Bittersweet Hotel.

di AdelaideMiacara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vino rosso e vasca da bagno. ***
Capitolo 2: *** Mirror. ***
Capitolo 3: *** Un ottimo passatempo. ***
Capitolo 4: *** Parlare. ***
Capitolo 5: *** Sei di picche. ***
Capitolo 6: *** Seconda chance. ***
Capitolo 7: *** Il coraggio. ***
Capitolo 8: *** Deva. ***
Capitolo 9: *** Sconosciuto. ***
Capitolo 10: *** Rosso sangue. ***
Capitolo 11: *** Dentro il sogno. ***
Capitolo 12: *** Punto e a capo. ***
Capitolo 13: *** Distrazioni fatali. ***
Capitolo 14: *** Mission impossible. ***



Capitolo 1
*** Vino rosso e vasca da bagno. ***


16 novembre.

 

«Prova a sforzarti, Benjamin» disse la donna seduta sulla poltrona, poco protesa in avanti, attenta a scrutare da dietro le sue lenti l'uomo per cogliere anche la minima espressione facciale, «che cosa è successo la notte del 13 luglio?».

Sulla poltrona davanti a lei sedeva un uomo poco più che trentenne, nel pieno della sua bellezza, lo sguardo vacuo verso la finestra alla sua destra. Apparentemente rilassato e a proprio agio, il piede destro sul ginocchio sinistro come se fosse seduto nel salotto di casa propria, l'unica cosa che lo tradiva erano le mani: la sinistra stringeva con forza il bracciolo della poltrona, mentre con il pollice destro si accarezzava il labbro inferiore, in un vano tentativo di sostituire un gesto alle parole. Ma Ben non era mai stato abituato a parlare apertamente delle proprie emozioni, nonostante fosse un tipo abbastanza estroverso. A cosa serve essere espansivi, si chiedeva, se quando hai bisogno di mostrare la tua anima non ne hai il coraggio?

«Mi sto sforzando» rispose in tono freddo, più per riempire il silenzio che altro. Non era vero. Non si stava sforzando, perché ogni volta che ci provava gli sembrava di toccare un'altra volta il fondo. Non era nuovo al dolore, anzi lo considerava un amico di vecchia data, ma questa volta la soluzione più sensata gli sembrava quella di fuggirne. Il volto ancora fisso sulla finestra, si accorse che era già buio pesto e cercò nella stanza l'orologio: segnava le 19:07.

La dottoressa Mitchell si abbandonò contro lo schienale della poltrona, le sopracciglia impercettibilmente inarcate, e in quel movimento Ben vide tutta la stanchezza accumulata in una giornata di lavoro e si sentì in colpa.

«Ora devo andare» le disse, accennando un sorriso e tirandosi su dalla seduta. Poi le strinse la mano e mormorò un "grazie" attraversando lo studio a grandi passi, come colto all'improvviso dalla fretta, quando la psicologa lo fermò. «Benjamin, sai che quello che si dice in questo studio rimane in questo studio, vero?».

Ben la guardò cercando di nascondere il senso di fastidio che pian piano sentiva crescere dentro di sè. «Certo» rispose, e dopo qualche secondo di silenzio fece un ultimo cenno con la testa e uscì dallo studio.

L'ultima frase che gli aveva rivolto la sua psicologa prima di uscire dalla stanza lo tormentò per tutto il tragitto fino al Bittersweet Hotel, poco distante dall'edificio in cui si trovava lo studio. Forse la dottoressa Mitchell pensava che il problema di Ben fosse la paura che lei parlasse con altri di quella notte, ma non sapeva che lui non avrebbe voluto altro che urlare al mondo intero cos'era successo; parlare ininterrottamente della fiammata che sentiva partire dalle viscere fino alla gola ogni volta che ci pensava, ecco che cosa desiderava veramente Ben. Ma ogni volta che provava a dar voce alle sue sensazioni e ai suo pensieri le labbra si incollavano, i denti si serravano e si sentiva strangolare.

Solo quando arrivò all'entrata dell'hotel si accorse che stava piovendo, e che quel breve tragitto a piedi era bastato per colarsi dalla testa ai piedi. Il clima autunnale londinese non lasciava scampo a nessuno, pensò sfregando le scarpe sul tappeto prima di entrare, nemmeno alle anime più malconce.

«Signor Barnes» lo salutarono dalla reception, riportandolo alla realtà. Uno dei suoi dipendenti si stava già avvicinando con una tovaglia nelle mani, ma lui rifiutò con un cenno della mano e un sorriso cordiale. Viveva in uno degli hotel di lusso più gettonati di tutta Londra, di sua proprietà tra l'altro, dove veniva visto e trattato da ogni dipendente quasi come una divinità. Molti di loro lo conoscevano fin da bambino e ogni occasione era buona per sottolineare come Ben avesse ereditato il carattere di suo nonno, nonché le sue abilità professionali: a soli 33 anni gestiva il Bittersweet Hotel completamente da solo, a partire dalla gestione del personale fino agli aspetti finanziari.

Aspettò impaziente l'ascensore, tremando dal freddo e pentendosi di non aver accettato quell'asciugamano, almeno per tamponare i capelli. Quando finalmente arrivò al piano terra corse dentro e spinse più volte il pulsante per l'attico, il dodicesimo piano. "Ok, Ben" si disse, guardando riflesse nello specchio le labbra livide, "non appena si chiuderanno queste porte, lascerai dietro di loro anche tutti i pensieri".

E così fece. Non appena arrivato nella sua suite all'ultimo piano, sfrecciò verso il bagno e fece scorrere l'acqua bollente nella grande vasca di marmo bianco, sfilandosi uno dopo l'altro i vestiti fradici. Mentre la vasca si riempiva si appoggiò con entrambe le mani sul piano del lavabo, in marmo come la vasca, e lentamente alzò la testa verso lo specchio. Il suo sguardo veniva ricambiato da un giovane affascinante come pochi dall'aspetto curato ma dall'aria fin troppo provata. I capelli neri e la barba corti, gli occhi scuri e profondi, lo differenziavano dallo stereotipo londinese del biondo dagli occhi azzurri, ma avevano contribuito nella strage di cuori degli ultimi vent'anni. Ciò che affascinava di Ben – a detta di parenti, amici, donne con cui era stato e non – era il suo carattere espansivo e intraprendente in contrapposizione all'aria enigmatica e scostante che aveva quando se ne stava per i fatti suoi. Innegabile che fosse un animale da festa: il più scatenato dei suoi amici, quello che più si spingeva al limite e oltre, ma riusciva a rubare la scena anche quando sedeva in disparte e con la mente vagava, che fosse nella hall del Bittersweet o in qualunque locale di Londra.

Chiuse l'acqua e uscì dal bagno. Attraversò il salotto e si lasciò scappare un sorriso pensando a quante gliene avrebbe dette il giorno dopo Lara, la signora delle pulizie, alla vista delle sue impronte sul parquet. Quando arrivò in cucina prese una bottiglia di vino rosso mezz'aperta dal frigorifero e un calice da uno degli stipetti sopra il lavello, poi passò un'altra volta davanti le grandi vetrate del salotto ancora nudo e tornò in bagno. Quello era per Ben uno dei tre grandi piaceri della sua vita: stare lì disteso nell'acqua bollente della vasca, le luci soffuse, e un bel bicchiere di vino pregiato per allentare lo stress. Si avvicinò a uno dei piccoli schermi incassati nella parete da dove poteva scegliere la musica e in quale stanza diffonderla e fece partire dalla sua playlist un brano dei The Clash, il suo gruppo preferito. Dopodiché posò il suo telefono sul bordo della vasca con lo schermo all'insù, accanto al calice di rosso, e si immerse. Come fece scivolare il primo piede dentro l'acqua ancora molto calda, si sentì immediatamente meglio, e così si abbandonò con tutto il corpo.

«Cos'è la vita?» si chiese ad alta voce dopo aver preso il bicchiere e, chiudendo gli occhi, aver bevuto il primo sorso. «Cosa è, se non questo?».

Nemmeno un minuto dopo, il suo telefono squillò. Con gli occhi ancora chiusi, sorrise e scosse il capo. Posò il calice al suo posto e si avvicinò allo schermo per leggere il nome del suo disturbatore: Daniel. Non poteva fare finta di niente.

«Vecchio Dan» rispose, mettendo il vivavoce. Non era il caso di far cadere un altro cellulare nella vasca da bagno piena, com'era già accaduto in precedenza,

«Ben, spero di non disturbare» disse la voce all'altro capo del telefono, in realtà noncurante del suo disturbo. Daniel era il consulente gestionario dell'hotel, il braccio destro di Ben, colui che al posto del cervello aveva un'agenda infinita e tremendamente rigorosa, come lo definiva il ragazzo. Di dieci anni più grande di lui, era l'unico di cui Ben si fidava quando c'erano delle decisioni importanti da prendere.

«Nessun disturbo, spara».

«Sono sicuro che ti ricordi che tra due settimane ci sarà l'esposizione di Chanel nel tuo hotel».

Ben quasi si affogò con il vino. Aveva accettato con tanta riluttanza di ospitare quell'evento al Bittersweet che gli era passata di mente tutta la mole di lavoro che li aspettava nei giorni a seguire.

«Naturalmente» rispose in un tono più convincente possibile, e quasi avvertì Daniel roteare gli occhi e sbuffare dietro il telefono.

«Naturalmente. Bene, tra tre giorni arriveranno il direttore creativo della mostra e tutto lo staff di designer e tecnici addetti. Ho già riservato le camere per tutti, sono 8 persone in totale senza contare i tecnici che non alloggiano, quindi abbiamo 7 camere e una suite all'undicesimo off-limits per tre settimane».

Il signor Barnes sorrise e ringraziò il cielo di aver incontrato Daniel lungo il suo cammino, altrimenti sarebbe stato tutto molto meno organizzato e fluido.

«Ah, ho anche prenotato un tavolo al Mirror lo stesso giorno che arrivano questi qui, però mi raccomando a mia moglie ho detto che saremo al Wilde...» continuò Daniel, ma Ben aveva già perso il filo del discorso.

«Aspetta, aspetta, perché mai dovremmo portare il direttore creativo della mostra e il suo staff al Mirror? E che c'entra tua moglie?».

«Cos- portare quegli sciroccati al Mirror?!» rise Dan, «Per niente. Sbaglio o il 20 novembre è il tuo compleanno? Mica ci voglio portare loro. Festeggiamo la mezzanotte come si deve. Tranquillo, una cosa tra intimi. Una pseudo-festa te la sta già organizzando Lara in Hotel e non c'è come dissuaderla».

Ben rimase un attimo stupito. Non pensava di festeggiare il compleanno quest'anno, ma evidentemente era una strategia di Daniel per tenerlo su di morale. Apprezzò questo gesto d'amore in silenzio.

«Sei il migliore, vecchio Dan».

L'idea dell'iminente allestimento non lo entusiasmava, ma era una buona scusa per aprirsi al pubblico. Periodicamente organizzavano eventi al Bittersweet Hotel di ogni tipo: manifestazioni culturali, dibattiti politici, conferenze sull'ecologia, tutti seguiti o accompagnati da un ben assortito rinfresco. Con questa telefonata si poteva dire terminato il suo momento di relax, dato che ormai non riusciva a pensare ad altro che i dettagli dell'esposizione, quindi si alzò controvoglia dalla vasca e si avvolse un asciugamano bianco attorno alla vita, quando sentì sbattere la porta d'ingresso.

Rimasto immobile in piedi seminudo, dando le spalle alla porta del bagno, cercò di captare altri rumori. Finalmente sentì il suono più rincuorante della serata: il trottare delle zampe del suo cane contro il pavimento. Se lo immaginò fiutare tutte le stanze della suite in cerca del suo padrone, fin quando sentì il suo respiro pesante dietro la porta.

«Tonic!» esclamò quando, dopo aver aperto la porta, il grosso cane nero gli saltò addosso e iniziò a leccargli il viso. «Grazie, Doug» si rivolse poi al cameriere incaricato della passeggiata tardo-pomeridiana di Tonic, che se ne andò dopo aver simulato un mezzo inchino.

«Saranno delle settimane impegnative, caro mio» disse infine rivolgendosi al cane. Poi entrò nello studio, la seconda porta nel salotto sulla destra, e si sedette dietro il computer iniziando a controllare tutte le schede mandate per mail da Daniel, in attesa della cena.

Il silenzio assordante dello studio della dottoressa Mitchell sembrava lontano da lui di anni. Ancora una volta, stava fuggendo dalla realtà. "E continuerò fino alla follia", pensò.

 

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HOLA! Se sei arrivat* fin qui, ci terrei tanto a sapere una tua opinione! Sono stata colta da un'idea - a mio parere - geniale e chi scrive sa che non bisogna lasciare scappare mai l'ispirazione quando arriva. Insieme sveleremo il mistero del 13 luglio. 
-a.

 

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Capitolo 2
*** Mirror. ***


 
 

19 novembre.

 

Ben Barnes fu svegliato bruscamente dal suono della sveglia sul comodino alla destra del suo letto. Dalla grande finestra della stanza entrava un unico timido raggio di sole, che Ben riuscì a cogliere con un solo occhio aperto prima che le nuvole tornassero a coprire il cielo. Si voltò di malumore, dando le spalle alla finestra, per controllare l'orario: le sei di mattina. Man mano che prendeva conoscenza, iniziavano ad affollarsi nella sua mente tutti gli impegni che lo aspettavano quella mattina, così si fece forza e si alzò stiracchiandosi. Si passò una mano fra i capelli spettinati, gli occhi ancora socchiusi, mentre fissava un punto indefinito della camera da letto. La cosa che più odiava di prima mattina, dopo il suono della sveglia e le persone che gli davano a parlare, era la stanza piena di luce. Ben era sempre stato un amante del buio; nel buio doveva addormentarsi ogni notte, riuscendo a stento a sopportare la piccola spia luminosa del televisore, e nel buio doveva svegliarsi al mattino per evitare di essere accompagnato dal mal di testa tutto il giorno. Per non parlare delle numerose notti in preda all'insonnia, passate a vagare per i corridoi dell'albergo o a contemplare il panorama londinese dai tetti.

Il primo ostacolo della giornata, ovvero la sveglia, era stato superato. Ora bisognava pensare a tutti gli altri. Decise di non perdere tempo cucinandosi la colazione e iniziò subito a prepararsi, scegliendo accuratamente il completo più adatto da indossare prima di infilarsi in doccia. La sua modesta suite era ovviamente dotata di una grande cabina armadio sempre immacolata, grazie all'aiuto delle domestiche, con scompartimenti separati per giacche, cravatte, pantaloni, camicie, scarpe e quant'altro. Guardò i cassetti dove vi erano contenute tutte le cravatte che, dai diciotto anni in poi, gli erano state regalate o era stato obbligato a comprare. Non ne andava pazzo. Sicuramente preferiva scattare da un lato all'altro del Bittersweet senza un "collare", bensì tenendo sempre i primi tre bottoni della camicia rigorosamente aperti. Nonostante la sua vena ribelle, anche Ben era in grado di riconoscere le occasioni importanti per le quali valeva la pena mettersi in tiro. "Tanto da domani sarà già abolita", pensò afferrando una cravatta scura a caso.

Una volta pronto, scese al piano terra e si intrufolò in una delle sale ristorazione per rubare qualcosa dai buffet e bere un caffè al volo, poi andò alla ricerca di Daniel.

«Buongiorno, Ben». Dan arrivava alle sue spalle con una pila di cartelle tra le braccia, pronto a buttargli di sopra tutto quel lavoro, nonostante fossero ancora solo le sette del mattino. «Nesbitt e il suo team saranno qui tra un'ora, bisogna revisionare e firmare tutti questi documenti».

«Diamoci da fare, allora» rispose, facendo un bel respiro e ignorando la prima fitta alle tempie della giornata, «ma prima di tutto viene il rituale». Scoccò uno sguardo d'intesa al suo collega, sfilando dalle sue braccia tutte le cartelle per posarle sul bancone della reception, e iniziò a camminare verso l'uscita, sicuro che Daniel lo stesse seguendo.

All'esterno dell'hotel, che dava su una strada molto popolata, vi era una panchina anonima in cemento che doveva esistere da prima della sua nascita o, a giudicare dai segni del tempo e dalle dediche degli innamorati incise sulla superficie, da prima della nascita del suo albergo. Si sedette insieme a Dan, allentando un po' la cravatta, e dal taschino interno della giacca estrasse un pacco di sigarette Winston blu. La strada, solitamente affollata, era ancora deserta. Strinse la sigaretta tra le labbra e la accese, poi fece il primo tiro chiudendo gli occhi e un brivido gli percorse la spina dorsale. La sigaretta dopo il primo caffè della mattina era per lui un rituale fondamentale, quello che gli permetteva di proseguire la giornata con serenità. Quando questo momento veniva a mancare, si sentiva irrimediabilmente nervoso.

«Dovremmo smettere» disse Daniel, più a se stesso che al suo capo, accendendo la sua sigaretta, «un giorno di questi Abbie mi butta fuori casa».

Ben rise. L'idea della moglie di Dan che lo cazziava per le sigarette lo divertiva e non poco. Una donna autorevole, Abbie, uno di quei tipetti so-tutto-io che puoi solo amare o odiare.

Il momento sacro di inizio giornata si spense insieme alle sigarette dei due uomini, riportandoli bruscamente al lavoro. Tutto era pronto per accogliere gli organizzatori della mostra: la grande sala conferenze era stata svuotata delle sedie e del grande tavolo ovale in legno, restando del tutto spoglia, pronta ad ospitare l'esposizione. Esposizione che, scoprì Ben solo quella mattina, si rivelò essere una mostra fotografica di sfilate vecchie e nuove, con un percorso interattivo non ancora ben delineato.

Per maggiori delucidazioni dovette aspettare l'arrivo del direttore creativo, Nesbitt, e il suo team di designer, e quando Ben li vide attraversare la porta d'ingresso del suo hotel avvertì un mix di entusiasmo inaspettato e nervosismo.

«Che piacere, che piacere, signor Barnes!» lo salutò calorosamente il signor Nesbitt, come un vecchio amico, mentre alle sue spalle i suoi dipendenti restavano immobili in attesa di un suo comando. Ben mandò qualcuno dei suoi a recuperare i bagagli degli ospiti, mentre loro si avviarono alla sala conferenze per dare subito inizio ai preparativi.

«Signor Barnes, mi permetta di presentarle il mio braccio destro, Deva Thompson» iniziò Nesbitt, afferrando una delle ragazze del suo gruppetto, «questo è un osso duro, sa? È lei che comanda in pratica, non io» continuò sorridente, mentre la ragazza dai capelli castani mossi accennò un sorriso imbarazzato e strinse la mano di Ben.

«Beh, in ogni squadra che si rispetti c'è sempre il braccio e la mente, no?» rispose Ben, già intento a congedarsi, quando la signorina Thompson ribatté.

«E lei, signor Barnes, è il braccio o la mente?».

Ben si prese giusto qualche secondo per studiarla e giurò di aver visto un insolito guizzo negli occhi verdi della ragazza. Con un sorriso lievemente malizioso strinse il nodo della cravatta e alzò il braccio destro fingendo di mostrare un bicipite allenato.

«Sicuramente non la mente, non crede?» replicò, provocando una finta risata del signor Nesbitt, per poi congedarsi.

Si fece strada stra il gruppo di lavoratori che perlustravano ogni angolo della grande sala, mentre iniziavano ad arrivare i pannelli espositivi, alla ricerca di Daniel. La sua attenzione venne catturata da diversi tubolari metallici neri che venivano trasportati, seguiti da grossi scatoloni di cartone dall'aria pesante. Si avvicinò di soppiatto alle scatole, scoprendo una grossa quantità di stoffa bianca satinata da un lato e luci natalizie dall'altro. Trattenne a malapena una risata per non rischiare di offendere gli organizzatori, quando sentì qualcuno bussare sulla sua spalla.

«Cos'è che la diverte tanto, signor Barnes?» chiese allegramente la voce squillante della signorina Thompson, facendolo trasalire. Ben si sentì quasi come improvvisamente colto con le mani nel sacco, ma subito tornò alla realtà.

«Nulla, solo pensavo che magari per le decorazioni natalizie dell'hotel quest'anno potete pensarci voi, vi vedo... portati». Vide una piccola ruga spuntare al centro della fronte della ragazza che cercava di trattenere una smorfia, al che Ben rispose con un occhiolino.

«Grazie per la supervisione, ma non abbiamo bisogno del suo aiuto qui, signor Barnes» rispose con un sorriso antipatico, «può andare adesso».

