You call my name

di Annapis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Summer ***
Capitolo 2: *** Icecream ***
Capitolo 3: *** Split ***
Capitolo 4: *** Trust ***
Capitolo 5: *** Drawing ***
Capitolo 6: *** Soccer ***



Capitolo 1
*** Summer ***


You call my name
chapter. 1: Summer
Erik×Silvia


-Dai Erik, muoviti! Andiamo a fare il bagno!-
La voce allegra che gli trapanò le orecchie gli ricordò che era tutta colpa del suo amico Mark e della sua perfidia mascherata da innocente idiozia. Con la scusa che a settembre si sarebbe trasferito all’estero per lavoro e che si sarebbero visti di rado a differenza del periodo universitario, aveva proposto quella vacanza al mare tutti insieme.
Erik sulle prime aveva rifiutato, ma l’altro a furia di insistenze che sarebbero potute passare per stalking, e le espressioni più derelitte nemmeno fosse stato un cane digiuno da un mese, alla fine lo avevano fatto cedere, anche se Erik lo aveva fatto più per la propria pace mentale che altro.
Col passare delle settimane aveva cercato di convincersi che qualche giorno assieme a Mark e al suo amico Jude non sarebbe stato così male, in fondo avrebbe potuto trascorrere più tempo anche assieme alla propria ragazza.
Osservó scocciato Jude scendere le scalette e raggiungere l'amico esagitato sulla spiaggia, seguito da tutti gli altri.
Già, gli altri,  perché quella testa vuota di Mark – in quel momento concordava con l’appellativo preferito di Nathan, il che indicava quanto fosse grava la situazione – si era dimenticato di avvertirlo che quando aveva proposto di partire tutti insieme, aveva inteso proprio tutti, non solo loro quattro.
Osservò Byron e Axel scendere assieme e lamentarsi con voce acuta della sabbia bollente,  Shawn li incitava a camminare svelti perché stare fermi a lamentarsi di sicuro non avrebbe risolto niente. Jordan, la sua inquietante ombra – perché chi poteva mai portare quei capelli tanto lunghi senza nemmeno versare una goccia di sudore? – gli dava ragione; seguivano Nelly con il suo scazzatissimo fidanzato Hector che si lamentava con il suo amico Harley. Sì, in quella vacanza si sarebbe dovuto sorbire anche quel surfista, ma il compito sarebbe stato equamente diviso con la fidanzata Victoria che al momento gli stava di fianco sul marciapiede.
-Che seccatura- borbottò quella, sicuramente tra lei ed Erik potevano fare una sfida tra chi era il più pentito di essere lì.
Ma entrambi avevano un buon motivo per non andarsene.
Erik la sua bellissima Silvia, che amava a dismisura il mare, e Victoria il fidanzato surfista.
Insomma, erano proprio una bella accoppiata.
Sbadiglió appena, notando con la coda dell' occhio che Mark e Silvia, in acqua, avevano iniziato a ridere contenti e a schizzarsi.
-Dai, ci divertiremo, vedrete.-
Silvia lo guardò mentre diceva quelle parole ed Erik alzò la testa, per guardarla da sotto le lenti scure. Silvia era affascinante, anche coi capelli lunghi bagnati, un velo di sudore sulla fronte e un bikini colorato. Ancora non si capacitava bene di come fossero finiti insieme, ma non se ne crucciava; anzi, con tutte le sfortune che gli erano capitate, pensava che la sua fidanzata fosse il modo in cui la vita aveva deciso di chiedergli scusa.
E lui le accettava senza problemi le scuse.
Silvia era gentile e pacata, non parlava molto ma sapeva dire sempre la cosa giusta al momento giusto, anche se a volte poteva essere un po’ enigmatica, era disponibile e pronta ad aiutare tutti sebbene a volte ci rimettesse lei stessa, tanto che a volte Erik nella propria mente l'appellava come una martire. E poi era bella, maledettamente bella, con quegli occhi magnetici e il sorriso obliquo.
Certo, non era perfetta, Erik lo aveva scoperto col tempo. Per esempio la sua testardaggine era leggendaria: se pensava di essere nel giusto, niente l'avrebbe convinta del contrario. Come quella volta in cui sempre Mark li aveva invitati ad una festa, Silvia si era vestita elegante con tanto di vestito e tacchi anche se Erik aveva cercato ripetutamente di metterla in guardia, tanto che alla fine si era ritrovata abbigliata come una bambola in mezzo a quello che sembrava un raduno di punk e nostalgici grunge. La sua faccia tosta non si era minimamente scomposta, anzi il suo stile completamente diverso aveva fatto tendenza e, a fine serata, Erik aveva desiderato mozzicarle a sangue le labbra su cui aleggiava un sorriso di superiorità e strafottenza.
A parte qualche difetto che la rendeva solamente più umana, Erik non poteva recriminarle nulla, a parte...
-Silvia! Che stai aspettando? Vieni qui!- la chiamò Nathan da sotto l’ombrellone.
-Certo!- la verdigna - altra cose che il castano amava di lei: i capelli verdi e lucidi come l'erba, morbidissimo ciuffo in cui affondare la mano e ritornare al periodo in cui si rotolava sereno per il giardino -, non esitò un secondo ad arrivare, uscendo dall' acqua e saltando d' ombra in ombra.
Erik la guardò da dietro, ammirando i muscoli della schiena contrarsi e rilassarsi ad ogni passo, e quelli delle spalle alzarsi a scatti mentre rideva leggermente per qualcosa che le stava dicendo Kevin, di fianco a Nath.
E, ovviamente, guardandolo con un che di malizioso.
La squadra aveva sempre saputo che sarebbero finiti insieme, anche se c'era un periodo in cui Erik galleggiava - non per suo completo volere -, tra le braccia di Susette, adesso fidanzata con Edgar.
Anzi, probabilmente i suoi amici l'avevano visto prima di lui, il dolce sorriso che gli rivolgeva la ragazza, e la sua abitudine a tentare sempre di farla ridere.
Nathan lasciò tra le mani della sua ragazza una fotocamera, mentre Mark usciva dall'acqua e gli correva incontro in modo alquanto goffo.
-Vieni a fare una foto!-
-Dai, poi aspettiamo te per giocare a beach-volley- rincarò Nathan.
Ecco, non poteva recriminarle nulla, tranne il fatto che nessuno sapeva della loro relazione, a parte ovviamente Axel e Mark e Harley, oltre a Victoria che però non aveva avuto bisogno che nessuno le raccontasse alcunché, ci era arrivata da sola.
Silvia non se la sentiva di rendere pubblica la storia, gli aveva chiesto tempo e lui non poteva di certo costringerla, peccato che tutte le attenzioni dell’intero universo maschile, prima divise tra lei e Suzette, ora fossero rivolte esclusivamente a lei, dato che l'amica non faceva mistero della sua storia con Edgar. Ci sarebbe voluto un esercito di Silvia e Suzette per soddisfare almeno una minima parte di uomini che morivano per il loro fascino.
-Ci divertiremo moltissimo, sicuro- disse acido Erik, iniziando a scendere dalle scalette, occhieggiando le ragazze che ridacchiavano nei loro costumi striminziti, e ignorando invece il velo di dispiacere negli occhi di Silvia.
Con gli occhi scuri come il gelato al cioccolato, Erik divorava la schiena della sua ragazza, il pezzo di sopra del costume bianco crema che indossava era a fascia e il grande calciattore americano già si vedeva a spostarlo quel tanto che bastava per intrufolarci la mano.
Solo ed unicamente per metterle la crema solare, ovviamente.
-Smettila di mangiarla con gli occhi, playboy- lo struzzicó, divertito, Bobby, caro amico d'infanzia dei due.
Il quale, povera Santa anima, oltre ad aver dovuto subire anni - e non tanto per dire, erano davvero anni - di filtr, ora non sapeva neanche che stessero insieme.
-Silvia, hai proprio una pelle chiarissima!- trillò Kevin -Hai assolutamente bisogno della crema, mica vogliamo scoprire se ti scotti al sole, vero? Te la metto io sulla schiena.-
Senza attendere risposta, le sfilò il tubetto dalle mani e iniziò a spalmarla, beccandosi un’occhiata fulminante da Erik per ovvie ragioni, e un’altra da David perché lo aveva preceduto e gli aveva soffiato un’occasione d’oro. La competizione tra i due era accesissima e non si risparmiavano alcun colpo basso, in fondo il premio in palio valeva bene il gioco duro.
-Nathan certo che tu non hai problemi di scottature, sei fortunato e poi hai una pelle bellissima, piacerebbe anche a me averla così- osservò Steve ben felice di rimanere al di fuori della lotta degli amici, mentre William scuoteva la testa, disapprovando evidentemente l’idea di un amico color cioccolato.
-Beh sì- asserí abbastanza imbarazzato l'azzurro, che poi cercò di liberarsene le mani -Ma c'è anche chi è più scuro di me di carnagione, come Jordan o Erik!-
Sentendosi chiamare, l'americano scese dalle nuvole puntando gli occhi sul compagni di squadra che lo indicava col palmo della mano distesa.
-Cosa?- chiese, confuso, ricevendo in risposta uno sbuffo dall'amico turchese e una risatina da quello moro.
-Qualcosa mi dice che il ragazzo è invidioso, eh!- disse Steve, ammiccando neanche tanto leggermente verso Kevin e David che si litigavano la possibilità di mettere la crema ad una Silvia che, imbarazzata, anche se non avrebbe saputo dire se da quelle attenzioni inaspettate o se dal proprio sguardo che non si schiodava dalla pelle chiara, assisteva incolume e cercava di calmarli.
-Geloso, vorrai dire- lo corresse Bobby, spingendo la testa da oltre la spalla dell'amico d'infanzia.
Erik li fulminó con un' occhiataccia e mentalmente si maledí per aver accettato di mantenere la relazione con la verdigna segreta.
Se non lo avesse fatto, ora non avrebbe dovuto sopportare tutto questo.
-Sono sicuro che ti abbronzerai in fretta e diventerai di un bel colore dorato senza arrossarti- diceva intanto Shawn, amche lui intento a mettere la crema, a Silvia.
-Anche Hayden ha la pelle chiara come quella di Silvia, quindi oggi risolveremo una volta per tutte questo mistero: scopriremo chi si scotta prima- ridacchiò Mark che invece tra tutti era quello più abbronzato, a parte Axel ed il fidanzato di Victoria, ovviamente.
Silvia sospiró sconsolata, mentre Celia e Nelly l'affiancavano.
-Allora?- s'aggiunse Jude, che per l'occasione si era tolto gli occhialini e faceva sfoggio dei suoi occhi cremisi -Giochiamo sì o no?-
Tutti furono d'accordo con lui, e ad Erik venne da ridere quando Mark, nella fretta, inciampó e cadde a faccia in giù nella sabbia.
Fu Nathan che con una risata si avvicino al fidanzato per tirarlo su.
-Per fortuna che voi vi prendete cura l'uno dell'altro- disse dolcemente Nelly.
-Lui che si prende cura di me?- sbottò Nathan -Se fosse per lui mangeremmo solo roba fritta o panini, mi troverei obeso e con la cirrosi epatica, per non parlare delle pulizie di casa. E dammi qua, batto io per primo!-
L'azzurro tolse di forza il pallone dalle mani del castano, ignorando le sue mezze lamentele sul fatto che non era vero che avrebbe mangiato solo cose fritte, bensì gli spaghetti del signor Hillman, e che chiedeva a gran voce cosa fosse la cirrosi epatica.
Avrebbe tanto voluto saperlo anche Erik, ma lui rimase fermo a guardare Nathan indietreggiare e prepararsi alla battuta, mentre Austin correva a giocare trascinandosi dietro Axel.
Lo vide alzare la palla che aveva portato Victoria, se non fosse stato per lei avrebbero impiegato il tempo unicamente facendo surf - con grande gioia di Harley - o, peggio, giocando a calcio.
Nathan colpì con forza la palla, ma prima buttò un occhio alla squadra davanti a lui: Jude si trovava in primo piano, le ginocchia lievemente piegate e i palmi delle mani stesi, dietro di lui si erano schierati Jack e Tod, pronti per il buker, mentre al suo fianco si trovava David, forse per schiacciare.
Ma Erik non seppe mai dove andò a finire la palla, perché quando Silvia lo affiancó, la sua grande concentrazione da calciatore di fama mondiale, si restrinse solo ed unicamente attorno alla ragazza, senza che potesse vietarlo o impedirlo in alcun modo.
Si distrasse solo quando sentì i ragazzi litigare dall'altra parte del campo.
-Dovevo essere ubriaco quando ho accettato... o drogato, non so come faremo quando ci trasferiremo all'estero- sbuffò Nath che era testardo quasi quanto Jude e si sarebbe mozzato un braccio e lo avrebbe attaccato a un bastone per usarlo come prolunga, piuttosto che chiedergli aiuto.
-Puoi sempre non venire, eh!- borbottò Mark.
Eppure Erik sapeva benissimo che se l'azzurro si fosse davvero tirato indietro, Mark sarebbe tornato a casa di corsa, perché senza di lui non poteva resistere, e la cosa valeva anche all'inverso, lo sapevano tutto lì in mezzo.
-Sono sempre gli stessi, eh?- commentò con tono calmo Silvia, spostando una ciocca di capelli dietro l'orecchio e tenendo gli occhi nocciola fissi sulle due squadre che si contendevano entusiasticamente un punto, passandosi la palla in una serie di passaggi infiniti.
Se un esterno li avesse visti, non avrebbe mai detto che il loro punto forte fosse il calcio e non la pallavolo.
Erik guardò Austin mancare di poco il pallone e abbassare, deluso, lo sgaurdo, poi Mark dargli una pacca sulla spalla per risollevarlo e Axel sorridergli. Allo stesso tempo, la squadra di Jude esultava, Caleb, seduto alla destra di Silvia vicino ad Archer commentava qualcosa come: "patetici" anche se con l'ombra di un sorriso in viso e il rasta si girava a guardarlo, con un espressione indecifrabile.
-Sì- disse poi, un sorriso a sollevargli gli angoli delle labbra senza che se ne accorgesse -Sono sempre gli stessi-.
Mark lo senti e gli saltò addosso -Erik! Tu sì che ci vuoi bene e ci tieni a noi... Non so come faremo senza di te-
-Sì, sì... Ma adesso staccati, eh? Mark, fa caldo... Mark mi stai strozzando!-
Alla fine il castano si staccò, richiamato da Jack e Austin che lo rivolevano in campo, ed Erik tornò a guardare, un po' imbarazzato, Silvia che invece gli sorrideva contenta.
-Allora...- non si era neanche accorto dell'arrivo di Victoria, che sbucó alla sinistra della sua ragazza -Cosa avete intenzione di fare?-
-Siamo qui per divertirci come matti!- esclamò sviando il discorso -Questo pomeriggio andiamo a giocare, a fare il bagno e tutto quello che vogliamo e stasera vi voglio carichi per andare a ballare!-
-Sì, cazzo!- gli andò dietro Axel, anche se Scott non pareva altrettanto convinto.
Silvia lo guardò non molto convinta, mentre Victoria ci mancò poco che si sbattesse una mano in faccia.
-É così che si parla, fratello!- s'intromise Harley, che nella foga del momento prese anche in braccio la rossa -Cosa sono i nostri problemi in confronto all'immensità dell'oceano?!- e da lì parti un coro di voci le cui esclamazioni non erano ben definire.
-Oh ma falla finita, sembri un figlio dei fiori!-
-Mettimi immediatamente giù, o giuro sul calcio che ti mollo!-
-Vics, non é che passi troppo tempo con Mark?-
-Harley ha ragione, dobbiamo solo divertirci!-
-Mark! Non urlare!-
-Tu non sai proprio divertirti, fratello!-
-Vieni?- domandò invece Silvia a Erik. Ancora non si era mossa e lo osservava con attenzione, con una domanda inespressa negli occhi scuri.
Lui, infastidito da quell’analisi, fece un gesto con la mano, rispondendo:
-No, tu vai pure.-
Salvo pentirsi immediatamente dopo quando lei lo guardò con un bagliume di delusione che si spense appena Susette le si paró avanti, affiancata da Celia che sorrideva ampliamente e una Nelly più contenuta.
-Allora, girls, noi andiamo a prendere il sole!- che poi, ad Erik non sembrava neanche una domanda.
Silvia si girò un'ultima volta, finchè Erik non le disse: -Vai a prendere il sole, a te piace, a me no. Io farò altro, non ho bisogno della balia.-
-Mi sarebbe piaciuto stare con te, non mi sono mai vista in veste di balia- replicò Silvia lievemente piccata -ricordati di mettere la crema- aggiunse però prima di andarsene.
Fissò con i suoi occhi nocciola la schiena della ragazza avviarsi con le altre in una zona più riparata, chiedendosi come facesse ad essere il grande idiota che era.
-Tu sei proprio stupido- borbottó Caleb, al suo fianco.
Erik, che si era illuso che tra il fracasso di quella sottospecie di partita di beach volley che aveva come minimo cinque arbitri incapaci di stabilire quando fosse punto e quando fosse fallo, nessuno lo avesse sentito.
Evidentemente, si era sbagliato.

