Julien

di Aslinn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo doppio ***
Capitolo 2: *** Cap 1: The payback is here ***
Capitolo 3: *** Cap. 2: You can run but you can't hide ***
Capitolo 4: *** Cap. 3: This ain't no cure for the pain ***
Capitolo 5: *** Cap. 4: Find a friend in whom you can confide ***



Capitolo 1
*** Prologo doppio ***


julien 2 Note: Questo testo è una libera interpretazione dell'omonima (nonché stupenda) canzone dei Placebo, contenuta nel nuovo disco "Battle for the sun". Ho iniziato a riflettere su di essa dai primi ascolti, e la storia mi si è presentata alla mente, seppur vagamente. Ora ve la propongo, sperando che qualche fan possa dirmi cosa gli trasmette e cosa ne pensa. Mi farebbe piacere. Buona lettura!


Prologo: I’m Julien, I’m happy


(Julien)
Mi stendo sotto l’ombra del soffitto, così basso che sembra precipitare sulle mie costole, e respiro un po’ a fatica. La sigaretta si consuma in fretta, il tempo sembra quasi una relativa goccia di cenere liquida, scivola sulle guance fino al cuscino, imbrattando i capelli sudati. Non è la posizione migliore per fumare, per vivere, per guardare il mondo. Sembra tutto così grigio.
“Julien, cos’hai?” mi chiede qualcuno.
Mi volto stranito e quasi rido: avevo dimenticato che lei fosse qui.
Mi alzò tremando, mi sento debole…sarà la stanchezza, certo, nient’altro potrebbe abbattermi.
“Dammi una striscia” le dico, ed Erika sorride.
Ne prepara una sul tavolino, e fissarla all’opera mi fa allargare la visuale, ricordandomi che sono nel suo monolocale, al centro di Londra, nella periferia del mondo. Ogni buco di paese è solo un buco di culo, nient’altro. E le stronzate nazionalistiche sono solo sputi verso il cielo.
Ma non devo pensare a questo, non devo riflettere su nulla. C’è la polvere bianca come neve nel deserto, perché chiedersi cos’è la vita? Perché fregarsene della povertà? Perché pensare? E’ stupido.
Mi abbasso e tiro, quando mi rialzo sono vivo. Sono felice.

Pensavo che mai l’avrei rivisto. Spesso spengo la tv quando sento la musica, evito di guardarla ormai. Non prendo in mano nessun giornale, tanto meno quelli di gossip e musicali. Temo tremendamente di rivederlo e ricordare, che la miccia si accenda e illumini la caverna scura dove ho relegato le mie paure. Sì, evito ogni contatto visivo con quegli occhi verdi, per far perdere la traccia scura ma brillante che nella mia mente mi ricollega al passato. Ho fatto di tutto per dimenticare. Ogni giorno cerco di cancellare quello precedente, sommando spazzatura su spazzatura di ore perse. E così sto meglio, la droga mi aiuta. L’ha sempre fatto. Anche dopo di lui, soprattutto.
Ero convinto fin oggi che sarei rimasto immune al peso del passato. Invece ora sono qui, impalato di fronte ad un cartello, a uno stupido pezzo di carta colorata appiccicata al metallo. Solo colori senza senso…se non fosse per quel nome, scritto quanto più grande possibile come se qualcuno sapesse e volesse piantarmi nel cuore quelle lettere, per farmi più male che può.
Quella semplice parola mi distrugge, elimina ogni mia resistenza, abbatte i miei teatri mentali: “Placebo”.

 Prologo 2: Remember

(Brian)
Questo concerto sarà una serata piacevole, ne sono certo. Una cosa vecchio stile, uno spettacolo per pochi qui a Londra, in un locale di quelli stile Jazz, fumoso e caldo, un buco di musica. Mi divertirò, questa è la cosa che per me più conta. Sono riuscito a scrivere i pezzi del nuovo album, tutti e tredici i pezzi. Prima di mandarlo sul mercato voglio vedere la musica, di nuovo, voglio sentire il sapore delle note, voglio avvertire ancora quella sensazione intima della mia voce che penetra la mente degli ascoltatori. La musica è sensuale per questo, e molti altri sottili motivi. Un ago di puro astrattismo che trapassa ogni cellula umana, la si gusta con tutti i sensi. Sublime.
Mi accendo una sigaretta e giro per il locale, pensando che è uno dei pochi posti rimasti dove fumare non è vietato, anzi è parte dell’ambiente. I manifesti non sono stati messi per i muri di Londra, solo davanti al locale un grosso cartellone annuncia la nostra presenza qui. Pochi invitati, non li ho scelti io e non ho la minima idea del criterio che hanno usato, non mi importa molto.
Salgo sul palco, relativamente piccolo, ma così confortevole…una piccola casa rettangolare. E guardo il locale vuoto, i tavolini rotondi, le sedie che sembrano così pesanti e costose ma in realtà non valgono nulla, e il bancone più in là con le bottiglie in bella vista, tutti i liquori di cui la gente di qui va matta, che i lavoratori scolano a litri dopo una giornata faticosa, scende nelle loro gole insieme al sudore, e che i giovani si sentono già grandi nell’assaggiare. Anche i bambini li bevono, e sorridono mentre negli occhi dei genitori brilla l’inestimabile stella dell’orgoglio. Ma sto divagando, come sempre. E a ricordarmelo è Steve, che mi guarda a braccia conserte da sotto il palchetto. Gli sorrido pian piano e vedo che gli scalda il cuore, diffondendo sul volto il calore che gli fa ricambiare con spontaneità. Mi chiedo se il mio sia un dono o una maledetta condanna.
“A che pensi?”
“Niente, un po’ di cose che voi americani non potete capire.”
Alla mia frecciatina risponde con una risata breve e quasi timida. Adorabile.
Mi chiedo dove sia Stef, ma ora la cosa non mi importa. Sto troppo bene qui, mi sento così scaldato e quasi coccolato da ricordi che non hanno forma, solo residui di sensazioni che posso appena percepire.
Perché allontanare questi ricordi con il presente?
Aspiro dalla sigaretta gustandola fino in fondo e ripensando ai primi tempi, quelli in cui nessuno mi conosceva, in cui per il mondo ero solo un ragazzino come tanti e la confusione era la peggiore delle droghe. Mi esibivo per sputare rabbia e risentimento, per sbattere in faccia a tutti la mia musica, credendo così di essere più forte…in realtà mostravo solo le mie più intime debolezze. La mia fragilità messa a nudo come un quadro impressionista…poi ho capito: era per molti una bandiera, e ancora lo è. Questa è la musica, la nostra musica, la mia.
E mi sembra di rivivere in una pallida luce quegli istanti frenetici, il trucco e i vestiti, l’agitazione che si calmava solo quando salivo sul palco e recitavo la mia farsa. Dietro la mia maschera ero fragile, la mia stessa maschera ne era un manifesto.
Ora sto bene, me lo ripeto sempre. E per questo, perché quei ricordi non sono altro che una parte essenziale di me, quelli che fin qui mi hanno condotto, che posso guardarli con serenità.
“Bri, la smetti di guardare il vuoto?” mi chiede Steve, ora dietro di me. “La gente non verrà mica per guardare te impalato che fumi come un manichino turco?”
Lo guardo con rimprovero, ma dentro rido di gusto. Sì, sono decisamente sereno.

