La storia dell'Ombrello

di Shizue Asahi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #1 ***
Capitolo 2: *** #2 ***



Capitolo 1
*** #1 ***






Klaus è sempre stato il fratello un po’ toccato, quello bizzarro tra loro che della diversità hanno fatto la propria identità, eccentrico nei modi di comportarsi, di parlare e di osservare le cose. Vede i morti e questo già di per sé lo rende strano, lo fa vivere in un mondo a metà tra il loro e quello di chi non c’è più. Talvolta i suoi fratelli si chiedono se non sia solo un modo ingegnoso per giustificare perché bagni ancora il letto o inizi monologhi solitari fissando un punto imprecisato davanti a sé.
Klaus è strano, bizzarro ed eccentrico e Sir Reginald Hargreeves è molto deluso dal comportamento di Numero 4 – Mamma ha dato ai bambini dei nomi, ma lui si rifiuta di utilizzarli. Lo mette in punizione, lo spinge fino al limite per costringerlo a grattare la superficie dei suoi poteri, ma Klaus delle anime che vagano ha paura e irrimediabilmente delude suo padre. A ogni fallimento, a ogni delusione, corrisponde una nuova punizione più terribile delle precedenti.
Klaus ha undici anni e bagna ancora il letto, un po’ per il terrore che i morti lo prendano e non lo lascino più andare, un po’ per la paura che suo padre glielo lasci fare.
 
Il tempo nel mausoleo è stato immenso, a Klaus è parso di rimanervi per una vita intera, terrorizzato dal buio e dalle mani impalpabili che si allungavano verso si lui nel vano tentativo di afferrarlo. Klaus ha chiuso gli occhi e si è ripetuto che se non gli crede, la morte non può fargli del male, come gli diceva suo fratello Ben.
 Le lacrime e il muco gli hanno ricoperto la faccia e sporcato il colletto della camicia e Sir Reginald Hargreeves ne è stato ancora una volta fastidiosamente deluso.
- Fila in camera tua, Numero 4 – gli ha detto con quel tono di voce sempre distaccato e poco paterno che tutti i bambini hanno imparato ormai ad accettare e Klaus non se lo è fatto ripetere due volte. A Mamma non è stato permesso di fargli visita e di portargli la cena e Klaus è rimasto nel proprio lettino sveglio tutta la notte.
Il giorno dopo il letto non è stato bagnato e Klaus ha tirato fuori una delle sue bizzarre trovate.
 
Diego lo prende in giro e Mamma cerca di convincerlo a toglierla almeno quando sono a tavola, ma Klaus si ostina a ignorarli, sgusciando via se cercano di portargliela via con la forza. Sir Reginald Hargreeves non sembra accorgersi di niente.
Alla fine si arrendono, la settimana prima erano le forcine colorate nei capelli, questa la maschera da supereroe, la prossima chissà. La cosa viene catalogata come solo un altro dei modi di Klaus di attirare la loro attenzione.
 
Ben, che dei suoi fratelli è sempre stato quello a lui più vicino, non trova Klaus né ridicolo, né stupido e legge nei suoi comportamenti il disperato tentativo di rendersi forti ai propri occhi – ai loro e a quelli di loro padre.
La maschera diventa un’abitudine, una coperta di linus da sfoggiare e che lo protegge, cela le sue paure e che lo accompagna nelle sue giornate. La indossa di giorno, per casa, quando escono, durante le missioni, la mezz’ora di svago del sabato pomeriggio, quando va a letto o persino quando fa il bagno. Tutti pensano che sia solo un’altra delle sue stravaganze passeggere, ma Ben sa che con quella maschera Klaus può nascondere a loro padre il terrore che ha negli occhi, così che al mausoleo non ci debba più tornare.
Ben vorrebbe dirgli che andrà tutto bene e di non avere paura, che non ne ha bisogno, di quella maschera, ma sa bene che oltre ai morti Klaus sa vedere anche le bugie.
 
 
 
 
 
 
  • La storia partecipa alla terza settimana del COW-T9 col prompt: L’unico modo per non temere la morte è non pensarla e non crederle. (Stefano Benni, La traccia dell’angelo);
  • prompt “The Umbrella Academy, Klaus&Ben, Dopo la notte passata nel mausoleo, Klaus decide di indossare la propria maschera ad ogni ora del giorno e della notte, persino quando dorme. Tutti pensano sia solo una delle sue stravaganze, ma Ben sa che con quella maschera Klaus può nascondere a suo padre il terrore che ha negli occhi, così che al mausoleo non ci debba più tornare”;
  • 627 parole;
  • Sarà una raccolta disomogenea di flash sulla vita dei personaggi di Umbrella Academy;

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Capitolo 2
*** #2 ***


 
  • Scritta per la quarta settimana del COW-T9 | prompt: ridere all’improvviso;
  • 1020 parole;
 
 
 
 
 
