Nighthawks - I Nottambuli di LionConway (/viewuser.php?uid=99787)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Le ombre della notte ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Riflessi ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Annegare ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - Mosse e contromosse ***
Capitolo 1 *** Capitolo I - Le ombre della notte ***
I.
Le
ombre della notte
Se
glielo avessero chiesto, Travis avrebbe negato. Non avrebbe ammesso
di aver continuato a frequentare quel diner a Times Square, dove
sovente si
ritrovavano alcuni suoi colleghi di lavoro durante la pausa, nella
speranza di
rivedere quel giovane damerino su cui aveva imprudentemente soffermato
il
proprio sguardo fin troppo a lungo la prima volta che lo aveva visto.
Ancora
non lo aveva ammesso nemmeno a sé stesso. Il solo pensiero
lo
faceva sentire ridicolo, grottesco, come una di quelle volgari
barzellette che
il Mago raccontava a voce fin troppo alta e di cui lui stesso rideva
sguaiatamente, aggiudicandosi i legittimi sguardi infastiditi dalle
cameriere
di turno.
Eppure,
doveva riconoscerlo, Travis si sentiva affascinato da
quell’uomo. E non gli capitava spesso di sentirsi, in qualche
modo, succube di
un certo magnetismo da parte di qualcun altro, non quando passava
intere nottate
a trasportare da una parte all’altra della città
quei rifiuti umani che si
rigettavano in strada come gli scarti organici di un apparato
digerente, le
intestina di New York City. Eppure, accadeva, di tanto in tanto, che
nel bel
mezzo del fiume di melma si trovasse qualcuno in grado di distinguersi.
Qualcuno di diverso, un individuo dotato di fascino e di carisma che
non
strisciava tra la folla, ma camminava a testa alta e si faceva notare.
Travis
si considerava uno di quegli individui e così
l’uomo che guardava con così
tanta ammirazione attraverso il locale.
Non
veniva al diner tutte le notti, perlomeno non sempre allo stesso
orario in cui era circoscritto Travis. Vi erano serate in cui
quest’ultimo si
sedeva, ordinava la solita tazza di caffè e un panino al
bacon e aspettava.
Passava in rassegna i volti di tutti i presenti nel bar a
quell’ora della
notte, con quella un po’ infantile speranza di vederlo
apparire, e a volte i
suoi desideri erano esauditi. C’era sempre un che di regale
nelle sue entrate. Travis
non si sarebbe sorpreso di vedere tutti gli altri clienti
genuflettersi
davanti a lui in un atto di reverenza, nella speranza che lui toccasse
le loro
teste in un gesto di benedizione. Ma ovviamente non succedeva. Si
limitava a
oltrepassare la porta a vetri, fare un cortese cenno di saluto al
tavolo più
vicino all’entrata –una volta era toccato a Travis
e compagnia- e scivolare
solitamente a un tavolo non troppo distante dal bancone. Era
tutt’altro che
alto, eppure il suo portamento e la sua presenza scenica lo facevano
quasi
sembrare un gigante. Travis era certo che fosse un soldato, ma non un marine: la sua
camminata era troppo
militare, troppo subordinata perché fosse di prima linea. I
capelli erano
corvini e luccicanti, quasi sempre pettinati all’indietro
come si portavano
negli anni Quaranta; i tratti del viso erano morbidi e femminei, a
eccezione di
un lungo naso Nubian impossibile da non notare; la pelle perfettamente
levigata
e di uno splendido colore olivastro. Probabilmente si trattava di un
ebreo o di
un italiano.
Veniva
sempre solo e solo restava. Nessuno si univa mai a lui. Parlava
solamente con le cameriere quando ordinava, ogni tanto magari
scambiavano
qualche battuta di cortesia, ma finiva lì, con lui che
rimuginava chissà cosa
di fronte a una tazza di caffè fumante e una fetta di torta
alla melassa. Aveva
occhi scuri e profondi, ma non come i fondi di un pozzo,
perché sembravano
sempre irradiare un certo calore. Travis lo aveva notato la stessa sera
che
aveva salutato lui e i suoi colleghi appena entrato, e aveva continuato
a
notarlo nelle serate in cui era possibile osservarlo in volto a seconda
di come
entrambi erano seduti. Travis aveva notato anche, non senza una piccola
sensazione di fastidio alla bocca dello stomaco, che spesso, mentre
guidava il
suo taxi, lanciava occhiate nervose allo specchietto retrovisore nella
speranza
di vedere quegli occhi che gli restituivano lo sguardo. Ma trovava
solamente i
propri, altrettanto scuri ma velati di malinconia e di ricordi che
Travis avrebbe
di gran lunga preferito dimenticare.
Quella
sera, invece, poteva indugiare sul suo profilo. Tamburellava le
dita sulla superficie del tavolo, come se aspettasse impazientemente
qualcosa,
e sedeva a gambe accavallate sulla sedia, spostata leggermente
più indietro.
Dollaro e Charlie T, gli altri due colleghi che Travis frequentava
durante le
pause, si erano già premurati di fare commenti circa la
posizione adottata dal
giovane che, a sentir loro, tradiva la sua omosessualità
latente. A Travis
aveva sempre fatto ridere come il disprezzo per i finocchi
fosse in grado di mettere d’accordo un uomo bianco come
Dollaro, chiamato così perché si sarebbe venduto
anche la madre per guadagnare
mezza lira in più, e un nero come Charlie T che indossava
occhiali da sole in
piena notte e sudava copiosamente. Il Mago, invece, aveva ribadito come
pensasse che ognuno fosse libero di vivere come meglio credeva,
purché non
tentassero di ammazzarsi sul sedile posteriore del suo taxi come una
coppia che
aveva caricato qualche sera prima e che, a parole sue, si strillavano
addosso
come signorine in sindrome premestruale.
Mentre
rimuginava su come avrebbero reagito i tre uomini se avessero
scoperto che il loro fidato collega più giovane, che a
sentir loro era “pieno
di donne”, rimaneva imbambolato a fissare un altro uomo
più o meno della stessa
età, Travis fu distratto da un colpo di gomito contro il suo
braccio. Tornato
alla realtà, si voltò e incontrò gli
occhi del Mago che lo fissavano interrogatori:
«Ti sei imbambolato? Hai sentito cosa ti ho detto?»
Cercando
di non dare ad intendere il proprio imbarazzo e
costringendosi a non guardare nella direzione che gli interessava,
Travis
scosse la testa. Il Mago, per tutta risposta, grugnì e gli
diede una strizzata
alla base del collo, così forte che Travis temette potesse
avere toccato
qualche nervo in grado di paralizzarlo: la mano del Mago poteva
tranquillamente
stringergli tutta la testa in una morsa.
«Ti
ho chiesto a che ora finisce la tua pausa, ragazzo»
ridacchiò,
strapazzandolo ben bene. Travis rise a sua volta e controllò
il proprio
orologio da polso: «Uhm – tra una ventina di
minuti»
«Splendido.
Ti fai un altro giro di caffè?»
Non
ne aveva bisogno. Intanto non dormiva comunque. Ma stava lo stesso
per accettare, più per cortesia che per altro, quando Travis
notò un movimento
con la coda dell’occhio e vide che il misterioso uomo
solitario si stava
alzando e dirigendo verso l’uscita, mentre cercava qualcosa
nella tasca interna
della giacca di tweed. Il cervello di Travis cominciò a
funzionare più in
fretta del normale.
«Torno
subito» mormorò in risposta, alzandosi a sua volta
e facendo in
fretta il giro del tavolo, «ora che ci penso, devo
controllare una cosa… ».
«Ma
che diavolo-»
Travis
ignorò la voce del Mago e volò fuori dal diner,
sperando che le
sue previsioni fossero azzeccate, che l’altro uomo fosse solo
uscito per una
sigaretta e non si fosse già dileguato nella notte, che non
si fosse
mimetizzato in mezzo all’immondizia umana che vagava per i
marciapiedi di
notte. Il solo pensiero di gente indegna che gli passava accanto, urtandolo, toccandolo, gli fece attorcigliare lo stomaco.
Fu
fortunato. Era lì, a pochi passi da lui, a fumare in piedi
accanto
al parchimetro, proprio davanti al suo taxi giallo con gli scacchi.
Travis
deglutì. Si avvicinò cauto, le mani affondate
nelle tasche del suo giaccone
verde militare. Non si aspettava che quello facesse contatto visivo e
gli
rivolgesse la parola all’improvviso. Tolse la sigaretta dalla
bocca, esalando
sbuffi di fumo, e alzò l’altra mano per indicare
il taxi alle proprie spalle:
«È il suo?»
Travis
annuì, a metà tra il disorientato e il divertito:
si era
aspettato che la sua voce fosse profonda e melodiosa. Invece,
tutt’altro, era
acuta e quasi gracchiante, come se lo avesse colpito un forte mal di
gola.
Probabilmente fumava da quando era in fasce. Eppure, in qualche modo,
gli si
addiceva. Sembrava sposarsi bene con la sua statura.
L’uomo
parlò di nuovo e questa volta Travis notò il
forte accento di
Brooklyn nella sua voce. «Se è in pausa, posso
aspettare» disse.
«No
–no, va bene. Ho appena finito, in
realtà».
Travis
si sentì un idiota a balbettare in quel modo, ma lo aveva
trovato impreparato. Non sapeva cosa si aspettasse quando lo aveva
seguito là
fuori. Tutto, ma non che volesse salire sul suo taxi. Il pensiero quasi
lo
lusingò, prima di rendersi conto che, probabilmente, sapeva
alla perfezione che
quello era un ritrovo dei tassisti notturni quando facevano pausa.
Avrebbe
potuto tranquillamente trattarsi di lui come del Mago, come di Dollaro,
come di
Charlie T. Quell’improvvisa realizzazione gli fece
afflosciare le spalle,
mentre affiancava l’uomo, apriva la portiera del guidatore e
si sedeva al
volante.
Stava
per chiudere la portiera quando una mano la trattenne. Travis si
sporse per incontrare lo sguardo dell’altro: stava sorridendo
educatamente e
quel leggero incurvarsi delle sue labbra carnose gli procurarono un
certo
calore alla base del collo.
«Le
dispiace se finisco di fumare?» domandò, alzando
la sigaretta «Non
ci metterò molto. Preferirei non affumicarle
l’auto».
Travis
si sorprese di cotanta cortesia. A furia di trasportare
drogati, ladri e puttane in giro per la città, anche un
semplice gesto di
educazione lo sbalordiva. Anche se proveniva da un uomo come quello,
uno che
già aveva sospettato ergersi al di sopra del marasma che
abitava New York:
Travis era ben felice di averci visto giusto. Il che rendeva il tutto
più
eccitante.
Si ritrovò a
sorridere in risposta: «Faccia pure. Io
aspetto».
___________________________________________________
Sono consapevole del fatto
che, in teoria, questa storia non dovrebbe esattamente trovarsi in
questa sezione: si tratta infatti di una fan fiction crossover tra i
film Taxi Driver
e Il Padrino.
Il motivo di questa mia scelta, tuttavia, é dettato dalla
scarsa attività nella sezione di quest'ultima opera,
perciò preferirei sinceramente che il pubblico vi si
approcciasse come a un'originale. Sono certa che sia comprensibile
anche a chiunque non conosca le opere da cui essa deriva. Avrei potuto
cambiare i nomi dei due personaggi principali, é vero, ma
allora non si sarebbe più trattato della storia che ho in
mente di portare avanti.
Questa é la prima
volta che pubblico un capitolo dopo tre anni di inattività
qui su EFP, perciò mi sento estremamente emozionata. Mi
duole ammettere che i capitoli si manterranno più o meno su
questa lunghezza, dal momento che sto lavorando a un'altra long
(davvero completamente originale, questa volta!), dall'impostazione
corale e quindi più sostanziosa e impegnata. Così
facendo, comunque, conto di essere abbastanza regolare negli
aggiornamenti.
Ringrazio anticipatamente
chiunque mostrerà interesse nei confronti di questa storia,
se recensirà o chi la inserirà nelle
preferite/seguite. Sarebbe un piacere enorme. Se vi interessa, potete
trovare la storia anche su Wattpad.
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Capitolo 2 *** Capitolo II - Riflessi ***
II.
Riflessi
Travis sistemò lo specchietto
retrovisore, un gesto che ormai gli veniva quasi automatico, e
osservò il
riflesso del suo passeggero che si sistemava sul sedile posteriore.
Teneva
spesso gli occhi bassi. Non era come lui, così abituato a
guardarsi attorno, a
notare qualsiasi cosa lo circondasse, a soffermarsi sul
benché minimo
particolare. Lo vide gettare indietro la testa e sospirare. Si
passò i palmi
delle mani sul volto e allentò il nodo alla cravatta che
indossava.
Travis pensò di rompere il
ghiaccio. «Giornata lunga?» chiese, senza voltarsi,
e sempre attraverso lo
specchio, il suo interlocutore gli restituì uno sguardo a
metà tra il sorpreso
e l’interrogativo, come se non si aspettasse quella domanda.
Si sentì
incredibilmente stupido: la vita dei suoi clienti non erano affari
suoi.
Travis stava per scusarsi,
pensando di essere stato invadente, quando vide l’uomo
annuire e spostare lo
sguardo fuori dal finestrino: «Sì. Sì,
decisamente lunga e stressante».
Travis si sentiva la gola
secca. Girò le chiavi nel cruscotto e mise in moto
l’automobile. «Se non le
dispiace, svolto solo un attimo l’angolo»
annunciò, controllando che non
arrivassero altri veicoli da dietro. «Non mi va molto di
salutare i miei
colleghi, se escono anche loro».
