco prima.

- Moriani Niccolò.- Ecco Ragazzo Laggiù, per l’appunto nell’ultima fila. La Bini lo guardò e rise:

- Attenta a questo soggetto, Agata.

- Morini, Carla.

- Morganti Italia.

- Naldini Marina.

- Nencini Chiara.

- Poggi Ambra.

- Ponziani Valentina.

- Ricci Vittoria.

- Rondoni Giulia.

- Santi Maria Claudia.

- Vannoni Penelope.

- Zadini Michela.

Anche l’ultima ragazza, nell’ultimo posto nell’ultima fila vicino alla porta, alzò la mano. Era la vicina di banco di Moriani.

Quando anche l’ultimo nome fu sistemato la Bini si alzò dal suo cantuccio, si stiracchiò e disse:

- Beh, ora che ho visto posso anche andare, ti va bene, Agata?

- Certo.- A giudicare dagli occhi che già da tempo vagheggiavano una grammatica greca poggiata sulla cattedra, la Corsi non vedeva l’ora.

- Benissimo. Ragazzi, la prima ora di matematica ci sarà domani, perciò immagino che ci rivedremo presto, d’accordo? Arrivederci.

- Arrivederci- rispondemmo, in coro come al solito, prima che lei uscisse dalla classe.

A quel punto la professoressa Corsi si mise comoda sulla cattedra e ci guardò.

- Allora, avete intenzione di conservare più o meno questa disposizione di banchi, quest’anno?

Vi fu un’alzata di spalle generale e qualche borbottio. Lo prese per un sì.

- Perfetto. Allora ragazzi, voi sapete perché al liceo classico studiamo il greco?

Ebbe così inizio una lunga, lunga, lunghissima spiegazione sull’influenza dei greci nella moderna cultura occidentale.

Io mi impegnavo, per stare attenta. Davvero.

Ma con quella voce costante, soporifera, che sembrava si annoiasse anche lei a spiegarci queste cose, non era facile.

Stavo giusto prendendo in considerazione l’idea di usare le forbici per tagliarmi le vene quando Sandra lasciò cadere la testa sulle braccia, sconsolata. Vide che la guardavo.

- Dio mio che palle- sussurrò. – E ho dimenticato il cianuro a casa, proprio oggi…

Dopo altri dieci minuti di pappardella (durante i quali io avevo guardato le foto di Rutger Hauer incollate sul mio diario) iniziammo a cantare a bassa voce:

“Dammi una lametta che mi taglio le vene…”(la canzone di Donatella Rettore), canzone incredibilmente adatta all’occasione. Coinvolgemmo anche la nostra compagnia Albina e per un paio di minuti continuammo così, senza ovviamente che la prof ci rivolgesse la benché minima attenzione. A fine canzone mi sentivo molto più tranquilla sapendo che c’era gente come me.

Mancava mezz’ora alla fine della lezione quando la prof guardò l’ora ed esclamò: - Com’è tardi! Io dovevo spiegarvi l’alfabeto greco!

Bastò quella frase a risvegliarci un po’. Riaprimmo la grammatica alla prima pagina (durante la spiegazione eravamo stati tutti troppo addormentati per ricordarci di tenerla aperta con le mani) e trovammo l’alfabeto.

Dio mio com’era brutto!

Le lettere greche mi misero in ansia e mi ripromisi di stare attenta alla spiegazione.

Non durò molto vista la mancanza di tempo, ma gettò un po’ di luce sull’alfabeto che guardavamo con apprensione (tutti tranne Moriani, il più annoiato di tutti dato che doveva essere la seconda volta che si sorbiva una spiegazione del genere e che l’anno prima aveva avuto nove a greco).

Beh, in fondo non era così difficile.

Suonò la campanella e la professoressa fece in tempo a dirci di ricopiare cinque volte l’alfabeto sia in maiuscolo che in minuscolo, prima di uscire.

Adesso, secondo l’orario che avevo preso, doveva essere l’ora di italiano, col/la professor/essa Napodano.

Durante il cambio d’ora si fece sentire qualche timido accenno di chiacchiere. Mi misi a parlare con Sandra, contenta di aver trovato qualche amica nella nuova classe.

Eravamo intente a parlare della spiegazione quando dalla porta entrò Legolas.*

No no, davvero. Cioè, quello era Legolas.

Mancavano soltanto la faretra e gli abitini tolkeniani, per il resto era Legolas Verdefoglia.

Aveva i capelli lunghi. Biondi.

Era bellissimo.

Era giovanissimo.

Aveva le orecchie a punta.

No, non scherzo.

Aveva anche un bellissimo corpo.

Insomma, mi pare di aver reso bene l’idea, no?

In poche parole, era un fico incredibile.

In una parola, era Legolas.

O anche Achille. Ma grazie alle orecchie a punta, per me era Legolas.

Si mise a sedere alla cattedra e fece l’appello.

Si soffermò sulle origini del nome Oscar (Oscar Wilde e Oskar Schindler) e del nome Febe (la traduzione italiana di Phoebe, il nome vero di Annie Oakley), e del nome Italia (gusti materni).

Terminato questo, si mise comodo, accovacciato nella sedia (sì, proprio comodo), e disse:

- Sono il professor Gabriele Napodano.

Sarà stata un’impressione, ma mi parve di veder scattare il flash di una macchina fotografica. Napodano se ne accorse e guardò attentamente la classe.

- Se avete un cellulare acceso, per favore spegnetelo. Allora…- si mise più comodo, acciambellandosi come un gatto.

“ Se gli viene mal di schiena poi non si lamenti!”, pensai appoggiandomi al banco per guardarlo meglio.

- Cristo se è bello!- mormorò Sandra sgranando gli occhi.

Purtroppo temo che il professore avesse intuito quanto aveva detto, perché la guardò e sorrise. Poi tornò a concentrarsi.

- Beh, ragazzi, che posso dire? Il classico è un liceo difficile. Se studierete tutti i giorni, bene, altrimenti…- e fece con la mano bella un gesto di taglio- segati!

E rise. Mi lasciò un po’ ghiacciata.

Tacque qualche secondo. – Domande?

Sara alzò la mano dalla prima fila.

- Scusi…

- Come ti chiami?

- Ehm, Sara.

- Dicevi?

- Le sue orecchie sono vere?

La sua domanda ci gettò giù dalla sedia dal ridere. Napodano sbatté un poco gli occhi.

- Ehm…sì, perché?

Ma la moretta non volle più parlare e allora Napo si rivolse a noi. – Allora, perché? Voi lo sapete?

Tacemmo tutti per qualche istante finché, dall’ultima fila, Moriani si alzò e spiegò:

- Professore, le orecchie a punta sono piuttosto elfiche che umane.

Napodano stette zitto per qualche istante, poi si mise a ridere. Era bellissimo quando rideva.

Prima che riuscisse a smettere suonò la campanella e ci lanciammo fuori per la ricreazione.

Uscii con Sandra nel corridoio. Alla seconda ora erano arrivate le seconde e i trienni, cos’ adesso la scuola era al completo.

Attraversammo la scuola, guardando un po’ di gente.

- Cristo, quant’è fico il prof di italiano!- disse ancora mentre camminavamo.

- Si sarà offeso per la storia delle orecchie a punta?

- Ma no, io dico di no. Hai visto quanto ha riso? Eppoi chissà quanti altri alunni glielo hanno fatto notare! Poi chissenefrega se ha le orecchie a punta, è bello comunque!

- Secondo me sembra un po’ Legolas.

- Non gli somiglia, lo è!

- Comunque la cosa importante è che non se la prenda.

- Ma cosa vuoi che gliene freghi, tanto lui lo sa che è difficile trovarne di più belli di lui! Orecchie a punta o no, quello ha quante donne vuole, fidati di me!

Non sapeva neppure quanto si sbagliava.

Suonò la campanella di fine ricreazione e tornammo in classe. Ad aspettarci c’era ià Asia Dell’Amore, la professoressa di inglese.

Era una quarantenne all’apparenza più giovane ancora con folti riccioli scuri. Era piccola piccola e sottile, quasi innaturalmente minuta. Il suo viso poteva sembrare quello di una ventenne.

A giudicare dal suo corpicino minuscolo, doveva vestire qualche taglia da bambina. Passandole accanto per andare al mio posto, notai che doveva una taglia minuscola di piede.

Era una specie di nana, insomma.

Si mise a sedere alla cattedra e diede ordine a Zadini di chiudere la porta non appena decise che dovevamo esserci tutti. Ci guardò a lungo prima di fare l’appello e ci informò che voleva sentire parlare solo inglese per tutta la durata delle sue lezioni.

Io, che avevo sempre odiato l’inglese, la trovai subito antipatica; oltretutto, parlava troppo veloce perché potesse piacermi. E se metteva i libri d’inglese impilati sulla cattedra davanti a lei ci scompariva quasi dietro, visto che non solo era bassa, ma stava anche seduta scomposta.

Per questo motivo io e Sandra decidemmo che ogni compito da lei assegnato sarebbe stato denominato Missione Tacchi Alti.

 

 

*Per chi non lo sapesse, Legolas è un personaggio del Signore degli Anelli di Tolkien.
 

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Capitolo 2
*** Relazioni sociali. ***


Ho ricopiato il nuovo capitolo

Ho ricopiato il nuovo capitolo, con grande anticipo sul previsto. Il fatto è che ieri sera davano Renato Zero alla televisione, così anche se pensavo di andare a letto a mezzanotte, alla fine ci sono andata all'una e dieci perché volevo finire di vederlo, così ho anche ricopiato il capitolo.

Un ringraziamento a chi ha commentato:

DopoDiMe: Grazie degli apprezzamenti, comunque immagino che non sia impossibile che il primo giorno di quarta sia così. Il mio non era del tutto diverso.

Smolly_sev:Sofy non sclerare...va tutto bene!!E grazie del commento ovviamente!

Amaerize: Grazie del commento, sono contenta che abbiate gradito... in ogni caso Legolas sta sempre bene da tutte le parti, no? E complimenti per l'iscrizione!

Grazie ad ArabaFenice, bella95, jecu, reader e Smolly_sev di aver aggiunto la storia ai preferiti.

Buon capitolo.

 

 

 

Era martedì.

La IV alfa aveva affrontato felicemente le prime quattro ore di scuola, e ora ce ne aspettavano altre quattro.

Quando arrivai a scuola, il giorno dopo, trovai il cortile gremito, come sarebbe stato nei giorni a venire, poiché adesso tutti gli studenti entravano insieme.

Non avevo voglia di restare giù nel cortile, temendo che i ragazzi più grandi m’infastidissero, perciò decisi di salire subito in classe. Per le scale incontrai Moriani.

- Ciao- gli dissi aggrappandomi al corrimano.

Sorpreso, mi guardò per qualche secondo prima di ricordarsi di me.

- Ah- esclamò. – Febe, vero?

- Davvero.

- Scusa, non sono un gran fisionomista.

- Neanch’io, ti ho riconosciuto per via dell’auditorium.

I suoi occhi si illuminarono. – Bella scena, eh?

- Per me sei un pazzo.

- Solo un pochino- affermò con sicurezza.

- Eri così anche l’anno scorso?

- Sì. Ma non è per quello che sono bocciato.

- Magari un giorno me lo racconti.

- Contaci.

Arrivammo in classe. La maggior parte dei nostri compagni era già lì.

Andai a mettere la cartella al mio posto. Sandra era seduta sul suo banco e parlava con una compagna.

Come ho detto, non sono una gran fisionomista, perciò neppure non mi ricordavo il suo nome, non mi ricordavo neppure di averla mai vista.

- Ciao- dissi.

- Ciao- mi rispose Sandra allegramente, invitandomi a sedermi. Mi accomodai accanto a lei, sul mio banco.

La ragazza con cui stava parlando si chiamava Vittoria Ricci. Era alta, più di noi, aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri. Parlava piano, lentamente, scandendo le parole, un vaghissimo accento del nord, ma del nord non era perché mugellana DOC.

Parlavamo dell’alfabeto greco e di quanto difficile fosse stato ricopiarlo il pomeriggio precedente quando dalla porta entrò Napodano.

Il suo abbigliamento era quanto di più ridicolo fosse possibile aspettarsi da un professore: indossava infatti una maglietta azzurra scolorita, una giacca scura vagamente da sera e le converse giallo canarino.

Sbiancammo nel vederlo e corremmo a posto. Soprattutto impallidimmo nel vedere com’era vestito.

Andò alla cattedra e ci guardò sorridente.

- Oggi mi sono svegliato tardi- ammise come se fosse un vanto. - Il treno l’ho preso di corsa…

- Ecco la spiegazione a quei vestiti schifosi!- mi sussurrò Sandra.

Fu contraddetta quando sentimmo dire:

- Per fortuna i vestiti li avevo scelti ieri sera…

Entrambe ci restammo di marmo.

Qualcuno, dalla mia fila, osò una domanda: - Prof, ma tardi, vero?

Napo gli rivolse un sorriso.

- Bah, prima di dormire, saranno state le undici e mezza…

Non appena il prof distolse lo sguardi da lui, il ragazzo (più tardi avrei imparato che si trattava di Alberto Bindi) si rivolse al suo compagno, Oscar, e mormorò: - Dimmi che va a letto tutte le sere alle dieci!

Oscar aggrottò le sopracciglia con fare poco speranzoso e non disse nulla.

Napodano fece l’appello e iniziò la lezione di storia. Voleva farci un’introduzione alla preistoria e tutti pensammo bene che sarebbe stato utile preparare qualche mezzo per distrarsi.

Poi iniziò a spiegare, ed eravamo lì ad ascoltarlo.

Passeggiava per la classe, il libro in mano, incurante dell’abbigliamento idiota, ma dopo poco ce ne sbattemmo anche noi. Aveva una bella voce e spiegava bene.

C’eravamo appassionati, quando fece una cosa che non avrebbe mai dovuto fare.

A un tratto, si voltò e iniziò a scrivere un riassunto della spiegazione alla lavagna.

Non l’avesse mai fatto.

- Dio mio che culo da favola!- bisbigliò Sandra sporgendosi per vedere meglio il didietro del prof.

Anch’io mi sporsi. Aveva veramente un fondoschiena incredibile.

Sentii una sedia spostata e mi voltai. Dall’ultimo posto Zadini era in piedi e spudoratamente fissava Napodano.

- Vieni giù, imbecille!- sussurrava Moriani disperato, cercando di trascinarla seduta.

- Sei scemo? Lasciami!

Alla fine non ressi e anch’io spinsi la sedia indietro e mi alzai.

- Idiota!- mi disse Sandra ma per non lasciarmi sola si alzò anche lei. Albina non fece eccezione.

Trenta secondi dopo, quasi tutte eravamo in piedi a fissare il sedere di Legolas.

E Napodano si voltò a guardarci.

Noi, tutte in piedi a guardargli il culo.

- Cosa…cosa state facendo?- chiese perplesso.

Moriani scoppiò a ridere senza ritegno, le mani sul viso, quasi senza fiato. Oscar lo seguì e subito Alberto, Paolo e Raffaele erano con loro.

Noi ci gettammo di nuovo sulle sedie, rosse in viso, disperate.

Napo rimase perplesso.

- Ho qualcosa dietro?- chiese poi terrorizzato, iniziando a contorcersi per guardarsi di dietro. – Che cos’ho?

- Non ha nulla a parte quel suo culo perfetto, prof- sussurrò Sandra, troppo piano perché lui potesse sentirla.

- È un insetto? È gesso? C’è uno strappo? Cos’è?

- Ha solo un po’ di gesso, prof- sospirò Oscar alla fine, cercando di calmarlo.

- Qualcuno me lo leva?

Impallidimmo e arrossimmo d’un colpo. Napo attendeva volontari. Infine Zadini si alzò e con la massima calma lo raggiunse, lo fece voltare e gli diede una pacca sul sedere.

Davanti a tutta la classe.

Dopodiché tornò a posto, tranquilla, mentre noi ci scompisciavamo dal ridere.

- Grazie- disse Napodano soddisfatto. – Non mi piace avere il gesso addosso.

- Si figuri- replicò Zadini impassibile.

Noi soffocavamo. Napo spiegava, paziente.

Neppure si era accorto che era tutta una scusa per toccare quel suo fondoschiena scolpito.

 

Quando, al suono della campanella, Legolas se ne andò ed entrò la professoressa Corsi, ormai ci eravamo quasi ripresi dagli avvenimenti dell’ora precedente.

Non fosse che, non appena la prof si fu seduta alla cattedra, Moriani si alzò in piedi ed esclamò: - Prof, se ha del gesso addosso lo dica alla Zadini, lei sarà ben felice di aiutarla!

- Eh?- fece la Corsi perplessa guardandolo. Rivolse uno sguardo stupito alla classe, mentre Zadini si faceva tutta rossa e affondava il viso nelle mani. – Ma che dici?

- La verità!

- Non gli creda, prof, dice solo scemenze!- gridò Michela disperata; un po’ rideva, però, e il divertimento e la vergogna giovavano ai suoi occhi belli.

- Ma di cosa parli, Moriani?

A quel punto, Niccolò rideva troppo per spiegarsi; anche perché Michela si era aggrappata al suo braccio e cercava di tirarlo giù dicendo – Sei uno stronzo, non glielo dovevi dire!

- Via! Queste parole! – disse la prof giusto per darsi un contegno di persona seria; e guardandoci: - Ma di cosa parlano?

Toccò a Raffaele Cassia spiegare, lui che dei maschi era il più vicino alla cattedra. – All’ora di italiano Napodano aveva del gesso sul sedere, e lei è andata a levarglielo, prof…

Stava un po’, diciamo, edulcorando la faccenda, visto che il gesso non esisteva, ma in fin dei conti andava bene così. La Corsi sbatté un paio di volte le palpebre.

- E brava la nostra Zadini, con quel suo visino da angioletto!- esclamò infine divertita, perché davvero Michela sembrava un angioletto, coi capelli biondi e lisci e gli occhi azzurro pallido, l’espressione innocente e il fisico sottile. – E così è anche riuscita a toccare il bel culetto del prof di italiano, è pur vero che è un bel ragazzo!

E si mise a ridere. Noi, increduli.

- Guarda, mi verrebbe da metterti un più solo per la faccia tosta, ma immagino che non si possa, sai…

A quelle parole, Michela si ricompose tanto da dire: - Non importa prof, apprezzo comunque il pensiero!-, al che tutti ridemmo.

La Corsi finalmente si decise a fare la persona seria, o a fingersi tale; e fece l’appello per ricordarsi i nostri nomi, e ci chiese com’era andato il greco. Ci fu un bell’imbarazzo in classe quando tirammo fuori i quaderni riportando alla luce, sulle prime pagine, i segni tremolanti che a grandi linee ricordavano quelli del libro, tutti diversi tra loro. Solo sul quaderno di Niccolò spiccava una lunga serie di segni elegantissimi e perfettamente identici. Facendo il giro, la Corsi lo notò e gli disse: - Potevi anche evitare, Moriani! Non avevi nove?

- Anch’io volevo fare i compiti, mi sentivo in colpa a stare in panciolle sapendo che loro compicciavano quello che compicciavo io un anno fa, prof! – rispose lui con la massima serietà; al che la prof non poté evitare di ridere. Proseguì il giro, arrivò al mio quaderno e annuì ai miei scarabocchi con aria comprensiva, come a tutti quelli che li avevano preceduti.

Ecco i difetti che avremmo trovato pochi mesi dopo riguardando il nostro primo approccio con l’alfabeto greco: poiché noi copiavamo i simboli dal libro, e questi erano stampati a macchina, era ovvio che noi cercavamo di imitare la perfezione. È come cercare di rifare identiche le lettere che leggiamo su un libro: non ci vengono, ma d’altro canto non ne abbiamo bisogno, perché facendo le lettere a modo nostro, anche quelle sono comprensibili eppur diverse: ma è lo stesso alfabeto. Dopo poche settimane, le lettere ci vennero a modo nostro, sempre comprensibili, ma diverse da quelle del libro.

Ancora noi non sapevamo che sarebbe andata a finire così, perciò il giorno prima ci eravamo tutti disperati.

Finito il giro, la Corsi tornò alla cattedra. Là stette ferma per un poco, volgendoci le spalle, prima di sedersi.

- Sapete- disse poi, quando fu seduta e poté guardarci – Mi stava venendo mal di pancia a vedere come scrivete in greco!

Ci indignammo.

- Prof!- esclamò Elisa Bassi dalle mie spalle, offesa a morte.

- Grazie del complimento!- aggiunse Paolo, che era seduto al fianco di Albina.

Assistendo a quel tumulto, la prof se la faceva quasi addosso dal ridere.

- Via, via, adesso basta!- sospirò dopo poco, sforzandosi per la seconda volta quel giorno di tornare seria. – Visto che non apprezzate le critiche, miglioreremo. Vediamo un po’…- Guardò il registro. – Agostini! Vieni alla lavagna e scrivi.

Oscar si alzò in tutto il suo metro e ottantasette di altezza e si diresse alla lavagna. Prese in mano un pezzo di gesso, si voltò verso la cattedra e attese.

La Corsi tacque per qualche istante; quindi, senza guardarlo, disse una lettera greca.

Così iniziò la lotta di Oscar contro le lettere greche; la prof sorrideva guardandolo.

- Omega, su- insisteva, ma dolcemente, e Oscar lì, a cercare di disegnare “quella porticina che non mi viene mai”, mentre noi ridevamo, o a stento ci trattenevamo dal ridere.

Però non la scampammo tutti, vedete, la Corsi cercò di chiamarne il più possibile, specie di quelli che più ridevano o che meno avevano decenza nel loro ridere.

Anche Sandra si ritrovò alla lavagna col gesso nella mano sudata, ad abbozzare lettere sulla pietra nera. Non chiamò me, di me si scordò o non mi notò; alla fine dell’ora, quando anche Barbara Grossi se ne tornò a posto dopo essere a stento riuscita a disegnare tre lettere e averne confuse o sbagliate altrettante, la Corsi scosse il capo.

- Migliorerete- garantì. – E adesso facciamo latino?

- Latino no!- gemette Sandra accasciandosi, il capo tra le mani, sconvolta ancora per via della prova alla lavagna.

Così trascorsi tutta l’ora seguente guardando affascinata il dizionario di italiano appoggiato sulla costola all’interno dell’armadietto a muro che, a poco a poco, si richiudeva. Fu molto interessante vedere come la Corsi spiegasse, tutta interessata, le nozioni di base del latino, mentre io e Sandra osservavamo incantate il dizionario che si chiudeva.

Questo andò avanti finché non suonò la campanella; allora ci scagliammo fuori della classe, attendendo giusto il tempo necessario perché Vittoria ci raggiungesse.

Trascorremmo la ricreazione in corridoio e rientrammo alla campana. La Bini arrivò con un minuto appena di ritardo e si mise alla cattedra. Nonostante le scocciasse dovette aspettare che tutti rientrassimo. Quando quel momento arrivò tentò di ricordarsi i nostri nomi.

- Morganti!- mi disse con decisione.

- Quasi- ammisi. – Doria.

- Beh, quasi- confermò lei; e andò avanti finché non ne azzeccò qualcuno.

- Poggi!- disse soddisfatta a Poggi Ambra, che era rimasta ultima, quindi l’azzeccò per forza.

La prima lezione di matematica fu noiosa, ma non molto altro potevamo aspettarci, visto che iniziammo a ripassare le addizioni.

L’unica cosa che risolvemmo fu che per sabato era stabilita la prova d’ingresso di matematica.

 

 

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Capitolo 3
*** Un secondo bell'insegnante. ***


Temo che questo sia un capitolo piuttosto breve e non so come scusarmene

 

Temo che questo sia un capitolo piuttosto breve e non so come scusarmene. E' nato in vari momenti, ci sono state varie modifiche: quindi in sostanza è un collage di varie idee. Solo l'inizio è nato ed è rimasto identico.

Grazie a Ego me stesso ed io, Smolly_sev ed Amaerize delle recensioni.

Sabato parto per le vacanze e sto via quindici giorni, perciò mi ci vorrà un bel po'per scrivere il prossimo capitolo. Grazie in anticipo a chi vorrà pazientare.

Buon capitolo.

 

Svegliandomi il giorno dopo trovai, con mio grande disappunto, che durante la notte mi erano venute le mie cose. Sul lenzuolo c’era una brutta macchia rossa.

Scivolai fuori e mi strofinai gli occhi.

- Mamma!- chiamai cercando le ciabatte di sotto al letto. – Mamma, mi sono venute.

M’infilai sotto il letto per recuperare una ciabatta. Quando riemersi trovai mia madre che controllava l’entità del danno.

- Febe, ma hai quindici anni!

- Infatti mica me la sono fatta addosso.- borbottai avvicinandomi alla porta.

- Sì ma guarda qua che schifo!

- Tanto lava la lavatrice, mica te. Poi che cazzo ne sapevo io che mi venivano stanotte?

