Oltre i Confini...

di eia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** LA CASA DEGLI ORRORI ***
Capitolo 3: *** LA COSA GIUSTA DA FARE ***
Capitolo 4: *** RICORDI ***
Capitolo 5: *** DOMANDE INOPPORTUNE ***
Capitolo 6: *** DUBBI E PAURE ***
Capitolo 7: *** ESSERCI ***
Capitolo 8: *** CONGETTURE ***
Capitolo 9: *** LANCIARE IL SASSO E RITRARRE LA MANO ***
Capitolo 10: *** REGALI E SORPRESE ***
Capitolo 11: *** STRANI DISCORSI ***
Capitolo 12: *** IL BAULE DEI RICORDI ***
Capitolo 13: *** NON CHIAMARMI DAVI... ***
Capitolo 14: *** QUEL QUALCOSA IN PIÙ' CHE... ***
Capitolo 15: *** epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 dello spazio e del tempo



PROLOGO:

Mi chiamò un venerdì pomeriggio, sul tardi, era già buio.
Di tutte le persone che nel corso degli anni si erano allontanate da me, lui era l’unico con cui non volevo più avere contatti.
Era stato il mio grande amore o meglio, l’unico uomo che io avessi mai amato: ma ci eravamo presi e lasciati così tante volte, e sempre per colpa sua, che quel sentimento si era trasformato in una condanna. Lo amavo ancora, ne ero pienamente cosciente, ma non potevo permettere a me stessa di ricaderci. Ne sarei uscita un’altra volta piegata.
Lasciai squillare il telefono fissando il display, stringendo i pugni e i denti, imponendomi di non prenderlo nemmeno in mano.
Mi resi conto che stavo muovendo la testa leggermente, a ritmo con la musica che procedeva senza intoppi. Per lui avevo scelto, come suoneria, la sigla di Madagascar perché lo avevamo visto insieme, anni prima, qualcosa come un miliardo di volte. Ci piaceva perché ci rispecchiava: lui vestiva perfettamente i panni di Martin, la zebra, con la sua voglia di fuggire dallo zoo e io quelli di Gloria, l’ippopotamo, per la mia decisione ma anche per l’accondiscendenza con cuoi accettavo tutto quello che mi succedeva attorno. Anche se lui diceva spesso che ero più come Melman, la giraffa malaticcia, dato che avevo la borsa dell’acqua calda sempre a portata di mano.
Sentire quella canzone divertente mi tolse il fiato. Non so quante volte l’aveva scimmiottata lui per me…
Ricordo il sospiro profondo che feci quando il telefono smise di suonare. Restai a fissarlo per qualche minuto, sperando che non arrivasse un messaggio che mi avvisava di avere una comunicazione in segreteria.
A riscuotermi ci pensò il telefono sulla mia scrivania.
Il suo numero lampeggiava sul display… Erano tredici anni che aveva quel numero. Glielo avevo regalato io, il primo Natale che avevamo festeggiato insieme, come coppia.
Non sapevo nemmeno che avesse il numero del mio ufficio, non mi aveva mai chiamato lì. Doveva essere qualcosa d’importante. Ma lo stesso dubitai sul da farsi.
Alla fine, dopo innumerevoli squilli, risposi. Non dissi nulla, non ne ero capace.
“Giada!? Giada sono nei casini! Ho bisogno di aiuto!”
Le lacrime mi oscurarono la vista: quella era la chiamata che avevo sempre temuto di ricevere. Lui con le sue difficoltà economiche, con quel giro di amicizie sbagliate, con il suo carattere istintivo e sfrontato, un po’ da guerriero… sapevo che prima o poi si sarebbe messo nei guai, nei guai seri.
E se ora, dopo quasi tre anni di silenzio, chiamava me per aiutarlo, doveva proprio essere nella merda fino al collo.