Finita la partita Steve si avvicinò a Silvia, che era intenta a modellare una scultura di sabbia. 
-Dovresti partecipare a delle Olimpiadi-, le disse.
-Ma no, che olimpiadi- minimizzò Silvia continuando a modellare una torretta di guardia, ma sorridendo -piuttosto avete finito di giocare?-
-Sì, non si vede?- rise l’altro che era completamente sudato e impanato come una cotoletta -Andiamo a fare il bagno, vieni?-
-Non so- borbottó lei, guardando di striscio il suo ragazzo ridere per chissà cosa con Mark.
Silvia ripensó brevemente a come si era comportato con lei, a come l'aveva trattata, per poi decidere che doveva, almeno un po', fargliela pagare.
-Sì- si decise -Vengo-
-Ero certo che saresti stata qui con la sabbia, perdendo la cognizione del tempo.-
Silvia arrossì per l'arrivo improvviso di Erik, ringraziando che ci fosse la tesa del cappello a nasconderle il viso e accettò la bottiglietta, bevendo per dissimulare l’imbarazzo. A volte si dimenticava che Erik la conosceva più di quanto credesse, a lui non era sfuggita la sua passione per la sabbia.
-Già... Com’è andata la partita?-
Il castano lanciò di sfuggita un'occhiata ai suoi amici che per metà si rincorrevano e per metà si rotolavano a riva, ridendo spensierati come se fossero tornati dei ragazzini con l'unica priorità del giocare a calcio.
-Pareggio- rispose -almeno, credo- aggiunse, facendo ridere la ragazza. 
-Diciamo che ad un certo punto abbiamo smesso di contare- abbozzó un lieve sorriso, perché amava sentirla ridere, e forse avrebbe dovuto dirglielo più spesso.
-Quindi Shawn sarà incazzato nero- osservò dato che, quando giocavano, i due erano sempre in squadre opposte e il risultato non cambiava mai. Lo vide in effetti poco lontano che si spintonava con Axel; proprio una coppia atipica quei due.
Silvia, vedendoli, rise:
-Già, ma per fortuna c’è chi lo sopporta anche così- fece un cenno con la mano alle ragazze che la chiamavano per poi rivolgersi di nuovo a lui -dai, vieni a fare il bagno.-
Guardandola, con la pelle che luccicava e le labbra gonfie, leggermente umide, Erik ebbe voglia di buttarsi, di andare con lei ovunque ella volesse andare. Fu tentato di prenderla per mano e andare al mare, al ristorante, a casa...
Ma non poteva.
-No io...- iniziò, balbettante, -Vorrei ma...-
Ma cosa? Non lo sapeva neanche lui.
Silvia chinò il viso verso il suo per sussurrargli all’orecchio:
-Un motivo in più per starmi vicino, no?-
Colpito e affondato.

