Il nostro inverno

di Fissie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


L'angolino degli sproloqui inutili
Questa cosa è il frutto di tanti pomeriggi spesi a strizzarmi i bulbi oculari - miopi, miopi come quelli di una talpa, ovviamente miope - davanti allo schermo del pc, invece di studiare. Ma, soprattutto, questa cosa è la fantiction con la quale intendevo partecipare al concorso "Victoria's Last Breath", indetto da uchiha_girl nel lontano (sono una creatura malinconica, essssì) novembre dello scorso anno. La cosa ridicola è che sono riuscita a completare la fanfiction soltanto il giorno successivo alla data di scadenza. Sì, la standing ovation ci sta tutta XD
Beh, che dire, le recensioni sono particolarmente gradite nel caso di questa long-fic, perchè scriverla non è stato facile. Ovviamene se avete tempo e voglia ^^
Okay, in conclusione... dedico questa storia alla giovane pulzella che ha indetto il concorso, cioè la sopracitata uchiha_girl. Per la pazienza dimostrata nel sopportarmi e per il premio fuori contest - quello di rompibolle, che, modestia parte, credo di aver meritato (e me ne vanto pure!) - che mi ha accordato, in onore alla sfilza di post coi quali l'ho torturata sino allo sfinimento, previo poi ritirarmi dal contest. Ti ringrazio per non aver sporto denuncia!
Infine, vorrei fare un'ultima precisazione. Probabilmente - ma forse è solo una mia paranoia - nel corso della fanfiction i personaggi potrebbero risultare un po' OOC, per questo tengo a sottolineare che la storia è ambientata molti anni prima delle vicende narrate nei libri della Meyer ^^
Adesso vi saluto davvero!
Vi auguro una buona lettura!





Capitolo 1

1906, Upleadon, Gloucestershire


Una spessa coltre di neve ricopriva la campagna del Gloucestershire, quell’inverno. Soltanto gli alberi, raggrinziti e spogli, spezzavano la monotonia di quel candore. Si issavano tutti ritorti e curvi, come vecchi spossati dall’età, coi rami nodosi protesi verso l’alto. Il cielo, di un buio tetro spolverato solo dal fumo caliginoso delle nuvole, sembrava curiosamente riflettere il negativo del paesaggio sottostante.
Il giovane, con gli scarponi che affondavano nella neve fino al ginocchio, si trascinava a falcate urgenti attraverso la campagna, in direzione dell’edificio diroccato che dominava l’altura. La bassa chiesa parrocchiale di Upleadon era stata abbandonata da parecchi decenni, da quando una porzione del transetto sud, cedendo al logorio delle intemperie, si era rovinosamente accasciata su se stessa.
Il portone di pesante legno massiccio cigolò sinistramente quando lo spinse verso l’interno. Il ragazzo si infilò lesto nello spiffero e poi, immediatamente, lo richiuse, accogliendo il tonfo con un sospiro di sollievo. La superficie ruvida e irregolare del legno gli graffiò i palmi quando si lasciò scivolare verso il basso, con le spalle accostate al portone.
Era salvo?
Forse.
Ma non sapeva quanto lo sarebbe stato lì dentro e, soprattutto, per quanto. Prima che lui lo stanasse. Non era avvezzo alla fuga; la sua prerogativa era la caccia. Per questo il ruolo della preda lo rendeva terribilmente inquieto. Con la testa ancora china, levò lo sguardo sulla grande navata centrale che costituiva il nucleo dell’edificio, sbirciando attraverso le ciocche unte dei suoi capelli lunghi. In altre circostanze, il trovarsi in un luogo del genere non lo avrebbe certo rincuorato. La penombra avvolgeva come un manto la nuda pietra del pavimento e delle pareti spoglie, tingendo l’ambiente di un tetro blu scuro. Due file di robuste colonne, massicce e tarchiate, ritagliavano le navate laterali; sopra quella destra erano stati allestiti impalcature e tendaggi, forse in previsione di un restauro che non era mai avvenuto.
Un silenzio sacrale impregnava l’aria, rendendola quasi irrespirabile e viscosa.
Crack.
Un rumore secco, come quello di un legnetto spezzato, ma amplificato dall’eco cavernosa, lo fece sobbalzare e fu subito in piedi.
«C’è qualcuno?», urlò, alla fitta penombra che lo circondava e sovrastava. Vagò con lo sguardo tra le panche di legno della navata centrale e scandagliò gli interstizi delle cappelle, ai lati delle navate minori, ma l’oscurità gli impediva di vedere alcunché.
Infilò una mano nella tasca interna del pastrano, estraendone una scatola di fiammiferi, e ne accese uno. La debole luce prodotta dalla capocchia di fosforo non era sufficiente a illuminare un raggio superiore a pochi centimetri e le torce appese alle pareti erano troppo pregne di umidità perché il fuoco potesse attecchire alla miccia.
Avanzò comunque di qualche passo, circospetto, i sensi tesi come corde di violino, pronte a vibrare al minimo stimolo.
Un fruscio.
Si voltò di scatto in direzione del suono, gli occhi ridotti a due fessure sottili per scrutare nel buio. Qualcosa parve sgusciare lesta dal braccio del transetto rimasto intatto, scivolando come un’ombra dietro l’altare dell’abside.
L’indole predatoria si destò nel petto giovane, istigandolo a lanciarsi d’istinto in una corsa verso il polo opposto della navata. Rallentò solo in prossimità del presbiterio. Quindi procedette con prudenza, muovendosi accorto per carpire ogni nuovo eventuale spostamento. Era vicino al punto in cui aveva visto sparire l’ombra. Aggirò guardingo il piano sopraelevato dove il prete un tempo doveva aver celebrato i riti liturgici. Già pregustava l’eccitazione ferrigna che avrebbe appagato la sua sete predatoria una volta stanato ciò che si nascondeva nell’edificio, qualunque cosa fosse – o chiunque. La mano, infilata nella tasca, stringeva saldamente il manico di un coltello.
Così svoltò l’angolo, ma lo stretto corridoio dietro l’altare era vuoto.
Il rilascio improvviso della tensione lo lasciò prosciugato, con una voragine al posto del petto che fu presto colmata dal nervosismo. Stava diventando paranoico.
Sbuffò, esasperato da quella sconosciuta condizione di vulnerabilità.
Non sarebbe dovuto scappare. Il boss lo avrebbe fatto a fette e poi avrebbe dato le sue ossa in pasto ai cani. A cosa diamine stava pensando quando aveva deciso di disertare l’incarico?
Lui, il segugio, ridotto a scappare come un coniglio.
Diede un calcio liberatorio alla parete.
Ecco come si finiva quando si dava troppo ascolto alla voce della coscienza: pazzi, nel migliore dei casi, oppure morti. Lui era prossimo al primo, ma presto avrebbe varcato la soglia del secondo stadio.
Tornò a passi gravi nella navata centrale e si lasciò scivolare con un tonfo su una delle numerose panche disposte in fila e un tempo destinate ai fedeli. Aveva appena disteso la schiena contro il legno pregno d’umidità, quando un altro rumore allertò nuovamente i suoi sensi, rinfocolando il sospetto di non essere l’unico abitante dell’edificio. Si drizzò a sedere, coi muscoli tesi e irrigiditi…
...poi un gatto sbucò da una colonna del porticato, nero come un’ombra, e quasi altrettanto silenzioso. «Fammi capire… quindi eri tu?», lo rimbrottò il giovane, abbandonandosi mollemente contro lo schienale. Era sfinito. E si era fatto fregare da un gatto. Per fortuna nessun testimone oculare avrebbe potuto compromettere la sua stimata – che impagabile ironia – reputazione, diffondendo voci diffamanti sul suo conto.
Il micio avanzò con movenze sinuose e felpate, puntando indolente verso la panca su cui era stravaccato. Quando la raggiunse, vi balzò sopra, a poca distanza da lui.
Il giovane aggrottò le sopracciglia spesse, sorpreso dall’impudenza della bestiola. Un gatto socievole, ma guarda un pò.
«Che ci fai in una chiesa dimenticata dal Signore?», gli chiese. Ottimo. Stava cercando di intrattenere una conversazione col gatto. Poteva ben dire, a ragione, che il primo stadio – quello della pazzia – era stato raggiunto.
Ma, se il gatto avesse potuto rispondere (e, quindi, se lui avesse del tutto perso il senno), avrebbe avuto motivo di rigirargli la domanda.
Il volto cereo del suo capo prese forma nella sua mente, sottoforma di una nebbiolina sbiadita e galleggiante, non appena richiamò le ragioni della sua defezione. Un brivido gli percorse la schiena quando ne incrociò gli occhi nerissimi come il carbone, e lo spinse a scacciare febbrilmente la visione funesta.
Pesce grande mangia pesce piccolo, era una legge ineluttabile della natura di cui si era avvalso spesso; ma nel ruolo del pesce più grande.
Allungò cautamente una mano verso il dorso del gatto, che seguì con lo sguardo il suo movimento senza manifestare alcuna reazione contrariata. Incoraggiato da quella tacita approvazione, azzardò allora una carezza, alla quale, notando che il gatto non si ritraeva, ne seguitarono una seconda, e una terza. Finì col prendere confidenza con il pelo dell’animale e non seppe quando, cullato dal suono monotono delle sue fusa, abbandonò il capo sullo schienale e si addormentò.

L’indomani il gatto non c’era più, ma trovò del pane e del prosciutto al suo posto.


Scivolai nella notte lasciando metà del mio pasto sulla panchina. Mi soffermai solo un istante a scrutare il viso di quello sconosciuto appena illuminato dal chiarore opaco della luna. Non era bello, ma c’era qualcosa, chissà dove – forse nella curva del mento sfuggente, nella ruga sottile della fronte contratta in un sonno agitato, nelle palpebre appena tremanti, o nella linea delle labbra dischiuse; qualcosa che mi colpì profondamente. Mi sembrò di riconoscere qualcuno cercato da tempo, benché lo vedessi allora per la prima volta.
E non avevo mai creduto nel destino, ma tant’è…
Col senno di poi seppi che non sarei dovuta uscire allo scoperto, che avrei dovuto lasciare quel rifugio e non farvi ritorno, scappare lontano.
Ma non mi avevano mai tradita, i miei sensi.
Ero allenata a percepire il pericolo; lo sentivo vibrare sotto le dita, attraversare ogni infinitesimale fibra del mio corpo come una scarica elettrica di variabile intensità. Ogni circostanza emanava la propria, si modulava sulle persone come un calco. Il fatto che non sentissi il pericolo accanto a lui doveva essere esso stesso un segnale di pericolo. Le eccezioni sono figlie dell’inganno.
Eppure quella notte fui sorpresa. Volli fidarmi dell’istinto felino - l’unico che considerassi più competente del mio in materia di pericolo. L’audacia di quel gatto, che si era avvicinato al tipo da cui poco prima io ero fuggita, mi sollecitò a fare altrettanto.
Fui spinta dalla curiosità.
La curiosità uccise il gatto, si dice. Nel mio caso… uccise me.


