After Crisis: Selfless

di BaschVR
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The place I’ll return to someday ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo IV ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***



Capitolo 1
*** The place I’ll return to someday ***


After Crisis: Selfless


 
Note iniziali

Salve! Vorrei darvi qualche precisazione sulla long fic che sto per cominciare.
Questa, in realtà, è una storia un po’ vecchiotta pubblicata da me su questo sito all’incirca un anno fa. Era una storia assai strana, a dir la verità, piena di luoghi comuni, oltremodo scontata e prevedibile, ma al tempo stesso singolare (o almeno, io la consideravo così); e per quanto all’epoca mi piacesse, devo ammettere che rileggendola oggi difficilmente potrei non mettermi le mani sui capelli e scappare terrorizzato al pensiero di cosa scrivessi appena un anno fa.
Ma comunque, tralasciando il discutibile stile, devo ammettere che con questa storia ho seguito un processo di formazione davvero straordinario, che mi ha portato in breve tempo a migliorare di molto il mio modo di scrivere (non che adesso io sia arrivato a livelli eccelsi, ma credo sicuramente di cavarmela meglio rispetto ad un anno fa).
Ed è per questo che ho deciso di creare un “remake” per la prima fan fiction che sono riuscito a concludere su questo sito, e che tanto mi ha aiutato a crescere e ad abbandonare il pluri-abusato finale “E vissero tutti felici e contenti”.
Chi ha già letto la versione originale di After Crisis  spero che ritrovi un senso piacevole di Déjà vu, nonostante molti avvenimenti siano stati cambiati: a cominciare dal titolo della storia (in cui adesso figura anche il sottotitolo Selfless, perché in effetti la storia narra appunto della ricerca di sé stessi), per passare dal cambiamento di molti avvenimenti della trama, dall’aggiunta di qualche flashback e dalla modifica del finale (quello di prima era troppo aperto, vorrei dare un preciso punto di vista che aiuti a collegare tutta la vicenda tramite una sorta di cerchio che si chiude).
Al contrario, per chi non ha letto la versione originale, qualche precisazione: Questa fan fiction descrive, seppur in modo piuttosto fantasioso, la catena di eventi che da Crisis Core portò a Final Fantasy VII. Quindi darò una mia interpretazione su cosa successe a Cloud e su come lui arrivò a Midgar dopo la morte di Zack, sul ruolo di Cissnei in tutto questo e su molte altre domande ancora avvolte nell’ombra sugli altri protagonisti della storia.
Se vi ho anche minimamente interessato, vi auguro una buona lettura, altrimenti potrete chiudere la storia e chi si è visto si è visto! XD
Divertitevi! (e scusate le colossali note d’autore!)






Capitolo 1: The place I’ll return someday

C’era qualcosa di ammaliante nell’eterea bellezza di Midgar, la notte. Se ammirata dalle colline adiacenti la città, Midgar appariva come una tentazione, la città utopica, il centro del mondo. Beh, in un certo senso lo era. Ma da quelle colline, si riusciva ad avvertire la poesia di quella città, così unica e inimitabile, ma al tempo stesso banale e scontata. Così amata, ma al tempo stesso anche odiata, dai suoi abitanti.
Una distesa infinita di luci e ombre; i lampioni apparivano simili a lucciole da quella distanza, immobili mentre tutto, attorno a loro, cambiava; i fanali delle automobili, appena visibili, si muovevano per le oscure strade di Midgar, rischiarandole.
Dalle colline, poi, non si avvertivano nemmeno rumori. Non il rombo dei motori delle automobili, né la musica troppo alta di una sporca discoteca del quartiere malfamato della città, né le urla degli ubriachi che venivano cacciati dai locali all’ora di chiusura.
Da quella distanza, Midgar era la città ideale. Le sue luci rischiaravano a giorno il cielo che le stava sopra; i rumori si perdevano nell’aria, sostituiti dal canto dei grilli in estate. All’orizzonte, poteva già scorgersi la rosea aurora, che illuminava Midgar del suo tipico bagliore rosato.
Era la città teatro di drammi, felicità nascoste e di grosse risate; le vite che vi si intrecciavano la rendevano unica, straordinaria, diversa da qualunque altro centro abitato del pianeta. Era una città straordinaria.
Cissnei aveva sempre pensato questo, della sua Midgar. Non era nata lì, ma tuttavia, sentiva di appartenere a quella città dal primo momento in cui vi aveva messo piede, appena bambina, quando aveva oltrepassato le grandi porte della città con la meraviglia dipinta nei suoi grandi occhi nocciola. Ormai non ricordava nemmeno con sicurezza il posto dove era nata; quelle memorie erano state semplicemente sostituite dallo splendore celeste della Midgar silenziosa di quella collina.
Midgar. La sua casa.
La ShinRa. La sua famiglia.
Fino a quel momento era stato tutto così semplice. In effetti, non si era mai resa conto del perché obbedisse alla ShinRa, o del perché si stesse così bene nei Turk. Solo ora capiva che era per riconoscenza, per sdebitarsi con coloro che erano stati tanto generosi con lei. Era stato facile lavorare alle missioni che, in quanto Agente dei Turk, le venivano assegnate; si era fatta parecchi amici, come Reno, Rude, o Tseng; aveva riso insieme a loro, e aveva sempre superato brillantemente le difficoltà che i suoi nemici le avevano piazzato davanti. Aveva ormai perso il conto dei malviventi che erano caduti sotto il suo scarlatto Shuriken. Non aveva mai messo in discussione di fare del bene, che, in effetti, tutta la ShinRa lavorasse solo per fare del bene al prossimo. No, non l’aveva mai messo in discussione.
Almeno, fino a quel momento. Tutto era crollato da quando era successo.
Nulla era più lo stesso da quando Zack era morto.
Perfino in quel momento, su quella collina, mentre guardava la città che amava e che l’aveva accolta, non riusciva più a sentire la magia e la serenità che la vista della Midgar notturna di solito le donava. Tutto appariva così vuoto…
L’aria fresca della notte le solleticava il volto. Alcune libellule volteggiavano libere vicino ad un piccolo stagno, lì vicino, attirate dalla specchio d’acqua che le rifletteva. Nell’aria, un forte odore di fiori, forse di rose. La linea dell’orizzonte si tingeva del pallido colore dell’aurora, e il blu della notte cominciava a lasciare il passo ad un più leggero azzurro, che avrebbe preceduto il giorno vero e proprio. Era quasi l’alba.
Era stata tutta la notte ad osservare Midgar, a sentire i grilli cantare, ad ascoltare la silenziosa melodia delle libellule che danzavano sulla superficie dello stagno. Era stata tutta la notte immersa nei suoi pensieri.
Fu quando le luci di Midgar si spensero, restituendo un po’ di stelle al cielo, che Cissnei sentì alcuni passi alle sue spalle. Passi lenti, controllati, calmi. Passi di un visitatore capitato lì per caso, magari per osservare la splendente bellezza dell’alba infuocata.
Fu solo quando il misterioso visitatore si mise accanto a lei, e quando la luce rosea dell’aurora lo illuminò, che Cissnei lo riconobbe. Avrebbe riconosciuto ovunque la bruna figura che le stava accanto.
“Salve, Tseng” sussurrò, continuando ad osservare il sorgere del sole.
Il Turk chiamato Tseng guardò il profilo della ragazza illuminato dai primi raggi solari, e si scostò una ciocca di capelli dal volto.
“Sapevo che ti avrei trovata qui” disse poi lui, osservandola con attenzione.
“Sono così prevedibile?” domandò Cissnei, con un mezzo sorriso ironico.
“La ShinRa riesce sempre a rintracciare i propri dipendenti” rispose il Turk, senza smettere di osservare il suo pallido viso.
Un sorriso increspò le labbra della fanciulla, che non smise di osservare l’orizzonte incandescente.
Tseng si stupì ad osservare l’alba riflessa nei suoi occhi. Avrebbe solo desiderato che Cissnei lo guardasse. Che lo perdonasse, che non lo giudicasse colpevole per la morte di Zack.
A dir la verità, lui non aveva quasi avuto ruolo nella serie di eventi che avevano portato alla rovina Zack Fair e quell’altro fante della ShinRa che viaggiava con lui. Aveva solo eseguito gli ordini che gli erano stati imposti dai suoi superiori. Ma non era una colpa quella.
D’altra parte, però, era difficile dare la colpa ad una singola persona per ciò che era accaduto. La colpa era forse di Zack e della sua insubordinazione? O dei mille soldati della ShinRa che lo avevano colpito? No. Sarebbe stato troppo facile.
“Ti avevo già visto molte volte andare su questo promontorio. Hai proprio ragione a voler venire qui: la vista su Midgar è splendida” esclamò lentamente Tseng, senza sapere cosa dirle con esattezza. Stava evitando di toccare l’argomento per cui era venuto in realtà, perché sapeva che non sarebbe riuscito a restare calmo in risposta alle accuse che la ragazza gli avrebbe rivolto contro.
“Lo so. Vengo qui da quando avevo 9 anni” rispose Cissnei, ancora con lo sguardo perso tra i primi raggi solari che cominciavano a far risplendere di luce Midgar.
Un silenzio imbarazzante si insinuò tra loro due. Tseng non trovava le parole giuste per cominciare un amaro discorso che, ne era sicuro, non avrebbe avuto nemmeno la forza di portare avanti. Ma fu Cissnei che infine parlò, e dalla sua voce trasparì tutto il disprezzo che in quel momento aveva in corpo.
“Perché sei venuto?” aveva chiesto, guardandolo per la prima volta nei profondi occhi scuri.
Tseng non aveva risposto subito, chiedendosi quali parole fossero più adatta per introdurre quel delicato discorso.
“Vedi” annunciò poi, con voce ferma “Sono stato mandato qui… per portarti via con me” enunciò, cercando di reprimere l’inquietudine che provava attraverso il suo naturale tono calmo e pacato.
“Comincio ad essere un problema per la ShinRa?” chiese Cissnei, incrociando le braccia.
“La cosa è seria! Non ti presenti da tre giorni al quartier generale dei Turk, sai che potresti essere cacciata per insubordinazione?” chiese Tseng, alterandosi più di quanto avrebbe voluto.
Passò un lungo secondo prima che Cissnei rispondesse, chinando lo sguardo verso l’erba verde che ricopriva la scoscesa collina. I suoi occhi individuarono la rugiada del mattino sull’erba, simile a lacrime splendenti alla luce del primo sole.
“Ormai non me ne importa nulla da molto tempo” rispose tristemente, senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi.
“Ma…” esclamò Tseng. Come poteva Cissnei stare voltando le spalle a tutto ciò che era stato suo per una vita? “Cosa diavolo stai dicendo?” sbottò infuriato. “Ho ricevuto il preciso ordine di portarti con me da parte di Scarlet, e sono stato autorizzato anche ad usare la forza se necess…”
Cissnei, lo interruppe, guardandolo fisso negli occhi. “Scarlet? Cosa c’entra Scarlet con i Turk?” chiese, con l’espressione seria, dimenticandosi per un momento del rancore e dell’odio che provava verso l’uomo che le stava davanti e per la corporazione di cui stavano parlando.
Tseng non rispose subito. Sembrava che stesse cercando le parole giuste per spiegare un concetto lungo e complesso senza dilungarsi troppo, come si fa con un bambino. Nascose il suo nervosismo dandosi dei leggeri colpetti sulla giacca, per far scivolare la polvere che durante il viaggio verso il promontorio vi si era depositata. Alla fine fece un lungo sospiro, e si preparò a rispondere.
“Sono tempi duri per la ShinRa. In effetti, possiamo ben dire che navighiamo nel caos. Hollander, Lazard... tutti quanti, sono andati perduti. In seguito alla loro fine, Scarlet e Hojo si sono scontrati per il controllo del Reparto Soldier, del Reparto Turk e di quello Scientifico. Alla fine, Scarlet è riuscita a strappare al Presidente ShinRa un permesso temporaneo per comandare le truppe dei Soldier e dei Turk, mentre Hojo ha ottenuto il controllo del reparto Scientifico. Diciamo che è stata una spartizione equa” concluse Tseng, con una nota di amarezza nella grave voce.
“Scarlet? Ma che diamine crede di fare?” esclamò Cissnei, in preda all’indignazione. “Credevo che il posto di direttore dei Turk sarebbe andato a te!”
Tseng abbassò lo sguardo, senza rispondere alla sua esclamazione. Era chiaro che lo pensava anche lui.
Adesso, il sole illuminava ormai il cielo limpido vicino Midgar. Il bagliore rosato dell’alba era quasi del tutto sparito. Il silenzio della notte, su quella collina, era stato sostituito dal canto degli uccelli, che acclamavano il giorno appena iniziato.
“Vieni con me” sussurrò poi Tseng, dopo qualche minuto passato ad osservare lo spettacolo della Midgar ormai sveglia. “Non mandare tutto all’aria… per Zack. Immagino di sapere quello che provi, ma…”
“No” lo interruppe Cissnei. “Non sai niente di cosa provo. E diciamoci la verità, nemmeno ti interessa. Sei soltanto annebbiato dalla tua posizione, ammettilo! Persino adesso, quando hai visto sfumare davanti a te il sogno di una vita, non hai fatto altro che eseguire gli ordini che gli altri ti hanno dato, coinvolgendo anche me in questa tua follia! No, non verrò con te, mi dispiace” disse la ragazza, con un espressione determinata in volto. Non voleva, non poteva, non doveva più sottostare agli ordini della ShinRa. O almeno, non dopo quello che quest’ultima aveva fatto a Zack. Non avrebbe mai finito di ripeterselo. Lei e la ShinRa avevano chiuso per sempre.
“Non fare la stupida!” le urlò Tseng, contrariato, così forte che alcuni uccelli spiccarono il volo dagli alberi vicini, verso il cielo. “Adesso vieni con me e chiuderemo una volta per tutte questa storia. Anche se provassi a scappare, nel giro di un giorno o due saresti ripresa dalla truppe della ShinRa, e in tal caso, sono sicuro che saresti mandata a marcire nelle prigioni! Fai la cosa giusta. Sii ragionevole”.
Cissnei adesso riusciva a sentire una sottile brezza attraversala, da parte a parte. Non disse nulla, ancora impegnata a rimuginare.
“Forza, andiamo” disse Tseng, in un tono piatto che non ammetteva repliche di alcun genere. Si voltò e cominciò ad incamminarsi alle sue spalle. “Devo ancora andare a sorvegliare l’Antica, e non voglio arrivare in ritardo”.
“Io…” cominciò Cissnei, senza sapere esattamente cosa dire. I suoi occhi andarono involontariamente verso il suo Shuriken, piantato lì vicino, nella brulla ed incolta terra della collina. Un solitario raggio di sole fece splendere la superficie di metallo scarlatto.
Il vento, ancora una volta, le solleticò il volto.
L’aria trasudava del primo tiepido calore del giorno.
E all’improvviso, in preda ad un impeto di follia, o forse di genialità, seppe che cosa doveva fare. Perché quel vento, il sole che splendeva, la bellissima giornata che stava sorgendo, tutto rimandava a quel pomeriggio colorato d’ambra, di parecchi anni fa, che aveva trascorso insieme a lui.
La sua mano si strinse forte all’arma. Il metallo non era freddo come si era aspettata, ma, al contrario, ardeva della stessa fiamma che sentiva dentro di sé. Con precisa determinazione, lanciò lo Shuriken all’altezza della nuca dell’uomo che aveva di fronte.
Tseng, voltandosi nuovamente verso di lei, non si rese nemmeno conto di quello che esattamente successe in seguito: il tempo di avvertire un sibilo fendere l’aria, e già subito dopo si ritrovò lungo disteso, con il viso a contatto con l’umida terra della collina. Non era mai stato un tipo vendicativo, ma mentre perdeva i sensi, non sapendo nemmeno se sarebbe sopravvissuto, decise che gliela avrebbe fatta pagare. Per tutto quello che, in quell’alba macchiata del suo sangue, lei gli aveva fatto passare.
Adesso gli uccellini non cantavano più. Cissnei si avvicinò al corpo esanime di Tseng, e lo osservò da vicino. Le profonde occhiaie, la pelle tirata… tutti sintomi della sua preoccupazione. Probabilmente, neanche lui se la passava bene, in quel periodo.
“Scusami” sussurrò Cissnei. Avvicinò le sue labbra alla guancia dell’uomo, incurante del sangue che la attraversava, e ve le poggiò sopra, appena, sfiorando la sua pelle. Anche se non glielo aveva mai detto, sentiva di volere molto bene a Tseng. Quasi come ad un fratello maggiore. “Perdonami, ti prego” sussurrò ancora, mentre le si inumidivano gli occhi. “Ci rivedremo presto”. Nonostante quelle ultime parole, Cissnei non riuscì a non pensare a quel bacio come ad un Bacio di Giuda.
In un modo o nell’altro, lo aveva tradito. Aveva tradito lui e tutta la sua famiglia.
Forse gli uccellini non cantavano più, né sentiva quella brezza fresca sul suo volto. Ma era comunque ed inequivocabilmente una nuova e bellissima giornata, appena iniziata e, per la prima volta da quando lavorava alla ShinRa, veramente sua.
Libera, mosse alcuni passi nella direzione opposta alla grande città da cui era sempre stata ammaliata ma al tempo stesso prigioniera. Davanti a lei si spalancava una nuova vita, mentre nella sua mente riviveva il ricordo che le aveva data la forza necessaria per cominciare, finalmente, a vivere.






Flashback

Il sole aveva ormai iniziato il suo declino, ben oltre lo zenit, tramontando verso il limpido mare di Costa del Sol. Il cielo, il mare, la sabbia smossa dalle onde, tutto sembrava risplendere sotto lo sguardo ardente del sole.
Un gabbiano volava alto, nel cielo, emettendo con vigore il suo stridulo richiamo; poi si tuffava in picchiata, sull’oceano, alla ricerca di una preda con cui concludere degnamente la giornata.
E poi, urla di bambini che giocavano, il ritmico fragore delle onde che si infrangevano sulla spiaggia dorata, l’odore di salsedine che regnava incontrastato, le risate... quel luogo sapeva di serenità. Dovunque si fosse guardata, non avrebbe visto altro che visi allegri, pronti a dimenticare e a lasciarsi alle spalle tutto ciò che di brutto era capitato nella loro vita.
Cissnei, ancora in costume da bagno, era seduta in riva al mare, osservando le onde tingersi di un bagliore arancio sempre più intenso. Una sottile brezza estiva la rinfrescava dall’afosa giornata che era ormai solo un ricordo lontano.
Le capitava spesso, in quei giorni, di riflettere sui più recenti avvenimenti. La morte di Angeal, la scomparsa di Hollander, l’improvviso congedo di Zack e la sua missione di vigilarlo, lì, sotto il sole cocente di Costa del Sol.
La vita, in quel paradisiaco luogo, in effetti, non era male. Per la verità, non sarebbe stata male nemmeno tra i ghiacci del Nord, se questo avrebbe significato avere Zack al suo fianco. Sentiva che lo avrebbe seguito in capo al mondo. Non avrebbe potuto chiedere di meglio di restare con lui, per sempre.
Ultimamente passavano parecchio tempo insieme. Tseng non amava particolarmente il sole, e quindi usciva dalla sua camera in albergo molto di rado. Di conseguenza, Cissnei passava gran parte della giornata da sola con Zack, a parlare e ridere tra una nuotata e l’altra. Aveva imparato molte cose nuove sul suo conto, e non passava giorno in cui non smettesse di apprendere su di lui.
Zack sembrava felice e rilassato, in quel luogo. Probabilmente doveva piacergli molto. Eppure, una nota di malinconia e di tristezza aleggiava ancora nei suoi occhi. Aveva l’aria di un ragazzino costretto a crescere contro la sua volontà. Aveva perso Angeal, il suo mentore, forse la persona che significava di più per lui; e questo lo aveva cambiato. Lo aveva reso più… adulto. O forse l’aveva solo reso più consapevole di ciò che significava essere vivi, in quel mondo. Il poter sparire in un lampo, nonostante fama, onore, rispetto… e rimanere solo un ricordo. La morte è sempre un’esperienza drammatica.
Un’onda si infranse fragorosamente davanti a lei, riportandola davanti a quel magnifico tramonto. Era così bello quel luogo... sarebbe rimasta lì per sempre, se ne avesse avuto la possibilità. Il color ambra acceso del sole le illuminava il viso. Il mare era una grande distesa infuocata, simile a lava bollente; e la spiaggia deserta era l’argine che impediva all’oceano di invadere la terra.
“E’ davvero meraviglioso, vero?” chiese una voce alle sue spalle. Fragore di passi, dietro di lei, che smuovevano la sabbia.
“Zack!” esclamò Cissnei, voltandosi verso il ragazzo appena arrivato. “Non ti avevo sentito arrivare, scusami”.
“Nessun problema” disse il ragazzo, sedendosi accanto a lei. “Eri troppo rapita dalla bellezza di questo tramonto?” chiese, perdendo il suo sguardo cristallino tra le onde ramate dell’oceano.
Cissnei si ritrovò a sorridere. Zack riusciva sempre a metterla di buon umore, qualunque cosa dicesse. “Probabile” si ritrovò a rispondere, prendendo una manciata di sabbia con la mano destra. “Trovo che… faccia riflettere.”
Nessuno dei due parlò per qualche minuto. Cissnei giocherellava con la sabbia che aveva sulla mano, osservandone i meravigliosi riflessi che donavano gli ultimi raggi di sole della giornata. Zack invece guardava le nuvole rosate che, in lontananza, si perdevano nella luce abbagliante del sole.
“Va tutto bene?” chiese d’un tratto Zack, posando il suo sguardo sul viso della ragazza.
Un gabbiano volò alto nel cielo, verso la costa. Cissnei si mise ad osservarlo, prima di rispondere. “Si, perché?”.
“Non so... sembri… pensierosa?” azzardò Zack.
Cissnei incontrò gli occhi del ragazzo con i suoi, sorridendo dolcemente. “Beh… in effetti, si, stavo pensando”. Di nuovo lesse quella tristezza attraversare lo sguardi limpido del ragazzo e, costernata, abbassò lo sguardo verso la sabbia dorata.
“Non è facile godersi una vacanza del genere cercando di immaginare cosa stia succedendo lì fuori” cominciò Zack, con lo sguardo nuovamente fisso al tramonto. “Io continuo a pensare in che difficoltà deve essere in questo momento la ShinRa, ad Hollander, ad…”
“…Aerith?” chiese Cissnei, divertita.
Zack si ritrovò un po’ imbarazzato. Le guance si imporporarono, mentre farfugliò “Beh… si… anche…” .
“Tranquillo, è naturale il fatto che tu la pensi!” esclamò la ragazza, assaporando la brezza di mare che in quel momento si era alzata. “Non hai nemmeno avuto il tempo di salutarla... immagino si stia chiedendo che fine tu abbia fatto!”
“Si, forse” esclamò Zack, con un espressione colpevole in volto.
Cissnei non poté fare di rinnovare la sua cristallina risata, ancora una volta,  sogghignando della sua preoccupazione. “Tranquillo” disse poi, non appena l’eco delle sue risate si fu spento nella tiepida aria del tardo pomeriggio. “Sono sicura che se tiene davvero a te, lei capirà”.
Ormai il sole stava tramontando oltre il vasto oceano. Il cielo si tingeva del viola del crepuscolo. Un'altra afosa serata stava per arrivare.
“Sai che ti dico?” disse poi Zack, posandole una mano sulla spalla. “Forse dovremmo davvero fare quello per cui siamo stati mandati qui. Una vacanza. Non è difficile, no? Basta solo... divertirsi! Ormai siamo qui da due settimane, non manca molto prima che ci richiamino in servizio… tanto vale utilizzare questo lasso di tempo che ci rimane cercando di rilassarci il più possibile, giusto? Allora dimentichiamoci dei nostri problemi! Pensiamo solo…” e si interruppe, guardando la linea in cui il mare e il cielo si fondevano “… a questo luogo meraviglioso” concluse, sospirando.
Cissnei poteva sentire la morsa gentile della mano sulla sua spalla. Era un contatto che trasmetteva calore, affetto, determinazione. Stavolta gli era vicino come non mai.
“E’ vero, quelli che stiamo vivendo sono dei giorni stupendi” rispose la ragazza con un sorriso, scostandosi una ciocca scarlatta dal viso. “Sai,” aggiunse poi, mentre gli ultimi raggi del sole si affievolivano oltre l’oceano. “questo è il posto dove mi piacerebbe tornare, un giorno”.
Zack la osservò, curioso.
“E’ così strano?” domandò Cissnei, fissandolo a suo volta nei luminosi occhi azzurri. “Difficilmente rivivrò un’esperienza del genere. Me lo sento. Però… non so, ma il sole, il mare, la gente che ride… qui si respira un’altra atmosfera rispetto a quella che c’è alla ShinRa. E poi, il poter stendersi qui, senza preoccupazioni, a guardare il cielo attraversato dalle nuvole, o le stelle, la notte… è tutto diverso. A Midgar non si riescono a vedere nemmeno le stelle. O almeno, non dall’interno della città. Troppe luci, credo”.
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli scuri, sorridendo. “Non è strano per niente. Anzi, sai che ti dico? Questo è il luogo dove ritorneremo, insieme, quando le cose alla ShinRa si saranno sistemate!”
Cissnei si ritrovò contagiata dalla serenità che emanava Zack. “Non dimenticare di portare anche Aerith, però...”
“Già!” esclamò Zack, ancora più eccitato per il progetto. “E tu di portare... ehm…”
Il ragazzo la guardò, incerto su che nome pronunciare. Cissnei abbassò lo sguardo, per non far notare gli occhi pieni di lacrime.
“Di portare… Reno?” concluse Zack, con un’occhiata dubbiosa.
“Reno?” chiese Cissnei, osservando la baia per non incrociare il suo sguardo.
Zack sembrava parecchio imbarazzato. “Beh, vedi... è da tanto che ti ronza intorno, quindi pensavo che magari, anche tu…”
“Che cosa?” chiese Cissnei in tono divertito. “No… non credo di provare qualcosa per Reno! E’ soltanto un caro amico per me! E poi non è vero che mi ronza intorno!”
“Ma come! Bisognerebbe essere ciechi per non vedere come ti scorrazza intorno!”
“Ma no, te lo stai inventando!” 
“Se lo dici tu…” sbuffò Zack divertito, alzandosi. “Il punto è che potrai invitare chiunque ci sarà nella tua vita in quel momento! Ora, entriamo? Comincio ad avere fame!”
“Vengo tra un minuto” rispose Cissnei, ancora seduta sulla riva del mare sempre più scuro sotto l’ormai violaceo cielo.
“Il luogo dove ritornerò un giorno? E’ forse questo?”.
La risposta era implicita persino nel ritmico rumore delle onde. Sarebbe stata lei a decidere cosa fare nel futuro.

