Once Upon a Time: The Phoenix Kingdom di Stephanie86 (/viewuser.php?uid=131302)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: The Fall ***
Capitolo 2: *** 1. The Light and the Storm ***
Capitolo 3: *** 2. Let me guide you ***
Capitolo 4: *** 3. The Swan and the Panther ***
Capitolo 5: *** 4. Your mouth can lie but your eyes can't hide ***
Capitolo 6: *** 5. Make a Wish ***
Capitolo 7: *** 6. Fire, Snow and Darkness ***
Capitolo 8: *** 7. One Last Wish ***
Capitolo 9: *** 8. Temptation ***
Capitolo 10: *** 9. The Heart is a Lonely Wolf ***
Capitolo 11: *** 10. Thirst of Revenge ***
Capitolo 12: *** 11. Eyes on You ***
Capitolo 13: *** 12. Time Has Come Today ***
Capitolo 14: *** 13. A Long Night ***
Capitolo 15: *** 14. Fear No Darkness ***
Capitolo 16: *** 15. Fenrir ***
Capitolo 17: *** 16. The Queens Fighting ***
Capitolo 1 *** Prologo: The Fall ***
PRIMA
PARTE
THE
FALL
PROLOGO
Anatlon.
Regno del Sud.
Snowing
Castle, la capitale di Anatlon, il regno del sud, bruciava.
Le
strade acciottolate della città si erano trasformate in un
frastuono
assordante, fatto di urla di dolore, di grida di terrore e panico.
Nell’aria si
era diffuso un orribile odore di fumo, di sangue e di carne bruciata.
Le
fiamme, divampate all’interno del castello, ora si levavano
verso il cielo
grigio, come le braccia di un mostro fatto di fuoco. Intorno alla
dimora dei sovrani
e dentro, nelle sale che avevano ospitato la famiglia reale e tutta la
servitù,
infuriava ancora la battaglia tra i soldati di David e Mary Margaret e
i nemici,
chiusi nelle loro nere armature, i visi interamente coperti dagli elmi
a tre
rostri, che permettevano di vedere solo i loro occhi assetati di morte
e
distruzione.
Quando
avevano attaccato la città, puntando dritti verso il
castello, sembravano in
netta minoranza rispetto alle truppe dei Blanchard. Eppure, quando
questi
uomini venivano abbattuti, altri prendevano il loro posto, comparendo
dal
nulla, forse partoriti dalle tenebre o dagli Inferi stessi. Cavalli
dalle nere
gualdrappe volavano sopra gli sbarramenti come fantasmi, lame vivide e
scintillanti come fulmini seminavano morte tra la gente in fuga.
Erano
gli uomini della regina di Mehlinus. Lo stemma era ovunque sugli scudi,
cucito
sui mantelli e inciso sulle armature: il melo su sfondo blu.
-
Che sia maledetta, la Regina del Nord! Che sia maledetta lei e tutta la
sua
gente!
Rumori
di spade che cozzavano, di metallo contro metallo, voci che impartivano
ordini,
scalpiccio sulle scalinate, colpi di tosse di chi cercava, invano, di
liberare
la gola e i polmoni dal fumo nero che ormai inghiottiva tutto, fracasso
di
oggetti che andavano in frantumi.
David,
con ancora l’immagine della sua amata che scompariva tra le
fiamme appiccate da
quegli infami impressa nella mente, aveva perso il conto degli uomini
che aveva
ucciso. Aveva continuato a mulinare la spada come un folle, aprendosi
la
strada. La lama era coperta di sangue. Tra affondi e fendenti, il re
aveva
liberato il passaggio e, pur essendo ferito a sua volta, aveva
strappato la sua
bambina di appena nove anni dalle mani di un uomo che aveva
già alzato l’ascia
per staccarle la testa. David, ignorando il dolore, si era avventato
sulla
belva e l’aveva trafitta, beandosi
dell’incredulità dipinta nei suoi occhi,
beandosi del rantolo che gli era uscito dalla bocca, beandosi del
sangue che era
stillato copioso dallo squarcio al centro della schiena.
L’uomo si era
afflosciato lentamente.
-
Padre! - gridò Emma, gli occhi verdazzurri spalancati. Tese
le braccia.
David
la prese e la strinse a sé. Sentì il corpicino
caldo della bambina contro il
suo, fremente di sofferenza e rabbia.
Correndo
attraverso stanze e corridoi, falciando gli ultimi uomini che cercavano
di
sbarrargli la strada, il sovrano di Anatlon uscì dalla sua
dimora, si gettò nel
giardino interno del castello, percorse un breve tratto di strada fino
alle
mura che erano state bianche come neve e che adesso erano annerite.
Scavalcò cadaveri,
alberi abbattuti, avvertendo su di sé lo sguardo vuoto dei
suoi cavalieri, di
coloro che erano morti per difendere la famiglia reale. Intorno solo il
crepitare del fuoco, l’odore acre del fumo, le grida.
-
David! – In sella ad un robusto cavallo marrone, Graham
guardò David
sopraggiungere, correndo. Dietro di lui veniva un uomo in armatura
nera, che lo
inseguiva, brandendo una lunga spada. Akela, il lupo grigio che lo
accompagnava, ringhiò ferocemente, appiattendo le orecchie e
mettendosi in
posizione d’attacco. Graham prese una freccia dalla sua
faretra. Un attimo dopo
quella freccia colpì il soldato al collo.
-
Sei ferito! – disse al re di Anatlon, quando l’uomo
lo raggiunse.
-
Non preoccuparti per me. Prendi mia figlia! - E gli passò la
bambina.
-
Padre, no! Non andartene! Non lasciarmi! - gridò Emma,
disperata, le lacrime
che già le bagnavano le guance.
Dalla
porta occidentale si levavano urla, gli echi di una lotta accanita,
colpi sordi
che scuotevano le mura.
-
Devi andartene, figlia mia. Morirai se resterai con me!
-
Non voglio abbandonarti! Vieni con me! Ti prego!
-
Emma... - David si avvicinò al cavallo e prese la mano della
figlia. – Fidati
di Graham. Adesso ti porterà al sicuro, lontano da qui. Il
castello è perduto.
Purtroppo non possiamo fare niente per salvarlo...
-
E mia madre?
David
la fissò, sentendosi trafiggere dal dolore della perdita
come se si fosse
trattato della lama di mille spade.
-
Emma... – riuscì a dire lui. Ma non
poté aggiungere altro.
Emma
pianse più forte. – No, papà... Per
favore... Ti prego... Dimmi che non è
vero...
-
Oh, Emma...
La
bambina gridò: - No! Ti prego, dimmi che sta bene! Dimmi che
non è vero!
Graham
la fissava con gli occhi sempre più sbarrati. Il giovane
aveva capito che stava
accadendo qualcosa a Snowing Castle quando aveva sentito
l’odore del fumo.
Cresciuto
con i lupi, veri lupi della foresta che considerava la sua unica
famiglia,
Graham aveva imparato a vivere come loro, a cacciare insieme a loro e
anche a
sentire come sentivano loro. Per questo, pur essendo lontano qualche
lega dalla
capitale di Anatlon, aveva avvertito il fumo ancora prima di vederlo
davvero. E
aveva cercato di raggiungere Snowing Castle il più in fretta
possibile. Conosceva
i sovrani e loro conoscevano lui, sebbene avesse sempre vissuto con il
suo
branco. Era riuscito a prendere un cavallo imbizzarrito, ma
miracolosamente
illeso e a domarlo, in modo da potersi muovere più in
fretta. Poi aveva cercato
i sovrani, sperando di trovarli ancora vivi per portarli via da
lì.
-
No, no, no, no... – Emma agitava la testa, frenetica. Le sue
ciocche bionde
sbattevano di qua e di là.
-
Mi dispiace. Devi andare, ora, Emma.
-
No, no, no... No!
-
Graham, voglio che porti mia figlia a Camelot. Parla con il re, digli
che ci
hanno attaccati. A tradimento! Chiedigli di proteggere Emma. Non
fermarti. Non
guardare indietro. Conto su di te.
-
Sì. Non temere!
-
Padre... - mormorò Emma. - Non lasciarmi...
David
si sfilò la spada. Gliela porse, con tutto il fodero.
-
No! Non la voglio! - gridò Emma.
-
Prendila. Ti servirà! - disse David. - Un giorno, quando
sarai abbastanza
forte, tornerai. Vendicherai me e tua madre. Il regno sarà
tuo! Ma adesso devi
andare con Graham. Se rimani qui, morirai e tutto sarà
davvero perduto! Fallo
per me, figlia mia.
-
Un giorno...
-
Sì, un giorno. Presto... Presto verrà il tuo
momento. Lo so. Non può essere
altrimenti. Allora tornerai e tutto questo sarà tuo! Tutto!
Il trono che ti
appartiene di diritto sarà tuo! Le terre saranno tue! I miei
uomini saranno
tuoi!
Emma
afferrò la spada che il padre le aveva dato e la strinse. Il
ciondolo che
portava al collo, un ciondolo a forma di cigno, che era anche il
simbolo
impresso sullo stemma del regno, brillò un istante.
Guardò suo padre un’ultima
volta, poi David disse a Graham di andarsene subito; gli
ripeté di non guardare
indietro e di non fermarsi mai. Gli disse di proteggere Emma anche se
ciò
avesse voluto dire sacrificare la vita.
-
Emma sarà al sicuro! - E detto ciò, il Figlio dei
Lupi gridò per spronare il
cavallo, che partì al galoppo.
Emma
ebbe modo di lanciare un’occhiata da sopra la spalla di
Graham. Vide suo padre
che ricambiava lo sguardo, poi lo vide girarsi per affrontare altri
soldati
nemici che lo stavano raggiungendo per ucciderlo.
Padre...
Fu
l’ultima volta che lo vide.
Camelot.
Regno di Elohim. Est.
L’acqua
veniva giù dal cielo pesante, compatta, un vero diluvio.
Appollaiata su
un’altura a strapiombo sul mare come un nido
d’aquile, circondata da mura
chiare e frustate dal vento, la città di Camelot incombeva
sulla valle,
ombreggiata dal castello del re Artù, una dimora austera,
costruita con pietre
rosse e grigie ora striata dai lampi, ai quali facevano seguito
violenti colpi
di tuono. La bandiera sulla quale era impresso il drago dorato su
sfondo rosso
della famiglia Pendragon sventolava, sbatacchiata dalle folate
impazzite.
Graham
aveva cavalcato a lungo e ininterrottamente come gli aveva chiesto di
fare
David; nonostante la stanchezza e la fame non si era fermato quasi mai
e teneva
la bambina avvolta in un mantello per proteggerla dalla pioggia. Il
cavallo che
aveva preso a Snowing Castle non aveva retto al ritmo che gli aveva
imposto e
il giovane era stato costretto a deviare il suo cammino, entrare in un
villaggio
e rubare un altro cavallo.
-
Vanargandr! – aveva urlato il pover’uomo che se lo
era visto piombare addosso,
accompagnato da Akela, con i suoi inquietanti occhi di colore diverso e
le
fauci spalancate. Non aveva cercato di fermarlo. Si era fatto da parte
e aveva
lasciato che prendesse uno dei suoi animali.
Era
notte quando giunse alle mura. Oltre il frastuono della pioggia
battente,
riusciva a sentire le onde che si schiantavano contro le scogliere.
Lanciò
delle grida e dei fischi per farsi udire. Gli uomini in piedi sui
bastioni e
nelle torri di guardia mandarono segnali ai soldati giù in
strada. Questi
sollevarono la grata e calarono il ponte levatoio, urlando e grugnendo.
Graham,
bagnato fino al midollo, gli occhi rossi e accesi di furia,
spronò il suo
destriero ormai sfinito lungo la piazza rettangolare della
città, lungo la via
centrale, verso il castello. Affrontò l’ultima
salita, arrivando davanti alla
dimora del re. L’animale schiumava, aveva gli occhi sbarrati
e iniettati di
sangue.
-
Chi siete? – urlò un uomo di guardia sui
camminamenti.
-
Devo passare! Devo parlare con il Vostro re. È successa una
cosa terribile a
Snowing Castle!
Pochi
istanti ancora e le porte vennero aperte. Non appena Graham
smontò, il
destriero emise un nitrito sofferente e si piegò sulle
ginocchia, per poi
accasciarsi e sdraiarsi su un fianco. Gli stallieri, fradici e nervosi,
accorsero.
All’interno
del castello serpeggiavano l’agitazione e il fermento.
Graham, senza fiato,
entrò nella sala del trono. Non si inginocchiò
davanti al re, che sedeva sullo
scranno, le mani strette ai braccioli. Si limitò a chinare
il capo. Lui e il Branco
non avevano re.
-
Qual è il tuo nome? - Artù si rivolse al giovane
con la voce che tremava.
-
Mi chiamano Graham. – rispose l’uomo con i capelli
castani e lo sguardo
infiammato. Il lupo grigio si accucciò accanto a lui.
– Vengo da Snowing
Castle.
-
Dimmi che cosa succede. Mi sono giunte voci molto infelici dalle
Τerre del Sud.
Puoi dirmi se è tutto vero?
-
È tutto vero, purtroppo - disse Graham. Scostò il
mantello per mostrare la
bambina che aveva portato con sé. Tutti i presenti la
fissarono, sbigottiti.
Emma
li guardò con gli occhi grandi e increduli, spaventati.
-
Ma... - Persino Artù aveva perso la voce. Quella bambina era
meravigliosa. Era
sicuro di non aver mai visto una bambina più bella. Aveva
lunghi capelli biondo
oro, che ricadevano sulle spalle come tante onde. E gli occhi... erano
grandi e
pieni di terrore, eppure anche limpidi, le iridi erano del colore del
mare, tra
il verde e l’azzurro.
-
Ecco la figlia... la figlia dei sovrani di Anatlon. Sono morti. Loro
e... E
molti altri. - Graham storse la bocca in una smorfia e
spiegò al re e ai
cavalieri ciò che aveva visto a Snowing Castle.
Ripeté le ultime parole di
David.
-
La regina...? Sei sicuro che fossero i suoi uomini?
-
Sì. Io non sono cresciuto con gli uomini e non ho mai avuto
né re né regine, ma
conosco gli stemmi. Ho visto il melo sugli scudi e sulle armature nere.
Anche
sugli stendardi.
La
sala del trono si riempì di grida e imprecazioni.
-
Tradimento! - urlò Sir Agravain, uno dei cavalieri della
Tavola Rotonda,
levando il pugno e poi sguainando la spada. Alto e massiccio, con le
spalle
larghe, i capelli rossi lunghi e sciolti sulla schiena, la barba a
punta e lo sguardo
pieno di sgomento e collera, Agravain digrignò i denti. - A
morte, la regina
del nord! Quella megera! Sire, datemi tutti gli uomini di cui
disponete. Andrò
a Nord e ci penserò io a quella strega! Questo è
un affronto! Vendetta!
-
Vendetta! Vendetta! - urlarono tutti.
-
Silenzio! - gridò Artù. - State spaventando la
bambina!
Tutti
tacquero, fatta eccezione per qualche bisbiglio. La regina Ginevra,
seduta
accanto al marito, si coprì gli occhi con le mani, lasciando
che i capelli le
ricadessero sul viso e lo nascondessero. Alla sinistra di
Artù, su un alto
scranno, sedeva il consigliere del re, il druido Merlino. In una mano
reggeva
un lungo bastone ricurvo. Con l’altra, invece, si accarezzava
la lunga barba
bianca con fare pensoso.
-
Agravain, ti darò gli uomini che ti servono, ma non andrai a
nord, andrai a Snowing
Castle e farai quello che puoi per aiutarli. Se è ancora
possibile aiutarli.
-
Certamente! Non temo nessuna stregoneria. - urlò Agravain.
-
Per favore, vuoi stare calmo? - Uno dei suoi fratelli, Sir Gawain,
posò una
mano sulla spalla di Agravain.
Vendetta,
vendetta, a morte...
Emma,
che non parlava ma ascoltava tutto, bevve queste parole e una vocina
interiore
cominciò a ripeterle. Rivide il viso di suo padre, gli occhi
di sua madre prima
di sparire tra le fiamme. Non aveva mai incontrato la regina di
Mehlinus ma già
sapeva che gliel’avrebbe fatta pagare. Già sapeva
che un giorno il Nord avrebbe
pagato caro quell’affronto.
Vendetta.
Vendetta. A morte.
-
Agravain, fa ciò che ti dico. – riprese
Artù, in tono grave. - Parti
immediatamente e vai più veloce che puoi. Fammi avere un
messaggio il prima
possibile. Ma ti prego: non dire a nessuno che la principessa
è viva. Potrebbe
essere in pericolo.
Sir
Agravain chiamò a sé i suoi tre fratelli, i
cavalieri e uscì dalla sala del
trono, imprecando ferocemente.
-
E la bambina? – chiese Graham.
-
Emma qui sarà al sicuro. Non qui a Camelot, ma... So
già dove può andare.
Saranno i miei compagni d’armi a proteggerla. Fino a quando
sarà necessario. Nessuno
deve sapere che è viva... Nessuno, chiaro?
Graham
non aveva dubbi che fosse la soluzione migliore.
Emma
non voleva essere protetta. Emma non voleva essere una principessa.
Voleva
combattere. Voleva diventare un cavaliere e avere una spada come gli
altri.
-
Figlio dei Lupi, ti prego di accettare degli abiti asciutti, del cibo
caldo e
un luogo in cui riposare questa notte. – disse
Artù. – È il minimo che io possa
fare per te.
-
Siete molto generoso. Vi ringrazio – borbottò
Graham, sorridendo stancamente.
-
Sire... - mormorò Emma.
-
Sì, dimmi. - Artù scese dal trono e si
inginocchiò davanti alla bambina. - C’è
qualcosa che desideri? Da mangiare, forse? Ti farò preparare
qualcosa dalla
servitù...
-
Ho la spada di mio padre.
-
Lo vedo.
-
Voglio imparare. Voglio imparare ad usarla.
Artù
spalancò gli occhi, trasecolato. - Vuoi...?
-
Sì, per favore, Sire.
-
Ma sei una principessa. Io ho il dovere di proteggerti, non posso...
-
Vi prego.
Artù
alzò la testa per guardare Graham, che non disse niente.
Stava per crollare a
causa della stanchezza. Guardò ancora Emma.
Incrociò i suoi occhi per la prima
volta; in essi vedeva il dolore, la paura, l’orrore, tutte
cose che non
avrebbero dovuto esserci nello sguardo di una bambina così
piccola. Eppure vide
anche determinazione, fermezza, una caparbietà che aveva
trovato negli occhi di
certi uomini, tra i quali anche i suoi Cavalieri, ma che lo sorprese
comunque
perché, dopo quello che le era accaduto, non avrebbe mai
immaginato che avrebbe
trovato la forza di reagire.
Artù
si riscosse. - D’accordo. Ora però ascoltami bene,
Emma. È molto importante.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** 1. The Light and the Storm ***
1
THE
LIGHT AND THE STORM
Poco
prima della caduta di Snowing
Castle.
Nymeria.
Regno di Mehlinus. Nord.
-
Cos’è questa, madre? - domandò Regina a
Cora, quando lei le porse il fodero in
pelle nera.
-
È la spada di tuo padre, Regina. – Sua madre
sedette vicino a lei,
sorridendole.
-
Perché la stai dando a me?
-
Perché da adesso in avanti sarà tua. Tuo padre
avrebbe voluto così.
Henry.
Suo padre. Il Re del Nord.
Regina
era una ragazzina che poco sapeva di spade e di battaglie, sebbene
nella sua
camera da letto vi fosse un enorme arazzo che rappresentava la
fondatrice della
capitale di Mehlinus, la principessa guerriera Nymeria, impegnata in
una
battaglia contro il popolo barbaro che, un tempo, aveva occupato il
Nord,
saccheggiando e seminando il terrore. Cose successe un migliaio di anni
prima.
A Regina quell’arazzo piaceva. Una parte di lei avrebbe
voluto essere come
quella straordinaria regina che aveva salvato la sua terra. La
straordinaria
regina con i lunghissimi capelli neri come carbone e gli occhi di
ghiaccio che
falciava i nemici con la sua spada. Qualcuno diceva che
quell’arma era magica,
che risucchiava le anime delle sue vittime non appena la lama le
trafiggeva.
Però
Regina non aveva mai posseduto una spada prima d’ora. Le cose
che le piacevano
di più erano cavalcare, passeggiare nel verde che circondava
la capitale del
regno, in mezzo agli alberi di mele rosse. Cavalcare, soprattutto. Quando era in sella a un
cavallo e galoppava,
con i capelli al vento, si sentiva felice e libera.
-
Non so, madre. Non so se...
-
Cosa non sai, Regina?
Regina
alzò lo sguardo, rendendosi conto che il sorriso era
scomparso dal volto di
Cora. Ora la madre la guardava severamente. La sua bocca aveva preso
una piega
dura.
-
Madre, io non la so usare...
-
Imparerai.
Accarezzò
brevemente il fodero. Sembrava nuovo. - Non sapevo che... che mio padre
avesse
una spada simile.
-
Non la portava sempre. È una spada molto antica.
È la spada che Henry ha
usato... nel duello contro il Re del Sud.
-
L’uomo che l’ha ucciso... – Regina sapeva
poco anche degli altri regni, perché
non era mai uscita dal suo. Sapeva poco delle Terre
dell’Ovest in mano ai lord.
Sapeva poco del regno di Elohim, a est del mondo conosciuto. Sapeva ben
poco di
Anatlon, il regno del sud, dove viveva l’uomo che, secondo
Cora, aveva
assassinato Henry.
-
David, sì. Un giorno, quando saprai combattere, potrai
vendicare la morte di
tuo padre uccidendo il Re del Sud con questa spada. - Cora le porse la
spada
nera e Regina la prese, estraendola dal fodero per osservarla.
Era
bellissima, brillava colpita dalla luce dei lumi accesi nella sua
stanza.
-
È meravigliosa, madre.
-
È tua. Conservala gelosamente. Non permettere mai a nessuno
di impugnarla al
posto tuo. Sei tu l’unica persona che può tenere
al proprio fianco quest’arma.
-
Sì, va bene, madre.
Stringendo
l’impugnatura, Regina si sentì improvvisamente
più sicura che mai di ciò che
Cora le aveva detto: David, il duello, suo padre ucciso a tradimento
dal Re del
Sud solo perché quest’ultimo non era riuscito ad
accettare di aver perso. Era
tutto più chiaro. In lei si fece largo, per la prima volta,
un sentimento
intenso, bruciante, che era la rabbia ed era il desiderio di vendetta.
Un
sentimento che, sulle prime, la spaventò molto.
Perché era un sentimento
terribile. La costrinse a chiudere gli occhi a lungo, ad impugnare
più
saldamente l’elsa della spada.
David...
Era
tutta colpa sua.
-
Tuo padre era un cavaliere molto valoroso, Regina. – La voce
di Cora era calma,
ma aveva una nota di severità che agghiacciava Regina. - Ed
era leale. Al
contrario di quel... Re del Sud.
-
Sì, mio padre non avrebbe mai colpito un uomo alle spalle.
-
No, tesoro. Mai.
-
Hai chiamato la spada Stormbringer? – domandò il
consigliere Tremotino alla
giovane Regina, che accarezzava il fodero della sua arma, sorridendo.
Un
sorriso puro. Un sorriso candido. Portava i lunghi capelli scuri e
ondulati
raccolti in una morbida treccia, la giacchetta azzurra, il foulard
bianco
intorno al collo e i pantaloni da cavallerizza.
-
Sì. Perché significa Tempestosa. È un
nome forte, non trovate anche Voi?
-
Oh, sì.
La
Tempestosa. La Portatrice della Tempesta,
pensò il consigliere, divertito.
-
Ed io sono nata in una notte di burrasca, non è vero?
-
Ma certo che sì. È un buon nome. Un nome davvero
forte. Perché diventerai molto
forte, cara. Potresti diventare... molto potente. – Tremotino
avvicinò il viso
al suo, scrutandola attentamente. - Ora è necessario
imparare, Regina.
-
Sì. Voglio essere valorosa come mio padre.
-
Forse conosco l’uomo che può fare al caso tuo.
-
Chi è?
-
Si chiama Daniel. È bravo con le armi. Vedrai,
può essere anche un buon
insegnante. Gli parlerò oggi stesso. – Il
consigliere di sua madre appoggiò la
punta dell’indice contro il mento. Il suo sorriso era
vagamente inquietante e
non solo per via dei denti marci.
Tremotino
era il consigliere di Cora da quando era salita al trono,
così come sarebbe
stato il suo, di consigliere, una volta diventata regina. Ed era anche
uno
degli esseri più sconcertanti che il regno di Mehlinus
avesse mai visto. Gli
stavano tutti alla larga, eccetto la sovrana. Anche Regina avrebbe
voluto
stargli alla larga, ma in fin dei conti Tremotino non le aveva mai
mancato di
rispetto. La trattava con cordialità. Solo, lei si domandava
da quale oscuro
angolo di Mehlinus fosse sbucato. Si domandava perché la sua
pelle
assomigliasse a quella di un rettile, perché avesse
quell’aspetto così poco
umano. La pelle era squamosa e verdognola, i lineamenti erano affilati,
gli
occhi spiritati avevano pupille minuscole quanto la capocchia di uno
spillo. Non
aveva armi con sé. Poche volte lo aveva visto impugnare
un’arma, eppure emanava
un potere oscuro e affascinante.
-
Perché questo... Daniel dovrebbe aiutarmi? –
chiese Regina.
-
Perché siete l’erede al trono, che domande!
-
Ah, certo...
-
E perché mi deve un favore. Anni fa ho aiutato la sua
famiglia. Sai, erano in
un periodo difficile, molti debiti. Ho dato loro una mano a liberarsi
dei
creditori.
Regina
non voleva sapere che cosa intendesse Tremotino per ‘dare una
mano’. – Quando
potrò conoscerlo?
-
Domani. Presentati a mezzogiorno nel cortiletto davanti ai magazzini
delle armi.
Ti aspetterà là, mia cara.
Il
castello della sovrana del Nord era nero come la notte e sovrastava la
città di
Nymeria in tutta la sua imponenza. Anche di giorno sembrava che i
pallidi raggi
del sole, che ogni tanto facevano capolino tra le nuvole grigie, non
fossero
molto propensi a toccare le mura scure e altissime e ciò
faceva apparire il
castello come un luogo tetro e avvolto dalle ombre.
Regina
fece come le aveva detto Tremotino. Si presentò nel
cortiletto interno del
castello, uno spazio circolare sul quale si affacciavano il granaio e
il
magazzino riservato alle armi.
Sua
madre non le chiese niente ma, del resto, Cora le chiedeva raramente
che cosa
facesse o come stesse. Era troppo impegnata con le questioni inerenti a
Mehlinus.
Da quando era morto Henry, poi, aveva ancora più da fare del
solito.
-
Buongiorno, principessa. Vi aspettavo prima. – disse un uomo,
in piedi al
centro del cortile, di spalle.
-
Prima? No, Tremotino mi ha detto... a mezzogiorno.
-
Gli avevo chiesto di farvi venire qui prima di mezzogiorno. Ma
d’accordo. Non
importa.
-
Siete il maestro d’armi, vero?
-
Potete anche evitare la forma di cortesia. Chiamatemi pure Daniel.
-
Allora tu chiamami Regina.
Daniel
si voltò. Era un giovane di bell’aspetto, o almeno
Regina pensava fosse bello.
Alto, con gli occhi azzurri e i capelli corti e scuri. Nelle mani
teneva due
spade di legno. Indossava una giacca marrone sbottonata sopra la
camicia di
lino bianco, un vecchio mantello blu agganciato alla base del collo con
una
spilla a forma di melo, il simbolo della famiglia reale, i pantaloni in
pelle
nera e gli stivali di cuoio. – Voi siete la principessa.
-
Ma...
-
Come dicevo... il mio nome è Daniel, maestro
d’armi, principessa. Lieto di
conoscervi.
Regina
deglutì. Daniel alzò gli occhi, sorrise e, senza
alcun preavviso, le lanciò una
delle spade di legno. Regina cercò di afferrarla, ma si
mosse troppo tardi e la
spada cadde a terra, rimbalzando.
-
Domani, forse, ci riuscirete. Ora raccoglietela, vi prego.
-
Vorrei usare la mia spada. – L’aveva portata con
sé e gliela mostrò.
-
Una bella spada. Ma non potete usarla, oggi. Non siete nemmeno capace
di prendere
al volo una spada di legno.
Regina
si sentì punta nel vivo. - Ma è la spada di mio
padre...
-
Lo so. E ho molto rispetto per Vostro padre. – Lo sguardo di
Daniel le sfuggì
per qualche istante. Poi scosse il capo. – Ma dovete prima
imparare ad
impugnare l’arma e... anche a prenderla quando ve la
lanciano.
Regina
non replicò. Si tolse la cintura con la spada e
posò Stombringer su una panca
di pietra, contro il muro. Il maestro d’armi si
levò il mantello.
-
Raccoglietela – tornò a dire Daniel, gentilmente,
indicandole la spada di
legno.
Regina
la prese. Era molto pesante, quindi la sostenne con due mani.
-
No, principessa. Non è così che si impugna. Non
servono tutte e due le mani.
-
É pesante.
-
Certo, è fatta apposta perché possiate diventare
più forte. Anche Stormbringer
è pesante. – Daniel fece ruotare la sua spada,
prima vicino al corpo e poi
sopra la testa. Dopodiché la lanciò e la riprese
al volo. Tutto con una sola
mano. – Una mano è sufficiente.
Regina
la impugnò con una sola mano.
-
La Vostra postura è errata. Ruotate il corpo verso destra.
-
C’è qualcosa che va bene, in me? –
domandò, stizzita.
-
Sono sicuro di sì. Ma ruotate il corpo verso destra.
Regina
ruotò. Daniel le toccò il mento con la lama di
legno perché sollevasse un po’
la testa.
Il
maestro d’armi sorrise di nuovo. – Sì,
non male. Siete piccola, ma questo va
bene. Restringe il bersaglio.
Sollevate la spada, per favore.
Forse
è anche troppo piccola, stava
pensando Daniel. Troppo giovane ed
innocente per impugnare una spada come Stormbringer. Troppo piccola per
un
destino così grande.
Regina
eseguì.
-
La presa sull’elsa deve essere delicata, principessa.
-
Ma potrebbe cadermi...
-
Non cadrà. Vedete la spada come il prolungamento del
braccio. Certo non
permettereste al Vostro braccio di cadere.
-
No, direi di no.
-
Bene. Allora adesso impugnate bene la Vostra spada. Direi che possiamo
cominciare. Vi sentite pronta?
Regina
decise che quel giovane le piaceva. Le infondeva sicurezza; era
gentile. Le
piaceva il suo sorriso. – Sì, lo sono.
-
Cercate di colpirmi.
Non
si aspettava una richiesta del genere. Pensava che le avrebbe mostrato
alcune
mosse. Che le avrebbe detto come fare.
-
Cosa aspettate? – Daniel piegò leggermente le
ginocchia, puntandole contro la
lama della spada.
Regina
si mosse il più rapidamente possibile. Menò un
paio di colpi obliqui verso
Daniel, che li parò facilmente, per poi scartare di lato,
quando Regina tentò
un affondo.
Daniel
le sorrise di nuovo. Puntò la lama contro di lei. Quando si
muoveva sembrava
davvero che stesse danzando. Erano movimenti agili, fluidi e armonici.
Regina
lo attaccò ancora. Le lame legnose cozzarono. Daniel non
ebbe difficoltà a
parare ogni suo tentativo.
-
Siete già stanca? – domandò, quando la
vide appoggiare le mani alle ginocchia.
-
No. – Regina tentò un fendente.
Daniel
lo parò e poi la colpì al ventre con la punta
della lama. – Siete morta.
Regina
aggrottò la fronte. Provò un nuovo affondo. Il
maestro d’armi lo parò e le
restituì il colpo. La lama la raggiunse al petto.
-
Mi dispiace. Vi ho uccisa di nuovo. – ripeté il
maestro d’armi.
Sembrava
che nessun colpo lo spaventasse o lo preoccupasse. Mentre si batteva,
continuava
a sorridere. Qualche volta, addirittura, ridacchiava, molto divertito.
Non era
mai stanco. Sul suo viso non c’era traccia di sudore, mentre
su quello di
Regina cominciarono ad intravedersi presto i segni della stanchezza.
Daniel
la colpì ancora alle gambe e al ventre. – Oh,
sì. Temo che siate decisamente
morta.
-
Vi prendete gioco di me?
-
Niente affatto. Non potrei mai. Vi sto solo insegnando a combattere.
Tremotino,
venuto a vedere come andava la prima lezione, si appoggiò ad
una colonna e
osservò. Anche lui era divertito. Regina aveva una gran
voglia di imparare.
Quella ragazzina testarda e un po’ ingenua sarebbe potuta
diventare un’ottima
combattente. Una regina che la gente avrebbe temuto.
E
quando conoscerà la magia, sarà
ancora più potente, oh sì. Sto facendo un bel
lavoro. Bisogna solo avere
pazienza.
***
Poco
dopo la caduta di Snowing
Castle.
Foresta
di Rhun. Regno di Elohim.
Est.
-
Ora ti mostrerò come si impugna una spada, Emma. Sei pronta?
- domandò Gawain,
estraendo la sua spada lunga dal fodero appeso alla cintura. Aveva la
lama più
larga rispetto a quella della spada di suo padre.
Erano
passate solo poche settimane dalla caduta di Snowing Castle. Le persone
che
erano riuscite a fuggire stavano ancora cercando un rifugio nelle terre
di Artù
oppure a ovest. Non tutti erano disposti ad accogliere i profughi. Il
re era
stato molto generoso da quel punto di vista, ma sfortunatamente certi
lord
dell’ovest non erano come lui.
Il
signore di Camelot aveva deciso di nascondere Emma nella foresta e di
farla
proteggere ogni giorno da uno dei suoi uomini. Vedere i cavalieri
entrare e
uscire da Camelot era una cosa normale, poiché
Artù aveva spesso bisogno di
mandare messaggeri negli altri regni, soprattutto nelle Terre
dell’Ovest, a
Deep Valley, dove viveva sua zia Morgause, signora del Lothian, ma non
solo. Aveva
amici e alleati con i quali si teneva sempre in contatto. Doveva
risolvere
scaramucce nei villaggi vicini, difendere gli ospiti diretti a Camelot
dai
banditi.
Emma
aveva insistito a lungo perché gli allenamenti cominciassero
al più presto.
Aveva già visto suo padre combattere, alcune volte, durante
le giostre
soprattutto, quindi alcune cose le conosceva già. Ma era
ansiosa di diventare
brava con la spada. Di diventare più forte. Un vero
cavaliere. E aveva anche
bisogno di distogliere la mente da ciò che era accaduto alla
sua città e ai
suoi genitori. Aveva bisogno di non pensare all’odore del
fumo, al calore del
fuoco che aveva divorato il castello, allo sguardo pieno di dolore di
David, a
sua madre, alle urla della sua gente, al soldato in armatura nera con
il melo
impresso sul petto che la minacciava con l’ascia. Le sue
notti erano già piene
di incubi. Di giorno voleva la spada. Voleva combattere.
E
avrebbe anche voluto rivedere il bel giovane che l’aveva
portata in salvo e che
era sempre stato un amico dei suoi genitori. Graham. L’uomo
cresciuto dai lupi.
-
Sì... - Emma aveva la propria spada davanti a sé.
La liberò dal fodero. Era
pesante per lei e per un momento barcollò, sconvolta dal suo
peso. Poi raddrizzò
le spalle.
Gawain
si tolse il guanto scuro. La mano destra strinse
l’impugnatura. - Devi tenere l’elsa
senza stringere. Così.
Emma
strinse un po’ l’elsa della sua arma. La
sollevò. Si sforzò di mantenere il
braccio fermo.
-
Bene. Metti il dito indice nell’anello formato
dall’incasso e dall’archetto. -
Le mostrò incasso ed archetto, perché potesse
capire meglio. Emma eseguì,
dapprima con qualche difficoltà, ma poi corresse la
posizione delle dita. -
Tienila senza esporre il gomito, mi raccomando.
-
Non sembra difficile.
-
No, non lo è. Ma tu sembri anche molto dotata con la spada,
Emma. Adesso... in
guardia. – Gawain si posizionò con una gamba
avanti, il ginocchio leggermente
piegato e l’altra più indietro. Era ben
bilanciato.
Emma
alzò la spada, puntandola contro il cavaliere, che le aveva
fornito cotta di
maglia e piastre, nonché un piccolo scudo, perché
potesse proteggersi.
-
Sarebbe stato meglio usare delle spade di legno. –
osservò Gawain.
-
Non mi interessano le spade di legno.
-
Potresti farti male.
-
Fa parte dell’addestramento di un cavaliere, no?
-
É vero. Ma Artù mi ha detto di proteggerti. Se
dovessi farti male...
-
Parlate così perché sono una fanciulla?
Gawain
sorrise. – Fanciulla... fanciullo... per me non fa
differenza. E un giorno
sarai anche cavaliere. Io lo dico per te. Sei ancora inesperta.
-
Farò del mio meglio per imparare in fretta.
-
Non c’è bisogno di avere fretta.
Emma
sferrò un colpo contro la spada di Gawain. Lui glielo
restituì e, non appena le
spade cozzarono, Emma perse la sua, che cadde sull’erba. La
guardò, furiosa.
-
Raccoglila. È pesante, lo so. Ma se ti allenerai ogni
giorno, presto il suo
peso non sarà più così importante.
Emma
raccolse la spada.
-
Proviamo un fendente. È un colpo dato dall’alto
verso il basso. Con una mano
oppure con entrambe.
Emma
strinse l’impugnatura. Sollevò la spada con
entrambe le mani e abbatté la lama
su quella di Gawain. Il colpo riverberò nel suo braccio.
Emma barcollò in
avanti.
Colpisce
più forte di quanto
pensassi, pensò
il cavaliere, stupito.
-
Molto bene. – disse Gawain. – Hai perso
l’equilibrio perché non eri ben
piantata con i piedi. Ma sono sorpreso dalla tua forza.
Emma
alzò gli occhi verdazzurri su di lui. Gawain, oltre ad
essere un uomo paziente
e un buon insegnante, non la faceva sentire una bambina. La trattava
come un’allieva
adulta. E a lei piaceva, questo. Non tutti si comportavano
così. Quello grande
e grosso, Agravain, il fratello di Gawain, la osservava sempre con
occhio
critico e scettico. L’aveva sentito mentre diceva a re
Artù che non pensava
fosse giusto che una bambina di neppure dieci anni usasse una spada e
pensasse
di diventare cavaliere.
-
Tu a nove anni cosa facevi, Agravain? – l’aveva
rimbeccato Artù, severamente.
-
Beh, Sire, io...
-
Avevi una spada. Tuo padre, Lot, già ti aveva affidato ad un
maestro d’armi. Lo
so, sei stato tu a raccontarmelo.
-
Questo è vero, Sire, ma qui stiamo parlando di una
fanciulla. É una bambina
e...
-
La tua preoccupazione è anche la mia. Ma diamo una
possibilità ad Emma. Diamole
la possibilità di dimostrare quanto vale. Perché
vale molto, ne sono convinto.
Agravain
aveva borbottato qualcosa e poi se n’era andato.
-
Si chiama Narsil. - disse Emma a Gawain.
-
La tua spada?
-
Sì.
-
Narsil è un bel nome. È un nome forte. Nar,
fuoco. E Thil, la Luce
Bianca. La
lingua degli elfi è... una lingua potente. - Gawain,
primogenito di Lord Lot
del Lothian e di Morgause, la zia del re, era anche un uomo del quale
ci si
poteva fidare a prima vista; aveva il naso un po’ lungo e
appuntito, le
sopracciglia folte, i capelli scuri che gli arrivavano alle spalle e i
suoi
lineamenti non erano niente di eccezionale, ma aveva un sorriso
luminoso e
guardava la gente con sincero interesse.
-
E la Vostra spada come si chiama, sir Gawain?
-
Si chiama Gramr.
Emma
esitò un istante. - Perché l’avete
chiamata così?
-
Quando ero piccolo mio padre soleva narrarmi una leggenda, che mi
piaceva
molto: parlava di un coraggioso cavaliere che possedeva una spada
magica, con
la quale ha ucciso un drago che infestava le sue terre e causava morte
e
distruzione...
-
E la spada di quel cavaliere si chiamava così?
-
Gramr, sì.
-
Raccontatemi questa storia, sir Gawain – Emma sedette sul
prato. – Ho proprio
voglia di sentirla.
________________
NOTA:
Dopo il prologo e questo primo capitolo, ci tenevo ad aggiungere alcune
cose: questa storia si considera come storia a 4 mani. E' vero che sono
stata io a scriverla interamente, ma lo spunto iniziale (che
è la sigla di un cartone animato degli anni '80 incentrato
proprio su Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda) e anche
varie idee che sono state poi sviluppate nella storia appartengono ad
un mio amico, fan di Once. Abbiamo progettato questa storia prima che
Once introducesse i personaggi arturiani, di conseguenza
Artù, Ginevra, eccetera, sono diversi sia fisicamente che
caratterialmente da quelli che ci ha presentato Once, come avrete
già capito.
Vi
ringrazio per essere qui a leggere, comunque. Spero rimaniate fino alla
fine :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** 2. Let me guide you ***
2
LET ME GUIDE YOU
Nymeria.
Regno
di Mehlinus. Nord.
-
Regina, quella battaglia... noi l’abbiamo vinta anche grazie
alla magia.
-
Alla... alla magia?
-
Sì - Tremotino osservava Regina, ormai da due anni sovrana
di Mehlinus. Una
sovrana giusta, ambiziosa, che incuteva una buona dose di timore nel
popolo,
brava con la spada che le era stata donata, ma non ancora la sovrana
che Tremotino
avrebbe voluto che fosse. - Vostra madre sapeva usarla. E anche i
Blanchard. Ma
loro la usavano a sproposito. Cora era molto potente. Più
potente dei
Blanchard. E ha reso potente anche l’esercito.
-
In... in che modo? - Regina era sconvolta. Quella parte della storia,
lei
ancora non la conosceva. Non sapeva dei poteri di Cora. Tremotino aveva
deciso
che era giunto il momento di metterla al corrente, perché
anche lei potesse
imparare, perché potesse iniziare a comprendere quanto fosse
importante il
potere. Quanto fosse prezioso. E cosa le avrebbe permesso di
guadagnare. Bisognava
spingere. Niente più di qualche piccola spinta.
-
Ogni volta che i soldati dell’esercito nemico abbattevano uno
dei nostri, altri
due o tre prendevano il posto del guerriero caduto. Era la magia,
Regina. Un
incantesimo di Vostra madre. La parte magica del nostro esercito.
Doveva agire
in quel modo. Non ha avuto scelta. Loro erano tanti.
-
E così li abbiamo respinti?
-
Sì. Siamo sempre stati più forti. Cora
è sempre stata molto potente.
-
E i Blanchard?
-
L’hanno uccisa comunque. La magia porta via molte energie, se
usata troppo a
lungo. Vostra madre era debole alla fine della battaglia. I Blanchard
hanno
finto una ritirata. Per distrarla. E l’hanno uccisa. -
Tremotino si era passato
una mano sugli occhi. - Dopo un sortilegio è calato su
Snowing Castle. Il
regno, da fuori, sembra deserto e distrutto. In realtà
è un regno prospero...
-
Chi... chi ha insegnato a mia madre...?
-
Io, Regina. Sono stato io. E adesso sono disposto a fare lo stesso con
Voi, mia
cara.
-
Con me? – Lei era inorridita. Si era morsa il labbro e aveva
scosso la testa
con vigore. - No... no, io non posso. Non posso farlo. I miei nemici
usavano la
magia ed io non voglio essere come loro.
-
Ma voi non dovete affatto essere come loro, Regina! –
Tremotino sembrava
scandalizzato da ciò che aveva appena detto. –
Dovete diventare più forte. Non
solo un’ottima combattente. I nemici, la magia la sanno usare
ed è necessario
che impariate per potervi difendere se vi dovessero attaccare con essa.
Non
potete presentarvi dai Blanchard senza conoscere la magia. Oppure...
avete
paura?
-
Non si tratta di paura. Sembra una follia, consigliere.
Tremotino
non smise di sorridere. - Sì che è follia.
È follia ciò che i Blanchard hanno
fatto. È follia ciò che re David ha fatto a
Vostro padre. Non è follia il
volersi vendicare. Né tantomeno il potere. Non se viene
usato contro chi vuole
distruggerci.
Regina
deglutì.
-
Diventerete molto potente. Ne sono sicuro. Lasciate che sia io a
guidarvi. – Tremotino
giunse le mani e sedette in poltrona, guardando Regina con intenzione.
Poi le
fece segno di avvicinarsi.
-
Scusatemi, consigliere. Non me l’aspettavo. Non so bene come
comportarmi.
-
È piuttosto chiaro. Per questo ci penserò io.
Perché io, al contrario di te...
di Voi... so quello che faccio. E vi conosco da tempo. – Il
consigliere
vacillava tra il tono informale che usava con lei quando era
più piccola e non
ancora una regina e quello più opportuno per un consigliere.
Si fermò dietro di
lei. Sembrava che la stesse studiando per bene e Regina non
osò muoversi. – Ho
dovuto aspettare. Ma il momento è finalmente giunto.
Fidatevi di me.
Lei
annuì, intimorita e Tremotino le appoggiò le dita
sul viso.
Le
sue mani erano viscide.
Daniel
l’aspettava in cortile, come sempre.
Ormai
Regina usava Stormbringer durante i suoi allenamenti e non
più le spade di
legno. Aveva usato le spade di legno solo durante le prime lezioni,
dopodiché
il maestro d’armi le aveva chiesto se si sentisse pronta per
impugnare la spada
di suo padre. Una vera spada. Regina non aveva avuto esitazioni. Si era
fatta
male; nel corso del primo scontro con Daniel, si era ferita anche se
non gravemente.
Ma le era piaciuto. Si era sentita potente. Il suo maestro le aveva
insegnato
anche a combattere in sella a Rocinante, in modo che fosse preparata ad
affrontare un combattimento a cavallo.