- Tanto per te è uguale, sono io che lavoro!

- Giusto- convenni andando in bagno.

Mi levai i pantaloni e li buttai a lavare. Gli assorbenti erano finiti e mi ci volle un po’ per trovarne uno di riserva nella tasca di una borsa.

Terminata questa funzione mi lavai le mani e andai a fare colazione. Mia madre era ancora incazzata con me per via del letto, ma non me ne fregava niente. Misi la tv accesa e guardai i cartoni mentre mangiavo.

Andai in bagno e mi vestii. Mi misi i jeans neri e una maglietta azzurra, presi la cartella e uscii. Mentre uscivo dal giardino vidi mia madre alla finestra, cupa, che mi fissava.

Eccoci, me e mia madre, che vivevamo insieme senza riuscire a convivere.

Arrivai a scuola esattamente mentre suonava la campanella. Mentre attraversavo trafelata il corridoio incontrai Napodano che si dirigeva tranquillo in classe. Lo superai salutandolo dignitosamente e arrivai in classe prima di lui.

Non ci fece caso, fece l’appello e iniziò l’introduzione all’Iliade.

- L’Iliade si incentra sull’ira di Achille, mènin infatti è la prima parola dell’Iliade. Menin significa ira in greco. La guerra di Troia è solo un pretesto per raccontare una bella storia, quella dell’ira Achille e degli altri eroi.

- Scusi prof…- disse Oscar alzando la mano.

- Sì?

- Quando ho fatto questa domanda alla mia prof di italiano delle medie lei mi ha messo una nota, ma scusi, è vero che Achille e Patroclo stavano insieme?

Napodano lo guardò in silenzio per dieci secondi buoni, poi si mise a ridere. Noi ridevamo già da un pezzo.

- Perché me lo chiedi?

- Mah, per vedere se avevo ragione io o quella di italiano!

Napodano ritornò serio.

- Avevi ragione tu, Agostini, era tuo diritto fare una domanda su una cosa che non avevi capito, anche perché è una domanda comprensibile vista l’omosessualità nell’antica Grecia. Non avevi mica chiesto se Achille si fa le canne, no?

Ridemmo e lui proseguì: - Io non ti rispondo, facciamo che quando finiamo l’Iliade trai le tue conclusioni. In ogni caso non capisco perché la tua prof si sia arrabbiata tanto. Era una domanda legittima, ma tu come l’avevi espressa?

- Le avevo chiesto: prof, Achille e Patroclo stavano insieme? E lei si è arrabbiata.

Legolas alzò le spalle. – Ci sono professori che reagiscono così. Se io reagissi così a una vostra domanda, ragazzi, fatemelo notare.

Proseguì la spiegazione sull’Iliade. A fine lezione avevo raccolto quattro pagine e mezzo di appunti: la questione Omerica, Schliemann, e compagnia.

E venerdì prova d’ingresso d’italiano.

Alle ultime due ore avevamo educazione fisica.

Andammo in palestra e ci cambiammo. Io no, non potevo fare ginnastica per via delle mestruazioni, lo stesso la signorina Vannoni Penelope.

Era piccola, sottile come un giunco, di carnagione olivastra, col naso all’insù e i capelli castani.

La palestra era immensa. Il professore aspettava, seduto a un vecchio banco, il registro aperto davanti.

Avvicinandomi, scorsi un magnifico fisico, spalle larghe e dritte, un volto irrilevante con il naso a punta e le sopracciglia piatte. A dar luce a quel viso, due occhi azzurri contrastanti coi capelli neri.

Il professor Meoni attese pazientemente che tutti fossimo seduti per terra davanti a lui prima di fare l’appello.

- Chi non vuole far ginnastica me lo dica appena lo chiamo.- raccomandò iniziando a elencare i nomi.

Terminato l’appello si mise lì a guardarci tutti.

- Allora, come va la scuola?

- Bene- rispondemmo noi in coro.

- Vi trovate bene?

Ci fu un borbottio generale che interpretò come un sì.

- Cosa facevate a ginnastica l’anno scorso?

Nessuno rispose, ma ci furono molte alzate di spalle. Solo Maria Claudia si sporse oltre la spalla di Oscar e gridò: - Noi ci piastravamo i capelli!

Tutti ridemmo e anche il prof abbozzò un sorrisetto. Quando smettemmo di ridere Meoni proseguì:

- Beh, qualunque cosa faceste alle medie, con me farete un sacco di cose. Faremo mountain-bike, vela, nuoto, coreografia, giochi di squadra e ping-pong. La coreografia è solo femminile. Dovete preparare una coreografia e presentarla alla scuola.

Qualcuno si alzò dietro di me. Mi voltai e vidi Italia, strafottente come poche:

- Prof, e i maschi no?

- No, i maschi no.- rispose lui con un sorriso.

- Eh, vabbé- sospirò lei e si mise seduta.

La classe scoppiò nell’ennesima risata di gruppo alla scena, ma il prof sembrava impaziente di farci fare riscaldamento. Così tutta la classe si mise a correre, salvo me e Penelope e Alberto, che aveva un problema alla caviglia.

- Cos’hai?- gli chiesi.

- Sono caduto ieri, fa un po’ male- mi rispose. Si sollevò l’orlo dei jeans e mi mostrò una fasciatura. – Me l’ha bendata l’ortopedico, dice che è una distorsione.

- Come te la sei fatta?

- Ieri all’allenamento.

- Mi dispiace- gli dissi. Lui alzò le spalle.

Rimanemmo in silenzio a guardare i nostri compagni fare tre passi e tre rane tutt’intorno alla palestra, e provai una gran pietà di quel movimento sgraziato. Ero felice di poter saltare l’educazione fisica, almeno per quel giorno.

- Certo che è fico anche lui- mi disse Penelope guardando fisso il prof.

- Io preferisco Napo.

- Sì, ma hai visto che spalle ha questo?

- Sì, ha un fisico magnifico- ammisi. – Ma Napo ha il culo più bello.

Anche Penelope si era alzata il giorno prima per ammirare il fondoschiena di Legolas. – Oh, sì- riconobbe divertita.

- Io credevo che avremmo avuto tutti professori schifosi.

- No, non siamo messi male, no- riconobbi. – Perché hai scelto il classico, Penelope?

- Ah…vediamo un po’.- Vannoni si sedette appoggiandosi al muro con la schiena e tirando le gambe sulla panca. – Ero indecisa tra il classico e il linguistico e il giorno prima di dover consegnare la prescrizione ho tirato a testa e croce. Ed è venuta croce. Poi non ho voluto cambiare, e quindi…

- Ma scegliendo un liceo- osservai – Non scegli alla lontana anche il tuo destino?

Penelope ci rifletté un secondo.

- Forse- ammise.

- E quindi, ti sei tirata a testa o croce il tuo destino- ne dedussi.

Penelope rimase in silenzio per qualche istante.

- Sì- rispose infine. Tacque ancora e un sorriso le illuminò il viso ambrato. Poi si mise a ridere. – Non è estremamente affascinante?

Non riuscii a trovare nulla da dirle e rimasi zitta, pensando che, forse, il suo metodo era stato migliore del mio, avevo scelto semplicemente pensando che non c’erano le materie che odiavo. In fin dei conti non era così diverso, no?

Trascorsi il resto dell’ora guardando il resto della mia classe che, diviso in tre squadre, faceva un torneino di pallamano. Di tanto in tanto commentavo un po’ con Penelope. Alberto guardava la lezione, ma non aveva voglia di unirsi a noi. Varie volte lo vidi sollevare la gamba e tendere la caviglia, che guardava con una certa preoccupazione. Ebbi compassione di lui, ma sapevo che non dovevo impicciarmi.

Quando mancava una mezz’ora alla fine della quarta e ultima ora, Meoni ci chiamò attorno a lui e ci informò che la lezione seguente si sarebbe svolta sul lago.

- Le prime due volte faremo solo teoria- spiegò. – La terza e la quarta andremo in barca a vela invece. Sarà divertente.

- Cosa dobbiamo portare?- chiese Albina.

Il prof alzò le spalle. – Mettetevi qualcosa che siete disposti a sporcare. Vi insegnerò ad armare una barca a vela, e visto che per la maggior parte di voi sarà la prima volta, se non per tutti, non penso che sarà facile. Beh, non è che sia proprio un lavoro da sporcarsi, ma è sempre meglio avere qualcosa che non rimpiangereste addosso. Ah, e soprattutto che sia piuttosto comodo. Comunque saremo all’aperto, perciò basatevi sul tempo che farà. E se c’è il sole portatevi la crema solare, ho visto alunni passare giorni a lamentarsi con le spalle fosforescenti. Beh, direi che questo è più che sufficiente. A cambiarvi adesso.

Uscimmo dalla palestra e rientrammo negli spogliatoi. Anche io e Penelope ci andammo, per riprendere le cartelle. Aspettai Sandra prima che uscisse per raggiungere almeno il cancello insieme.

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Capitolo 4
*** Una lampada rosa. ***


Giunta a scuola

Giunta a scuola, il mattino dopo, trovai Sandra e Vittoria in piedi, in corridoio, a parlare vicino alle scale. Le salutai avvicinandomi a loro. Mi facevano male le gambe per via del ciclo.

- Lo sapevi tu che c’era grammatica oggi?- mi chiese Vittoria preoccupata. La sua fronte pallida era adombrata, le sopracciglia aggrottate.

Annuii. – Napo l’ha detto ieri dopo l’Iliade. Non l’hai sentito?

Vittoria scosse il capo. – No…credevo che ci fosse storia- spiegò.

- E via, dai, te l’ho bell’e detto, non ti dice niente!- sbottò Sandra rovesciando all’indietro il capo verso il muro sporco, coll’aria e la voce di chi ha detto una stessa cosa più e più volte. – Siamo al quarto giorno di scuola, se ti dice qualcosa è un gran pezzo di merda, e nel caso gli dici che il libro non ti è arrivato!

- E comunque penso che si diverta di più a mostrarci il culo che non a metterci note!- aggiunsi per consolarla. – Secondo me lo fa per metterci a disagio, io penso che si diverta!

- E se mi mette una nota?

- Ma ancora non si ricorda i nostri nomi!- le feci notare e lei sorrise, più rasserenata.

Io e Sandra avevamo ragione. Subito dopo l’appello, Napodano si mise comodo e ci intimò:

- Tirate fuori geografia.

Tutti ci guardammo perplessi e Chiara alzò la mano:

- Prof, aveva detto di portare grammatica…

Legolas sgranò gli occhi. – Cosa?

- Ma sì, oggi grammatica e domani geografia, l’ha detto lei!

- Davvero? Io l’ho detto?- ripeté Napo perplesso, guardandoci. – Ragazzi, ma davvero l’ho detto?

La risposta generale fu un sì e Lauri osò una domanda: - Prof, ma come, se ne è dimenticato?

Napodano sbatté le palpebre. – Mi sa tanto di sì- ammise. – Volevo proprio fare geografia, che peccato…

Restò un po’ lì a guardarci, poi si arrese all’inevitabile. Sospirando si sporse davanti al banco posto esattamente davanti alla cattedra, quello di Morini, e le chiese:

- Mi presti il tuo libro? Anzi no- si corresse e si protese verso Raffaele: - Prestami il tuo, non posso chiederlo a una bambina.

Raffaele alzò le spalle e gli porse il suo libro di grammatica, poi si protese verso Penelope per seguire insieme.

Aperto il libro alla prima pagina trovammo l’alfabeto italiano. Napo lo guardò inorridito.

- Mi rifiuto- dichiarò – Non sono disposto a insegnarvi l’alfabeto, no dai ragazzi, non scherziamo!- Sbuffò e si mise dritto sulla cattedra per esprimere tutto il suo ribrezzo per quel sistema formativo. – Cioè, non in quarta ginnasio, dai, mi rifiuto categoricamente di compiere un simile abominio!

- Prof, si calmi!- gli suggerì Oscar colpito dalla sua reazione.

Napodano lo guardò come tentando di riconoscerlo, e con un sospiro, protendendosi per vederlo meglio: - Oscar, sai spiegarmi che cosa ho detto?

Agostini aggrottò le folte sopracciglia e, perplesso per la domanda: - Che non vuole spiegarci l’alfabeto, prof?

- Giusto; quindi deduco che se tu capisci parole come “abominio”, conosci anche l’alfabeto.

- Certo- replicò Oscar, più perplesso ancora.

- E quindi posso evitare di insegnartelo.

- Certo- ormai Agostini rideva.

- Qualcuno di voi ha bisogno che gli insegni l’alfabeto, ragazzi?

La domanda cadde nel silenzio. Napodano ci guardò soddisfatto.

- I miei bravi ragazzi acculturati- commentò divertito girando con decisione la pagina del libro.

Prendendosela comoda, sfogliò accuratamente il libro fino a trovare una pagina che gli andasse a genio; erano le classificazioni delle consonanti.

Passò le due ore seguenti a spiegare. Tutte le ragazze attendevano impazienti i momenti in cui

si voltava dandoci “una panoramica generale della situazione”, termine codificato che in futuro avremmo usato riferendoci al suo culo – poiché ci piaceva dare nomi strani alle cose.

Purtroppo, Napo non si voltava molto spesso, forse perché nelle sue classi precedenti aveva intuito che elargire questo favore ogni volta rovinava la concentrazione nelle alunne.

Quando la campanella fu suonata ci diede qualche pagina di esercizi e ci chiese: - Avete capito qualcosa?

Ai nostri sguardi imbarazzati agitò un dito ammonitore – notai le unghie perfettamente curate e le mani belle- e disse: - Non son cose difficili, è ovvio che se poi non le studiate sono affari vostri.

Alla terza e alla quarta ora avevamo la Corsi.

Appena entrata iniziò a spiegare la prima declinazione in latino.

Quando lo annunciò poté veder incupirsi gli occhi di molti. Solo Niccolò sbuffò apertamente ma senza disperazione e, tirato fuori il libro, nascose tra le sue pagine un sottile libro di qualche genere.

Invidiai la sua preparazione e mi disposi a pazientare per tutta la durata della palla. Con mia grande sorpresa Sandra aprì l’astuccio e ne estrasse una lima per le unghie e uno smalto viola.

- A casa non trovo mai il tempo di farlo- spiegò a bassa voce.

Attese finché la lezione non fu entrata nel vivo, cioè quando la prof cominciò a ripetere con aria convinta: rosa, rosae, rosae e via discorrendo, poi senza più ritegno cominciò a limarsi le unghie.

La prof non se ne avvide, tanto presa era dalla propria spiegazione; io seguii, o tentai di seguire, col capo appoggiato sulla mano e gli occhi talora puntati sul libro, più spesso vagheggianti sui mattoni rossi del tempio delle cartacce fuori della finestra o sulle unghie di Sandra, che dopo la limatura era passata allo smalto.

- Non mi piace questo colore- le dissi accennando allo smalto – Non resta niente.

- No, me l’ha comprato mia madre, fa schifo anche a me- sussurrò, guardandosi le unghie troppo chiare. – Volevo provarlo, ma mi sa che stasera me lo levo.

Di sotto le mie braccia piegate, Albina gettò un occhio alle sue occupazioni.

- Ce l’ho anch’io- disse indicando lo smalto. – Non mi piace tanto.

- Neanche a me- ammise Sandra.

Terminò di darsi lo smalto semplicemente per pareggiare tutte le unghie, poi cominciò a tamburellare con le dita sul libro di latino per farlo asciugare.

Al termine della spiegazione, avevo capito – nei miei momenti di attenzione- quanto bastava per aver fatto una gran confusione. Avevo capito a grandi linee a cosa servissero i casi, ma nella mia mente c’era un gran casino perché mi era sfuggito il sistema delle declinazioni. Quando la prof assicurò che su quell’argomento saremmo tornati ancora mi sentii molto rassicurata. Mi dissi che nei giorni seguenti avrei dovuto prendere appunti per restare attenta.

Terminato latino, iniziò greco.

- Non sono più disposta a farvi imparare le lettere- annunciò la Corsi decisa. – Vi ho dato un po’ di tempo e le imparerete leggendo. Io ho fatto così e adesso guardate dove sono!- e accennò orgogliosa alla sua semplice e assai poco notevole figura di insegnante di mezz’età, infagottata in abiti che poco avevano di bello o di piacevole a vedersi.

Nella zona dei due banchi in seconda fila vicino alla finestra ci fu un discreto sguardo perplesso volto alla sua persona.

- Vantiamocene, eh- sussurrai, le labbra piegate in una sorta di sorriso.

- Dici bene- approvò Sandra, divertita alla vista di quello strano orgoglio ingiustificato. – Dov’è? Insegnante di latino e greco in un merdosissimo liceo classico in un buco dimenticato da Dio e dall’uomo!

E d’un tratto, a quelle parole, una sorta di morsa mi strinse lo stomaco; era pietà, compassione, disprezzo, ribrezzo, disgusto.

Mi voltai per non guardare la prof, nascosi il viso tra le pagine del libro, i miei occhi, che troppi avevano detti belli, si persero tra le lettere greche; ebbi pietà di quella donna, ch’era brutta e inutile al mondo e aveva orgoglio di sé; ebbi pietà del nostro disprezzo per lei.

Trattenni il fiato; sentivo uno strano odore; ma era la mia immaginazione, e in poco tempo non lo sentii più; ma mi restò nelle narici, e sapevo che non era niente, ma lo sentivo egualmente.

Finalmente, quando un poco almeno mi fui chiarita con me, tornai ad ascoltare.

La Corsi iniziò a spiegarci alcune regole sull’accentazione in greco; come mi ero ripromessa, iniziai a prendere appunti.

Riempii quasi tre pagine di appunti sulle varie regole degli accenti. Alla campanella della ricreazione sbattei con violenza il polso sul banco per riavermi dall’intorpidimento che m’aveva preso alla mano dal lungo scrivere.

- Che fai?- mi chiese Sandra perplessa, prendendo un panino.

- Mi fa male il polso.

- E così ti fa meno male?

- No, ma cambia il tipo di dolore.

Mi guardò come si guardano i pazzi e picchiettandosi un dito sulla tempia scartò il suo panino.

Mi alzai dal posto col polso dolorante e in contro ci venne Vittoria, che apriva un sacchetto di carta contendente una mela verde già lavata.

Scendemmo in cortile. Appena fuori dell’istituto, bloccavano la porta alcuni ragazzi più grandi che fumavano.

Ero la prima a uscire e una nuvola di fumo mi beccò in pieno viso. Mi affrettai ad allontanarmi di qualche passo nel cortile affollato e mi agitai una mano davanti al viso, disgustata, preoccupata all’idea che l’odore mi rimanesse addosso; era un po’ che non fumavo più – avevo smesso verso giugno, finita la scuola- e la puzza del fumo aveva preso a darmi noia.

Sandra veniva dopo di me e accortasi dei fumatori appena fuori del portone, diede in uno sbuffo ed esclamò:

- Che palle, che puzza di fumo, proprio qui!

Un ragazzo si voltò a guardarla: alto, molto magro, infagottato in una felpa larghissima che copriva un poco le mutande nere lasciate in bella vista dai pantaloni, che iniziavano all’altezza del ginocchio, aveva lunghi capelli rasta e alcuni piercing sul sopracciglio destro, biondo e sottilissimo.

Il ragazzo, la sigaretta ancora tra le dita, la guardò e rise, divertito, e l’additò ai suoi amici; loro risero; Sandra avvampò di rabbia, ma non si mosse, si limitò a gettarmi un’occhiata scocciata, quasi in cerca di aiuto.

Alle sue spalle, Vittoria si fece largo dopo un gruppo di tre ragazze emo che rientravano nell’edificio; vide Sandra, l’agguantò per un gomito e la trascinò via. Potei vederla sibilare:

- Ma sei scema, metterti contro quelli lì?

Attesi che mi raggiungessero pochi passi distante da loro e mi affrettai ad allontanarmi, accertandomi che mi seguissero.

- Quello fa minimo la quinta, ma imbecille lo sei sempre stata o lo sei diventata da poco?- sbottai, non appena avemmo fatti pochi metri.

- Senti, il fumo in faccia mi dà noia, e dalla porta bisogna passare tutti!- replicò lei allargando le braccia, ch’erano pallide nonostante l’estate recente.

- Allora meno male che non facevi le medie con me!- sbuffai prima di rimproverarmi.

Sandra mi guardò perplessa e Vittoria si sporse oltre la sua spalla per osservarmi.

- Fumavi?

- Un pochino- buttai lì per minimizzare.

- Davvero?

- Te l’ho già detto, un pochino! Ma non tanto.

Ed era una bugia e io lo sapevo. Ma loro no e per un po’ si poteva anche andare avanti così.

Entrambe mi fissarono stupite per un po’, poi forse pensarono che non era fine e si distrassero o diedero mostra di farlo.

Facemmo il giro della scuola per passare un po’ il tempo.

Dietro l’edificio, una classe stava facendo educazione fisica.

- Che fanno?- chiese Vittoria perplessa, mentre una ragazza in pantaloni corti scattava al fischio della prof.

- Corrono- risposi con naturalezza.

- Questo lo vedevo anch’io, ma perché?

- Non avranno altro da fare!- suggerì Sandra e ridemmo e restammo lì a far commenti – sulla più grassa, sul più brutto, sui più lenti- finché la professoressa, un donnone con polpacci mostruosi e un seno esagerato, ci vide e ci fece segno di andare. Allora Vittoria buttò il torsolo della sua mela sul terreno erboso vicino al muro e andammo via.

Tornammo in classe. Erano le undici e due minuti. La Dell’Amore era già in classe, addobbata in onore del bianco e del verde: aveva una maglia a righe bianche e verdi, pantaloni verdi, ballerine bianche e mollettine verdi tra i folti riccioli neri.

Vedendola, Sandra allargò le braccia in maniera discreta a sufficienza da non farsi notare; e con un sorriso sereno sospirò:

- Io non vado matta per il verde, ma addobbata così la prof sta benissimo!

- Per forza, ha la taglia di una bambina di dieci anni!- sbuffai. – Starebbe bene anche con un vestitino a balze rosa antico e le scarpette di vernice!

- Sì, e le maniche a palloncino! Almeno non ha le converse gialle sulla giacca bella, no?

- No, il che è già qualcosa- ammisi, e mentre tirava fuori il libro di inglese dalla cartella la guardai in silenzio per un po’, ma non vedevo lei, ma le sue parole e i suoi pensieri; e presi il libro di inglese e trascorremmo serenamente il resto della lezione.

Infatti la prima sezione del libro di inglese era dedicata a una re-introduzione alla lingua, e la prof decise che per iniziare questa lezione sarebbe stata dedicata a farci presentare l’un l’altro.

Annunciato questo, aprì la borsa bianca e ne estrasse una pallina di carta arrotolata e fissata con una grande quantità di scotch e la gettò a Barbara, ch’era davanti alla cattedra in seconda fila, esattamente dietro il banco di Carla.

Barbara la riprese al volo, gettandosi di lato e afferrandola per un pelo prima che le sfuggisse.

Raccoltala, guardò perplessa la prof.

- Dai!- esclamò la Dell’Amore convinta.

Barbara sbatté le palpebre confusa.

- Che ci faccio, prof?

- Presentati alla classe!

- In…in inglese?

- Certo!

- E la pallina a che serve?

- Quando hai finito, la passi a un altro e quello si deve presentare.

- Ah…- Poco convinta, Barbara borbottò qualche parola in inglese e giratasi sulla sedia la gettò a Marina, al centro della terza fila.

Il gioco proseguì così, tra orrori grammaticali e prodezze in inglese; era assurdo, divertente; quasi ogni volta la palla rotolava a terra, o beccava qualcuno in faccia, e nessuno sapeva cosa dire, tutti non vedevano l’ora di gettarla di nuovo a qualcun altro.

Giulia Rondoni la passò a me dalla prima fila. Guardando la pallina dissi in inglese che mi chiamavo Febe Doria, avevo quattordici anni e il mio film preferito era Blade Runner e il mio libro preferito il De Profundis di Oscar Wilde – a quei nomi vidi occhi perplessi di gente che mai aveva sentito parlare di quelle opere-; detto questo mi alzai dalla sedia e passai la palla a Valentina, che era una delle poche che ancora non avevano parlato.

A fine lezione, quando fu ora di uscire, accesi il cellulare. Quasi subito mi arrivò un messaggio. Lo lessi. Era di mio padre.

“Questo pomeriggio vado a comprare una lampada per la tua cameretta, mi vuoi accompagnare? Fammi sapere.”

- Moroso?- domandò Sandra vedendomi intenta alla lettura.

- No, è il babbo.

- Ah- e si disinteressò.

Uscii in corridoio e, la cartella poggiata sulle gambe, chiamai mio padre.

- Pronto, babbo?

- Ciao, Febe. L’hai visto io messaggio?

- Sì, volevo dirti che posso venire. A che ora mi passi a prendere?

