Bleed

di Pittrice88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** un unico destino ***
Capitolo 2: *** come un'ombra ***
Capitolo 3: *** Freddo (parte 1) ***
Capitolo 4: *** Freddo (parte 2) ***
Capitolo 5: *** Freddo (parte 3) ***
Capitolo 6: *** Freddo (parte 4) ***



Capitolo 1
*** un unico destino ***


Un unico destino
 
 
Una porta anonima si ergeva davanti a John Watson. Nessuna scritta, nessun numero civico, nessun campanello. Niente di niente. Come si fece più vicino si spalancò lentamente davanti a lui.
Spinto da una strana sensazione di familiarità John entrò.
All’interno non vi erano luci.
Nessuna finestra.
L’unica cosa che riuscì a vedere era un trono, apparentemente in oro bianco, su cui sedeva una figura maschile estremamente elegante.
Lo riconobbe, lo avrebbe riconosciuto ovunque.
 
Come faceva Sherlock a essere lì? Era morto.
 
Sherlock era dannatamente e inequivocabilmente morto!
Eppure era lì.
Gli balzò subito agli occhi che la pelle del detective appariva brillante. Era lui l’unica fonte di luce della stanza.
Pareva immerso nei suoi pensieri, quindi il medico ebbe il tempo di guardarlo bene, sembrava più alto del solito, più magro, gli inconfondibili ricci corvini a contornargli il volto angelico.
Le sue labbra erano assolutamente attraenti, finemente delineate, proprio come se le ricordava.
Quando riuscì finalmente a incrociare in suo sguardo rimase come impietrito, le iridi, che erano sempre state chiare, ma comunque di un vivace tono acquamarina, ora erano talmente trasparenti da sembrare bianche.
John avanzò deciso verso di lui, ma il pavimento si fece viscoso sotto i suoi piedi, si sentiva affondare, come se qualcosa di appiccicoso ne frenasse i movimenti.
Abbassò istintivamente lo sguardo, un mare nero, dall’aria putrescente, si estendeva a perdita d’occhio sotto di lui.
Il trono iniziò a fluttuare a mezz’aria.
Uno strano formicolio gli prese gli arti, lo stesso torpore di quando il sangue ha avuto difficoltà a circolare per una qualche costrizione, poi si accorse che in realtà era dovuto a centinaia di migliaia di insetti che, partendo dalle mani e dai piedi, gli camminavano addosso, andandogli a coprire via via tutto il corpo.
Gridò, ma il suono della sua voce non ruppe mai il silenzio spettrale della stanza.
Le pareti si erano dissolte in vapore scuro. Stava camminando su di un lago freddo di pece da cui emergevano creaturine riluttanti che zampettavano veloci su e giù.
Colto dal panico iniziò a correre per quanto possibile.
Avrebbe voluto guadagnare l’uscita, ma anch’essa s’era dissolta.
 
La sua unica speranza era Sherlock.
Eppure era morto.
Un angelo caduto. L’unico angelo senza ali, si rammaricò.
Le immagini di quel volo non lo avevano mai più abbandonato, nonostante fosse passato più di un anno.
Quella follia era la sua una speranza.
Continuò a barcollare sulla superficie piatta e nera in direzione di quello spettro; il suo sovrano. 
Man mano che si avvicinava qualcosa sotto di sé prese a muoversi. Dapprima come delle leggere e innocue increspature, poi tutto iniziò a girare sempre più forte il un mulinello pronto a inghiottirlo nelle profondità più buie e inesplorate.
Istintivamente John saltò, cercando di aggrapparsi all’unica cosa che ancora era definibile in quel mondo di paura, il suo amico, che ora stava fluttuando in piedi sospeso a un metro sopra la sua testa. 
Riuscì ad afferrargli un piede e rimase così a mezz’aria pure lui.
Sherlock si chinò in avanti, lo prese saldamente da un polso e, con una sola mano, lo tirò a se, vicino come se lo stesse abbracciando.
Era freddo, ancor più freddo dell’acqua di un torrente di montagna in primavera.
Quello non aveva proprio nulla di un abbraccio, era più che altro la stretta di un predatore che ghermiva la sua preda.
 
“Sei mio!”
 
Sherlock non aprì bocca, eppure John sentiva chiaramente la voce dell’amico, il timbro conosciuto a scaldargli il cuore, ma con un’increspatura fredda e disumana a raggelargli l’anima.
 
“I nostri destini sono legati indissolubilmente. Se io vivo tu vivi e se io muoio tu muori”.
 
“Non uccidermi, ti prego” la voce di John, flebile, era rotta dalla paura.
 
“Io sono un non-morto. E la tua, da mesi, non si può chiamare vita. Dipende da me, sai?”.
 
Senza preavviso Sherlock affondò i denti nel collo di John, e, continuando a stringerlo con forza a sé, ne succhiò quanto più sangue possibile.
La tensione muscolare del corpo del medico diminuì considerevolmente, ormai debole.
 
“Mi dispiace John per tutto questo dolore, ma la mia sopravvivenza dipende da questo. Sei ciò che mi tiene in vita”.
 
Il vampiro allargò le braccia e lasciò che il corpo si sfilasse dalla sua presa precipitando in un baratro nero.
 