Le
era piaciuto come le piaceva Daniel. E le piaceva non solo come maestro
d’armi
ma anche come uomo. Sapeva che Daniel era più grande, ma
questo non le impediva
di sentirsi attratta da lui. Non aveva mai detto nulla a riguardo.
Sarebbe
stato inutile, non solo per la differenza d’età,
ma anche perché Daniel era di
rango ben inferiore al suo. Non le avrebbero mai permesso di sposare un
uomo
che non era altro che un maestro d’armi.
Le
lezioni erano più brevi, perché Regina ormai era
la sovrana di Mehlinus e aveva
altri compiti a cui badare, ma non era mai mancata a nessuna di esse.
Adesso,
poi, non combatteva soltanto per diventare più forte. Il
desiderio di vendetta
era sempre più bruciante. Combatteva perché
voleva davvero vendicare la morte
dei suoi genitori.
-
Oggi non potrò restare molto, Daniel.
-
Ah, davvero?
-
Sì. Mi dispiace. Devo andare con Tremotino.
-
Con il Vostro consigliere... – Daniel sembrava deluso.
-
Sì.
Daniel,
in realtà, si era reso conto di una cosa: la ragazzina che
era venuta da lui
quel giorno, alcuni anni prima, la ragazzina che aveva fatto i capricci
perché
desiderava usare fin da subito una spada vera, stava scomparendo. Ora
non c’era
soltanto una regina davanti a Daniel, ma una donna il cui carattere si
era
indurito. Una donna ambiziosa. Una donna arrabbiata. E la rabbia poteva
condurla verso l’oscurità. Il maestro
d’armi non avrebbe mai voluto che
accadesse. Ed era colpa di Tremotino, se Regina stava cambiando. Il
consigliere
fingeva di desiderare unicamente il suo bene, ma stava manipolando la
sua
personalità per trasformarla in qualcun altro. Stava
alimentando la sua furia.
-
Vi dispiace se cominciamo? – Regina aveva anche ricominciato
a dargli del Voi.
Come se volesse stabilire una certa distanza tra lui e se stessa.
-
Voi non siete qui.
-
Come?
-
Voi non siete qui, mia regina. Mi duole dovervelo dire. Siete con i
Vostri
problemi. E sapete che cosa accade se rimanete con i Vostri problemi
mentre
combattete? – Daniel sguainò la spada e lo
toccò il braccio con il piatto della
lama. Per istigarla.
Regina
estrasse Stormbringer e lo attaccò. Daniel ci mise ben poco
per disarmarla e
costringerla a terra, con la spada puntata contro la gola.
-
Ecco ciò che Vi accade. Avrete più problemi.
– Indietreggiò per permetterle di
alzarsi. – Così non va bene.
Regina
lo attaccò di nuovo. Daniel parò i due colpi
obliqui che lei gli inflisse.
Tentò un affondo, che Regina riuscì a parare
all’ultimo istante. Poi si ritrovò
con la spada del maestro a pochi centimetri dal collo.
-
Come farete a combattere, allora? Non potrete. Vi uccideranno subito.
– Lui
rinfoderò la spada e la fissò. – Siete
turbata. Me ne rendo conto. È naturale.
Avete perso Vostra madre. Siete diventata regina e ciò
è un altro motivo di
turbamento. Le regine hanno molte responsabilità, molte cose
a cui pensare. Ma
quando siete qui... dovete esserci completamente. Quando usate la spada
i
problemi vanno messi da parte. O saranno la Vostra condanna. E Voi non
volete
morire. Non ancora. Non è vero?
Regina
ci mise qualche istante a rispondere. Poi scosse la testa.
Daniel
sorrise e le mise una mano sulla spalla. Regina lo guardò
negli occhi azzurri e
arrossì. Distolse subito lo sguardo.
-
Bene. Adesso... in guardia! – disse Daniel.
Dopo
la lezione Tremotino l’accompagnò in un boschetto
vicino a Nymeria. Voleva
insegnarle i primi rudimenti di magia. Tanto per cominciare le chiese
di
accendere un fuoco.
-
Dovete concentrarvi, Maestà.
-
Ci sto provando.
-
Non ci state provando abbastanza.
-
Invece sì. È da un’ora che cerco di
concentrarmi.
-
Non limitatevi a concentrarvi. Usate le emozioni.
Regina
si concentrò sui tre grossi rami, circondati da alcune
pietre, che Tremotino
aveva sistemato davanti a lei.
Trascorsero
alcuni minuti. Intorno a lei il canto degli uccelli. Il gorgoglio delle
acque
di un torrente. Il vento che faceva frusciare le foglie sopra la sua
testa.
Nessun fuoco si accese.
Regina
imprecò.
-
Mia cara... – disse Tremotino.
-
Non è molto facile, consigliere.
-
La concentrazione non è semplice, Maestà.
– Tremotino stava perdendo
l’abitudine di chiamarla per nome, anche se a volte si
lasciava sfuggire un mia
cara o qualche altro vezzeggiativo. – Non
è semplice qui, come non è
semplice se vi tirano delle frecce addosso, se vi minacciano con una
spada, se
piove o nevica. Ma io ho riposto molte speranze in Voi. So che potete
farlo.
Prendete la Vostra rabbia e alimentatela. Usatela per risvegliare il
potere.
Perché la magia è potere, Maestà.
Dipende dalle emozioni.
Regina
deglutì, osservando gli occhi accesi del consigliere.
-
Pensateci: i Blanchard. Sono loro il Vostro obiettivo. David, che ha
ucciso
Vostro padre in quel modo... colpendolo alle spalle! –
Tremotino si avvicinò e
cominciò a girarle intorno. – I sovrani del sud
hanno ucciso Vostra madre. Ci
hanno ingannati. Hanno attaccato i nostri uomini, hanno finto di
ritirarsi e
poi hanno ucciso Cora. Hanno nascosto il loro regno con un sortilegio
che lo fa
apparire distrutto e deserto.
Regina
sentiva le parole di Tremotino colare nelle sue orecchie come veleno.
Le
incendiavano i pensieri. Le facevano ribollire il sangue.
-
Hanno usato la magia per i loro malvagi scopi. Sono crudeli. Vogliono
avere
tutto. Se volete batterli, se volete davvero vendicare la morte di Cora
e di
Henry, allora avrete bisogno del potere. Senza, loro vinceranno ancora.
Vinceranno e, forse, distruggeranno Mehlinus. Voi siete la regina. Una
regina
deve saper proteggere il proprio regno!
Il
cuore le batteva forte nel petto. Le pulsavano le tempie. Regina
strinse forte
l’elsa di Stormbringer nella mano destra.
-
Maestà, Voi dovete...
Gli
occhi di Regina si colorarono di viola. Avvertì
un’ondata dirompente di potere
lanciarsi in avanti. L’avvertì, proprio come
avvertiva la presenza di
Tremotino.
Una
vampata improvvisa di fuoco scaturì dal legno e
salì verso l’alto, ruggendo e
scoppiettando.
Regina
gridò e si ritrasse, sollevando una mano come per
proteggersi.
Tremotino
ridacchiò, soddisfatto. – Bene! Molto bene!
Eccellente, direi! Sapevo che ce
l’avreste fatta, Maestà.
-
Voglio... voglio andarmene. Voglio tornare a casa. –
sentenziò Regina. Cercò di
alzarsi e incespicò di nuovo, finendo in ginocchio in mezzo
ad un mare di
foglie.
-
Così presto? – Con un gesto della mano, il
consigliere spense il fuoco.
-
Non voglio usarla. Mai più. – Il cuore batteva
ancora molto forte. Non avrebbe mai
pensato che tutto quel potere potesse scaturire proprio da lei. Le
sembrava
enorme. Distruttivo.
-
Perché no? – chiese Tremotino, quasi offeso da
quella constatazione. Eppure
sembrava anche se sapesse che cosa gli avrebbe risposto.
-
Perché mi è piaciuto.
Tremotino
ridacchiò. Più che una risata, suonò
come un verso stridulo e prolungato. Un iiiiiiiiih
che la infastidì, così come
la infastidì vedere i suoi denti gialli. Erano come zanne.
– Bene! Ora avete
scoperto chi siete veramente. E avete scoperto... che potreste fare
così tanto.
-
Quello che voglio è proteggere il mio regno.
-
Ma certo! È proprio quello che intendevo dire. Con la
magia... lo farete.
Regina
abbassò la testa, ma Tremotino la costrinse a guardarlo,
mettendole due dita
sotto il mento. - Se vi lascerete guidare da me, andrà tutto
bene.
Foresta
di Rhun. Vicino a Camelot.
La
lezione di combattimento era appena terminata.
Emma
era ancora giovane, ma era molto in gamba. Il cavaliere Lancillotto,
riponendo
la propria spada, Aradonight, nel fodero, le aveva detto che aveva
fatto
progressi e che era molto soddisfatto di ciò.
Quel
giorno aveva assistito alla lezione anche il figlio del cavaliere, un
bambino
di nome Galahad.
Il
suo aspetto suscitava anche chiacchiere maligne. Lancillotto del Lago
era un
cavaliere affascinante, con i capelli neri e folti, gli occhi
leggermente a
mandorla e la carnagione olivastra, mentre suo figlio Galahad aveva la
pelle
lattea, talmente chiara che non passava mai molto tempo al sole. I
capelli
erano corti e spesso spettinati, quasi bianchi, a parte qualche debole
riflesso
biondo. Gli occhi, sottolineati da lunghe ciglia, erano di un azzurro
così
chiaro che a volte a Emma sembravano incolori.
Ma
a Emma non importava poi molto del suo aspetto. Era un bambino gentile,
fortemente interessato alla storia di quella futura regina costretta a
nascondersi
nella foresta, ma anche capace di mantenere un segreto.
-
Sei molto forte, Emma - le disse Galahad, avvicinandosi.
-
Grazie.
-
Un giorno anch’io imparerò a combattere e
diventerò un cavaliere, come mio
padre.
Emma
sorrise. Galahad, al momento, era uno dei paggi di re Artù.
Lui non doveva
nascondersi, quindi seguiva la normale educazione di tutti i futuri
cavalieri,
di tutti i figli di cavalieri. Anche se era nato da un’unione
illegittima,
Lancillotto l’aveva riconosciuto come figlio suo,
perciò Galahad veniva
istruito a Camelot, presso la corte del re. Ora era paggio, avrebbe
imparato a
stare in società e a cavalcare. Poi sarebbe diventato
scudiero a tutti gli
effetti e infine cavaliere, se avesse superato tutte le prove. Emma
pensava che
le avrebbe superate. Era sveglio e intelligente.
-
Hai anche una spada molto bella. Mi hanno detto che si chiama Narsil.
Che cosa
vuol dire?
-
Nar, il Fuoco, e Thil,
cioè la Luce Bianca.
-
É un nome veramente bello. Un nome forte, come dice sir
Gawain.
Emma
annuì.
-
Quando avrò la mia spada, le darò
anch’io un nome molto forte. Il nome... il
nome di qualche eroe, magari.
-
Troverai il nome adatto.
-
Stai bene qui, Emma? - le domandò Galahad, osservandola
mentre riponeva la sua
spada nel fodero.
Emma
aggrottò la fronte. - Perché me lo chiedi?
-
Perché tu non sei nata qui e mi chiedevo se stessi bene
comunque.
Esitò.
- Sì, certo. I cavalieri mi proteggono e mi trattano con
gentilezza. Mi
vogliono bene.
Ci
fu un attimo di silenzio.
-
Allora sei a casa. – aggiunse Galahad.
-
No, questa non è la mia casa. La mia casa è
Anatlon. È Snowing Castle.
-
Mia madre diceva sempre: dove c’è qualcuno che non
smette di pensare a te con
affetto, c’è la tua casa...
-
Ah, sì?
Galahad
annuì. I suoi occhi erano limpidissimi. Sembrava
più grande, mentre parlava. -
Non ho mai conosciuto mia madre, ma lei lo disse a mio padre. E lui
l’ha detto
a me.
Emma
pensò che fosse proprio una bella frase, ma che in ogni caso
non si adattava a
lei. La sua casa l’aspettava ed era il regno del sud. Ci
sarebbe tornata.
Doveva vivere nascosta, ma se era il prezzo da pagare per ottenere la
vendetta
allora l’avrebbe pagato. Certi giorni erano più
lunghi e difficili di altri.
Certe notti erano dure, erano piene di incubi... ma si era detta che
doveva
stringere i denti.
-
Lancillotto... – disse Emma, ad un certo punto.
-
Sì?
-
Posso domandarvi una cosa?
Lui
sorrise. – Quello che vuoi.
-
Avete più avuto notizie... dell’uomo che mi ha
salvata? Graham.
-
L’uomo cresciuto dai lupi? – Lancillotto
annuì. – Sì. A volte ci giungono delle
notizie, grazie alle spie di Artù. Il Branco di Graham
è diventato più grande
negli ultimi tempi.
-
Più grande?
-
Oltre a Graham, si sono aggiunte altre... persone. Intendo uomini come
noi.
Uomini che vivono con i veri lupi.
-
Chi sono?
-
Non lo sappiamo con certezza. Probabilmente disertori. Non conosciamo i
loro
nomi. Solo Graham li conosce. Immagino che lui si fidi di loro...
-
Voi non vi fidereste?
Lancillotto
sembrò rifletterci qualche istante. Sfiorò
l’anello che portava all’anulare
della mano destra, un dono di sua madre, la Dama del Lago. - No.
Potrebbero non
essere altro che mercenari. Dei voltagabbana pronti a tradire in
qualsiasi
momento il loro Alfa.
-
Alfa? – Emma era sempre più curiosa e perplessa.
Aggrottò la fronte.
-
L’Alfa è l’individuo che occupa una
posizione di dominanza rispetto agli altri
membri del Branco. Graham è l’Alfa del suo Branco.
Loro sono tenuti ad ascoltarlo.
Emma
si morse il labbro. – Vorrei rivederlo.
Lancillotto
le mise una mano sulla spalla. – Lo capisco. Ma i Lupi si
spostano spesso.
Viaggiano. Certo, ogni tanto Graham ritorna e sosta nella foresta di
Misthaven,
a ovest. È là che è cresciuto. Ed
è là che ha incontrato i primi uomini che si
sono uniti a lui.
Emma
non disse niente.
-
L’ultima volta che Artù ha avuto notizie di loro,
un paio di lune fa, erano nel
Lothian. Tuttavia... Non credo che si sia dimenticato di te, Emma. Un
giorno,
forse, tornerà.
Emma
si chiese se Graham fosse realmente al sicuro. Se potesse fidarsi
ciecamente
dei suoi nuovi compagni. Lui era stato cresciuto dai lupi, i lupi veri.
Le
avevano parlato di un lupo che lo seguiva spesso, grigio e bianco, con
gli
occhi di colore diverso. Era davvero sicuro che quelle persone fossero
oneste? Era
sicuro che l’avrebbero sempre ascoltato e rispettato in
quanto Alfa? Era
convinto che volessero vivere come lui, senza re o regine, senza
signori ai
quali rispondere?
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** 3. The Swan and the Panther ***
3
THE SWAN AND THE PANTHER
Nymeria.
Regno
di Mehlinus. Nord.
-
Bene. Ora mostratemi che cosa avete imparato. – disse il
consigliere Tremotino,
facendosi da parte per concederle lo spazio di cui aveva bisogno.
Un
cavallo stava venendo nella loro direzione. Regina lo vide avvicinarsi
velocemente, al galoppo. Si accorse che non era un cavallo, ma un
unicorno, un
bellissimo esemplare robusto e nero, selvatico e quindi difficilmente
domabile.
I suoi zoccoli calpestavano rami secchi e foglie, sradicavano cespugli,
sollevarono uno spruzzo d’acqua quando sprofondarono in un
torrente.
-
Immobilizzatelo, Maestà. – disse Tremotino.
Deglutendo,
Regina sollevò entrambe le mani e cercò la
concentrazione necessaria. Aveva fatto
progressi durante l’ultimo anno. Il consigliere si era detto
soddisfatto. Aveva
dovuto subire i suoi rimproveri quando non si concentrava abbastanza o
quando
un incantesimo non riusciva perché sbagliava le parole di
una formula. Ma
Regina si sentiva più forte. Anche quando usava la spada.
Ormai era diventato
facile maneggiare Stormbringer. I combattimenti contro Daniel erano
più
agguerriti. Non si lasciava più atterrare né
disarmare così facilmente.
L’unicorno
arrivò a pochi metri da lei e
s’impennò, nitrendo. Regina rivolse i palmi
aperti verso l’animale. E quello rimase là, ritto
sugli zoccoli posteriori, con
la criniera scura al vento e gli occhi neri come la notte che
sembravano
fissare proprio lei. Immobile. Circondato da una densa aura azzurrina.
Regina
sorrise. – Ce l’ho fatta.
-
Eccellente, mia cara, eccellente! – esclamò
Tremotino, ridacchiando e battendo
le mani. Il consigliere indossava una giubba in pelle nera, i suoi
inseparabili
pantaloni di pelle e gli stivali di cuoio. Il suo aspetto non cambiava
mai,
neppure di una virgola e a Regina sembrava sempre più
strano. – Cioè, volevo
dire... Maestà.
Regina
non disse nulla.
-
Adesso... andiamo avanti. C’è solo
un’altra piccola, piccola, piccola cosuccia
che dovete fare.
-
Ovvero?
-
Uccidetelo. – lo disse con lo stesso tono che avrebbe usato
per dirle: “montate
in sella e andate a farvi una bella cavalcata”.
Il
sorriso di Regina si spense e lei guardò Tremotino,
inorridita. – Cosa?
-
Uccidetelo. Con la magia, è chiaro.
Regina
abbassò lo sguardo su Stormbringer, nel fodero appeso alla
cintura. Poi sollevò
di nuovo gli occhi, confusa. – Ma...
-
É molto semplice. E molto rapido. – Tremotino
mostrò il gesto con la mano
destra. La ruotò, mimando un collo che viene torto fino a
spezzarsi. – Coraggio.
Uccidetelo.
Regina
guardò il cavallo, fermo davanti a lei. Levò una
mano, dapprima tenendola
stretta a pugno. Guardò ancora l’animale. Aveva la
bocca secca e il cuore che
scoppiava nel petto. Aveva imparato ad essere più dura, come
regina. Aveva
imparato a far rispettare le leggi, a punire chi le infrangeva,
qualunque fosse
il motivo. Ma uccidere... uccidere quell’unicorno...
ucciderlo così, per
niente...
-
Non posso farlo. È innocente. – mormorò
Regina, ritraendosi.
-
Nulla è innocente. – scandì Tremotino.
– Credete davvero nell’innocenza?
-
Io...
-
Ascoltatemi, Maestà: dovete dimostrarmi di essere in grado
di affrontare il
prossimo passo. Uccidere. Dovrete farlo e lo sapete bene. Ucciderete
con la
spada, ma Stormbringer non Vi basterà quando affronterete i
Blanchard. Loro
sono potenti. Sanno usare la magia e la useranno. Contro di Voi.
Dovrete essere
capace di rispondere. Dovrete essere capace di difendervi con il
potere. Dovrete
essere capace di uccidere. Loro non avranno pietà. Non
conoscono la pietà. – La
voce di Tremotino si era fatta bassa. Bassa, sgradevole, ma ipnotica.
–
Ricordate? David ha ucciso Vostro padre colpendolo alle spalle...
Regina
avrebbe voluto chiudersi le orecchie. La conosceva, quella storia.
Tremotino
gliel’aveva raccontata tante volte.
-
E hanno ucciso Cora. Se volete la Vostra vendetta, allora dovrete
uccidere anche
con la magia.
-
So quali sono le loro colpe, consigliere! Ma questo unicorno non ha
fatto nulla
di male.
-
Se non siete in grado di uccidere un dannato unicorno, allora non
sarete mai in
grado di togliere la vita ad un uomo. E perirete. Desiderate questo?
Credevo
che il Vostro desiderio fosse diventare più forte, in modo
tale da poter
affrontare i Vostri nemici ad armi pari.
-
E lo è, infatti!
-
Allora uccidetelo! Mostratemi che siete pronta per proseguire con il
vostro
addestramento – Tremotino le puntò contro il lungo
dito indice. – Se non
imparate ad usare quel potere non vincerete mai. Non avrete mai la
Vostra
vendetta! E cosa penserebbero di Voi? Cosa penserebbe Vostro padre?
Cosa
penserebbe Vostra madre? Loro non sarebbero fieri di Voi, Regina. Non
dimenticate chi siete: la sovrana di Mehlinus. Il regno ha bisogno di
una
regina forte. Ha bisogno di una regina che sappia combattere, oltre che
governare. Ha bisogno di una regina che non ha paura!
-
Non ne ho.
-
Invece ne avete. Altrimenti uccidereste questa bestia.
Regina
guardò l’unicorno.
-
Immaginate che l’unicorno sia un uomo. Immaginate che sia il
re di Anatlon,
colui che ha ucciso Vostro padre. Immaginate che sia la regina di quel
regno,
che è responsabile della morte di Cora. Siete orfana,
Regina. Siete orfana per
colpa loro! Non mi dite che intendete risparmiarli dopo tutto quello
che hanno
fatto?! Perché se lo farete... Loro non faranno lo stesso. E
per Mehlinus sarà
la fine. Sarà la fine per tutti noi.
Regina
alzò la mano destra e stavolta l’aprì.
Si concentrò sul collo dell’animale.
Tremotino si avvicinò lentamente, gli occhi spiritati pieni
di aspettativa.
“Siete
orfana per colpa loro. Non mi
dite che intendete risparmiarli dopo tutto quello che hanno
fatto?!”
“La
magia è potere...”
“Il
regno ha bisogno di una regina
forte. Ha bisogno di una regina che sappia combattere, oltre che
governare.”
-
Fatelo. – sussurrò Tremotino.
“Cosa
penserebbe Vostro padre? Cosa
penserebbe Vostra madre? Loro non sarebbero fieri di Voi,
Regina...”
“...Se
volete la Vostra vendetta...”
“Il
regno ha bisogno di una regina
forte...”
Regina
ruotò la mano di scatto. Il collo dell’unicorno si
spezzò. Il rumore orribile
dell’osso che si frantumava riverberò nel cervello
di Regina, che chiuse gli
occhi e inorridì. Il cavallo si schiantò sul
prato, emettendo un lungo sibilo.
Gli occhi neri rimasero aperti, a fissare il vuoto.
Poco
dopo, nel tornare verso Nymeria affiancata dal suo consigliere, Regina
rifletté
sull’accaduto. Aveva ucciso una bestia innocente. Un
unicorno. Un bellissimo
animale, che non le aveva fatto niente. L’aveva ucciso, come
le aveva chiesto
di fare Tremotino.
“Il
regno ha bisogno di una regina
forte...”
“Nulla
è innocente...”
Forse
Tremotino aveva ragione. Se non l’avesse fatto, non avrebbe
mai avuto il
coraggio di vendicare la morte di Cora ed Henry. Quando aveva spezzato
il collo
dell’animale aveva provato orrore, ma anche
qualcos’altro. Potenza. Sì. Si era
sentita potente, perché quella vita era nelle sue mani.
Aveva immaginato che
davanti a lei ci fossero i sovrani del sud. Aveva immaginato suo padre
colpito
alle spalle da David. Ed era stato normale... uccidere. Terribile, ma
naturale.
Perché, una volta in guerra con il nord, non avrebbe potuto
fare altro. Molte
persone sarebbero cadute. Tra quelle non poteva esserci lei, altrimenti
Anatlon
si sarebbe imposto sul nord. Avrebbe usato la magia, non solo la spada.
Avrebbe
usato la magia per difendersi. Come le aveva detto il consigliere, i
Blanchard
sapevano usare la magia e se non avesse risposto nello stesso modo ai
loro
attacchi non ne sarebbe uscita viva.
-
Tremotino.
-
Sì, Maestà?
-
C’è un’altra cosa che vorrei fare.
-
Che cosa?
Regina
si girò a guardarlo. Tremotino le rivolse un sorriso
compiaciuto.
-
Avete detto che il regno ha bisogno di una regina forte... Di una
regina che
non ha paura.
-
Assolutamente sì.
-
Allora è necessario iniziare a dimostrare quella forza.
-
Come? Alzando i tributi?
-
Ho bisogno di un simbolo che dimostri che il nord è forte.
Che il nord è potente.
Ci sto pensando da un po’, consigliere. Credo sia giunto il
momento di cambiare
lo stemma di famiglia.
Tremotino
sbatté le palpebre. – Lo stemma? Il melo?
Volete... Volete un nuovo stemma che
non sia il melo?
-
Sì.
-
Oh... – Il consigliere sembrò confuso. Il suo
sguardo si perse per qualche
momento. Ma si riprese quasi subito. – E a cosa pensavate,
come nuovo stemma?
-
Una pantera. Voglio una pantera nera.
Tremotino
sghignazzò. Nel corso della sua lunga vita aveva visto e
udito parecchie cose,
cose incredibili, assurde, spaventose, divertenti. Ma non ricordava di
un re o
di un signore che avesse preso la decisione di cambiare lo stemma di
famiglia. Regina
aveva il potere di sorprenderlo. – Ottima scelta. Una scelta
davvero
eccellente. La pantera è un predatore forte e aggressivo.
Che tutti temono.
Significa potere. Ma simboleggia anche... la magia. Il coraggio. La
resistenza.
È un animale ammirevole e meraviglioso. Come Voi, del resto.
Inizialmente
il consigliere aveva pensato che la sovrana avesse scelto, come nuovo
stemma,
il suo animale guida, ovvero il corvo. Quando Regina era molto piccola,
in
occasione del suo... sesto o settimo compleanno, Henry aveva
organizzato degli
spettacoli per allietare sua figlia e la corte. Oltre a giocolieri,
mangiafuoco,
acrobati, bardi e trovatori vari, c’era anche un uomo che
diceva di essere un
indovino. Aveva tutta l’aria di essere un ciarlatano, ma
aveva stabilito, dopo
aver letto la mano e lo sguardo di Regina, che l’animale
guida della futura
sovrana era il corvo. Tremotino era sicuro che la stessa Regina se lo
ricordasse benissimo, quel momento.
Ma
la pantera è la scelta perfetta.
Oh, sì, sì! Eccellente, mia cara Regina!
Foresta
di Rhun. Regno di Elohim.
Est.
-
Cambiare lo stemma? – esclamò Emma, sgranando
leggermente gli occhi
verdazzurri.
Agravain
annuì, torvo. – Sì, Emma. La Regina del
Nord intende cambiare lo stemma della
sua famiglia. Ha scelto la pantera. Una pantera nera.
-
Ne siete sicuri?
Gawain,
il cavaliere che era incaricato di proteggere ed allenare Emma quel
giorno,
sospirò. – Le spie di Artù sono molto
abili nello scovare informazioni. E non
mentono. Non mentono loro così come non mente Merlino. Ha
visto la pantera nei
suoi sogni.
-
Non mi sorprende affatto. Quella maledetta strega! –
gridò Agravain, gli occhi
verdi accesi di rabbia.
-
Secondo le tradizioni più antiche, la pantera è
un animale sacro. – disse
Gawain, le folte sopracciglia aggrottate. – Serve per mettere
in risalto l’importanza
e la nobiltà di una famiglia.
-
Nobiltà! – gridò Agravain, con la voce
grossa. – Quale nobiltà? Henry era il
re. Era di nobile lignaggio. Ma la moglie era una mugnaia! Lo sanno
tutti! E
poi l’attuale sovrana è tutto fuorché
nobile. Nemmeno una delle sue chiappe lo
è!
-
Agravain... – intervenne il fratello maggiore. Era sempre
saggio, Gawain.
Decisamente più maturo e meno impulsivo del fratello minore.
Sapeva sempre cosa
dire e lo diceva al momento giusto. La sua voce infondeva una certa
tranquillità,
anche quando era molto severa, come in quel momento.
-
Che? Emma sa benissimo ciò che penso. E credo che le sue
idee a riguardo non
siano molto diverse dalle mie.
-
Abbassa la voce comunque. E cosa ancora più importante...
modera il tuo
linguaggio.
-
È più preoccupante il mio linguaggio, fratello, o
una strega dannata che ha commesso
le atrocità che conosciamo?
Emma
non ascoltava più. Rifletteva.
Sapeva
benissimo quale fosse il significato di quel gesto. La regina di
Mehlinus stava
cercando di dimostrare la sua forza. Il suo potere. Stava dicendo agli
altri
regni di stare in guardia. La pantera era un animale bello e
pericoloso. Era un
animale oscuro. Era un predatore che incuteva timore nei suoi
avversari.
Non
ho paura, si
disse Emma. Non ne ho, Regina.
-
La pantera non batterà il cigno. – disse Emma,
risoluta. La sua voce non
sembrava quella di una ragazzina. Era la voce di un’adulta.
-
Come? – disse Agravain, sollevando un sopracciglio.
-
La pantera non batterà mai il cigno. – Emma
sfiorò l’elsa di Narsil. – La
pantera è un predatore. È forte. È un
simbolo di potere.
-
Non basterà uno stemma, Emma. – disse Agravain.
– Sono d’accordo. Può cambiare
stemma tutte le volte che vuole, quella strega. Resterà
sempre la responsabile
di ciò che è accaduto alla tua gente e ai tuoi
genitori. E non ci farà mai
paura.
-
Anche il cigno lo è.
-
Cosa, Emma? – domandò Gawain.
-
Un simbolo. Secondo le antiche leggende, è un simbolo di
forza e di coraggio.
Di... saggezza e di fedeltà. Me lo disse mio padre... un
tempo. – Emma si
rabbuiò. – So che aveva ragione.
-
Aveva ragione. – disse Gawain. Il cavaliere la guardava,
ammirato e con
infinito rispetto. La guardava come se avesse avuto dinanzi una regina.
– Il
cigno è anche simbolo di forza e coraggio, non solo di
purezza e di innocenza.
Il cigno non ha paura di niente. Nemmeno della pantera.
-
Io sono un cigno. Il mio nome è Emma Swan.
-
Il tuo nome è Blanchard. Che cosa signif...? –
cominciò Agravain.
-
Sì. Ma più di una volta mi avete detto che il re
è preoccupato. Mi avete detto
che questi luoghi hanno occhi ed orecchie. Mi avete detto che ogni
giorno che
passa diventa sempre più rischioso per me. È
giusto che usi un altro nome. Ed è
il nome giusto. Emma Swan. Il cigno... Come il simbolo della mia
famiglia.
I
due fratelli si scambiarono un’occhiata.
-
Emma Swan. Ammetto che mi piace. Sembra un nome forte. Come Narsil.
– osservò
Gawain.
Emma
non disse niente. Sorrise.
Agravain
era stupito a sua volta. Cominciava a rendersi conto che in quella
ragazzina
c’era molto di più di ciò che aveva
visto fino a quel momento. Non poteva
nemmeno considerarla una ragazzina. Non lo era più.
Appoggiò la mano destra
sull’elsa della sua spada, Varja, che significava diamante,
ma anche fulmine.
L’aveva chiamata così quando era diventato
cavaliere. Nell’elsa era incastonato
un piccolo diamante forgiato a Deep Valley, dov’era nato.
-
Noi siamo con il cigno. – dichiarò Agravain.
– Con il dragone e con il cigno. E sempre lo saremo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** 4. Your mouth can lie but your eyes can't hide ***
4
YOUR MOUTH CAN LIE, BUT YOUR EYES
CAN’T HIDE
Nymeria.
Regno di Mehlinus. Nord.
-
Sinistra! – gridò Daniel, incalzandola e menando
un colpo a sinistra.
Regina
lo parò.
-
Ora destra!
La
spada del maestro d’armi non colpì a destra, ma a
sinistra. La lama arrivò a
pochi centimetri dal suo collo. Non la toccò. La
sfiorò soltanto. Ma a Regina
bastò per sentirne il morso freddo.
-
Siete morta, mia regina. – disse Daniel.
Lei
abbassò Stormbringer. – Avevate detto
‘destra’.
-
Sì ed ora siete morta.
-
Avete mentito. Avete detto ‘destra’ e invece avete
colpito a sinistra! –
esclamò, sentendosi raggirata.
-
Non ho mentito. Ha mentito solo il mio braccio. E la mia lingua. I miei
occhi
non mentivano affatto. – Daniel abbassò la sua
arma, sorridendole.
-
I Vostri occhi...
-
Già. Voi non mi avete guardato. Non mi avete visto.
-
Vi ho guardato! Non vi ho perso di vista un istante.
-
Guardare non significa essenzialmente vedere, mia regina. –
La voce di Daniel
era gentile, nonostante la stesse rimproverando. –
É vedere, ciò che conta
davvero. Vedere è il vero segreto dell’arte della
spada. E Voi, un attimo fa,
non avete visto. Per questo è stato facile trarvi in
inganno. In battaglia
potrebbe succedere. Un avversario potrebbe cercare di ingannarvi. I
suoi occhi,
però, vi suggeriranno sempre la verità. Mentire
con gli occhi è più difficile. Se
riuscirete a vedere, lui non potrà sorprendervi.
Regina
lo fissava, ancora furibonda.
-
Coraggio, ricominciamo. – disse Daniel, mettendosi in
posizione per riprendere
il combattimento.
Iniziarono
di nuovo a combattere.
Daniel
si batteva tenendo il braccio sinistro dietro la schiena, come i
migliori
spadaccini. Non sembrava aggressivo, ma era abile, veloce e non si
lasciava
sorprendere facilmente.
Regina
fu molto aggressiva, invece. Le bruciava il fatto che il maestro
d’armi le
avesse detto che non sapeva vedere davvero. Le bruciava il fatto che,
dopo
alcuni anni di addestramento, ancora Daniel riuscisse a batterla, a
disarmarla.
Non voleva più che accadesse. Perché non era
più una bambina.
“Il
regno ha bisogno di una regina
forte. Ha bisogno di una regina che sappia combattere, oltre che
governare...”
Regina
avanzò e incalzò il maestro d’armi con
una serie di affondi e di fendenti. Anche
se il braccio le faceva male, continuò a menar colpi, alcuni
anche molto
rischiosi. Daniel seguitò a respingerla. Nei suoi occhi
azzurri passò una
scintilla di preoccupazione.
“Ha
bisogno di una regina che non ha
paura!”.
Regina
colpì forte. Il fendente sbilanciò Daniel, che
barcollò leggermente. Lei sferrò
un altro colpo. La lama sfiorò il braccio sinistro di
Daniel, lacerò la stoffa
della casacca e aprì un taglio superficiale nel braccio.
Regina fece roteare
Stormbringer sopra la testa del maestro d’armi, che si
piegò sulle ginocchia.
Allora Regina abbassò la spada. Un potente fendente
dall’alto in basso. Daniel
lo parò, ma lei fece forza con le braccia. Spinse, fino a
quando il viso del
maestro non si contrasse in una smorfia di dolore. Allentò
la presa sull’arma,
che cadde a terra. Regina gli appoggiò la lama sulla gola.
“Il
regno ha bisogno di una regina
forte...”
“La
magia è potere...”
Daniel
vide il lampo omicida che passò negli occhi della sovrana di
Mehlinus. Lo vide
chiaramente. E vide anche qualcos’altro. Le iridi che
cambiavano colore. Dal
nocciola ad un viola intenso. Fu un mutamento che lo
affascinò e lo inquietò. Il
potere magico scorreva nelle sue vene. Era un potere talmente grande
che lui
riusciva a vederlo ruotare nel suo sguardo.
Per
un istante Regina, pensando alle parole di Tremotino, fu tentata di
usare la
magia sul maestro d’armi per terrorizzarlo. Per punirlo per
ciò che aveva fatto
un attimo prima. Per fargli capire che la magia era veramente potere e
che lei
quel potere lo dominava, ormai.
Mehlinus
ha bisogno di me. Ha bisogno
che io sia forte.
Batté
le palpebre e ritirò la spada, rimettendola nel fodero in
pelle nera. Daniel si
alzò.
-
Vi ho sconfitto. – osservò Regina, soddisfatta.
-
Sì, Maestà. Mi congratulo. Siete stata molto
abile.
Daniel
pensava che la Regina che conosceva lui fosse stata relegata in un
angolo della
mente. La giovane donna che gli stava di fronte era una donna con lo
sguardo
carico di ombre, una donna che rischiava di cadere preda
dell’oscurità per
colpa delle macchinazioni di quell’essere mostruoso.
Tremotino. Il segnale che
il cambiamento era radicato era costituito dal fatto che avesse deciso
di
sostituire lo stemma di famiglia, il melo, con una nuova immagine, la
pantera
nera con le fauci spalancate, un animale pericoloso, aggressivo oltre
che
bellissimo. Anche il popolo aveva paura della sua regina. La sovrana
era diventata
più dura, più esigente, decisamente
più autoritaria negli ultimi tempi. Era
stata una trasformazione... lenta. Ma inesorabile.
Daniel
si rammaricava di non poterla aiutare. Lui era solo un maestro
d’armi, il suo
compito era insegnarle ciò che sapeva sull’arte
della spada. Se avesse cercato
di interferire, Regina non gliel’avrebbe permesso, non
più. Tremotino avrebbe
fatto in modo che i suoi tentativi andassero a vuoto. Il consigliere
era
altrettanto potente.
Non
cedere, Regina, pensava
Daniel. Non cedere. Non dare retta a
quell’essere. Non sei così. Puoi essere diversa.
Lo so. Ti conosco.
-
Cos’avete da guardare, Daniel? – domandò
Regina, aggrottando la fronte.
-
Nulla, mia regina. Volete continuare?
-
Certamente. La ferita vi fa male?
Daniel
guardò il taglio sul braccio. Scosse la testa. –
Niente di grave. Più tardi la
medicherò.
Foresta
di Rhun. Regno di Elohim.
Est.
-
Come hai fatto a capire che stavo per colpirti a destra e non a
sinistra, come
ti avevo detto? – domandò Agravain, gettandosi i
capelli dietro le spalle con
un gesto della mano e andando a recuperare il suo mantello verde, sul
quale era
impresso il drago d’oro dei Pendragon. Se lo legò
alla base del collo,
appuntandovi una spilla, che invece era a forma di serpente, il simbolo
della
sua famiglia d’origine e del Lothian.
-
Dagli occhi, sir Agravain. – rispose Emma, sorridendo.
-
Dagli occhi, eh?
-
Mio padre, una volta, mi disse che mentire con la lingua è
facile. Ma con gli
occhi è molto più complicato.
-
Già. È così. In generale, comunque,
non sono un bravo bugiardo.
Emma
aveva quasi sedici anni e stava diventando sempre più bella.
Portava i capelli
lunghi e ondulati legati con un laccio quando combatteva. I suoi occhi
erano
verdazzurri, decisi e sinceri. Era dotata di una forza notevole. Si
muoveva
bene, in modo fluido mentre impugnava la sua spada. Era anche veloce. E
Agravain
ora aveva scoperto che sapeva vedere davvero.
In battaglia sarebbe stato difficile ingannarla.
-
Avete un nuovo cavallo, sir Agravain? È molto bello.
– osservò Emma, guardando
il destriero bianco del cavaliere, che attendeva placidamente vicino ad
un
salice piangente.
-
Non è mio, Emma. È tuo.
-
Mio? – Lei aggrottò la fronte.
-
Si chiama Maximus. È un dono di Artù. Il re mi ha
chiesto di mostrartelo.
-
Perché... perché il re mi ha fatto questo regalo?
-
Sei una principessa. E un giorno sarai anche un cavaliere. Ogni
cavaliere ha
bisogno di un cavallo che si adatti alla sua persona.
Emma
si avvicinò al cavallo, che la fissò
tranquillamente, agitando un po’ la testa.
Lo accarezzò sul muso e poi sulla folta criniera bianca.
-
Maximus...
-
Vuoi provare a montarlo, Emma?
Lei
annuì e sir Agravain le mostrò come inserire il
piede nella staffa nel modo
giusto e come montare in sella. In realtà le venne naturale.
Quando salì in
groppa, il cavallo emise un lieve sbuffo. Emma sorrise, afferrando le
briglie.
-
Credo sia perfetto per te. – commentò Agravain.
– Sei una cavallerizza nata.
-
Grazie.
Agravain
le fece vedere come far muovere in avanti il cavallo e come fermarlo.
Poi la
seguì, mentre lo conduceva lungo i sentieri della foresta.
Poco prima di
giungere ad un torrente, il cavaliere le disse di scendere da cavallo e
di
aspettare. C’erano due donne, vestite da contadine, con uno
scialle azzurro sul
capo, che stavano riempiendo alcuni secchi d’acqua e intanto
cantavano:
Io
sono la Dea Madre
adorata
da tutto il creato
ed
esisto da prima della creazione
del mondo.
Io
sono la forza femminile
primordiale,
senza
confini ed eterna.
Io
sono la Dea della Luna,
la
Signora di tutta la magia.
I
venti e le foglie intonano il mio
nome.
Io
porto la falce di luna sulla
fronte
e
i miei piedi riposano tra i cieli
stellati...
Emma
ebbe la netta sensazione di essere osservata. Non dalle due donne. Loro
non
potevano vederla. Ma da qualcos’altro. Qualcun altro.
Si
voltò di scatto verso la foresta, una mano
sull’elsa della spada. Non c’era
nessuno.
“Io
porto la falce di luna sulla
fronte e i miei piedi riposano tra i cieli stellati”.
Pochi
istanti dopo la sensazione scomparve.
Quando
le donne videro Agravain sussultarono ma, riconoscendolo come un
cavaliere del
re Artù, gli sorrisero e chinarono il capo in segno di
rispetto. Agravain parlò
con loro per qualche istante, poi le donne se ne andarono, trasportando
i
secchi colmi d’acqua.
Emma
uscì allo scoperto. – Cosa avranno pensato
vedendovi qui?
-
Oh. Nulla di preoccupante. Avranno pensato che mi fossi nascosto nella
foresta
con qualche fanciulla.
Agravain
era conosciuto anche per il successo che aveva con le donne. Era stato
sposato,
ma la moglie era morta un paio d’anni prima, dando alla luce
il secondo figlio
del cavaliere.
-
Quella era una canzone per la Dea, vero?
-
Una canzone per la Grande Madre, venerata ad Avalon e nelle terre di
Artù.
-
Voi siete mai stato ad Avalon, sir Agravain?
Lui
batté le palpebre. – Oh. Solo due volte.
Emma
si bagnò le mani e le braccia nelle acque del torrente.
Anche Maximus chinò la
testa per bere.
-
Com’è Avalon, sir Agravain?
Breve
esitazione. Sembrava non fosse molto sicuro di ciò che aveva
visto. - Molto più
grande di come me l’aspettavo. E... molto verde. Con tanti
alberi di mele.
-
È vero che è l’Isola delle Fate?
-
Beh, io non ho visto nessuna fata. Ma la magia che vi dimora
è molto potente.
La protegge. È necessario passare attraverso le nebbie per
raggiungerla. E
nessuno riesce a farlo, a meno che le sacerdotesse non lo vogliano.
Emma
restò in silenzio, pensierosa. Anche a lei sarebbe piaciuto
vedere la
leggendaria Avalon, almeno una volta. Aveva ascoltato un sacco di
storie su quella
terra e sulle sacerdotesse e i druidi che l’abitavano. Molte
di queste storie
gliele aveva raccontate Merlino, che era nato ad Avalon e ci era
vissuto fino a
quando Uther Pendragon non era salito al trono. Allora aveva deciso di
seguirlo
a Camelot, diventando il suo consigliere.
-
Ho l’impressione che tu voglia chiedermi qualcosa, Emma. Se
hai delle domande,
fai come me. Falle sempre. – Agravain bevve un sorso
d’acqua e si bagnò la
faccia. – Quando ero piccolo, mio padre non sentiva altro che
come, quando,
cosa e perché. I suoi scapaccioni non servivano. Io non sono
tuo padre né ti
darei mai uno scapaccione... ma ascolto volentieri le domande.
Emma
esitò ancora un istante. Ma era curiosa. -
Com’è la Somma Sacerdotessa?
-
Morgana. – Agravain sorrise. – Sai, tutti mi
chiedono di Morgana. Non osano
chiedere al re, ovviamente.
-
Dicono che sia bella e molto potente.
Calò
il silenzio mentre Agravain piluccava una mora. Quando anche
l’ultimo granello
sparì fra le sue labbra, sembrò trovare le parole
giuste. – I bardi dicono
così. Dicono che sia bella come una Dea e che nessuno
oserebbe mai sfidarla.
Dicono che abbia posseduto la Vista fin da bambina. E i bardi molto
spesso
esagerano. Ma non questa volta.
Emma
non riusciva ad immaginarsela. Si chiese se un giorno
l’avrebbe incontrata.
-
Forse è meglio tornare, Emma. – suggerì
Agravain.
-
Sì, va bene. Combattiamo ancora un po’.
-
Non sei stanca?
-
No. E Voi?
-
Io! – Agravain rise. – Io non sono mai stanco
quando si tratta di combattere.
Combatterei anche tutto il giorno. Andiamo.
***
NB:
Preciso che gli allenamenti di Regina con Daniel sono ispirati alle
lezioni di
danza di Arya Stark e Syrio Forel.
Grazie,
come sempre, a tutti i lettori di questa storia. :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** 5. Make a Wish ***
5
MAKE
A WISH
Vicino
a Nymeria. Regno
di Mehlinus. Nord.
-
Tu hai risvegliato il potente Genio di Agrabah! –
declamò l’uomo con il
turbante rosso, allargando le braccia. – Esaudirò
tre desideri. Non uno in più,
non uno in meno. Ma sappi che la magia ha i suoi limiti.
-
Genio? Agrabah? – Il ragazzino con i capelli neri, che
avrebbero anche avuto
bisogno di una bella lavata, così come i suoi vestiti,
fissò lo strano uomo,
stringendo la lampada dorata che aveva trovato abbandonata nella melma,
sulle
rive del fiume Acheron. Ci era andato per riempire i secchi
d’acqua e portarli
a casa, in modo che sua madre potesse cucinare e i suoi fratelli
potessero
lavarsi. Suo padre – l’uomo che gli aveva fatto da
padre - non c’era più da
tempo, perciò toccava a lui, che era il più
grande. Mentre si preparava a
riempire uno dei secchi, aveva notato lo scintillio
dell’oggetto. Era bastato
sfregarlo perché ne uscisse un uomo con la pelle olivastra,
preceduto da una
nube nera.
