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Gli individui sudcoreani di sesso
maschile sono tenuti a prestare
un totale di due anni di servizio
militare, che può essere effettuato
tra i 18 e i 28 anni di età.
Jin, 2020, anni 28.
Lo sguardo di intesa tra Jimin e Taehyung
lasciava poco spazio all’immaginazione ormai: Jin
aveva appena rivelato loro la data in cui sarebbe dovuto partire, il momento in
cui avrebbe dovuto abbandonare i Bangtan, i propri
progetti, la propria carriera.
Una fase che ognuno di loro avrebbe dovuto affrontare prima o poi, rimandata
attendendo l’ultimo anno disponibile, così come la legge prevedeva: dovere e
servizio per la patria. Ed i ventotto anni di Jin ormai
erano arrivati. L’espressione apprensiva di Jimin
tradiva una certa tensione, tale da rendere difficile affrontare apertamente un
argomento simile; avrebbe voluto dire qualcosa di confortante ma sentiva
tremare le labbra all’idea di dover dare voce a ciò che stava pensando davvero.
Come avrebbe reagito Jungkook alla notizia?
Tae strinse forte le dita del ragazzo intrecciandole alle sue in una morsa;
inspirò profondamente dal naso decidendo di affrontare finalmente la questione con
uno dei diretti interessati.
«Quando pensi di dirglielo?» Jin sospirò massaggiandosi le palpebre con i
polpastrelli nel vano tentativo di smaltire il malessere che stava salendo
dalle viscere alla testa. «Non ora.» Jimin aggrottò le sopracciglia contrariato, non
riteneva corretta la decisione presa e non mancò di esternare la propria
perplessità a riguardo. Perché tardare l’inevitabile, se prima o poi avrebbe
dovuto comunque affrontare la cosa?
«Al momento siete gli unici a saperlo, vi chiedo solo di non parlarne con
nessuno.»
«Ma Jin…» Taehyung guardò l’altro scuotendo la testa. Dovevano
lasciar stare, non era la loro vita, non avrebbero dovuto immischiarsi in certe
faccende.
«Lasciami parlare.» Il ragazzo prese posizione alzandosi e fronteggiando in
punta di piedi il collega, tentando vanamente di mantenere un contatto pari
occhi negli occhi nonostante la differenza di altezza. «Te lo dico, secondo me
non è la scelta giusta. Cosa ti costa dirgli la verità? Cosa?» Jin si morse il labbro inferiore scostando lo
sguardo. Effettivamente sarebbe stata la mossa più ovvia, allora perché il solo
pensiero di dover rivelare a Jungkook la data della
partenza gli dava un senso di nausea misto a spaesamento? Avrebbe atteso,
mancava ancora un po’ di tempo in fondo.
«Jimin, lascialo.» La mano di Tae strinse la spalla
spostando il compagno che s’era aggrappato alla maglia dell’altro,
strattonandola con forza.
«Non lo accetto, non è giusto… e se J-»
«Basta!» La voce malferma del maggiore si levò sulle altre, il rifiuto
categorico di continuare la conversazione era palese. Non avrebbe parlato, e
cominciava a dubitare di aver fatto la cosa giusta rivelando ai due la notizia;
«lasciatemi in pace.» Si diresse verso la porta della sala comune, sbattendola
incurante del tonfo sordo prodotto dalla propria ira. Possibile non riuscire a
trovare un solo attimo di quiete tra quelle mura soffocanti? Erano da poco
tornati dal tour, carichi di mesi e mesi di lavoro incessante, prove,
esibizioni, rifacimenti, rielaborazioni.
E non ne poteva più.
Voleva trovare calma, una calma ricercata da parecchio, una calma necessaria dopo
la conclusione di uno dei più impegnativi momenti della sua vita. Tutto
inutile. Tornare a casa di fatto lo stava portando a dover affrontare ciò che che ormai non poteva più essere rimandato. Non che
dispiacesse servire con orgoglio, donando il proprio cuore e le proprie mani
allo Stato di appartenenza, semplicemente avrebbe dovuto farsi forza e
separarsi da loro: una famiglia acquisita che lo aveva portato ad affrontare
non poche difficoltà, molti sorrisi, gioie e malessere.
Pur sempre la sua famiglia.
Amici, compagni, colleghi. Testardi, impiccioni, alle volte immaturi, ma pur
sempre loro, pur sempre le persone più importanti.
E poi lui, Jungkook: avrebbe aperto il proprio cuore andando
da lui, avrebbe detto ciò che pensava da parecchio tempo e poi se ne sarebbe andato
con il petto vuoto da ogni pressione. Certo, fosse stato tanto facile ci
sarebbe già riuscito. Di tempo ne aveva ancora a sufficienza, ma sarebbe
realmente bastato?
Respiro affannato, capelli scuri appiccicati alla fronte ed alle tempie.
Conteggio numerico sbuffato gettando l’aria fuori dai polmoni con sempre
maggior fatica.
Resisti, si diceva: resisti, manca poco, manca poco, manca poco. Lo ripeteva
nonostante sentisse le forze venir meno, il sangue pompare violentemente nelle
tempie e le fibre muscolari spaccarsi. S’era steso a terra completamente senza
fiato.
Nulla, Jungkook non sarebbe riuscito a fare una sola
flessione di più, non quel giorno. Il ritorno alla normalità lo avrebbe
solitamente portato a nuove sessioni di videogaming
online, oppure ad oziare e mangiare, mangiare ed oziare. Sarebbe stato
meraviglioso.
Semplicemente non ci riusciva.
Si aggrappava al ricordo del tour, accedendo alla playlist di YT ogni qualvolta
desiderasse staccare la spina; aveva salvato in una raccolta le fancam, le riprese ufficiali, i video editati di mesi
interi di lavoro. Non lo faceva per gonfiare il proprio ego, anzi: ripensava
con affetto ai momenti condivisi con i colleghi e con le persone che li
sostenevano e supportavano da tutto il mondo.
Solitamente funzionava, ma non quel giorno.
Arrivato al momento in cui lui e Jin cantavano
assieme, bloccava il video ed impostava lo schermo intero sospirando; si
immergeva nuovamente nella sensazione delle dita lunghe tra i capelli di lui
scompigliati dalle coreografie e dall’aria della sera, sfregando piano i
polpastrelli tra loro nel tentativo di ricordarne la consistenza. Chiuse gli
occhi inspirando ed espirando profondamente, il cuore tumultuoso nella gabbia
toracica non solo a causa dell’allenamento. Mimava sottovoce le liriche che
avevano accompagnato i loro duetti iniziando a muovere la testa a tempo.
Non si accorse neppure della porta socchiusa e della figura che era appena
entrata in palestra.
Continuava stavolta a voce alta ripetendo le rime della propria canzone da
solista senza rendersi conto di chi gli si era steso accanto sorridendo.
Quando alzò piano le palpebre scattò all’indietro colto completamente alla
sprovvista; un gridolino di sorpresa sfuggì alle sue labbra. «Non farlo mai
più. Mi hai spaventato a morte.»
Il collega sbuffò ironico massaggiandosi la testa mugugnando: Yoongi era solito muoversi silenzioso e non chiedere il
permesso di entrare. La porta era aperta? Bene, poteva accedervi senza
problemi.
«Hanno inventato le serrature, usale se non vuoi essere disturbato.» Cinico
come sempre. Stese le gambe magre sul pavimento constatando come le suole delle
All Star non arrivassero neppure all’altezza della
caviglia di Jungkook: detestava essere così basso, ma
s’era rassegnato anni prima.
«Che sei venuto a fare qui?»
Domanda più che lecita la sua.
«I cazzi degli altri.»
«Dì la verità, Yoongi, non mi freghi.»
Come poteva essere così empatico da cogliere subito le sfumature negative della
gente? Ancora non se ne capacitava.
«Non ci riesco, avevo bisogno di cambiare aria.» Jungkook sapeva esattamente cosa intendesse dire
l’altro: “non riesco a scrivere, devo uscire dallo studio prima di distruggere
il computer contro il muro.” Comprensibile visto il tempo dedicato, gli anni a
riversare sangue, sudore e lacrime su fogli e sui quaderni con grafite e penne
masticate per il nervosismo.
In tal caso, lasciarlo fare era la cosa migliore per tutti.
«E la tua idea era quella di infilarti in una palestra? Ma se la detesti.»
Amava stuzzicarlo e vedere fino a che punto avrebbe resistito senza imprecargli
contro. Un modo come un altro per stendere il nervosismo suo e dell’altro.
C’era un motivo preciso, lo sapeva, e doveva scoprirlo a tutti i costi anche se
non sarebbe stato facile estrarglielo dalla bocca. Yoongi
era introverso ed enigmatico, spesso non parlava volentieri.
«Allora, sai qualcosa?»
Una domanda scomoda la sua, una domanda che gli altri membri del gruppo non
avevano ancora avuto il coraggio di porgli. Lui invece sì. Jungkook poggiò stancamente le braccia sulle
ginocchia scuotendo la testa; certo che no, lui non sapeva ancora nulla e la
faccenda lo stava esasperando. Non voleva darlo certo a vedere, ma spesso si
ritrovava a fissare il vuoto chiedendosi quando sarebbe successo.
Quando Jin avrebbe lasciato il gruppo per
intraprendere il servizio di leva obbligatoria.
Una fastidiosa sensazione di nausea si impossessò del suo stomaco, violenta,
pungente, fisica. Deglutì un paio di volte inspirando ed espirando
profondamente.
«Ehi, tutto bene?» La lieve apprensione nel tono della voce dell’amico lo
riportò al presente, alle iridi scure che fissavano i brividi sugli avambracci;
no, non andava bene per niente ma non voleva far preoccupare nessuno. Stupida
conclusione la sua, vista la vicinanza di tutti gli altri, la convivenza, gli
anni di lavoro alle spalle; cercare di nascondere quel miscuglio di sensazioni non
gli stava facendo affatto bene.
«Ascolta il mio consiglio, dovresti parlarne con lui. È per il vostro bene.»
Se Jungkook non fosse stato impegnato ad evitare di
rimettere succhi gastrici sul parquet probabilmente avrebbe dato la giusta
attenzione alle parole utilizzate dall’altro: non “suo” bene, bensì “vostro”.
Denotava quanto Yoongi fosse preoccupato non solo per
lui ma anche per Jin stesso.
Perché lui sapeva, leggeva tra le righe; li aveva osservati con calma mentre si
scambiavano sguardi rapidi tentando di non farsi scoprire nel cercarsi tra
tutti, nascondendosi alla minima reazione degli altri. Era in grado di cogliere
l’imbarazzo, il disagio, e non capiva perché non si fossero ancora fatti avanti.
Erano tanto palesi da sembrare ridicoli ed era convinto di non essere l’unico
ad essersene accorto; soltanto i due coinvolti sembravano non capirlo.
«Idioti.»
«Cosa?»
Credeva d’averlo soltanto pensato, invece a quanto pare le parole erano uscite di
bocca in maniera quasi naturale. Chissà, forse parlandogliene gli avrebbe dato
una spinta nella giusta direzione; un calcio nel posteriore più che una spinta.
«Cosa faresti?» Forse fargli fare un esamino di coscienza sarebbe stata la cosa
migliore. Unire il suo bisogno di staccarsi da tutto per quel pomeriggio e riuscire
a scuotere un po’ la mente di quel ragazzo potevano incastrarsi alla perfezione.
«Dico, cosa faresti se Jin te lo dicesse adesso?»
Il collo dell’altro scattò nervoso in direzione di Yoongi:
non si aspettava certo una domanda a bruciapelo, in palestra, seduti sul pavimento
di legno levigato. Non era pronto a rispondere a una cosa simile senza avere un
minimo di preparazione. Preparazione per cosa poi? Era dall’inizio dell’anno
che ci pensava spesso, fin troppo. I suoi neuroni avevano lavorato così tante
volte ad una risposta verosimile, ad una versione da poter raccontare ai
colleghi. Non era mai riuscito a formularne una che non prevedesse un “ne
morirei…”. E con quella consapevolezza strinse il labbro tra i denti mantenendo
le palpebre il più spalancate possibile, perché sapeva che se mai avesse
serrato le iridi in quel momento, sarebbero scese le lacrime. Yoongi tentò di sfiorarlo per rincuorarlo in qualche
modo; sapeva del bisogno di fisicità di Jungkook nel
tentare di superare i momenti più difficili. Non era certo come lui, che odiava
essere anche solo sfiorato. L’istinto lo portò a chiudere una mano sulla sua spalla
massaggiandola in modo malfermo, palesemente a disagio. Poco importava, ci
stava provando almeno.
E visti i singhiozzi silenziosi dell’altro, seppe d’esserci riuscito.
Yoongi digitò rapido poche parole sullo smartphone,
spedì il messaggio ed attese. Dopo aver fatto compagnia a Jungkook
per un tempo che gli era parso interminabile sussurrò qualcosa come “sono qui
se hai bisogno, anche se non so esattamente cosa dire.” Lo aveva esternato con
tutto il garbo che il proprio carattere permetteva, ma la risposta non arrivò:
il ragazzo aveva affondato la testa tra le braccia, la fronte sulle ginocchia,
e non aveva più detto nulla.
Uscì e contattò l’unica persona che riusciva a distrarlo dal proprio malumore;
era evaso dallo studio per non pensare al lavoro, aveva raggiunto un amico che
s’era incupito anche solo a guardarlo e stava tornando in quelle quattro mura
in cui poteva chiudersi a chiave per poi avere a che fare con Hoseok. Collega fidato, impiccione cronico, amico fedele.
Inspirò sedendosi alla sedia della scrivania scaraventando sul tavolo a fianco
i block notes con decine di frasi scribacchiate:
tagli netti di inchiostro avevano tentato di cancellare quei testi mancati,
davvero la concentrazione non era dalla sua quel giorno.
La faccenda “Jin” stava diventando pesante perché i
mesi continuavano a scorrere e la tensione cominciava a farsi fisica tra loro;
aveva visto Jimin e Taehyung
fermarsi spesso a parlare con lui, ma aveva preferito non dargli peso. Quei due
erano tali impiccioni, sicuramente avevano scovato un qualsiasi motivo per
stressarlo, ma poco importava. Hoseok invece era
diverso: non che fosse più discreto, anzi, ma aveva la capacità di comprendere
quando fermarsi e fare un passo indietro.
Capacità davvero rara nel loro mondo.
Comunque di una cosa era certo: Jungkook non sapeva
ancora nulla, Jin stava mantenendo il silenzio stampa
sulla faccenda e lui era consapevole di un fatto più che ovvio: se l’equilibrio
fosse venuto a mancare ne avrebbero risentito tutti prima o poi e questo avrebbe
significato soltanto guai.
Le parole di Yoongi, le poche che gli aveva rivolto
prima di mostrarsi al solito affidabile anche se distante, si muovevano
ininterrottamente nella sua testa: Jungkook aveva
visto passare le ore restanti della giornata in modo rapido, troppo per i suoi
gusti. Poco aveva fatto, e niente era riuscito a concludere in maniera soddisfacente.
L’acqua quasi rovente della doccia dopo l’allenamento, alternata a getti
sporadici di tiepido tepore, l’aveva risvegliato completamente dalle fatiche dell’allenamento
senza dare un minimo dei risultati sperati. Certo, il suo lavoro prevedeva una
preparazione notevole e costante, una cura del corpo e dell’aspetto esteriore
ed emotivo in continua mascheratura di problemi e difetti, così come gli era
stato inculcato durante l’infanzia, affacciato troppo presto allo spiraglio di
un mondo crudele fatto di apparenza e giudizio; una preparazione che ormai era
diventata routine quotidiana, a cui odiava sottrarsi.
Di solito.
Turbato com’era, s’era ritrovato a maledirsi d’aver deciso di allenarsi quello
stesso pomeriggio. Se non l’avesse fatto, non avrebbe subìto la frecciatina per
nulla velata del collega e non avrebbe avuto pensieri complessi e ridondanti.
Come riuscire a dormire in un momento simile? Decise così di non recarsi
immediatamente in camera propria bensì prendere una boccata d’aria, una
camminata che si sarebbe trasformata inevitabilmente in una corsa senza meta,
fino a svuotare la capienza dei polmoni boccheggiando in cerca di ossigeno e di
risposte.
Uscì così, confuso, stupito di sé e della propria incapacità di muoversi verso
ciò che diceva il cuore da anni; i passi lenti seguivano un percorso dettato
dal caso, più una scappatoia dall’abitazione comune. E fu lì, nell’anonimato di
un traffico che mano a mano calava d’intensità, che si
rese conto di quanto poco tempo ancora avrebbe potuto trascorrere assieme a
colui che l’aveva visto crescere, musicalmente e non solo; una carriera
condivisa, gli anni difficili dell’adolescenza superati assieme seppur in fasi
diverse. Rise pensando a quante volte s’erano scontrati, incontrati ancora,
rise delle scaramucce idiote e impulsive, rise di quel senso dell’umorismo alle
volte becero e insensato che era solito sopportare. Certo, neppure lui era
perfetto anche se non altrettanto egocentrico, ma ne era consapevole: tanti difetti
da parte di entrambi, un equilibrio al centro.
Un equilibrio che tanto avrebbe voluto mantenere.
Era per questo motivo per nulla superficiale che aveva deciso tempo prima di
non rivelare nulla dei propri pensieri, mascherando i rossori e l’imbarazzo con
parole ipocrite e vivendo lo scorrere delle giornate in un ambito lavorativo
dove la vicinanza era ordinaria amministrazione. I contatti ripetuti erano
divenuti pesanti momenti di nodi allo stomaco da sciogliere e scosse elettriche
al cervello da evitare. Non poteva farci assolutamente nulla, non più ormai:
stare accanto a Jin era ogni giorno sempre più
difficile.
Tenere a freno i propri istinti ancora di più.
Vederlo partire forse avrebbe riportato un po’ di insana quiete data dal niente
che sarebbe rimasto dei suoi sentimenti. Parlarne avrebbe fatto male, non farlo
invece avrebbe fatto cadere tutto quanto in un angolo della testa, seppellito
tra le delusioni, i rimpianti, ed il falso coraggio.
Jin si svegliò insolitamente inquieto.