***


Il cibo continuò ad apparire misteriosamente non appena il giovane abbassava la guardia. Talvolta era una focaccia, o un frutto, o un pezzo di formaggio, accompagnati persino da bevande.
Non c’era bisogno di un indovino per avere l’assoluta certezza che non si fosse mai sbagliato, fin dal principio; c’era qualcun altro nell’edificio sconsacrato.
Avrebbe potuto fingere di dormire e coglierlo in fallo. Era persino capitato, una volta, che gli passasse accanto, mentre credeva che stesse dormendo profondamente e invece si era appisolato appena. Aprire gli occhi sarebbe stato facile; eppure la gentilezza di quell’individuo gli suscitava una forma di rispetto del tutto nuova e sconosciuta. Il sapore della gratitudine era dolce; un balsamo per la sua lingua abituata all’acredine e al disprezzo.
«Grazie», disse, una volta, seduto sulla medesima panca del primo giorno; gli occhi rivolti verso l’alto, nell’incertezza – sembrava stesse parlando con Dio e, oh no, quello non lo faceva da un pezzo. Che gli avesse mandato un angelo per redimerlo? A Dio piacciono le missioni impossibili, pensò, mentre l’eco della sua voce veniva assorbita dalla pietra, senza ottenere risposta. Bè, che stesse salvando la sua anima o meno, di certo gli stava salvando la pelle. Senza quel tipo misterioso che provvedeva al suo fabbisogno sarebbe dovuto uscire allo scoperto, esponendosi al rischio che lui lo trovasse.
In certi momenti avrebbe voluto chiedergli chi fosse, cosa volesse, che scopo avesse, ma soprattutto… perché. Già, perché, una di quelle domande inesplicabili sulle quali generazioni di filosofi si erano arrovellati per secoli! Non era mai appartenuto a quel tipo di gente dedita alla caccia dei perché – perché di questo, perché di quello; era avvezzo a un altro tipo di caccia, quella che odorava della paura delle vittime e di adrenalina – la sua. Ad ogni modo era una domanda ingombrante e temeva che la sua indiscrezione potesse farlo scappare via.
Certamente era strano, per lui, prestare attenzione a che i suoi comportamenti non urtassero gli altri. Si sentiva come un gigante con un oggetto particolarmente fragile tra le grandi mani rozze: goffo, impacciato, e tremendamente sciocco, in un grossolano tentativo di delicatezza.
Tossicchiò, poi azzardò un sonoro «ehi» e attese che l’eco si consumasse. «Prima, ti ho detto grazie.»
Non si aspettava davvero una risposta. Voleva solo pungolarlo un po’, ma, soprattutto, assaporare fino in fondo l’assurdità di quella situazione.
Avvenne, però, qualcosa di assolutamente inaspettato: un pezzo di pane piovve dall’alto e colpì la panca su cui era seduto. «Ma allora mi senti!», esclamò, sorpreso.
Un altro pezzo di pane gli sfiorò l’orecchio.
«Devi perfezionare la mir…». Non ebbe il tempo di completare la frase, perché un colpetto sulla nuca gli segnalò che questa volta il suo enigmatico compagno aveva centrato il bersaglio.
«Okay, okay», si arrese, ridacchiando. «Sei bravo.»
C’era qualcosa di strano nel modo in cui il gorgoglio rauco della risata appena abbozzata gli aveva solleticato la gola. Era una sensazione remota, qualcosa che non provava da tempo. Non era così rilassato da un pezzo, benché si trovasse in una lugubre chiesa sconsacrata per nascondersi dalla persona che voleva ucciderlo. E nel modo più truculento possibile. Questo la diceva lunga sul tenore della sua vita precedente.
Ad ogni modo, non poteva fare a meno di pensare che fosse merito di quello sconosciuto se non era crollato sotto il peso della tensione nervosa. In quella situazione alienante era difficile mantenere saldo il nesso con la realtà esterna.
«Sei per caso il mio angelo custode?», gli chiese, la mattina seguente al giorno in cui pezzi di pane cominciarono a piovere dal cielo.
L’insolita risposta atterrò tra i suoi capelli. Il giovane raccolse il tozzo di mollica, e iniziò a giocarci distrattamente; la schiena curva e i gomiti poggiati sulle ginocchia.
«Era da tanto che non entravo in una chiesa, sai?», disse, con una simulata leggerezza nel tono, mentre una pioggia di briciole cadeva dalle sue dita, sparpagliandosi sulla pietra del pavimento. «Certo, questa non è una vera e propria chiesa, ma ti chiedo di abbuonarmela. I grandi viaggi iniziano tutti da un unico passo, si dice così, no? Chissà che tra una decina d’anni non avrò una chierica in testa», ridacchiò, disegnando un cerchio immaginario sulla sommità del capo, laddove aveva immaginato la rasatura circolare tipica dei frati. «Nah, dici che non mi donerebbe? Sono d’accordo, pensa che brutto.»
Tacque e per alcuni minuti cadde il silenzio.
Il vento infuriava all’esterno e gli spifferi violenti che penetravano dalle rovine del transetto facevano turbinare vorticosamente il pulviscolo nei quadrati di luce ritagliati sul pavimento dalle vetrate.
«Ho fatto molte cose di cui non vado fiero… di cui nessun uomo andrebbe fiero. Nessun uomo sano di mente, perlomeno. Non che sia invece motivo d’orgoglio averle fatte lo stesso, pur considerandole insane. Forse è più malato fare qualcosa di orrendo con la coscienza che lo sia, che farlo pensando di essere nel giusto, no?», esternò, in preda a una sorta di impeto confessionale del tutto irragionevole: non si era mai dovuto giustificare con nessuno, lui, e di certo non avrebbe immaginato di iniziare a farlo con uno sconosciuto, nemmeno se fosse stato un tipo fantasioso e di tanto in tanto avesse vagheggiato delle assurdità, come i pazzi.
«Ma poi, che differenza c’è? Sei quello che fai, punto. Le buone o le cattive intenzioni sono soltanto fronzoli, il nocciolo resta lo stesso: che puoi decidere di fare quella cosa oppure di non farla, e questo determina che razza di persona sei», continuò, registrando, nel frattempo, un debole fruscio, che tradiva uno spostamento del suo invisibile interlocutore.
«Io ho piantato in asso la mia vecchia vita. Avevo una bella tenuta di campagna, un letto sfarzoso con lenzuola di seta, il conforto di un camino, un’intera vita che si dispiegava davanti a me, oziosa come il fumo denso e amaro dei miei sigari. Potevo continuare a vivere così, e invece… e invece sono venuto qui a farmi gelare le chiappe. Questa è la fregatura del diventare una brava persona: che la bontà cammina a braccetto con l’idiozia», rise, ma di una risata amara che aveva del liberatorio.
Il suo benefattore doveva essersi avvicinato di molto. Non poteva determinare esattamente dove si trovasse, ma avvertiva il suo respiro sommesso. Immaginò la sua aura vitale, il calore corporeo che emanava quella presenza invisibile e impalpabile, eppure così intensa da indurlo a una confessione che non aveva mai concesso nemmeno a se stesso.
Nel buio di quella chiesa, nel silenzio sacrale di quell’edificio ormai spoglio delle sue funzioni sacre, si sentì improvvisamente meno solo.

La tua risata era gutturale e rauca, come se non ci fossi avvezzo, ma io ne sorridevo, con un calore che si irradiava nel petto ad ogni tuo sbuffo. Mi compiacevo del suono della tua voce, e dell’intonazione particolare del tuo accento; me ne beavo come un assetato di un ruscello, e più l’ascoltavo più non riuscivo a farne a meno.
Mi faceva sentire sciocca stare lì nascosta, dietro una colonna a così pochi metri da te, solo tacendo e ascoltando. Per la prima volta qualcuno aveva catturato la mia attenzione; la cosa avrebbe dovuto spaventarmi: nessuno era mai riuscito a catturare nulla di me.
Mi giustificavo ripromettendo a me stessa che non sarei mai giunta al punto di varcare il confine tra fuga e non-ritorno. Non avrei messo a repentaglio il mio equilibrio. Stavo solo soddisfacendo un capriccio.
Non sarei andata oltre, mi dicevo.
Avevo vissuto quindici anni mescolandomi all’ombra. C’era una sola persona al mondo che fosse a conoscenza del mio esistere: io.
E tanto bastava, perché non avevo mai sofferto di solitudine. Sarebbe stato come soffrire dell’aria.
Ma questo era prima che iniziassi a respirare i tuoi respiri; questo era prima che la mia e la tua solitudine divenissero semplicemente la nostra.

La prima volta che oltrepassai il limite fu quando tu mi dicesti: «Mi chiamo James. Tu?»
Ed io, sorprendendo persino me stessa, risposi.
«Victoria»

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2


Furono giorni sospesi sull’abisso di un sogno. Oscillavamo aggrappati ai fili delle nostre fragili vite, ed eravamo ignari.
Non sapevamo quale inesorabile destino avevi innescato varcando la soglia di quella chiesa. Ci abbandonavamo, tra chiacchiere vuote e silenzi, l’uno all’altra, e l’uno con l’altra, nell’incoscienza, come ciechi inconsapevoli sull’orlo di un baratro.

«Dove lo prendi, il cibo?»
«Lo rubo.»
«Ah, quindi non sono l’unico con la fedina penale sporca.»
«Una mano lava l’altra, si dice.»
«Già.»


***


«Quindi… tu abiti qui?», chiese James, appoggiato di fianco allo schienale, con una gamba stesa per lungo e l’altra penzoloni, in una posizione rilassata. Gli occhi, sotto la fronte corrugata, scrutavano il polveroso tendaggio che nascondeva l’estradosso.
«Mh, temporaneamente», rispose la voce squillante dietro lo spesso telo grigio. La ragazza di nome Victoria, dopo l’inaspettato scambio di battute a distanza ravvicinata della mattina precedente, era tornata ad appollaiarsi lassù, sopra l’angusto corridoio sorretto dal colonnato. Da quella postazione strategica lanciava i pezzi di pane e, dal giorno prima, gli parlava anche.
«E poi dove andrai?»
«Non lo so.»
«E prima? Dove stavi?»
Fece una pausa.
«Un po’ qui, un po’ là.»
La luce che penetrava dalle vetrate del cleristorio proiettava l’ombra della ragazza sul tendone e James ne seguiva con lo sguardo l’ipnotico viavai. Era affascinato.
«Hai un accento strano», constatò lei, percorrendo avanti e indietro la passatoia.
«Ho viaggiato molto.»
«Dove sei stato?»
Sogghignò. «Un po’ qui, un po’ là.»

Non dicevamo nulla, eppure non avevamo bisogno di sapere nient’altro.
C’eravamo solo tu, io, e l’eco dei nostri silenzi.
Mi sembrava di vivere un sogno.
Era bello? Oggi non saprei più dirlo. Ho smesso di sognare da un pezzo.

«Ti capita mai di voler fuggire?»
«A te?»
«No, questa è la prima volta.»

Pausa.

«Di solito sono quello che dà la caccia. Scovo chi si nasconde, inseguo chi fugge.»
«Quindi sei una specie di bracconiere, un cacciatore di frodo?»
«Amo definirmi un segugio.»

Silenzio.

«Non importa chi, dove, o perché. Io devo solo stanare la preda.»
«Per conto del tuo… capo?»
«Diciamo… sì.»
«E’ lo stesso che vuole ucciderti?»

Pausa.

«Come ci sei finito qui?»
«Ironia della sorte, sono scappato.»
«Non ti piaceva più dare la caccia?»
«Non mi piaceva più cacciare prede non mie, mettiamola così.»

Silenzio.

«Riflettevo…»
«Su?»
«È che… il tuo compito è inseguire chi fugge, no?»
«Sì.»
«Se lui corre, tu corri.»
«Mh, sì.»
«Se lui si ferma, tu ti fermi.»
«Dove vuoi arrivare?»
«È semplice. Fai quello che fa lui, giusto?»
«Sì.»
«E lui fugge…»

Pausa.

«Non è proprio la stessa cosa.»
«Perché no?»
«Perché… è diverso.»
«Mi vedi?»
«No.»
«Neanch’io ti vedo.»
«Non capisco.»
«Io mi nascondo e tu non puoi vedermi. Ma neanch’io posso vederti.»
«E quindi?»
«Ti sto nascondendo.»

Silenzio.

«Sei strana.»
«Può darsi.»
«Comunque non mi hai risposto.»
«…»
«…»

«Sempre.»