Non aveva idea del perché
avesse esternato quel pensiero ad alta voce, ma l’altro uomo
ne rimase
divertito e proruppe in una risata educata. Travis non poté
fare a meno di
lanciargli un’altra occhiata nello specchietto. Non lo aveva
mai sentito
ridere, non lo aveva mai visto con quell’espressione in
volto: sembrava quasi
un’altra persona, pareva più rilassato,
più umano. Avvertì una bizzarra
sensazione al basso ventre, come se una mano lo pizzicasse in
prossimità della
cintura.
Aveva appena svoltato
l’angolo in una traversa della Settima Avenue quando
l’altro uomo parlò di
nuovo: «Non le piacciono i suoi colleghi?»
Travis accostò a un
marciapiede e scrollò le spalle.
«Sono okay» rispose,
lanciando uno sguardo alla moltitudine di persone oltre il parabrezza
che
ignoravano di essere costantemente osservate e giudicate dal suo
sguardo
inquisitore «Però non siamo esattamente intimi, mi
spiego? E a volte diventano
fastidiosi, dicono stupidaggini... Se fossero amici puoi anche
sopportare, dare
corda o, eventualmente, discutere –ma se sono solo colleghi
che vedi durante le
pause… »
Lasciò la frase in sospeso,
non sapendo bene come concluderla, e mordicchiandosi il labbro
inferiore.
D’altronde, che ne sapeva lui dell’amicizia? Non
ricordava di avere mai avuto
un vero e proprio amico, nemmeno quando frequentava la scuola, e la
vita da
liceale se l’era fatta mancare andando a lavorare a
quattordici anni nel
negozio di alimentari dei suoi genitori. Questo aveva influito
parecchio sulle
sue capacità nel relazionarsi con altre persone, con i suoi
coetanei, con le
donne. Queste sembravano essere il più grande rompicapo che
Dio avesse mai
creato per l’uomo comune, figuriamoci per uno come Travis:
sembrava sbagliare
continuamente con loro, non le capiva, non ci si raccapezzava, anche
solo un
approccio innocente sembrava offenderle. Sapeva di aver fatto un errore
con
l’ultima ragazza con cui era uscito, un errore a cui aveva
disperatamente
tentato di rimediare, ma anche ogni sua buona intenzione veniva
ignorata.
Il giovane tassista si rese
conto di essere rimasto immerso nei propri pensieri un po’
troppo allungo
perché il suo silenzio non venisse notato. Questa volta fu
il suo passeggero a romperlo.
«Già, non é esattamente la stessa
cosa» sospirò. «Mio padre dice sempre
che
l’amicizia, quella vera, quella che prevede
lealtà, è l’unica cosa importante
quanto la famiglia. Che si basano sullo stesso concetto. Rispetto,
amore,
protezione»
«Suo padre ha ragione»
«Lei crede?»
Travis mosse di nuovo gli
occhi sullo specchietto e si accorse che l’altro uomo
sembrava essersi
irrigidito: «Io penso che le amicizie si possano scegliere e
valutare se ne
vale la pena. Se risultano imprevedibili, a quel punto si ha
l’opzione di
tagliarle fuori dalla tua vita. Con i famigliari è
già più complicato, temo.
Per quanto tu possa cercare di allontanarti, a volte, non hai
scampo».
Travis non condivideva al
cento per cento quella constatazione, ma ciò che lo aveva
colpito di quel
discorso era la palese confessione a cuore aperto che uno sconosciuto
aveva
appena fatto trapelare. E così, il suo misterioso e
affascinante straniero si
era lasciato sfuggire di avere una situazione famigliare complicata.
Che
vagasse per le strade di notte per allontanarsene? Per evadere? Forse
era
davvero una checca come sostenevano Dollaro e Charlie T. e ai suoi
parenti non
stava bene la cosa. Ma anche se fosse stato così, Travis non
riuscì a fare a
meno di dispiacersi un poco per lui. Di provare pena. Non poteva
aiutarlo a
sistemare la sua vita in famiglia.
«Dove vuole che la porti?»
Gli parve saggio cambiare
discorso. Il suo passeggero assunse un’espressione dapprima
pensierosa, per poi
scuotere la testa con gli occhi persi nel vuoto: «Vorrei
saperlo anche io.
Qualunque posto va bene, suppongo, purché mi tenga lontano
da casa per un po’».
Quel discorso stava
cominciando a prendere una piega deprimente, così Travis
tentò di alleggerire
la situazione: «Non posso sconfinare nel New Jersey senza un
permesso, però!»
L’altro uomo rise di gusto e
il tassista si sentì compiaciuto di quella sciocca battuta,
ma ancora di più
della reazione che aveva suscitato. Le sue battute sembravano non far
mai
ridere nessuno. Ricordava una volta, appena qualche settimana prima, in
cui aveva
provato a sdrammatizzare innocentemente sul fatto che il suo libretto
della
patente fosse pulito quanto la sua coscienza e il tipo che gli stava
concedendo
un colloquio lo aveva subito zittito, pensando che volesse fare il
furbo con
lui. Probabilmente avrebbe dovuto nominare il New Jersey anche in
quell’occasione.
«Brooklyn, allora» si decise
infine il giovane uomo, allungando una mano sullo schienale del sedile
anteriore, appena vicino alla spalla di Travis. «Non ho
ancora deciso
esattamente l’indirizzo, ma è già
qualcosa».
Travis annuì e fece ripartire
l’auto: c’era tempo per pensare a una vera e
propria destinazione, almeno fino
al ponte. E per parlare. Ormai era sicuro che potessero farlo, che
tenere una
conversazione con lui gli piacesse e che la cosa fosse reciproca.
Diavolo, non
sapeva nemmeno il nome di quel tizio.
«Mi chiamo Travis!» si
presentò, domandandosi subito dopo se non fosse svalicato
troppo oltre la
cortesia professionale. Gli era sempre difficile capirlo e
probabilmente era
quello il motivo per cui non chiacchierava spesso con i passeggeri. Non
che di
solito li considerasse degni della sua attenzione.
«Lo so» rispose
l’altro uomo
e il giovane tassista quasi sobbalzò nell’udire
quella risposta: «Davvero?
Come?»
«Ho letto il nome sulla
patente».
Travis si sentì un idiota e
lanciò uno sguardo in cagnesco alla targhetta sul cruscotto
con la copia della
propria patente in bella vista. «Odio quella
fototessera» grugnì e sentì
ridacchiare dietro di sé. «Ho una faccia
stupida»
«Nessuno viene mai bene nelle
fototessere» Sembrava un tentativo di conforto. «Le
farei vedere la mia, se non
stesse guidando. Anzi, no, mi vergognerei troppo»
«Sono sicuro che non sia così
male».
Lui non lo era di certo.
Travis scacciò subito via quel pensiero. L’altro
uomo scosse la testa: «Non se
ne parla. Sembra quasi una foto segnaletica. Avevo sedici
anni»
«Touché».
Altre risate. L’aria nel
piccolo taxi sembrava essersi fatta improvvisamente più
calda e accogliente.
Quando Travis si fermò a un
semaforo rosso, sentì nuovamente una mano contro la propria
schiena.
L’uomo si sporse in avanti
per parlare con lui più da vicino: «Il mio nome
é Michael».
Il suo respiro solleticò per
un breve attimo l’orecchio di Travis che, quando
ripartì, avvertì come se le
viscere gli sprofondassero.
Lo guardava da lontano da
almeno due settimane e finalmente aveva un nome da associare a quel
volto.
Michael. Gli si addiceva. Come l’angelo che
scacciò Lucifero dal Paradiso. Il
Bene che trionfava sul Male.
Il tragitto da Times Square a
Brooklyn durava circa un quarto d’ora, sfrecciando
velocemente nel traffico
cittadino. Travis si arrovellò velocemente le meningi alla
ricerca di un nuovo
argomento su cui provare a intavolare una discussione, ma questa volta
fu
Michael a parlare per primo: «Quindi lei fa tutta la
città?»
Travis annuì.
«Ogni notte?»
«Prima sì. Ora ho due riposi
a settimana»
«Passerà le giornate a
dormire, immagino».
Come no. Gli sarebbe piaciuto,
ma addormentarsi era come abbassare la guardia, viveva
nell’ansia costante che
qualcuno gli sarebbe piombato addosso mentre le sue difese erano
praticamente
nulle. Viveva in un’enorme città con un tasso di
criminalità impressionante, un
vero e proprio campo di battaglia non troppo diverso da quelli su cui
aveva
combattuto in Vietnam, strade dove tutti erano in guerra con tutti.
Per tutta risposta, Travis si
strinse nelle spalle. «Non molto, in
realtà» ammise. «Qualche ora al
pomeriggio, niente di più. Di solito, quando finisco il
turno, vado al cinema»
Nello specchietto, vide
Michael distogliere lo sguardo dal finestrino e inarcare un
sopracciglio. «Alle
sei del mattino?» chiese, incuriosito, ma sembrò
realizzare subito dopo averlo
detto perché scoppiò di nuovo a ridere:
«Oh! Ho capito, mi scusi! È solo
–quello non aiuta? A dormire, intendo».
Travis si sentì avvampare,
mentre imboccava un cavalcavia. Per lui era una routine consueta,
ancora prima
che facesse domanda come tassista, stare in giro tutta la notte e
infilarsi poi
in uno di quei piccoli squallidi cinema sulla Quarantaduesima Strada
alle prime
luci dell’alba. Non perché fosse chissà
quale estimatore di quel genere di
film, semplicemente erano a disposizione di chiunque e lui poteva
starsene seduto
a mangiare popcorn e riempirsi di Coca-Cola. Quello che passava sullo
schermo
non gli faceva differenza, non lo eccitava nemmeno. Non andava
lì per toccarsi,
come tutti gli altri avventori attorno a lui che non si preoccupavano
di
nascondere il loro apprezzamento, era solo un modo come un altro di
avere un
posto dove recarsi. Una meta, un qualcosa. Da quando era tornato dalla
guerra,
Travis si era ridotto a una solitaria anima errante, senza uno scopo,
senza
qualcuno che lo facesse sentir vivo o che portasse il cambiamento nella
sua
triste quotidianità. Lavorava per lunghe ore, aveva
già messo da parte un sacco
di soldi, e non se ne faceva niente se non ordinare cibo spazzatura.
Anche i
punti sparsi per la città dove si fermava per far scendere
la gente non erano
una destinazione sua, ma dei suoi passeggeri. Era come se
l’unico scorcio di
vita che Travis vivesse fosse solo attraverso gli altri, attraverso le
loro
malefatte, la loro gola di sesso violento e autodistruzione. Ma quel
Michael
sembrava diverso. Sembrava.
«É che io non mi intendo di
film» disse, come se c’entrasse qualcosa con quello
che l’altro uomo gli aveva
chiesto –non gli andava a genio l’idea di parlare
dei propri genitali.
Michael si mosse un poco sul
sedile posteriore. «Io li adoro» ribatté
«Quando sono tornato a New York, una
delle prime cose che ho fatto é stata fiondarmi al cinema.
Ha mai visto Tutti gli uomini del Presidente?»
Travis non resistette e fece
in modo che nello specchietto si vedesse la propria espressione
interrogatoria:
«Cosa dal titolo dovrebbe farmi capire che non sia un porno
anche quello?»
Vide Michael nascondersi il
volto tra le mani e singhiozzare a ritmo delle risate. Travis
ridacchiò a sua
volta e, quando l’altro si fu ripreso, notò come
il suo bel volto olivastro si
fosse arrossato in prossimità delle guance. Travis si morse
involontariamente
il labbro inferiore.
«No, é un film con Robert
Redford e Dustin Hoffman» spiegò e il tassista
annuì, nonostante quei nomi non
suonassero in alcun modo familiari al proprio orecchio. In ogni caso,
rimase
comunque ad ascoltare interessato Michael che, ben preso, snocciolava
la trama
del film che, a quanto pareva, ripercorreva tutta l’inchiesta
svolta da due
giornalisti del Post che avevano
portato alla luce lo scandalo Watergate.
«Io ho votato Nixon» ammise
Travis con un ghigno e Michael storse il naso nello specchietto
retrovisore.
«Anche mio padre» rispose
«Difatti mi sono ben guardato dal trascinarlo con me a vedere
il film. I fatti
reali erano stati un colpo già troppo duro per
lui»
Nella mente di Travis
riaffiorarono per un attimo alcuni ricordi d’infanzia.
«Ehi, a dirla tutta
ricordo un paio di film che ho visto!» esclamò.
«Beh –in realtà non ricordo
proprio i titoli, ma so che mi piacevano i cowboy»
«Come a tutti»
Mentre parlavano, si erano rapidamente
avvicinati alla meta. Travis vedeva già un pilone del ponte
di Brooklyn
stagliarsi contro il cielo puntigliato di stelle. Un po’ se
ne dispiacque: non
voleva che Michael scendesse, non così presto. Non quando
finalmente aveva
avuto l’occasione di parlargli. Chissà se anche a
lui avrebbe fatto piacere? Se
solo Travis non avesse avuto almeno altre cinque ore prima di finire il
turno…
«Lei vive a Brooklyn?»
domandò a un certo punto il tassista, curioso, mentre la
piccola autovettura
saliva lungo la rampa per entrare sulla carreggiata del ponte.
«Non ho potuto
fare a meno di notare l’accento, mi scusi»
Michael ridacchiò dietro di
lui. A Travis piaceva quella risata, sembrava smuovergli qualcosa nelle
viscere. Si rese conto che il proprio pensiero non aveva alcun senso e
si
affrettò a cacciarlo via, insieme alla marea di altre
riflessioni che lo
avevano assillato dalla prima volta che aveva visto l’uomo
entrare nel diner.
«Long Island» lo corresse
Michael «Lo so, possono essere somiglianti, a volte. Sono
nato a Little Italy,
comunque».
Travis sorrise tra sé e sé
per aver azzeccato le origini italiane.
Michael tirò sul con il naso.
«É lì che lavoro»
spiegò. «Più o meno. Mio padre ha messo
su una compagnia di
importazione di olio d’oliva, quasi trent’anni fa.