Non riuscì a dire granché, era così agitato che gli tremava la voce e il respiro pesante, come dopo una lunga corsa, spezzava le parole già storpie.
Non capii molto ma mi mise il cuore in pace sapere che non era in una centrale di polizia, che non era sotto la minaccia di un’arma e che non era morente in un letto d’ospedale. A quanto avevo capito mi stava chiedendo più che altro un consiglio su cosa fare o non fare in quel momento. Non mi aveva detto molto, ma era chiaro che era una situazione incasinata, che c’era un problema serio. Mi disse che non poteva parlarne al telefono, mi chiese se potevo raggiungerlo e mi diede un indirizzo.
Già mentre ne prendevo nota storsi la bocca. Non era casa sua, ma era comunque nel suo vecchio quartiere, quello stesso quartiere che anni prima, ai tempi della nostra prima storia, ai tempi delle superiori, aveva faticato a mostrarmi.
Abitavamo nella stessa città e le nostre case erano entrambe in rioni di periferia solo che la mia era la periferia ricca, quella fatta di poche vie e poche case, con enormi spazi verdi, con case enormi, ben tenute, spesso sfarzose e con giardini enormi in cui era facile perdersi. Mentre la sua era la periferia povera. Quella in cui le case sono stipate in poco spazio, quella in cui il degrado era all’ordine del giorno, quella in cui trovavi facilmente tutto quello che era illegale.
Naturalmente i nostri quartieri, come gli altri in città avevano dei nomi illustri, per ricordare un santo o qualcosa che aveva reso quel posto un tempo famoso, ma per tutti erano il Prada, il mio, in onore al grande marchio e lo zoo, il suo, perché le case e la gente che ci viveva ricordavano proprio quel posto.
Non ero sicura di voler andare ma le sue parole, la sua voce e il solo fatto che mi avesse cercato dopo tutto quel tempo perdi più in ufficio, mi fece desistere.









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Capitolo 2
*** LA CASA DEGLI ORRORI ***