Anche l’acqua era calda ma comunque piacevole sulla pelle surriscaldata e poi, anche se fosse stata gelida, nessuno avrebbe rinunciato alla possibilità di fare tuffi, nuotare o fare scherzi agli amici; Erik stava giusto osservando un tentativo di Tod di affogare Caleb che sarebbe pure riuscito, se non fosse stato per Axel.
Lui invece era nell’acqua più bassa assieme a Silvia, in realtà a malapena toccava ma lei continuava a camminare verso l’interno così che Erik fu costretto ad afferrarla per le spalle. Trovò elettrizzante la frizione dei loro corpi, aiutati dall’acqua che li circondava; senza nemmeno accorgersene si trovò a stringerle le braccia attorno al collo e a guardarla negli occhi. La pelle di Silvia era sempre chiara e perfetta, come se ci fosse uno scudo più forte della crema protettiva a respingere i raggi solari; a macchiarla c’era solo un lieve rossore su naso e guance e non era certo che dipendesse unicamente dal sole.
Si guardavano negli occhi, dimentichi di ciò che li circondava e a Erik pareva che lei stesse per inclinare il viso per baciarlo. Emozionato, abbassò le palpebre con il cuore che gli stava per scoppiare di felicità: la fidanzata sembrava aver trovato il momento giusto per farlo, decisa a non nascondersi più, e lui già pregustava il bacio salato che si sarebbero scambiati, sarebbe stato perfetto.
Qualcosa andò però storto. Lo sceneggiatore che scriveva le pagine della sua vita doveva essere un fottuto sadico, non c’erano altre spiegazioni perché all’improvviso sentì la voce di Axel che urlava e una botta che scosse il corpo di Silvia.
Istintivamente aprì gli occhi e lasciò la presa dal suo collo, vedendo il ragazzo praticamente spalmato contro la schiena della sua fidanzata, quella che stava per baciarlo prima che Axel decidesse che aveva respirato fin troppa aria senza di lui. Erik, sprovvisto del suo punto di appoggio, non riuscì a rimanere a galla e iniziò a bere pur sbattendo freneticamente i piedi, almeno finché Silvia non lo afferrò per un braccio.
-Erik... Ma per caso non sai nuotare?-
In quel momento, gli sembrò di avere tutti gli occhi dei suoi amici addosso, anche se probabilmente solo Silvia - perfino Axel, dopo delle veloci scuse, si era ritirato da Shawn - lo stava davvero considerando.
Il punto è che Erik sapeva nuotare, assolutamente, ma la vicinanza con la ragazza lo aveva mandato momentaneamente in black out.
-Che dici- ironizzó, la voce leggermente roca, -Certo che so nuotare-
-Io esco- aggiunse il ragazzo dai capelli castani dato che il bagno aveva perso ogni attrattiva per lui.
-Ti accompagno- aggiunse immediatamente Silvia, ma da lontano si sentivano le voci di Nathan e Jordan che la chiamavano.
-No- Erik si costrinse a stringere i denti pur di non ringhiare -Tu resti- 
Silvia all'inizio rimase interdetta, poi abbassó leggermente le palpebre ed il ragazzo sentì il rimpianto salire lungo l'esofago e fermarsi in gola: perché doveva sempre deluderla così tanto?
Alla fine, lei decise di andare, e  mentre si girava borbottó un "come siamo finiti a questo" che il castano sentì benissimo.
Rimase imbambolato a guardare la sua schiena, tanto che non si accorse di Bobby che gli arrivava alle spalle.
-Sei proprio stupido, amico-
-Erik...- sospirò Silvia girandosi un'ultima volta, ma lo lasciò andare osservando i suoi capelli incollati al cranio e le spalle candide con un accenno di rossore lievemente ingobbite, se avesse avuto una coda gliel’avrebbe vista nascosta tra le gambe, ne era certa. Le dispiaceva vederlo così, soprattutto perché la colpa era sua e della sua codardia, perché ancora non aveva trovato il coraggio di dire al mondo che lo amava. -Mettiti sotto l’ombrellone, sei stato troppo al sole- gli urlò dietro, ma lui non fece cenno di averla udita.

Era sera e Erik era steso a faccia in giù sul letto, con l’espressione corrucciata e sofferente. Gli amici a quell’ora lo stavano sicuramente aspettando nella hall dell’albergo per andare a cena, ma lui all’idea di mettersi una maglia avrebbe preferito ingoiare un riccio di mare vivo o passare una giornata intera con Mark – giusto per rendere l’idea.
Odiava l’estate, odiava l’afa, gli schiamazzi della gente sotto la finestra, la musica di qualche locale che risuonava persino nella stanza, il mare, l’anguria e qualsiasi altra cosa.
Sentì la porta della stanza aprirsi e vide Silvia entrare con qualcosa in mano.
-Ho preso una crema che dovrebbe aiutarti con quella scottatura- disse sedendosi al suo fianco e armeggiando col tubetto, evidentemente contrariata -ti avevo detto che eri stato troppo al sole. Guarda qua che ti sei combinato, hai tutte le spalle bruciate.-
Eppure, nonostante la pelle bruciasse terribilmente e al minimo spostamento gli sembrava di aprire un taglio gigantesco, se poteva avere la sua ragazza tutta per se per qualche ora, per Erik era come il paradiso, e avrebbe sopportato di tutto.

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Capitolo 2
*** Icecream ***


 
You call my name.
chapter. 2: Icecream.
Harley×Victoria

Se c'era una cosa che Victoria amava - ed erano relativamente poche -, quella era il gelato: il gusto fresco che le si scioglieva in bocca, il sapore dolce mischiato alla candida panna che, puntualmente, le sporcava il naso, il cono croccante... Sí, Victoria amava quel dolce e per lei era una sofferenza non poterlo mangiare nei mesi più freddi, motivo per cui appena un timido raggio solare minacciava di venire fuori, lei già correva alla gelateria. Esattamente come stava facendo quel pomeriggio, perché era in ritardo. Quando arrivó, Harley era già lí e non se ne stupì, come poteva, egli abitava poco distante da lì e quando voleva - ma solo quando voleva - sapeva essere estremamente puntuale e precisino. Gli si avvicinó cercando di riprendere fiato dopo la corsa. Accidenti, non era più abituata a fare grandi sforzi. -Dammi solo... Un... Secondo...- Il ragazzo sorrise, tirando fuori le mani che prima affondavano nelle tasche del pantaloncino color terra per aggiustarsi la maglietta della divisa. -Hai solo 5 secondi, perché dopo voglio sclerare come si deve.- disse poi, allargando il sorriso. Victoria a volte si domandava se non gli dolesse il viso a forza di sfoggiare sorrisi a trentadue denti, che erano, doveva ammetterlo suo malgrado, incredibilmente attraenti. Fece dei respiri profondi e lo abbracciò. -Tu a che gusto lo prendi?- gli chiese, certa che bastasse quello per far partire il rosa in uno dei suoi soliti sproloqui che terminavano con un "cosa vuoi che sia a confronto con l'immensità degli oceani?" Harley era, infatti, a dispetto delle apparenze, un gran golosone. -Uh, o pistacchio e caffé, o nocciola e pralinato- elencó, contando sulle dita affusolate e abbronzate.

Intanto stavano entrando nel negozio.

La rossa si sfregò gli occhi e sospiró, prima di sollevare il volto e osservare fiaccamente quanto la circondava.

Le tende avevano smesso di frusciare, e il negozio era piombato in quella immobilità in cui erano vagati i suoi pensieri nell'ultima mezz'ora, senza che tuttavia trovasse in sé la forza di agire e scuotersi di dosso quel torpore.

Il suo sguardo si posò su un vaso di fiori freschi posati sopra un pianoforte, da cui si era appena staccato un petalo che volteggiando brevemente si era poi adagiato sui tasti, restando il bilico tra un do e un si bemolle.

Quel lieve movimento aveva suscitato in lei, per un breve istante, il desiderio di sollevarsi da quella poltrona su cui si era appena seduta, per sedersi allo sgabello del piano e sfiorare i suoi tasti, le sarebbe tanto piaciuto suonare quello strumento.

Ma un altro particolare catturò il suo sguardo in quel momento, e si portò involontariamente una mano al cuore, quasi a voler inconsciamente scacciare quell'amore che vi avvertiva.

Una maglia della Raimon, abbandonata a terra, evocò nei suoi pensieri i contorni di un volto, un volto tanto familiare che avrebbe potuto tracciarne il profilo anche ad occhi chiusi, un volto che ora era a pochi passi dal suo.

-Che hai?- le domandò una voce, con lieve incrinazione.

La rossa si ritrovò a sbattere le palpebre - rigorosamente struccate -, un paio di volte prima che il suo cervello mettesse in funzione i neuroni necessari per formulare una risposta.

-Niente, ero solo sovrappensiero- rispose, aprendosi poi in un sorriso rivolta al ragazzo al suo fianco.

Harley fece per dire qualcosa, forse voleva chiederle cosa stava pensando, o forse aveva intenzione di dire una delle sue solite filosofie - del tipo: qualunque sia la cosa a cui stai pensando, pensa che inconfronto all'immensitá oceanica è nulla -, ma alla fine le chiese semplicemente come voleva il gelato. E Victoria lo apprezzó non poco. Forse perché tutto quello che una semplice maglia da calcio era capace di scatenare in lei - una tosta come lei - non era nulla inconfro a niente.

-Beh, dipende da come c'é!- Gli rispose, vaga, perché amava così tanto il gelato che ogni volta scegliere due soli gusti le faceva male.

-Allora, piccola, ti piace con il cioccolato?- lo stomaco di Victoria diventò il rifugio delle farfalle alla parola 'piccola'. Nessuno l'aveva mai chiamata così. Le sembrava davvero di essere piccola. Le aveva fatto venire i brividi.

-Non... Mi piace il cioccolato.- Esitò all'inizio, perché ora sarebbe arrivata la solita domanda: "Cosa? Non ti piace il cioccolato? Tu sei strana."

-Come non ti piace il cioccolato? Sei strana...- Ed eccola lì. La solita risposta. Ma lei non capiva proprio perché sarebbe lei quella strana. Il cioccolato faceva ingrassare e lei era super felice che non le piacesse.

-Non mi piace e basta.- rinfacciò, la voce di una bimba. E sì, sapeva essere capricciosa e questo Harley doveva saperlo piuttosto bene. -Comunque, lo voglio nocciola e stracciatella- gli sorrise e fece gli occhi da cucciolo sbattendo velocemente le ciglia.

-Salve, voglio un gelato con nocciola e stracciatella.- ripeté Harley al gelataio.

-Ecco a lei.- egli fu veloce a porgergli il gelato che poi passò a Victoria.

-Sono 1,50.- Pagò e salutò educatamente.

-Allora, piccola, ti piace il gelato?-

Di nuovo piccola. Forse stava pensando di ucciderla.

-Buono. Ma smettiamola di fare i bambini. Ti volevo ringraziare per avermelo offerto.- Se in quel momento si vedesse in uno specchio sarebbe ricoperta di gelato e avrebbe le gote arrossate. Che imbarazzo.

-Di niente- le disse sorridendole. Che bel sorriso che aveva, aggiunse il subconscio di Victoria.

Il sapore della stracciatella era freddo, e le gocce di cioccolato - così piccole da andare giù senza che se ne accorgesse - erano croccanti.

La nocciola invece sembrava più una crema, e Victoria amava sporcarsi le labbra con quel colore caldo.

-Perché non ne hai preso uno anche tu?- le venne quel dubbio, all'improvviso.

Il surfista la squadró per un attimo, prima di portare di nuovo lo sguardo davanti a sé, intenti a camminare sul marciapiede.

Si sedette su una panchina, ed invitò la ragazza a fare lo stesso.

A quel punto, rispose: -Perché posso mangiare il tuo-, con un sorriso che aveva un qualcosa di malizioso.

Le prese le mani e le fece inclinare il cono quel tanto che bastava per piegarsi un po' e prenderne un generoso boccone.

E Victoria povera ragazza innamorata - ma poco, proprio poco -, ci mise più del dovuto a collegare i movimenti delle labbra del rosa con le rispettive parole.

E non fece in tempo a ribattere perché, assorta com'era, non si era accorta del cono che le stava lentamente scivolando dalle mani e che sporcò la divisa da calcio di Harley. Victoria lo guardò, gli occhi lucidi che le brillavano.

-Scusa, mi dispiace tanto...-

-No, non importa...-

Rimasero così, a guardarsi, mentre il vento soffiava scompigliandole i capelli.

Gli occhi grandi e scuri del ragazzo erano fissi sullo sguardo un po' perso della più piccola, sulle guance colorate di una bella sfumatura rosa pesca e sulle labbra lucide socchiuse, quasi stesse respirando.

Era davvero bella, forse la più bella ragazza che avesse mai visto, e ne aveva viste, lui, di bellezze nei suoi diciassette anni di vita.

