FIORI D'ACCIAIO

di Black Swallowtail
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vita Meccanica ***
Capitolo 2: *** Essere Giustizia ***
Capitolo 3: *** Schiaccianoci ***
Capitolo 4: *** Falena ***



Capitolo 1
*** Vita Meccanica ***


UNO: vita meccanica.

Clack, clack.

Rumore di un tamburo che gira su se stesso. Non aveva mai impugnato una pistola, ma sapeva esattamente quale fosse il suo rumore caratteristico; tuttavia quello scattare ritmico tintinnava nelle sue orecchie quasi seguendo un ritmo invisibile.

Né a Zaun né a Piltover si utilizzavano più revolver. Con l’avvento del chemtech e dell’hextech, le armi erano state le prime a modernizzarsi, a svecchiarsi: niente più tamburi a ricarica lenta e fastidiosa. Faceva fatica a ricordare, nella sua memoria sbiadita, qualcuno che avesse maneggiato un’arma a ricarica tradizionale.

Non voleva aprire gli occhi. A volte, questi istinti emotivi ed irrazionali salivano e scendevano in lei, una sorta di marea sconosciuta e non spiacevole; era sicura che fossero un’eredità del suo passato ovattato, di una vita che ricordava a malapena. Non le dispiaceva sentirli ancora, seppure le provocassero una vaga sensazione di disagio inspiegabile.

In quel momento, tenere gli occhi serrati, le palpebre perfettamente chiuse gli sembrava una scelta irrazionale, ma che in qualche modo le appariva preferibile allo scoprire cosa le fosse accaduto. Richiamare alla memoria le ultime azioni richiedette uno sforzo minore di quanto avesse immaginato. In realtà, immersa nell’oscurità che la cullava, le sembrava di riuscire a vedere meglio l’accaduto di qualche ora, giorno, settimana prima.

Le strade di Piltover erano affollate, come sempre, e le aveva seguite senza una meta precisa. Lo faceva da tempo, ormai, come una pellegrina alla ricerca di un segnale divino; la differenza è che non c’era alcuna divinità a cui appellarsi e lei se ne andava tra la folla senza uno scopo apparente. O meglio, si corresse automaticamente, alla ricerca di uno scopo. Credeva che Piltover avrebbe spalancato le braccia ad un individuo come lei; aveva creduto che lì, in quel paradiso della tecnologia, lontano dagli artigli dei baroni del chemtech, dagli esperimenti e dalle miniere zaunite, qualcuno le avrebbe indicato la via.

Clack.

Un terzo scatto, un proiettile che scivolava nella sua alcova, vi si adagiava insieme agli altri. Altri tre scatti e l’arma sarebbe stata carica, pronta all’uso. Qualunque fosse l’uso che il suo tiratore ne avrebbe fatto.

Aveva camminato per le strade di Piltover molto a lungo. Aveva chiesto ad un giovane brillante la strada per la piazza principale, si era persa, molti la guardavano di sfuggita, sentiva che più di uno sguardo le era scivolato addosso. Osservavano il suo corpo, il suo incedere rigido, il suo sguardo vacuo, la grossa sfera d’acciaio che le roteava attorno in cerchi concentrici.

Clack.

Il rumore del tamburo che si chiudeva la prese alla sprovvista. Quattro colpi in canna e non sei. Da quando era arrivata in quel luogo, da quando era stata adagiata su una confortevole poltrona in pelle, aveva sentito un mugugnare, una mano che sfiorava le sue spalle, la sua schiena, la sfera; aveva sentito, in lontananza, qualcuno che recitava ad alta voce, quasi decantasse una poesia.

Dopo una quantità di tempo indefinibile, aveva iniziato a caricare; e solo in quell’istante aveva sentito l’impulso di iniziare a capire cosa stava accadendo. Una parte di lei era sicura di aver perso coscienza, ma non poteva averne prova. Sapeva solo che, dalla piazza principale, dove una poliziotta le aveva indicato la via per i laboratori di sviluppo cittadino, qualcuno le si era avvicinato; e quel qualcuno l’aveva condotta con sé, tenendola per mano.

Le aveva chiesto di tenere gli occhi chiusi con un tono di voce serpeggiante, impostato, quello di un attore o un artista; e lei aveva ciecamente obbedito. Se solo avesse potuto, avrebbe perso dei battiti, nel ricordare come aveva attraversato le stradine, i viottoli, i vicoli ad occhi sbarrati. Qualche ricordo tentava di farsi strada, ma non riusciva a sbocciare, non riusciva a trascinarsi al di fuori della sua palude. Sapeva solo che quel viaggio ad occhi chiusi le aveva ricordato una casa lontana, a Zaun.

Sentì qualcosa strusciare contro il legno, come una sedia che venga spinta all’indietro. I passi felpati dell’uomo scesero uno ad uno dei gradini, ogni volta uno scricchiolio diverso, ogni volta una nota musicale differente che proseguiva la melodia della pistola. Sentiva l’arma roteare nella sua mano, lo sentiva scivolare verso di lei.

Era di fronte a lei, il suo respiro controllato si era paralizzato, come se lo stesse trattenendo, come se non volesse buttare fuori aria, farsi esplodere i polmoni.

“Sei una bambola meravigliosa.”

Il suo tono estasiato le avrebbe provocato un brivido, se avesse avuto una pelle da far accapponare. Era un tono di sincero, assoluto stupore, di totale ammirazione — un tono che aveva sentito solo di fronte alle opere d’arte del museo civico.

“Ti prego,” le chiese quasi supplice, “apri gli occhi. Lascia che ti guardi.”

Lo stesso tono stritolante, pronunciato a mezza voce, quasi fosse al cospetto di una scultura nel mezzo di una chiesa. Ricordava il tono di voce di chi pregava di fronte all’altare e di chi osservava le statue nelle cappelle o nella sagrestia. Per qualche motivo, quell’invito dall’eco adorante la spinse a sollevare le palpebre.

Fu un processo lento. Qualcosa in lei provava un terrore tremendo ed inafferrabile, come se volesse trattenerla, come se accettare quella richiesta, osservare il suo interlocutore, potesse renderlo effettivamente reale. Finché non apri gli occhi, risuonò un’eco lontano, potrebbe essere tutta una finzione.

Non lo era. Lo sapeva bene. Per questo, spinse le palpebre all’insù, lasciò che scorressero fino a far sbocciare i suoi occhi, la loro luce bluastra ed evanescente.

Inginocchiato di fronte a lei, con le braccia spalancate come in estasi, il sottile uomo mascherato la osservava con una sorta di fervore; lo vedeva rilucere nei fori, negli occhi del suo volto, coperto da quel posticcio viso umano di ceramica. Doveva venire dalla lontana Ionia, a giudicare dai suoi abiti, dagli ornamenti della maschera teatrale che indossava.

Il primo pensiero che rigurgitò la sua mente confusa, la prima domanda, fu cosa ci fosse sotto la maschera; se fosse sfregiato, se avesse qualcosa da nascondere. Oppure, semplicemente, se volesse essere un nessuno, una figura in mezzo alla folla. Un uomo senza lineamenti per accogliere in se ogni lineamento.

Il secondo pensiero venne dal su braccio destro, un braccio meccanico dorato, di fattura elegante ma di mano grossolana. Suo padre era stato un luminare delle protesi hextech, lo ricordava ancora, e ricordava ancora tutto il tempo che aveva dedicato al suo lavoro. Quel braccio, per quanto elegante e raffinato, era grezzo. Non era un’opera di Zaun, tantomeno di Piltover.

Il terzo pensiero le piombò sulle spalle di colpo. Fu una realizzazione improvvisa e la lasciò, di colpo, anche se solo per un momento, spaesata. Non sapeva dove fosse, non sapeva chi fosse quell’uomo e cosa volesse da lei. Sopratutto, si rese conto di non essere legata, costretta o bloccata.

Era semplicemente seduta in una logora poltrona. Non ci volle un momento per mettere a fuoco, non con i suoi occhi; e non ci volle un istante a capire dove si trovasse, perché un’occhiata le fu sufficiente.

Era già stata a teatro con suo padre. Aveva visto opere teatrali, declamazioni di poesie, bande musicali e perfino una o due rappresentazioni. Di solito, tuttavia, il teatro era riservato alla presentazione di macchine o elaborati scientifici.

In quel teatro abbandonato, polveroso e buio, con solo qualche raggio di luce che scivolava attraverso qualche finestra sbarrata con disattenzione, si trovò sospesa in una situazione surreale.

“Sei stupenda. Sei perfetta. Sei arte,” declamò l’uomo alzandosi, piegandosi in un inchino da artista, “L’ho saputo, dal primo istante in cui ti ho vista tra la folla. Sei diversa, sei unica. Pelle liscia d’acciaio, occhi che brillano di una scintilla di magia. Sei l”essere umano sublimato, sei la Venere di Pigmalione.”

La pistola nella sua mano scivolò nella fondina, l’uomo applaudì, si portò una mano al viso e si carezzò i tratti gelidi della maschera asettica, quel sorriso inciso in rilievo sulla ceramica. Un sorriso attoriale senza alcuna vera felicità, un sorriso da tradurre e declinare con la voce ovattata e soffocata che veniva dalla maschera.

“Dove ci troviamo?”

