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“E
se le favole fossero realtà? Ti sei mai fermata a pensare che, sotto, ci sia un
fondo di vero?”.
E io che
gli rispondevo che era impossibile, che era tutto frutto di fantasia. Mostri, fate… demoni… tutto falso…
Eppure, adesso che ci sono dentro, adesso che so che non sto
sognando, adesso che posso toccare con le mie mani il frutto di un incantesimo,
mi domando:
Ecco il primo capitolo, ho fatto in fretta,
ma porto cattive notizie ^^’
Non penso pubblicherò fino alla fine del mese, e per The theft, penso dovrà passare un bel po’, perché il capitolo
che devo scrivere è parecchio lungo. Questa storia è nata così, di colpo, ma
non so quanto sarà lunga. Come per Profumo, più scrivo
e più aggiungo cose, fatti e avvenimenti non previsti nella trama di base.
In realtà, avevo in progetto un’altra fan fiction, o meglio due, ma dato che non ho completamente l’idea della trama,
temevo di doverle interrompere per mancanza d’ispirazione, e non c’è cosa che
odi di più >.> Penso che le comincerò cmq,
finita The theft, ma non ne sono sicura! XD
Ok, finito questo poema, passiamo al
capitolo, speri vi piaccia!
Roro: grazie per la fiducia, spero
di esserne degna ^^
La bella
“Com’è oggi, il padrone?”,
domandò il bambino, apparentemente al nulla.
“Oh, di pessimo umore, come
sempre!”, rispose una voce gracchiante, che sembrava provenire da un piccolo
insetto. Il bimbo annuì, sedendosi sulla comoda e folta coda a palla.
“Per quanto continueremo
così?”, domandò, con le lacrime agli occhi.
“Su, su! Non è il caso di
abbattersi! Vai in cucina, e fatti dare un po’ di biscotti”, lo consolò l’insetto. Il bimbo corse via, senza farselo
ripetere due volte.
Passarono pochi secondi, e
l’ennesimo ruggito echeggiò nelle stanze buie e desolate, facendo rabbrividire
gli abitanti del castello.
“Vado a comprare il pane!”,
esordì la ragazza, alla porta.
“Vai pure, Kagome, ma fai attenzione”, disse un anziano signore, lavorando
pazientemente alla stufa rotta.
“Sicuro, non ti preoccupare”,
lo rassicurò la fanciulla, uscendo dalla piccola casa.
Sbuffò divertita. Il nonno non doveva preoccuparsi di nulla,
in quel paesino si conoscevano tutti. Era davvero un’impresa ardua
cacciarsi nei guai.
“Ciao, Kagome”, la salutò Eri, la figlia del fioraio.
“Buongiorno Eri, anche oggi a
raccogliere fiori di prima mattina?”, domandò Kagome, sorridente.
“E
tu a comprare il pane appena sfornato, giusto?”, ribatté la ragazza, prendendo
un ampio cesto di vimini, “salutami Hojo, è sempre
così gentile”.
“Oh, oh! Eri, allora le voci
che girano sono vere!”, esclamò Kagome, colma di
malizia. Eri arrossì, balbettando frasi di negazione
incoerenti.
“Non ti preoccupare, le mie
labbra sono sigillate”, la rassicurò l’amica subito, con un sorriso.Si salutarono, e presero strade diverse. Kagome, arrivata al fornaio, prese una piccola focaccia, da
mangiare subito, e un filone di pane casereccio.
“Ah, c’è Hojo?”,
chiese la fanciulla al fornaio, padre del ragazzo.
“Dovrebbe essere sul retro, a
leggere come suo solito”, sbuffò l’uomo panciuto. Kagome lo ringraziò,
trattenendo una smorfia. Che c’era di male, nel
leggere? Anche lei adorava farlo, immergersi in storie
fantastiche, ricche di streghe, maghi, draghi e demoni da sconfiggere! Era
bello pensare che potesse succedere, un giorno, di incontrare il principe
azzurro.
“Ciao Hojo!”,
lo salutò, trovandolo seduto sui sacchi di farina.
“Ciao Kagome”, rispose lui
sorridendo allegro, mettendo il segno al libro e chiudendolo, “notizie da Eri?”
“Sicuro, direi proprio che è
cotta”, confermò la ragazza, facendo l’occhiolino. Fin da bambini, lei, Hojoe Eri si erano sempre
aiutati, e per Kagome era un piacere fare da tramite tra i due innamorati.
“Non ci credo,
è bellissimo! Grazie Kagome”, disse il ragazzo allegro, prendendogli le
mani.
“Giù le mani da Kagome”,
disse una voce scorbutica. La ragazza alzò gli occhi al cielo. Bastava sentirlo
per capire chi era.
“Buongiorno anche a te, Koga”, lo salutò acida, voltandosi. Il ragazzo, seguito dal
suo gruppo di fedeli amici, la fissava possessivo, con i suoi occhi azzurro
ghiaccio. ‘Ora lo dice…’ pensò la ragazza.
“Kagome, dovresti comportarti
diversamente…”, cominciò il ragazzo. ‘Ora lo dice’.
“…non devi dare tanta
confidenza alle persone…”. ‘Ora lo dice’.
“…considerando che sarai la
mia sposa”. ‘Ecco, l’ha detto!’.
“Koga,
io non sarò la tua sposa! Deciderò io con chi sposarmi”,
precisò la ragazza, facendosi strada nel gruppo. Scorse gli occhi tristi
di Ayame che la fissavano. Possibile che Koga fosse così insensibile? Con la sua mancanza di tatto
era riuscito a rovinare la sua amicizia con Ayame, ed adesso erano nemiche.
“Allora, se sceglierai me,
non ci saranno problemi”, disse il ragazzo, speranzoso.
“Non ci sperare”, rispose
lei, secca. Odiava quei discorsi. Matrimonio di qua, matrimonio
di là! Si, nei piccoli paesi ci si sposa presto, e lei era in età di marito, ma
nessuno poteva obbligarla. Si sarebbe sposata solo ed unicamente per amore.
“Sono tornata”, annunciò
burbera, chiudendo con violenza la porta. Il nonno sembrò notarlo, perché
lasciò il suo lavoro per concentrarsi sulla nipote.
“Tutto bene, Kagome?”,
domandò cauto, prendendogli gentilmente la cesta con il pane. La ragazza
rispose le frasi di routine, prima di esplodere in lamentele.
“Ma
insomma, non può perseguitarmi così tutti i giorni!”, strillò, mangiando
rabbiosamente la sua focaccia. Il nonno annuiva, comprensivo, ma era decisamente troppo silenzioso. Kagome cominciò ad avere
qualche sospetto.
“Nonno… qualcosa non va?”,
domandò, fissandolo intensamente. L’uomo cominciò a sudare freddo.
“Ecco… il fatto è che…”,
cominciò, in difficoltà. Kagome inarcò un sopracciglio, sempre più sospettosa.
“Nonno, cos’hai fatto?”,
domandò con voce tutt’altro che rassicurante. Lui
cominciò a giocare nervosamente con le dita, aumentando le paure della nipote.
“Dimmi
che non hai fatto quello che sto pensando”, disse in un ringhio la ragazza.
“Oh, Kagome, capiscimi! Io
non ho nulla contro quel ragazzo”, cercò di difendersi
inutilmente il vecchio.
“Gli hai concesso di
sposarmi?”, esplose lei, sbattendo le mani sul tavolo. Il nonno sobbalzò,
terrorizzato dall’ira della nipote.
“Ma
no! Gli ho detto che se fossi stata d’accordo, io non
mi sarei opposto”, si giustificò. Kagome fece una smorfia: non andava bene, ma
meglio della sua ipotesi. Il nonno assunse un’espressione seria, e lo stesso
fece la fanciulla.
“Kagome, tu devi capire la
mia preoccupazione. Io sono vecchio, e presto o tardi morirò…”.
“Non dirlo”, lo interruppe
subito lei, tristemente. Odiava quel genere di discorsi. Ma
l’uomo le fece cenno di tacere, e continuò:
“Io voglio essere sicuro che
tu abbia qualcuno che ti possa mantenere, qualcuno di cui tu ti possa fidare”.
“Nonno, ma guardati!”,
esclamò la ragazza sorridendo, “sembri più giovane di me”.
“Mia cara, la compagna che mi
cammina al fianco è silenziosa, e non sempre annuncia il suo arrivo”, disse il
vecchio sorridendo malinconico, “e voglio che tu abbia una spalla su cui
piangere, e qualcuno che ti renda felice, facendoti tornare il sorriso”.
Kagome annuì, pensierosa: non
voleva sposarsi, non con Koga. In realtà, non voleva
sposarsi con nessuno, nel villaggio. Il fatto, è che lei non era innamorata.
“Nonno, capisco come ti
senti… ma, anche se questo vuol dire vivere in una favola, io non intendo
sposare nessuno, finché non troverò la persona a cui donare il mio cuore”,
ammise, pronta ad essere derisa per i suoi sogni fanciulleschi. Ma il vecchio, inizialmente sorpreso, mutò la sua
espressione in un dolce sorriso.
“Oh, nipote mia. Più passa il
tempo, più mi assomigli… e assomigli sempre più a tua
nonna”, disse, carezzandole il volto.
“Non ti disperi per avere una
nipote così stolta?”, domandò lei con un sorriso amaro.
“Stolta, Kagome? E perché? E se le favole fossero
realtà? Ti sei mai fermata a pensare che, sotto, ci sia un fondo di vero?”, chiese l’uomo con volto serio. Kagome rimase confusa da
quell’affermazione. Lo sguardo del vecchio non accennava a mutare in un sorriso
di burla, e questo la inquietava.
“Tsk,
dire queste cose alla tua età, dovresti vergognarti”, disse la ragazza,
allontanandosi dall’uomo con un movimento fluido, e mettendosi a rassettare la
stanza, “piuttosto, hai aggiustato la stufa per il signor Houshi?”.
“Si, ho finito poco fa. Puoi
prendere la carrozza e portargliela tu? Sai, ho parecchio lavoro da sbrigare, e
il signor Houshi non si sposta più da casa, dopo la
scomparsa del figlio”, disse il nonno, con espressione
preoccupata. Anche Kagome si fece scura in volto,
ripensando al ragazzo. Conosceva Miroku da molti
anni, era lei che aveva consolato Sango quando il ragazzo allungava le mani su qualcun’altra. Ma,
da diversi mesi, l’amica non si faceva sentire, e non usciva più di casa: già, da quando era sparito Miroku.
“Come sta Sango?”,
chiese, conoscendo bene la risposta.
“Non esce di
casa, come sempre. Poverina, e pensare che quei due ragazzi
stavano per sposarsi”.
Kagome annuì tristemente, e
andò a preparare la carrozza. Più che una carrozza, era un carretto di legno,
solitamente tirato da un solo cavallo. Kagome lo salutò con qualche carezza, e
lo legò al carretto. Poi aiutò il nonno a caricare e a legare la stufa, andò ad
indossare un abito per il viaggio, prese il mantello e partì. Il villaggio dove
abitava il signor Houshi era molto vicino, e si impiegava qualche ora per arrivarci. Kagome salutò
qualche conoscenza, e fermò il carretto davanti a casa Houshi.
“Buongiorno, sono Kagome, la
nipote di Higurashi”, salutò la fanciulla,
che subito venne accolta nell’accogliente abitazione. Era tutto in un ordine
innaturale, e nonostante i colori fossero accesi, si respirava un’aria pesante.
Kagome si intrattenne con la signora Houshi: non poté evitare di notare quanto fosse invecchiata
in quei mesi.
“Vorrei andare a trovare Sango”, ammise Kagome, guardando fuori
dalla finestra. Doveva sbrigarsi, se non voleva tornare con il buio.
“Ma
come, Kagome, non hai saputo?”, domandò la donna, scura in viso. Quella
reazione spaventò la ragazza.
“C… cosa?”, balbettò,
preoccupata. La donna singhiozzò, prendendo un fazzoletto.
“Anche…
anche Sango è scomparsa, la settimana scorsa”, spiegò
la donna, scoppiando in lacrime. Kagome si sentì gelare: Sango,
l’amica più cara che avesse mai avuto… Strinse i pugni, cercando di trattenere
le lacrime.
“Oh, Kagome! È scappata di casa per cercare Miroku, e non
è più tornata. Ha lasciato solo una breve lettera, ma non abbiamo sue notizie”,
singhiozzò la signora Houshi,
ripensando al figlio scomparso. Kagome si trattenne, per consolare la donna, ma
il suo animo era turbato. Sango… Miroku…
perché stava succedendo tutto questo?
Quando i singhiozzi della
padrona di casa si fecero più radi, Kagome guardò fuori dalla
finestra: era il crepuscolo.
“E’ meglio che vada”,
annunciò, alzandosi in piedi.
“Kagome, è
tardi! Trattieniti da noi per stanotte”, la invitò
la donna, preoccupata.
“Non si preoccupi,
non vorrei disturbare. E poi, il nonno si preoccuperà se non torno. Non vorrei dargli troppi grattacapi, alla sua età”,
disse la fanciulla, sforzandosi di sorridere. Si
congedò educatamente, e riprese il suo carretto, libero del peso della stufa. Ma la sua mente era altrove. Continuava a pensare a Sango, e a Miroku… cosa poteva
essergli successo? Non si accorse che il crepuscolo diventava tramonto, e poi
notte. Non si accorse che il cavallo aveva perso la strada di casa. Si ritrovò
troppo tardi nella foresta buia, al freddo. Sapeva che non conveniva proseguire
di notte, ma aveva paura di fermarsi in quel luogo desolato. Proseguì, nella
notte, impaurendosi per ogni suono, ogni rumore, ogni
soffio del vento gelido. E il sonno stava avendo la meglio.
Fermò il carro, nella speranza di riprendersi. Davanti ai suoi occhi vedeva
scorrere le immagini dei suoi amici scomparsi, in un sogno ad occhi aperti. Ma
poi, queste immagini vennero sostituite da un’altra:
un ragazzo dai capelli lunghi e neri, con gli occhi color della notte, che
sfumavano in un viola scuro e pesto. Era una sua sensazione, o si stava
avvicinando? La sua domanda, non ebbe risposta: Morfeo ebbe
la meglio, e lei sprofondo nel suo gelido mondo degli incubi.
So che ho fatto dei ritardi mostruosi, e, come forse
qualcuno ha notato, non commento più. Il fatto è che la scuola mi sta
soffocando, stiamo alle ultime settimane, e ogni
giorno ho un compito e interrogazioni su tutto il programma. Proprio a causa di
questo, non sono nemmeno riuscita a finire la storia per il concorso (sarà per
il prossimo anno).
Chiedo scusa, non so quando
riuscirò a riprendere a scrivere con regolarità, anche perché a tutto questo si
è aggiunta un’improvvisa mancanza d’ispirazione, forse finita, forse no. A questo proposito, scrivo anche da parte di Emiko92,
che ha il mio stesso problema. Vi preghiamo di perdonarci, torneremo
attive al 100% non appena possibile!
Nel frattempo, spero vi divertiate con questo capitolo.
Riguardo le storie degli altri, le
seguo tutte, magari leggo i capitoli in ritardo, ma le sto leggendo! Mi spiace
solo che non riesco a commentare, spero di riuscire
nuovamente a trovare quel poco tempo che mi basta per farlo.
QuindiGoten,
roro, report, e tutti gli
altri, vi seguo, e le vostre storie mi piacciono da impazzire! Continuate così!
E adesso, dopo questo spaventoso poema, che ha aumentato il
vostro odio nei miei confronti, passiamo alla storia >.>
Un bacio, a tutti quelli che, nonostante tutto, mi seguono
ancora, e a coloro che ancora non hanno ingaggiato un serial
killer per uccidermi!
Bye!
La bestia
Voci, tante voci.
Mi circondano, confondendomi, mentre
comincio a sentire il gelo penetrare nelle mie ossa…
“Shippo,
hai visto? Avevo sentito bene, è tornato il padrone”,
disse la bimba con voce squillante, correndo giù per le scale a piedi scalzi.
L’altro bimbo, molto più basso di lei, si affrettò a correrle dietro, scendendo
le scale a quatto zampe.
“Rin, stalle lontano, non
sappiamo chi è”, le disse Shippo, rimettendosi in
piedi ed avvicinandosi alla ragazza, distesa sul pavimento.
“Certo, il padrone potrebbe
essere più gentile! L’ha lasciata qui all’ingresso, con il freddo che fa”,
commentò la bimba, ignorando gli avvertimenti di Shippo
e avvicinandosi alla fanciulla svenuta.
“Anche
tu lo faresti! Quando è tornato mancava poco all’alba,
e sarebbe ritornato normale”.
“E
allora? Tu mica hai paura di avvicinarti”, rispose Rin
piccata. Shippo sbuffò, zampettando vicino alla
ragazza. Era molto bella, ma era pallida, probabilmente per il freddo.
“Dovremmo portarla in un
luogo caldo, magari stenderla su un letto”, propose, guardandosi attorno.
L’ingesso era un’enorme stanza, dalla quale si poteva
accedere alle varie zone del castello. Al centro, c’era
un’enorme scalinata, che si divideva in due rami, uno verso Est, e l’altro
verso Ovest.Ma, nonostante
l’ampiezza, era completamente deserto, e lui e Rin non potevano
spostare quella fanciulla da soli.
La ragazza emise un lamento,
e Shippo si voltò a guardarla, spaventato.
“Il padrone sta portando
troppa gente nel castello ultimamente”, si lamentò, osservandola. Quella, dopo
un momento di confusione, riuscì a concentrare lo sguardo sul bambino. Lo fissò
per un minuto buono, con una faccia sulla quale si leggeva chiaramente ‘stosognando’. Si mise seduta,
sempre in stato di confusione, reggendosi la fronte. Aveva un
mal di testa assurdo.
Shippo si sporse a guardarla meglio, scettico.
“Tutto bene?”, domandò con tutta la gentilezza che riusciva a mettere insieme. La fanciulla lo guardò, e…
“AHHHHHHHHHHHH!”, strillò
Kagome, scattando in piedi. Shippo corse via come un
razzo, a quattro zampe, nascondendosi dietro ad una colonna. Rin non riuscì a
trattenere un sorriso vedendo che era pallido come un morto.
“Suvvia Shippo,
hai paura di una ragazza indifesa?”, lo canzonò, accostandosi a Kagome per
tranquillizzarla. Il bimbo si sporse tremando, e disse, cercando inutilmente di
mantenere la voce calma:
“N-non
ho p-p-p-paura”. Rin rise
nuovamente.
Kagome, ancora paralizzata,
si affrettò a valutare la situazione. C’era un bambino con zampe e coda da
volpe, orecchie appuntite e strani occhi felini di un verde acceso, e una bimba
che, seppur sprezzante del pericolo, sembrava normale. Forse a causa di un
prematuro istinto materno, Kagome la prese e la tirò dietro a sé.
“Stai attenta”, la ammonì,
deglutendo.
“Signorina, stia tranquilla,
è tutto normale”, cercò di tranquillizzarla Rin, ma non appena Shippo fece un passo, ancora tutto tremante, Kagome lo
fulminò.
“Non ti avvicinare!”, urlò,
mettendosi in posizione di difesa. O almeno in quella che
credeva essere una posizione di difesa, non avendo mai fatto autodifesa.
Rin scosse la testa.
“Shippo,
vai a chiamare Myoga, qui ci penso io”, disse,
prendendo la mano di Kagome e tirandola. Shippo non
se lo fece ripetere due volte, fuggì via dall’ingresso
come un fulmine.
“Ma
quel bambino…”, protestò la ragazza, mentre la bimba la tirava in un angolo.
“Stia
tranquilla signorina, è tutto normale! In questo castello sono tutti così”, spiegò Rin, scatenando lo sguardo
spaventato di Kagome. Si affrettò quindi ad aggiungere, “tranne me. Anche io,
come te, sono venuta qui dopo”.
“Dopo cosa? E perché quel mostriciattolo di prima…”.
“Non chiamarlo
mostriciattolo, è un bimbo normalissimo!”, la rimproverò Rin, “E ha un nome, si
chiamaShippo. Io sono Rin,
e ti stavo dicendo…”.
“Perché
ha quelle… gambe, e quella coda?”, domandò Kagome spaventata. Rin sbuffò,
rinunciando ad ogni tentativo di dialogo. Ascoltò passiva le domande frenetiche
della fanciulla, che non attendevano mai le
risposte,finché non urlò di nuovo.
“Che diavolo è quello?!”. Rin si voltò verso la causa dell’urlo. Era un piccolo
insetto saltellante al fianco di Shippo, che si era
nuovamente nascosto dietro alla colonna.
“Piccola Rin, è questa la
ragazza?”, domandò l’insetto, facendo spalancare gli occhi sconvolti di Kagome.
Un… un insetto parlante?!
“Si, vecchio Myoga! Strilla per ogni cosa, è
proprio fifona! E anche chiacchierona, non mi ha
lasciato spiegare nulla”, si lamentò la bimba, sbuffando. Kagome la squadrò:
fifona lei?
…
Bè, in
effetti non aveva mostrato certo un cuor di leone negli ultimi cinque
minuti, ma chi non si sarebbe spaventato? Un nuovo movimento di Shippo la fece sobbalzare, e urlare nuovamente.
“E
la vuoi smettere?”, strillò a sua volta il bimbo, esasperato, dopo aver
riacquistato il suo coraggio. Un altro urlo riecheggiò nell’atrio, facendo
impallidire tutti.
“Che
cosa succede? Il padrone si sta innervosendo”, fece
una voce acuta e cristallina. Non aveva molto dell’arrabbiato, era troppo
smielata, ma riuscì comunque a spaventare tutti i
presenti.
Kagome alzò lo sguardo, in
cima alle scale, vedendo una donna in abito da domestica, decisamente
troppo corto, con capelli lisci a caschetto, color
dell’ebano, e lineamenti dolci e infantili.
“Yura,
questa ragazza continua ad urlare”, si giustificò Rin, mentre Shippo si lamentava.
“Oh, si! Se siamo noi ad
urlare non va bene, lui invece può ruggire a suo
piacimento!”, borbottava tra sé e sé. Rin gli diede una gomitata.
La donna di nome Yura, apparentemente normale, diede una rapida occhiata
alla sala. Kagome incrociò il suo sguardo per un momento molto breve, ma avrebbe giurato di aver visto due iridi color prugna.
“Fatela stare zitta allora”,
disse Yura con semplicità.
“E
come?”, chiese ingenuamente Shippo.
“Così”, disse una voce aspra,
ma molto affascinante, alle spalle di Kagome. La ragazza impallidì, prima di
sentire una botta al collo. Tutto si fece scuro, e sentì nuovamente il freddo
del pavimento a contatto con la sua pelle.
“Kagura,
ma perché devi essere così violenta?”, protestò Myoga,
saltellando frenetico.
La donna, alta, con i capelli
neri mossi, sciolti lungo la schiena, e in camicia da notte, sbuffò, portandosi
la mano destra, tenente un ventaglio, alla spalla.
“Mi ha svegliato”, protestò,
fissando gli occhi rossi sulla ragazza svenuta. Le sue orecchie a punta si intravedevano solamente, sotto i lunghi capelli.
Yura sbuffò, sparendo nuovamente per le scale, mentre Kagura prendeva la ragazza in braccio, come una bambina.
“La porto in camera mia,
appena si sveglia gli spiegherò tutto”, disse, e si avviò in uno dei corridoi
laterali, seguita da Myoga.