Ho appena ereditato la
direzione».
Travis, che aveva ipotizzato
una cosa, alzò un dito: «Ma è mica la
Genco?»
«Quella»
«Allora sono un vostro
cliente! È il miglior olio della città»
«Siamo la marca più venduta
della East Coast. I prodotti ci arrivano direttamente dalla
Sicilia».
Travis emise un piccolo “Ah”
di ammirazione: «É da lì che viene la
sua famiglia?»
Nel frattempo, avevano
attraversato quasi tutto il ponte. Dentro di sé, un piccolo
Travis mugugnava
indispettito.
Michael annuì. «Ho vissuto
lì
nell’ultimo anno» aggiunse «Per affari.
Mi sono pure sposato».
Travis si domandò perché
quell’ultima affermazione lo avesse colpito allo stomaco come
una palla di
cannone che aveva appena lasciato una voragine. Istintivamente,
portò lo
sguardo in basso: lo stomaco era ancora lì, ma non se lo
sentiva.
Una volta superato il ponte,
Michael si sporse nuovamente in avanti, questa volta con tutto il corpo
e
Travis rabbrividì quando sentì il suo gomito
contro il proprio bicipite. «Può
svoltare a destra? Ho appena deciso di passare la notte
all’hotel Mountview».
Travis eseguì.
Michael notò qualcosa: «Il
tassametro?»
«Lasci stare, le offro la
corsa»
«Ma dai!»
«Sul serio. Non ricordo
l’ultima volta che ho avuto un passeggero così
piacevole».
Travis si morse la lingua
fino a farsi a male: non voleva dare l’impressione che ci
stesse provando.
Anche perché non era così. Non voleva che lui
fraintendesse, non voleva
bruciarsi l’opportunità di poter parlare
nuovamente con lui.
L’italiano, però, non
sembrò
infastidito da quell’affermazione, anzi, per tutta risposta,
gli strinse la
spalla con una mano. «E io un tassista così
efficiente» rispose e prese subito
a frugarsi nelle tasche alla ricerca di qualcosa. Quando la
trovò, alla fine,
allungò una sigaretta oltre il sedile anteriore per passarla
a Travis. «Si
faccia almeno offrire una sigaretta, per piacere, anche se non
fuma».
Travis la prese e lo
ringraziò con un sorriso, mentre si accostava, infine,
proprio di fronte
all’hotel Mountview, la cui facciata in mattoni rossi
fronteggiava il fiume.
Mise il freno a mano e si
voltò dalla parte del suo passeggero. Aveva fatto male i
calcoli: non si
aspettava di trovare il suo volto così vicino al proprio e,
nell’incrociare i
suoi occhi scuri, Travis si sentì avvampare per qualche
stupido motivo. Sperò
che l’abitacolo fosse abbastanza buio perché
l’altro non lo notasse.
«Io -» balbettò il
tassista,
cercando disperatamente di non far tradire il tremolio nella propria
voce.
«Penso – penso di potermi fermare cinque minuti per
una sigaretta».
Intanto il tassametro era
immobile.
Michael sembrò gradire
quell’affermazione. Annuì, si sistemò
la giacca di tweed e aprì la portiera dal
suo lato. Travis fece altrettanto e scese dalla vettura. Si
appoggiarono entrambi
alla fiancata e il tassista lasciò che l’altro
accendesse per lui. Rimasero in
silenzio per un po’, esalando sbuffi di fumo, portati via dal
venticello che
risaliva dall’East River. Ogni tanto, Travis lanciava rapide
occhiate di sbieco
all’italiano che, invece, sembrava perso in pensieri ben
più lontani da lui.
Poco male. A Travis piaceva guardarlo, gli piaceva studiarne quei
lineamenti.
Lo avrebbe giudicato quasi statuario, una bellezza più greca
che siciliana.
Erano entrambi a metà delle
loro sigarette quando Michael, passandosi il pollice sul labbro
inferiore,
ricambiò il suo sguardo e gli chiese: «Vuoi salire
in stanza?»
A Travis andò di traverso il
fumo. Cominciò a tossire e sputacchiare rumorosamente e,
quando si riprese,
sentiva di avere la faccia paonazza e, probabilmente, non solo per la
fatica di
prendere fiato.
Michael non aveva fatto una
piega, la sua espressione era rimasta impassibile e, anzi, si era
già
tranquillamente finito la sigaretta. Lo osservava in attesa di una
risposta.
Travis distolse lo sguardo in
tutta fretta e prese ad agitarsi sul posto. «Non posso, io-
devo tornare a
lavorare» balbettò. Non riusciva a tenere le mani
ferme, si tormentava gli
occhi e spostava il peso da una gamba all’altra come se
stesse saltellando. Alla
fine, prese un respiro e si impose di darsi una calmata, ma
evitò di alzare
nuovamente lo sguardo su Michael: sentiva di non potercela fare, che
l’imbarazzo
lo stava avvolgendo come una coperta pesante in piena estate.
«Devo davvero
andare, mi dispiace» mormorò «Il
tassametro… non può stare fermo troppo a
lungo»
«Certo, capisco»
Travis no, non capiva: aveva
davvero mandato i segnali sbagliati? E dire che fino a pochi minuti
prima era
lui che non voleva rischiare che Michael pensasse fosse intenzionato a
sedurlo.
Forse si stava facendo troppe paranoie. Magari voleva solamente
invitarlo a
bere qualcosa.
Si sforzò di alzare di nuovo
gli occhi sull’uomo. Si sorprese nel vedere che anche lui
aveva abbassato lo
sguardo. Per caso lo aveva offeso? Travis inspirò:
«Però può offrirmi qualcosa
la prossima volta che ci incontriamo in quel diner».
Vide Michael sorridere e
annuire. Questa volta, tornarono a guardarsi negli occhi. Travis
deglutì e sentì
il cuore battere all’impazzata nella propria cassa toracica.
«Perché no?» fu la
risposta
dell’italiano. «Spero di rivederla presto, allora,
signor Bickle».
Quindi sulla patente aveva
letto anche il cognome, oltre che il nome. Travis si
domandò, forse un po’
stupidamente, se questo significasse qualcosa.
Il tassista non scostò lo
sguardo dalla sua figura snella fino a quando non scomparve oltre la
porta
dell’albergo. Velocemente, zompò di nuovo al
volante dell’auto e ripartì sfrecciando
per le strade di Brooklyn. Si passò una mano sul volto e
constatò quanto fosse
accaldato e imperlato di sudore. Un turbinio di domande e altri
pensieri si
fecero strada nella sua testa, ma Travis cercò in tutti i
modi di non cedervi,
di pensare ad altro. Più avanti, vide un uomo che gli faceva
segno di fermarsi.
Il piccolo taxi giallo accostò e fu quando si fu fermato per
far salire il
prossimo passeggero che Travis notò qualcosa sul sedile
accanto al suo, dove
teneva la tabella dei prezzi e la scatola con i contanti.
C’erano una sigaretta
e un fazzoletto di carta piegato su cui vi era scritto qualcosa con un
pennarello. Travis lo afferrò, mentre il suo nuovo cliente
biascicava il nome
della prossima destinazione, e lo spiegò per rivelare una
serie di numeri
seguiti da un nome: Mike Corleone.
«Mi ha sentito?»
abbaiò l’uomo
dal sedile posteriore. Travis non rispose: si limitò a fare
un cenno col capo e
a spostare nervosamente lo specchietto retrovisore. Le luci al neon di
un’insegna
balenarono per un attimo nel riflesso.
Il suo passeggero grugnì:
«Allora
si muova, non ho tutta la notte».
Travis si inumidì le labbra,
incollò le mani al volante e spinse
sull’acceleratore, ripartendo a tutta
velocità. Brooklyn era quasi completamente deserta a
quell’ora. A chiunque
avrebbe fatto paura, specialmente con un uomo di mezza età
come ospite del
proprio sedile posteriore, sporco e che parlottava tra sé e
sé come in preda a
una nevrosi.
Con
un gesto fulmineo, Travis
mise il fazzoletto nella tasca interna del proprio giubbotto e vi
posò una mano
sopra. Il cuore batteva ancora forte sotto tutta quella
stoffa.
______________________________
Ed
eccoci al nuovo aggiornamento! In ritardo di una giornata rispetto al
previsto, ma rispetto alla mia solita lentezza é un vero e
proprio traguardo! Così facendo, magari, conto di portare
avanti regolarmente sia questa storia che Bridge Over Troubled Water
(che sarà il prossimo aggiornamento).
Ringrazio
vivamente chi ha letto e apprezzato il primo capitolo e chi ha inserito
la storia nelle Seguite. Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate con
una recensione, trovo estremamente utile ricevere pareri altrui e
critiche costruttive e mi farebbe un immenso piacere <3
A
presto, spero, con il terzo capitolo. Vedremo cosa combinerà
il nostro Travis adesso che quel furbacchione di Mike non ha
decisamente perso altro tempo per farsi avanti con lui.
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Capitolo 3 *** Capitolo III - Annegare ***
III.
Annegare
Quando quella mattina finì il
turno, Travis passò a prendere la colazione e,
anziché al solito cinema porno,
decise di recarsi direttamente a casa. Viveva in uno squallido
monolocale non
troppo distante dalla rimessa dei tassì, così
evitava di farsi un tragitto in
metropolitana per andare al lavoro.
Entrando in casa, storse il
naso per l’odore nauseabondo delle decine di mazzi di fiori
che tappezzavano
gli angoli del minuscolo appartamento. Li aveva comprati per Betsy, la
donna
che aveva offeso la prima volta che erano usciti insieme. Le mandava un
mazzo
al giorno, nella speranza che lei capisse quanto fosse desolato, ma
finivano
sempre per tornare indietro. Avrebbe dovuto decidersi a bruciarli,
prima o poi,
pensò. Lanciò sul tavolo il sacchetto con dentro
la colazione e si tolse il
giubbotto, che cominciava a farsi effettivamente pesante per quel
periodo
dell’anno, appendendolo a una gruccia accanto alla porta.
Travis prese posto nell’unica
sedia al tavolo, si sbottonò la camicia e aprì
l’involucro marrone che
conteneva una scatola con la colazione, posate di plastica e una
lattina di
Coca-Cola. Stappò la bibita e bevve un paio di lunghe
sorsate.
Mentre mangiava, rifletteva
sugli eventi accaduti quella notte. Pensò a Michael e la
prima cosa che si
domandò Travis fu se, per caso, non accettando quella
proposta dell’italiano,
avesse dato l’impressione di non voler avere più a
che fare con lui. Che lo
avesse completamente liquidato. Non era così. In cuor suo,
Travis sperava
ancora di rivederlo, di chiacchierare con lui davanti a una semplice
tazza di
caffè. In amicizia. Dio solo sapeva quanto avesse bisogno di
un amico e, ne era
certo, da come aveva parlato quella notte nel suo taxi, anche Michael
ne aveva
bisogno.
Mentre masticava una fetta di
salsiccia, Travis lanciò un’occhiata al suo
giubbotto dove ancora conservava il
fazzoletto con il numero di telefono dell’italiano,
domandandosi se avrebbe
fatto bene a chiamarlo. Certo lui sembrava sperarci, ma era anche vero
che
glielo aveva lasciato prima di scendere dall’autovettura e,
di conseguenza,
prima di invitarlo a salire in una camera d’albergo insieme a
lui a fare chissà
cosa.
Il ricordo di quell’offerta
fece avvampare Travis che avvertì all’istante il
bisogno di bere. Finì la
bibita in un paio di sorsi ma si portò comunque la lattina
ancora fresca contro
la guancia accaldata, sospirando di sollievo. Non era quella proposta
che lo
faceva dannare, ma la consapevolezza che avrebbe voluto accettare. Che,
con
ogni probabilità, lo avrebbe fatto davvero, se non avesse
avuto davanti a sé
ancora mezzo turno di lavoro. Ammetterlo gli costava una fatica
disumana,
probabilmente perché si trattava di una verità, o
mezza tale, che doveva
fronteggiare lui nei confronti di sé stesso.
La lattina rossa si
accartocciò nel suo pugno saldo, prima di venire scagliata
dalla parte opposta
della stanza. Dannazione, ma che gli prendeva? Lui non era
così. Non era
attratto da Michael, di questo era certo, non poteva esserlo, era
assurdo. Si
sentiva affascinato da lui? Assolutamente sì, ma non era una
questione di
attrazione fisica: era lui ad essere affascinante, nel suo portamento,
nel modo
di vestire, nel suo parlare colto e istruito che Travis sapeva di non
essere in
grado di uguagliare a causa della sua misera formazione scolastica. Si
rese
conto solo in quel momento di nutrire uno sciocco sentimento di gelosia
nei
confronti di quell’uomo che, probabilmente, era fresco di una
laurea al college,
magari qualche università prestigiosa, e adesso si
apprestava a diventare un
potente uomo di affari come era probabilmente già stato suo
padre prima di lui.
Fu un lampo d’invidia fugace e travolgente che Travis
represse subito in
silenzio.
Era così. Si trattava solo di
una forma di ammirazione, nient’altro. Doveva esserlo.
Una volta finito di mangiare,
Travis sospirò e si alzò per gettare via i
rifiuti. Attraversò poi la stanza
intenzionato a buttarsi sul letto, ma si fermò di fronte
allo specchio a figura
intera appeso alla parete color tuorlo d’uovo. Studiando il
suo riflesso nello
specchio, si tolse la camicia e rimase a fissare il proprio petto nudo.
Si
passò una mano sull’addome, risalendo piano sui
pettorali. Non aveva mai notato
di essere così magro, così smunto e
insignificante. Era sempre stato uno dei
soldati più mingherlini del suo plotone, circondato da
uomini grossi e dal
fisico palestrato, un fisico che Travis sapeva non sarebbe mai stato in
grado
di ottenere a causa della sua fisionomia e del suo metabolismo troppo
veloce.