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Capitolo 2
*** Cap 1: The payback is here ***


Julien 3 Note: Salve a tutti! Questo primo capitolo l'ho diviso in due parti per vari motivi, che poi leggendo capirete. Ricordo a tutti che ciò che trovate qui riportato è solo frutto della mia immaginazione e che, poiché non sono nella testa di nessuno dei protagonisti (tranne Julien, ma anche lì poco ;) ), pensieri e caratteri sono solo mie supposizioni, che potrebbero benissimo non coincidere con pensieri e caratteri dei personaggi reali.
Spero sia di vostro gradimento^^


Capitolo 1: The payback is here


Prima parte

(Julien)
Ho provato a non avvicinarmi, è ciò che un animale fa con il fuoco. Ma come tutte le bestie sono dannatamente stupido, e ora sono qui a rimirare da lontano il fuoco: quel locale. Sono seduto nel bar di fronte, e scruto tutto attraverso il vetro, consumando nel posacenere le sigarette e in gola l’alcol.
Sono agitato, si nota dalle mani che fremono incessantemente, sembrano tremare come scosse da piccoli terremoti sottocutanei. E cerco di soffocare i ricordi come fossero indigesti compagni in una notte già di per sé triste e buia. Le loro voci come urla di spettri mi corrodono l’anima, perciò reprimo ogni volto nascondendo la loro squallida polvere sotto la coperta della mia stolta mente. Devo dimenticare, eppure sono qui per ricordare. Come sono stupido!
Devo distrarmi. Passo lo sguardo nel locale, per la prima volta intento ad osservare gli altri. Non lo faccio più da quanto mi sono perso nei suoi occhi.
Ad un tavolo c’è un vecchio barbuto, tiene il giornale davanti per conoscere il mondo, non capendo invece che quei fogli sono barriere verso la verità: il mondo è lì fuori.
Poco più in là una cameriera annoiata si risistema bene il grembiule davanti all’addome leggermente rigonfio, masticando nervosa una gomma, in modo scomposto. Chissà quanto a lungo riuscirà a nascondere la sua gravidanza? E quanto i lividi che si intravedono sotto il collo, nascosti poco sapientemente da una maglia un po’ accollata.
Mi volto verso il bancone e in quel momento la porta si apre. Che desolazione, un nuovo cliente in questo pomeriggio all’asciutto. E’ alto, molto più della media locale e si muove con una certa timida sicurezza, come se sapesse di essere visto e volesse fingere di non saperlo. Un cappello nero gli copre la testa, e non posso fare a  meno di notare l’eleganza naturale e il buon gusto che dimostra, malgrado celato da una fine durezza. E qualcosa nei suoi movimenti, mentre si avvicina al bancone e saluta amichevolmente la cameriera, che dimentica subito la sua noia, mi accendono un fuoco dentro. Un ricordo, forse.
Queste botte di rimembranza sono una cosa molto strana, arrivano come improvvise sensazioni, dejavu così forti da stenderti. Lo scruto, ora attirato da un altro oggetto da studiare. Non si volta mai e mai posso guardarlo in volta mentre beve e scherza con la ragazza. Attendo. Alla fine la saluta e paga; senza aspettare il resto esce dal locale. Gli corro subito dietro, voglio sapere.
“Scusa, hai da accendere?” chiedo raggiungendolo e guardandolo dal basso.
Mi guarda e rimane stranito, poi mi porge un accendino. Mi accendo la decima sigaretta e mentre fisso la fiamma dell’accendino una strana rabbia e un dolore lancinanti mi scorticano dentro, come se fossi la punta della mia stessa sigaretta.
Non mi conosce, ne sono certo. Ma io so perfettamente chi sia. Mi tiro su e aspiro una lunga boccata, guardandolo con difficoltà negli occhi. Ho paura…paura che legga il mio dolore. E mentre lo fisso e, per qualche strana ragione, lui ricambia e nessuno di noi due si rende conto del rumore di strada, un ricordo mi stende. Tra tutti i ricordi che cerco di analizzare per decidere se reprimerli o meno, malgrado troppo tardi per non soffrirne, uno, proprio quello, mi balza alla mente, una sola immagine davanti agli occhi: un ragazzo inginocchiato a torso nudo come un nobile cavaliere che riceve, tinto dal rosso di orgogliose luci divine, il bacio dal suo principe, investitura amorosa nel cuore della musica. Provo disgusto e odio per quel ragazzo, malgrado lui colpe non ne abbia. E’ solo colpa Sua.
“Grazie” mi sbrigo a dire, in modo agitato, senza riuscire a nascondere la mia impellente necessità di andar via, seppur perversamente attratto da quell’ancora che mi ricollega al passato.
“Okay…strano…” dice corrugando la fronte.
“Perché?”
“Niente” ride brevemente e mi accorgo che cerca sempre di non guardarmi dritto negli occhi. “Credevo fosse solo una scusa e che tu volessi un autografo, tutto qui.”
“No.”
Improvvisamente comincia a fissare il tremolio delle mie mani. E tutto il resto. Allora mi sembra di guardarmi con i suoi occhi, e l’immagine che mi viene in mente mi spaventa: un ragazzo che neanche a venti anni già sembra sull’orlo della fine, i capelli neri spettinati, gli occhi cerchiati da profonde occhiaie perenni, il naso arrossato da troppi tiri, le labbra devastate da morsi di nervosismo e quel pallido volto bagnato da freddo sudore…il ritratto di un ragazzo in crisi, non solo d’astinenza. Mi vien repulsione per me, e rabbia per quell’immagine.
Lui non ha il diritto di guardarmi così!
Ma nei suoi occhi, ora che riesco ad incrociarli, vedo come una specie di odiosa pietà, quasi io gli ricordassi qualcosa, o qualcuno, e dolore.
“Senti, domani hai da fare?” mi chiede guardandosi appena intorno nella strada semi deserta.
“Che t’importa?”
Prende dalla tasca un pezzo di carta e me lo porge.
“Vieni a fare un salto, domani sera. E’ proprio quel locale” dice indicando il pub alle sue spalle, lo stesso che ho fissato per ore.
Mi fa un cenno del capo e se ne va, camminando con una certa fretta e sparendo nella mia confusione.
Guardo il biglietto nelle mie mani. E ancora quella parola sembra perseguitarmi: “Placebo.”