Ben rimase piacevolmente stizzito. Con quanta audacia quella sconosciuta lo stava cacciando dalla sua sala conferenze, del suo albergo? Le sorrise, mentre lei soddisfatta gli voltava le spalle e si metteva al lavoro con i suoi colleghi. "Forse", pensò Ben, "il signor Nesbitt più che osso duro intendeva rompicoglioni".

*

La mattina proseguì liscia come l'olio. Il lavoro si rivelò dimezzato, dato che lo staff impediva a qualsiasi dipendente dell'hotel di avvicinarsi alla sala conferenze – ad eccezione di Daniel. Lui riusciva sempre a guadagnarsi la fiducia di tutti. Decisero che la sua funzione, da quel momento in poi, sarebbe stata quella di spia pronta a rivelare tutto ciò che veniva tramato in quella stanza. Ma arrivati all'ora di pranzo, anche Dan era stato inspiegabilmente corrotto.

«Vedrai, Ben, ti piacerà» era la sua risposta ogni volta che Ben provava a ricavare informazioni su quello che stavano combinando Nesbitt e la sua comitiva. Nonostante ciò, Ben non riusciva ad innervosirsi, anzi questa caccia al tesoro aveva improvvisamente aumentato il suo interesse nei confronti di questo evento. Era certo che non sarebbe riuscito a resistere fino all'inaugurazione vera e propria, e stava già tramando di fare un salto giù una di queste notti.

«Ricorda» aggiunse in fretta Daniel, interrompendolo mentre ancora insisteva per avere qualche dettaglio, «stasera alle undici in punto dobbiamo essere al Mirror. Ho fatto riservare il tavolo migliore di tutta la sala, proprio sotto il palchetto. Ci sono anche Evan e Conor».

Il Mirror. Aveva già dimenticato l'appuntamento di quella stessa sera. Quando si ricordò il motivo di quella serata, cioè festeggiare il suo compleanno, una morsa allo stomaco gli chiuse l'appetito. Si trovavano nelle cucine dell'albergo, rannicchiati in un angolino per non dare fastidio ai cuochi, quando Ben si rese conto di quanto soffocanti fossero quelle pareti. Iniziò a lottare con la cravatta per sciogliere il nodo, le mani rosse di calore e sudate.

«Permetti?» disse il suo collega, e senza aspettare risposta allungò le mani verso il nodo alla gola di Ben e lo sciolse in un unico movimento. Ben riprese finalmente a respirare e ringraziò in silenzio Daniel per averlo aiutato con nonchalance, facendo finta di non aver notato il panico sul suo viso.

«Sai, ho... ho alcune cose da controllare in verità, alcune prenotazioni, devo... vado» affermò poco convinto, «a dopo». Lasciò la cucina più in fretta possibile, investendo un paio di camerieri lungo la sua corsa verso l'ascensore, diretto alla sua suite. Sentiva già il respiro e il battito cardiaco più regolari man mano che saliva i piani.

Una volta dentro il suo appartamento, si avvicinò istintivamente al piano bar. "Ci vorrà qualcosa di più forte del vino stavolta" si disse, mentre da uno degli sportelli in basso tirava fuori una bottiglia di gin. Un bicchiere di gin alla comparsa dei primi segnali di panico era ormai diventato come lo sciroppo per la tosse per lui. Non accadeva spesso, anzi non accadeva più da un pezzo. Dentro di sé, Ben sapeva che questa volta era colpa di quel festeggiamento imminente, che rappresentava la prova schiacciante che quest'anno mancava qualcuno.

Sentì un altro pugno allo stomaco. Rimise la bottiglia di gin al suo posto, poi aprì l'acqua fredda del lavello e si bagnò il viso. Doveva ingoiare quel dolore prima che prendesse il sopravvento.

*

Quando le porte dell'ascensore si aprirono, trovò i suoi eleganti amici ad aspettarlo nella hall.

«Giusto dieci minuti prima del nostro appuntamento, Benjamin, complimenti» iniziò Evan, avvicinandosi e salutando Ben sferrando un pugnetto sulla sua spalla, «come se potessimo controllare il traffico londinese».

«Signori, dovreste solo ringraziarmi di essere sceso» rispose, salutando gli altri due amici. Lo pensava veramente in cuor suo, ma nelle ultime ore il suo umore era migliorato esponenzialmente, che quasi non vedeva l'ora di raggiungere il locale.

Quando arrivarono fuori il Mirror, la fila era già chilometrica, nonostante fosse un mercoledì sera. Si fecero spazio dietro le transenne, scavalcando la folla da dove ogni tanto li raggiungevano occhiatacce, e salutarono il buttafuori che li fece entrare subito. Ed ecco che, superata la prima saletta del locale, attraversando una porta seminascosta vicino il bancone, entrarono nella parte bella: ai loro piedi una piccola scala di ferro li conduceva in un'ampia sala piena di specchi in cui al centro vi erano quattro file di tavolini, tutti pieni tranne quello sotto il piccolo palco in fondo alla stanza. Su entrambi i lati due grandi banconi di legno percorrevano tutta la lunghezza della stanza, dotati di sgabelli affollati quasi quanto i tavoli, da dove si vedevano barman preparare freneticamente i loro cocktail e camerieri correre da un lato all'altro del locale. Erano entrati nel più esclusivo e segreto night club di Londra, così esclusivo e segreto che tutti ne conoscevano l'esistenza – persino Abbie, la moglie di Dan – ma che in pochi potevano permettersi di frequentare.

Le luci rosse soffuse e l'odore di alcol a lungo andare potevano generare confusione e fastidio nei clienti, ma Ben ne era affascinato ogni volta che apriva quella porta. Sdegnava la maggior parte dei frequentatori del Night Mirror che sembravano impacciati e fuori posto, nonostante si atteggiassero da padroni, mentre lui a suo agio richiamava tutte le attenzioni dei presenti. Tranne quando spuntavano le ballerine, lì anche Ben passava in secondo piano. Era questo luogo il secondo piacere della sua vita.

Raggiunsero il loro tavolo, la migliore postazione, mentre Conor gli avvolse intorno al collo un boa di piume rosse rubato a una cameriera che passava da lì vicino. Ben era quasi sereno. Il panico del pomeriggio era svanito da un pezzo, come se non fosse mai successo, ed era pronto a godersi il suo gin tonic quando le luci si spensero e dai tavoli partirono fischi e cori. Solo in questo modo si accorse che era mezzanotte, dunque il suo trentaquattresimo compleanno. Ebbero il tempo di un solo brindisi, prima che l'occhio di bue fosse puntato sul palco con una sola sedia al centro. Il proprietario del locale, Mike Wilson, si alzò dal tavolo accanto al loro e afferrò il microfono.

«Buon compleanno, signor Barnes» disse sorridendo, guardando Ben negli occhi, che ringraziò sollevando il bicchiere alla sua salute. Continuava a ricevere gomitate e scappellotti dai suoi compagni, quando dalla porta dietro il palco spuntò la prima ballerina della serata. Una figura mai vista prima, pensò quando la vide sedersi accavallando le gambe: più vestita delle altre, indossava una sottoveste nera di seta, metà del volto nascosto da una maschera di carnevale ricamata nera come l'abito, i capelli scuri raccolti in una coda di cavallo.

La ballerina si muoveva sinuosa e sensuale seguendo la musica da un lato all'altro del palco, poi tornava a girare intorno alla sua vecchia sedia piazzata in mezzo, e Ben non poté fare a meno di immaginarla come una predatrice che gira e rigira intorno alla sua preda in attesa del momento giusto per divorarla. I suoi occhi saettavano dalla figura riflessa in tutti gli specchi alle sue spalle a quella in carne e ossa a pochi metri da lui; più lei e i suoi riflessi ballavano, più Ben diventava avido di quei movimenti. Di tutte le performance che aveva visto da quando frequentava il Night Mirror, quella era senza dubbio la più pulita, pudica, vestita, eppure agli occhi di Ben risultava ancora più provocante. D'improvviso sentì la bocca asciutta e ordinò un secondo drink.

Quando la ragazza lasciò il palco per far spazio ad altre molto più nude, Ben era ancora in uno stato di trance. La seguì con lo sguardo, e si accorse che Mike Wilson le porse una bottiglia di champagne, poi si fece strada verso il suo tavolo. Ben si raddrizzò sulla sedia, dando una piccola spinta sotto il tavolo a Daniel mentre la ragazza dal volto mascherato si avvicinava sempre di più.

«Offre la casa» disse, e incrociando il suo sguardo per un istante a Ben sembrò di intravedere una luce familiare. Quando la ragazza stava per allontanarsi, ben attenta a tenere i propri occhi lontani da quelli di Ben, lui la fermò per un braccio senza rifletterci. Il sorriso malizioso che pian piano sentiva allargarsi sul viso trovò conferma negli occhi verdi smeraldo della ballerina mascherata. Fu tentato di lasciarsi scappare una risata, ma dopo avrebbe dovuto svelarne necessariamente il motivo ai suoi amici, invece questo gioco a due gli piaceva molto di più. Lasciò la presa e si rimise a sedere come se niente fosse, mentre la ragazza si allontanava spedita.

«Ti ha lasciato senza parole, bambino?» lo prese in giro Evan, distribuendo lo champagne agli altri.

Ben scosse la testa sorridendo, mentre con lo sguardo continuava a seguire la signorina che si addentrava nel locale. «Non puoi immaginare quanto».



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HOLA! Il personaggio di Ben va prendendo forma sempre di più e man mano anche la trama. Se sei arrivat* fin qui, fammi sapere che cosa ne pensi!
-a.

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Capitolo 3
*** Un ottimo passatempo. ***


 
 

Il giorno seguente Ben non incontrò la signorina Thompson, né il giorno dopo ancora. Cercò di convincersi che il fatto di averla riconosciuta al night club del Mirror non l'avesse spinta a licenziarsi prima che Ben lo riferisse al suo capo. In verità, almeno per il momento, non aveva alcuna intenzione di farlo: il gioco si faceva sempre più intrigante, anche grazie alla sua improvvisa scomparsa dalla scena.

Portava ancora i postumi dei festeggiamenti – che in genere duravano dai tre ai quattro giorni – quando, a metà del pomeriggio, all'interno della sua suite sentì squillare il telefono fisso dell'albergo. La chiamata in entrata arrivava dalla reception.

«Signor Barnes, una chiamata da Nizza».

Ben sospirò e tentò di reprimere i sensi di colpi mentre gli trasferivano la chiamata.

«Adesso ignori anche la mamma, Benjamin?» disse una voce di donna, marcando volutamente una nota di rimprovero. Aveva ignorato tutte le chiamate dei giorni precedenti e risposto agli auguri con un misero cuore in chat, tutto ciò per evitare che sua madre tornasse di nuovo su quel discorso di cui Ben non voleva sentire parlare nemmeno lontanamente. Decise di sorbirsi i rimproveri a bocca chiusa, borbottando qualche "scusa" e "hai ragione" di tanto in tanto, mentre sua madre si sfogava.

«Ho bisogno che tu venga qui per un paio di giorni la prossima settimana, Ben» annunciò la donna, cambiando discorso. I suoi genitori avevano base fissa a Nizza ormai da cinque anni, da dove gestivano altri due hotel della loro catena, e talvolta Ben li raggiungeva quando avevano bisogno di concludere partnership importanti. L'idea di lasciare Londra e cambiare ambiente, anche se per pochi giorni, gli dava uno strano senso di conforto. Amava la sua città: nato e vissuto lì, aveva avuto l'opportunità di girare l'Europa e oltre, ma casa è sempre casa. Soprattutto perché nelle altre città era poco più che uno sconosciuto, mentre a Londra lo trattavano da vip. E a lui, amante delle attenzioni, non dispiaceva per niente.

Quando riattaccò, accese il portatile e subito segnò sulla sua agenda digitale – condivisa con Daniel, naturalmente – le date del fine settimana successivo in cui sarebbe partito per Nizza, poi si mise a cercare un volo. Lo studio era stato più in disordine del solito negli ultimi giorni, e sulla scrivania giacevano ancora una bottiglia di gin mezza vuota con il suo bicchiere accanto. Per un istante fu tentato di calare giù qualche sorso, ma si convinse che la giornata era filata troppo bene rispetto al normale per bere già a quell'ora. Ben iniziò a bere alcolici all'età di sedici anni, gli anni delle comitive in cui i ragazzi più grandi cercano di svezzarti, ma mai in modo assiduo. Così continuò fino a l'estate di quello stesso anno, quando il suo rapporto con l'alcol divenne più intimo. Togliendo finalmente gli occhi dalla bottiglia avvertì già una fitta allo stomaco al solo pensiero che la sera stessa sarebbe dovuto uscire di nuovo con i suoi amici. E glielo avevano fatto giurare sulla cassa del Bitterweet, quindi era praticamente obbligato a presentarsi.

Dopo aver prenotato il volo, lasciò la suite e raggiunse il piano terra, dove incontrò un numeroso gruppo di turisti tedeschi alla reception in attesa delle loro chiavi. Con l'arrivo di quei clienti una buona parte delle stanze dell'albergo erano state occupate, ma niente in confronto al periodo natalizio: lì c'era da mettersi le mani tra i capelli, e sia Ben sia il resto dello staff potevano scordarsi di allontanarsi da Londra per più di due giorni con tutto il lavoro che c'era da fare.

Si guardò intorno nella hall in cerca di Dan, non trovandolo: la scusa perfetta per avvicinarsi alla sala conferenze. Ma poi da quando si faceva tanti scrupoli a camminare per il suo hotel? Aveva le chiavi di ogni singola porta, poteva fare irruzione in qualsiasi momento, senza dover dare conto e ragione a nessuno. Camminò a passo spedito lungo il corridoio e vide la porta della stanza aprirsi e Daniel uscirne, quando alle sue spalle finalmente riconobbe la figura della progettista che la notte del suo compleanno aveva ballato per lui sul palco del Mirror. Prima che il suo collega potesse dire qualcosa, il suo telefono squillò e rispose allontanandosi da Ben: l'occasione giusta al momento giusto. Strinse il polso della ragazza che stava per chiudere la porta e la costrinse ad uscire, per poi allontanarsi poco in fondo al corridoio, la presa sempre ben salda.

«Mi chiedevo con quanta audacia mi butti fuori dalla mia sala» iniziò, mollando la presa dal polso e sorridendo malizioso mentre si avvicinava al volto che qualche sera prima aveva riconosciuto da dietro una maschera, «...forse il tuo capo dovrebbe sapere che il suo braccio destro la notte fa la stripper». Pronunciò quella frase senza ombra di cattiveria, bensì con il suo solito tono provocante, sperando di non aver oltrepassato il limite.

Ma Deva, che si capiva già fosse un tipetto tosto, non lo deluse. Si avvicinò a sua volta ammiccante, facendo indietreggiare Ben di qualche passo.

«Consideralo un regalo di compleanno» rispose, incrociando le braccia con aria spavalda.

«Non sono soddisfatto al 100%».

«Dovrai accontentarti. Non avrai più il piacere di incontrarmi in quel covo di frustrati».

Più la ragazza ostentava di essere sfacciata, più Ben riusciva a cogliere un velo di timore nei suoi occhi verdi sempre più marcato. Riconobbe la tattica della psicologia inversa, a lui tanto cara, per ottenere ciò che si vuole, ma per sua sfortuna Deva Thompson non era ancora tanto brava quanto lui. Si lasciò scappare una risata alla parola "frustrati", sentendosi più lontano da quella categoria di tutte le persone che lo circondavano, ma non rispose. Piuttosto si allontanò, camminando lentamente all'indietro, le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni.

«Tranquilla, se Nesbitt ti caccia sarò abbastanza gentile da permetterti di restare fino alla fine della tua prenotazione».

Si voltò, riprese a camminare normalmente e iniziò a contare. Aveva appena superato la porta della sala conferenze quando si sentì chiamare sottovoce. Bingo.

«Cosa vuoi per restare zitto?» sibilò la ragazza, gli occhi ridotti a fessura e il sorriso spavaldo improvvisamente scomparso dal suo viso. Ben, dal canto suo, era sempre più divertito.

«Esci con me».

Deva rispose con un sorriso acido. «Piuttosto inizio a fare i bagagli» disse, poi entrò nella stanza e si chiuse dietro la porta. Ben chiuse la mano a pugno e la portò vicino alla bocca, mordendo le prime due dita e ridendo soddisfatto. "Vedremo" pensò, mentre tornava alla ricerca di Daniel. Non aveva mai fatto particolari sforzi per conquistare le ragazze che gli interessavano, né gli piaceva perdere tempo dietro le tipe che se la tiravano, ma quello di spaventare e stuzzicare Deva poteva essere un ottimo passatempo per distrarsi prima della partenza per Nizza. Allo stesso tempo, più gli negavano di scoprire cosa stessero organizzando lì dentro, più la sua curiosità aumentava. Ma a questo problema avrebbe pensato successivamente.

 

*

 

Il cielo serale fuori dal Bittersweet Hotel era sereno, dopo due giorni di pioggia incessante. Se fosse andato tutto secondo i suoi piani, quella sera sarebbe stata l'ultima uscita etichettata come "festeggiamento". Sapeva già che sarebbero continuati ad uscire, ma almeno sarebbero state serate normali e non strascichi del suo compleanno. L'unica differenza rispetto alle altre sere: era sabato. Ben era di buon umore e perse poco tempo a prepararsi, facendo attenzione solo ad indossare la giusta dose di profumo.

Scelsero di andare a bere al Wilde Pub piuttosto che al Mirror e Ben ne fu grato, dato che le scorse sere le avevano tutte trascorse lì fino alle prime ore del mattino. Il Wilde si trovava due traverse dopo ed era molto più ampio e non nascondeva nessun night club. Le pareti erano ricoperte da finti mattoni rossi in richiamo ai loft americani, i tavoli metallici si mischiavano a divanetti neri bassi e in fondo al locale un unico grande bancone in muratura veniva preso d'assalto. Ben e i suoi amici si sedettero nei loro divanetti riservati in fondo alla sala, vicino al bancone, e aspettarono che un cameriere venisse a prendere le ordinazioni mentre studiavano le altre persone. Individuò un gruppo di ragazze sedute a un tavolo poco lontano da loro e fece un cenno a Conor alla sua destra.

«Stasera ci divertiamo come ai vecchi tempi» gli suggerì, per poi rivolgersi al cameriere, «un giro di shot per noi e per quel tavolo laggiù, offro io per le signorine».

Le ragazze notarono le occhiate provenienti dai due complici e iniziarono a mormorare e ridacchiare tra loro. Ben cercava di individuare la sua preda, per quanto la lontananza glielo permettesse, e aspettò che gli shot arrivassero ad entrambi i gruppi per poi alzare il suo bicchiere ammiccando verso la ragazza dal vestito azzurro che gli sorrideva. Sapeva che con quel brindisi aveva appena sancito un patto silenzioso con la sconosciuta che, dopo aver bevuto, si avvicinò a loro trascinandosi le sue amiche. I corti capelli biondi creavano una cornice perfetta attorno al viso dall'aria quasi innocente, mentre le curve del suo corpo accentuate da quel vestito lasciavano traspirare dell'altro.

«Possiamo accomodarci?» chiese, e prima che Ben o chiunque altro potesse rispondere erano già sedute con loro, la bionda si fece spazio tra lui e Conor. «Amelia» si presentò con il suo miglior sorriso.

Per tutta la serata, nonostante la poca affinità mentale che avvertì, Ben continuò a immaginare Amelia in ogni angolo della sua suite: prima distesa sul divano, poi sull'isolotto della cucina, sul letto, nella doccia, dopo di nuovo sul letto... fin quando, alla chiusura del pub alle due di notte, prese l'iniziativa e la invitò nel suo albergo. Amelia evidentemente sapeva con chi aveva a che fare dal primo momento che lo aveva adocchiato, perché non se lo fece ripetere due volte.

Quando entrarono nella hall del Bittersweet la reception era vuota e Ben stava già baciando la ragazza con foga spingendola verso l'ascensore, ma mentre passarono davanti il corridoio della sala conferenze ebbe un piccolo lampo di genio.

«Tu inizia a salire al dodicesimo» le disse, continuando a baciarle il collo, «arrivo».

Una volta chiuse le porte dell'ascensore, fece il giro del banco e cercò nei cassetti la chiave della stanza. L'alcol in circolo nel suo corpo aveva allentato i freni che negli ultimi giorni lo avevano tenuto lontano da lì, non riusciva più a dominare la curiosità. Prese la chiave e andò spedito verso la stanza, ma una volta arrivato davanti alla porta esitò nel vederla già socchiusa. Nello stesso momento in cui poggiò la mano sulla maniglia, la porta si aprì di scatto rivelandogli una piacevole sorpresa.