- Facciamo alle quattro e mezza?

- Va bene.

- Fatti trovare pronta. D’accordo?

- D’accordo. Ciao.

Riappesi e mi caricai la cartella sulle spalle.

Tornata a casa, mangiai in fretta una cotoletta surgelata e preparai subito un biglietto per la mamma per informarla che uscivo con mio padre.

Studiai fino alle quattro e venti, poi preparai la borsa – scelsi una borsetta bianca che s’intonasse con le mie ballerine- e aspettai mio padre.

Il babbo fu lì quando l’orologio digitale della mia camera segnava le sedici e ventinove. Lo salutai e salii in macchina sul sedile di dietro.

Mi guardò sorridente nello specchietto.

- Come va la scuola?

- Bene.

- Hai molto da studiare?

- No, ancora no. Quasi niente.

- Come va con questo greco?

- Nh, bene.

- Difficile?

- Un pochino- tagliai corto, perché non volevo ammettere che mi faceva spavento.

- Che avete fatto oggi?

Gli raccontai in breve la giornata, tralasciando ovviamente le parti più importanti: la ricreazione e le sensazioni, cioè. Gli dissi della grammatica, della prima declinazione, delle leggi dell’accento, della presentazione in inglese; ma non volli parlare del divertimento, della serenità e del disagio, quello della Corsi e delle risate fatte alle sue spalle. Di queste cose non parlo volentieri.

Arrivammo in centro e trovammo parcheggio poco distante dal negozio di luminarie; facemmo a piedi quei venti metri.

Entrati, trovammo una coppia che sceglieva un lampadario; lei era alta, bella più di corpo che di viso, aveva pantaloni grigio chiaro e una canottiera rosa; lui era più basso, tendente alla calvizie e anche alla pinguedine, ma più bello e con un viso più simpatico.

Distanti da loro, ci chinammo su quattro ripiani colmi di lampade di ogni genere.

- Quale ti piace di più?- mi chiese il babbo accennando alla merce.

Me la presi comoda per scegliere. Passeggiai davanti ai ripiani, quattro, cinque volte, ogni volta c’era qualcosa che non avevo notato. Una mi colpì appena ci passai davanti, rosa tutta infiocchettata, con un coniglietto stampato sopra; ne risi indicandola senza vergogna.

La cassiera mi guardava dal suo posto; teneva d’occhio un po’ me, un po’ la coppietta; ma le sorrisi spudorata, risi più forte guardando la lampada, senza curarmi di lei che mi fissava, proseguii il mio giro.

Una lampada mi piacque, era bella e colorata e pensai che guardarla m’avrebbe potuta distrarre, colla copertura in vetro colorato; rossa, blu e verde; accennai a quella; il babbo la guardò e lesse il prezzo e annuì.

- Sei sicura? Vuoi guardarne qualcun’altra?

Pensai che fosse meglio e guardai ancora; ma nessun’altra mi colpì salvo quella del coniglietto (ma guardandola non risi più). Scossi la testa e mio padre fece un cenno a una commessa; quella si avvicinò e mio padre le indicò la lampada.

La signora la prese e la mise in una scatola, poi la diede a mio padre, che andò a pagare. Io lo seguii, ma mi fermai poco distante perché le operazioni non mi interessavano e guardai le figurine in vetro dentro una vetrina.

Mentre mio padre ringraziava e sollevava la scatola, vidi la commessa che mi fissava; aveva gli occhi belli verdi e le ciglia chiare; la guardai, risi e feci un giro su me stessa come una ballerina prima di uscire con mio padre.

La scena dentro il negozio mi divertì molto.

- Perché ridevi?- mi chiese il babbo mentre andavamo alla macchina.

- Perché mi veniva da ridere.

Non c’era di che rispondermi e tacque; mentre apriva la portiera chiese però ancora:

- Sei soddisfatta?

- Sì- dissi senza pensare (non pensavo perché tanto non me ne fregava molto, a cosa dovevo pensare quindi?) salendo in macchina.

- Questa la mettiamo sul tuo comodino bianco.

- Certo.

- Sei contenta?

- Molto- risposi, senza pensare ancora, sempre per via del motivo di prima.

- Vuoi andare da qualche altra parte?

- No, andiamo a casa, così mi attacco un po’ al telefono- risposi tranquillamente allacciandomi le cinture.

Mi guardò, tacque e mise in moto. Mi riportò a casa come avevo chiesto, e mentre scendevo dissi:

- Grazie. Ci vediamo sabato.

- Ciao amore. Ti voglio bene.

Attese finché non vide che rientravo in casa, poi dalla finestra lo vidi ripartire.

Mi sentivo un po’ triste, così per non pensarci risi di nuovo e andai a guardare tra gli smalti che occupavano il mio cassettone. Scelsi quello bianco perlato, mi sedetti sul letto e iniziai a mettermelo sulle dita delle mani con grande cura.

 

Io ti ho voluto bene, ma tu hai voluto giocare con me, e io sono stanca adesso.

Capitolo tormentato, almeno per me lo è stato. Ho cercato di esprimere molte cose che non ho trovato semplici, e per riuscirci ho usato anche le parentesi tonde, cosa che in genere evito.

La prima parte è stata buttata giù in vacanza, poi a casa è stata riscritta al computer e ovviamente modificata in modo sostanziale. Ho terminato il capitolo solo a casa.

Mi sono dovuta impegnare molto per chiamare "babbo" il padre di Febe; io, pur essendo toscana, ho sempre detto papà; ma è improponibile una storia in cui la protagonista toscana dica papà, perciò ho dovuto impegnarmi molto per non farmene sfuggire qualcuno.

E ora rispondo alle recensioni:

Amaerize: non importa che tu faccia tutte queste cose...comunque finalmente hai ammesso che il mio Sanzo adorato è pucciosissimo! E guarda, è colpa tua che me lo fai anche dire!! XD

Ego me stesso ed io: grazie come al solito della recensione; l'idea del testa e croce non so come mi è venuta, ma pensavo che, appunto, non è tanto diverso dallo scegliere perché a una scuola ci vanno gli amici o perché sembra più semplice di altre.

Grazie in anticipo a chi vorrà recensire.

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Capitolo 5
*** La cena di classe. ***


Mi sentivo uno schifo

 

Scusate l'attesa per questo capitolo, ma mi mancava l'ispirazione. Iniziavo a scrivere e cancellavo. Alla quarta volta, mi sa che ho lasciato perdere. Finché un'amica non mi ha dato un consiglio, e questo consiglio è diventato questo capitolo.

Ringraziamenti:

Ego me stesso ed io: grazie dei consigli, preferisco di gran lunga sapere se a qualcuno non piace quello che scrivo che non sentirmi ripetere fino alla nausea che è bellissimo anche se non è vero.

Smolly_sev: grazie della recensione, sono felice che ti piaccia, carissima onnisciente! *fugge perché inseguita dalla Sofy armata di violoncello arrabbiata per la storia del soprannome*

Amaerize: Ma perché hai preso anche tu a chiamarmi "ego smisurato" come il mio staff?! Beh, comunque evita di uscir di capo ancora come nella recensione, okay? E grazie di aver commentato!

Grazie anche a Idril Inglorion, che ha aggiunto alle storie seguite questa storia.

Non so come sia venuto questo capitolo, onestamente. E' nato in tempi diversissimi, ma ho cercato di seguire uno stesso stile. Naturalmente non mi è riuscito.

Abbiate pazienza. Il prossimo ritorno a scuola può valere come scusa? Spero di sì.

Buon capitolo.

 

 

Mi sentivo uno schifo.

Avevo passato tutta la serata ad ascoltare “Se stiamo insieme” di Riccardo Cocciante. La canzone finiva e io la rimettevo daccapo. E poi finiva e io la rimettevo da capo. E mia madre a implorarmi di metterne qualcun’altra perché non ne poteva proprio più. E in effetti neanch’io ne potevo più, ma era l’unica cosa che volevo sentire. E continuavo a cantare: eppure io non credo questa sia l’unica via per noi.

Poi, mi veniva da piangere.

Ma siccome avevo giurato che mai più avrei pianto su mio padre, ostinatamente avevo continuato a cantare e a concentrarmi sulle parole, e sulle parole solamente.

Così avevo trascorso la serata, finchè alle undici e mezza mia madre mi aveva minacciato per mandarmi a letto.

Allora, nella mia camicia da notte corta rosa- perché ancora era caldo a sufficienza da potersi mettere quella- ero andata a letto.

Ma a dormire non ero riuscita, e allora avevo riacceso la luce e mi ero messa a guardare fuori dalla finestra. Fuori non vedevo niente che non fosse un nero desolante, così avevo preso il De Profundis e mi ero messa a leggerne qualche pagina.

A furia di rileggermi il passo in cui Wilde dice che nulla lo addolora più della perdita dei figli, mi venne da piangere. Allora, dicendo a me stessa che era per quel grande artista che piangevo e non per mio padre, mi ero addormentata piangendo, ma felice di avere una buona scusa da offrire al mondo e a me stessa, quando mi fosse stato fatto notare che quella notte avevo pianto.

Pianto come i bimbi piccoli.

Pianto come solo chi soffre davvero ha il diritto di fare.

Perché forse non riuscivo più a vivere con mio padre, ma in fin dei conti ero solo una mocciosa viziata che non sa accontentarsi di quello che ha.

Io mio padre ce l’avevo ancora, no?

Mi voleva bene, anche se non riusciva più a dimostrarmelo.

Mi voleva bene, anche se aveva anteposto a me un’altra persona.

E allora io, che avevo tutto, come potevo arrogarmi il diritto di lamentarmi?

Ma avevo sbagliato a piangere.

Quel mattino, i miei occhi erano arrossati e gonfi, dolenti, le mie labbra rosse e gonfie anch’esse. Vedendomi, mia madre mi chiese se avessi fatto a botte col cuscino. Ma la guardai stancamente, non avevo la forza di risponderle, e misi il telegiornale per distrarmi.

Non sapevo che fare per mascherare gli effetti del pianto, allora arginai il problema con il fondotinta e un po’ d’ombretto bianco. Che ero strana si vedeva ancora, e poi avevo sonno, ma mi stampai un sorriso sulla faccia per andare a scuola.

In classe trovai un gran viavai di ripasso generale. C’era il compito d’ingresso d’italiano.

Tutti i miei compagni si aggiravano per l’aula con un libro di grammatica in mano, chiedendo conferme e ripassi; li guardai perplessa dalla soglia sentendo urlare da qualcuno: - Ma il passato remoto di amare siamo sicuri che sia amai?

- Ma non lo so, te che dici?- sbottò qualcuno in risposta all’aria e ci fu qualche risata.

- Pecoroni ignoranti!- sentii qualcuno mormorare alle mie spalle. Mi voltai. Era Niccolò. Vide che lo guardavo: - Ma ti pare normale non sapere in quarta ginnasio il passato remoto di amare?

Alzai le spalle con aria rassegnata, poi me ne andai a posto dove Sandra era concentratissima sul suo libro.

- Ciao…

- Sht! Non mi distrarre.

Dopo un poco arrivò Napodano che ci consegnò i compiti con un ghigno crudele sulla faccia. Quando arrivò al mio banco mi guardò per un istante, senza mollare il compito che doveva darmi.

- Prof…- lo chiamai dopo un po’, accennando ai fogli che mi porgeva.

- Che hai fatto agli occhi, Doria?

Lo guardai dritto in faccia e risposi molto lentamente: - Sono andata a letto senza struccarmi.

Mi guardò ancora per qualche secondo, stupito. No, non ero andata a dormire con due strati di matita e ombretto sugli occhi, ma che ne poteva sapere un uomo di che effetti fa il trucco?

Alla fine mollò i fogli e proseguì il giro dei banchi separati.

Il compito era una perdita di tempo colossale e mi domandai che senso avesse porre domande come: si scrive razia o razzia?, ma lo compilai tutto, scrissi il mio nome e lo consegnai a dieci minuti dalla campana fissando Legolas negli occhi.

Mi guardò con attenzione prendendo i fogli graffettati dalle mie mani. Sapevo che non s’era bevuto la storia del trucco, ma sinceramente non ero in vena da preoccuparmi di quello che potesse pensare. Annuii appena in segno di saluto, me ne tornai a posto e iniziai a girarmi i pollici.

Suonò la campana. Napodano raccolse i compiti e uscì dalla classe, lasciando la cattedra alla Corsi e alla maledetta spiegazione sulle enclitiche (particelle prive di accento che si mettono dopo una parola, nda) in greco.

Alla prima enclitica mi ero già annoiata e cominciai a parlare con Sandra del mio smalto, che le piaceva un casino.

La spiegazione stava entrando nel vivo (cosa succede se ci sono molte enclitiche una dietro l’altra?), quando un biglietto, passando nelle mani di Albina, dopo quelle di tutta la terza e la seconda fila, raggiunse le mie. Mi chinai con Sandra e lessi, in una grafia abbastanza discutibile: “Pensavamo ke, siccome dovremo frequentarci almeno per tutto l’anno scolastico, sarebbe carino andare a cena tt insieme… siccome il sabato sera tt in genere hanno impegni, ke ne dite d stasera? Scst scst x il poco preavviso, cmq mettete le firme qui sotto x sapere qnt possono venire”. Il resto del foglio a quadretti formato A4 recava poche firme: Bassi e Lapi, che essendo le prime della terza fila avevano avuto l’idea e scritto il messaggio, Nencini, Moriani, Zadini, Agostini, Morganti, Calvani.

- Tu vieni?- chiesi a Sandra mettendo mano all’astuccio.

- No…nessuno mi può portare.

- Nessuno nessuno?

- No…non sono di qui, vengo con la sita, ma in sita non mi lasciano venire la sera e mia madre non può sia portarmi che riportarmi, sono quaranta minuti di macchina tra andata e ritorno!

Sbattei le palpebre gonfie a quella spiegazione. Non mi era mai venuto in mente, in tutta la mia vita, che quello che io volevo fare potesse risultare fastidioso a qualcuno. Non avevo mai pensato che a mia madre o a mio padre potesse risultare stancante venire a prendermi a qualunque ora della notte in qualunque punto del paese.

Avevo sempre preso la vita così: io voglio fare qualcosa, la faccio. E gli altri esistono per permettermi di farla.

Mi sentii un po’ in colpa davanti a quegli scrupoli così onesti; allora, nel desiderio di una sorta di redenzione, saltai su:- Vieni a pranzo da me, e poi andiamo alla cena insieme e ti fai riportare.

- Ma no, sei pazza! Figurati!

- Perché no?

- Ma disturbo! È troppo disturbo, no, davvero, no.

Fu allora, davanti a un rifiuto, che mi accorsi che ci tenevo davvero che restasse a pranzo.

Così avrei potuto cucinare per qualcuno.

Cucinavo per mia madre, se era troppo nervosa per farlo; ma se era nervosa, si arrabbiava con me e gettava quel che le cucinavo.

- Dai, che disturbo vuoi che ci sia? In casa sono da sola e mi tieni compagnia, e poi studiamo per inglese e matematica.

- Ma no…

- E poi, non hai detto che ti piace il mio smalto? A casa te lo presto. Dai, allora, vieni?

Era tentata: la cena era una bella cosa. Tentennò.

- Ma sei sicura…

- Sicurissima- tagliai corto e per chiudere la conversazione scrissi il mio nome e il suo sul foglio, prima di passarlo.

Andò a finire che alla campanella nessuno aveva capito niente delle enclitiche, ma in compenso tutti al cambio d’ora erano da Elisa e Letizia a informarsi della cena, mentre Sandra mandava un SMS alla madre per informarla del cambio di programma.

 

Il resto della giornata trascorse tra un’ora di matematica, la ricreazione e due altre ore di italiano, poi ce ne tornammo a casa, in attesa della cena.

- A tua mamma non dà fastidio che ci sia io?- chiese Sandra preoccupata mentre ci dirigevamo a casa mia.

- Mia madre non è in casa- risposi con noncuranza.

- No? E chi cucina?

- Io.

- Davvero sai cucinare? Io a stento so preparare un piatto di pasta!

- Beh, non è che sappia fare molto- ammisi.

Ero contenta che pranzasse con me: avere solo il telegiornale a tenerti compagnia quando pranzi non è sempre molto divertente.

Preparai la pasta con un qualche sugo in confezione e Sandra parve apprezzare. Ero felice che finalmente qualcuno mangiasse ciò che cucinavo. Ero stanca di vedere la pasta nel cestino della spazzatura organica.

- Come mai oggi tua madre non c’è?

- Mia madre non c’è mai- risposi con naturalezza.

- Allora sei spesso sola?

- Io sono sempre sola.

- E tuo padre?

- I miei sono divorziati.

- Ah. Non lo sapevo.

Non voleva porre altre domande, si vergognava, allora appoggiai la testa sulla mano e dissi lentamente: - Il babbo vive con sua moglie.

- Davvero?

- Già. Ormai sono due anni.

Non voleva più parlarne, si vergognava a chiedermi della famiglia, allora cambiò argomento virando decisamente sulla scuola.

- Sai cosa? Bisognerebbe fare una foto a Napo.

- Qualcuno ci ha già pensato- dissi, ripensando il flash del primo giorno di scuola.

- Peccato perché nessuno ci crederebbe se dicessimo di avere un prof fatto in questa maniera- sospirò, scuotendo il capo con aria rassegnata.

Mi misi a ridere e lavai i piatti in fretta, impedendole di aiutarmi perché era un ospite e gli ospiti non devono mai lavorare, poi la portai in camera mia.

La guardò mentre andavo a prendere i libri.

Molta gente si spaventava vedendo Rutger Hauer appeso alla parete sopra al letto, specie se nei panni di Roy Batty, e Sandra non fu da meno.

- Oddio, ma chi è?

- Rutger Hauer, perché, non lo conosci?

- No, ma sei pazza a metterti quel coso in camera?! Non ti spaventi quando ti svegli?

- Pazza sarai tu! ^Non è dannatamente fico?

Sandra guardò un poco il poster confusa.

- Mah, ammetto che ha un certo fascino nascosto…

- Visto?

- Nascosto molto bene. Lo vedi solo tu!^

Sospirai. A nessuno piaceva mai il mio poster. Però guardò incantata lo stereo.

- Che forte, lo stereo in camera! I miei non me lo vogliono comprare.

Mi dava le spalle e non potè vedere che mi intristivo a quella considerazione.

Sapete, a volte è stancante poter avere un sacco di cose belle. Specie se te le comprano perché tu stia buona, e io lo sapevo che me le compravano perché stessi buona.

Studiammo un po’ inglese e un po’ matematica, ma era il classico ripasso generale in cui ripassi tutto, ma alla fine non hai ripassato approfonditamente niente, perché non sai cosa ti chiederanno. E poi, lo sanno tutti che a studiare insieme si fa un passo avanti e tre indietro a forza di chiacchiere.

Alla fine del ripasso, erano le cinque e un quarto. Mancavano due ore e un quarto alla cena, quindi due ore al momento di uscire di casa per dirigersi al ristorante. Diedi a Sandra il mio smalto perché se lo mettesse.

- Che figata- sospirò quando si fu asciugata la prima mano.

- Se lo vuoi, te lo regalo.

- Cosa? Davvero?

- Certo. Io ne ho un monte- replicai accennando al cassettone pieno di trucchi. – E non è un colore per cui vada pazza. Il mio preferito è l’azzurro. Puoi tenerlo, ieri l’ho messo perché avevo voglia di un po’ di bianco.

Mi guardò. Per un attimo, seppi con certezza che stava considerando quante cose avevo. Le sorrisi e alzandomi le dissi, molto, molto lentamente: - Sandra, a me mia madre compra tutto ciò che voglio.

Non era una risposta a qualche domanda postami; non era una vanteria; era la verità; gliela dicevo per essere onesta, onesta fino in fondo; volevo che sapesse come vivevo.

Lo capì, probabilmente, perché abbassò lo sguardo sullo smalto che teneva in mano.

- Tienilo. Davvero, vorrei che tu lo tenessi.

Ero contenta di fare un regalo a qualcuno.

Non perché fossi una persona fredda che facesse pochi regali, o una persona sola, o altro.

Solo perché volevo dare via qualcosa a qualcuno cui piaceva.

Solo perché mi faceva sentire bene.

Solo perché credevo di fare una cosa molto bella.

 

Alle sette e un quarto ci mettemmo in marcia verso la pizzeria, che era un locale piccolo e non esattamente elegante, ma insomma, eravamo pochi ragazzi che sapevano adattarsi.

Arrivammo un po’ in anticipo, era arrivata solo Michela. Indossava un bellissimo abitino blu a palloncino che le stava davvero bene, ma sembrava in imbarazzo e teneva nervosamente le braccia conserte.

- Ohi, pacca sul culo!- la salutò Sandra. La Zadini si voltò e ci vide, sollevata nel vederci.

- Uh, ciao, meno male che non ho sbagliato orario!- esclamò, ma sapevo che la sua preoccupazione era derivata dal suo vestitino: non sapeva se era troppo elegante e aveva paura che se fosse rimasta a lungo sola qualcuno le avrebbe dato noia.

Ci venne incontro e ci stette morbosamente vicina, guardandosi intorno.

- Hai visto qualcuno?

- No, però certi m’hanno urlato qualcosa, prima, ma non ho capito cosa.

Alzai le spalle. – Lasciali fare, lasciali fare.

Sandra sospirò, ma d’invidia. – E’ che sei troppo bellina con questo vestito, Michela.

- Davvero? Non è esagerato?

- E’ solo un vestito- le risposi. – E poi ti sta benissimo.

Era vero, sembrava una bambola con quel vestito, ma una bambola molto maliziosa, agli occhi di chi l’aveva vista a scuola.

A poco a poco arrivarono tutti, chi elegante, chi esagerato, chi alla “non me ne frega io per andare a una cena di classe in tiro non mi metto”. Come me e Sandra, per esempio.

Le ultime ad arrivare furono per l’appunto Elisa e Letizia, che avendo organizzato la cena si erano concesse un po’ di ritardo. Entrammo e trovammo un discreto tavolo apparecchiato per diciotto.

Mancavano solo sette persone: considerando che avevamo organizzato tutto il giorno stesso, c’era stata una discreta affluenza.

Ci sedemmo e facemmo le ordinazioni. C’era anche Vittoria e si era seduta vicina a noi, dalla parte di Sandra.

Quando arrivarono le bibite, Elisa si alzò in piedi e ci fece cenno di fare silenzio. Ci vollero diversi secondi perché tutti si decidessero a tacere. Col bicchiere pieno di aranciata in mano, Elisa sembrava imbarazzatissima.

- Allora, io volevo iniziare col dire che sono contenta che siate venuti, anche se abbiamo organizzato tutto un po’ così- iniziò, sottintendendo “come capitava” col suo così. – Lo so che avremmo potuto pensarci prima, ma ormai è così che è andata. Comunque, volevo dirvi qualcosa di serio ora.

Alla parola serio, tutti s’incuriosirono. Elisa arrossì vendendo che tutti la guardavano.

- Ecco, volevo dire che quest’anno sarà dura. Tutti lo dicono che il classico è un liceo tremendo, e che bisogna farsi il culo sui libri eccetera. Ora, credo che abbiamo tutti professori piuttosto tollerabili, ma non è questo.- Sospirò e guardò le bolle del suo bicchiere per non guardare noi. – Dobbiamo passare i prossimi nove mesi chiusi in quella classe tutti insieme, e per questo abbiamo voluto fare questa cena: per conoscerci, perché se facciamo tutti contro tutti, io ho idea che sarà dura, figlioli. Ma dura veramente. Siamo una classe, cerchiamo di venirci incontro. Non parlo solo della scuola, tipo delle versioni eccetera. Quello c’è, ma non è solo quello. Parlo anche delle altre cose, quelle serie. Cerchiamo un po’ di aiutarci a vicenda, va bene?

Elisa si vergognava, non ci guardava, parlava in fretta e non volle specificare cosa intendesse con “cose serie”. Ma tutti inconsciamente avevamo capito cosa voleva dire, e apprezzammo ciò che cercava di dirci guardando la sua aranciata.

- Gente, facciamo un brindisi!- gridò Agostini, sollevando in un mare di spruzzi un bicchiere pieno di coca-cola, ghiaccio e limone.

- Ma a che cosa?- esclamò Elisa, sollevando a sua volta il bicchiere, ma confusa.

- Alla quarta alfa!

- Oddio, no. Ci guardano tutti- mormorò Sandra, vedendo che gli altri ospiti del locale ci guardavano, con la coda dell’occhio o voltandosi sulla sedia. – Oddio, no. Che vergogna, che figure.

- Fregatene- le risposi alzando il bicchiere.

E brindammo.

- Alla quarta alfa!

Lo sentirono tutti, che urlavamo. Proprio tutti. Ma ce ne fregammo. Non ci vergognavamo di essere contenti, quella sera.

