A good deed

di valehina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A Bag and a Caress ***
Capitolo 2: *** Dolls and Slings ***
Capitolo 3: *** Heroes' son ***
Capitolo 4: *** Vandalic Act of Love ***



Capitolo 1
*** A Bag and a Caress ***


A good deed 01

-  Nick Autore: ValeHina
-  Titolo: A good deed
-  Titolo canzone scelta: “Nei giardini che nessuno sa”, Laura Pausini
-  Personaggi: Sarutobi Konohamaru, Sarutobi Hiruzen, Hyuga Hanabi, Altri 
-  Genere: Malinconico, Triste, SongFic
-  Rating: Verde
-  Avvertimenti: Nessuno
-  NdA (facoltative): in fondo all’ultimo capitolo.

 

 

A good deed

 

 

 

Capitolo 1. A Bag and a Caress

 

 

 

Senti quella pelle ruvida,
un gran freddo dentro l'anima,
fa fatica anche una
lacrima a scendere giù.
Troppe attese dietro l'angolo,
gioie che non ti appartengono.
Questo tempo inconciliabile gioca contro di te.


 “Uffa, nemmeno stavolta ci sei cascato!”
Un bimbo di 6 anni gonfiò le guance, incrociò le braccia e si sedette a terra, deluso e irritato.
Sopra di lui, un vecchio uomo rise.
In quella risata non c’era cattiveria o presunzione.
Quella risata sapeva di affetto, di carezze e di dolci.
“Quando lo capirai che io non cadrò mai nelle tue trappole, Konohamaru?”
Il bambino in risposta gonfiò ancora di più le guance e sollevò il naso in aria, stizzito.
“Su, vieni qui…non dicevi sempre di voler provare il mio cappello?”
A quelle parole il piccolo Konohamaru sgranò gli occhioni, mentre le sue labbra si tesero a un sorriso estatico.
“…dici sul serio, nonno? Cioè…mi fa provare davverissimo il tuo cappello?”
Il vecchio si sedette su una poltrona scura, davanti a una scrivania ricolma di ogni sorta di documenti. Poggiò sul ripiano in legno la vecchia pipa e sbuffò, spargendo nell’aria viziata della stanza qualche traccia di tabacco.
“Konohamaru, dovresti saperlo che non si dice davverissimo. Cosa diavolo ti insegna Ebisu?”
Il bambino si tirò su da terra, togliendosi l’assurdo copricapo che teneva in testa e che gli sparava in aria i capelli scuri.
“Nonno, quello là è un incapace. Non mi insegna niente di utile! Proprio ieri voleva insegnarmi la…la fotocellula…no, la sintetismica…la cloroformica…”
“Intendi la fotosintesi clorofilliana?”, intervenne il nonno, le labbra rugose tirate in un sorriso.
“Ecco! Sì, proprio quello! La clorosintesi fotofilliana! Come se servisse per diventare un ninja!”, sbottò Konohamaru, scattando in avanti.
Il bimbo tuttavia non si accorse del tappeto arrotolato a terra, e scivolò. Cadendo, la sua testolina finì dritta contro lo spigolo della scrivania.
Nello studio si sentì un tonfo e un “Ahiaaaa!” a squarciagola.
L’uomo, preoccupato, si alzò dalla poltrona, per controllare lo stato del suo nipotino.
Si tranquillizzò nel vedere la mancanza di sangue: quel bambino aveva la testa dura…come tutti i Sarutobi, del resto!
Tuttavia, la botta aveva fatto male, e i primi lacrimoni stavano spuntando dagli occhi del bambino.
“Oh, Konohamaru…sei un disastro.”, mormorò l’uomo, avvicinandosi al nipotino che ormai piangeva come una fontana. Lo prese in braccio –nonostante avesse sei anni, non pesava affatto- e se lo portò sulla poltrona.
Infine il vecchio, afferrato il buffo cappello che portava di solito, e che in quel momento era poggiato sopra carte e documenti, lo poggiò in testa al bimbo, che smise di singhiozzare.
Enormi lacrime si facevano però largo sulle guance paffute del bimbo che, dopo qualche attimo di incertezza, parlò.
“Nonno…”, incominciò, la voce rotta dal pianto. “…senti nonno, posso chiederti una cosa?”
L’uomo si stupì per quella richiesta: di solito quel bambino non si faceva problemi a chiedere ogni tipo di cosa, anche la più imbarazzante.
“Certo. Dimmi pure.”
“Perché la mamma e il papà non sono ancora tornati dalla missione?”
Fu come se qualcuno avesse dato al vecchio un calcio sullo stomaco. In quel momento, sentì sulle sue spalle gli anni della vecchiaia, tutti gli acciacchi, le debolezze, i dolori nascosti. Tutti insieme.
Intanto Konohamaru attendeva, dondolando le gambe grassoccie che si scontravano con quelle magre e rugose del nonno, sotto di lui. Sulla testa, quel cappello piatto e quadrangolare aveva bloccato il dolore, come se contenesse un rimedio magico contro le ferite.
Il bimbo rivolse lo sguardo al nonno, stupendosi dei suoi occhi, annebbiati e confusi.
“Nonno…?”, mormorò a fior di labbra. Quello sguardo non gli piaceva.
Non gli piaceva per niente.

