Una festa d'addio

di Miky_D_Senpai
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un prologo, corto ***
Capitolo 2: *** Prologo, seconda versione ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 16 ***



Capitolo 1
*** Un prologo, corto ***


“Vediamo ora interroghiamo…”
 
Non me dai, mi hai già chiamato ieri.
So che ti sto talmente antipatico che ti sei fatta crescere il pisello solo per poter finalmente dire che ti sto “sul cazzo”, ma non per questo dovresti chiamarmi di nuovo.
Se proprio devi chiamare qualcuno chiama la secchioncella che sta lì al primo banco. Lei, la sua amica e il frocio che le sta dietro.
So che sono andato male e ormai ci stai prendendo gusto, ma è un mese che mi punti ed è solamente ottobre.
 
“Lui l’ho già chiamato ieri…”
 
Lui chi? Chi è questo “LUI”?! Il tuo amico immaginario?
Metti un soggetto reale a questa frase! Io devo stare qui, tra oche che starnazzano e la puzza di chiuso a domandarmi perché questo lui non sparisca dalla faccia della terra e venga sostituito da, che ne so, un criceto!
Perché dovrei essere ancora io a tornare lì?
Non ho fatto quella montagna di esercizi inutili che ci avevi dato per l’estate e te la sei presa. Mi hai chiamato alla lavagna venti volte solo a settembre perché pensi che io non stia attento e io ti ho pure aiutata a confermare che la tua teoria era sbagliata.
Dovresti essere fiera di te! Fiera che una volta nella tua misera vita da plurilaureata sottopagata ci sia qualcuno che ti dà una soddisfazione, perché non credo che tu abbia un marito e se ce l’hai sono veramente impressionato dal coraggio di quell’uomo.
Io andrò avanti, come hanno già fatto molte altre persone che nemmeno si sono laureate e un giorno magari mi pulirò il culo con il diploma della quattrocchi, che se non facesse parte della mia comitiva avrebbe già smesso di sorridere.
Avrei dovuto ucciderla il primo anno, quando l’ho scoperta nei bagni dei professori a fare cose i quali dettagli, caro lettore, non verrai mai a sapere, a meno che tu non voglia morire. Ma tu ci tieni alla vita, vero?
 
“Ackerman, vieni qui davanti o hai paura?”
 
Lei, come puoi ben vedere, non tiene alla sua.

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Capitolo 2
*** Prologo, seconda versione ***


NdA: Ora, non me ne vogliate male, ma quello di prima era un prologo poco esaustivo e non diceva nulla della trama vera e propria, era solo per attirarvi in questa trappola.
E se siete arrivati fino a qui allora il piano sta funzionando alla perfezione.
 
Volevate la solita storia sulla scuola?
Su quei college americani tutti fighetti in cui c’è sempre il “cattivo ragazzo” che sta con la timida secchiona di turno, che la persuade a passare nel lato oscuro? “Lato oscuro” che poi è semplicemente in penombra.
Non si è mai visto nessuno che segua la trama del “ragazza che non è mai andata ad una festa, viene convinta da un’amica che poi scomparirà tra le pagine e che viene sostituita dal tenebroso, ma fighissimo, ragazzo di turno che la apre al mondo delle (droghe?La apre e basta? No, quando mai!) feste.
Feste, sì signori. In quale mondo viviamo? In quello degli unicorni e degli arcobaleni? Quello dove “perdindirindina quel ragazzo va ad una festa organizzata da un suo amico, sarà sicuramente un bad guy e tutte gli devono andare dietro!”, solo perché beve? O al massimo (e, signora mia, dove arriveremo?) si fa una mista?
 
Ma allora ha fatto bene quella di “50 sfumature di colore” a mettere la solita “RAGAZZA MODELLO STEREOTIPATA APPOSITAMENTE PER QUESTI MANOSCRITTI” con un maniaco sessuale all’ultimo stadio. Almeno lei si diverte di più delle povere ragazze nelle mani di “fanciulli cattivi” che di cattivo hanno… l’alito forse?
Quei casi umani che la ragazza deve “salvare” manco fosse Super Mario non hanno nulla a che vedere con la realtà.
Ecco, noi, anzi, IO non vivo nel mondo dei funghi e delle tartarughe salterine, non sono una principessa in pericolo, al massimo sono il mostro di turno.
 
Mi basta guardare la classe da qui per capire che il mondo sta andando a rotoli, anzi, bastano i primi due banchi davanti a me.
Stare in quarto ci rende tutti partecipi di un sottile hunger games che ci porterà al prossimo anno e, senza accorgersene, alcuni di noi verranno lasciati indietro o periranno.
Questa scuola ci sta piano piano divorando. No, non sto assolutamente ascoltando le lamentele della professoressa su quanto mi debba impegnare e su quanto potrei fare di meglio, non ho tempo per lei.
Ho voglia di farvi capire di cosa si parla.
 
Seduta in prima fila, vicino alla finestra, Hanji, la secchioncella. Non è lei in sé quella che mi irrita, ma la sua mano sempre alzata.
Sembra che non le sia ancora bastata la lezione di quattro anni fa, quando ho dovuto coprire io i suoi bisogni. Che detta così fa cosa molto schifo, sa di sporco e puzza solo al pensiero. Ho fatto il “palo”, solo perché lei aveva già quasi finito, e infatti uscì soltanto mezzora dopo.
Non l’ho trattata male in realtà quella volta, sono stato anche abbastanza gentile con lei. È stata l’unica volta che non aveva i capelli raccolti in quella stupida coda. Ed anche l’ultima in cui l’ho vista paonazza in volto e con un’espressione contorta tra lo sforzo disumano e l’imbarazzo. Per quanto quella maniaca possa imbarazzarsi.
Anche se abbiamo passato un’altra ora buona dentro quel bagno, di cui gli ultimi dieci minuti con una schiera di professori assatanati, tentando di spiegare loro il perché la mia camicia copriva le sue cosce e perché i suoi pantaloni si fossero volatilizzati.
Vi tengo troppo sulle spine? Non venitemi a dire che sta diventando un romanzo rosa, perché voi non avete idea di ciò che sia successo, chiaro?
Avete presente quelle ragazze che sono così agitate che se riusciste ad utilizzare la sua voglia di vivere per generare energia elettrica, potreste far funzionare un’intera città? (Possibilmente da una ruota su cui lasciarla correre finché non schiatta)
Ecco, lei è uno di quei criceti il cui cuore però non si ferma. Nemmeno davanti all’amore di quel poveraccio di Moblit, suo compagno di banco e spalla, penso che se un giorno trovassimo una statua di Hanji sapremmo subito chi l’ha scolpita e dovremmo anche pulire le sue lacrime dal marmo dopo un suo commento su qualsiasi cosa tranne quell’opera.
Dietro è seduta Petra, amica della secchioncella. Cosa mi dà fastidio di lei? La voce, il modo di parlare, il suo carattere in generale. È insopportabile. Il miscuglio tra le sue buone maniere e il fatto di essere solamente una muffa come ragazza la rende inutile dal punto di vista sociale.
Essere un anno più piccola di noi la rende solamente più insopportabile. I professori sono sempre dalla sua parte, la maggior parte degli altri ragazzi le va dietro come un gruppo di zombie e lei passa la maggior parte del tempo a disturbare me. Non credo sia per la patologia della crocerossina, perché quella sarebbe la sua fine. E la mia.
 
Piccola parentesi, quella della “crocerossina” è una malattia mentale a mio parere.
Rende le ragazze (o almeno per come le descrivono film e libri) delle dementi totali, che non si rendono conto nemmeno di chi hanno veramente davanti.
L’uomo di turno è uno psicopatico, violento, possibilmente stupratore e assassino,
ma loro sono talmente tanto infermiere di corsia dentro da dover essere NECESSARIAMENTE essere violentate e picchiate dal loro “ragazzo” che si droga e si inietta alcol nelle vene.
Buonsenso nella cosa? Trovatelo voi, io non ne ho tempo.
 
La sua vocina squillante e la sua assurda voglia di dover commentare qualsiasi cosa nonostante la sua totale ignoranza sull’argomento, ecco cosa odio.
Il fatto che stia con Auruo solamente perché mi copia manco fosse un mimo. E il fatto che quei due cretini di Erd e Gunter le vadano ancora dietro come api vicino un fiore, nonostante sia l’ex di entrambi (ha tradito uno con l’altro e viceversa), chiude il quartetto più imbarazzante che abbia mai visto.
Anche per questo credono di far parte del nostro gruppo, ma alla fine non vengono invitati quando ci sono le occasioni più importanti.
Sinceramente so che non lo fa con cattiveria, non è una di quelle troiette che va con il primo che le fa un complimento, è solamente troppo debole per riuscire ad invaghirsi di una persona alla volta.
E infine Auruo, il frocio. Perché lo definisco così brutalmente “frocio”? Perché se non fosse veramente innamorato perso di Petra, penserei che mi venga dietro.
Ma soprattutto perché è stata Isabel a chiamarlo così la prima volta che l’ha visto.
 
Rischierei di passere una giornata ad elencare i “casi umani” di questa scuola, senza nemmeno contare il branco di primini, altrimenti ci potrei passare un mese.
Tralasciando che dovrei approfondire il discorso su Erd e Gunter, o quello su Isabel (e quindi su Farlan), ma credo che non lo farò.
Dovrei quanto meno accennarvi il prof Pixis, che per i suoi problemi con l’alcol viene affiancato da ben due “tutor”.
O Mike, uno del quinto anno (non che mio collega come vice del rappresentante degli studenti, ma questo ve lo spiegherò bene più in là) che rischia la morte ogni volta che qualcuno tira una scoreggia.
Oppure dovrei parlare direttamente del rappresentante degli studenti, il biondo Smith. Ma anche lui avrete tempo di conoscerlo, ah no, lo conoscete già.
 
Forse ho finalmente finito un prologo che potrebbe essere un minimo degno per iniziare questa storia, datemi solo un secondo, sto mettendo a riscaldare l’acqua per il tè, dopo devo dare ripetizioni ad un caso perso.

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Capitolo 3
*** Capitolo 1 ***


Avvertenza: Autolesionismo
 
«Ohi, Eren!» l’avevo notato dalla finestra, fermo nel viale del mio appartamento, di fronte al mio citofono.
Mi diverte vederlo sbiancare ogni volta che pronuncio il suo nome. È una mia piccola rivincita contro di lui, che mi fa perdere tempo con queste ripetizioni, e solletica il mio ego, insieme alla consapevolezza di essere superiore a quella testa vuota.
Lo so, è soltanto una consolazione, perché io non sono più in alto di Erwin e quindi compenso torturando gli altri, come mi ripete Hanji ogni volta.
Perché nella “scala sociale” della scuola lui occupa il secondo posto, sotto l’unica figura del preside. Essere addirittura sopra i professori gonfia il suo ego come un piccione le sue piume. Il fatto è che la sua ombra però si innalza possente come tavole di legge, così inamovibile che nessuno ha osato dubitare nell’approvare la sua quarta candidatura. Ci ha messo tutti in riga. E ha dato a noi il compito di fare lo stesso con i primini, quasi come se glielo dovessimo, prima che se ne vada.
Quindi me la prendo con quel ragazzino che sta per entrare dal cancelletto, che era già aperto tra l’altro. Me la prendo con lui, senza intaccare la sua salute o quella dei suoi amici, come invece farebbe la metà degli studenti del quinto anno. Anche qualcuno più giovane. È poco più di un gioco che il gatto fa con un topolino, ma forse non lo riuscirebbe nemmeno a capire.
È sul mio pianerottolo. Vediamo se lo capisce che la porta gliel’ho lasciata aperta per un motivo.
Mi verso il tè, mi siedo a tavola.
Si starà facendo coraggio, come al solito, come se dovesse andare in guerra. Eppure, dopo un mese dovrebbe aver capito che non lo voglio uccidere… forse.
Dopo deve venire qui Hanji, non sto a spiegare il perché, ma non voglio che ci sia ancora lui in giro per casa a fare domande idiote. So per certo che lei gli darebbe corda facendo saltare i piani di stasera. Ha mezzora, gliel’ho detto da subito, ma lui ancora fa passare questi cinque minuti a fissare il nome scritto sul campanello, è una sorta di feticismo?
E intanto il mio tè si sta freddando.
«È permesso?» Dio, quanto è stupido.
Ti ho lasciato aperto e sei comunque rimasto fuori per quattro minuti e quarantasette secondi, ora sì che voglio ucciderti. Sarei veramente felice se fosse la paura a trattenerti, ma da quello che ho potuto vedere non è quello il tuo limite.
La tua testa castana è solamente spazio sprecato.
«Muoviti»
Ne posso percepire lo scatto, la fretta e la sorpresa.
Ormai posso prevedere qualsiasi suo movimento: non mi ha visto seduto in sala dove mi metto solitamente e si è fermato proprio davanti la porta della cucina, dandomi le spalle. Potrei ucciderlo, prendendolo da dietro e farla finita, ma ho soltanto un cucchiaino e rischierebbe di sporcare troppo in giro dimenandosi.
«Pronto?»
Dal suo sguardo, quello stupido e imbambolato sguardo, ebbe inizio la tragedia.
Non osate dire che è adorabile se mentre beve il tè mi fissa, tenendo la tazza con due mani, è solo terrorizzato. Ed è anche incredibilmente lento e non si concentra sul suo quaderno di matematica, ovviamente non riesce a fare due cose alla volta. E non è ancora capace di scomporre un polinomio senza guardare gli appunti. Né di fare una semplice divisione senza calcolatrice, io lo faccio solo per i soldi.
Ti odio.
Come se non bastasse, il tempo passa più velocemente quando il tuo io interiore sta bestemmiando santi che non conoscevi e sei distratto dal capire perché la grafia dell’essere inutile davanti a te faccia così schifo. Come può capire i suoi ideogrammi lo sa solo lui.
«Cos’è quella, una “r” o una “z”?» Inutile dire che era una “a”. Come diavolo è possibile?
 
Mi alzo, ne ho fin sopra la testa e sono solo due minuti che ce l’ho davanti. Non ho assolutamente paura di lasciarlo nella sua confusione, non può nuocere più del mio gatto. Anzi, se li lasciassi soli avrei più paura per quanto si potrebbe macchiare il pelo di Swiffer.
Noto con piacere che ha sistemato le scarpe nel mobile di fianco all’entrata, non avrei sopportato di vedere un’altra volta le sue zampate sulle mattonelle. L’ultima volta gli ho insegnato a passare lo straccio per terra e quando il signor Jeager è tornato a prenderlo si è addirittura scusato con altri dieci euro. Forse non dovevo dirgli della scarpiera.
Sento un miagolio.
Tornando in cucina mi viene voglia di fare finta che non sia casa mia. Il tavolo che sfrutto per fargli ripetizioni è stato monopolizzato da quella palla di pelo bianca, del tè sta gocciolando sul pavimento, quell’assassino l’ha rovesciato mentre non c’ero. In tutto ciò, ancora più patetico è quel cretino che ha preso un paio di scottex e tenta di asciugare il danno dell’animale senza spostarlo dalla sua posizione, chiedendogli di smettere di leccarsi le zampe ormai marroncine. Lo voglio morto.
E, proprio mentre la mia pazienza aveva raggiunto il punto più basso, il citofono iniziò a suonare. Uno, due… tre, prima di affacciarmi alla finestra sapevo già fosse Hanji, spinge sempre quel pulsante tre volte, con una pausa tra la seconda e la terza.
«Ohi, Levi!» Non ho idea di quale accento usi per allungare così la “o”, ma la fa sembrare sempre più scema di quello ch-. Nemmeno il tempo di finire i miei pensieri che devo salvare il divano dai suoi stivaletti volanti. Mi rimangio il mio pensiero incompleto: è scema quanto sembra. Come può una persona sana di mente apprezzare la pulizia del pavimento tanto da togliersi le scarpe e poi tentare di assassinare i mobili?
Ovviamente non ho il tempo materiale per andare a sistemare il disastro in cucina che questo esce in sala. Uno correndo, ricordandosi di odiare la sensazione di umido sotto i polpastrelli, l’altro spero per lui che abbia pregato chi di dovere.
«È saltato sul tavolo mentre scrivevo e-» si è ammutolito da solo, fortunatamente. Sarà che vede il mio sguardo a metà tra una crisi isterica e una omicida.
Io e Hanji non abbiamo molta coordinazione e cominciamo a parlarci sopra.
«Ora tu vai a sistemare il casino sul tavolo…»
«Ehi Eren! Ti ricordi di me? Ci siamo visti all’orientamento!»
«… se non è pulito tempo che asciugo per terra…»
«C’è ancora del tè?»
«… sei morto.»
Non ci avrà capito un cazzo.
 
Ho appena finito di torturare Swiffer con l’elemento che più gli sta antipatico: l’acqua, ma dall’altra stanza continuo esclusivamente a sentire un chiacchiericcio degno di una serata tra donne.
«Chi avete di ginnastica?» Gli aveva fatto elencare tutti i professori, per dargli consigli su cosa fare e cosa evitare. Ma lui sembrava non aver memorizzato ancora i nomi di tutti e si limitava a darne delle descrizioni. Come per il prof Shadis, che aveva descritto come pelato e con lo sguardo truce.
Fare la corsa campestre con un personaggio del genere era una vera tortura. Ma come lo stava avvertendo lei «È lui che decide le sorti dei primini, chi passa con ottimi voti può puntare in alto, per gli altri non c’è molta speranza, nonostante sia solo educazione fisica!».
Lo sento scalpitare mentre mi avvicino con il mocio. Come se in questi dieci minuti non avesse fatto altro che rispondere all’interrogatorio della mora. Ma il tavolo è già asciutto, così come il pavimento, al quale un’altra pulita servirebbe.
«Quando hai finito di importunarlo, mi vuoi dire perché il gruppo è esploso?»
Il gruppo WhatsApp dei rappresentanti di classe e istituto era solitamente taciturno, soprattutto prima che le candidature fossero confermate dai professori. Ma evidentemente non mi vogliono far arrivare a novembre intero.
«Ah, sì!» Beve un sorso, giusto per creare quell’inutile suspense che potrebbe avere effetto solo sull’amichetto effemminato di Eren. E anche su di lui, che pare curioso finché non gli faccio cenno di tornare sul suo quaderno.
«Erwin se ne va»
Tu le vedi quelle parole? A me non sono ancora arrivate.
Eppure, lei continua a parlare sopra a quel pensiero, non capendo che sto ancora metabolizzando.
«Comunque siete fortunati ad avere il prof Ness per matematica, è un santo»
«Sì, beh, io non sono molto bravo in matematica»
«Ah, ma nemmeno Levi lo è, o almeno, non come media. Ma lui non ci fa caso»
«E perché ha deciso di aiutarmi con le ripetizioni?»
Ehi aspetta, cosa?!
«Come Erwin se ne va?» mi intrometto in quella conversazione, tentando di riportare la loro attenzione sull’argomento più importante. Ma lei preferisce prendersi gioco di me.
«Solo perché altrimenti sarebbe veramente a corto di soldi» lei sta ancora rispondendo a lui, seduta sullo sgabello, quindi le afferro la testa, facendola girare verso di me. I suoi occhi spensierati incontrano il mio sguardo omicida e non cambiano di una virgola. L’ho abituata troppo male.
Però noto un cambiamento in quello sguardo, una nota leggermente malinconica prende il sopravvento e d’un tratto mi torna in mente quella volta al bagno dei professori.
 
Okay, so che starete scalpitando ora, pieni di domande su cosa diavolo sia accaduto in quella mattinata fredda e poco primaverile durante il primo anno.
La secchioncella la cui testa ora pende dalla mia mano, nonostante sia molto intelligente, è solita sperimentare ogni sorta di cosa, con il suo corpo e quello degli altri. Quella volta in particolare era sul punto di togliersi la vita in nome della scienza.
La sentivo mentre si lamentava, ridendo del suo successo e piangendo per il dolore, per essersi tagliata l’interno coscia con la lama di un temperino.
Doveva dimostrare che fosse un’arma letale? Probabile.
Era depressa a quel punto? In un primo momento avevo pensato fosse così.
Si era sfiorata l’arteria femorale? Fortunatamente no, altrimenti non l’avrei mai trovata.
Fatto sta che mentre saltavo l’ora di religione, lei se la “spassava” al bagno, in una pozza di sangue.
Perché fossi entrato in quel bagno? Il bagno dei professori del primo piano, avevo scoperto, era l’unico in cui l’odore di una sigaretta scompare in cinque minuti. No, non fumo, mai fumato e, per colpa di Hanji, non fumerò mai. Assocerò sempre la prima sigaretta a quel ricordo.
Ero appena entrato, controllando il corridoio almeno tre volte, facendo quell’azione mi sarei guardato le spalle anche se fossi stato appoggiato al muro. Lei invece, ho scoperto più tardi, era entrata salutando anche la professoressa Brzenska, sfoggiando cacciavite e temperamatite come se nulla fosse.
Stavo, appunto, per accendere la sigaretta, quando la sentii. Non credo ci sarei riuscito comunque al primo tentativo, avrei fatto un tiro, anche io per la “scienza”. Dovevo valutare quanto fosse appagante l’effetto della nicotina quanto dicevano. E sì, volevo anche provare di nuovo il brivido di compiere un’azione illegale sotto il naso di tutti.
Forse, sotto sotto, speravo di riuscire a rilassarmi almeno quei dieci minuti che sarebbe durata. Ma mi sbagliavo.
In quei due minuti in cui mi ero deciso finalmente ad accenderla, lei era rimasta in silenzio. Si era dovuta rannicchiare sulla tazza e quindi non avevo avuto modo di notarla, ma quella posizione le aveva soltanto amplificato il dolore.
«Brucia!» aveva urlato qualche istante dopo, rilassando i muscoli e appoggiando i piedi a terra. Se non avessi visto quel movimento, avrei pensato che la sigaretta si stesse lamentando del calore a cui la stavo per sottoporre. Invece, abbassandomi, notai anche le piccole gocce rosse che contornavano la piccola lama, lasciata incustodita sul pavimento.
Corsi ad aprire lo sportello del bagno, dalla voce l’avevo riconosciuta subito e, nonostante non ricordassi il suo nome, ero davanti al suo corpo mezzo nudo per soccorrerla.
«Oh, ciao Levi!» mi accolse ridendo.
“Ma che cazzo ridi, squilibrata?” quella sarebbe stata la risposta giusta, ma preso dalla situazione decisi di togliermi la camicia e coprirle le gambe. Ho perso anche una camicia quella mattina, tra le altre cose.
Mi sono ritrovato a petto nudo, intento a toglierle i pantaloni, ormai solo d’intralcio e zuppi di sangue.
«Non ti preoccupare, non mi sono fatta niente» tentava di rassicurare me, ridendo e lanciando urletti ad ogni movimento.
L’aiutai a raggiungere il lavandino, tentando nel frattempo di asciugare per terra.
«Levi… mi scappa»
Stavo per vomitare.
Il pavimento era tornato pulito, lei era seduta da dieci minuti sul WC e io attendevo fuori dalla porta che ci beccassero. Non mi ero reso conto di quanto tempo fosse passato, ma sapevo perfettamente che le probabilità di essere scoperti si sarebbero impennate ogni minuto che passava.
Per farla breve, appena lei uscì dal bagno si ritrovò circondata da professori che già mi stavano cazziando. E lì, solo nel preciso istante in cui gli occhi di tutti si puntarono su di lei, sulla mia camicia umida e l’assenza dei suoi pantaloni, le vidi fare quello sguardo. Lo sguardo di un cucciolo di cane a cui hai tolto di bocca l’osso, ma che sta anche controllando dove lo vai a nascondere.
Non so come diavolo ci sia riuscita, ma quella faccia da schiaffi che si ritrova ci ha aiutato a uscire da quella situazione in tempo per la campanella.
 
Per quella storia, siamo finiti così. Lei che viene a casa mia quando le pare, lei che può seguire da vicino le vicende dei rappresentanti di istituto e che mi aiuta quando ho bisogno di essere tirato fuori da situazioni ambigue. La odio.
Swiffer, nonostante abbia rischiato di diventare una delle sue cavie, è quasi più affezionato a lei che a me. Sarà anche perché lo lavo molto frequentemente. Forse l’unica motivazione che ha per restare qui è il suo problema con il cibo e il fatto che io conosca l’unica marca di croccantini che digerisce. O perché lo tengo chiuso in questa gabbia dorata come unico prigioniero.
Mi vedo nel riflesso delle sue lenti e devo superare il mio stesso sguardo per tornare sul suo. Odio anche i suoi stupidi occhiali.
«Torna sulla Terra» I suoi capelli non sono per niente morbidi, costretti in quella coda.
«Ah già! Il prof Smith si deve trasferire» Anche Eren sembra capire la situazione, restando in silenzio.
Nonostante il suo tono serio mi faccia, talvolta, apprezzare le conversazioni con lei, stavolta non riesco proprio a farmi andare giù il fatto che lei stia ragionando mentre parla. È come se stesse cercando delle scuse, ma io voglio solo informazioni.
Sta per parlare di nuovo, ma la interrompo: «Gli hanno dato quella cattedra alla fine».
Mi guarda quasi sorpresa, come se non sapesse che parlo con Erwin anche delle cose extrascolastiche. Quella che lui chiama famiglia è una completa tortura: insanamente perfetta. Il padre che ora diventerà professore universitario, la madre che non ricordo quante lauree avesse, passata a miglior vita per uno stupido incidente.
Almeno una cosa che ci accomuna c’è, più o meno. Sarei finito a pensare che quel ragazzo fosse solo un qualche tipo di esperimento altrimenti.
Nel momento in cui la mia mente torna nella mia cucina, mi accorgo che Hanji mi sta abbracciando.
È strano.
A volte si arriva al punto in cui avere le braccia di qualcuno che ti circondano può risultare più strano che confortante. Pur sapendo che le sue intenzioni sono buone. Ti ritrovi sopraffatto da un bombardamento sensoriale che intasa il tuo sistema nervoso. Non so ancora se mi piace essere abbracciato, se mi piace sentire il profumo di un’altra persona, il suo battito cardiaco, il calore della sua pelle.
Soprattutto perché abbracciarmi davanti a lui? Così sembra che la mia ostilità nei suoi confronti sia solo una finta. Non voglio che cominci a pensare che io sia un pezzo di pane.
Sta accadendo tutto così in fretta che non posso accorgermi di quanto lei possa preoccuparsi per me.
«Eren, girati» Non credo di avergli dato il tempo materiale per eseguire l’ordine, in quel corpo poco sviluppato ci abita un bradipo.
Mentre Hanji alza per quello che può lo sguardo, la mia mano scivola tra le sue gambe. Lo sento sputacchiare per lo stupore, mentre lei si lamenta soltanto di non essere stata avvertita.
«Levi…?»

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Capitolo 4
*** Capitolo 2 ***


Avvertenza: Autoerotismo
 
Quella sera sarebbe stata decisamente lunga, pur non avendo molti programmi.
Il coprifuoco e i locali chiusi vanno contro la mia voglia di vedere gli altri, ma aiutano anche la mia parte asociale.
Non mi dispiace perdere un minimo della mia libertà, soprattutto se ad azioni quotidiane posso dare un tocco di illegalità: quanto è bello rientrare a casa alle 22:01? Beh, è ancora meglio tornare a casa all’una di notte dopo essere stati a casa di Isabel con altre sei persone.
Ah sì, non ve l’ho accennato prima, ma anche qui c’è il covid, non si possono fare assembramenti e se non torni a casa presto ti multano.
Attenzione, non voglio fare quello che si pavoneggia perché non sta alle regole, come ho detto in precedenza sono sempre alla ricerca dell’adrenalina che si diffonde nell’organismo compiendo un’azione illegale sotto al naso di tutti.
Però la mascherina me la so mettere.
Sì, lo so che vi state chiedendo come sia finita la faccenda oggi pomeriggio, ma solo a pensarci…
Devo andare un secondo a fare una cosa.
No, nonostante siate nei miei pensieri, potreste almeno non seguirmi in bagno?
Pazzi maniaci.
 
Prendo della carta igienica e mi comincio ad abbassare i pantaloni, ma prima di fare tutto devo cacciare Swiffer. Quella palla di pelo miagola insistentemente mentre lo sollevo, non ha mai accettato di venir sollevato, ma in questo momento è l’ultima cosa che vorrei avere di fianco. Gli do una leggera spinta e gli sbatto la porta in faccia appena poggia le zampette morbide sul pavimento.
Torno davanti al lavandino. Il mio riflesso sembra giudicarmi, come se pensasse anche lui che sto cadendo troppo in basso per finire a fare una cosa del genere dopo quel poco che è successo.
Quella ragazza, quel contatto, il fatto che Eren stesse guardando forse? Non ho idea di cosa sia, ma non riesco quasi a fermarmi.
Che abbia sviluppato una qualche perversione per l’abbandono? Sapere che Erwin se ne sta andando potrebbe… ma che cazzo vado a pensare?
So solo che probabilmente tra qualche ora tornerà mio zio, come al solito al limite del coprifuoco, e per quel momento devo pure fargli trovare la cena pronta. Non posso pensare a Kenny in questo momento. O almeno, non se voglio continuare.
Sto già pensando troppo.
Mi concentro di nuovo su di me, sul rievocare le sensazioni che mi hanno portato a questo, l’abbraccio? Il suo profumo? Eren? No, Eren palesemente non funziona, sto perdendo grinta là sotto.
Gli occhi vagano un momento sulle mattonelle dietro di me, la luce a led sopra lo specchio illumina completamente la stanza, giocando con le ombre che si creano sulle creste iliache, dando al mio pube rasato un aspetto più fotografico. Passando una mano sui peli, che tentano timidamente di ricrescere, alzo l’elastico dei boxer.
Non ho mai apprezzato la sensazione di averlo in mano, ma in questo caso sono obbligato dai pensieri e le mie stesse azioni.
Ho abbracciato poche persone, in altrettante poche mi hanno abbracciato. Ecco che mi torna in mente un altro momento in cui Hanji mi cingeva con le sue braccia, un ricordo sfocato. Dovevo essere ubriaco, ma tra i colori caldi dell’immagine la vedo, la posso quasi sentire, la sento chiaramente… gemere?
 