***


La volta della chiesa era tristemente spoglia, si trovò ad osservare un pomeriggio, sdraiato supino sopra una panca.
«A proposito», esordì, reclinando il capo verso la sua postazione, «perché ti nascondi?»
Ma lei tacque. Non era possibile che non lo avesse sentito. James increspò le sopracciglia, accingendosi a voltarsi su un lato. Era un moto spontaneo; non avrebbe potuto vederla comunque, per via del telo che la nascondeva.
«Perché non dovrei?», chiese lei d’un tratto.
James scrollò le spalle, come di fronte a un’ovvietà.
«Bè, è lo stesso. Perché dovresti?»
«…»
«…»
«Non lo so.»

Non stavo mentendo.
Era una reazione istintiva, la mia, collaudata in anni di vita trascorsi a sgusciare nell’ombra. La fiducia non mi era consona. Non ero abituata a lasciarmi andare, a confidare nella buona sorte o, peggio ancora, nella buonafede degli altri. Avevo imparato a contare solo su me stessa. La vita mi aveva insegnato una cosa: che la gente non è divisa in persone buone e persone cattive, ma in persone che fanno il loro bene e non lo nascondono e persone che invece fingono di volere il tuo. Alla fine agiscono tutti per la medesima cosa: il proprio tornaconto; ma della seconda categoria devi guardarti le spalle.
Un’altra cosa che avevo imparato era a non tergiversare.
La prima regola della fuga è: fuggi. La seconda: non perdere tempo.
Ecco perché occorre saper riconoscere il pericolo. Perlomeno, se vuoi sopravvivere. Oh, ed io lo volevo, volevo sopravvivere – come avrei potuto volermi privare dell’unica persona di cui mi importasse? (Io.)
Qualcuno mi aveva detto un tempo: “la cosa più preziosa che hai è la tua vita. Proteggila.”
Ma questo era prima che qualcos’altro soppiantasse me stessa al vertice delle mie priorità. Questo era prima che io - quell’entità preziosa e irrinunciabile di cui mi avevano insegnato il valore e che con tutta me stessa avevo sempre cercato di proteggere - spandesse i suoi confini oltre gli orizzonti entro i quali avevo sempre guardato (la mia persona) e diventasse un
noi; questo era prima che io cominciasse ad essere spezzato, insignificante, vuoto e sacrificabile, senza quell’altra imprescindibile parte.

«Hai paura?», mi domandasti, una sera.
«Di cosa?»
«Di me»

Silenzio.

«No.»

Pausa.

«Dovrei?»

Ancora silenzio.
«Forse.»

Avrei dovuto, e tu eri stato sincero, ma all’epoca non potevamo saperlo, né io né tu. E, certo, non per quello che mi avresti fatto, ma per ciò che mi avevi già fatto, e di cui non mi ero accorta in tempo. Nel momento in cui quello stesso cuore che un giorno avresti privato del moto meccanico caratteristico dei mortali aveva cominciato a battere di vita vera, soltanto grazie a te.


***


Se ne stava accovacciato ai piedi di una colonna, le gambe accostate al petto e le braccia poggiate indolenti sulle ginocchia. Una sigaretta bruciava pigramente tra le sue labbra.
Quanti giorni erano trascorsi dal suo arrivo?
Aspirò una boccata di fumo.
Non teneva più il conto da quando la realtà esterna aveva smesso di essere importante. L’inarrestabile corso del tempo era avulso da quel piccolo mondo onirico; il suo, il loro.
Un tonfo lo mise in allerta, facendogli tendere i sensi. Seguì uno scalpiccio polveroso, il suono di piccoli passi attutiti dal legno dell’impalcatura.
Impossibile.
«Sono sveglio», l’avvisò.
Aveva ormai abbandonato ogni speranza circa la possibilità di vederla. E adesso, stava davvero scendendo a portargli la quotidiana razione di cibo mentre era ancora cosciente?
«Lo so», fu la sua risposta, imperturbabile.
«E se lo sai allora…»
Avvertì il rumore più netto dei passi sul pavimento di pietra, che si arrestarono non appena lo ebbe raggiunto. Era dietro di lui, in piedi, accanto alla colonna contro la quale James era seduto.
Fu in procinto di voltarsi, ma venne frenato dalla ragazza.
«Non muoverti», ordinò, perentoria. Ma c’era una sottile nota di nervosismo nella sua voce, nelle vocali stridule e nel tremore delle consonanti. James sollevò brevemente i palmi delle mani e le spalle, in un gesto di resa. «Va bene, va bene. Non mi muovo», accondiscese.
La udì dondolarsi sui piedi, titubante, poi un fruscio gli segnalò che si era spostata. Avvicinata, per l’esattezza. Adesso era china dietro di lui. Sentiva la carezza lieve della sua presenza appena dietro la schiena e il suo respiro che gli lambiva timidamente la spalla, ritraendosi ad ogni flebile tocco come la marea sulla battigia.
«Non muoverti», ripeté, in un sussurro. Poi, sgusciando dal comodo grembo, la mano della ragazza si adagiò sulla sua. Il contrasto tra la mano gracile, sottile, quasi opalescente e quella vigorosa e ruvida, dall’incarnato bruciato dal sole, ispirava una tenerezza stonata, come il suono di una corda di violino lacerata da un gesto rude dell’arco.
James trattenne il respiro e restò immobile, timoroso di spezzare il fragile equilibrio. Ma i battiti del suo cuore cominciarono ad incalzare in un crescendo rapidissimo.
Le dita sottili della ragazza iniziarono a tracciare il contorno della sua mano, poi disegnarono linee invisibili sul dorso, delicatamente. Capì che anche lei stava trattenendo il fiato quando si accorse di non avvertire più la carezza del suo respiro sulla spalla. Tutti i suoi muscoli erano contratti in quell’attimo di passionalità innocente – qualcosa a cui era del tutto estraneo; qualcosa che non somigliava affatto al rude contatto corporeo scambiato con le ragazze dei bordelli. Capovolse lentamente la mano, volgendo il palmo verso l’alto ed intrecciando le dita con quelle affusolate di lei. Soltanto allora, entrambi liberarono un sospiro a lungo trattenuto nei polmoni, ma rimasero silenziosi e immobili ancora qualche istante, prima che James parlasse.
«Allora…», esordì lui, in un sussurro rauco, dopo aver gettato il mozzicone di sigaretta. «Non vuoi proprio dirmi dove andrai, poi…». La domanda scemò in una debole affermazione prima di giungere a conclusione. James si distese contro la colonna, sciogliendo i muscoli irrigiditi, e Victoria appoggiò il capo alla sua spalla. Tacendo.
Il suono cadenzato dei loro respiri si fondeva al silenzio della chiesa. Le pareti sembrarono allontanarsi, e tutto migrare verso il fondo, mentre il pavimento sprofondava, lasciandoli sospesi in quell’ignota dimensione, alla deriva del tempo.
Non seppe perché, né dopo quanti minuti, senza preavviso, senza meditazione alcuna, anzi, quasi inconsapevolmente, James si mosse. Il suo braccio guizzò, preannunciando l’intenzione di voltarsi, ma Victoria fu più svelta. Si ritrasse immediatamente, rapida come un felino, riparandosi dietro lo strascico del telo grigio che pendeva dall’impalcatura.
«Scusa!», biascicò, levandosi in piedi, coi pugni stretti lungo i fianchi e le nocche sbiancate. Malediceva la sua impulsività. Non era riuscito a trattenersi. Il fascino che quella ragazza esercitava su di lui sfuggiva al suo controllo. Avrebbe voluto guardarla; avrebbe voluto toccarla.
Perché era così schiva? Perché non si fidava?, si chiedeva, ansiosamente, angosciato all’idea di aver gettato in frantumi quell’intimità appena conquistata.
Lentamente, compì qualche passo verso il telo dietro il quale la ragazza era corsa a rifugiarsi. «Ehi…», tentò. «Mi dispiace. Non volevo spaventarti.»
«Non mi hai spaventata», soffiò lei. «Solo… non mi piace chi contravviene alle regole dei patti. Dei miei patti.»
James levò gli occhi all’arcata di pietra che li sovrastava, sorridendo della strana sensazione di familiarità che quel cipiglio orgoglioso gli suscitava; stava cominciando a discernere i suoi comportamenti, come succede con quelli delle persone che si conoscono bene. Riusciva a capire, ormai, quando mentiva, e persino quando si nascondeva – quello fisico non è l’unico modo possibile di nascondersi. Si avvicinò ancora.
«Scusa», ribadì. Quella dolcezza nel suo tono stonava con la sua voce come un guanto di seta calzato dalle mani ruvide di un operario. «Ma… devo dedurre che non vuoi proprio dirmelo?», disse, alludendo alla domanda che le aveva posto pochi minuti prima, circa la sua prossima destinazione.
Attese.
Ormai era a pochi centimetri dalla tenda.
«Non posso», rispose infine Victoria, a voce tanto bassa da essere appena udibile. «Lo saprò solo quando me ne sarò andata.»
Entrambi tacquero.
James protese una mano verso il telo, avvicinandola lentamente. Indugiò quando le sue dita furono prossime a sfiorare il drappo di tessuto grigio, ma vinse l’incertezza e proseguì, finché non ne avvertì la superficie ruvida sotto i polpastrelli. Dopo qualche istante, Victoria lo imitò, tendendo le dita sino ad incontrare quelle di James, attraverso lo spessore del telo. Fecero coincidere i palmi e, non sazi di quel contatto, si avvicinarono ancora, lentamente, finché i loro corpi si toccarono e Victoria poggiò il capo sul suo petto.
Sentiva il calore irradiarsi dal suo corpo, nonostante l’ostacolo della tenda.
«Tanto ti darò la caccia», disse James, in un sussurro.
«Tanto non riuscirai a prendermi», replicò Victoria, sardonica.
Una risata sgorgò dalla gola di lui, rauca.
«Ne sei proprio sicura?»
Il silenzio fu carico d’attesa.
Poi, lei rispose: «Provaci.»


Il giorno dopo, quando si svegliò, James non trovò nessuno.

Non potevo sapere che ormai era troppo tardi.


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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3


Quella mattina mi levai all’alba. Intendevo raggiungere il mercato di Hartpury entro mezzogiorno, per fare provviste – le mie scorte si erano esaurite rapidamente da quando fungevano da sostentamento per due persone.
Ovviamente, non avevo soldi. Non ne maneggiavo da quando avevo sciolto la vantaggiosa – ma non per me - collaborazione con Monsell The Magpie e la sua cricca di ladri; da quando, cioè, avevo deciso che l’onorato contributo reso alla società meritasse una liquidazione cospicua e arbitrariamente me l’ero presa. Chi di spada ferisce di spada perisce, si suole dire. Quanto avevo goduto dopo, immaginando quella faccia scimmiesca di fronte alla scoperta che gli avevo alleggerito le tasche! Lasciai quel covo di malaffare nel quale avevo vissuto tre anni della mia vita con in mano dei soldi e un mestiere; i primi inesorabilmente finirono presto, il secondo mi insegnò a fare a meno dei primi.
Il sole declinava verso ovest, quando feci ritorno a Upleadon, nella chiesa diroccata che consideravo la mia casa da un paio di settimane. La neve, tinta di rosso dal tramonto, fortunatamente quel giorno non era spessa come i precedenti, e vi affondavo i piedi non oltre le caviglie. La giornata era stata straordinariamente calda, perlomeno in relazione al clima che imperversava di solito nei mesi invernali, rendendo quasi superflua la mantella pesante che indossavo.
Attraversavo la campagna abbandonata nella periferia del paese procedendo all’indietro, poiché mi curavo di spazzare le mie impronte con un ramo strappato ad un albero. Quando mi inoltrai nella campagna abbastanza da ritenere che nessuno avrebbe fatto altrettanto, lasciai perdere le mie tracce e puntai decisa verso la sagoma scura e cadente del mio rifugio.
Avvenne però qualcosa che non avevo previsto.
O, meglio, trovai qualcosa che esulava da tutte le mie aspettative - quelle consce, perlomeno. Trovai lui.
Quando me ne accorsi era già tardi. Lui era lì, in piedi di fronte alle macerie del transetto crollato. Ci separavano parecchi metri, ma ne scorgevo distintamente la figura.
Attorno a noi c’era solo la sconfinata distesa di neve, nulla dietro cui potessi ripararmi – oh, avrei potuto fuggire; l’istinto, mescolato all’insana paura che da sempre si nutriva di me, mi dettava di farlo. Ma qualcos’altro mi piovve addosso, come infiniti, piccoli chiodi che mi ancorarono al suolo: tutte le parole scambiate nel buio conforto dell’invisibilità.
Mi sentii persa.
Una vocina, seppellita sotto lo stato confusionale della mia mente, continuava ad urlare “scappa!”, ma sapevo che non era l’urgenza del pericolo a dettare quell’ordine; era timore che l’incanto di quei giorni trascorsi ai margini dell’assurdo potesse sgretolarsi se il nostro fragile mondo si fosse schiantato contro la nuda realtà.
Era timore di scoprire che mi sarebbero mancati, timore di riconoscere ciò che non volevo provare, benché una parte di me lo sapesse già e non volesse ammetterlo.
Non erano passati che pochi giorni. Non potevo aver bisogno di lui – di lui, qualcuno al di fuori di me! -, non potevo; o potevo?
Rimasi lì, maledicendo il giorno in cui era entrato nella mia vita, eppure implorando che non se ne andasse.
D’altro canto, qualsiasi cosa avessi scelto di fare allora, non sarebbe servita a salvarmi la vita. L’ultimo rintocco del troppo tardi era ormai scoccato da un pezzo.