Seconda parte

(Stefan)
Mi allontano velocemente per tornare in albergo. Malgrado cerchi incessantemente di non ripensare a quel ragazzo finisco sempre col ritrovarmi davanti agli occhi il suo volto. E cerco di non pensare al perché tanto mi abbia turbato. Ne vedo molti di ragazzi come lui, ai nostri concerti, per strada, ovunque. Ma lui…mi ha stranamente ricordato Brian, quello che era. E’ diverso, certo, ma quell’aria di arroganza, quella fragilità mal nascosta, quegli occhi seppur di colore diverso hanno riportato davanti ai miei il mio amico, quando per noi tutto sembrava facile ma in realtà era tremendamente difficile.
Entro in albergo e salgo subito in camera, apro la porta e sul letto mi ritrovo Brian che mangia un gelato e legge un giornalino.
“Bri, non hai pure tu una camera?”
“Sì, forse” si alza e posa il gelato sul comodino, corre alla finestra e scosta in un sol gesto le tende. “Ma la mia non ha un simile spettacolo!”
Oltre il vetro c’è evidentemente qualcosa che solo lui vede, perché a me sembra solo la solita, monotona Londra.
“Okay, come vuoi” borbotto arrendendomi.
Mi siedo su una poltroncina e spulcio un po’ annoiato le lettere che mi sono state inviate. La maggior parte sono di fan, altre di vecchi amici che aspettano il ritorno in scena dei Placebo per sperare di ottenere un po’ di fama. Addirittura qualcuna è di miei veri o presunti ex amanti, che mi giurano amore eterno e di non avermi mai dimenticato. Chissà come mai questo proprio dopo due anni dalla nostra scomparsa in scena?!
Stef non ti ho mai dimenticato, you’re my sweet prince…
La cosa che mi infastidisce davvero, l’unica in fondo, è che spesso usano parti delle nostre canzoni, delle canzoni di Brian, per queste farse, non comprendendo la loro profonda intimità e il loro senso reale.
“A che pensi?” vorrei chiedere a Brian, che fissa con quel sorrisetto dolce e ingannevole il vetro e oltre. Ma non lo chiedo, so che svierebbe il discorso o eviterebbe in altro modo di rispondere. Non con il silenzio, quello lo usa quando vuole ferire.
E’ un gran chiacchierone, anche troppo a volte. Siamo diversi in questo…e stranamente mi trovo con uno stupido pensiero: anche quel ragazzo sembrava di poche parole. E i suoi occhi, così scuri e così spenti, appena illuminati da un sentimento che per quanto nero può dare una luce sconvolgente allo sguardo: il dolore. Quante volte gli occhi di Brian hanno usato quella luce per essere vivi? Quante volte quella è stata l’unica testimonianza di vita? Quante volte si è trasformata quella luce in pianto? Troppe.
Ora invece è così sereno…sorrido involontariamente, perché questa situazione mi rende felice. Mi dispiace unicamente che Steven non abbia seguito la nostra strada…ma non voglio pensarci, o finirei per soffrirne ancora.
“La musica è potere” dice improvvisamente Brian, stirandosi i muscoli con le braccia incrociate dietro il capo e il sorriso di prima, così sereno e disteso, sulle labbra.
Rido appena, forse per renderlo felice, forse perché la verità di quella frase è così profonda ed è così strano sentirla dire con tanta semplicità.
Lo so…è per questo che ho regalato quel biglietto al ragazzo di prima. E’ stupido, ma ho creduto di poter fare qualcosa per lui, seppur poco. In fondo per me e Brian la musica ha significato molto nella vita. Una volta Brian mi disse che senza la musica sarebbe morto. E forse grazie alla musica quel ragazzo si salverà…oppure è solo un’illusione.