Una domanda che le fu difficile scandire. Le era sempre più difficile articolare frasi di senso compiuto senza imprimere un timbro meccanico. Il suono metallico della sua stessa voce, a volte, le suonava intollerabile. In quei momenti, le sembrava di andare momentaneamente in pezzi. Ma in quell’istante, in quel momento, mentre l’uomo la osservava e inclinava la testa come per avvicinarsi alla sua voce, si sentì solo confusa.

Sembrava apprezzare la sua voce. Sembrava trovarla, in qualche modo, musicale. Batteva il piede a ritmo delle sue parole.

“Siamo in un teatro. Siamo a casa. Un artista si trova a casa solo su un palcoscenico; ed io, che lavoro su una grande scala, che ho fatto della mia esistenza arte, vivo sul palcoscenico del mondo.” La guardò intensamente, come se si aspettasse una qualche reazione. Lei rimase impassibile. Le era impossibile cambiare espressione, come le era impossibile respirare o muovere le labbra. Il suo corpo meccanico non glielo permetteva.

“Un teatro?”

“Un teatro abbandonato, sì, a Piltover. Un tempio della sacralità dell’arte sacrificato sull’altare della scienza. A Piltover, in questo luogo di progresso scientifico, hanno dimenticato che l’arte è nutrimento dell’animo umano. Ma tu…” alzò di colpo la voce, si avvicinò di nuovo, si inginocchiò di fronte a lei, le sue mani, carne e ferro, che sfioravano le sue di acciaio, “…tu sei diversa. Sei la crasi di questa città. Sei acciaio, sei ingranaggi, sei magia, ma in te c’è qualcosa. L’ho visto, ti ho visto guardati attorno, cercare un segno. Cercare una scintilla. In te c’è umanità, un’umanità pura e perfetta che lotta con le unghie e con i denti. Sei un fiore, per me… un fiore d’acciaio.”

Come volesse dimostrare le sue parole, la sua mano rivelò un piccolo bocciolo chiuso che, lentamente, scattò fino a sbocciare, finché non rivelò una corolla di petali taglienti ed un sensore rossastro; il suo palpitare continuo non le apparve confortante, ma il suo istinto fu quello di toccare, di sfiorare quell’oggetto che la attirava tanto morboso.

Ma lui lo sottrasse alla sua presa con maestria, scosse la testa, e lo lanciò a terra, tra i sedili, dove scattò e tornò a chiudersi.

“C’è bellezza in te. Bellezza assoluta, che va tirata fuori. Devi vederla, devo vederla, il mondo deve vederla. Oggi, Khada Jhin si esibirà per te, Signora degli Ingranaggi.”

Si inchinò ancora e, con un movimento collaudato, si voltò, il corto mantello cremisi volteggiò in aria, seguì il suo incedere fino al grande, maestoso palco che lo attendeva. Un enorme pianoforte a coda attendeva solo che qualcuno lo suonasse, i petali di fiori sparsi a terra che qualcuno li calpestasse e vi danzasse. Ma l’artista di nome Jhin salì i gradini con lentezza studiata, giunse a centro del palco, tornò a voltarsi verso di lei. Non c’era un occhio di bue o qualche altra luce che lo facesse risaltare.

“Signora degli Ingranaggi,” la sua voce di colpo più forte, la voce di un attore sul palco, “Qual è il tuo nome? Come devo rivolgermi a te, creata dall’uomo ma che nascondi più umanità dei tuoi creatori?”

Era una domanda difficile.

Come si chiamava? Non ci aveva mai riflettuto. Non dopo quel che era accaduto a suo padre, non dopo gli incidenti, non dopo la fuga da Zaun, l’arrivo a Piltover. Aveva ancora un nome?

Era difficile ricordare.

Ma questo lo conservava ancora. Conservava ancora lo sguardo in lacrime di suo padre che la chiamava, la abbracciava, quando si era alzata dal tavolo.

“Orianna.”

“Orianna, il nome dell’oro, il nome della figlia che sposò Amadigi l’errante. Orianna, la bambola, senza un difetto. Il fiore d’acciaio dai petali di ingranaggi. Oggi, insieme, reciteremo su questo palcoscenico — e Piltover vedrà cos’è la vera arte.”

Le tese la mano, drammatico, immobile come una statua sbilenca e sproporzionata. Sembrava volesse tendersi, sembrava volesse raggiungerla, colmare la distanza abissale tra loro.

Orianna era rimasta immobile, per tutto il tempo. Aveva lasciato che lui la guardasse, che le toccasse le mani, che sussurrasse parole di cui non comprendeva il significato e nomi a lei sconosciuti. Non comprendeva cosa volesse dirle, cosa vedesse in lei. Sentiva solo che la chiamava, le chiedeva di seguirlo, di salire sul palcoscenico.

Ricordava di aver camminato sui palcoscenici. Ricordava un corpo che si muoveva, di fronte agli sguardi stupiti ed ammirati degli altri. Era un richiamo che risuonava in lei, in una zona d’ombra sconosciuta del suo petto, dove gli ingranaggi scattavano e si contorcevano attorno alla magia hextech. Lì dove c’era un tempo un cuore di carne che aveva battuto disperato.

Aveva ballato, sì, a lungo e con perfezione. Era famosa per le sue esibizioni. Lo ricordava, così come ricordava tante storie che un tempo erano state i suoi ricordi; ed ora, invece, suonavano come racconti di un’estranea. Ma suo padre adorava guardarla ballare. Avrebbe ribaltato il mondo per poterle permettere di farlo; perfino quando si erano trasferiti a Zaun, aveva fatto in modo che lei potesse continuare.

Finché, inevitabilmente, non aveva perso la passione. Finché ogni parte di lei non era diventata acciaio, metallo, magia ed hextech.

Eppure, come un magnete, Jhin la chiamava ancora e con lui tutto il palco. Nessuno spettatore, in quel luogo dimenticato da tutti, cancellato dalla coscienza di Piltover. Avrebbe ballato solo per quello strano sconosciuto che l’aveva condotta fin lì.

Un passo dopo l’altro, meccanicamente, attraversò le file di poltrone, a destra e sinistra, dietro e davanti, ognuna occupata solo da polvere ed ombre fievoli. La sfera la seguiva adagia, la sospingeva in avanti, la sfiorò con le dita e ne sentì il battito di energia, un etero compagno. Gli occhi di Jhin erano come quelli di una platea, adoranti, smaniosi. Poteva sentirlo battere il tempo, le mani, uno spettrale applauso. La invitava ad unirsi a lui, la invitava a calcare la scena che aveva abbandonato.

Forse, si disse, forse era quello il modo di trovare in lei dell’umanità. Ma sarebbe stato un vano tentativo.

“Non so ballare.”

Si era fermata a metà strada. Guardava il pistolero, il cui battito di mani andava affievolendosi.

“Non so più ballare,” si corresse. Un tempo, forse, ne era stata in grado. Un tempo, forse, l’avevano amata ed acclamata. Ma anche quella era una bugia, l’avvertiva come una menzogna pesante e divorante: il mondo, il pubblico, il teatro aveva amato Orianna Reveck.

Orianna Reveck era sparita da tempo. Al suo posto, c’era semplicemente Orianna. Orianna, la Signora degli Ingranaggi. Una bambola, un pupazzo robotico, un costrutto hextech. Non c’era nulla di umano in lei.

“Mio padre…” era difficile usare quel termine. Avrebbe voluto dire “Il mio creatore,” perché si trattava di quello, alla fin fine; Orianna Reveck aveva avuto un padre. Lei, invece, poteva annoverare solo un creatore. “…ho visto le sue emozioni. Non posso comprenderle appieno. Ma so che non era la stessa cosa. Ho sentito delle persone. Hanno detto che Orianna Reveck aveva perso la sua passione. La sua creatività.”

“La sua umanità?”

Silenzio.

“Affermazione.”

Jhin lasciò cadere le braccia inerti lungo i fianchi. Barcollò, un passo dopo l’altro, senza distogliere lo sguardo, senza staccarlo dai suoi occhi ardenti di energia bluastra, finché non le fu ancora davanti, finché non furono faccia a faccia.

C’era rabbia, sotto la sua maschera, una rabbia divorante. La vedeva contorcersi. Non la comprendeva, avrebbe voluto capire cosa stesse succedendo sotto la maschera, nel suo petto, nella sua mente non regolata da ingranaggi e impulsi magici.

Le sue mani le strinsero le spalle, la scossero leggermente, “Cosa vuoi che ne capiscano, loro? Non sono riusciti a scorgere nulla. Non sono riusciti a vedere. Io osservo il mondo da sempre. Lo tingo, lo canto, lo scrivo; e loro, quegli animali, loro non hanno potuto notare, nella loro bassezza, il tuo fiore. Orianna, tu stai per sbocciare… su quel palcoscenico!”

Ogni parola un passo, un incoraggiamento. Era ancora confusa, ancora non capiva; ma sentiva che c’era una sorta di distorta, morbosa determinazione, di desiderio indecifrabile. Finché il suo fiore d’acciaio non sarebbe sbocciato, finché non avrebbe mostrato al mondo la luce, lo scintillio che aveva visto, Khada Jhin non si sarebbe placato.

“Ti ho trovato come oro nel fango. Devi solo essere pulita. Devi solo ritrovare qualcosa in te. Devi solo raggiungere il tuo atto finale.”

Jhin la precedeva sul palco, l’ennesimo fiore d’acciaio in mano che volò sopra la sua testa, si conficcò nel pavimento e iniziò a lampeggiare. Si rivolgeva ad un pubblico invisibile che lo incitava, che chiamava il suo nome; Orianna aveva il suo pubblico di fronte a lei, quell’unico uomo che bruciava fino ad incenerirsi.