Quella mattina, svegliandosi, James aveva scoperto di essere solo.
Non c’era nessuno nella chiesa; nessuno che rispondesse al suo buongiorno, nessuno che gli lanciasse molliche di pane, nessuno nascosto dietro il telo dell’impalcatura.
Nessuno.
Inaspettato, il panico lo aveva travolto. Fuori di sé, in preda a una delusione cocente alla quale non sapeva dar nome, l’aveva chiamata più volte. Poi, ignorando tutte le regole dei patti – avevano ancora importanza, d’altronde? – si era precipitato sulle scale dell’impalcatura, arrampicandosi nel nascondiglio dietro cui era stata nascosta fino ad allora.
E lo aveva scoperto vuoto.
Se n’era andata.
Come spiegare quella sensazione di perdita?
No, forse, era proprio l’inverso. Aveva vissuto quei giorni in uno stato simile a quello di chi ha perso i sensi; fuori da se stesso, dalla sua vita, dal suo consueto modo di essere. Con la sua dipartita aveva semplicemente ritrovato tutto questo. Era rinvenuto. La realtà gli era allora piombata addosso di schianto, frantumandosi sulle sue spalle e lasciandolo barcollante, per via dell’urto violento.
Ecco tutto.
Eppure, perché, invece di pensare all’uomo che intendeva ucciderlo, aveva solo lei nella mente? Era rimasto in uno stato catatonico tutta la giornata, prima di raccogliere nuovamente se stesso e riordinare i pezzi: ciò che doveva fare, dove sarebbe andato, come sarebbe sopravvissuto – ma il pensiero martellante di lei continuava ad insinuarsi ad ogni virgola dei suoi ragionamenti sensati, come un’intermittente e stonata nota di irrazionalità.
Con una diffusa sensazione di costernazione nel cuore, si era lasciato alle spalle le macerie della chiesa, mescolate a quelle invisibili dei suoi ultimi giorni.
Non aveva fatto che pochi passi, però, quando intravide una figura stagliarsi nell’immensa distesa di neve. Sentì qualcosa – qualcosa di piacevolmente caldo – scivolargli nel petto, laddove la partenza della ragazza, quella mattina, gli aveva scavato un vuoto, riempiendolo come se fosse stato modellato appositamente perché lo colmasse.
Senza sapere come, sapeva che era lei.
Fu come riconoscerla, benché la vedesse allora per la prima volta. Come se quei lineamenti coincidessero con un disegno remoto scolpito in qualche anfratto recondito della sua mente – dell’anima, del cuore, o chissà dove – e vederli lo avesse naturalmente rievocato. Era gracile e minuta, tanto sottile da confondersi con le striature affilate delle rocce che, qua e là, emergevano dalla bassa coltre di neve. Il colore della sua pelle era così esangue e pallido che si distingueva appena dal paesaggio, formando quasi un’unica tinta; ma dalla sommità del suo capo piovevano boccoli di un rosso fiammante intenso che richiamava il tramonto ardente alle sue spalle.
Era un sole infuocato che affondava su un orizzonte d’inverno. Una fiamma di neve.
Aveva qualcosa di passionale e innocente al contempo, benché, allora, gli sembrasse totalmente candida.
Entrambi non si mossero per lunghi istanti, che sembrarono congelarsi in tanti cristalli, come sotto l’azione del freddo. L’aria era statica, inerte, un calco sulle loro figure altrettanto immobili.
Poi lui avanzò. Un passo, due passi. Lentamente. La distanza tra loro sembrava incolmabile. Tre passi. Quattro passi. Cinque passi. Forse trascorsero solo secondi, ma sembrarono ore. Finalmente, James fu a pochi metri da Victoria.
La vide retrocedere con la circospezione di un gatto impaurito, ma non si arrestò. I loro passi affondavano sulla neve con tonfi ovattati, unico riempimento del silenzio, insieme allo sporadico e torvo gracchiare di un uccello in lontananza.
Adesso poteva guardarla in volto. I suoi lineamenti erano morbidi e affilati allo stesso tempo. La linea ovale del suo viso era dolce e priva di spigoli, eppure decisa; la pelle era tesa sulle guance, sotto gli zigomi alti accentuati dalla magrezza, in una linea netta priva di sbavature. Gli occhi erano grandi, né sporgenti né infossati, incorniciati da lunghe ciglia biondo cenere, e il naso piccolo. Su quel viso scarno spiccavano invece le labbra carnose, dal disegno perfetto e sinuoso.
«Victoria…», sussurrò. Al Vi tutti gli istanti cristallizzati nell’aria scivolarono in caduta libera; al suono violento del cto andarono in pezzi, con un rumore secco e tonante simile a quello di un’esplosione; e al timbro acuminato dell’ultima sillaba, ria, graffiarono la loro pelle, ferendoli come frammenti di vetro rotto.
Victoria indietreggiò di scatto, ma James coprì rapidamente la distanza e le afferrò con impeto gli avambracci scarni, stringendo le dita intorno all’intera circonferenza delle ossa sottili.
«Victoria…», ripeté, con voce rauca.
Lo guardava con occhi sgranati, e lui poteva percepire la tensione nervosa irradiarsi dai muscoli contratti del corpo tanto vicino al suo. Si perse nelle sue iridi metalliche, del colore argentino del cielo d’inverno. Lentamente, chinò il capo verso quel viso, molto più in basso del suo. Nuvole di fiato condensato uscivano dalle loro bocche dischiuse, e si fondevano in un solo respiro.
«Victoria, Victoria, Victoria…», sospirò. All’ultima sillaba, premette le labbra su quelle carnose ed esangui di lei. Le sue braccia l’avvolsero, catturandola in una stretta d’acciaio, che incontrò solo una flebile resistenza iniziale, prima che anche lei si abbandonasse all’abbraccio. Rimasero così qualche istante; due corpi immobili stretti l’uno nell’altro, e dispersi in mezzo a una distesa di neve.
Gradualmente, la morsa delle sue braccia si allentò, finché furono soltanto debolmente appoggiate. La fronte di lei era adesso adagiata contro il suo petto, come qualche giorno addietro, ma senza l’effimera protezione della tenda, e i capelli gli sfioravano il mento. Le sue mani percorsero la schiena stretta per tornare alle braccia. Scivolarono fino alle mani, abbandonate sui fianchi, poi risalirono al viso, cingendolo a coppa. Victoria sollevò nuovamente lo sguardo, posandolo sul suo. Cielo e terra che s’incontravano e fondevano insieme, come sulla linea fragile e sottile dell’orizzonte.
Si baciarono ancora, più intensamente.
Victoria allacciò le braccia attorno al suo collo, issandosi sulle punte per venirgli incontro. James strinse un braccio attorno alla sua vita, mentre l’altra mano affondava nella sua chioma fiammante.
Era così esile che si perdeva tra le sue braccia. Ma era così bello stringerla; trattenerla, illudersi che non sarebbe scappata. Giocare con quelle lingue di fuoco attorcigliate tra le sue dita, accarezzare la schiena sottile, vederla, toccarla, sentirla sua, almeno per un labile momento. Stringeva spasmodicamente la presa, ma non era il corpo, ciò che voleva catturare, bensì quel qualcosa d’impreciso e vago che lo aveva colpito dal primo istante, quel qualcosa che continuava a sfuggirgli perché sfuggente per sua natura; quel qualcosa perfettamente speculare a lui, eppure tanto complementare da essere la metà appositamente disegnata per legarsi alla sua. Predatore e preda, lui imbattibile, lei inafferrabile: le due controparti di una lotta senza vincitori né vinti, eppure destinate ineluttabilmente ad appartenersi.

Scivolarono sulla neve ancora stringendosi, le mani che aderivano le une al corpo dell’altro.
I capelli di lei erano una chiazza vermiglia sul manto di neve, che sfumava verso tonalità più chiare laddove gli ultimi bagliori del tramonto tingevano il bianco.
Fece scorrere le dita sulle scanalature delle costole lievemente sporgenti, sotto la pelle tesa.
I loro corpi tremavano febbrilmente, cercandosi, le labbra livide sospiravano il nome dell’altro.
L’ultimo raggio di luce rossastra sparì dietro l’orizzonte, il sole tramontò sulla campagna innevata e la notte si adagiò, infine, su di loro, come un manto di buio.


«Caldo e freddo sono l’uno il perfetto negativo dell’altro, sai Vic?»

Silenzio.

«Si estinguono a vicenda.»

Pausa.

«Tu sei come una fiamma di neve, il campo di battaglia di due forze antagoniste. Una fiamma calda e fredda al contempo che arde e si consuma in sé stessa. Ma all’esterno non c’è contrasto, perché caldo e freddo hanno lo stesso effetto. Bruciano entrambi…»

Silenzio.

«…e ustionano chi si avvicina troppo.»


***


Una domenica mattina tu mi dicesti “sposami”. Io ti diedi del pazzo, ma tu continuasti ad insistere. Volli assecondarti, pensando che stessi scherzando, e ti chiesi “dove?”. Tu apristi le braccia e ti guardasti attorno, indicandomi la risposta che ci circondava. “Siamo o non siamo in una chiesa?”, e scrollasti le spalle fingendoti esasperato. Io risi; di te, di me, di noi, del nostro amore assurdo. Obiettai che non avevamo un prete, ma tu avevi pensato anche a quello. Sopra lo schienale di una panca, si trastullava, dedito ad un’accurata pulizia, quel gatto che era stato testimone del nostro primo incontro.
Avevo solo un anello di una lega metallica di scarso valore, e tu solo un ciondolo che portavi al collo, appeso ad una catenina sottile. Furono le nostre fedi estemporanee.

«Ti capita mai di voler restare?»

«Sì.»

Ci sposammo il 12 Gennaio 1907.
E quella fu anche l’ultima volta che ti vidi umano.


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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4


1914, Brixham, South West England

Otto anni dopo...