 

 

Ecco come si finisce poi,
inchiodati a una finestra noi,
spettatori malinconici,
di felicità impossibili...
Tanti viaggi rimandati e già,
valigie vuote da un'eternità...
Quel dolore che non sai cos'è,
solo lui non ti abbandonerà mai…oh, mai…

 

Quasi sei anni dopo, un ragazzo si svegliò nella sua stanza.
Era stanco, nonostante avesse dormito per almeno sette ore. I suoi muscoli erano indolenziti, i legamenti scrocchiavano e non c’era un solo osso che non urlasse pietà.
Ebisu la doveva piantare. Quegli allenamenti sarebbero stati massacranti anche per Naruto.
A quel pensiero il ragazzo sorrise, pentendosi subito del gesto compiuto: anche i lineamenti del viso erano a pezzi…
Si stiracchiò, tra gemiti di dolore impressionanti, e si passò una mano tra i folti capelli castani, dritti in aria.
Tutti a Konoha si chiedevano come diavolo facessero a starsene su, alla faccia della legge di gravità.
Lo sguardo assonnato e annebbiato del ragazzo si posò su uno scaffale, dove uno stranissimo copricapo spiccava subito agli occhi. Era quello che aveva portato fino all’età dei sei anni, prima di indossare gli occhialoni da pilota in onore di Naruto e, in seguito, il luccicante coprifronte del Villaggio della Foglia.
Ecco. Forse era a causa di quello, se i suoi capelli non avrebbero mai assunto una posizione normale.
Konohamaru poggiò i piedi sul pavimento gelato, e rabbrividendo si diresse in cucina, dove lo aspettava una bella colazione.
O meglio, l’avrebbe aspettato se ci fosse stato qualcuno a preparargliela.
Invece la cucina era deserta e fredda come sempre.
Il ragazzo si sedette, in mano la solita confezione di latte –sperava- non ancora scaduto.
Senza nemmeno prendere una ciotola, se lo versò in bocca, troppo tramortito e a terra per rendersi conto di essersi completamente inzuppato la casacca del pigiama di latte.
Appoggiandola sul tavolino, lanciò un’occhiata tramortita al calendario, dove troneggiava una bellissima donna coperta solo da due ombrelli.
Ignorando lo sguardo provocante che Miss Novembre gli rivolgeva, si concentrò sulla data di quel giorno.
Nel quadratino bianco, c’era una sola parola.
Cinque lettere che riempirono il cuore di Konohamaru di un dolore antico e tuttavia nuovo.
Ogni anno si sarebbe rinnovato. E lui lo sapeva.
Solo che…ogni anno lui era sempre meno pronto.
Si alzò di scatto, ignorando il latte che gocciolava sul pavimento e sui pantaloni, e corse in camera, temendo quasi che quelle cinque lettere potessero rimproverarlo di non far tardi.
Non sarebbe tardato, no.
Entrando in stanza, si sfilò il pigiama per indossare gli indumenti di sempre. Mentre apriva l’armadio, il suo sguardo cadde su una borsa.
Una borsa logora e vecchia, consumata dagli anni e dai tarli.
Che però Konohamaru aveva sempre ignorato.

 

 
“Nonno, mi ci porti?”
L’uomo sbuffò spazientito. “Konohamaru, ho troppe cose da fare. Per favore, vai da Ebisu.”
“Ma nonno! Me l’avevi promesso! Me lo ripeti sempre anche tu!”
Il bimbo si fece serio, ingrossando la voce e imitando il nonno.
“I veri ninja non rimangiano la parola data. Mai.”
Il vecchio fissò assorto il nipotino, poi ridacchiò. Infine si abbassò, per frugare sotto la scrivania del suo ufficio.
Konohamaru, incuriosito, cercò di spiare issandosi con le braccia sul ripiano del tavolo, troppo alto per lui.
Si ritrovò davanti al naso un borsone.
“…che è?!” esclamò, afferrando quell’affare di stoffa e portandolo alla sua altezza.
“Konohamaru, non pensavo fossi così miope.”, sorrise il nonno.
“Quella è una borsa, non la vedi? Serve per mettere dentro oggetti, vestiti, libri…”
“Lo so cos’è una borsa, nonno.”, replicò Konohamaru, stizzito. Soppesò l’oggetto in cuoio, sorpreso. Era bella, capiente e maneggevole. Gli piaceva. Ma perché ce l’aveva in mano?
“…nonno, perché…?”, cominciò, prima di venire interrotto dall’uomo.
“Un secondo fa non mi dicevi di voler partire per Suna? Bene, con quella borsa potrai arrivarci.”
Il nonno, soddisfatto, si rituffò nelle sue carte. Konohamaru restò di sasso.
In quel momento, quella borsa gli parve la più brutta cosa che avesse mai visto.
Era un regalo, però. Non poteva rifiutarlo.
Il vecchio, notando che Konohamaru era ancora nella stanza, lo fissò.
“Che c’è ancora?”, borbottò, piccato.
Gli occhi del bambino iniziarono a bruciare.
“Nonno…”, iniziò, la voce falsata. “…io a Suna però…volevo andarci con te…”
L’uomo lo fissò di sottecchi, come se avesse detto che l’acqua era bagnata.
Poi scoppiò a ridere di gusto.
Il bimbo si sentì profondamente offeso. Stava per posare a terra quella stramaledetta borsa, prenderla a calci e poi correre fuori dall’ufficio del nonno frignando.
Si fermò quando vide un’ombra davanti a sé.
E si calmò quando qualcosa di ruvido e delicato gli sfiorò la guancia.
“Che sciocchino, Konohamaru”, bisbigliò il nonno, a pochi centimetri dal suo viso. “Ovvio che io vengo con te. Non lascerei mai che un moccioso di sei anni vada in giro da solo per il deserto.”
In un altro momento Konohamaru se la sarebbe di sicuro presa. Avrebbe trattenuto il fiato, gonfiato le guance e incrociato le braccia, come suo solito.
Invece in quell’occasione il bimbo si sentì felice come non mai.
Appena il nonno ebbe ritratto la mano dalla guancia del nipotino, questi gli si gettò al collo, quasi gettandolo a terra.
“Ahi! Konohamaru, non sono più giovane come un tempo!”, tossì il vecchio, divertito.
“Oh nonno, nonnino adorato! Ti voglio tantissimo bene, lo sai?”
Nonostante avesse il volto affondato nelle deboli –almeno per lui- spalle del vecchio, poté sentire un sorriso increspargli le labbra, e immaginò le rughe attorno ai suoi occhi neri accentuarsi.
“Lo so, Konohamaru…anche io te ne voglio.”