Qualcosa nel sonno lo aveva turbato, ma non riusciva a collegare immagini
confuse a parole dimenticate: ricordava solamente il volto di Jungkook in lacrime a chiedergli di non andare, un sorriso
amaro bagnato da quelle stesse perle salate che gli rigavano gli zigomi senza
alcuna pietà. Quello si era stampato in maniera nitida nei neuroni tanto da
destarlo dall’incubo. Anche il suo inconscio stava lavorando sulle possibili
conseguenze della sua partenza, come se non fosse bastato torturarsi di giorno
cercando di rimandare una conversazione indispensabile. Avrebbe dovuto parlarne
con Jungkook.
«Stupido sogno…» Si alzò controvoglia, incapace d’addormentarsi. Ci aveva
provato, voltandosi e rigirandosi sul letto senza alcuna efficacia. «Come fosse
lui lo stupido, certo.» Mugugnò scendendo le scale del primo piano nella
speranza di trovare il modo di rilassarsi prima di rovesciare il materasso a
terra e provare a dormirci sopra così, senza lenzuola né coperte a mostrare una
falsa sensazione di comodità. Si accasciò sul divano accendendo la televisione,
cambiando canali uno dopo l’altro senza dare la minima attenzione ad ogni
singolo contenuto: sport, film erotico, pubblicità di prodotti inutili che
spacciavano per indispensabili, chat dal vivo con personcine non proprio
deliziose che vendevano il tempo del loro corpo, di nuovo pubblicità.
Niente, neanche per sbaglio.
Nessun contenuto interessante, anche perché se avesse dovuto scegliere il modo
di spendere i propri minuti a pagamento, avrebbe optato per un’altra faccia.
Avvampò al pensiero improvviso che lo colse, il petto di Jungkook
scosso da respiri accelerati, accaldato, le palpebre chiuse a sopportare un
dolore che sarebbe presto sfociato in pura e coinvolgente eccitazione. Si
ricompose cancellando quel pensiero, risistemandosi goffamente sul sofà in un
pudico quanto non necessario tentativo di nascondere un’erezione fastidiosa.
Non gli aveva fatto bene eliminare l’abitudine di masturbarsi nell’ultimo
periodo, anzi: avrebbe dovuto ricominciare anche solo per distrazione, sfogo,
bisogno.
Sì, non sarebbe stata affatto una cattiva idea, se non fosse per la scena che
continuava a mostrarsi stampata nelle iridi: gli occhi scuri liquidi, le mani a
sfiorarsi nel darsi piacere a sopportare le spinte sempre più rapide e
spasmodiche… avrebbe dovuto tagliare i ponti con il suo collega di modo da
liberarsi del suo pensiero, delle sue parole. Avrebbe parlato con Jungkook a breve, così da poter partire ricominciando da
zero.
Due anni sarebbero passati in fretta, e sarebbero bastati a cancellare
l’ossessivo bisogno di averlo sempre all’interno della mente. Sarebbe poi
tornato, trascinandosi lontane quelle sensazioni tese e onnipresenti che lo
avevano schiacciato durante la permanenza al dormitorio.
Sarebbe cambiato tutto.
Jungkook spostò di lato i capelli resi umidi dal
sudore: la corsa aveva portato ad un beneficio, aveva scaricato tutto ciò che
poteva con fatica, e delle preoccupazioni pesanti davvero era rimasto soltanto
il fiato corto. Inspirava ed espirava controllando l’afflusso d’aria, tenendosi
il fianco con una mano e maledicendosi dell’idea stupida.
Efficace ma stupida.
Era notte inoltrata, aveva raggiunto uno dei parchi che era solito visitare
assieme agli altri nei momenti liberi; altalene, scivoli, la fontana che spruzzava
allegramente getti d’acqua tinti di faretti color arcobaleno… era sparito tutto
quanto, lasciando spazio soltanto al buio. I distributori automatici accanto ai
bagni emanavano l’unica luce sicura presente, e del piacevole ricordo dell’erba
fresca tra le dita non era rimasto nulla, se non un’immotivata soggezione. Si
fermò su un’altalena dal sinistro cigolio metallico: persino quel rumore tanto
familiare sotto i raggi del sole in quel momento era in grado di provocargli
dei brividi.
Meglio così, si disse. Meglio così piuttosto che incontrare Jin
in un tale stato confusionale. Rise teso, si sentiva davvero un idiota e se ne
vergognava pure: la sensazione d’esser scappato via dai propri problemi si
faceva sempre più forte. Lui, che solitamente prendeva la vita di petto
affrontandola a testa alta, non sapeva più come gestire le sensazioni dapprima
flebili che s’erano trasformate in un tumulto trascinante, emotivo, pericoloso.
Aveva timore di sé, di ciò che stava vivendo e di come stava gestendo tutto
quanto: di merda a suo dire. E che gli sarebbe costato parlarne, in fondo?
Tutto.
Ecco perché non l’aveva ancora fatto, ed ecco perché si sentiva
fondamentalmente stupido. Espirò tossendo, l’aria fredda della notte era
penetrata nei polmoni irritandogli la gola durante la corsa, una corsa lontano
da una risposta che negava di voler vedere. Perché lui amava Jin, desiderava averlo accanto, tenerselo stretto tanto
da godere del suo odore, della presenza stessa; voleva poterlo guardare negli
occhi senza vivere nell’imbarazzo di un silenzio volutamente taciuto.
Imposto.
Se ne sarebbe fatto una ragione.
Un brivido lo scosse riportandolo indietro dalla voragine dei suoi stessi
pensieri. L’attenzione venne assorbita dal cellulare che iniziò a vibrare
insistentemente, ed una voce familiare lo incalzò preoccupata.
«Jimin, dimmi, cosa c’è?»
«Devo parlarti. Ora. Dove sei?»
Il ragazzo indicò distrattamente il luogo, si sentiva troppo stanco per poter
tornare subito in dormitorio.
«Jin, hai un momento?»
L’improvvisa quanto insolita apparizione notturna di Taehyung fece sussultare
il giovane, le occhiaie a segnare uno sguardo spento, accigliato. Le labbra
piene strette in una smorfia contrariata palesavano pensieri negativi e
riflessioni inconcludenti. Probabilmente non sarebbe riuscito nemmeno a dormire
quella notte.
«Dimmi, Tae, cosa succede? Se hai fame, beh, mi spiace, non sono in vena di
cucinare nulla a quest’ora.»
«Non è per quello…» esitava, turbato. Aveva promesso di non rivelare nulla, ma
se non l’avesse fatto probabilmente Jin e Jungkook avrebbero raggiunto un punto definitivo di non
ritorno. E lui non voleva questo. Non era questione di equilibrio all’interno
del gruppo, semplicemente non si sentiva di abbandonare quei due testoni a loro
stessi. A parer suo si stavano rovinando da soli. «Non dovrei dirtelo, ma Jimin
ha deciso di spifferargli tutto, ed è appena uscito.» Jin si gelò sul posto, i pugni stretti sulle
ginocchia. Lo sapeva, sapeva che non avrebbe dovuto fidarsi di lui, era stato
uno stupido sprovveduto. Si alzò di scatto recuperando il cellulare e la giacca
sull’appendiabiti a fianco dell’ingresso, fermandosi soltanto quando l’amico
intervenne un’ultima volta.
«Ho origliato la conversazione al telefono quel poco, ho sentito di un parco
giochi, ma non so niente di più. Mi spiace Jin, mi
spiace per voi.»
L’altro non fece caso al “voi” utilizzato al posto di un più appropriato “tu”.
Era troppo concentrato sul focalizzare il posto da raggiungere, le strade da
seguire per poter arrivare il prima possibile. Doveva scegliere tra due mete in
direzioni opposte e sperare di incontrare Jimin prima del suo arrivo a
destinazione. Uscì sbattendo la porta e cominciò a correre, l’aria a scompigliare
i capelli, la rabbia a muovere i passi illuminati dalla luce dei lampioni.
Doveva fare in fretta, altrimenti l’amico avrebbe rovinato tutto.
«Traditore.» Jimin chiuse la telefonata inveendo mentalmente contro Taehyung:
prima aveva promesso di non parlarne con nessuno, poi aveva ritrattato con una
confessione all’ultimo. Non contento, l’aveva chiamato per avvertirlo, il senso
di colpa a logorargli la coscienza macchiata.
«Stupido di un traditore.» Rincarò la dose assottigliando lo sguardo al buio di
quella notte tetra, ricercando un segno in un luogo che a quell’ora era
tutt’altro che familiare; un movimento tra le tenebre, una voce amica.
Nulla.
Provò a chiamare Jungkook con un sussurro. Perché
poi? Chi avrebbe potuto disturbare in un parco di notte? Nessuno, proprio
nessuno. Ritentò con voce più alta, fino a che notò la debole luce accesa dello
schermo di un cellulare. L’aveva trovato. Lo raggiunse accelerando il passo
guardandosi continuamente a destra e a sinistra, senza mai voltarsi: quel posto
gli metteva i brividi.
«Jungkook?» Non un’affermazione, ma una domanda
dubbiosa: certo che era lui, chi altri sarebbe potuto
essere?
Un tossico.
Uno stupratore.
Un malintenzionato.
Un ladro.
Ecco perché aveva esitato fino all’ultimo, prima di raggiungerlo. Lo richiamò
quando ormai distava ad un metro da lui.
«Ehi, sei arrivato…» La voce era roca, spezzata da un improvviso colpo di
tosse. «Allora, che volevi dirmi a quest’ora? Non ti sembra un po’ tardi?»
«Senti chi parla, quello che decide di andarsene a zonzo in piena notte. Ehi, almeno
sei vestito abbastanza? Non vorrai mica ammalarti proprio adesso.»
Risero sereni appianando parte della tensione. Sapevano di dover affrontare un
argomento importante, un tasto dolente, un nervo scoperto che pulsava giusto
sottopelle. Non era affatto tipico di Jimin infatti zittirsi improvvisamente,
di solito era difficile fermarlo.
Non quella sera però, sembrava non volesse neppure riprendere a parlare.
«Possiamo anche tornare a casa, se vuoi. Starsene qui a fare scena muta mi
sembra così stupido.» Jungkook aveva appoggiato lo
smartphone con lo schermo rivolto verso la superficie di legno consunto della
panchina, ignorando di fatto un messaggio appena ricevuto. Jimin si massaggiò
la nuca scompigliando i capelli chiari in modo tutt’altro che disinvolto:
improvvisamente la tensione che era calata poco prima s’era impossessata
nuovamente di lui, instillandovi un dubbio prepotente. Sentiva formicolare le
dita delle mani.
Decise di sedersi di fianco all’amico.
Andava detto.
Sarebbe stato per il loro bene, giusto? Questo continuava a chiedersi cercando
nell’altro una conferma di cui aveva bisogno.
«Senti, non sono un idiota. Parla. Deve essere importante davvero, se non
riesci nemmeno a cominciare.» Voleva sorridere Jungkook,
cercando di fare una delle sue solite battute, ma non riusciva neppure ad
entrare nel giusto mood.
«Ok. Jin partirà tra due mesi.»
L’aveva detto, ci era riuscito. Aveva trattenuto il fiato ed aveva buttato
fuori quell’informazione come si fosse trattato di un delicato segreto di
stato, protetto da pochi eletti – scelti da Jin
stesso, una pessima idea. Era riuscito a palesarlo con una difficoltà tale da
fargli fisicamente male. Jin si sarebbe sicuramente
infuriato con lui, avrebbe potuto accanirsi, anche prenderlo a pugni.
Andava detto. Jungkook doveva sapere, nonostante l’insistenza
contrariata del diretto interessato. Jimin sbuffò spaesato, osservando un punto
a caso davanti a sé, pensando al colpo basso rappresentato dal tener nascosta una
notizia tanto importante: avrebbe aspettato il giorno prima, durante la
preparazione delle valigie? No, Jimin non ci stava: come amico di entrambi
s’era fatto carico del dovere di intervenire, dovere non riconosciuto dal
membro più anziano del gruppo.
Si era perso in congetture, spinto dal silenzio assordante, quasi un ronzio
profondo a occupargli completamente la mente. Stava attendendo una risposta,
una qualsiasi. Cosa aspettava a parlare il ragazzo?
«Ehi, mi hai sentito?»
Era difficile notare l’espressione sul suo volto, l’illuminazione quasi assente
non giocava certo a suo favore. Eppure Jimin giurò a
se stesso d’aver intravisto delle lacrime fermarsi a stento in quegli occhi
lucidi. Poteva essere, la situazione era quel che era, e Jungkook
s’era mostrato particolarmente emotivo nell’ultimo periodo; qualsiasi cosa
presente in quelle iridi scure sparì, prima di spezzarne la voce.
«Quindi è così.»
Atono.
«Sì.»
«Ho dovuto saperlo da qualcun altro. Ti ha mandato lui? È stato quello stronzo
a chiederti di dirmelo?»
«No, no aspetta… in realtà…» Jimin si fermò calciando con la punta della scarpa
parte della ghiaia che aveva smosso qualche minuto prima.
«Continua.»
Non aveva mai avvertito tanto astio in lui. Ingoiò palesemente a disagio: tutta
la buona volontà con cui aveva esordito era andata a farsi fottere.
«Jimin, cazzo, rispondi!»
Quest’ultimo aveva chiaramente udito i suoi denti digrignare. Si sentiva
colpevole ora, si stava pentendo d’essersi intromesso.
«Ho detto di rispondermi.»
La rabbia aumentava con il passare dei secondi: ribolliva prepotentemente nel
sangue, percorrendo le vertebre salendo la spina dorsale fino alla nuca. No,
non era solo quello stato d’animo a scuoterlo: mancava una sessantina di
giorni.
Otto settimane per poter riflettere sul da farsi, otto, per trovare una
soluzione.
Era stata coinvolta una terza
persona però. Un estraneo alla faccenda. Perché? Jungkook
si chiese più volte il motivo, infuriato, deluso, consapevole. Perché un altro?
«Non mi ha mandato lui. Sono venuto io, però Taehyung è andato a spifferargli
tutto.»
Non uno, ben due a saperlo prima di lui. Quanto contava come costante nella
vita di Jin, se il ragazzo s’era premurato di
avvertire soltanto gli altri, ed escluderlo?
«Vuoi dire che non ti ha nemmeno chiesto di parlarmene?» Jungkook
sentiva le gambe tremare, lo stomaco vuoto contrarsi bruciando, come bruciava
il liquido che stava risalendo velocemente nell’esofago. La situazione era
ancora peggiore se possibile. Si sentiva cadere, le forze venir meno. Tossì
ancora una volta, un’altra e una di nuovo; i sudori cominciarono a scendere
gelidi dalla nuca alla base della schiena. Avvertiva chiaramente ogni singola
goccia lasciare scie liquide sotto la maglia troppo leggera. Si sentì chiamare
più volte, ovattato, sempre più lontano.
«Jungkook? Ehi, non fare scherzi. Cazzo, mi stai
facendo preoccupare… rispondi, rispondimi porca puttana!»
Vide una luce abbagliante annullargli il campo visivo: Jimin gli stava puntando
addosso la torcia del cellulare. La preoccupazione dell’altro lo stava
avvolgendo completamente, imprimendosi nella sua testa.
Qualcosa non andava.
Si accoccolò sulla superficie rigida della panchina, tremando convulsamente.
Era stanco, enormemente stanco. Prima di chiudere gli occhi gemendo qualcosa di
incomprensibile, udì l’amico parlare al telefono con una certa fretta.
«Pronto, Jin? Ti prego, dimmi che sei fuori casa…
Cosa? No, cioè, sì… fai presto per favore! Non sta bene…» Fece una breve pausa,
«sta tremando, e scotta terribilmente… è vestito troppo leggero, ed è tutto
sudato. Fa presto, corri!»
«Allora?» Taehyung si stava torturando i polpastrelli, strizzandoli e picchiettandoli con fare
nervoso.
«Allora niente.» Jimin si stava arrabbiando con lui, con il suo essere così
esposto e maledettamente irritante in certi frangenti. «Per assurdo, il fatto
che tu abbia parlato, anzi, che tu abbia proprio spiattellato la cosa ha reso
tutto più facile. Avresti dovuto vedere Jin, appena è arrivato lo ha insultato
e se l’è caricato in spalla come un sacco di patate. Non l’ho mai visto così
nervoso, credimi.»
Il ragazzo si spostò sedendosi accanto all’amico, sbuffando sonoramente. Il
letto di Taehyung ancora era sfatto, non erano nemmeno andati a dormire:
condividevano la stessa stanza ma anche le stesse abitudini ormai, e se uno dei
due non riusciva a riposare neppure l’altro avrebbe preso sonno facilmente.
Jimin era tornato da poco, ed aveva lasciato soli Jin e Jungkook soltanto dopo
essersi sincerato delle condizioni dell’altro. Ora che quell’impiastro era
steso a letto sotto al piumone, l’antipiretico calato a forza dalla mancata
delicatezza del maggiore, Jimin poteva rilassarsi.
O almeno ci avrebbe provato. Perché s’era reso conto d’aver fatto probabilmente
una grande cazzata. S’era intromesso, permettendosi di dire la sua a due
persone palesemente innamorate che ancora stavano negando l’evidenza davanti a
tutto, a tutti.
«Jimin?»
«Che cosa c’è adesso? Se vuoi dirmi di nuovo scusa, giuro che ti mando a fare
in culo.» Lo stava attaccando perché sapeva di avere sbagliato, creando un
certo attrito. Per tutta la strada di ritorno non aveva osato fiatare, provando
un costante ed oppressivo senso di suggestione nei confronti di Jin. Solo un
“grazie, ora vai”, aveva ricevuto.
«Non è questo. Credi possano risolvere qualcosa?»
Lui si addolcì, scostandosi i capelli dagli occhi con un gesto abitudinario.
«Lo spero, lo spero di cuore. Non possono continuare così, non farà bene a
nessuno dei due.»
«Sei un idiota. Uno stupido, un idiota.»
Jin se ne stava seduto accanto al letto osservando Jungkook dormire: il corpo
veniva scosso da brividi, e piccole gocce di sudore gli imperlavano la fronte
che brillava umida alla luce fioca della lampada. Le coperte a celare tutto
tranne gli occhi chiusi, rapidi movimenti sotto le palpebre dettavano un riposo
agitato, mal goduto.
«Cosa devo fare con te, me lo dici? Mi distraggo un attimo e fai il cretino… Jk, sei irrecuperabile.» Lo aveva detto sorridendo. Per
quanto fosse cresciuto, il collega sapeva ancora essere il ragazzino che aveva
conosciuto ed imparato ad amare al tempo del loro debutto: cocciuto e immaturo.
Per un attimo le due figure distinte del ventitreenne e quello dell’adolescente
ribelle si accostarono.