Fine Flashback





Reno sbadigliò sonoramente, mentre misurava a grandi passi il perimetro dell’edificio che proteggeva ormai da parecchie ore. Qualche timido raggio di sole si insinuava tra le fenditure del piatto, per poi posarsi sullo stretto sentiero che stava sorvegliando. Alle sue spalle, si stagliava verso l’alto una chiesa abbandonata.
Dovevano essere parecchi anni che quella chiesa non veniva più utilizzata. Lo stile della struttura era gotico, ma al tempo stesso un po’ grezzo e poco lavorato. Gran parte dei vetri delle finestre erano rotti, le pareti erano state corrose dal tempo e dall’usura.
Controllò nel suo orologio l’ora. Le 7:31 del mattino. Dove diamine era finito Tseng? Avrebbe dovuto essere lì da almeno mezz’ora! Eppure non arrivava nessuno, e lui era ancora lì, a sorvegliare l’Antica nonostante il suo turno fosse già finito da un pezzo.
Ispirò l’aria fresca della giornata appena iniziata, ripercorrendo col pensiero la notte appena trascorsa. A quanto pare, Aerith aveva deciso di dormire in chiesa, quella notte, probabilmente per riuscire a vedere il cielo sopra di lei, attraverso il tetto fatiscente del luogo di culto. In verità, il  compito di Reno non era stato molto difficile; gli era bastato appoggiarsi ad una delle pareti in pietra della chiesa ed attendere un nemico sconosciuto, senza nome né volto, che mai sarebbe arrivato a disturbare la quiete di quella notte. Quello che era stato complicato e che aveva richiesto una notevole forza di volontà da parte sua, era stato il trattenersi dal lasciare la postazione per correre da lei.
Una notizia era giunta, un paio di giorni prima, alla ShinRa. Il ritrovamento di Zack Fair. Morto. Ucciso dalla sua stessa famiglia.
Era stato un duro colpo per tutti loro. Lui stesso conosceva Zack, avevano affrontato missioni insieme, condiviso opinioni, pareri, dolori; lo aveva considerato una persona fidata, un alleato. Ma in un attimo, tutto ciò era svanito. Seppellito dalla misera fine di un uomo che forse non era suo amico.
In quel tragico quadro, però, la persona che ne aveva sofferto di più era stata Cissnei. Si era estraniata da tutti ormai da un paio di giorni; nessuno aveva idea di dove fosse finita. Rude gli aveva detto di lasciarle tempo, di non cercarla, di non fare assolutamente nulla che andasse al di fuori della solita routine di ordini della ShinRa; eppure, non era così semplice distrarsi. Ogni momento poteva essere quello decisivo. E se Cissnei fosse fuggita, per sempre? E se non si fosse mai più fatta trovare dalla ShinRa? Non poteva permetterlo. Avrebbe voluto trarla a sé, abbracciarla, dirle che per lei era importante; e poi baciarla, farle capire i suoi sentimenti, stare con lei, per sempre. Ma se Cissnei se ne fosse andata, nulla di tutto questo si sarebbe avverato. Mai.
Le 7:34. Tseng era andato a cercare Cissnei per ordine di Scarlet. Dove diamine era finito? Sarebbe dovuto tornare, ormai. Dopotutto diceva di sapere dove fosse Cissnei. E poi sarebbe dovuto venire lì per dargli il cambio nel controllare Aerith. Perché diamine tardava?
Basta. Se solo avesse tardato un altro minuto avrebbe lasciato Aerith in balia del suo destino. Non gli importava niente di trasgredire gli ordini. Trovare Cissnei era senz’altro la sua priorità.
Stava per muoversi dalla sua postazione, quando sentì il rumore di passi sull’asfalto coperto da un sottile terriccio. Tseng stava camminando verso di lui, l’espressione seria, i vestiti sporchi di fango e con un lungo taglio che gli sfregiava il volto, diagonalmente, da cui, copioso, fuoriusciva sangue dall’intenso colore scarlatto.
Mentre con una mano si tamponava la ferita, con l’altra fece segno a Reno di avvicinarsi.
“Ma che diavolo ti è successo? Sembra che un camion ti sia passato in testa!” esclamò il ragazzo, osservando attentamente la ferita che l’uomo esibiva al mondo.
“Fa’ silenzio! Hai qualcosa per tamponare il sangue?” domandò sbrigativo Tseng, con un tono freddo e distaccato.
Reno cercò nelle proprie tasche, rivoltandole. “No, mi dispiace” rispose poi, constatando di non avere nulla che facesse al caso di Tseng.
“Non importa” sussurrò quello in risposta, sfilandosi la giacca d’ordinanza dei Turk e rimanendo in camicia bianca e cravatta.
“Adesso vuoi dirmi che è successo?” domandò nuovamente Reno, guardandolo in attesa di una spiegazione.
Tseng non rispose, limitandosi a tamponare il volto con la giacca.
“Quello non andrà via facilmente” borbottò pensieroso Reno, indicando il sangue ormai raggrumato sul viso di Tseng e lo sporco sulla giacca.
“Ma mi renderà più spaventoso, rendendo minimo il rischio di attacco da parte di un nemico” concluse ironico Tseng.
Attorno a loro, i Bassifondi di Midgar stavano svegliandosi; il brusio di centinaia di voci al mercato si era fatto più forte, incrementando sempre più, ogni minuto che passava.
“L’hai trovata?” chiese poi Reno, titubante. Sapeva che Tseng aveva capito a chi si riferiva.
Senza rispondere, l’uomo fece segnò con la testa di sì.
“Ma...!” esclamò Reno. Dentro di lui, fu come se un macigno si fosse disciolto nell’etere. “E sta bene? E’ ferita? Dove…?”
“E’ scappata” esclamò Tseng, senza muovere un muscolo, con lo sguardo fisso in un punto non  precisato davanti a lui.
Reno non comprese appieno il suono di quelle parole, inizialmente. Esse riecheggiarono vacue e prive di significato per la sua mente, senza trovare un filo logico che le interpretasse nel giusto modo. Successivamente, la consapevolezza della disgrazia accaduta lo colpì in pieno, con la forza di un mare che rende naufrago l’uomo.
“Scappata? Come sarebbe a dire scappata?! E tu non gliel’hai impedito?!”
Tseng indicò lo sfregio sul volto, spazientendosi.
“E perché diamine non l’hai inseguita?!” urlò Reno, suscitando l’indignazione di alcuni piccioni lì vicino, che volarono via spazientiti.
“Perché le direttive per la missione sono cambiate” rispose Tseng, con il suo solito tono calmo e distaccato. Reno ebbe voglia di lanciargli un pugno e farlo sanguinare ancora di più. “Ho ricevuto da Scarlet l’incarico di badare ad Aerith”.
“Che cosa?” sbottò Reno, contrariato “Quella stupida non ha mandato nessuno alla ricerca di Cissnei?”
“Ehi, ti ricordo che quella stupida è il nostro nuovo capo,” rispose Tseng “che a proposito, per la tua gioia, ha già dato disposizione affinché un Turk la riporti indietro”.
“Bene” disse Reno, un po’ imbarazzato dopo la figura che aveva fatto con l’altro. “Chi ha scelto?”
Tseng lo guardò, inarcando leggermente le sopracciglia.
“Te” disse poi, tranquillamente, continuando a tamponarsi la ferita.
“Che cosa?! E perché mai avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Io…”
Tseng lo prese per un braccio, forte, bloccandogli quasi la circolazione. “Tu cosa? Non era forse questo quello che volevi? Non stavi forse mollando tutto per andare a cercarla?!”
“Ahia, mi fai male!” esclamò Reno, liberandosi dalla presa e massaggiandosi il polso e l’avambraccio. Ma che aveva Tseng? Sembrava come... fuori di sé.
“Scusami. Non intendevo farlo…” esclamò subito dopo Tseng, confuso ed assente al tempo stesso. A Reno sembrò come impazzito.
“E’ tutto a posto… tranquillo” sussurrò poi, mentre guardava i segni rossi che le sue dita gli avevano lasciato. “Vado alla ShinRa per avere le direttive necessarie per la missione, poi partirò subito”.
Si voltò e, a grandi passi e superò l’ombra che la chiesa proiettava davanti a sé. Mentre si incamminava a passo svelto verso una nuova missione, si chiese se fosse saggio lasciare uno Tseng in quelle condizioni insieme ad Aerith.
“Trovala!” esclamò una voce alle sue spalle, abbastanza forte affinché potesse sentirlo. Vide Tseng rivolgergli un breve cenno di saluto, con un sorriso mascherato dalla giacca che si premeva sul viso.
Reno non riuscì a trattenersi, e scoppiò in una fragorosa risata che risvegliò l’ambiente circostante. No, non riusciva ad arrabbiarsi con quello che considerava come il suo saggio fratellone. Nonostante tutto quello che era successo, o quello che sarebbe stato in futuro, il ragazzo capì di non aver perso ancora nulla. Avrebbe ritrovato Cissnei, finalmente, e poi sarebbero stati insieme. E il fantasma di Zack Fair sarebbe svanito, prima o poi.
Fece l’occhiolino a Tseng e, mentre lo salutava, si disse che tutto era ancora da decidere, e che il gioco era appena iniziato.


Fine Capitolo 1


Ed ecco qui il primo capitolo di questa fan fiction. Cosa ve ne pare? So che in pratica non accade quasi nulla, ma questo capitolo serve da base per i prossimi, che vi prometto saranno pieni di avvenimenti importanti ai fini della trama. Mi rendo conto che Cissnei, inizialmente è un tantino fuori di sé, ma non ho voluto mettere OOC negli avvisi proprio perché in effetti la ragazza è distrutta dalla morte di Zack, ed e quindi naturale che si comporti così. Stessa cosa per Reno, che qui, a quanto pare è preoccupato per la sua Cissnei e quindi non è molto giovale (qualcuno mi ucciderà per l’aggiunta del potenziale pairing Cissnei x Reno, ma sorvoliamo!).
E veniamo adesso alle dediche e hai ringraziamenti: dedico questo capitolo al mio amico Bankotsu che oggi 28 Luglio compie gli anni (234 anni esatti, mica pochi!) e lo ringrazio per lo stupendo banner da lui creato che potete ammirare ad inizio pagina! Grazie Bank!
Spero che il capitolo piaccia, poiché personalmente non ne sono molto convinto, secondo me avrei potuto anche fare di meglio… spero di migliorare col passare dei capitoli!
Un’ultima nota, prima di lasciarvi: la velocità d’aggiornamento non è proprio la mia principale caratteristica. Essendo impegnato con più long fic diverse, inoltre, credo che passerà qualche mese prima che io aggiorni nuovamente... spero comunque di fare in fretta!
Al prossimo capitolo! Ciao!


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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo 2

Polvere. Nella vaga penombra della stanza, la polvere eterea era l’unico elemento che traspariva attraverso i pallidi raggi di luna che entravano dalla finestra. Sembrava brillare, fugace, per poi disperdersi impetuosa tra le ombre, come resti di una nave naufragata che svaniscono tra i flutti perpetui dell’oceano.
Si mosse lentamente nel buio della sua camera. Arrivò davanti alla finestra e poggiò una mano contro la fredda superficie lievemente incrinata, che da anni era la sua protezione contro l’oscurità della Midgar notturna. L’unico modo per lasciare fuori le ordinarie  storie di massacri, le sofferenze, le colpe di una città antica come il mondo e che tesseva la propria realtà a spese di coloro che vi vivevano. Nel silenzio aprì la finestra, lasciandola cigolare.
La mezzanotte era passata da un pezzo e, già da tempo, il sole era tramontato oltre le colline vicino Midgar. Ci mise un po’ per abituarsi all’oscurità che permeava ogni vicolo dei bassifondi, ma alla fine i dettagli di quelle strade, che conosceva così bene, riemersero pur restando nell’ombra, celati dalla mano di un artista che ne tracciava sbiaditi contorni. Riconobbe le strade, i viali, le varie forme dei detriti accumulati dal tempo; percepì la gente, o la sua assenza, pur non riuscendo a vederla.
Più avanti si intravedevano le luci di alcuni lampioni, fari nell’oscurità, che illuminavano le strade principali che collegavano i vari Settori di Midgar tra loro. E poi, oltre le luci, c’era il reticolato di strade e di case che, come una macchia d’olio, si estendeva fin dove arrivava lo sguardo; e infine, in lontananza, le onde del mare sulle quali si rispecchiava confusa la figura della luna.
Distrattamente si passò una mano tra i capelli, per ravviarli, poi guardò il letto sfatto sul quale non era riuscita ad addormentarsi nelle ore precedenti. Impetuosi pensieri l’avevano distratta, togliendole il sonno. Si affacciò alla finestra, ripercorrendo con lo sguardo le vie che abitualmente attraversava nella sua vita quotidiana.
Poggiò il gomito sul davanzale, taciturna, osservando la città che in ogni istante si rinnovava davanti ai suoi occhi, simile al flusso dei suoi pensieri.
In quegli ultimi anni s’era spesso stupita di come non fosse mai riuscita davvero a liberarsi dalla sensazione di attesa che quotidianamente l’attanagliava. Lentamente, i ricordi di quei giorni erano cominciati a sbiadire, come pagine consunte di un capitolo ormai chiuso della sua vita. Ogni tanto, mentre camminava per le vie della città, le sembrava quasi di vederlo: ma la verità era che il dolore della perdita non si era mai attenuato, ma anzi, era stato alimentato dalla stessa speranza che gli impediva di credere che Zack fosse morto.
Pensava spesso a lui. Pensava alle ottantanove lettere che gli aveva mandato, e alla novantesima, che aveva avuto tra le mani quel pomeriggio, e che sperava lo avrebbe raggiunto, riuscendo dove tutte le altre avevano fallito. Pensava a come non avesse ancora sue notizie, e si chiedeva cosa gli fosse successo, cosa l’avesse trattenuto lontano da lei per così tanto tempo. E nonostante i mesi, le stagioni e gli anni che passavano, lei continuava a pensare a quando sarebbe tornato, magari alle soglie di una tranquilla estate, in cui, con passo stanco, avrebbe oltrepassato la porta di quercia della chiesa e, come al solito, le avrebbe sorriso.
Lui sarebbe tornato un giorno. Lo sentiva.
O forse, più semplicemente, lo sperava.
Si alzò e prese la novantesima lettera che aveva scritto poche ore prima, in cui fiumi di parole scorrevano impetuosi sul foglio. Si disse che quella sarebbe stata l’ultima che gli avrebbe scritto, ma dentro di lei sapeva già che non avrebbe mantenuto quel semplice proposito che ogni volta si raccomandava di seguire.
Attraversò a passi lenti la stanza, cercando di non far rumore per non svegliare la madre nella camera accanto; aprì la porta e la richiuse alle spalle silenziosamente, facendola aderire allo stipite. Scese con prudenza le scale, quasi corse verso la porta d’ingresso e, spalancandola, si ritrovò all’esterno, a respirare l’aria fresca della notte fonda.
Dovunque il suo sguardo si posasse, non vedeva altro che l’oscurità di quei vicoli malfamati e spogli, tetri a quell’ora della notte. Diede inavvertitamente un calcio ad una lattina, e il rumore secco risuonò per decine di metri intorno a lei, amplificato dal silenzio.
Forse non era stata un’idea così geniale uscire a quell’ora, si ritrovò a pensare mentre si guardava intorno circospetta. Tuttavia, il tragitto che doveva compiere non era molto lungo. O almeno, così pareva di giorno.
La notte, a Midgar, era carezzevole, ammaliatrice, suadente; una nuova città sorgeva, al tramonto, ed anche se le strade, le vie e le baracche rimanevano le stesse, qualcosa cambiava: la luce spariva, e con essa anche le persone e la vita di quei quartieri; e senza la sua anima, la città che si levava sul far della sera appariva spoglia, vuota, esanime. Ed era in quel momento che la città sorgeva, o forse svaniva, inghiottita dalle tenebre.
Fece qualche altro passo, aguzzando la vista oltre quei vicoli, finché non fu irradiata dalle luci dei lampioni della via principale. Chiuse gli occhi, istintivamente, per schermarli da quell’improvvisa aggressione; dopo qualche secondo li riaprì, e a passo svelto percorse il lungo viale che portava alla fine del Settore 5. Già da lì riusciva a intravedere le alte e semidiroccate  guglie della sua destinazione, che svettavano sugli edifici bassi delle costruzioni accanto a lei. Quando si ritrovò davanti alla chiesa, lasciò che le sua mani aderissero alla maniglia e che, aprendosi, il portone di quercia scivolasse sui suoi cardini, cigolando. Richiuse la porta alle sue spalle, con un piccolo tonfo, e si incamminò verso l’abside semidistrutto di quello che da anni era diventato il suo santuario e rifugio. Raggi di luna illuminavano fiocamente il luogo, filtrando dalle parti in cui il tetto era ceduto;  in basso, i fiori che aveva coltivato durante quell’anno si estendevano rigogliosi, pieni di vita, muovendosi al soffio degli spifferi che attraversavano le fredde mura.
Si sedette in mezzo al crocevia, là dove il parquet della chiesa finiva ed il dislivello nel quale coltivava i fiori iniziava; in mano aveva ancora la novantesima lettera, canale di speranza o forse solo di illusione, e nella testa una grande quantità di pensieri, che si materializzavano in ricordi lontani che una volta, in quel luogo, erano stati realtà.
Spesso gli pareva quasi di intravederlo, nell’ombra dietro agli alti pilastri in marmo, mentre sorrideva, o esplorava la chiesa, strascicando i piedi e tenendo lo sguardo sull’alto soffitto semi diroccato. Non parlava, poiché Aerith si era ormai dimenticata che suono avesse la sua voce, e dopo un po’ semplicemente si dileguava inghiottito dall’oblio, ogni volta sempre più sfocato, come se la sua memoria, giorno dopo giorno, lo stesse allontanando, facendolo scivolare dalla sua mente e dai suoi ricordi.
E mentre rifletteva su Zack, alle sue spalle udì dei passi. Calibrati, lenti, con un ritmo costante che non veniva mai variato. In quella notte così silenziosa e al tempo stesso invadente, quei passi avevano spezzato la catena di pensieri che si diramava da quando il sole era tramontato dietro i monti che circondavano ad ovest la città.
Si voltò, e riconobbe subito il volto del suo visitatore. Dopotutto, avrebbe dovuto immaginarselo.
“Non sei a casa” asserì lui, avvicinandosi e mettendosi di fianco a lei, osservando l’erba che cresceva ai loro piedi.
“Non sono la sola” rispose Aerith, accennando un sorriso sul volto che fino a pochi attimi prima era invaso da una smorfia pensierosa. “Sei in servizio?”
“Ovviamente” confermò Tseng, atono, senza scomporsi.
Passò un momento di silenzio, in cui nessuno dei due proferì parola.
“Come va con la ferita?” chiese infine Aerith, dopo un po’.
L’uomo si portò automaticamente le mani al volto, nel punto in cui, ormai quasi ventiquattro ore prima, Cissnei l’aveva sfregiato. Percorse con le dita il tratto nel quale si estendeva il profondo taglio, con leggerezza, percorrendo la linea dei punti di sutura.
“Va bene” rispose con sincerità, perché effettivamente parte del bruciore si era affievolito durante il corso della giornata.
Aerith lo osservò attentamente, stringendo gli occhi. “Perlomeno non sei più coperto di sangue!” concluse dopo qualche secondo. Gli lanciò ancora qualche fugace occhiata, poi aggiunse, divertita: “Posso sapere come…?”
“No” rispose Tseng, imperturbabile.
“Ma se non mi hai neppure fatto finire la frase!”  esclamò Aerith, delusa.
“La risposta è comunque no!”
“Beh, ma…”
“No” la interruppe di nuovo l’uomo.
“D’accordo, d’accordo!” rise Aerith, alzandosi e muovendosi per alcuni passi lungo la navata della chiesa. Guardò ancora una volta la lettera che teneva tra le mani, e si costrinse a non pensare nuovamente a lui.
“E’ una storia buffa?” riprese, cercando di non dare peso al pezzo di carta che stringeva tra le dita.
Tseng la guardò come se fosse matta. “No!” rispose, come se avesse pronunciato chissà quali assurdità.
“Ma “No” è l’unica parola che conosci?”
“No!”
“Eddai, è buffa?”
“Non credo.”
“Io dico di si, altrimenti me l’avresti raccontata!” disse Aerith, imbronciata.
“Ti ho già detto che non lo è!” gli rispose Tseng atono.
“E allora che motivo hai per nasconderla?”
“Affari miei.”
“Non potresti inventare una bella scusa almeno?”
“No!”
“Va bene…” esclamò la ragazza, chiudendo la conversazione. Ritornò accanto a lui, sedendosi sul polveroso parquet della chiesa e osservandolo.
“E adesso cosa c’è?” chiese Tseng, sospirando e pentendosi di non aver dato un taglio netto alla conversazione fin da subito. Purtroppo, Aerith era fatta così, e sapeva che, una volta imbarcatasi in un’impresa, difficilmente demordeva.
Fuori s’era alzato il vento. Lo sentirono ululare, caustico e sferzante.
Aerith sorrise, e non rispose alla domanda dell’uomo.








Nonostante fosse ancora notte fonda, la chiesa non era poi così buia. Si era allontanato dall’abside dell’edificio, e adesso si aggirava silenzioso tra le colonne, ammirandone le fattezze. Gettò distrattamente uno sguardo ad Aerith, per controllare che fosse ancora dove il suo sguardo l’aveva lasciata l’ultima volta. Rassicuratosi, lasciò vagare la vista sulle travi portanti semidistrutte, smarrito nei suoi pensieri.
Non aveva avuto nessuna notizia di Reno durante il giorno che era appena trascorso, ma l’ultima volta che l’aveva visto, quasi ventiquattro ore prima, sembrava essere quasi fuori di sé. Sospirò, ripensando alla missione che era stata affidata da Scarlet al giovane Turk.
Trovare Cissnei. Riportarla indietro.
Passò una mano sulla ferita, ancora fresca. Si chiese dove fosse la ragazza. Subito dopo essere stato attaccato aveva perso i sensi, e non era stato capace di fermarla.
Aveva aperto gli occhi, tremando, sbattendoli più volte. Quando si era accorto di cosa fosse successo, si era alzato di colpo, procurandosi un’acuta fitta alla tempia. S’era passato una mano sul volto, percorrendo il solco che lo Shuriken di Cissnei aveva lasciato su di lui. Poi, alzando lo sguardo sull’orizzonte su cui stava sorgendo l’alba, aveva compreso di non aver compiuto la missione che la nuova direttrice, Scarlet, gli aveva assegnato.
Non era stata un’amichevole chiacchierata, quella che lui e la donna avevano avuto al cellulare subito dopo.
“Sai perché non sono minimamente stupita?” aveva domandato sardonica lei, non appena l’aveva informata sugli ultimi sviluppi della faccenda.
Non aveva risposto.
“Ho sempre pensato che i Turk non fossero altro che un branco di mollaccioni incapaci. Il più indisciplinato tra i gruppi d’assalto della ShinRa, il primo che compare in percentuale agli imprevisti durante le missioni…”
Tseng era rimasto in silenzio, stringendo la presa della mano attorno all’apparecchio.
“Insomma, una vera e propria palla al piede per la ShinRa Corporation” aveva continuato lei, non riuscendo a non nascondere un ghigno di soddisfazione attraverso la sua voce. “Ma ora che mi trovo temporaneamente a ricoprire l’incarico di comandante della sezione , capisco che il mio giudizio era errato. Non è solamente un mio pensiero, perché i Turk sono” e sottolineò il verbo con enfasi “un branco di mollaccioni incapaci. La mancanza di disciplina è in effetti anche la vostra rovina.”
Anche questa volta non aveva risposto, mentre la donna si compiaceva del proprio giudizio con una risata. Ricordava di aver sentito l’odode della terra bagnata. Probabilmente era piovuto da poco.
“Tseng?” lo chiamò Aerith, voltandosi.
L’uomo si destò dalle sue riflessioni. Era quasi l’alba.
“C’è qualcosa che non va?”
Sospirò. “Stavo solo pensando” rispose, atono. Sentiva ancora la voce della direttrice sibilargli in testa.
“Sembravi molto serio” constatò Aerith, fissandolo con attenzione e avvicinandosi. “Sei sicuro che vada tutto bene?”
Tseng ci mise un po’ a rispondere. La tempie gli pulsavano ancora terribilmente per via della risata stridula che si perpetuava all’interno della sua testa. “Sì, è solo un periodo difficile per tutta la ShinRa” disse poi, lasciando che la sua mano ancora una volta scivolasse lungo la ferita chiusa.
Aerith non rispose. Sapeva che l’uomo non le avrebbe mai detto più di tanto, quindi non indagò oltre nei suoi pensieri. Mise una mano in tasca e la strinse intorno alla lettera, lasciando che scivolasse lungo il foglio ruvido. Lo tirò fuori per osservarla ancora una volta, lo sguardo chino, incerta se consegnarlo o meno all’uomo.
“Un’altra lettera?” la anticipò Tseng.
Alzò gli occhi, ma non fu abbastanza forte per incrociare il suo sguardo. Poteva quasi sentire le implicite accuse che il Turk le rivolgeva con il suo prolungato silenzio, in attesa di una risposta che da parte sua non sarebbe arrivata. Si disse che doveva essere più forte, e fece per nascondere la lettera tra le pieghe del suo vestito, con naturalezza, cercando di celarla agli occhi dell’altro.
“Non è nulla…” si affrettò a pronunciare, rimettendola in tasca.
Tseng le si avvicinò, lentamente. “Ho accettato le altre ottantanove senza problemi, perché non dovrei prendere questa?”
Non seppe cosa rispondere, e si limitò ad osservare la mano spalancata che l’uomo le aveva teso davanti, aperta e disponibile alle sue richieste non pronunciate. Dischiuse le dita intorno al foglio di carta opaco e lo lasciò cadere nel palmo dell’altro, che lo afferrò e lo ripose all’interno della sua giacca.
“Grazie…” emise lei d’un soffio, sottovoce. Tseng non rispose e si allontanò dai suoi occhi, svanendo nell’oscurità dell’abside privo di finestre. Le sue mani tornarono più volte sulla lettera che si era fatto affidare, sottile e leggermente increspata, inutile eppure così significativa.
Lasciò che le tenebre che avvolgevano quella zona della chiesa lo nascondessero agli occhi di Aeris. Nessuno l’aveva ancora informata sugli avvenimenti degli ultimi giorni, e sulla reale entità dello squilibrio che lentamente si stava diffondendo lungo i piano alti della ShinRa. Il ritrovamento e la morte di Zack Fair era solamente stato l’ennesimo chiodo sul coperchio della loro bara.
Guardò Aeris, distesasi su una delle panche di legno della chiesa ad occhi aperti, mentre osservava le alte finestre da cui filtrava la prima luce dell’aurora. In quel momento, capì che prima o poi sarebbe toccato a lui infrangere le speranze che ella aveva accumulato in tutti quegli anni. S’immaginò di scattare in avanti, verso di lei, deciso, serio, irremovibile nella sua decisione; di urlarle contro, di sbatterle in faccia che Zack era morto, che non sarebbe tornato, e che le sue novanta stupidissime lettere erano state tutte inutili. Immaginò lo sguardo della ragazza, serio, affranto, disperato o composto che fosse, e le sue reazioni alla sconvolgente notizia. Fu sul punto di uscire dall’ombra e lasciare che quel peso non gravasse più solo su di lui, cercando di emulare la decisione che ostentava nei suoi pensieri. Ma non ci riuscì, e rimase ad aspettare che i tiepidi raggi del sole illuminassero l’abside prima di fare un passo verso l’uscita del grande edificio.
L’aria era mite, la mattina presto, e Tseng la assaporò per un istante, prima di volgere la sua attenzione alla lettera affidatagli da Aeris che aveva riposto nella tasca interna della sua giacca. Per un lungo attimo lasciò che gli scivolasse tra le dita, carezzandone la ruvida fattura. Poi, preso da un impeto di rabbia o forse solo schiavo delle sue emozioni, la strappò una volta, e ancora, e ancora, disperdendone i pezzi nel vento.