Rin e Shippo
si guardarono per un attimo, confusi.
“Andiamo a controllare i
prigionieri?”, chiese Rin. L’altro annuì, e sparirono nel corridoio che dava ai
sotterranei.
Intanto, due occhi dorati e
luminosi, stavano osservando il punto in qui Kagome era
sparita alla vista, mente una Yura preoccupata
osservava il suo padrone in disparte.
Ne approfitto subito per
aggiornare, e magari per avvantaggiarmi col lavoro >.>
Per “The Theft”, il capitolo che
devo scrivere è lungo, e per il momento preferisco aggiornare quest’altra
storia, che essendo all’inizio riesco a gestire con
più facilità.
Un bacio a tutti, vi adoro *.*
P.S. Non ci credo, questa FF è
molto più commentata di “Profumo”, sono shockata! XD
Incantesimo
Kagura fissava il sole, che lentamente saliva nel cielo. Era
comodamente seduta sul davanzale della finestra, indossando un semplice abito
da serva, ma di un insolito rosso porpora, con un bianco
grembiule che le fasciava i fianchi, sottolineandone le curve femminili. I
capelli erano ora legati in unocignon
mezzo sciolto, che lasciava libera qualche ciocca sbarazzina.
I suoi pensieri erano persi
in un lungo e contorto filo di concetti, che a tratti la riportavano alla fanciulla che occupava il suo letto. In questi sparsi
momenti, spostava il suo sguardo cremisi sul volto della ragazza, ora così tranquillo e rilassato, rispetto all’espressione di
terrore e incredulità che sfoggiava pochi minuti prima.
Si domandava se, una volta
sveglia, avrebbe creduto alla storia che stava per raccontargli, o avrebbe pensato ad una presa in giro. Certo, poteva sempre
sventolargli davanti agli occhi Shippo o Myoga come prova, o, perché no, Kirara.
“Sei ancora qui fuori,
vero?”, domandò infine la donna, concentrando la sua attenzione sulla porta.
Questa si aprì scricchiolando, mostrando un timido Shippo.
A Kagura non sfuggì la nota
di preoccupazione sul suo volto.
“Che
c’è?”, domandò con il tono più comprensivo che riuscisse a sfoggiare.
“Ecco…”, cominciò il bimbo,
“volevo sapere come stava”. Kagura intuì la ragione
di quella domanda.
“I prigionieri stanno male,
eh?”. Era più un’affermazione che una domanda. Il bambino annuì.
“Lui sta molto male. Il
padrone manderà anche lei nelle prigioni?”, chiese osservando la fanciulla dormiente.
“Non lo so”, ammise Kagura, “normalmente li porta
subito in qualche cella. Lei, invece, l’ha lasciata nell’atrio, in attesa che la trovassimo”.
“Spero che la
lasci andare, almeno lei”, disse Shippo,
sospirando tristemente.
“Perché?
Ti ha trattato male, no?”, fece notare la donna,
scettica. Lui scosse la testa, osservandola serio con gli occhioni
verdi.
“Aveva
paura, è normale! Io… io so che non è cattiva”, cercò
di spiegare, spostando il suo sguardo sul pavimento.
“Capisco quello che intendi. Anche io sento qualcosa di strano accanto a questa ragazza”,
ammise Kagura, osservando Kagome curiosa. Era come se
si sentisse a suo agio, più… umana. Si, quell’umanità che
aveva perso quarantasei anni prima.
“Shippo…
tu non ti senti più grande?”, chiese la donna, fissando nuovamente il sole.
“In che senso?”, domandò il
bimbo confuso.
“Tu sembri un bimbo di cinque
anni, ma in effetti, ne abbiamo molti di più. Se non fosse per la maledizione, io sarei una vecchietta
adesso. Però, ti comporti davvero come un bambino piccolo in certe situazioni,
mentre in altre dimostri una grande maturità”, spiegò Kagura, soprappensiero.
“Penso che sia sempre a causa
della maledizione. Non possiamo crescere del tutto, il nostro
tempo è fermo. Ma, in certe cose, è come se non
agisse”, rispose il bambino. In effetti, si sentiva insieme vecchio e giovane,
ma quasi sempre aveva comportamenti infantili.
Un gemito distrasse i due
dalla loro conversazione, concentrando la loro attenzione
sul letto. Kagome si stava agitando nel sonno, prima di rimanere nuovamente
immobile. Aprì lentamente gli occhi, e dopo qualche minuto di silenzio, si
guardò attorno confusa, cercando di capire dove si
trovava.
“Ben svegliata. Te lo dico
subito, non ricominciare ad urlare. Sopra di noi c’è l’ala
Ovest, non te lo consiglio”, disse Kagura
anticipando ogni suo gesto. La ragazza si mise a sedere, rintontita. Ricordava
vagamente quella voce, così suadente.
“Oh, se fai arrabbiare il
signore sono guai”, disse Shippo rabbrividendo.
Ricordava anche questa, di voce. La sagoma del bimbo con la coda da volpe
apparve nuovamente nei suoi ricordi, e questo le causò un groppo allo stomaco.
“Non è un sogno… vero?”,
chiese con voce debole.
“No, non lo è”, confermò Kagura, cercando di sembrare comprensiva. La ragazza si
morse un labbro, cercando di valutare la sua situazione. Era in un luogo
sconosciuto, popolato da strane creature, e lontano da
casa. Forse non era poi tutto così nero come lo vedeva, forse l’avrebbero aiutata.
“Io sono Kagura.
Come ti chiami?”, chiese la donna, incrociando le
braccia.
“Perché
dovrei dirtelo?”, domandò Kagome mettendosi sulla difesa. L’altra inarcò un
sopracciglio, fissandola male.
“Perché stai occupando il mio
letto”, fece acida, con voce tanto minacciosa che la fanciulla
si coprì parte del volto con il lenzuolo, deglutendo.
E va bene, mettersi sulla
difensiva non era stata una buona idea. In effetti non le conveniva attirare su di sé le antipatie
altrui, se voleva un aiuto. Osservò Shippo, che si
era appena arrampicato ai piedi del letto per sedersi comodamente sul
materasso. Non sembrava così spaventoso come gli era sembrato ad una prima occhiata, era solo un bambino, o un cucciolo, a
differenza di quale metà del suo corpo si valutava.
“Mi chiamo Kagome”, disse
infine, osservando Kagura, “scusa la maleducazione,
ma sono… in difficoltà”. Non voleva ammettere di avere paura. Anche quella donna era strana, con orecchie appuntite e
occhi rossi. Quegli occhi le ricordarono l’altra donna, con i capelli corti e
le iridi prugna. Possibile che in quel posto nessuno fosse normale? Solo la
bambina, l’aveva anche detto, ma com’era il suo nome? Forse Ran?
“Ti capisco, ma cerca di
mantenere il controllo. C’è una spiegazione a tutto questo, e vorrei che tu mi ascoltassi”, cominciò Kagura,
sospirando. Kagome la interruppe subito con un gesto della mano.
“Se
ti ascolto, poi potrò andarmene, vero?”, chiese, insicura. Non voleva rischiare
che, sapendo troppo, non l’avrebbero lasciata andare.
“Si, tu puoi, altrimenti non
ti troveresti qui”, rispose la donna, la fine della frase quasi in un sussurro
confuso. Quell’affermazione fece riflettere molto la ragazza.
“Devi sapere che, una volta,
questo castello era normalissimo, come ogni altro posto su questa terra. Noi
servitori servivamo il nostro padrone, felici della pace che albergava in
queste mura. Il nostro padrone aveva due figli, il maggiore dei quali aveva
lasciato il castello a causa di un litigio col padre, mentre l’altro era
cresciuto viziato e freddo, a causa della perdita prematura della madre. Poi,
un giorno, il padrone fu colto da un malore, e morì. Suo figlio rimase talmente
sconvolto che il suo carattere chiuso peggiorò, e cominciò a condurre una vita
sregolata. Finché, in una notte di luna nuova…”. Kagurasi interruppe al ricordo di
quella notte, invernale e gelida: la notte nella quale il suo tempo si fermò. Kagome
la osservò confusa, spostando lo sguardo tra lei e Shippo,
che sembrava altrettanto depresso.
“Quella notte”, ricominciò la donna con voce calma, “una vecchia chiese
asilo nel castello. Il padrone, quando venne a sapere della richiesta di quella
donna, si precipitò all’uscio urlante, e la spinse fuori in malomodo,
insultandola. Ma quella, dopo che venne circondata da
una luce accecante, rivelò di essere una bellissima fata dai capelli corvini. Il
padrone rimase abbagliato dalla sua bellezza, e le chiese di rimanere al
castello. Ma era tardi, ormai: la fata lo punì per il
suo cuore di pietra, maledicendo lui e tutto il suo castello. Anche noi che vi abitavamo non fummo risparmiati. La nostra
pena fu quella di venir mutati in demoni, e il nostro
tempo si fermò. Anche il figlio maggiore venne colpito
dalla maledizione, poiché ancora non aveva trovato un’altra casa ove abitare. Tornò
subito alla casa paterna, e, dopo aver scoperto la verità, litigò con il
fratello, e si ritirò nell’ala Ovest. Da allora non lo vede quasi mai nessuno.
Per quanto riguarda il padrone, è condannato a rimanere nella sua forma bestiale,
finché non troverà qualcuno capace di amarlo. Solo nelle notti di luna nuova
torna umano, quando l’oscurità è padrona, e nessuno può vederlo”.
Kagome rifletté sulle parole
di Kagura. Ricordava di aver visto
un ragazzo la notte precedente, era forse lui? In effetti, era luna
nuova.
“È stato lui a portarmi qui?”,
domandò osservandoli.
“Si”, rispose Shippo, “una volta nessuno riusciva ad avvicinarsi al
castello, ma ultimamente la barriera magica si sta
indebolendo. Segno che il tempo per spezzare la maledizione sta scadendo. Sono quarantasei
anni che siamo così, quando saranno cinquanta non ci sarà più nulla da fare”.
“Allora quel ragazzo coi capelli scuri…”, mormorò la fanciulla. Le orecchie
demoniache di Kagura la sentirono, e la donna la
fissò confusa.
“Come fai
a saperlo? L’hai forse visto?”, chiese curiosa, ma
insieme preoccupata.
“Si, non so. Era come se…
avesse una luce attorno, non so spiegarlo”, ammise
Kagome. Ricordava vagamente un’aura biancastra attorno al ragazzo, una luce che
lo accompagnava. Kagura la osservò in silenzio.
Possibile che fosse…?
“SHIPPO!”, urlò una voce
infantile, poco dopo seguita dalla piccola Rin, che si fiondò
nella stanza ansimante.
“Che
succede?”, domandò il piccolo demone volpe, spaventato. Kagome fissava la
bimba, riflettendo. Perché lei non era maledetta? Se
così fosse, sarebbe dovuta essere molto più vecchia.
“Il prigioniero, dobbiamo
curarlo! Sta… sta tossendo sangue!”, disse la bimba
piangendo.
“Rin, non possiamo! Se il padrone lo scopre…”.
“Non mi importa!”,
strillò Rin, singhiozzando. Kagome osservò la scena preoccupata. Aveva una brutto presentimento.
“La ragazza come sta?”,
domandò Kagura.
“Sta piangendo, cerca di
aiutarlo, ma è tutto inutile! Bisogna portarlo in un luogo asciutto e dargli delle medicine”, disse la bimba con gli occhi lucidi
e arrossati.
Kagome sentì una fitta percorrergli
la spina dorsale. Sentiva qualcosa, qualcosa di… tremendo.
“Com’è il ragazzo?”, domandò
d’istinto.
“Moro, occhi blu, fisico
robusto e porta un codino”, elencò Shippo, mentre
cercava di trovare un modo per uscire da quella situazione spinosa.
Kagome spalancò gli occhi, e
saltò giù dal letto.
“Ran,
portami da lui”, urlò, correndo alla porta. La bimba, inizialmente confusa dal
nome errato, non se lo fece ripetere, e corse fuori con la fanciulla.
“Che
fate, siete impazzite? Rin, se il padrone la vede la ucciderà!”, strillòShippo dalla porta. Kagura rimase immobile a fissare la scena, chiusa nei suoi
pensieri.
“Lasciale andare, Shippo. Quella ragazza è strana… le
assomiglia molto”.
Ehilà, anche oggi, dopo essermi uccisa a scrivere ieri
notte, ecco il capitolo del giorno! XD
Adesso passiamo alle cattive notizie. Temo che questo sia l’ultimo
capitolo che riuscirò a scrivere forse fino alla fine
del mese, sicuramente per una settimana buona.
Per farvi un’idea: domani Italiano, Sabato e domenica
manifestazione per Ed Fisica, Lunedì Filosofia, e così
via…
Ovviamente, se riuscirò a scrivere, anche a scatti,
pubblicherò (ho mezzo capitolo già scritto, quindi ho un po’ di vantaggio XD), ma non assicuro nulla!
E adesso, spero questo capitolo vi piaccia, buona lettura ^^
Ary
Il Padrone
Kagome corse. Corse più veloce
che poté, concentrando in quello scopo ogni cellula del suo corpo. Rin la
precedeva, altrettanto velocemente, ma non era certo tormentata come lei.
Sì, si sentiva tormentata.
Aveva un brutto, bruttissimo presentimento, ed era come se fosse questo a controllarla.
Quel corridoio lungo e stretto sembrava non finire mai, e si sentiva le gambe
sempre più pesanti.
Passarono nell’atrio nella
quale si era svegliata, e imboccarono subito il secondo corridoio.
“Attenta alle scale!”, la
avvertì Rin, sparendo dietro un angolo.
“Quali scal…
AHHHHHHHHHH!”, urlò Kagome inciampando nel primo gradino, e facendo a ruzzoloni
tutti gli altri. Rin, avvertita dall’urlo, si affrettò a spalmarsi
letteralmente sul muro per non venir investita dalla Kagome-palla,
che le passò davanti. Un tonfo, seguito dal silenzio, le fece capire che era
arrivata alla fine delle scale.
“Tutto bene?”, chiese,
ricominciando la sua rapida discesa. Ottenne un lamento in
risposta, e poco dopo vide Kagome sul pavimento, in una posizione scomposta,
che dondolava la testa da una parte all’altra e cercava di muovere il braccio.
“Tutto bene?”, domandò
nuovamente, prendendole una spalla e aiutandola ad alzare il busto. La fanciulla si raddrizzò rintontita. La fretta di poco prima
era svanita, e questo la faceva sentire meglio. In compenso, sentiva dolore in
ogni parte del corpo, ma non le sembrava di avere nulla di rotto.
“Ci manca solo che ti senti
male pure tu, andiamo. E comunque, il mio nome è Rin”,
disse Rin cercando di tirarla su. Kagome la guardò torvo.
“Ehi, senti un po’ tu…”,
disse con un tono di minaccia, rialzandosi in piedi. La bimba la ignorò, e
riprese a camminare. Erano in un corridoio come quello di prima, ma decisamente più illuminato, Kagome sospettò per opera di Rin
e Shippo. Era umido, e l’aria cattiva, tutto aveva
l’impressione di essere sudicio e sporco da anni.
Sentì una tosse grassa
provenire dal fondo del corridoio, e questo la fece tornare alla sua
preoccupazione. Si affrettò, superando Rin, affacciandosi in
una stanza mediamente grande, divisa in due parti da una fila di spesse
sbarre di ferro.
In quel momento, quasi
subito, incrociò il suo sguardo. Uno sguardo supplicante, in
lacrime, che sembrò illuminarsi non appena incrociò il suo.
“Sango!”,
strillò Kagome, gettandosi verso le sbarre. Quel gesto automatico non fece che
accentuare la sua sensazione di lontananza dall’amica. Si inginocchiò
davanti alla cella, tenendo ben strette nelle mani le sbarre di ferro, come
nella speranza di spezzarle.
“K… Kagome”, balbettò Sango, sforzandosi di sorridere. Era una ragazza mora, con occhi
scuri, seduta sui talloni. Tra le braccia, poggiato sulle sue ginocchia, c’era
il ragazzo descritto da Shippo.
“Miroku”,
sussurrò Kagome tristemente. Era sudato, e sembrava tormentato dalla febbre. Le
vennero le lacrime agli occhi, ma si impose di non
lasciarle scendere. Si voltò verso Rin, arrabbiata, mordendosi il labbro.
“Falli uscire, ti prego”,
disse, quasi urlando. Ma in quel momento, si accorse che
dietro di lei, Rin non c’era. Confusa, si voltò nuovamente verso Sango, concentrata su Miroku. Il
ragazzo cominciò nuovamente a tossire, coprendosi il volto con una mano: la fanciulla distinse chiaramente delle macchie cremisi su di
essa.
“Rin, fai presto!”, strillò,
cercando di trattenere le lacrime, che ormai stavano sfuggendo al suo
controllo.
In quel momento, le torce vennero spente dal vento, proveniente da una finestra nella
parte alta della cella, sbarrata anch’essa. Kagome rabbrividì, in parte per il
freddo, in parte per quell’atmosfera inquietante. Un
solo raggio di luce proveniva dalla finestra, e illuminava il pavimento dietro
Kagome, lasciandola nell’ombra.
Non riusciva più a vedere
bene Sango, ma distingueva ancora i suoi occhi
lucidi. Che, in quel momento, erano fissi dietro di lei,
spalancati e silenziosi.
E un silenzio innaturale scese in quel luogo, perché Sango non piangeva né singhiozzava più, anche se le lacrime
continuavano a scendere inesorabili dai suoi occhi.
Kagome sentì una scossa alla
schiena, come se qualcosa la stesse perforando, o meglio, fulminando. Si voltò,
molto lentamente, aveva paura di vedere cosa aveva alle sue spalle. Ma inizialmente non vide nulla. Poi, poi li scorse.
Due occhi gialli e penetranti
la stavano fissando dall’ombra, lì, all’imboccatura del corridoio. Poteva
distinguerli perfettamente, come se fossero due luci dalla pupilla felina. Si
sentì gelare, e presa dal terrore urlò, con quanto fiato aveva in gola,
appiattendosi contro le sbarre della cella. Vide gli occhi assottigliarsi in
due fessure, come disturbati dal suo grido, e un ringhio basso e rauco la
spinse a tacere.
“Avvicinati”, disse una voce
minacciosa, che fece immobilizzare completamente la fanciulla,
“alla luce, subito!”.
Quest’ultimo richiamo fece
scattare in piedi la ragazza, terrorizzata, con le lacrime agli occhi. La luce si riflesse per un attimo sui suoi capelli corvini, per poi
rimanere ad illuminare solo il busto e parte del viso. Gli occhi dorati,
accecati dal riflesso inaspettato, si chiusero per un bravissimo istante. Quando si riaprirono, avevano un’espressione sorpresa.
“Ma…
tu…”, balbettò la voce, adesso più umana. Kagome rimase confusa da quel
cambiamento, e ne approfittò. La voce, meno
minacciosa, le permise di parlare.
“Ti prego, liberali! Mirokusta male, non lo vedi? Se
continua così morirà!”, disse con la voce più ferma e supplichevole che riuscisse a fare. Un nuovo ringhio la zittì.
“Per mandarli in giro a
parlare di me? Che muoia in questa cella, lui e la sua
compagna!”, disse la voce adirata e roca. Kagome, per la paura, cadde a
terra, abbandonando il raggio di luce che la colpiva. Sentì alle sue spalle un
sommesso singhiozzo di Sango.
Non poteva. Non poteva
lasciarla li, farla morire li. Quando erano piccole,
lei, che era sempre stata un maschiaccio, l’aveva sempre difesa da tutti, non
poteva finire così. Era il suo turno di lottare per l’amicizia che le legava.
“Rimarrò io”, disse con voce
ferma e seria. Calò un silenzio di tomba, durante il quale gli occhi la
fissarono increduli.
“Come?”, chiese la voce,
nuovamente con accenni umani. Sango fece per parlare,
Kagome la sentì prendere fiato, ma subito prese la
parola, per impedirglielo.
“Starò qui al posto loro.
Sono la loro migliore amica, se mi avrai come ostaggio non parleranno di tutto
questo”, disse, in tono convincente.
“Va bene”. Kagome spalancò
gli occhi. Era stato così semplice convincerlo? Non c’era una trappola, un
trucco?
“Kagome,NO!”, urlò Sango,
stringendo a sé Miroku.
“Rin, liberali! Volevi questo, no?”, ringhiò la voce. La bimba si fece
spazio nel buio, con fare colpevole. Aprì la porta
della cella, e si appoggiò al muro, come a voler sparire.
“No! Kagome, non farlo, tu
non l’hai visto! E’ un mostro, è… è una bestia!”,
strillò Sango, piangendo. Kagome chiuse
gli occhi, non voleva sentire. Aveva deciso, non le importava.
“Dì al nonno che sto bene”,
riuscì a dire con un tono malinconico. Dei tonfi cominciarono a scuotere il
terreno, e gli occhi gialli sparirono. Poco dopo, un enorme demone entrò nella
stanza, mostrandosi alla luce. Era un enorme mostro viola, con corna e artigli
neri come l’onice, e occhi rossi come il fuoco. Kagome si sentì morire. Era
quello il mostro alla quale si era offerta? Ma poi, udì la voce di prima provenire dal corridoio.
“Goshinki,
portali via, e rimandali al loro villaggio”.
Il grosso demone li prese, in
malo modo, mentre Sango scalciava urlante. Kagome
rimase immobile, per convincersi del tutto della sua scelta. E
quando le urla di Sango furono lontane, solo allora
si lasciò ad un pianto disperato.
Aveva rinunciato alla sua
famiglia.
Aveva rinunciato ai suoi
amici.
Aveva rinunciato al suo
desiderio di sposarsi solo per amore.
Oramai, non era più libera. E si rese conto di non essere in una favola, ma in un
terribile, terribile incubo.
(fa
capolino dalla porta, e viene subito investita da ogni genere di oggetto
lanciato dai suoi ex fan)
No, vi prego, fatemi spiegare ç.ç
Sembra
improbabile, ma ho una spiegazione per tutto questo, davvero!
Allora,
vi ricordate che avevo detto che avrei pubblicato all’inizio di giugno? Ecco,
mi ero preparata un paio di capitolo da postare, quando un lutto ha colpito la
mia tecnologia famiglia ù.ù
Ebbene
si, il mio pc, che, pur non sapendo qual è il vostro, era di sicuro il suo
bisnonno, ha lasciato questo mondo in silenzio (è stato spento e non si è più
riacceso), e si è portato con lui tutti i miei bellissimi capitoli ç.ç
Questo
pc è nuovo, comperato solo xkè serviva a bro per l’università (e ringraziamo, o
chissà quando tornavo -.-), e dopo i primi periodi di panico dei miei genitori
che non capivano come funzionava Vista (e che ovviamente non si sono fatti
spiegare da me, che lo conosco, come funzionava, o era troppo facile) sono
riuscita a prendere in mano il pc solo ieri ç.ç
Prima
che mi fuciliate, vedo già qualcuno che pulisce le canne del suo amato fucile
>.> , vi lascio al capitolo, è corto, ma è il meglio che sono riuscita a
fare, cercando di riscriverlo fedele alla precedente perduta versione.
Aryuna
Tu
cenerai con me
Kagome
fissava fuori dalla finestra, seduta sul letto. Erano ore che era immobile
nella stessa posizione, senza dare alcun cenno di vita. Kagura la fissava
perplessa e confusa.