Un secondo sorriso e un sospiro, una piccola carezza all’altezza della tempia:
Jin lo sfiorò una volta e più d’una, sussurrandogli quanto si fosse comportato
da irresponsabile, e quanto la preoccupazione fosse tuttora presente,
schiacciante. Era ipnotizzato da quel respiro irregolare, dalla coperta che si
muoveva a seguito del petto aritmico; un mugolio improvviso uscì dalle labbra
secche, accompagnato da un paio di colpi di tosse a scuoterlo interamente. Il
ragazzo si chinò su di lui rassicurandolo con semplici parole, qualche sillaba
di poco conto accompagnata con dolcezza: s’era avvicinato troppo, superando di
gran lunga lo spazio vitale dell’altro che sembrava non essere cosciente, attivo
o recettivo. Continuava a parlargli scostandogli i capelli bagnati dalla pelle
e soffiando con delicatezza sulla fronte.
Quest’ultima si rilassò sciogliendo le sopracciglia corrugate. Il volto rovente
però mandava messaggi chiari: il dolore misto alla stanchezza eccessiva l’aveva
letteralmente messo in ginocchio.
Jin passava i polpastrelli su quegli zigomi ben delineati, scorrendole il profilo
fino alla mascella, accarezzandola delicatamente, passando più volte sul mento
e sotto le labbra.
Quelle stesse labbra che stava desiderando così intensamente, anche se malate,
screpolate, pallide. Erano le sue, poco importava in che condizioni versassero.
Jungkook era lì, immerso tra lenzuola calde, a soffrire di una stupidissima
conseguenza di un altrettanto comportamento immaturo; era con lui, stava
tremando nonostante la temperatura mite della stanza e gli strati di tessuto
pesante su di sé. Lo sentì sussurrare prima di ingoiare a vuoto, la gola secca
a richiedere liquidi.
«Vieni.»
Lo fece raddrizzare appena porgendogli un bicchiere di acqua fresca. Una parte
del contenuto si riversò sul mento e sul collo, seguendo la linea della
clavicola e bagnandogli la canotta. Jin deglutì scostando forzatamente lo
sguardo e lasciando ricadere all’indietro Jungkook, strappandogli un lamento
malandato.
«Scusa!» Si avvicinò nuovamente constatando le condizioni dell’altro: stringeva
i denti, le palpebre serrate come le labbra.
Stava male.
E Jin non sapeva come poterlo aiutare. Avrebbe soltanto dovuto aspettare che
facesse effetto la pastiglia che gli aveva fatto ingoiare a fatica. Gli si
stese accanto, infilando una mano sotto al copriletto invernale.
Era troppo caldo lì sotto, il ventre scoperto di Jungkook scottava
terribilmente.
Scostò subito parte delle coperte, avrebbe vegliato su di lui tutto il tempo
necessario. Accostò la fronte alla tempia dell’altro, socchiudendo gli occhi.
«Riprenditi, ti prego… non farmi preoccupare così. Te lo chiedo, Jk, cosa farei senza di te?» Espirò rassegnato. La
consapevolezza del tempo che passava gli cozzò addosso, impregnandogli l’anima
di nebbia grigia e di brutti pensieri. Tanto che sentì il petto stringersi, la
gola chiudersi, il bisogno di un contatto fisico necessario.
Stava piangendo.
Proprio come un perfetto imbecille.
Stava piangendo e portò le ginocchia al busto, per poi stringere con fare
possessivo il fianco di Jungkook, che ancora dormiva agitato, coinvolto in un
sonno disturbato, inquieto. Vi si aggrappò come ad un porto sicuro, alla
persona più cara, all’unico motivo per cui la notte ormai non dormiva più se
non per qualche sporadico colpo di sonno.
Non se ne sarebbe andato trascinandosi quei sentimenti, li avrebbe nascosti
giù, sempre più in profondità, e seppelliti con i doveri che avrebbe affrontato
a testa alta.
Quella notte però si sarebbe finalmente permesso di riversarli su quel dannato
cuscino, su un letto troppo piccolo per due, su qualcuno che non avrebbe mai
scoperto ciò che gli stava dilaniando viscere e sentimenti.
Jungkook aprì gli occhi, stropicciandoseli con poca energia: persino alzare il
braccio gli procurava stanchezza, come se non ne avesse già a sufficienza.
Ricordava vagamente di essere finito a letto, l’ultima cosa precisa che
continuava a ravvivargli l’attenzione era l’espressione inviperita di Jin che
lo rimproverava pesantemente, illuminato da un flash bianco, forse quello di un
cellulare.
Poi il vuoto, nulla, soltanto caldo. Estremamente caldo, tanto da bruciargli la
gola e seccare occhi e labbra. Ingoiò a vuoto, constatando d’essere sudato e
stanco, sfiancato anche nel riprendere aria riempiendo i polmoni; scostò il
piumone che lo aveva protetto e soffocato in quelle che potevano essere ore
invece di minuti, e si tastò ritrovando solo boxer e canotta. I suoi vestiti, i
suoi effetti personali non li aveva addosso. Qualcuno doveva averlo spogliato.
Avvampò violentemente pensando al possibile candidato, scosse il capo a destra
e a sinistra eliminando l’immagine di Jin a pochi centimetri dal suo corpo, che
lo stava liberando degli abiti e lo adagiava a letto.
Su di lui.
No, non doveva pensarci, anche se si trattava di quelle immagini vividissime
accostate alla nebbia data dalla febbre. Ingoiò un paio di volte, aveva bisogno
di acqua. Tanta acqua, anche per rinfrescare la fronte che ancora scottava.
Solo nel momento in cui si allungò per raggiungere il mobiletto accanto al
letto alla ricerca del cellulare, di un bicchiere o di entrambi, si accorse di
non essere in camera sua: il mobile di fatto non c’era. Strizzò un paio di
volte gli occhi, confuso e stordito: la stanza ordinata anche se affollata di
oggetti di varia natura, una libreria colma, la scrivania con il computer e le
riviste, ed il lampadario di quello stile unico che poteva piacere solamente
all’amico… sì, non poteva sbagliarsi. Era quella di Jin, e si trovava sul suo
letto. Si ridistese un attimo affondando la testa sul cuscino, muovendo il corpo
sul materasso, imprimendosi la sensazione delle lenzuola non sue che fino alla
notte prima avevano accarezzato la pelle dell’altro. Schiuse palpebre e labbra
alla sensazione di imbarazzo procurata dal semplice essere lì; non era come da
ragazzini, dove dormivano tutti assieme per cause di forza maggiore. Erano
cresciuti, cambiati, erano maturati e avevano riscoperto un confortante senso
di intimo spazio personale, ormai rispettato quasi da tutti. Quasi, pensò
sorridendo, visto che Taehyung e Jimin avevano scelto di comune accordo di
continuare a dormire nella stessa camera. Per lui e Jin era diverso, avevano
scelto di occupare le due stanze più distanti nel corridoio.
E sapeva perfettamente per quale motivo: sarebbe riuscito a stare alla larga da
lui e celare la tentazione di andare a bussare alla sua porta di notte, colto
dall’agitazione del farsi sentire dagli amici vicini. Quante volte aveva
percorso il pavimento di legno a piedi scalzi, per poi tornare indietro rassegnato.
Ora invece era lì, senza essere stato invitato, senza aver osato colpire la
porta color crema con le nocche tremanti. «Ti sei svegliato?»
La voce familiare lo destò dal torpore confusionario da cui ancora non si era
risvegliato. Infilò automaticamente la testa al di sotto delle lenzuola.
«Guarda che non devi vergognarti, capita a tutti di stare male. Certo è che cercarsele
come hai fatto tu… è da pochi. Anzi, proprio da stupidi.» Jin si sedette
nuovamente a fianco del proprio letto, stringendo tra le dita un termometro e un
blister di medicine. «Devo controllarti la febbre, hai dormito per qualche ora.
Se è tanto alta, dobbiamo farla abbassare.»
Jungkook sorrise, un sorriso nascosto dai tessuti. Sorrise per l’improvviso tono
paterno, per il senso di protezione che avvertiva nelle parole dell’altro. Si
voltò cauto verso di lui, incrociando gli occhi febbricitanti con i suoi,
stanchi, spenti. Notò con dispiacere le occhiaie ad incorniciargli gli occhi:
chissà da quanto tempo non dormiva serenamente? Avrebbe voluto chiederglielo,
ma preferì glissare sulla questione.
«Perché qui?»
Jin poggiò ciò che aveva portato con sé sul comodino, prima di stringersi le
mani nervosamente.
«Perché no?» Aveva risposto vigliaccamente ad una domanda con un’altra domanda.
«Beh, potevi portarmi in camera mia, no?» La voce interrotta da un paio di
colpi di tosse a sconquassargli il petto, «sai, era anche più vicina.»
«Non dovresti dormire?» Sorrideva Jin, tirato.
Il ragazzo si voltò verso di lui, sbucando sul cuscino ed immergendosi fino
alle orecchie nel piumone, per poi chiudere gli occhi che faticava a tenere
aperti. Era stanco, ancora parecchio, e la testa vorticava senza fermarsi,
dando un senso di nausea rimescolata nello stomaco. Si sarebbe fermato lì
volentieri, certo non si sarebbe alzato per raggiungere la propria camera in
quelle condizioni.
Non era solo quello però. Non avrebbe rinunciato alla presenza di Jin per nulla
al mondo.
Le dita di quest’ultimo si mossero su di lui.
Un fremito lo scosse al semplice contatto.
Stava controllando la temperatura della fronte, nulla di più semplice.
Di più distruttivo.
Perché Jungkook tratteneva a stento un sospiro ad ogni polpastrello che lo
stava accarezzando. Non osava rialzare le palpebre, credeva sarebbe sparito
tutto quanto se avesse guardato. Preferì respirare piano e dalla bocca, profondamente.
Un gemito uscì dalle sue labbra, lieve.
Era colpa della febbre.
Era colpa del dolore.
Questo si stavano dicendo entrambi. Di questo stavano tentando di convincersi.
Erano vicini, più di quanto si sarebbero potuti permettere fino a quello stesso
giorno. Tanto da sentire il calore del respiro, tanto da non distinguere più
chiaramente di chi fosse il cuore che stava battendo tanto forte da rimbombare
all’interno dei timpani.
Troppo vicino.
Jin non era in grado di muoversi più di così, la mano ancora sull’epidermide
arsa dalla febbre, era rapito: rapito perché Jungkook aveva incatenato il suo
sguardo, senza dargli possibilità alcuna di evadere. Il ragazzo si aggrappò al
più grande con tutta la forza che ancora possedeva, il fiatone a spezzargli le
parole in bocca. Strinse e si arrampicò sul suo petto, raggiungendo le spalle
ed appoggiandosi sulla clavicola, fermandosi per respirare.
«Non andare, ti prego… non andare…»
Jin lo sapeva, sapeva che non parlava di ora, di quella camera, del suo letto.
Lo sapeva, e faceva ancora più male, avvolto nel suo abbraccio, tremante non
certo per il freddo. Se ne sarebbe andato, e per quanto Jungkook stesse
soffrendo, così come lui, lo avrebbe fatto comunque.
«Hai un aspetto orribile.»
«Che bel buongiorno, grazie.»
Jungkook tirò su col naso massaggiandosi la tempia: ricercava una qualsiasi
traccia di calore avvolto in una felpa dal grigio anonimo di un paio di taglie
più grandi, residuo da fondo armadio di tanti allenamenti passati. Se l’era
ritrovata al mattino, posata sul piumone del letto che aveva occupato la notte
precedente, assieme a dei pantaloni di tuta aderenti.
E ad un bigliettino che non aveva avuto nemmeno il coraggio di leggere. Aveva
soltanto riconosciuto la calligrafia con la coda nell’occhio prima di rendersi
conto di essere rimasto solo nella stanza.
«Nottataccia?» Yoongi lo sapeva benissimo, lo leggeva nelle iridi stanche
dell’amico. Oltre ad aver parlato con Jimin poco tempo prima, approfittando
dell’assenza dell’altro e di Jin.
«Sono stato meglio.» Aveva la bocca impastata, la testa pulsava terribilmente e
il bisogno di bere stava spegnendo ogni altro segnale da parte del cervello. Si
versò con mano tremante del caffè in una tazzina di ceramica, imprecando
silenziosamente all’incapacità di portare a compimento un gesto così semplice senza
fare danno.
«Tranquillo, faccio io.» Yoongi si sporse mordendosi il labbro, tentava di
trattenere le domande che gli stavano divorando lo stomaco dal momento in cui
Jimin gli aveva riferito dello stato attuale delle cose, aggiornato a qualche
ora prima. Oltre a chiedere avrebbe voluto anche dargli uno scossone, e non
soltanto retorico. Si sarebbe trattenuto ancora per un po’, probabilmente
l’amico avrebbe reagito in maniera pacata, considerando le sue condizioni.
«Mangia qualcosa, ti conviene. Non dovresti prendere qualche medicina, o roba
simile?»
«Penso di sì, ma è Jin che sa quando le ho mandate giù. Le odio, mi sento la testa
dentro a una bolla piena d’acqua…»
L’altro gli sfiorò la pelle con le dita, constatando come fosse calda. «Guarda
che hai ancora la febbre, ti consiglio di mangiare qualcosa e tornare a
stenderti. Riposa finché puoi.»
«E se mi venisse il mal di pancia?»
«E se la smettessi di farti domande così stupide adesso? Dai, ti preparo
qualcosa. Tu aspetta qui tranquillo e cerca di mandare giù quella brodaglia
tiepida che Taehyung ha spacciato per caffè stamattina.»
Jungkook si soffermò sulla parola “stamattina”, non sapeva nemmeno che ora
fosse. Non presto di sicuro. Focalizzò lo sguardo sull’orologio da parete: era
passata l’ora di pranzo, e spostandosi verso la finestra della cucina notò
quanto stesse piovendo fuori. Un brivido gelido attraversò i muscoli ed i nervi
scatenandogli la pelle d’oca su tutto il corpo: si strinse nella felpa
massaggiandosi le braccia e sollevando il cappuccio fino a coprirsi
completamente il capo.
Avvertiva la febbre lavorargli da dentro e sfinirlo ad ogni momento di più. La
voce di Yoongi lo riportò al presente, assorbito com’era dal maltempo e dal
costante ticchettare delle gocce violente sui vetri.
«Non sarà molto, ma è caldo, fidati. L’aveva preparato Jin ieri, io l’ho
riscaldato. Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro, è perfetto già così
com’è. Adesso siediti e mangia.»
Yoongi lo lasciò tranquillo, seduto sullo sgabello ed appoggiato coi gomiti
alla penisola in legno levigato, mentre mangiava scomposto e con le palpebre
abbassate. Si richiuse la porta alle spalle, contattando qualcuno al telefono
con una certa impazienza.
«Allora, Jin, quanto ti ci vuole ancora?»
All’altro capo del telefono il ragazzo rispose con tono visibilmente scocciato.
«Ho quasi finito, lasciami stare. Sono stato in farmacia, adesso sono al
supermercato e poi devo passare al negozio di elettronica.»
«Jungkook sa che stai facendo tutto questo per lui?»
Jin non rispose, semplicemente sospirò.
«Giuro che non ti capirò mai. Lasciatelo dire, io non sono come Taehyung che sa
stare zitto solo quando vuole, o come Jimin e il suo non farsi mai i cazzi
suoi. Se non ti muovi, ci vado io da Jungkook, e sappi che non ti piacerà
quello che ho intenzione di dirgli.»
Le parole arrivarono appena sussurrate: «e cosa dovresti dirgli scusa? Credevo
non ti saresti mai intromesso… Jimin gli ha già detto tra quanto partirò.»
«Che sei innamorato di lui, stupido.» E chiuse la conversazione. Infilò il
telefono in tasca evitando di rispondere alle nuove chiamate ricevute, tre di
seguito per la precisione. Aveva stipulato un tacito accordo con se stesso qualche tempo prima: non si sarebbe dovuto intrufolare
negli affari di cuore degli altri, ma la cosa ormai rasentava il ridicolo.
Jungkook era palese come non mai, e già aveva avuto modo di renderglielo noto,
ma con Jin era diverso: non aveva negato.
Anche quando glielo aveva chiesto, non aveva detto no: doveva farli muovere,
con le buone o con le cattive.
Capitolo 9 *** Every single idiot in that room ***
When the time will come
Every single idiot in thatroom
«E adesso perché non risponde, ma che testa di… ah, certo mi scusi, ecco a lei,
grazie.» Jin aveva pagato velocemente ciò che aveva acquistato al supermercato,
sincerandosi di ricordare ogni singola pietanza che era sicuro piacesse a
Jungkook: sapori forti e speziati lo avrebbero aiutato ad affrontare il
raffreddore, qualcosa di caldo a riequilibrare lo stomaco, e perché no, una
zuppa avrebbe reintegrato i liquidi perduti la notte precedente con il gran
malessere. Sì, avrebbe preparato qualcosa di abbondante e confortante appena
tornato a casa, così da rendere meno faticosa la convalescenza di quel idiota di compagno di gruppo che si ritrovava. Era già
la quarta volta che ci pensava quel giorno: quale istinto imbecille e
autolesionista aveva portato Jungkook a scorrazzare di notte vestito la metà di
ciò che avrebbe dovuto? Scosse la testa sconsolato e uscì imprecando contro la
pioggia, aveva fortunatamente recuperato l’ombrello prima di andare a fare la
spesa ma si accorse del tempo che stava trascorrendo soltanto all’interno del
negozio di elettronica.
Avrebbe dovuto rientrare subito ma ricordò poi di aver lasciato scritto su un
bigliettino l’orario di assunzione e la giusta dose del medicinale, così
sospirò sollevato e continuò per la propria strada. Non poteva certo immaginare
che la nota fosse stata deliberatamente ignorata dal diretto interessato.
«Sei sicuro? Guarda che non sembri stare bene per niente.»
Jimin stava seduto sul proprio letto osservando di sottecchi Jungkook che
respirava a fatica, scosso di tanto in tanto da brividi violenti e ben
distinti.
«Che palle…» sospirò il ragazzo, riprendendo fiato con una certa
concentrazione, «Jin sa quando devo prendere le pastiglie, e se avessi dovuto
mi avrebbe contattato, no? Guarda.» E indicò lo schermo del proprio smartphone
con l’indice tremante. «Visto? Nessuna chiamata, è tutto a posto.»