Il ricordo è più confuso di Eren che fa matematica.
Non rammento assolutamente il contesto, immagino solo che fosse… una festa?
Oh no, ora eccolo, la memoria torna segmentata come un telegramma e tutto ciò, il contesto, le sensazioni, aiutano soltanto in questo momento.
Avremmo passato San Valentino da soli, io come al solito, ignorando completamente l’insistenza di Petra, a lei non so cosa fosse accaduto quella volta, ma evidente Moblit doveva essere caduto in un tombino. La sera prima mi contatta chiedendomi di andarla a trovare per farle compagnia.
Si può immaginare benissimo come sia andata la cosa. Come siamo finiti a parlare del fatto che io abbia un problema a esprimere i miei sentimenti, ad aprirmi in generale. Tra un bicchiere e un altro, continuava a elencare le sue folli teorie su come io avessi perso interesse nelle donne, su come io potessi essere impotente, su come mi piacessero in realtà gli uomini.
Cazzo, quando vuole una cosa diventa un’altra persona.
E quel maledetto sorrisetto, che potevo notare solo dalle rughe leggere all’angolo degli occhi (sì, portavamo entrambi la mascherina) che fece quando finalmente mi tolsi i pantaloni mi fece capire che era ciò che voleva dall’inizio.
Nonostante fossi in piedi davanti ad Hanji, stesa sul letto, mi sentivo controllato da lei, come se mi muovesse come un burattino. Quella sensazione mi fece perdere il briciolo di controllo che mi era rimasto. Dovevo farle capire che non era lei a decidere le mie azioni. Che quel sorrisetto non sarebbe durato a lungo.
La tirai sul bordo del letto, afferrandole subito il collo con una mano. La strinsi leggermente, ma quello che sentiva lei doveva soltanto eccitarla di più, tanto che portò le mani sui miei boxer. Mi guardava negli occhi, quasi implorandomi mentre mi abbassavo su di lei, i miei capelli scendevano davanti al mio sguardo, così come si abbassavano i suoi pantaloni.
Non ci togliemmo la mascherina, nessuno dei due aveva voglia di baciare l’altro. Volevamo soltanto il resto e lo volevamo subito.
I boxer erano finiti chissà dove, le sue gambe erano spalancate e io potevo vedere soltanto i suoi occhi dirigersi verso il soffitto per sfuggire ai suoi stessi gemiti.
Da quel punto in poi, il ricordo si fa più offuscato, non ho idea di quanto sia durato, di quanto abbiamo dormito dopo o come io sia tornato a casa. Ma è successo.
 
Appoggio la mano al lavandino, pulendo una goccia sfuggita alla carta igienica.
Sento una strana tensione lungo la schiena, alla quale riesco a compensare soltanto con i muscoli del braccio.
Mi guardo di nuovo allo specchio. Se prima mi sentivo patetico, ora sono completamente anestetizzato.
Dalla maglietta leggermente sollevata riesco a guardare ogni movimento dell’addome mentre riprendo il normale ritmo respiratorio. E mentre quello torna ad una dimensione accettabile, le vene della mano destra pulsano in rilievo, seguendo a zig-zag i tendini, con lo stesso ritmo che ha da poco perso quella che invece segue lui per la maggior parte della sua lunghezza.
Perché dopo una sega dobbiamo stare così? Chi ha deciso che il mondo deve sembrare sempre più triste?
Abbandono quei pensieri ricordandomi che devo far trovare qualcosa di decente pronto, nonostante i pochi ingredienti a disposizione.
Tiro lo sciacquone e mi preparo con i guanti a igienizzare il lavandino.
Odio la vita in questo momento. Odio essere così preciso e occuparmi così tanto della casa da solo.
Dovrei reclutare una schiera di Eren vestiti come delle domestiche e farmi pulire pure sotto le scarpe. Anche se mia cugina mi ucciderebbe per quello.
Strano che non ci fosse anche lei prima insieme al suo fidanzatino. O amichetto, non so come si considerino e non ho mai avuto la voglia necessaria a starle dietro per scoprire in quale intreccio di friendzone navighi.
Devo ammettere che è stata una delle sorprese più strane della mia carriera scolastica scoprire, soltanto qualche settimana prima e tramite altri, di avere una cugina. Una famiglia abbastanza complessa la nostra, soprattutto quando cominciamo a tenerci nascoste delle cose l’un l’altro. In breve, tempo una settimana, ho fatto sputare il rospo a mio zio.
Dopo ben diciassette anni di vita, ho scoperto che c’erano altri componenti della famiglia, più che altro si trattava di lontani cugini, ma il cugino di Kenny si era trasferito in città da poco, portando con sé la moglie orientale e la ragazzina.
Però non è male sapere che esiste qualcuno, anche se non lo vedi mai alla fine, che condivide un po’ del tuo sangue, nonostante poi vada dietro alla prima testa bacata che incontra.
Non capisco cos’abbiamo di sbagliato noi Ackerman.
 
Kenny è tornato nell’esatto momento in cui scatta il coprifuoco. Per fare un favore a chi l’ha indetto e per togliermi del tempo libero, tempo che avrei preferito passare lontano dalle sue lamentele.
«Ohi, Levi» lo sento dalla mia camera. Lui e Hanji condividono lo stesso modo di chiamarmi, con quell’”ohi” iniziale, la cosa sarebbe ancora più inquietante se anche lei lo ripetesse tre o quattro volte.
«Il tuo piatto è già in microonde» gli rispondo, tornando su un manga nuovo di zecca.
Sfogliando le pagine si solleva quell’odore di carta stampata che riempie e appaga le narici più del profumo di una ragazza. Nonostante il suo fosse dannatamente particolare. Lo sapete di chi parlo, quella quattrocchi sa di buono. Un buono che ti fa venire voglia di assaggiare la sua pelle a morsi.
Non mi accorgo di star contraendo i glutei, spingendo il pube contro qualcosa che non c’è. Continuo a muovere gli occhi da una riga all’altra, senza accorgermi della presenza alle mie spalle.
Troppo preso dalla lettura, mi accorgo di Traute soltanto quando mi sta a un metro. Le sue stupide ciocche bionde penzolano tra me e l’armadio, in quello spazio ristretto potrei ficcarle la sua testa in uno scaffale soltanto muovendomi d’istinto, invece come prima reazione mi alzo.
«Che fai, leggi hentai ragazzino?» mi chiede, vedendomi scattare per mettermi di fronte a lei, coprendo di conseguenza il fumetto. Non avendo tutto questo spazio per muovermi, mi infilo tra la sedia e la finestra.
«Non mi avevi detto che ti portavi la tua assistente» guardo Kenny, appoggiato allo stipite della porta in fondo alla lunga parete. Stava aspettando che la cagna finisse di giocare con me, divertendosi mentre lei riversava la sua cattiveria su di me e si “scaldava” di conseguenza per lui.
«Uhm, sì, l’ho invitata poco prima di tornare»
Non mi guarda nemmeno, controllando, anzi, come sia sistemato il letto. Evidentemente in quasi cinquant’anni di vita non ha ancora capito come si mettono due coperte e un lenzuolo.
Lei intanto tenta di controllare se sul mobile accanto alla mia scrivania ci sia qualcosa di interessante. Non mi dava realmente fastidio che lei fosse, un’altra volta, sotto il mio stesso tetto. Mi dava solo sui nervi che possa nuovamente frugare tra le mie cose.
Sono due presenze innocue, ma qualcosa mi fa essere contrariato, sarà perché conosco gran parte della loro storia, no, nemmeno di mio zio conosco la storia completa. Fossero due agenti segreti non sarei comunque tranquillo. Quell’alone di mistero s’incupisce calcolando l’immensa dose di favori che sono costretto a offrire, nascondigli in cui ogni tanto mi tocca andare a riprenderlo, soldi che ha dovuto spostare su chissà quanti conti e conoscendo la lista di omicidi.
Probabilmente pende una taglia sulla mia testa per colpa dei loro stupidi giochetti e, se non fosse così tranquillo nel varcare la porta d’ingresso, lo avrei dedotto dalla distanza a cui si mette da me. Come se fosse in debito con me e non volesse rischiare che glielo ricordi.
Nonostante quell’accorgimento la sento comunque la puzza dell’alcol.
«Quando avete finito di scopare, sai dove sono i disinfettanti» Mi fa un cenno poco convincente e si avvia nel corridoio. Me la lascia qui?
La bionda si aggira ancora un po’ attorno a me, non è cambiato molto nella mia stanza dall’ultima volta, per cui sono l’unica attrazione presente. Le mostro il contenuto delle pagine, magari capisci che non c’è un cazzo lì, letteralmente. Quello ti aspetta nell’altra camera, mezzo ubriaco e col cappello.
Se non è un agente dei servizi segreti, magari è la personificazione di Indiana Jones. Dai, se sei fortunata ha anche la frusta.
Come se mi avesse sentito, si avvia per raggiungerlo.
Nonostante la mia stanza sia stretta e la scrivania sia posizionata strategicamente in fondo alla stanza, i rumori si diffondono come se non esistessero le pareti, così come i loro commenti sul mio modo troppo ordinato di tenere la casa. Ci tengo soltanto, stronzi.
Essere cresciuto da un tale individuo renderebbe pazzo chiunque o lo farebbe, almeno, cadere in depressione. Vi sembro depresso?
I cigolii sono iniziati prima del previsto. Eppure sul manga non ci stanno tutti questi spunti di eccitazione, che sia l’alcol? Ma sinceramente, mi basta che lui abbia la mente occupata e che io possa restare indisturbato un altro po’. Non farò battute su quanto duri a letto un uomo ubriaco, potrei essere tirato in causa con le stesse accuse, però il ritmo sta già aumentando troppo. Così rischia di aver finito in cinque minuti.
 
Accendo il pc, mentre Swiffer decide di avere la sua vendetta per prima e si siede sulle mie gambe. Poggio la mano sulla sua piccola testa pelosa mentre ignoro completamente le notifiche della posta.
La scuola che ti rientra a casa, dopo mesi a pregare che ne esca.
Si apre ancora Teams in automatico, come se mi dovessi collegare ancora alle lezioni di filosofia del prof Zacklay. Sinceramente mi manca quell’amara sensazione di potersi svegliare più tardi, ma senza poter effettivamente sfruttare quelle ore in più. Io cambio abitudini da una vita, la palla di pelo qui lo sa bene.
La sveglia biologica alle sette di mattina mi ha portato ad avere le occhiaie perenni, soprattutto andando a dormire facendo le ore piccole.
Sicuramente, guardando quelle opere d’arte astratta che si presentavano alle lezioni in DAD, mi preoccupavo sempre meno di apparire me stesso. Auruo assomigliava sempre di più a un cinquantenne disoccupato, sull’orlo di una crisi di mezza età e di un divorzio. Petra, sotto qualche chilo di trucco che le dava quel tono fasullo di “acqua e sapone”, non sopportava più nessuno.
Gli unici su cui si poteva sempre contare erano Erd e Gunter, uno meno sveglio dell’altro, entrambi pronti a complimentarsi con la loro cotta anche per l’inquadratura. Perfino la secchioncella ogni tanto sembrava aver perso smalto, soprattutto per la sua incapacità di utilizzare qualsiasi apparecchio elettronico. Ogni tanto mutava per sbaglio il prof, ma, non avendo idea di come avesse fatto, passavano le ore soltanto a venirne a capo.
Non tornerei a quei giorni nemmeno se mi pagassero, ma quelle piccole cose rendevano la cosa meno snervante.
La freccetta del mouse passa da Chrome a Discord, entrambi fonte infinita di risposte e modi per scambiarsele durante interrogazioni e verifiche. Apro l’applicazione violetta tornando tra le vecchie chat.
I fiumi di parole spesi tra Isabel e Farlan, tentando di fare da mediatore tra quei due ciechi innamorati. Lui pensava, gelosamente ed erroneamente, che lei andasse dietro a me. Lei, d’altro canto, pensava che fosse lui ad andare dietro a me. Non capisco come possa la gente sopravvivere là fuori quando non riescono a smettere di pensare e provare ad agire d’istinto.
Tento di coprire i rumori provenienti da fuori con le cuffie che sono sul mobile, non che sia una cosa facile, ma la playlist che mi ha condiviso Mike è adatta proprio a questo. C’è della materia grigia dietro quel naso.
Non so come, ma parlando di ragione solo un nome mi viene in mente. Quello stronzo che pensa di andarsene senza dirmelo in faccia. L’unica persona che non ho mai lontanamente pensato potesse fare una cosa così meschina. Non a me
È online.
Non ha ancora messo una foto profilo. Parlo io che uso Swiffer perché più fotogenico di me.
Quel pallino verde mi rende quasi nervoso, lo sai anche tu che sono qui a fissarlo, che la nostra chat è piena di conversazioni iniziate da te. Quella notizia non cambierà la media.
Mi arriva una chiamata, il senza foto profilo.
«Erwin?» rispondo senza far squillare due volte, come una bambinetta delle elementari.
Bravo Levi.

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Capitolo 5
*** Capitolo 3 ***


«Sei venuto a sapere della cosa?» No, non si fa altro che parlare di te da oggi pomeriggio. Quella voce calma e profonda non si sbilancia verso nessuna emozione, esprime solo una formalità robotica con la quale si rapporta con chiunque.
«Tuo padre ha avuto la cattedra e te ne andrai?» Segue una lunga pausa. Probabilmente avrebbe voluto dirlo lui stesso, sfruttando il suo tono più austero. Ci parla pure con la panettiera in quel modo?
Una smorfia che dovrebbe essere un sorriso mi contorna l’angolo della bocca mentre lo immagino impettito come un pavone nel negozio. Lo visualizzo mentre chiede “Una pagnotta di farina integrale e due panini all’olio” con un tono che rende ogni cosa un ordine o una condanna a morte. La povera ragazza dall’altra parte del bancone che tenta di nascondersi terrorizzata che gli lancia il sacchetto e che trema dandogli il resto, pregando qualche centinaio di santi che sia corretto.
Ho una visione distorta dell’effetto che potrebbe fare alle persone, forse perché lo conosco da più vicino di altri.
«Esattamente» Ancora una volta quel tono cordiale, sembra un medico a cui pesa ammettere la diagnosi più grave, colui il quale trova la forza di guardarti negli occhi solo perché in quella situazione lui deve accompagnarti fino alla fine o non ce la faresti mai da solo.
 
Con quello spirito aveva iniziato la sua carriera liceale. Lo spirito di un comandante di chissà quale epoca e che probabilmente aveva portato i suoi uomini a morire in qualche missione suicida, in una battaglia persa e obbligata da motivazioni più alte della vita stessa.
A volte sembra di vederlo, quel fantasma logoro da una vita devota per un cambiamento che non è mai avvenuto quando era in vita. Avrebbe abbattuto mura solo con il tono della voce, mosso masse e creato maree. Sì, parlo ancora di quel vecchio che coabita la sua persona.
Nel corso di questi anni ho soltanto sentito storie riguardanti i suoi momenti più deboli, quei pochi momenti della sua vita che sono stati sfruttati da Erwin per plasmare se stesso. Direi pure che ha esagerato. Non gli serviva compensare la grandezza delle sopracciglia con un ego ancora più grosso, né lasciando crescere tutto il resto in maniera proporzionata a esse.
Già, l’unico motivo per cui veniva bullizzato alle elementari e alle medie erano quei folti peli dal colore ambiguo. Poi tutto d’un tratto è diventato lo spilungone che è e nessuno l’ha più preso in giro.
A me non è mai servito arrivare a cambiare le lampadine senza scala per non essere preso in giro. Mi sono sempre difeso a calci e pugni se era necessario.
Ricordo perfettamente la prima, e ultima, volta che la scuola venne occupata, pensavo sinceramente che fosse una cosa bella, liberatoria. Sarebbe stato divertente andare a scuola sapendo che la possiedi, camminare per i corridoi senza orari, poter correre nelle aule e giocare a corte con chi aveva già la predisposizione per quel tipo di dipendenza. Poter finalmente liberarmi di qualche piccolo sfizio o lasciarlo impresso su quelle quattro mura.
Dovevamo dormire in palestra, passare lunghe giornate ad annoiarci ed escogitare modi sempre nuovi per intrattenerci, cacciare via i professori che avrebbero voluto, giustamente, fare il loro lavoro e chiunque si sarebbe opposto. C’era già chi aveva tentato di aprirci gli occhi da quel palchetto, ma la voce più forte era quella di chi votò per la libertà fasulla in cui credevamo. Tra quelle mani alzate c’era anche la mia.
Eravamo pronti a prenderci tutto, a tenercelo stretto. Non sapevamo neanche quale fosse la motivazione ufficiale di quella protesta e le argomentazioni, più articolate, contrarie all’occupazione venivano continuamente ignorate. Doveva essere una settimana di svago.
Il tutto durò due ore.
Due ore su, almeno, cinque giorni previsti da quello che aveva convocato l’assemblea straordinaria. L’ultimo predecessore di Erwin, spodestato all’unanimità a fine giornata.
E di tutto quello che avevo immaginato potesse accadere durante l’occupazione, si avverarono solo due cose: un minitorneo di poker mai terminato e le folli corse per raggiungere Petra e sottrarla al suo aguzzino. Fu anche troppo per quelle due ore.
Inutile dire che stavo spennando quell’allocco di Auruo, un po’ perché non sa come si pone un bluff fatto come si deve, un po’ perché si era seduto proprio dando le spalle all’unico specchio e mi lasciava una buona visuale sulle sue carte. L’ho visto scartare un tris di sei sperando di fare una scala, inutile dire che la mia coppia di sette sia stata molto felice di essere la mano migliore per quel turno.
Il mazzo l’aveva portato Farlan, Isabel dava le carte e io mi tenevo qualche asso da parte, per evitare che le cose si mettessero troppo male per le nostre finanze. Avevamo puntato soldi, sì, per sentirci un po’ più maturi e per stuzzicare l’appetito di qualche pollo che non conosceva nemmeno le regole del gioco.
Il pollo, che all’epoca era completamente riccio e non aveva ancora tentato di copiare il mio doppio taglio, era sbiancato nel perdere altri cinque euro. Piccoli bottini che ci faceva piacere avere nella nostra parte del tavolo e più aumentava la somma, più il rischio. Più il piatto era pieno, più altri si avvicinavano tentando di attingere.
La mia attenzione, durante la sesta mano, fu catturata molto rapidamente da una scena che stava prendendo atto nel corridoio che divide gli spogliatoi dalla palestra.
Tre ragazzi di quinto si erano raggruppati attorno a una ragazzina di primo, sembrava fosse anche più piccola, come se fossero andati a recuperarla alle medie. Sembrava di guardare tre lupi che separavo un agnello dal gregge per azzannarlo con più tranquillità. Mollai le carte, lanciando in aria sia il mazzo che lasso nascosto nella manica per coprire il nostro sporco trucco.
Uno dei pochi insegnamenti filosofici di Kenny cominciò a governare i miei movimenti. “Non lasciare che l’acqua limpida si inquini”. Un brivido freddo mi scosse la schiena.
Non capivo perché mi dovesse importare di quella ragazza, non capivo nemmeno cosa stesse accadendo realmente da quell’angolazione, ma quella prospettiva cambiò nell’arco di un secondo.
La mia mano finì sulla testa del più basso e grassoccio, il mio corpo lo aveva completamente scavalcato, lasciando che i miei piedi volassero contro la schiena dello spilungone che lo precedeva. Caddi insieme a loro, trascinando a terra per il colletto il primo, ma fui l’unico a rialzarsi. Solo a quel punto vidi come il nostro rappresentante degli studenti stesse “prendendo in mano la situazione”, stringendo il seno della mora in una mano.
Nonostante non sapessi quali scuse o minacce avessero usato per portarla a quel punto, ma quando tolse la mano dal suo petto nudo restai folgorato.
Che fosse troppo tardi per mantenere saldo il volere di un vecchio col cappello? Lui che deve ogni volta sistemarselo per sottolineare la profondità delle parole che seguono. In quei rari casi, però, mi dimentico di quanto fosse ridicolo e apprezzo un po’ di più averlo come mentore.
I miei occhi si sbilanciarono nuovamente su quella forma rotondeggiante e morbida, insieme al mio corpo che aveva perso lo slancio del primo attacco, ma il pugno arrivò comunque, preciso, ma non abbastanza letale. Le sue nocche colpirono a loro volta, ributtandomi a terra.
Rimasi stordito un secondo, non era la prima volta che venivo colpito, ma essere in quella palestra, poco oltre lo sguardo degli unici amici che avevo in quel luogo, portò un senso di imbarazzo in quella piccola sconfitta. Volevo rendermi utile a mantenere pulito una realtà che doveva rimanere tale, non lasciarla violare dalla follia del mondo esterno a cui Kenny mi aveva abituato.
Il tempo di tornare in me, smettendo di fissare la linea del campo da pallavolo, e qualcun altro si era messo tra di noi, facendo cadere quel sacco di merda a terra.
“Stai bene?”
Dio se ricordo ancora le prime parole che mi rivolse.
Lo stesso tono che avrebbe il chirurgo nel chiederti se i punti di sutura ti danno fastidio, quando in realtà è preoccupato per come ti abbia aperto e richiuso il cuore. Ed è riuscito ad andare così in fondo, con due stramaledette parole.
Lo so perfettamente che si riferiva al livido che lentamente mi colorava la faccia, ma cazzo sembrava un’ispezione psichiatrica a lungo raggio. Prima di alzare gli occhi e incontrare i suoi, avrei sicuramente risposto nei modi più stizziti. Invece quelle iridi tinte di quello strano azzurro mi scrutavano nell’anima.
Mi ricordo di averlo guardato, dal basso verso l’alto, ovviamente. Anche se quella volta ero seduto a terra, non ho mai smesso di guardarlo da quella prospettiva.
La mano tesa verso di me, nessun accenno a qualche strana emozione effimera quale la compassione o la preoccupazione che contornava la faccia scioccata di Petra. Solita stupida crocerossina, scappata dalle grinfie di un bastardo solo perché mi sono messo in mezzo.
Mike era dietro di lui, ma non mi guardava allo stesso modo, quasi mi disprezzava, allo stesso modo di quanto io disprezzassi il ritrovarmi su quel pavimento lercio, con il sangue che mi stava uscendo dal labbro. Un pugno l’avevo preso anche io quella volta.
Ma il vero colpo è arrivato dopo. Quando ti offre un aiuto Erwin Smith, quando Mike ha finito il lavoro che tu hai iniziato, quando nonostante non siano dalla tua parte, ma contro l’occupazione, sono pronti ad aiutarti a tirarti su da terra, solo perché hai aiutato qualcuno a tua volta.
 
«Ci sei ancora Levi?»
Mi sono distratto anche troppo.
«Sì, scusami, piccoli problemi di connessione» Sì, tra le sinapsi. Come scusa poteva anche essere plausibile, è già capitato che quei due staccassero per sbaglio il modem dalla corrente, che cazzo di giochi erotici escogitino non ne ho idea.
«Come ti stavo dicendo, giovedì prossimo pensavo di dare un piccolo rinfresco, se il tampone risulta negativo»
Mancano cinque giorni? Mi stai veramente dicendo che tra cinque giorni tu scomparirai completamente dalle nostre vite? Senza nemmeno averci lasciato il modo di incontrarti per i corridoi un’ultima volta, è così che vuoi? Giusto il tempo di far finire il periodo in cui la tua sezione è in quarantena e poi basta?
È tutta colpa di quel cazzone di Mike. Sua e del suo stupido naso sempre fuori dalla dannata mascherina perché deve sentire gli odori del mondo. Avevano appena ricominciato le lezioni in presenza e quel coglione il giorno dopo era positivo. Quel lunedì solo le quinte e le prime erano a scuola, martedì sarebbe stato il nostro turno, insieme a quelli del terzo, poi finalmente giovedì avrei avuto l’occasione di rivederlo al di fuori delle chat. E invece no.
«A quando la partenza?» la domanda nasconde tutta la mia paura di essere abbandonato, perché forse in lui rivedo quasi una figura paterna e non accetto essere lasciato di nuovo. Soprattutto perché l’altra opzione sarebbe Kenny.
«Sabato mattina, per arrivare all’ora di cena…» e mentre lui elenca la serie di motivazioni che li porteranno a fare un enorme trasloco il prossimo fine settimana, portando il “minimo indispensabile” dal loro piccolo appartamento, penso all’unica cosa di cui dovremmo realmente discutere.
Dopo aver elencato tutti i passaggi torna a parlare di quella piccola “festa”. Mi segnerò la parola “piccola” anche per giudicare il rinfresco che andrà a fare, perché sono sicuro che potrà mai essere minimamente descrivibile tramite quell’aggettivo. “Cenone di Natale” potrebbe essere migliore.
Ah, ho accennato qualcosa riguardo a quella reggia che lui ha la modestia di chiamare casa? Non fraintendetemi, non è una villa con piscina e camerieri, ma un capolavoro di architettura organizzata su due piani e quattro appartamenti dello stesso palazzo. Fossi un ladro non saprei dove iniziare, tra manoscritti antichi e quadri, il tutto sotto una chiara luce tra il beige e il terra di Siena bruciato.
 
La prima volta che fui invitato a casa sua restai completamente esterrefatto da quanto facesse sembrare piccola qualsiasi abitazione in cui ero stato fino a quel momento. Prendete quattro appartamenti disposti su due piani e uniteli. Un dodicesimo di quella palazzina era loro.
Può sembrare una cosa piccola detta così, ma avevano letteralmente aperto fino allo scheletro quell’edificio e ne avevano creato qualcosa di totalmente nuovo.
Quella volta eravamo in camera sua, che si può considerare da sola metà del buco che io chiamo casa, per una riunione con altri del nostro gruppo. Come se fosse una piccola setta con un’enorme e vistosa base segreta.
Piccola guida per raggiungere casa Smith: al terzo piano c’è la porta che apre al salone più grosso che esista, il soffitto, per dare un’idea, è il pavimento del quinto piano. Ma sì, forse sono io che esagero, come aveva provato a criticarmi Isabel.
Agli angoli più interni, le due camere da letto, entrambe chiuse tra quattro mura, a differenza di tutte le altre stanze, bagni esclusi, e si alzano fino al piano superiore. Non so come sia quella dei suoi, ma lui ha diviso perfettamente zona studio e quella notte, il letto infatti si raggiunge tramite delle scale in legno, anche se ci aveva vietato di salire.
Solo Hanji era riuscita a superare Mike, che faceva il cane da guardia, prima di essere inevitabilmente fermata da Erwin e dondolava i piedi dal settimo gradino, guardandoci divertita. Non capivo cosa potesse tenere così gelosamente il biondo e guardavo a quelle scale come all’ennesima sfida per tutto il pomeriggio.
Conoscevo veramente poche persone, quindi restai isolato nei miei pensieri a fissare la tazza di tè, rispondendo di malavoglia a ogni domanda che mi girava.
Odio interagire con le persone, soprattutto se la prima impressione che ti vogliono dare è quella di avere un conto in banca migliore del tuo. Sembrava così, guardando tutto ciò con la malizia del nuovo arrivato.
Quando l’attenzione venne finalmente portata altrove, feci la mia mossa, scattando al piano superiore. Rispondendo al richiamo della mia curiosità e del totale disprezzo per le imposizioni.
Cosa tenevi nascosto Erwin? Pietre preziose? Libri antichi? O forse un cadavere? Avrebbe reso tutto meno noioso in quella casa piena di librerie e scaffali.
Sotto il mio sguardo deluso si aprii quella che in realtà era una stanza normalissima. Un letto a una piazza e mezzo, un armadio e due comò, uno piccolo e uno grande. La grande finestra dava sul parco con i percorsi per fare jogging e la luce entrava nonostante le tende grigie.
Certo, il letto si poteva rifare meglio e c’era un po’ di polvere, ma lo avrei perdonato se il suo unico peccato era che non passava l’aspirapolvere da un giorno. C’era sicuramente altro, dovevo cercare, ma la sua voce mi bloccò prima che potessi ispezionare il suo armadio.
“Levi?” il tono era soltanto mortificato, né accusatorio né arrabbiato. L’avevo forse deluso per aver scoperto che la sua biancheria era in ordine cromatico? O che tenesse una scorta di camicie bianche che dovrebbe essere permessa solo ai camerieri di ristoranti a cinque stelle?
Si avvicinò quasi sorridendo e io non potevo più reggerlo. Come dovevo fare a capire che gli passasse per la testa?
“So che ti avrei trovato qui, prima o poi”
No, non capivo. Chiusi lo sportello dell’armadio, aspettando che fosse lui a continuare quella conversazione
“Siamo entrambi mossi da curiosità che va oltre piccole leggi, perciò tu sei qui” Mi superò, aprendo il secondo cassetto del comodino e tirando fuori un quaderno. Eccolo lì, il bottino che stavo cercando, la risposta a tutte le mie domande. Tieni un diario segreto Erwin? Seriamente?
Mi avvicinai per guardare meglio la copertina in pelle.
“La capacità di ascoltare è l’unica vera arma di chi vuole consigliare efficacemente le persone che ha vicino e saperne il più possibile aiuta a essere più efficace nel farlo, per questo mi segno ciò che vale la pena ricordare”
Il diario dei segreti altrui. Più ci pensavo e più mi accorgevo di quanto fosse vero: ognuno si confidava con lui e lui mai con nessuno. Ci guidava nelle nostre scelte, ma nessuno in realtà conosceva le sue. Eppure, di un comandante di cui non sai le debolezze ti fidi ciecamente credendo che non ci siano.
“Ci siamo tutti?” gli domandai, sapendo già quale fosse la risposta. Anche io mi ero lasciato sfuggire piccoli dettagli della mia vita privata e lui sicuramente si era appuntato qualcosa anche di me.
“La tua pagina è la 35, le mie sono le prime due” lo disse mentre apriva il quaderno, prendendo i primi due fogli e strappandoli dal resto. Me li consegnò, lasciandomi di sasso.
Si fidava a tal punto, nonostante non fossi che l’ultimo arrivato nella sua vita?
 