«Che meschino! Stavi venendo a spiare?» esclamò sdegnata la signorina Thompson, che alla vista di Ben sussultò rumorosamente.

«Non volevo spaventarti, tesoro» rispose Ben, cercando di controllare l'istinto che aveva di avvicinarsi alla ragazza e toccarle i lunghi capelli mossi. «Posso farmi perdonare».

«Ah sì?» replicò Deva, chiudendosi la porta alle spalle infastidita, «Allora puoi iniziare portando più rispetto per il lavoro degli altri». Se ne andò senza nemmeno controllare se Ben avesse ancora intenzione di irrompere nella stanza.

Ben non si offese, né si arrabbiò, né provò più ad entrare nella stanza. Sapeva che i modi scostanti e aggressivi della ragazza erano dettati dall'aver scoperto il suo segreto. Si ricordò all'improvviso che una ragazza bionda lo aspettava fuori dalla porta della suite e, con meno entusiasmo di quando l'aveva portata dentro, la raggiunse di nuovo assorto nell'alcol dimenticandosi per il momento della sala conferenza.



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HOLA! Mentre il carattere spavaldo di Ben diventa sempre più chiaro, si inizia a delineare anche il personaggio di Deva. Apparentemente molto simili: entrambi testardi, sfacciati, determinati e senza peli sulla lingua. Tutto ciò che si nasconde dietro le prime apparenze è da scoprire nei prossimi capitoli. Se stai continuando a leggere, lascia un parere! :)
-a (con tutto il mio cuore).

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Capitolo 4
*** Parlare. ***


 

"Duro? No. Sono fragile, mi creda.

Ed è la certezza della mia fragilità che mi porta

a sottrarmi ai legami.

Se mi abbandono, se mi lascio catturare, sono perduto."

José Saramago, Lucernario.

 

 

La pioggia picchiava forte contro la finestra della camera da letto e, se non fosse stato per la sveglia, Ben avrebbe continuato a dormire beatamente accompagnato da quel sottofondo rilassante. Non era ancora completamente sveglio quando si girò sull'altro fianco e, con un piccolo tonfo al cuore, si ricordò di avere un'altra persona accanto ancora addormentata. Si stropicciò gli occhi per osservarla meglio, poi con un dito le spostò una ciocca di capelli biondi da davanti il viso. Gli sembrava così serena e in pace che si sentì in colpa nel doverla svegliare e portarla bruscamente alla realtà. Riteneva il sonno sacro, il momento che determina la piega che prenderà il resto della giornata: se dormi male, non potrai che essere giù di tono e irritabile. Decise di regalarle ancora dieci minuti di tranquillità, si alzò dal letto e andò in cucina a preparare il caffè.

Appoggiato con la schiena contro il bancone in attesa della macchinetta, solo in quel momento si ricordò dell'incontro avvenuto la stessa notte fuori la sala conferenze, e di quanto fosse stato strano. Cosa ci faceva quella ragazza a tarda notte lì dentro? Perché si era spaventata tanto quando lo aveva visto? Stava rubando o sabotando qualcosa? Ma, soprattutto, perché Ben aveva avuto quell'improvvisa voglia di accarezzarle i capelli e flirtare con lei? Scacciò con impazienza quest'ultimo pensiero. Se Ben avesse giocato troppo con il fuoco, pensava, avrebbe rischiato di rovinare i preparativi dell'esposizione. E come si era imposto negli anni, nessuna ragazza doveva mettersi tra lui e il lavoro, per questo andava sempre a cercare avventure nei locali... semplicemente non si sentiva il tipo adatto agli impegni che riguardano il cuore. Anzi, a dir la verità era da parecchi anni che non lo sentiva battere più per nessuno quel cuore. Era sicuro di averlo ancora integro, lì nascosto da qualche parte, ma non gli piaceva forzare le cose lì dove non esistevano. E pensò ad Amelia distesa ancora nuda nel suo letto.

Si accarezzò il labbro inferiore, poi il mento, quando si accorse che la macchinetta aveva fatto il suo dovere già da qualche minuto e i due caffè erano pronti. Prese le tazzine e tornò nella sua stanza, dove la ragazza dormiva ancora. Che non avesse davvero sentito la sua sveglia assordante o che stesse facendo finta per restare ancora un po'? Sperando per il meglio, abituato sempre ad aspettarsi il peggio: così era cresciuto e così avrebbe continuato. Si avvicinò incerto ad Amelia, non sapendo bene come fare per svegliarla: non voleva toccarla per non farle pensare di essere ancora intimi, ma chiamarla a distanza sarebbe stato troppo maleducato, e allora che fare? Optò per una via di mezzo.

«Amelia» sussurrò, toccandole delicatamente il polso e ritraendolo subito dopo. Ben pensò di aver parlato troppo piano per svegliarla, invece la ragazza iniziò a stiracchiarsi mentre sul volto le si allargava un sorriso. Mentre lui le poggiò la tazzina di caffè sul comodino lei si mise a sedere e lo guardò negli occhi ancora sorridendo. Si aspettava forse un bacio, un abbraccio, una carezza? O si aspettava che Ben la cacciasse via rude, senza darle nemmeno il tempo di rivestirsi? Nonostante fosse lì, seduta nuda davanti a lui, non provava alcun interesse nei suoi confronti.

«Devo andare via?» interruppe lei il silenzio, sorseggiando il suo caffè senza imbarazzo.

«Sì» rispose Ben, rincuorato dalla leggerezza della domanda che gli aveva rivolto. Senza aggiungere altro, si alzò dal letto e lasciò la stanza, andando a prepararsi per affrontare una nuova giornata.

Il suo umore altalenava da diversi mesi ormai e quella mattina, nonostante avesse passato una bella serata e dormito decentemente, si sentiva di nuovo arrabbiato con il mondo. Quando Amelia lasciò la stanza, finalmente Ben si sentì libero di tornare a respirare in modo normale, come se fino a quel momento avesse solo finto. Era un respiro pesante che sembrava procurargli meno della metà dell'ossigeno che serviva al suo corpo per funzionare correttamente, mentre il battito cardiaco accelerava sempre di più da fargli male il petto. Seduto sul divano del soggiorno, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, teneva lo sguardo fisso sulle mani che si sfregavano nervosamente. Prese il suo cellulare e cercò nella rubrica il numero dello studio della dottoressa Mitchell. Primo squillo, secondo, terzo, poi Ben chiuse la chiamata in fretta prima che potessero rispondere. Si sentiva così stupido e incapace di controllarsi, si chiedeva perché si sentisse improvvisamente così terrorizzato se si era appena svegliato e non era successo niente di grave. Chiamò un'altra volta, ma di nuovo bloccò prima del tempo. "Forse è meglio andare direttamente" pensò, alzandosi di scatto, poi prese lo stretto necessario e lasciò la suite.

Arrivò davanti l'edificio trovando la portineria stranamente chiusa. Suonò al citofono riparandosi con l'ombrello dalla pioggia, ma nessuno rispose per aprirgli. Solo quando cercò l'ora sul display del telefono si ricordò che era domenica, e la domenica la dottoressa non era in studio. Si sentì pervadere da un senso di sconfitta misto ad imbarazzo, ma quando fece per andarsene il portone alle sue spalle si aprì, facendolo voltare.

«Benjamin» lo salutò la dottoressa Mitchell, sorpresa di vederlo lì, «allora sei tu che chiami e non mi lasci il tempo di rispondere?».

Ben improvvisò un sorriso, maledicendosi in silenzio per la brutta figura.

«Mi sono accorto solo adesso di che giorno sia» le confessò, tanto lei lo avrebbe capito lo stesso. La dottoressa lo studiò per un attimo, poi invece di chiudere la porta lo invitò ad entrare.

«Avevo dimenticato delle carte in ufficio» spiegò mentre salivano le scale fino al primo piano, «facciamo una chiacchierata».

Per tutto il tragitto da casa sua fino allo studio della psicologa, Ben aveva immaginato il discorso da farle scegliendo accuratamente le parole e le emozioni da descrivere, ma come al solito una volta attraversata la soglia gli sembrarono pensieri così ridicoli da pentirsi di essere venuto.

«Ti posso chiedere, senza che tu controlli, cosa hai portato qui?» gli chiese la dottoressa non appena si accomodarono sulle solite poltrone. «Gli oggetti essenziali senza i quali non esci di casa, intendo» aggiunse, vedendo l'aria confusa di Ben.

Ben si sforzò di non toccare le tasche. «Ho preso le chiavi,» disse, «il telefono e il portafoglio». Riflettè per qualche attimo, tenendo sempre le mani incollate ai braccioli della poltrona. «Il telefono, sì» e ripercorse mentalmente ciò che aveva fatto prima di lasciare la suite, «le chiavi... le chiavi, credo, sì...». Quella domanda insolita lo stava facendo entrare in crisi. Non aveva fatto attenzione a queste cose e non aveva avuto il dubbio di averle prese fin quando la dottoressa non glielo chiese.

«Raccontami cosa è successo il 13 luglio, Benjamin» lo interruppe la psicologa, l'espressione seria e attenta. Ben non capiva, cosa c'entrava quella storia con le chiavi? Diventava sempre più nervoso e temeva di inveire da un momento all'altro contro la dottoressa Mitchell, perciò prese un bel respiro e decise di assecondarla.

«Ho avuto un incidente».

«Com'è andata?».

Sbuffò, stando ben attento a non incrociare il suo sguardo e indagando la strada da fuori la finestra.

«Stavo guidando e ridevamo, poi sono andato a sbattere».

«Ridevate? Chi?».

Come se non sapesse già la risposta. Alle volte Ben non capiva come la terapia potesse aiutarlo, se non faceva altro che mettere il dito nella piaga.

«Io e il mio migliore amico».

La dottoressa Mitchell prese una pausa, sempre più sporta in avanti per cercare di captare ogni suono potesse emettere Ben. «E poi cosa è successo?».

Questa volta Ben la guardò finalmente negli occhi. Avvertì un'improvvisa e forte spinta dentro di sè che riconobbe come il famoso "briciolo di coraggio" e che sciolse il nodo in gola, abbattendo il muro tra le sue labbra e la donna di fronte a lui, portandolo a sussurrare: «È morto».

L'espressione della dottoressa rimase impassibile ma Ben sapeva bene che dentro stava esultando, non per la morte del suo amico ma per averlo inspiegabilmente convinto a parlare dopo mesi di appuntamenti silenziosi.

Calò di nuovo il silenzio, la psicologa si abbandonò contro lo schienale della poltrona. «Sapresti dirmi cosa hai preso stamattina, uscendo dal tuo appartamento?».

«Ho preso il telefono, le chiavi, il portafoglio e le sigarette» affermò Ben sicuro, senza cercare nelle tasche.

«Vedi, Benjamin» iniziò la donna, aggiustandosi gli occhiali sul naso, «la mente umana è come una grande scatola: grande, sì, ma pur sempre dotata di limiti di sopportazione. Quando la sovraccarichiamo con pensieri negativi specialmente, scarica tutte quelle altre informazioni ritenute secondarie. Siamo così concentrati a farci del male rimuginando su quei pensieri, che perdiamo di vista quei piccoli dettagli che fanno la differenza. Sono sicura che quando ti ho posto quella domanda la prima volta tu sia entrato in crisi».

Ben annuì in silenzio: pendeva dalle sue labbra.

«Questo perché nel semplice gesto di prendere l'occorrente prima di uscire, noi riponiamo la nostra fiducia in noi stessi e la consapevolezza di essere persone responsabili. Per un uomo come te, essere irresponsabile è inaccettabile, suppongo. Ma quando finalmente hai dato voce al tarlo che divora la tua mente da mesi, questa ha recuperato le informazioni che aveva accantonato». Si alzò dalla poltrona e prese dalla scrivania un foglietto e una penna, mentre continuava a parlare, «Non ti fa bene tenere tutto dentro, Benjamin. Parlare è l'unico modo per guarire. Siamo d'accordo che per oggi può bastare?».

Gli tese il biglietto doveva aveva scritto il suo numero privato e la frase "parlare è l'unico modo per guarire". Quando Ben si alzò dalla poltrona e lasciò lo studio si sentiva così leggero che ebbe paura di stare per svenire. Gli scalini diventarono inconsistenti come nuvole e lui vi fluttuava sopra come una piuma; aveva una strana voglia ridere che tratteneva solo perché si sentiva in dovere di rispettare il lutto, ma quando il portone del palazzo si chiuse scoppiò in una risata liberatoria. "Sto finalmente impazzendo" pensò, passeggiando piano e ridendo riparato dall'ombrello nero. Ma la sua attenzione fu catturata da una ragazza rifugiata sotto un balcone per sfuggire alla pioggia, cancellando immediatamente la conversazione di qualche minuto prima nello studio della psicologa.

«Posso darti un passaggio?» le chiese, cercando di trattenere il sorriso sfacciato che minacciava di spuntare da un momento all'altro.

Deva Thompson lo guardava incerta, ma Ben sapeva che anche a lei veniva da ridere di fronte a quella strana allegria sotto la pioggia.

«Che vuoi?» chiese, le sopracciglia aggrottate.

«Beh, parlare, no?» rispose allegro. La sua risposta sembrò così ovvia solo ai suoi occhi, poiché dal canto suo Deva sembrava sempre più sconcertata e titubante.

«Tu sei molto inquietante. Ti ho visto arrivare dieci minuti fa che sembravi un fantasma e ora sei tutto allegro... la tua ragazza lo sa che ci provi con le altre?».

Ben la guardò confuso ma divertito. «Adesso mi spii? Sei più una specie di ammiratrice segreta o una stalker?».

Lei sbuffò roteando gli occhi ma, contro ogni sua aspettativa, si appese al braccio di Ben e iniziò a camminare con lui sotto l'ombrello.

«Sei gelosa della dottoressa Mitchell, forse? Non è proprio il mio tipo, sai. Forse se avessi avuto una ventina d'anni in più...».

«Dottoressa?» chiese Deva in una voce molto più interessata, tirando più a sè l'ombrello.

«Psicoterapeuta» aggiunse lui, senza alcuna traccia di imbarazzo.

«Sentiamo, cos'è che ti tormenta?».

Era così ben disposto che quasi glielo avrebbe detto, ma decise di evitare: con tutta l'allegria che lo pervadeva, era un peccato rattristire Deva.

«Spara».

«La tua ex ti ha tradito e non hai più fiducia nel genere femminile».

«Non ci siamo».

«Allora non hai ancora superato il divorzio dei tuoi genitori e i conseguenti traumi infantili».

«Fuochino» rise, scotendo la testa.

«Davvero?» fece lei entusiasta, come se avesse appena vinto una scommessa.

«Per niente».

Arrivarono davanti le porte del Bittersweet Hotel, Ben più bagnato di lei, Deva che continuava a ipotizzare i suoi taumi irrisolti.

«Che posso fare perché tu confessi?» gli chiese, togliendosi il cappotto nella hall calda prima di separarsi.

«Esci con me».

Lei finse di essere scocciata, allontanandosi piano verso la sala conferenze.

«Credo che il tuo capo vorrebbe sapere cosa facevi ieri notte lì dentro» disse Ben, ammiccando verso il corridoio dove si erano incontrati, attento a non farsi sentire dalle persone che giravano intorno a loro.

«Mi sta minacciando, signor Barnes?» domandò indispettita, incrociando le braccia.

«Diciamo che ti sto più spronando, ecco».

Deva si tradì lasciandosi scappare una risata, e mentre se ne andava le urlò dietro un "Alle 8 pronta!".

Cercò nella tasca dei pantaloni il bigliettino della dottoressa Mitchell e rilesse la frase. Parlare è l'unico modo per guarire. Perchè adesso sembrava molto più semplice?

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Capitolo 5
*** Sei di picche. ***


Le cose belle sono difficili.
 

 



Il pomeriggio gli sembrò volare, e Ben si sentì per tutto il tempo come dentro una bolla. Non era proprio felicità quella che provava, quanto più leggerezza. La sua mente era ancorata alla realtà a causa delle faccende da sbrigare con delle prenotazioni sbagliate, ma al tempo stesso si sentiva come un'entità senza corpo che fluttuava attorno alla scrivania. L'unico segnale che gli ricordava di essere fatto di carne e ossa era Tonic, che di tanto in tanto andava a leccargli i piedi scalzi facendogli il solletico. All'ennesimo tentativo di ottenere attenzioni da parte del cane decise di chiamare Doug per farlo portare a passeggio mentre lui controllova le ultime cose davanti al computer.

L'orologio segnava le sette, era il momento di chiudere tutto e prepararsi. Prima, però, cercò nelle schede delle prenotazioni il numero di stanza di Deva: 394, terzo piano. Ben sapeva che prima o poi l'avrebbe convinta ad uscire con lui, ma non pensava bastasse solo il secondo tentativo dato il carattere scontroso della ragazza. Era sicuramente molto più interessato a lei rispetto alla ragazza della scorsa notte, ma per rubargli il cuore serviva qualcosa in più di un paio di grandi occhi verdi. Poi si ricordò, fermandosi improvvisamente al centro della stanza, della notte in cui l'aveva riconosciuta al Mirror. Il volto mascherato, la sottoveste nera lucida che cadeva morbida sul suo corpo, le lunghe gambe, i capelli raccolti... portò entrambe le mani tra i capelli al ricordo dell'unica ballerina vestita del night club che l'aveva fatto entrare in un'altra dimensione in soli tre minuti.

Mentre sceglieva i vestiti da indossare continuava a rivivere quei beati tre minuti cercando di visualizzarli nella sua stanza da letto: era più in sintonia con quell'ambiente lei delle ultime ragazze che erano state lì in quei mesi. Più Ben cercava di allontanare quella visione, più si presentava insistente e nitida davanti ai suoi occhi. Non poteva e non voleva farsi troppe aspettative, perché qualcosa dentro di lui gli faceva pensare che Deva non avrebbe accettato né ora né mai di salire nella sua suite e sgattaiolare fuori nelle prime ore della mattina ancora mezza nuda.

Quando arrivò davanti la camera 394 fu sorpreso di trovare la porta socchiusa. Si avvicinò incerto e bussò tre volte, poi la voce della ragazza lo invitò ad entrare. La trovò sdivacata contro la testata del letto, le gambe incrociate e i piedi scalzi, e pensò di vedere due persone sintetizzate in una sola: il volto truccato e i capelli più ordinati di quanto li avesse visti nei giorni passati ma il corpo avvolto nel pesante pigiama grigio invernale, mentre teneva in mano un bicchiere di vino. Per lo meno, pensò Ben, avevano una cosa in comune.

«Com'è che si dice?» iniziò Ben, lasciandosi cadere su una sedia vicino il letto, «Ah, sì. L'eleganza di una donna non si vede dal vestito che indossa ma dal portamento».

«E la serietà di un uomo dalla sua puntualità» ribatté, porgendogli un bicchiere pieno.

«Parli proprio di me allora» disse lui, dopo aver controllato l'orario: le otto spaccate.

«Dove mi porti?» chiese Deva, posando il suo bicchiere sulla mensola accanto al letto e stiracchiandosi.

«Hai preferenze?».

«Me lo chiedi davvero o vuoi che ti risponda "fai tu"?». Lo guardò inarcando le sopracciglia, come se aspettasse un qualsiasi passo falso da parte sua per sbatterlo fuori dalla sua stanza, poi aggiunse: «Ho fame e temo di rimanere digiuna nei posticini chic che frequentano gli uomini come te. Fai fare a me».

Ben la guardò divertito e fu tentato di dirle "Forse dimentichi dove ci siamo incontrati qualche sera fa" ma non osò. Aveva poche informazioni ancora su quella ragazza e di conseguenza poche carte da potersi giocare, quindi doveva farci molta attenzione.

«Io mi vesto. Fai come se fossi a casa tua» disse infine Deva con un occhiolino. Si avvicinò all'armadio e dopo aver preso i vestiti si infilò in bagno. Ben la osservò minuziosamente e nel gesto di chiudere la porta del bagno riconobbe un tentennamento: voleva lasciarla aperta di proposito. Alla fine abbassò poco la maniglia in modo che la porta non si incastrasse bene nello stipite e fece finta di non accorgersene. Stava già iniziando a stuzzicarlo.

«Vuoi farti spiare per caso?» la punzecchiò Ben, deciso a prendere le redini del gioco.

«Voglio vedere quanto sai resistere» ammise lei, «sappi che dallo specchio ti vedo».