Di tutta quella massa non ne avrebbe mai avuta. Ma
l’addestramento militare lo
aveva portato ad avere almeno una buona serie di muscoli, duri e tesi
sotto la
pelle. Adesso gli sembrava di avere solo dei tessuti di carne flaccida
attaccati alle ossa. Si promise di tornare a fare del movimento fisico
il prima
possibile e di migliorare la propria alimentazione.
Travis si tolse gli
stivaletti marroni che indossava, slacciò la fibbia della
cintura e si sfilò i
jeans, rimanendo solo in biancheria intima, in piedi davanti allo
specchio. Si
guardò le gambe che gli parevano più lunghe del
normale, ossute, con le ginocchia
nodose. Unì i piedi e vide che nel punto in cui le cosce
avrebbero dovuto quasi
toccarsi, ci sarebbe passata tranquillamente quasi tutta la sua mano.
Per un
attimo immaginò che fosse una delle mani candide e ben
curate di Betsy a
insinuarsi in mezzo alle proprie gambe, eccitandolo al tocco della
propria
pelle nuda. Travis scosse la testa, scacciando quel pensiero e si
sedette sulla
sponda del letto, prendendosi la testa tra le mani: Betsy non era
così. Non si
era mai nemmeno permesso di pensare che fosse quel genere di donna, non
era
questo che aveva cercato di farle intendere invitandola a vedere quel
tipo di
film in quel tipo di cinema. Voleva solo passare del tempo con lei.
Conoscerla
e farsi conoscere, non gli sarebbe mai nemmeno passato per
l’anticamera del
cervello di mancarle di rispetto, era solo uno stupido film,
dannazione.
Sospirò e decise di sdraiarsi
sotto le lenzuola e cercare di prendere un po’ di sonno. In
posizione fetale,
Travis si tirò la coperta
fin sopra la
testa, facendosi buio contro i raggi del sole mattutino che filtravano
attraverso le imposte. Chiuse gli occhi e, per qualche bizzarro motivo,
non fu
il volto angelico e incorniciato da ciocche dorate di Betsy a balenare
nella
propria mente, ma quello scuro e levigato di Michael, con i capelli
corvini
tirati all’indietro e gli occhi bassi persi in
chissà quale pensiero.
Il suo sonno fu, come sempre,
alternato a fasi di veglia di almeno mezz’ora ciascuna e,
quando si fecero le
quattro del pomeriggio, Travis decise che aveva poltrito a sufficienza.
Si fece
una doccia di tutta fretta, si rivestì cambiando la camicia
e mangiò una mela
al volo. Mentre masticava, ponderò un po’ su
quello che avrebbe potuto fare per
ammazzare l’ora e mezza di vuoto che aveva prima di andare a
prendere il taxi e
cominciare una nuova e lunga Odissea tra i gironi infernali della
Grande Mela. I
suoi occhi restarono fissi sul proprio giaccone fin troppo a lungo e,
alla
fine, si decise a estrarre dalla tasca interna il fazzoletto con il
numero di
Michael scritto sopra. Non aveva il telefono
nell’appartamento, quindi afferrò
le chiavi, uscì dalla porta e scese le scale fino
all’ingresso del proprio
condominio, dove compose il numero al telefono pubblico attaccato al
muro.
Si appoggiò contro la parete
ruvida e rimase in attesa con la cornetta premuta tra
l’orecchio e l’incavo
della spalla. Non fece in tempo a domandarsi cosa mai avrebbe potuto
dire che
qualcuno all’altro capo del telefono rispose dopo un paio di
squilli: «Pronto?»
Travis s’irrigidì
nell’udire
la voce nel ricevitore. Non era Michael. Apparteneva decisamente a un
altro
uomo, uno sconosciuto dalla leggera inflessione irlandese. Per un
momento, il
ragazzo temette di aver sbagliato numero, o peggio, che
l’italiano gli avesse
giocato uno scherzo, lo avesse preso in giro.
«Pronto?» ripeté
l’altro uomo
nella cornetta e Travis si costrinse a rispondere, più per
cortesia che per
altro perché, se fosse stato per lui, avrebbe già
buttato giù la chiamata. «Ehm
–cerco Michael? Michael Corleone?»
«Mi dispiace, è andato via
un’oretta
fa. Non tornerà in ufficio prima di domani. Ma se vuole
lasciare un messaggio
posso tranquillamente farglielo arrivare entro un paio
d’ore».
Travis si morse il labbro
inferiore. Dannazione, lo aveva mancato di poco.
«Be’, non è
particolarmente
urgente, in realtà» bofonchiò,
domandandosi inconsciamente chi fosse quel tipo
che sembrava frequentare l’italiano anche oltre gli orari
lavorativi. «Gli può
solo dire che ho telefonato? Purtroppo non ho un telefono privato sul
quale
farmi richiamare»
«Glielo dirò
senz’altro» Il
tono dell’altro uomo era quieto ed estremamente educato.
Travis pensò che
avrebbe potuto leggergli la propria sentenza di morte e lui lo avrebbe
trovato
comunque rilassante. «Il suo nome?»
«Travis. Travis Bickle»
«Molto bene. Se non
c’è altro,
le auguro una buona serata, signor Bickle»
«Sì. Arrivederci»
Travis riagganciò
involontariamente la cornetta con una tale forza che temette che il
telefono
potesse staccarsi dal muro. Alla fine, decise di uscire di casa e farsi
una
passeggiata nei dintorni prima di iniziare il turno.
Quando quella notte entrò nel
diner, non gli ci volle molto per rendersi conto che Michael non era
ancora
arrivato. Travis si unì al suo solito trio di colleghi, che
quella sera avevano
preso posto al tavolo lungo vicino alla porta, di fronte alla vetrata.
Scivolò sulla sedia accanto
al Mago e di fronte a Charlie T., che lo salutò con il suo
solito “Ehi, cowboy”
al quale Travis rispose con un cenno della testa. Dollaro sventolava un
foglio
sotto il naso del Mago sostenendo che una famosa attrice fosse salita
sul suo
taxi e gli avesse firmato quel grosso pezzo di carta.
L’altro, tuttavia, lo
prendeva in giro ribattendo che sicuramente fosse un falso, che una
star di
quel calibro non si sarebbe mai sognata di montare sul retro di un taxi
a
quell’ora della notte in mezzo alle puttane e ai drogati e
che Dollaro fosse
così disperato per i suoi debiti che avrebbe potuto far
passare qualsiasi lembo
di carta igienica sporca come il pezzo che aveva pulito il culo di Liza
Minelli
e intascarci della grana. Subito Dollaro sembrò voler
controbattere, ma ammise
poi che come idea non sarebbe stata poi così male.
Il Mago scosse la testa,
lasciandolo al suo destino, e si volse verso Travis, a cui diede
un’amichevole
pacca sulla spalla. «Non hai ancora preso il tuo
caffè» osservò.
Travis scosse la testa: «Non
ne ho molta voglia, adesso»
«Diamine, ragazzo, che ti
prende ultimamente? Sembri davvero strano. Insomma, più
strano del solito».
Travis soffocò l’impulso di
liquidare il collega con una smorfia: quindi era questa la
considerazione che
gli altri avevano di lui? Che fosse strano, bizzarro?
Vide Dollaro distogliere lo
sguardo dal presunto autografo, ora in mano a Charlie T. per uno studio
più
approfondito, e sollevarlo su di lui. «Senti,
Travis» mormorò e nei suoi occhi
baluginò per un attimo un riflesso inquietante, come se
fossero fatti di vetro
«Anche a te capiterà gente pericolosa, non
é così?»
«Eh»
«Ce l’hai un pezzo di
ferro?»
Travis scosse la testa:
l’idea di impugnare nuovamente una pistola dopo tre anni che
si era abituato a
non imbracciare armi, non gli andava così tanto a genio.
«Ne vuoi una?»
continuò
Dollaro «Conosco un rappresentante che ti farebbe un buon
prezzo. Sai com’è,
bisogna stare accorti di questi tempi, soprattutto con il lavoro che
facciamo»
«No, ti ringrazio»
tagliò
corto Travis e quando udì spalancarsi la porta del
ristorante, voltò la testa
così di scatto che temette che il proprio collo potesse
spezzarsi. Poté giurare
di sentire il proprio stomaco attorcigliarsi quando vide la figura
snella di
Michael entrare nel locale con quella sua consueta aria solenne. Il
completo
nero che indossava in contrasto con il neon dell’ambiente
sembrava farlo
risplendere di luce propria, come un Dio tra i mortali. Travis avrebbe
volentieri strisciato ai suoi piedi e baciato quelle scarpe di vernice
dall’aria estremamente costosa. Ma si costrinse a mantenere
una certa dignità e
ricambiare il sorriso cortese che l’italiano rivolgeva a lui
e agli altri tre
tassisti.
«Buonasera» salutò
Michael e,
attorno a sé, udì i suoi colleghi biascicare un
«’sera» di rituale.
Quando i suoi occhi
indugiarono nuovamente su Travis, questi si alzò
automaticamente in piedi e un
po’ si gongolò di essere in vantaggio di qualche
centimetro rispetto a lui. Gli
piaceva come adesso era Michael a osservarlo dal basso verso
l’altro, gli
piaceva come il sorriso dalle sue labbra non si fosse dissolto. Gli
piaceva
come fossero ancora più vicini l’uno
all’altro rispetto alla notte precedente.
Gli piaceva meno rendersi conto di sentirsi totalmente impotente e
incapace di
rispondere delle proprie azioni quando si ritrovava ad aver a che fare
con
quell’uomo. Non gli piaceva decisamente la consapevolezza che
Michael avrebbe
potuto tranquillamente fargli un’altra proposta come quella
della scorsa serata
e che sarebbe stata un’offerta che non avrebbe potuto
rifiutare. Che non ci
sarebbe riuscito.
Quando Michael parlò, la sua
voce roca era pacata ma graffiante: «Credo di doverti un
caffè, se non sbaglio».
Travis annuì, avvertendo una
serie di brividi scorrergli per tutta la spina dorsale e, quando
Michael si
voltò per fargli strada verso un tavolo più
avanti, lo seguì sentendosi come un
profeta scelto tra milioni di anime mortali. Udì i mormori
indiscreti del
magico trio alle proprie spalle e si decise a ignorarli.
I due giovani presero posto
su due sgabelli al bancone, in modo da ordinare più
sbrigativamente. Michael
comandò due caffè e due fette di torta alla
melassa. «Devi assolutamente
provarla» si giustificò e Travis annuì
sorridente, fidandosi del suo giudizio.
Una volta che furono serviti,
vide Michael lanciare uno sguardo alla sua destra, oltre la spalla di
Travis,
per poi abbassare nuovamente gli occhi e afferrare la piccola brocca di
panna
liquida in mezzo alle tazze.
«I tuoi amichetti non
sembrano troppo felici di vederci insieme»
osservò, vuotandosi la panna. Quando
la offrì a Travis, vide che sulle labbra gli si era formato
un mezzo ghigno
divertito. Il tassista ricambiò l’espressione e lo
lasciò vuotare la panna
anche nella sua bevanda.
«Te l’ho detto, non sono miei
amici» rispose, prima di attaccare la torta con la forchetta
«mi piace parlare
con te».
Pensò subito che forse, con
quella frase, aveva nuovamente azzardato troppo, perciò si
affrettò a riempirsi
la bocca con il dolce: Michael aveva ragione, il sapore era
assolutamente
squisito.
Accanto a lui, l’italiano
aveva preso a girare il cucchiaino nel liquido marrone scuro con la sua
solita
aria pensierosa, forse anche leggermente sconsolata. «Mi fa
piacere» sospirò
«Dopo la pessima figura di ieri sera, credevo che non avresti
mai più voluto
avere a che fare con me».
Dentro di sé, Travis si
maledisse per essere scappato in quel modo come un vigliacco.
«Ma no» mormorò, la
voce
leggermente tremolante. Si schiarì la gola e prese a
punzecchiare lo strato più
esterno della torta con la forchetta. «Non fa niente,
davvero, è solo –io non
sono… insomma…»
Non era cosa? Cosa cercava di
negare così disperatamente da non riuscirci nemmeno? Non era un finocchio? Certo che non lo
era, lo sapeva
perfettamente. Gli piacevano le donne, per quanto lui non piacesse mai
a loro;
gli piaceva Betsy, si era innamorato di lei, lo sapeva, se lo sentiva. Non era attratto da Michael? No, era affascinato da Michael, una cosa
diversa. Travis non poteva essere attratto da lui perché,
come appena appurato,
non era un finocchio. Fine. Era pura e semplice questione di logica.
«Credevo fossi sposato»
osservò Travis ed era consapevole di quanto suonasse
ridicola come scusa perché
sapeva che non voleva dire niente. Raramente le persone si prendevano
l’impegno
di mantenere la promessa del matrimonio, perché giurare
davanti a Dio era più semplice
che scendere concretamente nei fatti. Quante volte aveva dato passaggi
a uomini
fedifraghi con la moglie a casa e la puttana preferita sottobraccio,
quante
volte aveva udito, sul sedile posteriore del proprio tassì,
il lamento di
mariti traditi che pianificavano aggressioni alle proprie donne, maschi
che si
sposavano ma poi preferivano uscire per farsi fottere da altri maschi,
quante
volte aveva sentito parlare di matrimoni andati a male per colpa di
questo o
quell’altro motivo.
«Lo ero, infatti»
confermò
Michael, tagliando un pezzo della propria torta «ma non lo
sono più, purtroppo.
Mia moglie é morta in Sicilia».
Travis si sentì un verme e
desiderò scomparire dalla faccia della Terra per aver
provato a pensare anche
solo per un momento che Michael si fosse macchiato di adulterio, per
averlo
paragonato ai fenomeni da baraccone che incontrava ogni notte.