 
 

Fissando quel cimelio, Konohamaru venne colpito da una dolorosa certezza.
Non aveva mai usato quella borsa. Mai.
Lui e il nonno avrebbero dovuto partire dopo l’esame dei Chunin.
Altra fitta dolorosa allo stomaco.
Peccato che il nonnino, dopo l’esame, fosse già partito…
Scacciò via quel pensiero e le lacrime che iniziavano ad affiorare sugli occhi neri, identici a quelli del nonno.
Afferrò una maglia, un paio di pantaloni e, dopo qualche attimo di incertezza, anche quella borsa logora.
Se doveva farlo, allora avrebbe dovuto farlo bene.




NdA


1° Classificata:ValeHina con A good Deed
- Correttezza grammaticale:10/10 punti.
- Completezza della storia: 10/10 punti.
- Originalità: max 10/10 punti.
- Giudizio personale: 8/10 punti.
Totale:38

IO TI ODIO!
Mi sono innamorata della tua fic,mi hai fatto convertire quasi alla KonoHana...io sono una KibaHana iper convinta,comunque ho capito che anche questa coppia non mi dispiace.
Non ho trovato un errore ne di distriazione,ne di digitazione.La storia è completa spiegata e ricca nei minimi particolari,mi è piaciuto molto il ruolo di contorno che hai dato a Hinata.
Ti ho dato dieci punti all'originalità,perchè a differenza delle tue compagne hai usato personaggi di contorno,a cui vengono lasciati principalmente ruoli insignificanti.La Canzone "Nei giardini che nessuno sa" non la cooscevo,ma mentre leggevo la tua fic,l'ascoltavo e così me ne sono innamorata,rispecchia in modo veritiero,senza Spoiler,il rapporto Nonno-Nipote.
Devo dire che ero indecisa sulla classifica,le preferite erano la tua e "Tu Esisti"di °Nana°,ma alla fine la tua ha trionfato per l'originalità.
Congratulazioni.Sei la vincitrice di "Song-fic...Naruto e la Pausini".

Dire che non ci credo è poco. Pochissimo.
Io prima in un contest. Sembra una barzelletta, no?
E invece è così.

Io sono estremamente felice. Non posso aggiungere altro, perchè è così.
Sinceramente non so nemmeno cosa scrivere...
Non sto capendo più nulla, eh eh... @__@

In origine questa storia doveva trattare soltanto di Konohamaru e del vecchio Sandaime...e invece è spuntata una KonoHana con un accenno lievissimo, quasi impercettibile, di NaruHina.
Hanabi comparirà nel prossimo capitolo.

Bene, non posso fare altro che dedicare questo capitolo a Krikke, la giudicessa, e a tutte quante le partecipanti al contest. Grazie mille ancora.

Questo è il primo di quattro capitoli. Spero siano di vostro gradimento.
Ah, posto anche il bannerino. Grazie, Krikke.

A presto.
Vale


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Capitolo 2
*** Dolls and Slings ***


A good deed 02

A good deed

Capitolo 2: Dolls and Slings

 

E' un rifugio quel malessere,
troppa fretta in quel tuo crescere.
Non si fanno più miracoli,
adesso, adesso non più.