La porta si chiuse alle sue spalle con un suono secco.
Inspirò.
Voci chiassose, schiamazzi ed ebbre risate provenivano dal piano inferiore. Il sottile pavimento di legno vibrava persino, sotto le suole delle sue scarpe col tacco.
La donna si ravvivò la folta chioma, passando le mani tra i capelli a mo’ di pettine. Volse gli occhi al soffitto un paio di volte, poiché le dita si impigliarono ripetutamente nella matassa intricata di boccoli, poi sistemò l’ampia scollatura e rassettò la gonna, stirando pieghe e grinze con i palmi delle mani finché non fu soddisfatta del risultato. Quindi raggiunse la scala a chiocciola e discese al pianterreno, accompagnata dallo scricchiolio gutturale degli scalini invecchiati.
L’angusto locale era intriso dell’odore di alcol e fumo, che aleggiava nell’aria come una nebbiolina viscosa. C’era molta folla, quella notte, e i tavoli erano già tutti occupati. Scorse delle facce nuove, dietro le gote arrossate e le espressioni deformi, segno che la clientela si era rinnovata in quei quarti d’ora in cui non era stata presente. L’atmosfera era molto più ubriaca di come l’avesse lasciata e senza sosta i boccali vuoti battevano d’impazienza sui tavoli producendo secchi rintocchi che scandivano il vociare assordante. Vide Maud sfrecciare da un capo all’altro della stanza - per quanto la sua grossa stazza le permettesse di muoversi velocemente -, richiamata dalle turpi grida dei clienti. Somigliava ad una grassa oca col muso da toro, un incrocio aberrante che confezionava adeguatamente una personalità gretta e meschina.
Si diresse al banco degli alcolici, occupato solo da Gwen, e prese elegantemente posto al suo fianco. «Brutta serata?», esordì, con la voce squillante che aveva imparato a modulare in un perenne tono di falsa innocenza.
Gwen, quasi distesa sul bancone, scrollò il capo e, con la mano che lo sorreggeva, arruffò la chioma di capelli biondi. Era stata eloquente.
«Ancora imbrigliata nella struggente trama dell’amore eterno? »
«Come sei cinica, Scarlett», mugugnò lei, di rimando.
«Non sono cinica, mia cara Gwen. Sono realista, e tu sei troppo ingenua», la rimbeccò. «I sogni sono come gli amanti: i migliori si consumano in una notte sola, i peggiori ti perseguitano anche di giorno.» La sua sentenza fece sbuffare l’altra ragazza.
«Ma si può sognare anche a occhi aperti.»
«Lo fanno solo gli sciocchi.»
«Lo fanno gli innamorati.»
«Appunto», la donna dai capelli vermigli ghignò, compiacendosi di quella piccola ma soddisfacente vittoria. Che stupido vaneggiamento, l’amore. Molto decorativo nei libri o nelle poesie, ma decisamente ingombrante nella vita vera, pensava.
«Io non ti capisco», mormorò Gwen, scuotendo il capo.
«Per questo siamo amiche.»
«Non ti sei mai innamorata?» disse, ignorando il suo ultimo commento.
La giovane donna chiamata Scarlett piegò le labbra in una smorfia disgustata. «No, mai.»
«Bugiarda», replicò l’amica. Scarlett arcuò le sopracciglia e volse lo sguardo altrove, come chi voglia ignorare un’ignominia, indegna persino di ricevere una risposta.
«Passami quella bottiglia», disse, indicando il whiskey con un cenno della mano. Gwen obbedì, rassegnata, mentre Scarlett allungava il braccio dietro il bancone per recuperare due bicchieri di vetro. Li poggiò sul tavolo producendo due secchi rintocchi, poi versò il liquido ambrato in entrambi e ne fece scorrere uno verso l’amica.
«Bevici su, vecchia rimbecillita», le disse, pizzicandola su un fianco e concedendole un mezzo sorriso, prima di portare il bicchiere alle labbra carnose. Gwen si accomodò meglio sullo sgabello, sospirò e infine si arrese a seguire l’esempio dell’altra ragazza.
Bevvero entrambe.
«Come sta andando a te?», chiese Gwen, quando si fu un po’ ripresa dallo scoramento. Gettò un’occhiata al locale, gremito dei marinai che in quel tugurio trovavano ristoro e compagnia. La taverna di Maud era un locale malfamato nei pressi del porto. Era la meta turistica più gettonata degli uomini di mare appena sbarcati sulla terraferma, in cerca di alcol, fumo e sesso. Loro erano le sirene, come amava definirle Maud, millantando una finezza poetica che, su di lei, suscitava solo ribrezzo.
«Alla grande», bisbigliò complice, facendosi più vicina all’amica e sollevando discretamente la gonna sulla coscia per mostrarle il mazzetto di banconote infilato nella giarrettiera.
«Ma queste devi darle a Maud!» la rimproverò, sottovoce.
«Oggi è troppo impegnata a gestire i clienti per contare il numero di quelli che salgono con me», ghignò. «Gliene darò un po’, ma gli altri voglio tenerli.»
«Non è la prima volta che lo fai, dico bene?», chiese Gwen, tra l'allarmato e il severo.
Scarlett si drizzò nuovamente sullo sgabello e tornò a bere. «No, infatti», le rispose.
Ah, il vecchio Magpie! Così tanto tempo prima le aveva insegnato l’arte dell’astuzia. Nella sua vita aveva trovato diversi modi di farla fruttare. Ma quel pensiero le attraversò la mente trainando l’ombra sbiadita di un vecchio ricordo.
Si adombrò.
«Cosa vuoi fartene?», chiese Gwen. L’aria improvvisamente più cupa dell’amica la preoccupò, ma, come spesso accadeva, decise di ignorarla. Scarlett la inquietava, a volte. I suoi sbalzi d’umore si susseguivano repentini, ma il suo sguardo era impenetrabile, una serratura ermetica che negava l’accesso all’anima.
«Mi serviranno quando deciderò di andarmene», rispose.
Gwen osservò il suo umore diradarsi e tornare sereno, e scosse la testa, confusa. «Beh, dove andrai?»
«Non lo so. Lo saprò solo quando me ne sarò andata», concluse Scarlett, con l’aria di chi non avrebbe continuato il discorso. Gwen decise di gettare la spugna. Talvolta sospettava davvero che la considerasse sua amica solo perché non sarebbe mai stata in grado di capirla.
«Ehi, guarda», bisbigliò Gwen d’un tratto, indicando qualcosa dietro le spalle di Scarlett. Quel pretesto per cambiare argomento la sollevava. «Sta entrando un nuovo cliente», Gwen aggrottò le sopracciglia chiare, «…ed è anche molto bello!», esclamò a voce alta.
Scarlett reclinò il capo, nel gesto insofferente dell’esasperato che pensa “ci risiamo”, e si girò sullo sgabello per dare un’occhiata al nuovo arrivato. Ma quando scorse fugacemente la figura ammantata di nero, benché non le ricordasse nessuno di conosciuto, non riuscì a distogliere lo sguardo. Come se fili invisibili la legassero intimamente a quell’uomo: era un magnete irresistibile per la sua anima interamente di ferro. Scosse il capo, sbigottita, e batté le palpebre un paio di volte; scoprì di recidere quei lacci ogni volta che interrompeva il contatto visivo.
Gwen al suo fianco si era già messa d’impegno, ricominciando la procedura: si era piegata distrattamente in avanti per mettere in mostra il contenuto della scollatura prosperosa ed aveva sollevato il capo, fingendo di osservare il soffitto per esporre la pelle del collo. Sebbene fosse ancora basita, Scarlett archiviò l’accaduto, e imitò l’esempio della collega. Accavallò le gambe e distese la schiena all’indietro, per appoggiarsi alla costa del bancone, mentre sorseggiava voluttuosamente il suo whiskey. Evitò, tuttavia, di posare nuovamente lo sguardo sull’affascinante cliente. La tozza Maud passò davanti a loro, reggendo un vassoio colmo di bicchieri vuoti in equilibrio, dietro cui si nascondeva la sua espressione compiaciuta. Lanciò un’occhiata eloquente alle due ragazze, prima di posare il vassoio e rotolare verso il nuovo arrivato, con un sorriso lezioso sul volto squadrato.
Kate, un’altra sirena, scese nel frattempo le scale a chiocciola che conducevano al piano superiore e alle stanze private. Le raggiunse, poggiando i gomiti sul bancone.
«Chi è quel pezzo d’uomo lì?», chiese, alludendo al nuovo cliente.
«Non lo sappiamo, ma Gwen sta sfoderando tutto il suo armamentario per farselo», rispose caustica Scarlett.
«Se l’alternativa è quell’altro», disse Kate, facendo cenno ad un vecchio grasso col doppio mento che beveva da solo ad un tavolo, «me lo contendo anch’io». Come per suggellare la sfida, Kate assunse un’espressione civettuola e si appoggiò lascivamente al bancone.
Quando l'uomo posò lo sguardo sulle ragazze, però, il suo bel viso si deformò in un’espressione indecifrabile. Kate e Gwen lo videro serrare i pugni attorno ai bordi del tavolo e assottigliare gli occhi, fissi sull’unica ragazza che non lo stava guardando.
Fecero subito due più due, simultaneamente. Kate esclamò un «ah!» esasperato e levò la mano in un gesto seccato. Gwen si afflosciò, invece, sullo sgabello. «Quello vuole te, Scarlett», mormorò, affranta e un po’ amareggiata.
La rossa sorrise, simulando un blando compiacimento. Avrebbe preferito non avere nulla a che fare con quell’uomo; la strana sensazione di poco prima aveva sollecitato una corda remota dentro di lei, facendo vibrare qualcosa nella sua memoria. Tuttavia, l’orgoglio non le avrebbe permesso di tirarsi indietro. Ingollò un ultimo sorso di whiskey e ripose il bicchiere sul legno con un sonoro toc, dopodichè si alzò.
A noi due.
Seguita dagli sguardi invidiosi delle due colleghe, puntò decisa verso il nuovo arrivato, attraversando il locale con le movenze lente e sinuose di un felino. Non poté esimersi dal guardarlo e l’angustiò scoprire che la sensazione di poco prima non era stata solo una momentanea invenzione dei fumi dell’alcol. Si appellò a tutto il suo raziocinio per mantenere il controllo e si convinse che la sua fosse mera suggestione.
Nel frattempo, lo studiò.
La pelle diafana, perlacea, le ricordò una lastra di marmo, liscia e perfetta come quella di una statua. Sopra gli zigomi, però, si estendevano occhiaie profondissime che gli infossavano lo sguardo. I suoi capelli biondo scuro, inoltre, rilucevano sotto il bagliore delle lampade a gas in modo fastidiosamente familiare. Il riflesso simile di altri capelli si affacciò alla sua memoria, ma fu scacciato.
Quando lo raggiunse, si sollevò a sedere sul margine del tavolo e, con una mossa calcolata e reiterata più volte, lo spacco del vestito scivolò sulla sua coscia, mostrando la pelle lattea. L’uomo si ritrasse contro lo schienale della sedia. Scarlett arcuò le sopracciglia, sorpresa, ma continuò il suo gioco, piegando le belle labbra in un sorriso malizioso.
«Sei timido?», gli chiese.
La reazione dello sconosciuto fu del tutto inattesa e la colse impreparata. L’uomo si alzò in piedi di scatto, con una tale veemenza da rovesciare il tavolo. Scarlett fu quasi sul punto di cadere, ma recuperò l’equilibrio in tempo.
«Ehi!», strillò.
Gli occhi dell’uomo erano due pozze nere imperscrutabili nelle quali sembrava ardere un fuoco. Il suo viso era completamente deformato da un’emozione simile alla rabbia. Per un istante le era parso addirittura di udire un ringhio cavernoso sgorgare dalla sua gola.
In quel momento, la sua mente elaborò l’immagine nitida di ciò che l’attirava verso di lui: si figurò un fascio di sottilissimi fili, impalpabili come nebbia, tesi nello sforzo di vincere la distanza che li separava. Lottavano, però, contro una seconda forza, remota e dal sapore antico: delle radiazioni vibranti che dal corpo dell’uomo si propagavano nell’aria. Immaginò spirali sottili di quel fumo incorporeo simile al gas frammettersi tra loro e spingere nella direzione contraria ai fili.
Pericolo.
L’uomo si voltò repentinamente, avviandosi verso l’uscita. Fu così veloce che quando Scarlett reagì lui era già alla porta. Il fascio di lacci allora si trasformò in ferro, dalla forza trainante violentissima. Dovette seguirlo. La sensazione di pericolo, benché intensa e asfissiante come non l’aveva mai sentita prima d’allora, non fu abbastanza. Quell’attrazione irrefrenabile piegava i dettami della sua ragione come steli di giunco.
Si precipitò fuori dal locale, mentre avvertiva i presenti accalcarsi sulla soglia, pronti a farle da scorta se Maud non avesse sbarrato loro l’uscita. L’impatto con l’aria fredda dell’esterno la fece rabbrividire. Si guardò intorno, scrutando spasmodicamente nel buio per rintracciare la figura dell’uomo. I “non è successo nulla”, “tornatevene a bere, vecchi balordi”, “guarda com'è graziosa questa signorina” di Maud spiccavano nel chiasso attutito che proveniva dalla taverna alle sue spalle.
Si strinse nelle braccia coperte solo da un sottile strato di stoffa e attraversò la strada, svoltando il vicolo che costeggiava la campagna. Al di là del basso cancello, si spiegava un’immensa distesa di neve, che, per un istante, si confuse col ricordo di un inverno di molti anni prima. Scarlett lo ignorò, scacciando quei pensieri infruttuosi, e avanzò di alcuni passi, intenzionata a proseguire. Una voce, però, si levò all’improvviso dal silenzio della notte, chiamando il suo nome.
Il suo vero nome.
«Victoria!»
Il passato affluì e proruppe nella sua memoria come un fiume dal crollo di una diga. I suoi ultimi otto anni di vita, le bugie, i compromessi, gli inganni, e tutto il marcio venne spazzato via, raschiato dalla forza distruttiva di un nome.
Victoria.
La giovane donna trasalì e si girò fulminea verso la campagna. L’uomo che aveva seguito fuori dalla taverna era lì, una figura marmorea come una statua, in piedi nel mezzo dello sconfinato letto di neve. Da quella distanza, però, poteva scorgerlo solo a malapena. Forse per questo, per un istante, all’immagine dello sconosciuto se ne sovrappose un’altra, dalle sembianze meno attraenti, ma più familiari e care.
James.
L’eco di quel nome rimbalzò tra le pareti dei suoi ricordi, assordandola come un pomeriggio di molto tempo prima. D’improvviso, si ritrovò nuovamente quindicenne, nella navata lugubre di una chiesa, orribilmente… vuota.
«Chi sei?», urlò, all’indirizzo dell’uomo.
Ma questi non rispose. Turbinò in un movimento tanto veloce da non poter essere distintamente percepito da occhi umani e poi scomparve, come dissolvendosi nel nulla.
Ebbe un solo istante, Victoria, prima che il fascio di catene che la legava inspiegabilmente a quell’uomo la strattonasse, spingendola a scavalcare il cancelletto basso che delimitava la campagna per lanciarsi in un vano inseguimento. Dovette porvi fine molto presto, però, a causa della morsa del freddo sulla pelle nuda che la costrinse a rassegnarsi.
Era sparito.
Gli anelli delle catene si sgretolarono rapidamente con un tintinnio sordo.
Victoria si chinò, poggiando le mani sulle ginocchia, per prendere fiato dopo la corsa. L’aria gelida era tagliente come cocci di vetro, che raschiavano le sue vie respiratorie facendole bruciare.
Rialzò il capo, intenzionata a tornare alla taverna di Maud, benché fosse ancora turbata dalla sparizione di quello sconosciuto. Ma qualcosa nella neve poco più in là, dove l’uomo era scomparso, catturò la sua attenzione. Avanzò a fatica verso il punto sul quale teneva fisso lo sguardo, finché non li vide. Solchi profondi che componevano una parola, intagliata nella neve:


S C A P P A .


La sensazione di pericolo, rievocata dall’avvertimento, la travolse, adesso che non incontrava più l’ostacolo dell’attrazione contraria. Trattenne il respiro, come se i polmoni fossero stati improvvisamente sigillati, quando il suo sguardo intercettò un sottile anello di metallo, accanto all’ultima A; incisivo come un punto, doloroso come una fine irrevocabile, benché fosse così piccolo. Si chinò per raccoglierlo, con una fitta al cuore, e lo riconobbe ancor prima di stringerlo tra le dita.
La finta fede nuziale del suo finto marito.
Istintivamente, le dita dell’altra mano cercarono il ciondolo appeso alla cordicella che portava sempre allacciata al collo.
Il suo gemello, seppure soltanto ideale.
Strinse il pugno attorno all’anello e accostò quest’ultimo al petto, in corrispondenza del ciondolo. Nella sua mente la confusione incalzava. Poteva distinguere nitidamente soltanto un nome, che emergeva nel groviglio dei suoi pensieri incoerenti e pulsava sincrono al battito del suo cuore.
James, James, James, James.


***


Un pomeriggio di quell’inverno di otto anni prima, tornai da un’altra spedizione di approvvigionamento al mercato. Quella volta ti avevo avvisato, prima di uscire.
Quando rientrai, però, la chiesa era vuota.
Chiamai il tuo nome, ma non ottenni risposta.
A nulla valse attenderti.
Te n’eri andato.
Sparito. Senza lasciare traccia, nemmeno di un addio.
Eri stato una fugace apparizione nella mia vita. E non mi sarebbe rimasto null’altro a testimoniare che non ti avevo sognato, se non quel piccolo ciondolo posato sul petto all’altezza del cuore.







L'angolino degli sproloqui inutili, ovvero "quello che potreste anche non leggere, ma fareste piangere l'autrice"
Siamo giunti al quarto capitolo! Il prossimo sarà l'ultimo, seguito dall'epilogo che chiuderà questa breve fanfic ^^. Bè, passo a ringraziare quell'unica creatura - da oggi destinataria di tutte le mie più appassionate benedizioni - che ha recensito... sperando che non sia anche l'unica ad aver letto T__T *sob*
Uchiha_girl: ciao, my dear! mi pento e mi dolgo per la mia velocità... è che mi piglia una sorta di raptus irrefrenabile alle mani, che si muovono da sè, capisci? Io non ne ho colpa, no, davvero. Oggi, ad esempio, credevo che fossero trascorsi ben quattro giorni dall'ultimo capitolo, e invece - toh! - mi sono accorta adesso che ne sono passati soltanto due. Eeeh. Spero tu possa perdonarmi! Scherzi a parte, tra qualche giorno dovrò sparire dalla circolazione webbiana (cos'è questo boato? sembravano urla di gioia, ohibò!) e tornerò soltanto a fine Agosto, temo. Ecco spiegata la ragione dei miei aggiornamenti da Speedy Gonzales XD Comunque, se riuscissi a trovare la scheda mi farebbe davvero molto piacere *__* d'altronde, sono o non sono la tua partecipante fuori gara preferita? *occhi che brillano d'ammmmorreh* ...non c'è bisogno di sottolineare il fatto che sono anche l'unica, però! Ahahah XD

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5


Riordinare le idee non era stato facile. Restai immobile circa tre minuti prima che il principio di congelamento ai piedi, infilati nelle scarpe dallo scollo ampio, mi esortasse perlomeno a tornare sul marciapiede. E lì ripiombai nel turbamento, trascinata dal ricordo di quanto era appena accaduto. Chi era quell’uomo? Era James?
Otto anni potevano stravolgere la fisionomia di una persona a tal punto? James poteva essere cambiato tanto da rendersi irriconoscibile persino a me? Il suo viso era scolpito nella mia mente; potevo percepire la scanalatura dell’incisione solo accarezzando il suo ricordo col pensiero, in ogni momento.
Non poteva essere James.
Eppure… almeno quell’attrazione inspiegabile avrebbe trovato un senso, se lo fosse stato. Si sa, il passato esercita sempre un certo fascino malinconico sul presente, specie quando risorge dalle macerie di ieri per incarnarsi di nuovo nell’oggi. Era una delle ragioni per cui lasciavo sempre terra bruciata alle mie spalle – sempre, eccetto per quell’inverno di otto anni prima, una chiazza bianca in mezzo alla cenere della mia memoria.
Mi aggrappai alla ringhiera del cancello, quando tornai a poggiare i piedi all’asciutto del lastricato stradale. Il corpo era scosso da brividi secchi e il vestito troppo succinto non mi copriva a sufficienza. Serrai i pugni e, così facendo, mi accorsi di stringere ancora l’anello tra le dita. Aprii il palmo e rimasi a guardarlo, in un misto di confusione e angoscia, come se quel cerchio di metallo potesse darmi le risposte che cercavo.
Se non era James, come faceva quell’uomo ad averlo?
Lo aveva rubato? Gli era stato donato? E mi stava cercando di proposito o era stato un caso? Il modo in cui aveva reagito alla mia presenza mi faceva propendere più per la seconda ipotesi. Sembrava sorpreso di vedermi e, al contempo, terribilmente afflitto. D’altra parte, ero sicura di non averlo mai incontrato prima – aveva un certo aspetto inquietante che difficilmente la mia inclinazione al riconoscimento del pericolo si sarebbe lasciata sfuggire. Quindi, ammesso che James gli avesse dato l’anello per chissà quale ragione, com’era riuscito a riconoscere in me la pseudo-moglie di James?
O, forse, non mi aveva riconosciuta affatto, e c’era qualcos’altro che non riuscivo a cogliere. Forse, James, l’anello, il nostro inverno, e tutto ciò che concerneva me e lui non c’entravano assolutamente nulla con l’uomo misterioso. Eppure aveva lasciato l’anello sulla neve – come monito? come indizio? – e questo non potevo ignorarlo.
Ancor più dell’anello, però, non potevo ignorare la scritta.

Scappa.
Me lo avevano detto anche i miei sensi, e quelli non si sbagliavano mai. L’istinto di autoconservazione, in me, era un’insopprimibile forza che predominava sul resto, o, almeno, lo era stata prima che quell’inspiegabile attrazione sovvertisse le naturali leggi di gravitazione universale, attirandomi direttamente verso la tela del ragno che intendeva mangiarmi.
Le mie idee obnubilate non aiutavano affatto. Avrei voluto avere una visione chiara della situazione, per dedurre da me come comportarmi. Odiavo non avere il controllo, specie quando si trattava del controllo della mia vita.

Scappa.
Benché lo dicessero anche i miei sensi, la mia mente non sapeva razionalmente rispondere alla domanda martellante che mi pulsava nella testa.
Da cosa?
Non riuscivo ad immaginare cosa potesse volere quell’uomo da me, quale fosse la mia relazione con lui, e quale la sua relazione con James. Avvertivo chiaramente il pericolo scorrere da lui a me come un fiume da una sorgente alla foce, eppure mi aveva esortato a scappare.
La prudenza, e quel sesto senso privo di razionalità che mi aveva permesso di compiere ventitré anni di vita condotta in balia di me stessa, mi spinsero a seguire il consiglio.
Fuggii.