 
 
Un grido strozzato ruppe il silenzio al 221B. John si mise a sedere nel letto. Il cuore gli batteva a mille nel petto fino a fargli male, il fiato corto, una goccia di sudore a solcargli la fronte. Si portò le mani sul volto e iniziò a piangere. Con la coda dell’occhio intravide che la sveglia segnava le 5; era riuscito a dormire più del solito. Gli incubi ormai erano una triste abitudine. Istintivamente si portò una mano al collo e piangendo ripensò a dove le labbra di Sherlock l’avessero toccato. Ebbe quasi la sensazione che qualcuno fosse realmente entrato in casa a Baker Street. Si rimise sdraiato sotto il piumone, sperando che, per una volta, quelle labbra tanto amate lo venissero a trovare in sogno e non in un incubo. Quelle labbra attualmente precluse nella sua esistenza, ma che, a sua insaputa, sarebbero poi tornate a consolarlo di lì a qualche mese. 

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Capitolo 2
*** come un'ombra ***


Come un’ombra
 
Quella sera Londra era avvolta da un clima surreale. Una nebbia spessa, molto più spessa del solito, inondava la città. Le vie erano assolutamente irriconoscibili. Tutto silenzioso, come se quella patina opaca ovattasse anche i suoni. Persino in pieno centro quella foschia la faceva da padrone. Per strada non c’era anima viva. Chi mai sarebbe uscito in piena notte con un tempo simile? Un’unica figura scura si muoveva come un’ombra per le vie deserte. Non sembrava camminare, ma quasi fluttuava a pochi centimetri da terra, o forse era solo un effetto della foschia. Il volto del uomo, incredibilmente pallido si confondeva nella nebbia. La luce fioca dei lampioni ne illuminava gli occhi chiari che brillavano nella notte come quelli di un gatto. L’unico tratto umano era una mano ossuta che stringeva sulla gola il bavero alzato di un cappotto scuro, a coprirgli il collo e parte delle guance. Tra la nubi ogni tanto faceva capolino, solo per qualche istante, una meravigliosa luna piena. L’ombra si fermò davanti al 221B di Baker Street. Sorrise leggermente.
 
All’interno del appartamento John Watson stava dormendo. Aveva deciso, per pura comodità a suo dire, di trasferirsi nella stanza al piano di sotto. Il piumone tirato su fino a coprirgli il volto, un po’ come a sentirsi più protetto. Sul comodino giacevano tristemente almeno tre scatole di sonniferi diversi. Questa era una malsana abitudine che aveva preso da quando era solo, si imbottiva di pastiglie, incurante della pericolosità di mischiare medicinali diversi, per cercare di riposare la notte.
 
Una delle finestre che dava sul retro si spalancò e da essa entrò, accompagnato da una ventata di aria gelida, l’uomo che poco prima era per la strada. Silenzioso attraversò nell’oscurità l’appartamento fino ad arrivare ai piedi del letto matrimoniale. Sorrise, ma subito l’espressione si fece più cupa triste. Di certo il medico non si sarebbe svegliato con tutto quello che aveva preso. L’uomo allungò una mano e tirò in dietro il piumone lasciando John completamente scoperto. Sinuoso, leggero, salì sul letto e gattonò fino all’altezza dal cuscino. Il dottore era sudato, il suo sonno agitato, popolato di immagini inquietanti e sensazioni spiacevoli. L’uomo passò ripetutamente il dito medio su e giù per il collo del medico, da dietro l’orecchio fino alla clavicola. John rabbrividì. “Mi stai sognando?” gli sibilò, poi con un leggerò soffio gli scostò una ciocca bionda dalla fronte. Appoggiò le labbra carnose sul collo, là dove poteva ascoltare il respiro e sentire il battito cardiaco. Chiuse gli occhi e rimase in quella posizione, immobile e silenzioso, per ore, cullato da quei suoni flebili e ritmati, ad ascoltare il suono della vita che aveva salvato, la vita dell’uomo che amava.   
 
Allungando le braccia John ebbe l’impressione che le mani toccassero qualcosa di bagnato, infastidito da quella sensazione di umidità aprì gli occhi intorpiditi, sbattendo le palpebre per mettere a fuoco la stanza buia dove nella penombra gli sembrò di scorgere ad un tratto un’ombra dalle fattezze umane, in piedi in fondo al letto. Spaventato da quella visione si alzò di colpo e appoggiando le mani sul materasso si accorse che tutto il letto era impregnato di sangue, lui stessa ne era ricoperto. Colto da un terrore cieco cercò di urlare, ma nulla le uscì dalla gola se non un suono sordo. Immobilizzato e zittito dalla paura si fissò sull’ombra umana davanti a sé fino a quando con occhi sgranati non gli sembrò di scorgere due profondi occhi azzurri penetrargli la carne.
Si svegliò di colpo e sbattendo ripetutamente le palpebre gli ci vollero diversi minuti per capire che si trovava nella stanza da letto matrimoniale dell’appartamento di Baker Street. Si era già fatto giorno e sebbene la nebbia impedisse al sole di scaldare completamente la città, una luce lieve entrava dalla finestra illuminando la camera.
Era stato solo un incubo? Nonostante ciò la sensazione di terrore l’aveva lasciato spossato. Passandosi una mano sulla fronte si rese conto di essere completamente gelato, le coperte giacevano scomposte ai piedi del letto. Si mise a sedere, notando con una stretta allo stomaco che sul cuscino c’era una grossa macchia di quello che sembrava essere sangue. Con timore allungò una mano per toccarlo, notando che era completamente secco. Si toccò anche il viso e passandosi le dita sotto il naso si rese conto che quel sangue proveniva proprio da lì. Sospirò di sollievo; sebbene fosse da tanto tempo che non gli succedeva, quando era stato un bambino aveva sofferto spesso di emorragie dal naso, quindi non si preoccupò più della cosa. Ma la tranquillità durò giusto il tempo che notasse la finestra spalancata.
 
 
 
Note:
Devo ringraziare mia sorella, la fatina oscura, che per questa ff è stata la mia principale fonte d’ispirazione.