Konohamaru procedeva spedito sulla via principale di Konoha, lo sguardo dritto davanti a sé.
Non voleva distrazioni. Non voleva fermarsi.
In mano, quella vecchia borsa logora che attirò lo sguardo curioso di parecchie persone.
Il ragazzo camminava, camminava, incurante della gente che lo salutava o che lo chiamava.
Aveva un obiettivo, quel giorno. E l’avrebbe raggiunto ad ogni costo.
Tuttavia, Konohamaru non poté non vedere le espressioni che gli abitanti della Foglia avevano in viso.
Sorrisi. Risate. Bronci. Aggrottamenti di sopracciglia. E di nuovo sorrisi.
Sentì una fitta al cuore. Ebbe l’orrenda sensazione che si fossero tutti dimenticati di quel giorno.
Che si fossero tutti dimenticati di lui.
A Konohamaru mancò per qualche secondo il respiro, ma non si fermò.
Ricacciò indietro le lacrime di amarezza e rabbia e continuò, cercando di catalizzare tutto il dolore che provava alla vista di quegli ingrati –solo così poteva chiamarli quel giorno, ingrati- insieme a quello che era risorto nel suo cuore quel giorno.
Se ci fosse stato lui, avrebbe sorriso e gli avrebbe arruffato i capelli dicendo: “Konohamaru, sono contento di vederli così. Preferisco vedere il mio villaggio sorridere, piuttosto che piangere”.
Un sorrisetto amaro comparve sul viso del dodicenne.
Certo, avrebbe detto così. Suo nonno era buono. Troppo buono.
Avrebbe voluto con tutto il cuore abbracciarlo, ma sapeva che era impossibile.
I miracoli non avvenivano. Perlomeno, non a lui.

 

Non dar retta a quelle bambole
Non toccare quelle pillole
Quella suora ha un bel carattere,
ci sa fare con le anime.

Passo dopo passo, Konohamaru si era allontanato sempre di più da casa sua.
Nella sua mente frullavano diversi pensieri, la maggior parte pressoché inutili.
Ricordò di non avere abbassato la tapparella in camera da letto: quando sarebbe tornato, avrebbe trovato un caldo asfissiante.
Si chiese se anche Udon e Moegi avevano i muscoli a pezzi, e promise che la prossima volta che avrebbe visto Ebisu l’avrebbe punito.
Lui era il nipote del Terzo Hokage, che diamine!
Mentre un sorriso malinconico appariva sulle sue labbra, un nuovo dolore gonfiava il suo cuore.
Era finito nel centro commerciale di Konoha, nel frattempo. Attorno a lui, decine di negozi aperti facevano a gara per accogliere più clienti. I commessi sorridendo eseguivano alla lettera le richieste dei clienti, com’era d’abitudine a Konoha.
Konohamaru non ci badò: d’altronde era la stessa scena che ogni giorno aveva sotto i suoi occhi. Tuttavia, si fermò davanti a un negozio di giocattoli, dal quale un bambino stava uscendo in lacrime.
“Uffa, mamma! Dai, per favore, prendimi la macchinina! Dai!”, singhiozzò il piccolo.
Dietro di lui apparve una donna, uno sguardo stizzito.
“Andiamo, Kazuo! Ti ho già comprato il pallone ieri. Questo regalo è per tua sorella Emi, quindi non lamentarti e pensa a lei, che ha la febbre!”, sbottò, sollevando in aria il sacchetto che teneva in mano.
Kazuo sembrò colpito da quelle parole, perché smise di piangere e dette la manina grassottella alla mamma, che gli sorrise.
“Ho capito, mamma. Andiamo da Emi, adesso?”, fece, gli occhi luminosi.
“Sì, Kazuo. E ho anche preparato una torta per lei! Sei contento?”
Un sorriso estatico apparve sul viso del bimbo.
“Urrà! Allora sbrighiamoci!”
I due si incamminarono verso la strada che portava all’ospedale. Konohamaru non poté fare a meno di preoccuparsi per la piccola Emi: doveva stare proprio male, se la mamma le comprava un giocattolo nuovo e le portava un dolce…
Sovrappensiero, il ragazzo si avvicinò alla vetrina del negozio, fino a sfiorarla con la punta delle dita.
Concentrò il suo sguardo sui bei giochi nuovi di zecca esposti, non senza pensare che lui non ne aveva avuti mai.
Aveva avuto solo armi, come d’altronde tutti i ninja presenti a Konoha.
Il suo unico gioco era stata una fionda, che aveva preso…proprio lì, in quel negozio.
La sua attenzione si catalizzò su una bambola, seduta al centro.
Aveva due occhi enormi, di un azzurro cielo innaturale. I boccoli rossi le cadevano fino alle spalle. La bocca rossa sorrideva immobile.
Portava un vestitino verde a fronzoli, che si intonava con la capigliatura rosso fuoco.
Konohamaru non aveva mai visto quella bambola. Eppure, appena incrociò quel viso di porcellana, il suo cuore fece ancora più male.
E la sua mente riprese a vagare nel passato.