Mentre mi addormento, rimasto solo in camera dopo che Brian ha finalmente deciso di andare anche lui a dormire, ripenso a molte cose, troppe per una sola sera. E la confusione torna a bussare alle porte della mia mente. E penso alla nostra storia, a quante ne abbiamo passate. Quel ragazzo, nel suo viso, ha fatto da ponte, anzi da porta verso il nostro passato, per me. Ora non posso fare a meno di affacciarmi da questa porta, prima di richiuderla…ma non potrò mai sigillarla. Non avrebbe neanche senso. Siamo quel che siamo grazie  anche a quel che una volta eravamo, io e Brian. Alla fine abbiamo lottato per venire fuori dal circolo di droga e alcol, da quella euforia che ci ammazzava quando gli effetti svanivano.
Brian ha pianto molto, e anch’io. Per questa situazione. Una volta gli dissi disperato che mi facevo schifo da solo. Quando lo capimmo entrambi fu il punto in cui decidemmo che era troppo, che nulla era più divertente, che ci stavamo solo ammazzando. E insieme ce l’abbiamo fatta. Io e lui ci siamo aiutati a vicenda, con il supporto per me di David e per Brian di Helena e quell’incoraggiamento inconsapevole del piccolo Cody. Sorrido nel ripensare a lui, così piccolo e innocente. Come Brian vorrebbe essere di nuovo…e chi non lo vorrebbe? Solo chi non ha capito quanto male possa fare la vita.
“Cosa penserà di me mio figlio?” era solo uno dei pensieri che in quel periodo buio, che aveva dato alla luce “Meds”, ossessionavano la sua mente. Ora ha capito che i ricordi sono parte di noi, e non cose da dimenticare con ogni mezzo.
E io ho capito un’altra cosa: siamo salvi solo se riusciamo a sorridere pensando al nostro passato. Se ne soffriamo siamo ancora troppo malati, se lo dimentichiamo siamo degli stolti. Certo, mi ha fatto male veder quel ragazzo e rivedervi Brian, ma ora posso guardare negli occhi lui e sorridere di quel passato, perché ora stiamo bene.

Ognuno ha, alla fine, la sua ricompensa. Non deve chiedersi se sia giusta per quel che ha fatto ed è stato. Deve solo chiedersi se ha fatto tutto il possibile per ottenere il meglio, per uscire dal proprio dolore.

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Capitolo 3
*** Cap. 2: You can run but you can't hide ***


Julien 4
Note: Salve, gente! Come nel precedente capitolo, il titolo è una parte del testo di "Julien". E' un capitolo piuttosto breve, tutto incentrato sul caro Julien. Per ora siamo al presente, gli amanti del falshback dovranno attendere xD Spero sia gradita^^
Buona lettura, e sempre ben accetti commenti e/o critiche ;)

Capitolo 2: You can run but you can't hide


(Julien)
Mi rigiro il foglietto tra le mani, e una strana agitazione me le fa sudare e fa scivolare i polpastrelli tremanti sulla carta dura. I colori caldi e sgargianti sembrano promettere una serata di fuoco lento e dolce, ma io dentro mi sto corrodendo in una discesa all’inferno troppo veloce. Mentre sale il livello di sudorazione la mia realtà diventa una camera a gas corporei. Ho bisogno di andare via da qui. Guardo il tavolino e per un attimo vedo sfocato, quasi ripiombassi d’improvviso su una terra mai stata mia. Le strisce bianche…solo due. E devo decidere: tirare o andare a questo cazzo di concerto? Per rivederlo e per nessun’altra ragione. Perché la sua voce mi fa piangere e mi scuote come nulla, rendendomi un’embrionale ascoltatore. Puro, immacolato, sereno come solo in una culla materna troppo presto abbandonata si potrebbe essere.
La droga…quella ha per poco lo stesso effetto, ma non mi porta il prezioso ricordo della gioia, rendendomi impossibile essere felice in quel lasso di tempo tra un tiro e l’altro. La sua musica, invece, quella ancora la ricordo, troppo nitidamente per ignorarla ancora. Ha messo radici in me come un velenoso rampicante avvinghiato al mio cuore sanguinante, nutrendosi del suo succo vermiglio e scuro.

Decido, alla fine.