Le tengo ancora nascoste dentro le parti cave della scrivania, lontano da occhi indiscreti.
Il volto femminile che è disegnato sulla prima pagina è tutt’ora una delle immagini più belle che io abbia mai visto.
Sta ancora finendo di scusarsi per il poco preavviso, nonostante sapessi da un po’ che suo padre aveva fatto la richiesta per quella cattedra, e mi infilo durante una breve pausa.
«Erwin, ti devo restituire il disegno di tua madre»

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Capitolo 6
*** Capitolo 4 ***


Quella domenica mi sono svegliato male. Potete immaginare il perché, ieri è stato un casino infernale e oggi non sarà da meno.
La prima cosa che vedo è la coda di un gatto affamato. Non ho idea di che ore siano, so soltanto che lui è la sveglia perfetta in qualunque momento della giornata, anche perché ha fame in qualunque momento e, fosse per lui, rotolerebbe nel suo stesso grasso. Dalla finestra sulla scrivania posso soltanto constatare che sia ancora notte, con i primi accenni di una timida alba che stenta ad arrivare.
Scendo dal letto, guardando l’entusiasmo che gli colora quegli occhietti azzurri. Sa che ora arriva il tanto agognato cibo, come se lo tenessi a digiuno da mesi.
Appoggio i piedi scalzi sul pavimento. Il brivido nel sentirlo così freddo passa dopo un secondo, insieme alla sensazione di sporco. Ormai mi sono convinto che le piccole imperfezioni e le divisioni tra una mattonella e un’altra giochino solo a sfavore della mia impressionabilità per lo sporco, pur con la consapevolezza di aver passato lo straccio ieri.
Miagola fino al mobile vicino la porta d’ingresso, ma io invece devo prima fare due soste obbligate. In entrambi i casi mi segue, controllando probabilmente che io non muoia nel tragitto. Mentre in cucina è quasi più interessato ai nascondigli dove abbiamo dovuto nascondere i cibi che per lui sono letali.
Intanto che aspetto che l’acqua vada in ebollizione, mi accuccio per servirgli la dose di umido. Swiffer si sta strusciando ad ogni superficie che abbia almeno uno spigolo, sembra di vedere Petra che si gondola per quell’unica parola che le dico durante una giornata.
Di solito è “Spostati”, quindi non capisco cosa ci sia da eccitarsi tanto. Ancora più strano è vedere come quei tre imbranati poi tentino di copiarmi e come lei li ignori completamente. Credo che non abbiano capito che il fatto di averla salvata da un possibile stupro mi abbia posto su un gradino più alto, dal quale posso fare ciò che voglio. E no, non ho mai approfittato della cosa, fortunatamente per loro.
Dopo nemmeno mezzo secondo che la ciotola è piena, si lancia affamato su di essa, quasi affondandoci la faccia. Qualche abitudine del suo lato animalesco persiste ancora, oppure gliel’ha ricordata Kenny. A proposito, che stiano ancora dormendo?
Alzo lo sguardo sull’orologio: le 6:15, mi ha davvero svegliato presto stamattina, potrebbero stare ancora riposando, mi pare abbiano smesso poco prima delle tre di notte, lasciando anche a me la possibilità di riposare nel silenzio.
Il bollitore finalmente fa quello scattino che vuol dire “puoi finalmente farti il tuo primo tè della giornata”. Tra tutte le bustine e i vari aromi scelgo quella che di solito mi aiuta a svegliarmi, una miscela di agrumi.
Mentre verso l’acqua bollente penso a cosa poter fare per occupare il tempo di quella mattinata e mi ricordo che Isabel e Farlan hanno ultimamente sviluppato un’ossessione per i videogiochi che li porta a fare le nottate più disperate online.
Nemmeno il tempo di uscire dalla cucina che Swiffer mi sta subito alle calcagna, avendo già divorato tutta una scatoletta. Esploderà prima o poi se non riesce a trattenersi. Mi rimetto al pc e, nemmeno un secondo dopo, la palla di pelo si accuccia prima sulla tastiera e poi, dopo essere stata spostata con annesso miagolio di dissenso, sulla gamba che tengo piegata sopra l’altra coscia. Mi si addormenterà in cinque minuti sotto quel peso, ma sfortunatamente sembra stare troppo comodo per muoversi.
 
Sono entrambi online su Warzone, grazie Steam per la notifica non richiesta.
Come diavolo fanno ad essere ancora svegli lo sanno solo loro. Probabilmente Farlan sarà in uno stato di coma vigile, mentre lei starà scavando il fondo del suo entusiasmo e dei troppi caffè che beve la sera. Il tutto persuasi dalla teoria dell’”Ultima e poi basta” che per un gioco competitivo diventa più “Dai, questa è quella buona”.
Mentre avvio il gioco prendo un sorso di tè, annusato per tutto il tragitto da un muso mezzo assopito.
I rumori che mi accolgono sono veramente un pugno alle orecchie, nonostante sia vigile il volume delle cuffie era troppo alto.
Gli mando la richiesta per entrare nella lobby di gioco e mi intrufolo nella chat vocale, abbassando il volume al minimo, giusto in tempo per attutire le urla di Isabel.
«Dove cazzo sei? Ho mi stanno facendo un panino!» sta parlando così vicino al microfono che anche un suo sussurro mi rimbomba nel cranio più volte, forse ho capito come faccia a restare sveglio anche lui ad oltranza.
Il poveraccio risponde sbadigliando «Mi hanno atterrato».
Lei continua ad imprecare, premendo i tasti quasi con ferocia. Probabilmente sta facendo del suo meglio per andare ad aiutare il compagno, nonostante la situazione disperata.
La posso solo immaginare saltellare da una parte all’altra dell’area, infilarsi negli edifici e schivare per quanto possibile i proiettili senza rispondere al fuoco. Quasi ammiro il suo modo di buttarsi in situazioni impossibili per risolvere i problemi di qualcun altro. Solo che sbaglia sempre qualcosa anche lei e finisce per rovinare tutto.
Era in seconda che, durante una delle ultime versioni di latino che dovevamo fare a fine anno, e fortunatamente una delle ultime della nostra carriera scolastica, aiutò Farlan con una frase.
Se ripenso al pazzo che avevamo come professore, capisco una parte del livello di follia a cui si era arrivato quella mattina. In una versione SCRITTA E INVENTATA dal suddetto criminale, c’era una bellissima capovolta poetica su quanto il narratore volesse “Essere libero di volare come gli uccelli”. Uccelli in latino è più o meno “aves” e lei, con un’ancor più fantasiosa piroetta tradusse con la parola di una lingua non morta più vicina: avi.
Probabilmente sono i suoi codini a volte a ragionare per lei, ma non si fece nemmeno una domanda su come i bisnonni di qualcuno possano prendere il volo, avere le piume e le ali. Così come non se ne fece lui che copiò lettera per lettera.
Tutta una versione su come il nostro insegnante descrive dei pennuti e tutto il suo impegno viene demolito dallo “sprizzo di genio”.
Le traduzioni a istinto.
Istinto che, dal rumore che fa, sembra non averla portata da nessuna parte un’altra volta.
Una mia risata maliziosa riempie il vuoto che sarebbe calato dopo la sconfitta, tra sbuffi e sbadigli.
«Ehi Levi!»
«Levi?» si chiede incredulo lui, aggiungendo con il tono di chi non sta più capendo in quale piano dimensionale si trova «Anche tu sei ancora sveglio?»
«Mi sono appena svegliato, idiota» Lo sento sospirare sorpreso, sta sicuramente controllando l’ora, distraendosi dal piccolo insulto. Io che mi aspettavo rispondesse a tono, lo sta veramente logorando.
«Isabel, sono le sei e mezza!» Posso percepire lo stupore di entrambi farsi strada nei loro pensieri, sfociando nelle più classiche accuse.
«Abbiamo fatto mattina!» aggiunge lui, mentre passo la mano sulla fronte.
«Ci siamo solo fatti prendere la mano!» Dici?
«Tu continuavi a chiedere di fare l’ultima!» E tu non gli dicevi mai di smetterla.
«Perché volevo vincerne una!» Ma siete scarsi.
«Ma siamo scarsi!» esattamente.
Notando il malinconico silenzio in cui mi sono chiuso, Isabel mi pone l’unica domanda alla quale non vorrei rispondere. Avrei preferito parlare delle mimetiche personalizzate per le armi e gli stupidi dettagli rosa fluo che utilizzava per i suoi fucili da precisione, manca solo la scritta “Guardami” per far sparire completamente l’effetto sorpresa.
Ma no, lei deve chiedermi con tono non poco preoccupato «Come va?»
Mi sono rassegnato al fatto che lei riesca a leggermi abbastanza bene, al contrario di Farlan, che si aggancia ai discorsi già avviati. Conosco da più tempo lui, eppure ancora non ha capito che io non faccio così, io sono così.
«Insomma», merita di saperlo, lo so, mi sentirei in colpa anche solo a trovare una stupida scusa per nasconderlo «Erwin deve trasferirsi»
Calò quel silenzio che non avevo la benché minima voglia di affrontare, nel frattempo sfogliavo le ricompense del pass stagionale. Come al solito nulla di entusiasmante, alcune cose sono fin troppo da ragazzini per un gioco “PEGI 18”.
«Cazzo amico, mi dispiace» la risposta fu quasi simultanea, tanto che non riuscivo quasi a distinguerne le voci, entrambe abbastanza dispiaciute e basse.
Non mi serviva che se la menassero così tanto, dovevo distrarmi, sparare a qualcuno immaginando che fosse colui il quale avesse intrecciato così dannatamente male i fili della mia vita. Mi fiondai nel battle royale, senza aver ancora risposto, ma sapevo di non poterli lasciare così.
«Tranquilli, ne riparliamo in classe»
Farlan aveva sviato il discorso iniziando a lamentarsi del sonno, della vita e anche un po’ del suo lavoretto con il quale portava una pagnotta in più in quello stupido appartamento. Ma mentre i due iniziavano la lunga tiritera di saluti che partivano dall’essere sdolcinatamente imbarazzati all’ironicamente offensivo, io atterravo nel gioco.
Spara, scivola, ricarica, uccidi, un’attività ripetitiva per la quale sembro naturalmente portato, casualmente mi appaga più di ogni altro istinto primordiale, almeno per quello che ne so. Quello che vorrei tenere nascosto, reprimere per potere proteggere chi mi sta attorno e me stesso. Ma si allena da solo, come il condannato per aggressione che scopre la palestra del carcere e si prepara per rifare le stesse identiche cazzate di quando era fuori.
Loota, nasconditi, difenditi, uccidi, sento già gli occhi subire gli effetti della quantità di informazioni che arrivano. Tutte le immagini inusuali per l’orario pesano sulla retina sforzandola allo stremo, eppure i sensi in generale sono potenziati, pronti, reattivi. C’è un’esplosività controllata nelle reazioni, ogni click era mosso da rabbia repressa e memoria motoria per rispondere agli stimoli del gioco
Aggrappati, salta, uccidi, corri, uccidi, uccidi, uccidi…
Uccidi…
 
Cazzo, un altro flashback.
Dovrei smetterla di fare queste analogie o potreste scavare troppo a fondo nella mia mente e scoprire cose di cui mi pento veramente. Non mi sono ancora pentito della “svista” con Hanji, giustificata dal troppo alcol, ma alcune delle mie esperienze non sono per le orecchie di tutti. D’altronde cosa possa finire a fare un diciassettenne per soldi, lo sa solo il diciassettenne e il suo mentore.
Da dove deve iniziare questo flashback per essere esaustivo? L’inizio della mia vita? L’inizio dei tempi? Ma a voi che importa?
Bene bimbi, ora mettetevi seduti e vi spiegherò cosa successe l’alba dei tempi.
Ovviamente non partirò dal grande botto, ma da qualche miliardo di anni dopo, in questo briciolo di tempo che è ormai passato, una donna decise, per egoismo o amore, dategli la definizione che volete, di mettermi al mondo. Nonostante sia passato molto tempo ricordo perfettamente la sensazione di essere il figlio troppo voluto e sperato da una povera illusa che credeva di riprendersi l’affetto di un uomo. Lui che non meritava tutte quelle premure, ma qualcosa la portava ad amarlo incondizionatamente, a proteggere l’idea che lui fosse la persona più importante della sua vita.
Quella è la via degli Ackerman, a quanto ripete Kenny.
Chissà perché mi danno sempre del figlio di puttana.
Comunque, prima di saltare gran parte della mia infanzia, la mia mente fa un ultimo, inutile collegamento con le armi del gioco: una delle ultime immagini di mia madre che la mia memoria possiede e che, nonostante non voglia, mi passa ora davanti, comprende anche quel bastardo di mio padre, Kenny e un coltello insanguinato.
Non la vorrei guardare, ma sembra che io sia obbligato a percepire di nuovo quella pressione, il disgusto che portava a volermi pulire le mani da quel liquido scuro, il pavimento sul quale gocciolava era lo stesso che tenevo lucido, nonostante avessi dodici anni.
Era tutta colpa loro, tutta colpa del mondo in cui mi avevano messo, un mondo dove le impurità come lui venivano idolatrate e addirittura richieste, lì dove non dovevano essere volute. Mi sentivo in una clinica, tentando di far recuperare la voglia di vivere a una donna che l’aveva persa, tenendo almeno l’ambiente in cui si era chiusa pulito, in quel momento era l’unica cosa che mi sentivo in dovere di fare, l’abitudine migliore che ho portato avanti.
Tre paia di occhi, però, mi fissavano e giudicavano.
Non vi voglio nella mia testa.
Mi guardavano con orrore, soprattutto lei. Essere guardato in quel modo… dalla propria madre, non lo capivo. Il modo in cui i suoi occhi gentili si erano spalancati, infossati nelle loro cavità quasi sperassero di venir risucchiati nel cranio piuttosto di continuare a guardarmi. Come si era nascosta dalla realtà più volte, credendo di poter attirare la sua attenzione, inciampando in una malattia che l’ha costretta in casa. Ora incappava in un’altra verità che la stava corrodendo.
Quel bastardo sembrava solo terrorizzato, in quanto il sangue era il suo, per la maggior parte. Non era tornato per dei soldi, era tornato per me, ma nel momento peggiore. Nei due anni che aveva passato lontano da noi, mio zio aveva posato gli occhi su di me, ma non avevo ancora accettato che nella nostra famiglia esiste una regola di fedeltà verso una persona che una singola volta riesce a guadagnarsi la nostra totale fiducia, ma avevo accettato di essere cresciuto da lui, spronato da sua sorella.
Sui tre Ackerman che erano in quella stanza, l’unica che avrebbe voluto difenderlo, andando contro il suo stesso buonsenso, era troppo debole per muoversi. Lui voleva me e io attaccavo come un altro Ackerman mi aveva insegnato. Il sangue continuava a gocciolare intanto, il coltello non faceva abbastanza resistenza nel trattenerlo e i movimenti circolari che faceva la lama lanciavano le gocce sui miei vestiti. Mi sentivo solo più sporco.
Quella sensazione di lerciume aumentava ogni volta che lo guardavo.
Non vi voglio nella mia testa.
Mi voleva crescere, togliermi dalle braccia dell’unica persona che era rimasta vicina al bambino che ero. Mi voleva portare via dal mentore che si era ritrovato impicciato a dovermi tirare su, di malavoglia per la maggior parte delle occasioni, tranne quando vedeva uscire fuori il combattente. Era malsanamente fiero della sua creazione, quel bambino che si allontanava sempre di più dall’innocenza dell’infanzia che avrebbe voluto vivere normalmente.
Kenny, mi stava controllando, ma l’espressione maniacalmente soddisfatta da quella scena si era palesata sul suo volto rendendo quasi ridicolo ogni vano tentativo che mio padre fece per implorarlo di salvarlo da me.
Ma non era la morte la punizione che avevo in serbo per lui. Non in quel momento, non sotto gli occhi di mia madre.
Ma quando si spensero…
Non vi voglio nella mia testa.
…mesi dopo…
Lo trovai per caso, aspettavo che Kenny tornasse davanti alla sua auto, parcheggiata in un vicolo ben nascosto dalla via principale…
Non vi voglio nella mia testa!
Fu solo un cambio di programma, una lacuna in un piano altrimenti perfetto… un cadavere in più.
Uscite dalla mia cazzo di testa!
 
VITTORIA WARZONE

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Capitolo 7
*** Capitolo 5 ***


Siete ancora qui? Tsk.
 
Sto posando il piatto nel lavandino quando Kenny finalmente si fa vedere, per la prima volta in tutta la giornata.
Come al solito sembra di guardare un bradipo che si prepara per affrontare la vita nella foresta, solo che sembra anche più stanco, che Traute sia stata più passionale del solito? Quindi anche quel maschiaccio ha delle necessità così meschine come la voglia di scopare?
Questo è interessante, forse dovrei capire qualcosa da lei, scoprire come si possono provare certe cose senza sentirsi sporchi. Poi dovrei chiedere a mio zio come faccia a non sentirsi sporco ad andare con qualcuno che non sembra avere un’igiene personale adeguata. Magari la prossima volta non serve l’alcol per togliermi le inibizioni.
«Levi c’è qualcosa da mettere sotto i denti?» la domanda calza a pennello nella sua natura da bradipo: raccattare cibo nella maniera più pigra possibile, rincorrendo una foglia appesa ad un ramo. Il piatto fumante non stava scappando dal suo inseguitore, infatti la forchetta affonda tra gli spaghetti all’arrabbiata, come piacciono a lui.
La luce che entra dalla finestra alle due del pomeriggio ha un ché di particolare. Illumina tutta la cucina senza tralasciare un angolo, rivelando qualsiasi impurità e il minimo granello di polvere. In questo caso vedo solo due enormi granelli di polvere seduti l’uno davanti all’altra.
Rispetto alle teiere che sono candidamente appoggiate su una mensola, con un set di piatti di porcellana comprato in una fiera l’anno scorso sembrano completamente fuori luogo. Le mie cose in confronto a loro, anche i colori della stanza, sembrano soffrire della loro presenza, incupendosi e distorcendosi.
Eppure la porta a vetri che dà sul balconcino riesce a specchiare la luce in tutte le direzioni. L’illuminazione naturale arriva perfino al frigorifero, all’angolo opposto della stanza, ma sul tavolo sembra esserci un buco nero.
Sembra di guardare un film della Marvel e poi incappare in un’inquadratura dell’Esorcista e ad ampliare la sensazione mi viene da paragonare i miei strumenti e gli utensili da cucina, nonostante siano stati utilizzati molte volte, sembrano ancora appena usciti dalla scatola, mentre quei due individui sembrano usciti dalla rottamazione dopo che anche lì gli hanno negato l’accesso.
Appoggiato al lavandino, mi metto a guardare incuriosito il modo in cui interagiscono, parlando di lavoro senza filtri, a quanto sembra il loro capo li sta richiamando per un turno aggiuntivo.
Sfortunatamente ricordo perfettamente cosa voglia dire un turno aggiuntivo.
 
I vestiti sporchi di sangue in quel vicolo li avevo anche io.
Ma il suo sguardo era sorpreso nel vedermi così sporco. Kenny era appena ritornato nel vicolo dove aveva lasciato la macchina, ovviamente avrebbe mascherato le macchie sui suoi pantaloni con la salsa del burrito che teneva in mano. Ci sarei anche cascato se non fosse stato completamente vuoto.
La copertura era saltata per entrambi, dietro di me però c’era direttamente un uomo steso a terra, rivoltato in un miscuglio voltastomaco di liquidi corporei. Non ci ero andato così leggero con mio padre. Non quella volta.
Ricordo perfettamente quanto le nocche pulsassero, la pelle si era spaccata a forza di colpire le ossa di quel volto e avevo sentito perfettamente le piccole fratture provocate dagli urti. Il mio ginocchio faceva un male cane per quante volte gli si era stampato sul naso e non riuscivo a stenderlo completamente.
Restavo davanti a mio zio appoggiato completamente sull’altra gamba, riprendendo fiato e tentando lentamente di sistemarmi i vestiti. La camicia chiara nella colluttazione aveva perso un paio di bottoni e metà del mio petto restava scoperto.
Uno dei primi commenti fu sul fatto che non avessi ancora sviluppato una peluria adatta a un uomo. Dalla sua, cominciavano a spuntare quegli orribili peli anche dalla maglietta.
Era, in qualche modo, così capace nello sviare le conversazioni da quello che ne sarebbe effettivamente dovuto essere l’argomento, mettendoti a tuo agio contro la tua stessa volontà. Sembrava una scena così malata da quasi tornare normale.
Kenny riuscirebbe in qualsiasi occasione a trasportarti nella sua realtà distopica dove un episodio simile è la quotidianità, come se stessimo prendendo un gelato e un barbone fosse scivolato a terra dietro di noi. Senza gelato ovviamente, i soldi per lui sono sempre stati un problema, soprattutto quando li vede compiere il tragitto che dal suo portafoglio li porta nelle mani di altri.
Riuscì a rendere quasi piacevole il tragitto di ritorno, schivando con una certa eleganza tutte le mie domande sul perché il “ketchup” fosse caduto da un burrito vuoto e sul fatto che mi avesse fatto attendere in macchina cinque minuti prima di raggiungermi e partire.
E nonostante il pensiero vagasse soltanto verso il cosa o il come, non si era ancora soffermato sull’unica, tra le semplici domande, il perché stesse accadendo. Nel tempo che è passato da quel giorno più delle immagini, mi sono tornati più volte alla mente i suoni di quel vicolo, soprattutto il bussare nel bagagliaio.
Bussava… continuava a sbattere la mano, ma lo sentivamo solo noi, anzi, da quel che sembrava dallo sguardo assente di Kenny, sembrava che lo sentissi solo io.
 
«Levi, parti dai!»
Il rumore graffiante del motore riporta la mente sullo stesso piano della realtà, Traute quasi scalciava dal sedile posteriore, imprecando in russo.
Continua a picchiare sulla stoffa dei sedili rattoppati alla meno peggio con stracci di vecchi vestiti che davano al bidone un’aria ancora più vissuta di quanto non avesse. Il bidone di macchina riesce comunque a mantenere una certa andatura mentre si allontana dal luogo di lavoro.
Sì, lo so, non dovrei guidare una vecchia Jaguar a diciassette anni, meriterebbe la rottamazione e non di essere stressata da un ragazzo che non ha ancora preso la patente.
I movimenti automatici, lo sfrecciare a ritmo fin troppo sostenuto per non dare nell’occhio, le macchine che scorrono lungo la mia visuale senza mai essere pienamente messe a fuoco. Tutti questi fattori, accelerati dalla foga con cui avevo dovuto allontanarmi, avevano portato a una semplice domanda:
«Kenny ci raggiunge dopo?»
Il silenzio.
Sapete quando c’è una questione sospesa nell’aria? Tanta da farti sembrare di poterla tagliare con un coltello, come fosse nebbia, e come tale ti potrebbe gentilmente accarezzare le dita se volesse. Ma questa è anche fredda, ti mette i brividi appena deposita dentro di te il seme del dubbio, brividi che diventano sensazioni amare e poco gradevoli appena questo cresce.
E cresce rapido.
«Traute» mi sto mordendo la lingua per scacciare via il primo ragionevole pensiero che ha già fatto la sua comparsa, insieme a dei singhiozzi trattenuti a stendo in quel silenzio disperato «che cazzo è successo?»
Il suo sguardo copriva tutte le sfumature di mortificazione riconoscibili dall’occhio umano, tentava di evitare il mio, si riempiva di lacrime che scacciava immediatamente con il dorso della mano. Dopo cinque minuti, è passata a usare il palmo perché erano più quelle che tornavano sulle sue guance che quelle che toglieva.
Non riesco a tenere la concentrazione sulla strada e i movimenti della macchina vengono lasciati un po’ al caso, un po’ ai brevi spiragli di lucidità nei quali riporto le ruote all’interno della corsia. Il mio sguardo è fisso sullo specchietto retrovisore, concentrato sul suo stupido riflesso e una risposta che non credo mi voglia dare.
L’ennesimo clacson, con annessa imprecazione da parte di un guidatore completamente fuori dal finestrino, mi costringe a tornare con la mente sulla strada. Una vaga sensazione mi impone di trovare altro a cui pensare, allontanarmi da quei singhiozzi così snervanti per un attimo.
Inizio almeno a pensare che il cambio manuale faccia abbastanza al caso mio. Sono arrivato a questa conclusione qualche settimana fa, mentre mi stavo ancora esercitando con i parcheggi. Nonostante far grattare la frizione non sia la cosa migliore che possa capitare alle mie orecchie, ma è sicuramente un feedback abbastanza stimolante per migliorare.
Guidare per certi versi potrebbe essere paragonato a volare, stando a qualche centimetro dall’asfalto in realtà si fluttua costantemente a velocità diverse in una posizione comoda. Eppure, la velocità era quella ad attirarmi a sé con il richiamo del rischio, avevo deciso di andare a fare una prova su pista appena presa la patente.
Ma la priorità del momento era seduta dietro di me, senza ancora accennare a concedermi una risposta.
Più volte avevo pensato di attirare l’attenzione forzando la macchina contro il guardrail, contro un camion o contro un palo pur di farla parlare. Che tutte le scintille provocate da una collisione del genere le potessero far aprire la bocca era ovvio, ma le urla non mi servono.
Quella serata non poteva concludersi nella maniera peggiore.
Svolto in una strada parallela a quella di casa mia, giusto per farle capire che non l’avrei portata a rilassarsi da me. Non senza un prezzo.
«Ora mi dirai cosa cazzo è successo» il rumore croccante del freno a mano fa da chiusura a una richiesta che deve comparire il più minacciosa possibile, nonostante sia posta da un minore. La vedo dubitare sul da farsi, ma avendole chiuso le portiere in faccia era quasi obbligata ad affrontare la questione.
«Levi…» non le ho lasciato finire la frase che il mio telefono era nella mia mano, pronto a chiamare la polizia.
Si era pietrificata. Stava calcolando, si vedeva dalle pupille tremolanti, ovviamente non potevo sapere cosa accadesse sotto una mascherina, ma sono certo che la sua mano potrebbe scattare e il mio dito far partire la chiamata.
«Levi non fare idiozie» Mi parla come se stesse chiedendo a un uomo armato di abbassare la pistola prima che faccia fuori degli ostaggi, sembra abituata a questo genere di cose. Ma io tengo sotto scacco solo la sua di vita, con un semplice pulsante su un touchscreen.
«Dimmelo» avvicino il dito allo schermo, sperando con tutto me stesso che quell’imbarazzante chiamata non parta per errore o durante una colluttazione.
«Levi, non c’è un modo in cui io possa dirtelo» mi guarda ancora con rammarico. Dillo e basta, lancia la bomba e poi sparisci dalla mia vista per sempre.
Cosa c’è di così impossibile da superare? Ormai sai che lo sto immaginando da trenta minuti, dillo e basta.
Cosa vuoi che mi faccia se non male? Vuoi che stia a fregarmene finché non lo scopro da solo? Da chi poi?
Vuoi che mi arrivi a casa una lettera dal capo del cazzo di posto dove lavorate? Vuoi che me ne stia tranquillo ad aspettarlo?
«Non è partito per un viaggio, non cercare quel tipo di scusa sperando che un giorno io mi possa semplicemente scordare di aver avuto uno zio» Aveva solo variato la sua espressione, aprendo la bocca da quanto potevo constatare dal movimento della mascherina, ma sono stato più rapido nel zittirla. Non sono un idiota, infatti si è fermata subito.
Si è rassegnata al fatto di non poter mentire al nipote del suo superiore, che meritassi di sapere.
Un po’ ci speravo. Finalmente un briciolo di conoscenza.
Sarebbe passata così l’ora del coprifuoco e l’avrei fatta dormire a malincuore un’altra volta da me.
Mi avrebbe spiegato ogni cosa riguardo al loro lavoro in quella macchina, di quante volte in realtà si siano trovati a fronteggiare la morte come cacciatori di taglie. Lavoro che credevo fosse rimasto nel far west insieme ai cappelli come quelli che indossava.
Ogni frase sembrava così pesante, ma nonostante questo, le parole più dure da digerire per entrambi, insieme alla descrizione quasi troppo dettagliata del come fosse accaduto furono:
«Kenny è morto»

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Capitolo 8
*** Capitolo 6 ***


Quella domenica che non accennava a finire sembra ora essere distante nel tempo quasi quanto una guerra punica, o l’ultima volta che avevo dovuto studiare come i romani si erano ritrovati ad affrontare degli elefanti sulle Alpi. Un po’ mi manca la semplicità con cui affrontavo la vita due anni fa.
Non che non mi aspettassi di dover affrontare la cruda realtà finalmente da solo un giorno, ma speravo che non accadesse ancora una volta così all’improvviso.
Nonostante a separarmi da quelle notizie e informazioni ci fosse solo una nottata passata a metà tra il dormire e il rimuginare sui diversi problemi che avrei dovuto affrontare nel futuro più prossimo, il risveglio è già pessimo. Pagare affitto e bollette, fare la spesa con dei soldi miei, cosa fare eventualmente a portare quei soldi a casa e il dilemma di dover, probabilmente, abbandonare la scuola sembravano ora passare in secondo piano, quasi oscurati da un male peggiore.
Forse avrei dovuto dare via Swiffer, trovargli una nuova casa e qualcuno che potesse permettersi di mangiare meglio del proprio gatto.
Odio questa situazione. Odio restare solo. Odio dovermi separare da qualcuno solo per le cazzate che ha compiuto qualcun altro.
Odio tutti.
Come si può evincere dal movimento angolare che hanno acquisito i miei testicoli (dannata fisica), la sveglia è stata nuovamente anticipata. Stavolta non a causa del gatto che ho lasciato a digiuno da ieri sera, ma, sfortunatamente per me (o per loro), per via di esseri umani pensanti.
Per quanto si possa definire “essere umano” e “pensante” chi ti viene a citofonare alle sei di mattina, pensando di essere ben voluti in casa di altri senza avvertire o chiedere. Va bene, forse non erano così bruschi, ma almeno avvertire civilmente con dieci giorni di anticipo? Forse il mio cinismo è dato solo dal lutto.
E fu così che, per la prima volta, quella mattina di lunedì cinque ottobre, comparve sulla mia soglia una figura che avevo poco chiara in mente: il cugino di Kenny.
Ora, non prendetemi troppo per stronzo, ma con mio zio non ci azzecca nulla. E come paragonare un’esile colonna ornamentale a un tozzo pilastro, nonostante arrivino entrambi allo stesso soffitto sai che uno è più utile anche se lo nasconderesti volentieri sotto un telo. Diciamo che è più curato nel suo aspetto, quasi raffinato e senza uno stupido cappello.
«Ciao Levi, lo so che non ci conosciamo…» fa le dovute presentazioni, con un tono quasi reverenziale, come se stesse parlando con una persona molto più anziana.
Come se non bastasse, mentre mi parla sembra quasi imbarazzato e al tempo stesso intimorito dalle mie occhiaie. È l’unica cosa che credo lo possa intimorire dato che tengo un gatto in braccio e non credo si possa essere intimoriti da un ragazzino che tiene una palla di pelo come fosse un neonato molto fragile.
Swiffer, che non si sa per quale motivo ogni volta che vede la porta aperta acquisisce la voglia di libertà tipica di un animale selvatico, scalcia per essere mollato e poter scappare sul pianerottolo. Tornerebbe indietro dopo cinque minuti a graffiare contro la porta di ingresso, spaventato dal mondo esterno, che a quanto pare è molto peggio di me anche se mi girano.
Dietro di lui, mia cugina Mikasa, se ne sta in silenzio anche quando mi viene presentata. Davvero una tipa strana, a partire dalla sua passione incondizionata per Eren, ma era differente da ogni ragazzina di primo che girava a scuola. Silenziosa come se avesse subito una serie di traumi infantili i cui demoni la perseguitavano. O forse è solo incomprensibile ai miei occhi.
Li faccio accomodare, mentre mi spiega i motivi della visita e come lui sia stato svegliato in piena notte a sua volta, ricevendo la triste notizia da due che, a detta sua, sembravano agenti di qualche agenzia governativa, come se fossero ‘Man in black’.
Pensando a loro era logico che fossero passati anche da qui, per questo mi chino a posare il gatto con l’intento di controllare la camera da letto. Vuota. Traute deve essersela svignata o devono averla portata da qualche parte, molto probabilmente non sospettano che un minore sia coinvolto nella faccenda e mi hanno tenuto fuori, sicuramente una preoccupazione in meno.
Essendo lunedì non si sarebbero trattenuti a lungo: è la giornata in cui le prime hanno lezione in presenza e dovrà accompagnare mia cugina (non so quale sia il grado di parentela che ci unisce e non mi metterò qui a calcolarlo), ma il discorso sembrava voler durare molto di più di un semplice “Non ti preoccupare, ti aiuteremo per tutto quello di cui avrai bisogno”.
«Non ho bisogno del vostro aiuto, per ora» lo interrompo. Mikasa, che per tutto il tempo sembrava quasi ignorare ogni parola, catturata forse dalle movenze goffe di Swiffer, il quale era impegnato nella sua lotta ai mulini a vento contro il pavimento, si gira verso di me con lo sguardo più interrogativo che abbia mai visto.
La sua incredulità sarà basata sull’inesperienza di quanto le persone possano arrangiarsi? O perché non ha mai visto un ragazzo tirare fuori gli attributi davanti a suo padre? Immagino che a Eren questo venga difficile.
«Certamente Levi, non ti preoccupare, per qualsiasi cosa chiamami» Lui è per certi versi la definizione della gentilezza imbarazzata, fa quasi fatica a passarmi il suo biglietto da visita. Eppure non c’è nulla di male nell’essere un ingegnere informatico.
«A quanto mi hanno detto, il funerale è già stato organizzato per mercoledì» mentre lo dice, mettendosi in piedi e sistemandosi i pantaloni, fa una lunga pausa per dare più peso a ciò che sta per dire. Dovrebbe fare teatro.
«Sembra quasi fosse già tutto organizzato» sospira, per concludere. Un attore nato, quasi si meriterebbe l’Oscar a mani basse.
Effettivamente, se fosse stata un’altra occasione, avrei esternato i miei dubbi che erano d’accordo con i suoi, ma si trattava di un cacciatore di taglie, una professione che doveva restare un segreto e probabilmente anche ferma in un’epoca lontana da quella moderna.
Fatto sta che ogni menzogna girasse attorno alla figura di Kenny in quell’istante sembrava allontanarsi e svanire insieme all’ultimo ricordo che ne avevo: un vecchio che dopo una notte di sesso andava a occuparsi di chissà quale lavoro sporco senza più farne ritorno.
 