 

Potrei dire che il liceo, per me, iniziò un lunedì mattina alle otto, con un paio di pantaloni corti e il cuore che cercava di scavarmi un buco nel petto.

Potrei dire che quei cinque anni, per me, iniziarono quel lunedì mattina varcato un cancello.

E forse non sarebbe così sbagliato, ma non voglio dirlo.

Perché col senno di poi, so che quei cinque anni iniziarono un venerdì sera con un bicchiere in mano, urlando: alla quarta alfa!

E con la gente intorno che ci guardava, pensando che fossimo pazzi.

Col senno di poi, so che quella gente aveva ragione, sapete.

 

^^: il dialogo racchiuso tra questi simboletti è tratto dal discorso che facevo con una mia amica. Questo discorso si riferiva a Renato Zero (sbav_sbav), ma molte persone cui ho mostrato la foto di Rutger Hauer hanno avuto reazioni simili. Comunque, Roy Batty è il personaggio che Hauer interpreta nel film Blade Runner.

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Capitolo 6
*** Un pub per gente per bene. ***


Questo capitolo si è fatto aspettare

Questo capitolo si è fatto aspettare…mi vergogno un po’, dopo tutti questi mesi. E chiedo scusa ai miei pochi lettori dell’attesa per un paio di paginette. Ma non mi veniva niente, niente di niente. Finalmente, in questi giorni di raffreddore tremendo, di stress e compagnia, ho deciso di lasciar perdere la parte relativa alla mattinata, e di scrivere solo della serata. Cercate di aver pietà, o di me o del capitolo. Se ci riuscite di entrambi.

Grazie comunque a chi ha recensito il precedente capitolo: Smolly_sev e Amaerize. E a chi avrà pazienza.

Buon capitolo!

 

 

Dietro questa maschera c'è un uomo e tu lo sai!
Con le gioie, le amarezze ed i problemi suoi...
E mi trucco perché la vita mia, non mi riconosca e vada via...

Diavolo, è un genio quest’uomo. Potendo, lo sposerei. Se me lo chiedesse, gli direi di sì senza pensarci due volte. In barba alla differenza d’età.

Penso a questo mentre mi trucco, stasera. Con la musica a palla nello stereo di camera.

Ho le mani belle, con le unghie fatte dall’estetista perché un paio di mani belle ci vuole. Perciò sto molto attenta mentre appunto la matita a non sporcarmi. Ci vuole un culo di tempo a mandarla via se ti si macchiano le mani.

E io tempo ne ho (un sacco, ne ho) ma non lo impiegherò a lavar via la matita dalla dita.

Lo impiego così, invece. Seduta al cassettone di camera mia, davanti alla specchiera, a truccarmi.

È un regalo della nonna questa vecchia cassettiera con lo specchio. La nonna era bellissima da giovane. Perciò posso immaginare quanto tempo ci passasse seduta davanti.

Adesso, seduta davanti ci sto io a truccarmi. E non sarò né fine, né elegante quanto lo era mia nonna. Ma bella come lei lo sono anch’io.

Lei disapproverebbe se mi vedesse qui a darmi la matita nera sugli occhi. Non mi vedrà, ma ho sempre l’impressione di sì invece.

Mi sento un po’ in colpa al secondo giro di mascara. Lei non mi ha regalato questa cassettiera bellissima perché mi truccassi come una donna di poca fama. Me l’ha regalata perché vorrebbe vedermi bellissima ed elegante com’era lei, senza trucco e i capelli raccolti tutti ondulati.

Un pochino mi dispiace nonna, di non essere come vorresti tu, penso mentre svito il rossetto. Però io non sono come te.

Il rossetto ha un colore acceso e, penso quando me lo vedo sulla bocca (l’ho comprato oggi), è volgare. Oh sì, tremendamente volgare su queste mie labbra sottili. Ma forse sono io a essere volgare, non posso dare la colpa al rossetto.

Sono truccata e sono volgare. Mi alzo in piedi e allontanandomi dalla specchiera rimiro l’effetto generale del vestito cortissimo - troppo corto- e dei tacchi altissimi – troppo alti.

Sono pronta, sono bellissima e sono volgare.

Perfetta, pronta per uscire.

Spengo lo stereo e butto un bacio a Renato Zero nelle confezioni dei CD, e giacché ci sono, butto un bacio anche a Rutger Hauer, dannatamente bello nel poster sul mio letto.

“E mi trucco perché la vita mia non mi riconosca e vada via.” L’ho detto e lo ripeto, quest’uomo è un genio.

 

Sono arrivata al più bel pub del paese, quello più frequentato il sabato sera; all’esterno, sulla strada davanti alla porta, si è fermata la gente.

Non ci sono emo, dark e cose del genere qui; qui ci va la cosiddetta “gente per bene”, gente che beve, fuma, si ubriaca, ma almeno non va in giro con jeans slargati e felpone e borse lunghe e scarpe da ginnastica; meglio, e di gran lunga più “per bene”, avere minigonne che tanto varrebbe non avere e andare in giro a spaccare le bottiglie per terra perché si è talmente di fuori che non si è più capaci di tenerle in mano.

Io faccio le stesse cose, ma non ho la pretesa di appartenere a quella che vuol essere chiamata gente per bene, o presuntuosamente alta borghesia; io faccio quello che faccio perché voglio far finta di esser frivola e superficiale come quelli che lo fanno, per non pensare.

Quando arrivo vedo le solite persone. Sono diverse da quelle che ho visto l’altra volta e ci sarà solo qualcuno di quelli che ho visto le volte precedenti; ma gli atteggiamenti sono gli stessi, i modi di pettinarsi sono gli stessi, e in fondo, i bicchieri di plastica dei drink e le sigarette si somigliano tutti.

Prima di entrare, mi guardo a lungo nella vetrina di un negozio chiuso.

Vedo me stessa, in tacchi alti, calze color carne, vestito cortissimo e aderente, in parte sbottonato sul petto.

Vedo altre ragazze, abbigliate come me, pettinate come me, belle quanto e più di me, dannatamente simili a me, ma senza la stessa profondità nello sguardo degli occhi belli e truccati, troppo vacui.

A un tratto, a vedere questo confronto, mi assale una gran voglia di bere.

 

All’interno le luci sono sfumate, tanto che si può dire che è buio; qualcuno è seduto ai pochi tavoli, qualcuno balla, qualcuno è a ordinare da bere.

Proprio all’ingresso c’è un gruppo di ragazzi mezzi ubriachi, che mi bloccano il passaggio; tra di loro c’è un vecchio.

Non dico vecchio trentenne, ma neppure quarantenne; dico proprio vecchio vecchio, che a vederlo così avrà almeno sessant’anni. Ma chissà, ho già detto che il pub è buio, potrei sempre sbagliarmi.

Uno dei ragazzi, forse quello un po’ più di fuori, sta tirando il vecchio per un braccio.

- Vieni vecchio!- grida, forte abbastanza perché io possa sentire al di sopra della forte musica truzza che riempie il locale. – Vieni, vecchio, ti offro da bere! Vieni, vieni!

Ma il vecchio oppone resistenza; punta i piedi e tira indietro il braccio. Non posso muovermi a causa del gruppi di ragazzi e allora resto lì ad assistere ai tentativi del vecchio di allontanarsi; finché, alla fine, non divincola il braccio dalla presa del ragazzo e, indignato, si dirige verso il lato opposto del locale, esclamando: - Non mi garbano gli uomini a me, mi garbano le donne! Capito? Le donne!

Ridendo, il gruppo dei ragazzi si disperde. Attraverso il pub e mi guardo intorno.

Sono sola. Tutti vengono con gli amici qui, ma io vengo sempre sola.

I ragazzi ci provano più facilmente, se una è sola.

Continuo a camminare. Girando attorno al bancone, m’imbatto nel vecchio che mugugna, in piedi vicino al muro, dopo il fallimento di uno dei suoi tentativi di approccio con una signorina dalla faccia pulita che, in stivaletti bassi e jeans, lo guarda stralunata nascondendosi tra le sue amiche.

- Ehi, vecchio porco, pagami da bere.

L’uomo mi guarda.

Incredulo che, per una volta, sia una ragazza a rivolgersi a lui, e non viceversa. E in effetti io ho ribrezzo di lui, e fors’anche compassione; ma ho anche molta voglia di bere, e a me da bere al bancone non lo danno.

Così ricambio lo sguardo dei suoi occhi vecchi circondati da ciglia che la vecchiaia ha schiarito, e il vecchio esamina con quegli occhi la mia gonna corta e le mie gambe scoperte.

Annuisce, sorpreso ancora, e si avvicina al bancone. Io mi siedo su uno sgabello alto a un tavolino, vicino al muro.

Quando il vecchio ritorna, mi porta un kajpiroska alla fragola. Me lo appoggia davanti sul tavolo e si siede su uno sgabello vicino a me, a guardarmi bere. Io bevo lentamente, senza guardarlo, prendendomi lunghe pause per osservare la gente tra una sorsata e l’altra.

A un certo punto il vecchio mi appoggia una mano sul ginocchio. Sospirando, tiro uno schiaffo su quella mano. Il vecchio l’allontana, ma dopo qualche secondo la riappoggia un po’ più su e io la colpisco di nuovo.

- Eh, bellina, bellina, che giovane sei…

Io non lo guardo, quel vecchio pedofilo. Continuo a bere, a colpirlo e a bere senza rivolgergli uno sguardo. Se lo guardassi penserebbe che in fin dei conti provo simpatia per lui. Se non lo guardo, prima o poi capirà che quello che può ottenere da me è solo un po’ di compassione, e qualche schiaffo sulle mani che continua ad allungare, ma forse a lui basta questo perché è molto solo.

 

Alla fine anche il mio vecchio m’ha lasciato sola.

Quando ha visto che non gli permettevo di allungare troppo le mani, ha lasciato perdere e se n’è andato a provarci con due ragazze che si sono guardate l’un l’altra, si sono messe a ridere, gli hanno teso una sigaretta e se ne sono andate.

Guardo l’orologio: le undici e dieci. Mando un messaggio a mio padre perché mi venga a prendere alle undici e mezzo. È ancora molto presto, ma ho già visto che non c’è nulla da fare, oggi.

Ho finito il kajpiroska, ormai. Sono qui tranquilla a giocherellare con la cannuccia a spostare i cubetti di ghiaccio rimasti sul fondo del mio bicchiere, tristemente. Tamburellando con la punta delle dita sul tavolo, aspetto che passi il tempo.

- Ehi, scusa!

È una voce forte, allegra, maschile, giovanile, esaltata. Mi volto. Alle mie spalle un ragazzo, basso, di capelli rossi, il volto di tratti belli ma rovinati dall’acne, coll’aria gioviale e provocante.

- Sì?

- Senti, ti interessa il mio amico?

Lascio scorrere gli occhi sul gruppo di ragazzi alle sue spalle. Uno di loro cerca di respingere le braccia dei compagni, rosso in viso, mentre lo spingono verso di me. Aggrotto le sopracciglia.

Non è brutto e forse,in passato, avrei accettato. Ma questa settimana è andato tutto così bene, e mi sono sentita così pulita e leggera, e in questi giorni mi è sembrato tutto così limpido, che d’un tratto mi prende una gran nausea. Ma non per il kajpiroska (sono in grado di reggerlo), ho disgusto di me, della mia vita, di questa gonna troppo corta e dei tacchi troppo alti, del rossetto, del vecchio, della gente attorno a me, di questo locale, della musica…

Mi alzo. Il ragazzo coi capelli rossi si para davanti a me, cercando di capire se io abbia accettato o no; appoggiandogli una mano sul petto, lo spingo via e mi incammino verso l’ingresso.

- Aspetta, ma…

- Lasciami fare.

Cammini spedita; prendo la porta, raggiungo la strada, ancor più popolata di prima. Inizio a farmi largo tra la gente, spingendo via i più ubriachi che mi ostacolano.

Il ragazzo di prima, quello che ha parlato, è un po’ ubriaco anche lui e mi insegue; lo sento che si ferma sulla soglia; lo sento solamente, perché io non mi volto.

Mi rivolge un grido. Mi urla, tra la folla, tra i bicchieri vuoti, tra le bottiglie spezzate:

- Sai cosa c’è? Sei solamente una PUTTANA!

Improvvisamente, mi ritrovo a pensare che vorrei che avesse ragione. Vorrei tanto che fosse come dice lui. Ma purtroppo…

Temo di essere troppo intelligente per essere solo una puttana.

 

Avvertimenti: la canzone che Febe ascolta all’inizio è La Favola Mia di Renato Zero. Dal momento che non posso assistere ai suoi concerti in zona perché nessuno potrebbe portarmi, mi consolo come posso.

E naturalmente, non bevete fino al raggiungimento dell’età legale.

Il “vecchio” che compare è la rappresentazione di un uomo che io ho visto veramente, una sera. Io e le mie amiche siamo girate al largo, ma quel vecchio mi ha lasciato una tale sensazione che ho continuato a pensarci e ho creato questa scena.

Non sono sicura che kajpiroska si scriva effettivamente così; è l’unico drink di cui conosco il nome e l’ho scritto così. Se è sbagliato (e lo sarà sicuramente) fatemi sapere.

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Capitolo 7
*** Il Grande Buco. ***


VII

SPAZIO AUTRICE: Rieccomi ^_^ so che praticamente nessuno mi aspettava, e ciò nondimeno eccomi qui, di nuovo, finalmente!

Come forse avrete notato ho dato un titolo ai capitoli...mi serve per non confondermi dando la numerazione sbagliata, e anche per dare qualche punto di riferimento ai lettori.

Questo capitolo non è un granché, mi dispiace, ma non posso farci niente. Il fatto è che è un periodaccio...perdonatemi.  Forse d'ora in po' andrà un po' meglio...non posso promettere niente.

Comunque, i ringraziamenti; a chi ha aggiunto la storia a preferiti/seguite e a chi ha recensito.

Smolly_sev: Sofy, abbi pazienza, ti ho anche costretto a modificare la recensione per sapere che ne pensavi!! Non odiarmi quando ti rompo!! Comunque grazie!!

Amaerize: davvero non è troppo malinconico?? ma davvero Morgan dice queste cose?? sarà...io non guardo X.factor!! XD

Bene, e ora, grazie a chi vorrà recensire questo coso informe, qua...

 

 

VII- Il Grande Buco.

- Prof, ha corretto i compiti?- fu la prima cosa che Letizia domandò quando, quel lunedì (era il secondo lunedì di scuola), il Napo entrò in classe per tenere la sua lezione alla terza ora, con aria particolarmente stravolta.

Napo la guardò con aria omicida. – Ti paio uno che ha corretto i compiti?- chiese aspramente, lasciandosi cadere sulla sedia quasi esausto.

- No è che…ha la faccia sotto shock!

Per un attimo, ci parve di vedere la proverbiale venuzza sulla fronte del prof; poi finalmente sorrise.

- No, i vostri compiti li ho iniziati a correggere, ma non ve li ho riportati…sembro sotto shock?- aggiunse preoccupato, toccandosi il sotto degli occhi.

- Un po’…- ammise Letizia.

Legolas sospirò, lasciandosi andare sullo schienale della sedia.

- Tutto regolare…va tutto storto. Prima di tutto i vostri compiti fanno schifo, poi ho perso il treno perché mi sono svegliato tardi e siccome non ho la macchina mi sono fatto accompagnare da mio cognato, poi non riesco a trovare casa…

- Trovare casa, prof? Si trasferisce?

- Sto cercando una casa qui- ammise con noncuranza. – In affitto però. Ora forse ne ho trovata una, mercoledì appena esco di scuola la vado a vedere...beh, la casa, poi ieri ho dovuto badare a mio nipote…- Sospiro. – Credo che sia per quello che ti sembro sotto shock, Lapi.

- Non le piacciono i bambini, prof?- chiese lei con aria tutta interessata.

Istintivamente, io e Sandra ci guardammo. Un secondo, e entrambe ci eravamo figurate la stessa scena: il prof su una poltrona, il bambino su un’altra, un gran silenzio, e ogni tanto, qualche domanda del tipo: “Così…tu sei un bambino, eh?”

- Non è che non mi piacciano, è che tutte le volte che mi vedono, piangono!
- Come? Piangono?- protestò la Zadini che vedeva offeso il suo mito.

- Sì e anche tanto! Poi gli ho fatto vedere come si correggono i compiti…ha visto quello di Calvani e si è messo a piangere di nuovo. Non dico che tu c’entri nulla eh- specificò guardando Paolo, che aveva la scrittura più brutta della classe– Dico per dire…

Fu a quel punto che sentimmo lo strillo.

Tutti insieme ci voltammo e ci ritrovammo Marina rannicchiata sulla sedia che strillava: - Prof, c’è un topo, c’è un topo!

Un attimo e un gran clamore di sedie strascicate, e tutti ci ritrovammo in ginocchio sulle sedie, sincronizzati.

- Dove?- esclamò Legolas balzando in piedi, preoccupato.

- Sotto l’armadietto!

Avevamo in classe, e dovrebbe esserci ancora, un armadietto di legno marrone, che nessuno vide mai aperto e che nessuno capì mai a cosa servisse, visto che non aveva una chiave; però c’era, molto polveroso ma c’era, e noi appoggiavamo le cose sulla cima, qualche volta.

Guardando immediatamente là sotto, mi parve di vedere, per un secondo appena, forse meno, un qualcosa di piccolo e grigio, che scomparve subito sotto il mobile. Rabbrividii.

Il nostro Vero Uomo, il prof, lo vide anche lui e sbiancò, come ben si addice a un ragazzo di trent’anni veramente virile. Facendo un complicato giro per passare lontano dall’armadietto, si avvicinò alla porta, la spalancò, si sporse fuori e chiamò: - Pina, Pina!

Era il nome della custode.

Tanto, che ci stava a fare lui lì, se non il pezzo di fico?

La custode arrivò – era una donnina di mezza età che tutti noi adoravamo, uno degli incrollabili miti della scuola- e domandò candidamente: - Professore, che c’è, che chiama?

- Pina, c’è un topo in classe, sotto l’armadietto!

- E allora io che vi faccio?- Era una di quelle risposte che la Pina dava spesso.

- Ma come che ci fa lei?!- esclamò il Napo indignato.

- Devo ammazzare il topo?

- Ma il topo non ci doveva proprio entrare!

- E allora che vi faccio io?

Intanto a noi, seduti sulle seggiole nelle posizioni più astruse, iniziavano a far male i ginocchi.

- Non…lei non…che razza di scuola è questa?- Napodano si volse a guardarci disperato – Ma ragazzi, dove vivete, che paese è questo, popolato dai topi?- Intanto si allontanava dall’armadietto.

Moriani sghignazzava. – Lei pensi, prof, che d’inverno vengono a valle i lupi!

Nello stato in cui era, il prof avrebbe anche rischiato di credergli e di non venire più a insegnarci…ma era troppo preso dal topo.

La Pina si chinò a guardare sotto l’armadietto. – Ma professore, io non lo vedo!

E infatti il topo sgattaiolò via. La Zadini, che era la più vicina all’armadietto, cacciò uno strillo acutissimo e si alzò in piedi sulla sedia. Lo stesso fece praticamente tutto il resto della fila, via via che la bestia passava dietro i loro banchi; salvo Niccolò, che sembrava molto più propenso a sganasciarsi dalle risate.

Facendo tutto il giro della classe, il topolino (perché era un topolino, piccolo e con una codina lunga lunga) andò di corsa a nascondersi dietro la libreria dei dizionari.

- Possibile che esista un’aula infestata dai topi? Ragazzi, basta così, prendete la roba e usciamo!

Eravamo tutti troppo sconvolti per chiedere dove andavamo. In un baleno richiudemmo le cartelle, prendemmo i giubbotti e ci avviammo alla volta dell’antibiblioteca, la stanza antistante la biblioteca dove in genere le classi andavano a guardare i film e i ragazzi che non facevano religione a studiare.

Il prof ci ordinò di sederci sulle sedie disposte in file della stanza, i cui braccioli furono adoperati per prendere appunti sul primo canto dell’Iliade che iniziammo, quel giorno a leggere.

Faceva tutto molto “ordinaria amministrazione”.

Soprattutto, ci ritrovammo a pensare che il prof arrabbiato assomigliava molto a Achille nel pieno dell’ira.

A dieci minuti dal suono della campana, il preside, informato, venne a trovarci.

- Professore, sono spiacentissimo per il topo, mi creda. Però la sua classe non può stare qui, questa stanza non è un’aula- disse seriamente guardando il prof, che si torturava i capelli dorati con una mano.

- Preside, io i ragazzi in quella classe non ce li riporto finché c’è il topo.- stabilì il Napo con lo sguardo di chi vuol mettere in chiaro una cosa una volta per tutte.

- No, è giusto. In effetti, ci sarebbe un'altra classe…

 

 

- Che razza di classe- disse il Napo sconvolto quando la Pina ci fece strada fino all’ex laboratorio del professor Bartolini.

Il Bartolini era un professore di chimica del liceo, o qualcosa di simile. Fino a qualche anno prima aveva avuto un piccolo laboratorio, poi l’avevano smontato per far posto a una nuova sezione del linguistico. Nel giro di tre anni la classe aveva avuto tante bocciature che si erano ritrovati in sette, perciò erano stati smistati in altre sezioni; va detto che in prima erano appena diciotto ragazzi.

La classe perciò era vuota e il preside aveva detto che ci potevamo stare finché non avessero risolto il Topoproblema.

Era un’aula di sette metri di lunghezza e due metri di larghezza. Le pareti erano piene di crepe, una delle quali attraversava il muro della porta per lungo. Lungo i due muri più piccoli, c’erano due grosse casse, o così ci parve, finché scostandole non scoprimmo che erano grosse protezioni in legno, neppure troppo pesanti, che nascondevano i resti del vecchio laboratorio: un lavabo e una strana macchina.

- Prof, ma ci si sta?- si preoccupò Elisa sbirciando, alle spalle del prof, nella classe.

- No- replicò Legolas seccamente. – Comunque, proviamo.

Entrammo. C’erano solamente quindici banchi e una cattedra; noi eravamo venticinque, più il prof.

- Stiamo ventisei a sedici- considerò Paolo.

Cercammo di metterci in due per banco, ma era ovvio che non riuscivamo a starci. Alla fine il professore disse che quanti più potevano dovevano sistemarsi alla cattedra; con un sospiro, lui prese una sedia (curiosamente, le sedie erano l’unica cosa che non mancava, in quella classe), la mise sulla cassa vicina alla porta e ci si sedette sopra.

- Prof, ma…ma farà lezione di lì?- domandai preoccupata, torcendo il collo per guardarlo.

- No: adesso suona- replicò lui dall'alto della sua posizione, con gli occhi che lanciavano lampi, e infatti la campana suonò in quell’istante – Io no, ma la professoressa che avete adesso spiegherà da qui!

E infatti la Dell’Amore, dopo averci cercato invano per dieci minuti abbondanti, essere andata dal preside a denunciare la sparizione della classe ed essere stata indirizzata in quello che, nei nostri ricordi, sarebbe rimasto noto come Il Grande Buco, insomma dopo aver fatto tutte queste cose, fece la lezione stando appollaiata sulla cassa, e da lì, nera in volto per la rabbia, diede pure i compiti.

Missione Tacchi Alti: descrivi la tua classe in cento parole.

A questo punto una domanda ci sorse spontanea: ma la prof ci sta sfottendo?

 

Non credo che nessuno sia arrivato a leggere fino a qui, comunque un chiarimento: un'aula come il Grande Buco esiste veramente, non ho inventato niente. Solo per le misure sono andata un po' a caso, ma non penso di essermi discostata troppo dal vero.

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Capitolo 8
*** La vita difficile. ***


Rimanemmo per cinque giorni nel Grande Buco

Rieccomi!! Il mio bel paese è pieno di neve e io ho ben trovato il tempo per scrivere questo ottavo capitolo. Un saluto dal Grande Buco, che a quanto pare ha riscosso molto successo!

Intanto scrivo i ringraziamenti dovuti a coloro che hanno aggiunto la storia a preferiti e/o seguite e a quanti hanno recensito:

The Corps Bride: Grazie delle correzioni (che cercherò di fare), comunque i quattordicenni di adesso fanno questo e altro...come cambiano i tempi!!

Smolly_sev: la mia (fortunatamente breve) permanenza nel Grande Buco mi è già bastata e avanzata! E non eravamo neanche tutti! Comunque grazie!

Atari: sono contenta che ti piaccia e che non ti annoi!! ^^

Seraphielle: Poverina, studiare in un Grande Buco!! Per me è stato tremendo (e ci sono stata forse quattro giorni). Comunque sì, ho proprio cercato di fare una bella classe tutta unita!! Spero di riuscirci!

Amaerize: Gimli non arriva...mi spiace! Però sì, il Napo è proprio virile!! Vero??