 

 
“Quale onore, Hokage!”
Il commesso, un uomo con una pancia grossa e la faccia simpatica, si alzò in piedi non appena il vecchio fece il suo ingresso nella bottega.
“Stia seduto, la prego.”, rispose l’Hokage, sorridendo. “Non si scomodi.”
Konohamaru stava dietro il nonno, parzialmente coperto dalla lunga tunica bianca che il vecchio indossava ogni giorno.
Appena si rese conto del posto in cui era entrato, gli occhi gli si illuminarono e la bocca formò una grande o.
“Nonno…ma questo è il paradiso!”
Davanti a lui c’erano scatole e scatole di giocattoli, piene zeppe di macchinine, camioncini, palloni, pupazzi, animaletti di plastica, girandole, frisbee, corde, bambolotti, maschere, racchette, e ogni altra sorta di balocco.
Per poco non gli venne la bava alla bocca.
Il nonno rise alla vista della sua espressione. Poi si diresse verso le scatole.
Il commesso non si era ancora seduto.
Konohamaru corse verso il vecchio, che aveva infilato una mano in una delle decine di scatole lì presenti. Dopo qualche minuto, tirò fuori uno strano oggetto, mai visto prima dal nipotino.
“…che cos’è, nonno?”
L’uomo sorrise e glielo mise in mano. Konohamaru se lo portò davanti agli occhi, in modo da vederlo meglio: sembrava un rametto, la cui estremità si diramavano in due direzioni. Il bimbo si stupì dell’elastico lungo e spesso attaccato ai due
pezzettini separati.
“Si chiama fionda, Konohamaru.”
“Fionda…”, bisbigliò il bimbo, pronunciando per la prima volta quel nome nuovo. “…è un giocattolo?”
“Certo. Non l’avresti trovato qui altrimenti.”
Konohamaru annuì, capendo che la domanda che aveva fatto era proprio stupida. Poi chiese: “Come si usa?”
Il nonno allora cercò nella scatola una pallina, e dopo averla trovata la mise sull’elastico, tendendolo con l’indice e il medio della mano destra.
“Ecco, ti posizioni così…”, disse l’uomo. “…e poi lasci andare le dita. Hai capito cosa succede poi?”
“La pallina…viene lanciata via!”, esclamò il nipotino, fiero di esserci arrivato da solo. “Che forza! Posso provare?”
Il vecchio lanciò uno sguardo al commesso, che aveva assistito al dialogo. Costui annuì subito, senza un attimo di incertezza.
Allora lasciò la fionda e la pallina nelle mani del piccolo, che era entusiasta.
“Non mirare alla vetrina, mi raccomando. Potresti romperla.”, disse l’uomo, sorridendo.
Konohamaru si concentrò subito sulla porta aperta del negozio. Non avrebbe fatto danni, così.
Alzò esageratamente le braccia, chiuse un occhio per prendere la mira. Per la concentrazione tirò fuori perfino la lingua.

Tre, due, uno…
La pallina partì ronzando verso la porta. La traiettoria era perfetta, sarebbe finita esattamente contro il tavolino del bar a cui Konohamaru aveva mirato.
Se in quel momento non fosse apparsa lei.
La pallina le finì dritta in testa, facendola barcollare lievemente. Poi si massaggiò la parte colpita fissando prima la pallina, che rotolò ai suoi piedi, e poi colui che l’aveva lanciata.
 