«Sarà, ma di sicuro stare qui sui videogiochi non è il modo migliore per
guarire… sono preoccupato per te, non dovresti andare a stenderti?»
Il ragazzo lanciò spazientito il joypad che stringeva con la mano destr non
propriamente contro l’amico, ma lo fece rimbalzare sul piumone del letto con un
gesto di stizza. Si era presentato dopo il pranzo in stanza di Jimin per un po’
di distrazione, non voleva certo infilarsi nuovamente tra le coperte del letto
di Jin. Non se la sentiva, avrebbe ricordato ogni singolo frame della notte
passata, e della figuraccia imbarazzante che aveva fatto aggrappandosi
convulsamente al più grande pregandolo di non andarsene. Si massaggiò la fronte
umida con le dita, dandosi dell’emerito idiota.
«Vieni, ti accompagno, dai. Hai bisogno di riposare, e non voglio sentire un
“no” come risposta. Solo i bambini si comportano così. E tu, anche se sei il
più piccolo qui dentro,» Jimin lo disse con una punta di orgoglio, «non sei più
un ragazzino. Giusto?» Non ricevette risposta. «Giusto?» Rincarò nella speranza
di venir ascoltato almeno stavolta, ma l’altro ormai era già corso verso il
bagno, rovesciando sul lavandino parte del contenuto dello stomaco. Lo
sciabordio dell’acqua corrente si udì chiaramente e Jungkook uscì accostando di
poco la porta della stanza privata, reggendosi allo stipite con gli occhi
lucidi: la testa vorticava e l’acido dei succhi gastrici grattava contro
l’esofago, procurandogli attacchi di tosse non indifferenti. Jimin si avvicinò
e lo trascinò per l’intero corridoio, noncurante delle deboli proteste ricevute.
«Adesso ti metti qui e chiamo Jin al telefono, non muoverti. Spogliati e
infilati sotto le lenzuola, non puoi continuare a stare così.»
L’aria familiare della camera di Jin riportò un senso di inadeguatezza tra le
iridi annebbiate di Jungkook che s’era lasciato cadere mollemente sul letto,
addormentandosi subito dopo.
«Ehi, devo ancora spogl-… ah, lascia stare. Tocca
fare tutto a me.» Jimin issò e ricoprì il ragazzo collassato, tentando di
rassettare la camera e tutto ciò che era stato lasciato in giro. Trovò un
pezzetto di carta sul pavimento con un nome indecifrabile ed un paio di cifre:
sospirò nel riconoscere il farmaco e l’orario ormai distante della dovuta
assunzione, comprendendo così il motivo di una tale ricaduta.
Jungkook avrebbe dovuto mandare giù quelle benedette pastiglie ma ormai s’era
addormentato, anzi, sembrava un cadavere scomposto sul letto di morte. A nulla
valsero i tentativi di svegliarlo, era completamente andato.
Jimin socchiuse la porta dietro di sé, avrebbe dovuto attendere l’arrivo di Jin:
soltanto lui era in grado di buttarlo giù dal letto in modo efficace. “E chissà
perché poi.” Pensò ridendo.
Al piano inferiore Jimin incrociò Yoongi intento a sistemare svogliatamente la
lavastoviglie mezza carica, sciacquando qualche posata e delle ciotole. Il
malumore aveva lasciato largo spazio a una punta di apprensione stridente ed
insistente, nascosta lì fino a poco prima: Yoongi non avrebbe mai mostrato
tentennamento davanti agli altri, soprattutto a Jungkook, l’affetto che provava
per lui lo portava a proteggerlo anche dalle proprie sensazioni negative. Non
poteva comunque celare di essere preoccupato ed irritato allo stesso tempo:
irritato con Jin per il palese ritardo e l’incapacità di saper rispondere
esaustivamente a delle semplici domande al telefono. Sbatté con forza delle
tazze sul lavello, sbuffando contro il collega irrazionalmente – improvvisamente
– immaturo. Si girò di scatto quando riconobbe la presenza di Jimin dietro di
sé, lasciando cadere uno dei bicchieri di vetro schiantatosi con un tonfo sul
pavimento, ridotto a centinaia di frammenti taglienti.
«Cazzo, Jimin, sta’ attento!»
«Guarda che sei stato tu a farlo cadere, non avercela con me, io sono appena
arrivato, eh.»
«Comunque è colpa tua. Dai, passami la scopa. Ma è possibile debba fare sempre
tutto io qui?» Il tono piccato con cui parlava più a se
stesso che non con il coinquilino raggiunse toni accesi quando l’altro gli
rivelò il contenuto della nota.
«Ma che coglione, non poteva avvertirci prima di uscire? Così gliel’avremmo
data noi. E Jungkook non l’ha letta, immagino. Abbiamo a che fare con due
imbecilli, Jimin, fidati.»
La porta si spalancò accompagnata da una serie di parole poco consone, lasciando
spazio ad un Jin trafelato, carico di sacchetti e con un ombrello gettato
malamente dietro alle spalle. Umido sul capo e zuppo dalla vita in giù, lasciò
cascare metà delle cose per lanciare di corsa le scarpe in un angolo
imprecisato dell’ingresso, correndo poi verso la cucina. Avrebbe dovuto mettere
a bollire l’acqua, curare e tagliuzzare le verdure, tritare le spezie e mettere
a lessare la carne per la zuppa.
«Ehi, si saluta.» Yoongi fu costretto ad abbandonare in fretta lo spazio che stava
occupando, prima di essere investito dalla furia culinaria del maggiore.
«Jin, senti,» Jimin tentò di mascherare un sorriso divertito nel vedere la
scena del collega che stava portando avanti il lavoro di dieci minuti in meno
di due, dandosi un contegno inspirando e voltando lo sguardo in una direzione
qualsiasi che non fosse quella del siparietto tragicomico. «Jungkook sta
dormendo.»
Ottimo, rispose Jin, mentre triturava tutto ciò che aveva comprato al reparto
freschi del supermercato. Era una gran bella notizia, quando era uscito aveva
dato un ultimo controllo al ragazzo che ancora riposava nel suo letto,
lasciandogli delle istruzioni scritte sul letto.
«Ottimo un cazzo,» il commento tagliente di Yoongi gli tolse la concentrazione,
portandolo a tagliarsi un dito con aggiunte maledizioni colorite, «mi ha detto
che non sapeva come avrebbe dovuto comportarsi.»
«Porca puttana, passami la carta da cucina, svelto. Dormire, no? Mangiare e
dormire.» Jin avvolse il dito con il telo ripiegato, riprendendo con maggior
energia ciò che stava facendo.
«Jin, fermati. Quello che voleva dire, è che non ha ancora preso le medicine.»
Jin si bloccò.
Idiota.
Aveva dato per scontato un po’ troppe cose nelle ultime ventiquattro ore, prima
tra tutte avere a che fare con un cretino. Lasciò cadere il coltello e parte del
trito si sparse al di fuori del tagliere ma poco importava: corse su per le
scale in direzione della propria camera, e forse si stava preoccupando troppo.
Certo, era ovvio, era una semplice febbre con principio di raffreddore, non
poteva certo fare tanto male, ma quando si trattava di Jungkook ormai non
ragionava più.
«Io giuro che lo strozzo, lo prendo e lo strozzo. L’ho anche scritto, quante
ore saranno passate adesso?» Jin contava mentalmente, erano già troppe per i
suoi gusti. Doveva andare immediatamente da Jungkook, sperava solo stesse
dormendo. Raggiunse la propria stanza al piano di sopra, spalancando la porta
con foga e imprecando a bassa voce: Jungkook era steso malamente sul suo letto,
mugolava sudato, gli occhi socchiusi a fissare un punto imprecisato della
stanza. Si girava e rigirava alla ricerca di una posizione minimamente comoda,
ma non riusciva a trovare pace. Pareva stesse delirando.
«Cazzo…»
La mano di Jin si scontrò con la temperatura elevata della fronte del ragazzo,
recuperando poi rapido un termometro digitale. L’attesa parve infinita, fino al
bip elettronico: aveva superato i trentanove gradi centigradi.
«Deve raffreddarsi. Le pastiglie…»
Girava disorientato in quel luogo familiare, non riusciva a pensare
lucidamente. Era una semplice febbre, si stava ripetendo, le cose da fare erano
poche, semplici: sua madre gliele ripeteva sempre, fin da piccolo,
“raffreddati, rinfrescarti è il primo passo, anche quando hai già preso le
medicine. Poi bevi tanto.” Corse a recuperare un fazzoletto di stoffa dal
cassetto della biancheria nel comò, lo bagnò con dell’acqua dall’immancabile
bottiglia a fianco del letto, e si sedette. Tamponava la fronte madida, gli
zigomi, tamponava fino al collo, per poi sollevargli il capo e passare alla
nuca.
«Perché è ancora vestito? Sta bollendo qui dentro, possibile che nessuno abbia
dato un occhio a questo stupido mentre ero via?» Una piccola risata isterica uscì
dalla bocca contratta, mentre i denti continuavano a scavare all’interno
masticando nervosamente.
Spogliare uno della stazza tonica di Jungkook non era affatto facile, così, a
peso morto. Jin si impuntò e strattonò via quello che poteva, incurante ormai
di ritrovarsi davanti quasi completamente nudo il soggetto di molte fantasie
passate e tanti, troppi crucci quotidiani. Soltanto i boxer umidi fasciavano un
minimo la pelle chiara, quelli non avrebbe osato toccarli, non certo in una
situazione simile.
Sentì il suo nome sussurrato sommessamente.
Ignorò i brividi nati da profondità che preferiva non sondare affatto, e
procedette il più rapido possibile.
«Jin… resta.»
Scosse il ragazzo nel tentativo di svegliarlo, rovesciando le coperte e
cambiando repentinamente il lenzuolo senza premurarsi di badare ai teli
rovesciati sul pavimento dal piano superiore dell’enorme armadio.
«Sì, resto. Tu svegliati.» Lo ricoprì cautamente, lasciando scoperta la parte
superiore: la temperatura della camera era sufficientemente alta da non creare
troppo contrasto. «Sveglia, devi prendere questa cazzo di pastiglia, altrimenti
starai peggio.»
Un paio di sillabe mormorate a casaccio coprirono lo scricchiolio del
rivestimento, e cominciarono i tentativi: se Jin l’avesse costretto in
dormiveglia, avrebbe rischiato di fargliela andare di traverso, nonostante la
presenza del liquido ad aiutare. Jungkook avrebbe tossito tutto su di sé – e su
di lui – creando uno scenario affatto gradevole. Lo prese per le spalle.
«Jungkook, alzati.»
Le palpebre del più giovane si sollevarono di poco, lappò le labbra secche con
la lingua, la bocca a richiedere acqua.
«Prendi, dai.»
Tossì un paio di volte e deglutì a fatica, bevendo più che poteva.
«Sei uno stupido, sai? Cosa faresti senza di me, eh.» Jin lo disse con
leggerezza, ma quello che sentì lo gelò sul posto.
«Morirei…» E Jungkook collassò nuovamente sul materasso.
Un lieve tocco di nocche riportò Jin alla realtà, se ne stava seduto accanto al
letto da un tempo imprecisato: constatò soltanto in quel momento che si stava
avvicinando la sera.
«Sono Jimin, posso?»
Una risposta distaccata, e il ragazzo entrò.
«Abbiamo messo a bollire le verdure che hai portato, ormai sono su da un paio
d’ore almeno. Vuoi darmi delle dritte su quello che avevi voglia di preparare?»
Jin sollevò distrattamente lo sguardo dallo schermo dello smartphone e dal
gioco con cui si stava intrattenendo, alzandosi sospirando. «No, fa niente, scendo
io. Prima o poi dobbiamo mangiare, no?»
«Tutto a posto?»
«Come, scusa?»
«Sembri…»
«Stanco? Stressato? Nevrotico? Può darsi, con un idiota simile. Mi sta
mangiando tutte le energie, è peggio di un bambino.»
Jimin sorrise e Jin uscì, non prima di dare un’ultima occhiata al suo paziente,
che sembrava riposare quieto.
Al piano di sotto lo attendevano Taehyung e Yoongi, i volti seri, intenti a sistemare
distrattamente il salone. Era palese, stavano aspettando di dire la loro: Jin
sarebbe dovuto scendere a patti con se stesso, prima
che con gli altri.
«Cosa è, una riunione forse? Potremmo aspettare di mangiare prima.»
Concluse la preparazione degli ingredienti lasciati a metà, insaporendo con
dovizia il risultato e saggiandone gusto e consistenza; il tempo trascorso ai
fornelli scorse volontariamente in basso profilo. Sentiva dietro di sé un
silenzio pesante, trascinante, sapeva avrebbero perso ancora poco a osservarsi
l’un con l’altro.
Avrebbero mangiato così?
Probabilmente sì, si disse.
E così fu.
Taehyung e Jimin masticavano nervosi, in perfetta contrapposizione con la
fredda compostezza di Yoongi che al contrario non aspettava altro. Infatti, fu
il primo a intervenire. «Abbiamo avuto modo di parlare, Jin. Penso sia il
momento giusto.»
Il cucchiaio produsse un rumore secco all’interno della ciotola di ceramica.
«Va avanti.»
«Per te.»
Rise Jin, sottovalutando la serietà dei tre.
«E di grazia, per cosa?»
Jimin diede una gomitata a Taehyung, un breve cenno del capo in conferma. Quest’ultimo
trafficò da sotto il tavolo sincerandosi di non farsi vedere.
«Dobbiamo parlare di te e Jungkook.»
«Yoongi, smettila, non ho niente da aggiungere. Avete già fatto il danno, o
almeno, Jimin ha parlato a sproposito. Avrei preferito farglielo sapere all’ultimo,
ma si sa, voi non siete capaci di stare zitti mi sembra.»
«Ma non è solo questo, non mi pare poi un problema. Cosa provi per lui?»
A Jin la zuppa andò di traverso. Da quando Yoongi era così diretto? E al
contrario, da quando Taehyung era capace di starsene zitto così tanto tempo di
fila?
«Dovrei rispondervi?»
«Certo,» Jimin tramutò la propria espressione in una maschera di compostezza
conciliante. «in fondo, Jungkook non c’è, quindi perché continuare a stare
zitto? Non ti fa bene, stai diventando isterico. Lo vediamo, sai? Non riesci
più a concentrarti, non sei partecipe, spesso ti chiudi, poi ti ritrovi a
ribaltare tutto e ricercare compagnia in qualsiasi momento. Non riusciamo più a
capirti, sei strano.»
«Quello che sta cercando di dirti, Jin, è che se tu ne parlassi con noi,
staresti meglio.» Taehyung lo incitò a proseguire, le braccia lungo il busto,
le mani sotto al tavolo.
Jin inspirò ed espirò con una strana quiete: sapeva sarebbe successo prima o
poi, aveva come amici degli inquietanti ficcanaso.
«D’accordo. Promettete di lasciarmi stare poi?»
I tre annuirono.
Il volto di Jin si stese in una espressione serena, e ciò che disse uscì
accompagnato da un genuino sorriso.
«Non so come posso chiamarlo. So di essere stupido, lo sono stato dal momento
in cui mi sono fermato a guardarlo più del dovuto per la prima volta. Penso
siano… mhn, no, ok,» sorrise imbarazzato, «credo sia
da sempre. Da quando da ragazzino veniva da me per essere consolato, quando
aveva paura di fallire e di non essere abbastanza. Quando condividevamo una
sola camera, e lui veniva nel mio letto quasi senza accorgersene. Sapete,
potrei cercare mille motivi, potrei dirvi tutti gli episodi che volete, potrei
ridere ancora pensando a quando ci siamo ritrovati bloccati in doccia
vergognandoci da morire. O piangere quando è venuto da me dicendomi di avere
intenzione di andarsene, qualche anno fa. So solo che da un giorno all’altro, è
diventato importante. Troppo. Tanto da fare male quando se ne andava per le
vacanze, quando tornava dai suoi. E io come uno stronzo a scrivergli
continuamente, a contare le ore. Sì, non ridere Jimin, contavo le ore.»
Prese una pausa, sentiva il nodo allo stomaco muoversi verso la gola,
stringergli l’esofago, tentare di bloccare quello che stava per dire: «Io credo
seriamente che Jungkook sia il motivo per cui vivo.»
«Jin, lo ami?»
La domanda di Taehyung non lo spiazzò affatto.
«Sì.»
Il ragazzo premette invio, e la registrazione del telefono venne spedita.
Destinatario: Jungkook.
«Yoongi, come sta la tua coscienza?»
Jimin aveva già ricoperto quattro volte la distanza dell’intera sala a piedi: le
mani strette una nell’altra dietro la schiena nascosta dalla felpa grigia, il
viso basso a seguire l’incastro del parquet chiaro. Yoongi sollevò lo sguardo
sorseggiando da almeno dieci minuti un caffè completamente freddo.
«Come dovrebbe stare, scusa? Come sempre.» Puntò le iridi scure sull’altro, si
stava palesemente innervosendo. Gli avrebbe fatto venire il mal di mare. «Puoi
fermarti adesso, o hai intenzione di scavare un sentiero? Cazzo, Jimin,
possibile tu ti stia pentendo? Io avevo già avvisato Jin e lo sai. Mi sono
rotto le scatole di lui. Meglio così piuttosto che vederli rincorrersi senza
incontrarsi. Mancano due mesi sì e no, e grazie a te lo sa anche Jungkook
adesso, quindi perché io dovrei sentirmi in colpa? Sei stato tu il primo a fare
danno, dovrebbe essere la tua di coscienza a darti fastidio.»
Silenzio. L’andirivieni del ragazzo si fermò.
«Lo sta già facendo, a quanto pare. Bene, è tardi, Jin è andato di sopra,
Taehyung è scomparso subito dopo cena e tu sei qui a fare il pellegrinaggio
dalla porta all’arco del salotto, direi di andare a dormire.» La ceramica della
tazzina cozzò violenta contro la vasca del lavello: sfogare una certa
irritazione contro gli oggetti si stava dimostrando più efficace del previsto,
pensò Yoongi sbuffando con una certa sonorità. Si diresse con calma alle scale,
alzando la mano in segno di saluto, quando venne fermato per il polso da una
presa incerta e nervosa.
«Cosa credi dirà Jungkook?»
«Avresti dovuto pensarci prima di andare a spifferargli tutto. Ora che fai, ti
tiri indietro? Non pensi sia un po’ tardi?» sospirò voltandosi verso Jimin.