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Capitolo 3
*** Freddo (parte 1) ***


Introduzione
Rieccomi con una nuova vampirelock, anzi, con la prima perte della mia nuova vampirelock.
La raccolta “Bleed” ha sempre avuto come protagonisti gl’incubi di John, questa one-shot però, seppur sulla tessa lunghezza d’onda, risulterà leggermente diversa dalle altre.
Questo si può considerare un lavoro su commissione, infatti Pri82 mi aveva espressamente chiesto una “vera vampirelock”.
Ecco cosa ne è venuto fuori.
 
 
FREDDO (parte 1)
Erano passati solo tre giorni dall’inspiegabile, almeno agli occhi di John Watson, suicidio di Sherlock Holmes. Il dottore non si dava pace, dilaniato dal dolore e dalla consapevolezza via via crescente di aver perso molto più che un amico.
Aveva passato quei giorni a vagare senza meta per Londra piangendo e pensando.
Di tornare a lavorare all’ambulatorio non se ne parlava. Trovava insopportabile il contatto con le persone.
Stare a casa era troppo doloroso. Troppi ricordi. Eppure ancora non aveva deciso di trasferirsi. Baker Street, nonostante tutto, era l’unico luogo che riusciva a farlo sentire se stesso.
Se le giornate scorrevano lente e difficili, la notte era anche peggio, per quello cercava di rincasare sempre il più tardi possibile. Come le sere precedenti arrivò al 221B attorno a mezzanotte. Aprì velocemente il portone in un gesto automatico, senza prestarvi particolare attenzione. Si chiuse la porta alle spalle spingendola appena col piede.
 
- John-
 
Al suono di quella voce improvvisa si spaventò talmente tanto che, per un attimo, pensò gli stesse per venire un infarto. Con un gesto automatico aveva estratto la pistola e ora la puntava tremante nella direzione della voce. Strano, la sua mano era sempre stata incredibilmente ferma, ma non quella volta. Il consulente investigativo lo fissava dal pianerottolo. John non riuscì a scorgere la figura intera essendo nascosto quasi completamente al di là della porta. Solo la testa sbucava, mostrando la folta chioma nera e due occhi che, dopo qualche secondo di panico, si rese conto esser i soliti acquamarina, ma molto più lucenti.
 
- Sei vivo? –
 
- Sembri più pazzo che sorpreso. – Aveva il tono della voce divertito, nonostante ciò, non accennava a uscire dall’appartamento, continuando a fissarlo con circospezione come un topolino dalla propria tana. Rendendosi conto di avere ancora l’arma impugnata rimise la sicura per poi posarla velocemente all’interno del Burberry. – Scusa, Sherlock… Io ti ho visto cadere. Non capisco. Eri morto, sono sicuro che eri morto. E poi mi hai spaventato, pensavo non ci fosse nessuno a casa. –
 
- Sicuramente non c’è anima viva qui-
 
- Continuo a non capire…- la voce tremante
 
- Vieni dentro. Ti spiegherò tutto-
 
John chiuse a chiave la porta alle sue spalle, percorse i 17 gradini e entrò nell’appartamento.
 
 
 
Le parole del consulente investigativo, risuonarono nell’aria per più di un quarto d’ora.
Gli spiegò tutto: Moriarty, il cecchino, la paura, la caduta, la morte… e la decisione di rinunciare alla propria anima pur di tornare dal suo dottore.
Un ombra si fece spazio sul viso di John, il cuore gli si stringeva in una morsa di dolore, mentre con forza d’animo deglutiva cercando di ricacciare indietro le lacrime che gli stavano iniziando a inumidire gli occhi blu. Non avrebbe pianto, non di nuovo, e soprattutto non aveva nessuna voglia di mostrarsi debole di fronte a Sherlock che ancora lo fissava senza capire cosa stesse succedendo di preciso. Poi John s’arrese e scoppiò in lacrime coprendosi il volto con le mani.
Senza aggiungere altro Sherlock sparì in camera da letto lasciando il dottore da solo in salotto.
John era a dir poco sconvolto.
Continuando a tremare si versò un bicchiere colmo di brandy che cacciò giù in un solo sorso. Non era il primo della giornata. Poi andò in bagno e si fece una doccia sperando che l’acqua bollente, combinata all’alcool, l’aiutasse a tranquillizzarsi.
 
Uscito dalla doccia si infilò al volo l’accappatoio, passò una mano sullo specchio appannato e iniziò a radersi.
La porta si spalancò lenta alle sue spalle e il consulente investigativo entrò in bagno, silenzioso, senza chiedere il permesso, come d’altronde aveva sempre fatto.
 
John si girò, dandogli le spalle socchiuse gli occhi, soffermandosi ancora per qualche secondo sul proprio riflesso – Perché mi fissi? Non è che se non ti vedo nello specchio allora non mi accorgo di come mi stai guardando!– Con gesti veloci si strinse di più l’accappatoio, cercando di nascondere il più possibile il proprio corpo, più per vergogna che per pudore. Non gli piaceva l’idea che lui potesse osservare per troppo tempo le sue cicatrici.
 