L’aria è così soffocante qui, forse sono solo io che ho caldo…troppo. Sudo come mai, e mi sembra che la testa sia una vuota pattumiera pronta a raccogliere l’immondizia del mondo. La gente è seduta comodamente su poltroncine e sedie, e io mi sento a disagio. Fuori da tutto questo, fuori dal loro modo di vivere, fuori dal mondo.  Mi rifugio al bancone e chiedo subito un liquore, non so neanche quale, l’importante è bere, non cosa bere.
Mi scolo il primo bicchiere e decido che per ora posso anche fermarmi, voglio essere cosciente quando lo rivedrò. Le luci rosse e arancio sfumano verso un giallo confortevole sul palchetto appena illuminato, dove la batteria luccica e tutto è sistemato. C’è una chitarra poggiata al suo amplificatore, i microfoni e il basso, che sembra sistemato con più cura…lui non è mai stato molto ordinato.
Mentre fisso il palco un vuoto strano si insidia in me. Il presente si concentra in quelle luci soffuse e il passato torna come un urto che mai vorresti provare dopo l’esplosione.
Quelle luci nella nostra camera, dopo la festa, lui così su di giri per la sua esibizione, io su di giri per la prossima prestazione. E il suo sorriso, dolce e così provocante, mi rendeva un cumulo di carne senza nessuna intenzione, mosso solo dai desideri che lui animava. Quella sera non doveva andare così, mi disse, ma era felice…ipocrita!
Un rumore attutito mi riposta alla realtà e le voci sembrano esplodermi improvvisamente nelle orecchie. Lo acclamano, tutti, e lui, come la divinità che riunisce i sudditi per un rito, si fa attendere e poi si mostra, superba e brillante come solo un’entità resa superiore dalla nostra adorazione può essere.
E compare, per poco non mi scompare il cuore, inghiottito in un doloroso buco nero.
Entra in scena con naturalezza, la sua camminata così morbida e involontariamente elegante, imprecisa e scoordinata a tratti, ma meravigliosamente ipnotica. Prende la chitarra e la indossa come la sua più dolce arma, avvicina la bocca morbida al microfono, poi si blocca e chiede: “ma funziona, vero?” suscitando risate genuine e brevi.
Ed  eccolo che poggia le mani a coppa intorno al microfono, come a berne l’eterno liquore gassoso.
“Questa canzone è una nostra vecchia amica, un po’ triste per iniziare questa serata, ma come nelle migliori commedie è il finale che conta” dice accompagnando le sue parole con un contagioso sorriso, sempre lo stesso: dolce e intenso, insieme ingenuo e malizioso.
“Questa è “My Sweet Prince”.
Le note della canzone mi trasportano subito dentro il suo dannato cuore, ma non proprio all’interno d’esso, troppo sommerso nel liquido che fluisce dalla bocca come canzone. Galleggio in esso, mi trapassa la mente bagnandomi dolce le orecchie…eppure la melodia è struggente, mi ferisce e quasi mi spinge alle lacrime. Guardo come tiene il microfono, con quelle piccole mani una volta laccate di nero…quella notte, mentre mi spogliava, mi sfiorava, mi plagiava con la sua straordinaria forza delicata.
Sento i brividi di mille ricordi distruggermi dentro, sbriciolare e grattare via lo sporco del mio cuore. Mi sento rinascere, ma anche quella musica finisce…e per un attimo, dolce, forte, da schiantare, lui mi guarda.
Ne sono certo.
I nostri occhi si incrociano e qualcosa attraversa i suoi: un’ombra. Il sorriso muore di lucentezza rimanendo una maschera che può ingannare solo chi non ne conosce la reale natura. Tutti applaudono, e lui mi guarda. Gelo e sudo freddo, ma per quanto mi faccia male non riesco a chiudere gli occhi, sbatto le palpebre troppo velocemente e non posso neanche deglutire: non voglio spezzare questa magia. Ci pensa lui, distogliendo veloce lo sguardo per portarlo lontano da me, come se una stella si fosse affacciata al mio buio pozzo dall’infinito cielo e poi avesse deciso di tornare indietro. Non posso più sopportare tutto questo. Scappo via, è l’unica cosa che io abbia mai saputo fare.

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Capitolo 4
*** Cap. 3: This ain't no cure for the pain ***


Julien 5 Note: Eccoci qui con un altro capitolo. L'unica precisazione che voglio fare è che il carattere di Brian è ancora in svolgimento, per così dire, e nei prossimi capitoli cercherò di definirlo meglio. Non è semplice, è un personaggio interessante e ambiguo (in tutti i sensi.) Ci vorrà probabilmente un po' prima che posti il resto, per i suddetti motivi. Mi scuso in anticipo.
Come al solito, Brian Molko e tutti gli altri personaggi reali non mi appartengono, quelle descritte non sono situazioni reali o reali caratteri. E' tutto parto della mia mente, senza voler offendere i prima citati personaggi reali e non a scopo di lucro.
E come sempre, graditissimi commenti e/o critiche.
Buona lettura.


Capitolo 3: This ain't no cure for the pain

(Julien)
Mi nascondo in questo vicolo e quasi sento la musica attraverso i mattoni ruvidi e sudici. Mi rendo conto della cazzata che ho fatto solo quando il dolore diventa un martello conficcato in ogni mio organo, nella pelle trapassando tutti i suoi umidi strati fino a conficcarsi nelle cellule premendole per farle esplodere. Il cervello mi va in fiamme e le tempie si accendono, le orbite diventano piene di lava. Ho bisogno della mia cura, contro tutti i dolori, anche quelli che dentro mi squassano la falsa sicurezza costruita in tutti questi anni. Cerco nelle tasche disperatamente, mentre le luci della città mal illuminano l’entrata del vicolo. Che mi guardino pure, non mi importa, ho bisogno di curarmi, poi starà meglio…come sempre.
Trovo dei granelli, pochi…troppo pochi per non farmi morire proprio su questo sporco asfalto. Non c’è luna per stanotte, per me.