Lei
e Yura erano andate a prenderla dalle prigioni sotto ordine del Padrone, e l’avevano trovata sotto stato di shock, in
lacrime. Da quel momento, non aveva detto una parola. La porta scricchiolò, e
un timido Shippo si affacciò lentamente.
“Posso
entrare?”, domandò prudente, lanciando occhiate ad entrambe le donne presenti.
Kagura annuì con un cenno quasi impercettibile, e il piccolo demone varcò la
soglia, zampettando verso Kagome.
“Kagome,
come stai?”, chiese gentilmente, sedendosi ai suoi piedi. La ragazza spostò lo
sguardo verso di lui, e subito i suoi occhi si fecero lucidi. Non era pentita
della sua scelta, ma aveva paura, molta paura.
“Vedrai,
non è così brutto vivere qui al castello! Certo, è un po’ buio, e ogni tanto si
sentono ruggiti e strilli …”.
“Shippo!”,
lo rimproverò Kagura subito.
“…
ma ci si fa l’abitudine, credimi”, terminò il cucciolo ignorando la youkai.
Kagome si sforzò di sorridere, ma ottenne solo una smorfia poco convincente.
Perché lei veniva trattata così, mentre i suoi amici erano rimasti rinchiusi in
una buia prigione? Perché lei era comodamente seduta su un letto, mentre loro
erano rimasti sul pavimento spoglio, in quella cella gelida e umida?
Due
occhi gialli interruppero il flusso dei suoi pensieri, facendola sobbalzare.
Subito dopo, si accorse che li aveva solo immaginati.
“Kagome?”,
domandò Shippo perplesso. Anche Kagura la osservava, con sguardo neutro, ma
preoccupata. Quella ragazza stava sudando freddo, come se avesse visto un
fantasma.
“Sto
bene, davvero”, mentì Kagome, con l’ennesimo sorriso riuscito male. Quegli
occhi la stavano perseguitando: lo odiava, lo odiava con tutto il cuore.
La
porta fu aperta da un tonfo, e una piccola palletta rotolò dentro la stanza.
Kagome si accorse, con sua enorme sorpresa, che non era una palla, ma una
persona.
“Naraku,
smettila di giocare a palla con me e lava i pavimenti!”, strillò il bimbo a
carponi sul pavimento. Aveva i capelli legati in due buffi codini, e i tipici
tratti demoniaci della maledizione. Una risata sinistra (“Kuhuhuhuh”) risuonò
nel corridoio, e il bimbo chiuse la porta con violenza.
“Cretino!”,
strillò il bambino.
“Souten,
questa è camera mia, non distruggerla!”, lo rimproverò Kagura con uno sguardo
fiammeggiante. Il bimbo cercò di rispondere all’occhiataccia, ma i suoi occhi,
seppur rossi, non ottennero lo stesso minaccioso effetto.
“Che
cosa vuoi?”, chiese acido Shippo.
“Non
sono qui per te, anche se so che ci speravi”, rispose il bimbo, voltandogli le
spalle.
“Chi
io?”, chiese Shippo in tono di sfida.
“Shippo
smettila! E tu, Souten, dì perché sei qui”, li interruppe Kagura scocciata.
“Allora”,
cominciò Souten, tossicchiando, e voltandosi verso Kagome, “Shiori mi ha detto
di dire che Kanna le ha detto di dirmi che Rin le ha detto di dirle che Yura le
ha detto di dirle che Myoga le ha detto di dirle che il Padrone ha detto di
dire a Kagome che la invita a cenare con lui”.
Il
silenzio calò nella stanza.
“In
pratica, il Padrone ha invitato a cena Kagome?”, chiese confuso Shippo.
“E
io che cosa ho appena detto?”, si lamentò Souten.
“Scema!”.
“Infantile!”
“Sei
un maschiaccio, Goshinki potrebbe essere più femminile di te!”
“Sta
zitta, volpaccia di sesso confuso!”
“C…
che cosa?”, strillò Shippo saltandogli addosso. Cominciarono a rotolarsi sul
pavimento, chi a tirare i capelli, chi le orecchie, chi la coda di Shippo.
Kagome
fissò la scena confusa, mentre Kagura sbuffava con uno sguardo da ‘è sempre la
stessa storia’. Intanto, Kagome aveva capito che Souten era una bambina, e non
un bambino.
Qualcuno
bussò alla porta, e Rin fece capolino allegra come suo solito.
“Ehilà,
volevo vedere com… ma che state facendo?”, strillò la bimba osservando la scena
davanti a lei.
“Ciao
Rin”, salutò Kagura svogliatamente.
“Kagome,
come stai?”, chiese la bimba aggirando la rissa. Lei rispose con lo stesso
sorriso di prima.
“Dai,
vedrai che andrà meglio tra un po’. Vedi, abbiamo anche la storia d’amore tra
questi due ad animare il castello”, disse Rin indicando i due, che subito si
bloccarono, arrossendo.
“Ma
cosa stai dicendo?”, strillarono in coro, e questo li fece arrossire ancora di
più, lasciando calare il silenzio.
“Bene,
ora che posso parlare ad un tono normale, il padrone chiede se Kagome accetta
l’invito a cena”, disse Rin, sedendosi accanto a Kagome. La fanciulla distolse
lo sguardo, sbuffando incredula.
“Ci
andrai?”, domandò Kagura, intuendo la risposta.
“No!
Dopo quello che ha fatto ai miei amici, non mangerò con lui nemmeno se dovessi
morire di fame!”, disse lei, incrociando le braccia.
“Non
dirlo, potrebbe farlo davvero”, la ammonì la donna.
“Preferirei,
piuttosto che venire trattata come una regina, quando Sango è stata lasciata a
morire nelle prigioni!”.
Kagura
sospirò, e concentrò l’attenzione sui bambini.
“Rin,
tu vai pure a riposare fino a cena. Souten, torna nelle cucine ad aiutare i
tuoi fratelli …”
“Ma
Manten mi caccia!”, si lamentò la bimba.
“E
tu dillo a Hiten! Shippo, cerca Myoga, e digli del rifiuto di Kagome. Per il bene
di tutti noi, e meglio che sia lui ad informarlo”, terminò Kagura saggiamente.
I
piccoli si dileguarono, lasciando le due donne sole. Kagome prese un respiro
profondo, e sprofondò nel cuscino, trattenendo le lacrime.
“Troppe
ne dovrai versare se decidi di opporti al padrone”, le disse Kagura.
“Lasciami
in pace”, rispose lei con voce tremante. La donna fece una smorfia, e tornò a
guardare fuori dalla finestra.
“CHE
COSA?”, ringhiò il ragazzo rovesciando il tavolo in uno scatto di rabbia. Tutti
gli arredi finirono sul pavimento, e schegge di vetro, acqua e frammenti si
sparsero per tutta la stanza.
“Padrone,
la ragazza è spaventata, dovete cercare di capirla e trattarla con gentilezza”,
cercò di calmarlo Myoga, saltellando tra le schegge.
“Gentile?”,
fece quello, fissando gli occhi dorati sul servitore, “le ho dato una stanza, una
servitrice a sua disposizione, l’ho invitata a cena! Cos’è questo, se non
GENTILEZZA?”, sbraitò, lacerando una tenda e gettando a terra uno specchio.
“Oh,
sette anni di sfortuna”, mormorò Myoga scuotendo il capo.
“Ce
ne bastano quattro ed è la fine! Come si permette quella sgualdrinella?”,
ringhiò il ragazzo sedendosi su un divano e tamburellando nervosamente il
bracciolo con le dita. Poi, si fermò improvvisamente, e un sorriso diabolico
increspò le sue labbra.
“Non
servitegli la cena”.
“Come?”,
chiese Myoga, credendo di aver sentito male.
“Se
non mangerà con me, allora non mangerà”, ripeté il giovane, ridacchiando.
“Padrone
non penso sia una buona idea…”
“MUOVITI!”,
ringhiò lui, e la pulce si volatilizzò immediatamente per dare istruzioni. Il
giovane si mise comodo sul divano, avvolto dall’oscurità della sua stanza.
C’era tempo per farsi amare, adesso doveva darle un po’ di disciplina.
“Va
bene, non mangerò”, rispose Kagome con semplicità. Kagura, con una mano sul
volto, non poteva evitare di pensare alla stupidità del loro Padrone.
“La
scongiuro, lady Kagome, accetti l’invito”, la pregò Myoga inutilmente. La
ragazza fu irremovibile, e, come deciso, andò a letto senza cena.
Verso
mezzanotte, si svegliò con un buco nello stomaco, e dolori atroci.
“Ahia,
ho fame”, si lamentò, mettendosi seduta. La porta accanto comunicava con la
camera di Shippo, e attualmente anche di Kagura, le bastava bussare ed
arrendersi.
Sobbalzò,
quando vide la porta del corridoio aprirsi lentamente.
“Kagome?”,
chiamò una voce debole.
“Sei
tu Rin?”, chiese la fanciulla scendendo dal letto.
“Vuoi
mangiare? Vieni con me, ti porto in cucina”, mormorò la bimba, prendendole la
mano. La condusse fuori, nel corridoio, completamente buio.
“La
notte il Padrone chiede di spengere tutte le luci, così può girare senza essere
visto”, spiegò Rin in un sussurro.
“Vuol
dire che sta qui in giro?”, domandò la ragazza preoccupata. Un rumore fece
sobbalzare entrambe.
“Corri!”,
disse Rin, trascinandosi dietro Kagome. Cominciò a salire le scale, di corsa,
finché Kagome non inciampò, lasciando la mano della bimba.
“Kagome,
corri!”.
La
ragazza si mise in piedi, ricominciando a correre. Sbatté contro una grande
porta, e capì di essere nell’atrio, sopra le scale. Sentì un rumore alla sua
destra, e fuggì, salendo le scale a sinistra, continuando a correre nel
corridoio. Quando vide una porta socchiusa, ci si infilò, spaventata e con il
fiatone.
“Rin?”,
chiamò mormorando. Un fruscio la fece sobbalzare, e vide una finestra aperta,
le tende che si muovevano con il vento, e la luce di una debole falce di luna
che filtrava attraverso di esse.
“Rin,
sei tu?”, chiese nuovamente. Fece qualche passo nella stanza, timorosa, prima
di sentire la porta chiudersi dietro di lei.
“Rin?”,
domandò spaventata voltandosi.
E
rimase pietrificata, quando vide due occhi gialli che la fissavano.
Questo
capitolo è corto, e credo che le descrizioni non siano un granchè,
ma è tutto quello che sono riuscita a produrre alle 23 di notte con mio padre
che urlava “Giulia, chiudi!”, un attacco di panico, 5 persone che mi parlavano
in chat, 2 al telefono (cellulare e fisso) e il pensiero che domani devo
alzarmi alle 8!
Mi
sto impegnando per recuperare i capitoli persi con la morte del pc, in realtà questo capitolo e il prossimo erano fusi, ma ho
preferito dividerli per evitare di pubblicare troppo in la e scatenare un altro
periodo di assenza totale dal lavoro XD
Inoltre,
per tutti coloro che seguivano profumo, molto presto completerò il progetto
originale inserendo un disegno fatto da me, con l’aiuto di Emiko,
alla fine di ogni capitolo ^^
Un
bacione!
Aryuna
X
kade: si, è un’alternativa molto diversa x l’armadio,
Kagome ha pur bisogno di essere seguita un poco XD
Sono felice di sapere che ti piaccia la suspence, ti
avverto che c’è anche qui ;)
L’Ala
Ovest
Rin
si sentì prendere per il polso, e venne tirata indietro.
“Cosa
fai qui?”, ringhiò una voce minacciosa. La bimba scoppiò a piangere, e si buttò
a terra.
“Mi… mi dispiace Padrone, non volevo! Avevo fame, e volevo
andare in cucina”, piagnucolò, singhiozzando e osservando la sagoma scura con
gli occhi bagnati.
I
due occhi gialli la fissarono, assottigliandosi. Rin
chiuse la mano, e a lui non sfuggì.
“Cos’hai
nella mano?”, domandò scontroso.
“Nulla”,
mentì lei, stringendola. Ma il ragazzo le strinse il polso, obbligandola ad
aprirla. Era vuota, ma era sicuro che la ragazzina le stesse nascondendo
qualcosa. La avvicinò al volto per vederla meglio, e, a quel punto, sentì
quell’odore.
“TU!”,
ringhiò minaccioso, “Dove stavi portando la ragazza?”.
Rin
si spaventò talmente tanto che confessò tutto, del fatto di aver disubbidito
per portare Kagome a mangiare qualcosa.
“E
adesso dov’è?”, chiese il Padrone, più calmo.
“Non
lo so, l’ho persa sulle scale dell’atrio”, ammise la bimba colpevole, anche se
aveva smesso di recitare e di piangere.
“Sulle
scal…?”
Un
urlò agghiacciante risuonò per tutto il castello.
“Oh
no”, sibilò il ragazzo, lasciando la bimba e correndo via.
All’urlo
seguì un ruggito che fece tremare le pareti, e la piccola Rin,
già terrorizzata, si sentì morire.
“Oh
no… signor Sesshomaru…”.
Kagome
strillò, e cadde all’indietro. L’imponente figura davanti a lei era illuminata
da quella debole falce di luna. Gli occhi gialli la fissavano freddi e
distaccati, erano molto diversi da come li ricordava, sembravano di un’altra
persona.
Era
alto, con lunghi capelli argentati e uno strano segno sulla fronte, difficile
da distinguere con quella poca luce, sembrava una macchiolina indistinta.
“Ti… ti prego… sono Kagome, la ragazza del Padrone”, disse la fanciulla
terrorizzata, temendo di non essere vista nel buio. Quella frase le rimase
impressa nella mente: la ragazza del Padrone.
“Peggio
per lui”, sibilò il demone con voce fredda e distaccata, che fece rabbrividire
la ragazza al solo sentirla: questo voleva dire che non era lui il padrone? Kagome vide uno sprazzo di luce dalla mano dell’uomo, e
rotolò a terra, lontano dalla porta. Una sostanza lucente venne rilasciata
nell’aria dagli artigli del demone, e cominciò ad erodere lentamente il legno
della porta.
“V… veleno?”, strillò Kagome
terrorizzata.
Il
demone concentrò lo sguardo sulla ragazza; certo che era veloce per un’umana.
“Signor
Sesshomaru, si fermi!”, disse una voce familiare. Kagome si voltò, e vide Kagura
entrare sopra una grande piuma dalla finestra, e atterrare sul pavimento.
“Quella
ragazza appartiene al Padrone”, disse fredda, prendendo nelle mani un grande
ventaglio.
Kagome
scattò verso Kagura, ma lui la vide, e le si lanciò
contro. La youkai non riuscì a reagire in tempo, e se
li vide arrivare contro entrambi. Venne spinta contro il davanzale, e cadde
all’indietro, giù dalla finestra. Se non fosse stato per la sua natura
demoniaca, non se la sarebbe cavata. Atterrò su un cespuglio del giardino, e,
leggermente scossa, alzò gli occhi verso la finestra. Kagome
stava urlando.
“Tsk, stupida ragazzina”, sibilò la donna passando la mano
tra i capelli. Rimase paralizzata quando si accorse che mancava la piuma. E ora
come faceva a tornare in tempo nella stanza?
“Stammi
lontano!”, urlò Kagome salendo sul divano. Il demone
la guardò con il suo sguardo freddo.
“Se
sei sua, allora sarà meglio ucciderti. Così imparerà a lanciare maledizioni
sulla famiglia”, sibilò l’uomo, facendo un rapido gesto con la mano. Questa
volta era stato troppo veloce, non poteva evitarlo. Kagome
si parò con le mani, e una luce rosata l’avvolse, parando l’attacco del demone.
La sua espressione fredda venne, solo per un attimo, attraversata dalla
sorpresa.
La
ragazza sentì le forze venirle meno, e cadde all’indietro, oltre il divano,
sbattendo la schiena.
“Non
so chi tu sia, ma è meglio che tu muoia”, ringhiò il demone avvicinandosi. Kagome aveva la vista annebbiata, e riuscì solo a vedere
l’imponente figura sopra di lei. Poi, svenne.
Pensavate
che gli occhi fossero di Inuyasha, eh? Sono felice di
avervi stupito, ed ora, non falciatemi, il seguito a presto >.>
Ecco
il cap del giorno! Alle 23, ma siamo ancora nel
giorno previsto ù.ù
Allora,
questo è lungo a sufficienza, spero sia venuto bene ^^
Ho
un po’ di comunicazioni *dlindlon*
X
Goten: avevo scritto un pezzo di the theft, ma il pc non ha avito
pietà nemmeno per quello ç.ç Appena metterò insieme
la pazienza necesaria, lo riscriverò, scusami XD
Da
Emiko: Sta per ricominciare a scrivere fiore d’arancio,
si scusa per i ritardi e si scusa con Goten,
commenterà la promessa e la sposa il prima possibile ^^
That’sallfolks!
Aryuna
E
sta un po’ fermo!
Sesshomaru
osservò la ragazza svenuta. Quella di prima era una barriera, ne era sicuro, e
questo voleva dire che quella fanciulla poteva portare solo guai. Meglio
ucciderla subito e togliersi il pensiero.
Alzò
i suoi artigli, pronto a colpirla, quando…
“FERMO!”.
Sesshomaru
si voltò impercettibilmente, scorgendo con la coda dell’occhio gli occhi gialli
nell’oscurità. Fece una smorfia, e si voltò.
“Non
dovresti essere qui”, disse con il suo tono gelido. L’altro avanzò, fino a
raggiungere la luce debole che penetrava dalla tenda.
“Se
tocchi quella ragazza ti uccido, non farò eccezioni solo perché sei mio
fratello”, disse il ragazzo. Come l’altro, aveva lunghi capelli argentati, ma
era più basso, e i tratti del volto erano più delicati. Indossava un abito
rosso a maniche larghe, ma la cosa più particolare erano le orecchie da cane che
aveva sulla testa.
“Dovrei
essere io a dirtelo”, ripose l’altro gelido, “vai in giro ad accaparrarti
ragazze perse nel bosco, cosa vorresti dimostrare?”.
Il
ragazzo non rispose, limitandosi a ringhiare, come se non avesse una
spiegazione. In effetti, nemmeno lui sapeva perché aveva preso con sé quella
ragazza, finché non l’aveva vista nelle prigioni, accecato dalla luce: le
assomigliava, le assomigliava troppo per una coincidenza. Ma Sesshomaru non poteva capire…
“Se
non hai una risposta, possiamo finirla qui”, disse voltandosi verso Kagome, ancora svenuta a terra. La ragazza si mosse,
mormorando qualcosa, e Sesshomaru alzò i suoi
artigli, pronto a colpirla.
“Rin!”, strillò il ragazzo, e il demone si immobilizzò. Si
voltò impercettibilmente verso la porta, ma non vide nessuno.
“Sesshomaru… se uccidi la ragazza, io ucciderò Rin”, disse il ragazzo dalle orecchie di cane. Lo scatto di
Sesshomaru fu talmente rapido che il ragazzo se lo
trovò addosso senza accorgersene.
“Provaci”,
ringhiò, affondandogli gli artigli nel braccio. Kagome
aprì gli occhi, e sentì un urlo agghiacciante. Scattò seduta, spaventata, e
vide davanti a lei i due demoni. Il braccio del ragazzo stava prendendo un
colorito bluastro, e l’altro demone continuava a tenere gli artigli avvelenati
nella carne. Gli occhi gialli del ragazzo incontrarono quelli di Kagome, in uno sguardo sofferente. Agguantò con la mano
libera il braccio del fratello, e si concentrò sulla ragazza.
“VATTENE
VIA!”, strillò, e Kagome non se lo fece ripetere due
volte. Scattò in piedi e corse fuori dalla stanza, impaurita. Scorse, nel buio,
una piccola sagoma che correva nella direzione opposta e la superava, ma non si
fermò. Continuò a correre, fino a scontrarsi con qualcuno.
“Lasciami!”,
cominciò a strillare, cercando di prenderlo a pugni. La presa ferrea sui suoi
polsi glielo impedì.
“Kagome, calmati, sono Kagura!”,
strillò la donna, arrivata di corsa dal giardino, ma la ragazza continuava a
dimenarsi, terrorizzata.
“Voglio
andarmene, lasciami, LASCIAMI!”.
Kagura
sbuffò, e con un gesto rapido prese il suo ventaglio e lo diede sul collo della
ragazza, con uno scatto. Quella rimase
immobile, per poi cadere a terra svenuta come un sacco di patate.
“Kagome, stai collezionando svenimenti in questi giorni”,
commentò la donna, per poi superarla, lasciandola lì. Era più urgente evitare
che il Padrone e il fratello si scannassero.
“Non
toccherai Rin”, sibilò Sesshomaru,
alzando gli artigli. Il Padrone, d’istinto, morse il braccio che aveva a
portata di mano, e il fratello emise un gemito, segno di un urlo soffocato.
“Signor
Sesshomaru!”, urlò Rin dal
corridoio, e il demone sobbalzò, stazzando gli artigli dal braccio del
fratello. Anche lui, in tutta risposta, staccò i denti dal braccio dell’altro.
La bambina entrò di corsa, dirigendosi verso il demone.
“Signor
Sesshomaru, Kagome è una
brava ragazza, vi prego, non fatele del male!”, piagnucolò in lacrime. Il
demone sospirò impercettibilmente, mentre il fratello usciva della stanza.
“Non
le ho fatto nulla Rin”, disse, mettendo una mano
sulla testa della bimba. A quella non sfuggì il segno del morso sul braccio.
“Siete
ferito signor Sesshomaru? Sedetevi, vi curo io!”,
disse tirandolo verso il divano. Lui, docilmente, si lasciò condurre dalla
piccola, e attese pazientemente mentre cercava in giro bende e altro.
“Come
siamo docili”, disse una voce femminile alla porta. Il demone alzò il suo
sguardo su Kagura, la quale, tutta sorridente,
entrava nella stanza per recuperare la sua piuma.
“Tanto
domani mattina sarai già guarito, perché non glielo dici?”, chiese, recuperando
la piuma e osservandolo curiosa. Lui, di tutta risposta, distolse il suo gelido
sguardo. Kagura uscì dalla stanza, divertita,
ricordando quando Rin era arrivata al castello. Erano
cambiate molte cose in quei sette anni.
La
donna si riscosse dai suoi pensieri, quando vide una sagoma di spalle immobile
in mezzo al corridoio.
“Padrone?”,
domandò perplessa. Lui rispose con un ringhio sommesso. Fissava la ragazza
svenuta per terra, perplesso e confuso.
“Urlava
troppo per i miei gusti”, spiegò la donna, avvicinandosi per prenderla in
braccio. Ma il demone la fermò con un cenno della mano, si chinò, e la prese
lui, come fosse una principessa.
L’espressione
che fece Kagura è priva di definizione: sconvolta?
incredula? No, di più.
Il
Padrone si avviò per portare Kagome nella sua stanza,
ma la donna, ancora sconvolta, riuscì a muovere il primo passo senza il timore
di cadere solo dopo due minuti abbondanti.
Kagome
mugolò nel sonno, stringendo con i pugni, come una bimba in cerca di
protezione, la maglietta rossa del ragazzo. Quello cercava di non pensare a
quello che stava facendo e che aveva appena fatto. Inoltre, aver preso in
braccio la ragazza gli aveva ricordato del suo povero braccio, che ora aveva
assunto un colore verde-violaceo, e stringeva i denti per non lasciarsi
sfuggire lamenti.