Victoria era piccola e grintosa, un vero terremoto con o senza il pallone tra le gambe snelle, modellate per portarla sempre più in lá e per lanciarla sempre più in alto.

Ed era femminile, sempre, anche con i ginocchi sporchi di terra e viola per le scivolate, anche quando si arrabbiava e si lasciava scappare qualche imprecazione.

-Sei davvero un capolavoro-, mormorò il rosa, trasognante.

Non sentiva più nemmeno la terra sotto i piedi, avvertiva però il gelato di lei che gli colava tra le dita e il freddo metallo della panchina contro il polpaccio lasciato scoperto dai pantaloncini.

Il cuore di Victoria saltò un battito.

-Cos'hai detto? Puoi ripetere?- chiese.

-Ho detto che sei... Tu... Ecco...-

Dio! Il suo cervello andò in pappa ma rimase abbastanza concentrato per dire: -Ho detto che... Ti è caduto il gelato? Sì, ho detto così-

La rossa sbatté le palpebre, interdetta.

Poi le labbra s'incurvarono, delineando una smorfia curiosa e sicura di se, mentre lasciava cadere il cono poco più in là e dava campo libero ai piccioni di mangiarlo.

-Ora é caduto- mormoró in un soffio, prendendo a strofinare le mani tra loro come a pulirle, -Me ne compri un altro?- aggiunse poi, la voce che si addolciva e gli occhi grandi che brillavano pericolosamente vicini al suo viso, gesto affatto accidentale, anche se poteva sembrarlo.

Harley si arrese in fretta.

-D'accordo d'accordo- borbottó, camminandole davanti e intrecciando le braccia dietro la testa.

-Certo che sei proprio una manipolatrice-

 

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Capitolo 3
*** Split ***


You call my name.
chapter 3: split.
Mark×Nathan

 


Mark si stava cambiando negli spogliatoi, dopo un estenuante allenamento. Non che normalmente in campo “pettinassero le bambole”, però quel giorno Nathan, supportato dagli altri, aveva calciato di quelle bordate... L’ultima, in particolare, quella che in teoria avrebbe dovuto essere la più semplice da parare perché a fine della sessione dei rigori la stanchezza si faceva sentire, ancora gli bruciava sui palmi delle mani, molto arrossati. Però, quando aveva calciato, gli aveva accennato un sorriso di sfida, prontamente ricambiato da uno dei suoi sghembi. Si ricordava perfettamente lo sguardo di Nathan e le emozioni che vi aveva viste amalgamate al suo interno. Un miscuglio di sfida, superiorità,  bruciante passione nei suoi confronti ancor prima che per il calcio, e sicurezza. Era lo stesso sguardo che gli aveva rivolto circa tre mesi prima, quando ancora non stavano insieme.
Posó i palmi contro l'asta del suo armadietto, nel tentativo di raffreddarli.
-Ti sei fatto male?- gli chiese una voce calma, quasi femminile, con una lieve intonazione nervosa, ansiosa.
Voltó la testa lentamente, perché sapeva perfettamente l'identità della figura che gli faceva compagnia.
Avrebbe potuto riconoscere ovunque la voce di Nathan, tutto di lui era come impresso nella memoria del giovane Evans.
Mark gli rivolse un sorriso, le ciocche castane che, libere dalla fascia arancione, gli ricadevano scomposte sulla fronte imperlata di sudore, e scosse la testa.
Poi stese la mano sinistra e vi battè il pugno destro in un gesto automatico, il quale gli veniva spontaneo ogni volta che doveva rassicurare qualcuno, che fosse un suo compagno di squadra o sua madre.
Lo faceva anche ad ogni partita, specialmente le più toste da vincere, subito prima di darsi da fare e parare un goal.
Era un po' come il suo augurio personale.
L'azzurrino non badó a quello, però.
Adoravano, senza averlo mai ammesso esplicitamente, il silenzio che si creava tra di loro. Non era pensante o imbarazzante né, tantomeno, ostile. Era un silenzio piacevole, nel quale si scambiavano sguardi, con cui comunicavano. 
Loro e nessun altro. Loro e i loro cuori. Loro e il loro amore.
Non erano mai stati tipi da troppe moine, bacini, bacetti e cose simili. Sì, erano persone fisiche, ma in un modo particolare. In un modo... Tutto loro. Faticavano a esprimersi con le parole, soprattutto Nathan. Non era mai stato né un tipo loquace, né tantomeno un tipo che ripeteva fino all’asfissia che amava qualcuno.
Mark poteva sì essere logorroico se si trattava di qualcosa che teneva particolarmente a cuore, ma non era mai stato un romaticone.
-Usciamo insieme oggi?-, chiese all'improvviso il capitano, prendendo alla sprovvista l'altro.
Era raro che gli chiedesse di uscire, tant'è che il loro primo appuntamento era stato più che altro un incontro accidentale.
A tale proposta, però, l'ex corridore non poté che annuire.
-Andiamoci in divisa, però- aggiunse Mark, cominciando a muovere verticalmente la mano destra per farsi vento -Fa caldo.-
Nathan annuì, avviandosi verso il suo armadietto per prendere la divisa, visto che era appena uscito dalla doccia e indossava solo l'asciugamano. Gli allenamenti negli ultimi tempi erano davvero pesanti e molto spesso dopo di essi aveva davvero bisogno dell'acqua calda che gli scioglieva i muscoli.
Solo che quando aprì l'armadietto rimase per un attimo interdetto del suo contenuto, sbatté le palpebre, credendo per un attimo di aver sbagliato. Si guardò in giro, contando tutti gli armadietti che distavano da quello di Mark al suo e, sì, quello che si trovava davanti era il suo, il contenuto però no, per niente.
-Che succede?- domandò Mark confuso, vedendolo lì impalato in piedi. Gli si avvicinò, sbirciando da dietro la sua spalla e dalla massa di capelli azzurri, che adorava, ma non l'avrebbe mai ammesso, almeno non ad alta voce, cosa avesse bloccato il compagno.
-Che ci fa la tuta da cheerleader nel tuo armadietto?-
Nathan si girò verso di lui, deglutendo un attimo per la vicinanza con il viso dell'altro. -Penso che mi abbiano fatto uno scherzo- disse.
E quando vide il sorriso birichino sul volto di Mark, Nathan seppe che il ragazzo già sapeva chi era l'autore del gesto.
-Mi nascondi qualcosa, capitano?- gli chiese infatti, non riuscendo ad impedire alle sue labbra di aprirsi in un sorriso.
Mark scosse più volte la testa, guardandolo poi fissò negli occhi scuri che fremevano di una luce divertita.
-Beh, mi sa che ti tocca uscire così- gli rinfacció.
Il portiere gli sorrise e, non badando allo sguardo dell'altro, prese il completo.
-Vedi di fare in fretta, ti aspetto fuori-
Dopodiché si allontanò e chiuse la porta degli spogliatoi. Mark rimase ad aspettare Nathan, seduto sul borsone.
Il sole del pomeriggio si faceva largo dietro i pini del cortile basso, di lì a poco avrebbe cominciato a calare dietro l’orizzonte. Una leggera brezza spirava da sud, dove il profilo squadrato dell’istituto si stagliava imponente contro il cielo sereno.
Chissà come sarebbe stato giocare a calcio nel cielo, rincorrersi tra le lienee rosse e azzurre dell'orizzonte, usare il manto rosa che copriva il cielo all'alba come porta  dribblare tra le nuvole e passarsi la palla tra le scie di fumo che lasciavano gli aerei.
-A che pensi?-, interruppe i suoi pensieri una voce.
Sbatté gli occhi, rendendosi conto che si era perso fra i pensieri, Nathan lo guardava con aria intensa.
Mark scosse la testa, sorridendogli.
-Mi immaginavo a giocare a calcio nel cielo... Con te-
Lo vide imbarazzarsi e si fermò all'istante.
-E come mai ti è venuto in mente?-
-Perché sono felice.-
Lo guardò meravigliarsi e poi distogliere lo sguardo con aria apparentemente infastidita.
-Dici sempre un sacco di cose imbarazzanti.-
-Ma è la verità!-
-Si si, dai andiamo in fretta, così potrò togliermi prima questa roba-
Mark sorrise divertito, ed entrambi, con le loro sacche sulle spalle, si avviarono al negozio.
L'ex corridore stava seguendo il portiere, quindi non aveva la pallida idea di dove stessero andando, però si fidava di lui ciecamente.
Nonostante ciò non riuscì ad impedire che un sospiro rassegnato gli sfuggisse quando notò l'insegna del negozio dove lo aveva portato il castano.
-Un... negozio di caramelle?- chiese titubanté, la mano ancora stretta a quella dell'altro.
-Sì- annuí il capitano, -Perché no?- chiese con quella voce infantile e fanciullesca che gli donava un' aria di serenità imparagonabile.
-Perché sì?- gli rispose allora l'azzurro, la voce appena sarcastica.
-Perché non è molto caro, le caramelle sono buonissime, c'é l'aria condizionata...- cominciò ad elencare Mark, saltellando sul posto.
Nathan si trovò a pensare che, tutto sommato, il pomeriggio non sarebbe andato male. Si stava davvero bene lì dentro.
Si guardarono intorno alla ricerca di un posto libero e trovarono un tavolo completamente vuoto, così andarono a sedersi. Nathan appoggiò la cartella sul tavolo e l’aprì per tirare fuori ciò che gli serviva per studiare. Tutto ciò con poca grazia e facendo un po’ troppo rumore, almeno per gli altri frequentatori del negozio che, con una punta di irritazione e disapprovazione, lo fissavano come se stessero guardando un animale raro.
All'altro ragazzo venne da ridere, anche perché l' azzurro così rosso e imbarazzato era davvero carino.
Quella divisa, poi, lo rendeva un bambolotto d'esposizione.
Le ciocche azzurre legate nella solita coda di cavallo alta impiastravano il collo sudato ed anche la maglietta gialla della divisa, e Mark riusciva a sentirlo fregare le gambe nel tentativo di coprirsi.
Da quella posizione Nathan lo folgorò con sguardo omicida. 
-Sai...- cominciò Mark divertito -Potrebbe essere una buona idea farti giocare così. Il tuo bel corpo è un'arma di distrazione di massa, una carta davvero vincente... Non ho idea di come potrebbero reagire gli altri calciatori. Potrebbero restare sconcertati e ammirati, però...-
Il compagno sembrò non apprezzare quel commento.
-Dovrebbe essere un complimento o cosa...?- chiese infatti, aggrottando la fronte e mettendo su una smorfia offesa, rabbiosa e buffa allo stesso tempo.
Il portiere titolare della Raimon - o Inazuma Japan, a dir si voglia -, ridacchió, prendendo un altro sorso di quel buonissimo tè alla liquerizia.
-Più o meno-, rispose, -Io però sarei geloso- ammise in fine con un calma disarmante.
Per Mark era sempre stato normale, naturale...
Quello che provava per Nathan, oltre ad essere sincero e forte, era bello.
Bello da essere gridato e sbandierato ai quattro venti, bello da essere raccontato a tutti perché  ne prendessero ispirazione.
Chissà dove sarebbero arrivati...?
-Si. Ma poi sono io quello a disagio- esclamò di botto Nathan.
-Lo so- sussurrò Mark dolce, facendolo arrossire come un peperone.
Dopo qualche istante di silenzio, gli chiese come mai avesse deciso di uscire, visto che di solito i loro incontri fuori, da soli per di più, erano abbastanza rari. -Allora come mai mi hai chiesto di uscire?- chiese curioso come un bambino.
-Volevo solo stare con te- esclamò dolce. Quanto lo faceva impazzire quando faceva così. Lo amava.