Jhin si posizionò sul palco, un respiro profondo, e con le braccia spalancate, iniziò a recitare. Iniziò a declamare una storia, una guerra che scoppiava nelle praterie di Ionia. Due eserciti si muovevano, guidati da forze opposte; e tre streghe aspettavano, osservavano i soldati imbracciare le armi.

Jhin inspirò a fondo, la voce melodiosa di un attore che sta sul filo, un funambolo che pende tra canto e musica, un artista che assorbiva ogni arte in un’unica, grandiosa performance.

“Noi gittiamo il mal seme nel core; Ma dell’opra l’uom sempre è il signore!” Si voltò verso di lei, in estasi, un’emozione che Orianna non poteva capire. Non poteva capire Khada Jhin. Non poteva capire cosa stesse declamando, a chi lo stesse declamando, perché voleva rendere il mondo la sua opera d’arte personale.

Non poteva capirlo, Jhin lo sapeva, perché era una bambina sotterrata da un mare di acciaio e magia. Ma quella notte, nell’atto finale, il mondo avrebbe portato gli occhi su di loro.

Avrebbe recitato, avrebbe cantato, avrebbe urlato.

Ed infine, lei sarebbe ascesa all’Olimpo che la meritava, l’altare dell’arte sul quale avrebbe trovato il posto che anelava.

Jhin ne era sicuro.

“L’uomo è di proba, gentil natura, né questo merta, io penso, prova sì dura!”

L’uomo si muoveva folle, qualcuno al di fuori del teatro, per le strade di Piltover, tra i suoi palazzi, lo cercava, lo braccava, lo cacciava. Volevano la sua testa. Volevano fermare l’esibizione e avrebbero buttato giù quella porta, avrebbero trascinato tutto il mondo con loro, avrebbero riportato la vita nel teatro.

“Tutti i demoni lieti non sono, se cade il giusto, inciampa il buono?”

E mentre ancora l’eco rimbalzava tra le pareti, Jhin si sedette al pianoforte a coda che aspettava. Guardò Orianna, guardò la perfezione che in lei pregava di essere liberata, osservò punto per punto il suo torace, lì dove aveva praticato la sua magia. Da lì, da dentro di lei, qualcosa sarebbe eruttato, qualcosa che le avrebbe fatto capire di non essere stata nel torto, di non essere lei l’errore, ma il mondo a non comprenderne la bellezza serafica.

Jhin si sentì quasi sull’orlo delle lacrime.

“Balla per me, Orianna. Balla per Piltover.”

Ed iniziò a suonare.

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Capitolo 2
*** Essere Giustizia ***


DUE: essere giustizia.

C’era fermento nel commissariato e la tensione negli ultimi giorni era palpabile. I motivi, ipotizzava, erano tre: uno, le notizie della guerra in Ionia parlavano dell’impiego di armi chemtech da parte dei mercenari Zauniti, una pratica disumana, la mossa di chi sembrava non avere riguardo per la vita umana; due, Jayce, l’eroe di Piltover, era sparito al di là dei confini della città e non aveva ancora fatto ritorno. Aveva provato a contattarlo, ma senza successo, e in lei cresceva il timore divorante che potesse essergli accaduto qualcosa; Jayce, d’altra parte, non era più lo stesso da quando aveva ingaggiato uno scontro con Urgot — o quel poco di umano che restava di lui.

Ma il terzo elemento di disturbo era quello che più la convinceva, che più le dava da pensare, e in quel momento aspettava annidato all’interno della sua cassaforte personale, alla sua destra, appena dietro alla rastrelliera dei fucili da cecchino. In mezzo ai documenti segreti e di massima importanza, scritti su ruvida carta di Demacia o bianca e perfetta di Piltover, c’era un altro messaggio; o meglio, una pergamena, un capolavoro di calligrafia adornato di sghiribizzi e ghirigori. Sarebbe bastata una sola occhiata per riconoscerla immediatamente come una missiva proveniente da Ionia; era stata chiusa con il sigillo di ceralacca di Demacia, qualche loro spia che si era premurata di avvertire la città e le sue forze dell’ordine del pericolo imminente.

Khada Jhin, si mossero le labbra, l’artista omicida venuto da Ionia.

Non era la prima volta che gestivano terrorismo. Piltover portava ancora i segni del passaggio di altri elementi turbolenti o corpi di rivoltosi e bande criminali che avevano fatto del sacrificio di innocenti la loro arma. Tuttavia, questo caso era particolare, al di fuori di ogni schema, di ogni movente o linea d’azione: non era follia, voglia di distruzione, denaro, ricatto o potere che muovevano questo enorme punto interrogativo. Il suo documento descrittivo era stato chiaro: Jhin era un artista; un artista che aveva immolato la sua esistenza sull’altare della bellezza e aveva deciso di trasformare la propria vita, ed il mondo con essa, in un atto di edonismo.

Nato a Ionia, vissuto a Ionia. Età sconosciuta, giovane, non più di quaranta, non meno di trenta. Diversi anni come attore in una compagnia teatrale itinerante per la provincia di Zhyun. Secondo lavoro, assassino efferato, imprendibile e misterioso. Lo avevano chiamato Il Demone d’Oro, si era creato una leggenda attorno, e poteva immaginarsi quanto ne fosse compiaciuto. I tipi come lui, aveva imparato a proprie spese, sono degli egomaniaci squilibrati.

Allievi del Wuju, soldataglia, cacciatori di demoni, nessuno lo aveva scovato; finché l’Ordine dell’Equilibrio non si era mosso ed il Gran Maestro lo aveva scoperto e catturato. Invece di essere giustiziato, il Gran Maestro aveva ottenuto che fosse imprigionato in un monastero per riuscire a riformarlo. Personalmente, non sapeva cosa pensare di quella scelta, una parte di lei era d’accordo — non erano loro i carnefici e la legge, si ripeteva, divide gli uomini dalle bestie. D’altra parte, il rapporto descriveva Jhin come troppo al di là del limite per essere raddrizzato.

Nel monastero di Tuula, Jhin aveva dato prova di maestria in diverse branche dell’arte, tra cui poesia, musica, recitazione, pittura, calligrafia e forgiatura. Un genio a trecentosessanta gradi. Poi, qualcuno lo aveva liberato per utilizzarlo come arma contro Noxus.

Il resto, ovviamente, è storia.

Aveva imparato a memoria quel rapporto, a forza di leggerlo negli ultimi giorni. Era inequivocabile, Khada Jhin era arrivato a Piltover e non aveva fatto grossi sforzi per nascondersi. Aveva passeggiato tranquillamente per le strade, ma nessuno era riuscito ad arrestarlo; e quando lei e Vi erano state avvertite, era sparito. Ora si trovava con un mandato di arresto per il serial killer più pericoloso del continente tra le mani e il disperato incarico di rintracciarlo. Aveva dedicato ogni goccia del suo sangue e tante ore del suo sonno a coordinare le operazioni di setaccio, senza grande successo.

Una settimana era scivolata e l’uomo mascherato non aveva fatto la sua mossa. Aveva quasi sperato, ingenuamente, che avesse raccolto le sue cose e si fosse dileguato, stanco di Piltover e della sua tecnologia. Un desiderio che, ovviamente, non era stato esaudito.

La porta del suo ufficio si aprì appena, lasciando solo uno spiraglio e la luce vi filtrò attraverso; il buio della stanza si allontanò e rischiarò la sua figura abbandonata contro la poltrona, il fucile abbandonato contro la scrivania, il mento poggiato contro il palmo della mano.

“Posso entrare?”

Una domanda insolita, da parte sua. In un’altra occasione, avrebbe sbattuto la porta e non si sarebbe fatta problemi ad interromperla. Si diede un colpo al viso, un leggero schiaffo contro la guancia, si schiarì la voce.

“Entra pure.” Il tono della sua voce suonò artificioso alle sue stesse orecchie. Avrebbe voluto mandarla via e rimanere immersa nel buio, con i suoi pensieri, ancora un po’. Ma in quanto sceriffo di Piltover non poteva semplicemente chiudere il mondo fuori dalla porta. Sapeva che sarebbe venuto a bussare, con due grossi guantoni Hextech.

Vi non si era cambiata, per cui il paio di guanti da battaglia brillavano tenui nella semioscurità della stanza. La tenuta da pattuglia era spenta, segno che lo scudo era stato disattivato, e che quindi era rientrata di urgenza.

Si aspettava qualche notizia su Jhin, qualche indicazione, qualunque cosa che la scuotesse, la costringesse a rimettersi in piedi e ad affrontare la realtà, quanto meno di tornare a fingere che tutto andasse per il verso giusto.

Invece, Vi fu molto cauta e si sedette di fronte a lei senza fretta. La osservò togliersi i guanti, quelle due poderose armi hextech spegnersi e cadere sul pavimento con un tonfo metallico: un’azione che conosceva alla perfezione, tante volte si era ripetuta davanti ai suoi occhi. Il rumore indicava che le mani di Vi erano libere, che potevano torcersi, cercare di tenersi buone tra di loro; lo vedeva il nervosismo nei suoi occhi, nei suoi atteggiamenti, in quelle situazioni.