“Stupida
ragazzina, proprio nell’Ala Ovest dovevi andarti a cacciare?”, si lamentò,
aprendo la porta della camera della ragazza. Quella fece una smorfia e si agitò
nel sonno.
La
lasciò sul letto, si voltò, e sentì qualcosa che lo tirava per la manica. Si
voltò, e la vide con la mano ancorata al suo braccio, gli occhi socchiusi e
assonati.
“Non
voglio dormire da sola”, biascicò, stringendo la presa. Il ragazzo arrossì
terribilmente.
“C… cosa?”.
“A
cuccia”, mormorò lei, prima di richiudere gli occhi. Il ragazzo la fissò
confusa. ‘Stava… stava dormendo?’, pensò perplesso,
staccandole la mano dalla manica e fuggendo dalla stanza rosso come un pomodoro
maturo.
“Kagome?”, chiamò Souten,
saltellando sul letto. La ragazza mugolò, aprendo lentamente gli occhi.
“Che
scè?”, domandò confusa. Ci mise poco a ricordare
dov’era, e cosa era successo. Scatto seduta, facendo cadere Souten
dal letto. Si guardò rapidamente: nessuna ferita, tutto normale, sembrava non
fosse successo nulla. Forse se l’era sognato?
“Ah,
sei tu Souten”, disse poi, notando la bimba che si
massaggiava il didietro.
“Kagome…”, ringhiò la bimba fissandola con gli occhi rossi,
decisamente arrabiata. Stava per parlare di nuovo, ma
venne prontamente interrotta da Shippo, che entrò
saltellando nella stanza.
“Kagome, è vero quello che dice Kagura?
Sei andata nell’Ala Ovest?”, chiese ignorando la bimba sul pavimento.
“Ehi,
glielo stavo chiedendo io!”, si lamentò quella.
“Shiori, aspettami!”, disse la voce di Rin
dalla porta. Una bimba con i capelli azzurri e gli occhi viola entrò nella
stanza.
“HAI
DAVVERO VISTO IL SIGNOR SESSHOMARU?”, urlò a Kagome
prima di ogni altra cosa.
“C… chi?”, cercò di ribattere la fanciulla.
“È
davvero bello e affascinante come dice Rin?”.
“Certo
che lo è!”, rispose la bimba sbuffando. Kagome
osservò i bimbi che la circondavano, tutti a fissarla con occhi indagatori, e
anche se non aveva capito molto bene, immaginò di non aver sognato proprio un
bel niente la sera prima.
“Lasciate
in pace lady Kagome”, disse Yura,
entrando con la colazione. Kagome sentì in quel
momento un buco allo stomaco, e fissò avida il vassoio.
“Ma
come, non doveva digiunare?”, chiese Souten confusa.
“Il
Padrone ha cambiato idea”, rispose la donna scocciata. Subito dopo, fulminò Kagome.
“Fossi
in te lo andrei a trovare, dopo come si è ridotto il braccio”.
Kagome
rimase confusa e perplessa. Si poteva sapere cosa era successo? Si alzò, superò
la donna senza degnarla di uno sguardo, ed entrò nella stanza di Kagura.
La
youkai stava fissando fuori dalla finestra come suo
solito, e spostò lo sguardo sulla ragazza scocciata.
“Che
c’è?”, domandò scontrosa.
“Portami
da lui”.
Il
Padrone stava fermo sulla poltrona da ore. Era ancorato ai braccioli con gli
artigli, e aveva addosso una camicia tutta strappata.
“Padrone,
la prego, si faccia visitare”, disse Myoga
saltellando preoccupato.
“Vattene”,
rispose quello tra i denti. Jinenji, il medico,
anch’esso un demone, era quello che aveva strappato la camicia, dopo mille
tentativi per cercare di sfilargliela. Goshinki
teneva il Padrone, Jinenji la camicia e…strap.
Myoga
sospirò, quando qualcuno spalancò la porta. Si voltò sorpreso, mentre il
Padrone ringhiava, e una ragazza attraverò la sala,
senza guardare nulla e nessuno. Kagura la osservava
sorridendo, rimanendo alla porta.
Kagome
si fermò davanti alla poltrona, parandosi di fronte al ragazzo che non aveva
ancora mai visto. Quello sobbalzò, guardandola confuso.
“Come
diamine ti permet…”, cominciò ad alta voce, ma quella
lo azzittì rapidamente.
“Il
braccio”.
“Come?”.
“Fammi
vedere il braccio”, ripeté la ragazza, cercando di nascondere la sua sorpresa
nell’averlo visto. Capelli argentati, orecchie da cane, e quegli occhi gialli
che tanto odiava. Eppure, a vederlo, si sentiva strana, terribilmente attratta
da quel ragazzo affascinante.
Lui
la fissò, scoprendo il braccio, incapace di reagirle, e lei si chinò accanto al
bracciolo. Era terribilmente gonfio, di un colore confuso, ed era chiaramente
infiammato. Myoga fece portare i disinfettanti e le
bende, e Kagome si mise al lavoro. Il ragazzo la
fissava senza dire una parola, sconcertato e soddisfatto allo stesso tempo. Ma
quando Kagome premette la garza con il disinfettante
sulla ferita…
“ARGH!
Molla il mio braccio!”, strillò, cercando di tirarlo via. Lei lo acchiappò,
decisa a non lasciarlo.
“E
stai un po’ fermo!”, urlò lei, premendo con forza la garza. Lui si morse il
labbro, il suo volto divenne rosso, verde e poi blu, cercando di trattenere
l’urlo che, poi, inevitabilmente uscì.
“Grande
e grosso ancora hai paura di farti medicare?”, lo stuzzicò lei. Lui la fulminò.
“Nessuno
ti ha chiamata”, ringhiò in risposta.
“Lo
so, si chiama gratitudine”, rispose lei acida.
“Distruggermi
il braccio? Se hai deciso di farmi da serva, allora ubbidisci e vattene!”.
“Io
non sono la tua serva, e ora non rompere e stai a cuccia!”, urlò Kagome scattando in piedi. Aveva una faccia da non contraddire
assolutamente. Il ragazzo divenne pallido, cercò di parlare ma lei…
“Parla
solo se interpellato”, sibilò assottigliando gli occhi. Il giovane deglutì, e rimase
immobile durante tutta la medicazione. Possibile che avesse un caratteraccio simile?
Proprio quella ragazza che piangeva per ogni cosa?
“Come
ti chiami?”, gli chiese poi, mentre bendava il braccio. Lui si riscosse dai suoi
pensieri, e osservò il lavoro della ragazza.
“È
inutile che bendi, tanto tra tre giorni sarò guarito”, disse, ma lei lo fulminò.
“Ho
detto solo se interpellato”. Lui deglutì, e distolse lo sguardo, arrossendo per
la vergogna. Perché non riusciva a reagire decentemente?
“Perché
lo vuoi sapere?”, biascicò, tradendo la sua insicurezza.
“Se
devo abitare qui avrò bisogno di sapere il tuo nome. Non essendo una tua serva,
mi rifiuto di chiamarti Padrone”, spiegò lei, concedendogli almeno quello.
Lui
la osservò con la coda dell’occhio. Eh sì, era proprio bella, e gli assomigliava
molto.
“Inuyasha”, disse, quando Kagome si
alzò dopo aver fermato la benda. Lei sorrise, e si avviò alla porta.
“Quando
si pranza?”, domandò sull’uscio, accanto a Kagura che
ridacchiava sommessamente per la scena a cui aveva appena assistito.
“All’una”,
rispose il ragazzo, osservandola perplessa. Lei sorrise, per la prima volta.
“Molto
bene, Inuyasha. Ci sarò”. Detto questo uscì, lasciando
nella stanza un atmosfera di stupore. Seguì Kagura nei
corridoi, memorizzando i percorsi, e ripensando a quegli occhi gialli.
Rieccomi,
scusate il ritardo per gli aggiornamenti, ma sono in lutto per la fine di
Inuyasha, e questo mi rallenta. Io e Emiko passiamo insieme i pomeriggi a
consolarci (sigh, sob, sniff) T.T
Qui
ho inserito il passato di Rin, e volevo precisare che, spezzata la maledizione,
i demoni torneranno come prima, senza invecchiare, come se i 46 anni non
fossero mai passati. A proposito, in questo capitolo Kagome si arrabbierà
parecchio, alla fine ho messo un’immagine del fumetto che riflette alla
perfezione l’espressione sua e quella di Inuyasha! XD
P.S.
Ho cominciato a mettere le immagini in Profumo, per ora è solo al primo
capitolo, le altre sono in lavorazione, penso che una volta finito inserirò un
prologo per terminare il tutto ;-)
Bye!
Aryuna
Ciò
che desideri
Kagome
si sdraiò sul letto, sfinita. Non sapeva nemmeno lei come era riuscita a
reggere a tutta quella tensione. Il pranzo poteva essere definito con una sola
parola: silenzio. Lui non parlava, lei non parlava. E lui non doveva aver
imparato bene il galateo da giovane, mangiava in un modo indegno.
“Kagome?”,
chiese Rin entrando nella stanza. La fanciulla rispose con un mugolio confuso e
indistinto.
“Come
è andato il pranzo?”, domandò la bimba avvicinandosi. Il mugolio divenne un
ringhio. Rin se lo aspettava, ma Kagome sembrava davvero abbattuta. Lei era
talmente abituata al silenzio dei due padroni che ormai non ci faceva più caso.
“Kagome
dai, vieni con me e Kanna a fare una passeggiata in giardino?”, chiese la bimba
prendendole la mano. Kagome non si mosse, ma sospirò sfinita.
“Come
fai?”.
“A
fare cosa?”, chiese Rin.
“A
essere sempre allegra e a sopportarli”, precisò Kagome. Aveva capito che Rin
era vicina a Sesshomaru, e sembrava poco sottomessa al Padrone.
“Te
lo racconto solo se vieni con me in giardino”, patteggiò la bimba. Kagome
sbuffò, e si alzò dal letto con lentezza esagerata. Non ne aveva proprio
voglia, ma al contempo era curiosa.
Rin
la trascinò per tutto il castello, e quando uscirono alla luce del sole, Kagome
rimase accecata. Erano giorni che non usciva da quell’edificio, sempre buio, e
non era abituata ad una luce così forte. Non appena i suoi occhi si abituarono,
poté ammirare la bellezza dei giardini. Se l’interno era terribile, sporco e buio,
l’esterno era l’esatto contrario. Era il posto più bello che Kagome avesse mai
visto.
Era
talmente distratta ad osservare la perfezione delle aiuole e delle siepi, le
bellissime composizioni floreali, che si era scordata del discorso che doveva
fare con Rin. Non aveva notato neppure Kanna, che si era affiancata silenziosa
a loro.
Ma
Rin ricordò e mantenne la promessa fatta.
“Devi
sapere, che io vivo qui solo da sette anni. I miei genitori mi hanno abbandonato
nel bosco quando ero ancora in fasce, non so il perché, e il signor Sesshomaru
mi ha trovato”, spiegò la bimba allegramente.
“Vuoi
dirmi che…”, Kagome si fermò in tempo. Non era il caso di chiamare mostro il
salvatore della bimba.
“Lui
fa il cattivo con tutti, ma non è così, è solo molto arrabbiato! Pensa, anche a
me voleva lasciarmi li da sola, ma poi è tornato a prendermi. Kagura c’è
rimasta di sasso quando lo ha visto tornare con me. Mi ha lasciato in braccio a
lei e se né andato”.
Kagome
sorrise al pensiero di quella scorbutica di Kagura con una bimba in braccio.
“Quindi
lei è come una mamma per te?”, domandò la ragazza curiosa.
“No,
mi hanno cresciuto un po’ tutti nel castello, io sono immune alla maledizione,
perché sono arrivata dopo”.
“Ma…”,
cominciò Kagome, “Il signor Sesshomaru, ecco… non ti fa paura?”.
“No,
ho paura per gli altri, perché so che con loro non è gentile”, ammise la bimba,
“ma so che è teso a causa della maledizione, sono sicura che quando finirà
andrà tutto bene! Io voglio vivere per sempre con il signor Sesshomaru!”.
Kagome
osservò la bimba, che nella sua semplicità aveva sciolto il cuore di ghiaccio
di un demone.
“E…
se la maledizione non finisse?”, domandò la fanciulla, calcolando le parole.
“Finirà!
E poi, adesso ci sei tu qui con noi, Kagome”. La ragazza guardò gli occhi scuri
della bimba, perplessa e confusa. Che voleva dire con questo?
Rientrarono
nell’edificio, e Kagome dovette riabituarsi al buio.
“Non
si potrebbero aprire queste tende?”, domandò Kagome avvicinandosi ad una
finestra. Posò le mani sul tessuto rosso della tenda, vellutato e pesante, e
una voce dietro di lei la fece pietrificare.
“Non
ci provare”, sibilò Inuyasha nel suo angoletto buio. Kagome sospirò e sbuffò
allo stesso tempo. Rin salutò allegramente il Padrone, e trotterellò via con
Kanna, perennemente silenziosa.
“Perché
no? Sei un vampiro per caso? Il sole ti scioglie?”, chiese lei acida,
allargando lentamente le braccia. Inuyasha ringhiò nuovamente, non minaccioso,
ma infastidito. ‘È un passo avanti’, riuscì a pensare ironicamente Kagome.
“A
me piace il sole, quindi apro le tende”.
“Questa
è casa mia, quindi restano chiuse!”, ringhiò lui.
“Gli
ospiti hanno sempre ragione”, ribbatté la ragazza.
“E
dove sta scritto che sei ospite?”, domandò lui. Kagome si stava immaginando
quella sfumatura divertita nella sua voce? Si, sembrava che si stesse
divertendo a litigare.
“I
rapiti non girano tranquillamente nei giardini dei castelli in compagnia!”.
“E
se fossi un rapitore gentiluomo?”, propose lui. Adesso era chiaramente
divertito. Kagome osservò i suoi occhi dorati. Non aveva dimenticato.
“I
gentiluomini non fanno morire la gente nelle prigioni”, disse con voce
strozzata. Gli occhi del demone si assottigliarono, ma non rispose. Kagome non
riuscì nemmeno a valutare l’idea che fosse dispiaciuto, il suo odio stava
riemergendo.
“Che
devo fare per non farmi odiare?”, domandò Inuyasha, prendendola alla
sprovvista, “anche se ti permettessi di aprire tutte le tende, di fare i tuoi
comodi, tu continueresti ad odiarmi, giusto? Fai solo buon viso a cattivo gioco
quando mi sbatti in faccia la tua finta gratitudine”. Il suo tono di voce era
duro, ma Kagome non si fece intimorire.
“Anche
tu mi sbatti in faccia la tua finta gentilezza, no? Io vengo trattata come una
principessa, mentre i miei amici…”. Kagome si morse una labbro, e aprì di
scatto le tende.
“Ehi,
ma che fai?”, strillò l’altro coprendosi gli occhi, accecato dalla luce. Cercò
di vedere Kagome, circondata dalla luce, i tratti del suo volto sfocati.
C’erano due gocce scintillanti a lato dei suoi occhi, ma la sua espressione era
decisamente arrabbiata, anzi, peggio.
“TI
ODIO, MOSTRO!”, strillò lei, facendolo spaventare a morte.
“C…
che… non piangere!”, urlò lui in risposta. Kagome lo fulminò, e il demone si
ritrovò terrorizzato. Era talmente arrabbiata che era sicuro di vederle un’aura
nera attorno circondata da saette.
“Tu
non sai che vuol dire venire rinchiusa in un luogo che non conosci lontana da
amici e parenti! Scemoooo!”, disse tirando su con il naso.
Ok,
la situazione stava precipitando, e Inuyasha era in serie difficoltà.
“Allora
dimmi che cosa vuoi!”.
“Voglio
i miei amici, voglio Sango, voglio la luce e non ti voglio vedere!”, urlò la
ragazza. Il demone la guardò, ancora con la vista annebbiata, e volto serio.
“E
ciò che desideri?”, domandò con voce calma, fin troppo calma.
“Si”.
Inuyasha
si voltò, e si avviò nel corridoio, sparendo dalla vista di Kagome. Quella
continuava a trattenere le lacrime che, per la rabbia, spingevano per uscire.
Non gli avrebbe dato la soddisfazione di vederla piangere.
“Padrone,
siete tornato?”, chiese saltellando Myoga. Inuyasha richiuse la porta della
stanza, e si diresse verso la poltrona. Quando si sedete, si portò una mano
sulla fronte, e cominciò a sbattere nervoso il piede sul pavimento.
“Tutto
bene, Padrone?”, domandò Myoga preoccupato. Un ringhio in risposta, come
sempre, e poi il silenzio.
Quella
ragazzina dava fin troppi grattacapi, se non somigliasse a lei l’avrebbe già
messa in riga! Ma quella somiglianza non poteva essere un caso.
“Myoga”.
“Si
Padrone?”.
“Apri
tutte le tende del castello, e chiamami Shippo e Kirara”.
Ecco
un capitolo in cui finalmente Shippo fa la sua
figura! Era ora per il nostro piccolo demone volpe! ^^
Alcuni
personaggi erano apparsi troppo poco per i miei gusti, e volevo in qualche modo
rimediare. Inoltre avevo bisogno di un episodio di intramezzo per ragionare
bene su come sviluppare il rapporto tra Inuyasha e Kagome.
Spero
vi piaccia ^^
Aryuna
Il
viaggio di Shippo
Il
piccolo demone volpe sbuffò, sul dorso di Kirara, la nekomata che si tramutava in tigre dai denti a sciabola. Sì,
sbuffava per il compito affidatogli.
Tra
tutti, perché proprio lui? Non era certo uno dei demoni che potevano passare
inosservati, anzi, lui non aveva possibilità di non venire notato! Eppure
avevano mandato proprio lui.
Sbuffò
nuovamente, sdraiandosi sulla morbida pelliccia color panna della nekomata.
“Oh,
Kirara, quanto tempo era che non uscivamo dal
castello?”, mormorò, forse più a se stesso che alla gatta. Guardava il bosco
che scorreva rapido sotto di loro, mentre Kirara
correva nell’aria.
‘Quanto
manca ancora al villaggio di Kagome?’, pensò il
bimbo, spostando il suo sguardo sull’orizzonte.Era sufficientemente buio, solo la luna illuminava debolmente la
foresta, e anche con i suoi occhi demoniaci non riusciva a distinguere bene.
La
gatta scese improvvisamente di quota, costringendolo ad aggrapparsi saldamente
alla sua pelliccia. Vide che si stava circondando di fiamme, e quando atterrò
era di nuovo la piccola micetta a due code, mentre Shippo finì a terra a faccia in giù.
“Kirara, ma perché non mi avverti?”, sbraitò il piccolo
demone, mentre la micia si leccava, priva di qualunque senso di colpa. Il bimbo
si guardò attorno, confuso. Stava sul retro di una casa, e si sentiva un bel
trambusto, probabilmente proveniente dalla piazza del villaggio. Sgattaiolò in
un cespuglio, e si affacciò timidamente. I suoi occhi verdi passavano
inosservati tra tutte quelle foglie.
“Koga!”, urlò una fanciulla coi codini, correndo verso un
ragazzo con i capelli scuri e legati.
“Ayame, non mi scocciare”, rispose scorbutico, fissando il
falò al centro della piazza. Kagome era partita, e
ancora non era tornata. Il nonno era preoccupato, e i due ragazzi del villaggio
accanto che erano spariti erano ritornati.
Si
erano sposati quel pomeriggio, ma c’era un’aura strana. La ragazza, Sango, non voleva, a causa della scomparsa di Kagome, ma le pressioni dei genitori avevano avuto la
meglio. Eppure, sembrava che sapesse qualcosa riguardo quelle strane scomparse.
Né lei né Miroku avevano saputo dare una spiegazione
alla loro scomparsa, e da quando erano tornati evitavano l’argomento. E, ad
aumentare i sospetti, si erano trasferiti nel villaggio, invece di rimanere con
i genitori.
Shippo
sgattaiolò lungo il muro, infilandosi nella casa. C’era la luce accesa nella
camera da letto, e sentiva qualcuno piangere. Kirara
annusò l’aria, e lo precedette nella stanza.
“Kirara, no!”, sibilò il bimbo saltellandogli dietro. Non
appena varcò la soglia, incrociò gli occhi umidi di Sango,
seduta sul letto.
Ci
fu qualche minuto di silenzio, Sango aprì la bocca
per urlare ma…
“No,
sono Shippo, ricordi? Shippo!
Non urlare, ti prego”, pianse lui, nascondendosi dietro Kirara.
La ragazza rimase immobile, si stropicciò gli occhi un paio di volte, e si
diede anche un paio di pizzichi. Eh no, non stava sognando! Quello era proprio Shippo, la strana creatura che, assieme a Rin, si prendeva cura di lei e Miroku.
“Che
cosa ci fai qui?”, riuscì a formulare Sango confusa.
Il piccolo vide sul letto il vestito da sposa che doveva essersi appena tolta,
per vestirsi semplice. Probabilmente doveva andare a festeggiare il matrimonio
in piazza.
“Kagome vuole vederti, il Padrone mi ha mandato a invitarti
al castello con Miroku”, spiegò, saltellando sul
letto accanto a Sango.
“C…che…”.
“CHE
COS’È QUELLO?”, urlò Miroku entrando nella stanza. Shippo si nascose dietro a Sango,
terrorizzato, e Kirara saltò in grembo alla ragazza,
altrettanto impaurita.
“Miroku, non urlare”, disse Sango
con voce bassa e minacciosa, e uno sguardo terrificante. L’uomo si immobilizzò,
fissandola: un demone? no, era molto peggio...
Decise
quindi che Shippo non era così spaventoso (la sua,
ormai, moglie lo era di più), e attese spiegazioni.
Il
piccolo demone cominciò a raccontare della vita a castello di Kagome, e della sua ultima arrabbiatura. Il Padrone aveva
deciso di farsi perdonare per il suo comportamento indegno.
“So
che è dura dirlo, immagino che Miroku si sia appena
rimesso, ma il Padrone ha una situazione difficile, in realtà non è cattivo”.
“Lo
so”.
L’attenzione
di tutti si spostò su Sango, che carezzava Kirara.
“Il
giorno in cui ci ha cacciato, ha fatto curare Miroku
da un demone con conoscenze curative e capacità rigenerative. Nessuno lo
obbligava a farlo”, ammise la donna, seppur con difficoltà. Jinenji
aveva curato in poco la malattia di Miroku con un
infuso e particolari pratiche curative, tornati al villaggio era come nuovo.
Sango
si morse un labbro. Non poteva abbandonare Kagome, ma
come giustificare un’assenza dal villaggio subito dopo il matrimonio?
“E
va bene, annunciamo la nostra luna di miele”, disse Miroku,
avviandosi alla porta. Sango lo fissò incredula.
Viaggio di nozze? Come aveva fatto a non pensarci!
“Un
po’ di attenzione, vi prego!”, disse Miroku
all’uscio, a voce sufficientemente alta per venire udita da tutti, sia dentro
che fuori.
“Sango è molto stanca, e vorrebbe riposare. Inoltre, abbiamo
deciso di partire domani per la luna di miele, quindi non è il caso di farla
stancare. Mi spiace molto per la festa”.
