until the end

di pattyxica04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** l'inizio di ogni cosa ***
Capitolo 2: *** l'inizio di ogni cosa ***
Capitolo 3: *** una brutta, bruttissima piega ***



Capitolo 1
*** l'inizio di ogni cosa ***


 Prologo
La morte. Tutti pensano che la morte sia un ostacolo o un punto di arrivo, molti pensano che dopo la morte non ci sia niente se non il vuoto, ma in pochi sanno che in realtà la morte non è altro che la faccia opposta della medaglia. Quella medaglia fantastica e spaventosa che è la vita, perché è cosi: nemmeno io l’avevo capito fino a che la morte non si è presentata alla mia porta come una vecchia amica ed io non ho potuto fare altro che accoglierla e lasciarmi guidare verso qualcosa di spaventosamente nuovo e ignoto, ma al contempo bellissimo. 

 

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Capitolo 2
*** l'inizio di ogni cosa ***


Ciao, io sono Hope e sono qui per raccontarvi la mia vita. Ok, lo so che avrete sentito questa frase tipo un milione di volte tra libri, film e cose del genere. Vi posso assicurare che questa volta sarà diverso, perché non sono qui per parlare della mia vita nel suo complesso: sono qui per raccontarvi come si è conclusa. Partiamo dall’inizio: dall’inizio della fine. Era una mattina di aprile, il sole splendeva ancora un po’ timido e gli uccellini stavano cominciando a svegliarsi. Sentii i raggi del sole che cominciavano a scaldarmi la pelle del viso e l’insopportabile suono delle tapparelle del lucernario che si alzavano. Con uno sbuffo e poca voglia mi alzai. Come tutte le domeniche io avevo attività scout, quindi scesi dal letto ancora mezza addormentata e incominciai ad infilarmi la divisa. Dopo essermi vestita e lavata la faccia per non sembrare uno zombie, scesi in sala dal pranzo per fare colazione e come ogni santo giorno trovai mio padre in vestaglia che sorseggiava il suo thè alla cannella e mio fratello che annegava, a suo solito, i biscotti un una tinozza di latte. Ok aspettate, ora ve li presento, mio padre: uomo di mezza età, barba medio-lunga grigia e senza l’ombra di un capello in testa; mio fratello: alto poco più di me, due occhi vivaci color del cielo e dei capelli corvini (l’unica nostra differenza, il colore dei capelli) lui è anche un po’ il mio compagno di vita da…beh da sempre direi, essendo gemelli, ed abbiamo imparato a fare tutto insieme sin da quando siamo nati. “Buongiorno” dissi entrando nella stanza con uno sbadiglio, “Ciao brutta” mi rispose mio padre con un sorriso. “Ci hai degnato della tua presenza alla fine, dormito bene?”, mi chiese Cole con un sorrisetto: “Ah ah, molto divertente, comunque ho dormito come un angioletto grazie” gli risposi con un sorriso di scherno. “Su questo non c’è dubbio, hai russato quasi peggio di papà stanotte”, rise. “Non è vero! Io non russo!” Gli risposi un po’ indignata, ma comunque sorridendo perché sapevo che stava scherzando. Mi sedetti al mio posto con davanti una bella tazza colma di thè bollente e cominciai ad inzupparci dei biscotti. Da dietro sentii mio fratello cingermi con un braccio e schioccarmi un bacio pieno di briciole sulla guancia: “In bocca al lupo per oggi, non è oggi la prova per quel distintivo?” “Te ne sei ricordato quindi” gli risposi un po’ sorpresa e ricambiando il bacio, “Vieni ad assistere alle mie prove o hai troppi impegni con quel tuo nuovo videogame?” “No direi che può aspettare fino a stasera, e poi avrò bisogno della mia stratega per completare l’ultimo livello” “Ah beh sì, sia mai che perdi un livello” “Ah ah divertente, molto divertente” rispose e cominciò a farmi il solletico facendomi quasi rovesciare la tazza. “Smettetela voi due, Hope muoviti o farai tardi e tu Cole smettila di dar noia a tua sorella” disse mio padre con tono severo di chi non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. “Va bene papino” rispondemmo in coro io e Cole scambiandoci un’occhiata complice. Dopo aver finito colazione andammo in camera nostra per finire di prepararci: io mi preparai la borsa con il quaderno, l’astuccio e tutto il necessario, mio fratello si mise la sua maglietta più “bella”, si deodorò e si profumò per andare in contro al suo grande amore. “Muovetevi voi due o faremo tardi” ci urlò nostro padre, noi ci scambiammo un’occhiata di sfida e ci mettemmo a correre giù per le scale come dei bambini per arrivare per primi alla macchina. Naturalmente arrivammo alla fine della scala con le gambe all’aria e scoppiammo a ridere come due scemi, la faccia di nostro padre non era altrettanto contenta, però. Salimmo in macchina e ci facemmo accompagnare fino al luogo dell’incontro che distava circa 15 minuti. Ad un certo punto durante