-
Proprio così, ragazzo. E ricordati che una volta espresso,
un desiderio non si
può ritirare, che questo ti piaccia oppure no. –
Il Genio piantò le mani sui
fianchi. Aveva l’aria annoiata, la stessa aria di chi aveva
fatto e detto le
stesse cose più e più volte. – Allora,
qual è il primo desiderio?
Smarrito,
il ragazzino lo guardò con gli occhi sbarrati. –
Da dove vieni?
-
Questo non è un desiderio. – osservò il
Genio. – Te l’ho detto. Da Agrabah. È a
est.
-
Il regno di Artù?
-
Artù? Ma certo che no. Molto più a est.
Scosse
la testa, confuso. – Non c’è niente
più a est. Ci sono le Terre Ignote e
nessuno ci va. Nessuno ci va e nessuno ritorna, se ci va.
Il
Genio roteò gli occhi. – Già.
È così. Ma vogliamo sbrigarci? Qual è
il tuo
desiderio?
Il
bambino si morse il labbro. Aggrottò la fronte.
C’erano tante cose che avrebbe
potuto desiderare. La felicità per sua madre. Che suo padre
ritornasse a casa,
sempre che non fosse morto. Abbassare i tributi. La regina aveva
imposto delle
tasse esorbitanti e non era giusto.
-
Sta attento. Ci sono cose che non si possono chiedere. La morte,
l’amore...
-
Oh, no, non voglio uccidere! – esclamò.
– Solo che... non so che cosa
desiderare. Ci sono tante cose. È difficile. Sai, mi
piacerebbe desiderare le
felicità per le persone che mi vogliono bene. Ho due
fratelli e mio padre se
n’è andato... non è mio padre, in
realtà. Il mio vero padre non ne vuole sapere
di me. Per lui sono solo un bastardo.
Il
Genio emise un lungo sospiro. Si trascinò fino a un tronco
caduto e si sedette
pesantemente. Il bambino prese posto di fronte a lui.
-
Tu non mi sembri tanto felice, però. Eppure sei un Genio.
-
Oh. Lo sono diventato moltissimo tempo prima che tu venissi al mondo.
– ammise.
- Essere un Genio... non è magico come sembra.
-
Non ti piace esaudire i desideri?
-
Certo che no. Ogni desiderio ha un prezzo e spesso... il prezzo da
pagare è
molto caro.
-
Quindi... tu vuoi essere libero?
Il
Genio scrollò le spalle. Aveva un’aria rassegnata,
triste, di chi non si
aspetta niente. – Più di ogni altra cosa.
-
Allora è facile. Conosco il primo desiderio.
-
Bada. Ho esaudito mille e uno desideri da quanto sono diventato un
Genio. E li
ho visti finire male tutti, tutti si sono trasformati in una
maledizione. –
Sorrise a quel bambino. Non aveva mai avuto un padrone così
piccolo. Erano
tutti adulti. Erano giovani o vecchi, ricchi, poveri, belli, schiavi,
donne e
uomini. Ma nessuno era così piccolo, con due occhi
così sinceri e l’aria di chi
non aveva visto nulla del mondo tranne il posto in cui era nato e i
visi dei
propri fratelli. Se avesse desiderato il ritorno del padre adottivo,
lui
sarebbe tornato, ma quel ritorno avrebbe potuto portare solo guai. Se
avesse
desiderato una vita piena e felice per sua madre e i fratelli, avrebbe
avuto
ciò che aveva chiesto, ma ci sarebbero state delle
conseguenze. - Purtroppo... come
ti ho già detto, ogni desiderio ha un prezzo.
-
Come la magia. – disse il bambino. – In tutte le
storie che ho sentito, la
magia ha un prezzo. La regina la sa usare. Però penso che il
mio desiderio non
sia così male. Io... desidero che tu sia libero.
Agitò
la lampada, anche se immaginava che non ce ne fosse bisogno.
Il
Genio non credette alle sue orecchie. I bracciali dorati fissati ai
suoi polsi
si aprirono e caddero sull’erba. Scomparvero prima ancora che
potesse battere
le palpebre. Polvere. Polvere che venne trasportata via dal vento.
-
Questo è... sono finalmente libero? Lo sono davvero?
-
Non so bene. – disse il bambino. - Tu sei il Genio. Pensi che
abbia funzionato?
Lui
sorrise. – Oh, sì. Credo proprio di sì.
Ma restano ancora due desideri. Che
cosa ne farai?
-
Beh... ne dono uno a te. Ecco, desidero donare a te il terzo desiderio.
– Gli
restituì la lampada. L’oggetto aveva perso un
po’ della sua lucentezza, come se
la libertà del Genio avesse cambiato anche il valore di
quella prigione in cui
era stato rinchiuso.
Il
Genio prese la lampada. – Ne sei sicuro? Ci sono tante cose
che potresti
desiderare. Hai detto che il tuo vero padre non vuole saperne di te.
Non
vuoi... che abbia ciò che si merita? Non la morte,
ovviamente. Potrebbe...
perdere tutto quello che ha, ad esempio.
-
Non servirebbe. – Scrollò le spalle. –
Non mi amerebbe comunque e non gli
importerebbe di mia madre. È un lord. Mia madre, invece,
è solo una levatrice.
-
Si tratta della tua ultima parola?
Il
bambino annuì vigorosamente.
-
D’accordo. Ma non userò mai il desiderio che
c’è qui dentro. È troppo
pericoloso. – Mise la lampada nella sacca di cuoio che
portava agganciata alla
pesante cintura. – Piuttosto, dimmi... hai parlato di una
regina. Dove siamo
esattamente?
-
Siamo a Nymeria, nel regno di Mehlinus. Andiamo, ti porto in
città.
Il
Genio appoggiò una mano sulla testa del ragazzo, non sapendo
come ringraziarlo,
ma augurandosi che nessuno di quei desideri si ritorcesse contro di
lui.
I
soldati non erano come il suo piccolo padrone. Chiusi nelle loro
armature nere,
sollevarono la celata dell’elmo nello stesso istante,
piantando sul Genio
sguardi diffidenti. Uno mise mano all’elsa della spada, anche
se si accorse
subito che lo straniero non aveva armi. Però indossava una
casacca con rifiniture
dorate, certamente di ottima fattura, un paio di pantaloni di un
arancione
brillante, larghi, ma più stretti intorno alle caviglie, le
scarpe a punta e il
turbante rosso. Il suo accento non lo aiutò. Quello non era
un accento del nord
e quegli abiti erano decisamente insoliti.
-
Che cosa hai lì, ragazzo? – domandò il
soldato.
-
Secchi d’acqua. Sono già in ritardo. Mia madre mi
sta aspettando. Abito accanto
alla casa del venditore di spezie.
-
Certo. Dimmi la verità, chi è
quest’uomo?
-
L’ho conosciuto vicino al fiume. Ci vado ogni giorno.
È un Genio.
-
Oh, un Genio?
Il
Genio si intromise, sollevando una mano. – Lasciate stare
questo bambino. Lui
non ha fatto nulla di male. Mi ha solo trovato.
-
Capisci bene la nostra lingua. – L’altro soldato
tolse la mano dall’elsa, ma
prese l’uomo per un braccio e gli impose di avanzare.
– Bene. Meglio così.
Quando apparirai davanti alla regina potrai spiegarti da solo.
-
La regina?! – Il ragazzo si spaventò parecchio.
Lasciò cadere un secchio,
rovesciando l’acqua, ma non se ne curò.
– No, lui non è un ladro.
-
Non preoccuparti per me, ragazzo. – disse il Genio. Anche lui
portava un
secchio. Si era offerto di aiutarlo, dato che lo aveva liberato. Lo
posò a
terra. – Torna a casa da tua madre, prima che si preoccupi.
-
Sì, ragazzo. Fila via. – disse il soldato che
tratteneva il Genio. – Non so che
cosa sia questa storia, ma ti conviene svignartela. Ci pensiamo noi.
Il
palazzo della regina di Mehlinus era enorme e nero come la notte. Le
torri
svettavano minacciose verso il cielo grigio e lo stendardo ondeggiava,
sbatacchiato dal forte vento.
Il
Genio riconobbe una pantera con le fauci spalancate. L’ultima
volta che aveva
visto un simile animale non era ancora diventato Genio. Era successo
così tanto
tempo prima che sembrava un sogno. Così come sembrava un
sogno la sua libertà. Il
suo salvatore se n’era andato di malavoglia, trasportando i
due secchi d’acqua
che gli erano rimasti. Era solo un bambino, era molto magro, ma nessuno
si era
offerto di aiutarlo.
Non
aveva una bella sensazione. Aveva capito di essere lontanissimo da
casa, molto
più lontano dell’ultima volta che aveva esaudito i
tre desideri del proprio
padrone. Comprendeva la lingua, anche se alcune parole gli sfuggivano
inesorabilmente. Era stato in molti posti e aveva imparato molte lingue.
E
forse era quello il prezzo della sua libertà. Sarebbe durata
poco o sarebbe
morto presto, dopo averla assaporata solo per un breve istante.
-
Vostra Maestà. – sentenziò la guardia.
I due che lo scortavano si
inginocchiarono subito davanti alla donna appena scesa da cavallo.
Erano in un
grande cortile. Ogni uomo era impegnato in
un’attività diversa. Chi lucidava le
armi, chi si occupava del destriero della sovrana, chi stava rimestando
il
magazzino con le scorte di cibo.
-
Che cosa succede? – domandò la donna, usando un
tono seccato. Si girò,
osservando i suoi uomini.
Era
una donna giovane, ma aveva un aspetto molto regale ed era come se lo
avesse
sempre posseduto, quell’aspetto. Come se fosse nata per
essere regina. Indossava
una lunga pelliccia bianca per proteggersi dal rigido autunno del nord.
I suoi
grandi occhi scuri lo scrutarono con curiosità e
perplessità, ombreggiati da
lunghe ciglia. Erano occhi duri, ma anche stranamente caldi in netto
contrasto
con il freddo che imprigionava Nymeria.
Era
come un’apparizione, di una bellezza oscura e forte. La
guardò, estasiato.
-
In ginocchio al cospetto della regina, barbaro! –
gridò un soldato. Gli diede
una possente spinta e il Genio cadde subito in ginocchio e giunse
persino le
mani.
-
Perdonatemi, Maestà. I miei ossequi. –
mormorò il Genio, alzando appena lo
sguardo.
La
regina lo osservò dall’alto, con un sorriso appena
accennato.
Foresta
di Rhun. Regno di
Elohim. Est.
L’autunno
stava per cedere il passo all’inverno. Il freddo diffuse la
sua foschia su
Elohim, il mare che Artù vedeva dalle finestre della sua
stanza era grigio,
spesso onde burrascose si infrangevano contro gli scogli.
Emma
vedeva sprazzi di cielo tra i rami intricati della Foresta di Rhun.
Voleva
vedere di più. Voleva udire da vicino il rumore del Mare
Orientale. Voleva
guardare le onde. Voleva vedere delle facce nuove. Sentire delle voci
nuove. Mentre
combatteva, aveva la mente altrove e si lasciava sorprendere. Oppure
combatteva
con molta foga, rischiando di farsi male e stancandosi presto.
La
sua irrequietezza era evidente ai cavalieri che la proteggevano. Solo
che le
loro parole non la tranquillizzavano affatto.
-
Quindi domani andrai a Corbenic. – disse Emma, un mattino, a
Galahad. Il
ragazzo era venuto a salutarla, dato che non lo avrebbe visto per molti
giorni.
-
Sì. Sembra che mio nonno sia diventato un po’
più buono e voglia parlarmi. Così
potrò vedere dove sono nato e dov’è
nata mia madre.
Almeno
lui poteva ancora vederlo, quel posto. Poteva ancora tornarci.
Lancillotto lo
avrebbe portato tutte le volte che glielo avesse chiesto. Il signore di
Corbenic, che tanto aveva disprezzato Lancillotto per essersi
innamorato di
Elaine e aver generato un figlio con lei, era persino diventato un uomo
più
magnanimo. Quando Lancillotto si era proposto come sposo di Elaine, il
lord lo
aveva rifiutato, avendo già promesso la figlia ad un altro
uomo ben più anziano
di Lancillotto. Tuttavia non era riuscito ad impedire che si amassero
comunque.
-
Fammi venire con te.
Galahad
la fissò, pieno di sconcerto. – Con me? Ma non
posso...
-
Domandalo a tuo padre. Starò attenta.
-
Non puoi uscire dalla Foresta di Rhun. È pericoloso.
Emma
strinse le labbra e anche l’elsa della spada. Una parte di
lei sapeva benissimo
quanto fosse pericoloso. Sapeva benissimo che poteva accadere qualunque
cosa,
che c’erano persone che avevano occhi e orecchie ovunque.
Eppure c’erano giorni
in cui non sopportava di dover restare in quella foresta.
Poco
dopo, Lancillotto si presentò da lei. Galahad non
c’era, ma era chiaro che aveva
parlato con suo padre.
-
Portatemi con Voi. Sarò prudente. Merlino potrebbe aiutarmi
e occultare il mio
aspetto con una magia. – Guardava il cavaliere dritto negli
occhi. Voleva
dimostrargli che non aveva paura.
-
Non posso farlo, Emma. – Sembrava davvero rammaricato, ma la
sua voce era ferma
e solida come una roccia. - Ci sono maghi anche a Corbenic.
Avvertirebbero la
magia e potrebbero pensare che tu sia una minaccia. Non saprei nemmeno
come
giustificare la tua presenza.
-
Potrei spacciarmi per una serva.
-
Tu sei una principessa. Sei l’erede di Anatlon. Non puoi
travestirti da serva.
Inoltre, non posso disobbedire al re.
-
Dì al re che sono io che te l’ho chiesto.
-
Non approverebbe, Emma. Sai perché ti trovi qui. Capisco che
tu voglia...
-
No, non capite! – gridò Emma. Non aveva mai alzato
la voce in presenza di un
cavaliere di Artù. Era sempre stata molto rispettosa, ma non
riuscì più a
trattenersi. Esplose. – Voi non capite perché non
passate il Vostro tempo in
una foresta. Avete visto cosa c’è là
fuori, avete visto molti posti, siete stato
d’aiuto a molte persone, io invece... non posso andare in
nessun posto,
cavaliere! Sono prigioniera!
Lancillotto
era sbalordito. Sapeva quanto Emma fosse tenace, ma quella,
più che tenacia,
sembrava disperazione. – Emma, ti imploro di credermi. Non
sei prigioniera.
Come puoi pensarlo? Noi siamo qui per proteggerti. Quello che vuole il
re è che
tu sia al sicuro fino a quando non arriverà il tuo momento.
È quello che ha
promesso anni fa. È quello che vorrebbe tuo padre.
-
Non parlate di mio padre!
Il
cavaliere tacque, tormentandosi l’anello.
Non
c’era nient’altro che potesse fare; era chiaro che
il re non avrebbe mai
permesso una cosa simile e nessuno dei cavalieri avrebbe disobbedito a
un
ordine di Artù. Con il viso che scottava, in quanto sapeva
che rivolgersi in
quel modo ad un cavaliere era sbagliato, Emma gli voltò le
spalle. Aveva gli
occhi pieni di lacrime, ma non avrebbe mai pianto davanti ad uno dei
suoi
protettori.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** 6. Fire, Snow and Darkness ***
6
FIRE,
SNOW AND DARKNESS
Nymeria.
Regno di Mehlinus. Nord.
Nevicava.
Da tre giorni, ormai.
Gli
inverni, nel regno del nord, erano terribili. Nevicava a volte anche
per molti
giorni consecutivamente. Una neve fitta, che cadeva giorno e notte,
senza posa,
senza requie e senza pietà. I tumuli bianchi riempivano i
vuoti tra le
merlature delle fortificazioni e davano la scalata alle mura nere del
castello.
Bianche e pesanti coperte calavano sui tetti di ogni casa. Gli uomini
di
guardia, non appena terminavano il loro turno per lasciare il posto ad
altri,
andavano ad ammassarsi nelle torrette per scaldarsi vicino ai bracieri
ardenti.
Eppure i postulanti, più che mai desiderosi di ottenere
udienza, attendevano il
loro turno, ordinati, infagottati dalla testa ai piedi.
Daniel,
il maestro d’armi, entrò nell’enorme
sala del trono del castello di Nymeria e
si accorse subito che alcune cose erano cambiate: c’era un
arazzo in più, sul
quale era rappresentata la fondatrice della capitale di Mehlinus con la
spada
levata verso il cielo mentre intorno a lei giacevano i barbari.
C’era un arazzo
simile anche nella stanza di Regina, che aveva sempre ammirato e
adorato le storie
legate alla regina guerriera del nord.
Per
quanto riguardava l’attuale sovrana, lo guardava e gli
sorrideva, seduta su un
divanetto foderato di pelliccia, davanti al fuoco che scoppiettava
vivacemente.
Poco più in là, in piedi vicino al trono, il
consigliere Tremotino si rimirava
le unghie, come se ciò che stava accadendo in quella stanza
non fosse affar
suo. Ghignava, esponendo i suoi orribili denti marci. Qualche mese
prima era
stato proprio Tremotino a venire da lui per comunicargli che le lezioni
erano
finite. Regina, d’ora in avanti, intendeva allenarsi da sola.
Era diventata
brava, in effetti. Daniel non era sorpreso. Tuttavia gli dispiaceva non
vederla
più così spesso come prima.
-
Ben arrivato, Daniel. – disse Regina.
Ah.
Per tutti gli dei. Gli
sembrava di non conoscere affatto la donna che gli stava di fronte.
Comunque
si inginocchiò e chinò il capo. – Mia
regina...
-
Immagino che Vi starete chiedendo quale sia il motivo di questa
convocazione.
Daniel
sollevò lo sguardo. Gli occhi nocciola di Regina erano messi
in risalto da una
mano di trucco scuro. Le labbra erano rosse come mele mature e piegate
in un
vago sorriso arrogante. Gli orecchini mandavano barbagli di luce
bianca, come
il ciondolo con il vecchio simbolo del regno, il melo, che portava al
collo. Il
suo corpo era chiuso in un lungo abito di seta color porpora con le
maniche
bordate d’argento. In mezzo a tutto questo non poteva mancare
la sua spada,
Stormbringer, riposta nel fodero in pelle nera posato vicino a lei.
-
Sì, io stavo... – iniziò Daniel.
-
I Vostri insegnamenti sono stati molto utili, maestro d’armi.
Per questo ho
deciso di ricompensarvi.
-
Non desidero alcuna ricompensa, mia regina. È stato un
piacere e un onore per
me insegnarvi ciò che so.
-
Daniel... non fare il modesto.
Aveva
lasciato perdere la forma di cortesia. Regina non poté non
notare che il
maestro d’armi aveva serie difficoltà a guardarla
negli occhi. Una volta ciò le
sarebbe dispiaciuto. Perché si era sentita legata a Daniel.
Si sentiva ancora
legata a lui, in qualche modo. Ma aveva imparato ad apprezzare il fatto
che la
gente abbassasse lo sguardo davanti a lei.
-
Sono serio. Non desidero ricompense.
Tremotino
gli lanciò un’occhiata divertita.
-
Ho intenzione di nominarvi comandante del mio corpo di guardia.
– Regina era
passata di nuovo al Voi, quasi si fosse resa conto che era
più consono
mantenere le distanze. Si alzò in piedi, muovendosi con la
grazia e l’eleganza
di una predatrice.
-
Ne avete già uno.
-
No. Si è ritirato. Era un uomo anziano, ormai. Voi, invece,
siete ancora
giovane. E siete un ottimo spadaccino.
Daniel
pensò febbrilmente. Diventare il comandante significava
proteggere la regina ma
anche eseguire i suoi ordini. Qualsiasi ordine. Frustare un
prigioniero.
Condurlo davanti alla forca. Guardarlo morire. Avrebbe dovuto eseguire
e basta.
Significava addestrare altri uomini. E nel caso in cui la regina fosse
stata
assente, gli sarebbe toccato ricevere ordini da Tremotino. Era sicuro
che vi
fossero altri uomini ben più capaci e più vecchi
di lui che sarebbero stati
onorati di accettare quel ruolo.
-
Ma io... non sono un nobile, mia regina. La mia è una
famiglia di stallieri ed
io... sono un umile maestro d’armi.
-
Mi state dicendo cose che già so, Daniel.
-
Mia regina...
-
Vi conviene accettare, Daniel. Non rifarò una seconda volta
la stessa offerta.
E il Vostro rifiuto mi offenderebbe. – La voce di Regina si
era fatta più
severa. Il sorriso arrogante era ancora al suo posto. Ormai era a pochi
passi
da lui e Daniel percepiva tutto il peso del suo sguardo.
A
Tremotino sfuggì una risatina sibilante.
Mostro,
pensò
il nuovo comandante. È colpa tua.
-
Maestà, non è mia intenzione offendervi.
È un pensiero molto generoso. Semplicemente
non me lo aspettavo. Accetto. E Vi ringrazio. – disse Daniel.
Che altro avrebbe
potuto dire? Aveva scelta?
Regina
era più che soddisfatta. Si avvicinò
ulteriormente e gli appoggiò una mano sul
petto. - I miei fabbri stanno preparando una spada e
un’armatura per Voi.
Andate da loro. Vi aspettano. Le mie guardie sono già state
informate.
Daniel
si profuse in un altro breve inchino, dopodiché si
avviò verso l’uscita,
sentendosi la testa molto più pesante rispetto a quando era
entrato. Non solo
perché non si aspettava una simile nomina, ma anche
perché il cambiamento
avvenuto in Regina era terrificante. Era una donna bellissima, eppure
era una
bellezza oscura, che non si limitava ad attrarre, ma incuteva un vero e
proprio
terrore.
-
Comandante. – lo richiamò Regina.
-
Sì, Maestà?
-
Non deludetemi.
Le
porte della sala del trono si chiusero subito dopo, dietro le spalle di
Daniel.
-
Potete averlo, se lo desiderate. – disse Tremotino, dopo
qualche attimo di
silenzio, mentre la regina si soffermava ad ammirare l’arazzo
che aveva fatto
preparare appositamente per la sala del trono.
-
Come?
-
Il maestro d’armi. Potete averlo. Vi basta una parola.
Verrà. – Tremotino
sorrideva.
-
Vi ricordo che Daniel da oggi in avanti è il comandante del
mio corpo di
guardia, non solo il maestro d’armi. – gli fece
notare Regina. – In secondo
luogo di che cosa state parlando? Spiegatevi.
-
Mi spiego subito. Non potete averlo come marito. Questo no. Anche
perché sapete
bene che è di lignaggio troppo basso.
-
Infatti lo so.
-
Certo, lo era anche Vostra madre, se mi permettete. Ma lei aveva...
ecco, aveva
molto da offrire. Aveva delle risorse. Vinse una sfida e il re non
poté tirarsi
indietro davanti al suo potenziale.
-
Non c’è bisogno che me lo ricordiate, consigliere.
-
Giusto, perdonatemi. Ma come stavo dicendo... una regina ha bisogno di
compagnia, a volte. – Tremotino comparve al suo fianco
all’improvviso,
facendola sobbalzare. – E Voi, essendo la regina di Mehlinus,
potreste avere
chiunque. Ordinate. Gli altri eseguiranno.
Regina
doveva ammettere che c’erano notti in cui si sentiva
terribilmente sola. E non
solo di notte. C’erano dei momenti in cui avrebbe voluto
poter parlare con
qualcuno di quello che sentiva. Momenti in cui avrebbe voluto avere
qualcuno
vicino che non fosse il suo consigliere, qualcuno che potesse lenire il
senso di
vuoto che si faceva strada nel suo animo e nel suo cuore. Il senso di
vuoto che
la faceva sentire un’estranea anche nel suo castello, nella
sua città. Nel suo
regno.
“...essendo
la regina di Mehlinus,
potreste avere chiunque. Ordinate. Gli altri eseguiranno.”
-
Fate entrare il primo postulante. – ordinò Regina,
evitando di rispondergli.
-
Come desiderate. – Tremotino s’inchinò
leggermente.
Vicino
alle porte che davano accesso alla sala del trono, c’era
l’uomo uscito dalla
lampada magica. Il Genio. Chinò il capo brevemente quando il
consigliere passò
accanto a lui e poi alzò la testa. Portava un vassoio
d’argento con delle
lettere. Regina gli fece cenno di entrare e di posarle accanto al
trono. Lui
eseguì docilmente. La sua pelle appariva più
scura alla luce delle torce e i
finimenti dorati della casacca brillavano.
“Potete
averlo, se lo desiderate.”
Oh,
sì. Poteva avere chiunque, probabilmente. Anche il Genio. A
giudicare da come la
guardava, Regina era sicura che sarebbe stato ben felice di farle
compagnia.
-
Cos’altro posso fare per voi, mia regina?
-
Nulla. – rispose Regina, sovrappensiero. – Sto bene
così.
Foresta di Rhun. Vicino a Camelot.
Il
sogno fu orribile.
Emma
udì una risata, un suono freddo, aspro, come coltelli che
vengono affilati
sulla mola.
Era
in piedi sull’orlo di un abisso. Il crepaccio le sbarrava la
strada. Al di là
dell’ostacolo Snowing Castle, la sua città natale,
bruciava. Le fiamme si
levavano alte verso il cielo nero. Avvolgevano il castello dei suoi
genitori.
Lo stendardo con lo stemma di famiglia venne catturato dalle lingue di
fuoco e arse.
Sentì il rumore di un ariete che tentava di sfondare un
portone. Un BUM-BUM costante.
Grida. Urla. La gente terrorizzata. Armature nere. Uomini in armatura
nera sui
camminamenti, sulle torri. E un altro stendardo. Il melo su sfondo blu.
Il
simbolo della regina di Mehlinus.
-
No! – gridò Emma. Cercò la sua spada,
Narsil. Voleva combattere. Voleva
uccidere quei mostri che si stavano prendendo la sua città.
Ma
il fodero attaccato alla cintura era vuoto. Non aveva la spada con
sé.
Sotto
di lei le tenebre dell’abisso che la separava da Snowing
Castle ribollivano.
Una voce salì dal profondo di quel baratro. Una voce
crudele. Distorta.
-
Guarda! Snowing Castle è caduta! Non esiste più,
principessa! Il cigno non può
fare nulla. Non può battere la pantera! – la
schernì.
E
il melo impresso sullo stendardo mutò davanti ai suoi occhi.
Si trasformò in
una pantera nera con le fauci spalancate.
-
Non puoi fare niente! È tutto finito! Per te e per la tua
gente!
-
NO! MAI! Non è finita! Io li vendicherò!
– urlò Emma, con tutto il fiato che
aveva in gola. Cercò di allontanarsi dall’orlo del
baratro. Doveva aggirarlo se
voleva raggiungere la città. Sua madre e suo padre. Ma era
come muoversi
sott’acqua. Le sue gambe erano pesanti. Troppo pesanti.
-
Vendicarli? – La voce era molto divertita. Rise. –
Non vincerai! Il cigno è
perduto! Perduto! Come puoi pensare di sconfiggere la pantera?
-
La Regina del Nord la pagherà!
Un’altra
risata. Ancora più fredda e cattiva.
-
Le tue ali sono spezzate, cigno – gridò la voce.
– Spezzate e bruciate come
Snowing Castle. Come Anatlon! Sei debole! Mehlinus, invece,
è potente!
-
Non per molto!
-
Il tuo coraggio è lodevole, te lo concedo. Ma inutile!
Emma
pensava che la voce appartenesse proprio a Regina. Anche se essa era
distorta,
immaginava quanto la Regina di Mehlinus si divertisse. Immaginava
quanto si
fosse divertita quando i suoi uomini avevano abbattuto Snowing Castle.
-
Resta nella tua foresta! Ti conviene. Se ne esci, morirai!
-
Emma, non ascoltare! – gridò una voce maschile che
conosceva, anche se non la
udiva da tempo.
Dall’altra
parte del burrone, c’era il giovane che l’aveva
portata in salvo, Graham. La
guardava, spaventato. Emma poteva sentire anche degli ululati. Accanto
a Graham
comparve un lupo. Un vero lupo, bianco e grigio, con un occhio rosso e
uno nero.
Le
tenebre si addensarono. Nell’oscurità
dell’abisso qualcosa si mosse. Esplose un
ruggito che coprì i rumori della battaglia in corso oltre le
mura della città. Emma
si tirò indietro. Inciampò e cadde
sull’erba.
-
Emma! – urlò ancora Graham.
Un’enorme
pantera sbucò dal burrone. Era più grande di una
pantera normale, con le zampe
robuste munite di lunghissimi artigli, le fauci spalancate e sbavanti,
i denti
aguzzi simili a sciabole, gli occhi rossi e pieni di furia. Di fame.
La
mia spada! Dov’è la mia spada? pensò
Emma, disperata.
Non
aveva nessuna spada. E nemmeno un’armatura. Solo la cotta di
maglia.
-
Il dragone non riuscirà mai a salvarti. Muori, principessa
del nulla!
La
pantera l’attaccò, mirando alla sua gola.
Emma
si svegliò, gridando, con gli occhi sbarrati nel buio della
sua casa di legno,
costruita da Merlino con la magia sui grossi rami intrecciati di due
salici
piangenti, con un incantesimo di protezione a fare da scudo, impedendo
a
chiunque di vedere il rifugio.
Era
madida di sudore, con il cuore che batteva all’impazzata, le
membra tremanti,
lo sguardo di fuoco della pantera e le fiamme che divoravano Snowing
Castle
ancora impresse nella mente.
Anche
Galahad si era svegliato. Emma lo vide seduto nel suo giaciglio, con le
gambe
avvolte nelle coperte, gli occhi azzurri spalancati, che la fissavano.
I suoi
capelli sembravano un covone di fieno. Un covone di fieno quasi bianco.
Il
ragazzino seguiva sempre il padre quando quest’ultimo si
recava nella foresta a
proteggere Emma. Vicino, aveva Kylr, la sua spada. Lancillotto
l’aveva fatta
forgiare apposta per lui, perché potesse imparare a
maneggiarla e a combattere.
-
Che succede, Emma? – domandò Galahad, alzandosi.
-
Niente... un incubo.
-
Che incubo? Cos’hai sognato?
Lancillotto
entrò nell’abitazione con la spada in pugno.
Sicuramente il suo grido l’aveva
spaventato.
-
Mi dispiace. Va tutto bene, Lancillotto. – disse Emma.
– Ho solo... era
solamente un incubo.
-
Stai bene davvero? Posso fare qualcosa? – chiese il
cavaliere, riponendo
Aradonight nel fodero. Emma non si era ancora scusata con lui per
ciò che era
successo quando era partito per Corbenic con il figlio. Sapeva che
doveva
farlo, ma non trovava le parole giuste e il cavaliere non sembrava
comunque in
collera con lei.
Emma
chiuse gli occhi. Udì il frinire di molti grilli e le fronde
degli alberi che
frusciavano. Scosse il capo. – No. Grazie. Sto bene.
Poco
dopo Lancillotto lasciò la casa e scese, per riprendere il
suo turno di
guardia.
-
Cos’hai sognato? – sussurrò Galahad.
-
La... la mia casa. Che bruciava.
-
Questa casa?
-
No. Snowing Castle. – Emma inspirò profondamente,
cercando di reprimere le
immagini del suo incubo.
“Le
tue ali sono spezzate, cigno! Spezzate
e bruciate come Snowing Castle. Come Anatlon! Sei debole! Mehlinus,
invece, è
potente!”
“Muori,
principessa del nulla!”
(E
se fosse davvero troppo potente?
Se morissi, nel tentativo di vendicare la morte dei miei genitori? Se
Regina
fosse troppo potente, con la sua magia?)
In
fondo lei chi era? Era l’erede di Anatlon, certo, ma era
anche una fanciulla
orfana, che di magia non sapeva niente. Combatteva bene, ma se
ciò non fosse
stato abbastanza? Magari non sarebbe morta. Magari la regina
l’avrebbe
catturata e imprigionata.
“Sei
debole! Mehlinus, invece, è
potente!”
Emma
strinse i denti. No. No, non doveva farsi dilaniare dai dubbi. Non
doveva
cadere preda delle sue paure. Allungò una mano e
cercò Narsil, che aveva sempre
vicino a sé. La trovò. La spada era nel fodero,
al suo posto. La spada di
David. Strinse l’elsa e inspirò di nuovo.
Le
ali del cigno sono solo ferite.
Non sono bruciate. Anatlon risorgerà. La mia
città risorgerà.
Un
giorno, sembrò
sussurrare una voce nella sua testa. La voce benevola di suo padre.
Credi
in te, Emma. C’è speranza. La
speranza è la magia più potente di tutte. Sua
madre. Mary
Margaret le ripeteva spesso, quand’era piccola, che la
speranza era sempre
l’ultima a morire. Le ripeteva che, nel caso in cui qualcosa
fosse andato
storto, nel caso in cui si fosse ritrovata in una situazione che
l’avrebbe
costretta a prendere decisioni difficili o a cavarsela da sola, allora
la
speranza l’avrebbe sorretta.
Galahad
taceva. Aveva visto il panico, negli occhi di Emma. Non gli era mai
capitato di
scorgere il panico in quegli occhi verdazzurri. Aveva visto molte cose,
in
passato. Dolore. Rabbia. Frustrazione quando veniva disarmata durante
gli
allenamenti. Tristezza. Forza. La sua irrequietezza perché
era costretta a
vivere in quella foresta. Ma il panico no. Mai. E lui la conosceva
praticamente
da sempre. Era ancora molto giovane, ma capiva che Emma sarebbe
diventata un
vero cavaliere. Una vera regina di quel regno che a Galahad sembrava
così
lontano, inimmaginabile, persino. Del resto lui conosceva solo
Corbenic, il
luogo in cui era nato, Camelot e qualche cittadina nelle vicinanze.
Niente di
più. Non era mai stato ad ovest, nemmeno dalla zia di suo
padre, Morgause (e
non ci teneva, dato che l’unica volta che l’aveva
vista, la signora del Lothian
era venuta a Camelot in occasione del matrimonio di uno dei suoi figli.
Quando
i suoi occhi verdi si erano posati su di lui, Galahad aveva avuto
paura). Non
era mai stato ad Avalon, dov’era nato suo padre. Avrebbe
voluto andarci, un
giorno, sull’Isola delle Fate. Per vedere il leggendario
cerchio magico e la
roccia in cui era conficcata Excalibur, prima che Artù la
estraesse.
E
Anatlon? Com’era Anatlon? Com’era prima di cadere?
-
Non preoccuparti, Emma. – si decise a dire. – Un
giorno tornerai a casa e
ricostruirai il tuo regno. Lo dice persino Merlino.
-
Merlino, eh?
-
Merlino fa dei sogni, a volte. Qualche giorno fa ne ha fatto uno e nel
sogno
c’era un cigno con le ali di fuoco. Andava verso...
-
Verso?
-
Verso Mehlinus. Da quella strega.
Emma
non disse niente.
“Le
tue ali sono spezzate, Cigno!
Spezzate e bruciate come Snowing Castle...”
-
Vuol dire che ci andrai un giorno. A nord, voglio dire. E la
sconfiggerai.
Quando succederà... Emma, quando succederà
potrò venire con te?
-
Venire con me?
-
Avrai bisogno di aiuto, contro la regina. Avrai bisogno di tanti
uomini. Ed io
voglio essere tra i cavalieri che ti accompagneranno.
E
morire? Perché è questo che potrebbe succederti,
Galahad. Potresti morire. Per
me.
-
Vedremo. Vedremo quando verrà il momento... –
mormorò Emma, guardando altrove.
-
Verrò anche se mio padre non dovesse essere
d’accordo. Lo prometto.
Emma
sorrise e appoggiò una mano sulla testa di Galahad.
– Va bene. Adesso, però è
meglio rimettersi a dormire.
-
Sì... Emma?
-
Dimmi.
-
Posso restare qui vicino a te?
-
Come vuoi.
Galahad
si prese una parte della coperta e si sdraiò vicino a lei.
Pochi minuti dopo
dormiva profondamente. Emma, invece, rimase sveglia ancora per un bel
pezzo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** 7. One Last Wish ***
7
ONE
LAST WISH
Nymeria.
Regno di
Mehlinus. Nord.
L’anniversario
della fondazione di Nymeria aveva portato in città
moltissima gente,
proveniente dai luoghi più remoti del regno.
Le
strade pullulavano di persone, i mercanti esponevano la loro robaccia
fino a
tarda notte, gridando offerte, i fabbri lavoravano a nuove armi e
armature per
le guardie che seguivano i lord, il battere costante dei loro martelli
era
ipnotico e le fucine ardevano costantemente. Uomini e donne
amoreggiavano negli
angoli bui, all’ombra dei porticati o tra i filari di mele
che circondavano la
capitale di Mehlinus.
Il
castello di Regina grondava di invitati. Il chiasso le stava dando alla
testa.
Per l’occasione, su consiglio di Tremotino, aveva esposto sia
l’arazzo con il
nuovo simbolo, la pantera, sia quello con il vecchio simbolo della
famiglia, il
melo. Guardava gli uomini seduti ai tavoli. Li guardava mangiare e bere
sidro e
vino in gran quantità. Li guardava allungare le mani per
avvinghiare qualche
servetta, nonostante le mogli fossero lì presenti e alcune
fossero anche
gravide. Un uomo cascò con la faccia nel piatto, ubriaco,
dopo aver biascicato
l’ennesima battuta e venne afferrato per le braccia da due
compari che lo
condussero fuori.
Avrebbe
dovuto esserci anche lady Morgause, la signora del Lothian, ma il
marito, Lot,
era molto malato e lei aveva preferito restare a Deep Valley.
-
Morirà presto. – aveva annunciato Tremotino, con
scarso interesse. – Sono
sicuro che a Morgause non dispiaccia poi così tanto. Almeno
il Lothian sarà
soltanto suo. Il figlio maggiore è un cavaliere di
Artù e sembra voglia restare
a Camelot. Credo sia meglio così. Gawain è
attualmente il più vicino al trono.
Ginevra non ha ancora partorito un erede.
Regina
lo ascoltò appena. Le avevano portato doni di ogni tipo,
anche proposte di
matrimonio che aveva rifiutato. Ne aveva abbastanza di quella
marmaglia.
Il
dono più bello lo aveva ricevuto proprio da Morgause, un
enorme arazzo che
rappresentava la regina fondatrice seduta sul trono, gli occhi azzurri
che la
fissavano da un passato inimmaginabile, il lungo mantello nero e la
corona sul
capo. Aveva anche una spada appoggiata sulle ginocchia, solo che non
era la sua
spada, bensì Stormbringer. Era impossibile non riconoscerla.
Come se, chiunque
avesse prodotto l’arazzo, avesse deciso di fondere la prima
regina di Mehlinus
con l’ultima. Regina aveva notato, guardandolo meglio, che
solo un occhio di
Nymeria era azzurro. L’altro era nocciola. Ai piedi della
regina c’era una
pantera nera con la testa poggiata sulle zampe.
Come
se la faccia della tua antenata non fosse già ovunque, pensò
Tremotino.
Ad
un certo punto, senza che nessuno se ne rendesse conto, Regina prese la
pelliccia ed uscì, incurante del gelo della notte. Raggiunse
uno dei cortili
interni del castello. Era deserto, illuminato solo dalle torce e dalla
luna
piena.
Non
rimase deserto per molto tempo.
-
Non siete in vena di festeggiamenti? – Il Genio la osservava,
in piedi accanto
ad una delle colonne che circondavano il cortile.
-
Nemmeno voi, a quanto vedo. – rispose Regina.
-
Perdonatemi. Non volevo disturbarvi.
Regina
gli voltò le spalle. Non rispose subito, non sapendo se
cacciarlo o
permettergli di restare. Dato che sembrava conoscere molte cose ed era
stato un
Genio capace di esaudire ogni desiderio, gli aveva concesso di vivere
con la
servitù e di lavorare con gli stallieri e gli armigeri.
Tremotino le aveva
detto che, in fondo, quello straniero avrebbe potuto rivelarsi persino
utile. -
Non l’avete fatto. Siete uno di quelli che mi disturbano
meno. E in ogni caso
là dentro nessuno sembra notare la mia assenza.
-
L’ho notata io. – Il Genio si avvicinò,
ma mantenne comunque la distanza dalla
regina. Guardò l’albero che faceva bella mostra di
sé al centro del cortile e
ne sfiorò le foglie. Era rigoglioso nonostante fosse inverno
e ogni altro
albero fosse spoglio, imprigionato dal freddo. Le mele erano rosse e
lucide.
Avevano un bell’aspetto. Doveva esserci di mezzo la magia.
– Che albero
sontuoso.
-
Sì. È cresciuto con me. – ammise
Regina. – Io e quest’albero abbiamo molte cose
in comune.
Il
Genio attese il resto, rispettando il suo silenzio.
-
Nessuno dei due può lasciare questo regno, non ancora... e
nessuno dei due
appartiene davvero a questo posto. – Regina sembrava parlare
più a se stessa
che a lui. – Per quanto io mi sforzi, nessuno mi
amerà mai davvero.
-
Oh, eppure molti uomini Vi desiderano. Vorrebbero sposarvi.
-
Non mi interessano. Ed io non interesso davvero a loro. Sarei
intrappolata. A
volte mi sento... già intrappolata.
Il
Genio l’aveva vista rifiutare almeno tre proposte, da uomini
più o meno
giovani, nobili e con molto da offrire in quanto a bellezza e
ricchezze. Avrebbe
voluto essere tra quegli uomini, solo che lui desiderava essere
accettato.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa per Regina. Non era avido, non voleva il
potere,
non voleva essere un re. Gli bastava aver riconquistato la
libertà, grazie a
quel ragazzino che lo aveva trovato nella sua lampada sulla riva del
fiume.
Avere la possibilità di restarle accanto per il resto della
vita sarebbe stato
il suo unico desiderio, la felicità vera. Era sicuro che vi
fossero molte cose
che Regina nascondeva. Molte cose che lui avrebbe onorato e rispettato.
-
So cosa significa essere in trappola. Meglio di chiunque altro.
– Sorrise e le
sembrò sincero. Estrasse qualcosa dalla sacca che portava
con sé. – Anch’io ho qualcosa
per Voi, se me lo permettete.
-
Di cosa si tratta? – Regina era certa che volesse regalarle
un gioiello o
qualche altro ornamento, come avevano fatto gli altri ospiti. Non ne
voleva
più, di regali.
Invece
il Genio le mostrò uno specchio, racchiuso in una bella
cornice dorata. –
Così... vedrete Voi stessa come Vi vedo io.
Regina
lo prese, fissando la propria immagine riflessa, i capelli lunghi,
raccolti da
un fermaglio argentato, la collana che splendeva intorno al suo collo,
la sua
aria corrucciata. – E tu... come mi vedi?
-
Come la più bella... di tutto il reame, mia regina.
– confessò il Genio.
Regina
si accorse che la fissava intensamente, quasi non avesse mai visto una
donna in
vita sua. Si scostò. – Vi ringrazio, ma...
Lui
si fece avanti e tese la mano, sfiorando cautamente quella di Regina. -
So che Vi
sembrerò avventato. Ma desidero anche essere onesto con Voi.
-
Che state facendo? – Fece per sottrarre la mano, ma il Genio
la trattenne,
senza stringere troppo. Era passata nuovamente al Voi e sentiva anche
la magia
ribollirle nelle vene.
-
Mia regina, il mio amore per Voi cresce senza che io possa prenderne il
controllo. Ed è così da quando Vi ho incontrata.
Non
riusciva a credere alle sue orecchie. – Avete perso il senno!
-
Forse. – ammise il Genio. Le lasciò la mano. - Voi
siete stata gentile con me.
Molto più gentile di altre persone. Non mi avete mai punito,
né messo in
catene. Avreste potuto. Sono solo uno straniero che viene da una terra
lontana
e che nessuno conosce. Mi avete sempre parlato... come se Vi importasse
di me.
Non lo fate con chiunque. Ed io... ve ne sono grato. Vi amo, mia
regina. Datemi
la possibilità di restarvi accanto.
-
Siete davvero convinto che io voglia un marito? – Regina
alzò la voce e posò lo
specchio sulle pietre intorno al melo. – Allora non mi avete
ascoltato bene
quando ho rifiutato tutte quelle proposte!
-
Non sono come quegli uomini. Non desidero il potere. – Il
Genio allargò le
braccia. Ora parlava con una specie di frenesia, in modo molto diverso
da come
parlava di solito. – Né tantomeno desidero essere
un re. Siete Voi la regina.
-
E allora che cosa volete?
-
Quello che ho detto. Essere al Vostro fianco. Vi rispetterei e
onorerei. Vi
proteggerei, se fosse necessario. – Sembrava la stesse
rassicurando, quasi
credesse davvero che uno come lui potesse rappresentare una minaccia
per il suo
trono. - Non Vi ostacolerei mai. Al contrario, io farei... qualsiasi
cosa per Voi,
mia regina.
-
Silenzio! – ordinò Regina, inducendolo subito a
tacere. Si mise a ridere. Non
poté evitarlo. Rise incontrollabilmente mentre il Genio la
guardava,
sconcertato. Immaginava che lui la desiderasse, ma mai avrebbe pensato
che
volesse avanzare qualche pretesa. - Non ho bisogno della Vostra
protezione e
non ho bisogno di essere onorata da uno come Voi! È ridicolo
scambiare il mio
essere... magnanima con qualcosa come l’amore.
L’amore offusca la mente ed io
non ne ho bisogno.
-
Ma mia regina... – La voce dell’uomo
suonò bassa ed implorante.
-
No. Si dice Vostra Maestà.
– lo
rimbeccò Regina. – Sono stata magnanima,
perché il mio consigliere mi ha
suggerito di esserlo. Potevate tornarmi utile e in effetti è
stato così. Non siete
stato un semplice servo; avete scoperto una spia nel mio palazzo e me
l’avete
consegnata. Avete fatto il Vostro dovere. Vi ho ringraziato
perché lo
meritavate. Se avete pensato che potessi amarvi, ripensateci!