Grazie inoltre alle mie compagne di classe che mi sostengono (Paddy e Teresa).

Senza poi anticipare nulla, premetto che l'argomento sul quale si ambienta principalmente questo capitolo è venuto fuori mentre, andando a scuola, chiacchieravo con una mia ex compagna di classe.

A questo punto vi lascio al capitolo. Buona lettura a tutti!

 

 

Rimanemmo per cinque giorni nel Grande Buco. Cinque giorni in quattordici metri quadri, trascorsi seguendo lezioni tenute dal cassone/protezione e lamentandoci continuamente dell’aria irrespirabile nonostante le finestre sempre aperte.

- Guardate il lato positivo- commentò la professoressa Bini quel martedì, con la sua solita, incrollabile filosofia. – Se ci restate fino a Natale, questa è una classe che si scalda subito.

La cosa aveva tanto più valore in quanto si era in settembre ed era ancora caldo.

Nessuno pensò mai che avremmo potuto far pesare al preside la nostra reclusione in una stanza che chiaramente non era a norma di sicurezza, purtroppo: io credo che se l’avessimo fatto, ci sarebbe stato molto da ridere.

Insomma il Grande Buco non era un granché ed era pure pericoloso, ma non posso negare che negli anni seguenti lo ricordammo sempre con una certa tenerezza. In fin dei conti ci trascorremmo, quasi intera, la nostra seconda settimana di liceo e, in quello spazio così ristretto, i nostri legami si rinsaldarono ancora di più: non dico che il nostro stare praticamente gli uni in collo agli altri non abbia avuto alcuna influenza in questa evoluzione del nostro rapporto.

Il Grande Buco ci ospitò dunque fino a quel sabato, giorno in cui ci fu riaperta la nostra cara aula, che ci parve molto grande e ariosa. Fu bello tornare a respirare del vero ossigeno.

Facendo un passo indietro, però, mi preme molto parlare di quel mercoledì. Perché?

Perché quello fu il giorno in cui la mia vita cambiò. E non fu un cambiamento che la rese più facile.

 

Il professor Napodano fu distratto per l’intera durata delle sue due ore. Motivo: doveva andare a vedere la casa da affittare, e la cosa lo preoccupava non poco.

- Non vedo cos’abbia da preoccuparsi tanto- commentava acidamente Oscar – Ora salterà fuori che il proprietario lo vuole violentare!

Inutile dire che non ci sforzammo di capire più di tanto il suo stato d’animo.

Ciò nonostante, in qualche modo suonarono le dieci. Ci dirigemmo in palestra, ove il professor Meoni ci aspettava per condurci al lago.

Il lago distava una decina di minuti a piedi dalla scuola. Era una pozza artificiale di un chilometro e mezzo, forse due, di ampiezza e di una trentina di metri di profondità al centro. Nei giorni di calma piatta, i monti attorno si riflettevano nell’acqua scura. Del resto, era un bel posto. Su una delle rive, quella sulla quale si affacciava il paese, sorgeva una scuola di vela cui il liceo si rifaceva spesso per le lezioni.

Ci cambiammo a turni in una cabina di legno prima di raggiungere il prof, che ci aspettava davanti a cinque Flying Junior (tipi di barche, nda) pronti per essere armati.

Fu una dura lotta.

- AHIA!

- Lapi! Non ti mettere sotto al boma! (asta che serve a mantenere e a regolare la vela maestra, nda)

- Prof ma…e questa corda?

- Prof, venga qui a guardare! Com’è riuscito?

- Ma andava messa lì!

- Ma a me sembra che stia bene anche così!

- NO! Vannoni, mi spieghi come…ma…ma quella randa è all’incontrario?! (vela armata direttamente sull'albero, nda)

- Elisa, mi passi quel bastone…

- Vuoi dire il timone?

- Ragazzi, ma secondo voi se hanno messo queste scotte, serviranno a qualcosa oppure voi siete più bravi e potete farne a meno?(scotta: cordame che serve a regolare le vele secondo il vento) *

Calo il sipario della pietà sul resto della faccenda.

Terminata la lezione eravamo pieni di lividi – per lo più dovuti al boma che ciascuno si beccò sulla testa almeno una volta- ma ci eravamo divertiti da morire e ciascuno tornò a casa propria con gli occhi soddisfatti e sereni.

Un’altra persona vedemmo soddisfatta alla fine delle due ore. Durante la lezione ci eravamo accorti di un’ombra scura appena fuori del cancello. Sollevando gli occhi per vedere in controluce, riconoscemmo il Napo che ci guardava, divertito: appoggiato al cancello con un braccio sul quale premeva con la fronte, bellissimo anche contro il sole, ci osservava e, semplicemente, rideva.

Andando via, dopo esserci cambiati, vedemmo i due prof che se la ridevano di gusto. Fantastico: facevano comunella per prenderci per il culo!

 

Quel pomeriggio, mentre stavo facendo un esercizio di scrittura e pronuncia di greco, mi suonarono alla porta. Poiché ero sola in casa, andai io ad aprire. Era Chiara Bellandi, la mia ex vicina di casa. In effetti, lei e suo marito abitavano sopra di me fino a un paio di mesi prima, poi si erano trasferiti a Firenze.

Io adoravo i coniugi Bellandi. Erano cortesi, sempre sorridenti, belli entrambi, giovani, mi chiedevano sempre della scuola e non si lamentavano mai della musica alta. Va detto che io volevo bene a prescindere a chiunque adorasse Renato Zero, come me. E il marito di Chiara, Stefano, una volta mi aveva portato Amore Dopo Amore che avevano già e avevano ricevuto in regalo.

- Chiara! Che ci fai qui?

- Sono passata a trovare…c’è la mamma?- chiese cautamente col suo bel sorriso. Scossi il capo.

- No, sono sola. Dimmi tutto. Com’è a Firenze?

- Bene, benissimo. Ci troviamo bene, a parte il traffico, ma almeno per il lavoro Stefano si trova meglio…

- Bene, bene…

Qualche frase di convenienza, e poi il terremoto: - Sai, oggi sono qui perché ho avuto il colloquio per affittare la casa.

- Ah.- Solo quell’ “ah”, così pronunciato, avrebbe dovuto farle intuire il mio stupore; Chiara proseguì:

- Un bel ragazzo, lo vedessi: alto, biondo…poi cortese…

- Aspetta, la casa la prende?- la interruppi bruscamente. Chiara alzò le spalle.

- Domani richiama. Comunque mi è parso molto convinto…penso che la prenderà.

- Ma…ma come si chiama, me lo sai dire?

Le sue sopracciglia sottili si corrugarono. – Come mai?

- Perché anche il mio professore cerca casa qui…e volevo sapere.

Le si illuminarono gli occhi. Mi spaventai. Rise deliziosamente. – Ma guarda, vuoi vedere che è lo stesso? Anche questo ragazzo insegna al tuo liceo. Si chiama Gabriele Napodano.

 

Le opinioni dei Bellandi al riguardo erano estremamente favorevoli: un bel ragazzo, simpatico,

educato, con un lavoro rispettabile… Insomma, il Napo aveva fatto una buona impressione, Chiara era soddisfatta e si vedeva.

Rimase con me per una mezz’ora circa, il tempo di prendere un po’ di tè. A Chiara avevo sempre voluto un gran bene, spesso quindi capitava che andassi a prendere il tè da lei o viceversa. Era stata una cara vicina, insomma, e mi era spiaciuto che andasse via. Anche perché aveva appena trent’anni ed era bello avere una persona così giovane con cui fare quattro chiacchiere, di tanto in tanto.

In quella mezz’ora probabilmente mi trovò un po’ assente. Avevo un nodo alla gola, mi mancava la voce, ero distratta e non facevo che pensare all’appartamento. Quando se ne andò via, facendomi promettere di venire a trovarla a Firenze un giorno, tornai di corsa in camera mia, presi il telefono e chiamai Sandra.

Il telefono squillò a lungo, tanto che credetti che non avrebbe risposto. Finalmente, una voce squillante: - Pronto?

- Sandra, sono io. È successa una cosa terribile.

- Dimmi.

- Ti ricordi l’appartamento che il Napo doveva prendere in affitto? È quello sopra il mio!

Ci fu un attimo di silenzio. Poi: - Ti richiamo io. – E mi attaccò in faccia.

Venti secondi dopo, suonava il telefono fisso della mia camera. Mi sedetti sul letto e risposi.

- Eccomi. Spiegami per bene questa cosa, che stavo pregando di aver capito male.

Pazientemente le raccontai tutto, nella maniera più chiara possibile. Sandra ascoltò in un silenzio che ruppe solo per fare qualche domanda. Le esclamazioni se le tenne tutte per la fine del racconto, momento in cui proruppe in una elegantissima bestemmia.

- Salute!- borbottai.

- Grazie- Quindi proseguì infervorata per due minti e mezzo. Per finire: - Condoglianze vivissime.

- Solo questo hai da dirmi?!

- Le parolacce di prima non contano?

- Sandra!

- Sì, sì, vabbè. Ma scusa, io che ti faccio?

- Sandra! Tirami fuori una soluzione ORA!
- Da dove, dalla tasca dei calzoni?

- Sa…

- Dammi un po’ di tempo per pensarci!

Entrambe restammo un poco in silenzio, ciascuna dalla sua parte di telefono.

- Trovato! Ti ricordi di quando lunedì Moriani ha detto al prof che d’inverno vengono a valle i lupi?

- Sì, e allora?

- Convinciamolo che è così.

 

- Prof, l’ha trovata la casa?- domandai il giorno seguente con aria casuale, mentre il prof iniziava ad arrampicarsi, come suo solito, sulla protezione.

- Eh, Doria? La casa? Sì, l’ho trovata- confermò contento. – Più tardi chiamo per confermare.

- Com’è, bella?

- Abbastanza.- Ma si vedeva dagli occhi che lo era. E poi cavolo, io lo sapevo bene che era bella!
- E dov’è, prof? Vicino?- chiese Niccolò.

- A dieci minuti a piedi da qui- confermò con un sorriso.

- Dieci minuti? Non in centro, quindi.- Niccolò assunse un’aria pensosa. – Vabbè, allora…

- Allora cosa?- chiese il prof perplesso. - Di cosa parli, Moriani?

- Parla dei lupi, prof- spiegò pazientemente Vittoria, come a un bambino.

- I lupi?

- Sì, d’inverno ogni tanto si avvicinano.

- In che senso?- Il prof stava sbiancando. Sorrisi trionfante.

- Niccolò voleva saperlo perché non arrivano dappertutto, casa sua dovrebbe essere abbastanza sicura perché in genere si fermano duecento metri circa prima della scuola, dove iniziano i campi coltivati.- dissi accennando con la mano, fuori della finestra, i campi oltre il cancello.

- Co….come sarebbe a dire che arrivano i lupi?- Il Napo era perplesso, stavolta. – Mi starete mica dicendo che ho i lupi sotto casa?

- Ma no prof, non sotto casa! E poi, solo d’inverno.

- Dipende.- Moriani si dimostrava il più scettico di tutti. – Non è mica in centro…secondo me, uno di questi giorni si ritrova i lupi sotto casa.

Qui iniziò la discussione.

- Macché, lo sai benissimo che oltre la scuola non si spingono mai!

- Non è vero, un inverno sono arrivati, era il 2001…

- Sì, ma era un inverno freddissimo, venne anche la neve!
- Io non me lo ricordo…

- Ma sì, quando ritrovavano continuamente le orme della neve!
- Prof, ma è quel gruppo di casette là in fondo…ah, il condominio? Ho capito, allora lì dovrebbe essere abbastanza al sicuro…

Per parte mia, non partecipavo alla discussione che annuendo o facendo cenni di diniego: per lo più controllavo il prof, che appariva a ogni istante sempre più perplesso.

Alla fine della lunga discussione osò porre una domanda: - Ragazzi ma...non ho capito: la casa che ho intenzione di prendere è sicura o no?
Ci furono molte sopracciglia aggrottate e qualche aria dubbiosa.

- Abbastanza- dissi infine, riservandomi di mantenere una certa espressione incerta che gli avrebbe lasciato il dubbio.

A questo punto, per quanto inquieto, parve decidersi a fare lezione normalmente e ci interrogò sul Neolitico, che era da studiare per casa. Probabilmente parlare dei metodi di caccia degli uomini della pietra non aiutò.

Venne a trovarci di nuovo alla quinta ora, osando affacciarsi nella minuscola aula durante l’ora d’inglese. La distrazione che causò in noi gli meritò un’occhiataccia da parte della Dell’Amore, arroccata com’era sul cassone.

- Ragazzi, ho chiamato i proprietari- annunciò con voce squillante. – Siete sicuri di aver capito bene dove vado ad abitare? Perché a me, la proprietaria ha detto che non hanno mai avuto problemi del genere…non che fossi preoccupato, ma…

- Noooooo- sghignazzò Sandra nell’intera classe silenziosa, mentre io sprofondavo lentamente sotto il mio banco, sentendomi morire.

Il Napo alzò le spalle, per niente arrabbiato. Sembrava anzi contento.

- Beh, non importa…così perché lo sappiate, la prendo, sapete!

Mi venne da piangere.

 

Quella sera stessa il Napo arrivò a sistemare le cose nell’appartamento. Era contento e canticchiava. Lo vidi dallo spioncino mentre, dopo aver portato un paio di valige, scendeva di corsa le scale per andare a prendere le altre dalla macchina di un signore che gli sorrideva con aria un po’ tirata e stancamente paziente – immaginai che fosse suo cognato.

Mentre ancora era nel guardino a tirare fuori, con l’aiuto del signore, uno scatolone pieno di cose, aprii la porta e mi sistemai sulla soglia.

Facendo per dirigersi alle scale mi vide.

Esitò, mi guardò, sorrise, mi venne vicino.

- Doria! Che ci fai qui?

Sorrisi e col pollice accennai all’interno della casa. – Abito qui, prof.

Gli si gelò il sorriso sulle labbra. Guardò casa mia, sollevò lo sguardo sulle scale e parve che contasse i gradini che separavano le nostre vite. Io, che lo sapevo già per averli tante volte contati andando da Chiara, avrei voluto dirgli: diciassette.

Invece fu lui a parlare per primo. Col suo solito sorriso bellissimo e contento.

- Accidenti, Doria! Ti renderò proprio la vita difficile, eh? Ma guarda il lato positivo, quando verrò da te a chiederti mezzo chilo di pasta, potrai raccontare a tutte le tue compagne che non sono capace di fare la spesa!

Fu il mio turno di restare in silenzio a guardarlo perplessa. Dopo molti secondi gli sorrisi appena e gli dissi: - Non perderò l’occasione.

Mi morsi le labbra per averlo detto…e il Napo si mise a ridere e corse su per le scale con quella sua forza giovanile e nel frattempo mi gridò: - Ricordati che domani bisogna portare sia grammatica che epica, ci sono tre ore!

Mi venne da sorridere e mi ritirai in casa. E, tanto per mettere in chiaro le cose, andai in camera mia e misi un po’ di musica. Feci per mettere “No! Mamma, no!” di Renato Zero, poi cambiai idea e misi un cd di Cocciante.

Meglio iniziare con qualcosa di più sobrio.

No?

 

*Le definizioni sono tratte da La Grande Guida alla Vela di Gilles Cozanet.

 

Colgo l'occasione per fare anche gli auguri di Natale...un ottimo regalo per me sarebbe lasciare un bel commentino!! ^^ Ciao!

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Capitolo 9
*** Una ragazza fortunata in amore. ***


Il professor Napodano era

Sto attraversando un periodo di calo stilistico... questo capitolo è frutto di questo periodo. Ho perduto il conto di tutte le volte che l'ho scritto, cancellato e riscritto:il risultato è quello che è. La buona notizia è che il prossimo è già a buon punto (ne ho scritto più di metà a scuola), perciò sarà on line in tempi relativamente brevi. Nel frattempo, chiedo venia e ringrazio gli incrollabili sostenitori:

Seraphielle: Sandra non è ispirata a nessuna amica in particolare, eppure un po' a tutte, penso si sia capito, no? Beh, me happy che il capitolo che ti sia piaciuto!

Smolly_sev: non preoccuparti Sofy, tanto posto così di frequente che non ti ritroverai mai indietro coi capitoli!!

Amaerize: beh, morta no...ma spero che ti faccia sempre ridere!!

Beh, che dire? Buon capitolo, abbiate pietà!!

 

 

Il professor Napodano era, a detta di tutti, il vicino ideale: bello, simpatico, cortese, educato, silenzioso… tutti lo adoravano. Solo io lo odiavo per aver rovinato la MIA tranquillità domestica.

Poiché i miei compagni, dopo avermi aiutata a tentare di cacciarlo dal condominio, volevano sapere tutto ciò che faceva, osservavo i suoi spostamenti e riferivo ciò che di particolare succedeva. A volte, quando dalle scale sentivo i suoi passi che scendevano, mi precipitavo a controllare dallo spioncino. Se lo vedevo scendere verso i garage, uscivo a mia volta ed entravo di nascosto nel mio per spiarlo mentre riordinava – per lo più libri, dischi, videocassette…roba del genere.

Per dargli fastidio, tenevo la musica molto alta, ma non si lamentò mai del volume. A mia volta, riuscivo a sentire la musica che ascoltava lui: per lo più Queen, Pink Floyd, Guccini, più raramente Stadio. Mi piaceva molto la sua musica.

Tutte le volte che uscivo, dovevo vestirmi di tutto punto: foss’anche solo per recuperare una calza che dalla terrazza fosse caduta in cortile, oppure per andare a riprendere il cestino della carta dopo il passaggio dei signori della raccolta differenziata…non riuscivo neppure a immaginare come mi sarei vergognata se mi avesse visto in pigiama e pantofole o tuta. Prima del suo arrivo, spessissimo mi capitava di uscire in terrazza anche in biancheria intima, magari per prendere un reggiseno pulito, perché tanto era sul cortile e mi assicuravo che nessuno mi potesse vedere. Dopo il suo insediamento nell’appartamento non avevo più il coraggio neppure di affacciarmi coi capelli in disordine, figurarsi avere l’idea di uscire mezza nuda come mio solito. Per contro, neppure volevo che mi vedesse troppo in ordine: come sarebbe stato imbarazzante se ci fossimo incrociati, magari sulle scale o in giardino, mentre il sabato sera uscivo tutta in tiro con i miei abiti troppo corti e il mio trucco troppo pesante…che vergogna avrei provato! Non volevo che capitasse.

Nel frattempo, la scuola continuava. Incominciarono i voti, le frasi da tradurre, le prime versioni, le simpatie coi professori, i problemi…iniziammo a comprendere veramente cosa significa la quarta ginnasio. Per esempio un sabato mattina, sul finire dell’ora di religione che io non frequentavo, mi trovai in piedi con Michela fuori della porta della nostra aula. Era l’ora cosiddetta “di alternativa”, cioè i cinquanta minuti durante i quali stavamo in antibiblioteca a copiare le versioni per l’ora di latino, a ripassare oppure andavamo al bar, dove qualche volta prendevamo la cioccolata e parlavamo a lungo. Quel giorno io e Michela eravamo tornate su un po’ prima del previsto e ci eravamo fermate ad aspettare che iniziasse la ricreazione per poter lasciare la cartella in aula. La Zadini era appoggiata al muro e io ero accanto a lei.

- Sai, sono un po’ preoccupata per questi voti…- mi disse con un sorrisino malinconico. Cercai di consolarla, ma non ci riuscii. Sospirava con quell’aria di malcelata tristezza che ti mette l’ansia.

La Zadini era la più carina della classe. Agostini perse la testa per lei, la tempestava di SMS, le portava la borsa, le correva dietro per tutta la scuola…sembrava un cane col suo padrone. Eppure, Michela era convinta che gli piacesse la Caponi. Mi era molto simpatica, ma non c’era con lei lo stesso feeling che c’era con Sandra e Vittoria, o quello che venne a crearsi con la Vannoni.

Durante le lezioni di educazione fisica, il Meoni mi metteva sempre in coppia con Penelope sullo stesso Fliyng JR, sia durante le lezioni di teoria che durante quelle – disastrose- di pratica. Perché ovviamente dopo aver “imparato” ad armare una barca a vela dovevamo anche “imparare” a gestirla. Che è facile, eh! Tanto facile che in una giornata particolarmente ventosa il boma si staccò e ci cadde addosso: non so come fece la randa a non strapparsi. Piegate in due, rannicchiate sul fondo della barca, intrecciate nelle scotte, semisommerse dalla randa e dal fiocco afflosciato, cominciammo a strillare. Il professore venne a salvarci col canotto a motore dal quale sorvegliava la classe che navigava sul lago e ci riportò a terra. Io e Penelope trascorremmo il resto della lezione sedute a parlare sulla passerella di legno del piccolo molo coi piedi nudi nell’acqua, mentre le onde leggere del lago smosso dal vento si frangevano sui pali sotto di noi e sulle nostre caviglie con piccoli tonfi sordi e interrotti. Fu quel giorno che diventammo amiche.

Due giorni dopo, e non so come, il nostro gruppo si era formato. Incominciarono le corse su e giù per i corridoi, i giochi, gli inseguimenti, le operazioni di spionaggio…perché, in quel periodo, Sandra si era anche innamorata. Di chi? Proprio di quel ragazzo alto e secco cui il quarto giorno di scuola aveva fatto una bella ripassata perché fumava davanti alle porte…chi l’avrebbe detto che per quell’acciuga bionda coi rasta, i pantaloni calanti e i piercing sul sopracciglio Sandra sarebbe uscita pazza e ci avrebbe costrette per giorni a inseguirlo per tutta la scuola?

Se ne era innamorata durante un’assemblea scolastica, quando l’avevamo visto salire sul palco, prendere il microfono e incominciare a urlare con la massima serietà qualcosa sulla scuola da bruciare et similia. Sandra era venuta a mangiare da me e mentre la portavo a casa mia non mi ascoltava e camminava con gli occhi allegri e assenti. Alla fine guardandomi scolare il riso disse con voce armoniosa e felice: - Sai, Febe, quel pazzo un pochino mi garba…- Si chiamava Lino, era del ’90 e faceva la quinta F liceo linguistico. Questo era tutto ciò che riuscimmo a scoprire di lui, almeno per un bel pezzo.

 

Un giorno, erano i primi di novembre, la Pina venne a bussarci in classe durante l’ora di greco. La Corsi, che stava cercando di farci correggere una versione su un cavallo e un cinghiale, aveva simpatia per la Pina perché spesso le portava il caffè e le sorrise dolcemente quando si affacciò in classe per chiedere: - C’è Doria?

- Io- dissi alzando la mano e voltandomi a mezzo sulla sedia, verso la porta. La custode mi guardò e mi rivolse un sorrisone.

- Buon compleanno!- esclamò.

Mi aspettavo così poco questa frase che per vari secondi rimasi in silenzio a guardarla con aria stupita. L’espressione che avevo le fece probabilmente venire il dubbio ed esitante mi chiese:

- Perché…non è il tuo compleanno oggi?

Ancora stupita, scossi il capo e le dissi che facevo gli anni a dicembre. La Pina alzò le spalle e disse con gli occhi luminosi: - Tanto meglio…ci sono queste per te!-. E da dietro la schiena estrasse tre rose bianche, legate da un nastrino azzurro.

Non riuscii a dire niente, ma questo non aveva importanza, perché ciò che avrei detto sarebbe stato coperto dagli applausi dei miei compagni. Non arrossii neppure. Vittoria e Penelope si girarono sulle loro sedie e mi buttarono baci per congratularsi e Sandra, Sandra che mi voleva tanto bene, capì dai miei occhi confusi che qualcosa non mi tornava e mi abbracciò per sussurrarmi nell’orecchio, la faccia nascosta tra i miei capelli scuri: - Febe, ma che è successo?

Non ne avevo idea.

- Alzati, Doria! Prendi le rose, le vuoi lasciare in mano alla custode?- mi disse la Corsi. Dal tono della sua voce capii che era contenta per me e che le faceva piacere. Sempre più confusa, mi alzai in piedi e raggiunsi la Pina, quasi barcollando. Presi le rose.

- Attenta a non pungerti- mi disse mettendomele in mano.

- Grazie- dissi imbarazzata e perplessa, stringendo con la mano l’angolo di un biglietto che, dai fiori, rischiava di cadere. La custode rise, felice com’era per me, e insistette per baciarmi sulle guance prima di uscire chiudendo la porta, perché diceva che le avrebbe portato fortuna baciare una ragazza fortunata in amore.

“Ma chi, io?” pensai tornando a posto. In classe c’era confusione, ma la Corsi era troppo interessata a me per preoccuparsi di sedarla.

- Chi è?- sussurrò Sandra sporgendosi quando fui seduta.

- Non lo so!