Osservando distrattamente il cielo attraverso le fronde scure degli alberi, capì che la lunga notte nella foresta era finalmente finita. Ansante, stremato, sfinito dalla lunga marcia, lasciò che la sua schiena aderisse contro il ruvido tronco di una quercia, respirando l’aria gelida del mattino imminente.
Confuso e agitato, posò lo sguardo sulla Buster Sword che teneva tra le mani, tratteggiandone i solchi con le dita e osservando il suo riflesso opaco che la lama rifletteva. Era riuscito a scrostare il sangue che gli insudiciava il volto, presso un ruscello raggiunto qualche ora prima, ed adesso il suo viso appariva più giovane e meno teso. Osservò il riflesso dei suoi occhi, stanco, disperato, lucente a causa dell’esposizione all’energia Mako, e si chiese per quanto ancora avrebbe continuato a vagare senza meta, ignorando la sua posizione. Lì, nell’infinita penombra del sottobosco, sembrava che la natura non avesse mai conosciuto la mano dell’uomo, tanto era prospera e rigogliosa.
Non voleva ammetterlo a se stesso, ma probabilmente per gran parte della notte aveva vagato a vuoto: nonostante infatti gli fosse sembrato di aver percorso diversi chilometri, aveva udito comunque il sommesso fruscio del breve corso d’acqua presso il quale si era rinfrescato, come se non avesse mai abbandonato il pendio terroso sul quale il fiumiciattolo sorgeva.
Gli uccelli adesso cantavano, preannunciando il bagliore rosato di cui lentamente si tingevano sprazzi di cielo oltre gli alberi. L’atmosfera divenne, nel giro di pochi attimi, meno greve e cupa, rischiarata dai primi raggi del sole che, deboli ma accecanti, già rischiaravano le foglie morte cadute dagli alberi.
Alzatosi in piedi, riuscì a procedere più velocemente rispetto a quanto avesse già fatto a tentoni nell’oscurità. Notò che, nonostante le apparenze, tracce inequivocabili del passaggio umano apparivano saltuariamente tra le radici nodose degli alberi: rami spezzati, tranciati da un’ascia o da altri oggetti contundenti, liberavano i sentieri più ardui da percorrere, agevolando di molto il cammino. E, mentre la flebile luce dell’alba cedeva il passo a quella più sicura e decisa della mattinata, ed il sole si levava già nel cielo alle sue spalle, cominciò a notare alberi più radi e meno affusolati nella forma, le cui radici si diramavano in maniera più omogenea percorrendo minore distanza rispetto a quelli secolari all’interno della grande foresta. Ma fu solamente parecchie ore più tardi, quando il sole, raggiunto lo zenit, cominciava a tramontare davanti ai suoi occhi, che riuscì finalmente ad intravedere la grande pianura che si estendeva nei pressi della Chocobo Farm.
Stanco per il lungo viaggio, si lasciò scivolare lungo il tronco di un abete, così come aveva fatto durante l’alba, sedendosi sulla terra umida bagnata da un temporale passeggero.
La grande luce delle pianure, così violenta rispetto a quella che filtrava all’interno del bosco, inizialmente lo assalì brutalmente, costringendolo a serrare gli occhi e a ripararsi con il dorso della mano. Poi, cominciò ad abituarsi alla luce violenta, e al bagliore arancione che si tingeva sulle montagne che recidevano la linea retta dell’orizzonte, in lontananza.
Cloud si disse che, probabilmente, per quel giorno aveva già solcato abbastanza sentieri e, alzatosi da terra, decise di accendere un fuoco per tenere lontane le bestie a causa delle quali durante la precedente notte non aveva chiuso occhio. Si alzò e rovistò nello zaino che portava alle sue spalle, setacciandolo alla ricerca di una materia adatta ad accendere un fuoco. Ne trovò una incrinata su più punti, vecchia e dimessa, che doveva avere con sé da moltissimo tempo, perché non ricordava neppure come l’avesse ottenuta. Dopo un paio di tentativi, riuscì ad accendere un fuoco di piccole dimensioni la cui fiamma venne spenta dopo pochi secondi da un lieve soffio di vento.
Sospirò e ripeté il gesto, ottenendo una fiamma di dimensioni maggiori il cui crepitare riempì l’aria del crepuscolo nascente. La alimentò con diversi rami secchi e infine, quando fu certo che non si sarebbe più spenta, cercò qualcosa da mettere sotto i denti, ma con scarsi risultati.
Quando la sera scese alle porte della pianura, si ritrovò nuovamente seduto ai piedi dell’abete, di fianco al fuoco che saltuariamente scoppiettava, lanciando scintille che si erano spente ancor prima di toccare terra.
Perse il suo sguardo nella luce che le fiamme emanavano e nel loro continuo rinnovarsi, di attimo in attimo, rischiarando le brune cortecce degli alberi. La luna sorgeva luminosa anche quella notte, rischiarando le lontane colline aldilà della pianura. E mentre osservava la grande luna in cielo, sulle colline e aldilà di quelle, notò il grande bagliore luminoso che, come una scintilla nell’oscurità, rischiarava la nera notte. Il grande bagliore luminoso di una città che conosceva bene, e che, come aveva imparato durante tutti gli anni che vi aveva trascorso, non dormiva mai.








E mentre la luna si levava alta nel cielo, mai più splendente che in quella notte, e l’aria si tingeva dell’aroma di un temporale appena passato, Cissnei si ritrovò a fermarsi per riprendere fiato, nel bel mezzo della grande radura che Cloud aveva ammirato dall’uscita del bosco. Ogni tanto si voltava indietro, impassibile, ad osservare la grande città che lentamente sfumava via dalla sua vista; e ad ogni passo, quella grande luce che rischiarava le colline e il cielo si allontanava e svaniva inghiottita dalle tenebre, sempre di più.
La notte era soave e delicata, in quel campo, come uno dei tanti fiori che crescevano rigogliosi in quella zona. Ne osservò la maestosa corolla che era il cielo indaco, ammaliata dall’enorme quantità di stelle che da lì erano visibili, di gran lunga maggiore a quelle che era solita ammirare dall’alto della sua collina fuori Midgar. Si sentì libera, per la prima volta dopo tanto tempo, dai legami che gli uomini della città avevano stretto intorno a loro, nella vana speranza di cercare una sicurezza che lei aveva conosciuto solo adesso che si era allontanata da quel mondo a loro tanto caro. E mentre udiva i grilli cantare per lei, in quella notte così chiara e adamantina, allontanò per qualche ora il pensiero di Zack che tanto l’aveva perseguitata durante tutto il giorno precedente, e continuò il cammino solo per il puro gusto di andare avanti, e di scoprire nuovi luoghi come quello, capaci di rasserenare e acquietare i turbamenti dell’animo.
Quando il display del suo PHS segnava ormai la mezzanotte da un pezzo, decise di sostare per un po’ in una radura presso la quale alcuni alberi isolati proiettavano sfocate ombre alla luce della luna. Ma nel momento esatto in cui si sedette a terra, tutta la stanchezza accumulata durante le ore che aveva trascorso in fuga le si riversò addosso, come un fiume in piena che irrompe furiosamente dagli argini. D’un tratto sentì il rimorso e il dolore per la perdita di Zack nuovamente e con maggiore rammarico, e gli parve di rivivere la conversazione che aveva sostenuto con Tseng come se fosse avvenuta appena qualche minuto prima.
Strinse le gambe al petto, mentre il cielo si macchiava di nubi gonfie giunte da est che sembravano preannunciare una nuova tempesta imminente.
Venne assalita dalla solitudine che serpeggiava dentro di lei, e si chiese a cosa servisse quel disperato viaggio senza meta che aveva deciso di affrontare. Aveva lasciato la ShinRa e non aveva alcuna intenzione di tornare tra i suoi ranghi, ma adesso si sentiva sola, sperduta, smarrita nell’immensità di un mondo che non aveva mai affrontato da sola.
Lasciare la ShinRa, lo capiva solo ora, era un po’ come perdere se stessi. E lei, senza se stessa, fino a quel momento, non lo era mai stata.
Persa nei suoi pensieri, gettò uno sguardo disinteressato al cielo soffocato dalle nubi; e fu in quell’istante, mentre osservava i rimanenti limpidi spazi di cielo, che notò un insolito e scintillante bagliore che si muoveva nel cielo. Ed in quel momento, allontanato ogni altro pensiero su Zack e sul suo futuro, cominciò a correre velocemente, cercando riparo nelle grandi foreste che si estendevano ai margini della pianura.








A Midgar la serata era stata uggiosa e buia, preannunciando un temporale che di lì a poco avrebbe scatenato la sua furia sulla città inerte. La luce della luna, offuscata dalle nubi, non raggiunse nemmeno una volta le solitarie strade, battute unicamente dai rivoli di pioggia che si radunavano in pozzanghere di sempre maggiori dimensioni. Al contrario, invece, l’acquazzone sempre crescente manifestò la sua furia sulla città addormentata, piegandola al suo volere e illuminandola saltuariamente quando i lampi squarciavano il cielo.
Gocce di pioggia si infrangevano contro le ampie vetrate del suo attico, situato nei piani alti dell’edificio ShinRa. Da quell’altezza, ammirò come la natura manifestasse la sua tremenda forza sull’uomo, e su come quest’ultimo fosse indifeso di fronte ad essa. Mosse alcuni passi verso il vetro, ed il rumore dei tacchi alti sul marmo scandì elegantemente il suo cammino.
Poggiò una mano sulla finestra, perdendo lo sguardo tra le oscure vie desolate della grande metropoli. Midgar si estendeva davanti ai suoi occhi, costretta ad un letargo forzato imposto ingannevolmente dalla pesante pioggia. In nottate del genere, quasi nessuno si avventurava per le vie, rese impraticabili dal tempo. E quando nessuno solcava le strade della città, sembrava quasi che quest’ultima perdesse la sua anima, e divenisse un mero fantasma sbiadito, slavato e incolore.
Ora che ci pensava, in effetti, in quel momento le condizioni atmosferiche non sarebbero potute essere migliori.  
Da quando era riuscita a dirigere provvisoriamente anche il reparto Turks, era stata incaricata di risolvere parecchie seccature inutili; ma ciò, stranamente, non l’aveva infastidita, perché sapeva che era solo il primo passo al fine di mettere in moto qualcosa di più grande. Aveva lavorato per parecchio tempo a quel determinato piano, instancabile, pregustando la gloria che prima o poi ne sarebbe conseguita, certa che un giorno i suoi sforzi sarebbero stati ripagati. E adesso, osservando la ShinRa che cadeva sotto gli insistenti colpi dei nemici, aveva deciso che probabilmente non avrebbe trovato un’altra occasione per attuare le sue macchinazioni.
Sorrise alla tempesta, salutando la pioggia che si infrangeva sulle vetrate come colei che portava via gli ultimi residui di quel governo poco mirato che aveva ridotto Midgar in malora. Una volta che lei sarebbe divenuta la nuova Presidente, era certa che il destino della compagnia si sarebbe rivoltato, e che una nuova età dell’oro avrebbe investito la ShinRa e tutto le terre a lei alleate.
Fu in quel momento che udì qualcuno bussare alla porta, lievemente, battendo due volte le nocche sul lucido mogano. Si riscosse dai suoi pensieri, e il ghigno sul suo volto svanì.
“Chi è?” chiese, calibrando il tono della voce affinché non sembrasse troppo soddisfatto.
“Sono Michael.” rispose una voce dall’altra parte della porta.
Scarlet sorrise, pregustando una pungente chiacchierata. “Entra pure, Michael.”
La porta si aprì lentamente, cigolando sui cardini antichi. Davanti ai suoi occhi apparve un uomo di circa trent’anni, in giacca e cravatta, che rimase immobile sull’uscio, osservandola.
“Allora, Michael” cominciò la donna, ponendo parecchia enfasi su quel nome. “Credevo di averti dato la serata libera.”
“Questo è vero” esordì l’uomo, avanzando disinvolto per la stanza. “Tuttavia, non credo di avere molta scelta su dove trascorrere la mia vacanza, data la grande tempesta che si è abbattuta sulla città. Davvero simpatico, da parte sua, concedermi del tempo libero oggi.”
“Beh, la tua dedizione è ammirevole” rispose Scarlet, ironica, ignorando la sua ultima frase con un sorriso sarcastico. “C’è un motivo particolare per cui mi hai disturbato, o si tratta solo dell’ennesimo tentativo malriuscito di farmi perdere le staffe?”
“Per la verità, mi manda il Presidente ShinRa” annunciò l’uomo, con voce ferma. “Gradirebbe parecchio poter avere una chiacchierata con lei, il ché, a mio avviso, è davvero straordinario, poiché di solito ogni persona sana di mente preferisce starle a debita distanza.”
“Riferiscigli che aspetto la sua visita con ansia” rispose la donna, seria, scartabellando alcuni documenti sulla sua scrivania. “E quanto a te... beh, sentiti pure libero di stare a debita distanza da questo ufficio. Ti assicuro che nessuno sentirà la tua mancanza.”
“Naturalmente” decretò lui, sorridendo. “Bene, andrò a contattare il presidente subito.”
Scarlet non rispose, e lasciò che l’uomo abbandonasse la stanza. Ascoltò il rumore dei suoi passi spegnersi lungo il corridoio, poi si preparò in vista dell’incontro con il presidente e ai possibili nuovi pezzi che l’uomo avrebbe potuto schierare in campo. Era certa che non sospettasse nulla del suo piano: l’unico che ne era a conoscenza, in effetti, era Michael. I suoi pensieri deviarono per un momento su di lui, mentre lo sguardo si posava sulla porta che pochi secondi prima l’uomo aveva attraversato. In effetti, nel momento in cui si sarebbe appropriata del comando, il posto che avrebbe occupato Michael sarebbe stato quello che adesso apparteneva a lei. Nonostante non perdesse occasione di biasimarlo, sapeva della sua profonda lealtà nei suoi confronti, ed era per questo che dopotutto si fidava di lui. Persino quel cinico senso dell’umorismo di cui era fornito era un punto a suo favore: nonostante talvolta lo ritenesse tremendamente sfacciato, era certa che questa sua dote, in futuro, gli sarebbe risultata utile.
Il presidente si annunciò con un finto colpo di tosse, osservandola serio dall’entrata dell’attico.
“Presidente ShinRa!” esclamò lei, voltandosi verso di lui e chinando lievemente la testa.
“Salve, Scarlet” la salutò quello, avvicinandosi alla scrivania dove quest’ultima era seduta. “Pessima serata, non trova?”
“Piuttosto uggiosa, in effetti” si ritrovò a rispondere lei, indicando il vento che ululava fuori dall’edificio. “Prego, si accomodi” aggiunse poi, indicando una delle due poltrone situate in un angolo dell’attico.
“Grazie” disse quello, stanco, sedendosi compostamente. Fece una lunga pausa, smarrendo lo sguardo tra le pesanti gocce di pioggia che si riversavano sulla città.  Poi aggiunse, con un sospiro sfiancato: “Dobbiamo discutere del futuro di questa compagnia. In effetti, non scherzo nell’affermare che siamo di fronte alla situazione più difficile che la ShinRa abbia mai dovuto affrontare, e, francamente, non saprei nemmeno dire come possa uscirne indenne: per questo ho bisogno del suo aiuto, Scarlet, della sua audacia nel campo degli affari, e della sua attitudine al comando, per un consiglio fidato su quelle che sono le sorti del mondo intero. E spero che sarà così gentile da non negarmelo, perché mai come adesso la compagnia ha avuto bisogno del suo aiuto.”
Scarlet si sedette di fronte all’uomo, assumendo una maschera seria sul volto. “Naturalmente può contare su di me”.
Il Presidente le rivolse un accenno di sorriso, grato. Poi, tossendo, osservò nuovamente il violento temporale, facile preda dei suoi pensieri. “Speriamo che la tempesta esaurisca la sua furia presto” sussurrò infine, mentre la luce di un lampo illuminava improvvisamente le iridi dei suoi occhi spenti.

Fine Capitolo 2


Ehm. Allora. Non aggiornavo questa fic da circa… un anno. Mica male, eh? xD
Seriamente, scusate il mostruoso ritardo. D’ora in poi cercherò di mantenere un andamento più regolare per questa storia, in modo tale che giunga alla fine più o meno entro una cinquantina d’anni, invece dei cento che sarebbero passati con l’andatura da bradipo che ho ingranato durante questi ultimi mesi.
Spero vi piaccia, perché, sinceramente, a me non sembra un granché (specie per la parte finale, che si discosta davvero molto dal resto del capitolo).
Ringrazio vivamente Bankotsu, Lirith e Valy_Chan per aver commentato il capitolo precedente (Grazie a tutti per i complimenti, sono felice che via sia piaciuta tanto ^^) e soprattutto quest’ultima per aver inserito la fan fiction tra le preferite. Grazie, grazie, grazie :D
Infine, vorrei spendere ancora un minuto in questa nota finale di capitolo, per sottolineare un importante fattore che mi ha spinto a recuperare questa fic: fino a venerdì sera, infatti, il capitolo contava appena tre paginette scarse. Tuttavia, ho deciso di scrivere le successive sei pagine in così poco tempo perché, dopotutto, volevo onorare la memoria di un amico che, due anni fa circa, aveva letto la prima versione di questa fan fiction (che all’epoca si chiamava solo After Crisis) e che l’aveva da subito amata. Adesso, a due anni di distanza, sono cambiate molte cose: ma io gliela dedico comunque, perché credo che sarebbe contento di vedere che (almeno in parte) sono migliorato e che ho affinato ulteriormente il mio stile.
Quindi, con la speranza che il prossimo capitolo arrivi entro il prossimo decennio (e qualcosa mi dice che sarà così), vi lascio qui. A presto!

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Capitolo 3
*** Capitolo IV ***


Capitolo 4


Osservava, immerso tra i suoi pensieri, il temibile splendore della città martoriata dalla fitta pioggia, attraverso gli spessi vetri dell’Edificio ShinRa. Il suo sguardo si perdeva lungo le vie fiocamente illuminate, osservando la flebile luce dei lampioni lontani che si piegava al volere della tempesta, svanendo nell’oscurità della notte.
Un lampo disegnò la sua esile figura lungo gli aspri contorni di una nube scura, abbattendosi nell’area antistante alla città. Una sottile linea di fumo grigio si elevò fino al cielo, disperdendosi nel grigiore notturno macchiato di nuvole plumbee.
Rifletteva sulla conversazione avuta con Tseng pochi minuti prima, quando l’aveva reso partecipe di quel piano a cui aveva lavorato per tanto tempo e sul quale aveva investito centinaia di risorse, nell’attesa che arrivasse il momento in cui persino lui avesse avuto la possibilità di schierarsi in campo. Aveva mosso la sua prima pedina, azionato il primo ingranaggio, e adesso era pronto a vedere come si sarebbe articolata la vicenda, certo che, dopotutto, ogni cosa sarebbe volta al suo vantaggio, in un modo o nell’altro.
Gocce di pioggia picchiavano violentemente lungo la superficie del vetro: era un rumore lieve eppure invasivo, simile a quello dei crepitii delle fiamme, che lo distolse dai suoi pensieri e che lo spinse, ancora una volta, ad ammirare la maestosità della metropoli che si estendeva aldilà della finestra. Gli angoli della sua bocca s’incresparono in un tiepido ghigno di vittoria.
“Michael?” una voce di donna lo chiamò, incerta, alle sue spalle. Si voltò in silenzio, fissando l’impiegata della ShinRa che aveva pronunciato il suo nome.
“Sì?” chiese lui, lievemente stizzito.
“La direttrice Scarlet ha richiesto la tua presenza nel suo ufficio. Immediatamente.” La voce della donna era seria, professionale, fastidiosamente banale in un ambiente come quello.
“Mphf” sbuffò Michael, annoiato. “ho già detto mille volte a quella vecchiaccia di chiamare qualcun altro, per la manicure. Non è decisamente il mio compito.”
“Dice che è urgente” rispose la donna, seria. “E di non farla attendere per alcuna ragione.”
Sospirò, ringraziando con un cenno la ragazza e percorrendo il lungo corridoio che lo separava dall’ufficio della donna. Osservò il suo volto riflettersi lungo il vetro delle alte finestre dell’edificio, e fu stupito di notare le profonde occhiaie accentuate dalla pallida illuminazione al neon. Probabilmente era più stanco di quanto il suo corpo riuscisse a concepire, tuttavia non aveva alcuna intenzione di perder tempo riposandosi. I suoi rivali, probabilmente, stavano solo aspettando un latente segno di debolezza che lo spingesse a condurre un passo falso.
Poggiò le nocche sulla porta in legno dell’ufficio di Scarlet per tre volte, poi, senza aspettare un invito, spinse la maniglia d’ottone ed entrò, richiudendo la porta alle sua spalle.
“Salute, Michael.” La donna gli dava le spalle, rivolta verso le grandi vetrate che li separavano dalla furia impetuosa della bufera.
“Scarlet. A cosa devo il dispiacere di essere convocato per la seconda volta nella stessa serata?” fece una lunga pausa, ascoltando il rumore dei suoi passi mentre camminava verso la scrivania. “Dovrebbe trovare qualche altro modo per passare il tempo, magari partecipando ad una di quelle gite per anziani di cui si sente parlare così tanto. Chissà quanti coetanei troverebbe!”
Scarlet si voltò verso di lui, mordendosi le labbra per impedirsi di controbattere alle sue frecciatine. “Hai fatto ciò che ti ho chiesto?” si limitò a chiedere, l’espressione seria, guardandolo negli occhi.
“Ovviamente.” L’ombra di un sorriso trionfante si dipinse passeggera sul volto di Michael. “Non è stato così difficile, dopotutto. Tseng è uno stupido di proporzioni immani! Anche se, in verità” e qui fece una pausa, sfoderando il suo solito ghigno compiaciuto, “trovo che in questa compagnia ci sia addirittura gente più inetta e incompetente di lui. Riesce a capire di chi sto parlando?”
La donna fece finta di nulla, nascondendo la sua indignazione dietro un sottile risolino compiaciuto: dopotutto, sapeva che il tagliente sarcasmo dell’uomo era di gran lunga superiore al suo. “La ShinRa potrebbe essere sotto il mio comando già alle prime luci dell’alba” affermò poi, ostentando un’aria soddisfatta. “Mi basterà soltanto liberarmi di quello stupido trincone che chiamiamo presidente. Grazie ad una mossa vincente come quella del recupero dell’antica, il suo posto sarà mio in men che non si dica.”
“Mphf” sbuffò Michael, divertito. “Sono curioso di vedere quante ore resisterà la compagnia, prima del grande tracollo! Due, o magari tre?”
“C’è una cosa che vorrei sapere” esclamò Scarlet, d’un tratto, senza più riuscire a trattenersi, sostituendo il proprio sorriso soddisfatto con una smorfia seria. “Per quale motivo hai scelto di aiutarmi? Non mi sembra tu nutra particolari speranze sulle mie capacità!”
“L’ho sempre detto che la menopausa la rende un po’ tocca” affermò l’uomo, serio. “Ho scelto di aiutarla solo ed esclusivamente per la mia carriera. Nel momento esatto in cui riuscirà a diventare presidente, io otterrò il ruolo che lei occupa adesso.”
“Beh, ma… potrebbe sempre accadere… l’imprevedibile” fece lei, allargando il proprio sorriso in un aperto ghigno di sfida nei confronti dell’altro.
Michael picchiettò con le dita gli angoli del lucido legno della scrivania. “Già, potrebbe… suppongo che sarebbe interessante vedere fin dove può spingersi la ruota del fato, no?”
Nel momento in cui, furtivo, incrociò lo sguardo con i glaciali occhi azzurri della donna, seppe che la sua minaccia velata aveva avuto buon esito. Ne approfittò per contrattaccare con arroganza, lo sguardo altero, conoscendo l’effetto che le sue pungenti parole avevano su Scarlet. “Suvvia, cos’è quella smorfia tirata? Avrei giurato che dopo il sesto lifting i muscoli si intorpidissero.”
La donna continuò a sorridere, mascherando la sua irritazione. “Vedo che sai come rispondere a tono” rispose, stizzita, prima di chiudere la conversazione in fretta. “D’accordo. Dopotutto, l’adempimento del tuo incarico era l’unico argomento su cui desideravo essere informata. Puoi andare, Michael.”
“Con permesso.”
Scarlet prese a consultare alcuni documenti poggiati alla rinfusa sulla scrivania. L’uomo le rivolse un’ultima occhiata di disprezzo, in silenzio, prima di voltarsi e attraversare a lunghi passi la stanza.
Una volta richiusa la porta alle sue spalle, ascoltò l’immane fragore della pioggia abbattersi lungo le strade della città. Se possibile, sembrava che la violenza della tempesta, fuori dall’edificio, fosse addirittura raddoppiata.
La sua espressione seria si dischiuse in un sorriso, mentre, attraverso una finestra, osservava il cielo notturno coperto dalla fitta ragnatela di nubi scure. I suoi pensieri andarono alla conversazione sostenuta con Scarlet appena qualche minuto prima: ancora una volta, la donna era riuscita a dar sfoggio di tutta la sua ingenuità. Avrebbe dovuto capire che non avrebbe mai accettato di lavorare insieme a lei, nonostante desiderasse ardentemente il suo posto; ma, in fin dei conti, era sempre stato questo il suo più grande errore: non tener conto delle possibili mosse dei suoi avversari.
E mentre, soddisfatto, osservava il grave crescendo della pioggia intensa, ripensò alla proposta che aveva fatto ad Hojo qualche tempo prima, quando, nell’oscurità del laboratorio del professore, era riuscito a catturarne l’attenzione con appena poche frasi.
I suoi occhi incontrarono quelli del suo riflesso, trionfanti. Ancora una volta, guidato dalla propria astuzia, era riuscito a modellare i piani di Scarlet a suo favore.