Il
Genio sospirò. Rivolse alla sovrana di Mehlinus uno sguardo
pesante. - Voi non
mi amate... certo. Non Vi importa nemmeno di me, vero?
-
Importarmene? Sii riconoscente, almeno, potrei punirti e gettarti in
prigione!
– Regina aveva smesso di ridere. Era in collera. I suoi occhi
sembravano molto
più scuri, bruciavano. Il Genio li vide colorarsi di viola.
Usò un tono
informale e pieno di disprezzo. - Invece ti offro un’altra
possibilità: vattene
dal mio regno e non tornare mai più.
-
Io... non posso vivere senza di Voi. – mormorò il
Genio, afflitto. Trasse un
respiro profondo. – Non vivrò senza di Voi.
-
Che succede? Non hai udito le mie parole? – Regina
sollevò il palmo della mano.
Le dita risplendettero quando la magia divenne visibile, sgorgando
dalla sua
pelle. Fasci di potere viola si levarono come serpenti velenosi pronti
a
morderlo. – Io non ti amo. Non ti voglio tra i piedi.
Così come non voglio tra
i piedi nessun altro uomo.
Il
Genio mise mano alla sacca che portava appesa al fianco, assieme al
pugnale.
Estrasse la vecchia lampada che era stata la sua prigione per
moltissimi anni.
- Ho ancora una freccia nel mio arco. Mi rimane un desiderio.
-
Desiderio? Mi avevi detto che il ragazzino che ti ha trovato li aveva
espressi
tutti!
-
Oh, sì. È così. Ma ne ha donato uno a
me. L’ultimo. – Non c’era alcuna vena di
trionfo nella sua voce. C’era solo tristezza e dolore.
– Io desidero... di
poter stare con Voi per l’eternità, di poter
guardare il Vostro viso, di
restare al Vostro fian...
Regina
scagliò la magia contro di lui, ma in quel momento il Genio
scomparve. L’onda
di potere colpì un soldato che era stato attratto dalle voci
in cortile ed era
venuto a vedere che cosa stesse accadendo. L’uomo perse
l’elmo e finì contro
una delle colonne, per poi accasciarsi sulle pietre del cortile.
Il
Genio era sparito. Regina si guardò intorno, ma
c’era solo la lampada.
E
lo specchio.
-
No! – urlò una voce. Era vicina, ma al tempo
stesso era anche attutita, come se
qualcuno si stesse lamentando dietro ad una porta chiusa. –
No! No!
Regina
raccolse lo specchio. Non vide più la propria immagine, ma
il volto del Genio e
i suoi pugni che battevano contro il vetro. Gridava, disperato.
Prigioniero.
Un’altra volta. Aveva venduto la sua libertà e
pagato il prezzo che tanto
temeva.
-
Il tuo desiderio è stato esaudito. – Regina
sorrise, accarezzando la cornice
dello specchio. - Ora resterai con me... per sempre.
Foresta
di Rhun. Regno di
Elohim. Est
Emma
osservò il proprio viso nell’acqua del bacile, un
viso ormai adulto, con
qualche ciocca di capelli biondi che era sfuggita al laccio che usava
per
raccogliere la folta chioma ondulata.
Era
irrequieta. C’era qualcosa nell’aria che la rendeva
irrequieta. O forse era il
pensiero dei sogni che l’aspettavano. Ultimamente sognava
più spesso Snowing
Castle, il fuoco che la divorava, le facce dei soldati in armatura nera
nascosti dietro agli elmi, gli stendardi che bruciavano. Sentiva le
urla e
vedeva il sangue scorrere a fiumi per le strade.
Credeva
che i sogni stessero svanendo. Ma ultimamente si erano fatti
più pressanti. A
volte nei suoi incubi vedeva anche Graham, solo che invece di salvarla
veniva
ferito a morte. Come suo padre. O spariva tra le fiamme, come sua
madre. E lei
non poteva fare niente, perché in quei sogni era ancora una
bambina.
-
Chi è là? – Udì la voce di
Agravain, improvvisamente allarmata.
Subito
prese Narsil e la estrasse dal fodero.
-
Chi è là?! – ribadì
Agravain.
Sapeva
di non doverlo fare, però uscì allo scoperto e
guardò giù, sempre con la
propria arma in pugno.
Una
figura incappucciata sostava davanti ad Agravain. Era poco
più bassa del
possente cavaliere della Tavola Rotonda. Nella mano destra comparve un
lungo
bastone con la sommità ricurva. Un bastone da druido.
Agravain
si rilassò e ripose la spada nel fodero. – Con il
dovuto rispetto, mago... so
che non era Vostra intenzione spaventare, ma desidererei essere
avvertito delle
Vostre visite!
Emma
posò Narsil e scese per accogliere Merlino. Non capitava
spesso che il mago le
facesse visita. Si chiese subito se fosse accaduto qualcosa di grave a
Camelot,
al re magari oppure alla regina Ginevra.
-
Si vede che siete, in parte, sangue di Avalon, sir Agravain.
– disse Merlino,
scostando il cappuccio. Il sorriso sul vecchio volto era quasi
irriverente. -
Mi avete sentito arrivare prima che comparissi. Vi dispiace lasciarmi
da solo
con Emma, ora?
Agravain
borbottò fra sé e sé, ma non
esitò ad andarsene.
Merlino
si rivolse ad Emma. La giovane che aveva davanti in quel momento non
appariva
né forte né tantomeno arrabbiata, come era
sembrata ai cavalieri che la
proteggevano da anni ormai. Emma era dimagrita e dai suoi occhi
traspariva una
densa inquietudine, un’angoscia sorda. Sembrava non sapesse
che cosa fare con
le proprie mani; un po’ le nascondeva dietro la schiena, un
po’ le serrava a
pugno o le metteva sui fianchi, ma non aveva la spada con
sé, quindi non poteva
stringere l’elsa di Narsil, divenuta così
familiare.
-
Vieni, Emma. – disse Merlino, sedendosi a terra ed
incrociando le gambe.
Emma
esitò un istante, poi andò a sedersi di fronte al
consigliere di Artù. Era
sempre sorpresa dalla sua postura, ancora così eretta
nonostante la tarda età.
Doveva essere vecchissimo, ma non camminava curvo. Non si appoggiava al
lungo
bastone.
Gli
occhi blu, piccoli ed infossati nelle orbite, la scrutarono.
– Dimmi, Emma.
Come ti senti?
-
Sto bene. – rispose lei, subito.
-
Questa non è la verità. E lo sappiamo entrambi.
– Merlino appoggiò il bastone
sulle proprie gambe e scosse il capo. – Sono qui per
ascoltare la verità. Tu
sai cosa voglio dire.
Emma
si morse il labbro.
Merlino
non insistette, ma attese, l’espressione insondabile dietro
la folta barba
bianca.
-
So perché mi trovo qui. Non l’ho dimenticato.
– ammise Emma, parlando con un
certo sforzo. – Ma spesso... spesso vorrei non sentirmi
intrappolata. Vorrei uscire
da questa foresta. Vorrei poter vedere qualcosa di... diverso da questi
alberi.
Vorrei non essere costretta a nascondermi.
-
Capisco.
-
So di essere egoista. E so anche... che non avrei dovuto comportarmi in
quel
modo con sir Lancillotto. Mi sono scusata.
-
Sì, ne sono a conoscenza. – Merlino
accennò un sorriso. – Non sono qui per
rimproverarti.
-
Ho anche... paura. Non dovrei. Dovrei essere pronta a combattere.
Dovrei
ricordarmi sempre di ciò che mi disse mio padre. Ma i sogni
non mi lasciano in
pace.
-
La paura. – disse Merlino. – Sarei più
preoccupato se non provassi paura.
Perché l’uomo che non sente la paura è
un folle. Chi è in balia di essa e fugge
è un codardo. Ma tu continui a fare ciò che va
fatto. Questo è coraggio.
-
Ma ho desiderato scappare. Andare via da questo posto.
-
Tu hai sognato di essere libera di fare quello che tutte le persone
libere
possono fare. Ma tu... non sei libera. È la
verità. – Il druido parlava
lentamente, ma con un tono deciso e sincero. – Ne so
qualcosa.
-
Davvero?
-
Oh, certo. Sono nato ad Avalon. – Accarezzò il
proprio bastone. – Sono stato
giovane. È accaduto molto tempo fa, ma normalmente i giovani
druidi non
lasciano Avalon. Non mentre vengono istruiti. Non i drudi... che
nascono con il
dono della magia e devono imparare a controllarlo.
-
Voi... siete nato con la magia?
-
Quando sono nato ho scagliato la levatrice fuori dalla stanza senza
volerlo.
Questo è quello che mi hanno raccontato.
Emma
non pensò alla donna che volava investita dalla magia del
nascituro. Pensò a
quanto tempo prima potesse essere successo. Forse erano cento anni. La
sua
mente, però, le suggerì non cento, ma mille anni,
anche se in quel momento
Merlino sembrava molto umano. Vecchio, forte, ma umano.
Non
si sarebbe mai sognata di domandargli quanti anni avesse,
però di storie su
Merlino ce n’erano un’infinità. Chi
sosteneva che fosse immortale, chi invece
preferiva pensare che fosse umano solo a metà, figlio di una
giovane donna di
Avalon e di un demone superiore. C’era chi diceva che fosse
morto e poi ritornato
in vita o che fosse capace di resuscitare i morti. Che un suo
incantesimo avesse
spinto Uther Pendragon, il padre di Artù, tra le braccia di
Igraine, affinché i
due concepissero il nuovo re di Camelot. Quando Galahad era nato, le
malelingue
sostennero che fosse figlio di Merlino; essendo già molto
vecchio quando lo
aveva concepito, Galahad era nato con i capelli bianchi come lui. Ma
almeno
Emma poteva dire che quell’ultima storia era falsa. Il nonno
di Galahad era
nato con i capelli bianchi, con quella pelle lattea ed era persino
cieco, ma aveva
recuperato la vista grazie ad un incantesimo.
-
Quando ero più giovane di te... non potevo lasciare Avalon
ed era difficile
tenermi a bada. – continuò Merlino. –
Per quanto i miei insegnanti mi dicessero
che ero destinato a grandi cose e che dovevo avere pazienza, era
complicato per
uno come me capire e starmene al mio posto. Serve tempo, per capire
queste
cose. Per te è ancora più difficile, lo
comprendo. Sono anche convinto che tu
sia molto astuta. Avresti potuto provare a scappare. Una mossa
avventata, ma
sarebbe potuto succedere.
Emma
non negò di averci pensato. Restò in silenzio.
-
Artù sa tutto questo, avrebbe potuto aumentare gli uomini di
guardia. Metterne
due in più per essere più sicuro. O chiedermi di
usare un incantesimo per impedire
che ti allontanassi.
-
E perché il re non l’ha fatto?
-
Perché Artù si fida di te. Sapeva che ti saresti
ricordata delle parole di tuo
padre.
-
Ma non poteva averne la certezza. – Emma spostò lo
sguardo altrove.
-
No, ma ha seguito l’istinto. Io non ho insistito.
-
Perché Voi... l’avete visto, forse.
Merlino
scosse il capo, passandosi una mano nella barba. – Il futuro
non è mai così
chiaro, Emma. No, non ho visto cosa sarebbe accaduto. Semplicemente mi
fidavo
di te. Sapevo che ti sentivi... in trappola. Aspettavo solo il momento
giusto
per venire a parlarti.
“Sarei
più preoccupato se
non provassi paura. Perché l’uomo che non sente la
paura è un folle.”
-
Non fuggirò. – disse Emma, anche se Merlino non
sembrava aver bisogno di essere
rassicurato. – Non dimentico quello che mi ha detto mio padre
quella notte. Lo
disonorerei, se fuggissi. Lui vorrebbe sapermi al sicuro. E anche mia
madre.
-
Già.
-
Non è facile aspettare. Ma so di non essere ancora pronta e
so che là fuori ci
sono troppi occhi e troppe orecchie.
Merlino
avrebbe voluto dirle di più. Avrebbe voluto dirle che
c’erano molti occhi là
fuori, come pensava, ma c’erano occhi anche lì,
nella Foresta di Rhun, solo che
erano azzurri e benevoli. Avrebbe voluto dirle che c’erano
davvero molte
orecchie e anche bocche che erano state messe a tacere da
Artù e in qualche
occasione anche da sua moglie, Ginevra. I sovrani di Camelot erano
più scaltri
di quello che chiunque pensasse. E se occorreva, sapevano prendere
decisioni
anche molto dure.
-
Ce ne sono. – disse, infine. – Oh, eccome se ce ne
sono.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** 8. Temptation ***
8
TEMPTATION
Nymeria.
Regno di Mehlinus. Nord.
Regina
sapeva che quella notte il sonno non sarebbe venuto. Era una notte
scura. Una
notte senza stelle e senza luna. Fredda.
Attraversò
il giardino interno del castello, da sola, con una torcia in mano per
illuminare il sentiero. La nebbia era molto fitta, così
fitta che riusciva a
distinguere solo le forme degli alberi più vicini. Le
sembrava di trovarsi in
un luogo oscuro e sospeso fra due mondi, la realtà e un
sogno buio. Un luogo
dove le persone vagavano, disperate, incapaci di ritrovare la strada
per
tornare a casa o per raggiungere il regno dei morti. Persino le guardie
sulle
mura non erano che ombre vaghe, rattrappite sotto l’armatura
nera e i mantelli
foderati di pelliccia. Solo il condensarsi del respiro
nell’aria dimostrava che
erano ancora in vita. Anche Regina indossava un pesante mantello
foderato di
pregiata pelliccia, allacciato alla base del collo con una grossa
spilla a
forma di pantera. E Stormbringer al fianco.
Nella
parte più antica del giardino e del castello della famiglia
reale si trovava
l’ingresso per le cripte, una botola di pietra vicino alla
base di una delle
torri che svettavano verso il cielo.
Regina
sollevò la pesante botola usando qualche parola magica.
Illuminò con la torcia
gli scalini ripidi, in pietra, che scendevano sottoterra. Una lunga
discesa.
Regina l’aveva compiuta altre volte. Scese con molta cautela.
C’erano
diversi livelli, ma nei più bassi Regina non si recava mai.
Si fermava al primo
livello, dove si trovavano le tombe degli ultimi re e regine di
Mehlinus.
Spinse
la porta massiccia ed entrò in un tunnel lungo e squadrato.
Le ombre danzarono
sui muri antichi. La sua ombra si allungò lungo le pareti,
distorta dalla luce
della torcia. In ogni nicchia c’era la statua di un regnante,
scolpito nella
pietra grigia per l’eternità. Alcuni sedevano su
scranni e stringevano i
braccioli, altri erano in piedi, con una mano sull’elsa della
spada o con le
dita intorno ad una lunga lancia. Altri ancora non avevano armi ed
erano stati
scolpiti a braccia conserte o mentre fissavano un punto in lontananza.
Gli
ultimi, in fondo al corridoio, erano i suoi genitori. Vicini, nella
medesima
nicchia. Entrambi in piedi. Re Henry aveva le dita strette intorno ad
un’elsa
di pietra. Stormbringer, ovviamente. La sua spalla sinistra sfiorava
quella
della moglie.
I
loro occhi di pietra sembravano fissarla. Soprattutto gli occhi di
pietra di
Cora.
“È
la spada di tuo padre.”
“Perché
la state dando a me?”
“Perché
da adesso in avanti sarà tua.”
In
basso, sulla pietra, erano incisi i nomi. Regina Cora. Re Henry.
Un
giorno, qualche tempo prima, Regina aveva scoperto che un soldato
ubriaco si
era permesso di prendersi gioco delle origini umili di Cora, dicendo
che sulla
tomba avrebbero dovuto scriverci che lei era la Regina dei Mugnai.
Regina, che
aveva imparato ad avere occhi ed orecchie ovunque, aveva mandato a
prendere
quell’uomo e aveva costretto l’ex comandante delle
guardie a infliggergli
trenta frustate davanti a tutti.
-
La prossima volta che vi prenderete gioco della mia famiglia, pagherete
con la
vita. E pagheranno anche Vostra moglie e i Vostri figli. Prima di Voi.
– aveva detto.
L’uomo
non aveva più aperto bocca, ma era diventato pallido come
ricotta.
-
Madre... padre... sono una regina. – sussurrò,
nell’oscurità. – E come regina
avrò la mia vendetta. Presto. Molto presto. Loro la
pagheranno e Voi potrete
riposare in pace. Finalmente.
La
sua voce riecheggiò lungo il corridoio, scivolando tra le
nicchie e le statue.
-
Sono sempre più forte. Ogni giorno che passa. Non
fallirò. – promise.
Gettò
un ultimo, lungo sguardo al simulacro di Cora e a quello di Henry.
Più avanti
c’era un’altra nicchia. Vuota.
Quello
è il mio posto.
Rabbrividì
ancora, poi tornò sui suoi passi, ignorando la sensazione
pressante di quegli
sguardi di pietra che la osservavano.
Quando
riemerse, inciampò nell’ultimo gradino e per poco
non cadde in avanti. La
torcia le sfuggì di mano, scivolò sulle pietre e
si spense. Mani si allungarono
per aiutarla.
-
Maestà...
Lei
alzò lo sguardo, incontrando gli occhi azzurri del
comandante. Lo respinse con
un gesto seccato e si scostò. – Non ho chiesto il
Vostro aiuto!
-
Vi prego di scusarmi. Ho sentito dei rumori e sono venuto a
controllare. Non pensavo
Vi trovaste nella cripta. – Daniel richiuse la botola per
lei.
Regina
non rispose. Il comandante indossava l’armatura nera con la
pantera incisa sul
petto, il mantello, i guanti scuri ed era senza l’elmo.
“Potete
averlo, se lo desiderate”, le
aveva detto Tremotino.
-
Prendete la mia torcia, Maestà. – disse Daniel,
porgendogliela. – Vi servirà.
“E
Voi, essendo la regina di Mehlinus,
potreste avere chiunque. Ordinate. Gli altri eseguiranno.”
-
No. Tenetela Voi. Accompagnatemi.
Daniel
la guardò, sorpreso. – Ma il mio turno di
guardia...
Regina
sorrise e s’incamminò, senza rispondergli. Daniel
la seguì, facendole luce con
la torcia.
-
Non dovreste scendere nella cripta di notte, Maestà.
– osservò il comandante,
quando entrarono nel castello. Spense la torcia e la infilò
in un anello
conficcato nella parete. – O, se desiderate farlo, lasciate
che qualcuno Vi
accompagni.
-
Voglio andarci da sola, nella cripta.
Daniel
non replicò a quell’affermazione. Dopo un attimo
disse: - Posso fare
qualcos’altro per Voi, Maestà?
-
Sì. Seguitemi, Daniel.
Regina
lo condusse su per le scale che risalivano la torre centrale, in cima
alla quale
si trovavano le sue stanze. Il comandante la seguiva, esitante, con le
sopracciglia aggrottate.
-
Dovete scusarmi, se prima Vi ho aggredito. So che volevate soltanto
aiutarmi. –
disse a Daniel, in tono gentile.
Gentile?
No,
non era solamente gentile. C’era dell’altro.
-
Non ha importanza, Maestà.
-
Ma posso farmi perdonare. Perché non entrate?
-
Non posso. Sono le Vostre stanze. – Daniel
indietreggiò di un passo.
-
Sono io che Vi sto chiedendo di entrare. E poi non siate sciocco:
sapete benissimo
perché Vi ho condotto qui. Questa notte è fredda,
comandante. Non trovate anche
Voi?
-
Sì...
-
E perché trascorrere questa notte così fredda in
completa solitudine? – Regina
gli appoggiò una mano sul petto.
-
Maestà...
Lei
gli afferrò saldamente la mascella, facendogli male e lo
baciò, premendo con
forza la bocca sulla sua. Daniel tenne le labbra serrate e la
scostò da sé.
-
No. Io... non posso. Mi dispiace.
-
Non potete? – Regina gli appoggiò le dita sulla
nuca, accarezzandolo. – E
perché? Non sono un’estranea, Daniel. Sono Regina.
No,
non è vero, pensò,
frattanto, Daniel. Sentiva il profumo della sua pelle, la mano che
strisciava
sulla sua nuca. Le sue labbra rosse e piene erano un invito che nessun
uomo
avrebbe mai potuto rifiutare. Non poteva negare di esserne attratto.
Avvertiva
chiaramente il calore del suo corpo. La
Regina che ho conosciuto io non si sarebbe mai comportata
così. La Regina che
ho conosciuto io non avrebbe indossato questi vestiti, questi gioielli.
Non
sarebbe scesa nella cripta da sola, in piena notte. La Regina che ho
conosciuto
non avrebbe sfogato la sua rabbia sulla gente. La Regina che ho
conosciuto...
era bella e delicata. Era una fanciulla ingenua, forse. Ma dolce.
Le
dita di Regina si infilarono nei suoi capelli scuri. Lei
avvicinò di nuovo le
labbra alle sue, ma Daniel si ritrasse.
Regina
si lasciò sfuggire un’esclamazione seccata.
– Dunque Vi rifiutate?
-
Maestà... perdonatemi. Siete una donna bellissima, ma non
sarebbe giusto. Né
per Voi né tantomeno per me.
-
Oh, non sarebbe giusto! Ne fate una questione d’onore? Non
sono maritata,
Daniel. E nemmeno Voi. So che avete avuto dei figli da altre donne,
quindi non
siete un ingenuo e nemmeno così pudico.
-
Non si tratta di questo.
Il
punto è che tu non sei più quella
ragazzina, Regina. Io non so chi sia la donna che ho di fronte.
-
Ma se ritenete giusto punirmi, fatelo pure. – aggiunse
Daniel, chinando
leggermente il capo.
Volendo
posso costringervi,
comandante, pensò
Regina. Posso costringere chiunque a piegarsi
al mio volere. Potrei trasformarvi
nel mio cagnolino personale!
Ma
Regina non lo punì. Lo schiaffeggiò. –
Fuori dai piedi.
Chiuse
le porte delle sue stanze, sbattendole con violenza. Le fiammelle delle
candele
tremolarono. Alcune si spensero.
-
Che possa bruciare negli Inferi! – gridò. Prese
uno dei calici posati sul
camino e lo scagliò con violenza contro una parete.
Il
fuoco si accese di colpo, scoppiettando.
La
superficie dello specchio appoggiato sul tavolino accanto alla finestra
si
illuminò e il volto del Genio della Lampada emerse
dall’ombra, corrucciato.
Galleggiava in un mare di oscurità.
-
Che cosa Vi turba, Vostra Maestà? – le chiese, la
voce stanca. Da quando aveva
espresso il desiderio che lo aveva intrappolato nel suo stesso dono,
aveva
potuto vederla ogni giorno ed ogni notte, eppure l’unica cosa
che lei gli aveva
regalato erano state la sua rabbia e la sua frustrazione.
-
Che cosa mi turba, mi chiedi?! – gli rispose Regina,
furibonda. Afferrò lo
specchio. Stava per scagliarlo lontano da sé come aveva
fatto con il calice. Il
suo cuore era in tumulto. Daniel l’aveva rifiutata.
L’aveva guardata come se
nemmeno la conoscesse. Era vero, non era più la ragazzina a
cui aveva insegnato
ad usare la spada. Non era più ingenua né
sprovveduta. Ma lo aveva reso
comandante. Lo aveva sempre trattato con gentilezza. Eppure quella sera
lui non
l’aveva nemmeno voluta sfiorare.
“Siete
una donna bellissima, ma non
sarebbe giusto. Né per Voi né tantomeno per
me.”
Regina
accarezzò la cornice, osservando il volto del Genio. La
rabbia l’aveva lasciata
spossata. -Specchio, servo delle mie brame. – disse,
inclinando la testa di
lato. – Chi è la più bella del reame?
-
Voi. – rispose subito il Genio, senza esitazioni. –
Siete Voi la più bella, Maestà.
Foresta
di Rhun. Vicino a Camelot.
Est.
Emma
non aveva nessuna tomba su cui piangere o giurare vendetta. Non aveva
una
cripta sotterranea nella quale erano custoditi i simulacri dei suoi
genitori.
Ma pensava a loro ogni giorno; a David e ai suoi occhi azzurri pieni di
dolore
quando l’aveva lasciata andare via con Graham. Al momento in
cui le aveva dato
la spada. A quando, da bambina, la sollevava in alto, la lanciava e poi
la
riprendeva al volo, facendola ridere. Sua madre. Il suo sorriso dolce.
Gli
occhi verdi. Le sue dita che le accarezzavano i capelli o glieli
intrecciavano.
Sua madre che tirava con l’arco. Era bravissima. Non mancava
mai il bersaglio.
Quel
giorno i suoi pensieri vennero interrotti dalla lunga processione che
aveva
lasciato la città di Camelot. Emma la vide da un punto
sopraelevato; alle sue
spalle c’era uno dei suoi protettori, Gawain.
Lord
Leodegrance del Cameliard, padre della regina Ginevra, era morto,
cedendo così
il posto di lord al figlio maschio. Il re si stava recando ad ovest
insieme a
sua moglie per assistere alle esequie. Con lui viaggiavano alcuni
cavalieri in
sella ai loro destrieri, tutti in armature e cotta di maglia, con il
metallo
lucente che scintillava non appena intercettava i raggi del sole.
C’erano anche
scudieri e paggi, armigeri, servitori e stallieri. Griflet, scudiero
del re,
reggeva l’asta sormontata dal vessillo dei Pendragon, il
dragone dorato su
sfondo rosso. Squilli di tromba avevano salutato la partenza della
colonna.
Un
altro alleato di Artù è morto. Se
il re morirà senza eredi, scoppierà una guerra e
non ci sarà nessuno a
proteggere il trono, si
sussurrava a corte. Si sussurravano
cose che poi Agravain sussurrava a lei. Di solito era il fratello di
Gawain a
portagli le notizie più interessanti. Non solo quelle che
riguardavano Regina,
ma anche quelle che circolavano a Camelot. Emma era costretta a vivere
in una
foresta, nascosta, quindi voleva sapere tutto quello che
c’era da sapere. E
Agravain era la fonte migliore, dato che pareva sapere tutto
ciò che accadeva e
si diceva, non solo a Camelot e all’interno del castello, ma
anche nelle città
vicine. E conosceva ogni scandalo che avesse avuto luogo negli ultimi
dieci
anni. Spesso raccontava storie interminabili, divertenti e maliziose.
“Ma
il nuovo lord del Cameliard è il
fratello della regina. Perché non dovrebbe essere un alleato
di Artù?”, aveva
domandato Emma.
“Non
si può essere sicuri di niente,
Emma.” aveva
risposto il cavaliere, grattandosi la barba
rossiccia e a punta. “Lord Lavik è il
fratellastro della regina. Non è un
figlio legittimo del lord, ma è stato riconosciuto e quindi
ora è lord anche
lui. Se lo vedessi, penseresti a un ratto.”
“Perché
è molto brutto?”
“No.
Non è questo. Credo sia il suo modo di comportarsi. I suoi
occhi. Ha qualcosa
nello sguardo che ti fa pensare che non sia meglio di un ratto che
fruga tra i
rifiuti. Un grosso ratto nero e con il pelo lungo.”
Emma
ripensò al sogno che aveva fatto una volta, una notte
d’inverno.
“Resta
nella tua foresta! Ti
conviene. Se ne esci, morirai!”
“Muori,
principessa del nulla!”
“Le
tue ali sono bruciate, cigno!”
-
Sir Gawain... andiamo. Voglio combattere. – disse Emma,
allontanandosi
dall’altura e dirigendosi di nuovo nella foresta.
-
D’accordo.
È
quasi pronta, pensò
il cavaliere. Ancora qualche anno... e
poi vorrà andare. Vorrà la sua vendetta,
com’è giusto che sia.
Prima
che Emma potesse scagliarsi contro il cavaliere, qualcosa si mosse tra
gli
alberi della foresta. Rumore di passi.
-
Chi è là?! – gridò Gawain,
brandendo la spada. Anche Emma aveva estratto la
sua.
Non
giunse risposta.
Dalla
foresta sbucò un uomo con abiti in pelle nera, un mantello
di pelliccia sulle
spalle, i capelli castani e la barba corta. Non aveva armi in pugno.
Portava un
coltello infilato nella cintura e un altro nello stivale.
-
Non voglio combattere. Se avessi voluto aggredirvi, non mi avreste
sentito
arrivare. – disse l’uomo, mostrando i palmi delle
mani.
-
Sei tu... Graham. – disse Emma, costernata.
Rinfoderò la spada, guardando negli
occhi l’uomo che le aveva salvato la vita.
-
Sì, sono io.
Anche
Gawain l’aveva riconosciuto e aveva riposto la spada nel
fodero.
-
Volevo solo vedere Emma. Rivederla.
E
parlare. – disse, sorridendo.
-
Vi lascio soli, allora. – disse Gawain.
Graham
non era cambiato molto. Aveva i capelli più folti, forse. La
barba di alcuni
giorni. Ma era sempre lui. E, vedendolo, Emma non poté non
ripensare a quando
l’aveva portata in salvo. Non poté non ripensare a
lui che cavalcava sotto la
pioggia senza mai fermarsi, proteggendola con un mantello.
Finalmente
rivedeva un viso conosciuto. Non un viso del tutto nuovo, ma un viso
diverso da
quelli che vedeva ogni giorno.
-
É bello vederti, Emma. Sei cresciuta parecchio. –
disse Graham.
-
Sì. Credevo che non ti avrei più rivisto.
-
Ho sempre saputo dove ti trovavi. Ma viaggio spesso insieme al mio
Branco. È da
molto tempo che non vengo a est.
-
Non ti ho mai ringraziato davvero. Per quello che hai fatto per me. Mi
hai
salvato la vita.
-
Non c’è bisogno di ringraziamenti. Avrei voluto
fare molto di più per tuo
padre. Allora David e Mary Margaret erano i soli umani per i quali
provassi
simpatia. – Graham parlava come se non considerasse se stesso
un uomo. Ed Emma
sapeva bene perché. Gli unici uomini che avrebbero dovuto
prendersi cura di lui
l’avevano abbandonato poco dopo la nascita ed erano stati i
lupi a crescerlo. Aveva
qualcosa del lupo, Graham. Negli occhi. Nel modo di muoversi.
Graham
scrutava la ragazza che aveva di fronte a sé. Era bella. Era
sempre stata
bella, fin da quando era piccola. Aveva un che di magnetico nello
sguardo. – Ho
pensato molto a te.
-
Davvero?
-
Spesso ti sogno. Sogno quella notte, a Snowing Castle. Sogno che mi
chiedi
aiuto. Sogno anche di combattere al tuo fianco.
-
Anch’io ti ho sognato.
Ma
era un incubo.
-
Ho
sognato te e il
tuo lupo grigio. Lui è... ancora con te?
-
Akela. Sì, sta bene. Lui è sempre al mio fianco.
– Graham non le chiese cosa
avesse sognato esattamente.
-
Mi hanno portato notizie del tuo Branco. È vero che hai
accolto degli...
uomini?
-
É vero. Già da diverso tempo ci sono anche degli
esseri umani nel Branco. Sono
persone che non hanno più una casa.
-
Ti fidi di loro?
-
Sì. Hanno dimostrato il loro valore e la loro
lealtà. Non sono mercenari. Hanno
lasciato i vecchi padroni perché non sopportavano la loro
disonestà. Alcuni
sono stati esiliati, perché si sono rifiutati di obbedire
agli ordini. Altri si
sono esiliati di loro spontanea volontà. Ma sono uomini
sinceri.
-
Mi sorprende. Credevo che non ti piacessero gli uomini.
-
Ammetto che all’inizio non è stato semplice
accettarli. Io sono stato
abbandonato e poi cresciuto dai lupi. Per molti anni ho avuto poco a
che fare
con gli uomini e non li capivo nemmeno. Ora... beh, i miei compagni
posso
capirli.
Emma
sorrise.
Graham
rimase là, a fissarla.
-
Cosa c’è? – domandò Emma
-
Pensavo. Mi hai appena chiesto se mi fido dei membri del mio Branco...
-
Se ti ho offeso, mi dispiace. Non era mia intenzione.
-
Non mi hai offeso. – Lo sguardo di Graham era più
cupo, adesso. Più distante.
Come se stesse ricordando qualcosa. – Credo che i tuoi dubbi
su questi uomini
che vivono insieme a me siano legittimi. Tu non li conosci.
-
E allora cosa c’è che non va? Cosa ti preoccupa?
Silenzio.
La pausa fu molto lunga. Emma pensò che Graham non avesse
nemmeno capito la
domanda o non desiderasse rispondere, ma alla fine lo fece.
-
Non sentire niente.
Emma
batté le palpebre, perplessa. - Come?
-
Emma, tu ti preoccupi per me e ti preoccupi della lealtà dei
miei fratelli. Ti
preoccupa il fatto che possano voltarmi le spalle, un giorno. Che
possano
abbandonarmi o... peggio. Farmi del male. Ma quello che preoccupa me
è me
stesso.
-
Cosa vuol dire?
-
I miei fratelli hanno un cuore, Emma. Lo vedo. Sono sicuro di questo.
Ma io... io
non so se ne ho uno.
-
Non sai...? – Emma scosse la testa. – Graham, no,
tu...
-
Ho fatto molte cose di cui non vado fiero, in passato. Ho fatto cose
terribili.
Mi è capitato di uccidere. E quando lo facevo, non sentivo
niente. Non provavo
rabbia verso me stesso o dispiacere. Non ho provato nemmeno orrore o
vergogna.
Quando ho dovuto uccidere Peter...
-
Peter? Chi è Peter? – lo interruppe lei.
-
Peter era un membro del mio Branco. Era molto giovane, poco
più che un ragazzo
quando lo trovai. Era scappato di casa perché i suoi
genitori lo maltrattavano.
– Graham sedette sul tronco di un albero caduto. Ora la sua
espressione era
addolorata. Addolorata e tesa, mentre le parlava. – Fu colpa
mia...
-
Sono sicura che hai fatto il possibile per aiutarlo. – disse
Emma, sedendosi
accanto a lui e posando una mano sulla sua. Non si aspettava una simile
confessione. Conosceva Graham da molto tempo, da prima che le salvasse
la vita,
ma era la prima volta che lo sentiva così vicino. Vicino
eppure anche sperduto.
-
No. Avrei potuto fare di più, Emma.
-
Raccontami. Parlami di Peter.
-
Vuoi davvero ascoltare questa storia? Non ti piacerà.
Emma
era sicura che a Peter fosse successo qualcosa di terribile, ma non
credeva che
Graham non avesse fatto tutto ciò che poteva per aiutarlo.
Non credeva nemmeno
che lui non provasse niente, che non avesse un cuore. Voleva
dimostrarglielo,
per questo desiderava che le parlasse di quel misterioso ragazzo. -
Sì, Graham.
Voglio ascoltarla.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** 9. The Heart is a Lonely Wolf ***
9
THE
HEART IS A LONELY WOLF
[Graham
and Peter]
Si chiamava Peter ed era solo un
ragazzo quando lo conobbi.
È
accaduto in estate. Io e il mio
Branco eravamo nel DunBroch, una regione ad ovest del mondo conosciuto.
Ci
eravamo accampati nei pressi di un bosco, lungo le rive del fiume. Mi
ero
allontanato dal gruppo, seguito come sempre da Akela, per poter
riempire
d’acqua alcune borracce.
Lo
trovai accucciato vicino al fiume,
intento a sciacquarsi il viso. Indossava abiti che un tempo dovevano
essere
stati verdi, ma ora erano scuri e polverosi, logori, sporchi di fango.
Si girò
di scatto quando sentì i miei passi e sfoderò
subito un coltello, guardandomi
con gli occhi sbarrati.
-
Metti giù il coltello. Non intendo
farti del male. – gli dissi, alzando entrambe le mani per
mostrargli che ero
disarmato. Ce l’avevo anch’io un coltello, in
realtà, infilato nello stivale. La
mia voce era calma. Non era la prima volta che incontravo viaggiatori
solitari;
a volte erano solo viaggiatori, esploratori, persone senza
più una casa e che
si spostavano da un posto all’altro, senza fermarsi mai a
lungo da nessuna
parte, come facevo io con il mio Branco. Altre volte erano guerrieri o
fuorilegge che non vedevano l’ora di combattere, di assalirti
per rubarti ciò
che avevi addosso, compresi i vestiti.
Il
ragazzo restò là a fissarmi.
-
Sono venuto a prendere dell’acqua.
– Gli feci vedere le borracce.
-
Quello è un lupo. – constatò,
riferendosi ad Akela, che scrutava il giovane con i suoi occhi acuti,
uno rosso
e l’altro nero.
-
Sì, lo è.
-
È con te? – Continuava a puntarmi
contro la sua rudimentale arma, ma adesso sembrava incuriosito.
-
È sempre stato con me. – Mi chinai
e riempii le borracce, mentre Akela seguitava a tenere
d’occhio il ragazzo.
-
Vivi con i lupi?
-
Sono cresciuto con loro.
-
E la tua famiglia?
-
I lupi sono la mia famiglia.
Lui
esitò. - Qual è il tuo nome?
Mi
girai a guardarlo. – Mi chiamano
Graham. Il mio compagno, invece, si chiama Akela.
-
Io mi chiamo Peter.
-
Peter?
-
Puoi chiamarmi così. Peter. –
Pronunciò il proprio nome come una sfida, cosa che mi
indusse a pensare che non
fosse il nome che gli avevano dato gli uomini che lo avevano generato.
Lo
scrutai per un momento. Era snello
e castano e aveva un viso che poteva essere descritto come gentile,
anche se
scarno, probabilmente perché aveva sofferto la fame.
Avrà avuto... quindici
estati. Magari un paio di più. Non aveva ancora bisogno di
farsi la barba. I
suoi occhi verdi possedevano una vitalità sorprendente. Il
suo era uno sguardo
intelligente e furbo.
-
Che cosa fai qui da solo, Peter? –
gli chiesi. – Il sole è tramontato da un pezzo.
Non è un posto adatto ad un
giovane che viaggia senza nessuna scorta.
-
Lo so. Sono di passaggio.
-
E dove sei diretto?
-
Ancora non ho un’idea precisa. Da qualche
parte.
Dal
buio giunse il richiamo di un
gufo. Il silenzio, interrotto solo dall’ansimare di Akela,
era sinistro. - Non
hai una casa? – domandai. Anch’io ero incuriosito
da quel ragazzo. Volevo
saperne di più.
-
L’avevo. Ora non più. – mi rispose,
con noncuranza. Ripose il coltello. – Me ne sono andato.
-
Sei scappato.
-
Fa differenza? Non era casa mia.
Non lo è mai stata.
-
Quale pensi che sia il tuo posto?
Ci
raggiunse anche l’ululato di uno
dei membri del mio Branco. Akela drizzò la testa e le
orecchie.
-
Ci sto mettendo troppo. Meglio che
torni dai miei compagni. – gli dissi.
-
Lasciami venire con te.
L’aveva
detto impulsivamente, ma lo
osservai, stupito. – Come?
-
Potrei entrare nel tuo Branco. Voi
non vivete con gli uomini e a me non interessa vivere in mezzo a loro.
Accoglimi. Ci sono altri uomini come te, vero?
-
Sì. Altri tuoi simili. Ma sono
uomini, appunto. Sono adulti. Tu sei solo un ragazzo.
Parve
risentito per il semplice fatto
che l’avessi chiamato “ragazzo”.
– Non sono solo un ragazzo. Imparo in fretta.
-
Il mio Branco si sposta di
continuo. Non è una vita semplice.
-
Non mi aspetto una vita semplice.
-
Sai combattere? Cacciare?
-
Mi piace combattere. Non ho mai
combattuto con armi vere, ma solo con spade di legno. Ma
imparerò. Te l’ho
detto, sono uno che impara in fretta. Sono sopravvissuto fino ad oggi.
E ti
assicuro che sono parecchie lune che vivo in mezzo alla natura.
È questo il
posto per me. Come il dio Pan.
-
Pan?
-
Il dio della natura. Il dio
selvaggio. Non conosci il mito?
Avevo
sentito molte storie, nella mia
vita e mi sembrava di ricordare anche una leggenda che parlava di un
essere
metà uomo e metà animale che proteggeva le selve
e i pascoli.
-
Credo di conoscerlo un poco. –-
risposi.
-
Pan è il dio della natura, dei
pascoli e delle campagne. Lui rappresenta la libertà. Ed
è quello che io voglio
essere. Libero. Una cosa che non sono mai stato, Graham.
Perché i miei genitori
non me lo permettevano.
-
Ti tenevano prigioniero?
-
Mi maltrattavano. Quando mi
scovavano a giocare con ragazzi della mia età, mi punivano,
picchiandomi,
soprattutto mio padre. Lui mi costringeva a stare chiuso in un
ripostiglio per
ore. Diceva che giocare è una perdita di tempo. Per lui
dovevo solo lavorare.
Lo facevo. Mi spaccavo la schiena. Ma non era mai abbastanza.
– Più raccontava
e più si infuriava. I suoi occhi erano pieni di collera e
risentimento verso il
genitore. – Sai cosa gli dissi, un giorno? Sai cosa dissi a
mio padre quando mi
pescò a combattere con delle spade di legno insieme ad
alcuni compagni?
-
Dimmelo tu. Cosa gli dicesti?
-
Che un giorno me ne sarei andato.
“Un giorno volerò via da qui”,
così gli ho detto.
Immaginavo
che suo padre non l’avesse
presa bene.
-
Mi picchiò. Mi picchiò tanto che
quasi persi i sensi. Quando mi vide per terra, mi derise:
“Vedi? Tu non sai
volare. Non andrai mai da nessuna parte”. E mi
lasciò senza cena.
Ero
colpito. Non dal comportamento di
quegli uomini, perché sapevo bene quanto gli esseri umani
potessero essere
crudeli. Ero colpito da lui. Lo ammetto, mi piacque molto, quel
ragazzo. Se
potessi tornare indietro e cambiare il passato, lo manderei via e forse
gli
salverei la vita. Ma in quel momento mi piacque e non volli
allontanarlo. Mi
assomigliava, perché anche lui non voleva vivere in mezzo
agli uomini, in
quanto quegli uomini l’avevano tradito. Anche lui non si
sentiva parte di quel
mondo e desiderava abbandonarlo.
Così
accettai e gli dissi di
seguirmi. L’accampamento non era lontano.
Mentre
camminavamo, tirò fuori un
oggetto di legno. Era un flauto. Vi soffiò dentro,
producendo suoni armonici e
melodiosi.
-
Un flauto? – chiese, perplesso.
-
L’ho fatto io. Lo chiamo Flauto di
Pan. Anche il dio aveva uno strumento simile. – mi rispose,
orgoglioso. E
riprese a suonare.
Sorrisi,
ascoltando le note prodotte
dallo strumento.
Giungemmo
nei pressi della radura in
cui erano accampati gli altri membri del Branco. Vidi le braci di un
fuoco che
si stava spegnendo. Scorsi le ombre dei miei fratelli sdraiati
sull’erba. Stavo
per segnalare la mia presenza, quando una figura saltò
giù da un albero e,
muovendosi rapidamente, ci venne incontro.
Peter
arretrò e smise di colpo di
suonare. Si portò una mano alla cintola, dove teneva il suo
coltello.
-
Fermo! – ordinai. Il ragazzo mi
guardò, pensando che mi stessi rivolgendo a lui. In
realtà parlavo al mio
compagno.
-
Dove l’hai trovato, questo? Chi è?
-
Non è un nemico. L’ho trovato
vicino al fiume.
-
Si è perso?
-
No. Peter, ti presento Koga.
Peter
guardò Koga, con un
sopracciglio sollevato. Era un giovane robusto, con i capelli neri e
lucenti
legati in una coda alta. Gli occhi azzurri erano a mandorla e aveva
sempre
un’aria un po’ sfrontata. Teneva una mano
sull’elsa rossa della spada che
portava appesa alla cintura. Gli spiegai chi fosse Peter e gli dissi
che, d’ora
in avanti, sarebbe stato uno di noi.
-
Uno di noi? - chiese Koga,
osservandolo con sospetto.
-
Questo ti crea problemi?
-
Non saprei. Non sei una spia, vero?
-
Una spia di chi? – domandò Peter.
-
Di un lord. In fondo i lord e i re
hanno spie ovunque. Non che io mi aspetti la verità da te.
Se sei una spia...
non penso che me lo diresti.
Peter
emise un basso verso indignato.
Si scostò un ciuffo di capelli dalla fronte. – Non
sono una spia!
-
Possiamo credergli, Graham?
-
Certo. – risposi, mettendo una mano
sulla spalla di Peter. – Possiamo.
Koga
era affiancato da due lupi, uno
dei quali era Won-tolla, la lupa più anziana, con il pelo
bianco e coperto
dalle cicatrici di diverse battaglie. Montavano la guardia insieme a
lui. Peter
allungò una mano, sfiorando il muso della lupa e lei gliela
annusò brevemente.
Gli
altri membri del Branco, umani e
non, formarono un cerchio intorno a me e al nuovo arrivato.
-
Cos’abbiamo qui? – domandò Killian
Jones, aggrottando le sopracciglia scure e scrutando Peter.
-
Beh, sembra... un ragazzo – rispose
suo fratello Liam.
-
Che cosa vuoi, ragazzo? – domandò
Adair, sfilandosi un filo d’erba dalla bocca. Era
più vecchio di me e se ne
stava spesso sulle sue, imbronciato. Fissò Peter con uno
sguardo sospettoso. –
Non sembri ferito e non credo ci sia da mangiare, per te.
-
Voglio essere uno di voi. – rispose
Peter, senza esitare.
-
Ma guarda. E perché dovremmo
assecondare questa pretesa? Non abbiamo bisogno di altre persone.
– Adair si
avvicinò e lo squadrò da vicino. Era
più alto di Peter, con i capelli lunghi
fino alle spalle e gli occhi grigi.
Intervenni.