“Miroku, non è che l’hai convinta a consumare sin da ora la
prima notte di nozze?”, urlò qualcuno, maliziosamente. Sango
arrossì, e strinse i pugni.
“Se
scopro chi è lo ammazzo”, sibilò, memorizzando quella voce. Miroku
si limitò a ridere imbarazzato. Si congedò con tutti, e rientrò dentro casa.
“Miroku, sei un depravato! Se non mi fossi sposata con te
non penserebbero a me come una sforna bambini!”, strillò la donna scattando in
piedi.
“Suvvia
Sango, lo sai che non ti ho sposato per quello, no?”.
“Tu
stai rischiando grosso”, ringhiò la donna.
Shippo
sospirò.
“Ah,
che noia gli adulti”.
Dopo
un breve litigio, nel quale, ovviamente, vinse Sango,
si prepararono le poche cose necessarie per la partenza.
Miroku
non faceva altro che sospirare.
“Ah,
che razza di prima notte di nozze”, singhiozzava tristemente.
“Allora
vedi che avevo ragione io!”, fece Sango fulminandolo.
Che marito che si era scelta, maniaco!
“Sarà
un lungo viaggio a piedi”, constatò Miroku, cambiando
argomento prima che Sango lo picchiasse a sangue.
“A
piedi? Andremo su Kirara”, informò Shippo, carezzando la micia. Uscirono dalla finestra, per
non farsi vedere, e i due sposi fissarono perplessi la nekomata.
“Su
questo… scricciolo dici?”, fece Miroku
perplesso.
Sia
lui che Sango strabuzzarono gli occhi vedendo
l’adorabile gattina diventare una tutt’altro che adorabile enorme tigre. Shippo, come nulla fosse, saltò in groppa alla micia.
Ecco
un altro capitolo, devo annunciare una cosa allarmante…
Sbaglio o i commenti stanno diminuendo? O.O Cielo no,
me tapina, mi state abbandonando! Non volevo raggiungere questo punto, ma dovrò
sfruttare gli insegnamenti di Roro-Samaù.ù
Non
aggiorno finché non arrivo a 10 commenti stavolta, sono troppo depressa per
farlo ç.ç*si mette a
disegnare cerchietti in un angoletto, tutta vestita di nero*
Aryuna
Seconda
possibilità
Kagome
era sdraiata supina sul letto, fissando il baldacchino, immobile come una
statua.
“Per
quanto intendi rimanere così?”, domandò Kagura dopo
tre ore buone. Kagome si era svegliata, si era
sistemata in quella posizione e non si era più mossa. Se non fosse stato per il
movimento del petto e delle palpebre avrebbe giurato che era morta.
Scosse
la testa. Se proprio doveva morire, almeno non nel suo letto.
“KagurAHHHHHHHHHH!”, strillò la voce di Souten
nel corridoio. Esattamente come la prima volta che l’aveva vista Kagome, entrò rotolando nella stanza.
“NARAKU,
TI ODIO!”, urlò la bimba, agitando i pugni verso il solito “Kuhuhuhuh”.
“Che
c’è?”, domandò la donna, ormai abituata a quella scena quasi quotidiana.
“Il
Padrone vuole vedere il Signore”, spiegò lei, “e dopo vuole vedere Kagome”.
Silenzio.
“Embè?”, domandò la youkai.
“Su
Kagura! Lo sai bene che il Signor Sesshomaru
parla senza scannarvi solo a te e a Rin! Rin non è reperibile, quindi…”. Kagura sospirò rassegnata.
“E
va bene, ci vado io”, sbuffò, saltando giù dal suo amato davanzale e avviandosi
verso la porta. Si voltò a guardare Kagome.
“Appena
ti torna un minimo soffio vitale fammi un fischio, dovremo festeggiare”, disse
ironica. Kagome inarcò un sopracciglio, rispondendo
con un ringhio confuso.
“Dov’è
Shippo?”, chiese malinconicamente, ma Kagome non rispose. Non lo sapeva, e anche se lo avesse
saputo non avrebbe risposto. Non voleva parlare con nessuno, tantomeno con il
Padrone. Non lo voleva vedere, ma sapeva che non poteva rifiutargli anche
questo dopo quello che gli aveva detto. Era stata crudele, lo sapeva, e ora si
sentiva in colpa. Ma perché? Lui era stato molto peggio! Eppure, le tornava in
mente quando l’aveva curato. Gli era sembrata una persona così…
Sola…
E
triste.
Kagura
camminava silenziosamente accanto a Sesshomaru.
“Non
ti ho chiesto di accompagnarmi”, disse gelido il demone. La donna sbuffò.
“E
chi ti sta accompagnando! Io sto tornando in camera mia”, rispose scocciata. Sesshomaru alzò gli occhi al cielo, senza farsi vedere.
Quella donna era cocciuta come suo solito.
“Comunque,
Sesshomaru, non penso sia una buona idea cercare di
fare a fette Kagome. Credo che il Padrone ti abbia
chiamato per quello…”.
“Da
quando ti prendi simili libertà?”, domandò lui ignorando l’affermazione di Kagura, ma valutando solo la frase formulata in ‘tu’.
“Da
quando mi hai appioppato una bambina da crescere”, rispose lei acida. Ahia,
ecco che aveva di nuovo ragione. Ovviamente mai gli avrebbe dato la
soddisfazione di ammetterlo, per qui la fulminò con la sua gelida occhiata.
Come al solito, alla donna non fece effetto. Era per quello che accettava la
presenza di Kagura, sembrava l’unica in grado di
andare oltre l’apparenza, oltre a Rin.
Già,
Rin… ancora si domandava perché l’aveva raccolta nel
bosco, quel giorno, ma fu allora che tutto in lui cambiò. Oltre agli istinti
omicidi contro il fratello e tutto ciò a cui tenesse, ovvio.
“Kagura?”.
“Si?”,
domandò la donna, concentrando nuovamente l’attenzione sull’uomo.
“Stiamo
davanti alla stanza di Inuyasha”, spiegò lui con il
tono gelido.
“Ops, che sbadata, ero distratta”, si giustificò lei,
voltandosi ed andandosene. Quando fu sparita dietro l’angolo, Sesshomaru si permise di sbuffare, ed entrò nella stanza.
“Ce
ne hai messo”, commentò Inuyasha, fissandolo
scocciato.
“Ringrazia
che sia venuto”, rispose il fratello, freddo come un blocco di ghiaccio. Inuyasha sbuffò, e gli fece cenno di avvicinarsi.
Ovviamente, Sesshomaru rimase immobile.
“Allora”,
cominciò il ragazzo rassegnato alla cocciutaggine dell’altro, “volevo parlarti
di Kagome”.
“Non
ho più interesse per quella ragazza se era questo che volevi sapere”, disse
lui, voltandogli subito le spalle.
“E
vuoi ascoltarmi per una buona volta?”, sbottò Inuyasha,
bloccandolo. Quello lo fulminò, ma rimase in ascolto.
“Kagome assomiglia terribilmente alla fata dell’incantesimo,
non può essere un caso”, spiegò, “ho il sospetto che sia lei quella giusta, quindi…”
“Lei
deve amare me, non il contrario”, precisò il ragazzo. Sesshomaru
lo fissò. Non poteva crederci, voleva davvero arrivare a un punto simile?
“Non
ti appoggio, sia chiaro”, sibilò, per poi uscire dalla stanza a passi ampi e
rapidi. Inuyasha lo fissò, soddisfatto. Non aveva
l’appoggio, ma nemmeno l’opposto.
E
ora, era giunto il momento di esaudire i desideri di Kagome.
Le
finestre erano aperte.
Sango
e Miroku erano arrivati.
Lui
non si sarebbe fatto vedere.
Kagome
arrivò davanti alla porta della stanza dove stava sempre Inuyasha.
Ecco, ora le toccava sorbirsi la presenza di quell’odioso cane per chissà
quanto.
Spalancò
la porta in malo modo e…
“KAGOME!”,
urlò Sango abbracciandola. La ragazza rimase di
sasso.
“S…Sango”, balbettò incredula.
Non era possibile. Alle sue spalle vedeva Miroku,
tutto sorridente, con un oggetto brillante all’anulare sinistro. Strabuzzò gli
occhi, e cadde svenuta tra le braccia dell’amica.
“Kagome, riprenditi!”, disse Sango,
prendendola di peso. La ragazza scosse la testa, riprendendosi quasi subito.
“Oh
Kagura, era un sogno bellissimo! Sango
e Miroku venivano a trovarmi ed erano sposati…”, disse, aprendo lentamente gli occhi.
“Kagome, io penso che dovresti sederti”, propose Miroku divertito.
“E
non preoccuparti, anche io ero convinta di aver sognato ieri, finché stamattina
non ho visto la fede al dito di Miroku”, ridacchiò Sango. Il marito fece un’occhiata offesa, ma durò poco; si
concentrarono subito su Kagome, che stava per
sciogliersi in lacrime di commozione.
“Oh,
Sango, volevo essere io la tua testimone”, piagnucolò
la ragazza, sedendosi sulla poltrona per fermare i battiti accelerati del suo
cuore. Sango sorrise, coccolandola.
“Su,
Eri mi ha fatto da testimone al tuo posto, anche se volevo aspettarti”, ammise
lei.
“Aspettarmi?
Non sarei mai tornata!”, si lamentò la ragazza.
“Io
continuavo a sperarci”.
“Meno
male che ti hanno convinto, o adesso Miroku stava infrattato con chissà chi!”, disse Kagome,
pensandolo sul serio.
“Ma
avete davvero questa considerazione di me?”, disse l’uomo esasperato, “Ho un
anello al dito, vuol dire che sono sposato, S-P-O-S-A-T-O! E che amo solo una
donna, chiaro?”.
“Si,
scusa Miroku”, si scusò la fanciulla sorridendo
colpevole, “ma come hai fatto a guarire in così poco tempo?”.
“Ecco,
Kagome…”, cominciò Sango
sedendosi accanto a lei, “devo parlarti di una cosa”.
“Non
ci credo!”, strillò la ragazza scattando in piedi, “non stiamo parlando della
stessa persona!”.
“È
tutto vero, Kagome, credi davvero che mentirei su una
cosa così seria come la vita di mio marito?”, disse Sango,
obbligandola nuovamente ad occupare la poltrona. Kagome
era terribilmente pallida.
“Dov’è
lui adesso?”, domandò con la bocca secca. Myoga
saltellò prontamente sul bracciolo.
“Il
signore si è ritirato nella sua camera, sapendo che la sua presenza non era
gradita”.
Kagome
deglutì, ma anche questa semplice azione le risultò difficile. Lei lo aveva
trattato in quel modo, mentre lui…
Ricordò
l’impressione che le aveva fatto il giorno in cui l’aveva curato: si sentiva
attratta, e terribilmente in colpa. Come al solito, non aveva capito nulla su
di lui.
Continuarono
a parlare a lungo, ma lei rimaneva assente. A Sango
non sfuggì.
“Kagome, tu non stai bene, vero?”, chiese preoccupata.
“No”,
ammise lei subito, osservando Myoga. Anche questa
volta avrebbe chiesto di vederlo? Chiedergli scusa dopo quello che gli aveva
detto era troppo umiliante, l’avrebbe presa come occasione per sottometterla.
Ma, se l’avesse messa sotto una diversa prospettiva…
“Padrone?”,
domandò Myoga saltellando nella camera. Inuyasha stava sdraiato sul letto, in attesa delle
informazioni giuste.
“Allora?
Che ha detto?”, chiese impaziente, scattando seduto.
“Ha
detto: ‘Hai una seconda possibilità’”, citò Myoga. Inuyasha sorrise soddisfatto. Che ragazza orgogliosa.
Allora,
oggi stavo rileggendo Profumo, e mi sono accorta della differenza di lunghezza
tra i capitoli. Si vede proprio che ho poco tempo per scrivere ed elaborare i
capitoli, a momenti me li sto inventando di giorno in giorno T.T
Comunque,
sto preparando altre tre FanFic, una sarà molto
particolare, ma non vi anticipo nulla :P
Sto
anche cercando di continuare the theft, chiedo
perdono! XD
Ho
parecchi problemi in famiglia questi giorni, e ciò non mi facilita il lavoro.
Spero che con questo capitolino mi perdonerete i ritardi immensi ^^’
A.A.A.
Cercasi Roro disperatamente! O.ORoro-chan, torna, siamo tutte preoccupate! XD
Aryuna
Approccio
educativo
Kagome
camminava svogliatamente verso la sala da pranzo. Doveva pranzare con Inuyasha, mentre Sango e Miroku mangiavano nelle loro stanze. Queste erano le
richieste, e stavolta doveva adattarsi; si sentiva ancora in colpa per reagire
decentemente.
“Buongiorno”,
la salutò il ragazzo con un sorrisino vittorioso dipinto sul volto. Kagome fece subito una smorfia, sbuffando. Si sedette a
tavola, e attese in silenzio. Prima o poi sapeva che avrebbe dovuto affrontarlo.
Ma non voleva, non ora almeno, sarebbe stato troppo difficile da sopportare.
Lui
mangiava come suo solito, in un modo indegno. Le posate erano un optional, dato
che tagliava il cibo con le unghie e masticava a bocca aperta.
Kagome
masticava con calma e lentezza, ma più il tempo passava più il silenzio si
faceva pesante, e si sentiva solo il rumorosissimo masticare del demone. Kagome strinse la forchetta, scocciata, e premette sul
piatto talmente forte che la posata scivolò, graffiandolo, e facendo un
acutissimo stridore.
“Ehi,
ma che fai?”, si lamentò Inuyasha abbassando le
orecchie. Kagome lo avrebbe incenerito con lo
sguardo.
“Che
faccio? Mangio come il cielo comanda, non come te, cafone e maleducato che non
sei altro!”, si lamentò, infilando il boccone e masticando con rabbia. Inuyasha la fissò, rimanendo immobile. Kagome,
continuò a mangiare, più tranquilla per l’assenza di rumori inumani di
sottofondo, ma lo sguardo dorato che permaneva su di lei cominciò ad
infastidirla.
Stavolta
fu il coltello a stridere.
“E
vuoi smetterla?”, sbraitò Inuyasha tappandosi le
orecchie con le mani grasse e sporche. Kagome scattò
in piedi, e Inuyasha si spaventò talmente tanto per
quella reazione, temendo che si rimettesse a piangere, che cadde dalla sedia.
Kagome
lo fissò, perplessa, per poi scoppiare a ridere.
“Ahahah! Che tonto che sei, mi fai passare per chissà che
bestia!”.
“Non
fai ridere”, rispose lui serio. Kagome smise,
colpevole, ma con il sorriso sul volto. Non le era venuto in mente il
collegamento con la maledizione.
“E
va bene, se hai rimosso dalla tua memoria le buone maniere, te la rinfresco
io”, decise, sospirando. Si sarebbe fatta perdonare così. Inuyasha
fece una smorfia, ma non si lamentò.
“Per
prima cosa pulisciti le mani, sono così grasse che le posate scivolerebbero a
trenta metri di distanza!”.
“Divertente”,
rispose lui ironico, risedendosi e prendendo il bordo della tovaglia. Kagome prese rapida la forchetta e lo colpì sul dorso della
mano.
“Ahi,
ma sei impazzita”, urlò il ragazzo ritraendo le mani, “sarebbero queste le
buone maniere?”.
“Io
non sono seduta a tavola, nessuno mi impedisce di brandire una forchetta come
arma”, rispose lei tranquillissima, “e adesso pulisciti le mani col tovagliolo!”.
Inuyasha ringhiò, ma ubbidì. Kagome
sorrise soddisfatta, lo aiutò a pulirsi le mani, e cominciò a sistemarlo a
tavola. Dopo un paio di tentativi, sembrò ricordarsi come si impugnavano le
posate.
“Ma
insomma, tua madre non ti ha insegnato proprio nulla?”, chiese lei, un po’
esasperata. Continuava a sorridere, si stava divertendo, e Inuyasha
era un ottimo allievo quando teneva la bocca chiusa. L’espressione dura del
ragazzo, però, la face riflettere sulla sua domanda.
“Non
ti ha seguito molto?”, domandò, confusa. Inuyasha
strinse i pugni, e li spostò sotto al tavolo, distogliendo lo sguardo dal
piatto. Kagome si morse il labbro.
“Capisco”.
“Non
credo”, disse lui, sincero.
“Invece
si. Mi ha cresciuto mio nonno, anche mia madre è morta e mio padre…bè, il tipico uomo che
esce di casa un mattino e non torna più”, ammise Kagome,
con un sorriso malinconico sul volto.
Inuyasha
si voltò a guardarla, serio. Perché sentire la sua voce così debole e quel
volto così triste lo faceva sentire strano? Se un orso gli avesse morso lo
stomaco si sarebbe sentito meglio. Gli occhi color cioccolata della fanciulla
incrociarono i suoi, per la prima volta caldi e dolci, non freddi e distaccati,
tantomeno impauriti. Si perse in quello sguardo, anche se lei lo distolse
subito.
“Scusami,
posso andare?”, chiese con voce tremante. Rievocare quei ricordi non gli aveva
fatto bene.
“Si”,
rispose lui, abbassando gli occhi, “ci rivediamo a cena”.
Kagome
uscì dalla stanza, e corse da Sango. La ragazza stava
ancora mangiando con il marito, ma lasciò il suo pranzo volentieri quando vide
l’amica ridotta a uno straccio.
“Il
pranzo è andato male?”, domandò abbracciandola, come una bambina.
“No,
ma ho bisogno della tua terapia anti-depressiva”, ammise Kagome,
stringendola a sé. Sango capì subito che il problema
era a livello familiare, era sempre così quando Kagome
citava la ‘terapia’.
“Vuoi
andare a fare una passeggiata in giardino? Forse un po’ di aria fresca ti
tirerà su”, propose, e la fanciulla annuì. Sango
lanciò a Miroku un’occhiata complice, e il ragazzo
capì che non doveva disturbare.
“Allora,
brutti ricordi?”, domandò passeggiando per il giardino. Kagome
rispose con un mugolio, rimanendo poggiata alla spalla dell’altra.
Stava
per intraprendere un discorso logico, quando svoltarono l’angolo e si trovò a distanza… due metri da Sesshomaru.
Urlo.
“Kagome!”, fece Sango spiazzata,
reggendo l’amica dallo sguardo terrorizzato. Il demone la guardò infastidito, e
distolse subito lo sguardo. Stava tranquillamente seduto su una panchina, in
una posizione rigida e innaturale per un luogo così rilassante.
“Signor
Sesshomaru, che succede?”, domandò Rin sbucando da una siepe. Vide Kagome,
e subito le corse incontro.
“Tranquilla
Kagome, il signor Sesshomaru
non ti farà nulla di male”, la tranquillizzò, Il demone si voltò dalla parte
opposta, come a non volerlo ammettere. Per Kagome fu
difficile crederci e adattarsi all’idea, ma alla fine si tranquillizzò. In
fondo, due notti prima non si era fatta nulla.
Sesshomaru
si voltò impercettibilmente a guardarla, e inizialmente la ragazza non se ne
accorse. Sobbalzò solo quando parlò.
“Fai
attenzione”, disse con la sua voce profonda, così fredda e distaccata. La ragazza
lo guardò confusa. Cosa voleva dire con questo? Il demone distolse gli occhi dorati
dalla ragazza, e tornò immobile come suo solito.
A
cosa doveva fare attenzione? A on dargli troppa confidenza? A non entrare nell’Ala
Ovest? Ma, dallo sguardo preoccupato di Rin…
Poteva
essere che… parlasse di lui?
Kagome
si morse il labbro, ripensando a quegli occhi ambrati e profondi.
Sighsob, perché non riesco a scrivere capitoli lunghi!! ç.çbuuuu!
Ok,
mi riprendo ù.ù Questo capitolo è stato progettato
con fatica, causa assenza di ispirazione, ma lo dedico a Roro,
senza la quale non sarebbe postato (roro-chan! ç.ç)
Buona
lettura!
Aryuna
Cassiopea
Kagome
si sistemò il vestito, pronta a cenare per la prima volta con Inuyasha.
Erano
passati solo quattro giorni, ma sembravano un’enormità. Inoltre in quel periodo
le sue emozioni non avevano trovato pace: odio, paura, gratitudine, tutto si
era mischiato senza darle tempo per riflettere.
Forse
si era comportata male con Inuyasha, lo aveva
trattato con troppa freddezza, senza pensare a come si sentisse lui.
Non
doveva essere piacevole vivere da solo con una maledizione addosso. Sperava
solo non fosse arrabbiato per il discorso che lei aveva aperto a pranzo.
“Che
succede, ti fai bella?”, chiese una voce ormai di casa nella sua stanza.
“Kagura, ma sempre dalla finestra devi entrare?”, domandò la
fanciulla osservandola rassegnata.
“Io
entro dalla porta, sei tu che non mi senti entrare”, si limitò a spiegare la youkai. Kagome lanciò uno sguardo
alla porta di servizio, e dovette ammettere che era socchiusa, chiaro segno che
la donna era passata di lì.
Sbuffando
si ravviò i capelli con un paio di spazzolate, e uscì per andare nella sala da
pranzo.
La
sua mente la tormentò finché non raggiunse la grande porta intagliata. Bussò
delicatamente, sapendo che l’avrebbero sentita; infatti, poco dopo, l’uscio
venne spalancato.
“Non
ti aspettavo”, ammise Inuyasha, osservandola
nell’ombra.
“Se
preferisci posso anche andare da Sango”, disse lei
rapida, voltandosi.
“No”,
la bloccò lui. Kagome si voltò, perplessa.
“Rimani… mi fa piacere”, ammise, terribilmente in
difficoltà. La ragazza sorrise, e si avvicinò alla tavola. Myoga
saltellò via, per informare la servitù che bisognava apparecchiare per due.
“Siediti
qui”, disse Inuyasha, ma Kagome
non vedeva nell’ombra come lui. Riusciva solo a distinguere i suoi occhi
dorati.
“Dove?”,
domandò quindi, facendogli ampiamente capire che non vedeva ad un palmo dal
naso. Inuyasha sbuffò, e qualcuno nell’ombra accese
delle candele, talmente rapido che Kagome non riuscì
neppure a vederlo.
Il
padrone del castello stava comodamente seduto su un divano che, sicuramente,
aveva vissuto periodi migliori: era completamente graffiato, ed il velluto
cremisi che lo ricopriva era quasi completamente sparito, per lasciare spazio
ad una garza porpora sfilacciata e rada.
“Qui”,
disse nuovamente Inuyasha, indicando il posto accanto
al suo, “almeno finché non finiscono di apparecchiare”. Kagome
fece qualche passo avanti, timorosa. Normalmente c’era sempre qualcosa tra
loro, tutta quella vicinanza la faceva sentire insicura, come se non sapesse
controllarsi del tutto.
Per
sua enorme fortuna non impiegarono molto ad apparecchiare, e poté accomodarsi a
tavola. Inuyasha non le toglieva gli occhi di dosso,
la stava forse controllando?
Si
diede della stupida: perché doveva sempre pensare male di lui?
Questi
pensieri la abbandonarono quando, a tavola, vide Inuyasha
che cercava disperatamente di rispettare il galateo. Era una scena da far
morire dalle risate! Più di una volta non si trattenne, e lui, in tutta
risposta, la fulminò.
Ma,
al di là dell’occhiataccia, alla fine anche lui sorrideva.