Nell’ultimo periodo la tensione si era accumulata tra di loro e, se ne era resa conto, non riuscivano nemmeno più a sfiorarsi con gli occhi. Vi la cercava, lei fuggiva; lei la guardava di sottecchi, Vi si voltava, faceva finta di nulla. Non le dava la colpa di nulla, lei cercava di fare quel che poteva; e d’altra parte, non era mai stata brava con queste cose. La sua specialità, lo diceva lei stessa, era sferrare pugni. Essere diretta. L’unica con cui sembrava non riuscirci più era…

“Cait.”

“Mh?” si scosse di colpo, le mani che tormentavano il cappello sulle ginocchia, gli occhi seguivano la linea delle spalle, il collo, si fermavano al mento e alle labbra. Gli occhi erano zona al di là della sua giurisdizione, almeno da due settimane a quella parte.

“Ho detto, come mai sei al buio? Perché non accendi la luce?”

La risposta automatica ingranò e arrivò alle sue labbra, “Sono stanca,” una risposta meccanica, una perfetta copertura, uno scudo contro le scomodità e la verità che la teneva alla gola, “per questa faccenda di Jhin. Del terrorista. Non abbiamo indizi, vero?”

Vi sospirò. Le sue spalle si alzarono, divorò l’aria, la sputò fuori rassegnata. Frustrata. Non riusciva a parlare come avrebbe voluto, lo sapeva. Vedeva la distanza che le stava separando, il banco di nebbia che si infittiva tra di loro, avrebbe voluto alzarsi e vomitarle addosso tutto il fango che aveva nello stomaco, che risaliva acido fino alla bocca e la soffocava.

Il fango le aveva preso la gola e la faceva respirare a fatica, Vi lo sapeva; ed avrebbe voluto estrarlo con la forza, farla parlare anche a suon di pugni, Caitlyn ne era consapevole. Ma c’era qualcosa che le fermava entrambe. Per cui, non facevano altro che guardarsi di nascosto; per cui, tenevano le labbra strette ed i denti serrati; per cui, continuavano ad annegare.

“Abbiamo una pista. È solo una testimonianza, ma potrebbe aiutarci.” Avrebbe dovuto esultare per quella notizia, invece il tono pesante e soffocato con cui l’aveva comunicata strinse il cuore a Cait. Si poggiò il cappello in testa, lo calò sugli occhi, per nasconderle il viso che si increspava; cosa sto facendo, si disse silenziosa, cosa diavolo sto facendo. Guardò Vi da sotto la visiera, la osservò mentre se ne stava rigida e con il viso contratto, i pugni serrati, le labbra chiuse. In tensione, come se dovesse scattare di colpo, come se da un momento all’altro dovesse prenderla per la collottola e sbatterla contro il muro. Era già successo. Non era stato piacevole… ma lo ricordava con calore.

Stava spezzando la donna più forte che avesse mai conosciuto?

“Una testimonianza? Chi?”

“Una dei nostri. Oggi era al Piazzale d’Ingresso Est ed è stata avvicinata da un automa funzionante e senziente, non…” si affrettò ad aggiungere, “…del tipo di Viktor, sembra. Sembrava smarrita e sperduta. Aveva chiesto qualche indicazione confusa, poi si era allontanata; ed è stata avvicinata da…”

“Da Jhin,” la anticipò, “Cosa vuole un assassino fuggiasco di Ionia da un automa?”

Era una domanda retorica. Nessuna delle due poteva saperlo, nessuna delle due aveva anche solo un’idea su cosa potesse partorire una mente distorta come la sua.

“Sappiamo qualcosa di… di C?”

Vi alzò le spalle. Non era un argomento che affrontavano con piacere. Era uno dei pesi sulla coscienza di entrambe, seppure per motivi diversi. C, per quanto ne sapevano, poteva già essere sulle tracce di Jhin, pronta ad aggredirlo con una squadra e catturarlo per risolvere il problema a modo suo. Cosa che, ovviamente, rendeva ancora più imperativo agire in fretta.

“Abbiamo delle telecamere di sorveglianza sulla piazza?”

“Qualcuna di quelle sperimentali. Dovremmo controllarle.”

Serviva il suo permesso, certo. Nessuno poteva accedere agli archivi dei nastri senza il permesso dello sceriffo. Guardò Vi per qualche secondo, la scrutò, cerco qualcosa al di sotto di quell’espressione contratta. Si morse il labbro, le dita giocherellavano colme d’ansia, esattamente come le sue, senza guanti, che tentavano di non contrarsi, di non muoversi d’istinto.

Spostò gli occhi verso l’alto. Quello era stato un territorio difficile da esplorare, negli ultimi tempi, lo aveva evitato inconsciamente. Ed ora, con uno sforzo che le fece torcere lo stomaco, sfiorò gli occhi di Vi.

“Hai il mio permesso.”

Silenzio. Si odiò per quella risposta, si odiò per aver girato la poltrona, si odiò per aver affondato i denti nelle labbra. Non riusciva a guardarla in faccia, non riusciva a guardarla negli occhi. Quello che aveva visto era abbastanza. Avrebbe voluto strapparselo dalla testa, avrebbe voluto cacciarla via dalla stanza e sperare di essersi immaginata tutto.

Sentì la sedia che veniva spinta all’indietro.

Trattenne il fiato. Vattene, sussurrò, vai via. Vattene, vattene, vattene.

Il pugno si abbatté sulla scrivania senza preavviso. Il rumore del legno che si incrinava rimbalzò per la stanza, risuonò violento fuori dall’ufficio. Qualcuno si avvicinò alla porta, provò ad aprirla, ma Vi si voltò di scatto. Aveva la voce roca.

Aveva la voce incrinata.

“Lasciateci sole.”

Una voce che assomigliava ad una palude torbida, una fanghiglia di impulsi incontrollabili, di rabbia ed esasperazione.

Cait si ritrovò a pensare che se l’avesse presa a pugni, se le avesse spaccato la faccia, lo avrebbe accettato. Avrebbero smesso di parlarsi, lei si sarebbe allontanata e la distanza si sarebbe allungata di miglia. Forse, in quel caso, Vi sarebbe stata meglio.

La porta si chiuse, uno scalpiccio al di là rimase sospeso per un momento nella stanza buia, ancora vibrante di quel colpo sferrato con rabbia, no, con frustrazione. Cait era rigida, con le spalle contro lo schienale della sedia che non sembravano volersi muovere, l’intero corpo in tensione. Gli occhi cercavano qualcosa, al di là della finestra che dava su Piltover, qualcosa che potesse darle una via di fuga.

Ogni respiro era una boccata d’aria che sputava subito dopo. Come se stesse annegando ed annaspando, cercava di ingurgitare l’aria attraverso la fessura delle labbra. Si chiese se anche Vi potesse sentire il suo petto che urlava e si divincolava, d’istinto si portò la mano al petto, come se cercasse un modo per soffocare quel rumore, il battere incessante, più assordante del suo fucile.

Non osava voltarsi, non ci riusciva, una parte di lei si rifiutava di guardare in viso il suo braccio destro. Se lo avesse fatto, ne era sicura, si sarebbe incrinata; e non avrebbe mai permesso a qualcuno di vederla spezzarsi, non una volta di più. In silenzio, sospesa, in bilico, in attesa.

Vi, dietro di lei, aveva poggiato entrambe le mani sulla scrivania, i denti tanto serrati da stridere gli uni contro gli altri; la vista annebbiata le restituiva l’immagine della scrivania spaccata, gli oggetti, i documenti, tutto scagliato via; la sua mano destra si era spaccata all’impatto, le nocche spellate e sanguinolente, grosse schegge che le trapassavano la pelle. La sentiva pulsare ritmicamente, seguiva il flusso del suo sangue, il suo respiro mozzato.

“Cosa sta succedendo?” il suo tono di voce tremava. Era un tifone, ricolmo di un miscuglio indecifrabile, un rigurgito del turbinio che aveva dentro. “Vuoi dirmi cosa ti prende?! Perché non mi guardi in faccia, perché non mi parli quasi più?! Perché sembri un dannato fantasma, perché sembri sempre sul punto di scoppiare?!” Controllare le emozioni non era il suo forte. Era questo che le aveva permesso di tirare avanti. Era questo che le era piaciuto di lei. Ed era questo che metteva in ogni pugno che sferrava.

“Sto bene. Non sta succedendo nulla,” la risposta suonò falsa ed artificiosa perfino a se stessa e dovette sopprimere l’impulso di vomitare la bile acida che risaliva con ogni parola, “sono solo stanca.”

“Non ci provare!” un nuovo colpo al tavolo, questa volta senza tutta quella forza bruta istintiva, abbastanza da farlo tremare e minacciare di cedere, “Non provare a mentirmi in questo modo, hai capito? Ti conosco, qualcosa non va. Puoi darla a bere agli altri, ma non a me.”

“Da quando ti interessa come sto?”

“Cosa hai detto?”

Si portò una mano alla bocca. Le parole erano uscite istintive, un meccanismo di difesa violento che la spezzò di colpo, la azzannò alle viscere, mentre ancora la sua bocca si apriva, rispondeva, “Se secondo te qualcosa non va, perché non me lo hai chiesto prima? Perché non hai fatto nulla?”

Era un colpo basso. Era meschino, mostruoso, orrendo. Non lo pensava davvero… giusto? Scosse la testa. Una parte di lei, quella spaventata, braccata, le diceva che se a Vi fosse davvero importato qualcosa, sarebbe venuta da lei prima. Avrebbe fatto qualcosa, invece di guardarla e basta, di girare la testa o abbassare gli occhi quando veniva scoperta ad osservarla.