Adair metteva spesso in
discussione le mie decisioni. Era scontroso e mi aspettavo che un
giorno se ne
sarebbe andato. Ero sicuro che mi sarei svegliato una mattina e che non
l’avrei
più trovato.
-
Io ho detto a Peter che può
restare. Se gli altri sono d’accordo, resterà.
-
Bene, io non lo sono. – sentenziò
Adair, incrociando le braccia al petto. - È un ragazzo che
non ha ancora
bisogno di farsi la barba. Scommetto che non sa fare niente. Ci
rallenterà e
basta.
Peter
sembrava un vulcano pronto ad
eruttare. Era diventato tutto rosso.
-
Io sì, invece. – disse Killian. –
Suvvia, amico. Due mani in più fanno sempre comodo. E anche
due occhi.
-
Concordo. Mi sembra sveglio. –
commentò Liam, annuendo.
Anche
gli altri furono d’accordo.
Lo
invitai a sedersi davanti alle
braci del fuoco e a raccontare la sua storia. Lo fece di buon grado.
Non disse
mai da dove proveniva ed io non lo giudicai importante.
Poi
Killian gli raccontò la sua, di
storia. La sua e del fratello. Erano stati rispettivamente il tenente e
il
capitano di un vascello. Avevano servito a lungo lord Kaspar, un
signore dell’ovest,
un uomo potente, che li aveva mandati alle Isole Brumazzurra,
nell’Oceano Occidentale,
perché trovassero una misteriosa pianta curativa. Erano suoi
uomini da anni e
avevano fatto già molti viaggi per lui, in precedenza. Ma
questo viaggio era
stato diverso. Killian aveva capito subito che c’era qualcosa
che non andava in
quella missione, mentre Liam era sicuro che non vi fosse nulla da
temere.
-
Ma c’era. – disse Killian, appoggiando
i gomiti alle ginocchia e lanciando un’occhiata al fratello
maggiore. – Lord
Kaspar era un uomo avido e crudele. Quella pianta era
un’arma. Non era una pianta
curativa. Era velenosissima. Voleva usarla per uccidere.
-
Non mi rimproverare troppo. -
rispose Liam. – Gli ho creduto e me ne pento.
Peter
sembrava molto interessato a
quelle storie.
-
Quello è un flauto? – domandò uno
dei miei compagni, Ginta. Osservava lo strumento che Peter teneva
appeso alla
cintola, vicino al coltello.
-
Sì. È il flauto di Pan.
-
Chi è Pan? – volle sapere Hakkaku.
Lui e Ginta erano entrati a far parte del Branco insieme a Koga,
essendo suoi
amici. Hakkaku aveva la testa rasata, fatta eccezione per una bizzarra
cresta
bianca.
-
Il dio della natura. – rispose
Peter e, divertito dall’interesse che aveva suscitato,
raccontò la storia della
divinità chiamata Pan.
-
Suonaci qualcosa, amico. – propose
Killian.
Peter
suonò e riuscì a deliziare
tutti i presenti. Deliziò tutti, a parte Adair, che
borbottava, contrariato.
Fu
così che lo accettammo nel Branco.
Io mi occupai di insegnargli a cacciare e ad usare le armi, non solo il
coltello, ma anche una vera spada, che gli diedi subito dopo il suo
ingresso
nel gruppo. Peter la chiamò “Is
féidir”. Era vero che imparava in fretta. Era
un giovane sveglio e intelligente, furbo e vivace. Non gli sfuggiva
nulla. Era
ancora impulsivo ed irruente, cosa che mi preoccupava,
perché in un vero combattimento
avrebbe potuto costargli caro. Ma era solo un ragazzo ed era ancora
inesperto.
Gli serviva del tempo per placare la sua irruenza e combattere con
lucidità. La
sera, quando sedevamo intorno al fuoco, suonava il suo flauto.
Cercò di
insegnare anche a me a suonarlo, ma non riuscii mai ad imparare. E
nemmeno gli
altri, a dirla tutta. Solo Liam strappò qualche buona nota
da quello strumento
musicale. Adair non ci provò nemmeno.
Alcune
lune dopo l’arrivo di Peter
giungemmo in una regione dell’ovest chiamata Kernow. E
venimmo a sapere che i
Dohle, un gruppo di crudeli fuorilegge e mercenari il cui nome
significava Cani
Rossi, ultimamente avevano aumentato le scorrerie lungo i confini del
posto.
Distruggevano i raccolti, si prendevano le donne e qualche bambino, che
poi
veniva certamente venduto come schiavo, conquistavano le terre,
venivano
scacciati dagli uomini del lord che governava quella regione e dopo
poco
tornavano per riprendersele. E seminavano il panico.
Avevo
raccolto informazioni su di
loro una sera, mentre mi trovavo in una taverna. Il loro leader si
chiamava
Bryn, anche se il suo vero nome era Bankotsu; voleva che il suo nome
potesse
essere ricordato dal popolo, così si faceva chiamare solo
Bryn e pur essendo
poco più che un ragazzo era il più forte del
gruppo; maneggiava senza alcuna
difficoltà una pesantissima alabarda. Della stessa risma
faceva parte quello
che molti definirono un parente dei giganti che un tempo abitavano le
terre del
sud: Kester. Qualcuno sosteneva che le loro armi fossero speciali e
avvelenate,
perché tra di loro c’era anche un esperto di
veleni, un Cane Rosso di nome
Mungo.
Nessuno
sapeva da dove provenissero,
esattamente. Si diceva che certi Cani Rossi fossero nati nelle Terre
Ignote,
luoghi remoti, situati al di là del Mare Orientale, abitati
dai più biechi
fuorilegge, da bruti e schiavisti, da malvagi pirati e persino da
creature che
da queste parti non si vedono più da tempo. Come i draghi.
-
Draghi? – domandò Peter,
incuriosito e affascinato.
-
Draghi. – confermò Killian. – Non
so se sia vero o se siano solo storielle. Quel che è vero,
però, è che
qualsiasi nave si avventuri in quelle acque... non fa ritorno. Quel
posto è una
fottuta trappola.
-
Mi sembra un buon posto per i Dohle.
– osservò Liam.
Ero
allarmato, quindi, di notte, io e
i miei compagni ci davamo il cambio per montare la guardia. Ed eravamo
più
guardinghi del solito.
Tre
giorni dopo accadde.
Dormivo
profondamente, ma sentii
qualcuno che mi scuoteva brutalmente per strapparmi dal sonno. Era
Hakkaku ed
era pallido come cera. I suoi occhi neri erano sgranati.
-
Graham. Credo...
-
Cosa? – domandai, alzandomi subito.
-
Guarda.
Il
cielo si era tinto improvvisamente
di rosso e arancione. In realtà non era il cielo, compresi
subito dopo: quello
era il bagliore delle fiamme. Qualcosa, probabilmente delle case, stava
bruciando. Nell’aria aleggiava l’odore acre del
fumo.
-
Ma che...? – iniziai, alzandomi in
piedi e prendendo la faretra piena di frecce.
-
Graham... quelli sono guai. – disse
Killian.
-
Sono i Cani Rossi, vero? – domandò
Peter. Era uno di quelli che stavano montando la guardia, insieme a
Koga e
Hakkaku. – Dobbiamo andare ad aiutare quella gente!
Ero
certo che fossero i Cani Rossi. Erano
soliti incendiare le case e distruggerle, mentre saccheggiavano.
-
Dov’è Adair? – domandai, notando
che il mio compagno non c’era. Il suo giaciglio era vuoto.
Nessuno
seppe rispondere, ma in quel
momento c’era poco tempo per pensare e fare domande. Credetti
che avesse fatto
quello che mi aspettavo che facesse, ovvero andarsene.
-
Venite. Tenete gli occhi aperti. –
dissi.
Attraversammo
la radura e un tratto
di foresta che ci separava dal villaggio e più ci
avvicinavamo, più i rumori si
facevano più chiari. Più terribili. Urla di
dolore e paura, il crepitio delle
fiamme, l’odore sempre più forte del fumo, passi
in corsa...
Il
sentiero ci condusse direttamente
a quello che era stato un gruppo nutrito di case.
Regnava
il caos. Molti tetti erano in
fiamme. Diverse costruzioni si stavano ripiegando su se stesse, pronte
a
crollare. C’erano persone in fuga, con gli occhi sbarrati e
colmi di terrore,
ovunque. C’erano cani che abbaiavano furiosamente e cavalli
imbizzarriti.
C’erano anche corpi senza vita di uomini e donne, persino di
qualche bambino,
seminati per le strade. La terra era intrisa di sangue.
Nell’aria aleggiava un
puzzo terribile, di carne e legno bruciati, di odio e morte.
Riconobbi
subito il capo dei Cani
Rossi, Bryn, per via della pesante alabarda che maneggiava e che, in
quel
momento, stava puntando contro un uomo che cercava di difendere la
propria
famiglia. Era giovane, proprio come me l’avevano descritto,
con i capelli neri
raccolti in una lunga treccia, una stella viola a quattro braccia
impressa
sulla fronte e l’espressione determinata ma incredibilmente
calma, mentre
colpiva. Vicino a lui c’era un individuo magro e scattante,
che impugnava una
lunga sciabola. Sulle prime, lo scambiai per una donna. Ma era un
ragazzo altrettanto
giovane. Era Jacob, il secondo Cane Rosso più forte dopo
Bryn. I due combattevano
sempre vicini, coprendosi le spalle a vicenda.
Koga
non perse tempo ed estrasse la
spada. Peter estrasse la sua.
-
Costringeteli alla fuga. Ma state
attenti agli abitanti del villaggio. – ordinai.
-
Bene. – disse Peter, con un
sorrisetto sulle labbra. – Giochiamo!
“Giochiamo.”
Mi
vennero i brividi nel sentirlo
parlare così. Era la sua prima battaglia e ovviamente non
vedeva l’ora di
dimostrare la sua forza e il suo coraggio.
Akela
restò al mio fianco, ma ringhiò
ferocemente e così facendo indusse gli altri lupi ad
avanzare, minacciosi,
verso i nemici.
Uno
degli assassini, un uomo enorme,
molto più alto di me, con le spalle larghe, un torace
possente e due lunghe
braccia muscolose, cercò di afferrare Peter, ma non fu
abbastanza veloce. Si muoveva
in modo goffo e scoordinato. Kester. Il ragazzo gli sfuggì.
Io scagliai una
freccia per distrarre quel gigante. Lo colpii al braccio e lui
ruggì di dolore,
spalancando una bocca larga e mostrando due file di denti che
sembravano zanne.
Afferrò la freccia e la estrasse, poi venne verso di me,
caricando come un toro
a testa bassa. Lo scansai, allungai un piede e lo feci inciampare,
mandandolo
gambe all’aria. Akela lo morse al polpaccio.
Killian
incalzò Jacob. Quest’ultimo
vibrava colpi di sciabola ed era molto rapido, anche se sembrava
alquanto
sorpreso dalla presenza di quegli uomini armati nel villaggio. Mentre
parava i
colpi senza alcuna difficoltà, continuava a cercare il capo
con lo sguardo. Koga,
invece, si occupò di Bryn, che osservò il suo
avversario con aria di sfida. Ognuno
dei miei compagni cercava di tenere impegnato un Cane Rosso, mentre
Ginta e
Hakkaku cercavano di aiutare la gente a scappare oppure aiutavano i
feriti che
erano ancora in grado di camminare. Urla, grida e pianti disperati
riempivano
la notte.
Peter
si ritrovò faccia a faccia con
un Dohle agguerrito, che gli disse qualcosa in una lingua sconosciuta,
che lui
non capì, ma sembrava che lo stesse provocando. Il Dohle
estrasse la spada per
affrontarlo. Peter menò fendenti con la sua arma e
l’assassino rispose, parando
colpo su colpo.
-
Andiamo via! – gridò Bryn,
all’improvviso. Il capo dei Dohle doveva essersi reso conto
che la situazione
si stava mettendo male. I miei compagni avevano colto lui e i suoi
uomini alla
sprovvista. I Dohle saccheggiavano e uccidevano, ma era evidente che
non si
sarebbero mai aspettati quell’interruzione. Erano
disorganizzati. Confusionari.
Fu
allora che lo vidi.
Adair.
Era accanto a Bryn. Aveva
estratto il pugnale dal corpo di un uomo. Alzò la testa e
incrociò i miei
occhi. Mi sorrise, bieco.
Combatteva
con loro. Con i Cani
Rossi. Li aveva aiutati.
Alcuni
Dohle si mossero verso il loro
capo, anche il gigante che avevo fatto cadere, sebbene non facesse
altro che
imprecare e gridare oscenità.
-
Ritirata! Mi hai sentito?! – chiamò
il capo, furibondo.
Si
stava rivolgendo all’avversario di
Peter, che non ascoltò. Continuò a combattere
contro di lui. Anche Peter sorrideva.
Lasciò partire un affondo che quasi colse
l’assassino impreparato.
-
Dobbiamo ritirarci, Simon, datti
una mossa! – gridò ancora Bryn.
Un
Cane Rosso con i capelli lunghi,
raccolti in un codino, che imbracciava lo scudo sul quale capeggiava il
simbolo
del gruppo, cani rossi su sfondo nero, si staccò dai
compagni e si diresse
verso i due contendenti. Era pallido, stanco e sembrava anche nauseato.
L’assassino
impegnato nella lotta,
intanto, vibrò un colpo di punta e ferì Peter di
striscio ad un braccio. Spillò
sangue.
-
Colpo scorretto! – esclamò Peter,
rispondendo con un affondo. Stava vincendo. Lo vedevo. Era troppo
irruente, ma
stava vincendo. L’avversario, pur essendo più
robusto di lui, era in
difficoltà.
Poi
arrivò l’altro. Arrivò un Cane
Rosso alto, con strisce verdi dipinte sul viso, le labbra arricciate in
un
ghigno sadico e le mani coperte da un paio di guanti di cuoio dai quali
spuntavano
artigli lunghissimi e affilati.
-
No! – gridai. Allungai una mano
dietro di me per prendere una freccia.
-
No, Seamus! – disse il Cane Rosso
che si era avvicinato per recuperare il compagno che non aveva
ascoltato gli
ordini del capo.
Peter
lo vide. Vide con la coda
dell’occhio Seamus e il barbaglio dei suoi artigli che
incontravano il bagliore
delle fiamme, ma quando si girò per affrontarlo era troppo
tardi. Seamus
abbassò la sua arma e l’affondò nella
carne di Peter, tra collo e spalla. Peter
urlò, piegandosi subito sulle ginocchia.
-
Peter! – gridai. Nel preciso
istante in cui scagliai la freccia che avevo incoccato, il Cane Rosso
che aveva
ferito Peter afferrò il compagno che gli aveva detto di
fermarsi e lo usò come
scudo umano. La freccia trapassò l’uomo,
colpendolo al centro del torace. Poi Seamus
raggiunse gli altri membri del gruppo e corse via con loro.
-
Koga, non inseguirli! Non serve! –
sentì gridare Ginta.
-
Maledetti! – urlò Koga. – Adair!
Traditore! Torna indietro, se ne hai il coraggio! Ti ho visto!
Adair
fuggì nella foresta, ma non
andò dietro ai Dohle.
Peter
cadde riverso al suolo. Il Cane
Rosso trafitto dalla mia freccia cadde a sua volta. Quando li
raggiunsi,
quest’ultimo era già morto. Scorsi il suo volto,
gli occhi aperti e ormai
vuoti, e mi resi conto che non era un volto brutale. Sembrava una
faccia
gentile.
Mi
chinai su Peter e gli cinsi le
spalle con un braccio per sollevarlo. La ferita era profonda, perdeva
molto
sangue. Attraverso lo squarcio provocato dagli artigli di quel mostro,
vedevo i
muscoli della spalla. La sua giacca era già inzuppata.
Quando cercò di parlare,
altro sangue uscì dalla bocca.
-
Va tutto bene. Sono qui con te,
Peter. – gli dissi, per rassicurarlo. Anche se non andava
bene, perché quella
ferita era mortale.
-
Graham...
-
Dobbiamo portarti via.
-
No, Graham... non c’è niente... non
c’è più niente che tu... possa fare per
me. – I suoi occhi erano velati.
Soffriva terribilmente. Ciuffi di capelli biondi gli erano ricaduti
sulla
fronte sudata. Eppure, riuscì a curvare le labbra
all’insù. Riuscì a sorridere.
- A parte... a parte una cosa.
-
Cosa?
-
Finiscimi, Graham.
Scossi
il capo con forza. - No,
Peter. Ti porto via. Non posso...
-
Puoi...
-
Peter...
-
Ascolta, Graham... - Tossì. Sputò
altro sangue. I suoi occhi si chiusero per qualche momento, poi si
riaprirono e
parvero più limpidi. Persino più adulti.
– Io... non ho paura. Non ho paura...
di morire. La morte... può essere... una grande avventura.
La
morte, per me, era la morte. Non
era un’avventura. Ma non potei replicare.
-
Ti prego. - mormorò.
Furono
le parole decisive. Sarebbe
morto, ma molto più lentamente se non avessi fatto quello
che mi chiedeva.
Estrassi
il coltello che tenevo nello
stivale. Intorno a me l’aria era spessa e soffocante, sulle
strade turbinava un
vento caldo, il legno bruciato crepitava e scoppiava. Le grida erano
quasi del
tutto cessate. Ora c’erano pianti e gemiti ovunque. Il tetto
di una casa, privo
di sostegno, crollò miseramente, sollevando una nuvola di
polvere e ceneri
roventi.
Peter
mi sorrise un’ultima volta, poi
sembrò rivolgere gli occhi al cielo, alle stelle e alla
falce di luna che
vedeva attraverso le volute di fumo denso.
Stava
ancora guardando quando affondai
la lama del pugnale nel suo cuore. Non emise nemmeno un lamento. Il suo
sguardo
divenne vuoto e il suo corpo si rilassò.
-
Feci preparare una pira e bruciammo il suo corpo. - disse Graham ad
Emma, dopo
qualche istante di silenzio. Abbassò la testa e vide la mano
di lei premuta
sulla sua. Sollevò il capo e notò che i suoi
occhi verdazzurri erano arrossati
e lucidi, quasi stesse per piangere.
Emma
era profondamente colpita da quella storia. Cercava di immaginare quel
ragazzo
fuggito da casa, che aveva trovato rifugio nel Branco di Graham ed era
morto
giovanissimo, per colpa di un brutale assassino.
-
Dopo quello che è accaduto a Peter... mi sono ripromesso di
non accettare mai
più ragazzi così giovani nel Branco.
-
Ma?
Graham
si alzò. – Ma ho infranto anche quella promessa.
Tempo dopo arrivarono altri...
che chiesero di essere accettati nel Branco. Tra di loro
c’era un giovane.
Probabilmente mi sono lasciato influenzare dal suo nome. Si chiama
Peter. Anche
lui.
Emma
sorrise. – L’hai accettato.
-
Sì. Koga se n’è andò qualche
luna dopo la morte del ragazzo, perché aveva
conosciuto una donna di nome Ayame e se ne era innamorato. Ginta e
Hakkaku
l’hanno seguito. Erano arrivati con Koga e quindi se ne
andarono con Koga.
Killian e Liam sono ancora con me. Adair... beh, l’ho
rivisto, ma non gli ho
permesso di avvicinarsi ai miei compagni. Ha fatto la sua scelta.
Emma
restò in silenzio.
-
E quando arrivò Peter... il secondo Peter... decisi che ogni
membro del mio
Branco avrebbe sempre avuto con sé un lupo, proprio come io
ho sempre avuto al
mio fianco Akela. Un lupo che potesse proteggerlo se si fosse ritrovato
in
difficoltà o in pericolo.
-
Hai preso la decisione giusta.
-
Capisci, ora, Emma? – domandò Graham, guardandola
con occhi intrisi di
tristezza.
-
Oh, sì. Capisco.
-
Ho ucciso Peter.
-
L’hai aiutato a morire. Hai impedito che soffrisse. Hai fatto
ciò che lui ti ha
chiesto. Era misericordia, Graham. – Emma si
avvicinò.
-
È morto per colpa mia.
-
Non è vero. Tu hai fatto il possibile. Non potevi
prevedere... che Adair ti avrebbe
tradito, né che i Cani Rossi fossero vicini.
-
Non avrei dovuto accettarlo.
-
Peter si è sentito a casa, grazie a te. Si è
sentito libero, come desiderava!
-
Non ho versato neppure una lacrima quando ho visto il suo corpo
bruciare. Sono
andato avanti e non ho versato neppure una lacrima.
-
Graham...
-
Non ho provato orrore. Né disgusto verso me stesso. Capisci
quando ti dico che
io non ho un cuore? Non sento niente, Emma.
-
Graham... davvero sei convinto di non avere un cuore?
-
È l’unica spiegazione per il fatto che non riesca
a provare niente.
-
Graham... tu ce l’hai un cuore.
Lui
scosse il capo, affranto.
-
Te lo dimostro. – Emma si avvicinò di
più al Figlio dei Lupi, senza smettere di
guardarlo. Allungò una mano, con cautela, poiché
non sapeva se Graham volesse
essere toccato. E appoggiò il palmo aperto sul suo petto,
all’altezza del
cuore, sentendolo battere sotto lo strato di cuoio nero. Emma gli
sorrise per
incoraggiarlo. – Senti? Sta battendo. È reale.
Graham
non rispose. Si morse il labbro.
Allora
Emma gli strinse una mano e gliela sollevò, sostituendola
alla sua. Lo
costrinse a tenere quella mano sul cuore. Graham sfuggì il
suo sguardo.
-
Ecco. Il tuo cuore. Sta battendo.
Graham
si scostò bruscamente. – No. Non è
vero. Non significa niente.
-
Non puoi pensarlo davvero. Hai accolto quel ragazzo nel tuo Branco. Ti
sei
preso cura di lui, ti sei sentito in colpa quando è morto.
Ti preoccupi per i
tuoi fratelli, vuoi che siano al sicuro e infatti hai deciso che ognuno
di loro
debba essere protetto da un lupo. Tutto questo dimostra che tu hai un
cuore,
Graham.
-
È solo la cosa giusta da fare. Preoccuparmi per i miei
fratelli. Io sono
l’Alfa. È mio dovere...
Emma
restò a guardarlo, con la testa leggermente inclinata.
-
Cosa c’è? – domandò Graham.
Lei
si fece più vicina, gli appoggiò una mano sulla
spalla e poi lo baciò.
Non
aveva mai baciato un uomo in quel modo prima di allora, ma con Graham
le venne
naturale. Forse perché lo conosceva da molto tempo e aveva
sempre pensato che
fosse attraente, forse perché le aveva salvato la vita,
forse perché l’aveva
commossa con la sua storia e con tutti i suoi dubbi.
Lo
baciò, assaporando piano le sue labbra leggermente
screpolate, mentre la barba
castana sfregava un po’ contro la sua pelle.
L’odore del Figlio dei Lupi era
forte. Non sgradevole, ma intenso. Era un odore selvaggio.
L’odore degli uomini
che vivono nei boschi.
Stupito,
Graham mosse la bocca contro la sua, in modo incerto, come se nemmeno
lui
sapesse bene che cosa fare.
Emma
si allontanò, le guance arrossate, una ciocca di capelli
biondi che le ricadeva
sul viso. Graham la fissò con gli occhi dilatati.
-
Allora? – Emma si schiarì la voce, distogliendo lo
sguardo. – Pensi ancora di non
avere un cuore? Non hai... non hai sentito niente?
Graham
strinse le labbra e vi passò sopra la punta della lingua,
come se stesse
ricercando il sapore di Emma su di esse. Batté le palpebre.
Dal
folto della foresta venne un guaito basso. Un lupo grigio fece capolino
da una
macchia di cespugli. Osservò Emma con i suoi strani occhi.
Uno rosso come il
sangue e l’altro nero.
-
È Akela. – disse Graham, rinfrancato. –
Devo andare, adesso.
-
Sì...
-
Grazie. – Il Figlio dei Lupi le toccò il viso con
la stessa mano che Emma gli
aveva posato sul cuore un attimo prima. Sorrise, dolcemente. Sembrava
stesse
meglio. Emma capì che quel ‘grazie’ era
rivolto a lei. La ringraziava per ciò
che aveva appena fatto: dimostrargli che lui non era insensibile come
credeva.
Il suo bacio era stato importante.
Emma
arrossì. – Spero di rivederti.
-
Ci rivedremo. Ne sono sicuro.
Restò
a guardarlo mentre spariva nella Foresta di Rhun, seguendo il suo lupo.
_____________________________
Salve
lettori.
Tecnicamente
questo capitolo è un crossover. Alcuni personaggi (Koga,
Ginta, Hakkaku, i briganti...) appartengono a Inuyasha, una serie di
manga ed anime creata da Rumiko Takahashi.
Il Peter
che incontra Graham ha l'aspetto di Robby Kay, quindi del Peter Pan di
Once, che in questa storia non ha legami con Tremotino e non
è un personaggio negativo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** 10. Thirst of Revenge ***
SECONDA
PARTE
RISE
OF THE FALLEN
10
THIRST
OF REVENGE
Undici
anni dopo la caduta di Snowing Castle.
Foresta
di Rhùn. Vicino a Camelot.
La primavera scivolava
delicatamente sulle terre vicine a Camelot. I prati verdi si
ricoprirono di
margherite, viole e gigli selvatici. Tra le pietre dei terreni
più sterili e
nei boschi, vicino ai torrenti, spuntarono gli anemoni rossi, fiori
effimeri e
simili a grosse gocce di sangue. Le vigne si coprirono di germogli e in
ognuno
di quei germogli dalla punta scarlatta si raccoglievano i grappoli e il
vino
nuovo. Gli uomini che vivevano nelle casupole e nei villaggi sparsi per
le
terre governate da Artù, costantemente indaffarati in quelle
vigne e nei loro
campi, cantavano canzoni e levavano preghiere alla Dea Madre
perché desse loro
un raccolto ricco, abbondante, con il quale sfamare i figli e le mogli.
Nella
foresta di Rhùn, a
poche leghe da Camelot, dove gli sguardi indiscreti non giungevano mai,
si
udiva spesso un cozzare di spade, grugniti di persone impegnate in
qualche
combattimento.
Emma,
la figlia dei
defunti sovrani di Snowing Castle, era ormai una fanciulla di
vent’anni, bella
e caparbia, ammirata dai cavalieri del re Artù, che la
proteggevano,
nascondendola agli occhi di chiunque potesse essere un pericolo per
lei.
Emma,
nella foresta,
aveva imparato a combattere. Teneva sempre con sé la spada
che le aveva donato
suo padre prima di lasciarla andare via con Graham. Aveva imparato a
battersi
con quella. Ferendosi, a volte, ma senza mai lamentarsi.
Nessuno
sapeva che era
sopravvissuta alla caduta di Snowing Castle. Anatlon, il Regno del Sud,
versava
in stato d’abbandono. Quando i messaggeri e i soldati erano
costretti ad
attraversarlo per raggiungere il Mare del Sud, lo facevano
più in fretta che
potevano, inseguiti da storie piene di sangue e orrore, di fantasmi e
morti che
si levavano perché non avevano mai ricevuto una degna
sepoltura e non trovavano
pace.
Quella
mattina il cavaliere
incaricato di proteggere Emma era il più giovane di quelli
che sedevano alla
Tavola Rotonda; Galahad, il figlio di Lancillotto.
-
Affondo! - gridò il
giovane e si mosse in avanti, abile e rapido.
Emma
parò il colpo. Le
spade cozzarono. Non era facile combattere contro Galahad.
Perché il cavaliere
era mancino e la costringeva ad usare il braccio sinistro.
Devi
imparare ad usare anche l’altro braccio, Emma. Può
essere fondamentale in un
duello, le
aveva detto una volta.
-
Fendente, a destra! -
Galahad lasciò partire un colpo dall’alto verso il
basso, alla sua destra.
Emma
dovette abbassarsi,
piegando leggermente le ginocchia. Le spade cozzarono di nuovo.
Galahad
menò un altro
colpo, stavolta senza avvertirla e lei, per un pelo, non venne colta
alla
sprovvista. Fece un salto indietro, fermò
l’ennesimo affondo del cavaliere e
poi, in un baleno, lo disarmò. La spada di Galahad cadde
sull’erba. Il
cavaliere si inginocchiò ed Emma gli puntò la
lama sulla gola.
Lui
sorrise. – Sei...
sorprendente, Emma.
-
Grazie. - disse Emma,
rinfoderando la spada.
-
Sono un buon
insegnante, allora. - Galahad si alzò. Il combattimento
l’aveva stancato, anche
se era stato davvero divertente. Ripose la sua spada, Kylr, nel fodero
in pelle
di daino.
-
Direi di sì. Abbiamo
già finito?
-
Ma stiamo combattendo
da parecchio tempo!
-
Non sono stanca.
-
Io ho bisogno di una
pausa. Il sole è alto. Inizia a fare molto caldo. Vieni,
andiamo al torrente.
Emma
lo seguì lungo lo
stretto sentiero fra gli alberi, fino ad un largo torrente, che
digradava per
scendere in una piccola valle. Dal punto più alto potevano
vedere i piccoli
villaggi accatastati sulle colline, i campi e le vigne. Più
lontana, ma
visibile, Camelot, circondata dalle sue mura grigie e scintillanti.
Galahad,
restando in una
zona d’ombra, si bagnò il viso e le mani
nell’acqua. Il figlio di Lancillotto
aveva diciotto anni; era decisamente più alto di lei, aveva
un fisico asciutto
e scattante, come quello di un corridore; i suoi muscoli erano
perfettamente
delineati, guizzanti sotto la pelle chiarissima. Possedeva anche una
certa,
raffinata eleganza. Si bagnò le mani, per poi passarsi le
dita nei folti
capelli corti e quasi bianchi, arruffati.
Emma
spostò lo sguardo
sulle lontane colline verdeggianti mentre inspirava per avvertire gli
odori
della primavera. Si trovava nella Foresta di Rhun da così
tanto tempo, ormai, da
avere una gran voglia di spazi aperti, di radure sterminate, anche di
montagne,
invece delle solite infinite schiere di alberi. Non provava sollievo
quando ne
usciva momentaneamente, dopo essersi assicurata che non ci fosse
nessuno nei
paraggi, perché sapeva che sarebbe dovuta tornare nel folto
della foresta. Nel
punto in cui c’era il suo rifugio, i rami erano
così fitti che era quasi
impossibile vedere il cielo. Quando pioveva, la densità del
fogliame la faceva
piombare nelle tenebre, come se fosse stata sepolta in una cripta.
-
Il destino è
inesorabile e la vita, a volte, pare una beffa degli dèi. -
aveva detto
Merlino, tempo addietro.
Aveva
ben impressa nella
mente la sua promessa. Era pronta a mantenerla, ormai. Sapeva usare la
spada
che aveva ricevuto in dono. Sentiva di potersi battere contro la donna
che
riteneva responsabile di tutto quello che era accaduto alla sua gente e
ai suoi
genitori.
Regina.
La
figlia della donna che aveva attaccato a
tradimento e ucciso i suoi genitori, massacrato la sua gente senza
pietà e
distrutto la sua casa. L’erede che continuava a regnare
esattamente come la
madre, opprimendo i suoi sudditi e preparandosi, forse, a conquistare
ogni
terra conosciuta.
-
A cosa pensi, Emma? -
domandò Galahad.
-
A nulla. Torniamo?
-
Sì.
Nymeria.
Regno di Mehlinus. Nord.
Il castello nero della
regina del nord sovrastava la città di Nymeria in tutta la
sua imponenza. Sulla
cima della torre centrale sventolava lo stendardo sul quale capeggiava
la
pantera nera. Il cielo era solcato da pesanti nuvole grigie, che
rendevano il luogo
ancora più inospitale.
La
regina stessa, stretta
in abiti di pregiata seta blu, appariva oscura, potente e regale. Il
trono su
cui sedeva era nero, con lo schienale alto e i braccioli imbottiti.
Si
trovava proprio lì,
quando le porte massicce della sala del trono si spalancarono. Prima
entrò il
comandante delle guardie, chiuso nella sua armatura con la testa di
pantera
incisa sul petto. Solo gli occhi azzurri erano visibili. Si
inchinò. Dopodiché
entrarono due guardie, trascinando un uomo pallido e scarmigliato,
vestito di
stracci, con le mani e i piedi incatenati. Aveva la follia dipinta
negli occhi.
Era stato rinchiuso nelle fetide segrete del castello per giorni, con
pane
raffermo come cibo e pochissima acqua. Aveva urlato, supplicato, aveva
chiesto
perdono, ma nessuno era venuto a liberarlo. Fino ad oggi.
Lo
costrinsero ad
inginocchiarsi davanti al trono.
-
Vostra Maestà. - iniziò
una delle guardie. - Abbiamo portato al Vostro cospetto
l’uomo che intendeva
porre fine alla Vostra vita.
-
Non ho attentato alla
vita di nessuno, io volevo... - cominciò a dire il
prigioniero.
L’altra
guardia lo colpì
al viso con uno schiaffo. - Nessuno ti ha chiesto di parlare!
L’uomo
tacque.
-
Dicevo... - riprese la
guardia. - Che abbiamo portato al Vostro cospetto...
-
Ho capito - rispose
Regina, in tono seccato. Rivolse un’occhiata priva di
qualsiasi interesse al
prigioniero. - Lasciatelo parlare.
-
Grazie... grazie, mia
regina. - disse lui, riverente. - Io... non intendevo attentare alla
Vostra
vita. Ho rubato delle armi, questo è vero... e ho cercato di
prendere due sacchi
di grano dalle dispense del castello. Ma non avrei mai attentato alla
Vostra
vita! Lo giuro! La mia famiglia... ho quattro figli, stanno morendo di
fame
perché il raccolto lo scorso anno è andato...
è andato male. Quindi...
-
Quindi hai pensato bene
di prendere il grano. E le armi? - domandò Regina.
-
I briganti... le terre
intorno a Nymeria pullulano di briganti. Una volta...
-
Basta così. - lo
interruppe Regina, levando una mano.
-
Ma mia regina...
-
Non voglio sentire
altro.
-
Chiudi quella
boccaccia, stolto. - intimò una guardia, afferrandolo per i
capelli.
Il
comandante delle
guardie sembrava una statua di sale.
-
Cosa dobbiamo fare di
quest’uomo, Maestà? - domandò la
guardia che aveva schiaffeggiato il
prigioniero.
-
Portatelo fuori da qui.
Portatelo in piazza e...
E
tagliategli la testa, pensò
il consigliere della regina,
Tremotino. Era in piedi accanto al trono, lo sguardo fermo, un mezzo
sorriso che
gli aleggiava sulle labbra. Aprì un paio di bottoni della
sua casacca di lana,
adatta a fronteggiare le rigide temperature del nord, guardando il
ladro come
se fosse stato una specie innocua e ridicola di scarafaggio.
-
E impiccatelo. -
continuò Regina, con un tono implacabile.
Oh,
beh, che peccato, nessuna testa che rotola, pensò
Tremotino.
Il suo sorriso si allargò, diventando ancora più
inquietante.
-
Sì, Vostra Maestà. -
disse la guardia. Lui e il suo compare afferrarono l’uomo per
le braccia.
Quest’ultimo iniziò a piagnucolare, a chiedere
pietà, ma non venne ascoltato.
Lo trascinarono verso l’ingresso, urlante.
-
Non ho ancora finito! -
gridò Regina. La sua voce rimbombò lungo le
quattro pareti ricoperte di arazzi
della sala del trono. Daniel sussultò.
Tremotino
osservò la
regina, in attesa.
-
Dopo che l’avrete
impiccato, lasciatelo penzolare per un po’. Voglio che tutti
lo vedano.
Lasciate che i corvi gli becchino la faccia e gli occhi. Che sia da
monito a
tutti coloro che cercheranno di mettere le mani su ciò che
mi appartiene!
-
BALDRACCA! - gridò il
folle mentre veniva trascinato via. - MORIRETE, UN GIORNO DI QUESTI! VE
LO
AUGURO, PERCHÉ SIETE SOLO UN’AVIDA BALDRACCA!!
Le
guardie lo
schiaffeggiarono e sferrarono calci. Gli aprirono una ferita sulla
fronte, sgorgò
il sangue che gli inondò la faccia. Poi uscirono.
L’ultimo fu il comandante
delle guardie, che stringeva i denti. Aveva arrestato
quell’uomo all’alba,
cogliendolo sul fatto e già sapeva che cosa gli sarebbe
successo non appena
fosse comparso davanti a Regina. Aveva sperato che lei lo facesse
frustare e
basta o che gli chiedesse di gettarlo di nuovo nelle segrete. Avrebbe
anche
potuto fargli tagliare una mano. Nelle terre dei lord era quello che
accadeva
ai ladri, il più delle volte. Ma aveva sperato invano.
Le
porte si chiusero.
L’espressione
di Regina
subì un mutamento; gli occhi scuri si velarono di
turbamento. Poi la mano
destra cercò e trovò l’elsa della spada
che teneva sempre vicino a sé.
-
Avete preso la
decisione giusta, Maestà. - disse Tremotino. -
Quell’uomo mentiva. Era
evidente. E non era veramente pentito.
Regina
non rispose.
Continuava ad accarezzare l’elsa di Stormbringer.
Tremotino
era
soddisfatto. Quando la figlia di Cora era salita al trono, era una
ragazza molto
giovane, ingenua; era ambiziosa, ma il popolo non l’avrebbe
mai temuta. La
morte di entrambi i suoi genitori aveva indurito il suo carattere, ma
erano
stati il tempo e i suoi insegnamenti a farla diventare ciò
che era adesso: una
donna potente, che la gente guardava con timore, se non con terrore.
Una donna
che non aveva pietà di chi violava le ferree leggi del
regno. Una donna che
guardava il mondo come se fosse qualcosa da possedere, da conquistare.
Tutto.
Fino all’ultima terra conosciuta. Una donna che, per
dimostrare forza e
carattere, aveva deciso di scegliere un altro simbolo per il suo regno:
non più
un melo, ma un animale oscuro e aggressivo, la pantera. La pantera con
le fauci
spalancate su sfondo viola.
Stormbringer.
La spada di tuo padre. Henry, oh già, pensò
Tremotino. Chissà cosa direbbe se
fosse qui, ora.
-
Vostra madre sarebbe
orgogliosa di Voi. - osservò il consigliere, per infonderle
sicurezza.
-
Sì... - disse Regina,
pensierosa. - Mia madre...
-
Sarebbe stato davvero
bello se fosse stata qui, ad assistere.
-
Ma non è qui.
Breve
silenzio.
-
Stanotte ho fatto un
sogno. - Regina sembrò cambiare improvvisamente argomento.
-
Che genere di sogno?
-
Un incubo. Ero a
Snowing Castle e i miei uomini avevano incendiato il castello e ucciso
i sovrani.
La gente mi accusava. Mi additava e mi accusava. Mi chiamavano
traditrice.
Sembrava tutto... molto reale.
Dannazione
anche ai sogni, pensò
il consigliere.
-
Maestà... avete già
fatto questo sogno altre volte. Non badategli. I sogni vanno
interpretati nel
modo giusto. Sapete bene come sono andate le cose. Ve l’ho
raccontato molte
volte. Tutto il regno lo sa. Non lasciatevi ingannare dagli incubi.
Sono
convinto che molti Vi additeranno, ma siete sempre stata nel giusto.
Regina
accarezzava
Stormbringer, non l’elsa ma la lama, come se preferisse il
morso gelido dei
bordi affilati. Parlava quasi fosse ancora preda del proprio incubo. La
sua
voce era strana, quasi assonnata. - In realtà loro ci hanno
ingannati.
-
Ci hanno ingannati. Ci
hanno teso una trappola e poi hanno trucidato molti dei nostri uomini.
–
Tremotino scosse il capo e sospirò. Guardò la
spada di Regina. La donna strinse
di nuovo l’elsa. - E siamo ancora in pericolo. Ma Voi siete
più forte, adesso.
Siete più temuta. Avete la Vostra spada, Strombringer... e
avete la magia. La
magia... è potere.
L’espressione
di Regina
si indurì. I suoi occhi fiammeggiarono di rabbia...
Tremotino vide chiaramente
le iridi che cambiavano colore; dal nocciola al nero e dal nero al
viola. La
magia stava scorrendo nelle vene e nella mente della regina.
-
Cora fece quello che
poteva. Ma Voi... farete molto di più. I Blanchard si
sentono al sicuro dietro
al loro sortilegio. Ma non lo saranno ancora per molto.
Regina
sentiva l’odio
montare come una marea. Bruciava nelle sue vene come acido. In bocca
aveva un
sapore amaro, il sapore della vendetta, quella sete di vendetta che era
diventata quasi impossibile da domare. I Blanchard avevano ucciso sua
madre.
David, il re di Anatlon, aveva ucciso Henry, suo padre, quando lei era
ancora
una bambina. In duello. Non aveva combattuto con onore. Henry, che era
un
cavaliere forte e valoroso, non avrebbe mai colpito un avversario a
tradimento...
-
Sarà mio... - mormorò
Regina.
-
Ne sono certo.
-
Anatlon... sarà mio. –
ripeté, parlando a se stessa e non più al suo
consigliere. - Lo prometto.
Presto o tardi, tutto sarà mio.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** 11. Eyes on You ***
11
EYES
ON YOU
Deep Valley. Lothian.
Terre dei lord. Ovest.
L’araldo
d’armi consegnò
le lunghe lance di frassino ai due giostranti e si ritirò
alla svelta.
Sulla
pista, davanti ad
un palco coperto, era stata sistemata la barriera di legno che serviva
a
separare i contendenti durante la galoppata uno contro
l’altro.
I
cavalieri scelti per la
giostra erano estremamente diversi. Il primo era alto, robusto ma non
muscoloso; il fisico agile e asciutto era protetto da
un’armatura d’argento,
che mandava bagliori quando veniva colpita dai raggi del sole. Il
destriero era
un cavallo nero, chiazzato di bianco, con il basso addome coperto da un
arcione
ampio, che proteggeva anche le gambe del cavaliere. Il secondo
contendente era
un uomo decisamente più largo di spalle;
l’armatura scura sembrava contenere
appena il suo corpo. Stava in sella ad un grosso cavallo da guerra, uno
di
quegli animali difficili da domare, con la testiera spessa che copriva
gran
parte della visuale del destriero, in modo che non potesse reagire di
sua
iniziativa durante lo scontro. Come ornamento, una vistosa gualdrappa
rossa.
I
giostranti si disposero
ai due estremi della barriera e calarono le celate sui loro volti.
Strinsero
saldamente le lance con una mano e, con l’altra, afferrarono
bene le briglie.
-
Cento denari sul
cavaliere in sella al cavallo da guerra. - disse un uomo, sugli spalti.
-
Cento sul cavaliere
d’argento. - disse lady Morgause, la signora di Deep Valley,
accennando un
sorriso. Come se già sapesse come sarebbe finita quella
giostra.
-
Accetto la scommessa,
mia signora. - disse lo sfidante.
Calò
il silenzio.
L’araldo
d’armi sventolò
una bandiera e lanciò un grido, che era il segnale atteso
per iniziare la
giostra.
I
due cavalieri spronarono
i loro cavalli, che presero subito velocità, scagliandosi
l’uno contro l’altro.
Quando erano ormai giunti a metà della barriera, abbassarono
le lance, quasi
nello stesso momento.
-
Finiranno con
l’ammazzarsi. - commentò qualcuno sugli spalti.
Non
si ammazzarono. La
lancia del cavaliere d’argento si scontrò con il
petto possente
dell’avversario, mentre quella dell’altro
giostrante sfiorò la spalla del
contendente. Nell’urto, la lancia di frassino si ruppe con un
suono secco.
L’uomo in sella al cavallo da guerra cercò,
invano, di aggrapparsi alla
criniera del cavallo per non cadere, ma fu disarcionato.
Rovinò sulla pista,
mentre il suo destriero s’impennava e andava poi a fermarsi
in fondo, vicino al
muro di pietra che delimitava l’area in cui si svolgeva la
giostra.
Lo
sconfitto imprecò
ferocemente e si tolse l’elmo, scagliandolo lontano da
sé. Rosso in viso,
spezzò in due la lancia, gettò via i pezzi e
uscì dall’arena, imbufalito. Le
guardie immobili accanto alle entrate lo lasciarono passare. Il
pubblico gridò
e applaudì.
-
Beh, mia signora...
-
Cento denari, avete
detto.
-
Parola mia. Non uno di
più e non uno di meno. Una scommessa è una
scommessa.
Lady
Morgause sorrise. Si
alzò in piedi, applaudendo il cavaliere che aveva vinto la
giostra e che le
lanciò una rosa, per poi inchinarsi.
Morgause
sedeva sempre
nello scranno rialzato, al centro del palco. Lo scranno alla sua destra
era
vuoto ed era quello appartenuto a Lot, suo marito, morto alcuni anni
prima.
Morgause
era alta, magra
di corporatura, con i capelli rossi che le ricadevano sul petto e sulla
schiena
come una cascata di lava; aveva occhi verdi e misteriosamente crudeli,
lo
sguardo era affilato e l’espressione dura, di sfida. I
lineamenti del suo viso
non erano delicati, ma decisi, gli zigomi alti e leggermente sporgenti.
-
Madre, avete visto?
Come facevate a sapere che avrebbe vinto? Sembrava così...
beh, piccolo... - le
chiese suo figlio Mordred, un ragazzino di undici anni, in piedi alla
sua
destra. Portava già una spada dalla lama corta al fianco,
appesa alla cintura
che gli chiudeva la casacca di lino in vita. I grandi occhi celesti la
guardavano pieni di aspettativa e di curiosità.
Abbassò il cappuccio della
mantella.
Non
lo sapevo, mio caro.
Se non fosse stato per la mia magia, non avrebbe mai vinto. Avrei
potuto
rischiare, in fondo che cosa sono per me cento denari? Ma non sono
dell’umore
adatto per accettare una sconfitta.
-
Spesso le apparenze
sono ingannevoli, Mordred. Non sempre la vittoria di un cavaliere
dipende dalla
sua forza fisica. Non vince il più forte, ma il
più furbo.
-
Potrò giostrare
anch’io, madre?