«Mi dispiace,
davvero» farfugliò, tenendo gli occhi sul proprio
piatto, terribilmente
imbarazzato «non intendevo –mi dispiace»
«Ehi, va tutto bene»
Travis sentì la mano di
Michael posarsi sul suo ginocchio ed era un gesto così
confortante che lo
lasciò fare. Il suo pollice esercitava una leggerissima
pressione. Il giovane
si domandò se tutti gli italiani cercassero così
tanto il contatto fisico tra
di loro o se fosse un comportamento che Michael aveva deciso di
riservare solo
a lui. Il pensiero lo imbarazzava e lo lusingava al tempo stesso.
Michael bevve un altro sorso
di caffè, ma non mosse la mano da lì.
«Non crucciarti, non potevi saperlo se
non te lo avevo detto».
Travis decise di cambiare
discorso e bevve finalmente anche lui il proprio caffè
fumante. «Ti ho telefonato,
oggi» disse e Michael annuì:
«Già, Tom me lo ha detto. Di solito passo in
ufficio nel primo pomeriggio, mi dispiace non essere stato reperibile,
oggi.
Speravo di incontrarti qui, stasera».
Il piccolo Travis nelle sue
interiora si gongolava di piacere: quindi ci sperava. Sperava di
vederlo, di
poter parlare con lui. Gradiva sul serio la sua compagnia, non lo
evitava a
prescindere, non lo considerava strano come facevano i suoi colleghi,
non lo
prendeva in giro.
Il tassista ingoiò un’ultima
fetta di torta e prese un altro lungo, sorso di caffè,
riflettendo su quello
che stava per fare. Era un’idea che gli frullava in testa
già da quella mattina
e che, a dirla tutta, pensava di mettere in atto già quando
aveva telefonato,
ma era stato impossibilitato a causa di forze maggiori. Si domandava se
avrebbe
fatto bene, se per caso Michael avrebbe frainteso. Alla fine, si decise
e tirò
un lungo sospiro prima di chiedere: «Vuoi venire a vedere un
film con me?»
Sapeva che Vedere un film
era richiesta per un eventuale
appuntamento, almeno con le donne, almeno era quello che aveva
intenzione di
lasciar trasparire quando aveva invitato Betsy al cinema. Ma a lui non
stava
proponendo un appuntamento, solo una serata tra amici, non diverso da
una
bevuta al bar. O, perlomeno, era questo che intendeva Travis: sarebbe
stato lo
stesso per Michael? Qualunque fosse la risposta, sperò
comunque che accettasse.
Sentirlo parlare di cinema con una certa passione lo aveva assai
incuriosito.
Michael ridacchiò e ritrasse
la propria mano dal ginocchio di Travis. «I film che
piacciono a te o quelli
che piacciono a me?» domandò.
Anche Travis sorrise e
abbassò lo sguardo, a metà tra il divertito e
l’imbarazzato. «I tuoi,
decisamente» rispose e prese un’altra sorsata della
sua bevanda calda. «Si vede
che te ne intendi decisamente più di me, quindi ti lascio
decidere».
«Stasera immagino che tu stia
lavorando, vero?»
Il tassista annuì,
risollevando gli occhi sull’italiano: «Purtroppo
sì. Ma domani e dopodomani
sono i miei giorni liberi».
Suonava come un appuntamento.
Non lo era.
Michael si grattò il mento,
pensieroso. «Passa domani in ufficio alle sette»
disse «è l’orario di chiusura.
Poi andiamo insieme. Sai dove si trova?»
Travis annuì: ci era passato
davanti un paio di volte con il taxi e ci si arrivava facilmente anche
con la metropolitana.
Lanciò un’occhiata all’orologio da polso
e storse il naso quando vide che
mancavano dieci minuti alla fine della sua pausa. Michael
notò il suo
disappunto: «Si torna a sgobbare?»
Travis si passò una mano sul
volto e fece in modo di finire il suo caffè in un paio di
sorsi. «Odio questo
lavoro» sospirò e si rese conto che era la prima
volta che ne parlava
apertamente con qualcuno. «La gente di notte si trasforma in
animali primitivi.
Le persone in questa cità… sono pazze! Anzi no,
sono proprio cattive. L’altra
notte mi è capitato uno che mi ha indicato la figura di sua
moglie attraverso
la finestra di un palazzo. Non la finiva più di farneticare
su come da lì a
qualche minuto sarebbe salito e l’avrebbe uccisa. Continuava
a dire che dovrei
vedere come una 44 Magnum riduce la faccia e la vagina di una
donna».
«Cristo Santo, Travis»
«E sai qual è la cosa
peggiore? Che non potevo fare niente. Cosa avrei potuto fare Mike, uh?
Andare
alla polizia? Quelli non fanno mai niente, aspettano che accada il
fattaccio
per alzare il culo dal divano, e comunque non avrei fatto in tempo.
Urlargli
addosso che era pazzo, tentare di fermarlo? Probabilmente ce
l’aveva davvero
una pistola di quel calibro sotto la giacca, mentre io ero
completamente
disarmato».
Frenò l’impulso di guardare
in direzione di Dollaro e si concentrò invece sulla domanda
che gli porse Mike:
«Si sa che cos’è successo alla donna? I
giornali hanno riportato qualcosa?»
Travis si strinse nelle
spalle. «Non leggo molto i giornali» ammise
«guardo il notiziario ogni tanto,
ma poi tutte le notizie sembrano sempre così uguali tra
loro. Ma mi sono
sentito così… impotente».
Vide Michael puntare lo
sguardo dritto davanti a sé, come perso nel vuoto.
«So cosa vuoi dire» sospirò
e si mosse sulla sedia, cercando di cambiare discorso.
«Senti, mi
accompagneresti in un posto? Nessuna Magnum addosso,
garantito».
Il giovane tassista annuì e
scese dal proprio sgabello. «Vado un attimo in
bagno».
Mentre si svuotava la vescica,
venne raggiunto dal Mago all’orinatoio di fianco al suo:
«Ehi, ma che stai
combinando?»
Travis voltò il capo in
direzione dell’omone e sollevò un sopracciglio:
«Sto pisciando?»
«Non fare il finto tonto, hai
capito perfettamente cosa intendo»
«E invece no. Ti prego, se
hai un problema dimmelo, non parlare per indovinelli»
Il Mago si appoggiò
all’orinatoio di ceramica bianca invasa da scritte oscene in
pennarello
indelebile e puntò su di lui uno sguardo accusatore che
Travis sostenne di
gusto.
«Te la fai con quel damerino,
adesso?» chiese risoluto «Non senti cosa dicono
Dollaro e Charlie, di lui?»
Travis distolse lo sguardo
dal collega e scosse la testa con aria esasperata. «Ma
perché dovrei dare retta
a quello che dicono loro?» ribatté, mantenendo lo
sguardo fisso sul muro di
mattoni davanti a sé «É salito ieri sul
mio taxi. Abbiamo chiacchierato e l’ho
trovato piacevole, tutto qui». Ovviamente, omise la parte in
cui Michael lo
aveva invitato a prendere una stanza insieme. Ma anche così
il Mago non
sembrava convinto: «Per questo ti sei fiondato fuori dalla
porta a tutta
velocità, ieri notte? Quando ti mancava ancora un quarto
d’ora di pausa?»
«Oddio, ma che ti importa?»
Questa volta Travis aveva sbottato. Si tirò su la zip e
camminò fino ai
lavandini. L’altro uomo gli trotterellò dietro
come una mamma chioccia.
«Senti, lo so che non sono
affari miei di come gestisci i tuoi orari o in generale di quello che
fai nel
tuo tempo libero» tentò di giustificarsi il Mago.
«Ecco, esatto: non ti deve
interessare»
«Tantomeno mi importa di chi
ti porti a letto»
«Non mi porto a letto proprio
nessuno»
Travis era infastidito e, a
dirla tutta, parecchio sorpreso dall’insolenza che
quell’uomo stava mostrando
nei suoi confronti. Ne era deluso: aveva sempre stimato il Mago, lo
aveva
sempre visto come un punto di riferimento per via della molta
più esperienza
dall’alto di un uomo di una certa età; gli aveva
infuso una certa sicurezza
quando aveva iniziato il lavoro, aveva fatto in modo che non si
sentisse
spaesato perché nuovo. Evidentemente, aveva fatto bene a non
annoverarlo nella
sua schiera di amicizie più strette. Ma il rispetto
c’era sempre stato, da
parte di entrambi.
«Mi sto solo preoccupando per
te!»
Travis sentì le mani forti
dell’uomo sulle sue spalle che cercavano di convincerlo a
voltarsi. Assecondò il
gesto, trovandosi a fronteggiarlo: il Mago era un po’
più alto di lui,
decisamente più largo e muscoloso e i capelli brizzolati gli
crescevano solo ai
lati della testa, lasciando il capo pelato e sudaticcio. I piccoli
occhi
azzurri ravvicinati incontrarono quelli scuri del più
giovane e Travis vi lesse
una certa apprensione. Evidentemente, il Mago pensò di aver
esagerato perché mollò
la presa dalle spalle del ragazzo e cercò di sistemargli la
camicia a quadri.
«Perdonami, figliolo, non intendevo
essere brusco» si scusò il Mago «cerco
solo di dirti –stai, attento, okay? Se le
persone cominciassero a pensare…. Potresti farti
male».
Non era stupido, Travis,
capiva perfettamente quello che il collega stava cercando di dirgli:
che se
qualcuno di poco raccomandabile avesse mai potuto sospettare che fosse
attratto
dagli uomini, avrebbero cominciato a escluderlo, avrebbe potuto essere
licenziato o massacrato di botte. Sapeva che, in un certo senso, il
Mago era in
buona fede nei suoi confronti, ma aveva avvertito la sua preoccupazione
come un’invasione
del suo spazio personale, del suo privato e, soprattutto, della sua
virilità.
Erano tutte stronzate, tutte ansie inutili perché Travis non era così.
Strinse i pugni bagnati,
avvertendo le unghie penetrargli la carne, e se non avesse avuto quel
briciolo
di autocontrollo, probabilmente un cazzotto ben assestato
all’uomo più anziano
non glielo avrebbe risparmiato nessuno.
Invece si limitò a ringhiare
tra i denti «La mia pausa è finita»,
girò sui tacchi e attraversò il locale a
passi pesanti, avvertendo la rabbia ribollire dentro di lui. Quando
arrivò alla
porta, lanciò uno sguardo carico d’odio a Dollaro
e Charlie T, quest’ultimo che
se la rideva di gusto, e uscì fuori sul marciapiede. Vide
Michael più avanti,
appoggiato al suo taxi, che gettava una sigaretta ai propri piedi e si
raddrizzava. Gli sorrise gentilmente, ma quando Travis si
avvicinò, l’espressione
mutò in interrogatoria: «Che ti prende?»
Evidentemente la faccia del
giovane tradiva tutta la propria collera. Travis stava per rispondere,
ma
avvertiva la fronte farsi sempre più sudata e il cuore che
cominciava a battere
all’impazzata. Gli sembrò come se la gola gli si
chiudesse, mozzandogli il
respiro e, quando allungò una mano per aprire la portiera
del guidatore, ebbe
un forte giramento di testa, barcollò e cadde a terra.
Michael venne subito in
suo aiuto, spaventato, e gli sbottonò il colletto della
camicia, cercando di
fargli aria. «Travis! Travis, guardami!»
E lo guardava, Travis, ma gli
appariva sfocato attraverso il velo di lacrime che cominciava a
sgorgare dagli
angoli dei propri occhi. Teneva la bocca spalancata e ansimava come un
pesce
fuor d’acqua, cercando disperatamente di far entrare aria nei
polmoni.
Sentì le mani di Michael sul
suo volto e la sua voce gli suonava ovattata, come se si trovasse in
un’altra
stanza. «Chiudi la bocca. Non cercare di respirare,
trattieni!» diceva.
Trattenere il fiato? Stava
praticamente morendo!
«Fa’ come ti dico!»
Travis provò a eseguire.
Chiuse la bocca, stringendo le labbra, e gli parve di affogare. Nella
testa gli
sembrava di avere un martello che picchiava forte contro le proprie
meningi. Il
cuore sembrava volergli esplodere nel petto. Si concentrò
sul proprio battito
irregolare. Ta-tunf, ta-tunf,
ta-tunf, forte contro la propria
cassa toracica. Alla fine, non ce
la fece più, riaprì la bocca ed espirò
sia da lì che dal naso. Quando inspirò
nuovamente, sentì l’aria della notte entrare con
prepotenza dentro ai polmoni.
Stava sudando copiosamente, la testa gli girava ancora, le vertigini
gli davano
la nausea, ma il battito cardiaco stava lentamente cominciando a
riprendere un
ritmo normale.
Davanti a sé, a pochi
centimetri dal proprio viso, c’era Michael, accucciato sul
marciapiede e ancora
con le mani sulle sue guance sudate. Probabilmente gli aveva appena
salvato la
vita.
«Va meglio?» gli
domandò,
tirando via una mano dal suo volto per afferrargli il polso sinistro.
«Sembra
che tu ti stia calmando».
Travis annuì, spostato, e si
schiarì la gola che gli bruciava. Tentò di dire
qualcosa, ma ancora non ci
riusciva.
Michael lo aiutò a
sollevarsi. Si mise il braccio destro di Travis attorno alle spalle,
sostenendolo con il suo corpo, e gli circondò i fianchi con
il suo arto
sinistro. Il ragazzo si lasciò trascinare lungo il
marciapiede, sotto lo
sguardo incuriosito di alcune persone con i volti illuminati di rosso
dal neon
delle insegne. Michael fermò un taxi di servizio e lo
aiutò a montare sul
sedile posteriore insieme a lui.
«All’ospedale più
vicino, per
favore, è urgente» sentì Michael
ordinare al tassista e quello partì.
Faceva strano trovarsi quasi
del tutto sdraiato sul sedile posteriore di un taxi, ma non tanto
quanto essere
appoggiato contro il petto di Michael, con il suo braccio attorno.