– Mi piaci-
 
- Hai forse sbattuto la testa cadendo dal Bart’s?-

- Mi piaci già da molto prima di lanciarmi da lassù…-
 
- Dovevi per forza aspettare di morire per dirmelo?-
 
- Stai tremando. Non è da te. Hai paura di me o di ciò che accadrà?-

Non seppe rispondere. Se ne rimase a guardare lo specchio, le dita ancora strette sul cotone bianco. Aveva paura di quello che stava frullando nel suo cervello. Con timore si chiedeva quanto ci fosse effettivamente di Sherlock nell’essere che aveva di fronte. Sherlock che aveva deciso di sacrificare ogni cosa per lui. Il suo migliore amico, ma evidentemente molto di più.
Sentiva una strana pressione allo stomaco, come quando doveva dare gli esami all’università. Quando si girò a guardarlo la sensazione aumentò. Era ricoperto da testa a piedi di sangue, ma questo non riusciva a rendere il suo aspetto meno meraviglioso: aveva la pelle chiarissima, i muscoli asciutti gli ricordavano una divinità greca mentre i capelli neri, leggermente più lunghi di come se li ricordasse, esaltavano il color acquamarina degli occhi che lo fissavano con una tale intensità da fargli partire un brivido che gli percorse tutta la schiena.
- Potrei quasi pensare che t’importi di me… - sorrise nel tentativo di allentare la tensione, ma lui gli si avvicinò, più serio che mai. Il sorriso gli scomparve dal viso mentre il cuore accelerava di fronte alla figura del vampiro, sempre più pericolosamente vicino.
 
– Non scherzare mai con me. Ti ho donato la mia vita terrena e ora ho tutta l’eternità per te –
 
L’idea che Sherlock, un vampiro creatosi per salvargli la vita, pensasse a lui nel suo futuro, da una parte lo spaventava a morte, dall’altra parte però lo faceva sentire quasi felice, o più che altro onorato, della cosa.

- Ora preferirei andare a sdraiarmi. Non mi sento più molto bene, ha ricominciato a girarmi la testa, quindi se non ti spiace, vorrei andare a letto. –
 
Si avviò silenziosamente verso la porta del bagno, abbassò la maniglia per passare, ma con un colpo secco lui la richiuse. In un attimo si era spostato dietro di lui, bloccandogli i movimenti con il proprio corpo, il braccio teso sopra la sua testa a tenere bloccata l’uscita. Di nuovo talmente vicini da sentire quanto fosse freddo il corpo di Sherlock e con sconcerto si rese conto che non gli dispiaceva per nulla quel contatto, che stranamente quasi gli sembrava bollente. Gli balenò per la testa di voltarsi e sprofondare tra le sue braccia, in quella stretta che gli sembrava così confortevole, ma non lo fece. Qualcosa gli stava colando sul collo, scivolando nelle pieghe dell’accappatoio. Erano i capelli del vampiro che gocciolavano sangue, ed essendo i due così vicini le goccioline scarlatte finivano sul dottore, come lieve pioggia.
 
– Per quale motivo non posso andare a sdraiarmi? –
 
- Perché… - gli passò un dito sul collo, pulendolo dal rivolo di sangue – nella stanza al piano di sopra c’è quello che resta della mia cena. Non ti sei domandato da dove provenisse questo sangue? – Al dottore quasi sembrò di udire il rumore di denti che masticavano e il suono del risucchio. Si figurò l’immagine di Sherlock che gli tastava la carne e se lo immaginò mentre gli si avventava addosso.
Fantastico, pensò, era chiuso in casa con due cadaveri, uno a pezzi e uno pronto a mangiarlo.
Rabbrividì e indietreggiò istintivamente, andando a sbattere contro di lui che, con il braccio libero, l’afferrò per la vita, stringendolo di più a sé. Si chinò e appoggiò il mento nell’incavo del suo collo.
 
– Io non ho nessuna intenzione di farti del male, ma tu, mio dolce Watson, non scordare mai che cosa sono diventato per te. –
 
Poi il vampiro si spostò lasciando che John andasse a dormire nella stanza accanto.
 
Nel cuore della notte si svegliò di soprassalto. Non che fino a quel momento avesse dormito bene, ma la brutta sensazione di essere osservato lo destò bruscamente.
La stanza era immersa nella più totale oscurità, eppure il dottore poté chiaramente distinguere due occhi azzurrissimi che lo fissavano dall’alto.
Istintivamente John accese la luce.
Mai si sarebbe aspettato di vedere quel insolito spettacolo che gli fece sobbalzare il cuore nel petto: in piedi sul soffitto, a testa in giù in mezzo alla stanza, Sherlock lo osservava attentamente con le braccia conserte. La gravità non sembrava toccarlo, i capelli erano perfettamente al loro posto, e anche gli abiti non si erano spostati minimamente.
 
-Cosa diamine stai facendo?! -
 
- Veglio su di te. Non volevo spaventarti…scusa John. Non pensavo di farti questo effetto... –
 
- Ma sei serio? Dico, ti sei visto? Te ne stai lì, appeso come un pipistrello, a guardarmi come fossi un piatto di spezzatino – la voce di John tremava, ma aveva una nota aggressiva nel tono.
Ora l’uomo se ne stava seduto sul letto con fare cupo.
 
- John…sono sempre io… -
 
Gli occhi gli si riempirono di lacrime, ma invece di scorrergli lungo le guance iniziarono a fluttuare nella stanza come per magia in mille goccioline azzurre.
-Dai scendi da lì – A quella richiesta il vampiro roteò su se stesso e lentamente si posò al piedi del letto. Il medico si alzò e andò ad abbracciarlo –perdonami, sono stato uno stronzo – gli accarezzò con mano leggera i capelli – non piangere… - poi tirandolo verso il letto dal posino della camicia lo fece accomodare – puoi vegliare su di me anche standomi accanto -. Si stesero uno vicino all’altro, John sotto il piumone, Sherlock fuori dalle coperte.
 