Avanzava a fatica, ansimando, mentre il vento e la pioggia gli sferzavano aspramente il viso. Affondava gli stivali nelle pozzanghere di pioggia senza curarsene, proteggendosi il viso con un braccio ed avanzando con cautela lungo gli sporchi vicoli della grande città.
Midgar era immersa nel vortice pulsante della tempesta ormai da parecchie ore: gocce di pioggia si abbattevano lungo il grigio selciato dei viali della città, radunandosi in pozze d’acqua sudicia di entità sempre maggiore; il vento, ululando, trascinava lungo la strada consunti frammenti di rifiuti che da sempre insozzavano le vie più dimesse della metropoli.
Le gocce di pioggia scorrevano, prepotentemente, lungo il solco profondo di quella ferita non ancora del tutto rimarginata, sul suo viso: ne assecondavano la forma, fastidiose, fino a rigargli le guance e svanire lungo il colletto sgualcito della divisa da Turk che indossava.
Camminava, a tratti correva, affrontando l’indomito impeto del tifone abbattutosi sulla città: e, contemporaneamente, riviveva con il pensiero la conversazione avvenuta pochi minuti prima con Michael, confuso e incapace di prendere la decisione atta a salvaguardare il proprio futuro.
“Devo ammettere che tutto ciò… ha senso.”
Michael aveva sorriso. “E’ naturale che abbia senso, è geniale! E’ esattamente quello che avrei fatto anch’io, dopotutto!”
“Allora tutto ciò che devo fare è nascondere Aerith da qualche parte finché non si sarà calmata la situazione e il Presidente non sarà riuscito a trovare un direttore per il dipartimento dei Turk?” aveva domandato Tseng, cominciando ad intravedere uno sbocco da quella situazione apparentemente senza uscita.
“Beh…” aveva cominciato l’altro, sorridendo trionfale. “Io avrei un’idea sicuramente migliore.”
Tseng non aveva risposto, pensieroso: si era limitato ad osservarlo attentamente, nell’attesa che gli illustrasse la sua trovata. In verità, era un po’ restio ad accettare consigli da parte di quell’uomo: tuttavia, gli ordini di Scarlet erano riusciti a metterlo con le spalle al muro.
Michael, a quel punto, aveva incrociato le braccia, ghignando apertamente. “Il fulcro del piano di Scarlet coinvolge l’Antica, no?” aveva cominciato, beffardamente. “Tutto quello che dobbiamo fare, dunque, è riuscire ad impedire che la vecchia megera riesca ad appropriarsene. Dobbiamo eliminare ogni traccia della ragazza da questa città.”
“E come pensi di fare?” aveva ribadito lui, serio, ascoltandolo con attenzione.
Il sorriso soddisfatto agli angoli della bocca dell’uomo s’era fatto ancora più largo. “Ho già pensato a tutto, Tseng.” Ricordava come il suo tono di voce tradisse un leggero fremito d’entusiasmo appena velato. “Ho degli alleati, qui alla ShinRa, che possono fornirti tutto il supporto necessario per la missione di recupero. Se, una volta recuperato l’obiettivo, ti affiderai a noi, ti garantisco che Scarlet non riuscirà mai a scoprire la posizione dell’Antica.”
L’uomo s’era fatto silenzioso, aspettando quella risposta che, presto o tardi, sapeva sarebbe riuscito a ricevere. Quando, infine, Tseng aveva acconsentito, il lampo trionfante della vittoria s’era dipinto nei suoi occhi, glaciale e soddisfatto.
Adesso, mentre la pioggia s’abbatteva fragorosamente sul lurido selciato, si chiedeva se fosse stata davvero la cosa giusta da fare. Conosceva Michael da parecchi anni, nonostante lavorassero in reparti differenti: s’erano arruolati tra le file della ShinRa durante lo stesso anno, nell’autunno inoltrato di parecchio tempo prima; tuttavia, non avevano mai intrattenuto un vero e proprio rapporto d’amicizia, a causa dei caratteri diametralmente opposti che da sempre li avevano contraddistinti: Tseng passava le sue giornate da solo, nella tetra oscurità del dormitorio, evitando quanto più possibile il contatto con i compagni al di fuori delle lezioni d’addestramento; Michael, al contrario, era circondato da una massa di spocchiosi mocciosi arroganti tali e quali a lui, a cui non faceva altro che delegare compiti assegnatigli dai suoi superiori. Le poche volte in cui si erano parlati, nel corso di quei quindici anni, avevano portato a conversazioni brevi, fredde, aride e forzate; il tono con cui discutevano s’era fatto sempre più pungente, e ben presto, tra i due, si era accesa una rivalità mai confessata che li aveva spinti a gareggiare tacitamente numerose volte, cercando di dimostrare la propria superiorità sull’altro.
Tuttavia, mentre le gocce di pioggia rigavano la superficie dei vetri della ShinRa ininterrottamente, Michael aveva sepolto l’ascia di guerra proponendogli di unire le forze contro Scarlet, al fine di evitare che mettesse le proprie mani su Aerith. Non riusciva a credere alle sue parole, sapeva che c’era qualcosa sotto: sicuramente, Michael avrebbe ottenuto un qualche tipo di vantaggio dalle sue azioni, qualcosa che gli aveva volontariamente taciuto al fine di spingerlo ad assecondare le sue richieste.
Non avrebbe dovuto fidarsi di lui. Probabilmente, avrebbe dovuto cercare un’altra soluzione.
Magari, sarebbe anche riuscito a trovarla.
Tuttavia, nella confusione che in quel momento regnava incontrastata all’interno della sua mente, il suo unico pensiero era quello di salvaguardare la salute di Aerith. Non importava in che modo, o a quali conseguenze. Se Michael aveva detto il vero, la ragazza non sarebbe caduta nelle mani della donna.
Sospirò profondamente, quando raggiunse la tiepida tranquillità dei bassifondi. Il vento soffiava vigoroso anche per i vicoli bui, tuttavia gran parte della pioggia veniva arginata dalla presenza del piatto. Camminava, titubante, attraverso la grande strada fangosa che collegava gran parte delle vie dei bassifondi, indirizzandosi verso il Settore 5. Già da quel punto, oltre le migliaia di basse costruzioni che costituivano uno dei quartieri più poveri di Midgar, riusciva ad intravedere le alte guglie gotiche della sua destinazione.








Sentiva lo stesso debole soffio di vento che solleticava le fronde degli alberi sfiorarle delicatamente il viso. La fredda oscurità del sottobosco era andata sempre ad aumentare, nel corso di quelle ultime ore, al punto tale che, in quel momento, solo sporadici raggi di luna illuminavano debolmente brandelli sparsi  di nodose radici. Immersa nella tiepida penombra della notte, riusciva soltanto ad intravedere lo sguardo serio e preoccupato di Cloud, di fronte a lei, che osservava sorpreso un punto al di sopra delle sue spalle.
D’un tratto, sentì nuovamente il contatto con la fredda canna della pistola, questa volta sulla sua schiena. La mano libera dell’uomo che la teneva in ostaggio salì lungo la superficie del suo braccio fino a fermarsi sulla spalla sinistra, stringendola delicatamente.
Cissnei sospirò profondamente, cercando ci calmare i battiti del proprio cuore. Aveva riconosciuto il timbro di voce dell’uomo alle sue spalle fin dal primo istante, quando le aveva intimato di non muoversi, dicendole che non le sarebbe accaduto nulla: era bastato un lampo, un assoluto momento di comprensione, per capire che colui che la stava tenendo in ostaggio era Reno. A quel punto, aveva cominciato ad elaborare una strategia, accumulando pensieri su pensieri nella speranza di trovare una via d’uscita da quell’intricata situazione. Sapeva per quale motivo il Turk era stato mandato lì, sulle sue tracce: il suo compito era di riportarla alla ShinRa, costringerla a ragionare, riuscire a reinserirla tra le file dell’organizzazione per la quale aveva lavorato per così tanto tempo, in passato. Un sorriso amaro le attraversò il viso, mentre ripensava alle lunghe giornate trascorse in compagnia di Reno, di Tseng, di tutti gli altri suoi colleghi alla ShinRa: probabilmente, nonostante non l’avrebbe mai ammesso, avrebbe provato per sempre nostalgia di quei momenti che erano stati la sua infanzia. Tuttavia, nel momento in cui aveva deciso di disertare, aveva fatto una scelta: e non sarebbero riusciti tanto facilmente a farle cambiare idea, ne era certa.
“Reno.” La sua voce era calma e pacata, nonostante il turbine di pensieri che scorreva impetuoso dentro di lei.
Sentì la stretta sulla sua spalla farsi più serrata.
“Reno, ascoltami” ripeté nuovamente, seria, cercando di far ragionare il ragazzo alle sue spalle.
Vide Cloud avanzare di alcuni passi, lentamente, portando le mani lungo l’elsa della sua Buster Sword. In un momento, la pistola di Reno era puntata contro di lui.
“Chi sei?” gli domandò il ragazzo, tenendolo sottotiro. “Mani dietro la schiena, subito!”
L’altro fu costretto ad obbedire. Lentamente, lasciò scivolare le mani lungo l’elsa della spada per incrociarle dietro la testa, lontane dalla propria arma. “Cloud Strife” disse poi, serio, rispondendo alla precedente domanda rivoltagli.
Reno continuò a tenere la sua pistola puntata contro di lui, pensieroso. “Sembri di Soldier” decretò infine, notando i suoi vestiti.
“S-sì” rispose Cloud, insicuro, come se fosse un po’ incerto sulla risposta da dare.
“Mphf” sbuffò Reno, mentre un sorriso canzonatorio si dipingeva sul suo viso. “Potresti scegliere con più attenzione i compagni di fuga, Cissnei. Insomma, un Soldier?!”
“Reno” ripeté lei, ignorando le sue ultime parole. “Sul serio, stammi a sentire.”
Il suo tono secco e autoritario fece ammutolire il ragazzo alle sue spalle. Impiegò parecchi secondi per trovare le parole adatte, prima di rivolgerglisi nuovamente. “Devi aiutarmi, Reno, ti prego. Non ho lasciato la ShinRa solamente a causa della morte di Zack, nonostante possa sembrare questa, la ragione. La verità è che credo che qualcuno, all’interno del palazzo, stia ordendo una grande macchinazione ai danni della compagnia stessa. Hai idea di chi stia parlando?”
“Non m’importa un fico secco di quello che accade nei piani alti della ShinRa!” esclamò lui, scrollando le spalle. “Eseguo solo gli ordini che mi hanno dato.”
“Suppongo che questi ordini siano venuti dalla nuova direttrice del reparto Turk, giusto?” domandò Cissnei, mettendo particolare enfasi sulla frase.
“Aspetta…” cominciò Reno, cercando di capire dove volesse arrivare. “Tu stai dicendo che la direttrice Scarlet…?”
La ragazza sospirò di sollievo. Forse poteva riuscire a volgere la situazione a suo vantaggio. A pochi metri di distanza, Cloud ascoltava con interesse le sue parole.
“Esattamente. Scarlet ha preso il controllo di un altro reparto, e probabilmente punta al controllo di numerose altre giurisdizioni all’interno della compagnia. Non mi stupirei se in effetti il suo obiettivo finale fosse impadronirsi dell’intera ShinRa.”
Udì il sospiro di Reno, mentre si costringeva a riflettere sulla possibile autenticità delle sue parole. Poi, il suo silenzio, improvvisamente, si trasformo in un’acerba risata di scherno.
“Sono ipotesi alquanto ridicole, in realtà!” esclamò, divertito. “credi sul serio che Scarlet riuscirebbe persino a compromettere la posizione del Presidente ShinRa? Certo che ce ne vuole di fantasia, per concepire una simile assurdità.”
“Perché non riesci a capire che tutto questo probabilmente accadrà sul serio? Suvvia, sai come ragiona quella donna. Ha ottenuto il comando della sezione Turk e ben presto cercherà di appropriarsi anche di quella dei Soldier, se non deciderà di puntare direttamente al vertice della compagnia!” Il tono di voce di Cissnei era molto più accesso e motivato di quanto non fosse in precedenza. “Dobbiamo tornare a Midgar e scoprire che cosa abbia in mente, e se tu decidessi di venire con noi, magari…”
“Ma ti rendi conto di che cosa mi stai chiedendo?!” la interruppe il Turk, infuriandosi. Cissnei non l’aveva mai visto perdere la calma in questo modo, durante tutti gli anni in cui avevano lavorato insieme. “Mi stai chiedendo di unirmi alla tua patetica banda ed espugnare gli edifici della ShinRa?”
“Non ho mai detto questo!” esclamò Cissnei, rispondendogli a tono.
Il ragazzo spinse la canna della pistola nuovamente contro la sua schiena.
“Ehi, non provare a toccarla!” si intromise Cloud, sfoderando la Buster Sword e avvicinandosi.
“Tu resta fermo lì dove sei!” urlò Reno, puntandogli l’arma contro. Cloud si arrestò improvvisamente, fissandolo con odio.
“Cloud, non sono affari che ti riguardano” decretò lei, improvvisamente, ostentando un espressione seria e preoccupata. “Vai via.”
“Io non me ne vado finché il rosso non si toglie di torno!” rispose lui, scocciato, tenendo ben salda la spada tra le mani.
“Non provare ad avvicinarti!” esclamò Reno, livido, mentre si arrovellava per cercare di trovare una via d’uscita da quella situazione.
Improvvisamente, Cissnei si decise ad agire. Nel momento in cui si rese conto di non essere più nella traiettoria di tiro del ragazzo, si divincolò dalla sua presa e gli assestò una potente gomitata tra le costole. Nello stesso istante, Cloud prese a correre verso di loro, pronto ad immobilizzarlo.
“Prendigli la pistola!” urlò Cloud alla ragazza, mentre Reno era ancora piegato a metà per il dolore. Annuendo, si avvicinò prudentemente al ragazzo, pronta a sfilargli l’arma da fuoco dalle mani. Tuttavia, nel momento in cui allungò il braccio verso la pistola, lui l’aveva già nuovamente afferrata con forza, strattonandola poderosamente.
“Non muovere un altro passo o sparo!” esclamò Reno, puntando nuovamente l’arma contro il ragazzo che, per tutta risposta, accelerò il passo.
“Cloud, no!” esclamò Cissnei, in tono deciso, cercando di dissuaderlo; ma, a quel punto, era già troppo tardi.
La sacralità notturna del silenzio del bosco venne spezzata da un sonoro schiocco, il cui eco risuonò tra gli affusolati fusti degli alberi fino ad espandersi per l’intera superficie della foresta. Numerosi corvi gracchiarono levandosi in volo dalle fronde dei molteplici arbusti antistanti la radura.
Quando Cloud, improvvisamente, fu attraversato dalla consapevolezza di essere stato colpito, era già disteso a terra, tra le foglie secche ed avvizzite tipiche della stagione autunnale. Il suo sguardo, confuso e appannato, andò verso Cissnei, accanto a lui, che cercava di individuare il foro d’entrata della pallottola all’interno della sua carne.
“Allontanati da lui!” esclamò Reno, d’un tratto, utilizzando nuovamente la pistola per dar voce ai suoi ordini. Cissnei non si mosse, continuando ad esaminare frettolosamente la ferita di Cloud.
“Non sembra gravissima, credo di poter riuscire a curarl…”
Il suono della sua voce venne coperto da quello di un altro sparo, secco e crudele quanto il primo. In un terribile attimo di comprensione, capì che il ragazzo aveva nuovamente sparato a Cloud, questa volta ad una gamba.
“Fermati!” esclamò Cissnei, il volto rigato dalle lacrime, rimettendosi in piedi e sfidandolo apertamente, guardandolo negli occhi.
“Allontanati da lui, o il prossimo colpo sarà al cuore.”
Piena di rancore, fu costretta ad allontanarsi lentamente dal corpo del ragazzo. Distrattamente osservò come le sue mani fossero macchiate del più denso sangue scarlatto. Si disse che doveva fare qualcosa, e in fretta.
“Bene” esclamò l’altro, sollevato dalla reazione di Cissnei. “E ora…” continuò poi, puntando nuovamente la pistola contro il corpo immobile di Cloud. “Suppongo sia il momento di fare un po’ di pulizia.”
Premette il grilletto un’ultima volta, scuro in volto. Ancor prima che la ragazza riuscisse a fare qualcosa, anche quell’ultimo colpo aveva centrato macabramente il bersaglio.
Fu in quel momento che la attraversò la consapevolezza che non c’era più niente da fare. Cloud era morto, e lei non aveva nessuna possibilità di sfuggire all’attacco a sorpresa che Reno aveva sferrato a tradimento. Probabilmente non aveva altra scelta se non quella di tornare a Midgar insieme a lui, in arresto, pronta ad essere sottoposta a giudizio per diserzione. Lacrime amare le rigarono il volto, mentre si lasciava andare in ginocchio, affranta, ai piedi del carnefice di tutte le sue speranze. Probabilmente avrebbe dovuto sapere fin da subito che sarebbe finita così, dopotutto.
“Mi dispiace. Non c’era altro modo per…” cominciò Reno, cercando di scusarsi, ma in risposta ottenne solo uno sguardo di profondo disprezzo. No, non sarebbe tornata a Midgar senza almeno cercare di combattere per la propria libertà. Cercò con lo sguardo il suo shuriken rosso, ma era fin troppo lontano per cercare di recuperarlo senza dare nell’occhio.
“Avvicinati lentamente.” Le parole di Reno erano lente e calibrate, ed interruppero il complesso nodo dei suoi pensieri.
Doveva agire.
Senza nessun preavviso, cominciò a correre verso la sua arma, conficcata nel terreno ad appena pochi passi di distanza. Evitò un proiettile che Reno aveva indirizzato contro la sua caviglia, poi un altro all’altezza della sua gamba destra. E mentre il Turk, imprecando, infilava altri proiettili nel caricatore, le sue mani strinsero trionfalmente la fredda superficie dello shuriken.
“Fermo!” gli intimò rabbiosamente, mentre già si preparava a puntare di nuovo. “Prova soltanto a sparare un’altra volta e ti mozzo la testa di netto.”
“Puah!” commentò Reno, sorridendo. “Complimenti, sarebbe una morte orribile almeno quanto quella di quel tuo fidanzato biondo laggiù. A proposito, si dimenticano in fretta i Soldier scomparsi, vero?”
“Smettila!” esclamò Cissnei, passandosi distrattamente una mano sul volto per asciugare le lacrime.
Reno si disse che la sua frecciatina aveva avuto buon esito. Nell’unico momento in cui la riconobbe più vulnerabile, decise di mirare alla gamba destra e sparare.
Il colpo secco che udì mentre la carne della donna si lacerava fu il peggiore in tutta la sua carriera. Osservò quella figura, ora simile ad una ragazzina spaurita, che cedeva sotto il peso del suo stesso corpo, rovinando sgraziatamente a terra.
Le si avvicinò, lentamente; ad ogni passo, decine di foglie rinsecchite si laceravano in più punti, crepitando rumorosamente. Osservò il volto sconfitto e amareggiato di Cissnei, umiliata dalla sconfitta ricevuta; e, levando in alto la pistola, la colpì duramente con l’impugnatura, tramortendola. Il viaggio di ritorno, in questo modo, sarebbe sicuramente stato più semplice.








Immerso nell’intricata natura dei suoi pensieri, quasi non si era reso conto di essere giunto presso l’entrata in legno di quercia della diroccata chiesa del settore 5. Sfiorò con una mano la maniglia di ottone, leggermente, ponendovi una leggera pressione: il portone scivolò lentamente sui  suoi cardini, con un sinistro cigolio che risuonò lungo le alte pareti di pietra dell’edificio. Nonostante all’esterno l’atmosfera fosse parecchio buia, una flebile e sottile scia di luce si disegnò sul polveroso e consunto parquet in legno. Immerso nel silenzio e nell’oscurità dell’androne, richiuse la porta alle sue spalle, con un leggero tonfo che ancora una volta riecheggiò per i quattro angoli della costruzione.
Udì il suono indistinto della pioggia che scivolava lungo le logore travi del parquet, imputridendo il legno che, marcio, crepitava incessantemente sotto i suoi passi misurati. Non curandosene, avanzò lungo la navata centrale fino a giungere nei pressi dell’altare, là dove il parquet aveva ceduto creando un leggero dislivello occupato da numerosi e variopinti fiori.
Mentre si chinava verso di essi, lo sguardo serio, immerso nell’inconfondibile aroma della terra bagnata dalla pioggia, notò che lei era lì, come aveva immaginato. Il suo volto era rischiarato dalla tiepida luce di una lanterna, poggiata sul parquet alla sua destra, che gettava lunghe ombre sulle pareti antistanti. Non dormiva, poiché riusciva a vedere il bagliore dei suoi occhi nella velata oscurità dell’edificio: lo fissava, seria, senza dire una parola, aspettando che lui si accorgesse della sua presenza.
Sospirando, le si avvicinò, lentamente, in silenzio, la mente ricolma di tutti quei pensieri che l’avevano accompagnato lungo quel tragitto che gli era parso infinito, sotto la pioggia scrosciante della bufera sopra il piatto. Si rese conto di quale fosse la sua missione, e al tempo stesso ripensò alla proposta che Michael gli aveva fatto, di come quella potesse essere l’unica speranza di mantenere la sua posizione e di salvaguardare l’incolumità di Aerith. Sospirando, si decise a parlare.
“Sei ancora qui?” le chiese, utilizzando il suo solito tono di voce serio e inespressivo.
Lei gli accennò un mezzo sorriso, inconsapevole, immaginando che la sua presenza lì, in quella burrascosa nottata di pioggia, non fosse altro che l’ennesimo incarico di sorveglianza assegnatogli. “Ho preferito non avventurarmi fuori, con questo temporale. Ho chiamato mia madre, e ha detto che posso restare qui, per stanotte.”
“La tempesta potrebbe durare molto di più di una semplice nottata. E’ raro vedere fenomeni atmosferici di questo genere, a Midgar.”
“Beh” osservò Aerith, alzandosi in piedi e rassettando le pieghe del proprio vestito. “Se domani dovesse piovere, suppongo che sarò costretta ad uscire comunque. Non posso restare chiusa qui dentro per sempre, no?”
Tseng sorrise amaramente per la calzante ironia delle sue parole. Era vero, non sarebbe potuta rimanere all’interno di quella chiesa per sempre: era un argomento al quale lui non aveva pensato spesso, ma che talvolta, nelle lunghe nottate passate in sua compagnia, s’era intromesso a forza nei suoi pensieri, costringendolo a considerare l’eventualità che un giorno ciò che temeva potesse accadere sul serio. “Sembra quasi del tutto rimarginata.”
Tseng alzò lo sguardo, sorpreso. “Che cosa?”
“La ferita!” rispose Aerith, sfiorandogli il volto con un dito. “Si è quasi rimarginata. Non pensavo fosse un taglio così superficiale! Probabilmente non rimarrà nemmeno la cicatrice.”
Quasi involontariamente, portò una mano lungo il solco della ferita di qualche giorno prima. La superficie del taglio era ruvida e piuttosto fragile, ma sembrava davvero che fosse sulla via della guarigione: se non altro, non pulsava più da almeno qualche giorno. “Già” tagliò corto lui, disinteressato, mentre la sua mente volgeva già verso altri pensieri.
“Aerith” pronunciò infine, sospirando profondamente. Aveva abbandonato il solito tono lento e apatico in favore di una parlata più pratica e concreta. Cercò le parole giuste per proseguire sulla scia di un discorso che, ne era certo, avrebbe compromesso per sempre i loro rapporti. “C’è una cosa che devo dirti, riguardo alla mia presenza qui. E per favore, ti prego di ascoltarmi fino alla fine, prima di interrompermi.”
Vide il sorriso di Aerith scivolare come cera sul suo viso. Probabilmente aveva intuito che c’era qualcosa che non andava.
“Questa notte, sono stato richiamato presso gli uffici del mio superiore. In parole povere, il mio compito, qui, in questo momento, è quello di scortarti fino alla tua nuova casa.”
“Che sarebbe…?”
Tseng sospirò un’altra volta. “La sede della ShinRa.”
L’espressione grave sul volto di Aerith non mutò nemmeno di una virgola. “Continua” sussurrò poi, in tono serio.
“Ma io non sono d’accordo. Ho ricevuto una proposta da parte di un mio collega, subito dopo essere stato messo al corrente dell’incarico. Quest’uomo e i suoi dipendenti possono nasconderti in un luogo sicuro per un po’, evitando che la ShinRa riesca a catturarti. Tutto quello che dovrai fare è seguirmi, finché non…”
“No.” La risposta della ragazza fu secca e improvvisa. Il suono delle sue parole riecheggiò per parecchi istanti per tutta la chiesa.
“Come?”
“Ho detto di no. Ti ho già detto numerose volte che quando sarebbe arrivato questo momento, le nostre strade si sarebbero separate. Non mi fido della ShinRa, e non ho intenzione di cadere nelle loro mani” rispose Aerith, seria.
“Ma non saresti nelle mani della ShinRa, anzi. Probabilmente, saresti al sicuro dai piani che la compagnia progetta contro di te.”
“Hai detto che questa proposta ti è stata fatta da un collega. Mi sembra comunque un tizio della ShinRa, no? Come mai ti fidi tanto di lui?”
“Perché non c’è altra possibilità!” urlò Tseng, d’un tratto, mentre sentiva la rabbia montare dentro di lui. “Non c’è altro tempo da perdere! Probabilmente il mio superiore ha già mandato qualcuno in ricognizione da queste parti, per controllare che io svolga il mio incarico senza alcun ripensamento.”
Aerith non si mosse di un passo. Lo guardava seria e al tempo stesso implorante, gli chiedeva tacitamente di non forzarla, di lasciarla vivere come aveva sempre fatto, lì, all’ombra di quella chiesa, nell’attesa del ritorno di Zack. Probabilmente, che Tseng riuscisse o meno a crederci, era quella la vita che Aerith voleva per sé.
“Non costringermi ad usare la violenza” sibilò in tono ostile, frugando nella tasca interna della sua giacca e lasciando che le sue dita aderissero al calcio della pistola. La ragazza si voltò di scatto, cercando di nascondere il suo volto che si rigava lentamente di lacrime. Non poteva credere che Tseng le stesse facendo questo, che tradisse così apertamente la sua fiducia nonostante tutti gli anni in cui le era stato accanto in passato. Non avrebbe mai acconsentito alle sue richieste: non aveva mai provato particolare simpatia per i tipi della ShinRa, nemmeno per quelli che, da bambina, le facevano credere che tutto ciò che le stessero facendo fosse per il suo bene, dimostrandosi cordiali e bendisposti nei suoi riguardi. Li aveva sempre avvertiti come orridi falsi manipolatori, lontani da quella gente della vita tranquilla che viveva nei bassifondi, e non avrebbe permesso loro di rovinare tutto ciò che in quegli anni aveva creato così duramente.
Quando si accorse che Tseng aveva estratto la pistola, continuò a sostenere il suo sguardo, decisa, nonostante la vena di paura che, lo sentiva, si faceva spazio dentro di lei.
“Dannazione, Aerith!” esclamò lui, irato. “Non capisci che sto facendo tutto questo per la tua incolumità? Le truppe della direttrice Scarlet arriveranno a momenti, me lo sento, ed allora sì che non avrai altra scelta se non quella di essere portata alla ShinRa!”
“Vuoi forse dirmi che il tuo collega non ha intenzione di portarmi alla sede della compagnia, allora?!” esclamò Aerith, singhiozzando sonoramente. “La verità è che ho sbagliato a fidarmi di te! Lo sapevo che eri solo uno sporco mezzo manovrato dalla ShinRa per cercare di arrivare fino a me, l’ho sempre saputo! Sono stata una stupida!”
Si voltò, incurante dell’arma che l’uomo teneva nella mano destra, e, a grandi passi, percorse la navata della chiesa verso il grande portone.
“Fermati o sparo!” esclamò Tseng, ormai fuori controllo a causa della rabbia.
In quel momento, Aerith si voltò nuovamente verso di lui, pronta a fissarlo con crescente rancore attraverso le lacrime di disperazione. E fu in quel preciso istante che, vinto dalla situazione e dall’ira nei confronti della ragazza, premette quasi con glaciale indifferenza il grilletto.
Prima ancora che potesse rendersi conto di ciò che era accaduto, un rivolo scuro di sangue denso, in appena pochi secondi, si allungò attraverso il parquet. Nel momento in cui venne attraversato dall’orrenda consapevolezza del suo gesto, un brivido freddo gli percorse la schiena fino alla base, lasciandolo completamente senza fiato.








La conversazione che aveva avuto con i suoi compagni rimasti a guardia dell’elicottero, al limitare della foresta, era stata breve ed incisiva. Reno aveva più volte strabuzzato gli occhi, alle parole che il collega gli aveva rivolto: a quanto pare, la missione di cui erano stati incaricati non era ancora del tutto finita.
Adesso rifletteva, tenendo la testa tra le mani, su come adempire alle ultime richieste giunte dal quartier generale della ShinRa: eliminare le tracce di cattiva condotta. Freddare Cissnei con un colpo di pistola, ucciderla, mettere la parola fine ad un capitolo che era stato solamente motivo di noie per la compagnia.
Aveva sempre pensato che quella fosse solamente una stupida missione di salvataggio: avrebbe recuperato Cissnei, l’avrebbe riportata a Midgar, tra le gotiche strade della sua infanzia, pronto ad aiutarla in qualunque modo al fine di farle dimenticare il dolore causato dalla perdita di Zack. Ma adesso, le speranze riguardo al futuro che aveva immaginato nel corso di quel suo lungo viaggio s’erano infrante, all’ombra dei secolari alberi di quella radura boscosa. Imprecando, assestò un calcio violento e rabbioso sugli stinchi del Soldier a cui aveva sparato poco prima: la punta dei suoi stivali si macchiò del sangue delle ferite del ragazzo.
Pensieroso, si mise ad osservare il liquido scarlatto che insozzava gran parte della superficie di quell’area del bosco.
D’un tratto, ebbe un’idea che lo folgorò all’istante.
Poteva lasciare tutto com’era. Evitare indirettamente gli ordini che gli erano stati dati. Probabilmente, una missione fallita non avrebbe avuto nessuna conseguenza all’interno del suo Curriculum.
I suoi occhi percorsero velocemente l’area antistante al luogo dove aveva trovato i due. Quando trovò l’oggetto che stava cercando, semisepolto dalle foglie, vicino al corpo incosciente di Cissnei, la sua espressione si dischiuse in un sorriso liberatorio. Fece brillare il grande Shuriken rosso alla luce della luna crescente, inspirando coraggio.
Poi, con un gesto brusco e un mezzo singhiozzo soffocato, conficcò una delle punte dell’arma contro il suo stomaco, fino in fondo.