-
Tra qualche anno. Quando
sarai abbastanza alto da non affondare nella neve.
-
Il cavaliere d’argento non
è tanto più grande di me!
-
Infatti. Il cavaliere
d’argento ha diciassette anni. Tu ne hai undici.
-
È molto tempo.
Il
volto di Morgause si
indurì per il tono irriguardoso del figlio. - Non devi
andare a studiare con maestro
Archibald?
Mordred
si avvicinò con
una smorfia. La vera madre era una sorella di Lot e sacerdotessa di
Avalon, che
era morta dandolo alla luce, non prima di aver chiesto al fratello di
prendere
il bambino e crescerlo come se fosse suo.
-
Ed io sono già alto,
madre. – disse Mordred, alzandosi sulle punte dei piedi.
-
Verrà anche il tuo momento.
Cerca di avere pazienza. - Morgause gli appoggiò una mano
sulla spalla. – Tuo
padre ti direbbe lo stesso se fosse qui. Verrà anche il tuo
momento. Bisogna
essere pazienti.
Mordred
sembrò riflettere
su quelle parole. Prese tra le pieghe della tunica un cavaliere
intagliato e se
ne andò, parlandogli sotto voce. Le ancelle avevano usato
dei pezzi di legno
per intagliare dei piccoli soldati con elmo e armatura, colorandoli con
del
succo di bacche per creare delle tuniche cremisi.
Oh,
verrà. Verrà eccome. Farò in modo che
quel momento arrivi prima di quanto
pensi, mio adorato Mordred.
Tornata
nelle sue stanze
Morgause lesse alcune missive di certi lord dell’ovest. Tutte
faccende noiose.
Aveva
appena rotto il
sigillo di ceralacca dell’ultima lettera, quando un corvo
andò a posarsi sul
davanzale della sua finestra e mandò un gracchio. Morgause
allungò un braccio,
coperto dalla lunga manica della veste verde, e l’uccello
lasciò il davanzale
per posarsi su di esso. Sbatté le ali nere un paio di volte.
L’occhio sinistro
la fissava. Quello destro era cieco.
Legato
alla zampa, c’era
un messaggio scritto su carta vecchia e ingiallita.
Morgause
lo srotolò e lo
lesse. Era in codice, ovviamente. Ma per lei decifrarlo non era un
problema.
Riceveva quel genere di messaggi da parecchi anni.
-
Ignis. - disse, un istante dopo.
Il
fuoco si accese nel
camino, scoppiettando. Morgause gettò il messaggio tra le
fiamme e lo guardò
diventare un mucchietto di cenere. Poi il fuoco si estinse.
Andò al tavolo
accanto alla finestra, si sedette e vergò subito una
risposta, usando lo stesso
codice. Arrotolò il messaggio e lo legò
nuovamente alla zampa del corvo.
L’uccello non attese un altro ordine. Spiccò il
volo, lanciandosi fuori dalla
stanza della signora del Lothian.
Morgause
lo osservò fino
a quando non scomparve all’orizzonte.
Foresta
di Rhun. Vicino a Camelot. Regno di Elohim.
Emma
cavalcava, seguendo
il sentiero che l’avrebbe condotta alla sua casa, nascosta
nel folto della
boscaglia. Cavalcava senza sella, muovendosi al passo in groppa al suo
destriero bianco, Maximus, il dono di Artù. Alle sue spalle,
taciturno e
riflessivo come sempre, c’era sir Thomas.
Pensava
di non aver
bisogno di essere scortata fino a casa da uno dei cavalieri; ormai era
in grado
di badare a se stessa. Se anche l’avessero attaccata, avrebbe
saputo come
difendersi. Ma il re si ostinava ad ordinare ai suoi uomini di non
perderla di
vista nemmeno un istante.
Thomas
la seguiva senza
parlare e di questo gli era grata, perché aveva molte cose a
cui pensare. Ogni
tanto, però, Emma si voltava per assicurarsi che fosse
ancora dietro di lei. E
il cavaliere era lì, ovviamente, che le rivolgeva un
sorriso. Era silenzioso e,
al tempo stesso, molto guardingo; le sue orecchie erano tese, pronte a
cogliere
qualsiasi rumore, e i suoi occhi chiari sempre attenti.
L’espressione del suo
viso, ombreggiato da una leggera peluria bionda, era sempre cordiale.
Il
sorriso aperto e luminoso. La mantella di lino a strisce bianche e
rosse
ondeggiava sulle sue spalle.
Emma
proseguì. Si
addentrarono di più nel bosco e arrivarono alla
biforcazione. A destra il
sentiero li avrebbe condotti fuori dal bosco, sulla strada che portava
a
Camelot; a sinistra, si stringeva fino ad una radura. Emma avrebbe
dovuto
prendere il sentiero di sinistra.
Ma
qualcosa la costrinse
a rallentare l’andatura e poi a fermarsi.
Proprio
tra i due
sentieri, sotto un arco formato dai grossi rami di due alberi che si
intrecciavano più in alto, c’era... una figura.
Dapprima
sembrò fatta
unicamente di nebbia. Come uno spettro. Poi, la nebbia assunse una
forma;
quella di una donna che indossava una tunica lunga. Lingue di nebbia si
arricciarono ai suoi piedi. Fluttuava.
-
Che cosa succede,
principessa? - domandò Thomas, alle sue spalle.
Non
rispose. Emma strinse
gli occhi. La donna era una sacerdotessa di Avalon. Glielo rivelava non
solo il
colore della veste, ma anche la mezzaluna tatuata al centro della
fronte.
No.
Non era una semplice
sacerdotessa. Era...
Thomas
guardava nella sua
stessa direzione, ma era più che evidente che non stesse
vedendo niente. Ed
Emma era sicura che non si trattasse di un’allucinazione.
-
Ehm... sir Thomas.
Potete lasciarmi sola un istante?
Lui
tentennò, sapendo
bene che non avrebbe dovuto abbandonare la principessa per nessuna
ragione.
-
Solo qualche minuto.
Non preoccupatevi. - ribadì Emma.
-
Avete visto qualcuno? Vi
sentite in pericolo?
-
No. Nessuno. Nessun
pericolo, Thomas. Lasciatemi sola. Non ci metterò molto.
Thomas
girò il cavallo e
tornò indietro, la fronte aggrottata. Quando scomparve, Emma
scese dal suo
destriero e si avvicinò alla sacerdotessa. Non aveva mai
visto una sacerdotessa
di Avalon in vita sua. Tantomeno una sacerdotessa di grado elevato.
-
Morgana?
Non
ci fu risposta. Non
riusciva a distinguere bene i tratti del viso, poiché era
trasparente. Vedeva
due occhi azzurri, quella mezzaluna al centro della fronte, il riflesso
di una
tunica dello stesso colore degli occhi... ma i contorni del volto
restarono
vaghi.
-
Allora sai chi sono. –
rispose Morgana.
-
Sì. La gente parla
tantissimo di Voi.
Scorse
l’ombra di un
sorriso. – Salve a te, principessa.
Emma
si inginocchiò, come
avrebbe dovuto fare chiunque in presenza di una sacerdotessa di Avalon
di rango
elevato. – Non siete veramente qui, vero?
-
No. Mi fa piacere rivederti,
Emma. – disse Morgana. – E non devi inginocchiarti.
Sei una principessa e un
giorno sarai regina.
Emma
accolse quelle
parole con interesse. - Rivedermi?
-
Ti ho osservata a
lungo.
Questa
notizia non la
stupì. Le era capitato diverse volte di sentirsi osservata.
Mentre combatteva,
ma anche mentre non faceva nulla di particolare.
-
So che l’hai percepito.
E ho la sensazione che tu mi stessi aspettando.
-
Sì, io... ho fatto anche
dei sogni. In un certo senso non sono sorpresa di trovarvi qui.
-
I sogni sono preziosi. Se
vengono interpretati nel modo giusto. Immagino che tu sappia anche
perché sono
qui.
-
Non ne sono sicura.
-
No?
Emma
esitò. Si rialzò in
piedi.
-
È quasi venuto il tuo
momento. Il momento di partire.
-
Per il nord. – Rabbrividì.
Per lunghi minuti regnò il silenzio.
-
Il viaggio sarà lungo,
Emma. Sarà lungo e avrai modo di scoprire che molte delle
cose in cui credi non
sono come appaiono. - La voce di Morgana era strana. Era una voce
giovane, ma
suonava saggia e controllata come quella di Merlino. Inoltre, sembrava
che il
suo sguardo fosse l’unica cosa che le fosse concessa di
scorgere bene, mentre
la sua figura aleggiava davanti a lei, come un sogno. Possedevano uno
speciale
magnetismo, quegli occhi. Non poteva fare a meno di fissarli.
-
Cosa significa?
-
Certe verità ti
verranno svelate solo quando sarai pronta ad affrontarle. In un luogo
più
sicuro. Dove occhi e orecchie non possono giungere. Verrai ad Avalon.
-
Perché?
-
Perché è necessario. Le
cose che devi sapere non posso rivelartele qui e ora. Non voglio
correre
rischi. Ne corro già abbastanza parlandoti in questo modo e
non posso
trattenere l’incantesimo a lungo. Ma posso dirti che non
verrai da sola.
-
Verrò ad Avalon... con
i cavalieri, dunque?
Morgana
sorrise. – Oh,
sì. Loro saranno con te. Ma non saranno loro ad
accompagnarti ad Avalon.
-
Chi, allora?
-
Lo conoscerai presto. -
continuò Morgana, senza rispondere alla sua domanda.
-
Si tratta di Graham?
Non
vedeva Graham da
almeno due estati, cioè da quando si era seduto su un tronco
caduto accanto a
lei e le aveva parlato di Peter, nonché della sua paura di
non avere un cuore.
Le spie di Artù a volte portavano notizie del Branco, che si
spostava sempre da
nord alle terre dei lord a ovest, persino nei desolati territori del
sud.
Graham aveva sempre fatto parte della sua vita e pensava che potesse
far parte
anche di quella battaglia. Avrebbe voluto che restasse al sicuro con il
suo
Branco, ma immaginava che avrebbe combattuto con lei.
-
So che sei molto legata
al Figlio dei Lupi. Ho osservato anche lui. –
continuò Morgana, in torno
riflessivo. – È un uomo leale e giusto. Pensa
spesso a te.
Non
capì se fosse una
risposta alla sua domanda o no.
“Lo
conoscerai presto.”
Lei
conosceva già Graham.
Quindi poteva trattarsi di qualcuno che ancora non conosceva. Forse
faceva
parte del Branco?
-
Chiunque sia... –
ricominciò Emma, schiarendosi la voce. - L’avete
mandato Voi? L’avete mandato
per me?
-
Mandato? – La Somma
Sacerdotessa sembrò sul punto di ridere. Ma non lo fece.
– Oh, no. Emma. Io non
ho bisogno di mandare qualcuno. Il destino lo manda. Incolperai lui. O
forse lo
ringrazierai. Se ti dicessi chi è, non mi crederesti
né vorresti darmi ascolto.
Ma ricordati delle mie parole. Non essere avventata. Non fare cose di
cui potresti
pentirti. Non lasciarti trascinare dalla tua rabbia. Vieni ad Avalon.
Di
chi poteva trattarsi,
allora? Un alleato? Un amico? Non osava porre troppe domande alla
sacerdotessa.
“Non
essere avventata. Non
fare cose di cui potresti pentirti.”
-
Ad ovest... vicino al
confine con il regno del sud, c’è una
città chiamata Thorntown. – continuò
Morgana. Stava quasi per svanire. I contorni tremolarono e divennero
ancora più
evanescenti. – Alcuni... non vogliono fermarsi in quel posto.
Superstizione. Magari
nelle storie che raccontano c’è qualcosa di vero,
ma tu dovrai fermarti, Emma.
Dillo ai cavalieri che verranno con te.
-
Thorntown. Sì, la
conosco. - ripeté Emma.
-
Pensi di essere pronta
per questo?
Poggiò
la mano sull’elsa
della sua spada. Per un momento ebbe l’impressione che le si
fosse ghiacciato
il sangue nelle vene. Ricordò ancora le ultime parole di suo
padre.
“Un
giorno... Presto. Presto verrà il tuo momento.”
-
Pensi di essere pronta
a riprenderti il tuo regno e a ricostruirlo? Sei pronta a mantenere la
promessa?
Snowing
Castle che
bruciava. Le fiamme che si levavano verso il cielo. Gli sguardi vuoti
dei
soldati di David. Sua madre, inghiottita dal fuoco. Le urla. Il dolore.
Il melo
inciso su quelle armature nere. Sugli scudi. Sugli stendardi.
L’uomo con
l’ascia che aveva cercato di ucciderla. L’odore del
fumo. L’odore del sangue.
L’odore della morte. Graham che la portava via, proteggendola
sotto il mantello
e tenendola stretta a sé.
Il
melo. Ora la pantera
nera. Una pantera con le fauci spalancate.
-
Sì - disse Emma. - Sì,
sono pronta.
Nymeria.
Regno di Mehlinus. Nord.
Regina
puntò i piedi e
sibilò fra i denti per segnalare al suo cavallo che il
percorso che stavano
seguendo era diventato bruscamente più ripido. I muscoli di
Rocinante si contrassero
di colpo, allorché il passo già cauto si
modificò in una serie di piccoli passi
esitanti. Gli zoccoli sdrucciolavano sul terreno umido prima di
arrischiarsi ad
avanzare. L’animale sbuffava e scuoteva un po’ la
criniera. Ormai era stanco.
Regina l’aveva spinto al galoppo per un bel pezzo, in mezzo
ai campi intorno a
Nymeria, tra i filari di mele e spaventando anche alcune persone che
percorrevano le strade tra la capitale e i villaggi vicini.
Daniel,
che aveva sempre
cavalcato dietro di lei, cercando di mantenere il suo ritmo, montava
una
paziente cavalla nera come l’armatura che indossava. Adesso
era poco più
avanti, le faceva strada, come se lei la strada non la conoscesse.
Regina gli
vedeva la nuca, con qualche ciocca di capelli scuri scompigliata in
cima alla
testa dalla brezza che spirava su dalla discesa. Il vento gli aveva
catturato
le pieghe del mantello, che svolazzavano. Non aveva parlato molto, se
non per
raccomandarle di non galoppare troppo veloce, consiglio che Regina
ovviamente
non aveva accettato. E la sovrana di Mehlinus era anche sicura che
Daniel
stesse ancora pensando all’uomo frustato e impiccato, il cui
corpo faceva bella
mostra di sé nella piazza centrale di Nymeria.
Era
un ladro, Daniel. Io sono la regina.
Poi
Rocinante scartò di
lato, all’improvviso, infastidito da qualcosa che Regina non
aveva notato.
-
Ehi, che cosa ti
prende? – domandò al cavallo, accarezzando il suo
collo e la criniera. Pensò
che l’avesse morso un insetto oppure un serpente, ma quando
cercò per capire se
avesse ragione non vide nulla di strano.
L’animale
mosse
nervosamente la testa e puntò gli zoccoli, rifiutandosi di
proseguire. Anche la
cavalla di Daniel sembrava agitata.
-
Non capisco. Non vedo
niente che possa innervosire i cavalli. - disse Daniel, guardandosi
intorno.
Regina
portò una mano
all’elsa della spada. I suoi occhi scrutavano la vegetazione,
che non era
abbastanza fitta per nascondere qualcuno pronto a tendere
un’imboscata.
Ma
c’è qualcuno. Lo sento.
-
Maestà?
Qualcosa
si mosse tra i
cespugli.
Daniel
iniziò ad estrarre
la spada, mentre con l’altra mano teneva strette le briglie.
Lo
scoiattolo che sbucò
dalla massa verde vicino al cavallo di Regina corse, rapido e
scattante, verso
l’albero più vicino e si arrampicò sul
tronco nodoso, sparendo tra i rami. Uno
stormo di corvi spiccò il volo, gracchiando.
La
cavalla scartò di lato
e Daniel rischiò di essere sbalzato dalla sella.
Afferrò le redini con entrambe
le mani e tirò forte; al contempo cercava di rassicurarla
con la propria voce.
Regina
aveva smesso di
prestargli attenzione. Percepiva uno sguardo su di sé.
Qualcuno la osservava. Non
avrebbe saputo dire se fosse un pericolo, ma la sensazione era
indubbiamente
pressante.
E
Regina era anche certa
che non si trovasse lì, vicino a loro, in quella foresta.
Non proprio. Era come
uno sguardo che ti osservava intensamente ma da una certa distanza, da
un mondo
a parte, da un luogo che non avrebbe potuto raggiungere. Non capiva
nemmeno da
dove venisse una simile consapevolezza, ma c’era. La magia di
chiunque la
stesse guardando era potente.
-
Maestà, state bene? –
domandò ancora Daniel.
La
sensazione disparve. Regina
mise a fuoco il viso del comandante. Batté le palpebre.
– Sto bene. Non c’è
niente qui.
La
cavalla di Daniel si
era calmata. Rocinante aveva chinato il capo per strappare un
po’ d’erba, come
se non fosse accaduto nulla di particolare.
-
Volete che dia
un’occhiata in giro, Maestà? –
domandò lui, con la fronte aggrottata.
-
No, Daniel. Non
preoccupatevi. Ve l’ho detto, non c’è
niente qui.
Non
c’è più, per lo meno. Ma
c’era.
Un
brivido percorse la sua
schiena e le si increspò la pelle delle braccia.
Mi
stanno spiando? I miei nemici mi spiano?
-
D’accordo, come desiderate.
– rispose Daniel, girando il cavallo. Non era molto convinto.
Forse aveva
percepito qualcosa persino lui, che non conosceva la magia.
-
Torniamo a Nymeria. –
concluse Regina, lanciando un’ultima occhiata al sentiero
alle sue spalle.
Ovviamente
era deserto.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** 12. Time Has Come Today ***
12
TIME
HAS COME TODAY
Nymeria.
Regno di Mehlinus. Nord.
Il cadavere dell’uomo
condannato a morte per il furto del grano e delle armi
penzolò nella piazza di
Nymeria per tre giorni e tre notti. I corvi gli beccarono le guance,
scavarono
nelle sue mani e gli strapparono gli occhi. Cani randagi ed affamati si
aggirarono
intorno al corpo, osservandolo, guardinghi e smaniosi, e poi si
avventarono
sulle caviglie e sulle gambe, mordendo e strappando. Il lezzo divenne
insopportabile.
Infine
il comandante
ricevette l’ordine di tirare giù il cadavere e
bruciarlo, senza troppe
cerimonie. La gente guardava. Tutti avrebbero voluto distogliere gli
occhi da
quell’orrore, ma nessuno era in grado di farlo. Il fabbro
continuò a tenere gli
occhi fissi sul corpo in putrefazione, mentre con la mano destra calava
il
martello sulla lama della spada che aveva appena forgiato. I bambini,
attaccati
alle gonne delle loro madri, avevano avuto incubi popolati di morti che
camminavano, morti del tutto identici a quello che dondolava in piazza.
Daniel,
il comandante
delle guardie, ondeggiò, nauseato dall’odore
pestilenziale. Non portava l’elmo
e tutti poterono vedere il suo pallore, il sudore che gli imperlava la
fronte e
la bocca stretta, tirata in una smorfia disgustata.
-
State bene, comandante?
- domandò uno dei suoi uomini.
Non
poteva svenire. Non
poteva sentirsi male lì, davanti alle altre guardie. E non
aveva scelta, se non
eseguire l’ordine.
-
Sto bene. Aiutatemi a
caricarlo sul carro.
Lo
aiutarono e lo
portarono fuori dalla città, dove lo bruciarono.
La
ragazzina alla quale ho insegnato a combattere non avrebbe mai fatto
una cosa
simile. Dov’è finita quella ragazzina? Cosa le
è successo? Chi è la donna che
siede su quel trono?, si
chiedeva Daniel, ricordando gli
occhi scuri di Regina, il giorno in cui si erano incontrati. Ricordando
i suoi
capricci. La sua ingenuità. Ricordando la sua dolcezza. Il
suo modo di
arrossire. E di sorridergli. La sua semplicità.
Ricordando... la voce dura
della regina Cora che la rimproverava perché andava troppo a
cavallo, perché
montava come un uomo, perché non era elegante. Lo sguardo
spiritato di
Tremotino... Regina che lo tentava, conducendolo nelle sue stanze e
baciandolo
di prepotenza, toccandolo in quel modo insinuante.
È
il suo consigliere. Quel mostro. Perché non se ne rende
conto? Quel mostro l’ha
cambiata. L’ha manipolata!
Nel
frattempo Regina
aveva ricevuto delle persone nella sala del trono. Una serie di
visitatori
provenienti per lo più dalle terre dei lord, che avevano
portato messaggi,
saluti e qualche dono per la sovrana del nord, nonché alcune
notizie, delle
quali non le importava nulla. Tra i visitatori c’era lord
Leopold; venuto dal
Kernow, accompagnato da alcuni armigeri, lord Leopold si era
inginocchiato al
suo cospetto e... aveva chiesto la sua mano.
Regina
avrebbe voluto
ridergli in faccia.
-
La mia mano, lord
Leopold?
-
Sarebbe un onore, per
me, stare al Vostro fianco negli ultimi anni della mia vita,
Maestà. Una donna
così bella come Voi... inoltre, la mia adorata moglie, che
è venuta a mancare
pochi anni fa, non mi ha dato nessun figlio. Perciò...
Lord
Leopold disse
qualcos’altro, ma Regina aveva già smesso di
ascoltarlo. Quell’uomo avrebbe
potuto benissimo essere suo padre, senza contare che era di rango
inferiore al
suo. Non aveva bisogno di un marito che intralciasse i suoi piani o le
dicesse
cosa doveva e non doveva fare. Era lei, la regina. Persino lord Leopold
doveva
sapere che aveva rifiutato molti pretendenti in passato. Con che
coraggio si
presentava al suo cospetto per chiederle una cosa simile?
Rifiutò
la sua proposta
con lo stesso tono che avrebbe usato per rifiutare un piatto di vermi.
Cosa che
divertì molto Tremotino.
-
Se permettete, Maestà,
vorrei darvi un suggerimento. - disse, non appena lord Leopold ebbe
lasciato la
sala del trono, offeso per quel rifiuto e timoroso di qualsiasi altra
reazione
della regina del nord.
-
Che suggerimento? -
domandò Regina. Era stanca. Non voleva sentir parlare di
visite fino all’indomani.
-
Voi siete giovane e mi
auguro viviate ancora molti anni; ma vedete... la vita è
imprevedibile.
Soprattutto la vita di una regina. È insidiosa. Piena di
pericoli. C’è sempre
qualcuno che trama alle spalle per sottrarre il potere.
C’è sempre qualcuno
disposto... a compiere raggiri. A vendersi al miglior offerente per...
-
Possiamo arrivare al
dunque? - lo interruppe bruscamente Regina.
-
Perdonatemi. -
Tremotino sorrise. - Quello che intendevo dire è che avete
bisogno di un erede.
Di qualcuno che prenda il Vostro posto quando sarà il
momento. E per avere un
erede... un erede legittimo, dico... è necessario un buon
matrimonio.
-
Non ho bisogno di un
marito.
-
Ora no. Ma pensateci:
stiamo parlando del Vostro regno, Maestà. Non volete
metterlo al sicuro?
-
Prima di metterlo al
sicuro con qualsiasi genere di matrimonio, devo prendere Anatlon. -
Regina si
alzò.
-
Condivido il Vostro
desiderio. So che tutto questo non Vi basta più e che
intendete vendicare ciò
che i sovrani del sud hanno fatto. Ma occorre pensare anche a... a Voi.
Qualsiasi re deve pensare anche alla propria discendenza. Avete fatto
bene a
rifiutare lord Leopold. È troppo vecchio. È di
rango più basso rispetto a Voi e
di una regione marginale dell’ovest, che non Vi porterebbe
nulla di buono. Tuttavia,
se si presentasse un pretendente più giovane e
all’altezza...
Lo
rifiuteresti comunque, pensava
frattanto il consigliere. Lo rifiuteresti
comunque, ne sono convinto,
ma con tutte le proposte indirizzate a te, mia cara, dovevo pur
metterti al
corrente. Sono un consigliere e i consiglieri... devono parlare anche
di
questo. E sarà meglio far seguire lord Leopold, dato che
è quasi certamente una
spia del Pendragon.
-
Ascoltatemi bene, Tremotino.
- disse Regina, osservandolo, torva e chiamandolo per nome. - Forse non
sono
stata abbastanza chiara. Non voglio un marito. Non ho tempo per pensare
a
questo, ora. Devo prendermi ciò che voglio, prima.
-
Conquistare un regno è
complicato, Regina! Occorre un esercito. Potrebbe volerci del tempo ed
io
penso...
-
Non ci vorrà molto
tempo, questo ve lo assicuro. E si dice Vostra
Maestà.
Tremotino
sollevò un
sopracciglio. – Avete un piano, Vostra Maestà? A
cosa state pensando?
Regina
non rispose. Era
pensierosa.
Certo,
hai in mente qualcosa, pensò
il consigliere. Non mi sorprende. La sete di
vendetta è
indomabile. Anzi, ciò che mi sorprende è che tu
abbia atteso così tanto.
-
Tremotino...
-
Sì, Maestà.
-
Ritenete che, se
dovessi avere bisogno di aiuto, lady Morgause mi aiuterà?
-
Che genere di aiuto,
Maestà? Uomini per una guerra? Cavalli? Armi?
-
Sì. Anche.
-
Suppongo che potrebbe
offrirvi il suo aiuto, ma...
-
Vorrà qualcosa in
cambio.
-
Naturalmente. Morgause
è una donna ambiziosa quanto Voi, Maestà. Non fa
niente per niente. Si
aspetterà un qualche tipo di ricompensa. E se desiderate il
suo aiuto, dovrete
dargliela.
Regina
meditò per qualche
istante. Accarezzò l’elsa di Stormbringer.
– Potrei farlo.
-
Non potrete rifiutare.
Sono abbastanza sicuro che non potrete nemmeno... come dire...
trattare. A
Morgause non piace trattare. Vorrà quello che Vi
chiederà e basta.
Regina
aggrottò la
fronte.
Erano
anni che Tremotino
non vedeva lady Morgause, la signora di Deep Valley. Signora del
Lothian, per
la precisione. Integerrima tenutaria di bordelli, sangue di Avalon, ma
priva
della Vista, che permetteva alle sacerdotesse di vedere
lontano. Non
perdeva mai una scommessa ed era più che ovvio dato che
barava. Non era potente
quanto lui o quanto la regina Cora, ma sapeva farsi rispettare.
Un’altra pedina
della grande scacchiera. Una pedina che non faceva una vera mossa da
anni.
Aspettava. Un occhio su Mehlinus e uno su Camelot. Quattro figli
legittimi. Il
maggiore, Gawain, era il più vicino al trono di Elohim, al
momento, dato che
Artù non aveva ancora eredi diretti.
Se
anche arrivassi a domandarle qualcosa, chiederebbe molto, mia cara, pensò.
Chiederebbe tanto.
Regina
era pensierosa.
Tremotino la fissava, in attesa.
-
Sono stanca. Vado a
riposare. – disse lei, all’improvviso.
-
Certo, Maestà. Vi metto
da parte le missive arrivate oggi.
-
Naturalmente.
-
Se avete bisogno di
me...
-
Non avrò bisogno di Voi,
Tremotino.
Camelot.
Regno di Elohim. Est.
Dopo
l’apparizione di Morgana,
Emma chiese espressamente al cavaliere Thomas di recarsi a Camelot e
comunicare
ad Artù la sua intenzione di parlare con lui di cose molto
importanti. Il prima
possibile.
Il
cavaliere, confuso ed
interdetto, fece ciò che gli aveva chiesto. Tornò
poche ore dopo, sul far della
sera, accompagnato da altri due cavalieri della Tavola Rotonda,
Galahad, che
rivolse subito ad Emma un’occhiata piena di dubbi e di
domande, e Gawain.
Thomas
le aveva portato
un elmo, grazie al quale poteva celare il suo viso, eccetto gli occhi,
e
nascondere anche i lunghi capelli biondi.
Entrarono
a Camelot poco
prima del tramonto; gli occhi verdazzurri di Emma osservarono i
camminamenti,
le torricelle e le merlature di cui erano dotate le alte mura della
città, dove
si muovevano le sentinelle, armate di lunghe lance;
attraversò la piazza
rettangolare e, insieme ai compagni, procedette lungo la via
principale,
acciottolata e leggermente in salita, che conduceva al castello ed era
fiancheggiata da abitazioni per lo più in pietra e coccio o
dai portici, che
riparavano i banchi di mercanti e artigiani. Altri edifici si
susseguivano su
entrambi i lati; botteghe, taverne e locande, qualche bordello.
Chioschi di
ogni tipo. Tessitori e merlettai che mettevano in mostra la merce. I
soffiatori
di vetro. Lo speziale, con due guardie alla porta perché la
sua roba valeva un
mucchio di denaro. La gente si faceva da parte, vedendo i cavalieri
passare.
Alcuni li guardavano, incuriositi o vagamente intimoriti. Altri
chinavano il
capo in segno di saluto e di rispetto. Qualche ragazzino li indicava
col dito e
li seguiva per un breve tratto.
Ben
presto Emma si
ritrovò ai piedi della grande e austera dimora di
Artù, quel castello in pietre
rosse e grigie, circondato da un largo e profondo fossato, che aveva
visto per
la prima volta una notte di undici anni prima, frustato da pioggia,
vento e
lampi. Lungo il perimetro del fossato sorgevano edifici pubblici, il
tempio e
le case delle famiglie nobili.
Galahad
prese il corno
del padre appeso alla cintura e suonò due volte per
annunciare il loro arrivo.
Pochi attimi dopo il ponte levatoio iniziò ad abbassarsi,
cigolando e
scricchiolando.
Vedendo
un quarto
cavaliere accompagnare i tre mandati da Artù, i soldati di
guardia alle porte
aggrottarono la fronte.
All’interno
della cinta
muraria si aprivano ampi spazi suddivisi in cortili che ospitavano le
abitazioni dei servitori, delle truppe, degli artigiani, le scuderie e
i
depositi con le scorte di cibo e armi. I cavalieri smontarono e
affidarono i
loro cavalli a dei garzoni di stalla.
-
Emma... – iniziò
Galahad, a voce bassa. Le mise una mano sulla spalla. – Non
so cosa tu abbia in
mente, ma...
-
Entriamo. – tagliò
corto lei, sorridendo.
Non
appena misero piede
nella sala del trono, le chiacchiere intorno alla Tavola Rotonda
tacquero di colpo.
Diverse paia d’occhi, compresi quelli azzurri del re, quelli
della regina
Ginevra e del druido Merlino, che sedeva sul suo scranno, in disparte,
armato
del suo inseparabile bastone ricurvo, si concentrarono sulla
principessa, che
si tolse l’elmo, liberando le sue onde dorate.
Il
silenzio era totale.
Emma
imitò Gawain, Thomas
e Galahad, che si inchinarono al cospetto del re e della regina. Poi i
tre
cavalieri presero posto intorno alla Tavola Rotonda, Galahad accanto a
suo
padre, Lancillotto, Gawain vicino al fratello minore Agravain e Thomas
vicino a
quest’ultimo.
-
Emma. – iniziò Artù. –
Non ho bisogno che tu mi dica cosa ti ha spinto a venire qui. Thomas mi
ha
detto che hai voluto restare da sola, per qualche minuto, nel bosco.
Mia
sorella è venuta da te, vero?
-
Morgana? – esclamò
Lancillotto, sorpreso. – Per quale motivo?
Emma
avrebbe dovuto
immaginare che non ci sarebbe stato bisogno di spiegare nulla ad
Artù. Aveva
Merlino come consigliere, un mago in grado di vedere lontano; infatti,
non
appariva affatto sorpreso, nemmeno lontanamente toccato dalla notizia.
-
Sì – confermò il
druido. – Ti stavo aspettando, Emma. Ti ho vista arrivare.
I
cavalieri apparivano
perplessi, incuriositi e vagamente increduli. Molti fissarono il
vecchio
druido. Era un uomo imponente, non tanto per via della sua statura,
quanto per
la reputazione, per una certa eleganza nella struttura fisica e per la
presenza: dominava l’ambiente, riuscendo a far sembrare vuota
una sala
affollata.
-
Morgana ed io abbiamo
parlato nel bosco, oggi. – disse Emma. – La Somma
Sacerdotessa mi ha parlato
del mio viaggio.
Serpeggiò
una certa
agitazione tra i presenti.
-
E cosa ti ha detto a
riguardo? – chiese il re.
-
Cose che ancora non
capisco. Ma mi ha domandato se sono pronta, sire. Mi ha domandato se
sono
pronta a partire.
-
E immagino che tu
voglia partire.
-
Sì, sire. Il prima
possibile. Tra un paio di giorni al massimo, se me lo concedete. Vorrei
portare
con me alcuni cavalieri, che possano aiutarmi a studiare la situazione
non
appena arriveremo a nord. In modo da capire come potrò fare
per attaccare.
-
Un paio di giorni?! –
Galahad espresse tutto il suo sgomento, sbarrando gli occhi azzurri.
Suo padre
gli sferrò una gomitata, invitandolo a tacere.
-
Sono stupefatto
anch’io. – disse Gawain, grattandosi la barba
scura. – Un paio di giorni? Qui
non si tratta di un viaggio qualsiasi. Stiamo parlando di andare a nord.
-
Finalmente, vorrai
dire! – esclamò suo fratello Agravain. –
Sono anni che aspetto di andare a nord!
Sono d’accordo con Voi, principessa. Affronteremo quella
maledetta strega... che
la Dea mi fulmini se non gliela faremo pagare cara.
-
Agravain, ti prego. –
disse Gawain, afferrandolo per il polso.
L’agitazione
serpeggiò
nuovamente tra i cavalieri. La regina Ginevra si tormentava una ciocca
dei suoi
capelli scuri, arrotolandosela sul dito indice.
-
Emma... ne sei sicura?
– domandò Artù.
-
Sì. – rispose lei,
senza alcuna esitazione. – Voglio andare. Voglio mantenere la
promessa fatta a
mio padre.
-
Anch’io intendo
mantenere la mia, di promessa. – osservò il re,
risoluto. – Ed io ho promesso
di proteggerti. Di tenerti al sicuro. Se quello che desideri
è andare in cerca
della tua vendetta, allora sia. Ma non c’era alcun bisogno di
chiedermi uomini
in prestito. Non ti lascerai mai andare da sola, nemmeno se si tratta
di andare
avanti, in ricognizione. I miei uomini migliori ti seguiranno.
-
Io. - disse, subito,
Galahad.
Emma
sorrise. Non la
sorprendeva affatto, che si fosse offerto.
-
Vedremo. – rispose
Artù, serio.
-
Perdonate, sire... –
intervenne un giovane cavaliere, seduto accanto a Galahad.
-
Sì, Percival.
-
Immagino che la
principessa si renda conto del pericolo che corre. È stata
preparata anche a
questo. – Percival era un cavaliere della sua età,
uno degli ultimi ad essere
ammesso alla Tavola Rotonda; aveva i capelli biondi e corti, un viso
piacente e
gli occhi verde chiaro, occhi che la fissavano, astuti. Aveva in mente
qualcosa. Emma l’aveva notato dal momento in cui era entrata
nella sala del
trono. Persino Artù sembrava al corrente di ciò
che il suo cavaliere stava per
fare.
-
Volete combattere, sir
Percival? – domandò Emma, prevenendolo.
Appoggiò una mano sull’elsa della
spada. – Volete che dimostri davanti a tutti che sono in
grado di battere un
uomo?
Percival
sorrise e si
alzò in piedi. – Combattere contro di Voi sarebbe
un onore. Uomo o donna non
conta.
Ginevra
fissò il marito,
sorpresa.
-
Lasciamo che Emma
dimostri ciò che sa fare. Molti qui ne sono al corrente. Ma
è giusto che tutti
quanti vedano. È giusto che tutti vedano che è in
grado di affrontare chiunque.
– Artù prese la mano della moglie e
osservò i presenti, in attesa di qualche
altra obiezione, ma tutti sembravano solo in trepidante attesa. Allora,
con un
gesto della mano, invitò Percival a farsi avanti.
Emma
si liberò del
mantello rosso ed estrasse Narsil. Percival era alto ed era bravo con
molte
armi. Con la spada, con l’ascia e con la lancia lunga. Nelle
giostre organizzate
dal re vinceva spesso.
Percival
l’attaccò subito
con un potente fendente a due mani, accompagnandolo con un grido di
battaglia.
Emma lo parò, avvertendo chiaramente il contraccolpo che
riverberava lungo il
braccio, facendole tremare i muscoli. Emma respinse il cavaliere, che
tornò subito
all’attacco con un affondo. Parò anche quello e
attaccò a sua volta, lasciando
partire un colpo dal basso verso l’alto. Le spade cozzarono.
I
cavalieri seduti
intorno alla Tavola Rotonda assistevano al combattimento in silenzio.
Galahad
aveva gli occhi fuori dalle orbite. Agravain seguiva ogni movimento
come se li
stesse immagazzinando nella memoria. Sorrideva, compiaciuto e divertito.
Emma
si sentiva scorrere
in corpo una grande forza, come accadeva tutte le volte che impugnava
Narsil
per combattere. Non aveva la minima intenzione di lasciarsi battere da
un altro
cavaliere.
Fece
roteare la spada e
attaccò Percival. Lui, colto alla sprovvista
dall’improvvisa ferocia
dell’avversaria, vacillò e mancò poco
che rovinasse a terra. Emma menò
fendenti, affondi e stoccate, costringendo Percival ad indietreggiare.
Il
cavaliere la respinse, gridando e facendo pressione con la sua spada
contro
quella di Emma. Lei si ritrovò sbilanciata, ma non cadde.
Con un movimento
rapido e pulito, si svincolò dalla spada avversaria e poi,
impugnando
saldamente Narsil e pensando a tutto ciò che le avevano
insegnato, Emma colpì
la spada di Percival, forte, un colpo che sembrò
riecheggiare nella sala del
trono, frantumandosi in una moltitudine di echi. Percival perse la
presa
sull’arma. Emma puntò la sua alla gola
dell’avversario, che alzò le mani in
segno di resa.
I
cavalieri intorno alla
Tavola Rotonda esultarono e gridarono, battendo le mani sul legno.
Artù, pur
sapendo quando Emma avesse imparato nel corso degli anni, era
sinceramente
impressionato. Si alzò, mentre nella sala del trono calava
il silenzio. Percival
tornò al suo posto, scuotendo il capo, con l’aria
corrucciata.
-
Ti batti con onore,
Emma Swan. Tuo padre sarebbe fiero di te. – disse il re,
sorridendo e
rivolgendosi a lei con il nome che aveva scelto per celare la propria
identità.
Emma
non sorrise. Il
ricordo del padre fece capolino nella sua mente e, istintivamente,
strinse
l’elsa della spada.
-
Voglio darti ciò che ti
meriti. Inginocchiati, Emma. – disse Artù.
Emma
ebbe un attimo di
esitazione. Poi fece ciò che il re le aveva chiesto. Lui
estrasse la sua spada
dal fodero.
Le
cerimonie
d’investitura, durante le quali gli uomini venivano nominati
cavalieri, si
svolgevano quasi sempre all’aperto, nella piazza di Camelot
oppure all’interno
del tempio. Solo in poche occasioni si erano svolte nella sala del
trono.
Inoltre il nuovo cavaliere doveva sottoporsi ad un lungo rituale:
digiunare la
sera prima della celebrazione e passare la notte nel tempio, pregando
gli dei. Dopo
l’investitura sarebbe stata organizzata una grande festa. Ma
non c’era tempo
per preparare una cerimonia adeguata.
Quindi
Artù porse la mano
libera ed Emma la prese. Con l’altra il re impugnò
saldamente Excalibur e, con
la lama, sfiorò prima la spalla destra e poi la spalla
sinistra di lei.
-
Emma, da questo momento
in avanti, tu non sei solo una principessa, l’erede legittima
del regno dei
tuoi genitori. Sei un cavaliere.
Emma
si alzò. Artù le
restituì la spada. I cavalieri tornarono a battere le mani
sulla Tavola.
Galahad sembrava stordito dagli ultimi avvenimenti.
-
E come cavaliere voglio
che tu sieda in mezzo a noi. Vieni. Dobbiamo parlare di questa impresa.
Di come
affrontarla. Abbiamo molto di cui discutere. –
Artù alzò lo sguardo alla
ricerca degli occhi saggi di Merlino, che non si era mai mosso. Il
druido
sorrise leggermente. – Questa notte sarà
particolarmente lunga.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** 13. A Long Night ***
13
A
LONG NIGHT
Nymeria.
Regno di Mehlinus. Nord.
-
Partire? Domani? –
Tremotino spalancò gli occhi, non appena Regina gli
comunicò la sua decisione.
Erano
entrambi nella sala
del trono. Dalle finestre filtrava la luce delle torce accese lungo i
bastioni.
-
Ho già scelto gli
uomini che mi seguiranno. – disse Regina, in tono pratico.
– La mia armatura è
pronta. I servi la stanno lucidando. Prenderò Rocinante e
partirò alle prime
luci dell’alba. Durante la mia assenza Vi occuperete Voi del
regno.
-
Maestà...
-
Devo andare, Tremotino.
-
Lo capisco. Ma...
-
Non ci sono ‘ma’. –
Regina assunse un’espressione dura. Agguerrita. Strinse
l’elsa nera della sua
spada, Stormbringer. – Sono troppi anni che attendo,
consigliere. Troppi anni
che penso a come vendicare la morte di mia madre e quella di mio padre.
Troppi anni
che penso a come vendicare il tradimento subìto! Non ho
intenzione di perdere
altro tempo. Voglio prendere il regno dei Blanchard! Voglio dimostrare
a tutti
che sono dei traditori! Che la loro magia... le loro illusioni... non
mi fanno
paura.
Tremotino
annuiva, cercando
di apparire comprensivo. – Sì. Non pensiate che
sia qui per impedirvi di
partire. So che lo desiderate. Però... sono il Vostro
consigliere. Sono stato
il Vostro insegnante. E sapete bene che provo un grande affetto per
Voi.
Quindi, sento di dovervi dire qualcosa. Me lo permettete?
-
Parlate.
-
Sono convinto che se
Vostra madre fosse qui sarebbe fiera di Voi. Dovete prendervi la Vostra
vendetta. È giusto. – Tremotino si
avvicinò alla sovrana di qualche passo.
Allungò una delle sue mani squamose, sfiorando gentilmente
il volto della
donna. – Ma, Regina... i Blanchard sono pericolosi. Non li
vediamo da anni e
non abbiamo idea di quanto siano diventati potenti. Voi... Voi non ne
avete
idea. Abbiamo mandato degli uomini laggiù, più di
una volta. Quanti ne sono
tornati? Nessuno!
-
Non ho paura di loro, Vi
ripeto! – s’irritò Regina, dandogli le
spalle.
-
Ne sono consapevole. Ma
ammetterete che andare a sud sia rischioso. Non sono degli stupidi.
Probabilmente si aspettano il Vostro arrivo da un giorno
all’altro. E non solo
non sapete quanto siano potenti a livello... magico. Non sapete nemmeno
quanto
lo siano a livello militare. Il mio consiglio è di aspettare
ancora un po’. Non
molto, soltanto qualche... qualche luna.
-
È troppo, Tremotino.
Non posso aspettare!
-
La fretta non è mai una
buona consigliera...
-
Risparmiatevi le frasi
fatte! – gridò la regina, voltandosi e
fulminandolo con un’occhiata.
-
Sì, è una frase fatta,
ma è la pura verità, mia cara! –
Tremotino assunse un’aria desolata. E l’aveva
chiamata ‘mia cara’. Quando lei era piccola, lo
faceva spesso. Adesso, quel
‘mia cara’ gli sfuggiva solo quando discutevano.
– Potrei farvi numerosi esempi
di... di guerrieri valorosi che hanno avuto fretta e sono caduti...
senza
ottenere niente. Vi ricordo che ho molti più anni di Voi.
È molto importante
che siate a conoscenza dei poteri dei Vostri avversari. In questo modo,
potreste elaborare una strategia migliore.
Regina
chiuse gli occhi
per qualche istante e rifletté.
-
Fidatevi. So di cosa
parlo. – continuò Tremotino. – Siete
potente, ma occorre capire quanto lo siano
loro. Inoltre ritengo siano capaci di fare qualsiasi cosa. Sapete bene
con
quanta crudeltà hanno agito l’ultima volta. Sapete
bene quanto siano malvagi,
quanto possano essere... perfidamente astuti. Non lasciatevi accecare
dal
Vostro desiderio di vendetta. Non dovete dimenticarvi di ciò
che hanno fatto a
Vostra madre e a Vostro padre, ma non dovete nemmeno perdere la
lucidità. Il
regno ha bisogno di Voi.
Per
quanto le costasse
ammetterlo, Regina si rendeva conto che il suo consigliere non aveva
tutti i
torti. Non sapeva quasi niente dei Blanchard. Non li aveva mai visti.
Voleva
distruggerli, ma per farlo doveva conoscerli meglio.
Madre,
vorrei che foste qui. Vorrei tanto potervi parlare del mio piano.
Vorrei tanto
potermi affidare ai Vostri, di consigli. Tremotino vuole solo aiutarmi,
mi ha
insegnato molto... ma vorrei che foste Voi ad indicarmi la strada.
-
Io non posso più
aspettare. – concluse Regina. – Ma...
d’accordo. Avete ragione: non so niente
dei Blanchard.
-
Già. – Tremotino sorrise.
-
Partirò comunque,
domani mattina. – Regina serrò la mascella.
– Non ho intenzione di attaccare.
Non subito. Andrò avanti, in esplorazione.
Cercherò di... di capire quanto
siano abili. Con la magia. E cercherò di... di farmi
un’idea del loro esercito.
Elaborerò un piano. E quel piano sarà perfetto,
una volta che saprò tutto dei
miei nemici.
-
Queste sono parole
sagge, Maestà. – disse Tremotino, con uno
scintillio negli occhi scuri. –
Ammiro il Vostro coraggio.