Ma sapeva benissimo che lei aveva provato a raggiungerla. Non ci era riuscita, perché era spaventata, perché non sapeva come comportarsi. Perché c’era una barriera, tra di loro, uno strato di sottile vetro che le divideva, che le teneva lontane e impediva loro di toccarsi. E Vi, che sfondava i muri di cemento a pugni, non riusciva a distruggere quella lastra.

“Non importa, dimentica quello che ho detto.”

Vi calciò la sedia su cui si era seduta, la mandò a sbattere contro il muro, qualche crepa, il legno e l’acciaio che sbattono e si deformano, “Dannazione, Cait, dannazione!” La voce rauca, la gola che fa male perché deve trattenere con le unghie e con i denti le lacrime, “Non so cosa fare, non so come devo comportarmi! Te ne stai lì in silenzio, senza dire nulla a nessuno, senza dire nulla nemmeno a me! A me, Cait, che sono il tuo…”

Si bloccò.

“Il mio cosa?”

Rifiutava quel titolo. La faceva sentire inadeguata, parte di un sistema troppo grande che non capiva, che la spaventava, proprio come allora.

Poteva quasi vederla contrarsi, i suoi occhi chiudersi, il viso accartocciarsi per mantenere l’impeto che la assaliva. Sentì che si avvicinava e ancora Cait non si mosse; lasciò che lei afferrasse le spalle e, con un movimento brusco, voltasse la sedia così che si trovassero faccia a faccia. La guardava dall’alto in basso, torreggiava su di lei, il viso che era una maschera spezzettata e multiforme che combatteva contro se stessa. Orgoglio contro sentimento, le mozzò il respiro, proprio come lei. No, per lei era diverso — per lei era il dovere.

“Vi…” iniziò, allungò la mano verso la sua. Non lo avrebbe mai detto, certo. Ed andava bene così, perché aveva accettato che c’era una sorta di barriera invisibile tra loro ed il mondo, che avevano preparato per se stesse. Non aveva la presunzione di infrangerla, perché l’avrebbe lasciata esposta. Vulnerabile. Vi aveva giurato che non sarebbe mai stata vulnerabile, mai più.

“Il tuo braccio destro, Cait! Il tuo dannato braccio destro!” le afferrò le spalle, mentre urlava, la voce rotta, che andava in mille pezzi, mille respiri strappati dalla bocca, “Cosa ti succede?” sussurrò, mettendosi in ginocchio di fronte a lei, il viso nascosto, verso terra, la voce poco più che un mugugno, “Perché non vuoi parlarmene?”

Caitlyn abbassò la testa a sua volta. Entrambe, se ne rese conto, continuavano a sfuggirsi. Entrambe continuavano a nascondersi. Cosa avrebbe dovuto dirle? Avrebbe dovuto prenderle la mano, la mano che si era distrutta e spaccata in un impeto di rabbia, stringerla, ricacciare indietro le lacrime. Avrebbe dovuto prendere un respiro, cercare le parole giuste, cercare di riuscire a mettere insieme e a dare forma alla sua torma viscida e ai suoi spettri. Sarebbe dovuta tornare indietro, con la memoria, avrebbe visitato di nuovo il magazzino dove aveva trovato i suoi genitori rapiti; o avrebbe rivisto gli esperimenti chemtech sui bambini, o gli sfigurati dalle bombe della terrorista con il lanciarazzi, avrebbe dovuto ricordare i visi distrutti di chi era sopravvissuto mentre la ringraziavano, ben sapendo che avrebbe potuto fare di più, che non era bastato.

Si sentiva piccola, inadeguata. Sentiva le spalle curve sotto il peso di una città enorme e famelica. Sentiva la schiena che scricchiolava, che si avvicinava al punto di rottura. Sentiva gli sguardi degli altri, sentiva l’aspettativa, il giudizio; sentiva di sbagliare, di commettere errori, sentiva di aver ucciso più persone di quanto potesse contare solo perché aveva dormito, solo perché non aveva disinnescato prima una bomba, solo perché aveva permesso ad Urgot di infiltrarsi nella città, perché non riusciva a catturare l’uomo con la maschera, perché aveva esitato a sparare il colpo letale su Jinx.

Si sentiva insignificante. Impotente. Si sentiva di nuovo una bambina con il cappello troppo grande e la pistola giocattolo. Non era eroica come Jayce, incrollabile come Vi. Lei era, semplicemente, una donna che aveva una stella sul petto.

Ed era spaventata, come la notte in cui aveva trovato la sua casa distrutta ed i suoi genitori rapiti da quell’essere mostruoso chiamato C. Ed ora che C. si avvicinava, ora che C. stava per incrociare la sua strada…

“…perché non sono mai abbastanza, Vi?”

Con il viso affondato nella spalla di Vi, Caitlyn fece una cosa che avrebbe voluto molto tempo fa: pianse, senza che Piltover la guardasse.

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Capitolo 3
*** Schiaccianoci ***


TRE: schiaccianoci.
 

“Ah, Piltover, anche oggi hai bisogno di me. Anche oggi, ti sei ricordata che è il progresso a servire noi, non viceversa. E quindi, sei venuta da me.”

Erano quindici uomini in totale. Una squadra punitiva molto folta per una semplice irruzione e cattura di un ricercato. Camille era indispettita, ma non lo dava a vedere; suo nipote e tutto il clan Ferros avevano pagato profumatamente perché rintracciasse e catturasse Kada Jhin e lei, che conosceva questa città come fosse il palmo della sua mano, si era affrettata a gettarsi sulla pista.

Era stato più semplice del previsto e, non lo poteva negare, ciò la turbava: i terroristi, di solito, non vogliono farsi trovare. Ma dato il rapporto da Ionia che avevano intercettato, e richiamando alla memoria il profilo psicologico del bersaglio, non poteva meravigliarsene più di tanto. Jhin non aveva fatto nulla per cercare di rimanere nascosto; al contrario, si era fatto vedere in pubblico, aveva avvicinato un automa e l’aveva portato con se. La destinazione era banale, certo, e Camille trovava questa messinscena pacchiana — un artista folle che sceglie un teatro come luogo di uno scontro, una storia vista e rivista, che aveva il sapore di una novella teatrale.

Il consiglio del Clan Ferros era stato chiaro: Jhin doveva essere catturato vivo. Ferito, va bene, non potevano impedirle di fargli del male; sì, anche un arto in meno sarebbe andato bene, avevano la tecnologia per sistemarlo senza troppi problemi. Ma la sua mente e, sopratutto, le sue abilità di assassino efferato andavano preservate.

Un folle attore girovagante che, a quanto pare, era sfuggito al controllo dei suoi padroni, poteva essere un animale perfetto… con il giusto collare. D’altra parte, si trattava di fare un favore anche alla sua città. Se voleva evitare che andasse in pezzi, se voleva proteggerla e fare in modo che il Clan Ferros la muovesse a proprio piacimento, era necessario eliminarne le minacce: così aveva fatto con Jinx, così con Viktor ed Urgot, sempre dalle ombre, senza che quelle due ragazzine se ne accorgessero.

Era sicura che avrebbe incrociato ancora una volta le strade di Vi e Caitlyn e che sarebbe inevitabilmente accaduto quella sera. La polizia di Piltover era lenta, a volte trattenuta dalla morale e da lacerazioni interne, ma sapeva fare il suo lavoro. Quelle due, oltretutto, avevano una capacità singolare nel fiutare i problemi e saltare loro al collo. Sarebbero state un elemento di disturbo, senza dubbio, ma lei aveva dalla propria parte la rapidità. Avevano un netto vantaggio sulle forze dell’ordine e avrebbe chiuso l’incursione in poco meno di cinque minuti. Forse se la sarebbe cavata con meno, senza avere una squadra così folta alle spalle, ma i suoi patrocinanti avevano insistito.

La irritava sapere che, a parere di suo nipote e del consiglio del Clan, questo Khada Jhin rappresentasse un pericolo per lei. Aveva rimosso fin troppi ostacoli dalla strada di Piltover, aveva provato più volte di essere abbastanza forte da spazzare via chiunque. Non aveva abbandonato la sua fragile umanità per nulla, non aveva venduto il suo corpo alla causa ed il suo cuore, il suo amore pulsante, per essere sottovalutata così.

Si era trattenuta, perché sapeva che non era il momento di creare scompiglio nel Clan. Aveva posto suo nipote alla guida del Clan, dopo aver ucciso quel vecchio stanco e psicopatico di suo fratello, e di fatto lo manipolava come più le piaceva; ma a volte quel ragazzino subiva troppe pressioni dal resto della famiglia, da persone i cui interessi iniziavano a farla spazientire. Forse, sussurrò, forse è giunto il momento di fare pulizia.

Si sarebbe occupata più tardi dei problemi che iniziavano a serpeggiare tra le sue fila. Se volevano sfruttare quel vantaggio che avevano sulla polizia, dovevano muoversi; per cui fece un secco cenno con la mano ai suoi, li divise in tre gruppi da cinque e li mandò a circondare l’edificio, per controllarne il perimetro. Cinque sul lato nord, cinque sul lato sud, “Cinque con me,” concluse, diede loro le spalle, pronta a spiccare il balzo, “Irrompiamo ora.”