 dello spazio e del tempo


Capitolo 1: la casa degli orrori

Scesa in garage, valutai quale macchina prendere e alla fine optai per il Suv. Era robusto e mi sembrava più sicuro e in più aveva i vetri oscurati. Quel quartiere non mi era mai piaciuto e quella macchina non sarebbe passata inosservata ma almeno potevo sperare di non essere riconosciuta.
Non dovetti nemmeno impostare in navigatore, come facevo di solito, conoscevo la strada a menadito, c’ero andata così tante volte in passato.
Lo zoo si estendeva lungo una statale quindi il traffico era caotico sempre, ma a quell’ora era quasi impossibile muoversi.
Svoltai nella prima viuzza che trovai, per non dover girare poi in quella che mi avrebbe portata a passare davanti casa sua. Mentre controllavo il nome della via sulla targa stinta, notai i primi sguardi incuriositi e ringraziai il mio istinto per aver scelto quel mezzo, le altre macchine avrebbero attirato ben più attenzioni.
Procedevo piano non sapendo bene dove andare e intanto cercavo di non badare ai cumoli d’immondizia ai lati della strada, alle finestre rotte inchiodate in qualche modo, alle pareti scrostate e alle grosse catene messe ai cancelli e alle porte.
In tanti anni non era cambiato niente.
Incrociai una traversa e per fortuna era quella che mi avrebbe portato a destinazione. Controllai il numero civico sul foglio e poco più avanti mi fermai. La casa non era diversa dalle altre, lo stato di degrado non avrebbe dovuto stupirmi così tanto ma m’inchiodò al sedile.
Avevo sempre sperato che Davide fosse cambiato negli anni, che stare con me gli avesse fatto capire che vivere in quel modo non era giusto.
Credo che a suo tempo quelle case fossero state progettate come villette a schiera e forse in origine erano anche carine. Ora erano una fila di celle grigie coi piccoli giardini divisi da alti muri, grigi pure quelli. In quello in cui i miei fari puntavano il loro fascio di luce riconobbi uno scivolo arrugginito a cui mancavano i primi tre gradini… quindi non facilmente utilizzabile da un bambino, e dei palloni sparsi nell’erba, anche se era un po’ troppo alta per essere considerata un giardino o un’aerea giochi.
A giudicare dai giocattoli in quella casa doveva esserci dei bambini, di cinque o sei anni… ma non potevano essere di Davide, in quegli anni stava ancora con me...
Trattenni il respiro e mi strinsi una mano sul cuore. Sperai con tutta me stessa di non scontrarmi con una triste realtà che avrebbe spazzato via tutti i bei ricordi del tempo con lui, che ancora conservavo gelosamente nel mio cuore.
Non avevo mai messo in dubbio la sua fedeltà. Ero sempre stata sicura del suo amore.
Si, è vero, in dieci anni c’erano state pause, anche lunghe, ma ero sicura che quando stavamo insieme fossimo entrambi concentrati su di noi. Non poteva aver avuto dei bambini con un’altra, non mentre stavamo assieme! E se anche li avesse avuti quando eravamo separati lo ritenevo abbastanza intelligente da informarmi!
A riportarmi coi piedi per terra fu la figura poderosa di un uomo alla porta d’ingresso. Dietro di lui filtrava la luce della stanza rendendo ben visibile il profilo massiccio del suo corpo ma oscurando i lineamenti del viso.
S’incamminò verso di me, attraversando il giardino, aprì il cancelletto che stridette esageratamente e solo una volta sotto la luce del lampione riconobbi gli zigomi alti, la mascella squadrata e il taglio corto dei capelli. Prima che mi raggiungesse rimandai indietro le lacrime, lo sconforto e la paura e assunsi un’espressione neutra, scostante e superficiale, la stessa che assumevo quando affrontavo qualche cliente in ritardo coi pagamenti.
Aprii la portiera e l’aria fresca della sera mi fece rabbrividire. Mentre lui faceva il giro della macchina mi domandai se non avesse freddo con solo quella maglia di cotone addosso. Aveva le maniche lunghe, ma io indossavo già una giacchetta imbottita e sotto portavo anche la canottiera. Non ero io ad essere esagerata, era la fine di settembre ed eravamo già in autunno!
Stranamente non disse niente, si limitò a guardarmi per un attimo prima di abbassare lo sguardo.
Davide non era mai stato così remissivo. Nemmeno con me.
“Cosa c’è?” chiesi, più duramente di quel che volevo in realtà.
“Devi venire dentro… non so come spiegarti…”
L’idea di entrare in quella casa mi nauseava.
Casa sua, quella in cui abitava quando stavamo assieme, non mi aveva mai fatto schifo, anche se da fuori era molto simile a quella. Sua madre, Marta, era una donna semplice a cui piaceva però tenere la casa pulita e tutto in ordine. Non a caso aveva lavorato per anni in casa mia come donna della pulizie. Infatti era così che avevo conosciuto Davide e me ne ero innamorata.
“Non ho fatto l’antitetanica di recente, sei sicuro che possa fidarmi?”
Mi guardò per un attimo facendo un mezzo sorriso. Poi annui.
Sospirai e feci un passo verso la casa, lui subito mi precedette.