- John, spegni pure la luce, riposati. Per me non è un problema, vedo al buio –
 
Il medico era confuso e spaventato. Si sentiva in colpa nei confronti di Sherlock. Il consulente investigativo gli voleva bene? Sicuramente sì. Ma poteva provare qualcosa nella sua condizione attuale? Le lacrime suggerivano che anche la risposta alla seconda domanda fosse affermativa, seppur il dubbio nella mente di John non svanisse del tutto.
Quando il dottore riprese sonno il vampiro lo cinse in un abbraccio protettivo. Il suo John.
 
Poi venne l’alba. Al suo risveglio il medico non trovò traccia di Sherlock nell'appartamento.  
 
…continua…
 

 

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Capitolo 4
*** Freddo (parte 2) ***


FREDDO (parte 2)
Ogni sera, al calar delle tenebre, il vampiro si presentava a Baker Street. Il loro rapporto tornò quanto più simile possibile a quello prima della sua morte. Quando poi John si addormentava, Sherlock restava con lui per il resto della notte stringendolo a sé. Una sera però John se ne accorse
 
- Che stai facendo?-
 
- La morte è fredda…e anche la terra lo è–
 
- Pensavo che non potessi sentire nulla-
 
- Infatti, tutto è freddo, senza distinzione alcuna… tranne te. Percepisco il tuo calore –
 
Il dottore impallidì. Un velo di tristezza gli riempì gli occhi –vieni – sussurrò scostando le coperte con la mano e indicando la zona di letto libera accanto a sé. Sherlock gli si raggomitolò accanto e questa volta fu il biondo a stringerselo vicino. – Va meglio?- gli bisbigliò in un orecchio. Sherlock annuì appena
 
- soffro d’insonnia, lo sai… un conto è a casa… un conto è in una bara 2 metri sotto terra…-
 
- se vuoi vengo a farti compagnia- gli baciò delicatamente la fronte, con leggerezza, senza pensarci, come se l’avesse sempre fatto e fosse la cosa più normale al mondo
 
- sei il solito idiota John. Lo apprezzo molto, davvero, ma moriresti soffocato – sorrise - non mi sembra il caso…-
 
Com’erano calde e morbide le labbra di John. Quel flebile contatto, durato una frazione di secondo,  gli bruciava la fronte e gli faceva ardere il cuore. Per un istante si trovò nel suo palazzo mentale a fissare una stanza vuota. Come diamine aveva fatto John a svuotagli completamente la mente?
 
- Porta la bara qui a casa allora…-
 
Il vampiro si destò bruscamente dai suoi pensieri -Sarebbe rischioso. E come minimo passeresti per matto-
 
- Come vuoi… Hai cenato? –
 
- John, io sono morto, ho poco di che preoccuparmi della mia salute!-
 
-Si, scusa, però i vampiri devono comunque nutrirsi. O vuoi forse mummificarti? Da quant’è che non mangi?- la voce flebile, premurosa e rassicurante.
 
Dapprima Sherlock non rispose, abbassò lo sguardo e appoggiò la fronte sul petto di John, poi con un sibilo colmo di tristezza sussurrò – non voglio uccidere nessuno…- sospirò –potrei anche non farlo…ma rischierei di essere perseguitato a vita. Nessuno vuole un mostro a piede libero a Londra-
 
- Smettila! Tu non sei tu mostro! Non lo sei mai stato e mai lo sarai. – Istintivamente gli posò nuovamente le labbra sulla fronte e se lo tirò un po’ a sé – se hai fame ci sono io…-
 
- Ti farei male, non voglio –
 
- Non temere, vieni, sono certo me ne farai il meno possibile- John lo guardò con dolcezza, senza paura, fiducioso come solo lui sapeva esserlo nei suoi confronti. Gli mostrava il collo reclinando leggermente il capo, facendogli spazio.
 
La visione per il vampiro fu irresistibile. Senza preavviso si allungò, un attimo prima Sherlock era raggomitolato tra le braccia del suo amico, e ora era già disteso sopra di lui sovrastandolo. I canini affondarono con decisione nella carne, i denti penetrarono a fondo nella giugulare. Nella stanza si levò un grido. Il sangue fluiva copioso nella bocca di Sherlock, caldo, mentre John si contorceva sotto di lui per il dolore, ma senza realmente cercare di sfuggirgli. Quanto era buono il sangue di John, così dolce, metallico da sembrare sin speziato. Bollente. Succhiarlo dal collo del suo amico lo faceva sentire incredibilmente bene, era così inebriante, poteva quasi definirsi felice. Le unghie del dottore piantate nella schiena, i gemiti in sottofondo, ma lui non sentiva nient’altro che il battito frenetico del cuore di John.  
La presa del medico si fece meno forte e, per un istante in vampiro temette d’avere esagerato. Non era ancora molto esperto in merito. Si scostò leggermente andando a cercare il volto del medico con lo sguardo. Gli occhi blu erano lucidi, ma al tempo stesso in qualche modo adoranti e pieni d’affetto.
 
- Grazie John- sussurrò prima di chinarsi nuovamente sul suo collo per andare a leccare le ultime gocce di sangue che fuoriuscivano scarlatte.
 
- …come fai? –
 
John non rispose, ma lo sguardo interrogatorio fu molto eloquente
 
- Sei sempre stato capace di accettarmi per quello che ero. Ti sei sempre preso cura di me, mi hai voluto bene, mi hai protetto, sin dal primo giorno, e  ora, nonostante tutto, ancora ti prendi cura di me-
 
- Mi piacerebbe che tu potessi vedere te stesso attraverso i miei occhi. Ti renderesti finalmente conto di quanto tu sia speciale –
 
- se tu potessi guardare coi miei scopriresti che vediamo la stessa cosa. Stai diventando la mia nuova dipendenza, sai…–
 
John si assopì, sfinito. Era pallido, debole, così indifeso agli occhi del consulente, che avrebbe passato l’ennesima notte a vegliarlo. Il vampiro appoggiò la testa sul petto dell’amico. Il cuore di John era tornato a battere regolarmente e quello era l’unico suono che aveva intenzione d’ascoltare fino all’alba. Quella meravigliosa melodia di vita. Chiuse gli occhi a sua volta e, per la prima volta dopo essersi nutrito, il suo inconscio non gli mostrava fiumi cremisi e onde scarlatte, ma solo il blu degli occhi di John. La sua mente era stranamente silenziosa e si lasciò cullare dal suono del battito, come se non esistesse altro al mondo. 
 