‘Incredibile’,
pensò Kagome. Vederlo sorridere era così raro, e si
rese conto che era anche terribilmente bello. Deglutì a quei pensieri
concentrandosi sul filetto di manzo che stava letteralmente torturando con il
coltello.
“Nervosa?”,
domandò lui, notandolo. ‘E quando mai non nota qualcosa…’,
pensò ironica.
“No,
per nulla”, mentì, sfoggiando un sorriso forzato.
Terminò
in fretta il pasto, sperando di poter scappare. Ma poi, qualcosa la bloccò.
“Senti,
Inuyasha…”, cominciò, osservando le sue reazioni. Lui
si irrigidì, chiaro segno che temeva che lei iniziasse un discorso serio.
“…
tu esci mai dal castello?”, domandò, forse con troppa impertinenza nella voce.
In effetti, non erano affari suoi.
“No”,
rispose lui secco, desideroso di terminare quella conversazione. Lei sospirò, per
nulla soddisfatta. Come poteva essere felice se non usciva mai a vedere il
sole, le piante, le stelle…
Giusto,
le stelle! Cosa c’è di meglio per migliorare l’umore?
Kagome
si alzò e aggirò il tavolo, fermandoglisi davanti.
Anche lui si alzò per fronteggiarla, aspettandosi chissà cosa.
“Usciamo”.
Inuyasha
strabuzzò gli occhi.
“C...
che cosa?”, domandò incredulo. Kagome gli prese la
mano, decisa a tirarselo dietro. Lui, di tutta risposta, non si mosse.
“Questo
no, le tende aperte si, ma questo no!”, ringhiò, il ragazzo, opponendosi.
Kagome
rimase immobile, prima di voltarsi con gli occhi umidi e uno sguardo talmente
affranto che Inuyasha avrebbe giurato fosse sull’orlo
del pianto.
“Ti
prego!”, piagnucolò Kagome. Quel trucco glielo aveva
insegnato Rin.
“E
va bene!”, ruggì il demone, uscendo ad ampie falcate dalla stanza. Kagome fu costretta a corrergli dietro per raggiungerlo.
Inuyasha
già si stava pentendo: odiava uscire, odiava le siepi e odiava le stelle!
Quando
arrivò all’ingresso si fermò, e fu Kagome a
spingerlo.
“Dai,
Inuyasha! Non fare come i bambini!”, lo rimproverò Kagome.
“Non
sto facendo il bambi…”, ma la sua frase rimase in
sospeso. Infatti i suoi occhi si posarono sul giardino; non lo ricordava così
bello.
Kagome
si accostò a lui per un secondo, prima di superarlo. Era chiaro che voleva la
seguisse, e Inuyasha non se lo fece ripetere due
volte.
Kagome
corse divertita tra le siepi, cercando di far perdere le sue tracce, ma era
tutto inutile, Inuyasha la trovava sempre. Si
ritrovarono ben presto a giocare ad acchiapparsi, come due ragazzini: Inuyasha si faceva sempre prendere apposta, e Kagome lo vide per la prima volta ridere di gusto. Era come
se quel cielo stellato avesse cancellato ogni preoccupazione del demone, come
se avesse compiuto un altro di quei tanti miracoli che ogni notte compiva su
qualche sfortunato, che vedendolo si rallegrava.
Inuyasha
rincorse Kagome sul prato, e la buttò a terra.
Caddero, ridendo come matti, dimentichi di ogni preoccupazione. Si stesero
sull’erba, osservando il cielo. La pallida falce di luna quella notte sembrava
in ombra, perché le stelle brillavano più che mai.
“Guarda,
c’è Cassiopea!”, indicò Kagome. Inuyasha
guardò il dito della ragazza, affusolato e perfetto.
“Che
fai Inuyasha, l’idiota che guarda il dito e non la
luna?”, domandò lei allora, divertita.
“Che
hai detto?”, chiese lui, minacciando a gesti una tortura a solletico.
“No
no, scherzavo scherzavo!”, si affrettò a dire la
ragazza. Inuyasha in quel momento sembrava un’altra
persona. Kagome sorrise: probabilmente era questo l’Inuyasha di un tempo. Non poteva immaginare che invece era
la prima volta in tutta la sua vita che il ragazzo riusciva a comportarsi così
apertamente con qualcuno.
Voleva
ingannare Kagome, ma in quel momento si era
completamente dimenticato di tutto. Ammirava e godeva solo della compagnia
della ragazza, libero da ogni preoccupazione.
“Cassiopea
dici? Qual è?”, domandò, fingendo interesse.
“È quel trono rovesciato, lo vedi?”.
“Si”.
“La
leggenda dice”, cominciò Kagome, attirando
l’attenzione del demone, “che Cassiopea era una regina bellissima, ma molto
altezzosa e viziata. Vantava di essere più bella di tutte le dee dell’Olimpo”.
“Non
dovevano essere felici”, intuì Inuyasha, osservando
il volto perfetto di Kagome.
“No,
affatto”, confermò lei, “difatti Venere decise, assieme alle altre, di punirla.
La condannò a passare l’eternità come una costellazione a testa in giù. È per
questo che il trono è rovesciato”.
Inuyasha
fissò la costellazione luminosa.
“Che
storia triste”, mormorò, con occhi spenti.
“Come
la tua”. Gli occhi dorati incrociarono immediatamente quelli di Kagome.
“So
tutto sulla maledizione. Anche tu hai peccato di superbia, no?”.
Inuyasha
si limitò a fissarla, senza dire una parola.
“Però
tu, a differenza di Cassiopea, puoi ancora scegliere. Hai ancora tempo, Inuyasha, non sprecarlo”, mormorò la fanciulla.
“Nessuno
sarebbe capace di amarmi”, disse lui tristemente.
“Inuyasha, se tu lasciassi che il vero te prevalesse su
quella maschera che ti sei creato, tutte le ragazze cascherebbero ai tuoi
piedi, e se ne fregherebbero altamente del fatto che sei un demone!”, ammise Kagome con energia. Inuyasha fece
un sorriso.
“Oh,
ti ho forse abbagliato?”, domandò, ironico.
“Un
po’ si, lo ammetto”, disse lei. Non era tutta la verità. La verità era che Inuyasha e lei erano legati, e lo sentiva, lo palpava
nell’aria quando erano assieme. Lo capiva dalla rapidità che aveva impiegato a
perdonarlo.
La
verità era che temeva di essersene innamorata senza nemmeno avere il tempo di
rendersene conto. Questo perché l’ira aveva coperto ogni altra emozione, e
quando era svanita ormai era tardi per impedire ai suoi sentimenti di prendere
il sopravvento…
Ma
che stava pensando? Era lei quella che aveva appena detto che non importava se
era un demone, no?
Si
voltò verso di lui, e trovò il suo volto vicinissimo, a un paio di centimetri
di distanza. Se solo avesse allungato un po’ il collo…
Ma
fu lui a colmare la distanza che li separava, impedendo così
all’imbarazzatissima Kagome di ritrarsi.
E
quando sentì le labbra di lui premute sulle sue, perse completamente il
controllo di sé.
Prese
il suo volto tra le mani, e fece scivolare la sua lingua rapida verso la sua.
Il ragazzo rimase di stucco a quella reazione intraprendente, ma subito si
riprese, baciandola con passione e trasporto.
Inganno?
Quale inganno? Non c’era più niente del genere. Kagome
non era un oggetto, o una ragazza da sfruttare.
Kagome
era Kagome.
E
non riusciva più ad immaginarsi senza avere accanto quella presenza, quel
profumo, quella voce melodiosa.
Stesi
sul morbido manto erboso, continuarono ad amarsi, quella notte, divenendo l’uno
proprietà dell’altra.
E
la volta celeste, silenziosa, sigillò il loro patto d’amore, unica spettatrice dell’unione
tra un’umana e un demone.
Allora,
nello scorso capitolo non sono riuscita a scrivere i ringraziamenti, quindi
conviene li scrivo qui ^^’
Vi
è piaciuta l’idea di Cassiopea? Ebbene, ringraziate Emiko!!
*applausi* Ebbene sì, non sapevo come scrivere il cap,
sapevo cosa doveva succedere ma non come, così, come mio solito, sono scappata
da Emiko urlando “Sara-chan,
aiutooo!!! ç.ç”
Conversazione:
*dopo aver spiegato l’ambientazione*
E:
bè, possono parlare di stelle.
A:
*lungosilenzio* tipo?
E:
Mah, costellazioni? *lungo silenzio di Aryuna da cui deduce che è ignorante sull’argomento* Per esempio… Cassiopea
*silenzio* Il trono rovesciato Giulia *silenzio e
sospiro di Emiko* Allora, Cassiopea era una regina…
E
il resto lo sapete ù.ù Inoltre, Cassiopea si adattava
benissimo alla storia! *.*
Passando
a questo capitolo, non riuscivo a scrivere l’inizio. Per farlo sono dovuta
andare a casa di Emiko, sfrattandola dal pc e cercando assieme a lei e alla madre di lei di scrivere
il dialogo iniziale, peraltro di una semplicità assurda! Ma non ci riuscivo,
non chiedetemi il perché T.T
Inoltre
alla fine avrete percepito la citazione dagli episodi in cui Kagome incontra Koga, alla fine
dei quali torna a casa urlando, appunto, “Scemo” ù.ù
Stavo
raccontando il cap a Lizzy,
quando lei, sentendo la fine del capitolo *nella
quale lei, in origine, diceva solo che se ne stava andando*
mi dice: “Uh, come quando gli urla ‘Scemo!’”. Fissandola con gli occhi lucidi
per l’idea geniale, ecco inserita la scena! ^^
Per
queste motivazioni, peraltro molto lunghe >.>’ mi sento in dovere di
dedicare questo capitolo proprio a Emiko e Lizzy senza le quali questi due capitoli non ci sarebbero ^^
Un
bacione a entrambe!
Aryuna
Ingannata
Kagome
si risvegliò, al caldo. Intorpidita, si stiracchiò, con una strana sensazione
addosso. Sì, si sentiva più completa.
Ricordava
bene cosa era successo la notte precedente, eppure non si sentiva affatto in
colpa. Nessun rimorso, nessuna paura. Aveva mostrato le sue emozioni, emozioni
che a lungo aveva atteso e che finalmente aveva provato.
Era
innamorata, e non importava del fatto che fosse un demone. L’importante era che
lei lo ritenesse giusto.
Stava
nel suo letto, nella sua stanza. Lui era sparito?
“Buongiorno”,
disse una voce dalla finestra. Lei si voltò, convintissima che fosse Kagura. Il suo cervello non fece in tempo a connettere la
voce con la persona, quando si vide davanti Inuyasha,
comodamente seduto ai piedi del letto.
Si
era mosso ad una velocità inumana, demoniaca, tanto che lei non se ne era
accorta.
Arrossì,
sorridendogli, e stringendo tra le mani le lenzuola.
"Come
ti senti?", chiese interpretando il suo silenzio come una risposta al suo
saluto.
"Meglio...",
disse lei semplicemente.
"Meglio
in che senso?", domandò lui ironicamente, alzando un sopracciglio curioso.
"E
tu come ti senti?".
"Stai
evitando la domanda", fece notare lui ridacchiando.
"Rispondi!",
ribatté lei, ridendo a sua volta e accoccolandosi nelle coperte. Il demone la
guardò, per un attimo pensieroso.
"Meglio...".
"Che
fai, il pappagallo?", gli fece lei, scoprendosi e sedendosi sui talloni.
"Bè, tu non hai ancora risposto", si giustificò lui
semplicemente.
Kagome
sbuffò: doveva sempre avere l'ultima parola lui?
“Allora,
andiamo a fare colazione?”, disse allora lui, prendendole la mano. Lei,
sorridendo, lo seguì, ormai rassicurata.
Uscirono
dalla stanza, avviandosi nel corridoio.
"Che
vuoi per colazione?", chiese lui, osservandola. Era un sguardo diverso dal
solito, non era freddo e distaccato, ma caldo, trasmetteva emozioni. Kagome lo osservò a lungo prima di rispondere, domandandosi
se era lui ad essere cambiato o il suo modo di vedere. La risposta era
semplice, erano cambiati entrambi.
"Non
lo so, sceglierò sul momento", decise infine, notando che lui aspettava la
risposta un po' perplesso.
Inuyasha
aprì la bocca per ribattere, ma un brontolio sommesso in fondo al corridoio li
distrasse dal loro discorso.
"...e
poi sempre quella stupida ragazzina che vaga di qua e di la! E io a pulire, ma
ora gliela faccio vedere io, eccome se gliela faccio vedere!", disse un demone
chino sul pavimento, con straccio e secchio. Aveva lunghi capelli neri legati
in una mezza coda, sudato e con uno sguardo truce. Gli occhi: rossi. Kagome rabbrividì, senza capirne il motivo: Kagura non le faceva lo stesso effetto, il suo sguardo sembrava...
crudele.
Inuyasha
fece una smorfia, squadrandolo. Stava parlando male di Kagome,
e questo gli faceva venire voglia di prenderlo a pugni.
“Naraku”, disse invece con voce fredda e con un sorriso
maligno sul volto. Il demone si voltò, e vedendolo sorrise: il sorriso più
falso che Kagome avesse mai visto. Oltretutto,
l’improvviso voltafaccia di Inuyasha la preoccupava.
“Padrone!
Buongiorno Padrone, come sta, Padrone?”, chiese il demone con il suo finto
sorriso. Quella ripetizione della parola ‘Padrone’ sembrava una presa in giro.
“Non
hai pulito bene il corridoio, ricomincia da capo”, disse Inuyasha
quasi in un ringhio, mantenendo sul volto quella smorfia. Il demone si rabbuiò,
prima di sorridere nuovamente.
“Sicuro
Padrone, faccio subito Padrone”, disse con voce rabbiosa, alzandosi e
avviandosi con secchio e straccio.
Kagome
lo seguì con lo sguardo, quando sentì cingersi la vita. Spostò rapida gli occhi
in quelli di Inuyasha. Era decisamente preoccupato.
“Andiamo
via”, disse serio, spingendola con delicatezza.
“Ma…”, cercò di ribattere lei confusa, senza però opporsi ai
movimenti di lui.
“Kagome, se incontri di nuovo Naraku
e sei da sola, o in compagnia di bambini… vieni
subito da me”, disse cupo, lanciando un’occhiataccia al corridoio.
Kagome
annuì, deglutendo.
Naraku
percorse rabbioso il corridoio, brontolando. Lungo la strada incontrò Souten, e decise di sfogarsi con lei. La calciò nella prima
stanza che gli capitò, e la bimba, lontana dagli orecchi degli ospiti, gli
lanciò imprecazioni decisamente irripetibili.
Per
un attimo il demone sogghignò, per poi recuperare il suo sguardo scocciato.
Odiava
Inuyasha, lui e quella ragazzina che si portava
dietro. Aveva però notato che tra i due il rapporto sembrava cambiato.
Decisamente,
era successo qualcosa.
Il
suo cervello decisamente maligno e corrotto ci impiegò meno di due secondi a
valutare la situazione.
Con
un sorriso crudele, formulò la sua vendetta. Ma prima, aveva bisogno di
informazioni.
Si
avviò subito verso le stanze di Sesshomaru: lì c’era
qualcuno che sapeva sempre tutto ciò che avveniva nel castello.
“Jaken!”, chiamò, camminando nel lungo corridoio dell’ala
ovest. Un piccolo demone verde gli corse incontro, decisamente sudato.
“Che
fai qui, vattene subito! Il signor Sesshomaru si
arrabbierà!”, disse quello con voce gracchiante.
“Rispondimi
e me ne vado. Dov’erano ieri Inuyasha e la ragazza
simile alla fata?”, domandò lui rapidamente, per nulla intenzionato a perdere
il suo tempo.
“Sono
usciti in giardino, e adesso sparisci!”, disse Jaken,
facendogli cenno di filare via. Lui se ne andò, soddisfatto. Se erano stati in
giardino aveva il demone giusto a cui chiedere ogni parola dei loro discorsi.
Attraversò
rapido i corridoi, deciso a svolgere la sua vendetta.
Spalancò
il portone principale, dirigendosi rapido verso il prato.
“Mimisenri”, chiamò Naraku. Dopo
pochi secondi un demone emerse dal prato. Aveva delle enormi orecchie, e
sembrava decisamente vecchio.
“Mi
cercavi, Naraku?”, chiese con voce calma.
“Sì,
voglio sapere cosa è successo nel giardino ieri tra Inuyasha
e la ragazza”, spiegò rapido.
“Sempre
a farti gli affari altrui, eh?”.
“Senti
chi parla. In fretta, non ho tempo”, ringhiò il demone, infastidito.
Mimisenri
chinò il capo da una parte.
“Vuoi
sapere che si sono detti o che hanno fatto?”, domandò. Naraku
sbuffò.
“Dimmi
se è successo qualcosa di rilevante!”.
“Ebbene… hanno parlato di stelle e del modo di comportarsi
del padrone. Poi, la ragazza ha espresso le sue emozioni…”,
disse lui con tranquillità.
“E…?”, domandò Naraku, sentendo
che c’era dell’altro.
“Lei
ha perso la verginità”, terminò il vecchio demone.
Naraku
sorrise, maligno.
“Perfetto”,
sibilò, voltandosi e andandosene.
Mimisenri
si inabissò nuovamente nel prato, sparendo. Solo un’ombra dai capelli argentati
in lontananza.
‘Tsk, non mi riguarda’, pensò Sesshomaru,
allontanandosi da quel luogo.
Kagome
si avviava nella stanza di Sango, pensierosa. Inuyasha, era così diverso… sì,
decisamente lo preferiva rispetto all’Inuyasha di
prima.
“Ehi”,
disse una voce nell’ombra. Kagome sobbalzò, fissando
due occhi rossi, inconfondibili. Crudeli. La sua tentazione fu fuggire da Inuyasha, ma la voce la fermò.
“Inuyasha ti ha detto di non parlarmi, vero? Comprensibile,
lui non vuole che tu sappia”, disse Naraku,
incrociando le braccia.
“In
che senso?”, domandò Kagome, senza riuscire a
sopprimere la curiosità.
“Kagome, Inuyasha ha consumato il
pasto per obbligarti a rimanere al castello”, disse il demone con voce
dispiaciuta. Kagome rabbrividì.
“Che
intendi?”.
“Lo
sai, ma non vuoi crederci. Kagome, Inuyasha ha detto a tutti quello che è successo ieri! Lo so
anche io, che sono un semplice lavapavimenti”, fece il demone, osservandola con
occhi pieni di pietà.
“Non
è vero”, sibilò lei.
“Ah
no? Lo sai perché ti tratta così? Perché assomigli alla fata che lo ha
maledetto, e spera che tu possa spezzare la maledizione”, mormorò in risposta
lui.
Kagome
sentì qualcosa che si spezzava.
Si
voltò di scatto, correndo verso la stanza di Sango.
Naraku
sorrise soddisfatto. Sentiva odore di sale.
Odore
di lacrime.
“INUYASHA!”,
urlò una voce alla porta. Il demone sobbalzò, trovandosi davanti una Kagura sconvolta. Myoga stava già
per protestare per quella confidenza nei confronti del Padrone, ma la youkai continuò il suo discorso.
“Kagome…Kagomesta…”, disse affannata.
“Cosa?”,
domandò lui preoccupato.
“SCEMO!
STA ANDANDO VIA!”, urlò la donna, incenerendolo con lo sguardo.
Inuyasha
rimase immobile fissando la serva, mentre Myoga la fissava
sconvolto per tutta quella confidenza.
Dopodiché,
si fiondò alla porta.
Kagome,
come una furia, si dirigeva al portone. Shippo le
saltellava attorno assieme a Rin, cercando di
trattenerla.
Sango
e Miroku la seguivano silenziosi. La disperazione di Kagome era stata presto sostituita dalla rabbia. Rabbia per
essersi concessa a un essere simile.
Una
bestia!
Scese
le scale, mentre ignorava la voce che, proveniente dal corridoio, chiamava il
suo nome.
“KAGOME!”,
urlò Inuyasha, saltandogli davanti, “Che sta
succedendo qui?”.
Lei
lo fulminò, con le lacrime agli occhi. Lo stesso sguardo di quel giorno in cui
gli disse di sparire.
“Me
ne torno a casa, SCEMO!”, urlò, spingendolo di lato e aprendo la porta.
“SCEMO!”,
urlò di nuovo, facendo passare gli amici e sbattendola alle sue spalle.
Inuyasha
rimase immobile a fissare incredulo la porta.
Sentì
qualcosa spezzarsi nel suo petto, mentre l’ennesimo urlo, all’esterno,
rimbombava anche nell’atrio, urlato da Kagome a pieni
polmoni:
Allora,
questo capitolo è molto lungo per la media di B&B*è lungo come un capitolo di Profumo o NtI*, e l’ho scritto un po’ forzato per mancanza d’ispirazione.
Ringrazio Meg e Roro per
avermi aiutato ad andare avanti, e ritengo più che dovuto dedicare il capitolo
a loro due! ^^
Roro,
tu in particolare, anche se non lo sai, con la tua allegria e dolcezza mi hai aiutato
a superare un brutto periodo, tanto che non credevo di riuscire più a scrivere.
Goditi questa dedica, perché te la meriti tutta!
Aryuna
Ritorno
al villaggio
Koga
rimaneva imperterrito appoggiato alla porta della stanza di Kagome,
il limite che non gli era stato permesso di superare. Oltre la porta si era
rinchiusa la ragazza, tornata al villaggio assieme ai due neosposi, che
sostenevano di averla ritrovata durante il viaggio di andata.
Ma
a lui la storia non tornava: tanto per iniziare, se Kagome
si era persa nel bosco, come sosteneva, perché il suo vestito era pulito e
intatto? Anche i capelli erano perfettamente in ordine, e una ragazza persa in
una foresta non si preoccupa della sua cura personale.
Ma
dato che Kagome non aveva intenzione di dire nulla,
lui aveva deciso di controllarla 24 ore su 24, sette giorni su sette, finché
lei non si fosse decisa a parlare.
Sango
e Miroku, dal canto loro, si erano rifugiati nella
loro casetta per evitare le domande dei paesani. Koga
aveva mandato Ayame a controllarli, e lei, cotta e
stracotta com’era, aveva ubbidito subito. Se ne approfittava di Ayame, lo sapeva, ma non riusciva ad evitarlo. Per lui,
dare ordini era normale routine.
Comunque,
Kagome non aveva intenzione di parlare, ma prima o
poi, avrebbe ceduto. E lui era pronto a carpirle la verità.
Shippo
continuava a camminare avanti e indietro davanti alla porta della stanza del
padrone. Kagura, poggiata allo stipite della porta,
batteva nervosa il ventaglio sull’avambraccio. La situazione era degenerata, e
lei odiava quando succedeva così: le ricordava troppo quando erano stati
colpiti dalla maledizione. O forse anche questo era dovuto a Kagome, tramite la sua somiglianza alla fata? La youkai scosse il capo, schioccando la lingua nervosa.
“Padrone,
si riprenda!”, disse Myoga saltellando disperato sul
cuscino di Inuyasha. Quello, dal canto suo, aveva il
volto completamente immerso nel guanciale, e non ne voleva sapere di alzarsi.
Ogni tanto degnava qualcuno di una risposta, che consisteva in un mugolio
confuso.
In
pratica, era l’immagine demoniaca della depressione più profonda.
Kagura
non si sarebbe sorpresa se, da un momento all’altro, avesse minacciato di
uccidersi con una cinquantina di pugnalate.