Dopo aver chiuso nuovamente la porta di casa, mi posso ancora una volta rifugiare nei miei pensieri, nonostante possa sfruttare una piccola porzione di tempo prima delle lezioni di quella mattina.
Devo decidere in fretta un mucchio di cose che non volevo nemmeno affrontare prima dei miei diciotto anni e intanto occuparmi di un gatto che a conti fatti ne dovrebbe avere più di me ed è costretto ad aspettare le mie cure per sopravvivere.
È proprio mentre accendo il pc che mi rendo conto di invidiare quella macchia bianca affacciata alla finestra a controllare il traffico. Nella sua vita monotona ha anche chi gli ripulisce la lettiera, credo che neanche con un miliardo di euro in banca riusciresti a pagare qualcuno abbastanza per farlo. Certo, si deve fare la doccia da solo con la sua piccola lingua ruvida, ma non sarebbe quello a preoccuparmi.
Per tutti quelli in ascolto, in particolare quelli che hanno subito direttamente o indirettamente questa tortura psicologica della didattica a distanza, era molto meglio Discord, nonostante non mi dispiaccia utilizzare Teams o Zoom. Ma conosco molto bene alcune immagini di profilo e sarebbe stato terribilmente umiliante vederle a schermo intero sapendo che a guardarle ci fosse stato Pixis.
Ed era sua la prima lezione del lunedì, per aprire con gioia e tranquillità la settimana. La gioia sta, ovviamente, nel constatare la presenza dei due assistenti anche nelle lezioni a distanza, mentre la tranquillità è dovuta a quel baffo così folto, nonostante sia fatto a pixel dalla webcam si possono notare i movimenti fluidi di ogni singolo pelo.
Se non fosse per quella pelata, o le rughe che danno un senso di anzianità degno di un professore di italiano e latino, potrebbe essere benissimo uno di noi. Parlando terra terra, è un cazzone.
Il suo aspetto così familiare mi concilia per qualche minuto, prima di uno spam di notifiche da parte di Hanji. Il suo soprannome inizia a riempire la schermata di blocco con una tale insistenza da non riuscire più a vedere la forma di Swiffer. La sua foto è ormai sostituita da una colonna di “Quattrocchi: … “quando finalmente decido di aprire i messaggi e leggere le poche parole scritte tra le varie gif e gli stickers.
Tra un “Buongiorno stellina” e una gif di un anime, c’è anche la domanda che ogni volta mi turba nel profondo: “Come va?”.
Perché dovrebbero essere tutti interessati a come mi sta andando la giornata o cosa ho mangiato per pranzo? Sembrano tutte delle nonne preoccupate quando si tratta di rompere le palle a me.
Fatto sta che non ho alcun interesse nel provocare in lei una qualsivoglia reazione di compassione o affetto, anche perché mi sembra sempre di fare un torto a Moblit. Quindi le rispondo con il solito finto interessamento che risplende in un “Bene dai, a te?”.
Niente faccine, sticker o cose che potrebbero far intendere che la mia voglia di vivere si sia trasformata nel necessario discorsetto con qualche divinità. O peggio, farle capire che sono in lutto.
Poso il telefono mentre lei è a metà del suo messaggio di risposta e il professore è intento a farsi confiscare l’ennesima fiaschetta di chissà quale surrogato di uva di dubbia qualità. I due “tutor” hanno proprio un gran da fare, soprattutto per essere assegnati a una materia che non necessita di un vero e proprio tutorato. Probabilmente, però, spiegare letteratura latina viene più facile avendo gli zigomi rossi.
Guardarli indossare guanti e mascherine poi, li rende più simili a due veri e propri infermieri che devono tenere a bada un vecchio privo di ogni minimo senso della misura. Nonostante questo, resta uno dei professori più capaci che la scuola ha da offrire, per questo non viene sbattuto fuori
Il telefono riprende a vibrare proprio mentre la lezione accenna a continuare, ma il messaggio stavolta non è il racconto di come sia andato il risveglio della secchioncella, bensì arriva direttamente dal maledetto biondo.
“Mi dispiace per tuo zio”
Due pensieri mi stavano frullando nella testa, immaginandoli mentre lo sguardo vaga lungo punti imprecisi dello schermo. Primo: la storia di Traute era più reale di quanto sperassi e il padre di Erwin era stato coinvolto in qualcosa che non lo interessava. Secondo: la notizia si sarebbe sparsa a macchia d’olio e sarebbe rimasto poco spazio dove nascondersi con tutta questa tecnologia pronta a trasformare la mia vita in un Grande Fratello.
Apro la chat, scorro i messaggi e gli rispondo chiedendogli soltanto chi altro lo sappia. La chat ha più o meno questo aspetto:
 
La professoressa Brzenska si assenterà per qualche giorno, mi hanno comunicato che non è per covid [Erwin, mar 29/09]
Mi dispiace per tuo zio [Erwin, oggi, 08:24]
Chi altro lo sa? [Tu, oggi, 08:24]
Il comitato degli insegnanti ha ricevuto una mail con la richiesta specifica di sorvolare sull’argomento [Erwin, oggi, 08:26]
 
E proprio mentre sto scrivendo, lamentandomi di quanto alcuni professori fossero effettivamente incapaci di seguire le norme di una stupida scuola, figuriamoci un favore personale da fare a uno studente dei tanti, viene fatto il mio nome dal professore.
«Ah, Levi, mi è appena giunta una notizia…» La pausa è dovuta all’intervento repentino del suo assistente, Pixis viene mutato e, probabilmente, gli viene ricordato il contenuto della mail data la sua faccia sorpresa. Ma ovviamente, come un cocciuto mulo mezzo sordo, decide di continuare. Vorrei solo che un fulmine gli facesse saltare la connessione o, che ne so, che si trasformasse in un gigante dalle fattezze sproporzionate e che si mangiasse i suoi subordinati facendo prendere un colpo ad Auruo.
«… ti serve per caso un permesso?»
Ora posso morire in pace. Sprofondare sotto la scrivania sarebbe troppo poco, la scelta migliore sarebbe nascondersi sotto la lettiera del gatto, ma probabilmente Hanji avrebbe il fegato di ficcarci una mano per tirarmi fuori.
Accendo soltanto il microfono, non voglio che tutti possano vedere la faccia di chi strozzerebbe volentieri il proprio professore preferito.
«Sì, grazie» tasto rosso e via. Libero di ignorare l’ennesima lezione, ma intrappolato nell’attesa della conseguenziale valanga di domande che stava per collidere sul briciolo di pace che potevo godermi quella mattina.
Tempo di appoggiarmi allo schienale della sedia e il telefono comincia a vibrare incessantemente come se mi stessero chiamando, ma nessun nome compare sullo schermo nero, bensì un mucchio di notifiche che copre completamente il corpo rotondo e peloso di Swiffer.
Cominciano ad arrivare veramente da ogni dove, chiunque sembra interessato al motivo del mio “permesso”. Probabilmente Pixis non se l’è ancora fatto scappare per errore o per frustrazione, dato che sicuramente lo tartasseranno di domande. Figuriamoci, non riesce a tenere per sé le domande dei test, rivelare i cavoli miei è come bere un bicchiere di vino.
Sì, ovviamente per lui il detto non funziona se si usa l’acqua.
Decido, per qualche strana forma di masochismo prendo il telefono, scorrendo i vari messaggi mi accorgo di quanti effettivamente si siano mossi, preoccupati o semplicemente seguendo la scia.
 
Ehi Levi tutto bene? [Petra, oggi, 08:34]
LEVIII [Hanji, oggi, 08:34]
Ragazzi, qualcuno ne sa qualcosa? [Petra (Gruppo 4F), oggi, 08:34]
No [Erd (Gruppo 4F), oggi, 08:34]
Non ne ho idea [Farlan (Gruppo 4F), oggi, 08:34]
Non saprei dirti [Isabel (Gruppo 4F), oggi, 08:35]
Boh, ma voi avete capito che sta spiegando? [Gunter (Gruppo 4F), oggi, 08:35]
Figuriamoci se lo viene a dire a me [Auruo (Gruppo 4F), oggi, 08:35]
CHE SUCCEDEE??? [Hanji, oggi, 08:36]
In realtà pensavo che Isabel e Farlan ne sapessero qualcosa [Erd (Gruppo 4F), oggi, 08:36]
NON TENERMI SULLE SPINE [Hanji, oggi, 08:36]
Perché Isabel dovrebbe saperne qualcosa? [Petra (Gruppo 4F) oggi, 08:38]
Hanji ti ha inviato una gif [Hanji, oggi, 08:39]
 
Senza rispondere a nessuna delle varie notifiche (soltanto aprendole sarei scivolato in una catena di chiamate che avrebbe reso questa giornata peggiore di quanto già non lo fosse), poso il telefono togliendo la vibrazione e abbandonandolo al suo destino.
Non mi importa se Hanji piomberà a casa mia, lo farà, o se Erwin non si è degnato di pensarci due volte prima di fare “la cosa giusta” mandando quella mail. Non voglio sentire nessuno.
Ho troppa poca teina in corpo per affrontare una situazione del genere, anche Swiffer sembra non avere le energie necessarie per seguirmi in questo che è solo l’inizio di una pessima settimana.

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Capitolo 9
*** Capitolo 7 ***


Mi aspettavo che questo lunedì passasse molto lentamente, seguendo il ritmo col quale era iniziato, ma sono passate ben cinque ore da quando ho salutato la pelata di Pixis e mi trovo già immerso nel preparare il pranzo.
È come se il flusso dei pensieri fosse iniziato dal vapore della padella. Forse il vapore troppo caldo, o semplicemente un nuovo pensiero appena partorito dal mio subconscio, comunque sono ancora vivo, vedete? Nessuno mi ha continuato a chiamare, nessun messaggio dopo i centoquindici del gruppo, Hanji è sul divano che aspetta il pranzo e nessuno si è fatto male.
Hanji? Che domande vi fate, eh? Sei capitoli e ancora non avete capito che può entrare come e quando vuole? Fortuna che non ha un doppione delle mie chiavi altrimenti farebbe irruzione senza neanche avvertire.
Appena è entrata le ho lanciato Swiffer per distrarla dalla mole di domande che aveva da farmi. Non so come, ma è mezz’ora che lo tortura, ma lui appare stoicamente indifferente. Se gli animali domestici prendessero veramente dai padroni, lei sarebbe già morta.
Ma invece di diventare una scatoletta di cibo per gatti, essere fatta a sashimi o direttamente buttata di sotto, è ancora libera di tirargli la coda e aspettare l’amatriciana comodamente seduta sul divano.
«Guarda che non mi scordo» fischietta dall’altra stanza, come se leggesse le mie preghiere.
«Lo so, d’altronde, come potresti dimenticarti della morte di mio zio?» La sento urlare qualcosa di incomprensibile, poco prima di vedere una palla di pelo bianca darsi alla fuga verso la mia camera.
Faccio un piccolo appunto: no, non gliel’avevo ancora detto.
«Cosa?!» L’unico modo di stupirla fino al midollo è dire una cosa che dovrebbe essere triste o terribile con un tono di voce completamente calmo e indifferente, senza iniziare con preamboli o preliminari. Infatti, ora è caduta sul pavimento per correre da me, avrebbe ricevuto una padellata in testa se ci fosse riuscita. Ma non voglio che il sugo caschi sul pavimento, quindi meglio così.
Le metto la pasta nel piatto e torno sul mio riso. Non che voglia fare l’asociale cucinando due cose diverse, ma se avesse avvertito lo avrei fatto anche per lei. Anche perché apprezzo aver trovato qualcuno che condivide la mia piccola mania di mangiare con le bacchette.
Almeno quanto non concepisco la necessità che ha di fotografare ogni piatto che le servo. Sarà che ogni pasto è servito su un set di ciotole importate dal Giappone e quindi è singolare vedere le mezze maniche rigate all’amatriciana un minimo spaesate nel ritrovarsi lì.
Figuriamoci come si potrebbero sentire se venissero presi da un paio di legnetti in bambù ed è per non offendere troppo due culture contemporaneamente che glielo sto impedendo porgendole una forchetta.
«Levi, ti prego rispondimi!» Il suo volto preoccupato non riesce comunque a nascondere lo sguardo manipolatore, nonostante sia in conflitto tentando di mantenere un equilibrio tra apparenza e intenzione. Per ora la voglio lasciar cuocere nel suo stesso brodo di curiosità, almeno finché i fornelli resteranno accesi.
La sento osservarmi, la stessa sensazione che ho quando qualcuno di molto più leggero ed esigente a fissarmi per ottenere il cibo, unica differenza sta nell’avere già ottenuto la ciotola con il cibo.
Se le si fredda per pensare ad altro, giuro che sarà l’ultima volta che mette piede qui dentro.
«Te lo dirò se mangi e mi aiuti a lavare i piatti» mi diverto un po’ con lei, sedendomi di fronte al suo sguardo completamente sconvolto. A volte il come viene esposto colpisce più dell’argomento stesso ed enfatizzare un’informazione così delicata con del menefreghismo è assolutamente una tortura.
E mentre lei si accinge a fotografare il piatto, sfrutto l’occasione per usare contro di lei la sua mania per la conoscenza: «Se fai la foto non ti dirò nulla». In tutta risposta, lancia il telefono lontano da sé e porta l’attenzione a me, agitando le mani come a creare un piccolo vortice d’aria.
«Allora parla!» la sua frustrazione nelle sue parole è soltanto la ciliegina sulla torta, una piccola vittoria prima di ritrovarmi a non poterla lasciare senza una degna risposta. Mi ha fregato di nuovo.
«Ieri sera Kenny è morto» le rispondo telegrafico. Non che abbia poca voglia di parlarne, mi servirebbe qualcuno con cui sfogare un minimo la mia frustrazione e riconosco in lei una figura abbastanza rassicurante per questi tipi di argomenti. Ma vorrei sapere cosa ne pensa una persona che sembrerebbe direttamente interessata da questi avvenimenti.
Mi devo, purtroppo, accontentare di qualcuno a cui devo spiegare l’intera faccenda e che non ha in alcun modo la possibilità di rispondere alle mie domande. Per quanto possa essere un pensiero ridondante, mi ritrovo a constatare per l’ennesima volta quanto la quattrocchi sia inutile e fastidiosa.
 
Eravamo chiusi in macchina con Traute da qualche minuto, nonostante fosse passato qualche istante in più di quanto la mia pazienza voleva concederle, le stavo lasciando abbastanza tempo per dimostrarmi quanto, anche lei, fosse sotto sotto un essere umano. Piangeva.
L’idea che qualcuno potesse essere più triste di me in quella situazione fece capolino nel retro della mia mente, probabilmente ho perso il ricordo di quanto fu triste per me perdere mia madre nell’oblio. Per questo sentivo un senso di inadeguatezza che mi sottoponeva a un’intensa autoanalisi. La quale, di solito, porta sempre a constatare problemi senza sapere quale sia effettivamente la soluzione.
Mi stava guardando consapevole che le parti si erano invertite, almeno nella sua mente.
«Non avrei mai pensato di essere io la prima a crollare davanti a te, Levi» le parole le uscivano impastate, si vedeva che non era per niente abituata a piangere, o almeno, non davanti a qualcuno. Mi fece una sincera pena, tanto che quasi dimenticai il quesito a cui ancora non aveva dato una degna risposta.
«Cosa diavolo è successo?» le chiesi, sperando finalmente nel racconto di cosa andò così drasticamente storto.
Si ricompose, mettendoci stranamente molto poco a fermare le lacrime e guardandomi con la solita espressione di chi è impegnato a giudicare con un velo di disprezzo misto ad apatia. È decisamente l’opposto dell’esuberanza che aveva Kenny anche nel lasciare che le cattive notizie sembrassero ancora peggiori se condite con il suo umorismo pessimo.
Mi parlò con calma e lentamente di come andò quella sera, come se stesse facendo rapporto ai suoi superiori, quasi macchinosamente come se fosse uno schema motorio a cui era abituata da tempo. Sfortunatamente ho capito soltanto dopo che il discorso era stato preparato da tempo.
“… Kenny purtroppo non fece in tempo a valutare correttamente la situazione, con un civile coinvolto si è preso la responsabilità sulla sua vita, ma è rimasto indietro. Non so nulla su cosa sia successo al nostro obiettivo e ho portato a termine il suo ultimo ordine: portare in salvo il signor Smith.”
In un attimo la mia concentrazione deviò dal suo tono robotico e distaccato, dal suo sguardo assente e immobile tra i miei occhi, al cognome che meno di tutti mi aspettavo uscisse in quella situazione.
Continuò a descrivere quanto fu difficile per loro riorganizzarsi mentre il loro bersaglio scappava, descrisse con inutili dettagli come Kenny la costrinse a restare indietro mentre portava il professore in salvo. Non avevano ancora capito come o perché si trovasse lì quella sera, dato che le loro informazioni portavano a un individuo singolo. Ma quell’uomo era lì, rovinando il loro piano, rovinando la segretezza del loro lavoro e li portò ad avere un ulteriore problema in una già caotica situazione.
«Il signor Smith era lì?» la interruppi, facendola lievemente irritare poiché le sembrò che da quel punto in avanti non avessi ascoltato più una sua parola, concentrandomi soltanto su ciò che mi interessava direttamente. Ma sapeva anche che non era così, date tutte le dimostrazioni che le avevo dato di essere diverso da mio zio.
«Sì Levi, te lo stavo per spiegare, se mi lasciassi il tempo, tappetto» fece una smorfia che non compresi in quel momento, sembrava sorridere con una tale amarezza da mettere in dubbio qualsiasi lettura e tentativo di trovarne un significato, rovinando al tempo stesso la sincerità del suo sorriso.
Continuò da dove si era interrotta, che era effettivamente la spiegazione di cosa ci facesse il padre di Erwin in quel posto. Sempre senza aggiungere dettagli o abbellire le descrizioni censurando gli insulti e le bestemmie che Kenny stava tirando in quel frangente, mi raccontò che aveva chiesto come facesse a conoscere quell’individuo prima di iniziare una delle manovre peggio orchestrate della loro carriera.
Mi disse brevemente che Kenny aveva fatto qualche ricerca sul conto dei genitori di chiunque avesse avuto un contatto con me, per farsi un’idea di quanto il suo lavoro fosse coperto. Aggiunse che aveva un certo interesse per il fascicolo del signor Smith, in quanto aveva perso sua moglie e la situazione del figlio e la mia fossero molto simili.
Mi fece quasi pena come non fosse andato oltre il dettaglio “entrambi orfani di madre” e avesse pensato lo stesso una cosa del genere. Degno di essere uno degli ultimi discorsi senza senso di mio zio, ma restava sempre una cazzata fenomenale.
Finì di rassicurarmi sul fatto che il professore e lui non si incontrarono affatto e che la parte del piano che prevedeva la messa in sicurezza del civile andò a buon fine, soltanto quella però.
Infine, tentò di rassicurarmi sul motivo per cui il signor Smith fosse lì quella sera, anche lui non era che una vittima del loro bersaglio, un politico minore che tentava di comprare la sua piccola propaganda in cambio di favori. Nemmeno per un istante mi venne il dubbio che potesse aver avuto la cattedra che tanto desiderava tramite questi mezzi, bastava guardare il figlio per capire quanto salda potesse essere la morale di famiglia.
Dopo quei momenti di tranquillità così surreale sui sedili di quella vecchia macchina, mi appoggiai al tessuto sospirando. Quella situazione rievocava ricordi che avrei preferito lasciare nell’oblio e mi trovai a partecipare insieme a lei a quel minimo di dolore che riaffiorava attraverso la stessa apatia. Condividendo un momento di intimità mentale senza che nessuno dei due guardasse l’altro.
Non mi piaceva affatto, sembrava di dover rompere il silenzio o forzare qualcosa che tardava ad accadere.
 
Un po’ come i pomeriggi passati a sorbirmi Hanji, colmi di momenti in bilico tra l’imbarazzo e la totale assenza di idee sulle cose da fare che portano solo alla follia, situazioni simili erano snervanti.
Siamo finalmente passati sul divano, il mio racconto ha preso una buona mezz’ora per le sue continue domande su ogni minimo dettaglio. Ho quasi paura che la sua passione per essere una tuttologa la porti a chiedere informazioni sull’anatomia umana a un rivenditore di organi che la stava rapendo.
Trattengo la risata che questo pensiero mi stava provocando, mentre lei ancora parlava di vita e di morte, quasi sapesse già qualcosa su cosa ci attendesse. Mi rivolge uno sguardo incuriosito, forse ha capito che ho perso il filo delle sue parole da... non ne ho idea, non ricordo più.
«Non ti seguo più da quando hai iniziato a sparare le diverse visioni dell’aldilà» la guardai un pochino peggio di quanto si aspettasse, per sottolineare che non mi interessano e non mi interesseranno mai gli studi sui quali si trastulla la sera.
«Quello l’ho detto a pranzo!» Si mette a ridere. Una delle cose che non capisco nemmeno se mi impegno delle persone come lei è come non si riescano a offendere quando parlano con quelli per cui hanno una cotta. Forse lo noto di più dato che persone con questi atteggiamenti mi hanno completamente circondato.
«Dovresti smetterla di essere così stronzo!» Il suo sguardo è decisamente poco serio per trasmettere una qualsivoglia coerenza con le parole che le escono dalla bocca. Troppo solare rispetto a chi di solito ha la faccia tosta di zittirmi. O almeno, la aveva.
La sua, sotto quegli stupidi occhiali da chi ha letto troppi hentai yaoi, non funzionerebbe nemmeno con un bambino che non capisce da dove derivino i calli sui suoi polpastrelli.
«Senti, se ti tocco tra le gambe ogni tanto non è per farti montare la testa» Lancio l’esca, giusto per attirarla fuori dalla monotonia di quel discorso e farle cambiare argomento verso dove so di avere la completa ragione. Arrossisce leggermente, forse non si aspettava di parlarne come fosse un normale spunto di conversazione.
«Sei tu che lo fai mentre ci sono altri in casa come se nulla fosse!» Sceglie di rispondere criticando la scelta di esprimere la mia preoccupazione davanti a quella povera vittima innocente di Eren. Come se ne fosse rimasto traumatizzato, al massimo ha ricevuto una lezione in più gratuitamente.
Ma non c’era nulla di sessuale in quel gesto e dovrebbe saperlo bene. «Solo perché controllavo che non ti fossi tagliata, non vuol dire che voglio scoparti e poi ti ricordo che hai un ragazzo» non mi aspettavo che la conversazione prendesse subito una piega così stravagante, fatto sta che sapeva perfettamente le mie intenzioni, spostare la sua attenzione altrove e impedirle di provare pena per me.
Non volevo che concentrarmi su altro, fosse la sua stupida mania per l’autolesionismo scientifico o i suoi fumetti porno. Non voglio pensare a tutto quello che di sbagliato potrebbe ancora capitarmi.
Sì, potrebbe parlarmi di quanti personaggi maschili degli anime sono visti bene insieme anche se non hanno nulla in comune o si vogliono solo morti e di quante persone li disegnano nelle posizioni più strane.
Mi sono ritrovato di nuovo a subire un lutto tra chi mi ha cresciuto. Chi, a modo suo, mi ha voluto bene e mi ha trattato come un figlio, o quasi. E l’unica cosa a cui riesco a pensare è come sparire insieme a loro invece di essere abbandonato a vivere senza qualcuno che mi guidi nei momenti peggiori.
Sento quella pesantezza, il senso di inadeguatezza che mi opprime nell’affrontare una vita fuori dagli schemi, incompreso.
Pensavo sarebbe stato più semplice passare oltre quest’amara sensazione. Eppure ci casco sempre continuando a soffrire in un ricordo. Continuo a dirmi che va tutto bene, ma in realtà non va bene un cazzo.

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Capitolo 10
*** Capitolo 8 ***


«Ehi, Hanji, svegliati»
Il risveglio per lei non deve essere stato dei più entusiasmanti. Dopo aver pensato che sarebbe stata una cosa carina farmi compagnia quella sera, ha deciso di chiamare i suoi per avvertirli che restava a dormire da un amico. Li ho sentiti chiaramente fare battute poco caste sul fatto che io non fossi Moblit, quell’uomo lo devono fare come minimo santo o dargli una svegliata.
Ecco, però, il pentimento di aver dovuto dormire con gli stessi vestiti che probabilmente userà oggi. Ovviamente il problema per lei non sussiste, sono io che la sto guardando con orrore. Mi sta veramente venendo da dare di stomaco, nonostante la sua figura sul mio letto sia anche gradevole alla vista, soprattutto per come tiene il pugno leggermente piegato attorno alle lenzuola.
Sono comunque i vestiti di due giorni, si deve alzare dal mio letto o la ribalto.
Si stiracchia rumorosamente per tutto il tragitto verso la cucina, dove la attende la colazione, sempre se Swiffer non abbia già attaccato le tazze tentando di imporre loro il suo dominio del tavolo.
«Come hai dormito Levi?» Stupida domanda per fare conversazione di prima mattina, come se stuprare le mie lenzuola con dei panni che dovrebbero stare in lavatrice non fosse già abbastanza.
«Bene»
Sbuffa sapendo che non ho la benché minima voglia di parlare, come ogni giorno di lezione in presenza, eppure non so quanto effettivamente sappia tenere a freno la lingua.
Come immaginavo, la palla di pelo è sul tavolo, ma sta solo facendo compagnia al tè fumante, in un letale e sottile equilibrio che, dato quanto sta facendo ondeggiare la coda, sembra sul punto di terminare. Il pelo soffice e candido accoglie però la faccia della quattrocchi senza che questo comporti da parte sua una minima lamentela, come se il grasso sottostante fosse fatto appositamente per fondersi con il suo naso.
«Gatto morbido» borbotta mentre lui sembra un trattore, rispondendo al suo affetto con le fusa.
Decisamente il loro rapporto sembra migliore di quello che ho con entrambi e come se non bastasse, le lecca anche la guancia.
«Lo prendo come un tradimento, palla di grasso» Sorseggiando il tè mi accorgo di quanto effettivamente siamo in anticipo rispetto a quanto pensassi e decido di fare qualcosa per il suo abbigliamento. «Visto che quei vestiti sono lerci, dovrei avere ancora quelli che hai lasciato qui quella volta»
Mi guarda interrogativamente, non si aspettava che avessi tenuto i suoi vestiti per quasi un anno. Li ho anche lavati, effettivamente, togliendo macchie della cui natura non ho mai investigato. I suoi occhi sporgono leggermente dal ventre bianco, aveva spostato gli occhiali sulla fronte per non averli in mezzo mentre si affogava nel mio gatto.
«I miei vestiti non sono lerci»
«È inutile che cerchi scuse, non sei ingrassata così tanto da febbraio»
Tenta di nascondere il fatto che quel mezzo complimento le possa fare in qualche modo piacere e si sforza per non far perdere forma al broncio. «Non si dovrebbero dire certe cose a una ragazza!»
Sorride, lasciando che la metà positiva delle mie parole abbiano la meglio.
Non che mi faccia impazzire, ma sembra quasi un dovere fare qualcosa per far sentire bene le persone più si avvicinano.
Sistemo le tazze nel lavandino, mentre lei è finalmente andata in bagno, urlandomi che i suoi genitori sarebbero passati ad accompagnarci a scuola, dato che sembra si stia per mettere a piovere e io abito abbastanza distante da farci arrivare zuppi fino alle mutande. Nonostante io non sia completamente sicuro di quanto possa essere confortante passare tutto quel tempo con i responsabili dei suoi geni.
«Sei sicura che sia una buona idea?» Mi siedo vicino a Swiffer, che mi annusa come se fossi un estraneo e stesse controllando quanto io sia ostile. Gli porgo la mano, forse l’odore del sapone per piatti è ciò che gli stuzzica di più l’olfatto. Mentre chiude gli occhi come se fosse stanco e non avesse dormito tutto ieri, Hanji torna sulla soglia della cucina.
Non mi interessa se entra ancora comodamente in quegli abiti, voglio solo che si sia cambiata e che sia anche pronta per andare.
La guardo dalle caviglie in su. Le stanno, bene.
 