Tuttavia, il
fatto che fosse strano non lo rendeva meno piacevole. Travis
sollevò una mano e
trovò quella dell’altro che ricadeva appena sopra
la sua spalla. Le loro dita
si intrecciarono. Si domandò se quel tassista fosse un
occhio di falco tanto
quanto lui, se avesse intravisto qualcosa, se per caso lo conoscesse.
«Ho avuto un attacco
d’asma?»
farfugliò Travis, la voce ancora tremante.
«No» rispose Michael
«hai
avuto un attacco di panico. É meglio portarti
all’ospedale per degli
accertamenti»
Il giovane non replicò. Per
tutto il resto del viaggio, rimasero in silenzio, e le loro mani non
lasciarono
la presa l’uno dell’altro nemmeno per un
attimo.
__________________________
Bonsoir!
Voglio congratularmi con me stessa per essere stata in grado di
aggiornare almeno questa storia nei tempi prestabiliti. Avrei voluto
dare la precedenza a Bridge
Over Troubled Water, dal momento che conta ancora un solo
capitolo, ma questa settimana ho avuto impegni e problemi familiari che
hanno rallentato la scrittura, perciò mi sono ritrovata a
fare una scelta. Ma sono felice perché finalmente si sta
formando un po' di zucchero tra questi due complessati
-perché non pensate che Michael sia meno problematico di
Travis. Be', forse solo un pochetto... Comunque, li shippo a bestia!
Piccola
precisazione: in questo capitolo i protagonisti cominciano a darsi del
"tu" rispetto al "lei" dei capitoli scorsi, ovviamente non sono stata
troppo a pensarci su dal momento che la forma di cortesia nella loro
lingua, l'inglese, non esiste.
Come al solito, vi invito a
lasciare qualsiasi tipo di parere, recensioni critiche sono le
benvenute tanto quanto quelle positive. Grazie anche a chi segue questa
storia in silenzio, un bacione a tutti e al prossimo capitolo (:
|
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Capitolo 4 *** Capitolo IV - Mosse e contromosse ***
IV.
Mosse e
contromosse
Travis mosse il braccio
indolenzito, sollevandolo e riabbassandolo un paio di volte in un gesto
meccanico e tenendo sempre ben premuto sul pezzo di cotone attaccato
all’interno del gomito con un cerotto. Appena arrivati al
pronto soccorso, gli
avevano fatto degli esami del sangue e gli era stato trovato un calo di
zuccheri. Che soffrisse pesantemente di stress era una cosa
già assodata, ma
una chiacchierata con il medico aveva confermato ogni sospetto e gli
aveva
consigliato di stare a riposo per un po’ di tempo.
Così Travis, una volta
congedato, dovette telefonare alla Yellow Cab per prendersi qualche
giorno di malattia.
Il supervisore in carica gli
domandò dove avesse lasciato il taxi e Travis diede
l’indirizzo del diner.
Quello gli assicurò che qualcuno sarebbe passato a prendere
l’auto per
riportarla alla rimessa, lui ringraziò e chiuse la chiamata.
Si voltò verso Michael,
seduto dall’altra su una sedia di plastica
dall’altra parte di quella piccola
sala d’aspetto, accanto a un distributore di bevande calde;
teneva le gambe
elegantemente accavallate e le mani poggiate in grembo, le dita
intrecciate.
Sorrise: «Licenziato?»
Travis storse la bocca in
quello che voleva essere un mezzo sorriso e una mezza smorfia divertita
e
scosse la testa. Attraversò la stanza a piccoli passi e si
sedette di fianco a
lui. L’italiano distese un braccio lungo lo schienale della
sua sedia e Travis
vi si appoggiò leggermente con il collo, reclinando la testa
all’indietro.
«I dottori mi hanno
prescritto una bella dormita e qualche sonnifero per
aiutarmi» sospirò, lo
sguardo fisso sul soffitto bianco sopra di lui.
«Hai proprio l’aria di uno
che ne ha bisogno» osservò la voce acuta di
Michael.
«Ehi, non ti ho ancora
ringraziato»
Travis girò la testa in sua direzione, il collo ancora
appoggiato al suo
braccio, e gli occhi scuri di entrambi si incrociarono gli uni negli
altri.
«Avevo già sofferto di attacchi di panico, ma mai
così forti. Se non fosse
stato per te, probabilmente sarei ancora ad annaspare su quel
marciapiede.»
«Beh, aiutarti mi sembrava il
minimo, visto che ti sei sentito male proprio di fronte a
me.»
«Molti non lo avrebbero
fatto. C’era un sacco di gente lì attorno. Nessuno
di quella feccia avrebbe
mosso un dito per aiutarmi. Le persone non lo fanno più, non
ci provano neanche
ad aiutare gli altri.»
«Sei proprio un misantropo,
te lo hanno mai detto?» ridacchiò Michael e
posò la sua mano destra sul dorso
di quella di Travis «Sei fortunato allora, perché
si dà il caso che io sia
molto bravo ad aiutare le persone.»
Lo era. D’altronde era
l’angelo che scacciava il Male, come ancora una volta
suggeriva il suo nome.
Quel suo altruismo pareva renderlo alla stregua di un qualsiasi
supereroe.
Travis si divertì a fantasticare su quello che avrebbero
potuto fare insieme
per contrastare il putridume che imperversava nella città.
Intervenire contro
le ingiustizie e difendere chi ne aveva bisogno, come quei tizi
mascherati che
aveva visto sulle copertine di qualche fumetto. Ma tenne quei pensieri
per sé,
ritenendoli forse troppo infantili per essere espressi ad alta voce, e
finì
invece per concentrarsi sul tepore della mano di Michael, lo stesso
calore
familiare che gli aveva infuso calma e sicurezza durante il tragitto in
taxi
fino all’ospedale. Gli piacevano le sue mani, delicate e
femminee ma capaci di
una presa salda e vigorosa. Travis si ritrovò a domandarsi
cosa effettivamente
non gli piacesse di Michael e si rese conto di non avere una risposta.
Lo
trovava così… cercò disperatamente di
non pensare all’aggettivo attraente,
ma era stupido continuare a
ignorare il fatto che fosse così: tutto della sua persona
urlava quella parola
e Travis non poteva fare a meno di sottostare a quel magnetismo che
sprigionava, sentendosi attirato verso di lui come una calamita contro
la sua
volontà.
Probabilmente era rimasto in
silenzio e con lo sguardo fisso su quella dannatissima mano per almeno
un paio
di minuti, perché fu Michael a riscuoterlo dai propri
pensieri, spostando
quello stesso arto per dargli un buffetto sotto il mento e attirare la
sua
attenzione: «Ehi, ti sei dissociato?»
Riuscì a malapena a terminare
quella breve frase perché Travis si sporse verso di lui con
tutto il corpo e lo
baciò con foga. Avrebbe voluto dire che il suo cervello
aveva dato
completamente forfait, che non si rendeva conto di cosa stesse facendo,
ma
sarebbe stata una menzogna perché sapeva perfettamente la
verità: era stato
travolto da un’improvvisa voglia di baciarlo, di assaggiare
quelle labbra e lo
aveva fatto prima di cambiare idea. Probabilmente lo desiderava dalla
prima
volta che lo aveva visto, era solamente stato davvero bravo a reprimere
quella
voglia sconveniente che si nascondeva nel profondo delle sue viscere e
che
tentava la scalata ogni qualvolta che vedeva Michael. E ora si trovava
in una
sala d’attesa di un ospedale, a baciare un uomo intrappolato
tra il suo corpo e
un distributore di bevande. Inizialmente, sentì Michael
irrigidirsi a quel
contatto imprevisto. Ma furono pochi secondi appena, una probabile
reazione
all’effetto sorpresa, perché si rilassò
quasi subito e rispose al bacio, più e
più volte, e fu lui a proporre per primo di approfondire e a
volersi insinuare
dentro la bocca di Travis, che dischiuse piano le labbra e accolse la
sua
lingua. Si ritrovò a sospirare contro la bocca
dell’altro, a gemere di piacere
e il pensiero lo fece avvampare. Era passato così tanto
tempo dall’ultima volta
che aveva baciato qualcuno che gli pareva di essersi dimenticato come
si
faceva.
Il suo ultimo bacio con una
ragazza era stato almeno un anno prima di partire per il Vietnam, dove,
a
differenza dei suoi commilitoni, non si era mai permesso di
intrattenere alcun
tipo di rapporto con le povere ragazze del posto sfruttate e vendute
per
soddisfare qualunque pensiero perverso dei soldati americani lontani
dalle loro
donne. Ma baciare un uomo, avvertire il suo corpo premuto contro al
suo, era
un’esperienza totalmente nuova e assolutamente imprevista.
Aveva fantasticato
per mesi di baciare Betsy e mai era avvenuta questa
possibilità. E adesso,
l’oggetto delle sue ossessioni da almeno tre settimane
leccava le sue labbra
con un certo impeto, gli accarezzava una guancia con una mano
parsimoniosa
mentre con l’altra, più decisa, lasciava correre
le dita tra le ciocche scure
dei suoi capelli. E si trattava di un uomo. Era la cosa più
surreale che gli
fosse mai capitata e, ciononostante, Travis sarebbe rimasto
così ancora a
lungo, a bearsi del gusto di Michael, se non avesse udito dei passi
lungo il
corridoio che entravano velocemente nella sala.
Indietreggiò, separandosi da
lui con la stessa velocità con cui gli era praticamente
saltato addosso ed
entrambi si misero dritti e composti (Travis sembrava proprio scattato
sull’attenti) mentre un uomo abbigliato in un completo di
tweed azzurro
inseriva un paio di monetine all’interno del distributore e
selezionava un
caffè.
Travis sentiva di avere il
volto in fiamme, la fronte imperlata di sudore, un po’
perché baciare
richiedeva comunque un certo sforzo, ma soprattutto per
l’ansia di quello che
quell’uomo avrebbe potuto dire se li avesse colti in una
situazione così
compromettente. Con la coda dell’occhio, vide invece che le
labbra di Michael
erano incurvate in un malizioso sorrisetto e, Travis poteva giurarlo,
aveva le
gote tinte di una leggera sfumatura rosea sull’incarnato
olivastro.
La macchinetta finì di
versare il caffè nel contenitore di plastica.
L’uomo in tweed lo afferrò, con
una mano un po’ incerta ma attenta a non rovesciare il
contenuto, e si congedò
a loro con un fugace «Arrivederci» al quale Michael
rispose gentilmente.
Travis sospirò rumorosamente
e si lasciò sprofondare nella sedia, passandosi le mani tra
i capelli. «Mi
dispiace!» esclamò, un po’
più ad alta voce del previsto «Non avrei dovuto
farlo!»
«Perché no?»
domandò Michael
e Travis si chiese per un attimo se il suo tono di voce non avesse una
piccola
nota di delusione. Non ne sarebbe stato sorpreso: aveva già
capito la sera
prima che quel ragazzo nutrisse un certo interesse nei suoi confronti,
non era
stupido. Forse si era spinto un po’ troppo oltre, forse stava
rischiando di
illuderlo in qualche modo, ma non riusciva ad ammetterlo, non riusciva
a
convincersi del tutto di non essere effettivamente attratto fisicamente
da lui.
Ma non riusciva ad ammettere neanche il contrario, così
Travis decise di
rimanere sul vago. Era la cosa migliore da fare, in quei momenti di
confusione.
«Se ci avesse visto…»
mormorò, ma finì per lasciare la frase in sospeso
perché
Michael lo interruppe con uno sbuffo.
«Non stavamo facendo nulla di
illegale» osservò e si mise a rovistare nelle
tasche della giacca alla ricerca
di qualcosa.
«Sai che cosa intendo»
«Perché lo hai fatto,
allora?»
Travis sobbalzò a quella
domanda, mentre l’altro non fece una piega ed estrasse
qualche moneta dalla
giacca. Si alzò in piedi e passò in rassegna la
lista delle bevande calde
disponibili prima di spingere qualche centesimo giù dalla
macchinetta.
Travis distolse lo sguardo:
«Te l’ho detto, è stato impulsivo, non
avrei dovuto. Non so perché l’ho fatto.
Mi dispiace.»
«Io invece penso che tu lo
sappia benissimo e ti sia pure piaciuto. Ti mancano solo le palle per
ammetterlo.»
Travis non rispose ma serrò i
pugni: perché gli stava parlando così?
Perché si era spazientito a quel modo?
Non capiva quanto tutto quello fosse nuovo e confusionario, per lui?
Non ci si
raccapezzava e anziché cercare di comprenderlo, preferiva
giudicarlo.
Come se gli avesse letto nel
pensiero, sentì una mano poggiarsi piano sulla sua spalla e
un piccolo
bicchiere di plastica fumante si intromise nel suo campo visivo.
«Scusami» fece
Michael, adesso tornato al suo solito tono di voce suadente,
«non volevo
perdere le staffe. É solo- mi sembri un po’
confuso, Travis».
Il ragazzo sospirò ed accettò
di buon grado la bevanda che l’altro gli offriva.
Afferrò il bicchiere, facendo
attenzione a non scottarsi, e prese a mescolare in senso orario con il
bastoncino di plastica che faceva capolino da quello che sembrava
essere tè
allo zenzero. Michael gli si sedette nuovamente accanto, il corpo
voltato nella
sua direzione, le gambe accavallate e la testa appoggiata a una mano.
Travis, invece, manteneva lo
sguardo fisso sul caldo liquido trasparente, non sapendo bene cosa
rispondere.
Certo che era confuso, non lo era mai stato tanto in vita sua.