Fine Capitolo 4



Uff, che faticaccia delineare la trama di quest’ultimo capitolo! Da qui in poi le cose si fanno complicate, eh? Scarlet continua a scalare le vette della compagnia, Michael fa il doppiogiochista (lavorerà davvero con Hojo?), Tseng e Reno sono completamente andati... bah, ho concentrato così tanta azione in questo capitolo che non so più cosa mettere nei prossimi (no, non è vero, ho già tutto pronto, ma faceva figo dirlo XD). Come al solito, non è che io sia granché soddisfatto della stesura, ma stavolta ho posto particolare attenzione sulla trama, e dunque, nel complesso, spero che il risultato non sia troppo malvagio.
Dedico questo strano obbrobr… ehm, capitolo a Bankotsu, che oggi compie gli anni. Auguri, Bank!
Vi ringrazio di cuore per le tutte le letture e le recensioni :D Grazie, grazie, grazie!

Zackneifan: Ammazza, che recensione mastodontica ò__o sono interdetto! Grazie davvero per tutti i complimenti che mi hai fatto, e complimenti anche per l’analisi dettagliata del capitolo. Hai formulato parecchie ipotesi nel corso della tua lunga recensione: beh, posso dire con certezza che non ne hai azzeccato quasi nessuna, mi dispiace XD ma comunque, non ti resta che seguire la storia per sapere come andrà a finire, giusto?

shining leviathan: Bene, adesso che so che hai letto la prima stesura ti farò divertire alquanto nel vedere come gran parte delle cose cambieranno sensibilmente xD spero solo che lo spirito della fic rimanga inalterato, perché dopotutto sono affezionato all’originale. Spero di aver risposto almeno in minima parte a qualcuna delle tue domande con questo capitolo (specie a quelle su Michael). Purtroppo, ho deciso di eliminare Sephiroth per ragioni di spazio e di trama. Nella prima stesura non aveva poi questo gran ruolo, e sebbene inizialmente lo avessi incluso anche qui, ho provveduto a toglierlo a causa di sviluppi che ho aggiunto successivamente e che rendevano la sua presenza inutile. Ti ringrazio moltissimo per i complimenti, spero che anche questo capitolo ti piaccia!

the one winged angel: Grazie anche a te per la valanga di complimenti XD Mi fa piacere che il flashback su Aerith e Zack ti sia piaciuto e anche che Cissnei ti abbia trasmesso quella sorta di malinconia che ho voluto imprimerle, perché, dopotutto, la reputo il personaggio chiave di tutto il racconto (è dalla sua fuga, infatti, che si dipanano la maggior parte delle vicende).
In quanto a Scarlet, beh… sì, è il mio personaggio preferito. Ma comunque, ti svelo un segreto: più mi piacciono i personaggi e più li maltratto, spingendoli al limite della follia. Bel passatempo, no? XD
Per il resto, credo che tu ormai abbia capito chi fosse il misterioso tizio alle spalle di Cissnei, giusto?
Grazie anche a te per la bellissima recensione, mi ha fatto piacere sapere cosa ne pensavi xD

Il prossimo capitolo arriverà… boh, non lo so. Suppongo intorno alla metà di Agosto, ma non posso esserne del tutto sicuro. Speriamo solo che l’attesa non si prolunghi troppo, eh? XD
Ciao a tutti, e grazie ^^




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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Capitolo 3

La tempesta, incontrollabile e nefasta, s’era abbattuta maestosamente sui vicoli bui della Midgar notturna. La pioggia scivolava lungo il selciato impetuosa, filtrando attraverso le fessure dei tombini usurati dal tempo e dalla ruggine. I suoi passi si celavano attraverso l’incessante battere dell’acqua sulla strada, lenti, calibrati, incuranti del trambusto che il temporale portava con sé ad ogni goccia che bagnava il ruvido asfalto.
Adesso che era giunto il crepuscolo, Midgar s’era tinta delle scure pennellate che caratterizzavano una notte senza astri, forti e decise, pronte ad inghiottire nelle tenebre la fievole luce dei lampioni agli angoli delle strade. Nonostante non avesse venduto un singolo fiore nel corso della giornata, non era dispiaciuta di aver speso gran parte del pomeriggio sotto il suo ombrello, all’angolo di uno dei tanti viali della grande città. Fin da quando aveva alzato gli occhi al cielo per ammirare le nubi che, irrequiete, velavano gran parte dell’orizzonte, aveva sperato affinché il temporale giungesse in fretta, per interrompere la muta disperazione di quei giorni che, imperturbabili, scivolavano via da lei. E in quel momento, alle soglie della notte crescente, mentre ascoltava il suono della pioggia infrangersi contro le spesse pareti dei suoi pensieri, respirò l’aria fresca che la pioggia aveva portato con sé.
Era da tanto che un acquazzone di quelle dimensioni non lambiva le buie strade della grande metropoli. Saltuariamente Midgar, in quegli anni, aveva conosciuto numerose tempeste di simile proporzione, violente, oscure, implacabili; tuttavia, solitamente erano fenomeni che si esaurivano velocemente, nel corso di pochi minuti. La pioggia di quel giorno, invece, batteva ininterrottamente contro le strade grigie della città ormai da parecchie ore, e, a giudicare dalla mole delle pesanti nubi, non sembrava intenzionata ad abbandonare la posizione prima di qualche giorno.
Tenendo alto sopra la testa l’ombrello rosso, immersa nella solitudine della tempesta crescente, si diresse, instabile ma determinata, verso la piazza centrale della metropoli. Il temporale  frantumava il cielo sopra di lei, scuotendolo violentemente; si guardò intorno, gli occhi socchiusi a causa della forza del vento: e non fu sorpresa di constatare che anche quel viale che si estendeva davanti a lei era del tutto deserto.
La città appariva dormiente, eterea, quasi impalpabile attraverso la torrenziale pioggia che si riversava sull’asfalto bagnato. Avanzando nell’oscurità crescente, osservò come in quella zona già da parecchie ore la ShinRa avesse fatto saltare la corrente elettrica, per limitare gli eventuali danni del temporale. Sospirando, tenne lo sguardo chino, per essere sicura di non inciampare in qualcosa celato dal buio: ma una rapida occhiata al selciato le bastò a comprendere che il torrente d’acqua aveva già trascinato con sé tutti i detriti che abitualmente infangavano le strade di Midgar. Accelerò il ritmo costante dei suoi passi, imboccando una sporca e umida scorciatoia che l’avrebbe condotta in fretta nei bassifondi.
Quando vi giunse, immersa nell’aria notturna velata dal gradevole odore del terriccio umido, trovò riparo presso una tettoia sudicia, nei pressi di quel parco giochi in cui tante volte, nel corso dell’infanzia, si era trovata a passare le giornate della sua vita. Ripose l’ombrello nella cesta semivuota dei fiori, e, lentamente, ascoltando il sussurro della pioggia scrosciante, si avvicinò ad un’altalena corrosa dalla ruggine che cigolava al ritmo dei soffi di vento. Intrecciò le mani alle fredde catene, pensierosa, gettando uno sguardo all’orizzonte lontano da cui provenivano stormi di nuvole brune.
C’era già stato un temporale come quello, nell’autunno di numerosi anni prima, pensava tra sé, mentre studiava la fugace forma delle nubi lontane. E ne ricordava i dettagli in maniera vivida e intensa, così come si fa con quei ricordi a cui ci si aggrappa per evitare che sfuggano inghiottiti dal tempo.








Le parole di Zack erano lente e calibrate, mentre scrutava attentamente il cielo azzurro di quella limpida mattinata d’autunno. Camminavano insieme, a passo lento, lungo una delle numerose strade della metropoli che lei non aveva mai attraversato, un po’ per paura, un po’ perché, dopotutto, il mondo sopra il piatto non aveva mai catturato il suo interesse. Si guardava intorno sorpresa dalla vastità degli edifici e dalla magnificenza dei viali, e il ragazzo, ridendo del suo stupore, la guidava lungo le vie più maestose, mostrando la gloria che la ShinRa Inc. aveva donato alla città.
Le parlava di parecchie cose sconnesse tra di loro, brevi aneddoti di vita che non avevano nessuna importanza, buttati lì, tra una risata e l’altra, solo per ingannare il tempo sotto i raggi lucenti del sole. E lei lo ascoltava, le dita affusolate strette intorno al suo braccio, ridendo ed esclamando di tanto in tanto qualcosa, ad ogni pausa dell’altro.
“Ora, non vorrei darmi delle arie,” disse lui, ma si capiva che in realtà era proprio quello il suo intento “ma è grazie a me che il fantomatico bandito Godot adesso è in una delle celle di massima sicurezza della ShinRa, a marcire in galera a causa dei suoi crimini!”
“Mmm... e quali sarebbero stati i suoi crimini, di preciso?”
“Ma è naturale, Aerith!” esclamò lui, annuendo come se fosse la cosa più ovvia del mondo. “I suoi crimini furono… ehm…”
“Dì la verità, te lo sei inventato?” gli domandò Aerith, sorridendo.
“Beh, è che sono stato tutta una notte ad aspettarlo, ma non si è nemmeno fatto vivo. E’ chiaro che dovevo ricamarci su un bel raccontino, che figura avrei fatto con te altrimenti?”
“Non hai pensato che forse ha avuto troppa paura di te e non si è nemmeno fatto vivo?”
Zack sorrise con rinnovato vigore. “Hai ragione! Grazie, Aerith!”
Gli angoli della bocca della ragazza si curvarono leggermente, mentre voltava il viso verso di lui. “Figurati.”
Entrambi scoppiarono a ridere. Erano risate liete, sincere, spensierate, che si infrangevano lungo il confine di giornate invariabili che sembravano non avere mai fine. La ragazza si strinse con rinnovato vigore al braccio del Soldier, lasciandosi guidare attraverso quelle lunghe ed intricate strade che sembrava conoscere alla perfezione.
D’un tratto, Zack volse lo sguardo al cielo limpido, verso la linea dell’orizzonte fuori città. “Sembra che stia per piovere” decretò improvvisamente, pensieroso.
“Il cielo è sereno” osservò Aerith, osservando l’azzurro limpido che si estendeva sopra di lei.
“Guarda là, però!” esclamò Zack, allungando una mano verso le floride colline adiacenti alla città. “Il vento porterà quelle nubi qui entro pochi minuti. Faremo meglio a tornare nei Bassifondi!”
La ragazza osservò i raggi di sole che lentamente sbiadivano sul colore cinereo dell’asfalto. Respirò l’aria che il vento portava con sé, limpida e fresca, così diversa dal solito nauseabondo odore di smog a cui in quegli anni era stata abituata.
“Perché invece non rimaniamo semplicemente qui?” propose Aerith, osservando a sua volta le nubi incombenti. “Non credo che sarà un grande acquazzone. Di solito a Midgar non piove quasi mai.”
Mezz’ora dopo, entrambi arrancavano faticosamente lungo le vie secondarie della grande metropoli, alla ricerca di un modo per sfuggire alla violenta tempesta che, in pochi attimi, aveva rovesciato tutta la sua potenza sull’ignara città. Correvano a testa china, inzuppati fino all’osso, attraverso il grigiore stentato di una Midgar all’apparenza quasi disabitata.
“Diamine, non c’è un singolo posto che riesca ad offrire riparo in questa città!” sibilò Zack, irritato.
“Beh, perlomeno tu riesci ad orientarti!” gli rispose Aerith sorridendo. “Io non ho neppure la più pallida idea di dove ci troviamo.”
Zack smise di camminare, voltandosi verso la ragazza. “E allora perché sorridi?”
Aerith impiegò diversi secondi a rispondere, cercando con lo sguardo una figura di riferimento attraverso lo spesso drappo di pioggia che le oscurava la vista. “In verità, non pensavo che il mondo al di sopra del piatto potesse essere tanto affascinante. Mi hai stupita.”
Zack la guardò smarrito. “Ti stai divertendo? Sotto questo temporale?” un mezzo sorriso si dipinse sul suo volto. “Ma davvero?”
Aerith rispose al suo sguardo confuso con una sonora risata. “Sì, davvero!” esclamò. “Immagino che tu non sappia nemmeno da quanto tempo non mi accadeva qualcosa del genere. Io adoro la pioggia, certo, ma nell’oscurità dei bassifondi raramente puoi provare la sensazione dell’acqua che ti scorre addosso e che ti fa sentire in questo modo. E poi, guarda!” continuò, indicando con la mano la strada deserta alle loro spalle. “Quando piove… tutto appare diverso. Siamo noi che cambiamo, o è il mondo che varia la sua indole per noi? Non lo so, però riesco a vedere tutto in maniera differente. Riesco a vedere ciò che c’è di bello in questa città, e di come essa sia grande nella sua terribile magnificenza. E’ tutto meraviglioso, quando piove.”
“A parte il fatto che poi ci si ammala.”
“Sì, a parte quello!” terminò Aerith, sorridendogli.
Continuarono la loro faticosa avanzata, accarezzati dai fendenti che la pioggia infrangeva sul ruvido selciato.
“Grazie” sussurrò poi la ragazza, d’un tratto divenuta seria, mentre i primi raggi di sole cominciavano ad irradiare le strade di pallida luce dorata. “Non avrei mai trovato il coraggio di andare da sola qui su, e probabilmente mi sarei persa tutto questo.”
“Prego!” esclamò Zack, sollevato. “Sono felice che tu ti sia divertita, pensavo che avresti ritenuto quest’appuntamento un fiasco, e che…” ma non riuscì a continuare, perché prima ancora che riuscisse a finire la frase, Aerith aveva già poggiato le labbra sulle sue.








Perduto nell’oscurità crescente che contraddistingueva perfino una notte serena come quella, Cloud Strife si muoveva tra i secolari arbusti che cingevano l’interno della grande foresta. Avanzava lentamente, lo sguardo chino e la mano tesa lungo l’elsa della Buster Sword riposta alle sue spalle, pronto a sguainarla in caso di difficoltà. Il vento soffiava tra le foglie sugli alberi, frusciando ininterrottamente e coprendo il rumore dei suoi passi.
Quando il sole era svanito aldilà delle montagne, tingendo il cielo di un’accesa sfumatura di rosso,  aveva deciso che avrebbe continuato il suo viaggio durante la notte. Aveva pensato che avrebbe corso meno rischi di essere visto dall’alto, e che, costeggiando l’interno della foresta, non avrebbe sicuramente perso il senso dell’orientamento. Tuttavia, solo adesso si rendeva conto di come il buio rendesse ogni punto di riferimento instabile e provvisorio, e di come, già dopo una manciata di passi, non riuscisse più a ricordare da che parte fosse il limitare della fitta boscaglia.
Respirò profondamente, fermandosi ad ascoltare il silenzio degli arbusti che si ramificavano fino al cielo. Nessun rumore che lo aiutasse a capire da che parte andare. Nemmeno il vago scroscio del ruscello che la notte precedente l’aveva guidato.
Immerso nella calma apparente che celava il bosco ai suoi occhi, riusciva solamente a percepire lo stridio dei rami che cozzavano tra loro, sospinti dal vento. Nessun verso di animale, neanche quello dei grilli che, durante le prime ore della serata, aveva udito cantare ai margini della grande pianura. Riprese la sua marcia, strizzando gli occhi per riuscire ad intravedere le figure scheletriche di alcuni rami secchi che gli impedivano il passaggio. Guidato dalla luce della luna che saltuariamente filtrava attraverso le folte chiome degli alberi nodosi, mosse alcuni passi incerti verso la sua destra, all’erta come sempre, pronto ad attaccare il nemico in caso di necessità; e, sotto le sue scarpe, numerosi rami secchi si spezzarono sonoramente. Parecchi corvi si alzarono in volo dai più oscuri anfratti della foresta, macchiando il cielo stellato e perdendosi nell’oscurità delle fronde degli alberi. I versi dei volatili echeggiarono nelle sue orecchie per alcuni secondi, prima di svanire nell’aria notturna.
D’un tratto, alle sue spalle, riecheggiò il debole fruscio di alcune foglie secche del sottobosco che venivano calpestate. Agguantò l’elsa della Buster Sword, all’erta, voltandosi e cercando di capire, attraverso l’oscurità, quale fosse la natura di quel rumore.
“Chi c’è?” chiese incerto, sguainando la spada. L’eco della sua voce si confuse col richiamo del vento. Mosse alcuni passi lenti e calibrati, serrando gli occhi per cercare di  intravedere oltre le sagome ramificate delle querce che popolavano la foresta. D’un tratto, un altro corvo s’alzò in volo, gracchiando sonoramente sopra la sua testa; e fu nel momento in cui, col cuore in gola, distolse lo sguardo dall’oscurità degli alberi più lontani per osservare il volatile, che sentì un sottile sibilo scindere l’aria davanti a lui con velocità.
Riuscì a bloccare il fendente grazie alla Buster Sword, deviando il colpo con la sua vasta e lucente lama. L’arma utilizzata per l’attacco, uno shuriken scarlatto di grandi dimensioni, si conficcò lungo il tronco di uno degli alberi adiacenti alla zona. Un sottile filamento di fumo grigio si levò dai suoi angoli arroventati. Cloud ne osservò la fattura, così ben lavorata e lucida: sicuramente non era un giocattolo per bambini. Fece un balzo in avanti, seguendo quel rumore di passi sulle foglie che si  allontanava sempre più dal punto in cui si trovava; tuttavia, già dopo pochi secondi, aveva perso le tracce del suo misterioso assalitore. Sospirando, sfilò lo shuriken dalla ruvida corteccia della quercia, rigirandolo tra le mani.
Improvvisamente, qualcosa lo colpì alla schiena con tanta forza da mozzargli il fiato. Cadde a terra stremato, mentre un altro colpo si abbatteva su di lui, travolgente; e, per diversi attimi, fu come se non avesse nemmeno la forza necessaria per ragionare. Poi, in un impeto di rabbia, afferrò la Buster Sword e la roteò alle sue spalle, cercando di colpire alla cieca qualunque cosa lo stesse attaccando. Il tonfo tetro che ne seguì gli disse che era riuscito a stendere il suo avversario.
Con fatica, si rialzò da terra, respirando profondamente. Aveva gran parte della schiena indolenzita, nel punto in cui era stato  ripetutamente colpito, ma per il momento decise di ignorare le fitte e di concentrarsi sull’esile figura che gemeva di dolore davanti a lui. Le si avvicinò cautamente, pronto a colpire nel caso vi fosse stata la necessità di farlo: ma la ragazza sembrava non aver alcuna intenzione di continuare il suo attacco.
“Chi sei?” le chiese atono, tenendo la Buster Sword in mano, pronto a colpire al minimo accenno di un movimento. Nessuna risposta. “Ti ha mandato la ShinRa?” continuò, con lo stesso tono freddo e distaccato che utilizzava per i suoi nemici.
La ragazza si voltò a fissarlo, confusa dalle sue parole. “Ho lasciato la ShinRa. Credevo che fosse per questo che mi seguivi!”
“Aspetta un minuto!” esclamò Cloud, altrettanto stranito dalle affermazioni dell’altra. “Non stavo seguendo nessuno, eri tu che davi la caccia a me!”
“Sei un Soldier, però. Che ci fai qui allora?”
“Non sono affari che ti riguardano. E poi… non ricordo con esattezza, è tutto piuttosto confuso…” disse lui, riflettendo per la prima volta sulla nebbia oscura che si dipanava attraverso le sue memorie. Riusciva solo a cogliere piccoli sprazzi di avvenimenti che sembravano quasi ad appartenere ad un’altra vita, tanto gli apparivano distanti e poco nitidi.
“Eppure, non ricordo di averti mai incontrato in giro, alla ShinRa.” Constatò lei, osservandolo attentamente.
“In che divisione lavoravi?” chiese lui, d’un tratto, cercando di ricordare se avesse mai visto il suo viso.
“Tra i Turk, fino a poco tempo fa. Ma ho lasciato la compagnia, ed è per questo che mi inseguono” disse lei, alzandosi in piedi e rassettandosi le maniche della giacca. “A proposito, mi chiamo Cissnei.”
Cloud le fece un cenno con la testa. “Io sono Cloud Strife.”
Al suono del suo cognome, l’espressione di Cissnei si fece pensierosa, come se, d’improvviso, si fosse ricordata di qualcosa di importante a cui inizialmente non aveva attribuito molta attenzione. I suoi occhi si posarono più volte sui lineamenti del ragazzo che le si trovava di fronte, studiandoli e cercando di associarli ad un altro volto incontrato nel suo passato.
D’un tratto, quando incrociò il suo sguardo, ebbe un lampo di comprensione. Cloud Strife era il nome del fante che, parecchi anni prima, era stato dato per disperso insieme al Soldier di prima classe Zack Fair.
“Tutto bene?” chiese lui, vedendola sovrappensiero.
La ragazza si riscosse di colpo, come se fosse stata scrollata da qualcuno con forza. “Sì, va tutto bene!” mentì, ancora scossa.
Sospirò, cercando di riflettere. Solo adesso ricordava di averlo già visto, seppur in condizioni parecchio peggiori, durante il periodo di latitanza dei due, quando era riuscita a scovare Zack e l’aveva aiutato a fuggire.  E adesso lui era lì, davanti ai suoi occhi, mentre le parlava con la spada che era appartenuta ad un altro uomo che, in un modo o nell’altro, le aveva cambiato la vita. E improvvisamente si rese conto di quanto le facesse male quella situazione, e di come persino la vista di quel ragazzo non facesse altro che procurargli nuovo dolore. Chiuse gli occhi, pregò che se ne andasse, che la lasciasse in pace, che smettesse di scavare in una ferita mai del tutto rimarginata. Ma quando li riaprì, lui era ancora lì, che la fissava, sconcertato e confuso, con quel bagliore negli occhi che era così simile a quello che aveva lui. Respirò profondamente, cercando di calmarsi.
“Cloud... noi non siamo nemici.” Pronunciò queste parole in tono grave, abbassando lo sguardo, evitando di guardarlo direttamente per paura di perdersi nuovamente nei suoi pensieri. “Anzi, in un certo senso siamo due alleati. Entrambi, in un modo o nell’altro, siamo perseguitati dai soldati della ShinRa. Abbiamo fatto delle scelte che ci hanno portato qui dove siamo: probabilmente sono state scelte giuste, o magari soltanto tentativi sciocchi di cambiare un destino che per noi era già segnato. Tuttavia, questo non ha importanza. Conta solamente il fatto che siamo uniti sotto lo stesso vessillo, e questo significa che abbiamo un obiettivo ed un nemico comune. Riesci a fidarti di me?”
Le sue parole erano grevi, intricate, come tessere di un puzzle disposte alla rinfusa sul piano di gioco. Tuttavia, Cloud riusciva a sentirlo, erano parole sincere.
“Sì, suppongo di sì.”
Cissnei abbozzò un tiepido sorriso in risposta alle sue parole. “Allora ho bisogno che tu mi metta al corrente degli avvenimenti in cui sei stato coinvolto durante questi ultimi giorni. Senza tralasciare alcun dettaglio.”
“In verità è tutto piuttosto confuso, all’interno della mia testa…” le rispose Cloud, premendosi una mano sulla fronte.
“Andrà bene lo stesso” lo spronò Cissnei, incoraggiandolo con un altro sorriso, questa volta più ampio, così come si fa con un bambino timido nella speranza di incutergli il coraggio necessario per prendere la parola.
Il ragazzo cominciò il suo lungo racconto, la voce ferma, il tono calibrato. Raccontava gli episodi più disparati che lentamente affioravano nella sua memoria, senza rispettare un ordine preciso, perché non ne ricordava la successione temporale.  Cissnei, d’altro canto, lo ascoltava con un’espressione seria, cercando di ricollegare i pochi dettagli che Cloud ricordava ai dati dei documenti che aveva letto prima di abbandonare la ShinRa.
Alla fine, quando il ragazzo raccontò tutto ciò che ricordava, rimase per diversi attimi in silenzio, cercando di elaborare il tutto. Ma mentre stava per aprire di nuovo bocca, il rumore di alcuni passi alle sue spalle la interruppe, disorientandola.
“Non muoverti, Cissnei. Non ti accadrà nulla.”
La canna di una pistola premeva contro la sua nuca. Un brivido gelido le percorse la schiena, mentre riconosceva la voce dell’uomo che era alle sue spalle.