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Capitolo 4
*** Trust ***


You call my name.
chapter.4: Trust
Byron×Hayden
 

Hayden si sistemò meglio la maglia rosa e azzurra della sua squadra, osservando il fratello parlare col portiere.
Quella che avrebbero affrontato oggi non era proprio una squadra fortissima, ma neanche da prendere sottogamba.
Giocavano nel campo da calcio della scuola degli avversari.
L'erba sintetica ricopriva l'intero terreno, e il rosa si ritrovò a sperare che fosse almeno non molto ruvida.
Giocare a calcio significava correre, e correre implicava cadere, e l'ultima cosa che voleva era ritrovarsi con tutta la maglia imbrattata di verde - un colore che odiava, tra l'altro - e le ginocchia davvero scorticate.
L'orologio sul cellulare indicava che erano quasi le due di pomeriggio, mentre la batteria era pericolosamente vicina al punto di morte: era uscito con così tanta fretta da dimenticare il caricatore portatile sulla scrivania. Certo non aiutava avere sempre la testa tra le nuvole.
Con un sospiro si passò un asciugamano sopra il volto, godendosi poi la leggera brezza che colpì la sua pelle. L'aria era fresca e profumava di sale, un vero toccasana per quella temperatura. Secondo gli esperti, era stata una delle estati più calde degli ultimi quindici anni.
La sua squadra - che non si fraintendesse, però, il capitano era e sarebbe sempre stato Shawn -, era già in campo, a correre avanti e indietro o saltellare sul posto per riscaldarsi.
Tirò forzatamente le labbra in un ghigno, mentre saliva gli ultimi due scalini e la luce naturale del sole lo investirà in pieno, portandolo a coprirsi gli occhi chiari con il braccio.
Sbatté le palpebre un paio di volte, prima di poterli tranquillamente riaprire.
E quando lo fece, la prima cosa che notò fu una figura alta e bionda seduta sulla panchina avversaria.
La ragazza era seduta con un libro in mano, scambiando ogni tanto qualche rara parola con i ragazzi della squadra.
-Tutto sommato potrebbe anche essere il mio tipo... - disse alla fine Harley, uno strano sorrisetto sulle labbra.
Shawn, di fianco a lui, sbuffò, poi la sua fronte si corrugò ancora di più. L’Alpine era pronta a ricevere un suo comando.
-E va bene- proferì per finire il discorso. Chiuse gli occhi e nell’istante immediatamente dopo una palla gli passò davanti fermandosi ai suoi piedi. -Goditi questo momento prima della partita, Hayden-

*

Seduto sulla panchina, gli occhi semichiusi e la schiena dritta, Byron cercava di trovare la concentrazione necessaria per il prossimo incontro.
Anche se sapeva benissimo che sarebbe rimasto in panchina, come al solito.
Non perché non sapesse, volesse o potesse giocare, figurarsi, ma per il semplice fatto che nessuno ci teneva a scoprire se lui sapesse davvero giocare.
Nessuno.
E c'era da dire che per Byron, abituato fin da piccolo a sentirsi elogiare per qualsiasi cosa, venerare come un Dio, quello era stato un brutto colpo.
Si sa, dove l’ignoranza parla - e non poteva che essere ignorante quella sottospecie di capitano che l’era capitato-, l’intelligenza tace.
-Ehi- una voce richiamò la sua attenzione.
Un ragazzo, pressoché suo coetaneo, capelli rosa tenuti su con, probabilmente, una marea di gel e la maglia avversaria addosso, gli si avvicinava.
-Posso aiutarti?-, chiese.
Byron scivolò sulla panchina, allontanandosi dal ragazzo -Non parlo con gli estranei-.
Hayden sorrise, mostrando i denti bianchissimi, -L’hai appena fatto-.
Le labbra di Byron si curvarono in una smorfia.
L'altro sorrise ancora -Piacere, io sono Hayden-.
-Love- rispose il biondo, secco, -Byron Love-
-Strano nome per una ragazza-, disse beffardo il ragazzo rosato.
Passarono alcuni secondi d’interminabile silenzio, in cui Byron stette davvero per passare alla violenza fisica, ma si bloccò quando un pensiero improvviso si fece strada tra i neuroni che urlavano di ammazzarlo di botte e farla finita. -Aspetta un attimo... Mi hai avvicinato perché mi hai scambiato per una ragazza? Sono un ragazzo!-
Passano cinque secondi di silenzio che sapevano troppo di colpevolezza perché Byron riuscisse a mantenere la calma ancora per molto.
Chiuse il libro, deciso a usarlo come arma.
... e il rosato si lasciò scappare una risata sonora, palesemente falsa.
-Aah, scherzavo!-, replicò, suonando poco ferito. -Ovviamente no, ti ho avvicinato perché ho pensato di controllare se il tuo gioco fosse brutto quanto i tuoi capelli!-
-Che c'entrano i miei capelli ora?-, esclamò il biondo, mentre appoggiava il libro accanto a lui sulla panchina - meglio non farsi tentare - e si sforzò di contare fino a dieci, costringendosi a respirare col naso. Non aveva mai incontrato nessuno di così irritante in tutta la sua vita, gli erano bastati pochi minuti per distruggergli quella giornata, che cercava almeno di rendere decente.
E, aggiunse volentieri mentalmente, con due semplici frasi.
A parte che i suoi biondi capelli lunghi fino al sedere e talmente tanto lisci e setosi da rendere una vera goduria passarci le mani, erano davvero bellissimi.
Ma non solo per lui; mai nessuno, in vita sua, lo aveva criticato per i suoi capelli.
-E comunque- riprese a parlare dopo poco, totalmente intenzionato a ridimensionare l'ego del coetaneo, -tu, con quella spazzola rosa non ben identificata, sei proprio l'ultimo che può parlare- sorrise soddisfatto quando il sorriso - no, ghigno - di quell'Hayden sparì.
Per ricomparire subito dopo.
Hayden lo fissò come se non avesse mai visto una persona così stupida in tutta la vita, e Byron concordò segretamente con lui.
-Ci sono cose più importanti dei capelli,- disse.
Shawn ridacchiò in lontananza, in modo quasi isterico, -Ecco,- disse piano. -Moriremo tutti.-
Un angolo della bocca di Hayden si curvò leggermente all'insù. -Bravo, Byron. Mi hai riversato il colpo di grazia,- disse. -È vero, i miei capelli sono orribili. Che fai, non giochi?-
Byron si alzò.
-Non contarci troppo, non scendo mai in campo,- gli disse. Aveva un'aria provata.
-Perché?-
Non voleva che si percepisse il suo dispiacere ma visto come lo aveva guardato il biondo, era abbastanza evidente.
Quel ragazzo lo aveva attirato subito, non perché lo aveva scambiato per una ragazza carina, ma perché era lì, in panchina, mentre tutti i suoi compagni si allenavano, leggendo tranquillamente il "giro del mondo in ottanta giorni" - Che si vedesse il film, poi, no? -.
-Non mi fanno giocare- rispose distrattamente l'altro.
-Sai perché lo fanno?- iniziò Hayden -Perché sanno che tu sei più forte di loro, e hanno paura!- finì riuscendo a estorcere al ragazzo un sorriso.
-Si...- riprese il ragazzo.
-Allora sai che fai? Quando ti dicono di no, tu reagisci e tiragli un calcio qui!- disse Hayden mettendosi una mano sull’inguine.
Istintivamente, Shawn, sorvegliando il fratello e assistendo a quella discussione, strinse le gambe -Hayden- lo richiamò con tono calmo.
Il rosa rise, sprezzante.
Byron lo guardo dapprima shockato, indeciso se prenderlo sul serio o meno - considerato il soggetto, non si poteva mai sapere -, poi lasciò che l'angolo desto delle labbra sottili si alzasse, guardando il ragazzo e sorridendoli con gli occhi.
Fu allora che Hayden si perse.
Si era sempre vantato dei suoi occhi, chiari come il cristallo, con quelle sfumature azzurre che tanto si abbinavano ai capelli rosastri e quelle pagliuzze grigie del mare in tempesta.
Perché erano così i suoi occhi, due piccoli ritagli di un mare costantemente agitato, vivo, implacabile.
E così era lui: impossibile da comandare, impossibile dettargli la strada.
Ne era sempre andato fiero.
Ogni volta che si metteva a punto per conoscere un nuovo amico, o che si doveva presentare, la prima cosa su cui puntava, che calcava, erano i suoi occhi.
Ma quelli del biondo, oh, quei due rubini grezzi erano mille volte migliori dei suoi due laghetti - o forse sarebbe stato meglio dire pozzanghere, viste le dimensioni, ma che frustata al suo ego -.
-Ti aspetto fra poco in campo. Ho un piano- gli disse alla fine con un ghigno voltandosi.

In campo Hayden fuori dall’area tirava i suoi tiri ad effetto; il portiere della squadra avversaria non riusciva proprio a capire la direzione che la palla prendeva.
Anche per Byron, ancora in panchina, era un tiro davvero imparabile. Il ragazzo sembrava instancabile. Dopo un’ora, però, cominciava a dare segni di sfiancamento, o almeno così sembrava finché non lo vide scivolare accanto a un suo compagno della Zeus facendo cadere a terra. Capí il suo piano appena incroció il suo sguardo, e si affrettó ad alzarsi per avvicinarsi al suo allenatore, assicurandogli che aveva capito come contrastare l'attaccante.
Aveva sparato una grandissima cazzata.