 
…continua…


Note dell’autrice
Questa ff mi sembra la tela di Penelope, la scrivo, cancello e riscrivo ogni 2 minuti, quindi ho deciso di pubblicarla così, a spizzichi e bocconi, almeno ciò che è già su efp non lo cancello più XD
Il rusultato finale è decisamente fuori dal mio stile. Spero vi sia piaciuta comunque.
In teoria manca solo la parte conclusiva, ma magari cambierò idea in corsa (nuovamente). Chi vivrà vedrà.
Grazie per aver letto fin qui.
Béa

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Capitolo 5
*** Freddo (parte 3) ***


Introduzione Freddo (parte 3)
Hei Pri82, tantissimi auguri di buon compleanno! Spero che anche questo capitoletto ti piaccia. <3
 
 
FREDDO (Parte 3) 
La bara di Sherlock non venne portata a Baker Street, nonostante la questione fosse emersa in più di un’occasione. Il dottore sapeva essere cocciuto tanto quanto il suo coinquilino quando voleva.
Si sentiva inquieto pensandolo in giro per la città da solo, anche se, ragionandoci, si rendeva conto dell’assurdità del suo pensiero. Temeva che  qualcuno lo riconoscesse e ne venisse fuori una caccia alle streghe. Ora che si erano ritrovati non avrebbe permesso a nessuno di portarglielo via di nuovo e questa cosa stava diventando una specie d’ossessione per il dottore.
La sera aveva preso l’abitudine di girovagare nei pressi del cancello del cimitero, come se quei 10 minuti di tempo che Sherlock ci avrebbe messo per raggiungere casa gli pesassero come un macigno.
 
Nelle ore diurne Watson era sempre meno disponibile. Non usciva più con nessuno dei suoi amici, né a pranzo, né al pub la sera, e si era fatto spostare tutti i turni all’ambulatorio in modo da terminare all’imbrunire. Si metteva sovente in ferie o in malattia senza nessuna giustificazione.
Fisicamente era leggermente dimagrito, col viso stanco, le occhiaie un po’ più accentuate e anche le borse sotto gli occhi.
Le sue notti erano ormai per lo più insonni. Si assopiva che era quasi l’alba e riposava per quanto possibile nelle mattinate. Questo cambio di orari e abitudini lo aveva un po’ scombussolato. In oltre, ad un occhio attento, si notava un pallore insolito per lui, dovuto alla continua perdita, o donazione, di ingenti quantità di sangue.
Chi lo conosceva si era persuaso, semplicemente, che fosse caduto in depressione per la morte dell’amico avvenuta qualche mese prima.
L’unico a sapere realmente cosa stesse accadendo era Sherlock, seppur gli sfuggisse il motivo di così tanta benevolenza nei suoi confronti, ancor più accentuata, e già gli pareva spropositata, di quando era in vita.
 
Dal canto suo Sherlock, nonostante i suoi nuovi istinti predatori a volte risultassero irrefrenabili, da quando si era reso conto dei cambiamenti del modico, aveva cercato il più possibile di trattenersi e rispettare il corpo di John. Continuava a nutrirsi regolarmente di lui, ma senza sconvolgerlo; infondo non serviva a nulla portarlo al limite e rischiare di ucciderlo ogni volta.
“Ogni ferita sanguina” ripeteva tra sé e sé quando stava per penetrargli la carne  con vigore e poi optava, la maggior parte delle volte, per mordicchiarlo coi denti affilati nei posti più disparati.
La giugulare era ormai diventata banale per i suoi gusti.
Amava mordergli la nuca o l’attaccatura del collo subito dietro i lobi delle orecchie quando era in cucina a preparare il tè. Prediligeva i polsi quando era invece sul divano o in poltrona intento a leggere o a guarda la tv.
Quella sera si stava concentrando sul polpastrello dell’indice della mano destra, mentre John stancamente continuava a cambiare canale annoiato. Un gridolino da parte del medico aveva strappato un sorriso compiaciuto al vampiro. Evidentemente il medico non si aspettava di essere morso il quel frangente, in genere ultimamente il dolore veniva sempre celato dal dottore che cercava di restare impassibile. Sherlock si era fatto persuaso che a John piacesse quella situazione di bruciore. Era certo volesse ostentare una forza che in fondo non aveva e si sentisse orgoglioso di essere il suo piatto preferito.
Sbuffando sonoramente John spense la tv e si voltò di trequarti mettendosi a guardare il vampiro che, sentendosi osservato, gli lasciò andare la mano.
 
- Visto che hai finito, ti andrebbe di suonarmi qualcosa? Mi manca il tuo violino… -
 
Sherlock scrollò il capo silenzioso. I capelli corvini ondeggiarono nell’aria suadenti.
 