Tseng osservava il riflesso del proprio viso sfumare nel grigio di un temporale che, ormai da parecchie ore, teneva la città sotto assedio. Durante la notte, a Midgar, tra gli immensi chiaroscuri interminabili che erano le vie della città, nonostante il buio impedisse di vedere con esattezza l’entità della tempesta, il fragore della pioggia era continuo ed incessante.
Teneva le mani poggiate contro una delle tante finestre dell’edificio ShinRa, in attesa, mentre osservava le gocce di pioggia che lentamente scivolavano lungo il vetro, fino a sparire oltre il bordo d’acciaio del davanzale.
Nonostante stesse lavorando da quasi ventiquattro ore, non aveva ancora interrotto il suo turno. Persino in quel momento, perduto a contemplare la maestosità di una Midgar sconvolta dal temporale, stava solamente attendendo che la nuova coordinatrice del reparto Turk, Scarlet, lo accogliesse nel suo ufficio. La chiamata che aveva ricevuto pochi minuti prima era stata breve, lapidaria, intimidatoria, così com’era nello stile di quella donna che adesso si apprestava ad incontrare.
Sospirò, riordinando il turbine di pensieri che gli intasavano la mente. Ripensò a Cissnei, alla fuga, allo sfregio che gli insudiciava il volto e che sperava sarebbe guarito presto; e poi, alla chiacchierata con Aerith della scorsa notte, e alle sue lettere, e alle speranze che la ragazza ancora conservava ma che sapevano ormai solamente di mere illusioni. Ma più cercava di mettere ordine negli ultimi avvenimenti, più il suo mal di testa si acuiva terribilmente, provocandogli intense fitte all’altezza della fronte.
Mentre teneva il capo tra le mani, stropicciandosi gli occhi per la stanchezza, la porta dell’ufficio di Scarlet cigolò improvvisamente.
“Prego, la signora la sta aspettando” pronunciò un giovane dall’aspetto anonimo che non aveva mai visto prima all’interno dell’edificio. Si ricompose nel giro di pochi istanti e, una volta entrato nella stanza, richiuse la porta alle proprie spalle, facendola aderire con un leggero tonfo allo stipite di legno.
Scarlet gli dava le spalle, osservando attraverso la grande vetrata del suo ufficio lo splendore della Midgar notturna ottenebrata dalla bufera. Quando sentì il rumore dei suoi passi sull’elegante marmo bianco, voltò leggermente la testa, non riuscendo a trattenere un sorriso compiaciuto sul volto.
“Salve, Tseng.” Il suo tono di voce era misurato, tuttavia riuscì a distinguervi una vena di sarcasmo che lo infastidì parecchio.
“Buonasera” rispose educatamente lui, avvicinandosi alla sua scrivania.
Ascoltò il rumore cadenzato dell’andatura di lei mentre faceva altrettanto. “Suppongo che ti stia chiedendo per quale motivo ti ho convocato qui” affermò poi, mentre cercava alcuni documenti tra i vari fascicoli sopra la sua scrivania. “Dopotutto, basterebbe il telefono per sproloquiare sull’inefficienza della divisione di cui fai parte.”
Non rispose, cercando di ignorare l’ultima parte della frase. Sapeva che Scarlet voleva solo burlarsi di lui.
“Tuttavia, questa volta la faccenda è parecchio più seria” continuò lei, ignorando il suo silenzio. “Dunque ho ritenuto opportuno parlarti del tuo prossimo incarico di persona. Ma prima che io lo faccia, dimmi, ci sono notizie della Turk che ti è sfuggita?”
“Reno dovrebbe averla raggiunta a quest’ora” affermò Tseng calmo, cercando di ignorare il velato insulto alle sue capacità che quell’odiosa donna non aveva esitato ad inserire tra le sue parole. “Sono fiducioso sulla riuscita della missione.”
“Eccellente.” Ancora una volta, quel sorriso sardonico di derisione riaffiorò sul suo volto. “Entro domani allora dovrebbero essere entrambi qui.”
A Tseng non piacque quell’espressione compiaciuta che la donna ostentava con tanta libertà.
“Questo sarà sicuramente un punto a favore della compagnia” riprese Scarlet, compiaciuta, mettendo fine al discorso. “Ma adesso, veniamo a noi” cominciò, porgendogli un fascicolo. “La ShinRa, nel corso degli anni, è stata dispensatrice di numerosi beni e la prima promotrice di movimenti che hanno alzato la soglia del benessere in tutto il mondo. Siamo riusciti a compiere ciò tramite vari studi sull’ambiente che ci circonda, sul passato, sulle risorse del sottosuolo che il nostro mondo ci ha offerto  e, in particolare, sull’energia Mako che ricaviamo dai nostri reattori. Ciò ha permesso alla compagnia di ottenere un vasto monopolio in svariati ambiti commerciali, industriali e manifatturieri.”
L’uomo sfogliava le pagine del fascicolo alla rinfusa, senza studiarle davvero. Erano in gran parte dati sulle entrate e sulle uscite annue della ShinRa – roba poco pertinente al lavoro di un Turk. Si chiese dove Scarlet volesse arrivare con quel suo discorso.
“Tuttavia, il mondo sta cambiando rapidamente, e la nostra compagnia non riesce più a far presa sulla gente così come faceva una volta. La stessa Midgar, negli ultimi cinque anni, è stata contagiata dal malessere di una crisi che sembra avere radici ovunque ma al tempo stesso in nessun luogo, e che, come tale, risulta dunque inestirpabile. In molti ritengono che questa crisi sia dovuta ai metodi esageratamente remissivi del nostro attuale Presidente, ed io, dopotutto, credo che siano nel giusto. Per questo gli ho fatto notare che era necessario fare qualcosa, qualcosa di memorabile, qualcosa che potrebbe aprire numerosi nuovi settori di ricerca e ridare alla compagnia il lustro che ha perduto ormai da tempo. Così ho parlato con il direttore del Dipartimento scientifico, Hojo, che si è dimostrato parecchio benevolo nei confronti del mio suggerimento. Insieme abbiamo elaborato una strategia i cui ingranaggi verranno messi in moto in questa stessa uggiosa notte. Ed è qui che entri in gioco tu, Tseng.”
Ascoltò attento e al tempo stesso poco convinto ciò che Scarlet stava per rivelargli a proposito del suo prossimo incarico. Qualunque idea le fosse venuta in mente, sapeva che probabilmente non l’avrebbe condivisa. C’era un motivo di fondo per il quale lui e la donna non erano mai andati d’accordo, dopotutto, ed era il loro diametralmente opposto metodo di pensiero.
“Ho bisogno che tu scorti presso il nostro edificio Aerith Gainsborough, il più presto possibile. E’ tempo che anche lei ripaghi il debito nei nostri confronti, sottoponendosi ai nostri esperimenti al fine di trovare nuove risposte sugli Antichi che popolavano la terra parecchi millenni fa.” Il tono della donna era ancora serio, tuttavia adesso era chiaramente visibile quel sorriso compiaciuto che malamente era riuscita a mascherare durante il suo lungo discorso.
Tseng indirizzò lo sguardo sul lucido marmo bianco nel quale vedeva la sua immagine riflessa. Anche se con contorni poco nitidi, riusciva comunque ad intravedere l’espressione stravolta che aveva assunto il suo volto, a discapito della sua forza di volontà. Cercò di non lasciare trasparire i suoi pensieri alla donna che malignamente lo fissava, ma capì dal suo eloquente sguardo che non era un caso se, tra tutti gli abili sicari del dipartimento dei Turk, aveva ordinato l’esecuzione del piano proprio a lui. Non riuscì a dissimulare l’odio che in quel momento provava, e, sfidandola apertamente, incrociò il suo sguardo macchiato dalla tracotanza.
“Fa’ quello che devi fare per mantenere la tua posizione.” Le parole di Scarlet erano sottili e minacciose, e lo colpirono come se una lama affilata gli avesse improvvisamente trapassato il petto. Quella che gli stava proponendo non era nient’altro che una prova di lealtà verso la compagnia. Se si fosse rifiutato di accettare l’incarico, probabilmente sarebbe stato congedato fino a tempo indeterminato, e la donna avrebbe avuto un motivo in più per macchiare con le sue parole l’onore dei Turk. Decise che non poteva perdere tutto in questo modo.
“Lo farò.” Nel momento stesso in cui lo disse, sentì il sapore amaro del tradimento invadergli la bocca.
Fu solo per un istante, ma l’ombra del trionfo si estese lungo le iridi azzurre della donna. “Allora va’ pure. A breve ti saranno comunicate le direttive della missione.”
Mentre lasciava l’ufficio a grandi passi, Tseng cercò di mantenere l’autocontrollo necessario per impedire a se stesso di urlare contro quella donna. Ribattere alla sue richieste sarebbe stato inutile, lo sapeva, ed accettando la missione aveva guadagnato un po’ di tempo, ma non vedeva scappatoie nelle richieste che Scarlet gli aveva imposto. Lui ed Aerith, spesso, durante le lunghe notti che avevano trascorso insieme, avevano toccato numerose volte l’argomento, parlando di cosa sarebbe successo quando un giorno sempre più vicino sarebbero giunti degli ordini inequivocabili come quello; e tutte le volte che ne discutevano, Aerith finiva sempre per ribadire come fosse libera e padrona delle proprie scelte. Cos’avrebbe fatto, nel momento in cui avrebbe varcato l’alto portone di legno e avrebbe incrociato i suoi occhi?
Profondamente afflitto, richiuse la porta dell’ufficio alla sue spalle, maledicendosi per non aver semplicemente spinto dalla vetrata quell’orribile donna. Sospirò profondamente, cercando di snebbiare la mente e di elaborare un piano alternativo a quello propostogli. Tuttavia, non avrebbe ingannato Aerith facendole false promesse.
Doveva pensare ad un’altra soluzione efficace, e in fretta.
All’improvviso, udì il rumore di alcuni passi provenire dalla sua destra.
“Sai, credevo che sinceramente saresti riuscito a tenerle testa. Dopotutto, è solo una logorroica donna isterica con manie di grandezza alle soglie della menopausa.”
“Va’ via, Michael!” esclamò Tseng, irato. Non sapeva chi sopportasse meno tra lui e Scarlet: dopotutto, li trovava entrambi arroganti e smisuratamente ambiziosi.
“Uh, che caratteraccio” esclamò l’uomo, avvicinandoglisi. “E io che volevo solo darti un consiglio da amico.”
“Lasciami in pace.”
Michael abbandonò il suo tono canzonatorio e gli si mise davanti, d’un tratto divenuto serio. “Se solo mi ascoltassi un momento, forse capiresti che non sono solo un gigantesco manipolatore visionario!”
Tseng sospirò, decidendo di assecondare le sue richieste con la speranza che se ne andasse presto.
“Vedi, il cardine di tutta la bella storiella che ha raccontato Scarlet gira proprio intorno alla sua figura. Lei ha convinto il Presidente ShinRa ad agire, ha persuaso Hojo ad accettare le sue richieste, e adesso ha mandato un membro della sua divisione a recuperare quell’Antica che, ovviamente, una volta giunta in questo edificio sarà sotto la sua tutela. Tuttavia,” e qui il tono di Michael si fece più conciso, “credo che tutto ciò sia quantomeno sospetto. E soprattutto, penso che il piano di Scarlet sia prendere sotto custodia la ragazza per poi usarla per scalare le vette della compagnia.” Fece una pausa, cercando di cogliere una reazione nel viso pensieroso di Tseng. “Ovviamente capisci quanto me che, se fosse comandata da quella vecchia scorfana, la ShinRa avrebbe i giorni contati. Con l’orrendo carattere che si ritrova, scatenerebbe una guerra civile nel giro di poche ore.”
“Devo ammettere che tutto ciò… ha senso.”
Michael sorrise. “E’ naturale che abbia senso, è geniale! E’ esattamente quello che avrei fatto anch’io, dopotutto!”
“Allora tutto ciò che devo fare è nascondere Aerith da qualche parte finché non si sarà calmata la situazione e il Presidente non sarà riuscito a trovare un direttore per il dipartimento dei Turk?” domandò Tseng, cominciando ad intravedere uno sbocco da quella situazione apparentemente senza uscita.
“Beh…” rifletté l’altro, sorridendo trionfale. “Io avrei un’idea sicuramente migliore.”
Fuori dalle finestre, la furia delle tempesta si acuiva ad ogni minuto che il tempo trascinava via con sé.

Fine Capitolo 3


Via, stavolta ho aggiornato decisamente in tempi più recenti. xD
Tuttavia, com’è mia abitudine, sono rimasto parecchio insoddisfatto dalla stesura del capitolo, che, in generale, mi sembra anche fin troppo “stridente”. Mah, spero sia solo a causa della mia ossessione per la perfezione. xD
Vorrei inoltre ringraziare individualmente i recensori per le loro magnifiche parole di supporto. A dire la verità, mi aspettavo di essere presso a manganellate a causa del megaritardo!

shining leviathan: caspita, una lettrice della prima versione di questa storia xD non sapevo avessi letto la prima “stesura” della fic, ma sono felice che questa ti stia piacendo altrettanto ^^ è vero, purtroppo il fandom italiano di FFVII contempla poco un personaggio come Cissnei, nonostante sia una delle più interessanti aggiunte in Crisis Core (e poi lei con Zack sta benissimo, è vero ç____ç). Spero che la piega che gli eventi hanno preso in questo capitolo ti soddisfi xD Grazie per il commento!

Bankotsu: che recensione mastodontica! Sul serio, la prima volta che l’ho vista sono rimasto lievemente sconcertato. E sebbene credo che tu abbia un po’ (un po’ troppo, in effetti) esagerato con gli elogi per il capitolo, devo ringraziarti davvero molto: è bellissimo avere un lettore come te così attento nella lettura e capace di assaporare in maniera così approfondita lo scritto di un autore. Grazie ^^

the one winged angel: Ciao! Beh, il fatto che tu non abbia letto la prima versione probabilmente è un bene, vorrà dire che gli sviluppi futuri per te saranno totalmente inediti ^^. Grazie tante anche per i  complimenti sulle descrizioni: metto sempre parecchia attenzione nelle parti descrittive e sono felice che ciò influenzi positivamente i giudizi. Addirittura uno dei tuoi modelli da seguire? XD *si dà delle arie* grazie T^T xD
Non sopporti Scarlet? Ma è il mio personaggio preferito XD vabbé, spero che comunque l’aggiornamento piuttosto rapido ti abbia fatto piacere. Ancora grazie!

Lirith: Non è passato un anno, sono passati solo… 10 mesi e mezzo. Ehm. xDDD Però alla fine ho aggiornato, non è questo che conta? *si para il culo* Comunque, sono davvero felice che la mia storia ti abbia sortito un tale effetto, sapere che uno scritto ha emozionato tanto un lettore è una delle cose che fanno davvero piacere ad uno scrittore come me ^^ grazie per le tue belle parole ^^ a presto!

Ringrazio inoltre the one winged angel per aver inserito la storia tra le preferite e LadySnape e shining leviatan per averla aggiunta tra le seguite. Grazie, grazie, grazie :D

Il prossimo aggiornamento arriverà il 28 luglio, a un anno di distanza da quando ho pubblicato primo capitolo (non ho ancora deciso però in quale anno pubblicarlo, quindi se non la trovate fra un mese controllate direttamente l’anno prossimo xD). No, via, non potrei mai essere così perfido xD A presto, con il quarto capitolo di questa fan fiction!


 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo 5
 

C’era qualcosa, nella sottile pioggia che solcava leggiadra i vetri della sua auto, che lo rendeva ansioso, livido, incapace di emettere alcun suono che non fosse quello di uno stanco sospiro di disapprovazione. Il silenzio all’interno dell’abitacolo era greve, massiccio, inasprito dal battito pulsante delle gocce di pioggia che s’infrangevano soavi e cariche di disprezzo, scivolando lentamente lungo il finestrino. Incrociò gli occhi con il sottile orologio da polso che portava al braccio sinistro: le quattro e ventuno. Quella notte tremendamente lunga non aveva ancora nessuna intenzione di intravedere la tanto agognata alba.
Gettò uno sguardo vago al cellulare, immobile in uno dei tanti vani portaoggetti pieni di inutili scartoffie. Lo prese in mano grossolanamente, facendo scivolare in fretta il proprio dito sul tasto di spegnimento. Lo stress delle ultime ore gli aveva procurato un grande, terribile mal di testa, e non aveva certo intenzione di condividerlo con il resto del mondo. Portò una mano alla tempia, quasi improvvisando, mentre con l’altra teneva ancora il volante, distratto, avanzando nel fragore crescente della tempesta. Ripercorse con la mente le tappe di quella lunga ed oscura notte, passata a tessere intrighi sulla tela del fato: disfaceva il filo dei suoi ricordi, smembrandolo in più parti, cercando di ricordare ogni parola dei discorsi di poche ore prima con Tseng e Scarlet. Era sicuro di essere riuscito a manovrare entrambi: dopotutto, aveva studiato i suoi piani con estrema attenzione, facendo in modo che coincidessero almeno apparentemente con quelli della direttrice; in quella notte, aveva davvero messo in moto gli ingranaggi che lo avrebbero portato alla vittoria.
Il cupo rombo della pioggia lo riscosse momentaneamente dai suoi pensieri. L’auto avanzava per le strade deserte un po’ a fatica, scivolando sulla spessa cortina di ghiaccio che la notte aveva portato con sé; si disse di fare più attenzione, se non voleva schiantarsi contro un muro. Aguzzò la vista per riuscire a distinguere gli edifici che incorniciavano il grande viale in cui si trovava, chiedendosi se mancasse ancora molto alla meta: quando riconobbe uno dei locali più dimessi della sesta strada, capì di essere finalmente vicino alla sua destinazione.
Involontariamente, le sue mani andarono ancora una volta sulle tempie pulsanti. Era sicuro di aver controllato qualunque cosa, e che ogni parte del suo piano fosse pressoché architettata alla perfezione. Ma allora, cos’era quella sensazione che gli impediva di felicitarsi per la riuscita dei suoi progetti? Sentiva che qualcosa non andava. Aveva certamente dimenticato un dettaglio, o magari non era stato abbastanza cauto in alcune sue mosse. Forse Scarlet si era accorta di qualcosa ed aveva cominciato a pedinarlo, e così aveva scoperto dei piani per sovvertire i suoi progetti. In effetti, adesso che ci pensava, c’erano troppe falle in quelle che aveva definito strategie perfette: frammenti lasciati al caso, ma che, con la giusta spinta, potevano irrimediabilmente rovinare ogni cosa.
Magari, era solo il suo latente nervosismo a parlare. Magari era il suono della pioggia che lo rendeva inquieto. Magari, quando il tifone avrebbe lasciato la città, i suoi sensi avrebbero ritrovato pace.
Magari, era destino che qualcosa andasse irrimediabilmente storto.
Le sue labbra si schiusero in un breve sospiro di riprovazione. Quando spense il motore dell’automobile, esausto, ebbe l’impressione che lo scroscio costante del temporale aumentasse addirittura d’intensità.
Il vento sferzava il suo viso con raffiche improvvise di gelo che lo costringevano a socchiudere gli occhi, ansante. Con soffi così poderosi era inutile persino tenere aperto l’ombrello. Avanzava con fatica, un passo dopo l’altro, mentre l’usuale sporcizia che distingueva la ragnatela di strade di Midgar veniva trascinata dal vento e dalla pioggia via dalla strada, verso i bassifondi. Dopotutto, nei bassifondi finiva tutto ciò che, a detta della ShinRa, non doveva essere mostrato.
I suoi passi si arrestarono davanti ad un edificio come tanti, un po’ dimesso, la cui luce proveniente dalle finestre appariva flebile nella foschia di una Midgar dilaniata dalla tempesta. Si strinse più forte nella sua lunga giacca invernale: poi, una volta emesso un lungo sospiro, si avvicinò lentamente alla porta e bussò tre volte, in rapida successione.
Mentre attendeva che qualcuno gli aprisse, sotto lo scroscio pulsante della pioggia che si abbatteva sulle strade, i suoi pensieri ripercorsero ancora una volta i numerosi intrighi che aveva intrecciato quella notte. Si rianimò, convincendosi di aver agito per il meglio e di non aver lasciato nulla, nemmeno la più sottile eventualità, sotto le direttive del caso. Sì, era la cosa giusta da fare: dopotutto, era da parecchio che non agiva più solamente per se stesso, nonostante fosse quella l’immagine che la gente poteva avere di un uomo che aveva anteposto ad ogni cosa la strada per il potere.
La porta scivolò lentamente sui propri cardini, producendo un sottile cigolio appena udibile nel fragore vibrante del tifone: sul volto della donna che gli stava davanti, per un momento, scivolò un’ombra di stupore.
“Non credevo che sarebbe venuto anche oggi. E’ la tempesta più violenta degli ultimi vent’anni.” La donna si ricompose velocemente, scostandosi leggermente dall’uscio per far sì che Michael entrasse.
“Avrebbe dovuto immaginarselo” commentò Michael, serio, facendole un cenno di saluto con la testa.
“Già, forse. In tutti questi anni non ha mai mancato una settimana.” La voce della donna si fece più seria, mentre richiudeva la massiccia porta alle spalle di Michael.
La sala d’attesa dell’edificio era stretta, un po’ angusta, con un pavimento a scacchi sbiadito dal tempo e dall’usura. Le pareti erano verdi, leggermente umide, quasi soffrissero della vigorosa tempesta che stava piegando Midgar in ginocchio. Senza ulteriori indugi si avvicinò al bancone, seguito dalla donna.
“Il paziente della camera 13 sta dormendo, mi spiace” esordì lei, mentre consultava rapidamente diversi fascicoli posti sulla sua scrivania.
“Non mi importa. Non è che mi aspettassi diversamente, data l’ora.”
“Sembra che questa notte sia destinata a non terminare mai” commentò quella in risposta, quasi leggendogli nella mente. “Credo sia colpa del tempo, sa. Non che di solito Midgar sia abbagliata dal sole, ma… con nuvoloni del genere, credo che non avremo nemmeno un po’ di luce per un bel po’ di giorni… sarà triste.”
Michael non rispose, forse perché non aveva particolarmente voglia di stare a contatto con la gente, a quell’ora. Era stanco e provato dalla sferzante bufera di eventi che aveva coinvolto la ShinRa, e tutto ciò che voleva era soltanto attendere e lasciare che il destino si compisse, nonostante tutto ciò che riguardava il futuro lo turbasse più di quanto riuscisse ad ammettere persino a se stesso. Quando la donna gli intimò di seguirla, Michael era ancora perso tra i suoi pensieri, e si riscosse solamente quando quella, fermandosi bruscamente, aprì la porta della camera 13 e lo invitò ad entrare.
“Si prenda tutto il tempo che vuole” disse, facendo scivolare la mano sulla maniglia.
Michael annuì e la ringraziò a bassa voce; poi, con un respiro profondo, entrò all’interno della camera e richiuse la porta alle proprie spalle, con un leggero tonfo il cui eco fece vibrare appena le finestre rigate dalla pioggia.
E infine, era arrivato. La stanza era piccola, forse anche più di quanto ricordasse, nonostante non vedesse quel luogo da solo una settimana; la luce al neon era fredda e innaturale, e illuminava con violenza le pareti completamente bianche della stanza. Mentre si avvicinava lentamente al letto bianco all’interno della camera, diversi lampi squarciarono il cielo notturno, illuminando con chiarezza, anche solo per un attimo, l’intera Midgar in preda alla furia del vento e della pioggia.
Lentamente, alzò un braccio fino a toccare la guancia della bambina che dormiva serenamente nel candido letto della stanza. Scottava di febbre, ma non se ne sorprese più di tanto: dopotutto, non era una novità.
Ebbe la tentazione di svegliarla, di scuoterla leggermente per un fianco fino a farle aprire gli occhi gonfi di sonno; e poi di parlarle, perché sentiva che poter esternare a qualcuno le proprie preoccupazioni avrebbe potuto aiutarlo, tranquillizzarlo in quella turbinosa notte in cui aveva scelto di venire allo scoperto. Ma non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere, perciò si limitò a scostarle una ciocca di capelli chiari dal viso e ad osservarla dormire, in silenzio, mentre pensieri sconnessi si agitavano nella sua mente, trainati dalla crescente inquietudine che lo irretiva e che, ne era certo, lo avrebbe sicuramente portato a commettere un passo falso. Mentre osservava il viso della figlia, si chiese se quella sarebbe stata l’ultima occasione in cui avrebbe potuto vederlo: il destino aveva già dimostrato di essergli avverso, ed un ulteriore attacco durante quella notte avrebbe potuto rivelarsi fatale.
In quel momento, mentre la tempesta infuriava per le strade della città, ogni cosa era nelle mani di Tseng. Se avesse consegnato l’Antica ad Hojo, Scarlet non sarebbe riuscita a prendere il potere e lo scienziato avrebbe rispettato i loro patti. E Michael Kreuger, finalmente – per la prima volta da parecchio, forse – avrebbe potuto essere libero.
 
 
 
 
 
Era accaduto parecchio tempo prima, in un’altra serata di pioggia, quando il futuro della ShinRa era ancora ricolmo di sogni e speranze – era l’epoca dei Soldier e di Sephiroth, dopotutto. Ricordava qualcosa, nel tiepido fragore del temporale che si abbatteva sulla città silenziosa, che lo circuiva e ammaliava al tempo stesso, spingendolo ad osservare con sempre rinnovato interesse le gocce che scivolavano lungo la superficie delle grandi vetrate della ShinRa.
Ricordava di aver ammirato la pioggia scendere oltre il bordo della finestra, mentre i suoi pensieri, sfuggevoli come la scia leggera dell’acqua, si muovevano vorticosamente, trainati dal turbine degli ultimi eventi che l’avevano travolto con la forza del temporale che si era abbattuto sulla città.
D’un tratto, s’era ritrovato a respirare profondamente, percorrendo con le dita la linea elegante di una goccia d’acqua appena infrantasi contro la superficie velata del vetro. La testa gli pulsava terribilmente, ma non se n’era preoccupato, poiché aveva questioni più urgenti a cui pensare e che richiedevano prepotentemente la sua attenzione.
Quando uno scienziato dal viso anonimo lo aveva chiamato, chiedendogli di seguirlo, Michael aveva tirato un profondo sospiro, in preda all’agitazione; poi, cercando di dissimulare il proprio nervosismo, s’era alzato in piedi e, a passi lenti e ben calibrati, l’aveva seguito fino all’interno del laboratorio del Professor Hojo, guardandosi intorno in un misto di timore e preoccupazione.
Alla fine, era stato condotto proprio davanti al sorriso sardonico del direttore del reparto scientifico, che l’aveva osservato con lo stesso malcelato interesse perverso che avrebbe avuto per una qualsiasi cavia da laboratorio. I suoi occhi s’erano stretti fino a diventare due fessure, mentre con una mano raddrizzava gli occhiali su per il lungo naso.
“Devo dire che non mi sarei mai aspettato una tua visita, Michael Kreuger” aveva gracchiato Hojo, sorridendo beffardo. “Ho sempre pensato che il tuo testone fosse così pesante da non permetterti neanche di alzarti dal letto di Scarlet.”
Michael non aveva risposto, perché sapeva che Hojo non avrebbe mai resistito all’idea di canzonarlo un po’. Era rimasto in silenzio, mordendosi le labbra per non controbattere alle provocazioni che l’altro elaborava con l’ombra di un ghigno sottile sul viso.
“D’altro canto, però,” aveva ripreso Hojo, schiarendosi la voce e guardandolo negli occhi, “sapevo che saresti venuto da me fin dalla prima volta che ho sentito di tua figlia. Insomma, Eliza Kreuger affetta da intossicazione da mako? Non è mica uno scandalo a cui la ShinRa deve porre rimedio, è soltanto un pettegolezzo succoso che non farà altro che alimentare quelle meravigliose voci nei tuoi confronti. E questa faccenda sarà la tua rovina.”
“Ma tu stai conducendo diverse ricerche sull’intossicazione da Mako…” aveva protestato Michael, avvicinandosi di qualche passo allo scienziato gongolante. “Potresti inserirla nel programma di sperimentazione Soldier che…!”
“Credi sul serio che userei il corpo di un fragile essere come tua figlia per i miei esperimenti?” il ghigno vibrante sul volto di Hojo si era aperto sempre più, fino a schiudersi in una risata stridente che aveva fatto scorrere diversi brividi sulla sua schiena. “Perché non ti rivolgi semplicemente ad un becchino, allora?”
D’un tratto, aveva sentito i propri muscoli del viso irrigidirsi. “Si dice che con Lucrecia Crescent però non ti sia fatto problemi, vero? Quindi non sarebbe la prima volta che…”
“SILENZIO!” il grido improvviso di Hojo l’aveva zittito in un istante, ma qualcosa nel suo viso, in quel momento, gli aveva suggerito che forse era quello il tasto giusto da premere per ottenere ciò che desiderava.
Hojo si era ricomposto in pochi attimi, tuttavia i suoi occhi lo avevano guardato con sospetto e ammonizione. “Forse potrei accettare la tua richiesta. Dopotutto, è da parecchio tempo ormai che le mie ricerche non vertono più sulle direttive del Presidente. Suppongo che aggiungere un paziente idoneo al programma di sperimentazione non sarebbe un… problema.”
Michael aveva alzato lo sguardo, quasi incredulo per le parole dello scienziato davanti a lui. Proprio allora, però, aveva notato con timore l’ampio ghigno sul volto di Hojo. “Tuttavia, credo che… chiederò qualcosa in cambio. Giusto perché ritengo che Scarlet non sia per nulla adatta a diventare Presidente di una compagnia come questa.”
I loro occhi si erano incontrati nuovamente, ed era stato in quel momento che Hojo – osservando la determinazione di un padre disperato – aveva compreso di aver trovato un prezioso alleato in quel gioco di potere contro Scarlet.
Così, in una serata di pioggia di qualche tempo prima, Michael e Hojo avevano stretto un patto. Michael avrebbe dovuto tradire Scarlet e consegnare l’Antica al reparto sperimentazione scientifica, attribuendo ad Hojo il merito della sua cattura. A quel punto, Hojo sarebbe riuscito a prendere il potere e a spodestare il presidente, e solo allora la figlia di Michael – già in fin di vita – avrebbe potuto avere una possibilità di salvezza.
 