I suoi arrivano in perfetto orario, proprio all’inizio del diluvio. Ed è proprio in questo momento che mi sento assalito da un dubbio.
Forse non è lei il problema, forse la ragione, o il gene, che la rende così strana è da ricercare tra le radici del suo albero genealogico.
Fortunatamente l’ombrello che Kenny aveva sempre per casa è uno di quelli sotto il quale potrebbero entrare una decina di persone. Quindi raggiungiamo la vettura senza quasi bagnarci, evitando anche di stringerci troppo sotto una copertura più che sufficiente.
«Ehi ragazzi, tutto bene?» ci chiedono appena faccio salire Hanji che, mentre slitta sui sedili per non farmi fare il giro, risponde con un “Bene” troppo convinto.
Non so quanto effettivamente abbia spiegato loro la situazione in cui mi trovo, ma lascerò che siano loro a parlare fino all’arrivo a scuola.
E, come al solito, mi posso illudere quanto voglio, ma non riuscirò a tenere lontana la curiosità di certe persone.
«Levi, tu stai bene?» la solita domanda del cazzo.
Dato che sa quanto io non abbia la benché minima voglia di rispondere, Hanji cambia repentinamente argomento. I suoi, forse per un minimo di consapevolezza o proprio per distrazione, la seguono ricominciando una discussione, che avevano palesemente già affrontato più volte, sul prendere un animale domestico.
Forse ho trovato qualcuno a cui lasciare Swiffer.
 
Al nostro arrivo nel lungo viale che porta alla sede del liceo, ha addirittura smesso di piovere. Non è periodo di acquazzoni, ma significa che se esce il sole ci sarà un’umidità tale da rendere impossibile tenere le mascherine in faccia.
Una volta salutati i suoi, lei si incammina verso il gruppo del terzo a cui ha fatto da tutor quando erano solo matricole. Viene acclamata come una zia che non si vede mai, ma che porta sempre dolci e per quello viene amata da tutti i suoi nipotini.
Attraversando il cortile tra il cancello e il portone di ingresso, noto che Mike è fermo davanti alla segreteria, come se aspettasse il permesso per entrare, ma a uscire da quella stanza, insieme al personale incaricato di perdere tempo con le nostre scartoffie, c’è Erwin.
Non mi sorprendo del fatto che sia occupato con chissà quale campagna di rivoluzione della burocrazia, anche se, a detta sua, è la cosa che più lo annoia del suo incarico, ma mi meraviglia il fatto che non mi abbia detto che sarebbe venuto oggi.
Il martedì è la giornata in cui le terze e le quarte sono in presenza, come minimo sta saltando le lezioni per essere qui a fare qualcosa che poteva benissimo delegare a me, o chiedermi di aiutarlo.
Mi guarda, attraverso la grande vetrata.
Non posso sapere cosa sta pensando, gli occhi sono l’unica cosa che si intravede nitida, insieme a una piccola nota di colpevolezza. Mi fa un cenno, che, purtroppo, non è quello di seguirlo. Ne avrei tutto il diritto in quanto vice, ma evidentemente non devo essere con lui stavolta.
Mi fa cenno con l’indice, come a dirmi di aspettare un secondo e che sarebbe tornato.
Sinceramente non ho voglia di aspettarlo, se non stesse proprio nello stesso posto in cui sto per entrare, proverei a cambiare strada, paese, pianeta se fosse possibile.
«Ehi Levi!» Hanji mi chiama quando, in fondo al cortile, compaiono anche Petra e gli altri. Io sto osservando le due alte figure seguire la bidella verso lo studio del preside Zakari.
Mentre i nostri compagni di classe si raggruppano attorno a me, facendomi riflettere su quanto questi idioti non riflettono sul significato della parola “assembramento”. Le mascherine non cambiano il fatto che mi stanno tutti vicini, un branco di idioti e non riesco a staccarmi di qualche centimetro che sono sempre lì a farmi domande.
«Come stai?» Mi guarda con curiosità e preoccupazione Petra, sembra che l’unica parte che ormai deve truccare sono quei due occhi da cerbiatta, ma stavolta la matita sembra piuttosto rovinata, per non dire sbavata dalle lacrime.
Lancio un’occhiata a Erd, che ricordo essere l’ultimo dei due a essersi rifidanzato con lei, e anche lui non sembra per niente sereno. La seconda occhiataccia se la merita Auruo, per la sua mascherina abbassata sotto il mento che rende ancora più rettangolare la sua stupida faccia e per le grandi falcate con le quali si sta avvicinando a Petra. Non perde proprio occasione per mettersi in mezzo a quel triangolo, ma ogni volta è come se venisse intimorito da me e dalla mia influenza sulle decisioni della sua cotta.
«Sei tu quella a cui dovrebbero chiederlo» le rispondo, con tono stranamente rassicurante. Anzi, per fortuna non è uscito un singolo accenno di quanto in realtà sono scazzato per quello stupido spilungone e la sua mania di non rivelare mai i suoi piani.
Sembra di giocare a scacchi con qualcuno che copre tutte le sue mosse con un telo o, peggio, che non ha ancora piazzato i pezzi e già ti mette in scacco. Questo vuol dire essere nella vita di Erwin Smith, anche se sembra più di essere coinvolti in uno dei giochi di Saw l’enigmista.
«Abbiamo soltanto litigato perché sono uscita con Gunter…» Petra continua a parlare, raccontandomi fatti di cui non ho chiesto e dei quali non voglio sapere. Il mio mimo intanto ha capito che non è aria e va a rassicurare il suo amico e rivale in un amore che non ha né capo né coda.
Se fosse possibile intrecciare la trama di un manga come l’intruglio “romantico” che si è generato nella nostra sezione non basterebbe tutto il tempo impiegato da Oda per arrivare al capitolo mille. Però di quei quattro che non riescono a decidersi, quello coinvolto di più sembro io. Ma io sono più preso da… un’altra persona.
«… tu cosa ne pensi Levi?»
«Penso che dovresti fare come al solito, prenditi del tempo per riflettere su quello che veramente vuoi» L’ho ignorata tutto il tempo e le ho detto la stessa identica cosa che le direbbe Hanji, ma sembra che queste fossero esattamente le parole che voleva sentirsi dire, o fa così soltanto perché si è illusa che la stessi ascoltando, fortuna che non può darmi un abbraccio.
 
Dopo qualche altro, lunghissimo minuto, iniziano a farci entrare.
Facendoci seguire un ordine che credo sia stato imposto solo nella nostra scuola. E sezione per sezione controllano tutto, da temperatura a nome, così che una volta dentro puoi essere rintracciato e consegnato alla CIA per sperimentazioni sugli animali. Procedure standard, volute dal nostro rappresentante degli studenti per riavviare comodamente le lezioni.
Dopo aver varcato la soglia, e aver avuto la conferma dalla misurazione che la mia temperatura corporea è quella di un cadavere, noto che le vene delle mie mani sono più in rilievo del solito. Ma proprio mentre ho la pelle ancora bagnata dal gel per le mani, compare di nuovo il biondo.
«Hai un secondo?»
Mi allontano dal gruppo, la bidella sa che comunque non può dire molto se si tratta di lui e anche il prof lascia correre.
«Mi fai fare tardi»
Non mi ha detto nulla del fatto che sarebbe passato, nonostante sappia perfettamente che abbiamo poco tempo per sistemare i nostri conti in sospeso.
Evidentemente sta dando più importanza a una scuola che abbandonerà presto invece che a qualcuno che magari potrebbe tenersi come amico, anche se solo online.
«Voglio solo dirti che per giovedì è confermato a casa mia verso le otto, puoi dirlo a Zoe?» Probabilmente ha notato la mia avversità e ha deciso di non dire effettivamente quello che voleva e chiamare la quattrocchi per cognome ne è solo la conferma. Sta cercando le parole e sta evitando di essere spontaneo, come sempre si potrebbe dire.
«Ma certo, tu pensa solo alla tua scuola» gli rispondo, dandogli allo stesso momento le spalle.
Oggi, stranamente, mi girano.

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Capitolo 11
*** Capitolo 9 ***


«Levi!»
Una vocina, come un ronzio interrompe il silenzio della lezione. Proprio quando la professoressa aveva deciso di cambiare argomento e stava ancora cercando la pagina da cui saltare per iniziare, finalmente, il nuovo programma. Abbiamo ricominciato le lezioni da un mese e già siamo in un ritardo clamoroso per colpa della pigrizia cerebrale che contraddistingue la nostra sezione.
Non che la totale incapacità di alcuni professori nello svolgere il loro lavoro durante la didattica a distanza, saltando completamente alcune delle loro ore per fare appelli infiniti prendendo la presenza anche di perfetti estranei.
Per non parlare di chi per una settimana ha corretto il proprio caffè con ingenti quantità di grappa minando la propria capacità di formulare frasi di senso compiuto. Ovviamente tralasciando quelle di stampo sessista.
Quindi alla fine si sono dovute alternare lezioni di recupero per risanare quei piccoli “incidenti”, ovviamente nessuno venne a conoscenza della parte più entusiasmante di quello che accadeva in presidenza quel periodo. Essere il vice del rappresentante degli studenti ha anche i suoi lati positivi.
Hanji aveva scelto proprio il momento sbagliato. Quello in cui si iniziava a parlare di un nuovo autore che sicuramente avrebbe cambiato la nostra vita convincendoci a lasciare gli studi in medicina imposti da nostro padre per una carriera da artisti squattrinati. Classico esempio di qualsiasi poeta studiato fino a questo punto.
«Levi ascoltami!» Mi giro un millisecondo, giusto il tempo per notare l’enorme scritta sul suo foglio del suo quaderno “TVB”, prima che la prof richiami me.
Ma non fanno preferenze gli insegnanti, assolutamente no.
Io potrei essere richiamato se aiutassi una vecchietta ad attraversare la strada, ma lei potrebbe sgozzare un capretto per fare un sacrificio a Satana e passarla liscia con un “Dovevi tagliare verticalmente, non orizzontalmente”.
A dirla tutta, forse sono io a stare sul cazzo ai professori per vari motivi. Tra i quali c’è forse la problematica che a loro sta più a cuore: distraggo le più brave della classe, che invece di seguire si mettono a scrivere dichiarazioni di affetto nei miei confronti. Messaggi completamente non necessari dato che le dimostrazioni evidenziano molto meglio ciò che pensano.
Se non fosse per alcuni avvenimenti direi che Petra segua qualche diavoleria su Wattpad che le fa credere di avere una possibilità con il ragazzo a cui girano ventiquattro ore al giorno. Di quelli immischiati con faccende mafiose o calamità naturali.
Effettivamente sembra una di quelle svampite che si farebbero convincere anche solo dal segno zodiacale a tentare in tutti i modi di far colpo su una persona, sperando di far breccia in un cuore di ghiaccio o che questo cambi per lei.
Ma ormai ho capito che l’amore, per quanto forte, non cambia nulla.
L’ho capito con Traute, che non si è fatta più viva da quella sera, sparendo semplicemente nel nulla. Un atteggiamento che credo abbia ripreso da Kenny, dato che era anche una sua abitudine fuggire dai problemi.
Di solito il problema ero io, un ragazzino del quale non ci si poteva fidare secondo il loro giudizio, una pedina che era meglio tenere all’oscuro di tutto quello che gli si chiedeva di fare. Fargli fare da autista senza nemmeno la patente, farlo partecipare a pestaggi.
Far cadere nell’illegalità chi non era riuscito ancora a svilupparsi del tutto e lasciare che la sua condizione ne risentisse ancora di più.
Ovviamente la dimostrazione precedente era mio padre, per il quale il problema ero sempre io e che, ovviamente, non ha mai provato a cambiare per la donna che lo amava così tanto. Nemmeno alla fine.
Pensare a lui mi fa tornare di soprassalto alla realtà, ancora intrappolato in quell’aula con il messaggio ancora girato verso di me. Avrò pensato troppo?
Guardo l’orologio appeso sopra la lavagna e noto che le due lancette non hanno cambiato di molto la loro posizione. Mancano ancora venti minuti all’intervallo e non ho già più voglia di essere sottoposto a questa tortura psicologica.
«Ackerman, vieni qui davanti, forza» A proposito di torture.
Questo ragionamento non ha assolutamente senso: farmi spostare più vicino alla fonte della distrazione come se ora Hanji smettesse di comportarsi da scema tutto d’un fiato, o se riuscisse a controllarci meglio mentre continua a spiegare. Come se non avesse un’intera classe da tenere a bada.
L’istante stesso in cui mi siedo di fianco alla professoressa, la quattrocchi scodinzola con la mano come se fosse una vita che non mi vede. Questa è una reazione che non mi aspetterei nemmeno da un cane lasciato solo dal proprio padrone per due giorni.
O sarà che lei è più fedele di un animale… Sto veramente pensando una cosa del genere? Mi sento Pixis quando chiede di non indossare gonne troppo corte, ma è il primo che si abbassa a guardare quando l’alcol lo libera dalle catene del buonsenso.
Tra i ragazzi c’è chi lo chiama mito, chi vorrebbe diventare come lui, ma non si rendono conto che la pensione è la sua unica ancora di salvezza da una ventina di possibili denunce in un mondo ormai troppo sensibile a quelli come lui.
È un mondo che cambia, muta e si adatta. Non sembra più fatto per quelli che una volta ci abitavano. Persone libere di essere ignoranti e di insultare nei modi più infimi gli altri creando oppressioni e bullismo soltanto perché nessuno aveva mai messo in chiaro quanto questo facesse male.
Persone come Kenny o Pixis, reliquie di un’epoca che si preferirebbe cancellare, insieme ai suoi prodotti e coloro che hanno avuto influenze così drastiche. Anche io, insomma, sono uno scarto della società.
Nonostante mi ritrovi circondato da persone che in qualche modo mi apprezzano, la sensazione di fondo è quella di essere sbagliato. Mi ritrovo circondato da persone che si limitano a giudicare la copertina del libro, senza sapere che non sono chi si aspettano.
Sto mentendo, celando segreti che dovrebbero cambiare lo sguardo di Hanji, così sincero e felice di vedermi lì davanti, trasformandolo nella quieta indifferenza che mi aspetterei. Eppure, la scema si è appoggiata su entrambe le mani in adorazione e sinceramente non capisco se mi sta prendendo in giro accentuando la sua espressione divertita.
Ovviamente un’insegnante che si rispetti avrebbe capito che stava per andare in scacco quattro mosse fa. Ma lei era così convinta da andare a finire a perdere completamente la ragione spostandosi tra i banchi.
La quattrocchi non la seguì nemmeno un istante con lo sguardo, continuando invece a cercare la mia attenzione.
«Ehi Levi!» sussurra di nuovo, come se la prima volta fosse andata bene. In realtà a lei non è cambiato nulla, anzi, ha avuto quello che voleva immagino.
Stavolta anche Petra si gira verso di lei turbata dal suo comportamento. Ci guarda entrambi, come se c’entrassi anche io nelle manie di persecuzione della sua compagna di banco, ma dal suo modo di aspettare che l’altra continui capisco che non ha intenzione di farci una ramanzina.
La noto scostare i capelli castani dal laccio della mascherina e protrarsi nella mia direzione per sentire meglio, tentando allo stesso momento di non darlo troppo a vedere.
«Stai bene?» Domanda di routine, posso anche ignorarla perché dovrebbe saperlo ormai.
Annuisco, degnandola di mezzo sguardo giusto perché si tratta di lei. Non voglio dare troppi indizi all’altra, che potrebbe lanciarsi in una crociata per tentare di occuparsi di me e di rotture ne ho già una.
«Dopo se vuoi passo da te con una sorpresa» mi dice ridendo, facendo arrossire per invidia o non so quale altro sentimento negativo nei suoi confronti la sua amica, ormai palesemente il terzo incomodo nella conversazione.
Nei miei occhi invece credo si veda un po’ di paura. Nonostante io sappia che non sia la persona più pericolosa che conosco, sicuramente è una delle quali ho più timore per quanto riguarda regali o sorprese. Non saprei mai cosa aspettarmi, infatti le faccio subito capire che non ho intenzione di ricevere visite, né regali.
Ma sembra fin troppo convinta dal modo in cui mi guarda.
«Non devi portare nulla se vuoi venire» Gli zigomi di Petra raggiungo una colorazione fucsia in risposta alle mie parole, è evidente quanto le dispiaccia che sia Hanji a essere più vicina a me. Io che non vorrei tutte queste attenzioni invece vorrei solo scappare da entrambe.
«Ti ha detto qualcosa Erwin?» mi chiede lei, mantenendo un’espressione beata.
«No, non ho parlato con lui» le rispondo dopo qualche istante, aspettando che la professoressa venga attirata da altro: Gunter si sta praticamente addormentando sul banco. Gli manca solo un cuscino e il pigiama e l’audacia di mettersi a russare.
«Ti doveva dire una cosa» Sempre così. Non poteva soltanto dirla, venire da me e parlarmi. Avvisare.
No, gioca per terze parti, manda piccioni viaggiatori con gli occhiali e la sessualità incerta e pretende che gli altri capiscano le sue intenzioni o quello che deve fare. Se non impara a comunicare direttamente con me finisce che non avremo più tempo nemmeno per dirci addio.
Approfitto dell’ennesima distrazione della prof per mandare un messaggio al biondo, chiedendogli soltanto di restare a scuola un altro po’, ma ovviamente lui risponde che deve tornare a casa per seguire le lezioni.
«Posso andare in bagno?»
 
«Il bagno è la seconda porta a destra» Con una calma pacata e razionale mi aveva risposto Erwin. Un giorno dei tanti a casa sua.
Si stava rimettendo i pantaloni, mentre io mi portavo il cambio con me per mettermi dei vestiti puliti. Avevamo sudato come animali quel pomeriggio e il caldo che c’era non aiutava sicuramente. Quell’estate avevo passato più tempo con lui che con mio zio a casa, lasciando che fosse Kenny ad occuparsi del mio povero gatto. Per settembre era dimagrito di quasi due chili e aveva avuto due intossicazioni da cibi che non poteva assolutamente ingerire.
Non gliel’ho più fatto toccare.
Il bagno non rispecchiava molto quello che a cui ti abitua la dimora Smith, la quale ricorda solo a pensarci colori polverosi e tenui, un po’ vintage e antichi. Un effetto accentuato dai mattoni a vista e i vecchi tomi esposti.
Ogni volta che invece attraverso quella soglia mi rendo conto di quanto sterile e moderno sembri quell’ambiente rispetto al resto. La luce bianca su quelle mattonelle lucide e i dettagli grigio scuro lo fanno sembrare quello privato delle suite presidenziali negli alberghi. Inutile dire che vederlo così pulito è una gioia per i miei occhi.
Quel giorno però ero completamente distratto dai dolori, avevo davvero usato muscoli che non sapevo di avere ed ero stremato dalla fatica.
Spogliandomi però notai anche l’effetto positivo di tutto quello che avevamo fatto. La tensione che rilascia le endorfine e quella sensazione di benessere che potrebbe sembrare droga, ma è completamente autoprodotta.
Quel bastardo mi aveva messo alle strette, senza nemmeno avvertire che avremmo lavorato a quell’intensità. D’altronde era anche la mia prima volta, non mi credevo in grado di riuscire a resistere così a lungo, ma riuscivo ancora a cambiarmi.
I vestiti erano abbastanza sgualciti e avrei dovuto lavarli appena tornato a casa, non avrei usato la sua lavatrice, nemmeno la sua doccia.
Tornai nel salottino e lo vidi, per mia soddisfazione, con il fiato ancora corto.
«Da quanto non lo facevi?» gli domandai con una smorfia che doveva essere un sorriso, ma non avevo abbastanza forza per sollevare il labbro.
Mi guardò ferito nell’orgoglio, naturalmente, e fu la cosa più divertente che vedevo da tantissimo tempo, per questo mi venne quasi da ridere mentre mi piegavo a raccogliere gli oggetti sparsi per il pavimento.
«Erano un paio di mesi effettivamente» Mi fece quasi tenerezza, ma lo aiutai a sistemare per far tornare tutto all’ordine di prima.
«Di solito fai con Mike?» Sollevai i guantini che giacevano a terra insieme al disco di ghisa e li riposizionai nella valigetta. Raccogliendo poi i manubri e aiutandolo a richiudere la panca.
«No, abbiamo montato questa piccola palestra solo di recente» Sentivo solo la sua felicità nel pronunciare fieramente quelle parole, ma il suo sguardo era rivolto più a me che agli attrezzi.
Mentre annuivo prendendo da terra le ultime cose, mi ringraziò della compagnia.
Era sempre stato così strano?

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Capitolo 12
*** Capitolo 10 ***


Il comportamento dei genitori di Hanji è forse più stressante il pomeriggio. Quando il padre è occupato al lavoro ed è costretto a comunicare attraverso chiamate vocali amplificate dalle casse della macchina.
Sì, signora, usare il Bluetooth la rende una persona responsabile e una brava cittadina che tiene all’incolumità delle persone che ha intorno, ma non si rende minimamente conto di quanto sta urlando questioni private con uno sconosciuto rannicchiato sui sedili posteriori.
La mia amica, che ha promesso di tenermi al sicuro e soprattutto di farmi compagnia, se ne sta seduta accanto alla madre a rispondere con l’entusiasmo di un’esperta oratrice. Sembra di star assistendo all’arringa di un avvocato che difende il proprio cliente da false accuse.
Il cliente in questione era la loro irrefrenabile voglia di spendere tempo e denaro per rifare una parte della loro casa al mare.
Ci sono stato soltanto una volta, nonostante tutte le uscite programmate durante le estati del biennio, e non mi sembrava avesse bisogno di tutta quella ristrutturazione di cui parlano.
«Tesoro, stai parlando di più di dieci mila euro. Non ti pare esagerato?»
Ecco, non volevo sapere si parlasse di cifre che mi permetterebbero di campare per molto di più di quanto io voglia ammettere. Per quanto cinico possa sembrare facendo questi pensieri, spero che Kenny abbia messo qualcosa da parte con quello stupido lavoro, per resistere finché non trovo qualcosa migliore di Eren per mantenermi.
Dovrei tornare a fare pulizie nel vicinato, alcuni dei più anziani avevano già problemi a tenere in ordine le proprie abitazioni qualche mese fa, chissà se è da allora che… mi viene un lungo brivido di terrore pensando alla moltitudine di mensole per loro irraggiungibile.
Alcuni di loro mi scambiano ancora per un loro nipote quando mi incrociano per le scale o nel giardino, quelle poche occasioni in cui i miei orari combaciano con quelli di un pensionato. Uno di loro mi ha fatto anche tenere la scala che aveva a casa dopo avermi visto faticare per raggiungere gli sportelli più alti.
Sarebbe imbarazzante non riuscire a raggiungere gli stessi punti per i quali loro mi hanno chiamato, soprattutto per la loro schiettezza nel commentare l’aspetto fisico delle persone. Non conoscono affatto il significato di “body shaming”, ma non mi aspetto che capiscano una parola di inglese, per loro potrebbe essere benissimo un sapone o la prima portata del pranzo tipico londinese.
Fatto sta che per loro è un allenamento per l’anima e tempra spiriti forti. Fin nelle viscere, come dei vichinghi. Di nordico ho ben poco però, dalla dolce vecchietta del secondo piano vengo paragonato a un elfo in stile Tolkien, ma anche paragonato a Legolas non mi ci ritrovo.
Decido che è il caso di ricominciare da quello per tentare un approccio degno di ciò che professavo di fronte a mia cugina. Una promessa va mantenuta nonostante tutto.
Pensare che probabilmente la voce potrebbe spargersi in fretta, anche a scuola, non mi preoccupa minimamente. Pensassero quello che vogliono prima di tornare a lamentarsi per la versione sbagliata di iPhone ricevuta per Natale o per quanto pensano che gli sia dovuto. Ipocriti.
Uno degli scenari peggiori che passo immaginare è finire da qualcuno che conosco da vicino e, visto che prima stavo pensando a lui, la mia mente mi trasporta subito a casa Jeager. Quella sarebbe la situazione peggiore che potrebbe capitarmi.
Non tanto perché Eren si troverebbe nella condizione di potermi dire cosa fare, si spaventerebbe soltanto vedendomi fuori dalla sua porta per una volta. Guai se provasse a commentare il mio operato.
Il problema è il suo fratellastro Zeke. Studente “modello” di un altro istituto che è passato ad attaccare briga due anni fa per i giochi matematici. Era a capo di una crociata inutile per un’inutile competizione che avevano perso per una distrazione dell’arbitro.
Il suo caratterino da primadonna a cui è tutto dovuto e l’espressione saccente di chi si crede meglio di chiunque è ciò che mi impedirebbe di andare tranquillamente in quella casa.
Parlando con il suo fratellino è uscito fuori che la causa della fine del primo matrimonio del padre è proprio lui e per quello il dottor Jeager non lo ha mai perdonato. Plasmando così quel caratteraccio.
Ma che fine ha fatto Eren?
 
Levi, scusa il disturbo, posso passare mercoledì per un ripasso? [Eren, ieri, 17:18]
Venerdì abbiamo una verifica e mi servirebbe una mano [Eren, ieri, 17:27]
 
Tolgo lo sguardo dal telefono per tornare a controllare la situazione davanti a me, la chiamata è terminata con quello che sembrerebbe un pareggio e una questione ancora irrisolta.
«Hai parlato con Erwin alla fine?» mi chiede Hanji, quasi preoccupata. Io, nel frattempo, stavo pensando a cosa rispondere al primino, non essendo sicuro di quando verrà fissata la data del funerale.
Appena inizio a scrivere un sinonimo di “Va bene”, ma con sole due lettere, dal sedile del guidatore sento una domanda che mi fa sobbalzare: «Chi è? Il fidanzato?»
Lo dice sforzandosi di abbassare la voce, pensando di non essere sentita, quando il suo tono è soltanto tornato a un livello normale di decibel. Non so come possa sopravvivere quella ragazza in un ambiente del genere senza uscirne con le emicranie.
Anche la risposta arriva alle mie orecchie, nonostante la quattrocchi stia facendo lo stesso tentativo «No, no, starebbero benissimo insieme, ma sembrano non capirlo» forse in quella casa i problemi sono sempre in comune.
«Non ci ho parlato, non merita di usarti come piccione viaggiatore per parlarmi»
La posso sentire squittire, commossa dalle parole delle quali sta sicuramente distorcendo il significato da “Deve avere le palle di venirmi a parlare” a “Mi sta difendendo perché mi vuole bene”.
Non posso neanche darle completamente torto stavolta, ma sono concentrato su troppe questioni contemporaneamente e la ignoro per continuare a scrivere il lungo messaggio di risposta che dovrebbe seguire quell’”Ok”.
Quasi mi dispiacerebbe lasciarlo senza risposta, dopo tutto questo tempo, soprattutto data l’urgenza della sua richiesta.
 
Ok [Tu, oggi, 14:09]
Per quanto ne so ora sono libero, tu avvertimi prima di passare che ti do la conferma [Tu, oggi, 14:15]
 
Se non dovesse ascoltarmi di finire per coesistere con altri possibili avvenimenti spiacevoli. Effettivamente non so quando si rifarà viva Traute per riprendersi la sua roba, quando sarà la prossima visita del padre di Mikasa, ho perso completamente il controllo della mia vita in questa settimana.
Mi piace avere i miei orari, i miei programmi per la giornata e fregarmene di tutti gli altri. Negli ultimi quattro giorni invece sembra che si siano organizzati tutti per venirmi a disturbare.
A partire da Hanji, che scende insieme a me dalla macchina appena arriviamo davanti al cancello del mio palazzo.
«Non dovevi portare una sorpresa?» le chiedo, giusto per darle qualcos’altro da fare e lasciarmi respirare un attimo.
Ma dal suo sorrisetto beffardo capisco di essermi completamente illuso.
«Chi te lo dice che non l’abbia portato con me a scuola?» Ora il dubbio mi assale. Ha davvero intenzione di salire direttamente con solo lo zaino?
Purtroppo la conosco abbastanza da poter affermare con assoluta certezza che la situazione è alquanto pericolosa. Non mi pare di averla mai vista bluffare, mai una volta fingere essere impreparata in qualsiasi circostanza.
Ricordo perfettamente quando, per scherzo, la sfidarono a portare le manette che diceva di avere a casa, lei prese la sfida sul serio e le rubò al padre per dimostrare che era seria. Da episodi come quello ho capito che non posso più fare affidamento sugli scherzi innocenti.
Forse sto solo immaginando cose inesistenti, dovrei concentrarmi piuttosto su cosa farle mangiare, dato che credo di dover rifare la spesa.
Vivere da solo è l’apice della tranquillità, soprattutto considerando che devi tener conto soltanto dei tuoi bisogni (e di quelli di un gatto rotondo), dovendo comprare il cibo per una persona, calcolando ogni tanto i due sfruttatori della mia pazienza. Ora che mi sembra quasi di aver capito che non avrò più a che fare con cacciatori di taglie, mi ritrovo la mia compagna di classe.
Mentre la macchina riparte lasciandola lì davanti a me capisco, che qualsiasi cosa abbia in mente è reale.
«Stai scherzando?» Non è una vera domanda, più un lamento finita la speranza. La sento ridere sotto la mascherina, guardandomi soddisfatta della mia preoccupazione.
«Saliamo? Voglio salutare Swiffer» mi ignora. Lei mi ignora.
 