Per i seguenti dieci minuti, Ben si concentrò su ogni minimo dettaglio della stanza, dalle orribili tende che avrebbe fatto cambiare fino all'angolo destro del soffitto dove un piccolo frammento di vernice si era staccato negli anni. Tutto pur di non sbirciare attraverso quello spiraglio da dove, con la coda dell'occhio, ogni tanto captava movimenti indistinti che lo rendevano ancora più bramoso di sapere quale parte del corpo stesse vestendo. Gli sarebbe bastato vedere anche un dito in quel momento, una caviglia, una ciocca di capelli... bevve un sorso di vino per nascondere il sorriso malizioso che si stava formando sul suo viso, deciso a non farsi scoprire da Deva.

Quando la ragazza uscì dal bagno, Ben si sentì vincitore del primo tempo. Era riuscito a tenere a bada la voglia matta di spiare dalla fessura e ora poteva dettare lui le regole del secondo tempo. Lasciarono la stanza e, una volta scesi nella hall, furono bloccati da Dan che si fiondò su Ben ignorando la sua compagnia.

«Pensavo che volessi riposare, ho detto a Abbie che sarei tornato presto, ma posso sempre chiamare...» disse entusiasta, convinto che Ben volesse continuare il giro dei locali che durava da quasi una settimana.

«Conosci la signorina Thompson, immagino» lo interruppe, e Dan finalmente posò lo sguardo su una Deva sorridente e a suo agio, «sono impegnato questa sera, vecchio Dan». Senza aggiungere altro lasciarono un Dan imbarazzato e uscirono dall'albergo. Il freddo secco e pungente di novembre penetrava fin dentro le ossa, ma almeno aveva smesso di piovere. Presero la macchina di Ben e Deva lo condusse qualche isolato più avanti, fermandosi davanti un bistrot sull'altro lato del marciapiede.

Da dentro il locale proveniva una luce calda e accogliente che li riscaldò ancor prima di entrare, mentre dalle finestre si vedevano due camerieri dividersi tra i pochi tavoli occupati. Una volta dentro, sembrava essere entrati in una tipica locanda nordica il 24 dicembre: un piccolo camino a legna in fondo emanava calore in tutta la stanza un po' stretta ma lunga, tavoli in legno erano disposti in fila indiana mentre panche dello stesso legno scuro percorrevano tutta la lunghezza della parete di sinistra. Sulla destra vi erano due piccoli tavoli posti sotto le finestre e un grande bancone che sfornava grossi boccali di birra per i clienti.

Ben e Deva presero posto in uno di quei tavolini vicino le finestre apparecchiati per due e, mentre aspettavano il cibo, decisero di continuare con il vino invece di mischiare alcolici.

«Mi hai portato nel villaggio di Babbo Natale. Cosa ho fatto per meritarmelo?» le chiese, provocando le sue risate. Non conosceva quel bistrot, ma aveva un'atmosfera così accogliente, calda, di casa che non poteva fare a meno di guardarsi intorno entusiasta. «No, sul serio, pensavo di essere stato abbastanza meschino con quelle minacce...».

«Non siamo la stessa cosa io e te, Ben» rispose lei, le guance arrossate e gli occhi vispi che lo stuzzicavano.

«E tu che cosa sei? Sentiamo».

«Innanzitutto, una persona che si fa i fatti suoi» ribatté, e Ben si sentì arrivare addosso quella frecciatina a regola d'arte. «Ho perso una scommessa».

«Cosa...»

«Ho fatto una scommessa con Mike Wilson, sai, il proprietario del Mirror, è un mio caro amico» aggiunse vedendo la faccia confusa di Ben, «e ho promesso che se avessi perso, avrei ballato per il compleanno del suo ospite speciale».

«Lo sapevo che stavi ballando per me» disse lui ammaliato, non riuscendo a trattenersi. Era la verità: da quando aveva visto quella ragazza mascherata salire sul palchetto aveva avvertito sparire tutto il resto della sala alle sue spalle.

«Non sentirti speciale» rispose lei improvvisamente fredda, «che esperienza del cazzo. Un covo di frustrati, ecco cos'è». Ben capì così che quei tre minuti che per lui erano stati idilliaci, per Deva erano qualcosa che adesso ricordava con sdegno, e decise di non tornare più sull'argomento.

Scoprì con piacere che non era una ragazza permalosa. Era scontrosa, sì, alle volte un po' acida, ma sapeva ridere e sapeva scherzare. Non gli dispiaceva essere presa in giro, anzi la stimolava a sciogliersi e prendere confidenza. Non sembrava ancora nemmeno brilla dopo il secondo bicchiere di vino – senza contare quello che si era scolata in camera – e Ben pensò che dovesse essere o troppo brava a contenersi o che fosse davvero una degna compagna di bevute.

«Ora tocca a te. Ho accettato di uscire con te ad una condizione» precisò la ragazza, poggiando la testa tra le mani e osservando Ben pretenziosa. Lui pensò in fretta: aveva da un lato un'inspiegabile spinta di accennare il perché della sua terapia a Deva, ma non poteva lasciarsi andare. La dottoressa aveva impiegato ben quattro mesi per fargli aprire bocca, perché mai avrebbe dovuto lasciarsi andare con una sconosciuta? La fiducia va conquistata, pensò. Se le avesse mostrato le sue debolezze, sapeva che un giorno non molto lontano lei le avrebbe usate contro di lui come armi.

«Hai ragione» rispose infine, «e sarai accontentata. Ma non oggi».

«Sei un imbroglione!» esclamò indignata, ritraendosi sulla sedia.

«Non ho mai detto quando l'avrei fatto».

Dopo qualche protesta, alla fine si arrese e poterono lasciare il bistrot senza litigare per strada. Decisero di raggiungere a piedi una piazza poco lontana dove si svolgeva una piccola fiera: una ventina di gazebi bianchi posti uno di fronte all'altro per formare un corridoio ospitavano dalle esposizioni di artigianato al cibo di strada, passando per stand di caramelle o tiri al bersaglio, fino a vendita dell'usato con vinili e vecchi abiti vintage. Stare dietro a Deva era come rincorrere una bambina piena di energia: lo trascinava da un punto all'altro della piazza, vinse un orribile cappello a cilindro verde acido al tiro al bersaglio costringendo Ben ad indossarlo, comprò un sacchetto pieno di caramelle gommose e finirono per tirarsele in faccia, ma il bello di tutto questo era che Ben ci stava. Non opponeva alcuna resistenza bensì si divertiva sempre di più, così continuarono a girare per i vicoli del quartiere, fin quando si imbatterono in una cartomante e Deva lo convinse a fermarsi per farsi leggere le carte.

Scelse sei carte dal mazzo, poi ne scelse una la signora e iniziò a scoprirle.

«Re di cuori: uomo d'affari. Jack di fiori: corteggiamento.» disse la signora rivolta a Deva leggendo le prime due carte, e Ben si sentì chiamato in causa. «Sei di picche: lite. Tre di fiori: capacità di sopportazione. Sette di quadri: rischio. Dieci di picche: situazione bloccata».

Ben e Deva si guardarono, tentando di reprimere le risate. Lui non credeva per niente in quelle cose, anzi era del tutto convinto che la cartomante stesse sparando cose a caso.

«Ma aspetta, perché qui c'è la settima. Asso di fiori: rinascita».

Se ne andarono confusi ma divertiti e incuriositi. Era da tempo che Ben non passava una serata così spensierata e allegra, e si rese conto che il merito era tutto di quella frase scritta su un bigliettino la mattina stessa dalla dottoressa Mitchell. Più si avvicinavano al Bittersweet Hotel, più nella mente di Ben si facevano vivi a intervalli regolari spezzoni della visione di Deva che balla per lui nella sua camera da letto.

Quando furono nell'ascensore la tensione era alle stelle. Nonostante la ragazza premette il pulsante del terzo piano, Ben decise che era il momento di agire. Si avvicinò piano guardandola fisso negli occhi, mentre con una mano finalmente le accarezzava i capelli, ma quando fu a un soffio di distanza dalle sue labbra, Deva lo fermò.

«Non ho intenzione di venire a letto con te».

Ben cambiò atteggiamento. Fu forse la prima o la seconda volta che fu rifiutato in tutta la sua vita, provocandogli quasi indignazione. All'improvviso si sentì così pieno di sé, così orgoglioso, così superbo e arrogante che si allontanò dalla ragazza in uno scatto, mentre le porte dell'ascensore si aprivano sul terzo piano.

«E io non ho intenzione di perdere tempo con te».

«Bene!» sbottò Deva indignata, «allora racconta pure tutto al mio capo! Non hai potere su di me, Ben Barnes». Uscì di corsa dall'ascensore senza voltarsi, né Ben tentò di fermarla. Non voleva trattarla male, ma era più forte di lui: ogni volta che le cose si facevano serie o complicate, reagiva attaccando e scappando via.

Quando si distese nel suo letto, da solo, cercò di allontanare il senso di colpa che sentiva crescere sempre di più dicendosi di aver fatto la cosa giusta per il suo bene. Ma solo un paio d'ore più tardi, dopo aver pensato alla serata trascorsa con la ragazza e alla sua ultima uscita spettacolare, riuscì a prendere sonno.

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Capitolo 6
*** Seconda chance. ***


 

"Sapessero

che disarmato è il cuore

dove più la corazza è alta."

Nelo Risi.

 

 

L'euforia di quella domenica nacque e si esaurì lo stesso giorno; i giorni seguenti Ben tornò ad avvertire la familiare sensazione di respiro strozzato e peso sullo stomaco che aveva perso per meno di ventiquattro ore. I primi due giorni non fece altro che pensare alla cattiveria che aveva riservato alla progettista soltanto per averlo rifiutato, ma ogni volta che veniva colto dai sensi di colpa li scacciava via presto, ripetendosi che lavoro e relazioni non dovevano assolutamente mischiarsi. D'altronde, pensava Ben, la ragazza non poteva aspettarsi che dal nulla lui si innamorasse e decidesse di avere una relazione seria con lei. Poteva fingere che lui le fosse indifferente quanto voleva, ma Ben sapeva che a Londra non c'era una ragazza non interessata a lui, e il fatto che Deva avesse accettato di uscire con lui era la prova che anche lei rientrava in quella categoria. Ma soprattutto, ciò che più temeva era di non poter tornare più a respirare come aveva fatto con lei quella domenica. Dopo tanto tempo era stato spensierato, leggero, allegro, si era addirittura fatto trascinare da una stupida cartomante... si era già sbilanciato troppo per i suoi gusti.

Più volte negli ultimi due giorni aveva avuto la tentazione di irrompere nella sala conferenze a rompere gli equilibri dello staff di Nesbitt che aveva vietato l'ingresso a tutti i suoi dipendenti tranne Dan, ma fu fermato dal suo sentimento più forte: l'orgoglio. Se fosse entrato là dentro dopo la scenata di domenica notte, avrebbe dato una bella soddisfazione alla signorina e questo non poteva accadere. Così restò ben alla larga dal corridoio della sala, e cambiò strada ogni volta che da lontano vedeva arrivare la ragazza, che dal canto suo non lo degnava di uno sguardo.

Non che avesse smesso di pensarla in un certo modo, anzi, stava proprio peggiorando. Solo che, se prima immaginava Deva in lingerie nella sua camera da letto, adesso la immaginava con il suo pesante pigiama grigio sdivacata sul divano della suite con una birra in una mano e il telecomando nell'altra. E questo era senza dubbio un campanello d'allarme molto più forte di una sottoveste nera, campanello che Ben ignorò senza ritegno; anche quando, il pomeriggio precedente, l'aveva incrociata nella hall e lei gli passò accanto ostentando un sorriso beffardo e dicendogli: "Buonasera, signor Barnes!" con una voce squillante, come se niente fosse successo. Ben sapeva che non era segno di pace quello, ma la ragazza stava affilando ancora di più i coltelli.

Anche in quel momento, in sala riunioni con i tutti i responsabili dei vari settori dell'albergo, Ben aveva la testa da un'altra parte. Non aveva bevuto più di giorno dall'ultima volta, quindi era molto più lucido, ma proprio quel vagare a mente lucida lo spaventava ancora di più. Era seduto a un grande tavolo ovale di legno e stava cercando di seguire la relazione di fine mese della responsabile della ditta di pulizie che si occupava di igienizzare il Bittersweet Hotel, ma la voce calma e narrante della donna lo portava a distrarsi continuamente. Quando capì di non poter più reggere la situazione, dichiarò una pausa di dieci minuti e trascinò con sè Daniel alla solita panchina fuori l'hotel.

«Ti devo dire una cosa» gli disse, estraendo dalla tasca dei pantaloni il pacchetto di sigarette, mentre faceva avanti e indietro davanti l'amico seduto.

«Che hai combinato questa volta?» rispose Dan rilassato, anche lui si accese una sigaretta.

«Deva» iniziò Ben, dando a vedere tutto il suo nervosismo, «Deva Thompson sai, la designer di Nesbitt. Siamo usciti».

«Finalmente un po' di gusto, Benjamin. È davvero un amore di ragazza».

Ben lo guardò perplesso per un istante: possibile che stessero parlando di due Thompson diverse? Perché fino a quel momento tanto un amore non gli era parsa.

«Il fatto è che io ci ho provato e lei mi ha rifiutato».

«Scommetto che ti aspettavi il tappeto rosso».

«Sì, cioè no! Ma tu da che parte stai?». Daniel rideva sotto i baffi, mentre Ben continuava a fare avanti e indietro davanti la panchina, «comunque, io volevo portarla sopra e lei mi ha rifiutato, e ora non mi guarda nemmeno». Decise di non raccontargli di come lo aveva salutato raggiante davanti tutti i presenti nella hall, perché quella nonchalance lo faceva incazzare ancora di più dell'essere ignorato.

«Beh, ci credo, hai visto che tipo è? Magari ci sarebbe anche venuta a letto con te, ma tu avrai fatto lo stronzo di sicuro».

«Hai intenzione di aiutarmi o no?» gli chiese irritato. Era così facile pensare che si era comportato da stronzo? Era veramente quella la prima cosa che le persone pensavano quando una ragazza decideva di ignorarlo? Che lo era stato non poteva negarlo, ma sentirselo dire non lo faceva né stare meglio né sentire più figo. Per lui il rispetto veniva prima di ogni altra cosa e si vergognava di averne mancato a Deva. E si vergognava anche di aver appena ammesso davanti al suo amico che gli importasse di guadagnarsi di nuovo il saluto della ragazza.

«Io ti posso aiutare, ma pensaci bene Ben: non ti potrai tirare indietro. Chiedimi aiuto solo se hai davvero intenzione di rimediare» rispose Dan, stavolta molto più serio. Il suo amico, nonostante fosse più grande di lui, non assumeva mai toni paternalistici nei suoi confronti ma era sempre pronto a dargli una strigliata quando gli serviva. Ma in quel momento a Ben non serviva una strigliata: non voleva creare troppe aspettative né dare soddisfazione a Deva. Sapeva di doversi scusare, non era così maleducato da fare finta di niente – non a lungo per lo meno. Non disse niente, piuttosto entrambi spensero le sigarette consumate e tornarono alla riunione.

Dopo il report della ditta di pulizie toccava agli aggiornamenti sull'organizzazione dell'esposizione di Chanel che sarebbe stata poco più di una settimana dopo. Per l'occasione avevano permesso al signor Nesbitt di sedersi al tavolo con loro, che sembrava annoiato quasi quanto Ben dopo aver sentito le relazioni precedenti. Quando venne il suo turno di parlare, invece, si alzò entusiasta scoccando sguardi d'intesa a Daniel.

«Vorrei ringraziare il signor Barnes di avermi accolto alle sue riunioni private, dimostrazione di grande fiducia e interesse nel nostro evento» fece un cenno verso Ben, che ricambiò sorridente, «ora, sapete bene che abbiamo deciso di regalare l'effetto sorpresa a tutti voi, ma uno dei vostri colleghi sa per filo e per segno cosa stiamo combinando nella vostra sala conferenze. Vi posso dire che sta andando tutto secondo i piani, i miei ragazzi si muovono velocemente, e siamo sicuri che riusciremo a catturare l'attenzione di tutto il quartiere e oltre. Inoltre, abbiamo venduto tutti i biglietti per la data, per questo volevamo chiedervi se siete d'accordo ad aggiungerne un'altra».

Guardò verso Ben in attesa di approvazione, ma il ragazzo continuò a fissarlo per esortarlo a concludere il suo discorso.

«Questo anche perché arriveranno molti nostri partner dalle principali capitali europee, che chiedevano di alloggiare nel nostro stesso posto. Io e il mio team riteniamo che sarà un evento esclusivo e un momento in cui avremo i riflettori puntati addosso, sia noi che voi, per questo pensavamo di duplicare la data». Dopo aver finito il suo discorso si sedette, e tutti aspettarono che Ben prendesse parola.

«Grazie, signor Nesbitt» disse Ben, prendendo appunti sulla sua agenda, «ci penseremo. Sarebbe senza dubbio un piacere, ma visto che si parla della seconda settimana di dicembre dobbiamo valutare il carico di lavoro e la disponibilità effettiva della struttura. Al momento una grande parte delle nostre camere sono occupate e solo una decina se ne libereranno questa settimana, per non parlare delle ferie del mio personale. Anche loro hanno diritto al Natale».

Nesbitt rise, ma Ben sapeva che si aspettava di ricevere immediatamente un sì come risposta. Purtroppo per Nesbitt, loro avevano molte più cose da tenere in considerazione rispetto a lui e il suo staff di poche persone. In più, Ben aveva la sensazione che questo evento di cui continuava a vantarsi non sarebbe risultato niente di ché, solo qualche foto appesa alle pareti e le luci natalizie, che ancora non aveva capito a che servissero.

Quando la riunione terminò e Ben tornò nella sua suite, decise di approfittare del cielo relativamente sereno per portare Tonic a fare una passeggiata al parco lì vicino. Si portò uno dei suoi libri preferiti che stava rileggendo per l'ennesima volta e si sedette in una panchina appartata in fondo al parco, lasciando Tonic libero di girargli intorno. La cosa bella dell'essere il proprio datore di lavoro era poter sfruttare i tempi morti delle giornate: quando i suoi dipendenti non avevano da fare si limitavano a rilassarsi e parlare tra di loro, non potevano certo lasciare il posto di lavoro e tornare dopo come se niente fosse.

Mentre leggeva, di tanto in tanto lanciava uno sguardo a Tonic che si aggirava tra le aiuole e fiutava qua e là, quando lo vide sfrecciare verso una coppia poco lontana e iniziare a fargli le feste. Ben posò il libro sulla panchina e andò verso il cane, ma man mano che si avvicinava una spiacevole sensazione lo faceva pregare affinché la ragazza che stava con il tizio che accarezzava il suo cane non si girasse. Lunghi capelli castani le cadevano morbidi lungo la schiena...

«Scusate» disse Ben attaccando il guinzaglio al collare di Tonic, «colpa mia».

La ragazza si girò e il cuore di Ben perse un battito. Il destino era crudele.

«Già, colpa tua» rispose stizzita Deva, aggrappandosi in fretta al braccio del ragazzo biondo che fino a qualche momento prima accarezzava il suo cane, «sa che le dico? Che nessuno dovrebbe prendere un cane se non gli si vuole davvero bene! Lasciarlo così, abbandonato a sè stesso!».

Sia Ben che l'altro ragazzo la guardarono stizziti, l'unica differenza era che almeno il primo sapeva perché Deva stesse reagendo in quel modo. Non riuscì a trattenere un sorrisino vittorioso, e la ragazza girò i tacchi sbuffando, senza nemmeno aspettare il tipo biondo. Anche Ben se ne andò, diretto verso l'albergo, e non poté che pensare che la signorina Indifferenza si era appena tradita.

«Che traditore che sei» si rivolse a Tonic, «gli hai pure scodinzolato a quello».

 

*

 

Quella sera aveva insistito con i suoi amici per andare a bere in qualsiasi locale perché sentiva di nuovo il forte bisogno di evadere e loro non riuscivano a credere alle loro orecchie. Quando alle 23 fu pronto, mandò un messaggio nella chat di gruppo ma nessuno di loro rispose. Qualche minuto dopo, Dan gli mandò un sms in privato:

 

"Vediamoci sul tetto, adesso".

 

Non capiva se fosse uno scherzo o meno. La sua ansia gli suggeriva che Daniel stesse per lanciarsi dal tetto del Bittersweet, ma conoscendo l'amico poteva essere un messaggio in codice, o anche solo uno scherzo. Tuttavia l'idea del suicidio gli sembrò quella più plausibile, quindi si infilò in fretta il cappotto e corse fuori dalla suite, verso le scale d'emergenza. Si accedeva al tetto tramite una porta blindata elettronica che si apriva solo grazie a una speciale carta che veniva passata davanti un sensore, che naturalmente Ben non aveva preso dalla sua stanza. Fu sollevato nel trovare la porta già aperta, l'unica altra persona che aveva quella carta era Daniel.