Era vero, non lo sapevo. Solo una persona mi aveva mandato rose a scuola in vita mia…e quando l’aveva fatto, non era stato un buon segno. Ma ormai avevo chiuso con quella persona. Appoggiando le rose sul quaderno di latino con la versione tutta cancellata, presi il biglietto e lo aprii.

…Oddio, no.

- Chi è?- fece la prof tutta interessata. Non si avvide del colpo che tirai sul banco col palmo della mano aperta, né dell’espressione ansiosa che assunsero i miei occhi: era tanto contenta per me…Sandra lesse il biglietto dalla mia mano.

- Febe, che significa?

- Febe, ce lo leggi?- chiese la Zadini dal banco in fondo. Niccolò le disse a bassa voce qualcosa sul fatto che non era bello farsi i fatti degli altri e gli fu rivolto un cenno distratto della mano, a indicargli che non le interessava.

Guardai la prof. Mi sorrideva incoraggiante, serena: voleva sapere chi era, se mi rendeva contenta, se era affidabile, lei mi voleva bene, come una zia…avrebbe voluto essere contenta di ciò che mi rendeva felice, perché era una vecchia prof e io ero la sua alunna. E anche i miei compagni lo volevano sapere, per curiosità, per affetto, per ozio…

Chinai gli occhi sul biglietto. Era di carta azzurra, di quella spessa, di buona marca, come la usava lui; riconobbi un inchiostro da stilografica viola, di quello che usava lui; e come non riconoscere quella P minuscola così precisamente disegnata…

Strinsi il biglietto tra le dita. Sandra mi prese la mano sinistra, quella libera, e la strinse. Dall’altra parte, Albina gettava un’occhiata al di sopra della mia spalla. Vidi aggrottarsi le sue sopracciglia così artificiosamente assottigliate in un’espressione di dubbio, mentre leggeva.

- Sì, Michela, lo leggo.- dissi forzatamente ad alta voce. Sollevai il biglietto davanti agli occhi, mi schiarii la voce e lo lessi.

Tutti, dopo, mi chiesero cosa significasse, chi l’avesse mandato. A queste domande non rispondevo. Fingevo di non sentirle.

Sul biglietto c’era scritto: mi dispiace.

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Capitolo 10
*** Come morire lentamente. ***


Come avevo preannunciato

Come avevo preannunciato, il decimo capitolo è pronto e lo posto oggi, prima di un week end piuttosto impegnato, anche perché forma una specie di "dittico" con il nono (parlo come la mia prof d'italiano XD). Non so quando posterò l'undicesimo, ma cercherò d'impegnarmi.

Ringraziamenti:

Amaerize: hai proprio ragione... sono viva XD!! Beh, adesso lo scoprirai....leggi, leggi!!

Atari: ma no, non credo che interromperò la pubblicazione, è solo che ci metti tanto...però spero che d'ora in poi le cose si renderanno più facili anche per me all'interno della trama. In ogni caso ecco la risoluzione del mistero, spero che non sia troppo banale ^^

Smolly_sev: io? masochista? ma dove? come? quando? Io sono piena di autostima *disse quella con un rasoio in mano* Ma no dai a parte questo...un giorno mi devi presentare la tua compagna di banco, sono sicura che è molto simpatica!!

Beh, fatti i dovuti ringraziamenti vi lascio a questo capitolo... spero che non sia venuto male!!

 

A ricreazione, quello stesso giorno, portai le mie amiche a vedere Fabio.

Nei giorni precedenti qualche volta l’avevo visto, ma di sfuggita, con la coda dell’occhio, e subito l’avevo perduto di vista. E poi, tanto ero abituata a vederlo, che neppure ci avevo fatto caso.

Quel giorno dovetti cercarlo a lungo, per una volta che volevo veramente vederlo. Alla fine mi riuscì di trovarlo e lo indicai alle mie amiche, appoggiato alla porta della palestra, la sigaretta in mano e una maglia blu.

Era bello, cavolo se era bello, cogli occhi grandi e languidi di quel marrone scuro che sfociava nel nero, i capelli neri e ricci. Aveva una bocca bellissima, un po’ larga, col labbro inferiore leggermente sporgente in quell’espressione che sembrava vagamente imbronciata; ma non era della sua bocca che andavo pazza.

Erano le sue sopracciglia che adoravo.

Ho sempre avuto una passione per le sopracciglia della gente. In particolar modo adoravo quelle di Fabio così decisamente arcuate, lunghe, quasi un semicerchio attorno all’occhio, scurissime e folte. Se le aggiustava poco, solo in fondo e al centro della fronte, senza rovinare quell’alta arcata perfetta. E amavo come le corrugava: aveva quel modo tutto suo particolare, che la loro stessa forma esaltava, di aggrottarle avvicinandole al centro e sollevandole leggermente. Giuro che mai più ho visto un paio di sopracciglia come le sue. Le veneravo.

In quel momento fumava. Teneva la sigaretta con la mano destra, per lo più abbassata, mentre parlava con i suoi amici. Aveva gli occhi allegri e ridenti mentre chiacchierava con loro, sembrava così sereno!

- E’ bello, vero?- chiesi a bassa voce guardandolo da lontano.

- Insomma- rispose Sandra alzando le spalle. Mi volsi piccata:

- Come, insomma?

- C’è n’è di meglio- commentò candidamente Penni.

- Vai, vai- disse Sandra vedendomi infastidita da quei magri commenti e mi spinse verso di lui. Mi spaventai e feci di tutto per resistere alle sue spinte:

- Vai? Vai dove, vai?

- A ringraziarlo per le rose- disse Vittoria. – Noi ti aspettiamo in classe. vai, vai!

Un’ultima spinta mentre protestavo, e mi ritrovai a pochi passi dal gruppo dei suoi amici. Mi voltai, ma le mie amiche stavano già rientrando nell’edificio.

Non volevo ringraziarlo per le rose. Non volevo ringraziarlo affatto, eppure ero lì, sola, a tre metri e mezzo da lui. Volevo girare sui tacchi e andarmene, ma chissà cos’avrebbe pensato se proprio mentre mi affrettavo ad andarmene avesse sollevato gli occhi e mi avesse visto fuggire…

Così, Fabio mi vide mentre stavo lì a torcermi le mani, indecisa su cosa fare. I suoi occhi su fecero più grandi, colmi di stupore. Aprì poco la bocca, abbassando la sigaretta, si staccò dal muro, fece un passo avanti, lo sguardo fisso su di me. Vedendolo così spaesato i suoi amici si volsero verso di me e tutti rimasero in silenzio.

- Febe…volevi parlarmi?

Mi mancava la voce. Annuii, provando a balbettare qualcosa, ma riuscii solo ad arrossire e ad avvicinarmi a lui con lo sguardo fisso a terra, mentre i suoi amici si allontanavano in silenzio. Ecco, alla fine rimasi sola davanti a lui nel cortile affollato.

Dopo qualche istante di silenzio, Fabio mi sorrise, imbarazzato come al primo appuntamento.

- La Pina ti ha portato…

- Sì.

Sospirò e mi tese la sigaretta. – Vuoi fare un tiro?

- No, grazie…ho smesso.

- Ah.- Quell’ “ah”, lo stupore dei suoi occhi mentre lo pronunciava, il modo in cui mi guardò mi fecero capire che mai l’avrebbe creduto possibile. Finsi di non accorgermene. Si riprese e dopo pochi istanti di silenzio mormorò: - Senti…l’hai letto il biglietto?

- Sì, l’ho letto.

Distolse lo sguardo da me e i suoi occhi assenti si persero nella folla della scuola. Non riusciva a guardarmi. – Febe…mi dispiace veramente.

- Lo so. Ci credo. Ma non è stata colpa tua, Fabio…credo che dovesse andare così.

- Ma no, avremmo potuto…bisognava impegnarsi di più…

- Ma te l’immagini, se stessimo insieme ancora adesso?- dissi, la voce innaturalmente alta e forte, costringendolo a guardarmi. – Sarebbe ridicolo.

- No, dai, non è vero…basterebbe…

Suonò la campanella. Non gli veniva in mente cosa sarebbe bastato. Si affannò per trovare qualcosa, poi si arrese e tacque. Dovevo andare.

- Grazie per le rose, comunque- dissi per accomiatarmi.

- Vai di già su? Io finisco la…- E sollevò la sigaretta per chiedermi, indirettamente, di restare ancora un paio di minuti.

- Sì…ho italiano ora. Vado.

- No, dai…un minuto.

- Il prof si arrabbia. Vado.- Non era vero, al Napodano non importava che tornassi su un minuto o due più tardi. Ciò nondimeno, mi affrettai a rientrare e a dirigermi in classe.

Credevo che avrei pianto durante le ore di narrativa, eppure non lo feci. Anzi, avevo gli occhi asciutti e tranquilli, credo, perché né Albina né Sandra si accorsero che non ero allegra come al solito, e il Napodano, che credevo abile nel capire i sentimenti delle persone- come aveva capito che non era trucco bruciante negli occhi a gonfiarmi le palpebre quel venerdì di scuola- non mi guardò neppure.

 

Un sabato sera di settembre, l’ultimo per me prima di tornare a scuola e iniziare la terza media, un gruppo di ragazzi sedette allo stesso tavolo che occupavo col mio gruppo di false amiche e, per non saper che fare, iniziò a provarci.

Seduto accanto a me sul divanetto, c’era Fabio. Ovviamente, io non lo sapevo. Per me era solo il più carino del gruppo, con quegli occhi languidi e quelle sopracciglia perfette, che – quasi fosse un po’ a disagio- anziché andare al sodo come facevano gli altri la tirava per le lunghe, parlava poco, stava a lungo in silenzio e raramente mi guardava direttamente. Non ero abituata a quel modo di fare. Mi sembrava molto bello. Lo guardavo e parlavo poco. Alla fine uscimmo a farci un giro.

Ero in tacchi alti e indossavo una gonnellina a pieghe, una camicetta e una giacca nera come una studentessina. Fabio aveva una giacca nera, una camicia bianca e un foulard blu avvolto attorno alla gola. Mi piaceva molto. Ci baciammo su una panchina, poi lui insistette per aspettare che mi venissero a prendere. Mi chiese il numero di cellulare e glielo diedi perché pensavo che lo facesse solo per salvare le apparenze, che in realtà non ci saremmo più sentiti. Fanno tutti così.

Il sabato successivo mi arrivò un messaggio per chiedermi se quella sera sarei uscita, così se magari ci fossimo incontrati al pub avremmo potuto stare insieme. Gli dissi di sì.

Da quel giorno cominciammo a vederci: dapprima irregolarmente, poi sempre più spesso. Ci mettemmo insieme ufficialmente alla fine di settembre. Con lui iniziai a fumare. Gli volevo molto bene.

A quei tempo andava di moda avere la ragazza più giovane, ma so che anche lui mi voleva bene, un bene dell’anima. Frequentava il quarto anno del liceo scientifico, era del ’90.

Fabio era molto vanitoso. Si credeva il più bello, il più intelligente, il più affascinante, quello a cui io non avrei mai saputo – né potuto- rinunciare. Ma io amavo la sua vanità, considerandola l’espressione perfetta di una natura nobile e malinconica. L’assecondavo. Come gli volevo bene, con la sua passione per i Queen e le belle penne e la carta preziosa, i dischi in vinile e i vecchi film in bianco e nero, per le macchine d’epoca e le sigarette…e per me.

Alla fine, non so come, divenne un’abitudine. Io sapevo che lui c’era e lui sapeva che io c’ero e questa consapevolezza ci bastava, anzi ci annoiava. Smettemmo di uscire insieme, di vederci. Qualche volta ci sentivamo per telefono, ed erano telefonate lunghe e noiose, di baci mandati per abitudine come per seguire una prassi, di ti amo detti per riempire i momenti di silenzio.

Credo che fosse tutto finito molto prima che ce lo dicessimo in faccia. Non litigammo mai, non cominciammo a odiarci, non serbammo mai rancore. La nostra storia, se di storia possiamo parlare, finì a poco a poco, placidamente, dopo una lunga malattia. Non facemmo molto rumore. Fu come morire lentamente…sì, proprio così. Come morire lentamente.

Un giorno durante l’ora di educazione tecnica, il custode della scuola mi recapitò un mazzo di rose. Erano bianche e nel biglietto c’era scritto: Usciamo insieme.

Ci vedemmo quella sera, perché il pomeriggio dovevo studiare, e ci lasciammo. Eravamo stati insieme per quasi nove mesi, da settembre alla fine di maggio.

Quando avevo detto a Fabio che non era colpa sua non lo dicevo per dire. Avevo sempre pensato che fosse solo così che poteva finire. Con i miei pantaloni troppo stretti, e i suoi ti amo troppo frequenti…ci volevamo bene, forse troppo, ma non eravamo fatti per stare insieme, credo. Forse era la differenza d’età, oppure…non so. Forse eravamo entrambi persone troppo tristi, troppo chiusi nell’egoismo di un dolore che ci sentivamo in colpa a provare, troppo concentrati nella commiserazione di noi stessi…era andata esattamente come avevamo fatto in modo che andasse. Solo questo.

 

Tornata a casa, misi le rose in un vaso pieno d’acqua e per un po’ rimasi seduta a guardarle, semplicemente. Mi piacevano le rose…

Avrei dovuto mangiare, ma non avevo appetito. Presi un pezzo di schiacciata e accesi il computer, con un sospiro. Erano quasi le due.

Era da prima di maggio che non visitavo il blog di Fabio… c’erano più foto, qualche video… Non seppi trattenermi dal guardare le foto. Come mi sembrava bello il mio Fabio, col suo cappotto nero e le camice bianche e la giacca blu! E com’erano perfette quelle sue sopracciglia così ardite e nere! Tamburellai con le dita sul tappetino del mouse e per qualche istante dovetti distoglierne lo sguardo. Guardai le rose. Gli dispiaceva…

Tornai a guardare il blog. Fabio scriveva poesie, qualche volta. Le lessi per l’ennesima volta. Qualcuna l’aveva postata dopo maggio…lessi anche quelle.

Ce n’era una che parlava di me. Strinsi il pugno e mi morsi le nocche. Mi bruciavano gli occhi mentre la leggevo, muovendo le labbra via via.

Sì, ero io. Forse non in tutta la poesia, forse c’era solo un verso che parlava di me, ma di quel verso ero sicura, sapevo con sicurezza che c’ero io in quel verso: e ci scambiavamo baci che erano come testate. Non so cosa mi dicesse che di me Fabio parlava in quelle poche parole di mediocre poesia, eppure lo sapevo con sconcertante certezza, perché, arrivata a quel punto, trasalii e ricordai quegli ultimi giorni di tremenda agonia.

Bruscamente spensi il computer e mi alzai dalla sedia della mia camera. Dovevo studiare. E non mi importava nulla di quella stupida poesia, o delle rose, o del biglietto, o di Fabio e delle sue belle sopracciglia nere…no, non mi importava e dovevo studiare.

Sì, davvero, io volevo studiare, veramente. Ma perché continuavo a pensare a quella poesia che, nonostante tutto, mi era piaciuta tanto?

Ma perché mi bruciavano tanto gli occhi e mi sembrava di vedere tutto appannato?

E perché quello stupido imbecille del professor Napodano scelse proprio quel giorno per mettersi ad ascoltare Who wants to live forever dei Queen?

E perché, nonostante il volume fosse normale, a me sembrava che fosse così forte che non riuscivo a sentire il mio respiro?

 

Un commentino, un commentino... positivo come negativo... se non per me, per la povera Febe... su, che vi costa? XD

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Capitolo 11
*** Crapulam edormio. ***


Eccoci di nuovo qua con un nuovo capitolo

Eccoci di nuovo qua con un nuovo capitolo: non so che pensarne, lo posto così com'è venuto, senza cambiarne una parola. Poi mi farete sapere (vero?) ^^

Nel frattempo, ecco i ringraziamenti:

ATARI: no, il fine non era quello, voleva solo ribadire che gli dispiaceva, che non avrebbe voluto che finisse così. Comunque grazie della recensione, mi sono davvero impegnata in quella descrizione!

AMAERIZE: TI HO FATTO PIANGERE! non ci credo, ti ho fatto piangere! AH AH AH! sono troppo fiera di me XD

SMOLLY_SEV: 1: non sono masochista; 2: storia con fabio redatta durante l'ora di latino (eh eh!) 3:  è inutile che risponda, ieri ci siamo viste!! 4: d'accordo, per una volta mi fido! 5: non fa niente, se è importante ti tornerà in mente!!

Ringrazio anche coloro che seguono in qualunque modo. E ora al capitolo! Ciau!

 

- Ci dà tre cioccolate: due senza la panna e una con. E poi uno di quei croissant con la marmellata…ah, finiti? Allora con la cioccolata. Dieci Lupo Alberto…sì, quelle…e poi un Chupa-Chups alla fragola…me lo prende lei che non ci arrivo? Grazie. Mi basteranno i soldi per un the al limone, poi?

- Zadini, che taglia porti?- chiese Moriani con gli occhi sgranati, mentre il barista del bar della scuola ci preparava le cioccolate.

- La trentotto- rispose candidamente lei contando i soldi sul bancone. Con un sorriso, Niccolò si voltò verso di me e disse: - Sono queste le ingiustizie della vita, Doria.

Sì, onestamente era un’ingiustizia, pensai ammirando la vita strettissima di Michela e quella gonna nera che, indossata con un maglioncino viola e quattro paia di calze, veramente le stava benissimo. Davvero Michela era bellissima e quel giorno Oscar era stato per quasi tutta la lezione girato indietro a sbirciarla.

Michela mangiava sempre così tanto e non ingrassava di un etto. La cioccolata con la panna era per lei e così valeva per tutte le altre cose che aveva ordinato: il croissant lo mangiava con la cioccolata durante alternativa insieme a noi, mentre il resto le serviva per fare merenda a ricreazione…e va detto che la ricreazione era dopo l’ora di religione.

- Michela, ma dopo non pranzi, vero?- domandai mentre il barista appoggiava le prime due tazze sul bancone.

- Come no? Certo! Oggi la mamma fa gli spaghetti con le polpettine!

Oddio, mi veniva la nausea.

Adoravo andare a prendere la cioccolata con Niccolò e Michela. Stavamo una mezz’oretta al bar a bere e a chiacchierare, per sottrarci a quel noioso momento di copiatura di versioni e di ripasso sfrenato che si svolgeva in antibiblioteca tra i nostri compagni, e ci svagavamo un po’ prima dell’ora di latino. Era molto divertente.

- E’ terribile che tu possa mangiare così tanto e non prendere un etto, Zado, quando tutte le nostre compagne mangiano un grissino e prendono due etti- le dissi quel giorno mentre annegava una bustina di zucchero nella cioccolata con la panna.

- Ma no, perché?

Aveva un’espressione così stupita e innocente che per non risponderle bevvi un lungo sorso della mia cioccolata. Non era un granché, ma sapevamo adattarci noi tre. Niccolò sghignazzava, col naso immerso nella tazza, e Michela lo guardò increspando le labbra per nasconderci un sorriso. Capiva che era un complimento e dopotutto sì, aveva una testa leggera, ma non tanto da non accorgersi di essere bella.

- Il Napo non ingrassa- canticchiò mordendo il cornetto.

- Il Napo sembra un elfo- la rimbeccò Niccolò canticchiando allo stesso modo.

- Sei solo geloso. Il Napo ha un bel culo- replicò lei con quella prontezza che le era propria.

- Sì sì, geloso. Proprio. Io almeno mi vesto bene!

- La maglia di ieri era fantastica- dissi ridendo. Il giorno precedente il professore aveva addosso una maglietta bianca con la scritta: Crapulam edormio.

- Chissà cosa vuol dire…tu lo sai, Nicco? Sei tu l’esperto di latino!

Appoggiando un istante la tazza sul piattino, Moriani si pulì la bocca e scosse la testa. – No, non ne ho idea. Edormio vuol dire qualcosa tipo “farsi una bella dormita”, comunque dormire, ma “crapulam” non so di cosa sia l’accusativo.

- Sarà qualche poesia di Catullo- mormorò Michela tamburellando con le dita sulla porcellana bianca con espressione sognante.

- Sì, e vorresti che te le dedicasse!

- Lo trovassi, uno così romantico! A proposito Febina, ancora non ci hai detto chi ti ha mandato le rose, ieri!

Ecco, come avevo potuto pensare che si fosse scordata di un gesto che, ai suoi occhi, appariva così bello e romantico? Sorridendo, distolsi lo sguardo e mormorai che era stato uno scherzo. Michela si sporse sul tavolo e mise il broncio: - Dai, me lo dici, me lo dici? Non lo dico a nessuno, lo voglio solo sapere!

- Ma no, Zado…era uno scherzo, davvero!

- Doria, non ci credo io, figurati lei!- disse Niccolò ridendo.

Michela non demordeva. Protendendosi sul tavolino del bar mi prese la mano e la strinse, tirandola verso di sé, guardandomi con quei due occhioni azzurri che avrebbero fatto peccare un santo – perché Michela aveva un fisico perfetto e un viso adorabile, ma cosa c’era in lei di più bello di quegli occhi azzurri? Tentai di dirle di no ancora, ma fu inutile. Alla fine capitolai.

- Me le ha mandate il mio ex, Michela.

- Oh- e come era stupita! – Vi siete lasciati?

- Sì, ma lo scorso giugno.

- E adesso ti viene a chiedere scusa?- protestò lei stupita. Scosse il capo disgustata e dichiarò con convinzione: - Tu sei così bella Febina, non devi perdonare uno che non ti cerca in continuazione! Tu ti meriti uno che penda dalle tue labbra!

Improvvisamente scoppiai a ridere. Come la faceva sembrare facile quella bambolina in minigonna, la mia relazione fallita! Chi mai avrebbe trovato il coraggio di spiegarle che non è sempre come nelle favole? Come doveva essere facile per lei la vita se davvero credeva che basti meritarsi una persona per averla, ed essere felici! Non è vero invece, non basta affatto, e sono proprio le persone che si meritano di più che, alla fine, trovano poco, quasi niente…

Mi alzai in piedi e facendo il giro del tavolo andai a darle un bacio. Era così adorabile quella sua ingenuità ancora così infantile…ero commossa dalle sue parole. Quanto poco sapeva della vita…avrei voluto piangere. Mi sembrava che fosse così fragile quella creatura tanto graziosa e stupida, e per un attimo pensai che nessuno l’avrebbe aiutata in futuro e che avrebbe sbattuto la testa tante volte contro un muro, prima di abbandonare quei suoi sogni infantili di quattordicenne che, in quarta ginnasio, credeva ancora nel principe azzurro…

Niccolò ci rimase male alla mia reazione. Sentii il suo silenzio mentre abbracciavo Michela. Staccandomene, mi voltai un istante per assicurarmi di non averlo colpito mentre mi avvicinavo a lei e vidi i suoi occhi, di solito così allegri, per un attimo spenti e silenziosi. Pensava. Rimasi molto colpita dalla sua espressione: era la prima volta che lo vedevo così serio e assorto – come non era neanche nei compiti in classe-, sembrava che per un attimo avesse tolto la maschera da pazzo quindicenne e si fosse concesso un secondo di riposo…come un attore che interpreta una parte. La Zadini probabilmente non se ne accorse, ma nel vederlo così attonito e pensieroso mi parve di vedere qualcosa di raro e troppo strano…mi tornò in mente quel primo giorno di scuola, quasi un secolo prima, quando me l’ero ritrovata accanto nel primo incontro con la classe e nei suoi occhi- forse a sproposito, chissà- mi era sembrato di scorgere qualcosa di diverso dalla sua espressione folle.

L’accesso di entusiasmo che mi aveva colto era terminato. Sentivo come parlando avrei potuto infrangere quello strano momento e quell’allineamento astrale che, forse, aveva reso così scuro e profondo lo sguardo di Moriani…in silenzio, tornai a sedere dando modo a Michela di ricominciare le sue filippiche. Sollevando lo sguardo come risvegliandosi da una trance, Niccolò guardò la Zadini.

- Zado, ma dimmi un po’, una buona e salutare dose di cazzi tuoi?

Mi misi a ridere e Michela tirò fuori un’espressione offesa che avrebbe fatto pentire uno stupratore incallito.

- L’ha trattata male però!

- Ma se non sai neanche la storia! Magari l’ha lasciato lei, abbi pazienza Doria, sto sparando a caso, o chissà che altro! Sai com’è, sono un tantino cavoli suoi!

- Moriani, lasciala fare, è carino che pensi a me- dissi temendo che Michela si offendesse. Dall’altra parte del tavolo la Zadini mi buttò un bacio sulla punta delle dita.

- Vedi, Nicco, lei apprezza le mie intenzioni! Ah, volete un morso?- E ci offrì quel che restava del suo cornetto al cioccolato. Sorrisi facendo col capo un cenno di diniego. Com’era logico era tornata al suo argomento preferito, il mangiare.

Finii di bere la mia cioccolata. Niccolò aveva già bevuto la sua, soltanto Michela se la prese comoda per bere la propria.