 
 
 
 
La tempesta di Midgar, se possibile, sembrò aumentare d’intensità durante tutta l’ora successiva. Quando l’orologio sulla sua scrivania in mogano segnò le sei e trenta del mattino, Scarlet, con un mezzo sorriso tirato, gettò uno sguardo di sfuggita alla sottile linea dell’orizzonte oltre Midgar, quasi invisibile nella furia della pioggia ininterrotta e del vento. Il sole, che già raramente lambiva la ragnatela di strade di Midgar, sembrava non esser nemmeno sorto: il buio delle strade persisteva con la stessa intensità di alcune ore prime, quando era ancora notte fonda. Interi settori della città erano in pieno blackout, probabilmente a causa dei danni del vento e della pioggia ai generatori di elettricità: dovunque, la luce sembrava flebile ed effimera, pronta ad annichilirsi per l’effetto del tifone che aveva colpito la città con inaudita violenza.
Un lampo squarciò il cielo plumbeo e gonfio di pioggia a poche centinaia di metri della sua finestra, mentre i suoi occhi si dilatavano per la sorpresa: appena pochi secondi dopo, un intero vicolo della città ardeva tra le fiamme di un generatore d’energia esploso. Il boato che seguì l’esplosione fece tremare le grandi vetrate del suo ufficio. Mentre il bagliore pulsante delle fiamme che si espandevano a macchia d’olio, contrastando la pioggia battente, si rifletteva nei suoi occhi, si chiese quante fossero fino ad ora le vittime di quella tempesta: probabilmente, erano già centinaia solo nella parte superiore del piatto, non considerando i bassifondi. Tuttavia, non è che le importasse granché delle vite umane in pericolo nella città: la sua era una stima rigorosamente scientifica dei danni causati dal temporale, qualcosa che, nel momento in cui avrebbe preso il comando, si sarebbe rivelata di vitale importanza.
Era ormai certa della riuscita del suo piano. Dopotutto, la discussione avuta con Michael poche ore prima dimostrava la validità dei suoi progetti, che avrebbero trovato riscontro entro pochi minuti da quel momento. Ripensò alle parole dell’uomo, mentre la rassicurava sulla riuscita della strategia che avevano ideato insieme per ottenere l’Antica. Un leggero sorriso sprezzante le si dipinse sul viso, mentre prendeva un fascicolo dal cassetto più profondo della sua scrivania e lo osservava. Ma davvero Michael l’aveva creduta così stupida? Aveva creduto sul serio che non avrebbe raccolto informazioni sui suoi spostamenti e sulle sue intenzioni? Di certo non si sarebbe lasciata ingannare così, senza far nulla per contrastare le sue mosse. Al contrario, aveva lavorato duramente per far sì che ogni possibile mossa di Hojo e Michael potesse venire intercettata dalle sue spie: solo così era riuscita ad elaborare una strategia alternativa a cui avrebbe dato il via entro pochi minuti. Come ogni settimana, Michael aveva lasciato l’edificio ShinRa per andare a trovare Eliza nella casa di cura della sesta strada, ma al ritorno avrebbe trovato un comitato di benvenuto pronto a sequestrarlo. E con Michael fuori dai piedi, l’Antica sarebbe finita dritta nelle sue mani, e il Presidente – probabilmente l’unico escluso nel gioco di potere che mirava alla sua posizione – sarebbe stato arrestato e rinchiuso in una delle celle dei sotterranei.
Si era dimostrata più astuta dei propri avversari, ed aveva vinto la battaglia. Pregustò il sapore della gloria imminente, mentre alle sue spalle, oltre la spessa vetrata del suo ufficio, in basso, tra le strade di Midgar, il fuoco crepitava e s’inaspriva con violenza, riducendo a nero carbone le vite e i sogni degli abitanti di Midgar.
 
 
 
 
 
Michael osservava dal parabrezza la pioggia di scintille che si espandeva per l’aria. Il cielo sopra Midgar si era tinto di rosso, mentre l’incendio si propagava con rapidità trainato dal vento sferzante della tempesta. Alcune centinaia di metri alla sua destra, un altro generatore esplose con un grande boato che risvegliò l’intera città. Le urla dei cittadini di Midgar crebbero d’intensità, mentre la luce abbagliante di un terzo lampo annunciava l’ennesima violenta esplosione.
Scese dall’auto a passo svelto, guardandosi intorno e stringendosi nella propria giacca per cercare di ripararsi dal vento e dalla pioggia. Gli edifici alla sua destra sfumavano nel rosso cremisi delle fiamme, mentre i corpi della gente all’interno – i più probabilmente colti nel sonno – emanavano un odore nauseante di carne bruciata. Il calore delle fiamme era quasi insopportabile.
Risalì nell’auto, afferrando una manciata di documenti e una pistola dal cruscotto; poi, richiudendo la portiera alle sue spalle, cominciò a correre il più lontano possibile dalle possenti fiamme dell’incendio: inciampò nel cadavere semicarbonizzato di una donna mentre l’aria veniva scossa da un’ulteriore esplosione, e  le fiamme, ancor più selvagge e indomabili, avvolsero ben presto l’automobile che fino a qualche minuto prima l’aveva ospitato, distruggendola. I suoi occhi si spalancarono di sorpresa mentre diversi frammenti di lamiera fendevano l’aria alle sue spalle, incartapecorendosi e sfumando nel rosso accesso delle strade di Midgar. Si rialzò in piedi proprio mentre molti degli edifici alla sua destra cedevano sotto il loro stesso peso e una valanga di detriti invadeva la strada prepotentemente.
Si mosse con circospezione, evitando i numerosi cadaveri che gli intralciavano il cammino; ascoltò le grida disperate di un uomo sepolto sotto le macerie lambite dal fuoco, ma non fece nulla per cercare di salvarlo, e mentre un’ulteriore esplosione scatenava le fiamme con una nuova e rinnovata furia distruttrice, si chiese se Hojo avesse rispettato il loro patto anche qualora fosse morto. La risposta gli venne quasi spontanea, insieme ad un sorriso leggero carico di disprezzo che gli curvò gli angoli della bocca.
Muovendosi con circospezione evitò i cadaveri di due bambini trascinati in strada dall’onda d’urto dell’ultima esplosione: corse con forza, mentre la pioggia picchiava sul suo viso e il vento scuoteva forte le sue membra, cercando di ignorare le urla e lo sfrigolio della carne bruciata dal fuoco alle sue spalle.
E poi, all’improvviso, qualcosa afferrò una delle sue gambe, impedendogli di muoversi. Era un ragazzo, non più che quindicenne, semisepolto dalle macerie di una casa già bruciata che aveva ceduto sotto il peso delle sue fondamenta. C’era del sangue che colava dalla sua fronte, e mostrava diverse scottature sul viso.
“Ti prego, aiutami, le mie gambe…!”
Michael gettò un’occhiata alle fiamme trainate dal vento, poi guardò nuovamente il ragazzo, incerto sul da farsi. Alla fine si chinò su di lui e cominciò a spingere via le macerie. Il ragazzo tossì forte per i fumi dell’incendio, mentre cercava di dare una mano all’uomo che tentava di salvarlo.
“N… non riesco…” la voce di Michael era quasi rotta dallo sforzo. “Non riesco… a spostarlo…” Provò per un’altra manciata di secondi, poi si rimise in piedi, ansante. “Mi spiace… io, devo… devo andare via…!”
Il ragazzo rafforzò la presa sulla sua gamba. “Non lasciarmi qui, ti prego! Il vento soffia da questa parte, le fiamme arriveranno a momenti, ti prego, aiutami!”
“Lasciami andare!” esclamò Michael, mentre il cuore gli batteva a mille. Diede uno strattone, ma non aveva più molte energie e non riuscì a liberarsi dalla presa del giovane; a pochi metri, il fuoco venne alimentato dall’esplosione del serbatoio di un automobile. “LASCIAMI!”
Il ragazzo non sembrava intenzionato a lasciarlo andare, e Michael, quasi senza accorgersene, prese una decisione. Estrasse dalla giacca la pistola che poco prima aveva recuperato dal cruscotto della proprio auto e la osservò impassibile, mentre gli occhi del giovane si dilatavano per la sorpresa e la paura. Ma prima ancora che quest’ultimo potesse aprire bocca per supplicarlo, Michael lo aveva già colpito con il calcio dell’arma, e il ragazzo era già morto sul colpo, accasciandosi con grazia sulle rovine del marciapiede. La presa intorno al suo piede non sembrava più così salda, adesso.
E poi, ancora una volta, saette, vento, pioggia, fuoco: l’inferno si era scatenato sul settore 6 di Midgar, e la città stava ardendo annichilendosi sotto il peso della tempesta che l’aveva stracciata. Quando alla fine, correndo senza mai voltarsi indietro, raggiunse l’ombra rassicurante di un vicolo nei pressi dell’Edificio ShinRa, il suo cuore batteva forte e le sue mani tremavano terribilmente, ma di certo era ancora vivo. E mentre osservava il cielo rosso sopra di sé, e guardava le proprie mani sporche di sangue e polvere, si disse di analizzare con calma la situazione, e di decidere il da farsi una volta giunti al Quartier Generale. Mentre il suo respiro, lentamente, tornava regolare, si mosse con circospezione, incurante del proprio aspetto stravolto, ed entrò all’interno dell’Edificio ShinRa, fino a raggiungere la hall della struttura.
C’erano due uomini davanti al bancone d’ingresso. Appena lo videro, incuranti del suo aspetto, si fecero un cenno di assenso e gli andarono incontro, con un’espressione neutra sul volto.
“La Direttrice Scarlet vorrebbe vederla. Siamo stati incaricati di scortarla fino al suo ufficio.” Le loro voci non tradivano alcuna emozione, tuttavia, nel momento esatto in cui Michael le ascoltò, capì che qualcosa, nei suoi piani, era andato storto. E si dimenticò dell’inferno al Settore 6, dei morti, del fuoco, degli occhi di quel ragazzo che avevano implorato prima aiuto e infine pietà, mentre la sua mente si focalizzava su un unico pensiero che lo paralizzò e lo gettò in preda al terrore. Lei sa. Ha sempre saputo.
Con un gesto elegante portò la propria mano al mento, come se si stesse chiedendo il perché di quella strana convocazione, ma poi, con uno scatto repentino, la fece scivolare all’interno della giacca e, con la pistola in mano, sparò colpendo uno dei due uomini in testa.
Il sangue gli schizzò sul viso e sulla giacca nera, mentre il corpo dell’uomo crollava sul pavimento di marmo della hall. Mentre l’altro uomo osservava con stupore la bile rossa che sgorgava dal cervello del cadavere, Michael lo stese con un pugno e lo freddò colpendolo allo stomaco con un altro proiettile.
In breve, si scatenò il panico. Cominciò a correre per la hall, evitando gli spari dei numerosi fanti posti a guardia dell’entrata; poi si infilo in uno dei corridoi secondari del primo piano, mescolandosi tra la folla che si accalcava verso le uscite. Doveva andarsene, prima che lo uccidessero: se Scarlet l’aveva scoperto sul serio non sarebbe resistito molto lì dentro. In verità, doveva allontanarsi da Midgar: l’intera zona sarebbe stata sicuramente messa a ferro e fuoco dalla direttrice, nella speranza di trovarlo. Si avvicinò a una delle tante uscite di emergenza, ma con un tuffo al cuore si accorse che tutte le porte erano state bloccate. A quanto pare, Scarlet aveva progettato i suoi piani con cura.
Alle sue spalle accorsero diversi fanti della ShinRa. Michael ne colpì uno, poi si gettò a terra per evitare gli spari di altri tre soldati. In risposta al fuoco nemico alzò il braccio e premette nuovamente il grilletto con forza: un altro fante si accasciò a terra ansante, mentre la vita scivolava via dalle sue mani. Si rimise in piedi, evitò un altro proiettile e rispose con un colpo che tuttavia mancò il proprio bersaglio.
D’un tratto, sentì le ossa della propria gamba spezzarsi con un sonoro schianto, mentre il sangue gli impegnava i pantaloni sgualciti e macchiava il pavimento di marmo. Represse un urlo di dolore e crollò a terra, trascinandosi sulla gamba ferita dallo sparo di uno dei fanti che lo inseguivano. Rispose con un altro sparo che colpì due fanti, poi si rimise in piedi a fatica e cercò di fuggire trascinando la gamba ferita. Imprecò quando si accorse della scia di sangue che la sua gamba aveva lasciato sul marmo lucido del corridoio.
Attorno a lui, adesso, c’era il silenzio. Si trascinò ansante sulla gamba ancora sana fino a poggiare la schiena lungo la parete, poi riprese fiato ansimando, approfittando dell’innaturale quiete di quel momento. Si posizionò meglio, con la pistola pronta in mano: presto sarebbero accorse altre guardie, dunque sarebbe stato meglio non farsi cogliere impreparato.
“Sai che è stata una mossa stupida venire qui, vero?” pronunciò d’un tratto una voce femminile davanti a lui. Ascoltò l’eco dei suoi passi avvicinarsi sempre di più, mentre sul volto gli si dipingeva già un sorriso sprezzante.
“E tu sei una che se ne intende di mosse stupide, giusto?” ironizzò lui in risposta, osservandola.
Scarlet chiuse gli occhi, mentre un sorriso sarcastico le curvava le labbra. “Non avresti dovuto allearti con Hojo: ho vinto io. Sapevi che sarebbe finita così, dopotutto! Non ricordi cos’è successo a Eliza?”
Michael scattò all’improvviso, levando la pistola in alto e cercando di colpire Scarlet, ma la donna si rifugiò dietro lo stipite di una porta e il colpo andò a vuoto. 
“Che c’è, è passato così tanto tempo, dopotutto…!” fece lei ironica, mentre rispondeva con un colpo di pistola che gli sfiorò la spalla.
“L’ho fatto soltanto per salvarla!” rispose, la faccia contratta dal dolore per il brusco movimento che era stato costretto a fare per evitare il proiettile della donna.
“Beh, è stato comunque inutile. Io ho capito fin dal primo istante che non c’era più nulla da fare per lei… avresti dovuto lasciar perdere!”
Scarlet pronunciò le ultime parole con ferma amarezza, poi prese nuovamente la mira, uscendo allo scoperto: e prima ancora che Michael riuscisse a puntarle contro la propria arma, lei aveva già premuto il grilletto. L’urlo di Michael riecheggiò per i freddi corridoi della ShinRa, seguito dal clangore della pistola che toccava terra. L’ultima cosa che l’uomo vide, prima che la coscienza lo abbandonasse, furono i tacchi alti di Scarlet che si allontanavano, salendo le scale, certamente diretti verso l’ufficio del presidente ShinRa. 

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Bene, avevo promesso un capitolo entro 15 giorni ed è passato un anno. Forse è meglio non far più nessuna promessa, se è questo l'effetto che hanno. xD
Che capitolo travagliato. Ci ho messo un anno e non sono per niente soddisfatto: magari la prossima volta mi prendo un decennio. 
Comunque, ringrazio tutti coloro che hanno letto e commentato il precedente capitolo, ovvero Zackneifan, the one winged angel e shining leviathan. Ringrazio ulteriormente Zackneifan per l'entusiastica recensione che ha permesso ad ACS di meritarsi un posto tra le Storie Scelte (sebbene da allora non è che mi sia ammazzato di aggiornamenti, ma vabbé, proverò a farmi perdonare). Infine, un grazie anche a tutti coloro che hanno letto. Arrivederci al prossimo capitolo di questa storia! 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Dov’eravamo rimasti, ovvero riassunto veloce per tutti coloro che in quest’anno hanno dimenticato cos’era successo:

Cloud e Cissnei, entrambi in fuga da Midgar, si scontrano nella foresta e sono sorpresi da Reno, inviato a recuperare entrambi per conto della ShinRa e in particolare della nuova direttrice del reparto Turk, Scarlet. Dopo una colluttazione in cui Reno ha la meglio su entrambi, essendo venuto a conoscenza delle nuove direttive della ShinRa (freddare entrambi nella foresta eliminando ogni traccia di cattiva condotta), decide di inscenare la fuga dei due ricercati e di ferirsi utilizzando lo Shuriken di Cissnei.
Contemporaneamente, Scarlet e Michael concorrono per il potere in una Midgar sempre più martoriata dalla tempesta. Entrambi sanno che l’unico modo per spodestare il presidente ShinRa e mettere a tacere l’avversario è recuperare l’antica, ma solo Scarlet ha il potere di ordinare ai Turks di farlo, mentre Michael deve trovare un altro modo. E’ per questo che, nel momento in cui la donna ordina a Tseng di recuperare Aerith, Michael decide di entrare in azione alleandosi con Tseng e promettendogli un posto sicuro dove nascondere la ragazza, nonostante egli agisca in realtà per conto di Hojo e del reparto scientifico della ShinRa, a cui aveva promesso l’antica in cambio dell’appoggio nella sua imminente presa di potere ai danni del presidente.
Durante la notte si svolgono, parallele, le storie di Tseng e di Michael: il primo va a recuperare Aerith, che si sente minacciata dalle sue parole e, dopo uno scontro con il Turk, viene ferita gravemente da un colpo di pistola; il secondo, inquieto, passa le ore notturne ripercorrendo con la mente il suo piano, cercando di convincersi che nulla può andare storto. Dopo una visita silenziosa in una casa di cura, Michael, attraversando la tempesta di Midgar, torna alla ShinRa: ma è qui che lo coglie la consapevolezza che tutto è andato storto, e mentre Scarlet attua il suo piano per la conquista del potere, egli viene colpito e messo fuori gioco, perdendo definitivamente la lotta per il potere.

 

Capitolo 6

 

Era sottile, la linea chiara che timorosamente lambiva l’orizzonte. Accarezzava quasi negligentemente le valli, con noncuranza, incapace di sbiadire il cielo cupo che si estendeva sopra le fronde nodose delle querce della foresta: e l’oscurità della nottata trascorsa si insinuava a forza tra le radici degli arbusti, accarezzando gli angoli più sinuosi del sottobosco che si snodava attraverso la vegetazione agitata da una brezza sottile.
Presto sarebbe stata l’alba. Il sole non si vedeva ancora, ma il cielo assumeva già una leggera venatura perlacea che entro pochi minuti sarebbe stata screziata di cremisi, e gli uccelli rintanati sulle alte querce avevano già cominciato a cantare. Deboli gocce di rugiada lambivano le punte dei fili d’erba e gli steli sottili dei fiori selvatici che si estendevano per le radure, mentre il vento – carezzevole, ma al tempo stesso anche  florido – li curvava dolcemente sotto il suo soffio tenue.
La sua mano cercò sostegno sulla corteccia nodosa di un albero nei paraggi, spostandosi all’improvviso fino a tastare la superficie irregolare dell’arbusto. Si muoveva lentamente, in maniera irregolare, faticando terribilmente anche nel compiere i più piccoli e semplici gesti: annaspò, il respiro spezzato, muovendo un ulteriore passo verso la radura e oltrepassando una radice che si estendeva, articolata, lungo il selciato roccioso e quasi impercorribile. Respirò a fondo per diversi secondi, gli occhi chiusi, cercando di ritrovare l’equilibrio e la concentrazione adatta per muoversi in quell’intricato labirinto di sterpi che si estendeva davanti a lui: ascoltando il rumore  dei passi della ragazza che lo precedeva, cercava di coglierne i movimenti, la direzione, l’intensità dell’andatura. Cissnei andava veloce ed era svelta, si muoveva con innata naturalezza tra gli sterpi e li evitava con appena un delicato movimento: il suo shuriken brillava alla luce della luna, ancora macchiato del sangue del Turk dai capelli rossi incontrato qualche ora prima. L’avevano recuperato accanto al suo corpo esanime e, indecisi sul da farsi, avevano semplicemente deciso di fuggire, nella speranza che, nel momento in cui si fosse svegliato, egli non avrebbe avuto l’ostinazione di inseguirli nuovamente e di attaccarli ancora. D’altro canto, Cissnei sembrava conoscere bene il Turk ed era rimasta turbata dall’esito del loro scontro: ma aveva preferito – come lo stesso Cloud, del resto – chiudersi in un silenzio inquieto piuttosto che esternare ad alta voce i propri timori. Dopotutto, in quel momento era necessario allontanarsi il più possibile dal ragazzo svenuto: ben presto avrebbe ripreso conoscenza e avrebbe indubbiamente provato a seguirli di nuovo.
Camminavano sulle rocce per evitare di lasciare impronte, ma le ferite al petto e alla gamba lo impacciavano parecchio e spesso si ritrovava semplicemente senza fiato per il dolore, all’oscurità ancora pressante del giorno che si era appena dischiuso. L’orizzonte si infuocava al nascere dell’aurora, ma all’interno della foresta erano pochi i raggi luminosi di sole che bagnavano il sottobosco: procedeva quasi a tentoni nella penombra delle fronde degli alberi, ancora in difficoltà, quasi inseguendo l’ombra sfuggevole di Cissnei che – spaventata, forse – si muoveva agilmente tra le frasche esangui degli arbusti più bassi.
Avanzò ancora di qualche passo, ma una fitta all’altezza dello sterno lo stremò e fu costretto a lasciarsi cadere sulle ginocchia, il volto schiuso in una smorfia di dolore.
“E’ tutto a posto?” chiese la ragazza, fermandosi e voltandosi a fissarlo con una nota di apprensione nella voce.
“Sì…” biascicò lui in risposta, smorzando con le parole il senso di nausea che gli impediva di risollevarsi in posizione eretta.
“Avremmo dovuto medicare con più attenzione quelle ferite. Sembrano gravi” osservò la ragazza, tornando sui suoi passi e fissandolo con attenzione.
“Hanno solo bisogno di tempo. Ne abbiamo bisogno entrambi, direi” fece l’altro in risposta, dando un’occhiata alla gamba ferita di Cissnei e alla pelle del polpaccio macchiata di denso sangue vermiglio.
“Abbiamo bisogno di allontanarci da qui, innanzitutto.”
“Sapevo che l’avresti detto.”
“Se Reno o qualcuno degli altri dovesse trovarci in queste condizioni, finiremmo direttamente nelle mani di Scarlet, ed è l’ultima cosa che desidero in questo momento” rispose Cissnei, contrariata.
“Quindi credi che il rosso stia dicendo la verità?”
“Conosco Reno da abbastanza tempo per sapere quando mente o quando è davvero preoccupato per qualcosa. Se ha nominato Scarlet, allora vuol dire che a Midgar sta accadendo davvero qualcosa.”
“Non ho molti ricordi di lei, in realtà.”
Cissnei incurvò leggermente gli angoli della bocca in un sorriso aspro.  “Sfido, non è che fosse particolarmente legata a SOLDIER, né del resto ai Turks.”
“E adesso perché li comanda, allora?”
“E’ quello che vorrei capire anch’io, ma non sono certa che la notizia sia esattamente delle migliori. Sta tramando qualcosa.”
Il cielo si era ormai del tutto rischiarato, e i raggi di sole screziavano di luce la superficie irregolare del sottobosco. Procedevano più velocemente, adesso, ed anche se l’inquietudine di Cissnei, al ricordo delle parole di Reno, si destava e riprendeva vigore, un’ulteriore sensazione, forse di sollievo, si faceva strada all’interno di lei con la stessa intensità del chiarore che si insinuava tra le fronde degli alberi. Era finalmente giorno, aveva trovato un alleato, e persino le radure circondate da secolari arbusti che l’avevano tanto spaventata la notte prima adesso apparivano più serene e luminose, prive di quell’aria inquietante e tormentata che le contraddistingueva.
“Comunque, volevo solo dirti… grazie.”
Cloud alzò lo sguardo verso di lei, sorpreso. “Uh?”
“Beh, lo sai, per aver cercato di proteggermi di fronte a Reno. L’ho apprezzato tanto.”
Il ragazzo continuò ad avanzare, senza trovare le parole adatte per rispondere. Per la verità, avvertiva una strana sensazione, quasi si sentisse imbarazzato a causa sua. Alla fine decise di borbottare a bassa voce un “Non è che sia servito poi a molto”, evitando accuratamente di rivolgere lo sguardo verso di lei.
“Ho capito che posso fidarmi di te, non è poco” rispose lei. “Ed è stato davvero un bellissimo gesto.”
“Abbiamo lavorato insieme.”
“Beh, allora siamo un’ottima squadra.”
Le sue labbra si schiusero in un sorriso. Era da parecchio che non le succedeva, in effetti. Non ci avrebbe giurato, ma le parve che persino il volto di Cloud si fosse fatto meno duro, quasi come se gli angoli della sua bocca si fossero leggermente increspati sotto la spinta di quelle parole. Ed ora che il suo viso appariva così rilassato, era facile scorgere in lui quelle espressioni e quei gesti che lo rendevano simile a Zack, e un nuovo velo di tristezza le oscurò il volto improvvisamente.
In breve, gli alberi si erano già fatti più radi. Interi fazzoletti di terra venivano adesso irradiati dalle luce del sole che, ormai sorto del tutto, rischiarava le radure e le valli circostanti. Si erano ormai lasciati alle spalle le gelide ombre della foresta oscura, ed entrambi, leggermente rincuorati, decisero presto di sostare all’ombra di un nodoso faggio che svettava tra l’erba alta.
“Fa’ vedere le ferite”
Cloud mugugnò riluttante, borbottando che stava bene e di farsi gli affari propri.
“Pff, certo che sei cocciuto.”
“Ho detto che sto bene.”
“Non sembrerebbe, dato il tuo aspetto. Hai qualche materia curativa con te?”
Il ragazzo fece no con la testa.
“Mmmh.”
“Che c’è?”
“Dovremmo trovare un altro modo per curare quelle ferite, allora.”
“Guariranno da sole” rispose Cloud stizzito.
“Non abbastanza in fretta, però.”
“Va bene, va bene, fa’ come ti pare, allora!”
Trascorsero alcuni istanti di silenzio in cui ognuno evitò lo sguardo dell’altro.
“Beh, dovremmo essere molto vicini a Kalm Town, da qui” decretò Cissnei alla fine, scrutando l’orizzonte verso ovest aldilà delle montagne.
Cloud la guardò un po’ confuso. “E allora?”
“Allora hai bisogno di cure e Kalm Town è il posto più vicino per procurarcele. Da lì possiamo decidere come muoverci per attuare la nostra prossima mossa” rispose la ragazza risoluta.
“Kalm Town” le fece eco Cloud, mentre un sorriso sardonico gli macchiava il viso. “Quindi hai deciso di tornare a Midgar, non è così?”

 

 

 

 

Mideel, alcuni anni prima.