Quell’uomo era
entrato nel suo quotidiano da meno di tre settimane, ci parlava da poco
più di
ventiquattr’ore e già gli aveva fottuto il
cervello a quel modo. Si chiese cosa
riservasse il futuro. «É che …
» farfugliò, continuando a evitare i suoi occhi,
«non mi ero mai sentito così. Non mi era mai
capitato, voglio dire … non-»
«… non con un uomo»
Michael
terminò la frase in sua vece e non era una domanda, ma
un’affermazione alla
quale Travis annuì debolmente. Accennare a quel piccolo
movimento di testa
risultò ancora più difficile di quanto avrebbe
creduto. Ma la mano di Michael,
che oramai aveva imparato ad associare a qualcosa di confortante,
trovò la sua
spalla in una dolce stretta che sperava di infondere sicurezza.
«Ascolta,
Travis, non devi parlarmene adesso, se non vuoi. Se è
qualcosa di nuovo per te,
capisco che tu possa sentirti spaesato, che tu abbia bisogno di
metabolizzare,
di capire quello che vuoi. Se, invece, te la sentissi, sappi che hai
tutta la
mia comprensione, intesi? So come ci si sente. Ci sono passato. E sappi
che non
c’è nulla di sbagliato.»
Travis non rispose. Soffiò un
po’ sul tè per renderlo quantomeno bevibile e
mandò giù un paio di sorsi.
A Michael non sfuggì quel
silenzio. «Vuoi che me ne vada?» chiese, e Travis
volse la testa così di scatto
che quasi si fece male al collo.
«No!» esclamò, senza
ombra di
dubbio «No, che non voglio! Senti, io –non so che
cosa devo fare, adesso, forse
… forse è come dici tu, magari devo solo pensarci
un po’ … l’unica cosa di cui
sono sicuro é che voglio che tu resti. Va bene?»
Si rese conto di suonare
probabilmente assai disperato perché Michael
scoppiò in una risatina moderata e
alzò le mani in segno di resa: «Okay, tranquillo!
Non vado da nessuna parte,
cowboy.»
Il tassista rilassò le spalle
e distese le labbra in un piccolo sorriso, mentre l’altro
sollevava una manica
della camicia e controllava l’orologio da polso.
«Sono quasi le quattro»
osservò «perché non vieni un
po’ a casa mia? Intanto non è che domani sera devi
lavorare, dico bene?»
«Oh, io –non vorrei essere di
troppo»
«Nessun disturbo» rispose
Michael, alzandosi in piedi. Travis lo imitò. «Ci
sono solo mio padre e mia
madre, in casa, e se la dormono alla grande. Non mi sentono mai quando
torno a
casa così tardi.»
Si incamminarono fianco a
fianco lungo il corridoio e poi fuori dall’ospedale. Michael
fermò un taxi.
Mentre sfrecciavano in direzione di Long Island, Travis
azzardò: «Credevo che
tuo padre fosse morto. Insomma … per la storia
dell’eredità e il resto.»
«No, non ancora»
ridacchiò
Michael, ma evitò il suo sguardo, preferendo portarlo al di
fuori del
finestrino, e Travis ebbe la sensazione che ci fosse qualcosa in
più che non se
la sentiva di dirgli «ma ha avuto un brutto incidente
l’anno scorso e ormai è vecchio
e cagionevole di salute.»
«Capisco» si limitò
a rispondere
l’altro e trascorsero il resto del viaggio in silenzio.
Quando giunsero a Long Island
il cielo era ancora buio e costellato di stelle. Il taxi
imboccò un viale costeggiato
da tigli e delimitato a destra da un alto muretto di pietra e si
fermò poco
distante da un piccolo cancello. Travis trattenne il respiro quando si
accorse
che era sorvegliato da tre uomini, di cui uno estremamente grasso che
si
avvicinò all’autovettura per guardare chi vi fosse
dentro. Ma Michael,
tranquillamente, sorrise e aprì la portiera, sporgendosi
leggermente fuori con
la testa: «Lasciami pagare un attimo!»
L’uomo grasso scoppiò in una
risata sguaiata. Si voltò nuovamente verso il resto del
capannello e Travis lo
sentì dire: «É Mikey. Aprite
pure.»
Come se nulla fosse, Michael
estrasse il portafoglio, contò un paio di banconote e le
allungò al tassista.
Poi scese dall’auto e Travis lo seguì.
«Avresti dovuto lasciarmi
pagare almeno una corsa … » bofonchiò,
ma Michael scosse la testa: «Vorrà dire
che me ne offrirai un’altra quando avrò bisogno di
te»
«Così mi rovini.»
Ridacchiando, si erano avvicinati
al cancello e quindi al piccolo stuolo di uomini che, Travis era pronto
a
giurarlo, erano armati di pistola sotto le giacche eleganti
perché quando si
era fermato il tassì le loro mani erano già state
fatte prontamente scivolare
all’interno di esse.
Il grassone, che sembrava il
più vecchio dei tre e somigliava incredibilmente a un budino
umano, sorrise a
Michael e lo accolse in un abbraccio che quasi fece scomparire il
giovane. La
differenza di corporatura aveva un qualcosa di comico che costrinse
Travis a
soffocare una risatina sul dorso della mano. Liberato dalla morsa,
Michael
lasciò un tenero buffetto sull’enorme braccio
dell’uomo.
«State facendo un ottimo
lavoro qui » disse e fece cenno a Travis di avvicinarsi a lui
per presentarlo
agli altri. «Peter, lui è il mio amico Travis. Non
terrorizzatelo, mi
raccomando.»
Travis non aveva ancora ben
registrato che Michael lo aveva introdotto con il termine amico perché il budino
gigante gli afferrò la mano e, a dirla
tutta, la sua stretta non era neanche così possente.
«Peter Clemenza» si
presentò, per poi sporgersi nuovamente verso Michael per
sussurrargli qualcosa
all’orecchio.
«Va bene» mormorò il
ragazzo
e affondò le mani nelle tasche dei pantaloni neri,
«chi viene a dare il
cambio?»
«Tessio. Verso le sei.»
Michael lo ringraziò in
italiano. Poi prese Travis sottobraccio e si incamminò con
lui attraverso un
piccolo sentiero di mattonelle circondato da aiuole che conduceva a un
compound
di quattro case costruite in pietra e disposte in circolo, davanti alle
quali
erano parcheggiate diverse automobili d’epoca laccate di
nero. Una delle
villette era dipinta di un aggraziato color crema, aveva le travi a
vista e una
veranda al posto del portico. Michael lo condusse lì,
sollevò lo zerbino di
fronte alla porta, afferrò la chiave che vi trovò
sotto e aprì, invitando
Travis a entrare per primo.
Una volta messo piede
nell’ingresso buio, Michael si mosse per accendere una
piccola lampada a muro
che emise una luce fioca, poi richiuse lentamente la porta. Si
portò due dita
alle labbra, intimando a Travis di fare silenzio, dopodiché
gli prese
nuovamente il braccio e lo condusse verso quella che sembrava essere la
porta
di uno scantinato. In fondo alle scale, invece, Travis vi
trovò un’accogliente
tavernetta in stile rustico, adibita a cucina e sala da pranzo. Il
rumore di
una lavatrice in funzione in una stanza adiacente gli suggeriva la
presenza
della lavanderia.
Travis, che non era
decisamente abituato a un tale lusso e, soprattutto, a
quell’ordine si guardava
attorno registrando ogni minimo particolare: dal lungo tavolo in noce,
circondato da alcune sedie e una cassapanca dello stesso materiale, ai
vasi di
piante appesi al soffitto, alle pareti in pietra grezza adornati di
fotografie
di cui molte in bianco e nero. Travis venne particolarmente attratto da
quella
più grossa, a colori, che stava al centro della parete
dietro al tavolo e che
era sicuro rappresentasse la famiglia di Michael al completo durante un
matrimonio. Lo intravide a destra dell’immagine, sorridente e
in piedi tra due belle
ragazze, una dai lucenti capelli castani abbigliata in rosa che pareva
essere
la damigella d’onore, e un’altra dalla chioma
dorata il cui cappello quasi
nascondeva il viso di Michael accanto a lei. Travis riconobbe la divisa
militare che indossava lui e non riuscì a trattenersi.
«Anche io ero nei Marines!»
esclamò, voltandosi. Michael si stava vuotando un
po’ d’acqua del rubinetto in
cucina in un bicchiere di vetro. Il ragazzo mandò
giù qualche sorso, prima di
rispondere: «Appena arrivato dall’addestramento, mi
hanno spedito subito a Khe
Sanh»
«Io ero a Cam Ranh quando è
stata bombardata. Sono stato congedato nel ‘73»
«Non parliamo di guerra» lo
interruppe Michael e Travis si trovò d’accordo.
Ogni giorno cercava
disperatamente di non pensare alla sua esperienza in Vietnam eppure
quelle
sensazioni che aveva provato ogni giorno in guerra continuavano a
ripresentarsi
in maniera prepotente nella sua testa, attorno a lui, nei volti delle
persone
che lo fissavano o che urlavano per strada o che si sparavano addosso
in
lontananza nel buio dei vicoli.
Michael gli si avvicinò,
appoggiandosi al tavolo di legno, e si mise a guardare la foto che
aveva
catturato il suo interesse. «I miei»
spiegò, indicando il quadretto con un
dito.
Travis ridacchiò: «Non so
perché ma l’avevo capito»
«Ah, zitto. Quelli sono i
miei genitori, Vito e Carmela» Il padre di Michael, che
troneggiava al centro
della foto, era un patriarca dall’aria austera e possente:
tarchiato, dai radi
capelli brizzolati, elegantemente agghindato con un frac e una rosa
all’occhiello, teneva sottobraccio una bella signora
sorridente, dalla chioma
riccia e dai tipici lineamenti della donna siciliana e un lungo vestito
di raso
rosa pastello.
«Tua madre ti somiglia molto»
osservò Travis, facendo scivolare lo sguardo un
po’ sulla donna e un po’ su
Michael.
«É vero» ammise
Michael, per
poi sgranare gli occhi mezzo secondo dopo, come se avesse realizzato
qualcosa
all’improvviso. «Oh mio Dio, sai che cosa ho
notato? Che tu sei praticamente
identico a mio padre quando era giovane!»
«Macché!»
«Ah no? Giudica tu stesso, é
quello lassù» e gli indicò una foto
decisamente più datata, in bianco e nero,
che stava un po’ più in alto e ritraeva un giovane
di bell’aspetto, con i
capelli pettinati all’indietro come li portava Michael.
Teneva una coppola tra
le mani e l’espressione sul suo volto e nei suoi occhi scuri
aveva un ché di
malinconico e forse fu proprio quel piccolo particolare a far rendere
conto
Travis che, effettivamente, poteva esservi una certa somiglianza tra
lui e
quell’uomo non più così giovane.
Travis lanciò uno sguardo di
approvazione a Michael, prima di tornare a concentrarsi sulla foto del
matrimonio: «Chi altri c’è
lì?»
Gli piaceva l’idea che
Michael avesse una famiglia numerosa. Aveva sempre desiderato un
fratello o una
sorella con cui crescere, giocare, scorrazzare nei campi dietro casa,
ma i suoi
genitori non gli avevano mai donato quel tipo di compagnia.
Michael si schiarì la gola e
tornò a snocciolare velocemente alcuni nomi: «Gli
sposi sono mia sorella Connie
e suo marito Carlo. Lui è mio fratello Fredo, che adesso sta
a Las Vegas. Tom
Hagen –vi siete parlati al telefono»
«Ah» fece Travis, e non seppe
perché, ma apprendere quella nozione suscitò in
lui una strana sensazione
indecifrabile. «Non avevo capito che fosse tuo parente
stretto. Aveva un
accento mezzo irlandese … »
«Già»
ridacchiò Michael «mio
fratello Sonny lo trovò quando era un bambino che mendicava
per la strada. Lo
portò a casa e ha sempre vissuto con noi da allora. I miei
non lo hanno mai
adottato ufficialmente perché mio padre insisteva che
divenisse il consigliere di
famiglia.»
Travis annuì, ma in realtà
era ancora più confuso di prima. Da quando erano arrivati a
Long Island gli
frullavano in testa mille domande, come perché ci fossero
degli uomini armati
di guardia fuori dal cancello della tenuta o che diavolo fosse un consigliere, ma non voleva rischiare di
sembrare troppo invadente. Quindi decise che avrebbe lasciato che
Michael gli
desse chiarimenti se e quando avrebbe voluto lui.
Michael indicò nella foto un
giovane alto, con le spalle larghe e i ricci ramati. «Lui
è Sonny, mio fratello
maggiore» disse. Spostò il dito sulla ragazza dai
capelli castani: «Sua moglie
Sandra … un gran bel pezzo di ragazzo …
» -risero perché aveva indicato sé
stesso- «e Kay. La mia ex ragazza».
Travis non riuscì a
trattenersi dal rivolgergli un ghigno e Michael esclamò:
«Ehi, che hai da
ridere?» Ma era visibilmente divertito anche lui.
«Fai stragi di donne, tu,
eh?»
«Mh. E non solo»
Travis fu tentato di
chiedergli qualcosa in proposito, ma poi vi ripensò e
lasciò che fosse Michael
a parlare: «Mi faccio un bagno. Non riesco a dormire senza.
Vieni.»
Travis fu colto alla
sprovvista: «Vuoi –che venga in bagno con
te?» farfugliò, sentendo chiaramente il
rossore impossessarsi delle sue gote. Ma Michael non gli
lasciò nemmeno il
tempo di replicare, gli prese il braccio e lo guidò in un
piccolo antibagno
dove aprì un piccolo armadio ad ante. Dentro vi era una
scarpiera e, sopra,
alcune mensole che contenevano asciugamani, scatole per il cucito e
alcuni
giochi da tavola. Cautamente, Michael estrasse una grossa scatola di
legno con
sopra una scacchiera. Muovendola, le pedine all’interno
fecero un gran baccano.
«Sai giocare a scacchi?»
domandò, chiudendo l’anta dell’armadio.
Travis scosse la testa. «Non fa niente.
Ti insegno io. Puoi prendere una sedia, per favore?»