***


1914, Upleadon, Gloucestershire


Due mesi dopo…

La neve formava una spessa coltre che ricopriva la campagna del Gloucestershire. Quell’anno aveva nevicato molto, come nell’inverno del 1906. Il cielo di quel tardo pomeriggio era di un tenue color malva e il sole, poco più in alto dell’orizzonte, filtrava i suoi raggi attraverso la nebbia lattiginosa delle nuvole, emanando una luce cristallina che si rifletteva sul manto bianco sottostante. Qualche fiocco sporadico danzava leggiadro nell’aria, come senza peso.
Avvolta in una pesante casacca di lana grezza, Victoria avanzava a rilento, con le gambe che affondavano nella neve fin quasi al ginocchio.
Nulla era cambiato. Tutto era rimasto lo stesso.
Eccetto lei.
Ad ogni passo, le sembrava di calpestare un ricordo. La campagna, abbandonata al volere della natura e ai capricci del tempo, era ancora la distesa desolata della sua memoria, abitata solo dagli arbusti raggrinziti e sempre più curvi, e dal fatiscente edificio che dominava la bassa collina. Erano passati otto anni, ma lì il tempo sembrava essersi arrestato, cristallizzato nell’inverno del 1906 come in una piccola parentesi di eternità.
Per un breve istante, un pensiero le balenò in mente e si immaginò ancora quindicenne, più impaurita e meno arida, compiere quello stesso tragitto, calcare quelle stesse orme. Immaginò, come una spettatrice esterna, Victoria e Scarlett, la ragazzina di allora e la donna di oggi, fondersi insieme, mescolare l’incertezza all’intraprendenza, l’ingenua diffidenza all’asprezza, il timore al crudo cinismo.
Gettò un lembo della sciarpa all’indietro, per riavvolgerla attorno al collo, ormai prossima a raggiungere la chiesupola.
Alla fine, aveva ceduto. L’ansia del non conoscere cosa stesse accadendo e da cosa stesse scappando l’aveva condotta a prendere quella decisione; avventata, forse, e rischiosa, sicuramente. Ma aveva smesso da un pezzo di farsi soggiogare dalla paura del pericolo.
Doveva sapere.
E non aveva altro modo di rintracciare lo sconosciuto che l’aveva incitata a scappare, se non lasciando che fosse lui stesso a trovarla. Aveva l’anello, e questo significava che, in qualche modo, sapeva di lei e James. Inoltre, restituendoglielo aveva voluto dirle qualcosa e, sebbene non sapesse cosa, le aveva fatto intendere che era legato a lui. Le aveva lasciato due messaggi, uno esplicito ed uno implicito: la scritta sulla neve – scappa -, e l’anello. La sua traduzione immediata era: scappa da James. Ma non sapeva interpretare se quel “da” fosse un “lontano da” o, al contrario, un… “verso”. L’unico modo per scoprirlo era tornare nell’unico luogo che la legava a lui.
Perché, in verità, una parte di lei sperava ancora che la soluzione fosse la seconda e perché, in verità, una parte di lei non aveva mai voluto fuggire da James.
Il portone cigolò schiudendosi dietro la spinta delle sue braccia. Lo aprì appena quel tanto che le servì per sgattaiolare dentro la chiesa, dopodiché lo richiuse, con un tonfo sordo che fece accelerare il suo battito cardiaco. Si guardò intorno, scrutando nella penombra della navata centrale e constatò - non seppe se con delusione o con sollievo – che era vuota, perlomeno in apparenza.
Tuttavia, era ancora inquieta e l’apprensione le teneva i nervi tesi sino al punto di massima estensione, come elastici in procinto di spezzarsi. Fece qualche passo con scrupolosa circospezione, lanciando occhiate fulminee a destra e a sinistra ad ogni tremolio delle vetrate scosse dal vento.
«C’è nessuno?», chiese, dandosi contemporaneamente della stupida per la domanda. Ammesso che ci fosse stato qualcuno, se era intenzionato a nascondersi non si sarebbe certo palesato rispondendo “sì”.
Avanzò ancora nella navata, prossima ad imboccare lo stretto corridoio tra le panche. All’estremità, l’altare, illuminato da una lama sottile di luce che penetrava da una vetrata in frantumi, era vuoto. Soltanto il vago sospiro del vento aleggiava nell’aria, misto ad una diluita tensione. Procedette di un altro passo, e di un altro ancora, rilassandosi mano a mano.
«Ferma», ordinò all’improvviso una voce, tanto profonda che sembrò essersi levata dall’oltretomba. Victoria sussultò di paura ed un urlo spezzato le morì in gola. Arretrò velocemente, procedendo a tentoni all’indietro, ma, in un battito di ciglia, una scintilla baluginò in fondo alla navata ed un uomo comparve di spalle di fronte all’altare, illuminato dalla flebile luce di un candelabro.
La velocità della sua apparizione le ricordò quella dell’uomo nella taverna di Maud.
Si arrestò a pochi passi dal portone, le ginocchia leggermente piegate come un gatto sulla difensiva. «Chi sei?», gli chiese, imponendo alla voce un tono fermo e sicuro, benché tutt’altro fosse il suo stato d’animo.
L’uomo non si voltò. Rimase, anzi, tanto immobile da ricordare una statua, e per molti secondi tacque. A dispetto della staticità di tutto ciò che la circondava, lei compresa, l’ansia e l’inquietudine incalzavano sempre di più nel suo petto. Dopo quelli che sembrarono interi, lunghissimi ed interminabili minuti, repentino com’era apparso, l’uomo smise di rivolgerle le spalle e si voltò verso di lei.
Victoria sobbalzò, ancora una volta sorpresa da quella straordinaria velocità che incrementava il suo panico crescente. «Chi… chi sei?», provò di nuovo, ma con meno convinzione. Quell’uomo le ispirava tutt’altro che fiducia. Iniziava a ricordare l’allarmante sensazione di pericolo che aveva avvertito alla locanda e l’esatta ragione per cui aveva deciso di seguire il suo consiglio.
Scappa.
Allora più di prima, quell’ammonimento le pulsò nella testa con urgenza quasi dolorosa. Ma i suoi muscoli si rifiutavano ancora una volta di rispondere ai suoi comandi assennati, come pietrificati nella contesa di due forze bilanciate: quella che le urlava di fuggire, e quella che inesorabilmente la spingeva verso l’uomo. Incapace di muoversi, quindi, lo vide prendere il candelabro e avvicinarselo al viso, per farvi luce. «Non mi riconosci?», disse, con la voce strascicata e grave, che, eppure, le solleticò piacevolmente l’udito. C’era qualcosa di terribilmente ammaliante in lui.
Lo scrutò attentamente, con l’intenzione di ravvisare una somiglianza, una qualsiasi somiglianza. Forse fu per questo, o forse fu perché la domanda fece riaffiorare in lei il pensiero che potesse davvero essere lui, o forse fu perché voleva effettivamente che lo fosse. Forse fu perché non cercò di capire a chi somigliava, bensì quanto gli somigliasse, che rintracciò nei lineamenti, appena rischiarati dalla luce fioca, la vaga impressione di quelle stesse tempie larghe, di quel mento sfuggente, di quelle labbra sottili. Benché, razionalmente, non ci fosse più nulla del ragazzo non bello che lei aveva amato, nel viso perfetto dell’uomo.
Era lui?
Come poteva esserlo?
Un fiocco di neve, trasportato dalla corrente che trapelava dallo spiffero della vetrata rotta, danzò nell’aria fino ai pressi dell’uomo, che lo accompagnò con la mano verso una fiamma del candelabro. Quando il fiocco di neve incontrò la tremolante lingua di fuoco, la fiamma sciolse la neve e la neve spense la fiamma.
«Caldo, freddo. L’uno il perfetto negativo dell’altro», lo sentì sussurrare, sommessamente. «Si estinguono a vicenda.»
Sgranò gli occhi e parole simili udite molto tempo addietro riemersero nella sua memoria come tanti spilli acuminati.
Sei come una fiamma di neve, il campo di battaglia di due forze antagoniste. Una fiamma calda e fredda al contempo che arde e si consuma in sé stessa.
«James…», rantolò, compiendo istintivamente qualche passo in avanti.
«Non ti avvicinare!», urlò bruscamente lui.
«James...». La sua voce parve una supplica. «James, sei tu?», chiese, benché ne fosse già incrollabilmente certa. Avanzò ancora, soccombendo alla forza che la esortava ad avvicinarsi a lui. La sensazione di pericolo, sebbene ancora presente, era ormai solo una flebile pressione che la spingeva debolmente in direzione contraria.
«Vattene via!»
«Perché?», mugolò, senza poter comprendere. «Io non… James… perché te ne sei andato… perché adesso…», continuò a farfugliare, confusamente, senza smettere di incedere. Era ormai a metà del tragitto tra l’ingresso e l’altare.
«Non ha importanza!», sbottò rabbiosamente lui. «Perché non mi hai ascoltato? Perché diamine sei venuta qui? Scappa, maledizione!»
La voce rauca si trasformò in un ringhio basso e gutturale che la fece rabbrividire.
«James… cosa…»
Una folata di vento si levò dal corridoio del transetto crollato, turbinando dentro la chiesa. Nel medesimo istante, un urlo dalla ferocia disumana si mescolò al boato assordante delle panche del lato sinistro, scagliate da James contro la parete.
«Scappa!», latrò ancora, mentre brutalmente distruggeva qualunque cosa gli capitasse sotto tiro. «Scappa, maledizione, scappa!», urlò. A dispetto di quelle esortazioni, impiegò secondi infiniti prima di reagire. Poi, avvenne tutto molto velocemente. James annaspava come se stesse cercando di contenere una furia violentissima e fosse sul punto di esplodere. Victoria si lanciò verso le scale dell’impalcatura che distava di pochi passi, la via più breve per uscire dalla chiesa, ma non fece in tempo a saltare oltre la breccia del transetto crollato che James le fu addosso. La schiacciò contro il telo che le impedì di precipitare oltre il bordo del ponteggio e in un baleno le lacerò la casacca. Victoria estrasse dalla tasca un coltello, nel disperato tentativo di difendersi, ma la lama non lo scalfì più di quanto potesse scalfire la pietra; sarebbe stato comunque inutile, perché in un battibaleno James le scacciò il braccio, con un gesto violento che le spezzò l’omero. All’improvviso, i suoi denti affondarono voraci sulla sua spalla e lei urlò di dolore, dibattendosi nel tentativo vano di respingere quel corpo fatto di roccia.
La sua vista cominciò ad offuscarsi, ma, inaspettatamente, Victoria lo sentì riemergere dall’incavo del suo collo ed emettere un altro verso disumano. I suoi occhi erano due tozzi di carbone ardente, e la sua espressione deformata da un’emozione che non somigliava neanche lontanamente alla rabbia, come invece aveva creduto: era dolore. L’espressione di un uomo logorato da fiamme invisibili eppure ugualmente roventi.
Mossa da un’incrollabile istinto di sopravvivenza, lacerò il telo alle sue spalle, con il coltello ancora stretto nella mano. Il loro appiglio si squarciò, Victoria si aggrappò ad un’asta acuminata di ferro per non cadere, mentre James non fece alcunché per evitarlo.
Del sangue iniziò a colare copiosamente dal pugno stretto attorno alla sbarra, ma non badò neanche al dolore. Recuperato l’equilibrio, scavalcò la breccia nel muro e si lasciò precipitare verso il suolo, attraverso l’aria sferzante. Il letto di neve ammortizzò la caduta e immediatamente si rialzò, lanciandosi in una corsa a perdifiato.
Il cuore le martellava nel petto con tale veemenza da squassarle quasi la cassa toracica. Sentiva male ovunque, ma era in grado di concentrarsi solo sul bruciore cocente che si propagava dalla ferita a mezzaluna della sua spalla e dal palmo sanguinante premuto convulsamente su di essa.
Non riusciva a pensare a nulla. Se non a quel dolore inaudito e straziante che era vetro nelle sue vene. Altre urla provenivano dalla chiesa.
Accelerò il passo, ma la neve troppo alta la faceva incespicare continuamente, benché si facesse via via meno spessa. Il profilo del suolo coperto dalla coltre bianca si alzava sempre di più e ad una trentina di metri emergeva la roccia bruna della collina che precipitava sul lago ghiacciato. Ovviamente non si sarebbe buttata, ma anelava a raggiungere il suolo privo di neve che costeggiava il precipizio per scendere il pendio più agevolmente.
Un altro latrato agghiacciante sferzò l’aria. Si voltò di scatto, ma il suo cervello non fece in tempo a registrare la figura nera alle sue spalle e a ordinare alle gambe di correre più velocemente, che James l’aveva già raggiunta.
La scaraventò violentemente in avanti, in prossimità del promontorio, e l’impatto fu meno morbido, perché la neve era ridotta quasi ad uno strato sottile. In un attimo, le fu di nuovo addosso e la inchiodò al suolo, serrando le mani attorno alle sue braccia.
«James! Ti prego!», strillò, dimenandosi inutilmente.
Come una pozza d’olio bollente, la luce del tramonto che si allungava dall’orizzonte lambì i loro corpi e tinse di rosso la neve sotto la schiena di Victoria. I riccioli rossi erano sparpagliati attorno al suo viso di opale e il corpo di James premeva sul suo come quella sera di otto anni prima. Ma un solo cuore batteva convulso stavolta, e James non emanava calore, e nel tremore incontrollabile di lei non c’era desiderio, e il suo cuore non lo implorava affatto di stringerla, ma di lasciarla andare.
James digrignò i denti, forse pensando la medesima cosa; la presa delle sue dita si fece spasmodica e le unghie, come artigli, le lacerarono la pelle delle braccia.
Gridò.
«Mi fai male! Smettila!»
Ancora una volta, James si staccò da lei con un balzo, come scottato.
Nella frazione di secondo che impiegò a rialzarsi e a ricominciare a correre lo vide annaspare in un evidente conflitto interiore, lacerato da forze che lei non poteva ancora comprendere. Eppure sapeva che in un modo o nell’altro non voleva davvero ucciderla. Allo stesso, irrazionale, modo in cui sapeva che nemmeno lei avrebbe mai voluto scappare da lui. Il predatore non voleva cacciare e la preda non voleva fuggire. Che macabro scherzo del destino.
Benché il suo corpo fosse completamente arso da un fuoco che sembrava carbonizzarla dall’interno, arrancò ancora di qualche passo, prendendo quanto più le distanze da James. Poi, il vento, traditore, si levò di nuovo, sferzandole il viso.
Fu un attimo.
Un ringhio straziato sferzò l’aria. Un contraccolpo violento la scagliò di nuovo a terra. James le fu sopra, e i loro corpi rotolarono sul bordo del precipizio. Uno scossone brutale le spezzò qualche costola e la roccia si sgretolò sotto di lei, facendo precipitare entrambi.
Seguì uno schianto assordante. Il fragore lacerante di mille specchi ridotti in frantumi misto allo sciabordio delle acque furono le ultime cose che sentì, prima di essere inghiottita dall’abisso.