- Tu non hai mai fretta- mormorò Moriani mentre, riportate le tazze al bancone, uscivamo dal bar.

- No, mai… anch’io edormio, come la maglia del prof!- E si mise a ridere tutta contenta.

Stavamo andando in antibiblioteca. Avevamo preso un panino anche per la Rondoni che era là a studiare e dovevamo portarglielo prima di salire in classe a portare le cartelle.

Per raggiungere l’antibiblioteca si doveva passare davanti alla presidenza. Un sacco di gente, trovandosi sulla lista nera del preside, passando alla porta adottava il trucco semplicissimo di sollevare un braccio a nascondersi il volto perché Leo, dalla vastità del suo ufficio, non avesse modo di riconoscerlo. Per Niccolò, per esempio, era istintivo farlo e così fece anche quel giorno, mascherandosi la faccia col palmo della mano aperta.

- Perché lo fai?

- Cosa? Ah, questo. Perché così il preside non può vedermi.

- Che cretino sei, perché dovrebbe guardarti?

- Perché son bello.

- Sì proprio un adone!

- Che imbecille, Zadini, secondo te perché lo faccio? Credi che il preside solitamente quando mi vede mi dia un bacio in bocca?

- Iiiiih, che schifo…spero di no!

- Appunto- commentò Niccolò.

Dalla porta della presidenza uscivano soffocate un paio di voci che discutevano. In punta di piedi Michela si avvicinò a me e mormorò: - Senti Febe…ma questa non è la voce del prof?

- Del prof chi?

- Il Meoni!

Tacendo, reclinai la testa sulla spalla per ascoltare. Erano Leo e il Meoni, per l’appunto. Alzai le spalle perché non ci vedevo nulla di strano.

- Che confabulate voi due?

- Nulla, cose da donna- replicò Michela.

- Appunto, allora vieni anche te- soggiunsi ridendo. Niccolò mise il broncio, ma si avvicinò a noi. Ci eravamo fermati.

- Che dite?

- Non senti? È il prof di ginnastica!
- Boh, se lo dici te!

- Ma no, ascolta!- E in quattro salti, la Zadini si avvicinò alla porta della presidenza.

- No, Michela, imbecille, vieni qui! Non origliare!

- Sht- sussurrò lei appoggiandosi un dito sulle labbra, mentre accostava l’orecchio allo stipite.

- Oddio, qui una bella nota non ce la leva nessuno…

- Dai, venite qui!

Moriani fu il primo ad avvicinarsi a lei. Imprecando tra me e me e guardandomi attorno per assicurarmi che nessuno ci potesse vedere mentre ascoltavamo di nascosto le conversazioni del preside, li raggiunsi anch’io. Dopo tutto, se si beccavano un provvedimento loro, perché io avrei dovuto fare la superiore?

Puntellandomi alla schiena della Zadini, accostai la testa alla maniglia e cercai di distinguere qualcosa nella voce soffocata dalla porta e dal nostro respiro irregolare. Finalmente distinsi le prime parole del preside:

- Professore, lei capisce che se non lo lascio fare ai ragazzi, a maggior ragione non lo posso permettere a voi…

- Certo, certo, preside, lo capisco…

- Ma lei non creda che sia perché io sia contrario o perché…

- Ma no, certo, l’immagino…

- Guardi che fosse per me, io sarei anche…ma lei immagina…

- Certo, ovviamente…

- Che puoi fuori della scuola possiate…io su quello non dico nulla…

Niccolò sollevò lo sguardo su di me e quelle pallide sopracciglia castane, dritte e sottilissime, si aggrottarono conferendo al suo viso solare uno sguardo perplesso. Con la mano fece un cenno interrogativo: appoggiandomi un dito sulle labbra, ammiccai alla porta chiusa e gli accennai di ascoltare.

- Sì sì, ma io…questo lo capisco…

- Il fatto è che se io non sono severo…poi anche i ragazzi potrebbero…e poi lei provi a figurarsi quello che direbbero alle spalle…alle volte i ragazzi sono, sa com’è… del ridicolo su due professori…

- Certo, certo…

- Ma non per voi, sia chiaro…per loro, per l’educazione…

La voce così calda del prof era un misto di compunzione, umiltà, quasi rammarico. E Leo sembrava mortificato, imbarazzato, quasi divertito. Michela si mordeva le labbra cercando di capire.

- Allora, se lei ha capito…siamo d’accordo allora? Bene, meglio così…

Toccai la Zado sulla spalla e lei si voltò verso di me. Col dito le indicai l’antibiblioteca. Annuì e quella fu una fuga, non di corsa, ma di certo una fuga.

- Ma di che parlavano?

- Ne so un’anima io!- replicò Niccolò chiudendo piano la porta della stanza per non disturbare una classe che stava guardando un film in tedesco.

- Forse il Meoni sta con la Bini…- mormorò Michela con aria sognante.

- Sì, come no! La Bini avrà quarant’anni!

- Ma no, ne ha trentasette! Ho fatto tutti i conti.

- Sì, comunque lei è più vecchia: il Meoni ne ha trentatré…

- Capirai, per quattro anni…

- Quattro anni! Quattro anni non son pochi, se è la donna ad averne di più. E poi la Bini è sposata, ha anche la fede- osservò Moriani.

- Appunto, di questo parlava il preside: siccome lei è sposata, non possono farsi vedere insieme a scuola…vero, Febe?- chiese Michela rivolgendosi a me in cerca di aiuto.

Storsi il naso. – Non so, il Meoni e la Bini, non ce li vedo…tra parentesi sarebbero cinque anni…forse il preside parlava della Dell’Amore…

- Un nome un programma- commentò acidamente Niccolò.

- Guardate che la Dell’Amore è ancora più vecchia della Bini. E poi è stronzissima ed è pure brutta!

- Ma no, solo che è un po’ bassa- cercai di minimizzare.

- Mi arriva qui- replicò lei sarcasticamente appoggiandosi la mano all’angolo della bocca.

- Vabbé, insomma…

- E poi chi dice che sia una delle nostre prof? Sai quante ce ne sono in tutta la scuola?

- Sht!- ci riprese a un tratto la professoressa di tedesco, voltandosi verso di noi e ci fece cenno di andare in biblioteca.

Erano proprio lì i nostri compagni, immersi in un frenetico ripasso delle versioni. Un dizionario di latino era aperto sul tavolo, perché ciascuno potesse correggere qualche frase.

- Tieni- dissi io tirando sul tavolo il panino, indirizzato alla Rondoni.

Niccolò ridacchiò curvandosi da dietro la spalla di Alberto sulla versione che cercava di correggere.

- Ti torna, eh?

- Come no? È saltato fuori un cinghiale e non so da dove!- replicò Alberto prendendosi la testa tra le mani. la versione parlava dell’età dell’oro dei Romani.

- Fammi controllare una cosa- disse Moriani prendendogli il dizionario. Sfogliandone brevemente le pagine, si fermò a un certo punto e scoppiò a ridere. Tutti si volsero verso di lui.

- Cosa c’è?- chiese Michela, che nel frattempo si era messa a raccontare l’accaduto alla Ponziani.

Moriani indicò il dizionario. – La frase sulla maglia del prof. L’ho tradotta. Significa “Smaltisco la sbornia”.

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Capitolo 12
*** Quei diciassette gradini. ***


Okay

Okay, questo capitolo è davvero tremendo, ma ho promesso alla mia amica Paddy che l'avrei fatto e l'ho postato. Sono in calo stilistico, perciò chiedo scusa anticipatamente; spero di riprendermi presto... se può servire come scusa, dinanzi a me si prospettano due settimane d'inferno. Ringrazio affettuosamente Smolly_sev e Amaerize che continuano a recensire e tutti coloro che in generale persistono nella lettura. Un grazie inoltre a Paddy che mi ha spronato a scrivere questo capitolo.

Bene, vi lascio alla lettura. Buon divertimento!

 

Niccolò ci aveva detto che se volevamo fare una gita decente dovevamo stabilire presto sia la meta che gli insegnanti accompagnatori, così da non ritrovarci all’ultimo momento a decidere. Disse che la sua vecchia classe, l’attuale V alfa, si era ritrovata a scegliere tardissimo e, alla fine, erano rimasti tutti a studiare. Poiché non volevamo che lo stesso capitasse anche a noi, nella prima metà di novembre tenemmo un’assemblea di classe durante l’ora della Corsi per decidere.

I nostri rappresentanti erano Lapi e Moriani, ovviamente: Niccolò perché aveva più esperienza, e Letizia perché era sicuramente l’altra persona più affidabile della classe, oltre a lui. Guardandoli il giorno dell’assemblea, così com’erano chini lui sul regolamento scolastico, lei sulla circolare riguardante le gite, pensai che ero contenta che fossero loro i rappresentanti. Intelligenti com’erano, entrambi col volto serio e segnato da qualcosa che non si poteva spiegare, qualcosa che però si capiva, traspariva…sarebbero stati dei bravi rappresentanti.

- Gente, un po’ di silenzio! La Corsi è qua fuori e se c’è casino si riprende l’ora. Perciò state zitti!

- Allora, abbiamo qui il foglio delle mete dell’anno scorso- disse Letizia alzandosi in piedi dietro la cattedra. – Il problema qui è dove si va.

- Amsterdam!- suggerì Oscar che non pensava tanto al punto di vista urbanistico e artistico della città.

- Ad Amsterdam si va in terza, quando siamo maggiorenni, Oscar! In terza ci fanno fare quello che vogliamo. Che senso ha andarci in quarta?- protestò Italia che aveva compreso pienamente a cosa si riferiva Oscar.

- Scusate, perché non andiamo a Praga?- Questa era Sara, che nessuno riusciva a sopportare.

- Che palle di città che è Praga- replicò Oscar facendole il verso.

- Però la birra costa poco- gli fece notare Letizia. – Meno dell’acqua.

- Il problema è che non ci lasciano nemmeno il tempo di comprarla- spiegò Niccolò. –Avete idea di quanto sia stressante una gita?

- Monaco- disse allora Michela.

- Monaco è una palla come Praga, forse di più!

- Qui c’è scritto Venezia…costa anche poco- disse Letizia.

- Venezia di marzo?- protestò Sandra e si toccò i capelli per simulare il volume dell’increspatura causata dalla pioggia.

- Oddio, neanche Venezia vi va bene! Napoli, allora!

- Figlioli, io ci sono bell’e stata in gita a Napoli! Cioè, voi non vi rendete conto di che gita è!- e qui la Morini iniziò un sermone che nessuno ascoltava su argomenti che a nessuno interessavano, accompagnandolo con la sua brutta risata sguaiata (aveva dei difetti la Morini. Non era antipatica ed era affettuosa quando voleva, tanto che non si notava che parlava male e aveva una risata orribile; però era tanto, tanto egoista.) A Letizia che la guardava parlare, Niccolò disse a bassa voce: - Leva anche Napoli.

- Figlioli, ma perché non si va in settimana bianca?- chiese Valentina con la sua parlata strascicata.

- Perché costa un culo di soldi- la rimbeccò Moriani parlando allo stesso modo.

- Macché, trecentocinquanta euro…

- E ti pare poco? Guarda che non se li possono permettere tutti. Oltretutto, non si impara niente e poi ci devi aggiungere il noleggio del materiale, il pranzo che là costa parecchio, la cioccolata calda che nessuno è capace di negarsi…

- Però la settimana bianca è bellissima- protestò Chiara che andava a sciare tutti gli inverni.

- Scrivila alla lavagna, Niccolò- ordinò Letizia, che non sopportava le discussioni. – Col prezzo accanto, e il numero dei giorni.- Moriani obbedì. – Altre mete? Proposte, figlioli! Tirate fuori proposte!

- La Grecia?- suggerì Michela speranzosa. – V’immaginate?

Moriani scosse il capo. – Siamo nel biennio, non possiamo né prendere l’aereo né fare gite più lunghe di tre giorni, a parte la settimana bianca.

- Ischia! Ischia è bellissima! E costa pure poco: centottanta…

- Allora lo scrivo, Ischia: tre giorni, centottanta.

- Torino?

- Macché Torino, è una gita da elementari.

- Le terme!- saltò su Raffaele scoppiando a ridere.

- Le terme? Ma una gita va motivata…perché dovrebbero portarci alle terme? Eppoi non c’è neppure nella lista!- esclamò Niccolò.

- I Romani frequentavano le terme, e i Romani li dobbiamo studiare quest’anno- osservò Alberto. – Moriani, segnalo!

- Ma non esiste una gita alle terme!

- Segna, segna- sbottò Letizia. – Non saranno contenti finché non l’avrai scritto. Tanto il gesso non lo paghiamo mica!
- Bah- borbottò lui scrivendo alla lavagna. – Fate voi, per me…

Le proposte erano finite, nessuno ne aveva nuove. Era il momento del pro e contro. Per esempio, la settimana bianca costava troppo. Ischia nessuno sapeva dove si trovasse. E le terme?

- Alle terme ci toccherebbe vedere la Corsi in costume- osservò Raffaele candidamente.

Ci fu un momento di silenzio.

- Cancella, cancella subito- esclamò Letizia precipitandosi a passare la cimosa a Niccolò.

Erano rimaste solo due mete possibili, alla fine: Ischia e Settimana bianca. Decidemmo di votare per alzata di mano. I risultati furono nove per la settimana bianca, dodici per Ischia, tre assenti. Stava per suonare. I due rappresentanti stabilirono di scendere in segreteria a chiedere un preventivo per quanto riguardava la gita a Ischia. Nel mentre che loro erano giù, noi ci preparavamo per uscire.

A mezzogiorno meno dieci, la porta si spalancò e Niccolò e Letizia rientrarono tutti affannati come se si fossero fatti tutta la scuola a corsa.

- Che avete fatto, vi siete trovati un angolo appartato?- domandò Oscar con la sua solita grazia e finezza. I due non lo cagarono nemmeno.

- Un momento di silenzio! C’è una cosa importante da dire!- gridò Letizia cercando di farsi sentire.

Avevano entrambi una sorta di ansia nella voce…forse fu questo che ci convinse a fare subito silenzio e a guardarli.

- Allora…abbiamo parlato col preside, che dice che se viene tutta la classe e se troviamo gli insegnanti accompagnatori…- Letizia prese fiato – Ci firma l’autorizzazione per mandarci in Grecia!

 

Tornai a casa tutta stranita, con la testa che mi rimbombava di: sette giorni, gita in Grecia, quinta alfa, trecentosessanta euro. Pensavo. Quando glielo chiesi, la mamma disse che se volevo mi dava senza problemi i soldi, anche qualora fosse venuto a costare più della settimana bianca e che avrebbe preferito anche in quel caso mandarmi là: disse che la Grecia va vista a tutti i costi almeno una volta nella vita, sia dal punto di vista artistico e naturalistico che da quello dell’impatto a livello personale. Sostenne che camminare sul suolo greco e pensare: questa era la terra di Socrate, di Platone, di Senofonte, di Aristofane, e poi di Pericle, di Leonida, di tutti quelli che noi studiamo a scuola, vedere le stesse montagne che forse i soldati delle battaglie famose vedevano morendo, è un’esperienza che tutte quelle persone dotate di un minimo di intelligenza e capacità di ragionamento devono fare.

- Sei una ragazza troppo intelligente per non vedere Atene. Vedrai che quando ci sarai capirai quello che voglio dire.

Io e mia mamma non sempre ci capivamo, questo era vero, e io avevo disapprovato troppo spesso le scelte che aveva fatto, i comportamenti che aveva, le cose che diceva. Una cosa però sapevo di lei: era una donna superiore, intelligente, molto intelligente, una di quelle persone che parlando ti affascinano, di quelle che criticano le persone stupide ma che s’innamorano delle altre. Solo questo ammiravo in lei…solo questo.

Ho detto che pensavo. In tutta quella storia c’era qualcosa che non mi tornava, ma non capivo cosa fosse. La mamma aveva detto di sì; non c’erano problemi; io stessa morivo dalla voglia di andare a visitare la Grecia; e allora cosa c’era che non mi tornava?

Finalmente, dopo averci riflettuto durante tutta l’ora che la versione di latino mi portò via, trovai la soluzione. La Lapi aveva detto che Leo era disposto a mandarci in Grecia a condizione che ci fossimo tutti e che avessimo due insegnanti accompagnatori. Era proprio questo che non mi tornava. Presi il cellulare e chiamai Niccolò.

- Bella fica, come ti butta? Ti serve la versione, vero?

- No, le scuse di chi t’ha promosso all’esame di terza media.

- Meno male, perché volevo chiederti se me la mandi via mail perché mi stava fatica…Dimmi tutto.

- Senti, la Lapi oggi ha detto che il preside ci manda in gita solo se abbiamo due insegnanti accompagnatori, giusto?

- Giusto.

- Ma noi ce li abbiamo due insegnanti accompagnatori? Chi è disposto a portarci, lo sappiamo già?

- Ah…- iniziò Moriani con l’aria di volermi rispondere con sicurezza, quindi s’interruppe e restò zitto modulando un motivetto per qualche secondo. Per finire: - Cazzo, hai ragione!

Era raro che Niccolò dicesse una parolaccia, ma quando ne diceva una significava che era preoccupato e che, soprattutto, c'era un motivo serio. In quinta alfa si diceva: quando fu bocciato, Moriani bestemmiò perché sapeva di non meritarsi la bocciatura; ma quella fu l’unica volgarità che disse in tutto l’anno.

Il problema c’era, eccome. Ci servivano due insegnanti accompagnatori; la Corsi aveva detto che era disposta a portarci in gita dove volevamo, perché tutti i suoi figli avevano almeno vent’anni e pertanto sopravvivevano anche senza di lei, a patto che ci comportassimo bene. La Bini portava una classe dello scientifico. La Dell’Amore aveva una figlia di un anno e mezzo e non poteva muoversi da casa per più di un giorno. Il Meoni, ovviamente, andava in settimana bianca.

- E il Napo?

- Non ci ha detto due giorni fa che gli hanno chiesto di andare in settimana bianca visto che sa sciare?

Cadde un lungo momento di silenzio. A un certo punto sentii che, dall’altra parte del telefono, Moriani apriva la bocca covando un’idea.

- No.

- Ma non sai neppure cosa ti sto per chiedere!

- Già il fatto che tu abbia detto di volermi “chiedere” qualcosa m’illumina.

- Ma hai capito cosa volevo dirti?

- Niccolò, io non ci vado!

- Sì, hai capito.

- Appunto.

- Febe, per amor di Dio, domani è sabato, se non glielo chiediamo ora non possiamo prenotarlo prima di lunedì e figurarsi se non avrà già dato la disponibilità per la settimana bianca!

- Tanto io non ci vado.- dissi seriamente. Ero decisa. Quei diciassette gradini non m’avrebbero tratto in inganno.

- Doria, mi spieghi cosa ti costa? Ti pesa così tanto il culo?

- Tantissimo- risposi.

- Dimmi quello che vuoi. Le versioni tutto l’anno? Parli con quello che l’anno scorso aveva nove a greco e otto a latino.

- Moriani, non me ne frega delle tue versioni! Lo vedi che ore sono?

- L’ora di muovere quel didietro per andare dall’elfo del piano di sopra.

- Sono le sette, fava! E se è già a cena?

- Va bene, fai come ti pare. Se ti vuoi prendere la responsabilità di non portare in gita la classe perché il prof sta cenando…

- Oddio, no! Ora non ci provare col senso di colpa. Moriani, non attacca.

- Va bene, ciao allora, non importa.- E mi attaccò in faccia. Ci rimasi di marmo.

Moriani non avrebbe mai riappeso in faccia neppure al professore che l’anno precedente lo aveva fatto bocciare, mai, io lo conoscevo ed ero sicura che in quinta mi avrebbero detto la stessa cosa. Era una di quelle persone che se sono arrabbiate ti prendono per il culo, velatamente o spudoratamente a seconda del caso, ma non reagirebbero mai in maniera così bassa e vile. Infuriata, mi alzai in piedi e iniziai a sbattere i libri in cartella, dicendomi: tanto ho ragione io.

Forse avevo davvero ragione, non lo so. Dopotutto, se la classe non si era organizzata in tempo, perché io avrei dovuto pagare al posto loro? Però accidenti, io in Grecia ci volevo andare. E se si fosse saputo in classe che potevo fare qualcosa, ma non l’avevo fatto? E se mi avessero fatto notare, magari con quel tono ipocrita che non sopportavo, che in effetti quei diciassette scalini in fondo li potevo anche salire…?

Chiusi la cartella e mi passai la mano sulla faccia. Guardai l’orologio. Erano le sette e un quarto. Turbata, mi dissi che sicuramente per mantenere quel sedere divino cenava presto e che sarebbe stato tremendo bussare e trovarlo a tavola… tirai un calcio allo zaino. Sospirando, mi toccai il naso e trovai che era lucido. Andai di corsa in bagno e m’incipriai. Quindi, tirando maledizioni a destra e a manca, presi le chiavi, salii le scale e andai a suonare il campanello.

Sentivo il cuore che mi batteva fortissimo. Se non fossi stata così tremendamente lucida anche in quel momento, penso che sarei scappata e avrei fatto finta di niente. Invece rimasi lì. Come una cretina.

- Chi è?

- Sono…Doria, professore.

Aprì la porta. Com’era bello con quella tuta e i capelli portati indietro da una fascia! Dio, com’era bello! Rimasi lì a guardarlo cercando di trovare qualcosa di intelligente da dire per giustificare la mia intrusione.

-Dimmi. Ti serve qualcosa?

- Ah…ah…io…sono venuta a…a…

Mi guardava. Porco cane, com’era bello anche quando la sua espressione sembrava voler dire “cosa diamine vieni a bussarmi a casa all’ora di cena se non hai nulla da dirmi”! Cercai di farmi coraggio.

- Ehm… scusi se la disturbo a quest’ora, prof…è che…volevo chiederle se ha già dato la disponibilità per andare in settimana bianca.

Esitò per un momento, riflettendoci su. – Perché…voi dove vorreste andare?

Sospirai. Almeno il suo non era un no deciso. – Il preside dice che se abbiamo due insegnanti accompagnatori è disposto a mandarci in Grecia.

Ci rimase a bocca aperta. – Ma siete ancora nel biennio…

- Se abbiamo tutte le carte in regola è disposto a mandarci anche se il regolamento dice di no- dissi implorante.

Doveva esserci qualcosa nell’espressione supplice dei miei occhi, o più probabilmente nella prospettiva di un viaggio in Grecia, che lo mise a dura prova. Tentennava, toccandosi i capelli.

- Ascolta, ho detto ad Aldo che potevo venire in settimana bianca…certo che non sarò di sicuro l’unico in tutta la scuola a saper sciare…

- Certo che no- gli dissi per invogliarlo a prendere in considerazione l’ipotesi. Soggiunsi: - Non potrebbe chiedergli di cercare qualcun altro e, se proprio non trova nessuno…

- Sai, sono quasi tutti già impegnati.

Allargai le braccia perché questo era vero: sarebbe stato assurdo che gli dicessi che non era così. Mi guardava indeciso, giocherellando con la fascia che gli tirava indietro i capelli mettendo in risalto quelle orecchie così dannatamente elfiche… alla fine si decise.

- Facciamo così: stasera lo chiamo e gli dico di cercare qualcun altro. Se trova qualcuno che prende il mio posto vengo con voi, in caso contrario…

Mi venne da ridere. Avete presente quando siete così nervosi che non riuscite a parlare e l’aria vi esce dalla bocca sotto forma di risata?

- Grazie prof…molto gentile.

- Di nulla. Povera Doria! Cosa ti tocca fare per far contenti i tuoi compagni!
- Eh eh…già- dissi ridendo nervosamente come una stupida per darmi un contegno. Mi mossi verso le scale. – In tal caso io vado…

- Che maleducato, ti ho tenuta sulla porta come un creditore…non ti ho neppure chiesto se volevi accomodarti- soggiunse cercando di comportarsi in maniera cortese. Rabbrividii.

- Si figuri, prof…per due parole…e poi devo studiare…a lunedì- dissi tutto d’un fiato prima di precipitarmi al piano di sotto, senza dargli la possibilità di replicare.

Mi rifugiai in camera mia a smaltire l’emozione seduta alla finestra, respirando affannosamente per cercare di calmarmi e stramaledicendo Moriani e la mia classe disorganizzata…Moriani, già. Presi il cellulare.

Li ho fatti quei 17 gradini, fava. Dice che parla col Meoni per trovare un altro che vada in settimana bianca. Tu preparati perché voglio tutte le versioni di quest’anno.

Due minuti dopo, il classico bip bip dell’sms ricevuto. Andai a leggerlo e, leggendo, mi venne da sorridere.

Ti stimo, bellissima. A domani.

