Who is Sophie Miller?

di ilovebooks3
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** "Tell me the truth" ***
Capitolo 2: *** "On the cheek" ***



Capitolo 1
*** "Tell me the truth" ***


“TELL ME THE TRUTH”
 


Lisbon è strana: mi dà le spalle in silenzio e non reagisce neanche a una delle brillantissime battute con cui sono solito camuffare il mio malumore.
Finalmente si gira, ma mi guarda in cagnesco e io continuo a non capire.
Forse sto perdendo colpi.
“Dimmi la verità”, incalza.
Le rispondo con un’altra battuta, ma non sembra apprezzare.
Forse sto davvero  perdendo colpi.
“Come una stupida ti ho coperto le spalle per l’ennesima volta, quindi devi dirmi la verità”.
È furiosa.
Chiudo la porta. Non sarà piacevole.
“Perché Sophie Miller è così importante per te?”.
Vedo dalla postura rigida, dagli occhi inquieti e dall’espressione tesa che pagherebbe oro pur di non dovermi fare questa domanda, ma intuisco anche che una forza misteriosa la costringe a pormela.
D’altronde  aveva già tentato qualche ora fa: “So che non dovrei chiedertelo, ma non ce la faccio: che legame c’è tra voi? Chi è questa donna?”, mi aveva chiesto.
Io non le avevo risposto.
“Non chiedermelo”, le avevo suggerito.
Ora però è arrabbiata.
Molto arrabbiata.
Sta ancora parlando la poliziotta integerrima che indaga sul caso e sul mio grado di coinvolgimento con una sospettata, in modo da non inficiarne la risoluzione?
Non lo so.
Non fosse Lisbon, direi che è gelosa, ma questo è un pensiero assurdo perfino per il mio ego sviluppato.
È solo per l’indagine, è ovvio.
Ora però mi tocca risponderle.
Glielo devo.
In effetti mi ha coperto ancora una volta, rischiando, ancora una volta, un mare di guai.
E allora parlo.
Forse Lisbon è l’unica persona con cui posso farlo liberamente.
Eppure, per qualche ignoto motivo, è anche la persona che non avrei mai voluto coinvolgere nel ricordo del periodo più buio della mia vita.
Ma stavolta lo farò.
Le rivelo che Sophie Miller era il mio medico, anzi, la mia psichiatra, e che era davvero una brava psichiatra.
Lei ha ancora lo sguardo perso di chi non capisce.
“Tu odi gli psichiatri”.
È necessario essere più chiari.
“Ero rinchiuso”.
L’ho detto.
È confusa.
Non se l’aspettava.
Ma, oltre alla sorpresa, intravedo la pietà nei suoi occhi trasparenti.
Ecco, è esattamente quello che volevo evitare.
Io non voglio la pietà di nessuno. Mi chiudo a riccio dietro la mia maschera di finta allegria proprio per evitare la compassione della gente verso il-povero-vedovo-a-cui-un-serial-killer-ha-sterminato-la-famiglia.
Ma non è solo questo.
Mi vergogno di ciò che ero e di ciò che sono diventato.
Mi vergogno della follia in cui ero precipitato dopo che Red John mi ha distrutto la famiglia e la vita.
Mi vergogno di aver perso la mia lucidità e di dover ammettere di essere stato salvato dalla psichiatria.
Sophie Miller.
Averla rivista è strano.
È una bella donna.
Era stata lei a tirarmi fuori dal baratro di autodistruzione e di ossessione in cui ero caduto.
Era stata lei a farmi recuperare la mia razionalità.
Per quanto riguarda l’ossessione, no, non ce l’ha fatta. Ma ora, grazie a lei, ho una mente sana che potrò utilizzare per compiere la mia vendetta.
La mente è la cosa più importante che un essere umano possiede, e io vado molto fiero della mia.
Le sarò grato per tutta la vita.
Ma vederla mi fa male, come se non fosse passato neanche un giorno da quella maledetta sera in cui ho trovato uno smile rosso fatto del sangue di mia moglie e di mia figlia.
Qualunque uomo sarebbe impazzito, e io non faccio eccezioni. Ma essere costretti ad ammetterlo fa male.
Eppure con Lisbon è diverso.
Ha gli occhi lucidi, e una ruga le solca la fronte.
“Grazie di essere stato sincero con me”, mi sussurra.
Improvvisamente capisco. Non è pietà la sua: è qualcosa di diverso e di più profondo, a cui non so dare un nome.
Empatia.
Comprensione.
Preoccupazione.
Amicizia, ecco cos’è.
Quello che conta è che a Lisbon posso dire tutto, perché mi conosce e mi accetta per quello che sono.
Anzi avrei dovuto dirglielo prima, appena abbiamo iniziato a lavorare insieme. O, almeno, appena è sbucata fuori Sophie.
Non l’ho fatto semplicemente perché mi vergognavo.
“Scusa se te l’ho nascosto”. Stavolta sono sincero.
Lei lo sa e, all’improvviso, non è più arrabbiata.
Ci guardiamo intensamente, come non ci siamo mai guardati.
Una scarica elettrica mi attraversa la schiena, ma non ci faccio caso.
Amicizia, ripeto dentro di me.
Certo, non potrebbe essere nient’altro.
Qualcuno bussa alla porta ed entra, eppure noi non interrompiamo ancora il contatto visivo. I nostri occhi sono incatenati in una danza senza fine.
È Van Pelt, che capta un’atmosfera strana in ufficio e sta per lasciarci soli con discrezione.
Ma la sua entrata ha già rotto l’incantesimo, e forse è meglio così: ci giriamo verso di lei, poi Lisbon si allontana, lanciandomi un ultimo sguardo che non posso reggere.
Ora lei sa che ero un pazzo. Un pazzo da legare, nel vero senso della parola.
Eppure non ha paura di me.
Non mi fa vergognare di me stesso.
Lisbon accetta tutto di me, come sempre.
E io, come per magia, mi sento più leggero.