-
Ma per quanto riguarda
il viaggio... non si può rimandare.
Sospirò.
Alzò il viso
verso il soffitto altissimo della sala del trono. Poi lo
riabbassò e guardò
Regina negli occhi. – Sì. Va bene. Volete che vada
ad assicurarmi che i servi
stiano facendo il loro dovere con l’armatura e con il cavallo?
-
Sì, andate.
Tremotino
si inchinò
lievemente.
Sì.
Andrò a controllare il cavallo. E l’armatura.
Quell’armatura nera che hanno
forgiato apposta per te, Regina. E poi... ho dei messaggi da scrivere.
Messaggi
molto urgenti.
Camelot.
Regno di Elohim. Est
Artù
aveva ragione. Era
stata una notte lunga.
Avevano
parlato del
viaggio. Avevano discusso su chi l’avrebbe accompagnata fino
a Mehlinus.
Agravain
aveva insistito
talmente tanto, che alla fine il re aveva accordato il permesso; lui
sarebbe
andato con Emma. Anche Galahad, nonostante il parere contrario del
padre,
intendeva seguirla.
-
Io ed Emma siamo
cresciuti insieme. – aveva detto il giovane cavaliere.
Palpebre socchiuse.
Occhi chiarissimi e affilati. Duri. Decisi. Guardava il suo re con la
mandibola
che tremava. – Siamo cresciuti insieme ed io... mi sento in
dovere di
continuare a proteggerla e di essere al suo fianco in questa impresa.
-
Va bene. - aveva detto
Artù. – Te lo concedo.
Lancillotto,
che occupava
il Seggio Periglioso, il posto d’onore accanto al re, aveva
stretto le labbra,
preoccupato, ma non si era più permesso di contestare la
decisione.
Gli
altri cavalieri che
avrebbero viaggiato con lei, oltre ad Agravain e Galahad, erano Gawain
e
Thomas.
Avevano
discusso della
tattica da adottare. Emma non aveva ancora un piano preciso in mente.
Non
sapeva cosa sarebbe accaduto, non appena si fosse ritrovata davanti
alla
sovrana del nord. Avrebbe combattuto. Fino alla fine. Questo
sì. Avrebbe combattuto
per vendicare i suoi genitori. Avrebbe guardato quella donna negli
occhi. In
fondo agli occhi. L’avrebbe guardata e l’avrebbe
affrontata. Voleva batterla.
Voleva sconfiggerla. Non doveva avere paura. Né della sua
forza né tantomeno
della sua magia.
-
Viaggerete passando da
sud, per poi spostarvi verso ovest. – aveva detto
Artù, indicando la via su una
grande mappa, srotolata sulla Tavola Rotonda. – La strada
sarà molto più lunga.
Impiegherete più tempo per raggiungere il nord, ma se
attraversaste la Via dei Re,
quella principale... sareste troppo scoperti. So che sapete difendervi,
ma la
regina vi vedrebbe arrivare. Se ha delle spie, cosa che credo
fermamente,
anticiperà le Vostre mosse. Sarà preparata. E non
dovete darle il tempo di
prepararsi. Dovete giungere a nord e osservare, prima di tutto. Capire
com’è
organizzata. Scovare eventuali punti deboli. È necessario
cogliere di sorpresa
lei e il suo consigliere.
Tremotino.
Ecco un’altra
cosa a cui doveva pensare. Tremotino, l’oscuro e astuto
consigliere di Regina.
Un uomo misterioso e potente, che per anni aveva camminato al fianco
della
sovrana. Emma non l’aveva mai visto, ma ne parlavano tutti
come di un essere
che di umano aveva ben poco. Aveva occhi spiritati e pelle da rettile,
un
aspetto sgradevole, per non dire ripugnante. La sua mente e il suo
cuore erano
neri come la notte più oscura.
Cogliere
di sorpresa
Tremotino sarebbe stata una vera impresa.
-
Sire, c’è un’altra cosa
di cui vorrei parlavi... – aveva detto Emma.
-
Dimmi pure.
-
La mia armatura...
-
C’è già un’armatura per
te, Emma. È da tempo che l’ho fatta forgiare.
Un’armatura più robusta di quella
che indossi. Sono sicuro che...
-
Vi ringrazio. – lo
interruppe Emma. – Ma mi riferivo allo stemma. Vorrei
mostrare lo stemma della
mia famiglia. Il cigno.
Artù
l’aveva fissata,
sbigottito. – Emma, se viaggi con lo stemma della tua
famiglia... sarà più
pericoloso. Regina capirà da lontano chi sei... e se ci
fossero delle spie...
-
Sì. Lo so. Ma è il
simbolo del mio regno. Ed io voglio che lei sappia chi sono. Voglio che
mi
riconosca non appena mi avvisterà. Non sa nulla di me, non
sa che esiste
un’erede di Anatlon. Non ancora. Se anche le spie notassero
il cigno, mi scambierebbero
per un esule del sud, per un sopravvissuto che usa lo stemma della
famiglia,
per... un membro della guardia che è riuscito a fuggire.
Tutti sanno che la
famiglia reale è morta.
-
Emma...
-
Non ho forse scelto la
parola ‘Swan’ come cognome? In tutti questi anni ho
celato la mia vera identità
dietro di essa.
-
Certo. L’hai scelta
perché ritenevamo che fosse meglio non usare il cognome
Blanchard, visto che
qualunque cosa, qui, sembra abbia delle orecchie. Hai anche assunto il
simbolo
della mia famiglia per lo stesso motivo.
-
Ma adesso non intendo
più nascondermi! Sire, parto per affrontare colei che
ritengo responsabile
della morte dei miei genitori e della distruzione di Snowing Castle.
Voglio che
Regina veda questo simbolo. Voglio che sia una delle prime cose che
vedrà e che
si renda conto che quel tradimento non resterà impunito.
Artù
aveva riflettuto
alcuni istanti. Gli altri cavalieri non avevano commentato.
-
Bene, Emma. – aveva
risposto il re. – Se è questo ciò che
vuoi, allora farò in modo che sul tuo
scudo venga inciso un cigno.
-
Grazie.
Dopo
la lunga discussione
Emma non andò a riposare. Non era stanca. Il suo cuore era
in tumulto e la sua
mente già in viaggio. Quindi lasciò i cavalieri
e, con l’armatura addosso e
l’elmo sul capo, in modo che nessuno avesse una visione
chiara del suo volto,
salì sulle alte mura del castello, percorse per un breve
tratto il cammino di
ronda e poi si fermò, appoggiando le mani sul parapetto e
guardando Camelot
dall’alto; le case, il tempio con la sua cupola rotonda, le
strade
acciottolate, la piazza, il luccichio delle torce e di alcune lanterne,
le
abitazioni eleganti dei nobili vicino al castello del re.
Guardò oltre le mura
che circondavano la città di Artù.
Guardò la foresta, dove si era nascosta a
lungo, protetta dai cavalieri. Guardò le terre coltivate
intorno a Camelot. Le
ombre avvolgevano tutto, ma Emma assorbiva i rumori che giungevano fino
a lei.
Il latrato di un cane. Il richiamo di una civetta. Il frinire dei
grilli. Lo
scricchiolio prodotto dalle ruote di un carro. In cielo strisce di
nuvole
grigie tra le quali era possibile vedere le stelle e una piccola falce
di luna.
Emma
inspirò l’aria della
notte. Quello era il luogo in cui era cresciuta da quando era stata
costretta
ad abbandonare Anatlon. Quello era il luogo in cui i cavalieri
l’avevano
protetta per anni. Lo conosceva. Conosceva la foresta come le sue
tasche.
Conosceva anche Camelot. Eppure non aveva mai pensato a Camelot come
alla sua
casa. Una volta le avevano detto: dove c’è
qualcuno che non smette di pensarci
con affetto, c’è la nostra casa’. Chi
era stato? Ah, certo Galahad. Galahad
gliel’aveva detto. L’aveva imparato da suo padre
che, a sua volta, aveva udito
quella frase da Elaine di Corbenic.
No.
Camelot non era casa
sua. Lì si era sentita protetta e amata, ma non era comunque
casa sua. La sua
casa era Snowing Castle.
-
Siete qui.
La
voce della regina
Ginevra la fece sobbalzare.
-
Mi dispiace. Non volevo
spaventarvi. – disse la sposa di re Artù,
avvicinandosi al parapetto. Vestita
di un leggero ed elegante abito azzurro, la regina di Camelot si
accostò a lei,
l’ombra di un sorriso sulla bocca. I capelli scuri erano ora
raccolti in una
lunga coda.
-
Non mi avete
spaventata. Solo... non mi aspettavo di vedervi qui.
-
Ed io credevo che foste
andata a riposare.
-
No. Non penso di poter
riposare.
-
Volete che Vi lasci
sola? – Usava un tono molto rispettoso, come se non la
conoscesse affatto. Come
se stesse già parlando con una regina.
-
No. Vi prego, restate.
Ginevra
appoggiò i gomiti
al parapetto. – Sono giorni importanti per Voi. Giorni che
aspettavate da molto
tempo. Siete davvero sicura di voler partire... così presto?
-
Non è presto. Ho
aspettato anche troppo.
-
Siete giovane. Avete
solo vent’anni. Se Vostro padre fosse qui Vi inviterebbe alla
prudenza.
“...un
giorno. Presto... Presto verrà il tuo momento. Lo so. Non
può essere
altrimenti. Allora tornerai e tutto questo sarà tuo! Tutto!
Il trono che ti
appartiene di diritto sarà tuo! Le terre saranno tue! I miei
uomini saranno
tuoi!”
Suo
padre. Sì, forse
David le avrebbe chiesto di attendere. Di prepararsi meglio. Ma Emma si
sentiva
pronta. Il suo cuore le diceva che il momento era giunto. Morgana
gliel’aveva
detto.
“Pensi
di essere pronta
per questo?”
“Il
viaggio sarà lungo,
Emma. Sarà lungo e avrai modo di scoprire che molte delle
cose in cui credi non
sono come appaiono.”
Cosa
significava? Cosa?
Lei sapeva come stavano le cose. Sapeva che Regina era la responsabile
della
morte dei suoi genitori! Aveva visto con i suoi occhi gli uomini con
l’armatura
nera e lo stemma sugli scudi, sugli stendardi. Il melo su sfondo blu,
che
adesso si era trasformato in una pantera nera con le fauci spalancate.
Regina
non aveva mai fatto nulla per negare quell’attacco. Era
apertamente ostile con
tutti. Forse le parole di Morgana si riferivano a
qualcos’altro...
“Io
non ho bisogno di mandare qualcuno. Il destino lo manda. Incolperai
lui. O
forse lo ringrazierai. Se ti dicessi chi è, non mi
crederesti né vorresti darmi
ascolto. Ma ricordati delle mie parole. Non essere avventata.”
-
Mio padre era un uomo
coraggioso. Forse mi avrebbe detto di aspettare, ma io sento di dover
andare.
Sento che è questo, il momento giusto. – disse
Emma, osservando la foresta,
seguendo uno stormo di uccelli neri che si alzava in volo.
-
Allora pregherò per
Voi. – disse Ginevra. – Pregherò per Voi
ogni giorno. Pregherò perché troviate
la forza di arrivare alla fine di questa impresa. Voi e non solo Voi...
anche
mio marito e gli altri cavalieri.
-
Vi ringrazio.
Il
sorriso di Ginevra era
appena accennato. La sua voce era dolce, una di quelle voci che
sembravano far
rientrare i problemi in una dimensione meno vasta. Era piccola di
statura e un
po’ gracile fisicamente. In quel momento, là sui
camminamenti del castello, sembrava
in procinto di dissolversi. Eppure Emma intuiva che, dietro
l’aspetto dimesso,
vi fosse anche una grande forza d’animo. – Spero
che ci sia qualcuno disposto
ad ascoltarle, quelle preghiere. Non ho mai pregato molto gli dei nella
mia
vita.
Emma
non aveva idea di
come rispondere, anche perché nemmeno lei si era mai
affidata agli dei. Si
schiarì la voce. – Non è necessario. Me
la caverò. Mi sono preparata per anni.
-
Mi ricordate Artù, a
volte. Spesso fa di testa sua. Non è possibile discutere con
lui quando ha già
preso una decisione. È sempre stato così. Forse
è anche per questo che il
popolo lo ama. – Guardò l’orizzonte.
-
Il popolo ama anche
Voi.
-
Non nello stesso modo. –
Dicendolo, sorrise e poi alzò le spalle. - Io sono la moglie
di Artù e il
popolo si aspetta... qualcosa da me. Si aspetta un erede.
Stava
per dirle qualcosa
di sciocco, qualcosa che persino Ginevra si sarebbe aspettata: vedrete che arriverà. Non lo
fece. Dare
a qualcuno delle false speranze poteva essere più doloroso
che restare in
silenzio.
-
Emma, non sono
preoccupata per me. – ricominciò Ginevra, con una
voce più ferma, più sicura. -
Sono preoccupata per il regno. Se Artù non dovesse avere
eredi... Camelot e
l’est precipiteranno nel caos. Lo stesso caos che regnava in
queste terre prima
della salita al trono di Uther.
-
Potrebbe nominare come
erede un altro. Qualcuno di cui si fida.
-
Sì, ma ciò potrebbe
creare dei conflitti interni, dei rancori. Potrebbero esserci dei
problemi
all’interno della cerchia di Artù. E non vorrei
mai che ciò accadesse. Se
nominasse Lancillotto, potrebbe infastidire Morgause. Anche i suoi
figli sono
vicini al trono. Gawain specialmente. È il maggiore ed
è il cugino di Artù. Ma
se nominasse Gawain...
-
Avrebbe problemi con il
padre di Lance.
-
Lord Ban di Benwick non
è più così giovane, ma può
essere pericoloso. Ha una dozzina di figli
legittimi, ma Lancillotto è sangue di Avalon. Lo sono anche
i figli di
Morgause, ma lei ha abbandonato Avalon anni orsono, non è
mai stata
sacerdotessa e non possiede neppure la Vista, stando a ciò
che dice Merlino. E
Artù non si fida completamente di lei. Lance, invece,
è figlio della Dama del
Lago.
Emma
non rispose. La
brezza notturna scompigliò leggermente i capelli di Ginevra.
Lei sospirò.
-
C’è... c’è ancora
tempo. – disse Emma. – Non dovete essere
pessimista.
-
Quando tornerete... Vi
renderete conto dell’importanza di avere un erede. Anche Voi
siete una regina.
-
Adesso io sono un
cavaliere.
-
Oh, sì. Uno dei
migliori. Quando avete combattuto contro Percival non credevo ai miei
occhi.
Sapevo che eravate brava... solo non immaginavo lo foste
così tanto. Siete
incantevole quando vi battete. E con incantevole... intendo dire che
è
difficile non guardarvi mentre usate quella spada. – Ginevra
le appoggiò una
mano sul braccio.
-
Mi fa piacere
sentirvelo dire.
-
Ma siete anche la
legittima erede di Anatlon. Vi chiederanno di... di sposarvi. Di
sposarvi e di
avere dei figli, che prenderanno il Vostro posto. Diventeranno
fondamentali,
quei figli, per mantenere la pace nel Vostro regno. Tutti Vi
guarderanno, in
attesa di quel futuro re o di quella futura regina.
-
Non ho tempo di pensare
a questo.
-
Ora no. Ora dovete
pensare solo a riprendervi ciò che Vi appartiene e ad
onorare la memoria delle
persone che Vi hanno messa al mondo. Ma insisteranno perché
lo facciate. Nemmeno
io ci pensavo, prima di sposare Artù. Non ci ho pensato
nemmeno all’inizio.
Quello a cui pensavo era... conoscere l’uomo che mio padre
aveva scelto per me.
Sono stata fortunata. Artù è davvero
l’uomo migliore che potessi incontrare.
Emma
si voltò verso la
regina di Camelot.
-
Forse parlate così
perché c’è già qualcuno nel
Vostro cuore? Qualcuno a cui tenete
particolarmente? – domandò Ginevra, sottovoce.
Emma
ripensò a Graham.
Ripensò al loro bacio. Era da tempo che non si soffermava su
quei ricordi,
visto che era stata molto presa dalla sua missione e dal suo
addestramento. Ma
conservava ancora dentro di sé la dolcezza di quel momento.
-
Nessuno.
-
Nemmeno... Galahad?
-
Come? – Emma era
sbalordita. – Galahad?
-
Siete molto uniti.
Credo che Lancillotto approverebbe. E anche Artù.
-
Io non amo Galahad. Non
nel modo che credete. – Emma pensò al giovane
cavaliere della Tavola Rotonda.
Era bello, sì. Galahad era bello e generoso, aveva un grande
cuore e l’aveva
sempre trattata con rispetto. Le aveva insegnato a combattere con la
mano
sinistra. Ma... sposarlo? Non aveva mai pensato ad una cosa simile.
Mai.
Nemmeno una volta.
Ginevra
non disse niente.
Parve rifletterci su. Poi scosse la testa. – Forse
è meglio che vada. Sono
felice di avervi incontrata. E di aver parlato con Voi. Sembra
incredibile, ma
in undici anni non abbiamo mai davvero parlato.
-
Già. No.
Ginevra
la lasciò sola
sul cammino di ronda. Emma restò là, a guardare
la terra in cui era cresciuta,
fino a quando non spuntò il sole.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** 14. Fear No Darkness ***
14
FEAR
NO DARKNESS
Deep Valley. Lothian.
Ovest.
-
Cavalieri che lasciano
Camelot all’improvviso diretti verso sud. E sembra che ce ne
sia uno nuovo, che
nessuno conosce, forse appena nominato. – Morgause, la
signora del Lothian,
sedette su una vecchia sedia in legno di quercia, nella sua stanza.
Posò il
calice di vino sul vassoio che un servitore le stava porgendo e gli
fece segno
di andarsene. Lui si affrettò a levarsi di torno.
-
Così pare, mia signora.
– rispose maestro Archibald, l’insegnante di
Mordred. – Ma forse non dovremmo
essere così sorpresi. Artù è... un re.
Invia spesso i suoi cavalieri nelle terre
dei lord o nelle città minori, a est di Camelot. Ha molte
cose a cui pensare.
Molti alleati da mantenere. Molti amici. Senza contare che
c’è il matrimonio
del Vostro terzogenito. Potrebbe...
-
Il matrimonio di Gareth
non c’entra nulla. E poi i cavalieri erano diretti a sud.
Perché a sud? Non c’è
niente laggiù! Niente che possa interessare ad
Artù.
-
È una via comoda, mia
signora. È più sicura. Ci sono percorsi segreti.
Viaggiare sulla Via dei Re...
non è sempre facile. I cavalieri sarebbero troppo scoperti.
Se i messaggi che
Artù vuole far giungere a destinazione sono messaggi
importanti, allora...
-
La Via dei Re non sarà
la più sicura, ma è la più breve.
Artù l’ha usata altre volte, in passato. Se i
messaggi sono così importanti, beh allora non vedo
perché dovrebbe passare da
sud per poi raggiungere l’ovest. Allungherebbe di molto il
tragitto. – Morgause
si alzò, avvicinandosi al camino dove, pochi giorni
addietro, aveva bruciato il
messaggio scritto in codice.
-
Forse i messaggi non
sono così urgenti. Ma è comunque necessario che
arrivino a destinazione
intatti.
-
La verità, Archibald, è
che qui c’è qualcosa che non torna.
-
Non penso dobbiate
preoccuparvi, mia signora. Due di quei cavalieri sono Vostri figli e
sebbene
siano fedeli al re di Camelot, sono anche fedeli alla loro madre.
O
forse no, pensò
Archibald. Ma si guardava bene dal dire cose che avrebbero potuto
causare le
ire della signora del Lothian.
-
Non ho paura per me, Archibald!
E
allora di cosa?
Il
maestro deglutì e
tacque. Viveva a Deep Valley da parecchi anni, ovvero da quando Mordred
aveva
solo qualche luna. Il suo compito era quello di seguirlo nella crescita
ed
istruirlo. E l’aveva fatto. Pensava di conoscere bene, quel
bambino. Conosceva
lui così come conosceva Morgause e la sua sorellastra,
Igraine, la madre di
Artù e Morgana.
Ma
di Morgause aveva
sempre avuto paura. Paura del suo sguardo verde, affilato e penetrante.
Paura
delle sue reazioni. Paura delle parole di Merlino, il consigliere di
Artù che,
anni addietro aveva avuto modo di incontrare. Era un druido saggio e
potente,
che vedeva molto lontano. E gli aveva detto qualcosa a proposito della
Grande
Madre, la divinità femminile primordiale venerata ad Avalon,
ovvero che la Dea
aveva quattro volti, quattro aspetti, quattro diversi modi di
manifestarsi; il
Primo Volto era il volto affascinante, dolce ma giusto, forte,
appassionato, il
volto di un’indomita guerriera.
Il
Secondo Volto era
quello più pio e benevolo, il volto di un’amica,
di una consolatrice. Archibald
aveva pensato ad Igraine, a quella donna così silenziosa e
gentile.
Il
Terzo Volto era il
volto saggio, il volto della maga sapiente, che poteva essere capace di
grandi
affetti, ma era anche dura ed implacabile, disposta a tutto pur di
difendere
Avalon e i suoi abitanti dai nemici.
E
poi c’era il Quarto
Volto. Il volto oscuro. Il volto segreto. La giustizia senza
compassione. Una
notte senza luna.
Morgause?
Le
ombre che la signora
del Lothian si portava addosso da quando era nata
l’avvicinavano molto al
Quarto Volto della Dea. Per questo Archibald era preoccupato.
Preoccupato per
Mordred, che era stato affidato alle cure di Lot e, quindi, di sua
moglie. Era
preoccupato persino per il re di Camelot. Per l’est.
Perché Morgause era anche
molto ambiziosa. Il suo primogenito era il più vicino al
trono.
“Archibald,
spera che Morgause non sia il Quarto Volto”, gli
aveva detto
Merlino. “Spera di non vederlo mai,
il
Quarto Volto. Anche se temo che sia tu che io lo vedremo.”
-
Archibald, è meglio che
tu vada. Da Mordred. Ti starà aspettando. – disse
la signora di Deep Valley,
ancora voltata di spalle.
-
Certo. Certo, vado
subito. – Si profuse in un breve inchino e lasciò
la stanza. I suoi occhi
azzurri erano offuscati da parecchi pensieri.
Che
cos’ha in mente, mio nipote?, pensava,
frattanto,
Morgause. Perché ha in mente
qualcosa, ne
sono certa. Come se non bastasse, Regina è partita proprio
questa mattina. Che
Artù ne sappia qualcosa? Forse crede che lei si prepari ad
attaccare Elohim? O
forse lui sa qualcosa su di me? No, non può essere. Se lo
sapesse, mi avrebbe
già mandata a chiamare o sarebbe arrivato con un esercito.
Nella migliore delle
ipotesi mi avrebbe mandato un avvertimento o un ultimatum.
Avrebbe
ordinato alle sue
spie di tenere gli occhi aperti e di comunicarle altri, eventuali
spostamenti o
decisioni prese dal re di Camelot.
Se
solo possedessi ancora una barlume di Vista!, pensò
Morgause, fremendo di frustrazione. Sarebbe
tutto più facile.
La
Vista era un potere
che le sacerdotesse di Avalon avevano fin da bambine, un potere che
permetteva
di prevedere eventi che erano in procinto di verificarsi. Ma la Vista
di
Morgause non era mai stata così potente e lei se
n’era andata presto, seguendo
sua sorella Igraine, che aveva sposato il padre di Morgana. Non aveva
la minima
intenzione di starsene rinchiusa ad Avalon! Ogni tanto aveva qualche
visione,
ma niente di chiaro, niente che potesse davvero capire.
Mi
terrò in contatto con Tremotino e non solo con lui.
Qualsiasi cosa Artù stia
tramando, non gli permetterò di realizzarla!
Verso
ovest.
Camelot
era scomparsa
presto dietro di loro.
Emma
aveva visto le mura
della città di Artù e Ginevra svanire pian piano,
mentre lei e i cinque
cavalieri che la seguivano si inoltravano nella foresta, seguendo la
strada che
li avrebbe condotti verso sud, per poi portarli verso le terre dei lord
a ovest.
All’inizio,
avevano
condotto i loro cavalli al trotto. In seguito, per non stancarli, li
avevano
riportati al passo. Emma era davanti a tutti, affiancata da sir Gawain.
Dietro
c’erano Galahad e Percival, che aveva voluto unirsi a loro ad
ogni costo. Chiudevano
il gruppo Agravain, spesso impegnato canticchiare un vecchio motivetto
popolare, nonostante non avesse una voce particolarmente gradevole e
Thomas,
silenzioso come sempre.
"Vanno le strade, lunghe e
infinite
sotto
le nubi e le stelle smarrite,
ma
sempre i piedi che han tanto vagato
tornano
infine al tetto bramato.
Gli
occhi che han visto fuoco e sconquasso
e grande spavento in grotte
di sasso
guardano infine i cari
giardini
e i campi e i colli di
quand'eran piccini”
-
Agravain. – disse
Thomas, schiarendosi la voce. – Forse potresti... raccontare
una storia, invece
di cantare.
-
Io gli suggerirei di tacere
e basta. – replicò Percival. – Le mie
orecchie sanguinano.
Agravain
lo ignorò. –
Cantare una canzone che parla di fare ritorno a casa porta fortuna. E
tiene
lontano la morte. Oppure preferite che canti la canzone dei demoni che
strappano i cuori dopo avervi tolto la voce?
Gawain
ricordava quella
canzone, perché la sentiva spesso da bambino, nel Lothian.
Parlava di mostri
che giungevano in una città in piena notte e portavano via
le voci alla gente,
per poi strappare loro il cuore, mentre le vittime urlavano senza
però riuscire
ad emettere alcun suono.
Sorrise
al fratello. – Questa
va bene, Agravain. Ma forse ti conviene riposare la voce per un
po’.
Cavalcavano
per la
maggior parte del giorno, fermandosi solo per riempire le borracce o
per
mangiare qualcosa. Avevano evitato qualsiasi insediamento in modo tale
che nessuno
si facesse troppe domande su un gruppo di cavalieri che virava verso
sud, anche
se laggiù c’era ben poco.
Emma
aveva indossato
l’armatura che il re le aveva regalato. La cotta di maglia
era d’argento,
finemente lavorata; la piastra pettorale smaltata, candida come neve,
come il
manto del suo cavallo, Maximus; Narsil era nel fodero appeso al
cinturone di cuoio
bianco con le fibbie dorate; sullo scudo e sul mantello rosso
agganciato alla
base del collo era impresso lo stemma della sua famiglia, il cigno.
Ripensò al
momento in cui aveva lasciato Camelot; Ginevra non aveva fatto cenno
alla loro
conversazione sui camminamenti e l’aveva salutata con un
semplice cenno del
capo. Artù le aveva posato le mani sulle spalle e le aveva
sorriso.
-
Confido in te. Sento
che sei pronta davvero e che puoi farcela. E allora il regno dei tuoi
genitori
sarà tuo. Lo ricostruirai e sarà di nuovo
splendido, come un tempo.
La
pantera non mi fermerà, aveva
pensato Emma. Il cigno non ha paura della
pantera.
Aveva
visto Gawain
salutare la moglie e i figli. Aveva guardato Agravain prendere in
braccio i
suoi e farli roteare in aria. Aveva osservato Thomas stringere la
figlia di
pochi mesi e baciare la moglie, Ella, in lacrime. Aveva spostato lo
sguardo su
Galahad che salutava suo padre, Lancillotto. Emma sperava che
sopravvivessero
tutti. Che quei saluti non fossero il preludio di un addio.
Percival
era arrivato per
ultimo. Non sarebbe dovuto venire, ma quella mattina aveva chiesto al
suo re di
potersi unire agli altri. Artù aveva acconsentito.
-
Se è quello che vuoi,
non te lo impedirò, Percival. – gli aveva detto il
re.
-
Vi ringrazio.
-
Vuole la rivincita,
ecco perché viene con noi. – aveva replicato
Agravain, sorridendo, divertito. –
Ti bruciano le chiappe, vero? Sei stato sconfitto pochissime volte in
vita tua
e mai da una donna.
-
Ammiro le donne che
sanno combattere bene, come Emma. E sì, quella sconfitta mi
brucia, ma la
principessa ha vinto meritatamente. Voglio venire perché la
rispetto e credo in
lei. – l’aveva rimbeccato Percival.
Eppure
ieri Artù ha accordato il permesso a quattro cavalieri.
Diceva che quattro
bastavano. Oggi, però, non ha fatto molta resistenza quando
Percival ha chiesto
di unirsi a noi, aveva
pensato Emma.
Merlino
si era
avvicinato, appoggiandosi al lungo bastone ricurvo. La pelle nera era
segnata
dalle rughe profonde, che parevano più marcate del solito,
soprattutto sulla
fronte alta, come se la preoccupazione lo stesse tormentando. Gli occhi
blu sotto
le fitte sopracciglia nebbiose sembravano scrutarla come se le stessero
leggendo dentro. Non dubitava che ne fossero capaci. E lui non sembrava
più un
uomo - lo stesso uomo che si era seduto di fronte a lei nella Foresta
di Rhun,
un giorno di qualche anno prima e le aveva parlato di Avalon e di
quanto gli
fosse costato starsene al suo posto - ma una creatura saggia e potente
uscita
da qualche antica leggenda.
-
Credi nelle parole di Morgana.
Una sacerdotessa di Avalon conosce sempre la verità.
– le aveva sussurrato, con
la voce roca.
-
Le credo. Ma non
capisco. – aveva risposto Emma, alzando la testa per poterlo
guardare.
-
Capirai. Presto. Quando
sarà il momento, capirai. C’è un
momento giusto anche per scoprire cose di cui
sei all’oscuro. E qui ci sono troppe orecchie.
Le
parole di Merlino non
avevano fatto altro che rendere assai più fitta
l’oscurità. Emma sapeva che
Merlino aveva delle visioni, a volte. Glielo aveva detto lui stesso. Ma
le
aveva anche detto che il futuro non era mai chiaro. Anche se lo fosse
stato,
dubitava che il druido glielo avrebbe svelato.
Verso
il tardo pomeriggio
del sesto giorno di viaggio il cielo, fino a quel momento terso, si
riempì di
nuvole minacciose e iniziò a tirare un forte vento.
-
Sta arrivando un
temporale. – annunciò Gawain, guardando le nubi.
– Dobbiamo fermarci... qui.
-
Qui? Ma sei uscito di
senno? – esclamò suo fratello Agravain,
strabuzzando gli occhi verdi.
-
Abbiamo scelta?
-
Preferisco cavalcare
sotto la pioggia, tra i fulmini e i tuoni, piuttosto che fermarmi a
Thorntown.
È una città di spettri!
Thorntown
era un
villaggio di mercanti e contadini che, un tempo, sorgeva a sud ovest,
tra il
Lothian e quello che un tempo era il regno di Emma. Era uno dei
villaggi
distrutti dall’avanzata dell’esercito del nord,
undici anni prima. Ora era in
rovina e non ci viveva più nessuno, ovviamente. A parte gli
spettri dei suoi
abitanti, secondo alcune storie. Le case, in legno e pietre, erano
malridotte,
con squarci nei muri, tetti in larga parte crollati. Le stradine erano
dissestate. La vegetazione si stava prendendo tutto quanto.
-
Non possiamo cavalcare
sotto la pioggia e lo sai bene. – intervenne Galahad,
scrutando il posto. –
Rischiamo di perderci. E saremo comunque costretti a fermarci,
perché non
vedremo niente. La notte è nera.
-
E poi... da quando uno
grande e grosso come te ha paura degli spettri? – lo prese in
giro Percival. E
tuttavia qualcosa lo innervosiva. Si guardava intorno e alle spalle.
-
Non si tratta di paura.
– ribatté Agravain. – Gli spettri ci...
disturberanno. Potrebbero condurci alla
follia. Lo sapete cosa dicono le leggende.
-
Sì. – confermò Gawain.
– Le leggende dicono molte cose. Cose terribili. Ma al
momento non vedo
un’altra soluzione. Emma?
“Ad
ovest... vicino al
confine con il regno del sud, c’è una
città chiamata Thorntown. Alcuni... non
vogliono fermarsi in quel posto. Superstizione. Magari nelle storie che
raccontano c’è qualcosa di vero, ma tu dovrai
fermarti, Emma. Dillo ai
cavalieri che verranno con te.”
Tutti
si voltarono a
guardarla. Lei si tolse l’elmo, liberando la folta chioma
biondo oro. Il
mantello rosso svolazzò, sospinto dal vento. Era proprio
come aveva detto
Morgana. Thorntown. Ma cosa poteva esserci di importante in quel luogo
dimenticato e in rovina? Forse la persona che l’avrebbe
seguita ad Avalon si
trovava a Thorntown? Si nascondeva?
E
si rese conto che tutti
stavano guardando lei. Se avesse detto di no, probabilmente non
avrebbero
contestato la decisione e avrebbero proseguito. Avrebbero... eseguito.
Perché
lei era l’erede al trono. Anche se quegli uomini
l’avevano protetta, erano di
rango inferiore al suo. Servivano un re, ma il re in quel momento non
c’era.
C’era solo la futura regina di Anatlon.
Emma
deglutì.
Improvvisamente aveva la gola arida. - Ha ragione Gawain. Dobbiamo
fermarci. Se
proseguissimo saremmo... certamente sorpresi dal temporale.
Agravain
borbottò
qualcosa di incomprensibile.
La
strada davanti a loro
si allargò e si rivelò ingombra di erbacce.
Quella, un tempo, doveva essere la
via principale del villaggio. Molte delle abitazioni erano
evidentemente
inagibili, gusci sbilenchi invasi dalla vegetazione. Ma tra di essi,
trovarono
un edificio in pietra e legno che, nonostante fosse pieno di crepe e
muschio,
sembrava abitabile. Il tetto era intatto. C’era persino un
altro edificio,
attaccato ad esso, forse una vecchia stalla. Una vera fortuna, visto
che stava
arrivando la tempesta e i cavalli dovevano essere messi al riparo.
-
Cerchiamo di capire se
possiamo avere accesso a questa casa. – disse Emma.
Il
pianterreno consisteva
in un grande stanzone. Contro una parete erano accatastati panche e
tavolacci.
Agravain, che si era liberato dal bisogno di fare polemica e parlare di
fantasmi, prese un pannello di legno, lo saggiò con le sue
grandi mani un po’
callose e poi lo portò davanti all’unica finestra
priva di vetri in modo da chiudere
l’apertura.
-
Io e Galahad ci
occuperemo dei cavalli. Li portiamo sul retro. –
annunciò Gawain, risoluto. –
Abbiamo poco tempo.
-
Sì. Io vado a dare
un’occhiata al pozzo. Forse c’è ancora
dell’acqua. – disse Emma.
-
Vengo anch’io. – disse
Percival.
-
Bene. Andate. Io do
un’occhiata in giro. – disse Thomas.
-
Ecco. Controlla che non
ci siano fantasmi. – rispose Percival, accennando un sorriso.
-
Fai pure lo spiritoso e
prenditi gioco di me. – replicò Agravain,
guardandolo con gli occhi socchiusi.
– Sai poco del mondo.
-
Ah, invece tu credi di
sapere tutto...
-
Ho parecchi anni più di
te. E ho due figli. Ho visto molte più cose. Ho viaggiato di
più...
Percival
roteò gli occhi.
Il
pozzo del villaggio
era dalla parte opposta dell’edificio in cui avevano trovato
riparo, in quella
che, un tempo, poteva essere stata una piazza in cui veniva allestito
il
mercato. Il tamburo a manovella sotto il tettuccio marcio aveva ancora
la sua
fune, ma il secchio, che Emma districò da un ammasso di rovi
a destra del
pozzo, era privo del manico.
-
Non importa. Ho portato
una corda. – disse Percival. Si mise al lavoro.
Tagliò un pezzo della fune e
infilò le estremità nei fori in cui, in
precedenza, era agganciato il manico.
-
Ben fatto. – commentò
Emma, sorridendo. – E nel pozzo c’è
acqua.
“Magari
nelle storie che
raccontano c’è qualcosa di vero, ma tu dovrai
fermarti, Emma. Dillo ai
cavalieri che verranno con te.”
Non
c’era nessuno, lì.
Emma si guardava intorno, ma il villaggio era abbandonato. Thomas stava
perlustrando i dintorni, ma non aveva lanciato alcun segnale.
Percival
gettò il secchio
nel pozzo, trattenendo la corda e, pochi istanti dopo, lo
issò. Lui ed Emma
diedero un’occhiata all’acqua.
-
Mi sembra bevibile. Percival?
Cosa vedi?
-
Solo acqua. E noi.
Emma
sollevò un
sopracciglio. – Bene. Ditemi, sir Percival. Perché
avete deciso di unirvi a
noi?
-
Perché era la cosa
giusta da fare. – rispose, senza esitazioni, fissando
l’acqua. Ad Emma parve
che le stesse nascondendo qualcosa. Qualcosa che lo toccava nel
profondo. Fu
sul punto di fargli qualche domanda.
In
quel momento vi fu un
colpo di tuono. Molto vicino.
-
È meglio sbrigarsi. –
gli fece notare Emma.
-
Certo.
Da
nord a ovest.
La
luna era una falce
sottile in cielo. Lungo la riva del fiume Acheron, Regina si era
accampata non
appena era calata la notte, con i cinque uomini che componevano la sua
scorta.
Due di loro, adesso, montavano la guardia.
Non
aveva permesso molte
soste. Il minimo indispensabile per far riposare i cavalli. Non avevano
tempo
da perdere. Avevano evitato di passare vicino ai villaggi sparpagliati
per le
sue terre, in modo che la gente non si accorgesse di nulla e non
facesse troppe
domande. Avevano attraversato campi arati, le zolle smosse. Avevano
costeggiato
il fiume fino a poco dopo il tramonto. Allora Regina aveva ordinato di
fermarsi. Era la sera del sesto giorno di viaggio.
Anche
Regina aveva scelto
di non percorrere la Via del Re. Per sicurezza, ovviamente. Avrebbe
impiegato
più tempo, ma il tempo forse le sarebbe servito per
elaborare il piano.
Non
riusciva a dormire,
per questo era uscita a guardare le acque del fiume che scorrevano,
lente e
tranquille, verso l’Oceano Occidentale, dove
l’Acheron si gettava. Frinire di
grilli e folate di vento che smuovevano le fronde.
Regina
ripensava al
mattino della sua partenza.
-
Vi ripeto di fare
attenzione. – le aveva detto Tremotino, quando Regina era
montata in sella a
Rocinante, il suo cavallo, un destriero giovane, marrone e con una
macchia
bianca sul muso, protetto da una gualdrappa nera di maglia metallica
che
mostrava le insegne araldiche del cavaliere, ovvero la pantera, nel suo
caso.
L’armatura nera, forgiata per lei, era perfetta, lucida, non
troppo pesante ma
comunque robusta.
-
E Voi fate attenzione
al mio regno. Fino a che non sarò di ritorno dovrete
occuparvene. – gli aveva
ricordato Regina.
-
Contate su di me. E tenetemi
informato.
-
Lo farò.
-
Un’ultima cosa.
Guardatevi dal Branco.
-
Branco?
-
Sono... sono dei
selvaggi, Maestà. Uomini che hanno deciso di vivere lontano
dai loro simili.
Uomini che hanno... che hanno ucciso e tradito. Niente più
che mercenari. Si spostano
spesso, insieme ai lupi. Lupi veri, intendo. Forse non li incontrerete
mai e
sarà meglio per Voi. Ma io Vi ho avvertita.
-
D’accordo. Vi
ringrazio.
Tremotino
l’aveva fissata
dal basso, sorridendo. – Avete tagliato i capelli...
Regina
aveva sempre
portato i capelli lunghi, fin da quando era piccola. Ma la notte prima
di
partire, guardandosi allo specchio, aveva deciso che era giunto il
momento di
tagliarli. Per comodità, ma anche perché le cose
stavano cambiando. Presto
sarebbe stata la regina non solo del suo regno, ma anche di quello dei
Blanchard. Quindi aveva preso le forbici e se li era tagliati. Ora
erano corti,
non le arrivavano neppure alle spalle.
-
Vi donano molto, Vostra
Maestà. – aveva commentato il Genio, rinchiuso
nello specchio.
-
Sono ancora la più
bella del reame?
-
Lo siete sempre.
Ma
non contava quanto
fosse bella. Contava quanto fosse potente e quanto fosse disposta a
rischiare
per avere ciò che le spettava. Contava cosa fosse disposta a
fare per vendicare
i suoi genitori e il tradimento subìto anni prima.
Anche
Daniel era venuto a
salutarla. Regina non l’aveva voluto con sé,
perché sapeva benissimo che non
era d’accordo con la sua decisione di partire e prendere
Anatlon.
-
Maestà, siete sicura
che... sia meglio per me restare qui?
-
Sì, comandante. Mi
servite a Nymeria. Occorre qualcuno che tenga d’occhio i
confini della
capitale. Usate pure tutti gli uomini che Vi servono. Se non Vi
dovessero
bastare, non esitate a cercarne altri. Ho dato disposizioni al mio
consigliere
affinché possiate disporre del denaro necessario a pagare...
-
Credo che gli uomini
basteranno, Maestà.
-
Bene.
A
quel punto, si erano
uniti al gruppo gli ultimi due soldati. Erano giovani. Uno era alto ed
era a
testa scoperta; ciò attirava subito lo sguardo sui suoi
capelli folti, di un
nero splendente. Il viso dalle ossa minute era ben modellato e gli
occhi erano
di un azzurro tenebroso. L’altro, invece, si era
già sistemato l’elmo sul capo
e da sotto spuntava un ciuffo di capelli biondicci.
-
E questi chi sono? – aveva
domandato Regina a Daniel.
Il
ragazzo con gli occhi
azzurri si era piegato leggermene su un ginocchio, portandosi una mano
al
petto, con il palmo rivolto verso l’esterno. Poi aveva chiuso
le dita a pugno.
– Maestà... il mio nome è Will
Nightshade. Lui è il mio compagno d’armi, Jim.
-
Jim Halloway. – aveva dichiarato
il secondo ragazzo, imitando l’inchino dell’amico.
Le sue iridi, ombreggiate
dalle lunghe ciglia, erano marrone chiaro.
-
Da dove saltano fuori,
Daniel?
Il
comandante accennò ai
giovani di prendere i cavalli. – Li ho addestrati
personalmente. Potete fidarvi
di loro.
Regina
decise di non fare
altre domande, dato che non aveva più tempo da perdere.
-
Posso dirvi un’ultima
cosa? – chiese Daniel.
-
Dite pure.
-
State bene con i
capelli corti. – E aveva sorriso.
A
quel punto anche
Morgause doveva essere stata informata della sua partenza.
L’avrebbe aiutata,
se ce ne fosse stato bisogno? Regina era disposta ad ascoltare la
signora del
Lothian, vecchia amica e alleata di sua madre. Ma non era sicura di
poter
accettare qualsiasi cosa le avesse chiesto. Non poteva concedere troppo
a
Morgause. Era una donna ambiziosa. Non solo, poteva essere anche
pericolosa,
visto che nelle sue vene scorreva il sangue di Avalon.
-
Non importa. – mormorò
Regina. – Affronterò qualsiasi cosa. Devo farlo.
Sono la regina di Mehlinus.
“Sono
convinto che se Vostra madre fosse qui sarebbe fiera di voi. Dovete
prendervi
la Vostra vendetta. È giusto. Ma, Regina, i Blanchard sono
pericolosi.”
Era
disposta a correre
quel pericolo. Per la sua vendetta.
Pensò
a sua madre, uccisa
da quei maledetti. A tradimento. Pensò a suo padre, ucciso
da David. A
tradimento anche lui. Pensò al simbolo che, un tempo, era
stato suo: il melo su
sfondo blu. Ogni tanto lo vedeva ancora nei suoi sogni, così
come vedeva i suoi
genitori. Henry, soprattutto. Henry che la issava sulle sue spalle,
perché lei
potesse cogliere una mela rossa. Una bella mela rossa che poi suo padre
tagliava in tanti spicchi...
“Grazie,
padre.”
“Possiamo
raccoglierne altre domani, se vuoi.”
“Sì,
mi piacciono le mele rosse.”
Regina
era solo una bambina che non sapeva niente di magia. Ed Henry la
portava spesso
nelle terre che circondavano Nymeria, dove crescevano numerosi alberi
di mele.
Erano quelli i momenti in cui si sentiva più felice. I
momenti in cui si era
sentita davvero a casa. Suo padre le aveva detto spesso che la sua casa
era
ovunque vi fosse qualcuno che avrebbe pensato a lei con affetto. E
Regina aveva
suo padre. Cora era sempre molto occupata. Non l’aveva mai
portata a
raccogliere mele.
“Regina,
hai mangiato di nuovo fuori dai pasti?”
“No,
madre...”
“Invece
sì, l’hai fatto. Altrimenti, cosa sarebbe
questo?”. Allungò una mano e le tolse
qualcosa da un angolo delle labbra. Un residuo di succo di mela.
“Madre...”
“Quante
volte ti avrò ripetuto che una fanciulla come si deve non
mangia fuori dai
pasti? Devi iniziare a comportarti nel modo giusto, Regina. Non
è così che una
futura regina si comporta.”
“Cora,
senti...”, provò a dire Henry. “Lasciala
stare. L’idea è stata mia.”
“Non
interrompermi, Henry!”
E
suo padre abbassava il capo. Sembrava così debole in quei
momenti...
Istintivamente
Regina
posò una mano sull’elsa della spada. La spada di
Henry. E si sentì subito
rincuorata. Chiuse gli occhi mentre stringeva l’impugnatura e
vide la mano di suo
padre che la stringeva come stava facendo lei. Lo vide chiaramente.
Sorrise.
Poi
quella stessa mano
salì al collo, a cercare il ciondolo, quello che aveva
sempre avuto con sé da
quando era piccola. Un ciondolo che aveva la forma di un albero di
mele. Il suo
vecchio simbolo. Così in contrasto con la pantera.
Regina
alzò lo sguardo al
cielo, osservando la falce di luna.