il tragitto, alla radio partì una delle nostre canzoni preferite e ci mettemmo a cantarla a squarcia gola facendoci tirare da nostro padre delle occhiate ostili; così per farci un dispetto lui cambiò stazione per andare a sentire una di quelle orribili canzoni sdolcinate anni 80’ che odiavamo. Con uno sbuffo e qualche insulto alla sua cultura musicale, continuammo il viaggio all’orribile suono degli anno ’80. Io restai per tutto il tempo con gli occhi fissi nel vuoto e completamente immersa nei miei pensieri, dopo qualche minuto mi venne un forte dolore al petto: come se mi avessero acceso un fuoco dentro al petto che mi stava consumando dall’interno. Mi portai istintivamente una mano al petto e il dolore svanì all’istante. “Boh?” dissi tra me e me, “Sarà per l’ansia da prestazione” pensai. “Tutto bene?” chiese mio padre preoccupato, “Sì, sì, non è niente” risposi io, tornando a fissare fuori dal finestrino. Lì per lì non mi sembrò una cosa grave, ma ora mi pento di non aver detto niente perché mi rendo conto che se l’avessi fatto, probabilmente le cose sarebbero andate in modo diverso. Arrivammo nel luogo dell’attività. Agli occhi di tutti era solo una semplice parrocchia, ma per me era come una seconda casa, come una seconda famiglia. Lasciammo nostro padre davanti al cancello d’ingresso, uscendo frettolosamente dalla macchina senza nemmeno salutarlo: io ero ansiosa di andare a chiacchierare con le mie amiche e mio fratello di vedere la sua cotta del momento: una ragazza che faceva scout con me, non vi dirò chi è perché voglio lasciarvi almeno una sorpresa. Dopo circa mezz’ora arrivò anche la nostra capo scout Hellen con le sue due figlie Grace, la mia migliore amica, e Gwendolyn, di un anno più piccola. “Ciao tipa!” mi salutò Grace scendendo dalla macchina, “Pronte… tre, due, uno…” dissi alle altre, che capirono al volo e urlammo tutte in coro: “Ciao tipa!”. “Alla buon ora, di solito sono io quella in ritardo” dissi dando una pacca sulla spalla a Grace, “Scusate ragazze, ma ho avuto ancora problemi con la macchina” rispose Hellen un po’ imbarazzata. “Ancora, non sarà l’ora di cambiarlo quel catorcio” “È una vita che glielo dico, ma mi ha mai ascoltato? Ovviamente no” rispose Grace mettendosi a ridere. Ora ve la presento: Grace, mia migliore amica dalla prima media, capelli biondi, occhi color nocciola ed alta un metro e una banana; è la persona più gentile e dolce che abbia mai conosciuto, ma quando sia arrabbia… mettevi al riparo! Lei è stata un po’ come una seconda mamma e come una sorella maggiore per me; all’inizio la odiavo e lei odiava me, ma poi abbiamo imparato a conoscerci a vicenda ed ho scoperto di aver davvero trovato una persona d’oro. Io so che a lei posso dire tutto senza temere pregiudizi o commenti da parte sua, so che lei ci sarà sempre per me e io ci volevo essere sempre per lei, ma purtroppo non fu cosi e questa è una delle poche cose di cui mi pento. Dopo aver chiacchierato per una buona mezzora, ci riunimmo tutte in giardino, eccetto naturalmente mio fratello che rimase in disparte, perché non è uno scout. Dopo esserci salutate in grande stile scout, Hellen ci radunò per spiegarci l’attività del giorno: “Buongiorno ragazzuole e ben trovate, cominciamo dai punteggi della scorsa attività dato che abbiamo già perso abbastanza tempo, che ne dite?”. Dopo un minuto circa, però, si fermò e cominciò a fissarmi, le mie compagne la imitarono e cominciarono a fissarmi con aria sempre più preoccupata. “Che c’è?, ho qualcosa sul naso?” chiesi passandoci un dito, ma prima che potessi mettermi a ridere mi accorsi che stavo sanguinando. Lì per lì non mi preoccupai del sangue, ma dopo neanche un secondo avvertì di nuovo il dolore al petto che avevo sentito durante il viaggio. La sensazione era come se qualcuno avesse deciso di abbracciarmi cercando di farmi diventare marmellata. Mi accasciai a terra cercando di urlare dal dolore, ma la voce mi morì in gola, la testa cominciò a girare come una trottola, la vista mi si offuocò e l’ultima mia percezione prima di cadere nel buio furono le voci di Grace e Cole che mi chiamavano, ma io non riuscivo a rispondere. Non ricordo molto del lasso di tempo tra il mio svenimento e il mio risveglio, è stata tutta una confusione di voci, rumori, sirene che riecheggiavano lontane. Le uniche due cose che ricordo distintamente sono le loro due voci che mi hanno accompagnato in un loop infinito fino al mio risveglio. Ricordo molto bene che mio fratello continuava a dire: “Dai che ce la puoi fare, hai fatto di peggio!” e quella di Grace che, da brava amica qual era e con la voce rotta dalle lacrime diceva: “Se mi lasci da sola giuro che prima ti resuscito e poi ti ammazzo!”