Hayden partì subito all'attacco, segnando un paio di goal e Byron non aveva ancora capito come potergli sottrarre la palla. Era inutile affidarsi solo agli occhi. Una parte di lui - quella non infastidita da morire - era impressionata: aveva sicuramente impiegato anni per ottenere quel tipo di padronanza del pallone. Byron rimase un attimo immobile, pensando quale tipo di allenamento sarebbe stato adatto a potergli permettere di bloccare il tiro. Finché gli venne in mente quella volta in cui si era sottoposto a quell’allenamento assurdo: l'allenatore gli aveva si bendato gli occhi, in modo che potesse capire la direzione del pallone facendo affidamento sugli altri sensi.
"Non sarà facile, ma sono sicuro che se voglio capire la direzione del pallone, quesra è la soluzione migliore. Vediamo come la prenderà."
Cavolo, non riusciva proprio a capire la traiettoria della palla, e quando ci riusciva, era troppo tardi. Anche se guardava attentamente, non riusciva proprio a comprendere, il suo istinto lo aveva aiutato in alcuni casi; ma non bastava! Allora poteva farcela con quella tecnica?
-Cosa, c’è sei già stanco ragazzino?-
Chiese Hayden, asciugandosi con l’avambraccio il sudore dalla fronte.
Lo stava provocando e sembrava andare bene a tutti.
I suoi compagni di squadra gli passavano sempre la palla e gli gridavano "Via Hayden!" e i difensori dietro bloccavano ogni palla, anche le più difficili da prendere.
I suoi compagni, invece, si facevano rubare ogni pallone e ora erano sotto di ben tre goal, non impossibili ma difficilissimi da recuperare.
E il rosato lo guardava, anzi lo squadrava da capo a piedi e sembrava aspettarsi chissà quale miracolo da lui, lui, che non aveva mai toccato un pallone in una partita vera e propria, messo lì nella speranza che qualche avversario s’intenerisse, cosa che non solo non era successo, ma aveva addirittura esortato l'effetto opposto.
Lui ad Hayden non faceva pena - non che volesse fargliela, per carità -, ma lo intrigava, si divertiva a prenderlo in giro, a ridere quando nel tentativo di rubargli il pallone scivolava e si macchiava la pelle di porcellana e la candida bianca divisa d'erba.
Rideva quando i compagni, arrabbiati per la scomoda situazione, gli urlavano dietro di prendere quella palla e di usare quei piedi, - da che pulpito poi, visto che loro per primi non l'avevano presa -.
E lo faceva incazzare, ecco cosa.
Oltre ogni limite, come nessuno prima d'ora era riuscito.
Perché Byron subiva, abbassava la testa e ignorava il boccone amaro, - sì mamma, non fa niente se, quando avevo otto anni, hai preferito regalare quel peluche a mio cugino che non a me, sì papà, non fa niente se vuoi guardare la partita e non portarmi al parco, no prof, va bene se non premiate me per l’impegno di un anno ma qualcun altro per l’impegno di qualche giorno. Assolutamente niente. -
Hayden lo guardò stringere i pugni fino a farsi male, lasciando segni a forma di mezza luna sulla tenera pelle dei palmi delle mani. Era così stanco di provare e fallire.
-Ti fidi di me?-
Wuelle parole, e soprattutto il tono con cui erano state pronunciate, lo sorpresero, e si prese qualche secondo per rifletterci.
Lo conosceva? No.
Erano amici? No. Nemmeno compagni di squadra.
Erano nemici? No, assolutamente no.
Forse era brutto dirlo, ma preferiva lui ai suoi compagni di squadra.
Sentiva qualcosa di strano per quel ragazzo; ma com’era possibile? Non lo conosceva nemmeno, eppure la sensazione così familiare gli diceva che si poteva fidare.
-Strano, ma sì, mi fido-
-Bene-
Hayden si avvicinò a Byron, dopo aver preso una bandana dal suo borsone e gliela legó attorno agli occhi, esattamente come aveva fatto il mister quel pomeriggio.
Poteva immaginare i suoi compagni di squadra muoversi a disagio, indecisi su cosa fare e cosa pensare. Inizialmente, il biondo tentennò, ma bastarono le mani del rosato che lo spingevano lentamente verso la sua metà campo, incitandolo, a spronarlo.
Anche bendato, poteva vedere, immaginandole, le facce dei suoi compagni, contrariati non poco, e il pensiero lo fece sorridere.
-Concentrati sugli altri sensi- gli disse, neanche tanto silenziosamente, Hayden, -Immaginati il pallone, e anche senza vederlo, capirai dove si trova e dove andare-.
Probabilmente, sottovalutava tante cose: il fatto che Byron non avesse mai provato ciò su un campo, che se un avversario avesse provato a soffiargli il pallone - ammesso che il biondo sarebbe riuscito a prenderlo -, non avrebbe potuto vederlo.
Fece qualche tiro semplice e non ci volle molto prima che il biondo riuscisse a intercettare il pallone e a rimandarlo indietro.
Ma ormai entrambi erano allo stremo delle forze, e il tempo venne a loro favore, suonando per segnare la fine del secondo tempo e anche della partita.
Byron era visibilmente a pezzi, -Basta-
E si tolse la bandana, consegnandola al ragazzo.
-No, tienilo tu, a me non serve più-
-Ok, grazie. Andiamo a farci una doccia così possiamo tornare a casa.- disse, avviandosi verso lo spogliatoio, facendo del suo meglio per ignorare gli altri ragazzi. Non vedeva l'ora di essere fuori da lì.
Hayden non se,brava dello stesso avviso, però.
-Ehh? No, no! Io sono apposto, ti aspetto qua- disse, gesticolando leggermente per poi nascondere le mani nelle tasche del pantaloncino della divisa. Tutto questo, guardando rigorosamente ovunque tranne che lui.
-Che c’è, ti vergogni?- non poteva non prenderlo in giro almeno un po'.
-No- sbottó il rosa, cercando di sembrare convincente. Byron non era pienamente convinto; ma decise di non insistere.
-Come vuoi! Non vuoi nemmeno cambiarti?-
-E che non mi sono sporcato oggi e quindi rimango così-
Inventò una scusa.
-Non ci metto tanto- lo informó il biondo.
-Va bene!-
E andò verso gli spogliatoi.

Aveva detto, il biondo, che avrebbe fatto presto ma, a conti fatti, ci stava mettendo troppo.
Davvero troppo.
Le due squadre erano già sparite oltre il portone dello stadio, anche Shawn se n'era andato, dichiarando che aveva qualcuno cui asserire la vittoria.
Che smielato, il suo fratellone.
Nervoso, il rosa prese a camminare in cerchio, le braccia incrociate e le gambe che, stanche dalla partita, minacciavano di crollare.
Nonostante ciò, Hayden non riusciva a stare fermo.
Fece passare un solo altro minuto, prima di decidere che era stanco di aspettarlo e che doveva andare a vedere che fine aveva fatto Byron.
Dopotutto, poteva anche esserli successo qualcosa, tipo essere caduto e aver battuto la testa, o magari aveva avuto un malore...
Hayden non era una persona sensibile come il gemello, erano davvero poche le persone di cui si preoccupava, ed era molto più impulsivo, fatto sta che non aspettò un secondo a spalancare la porta dello spogliatoio dove poco prima era sparito il biondo, trovandolo a torso nudo, intento a coprire di crema un piccolo livido che si era formato poco sopra l’antica destra, contorcendosi in un modo disumano.
Sbattendo le lunghe ciglia - il rosa sperava fossero solo lunghe, e non ci fosse di mezzo nessun trucco -, Byron lo squadrò per un istante, prima che il viso pallido avvampasse per l'imbarazzo, esattamente come il suo.
Hayden a quel punto richiuse la porta, spinto dalle urla per niente virili del biondo, lasciando che un ghigno gli impregnasse le labbra.
Peró...aveva un culo niente male, la ragazza.