Hai parlato con Hanji? [Erwin, oggi, 14:15]
 
Rimetto il telefono in tasca lasciando il messaggio nella tendina delle notifiche, non riesco a capire quando si comporta così se lo fa per ottenere attenzioni o per incasinarmi la mente.
«Che cosa ti ha detto?» le chiedo sulle scale, non posso lasciare che un’intera giornata finisca sentendomi costantemente sotto scacco.
Non giocherò mai più con lui a giochi da tavolo, ovviamente perché tra qualche giorno sparirà completamente dalla mia vita quotidiana, ma non accetterò nemmeno le sue sfide online. Nei giochi che prevedono un minimo di strategia lui ce ne mette troppa, riflettendo questo impegno nel manipolare le vite altrui.
«Ha detto tante cose, tra cui qualcosa riguardo il sentirsi in colpa per quello che è successo»
Mi fermo per le scale, non ho compreso appieno il significato della parte in cui lui si sente in colpa. Cosa ha fatto lui?
L’unica supposizione logica che mi viene in mente è che ha sentito qualcosa dal padre riguardo la morte di Kenny, ma se fosse proprio quello dovrebbe quanto meno chiamarmi. Senza parlarne con Hanji, poi perché proprio lei?
«L’unica cosa di cui deve sentirsi in colpa è non venire a parlarmi di persona»
Immagino sia occupato, abbia altro a cui pensare. Preparare i bagagli, decidere cosa tenere, istruire Mike per sostituirlo questi ultimi mesi prima del diploma, pensare al prossimo messaggio con cui rendersi ancora più ridicolo.
Ricomincio a salire le scale, dovrei rispondergli, ma in questo momento preferirei di gran lunga una lezione di Pixis sui vini. Aprendo la porta però mi rendo conto che Erwin non è proprio la cosa peggiore che mi possa capitare al momento.
Traute e due uomini che sembrano quelli che aveva descritto il cugino di mio zio si aggirano per casa silenziosamente.
«Chi sono loro?» chiede uno dei due, guardandoci entrare senza battere ciglio.
La quattrocchi, come al solito, sembra quasi eccitata dalla presenza di qualcuno di inaspettato e si appoggia a me strattonandomi.
Mentre le spiegazioni vengono fatte da entrambi i lati del corridoio, la palla di pelo bianca viene ad accoglierci strusciandosi contro le nostre caviglie.
«Tu quindi sei il nipote del signor Ackerman…» Si avvicinano entrambi, mentre la donna dietro di loro mi osserva con un certo rammarico e due borsoni neri davanti a sé. Anche lei non mi ha mai lasciato la possibilità di capirla, mi ha sempre mostrato solo un lato di sé lasciando che ogni espressione o emozione al di fuori della rabbia o del disgusto. E mi sono ormai abituato a vedere soltanto quella faccia.
«… ci dispiace di non aver potuto fare nulla» Li guardo perplesso.
La gente ha dei comportamenti strani o sono io a farmi delle aspettative sbagliate? Ok, forse so perfettamente quale sia la risposta corretta al quesito, essendo asociale non posso aspettarmi di conoscere perfettamente le reazioni umane. Soprattutto se baso la mia conoscenza agli individui che girano per i corridoi della mia scuola.
Anche se sento leggermente puzza di fregatura dovuta a esperienze passate.
«Non potevate passare prima? Traute li sa i miei orari» Non mi va di guardarli troppo male o rendergli la situazione imbarazzante, quindi, dopo aver constatato che stavano per andarsene, aggiungo un “Grazie”. Capisco bene che la situazione non sia affatto facile per quella donna e non è compito mio peggiorarla.
 
Sono rimasti il tempo di farci mettere a posto gli zaini e, mentre io me ne sto chiuso in cucina a preparare l’ennesimo doppio pranzo, Hanji si occupa di dare la pappa al gatto.
«Dovresti parlarci» le sento urlare, non che ce ne fosse bisogno, ma probabilmente è abituata a mura più spesse o porte che effettivamente insonorizzano gli ambienti.
«Ci parlerò quando mi andrà» le rispondo portando i piatti fumanti nella sala da pranzo.
«Digli almeno che ti farebbero piacere delle spiegazioni»
«Le dà a te invece che a me, ti sembra uno con cui si possa ragionare?» Le faccio cenno di tagliare corto perché non è l’argomento adatto al momento.
«Mi ha detto solo che si sente in colpa, sono io che ho deciso di dirlo a te…» la guardo male, mi ha fatto pure pensare male di lui tutto questo tempo per niente «… pensavo fosse giusto dirtelo»
Sospiro, l’unica cosa che potrebbe salvarla ora è che un tornado mi porti via. Fortuna per lei Swiffer si pone sulla mia strada verso l’omicidio “accidentale” facendo le fusa e buttandosi come un oggetto informe sul tavolo.
«Se le cose stanno così, allora meglio per lui» guardo gli occhi stanchi di quel piccolo animale che ha perso completamente ogni istinto e non sa che farsene del cibo da cui è circondato.
Lei sogghigna, guardandomi come se si fosse appena accorta di qualcosa, o ricordata di altro.
«Oh, la sorpresa!» si alza di scatto, facendo prende un colpo alla povera bestia che scatta in piedi irritata.
Io preferisco a questo punto ignorarla finché non sarò di nuovo costretto a guardarla. La sento frugare nel suo zaino lasciato tra la sala e la camera, nascosta alla mia vista. Continua a ridere, come se sapesse già la mia reazione.
E quando torna mi accorgo di quanto avesse ragione a ridere in anticipo, perché l’unica cosa che mi viene in mente è la fuga. E la mia espressione terrorizzata mentre sputo l’acqua che stavo bevendo la fa crollare a terra dalle risate.

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Capitolo 13
*** Capitolo 11 ***


Per quanto ne so ora sono libero, tu avvertimi prima di passare che ti do la conferma [Tu, ieri, 14:15]
Se passo dopo pranzo va bene? [Eren, oggi, 09:11]
Porto anche il libro di geometria che abbiamo una versione nuova [Eren, oggi, 11:07]
Levi? [Eren, oggi, 12:10]
 
Una serie infinita di messaggi non letti, la luce della notifica ancora ignorata e due corpi adagiati su un letto sfatto ancora addormentati. Un gatto che miagola di sottofondo, passando a controllare se per caso qualche umano quella mattina aveva intenzione di sfamarlo.
Ecco la scena che incorniciava uno dei risvegli più pigri e rimandati della mia vita.
Non ne volevo parlare, non avevo intenzione di alzarmi, ma Swiffer sa essere molto convincente, soprattutto usando quel set di artigli pungenti che non sono stati tagliati da un po’.
Mi muovo brancolando nel dormiveglia usando la memoria motoria tipica di un cieco per orientarmi nello spazio di casa mia. Il tragitto sembra allungarsi sempre di più tante meno ore di sonno ho, percorrere il corridoio è estenuante e faticoso quando sembra di dover percorrere la distanza di una maratona.
Mentre metto i croccantini nella ciotola lucidata dalla lingua affamata dell’animale peloso che miagola strusciandosi contro i miei polpacci, mi accorgo che abbiamo dormito tutto l’orario delle lezioni. Altro che sveglia biologica.
Mi torna in mente per un millisecondo che Hanji aveva detto qualcosa riguardo al connettersi solo per prendere la presenza e continuare poi a dormire, ma non ricordo affatto abbiamo messo effettivamente in pratica questo piano.
«Tieni, palla di pelo» lo rassicuro con un filo di voce, mentre lui si fionda sul cibo con la solita impazienza.
Sorrido, senza mostrarlo poiché anche muovere un singolo muscolo facciale sarebbe troppo. Osservando quanto sembra se stesso quando mangia, anche perché è l’unico lato “tenero” che mi dimostra, dato che le fusa le fa solo per gli altri.
Ritirarmi in piedi mi fa tornare in mente cosa si prova ad allenare le gambe, tornando a pensare alla piccola palestra in casa Smith. Il tremore dei tendini mi fa ricordare quanto pesa la gravità.
Nel momento esatto in cui la mia testa raggiunge l’altezza dello spioncino della porta d’ingresso, il campanello suona.
Mi blocco un secondo, il tempo di immaginare chi, tra le varie possibilità, possa essere arrivato sul pianerottolo senza prima suonare al cancello. Scarto l’ipotesi che uno dei miei vicini possa aver aperto a qualcuno che non abbia mai visto.
La lista si riduce drasticamente al primo indizio utile che mi passa per la testa. Traute dovrebbe aver lasciato le chiavi qui l’ultima volta, Eren conosce soltanto il vecchio del primo piano e la sua badante perché una volta li ha dovuti aiutare con la spesa.
Ma una volta aperta la porta si presenza la classica, inaspettata, “terza opzione che nessuno calcola”: il cugino di mio zio. Effettivamente non ha mai ispirato in me il bisogno di prenderlo in considerazione.
«Ciao Levi, disturbo?» nel dirlo resta cautamente dall’altro lato dello zerbino, nascondendo la figlia alle sue spalle. O meglio, lei se ne sta semplicemente a farsi i cavoli suoi al riparo della sua figura.
Più lo guardo, più non capisco. È come se il gene che condividevo con Kenny avesse saltato una generazione. Dicendo così, dovrebbe essere passato a Mikasa, ma anche lei non sembra essere convincente come Ackerman, troppo presa dal suo comportamento da adolescente misteriosa e in crisi.
«Datemi un momento» gli rispondo, lasciandoli da soli davanti alla mia porta mentre vado a mettere il caffè nella moka e poi torno in camera per mettere qualcosa di leggero.
«Hanji, svegliati e mettiti qualcosa, abbiamo visite» Lei si stava già rigirando nelle coperte testando le varie posizioni per poter continuare la sua rumorosa ronfata.
Si è presa tutto lo spazio possibile coprendosi a pezzi e lasciando all’aria i polpacci e i piedi. Mi chiedo come abbiamo fatto ad occupare un letto a singola piazza stando anche comodi se poi basta la sua stravagante postura a riempirne ogni angolo.
Il piano di accendere i telefoni per connettersi in DAD è andato a puttane, notando che sono entrambi dove li abbiamo lasciati ieri sera, completamente carichi e pieni di notifiche non lette, ma non ho tempo da dedicare alla preoccupazione di Petra e dei professori.
Torno in sala con un paio di pantaloni e una canottiera, togliendo appena in tempo il caffè dal fuoco e versandolo nelle quattro tazzine, lasciate poi a fumare sul tavolo mentre li faccio accomodare.
«Nel primo pomeriggio ci sarà il funerale» mi avverte lui, senza darmi il tempo di tornare in sala con lo zucchero. Evidentemente vuole berlo amaro, dato che mi ha fermato sulla soglia della cucina.
Girandomi per rispondergli, la figura femminile sbadigliante mi ricorda qualcosa, qualcuno che al momento mi sfugge.
«Tra quanto?» La lista dei problemi si fa sempre più lunga nella mia mente: far sloggiare Hanji, pranzare, interagire con dei probabili altri familiari, ritrovare un vestito adatto, Eren… Eren? No, lui non c’entra nulla.
«Dovrebbe iniziare all’una, è una cerimonia privata nella sede della loro organizzazione» mi risponde come se leggesse il copione da qualche leggio, esattamente come l’altra volta. L’esatto opposto di Kenny, istintivo e tagliente.
Colgo una piccola sottolineatura sotto la parola “privata”, come se stesse dicendo che la mia compagna di classe non è presente su una lista di invitati. Un funerale laico chiuso al pubblico, mio zio non se ne poteva andare in un modo meno stravagante dopotutto.
«Tranquillo, lei torna a casa sua tra un po’» lo rassicuro indicandola.
Dal suo trascinarsi lungo il corridoio, fortunatamente capisco che ha addirittura rimesso le scarpe. Mi soffermo giusto l’attimo che serve per controllare che abbia anche il resto e devo dire che ogni tanto resto stupito della rapidità con cui ogni tanto le situazioni si sistemano da sole. O come si vestano in fretta.
«Salve» Hanji fa le sue, imbarazzate, presentazioni. Sembra quasi interessata a conoscere meglio Mikasa, probabilmente per via del nostro contorto legame di parentela. Dati i suoi tratti orientali poi dovrebbe essere anche più difficile collegarla a me, se non fosse per quello stupido cognome.
La mia mente sta, mentre gli altri bevono il caffè, calcolando ogni secondo necessario per uscire in tempo, pranzare e mollarla ai suoi. Utilizzando un trucco che ho preso in prestito da Erwin dovrei anche riuscirci.
Azioni stereotipate e ripetitive, la chiave del suo perfetto orario in ogni parte della giornata. Piccoli gesti che ha continuato a fare fino a renderli automatici.
Quelli che per lui possono essere i movimenti nell’abbottonarsi una camicia o passare la cera sul suo ciuffo biondo (Sì, passa la cera per tenerli sempre perfettamente in ordine), per me potrebbero essere le faccende di casa o cucinare. Lamentarmi delle persone che mi circondano e si ostinano a rubarmi ossig-
Devo iniziare a preparare il pranzo, entrare nel loop di ciò che posso finire in fretta e automaticamente. Tenendo le orecchie in allerta per quello che possono finirsi a dire nell’altra stanza.
«Ah, quindi tu sei nella sezione di Eren! Che coincidenza per Levi avere una parente e il suo allievo delle ripetizioni nella stessa sezione!» Le sta palesemente dicendo i cavoli miei, come farebbe con qualsiasi persona che dovrebbe sapere qualcosa di me.
Lo fece quando Petra ammise di avere una cotta per me, quando Mike le chiese quale acqua di colonia utilizzassi e quando una vecchietta si domandò l’origine del mio nome. Sinceramente non sono sicuro che Traute sia l’unica donna che ho attorno a lavorare per agenzie segrete.
«Ripetizioni di cosa?» le chiede la mocciosa, ovviamente interessata alle torture a cui sottopongo il suo fidanzatino.
«Matematica, non lo dà a vedere, ma è una delle materie che lo appassiona di più, tanto da leggere libri a riguardo»
Controllerò la presenza di telecamere nascoste per capire da dove vengono prese tutte quelle informazioni, comincia a essere inquietante.
Ora che ho immaginato tutto questo mi sento osservato e, mentre metto una padella sul fuoco per fare un paio di uova, sento come se tutte le ricerche che avrebbe potuto osservare dietro una lente. Chissà quanto è riuscita a scoprire senza permesso, quanti prodotti osceni ha notato nei carrelli dei vari store online.
«Ma Eren non mi sembra andare così male in matematica» commenta Mikasa, ignorando qualsiasi altro spunto di conversazione degli ultimi secondi lanciato dal padre, l’unico interessato a sapere qualcosa in più su di me.
«È lento e impacciato nei passaggi» le faccio notare, lasciando l’uovo sulla fiamma insieme all’erba cipollina e il pepe.
Vado rapidamente nella stanza in fondo al corridoio, nella camera utilizzata da Kenny ci dovrebbe essere un armadio con qualche vestito abbastanza elegante e inutilizzato.
«Non sarai tu quello troppo veloce?» sento dire da Hanji mentre passo, insieme al solito sguardo di disapprovazione della ragazzina.
Nella ricerca mi imbatto in una camicia e un paio di pantaloni la cui giacca è andata persa da più di quanto io possa effettivamente ricordare. Non ricordo se era sua o di qualcuno i cui vestiti toccherei solo dopo averli fatti disinfestare, fatto sta che restano solo quelli come opzione adatta a un funerale.
Li lascio sul materasso mentre torno in cucina, sperando che tutti abbiano tenuto le mani al loro posto.
«Ohi Levi, gli stavo giusto raccontando di come Pixis ha informato tutti in maniera poco delicata della tua perdita l’altro giorno»
«Ah sì? Quindi era per quello che mi trattavano tutti con riguardo ieri»
Dannato ubriacone.
«E ci ha anche mandato una mail per avvertirci del funerale di oggi»
Maledettissimo ubriacone. E so che l’unica persona che può averlo avvertito, anche se fa finta di niente, è lì seduto sul divano.
Una delle preoccupazioni principali, ripensando a questa mattinata scolastica, è l’assenza di una buona scusa per l’assenza della quattrocchi, o almeno, dovrebbe esserlo per lei, dato che io possa esserne invece quasi giustificato data la notizia del funerale.
Anche se avrei preferito sapere tutto con un minimo di anticipo, per non finire a dovermi preparare mentalmente per questa cerimonia in mezzora.
«Beh, noi vi lasciamo soli» afferma l’uomo con un’inaspettata decisione, lasciando delusa Hanji che era felice di poter finalmente fare salotto con qualcuno.
D’altra parte, Swiffer sembra abbastanza soddisfatto nel momento in cui si riprende il suo angolo preferito del divano, riscaldato a dovere proprio da lui.
Mikasa è già sull’uscio, mentre riporta le tazzine, mettendole nel lavandino senza che glielo chieda.
«Ti devo dire una cosa, mi hanno raccomandato di avvertirti» Era solo una scusa per dirmi una cosa in confidenza, non una cortesia. Ci speravo.
Gli faccio cenno, aprendogli l’acqua, di non aspettarsi una risposta verbale che dimostri la mia curiosità.
«Mi hanno detto che sarà presente anche il signor Smith, non so se lo conosci»
Lui? Perché proprio lui dovrebbe essere presente? Lui è la causa di questa cerimonia e non è assolutamente una cosa di cui andare fieri. Sospiro, una, due volte, facendo tornare un briciolo di calma nella mia mente.
«Hanno detto il motivo?» gli chiedo, tentando quanto meno di ottenere delle informazioni. Si dovrà scusare in ginocchio e portare anche suo figlio, perché entrambi mi stanno portando all’esaurimento.
Scuote la testa, non gli hanno detto altro.
Altre domande, un’infinità di altre domande si affollano nella mia mente. Perché deve essere tutto così incerto e ambiguo? Perché ha tutto a che fare con quella famiglia?
Escono dalla porta lasciandomi ribollire nella mia stessa curiosa frustrazione. Ancora venti minuti prima che io debba necessariamente uscire, una ragazza che affonda la sua faccia nel pelo morbido di un gatto.
L’odio verso una persona a cui tengo continua a tessere i propri fili come un eccentrico artista lavorerebbe un arazzo.
Sono sempre più stanco.
Tutto questo mentre un clacson risuona nel viale e una frittata inizia a bruciarsi.

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Capitolo 14
*** Capitolo 12 ***


Sono rimasto a digiuno.
Non che sia un gran problema saltare un pasto ogni tanto, ma il ritmo che quella giornata ha repentinamente preso mi fa brontolare lo stomaco. Ripensando alle energie spese per essere pronto per un momento del genere, mi rendo conto che probabilmente avrei fatto meglio a mangiare quella frittata anche carbonizzata.
Hanji è stata prelevata di forza dalla madre. Avrebbe voluto vedermi indossare il vestito, farmi delle foto di nascosto e poi, soltanto dopo aver creato un onlyfans in cui pubblicarle a pagamento, uscire per tornare a casa.
Quella pervertita.
Sessualizzare qualsiasi cosa io faccia potrebbe essere il suo sport preferito, ma non ci sarebbe competizione, dato che è l’unica a comportarsi così.
Non mi resta nemmeno il tempo per accennare un sorriso malinconico sotto la mascherina, le porte si aprono e due dei soliti personaggi in giacca e cravatta vengono a darmi il “benvenuto”.
«Levi Ackerman» gli dico, prima che possano anche soltanto chiedersi cosa ci faccia un ragazzino in un posto simile.
Il più vicino dei due, un tipo con la carnagione nera, sembra capire immediatamente, facendomi strada.
«Le nostre più sentite condoglianze» mi dice, ottenendo in risposta solo un cenno della mia testa. Lasciando il biondo che l’accompagna perplesso a fissarlo per un secondo.
«Ma aspetta, il certificato del tampone…!» si riprende qualche attimo dopo, mentre io sono già nella hall.
«Lascialo andare Nicolò, non credo abbia ricevuto una cartolina che lo avvisasse della morte di Kenny»
«Va bene Onyan… come diamine si pronuncia il tuo nome?»
Continuo a camminare, trovandomi, seguendo le indicazioni, davanti alla sala dove dovrebbe essere ancora esposta la salma.
 
Passare lungo quel corridoio di persone mi destabilizzava, sapere che ogni sguardo colmo di apprensione era rivolto ad un unico individuo mi ha fatto capire quante poche volte così tanti ti degnano dello stesso silente rispetto.
Non conoscevo nessuno lì in mezzo, non sapevo come quelle persone fossero collegate a mio zio anzi, non riconoscevo un singolo volto corrugato dal dispiacere. Vecchi, giovani, persone con la puzza sotto il naso, donne le cui rughe di dispiacere si incagliavano nel trucco.
Per un momento ho estrapolato la mia coscienza dal contesto, guardando tutto in terza persona.
Mi sentivo un alieno circondato da scienziati curiosi, qualcosa da capire e studiare, da sottoporre agli esperimenti più contorti; avrebbero potuto vivisezionarmi solo per scoprire che in realtà ero come loro.
Ma nonostante la sensazione di essere circondato da predatori, camminavo con gli occhi fissi di fronte a me, puntando la bara. Gli dovevo dare l’ultimo saluto, guardare il suo volto un’ultima volta prima di lasciarlo andare.
Dovevo rimediare a quel penoso modo di lasciare suo nipote, cambiare le ultime parole che ci siamo scambiati, trasformarle in un qualcosa di meno distaccato e freddo di quel suo stupido atteggiamento da gangster di un telefilm.
“Aspettaci qui e non ti muovere”
Come se mi potessi muovere, andare liberamente in giro con la sua macchina. Io, un diciassettenne senza patente. Io, che avevo solo lui nel mondo.
Ti ho aspettato più a lungo possibile, razza di vecchio bastardo, sei tu a essertene andato. Fermo in una lattina nascosta in un vicolo, immerso nei miei pensieri perché i tuoi gusti musicali erano davvero pessimi.
Gli ultimi metri erano proprio davanti alle uniche persone che conoscevo, mi guardavano diversamente da tutti gli altri, non sapendo veramente cosa stessi passando o cosa stessi pensando. Anche loro effettivamente degli sconosciuti mischiati tra gli altri in quella folla.
Soltanto che sentirsi parte di qualcosa, come una famiglia che, per quanto lontana e assente fosse fino a pochi giorni fa, resta pur sempre tale.
Ero rivolto alla bara, non concludevo nulla a sentirmi così, non sarei riuscito a guardarmi allo specchio se ce ne fosse stato uno.
Eppure mi vedevo, come se una parte di me fosse seduta tra gli spettatori di quella patetica scena. Come un altro di quegli esseri meschini che si affollavano alle mie spalle, io stesso sarei stato il primo a giudicarmi.
Debole.
Debole e immaturo.
Uno stupido poppante troppo legato a una figura sostitutiva a quella paterna per lasciarla andare senza tutti questi sentimentalismi.
 
«Non dovevi venire per forza» La voce di Traute suona quasi preoccupata, come se credesse veramente alle parole che aveva utilizzato. Forse non si rendeva conto di quanto vuota e priva di significato fosse quella frase.
«Potrei dire la stessa cosa di te» Mi metto seduto nel piccolo settore “Ackerman” che sembrava essersi creato, ma alzando lo sguardo la ritrovo ancora lì pronta a dirmi altro.
Non che ci fosse molto di cui discutere, ma non mi sembrava comunque il momento adatto, dato che dietro di lei si era già preparata una lunga fila di persone pronte a rivolgermi le loro condoglianze.
Una domanda, guardando la finta reverenza e l’incapacità di mantenere il silenzio di quella piccola processione, più per capriccio che per vera curiosità mi balenò in mente: «Sanno tutti quanti come mi sfruttava sul lavoro?»
La mia domanda coglie esattamente nel segno, dallo sguardo colpevole della donna e dalla faccia dei primi ad aspettare dietro di lei, iniziando un passaparola che arriva fino a un preciso uomo. Non ero assolutamente a conoscenza di chi fosse, senza poter riuscire a immaginare la faccia nascosta al di sotto di quella mascherina ffp2 bianca. Sicuramente però era l’ultima persona a cui il mio dubbio doveva arrivare, dato che le persone più avanti si sono limitate a chinarsi allungandosi per carpire qualcosa dal continuo sussurrarsi.
Soddisfatto della reazione, mi volto di nuovo verso l’ex di Kenny, definizione che si è guadagnata solo dopo la sua morte, avendo dimostrato quando effettivamente ci tenesse a quella testa calda.
«Sanno qualcosa della vostra relazione?»
Il momento di silenzio che segue mi rende tutto più chiaro, almeno per me. Tutti quelli seduti sulla mia stessa panca non sembrano nemmeno aver capito a chi io stia parlando di tutto questo. Forse la madre di Mikasa sembra quella più ricettiva, dato che al coniuge non sembra essere chiaro, mentre la figlia non sembra interessata, come al solito.
«Levi, smettila» tenta di fare la voce grossa, dimostrando come anche tale mia teoria fosse vera. Non potevano avere quella relazione, due clandestini nella loro realtà fuori dalle regole.
Tra le due questioni sembrava quella la più urgente, quella che le premeva di più, probabilmente ne valeva la sua posizione all’interno di quell’organizzazione e così mi avrebbe dato l’opportunità di liberarla da quel mondo. Sì, avrei preferito sapesse le mie intenzioni da buon samaritano, ma avevo deciso di saltare le spiegazioni. In quei dieci minuti passati in quel luogo mi ero sentito così oppresso da far accelerare il mio piano.
Qualcuno nelle retrovie si sta già accorgendo di quello che stava accadendo e sta tentando di raggiungere lo stesso uomo a cui le prime informazioni sono state riferite. Questa volta il passaparola non è nemmeno iniziato, chi è abbastanza vicino da sentire le mie parole evidentemente è già a conoscenza di questo fatto. Quello che mi chiedo è perché non sia ancora arrivata ai piani alti.
Non sembra che si stia trattenendo ulteriormente, ormai colta in flagrante davanti ai suoi colleghi s’incupisce continuando a guardarmi, come fosse una sorella maggiore che sente di aver tradito la fiducia del suo fratellino.
«Ah, ho capito cosa stai facendo» mi dice, riuscendo a finire appena prima di essere richiamata dal fondo della sala. Riconosco la voce di uno dei due uomini che mi hanno accolto all’entrata.
«Traute, il capo ti vuole nel suo ufficio» Ovviamente quello a cui tutti prima passavano le informazioni è già scomparso.
«Grazie Levi» Mi sorride, lasciando che il mio silenzio sia la risposta più adatta ad accompagnarla altrove.
Finalmente, la fila può scorrere davanti a noi e quelli che volevano lasciare le loro inutili condoglianze alle uniche quattro persone legate in qualche modo al defunto Kenny Ackerman.
 
La fine di quella processione insensata è arrivata più presto del previsto.
Da quanto ho capito, nessuna delle persone passate fino a qual momento era direttamente un collega di mio zio, facevano soltanto parte dei gruppi di supporto a chi operava sul campo. Quelli che si sentivano parzialmente responsabili del suo decesso.
Li capivo.
Nonostante i loro sforzi, non aveva mai accettato la loro presenza quando era nel pieno del suo lavoro. Forse per continuare la sua relazione, forse perché si fidava più di un ragazzino al quale stava lentamente insegnando come sopravvivere in un mondo che non esiste. La favola distopica di un cacciatore di taglie vestito ancora da cowboy.
Prima che i suoi colleghi potessero raggiungerci, un’altra persona aveva rivendicato il suo diritto di porgere le sue scuse.
«Signor Smith» richiamo la sua attenzione, nonostante lui si stesse già rivolgendo all’altra parte della famiglia.
La sua reazione, pacata e razionale, mi ricorda molto quella che potrebbe avere Erwin. Ponendo uno dei due di fronte a un qualsiasi pericolo probabilmente sarebbe la stessa. Calcolata e distaccata, così come il suo modo di congedarsi.
«Perdonatemi, credo che quella sia una questione più urgente» Li lascia interdetti, ma credo che non sia difficile per loro capire quanto io ne abbia bisogno di più. Come avrei voluto vedere il figlio inginocchiarsi per chiedere il mio perdono, purtroppo mi devo accontentare di una delle poche persone che non riesco a far trasalire con uno sguardo.
«Levi, le mie più sentite condoglianze»
«Può tagliare corto e andare alle spiegazioni, professore» lo interrompo, tentando sempre di impormi su di lui nell’unico modo che ho imparato a rapportarmi con chi è in debito con me. Ovviamene senza scaturire alcuna espressione di quelle che sono abituato a vedere, anzi, sentendomi nel torto della mia insolenza.
Come diamine fanno?
«Non c’è molto da spiegare, purtroppo mi trovavo nello studio dell’avvocato Finger» Comincia la sua spiegazione, come un ottimo insegnante è riuscito sia a far placare il mio animo, che per un attimo avevo sentito più simile a Mikasa, sia a tirare fuori le informazioni richieste.
Era lì per una semplice consulenza, mentre l’obiettivo di Kenny era tenuto nascosto in quello studio, lontano da chiunque volesse la sua testa. A quanto pare la lista era lunga.
Lui era l’errore di calcolo, in quanto nell’organizzazione avevano già preventivato la presenza dell’avvocato e segnalato come complice, altro soggetto sacrificabile, ma nessuno si aspettava la visita fuori agenda di un semplice insegnante.
Avevo pensato a una lunga lista di spiegazioni, teorie complottiste secondo cui la famiglia Smith voleva in realtà uccidermi, prima logorandomi la mente, ma mai mi sarei aspettato una semplice coincidenza. Nonostante questo, non ne sono convinto, manca un tassello. Se questo Finger stava nascondendo un individuo del genere, come poteva essere arrivato a essere suggerito a lui come avvocato?
«Le voglio chiedere solo una cosa» lo interrompo di nuovo. Stavolta senza arroganza o superiorità, facendogli capire dal mio tono che avevo accettato quel racconto come verità e scuse. Infatti, nonostante l’abbia fermato, lui mi guarda aspettando che io continui.
«Che tipo di consulto doveva richiedere?» Mi sono arreso. Non esiste alcuna cospirazione, nessun piano maligno tramato alle mie spalle. Un uomo nel luogo sbagliato nel momento sbagliato. Come fu per mio padre in quel vicolo, il destino riserva sempre il trattamento più strano a chi lo merita.
«Dovevo sapere se sia possibile cambiare le clausole di un contratto di affitto in base a un’adozione fatta dopo la firma dello stesso»
Stanno per aggiungere un membro alla famiglia, cosa di cui non è stata fatta parola dal biondo dai mille misteri. E mio zio è morto per una stupida clausola di un contratto.
Non credo si possa aggiungere altro a questa morte patetica.
Se stai guardando: Kenny, fottiti.