«Sul serio, mettiti il cuore in pace. Quei due non sarebbero andati da nessuna
parte.»
«Come fai ad esserne così sicuro?»
«Conosco abbastanza Jin da sapere che non avrebbe ceduto, e conosco Jungkook
tanto da ammettere che non avrebbe mai detto una sola parola prima della
partenza. Se questo non ti sembra masochismo, allora non so come chiamarlo.»
La presa si allentò fino ad esaurirsi, era d’accordo con il discorso di Yoongi,
eppure era sempre più propenso a pensare di aver dato il via a qualcosa di
irreparabile.
«Guarda che non sei tu ad averlo registrato, dovresti riversare questa tua
rabbia repressa su Taehyung. Hai provato a sentire cos’abbia da dire? Così
magari mi lasci in pace. Buonanotte.» Il tono con cui aveva concluso la
conversazione era piatto. Ne aveva piene le tasche e la testa. Salì al piano di
sopra e svoltò immediatamente, entrando nella propria stanza da letto e cercando
invano di chiudere fuori dalla porta di legno chiaro i propri pensieri, tutti:
dalle parole da vipera ai gesti non proprio ortodossi, ne aveva dette e fatte
più d’una di cui non andava propriamente fiero. Vedere soffrire però i due
amici in quella maniera era troppo ormai, e nonostante stesse riuscendo a mantenere
una certa maschera di bronzo davanti a tutti, ne stava risentendo con non poca
difficoltà; focalizzò la stretta di mano di Jimin sul proprio polso, in gesto
inconsueto che l’aveva preso alla sprovvista.
Tanto equilibrati erano stati finora, tanto si stavano disperdendo piano piano.
Taehyung aveva bussato alla porta della stanza di Jin consapevole della sola
presenza di Jungkook: in quelle condizioni era meglio tenerlo lì, aveva detto
lo stesso padrone della camera, così da essere costantemente controllato. Guai
a dire che avevano a che fare con un adulto capace di badare a se stesso – a parte le medicine, quelle proprio non era in
grado di tenerle a mente – anche perché Jin si era arrabbiato nel ricevere
quella semplice frecciatina detta con leggerezza. Ritrattata dunque la frase
incriminata, si rese ben conto lo stesso Taehyung quanto l’argomento “Jungkook”
fosse così delicato per il ragazzo, e quanto quest’ultimo ci tenesse ad ogni
singolo aspetto della sua vita, partendo proprio dalla sua salute.
Lo scrosciare dell’acqua calda della doccia nel bagno del piano riempiva il
corridoio di una cantilena continua e familiare, colmando un silenzio fatto di
sensi di colpa e di un leggero tremolio alle mani.
Coda di paglia, aveva concluso cinico.
Chiuse le dita a pugno ripetendo il gesto più volte: era scontato il fastidio non
sarebbe passato, così come il bisogno di ingoiare più del dovuto, a vuoto. Si
appoggiò alla porta a riprendere fiato e regolarizzare il respiro. Possibile
stesse avvertendo dell’ansia nonostante fosse stato d’accordo con gli altri fin
dall’inizio? Quando Yoongi aveva proposto l’idea, lui era stato il primo ad
accettare con un cenno d’assenso. Le sue sensazioni si erano rimescolate quando
aveva spedito a Jungkook il messaggio vocale, concludendo il proprio ruolo
senza farsi beccare, ma rendendosi complice di qualcosa che forse aveva passato
il limite. Chi erano davvero loro per intromettersi? I loro amici, aveva detto
Yoongi senza battere ciglio. E ci aveva creduto anche prima, non certo però
nell’istante in cui si accasciò sul pavimento, spalle alla porta, la testa tra
le ginocchia, la rassegnazione mista al dispiacere. Lui e la sua dannata
emotività, avrebbe dovuto smettere di mettersi in mezzo per poi starci così
male e ridursi ad uno straccio. Sembrava essere incollato, non riusciva neppure
a rialzarsi, la sensazione di fastidio allo stomaco si era spostata alla testa procurandogli
un dolore costantemente crescente. Doveva finirla lì.
Bussò.
Attese dall’altra parte, mentre le nocche ripetevano un toc delicato.
“Starà sicuramente dormendo, ha mangiato e preso le pastiglie, adesso sarà
sotto il piumone. E se…” Voltò il busto in direzione della superficie lignea,
attendendo una risposta, un rumore, una traccia di presenza.
Nulla.
Tentò ancora, sussurrando il nome dell’amico.
Niente.
Si issò determinato, carico di una rinnovata energia: avrebbe semplicemente
eliminato il messaggio dalla conversazione privata, mandando delle scuse al
destinatario inventandosi un contenuto errato, per poi spiegare agli altri
cosa… esattamente cosa? Che aveva cancellato erroneamente ciò che aveva spedito
in accordo con loro? Non ci avrebbero creduto, però avrebbe giovato a sé.
Sarebbe stato corretto, tutto si sarebbe riequilibrato, così come era stato
fino a qualche ora prima. E le sue mani non avrebbero più tremato, la morsa
sullo stomaco si sarebbe allentata, e lui avrebbe sorriso di nuovo. Soddisfatto
di un ragionamento praticamente perfetto estrasse lo smartphone dalla tasca.
La doppia spunta blu accanto alla registrazione decretò il fallimento del suo
tentativo di redimersi.
Inspirò, il danno era fatto.
Jungkook era sveglio, aveva ascoltato ogni singola parola e si trovava oltre la
porta, a pensare chissà cosa di loro, di Jin, di lui.
E non poteva rimediare in alcun modo. Una leggera punta di rabbia si insinuò
scalciando poi violentemente tutte le altre sensazioni: Taehyung pareva
terribilmente deluso. Avrebbe risolto in qualsiasi altro modo, ne sarebbe
uscito pulito. Entrò in camera bloccandosi al secondo passo, la mano ancora
sulla maniglia.
Sgranò gli occhi, le labbra socchiuse in uno “scusa” muto che non aveva ancora
avuto il tempo di pronunciare ad alta voce.
Jungkook era seduto sul letto rivolto nella sua direzione, i pantaloni bianchi
della tuta a sfiorare il pavimento, una delle pesanti felpe casalinghe dai
colori improbabili di Jin indossata nonostante il termostato ad indicare una
temperatura ideale, ed il cellulare stretto ancora tra le dita. Gli occhi erano
puntati su di lui, ma non erano concentrati su qualcosa di preciso, parevano
vacui, umidi, vuoti.
Lo stava guardando, ma non lo stava vedendo davvero.
«Senti, se è per quello che hai ascolt-»
«Esci, per favore.»
Una delle prime volte in cui Taehyung si sentiva realmente a disagio in
presenza dell’altro. «Come, scusa? Se è per la questione del messaggio, guarda,
posso spiegare…»
«Davvero?» Le sillabe tremavano, così come le sue labbra. Jungkook stringeva a
sé l’oggetto, avvicinandolo al petto, le nocche sbiancate dallo sforzo. «Spiegami.
È la sua voce, perché il numero è il tuo?»
Una domanda lecita, una risposta semplice.
«Perché l’ho registrato io.» Un’ovvietà.
«Ah.» Il tappeto catturò le sue iridi con interesse eccessivo. «E questo lui lo
sa?»
Altra domanda lecita.
«Beh…»
«Tae, lo sa?»
Non gli era mai costato tanto dire un semplice no. Non doveva nemmeno trovarsi
lì in quel momento, si trovava sotto stretto interrogatorio a causa di un’idea
non sua.
Jungkook era spazientito, stanco, sfiancato, ancora non aveva assimilato
l’essere venuto a sapere le tempistiche della partenza di Jin da Jimin, e aveva
pure ascoltato la conversazione più assurda, inspiegabile, indimenticabile della
sua intera esistenza grazie ad un’altra persona. Non aveva gioito, non aveva
sorriso; era furioso, si sentiva un estraneo.
«Rispondi, cazzo!» Lo scatto di rabbia fece sussultare l’ospite indesiderato
sul posto, annullando la possibilità di parlare. Lo aveva ammutolito con due
sole parole. «Per favore, va’… va’ via. Se non hai nu-… nulla da dire, vai via.»
«Jungkook, senti…»
Il ragazzo sbottò, scaraventando il cellulare da parte e ricoprendo in poche
falcate malferme la distanza che separava i due.
«No, adesso sent… sentimi bene tu.» I volti a non più
di venti centimetri di distanza. «Non avete fatto altro che farvi i cazzi… ahhh…
nostri. Chi vi ha chiesto niente? Ho chiesto io a Jimin…» riprese fiato a
fatica, tossendo un paio di volte prima di parlare di nuovo, «di dirmi quando
sarebbe partito? No. Ho chiesto io a voi d- di sapere cosa pensa di me? No,
cazzo... cazzo. Si può sapere perché vi sentite… sentite tanto superiori da
pretendere d-», altra pausa obbligata, «di avere il diritto di, uff… mettervi
in mezzo?» Tossì e riprese, gli occhi arrossati dalla febbre sempre più
liquidi. «Credi davvero che… che questo mi faccia sentire… meglio? Pensi che il
tuo messaggio mi far- farà correre da lui a… ahh…
dichiarargli il mio amore? Non è un film, Tae, ca… zzo.
E se io, se io lo amo o meno, sono solo fatti miei. Adesso va’ via, non… non
voglio vedervi.» Lo spintonò con le poche forze che aveva fino a oltre l’uscio,
per poi ritrovarsi Jin in accappatoio, le mani a stringere ancora l’asciugamano
sui capelli.
Era bloccato.
Stava guardando Jungkook e Taehyung, sconvolto.
«Cosa hai fatto… che cazzo hai fatto?»
«Jin, ero venuto per sistemare la situazione, lui non doveva sapere…»
Jin scaraventò sul pavimento il telo, strattonò per la maglietta nera il ragazzo
sbattendolo contro il muro del corridoio, sovrastandolo. Lo stava detestando,
quel poco che aveva colto era arrivato direttamente dalle labbra di Jungkook,
ed era stato più che sufficiente. «Cosa gli hai mandato?»
Silenzio.
«Rispondi.»
«Quel… quello che hai detto.»
La presa sul tessuto si intensificò, provocandogli affanno.
«E come?»
Jungkook era inerme, poggiato sullo stipite della porta: davanti a lui il
ragazzo che amava stava sfogando la rabbia più pura contro uno dei suoi
migliori amici, e lui non aveva la forza di fare nulla.
Non voleva fare nulla, in realtà.
«Come!» Jin scaraventò una seconda volta Taehyung contro la parete, stavolta
con maggiore forza: un gemito strozzato, la lingua paralizzata dell’altro l’aveva
fatto infuriare.
«Ho sentito tutto.» Furono le ultime parole sussurrate da Jungkook, prima di
lasciarsi andare e cadere a terra trattenendosi a fatica dal singhiozzare. Jin
mollò la presa e si precipitò su di lui, stringendolo al petto in parte
scoperto dalla spugna dell’accappatoio. Il suo calore contrastò comunque con la
temperatura del ragazzo, ma vive erano le lacrime che stavano inumidendone la
pelle ancora umida dalla doccia.
«Fateci solo un favore, lasciateci in pace.»
Taehyung si precipitò al piano di sotto di corsa, mancando un paio di scalini
per poi inciampare sui propri piedi e sbilanciarsi. Jimin gli evitò una caduta
rovinosa per un soffio, acchiappandolo da dietro con entrambe le mani.
«Che fai?»
«Abbiamo fatto un casino.»
«Come, abbiamo? Che hai combinato?»
Jimin lo conosceva, sapeva sarebbe andato a spifferare tutto: entrambi faticavano
a mentire, ma stavolta la posta in gioco era davvero alta. «Non dirmelo, ti
prego. Non dirmi che sei andato a dirgli tutto.»
Quelle iridi color caramello lo incatenarono sulle scale. «Mi sa che non hanno
apprezzato. E credo adesso ci odino...»
«Dovremmo parlarne.» Il
malessere pareva essersi affievolito, lasciando Jungkook spossato ma
completamente vigile. Gli occhi arrossati dalla crisi di pianto improvvisa pizzicavano,
la testa viaggiava cercando di riacchiappare i pensieri che vorticavano
impazziti. Jin lo aveva trascinato all’interno della camera, l’aveva fatto
accomodare sul letto e gli si era seduto accanto; la sua espressione dura si
ammorbidì quel tanto da confortarlo, metterlo a suo agio.
Non era però bastato.
Il petto del ragazzo si muoveva veloce, ed egli si stava torturando le dita:
non era pronto per affrontare quella conversazione, non ancora. Forse non lo
sarebbe mai stato.
La mano di Jin si poggiò sulle sue, bloccando i movimenti frenetici delle
falangi. Il nervosismo dipinto nei suoi occhi era più che eloquente. «Non avere paura di quello che sto per dirti.» Lo stava
rassicurando, sapeva di avere a che fare con una persona emotiva, avrebbe
dovuto dosare tono e parole. «Quello che è successo con Taehyung è sbagliato, e
mi spiace di aver reagito così.»
Jungkook avrebbe voluto dirgli che non c’era affatto bisogno di scusarsi con
lui, anzi, era lo stesso collega a doverle ricevere quelle parole: non era
riuscito a dirglielo, non era riuscito ad aprire ancora bocca. Non era
l’accaduto ad averlo sconvolto bensì l’aver ascoltato qualcosa che non avrebbe
dovuto ascoltare; Jin non avrebbe mai detto alcuna parola a riguardo di sua
spontanea volontà, non l’aveva mai fatto, anche perché fino a quel momento
Jungkook era convinto di provare dei sentimenti a senso unico che tentava di
seppellire negli angoli più profondi del suo corpo, fino a trovare un angolino
nell’anima, e lì lasciarsi morire. Quello era il suo obiettivo, lo era stato
fino a meno di un’ora prima, quando s’era risvegliato trovando una notifica
sullo smartphone poggiato sul comodino.
«Mi sono comportato da stupido trattandolo male davanti a te, non volevo
spaventarti.»
Jin credeva fosse crollato perché preso alla sprovvista dall’improvviso gesto
violento. Niente di più sbagliato. «Sei
malato, sei debole e io come uno stronzo sfogo la mia rabbia così. Dovrei
pensare a prendermi cura di te, invece di incazzarmi con gli altri. Puoi
perdonarmi?» Allungò le dita sul volto di Jungkook, allontanando i disordinati
capelli scuri dagli occhi, mostrandone l’ombra crescente a rovinarne la solita,
solare limpidezza.
«Non vuoi dirmi niente?» Aggrottò la fronte preoccupato, controllando la
temperatura di quella pelle improvvisamente pallida col dorso della mano, per
poi poggiare entrambi i palmi sul suo viso. «Devo portarti qualcosa? Hai sete,
oppure ancora fame? Potrei scendere a prepararti ancora qualcosa, dammi un
quarto d’ora e poss-»
La valanga di parole venne interrotta dalle labbra di Jungkook stesso, sportosi
verso di lui in un gesto quasi meccanico. Tremava inspirando veloce, troppo
veloce, tanto da staccarsi subito e sollevarsi di corsa dal piumone, per poi
trattenere a fatica le lacrime che pungevano agli angoli degli occhi. Sussurrò
uno “scusami” sottovoce, prima di coprirsi la bocca con le mani e restare in
piedi. Piangeva, senza nemmeno capirne il motivo.
Piangeva, e tanto bastava a mostrare quanto potesse sentirsi impotente davanti
ad una consapevolezza così grande.
Era schiacciante.
Si sentiva soffocare, e anzi peggio, affogare nella frustrazione.
Jin tese un braccio in sua direzione, le labbra schiuse dallo stupore. Era
accaduto tutto troppo in fretta, non aveva avuto ancora il tempo di assaporare
ciò che aveva desiderato per anni, reprimendo i suoi sentimenti a favore di una
semplice quanto complessa amicizia rappresentata da sensazioni taciute. Si rese
consapevole di quanto tutto stesse sfuggendo di mano andando oltre ciò che
aveva sempre fatto: tutelare Jungkook dal disastro che sarebbe avvenuto nel
caso fosse venuto a conoscenza di ciò che gli stava nascondendo. Lo strinse,
avvolgendolo con ambe le braccia, inspirando il suo odore e inebriandosi di
quel contatto. Stette così per un tempo che parve dilatato, finché non avvertì
il corpo dell’altro smettere di tremare ed accasciarsi sul suo torace,
immobile, silenzioso. Soltanto il respiro corto di lui scivolava sul suo petto,
provocandogli dei lievi brividi. La vicinanza era troppa, il corpo avvolto
ancora dall’accappatoio venne sconvolto da scosse vibranti, costringendolo a
mordersi labbra e lingua per non scaraventare Jungkook contro la porta e
appropriarsi del suo profumo, del suo sapore, del suo…
Di cosa esattamente?
Poteva davvero definire una dichiarazione ciò che aveva ascoltato dello
stralcio di conversazione tra lui e Taehyung?
«A… aspetta…»
Jin tentò di allontanarsi da Jungkook, eppure vi era attratto in modo fisico
tanto vivo da dover lottare contro le proprie dita che lo stavano stringendo
sulle scapole.
«Jungkook, aspetta…»
Sussurrò quelle poche sillabe negli attimi che seguirono un rapido bacio dato con
trasporto disperato.
«Non… non possiamo.»
Vomitare quelle parole così ipocrite stava affaticando il suo autocontrollo e
il suo orgoglio. Un tempo indefinito a sperare, immaginare, disegnare nella propria
testa quei gesti, e ora che finalmente era riuscito a veder realizzarsi quello
che pareva un sogno, doveva stroncarlo con le proprie forze, fin da subito. Lottò
contro se stesso, contro l’istinto di non separarsi da
lui per nulla al mondo, lottò contro il bassoventre che bruciava, i neuroni che
gridavano desiderio, lottò persino contro lo stesso battito accelerato
all’interno delle costole.
Sarebbe partito appena due mesi dopo, allontanandosi per due anni. Premette i
palmi sulle clavicole dell’altro, tremando. Jungkook lo guardava sorpreso,
boccheggiava alla ricerca di una risposta che si stava formando nella sua testa,
con la stessa rapidità con cui Jin raggiunse l’apice della più stupida delle
consapevolezze, l’unica possibile.
In due mesi soltanto non si sarebbe potuto costruire nulla.
«Non… possiamo…»
Non era un tempo sufficiente, non era abbastanza.