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Capitolo 3
*** una brutta, bruttissima piega ***


Non sapevo per quanto tempo fossi rimasta svenuta, tanto che, appena svegliata, pensai che fosse stato tutto un sogno. Naturalmente era solo una mera illusione, perché il tubicino dell’ossigeno legato al mio naso non era di buon auspicio. La prima cosa che vidi fu la luce abbagliante della lampada sopra la mia testa e, se non fosse stata quella a svegliarmi, lo avrebbe fatto l’odore penetrante e insopportabile di disinfettante e candeggina. Mi girai tentando di orientarmi e mi resi conto di essere in una stanza di ospedale. Ero su un lettino abbastanza scomodo, con le lenzuola bianche e una copertina verde smorto tipico di un ospedale: esattamente come quelle dei film. La stanza nel suo complesso era molto piccola, al massimo cinque metri quadrati, il mio letto era al centro della stanza con la testa addossata alla parete e sulla parete opposta c’era la porta. Mi girai da entrambi i lati e fu allora che vidi i miei genitori: mia mamma seduta su una poltroncina accanto al mio letto, con tutti i capelli scompigliati e gli occhiali storti, e mio padre appoggiato con la schiena alla parete bianco-giallastra, entrambi assopiti. Mi girai e non so perché, ma solo allora mi resi conto che qualcuno mi stava tenendo la mano: dal lato opposto del lettino, infatti, c’era mio fratello anche lui su una poltroncina, assopito. I miei sensi, che fino a quel momento erano stati un po’ offuscati, cominciarono a tornare, ripresi lucidità e senza volerlo mossi la mano che Cole reggeva saldamente, svegliandolo. All’inizio sembrò disorientato quanto me, ma poi, probabilmente, si ricordò com’era arrivato fin lì. Fissò i suoi occhi nei miei, mi sorrise e per la prima volta nella mia vita vidi in lui un’emozione che non c’era mai stata prima: paura. “Ciao” mi disse, ma in quel semplice “ciao” c’erano molti sottintesi, molte verità nascoste che io però ero in grado di vedere. “Ciao” gli risposi con un sorriso che lui ricambiò: il suo sorriso tuttavia era spento, perché mai il sorriso così bello di mio fratello si era spento? I suoi occhi si fecero lucidi e per un secondo mi sembrò di vederci una lacrima: “Allora, mi vuoi dire che ci faccio qui?” gli chiesi senza troppi giri di parole tentando di guardarlo negli occhi…e fallendo miseramente nell’impresa. “Tesoro, sei sveglia!” disse una voce straordinariamente familiare dietro di me, io mi girai e trovai mia madre che mi fissava con lo stesso sguardo di mio fratello e lì capii che c’era qualcosa che non quadrava. “Ci hai fatto stare in pensiero, come stai?” “Bene, credo” risposi io non troppo convinta; tentai di alzarmi, ma venni subito fermata da mia madre: “No no, non ti sforzare. Aspetta, vado a chiamare l’infermiera” e mi spinse giù, costringendomi a stare stesa, poi ridestò mio padre, lui mi sorrise mestante, mi diede un bacio sulla fronte e insieme lasciarono la stanza senza dire una parola di più. Quella fu la prima volta da che ne ho memoria che tra me e Cole scese un silenzio pesante: uno di quei silenzi che precedono le brutte notizie. D’altronde io: persona che odia profondamente i silenzi imbarazzanti e sopratutto che voleva saperne di più sulla faccenda, chiesi senza troppi convenevoli: “Ora mi spieghi che cosa diavolo sta succedendo?”