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Capitolo 2
*** "On the cheek" ***


 “ON THE CHEEK”
 
 

Sono seduta al volante della mia macchina, ad aspettare che Jane saluti il suo passato e la bella psichiatra che gli aveva salvato la vita e che, per fortuna, non è colpevole di omicidio.
Forse, però, una microscopica parte di me avrebbe preferito che lo fosse  per avere la soddisfazione di vederla dietro le sbarre. Anche solo per un giorno, per vedere come se la sarebbe cavata.
È un pensiero malvagio, e non ne vado fiera, ma è la verità. Mi irritano i suoi capelli biondi e lunghissimi; mi irritano i suoi occhi celesti; mi irritano i sorrisi radiosi che rivolge a Jane.
Eppure è innocente.
Mi riscuoto dalle mie perfide elucubrazioni senza senso e torno la solita integerrima agente Lisbon.
Per deformazione professionale (o almeno credo) non posso fare a meno di tenerli d’occhio a distanza. Parlano su una panchina, sono molto vicini. Jane a un certo punto la bacia. In un angolo della bocca, se la mia postazione non mi inganna.
Il mio consulente odia i contatti umani. Evidentemente il contatto con la sua Sophie Miller non gli risulta poi tanto spiacevole.
Poi la saluta e si allontana. Ora Jane viene verso di me, e io devo camuffare l’assurda fitta allo stomaco che mi sta tormentando con una battuta idiota.
Devo prenderlo in giro, altrimenti sarà lui a farlo con me. Da fine osservatore com’è, non gli sfuggirà il mio turbamento.
In realtà è proprio il mio turbamento a turbarmi.
“Hai baciato una ragazza”, inizio a canzonarlo come se fossi la sua compagna di banco di seconda media.
Brava Teresa, peggio di così non potevi fare. Jane si accorgerà che sei a disagio, ti sfinirà con le solite domande trabocchetto, tu andrai in confusione e gli dirai che è vero ma non per i motivi che lui crede, lui ti chiederà quali sono questi motivi, tu arrossirai e ti vorrai sotterrare. Scenetta tipica e imbarazzante. Peccato che quali siano questi motivi non lo sai neanche tu.
“Sulla guancia”, puntualizza quel farabutto di Jane, dopo una piccola pausa che segnala il suo disappunto. Non gli piacciono le domande troppo private, anche se si sente perennemente in dovere di farle agli altri.
“Vale uguale”, sottolineo io, sempre in versione compagna di banco di seconda media.
“Vale per cosa?”, mi chiede, sospettoso.
Sì, infatti, vale per cosa? Cosa volevo dire?
Non lo so. Quindi tergiverso, consapevole che il consulente dei miei stivali non si lascerà sfuggire questa occasione per scandagliare i miei propositi e i miei pensieri più reconditi.
O forse no.
Jane è strano, meditabondo e poco reattivo.
Non è da lui non avere l’ultima parola.
Salutare quella donna gli dev’essere costato molto.
Ma certo.
Come ho fatto a non pensarci prima?
È ovvio che Jane non sia il solito Jane e che, per una volta, non abbia la forza di nascondere i suoi veri pensieri dietro un’impenetrabile maschera di battute e sorrisi.
Quella donna gli ricorda la tragedia, e il periodo buio in cui era caduto nella follia.
Chiunque sarebbe turbato.
E io sono un’idiota.
Devo anche ammettere che, se non fosse per Sophie Miller, forse oggi io non sarei qui, in questa macchina con il mentalista più bravo e irritante del pianeta. Forse molti dei miei casi non sarebbero stati neanche risolti.
Sono costretta a essere grata a quella bionda perfettina.
Lo sarei, se solo non mi fosse così antipatica.
Ma non importa.
Quello che mi importa è Jane, come sempre.
È triste, come raramente l’ho visto. La sua muraglia di ironia è crollata, mattone dopo mattone, e ora vedo solo il vuoto dei suoi occhi.
Sale in macchina in silenzio, senza approfondire il discorso, senza provocarmi, senza farmi venire volontariamente voglia di tirargli un pugno sul naso.
Questo è il vero Patrick Jane, quello che, per una volta, non finge.
Devo fare qualcosa. Devo tirarlo su di morale. I colleghi fanno anche questo.
“Vuoi guidare tu?”, mi sforzo di proporgli.
Odio quando guida, va troppo veloce, ma perfino i 200 km all’ora sarebbero meglio di questa sua aria malinconica.
“È un’offerta molto carina. Sembro davvero così triste?”.
È colpito. Ovviamente ha capito che sono disposta a sfracellarmi per lui, come sempre, d’altronde.
“Tu vuoi avere il controllo, ma per tirarmi su il morale vinci le tue paure. È un bel gesto”.
Ed eccolo. Il ghigno alla Patrick Jane, quello troppo sicuro di se’ di chi ha capito troppe cose. Quello bellissimo che illumina il suo volto e la mia giornata.
Cambio idea all’istante.
“Ma che sei matto?”
Metto in moto e parto.
D’altronde il mio obiettivo l’ho già raggiunto.
Patrick Jane mi ha sorriso.

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