Sesshomaru,
nella sua stanza, fissava un punto imprecisato del cielo. Quell’umana era
andata via, e con lei la speranza di annullare la maledizione.
Ma
questo non lo riguardava, era stata colpa di Naraku,
non sua. Lui non c’entrava nulla, era stata tutta colpa di suo fratello. Ma… anche lui era vittima della maledizione. Voleva davvero
rimanere così per sempre? Per quale ragione era tornato al castello? Per
nascondersi? Lui, orgoglioso com’era, non avrebbe mai accettato una fuga. La
verità, era che era tornato per impedire al fratello di fare qualche cavolata.
E
non l’aveva fatto.
Il
filo dei suoi pensieri venne interrotto quando la porta della stanza si
spalancò, e la fastidiosa voce di Jaken sfondò il
silenzio.
“Rin, lascia in pace il signor Sesshomaru!”.
Sesshomaru alzò lo sguardo, ma un odore arrivò al suo
naso prima che i suoi occhi incrociassero il volto della bimba. Odore di
lacrime. E l’immagine di una Rin piangente gli si
fiondò addosso come una tempesta.
“Signor
Sesshomaru! Kagome se né
andata! Non è giusto!”, pianse Rin, stringendo le
vesti del suo eterno protettore. Sesshomaru la fissò
– incredulo ma impassibile – e alzò lo sguardo su Jaken
che stava brontolando.
“Sono
sicuro che c’entra Naraku”, borbottava il piccolo
demone verde, ripensando alla domanda del giorno prima.
…
Ok,
si doveva intervenire.
Jaken
sapeva chiaramente qualcosa, e lui lo avrebbe saputo molto presto. E non lo
faceva per il fratello, non per la ragazza, non per la maledizione. La ragione
era molto, molto più semplice.
Vendetta.
Perché
proprio vendetta? La spiegazione era altrettanto semplice, ma nessuno, nessuno avrebbe mai saputo la verità.
Perché lui non poteva permettere che qualcuno lo sapesse. E nessuno,
conoscendolo, lo avrebbe mai sospettato.
Rin,
stava piangendo.
E
mai alcun essere vivente e non doveva fargli questo affronto. Potevano
torturarlo – sempre se lui non li avesse uccisi prima – potevano maledirlo,
ucciderlo anche – pur se nessuno ne sarebbe stato mai capace – ma nessuno e
nulla poteva permettersi di far piangere Rin!
“Kagura, dobbiamo fare qualcosa!”, disse il piccolo demone
volpe, prendendosi la testa tra le mani.
“Tsk, e cosa? Non possiamo certo obbligare Kagome a tornare. E non sappiamo neppure perché se ne è
andata”, sbuffò la donna, distogliendo lo sguardo porpora dal cucciolo.
Strabuzzò gli occhi quando… no, non poteva essere
così, doveva averlo immaginato. Nell’ombra, dietro l’angolo, avrebbe giurato di
aver visto Sesshomaru che spariva alla vista dietro
il muro.
Ma
Sesshomaru non andava mai in giro per il castello, e
mai e poi mai si sarebbe fatto vedere. Ma, soprattutto, mai e poi mai l’avrebbe
guardata negli occhi come a chiederla di seguirla.
“Aspetta
qui, Shippo”, si limitò a dire, per assicurarsi sul
serio che il demone era stata solo la sua immaginazione, magari per la
stanchezza, o per la situazione. Ma, una volta girato l’angolo, si trovò faccia
a faccia con il glaciale Signore del castello.
Rin,
come una bimba che cerca protezione, era aggrappata alla gamba del demone, con
gli occhi gonfi di pianto e la candela al naso, mentre dietro c’era un essere
verde di strana forma e natura. Dopo un’attenta analisi, Kagura
concluse che era Jaken, pieno di bozzi e lividi. Sesshomaru lo aveva picchiato per sapere il suo dialogo con
Naraku.
“Dì
a mio fratello che è stato Naraku a mandar via la
ragazza. Gli ha detto della storia della fata, probabilmente, o comunque
qualcosa di poco piacevole in base agli ultimi avvenimenti”, disse gelido,
tanto che Kagura sentì un brivido percorrerle la
schiena.
“Ultimi
fatti accaduti? Che intendi?”, chiese quindi, mantenendo la voce bassa per non
farsi sentire da Shippo.
“Se
vuoi impicciarti vai dal giardiniere, Mimisenri.
Sembra gli piaccia molto fare il guardone”, si limitò a dire il demone, prima
di voltarsi per tornare alle sue stanze, seguito dalla bimba e da…da… insomma, da quel ‘coso’
non ben identificato che era divenuto Jaken.
La
youkai rimase immobile per diverso tempo, prima di…
“INUYASHA!”.
“Perché
sempre a me?”, si lamentò Shippo sulla groppa di Kirara. Per la seconda volta in meno di una settimana
eccolo andare nuovamente al villaggio. La scusa di Kagura
era stata talmente patetica che neppure riusciva e considerarla.
“Mandiamo te perché sei il più
piccolo e non ti si nota”.
…
Oh,
certo! Un bimbo con occhi felini, zampe e coda da volpe, orecchie a punta e
accompagnato da un curioso cucciolo di gatto a due code – sempre che Kirara non fosse momentaneamente una tigre enorme a due
code– è decisamente più comune di una
donna con gli occhi rossi – considerando che poteva nascondere le orecchie con
i lunghi capelli – che passeggia tranquilla senza incrociare lo sguardo altrui!
Il
cucciolo grugnì, infastidito. Naraku era stato imprigionato
nelle segrete, ma Inuyasha si sentiva talmente in
colpa per aver anche solo inizialmente mentito a Kagome
che non aveva il coraggio di andarla a riprendere.
In
pratica, Shippo era in viaggio per un piano di Kagura. Ma insomma, proprio ora doveva risvegliarsi la
natura da impicciona di quella donna?
Ennesimo
sbuffo.
“Shippo, smettila di lamentarti!”. Ah, giusto, si era
dimenticato la disgrazia delle disgrazie, attualmente seduta dietro di lui
sulla groppa della nekomata.
Disgrazia
meglio identificata come Souten.
Disgrazia
che si era accollata di nascosto, cosa che condannava Shippo
a una successiva tortura da parte dei due fratelli, di certo convinti in un
rapimento della sorella.
Disgrazia
che non smetteva, nemmeno per un minuto, di rompere le scatole!
“Nessuno
ti ha chiesto di venire!”, brontolò il bimbo, fissandola con astio. Lei gonfiò
le guance, incrociando le braccia, e il bimbo arrossì.
“C… che hai?”, balbettò, voltandosi rapido.
“Sei
sempre scontroso con me, e pensare che volevo aiutarti”, piagnucolò lei con gli
occhi lucidi. Shippo sobbalzò, fissando la pelliccia
di Kirara: quella maledetta stava cercando di
fregarlo di nuovo!
Per
sua fortuna, scorse in lontananza il villaggio, e riuscì a distrarre la bimba,
onde evitare ingiurie nei suoi confronti – stile ‘Ci sei cascato! Scemo!’.
“Ora
dobbiamo cercare Kagome”, sussurrò il bimbo,
scendendo dalla Nekomata dietro dei cespugli. La
tigre tornò gatta, e Souten lo fissò sbuffante.
“Che
ti sussurri! Non ci sente nessuno”, si lamentò, svolazzando via.
…
S…
svolazzando?!
“Souten, non avrai…”, cominciò Shippo incredulo. La bimba gli fece la linguaccia, esibendo
le ruote infuocate allacciate alle sue scarpe.
“Certo,
ho rubato le ruote del sole di Hiten! Così è più
comodo”, disse lei con semplicità. Shippo già si
vedeva impagliato da Hiten. Rapimento e furto:
fantastico. Ma perché doveva occuparsi di quella mocciosa? E soprattutto,
perché la mocciosa in questione lo seguiva ovunque e cercava di metterlo in
imbarazzo?
Cercò
di ignorarla e di cercare la casa di Kagome,
camminando sul retro degli edifici attorno alla piazza. Il villaggio era
piccolo, e trovò la casa in fretta, come in precedenza aveva fatto con Sango.
Kagome,
seduta sul letto, fissava il pavimento, immobile. Aveva gli occhi gonfi e
rossi, e il labbro inferiore era pesto, chiaro segno che lo aveva morso più di
una volta. Si stringeva il ventre, Shippo sospettò
che avesse nausea: ma lei stava pensando a quello che aveva perso.
Il
cucciolo di volpe bussò al vetro più volte, la ragazza sembrava quasi sorda,
cercava di sentire qualche pensiero nella sua mente vuota. Solo dolore.
“Kagome!”, gridò quindi Shippo, e
lei, lentamente, si voltò. I suoi occhi si dilatarono, incurvò la schiena, come
se una pugnalata l’avesse colpita al cuore, il volto si contrasse in una
smorfia di dolore mentre le lacrime le salivano agli occhi.
Urlò.
Tutto
si era messo contro di lei, con una forza a cui non sapeva opporsi. E non
voleva affrontarlo. Faceva male, troppo male.
“KAGOME!”,
urlò Koga spalancando la porta. La ragazza fissò lo
sguardo su di lui.
Disperazione.
Odio. Perché? Perché non la lasciavano in pace? Lei non voleva affrontare la
realtà, voleva fuggire. E loro, tutti loro, erano d’impiccio.
“K…Kagome”, balbettò Koga, vedendola così ridotta, “che cosa…”.
“ESCI
FUORI DI QUI!”, gridò lei con voce roca, spezzata dal
pianto. Koga sobbalzò, arretrando.
“Ma…Kago…”.
“ESCI
DALLA MIA VITA! VI ODIO! VI
ODIO TUTTI!”, urlò ancora, le lacrime che scendevano imperterrite, la smorfia
di dolore sul volto, gli occhi pieni d’ira. La consapevolezza che aveva perso
tutto ciò che cercava. Aveva davvero importanza ormai? Aveva perso l’amore, la
purezza e la fiducia negli altri. Si era trattenuta per poter esplodere da
sola, in solitudine, ma nessuno lo capiva.
E
nessuno doveva cercare di consolarla per i suoi errori.
Shippo,
affannato e con sguardo terrorizzato, fissava il vuoto. Davanti a lui, Souten scuoteva la mano per cercare di trovare un segnale
nelle pupille del bambino. Immobili.
“Pfui, che fifone”, sentenziò alla fine. Shippo,
dopo l’urlo di Kagome, era scappato come un razzo, e
stava ancora tremando come una foglia, cercando di riprendere fiato. ‘I
maschi!’, pensò la bimba esasperata, ‘il coraggio ce l’hanno solo per quello
che pare a loro!’.
“Shippo, sei proprio una vergogna”, cominciò lei, “era solo
un urlo, e tu che reagisci in que…”. Un singhiozzò
interruppe la bimba. Si voltò verso il piccolo kitsunee…
“Shi…Shippo, ma che fai?!
Piangi?”, urlò incredula. Lui continuò a singhiozzare, ignorandola.
“Ka…Kagome non mi vuole più
vedere!”, pianse, portandosi le mani agli occhi, “mi odia!”.
“N… no che non ti odia! Lei… lei è
solo…”, cercò di rimediare Souten.
Ma era una bimba anche lei, e fissando Shippo
piangere si sentì male a sua volta. “N… non piangere… se piangi… allora anche
io…”, balbettò, con gli occhi lucidi, “WAAAAHHH!”.
“Chi
c’è?”, chiese una voce maschile, facendo sobbalzare i due. Non ebbero il tempo
di scappare, e la figura di Miroku emerse dai
cespugli, con sguardo confuso, e poi sorpreso.
“Ma… ma voi…”, balbettò,
osservando la scena tragica. Due bambini seduti a terra con lacrimoni
agli occhi e labbra tremolanti. Straziante.
“WAAAAHHHH!
MIROKU!”, urlarono in coro, lanciandosi addosso al ragazzo, “Kagome ci odia!”. Lui sobbalzò, spaventato.
Due
bimbi disperati alla ricerca di consolazione erano aggrappati a lui, uno per
gamba, e non erano intenzionati a staccarsi.
Aveva
bisogno di Sango.
“WAAAAHHHH!
SANGO!”, urlarono i due abbracciando la donna, “Kagome
ci odia!”.
“Su,
su! Calmatevi piccoli” sussurrò lei con dolcezza, trattenendo le risate. Non
per i bambini, ma ripensando a Miroku: era entrato
dalla finestra con i due, piangenti come due fontane, appiccicati alle gambe,
il volto in preda al panico e alla ricerca di aiuto. Comico.
Carezzò
le teste dei bimbi finché non smisero di singhiozzare. In effetti, non capiva
la ragione per cui erano venuti al villaggio, considerato ciò che le aveva
detto Kagome. Aveva scoperto la verità, certo, ma
sospettava qualcosa. Kagome non era il tipo da
piangere per un inganno riuscito male, era chiaro che si era innamorata: e
forse, forse c’era stato qualcosa di più di un semplice innamoramento. Forse
lui l’aveva… toccata, e lei se ne vergognava. O
peggio.
Sango
scosse la testa, decisa a cacciare quei pensieri. Kagome
non poteva prestarsi a simili sconcezze! Non era da lei.
“Ditemi
perché siete qui. E cosa è successo”, domandò infine, decisa a scoprire la
verità. Miroku, poggiato al muro, osservava serio la
moglie, e decisamente preoccupato. Quella situazione era sfuggita di mano ad
entrambi, e non gli piaceva. E più Shippo raccontava,
più l’uomo si preoccupava.
“E
questo è quanto”, terminò Shippo, adesso più calmo,
mentre Souten svolazzava per la stanza divertita.
Tipico dei bambini, prima si disperano e poi ridono.
Sango
sposto gli occhi scuri, decisa ad incontrare lo sguardo cobalto del marito,
sperando di trovarvi un appoggio o un consiglio. Ma lui sembrava…
infastidito dalla situazione.
“Miroku”, chiamò quindi lei, con dolcezza, “ti prego. Stiamo
parlando di Kagome”.
“Sango, io…”.
“Ti
prego!”, disse di nuovo lei subito, con occhi speranzosi. Miroku
la fissò a lungo. Impossibile resistere, era il suo punto debole quando si
trattava di Sango. Oltretutto, era molto amico di Kagome – l’unica donna di cui Sango
non era gelosa – e non poteva certo negargli il suo aiuto. Sospirò, sconfitto.
“E
va bene. Ma non sarà facile, Koga tiene d’occhio Kagome”, disse quindi, avvicinandosi alla moglie.
“Dobbiamo
escogitare un piano”, sussurrò lei, osservando i bambini. E soprattutto le
ruote infuocate di Souten.
“Souten, mi faresti un favore?”, domandò quindi la donna,
con un sorrisetto maligno sul volto. Miroku sorrise:
quella era sua moglie.
“E
questo è quanto”, disse la vocina dentro la camera, mentre Ayame,
occhi sbarrati e ancora incredula, rimaneva poggiata con la schiena contro il
muro, sotto la finestra della stanza di Sango. Non
era possibile, quella storia che aveva sentito… si
affacciò alla finestra, e vide una bimba che svolazzava per la stanza.
Trattenne l’impulso di urlare, ma cadde a terra.
‘Tutto
questo è assurdo!’, pensò la ragazza, ‘D
emoni?
Maledizioni?’. O stava sognando, o era tutto vero. Il dolore per la caduta la
riscosse.
Non
era un sogno.
Doveva
dirlo a Koga.
“Koga!”, chiamò correndo verso la casa di Kagome. Due ragazzi le si pararono davanti.
“Hakkaku, Ginta! Che fate?”,
chiese incredula, respirando profondamente.
“Koga ci ha chiesto di tenerti d’occhio”, disse il primo.
“…
perché temeva che tu svolgessi male il lavoro”, terminò il secondo.
“SCEMI!
Fatemi passare, è importante!”, sbraitò Ayame,
scocciata.
“Di
a noi, riferiremo”, disse Ginta, immobile. Ayame strinse i denti. L’avrebbero presa per pazza. E Koga non aveva la minima fiducia in lei. Le lacrime
salirono inarrestabili, e la ragazza si morse il labbro.
“VI ODIO! Al diavolo Koga, che se
la cavasse da solo!”, sbraitò, prima di correre via.
Era
tutto così ingiusto.
“Arrivo,
arrivo!”, urlò il vecchio, in direzione della porta. Squadrò Koga, il quale non si muoveva di un millimetro dalla sua
postazione. Occupava solo spazio.
“Oh,
sei tu Sango!”, disse il nonno solare, aprendo la
porta. La ragazza, con una cesta ricoperta da un panno, sorrise solare. Sapeva
di essere la benvenuta.
“Sono
venuta a trovare Kagome, gli ho portato della
frutta”, disse allegra, entrando nella casa. Dietro di lei, Miroku
fece un cenno di saluto al vecchio, che subito ricambiò.
“Mi
fa piacere, ma Kagome non vuole vedere nessuno”,
disse scontroso Koga, squadrando i due. Sango lo fulminò.
“Scommettiamo?
Non sarà che sei tu a scocciarle?”, rispose acida, obbligandolo a spostarsi
dalla porta minacciando due bei calcioni. Aprì la porta ed entrò, sbattendola.
Dall’interno si sentì un principio di urlo, subito interrotto dalla felice
esclamazione ‘Sango!’. Koga
fece una smorfia, accennando a riappoggiarsi alla porta.
“Che
stai facendo?”, domandò Miroku, inarcando le
sopracciglia. Il ragazzo lo osservò, confuso.
“Quello
che ho fatto fino ad ora”, ammise, senza trovarci nulla di male.
“C’è
Sango dentro, facciamo un giro”, propose Miroku, un po’ scontroso. Koga
arretrò, infastidito.
“Non
lascerò Kagome da sola neppure un momento”, sibilò,
assottigliando lo sguardo. Miroku sorrise, e gli
passò un braccio sulle spalle.
“Oh
Koga, come sei fedele a Kagome”,
disse, fin troppo amichevole, “ma vedi, in questo momento non è sola, con lei
c’è Sango”. La presa di Miroku
si spostò dalle spalle al collo, e Koga cominciò a
preoccuparsi.
“Bè, ma io…”, biascicò, cercando
di ritrarsi senza successo. Miroku stringeva la presa
poco a poco.
“Non
vorrai origliare la conversazione di mia
moglie, non è vero, Koga?”, sibilò Miroku con sguardo omicida, e il braccio che minacciava
l’esecuzione dell’assassinio. Il ragazzo deglutì.
“C… certo che no! Facciamo pure quattro passi!”, disse con
voce stridula, mentre Miroku lo conduceva fuori senza
allentare la presa. Ayame, seduta sulla fontana della
piazza, vide la scena da lontano, mentre Koga cercava
di convincere Miroku a lasciarlo. Il ragazzo la vide,
e le lanciò uno sguardo speranzoso. Ma lei, sbuffando, distolse gli occhi
smeraldo, offesa.
“Così
ti impari”, commentò, accavallando le gambe.
“Sango, che stai facendo?”, domandò Kagome,
mentre l’amica teneva l’orecchio premuto sulla porta. Si staccò solo quando fu
sicura che Koga e Miroku
erano usciti. Kagome cercava di rimanere composta, ma
a Sango bastò un’occhiata per capire quanto fosse
distrutta. No, non poteva essere solo un innamoramento, quell’Inuyasha le aveva fatto qualcosa; e Sango
non l’avrebbe mai perdonato per questo.
“Kagome, sono venuta per parlarti”, cominciò, scoprendo la cesta
con un movimento studiato e lento.
“Sto
bene, davvero non devi pre… SANGO, CHE CI FA LUI QUI?”, strillò scattando in piedi. Shippo deglutì, e si affacciò dalla cesta timidamente.
“Kagome”, singhiozzò, “allora mi odi davvero!”. La ragazza,
presa da un attaccò d’ira si avvicinò minacciosa, ma Sango
spinse la cesta dietro la schiena e strinse decisa il polso dell’amica.
“Kagome, ascoltalo”, disse seria, fissando gli occhi
cioccolato dell’amica. Erano così annebbiati, sembravano gli occhi di un morto,
e una fitta di dolore le percorse il petto.
“Che
ti hanno fatto, Kagome? Non sei più tu”, sussurrò
incredula scuotendo la testa. La ragazza si ritrasse, decisa a fuggire. Nessuno
doveva sapere, se ne vergognava troppo. E poi, avrebbe dovuto affrontare la
realtà dei fatti; nessuno avrebbe voluto una donna impura. Anche se si fosse
innamorata di nuovo, non sarebbe cambiato nulla nella sua vita. E il sospetto
le impediva di fidarsi.
Sentì
dei singhiozzi provenire dalla cesta. Era Shippo. Gli
occhioni verdi erano fissi sulla fanciulla, umidi e
gonfi.
“Maledetto
Naraku, lo odio!”, strillò il bimbo, scoppiando
definitivamente in lacrime. Kagome sobbalzò,
fissandolo. Sango si sorprese di come ormai ogni
minima cosa spaventasse Kagome. L’impulso di
stingerla a sé per consolarla diveniva ogni istante più forte.
“Ascoltalo”,
mormorò nuovamente, “ti prego Kagome, ti stai
rovinando la vita”.
“Me
l’hanno già rovinata”, rispose lei con voce fredda, fissando gli occhi sul
demone, “quindi non tornerò. Anzi, spero vivamente che quel bastardo rimanga
maledetto per l’eternità”.
“Kagome!”, la sgridò Sango,
“Adesso basta, stai esagerando! Come puoi dire cose simili senza neppure sapere
la verità?”.
“Tu
non sai niente!”, ribattè la fanciulla scocciata,
“non sai quello che mi ha fatto”.
“No,
ma so tutto il resto! E so che ti ama, quindi smettila di fare la deficiente e
ascoltalo!”, urlò l’amica, indicando la cesta. Kagome
strinse i denti. Anche Sango? Anche lei la stava
tradendo?
“Kagome”, mormorò Sango,
dolcemente, prendendola alla sprovvista per l’improvviso cambiamento, “ricordi
quando Miroku baciò Shima?”.
Kagome inarcò un sopracciglio. Che c’entrava? Ma
l’altra attendeva una risposta, quindi annuì.
“Ricordi
che io venni qui da te, e non lo volli più vedere. Eppure, questo non mi causò
altro che dolore. Non appena lo vidi di nuovo, quando venne qui in quel giorno
di pioggia ad urlare alla finestra… che mi voleva sposare… capì che non potevo amare nessun’altro”, spiegò,
avvicinandosi lentamente, “Ognuno nella vita sbaglia qualcosa, bisogna saper
perdonare, Kagome. Stare chiusa qui dentro a piangere
non cambierà nulla”.
“Miroku era pentito, Sango”,
sibilò Kagome, poco convinta.
“E
Inuyasha non ti voleva ingannare! Non più! Ma se tu
non vuoi ascoltare neppure Shippo, ti rovinerai la vita”,
disse Sango nuovamente seria.
Kagome
si morse il labbro, indecisa. Cosa doveva scegliere?
“Miroku, penso che abbiano finito di parlare”, tentò Koga, le spalle strette dal braccio di Miroku.
Lui lo ignorò, continuando a camminare. Finché un odore di bruciato non
raggiunse il naso dei due.
“Che
succede?”, domandò Miroku, vedendo del fumo. Koga seguì la scia, tra il confuso e il preoccupato. Aveva
un brutto presentimento.