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Capitolo 15
*** Capitolo 13 ***


 
Primo e ultimo angolo dell’autore:
Stiamo raggiungendo la fine della storia, mancano cinque capitoli come già specificato nella descrizione e questo è il quartultimo della trama. L’ultimo sarebbe un extra per risciacquare l’amaro in bocca che lascia concludere per la prima volta una storia abbastanza lunga.
Faccio dei ringraziamenti anticipati a chi segue la storia (soprattutto a coloro che la seguono silenziosamente, perché non ho ancora avuto modo di farlo) e chiunque continua a leggerla arrivati a questo punto.
Resistete ancora un pochino, ci siamo quasi!


Ennesima sveglia alle sette, accompagnata dai felici miagolii di un gatto al quale sembro essere mancato più del solito. Sicuramente sta solo pregustando la scatoletta al salmone norvegese che tengo da parte per il giovedì, giorno in cui il suo veterinario mi ha raccomandato di abbondare con il cibo umido.
Swiffer ha un dietologo, mangia salmone che potrebbe essere il mio pranzo e non mi lamenterei, ma lui ha addirittura da ridire se lo chiamo “palla di pelo viziata”.
 
Ieri sera non mi ha nemmeno aspettato sveglio, anzi, era spalmato sulle mie lenzuola con la stessa pesantezza e voglia di muoversi della sfinge di Giza. Come se fosse lui a pagare le bollette.
Accorgendomi che quella poteva essere la creatura più pretenziosa con cui avessi avuto a che fare quel pomeriggio, ne rimasi quasi colpito: date le premesse e facendo i dovuti calcoli, almeno un quarto delle persone presenti al funerale di mio zio potenzialmente avrebbero potuto mandare in aria i miei piani.
La facilità con cui alcune situazioni si fossero apparentemente risolte e la silente pacatezza con cui il tempo fosse volato erano quanto di più lontano da ogni mia previsione.
Per prima cosa, non mi sarei mai aspettato che il mio tentativo di far lasciare quel posto a Traute avesse la benché minima possibilità di andare a buon fine. E nonostante il mio pessimismo abbia suggerito varie soluzioni alternative, creando possibilità immaginarie vicine al pensiero che la potessero far sparire in quanto testimone di tutte le loro attività, lei era tornata da me, smentendo tutte le mie paranoie.
In quel momento ho lasciato andare uno dei sospiri di sollievi più genuini che abbiano mai lasciato la mia bocca.
La seconda questione era l’interrogativo che puntava verso il signor Smith, ma la risposta ottenuta senza troppe storie aveva eliminato le mie preoccupazioni per quella strana coincidenza che si era andata a creare. E, anche se la storia dell’adozione poteva benissimo essere una sua scusa per coprire qualcos’altro, non avevo nemmeno voglia di stare a cercare un accenno di titubanza nella sua voce o un’incertezza nei suoi occhi. Mi bastava essere certo che almeno lui non fosse parte del complotto per rovinarmi la vita, rimandando a un altro giorno i dubbi sul figlio.
Finito il rinfresco che distoglieva l’attenzione dal trasporto della salma in un posto migliore, i genitori di Mikasa hanno insistito per riaccompagnarmi a casa. Decisione accolta dalla contrarietà della ragazza, alla quale mi sarei volentieri unito, ma non avevo un altro passaggio gratuito per casa e l’idea di condividere un sentimento del genere con lei era raccapricciante.
Fortunatamente ad accoglierci davanti al piccolo cancello della palazzina, dopo un tragitto abbastanza silenzioso, si trovava una sorpresa imbambolata davanti il mio citofono impegnata al telefono con il padre. Eren aspettava da chissà quanto, ma non aveva ancora creato un solco sul marciapiede camminando avanti e indietro con la sua solita ansia infondata.
Nonostante non capissi quale fosse il motivo per cui aveva contattato il dottor Jeager, anche Swiffer nel suo modo di guardarlo con una superiorità malcelata lo giudicava dalla finestra. Sembrava interrogarsi sullo scopo della vita, insieme alle varie domande che hanno spazio in quella testolina felina: “Dove sono i miei croccantini?” e “Come fa la lettiera a essere così pulita?”.
Sono stato anticipato da Mikasa, la quale era subito scivolata fuori dal finestrino per salutare il suo compagno di classe «Ereh!»
L’attimo di silenzio seguente mi serviva a capire come diamine l’avesse chiamato e per quale misterioso motivo la sua voce fosse salita di due ottave, raggiungendo lo stridente starnazzare di un’anatra.
Il ragazzo, colto di sorpresa dal suo richiamo amoroso e totalmente ignaro del nostro arrivo, aveva lo sguardo di una persona appena entrata in contatto con un alieno, potrei capirlo dato lo strano atteggiamento della ragazzina e il suo modo di storpiargli il nome. Ma non capirei mai perché invece di contattare me parlasse con i suoi.
Avendo visto scendere dalla macchina anche il motivo della sua visita, la sua espressione sembra rasserenarsi, quasi si fosse reso conto di non essere il completo idiota che è, ma di aver solo sbagliato orario.
Era la prima volta che qualcuno mi accoglieva davanti a quel portone senza i modi pretenziosi e supponenti comuni ai cacciatori di taglie, anzi, mi sono sentito appagato perché sembrava un cane che attende il padrone dal rientro dopo una giornata di lavoro.
Il poverino si aspettava una mano dal sottoscritto e nonostante ieri fosse il giorno meno adatto, ho accolto la sua richiesta di fare quella lezione di ripetizioni aggiuntiva positivamente: mi sarei liberato in una mossa della ragazzina petulante e dei suoi genitori, concludendo quindi la giornata sfogandomi un minimo su di lui.
 
Solo ora posso sentire gli effetti benefici degli insulti a quella zucca vuota, inizio meglio le giornate ogni volta. È come aver preso a pugni un sacco da boxe per rilasciare i nervi.
La dose di endorfina necessaria ad affrontare la giornata che si staglia davanti a me come un muro stressante è tutt’ora in circolo, liberata da quello che dovrebbe essere scientificamente paragonabile a uno sforzo muscolare.
L’ultimo giorno, quello che secondo le mie previsioni avrebbe racchiuso in sé l’exploit delle idee bizzarre che Erwin aveva tenuto per il “gran finale”. Il cui culmine combacerà sicuramente con la fine della mia vita.
Arrivato a scuola noto subito la piega tragicomica che avrebbe fatto da sfondo al resto della giornata: un branco di primini brancolava davanti all’entrata come zombie di fronte alla sede delle olimpiadi matematiche.
Aggirandomi tra di loro posso sentire un mix tra sguardi sorpresi e stupiti, dato che qualcuno del quarto anno non riesce a svettare come altri sopra le teste vuote dalle quali partono quegli sguardi ebeti e privi di qualsiasi attenzione.
Mi fanno incazzare, ancora di più sapendo che riescono a lanciarmeli addosso da qualche centimetro sopra la mia fronte. Con cosa diamine è stato concimato il terreno su cui sono cresciuti?
È come essere un bonsai e venir curato con estremo amore e difficoltà in un’alta foresta di faggi, sotto la loro stupida ombra.
Passando tra quei pali della luce su gambe non posso spegnere l’istinto che mi porta ad ascoltare le conversazioni di quelli che incrocio. Forse dovrei trovare un interruttore per i miei istinti basati sulla poca fiducia per il prossimo.
In una decina di metri mi ritrovo immerso in domande di vario genere e che avrei preferito non essere mai costretto a farmi.
Perché sono tutti così scemi? Sembra di stare a guardare un circo, ma così disorganizzato da non avere un’attrazione principale, solo un’accozzaglia senza senso di scenette comiche o movimentate.
Perché Eren battibecca con un ragazzo chiamandolo “faccia da cavallo”?
Cos’hanno da guardare quel biondo dalle spalle larghe e la coppietta con lui?
E non oso nemmeno immaginare cosa abbia combinato quella mora per essere chiamata ragazza patata.
Si vociferava qualcosa riguardo a una studentessa che si era portata una patata bollita che aveva iniziato a mangiare davanti al professore di educazione fisica, offrendogliene metà per non si sa quale stupido motivo.
Passare tra di loro mi riempie di angoscia, stiamo davvero lasciando la scuola a questa mandria di zucche vuote, andremo via a crearci un futuro migliore e loro distruggeranno quello che noi gli abbiamo lasciato in eredità. Potrebbe non essere il luogo sicuro e perfetto che una persona si aspetterebbe, ma dentro queste mura si è più al sicuro che al di fuori, che loro lo capiscano o no.
Appena metto piede sotto il portico incrocio un volto familiare, sfortunatamente per me non è proprio il paio di occhi che preferisco vedere di prima mattina.
«Oh, Levi eccoti qui, pronto per la festa di stasera?» Guardo meglio, sembra che abbia usato del trucco per accentuare le sue occhiaie e simulare una notte insonne. Auruo, anche le fottute borse sotto gli occhi mi vuoi copiare?
«Dovresti smetterla di tentare di arrampicarti sugli specchi per assomigliare a me, basta dormire tre ore in meno tutte le notti e ti vengono naturali»
Dato che è stato colpito sul vivo, non ci mette un secondo a rispondere a tono «Ehi, io ho una skin routine da seguire!» Altrettanto rapidamente si accorge di come quella risposta suona una volta pronunciata.
«Volevo dire.. ho fatto decisamente tardi ieri sera» dice schiarendosi la voce, tentando di recuperare un minimo di dignità nella figura di merda appena portata a termine.
«Sì, potresti usare quella come scusa con Petra, sicuramente ha un effetto migliore»
Aggrappandosi all’unico modo che aveva per portare avanti la conversazione, mi segue nonostante il mio tentativo di lasciarlo ad aspettare gli altri da solo.
«Quindi ci vieni alla festa, no?» mi chiede, di nuovo, con un tono leggermente più autoritario, copiando probabilmente qualcun altro. Il problema di doversi creare da zero un carattere è che non sa da dove iniziare e ha preso come primo spunto proprio il peggiore: un Ackerman.
«Ci vengo, non posso mancare» Probabilmente la faccia sorpresa che segue la mia risposta, è dovuta all’abitudine di vedermi scontroso e contrario a qualsiasi minima manifestazione di affetto.
Dopo qualche attimo di esitazione, continua con altre informazioni non richieste: «Hanno detto che possiamo portare qualcuno»
Che diamine è, un matrimonio? Possiamo addirittura avere un partner per aumentare il numero dei partecipanti? Evidentemente non siamo abbastanza nel nostro gruppo per rendere omaggio al suo addio.
«Hai già chiesto a Petra?» gli domando, sapendo che per lui sarebbe la scelta più ovvia.
«È già stata invitata, viene con Gunter»
Non è passato un giorno da quando litigavano che già è tornata da lui, se non è amore questo. Immagino quindi che Erd non venga per evitare lo scontro.
«Penso di invitare una ragazza del primo anno per fare colpo, sai no?» tenta di vantarsi di una manovra subdola e inefficace, soprattutto perché la festa non è la sua e dovrebbe comunque riuscire a trovarne una disperata.
«Quella che chiamano ragazza patata promette bene»
Ed è ufficialmente diventata l’ultima conversazione che avrei voluto fare per iniziare una qualsiasi giornata, anche se non fosse condita con la consapevolezza che il membro più importante del nostro gruppo sta per andarsene.
Non che mi importi della comitiva in sé, dato che con il tempo abbiamo iniziato ad accettare soggetti come Auruo e i suoi amici, ma senza qualcuno che organizzi e faccia da mente al posto loro probabilmente si sfascerà. I singoli gruppetti che si possono già notare, spalmati tra quinto e quarto anno, si faranno più distanti ed evidenti, se riusciranno a non dividersi anche tra loro.
Mi siedo al mio posto, continuando a pensare che probabilmente in questa sezione Hanji dovrà fare da ponte tra due gruppi che si verranno a creare, poiché nonostante non facciano parte di quella combriccola, io resterei con Farlan e Isabel. Non riuscirei a sopportare il mio sosia e miss facilina troppo a lungo senza qualcuno che li renda meno insopportabili.
Fuori dalla porta il flusso degli studenti è lento e costante, con tutte queste restrizioni solo un paio di studenti alla volta possono entrare, facendosi misurare la temperatura all’entrata dal personale ATA. Solite regole imposte dall’”alto”.
Riesco a vedere i miei compagni attraversare l’assembramento di primini appostati davanti al cancello in attesa di un pullman che li porti in gita. Sembra tutto più tranquillo visto dalla loro prospettiva, meno stress accumulato dalla costante esposizione a un numero troppo elevato di verifiche e interrogazioni programmate. Argomenti più semplici e più tempo libero per affrontarli o pagare per delle ripetizioni ed essere seguiti anche da qualcuno che non ne ha la minima voglia, ma ha un bisogno disperato di soldi.
Salendo sul veicolo noto proprio lo scemo a cui stavo pensando, gasato insieme al suo amichetto e mia cugina per la giornata completamente regalata a cui vanno incontro. Mentre io devo restare qui a pensare ai capricci dell’altro scemo che compare appena lo sportello di chiude dietro di loro.
La chioma bionda perfettamente tirata da una parte è stavolta pettinata in modo più sbarazzino e le singole ciocche che erano fuori posto scendevano lungo la parte rasata stranamente bene. Possibile che stia trasgredendo le sue stesse regole senza essere colpito dal fulmine del karma?
Avrò modo di capire cosa è successo al suo pettine più tardi, è appena entrato un uragano in classe.
«Leeeeeviiiiii!» urla muovendosi con dei saltelli per arrivare di fronte a me e appena è abbastanza vicina per rompere qualsiasi restrizione da covid e buonsenso, urla come se fossi sordo «Buongiorno!»
Non so in quale universo parallelo lei stia vivendo l’altra metà della vita, ma probabilmente in quel magnifico posto io sono già morto. Per questo sembra che le manco tanto ogni giorno.
«Quattrocchi, fai silenzio» La sosto mettendole la mano sul viso, approfittandone per tapparle anche la bocca e non dovermi sorbire un altro urlo da quella distanza.
Ma mentre lei mugugna qualcosa sullo spostarla e il volermi chiedere come stia andando la giornata, da dietro le sue spalle riesco solo a intravedere la chioma bionda entrare nell’aula sbagliata. Sbatte quasi allo stipite della porta quello spilungone dalla faccia trasandata.
«Cosa vuole ora?»

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Capitolo 16
*** Capitolo 14 ***


Hanji si accorge solo dopo una moltitudine di segnali dell’opprimente presenza di Erwin alle sue spalle, è troppo impegnata a controllare che io stia bene come farebbe un veterinario con un animale. Già è tanto se non mi solleva per ispezionarmi le parti intime.
In un lampo, sostituisce i movimenti goffi con cui stava dimostrando la sua preoccupazione nei miei confronti con quelli più formali e quasi professionali che si addicono alla perfetta rappresentante di classe che è.
«Erwin caro, tutto bene?» gli chiede, levandomi il peso di dover cercare una risposta a quella domanda per conto mio.
Se non si fosse presentato così avrei tentato un approccio meno empatico e silenzioso per capire cosa gli passa per la testa dopo avermi nascosto così tante cose fino a oggi, ma lo stato in cui sono conciati i suoi occhi dimostrano che già ne ha abbastanza per iniziare la giornata. E non sento il bisogno di diventare uno dei motivi del suo evidente malessere.
Mi limito a osservare da lontano quella figura imponente. Se fosse rivolto ad est probabilmente la sua ombra raggiungerebbe il mio banco e potrei toccargli la spalla restando dall’altra parte della stanza. Stupido giocatore di pallavolo mancato.
«Tranquilla Hanji, ho passato solo una nottataccia per sistemare gli ultimi bagagli» le risponde, lasciando entrambi lievemente sorpresi. Sembra si stia lasciando andare proprio per quest’ultimo giorno, come se appoggiando la coppia che compone la punta di un castello di carte, il resto crollasse. E lo dimostra finendo in ritardo i preparativi e arrivando con quello che sembra un nido di uccelli in testa.
«Sono venuti a parlare con tuo padre ieri sera?» gli chiedo senza quasi accorgermi di aver mosso le labbra. Sono arrivato a una conclusione affrettata, ma anche l’unica che riesco a pensare quasi istintivamente: i bastardi dell’associazione di cui faceva parte Traute avevano ancora qualcosa da chiedere al signor Smith.
La sua espressione diventa leggermente più serena, probabilmente sapere di non dover ammettere con la sua stessa voce quelle stesse informazioni e doverle spiegare, ripetutamente, davanti ad altri lo conforta a quel punto. È anche vero che farebbe di tutto per trovare una scappatoia e proteggere la faccia di fronte agli altri, io gli ho solo dato modo di sfruttarmi per coprire il resto.
Annuisce, seguendo il lento movimento con quegli occhi dal colore così strano, come fossero spiritati e bloccati.
«Possono essere veramente dei diti al…» La prof entra non lasciandomi modo di finire la frase. Il suo sguardo è già diretto verso di me con lo stesso odio che rivolge a chi non è pronto per le interrogazioni, non voglio che trasformi la mia esistenza nell’inferno che le piace tanto spiegare.
Una volta che la classe la saluta con distrazione, ancora presi dalla vista del rappresentante degli studenti, è lei a rompere il silenzio, con la solita aria di indispettita superiorità.
«Non iniziate una riunione durante la mia ora, piuttosto vi do il permesso di uscire» dice, indicandoci velocemente per liberarsi in fretta del problema e cominciare a spiegare. Non aspetta nemmeno che siano arrivati tutti in classe, ma visto che i controlli vanno a rilento all’aumentare delle persone presenti all’ingresso le ruberebbero una buona mezz’ora preferisce sbrigarsela così.
«Perché sono capitate a me tutte queste prime ore, non posso fare lezione a quattro gatti ogni volta» la sentiamo lamentarsi finché la porta non si chiude alle nostre spalle, ma conoscendola andrà avanti ancora a lungo con quella storia, sprecando più tempo di quanto se ne possa permettere.
Nel corridoio siamo costretti a defilarci per non disturbare il passaggio ai poveracci il cui ritardo è stato accentuato dall’inefficacia dell’organizzazione scolastica, che fa ancora acqua da tutte le parti nonostante sia stata orchestrata dal biondo.
Girato l’angolo che la nostra aula fa con il muro interno del cortile, proprio lo spilungone si appoggia alla parete per rilassarsi un momento, nonostante attraverso le palpebre spalancate e la pupilla dilatata sembra ricordare una sua esperienza traumatica.
«Per oggi pomeriggio è tutto organizzato?» gli domando, tentando di riportare la sua attenzione alla realtà, ma quel pensiero sembra averlo fossilizzato in quella posizione e l’espressione che immagino sotto quella mascherina è inquietante.
«Cosa succede Erwin?» Hanji non riesce a resistere, più curiosa di quanto dovrebbe essere e ancora ignara di quello che io ho già intuito.
Decido che è arrivato il momento di svegliarla, per aiutare lui con il peso che ha già sulle spalle «Ti ricordi quei tizi che stavano a casa mia l’altro giorno?» sono il più cauto possibile, per evitare che qualsiasi altro dettaglio della nostra serata venga erroneamente interpretato.
«Quando ti ho portato quella sorpresa?» Proprio l’argomento che avrei preferito evitare, ma lui non sembra farci nemmeno caso, lasciandoci parlare senza intervenire.
«Sì, proprio quel giorno. Gli stessi uomini hanno fatto delle domande a suo padre perché aveva preso parte a una loro operazione»
«Senza saperlo» aggiunge Erwin, capendo che con il mio stesso discorso mi sono messo con le spalle al muro e non riesco ad uscire da quel tentativo di spiegarle senza far prendere colpe inutili a suo padre.
Ma la quattrocchi sembra berla senza fare ulteriori domande, forse ha intuito che la situazione è troppo intricata per essere spiegata in quel luogo e con così poco tempo a disposizione. Senza pensarci due volte gli dimostra il suo appoggio abbracciandolo semplicemente, lasciando che lui le appoggi la mano sui capelli per accarezzarla come si fa con un cane.
Non sembra essersi ripreso ancora del tutto, ma almeno i muscoli facciali sembrano rilassarsi un pochino, preso da quella spontanea dimostrazione di affetto.
«Ohi, Erwin, non avevi qualcosa da dirmi?» Mi guarda, staccandosi dalla ragazza senza essere brusco. Sta tentando di rimandare, fa sempre così prima di fare quella mossa idiota che dovrebbe lasciarmi sul posto fino alla prossima volta, ma l’unica occasione che avremmo per parlarne è stasera.
Ma finalmente dopo anni di giochi psicologici riesce a rispondermi senza farmi anche venire il mal di testa: «Stasera, stasera ne parliamo»
 
Le lezioni oggi sono stranamente passate con una lentezza esasperante, forse la mia mente mi sta proteggendo da quello che mi aspetta facendomi percepire il movimento delle lancette rallentato, o forse quella risposta così tanto aspettata mi ha scombussolato.
La ricreazione invece sembra passare fin troppo velocemente, come sempre.
Sono rimasto al mio posto per tutto il tempo, non ho granché voglia di seguire il ruolo di animale sociale che la natura ha pensato per l’uomo, non fa per me. Però, nonostante le mie precauzioni, immagino che non possa scappare agli altri primati sociali.
«Ehi Levi, sei sicuro che posso venire con te oggi pomeriggio?» mi viene a chiedere Isabel, girando la sedia verso di me.
Francamente non sono sicuro della mia scelta, ma non saprei chi altro portare e lei mi sembra la più adatta all’occasione, avrei qualcuno con cui evadere dal resto del gruppo e che potrebbe tirarmi su il morale con il suo sarcasmo schietto e pungente.
«Farlan non è d’accordo?» le chiedo, non ho avuto un attimo per chiederglielo direttamente, ma non voglio nemmeno fargli un torto. Quindi provo almeno a capire se è stata una mossa fin troppo azzardata o se è riuscito a capire la situazione senza fare il testardo.
«Ha detto che se passo un pomeriggio con te ne vuole due per sé» risponde ridacchiando, evidentemente essere contesa non le dispiace, anche se è chiaro che l’interesse maggiore non è a mio carico. Il suo sguardo acceso e vivace riesce a trasmettere le stesse energie che ha agli altri, soprattutto perché contiene la sua vena ironica e sincera.
«Quindi tutto a posto, grazie per sacrificarti in quel modo» Sorride, per poi muoversi velocemente verso di me, come fulminata da un’idea.
«Stavo ascoltando in giro» si avvicina per sussurrarmi un pettegolezzo idiota e di cui probabilmente mi importa poco «in realtà Petra viene insieme a Erd»
Fingi stupore e l’argomento durerà meno di una tortura medievale «Cavolo, davvero? Che gatta morta» mi sto trattenendo solo perché un professore potrebbe essere appostato sotto il banco per origliare qualsiasi insulto e mettermi una nota per rovinare il voto della mia condotta.
«Sì, infatti! Poi Auruo è riuscito a convincere la ragazza del primo anno solo perché le ha promesso un posto davanti al rinfresco» mentre lo dice si accorge di aver parlato con un volume di voce troppo alto e si guarda alle spalle colpevolmente. Fortuna per lei quel gruppetto in particolare è ancora immerso nel ripasso per le interrogazioni programmate della prossima ora.
«E Hanji porta ovviamente Moblit, ha detto che ci sono due angolini in cui non possono essere visti»
I ruoli della festa iniziano a prendere forma nella mia mente «Se la ragazza patata è quella che ha mangiato davanti a Shadis, credo che quelli non saranno gli unici piccioncini»
Lei mi guarda non capendo il nesso tra le due coppie, ma io non mi riferisco al mio mimo; quindi, le vado incontro aggiungendo «Probabilmente anche quella primina e il buffet avranno momenti intimi» Scoppia a ridere, facendomi sorridere per quanto poco serva a scatenare quella reazione così genuina.
Petra ci riprende richiamandoci al silenzio. Solo perché deve finire una cosa che avrebbe dovuto fare comodamente a casa sua, ora pretende di potersi comportare egoisticamente calpestando il nostro diritto a svagarci nell’unico momento prefissato per farlo. Per loro evidentemente è più importante grattarsi la pancia a casa piuttosto di recuperare un minimo di ossigeno tra le lezioni.
«Mike chi porta?» mi chiede lei, l’unico di cui non sa cosa spettegolare, ma la vera domanda è: «Chissà chi invita Erwin» le rispondo.
Mi guarda in una maniera strana, come se non dovessi dare importanza a quel problema di troppo. Per lei probabilmente la domanda era un sintomo della mia gelosia verso di lui, la nota sempre e molte volte non ha tutti i torti.
Dal momento in cui l’ho conosciuto più intimamente ho considerato lui come una delle persone più vicine e intime della mia vita, l’unica che mi conosce a fondo alcuni aspetti ad altri sconosciuti.
Ma resta il solito jolly, colui che non riesce mai a comunicare chiaramente il suo stato d’animo e le proprie intenzioni, maledetto. Avendo scoperto che potevamo avere un accompagnatore solo stamattina, dovrei aver capito che non aveva nemmeno intenzione di farmelo sapere.
Chissà come sarebbe stato divertente scoprire di essere l’unico a essere arrivato lì da solo. Per quale motivo avrebbe dovuto orchestrare una cosa del genere? Spero si sia solo scordato di avere il mio numero, cinque applicazioni con cui abbiamo interazioni, il mio indirizzo e un sistema di piccioni viaggiatori più che funzionante. Swiffer apprezzerebbe l’ultima opzione.
«Ancora pensi che abbia avuto tempo di invitare qualcuno?» si intromette Hanji, sbucando alla mia sinistra. «Mentre voi due ragazzi avete deciso di venire?» aggiunge sorridendo, come se stesse guardando attraverso una vetrina un’adorabile coppietta di cuccioli.
Isabel annuisce con convinzione, come se la stesse rassicurando del fatto che non sarò da solo. Okay, non sono un bambino che deve essere per forza accompagnato e mi sta facendo quasi pentire della mia decisione.
«Non mi serve la babysitter» Mi accorgo solo l’attimo dopo che potrebbe far risaltare troppo una permalosità che non fa parte della mia persona, forse ho passato troppo tempo con un’adolescente in piena crisi ormonale. Guardandomi intorno direi forse che Mikasa è solo “quella di troppo”.
«Ti crediamo, tranquillo» La rossa mi accarezza il braccio accentuando il sarcasmo delle sue parole, per poi girarsi verso la quattrocchi «Non ci sarà mica un’etichetta da seguire, vero?» le domanda esasperando l’espressione colma di paura, già non è capace a nascondere un’emozione, se inizia a esaltarle diventa un libro aperto.
Quegli occhi sono tanto rotondi quanto sinceri al punto da creare motivi per attaccare briga senza volerlo, il più delle volte perché non riesce a coprire le sensazioni sgradevoli che alcune persone le provocano. Purtroppo colpisce sempre in pieno le persone più permalose, soprattutto se si tratta di professori e altri studenti.
«Ma tranquilla, non è una festa a tema, devi solo venire vestita» Mi guarda ridendo sotto la mascherina, prima di aggiungere «Prendi spunto dalla sua camicia»
Isabel mi guarda cercando l’indumento in questione, nonostante abbia avuto più volte modo di vedere che indosso solo un’anonima maglietta nera.
«Quella che metterò dopo» le faccio notare. Spero che prima o poi riuscirà a rendersi conto di quanto è ingenua.
Al suono della campanella, mentre gli interrogati del giorno si alzano per andare al patibolo di filosofia, mi lanciano entrambe un ultimo sguardo che sembra volersi quasi scusarsi per qualcosa. Perché mi trattano sempre come se ci fosse qualcosa di sbagliato?
Fortunatamente riesco in poco tempo a distrarmi da quella sensazione aiutato dalla prestazione penosa dei tre che accompagnano Petra. Classico delle interrogazioni basate sul mix di ripasso e nuove conoscenze: generano un mix di “Ah sì, quello” e “Ehm…” prolungati per far arrivare suggerimenti inesistenti. Anche la ragazza continua a pronunciare quegli odiosi suoni mentre prova a ricordare dei concetti che non sono nemmeno presenti nella sua memoria, ma è il professore a finirle le frasi.
Non credo che Zacklay faccia preferenze di genere, quello è più un comportamento più da Pixis, immagino che faccia così perché anche lui ha una casa in cui fare ritorno e non ha tutta la giornata per ascoltare quei mugolii fastidiosi. Sta soltanto facendo un vano tentativo di velocizzare i processi più di quanto quei cervelli gli sono capaci di fare autonomamente.
Guardandoli così mi accorgo che il gruppo eterogeneo che si è andato a creare è veramente strano. Più strano sarà vederlo riunito insieme ad altre persone creando quello che mi aspetto sarà il caos.
 