«Jungkook…»
Nessuno sarebbe stato così sciocco da tentare di iniziare qualsiasi cosa,
qualsiasi, con la sicurezza di doversene andare entro un lasso di tempo fin
troppo breve. Questo era un messaggio che non aveva bisogno di palesare a voce,
e lo sapeva.
Jungkook aveva recepito in modo sistematico, le braccia abbandonate senza forza
lungo i fianchi, i denti stretti a chiudere il “ti amo” che avrebbe voluto
dirgli. Si sentiva pronto, non lo era mai stato così tanto.
«Non dirlo, ti prego.»
Così pronto che persino Jin l’aveva capito.
Jin morse le labbra a bloccare la voce, sentiva di aver anzi parlato troppo,
non riusciva a trovare la giusta espressione per definire quello che stava
accadendo: era il più bel momento della sua esistenza, della sua vita da idol,
l’unico in cui aveva sentito un’inspiegabile leggerezza dentro.
Il più bello, il più doloroso.
Lo amava, lo amava così tanto da fargli male, così profondamente da chiedersi
come sarebbe potuto esistere senza di lui. E no, non poteva farlo. Se si fossero
legati in una relazione stabile avrebbero sofferto così tanto da non riuscire
nemmeno a respirare.
«Jin, io…»
Il ragazzo gli tappò la bocca con le dita, scuotendo la testa a destra e a
sinistra: i muscoli del collo tiravano come a tentare di bloccarne i movimenti.
Gli sorrise un’ultima volta, due linee tirate a frenare il fremito.
“Sorridi, Jin, lo stai facendo per lui.”
Strizzò gli occhi per il bisogno di piangere.
“Sorridi, che quando te ne andrai sarà finalmente libero di abituarsi ad una
vita senza di te.”
Una sola maledetta lacrima salata osò rompere la catena imposta dal suo autocontrollo.
Una, unica. Non la scostò neppure, lasciò la presa sul volto del ragazzo e spalancò
rapido la porta prima di far cozzare le nocche della mano destra contro il muro
del corridoio, lo stesso su cui aveva scaraventato Taehyung poco prima.
Stupido.
Lo stava facendo per il suo bene, continuava a ripetersi nella testa: non
poteva permettersi di far soffrire Jungkook, avrebbe fatto tutto per lui, anche
annullare ogni singola emozione a dimostrazione del suo amore.
Due mesi, e sarebbe finito tutto.
Due mesi.
Jungkook si riprese un poco a livello fisico: già dal quarto
giorno la febbre era scesa anche se i sintomi del raffreddore si erano
intensificati. Questo avrebbe portato a faticare nelle prove di ballo,
escludere quelle di canto e seguire da un angolo della sala la coreografia che sarebbe
andata avanti spedita anche senza lui. Sarebbero stati giorni pieni di niente i
suoi, mantenendo lo staff all’oscuro della causa di quel malessere che si
sarebbe protratto per del tempo prezioso, tempo che passava a riflettere sulla
situazione attuale, sull’accaduto, sulle persone coinvolte e su ciò che aveva
in mano. Da quella notte, Jin non lo aveva più guardato allo stesso modo: con
lui era gentile, estremamente gentile, così come era diventato glaciale con
Taehyung. L’unico risultato di tutto ciò che era cominciato con Jimin al parco,
fu quello di spezzare l’equilibrio del team e far litigare una delle persone
più importanti della sua vita con colui che amava… senza ottenere nulla,
assolutamente nulla, se non sorrisi di circostanza e dolorosi momenti di
solitudine. Jungkook in pratica era diventato l’ago della bilancia tra i due
colleghi che avevano semplicemente smesso di rivolgersi la parola: lavoravano
assieme dove necessario, stavano nella stessa stanza quando necessario,
respiravano la stessa aria se necessario.
Era un disastro, e Jungkook continuava a considerarsi l’unico responsabile.
Avrebbe dovuto abituarsi all’idea di vederli separati ma lo detestava: li
avrebbe presi da parte uno per volta e ci avrebbe parlato, a costo di
inseguirli e stremarli, fino a farsi dire sì. Tra i due probabilmente sarebbe
stato più facile instaurare un dialogo neutro con Taehyung.
«Non ora, Jungkook, ho da fare.» Sapeva avrebbe dovuto lottare per una risposta affermativa.
«Mi spiace, sono già impegnato con Jimin. Non posso.»
Prima o poi avrebbe trovato un momento, no? Ci stava provando soltanto da
quella mattina…
«Devo scappare, scusami.»
Al terzo rifiuto, si scoraggiò lasciando perdere. Non che Taehyung l’avesse
trattato male, anzi, sembrava semplicemente tentare di evitare di stare con lui
in ogni modo, anche se i sorrisi erano presenti. Eppure, sembravano nascondere
ben altro, e anche se Jungkook non aveva più accennato a quel dialogo
disperato, sapeva essere il cardine di quella sofferenza mascherata da impossibilità.
Avrebbe dovuto mediare e risolvere una faccenda alla volta.
Jimin sembrava essere l’unica soluzione per arrivare al suo amico senza
coinvolgerlo direttamente, e quella sera si rese fortunatamente disponibile al
dialogo.
Il disordine in camera da letto regnava ed era comprensibile: nel soggiornare
da Jin, Jungkook non aveva certo dovuto badare alla sistemazione né al riordino;
quella notte poi, dopo aver visto Jin andarsene dalla stanza con
quell’espressione, impedendogli di aprirsi completamente e rivelargli i propri
sentimenti – parole già formulate che sarebbero uscite senza freni dopo tutto
quel tempo – decise di tornare al proprio letto, alle proprie pareti, al
disordine sul pavimento e al silenzio. Forse non era la cosa migliore, ma sembrava
l’unica soluzione possibile: ancora qualche ora in quella camera carica di lui
e sarebbe crollato definitivamente.
«Eccomi.» Jimin si accomodò sulla sedia adiacente alla scrivania, un sorriso
sincero disegnato sul volto delicato. Scostò la frangia chiara dagli occhi ed
inspirò, pronto ad affrontare nuovamente una questione difficile. «Dimmi pure.»
«Immagino tu sappia cosa sia successo, vero? Che domanda, certo che sì.
Taehyung ti avrà sicuramente spiegato tutto.»
Il ragazzo annuì.
Jungkook si lasciò cadere stanco sul piumone, soffiandosi il naso un paio di
volte e imprecando contro lo stupido raffreddore che non stava concedendo alcuna
tregua. Infilò il fazzoletto nella tasca dei pantaloni di tuta chiari, prima di
riprendere a parlare.
«Quindi saprai anche il motivo per cui ti trovi qui.»
Deglutì Jimin: lo sguardo dell’amico era sottile, lucido, liquido. Serio,
troppo serio per i canoni stessi di quel gruppo di persone che ancora
convivevano dopo tutti quegli anni. Una punta di colpevolezza spingeva contro
la nuca: spingeva, spingeva penetrando nel cervelletto e poi su, ancora più su
fino alla parte del cervello – il cento per cento in quel momento – che gestiva
il senso di colpa.
«È colpa tua, sai? E di Taehyung, credo tu possa averlo capito.»
Quelle parole gli vennero scagliate addosso come un secchio di acqua gelata. Lo
avevano travolto, eppure sapeva di dover dar credito a quell’accusa.
«Se non vi foste intromessi, ora io e Jin saremmo ancora due persone normali.» Normali. Un termine strano da utilizzare, visto che ad un occhio poco
attento non era cambiato proprio niente. Jimin intervenne incuriosito e
timoroso.
«Non capisco esattamente cosa tu voglia dire. Normali, che parolone. Insomma, non
mi sembra stia andando poi così male, no? Vi ho visti parlare a pranzo, in sala
prove, durante il giorno, e sembrava tutto ok… o almeno, credo… sbaglio?»
Tentava Jimin di sentirsi a proprio agio ma Jungkook lasciava trasparire ormai
una certa ostilità che tentava invano di nascondere con il tono quieto imposto
nella conversazione.
Palesemente falso, tra l’altro.
«Cioè, Jin ti sorride sempre, è gentile, si preoccupa per te, anche troppo
secondo me, come avesse a che fare con un bambino. Ti cerca, ti parla, dove sta
il problema?» Non ci arrivava, all’apparenza tutto era perfetto.
Troppo. Un atteggiamento positivo, sempre, senza nessuna sfumatura. Nessuna.
Jimin si fermò a riflettere: quando li aveva visti interagire veramente per
oltre cinque minuti di fila? Dall’intervento di Taehyung.
«Stai capendo?» Jungkook si alzò sfiancato dal fastidio alle tempie che si
stava spostando al centro della testa, vibrando e pulsando. «Non mi ha più
parlato davvero, dopo quello che è successo. Le frasi di circostanza se le può
tenere per sé, non me ne faccio niente. È e resterà pur sempre un attore, anche
se ha scelto un’altra strada e si è unito al gruppo. Finge bene davanti agli
altri, vero? Così bene che i suoi sorrisi sembrano pure sinceri.»
«Ti stai sbagliando, lui è davvero contento di parlarti e stare con te, lo sai.
Lo è sempre stato…» Il nodo in gola spingeva sulle pareti, occupava troppo
spazio nell’esofago, avrebbe invaso la trachea a breve portandolo a tossire.
«Lo vedo quando ti guarda.»
«Ah, perfetto, e allora dimmi, cosa vedi?»
«Ti ama, Jungkook, e lo sai. È inutile che ci giri intorno.» Il tono di Jimin
si era improvvisamente addolcito. Si alzò in piedi annullando le distanze tra i
due, sedendogli accanto. «Possibile tu non lo capisca?»
Jungkook sollevò lo sguardo duro, gli si avvicinò ulteriormente e lo apostrofò
con la più spinosa delle domande. «Allora perché mi ha rifiutato? Se è vero che
mi ama, come dici tu, come sostiene Taehyung con quella registrazione del
cazzo, come ha detto pure lui a voi… perché…» la voce rotta, ingoiò un paio di
volte prima di continuare, «perché non mi vuole…»
Taehyung constatò a sue spese quanto fosse difficile spostarsi in dormitorio
senza incontrare qualcuno che per un motivo o per l’altro avrebbe forse dovuto
evitare. Fortunatamente Jimin e Yoongi erano dalla sua parte, in fondo ciò che
era stato fatto era stato concordato per il bene di Jungkook e Jin.
Allora perché erano così divisi?
Perché quando incontrava Jungkook, che cercava di bloccarlo in qualsiasi modo
per parlargli, sentiva un orribile formicolio salire e scuotergli la schiena
fino a portarlo ad allontanarsi con ogni scusa possibile? Era consapevole si
trattasse di una vigliaccata, ma non sapeva come affrontare la situazione senza
peggiorare le cose. Che poi, peggiorare… come sarebbero potute peggiorare
davvero, soprattutto con Jin? Quest’ultimo proprio non voleva saperne,
dichiarava quel poco che era necessario tralasciando un attimo il sorriso
falsissimo che continuava ad indossare, per poi rivestire il proprio volto di
quella espressione così perfetta da essere nauseante, e tornare a fare finta
che la situazione si sarebbe sistemata da sola. Taehyung aveva fatto di tutto
per dargli una mano, era sceso a patti con se stesso – sapeva, sapeva sarebbe
stata una cattiva idea, ma necessaria – ed aveva assecondato il desiderio di
Yoongi di avvicinarli in modo meccanico, preimpostato.
Col solo risultato di distanziarli.
Taehyung si fermava ad osservarli nella speranza di non essere mai beccato, in
fondo di danni ne aveva già provocati a sufficienza: i due interagivano spesso,
molto spesso, più di ciò che potesse sperare. Eppure, il tempo massimo di
vicinanza si limitava a qualche minuto. E li spiò, oh certo che lo fece. Jin
sorrideva così tanto da far nascere il dubbio di come non si sgretolassero gli
zigomi a forza di tenere tutti quei muscoli facciali in contrazione costante;
sorrideva solare a Jungkook, anche se forzato, esprimeva ciò che doveva e poi
cambiava immediatamente rotta, senza lasciare il tempo al ragazzo di poter
approfondire un qualsiasi discorso con lui.
E l’aveva vista, la faccia di Jungkook. Aveva notato le sue espressioni, il
rammarico, la rassegnazione. Giurò di aver notato gli occhi lucidi pronti ad
esplodere per il pianto, ma mai lui aveva ceduto, nonostante le decine di volte
in cui si erano incontrati i due con lo stesso identico epilogo. Decise dunque
di farsi coraggio e raggiungere Jungkook in camera sua, sperando di trovarlo da
solo; in fondo, era stato più volte cercato per una conversazione a tu per tu.
Gliel’avrebbe concessa, avrebbe fatto in modo di aggiustare un po’ le cose,
forse mitigarle, magari smussarne gli angoli e limare i bordi. Chissà, da solo
avrebbe potuto sistemare qualcosa. Il senso di colpa in fondo spronava spesso a
dare il meglio. Si limitò ad accostare il volto alla porta socchiusa della
camera, riconoscendo le voci di Jimin e Jungkook, anche se basse, quasi
sussurrate; dei singhiozzi interruppero la breve pausa seguente di totale
silenzio diffusa al primo piano.
Il ragazzo stava piangendo, e lo stava facendo davanti a Jimin.
Taehyung desiderava entrare, inginocchiarsi, scusarsi, dire e fare qualsiasi
cosa per veder nuovamente sorridere il suo migliore amico. Ci stava provando
davvero, lo desiderava con tutto se stesso, eppure allo stesso tempo non
riusciva ad affrontarlo. Come facessero i suoi “complici” a reggere le prime
conseguenze della puttanata che avevano ideato, non lo sapeva.
Doveva rimediare, il prima possibile.
Doveva parlare con Jin, prima di vedere Jungkook disperdersi per colpa loro.
«Jungkook, smettila di tossire, guarda che così ci
distrai e basta!» Jimin urlò dall’altra parte della sala prove, il viso madido
di sudore, i capelli umidi attaccati alla fronte. Raggiunse l’amico di corsa,
schiantandosi a terra scivolando sul pavimento, come suo solito. Rideva, così
come stava ridendo Jungkook della figuraccia a cui ormai era abituato.
«Ma cosa ridi! Avrei potuto farmi male davvero, uffa! Comunque… è bello
sentirti così, sai? Sembra tu stia meglio.»
L’altro guardò Jimin negli occhi, prima di sprofondare in attimi di lenta
amarezza e tornando poi a sorridere malinconico. «Sì, dai. Questa tosse però non
se ne va, mi sto annoiando a lavorare meno del solito.» Jungkook alzò lo
sguardo in direzione dei colleghi impegnati a ripassare l’ultima parte di una
coreografia lenta, emotiva, conciliante. Cercava di non ripensare agli ultimi
giorni, all’allontanamento graduale da Jin, alle lacrime versate sulla
maglietta blu del pigiama di Jimin qualche sera prima: si stava impegnando,
sorrideva un po’ più spesso, concentrandosi sulla composizione di qualche testo.
Appoggiato alla parete di specchi all’angolo opposto degli amici, impegnati ad
esercitarsi sui passi da perfezionare, teneva stretto a sé il quaderno su cui
stava riversando le idee: scriveva, riempiva i fogli di inchiostro, concentrato
quel tanto da fermarsi ogni manciata di minuti a causa della base musicale
avviata ad alto volume nello stanzone. Ci avrebbe rinunciato anche stavolta,
pensò, lanciando a un paio di metri da sé il blocco e relativa penna.
«Posso?» Jimin allungò lo sguardo sull’oggetto maltrattato tentando di
recuperarlo con le piccole dita.
D’istinto Jungkook strattonò l’altro verso di sé, rovesciandoselo addosso in
una breve sequela di imprecazioni: aveva sbattuto la testa sull’ultima lastra
trasparente, un tonfo sordo che s’era propagato per tutta la stanza attirando
l’attenzione dei presenti.
I ballerini si bloccarono focalizzandosi sui due, mostrando reazioni differenti
pennellate sui volti accaldati. Taehyung si stupì della scena, scoppiando a
ridere subito dopo in una sonora smorfia ilare; Yoongi, sfiancato più che mai
dalle ultime due ore si passò il dorso della mano sul volto, scostando la
frangia scura, la fronte corrugata in direzione di Jin.
Impassibile.
Fermo.
Bloccato, anzi. Gli occhi di quest’ultimo erano incastrati sulla scena; non
batteva neppure un ciglio.
«Jin?» osò chiedere Yoongi, «tutto bene?»
L’altro non rispose, non c’era da stupirsene in fondo: Jimin era incastrato a
forbice sul corpo di Jungkook, e non s’era nemmeno alzato, i due a guardarsi
per una serie di interminabili secondi. Jin sentiva mordere qualcosa fin dentro
le viscere, mordere fino a fargli desiderare di urlare “ma che cazzo state
facendo?” Aveva frenato l’impulso di staccarli uno dall’altro e scaraventarli
ai due punti più lontani della sala, impedendo quel contatto decisamente
ambiguo. Il bisogno di andare lì e smuoverli di propria iniziativa era
imperante.
«Levati.»
Glaciale.
Jin strattonò Jimin facendo affidamento sui centimetri in più di altezza e
sulle spalle ben più larghe, lavorando di leva e trascinandolo via dal giovane,
inerme quanto sorpreso. L’unica cosa che uscì dalle labbra del ragazzo fu uno
sbuffo confuso, accompagnato da uno sguardo altrettanto spaesato.
«Cosa…?» non era riuscito a dire altro. Che Jin fosse più fisico del solito era
un dato di fatto, che lo fosse con tutti tranne che con lui… era demotivante.
«Non intrometterti.» Le pupille dilatate di Jin intimarono a Jungkook ancora
sdraiato a terra di stare buono. «E tu, Jimin, stai più attento la prossima
volta.» Jin mascherò l’impulso di urlargli contro di non toccarlo – non toccarglielo.«Potevate farvi male entrambi.»
Tentativo patetico di nascondere la gelosia che gli stava mangiando le pareti
dello stomaco come una gastrite in fase acuta. Voltò un’ultima volta il capo in
direzione di Jungkook, rabbuiato: non disse nulla.
Per lui la lezione era finita.
«Si può sapere che ti prende?» Yoongi aspettava l’arrivo di Jin fermo sullo
stipite della porta d’ingresso allo spogliatoio, ma il ragazzo non era ancora
uscito dalla doccia: gocce di acqua tiepida ricadevano sulle piastrelle azzurre
del pavimento del bagno comune, mentre la sua fronte era ancora poggiata alla
parete. Non ci poteva credere, cosa gli era passato per la testa? Un gesto
tanto plateale, impulsivo, in una situazione simile era stato soltanto dannoso:
sperava in cuor suo di aver sviato l’attenzione fingendo una preoccupazione che
in quel momento non gli apparteneva, ma Yoongi era sempre stato attento e
riflessivo, aveva il raro dono di riuscire a leggere tra le righe di azioni e
reazioni, e non fidarsi delle parole.