Uscì nel grande terrazzo ma Dan non c'era. Fece il giro più volte, cercando di controllare giù oltre l'oscurità se ci fosse un corpo sul marciapiede, ma a quanto pareva non si era lanciato. Mentre scrutava verso il basso, sentì la porta chiudersi forte alle sue spalle e saltò in aria, girandosi di scatto.

«Non è possibile» disse di fronte l'ennesimo scherzo del destino. Davanti a lui non c'era il suo amico e collega Daniel, ma una sconvolta signorina Thompson con la bocca spalancata. Non capiva il motivo di quella imboscata, ma soprattutto aveva appena realizzato che Deva si era chiusa la porta alle spalle e lui non aveva con sè la sua tessera per aprirla.

«Che imbroglione, che imbroglione» iniziò lei, cercando di forzare la maniglia, «scommetto che hai minacciato il tuo collega per organizzare questa trappola».

«È inutile, non si aprirà. Serve una carta elettronica e io non l'ho. Siamo bloccati fuori» disse Ben ignorandola, mentre si affrettava a scrivere i messaggi più offensivi che avesse mai scritto a Daniel. Notò un secondo messaggio:

"Se cerchi c'è del vino. Fa' che non sia sprecato."

 

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Capitolo 7
*** Il coraggio. ***


 

"Un guerriero della luce non è mai codardo. [...] il guerriero preferisce affrontare la sconfitta e poi curarsi le ferite, perché sa che, se fuggisse, darebbe all'aggressore un potere maggiore di quanto meriti"

Paulo Coelho.

 

 

Ben non sapeva se odiare il suo amico o ridere per la sua genialità. Non gli aveva più dato risposta quando lui gli aveva offerto il suo aiuto, ma Dan doveva aver preso il suo silenzio come un invito a procedere. Mentre Deva continuava a imprecare e cercare una via d'uscita, talvolta minacciando di lanciarsi giù piuttosto che trascorrere un altro minuto in sua compagnia, Ben andò alla ricerca del vino. Trovò nascoste dietro una parabola due bottiglie, due coperte piegate una sopra l'altra e due cuscini quadrati. Già le cose si complicavano: lui non era affatto un tipo romantico. Solo in quel momento si accorse che il cielo invernale era limpido sopra di loro e ricoperto di stelle.

«Invece di lamentarti dammi una mano» urlò verso l'altro lato del terrazzo, dove Deva tentava ancora di aprire la porta blindata.

Ben prese una delle due coperte pesanti e la stese per terra, poi avvicinò i due cuscini e infine stappò la prima bottiglia.

«Non ho intenzione di fare tutto ciò» protestò la ragazza, che si era avvicinata silenziosa.

«Bene. Allora non frignare».

Non sapeva come aveva potuto fare, ma Dan aveva pensato proprio a tutto: lì dove aveva trovato le altre cose, andò a pescare anche due bicchieri di vetro. Ben versò il vino in un bicchiere, poi lasciò la bottiglia al centro della coperta, dove Deva si era già seduta senza protestare ma dandogli le spalle. Lui rimase in piedi, improvvisamente divertito da quello che sembrava un vero e proprio secondo round del gioco che avevano iniziato una settimana prima.

«Il tuo ragazzo lo sa che ci provi con gli altri?».

«E i tuoi genitori lo sanno che hanno fatto un figlio stronzo?».

Ben non rise, anzì si sentì profondamente imbarazzato. Posò il bicchiere e si sedette accanto a lei.

«Non ho mai chiesto scusa a nessuno, Deva, ma con te mi sono comportato davvero male e lo ammetto» disse dopo aver preso un bel respiro, «e ti prometto che non c'è nessun secondo fine in tutto questo. Non è nemmeno opera mia» aggiunse sdrammatizzando, ma non ottenne più di una mezza smorfia.

«Bene» rispose senza guardarlo, invece si versò da bere e si strinse nel cappotto, «tu sei convinto di avere tutte le persone che incontri in pugno, non è vero? Si vede che non sei abituato a faticarle le cose».

«Non è assolutamente vero!» protestò Ben, «io fatico e come!».

Deva si girò a guardarlo. Era la prima volta che i loro occhi si incontravano così da vicino dalla scorsa domenica, ma il suo viso era molto più rilassato dopo aver ricevuto le scuse che addirittura quasi sorrideva.

«Chi sei?» gli chiese di botto, poi vedendolo confuso aggiunse: «chi sei tu quando non hai nessuno intorno? Cosa ti è successo?».

Ben sapeva che la ragazza non si sarebbe ammorbidita fin quando lui non si fosse aperto con lei. Sapeva che parlare era la condizione necessaria perché gli perdonasse la sua arroganza, sapeva che non le interessava discutere di quanto bello e lussuoso il suo albergo fosse, sapeva che voleva entrare nella sua mente. Anche se non aveva deciso lui di trovarsi intrappolato sul tetto con lei, non aveva via d'uscita e le soluzioni erano due: costruire un muro o abbassare le difese. Poi improvvisamente Ben si ricordò del bigliettino della dottoressa Mitchell... non poteva più fuggire. Parlare era l'unico modo per guarire, e adesso Ben non poteva essere codardo.

«Io sono uno che ha sofferto, Deva».

«Dimmene una».

Ben sorrise, poi sorseggiò il vino che man mano lo riscaldava. «Vuoi saperne una? Va bene, vediamo... la più recente. Questa estate è morto il mio migliore amico. Eravamo in macchina insieme, io guidavo e ridevo. Lui invece è morto». Quando Ben aveva formulato quelle parole, nella sua testa erano risuonate molto più leggere di quando le aveva pronunciate, e se ne accorse dall'espressione sconvolta di Deva davanti al suo sorriso.

«Ben...» iniziò lei pacata, posando il bicchiere, «Sai che non è colpa tua, non è vero?».

Ben non rispose, e il sorriso gli si spense. Era assolutamente convinto che la colpa fosse soltanto sua. Era questo che non riusciva a farlo andare avanti, il fatto di essere sopravvissuto quando non doveva.

«Punti di vista».

«Avevi bevuto?».

«No. E forse questo mi fa incazzare ancora di più, sono responsabile perché ero lucido».

«So che fa male, credimi, lo so» rispose Deva quando lui tornò silenzioso, «ma non per questo devi pensare che sia tutta colpa tua. Certe cose non le puoi controllare, e quando succedono non puoi farci niente. Puoi solo accettare il dolore e andare avanti».

Ben non era turbato e riusciva ancora a respirare, cosa che gli veniva difficile persino quando solo pensava a questo argomento. In più, le parole della ragazza erano di conforto ma allo stesso tempo prive del tono compassionevole che a lui lo faceva andare fuori di testa, per questo non gli pesò continuare a parlarne.

«Puoi anche non credermi, visto l'idea che ti sei fatta di me, ma io non sono uno che se ne lava le mani. Mi sentirò sempre responsabile di tutto questo».

Mentre osservava il cielo pieno di stelle si tolse il cappotto: l'alcol in circolo nel sangue lo aveva riscaldato abbastanza.

«So che non sei uno che se ne lava le mani» replicò la ragazza ammiccando, poi si alzò da terra senza spiegazioni e iniziò a girare intorno al terrazzo. Ben la guardava sbirciare giù dal parapetto, poi seguire con gli occhi le stelle e la seguì.

«E come lo sai?».

«Perché io so leggere le persone, Ben Barnes. Credi che sarei uscita con te se avessi tenuto in conto solo la tua reputazione? Non mi piacciono i prepotenti. Ho accettato solo perché so che c'è qualcosa in più. Ma adesso sono io che ti dico che non ho intenzione di perdere tempo con te, quindi valuta bene. O mi lasci entrare, oppure io me ne vado definitivamente».

Ben era spiazzato, non si aspettava che Deva pensasse di aver trovato qualcosa in più dentro di lui. Le ragazze che aveva conosciuto fino a quel momento lo differenziavano dagli altri per il livello economico, nessuno gli aveva mai letto dentro ancora prima di averlo conosciuto davvero. Non era certo se la ragazza di fronte a lui avesse già scoperto tutti i segreti della sua anima o se fosse solo l'ennesima presuntuosa.

«Non farti troppe aspettative su cosa potresti trovare qui dentro» le rispose, picchiettandosi la tempia, «potresti rimanere delusa».

Le aveva dato il permesso. Non sapeva a cosa lo avrebbe portato quello che a lui sembrava un altro dei tanti giochi, sapeva soltanto che non poteva farne a meno e voleva spingersi al limite.

«Chi te lo dice che non sia già delusa?» replicò lei ironica, sorridendo mentre correva a prendere i due calici posati sul pavimento vicino la grande coperta.

Due ore passarono in fretta sul tetto del Bittersweet Hotel, dal quale si ammirava la distesa di piccole luci che era Londra di notte. Ben e Deva, quasi ubriachi, continuarono a parlare ancora più sciolti delle loro vite, come se si conoscessero da molto tempo. A Ben sembrava molto più facile parlare con lei al posto della dottoressa Mitchell, si chiese perché dopo tanti mesi di terapia l'avesse conosciuta solo in quel momento.

«Ora voglio sapere la tua più grande paura» le chiese, giocando con i suoi capelli. Lei lo guardava sorridendo timidamente e Ben sapeva che stava morendo dalla voglia di baciarlo, ma decise di non rischiare un'altra volta: voleva mettere alla prova la sua capacità di sopportazione.

«La mia più grande paura è quella di essere dimenticata» rispose pensierosa. Impossibile, pensò Ben. Come si può dimenticare una persona che riesce a tirare fuori il meglio di te? Si voleva maledire quando pensava queste cose, ma era impossibile non farlo.

Vennero interrotti da un rumore metallico alle loro spalle che li fece sobbalzare. Solo qualche istante dopo Ben capì che era il rumore della porta blindata che si apriva, e sulla soglia apparve un Daniel sorridente e brillo. Era come se il tempo sul tetto dell'albergo si fosse congelato, e fosse tornato alla normalità solo con l'arrivo del suo amico. Adesso iniziavano a sentire freddo e ad avvertire la stanchezza della giornata appena trascorsa.

Decisero di rientrare e prima di chiudersi la porta blindata alle spalle, Ben lanciò un'ultima occhiata a quel posto che sembrava avvolto da un'aura magica e che da quel momento in poi sarebbe stato per lui un angolo di paradiso, fuori dal tempo e dallo spazio.

Promisero di rivedersi i giorni seguenti e Ben non la accompangò fino al suo piano, ma filò dritto verso la suite senza provare a darle nemmeno un bacio sulla fronte. Sentiva di aver instaurato una connessione più profonda con la ragazza e, anche se non sapeva dove l'avrebbe portato, non voleva sprecarla. Si addormentò quasi subito quella notte, ma solo qualche ora dopo si svegliò in preda all'ansia. Aveva fatto bene ad aprirsi con Deva? Le aveva appena fornito armi letali per ferirlo e il dubbio lo tenne sveglio tutta la notte. Forse si era fatto prendere troppo dal momento, lì sul tetto panoramico del Bittersweet, ma i giorni seguenti cosa sarebbe successo? Da quello che stava iniziando a capire della ragazza, sapeva che se un giorno avesse voluto fargli del male, lo avrebbe fatto con stile e in modo doloroso.

 

 

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Capitolo 8
*** Deva. ***


 

"Così è la vita:

cadere sette volte e rialzarsi otto".

 

 

Deva aveva ventisette anni, il lavoro dei suoi sogni e la propria vita in mano dopo tanto tempo. Era una designer, nello specifico progettava esposizioni e ambienti, aveva fatto della sua passione il suo lavoro: l'idea che tutto fosse al posto giusto e creasse la giusta atmosfera la faceva sentire realizzata e in pace con sé stessa. Contrariamente a ciò che faceva vedere, era una ragazza estremamente pacifica, continuamente avvolta da un'aura che attraeva tutte le persone che le stavano intorno. D'altronde il suo nome, dal sanscrito, significava "divinità". E il suo carattere altalenante lo aveva sempre giustificato dicendo che quello era lo stesso nome della dea hindu della luna, quindi non era in fondo tutta colpa sua. Deva aveva sofferto, ma non voleva fare pagare la pena delle sue sofferenze ad altri: da sola aveva vissuto dall'età di diciotto anni, da sola aveva dovuto fare il conto troppo presto con il mondo degli adulti, da sola aveva imparato a cadere e rialzarsi. Una volta capito il meccanismo, iniziò a sentirsi come un gatto equilibrista che, camminando sul filo del rasoio, ogni tanto inciampava ma cadeva sempre in piedi.

Con la maggior parte delle persone da lei giudicate pericolose si mostrava aggressiva e sfuggente, ma la verità era che aveva imparato a sue spese a doversi difendere e a non fidarsi più di nessuno. Ad eccezione di quelle persone in cui riusciva a intravedere qualcosa di più: era il caso di Ben Barnes, entrato nella sua vita proprio quando aveva deciso di restare alla larga dagli uomini per tempo indefinito. Conosceva quel ragazzo ancor prima di incontrarsi al Bittersweer per la sua notorietà in tutta Londra – chi, tra le sue conoscenti, non avrebbe desiderato fare un giro sulla ruota panoramica del signor Barnes? Non Deva, in verità. Sapeva che fosse attraente, ma purtroppo non le bastava.

Tutto cambiò quando lo incontrò al Bittersweet Hotel. Non solo le si presentò davanti il ragazzo più affascinante e carismatico che avesse conosciuto, ma riuscì anche ad avvertire qualcos'altro dietro la corazza, e questo la lasciò colpita. Certo, non si aspettava di essere scoperta a fare la spogliarellista per il suo compleanno, tantomeno di essere ricattata da lui in persona, ma dopo qualche tentativo riuscì a scavare più a fondo. Una cosa inizialmente li accomunava: un segreto. Deva scoprì che il motivo delle misteriose passeggiate del signor Barnes non era nient'altro che una visita alla sua terapista, ma Ben non sapeva ancora niente di lei e del suo passato. E adesso che lui si era aperto con Deva, si sarebbe aspettato la stessa cosa da lei, ma come dirglielo? Da dove iniziare, come spiegare quale fosse il segreto che si portava dietro da anni e che non aveva mai confidato a nessuno? Temeva che il ragazzo si sarebbe allontanato da lei, proprio quando iniziava a piacerle davvero.

Deva decise di tacere per il momento. Dopo la folle notte passata bloccati sul tetto dell'albergo, ubriachi e insensibili al freddo, avevano deciso di continuare a vedersi, e lei era sicura di avere ancora tante occasioni per dire la verità.

Era un giovedì pomeriggio di fine novembre e i due ragazzi decisero di andare nel quartiere di Soho, dove in un'edificio storico si teneva una mostra d'arte moderna con degustazione di vini – evento più che azzeccato per entrambi. Quando arrivarono al portone d'ingresso non ci fu nemmeno bisogno di fornire i nominativi al buttafuori come si aspettava Deva, essendo un evento privato. Bastò semplicemente che vedesse Ben, e li fecero entrare senza esitare. L'organizzatrice della mostra era una sua amica, niente di nuovo, e quella corsia preferenziale da un lato a Deva piaceva, dall'altro la infastidiva terribilmente. "L'arte dovrebbe essere accessibile a tutti", continuava a ripetere salendo le vecchie scale in pietra dell'edificio, mentre Ben le faceva il solletico per farla tacere.

Quando entrarono nell'appartamento vennero accolti da una donna alta, con i capelli biondi raccolti in uno stretto chignon, che gettò con prepotenza le braccia attorno al collo di Ben non appena lo vide, lasciandogli con un bacio lo stampo del rossetto rosso fuoco sulla guancia.

«Benjamin, ce l'hai fatta!» esclamò entusiasta, poi il suo sguardo indugiò qualche secondo su Deva, inarcando le sopracciglia. «Hai portato un'amica».

«Eccome se l'ha portata» ribatté Deva con un ghigno, mentre sentì Ben trattenere a stento una risata. Allungò la mano verso la donna dagli occhi color ghiaccio che emanavano lo stesso freddo, aspettando invano che la stringesse.

«Vedo» commentò con una smorfia, per poi rivolgere di nuovo tutte le sue attenzioni verso Ben, «caro, vieni a bere qualcosa». Afferrò il ragazzo per un braccio e lo trascinò con sé, noncurante della presenza di Deva, e lui borbottò un "torno subito" prima di sparire tra la folla. "Iniziamo bene", pensò Deva sbuffando. Avevano appena varcato la soglia e lei era già sola; si trovava in un ampio salone dai soffitti alti, le pareti bianche decorate in alto da affreschi scrostati dal tempo, gruppi di persone ammassate lungo i tavoli della degustazione.

Deva decise di proseguire da sola ed entrò in una stanza dalle pareti piene di quadri di ogni dimensione, ognuno con la sua targhetta sotto con il nome dell'opera e dell'autore. Era l'unica persona della stanza senza un calice in mano e, quando si avvicinò ad uno dei quadri per osservarlo, sentì diversi occhi indiscreti alle sue spalle scrutarla. Non era di certo quello il suo ambiente, anzi, tutte queste persone dall'aria altezzosa la irritavano da sempre... come se il reddito rendesse una persona meglio di un'altra. Nonostante adesso fosse una ragazza indipendente e benestante Deva conosceva la discriminazione, ma si sforzò di non farsi condizionare e sentirsi a suo agio mentre si aggirava tra le opere.

Di tanto in tanto scoccava un'occhiata verso la porta, ma non vedeva arrivare Ben. Forse avrebbe dovuto seguirlo e non darla vinta a quella simpatica sconosciuta. Decise di lasciare la stanza e andarlo a cercare ma tornando nel salotto non lo trovò neanche lì, quindi entrò in un'altra stanza. Molto più ampia della prima, l'unica differenza era una grande poltrona antica dove, sul retro dello schienale, vi era trafitto un coltello – dopo l'ansia iniziale, Deva capì che era un'altra opera. In mezzo alla folla, riuscì a vedere Ben con due calici di vino in mano che si guardava in torno e si avvicinò a lui. Mentre Deva lo raggiungeva, il ragazzo – forse rassegnato – gettò lo sguardo sulla poltrona, ma prima che qualcuno lo potesse fermare si sedette.

«Ben, no! È un'installazione!» gli urlò arrivandogli alle spalle, ma era troppo tardi: scattò un allarme assordante che lo fece saltare in aria, mentre molti ospiti impauriti lasciarono cadere il proprio bicchiere, uno di questi proprio sulla poltrona dove un istante prima era seduto Ben.

«Ma che ne so, sembrava solo una sedia!» si giustificò lui, cercando di asciugare invano la macchia di vino sul tessuto, mentre Deva a malapena respirava dalle risate.

«Il mio capolavoro!» strillò una voce isterica alle loro spalle, che fece cadere un altro paio di bicchieri dalle mani degli invitati. Deva e Ben si scambiarono uno sguardo complice e si allontanarono in fretta dalla poltrona, mescolandosi alla folla che si era creata attorno a loro mentre la donna dallo sguardo glaciale si faceva strada più infuocata che mai.

Purtroppo per lei, i ragazzi si erano già dati alla fuga. Corsero giù dalle scale rischiando di cadere, mentre Ben stringeva la mano di Deva e la tirava fuori dall'edificio. Si calmarono solo per passare inosservati davanti il buttafuori, ma dopo aver voltato l'angolo ripresero a correre come se fossero inseguiti da qualcuno, ma era solo la loro euforia a spingerli. Quando si fermarono, entrambi dovettero riprendere fiato prima di parlare.

«A che ora hai il volo per Nizza stasera?» gli chiese Deva, sciogliendo i capelli allentati dalla corsa.

«Alle undici» rispose Ben, raccogliendo un fiore da un'aiuola e porgendolo alla ragazza con un mezzo inchino. Si vedeva che non era abituato a gesti romantici, ma quel suo fare impacciato a lei piaceva ancora di più perché sapeva che era spontaneo.

«Allora facciamo così» iniziò lei, prendendo il fiore e incastrandolo dietro l'orecchio, «ceniamo a casa mia, e poi ti accompagno all'aeroporto».

Il suo appartamento si trovava a Bloomsbury, il quartiere di Londra noto per essere centro di arte e cultura della città, al secondo piano di un vecchio palazzo che dava sul Russell Square Garden. Quell'area verde era stata per Deva il suo rifugio segreto per tanti anni, nonostante tanto segreto non fosse, ma lì si sentiva sempre al sicuro. La casa era stata arredata da lei in persona, a partire dalla scelta dei colori delle parenti fino all'ultimo soprammobile, e anche se era più piccola della suite di Ben non se ne vergognava, ma fu felice di accoglierlo nel suo salotto.