Le sue gambe un tempo erano state umane: era stata la prima modifica che aveva richiesto, che fossero sostituite da due lame mobili, che inserissero rampini e cavi d’acciaio per permetterle di spostarsi a mezz’aria. Poi era stato il turno degli occhi, per vedere al buio. Si era resa conto che, senza più un cuore, con un motore Hextech che pompava magia compressa nelle sue nuove vene, era molto più semplice abbandonare delle parti superflue di se stessa. Si sentiva leggera, più di quanto non lo fosse mai stata; e i vecchi ricordi, immagini sbiadite di una Camille più giovane, ancora umana, e del suo amore per il proprio Frankenstein le apparivano come diapositive ingrigite… o in questo caso come novelle teatrali, sì.

Senza un cuore, non puoi provare pietà, rimorso o esitazione. Non hai secondi pensieri, non ti fermi a cercare di capire cosa c’è di sbagliato. Camille aveva capito che il mondo era diviso in due parti: c’era la sua e c’era quella sbagliata. Se ne pentiva? No, assolutamente no, sibilò a se stessa, non c’è nulla di cui pentirsi. Il pentimento è ciò che tempra l’acciaio della nostra anima, diceva suo fratello; e ovviamente, nonostante l’età non addolcisse le sue memorie, era sicura di aver fatto la scelta giusta. Se non per se stessa, per il suo Clan e per Piltover.

I rampini scattarono fuori dalle sue gambe meccaniche, un sibilo che fendeva l’aria e si conficcava nel muro del teatro; il suo corpo metallico si eiettò, come un ragno, e arpionata al muro si avvicinò ad una finestra. Sbarrata, ovviamente, con travi di legno marcio e qualche rinforzo d’acciaio. L’ingresso, qualche metro sotto di lei, sembrava essere libero. Qualunque cosa stesse tramando questo Jhin, li stava invitando a braccia aperte.

Alzò gli occhi verso i cinque che aspettavano un segnale, i loro fucili imbracciati e pronti a fare fuoco, ma un secco movimento della mano bastò a dare il via libera.

Si calò lentamente, una piroetta a mezz’aria, ed atterrò con un vago tonfo metallico sul selciato. I suoi uomini la circondarono, si disposero in formazione, dita sui grilletti.

“Entriamo.”

L’ordine secco fece scattare in avanti uno dei soldati, un calcio violento, la porta si spalancò scricchiolando, i cardini infranti, nel rivelare una stanza vuota e polverosa, una biglietteria dalla puzza di muffa e ruggine. Un unico ingresso verso il teatro vero e proprio, una lunga galleria scura dalle bluastre luci intermittenti. Energia elettrica perfino in un luogo tanto abbandonato a se stesso, tipico di Piltover.

Ma c’era qualcosa che la tratteneva dall’avanzare, una sorta di impercettibile vibrare che sembrava solleticarle l’orecchio. Alzò la mano e la sua scorta si immobilizzò come una statua. Conosceva questa musica e conosceva queste note. Certo che le conosceva, si disse, i denti contratti, aveva studiato musica così tanto a lungo. Si era spaccata le mani sul pianoforte per così tanto tempo, per compiacere suo padre e la sua educazione, per essere la donna che serviva al Clan Ferros. Certo che riconosceva quella canzone.

Era un estratto, una piccola parentesi di un’opera per bambini. Una favola. Strinse gli occhi, per richiamare alla mente il titolo, ma più tentava di capire, più la vista si annebbiava e le rimandava solo ricordi divorati dal tempo. Lei seduta al pianoforte, le dita arrossate, lo sguardo appannato, che ripeteva fino alla disperazione quella parentesi; ancora ed ancora, ma ogni volta inciampava su una nota, su un passaggio, quel passaggio maledetto.

Ricominciava di nuovo, dall’inizio, nonostante il suo corpo la supplicasse. Suonava e suonava e suonava, la schiena implorava pietà, ma lei non voleva fermarsi. Suo fratello era seduto dietro di lei e la guardava in tralice, era malato anche quel giorno, se lo ricordava; era spesso malato, con quel suo fisico gracile e i suoi occhi sempre tremanti, l’espressione debole di chi non può reagire.

E lui l’aveva ingannata. Si era fatta ingannare e si era fatta strappare via il cuore, l’umanità, e l’unica persona che avesse mai amato, perché suo fratello l’aveva ingannata. Quel piccolo, gracile ragazzino che sarebbe diventato un adulto visionario, un manipolatore e poi un vecchio psicopatico. L’immagine di suo fratello cambiava, diventava quel vecchio dalla gola aperta, che zampillava sangue, mentre lo portavano via per seppellirlo. L’età, aveva detto in pubblico, la malattia, la fatica — ricordava il discorso al funerale — se lo erano portati via. Povero fratello mio, povero Charles. Quanto aveva sofferto. Sarebbe stato ricordato per sempre, nei Ferros, per il successore degno di suo padre quale era stato.

Quella stessa canzone, in questo esatto punto, l’aveva suonata di nuovo ad Hakim, al suo Hakim, quel giovane cristallografo così promettente. Se lo ricordava, impacciato e timido, un povero ragazzo di Shurima che era stato raccolto chissà come per le sue straordinarie abilità. Quando gliel’avevano presentato, Camille stava suonando questa canzone e Hakim si era scusato. Aveva abbassato la testa e aveva detto, con voce sommessa, che non era sua intenzione interromperla.

Suo fratello lo aveva assunto come loro nuovo Capo Costruttore. Sapeva tutto di modellazione di cristalli e di sviluppi Hextech, abbastanza perfino per sistemare un corpo che era stato smembrato o colpito. Perfino, aggiunse, sostituire un cuore ferito e irreparabile.

A lei sembrava solo un uomo spaesato e che parlava a malapena. Nei mesi successivi, per un anno intero, si sarebbe ricreduta appieno. Avrebbero letto insieme storie e leggende su Shurima, avrebbero parlato di viaggi impossibili in distese di sabbia, tra le rovine dell’impero perduto; avevano discusso di modifiche Hextech e Camille gli aveva confidato di voler abbandonare quel corpo, assumerne uno nuovo, per non invecchiare e servire al meglio suo fratello ed il Clan Ferros.

Com’era successo? Non lo ricordava. Suonava così stupido, alla Camille di ora anche solo a pensarci. Era nato qualcosa tra di loro; e lui le aveva chiesto di rinunciare all’operazione, di non buttare via la sua umanità. L’aveva guardata negli occhi e le aveva detto che non avrebbe dovuto temere il tempo, se l’avesse vissuto appieno.

E Camille ci aveva quasi creduto, davvero. Poi suo fratello l’aveva ingannata e lei aveva abbandonato ogni sogno di fuga. Si era ricordata quale fosse il suo posto e quanto la sua esistenza fosse fondamentale per il Clan Ferros.

Quindi, Hakim le aveva strappato il cuore e le aveva conficcato un motore Hextech.

Quella canzone, per quanto si sforzasse, non voleva tornare da lei.

“Signora..?”

La voce dell’uomo la scosse. Si infuriò con se stessa per essersi fatta distrarre; fosse stata da sola, avrebbe colpito con violenza il petto, lì dove stava il motore, e si sarebbe chiesta se per caso si fosse guastato. Ma non era il momento per tergiversare. Avevano già buttato via abbastanza tempo.

“Schieratevi. Khada Jhin è lì dentro. Accerchiatelo, catturiamolo; non dobbiamo ucciderlo. Permesso di fuoco non letale.”

Annuirono, si mossero in avanti, percorsero il corridoio bluastro, le luci distorcevano l’ambiente e ogni volta che singhiozzavano, con il buio che li avvolgeva, gli occhi di Camille rifulgevano e le indicavano la via. La musica era sempre più forte, scivolava oltre il portone chiuso, si insinuava al di sotto della fessura e risaliva come aria calda.

Il geniere si posizionò di fronte alla porta, l’ariete in mano. Camille alzò le dita.

Tre.

Due.

Uno.

Il colpo seccò infranse il portone, le due ante schizzarono via, rivelarono un anfiteatro completamente vuoto. Era buio, completamente buio, e sopratutto silenzioso. Non c’era pubblico ad assistere alla bizzarra scena che si schiudeva di fronte a loro.

Khada Jhin suonava appassionatamente il pianoforte, dando loro le spalle, come un artista che non possa interrompere l’esibizione per un pubblico in ritardo. Ma sopratutto, al centro del palco, in bella vista, circondata di petali di fiori, c’era l’automa. Una bambola d’acciaio, una marionetta che girava su se stessa, ballava, i movimenti eleganti seguiti dalla sfera che le ruotava attorno.

L’intera scena grottesca era solo una distorta e ripugnante parodia di una vera danza. Perché, per quanto i movimenti fossero precisi, impeccabili, non c’era emozione, non c’era sentimento. Era solo una bambola di acciaio che eseguiva movimenti umani, seguendo quella musica familiare.

Mentre lo pensava, in un secondo, ricordò il nome dell’opera.

Era un brano dello Schiaccianoci.

Un altro cenno, ed i suoi uomini si mossero, i fucili già puntati. Un movimento inconsulto e il corpo di Jhin sarebbe stato il loro bersaglio. Un passo, due, tre, si aprirono a ventaglio per circondare il palco. E poi, qualcuno calpestò un fiore; ed un altro, ed un altro, ed un altro.