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Capitolo 5
*** Drawing ***


You call my name. 
chapter 5: drawing
Jordan×Xavier
 
Era una triste giornata. Già, triste, non brutta. Il cielo era di un soffice grigio chiaro, non filtrava neanche un raggio di sole, tanto che, se fosse stato possibile, le persone avrebbero anche potuto pensare che non ci fosse proprio, lí sotto, un sole. O dimenticarsene. La pioggia cadeva fitta, ma non pesante, picchiava sui vetri delle finestre e sulle mattonelle dei marciapiedi in una specie di melodia, forse non proprio soave od orecchiabile, ma una volta che rimanevi ad ascoltare diventava quasi calmante. E poi c'era l'odore della pioggia, che Jordan, tredicenne che aveva appena finito l'ultimo allenamento della settimana ed aspettava, seduto sul muretto davanti al campo, appena uscito dalle doccie che spiovesse, semplicemente amava. Non che fosse quello che molti definirebbero un buon odore, ma era pregnante ed allo stesso tempo leggero, gli lasciava qualcosa addosso. Qualcosa che nemmeno tutte le carezze del mondo sarebbero mai riuscite a lasciare ad uno come lui. Disperatamente solo. E questo non perché fosse davvero solo. Certo, era orfano, ma aveva tanti amici in orfanotrofio, aveva chi si prendeva cura di lui, aveva la squadra, ragazzi che non conosceva da tanto ma a cui avrebbe affidato la cosa più importante per lui. Il punto non era che lui era solo, il punto era che si sentiva solo. Maledettamente solo. Per tirare le somme, era una triste giornata per lui. Lui si sentiva triste, vuoto, spento. Privo di energie, esausto. E non sapeva cosa fare per ripartire. Perciò sedeva là, i capelli verdi prato scompigliati appena dal vento, una matita nella mano sinistra e il suo fidato blocco da disegno nell'altra, usando le gambe come tavolino. Quello che poteva farlo stare meglio, in una giornata del genere, era il disegno. Solo il disegno poteva.
Perso in pensieri malinconici, che difficilmente abbandonavano la sua mente, faceva scorrere la mano senza soffermarsi davvero su ciò che stava disegnando.
Ogni volta che riguardava i suoi disegni, raffigurazioni accurate di animali e volti, riusciva a sentirsi meno solo. Erano solo immagini ritratte, ma erano parte di lui e lo capivano meglio di quanto potesse fare chiunque.
La cappa grigia sul cielo gli ricordava quanto fosse soffocante restare intrappolato nei propri pensieri, peggio ancora per una mente malinconica come la sua, fu con il pensiero di poter essere libero che la forma stilizzata di un drago prendeva forma sulla pagina bianca. Nello stesso momento in cui dei passi affrettati si fecero sentire dal corridoio che dava sulla palestra.
-Non sapevo disegnassi- sobbalzó, spaventato, così tanto che la matita gli cadde e il suo misterioso interlocutore, che svelava una chioma rossa difficilmente confondibile, si affrettó a raccoglierla. Poi gliela porse, sorridendo e chiese, come se ce ne fosse stato bisogno, se poteva sedersi lì accanto a lui. Onestamente, Jordan non voleva parlare con qualcuno, e non era nemmeno sicuro di esserne capace. Ovviamente sapeva parlare, solo, tutte le conversazioni che aveva avuto precedentemente erano state o fortemente forzate o estremamente frivole. Ed ora come ora, così solo, vulnerabile e debole, Jordan sapeva di non poter gestire una chiacchierata. Non con Xavier almeno. Ma lui non sembrava dello stesso avviso. -Cosa disegni?- ed adocchió al quadernino un po' stropicciato che, senza neanche rendersene conto, il verde si stringeva al grembo.
Jordan ci mise almeno cinque secondi per ritrovare l'uso della parola, e allora rispose, esitante: -Un drago-
Xavier osservò i disegni e sorrise. -Mi piacciono i colori che usi... Le ali fatte con il viola sono molto belle!-
L'altro ricambiò il sorriso e fece una firma sull'angolo del foglio.
-Grazie- rispose, piano, ed all'inizio dubitó di essere stato sentito, ma dopo il rosso si sistemó meglio al suo fianco, appoggiando le braccia sulle gambe e stringendosi i ginocchi, ancora un po' lividi dalla partita precedente.
Le parole di Xavier, dette durante il loro primo incontro al campo da gioco quando lo aveva struzzicato e preso in giro, emersero confuse, aumentando l'effetto di stordimento che stava sconvolgendo Jordan.
Avevano fatto lo stesso discorso, realizzò, rendendosene appieno conto.
Il modo asciutto e stizzito in cui glielo aveva detto, che non gli era sfuggito neanche all'epoca, tornò prepotentemente a galla.
Tuttavia, non ebbe il tempo materiale di rimuginarci ulteriormente dal momento che il rosso riprese a parlare.
-Sicuramente è servito- affermò laconico Xavier, inclinando appena il viso fino a far scontrare nuovamente i loro sguardi, unendoli in un gioco carico di sincerità e sintonia.
Gli permise di intuire ciò che gli stava frullando in testa, tutte le probabili emozioni che lo stano sconvolgendo.
–Sei migliorato molto- ribatté ancora, sottolineando questo concetto, come per non farlo rimanere deluso, e ponendo definitivamente fine al discorso.
Non aggiunse, difatti, null'altro, chiudendosi in un lieve mutismo che non apparve però per nulla tormentato o nervoso.
Al contrario, sembrava inaspettatamente tranquillo e calmo, pervaso da una pacata quiete che lo sorprese, che non si aspettò semplicemente.
-Anche tu-, per quanto trovasse piacevole quel loro silenzio, Jordan sentiva il bisogno di dire qualcosa, fare almeno un cenno, ricordarsi per un secondo come suonasse la propria voce prima di zittirsi di nuovo, e concentrarsi sulle ali del suo drago, che avevano bisogno di alcune rifiniture. Sperava che l'altro ragazzo avrebbe solo sorriso, aveva davvero bisogno solo di questo, l'ultima cosa che voleva era iniziare una conversazione. E, forse memore dello Xavier di prima, quello della pietra, che ti guardava con superiorità e quando apriva bocca lo faceva solo per schernirti, era sicuro che non lo avrebbe fatta.
Alzando orgogliosamente il mento lo fissò dal basso, per nulla intimorito dalla sua statura imponente mentre lo fece scoppiare a ridere.
Rallegrato dal suo modo testardo di porsi ridacchió sommessamente, mordendosi quasi a sangue le labbra per non emettere una fragorosa risata e smorzare di conseguenza il momento.
Xavier scosse semplicemente il capo, un sorriso allegro e svagato, che non gli sfuggì, gli inclina la bocca l'attimo prima di voltarsi e dirigersi verso le porte dello spogliatoio.
Allungando una mano afferrò poi una sacca grigia abbandonata alla porta, mettendosela in spalla.
Ingordo di lui, non si perse neanche un suo gesto, accarezzandolo a distanza.
Continuando a non dire assolutamente nulla si voltò subito dopo, avvicinandosi nuovamente al ragazzo con una sola, ampia falcata.
-Ho dimenticato i calzini- gli disse ancora, amorevolmente incalzante, inclinando appena il capo per incontrare il suo sguardo scuro, vispo e intelligente.
Per un lungo attimo rimasero a fissarsi, senza che nessuno dei due si sbilanci e abbandoni l'espressione seria e testarda che avevano stampata in faccia.
Incuriositi dal loro nuovo modo di interagire. 
Xavier si aprì poi in un leggero sorriso subito dopo, quando si abbassò all'altezza di Jordan. Avvicinandosi a lui lo guardò in attesa di una parola, aspettando pazientemente.
Il verde strinse leggermente il foglio bianco tra le mani e l'altro ragazzo, che lo aveva visto con la coda dell'occhio, lo rimproveró scherzosamente, -Rovinerai il disegno- disse, e posò delicatamente una mano pallida su quelle del più piccolo, e mosse delicatamente le dita, cercando di chiudere il taccuino. Jordan non oppose resistenza, e guardò docile il rosso mentre gli sottraeva delicatamente l'oggetto, come se lo stesse accarezzando, e si sporgeva, facendosi leva sul ginocchio, per posarlo accanto a lui. Solo allora, e dopo aver deglutito due volte, il verde si permise di protestare, -Non avevo ancora finito il disegno-.
-Non stava uscendo molto bene- lo avvisó, -Eri così nervoso prima, che ti tremavano le mani!- 
Lo guardò per un attimo e le sue guance s'imporporarono lievemente, tradendolo, così preferì concentrarsi sulla parte di conversazione che poteva gestire. -Hai detto il contrario prima, mi pare- e gonfió le guance. Il rosso piegò leggermente la testa, un piccolo sorriso che gli increspava le labbra mentre solleticava il palmo della mano destra del suo compagno con i polpastrelli, spingendolo ad aprirla di più. -Perché per me ogni tuo lavoro è sensazionale- sussurró, un tono troppo dolce per il verde che, soprattutto quando si trattava dell'altro ragazzo, poteva gestire un solo elemento alla volta, e le mani che si intrecciavano, i visi che si avvicinavano e le labbra di Xavier che si schiudevano erano già da infarto presi singolarmente, figurati contemporaneamente. Strofinó tra loro le gambe, mentre poco ci mancava che il rosso gli salisse a cavalcioni. -Non sono obiettivo- continuó, giocherellando, con la mano libera, con una ciocca di capelli verdi, -Già- e mentre parlava, gli si avvinava, facendo saettare lo sguardo dai suoi occhi alle sue labbra, un invito troppo esplicito anche per lui. -Sono decisamente di parte.- Proprio nel momento in cui Jordan decideva di prendere in mano la situazione e si piegava leggermente per incontrarlo a metà strada, un colpo di tosse, decisamente finto, li fece voltare, improvvisamente in ansia, e si ritrovavano l'intera squadra davanti, con Mark che troneggiava, immancabile pallone sotto al braccio e sorriso smagliante come marchio di fabbrica.

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Capitolo 6
*** Soccer ***


You call my name.
chapter. 6: soccer.
Caleb×Jude

 
Una delle cose che amava fare quando era frustrato, era visitare i luoghi che avevano segnato la sua infanzia. Tra questi vi era il campo da calcio, teatro delle infinite sfide tra la Inazuma Japan, squadra di cui faceva parte, e le altre infinite squadre di calcio che cercavano di eguagliarla. Decise così, dopo aver cenato, di uscire di casa per andare a fare un paio di tiri nel vecchio campo. Aveva capito che la soluzione per non pensare era prendere una boccata d'aria. Si avviò con passo svelto verso il campo, vestito semplicemente con una tuta bianca e una maglia azzurra. Arrivato in prossimità del campo notò che era deserto.
"Che strano" pensò Caleb, mentre si avvicinava ad una delle due porte "Di solito sono felice di stare solo con i miei pensieri. Invece oravorrei proprio che ci fosse qualcuno con cui fare qualche tiro, pur di passare delle ore senza pensare". 
Lasciò cadere il pallone che fino a quel momento aveva tenuto sotto il braccio e sorridendo toccò con una mano l'erba del campo.
Erano anni che correva per quel campo, anni che cadeva e rotolava tra quell'erba, anni che calciava un pallone in quelle porte, un tantino arrugginite dal tempo.
Eppure ogni volta era speciale, non si sarebbe mai stancato di ciò, non si sarebbe mai stancato del calcio.
Inizialmente provó un paio di dribble difficilissimi, passandosi la palla tra un piede e l'altro senza toccarla con la punta, e cercando d'imitare quei passaggi difficili dell'Italia o del Brasile.
Inutilmente.
Poi cominció a correre; le ginocchia che anche se piegate riuscivano a sostenerlo magnificamente, poiché allenate.
Calciava il pallone valutando ogni centimetro, ormai perfettamente abituato.
La sua testa registrava perfettamente quanto lungo dovesse essere il passaggio.
Arrivó poi a calciare, frutto davanti alla porta, completamente solo.
Alzó la palla con un veloce movimento della gamba, per poi piegarla, alzarla e calciare in pieno il pallone col piede destro.
La palla roteo su se stessa più e più volte, per poi mancare totalmente la porta di parecchi centimetri. Esattamente come successe poco tempo prima, in una delle partite più importanti che abbia mai giocato.

"Lo stadio di Monaco esplose in un boato assordante. I tifosi bavaresi gridarono di gioia in preda all'euforia, mentre i sostenitori del Giappone rimasero seduti, immobili, presi dallo sconforto. Caleb si girò e vide la palla in fondo alla rete. L'arbitro decretò la fine della partita con il triplice fischio. L'Inazuma Japan si alzò dirigendosi verso il tunnel che portava agli spogliatoi, desideroso solo di svegliarsi per accertarsi che il suo era stato solo un sogno. Anzi no, un incubo. Un incubo in cui la giovane speranza giapponese aveva regalato la vittoria alla squadra rivale."

Caleb la ricordava quella partita, ricordava la delusione dei suoi compagni e quanta rabbia abberghasse sei loro cuori.
Solo Mark aveva sorriso ed era riuscito a salutare gli avversari, loro no.
Loro, sicuri al buio degli spogliatoi, si erano dati le colpe a vicenda.

"Jude s'incamminò verso il pullman della sua squadra.
-Una cosa Caleb-, si voltò per guardare il giapponese. -Shawn e Axel mi hanno detto di portarti i loro complimenti-, continuò, -E dì ad Austin che mi dispiace di averlo provocato. Ci siamo incontrati prima e abbiamo chiarito, però non ho avuto il tempo di spiegargli una cosa. Digli che le amicizie, quando gioco, le lascio fuori dal campo-, proseguì, -Sicuramente sarà arrabbiato con se stesso per aver lasciato l'Amburgo vincere. Digli che non è colpa sua se abbiamo perso... Non che la colpa sia tua ovviamente-, si affrettò ad aggiungere sperando che l'amico non avesse frainteso le sue parole. Caleb sbattè più volte le palpebre.
La partita l'aveva così sfiancato che non aveva voglia di fare niente, neanche parlare, ma la sua reputazione non sarebbe stata intatta se, prima di voltarsi senza far cenno di aver compreso, non avesse aggiunto:-Ovvio che non è colpa mia-. In realtà, a pensarci bene, avrebbe voluto aggiungere qualcos'altro, come "è colpa tua", ma all'ultimo la voce gli venne meno. Non era necessario scrutarlo in faccia per sapere che il centrocampista aveva la sua solita espressione di arroganza mista a sicurezza. Era tornato quello di sempre."