«Chi era quella donna?» gli chiese, togliendosi le scarpe e lasciandosi cadere sul divano accanto a lui.

«Si chiama Crudelia Storm, anche se io non credo sia il suo vero nome. Le piace intimidire la gente».

«È così diversa...».

Deva allungò le gambe sulle ginocchia di Ben, che prese a massaggiarle le caviglie d'istinto.

«Diversa da cosa?».

«Da te» rispose lei con semplicità. Era quello che pensava veramente, fin dal momento in cui aveva messo piede in quella stanza piena di persone, cioè che nessuno dei presenti fosse alla stessa altezza di Ben.

Fuori dall'appartamento di Bloomsbury pioveva forte e il freddo appannava le finestre, ma era bloccato dal calore e dall'allegria che riempivano la casa all'interno. Deva e Ben risero del casino che aveva combinato lui a casa di Crudelia, cenarono, misero la musica e ballarono a piedi scalzi per tutta la sera, fin quando si accorsero che il tempo stringeva e bisognava correre in aeroporto per non perdere il volo. Era come se il tempo nell'appartamento di Deva si fosse bloccato e fosse tornato alla normalità solo quando si accorse che Ben doveva andare via: la stessa cosa che era successa la sera prima sul tetto del Bittersweet Hotel.

Mentre guidava non poteva fare a meno di lanciargli qualche occhiata quando lui distratto canticchiava le canzoni che passavano alla radio, e si chiese se era il caso di fidarsi di questo sconosciuto che aveva la fama da donnaiolo. Era disposta, nell'eventualità, a cadere un'altra volta? Ma soprattutto, era disposta a rivelargli il segreto che la torturava e non la faceva dormire la notte?

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Capitolo 9
*** Sconosciuto. ***


"Mantenere l'equilibrio di fronte alla fatalità,

sopportare con grazia le condizioni avverse

è più di una semplice costanza:

è un atto di aggressione, un vero trionfo."

Thomas Mann.

 

 

Erano le quattro del mattino quando Deva fu svegliata bruscamente all'interno della sua camera al Bittersweet Hotel dalla suoneria del suo cellulare. Allungò la mano verso il telefono poggiato sulla mensola accanto al letto, cercando di mettere a fuoco il nome della persona che la stava chiamando a quell'ora della notte: numero sconosciuto. La ragazza ebbe un sussulto e si mise a sedere prima di rispondere alla telefonata.

«Pronto?» rispose, gli occhi ancora socchiusi e la voce insonnata.

«Conosco il tuo segreto» disse una voce maschile fredda dall'altro capo del telefono. Deva si sentì come se qualcuno le avesse appena sferrato un forte pugno allo stomaco e la mano che stringeva il telefono iniziò a tremare, ma prima che riuscisse a mettere insieme una frase, l'uomo chiuse la telefonata.

Era paralizzata, seduta sul letto con la schiena contro la testata, mentre con le braccia stringeva le ginocchia al petto. Il volto della ragazza era apparentemente rilassato, nessuna traccia di paura, ma dentro di lei regnava la tempesta. Cercò di tranquillizzarsi: in fondo poteva essere solo uno scherzo, qualcuno che voleva farla spaventare e ha tirato a indovinare... chi poteva conoscere il suo segreto e ricattarla a quell'ora della notte? Dopo tanti anni, tra l'altro.

Fece fatica a riaddormentarsi quella notte. Continuò a camminare avanti e indietro per la sua camera, cercando di ripercorrere i momenti più significativi di quelle ultime settimane, ma niente di ciò che pensava Deva era riconducibile al suo segreto. A dire il vero, oltre il progetto al Bittersweet e Ben, non era successo niente di speciale nell'ultimo periodo, e lei non ne aveva parlato con nessuno. Non sapeva se avere più paura che lo scoprisse il suo capo o Ben stesso.

Quando si svegliò per andare a lavorare il suo umore era più cupo che mai. Cercava di non pensarci mentre dava direttive ai tecnici della luce e sistemava le ultime cose nella sala conferenze: mancavano pochi giorni all'evento ed era tutto pronto, se non per le ultime verifiche. Non si era mai sentita così nervosa: quello era il primo lavoro veramente importante della sua carriera e, se non fosse stato per la supervisione di Nesbitt, poteva dire di aver orchestrato tutto lei da sola. Non solo non voleva deludere il suo team e le persone che sarebbero venute alla mostra, ma soprattutto non voleva deludere le aspettative di Ben. Prima che uscissero insieme Deva poteva giurare che a lui importasse ben poco di quel progetto, ma adesso le cose erano cambiate.

Sentì il telefono vibrare nella tasca posteriore del jeans e avvertì una fitta al cuore. Si allontanò dal gruppo di colleghi guardandosi intorno, infastidita da quel senso di paura che la pervadeva. Non poteva sobbalzare ogni volta che riceveva un messaggio, avrebbe finito per impazzire. Sfilò il telefono dalla tasca, un sms:

«Incontriamoci a Primrose Hill stasera alle 7. Vieni da sola».

Ancora una volta, Deva era rimasta paralizzata. Questo gioco non le piaceva e aveva seriamente paura che qualcuno sapesse la verità. Non sapeva chi potesse essere, e non sapeva che cosa volesse a distanza di anni. Nonostante la paura la immobilizzasse, era troppo curiosa per lasciare stare, soprattutto se questa persona misteriosa sapeva la verità.

Decise di stare al gioco e alle sette si presentò al parco di Primrose Hill, sfidando la pioggia e il fango. Il parco era semideserto ma illuminato, il ché la rincuorava, ma più si addentrava più si pentiva di quella scelta. Notò in lontananza un uomo seduto da solo su una panchina, che non appena la vide si alzò e le fece segno di avvicinarsi. Deva aveva ripreso a tremare.

«Chi sei?».

«Non importa».

«Che cosa vuoi da me?».

«Io so il tuo segreto, Deva Thompson».

L'uomo raccontò la vicenda in modo dettagliato: sapeva davvero tutto. Deva non riusciva a capire come uno sconosciuto spuntato dal nulla potesse sapere, ma aveva di fronte la pura verità. Lacrime di rabbia rigavano le sue guance arrossate dal freddo, mentre avrebbe voluto soltanto urlare e picchiare quell'uomo con tutte le sue forze.

«Cosa vuoi?».

«Devi lasciare in pace il signor Barnes, Deva cara. Una ragazzina così insignificante dovrebbe stare lontana dagli uomini importanti».

«Sai, a Ben piacciono le donne, che io sappia».

«Non sono innamorato del signor Barnes, tranquilla. Ci sono questioni più grandi di te in ballo e devi farti da parte. Altrimenti il tuo segreto verrà rivelato, e non credo che riuscirai a vincere contro un team di avvocati come il nostro».

Deva non riusciva a crederci. Cercava di trattenere le lacrime, ma era più forte di lei. Non capiva perché la stesse ricattando, usando un'arma a doppio taglio: da un lato la paura di essere scoperta, dall'altro quella di perdere Ben.

«Cercami su questo numero quando avrai deciso» concluse l'uomo, porgendole un bigliettino, «sono certo che farai la scelta giusta».

Nella strada di ritorno verso l'hotel, Deva stringeva forte nella mano quel bigliettino come se da un momento all'altro glielo potessero rubare. Una grafia sottile ed elegante aveva scritto il suo numero di telefono con tanta perversione e cattiveria che Deva riusciva a percepirle attraverso la sua pelle; i bordi del cartoncino erano decorati dal disegno di una cornice antica, mentre in basso a destra vi era scritto "think" con un asterisco al posto del puntino sulla i.

Era colma di rabbia e odio nei confronti di quella persona che la stava ricattando, ma soprattutto verso sé stessa, che già sapeva avrebbe accettato il patto per salvaguardare Ben... perdendolo.

 

*

 

L'ultimo giorno Ben si risvegliò solare nell'albergo di famiglia a Nizza, l'Hotel Belle Vue, posto a pochi metri di distanza dalla spiaggia. Il suo buon umore si mantenne anche quando, una volta in piedi, si affacciò al balcone panoramico della sua suite francese: il mare invernale in tempesta lo affascinava come poche cose. Fu il primo momento della giornata in cui pensò a Deva, e con un sorriso andò a prepararsi del caffè. Il fine settimana era volato via in fretta e Ben quel pomeriggio sarebbe tornato a Londra, e il giorno dopo era il grande giorno della mostra.

Sua madre lo aveva chiamato per firmare una partnership di sei mesi con una catena di alberghi tedesca e Ben, anche se riusciva a intravederne l'opportunità lavorativa, ne fu quasi deluso. Proprio da quella specie di delusione si accorse che stava piacevolmente perdendo il controllo della situazione con la progettista, ma Ben sapeva che doveva tenerla alla larga dalla sua mente quando c'erano questioni lavorative di mezzo. Ma come fare?

La vedeva ovunque, la pensava ogni volta che notava qualcosa che le sarebbe piaciuto, non vedeva l'ora di tornare a casa e baciarla. Baciarla! Si sentiva un sedicenne alle prime armi, da quando in qua la prima cosa da fare che gli veniva in mente era baciarla?

Preparare i bagagli non era mai stato così facile. Quando arrivò all'aeroporto di Luton si sentiva così euforico che non riuscì ad aspettare e le mandò un messaggio:

«Trenta minuti e sono a casa. Vediamoci sul tetto».

Nei giorni passati non l'aveva contattata per non interferire con gli ultimi preparativi. Sapeva che doveva essere stanca e stressata, ma sapeva anche che rivederlo quella sera l'avrebbe fatta riprendere e che – anche se non lo avrebbero mai ammesso – si erano mancati.

Le porte del Bittersweet Hotel si aprirono e Ben non era così felice di tornare a casa da tanto tempo. Salutò in fretta i suoi colleghi e corse nella sua suite a cambiarsi per raggiungere il tetto. Perse qualche minuto per salutare Tonic che continuava a saltargli addosso, poi finalmente lasciò la stanza e salì le scale fino al tetto. Aprì la porta blindata e, quando uscì nel freddo glaciale della prima notte di dicembre, fece attenzione a non chiudersela alle spalle, nonostante avesse la tessera con sé questa volta.

Passarono dieci minuti e di Deva non c'era ancora traccia. Decise di aspettare e non insistere con un altro messaggio, sarebbe arrivata, lo sapeva. Passarono altri dieci minuti e l'euforia di Ben si era spenta, portando un senso di preoccupazione misto a nervosismo. Poi la porta si aprì e il suo sorriso si allargò di nuovo sul volto, ma durò pochi secondi.

«Stai bene?» le chiese andandole in contro, ma lei lo fermò indietreggiando, lo sguardo funereo.

«Dobbiamo smettere di vederci» disse, la voce spezzata e gli occhi lucidi, «stammi lontano».

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Capitolo 10
*** Rosso sangue. ***


"I can't believe I gave into the pressure
when they said a love like this would never last,
so I cut you off 'cause I didn't know no better,
now I realize..."
Louis Tomlinson.
 

 


Ben ebbe la prontezza di fermare Deva prima che riuscisse ad andare via, chiudendo la porta alle sue spalle.

«Voglio sapere che ti succede» le disse avvicinandola a sé, ma la ragazza continuava a ritirarsi e cercava di aprire la porta. «Siamo bloccati, dovrai parlarmi per forza» aggiunse in fretta. Bugia: questa volta Ben aveva addosso la carta elettronica per aprire la porta, ma non poteva lasciare che finisse tutto così.

Ma cosa sarebbe dovuto finire, di preciso? Qualcosa che non era nemmeno iniziato ancora. E pensare che fino a pochi minuti prima non vedeva l'ora di tornare a casa per poter vedere la ragazza! Iniziò a sentirsi così stupido per essersi fidato...

«Senti, non è facile» rispose Deva, cercando di trattenere le lacrime. Ben non capiva il perché di quel suo comportamento, cosa era successo nei pochi giorni in cui lui era stato fuori città?

«Non mi piacciono le cose facili, dovresti saperlo» ribatté lui, le braccia incrociate e lo sguardo duro fisso sulla ragazza che si torturava le mani ansiosa. Ben era preparato alla guerra: se Deva avesse avuto intenzione di ferirlo, non lo avrebbe trovato impreparato, se l'era promesso.

Deva prese un bel respiro e quando parlò sembrò una persona diversa, improvvisamente fredda e con un velo di amarezza negli occhi.

«Ci sono cose di me che non sai, Ben. Veniamo da due mondi diversi».

«Come se nell'ultima settimana i nostri mondi non fossero andati perfettamente d'accordo, vero Deva?» replicò Ben quasi sprezzante. Non capiva dove voleva andare a parare con quel discorso, ma soprattutto non capiva perché avesse cambiato idea da un giorno all'altro, mentre l'unica cosa cui riusciva a pensare Ben mentre era a Nizza era lei.

«Meglio fermarci ora prima di farci troppo male».

«Ti ricordi l'ultima volta su questo tetto? Ricordi cosa mi hai detto?» le chiese, ma Deva gli voltò le spalle e si avvicinò al parapetto nascondendo il suo viso. Ben la seguì e la costrinse a voltarsi. «Guardami negli occhi. Tu mi hai detto "o mi lasci entrare, oppure me ne vado". E l'ho fatto Deva, ti ho fatto entrare nella mia testa, è questo il tuo modo di ricambiare?».

Era evidente che Deva stesse combattendo una battaglia contro sé stessa in quel momento. Gli occhi lucidi e le guance rigate da qualche lacrima che non riuscì a controllare trasmettevano un messaggio ben diverso dalle sue parole: lei voleva stare con lui.

«So che c'è qualcosa sotto, Deva. Si tratta di Nesbitt, per caso? Sa che ci vediamo e ha minacciato di licenziarti? Quel coglione, gli ho pure permesso un'altra data per l'evento» sbottò Ben, ma la ragazza invece di confermare la sua ipotesi scoppiò a ridere.

Ben sentì per un attimo svanire il pavimento sotto i piedi. Non l'aveva fatta parlare ancora, ma almeno l'aveva fatta ridere. Quanto gli era mancato quel sorriso...

«Sei così buono, Ben Barnes» disse lei, asciugandosi le lacrime e carezzando il viso di Ben. Lui non capiva cosa ci fosse di buono nel dare del coglione al suo capo, ma il contatto della mano di Deva sul suo viso lo fece rabbrividire. «Per questo non possiamo stare insieme» sentenziò lei infine, allontanandosi un'altra volta, ma Ben non la fermò.

Gli restò impresso il suo sguardo glaciale mentre pronunciava quell'ultima frase, in contrasto con la mano calda che gli accarezzava la guancia. Un'altra volta, il corpo di Deva comunicava una cosa e lei ne diceva un'altra. Senza aggiungere nulla, Ben si avvicinò alla porta blindata e la aprì, ed entrambi ne uscirono in silenzio senza rivolgersi nemmeno un ultimo sguardo.

Sapeva a cosa andava in contro aprendosi con una sconosciuta. Quando ritornò nelle sue stanze, era deluso, furioso, ma soprattutto ferito nell'orgoglio. Quello era il punto debole di Ben: da quel momento in poi, il suo meccanismo di difesa sarebbe stato la vendetta.

 

*

 

Lunedì: il giorno tanto atteso era arrivato e Ben non poteva esserne meno entusiasta. Si svegliò presto e di malumore, e quando scese nella hall dell'albergo fu investito da una marea di persone impegnate nei preparativi dell'ultimo minuto. L'evento sarebbe iniziato nel tardo pomeriggio, ma già fuori dal Bittersweet si era creata una piccola folla di amanti della moda che pregavano il signor Nesbitt di farsi una foto con loro.

Quando le porte d'ingresso si aprirono e la sicurezza spuntava i nomi delle persone che si presentavano dalla lista o allontanava chi era senza biglietto, sia lo staff di Ben ché il team di Nesbitt erano un fascio di nervi. Prima di dare inizio, una rassegna stampa aspettava tutto il personale nella hall dell'albergo, così Ben si sistemò un'ultima volta e si avvicinò ai giornalisti seduti nella piccola platea improvvisata.

«Grazie a tutti di essere qui» iniziò, rivolgendo un grande sorriso ai giornalisti e alle telecamere, «è un vero piacere per noi del Bittersweet Hotel ospitare questo evento molto importante a casa nostra. Siamo pronti ad accogliere tutti gli ospiti, ma prima un ringraziamento speciale va al signor Nesbitt e alla signorina Thompson, senza i quali questo progetto non sarebbe riuscito».

Non ebbe bisogno di costringersi a pronunciare quel nome, fingere gli veniva così bene. Fece accomodare i due accanto a lui, strinse loro le mani e restò ad ascoltare le loro interviste fingendosi interessato ed emozionato. Nonostante avesse riconosciuto un iniziale segno di disagio nell'espressione di Deva, il bello non era ancora venuto: Ben aveva appena iniziato a divertirsi.

Dalla porta d'ingresso entrò una donna bionda e slanciata, avvolta in un lungo abito bianco e portando con sé il suo marchio distintivo: labbra dipinte di rosso fuoco. Ben ghignò soddisfatto e fece segno alla donna di sedersi nella sedia vuota al suo lato. Lei eseguì gli ordini raggiante, tenendo stressa una borsa Chanel vintage.

«Signori, permettetemi di presentarvi la mia accompagnatrice, la signorina Storm» quandò pronunciò queste parole, il ragazzo si sentì percorrere da un brivido d'eccitazione lungo la schiena. Voleva vedere quanto Deva potesse resistere alla gelosia e non dovette aspettare a lungo, perché poco dopo quest'ultima si alzò dalla seduta e sparì tra la folla lungo il corridoio della sala conferenze.

Quando le interviste terminarono e la hall fu portata al suo stato originario, di Deva si erano perse le tracce. L'unico motivo per cui aveva invitato Crudelia era per fare impazzire Deva di gelosia, ma senza farsi vedere risultava un po' difficile. Decise di approfittare di un momento di distrazione della sua accompagnatrice per infiltrarsi finalmente nella sala conferenze, e quando fu dentro rimase inizialmente disorientato.

La stanza era quasi completamente buia, illuminata solo da piccole lampadine vicino le pareti, che scendevano dal tetto fino a dare luce alle fotografie e ai ritratti appesi. Al centro della stanza avevano costruito un corridoio luminoso, le cui pareti erano dei teli bianchi appesi come tende ai tubolari metallici e che occupava tutta la lunghezza della sala. All'ingresso di questo corridoio, Daniel sostava immobile per impedire l'ingresso. Quando Ben provò a chiedere spiegazioni, lui gli indicò il pavimento: le luci natalizie formavano un percorso con delle indicazioni da seguire prima di arrivare dentro le tende bianche.

Ben iniziò a seguire il percorso e si trovò davanti il primo poster che ritraeva una bellissima modella, sorridente, ben truccata e pettinata. Nella seconda fotografia, la ragazza non rideva più. Nella terza, un grosso livido spuntava sul suo collo. Man mano che avanzava, il volto della ragazza diventava sempre più spaventato, triste e tumefatto. Solo in quel momento Ben si accorse di non aver capito niente dell'evento che stava ospitando nel suo stesso albergo: si aspettava passerelle, borsette, e invece si trovò davanti una vera e propria denuncia sociale.

Più avanzava, più sentiva una forte nausea. Le foto della modella terminarono con la sua lapide. Al posto del suo viso, sui poster comparsero scritte. Il primo diceva gelosia. Il secondo, manipolazione. Il terzo, possessione. Gli altri recitavano insulti, minacce, e quando Ben si ritrovò davanti l'ingresso del corridoio capeggiato da Daniel, sentiva la testa girare e non vedeva l'ora di uscire da quella stanza.

«Tieniti forte» gli disse il collega, mentre si spostava per lasciarlo passare.

Si fece spazio tra le tende completamente bianche all'esterno, ma all'interno erano ricoperte dalla scritta vendetta in rosso acceso. Si sentì mancare l'aria quando si accorse che alla fine del corridoio, seduta su una sedia, una ragazza dal viso mascherato lo stava attendendo immobile.

Vendetta. Era quello che voleva fare, quando aveva chiamato Crudelia, voleva vendicarsi con Deva per averlo allontanato senza spiegazioni. Ma camminando piano lungo quel corriodoio luminoso e bianco non poteva che sentirsi male e in colpa. Quando le fu abbastanza vicino, si inginocchiò per guardarla meglio negli occhi.

«Anche la vendetta, la manipolazione passiva, è violenza» disse lei gelida come non l'aveva mai sentita.

«Tu mi hai ferito» rispose Ben quasi balbettando, non riuscendo a trovare le parole adatte per scusarsi.