La prima cosa che Konohamaru notò furono gli occhi.
Erano bianchi. Non azzurro chiaro, o di un violetto talmente tenue da somigliare al bianco.
Erano bianchi come la neve.
Erano sorpresi, lievemente infastiditi. Ed erano freddi come il ghiaccio.
Il bimbo non poté reggere quello sguardo e lo abbassò ai suoi sandaletti, vergognandosi come un ladro.
Il nonno, che aveva osservato tutto, non poté fare a meno di ridere.
La bimba entrò nel negozio, seguita da un uomo che era senz’altro il padre.
Stessi occhi bianchi. Stesso gelo in viso.
Non appena l’uomo entrò nella bottega, il vecchio smise di ridere. Si fece avanti e disse, cordiale: “Anche tu qui, Hiashi?”
L’interessato si accorse della presenza dell’uomo e chinò lievemente il capo. Si vedeva che non era abituato a farlo.
“Buongiorno, Hokage. Oggi è il compleanno di Hanabi, perciò siamo venuti a scegliere il suo regalo.”
La bimba, Hanabi, alzò lo sguardo e sorrise al nonno di Konohamaru. Poi tornò a fissare il bimbo, che si era messo a contare le mattonelle sul pavimento.
“Capisco. E quanti anni compi, signorinella?”
“Faccio sette anni, signor Hokage”, rispose Hanabi, senza incertezza nella voce.
“Ma davvero?”, mormorò il nonno, sorridendole affabile. “Allora hai la stessa età di Konohamaru! Vero, figliolo?”
Il bimbo, nel sentirsi interpellato, alzò la testa di scatto, arrossendo. Poi balbettò: “S-si, nonno…”
“Quando li compi, tu?”
Konohamaru inizialmente non si accorse che la domanda della bimba mora era diretta a lui. Infatti, quando lo capì, avvampò ancora di più.
“…i-il 30 di-dicembre…”, bisbigliò a bassa voce, così bassa che temette che non l’avesse sentito.
Invece Hanabi annuì e si avvicinò a lui. Lo guardò di nuovo con quegli occhi freddi e poi fissò le mensole sopra la loro testa.
Konohamaru non le aveva notate, forse perché quello che contenevano era solo roba da femmine.
Su quelle mensole c’erano una ventina di bambole, tutte seduta una accanto all’altra. Tutte con lo sguardo fisso in avanti. Tutte con un sorriso finto.
A Konohamaru misero paura. Si voltò verso la bimba, che le osservava con aria distaccata.
“Tu quale prenderesti?”, chiese Hanabi, a bassa voce.
Konohamaru tornò a fissarle. Poi tastò la fionda che aveva in mano.
“Io sinceramente”, fece, anche lui abbassando la voce, “prenderei questa fionda.”
Hanabi abbassò lo sguardo sul visetto di Konohamaru, per poi puntarlo sul rametto rosso che aveva in mano lui.
Lo fissò per qualche istante, incantata. Fece per prenderlo, ma poi scosse la testa, come se si fosse appena svegliata. E tornò a fissare le bambole, fredda.
“Non posso.”, bisbigliò la bimba.
Konohamaru in quel momento la trovò più stupida che mai: perché non poteva prendere una cosa che voleva nel giorno del suo compleanno? Lui avrebbe fatto i capricci, avrebbe pianto e strepitato, pur di avere quella fionda.
“E perché no, scusa?”, chiese lui, con tono infastidito.
Hanabi se ne accorse, e si voltò verso di lui. Il suo viso ora era triste.
“Perché il papà non vuole…”
Konohamaru rimase di sasso.
La bimba continuò: “Lui dice sempre che è tradizione del nostro clan essere eleganti e superiori agli altri. Per questo non mi farebbe mai prendere un giocattolo che appartiene alla…”, pensò alla parola giusta, “…alla plebaglia.”
Il bimbo in quel momento non seppe se sentirsi offeso o dispiaciuto. Quella strana bambina aveva usato delle parole che lui non conosceva –clan, superiori, plebaglia-, e gli sembrava tanto triste.
Konohamaru ci pensò su, poi tese la fionda verso Hanabi, che lo fissò stupita.
Il bimbo sorrise a quello sguardo interrogativo, e le mise il rametto in mano.
“Buon compleanno, Hanabi. Questo è il mio regalo per te.”
La bimba lo fissava a bocca aperta. Le sue guance pallide erano arrossite, lo sguardo si era fatto lucidi.
Fissò Konohamaru dritto negli occhi, ma stavolta il bimbo non li abbassò.
Era troppo fiero di sé, per farlo.

 