 -Forza, fammi vedere quello che sai fare-
-Questa volta non riuscirai a parare!-
Caleb si svegliò di soprassalto. Aveva udito delle grida e delle risate. Dall'altra parte della metà campo un uomo correva verso la porta difesa da qualcuno. 
Il giovane giapponese scattò in piedi e prese ad avvicinarsi ai due. 
Nel frattempo l'uomo con la palla stava raggiungendo con una rapidità impressionante la porta. Giunto al limite dell'area di rigore alzò il pallone con la punta del piede sinistro e lo calciò con l'esterno del destro. La sfera fu lanciata con uno strano effetto verso l'angolo in basso alla sinistra del portiere.
Caleb pensò che non ce l'avrebbe fatta a parare, ma poi dovette ricredersi.
Il portiere si lanció all'ultimo secondo e bloccó la palla con il palmo della mano.
Una sola mano.
In realtà, non era la parata più spettacolare che avesse mai visto, ma raramente qualcuno riusciva a sorprendere.
Eccetto Mark.
I due sembrarono notarlo, il ragazzo che aveva tirato la palla si illuminò di colpo e gli si avvicinò. -È un piacere conoscerti Caleb Stonewall-, sorrise e allungò la mano per stringere quella del giapponese.
Il povero ragazzo dopo aver riacquistato un po' di colore, sbiancò nuovamente e per poco non svenne. -Come fai a sapere chi sono?-.
Il calciatore si limitò a ridere. A quel puntò parlò l'altro calciatore scrutando l'amico-rivale, -Ti conoscono tutti... Eri un grande calciatore-.
-Ero?- sbottó, piuttosto offeso.
Perché sì, Caleb era permaloso.
-Io sono ancora un grande calciatore- borbottó ostinato, stringendo i pugni nascosti nelle tasche e spiaccicandosi un sorriso sfacciato in faccia.
-Ma questo voi non potete saperlo-
-Oh- fece il suo interlocutore, ridendo allegramente -Non ne dubito.-
Nel frattempo, una figura li stava spiando da fuori campo e a quella frase se ne uscì con un sorriso. -Bhe non è importante, rimandiamo a dopo le chiacchiere. Che ne dite di una sfida?- disse Jude uscendo dall'angolo in cui si trovava.
Lo sguardo di Caleb valse più di mille parole.
L'attaccante partì dal centrocampo cominciando a correre verso la porta. Sembrava una saetta.
"È velocissimo", pensò Caleb, "Forse quanto Thor ed ha un controllo di palla eccezionale".
Arrivato a pochi metri dalla lunetta dell'area di rigore fece partire un bolide diretto alla destra di Caleb. Quest'ultimo si distese e bloccò la sfera diretta verso l'alto.
Il viso gli si contrasse in una smorfia, visto che gli ci era voluta più forza del previsto per bloccare la pallonata.
Cominciò a correre, facendo leva sull'effetto zig zag per poi effettuare un passaggio lungo e passare la palla a Jude.
L'avversario, il calciatore, gli inseguiva, e Caleb riusciva a sentirlo annaspare, per lui doveva essere faticoso.
-Caleb!- lo chiamó il rasta, una volta che fu in prossimità della porta.
Caleb fece tornare la palla al ragazzo che al volo, eseguì una sforbiciata. Il giovane portiere si alzò e si gettò a sinistra in un tuffo disperato. Sfiorò con la punta delle dita la sfera che oltrepassò il braccio disteso e finì sul palo.
Il moro si girò a guardare il castano con un'espressione interdetta. L'altro ricambiò lo sguardo rimanendo impassibile.
Caleb recuperò il pallone e rifletté sul suo compagno, era da tanto che non lo vedeva giocare, "Si muove velocemente, ha un'agilità fuori dal comune ed ha doti acrobatiche pari ad un funambolo. Inoltre sa tirare con precisione di testa e con entrambi i piedi ed ha un tiro molto potente. Quello sbruffone mi ricorda una tigre. Sì il soprannome è giusto."
-Ve la cavate niente male- si complimentó l'attaccante avversario, pulendosi col braccio il sudore dal viso.
Contemporaneamente, l'amico portiere si rialzó, il petto che si alzava e abbassata freneticamente, e si esibì in un piccolo sorriso.
Poi si congedarono entrambi, senza troppo penambroli.
Caleb provó a seguirli con lo sguardo, ma il buio troppo fitto glielo impedí.
-Ma che ore sono?- chiese, più a se che non al compagno.
Jude si guardò lentamente intorno e poi scrollò le spalle, sempre coperte dall'immancabile mantello. Stettero un po' in silenzio, finché non fu Jude a rompere il silenzio -Potrebbero davvero diventare più forti di qualsiasi altro giocatore-, poi puntando scherzosamente l'indice contro Caleb -Han Samg... qualcosa, l'uomo che superò il piu grande centrocampista-. Esplose in una risata -Sì, suona bene-.
Caleb sorrise amaramente, -Non sono riuscito a conservare il posto in squadra dopo il mio maledetto errore. Come potevo essere il migliore di sempre se in seguito ad uno sbaglio perdo la fiducia della società?-.
Il rasta prese il pallone dalle mani del collega e si mise a palleggiare. -Tu sai cosa ho combinato durante la mia partita d'esordio?-.
Caleb lo guardò, senza però esprimere a parole la propria curiosità.
Jude non era mai stato un ragazzo facile da leggere, un po' per via di quelli dannati occhialini, un po' perché era proprio così di carattere.
-Dovevo sostituire il centrocampista titolare che si era precedentemente infortunato. Ero molto emozionato. L'estremo difensore della squadra rivale effettuò una rimessa lunga e il pallone arrivò fino alla linea che delimita l'area di rigore. Scattai in avanti per prendere la palla, ma mi scontrai con un compagno e la sfera rotolò in rete-.
Caleb non credeva alle sue orecchie. Jude nella prima partita aveva subìto un gol da 70-80 metri! 
-I miei compagni mi incoraggiarono e soprattutto-, continuò accigliato, -la società mi diede fiducia. Non capisco perché l'Inazuma Japan non l'ha fatto. Considerando che giochi per loro da quando hai quindici anni-.
-Infatti è questo che fa male-, ripassò la palla che il centrocampista gli aveva lanciato. -Sono molto giovane eppure sono sullo stesso livello dei veterani del calcio. Malgrado ciò, la squadra in cui sono cresciuto, mi ha sbattuto le porte in faccia. Non faccio che pensare a quello stramaledetto cazzo di gol, che se devo essere sincero, mi ha fatto dubitare di me stesso durante le partite per le qualificazioni. A causa della mia imprudenza ho perso il posto da titolare, quindi pensavo che se avessi sbagliato anche con la Raimon sarei stato trattato allo stesso modo. Ero riuscito a riprendermi quasi immediatamente dopo quella partita, poi quando ho capito che era venuta a mancare la fiducia dell'allenatore e del club, sono sprofondato in un vortice di paura e insicurezza.-
-Questo è grave. Ogni incontro deve essere affrontato pensando che non esiste né un passato né un futuro-, lo ammonì il rasta mentre palleggiava di testa, -Ma sei un ragazzo giovane, con una grande responsabilità sulle spalle, quindi è normale dopo il tuo primo vero errore, perdere un po' di sicurezza nelle tue capacità-. Fece una pausa -Scommetto che hai pensato che era meglio far giocare il secondo attaccante, dico bene?”- domandò.
-Sì-, ammise Caleb -Mark non ha reagito bene quando gli ho chiesto se voleva essere titolare al mio posto, per poco non mi stendeva-.

“-Lo sai cosa penso di te, Caleb? Penso che tu sia un codardo!-, disse avvicinando il viso a quello dell'attaccante. 
Solitamente, il punk avrebbe reagito, eccome se lo avrebbe fatto, tant'è che alcuni ragazzi della squadra si avvicinano, pronti a fermarlo. Ma lui non lo fece. Lui mise su uno dei suoi sguardi più taglienti, uno di quelli che aveva imparato a fare quando gli parlavano di suo padre, uno di quelli che lasciava intendere quanto gliene fregasse.Ma non dovette venirgli molto bene, perché negli occhi scuri come la cioccolata di Mark balenó un'ombra di tristezza. Di pena.
-Tempo fa me lo avevi proposto perche avevi fiducia in me, ora mi proponi di giocare solo perché ti senti insicuro. È questa la differenza, lo capisci Caleb!-."

 -Quel ragazzo è molto saggio... è riuscito a capire il problema-, sentenziò Jude, capendo dove erano persi i pensieri di Caleb. -Ho sempre pensato che se non sei tormentato dopo aver fatto un errore, non sei un grande giocatore. In quel momento, non importa quello che hai fatto in passato, perché sembra non avere futuro-.
-È una delle mie frasi preferite-, lo interruppe il giovane.
-Ma il mio pensiero è circoscritto alla sola partita, se diventa un'ossessione non riuscirai mai a giocare con tranquillità-.
-Ah, il centrocampista... il ruolo degli stupidi e...-, intervenne l'attaccante.
-Degli oppressi- scherzó Jude, guardando il compagno mezzo sdraiato sull'erba ed imitandolo.
-Hai intenzione di rientrare?-gli domandó con un tono a metà tra lo speranzoso e il curioso.
Caleb avrebbe voluto rispondergli che avrebbe davvero voluto tornare.
Giocare con loro, giocare con lui.
"Ho intenzione di rientrare?", ripeté nella mente Caleb, "Ha ragione lui. I ragazzi della Raimon mi hanno dimostrato in queste partite di qualificazione di avere completa fiducia nelle mie capacità. Devo concentrarmi e solo dopo penserò al resto. Se l'Inazuma Japan non mi vuole cercherò un altro club. Sarà da lì che ricomincerà la carriera di Caleb Stonewall. Ripartirò da un club in cui avvertirò lo stesso spirito che aleggia intorno a me quando sono con i miei amici. Lo spirito della spensieratezza e del divertimento. Non vedo l'ora di rivedere Scott, quel pazzo di Mark e anche quell'antipatico di Shawn. Con loro e con me in campo saremo al completo e nessuno ci potrà battere"
Il rasta lo guardò con un mezzo sorriso.
-Voglio di nuovo giocare con loro- si lasciò sfuggire il punk, lo sguardo verdastro perso tra il cielo blu.
-E con me no?- lo provocò Jude.
Caleb rise e si scusò, -Non lo so... Te lo dico se riesci a fare goal-, si alzò di scatto e lasciò cadere il pallone dalle mani e lo calciò di destro al volo.
Jude si posizionò sulla linea del centrocampo e alzò il viso per poter seguire la traiettoria a parabola della sfera. -Merda, non posso vedere-, imprecò. Una luce lo aveva costretto a chiudere gli occhi e nonostante gli occhialini risultava impossibile anticipare il movimento della palla.
Non aveva notato che un piccolo quadrifoglio era rimasto attaccato al pallone.
Giocarono per un po', rubandosi la palla a vicenda, ma alla fine fu Caleb a segnare.
Ben tre volte.
 A difesa di Jude c'era da dire che il punk aveva deciso di giocare sporco, ostinandosi a sorridere per tutto il tempo.
Ed il suo sorriso era davvero meraviglioso.
-Cos'ha oggi il grande Jude Sharp?- lo derise, tornando il solito sfacciato saccente.

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