«Sì, anche tu. La differenza è che io l'ho fatto per proteggerti, tu perché ci trovi gusto».

Era colpevole e mortificato, e non sapeva cosa dire. Voleva che sapesse che lui non era così, non godeva nel vedere le persone soffrire, ma come giustificarsi? Era proprio quello che aveva fatto.

«Ti racconterò la verità, Ben».

 

Erano nella camera di Deva, entrambi seduti sul letto, e la ragazza lottava per non piangere e raccontare tutto per bene affinché Ben potesse capire.

«Avevo diciotto atti, ai miei non è mai fregato molto di me, vivevo già da sola ma ero molto diversa da ora. Sai, con gli amici, le feste, l'alcol, la droga» parlava senza guardarlo, teneva lo sguardo fisso davanti a sé come se stesse guardando un film e descrivendolo in ogni dettaglio, «avevo bisogno di soldi, Ben. Una sera andammo in un pub e uno del mio gruppo mi diede delle pasticche. Decisi di venderle».

Ben ascoltava con attenzione e cercava di non mostrare la sua sorpresa, non ora che la ragazza aveva finalmente deciso di fidarsi di lui.

«Le vendetti a una ragazza mai vista prima. Lei le prese, e dopo un'ora la trovammo accasciata al centro della pista in una pozza di sangue. Si era lanciata giù da una balconata della discoteca».

Ben non riusciva a credere alle sue orecchie. Tutti quei problemi erano sempre stati lontani dal suo mondo, lui non aveva mai avuto il bisogno di fare soldi in quel modo...

«L'ho praticamente uccisa io, Ben» continuò Deva, adesso guardandolo dritto negli occhi. «La polizia scoprì una lettera d'addio nella sua stanza, quella notte. Aveva già tutto programmato».

«Sarebbe successo anche se non gliele avessi vendute tu, allora» la interruppe. Ben non sapeva ancora come sentirsi al riguardo, non era una vicenda facile da metabolizzare.

«Forse. O forse no».

«E chi pensi potrebbe ricattarti a distanza di anni per questo? E perché a causa mia?».

«Non lo so. Ho solo questo biglietto».

La ragazza gli porse il biglietto da visita decorato che non lasciava andare da giorni, e Ben sentì perdere un battito quando lo vide: conosceva bene quel disegno.

«Questo è interessante» sussurrò, rigirandosi tra le dita il cartoncino e riconoscendo immediatamente quel piccolo asterisco al posto della i.

«Lo conosci?».

«La conosciamo».

 

L'ascensore era occupato e loro non avevano tempo da perdere. Scesero di corsa le scale, tenendosi per mano, come l'ultima volta. Ben era ancora sconvolto per quello che aveva sentito da Deva, ma non aveva intenzione di farsi ricattare da quella strega spregevole. Sperava forse che, se Deva si fosse allontanata, allora lui sarebbe corso da lei? Beh, in effetti la prima cosa che aveva fatto era stata invitarla all'evento come accompagnatrice. Ma nel gioco di Ben bisognava stare alle sue regole, e quella storia doveva finire.

Tutto il desiderio di controllo di Ben si sgretolò non appena, nella hall dell'albergo, Crudelia vide arrivare i due ragazzi che si tenevano per mano.

«O con me, o con nessuno» strillò rabbiosa, prima di afferrare la sua borsetta e cercare affannosa qualcosa al suo interno.

Poi avvenne tutto come in un sogno: Ben vide la donna estrarre al rallentatore una pistola dalla sua borsa e puntargliela contro, poi gli uomini della sicurezza fermarla dalle spalle, ma era già troppo tardi. La signorina Storm aveva premuto il grilletto.

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Capitolo 11
*** Dentro il sogno. ***


 

"Il dolore atterrisce

oppure rivoluziona."

Antonia Chiara Scardicchio.

 

Fu un attimo, e Ben si ritrovò disteso dolorante sul pavimento. Era confuso, non capiva cosa stesse succedendo: se fino a qualche istante prima sentiva solo urla e rumori, adesso non sentiva più niente. Lottava per tenere gli occhi aperti, ma ogni battito di ciglia sembrava indebolirlo sempre di più. Lentamente e con dolore, girò il capo alla sua destra per accorgersi che la sua mano stringeva ancora quella di Deva. La ragazza, per quanto fosse spaventata, sembrò essere indenne, e quando finalmente incrociò lo sguardo di Ben gli si avvicinò strisciando sul pavimento.

L'ultima cosa che vide furono i suoi occhi verdi spalancati dal terrore, poi il buio.

Ben voleva continuare a dormire, aveva paura di aprire gli occhi e realizzare ciò che fosse successo. Sentiva persone parlare, voci indistinte chiacchieravano di sottofondo mentre pian piano riprendeva conoscenza. La prima cosa che vide quando aprì gli occhi fu la flebo attaccata al suo braccio destro: capì di essere in ospedale.

«Buongiorno, dormiglione» la voce calorosa del suo amico e collega Daniel lo fece voltare dal lato opposto con un leggero sforzo. Il dolore era molto più sopportabile rispetto all'ultima volta che era stato sveglio. «Ti fai sempre desiderare, eh?».

Ben gli sorrise, e anche questo piccolo gesto gli costò. Non capiva se non aveva la forza di parlare o semplicemente non ne aveva la voglia. Più prendeva conoscenza, più realizzava quanto paranormale fosse quella situazione.

«Dov'è?» biascicò, tentando di mettersi a sedere. Una fitta acuta sotto la clavicola sinistra gli diede una scossa e quando portò la mano in quel punto, scoprì un grosso cerotto sotto il camice che indossava. Era successo davvero, allora? Non era stato solo uno strano incubo, gli avevano davvero sparato.

«Chi, la psicopatica o la tua Giulietta?».

«Devo essere impazzito». L'idea che Crudelia Storm, in preda a un attacco di gelosia sanguinaria, avesse tirato fuori dalla sua Chanel una pistola e gli avesse sparato al petto era assurda, così tanto che Ben la trovava quasi divertente.

«Non è stata facile da fermare, Ben» iniziò a spiegare Dan, porgendogli un bicchiere d'acqua, «dopo averti sparato le guardie l'hanno assalita, ma la pazza è riuscita a fare fuoco un'altra volta e...».

Ben aveva paura di sentire il resto della frase. Improvvisamente immaginò Deva svenire accanto a lui sul pavimento della hall, immersa nel suo stesso sangue...

«La signorina Thompson sta bene» lo rassicurò il collega, notando la sua espressione atterrita, «ha scansato il colpo. Ha preso Nesbitt, invece. Anche lui si riprenderà. Quell'altra è stata arrestata».

Troppe informazioni in troppo poco tempo, Ben si sentiva ancora più disorientato. Solo in quel momento si accorse che dalla finestra della stanza entrava un sole splendente più unico che raro per quel periodo dell'anno.

«Da quanto dormo?».

«Due giorni. Potevi fare di meglio».

Ben rise, finalmente acquistando le forze per mettersi a sedere cautamente, e vide entrare dalla porta sua madre, precipitandosi su di lui con lo sguardo di una madre che vuole solo riempirti di schiaffi ma non può farlo davanti agli altri.

Nelle due ore successive apprese che tutta la città parlava di continuo della sparatoria avvenuta al Bittersweet Hotel, mentre la sua faccia capeggiava in ogni prima pagina di giornale da due giorni. La seconda data dell'evento era stata cancellata e gli ospiti venuti da fuori erano già tutti tornati nelle proprie città, tutta roba di cui si era occupato Dan. Quasi tutto lo staff era andato a fargli visita quel giorno, seguiti dai suoi amici di bevute. Solo una persona mancava, l'unica che veramente Ben avrebbe voluto vedere.

Il giorno successivo, quando bussarono alla porta della stanza piena di fiori e biglietti di auguri, Ben la guardò aprirsi quasi rassegnato.

«Sei in ritardo» le disse ironico, seduto con le gambe incrociate sul letto. Lei gli si avvicinò raggiante e, senza dire una parola, lo baciò.

Tutte le volte che aveva immaginato questo momento non avevano niente a che vedere con la realtà delle sue labbra morbide che lo baciavano dolcemente e al tempo stesso con rabbia. La rabbia di un desiderio trattenuto troppo a lungo che celava la paura di essersi quasi persi per una seconda volta. Ben le carezzava i capelli con una mano e con l'altra la schiena, poi risalì fino al collo e il viso: sentire la sua pelle sotto le dita era stata l'ultima cosa che aveva fatto prima di svenire tre giorni prima, e il desiderio di farlo ancora e ancora gli aveva dato la forza di riprendersi.

«Sono perfettamente in orario» replicò Deva allegra, sedendosi di fronte a lui sul letto, «sai, ho lasciato agli altri il tempo di strapazzarti in pace senza avere me tra i piedi. Perché da questo momento in poi sarà difficile levarmi di mezzo».

Ben sorrise. Non chiedeva e non desiderava altro in quel momento, se non continuare a stringerla e osservarla, guardarla mentre parlava a raffica oppure mentre rideva.

Tre giorni dopo Ben fu dimesso dall'ospedale e potè tornare a casa. Deva era andata spesso a trovarlo, ma non riuscì a trattenersi molto ogni volta perché doveva finire di smantellare la sala conferenze per riportarla al suo stato iniziale.

Quando la sera il ragazzo, ormai quasi del tutto guarito, entrò nella sua suite, prima fu investito dal cane Tonic e dalle sue feste, dopo da una piacevole quanto inaspettata sorpresa. Le luci di Natale della sala conferenze si erano trasferite nella sua stanza: percorrevano tutto il soffitto del salotto, avvolgevano il divano e anche l'isolotto della cucina, mentre sul pavimento formavano una passerella dalla porta d'ingresso fino alla sua stanza.

Lanciò il borsone con le sue cose sul divano ed entrò spedito nella camera da letto, anche questa illuminata dalle stesse lucine dell'altra stanza. In piedi, ferma vicino la finestra panoramica Deva lo guardava così intensamente che si sentì leggere nel pensiero, come se lo stesse denudando di ogni sua paura o incertezza. Indossava quella sottoveste nera che tante volte aveva immaginato dalla prima volta che l'aveva vista al Mirror e, mentre in silenzio lo faceva avvampare, Ben si sentì di nuovo immerso in un sogno.

Sentì come se, andandole in contro, stesse percorrendo una passerella di fuoco. Bruciava ogni volta che le labbra della ragazza lo baciavano, prima le mani, poi sul petto, il collo, la schiena...

Deva fece di sua proprietà ogni centimetro del corpo di Ben, e ogni volta che lo baciava lui sentiva come se un pezzo della sua anima si aggrappasse disperatamente alle labbra di lei e gli veniva strappato via. Si abbandonò a quella sensazione piacevole, chiudendo fuori da quella stanza il resto del mondo per tutta la notte.

La sigaretta dopo il sesso era il terzo sommo piacere della sua vita. Era ancora notte quando fumava appoggiato contro il muro accanto alla finestra, mentre scrutava la ragazza dalla testa ai piedi. Sdraiata nuda sul suo letto, cercava di fare i cerchietti con il fumo, e ogni volta che gliene riusciva uno esultava. Per Ben era come se lei fosse sempre stata lì, come se vederla ridere e fumare sul suo letto come se ne fosse la padrona, fosse la normalità.

«Che ne farai di quello che ti ho raccontato?» gli chiese lei all'improvviso, riportandolo alla realtà. Si era alzata e aveva iniziato a girovagare per la stanza, rivestita.

«Lo conserverò dove non potrò usarlo contro di te per farti soffrire» rispose lui con semplicità, per poi tornare a letto, «non sarà facile tutto questo, Deva». Si sentiva in dovere di avvertirla, farle capire che nonostante stare con lei fosse il suo primo desiderio, erano ancora solo all'inzio.

«Dovresti sapere che non mi piacciono le cose facili».

 

Il giorno successivo, il team di Nesbitt aveva finito di sistemare ed erano pronti a lasciare il Bittersweet Hotel.

«Resta» disse Ben alla ragazza che preparava la valigia nella camera 394. Lei si girò e lo fulminò con lo sguardo.

«Non ho intenzione né di vivere con te né di vivere a tue spese».

«Che esagerata...».

«Ben, abitiamo a 15 minuti di distanza. Sono davvero così tanti per te?».

Gli piaceva farla esasperare. Quando si infastidiva, per mantenere il controllo, serrava le labbra e le si allargavano le narici, e lui non riusciva a trattenere le risate, tanto che a un certo punto si beccò una saponetta lanciata che gli sfiorò la testa.

Quel pomeriggio, Ben tornò dalla dottoressa Mitchell e parlò per un'ora intera. Le raccontò per filo e per segno cosa successe il 13 luglio, di come si portava sulla coscienza la morte del suo amico e che quello era il motivo per cui si era costruito un muro attorno a sé: aveva paura di ferire tutte le persone che amava. Le parlò anche di Deva e di come lei lo avesse aiutato ad aprirsi e parlare, del senso di sollievo che aveva provato subito dopo e del suo cuore che aveva ripreso a battere per una persona.

Raccontò alla dottoressa della cattiveria che lo aveva investito quando Deva gli disse che non voleva più vederlo. Le raccontò che il suo primo pensiero era stato la vendetta, e quella stupida vendetta gli era costata una cicatrice sul petto e una sulla coscienza.

Quando uscì dallo studio della psicologa il mondo gli sembrava diverso. Oltre a sentirsi più leggero, si sentiva quasi... in pace. Stava accettando che anche lui aveva diritto alla felicità, anche lui poteva ricominciare. Che fosse cambiato il mondo o Ben stesso?

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** Punto e a capo. ***


 

"Ora finalmente si torna a respirare"

Tacito.

 

La settimana successiva al suo rientro dall'ospedale fu la più bella che Ben visse dall'estate passata. Quasi ogni giorno lo spendeva in compagnia di Deva, e l'aria natalizia creava un'atmosfera unica e magica in tutta la città.

Una sera, fredda ma limpida, andarono a cena sulla crociera del Tamigi. Dal porticciolo di Westminster Pier, ai piedi della London Eye, salirono a bordo di un battello ristorante dove furono accolti da un aperitivo di benvenuto. Furuno ancora più fortunati poiché riuscirono a godersi la cena in intimità, date le poche persone che avevano avuto la loro stessa idea.

Il primo livello era costituito dalla sala: piccoli tavolini da due posti su entrambi i lati dell'imbarcazione erano adornati da piccole candele in vasetti di vetro e qualche fiore di campo, mentre il corridoio centrale conduceva a una piccola balconata a livello del fiume. Un giovane cameriere continuava a fare avanti e indietro dalla piccola cucina per riempire i bicchieri non appena li vedeva quasi vuoti.

Il riscaldamento del battello permetteva a Deva di restare comodamente in un abito da sera verde petrolio che risaltava ancora di più il colore brillante dei suoi occhi, scollato sulle spalle e lungo la schiena. Quando Ben, prima di scendere, le aveva chiesto di vestirsi elegante la sua risposta fu "Io non mi vesto mai per compiacere gli uomini", ma era ovvio che avrebbe seguito il suo consiglio. Quale donna non desidera sapere il dress code di una serata o un evento prima di prendervi parte?

Mentre cenavano, un piccolo quartetto in fondo alla sala regalava il sottofondo di musica dal vivo, facendo sembrare la situazione una sceneggiatura di un film ambientato negli anni '20.

«Prima o poi dovremo parlarne» disse d'un tratto Deva, allontanando il piatto e avvicinando il bicchiere pieno alla bocca.

«Parlare di cosa?» chiese lui ingenuo.

«Di quello che è successo, Ben. Non possiamo fare finta di niente ancora a lungo».

Deva aveva naturalmente ragione. Da quando Ben era uscito dall'ospedale avevano passato tanto tempo insieme, conoscendosi ogni giorno di più, ma non erano mai tornati su quell'argomento. Ben, dal canto suo, si era promesso di impegnarsi per fare andare le cose per il verso giusto, e non poteva più scappare.

«Non avevo idea che Crudelia fosse ossessionata da me» iniziò, «voglio dire, in passato c'è stato qualcosa...».

Le narici di Deva iniziavano a vibrare e Ben sapeva che era un brutto segno.

«Perché non me lo hai detto? Avevamo deciso niente più segreti...».

«Non ho mai dato importanza alla cosa. E poi fa parte del passato».

«Credi che quell'uomo tornerà a cercarmi?» gli chiese, facendo trapelare una nota di paura nella sua voce.

«Non credo, non adesso che lei è stata arrestata. Potrebbe finire allo stesso modo» rispose lui in un sussurro.

Ben non era certo che Deva lo stesse ascoltando ancora, con aria sognante gli si avvicinò per sistemargli un bottone della camicia.

«So che hai paura» le disse mentre le accarezzava una mano, «ti prometto che andrà tutto bene. È finita ormai».

Deva gli sorrise dolcemente e comprensiva, e Ben capì che non gli credeva nemmeno un po', ma voleva comunque fidarsi di lui. Apprezzò il suo sforzo, ma glielo avrebbe dimostrato: sarebbe stata al sicuro con lui.

Quando la cena fu terminata, salirono nel secondo livello dell'imbarcazione da una piccola scaletta e si ritrovarono nel freddo glaciale dell'inverno londinese; sotto di loro, il battello attraversava il fiume calmo lentamente, mentre attorno a loro si spiegava la distesa luminosa della città. Passarono davanti alcuni dei monumenti più importanti, come il Tower Bridge o la Cattedrale di Saint Paul, avvistando di tanto in tanto qualche persona sulla terra ferma che li guardava con invidia.

«Con Nesbitt fuori gioco, sta diventanto tutto molto più interessante» osservò la ragazza, stringendosi nel suo cappotto pesante, «mi ha passato la gestione di molti suoi progetti, devo quasi ringraziare la psicopatica».

«Così quando diventerai famosa ti dimenticherai di me?» domandò lui, tirandola a sé e dandole un bacio sulla fronte.

«Lo spero proprio» rispose sarcastica, facendo ridere Ben. Deva non era una ragazza molto romantica e lui ne era immensamente grato. Amava stare con lui quanto passare del tempo da sola, nel suo appartamento o con le sue amiche. Non era eccessivamente gelosa e per questo non voleva essere stressata o oppressa: era praticamente la sua versione femminile, e lui lo adorava.

Quella sera andarono a dormire a casa della ragazza. Distesi sul letto, Deva continuava a descrivergli con entusiasmo e nei minimi dettagli tutti gli incarichi lasciati dal suo capo, mentre Ben la osservava incantato. Gli era bastato così poco tempo per affezionarsi a lei, ma gli sembrava di conoscerla da un'eternità. Una settimana prima, se gli avessero chiesto qual era la cosa più bella dell'aspetto di Deva avrebbe risposto il sorriso o gli occhi, ma in quel momento realizzò un piccolo particolare che quasi lo sconvolse. Come aveva fatto a non notarlo prima? Un piccolissimo, perfetto, neo vicino la punta del labbro superiore.

La baciò, interrompendola e beccandosi un colpo di cuscino sullo stomaco, ma ne valse la pena.

«Hai capito o no che la settimana prossima me ne vado?».

«Dove?» le chiese spiazzato. Quel neo lo aveva mandato fuori di testa.

«Brighton» rispose, e quando Ben aprì bocca aggiunse in fretta: «e no, non puoi venire con me».

Era proprio brava a tenere il lavoro fuori dalle relazioni e viceversa. Sicuramente più brava di lui, che si era fatto sparare nella hall del suo albergo mentre la teneva per mano.

 

*

 

La piccola sparatoria al Bittersweet Hotel sembrava ormai un ricordo lontano per Ben. Tornò a lavorare e continuò le sedute con la dottoressa Mitchell regolarmente, ogni giorno gli sembrava di prendere sempre di più in mano la sua vita. Il Natale era alle porte e l'albergo si stava trasformando in una vetrina piena di luci e decorazioni; quasi tutte le camere erano occupate e ogni giorno il personale aveva una mole di lavoro da svolgere che li faceva arrivare alla sera sfiniti.

Decisero di organizzare un evento di capodanno al Bittersweet, una di quelle serate lussuose con persone selezionate e sicurezza da ogni parte. Questa volta Ben decise di spendere più risorse proprio nella security, e aspettava il ritorno in città di Deva per gli allestimenti.

Mentre lavorava al computer su delle prenotazioni, sentì il telefono squillare sulla scrivania. Numero privato.

«Ben Barnes» rispose infastidito. Odiava quando lo disturbavano mentre lavorava.

«Non è ancora finita».

Ben sussultò. Non conosceva quella voce maschile roca, ma gli dava i brividi. Attaccò prima che gli fosse possibile rispondere. Voleva credere che fosse solo uno stupido scherzo, ma ancora non immaginava i guai in cui sarebbe finito di lì a pochi giorni.