A casa la situazione non è diversa dal funerale di Kenny.
Swiffer pretende di essere sfamato più di quanto sfamerò me stesso in tutta la giornata, la camicia di cui si parlava prima è nascosta da qualche parte nell’armadio e anche oggi non ho nemmeno pensato a studiare o accendere il computer in generale.
Credo che il vero problema siano le comunicazioni che potrebbero essere arrivate tramite mail, che non controllo da telefono, ma sarà il problema per un altro giorno arrivati a questo punto del pomeriggio.
Il gatto muove la coda come fosse il pendolo di un vecchio orologio, scandendo il tempo della sua oziosa vita con la stessa pigrizia con cui ha chiuso gli occhi illuminato dalla calda luce del sole. Dovrei imparare da lui a fregarmene di meno di altri esseri umani e mangiare di più mentre lo faccio.
Pochi attimi prima di uscire gli accarezzo la testa facendolo sospirare nel sonno «A dopo palla di pelo»

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Capitolo 17
*** Capitolo 15 ***


Nella mia brevissima esperienza di feste e party a casa Smith, ciò che ne procede l’inizio è sempre sul filo del collasso nervoso, soprattutto quando resti un minuto buono ad osservare la pesante porta rinforzata prima di bussare. Riesco a capire la sensazione di inferiorità che prova Eren ogni volta che resta imbambolato a fissare il mio campanello per paura di aver sbagliato orario e disturbarmi.
Fortunatamente di solito mi salvo da queste occasioni per la mia fantastica nomea da antisociale scorbutico che nessuno vuole attorno in momenti che dovrebbero essere felici e spensierati. Ma di solito sono il primo a fare di tutto per evitare di essere presente a certe bolge selvagge piene di alcol e accompagnate da musica spazzatura resa apprezzabile solo dai loro movimenti goffi.
Sarebbe una scena divertente, se riuscissi a spegnere la voce nella mia mente che mi ricorda che quelle persone impegnati in spasmi muscolari definiti come “ballo” senza rispetto per il termine.
Mi ritrovo sul suo pianerottolo da solo, aspettando che Isabel finisca di fare le scale e sperando che non arrivi completamente sudata. La costringerei a farsi una doccia.
Nei quarantacinque secondi che sono passati da quando, al piano terra, mi ha detto che sarebbe riuscita ad anticiparmi, ho notato quanto lungo e vuoto fosse il corridoio che divide gli appartamenti di quel piano. Una strana sensazione e un leggero senso di claustrofobia iniziano a pervadermi le budella.
Non mi era mai sembrato così vuoto e ostile.
Il fiume di pensieri arriva finalmente alla risoluzione nel momento in cui più voci provenienti dalle scale si intromettono nel silenzio.
«… poi ho scelto questa seguendo il tuo consiglio» Riesco a sentire solo parte di ciò che la rossa stava raccontando alla coppietta che la accompagna.
«Hai fatto bene, è veramente carina» le risponde, appena compare nel mio campo visivo, Hanji. La quattrocchi viene subito catturata dalla mia presenza e lascia sul posto sia la mia accompagnatrice che il suo fidanzato.
«Levi!» Per la prima volta riesce quasi a contenersi e a smorzare l’urlo fastidioso che usa per pronunciare il mio nome. Forse quello è un luogo dove riesce a rispettare anche le persone che ha intorno, dimostrando di tenere più ai timpani di sconosciuti che ai miei.
«Tutto questo tempo perché ha tentato di rapirti?» chiedo ironicamente all’altra, ignorando di sana pianta la mora, il cui sguardo viene accentuato dalla luce ocra della lampadina che è troppo debole per andare la montatura dei suoi occhiali, ma abbastanza diffusa per lasciar intravedere ogni dettaglio del corridoio.
In quell’attimo che serve all’espressione della secchiona per cambiare accennando un broncio, faccio in tempo a notare un cavo lasciato libero per terra e ad afferrare il corpo lanciato come era abituato a fare Dante.
«Idiota, guarda dove vai» la riprendo, essendo quasi stato schiacciato dal suo peso. Fortunatamente ho spostato il baricentro in tempo, puntandomi sui piedi e reggendola per qualcosa di morbido.
«Non così forte» commenta guardandosi il seno strizzato sotto le mie dita e continua a ridere sotto i baffi mentre la spingo via. Non capisco che strano rapporto sia quello con Moblit, ma a lui non sembra interessare la quantità di frecciatine che la sua ragazza mi lancia.
Vederlo senza mascherina rende il suo sguardo un pochino più severo, nonostante non sia passato all’azione nemmeno stavolta. Gli restituisco la quattrocchi come fosse una rigida tavolozza di legno mentre Isabel ci guarda sorridente.
È proprio lei, senza indugiare come stavo facendo io fino a due secondi fa, a suonare il campanello.
 
Non siamo in ritardo, ma l’enorme dimora Smith è già gremita di gente.
Alla porta ci accoglie molto garbatamente Mike, vestito con un’eleganza degna di una cena di galà nella reggia di sua maestà, per questa occasione invece direi che è esagerato e basta.
Nella sua mano c’è un calice di vino rosso che probabilmente sta portando in giro da una buona mezzora, agitandolo solo gentilmente per sentirne la fragranza. Ormai anche i professori hanno capito che lui ha due possibilità: andare a fare il sommelier o il cane antidroga. Io punterei ai tartufi, ma la decisione finale spetta a lui.
L’appartamento è sconvolgente come al solito. I due piani su cui si divideva riuscivano a contenere efficacemente l’ammasso di persone che si era radunato per quella serata. Anche se sarebbe andato tutto contro le attuali restrizioni in linea teorica, erano riusciti a restare nei numeri per ora permessi.
Le alte librerie coprono le pareti e diffondono una luce marroncina per tutta il resto dell’abitazione. Tenendo lo sguardo alzato sembra di essere in una biblioteca, riuscendo a ignorare l’arredamento più familiare e accogliente presente al primo livello.
Quelli che sono già arrivati sono sparsi per le rampe di scale che portano al soppalco a forma di anello. Che ci sovrasta. Ovunque ci si gira, attraverso i gradini e sopra il corrimano, ci sono tonnellate di libri, come se li utilizzassero per nutrirsi.
La cosa che tento di immaginare, dopo quegli istanti di totale ammirazione, è il motivo per cui non li hanno ancora impacchettati, lasciandoli tutti ancora lì per lasciare la solita atmosfera intellettuale che si respira insieme alla colla che tiene insieme tutte quelle pagine.
Ma quella sembra l’unica decorazione ancora presente. Sulle mensole, i ripiani e gli altri mobili mancano tutte le foto, le scatole, i vassoi e i piccoli oggetti che erano sparpagliati a creare quel disordine regolamentato. Uno strano effetto domestico che ora è stato sostituito da una strana asetticità compensata dalla presenza di più persone del dovuto.
Per rimediare alla situazione hanno direttamente attuato un piano astuto, essendo due appartamenti uniti possono ospitare il doppio dei partecipanti. Mi mette un po’ a disagio dover chiudere un occhio su delle regole messe in atto per una pandemia di scala mondiale, ma è per lui che lo faccio.
 
Come ci si potrebbe aspettare da quel gruppo così eterogeneo e strano, il brusio di sottofondo cessa per concentrarsi sui nuovi arrivati ogni volta che la porta di ingresso viene aperta. Mentre ogni volta che il campanello o il citofono annunciano altri partecipanti ripetono stupidamente “Chi è?” oppure “Porta!”, come un gruppo di manguste sull’attenti. Avrei dovuto portare dei croccantini.
Al nostro arrivo quegli sguardi si soffermano su di me con curiosità, evidentemente non si aspettavano di vedermi, forse è colpa della camicia. Petra invece sembra più concentrata nel fulminare Isabel senza contenersi, nonostante di fronte abbia Erd.
Non potrei lontanamente immaginare di intraprendere un triangolo con tutti quei lati aggiuntivi inutili. Odio dover fare i ripassi di geometria con quello zuccone di Eren, poi ho in mente soltanto riferimenti ad angoli troppo ottusi.
La castana non sembra intenzionata a fermarsi a quell’occhiataccia, anzi marcia verso di noi con fare battagliero e irritato. La serata inizia con il piede giusto.
Una serie di cenni distratti diretti alla coppietta felice davanti a me, precede un cambio repentino della sua espressione in quello che sembra lo sguardo di un predatore incazzato. Non affamato, sottolineo.
«Cosa fai insieme a lei?» mi chiede, guardandomi con odio. È l’unica persona che può farlo mantenendo le pupille parallele al terreno, dato che siamo alti uguali.
Non mi sento obbligato a darle una spiegazione, d’altronde non devo rassicurarla o giustificare la mia scelta. Vorrei semplicemente lasciarla cuocere nel suo steso brodo, ma non sembra un confronto che posso evitare, soprattutto per la grandezza ridotta di quegli ambienti.
«Mi accompagna qui, come tu accompagni… Gunter o Erd?» le chiedo con un certo sarcasmo, fingendo di non sapere la risposta.
Ma come al solito non si accorge della frecciatina, forse il neurone è troppo impegnato a riflettere sulle argomentazioni che doveva tenere pronte per mandare avanti quell’inutile discussione.
«Ovviamente Erd» risponde, anche se fino a qualche ora prima la risposta sarebbe stata diversa «Ma non potevi chiederlo al tuo amico Farlan, così sembrate una coppia!»
La guardo quasi senza parole. Come può dire o pensare queste cose di fronte alla diretta interessata senza controllare che le parole uscite dalla sua bocca abbiano un senso logico.
«Può fare quello che gli pare o no?» interviene la rossa prima che altri possano elaborare uno stratagemma per sviare l’attenzione «E poi dovresti preoccuparti delle tue relazioni, qui nessuno sa quando finisce una e inizia l’altra!»
Finalmente l’ingranaggio sembra funzionare, ma i suoi occhi si tingono di rosso e inizia a sbraitare qualcosa di incomprensibile sul farsi i cazzi propri e sul non immischiarsi. Ho smesso di ascoltarla due parole dopo, quando quel rumore che solitamente produce si è trasformato in uno starnazzare caotico.
La situazione finisce per degenerare al punto che Erd è costretto a bloccarla, allontanandola di peso dall’altra. Sono sicuro che nonostante sia più piccola, Isabel se la potrebbe cavare benissimo in uno scontro a terra senza regole. Comincio a preoccuparmi per la fine che potrebbe fare l’altra, appiccicata al muro o a un albero, non si potrebbe mai sapere.
Fortunatamente all’arrivo di Erwin la situazione si calma di colpo.
Austero, opprimente. La sua presenza da sola riesce a portare ordine e calma nelle menti di quegli idioti e fa tornare la loro attenzione verso lo scopo di quella serata, che non deve essere oscurato dai soliti screzi.
Si è affacciato dal soppalco, uscendo dalla porta della sua camera da letto facendo di proposito più rumore del necessario. La camicia e i piccoli accessori in pelle che si possono notare legati ai suoi polsi sono decorati da dettagli ricamati e piccoli smeraldi.
Non l’avevo mai visto sfoggiare tanto quel tipo di bracciali o collane, ma deve essere proprio l’ultima carta per l’ultima occasione. Scendendo le scale si può notare la cura con cui quei pantaloni marroni sono stati stirati, le scarpe lucidate, i capelli sono tirati da un lato mantenendo una linea perfetta e non so come, ma riesco a immaginare il suo profumo da qui.
Sento di essere il suo esatto opposto, non ho bisogno di controllare lo stato dei miei abiti, ai miei capelli sono riuscito a dare un minimo di senso. Ma i miei pensieri non si fermano soltanto all’aspetto.
È come paragonare un cane randagio a un cucciolo domestico.
Anche la sua perfezione mi fa incazzare.
«Andiamo a prendere qualcosa da mangiare?» mi domanda Isabel, dopo l’attimo che le serviva per rimettere a posto la testa. La risposta distratta che riceve, con un mio semplice movimento del capo, è accompagnata dall’entusiasmo genuino e affamato di Hanji.
«Ci sono le pizzette» esclama Moblit, sapendo perfettamente cosa fare per far felice la sua ragazza. Il suo stomaco almeno.
Avvicinandoci al buffet riesco finalmente a staccare gli occhi dal padrone di casa, prelevato in maniera coatta dai suoi compagni di classe presenti per qualche ultima foto insieme. Davanti a noi noto la coppia che più dava speranze alla mia accompagnatrice: Auruo era intento nel vano e terribilmente pietoso tentativo di distrarre la ragazza patata dalle cibarie del suo piattino.
Le due ragazze di fronte a me si voltano sorridendosi a vicenda, avevano continuato a fare congetture su quanto potesse andare male la serata per lui, ma le loro speranze non erano mai state ripagate in una maniera così soddisfacente. Si è anche fatto la permanente per coronare quel disastro annunciato.
È rimasto in disparte per ascoltare lo sclero, probabilmente immaginandosi al mio posto come desidera da tempo e per una volta avrei pagato fosse veramente così.
Quella tavola dove abbiamo più volte consumato pasti nel corso di questi anni porterebbe alla mente molti più ricordi se non stessi vivendo quel momento così intensamente, guardando le due del quarto anno litigarsi con la primina un pezzo di focaccia. Non riesco a immaginare di lasciare tutto come sta facendo Erwin.
Mentre sono assorto in pensieri positivi e malinconici verso chi conosco, riflettendo su come in quella situazione perderei sia le fonti delle mie irritazioni che i sacchi da boxe con cui le sfogo, una presenza viscida e repellente si avvicina di soppiatto.
«Alcune donne proprio non le capisco» Il modo di inclinare il suo busto, per venirmi a dire con discrezione qualcosa che già si poteva capire: lui non capirebbe qualsiasi essere femminile, nemmeno l’ausilio di un manuale lo salverebbe.
«Abbiamo visto tutti come hai fallito, non incolpare qualcun altro» Se le cerca a volte.
Non so come riesca a partorire certi pensieri, che siano suoi o del topo morto con la permanente che ha in testa. Sembra un toupet per via del netto gradino che caratterizza quel tipo di taglio.
Se ne resta un momento imbambolato, proprio mentre Erwin sta raggiungendo il centro della sala. Come altri non sta prestando la giusta attenzione a lui, alcuni dovevano finire i loro stupidi discorsi e i soliti aneddoti senza né capo né coda usati per lamentarsi dei professori.
È passato poco più di un mese e hanno già trovato più motivi per lamentarsi dell’intero corpo docenti dell’anno scorso. Invece lui è lì, vestito di tutto punto, pronto a darci il suo ultimo saluto come rappresentante degli studenti e come amico.
 
Dei flash iniziano a prendere piede nella mia mente, non sono sicuro siano soltanto frutto di esperienze passate, forse la fantasia sta prendendo le redini del mio cervello. O riesco a sognare a occhi aperti.
«Devi fare piano»
Una richiesta non ascoltata, forse nemmeno recepita nel momento culmine.
«Ci sono gli altri cazzo» un sospiro spezzato «sono ancora tutti di là»
Un momento di esitazione, prima di continuare con la stessa convinzione, ma provocando una tensione minore, cercando di confortare e di collaborare.
Paziente, con gli occhi socchiusi, l’interlocutore in realtà non attendeva altro e mosso dalla voglia di accontentare quella necessità, segue i movimenti.
Chiusi in quella camera, isolati dal resto.
A cosa cazzo sto pensando? Sembra uno di quei video su Tiktok che mandano ogni tanto sul gruppo, o a me per sbaglio. Ottima scusa considerando che nella descrizione finisco sempre per leggere: “invialo al tuo ragazzo basso”.
Mi riprendo un momento, continuando a guardare nella sua direzione. Non riesco a collegare il suo volto a quello che stavo guardando, ma sono sicuro del fatto che la presenza era simile alla sua.
Preferirei tornare a chiudere gli occhi per immaginare un universo parallelo in cui nulla di tutto questo sta accadendo, ma sono bloccato nel mio pessimismo. Non esiste nessun universo alternativo, nessuna seconda trama, nessun altro modo di rimediare.
Questo è il mio presente e non sono abbastanza sicuro di riuscire ad affrontare il futuro che mi aspetta.

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Capitolo 18
*** Capitolo 16 ***


Qualche tempo dopo...

Mi sono risvegliato di soprassalto. Come fossi appena riemerso da uno di quei brevi sogni in cui ti ritrovi a cadere in un’acqua calma e talmente profonda da non avere un colore definito e l’unica soluzione che hai per salvarti dall’annegare è svegliarti.
Devo riprendere fiato tanto è sembrata reale la sensazione di soffocamento e dei polmoni che si riempiono di liquido. Mi viene da tossire per liberarmi da quella sensazione di soffocamento, ma mi ritrovo solo ad affondare la faccia nel cuscino per attutire il rumore.
Alzando lo sguardo dopo essere riuscito a trattenermi, mi devo asciugare le lacrime per prepararmi al resto della giornata.
Non riesco a riconoscere subito la stanza in cui mi trovo, le pareti sono troppo pulite, la luce che filtra dalla finestra non lo fa con l’angolazione a cui sono abituato. Tutto sembra così sbagliato in questo momento, ma non mi sento scomodo.
Un leggero brivido mi pervade fino alla punta dei piedi e automaticamente torno ad abbracciare il torso scoperto che mi stava facendo compagnia silenziosamente fino a ora. Lo sento muoversi a ritmo con il suo respiro, accumulando abbastanza aria da riempire due me.
Non riesco a mettermi comodo dietro le sue spalle larghe, o almeno, non tentando di mantenere quella posizione. La sua pelle però in quel momento sembra così calda e comoda che non riesco a staccarmi.
«Erwin, sei sveglio?» gli chiedo, coprendo uno sbadiglio con la sua scapola.
Dal suo silenzio mi viene da pensare che non sia ancora arrivata l’ora di alzarsi, quindi ho tempo di ripensare a quello che mi ha portato lì. Il ricordo di quella sera è fortunatamente ancora vivido nella mia mente, a differenza delle settimane che sono passate da quel piccolo rinfresco.
 
Ricordo perfettamente come quella pizzetta sia stata il pomo della discordia per cinque minuti buoni, aveva più attenzioni di un neonato in fasce durante un banchetto di cannibali. So che il paragone non è proprio dei più sereni, ma avendo visto da quali sguardi era circondata, è il più calzante.
Non osavo immaginare come avesse perso il calore passando di piatto in piatto, conteso come se fosse un piatto unico e dal sapore irriproducibile, ma che in realtà aveva perso qualsiasi vaga fragranza poteva avere.
«Assaggia questo»
La mia memoria fotografica mi ha aiutato a riconoscere la mano che si era avvicinata di soppiatto porgendomi una tartina. Se fosse stato Auruo sarebbe volato giù dal balcone, ma quella testa di broccolo era già dall’altra parte del salone a confabulare qualcosa con il suo solito gruppetto.
Mi resi conto solo dopo qualche istante che Mike era scivolato dietro di me, approfittando della mia distrazione. Mi aveva portato quel quadratino da uno dei vassoi più distanti solo per farmi assaggiare un piccolo gamberetto in salsa cocktail. Come se non avessi mai preso parte a un rinfresco e non sapessi che dovevo procacciarmi il cibo da solo.
Gli faccio lasciare delicatamente il piccolo assaggino nel palmo della mia mano per mangiarlo con più discrezione.
«Ho pensato che una fragranza delicata sarebbe stata adatta per prepararti a qualcosa di più forte» mi stava spiegando mentre la mangiavo, esattamente come un sommelier ti descrive ciò di cui le tue papille gustative ti stanno già bombardano di informazioni.
Come avevo immaginato, avrei voluto lanciargli qualcosa di pesante solo per farmi descrivere dove e quanto facesse male. Nonostante questi pensieri ostili, mi era riuscito a distrarre da quell’orrenda scena che minava la mia salute mentale. Le avrei affogate in una tanica di amuchina.
«Perché hai pensato proprio a questa?» gli avevo chiesto con curiosità, soddisfatto in realtà della sua scelta. Facevo solo il difficile.
«Come ti ho già detto, il gusto delicato è consigliato all’inizio di una degustazione e tra tutto ciò che c’è, quella è la più adatta per iniziare» Lo guardavo convinto che quel cane da tartufi potesse avere una certa utilità nel futuro, ma subito dopo quella sua giusta osservazione era stato attratto dalla disputa sulla pizzetta. Risolvendola quasi istantaneamente con un “Il mio gusto preferito” e facendo sparire finalmente dalla mia vista quella pizzetta.
La sua faccia divertita e soddisfatta svanì quasi nel nulla, lasciando ai miei occhi la visuale di un biondo corrucciato, preoccupato per il chiasso che era riuscito ad attraversare le pareti. Era appena uscito dal bagno, così in fretta che si era scordato mezza zip aperta e la mia mania ossessivo-compulsiva mi costrinse a indicargliela per non doverla più vedere in giro.
Gli ho risparmiato anche l’imbarazzo di dover parlare a tutti con la toppa aperta, dato che stava per fare una piccola confessione ai presenti.
«Devo parlare con Levi un secondo in privato» pronunciò ogni sillaba in modo chiaro, aspettandosi che ognuno lo ascoltasse senza distrarsi.
 
Alla fine mi sono alzato, ricordandomi che nonostante un cuscino possa essere comodo e caldo, resta una distrazione e uno stimolo alla pigrizia. Stimolo che lui stava abbracciando senza opporre un minimo di resistenza.
Alzandomi non riesco a fare a meno di notare come non ci sia più alcun miagolio ad aspettarmi, nessun pretenzioso felino sovrappeso pronto a mordermi se non avessi riempito la sua ciotola nel tempo stabilito dal suo stomaco.
È proprio con questa strana e malinconica sensazione che inizio le giornate, sapendo che tutto quello a cui mi ero abituato era svanito e che non mi sarebbe stato restituito.
Qualsiasi cosa fosse successa, avevo accettato alla fine. Scendendo le scale mi ritrovo a pensare come quella abitazione assomigliasse molto alla vecchia dimora Smith. Stavolta almeno avevano optato per una villa solitaria, senza però cambiare di molto l’aspetto interno.
Quelle sontuose librerie continuano a circondare il salone, dividendosi tra i due piani. Si sente in continuazione l’odore della conoscenza e della colla che tiene insieme quelle pagine, creando la stessa atmosfera di una biblioteca.
Alla destra dell’ultimo gradino, una delle più evidenti differenze: il tiragraffi sul quale è appollaiata una palla di pelo bianca.
«Buongiorno Swiffer» Gli sorrido accarezzandogli la testa nel sonno prima che riesca a contorcersi per nascondere le orecchie. Un gatto soddisfatto e soprattutto sazio.
Giro verso la parete della cucina. Lasciata a vista a occupare un angolo della sala, rendendola in un certo senso più familiare, nonostante fosse incastonata nel piano inferiore e quindi più bassa rispetto al resto. Seduto su uno degli sgabelli che guardano verso l’esterno della casa, il signor Smith è impegnato a scrivere una relazione sorseggiando del tè.
Riesco a riconoscerne l’odore dall’ultimo gradino delle scale, la stessa identica marca che utilizzavo io e una tazza già pronta sul mobile dell’isola, distante dai fornelli. Non avevo mai avuto modo di vedere una cosa del genere, ma quella locandina Ikea in cui mi ritrovo ora è decisamente comoda.
«Buongiorno signor Smith» lo saluto e lo ringrazio con un leggero cenno del capo per la colazione pronta. In qualche modo sa anche la differenza dei nostri orari, perché per Erwin non c’è ancora nulla da mangiare.
«Buongiorno Levi, dormito bene?» Ha smesso di provare a farsi chiamare per nome, è stata una conversazione prolungata per tutta una giornata, ma ancora non mi ho accettato quella confidenza che mi proponeva.
«Swiffer sembra essersi ambientato molto bene» commento. Noto, come ogni volta che pronuncio il suo nome, un sorrisetto leggermente accennato sul suo volto. L’unica soluzione che ha trovato per non scoppiare a ridere in continuazione è chiamarlo letteralmente “Gatto”.
«Mi avete fatto quasi preoccupare quando Erwin mi ha detto che non avevi accettato di essere adottato» ammette, nonostante mi sia scusato più volte, ma non avevo mai avuto intenzione di essere suo fratello.
Lo guardo sperando che sia l’ultima volta che sono costretto a ripeterglielo: «Non mi aveva convinto»
Si mette a ridere, sapendo che non era andata proprio in quel modo.
 
Mi aveva portato nella sua stanza, senza nascondermi a occhi indiscreti, l’aveva anzi annunciato a tutti quanti con una solennità ostentata e senza contesto. Ma dando così nell’occhio aveva fatto intuire a tutti che non stava per accadere chissà cosa. Sapeva perfettamente che la malizia e l’immaginazione sono comuni alleate per creare pettegolezzi fasulli e inutilmente rumorosi.
Si era messo seduto sul suo letto, lasciandomi varie opzioni, tra cui quella di restare in piedi ad ascoltarlo. Non volevo creare una situazione di disagio e da quella prospettiva potevo controllare la sua stanza.
In quel momento, come in qualsiasi altro passato tra quelle quattro mura, mi sentivo così comodo e a mio agio tanto da rilassarmi appoggiato alla sua scrivania come se non fossi un oggetto fuori ordine, ma parte di tutto.
Piccoli accorgimenti creavano un ambiente simile a quello delle aule studio della nostra scuola. Aveva tutto a portata di mano, i mobili con i libri di testo ordinatamente catalogati per anno e più fonti di luce per non avere zone d’ombra. Anche la luce che entrava dal lampione seguiva un’angolazione perfetta per illuminare completamente la sua postazione, arrivando fino al mio fianco.
La curiosità nel capire come non fosse cambiato praticamente nulla dall’ultima volta aveva preso il sopravvento, insieme alle varie domande su quali prodotti utilizzasse la signora che gli faceva le pulizie. Ma ovviamente le mie domande erano meno importanti di quello che aveva da dirmi lui.
«Mio padre era intenzionato a chiederti di essere adottato, te lo avrebbe chiesto al funerale di tuo zio, ma ha intuito che non fosse il caso di intromettersi nel tuo lutto»
Spalancai gli occhi sorpreso, la mia mente ripercorse tutti i momenti passati insieme al signor Smith e di come avessi avuto quell’indizio davanti agli occhi tutto il tempo. Il motivo per cui suo padre era finito coinvolto nella missione di Kenny, tutta una serie di coincidenze fatali che avevano portato a quel momento.
«Vi aspettate che io accetti dopo quello che ha causato?» gli domandai, sapendo esattamente quale fosse la risposta. Non esistono persone con una tale mole di arroganza e supponenza, ma in quel momento riuscivo a credere anche nelle fate.
Ero pronto ad andarmene, lasciando la sua stupida domanda inascoltata e senza alcuna risposta. Mi sentivo parte di un capriccio architettato in maniera superba da qualcuno privo di empatia, come fosse una macchina o un automa. Quel super computer lo avevo davanti e non aveva nemmeno una stronzissima spina da staccare.
«Cazzo, chiedimelo e basta. Chiedimi di seguirti come faccio sempre e non ti inventare scuse» Era quella la risposta migliore che mi poteva venire in mente? Seriamente dovevo comportarmi come il suo cagnolino per obbligarlo a trattarmi con un minimo di compassione?
Era stata una settimana devastante, per non dire la peggiore che potesse essermi capitata fino a quel momento e lui, sì, lui era rimasto nella mia mente tutto il tempo, per un motivo o per un altro. Piuttosto che perdere qualcosa del genere, l’unica persona a cui mi ero affezionato fino a quel punto, ero pronto a farmi portare via da tutto e tutti.
Fece un respiro, un altro lungo respiro. Non sa comunicare i suoi sentimenti come un essere umano, giustamente non ha ancora questa funzione. Come si aggiornano gli androidi?
«Vuoi venire con me?»
Lo guardai, ancora non completamente soddisfatto, serviva di più per soddisfare finalmente anche il mio orgoglio. Accennai involontariamente un malizioso sorriso.
«Chiedimelo in ginocchio» gli ordinai, deciso a non farmi dire no «Ringrazia che siamo soli qui»
A oggi mi pento di aver attirato su di noi una leggera sfiga e qualche decina di leggi di Murphy. Certe foto potrebbero girare ancora in qualche chat per quanto ne sappiamo.
«Davvero?» mi chiese, tentando di coprire la sua preoccupazione con una risatina. Non l’avevo mai visto stressato, ma sapere che il suo animo era stato turbato mi stava quasi facendo cedere.
Il mio sguardo non si mosse di un dannato millimetro. Se mi avesse voluto veramente, se tutto ciò che era successo non avesse avuto il valore di un fottuto scherzo, avrebbe mandato giù il groppo e l’avrebbe fatto.
Mi sorprese, ma fece esattamente quello che doveva fare.
Deglutì, accettando il suo dovere; si alzò in piedi, dandomi modo di vedere quanto si stava per abbassare; si inginocchiò di fronte a me, lanciandomi un’occhiata che poteva voler dire solo “Contento ora?”.
Gli sorrisi, perfidamente, vedendo quel barlume di speranza lasciare i suoi occhi.
«No»
 
Sono finito comunque qui, a fare colazione con suo padre.
Sì, era tutta una scena per farlo penare quei cinque minuti che l’ho fatto stare sul ginocchio. Tralasciando che mi arrivava comunque al mento, è stato soddisfacente vederlo finalmente preoccupato e desideroso di un . Dopo una vita a dare cose per scontate.
Potrei continuare a parlare di ciò che ci ha costretto a chiudere quel siparietto e di quanto i riflessi di Hanji siano sviluppati per afferrare il telefono e fotografare qualsiasi cosa le possa interessare in tempi fulminei.
Le mie speranze che abbia cancellato quelle immagini sono svanite quando mi sono stati mandati dei meme proprio con quelle foto.
Ci abbiamo riso sopra, dopo aver augurato a chi di dovere un brutto quarto d’ora in bagno.
Dovrei anche finire di raccontare come quella serata sia finita per diventare il disastro più grande per Auruo, dopo la sua nascita. O come Petra abbia preso un albero tornando a casa, probabilmente sconvolta dalla notizia della mia partenza.
Oh, la buona notizia di ieri sera: Farlan è finalmente riuscito a dichiarare il suo amore per Isabel e lei gli ha dato picche per ben mezz’ora. Proprio come le ho suggerito io.
Ed Eren? Giusto, quando l’ho avvertito della mia partenza si è disperato per matematica, ma gli ho mandato un vero e proprio segugio a casa (Mike).
Ma io in questo momento me ne sbatto, quelle minime sensazioni che descrivevo come felicità non erano nulla in confronto a quello che sto vivendo in questo momento. E posso finalmente dirvelo:
Io, Levi Ackerman, sono felice.

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