Un’arma a doppio taglio la sua, un’arma puntata su Jin, nudo, sigillato dietro
quell’asse di plexiglass bianco opaco a dividerli.
«Devo parlarti.»
Il suono umido di un colpo su una piastrella bagnata fu l’unica risposta.
«Se fai così ti spacchi le nocche, lo sai?»
Jin inspirò ad occhi chiusi contando lo scorrere dei secondi sperando in un
silenzio di cui aveva assoluto bisogno.
«Jimin gli è solo caduto addosso, non capisco proprio tutto questo astio.»
«Poteva farsi male, potevano sul serio farsi male.» Le fughe bianche parevano
uno spettacolo degno d’attenzione.
«Smettila, sei imbarazzante. Quanto credi faccia bene a Jungkook vederti
trattare così chiunque gli si avvicini? Con quale diritto, poi?» Con quale diritto.
Nessun diritto, effettivamente.
«Lasciami in pace.»
«Ti dà fastidio venga toccato? Siamo i suoi colleghi, è normale ci sia contatto
fisico tra noi, anche se lo trovo una pratica non apprezzabile. Loro sono
sempre stati ottimi amici, qual è la differenza?»
Nessuna.
Nessuna, rispetto a quasi due settimane prima, quando tutto era ancora normale,
quando nessuno aveva ancora parlato, quando i suoi sentimenti erano
imprigionati nella gabbia di un’emotività troppo aderente ad un futuro pericolosamente
vicino.
«Jin, qual è la differenza?» Yoongi spostò spazientito il peso da un piede
all’altro, le braccia incrociate sulla maglietta con cui s’era allenato, i
pantaloncini aspettavano soltanto di essere levati e buttati in lavatrice;
voleva concludere prima il discorso per poi spogliarsi, lavarsi e sciacquare
via finalmente la stanchezza della giornata. «Non vuoi rispondere, vedo. Sappi
che Taehyung ha visto Jungkook piangere tra le braccia di Jimin. Naturalmente
ho dovuto estorcergli le parole di bocca, perché lui è l’unico stupido che si
sente in colpa per quello che ha fatto. Per la cronaca, sono stato io a
convincerlo a registrarti, altrimenti staresti ancora adesso a soffocarti con i
tuoi stessi sentimenti.»
Il divisore si spalancò, un corpo incurante della propria nudità si avvicinò
rapido. «Cosa hai detto?»
«Hai sentito benissimo. Fossi in te, terrei gli occhi aperti. Hai scelto di
allontanarlo, e puoi avere tutte le ragioni che vuoi, ma sappi che non è tua
proprietà. Fa che non diventi quella di qualcun altro, prima o poi. Ora vado, e
copriti prima che arrivino gli altri.»
Jin raccattò un asciugamano, il profumo di ammorbidente a mischiarsi a quello
del docciaschiuma creava una strana fragranza contrastante; lo legò in vita
prima di raggiungere lo stipetto con il cambio dei vestiti, lasciandosi cadere
sulla panca in legno dello spogliatoio. “Cosa cazzo intendeva dire?”
«Jungkook, sono io, posso entrare?»
Jimin bussò un paio di volte prima di procedere verso la camera: quando avvertì
una parola di assenso si accomodò, constatando con piacere come il disordine
dei giorni scorsi stava lasciando spazio a un concentrato tentativo di
risistemazione.
«Scusami, stavo pulendo.» Jungkook lasciò la scopa in un angolo, stiracchiando
la schiena e allungando le braccia in direzione del soffitto. «Sono stufo di
tutto questo casino. È ora di sistemare.»
«Sei tanto nervoso?»
L’amico aveva imparato a riconoscere i chiari segnali del nervosismo
dell’altro, dopo tutti quegli anni di convivenza. Nulla di più efficace per
costringerlo a sistemare maniacalmente ogni angolo della propria stanza.
«Dai, siediti, parliamone se vuoi. E non voglio sentire storie, so che hai
bisogno di sfogarti.»
Jungkook sospirò lasciando lo straccio intriso di sottile polvere sul mobiletto
adiacente al letto.
«Vieni qui e raccontami cosa ti gira per la testa.»
«Hai visto come ti ha trattato?» Inspirò il ragazzo, sbuffando spazientito.
«Chi, Jin? Ah, lascialo stare, era solo preoccupato per te.» Preoccupato non
era certo la parola che avrebbe voluto dire davvero, incazzato nero sarebbe
stata un’espressione più efficace ma preferiva non infierire sulla faccenda.
«Non ti sembrava… ecco, più infastidito del solito? Molto di più, intendo.» Il
moro intanto giocherellava con gli anelli che indossava sempre, facendoli
tintinnare, cozzare l’uno con l’altro, cambiandone posizione continuamente.
Jimin poggiò le proprie mani sulle sue ad interrompere gesti meccanici rapidi e
inconcludenti.
«Calmati, dai.»
«Secondo te potrebbe essere gelosia?»
Una domanda più che lecita. Jimin voleva soppesare le parole considerando che quel
tipo di reazioni avrebbe potuto dare speranze, e forse l’amico ora non aveva
bisogno di quel genere di sicurezze con basi tanto traballanti.
«No, non credo. Ti sono caduto addosso e hai battuto la testa contro un vetro
spesso come un mio mezzo dito. Chiunque avrebbe reagito. Sei un po’ più
convinto?»
Il monosillabo incerto fu l’unica risposta. Jungkook riprese a giocare con le
proprie dita, martoriandosi le pellicine con le unghie. Il gesto precedente
venne ripetuto, Jimin lo fermò dal continuare a torturarsi sottilmente.
«Dovresti staccare la testa e non pensarci, secondo me.»
«È che da quando, beh, sì, lo sai… da quando se n’è andato non viene più a
trovarmi oltre l’orario di lavoro, e mi manca. Ah, Jimin, lascia stare, sono
soltanto uno stupido che crede ancora a qualcosa che viene smentito ogni giorno.
Sono, sono… non so proprio quale parola potrei usare… »
Jimin si allungò su di lui stringendolo a sé, aggrappandosi al tessuto di
cotone a macchie colorate all’altezza delle scapole, affondando il volto contro
lo sterno: lo faceva soffrire vederlo in quelle condizioni, era davvero difficile
rapportarsi a qualcuno che era sempre stato capace di sorridere per poi
dimenticarsi come farlo. Sapeva di aver parte della colpa, ma non negò a se stesso di star odiando Jin e il suo atteggiamento
controverso. Jungkook meritava ogni singolo buon sentimento possibile, meritava
di essere felice, di ridere, di vivere di quella serenità che il ragazzo di cui
era innamorato non era capace di donargli al momento. Strinse più forte,
sussurrando quanto potesse dispiacergli di ogni cosa. È colpa tua. Se solo tu fossi stato a casa a farti i fatti suoi, ora
continuerebbe a stare bene, ignaro di tutto. Sei orribile. La sua coscienza
stava giocando sporco. Un fremito lo colpì dritto in mezzo alle vertebre.
L’altro lo prese per le spalle, controllando stesse bene: le iridi lucide di
Jimin si nascosero dietro alle palpebre serrate con violenza. Tua e di Jin, lui più di tutti. È colpa vostra.
Non fosse per lui, Jungkook starebbe bene. Avrebbe voluto fermare quei pensieri invasivi e opprimenti, ma non
riusciva a negarne il contenuto.
Il volto dell’amico a pochi centimetri. «Tutto bene?»
No, non va bene, avrebbe voluto dirglielo, dirgli quanto la sua vicinanza fosse
eccessiva, quanto lo spazio vitale ormai divorato dall’amico fosse inutile.
Avrebbe voluto dirgli di allontanarsi, di lasciare perdere tutto, di pensare a
sé stesso. Di pensarmi. E di cercare di guarire presto, non
solo nel fisico, dando modo all’emotività e al resto di trovare un equilibrio. Pensami, Jungkook.
Di riprendere a lavorare con la testa sgombra, il petto leggero.
Di ricordare che Jin sarebbe partito entro breve. E io invece resto.
Si alzò sorridendo improvvisato, sciogliendo l’abbraccio di malavoglia e
scostandosi dall’apprensione forse eccessiva. Il volto troppo vicino, il corpo
attaccato al suo.
Le lacrime viste e sentite addosso.
I singhiozzi non trattenuti, il cuore a sgretolarsi ogni volta di più. E io invece… resto.
Jin sospirò nuovamente, l’umore nero degli eventi passati
aveva lasciato spazio alla concentrazione necessaria per portare avanti il
programma in modo soddisfacente: le prove procedevano spedite, e nonostante la
difficoltà si stava impegnando in modo costante, dando tutto se
stesso in ogni passo, cadenza, mossa, salto. Faticava, certo, ma era l’unico
modo che aveva per zittire la vocina – benedetta, angelica, melodiosa quanto
stronza vocina – che continuava a sussurrargli di mollare tutto, andare da
Jungkook, stringerlo a sé e scaraventarlo contro qualsiasi cosa per poter
impossessarsi delle sue labbra e del suo respiro. Ogni giorno era sempre più
difficile staccarsi da lui, dal pensiero delle sue mani tremanti, di quella
dichiarazione che aveva volutamente interrotto a metà: stupido lui a non averlo
visto prima, a non aver notato niente, troppo assorbito dall’idea di provare un
sentimento tanto profondo, destabilizzante, quanto a senso unico. Staccò gli
occhi dallo smartphone bloccando lo schermo, rivelando l’immagine impostata di
un Jungkook che stava dormendo beatamente seduto davanti allo specchio del
camerino, mentre l’hairstylist
stava acconciandogli i capelli per un servizio fotografico. Era adorabile,
tanto da essere stato scelto per lo sfondo in lock screen.
Un piccolo tesoro personale il suo, come tanti altri scatti rubati.
Li guardava e riguardava quei momenti di vita impressi: Jungkook rideva,
strizzava gli occhi, Jungkook mangiava, dormiva, russava, Jungkook si allenava,
se ne stava assorto seduto. Smorfie, sorrisi, occhiatacce, linguacce. Era
ovunque, nei neuroni, nelle fibre nervose, tra i muscoli e i legamenti, tanto a
fondo nel petto, impossibile da sradicare.
Jin espirò sdraiandosi malamente sul divano, anche quella notte non riusciva a
prendere sonno. La sala era in penombra, illuminata solamente dalle luci d’un
bianco pallido dei lampioncini in giardino, piccoli fantasmini immobili tra i
fili d’erba scuri e le aiuole celate dal velo buio. Sentiva leggeri brividi
corrergli sulle vertebre, la pelle d’oca saliva sulle braccia scendendo fino
alle cosce; una certa pigrizia s’era impossessata della sua pazienza, non
avrebbe ceduto. Non si sarebbe alzato per recuperare la coperta, nemmeno a
modificare di un paio di gradi la temperatura sul termostato.
Era stanco, era comprensibile, e cadde nel dormiveglia.
Il leggero fruscìo Jin l’aveva avvertito davvero.
Calore, morbidezza.
Il suo corpo non si lamentava più silenzioso, si stava beando della piacevole
consistenza dell’enorme coperta in pile dai molteplici colori che solitamente se
ne stava in sosta sul poggiabraccio sinistro del sofà.
Si rannicchiò seppellendo i capelli castani sotto lo strato pesante, ritirando
al petto le ginocchia.
Quanto stava bene. Così bene da non chiedersi nemmeno chi fosse stato.
«Buonanotte.»
Un lieve sussurro, colto a malapena.
Sollevò le palpebre stropicciandosi gli occhi come un bambino qualunque,
alzandosi di scatto.
Il sorriso di Jungkook brillava nella poca luce presente, così come gli occhi
scuri: era inginocchiato di fronte a Jin, incastrato tra il divano e il
tavolino, una distanza minima a separarli. Stava fotografando ogni singola
sfumatura del suo volto, era così raro vederlo felice, che si ritrovò ad
arrossire improvvisamente, nascondendo mezzo viso tra le mani.
«Non volevo svegliarti, scusami…» la voce bassa, un’espressione desolata a
dipingere le iridi stanche.
Gli occhi di Jin spuntarono da sotto le dita, si scansò e fece segno al ragazzo
di accomodarglisi accanto. Non fiatò, gli avvolse la spalla col braccio e lo
trascinò contro il suo fianco.
«Non dire niente, domani ricomincerò a fare finta di nulla ma adesso stai qui.»
Non serviva certo lanciare un’occhiata attenta alla sua sinistra per capire che
Jungkook stava ridendo imbarazzato: lo sapeva bene, lo conosceva abbastanza da
ricordare la sfumatura del rossore dipinto sui suoi zigomi. Era stanco di
doverlo evitare, tremendamente frustrato all’idea di continuare a parlare solo
e soltanto di lavoro, lezioni, preparazione, al massimo di cibo o caffè.
Gli mancava terribilmente.
Troppo.
Stava sbagliando forse, ma aveva bisogno di sentirlo vicino, almeno quando non
c’era nessun altro nei paraggi. Fare il finto tonto in sala prove, in salone,
durante la giornata risultava sfiancante, anche perché erano sempre stati
vicini, fin dall’inizio; dormivano spesso nella stessa stanza, cenavano
assieme, condividevano tante piccole cose, ma tutto s’era perso dopo l’episodio
che invece di unirli li aveva separati.
«Jin.»
Il susseguirsi dei pensieri del giovane venne interrotto da Jungkook, che
timidamente lo stava strattonando per la maglietta. Deglutì inspirando con le
palpebre schiuse.
“Non dirlo…”
«Posso…»
Jin si girò verso di lui, tanto vicino da poter vedere nitidamente ogni
particolare del volto dell’altro in una stanza quasi completamente immersa nel
buio della notte tarda.
“Non chiederlo…”
«Posso addormentarmi qui? Non riesco a prendere sonno, e sai, mi ero abituato
bene quando avevo la febbre e stavo da te.»
“Fallo e basta.” Glielo avrebbe sussurrato volentieri, l’idea di poterlo
stringere a sé e riprendere a dormire con un altro tipo di calore a
conciliargli il sonno era una cosa così bella, che subito sembrò sbagliata. Se
l’avesse abituato a tutti quei gesti intimi, importanti, fino a caratterizzare
una quotidianità di questo tipo, cosa ne sarebbe stato poi di lui, di loro,
dopo la sua partenza? Doveva prendere la situazione di petto ancora una volta,
guardarlo negli occhi, impostare il giusto tono di voce autoritario ma non scontroso,
poggiare le mani sulle sue spalle e dirglielo, senza dargli possibilità di
ribattere. Severo ma giusto, non pretenzioso. Mantenere le distanze Jin,
mantenere le distanze, si ripeteva in testa.
Poi lo guardò nuovamente, vide quelle due punte luminose incastonate in un
volto stremato dagli ultimi strascichi dei sintomi che lo avevano bloccato in
quell’ultimo periodo, vide l’attesa, la speranza in un sì. Erano palesi, lo
sapeva bene.
Autoritario, dritto al punto.
Schiuse le labbra.
«Va bene, solo per stasera.»
Dormire non fu mai più piacevole.
Jungkook tentava di sistemarsi comodamente ma non ci riusciva: era già la
quarta volta che rischiava di cadere dal divano, non era certo un letto ma
aveva ingenuamente pensato di riuscire a incastrarsi con facilità. Come no. Due
ragazzi di un metro e ottanta su un semplice sofà a tre posti. La cervicale
stava implorando pietà, così come la schiena. Scostò delicatamente il plaid che
ricopriva Jin solo per metà, visto che s’era appisolato ancora seduto per
permettere all’altro di riuscire a ottenere più posto possibile.
Utopico.
Tirò a sé il lato corto del pile e poggiò la testa
sulle cosce di Jin, la nuca a contatto con il suo addome, la mano sul suo
ginocchio, assestandosi così. Era rannicchiato, ma la posizione confortevole.
Poteva sentire i gorgoglii dello stomaco, i risucchi, il battito, e cominciò a
sghignazzare senza motivo, sussultando quando venne richiamato.
«Non ridere, lasciami dormire.»
La voce impastata si mischiò ad un altro paio di sillabe mugugnate in maniera
incomprensibile.
Jungkook si tappò la bocca con le mani evitando un rumoroso scoppio di ilarità,
si trattenne a fatica, soffiò via gli ultimi attimi di pressione da risata ed
espirò il nervosismo. Tante volte aveva immaginato di ritrovarsi immerso nel
più totale silenzio a diretto contatto con Jin, troppe, e ora che si trovava lì
sentiva il bisogno di averlo più vicino, soltanto un poco di più. Voltò il capo
e sollevò con l’indice la maglietta dell’altro, respirando con la bocca, il
caldo soffio agitato usciva con impazienza. Deglutì un paio di volte, e poggiò
le labbra sulla pelle tesa del ventre.
Jin si scostò un attimo, reclinando il capo di lato e lasciandosi andare ad un
sonoro sospiro, continuando a dormire.
«Scusami…» sussurrò a malapena, ritraendosi come scottato.
Che stupido, stava facendo una cosa simile a chi ancora stava dormendo, si
vergognava del suo stesso atteggiamento. Non poterlo avere non aveva certo
cancellato il desiderio, ma approfittarne in modo così evidente era da
vigliacchi; si issò sui gomiti osservando dal basso il soggetto della sua
completa attenzione, sospirò.
Guardarlo gli dava pace, ma non era sufficiente.
Potergli stare vicino era bello, ma non abbastanza.
Sfiorarlo gli provocava i brividi, ma ne voleva di più.
Fece per alzarsi, stava sbagliando tutto, doveva andarsene, tornare in camera e
fare finta di nulla, come sempre, come tutte le sere degli ultimi anni.
Dita forti si chiusero sul suo polso strattonandolo verso il basso, Jin lo
aveva attirato a sé inglobandolo in un abbraccio che non ammetteva repliche o
vie di fuga. «Non c’è nessuno, non andare via.» Occhi svegli, espressivi, il
tono non ammetteva repliche. «Resta.» Lo fece sedere sulle proprie gambe,
stringendolo, inspirandone il profumo dall’incavo del collo. Era bloccato così,
non aveva bisogno di altro.