C’è qualcosa di insolito e particolare nella disarmante impazienza con cui la notte avvolge Mideel. Il cielo si tinge di vermiglio quasi inaspettatamente, cogliendo di sorpresa lo spettatore più svagato e disattento: e mentre questi, riscossosi appena dai suoi pensieri, osserva ammirato il profilo del sole oltre la rigogliosa vegetazione, l’aria si è già fatta più frizzante, e le stelle, luminose come nelle notti d’estate, si espandono per la grande volta celeste. Le torce e i falò crepitano serenamente, mentre le ombre – delle case, degli alberi, della gente del luogo – si allungano sull’arido selciato, fino al limitare del bosco. Il sentiero che conduce alla selva è in terra battuta, breve, definito da un esile steccato di legno rugoso.
Mentre ritorna al villaggio, la sua mano lambisce quasi di sfuggita la superficie coriacea della staccionata. Il legno è mal lavorato e risulta ruvido e discontinuo al tatto, ma ritira la mano solamente quando una scheggia gli si conficca nel dito, facendolo imprecare sonoramente nella tranquilla serenità della notte ormai matura. Il suo cuore accelera i battiti, colto di sorpresa dalla fitta improvvisa: ma poi, con un respiro profondo, i suoi sensi si quietano, rabboniti dalla brezza che fa ondeggiare pacificamente l’erba che separa il villaggio dal bosco.
D’un tratto, alle sue spalle, le risate sature d’allegria di Zack Fair e di Reno riempiono la notte, costringendolo ad assumere nuovamente una sottile espressione contrariata. Accelera il passo, lievemente stizzito dalle inutili chiacchiere dei due uomini alle spalle, e si concentra sul tiepido canto delle cicale estive, cercando di allontanare dalla mente la mole di scempiaggini che gli altri – chissà, magari anche consapevolmente – non smettono di elucubrare; ma è tutto inutile, e le loro frivole parole – così inadatte ad un incarico oneroso come quello – s’insinuano nella sua mente, vanificando ogni suo sforzo di mantenere inalterata la concentrazione.
“Da’ retta a me, quella roba è palesemente truccata!” osserva con noncuranza Reno, mentre muove distrattamente il taser fendendo l’aria. “D’altronde si sa che il Gold Saucer è una gigantesca trappola per turisti idioti.”
Zack, accanto a lui, incrocia le braccia con un’espressione corrucciata sul volto. “Non dev’essere molto semplice pilotare le corse dei chocobo, però. C’è sempre un possibile margine d’errore che non può essere calcolato in anticipo…”
“Che c’è, stai pensando a come fare soldi imbrogliando?” lo stuzzica beffardamente Reno, dandogli una leggera gomitata sul fianco. “Il tuo misero stipendio da Soldier di prima classe non è abbastanza?”
“Via, non è questo il punto.” La voce di Zack si fa più seria, mentre lui e i due Turk mettono piede nel centro abitato quasi deserto. “E comunque,” aggiunge subito dopo, mentre un sorriso gli si dipinge sul volto, “non credere che io abbocchi ad ogni tua storiella idiota.”
“Peggio per te, questa qui è una storia vera” afferma l’altro con noncuranza, mentre indirizza lo sguardo verso un vicolo avvolto nell’oscurità. “Me ne ha parlato lo Zio Al l’ultima volta che sono andato a trovarlo.”
“Quello che spala le cacche dalle piste del Gold Saucer?”
“Esatto, proprio lui” afferma Reno, distogliendo lo sguardo dal vicolo e procedendo alle spalle di Tseng. “Un giorno è andato ad appartarsi con la sua nuova compagna Polly – che, tra parentesi, è davvero una gran bella…”
“Reno!”
“Scusa tanto, capo, ma per come la vedo io un complimento a una bella donna è sempre dovuto.”
“Non è questo il punto.” Tseng accelera il passo all’improvviso, lasciandosi alle spalle i due straniti dal suo brusco e inatteso comportamento. Si porta una mano alla tempia pulsante, maledicendo i toni squillanti e sfacciatamente allegri dei suoi compagni di missione: poi fa un respiro profondo, cercando di non perdere la calma. “Abbiamo un compito da portare a termine.”
“A me sembra una notte piuttosto tranquilla, in realtà” s’intromette Zack, alzando le spalle in direzione della quieta foresta. “Non credo che si nasconda davvero qualcuno in questo luog…”
“Sssh!” gli fa Reno sottovoce mollandogli una gomitata sugli stinchi. “Mai contraddire il capo quando siamo in missione.”
“Ma tu l’hai fatto giusto qualche minuto fa!”
Sul volto del Turk si dipinge un lieve ghigno canzonatorio; poi, senza rispondere, l’uomo accelera il passo fino a raggiungere Tseng, che si è già infiltrato in una delle vie secondarie del villaggio.
“A quanto pare qui è tutto regolare” decreta quest’ultimo alcuni minuti dopo, quando, poco dopo aver ispezionato l’ultimo vicolo della città, i tre uomini si incontrano nuovamente al centro di Mideel. “Credo sia meglio rientrare, per stanotte. Farò rapporto al Quartier Generale e vi comunicherò le direttive per domani.”
Reno ha sul viso un sorriso un po’ storto, malizioso come quello di un bambino che in segreto affonda le mani in un barattolo di marmellata: si allontana senza dire una parola, mentre la coda vermiglia, alle sue spalle, ondeggia leggermente nella brezza della sera. Zack, d’altro canto, incrocia le braccia, incerto sul da farsi, mentre lancia uno sguardo distratto al limpido cielo notturno; poi, quasi senza che se ne accorga, le sua mani scorrono sulla tastiera del cellulare.
“Non credo sia sveglia a quest’ora” osserva Tseng con noncuranza, poggiando le lunghe dita sul mento. “Va sempre a dormire presto, la sera.”
Zack ricambia il suo sguardo, stupito. “Pagano i Turk per spiare le ragazzine, adesso?”
“A mio parere è un po’ da pedofili!” aggiunge Reno dall’oscurità, facendoli trasalire. “Strani ordini, quelli del capo…”
“Reno!” lo ammonisce Tseng, con voce ferma.
“Sto solo scherzando!” risponde l’altro con un tono giovale, allontanandosi nella notte.
Infine, sono tornati presso la locanda nella quale alloggiano. La loro camera è al piano superiore, illuminata da alcune torce alle pareti che gettano lunghe ombre sul resto della stanza. Reno si getta sul letto, sollevato, con le mani incrociate dietro la nuca; sul volto di Tseng, d’altro canto, traspare una sottile inquietudine, un leggero fastidio che non riesce a dissimulare e che s’insinua tra le pieghe del suo viso. Ha le braccia incrociate, la schiena ben dritta, il passo svelto: il rumore degli stivali neri, sulle assi di legno del pavimento, è rapido e scandito. Il suo sguardo s’insinua oltre la finestra annebbiata, fino a perdersi nella fitta e varia vegetazione di Mideel: la luce della luna illumina tutta la campagna circostante.
Interrompe il ritmo cadenzato dei suoi passi e posa, immerso nei suoi pensieri, le lunghe dita sul vetro annebbiato. E’ rientrato da pochi minuti, ma probabilmente ha già nostalgia della fresca brezza delle notti estive di Mideel, e sa già che i suoi sensi – ancora in allerta, nonostante la fine della missione – forse potrebbero trovare un po’ di pace, nel ritiro solitario della foresta che circonda il villaggio.
Sta uscendo nuovamente, a pochi minuti dal rientro, ma Reno non gli fa alcuna domanda, mentre sente la porta scivolare cigolando sui cardini: rimane con gli occhi chiusi, disteso sul letto, tra le candide lenzuola di lino su cui il suo corpo ha disegnato una sottile e quasi invisibile ragnatela di pieghe.
L’aria è ancora più dolce di come la ricorda, nonostante abbia trascorso appena qualche minuto all’interno della locanda: muovendosi per le vie fiocamente illuminate dalla luce della luna, da solo, ha l’impressione che la brezza si sia fatta più fresca e sottile, e che la luce della luna – già così intensa, in quella tiepida notte priva di nuvole – si sia fatta più viva, e pulsante, e argentea, sulle chiome vibranti degli alberi e sugli steli d’erba che si piegano sotto il vento leggero.
Probabilmente anche Zack sta vagando per le vie fiocamente illuminate di Mideel, da solo, immerso nei suoi pensieri, lontano da casa e da Aerith. Non che abbia particolarmente voglia di incontrarlo, comunque. Sospira lievemente, mentre lascia il sentiero principale e si adagia leggermente sull’erba, ad un paio di metri dallo steccato che delimita i confini del villaggio.
Tramite rattoppate e disoneste associazioni di idee, i suoi pensieri si soffermano nuovamente sulla ragazza. Non ricorda precisamente quand’è andato a farle visita per l’ultima volta: negli ultimi tempi è stato sempre impegnato con ogni genere di incarico differente. Forse è passato addirittura un mese, dal loro ultimo incontro, nella chiesa abbandonata dei bassifondi di Midgar, tra un’occhiata distratta e l’altra in un pomeriggio tranquillo trascorso in città.
“Ti credevo già addormentata da un pezzo” afferma Tseng d’un tratto, il microfono del cellulare accostato all’orecchio, mentre una leggera smorfia si disegna sul suo volto.
“E allora per quale motivo hai chiamato?” chiede Aerith in risposta, non riuscendo a reprimere una leggera risatina di scherno.
Tseng è infastidito dal tono canzonatorio della ragazza: a volte, quando parla con lei, ha l’impressione di essere preso bonariamente in giro. Non risponde alla domanda, preferendo sbuffare sull’erba carica di rugiada.
“Eddai, dovresti sostenere la conversazione, dopotutto hai chiamato tu!” esclama Aerith dopo un po’, reprimendo a fatica l’irritazione dalla voce.
“Non ho niente da dire.”
“Okay, ma non è molto educato.”
“Sei in camera tua?”
La domanda di Tseng la coglie di sorpresa, ma quando risponde il suo tono è tranquillo e carico dell’ironia che la contraddistingue.
“Sono nella chiesa a fare da babysitter alla mia guardia del corpo” afferma, trattenendo a stento una risata, mentre dal cellulare si avvertono delle lamentele in lontananza. “E sta’ un po’ zitto!” esclama di nuovo lei, alzando la voce. “A quest’ora i marmocchi dovrebbero dormire, anche se sono Turks della ShinRa.”
Un breve sospiro di Tseng si perde nella rarefatta aria notturna di Mideel. Ha imparato a conoscere quella ragazza e sa bene quanto possa essere cocciuta, a volte. La ascolta redarguire il giovane Turk incaricato di sorvegliarla, in silenzio, cercando di immaginarne il viso che si infervora, animato da un guizzo a metà tra il divertito e l’irritato. Sì, riesce quasi a vederla, nella penombra della chiesa fiocamente illuminata dalla pallida luce della luna: e i suoi pensieri si fanno sempre più vivi e complessi, mentre una mite fantasia – giostrata dal suo sguardo – s’insinua sempre più a fondo tra le pieghe nascoste della sua mente.
“Non hai ancora risposto alla mia domanda” afferma lei all’improvviso, con semplicità, nuovamente rivolta a lui.
“Come?”
“Ti avevo chiesto perché mi hai chiamata.”
Tseng esita per qualche istante, prima di rispondere. “Agisco in difesa degli interessi della ShinRa, lo sai. La tua incolumità è qualcosa che la compagnia deve costantemente tenere sotto controllo.”
“Ah-ah” annuisce Aerith, con un tono a metà tra il sorpreso e il divertito. “Ma c’è già qualcuno, con me.”
“Volevo accertarmi che andasse tutto bene.”
La ragazza sorride. “Capisco. Un po’ come ha fatto Zack poco fa.”
Tseng impiega qualche secondo per rispondere. “Io e Zack siamo molto diversi” afferma poi, quasi sovrappensiero, più a se stesso che alla ragazza.
“Mmmh. Forse” esita Aerith, anche lei pensierosa. “Ma in un modo o nell’altro, tenete entrambi a me. E’ una bella cosa.”
Sul volto di Tseng si dipinge un tiepido abbozzo di sorriso.
E’ stata una lunga telefonata, ma quando infine ripone il cellulare, sospirando, si accorge di sentirsi ancor più inaridito di prima. Rimane ancora un po’ ad assaporare la brezza che si espande per la radura, poggiando una mano sull’erba dietro di sé: tiene gli occhi sul cielo limpido, immerso nei suoi pensieri, mentre qualcosa – in quel luogo, o magari soltanto nella sua testa – gli fa desiderare di andar via, mettersi in viaggio, lasciare tutto alle proprie spalle e ricominciare, lontano, una nuova vita.
S’alza in piedi, infine, con un vago senso di disgusto sul volto grave che fatica persino a nascondere. I suoi passi sono l’unico suono artificiale che disturba la quiete della foresta, mentre ascolta il canto dei grilli levarsi dai campi intorno al villaggio. Riprende il percorso principale, in silenzio, senza pensare a nulla in particolare – d’altronde, gli è sempre piaciuto lasciar vagare la mente, senza essere obbligato a focalizzarsi su qualcosa di definito. E lasciandosi trainare dal flusso incostante dei suoi pensieri, ma non riuscendo a coglierne nemmeno uno, si accorge di come la nottata trascorra con la rapidità di un sospiro, e, prima ancora che se ne renda conto, è già iniziato un altro giorno, tra le coperte bianche come la neve di un letto che non è il suo, e tra le braccia di una donna che non è lei.

 

 

 

 

 

Ascoltava il rumore dei suoi passi infrangersi contro le luride pozzanghere dei bassifondi, mentre il vento, quasi all’improvviso, gli sferzava il viso sporco e macchiato di sangue. Metteva un piede dopo l’altro, incerto, cambiando spesso direzione ed osservando la sagoma sbiadita delle sue orme che si perdeva tra gli schizzi di fango sollevati dalla pioggia. Si voltava spesso indietro, lo sguardo serio e denso di preoccupazione, cercando di individuare la figura di un possibile inseguitore tra la pioggia battente della tempesta di Midgar. Gli abiti zuppi lo rallentavano e lo rendevano impacciato, confuso, incapace di procedere con la sua solita andatura fiera e sicura: si infilava nei vicoli più bui dei bassifondi allagati senza davvero sapere dove stesse andando, con il solo obiettivo di allontanarsi il più possibile dalla chiesa. Era caduto in una trappola, aveva sbagliato ogni cosa, tutto era stato rovinato dall’imprudenza del suo gesto, e dal livore rabbioso che l’aveva fatto suo.
L’aveva ferita. E nel momento stesso in cui aveva premuto il grilletto, il vibrante frastuono del colpo s’era amplificato attraverso le volte in pietra e le guglie dell’edificio diroccato, così come il suo senso di colpa. Poi, appena pochi secondi dopo lo sparo, l’aria era vibrata ancora una volta quando le porte di quercia della chiesa si erano spalancate dietro la spinta di alcuni agenti della ShinRa, pronti a recuperare Aerith e a scortarlo davanti al nuovo presidente della compagnia.
“Sono cambiate molte cose” aveva detto Rude con un tono di voce grave, ma piuttosto che seguirlo aveva preferito colpirlo e provare a fuggire. Probabilmente, finire davanti a Scarlet equivaleva a firmare volontariamente la propria condanna a morte, e non era ancora tempo.
Mentre da lontano, sul piatto, s’udiva il sordo boato di una grande esplosione, s’infilo in un vicolo giusto in tempo perché una squadra di fanti in ricognizione non lo notasse nella penombra delle strade dei bassifondi. Era lui che stavano cercando? Erano questi i nuovi piani di Scarlet? Probabilmente era troppo rischioso per il momento tornare all’Edificio ShinRa.
Eppure, nello stesso momento, mentre un fulmine si abbatteva su un reattore scatenando il fuoco sulla città, una nuova preoccupazione s’era insinuata nella sua mente, non richiesta ma allo stesso tempo indelebile tra i suoi pensieri; e se dapprima ne aveva solo un vago e al tempo stesso terribile sospetto, la squadra di ricognizione mandata a prelevare lui e Aerith ne era una conferma: la compagnia voleva rispolverare la documentazione sperimentale sugli antichi e per farlo voleva utilizzare il corpo della ragazza.

Della ragazza che adesso – realizzò, quasi per la prima volta – era in mano loro.
Deglutì profondamente, sospirando forte. L’immagine pacata e controllata che aveva di se stesso gli era scivolata addosso, in appena una notte, quasi portata via dalle spire di vento che avevano circondato Midgar: la calma che l’aveva sempre contraddistinto aveva lasciato il posto all’ansia e alla preoccupazione per il destino di Aerith alla ShinRa.
Doveva fare qualcosa. Sospirò profondamente ancora una volta, lasciando che la mente razionale riprendesse nuovamente il dominio sul suo corpo. Mentre la tranquillità ritrovata dei bassifondi veniva sconquassata da un ulteriore fulmine che recideva di netto la fornitura elettrica di un intero quartiere, in un boato luminoso e fiammeggiante, capì, negli occhi il guizzo luminoso che era il riflesso del lampo, che cosa doveva fare. Bisognava prenderla adesso, quand’era ancora possibile farlo, nel letto d’infermeria in cui sarebbe stata medicata, e fuggire. Insieme, entrambi, lontani da Midgar e dalla ragnatela di morte e distruzione che gli intrighi portano sempre con sé. Bisognava stare lontani da Scarlet.

 

 

 

 

 

Era stato il fragore inconsueto della tempesta a ridestare i suoi sensi, quasi all’improvviso, quasi inaspettatamente, nella penombra scura di una stanza che non conosceva. Il pavimento era scuro, vermiglio, soffice al tatto dei suoi piedi nudi, inaspettatamente caldo.
Fuori, il rumore della pioggia era scrosciante, continuo, inaspettatamente clamoroso e massiccio, e diverse gocce di pioggia si infrangevano a velocità pulsante sulle vetrate appannate della stanza, scivolando poi leggere sulle superficie esterna in un rivolo incerto d’acqua gelata. Il tepore della stanza e il sordo scroscio della pioggia battente lo cullavano e gli conciliavano il sonno, ma c’era qualcosa, nella fosca penombra di quella stanza che brillava alla luce pulsante della tempesta, che lo aveva svegliato e che lo rendeva inquieto, ansioso ed incapace di placare il proprio animo turbato. D’un tratto avvertì una fitta all’altezza dello sterno e provò di scatto l’impulso di piegarsi in due dal dolore, ma con sempre crescente inquietudine si rese conto di avere entrambe le mani legate al di sopra della testa, tenute insieme da una spessa catena di ferro che gli univa i polsi e che pendeva macabramente dal soffitto. Provò a dare uno strattone alla catena ma un’ulteriore fitta lo costrinse a desistere, piegando la sua volontà in una patetica smorfia di dolore e in un sussurro – un gemito, forse – appena udibile a causa dell’immane fragore del vento che scuoteva ritmicamente le vetrate.
Quasi con timidezza, gli occhi di Michael si schiusero in uno sguardo interrogativo e saettarono con precisione ai lati opposti della stanza, cercando di comprendere, in uno sguardo d’insieme, dove si trovasse. Aveva il fiatone a causa delle fitte che gli provenivano dal torace, ma continuava a scuotere le catene che aveva i polsi con forza e con una rabbia greve e continua che lo fomentava e lo incitava ad agire nonostante il dolore.
Poi, d’un tratto, al suono della sua voce il sangue gli si gelò nelle vene.
“Credevo fossi abbastanza saggio per intuire quando una guerra è persa fin dall’inizio.”
Lentamente, i suoi occhi riconobbero la figura di Scarlet che emergeva dalla penombra della stanza, il sorriso tronfio e superbo marchiato sul volto. Un risolino sofferto gli attraversò il volto, mentre raccoglieva le forze per rispondere a tono all’insolenza della donna.
“Potrei dire lo stesso della tua battaglia contro il tempo” sussurrò, quasi in un soffio, mentre il corpo veniva scosso da diversi brividi e la testa si faceva più pesante. Aveva la febbre…? Probabile. “Sul serio, donna, riesci a capire quand’è il momento di piantarla con i lifting?”
Scarlet non sembrò sorpresa dal suo sarcasmo: dopotutto, conosceva Michael abbastanza da sapere che non si sarebbe fermato facilmente, pur di ostacolare i suoi piani. O semplicemente, pur di ostacolare lei.
“Come pensavo” sussurrò la donna in risposta, guardandolo dimenarsi senza risultato tra le catene. “Sai, non ho mai capito il motivo per cui ti diverte tanto metterti contro di me. Sapendo poi come ogni volta tu ne esca irrimediabilmente sconfitto!”
“Lo dico da sempre che non sei particolarmente sveglia, ovvio che non capisci le cose.”
“Ma davvero?” fece lei in risposta, socchiudendo gli occhi e allargando il sorriso perfido che le sfregiava il volto. “Riesci a spiegarti allora come hai fatto a cadere nella più insulsa delle trappole?”
“Semplice galanteria. Mi hanno insegnato che bisogna sempre assecondare i capricci di una donna, specie se la natura non l’ha benedetta con molti doni.”
“Non la pianti mai di scherzare, non è vero?” fece lei, mentre il sorriso scivolava via dal suo volto come cera. “Cosa devo fare per far sì che tu ammetta la tua sconfitta?”
“Levarti di torno non sarebbe male.”
“Hai mai provato a prendere una donna sul serio?”
Michael sorrise sornione. “Le donne certamente, gli ammalianti transessuali che battono nei bassifondi un po’ meno. Ti suggerirei di tornare da dove sei venuta e di abbassare un po’ i prezzi, magari qualche disperato ciccione peloso riuscirà a trovare il modo di trapanare quelle chiappone da vacca che ti ritrov…”
Le sue parole vennero ingoiate da uno schiaffo poderoso della donna, livida di rabbia e incapace di trattenere la sua apparente tranquillità per ancora un secondo di più. Per tutta risposta Michael, un rivolo di sangue che gli colava giù dalla bocca, le sputò con disprezzo sul viso, facendola imprecare sonoramente e scatenando ulteriormente la sua rabbia.
“Pff” esclamò Michael contrariato, il volto impegnato a mascherare il dolore che gli attraversava tutto il corpo. “Finché non ti libererai di quest’atteggiamento sarà tutto inutile. Prova a picchiare ogni singolo uomo della ShinRa perché non obbedirà ad un tuo ordine! Sei soltanto una stupida se credi di poter mandare avanti così l’intera Midgar. E’ impossibile, sei troppo irrimediabilmente tonta e tronfia per avere la meglio sugli avversari. Tutto questo finirà presto, ti suggerisco di goderti un po’ il calore che quella poltrona può dare al tuo sedere grasso e cellulitico. La gente non permetterà che tu governi su questa città!”
Michael riprese fiato, sospirando, un mezzo sorriso sul volto che contrastava con l’espressione incredula che la donna aveva sul viso. Sapeva che le sue parole avevano sortito l’effetto in lei, e, nonostante avesse voglia di urlare e di sbattere la testa contro un muro, si costrinse a mantenere l’apparenza tranquilla e imperturbabile che lei – da sempre, perché era da sempre che si conoscevano – gli ricordava addosso.
Scarlet, al contrario, era in preda alla rabbia, incapace di trattenersi, pronta a farla pagare a Michael Kreuger per le sue parole sfacciate e piene di disprezzo. Fece scivolare tra le mani uno stiletto sottile che teneva solitamente in vita, facendo ondeggiare una scintilla di luce, proveniente da una saetta improvvisa che aveva squarciato il cielo, sulla lama affilata.
“Scommetto che riesci a capire quale sia il problema che abbiamo sempre avuto entrambi, Michael.” Gli occhi di Scarlet mandavano bagliori, mentre rigirava la lama sottile del pugnale tra le lunghe dita. Improvvisamente, con un movimento secco, Scarlet gli lacerò la carne e gli abiti, procurandogli una profonda ferita pulsante lungo il petto insozzato di rosso.
Michael annaspò, colto di sorpresa, lasciandosi andare all’improvviso e cedendo sulle ginocchia. Sentiva il calore del sangue che gli colava giù, oltre l’ombelico, fino a insozzargli i pantaloni che si tingevano di nero. Il sorriso sul volto di Scarlet si allargava sempre di più.
“P-puttana bastarda…”
“Ecco, era esattamente di questo che parlavo. Non sceglieresti di salvare te stesso neppure se ti tagliassi le palle.” 
“Che c’è, te ne serve un paio per caso?”
Per tutta risposta, Scarlet gli conficcò il pugnale nel ventre, con forza, ridendo sguaiatamente. “Pff, eccolo qui, Michael Kreuger in tutto il suo splendore! Basta qualche ferita per metterti fuori gioco?”
“Ggh…”
“Sai credevo fossi più resistente, ragazzo.”
Michael la guardò con disprezzo, sollevando a fatica la testa verso di lei. Poi, trattenendo il fiato, le sputò di nuovo in pieno volto, sorridendo subdolamente all’espressione contrariata della donna.
“Brutto…!”
“Ci riesco ancora, Scarlet. Ci riuscivo dieci anni fa, e ci riesco ancora oggi. Tu sai di che cosa parlo.”
Scarlet tremava dalla rabbia. Lentamente, si rigirò il coltello tra le mani e fece scivolare le mani lungo il corpo dell’uomo, soffermandosi sul cavallo dei pantaloni. Un sorriso malvagio le permeava il volto, mentre, lasciando scivolare la lama sui pantaloni, lacerava profondamente e irrimediabilmente la carne sottostante, ed una macchia di sangue – sempre più denso – si allargava lungo il corpo seviziato di Michael.  

 

 

 

 

Partendo dal presupposto che Michael e Scarlet a mio parere si amano follemente, devo ammettere che mi sono divertito un mondo a scrivere la scena finale. Questa parte avrebbe dovuto essere nel prossimo capitolo, ma quello che avevo scritto mi sembrava troppo serio e vuoto, e chi mi conosce sa bene come io VIVA per inserire nelle mie fan fiction momenti trash o WTF a cavolo. Così, for the lulz. Perdonatemi o accettatemi così come sono, ma vi prego, evitate di compatirmi. X°°
Sì, lo so, sono mortalmente in ritardo perfino per i miei standard. Dovevo aggiornare il 28 Luglio ma tra una trasferta random al Giffoni Film Festival e la conseguente febbrona da cavallo durata 6 giorni ho perso un mucchio di tempo e mi sono ritrovato al 28 con solo metà capitolo e una discreta propensione al suicidio. Poi mi sono reso conto che via, non cadeva di certo il mondo per qualche giorno di ritardo (o per 9 giorni, ma who cares!), e che avrei potuto finire quando ne avevo voglia o semplicemente quando ero più in forma, e così ho fatto. Sebbene il risultato non mi convinca pienamente. Oltretutto, dopo lo scorso capitolo, tutto incentrato sulle vicende di Michael e Scarlet, ho preferito scrivere un capitolo più corale, concentrandomi su tutti i protagonisti della fan fiction, anche se ho deciso di approfondire maggiormente Tseng e il suo rapporto con Aerith e Zack: il flashback l’avevo scritto diverso tempo fa, così come altri flashback in cui compare Zack e che non ho ancora utilizzato, ed ho pensato di inserirlo in questo capitolo, che è prevalentemente riflessivo, per rendere più profondi i legami che intercorrono tra i vari personaggi e per spiegare in maniera marcata come gli ultimi avvenimenti li abbiano resi diversi da com’erano un tempo.
Comunque, 6 capitoli pubblicati, 6 ancora da scrivere prima della fine della fan fiction. Questo era un po’ un capitolo di raccordo tra la prima parte, terminata con la scalata al potere di Scarlet, e la seconda, leggermente più caotica e in cui si cercherà di far coincidere la trama della fic con l’inizio di Final Fantasy VII. Se mantengo questo ritmo di scrittura, quindi, la storia finirà nel 2018. CAVOLI, DEVO DARMI UNA MOSSA, avevo 14-15 anni quando l’ho cominciata e adesso ne ho 18 e mezzo, sono TROPPO lento. Ma tanto so già che passerà un altro anno. Pazienza.
Vabbé, comunque, grazie a tutti coloro che hanno letto il capitolo scorso e in particolare a coloro che hanno recensito, ovvero shining leviathan, Lirith, the one winged angel e Zackneifan. Spero nessuno di voi sia morto di vecchiaia nell’attesa di questo capitolo. X°°D
Ci si sente presto, spero, con il settimo capitolo. Ciao!

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