“È
odore di le… LA MIA CASA!”, urlò Koga
fissando il tetto in fiamme. Miroku lo lasciò, e il
ragazzo corse urlante, per spegnere il principio d’incendio. Sorrise
impercettibilmente, soddisfatto. Il piano di sua moglie era perfetto. E Souten, svolazzando nel cielo, fissava le sue ruote
infuocate fiera del suo lavoretto.
Kagome,
immobile, cercava di ricomporre le parti della sua mente sparse nella sua
testa. Non sapeva più cosa pensare, né a chi credere. Né cosa scegliere.
“Kagome, non hai molto tempo”, disse Sango,
sentendo l’odore di bruciato – il segnale – “tra non molto Koga
tornerà, e non potrai più tornare al castello”.
“Io
non riesco… a pensare”, ammise la ragazza, stringendo
i pugni.
“Kirara è qui fuori dalla finestra, ti raggiungeremo più
tardi”, la rassicurò l’amica, “ti verremo a trovare spesso, promesso”.
“Kagome!”, chiamò Shippo, sul
davanzale.
“Kagome!”, urlò Miroku, facendo
irruzione nella casa, “ora o mai più!”.
“Kagome”, sussurrò Sango,
stringendogli una mano.
“KAGOME,
in fretta!”, strillò Souten planando sul davanzale
accanto a Shippo.
Kagome, Kagome,
Kagome… il suo nome rimbombava
come un eco lontano. Se fosse tornata al castello, non l’avrebbero più lasciata
scappare. Ma se fosse rimasta… se era davvero come
diceva Sango, allora se ne sarebbe pentita in eterno.
Due
occhi dorati le balenarono davanti, come un flash improvviso, e prima che se ne
rendesse conto stava già scavalcando il davanzale.
Sango
sorrise, e si rivolse a Miroku. Anche loro dovevano
scappare nella foresta, prima che Koga scoprisse che Kagome era fuggita. Sarebbero andati al loro villaggio natale
nell’attesa che Kirara tornasse a prenderli.
Kagome
montò Kirara, senza capire se stava facendo la scelta
giusta. Voleva solo rivedere quegli occhi, quel volto, toccare delicatamente la
pelle bianca e marmorea. Sentiva il bisogno di lui. Quando la nekomata prese il volo, quasi venne sbalzata via per quanto
era distratta, e si appiattì in fretta sul morbido manto panna, silenziosa.
“Dici
che andrà tutto bene?”, domandò Souten a Shippo.
“Non
lo so. Noi abbiamo fatto tutto ciò che potevamo”, rispose il cucciolo, sospirando.
‘Non
so se sia la scelta giusta ma…’ pensò la ragazza, chiudendo
gli occhi e prendendo un respiro profondo. Era tutto così difficile.
Halo!
Rieccomi qui, con un capitolo decisamente corto,
scusate ç.ç Il fatto è che per una serie di problemi
non riesco a scrivere troppo, anche i compiti delle vacanze si sono messi in
mezzo @.@ Comunque, leggete e commentate, non mi abbandonate!!! ç.ç Dato che alla fine i commenti sono diventati 5, ma all’inizio
c’era solo Roro, e poi Kyotochan*graziekyotochan! ç.ç* mi
ero buttata giù, vi prego, commentate! ç.ç Ringrazio
tutti quelli che hanno commentato lo scorso capitolo comunque, vedere che alla
fine i commenti sono cresciuti mi ha tirato su (commentate, o mi arrabbio! ndEmiko al telefono) No, non c’è bisogno Emiko! O.O
P.S:
Visto che la Shot The Host
ha avuto successo, sto facendo un pensierino sul seguito che mi avete richiesto
^^ Non prometto nulla ma ci provo!
Aryuna
The
pursuitofhappiness
Inuyasha
continuava a camminare avanti e indietro nella grande stanza, tanto che ormai
stava consumando il tappeto. Kagura continuava a
fissarlo, nervosa e confusa allo stesso tempo. Confusa dalla situazione,
decisamente complicata. Avevano imprigionato Naraku,
grazie a Sesshomaru, e Inuyasha
aveva fatto una chiacchierata… poco amichevole con Mimisenri.
Oltretutto,
Inuyasha non aveva pace. Ora si deprimeva sul letto,
ora camminava avanti e indietro, ora si sentiva male. ‘Imbarazzante’, pensò Kagura sospirando, e
sperando vivamente che Shippo portasse a termine la
missione positivamente. E ripensando a Sesshomaru
piegato dalla piccola e piangente Rin.
Tutto
ciò finché Inuyasha non sobbalzò di colpo.
“Che
succede?”, chiese Kagura, preoccupata –
incredibilmente – per la salute del suo Padrone. Lui si voltò a fissarla, in uno
scatto che la fece sobbalzare. La fissava…
illuminato? No, non fissava lei, fissava la porta. A quel punto, un odore
familiare le giunse al naso.
“Ma
non è…”. Frase interrotta da uno spostamento d’aria. Kagura rimase immobile con gli occhi spalancati, sconvolta
per la rapidità con cui era corso via Inuyasha. Il
ragazzo si era fiondato nel corridoio, seguendo solo la scia, e inciampando in
tre servitori e in una scopa. Nonostante questo, si lanciò praticamente a
quattro zampe sulle scale. Riuscì a riprendere l’equilibrio senza neppure
sapere come, e scese gli ultimi gradini con il forte desiderio di saltarli.
I
suoi occhi ambrati si fissarono su un solo, unico punto. Lei. Lei, che era
ancora alla porta, mentre tra le sue gambe si incrociavano Shippo
e Souten, mentre litigavano. Urlavano, ma lui era
troppo concentrato. Erano solo un eco lontano in un silenzio profondo,
interrotto solo dal respiro di lei. I suoi occhi cioccolata che cercavano
qualcosa, o qualcuno, nell’enorme atrio. Occhi che si erano fissati su di lui,
quando rumoroso si era fiondato giù dalle scale.
“Inuyasha”, aveva sussurrato, talmente piano che lesse il
suo nome sulle sue labbra. Camminò verso di lui, con una lentezza che sembrava
calcolata, troppo, troppo lenta.
Aveva bisogno di saperla al sicuro, di sapere che era lì, e non sarebbe andata
più via.
“Inuyasha”, ripeté, stavolta con l’intenzione di chiamarlo.
Si fermò, a un paio di metri di distanza. Troppo, troppo distante.
“Inuyasha”, disse nuovamente, Kagome,
alzando il volto decisa, “Io…”.
Non
finì di parlare. Inuyasha colmò lo spazio tra di
loro, abbracciandola e stringendola a lui. Kagome
rimase immobile, sorpresa, insicura. Il ragazzo le passò una mano tra i
capelli, accarezzandoli, sentendo la loro morbidezza sotto i polpastrelli.
“Temevo
di non vederti mai più”, mormorò con voce roca, sofferente. La sua presa si
strinse a quelle parole, come a conferma. La ragazza non sapeva cosa pensare.
Voleva ricambiare l’abbraccio, ma temeva fosse la cosa sbagliata. Le sue
braccia erano a mezz’aria, indecise quanto lei.
“Vorrei… vorrei parlare in privato”, sussurrò Kagome, forzandosi di tenere le proprie mani attaccate ai
fianchi. Inuyasha annuì, prima di staccarsi da lei,
facendosi violenza. La portò nella sua stanza, e Kagura
si era dileguata, probabilmente intuendo il loro imminente arrivo. Chiuse la
porta dietro la ragazza, e attese. Doveva attendere, anche se voleva stringerla
di nuovo, baciarla, dirle che gli dispiaceva e che l’amava. Lei non parlava.
“Kag…”.
“Tu”,
lo interruppe lei, con un tono freddo. Le stavano tremando le mani, e questo lo
preoccupò. Quando Kagome si voltò, aveva le lacrime
agli occhi, ma nel suo volto si vedeva solo rabbia. “Hai la minima idea di come
mi sia… di come mi sento?”. Inuyasha
sobbalzò, mordendosi il labbro inferiore. Aprì la bocca per parlare, ma lei
urlò:
“Zitto!
Non hai la più pallida idea di come ci si senta!”.
“No,
infatti”, disse lui, stringendo i pugni, “ma… mi
dispiace”.
“Ti
dispiace”, ripeté lei, quasi in un sibilo, “e cosa pensi che me ne faccia del tuo
dispiacere?”. La sua voce era talmente sprezzante, che Inuyasha
ne venne ferito nel profondo. Non c’era proprio modo per rimediare ormai?
L’odio di Kagome era cresciuto a tal punto da
risultare incurabile?
“Allora… perché sei tornata?”, domandò il ragazzo, cercando
di nascondere la sua sofferenza. La ragazza sobbalzò, abbassando gli occhi. Non
lo sapeva, in realtà. Sapeva solo che quegli occhi, tutto in lui, la faceva
sentire al sicuro. Meno vulnerabile. E al contempo così debole. Perché sei tornata. Quelle parole
rimbombavano nella sua testa, ripetutamente, tanto da causarle dolore. Non la
voleva più?
“Io… ti ho ingannato”. La fanciulla spostò gli occhi
cioccolato sul ragazzo. “Ti ho ingannato per usarti…
perché assomigli alla fata. Ma…”, continuò Inuyasha, mordendosi il labbro, in difficoltà con le parole
come non mai, “ma adesso non è più così!”. Kagome
prese un respiro profondo. “Perdonami”, mormorò lui, cercando le iridi
cioccolato della ragazza. Ma quella le teneva ben piantate sul pavimento, con
sguardo afflitto.
“Devi
proprio odiarmi tanto per farmi tutto ciò che mi stai facendo”, sussurrò Kagome. Ora capiva perché era tornata. Non si trattava di
sicurezza, o di mancanza. Lei aveva bisogno di lui, come se lui fosse aria che
le riempiva i polmoni. E lui se ne approfittava. Fingeva di amarla per tenerla
vicina, per evitare che lei provasse odio nei suoi confronti. Come era successo
quando era scappata.
“È
perché ti amo che non voglio più ingannarti”. Kagome
spalancò gli occhi, fissandoli su Inuyasha. “Ti amo
così tanto che preferisco vederti felice lontano da me, che sofferente come sei
qui, a un braccio di distanza”.
“Mi
stai dicendo che puoi vivere benissimo senza di me?”, domandò Kagome, confusa. Lui la fissò, uno sguardo pieno di
sofferenza. “Come potrei?”, le chiese, quasi in un ringhio, “è ovvio che non
sarei felice. Ma sarei molto più infelice vedendoti soffrire per causa mia”.
“Smettila
di scappare!”, urlò Kagome, prendendolo alla
sprovvista, “Rinunci a tutto allora? Non ti importa nulla del mio perdono? Non
ti importa nulla di quello che penso? Credi che sia così semplice per me essere
felice? Perché sarei tornata, se non che non ero felice lì dov’ero?”.
“Che
cosa dovrei fare, secondo te?”, sbraitò Inuyasha,
“Obbligarti a rimanere qui?”.
“Sì,
maledizione!”, gridò la ragazza, agitandosi, “Fammi vedere che ci tieni a me!
Non rinunciare così facilmente solo perché non ti senti all’altezza! Cerca
anche la tua di felicità!”. Inuyasha boccheggiò,
senza sapere cosa dire. La sua felicità? Non aveva mai pensato alla felicità di
coloro che abitavano il castello. Erano tutti condannati ad un’esistenza
infelice, in fondo.
“Dimmi
che sbaglio”, singhiozzò Kagome, “dimmi che non mi
odi, ripetimelo fino a convincermi”. Inuyasha la
osservò, con le guance bagnate dalle lacrime. Colmo la distanza che li separava,
e la abbracciò, stringendola al suo petto, protettivo.
“Ti
amo”, le sussurrò, “ti amo più della mia stessa vita. E se mi chiedi di cercare
la mia felicità, se tu lo vuoi, allora non ti lascerò mai più andare”.
“Non
voglio farlo”, sussurrò la ragazza, chiudendo gli occhi, e lasciando scendere le
ultime lacrime della sua sofferenza, “non voglio andarmene mai più”.
Da
quel momento, Kagome non ricordò cosa successe. Era talmente
distrutta, che Inuyasha la mise a riposare sul suo letto,
e vegliò su di lei per tutta la notte.
Un
cosa, però, la ricordava. Il calore delle labbra di Inuyasha
premute sulle sue, dolcemente, che la cullarono nel mondo dei sogni.
Ayame
spronò nuovamente il cavallo che, pigro, stava per l’ennesima volta rallentando
il passo. Si guardava attorno inquieta, cercando un luogo di cui aveva solo
vagamente sentito parlare.
Un
castello.
“E dovrei crederti?”, domandò Koga perplesso e decisamente spaventato. Probabilmente era
convinto che la ragazza stesse impazzendo.
“Non sto mentendo. Se i tuoi
leccapiedi non mi avessero fermato te lo avrei dimostrato!”, ribatté lei,
sull’orlo del pianto. Koga aveva voluto sapere il
motivo per cui l’aveva cercato, e adesso non faceva altro che maltrattarla.
“Sì, ma adesso non hai prove”, fece
notare il ragazzo. La fanciulla si morse il labbro, indecisa e confusa.
“Potrei averle”, mormorò infine,
torturandosi le lunghe dita affusolate. Il ragazzo la fissò negli occhi
smeraldo, incredulo.
“Troverò il castello!”, esclamò
decisa, “Ci andrò con Hakkaku e Ginta!
Tanto dovresti comunque cercare Kagome nella foresta,
ed è probabile che si trovi in una casa isolata. Altrimenti come spieghi le
varie sparizioni?”.
Sì,
ma dove? Aveva dedotto dalle sparizioni che era nella foresta, ma offrirsi di
cercare il castello probabilmente non era stata una buona idea.
“Allora
Ayame, dove andiamo?”, domandò Ginta,
affiancandola con il suo stallone.
“Proviamo
da quella parte”, decise dopo diversi momenti di esitazione. Girare a vuoto in
quel modo era inutile. Come poteva sperare di trovarlo in quel modo?
Gli
alberi, alti e fitti, impedivano una visiona completa dell’area, e sapeva bene
di poter sbucare dal nulla davanti ad un edificio, imponente o meno.
E
Koga gli aveva concesso solo un giorno.
Si
morse un labbro, confusa sul perché di questa sua scelta. Se Kagome fosse sparita lei non avrebbe avuto più rivali, e
forse Koga si sarebbe rassegnato. E invece lo stava
aiutando per trovarla. Sospirò, maledicendo il suo buon cuore. La verità era
che sapeva bene che non era colpa di Kagome, ed era
preoccupata per lei. In fondo una volta erano state amiche. E non sopportava di
vedere Koga dilaniato dalla sofferenza. Gli altri
percepivano in lui solo un eccessivo nervosismo, ma la fanciulla sapeva bene
che non era così.
“Ayame, sbaglio o laggiù c’è uno spiazzo?”, domandò Hakkaku, aguzzando la vista. La ragazza sforzò i suoi occhi
chiari, per scorgere il lontananza un leggero chiarore. Decise di fare un
tentativo, spronando il cavallo in quella direzione.
“Però
è strano”, fece notare Ginta perplesso, “non ci siamo
allontanati particolarmente dal villaggio, ed è decisamente insolito che ci sia
un castello e nessuno l’abbia mai notato”.
Questo
era vero. Non era possibile che un castello così vicino non fosse mai stato
notato.E un edificio di tali dimensioni
non poteva certo essere nascosto con facilità. Solo una magia…
Ayame
scosse la testa, cacciando quei pensieri. La vista di quella bambina fluttuante
le giocava strani scherzi. Non era possibile che un maleficio nascondesse un
castello, per il semplice fatto che la magia non esisteva. Forse i demoni, ma
la magia no!
Si
morse il labbro a quel pensiero: demoni. Fino al giorno prima non avrebbe mai
creduto neppure a quelli, come poteva ora dubitare con tanta certezza
dell’esistenza della magia?
“Ginta ha ragione”, confermò Hakkaku,
ormai vicino alla luce, “probabilmente sarà solo una rad…”.
Ayame
e Ginta sollevarono lo sguardo sul compagno, il quale
paralizzato fissava un punto imprecisato innanzi a sé.
Ayame
sbuffò, facendosi largo tra i due per godere della vista della radura.
Ma
invece si ritrovò davanti ad un imponente cancello nero, spoglio e sobrio. Alzò
gli occhi con lentezza, incredula, ammirando la struttura immensa che si
stagliava contro il cielo limpido.
“Non
è possibile”, sussurrò debolmente, avvicinandosi con lentezza al cancello.
“Sarà
abbandonato”, fece notare Hakkaku quando riuscì
nuovamente a proferire parole.
“Ha
un’aria… inquietante”, precisò l’altro, ammirando i
decori demoniaci che ricoprivano il castello.
“È
abitato”, sussurrò infine Ayame, affiancando il
cavallo al nero cancello, “il giardino è curato nei minimi dettagli”.
“Ma
è impossibile!”, ribatté nuovamente Ginta, “Non può
essere che un castello abitato e così vicino al villaggio non sia mai stato
notato!”.
Hakkaku
strabuzzò gli occhi, fissando il portone di ingresso.
“C-chi…C-cosa è quello?!”,
sussurrò trattenendo chiaramente un urlo. Ayame
concentrò l’attenzione su quel punto, scorgendo un uomo e una bambina che
rientravano dal giardino.
No
anzi. Non era un uomo.
Aveva
lunghi capelli argentati, pur essendo giovane, ed emanava un’aura glaciale.
“Ha-Hakkaku, vedi anche tu orecchie a punta?”, domandò Ginta terrorizzato.
“E
occhi gialli”, balbettò l’altro altrettanto in preda al panico.
“Un
demone”, sibilò Ayame sbiancando.
E,
proprio in quell’istante, la creatura si voltò verso di loro, in un gesto così
rapido da non essere visto.
“Ci
ha visto”, mormorò la fanciulla con voce strozzata.
Il
demone li fulminò con occhi di ghiaccio, e sguainò gli artigli.
“SCAPPATEEEE!!!”.
“KOGA!”.
L’urlo
fece voltare tutti in piazza, mentre il ragazzo si ritrovò assalito dai due
amici. Poco dietro, Ayame li seguiva senza fiato.
Tutti e tre erano pallidi come fantasmi.
“Koga, sembrava un uomo!”, cominciò Ginta.
“No,
era enorme! Come quattro case!”, continuò Hakkaku.
“E
aveva gli occhi gialli”.
“Sì,
ma enormi e di un rosso intenso!”.
“E
sputava fiamme!”.
“E
aveva due ali enormi!”.
“E
una coda come un drago!”.
“E
emanava fumo dalle narici!”.
“Aveva
un corno sulla fronte!”.
“Sì,
e la lingua biforcuta!”.
“Aveva
le zampe come quelle di un cavallo!”.
“E
artigli lunghi due metri!”.
Koga
fissava i due confuso, senza capire nulla.
“Ok,
ok! Frenate e fatemi capire! Stiamo parlando di una creatura grande ma piccola,
con occhi giallo-rossi, sputa fiamme, emana fumo, ha coda e ali da drago, un
corno e zoccoli con artigli?”, domandò perplesso. I due annuirono, continuando
a parlare animatamente delle squame che lo ricoprivano e delle piume che lo
facevano sembrare ancora più enorme.
“E
magari aveva anche due teste?”, chiese ironico.
“Sì!
Anzi no, ne aveva tre!”, precisò Hakkaku
meticolosamente.
“Cosa
dici, erano cinque! Potrei giurarlo!”, ribatté Ginta
con foga.
Koga
fissò Ayame perplesso.
“Sembrava
umano”, descrisse lei, “ma era evidente che non lo era. Aveva capelli d’argento
e occhi dorati. Un’espressione così distaccata e dei movimenti talmente rapidi
da non lasciare spazio a dubbi”.
Koga
prese un respiro profondo.
“Ammetto
che la cosa mi lascia perplesso, ma per quanto i due qui dietro siano fifoni
non si spaventerebbero certo così per un’ombra”, fu costretto ad ammettere il
ragazzo, ancora molto confuso.
“Ah,
Koga!”, aggiunse Ginta dopo
essersi ripreso dallo spavento, “abbiamo anche visto il castello”.
“Davvero?”,
domandò lui perplesso. I due amici annuirono, e cominciarono a raccontare la
loro ricerca meticolosamente.
“Ayame aveva ragione”, ammisero entrambi, “ma non potevamo
immaginare fosse così importante!”.
“E
comunque il demone è come l’ha descritto lei”, terminò Ginta,
a mente fredda.
Koga
si fermò a riflettere a lungo.
“Non
possiamo lasciare Kagome in quel posto infestato da
mostri”, disse autoritario, “Né possiamo permettere queste continue sparizioni,
sicuramente causa loro!”.
“E
cosa vorresti proporre?”, domandò Ginta, con un
pessimo presentimento.
“Dobbiamo
attaccare il castello!”, ordinò, seguito da sussurri convinti di assenso.
“Koga, ora basta!”, strillò Ayame,
facendosi largo tra la folla che ormai si era accalcata nella piazza, “Questo è
quello che vuole Kagome”.
“E
tu che ne sai?”, domandò il ragazzo urlando.
“Ho
sentito i loro discorsi!”, spiegò la ragazza, “parlavano di un…
un demone di cui lei si è innamorata!”.
Un
mormorio stupito si sollevò da tutti i presenti, increduli dinnanzi a una
simile affermazione. Lo stesso Koga fissava la
ragazza basito.
“Koga, lasciala andare! Deve essere una sua scelta”, strillò
Ayame, sull’orlo del pianto. Koga
non capiva come ci si sentiva ad essere innamorati? Perché non si fermava? Perché
voleva scatenare odio e paura in quel villaggio?
“Sei
impazzita forse?”, domandò lui adirato, “Quel demone l’avrà di certo stregata! E
se non lo fermiamo subito sarà lui a fare la prima mossa!”.
I
tentativi di Ayame di farlo ricredere vennero soffocati
dalla folla inferocita.
“Sei
uno stupido!”, strillò la fanciulla, fuggendo dalla piazza senza che il suo urlo
potesse essere udito dalle orecchie del giovane.
Il
petto le doleva, e le lacrime non smettevano di scendere.
Continuava
a provarci, senza tregua.
Ma
lui, cieco davanti all’evidenza, continuava ad essere convinto che lei non fosse
quella giusta.
NdA:
Ok, non aggiornavo
questa storia da un anno.
Il motivo è semplice. Era
nata come una storia breve su Inuyasha e Kagome, e si è ampliata troppo per i miei gusti. Non l’ho
terminata in tempo breve, e alla fine mi ha stancato. L’unico motivo per cui ho
deciso di finirla, dopo aver rimandato all’infinito, è che io ODIO le
incomplete. Le odio a tal punto da non riuscire a concepire che una mia storia
rimanga tale.
Emiko e Roro
sono riuscite ad ispirarmi un po’ con un lavoro di coppia sconvolgente, e sono
riuscita a buttare giù questa sottospecie di capitolo tirato. La storia si
avvia alla conclusione, anche se questa parte di storia doveva essere più lunga
di un capitolo.
Ed è diventata di un
capitolo non perché io l’abbia accorciata volontariamente, bensì perché non
ricordavo com’era il pezzo XD *sincerità*
Cosa vi aspettate da
una che dimentica il perché una storia ha quel titolo? *vedi
The Last Time >__>*
Comunque spero di
concluderla in breve, quindi sperate anche voi in imminenti aggiornamenti ù__ù