Jungkook si sentì avvampare con una tale violenza che il tentativo di
allontanamento fu più rapido della comprensione di ciò che stava succedendo. La
morsa che avvertiva a livello della fascia lombare non era rappresentata solo
dalle braccia di Jin, cercava maldestramente di nascondere l’erezione che
sfregava contro i tessuti.
Se ne sarebbe accorto Jin, di sicuro. Il disagio cresceva, ma l’agitarsi non
faceva altro che aumentare la frizione. Stava impazzendo, e il primo gemito non
tardò ad arrivare. Jin non mollava, Jungkook fu costretto a fermarsi voltando
la testa in direzione di un punto fisso verso la finestra.
«Guardami.»
Non l’avrebbe fatto, sapeva di essere un libro aperto ormai: le sue emozioni
stavano avendo la meglio, e frenarle era l’unico modo di fermare tutto,
chiudersi al piano di sopra, mordersi le labbra e lasciarsi andare ai sospiri
in solitudine.
«Ehi, guardami. Non vergognarti.»
Lunghe dita gli afferrarono il mento, non poteva sfuggire a Jin.
Non voleva.
Si lasciò cadere su di lui affamato, le labbra a chiudersi e riaprirsi alla
ricerca di aria, di sapori, di mugolii. Ne aveva bisogno, più dell’ossigeno che
gli stava mancando. Le mani di Jin lo accarezzavano sulla schiena, scendendo e
risalendo lente, una vertebra alla volta, fermandosi all’elastico dei pantaloni
della tuta. Quando le dita scesero ad afferrare le natiche, Jungkook si staccò ansante
da lui: una muta richiesta la sua. Continua.
Jin approfondì il bacio aumentando il contatto tra fianchi e cosce, muovendosi
non più impercettibilmente, bisognoso, avido. Jungkook lo sapeva, lo sentiva,
era lo stesso genere di sensazioni che gli stava logorando la ragione e divorando
lo spazio dietro allo sterno e dentro allo stomaco. Si avvicinò al lobo
dell’altro, sussurrando di volerne di più, di resistere a fatica, di volerlo. Continua. Pensò e disse Jin, mordendogli la spalla, la clavicola,
scendendo al pettorale e saggiando odore e sapore in una scia umida.
«Jin…»
Il suono era spezzato, roco, basso. Il suo nome uscito tra i gemiti si
impossessò del poco autocontrollo rimasto, si alzò rovesciando Jungkook sul
divano ed inginocchiandosi di fronte al corpo tremante.
La sola luce di quegli occhi acquosi di desiderio bastò a riportarlo alla
realtà, al rischio che stavano correndo in quel momento esatto: essere scoperti
in condizioni simili non rientrava nei programmi di quella notte. Neanche
raggiungere uno stato tale lo era, ma ormai non si sarebbe tirato indietro.
Erano soltanto loro due, che male avrebbero potuto fare continuando?
«Non posso prometterti niente, lo sai…» l’amarezza di quelle parole bruciava in
petto quanto sulla lingua, «ma non posso continuare a fare finta di niente.»
Jin strinse le dita a pugno sulle ginocchia instabili del ragazzo, incamerando
aria per poter parlare con sincerità, una volta tanto. «Jungkook, io ti amo,
non posso farti soffrire. Pensavo di poterti stare lontano, facevo di tutto per
evitare di darti qualsiasi tipo di stimolo, di voglia di continuare a cercarmi.
Ci ho provato, non hai idea di q-»
«Non continuare, fa male… non parlare di questo adesso, potremmo pensarci
domani, no? In fondo due mesi sono tanti…»
Jungkook si rese conto troppo tardi delle lacrime che stavano scivolando fino
al mento, inumidendogli il collo e la pelle dove poco prima la lingua e le dita
di Jin avevano lasciato il segno. Non erano tanti, meno di sessanta giorni
erano niente rispetto a quello che aveva passato nell’aspettare di udire quelle
parole: era felice, quel “ti amo” era la cosa più bella che aveva sentito, che
gli avevano dedicato. Perché allora stava piangendo? Stupido sentimentale.
«Hai ragione, sono tanti…»
Il maggiore si sollevò in piedi, racchiudendo tra le proprie braccia un corpo
che sembrava tanto piccolo, estremamente fragile. Aveva paura di romperlo,
distruggerlo in piccoli pezzi: era stato liberatorio dichiararsi, quelle poche
sillabe uscendo avevano alleggerito il suo essere, ma a quale prezzo? Le
lacrime di Jungkook pesavano altrettanto. Lo strinse a sé, accogliendo i suoi
singhiozzi spezzati, baciandogli la fronte ed i capelli, accarezzandolo;
sussurrava lievi parole per tranquillizzarlo, non sapeva esattamente cosa dire,
si lasciava trasportare da ciò che aveva tenuto nascosto dentro, qualsiasi cosa
avesse fatto star bene l’altro sarebbe stato sufficiente.
«Cosa direbbero gli altri se vedessero uno grande e grosso come te piangere
così?»
Jungkook sorrise strofinandosi gli occhi e il naso con un lembo della canotta
scura che indossava, singhiozzando nuovamente. «La stessa cosa che direbbero di
te, grande e grosso.» Allungò le dita sugli zigomi bagnati dello stesso Jin,
quest’ultimo non se n’era nemmeno accorto; passò delicatamente i polpastrelli
sulla sua pelle, asciugandone ogni tratto. «Siamo proprio irrecuperabili…»
«Non vuoi arrenderti, vedo.»
«Sai che sono testardo, Jin. E sai che non potrei fare a meno di te.»
“Lo so. È questo il problema, Jungkook.” La stretta si fece più viva, il
tremore era passato: sorrisero entrambi, ma l’ultimo pensiero materializzatosi
nella testa di Jin pesò come una condanna.
Yoongi aveva osservato sempre il mondo con attenzione: il
fatto che non esprimesse apertamente ciò che pensava ad ogni singola ora del
giorno, non portava ad una esclusione volontaria da tutto, anzi. Lui guardava,
traeva le sue conclusioni, ci rimuginava sopra per poi muoversi di conseguenza.
Era un attento osservatore, e per quanto sembrasse fin troppo spesso bisognoso
di stare lontano dalle emozioni altrui, non poteva fare a meno di cogliere
tutto e rendersi conto di essere circondato da una schiera di deficienti, a
detta sua. Jin sembrava non aver ancora ceduto, Jungkook faceva di tutto per
riavvicinarlo con il solo risultato di allontanarlo ancora una volta, senza
contare che Jimin si sentiva tanto tremendamente in colpa da prendersi carico
di ciò che stava succedendo, senza averne alcun diritto. Taehyung? Lui era
stato il migliore, aveva prima parlato con Jin, poi fatto ascoltare la
registrazione al diretto interessato, e aveva pure rischiato di prenderle dal
primo. Yoongi ammise che non gli sarebbe dispiaciuto: se l’amico non avesse
fatto una tale vigliaccata le cose sarebbero potute andare diversamente.
C’era qualcosa però che era cambiato da un paio di giorni. Aveva colto
sfumature differenti nei suoi due soggetti di studio preferiti, definendoli
così senza insultarli: Jungkook arrossiva un po’ troppo spesso, e Jin si
dilungava in sorrisi più sinceri. I suoi sguardi poi parlavano molto più di ciò
che voleva lasciare intendere. Era successo qualcosa, la situazione sembrava
meno tesa finalmente. Che si fossero riappacificati senza dire nulla? Magari
avevano cercato la giusta occasione per parlare dell’accaduto, mettendo a nudo
i loro sentimenti e il taciuto che aveva creato non pochi problemi.
Tra i tre ragazzi coinvolti in quel malsano tentativo di sistemare le cose per
conto terzi, soltanto Yoongi non si sentiva affatto in colpa e anzi, tanto
aveva spinto nella direzione dell’intervento che alla fine Jimin e Taehyung
l’avevano seguito, e secondo il suo parere le conseguenze emotive che stavano
lavorando su di loro non erano necessarie. Sospirò, probabilmente avrebbe
dovuto parlare con entrambi prima di riabituarsi a musi lunghi, mugugni
contrariati e pasti separati. Si issò e andò al piano di sopra, era sicuro
avrebbe trovato lì i due colleghi, in camera a giocare con qualche consolle, o
a divertirsi a prendersi in giro, farsi selfie o stuzzicarsi.
Esattamente come facevano sempre.
Un pizzico di normalità almeno da parte loro, il dormitorio non era più lo
stesso da quando la coppia inconsapevole si era predisposta dei paletti
nonostante una dichiarazione d’amore con tutti i crismi. Percorse per tre
quarti il corridoio in parquet avvertendo il solo scricchiolio dei propri passi
in parte coperto da un insieme di voci lontano e ovattato.
Strano.
Una situazione anomala, in un insieme di stanze solitamente affollate. Le
camere dei due disgraziati incapaci di scendere a patti con loro stessi erano
vuote, ne era sicuro: li aveva visti uscire per raggiungere lo studio e
lavorare a un pezzo particolarmente ostico, una collaborazione che richiedeva
attenzione, allenamento, rigore. Meglio così, si disse, avrebbe potuto parlare
con più tranquillità con gli amici rimasti a casa. Quindi il rumore che
aumentava di intensità a ogni passo proveniva da un’altra parte: raggiunse la
camera di Jimin ed entrò senza neppure il bisogno di bussare, non era chiusa a
chiave – non c’era mai un particolare motivo per separarsi dal resto del gruppo
isolandosi dietro a porte sigillate dalla serratura. Rimase fermo poco dopo
l’uscio, la dinamica della scena che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi
lo aveva immobilizzato: Jimin correva a petto nudo, scarabocchiato su tutto
l’addome da un’ampia gamma di tonalità di colore che variavano dal nero
all’azzurro al rosso, con punte di verde e viola brillante, da sotto l’ombelico
fino al petto. A coprire il corpo soltanto un paio di pantaloncini di pigiama
estivo azzurri di una taglia vergognosa per un vitino sottile come il suo.
Taehyung lo rincorreva con dei pennarelli dai tappi buttati chissà dove,
ridendo fino alle lacrime ed inciampandosi sui pantaloni che gli erano finiti
sotto ai piedi, cascando inesorabilmente di fronte a Yoongi e su Jimin, di cui
aveva afferrato con inutile speranza il braccio per evitare il capitombolo. Le
risate si levarono allegre mentre l’impreparato spettatore indietreggiò
richiudendosi la porta alle spalle.
No, non era il momento di affrontare un qualsiasi argomento con loro, non uno.
Yoongi si passò la mano sul volto cercando di trattenere a stento una risata
isterica, coperta a malapena da un colpo di tosse forzato.
Che poi, cosa ci facesse Taehyung in camera di un Jimin mezzo nudo, era un
mistero: ecco, loro due lo erano stati un po’ più un mistero per lui, perché il
primo era costantemente aperto, esposto, si lasciava trascinare
dall’entusiasmo, giocava spesso e con trasporto. L’altro, beh, era più
difficile comprenderlo, tendeva a nascondere un po’ troppe cose, alcune
probabilmente importanti. Tentare di riuscire a capire un uragano come loro quando
stavano assieme era critico, ci aveva già rinunciato più volte senza la massima
convinzione sul risultato ottenuto.
«Hai visto la sua faccia?» Taehyung non smetteva di ridere, le dita ancorate ai
pantaloncini di Jimin che erano scivolati fino alle cosce, mostrando i boxer
grigi. Quest’ultimo non provava vergogna, il senso del pudore era qualcosa di
alieno in quella famiglia chiamata Bangtan. Le risate finirono nel momento in
cui Taehyung sovrastò l’amico, stringendogli i fianchi con le ginocchia e
osservandolo dall’alto, gli occhi ancora lucidi per l’ilarità.
«Jimin, sai che ti voglio bene?»
L’altro sorrise.
«Certo, me lo dici tutte le volte! Lo so, lo so.» Eppure, respirava a fatica,
forse la stretta era eccessiva e l’improvviso peso che avvertiva sul torace non
era solo quello dell’altro, vicino, troppo vicino; era qualcosa di più forte. Troppo vicino.
«Ehi, alzati adesso, guarda che pesi!»
Taehyung gli afferrò la mano, portandosela al volto. La avvolse con le sue
dita, la differenza evidente delle dimensioni lo faceva sorridere e lo
incuriosiva sempre. Ci scherzava molto, a volte lo prendeva in giro, non lo
faceva con cattiveria, loro in fondo erano così.
Non era però il momento di scherzare quello, affatto.
Jimin avvertiva chiaramente il petto accelerare il proprio movimento, le labbra
piene schiuse a cercare aria con affanno. Non va bene.
«Per favore, alzati.»
I visi a poca distanza, gli occhi ridotti a due fessure.
Taehyung si abbassò su di lui, i respiri a mischiarsi sulle rispettive labbra.
«Jimin, sai che ti voglio bene…?» Il tono era diverso, la voce un sussurro, aveva
faticato a dire quelle parole per la prima volta, non era come quando giocavano
davanti a tutti, si rincorrevano in giro per le sale prove o per i corridoi del
palazzo. Non era come quando interagivano goliardicamente nei set fotografici,
tra uno scatto e l’altro. No. Era differente, e Jimin era rimasto paralizzato
nell’esserne consapevole; avvertì chiaramente il proprio nome pronunciato a
stento. Alzati.
Taehyung azzerò le distanze, appropriandosi di quella bocca con un tocco lieve,
quasi avesse paura di rendersi conto si trattasse di una illusione spezzata.
Schiuse le palpebre, non osò fare altrettanto con le labbra. Jimin era in apnea,
gli occhi strizzati in un combattuto senso di rifiuto misto a una tale
aspettativa da rischiare di non volersi più staccare, fermando il tempo in una
istantanea eterna.
Era sbagliato.
Lo sapeva, certo che lo sapeva.
Erano colleghi di lavoro, coinquilini, amici da una decina d’anni.
Condividevano tutto praticamente, dai luoghi di svago alle stanze private,
dalle lezioni alle prove. Non poteva permettersi di mischiare tutto e rischiare
la carriera con delle distrazioni troppo forti.
Taehyung sarebbe stato una distrazione.
Uscirci sarebbe stato una distrazione.
Desiderarlo lo sarebbe stato.
Non si trattava di cedere ai suoi sorrisi davanti alle telecamere, alle moine, alle
espressioni enfatizzate. Non era questione di farsi abbracciare, stritolare,
sollevare e portare in giro come un fidanzato innamorato.
No.
Jimin sospinse via l’altro con un colpo di reni e scalciando, liberandosi dalla
stretta, ancora le labbra umide e un terribile vuoto all’altezza dello stomaco.
Andava tutto bene quando si trattava di divertimento, a lui andava bene così:
le coccole sul divano, gli abbracci, i sorrisi sinceri… fu in quel momento,
fuori dalla propria stanza, bloccato in mezzo al corridoio, che Jimin realizzò
per la prima volta cosa era accaduto: i segnali erano sempre stati chiari, lui
non ci aveva dato semplicemente peso. Le attenzioni che lui gli dedicava erano
palesi.
Era un gioco, pensava.
Certo, ci aveva creduto fino alla fine. Taehyung più di tutti lo faceva star
bene, anni a prodigarsi per lui, e non aveva mai neppure pensato potesse
trattarsi di qualcosa di più di un grandissimo sentimento di amicizia. Ora lo
aveva capito, se n’era reso conto poco prima di farsi baciare sul pavimento di
legno della camera: lo aveva letto dentro a quelle iridi. Non era mai stato
così bene come in quei pochi secondi, ed era buffo perché ora stava malissimo,
avrebbe volentieri cancellato quell’espressione stupida che aveva rivolto
all’altro invece di lasciarsi andare. Un bacio non poteva fare male, un bacio
non cambiava nulla, certo un bacio poteva significare tante cose ma non per
questo avrebbe rovesciato anni di un rapporto meraviglioso costruito
sull’affetto e sulla fiducia reciproca. Fiducia…
«Jimin?»
Certo, la fiducia, quella che il ragazzo aveva sempre sbandierato con un
sorriso. Da quanto tempo gli nascondeva la cosa?
«Jimin, sei lì fuori, vero?»
Nonostante il richiamo, decise di non rispondere: sperò con tutto se stesso di non trovarselo di fronte, non avrebbe saputo
cosa dire. Era accaduto in fretta, si era lasciato trascinare, aveva reagito
come uno stupido ed era scappato via dall’amico più caro e alla trasparenza di
ciò che quest’ultimo aveva dimostrato in un gesto tanto semplice.
Esplicativo.
Insomma, un migliore amico non bloccava qualcuno a caso su un pavimento
baciandolo.
Jimin si tappò la bocca con le mani a coppa: sussultò e strinse gli occhi, i
battiti rimbombavano nella cassa toracica tanto forte da rischiare di farla
esplodere. Non rispondere.
«Jimin… per favore… so che sei lì. Senti, se è per quello che è successo… beh,
scusami.» Non uscire.
«Pensavo, ecco… credevo che anche tu, insomma… pure tu potessi…» Taehyung non
proseguì ulteriormente. Credeva forse le sue parole si sarebbero sollevate
inutili in un corridoio vuoto.
No. Sapeva di trovare Jimin a un paio di metri di distanza. «Pensavo che tu,
che anche tu provassi qualcosa. Non è così? Mi sono sbagliato?» Il ragazzo poggiò
la fronte contro la sottile parete che lo separava dall’altro. «Jimin, ho
sbagliato? Rispondimi…» Non parlare.
Come faceva a saperlo? Cosa avrebbe potuto dire esattamente rispecchiando la
verità? In pochi istanti tantissimi momenti passati assieme si accavallarono
uno sull’altro nella sua testa. Il sorriso di Taehyung.
Vorticavano, si intrecciavano. Le sue mani a cercarlo sempre.
Si sovrapponevano, creando un collage caotico di centinaia di fotografie. I suoi occhi.
Jimin spalancò le palpebre trattenendo un gemito. Era sempre stata lì davanti a
lui quella certezza: Taehyung lo amava da chissà quanto tempo ormai, e lui come
un idiota non se n’era nemmeno accorto.
«Jimin? Dì qualcosa, qualsiasi cosa.»
Non se n’era accorto, come era possibile? Come poteva essere stato tanto cieco?
«Mi dispiace…» Furono le uniche due parole che uscirono dalle labbra di Jimin:
percorse il corridoio correndo giù per le scale nella speranza di non
incontrare nessuno, scappando da lui, scappando da se stesso.