Le trappole d’acciaio scattarono, emettendo un scintillio di avvertimento, uno scatto metallico di appena un secondo. Camille scattò in avanti, i rampini delle sue gambe si eiettarono verso l’alto, si proiettarono fino a conficcarsi contro una fila di sedili, poi verso l’alto, sul lampadario appena sopra al palco; alle sue spalle gli ordigni detonarono, i fiori sbocciarono, investirono i soldati, le loro urla divorate dall’esplosione e dal fumo purpureo.

Camille non ebbe tempo di pensare. Si lanciò alla cieca contro Jhin, le gambe affilate tese, una forbice letale per colpire e uccidere. Non voleva risparmiarlo. Voleva solo farlo a pezzi.

Aveva osato suonare quella sua canzone. Aveva osato provare a distruggerla. Il suo motore Hextech si irrigidì — e Jhin, con un movimento fluido, estrasse la sua pistola. Uno, due, tre, quattro, lo sentì sillabare, mentre sparava. Deviò due colpi, un terzo lo allontanò con la mano, lo sentì che scheggiava il metallo e le strappava via un dito. Il quarto, invece, andò a segno.

Rotolò malamente a terra, ma riuscì a rimettersi in piedi in un unico balzo. Si voltò, la mano ferita che affondava nel lato destro del volto, divelto; dove prima c’era il suo occhio, la sua guancia ora un buco rivelava ingranaggi e complessi meccanismi magici.

Sotto alla maschera, Jhin stava ridendo, estasiato. “Magnifico, magnifico! Mia cara,” si voltò verso la bambola, “Mia cara, bellissima Orianna! Guarda il tuo speculo, guarda una donna che ha venduto la sua umanità per avere un posto nel mondo. La invidi, forse, o provi disgusto? Lei è te, la te di un altro tempo, un altro luogo.”

Scattò in avanti, più rapida, si ordinò, più letale. Il suo corpo era stato costruito appositamente per quello scopo. No, urlò a se stessa, io e quella bambola malriuscita non siamo assolutamente la stessa cosa. Il terrorista fece volare la mano al fucile, sparò un proiettile, due, tre; Camille fu abbastanza pronta per eiettarsi verso il pianoforte, scalciandolo via nell’impatto, e nel lanciarsi verso il bersaglio. Era rabbiosa. Si sorprese. Non si sentiva arrabbiata da tempo. Da molto, molto tempo. Da quando aveva scoperto che suo fratello l’aveva manipolata. Da quando aveva scoperto che il suo sacrificio era stata una scelta non sua. Da quando si era resa conto di aver perso l’opportunità per essere, per una volta, fel—

“Quattro!” annunciò Jhin, teatrale; e sparò l’ultimo colpo in canna. Più rapido, più potente. Perforante. Sul lato cieco del suo viso. Le strappò via il braccio destro. Lo vide volare via, dietro di lei, e sentì una scarica di dolore che credeva fosse impossibile; i soppressori di dolore le impedirono di perdere conoscenza, ma non di sbilanciarsi nella traiettoria dell’attacco.

Mancò Jhin di un soffio, lo vide con la coda dell’occhio sinistro che si inchinava. Urlò, questa volta, ed imprecò ad alta voce.

“Nel massacro, sboccio… come un fiore all’alba.”

I suoi rampini scattarono di nuovo, questa volta verso Jhin. Li schivò con un secco movimento, mentre si inchinava di nuovo al suo pubblico; e non si rese conto che si andavano a conficcare nella scenografia, che Camille si tirava verso di lui, che le due lame incombevano. Si voltò di scatto, in tempo per vedere il colpo che arrivava al suo volto, e alzò di scatto braccio e fucile. Il taglio fu netto e preciso, troncò l’arma, scalfì il braccio e tagliò in due la maschera. Il lato destro cadde a terra.

L’attore dal viso scoperto.

“Come hai osato distruggere la mia faccia?!” le urlò, la voce incrinata, “Come hai osato? Non era questo il copione, dannazione!”

Parlava troppo, ringhiò Camille a se stessa, saltandogli contro, un nuovo fendente preparato. Jhin piroettò su se stesso, alzò il mantello; la granata le volò contro, la deviò con un movimento sinuoso, ma mancò ancora il bersaglio. Quel dannato psicopatico continuava a sfuggirle.

“Oh, la mia faccia, la mia povera faccia! Non guardare, Orianna, non guardarmi ora! Sii pronta, sii pronta a mostrare a tutti la tua anima umana, a mostrarla a questo tuo doppio distorto… e a tutta Piltover!”

Il fumo cremisi si dissolse. Un uomo di Camille volò attraverso la stanza, atterrò con violenza di fronte al palco. Un proiettile schizzò, attraverso la stanza, diretto verso il terrorista, nel punto cieco dove si nascondeva il viso, ma mancò di poco il bersaglio quando lui scivolò a sinistra.

“Polizia di Piltover, mani in alto e nessuno si muova!”

“E se qualcuno lo fa, sappia che ho spezzato abbastanza gambe per oggi.”

Jhin sorrise. Piltover era arrivata.

“Ed ora, l’atto finale.”

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Capitolo 4
*** Falena ***


QUATTRO: falena.

Jhin spalancò le braccia, estasiato, un gesto teatrale quanto il suo personaggio; il fumo si accumulò attorno alla sua figura e spirò verso l’alto, mentre lui puntava la pistola contro una finestra sbarrata. Lo scatto del proiettile esploso dalla canna lacerò l’aria, infranse le assi di legno, lasciò filtrare la luce in un posticcio occhio di bue su Orianna.

“Orianna, ora dimostreremo a tutti che anche in te c’è dell’umanità. Anzi, tu, che sei la musa di questa opera d’arte, tu sei la più umana di tutti qui dentro. Senza più un corpo o un cuore, la tua esistenza è un lacero grido di disperazione — implori il mondo di darti spazio. Nessuno guarda oltre la tua scorza d’acciaio… Ma oggi è diverso. Oggi, alla fine di questo tuo ballo, sboccerai come un fiore all’alba.”

La mano affondò nel mantello e ne estrasse un piccolo oggetto metallico, il cui lampeggiare rosato fece storcere la bocca a Caitlyn. “Un detonatore a distanza,” sillabò a Vi con le labbra, senza staccare gli occhi da Jhin, “c’è una bomba. Ma dove?”

“Ma dove! Questa è la domanda sciocca che mi aspetto dal popolo ignorante, da chi non capisce. Non è una bomba, ma un mezzo per rinascere, per sublimarsi in un atto di distruzione assoluta, uno scoppio dell’Io cosciente. Un sacrificio che suoni mille volte più rabbioso di un urlo di una bambola d’acciaio.” Jhin indicò, inarcando la schiena, tendendo il braccio, un dito sottile, la danzatrice di ingranaggi e magia che rimaneva congelata in una innaturale posizione di danza, in equilibrio sulla gamba sinistra, la destra tesa nel vuoto, le braccia e le mani strette in un arco sopra la testa. Sembrava bastasse un soffio per farla caracollare a terra.

“Nell’automa…” ringhiò Vi, tesa sulle gambe, i guanti da battaglia che si caricavano di energia, “Abbiamo un piano?”

“Togliergli il detonatore di mano. Intercettare C. Bloccare la via di fuga al terrorista.”

“Tutto qui?” il sorriso di Vi si fece sbieco, canzonatorio, “Questo è il meglio che ti viene in mente?”
“Hai altre idee?”

“Nessuna.”

Un cenno d’intesa. Caitlyn sparò, Vi scattò in avanti, il corpo trascinato dai guantoni e dal motore Hextech, distrusse una fila di sedie una dopo l’altra. Il proiettile sibilò in aria, colpì Jhin alla mano, il telecomando schizzò a terra. Il terrorista cadde in ginocchio, imprecando ad alta voce, un urlo lacerato; Camille schizzò verso di lui, i rampini pronti ad attivarsi, a serrarlo al terreno.

Per Orianna, quello era solo un inferno. Un enorme, distorta successione di eventi che non comprendeva. Sapeva solo una cosa — Jhin aveva mentito. Ne era sicura. Ed ora, chiunque fosse quella gente, lo stava aggredendo; lo stavano per uccidere. Non ne capiva il motivo, non comprendeva perché volessero fargli del male. Era un po’ strano, un po’ melodrammatico forse, ma era stato gentile con lei; le aveva parlato con un tono che, per qualche istante, le aveva fatto vibrare qualcosa che credeva di aver perso.

Aveva visto tante volte il caos, nel mondo. Era stato per opporsi al caos che aveva perso la sua vita e suo padre. Erano ricordi da cui si era estraniata ma, per la prima volta dopo molto tempo, sentiva di capire l’Orianna di carne ed ossa. In mezzo al caos e al disordine, ci sono poche cose che si vogliono proteggere; e sono quelle che fanno vibrare qualcosa… perfino in un cuore d’acciaio e magia.

“Devastazione.”

La sfera scivolò a mezz’aria, andò a cozzare contro Vi, l’impatto fu tremendo ed il rumore dell’acciaio che stride le fece pensare di averla distrutta; ma con la coda nell’occhio, attraverso la polvere, la vie scagliata tra le poltrone. La sfera riemerse rapida dall’impatto, scivolò verso Jhin.

“Proteggi.”

La sforbiciata di Camille, ad un soffio dal viso nascosto di Jhin, trovò una sottile barriera di energia. Imprecando a bassa voce, l’assassina caracollò all’indietro, ritrovando l’equilibrio appena in tempo per evitare una nuova spazzata della sfera.