- Dai, fallo per me –
 
- Hai deciso improvvisamente di far sapere al mondo che sono qui? Per di più come minimo alla signora Hudson verrebbe un infarto se mi sentisse. Il tempo passa, ma non impari mai John. Usa il cervello ogni tanto!-
 
Il medico abbassò lo sguardo rattristato, si alzò dal divano a diede le spalle al vampiro che ancora se ne stava accovacciato dov’era –scusa, hai ragione… come sempre… solo che m’avrebbe fatto piacere… come regalo di compleanno…-
 
Un velo imbarazzante riempì la stanza. Nel silenzio più assoluto, senza che John si fosse accorto del veloce spostamento dell’amico, Sherlock lo afferrò da dietro e lo alzò da terra, come se non avesse alcun peso. Lo cingeva in vita con un sol braccio e nell’altra mano teneva il violino. Velocemente andò nella stanza da letto, spalancò la finestra che dava sul retro con la forza del pensiero e scavalcò il davanzale. Camminando, come se la gravità non esistesse, lungo la facciata interna della palazzina raggiunse il tetto e posò delicatamente il medico ai suoi piedi.
 
- Come diamine hai fatto? – la voce stupita – perché siamo qui? –
 
- il mio è un mondo di ombre.- Il viso gli si illuminò in un sorriso –Non ci sentirà nessuno, qui posso suonare per te tutte le volte che vuoi-
 
Una melodia dolcissima si alzò nell’aria. Il vampiro suonò incessantemente per ore. John, seduto ai suoi piedi, nemmeno si accorse della spettacolare stellata che li sovrastava. I suoi occhi adoranti erano solo per Sherlock. 
 
-Auguri John – gli sussurrò quando era quasi mattina. Allungò una mano e l’aiutò ad alzarsi.
 
- Ormai il mio compleanno era ieri…- gli sorrise scherzoso
 
- Oh John, non essere puntiglioso- le parole si affievolirono spegnendosi in un soffio. I volti si avvicinarono e Sherlock andò a mordergli appena il labbro inferiore, soffermandosi con la lingua su quella piccola ferita che scintillava di rosso.
- Questo cos’era? Un bacio?-
- Uno spuntino-
- E’ il mio compleanno, la torta dovrebbe essere per me, non per te-
- Se ne vuoi una fetta non devi far altro che prendertela-
-Non sei una torta…-
Sherlock si portò la mano vicino alla bocca e si morse il polso. Ne fuoruscì un rivolo di sangue scuro – tieni John, è per te, bevi. Il sangue dei vampiri è una specie di elisir di lunga vita*. Puoi averne quanto ne vuoi.- Allungò l’avambraccio verso il viso del medico che, titubante, posò le labbra sulla ferita e ne bevve un paio di sorsi.
 
-E’ più dolce di quanto potesse sembrare…-
 
-…e più ne bevi e più lo è.-
 
John gli prese il volto pallido tra le mani, si sporse verso di lui e lo baciò sulle labbra per qualche secondo, in un contatto lieve ma che vibrava di desiderio. Si staccò appena e notò che il vampiro aveva gli occhi socchiusi in un’espressione serena che lo faceva sembrare un angelo che tanto contrastava con le labbra insanguinate –Da adesso sei mio tanto quanto io sono tuo, vero?-
 
-Eternamente-
 
…continua…
 
Note:
*il sangue dei vampiri è curativo, rafforza il fisico e allunga la vita. Berlo rende vampiri coloro che sono in punto di morte

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Capitolo 6
*** Freddo (parte 4) ***


FREDDO (Parte 4)
Ogni qual volta gli fosse possibile John trafugava dall’ospedale qualche sacca di sangue destinata alle trasfusioni.
Sherlock per stare bene necessitava di un costante apporto di sangue fresco e lui faceva in modo non glie ne mancasse mai.
Un po’ si sentiva ridicolo quando glie lo scaldava sui fornelli, ma si sa che il sangue caldo è tutta un’altra cosa.
La prima volta che gli venne in mente di scaldarlo venne accolto da un sorriso così radioso che gli riempì il cuore.
Da allora cenarono sempre assieme, lui con pietanze normali e Sherlock con una bella scodella di sangue caldo.
Completavano sempre il pasto assaggiandosi l’un l’altro. Era il loro dessert speciale.
 
John trovava che quel sorriso sincero nel quale brillavano i canini aguzzi avesse un non so che di deliziosamente tenero.
Lo facevano somigliare a un cucciolo di un grosso e spaventoso felino.
 
Gli piaceva prendersi cura del suo coinquilino, era una cosa che lo faceva sentire davvero parte di una famiglia; l’aveva sempre fatto anche quando Sherlock era in vita, ma questa sua nuova condizione, ai suoi occhi, anche se del tutto irrazionalmente, lo rendeva indifeso.
Per lui Sherlock era un essere meraviglioso da proteggere a ogni costo, e sì, lo era anche prima che diventasse una creatura della notte.
 
 
Una sera come le altre, mentre il dottore si dirigeva a passo lesto verso il cimitero, con una borsa a tracolla piena di sacche di sangue, per poco non venne investito sulle strisce pedonali da un pazzo che correva a tutta velocità su una bmw nera. La corsa della vettura terminò contro un platano, ma non senza causare danni irreversibili precedentemente.
Una ragazza era stata travolta in pieno pochi metri prima.
Il medico era corso subito in suo soccorso, ma sin dal primo istante s’era accorto che per lei non cera nulla da fare.
 
 
Il tempo di attendere comunque i soccorsi e pigramente, con il cuore pesante, il dottore riprese la sua camminata verso il cimitero.
 
 
Gli tornarono in mente le parole di Mycroft “ognuno ha il suo modo di morire. Per alcuni la candela si spegne in una frazione di secondo, per altri la fiamma si affievolisce lentamente. Altri ancora sembrano morti ma nel profondo le braci sono ancora accese”.
 