“Non toccare il cancello… di questo non sono sicuro.” Disse schernendomi, ma non raccolsi la sua battuta e infilandomi le mani in tasca e varcai il cancello che lui teneva aperto.
Una volta doveva esserci un passaggio con le beole o con delle pietre di altro genere, magari bianche o di un bel grigio chiaro, lievemente lavorate, ora sembrava un mosaico dal colore imprecisato tra il marrone e il nero il cui collante era fuggito a gambe levate. Più volte i tacchi mi s’infilarono tra le varie fessure rischiando di farmi cadere.
Davide mi prese per un braccio e mi sostenne fino alla porta. Odiavo quel contatto, sentivo il suo calore filtrare tra i vari strati dei vestiti. Mi chiesi perché non avevo cambiato le scarpe, in ufficio ho una scarpiera e so per certo che dentro ci sono anche delle scarpe da ginnastica. Ma poi pensai che l’abbinamento non avrebbe avuto senso: tailleur grigio antracite e scarpe da tennis bianche. Meglio i tacchi e il rischio di caduta su quello strano vialetto d’ingresso che apparire sciatta.
Mentre varcavo la soglia, di quella che sarebbe stata la casa dei miei incubi per molte notti, pensai che però avrei potuto indossare un’armatura, così non mi sarei nemmeno accorta dell’aiuto che mi aveva dato.
La stanza che mi trovai di fronte doveva essere un soggiorno/ingresso, una volta. Ora era il caos più assoluto. Il divano, di cui non vedevo nulla, era ricoperto di vestiti. Maglie e pantaloni da uomo, gonne, camicie e abiti succinti da donna e vestiti per bambini, sia maschili che femminili. Appallottolati, stropicciati come fossero lì in attesa di essere stirati. Ma era chiaro che non vedevano un ferro da stiro da tempo immemore.
Una vetrinetta contro la parete aveva i vetri così sporchi che non riuscivo nemmeno a vedere cosa ci stava dentro: cosa, un tempo, qualcuno aveva voluto esporre agli occhi dei suoi ospiti.
Davanti al divano scorsi un tavolino da caffè, o forse solo un piano d’appoggio, una scatola, non so bene cosa… era carico di riviste di moda, posacenere stracolmi di cicce di sigarette ed altro e pile di dvd. Avvicinandomi di un passo sul tappeto consunto e macchiato di non so cosa, scoprii che mischiati ai titoli di cartoni animati ce n’erano altri che richiamavano la pornografia.
“Dio, ti prego… non dirmi che ti sei riprodotto!! E che i tuoi figli vivono in questa merda!”
Non rispose e questo mi spinse a guardarlo. Teneva lo sguardo basso, colpevole.
Sentii la rabbia montarmi dentro, salirmi in gola, pungermi gli occhi.
A quel punto non era più solo il tradimento che mi feriva ma il coraggio che aveva di chiamare quel posto “casa” e farci vivere dei bambini! Come aveva potuto cadere così in basso?
“Vieni…” disse aprendo una porta.
“No! Cazzo! Davide! Non voglio fare un altro passo in questo porcile! Altro che antitetanica! Qui rischio malattie come il vaiolo e la peste! Come cazzo fai a vivere qui? E come cazzo puoi far vivere così i tuoi figli?!” stavo urlando, decisamente.
Gli avrei anche messo le mani addosso se solo non avessi avuto paura di allontanarmi dalla porta d’ingresso, la mia unica via di salvezza!!
Si voltò a guardarmi e qualcosa balenò nei suoi occhi. Tornò sui suoi passi e mi si piazzò di fronte.
Troppo vicino. Quei suoi occhi chiari mi facevano sempre lo stesso effetto, anche ora che ero furiosa e scioccata.
“Uno solo! Ho avuto solo un figlio con la stronza che vive qui. E io non vivo qui. Ho fatto quello che dovevo a suo tempo, l’ho riconosciuto e gli ho dato il mio cognome, e tutti i mesi verso un assegno. Ho chiesto di portarlo via da qui, ma quello stronzo di avvocato mi ha detto che lei è la madre e che la custodia spetta a lei. E per sentirmi dire qualcosa che già sapevo mi ha chiesto centocinquanta euro!”
Restai a guardarlo, ammutolita.
“Ma ora c’è un problema… e io non so dove sbattere la testa. Ho chiamato te perché tu… sei intelligente e io non ho altri soldi da buttare. Puoi aiutarmi?”
Dato che non rispondevo si allontanò di qualche passo, passando entrambe le mani sulla testa rasata. Era un gesto che faceva quando si sentiva incastrato.
“Ti prego Giada… non è per me… ma lui è piccolo e non si merita nulla di tutto questo.”
Mi spezzò il cuore in due. Ma non per la delusione o per il dolore che avevo provato prima, ma per l’infinita dolcezza delle sue parole.. Questo era il Davide che avevo conosciuto, amato, voluto per me. La sua parte più vera…
Senza dire nulla varcai quella porta che aveva aperto poco prima. Era un corridoio. A illuminarlo c’era solo una lampadina che pendeva dal soffitto. L’odore in quel posto era orribile.
“Non toccare niente, non posso assicurarti che non rischi un’infezione.”
Aprì un’altra porta ma prima di spalancarla si voltò verso di me.
“Qui c’è la causa del problema, non entriamo, voglio solo che tu veda coi tuoi occhi.”
Detto questo spinse leggermente la porta e accese la luce.