“Cosa sta facendo quell’automa?” lo sbraitare di Vi raggiunse Cait insieme al bossolo che tintinnava a terra ed il nuovo proiettile che scivolava in canna, “Lo sta difendendo?”

“Sindrome di Stoccolma,” rispose calma, prendendo di nuovo la mira, “Ritenta, ora.” Questa volta, il bersaglio sarebbe stato un altro, ben più difficile da intercettare di Jhin. Cait prese un respiro profondo. Il peso che sentiva da sempre era ancora lì. Non se ne sarebbe mai liberata, lo sapeva. L’unica cosa che poteva fare era accettarlo e combatterlo — renderlo una parte di lei. Per questa volta, sussurrò, mi sarai utile. Avrebbe dimostrato a Piltover, alla sua gente, alle vittime che aveva lasciato dietro di sé di poter fare la differenza. Almeno per una volta, non avrebbe commesso sbagli. Almeno per una volta.

Vi batté i pugni, li caricò nuovamente, il motore Hextech emise un lampo bluastro e rilasciò energia cinetica. Di nuovo, scivolò in carica rabbiosa verso il palco; di nuovo, appena dietro ad Orianna, Camille lanciò gli arpioni, si ancorò alla scenografia e come un ripugnante ragno si lanciò su Jhin.

“Devastazione.”

Di nuovo l’ordine secco, di nuovo la sfera che vola verso l’energumeno violento dai capelli rosa. La violenza che ricordava in Zaun, la rivedeva in lei, in ogni mossa, in ogni carica feroce. Quella violenza che le era piombata addosso tempo prima. L’avrebbe fermata, perché non era più una debole bambina in carne ed ossa. Avrebbe sconfitto Zaun con il suo cuore nella sfera di metallo.

Cait trattenne il respiro. Una sola possibilità. Un colpo. Le dita sudavano ed i polpastrelli erano scivolosi. Il proiettile era pronto.

Sparò il colpo, sibilò in aria, a metà della traiettoria scattò e liberò un grosso retino rinforzato. La sfera di Orianna venne colpita, intrappolata, aggrovigliata e bloccata nel terreno. Vi sogghignò, vide il suo viso incurvarsi nell’impeto della carica; arrivò sul palco, ne infranse le travi, si sollevò a mezz’aria grazie alla propulsione e, con un poderoso uppercut, scagliò Camille all’indietro. L’espressione di assoluta sorpresa, la frase di disprezzo rimasta a metà sulle sue labbra, tutto sarebbe rimasto impresso nella mente di Vi, istante per istante. Il corpo danneggiato ed esausto volò attraverso la scenografia, la infranse e si perse nel buio delle quinte.

La Legge di Piltover aveva colpito C. ed atterrò sulle assi della scena ridotta in pezzi. Jhin, in piedi, teneva di nuovo il detonatore tra le dita. Questa volta, tuttavia, non perse tempo; senza lunghi discorsi o convulsioni, senza domande retoriche o appellativi, senza richiami al pubblico o urla estasiate, premette il pulsante.

Cait sparò, il proiettile trapassò la spalla, rimbalzò sulla maschera, la scheggiò. Jhin barcollò all’indietro e prima che qualcuno potesse muoversi, lasciò cadere una granata a terra. Dal piccolo ordigno fuoriuscì un denso fumo purpureo, dal nauseante odore di fiori di Ionia.

“Vi!” Cait provò ad urlare, disperatamente, con tutto il fiato che aveva nei polmoni, provò ad urlarle di andarsene di lì, di fuggire prima che la bomba potesse detonare. Piangeva, mentre urlava, piangeva perché vedeva Vi attraverso il mirino che guardava Orianna, guardava la luce rossastra che lampeggiava all’altezza del suo ventre.

Abbandonò il fucile, la voce spezzata che chiamava disperata la sua compagna, la implorava di allontanarsi. Saltò tra le poltrone distrutte, i corpi macilenti, i detriti, ma era troppo tardi. Vi scosse la testa. Il lampeggiare aumentava, ticchettava sempre più rapido, sempre più impellente.

Vi sapeva che lei non se lo sarebbe mai perdonato. Sapeva che avrebbe avuto la sua vita sulla coscienza. Ma non poteva fare altrimenti. In fondo, si disse, non era questo quello che aveva cercato? Riposo, un lungo riposo, dopo aver combattuto così a lungo. Lasciarsi cadere, chiudere gli occhi, non riaprirli più. Avrebbe voluto ringraziare Caitlyn per averle dato una nuova prospettiva ed una nuova vita… ma non le avrebbe mai dato questa soddisfazione.

Si lanciò sul corpo di Orianna, lo strinse con tutta se stessa. Attivò lo strato di scudo Hextech che copriva il suo corpo, impostò il motore al massimo della potenza. Strinse i denti.

Orianna la guardò negli occhi. Non capiva cosa stesse accadendo. Non capiva perché Vi la stesse abbracciando, se fino ad un attimo priva aveva tentato di colpirla e di attaccare Jhin. Sopratutto, voleva comprendere perché stesse piangendo, con i denti stretti, perché stesse cercando di trattenere le lacrime.

Piegò la testa all’indietro, lo sguardo vagò fino alle finestre, fino alle quinte oscure. Le sembrò di vedere Jhin, da qualche parte, in quel buio, che applaudiva di fronte alla sua opera. Si chiese cosa avesse voluto ottenere, da tutto quello; probabilmente, decise, avrebbe risposto che non c’era fine nell’arte. Solo bellezza. E la bellezza più grande, avrebbe aggiunto, è l’altalena delle vicende e delle emozioni umane.

La bomba smise di lampeggiare. Il meccanismo si attivò, Orianna lo sentì muoversi nel suo corpo, lo sentì scattare e spingere ingranaggi ed elementi estranei, rudimentali, che erano stati inseriti in lei.

La detonazione era pronta. Risalì fino al ventre, si accumulò, spinse contro l’acciaio, scivolò nelle fessure tra le articolazioni di vetro. Poi, con un soffio secco, esplose. Petali di fiori schizzarono in aria come una fontana, rimasero sospesi, scivolarono lievi, uno ad uno, nell’aria, fino a ricadere sul palco.

Una miriade, centinaia, migliaia, milioni, miliardi di petali, un intero campo che ricadeva attorno, fiori su fiori che sbocciavano nella luce dell’alba. Fuori, Piltover si svegliava insieme ai primi raggi del sole. E come aveva promesso Jhin, lei era sbocciata. Non più fiori d’acciaio e petali di ingranaggi.

Piltover la vide, in quel momento, la osservò attentamente, in ginocchio, in un teatro abbandonato, circondata da petali di fiori, con lo sguardo abbassato. Ne teneva uno in mano, uno intero, che lui le aveva lasciato. Un pegno, aveva sussurrato, della tua rinascita.

“Jhin,” aveva chiesto, “ho una domanda.”

Jhin ne era rimasto deliziato.

“Quando una falena esce dalla sua crisalide, ricorda ancora la sua vita da bruco?”

Jhin si era fermato. La musica era cessata ed aveva riflettuto. Aveva ripreso a suonare con una mezza risata. L’aveva guardata danzare e i suoi occhi sembravano non riuscire a staccarsi da lei.

“Non posso risponderti, mia Orianna. Io sono ancora un bruco. Ma spero che tu, un giorno, possa trovarmi e darmi la risposta.”

Non era sicura di aver trovato la risposta. Ma avrebbe continuato a cercarla. Avrebbe coltivato la sensazione che quel fiore aveva fatto sbocciare in lei, per un istante; forse, si disse, se l’avesse seguita avrebbe trovato un piccolo spazio per lei, in questa esistenza nebulosa.

Per ora, l’unica cosa che poteva fare era aspettare.

Guardò con attenzione i suoi petali.

Un giorno, sussurrò. Un giorno.

 

 

 

“Dove la porto?”

Il suo cliente, seduto nella carrozza, non fece la fatica di sporgersi per rispondere.

“Cosa mi consiglia, buon uomo? Lei ha viaggiato molto, quindi deve aver visitato molti luoghi magnifici. Una vita di arte e cambiamento.”

L’ennesimo svitato, sussurrò il cocchiere tra sé. Non era strano incontrarne, di quei tempi, sopratutto ora che la guerra di Ionia faceva fuggire tanta gente dall’isola. Di solito, individui come quello erano mistici o miniatori o monaci, che non conoscevano la tecnologia del continente; oltretutto, di quei tempi, Noxus, Demacia, Shurima non erano luoghi adatti per una visita.

“Cosa ne dice di Piltover? C’è mai stato? È un posto strabiliante.”

“Vengo da lì, me ne sono appena andato.”

“Ah, capisco. Deve essere stato un soggiorno difficile, con il terrorista e tutto il resto.”

“Posso dire di essermi goduto la città. Aveva un suo fascino particolare, ma morto. Freddo. Non il mio tipo, se capisce cosa intendo.”

In realtà non capiva e non pretendeva di farlo. Ma poco importava, la cosa che più gli premeva era togliersi dai piedi quell’individuo il prima possibile.

“Aveva qualche altra idea?”

“Cosa mi dice di Noxus?”

“Non un bel posto, ma se insiste. Allora, verso Noxus,” diede un colpo ai cavalli, la carrozza si mosse a fatica, “Bella maschera. È un attore?”

“No,” rispose Jhin, “solo un assassino.”

FIORI D’ACCIAIO

End.

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