Poi, il buio.



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Capitolo 6
*** Epilogo ***


Epilogo


Ti sento arrancare a passi affannati, con la tenacia testarda di un animale braccato ma risoluto a non arrendersi. E’ un’amara tenerezza quella che provo, ascoltando i tuoi respiri ansanti e il battito frenetico del tuo cuore impazzito; un tamburo tonante che celebra da solo il suo requiem.
Non puoi ancora sapere quanto tutto questo sia inutile e vano, ormai. La tua fine sta già bruciando dentro di te, divorandoti dall’interno come un cancro, fatale ed inesorabile. Pulsa nelle tue vene, miscelandosi al corso accelerato del sangue, che prima ti dava la vita e adesso crudelmente te la toglie. Non puoi più fuggire alla morte, Vic. L’ho iniettata nel tuo corpo. Ora, puoi solo morire da umana, o scontare in eterno una condanna di morte perpetua.
Cosa vorresti tu, Vic? Adesso scappi da me, ma cosa faresti se conoscessi il destino dannato che ti attende oltre la salvezza? Mi imploreresti di darti la morte?
Cosa vuoi che faccia, Vic, cos-
Una nuova ondata di desiderio e brama famelica si abbatte su di me, irrorando di veleno incandescente il mio corpo. Ciascuna è alternata a sprazzi intermittenti di raziocinio nei quali la sete si allenta, ma il sollievo aumenta solo la veemenza dell’ondata successiva, che brucia la mia gola arsa e si irradia in ogni infinitesimale anfratto delle mie membra.
Per la prima volta sento di essere io stesso preda della mia indole predatoria, che mi divora come il leone divora la carcassa della gazzella appena vinta. Non sono più in grado di dominare me stesso e, allora, scopro che Victoria aveva sempre avuto ragione. Fuggivo, ogni volta che inseguivo la mia preda; fuggivo, crogiolandomi nella convinzione di starla inseguendo e non imitando. Fuggivo dal sospetto che, se anche avessi voluto, non avrei potuto fare altrimenti. La caccia era l’aguzzino che mi stava addosso come un bracconiere, istigandomi a correre dietro una preda per camuffare il fatto che fossi io stesso la preda. Vittima dell’istinto di cacciare. Ironia della sorte, il mostro in cui mi sono trasformato è il mostro che, intimamente, sono sempre stato.
Avrei voluto risparmiarti questa sorte, ma il filo del tuo destino si è intrecciato inesorabilmente al mio dal giorno in cui ho attraversato l'ingresso di quella chiesa diroccata. Mi ero illuso di poter essere soltanto una parentesi della tua vita, invece sono stato il punto, irrevocabile, che ha segnato lo scoccare della fine. La mattina in cui mi dicesti che saresti uscita per rifornire le scorte di cibo fu l’ultima della mia esistenza da umano. Ero giunto al capolinea senza accorgermene. Il mio principale, quell’uomo sinistro alle cui dipendenze avevo lavorato per più anni di quanti ormai riesca a ricordarne, avrebbe varcato quella stessa soglia oltre la quale ti avevo vista sparire soltanto poche ore dopo. Ho creduto che quello fosse un segno e che tu potessi salvarti, che non fossi nata e non mi avessi incontrato soltanto per scivolare con me nel baratro di quest’incubo. Me ne sono andato come un’ombra al sorgere del sole, senza lasciare traccia del mio passaggio, se non la memoria invisibile di quell’uomo nato sotto la volta di pietra che fu il nostro cielo. Quando abbandonai l’edificio sconsacrato il mio cuore era muto, esattamente come quando vi ero entrato la prima volta.
Mi chiedo per quanto ancora riuscirò a frenare l’istinto che mi lacera, ma il fato sopraggiunge ad abbreviare l’agonia – la mia e la tua -, spazzando ogni mia resistenza. Una folata di vento turbina nella collina imbiancata di neve, sollevando i candidi fiocchi che vorticano su loro stessi, e, in un sol fiato, trasporta a me il tuo odore. Brucia come una vampata. Il lume della mia razionalità si spegne.
In un attimo, è buio, fragore di rocce che si sgretolano sotto l’impatto, caduta libera, ghiaccio spaccato, acqua in frantumi, sangue.

Quando uno spiraglio di luce torna a fendere la bramosia del mostro, del boato resta soltanto l’eco, che si dissolve nell’innaturale silenzio.
Chino a carponi sulla parte rimasta intatta della lastra di ghiaccio, ti guardo, scosso dal brivido – non del freddo, che non posso avvertire, ma del desiderio inappagato. A un metro o due dalle mie ginocchia si apre la voragine che ti ha ingoiato, simile a una bocca spalancata, i cui bordi di ghiaccio, acuminati come denti, sono sporchi del tuo sangue. I massi di pietra, precipitando, hanno sfondato la dura superficie del lago, che adesso è custode del tuo corpo.
Sei bellissima, così congelata nei tuoi ultimi istanti di vita. I capelli scarlatti si aprono in mille fiammelle attorno al tuo viso, come una regale corona di fuoco. Sembri dormire. Le palpebre dolcemente abbassate sugli occhi, le labbra, che il respiro ha appena lasciato, dischiuse in un muto addio. Le tue braccia, lunghe, magre, sottili, come se la pelle fosse già tesa sulle sole ossa, sono aperte, nell’invito di un abbraccio che la morte ha maternamente accolto. Sei bianca, perlacea, quasi evanescente per via delle impercettibili onde che, carezzevoli, lambiscono la tua pelle. Una bambola di porcellana addormentata nell’ultimo sonno. Attorno al tuo esile corpo si snodano sinuosi serpenti vermigli, creati dalle volute di sangue che, sgorgando dalle tue ferite, si disperdono nell’acqua.
Dormi, sotto la lastra di ghiaccio. Dormi, Fiamma di Neve, nella tua bara di cristallo.
E, nel frattempo, io attendo. Attendo di scoprire quale morte ti ha rubato la vita, incerto persino delle mie speranze. È stato il ghiaccio a congelarti il cuore prima del veleno, oppure il veleno ti ha pietrificato l’anima prima ancora che il ghiaccio potesse strapparla al tuo corpo?
Il sole declina ormai ad occidente, come quell’inverno di otto anni fa - quell’inverno che ci ha sposati, quando entrambi eravamo ancora vivi. La chiazza vermiglia che tingeva il paesaggio comincia a ritrarsi, risucchiata dall’orizzonte laddove l’ultimo spicchio infuocato dell’astro affonda nel manto di neve. E la neve torna all’originario candore, man mano che il manto sanguigno la scopre, come sangue aspirato da una bocca vorace.
Quando il sorgere della notte ha assorbito anche l’ultima goccia d’inchiostro scarlatto, soltanto allora i tuoi occhi si aprono. Pozze arse dalla brama di sangue, iridi vermiglie come l’ultima luce del giorno ormai tramontato sulle nostre vite, incontrano le mie, identiche.
Ancora una volta, l’inverno ci è testimone. L’inverno, che aveva suggellato il nostro amore da vivi; l’inverno, che sancisce adesso la nostra unione da immortali.



Era il nostro inverno, ora come allora; e lo sarebbe stato per sempre.









(Senza) Fine.




















L'angolino degli sproloqui inutili
Vi porgo le mie scuse elevate a potenza ennesima per l'incommensurabile ritardo. Mi spiace avervi fatto attendere così tanto proprio quest'ultimo capitolo, che sancisce la fine della storia. Purtroppo la mia connessione ha deciso arbitrariamente di prendersi una luuunga vacanza nei mesi di Agosto e gran parte di Settembre, senza preavviso alcuno (beh, in genere i problemi, di qualsiasi natura, non ti fanno una telefonata prima di arrivare). Ad ogni modo, questa è la fine... o, per meglio dire, l'inizio, visto che le avventure dei nostri spietati vampiri cominciano qui. La fine invece la conosciamo tutti, purtroppo (ç__ç). Non mi resta che salutarvi e ringraziare le persone che hanno letto, poche o tante che siano. Chiunque abbia avuto la pazienza di scorrere queste righe fino in fondo gode della mia sconfinata e sincera gratitudine, insieme a tutti coloro che hanno persino commentato, questa fanfiction e le altre. Grazie di tutto cuore! :*
Un ringraziamento speciale, però, lo devo a beab, che con le sue recensioni mi ha più volte fatto sbrodolare il cuore di gioia. Temo di non poter rendere merito, con un semplice "grazie", all'immensa riconoscenza che nutro nei tuoi confronti, soprattutto in questo momento un pò critico in cui la tua recensione è stata davvero una manna dal cielo. Le tue parole sono forse più di quanto meriti, ma so che sono sincere e questo mi rende così felice che, ora come ora, se ti avessi qui davanti, ti afferrerei e ti strapazzerei di abbracci. Menomale che non so dove abiti! XD
Comunque, se mai dovessi leggere qualcosa di mio non di tuo gradimento, non astenerti dal dirmelo con la stessa sincerità, cosicché io possa migliorarmi. Questo ovviamente vale per tutti.
Ancora grazie e alla prossima,
Fissie =)

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