Dall’interno giunsero dei gemiti, dei lamenti ma nessuno disse nulla. Ma il tanfo che m’investì mi provocò un conato di vomito.
Era la stanza padronale, con il letto matrimoniale e vecchi mobili coi ripiani di marmo. Sembrava la stanza di mia nonna. Sul letto c’erano tre persone, una ragazza e due uomini, entrambi di colore. Il letto era sfatto e loro erano nudi. La stanza era nel caos.
“Il comodino.” Disse sottovoce Davide.
Affilai lo sguardo e mi concentrai sull’unico comodino presente.
Ho visto un sacco di film polizieschi per non sapere di cosa si trattasse. Droga. Polvere bianca. Eroina. Erano strafatti ecco perché non si erano lamentati più di quel tanto per l’intrusione.
“Sono vivi… vero? Tutti, intendo…”
“Fino a mezz’ora fa, si. Ho tastato i polsi e… si erano vivi. Ho fatto delle foto… ma non so cosa farmene.” Chiuse la porta e tornammo indietro di qualche passo. Sull’altra parete c’erano due porte, una fece finta di non vederla mentre impugno la maniglia di quella dopo.
“Quella lì è il bagno, ma è meglio che non vedi cosa ci sta dentro… lì potresti davvero prendere qualche brutta malattia.”
La stanza che mi mostrò era la peggiore di tutta la casa. Era la cameretta.
La puzza mi fece indietreggiare di un passo e solo in un secondo momento misi a fuoco il materasso steso sul pavimento. E sopra quello un bambino piccolissimo, magro da far paura, con il viso sporco. Indossava un pigiama troppo grande per lui, da bambina.
“Lo voglio portare via da qui ma non posso farlo. Se lei si sveglia e non lo trova parte una denuncia e se si scopre che l’ho preso io, senza dire nulla va a finire che vado io nei cazzi e magari mi costringono a darle altri soldi. Che lei spende tutti in droga e vestiti. O peggio ancora scatta un’ordinanza restrittiva e io perdo tutti i miei diritti. Per lui sarebbe la fine.”
Senza dire una parola, senza staccare gli occhi da quel fagotto avvolto in lenzuola sudice, recuperai il cellulare ma prima che potessi digitare qualsiasi numero, lui mi fermò.
“Non posso denunciarla. L’avvocato mi ha detto che se lo faccio, lui finisce in un istituto e poi in affido. Io lo voglio con me, ma… seguendo le vie legali non posso averlo: ho un lavoro fisso ma faccio i turni. Non ho una casa mia, vivo ancora con mia madre e a casa ci sono anche mia sorella con i bambini, siamo già in troppi e per lui non ci sarebbe spazio. Se metto tutto in mano alla legge me lo tolgono di sicuro.” Mi guardava negli occhi e riuscivo a leggere la sua disperazione.
Abbassò lo sguardo sul bimbo e sospirò.
“L’ho visto domenica e stava bene… certo è sempre troppo magro, ma quando vengo qui… è sempre allegro e abbastanza pulito… E la casa non è mai stata così… fatiscente. Certo, non l’ho mai vista tanto pulita, ma Nadia non è mai stata in buoni rapporti coi detersivi o lo straccio per la polvere…”
Avevo tante domande in testa ma le lasciai tutte in un angolo. Ora dovevo solo occuparmi di quel povero angelo su quello schifo di materasso.
Davide aveva tutte le buon intenzioni ma aveva paura di metterle in atto, di rischiare qualcosa di troppo… era sempre stato questo il suo grande difetto. Aveva sempre avuto grandi potenzialità ma la paura di cambiare troppo, di rischiare lo aveva sempre fermato, facendolo regredire fino alla zona sicura, quella vecchia, già vista mille volte. Non a caso viveva ancora con sua madre e stavano ancora in questo schifo di quartiere. Con la pensione di Marta e due buste paghe potevano permettersi un appartamento ovunque, lontano da qui, ne ero certa!
“Di chi è questa casa? Dei suoi? Che fine hanno fatto i suoi? Ha parenti?”
Mi guardò sconcertato poi rispose a tutte le mie domande. Il risultato fu che lui e la sua famiglia erano i parenti più prossimi del bimbo. So che la legge in Italia funziona solo in certi versi, per fortuna io avevo i mezzi per farla girare a mio favore. O a quello di Davide, in questo caso. Ma lui doveva fare una scelta, quella stessa scelta che non aveva mai avuto il coraggio di fare.
“Hai chiesto il mio aiuto. Se vuoi che ti aiuti si fa a modo mio.” Dissi mostrandogli il telefono.
“Giada…”
“Sei egoista fino a questo punto? Devi pensare al meglio per lui. E se…” mi bloccai mordendomi la lingua, non potevo dirgli certe cose, non potevo ricadere nella vecchie discussioni di sempre.
“E se…?” incalzò lui. Mi guardava in un modo che mi fece capire che sapeva benissimo dove stando andando a parare.
“Lascia perdere. Ma fai la cosa giusta.”
“E secondo te la cosa giusta è lasciare che lo portino chissà dove? Magari finisce in un posto peggio di questo!”
Ecco, sempre le solite paure. E ancora, a distanza di anni, gli sfuggiva qualcosa che aveva sempre avuto davanti agli occhi.
Me. Ero proprio lì davanti a lui, per dargli una mano e lui ancora pensava di essere solo.