(Brian)
La musica si affievolisce insieme alla mia statica convinzione di aver avuto una stupida allucinazione. Eppure ora che tutti applaudono soddisfatti con i volti illuminati dallo spettro magnifico della musica, io mi sento insoddisfatto e distrutto. Io, Stef e Steve ci prendiamo per mano e con un inchino da attori novelli ringraziamo il pubblico e ci ritiriamo dietro le nostre quinte. Il camerino è sgombro, per ora. Mi getto sul divanetto e mi porto un braccio sulla fronte sudata.
Come mi sarei dovuto aspettare, a Stef è bastato sentire il tremore della mia mano e l’incertezza negli occhi per capire che qualcosa non andava, infatti me lo ritrovo nel camerino che mi guarda dall’alto.
“Bell’esibizione, no?” gli dico per non dovermi sorbire quel silenzio indagatore.
Prende una coca e me la lancia. L’afferro e mi tiro su a sedere, fissando il pavimento.
E ora ne sono quasi del tutto certo: nella folla ho visto Julien. Quel ragazzo con i capelli spettinati, lo sguardo perso, il sorriso incerto di una volta è diventato uno spettro animato solo da insano attaccamento alla sua non-vita e rancore…per me.
Ricordo quella sera di pochi anni fa…fu un errore enorme, e ancora me ne pento. Per lui deve essere stato come toccare una stella, sentirla dentro di sé, afferrare la sua lucentezza nera fino a che non si fissa nel cuore, e lì c’è rimasta, almeno il pallido ricordo di una bellezza inventata per l’occasione.
Quella notte me lo ritrovai davanti, ancora non so come. Era eccitato e mi guardava nel modo di chi vuole solo quello, e non si arrenderà finché non l’avrà ottenuto.
“La vostra musica mi fa schifo” mi disse sorridendo mentre mi spogliava con gli occhi e io con le mani.
Scoppiai in una breve risata e mentre gli divoravo la pelle del collo gli chiesi perché mai allora fosse venuto al nostro concerto, in prima fila tra l’altro.
“Perché sapevo che avremmo scopato”.
Lo adorai da subito, forse perché mi ricordava vagamente il ragazzino arrogante ma insicuro che ero sempre stato, trasformato in un essere viscido. Lo incontrai più volte da allora, e lo ferii con il mio amore fisico, perché sapevo che pian piano lui aveva cominciato a volere di più. Ma io non potevo. Andavamo su di giri e poi via a letto, sempre dentro il vortice della nostra incoscienza. E quando compresi che quella vita mi stava distruggendo per lui era già troppo tardi. Lo abbandonai, e ancora mi sento un verme per questo, perché sapevo che finché mi circondavo di amanti come lui mai avrei potuto in alcun modo uscire da quello schifo di vita in cui stavo finendo.
E ora vorrei così tanto che anche lui si salvasse…ma il suo sguardo, mi ha ghiacciato vedervi così tanto rancore e dolore. La voce mi sarebbe venuta meno se non fossi abituato a rispettare il codice tacito dello spettacolo: “the show must go on”.
“Cosa ti ha tanto sconvolto, Bri?” mi chiede Stef e d’un tratto mi ricordo dove sono, e mi accorgo di essere rimasto per parecchio con la lattina in mano e lo sguardo perso, gli occhi spalancati. Scuoto la testa e sorrido.
“Niente, sono stanco, tutto qui.”
Alzo la lattina come a brindare e Stef mi imita.
“Al nostro ritorno, amico” gli dico tenendo il mio dolce sorriso finto.
Bevo un sorso lungo che mi brucia la gola infiammata.
Mi ritrovo a guardare Stef, stavolta anche lui perso nei suoi pensieri, e l’aria diventa troppo pesante.
“E tu, cosa hai visto per star così?”
Si riscuote e sorride timidamente.
“No, niente.”
Che pessimo attore il mio Stef.
“Hai pensato a quel che siamo, al nostro percorso?” mi chiede con uno sguardo serio.
“Sì, certo. Siamo cresciuti un bel po’, io e te.”
“Già…”sorride ma il suo è un sorriso strano, nasconde qualcosa. “E tu sei cresciuto molto, Bri. Ricordi un tempo com’era? Rimpiangi mai quel periodo? Quando eravamo giovani e stupidi…”
“Sì, però ogni periodo ha il suo buono e il suo cattivo. Ora stiamo bene, questo è certo la parte migliore, io ho anche una famiglia! Ti immaginavi me con un marmocchio in braccio? Cody è la cosa migliore che mi sia capitata, oltre alla musica. Un tempo era bello, ma continuare così ci avrebbe ammazzati entrambi, lo sai.”
“Sì. Oggi mi è capitato di ripensarci.”
“Ah, come mai?”
Comincio ad essere sospettoso delle cose che non mi vuole dire. Si stringe le mani e le guarda come a rivedervi qualcosa.
“Ho visto un ragazzo per strada…gli ho dato il biglietto del concerto, ma non sono certo ci sia venuto. E guardarlo è stato strano, mi ha ricordato molte te una decina di anni fa.”
Ci penso su…e penso soprattutto a come sembra cercasse di tutto per non dirmelo, forse credeva di spaventarmi o turbarmi.
Gli do’ una pacca sulla gamba e gli sorrido.
“Dai non pensarci, ognuno ha un suo percorso, dipende da lui se va bene o meno, no?”
“Già…”
La porta che si apre ci interrompe e Steve spunta con il suo sorriso inconfondibile.
“Dai, ragazzi, venite di là! Si beve un po’!”
Io e Stef ci scambiamo un sorriso e lo seguiamo.