. Mio fratello fuggì il mio sguardo, mi strinse la mano e solo dopo qualche secondo mi resi conto che stava piangendo: non l’aveva mai fatto, almeno non in pubblico e di sicuro MAI davanti a me. “Ehi, che succede? parlami, parla con me” gli dissi cercando di rincuorarlo e tentando di nascondere il mio nodo alla gola. Lo tirai dolcemente per il braccio verso di me, gli presi il volto tra le mani e lo costrinsi a guardarmi negli occhi: “Vuoi dirmi cosa sta succedendo?” gli chiesi con gli occhi lucidi. Lui non rispose, si limitò a guardarmi, con due occhi grandi e penetranti: era molto preoccupato per qualcosa, spaventato e disorientato, ma non riuscivo a capire per che cosa. Poi la porta si aprì, facendoci sussultare, entrò una signora in tuta blu scuro. Non era molto alta e poteva avere al massimo quarant’anni, io la fissai un istante, poi le sorrisi senza capire una cipolla di quello che stava succedendo. Lei ricambiò il sorriso e mi disse: “Sei pronta per il dottore signorina?”. Io continuavo a non capire, cercai disperatamente aiuto con gli occhi dai miei genitori, ma loro non erano più lì, e poi guardai Cole, che continuava a fuggire il mio sguardo. “Deve essere più spaventato di me” pensai e inconsciamente, senza pensarci, gli strinsi la mano. L’infermiera si schiarì la voce per attirare la mia attenzione, io la guardai e capii che andava di fretta. Non ero troppo convinta di voler andare con lei, ma annuii debolmente e lei prese la mia brandina dalla parte dei piedi e cominciò a trascinarmi fuori dalla stanza. Provai a non lasciare la mano di mio fratello, avevo troppa paura per restare da sola e lui dovette capirlo perché fermò l’infermiera alzando la mano in un gesto imperioso e le disse senza staccare gli occhi da terra: “Ci può dare qualche minuto per cortesia?”. Lei non parve troppo convinta, ma annuì: “Solo un paio di minuti, il dottore non ha tempo da perdere”e uscì dalla stanza lasciandoci nuovamente nel silenzio dove ci aveva trovati. Appena sentii la porta chiudersi allentai la presa alla mano di Cole e tirai un sospiro di sollievo. Mi sistemai seduta, ripresi il controllo su me stessa e mi girai a guardare mio fratello: era spaventato, glielo si leggeva in faccia come se avesse avuto una scritta lampeggiante, non volevo farlo stare ancora più male, ma avevo bisogno di sapere, sapere che cosa stava succedendo. “Mi puoi dire che cosa ci facciamo qui?” Gli chiesi cercando il suo sguardo, lui fece un respiro profondo e poi, con la voce rotta dalle lacrime e le guance rigate, fissò i suoi occhi nei miei. “Qual’è l’ultima cosa che ricordi?”, io restai un po’ stupita da quella domanda, ma risposi ugualmente: “Ero a scout, perdevo sangue dal naso, sono caduta e… e poi più niente”. Lo guardai disorientata e piena di domande, lui dovette capirlo perché mi prese entrambe le mani e le strinse forte. “Iniziamo da quando hai cominciato a perdere sangue di naso: ti sei passata il dito sul naso, poi sei caduta per terra ed hai cominciato ad annaspare perché probabilmente non riuscivi a respirare. Hai perso le forze e ti sei distesa a pancia all’aria; avresti dovuto vedere la faccia di Grace, poi sei semplicemente svenuta e …”sospirò tentando di trattenere le lacrime, poi, dopo pochi secondi, riprese: “Hellen ha chiamato l’ambulanza, Grace ha insistito per accompagnarti, ma non le hanno permesso di salire, ti ho tenuto la mano per tutto il tragitto, ma quando siamo