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Capitolo 13
*** Rifulgente di normalità. ***


Grazie mille ad Amaerize

Grazie mille ad Amaerize, The Corpse Bride e Smolly_sev per le recensioni. E chiedo scusa per l'attesa paurosa e per il mio ancor più pauroso calo stilistico. Questo è quel che è venuto fuori.

Buona lettura e grazie a chi ha resistito finora!

 

Quel sabato sera uscii con Sandra. Voleva farsi raccontare tutto per bene: la faccia del prof e quello che aveva detto quando ero andata a rompergli le scatole a casa, solo perché la IV alfa potesse andare in gita in Grecia… Ero vestita come si deve, quella sera, con le ballerine nere, i jeans, una maglia carina e lo spolverino nero, un filo di matita sugli occhi proprio a rimarcare che era sabato sera. Mi sarei vergognata a farmi vedere da Sandra così com’ero di solito, e quella sera lasciai a casa le scarpe col tacco e la minigonna…feci bene, credo.

C’era molta gente, quella sera in giro. A un certo punto vedemmo una ragazza acquattata per terra nel bel mezzo della strada. Le sue amiche cercavano di tirarla su, ma lei restava immobile per terra, come una bambina quando fa la pipì.

- Andiamo via, andiamo sul marciapiede, qui passano le macchine!

- No, io voglio stare qui…lasciatemi qui…- ripeteva la ragazza, impuntandosi per restare dov’era.

- Ti prego, andiamo via, qui non si può stare! Non vedi come ci guardano?

- No…io voglio stare qui…

Aveva la voce bassa, strascicata e petulante. Era completamente ubriaca…ed erano appena le dieci.

- Oh- disse Sandra a quella vista. – Tutto questo è molto “o mio Dio”, credo. Febina, andiamo via.

Si allontanò di qualche passo sul marciapiede buio, poi si voltò perché non accennavo a raggiungerla. Guardavo ancora la ragazza seduta per terra, che ora si stava sistemando per distendersi completamente sull’asfalto. Sandra mi richiamò: - Febe!

Mi riscossi e la seguii. Quella scena mi aveva un po’ impressionato…credo che l’avrei presa diversamente, se fossi stata, quella sera, uguale a loro – stessa sbronza, stessi tacchi e stessi vestiti. Ma quella sera mi sentivo così bene, con quelle comode ballerine nere e quel trucco leggero che aveva richiesto forse quaranta secondi, così rifulgente di normalità, insieme a Sandra, che quella vista mi scosse profondamente.

- Andiamo a vedere quel bar nuovo che hanno aperto sabato scorso- suggerì lei quando la raggiunsi.

- Che bar?

- Quello in fondo alla piazza, di cui distribuivano i volantini all’uscita da scuola, la settimana scorsa.

Già, era vero. Avevano aperto un nuovo locale in centro, un posto molto commerciale, però accogliente e giovanile. Si chiamava Roxane Café. A scuola, parlandone, avevamo detto che probabilmente avrebbe fatto il pienone per un paio di stagioni, finché fosse stato una novità.

Sul marciapiede davanti alla porta c’era un sacco di gente, ma l’entrata era abbastanza libera e riuscimmo a passare senza dover tirare spinte. Tutto era molto colorato all’interno, c’erano divanetti e poltroncine occupate da un po’ di gente. Alcuni erano alticci, ma tutto sommato nella norma del sabato sera. Dietro il bancone, un barista col grembiule nero decorato da un’ampia scritta stava preparando un cocktail. Passando urtai col piede una bottiglia di birra lasciata sul pavimento. La cosa mi fece un po’ schifo, ma prima che potessi anche solo storcere le labbra, dal divanetto accanto al quale stavo passando si levò un coro di no.

- Hai interrotto il gioco della bottiglia!- gridò un ragazzo.

- Fottiti- mi anticipò Sandra rivolta al tipo che aveva appena parlato. Mi afferrò per un braccio e mi trascinò verso la saletta interna, ripetendo: - Che gente…

Ero molto colpita.

La saletta era molto vuota, al confronto. In fondo, alla parete opposta alla porta, c’era un tavolo vuoto con due sole sedie. Sandra me lo indicò. – Che dici, ti va bene quel posto là?

- Andiamo- dissi alzando le spalle. A un tratto, mentre facendoci largo tra sedie e tavolini ci dirigevamo in quella direzione, qualcuno mi toccò un braccio. Mi voltai. Era Fabio.

Mi sembrava bellissimo, quella sera, coi pantaloni bianchi e il piumino blu, e quelle sopracciglia divine, divine, mio Dio, com’era bello…

- Febe- disse. Era sorpreso di trovarmi lì.

- Ah…ciao- dissi. Ero tutta rossa in viso. Se ne accorse e, distogliendo lo sguardo da me per trovare qualcosa di carino da dire, vide Sandra che mi aspettava e la salutò cortesemente, un poco imbarazzato. Tornò a concentrarsi su di me. – Com’è?

- Bene- risposi guardando per terra. Poi, furiosa con me stessa per mostrarmi così stupida e debole, sollevai con forza gli occhi e lo guardai direttamente. – E tu?

- Bene, bene- disse lui guardando alle proprie spalle. I suoi amici erano in piedi attorno a un tavolo dal quale si erano probabilmente alzati e lo aspettavano, fingendo di non accorgersi che parlava con me. Sorrisi e gli dissi:

- Vuoi andare da loro?

- No, ti volevo… non ci siamo più parlati, da quella volta delle rose.

- Non ci siamo parlati per tutta l’estate- gli ricordai con semplicità.

- Lo so. Ma a te va bene così? Insomma, che non ci parliamo, e tutto?

Ero stupita da quella domanda. Mi misi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e forzatamente risposi: - Non lo so. A te?

Fabio sospirò, e mio Dio, quel sospiro mi fece quasi bruciare gli occhi da quanto triste mi sembrava che fosse…

- Senti…un po’ mi dispiace che sia finita così, Febe. Lo so che tu non mi credi, che non te ne importa, ma scusa, abbiamo buttato via tutto un anno…

- Non so cosa dirti, Fabio- dissi scuotendo il capo. Mi diressi verso Sandra…e mentre mi voltavo e Fabio mi fermava, vidi che lei aveva tirato fuori il telefono e fingeva di chiamare, e nel frattempo mi faceva cenno di continuare. Rassegnata, mi rivolsi di nuovo verso di lui.

- Non ti va di riprovarci?

- Per farsene di cosa?

- Come, per farsene di cosa?- Sembrava arrabbiato, adesso. Cercai di spiegarmi.

- Scusami, ma secondo te come andrebbe a finire? Io penso alle mie cose e tu alle tue…un altro anno così, molto bello, molto bello!

Credetti che mi sarei messa a piangere, lì per lì. Fabio se ne accorse. Mi sorrise, adesso, perché capì che dicevo così solo per difendermi. Rimase in silenzio per qualche secondo.

- Febe, se ragioni così resterai zitella fino in tomba- disse, ma era affettuoso, ora. Rimasi spiazzata e pensai che avesse ragione. – Se un pomeriggio uscissimo, potremmo parlarne per bene. Che ne dici?

Io volevo dire di no, volevo dirgli di andare a fumare un po’ fuori per rinfrescarsi le idee. E nel momento in cui stavo per dirgli questo, mi ricordai quel suo vezzo che aveva, quando uscivamo insieme, di mettersi a fumare canticchiando: Mama, ooooh, I don’t want to die… Sospirai.

- Senti, lunedì ci incontriamo a scuola e se ne parla, va bene? Così vediamo se è il caso o no.

Pensavo di liquidarlo, così dicendo. Insisté: - A scuola…a scuola dove?

- Non lo so, a ricreazione in palestra, alla macchinetta del caffè. Ci vediamo lì. Va bene?

- Va bene.

Era soddisfatto adesso. Si chinò e cercò di darmi un bacio sulla guancia, ma lo cacciai, dicendo decisamente: - No.- Sorrise schermendosi e ripetendo:

- Va bene, va bene…come vuoi.- Ma era contento. Mi salutò e tornò dai suoi amici, che già da qualche minuto non vedevano l’ora di uscire dal locale. Andai da Sandra che, immediatamente, chiuse il cellulare ponendo fine alla sua finta chiamata.

- A chi telefonavi?- le chiesi sorridendo.

- Alla mia amica cornuta- replicò seriamente. – Non so bene chi sia. Come è andata?

Mi misi a sedere. – Gli ho detto che a scuola se ne parla.

- Uh uh, Febe rimorchia!- disse ridendo e sedendosi a sua volta di fronte a me. – Ma non ti vedo allegra. Cosa c’è?

Non volevo dirlo. Ci pensai su per un momento, poi dissi: - Io non credo che possa funzionare.

Si fece seria, ora. Si protese verso di me e poggiando la borsetta sul tavolo chiese: - Perché?

- Perché…non lo so.

- Ma ti piace ancora?

Guardai da un’altra parte. – Non lo so…sono un po’ confusa.

- Febe- mi disse. – Si vede che ti piace ancora.

Non risposi a quella domanda. Sospirando, iniziai col dire: - Io non credo che possiamo andare avanti così. Io non sono in grado di tenere in piedi una relazione…e neanche lui lo è.

- Perché no?

- Credo che sia perché entrambi abbiamo avuto dei problemi in passato…problemi abbastanza grossi. Ma vogliamo fare finta che non ci siano mai stati, e non riusciamo a stare bene con noi stessi…figurati con qualcun altro!

Era la prima volta che dicevo una cosa del genere ad alta voce e mi vergognai molto di averla detta. Sandra mi guardò. – Lui, che cosa ha… di…

- Anche i suoi sono divorziati, e lui l’ha presa un po’ peggio di me- spiegai a malincuore. – Quando aveva sei anni lo portavano a parlare con uno psicologo perché per lui era difficilissimo da accettare…lui ora vive con suo padre e ha rotto i rapporti con sua mamma: non le parla più, non la vede più…non è che la odi, è che non se la sente di vederla. Ma suo padre è molto felice che lui non la veda più e gli fa dei regali. Invece suo fratello quando poteva prendeva il treno e andava a trovarla (lei sta a Bologna) e per questo suo padre non gli comprava mai niente più del necessario.

- Oddio- disse lei colpita, a bassa voce. Annuii.

- Oddio…è quello che ho detto anche io. Ma aspetta. Suo fratello era più grande di lui, ma non mi ricordo di che anno…– Presi fiato. Giocherellavo col portachiavi della mia borsa, ma lasciai perdere e appoggiai ambo le mani sul tavolo. – E’ morto a ventidue anni di tumore ai polmoni e Fabio ci è stato male da schifo. – Sandra era ora a bocca aperta. So cosa pensava: ventidue anni… Alzai le spalle. – Fabio dice che fumava come un turco…Io non so quanto, ma tanto, tanto per davvero…non lo so. È stato allora che ha iniziato a fumare.

- Perché ha iniziato? Per reagire allo shock?

- No. Non credo che fosse per quello. Lui…- alzai gli occhi. – E’ un cretino. Lui ha una paura fottuta di morire giovane, di morire come suo fratello…e fuma perché dice che fumare lo avvicina a Dio e a suo fratello. È uno stupido e io glielo dico sempre…Cazzo, quanto è stupido. Perché il fumo sale, capisci? E non ha intenzione di smettere.

- Per questo l’hai lasciato? Perché fuma e…

- No, non me ne frega niente. Ci siamo lasciati perché era la cosa migliore…per me, io gliele compro anche, le sigarette. Non me ne importa, perché so che non è il fumo sarà qualche cos’altro, capito? Ma farà sempre qualcosa d’idiota…anche solo per dimostrare a tutti che lui è nobile e triste. Che ci vuoi fare?

Sandra restava in silenzio, colpita. Alzò lo sguardo e chiese: - E tu?

- Io…io niente, io. Io ho avuto dei problemi, lo sai. Il divorzio…

- Quand’è che i tuoi hanno divorziato?

- Boh, nel 2001…avevo sette anni. Ma l’ho presa bene.

- E quand’è che tuo babbo si è risposato?

- Due anni fa…nel…credo che sia stato nel duemilasei. Ma io l’ho presa bene.

Aggrottò le sopracciglia con fare perplesso. Disse: - I tuoi problemi sono con tua madre, no?

Scossi il capo, stanca, guardando altrove. – Non lo so, Sandra…la mamma non mi ascolta, non mi parla. Mi fa fare quello che voglio, qualunque cosa voglio, purché io non rompa le palle. E io sto bene così, mi diverto, ho un sacco di soldi e posso andare dove mi pare, con chi mi pare, quando mi pare, perché lei non mette regole… Non è che mi odia, accidenti, no. Però siamo così…

- Così lontane- disse Sandra.

Le fui grata per averlo detto. – Questo forse è volere bene, Sandra, ma non fare il mio bene, perché quello è un’altra cosa. Non è comprarmi lo stereo e i vestiti e i dischi e tutto quello che voglio, e farmi fare le quattro di mattina senza sapere dove sono e con chi sono e se mi diverto…quello è un’altra cosa. Con mia madre non ho rapporti. Con mio padre non ho rapporti, perché si vergogna a parlare con me come con un’estranea…e anche questo non è volere bene. Però tu capisci, a me non manca nulla: ho i soldi e una casa, studio e ho tre pasti caldi al giorno, e tutto quello che voglio…come faccio a dire che sono infelice?

- La felicità non è nei soldi, Febe- disse Sandra a bassa voce,

- No, ma nei soldi c’è l’impossibilità di dire: io sono infelice. I bambini che muoiono di fame, quelli sì che sono infelici. Quelli malati, forse loro sono infelici. Ma io e Fabio la pensavamo alla stessa maniera… abbiamo troppe cose per essere infelici. Che la felicità non sia nei soldi, è un luogo comune.

Sandra scosse il capo, perché non la pensavamo alla stessa maniera. Mi disse:- E quindi…con Fabio?

- Non lo so, Sandra…io non lo so se mi piace ancora, non lo so!- esclamai disperata. E poi lei disse qualcosa che mi lasciò a bocca aperta…che mi fece capire quanto bene mi conoscesse già. Guardandomi negli occhi, disse queste parole: - Lo so, Febe, che non lo sai più…lo vedo.

Lo vedeva nei miei occhi…lo capiva guardandomi.

Quella sera, o meglio quella notte, restammo per ore a parlare al Roxane, fino all’una e mezzo o qualcosa di simile…e io non sapevo come ringraziarla di avermi ascoltato, e di avermi capito.

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Capitolo 14
*** Come lui. ***


Ok

Ok.  Ho accumulato un ritardo pazzesco e non ho assolutamente nessuna giustificazione se non questa: che non mi veniva assolutamente niente. Questo capitolo l'ho scritto a spizzichi e bocconi nelle prossime settimane. E lo posto scusandomi del fatto che sicuramente non compensa i mesi d'attesa.

Grazie comunque a Smolly_sev e ad Amaerize per il continuo sostegno, e in generale a chi ha il coraggio di continuare a seguire. Buon capitolo!

 

 

- Perché hai insistito tanto per parlarmi?- chiesi a Fabio quel lunedì, quando ci incontrammo davanti alla macchinetta del caffè. Quel giorno mi sembrava più alto: indossava un cappotto nero e una sciarpa blu scuro. Si guardava intorno con gli occhi rivolti alle porte a vetri della palestra. Fuori faceva molto freddo.

- Non lo so, Febe…quando ti ho spedito le rose, non mi hai fatto sapere quasi niente…

- Che cosa volevi che ti dicessi? Anche a me dispiace che sia andata a finire così…ma d’altronde…l’abbiamo deciso insieme, ti ricordi?

- Sì- disse Fabio, ma lo disse a bassa voce e con una qualche esitazione, come se se ne convincesse in quel momento. Andai alla macchinetta e tirai fuori il portafogli per comprarmi qualcosa. Fabio mi raggiunse e mi scostò la mano prima che potessi infilare una moneta nella macchinetta. A sua volta tirò fuori il portafogli e mi chiese: - Che cosa vuoi?

- Non importa, lascia stare.

- No, dai…ci tengo.

- Un tè – dissi dopo un momento di silenzio. Fabio continuò a parlare digitando il codice sulla macchinetta.

- Senti, abbiamo sbagliato entrambi, anche se non so dove. Ti chiedo per favore di riprovarci…non dico di rimetterci insieme, sarebbe imbecille, ti chiedo soltanto di uscire di nuovo qualche volta. Per vedere se in fondo in fondo una possibilità ce l’abbiamo ancora.

Presi in mano il bicchierino di carta pieno del tè che la macchinetta aveva sputato fuori. Era bollente e iniziai a soffiarci dolcemente sopra. Dopo un po’ gli chiesi: - Ti piaccio ancora tanto?

Non rispondeva. Insistei: - Forse non te la dà nessuna, eh?

Continuava a stare zitto. Guardava con quei suoi occhi grandi e languidi tanto belli la gente fuori che fumava, le coppie che si baciavano… Finalmente disse: - Sono uscito con un’altra dopo di te, una del ’93. Forse la conosci: fa la quinta ginnasio…

Mi ripromisi di chiedere a Niccolò. – Come si chiamava?

- Benedetta…tu però non le dire nulla! Non per me, per te: vedrai che la tua classe andrà in giro con la sua, chissà che non ti faccia qualcosa…

- Va bene. Ma che c’entra lei, ora?

- Era per dirti che era molto diversa da te. Siamo usciti insieme solo due o tre volte…

- Cos’aveva? – E chissà che gallinella smorfiosa mi figuravo…Fabio lo capì senza che glielo dicessi.

- No, no…era brava, lei…però…

- Non era come me?- gli chiesi.

- In un certo senso. La realtà è che non era come me.

Lo guardavo, e poiché non mi ricambiava, lo afferrai per un braccio e lo costrinsi a chinare lo sguardo. – Cosa intendi dire?

- Lei non era…voglio dire…non mi capiva.

Tacevo, perché neppure io capivo cosa volesse dire. Cercò di spiegare meglio. – Tu l’hai sempre capito, perché fumo così tanto.

No, non l’avevo capito, l’avevo saputo…nel momento stesso in cui, fumando, con gli occhi lucidi e la voce bassa, lenta e meccanica, mi aveva raccontato di suo fratello. Feci cenno di sì col capo. Fabio mi guardò e mi disse, sorridendo tristemente: - Io, a lei, non ho mai detto nulla di…ma anche se l’avessi fatto, lei non avrebbe capito. Avrebbe detto: ma allora sei cretino, smetti di fumare! E in effetti, non lo apprezzava comunque…ch fumassi.

- Era simpatica?- gli domandai.

- Sì…era simpatica…però non mi ci trovavo. Sembrava sempre che facesse finta di essere qualcun altro quando uscivamo. Non so se era questo ad allontanarci…

Non mi infastidiva che parlasse di lei. Sembrava che lo facesse per rimarcare, ancora una volta, la differenza che intercorreva tra me e lei: me come Febe Doria, la sua ragazza storica, il suo mitico tentativo fallito, la sua delusione più grande e il suo più misero fallimento, e lei come rappresentante delle altre, di tutte le altre di con cui era stato, con cui era andato, con cui aveva provato a costruire qualcosa che però era morto prima ancora di nascere non solo come progetto, ma anche come idea.

- Penso che se con lei avesse funzionato, magari sarebbe andata avanti a lungo, magari saremmo stati insieme un sacco e saremmo anche stati bene, ma non ci sarebbe stata…quell’empatia particolare…capisci?

- Ho capito- dissi.

Fabio sospirò. – Dimmi che cosa ne pensi, Febe…altrimenti non saprò come regolarmi. Se mi dici che non vuoi più rivederci andrò a cercare qualcun’altra con cui istaurare la stessa empatia così particolare, anche se sarà difficile…ma se non mi dici niente resterò sempre così, perché è così che io sono fatto.

Finii di bere in silenzio quel mio tè ormai tiepido, mentre Fabio aspettava una parola da parte mia. Finalmente gli dissi: - Ascoltami… Nessuno di noi due è in grado di tenere in piedi una relazione.

- Febe, se non ci proviamo non sapremo mai…

- Ci abbiamo provato, accidenti, Fabio, ci abbiamo provato fino a sfinirci!- sbottai. – Eppure non è bastato. E tu ci hai riprovato anche con quella, e non ci sei riuscito, e per amor di Dio, ma chi vogliamo prendere in giro? Mi piacerebbe uscire di nuovo, ma…se dobbiamo provare, così, solo per perdere tempo…alla fine lo sai che non ne varrebbe la pena.

Mi fissò in silenzio per un momento, quindi chiese: - Il tuo è un no?

- E’ un no, già.

- Va bene, allora…come vuoi.- disse freddamente. Sembrava parecchio scocciato, ma io che cosa gli avevo detto che non fosse preparato a sentire?

- Ora non ti arrabbiare…

- No, e chi si arrabbia?- replicò. E aggiunse guardandomi negli occhi: - Certo che…complimenti. Andando avanti così, Febina, di sicuro riuscirai a costruire qualcosa di molto duraturo. Complimenti per davvero.

E tirò fuori una sigaretta dalla tasca e si diresse verso la porta. Suonava la campanella in quel momento, ma si piazzò fuori della palestra e accesa una sigaretta iniziò a fumare.

Lo inseguii fuori. Quando vidi che si metteva appoggiato al muro, con la sua sigaretta a guardare il vuoto con aria scazzata non ci vidi più e sbottai: - Se non ti va di accettare quello che pensa la gente non domandarglielo nemmeno, hai capito?

Mi ignorò deliberatamente. A quel punto dissi qualche cosa di orribile, di disgustoso, qualche cosa che mi vergogno non soltanto a raccontare, ma semplicemente a ricordare: - Continua a fumare fino a distruggerti i polmoni come lui e crepa, razza di deficiente!

 

E mi voltai e me ne andai in classe, mentre alle mie spalle Fabio sgranava gli occhi e la sigaretta gli cadeva dalle dita.

Trascorsi la lezione come in un sogno, senza parlare né riflettere, e me ne andai via senza salutare nessuno, separata ormai da tutto e da tutti. Ma a casa, a casa mia, finalmente mi accorsi di quello che avevo detto, mi accorsi della gratuita violenza e crudeltà delle mie parole… Presi il cellulare e gli mandai un messaggio per chiedergli scusa, ma scrissi quasi a caso, senza accorgermene, e forse quello che scrissi fu un insieme goffo di parole e di giustificazioni…Presto mi arrivò la risposta. La lessi con le lacrime agli occhi. Diceva: Lascia perdere. Se sei una stronza non ci hai molta colpa. Ma ti consiglio di cambiare carattere perché sennò ti fai del male da sola.

Incominciai a piangere. Non soltanto per quello che aveva detto, ma soprattutto perché io sapevo qual’era la verità: che era vero quello che lui diceva, e che davvero mi stavo facendo del male da sola, forse…in tutti i sensi.

Fu una delle giornate più orribili della mia vita. Non riuscivo a smettere di piangere. Continuavo a pensare che Fabio aveva ragione, che anche se lui fosse finito come suo fratello, io sarei comunque finita molto peggio, sarei finita così com’ero. Pensavo che avevo perso Fabio per la mia stupida testardaggine, che non avrei mai trovato qualcuno di così simile a lui, di così simile a me…

Mia madre mi trovò seduta sul pavimento della mia camera con lo stereo a palla. Ascoltavo continuamente la stessa canzone, “Mi Ameresti” di Renato Zero. Doveva essere la settima volta che la rimettevo da capo, o qualche cosa del genere, e io piangevo come non avevo mai fatto. Ma non soltanto per Fabio, piangevo per tutto, soprattutto perché quella volta dopo mesi mi ero sentita di nuovo la ragazza vuota della terza media, quella che era uscita con Fabio per curiosità e che si era aggrappata a lui perché per una volta le sembrava di aver trovato qualcuno di diverso da tutti gli altri. Era quella la verità, alla fine, e lo sapeva anche lui e forse per quello ci eravamo lasciati: mi ero appoggiata al suo petto perché speravo che potesse aiutarmi, potesse farmi cambiare, e poi mi ero accorta che stava nella merda più di me. Per qualche mese ci eravamo aiutati, ma quando poi avevamo creduto di star meglio, alla fine ci eravamo allontanati di nuovo…e ora ci cercavamo per la seconda volta per trovare un po’ di sollievo.

Sentii il suono dei tacchi di mia madre sulla soglia di camera mia e mi voltai verso di lei: mi fissava con gli occhi stravolti, fissava il mio corpo accasciato contro la libreria e i cd che avevo sparso per terra cercando quello giusto: - Febe…

- Ho litigato con Fabio!- dissi con una voce infranta, spezzata, che non era mia, che mi sembrava di sentire in un film. Dissi soltanto questo, e credo che lei abbia capito, quella volta. S’inginocchiò sul pavimento e mi abbracciò. E piansi addosso a lei per un sacco di tempo, senza spiegarle niente, senza riuscire a far altro che singhiozzare e dire: - Fabio mi odia, mi odia!

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