Balliamo senza aiuto di droghe stavolta, e mi sento meglio. Non ho mai amato ballare, ma questa è un’occasione da celebrare: la nostra rinascita, il nostro pulito secondo battesimo alla musica.
Mi allontano un attimo per prendere qualcosa al bancone e mentre bevo dal bicchiere doppio e ricamato ad arte popolare, un pensiero improvviso mi fulmina la mente: Julien. Mi chiedo dove sia, e se sia giusto chiederselo. E una domanda subito si accavalla a queste: cosa posso fare io per lui?
Forse è qui vicino. Lo cerco ma nel locale, come immaginavo, non c’è.
Eppure so che devo cercarlo. Ora mi sento in dovere di farlo…non mi sono mai sentito in dovere di aiutare qualcuno all’infuori di me e Stef, non in questo periodo. Lo so, che non sono buono come a volte mi illudo, che se ora sento la necessità di aiutare Julien è solo per me e la mia coscienza…a volte mi sorprendo di averne ancora una.
Mi avvicino a Steve e gli dico che esco per fumare in santa pace, lui annuisce e torna a ballare e bere. Per fortuna…Stef mi avrebbe fatto mille tacite domande con gli occhi, senza pretendere risposte ma desiderandole. Lo conosco troppo bene per ferirlo con questa faccenda. La mia sporca faccenda, sbrigata la quale tornerò alla mia nuova vita. Forse questo è l’ultimo passo per la libertà personale.
Esco dal locale e il fresco di questa notte nebulosa mi penetra le ossa. Comincio a cercare…non so se desideri più trovarlo che non rivederlo più. Egoisticamente.

Ringraziamenti: ringrazio BurgerQueen, Lady Of Sorrow e nainai per le recensioni.
@BurgerQueen: grazie, e come non adorare questa song, e tutte le altre? XD Sarà la voce di Brian...inizio a sospettare che abbia qualche influsso magico ò.ò Meglio cosìXD Sei certa che non fumi più? In un'intervista aveva detto scherzosamente che avrebbe letto un libro su come smettere di fumare, ma che io sappia fuma ancora. Infatti in un live recente era sul palco con la sigaretta accesa in mano ò.ò Forse sono poco aggiornata, ma comunque preferisco pensarlo con la sigaretta, gli dona xD
@Lady Of Sorrow: credo che per ora le Mollamy non mi sia possibile scriverle, non seguo molto i Muse, anche se devo cominciare XD
Sono contenta di averti incuriosito °v°
Grazie *w*
@nainai: davvero onorata del tuo commento. Mi hai reso felicissima*_* Grazie di cuore anche per averla messa nei preferiti *me gongola* XD 

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Capitolo 5
*** Cap. 4: Find a friend in whom you can confide ***


Julien 6 Note: Questo capitolo è introspettivo, un punto di chiarimento, anche se ancora non c'è la riflessione sul vero rapporto tra Brian e Julien. Quella arriverà poi. Il testo in corsivo è la narrazione di Julien, come si capirà. Quel pezzo è un po' sciatto, forse, ma spero che questo lo renda più realistico o.ò
ATTENZIONE: Julien è tutto mio, giù le mani dal mio cucciolo! XD Brian Molko invece appartiene solo a sé. I caratteri e le situazioni riportate riguardo a personagi reali (come mr. Molko) sono completamente inventati. Nessuno dei Placebo mi paga per questo, non penso lo farebbero mai. Non è liberamente diffamatorio, non intendo offendere nessuno.
Come sempre, commenti e/o critiche ben accetti!
Buona lettura!

 Capitolo 4: Find a friend in whom you can confide

(Brian)
Le lenzuola erano ancora umide quando gli chiesi un perché. Del suo essere lì nel mio letto, ora che ero lucido, dell’essere in strada, dell’essere solo. Perché era Julien?
Lui mi guardò ferendo se stesso per portare a galla le risposte. Sospirò e raccontò tutto come fosse a lui estraneo.