arrivati qui mi hanno staccato da te e non ti ho più rivista fino a quando ti hanno messo in questa stanza” Rimasi lì, seduta, in silenzio, a fissare la nuca di mio fratello che piangeva sommessamente, senza sapere che fare, cosa dire o semplicemente come sentirmi. “Ho avuto tanta paura, Hope. Ho avuto paura di perderti, pensavo che non ti avrei mai più rivista” continuava a dire tra un singhiozzo e l’altro. Quasi inconsciamente, misi una mano sulla sua testa e con la voce strozzata dissi: “Non ti preoccupare, sono sicura che non sia nulla di grave ed anche se lo fosse, noi lo affronteremo come abbiamo affrontato tutto da quando siamo nati: insieme”. Gli presi il volto tra le mani, fissai i miei occhi nei suoi, gli asciugai le lacrime e gli scioccai un bacio sulla fronte. “Non mi perderai mai, ricordatelo questo, non riuscirai mai a liberarti di me” gli sussurrai tentando di trattenere le lacrime. Solo tempo dopo mi sarei resa conto del peso che avevano quelle parole, della potenza di quella singola frase e dell’effetto che avrebbe avuto su di lui… e su di noi. Rimanemmo così, abbracciati l’uno all’altra, lui con la sua testa sul mio petto e io ad accarezzargli i capelli, a piangere, a dirci cose che mica si possono dire con le parole e solo dopo un silenzio assordante e lunghissimo riuscimmo a separarci più forti di prima. “Missà che è ora di andare dal medico, o finisce che mi portano via con la forza” dissi rompendo quel silenzio perfetto, “Vai, vai e scopri che cosa ti sta succedendo. Mi raccomando: non perderti mai” A quelle parole scoppiai in lacrime, ma non per la tristezza o il dolore: per la gioia! Il mio nome significa speranza ed io ne ho sempre avuta molta anche nei momenti più difficili. Lui mi baciò sulla fronte e mi asciugò le lacrime esattamente come avevo fatto io appena pochi minuti prima, “Sei pronta?” mi chiese con un sorriso, io semplicemente annuii. Lui si alzo e aprì la porta: da quel momento sarebbe cambiato tutto. Da quel momento non sarebbe stato più niente come prima. L’infermiera trascinò il mio lettino lungo molti corridoi, dei quali vedevo solo il soffitto con le lampade: mi sentivo come in un film dell’orrore, una vittima legata al lettino pronta per essere torturata. Dopo circa un paio di minuti l’infermiera mi sistemò in una stanza e uscì: per qualche secondo restai da sola con me stessa, con i miei pensieri, i miei dubbi e le mie domande. Dopo circa un minuto sentii la porta aprirsi, mi voltai e vidi un uomo in camice bianco entrare. Non poteva avere più di trentacinque anni, aveva i capelli e gli occhi scuri, che però perdevano lucentezza dietro gli occhiali. “Buongiorno” mi disse con un sorriso, “ Sono il dottor Ramacci, sono qui per fare una radiografia”. A quelle parole pensai di svenire e lui dovette capirlo, “Stai tranquilla non farà male, devi soltanto stare ferma e trattenere il respiro quando te lo dirò”. Non ero molto tranquilla comunque, ma annuii cercando di non far trasparire troppo la mia preoccupazione. Detto questo mi sorrise e sistemò il mio lettino davanti ad una macchina che sembrava una ciambella non commestibile gigante e piena di luci, lucine e lucette. “Come ti senti?” Mi chiese il dottore notando la mia preoccupazione per la macchina-ciambella, “Operata” risposi scherzosa cercando di alleggerire la tensione.

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