Impossibile non credere che, il maggiore degli Holmes, non sapesse molto più di quanto realmente non facesse trapelare riguardo la morte del fratello.
 
Non avrebbe mai avuto il coraggio di indagare su Mycroft, ma almeno i suoi dubbi lo distrassero il tempo della strada dalla consapevolezza di quanto poco tempo ci avesse messo la fiamma della giovane ad estinguersi e quanto fosse stato fortunato lui.
 
Evidentemente il destino quella sera era dalla sua parte. 
 
 
Quando arrivò al camposanto il vampiro già lo stava attendendo dall’alto di una delle colonne che reggeva il possente cancello d’ingresso. Sherlock ci mise meno di un battito di ciglia a capire che qualcosa non andava, quindi preferì non sottolineare l’insolito ritardo del dottore.
 
Scendendo come da una scala invisibile il consulente investigativo gli si accostò per andare poi a stringerlo a sé in un abbraccio silenzioso.
 
-Andiamo a casa per favore- sibilò il dottore senza staccare il volto dal petto dell’altro.
 
-Stai bene?-
 
-Ho freddo…-
 
Un velo di tristezza appannò gli occhi di Sherlock ben consapevole che il suo abbraccio non aveva nessun calore da offrire.
 
Una volta sciolto l’abbraccio, tenendo il compagno per mano, fece per attraversare la strada, ma John lo tirò a se –è un problema se passiamo dai tetti?-.
 
La risposta fu solo un sorriso radioso coi canini in bella vista.
 
Il tragitto verso il 221B venne percorso molto rapidamente e nel più totale silenzio, con il consulente investigativo che balzava leggiadro da un cornicione all’altro e il dottore aggrappato alle sue spalle che si faceva trasportare.
 
 
Una volta entrati nell’appartamento a John sfuggì un sospiro di sollievo che l’altro finse di non cogliere.
 
-cena- -colazione- dissero all’unisono rivolgendosi l’un l’altro per poi sorridersi con gli occhi languidi. Il dottore si fiondò in cucina.
 
Il pasto venne consumato in cucina. Era divertente vedere come il bisogno di sangue rendesse Sherlock estremamente animalesco.
Quella sera aveva sibilato un -0 negativo, il mio preferito- prima di mettersi a leccare il piatto ormai vuoto. Era dello stesso gruppo sanguigno di John e la cosa lo riempiva d’orgoglio.
 
Terminata la cena il vampiro si sdraiò sul divano e spalancando le braccia richiamò l’altro –oh John lascia stare quei piatti e vieni qui!-
 
Le stoviglie vennero subito appoggiate nel lavandino e il dottore raggiunsi poi Sherlock, il quale lo avvolse con tutti e quattro gli arti, come su serpente tra le spire, stringendolo a se possessivamente. Con due dita gli slacciò un paio di bottoni della camicia a quadri e iniziò a morderlo ripetutamente alla base del collo e sullo sterno.
 
-Sai di paura. Che ti prende?-
 
-Dobbiamo parlare.- sospirò  -Dimmi, se fossi morto oggi mentre attraversavo la strada, tu cosa avresti fatto?-
 
Sherlock allentò la presa e raddrizzò la schiena, lo sguardo serio fisso sugli occhi blu dell’altro, le labbra carnose sporche di sangue. –Attenderei l’alba acanto al tuo corpo.-
 
-Io sono mortale, Sherlock, lo capisci? Che ne sarà di noi?-
 
-Anche io lo sono, in un certo senso.-
 
 -Non è per nulla uguale. Nonostante il tuo sangue allunghi la mia vita, tu hai l’eterna giovinezza, io invece invecchio e ci sono centinaia di modi in cui potei morire. Quando avrò 200 anni sarò una specie di mummia, mentre tu sarai esattamente come sei ora.-
 
-Mi stai dicendo che non ti sta più bene stare con me?!- Lo sguardo minaccioso a metà strada tra l’offeso e il deluso.
 
-No, ti sto dicendo che ho paura. Ti prego uccidimi– lo baciò come mai aveva fatto prima –voglio stare per davvero con te!-
 
-Non l’ho mai fatto prima, non sono certo di esserne in grado. Ho paura di perderti per sempre… Ti amo, lo sai vero?-
 
-Mi fido di te, mi sono sempre fidato ciecamente. Se mi ami fallo e se andasse male aspetterai l’alba qui accanto a me, ma non avrai mai il rimpianto di non aver tentato-.
 
***
 
Il corpo di John Watson venne trovato nel appartamento al 221B un paio di giorni dopo. I polsi dilaniati. La porta di casa chiusa dall’interno.  Presunto suicidio. L’oggetto contundente che provocò quelle ferite non fu mai ritrovato.
Il medico venne sepolto accanto a Sherlock Holmes. Una lapide scura con incisioni dorate, due tombe gemelle.
 
Il 221B non venne mai più riaffittato. Negli ultimi anni della sua vita, la signora Hudson, raccontò spesso che questa scelta era stata dettata dalla presenza di due spettri, che come ombre nere, si aggiravano sempre in coppia nel appartamento al calar delle tenebre e di come il violino riecheggiava nelle notti ventose e risate felici si sentissero il quelle stellate.
 
Fine.
 
 

Note dell’autrice (Finale)
Visto Pri82, ce l’ho fatta! Ci ho messo solo un anno per finire questa ff. Sin dall’inizio volevo scrivere “una storia a lieto fine in cui morissero tutti” e credo di esserci riuscita. Spero non sia stato un colpo basso questo finale.  
Sopportatemi, ve ne prego, io sono fatta così, quando tutto sembra scontato gira improvvisamente il vento.
Grazie di cuore d’aver letto fin qui.
Béa
 

 

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