-Finii per strada una mattina. Era presto, ricordo, molto presto. Vivevo in una cittadina del cazzo come tante, e la gente si alzava sempre agli stessi orari, compiva sempre le stesse azioni, diceva sempre le stesse stronzate. Così nessuno era in giro quando presi lo zaino già pronto da sotto al letto, me lo misi in spalla, scesi le scale di legno e uscii di casa richiudendomi la porta a vetri alle spalle. Il sole era freddo, quella mattina, come tutte, e mi dava le spalle mentre lasciavo la casa dove ero cresciuto, la casa dei miei nonni. Non me ne andai per qualche motivo particolare, semplicemente odiavo quel posto, quella monotonia che ti ammazzava lentamente.
Il paesino era vicino al mare e trovai il pomeriggio stesso una nave sulla quale imbarcarmi. Un peschereccio che stava attraversando la Manica per tornare in patria: l’Inghilterra appunto. Il capitano non mi voleva far salire, neanche a pagarlo in soldi, così lo feci in natura, per tre notti.
A lui faceva piacere, a me non importava. La mia verginità in quel senso l’avevo già persa a quindici anni a una festa. Di quel primo episodio ricordo solo l’odore di alcol, marijuana e sudore, un ragazzo più sballato di me, e il dolore. Ma nient’altro. Non so neanche chi fosse lui.
Alla fine giunsi in Inghilterra, e non avevo un solo soldo. Trovai subito un modo per guadagnarli. Un taxi si fermò poco fuori il porto e il tassista mi guardò torvo. Io gli dissi semplicemente “Non ho soldi, mi puoi aiutare?” Mi fermò in un vicolo dove pagai il viaggio fino al prossimo treno. E lì fino a Londra, con qualche soldo raccattato per strada in quel modo, o rubato in giro.
Qui conobbi la droga. Un ragazzo mi agganciò in un pub, era un tipo davvero incredibile, il tizio più fico che avessi mai visto, di certo più di quei cinquantenni frustrati e della gente morta del paesino francese che mi aveva dato alla vita. L’Inglese lo sapevo bene, grazie a mio nonno che veniva proprio da Londra e aveva insistito per rendermi un bilingue. Stupido patriottismo, anche se devo ammettere che tra chiesa e motti è stata quella l’eredità più importante, l’unica, di quei bigotti.
Insomma, io e questo ragazzo stavo insieme, anche se non proprio come una vera coppia. Quando ci incontravamo, fumavamo e scopavamo tutto il tempo.
Poi un giorno non tornò nel monolocale che mi aveva regalato. E così per un’intera settimana. Andai al pub dove l’avevo incontrato e il barista, un suo amico, mi disse che Jack era morto.
Tornai al mio monolocale, e scoprii che fare marchetta non mi bastava più a mantenermi, anche se nel giro ero diventato anche abbastanza famoso. Mi chiamavano la “puttanella francese”, e molti adoravano il mio accento marcato. Poi ho sempre pensato di avere un bel fisico, e sono superbo, molto.
Comunque, mi presi un lavoro in quel pub, anche se non ero molto regolare e assiduo.
Ed eccomi qui, la storia degli ultimi due anni della mia vita.-

Quella notte lo avevo fissato mentre si alzava nudo e disinvolto per prendere una sigaretta e accendersela, rimanendo poi a fumarla sul bordo del letto. E fissai la sua schiena piegata e liscia, pensando che quel ragazzo non avesse sentimenti. Sembrava un pezzo di ghiaccio mentre raccontava quella storia. E aveva solo diciotto anni.
Ora lo vedo chino a terra tra le lacrime, scosso da fremiti incontrollabili e da ringhi feriti che gli escono strozzati dalla gola.
Mi sbagliavo…

(Julien)
Sento che qualcuno mi fissa, sono allenato a capirlo. Mi volto appena, cercando di riprendere abbastanza forze da riconoscerlo…e lo faccio subito, il mio cervello non ha bisogno di macchinare per ripescare dal marasma di ricordi quel viso e il nome corrispondente: Brian.
Mi passo un palmo sul volto bagnato, cercando di trattenere questa nausea. E mi alzo, con lentezza, infermo sulle gambe traballanti. La crisi d’astinenza è lontana, ma dentro la mia crisi non è mai terminata. Io sto bene, mi convinco. Sto bene, sono solo nato storto, tutto qui. Ma anche con quello bisogna conviverci. Mi sono sempre adattato a tutto, alla vita anche. Forse troppo.
Mi appoggio al muro mentre quel dannato continua a guardarmi.
Lui sa tutto di me…pensa di saperlo, ma non è così. Gli raccontai la storia della mia vita, tutte le cose che avevo distanziato per non sentirmi male. Per non pensare che a venti anni sono solo una merda qualunque che offre il suo culo al primo capitato. E lo sono sempre stato.
Fino a quando posso continuare?
“Julien” mi chiama lui, con fare atono, come se non fosse né un ordine né una richiesta.
Lo guardo e credo di inviargli una scarica d’odio non indifferente. Lo osservo bene: così preciso, perfetto, distinto nella sua coda di cavallo elegantemente annodata e appena scompigliata dalla serata, il suo gilet nero aperto sopra la camicia arrotolata fino alle maniche…E io? A terra, come sempre.

Ho sempre sbagliato nella vita, e tuttavia sono sempre stato coscio dei miei errori, incapace di evitarli o riparare ad essi. C’è un limite per ogni uomo o donna, oltre il quale è impossibile trovare in sé la forza di agire per il Bene. Perché giunti oltre la sottile linea bianca, la propria forza interiore si disgrega al buio della propria ambizione e ingenuità. Diveniamo dei di noi stessi, e ci distruggiamo da soli. Continuo a spingermi oltre quel limite cancellando ogni cosa lasciata dietro. Arriva prima o poi per tutti un muro, il capolinea, che ti costringe a voltarti verso la luce di quegli strascichi di vita…ed essa ti acceca, facendoti lacrimare gli occhi.

Il mio non è pianto, è la luce delle menzogne che ho detto a me stesso.



S.A. (spazio autoreXD):
Ringraziamenti: un grazie particolare a nainai i cui commenti sono chicche incredibili, riesci sempre a farmi sentire bene, grazie di cuore. E grazie anche a fedenow, pure per il commento alla one-shot "Mio fratello è figlio unico", grazie mille cara :3 Per la stessa one-shot grazie anche a blinka per il suo commento^^
A presto, ladys!

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