Presto
avrebbe raggiunto
il sud. Presto avrebbe affrontato i suoi nemici di sempre e li avrebbe
sconfitti. Anatlon avrebbe dovuto chinare il capo e inginocchiarsi
davanti ad
una nuova sovrana. E pagare.
-
Soldato. – disse Regina
al giovane Jim Halloway, uno degli uomini che montavano la guardia. Il
suo
amico, sdraiato su un cumulo di pelli, alzò la testa e si
mise in ascolto.
-
Sì, mia regina. – disse
Jim, con deferenza.
-
Si dice Vostra
Maestà. Portami una pergamena. Ho bisogno di
inviare un messaggio.
Il
soldato eseguì
l’ordine e, nel giro di un attimo, fu di ritorno con
ciò che aveva chiesto.
Regina vergò un messaggio indirizzato a Tremotino,
perché sapesse che era a
buon punto e che andava tutto secondo i piani. Poi aprì una
mano, pronunciò
poche parole e, su di essa, comparve un corvo nero che
sbatté le ali. Regina
legò il messaggio alla zampa e sospinse l’uccello
verso il cielo. Il corvo
spiccò il volo.
Più
a sud si erano
assiepate pesanti nuvole temporalesche.
Vicino a Deep Valley. Lothian.
Ovest.
Non
molto lontano da Deep
Valley, sorgeva Ludinsford, piccola città di mercanti di
pelli e spezie, di
strade lastricate da grandi blocchi di pietra, di edifici in mattoni
addossati
gli uni agli altri. E di ricche famiglie spesso in contrasto fra di
loro. Tra
queste ce n’era una, della quale era rimasta ormai solo
l’unica figlia femmina
del signore, che era lontanamente imparentata con Lot del Lothian.
Un
servitore salì le
scale che conducevano alle stanze di lady Amara, bussò
discretamente alla
porta, schiarendosi un po’ la voce e attese.
-
Sì?
-
Signora, ci sono delle
missive per voi.
-
Entrate.
Il
servitore entrò. Tre
candele di sego ardevano sul davanzale della finestra. Altre quattro,
poste
accanto al letto, spandevano una luce tremolante lungo le pareti,
costringendo
le ombre della sera a retrocedere. L’uomo
aveva riposto le lettere su un vassoio d’argento che
portò alla signora,
posandole sullo scrittoio, davanti a lei e chinando leggermente il
capo.
-
Ti ringrazio. – rispose
Amara, scostandosi una ciocca di capelli dal viso.
-
C’è altro che
desiderate, milady?
-
Niente. Ritirati.
Il
servitore se ne andò
alla svelta.
Amara
allungò una mano e
prese tutte le lettere arrivate quel giorno iniziando ad aprirle. Le
lesse
distrattamente e rispose ad alcune di esse, ma ciò che
c’era scritto là dentro
non era importante. Non aveva importanza per lei, almeno.
Il
messaggio davvero
importante e che da tempo attendeva era arrivato pochi giorni prima,
con un
corvo messaggero, che lo portava legato ad una zampa. Una piccola
pergamena con
poche parole scritte in codice, ma che non era stato difficile
decifrare.
“È
partita poco dopo il sorgere del sole. Presto saprà la
verità. Ho già
comunicato l’accaduto a Morgause.”
È
quasi giunto il momento. Finalmente.
Amara
si alzò. Guardò
fuori dalla finestra, il cielo scuro e punteggiato di stelle. Poi
osservò la
sua immagine riflessa nello specchio vicino al letto.
Un
istante dopo una
magica e densa nube viola l’avvolse completamente e quando si
diradò i capelli lunghi
e neri della donna si erano dissolti, cedendo il posto a capelli
ondulati e
castani, raccolti con un fermaglio. Gli occhi avevano assunto un taglio
differente e in essi brillava una luce diversa, più crudele.
I lineamenti del
viso si erano fatti più marcati, più duri ed
erano comparse nuove rughe. La
carnagione era chiara. D’un tratto la donna che indossava una
lunga veste blu
era più vecchia di quella che si era guardata allo specchio
giusto un momento
prima. Di Amara aveva solo la pesante collana d’oro a forma
di serpente. Nella
mano destra stringeva un lungo bastone dorato con la sommità
a forma di cobra.
Cora,
la regina di Mehlinus,
che tutti credevano morta da undici anni, sorrise.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** 15. Fenrir ***
15
FENRIR
Thorntown.
Sua
madre la prese in braccio e la sollevò perché
Emma potesse raggiungere il ramo
più basso dell’albero di mele e cogliere uno dei
frutti gialli.
“Guardate,
madre.”
Mary
Margaret sorrise. “É molto bella, Emma.”
“Sì,
è gialla. Mi piace il giallo, madre.”
“Allora
dirò alla servitù di raccogliere altre mele
gialle. Tutte quelle che troveranno.”
“Posso
mangiarla?”
“Ma
certo. Aspetta, togliamo la buccia, prima.”
Nel
mangiare la sua mela Emma si sporcò il viso con il succo
appiccicoso. Mary
Margaret glielo tolse e rise, divertita. Poi si chinò per
posarle un bacio tra
i capelli biondi.
Emma
si destò di
soprassalto.
Il
sogno, che più che un
sogno era un lontano ricordo, stava già scivolando via. Le
rimase impresso,
però, il sorriso dolce di sua madre e il tocco fra i
capelli.
Che
cos’è che mi ha svegliata?
I
cavalieri dormivano.
Galahad si mosse sotto il mantello che aveva usato come coperta.
Agravain,
nonostante tutto il parlare di fantasmi, russava leggermente, ma non
era colpa
sua se si era drizzata a sedere di scatto, con il cuore che batteva
all’impazzata. La pioggia, che aveva tempestato il tetto
dell’abitazione di
fortuna che lei e i cavalieri avevano trovato a Thorntown, era cessata.
Un pallido
chiarore penetrava dalle crepe nella porta di legno. Forse stava
albeggiando.
Emma
scostò le coperte,
indossò il suo mantello e allacciò il fodero con
la spada intorno alla vita.
Poi, cercando di non fare rumore, uscì all’aria
aperta, richiudendo subito la
porta alle sue spalle.
In
cielo vedeva ancora la
falce di luna che faceva capolino tra le nuvole grigie, mentre il cielo
si
schiariva. Una vaga foschia ricopriva il paesaggio.
Un
rumore. Dal retro.
Dove c’erano le stalle. Un ringhio basso, seguito da qualche
ansito.
Emma
si irrigidì e mise
mano alla spada. Camminando rasente il muro, si diresse verso le
stalle.
Un
altro ringhio. Unghie
che graffiavano il legno. Un tonfo. Nitriti nervosi.
“Magari
nelle storie che
raccontano c’è qualcosa di vero, ma tu dovrai
fermarti, Emma.”
Emma
continuò a muoversi,
passo dopo passo. Silenziosa. Stringeva Narsil così forte da
sbiancarsi le
nocche.
“Sarei
più preoccupato se non
provassi paura. Perché l’uomo che non sente la
paura è un folle.”
Gliel’aveva
detto
Merlino, non molto tempo prima. Era stata l’unica volta che
il druido aveva
parlato di sé con lei.
“Ho
anche paura. E non dovrei.” gli
aveva detto Emma. “Dovrei essere
pronta a combattere.”
“La
paura. Sarei più preoccupato se
non provassi paura. Perché l’uomo che non sente la
paura è un folle. Chi è in
balia di essa e fugge è un codardo. Ma tu continui a fare
ciò che va fatto.
Questo è coraggio.”
Emma
continuò ad
avanzare.
Il
lupo grigio fermo
davanti alle porte della stalla la vide subito. Era girato verso di
lei, quando
Emma si sporse per vedere cosa stesse succedendo.
L’animale
era ferito ad
una zampa, sanguinava ed era evidentemente sofferente e affamato. Ed
era molto
più grande di un lupo comune, con due sciabole che
scintillavano nella luce del
mattino al posto dei normali denti da lupo e ardenti occhi di brace che
seguivano ogni suo movimento. Dalla bocca scese un rivolo di bava.
Ringhiò
contro di lei.
Un
Fenrir!
Il
bisogno di cibo
l’aveva spinto fino a lì. Aveva percepito
l’odore dei cavalli e aveva cercato
di entrare nella stalla. Doveva essere anche debole, perché
in caso contrario
avrebbe già fatto a pezzi la porta. Emma non aveva idea di
come avesse potuto
fare, quella bestia magra, ad entrare là dentro e a
prendersi anche solo uno
dei cavalli. Maximus era robusto, ancora giovane e impetuoso. Gli altri
cavalli
erano tutti addestrati e, soprattutto, veloci e ben nutriti. Quella
bestia
doveva essere disperata. Ed era anche solo.
Emma
strinse l’elsa di
Narsil e lo guardò fissò negli occhi. Uno stormo
di uccelli neri si alzò in
volo.
Il
Fenrir si avventò su
Emma. Lei estrasse subito la spada e la fece roteare, mentre scartava
di lato.
Un lungo guaito di dolore, quando la lama ferì
l’animale di striscio, ad un
fianco. Emma si voltò subito verso il lupo, puntandogli
contro la spada. Quello
si girò, imbestialito, per fronteggiarla ancora. Fece
qualche passo avanti.
Emma indietreggiò di due. L’animale
raspò il terreno con gli artigli e spiccò
un altro balzo; lei lo ferì ancora. Schizzò altro
sangue e il Fenrir guaì.
Roteò un paio di volte su se stesso, come disorientato
dall’ultimo colpo
ricevuto e poi scosse la testa più volte, gettando bava
ovunque. Nella stalla
c’era un certo trambusto. Nitriti e rumori di zoccoli che
sbattevano sulle assi
di legno.
Poi
un ululato, in
lontananza, distrasse l’animale, che drizzò le
orecchie e rimase in ascolto. Emma
non lo perse di vista.
Infine,
ringhiando, corse
via, sparendo in mezzo alla boscaglia e lasciando sull’erba
le tracce del suo
sangue.
Emma
sentiva il cuore
pulsare forte nel petto. Chiuse gli occhi per qualche istante, poi
rinfoderò la
spada e si diresse verso le stalle. Voleva entrare e assicurarsi che i
cavalli
stessero bene.
Aprì
le porte della
stalla. Nell’istante in cui lo fece, uno zoccolo si
abbatté sul legno della
porta.
Un
lampo bianco.
Ebbe
appena il tempo di
scansarsi. Il suo cavallo si impennò, nitrendo impazzito e
sbuffando. Solo per
miracolo Emma riuscì ad afferrarlo per le redini. Strinse
forte. Maximus
s’impennò di nuovo, scuotendo il capo e tirando
per liberarsi dalla sua presa.
I suoi occhi erano folli di paura. Rotearono mostrando solo il bianco.
-
Maximus! Calmo! – gridò
Emma.
-
Che succede, per gli
inferi?! – Le giunse la voce di Agravain.
-
Emma! – urlò Galahad.
-
I cavalli! Correte! –
gridò Gawain.
Il
destriero non si
calmò. S’impennò una terza volta,
dopodiché partì al galoppo. Emma
riuscì ad
afferrare il pomo della sella con la mano libera.
Da
qualche parte, a ovest.
“Andrò
avanti, in esplorazione. Cercherò di... di capire quanto
siano abili. Con la
magia. E cercherò di... di farmi un’idea del loro
esercito. Elaborerò un piano.
E quel piano sarà perfetto, una volta che saprò
chi sono veramente i miei
nemici.”
“Queste
sono parole sagge, Maestà.”
Aveva
fatto ciò che le
aveva chiesto di fare Tremotino. Era andata avanti, in esplorazione.
-
Maestà, non è sicuro. –
le aveva detto uno dei suoi soldati, quando aveva esposto la sua idea.
-
Lo è, invece. So quello
che faccio.
-
So che lo sapete. Ma
mancano ancora parecchie leghe al regno del sud.
-
Devo avvicinarmi da
sola, soldato. Si tratta solo di andare in avanscoperta. Ho bisogno di
sapere
come agire prima di farlo sul serio. Non appena avrò un
piano, riceverete un
mio messaggio.
L’indecisione
serpeggiò
nel gruppetto.
-
Ci vorranno giorni
prima che facciate ritorno. – le aveva fatto notare Jim
Halloway, come se lei
ne avesse avuto bisogno.
-
Non sapete badare a voi
stessi, per caso?
Il
giovane che gli stava
sempre appiccicato, Will, aveva fatto un passo avanti e aveva aperto la
bocca
per dire qualcosa, ma Jim aveva sollevato una mano, agitandola.
-
Naturalmente sì, Vostra
Maestà. E sappiamo anche quanto Voi siate potente. Ma
è sempre meglio, con il
dovuto rispetto, che ci sia qualcuno a guardarvi le spalle.
-
Lasciate che almeno uno
di noi Vi accompagni, Maestà. – aveva proposto un
altro soldato, chinando
leggermente il capo. – Scegliete Voi chi, ma Vi prego di
darmi retta. Diversi
giorni di cammino Vi separano da quel luogo e i boschi sono infidi.
-
Forse non ci siamo
capiti, soldato. Il mio è un ordine. Dovete aspettare qui!
– Regina era montata
in sella a Rocinante, afferrando le redini e preparandosi a partire.
Non voleva
nessuno tra i piedi. Avrebbe percorso tutte le leghe che la separavano
da
Anatlon e poi avrebbe usato un sortilegio per cambiare il suo aspetto.
In quel
modo avrebbe potuto avvicinarsi indisturbata e capire che cosa
l’aspettasse.
Inoltre quella era una faccenda personale: si trattava della sua
vendetta!
Sarebbe stata lei, la prima a mettere gli occhi su Anatlon, su Snowing
Castle.
Erano anni che aspettava e voleva essere sola quando fosse accaduto.
-
Il consigliere
Tremotino ci ha raccomandato di proteggervi, Maestà.
– provò a replicare,
intimorito, un terzo soldato, strascicando i piedi sull’erba.
-
Lo avete fatto. Adesso
tocca a me. Vado avanti, soldato. Tornerò presto.
-
Ma, mia regina, noi...
-
Ora basta! Si dice Vostra
Maestà! – Regina aveva appoggiato una
mano sull’elsa di Stormbringer. I
suoi occhi si erano colorati di viola. Il viola aveva preso a girare
furiosamente. Le iridi non erano più iridi, ma buchi pieni
di energia che
vorticava. I soldati avevano fatto, tutti, qualche passo indietro.
– Io sono la
regina e voi farete ciò che io vi comando! Se non eseguirete
l’ordine, ci
saranno delle conseguenze! E vi assicuro che le conseguenze potrebbero
essere
molto spiacevoli.
I
soldati si erano
inchinati al suo cospetto e avevano promesso che avrebbero eseguito i
suoi
ordini. Non si sarebbero mossi da lì.
E
ora cos’era successo?
Era
successo che si era
persa. Non aveva idea di dove si trovasse.
La
circondavano cespugli,
tronchi nodosi e spogli, fossi, pozze su cui aleggiavano nugoli di
mosche,
qualche albero contorto e vecchio. Il terreno era pianeggiante, ma non
c’erano
sentieri. Quello che aveva seguito e che le avevano indicato anche i
suoi soldati,
avrebbe dovuto esserci ancora, a quel punto. E invece non lo vedeva
più. Non
sentiva più il rumore delle acque del fiume che avevano
costeggiato. Forse era
arrivata ad un bivio senza rendersene conto e aveva preso la strada
sbagliata,
una strada che l’aveva condotta in una zona paludosa e
deserta.
Maledizione.
Respirò
a fondo per
escludere qualsiasi emozione negativa. Aveva perso
l’orientamento, ma non
doveva farsi prendere dal panico. Avrebbe ritrovato la strada.
Se
avessi portato qualcosa appartenuto ad uno dei miei soldati avrei
potuto fare
un incantesimo di localizzazione e tornare indietro...
Ma
non aveva niente,
quindi doveva cavarsela da sola.
Da
qualche parte, a ovest.
Non
sapeva bene quanto
tempo fosse passato da quando si era aggrappata alla sella del suo
cavallo
imbizzarrito ed era stata trascinata in una lunga corsa.
Ad
un certo punto, quando
aveva ormai percorso diverse leghe, Emma era riuscita a vincere la sua
lotta
con Max e il cavallo, dando retta alla sua voce, si era calmato. Aveva
rallentato il passo, proseguendo al trotto per un po’ e
infine si era fermato,
sfinito, sbuffando furiosamente e scuotendo la testa.
Emma
smontò e accarezzò
il destriero.
-
Va tutto bene, Maximus.
– sussurrò Emma. – Ora è
tutto a posto.
Subito
dovette
rimangiarsi le parole appena pronunciate perché, guardandosi
intorno, si rese
conto di non sapere bene dove si trovasse. Il sole si era spostato nel
cielo e
aveva diradato la foschia che si era formata quella mattina. Era una
zona
pianeggiante e paludosa; pozze di acqua stagnante e rivoletti tra le
pietre.
Alberi alti e nodosi, sparsi qui e là. Nugoli di insetti che
già le bazzicavano
intorno alla ricerca di sangue da succhiare. Nessun sentiero,
ovviamente. Era
ben lontana dalla nota Via del Re e, a quanto sembrava, era lontana
anche da
qualsiasi villaggio abitato. L’ovest era pieno di zone
paludose e difficilmente
praticabili. Ed Emma era finita proprio in mezzo ad una di quelle
paludi.
Si
mette male.
Doveva
capire dove si trovasse.
Se
i cavalieri sono sulle mie tracce, forse è meglio che
rimanga qui. Se mi
allontano, rischio di non ritrovarli.
Ma
il terreno intorno a
lei era un terreno paludoso. Un vero pantano anche a causa del
temporale di
quella notte. Le tracce lasciate da Max nell’ultimo tratto
stavano già
svanendo. Sarebbe stato molto complicato, per i cavalieri, ritrovarla.
Aveva
percorso diverse leghe.
No.
Decise di muoversi.
Decise di cercare qualcosa che potesse indicarle in che zona era
finita.
Emma
prese le briglie e
si incamminò, con Max che la seguiva, tranquillamente. Lo
spavento era passato,
ormai.
Dannazione
a quel Fenrir!
La
nota positiva era che,
legati alla sella, aveva ancora delle sacche con del cibo, erbe
medicinali e un
piccolo otre pieno d’acqua. Le sarebbero bastati per qualche
giorno. Doveva
razionare le provviste, ma non sarebbe stato un problema.
“Ma
sempre i piedi che han tanto vagato,
tornano
infine al tetto bramato”, aveva
cantato Agravain solo il giorno
precedente.
Vagare
era proprio la parola giusta. I suoi piedi avrebbero avuto il
loro bel vagare, ne era convinta.
Attraversò
una macchia
d’alberi, rovi, cespugli spinosi e sterpi, aprendosi la
strada con la spada per
evitare che le spine la pungessero o pungessero Max. Procedeva senza
fretta,
guardinga, attenta alle pozze profonde e ai pantani, si guardava
intorno e tendeva
le orecchie ad ogni minimo rumore. Raggiunse uno stretto fiumiciattolo.
Tra le
canne e i giunchi, un asse di legno marcio, largo un paio di spanne,
collegava
le due sponde.
Non
ebbe bisogno di
attraversarlo, fortunatamente. Il paesaggio si era aperto davanti ai
suoi occhi
ed Emma vide ciò che cercava, qualcosa che la
aiutò a capire dove si trovava:
l’Arduo Colle. Era molto peggio di quanto immaginasse,
perché, anche se l’Arduo
Colle era ancora ad una lega di distanza, lei si trovava da questa parte, non oltre il colle, dove
la zona paludosa lasciava spazio al lago di Inis Witrin, da molti
chiamato la
Porta di Avalon.
Emma
era nella Grande
Palude.
L’aveva
vista segnata
sulla mappa che Artù aveva dispiegato sulla Tavola Rotonda.
Non c’era niente in
quel posto. O meglio, da qualche parte, qualcosa... qualcuno
c’era. Se avesse
esplorato meglio la zona avrebbe trovato delle casette improvvisate che
appartenevano ai cosiddetti Uomini Paludosi; reietti, vagabondi, gente
che non
aveva più un luogo a cui tornare né tantomeno
un’identità, persone che
campavano pescando rospi, anguille e sanguisughe, raccogliendo bacche
commestibili o erbe che poi venivano rivendute a qualche miserabile
mercante delle
città più vicine.
E
ora?
Il
Lago di Inis Witrin.
La Porta di Avalon...
Le
tornò in mente la sua
conversazione con Morgana.
“Ma
ricordati delle mie parole. Non essere avventata. Non fare cose di cui
potresti
pentirti. Non lasciarti trascinare dalla tua rabbia. Vieni ad
Avalon.”
Ma
non ebbe il tempo di rifletterci
sopra, perché dalla macchia d’alberi che aveva
oltrepassato poco prima sbucò
qualcuno. Dapprima Emma udì il rumore di una lama che
tagliava cespugli e rovi.
Poi un’imprecazione. Una voce femminile. Il nitrito basso di
un cavallo.
Un
Paludoso?
Emma
non sapeva quanto
forti fossero quelle persone. Sicuramente avevano armi per difendersi.
Armi
rubate. Armi forgiate con le loro mani. Se un tempo erano stati dei
combattenti, dei cavalieri o dei semplici soldati, erano in grado di
difendersi.
Emma
mise mano all’elsa.
Maximus nitrì, nervoso.
Infine
comparve una
donna.
Sbigottita,
Emma rimase
là, a fissarla.
La
donna indossava una
robusta armatura nera e impugnava una lunga spada la cui elsa era
altrettanto
nera. I capelli erano corti e scuri e l’espressione
corrucciata del viso
decisamente attraente lasciava intuire che anche lei si fosse persa.
Teneva per
le briglie un bel cavallo, anche lui abbigliato più o meno
come la padrona:
sella scura, sottopancia e arcione neri.
Non
può essere...
Emma
credette davvero di
essere piombata in un sogno allucinato. Era successo tutto troppo in
fretta.
Forse la sua mente stava reagendo nel modo sbagliato alla perdita
dell’orientamento; forse era caduta da cavallo e giaceva
svenuta da qualche
parte.
La
donna la vide e sbarrò
gli occhi, stringendo saldamente la spada in pugno. Non
parlò. Si limitò a
guardarla.
No,
non sto sognando. Tutto questo sta accadendo veramente.
Regina.
La
donna era Regina, la
sovrana del regno di Mehlinus. Non l’aveva mai vista ma non
avrebbe mai potuto
non riconoscerla; non solo perché gliel’avevano
descritta, ma anche... per via
dello stemma. Sul petto, incisa sull’armatura,
c’era la testa di una pantera
con le fauci spalancate. La spilla che chiudeva il mantello alla base
del collo
aveva la medesima forma. Aveva un portamento elegante, regale, anche se
era
vestita come un cavaliere. E quella spada... quella spada era
Stormbringer, la Tempestosa.
La spada della regina del nord. Solo lei avrebbe potuto impugnarla. Non
se ne
separava mai. Merlino l’aveva disegnata, basandosi sulle
proprie visioni.
-
Chi siete? – domandò
Regina, puntando la spada nella sua direzione, ma restando a distanza.
Emma
strinse il pugno.
Aveva la bocca secca e il cuore in tumulto. Nella sua testa si facevano
largo
le immagini più dolorose della sua vita: Snowing Castle che
bruciava, le fiamme
che divoravano il castello, la gente che urlava, i corpi sparsi per il
giardino
sul retro del castello, suo padre che uccideva l’uomo che
voleva spaccarle la
testa con la sua ascia, David che la consegnava a Graham, Narsil...
Le
ultime parole.
“Presto
verrà il tuo momento. Lo so. Non può essere
altrimenti. Allora tornerai e tutto
questo sarà tuo! Tutto! Il trono che ti appartiene di
diritto sarà tuo! Le
terre saranno tue! I miei uomini saranno tuoi!”
Il
dolore nei suoi occhi.
Lo stemma... il melo, che una volta era il simbolo della regina del
nord, che
sventolava, che capeggiava sugli scudi, sulle armature.
“Un
giorno, quando sarai abbastanza forte, tornerai. Vendicherai me e tua
madre. Il
regno sarà tuo! Ma adesso devi andare con Graham. Se rimani
qui, morirai e
tutto sarà davvero perduto! Fallo per me, figlia
mia.”
Furiosa,
Emma sguainò la
spada.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** 16. The Queens Fighting ***
16
THE
QUEENS FIGHTING
Grande
Palude. Ovest.
Regina
stringeva
saldamente l’elsa di Stormbringer e guardava la straniera che
aveva incrociato
mentre tentava di superare quell’orribile zona paludosa e
quasi impraticabile.
Era una donna molto bella, con capelli biondo oro, ondulati, sciolti
sulle
spalle; l’espressione dura, occhi chiari, azzurri forse. O
verdi. Sulle prime
non riuscì a capirlo. Armatura argentata, molto robusta. Una
bella spada nella
mano destra. Una spada scintillante. Sembrava emanare luce pura. Il
mantello
rosso sulle spalle volteggiava.
Un
cavaliere? Non le era
mai capitato di incontrare una donna che fosse un cavaliere. Pensava a
se
stessa come ad un soldato, ormai, non solo come una regina. Ma era la
prima
volta che vedeva un’altra donna con indosso una simile
armatura.
La
donna avanzò verso di
lei.
-
Chi siete? Cosa volete?
– ripeté Regina, irrigidendosi e preparandosi ad
uno scontro.
-
Che cosa fate Voi qui?
– Il tono della donna era... sbigottito. Incredulo ed
impertinente.
-
Ve lo ripeto: chi
siete? State indietro! Non avvicinatevi!
-
Non sapete chi sono io,
ma io so chi siete Voi. – Le puntò contro la lama
della spada. – La regina di
Mehlinus.
Regina
sorrise, vagamente
divertita. – Sono io.
-
Ho riconosciuto lo
stemma.
-
Adesso dovreste dirmi
chi siete. Mi state puntando contro una spada, cavaliere. Io sono una
regina...
-
Voi siete un mostro.
Spalancò
gli occhi.
Regina sentì la gola bruciarle e lo stomaco sussultare.
Avanzò di qualche
passo, spada in pugno. – Come osate?!
-
Come oso? Come avete
osato, Voi, prendervi la mia casa? Come avete osato... mi avete
costretta a
nascondermi per anni! - Emma non si controllava più. La sua
mente era offuscata
come da una febbre. Ma era una febbre rabbiosa. Una febbre nella quale
si
facevano strada una moltitudine di domande; perché la regina
di Mehlinus era
lì? Si era persa anche lei? Come mai aveva lasciato il suo
regno? Era caduta in
una trappola? Il Fenrir era opera di Regina?
-
Ma di che cosa state
parlando? Chi siete?! – gridò Regina, furibonda.
-
Il mio nome è Emma.
Emma Swan.
-
Dovrei conoscervi?
-
Non conoscete questo
nome. Ma il nome Blanchard lo conoscete. Lo ricordate!
-
Voi... Voi...
-
Sono la figlia dei
sovrani di Anatlon. David e Mary Margaret.
Regina
vide rosso. Una
furia cieca le ottenebrò il cervello. Nella mano destra si
formò una sfera di
fuoco, che scagliò in direzione di Emma, accompagnandola con
un grido di
rabbia.
Emma
sollevò la spada e
la sfera infuocata si scontrò con essa, disintegrandosi in
tante scintille. – É
così che combattete? Venite avanti e usate la Vostra spada!
Combattete
lealmente!
-
Proprio Voi parlate di
lealtà? Non sapete nemmeno che cosa significhi,
lealtà! I Vostri... genitori
non conoscevano il vero significato di questa parola!
-
Sciacquatevi la bocca,
prima di parlare dei miei genitori in questo modo! I Vostri soldati li
hanno
uccisi!
-
Delirate! – Regina si
fece sotto e lasciò partire un fendente dall’alto,
tenendo la spada con
entrambe le mani. Le lame cozzarono, violentemente.
Emma
sostenne la
pressione esercitata dalle braccia di Regina, stringendo i denti e
spingendo in
avanti, per allontanarla da sé. Regina barcollò,
ma non perse l’equilibrio.
-
Delirate... – tornò a
ripete la regina di Mehlinus, gli occhi accesi di collera. –
Sono i Vostri
genitori ad aver ucciso i miei! Vostro padre... David... ha ucciso il
mio. L’ha
colpito alle spalle!
-
Siete pazza! Mio padre
non avrebbe mai fatto nulla di simile! – Emma
provò un affondo. Regina non si
fece cogliere impreparata. Lo parò. – Mio padre...
era un uomo onesto. Un
cavaliere leale e valoroso! Non avrebbe mai colpito un avversario alle
spalle!
-
L’ha fatto, invece! –
Un altro affondo. Emma la respinse. – L’ha fatto,
mia cara principessa! Lo so,
è stata mia madre a dirmelo! Fu lei a consegnarmi questa
spada... Stormbringer.
È appartenuta a mio padre. Ho promesso che avrei ucciso il
Vostro, con questa. Ho
promesso che avrei vendicato la morte di...
-
Mio padre è già morto!
Da anni! È morto la notte della caduta del regno! Quando i
Vostri soldati ci
hanno attaccati a tradimento!
Regina
cercò di colpirla
alle gambe con un affondo molto rapido e potente. Emma la respinse di
nuovo. Le
spade cozzarono più volte. La regina di Mehlinus combatteva
bene, era forte e
ben bilanciata. Ma cercava di distrarla con le parole, con menzogne
assurde e
offensive.
-
Vostro padre? Morto?
Bugie! Il Vostro regno non è mai morto! Si tratta di
un’illusione!
-
Un’illusione?
-
Un’illusione! Un
sortilegio che i Vostri genitori hanno lanciato sul regno
perché sembrasse...
distrutto. Deserto. Privo di vita! Ma io so che non è
così.
-
Non potete saperlo! Non
Vi siete mai allontanata dal Vostro regno! Credete che non lo sappia?
-
Io so come sono andate
le cose! Tremotino mi ha raccontato tutto!
-
Quel mostro del Vostro
consigliere...
-
Ammettetelo! State
raccontando menzogne per confondermi la mente!
-
Siete Voi che dovreste
ammettere quella che è la verità: i miei genitori
sono morti per colpa Vostra! I
Vostri uomini hanno distrutto Snowing Castle... l’hanno
attaccata. A
tradimento. I Vostri soldati hanno incendiato il castello. Mia madre
è morta
tra le fiamme! E mio padre...
-
Smettetela con queste
sciocchezze! Sì, i miei soldati erano a Snowing Castle, ma
li avevate chiamati
Voi! Avevate inviato un messaggio a mia madre perché
mandassimo degli uomini ad
aiutarvi. Dicevate di... aver bisogno di aiuto... perché
c’era stata...
un’inondazione! Avevate bisogno di uomini. Questo avete
detto! E poi... era un
inganno. Mia madre dovette usare la sua magia per sconfiggervi. Siete
Voi i
traditori!
Mentre
parlavano i colpi
si susseguivano uno dopo l’altro. Le lame cercavano un punto
debole, miravano a
fianchi, spalle, braccia, gambe. Emma sfiorò un punto
scoperto del braccio
sinistro di Regina, aprendo un taglio superficiale. Regina
indietreggiò di
qualche passo. Respirava affannosamente. Anche Emma iniziava a sentire
la
fatica. Restò in guardia, senza perdere di vista un momento
la sua avversaria,
che ora aveva iniziato a muoversi in cerchio.
“È
vedere, ciò che conta davvero. Vedere è il vero
segreto dell’arte della spada.”
Regina
vedeva. Emma la
seguiva, puntando gli occhi nei suoi.
-
Noi non abbiamo mai
tradito... Maestà. – Emma pronunciò
quel titolo caricandolo di sarcasmo. – Ci
avete attaccati Voi. Questa è la verità. Io
ricordo molto bene quella notte,
sapete? Ero là, a Snowing Castle. Ero là e ho
visto mia madre sparire,
inghiottita dalle fiamme. Uno dei Vostri soldati voleva... spaccarmi la
testa
con un’ascia. Mio padre l’ha fermato. E mi ha
portata in salvo. Mi ha
consegnata ad un uomo che mi ha portata a Camelot. È
là che sono stata tutti
questi anni!
Regina
chiuse gli occhi
per un paio di secondi. Vacillò. Emma sembrava... sembrava
convinta di ciò che
stava dicendo. Eppure lei sapeva. Regina sapeva la verità.
Era su quello che si
basava la sua vendetta.
-
Ho visto il Vostro
stemma. Il vecchio stemma. Il melo. Sugli scudi. Sulle armature e sugli
stendardi. Non potrei mai dimenticarmelo!
-
Oh, sì! Mia madre
dovette usare la magia. Sì, perché noi eravamo in
inferiorità numerica. Dovette
usare la sua magia... e lo fece! Lo fece per difendersi! Non era sleale
come
Voi! Voi avete usato la magia per ingannare. Sempre! Avete attaccato
Voi per
primi! E non era il primo tradimento! Vostro padre ha...
-
Mio padre non ha mai
duellato col Vostro!
-
L’ha ucciso! E avete
ucciso anche mia madre!
-
La responsabilità è
Vostra!
Regina
l’attaccò di
nuovo, con un affondo accompagnato da un altro grido di rabbia. Emma lo
parò,
si spostò a destra...
Non
perderla di vista neanche un secondo. Nemmeno uno.
...fece
roteare la sua spada e la calò dall’alto, in un
fendente potente. Regina
sollevò Stormbringer. Le spade si scontrarono di nuovo, con
una violenza tale
che il colpo riverberò nelle loro braccia e nelle loro
teste. Emma
indietreggiò. Le tremava il braccio destro. Era coperta di
sudore.
-
Arrendetevi... – disse
Regina.
-
Mai!
-
Arrendetevi ed
inginocchiatevi! Ammettete le colpe della Vostra famiglia!
-
La mia famiglia non ha
colpe!
Ricominciarono
a muoversi
in cerchio. Senza mai distogliere lo sguardo l’una
dall’altra. Due guerriere
che aspettavano il momento migliore per azzannarsi. Una pantera nera e
un cigno.
Il cigno con le ali di fuoco. Ma le loro menti iniziavano ad essere
confuse. In
bilico.
Perché
mente?, si
chiedeva Emma. Era sopraffatta dallo sgomento. Non
riusciva a capacitarsi di essere in quella palude, a battersi contro la
donna
che aveva odiato per anni. Perché
dice
tutte queste assurdità? Perché sembra
così sicura di ciò che sta dicendo? Non
ha mai distolto gli occhi, mai. Nemmeno una volta. Come se... come se
credesse
veramente in queste cose.
Perché
non ammette quello che hanno fatto i suoi genitori?, si
domandava Regina. La colpa è loro!
Possibile che non ne sia al corrente? No, è impossibile.
Deve saperlo! Erano i
suoi genitori. No, SONO i suoi genitori. Tremotino non mi avrebbe mai
mentito.
Nemmeno mia madre.
Che
succede ai suoi occhi? È la magia?. Emma
vide le iridi di Regina
cambiare colore. Erano... violacee. Poi tornarono normali. Scure e
piene di
furia.
-
La storia
dell’illusione... è assurda! I miei genitori non
usavano la magia. Voi la
usate. L’avete fatto un attimo fa!
-
Oh, sì. Io la so usare,
come la sapeva usare mia madre. Ma non sono sleale!
-
Nemmeno io. E nemmeno i
miei genitori lo erano.
-
A questo punto devo
pensare che non li conoscevate affatto! Ma non importa. Voi siete la
loro
erede! Siete responsabile quanto loro!
Emma
provò un altro
affondo. Le spade cozzarono. Regina la respinse. Emma
scivolò e rischiò di
cadere faccia a terra, nel pantano della palude. Ma non perse
l’equilibrio.
Regina cercò di sfruttare il fatto che si era sbilanciata e
scaricò un fendente.
Emma si difese.
“Devi
imparare ad usare anche l’altro braccio, Emma. Può
essere fondamentale in un
duello...”
Le
parole di Galahad
risuonarono nella sua mente, frammentandosi in una moltitudine
d’echi. Regina
caricò un’altra volta. Emma respinse
l’affondo.
“Può
essere fondamentale in un duello.”
Le
spade cozzarono ancora.
Regina vibrò una serie di colpi con la lama di piatto. Emma
indietreggiò. Regina
tentò un nuovo affondo, sperando di coglierla alla
sprovvista, ma lei non si
fece trovare impreparata. Spinse con la lama, allontanando la spada.
Ruotò su
se stessa rapidamente e cambiò mano. Narsil passò
dalla sua destra alla sua
sinistra così all’improvviso che Regina ne fu
disorientata. Il colpo arrivò da
sinistra, un colpo obliquo. Regina lo intercettò, ma la sua
posizione era
precaria. Il polso cedette e perse la spada, che finì nel
pantano della palude.
No!
Emma
le puntò Narsil alla
gola, appoggiando la lama su di essa in modo che Regina, costretta a
terra,
sentisse il freddo morso dell’arma.
Mi
ucciderà, pensò
Regina. Aveva ancora la magia dalla sua parte.
Avrebbe potuto respingerla con essa. Emma non la conosceva, non sapeva
usarla. Non
sarebbe morta nel bel mezzo di una maledetta palude, per mano della
figlia di
quegli infami. Non lei. Non la sovrana di Mehlinus. Ma il fatto di
essere stata
gettata a terra e disarmata la faceva sentire fuori di sé.
-
Tocca a Voi arrendervi.
– disse Emma, con il fiato corto.
Regina
non disse una
parola. La guardò, furente. Emma allontanò
Stormbringer con il piede.
“Il
viaggio sarà lungo, Emma. Sarà lungo e avrai modo
di scoprire che molte delle
cose in cui credi non sono come appaiono”. La
voce di Morgana
penetrò attraverso la cortina di rabbia. Attraverso la
fatica.
“Io
non ho bisogno di mandare qualcuno. Il destino lo manda. Incolperai
lui. O
forse lo ringrazierai.”
“Se
ti dicessi chi è, non mi crederesti né vorresti
darmi ascolto.”
Regina?
“Il
destino lo manda. Incolperai lui. O forse lo ringrazierai.”
-
Dov’eravate diretta?
Perché avete lasciato il regno? – chiese Emma,
premendo la lama sul collo.
-
Volevo il Vostro, di
regno. Ero andata avanti in esplorazione. Volevo capire come prenderlo!
–
rispose Regina.
-
Il mio regno?
Prenderlo? Snowing Castle è caduta undici estati fa,
Maestà...
Ancora
quel tono
sarcastico... Regina avrebbe tanto voluto strapparle il cuore dal petto
per il
modo in cui si rivolgeva a lei.
-
Credete davvero in
quello che mi avete detto? – chiese Emma, fissandola in
quegli occhi scuri e
penetranti. Che poi non erano così scuri come pensava. Erano
nocciola.
-
Sì, è la verità.
-
No. Non lo è. Ma c’è
qualcosa in Voi...
-
Come dite?
-
C’è qualcosa che non mi
è chiaro. Mentre combattevamo... non ho avuto
l’impressione che steste
mentendo.
-
Perché non mento! Non
potrei mai mentire su una cosa del genere!
-
Nemmeno io mento,
Maestà.
“Ma
ricordati delle mie parole. Non essere avventata. Non fare cose di cui
potresti
pentirti. Non lasciarti trascinare dalla tua rabbia. Vieni ad
Avalon.”
-
Io ricordo quella
notte. Ero una bambina, ma ricordo... ricordo tutto il dolore. Il mio
dolore e
quello di mio padre, che aveva appena perso il suo amore. Ricordo che
mi disse
che un giorno sarei tornata e li avrei vendicati. Mi diede la sua
spada:
questa. – Emma puntò Narsil al viso di Regina.
– Si chiama Narsil... Regina,
forse Voi non state mentendo, ma nemmeno io lo sto facendo.
-
Una di noi due mente di
sicuro. E quella non sono io.
-
Ma non ve ne rendete
conto? Guardatemi! Guardatemi, Maestà! Guardatemi negli
occhi! E ditemi che
cosa vedete. Voi sapete usare la magia. La magia forse può
permettervi di
vedere la verità.
Regina
mantenne lo
sguardo fisso nel suo. Gli occhi di Emma erano verdazzurri. E di
un’intensità
tale che ne uscì destabilizzata. Cercò le bugie
in quella limpidezza
sconcertante. Cercò la falsità. Tracce di
inganno.
E
non ne trovò. Per
quanto si sforzasse non ne trovò. Non aveva mai avuto la
sensazione che stesse
mentendo; fin dal momento in cui si erano incontrate, Emma
l’aveva guardata con
rabbia, come se realmente la credesse responsabile di ciò
che era accaduto ai
suoi genitori. Quelle che vedeva nei suoi occhi erano lacrime. Lacrime
trattenute. Non aveva mai usato la magia, ne parlava come se non la
sapesse
usare. Se era figlia di quei demoni doveva conoscerla per forza, ma non
vi
aveva mai fatto ricorso.
“Ma
ricordati delle mie parole. Non essere avventata. Non fare cose di cui
potresti
pentirti. Non lasciarti trascinare dalla tua rabbia. Vieni ad
Avalon.”
“Credi
nelle parole di Morgana. Una sacerdotessa di Avalon conosce sempre la
verità.”
-
Ho una proposta da
farvi. – disse Emma, scostando un poco la spada. Poteva
essere una follia.
Follia pura. Poteva costarle la vita e tutto quello che aveva fatto,
tutto
quello che aveva imparato... sarebbe stato inutile. Ma la voce di
Morgana la
tormentava. Quegli occhi azzurri la tormentavano. Le parole di Merlino
la
tormentavano.
-
Non intendo fare
accordi con Voi! – replicò Regina.
-
È un accordo che conviene
ad entrambe, Maestà.
-
No.
-
Almeno ascoltatemi. –
Emma continuò a fissarla, intensamente. – Dobbiamo
raggiungere Avalon.
-
Come? – Regina era
incredula.
-
Poco tempo fa, prima
della mia partenza, Morgana è venuta da me.
-
Morgana?
-
Sì. La Somma
Sacerdotessa. È stata lei a parlarmi del mio viaggio. Del
fatto che avrei
incontrato qualcuno. E che molte delle cose che so non sono come
appaiono. – Le
costava pronunciare quelle poche parole.
-
Sono altre
farneticazioni?
-
No. Morgana mi ha detto
questo. Una sacerdotessa di Avalon non parla in questo modo se non
è a
conoscenza di qualcosa che noi ancora non sappiamo.
-
Non c’è niente che...
-
Regina, anche Voi
dubitate. Lo vedo nei Vostri occhi.
-
Non sapete nulla di me!
-
Credevo di sapere
molto. Ma se vogliamo conoscere la verità, se vogliamo
scoprire come stanno
davvero le cose, è necessario fare ciò che mi ha
detto Morgana. Andare ad
Avalon.
-
Non sappiamo nemmeno
dove ci troviamo!
-
Io lo so. – Emma
indicò, con la mano libera, il colle. – Quello
è l’Arduo Colle. L’ho riconosciuto
subito, appena l’ho visto, perché si affaccia
sulla Grande Palude. Questa. Al
di là del colle c’è il Lago di Inis
Witrin. La Porta di Avalon.
-
Non passeremo mai.
Nessuno passa attraverso le nebbie di Avalon.
-
Loro sanno che stiamo arrivando.
Ci faranno passare.
-
E se così non fosse? Se
state interpretando le parole della sacerdotessa nel modo sbagliato?
Emma
strinse le labbra. -
Me ne assumerò la responsabilità.
Maestà... se volete scoprire chi di noi due
ha torto allora dovete ascoltarmi: andremo ad Avalon. Parleremo con
Morgana. E
lei ci dirà tutto.
-
E dopo?
-
Dopo... quello che
succederà dopo dipenderà da ciò che
scopriremo. Perché in questa storia c’è
qualcosa che non va. L’avete compreso bene anche Voi. Datemi
retta. È l’unico
modo.
Regina
avrebbe tanto
voluto stringere l’elsa nera di Stormbringer. La sua spada la
faceva sentire...
più forte. Più sicura.
Avalon...
Era
vero che le
sacerdotesse conoscevano la verità. Possedevano la Vista.
Non
ci andare, strillò
la voce di Tremotino, nella sua testa. Non ci andare, Regina,
è una trappola
di certo. Ti racconteranno un sacco di menzogne.
-
D’accordo. – disse
Regina.
-
Bene. – Emma scostò la
spada, rinfoderandola. Le offrì la mano per aiutarla a
rialzarsi.
Regina
la rifiutò e si
alzò da sola.
-
Raccogliete la Vostra
spada. Sarà meglio partire subito.
I
cavalli, che si erano
innervositi durante lo scontro, se ne stavano qualche metro
più in là, vicini.
Come in attesa. Era un vero miracolo che non fossero scappati via.
Regina
strinse l’elsa di
Stormbringer nella mano destra. Sì, andare ad Avalon. Andare
ad Avalon poteva
anche essere la soluzione. Le sacerdotesse avrebbero dimostrato che lei
aveva
ragione. Che era Emma a sbagliare. Ad ingannarla.
(e
se non fosse così? Se non fosse lei ad ingannarsi?)
Era
Emma. Una volta
svelata la verità, Regina l’avrebbe sconfitta.
L’avrebbe fatta prigioniera. Sì,
l’avrebbe fatta prigioniera e l’avrebbe costretta a
condurla verso sud, ad
Anatlon. Avrebbe conquistato il regno ed Emma si sarebbe...
-
Volete affrettarvi,
Maestà?
Ancora
quel tono
sarcastico. Come se... come se stesse prendendo in giro il suo essere
regina.
Furiosa, Regina usò la magia per creare un globo di fuoco.
Emma
le dava le spalle,
ma capì cosa intendeva fare: - Non credo che lo farete.
Avete detto che mio
padre è stato sleale con il Vostro. Volete comportarvi
slealmente anche Voi,
colpendomi alle spalle?
Regina
si rese conto di
quanto fosse assurdo ciò che stava facendo. Pensò
ad Henry e inorridì. Aveva
perso il controllo. Non era così che doveva agire.
Il
fuoco si estinse e
Regina rinfoderò la sua spada.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3921370
|