 
La casa è tutta uno scricchiolare, gracidare e tremolare, col russare di Numero 1 in sottofondo e una finestra che sbatte per il vento da qualche parte. Mamma è al piano di sotto, in carica, seduta su uno dei divanetti del soggiorno ad ammirare senza vedere i quadri della collezione di Sir Reginald Hargreeves. Papà non le ha ancora dato una camera, anche se sono più di dieci anni che vive con loro in quella casa, e non lo farà mai, ma a lei non importa. Ognuna delle stanze dei bambini è come se fosse la propria, un parametro nuovo e inaspettato inserito al suo programma, anche se i bambini – ormai adolescenti – non fanno più a gara per avere per sé tutte le sue attenzioni e non cercano la sua compagnia prima di addormentarsi.
Quando esce dalla propria stanza, Diego è appena un’ombra, una macchia scura e silenziosa che si muove per il corridoio con circospezione. Il suo potere, il suo dono, gli permette di trattenere il fiato per un tempo imprecisato, infinito, e questo già di per sé gli dà un vantaggio enorme rispetto a Numero 1 che fa rumore anche solo se pensa; l’allenamento l’ha poi reso silenzioso come un gatto e da bambino si divertiva a tendere agguati ai fratelli e a farli sobbalzare per lo spavento – finché Ben, per la troppa paura, non ha perso il controllo dei propri poteri e non gli ha quasi strappato un braccio, ma non c’è più pericolo che avvenga di nuovo: Ben non c’è più.
Il corridoio è una linea dritta e buia, loro padre non vuole che nessuna luce rimanga accesa dopo le dieci di sera, anche se Klaus ha di nuovo paura del buio, con le porte delle loro stanze tutte allineate e le finestre chiuse. Diego non ha bisogno di vedere per sapere come muoversi, quella è casa sua, ha trascorso l’infanzia a gironzolarci seguendo Mamma o per cercare la sua maschera che puntualmente perdeva.
Conta a mente le porte. Una, due, tre e quattro. Si ferma davanti quella di Klaus e fa un po’ di rumore, appena percettibile. Riprende fiato anche se non ne ha bisogno e poi smette di muoversi come un gatto per un paio di passi. Raggiunge le scale e si blocca.
Aspetta, in ascolto. Uno, due, tre minuti. Non è mai stato dotato del dono della pazienza e l’attesa, per qualsiasi cosa, è solo fonte di fastidio. Ripassa davanti la porta di Klaus, fa un piccolo colpo di tosse e si premura di calpestare il tappeto con un po’ più forza. Da dietro la porta arriva un frusciare di coperte e lenzuola che vengono tirate via e gli sembra addirittura di sentire una zip dei pantaloni venir tirata su.
Diego accende una delle lampade, quella piccola, perché si ricorda che il fratello ha di nuovo paura del buio e che i morti sono più insistenti quando cala il sole, poi scende le scale in silenzio e aspetta di nuovo.
Quando esce di casa finge di non vedere Klaus che lo segue.
 
- Ehi, coglione – gli dice quando ormai sono troppo lontani dall’accademia per rispedirlo a casa e Klaus sobbalza preso in contropiede.
- Dove stai andando? – gli chiede, cercando di dissimulare la sorpresa per essere stato beccato.
- Cosa vuoi, Klaus – gli dice invece Diego, nella replica ben riuscita dell’inizio di quelli che erano i loro migliori bisticci.
- Passavo di qua, sai com’è. La città è piccola, un vero mortorio –
- Vai a casa – gli dice Diego, più aggressivo di quanto avesse voluto, ma Klaus gli fa uno di quei suoi sorrisi furbi – finti.
- Dove vai? – gli chiede ancora petulante. Ormai lo ha raggiunto e Diego riconosce i vestiti che indossava il giorno prima – e quelli precedenti e che si è rifiutato di cambiare da quando Ben non c’è più.
- Una festa – ammette alla fine, laconico. Gli occhi del fratello si spalancano teatrali e Diego già si pente di quell’’idea stupida e pessima di distrarlo facendolo uscire di casa.
- Numero 2, le attività ricreative sono solo il sabato dalle tredici e trenta alle quattordici –se ne esce Klaus, in una pessima imitazione di Sir Reginald Hargreeves.
 
Alla fine la festa è un vero fiasco. Non importa quanto i tuoi documenti falsi sembrino veri se sei uno degli adolescenti più famosi del pianeta. Non li fanno neanche entrare e Diego è lì lì per prendere a pugni un tizio che li ha chiamati mostri e ha spinto via suo fratello.
Si ritrovano seduti su una squallida panchina al parco, tra le mani due birre sgraffignate in un minimarket in modo non proprio eroico, e con le spalle che si toccano appena.
- Gran bella serata del cazzo – gli dice Klaus, a un tratto. Probabilmente è stato zitto per troppo tempo e neanche se ne è accorto. Oppure semplicemente non sta parlando con lui. Diego non glielo chiede.
- Forse avrei dovuto dirti che non funziona, io e Ben abbiamo rinunciato mesi fa – inizia – Sai, la storia dei bambini prodigio e del padre miliardario e quelle stronzate là non ti fanno confondere nella folla –
- Grazie tante – gli dice Diego e butta giù un altro sorso di birra. Non sa neanche perché lo faccia, a lui neanche piace bere.
Rimangono fermi e in silenzio, fissando i ragazzi mezzi ubriachi che fanno ritorno a casa da quella che sembra essere stata una festa leggendaria, con Klaus che ogni tanto gli si fa più vicino, per poi dondolare di nuovo di lato.
Quando ride, ride davvero, Diego sobbalza. Si era quasi addormentato e il torpore del sonno gli fa registrare appena che erano giorni che non lo sentiva più ridere così.
- Già, una gran bella serata del cazzo, fratello – ripete di nuovo Klaus, come se stesse parlando con qualcuno seduto davanti a lui; questa volta Diego è sicuro che non lo stia dicendo a lui, ma è felice che non sia solo. Ben, in fin dei conti, non lo avrebbe mai lasciato solo.
 
 


 

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