 
Tornando a casa, mano nella mano con il nonno, Konohamaru fissò la fionda che teneva tra le mani.
Poi finalmente parlò al vecchio.
“Nonno…”
“Dimmi, Konohamaru.”
Il bimbo esitò qualche istante. “Perché Hanabi non ha preso il mio regalo?”
Ricordava ancora lo sguardo di scuse che gli aveva rivolto, mentre usciva dal negozio con il padre.
Aveva sottobraccio una bambola bionda.
Konohamaru non capiva. Avrebbe voluto tanto, ma non lo capiva.
L’uomo sorrise: sapeva che il nipote era sveglio.
“Dunque, Konohamaru…devi sapere che Hanabi appartiene a un clan…”
“Cos’è un clan, nonno?”, interruppe Konohamaru, ricordandosi che Hanabi aveva usato quella parola.
L’uomo sospirò: ci sarebbe voluto parecchio tempo, per spiegarglielo…
Si sedette su una panca, seguito immediatamente dal piccolo. Prese un lungo respiro.
“Vediamo…sai bene che noi, Konohamaru, siamo ninja, mentre altre persone non lo sono.”
Al bimbo venne in mente il commesso del negozio di giocattoli: con quella pancia, non sarebbe mai potuto diventare un ninja.
“Konoha”, riprese il nonno, “è abitata perlopiù da ninja, che si occupano di difenderla e proteggerla. E io, Konohamaru…”
“Tu sei il più forte di tutti, nonnino!”, esclamò il nipote, gli occhi luminosi come stelle. L’Hokage sorrise.
“…io ho il compito di difendere e proteggere anche i ninja. Facciamo parte di un’unica grande famiglia.”
Il bimbo pensò che se era così, in un certo senso doveva essere imparentato anche con Hanabi. Subito ebbe un moto di stizza, anche se non capì perché.
“Dentro la nostra famiglia, chiamiamola così, ce ne sono molte altre, più piccole. Tuttavia, alcune spiccano in particolare, vuoi perché hanno un’origine antichissima, vuoi perché sono ninja fortissimi, vuoi perché hanno un’abilità innata.”
Konohamaru annuì, serio: ricordava che Ebizu aveva accennato qualcosa alle abilità innate, ma in quel momento non gli venne in mente cosa significassero e a cosa servissero.
“Questo tipo di famiglia si chiama clan.” Il nonno si sistemò il cappello rosso e bianco, sorridendo.
“Ho capito…e com’è il clan di Hanabi, tra quelli che hai detto prima?É forte, è vecchio oppure è speciale?”, chiese Konohamaru, pensando che forse quegli occhi bianchi servissero ad altro, oltre che a congelare la gente.
“Il clan di Hanabi appartiene a tutte e tre le categorie che ti ho elencato prima, Konohamaru.”, disse l’uomo.
Il bimbo rimase senza fiato.
“Devi sapere che la famiglia della tua amica ha un’abilità innata invidiatissima: con i loro occhi bianchi possono vedere ogni cosa. Si chiama Byakugan. Inoltre hanno uno stile di combattimento molto particolare, che unisce la forza all’eleganza.”
Il nonno notò l’espressione concentrata del bambino, che sicuramente tentava invano di ricordare il nome dell’abilità degli Hyuga.
Quindi riprese: “Gli appartenenti a questo clan sono molto orgogliosi di questa loro abilità, perciò hanno un’altra stima di loro stessi e tendono a sopravvalutarsi. I genitori vogliono che i loro figli siano all’altezza delle aspettative che gravano sulle loro esili spalle. Ora comprendi perché Hanabi ha rifiutato la tua fionda? Sicuramente suo padre si sarebbe arrabbiato. Lo capisci, Konohamaru?”
L’Hokage temeva di aver usato troppe parole difficili, e guardava preoccupato il nipote, che fissava il suo giocattolo nuovo.
Quando alzò lo sguardo, Konohamaru aveva un’espressione dolorosa in viso.
“Allora, nonno…vuoi dirmi che Hanabi diventerà antipatica come il suo papà?”, mormorò, la voce pronta a incrinarsi.
L’uomo lo guardò, incredulo che un bimbo di appena sei anni potesse formulare un pensiero tanto profondo.
Poi ripensò ai componenti della famiglia Hyuga: in effetti, tutti sembravano ritenere di essere superiori al mondo intero…
Tutti…tranne una dodicenne.
Hyuga Hinata, la primogenita odiata da Hiashi.
L’Hokage sorrise.
“Stai tranquillo, Konohamaru. Lei non diventerà mai come gli altri.”
Il bimbo piegò la testa di lato, in attesa di spiegazioni.
“Vedi…Hanabi ha una sorella, Hinata. Ho avuto occasione di conoscerla, quando è stata ammessa all’accademia. E posso assicurarti che è la bambina più dolce del mondo.”, sorrise il vecchio.
“…davvero?”, mormorò stupito il bimbo: lui non ne aveva di fratelli. Però aveva sempre considerato quello come tale…
L’uomo parve leggere nei suoi pensieri, perché disse: “Tu non consideri Naruto come un fratello, Konohamaru?”
Il nipotino avvampò: ci aveva azzeccato in pieno.
L’uomo ridacchiò soddisfatto. Poi scompigliò i capelli del bambino.
“Tu vorresti diventare come lui, vero? Lo consideri un modello da seguire, no?”
Konohamaru, imbarazzatissimo, fece sì con la testa. Allora il nonno continuò: “Anche Hanabi, nonostante non lo darà mai a vedere, avrà sempre Hinata come punto di riferimento. E poco a poco, anche se i loro caratteri non saranno uguali, la minore prenderà la semplicità e la dolcezza della maggiore. Posso giurartelo, Konohamaru.”
Il bambino sorrise, rassicurato dalle belle parole del nonno. Si alzò in piedi ed esclamò: “Bene! Allora a dopo, nonno!”
“Cosa?! Konohamaru, dove stai…?”
Al posto del bambino, c’era una nuvola di polvere che fece tossire l’uomo.
“Coff…quel bambino è incredibile…”

 