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Capitolo 13
*** Distrazioni fatali. ***


 

"Oltre,

non è un posto per chiunque"

Luca Albani.

 

Ben non sentiva Deva da due giorni e pensò che dovesse essere così indaffarata a Brighton da non avere un attimo libero per chiamarlo, con tutto il lavoro che le aveva lasciato Nesbitt. In effetti, non poteva essere arrabbiato con lei, perché anche lui non aveva avuto pace tra amministrativa e clienti.

Quel pomeriggio a Londra pioveva così forte che fu emanata un'allerta arancione in tutta la città e i suoi distretti. I passanti investiti dal temporale trovarono rifugio nella hall dell'albergo, dove Ben e Dan distribuivano coperte e tè caldo e avvertivano ospedali e polizia ogni volta che arrivava una persona nuova. Il numero dei dispersi aumentava ogni ora e lui era sollevato al pensiero che la sua ragazza fosse fuori città. Gli sembrava ancora così strano chiamarla la sua ragazza...

Vide entrare dalla porta principale una ragazza colata dalla testa ai piedi, i corti capelli biondi bagnati sul viso spaventato, le sembrò conoscente. Si avvicinò portandole una coperta, quando la riconobbe: Amelia. L'aveva incontrata al Wilde qualche settimana prima, e avevano passato la notte insieme nella sua suite.

«Ho dovuto scegliere tra l'imbarazzo di entrare un'altra volta qui e la possibilità di morire lì fuori, quindi sii gentile» gli disse la ragazza, avvolgendosi nella coperta calda.

«Non avevo alcuna intenzione di non esserlo» rispose Ben sorridente. La situazione non lo imbarazzava quanto avrebbe dovuto, anche perché Amelia era un po' diversa da come se la ricordava. L'ultima volta che l'aveva vista vestita portava un tubino azzurro striminzito, mentre in quel momento indossava un elegante completo da lavoro blu notte, rovinato dalla forte pioggia.

La condusse fino a un divanetto libero e, dopo averle offerto il tè – che lei rifiutò in cambio di un caffè – si sedette insieme a lei.

«Dimmi, Amelia» iniziò, porgendole il caffè preso da uno dei carrellini che giravano per la sala, «di cosa ti occupi?».

«Non avevi tutto questo interesse in me quando mi hai cacciata dalla tua stanza alle sette del mattino».

La ragazza non sembrava né arrabbiata né rancorosa, anzì sembrava piacevolmente divertita da quella situazione.

«E tu sembravi troppo interessata per non farti vedere più. E infatti eccoti qui...» rispose Ben a tono.

«Ti piacerebbe» replicò la ragazza ammiccando, «proprio non vuoi accettare l'idea che una donna possa non volere niente da te?».

Ben rise tra sé e sé: Amelia aveva indovinato, ma non voleva darglielo a vedere. La ragazza si tolse la giacca da sotto la coperta e si mise comoda sul divanetto, allungando i piedi sul tavolino accanto.

«Sei una specie di agente segreto? Perché non mi racconti la tua storia?» la invitò ancora una volta, proteso verso di lei con le braccia poggiate sulle ginocchia.

«Perché è lunga».

Ben guardò fuori dalla finestra la pioggia che continuava a cadere violenta e i pochi alberi mossi dal vento, poi si rivolse di nuovo ad Amelia.

«Ho tutto il tempo».

Amelia era stata un chirurgo dell'esercito americano. Aveva lavorato per cinque anni sul campo, tra le bombe e gli spari e centinaia di corpi di militari e suoi colleghi. Gli mostrò una cicatrice sulla scapola sinistra, dovuta a un proiettile che l'aveva presa di striscio durante un assalto al campo medico. Mentre raccontava la sua storia era all'apparenza impassibile, ma Ben riuscì a leggere nei suoi occhi tutto il dolore nel ripercorrere quei momenti. Dopo il congedo, si trasferì a Londra per intraprendere la carriera d'ufficio: adesso lavorava per le Nazioni Unite, in difesa dei diritti umani.

Di tanto in tanto partecipava a qualche missione umanitaria nel Medio Oriente, specialmente in Palestina, dove la situazione diventava ogni giorno più grave.

«Sai, Ben, alcuni dicono che non avrei mai dovuto lasciare l'esercito, altri che non avrei mai dovuto arruolarmi. Da chirurgo, pensavo che l'unica arma che dovessi tenere in mano fosse il bisturi, ma purtroppo lì non serve la maggior parte delle volte» commentò quando finì di raccontare.

Ben era sconvolto e decisamente sorpreso. Ancora una volta, la vita gli diede la dimostrazione del detto "non giudicare un libro dalla copertina", incarnato da Amelia stessa. Si sentì in colpa per averla giudicata superficiale e insignificante, quando invece si trovava davanti una donna immensamente forte.

«Posso darti dei vestiti asciutti?» le disse d'impulso, accorgendosi del suo tremare. La ragazza annuì sorridendo e insieme si diressero verso l'ascensore. Entrarono nella suite e Ben le diede un suo pantalone di una tuta, una maglietta e una felpa.

«Sembro uno spacciatore» commentò, quando uscì dal bagno con i suoi vestiti larghi addosso.

Amelia era molto più simpatica di quanto Ben ricordasse, o meglio, di quanto sapesse. Lo trattava con distanza ma allo stesso tempo con dolcezza ed educazione, e lui sapeva che lo faceva per non fare fraintendere la situazione. Possibilmente lei sapeva già che Ben avesse una nuova ragazza, e che la cosa fosse abbastanza seria. Fu in quel momento che Ben si rese conto che quell'ora passata a parlare con Amelia fu la prima in cui non pensò a Deva neanche per un istante. Si era così immerso nella conversazione che aveva dimenticato di non avere notizie dalla sua ragazza da qualche giorno.

Lasciarono la suite e presero l'ascensore per tornare giù, dove Ben avrebbe provato a rintracciare Deva. Ma quando tutto sembrava tranquillo, all'improvviso il blackout: l'ascensore si fermò di colpo sussultando e facendo cadere i due ragazzi all'interno. Restarono qualche secondo per terra prima di realizzare cosa stesse succedendo. Ben si avvicinò a un piccolo pannello vicino i pulsanti, da dove accese la luce d'emergenza, molto più fioca, e anche Amelia scattò in piedi.

Dentro l'ascensore non c'era campo e non potevano chiamare nessuno, l'unica possibilità era il pulsante rosso delle emergenze. Dovettero aspettare qualche minuto prima di sentire voci in lontananza avvicinarsi a loro.

«Ben, stai bene?» disse la voce di Daniel.

«Sì, facci uscire Dan!».

«Siete bloccati tra il sesto e il settimo piano, bisogna aspettare che torni la luce».

Se c'era una cosa che Ben odiava e non riusciva a tollerare erano gli spazi stretti: ogni volta che ci si trovava più a lungo del dovuto iniziava a mancargli il respiro e andava nel panico. L'unico modo per resistere era distrarsi, e l'unica fonte di distrazione in quel momento era Amelia.

«Ti va di raccontarmi perché hai chiesto il congedo?» le chiese di botto, sbottonandosi la camicia e mettendosi a sedere. Tanto valeva mettersi comodi. La ragazza, inizialmente incerta, lo imitò e si sedette di fronte a lui.

Allungò verso di lui la mano destra e lentamente girò il polso fino a scoprire una lunga cicatrice verticale. Ben si chiese come aveva fatto a non notare prima tutti quei segni sul suo corpo...

«Un altro proiettile mi ha fottuto un nervo della mano dominante. Non posso più operare».

«Sono certo che tu sia stata un ottimo medico» rispose comprensivo, sempre più mortificato.

Passarono un'altra mezz'ora chiusi nell'ascensore a chiacchierare delle proprie vite. Ben le raccontò il periodo più bello della sua vita, dai venti ai trent'anni, e di tutti i casini in cui si era cacciato con il suo migliore amico deceduto, Josh. Parlare con Amelia era piacevole e rincuorante in quella situazione strana, ma Ben non fu triste quando la luce tornò e poterono liberarsi dall'ascensore.

Nella hall ancora piena di gente, si accorse che la pioggia era diventata più sottile e meno violenta. Le persone parlavano tranquille tra di loro, solo un uomo dal viso familiare giaceva su una poltrona con lo sguardo terrorizzato, che non appena vide Ben scattò in piedi e gli si avvicinò svelto.

«Signor Barnes, sono Luke Thompson. Il fratello di Deva» si presentò stringendogli la mano, e finalmente Ben ricordò di averlo visto insieme a lei qualche settimana prima al parco. L'uomo estrasse dalla tasca una busta aperta e la porse a Ben, che ne estrasse una lettera.

 

Non vi resta molto tempo. Il signor Barnes saprà cosa fare.

 

Erano queste le uniche parole scritte su quel foglio di carta, ma più Ben le rileggeva meno ne capiva il significato.

«Dov'è mia sorella?» disse Luke, lo sguardo infiammato puntato contro Ben.

Ben estrasse dalla tasca della giacca il telefono intento a chiamare subito Deva, ma questo stava già squillando: numero sconosciuto.

 


 

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Capitolo 14
*** Mission impossible. ***


 

"La mente è un paracadute: funziona quando è aperta".

 

Ben non credeva che si potessero provare così tante emozioni in un solo istante. La paura crescente davanti al pensiero di non avere notizie da Deva da giorni, mista al senso di colpa per non essersene preoccupato e ritrovarsi davanti suo fratello terrorizzato. Per non parlare della piacevole scoperta del carattere di Amelia...

«Chi parla?» rispose al numero sconosciuto che da diversi giorni continuava a chiamarlo, ma lui continuava ad ignorare. Mille pensieri oscuri si insinuarono nella sua mente: e se avesse risposto prima? E se adesso fosse troppo tardi?

«La tua tipa è una tosta...» commentò la voce gelida di un uomo.

«Puoi dirlo forte» ribatté Ben fiero e sempre più impaurito, «dov'è? Cosa sta succedendo?».

«...tranne quando non è cosciente».

Ben si sentì crollare il pavimento sotto i piedi, tanto che dovette sedersi. Cercava con tutte le forze di non farsi vedere così sconvolto da Luke, che continuava a fissarlo in attesa di una buona notizia sulla sorella.

«Non è lei che voglio. Se farai tutto quello che ti dico ne uscirà indenne».

La hall si andava svuotando piano di tutte le persone che prima vi avevano cercato riparo, mentre i due uomini e Amelia stavano seduti in disparte attenti a non farsi ascoltare da nessuno.

«Prenderai il treno delle 20 di stasera diretto a Manchester. Quando arriverai a destinazione, riceverai altre informazioni. Non farai fatica a trovarci. E ricorda bene: fai un solo passo falso e la tua amica è morta».

Quell'ultima frase risuonò nella testa di Ben prolungata all'infinito, come al rallentatore. Era un uomo razionale, cercava sempre di trovare spiegazioni logiche dietro le più strane situazioni, ma in quel momento era fuori di sé: non riusciva a ragionare, non capiva cosa e perché stesse succedendo. Fu riportato alla realtà dalla voce roca e nervosa di Luke Thompson che gli chiedeva spiegazioni.

Raccontò ai due la breve conversazione con lo sconosciuto, quando all'improvviso ebbe un'illuminazione.

«Amelia, tu puoi aiutarci!» esclamò saltando in piedi dalla poltrona e inginocchiandosi vicino la ragazza dai corti capelli biondi, «questo è un sequestro, e tu ti occupi di diritti umani, quindi forse...».

«Frena, Ben» lo interruppe, e tutta la speranza riaffiorata negli occhi del ragazzo svanì di colpo, «non è così semplice. Io mi occupo di prigionieri di guerra, questo è un caso di competenza della polizia...».

«Se avvertiamo la polizia la uccideranno» osservò Luke, improvvisamente calmo.

Amelia era visibilmente combattuta: da un lato la paura di mettere a rischio la propria vita e la propria carriera per degli sconosciuti, dall'altro la consapevolezza di avere le capacità per farli uscire da quel casino. Era vero che quello non fosse un caso di sua competenza, ma era anche vero che lei fosse ugualmente una negoziatrice per sconosciuti, a prescindere dalla guerra. Quello era il suo campo di battaglia, era capace di tirarsi indietro davanti a una richiesta d'aiuto?

«Ti prego, Amelia» continuava a supplicarla Ben mentre la ragazza cercava di prendere una decisione dalla quale non avrebbe potuto tornare indietro.

«D'accordo, ti aiuterò» sentenziò infine, «ma sappiate che dovrete stare alle mie regole per evitare di peggiorare la situazione. Fidatevi di me, so come vanno a finire queste cose. Nessuna improvvisazione, sono stata chiara?».

Luke imitò Ben e le si inginocchiò ai piedi, baciandole le mani. Ben non riusciva ancora a credere in che casino si fosse cacciato, ancora una volta, ma adesso il suo unico pensiero era andare a prendere Deva, dovunque fosse.

 

Passarono il pomeriggio nello studio della suite di Ben, che diventò la sala operativa di una missione di salvataggio. Amelia riuscì a rintracciare il numero e confermò che la telefonata fosse arrivata da Manchester, ma non potevano dire con certezza da quanto tempo Deva avesse lasciato Brighton. Scoprirono che nessuno dei suoi colleghi avevano denunciato la sua scomparsa, probabilmente si erano perse le tracce anche di loro.

Ben era estremamente nervoso, e più passavano le ore più si sentiva infastidito dalla presenza di quelle due nuove persone dentro il suo spazio privato. Continuava a chiedersi se avesse preso la decisione giusta scegliendo di non chiamare la polizia, o se avesse peggiorato le cose. Tutto dipendeva da lui in quel momento: ogni scelta presa poteva condizionare la vita di Deva. Eppure Ben non sottovalutava le parole che l'uomo gli disse al telefono, "non è lei che voglio". Sapeva di essere lui la preda.

Luke Thompson non era certo d'aiuto in questa storia. Continuava a camminare freneticamente per tutta la suite, proponeva strategie discutibili e creava ogni genere di complotto dietro la scomparsa di sua sorella. Per quanto Ben provasse ad entrare in empatia con le sue emozioni, avrebbe preferito di gran lunga se fossero stati soli lui e Amelia.

«Ben, assicurati di avere la localizzazione disattivata sul tuo cellulare» lo avvisò la ragazza, adesso di nuovo con il suo completo asciutto blu notte, «se questi fanno sul serio, ti staranno già controllando. Luke, tu invece tienila attiva. Un mio collega ci copre le spalle e tiene d'occhio i nostri spostamenti dal tuo telefono».

Dal volto pallido e l'espressione vacua di Luke si poteva intuire che non aveva capito nulla di quello che Amelia aveva raccomandato. Ben lo trovò quasi buffo, ma si trattenne dal ridere: doveva continuare a mostrare la sua faccia seria e dura.

Alle 20 in punto presero il treno per Manchester, quasi del tutto vuoto ad eccezione di poche persone sparse per i vagoni. Ben, Amelia e Luke presero posto in una carrozza vuota e aspettarono in silenzio la partenza. Formavano un trio così strano che era inevitabile pensare che si trovassero insieme per una serie di circostanze. Ben era silenzioso e teneva lo sguardo fisso fuori il finestrino, mentre Luke continuava a cercare argomenti di conversazione per paura del silenzio. Amelia, come una perfetta bilancia in mezzo a loro, di tanto in tanto rispondeva a Luke e rispettava il silenzio di Ben.

«Andrà tutto bene» gli disse la ragazza sorridendo dolcemente, dopo avergli afferrato la mano posata sul ginocchio. Ben ricambiò il sorriso e strinse la mano delicata nella sua. Apprezzava i suoi tentativi di conforto, e il più delle volte funzionavano: Amelia si era guadagnata la sua fiducia e la sua stima. Sperava solo di poter dire lo stesso al contrario...

«Conoscete il riflesso pavloviano?» disse d'un tratto Luke, non più agitato come prima. Sembrava che le parole di Amelia dette a Ben avessero rincuorato anche lui.

«Il che?» domandò Ben stizzito.

«Il riflesso di Pavlov, o riflesso condizionato. È una reazione che viene prodotta da un elemento esterno e che viene associata a uno stimolo».

Ben e Amelia continuavano a non capire, ma lo ascoltavano con attenzione, improvvisamente interessati dalle sue speculazioni.

«Secondo lo scienziato Pavlov, animali e umani imparano ad associare uno stimolo con un altro. Fece un esperimento con un cane e la sua salivazione, gli dava da mangiare ogni volta che suonava un campanello. Una volta che l'animale apprese che al suono del campanello corrispondeva il cibo, ogni volta che lo sentiva iniziava a salivare. Così, Pavlov riuscì a dimostrare che è possibile determinare reazioni negli animali e negli umani artificialmente».

Luke fece una pausa, e Amelia e Ben si scambiarono uno sguardo confuso di sottecchi.

«Ogni volta che mia sorella scompare, c'è sempre qualcosa di brutto dietro. La prima volta a diciott'anni, e dopo successe il casino in quella discoteca. Tante altre volte durante questi anni, adesso questo... sono abituato ad aspettarmi dolore, ogni volta che ci allontaniamo. Per questo ultimamente mi facevo vivo più del solito, ma purtroppo rientro anche io nella categoria di quelli che l'hanno abbandonata. Non mi perdonerà mai».

Ben capì che il riflesso di Pavlov era solo la premessa di Luke per poi sfogarsi come non gli avevano permesso finora lui e Amelia. Si sentì in colpa per essersi mostrato disinteressato nei suoi confronti ed egoista, mentre in quella situazione non era l'unico a stare soffrendo.

Le due ore di viaggio continuarono ad essere tese, ma i tre conversarono per tutta la durata per allentare la tensione e il nervosismo, tanto che si accorsero a malapena di essere in compagnia. Due uomini vestiti di nero erano entrati nel loro scompartimento e si facevano strada piano verso di loro quando il treno si fermò alla stazione di Manchester.

«Il vostro viaggio termina qui» disse uno dei due, gli occhi scuri puntati su Ben, «scendete insieme a noi».

Ben, Amelia e Luke obbedirono, dopo essersi scambiati uno sguardo incerto. Scesero dal treno seguendo quelle due nuove figure misteriose e si riversarono nella banchina trafficata. Uno dei due li conduceva fuori dalla stazione, mentre l'altro li seguiva alle spalle. Mai sentirono il cuore battere così forte, accompagnati da una spiacevole e inquietante sensazione.

Quando furono fuori, li condussero fino a un vicolo buio e isolato, e Ben capì solo in quel momento di essere in trappola. Rivisse i tremendi attimi di panico al Bittersweet Hotel quando, in quello stesso vicolo, si vide puntato di sopra un'altra pistola. Questa volta non era stato preso alla sprovvista, quasi se lo aspettava, ma il tempo iniziò a rallentare come l'ultima volta: è questo, allora, quello che si prova quando capisci che stai per morire? La paura che ti paralizza e ti blocca il respiro, l'incapacità di reagire e tentare di difenderti... ma come si può davanti un'arma?

Questa volta, però, il destino fu più clemente con Ben e gli diede un aiuto del tutto inaspettato. Vide Luke Thompson aggredire l'uomo armato e mandarlo a terra in poche e semplici mosse, poi scagliarsi contro l'altro intento a scappare. Alla sua destra, Amelia era pietrificata proprio come lui.

«Cintura nera» spiegò Luke vittorioso, lasciandosi alle spalle due corpi vivi ma privi di sensi. Ben pensò di aver sottovalutato troppo quel ragazzo che gli aveva appena salvato la vita. «Ti vogliono proprio morto, eh?».

Vide Amelia avvicinarsi a uno dei due uomini e frugare nelle sue tasche, per poi estrarne il cellulare. Avvicinò il sensore al dito dell'uomo per sbloccare il telefono e si allontanò a passo spedito, per poi ordinare a Ben e Luke di seguirla.

«Adesso si gioca con le nostre regole» affermò la ragazza con un sorriso compiaciuto, poi copiò un numero di telefono dal cellulare dell'uomo e lo inoltrò dal telefono di Luke al suo collega che li aiutava da lontano.

«Per la cronaca, la pistola era scarica» disse Luke ancora con l'affanno, mentre vagavano per le strade sconosciute della città alla ricerca di un posto dove poter riposare.

Amelia mandò un sms dal telefono rubato al numero del loro capo, fingendosi l'uomo stesso, e chiedendo indicazioni su dove portare Ben e gli altri.

«E adesso?» chiese Ben, tornando ad avvertire tutta l'ansia e lo spavento repressi fino a quel momento.

«Adesso aspettiamo».

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