Se avesse avuto la forza di guardarsi dentro ora non sarebbe un operaio turnista che non può prendersi cura del figlio. Non vivrebbe più con sua madre e avrebbe potuto aiutarla ad andarsene dallo zoo.
“La tua cecità ti porta sempre a nasconderti nel tuo angolo…”
“Cosa…? Ancora! Forse ho fatto una stronzata a chiamarti, pensavo che potessi aiutarmi, ma tu sei ancora qui a rinfacciarmi i miei errori!”
“Abbassa la voce!” dissi tirandomelo dietro chiudendo la porta alle sue spalle. Mi piangeva il cuore lasciare quel cucciolo in quello schifo ma dovevo convincere Davide che era la cosa migliore far intervenire le forze dell’ordine.
E lasciare il piccolo lì, anche se era una cosa crudele, era la soluzione migliore. Solo se avessero visto in che condizioni stava, avrebbero fatto davvero qualcosa. Era lo stesso ragionamento che aveva fatto lui quando mi aveva chiamato.
“Non sto parlando di te o di me o del nostro passato. O forse si, ma più in generale. Se tu avessi lasciato uscire quell’uomo che ho visto in te anni fa e che vedo tutt’ora, non saresti qui ora e tuo figlio non sarebbe in quel letamaio!”
Le mie parole lo zittirono e lo calmarono. Sapeva che avevo ragione.
“La cosa giusta da fare è chiamare i carabinieri. Denunciare quella troia che fa vivere il tuo bambino in queste condizioni. Si, stanotte lo porteranno via, e credo che lo porteranno in ospedale perché se non te ne sei accorto è denutrito e non mi stupirei se avesse qualche infezione.”
Abbassò lo sguardo sulle sue scarpe e trattenne il respiro. Lo stavo ferendo ma forse era la cosa giusta da fare: mostrargli la realtà per quella che era, senza tralasciare nulla. Mettendo a nudo anche tutte quelle cose che avevo sempre dato per scontato. Non ero stata capace di farlo a suo tempo, perché ero sicura che l’amore potesse abbattere tutti i muri, ma stavolta non si trattava di noi, ma di un piccolo essere indifeso.
“La cosa giusta da fare è farsi aiutare. E tu, di aiuto ne hai bisogno, ora più che mai. Quando avrai finito qui, quando tutti se ne saranno andati, andrai a casa tua a prendere le tue cose, tutte. E quando dico tutte intendo proprio tutte! Non stai andando in soggiorno da qualche parte, ti stai proprio trasferendo!”
“Ma Giada! Dove?! Io non ho un posto…”
Non diedi importanza alle sue parole come se non avesse detto nulla.
“Quando ti chiederanno dove possono trovarti gli darai il mio indirizzo. E a casa ricordati di dire ai tuoi di dire a chiunque glielo chiede che vivi da me da qualche tempo.”
Strabuzzò gli occhi e spalancò la bocca.
“Non vivrai con me, tranquillo. Ma la dependance ha abbastanza spazio per ospitare te e il bambino. Ora devo andare, devo chiamare il mio avvocato e fargli preparare tutte le carte che servono per assicurati la custodia del piccolo e, se righerai dritto, anche l’affido un domani.”
Mi volta per raggiungere la porta d’ingresso ma lui mi fermò.
“Giada… io…” disse tentennando, stringendo la mia mano tra le sue.
“Non lo faccio per te. Certo i nostri trascorsi hanno il loro spessore e tu non sarai mai uno sconosciuto perdente ai miei occhi. Ma tra noi la cosa è morta è sepolta. Quello che conta ora è il tuo bimbo che, come hai detto tu, non si merita nulla di tutto questo.”
Uscii da quella casa come fossi inseguita da un demone, quasi fuggendo. E in parte era così.
Non sono mai stata una con le fette di salame sugli occhi, ho sempre saputo che ci sono persone disagiate, ma quella casa… quello che c’era in quella casa era indescrivibile.
Quella ragazza aveva deciso di rasentare il fondo. La droga, il sesso, la sporcizia, il disordine erano affari suoi… ma come poteva fregarsene in quel modo di quel piccolo esserino?




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Capitolo 3
*** LA COSA GIUSTA DA FARE ***




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Capitolo 4
*** RICORDI ***




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Capitolo 5
*** DOMANDE INOPPORTUNE ***




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Capitolo 6
*** DUBBI E PAURE ***




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Capitolo 7
*** ESSERCI ***




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Capitolo 8
*** CONGETTURE ***




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Capitolo 9
*** LANCIARE IL SASSO E RITRARRE LA MANO ***




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Capitolo 10
*** REGALI E SORPRESE ***




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Capitolo 11
*** STRANI DISCORSI ***




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Capitolo 12
*** IL BAULE DEI RICORDI ***




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Capitolo 13
*** NON CHIAMARMI DAVI... ***




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Capitolo 14
*** QUEL QUALCOSA IN PIÙ' CHE... ***




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Capitolo 15
*** epilogo ***




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