Lui eseguì. Quando mise piede
nel bagno, Michael aveva già posato la scacchiera su un
piccolo sgabello e
aperto il rubinetto della vasca per riempirla di acqua calda. Presto,
il bagno
si riempì di un piacevole tepore e dell’odore di
sapone e sali da bagno, mentre
i due sistemavano i pezzi per prepararli al gioco. Travis
imparò presto che
ogni pedina aveva la sua casella e un movimento proprio:
l’Alfiere
esclusivamente in obliquo, il Cavallo a L, la Regina a proprio
piacimento… Era
pieno di regole e più complicato di quanto avesse mai
pensato, ma Michael gli assicurò
che avrebbe capito meglio una volta iniziato a giocare. Quando la vasca
fu
abbastanza piena d’acqua, Michael cominciò a
sbottonarsi la camicia e Travis
scostò lo sguardo, sentendosi profondamente imbarazzato, e
tornò a guardarlo
soltanto una volta che lo udì immergersi. Il fatto che
avesse evitato di
guardare la sua nudità più intima, non lo
aiutò a sentirsi più a suo agio. Il
suo petto bagnato, sul quale pendeva un piccolo crocifisso
d’argento appeso al
collo, si alzava e riabbassava lentamente seguendo il ritmo regolare
con cui il
ragazzo inspirava ed espirava, rilassandosi e beandosi del vapore che
li
circondava. Prese una manciata d’acqua e se la
versò sulla testa, bagnandosi i
capelli, passandosi le mani tra le ciocche marroni che ricaddero
spettinati
sulla sua fronte. C’era un qualcosa di più
infantile in lui, con quell’aspetto,
eppure Travis pensò che fosse ancora più bello.
Si ritrovò a frenare il
crescente impulso di strapparsi di dosso i propri vestiti e unirsi a
lui. Il
solo pensiero lo fece eccitare.
Oh, merda. Oh cazzo,
no, no, non adesso!
Si mosse a disagio sulla
sedia e accavallò in fretta le gambe, cercando di nascondere
disperatamente la
propria erezione che cresceva sfacciatamente. Era una posizione
tremendamente
scomoda.
Travis si impose di non
guardare Michael, di non pensare al fatto che l’acqua gli
copriva a malapena la
zona pelvica, e si concentrò sulla scacchiera, schiarendosi
la voce per
attirare l’attenzione dell’italiano e iniziare il
gioco.
Michael si voltò e sorrise:
«Scusa, ci sono. Hai tu i bianchi, quindi spetta a te la
prima mossa.»
Travis annuì e mosse un
pedone avanti di due caselle. Sollevò gli occhi su Michael,
in cerca di
approvazione, ordinando a sé stesso di non abbassare lo
sguardo su qualunque
altra parte del suo corpo bagnato: «Posso farlo
all’inizio del gioco, vero?»
«Come prima mossa
sì» rispose
lui, e spinse un suo pedone.
Travis fu il primo a perderne
uno nella sua schiera. Ovviamente se lo era aspettato. Ma dovette
perderne
altri cinque o sei e pure una Torre prima di rendersi conto che,
effettivamente, c’era qualcosa che non andava.
«Mi stai imitando!»
esclamò e
Michael gli rispose con un ghigno.
«Effetto specchio»
spiegò
«mosse e contromosse. É lo svantaggio del bianco.
Ti serve una strategia.»
Al suo nuovo turno, Travis si
fermò per pensarci un po’ su. Doveva anticiparlo.
Bloccarlo in qualche modo,
portare il gioco a un nuovo livello.
Michael lo vide in difficoltà
e decise di venire in suo aiuto. «Ti do un indizio»
mormorò «il tuo Re è
scoperto.»
Aveva ragione. L’Alfiere nero
era pericolosamente nella traiettoria. Travis afferrò la
regina e la spostò di
qualche casella davanti al Re. Michael rise. Afferrò
l’Alfiere e si mangiò la
Regina. Aveva vinto.
«Scacco Matto»
ridacchiò.
Travis gli riservò
un’occhiataccia: «Mi hai ingannato!»
«Avresti perso comunque. Ma
ti concedo una rivincita.»
«Sei troppo bravo»
sospirò
Travis, lasciandosi cadere contro lo schienale della sedia.
Michael si appoggiò con
entrambe le braccia al bordo della vasca e vi posò sopra la
testa. «Gioco solo
da più tempo» osservò «Mio
padre è ossessionato dagli scacchi, ha voluto per
forza farci imparare tutti. Mosse e
contromosse.» Il suo sguardo mutò in un
attimo, nel ripetere quelle parole,
divenne quasi tediato e si spostò nel vuoto, in un punto
impreciso del
pavimento. «Dovevo entrare negli affari di famiglia per
rendermi conto di cosa
volesse dire in tutto questo tempo.»
Travis si raddrizzò sulla
sedia. Doveva chiederglielo. D’altronde, aveva il diritto di
sapere, dal
momento che si ritrovava sotto il suo tetto ed era stato lui a
invitarlo lì. Ed
era come se Michael fosse sempre in procinto di dirglielo, ma per
qualche
motivo si bloccava, cambiava idea, ritornava sui suoi passi. Era giunto
il
momento di mettere le cose in chiaro.
«La tua famiglia non importa
solo olio d’oliva, non è vero?» chiese e
il cuore prese a battergli più forte
del previsto. Aveva paura di sfanculare tutto quello che era stato
costruito
con Michael e, visto il brevissimo arco di tempo e il punto in cui si
ritrovavano, non sembrava trattarsi di poco.
Michael contrasse le labbra
in una smorfia, ma non negò.
«Facciamo affari» rispose
«abbiamo alcuni casinò a Las Vegas.»
Travis grugnì: «Non mi piace
quella roba»
«Neanche a me. Per questo ci
ho spedito Fredo. Lui dirige laggiù e Tom si occupa di
controllare cosa ne
incassiamo. Mi chiamano solo se c’è qualche
problema, per discutere di compravendita
e cose di questo genere.»
Travis piegò la testa di lato
e lo osservò: «E tu?»
«Io cosa?»
«Tu che ci fai qui?»
Michael si raddrizzò nella
vasca ed inspirò profondamente prima di rispondere:
«Favori.»
Travis, il cui corpo non era
rimasto immune alle azioni dell’altro uomo, si costrinse a
rimanere concentrato
sulla conversazione, che ormai aveva preso toni decisamente seri.
«Che tipo di
favori?»
«Qualunque tipo che faresti a
una cerchia di amici» rispose Michael, scrollando le spalle
«se qualcuno ha
bisogno di soldi per aprire un ristorante, viene da me e può
chiedermi un
prestito. Se qualcuno fa un torto a un amico o a un membro della sua
famiglia,
io mando qualcuno a punirlo. Purché siano cose serie,
ovviamente, non perché il
vicino tiene il volume della televisione troppo alto. Prendi il pazzo
della
Magnum di cui mi hai raccontato stasera. Metti che abbia ammazzato la
moglie.»
Travis rabbrividì a quelle
parole.
«Ora, se quella donna fosse
stata, per esempio, la figlia di un caro amico di famiglia, questi
potrebbe
venire da me a chiedermi giustizia. Una telefonata a un mio uomo fidato
ed ecco
che il killer della Magnum rimane solo un brutto ricordo.»
La bocca di Travis si
spalancò; un po’ per lo stupore, un po’
per il pensiero di quel pazzo a cui
veniva fatto saltare in aria il cervello come lui gli aveva raccontato
che
sarebbe successo a sua moglie.
«Cazzo … » fu
l’unica parola
che fuoriuscì dalle proprie labbra, mentre quelle di Michael
tornarono a incurvarsi
alla vista della sua espressione. «Te l’ho
detto» sussurrò «sono bravo ad
aiutare le persone.»
Travis fu colto completamente
alla sprovvista. Vide Michael alzarsi velocemente e si
ritrovò a contemplarlo
completamente nudo davanti a lui. E questa volta non distolse lo
sguardo, anzi.
Lo lasciò vagare. Lasciò che i propri occhi
registrassero ogni cosa, ogni
muscolo teso, ogni goccia sulla sua pelle ambrata. Guardò le
sue gambe, le sue
cosce levigate, si soffermò forse un poco più
sulla sua virilità che ricadeva
morbida da sotto i peli del pube. Risalì sui suoi addominali
non
particolarmente scolpiti ma comunque evidenti, seguendo la linea dei
peli del
petto, e si leccò le labbra alla vista dei suoi capezzoli
bagnati, delle sue
clavicole, del suo collo impregnato d’acqua, di quel suo viso
angelico. Era
bellissimo. Una visione celestiale. Il dislivello della vasca rispetto
al
pavimento gli regalava qualche centimetro in più e, dalla
postazione di Travis
sulla sedia, sembrava un titano. Ancora meglio, un Dio nato
dall’acqua, come in
un dipinto di qualche altro italiano famoso nel Cinquecento o
giù di lì.
Travis si mise in piedi,
incurante della propria erezione che oramai premeva quasi dolorosamente
contro
quei maledetti jeans, e Michael gli sorrise. Non si dissero niente.
Nemmeno
quando gli mise una mano sulla spalla, appoggiandosi a lui per uscire
dalla
vasca. Non parlarono quando Michael iniziò a slacciargli la
cintura. Si
limitavano a guardarsi negli occhi, le labbra di Travis appena schiuse
e tremolanti,
quelle di Michael incurvate in quel lieve e sensuale sorriso che non
accennava
a smorzarsi. Trattenne il respiro quando sentì la mano
destra del ragazzo
massaggiare la sua erezione attraverso la stoffa grigia dei boxer che
indossava
e si lasciò sfuggire un forte gemito quando gli
abbassò la biancheria e il suo
palmo e le sue dita si serrarono decisi sulla sua intimità.
Michael mosse
avanti e indietro la mano, accarezzandogli il membro lungo tutta la
lunghezza,
alternando movimenti lenti e minuziosi con altri più veloci
e incredibilmente
eccitanti. Con la sinistra, invece, dalla spalla era risalito al suo
collo, poi
fino al suo volto e gli accarezzava dolcemente una guancia, passando
ogni tanto
il pollice sulle sue labbra, da cui Travis lasciava fuoriuscire sospiri
e
gemiti di piacere intenso al quale non era più abituato.
Dio, non ricordava
nemmeno l’ultima volta che si era toccato da solo e Michael
era così
dannatamente bravo e deciso che sapeva che non sarebbe durato ancora a
lungo.
Quando avvertì di essere sempre più prossimo al
limite, Travis afferrò il volto
di Michael e lo baciò per la seconda volta in quella serata,
se possibile, con
ancora più vigore e passione rispetto a un paio di ore
prima. Si rese subito conto
della differenza. La prima volta era stato un bacio di pura e semplice
impulsività. Questa volta c’era di mezzo tutto il
fermento dell’attimo e fu
bellissimo. Venne nella mano di Michael, ringhiando eccitato sulle sue
labbra.
Le gambe di Travis tremavano, come se avesse corso, e la parte
più bassa del
suo ventre quasi doleva. Gli sembrava di aver fatto uno sforzo
sovrumano. Strinse
Michael in un abbraccio, sfinito, nascondendo il viso
nell’incavo tra la sua
spalla e il collo e si beò per qualche attimo
dell’odore della sua pelle ancora
bagnata e profumata di sapone. Probabilmente aveva fatto un macello
perché lo
sentì borbottare: «Mi ero appena lavato,
comunque.»
Travis
rise, ma non lo lasciò
andare per un po’. Stare stretto a lui lo faceva sentire
calmo e appagato e gli
infondeva una certa sicurezza, come se nulla al mondo potesse sfiorare
i loro
corpi intrecciati. Sentì le dita di Michael accarezzargli
l’attaccatura dei
capelli.
_______________________________________
Salve, follettini e follettine!
Questa volta devo dilungarmi un po' di più in queste note
d'autore (che sto riscrivendo per la seconda volta perché il
mio pc ha pensato bene di crashare). Anzitutto, spero vi sia piaciuto
questo po' di zucchero (e non solo, muahahah) tra i nostri due eroi.
Sinceramente, non sono del tutto soddisfatta di questo capitolo, che
é stato un parto: lo avevo molto ben delineato in testa, ma
alla fine ho continuato a tagliare e rielaborare parti e il risultato
é che non mi sembra particolarmente completo. Ad esempio,
avrebbe dovuto esserci un vero e proprio chiarimento tra Mike e Travis
che avrebbe portato a una vera svolta nella trama; qui Michael accenna
giusto un poco a quello che fa davvero, perciò ho deciso di
lasciare quella parte per uno dei prossimi capitoli (il quinto,
probabilmente).
Siccome ci troviamo in
casa di Mike, in questo capitolo compaiono e vengono citati altri
personaggi de Il Padrino;
se avete visto il film, avrete senz'altro riconosciuto Clemenza e,
ovviamente, tutta la sacra famiglia dei Corleone. Se, invece, non lo
avete visto, be', spero che fosse comunque tutto abbastanza chiaro.
A un certo punto, ho
voluto proprio fare la simpaticona perché quando Mike dice a
Travis che somiglia a suo padre quando era giovane, é un
chiaro riferimento al fatto che entrambi i personaggi sono stati
interpretati da Robert De Niro. Scusatemi, ma non ho resistito a fare
questa trashata.
Altra cosa un po'
più importante: il prossimo aggiornamento
arriverà con qualche giorno di ritardo in più
perché la prossima settimana parto per Londra e, siccome in
ostello sarò ovviamente impossibilitata ad aggiornare,
questa settimana mi dedicherò esclusivamente al terzo
capitolo di Bridge
Over Troubled Water, l'altra mia storia. Se non la
seguite, fatelo!
Ringrazio come sempre
chi lascia recensioni e anche chi ha inserito la storia nelle
Preferite/Seguite. Spero che non mi abbandonerete, ci si vede al
prossimo aggiornamento <3
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