“Posso entrare?”
Hanabi non si mosse dal letto. A pancia in giù, osservava il suo nuovo regalo con aria annoiata, dondolando in aria i piedi scalzi.
“Entra, Hinata.”
La sorella maggiore di Hanabi, una ragazzina esile di dodici anni, con i capelli neri a caschetto e gli stessi occhi della minore, entrò silenziosa, un sorriso timido sulle labbra.
“Così è questo il tuo nuovo giocattolo?”, chiese cortesemente, come se stesse parlando ad uno sconosciuto.
Hanabi annuì, senza levare i suoi occhi da quelli azzurri della bambola. Hinata si avvicino, sedendosi sul letto.
“Davvero molto graziosa…sei soddisfatta?”, domandò la maggiore, accarezzando la chioma bionda del giocattolo.
Hanabi avrebbe voluto rispondere di no. Avrebbe voluto dire che odiava quei boccoli surreali, quegli occhi dipinti, quelle labbra disegnate. Però si limitò ad annuire ancora.
Non che non volesse confidarsi con la sorella. Anzi, ne sentiva un gran bisogno.
Solo non ce la faceva. L’orgoglio degli Hyuga non le permetteva di mostrarsi debole, nemmeno in questa situazione.
La mano di Hinata, dalla testa della bambola, si spostò sulla testa della sorellina. Mormorò tristemente: “Lo so che non ti piace, ma devi accettarla comunque. Forse questo sarà l’ultimo regalo che nostro padre ti farà.”
Hanabi sbiancò: le vennero alla mente le sfuriate e i rimproveri che Hiashi rivolgeva a sua sorella. Per un secondo si vide al posto di Hinata, la testa china e gli occhi lucidi.
Come per scacciare quel pensiero dalla testa, Hanabi si alzò dal letto e corse fuori dalla stanza, non senza aver rivolto un sorriso malinconico a Hinata, che le rispose allo stesso modo.
Hanabi corse fuori dalla casa, fino a giungere al portone di villa Hyuga. Qui si fermò indecisa: non sapeva nemmeno perché era corsa via.
Molto probabilmente per non mostrare a Hinata le lacrime che le scendevano sul viso.
Tirando su con il naso, si diresse a passo deciso verso il portone. Lo spalancò, faticando non poco, e uscì dalla proprietà del clan. Stava per dirigersi verso il parco, dove avrebbe potuto distrarsi, quando per poco non inciampò su un pacchetto per terra.
Stupita, lo prese in mano; era piccolo, schiacciato e lungo. Non pesava molto, anzi riusciva a reggerlo con una mano sola.
Sulla carta che avvolgeva l’oggetto all’interno, c’era scritto a lettere chiare e tremolanti “HANABI”.
La bimba ebbe un tuffo al cuore, e scartò in fretta e furia il pacchetto.
Non appena vide il regalo, nuove lacrime caddero sulle sue guance, che raggiunsero una tonalità rosso fuoco.
Un dolce sorriso le si spalancò sulle labbra, mentre il suo corpicino esile veniva scosso dai singhiozzi.
Nelle sue mani stringeva una fionda.

 

Ti darei gli occhi miei
per vedere ciò che non vedi.
L'energia, l'allegria,
per strapparti ancora sorrisi.
Dirti sì, sempre sì,
e riuscire a farti volare,
dove vuoi, dove sai,
senza più quel peso sul cuore.

Il commesso del negozio fissò preoccupato il ragazzino che si era incantato a fissare la vetrina piena di giocattoli.
Erano ormai due ore che stava fermo in quella posizione.
L’uomo stava per uscire ad accertarsi dello stato di salute del ragazzo, quando questi entrò nella bottega.
“Salve…”, mormorò, un sorriso malinconico sulle labbra. “Non è che per caso avreste una fionda?”

NdA

Ed eccoci con il secondo capitolo di "A good deed". Hanabi è apparsa, come promesso, insieme a Hinata.

Nel secondo capitolo invece, quando si dice che i ninja durante la loro infanzia non hanno giocattoli, ho inventato.
Non so se è vero, però ipotizzo sia così.
O armi vere, oppure dei kunai e degli shuriken di plastica.
Ah. Kazuo, Emi e sua mamma sono miei OC. Come il commesso.

Ho scritto così nelle note in fondo all'ultimo capitolo.

Ringrazio tantissimo chi ha inserito la storia tra le seguite e le preferite.

Shizue Asahi: grazie mille, neechan. ^^ Sono felice che ti sia piaciuta la parte della borsa: una strofa della canzone parla di una valigia, ma non penso avrebbe reso l'idea. ^^° Probabilmente a Konoha c'è una diversa forza di gravità: solo per questo i suoi abitanti hanno dei capelli così...strani. xD Spero che anche questo capitolo (che in tutta sincerità è il mio preferito) ti sia piaciuto e ti abbia tenuta appesa. xD A presto, un bacio! (P.S. in realtà non so se Konohamaru è orfano: i suoi genitori non sono mai apparsi, proprio come quelli di Sakura. Mah. Comunque concordo con te: questo bimbo ha tutte le sfighe del mondo. ç_ç)

MiCin: neechan, grazie mille! Sono felice che tu sia felice per me. xD Per me la KonoHana è come la NaruHina: se ci pensi, sono collegati. +_+ Ok, basta con le mie ipotesi. xD Anche a me piace tantissimo Konohamaru....povero bimbo. ç_ç Spero ti sia piaciuto anche questo capitolo! ^^ Baci

LalyBlackangel: sensei ** Grazie davvero. Come sopra, sono contenta che tu sia contenta. Ho visto che hai messo la storia tra le seguite: grazie ** Un bacio Laly! ^^

Bene, ho concluso.
Spero vi sia piaciuto. ^^°

Bye.
Vale

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Capitolo 3
*** Heroes' son ***


A good deed 3

Cap. 3. Heroes’ Son

 

Nasconderti le nuvole
e quell'inverno che ti fa male.
Curarti le ferite e poi,
qualche dente in più per mangiare.
E poi vederti ridere,
e poi vederti correre ancora.
Dimentica, c'è chi dimentica
distrattamente un fiore una domenica
e poi... silenzi.

Hanabi si era svegliata presto, quel giorno.
Inizialmente, mentre faceva colazione nell’enorme cucina deserta, non capiva il motivo di quel senso di colpa misto a una tristezza che non provava da tantissimo tempo.
Si riscosse un poco quando Neji entrò nella stanza.
“Buongiorno, Hanabi…”, mormorò lui, avvicinandosi al tavolo dove sedeva la dodicenne.
“Ciao, Neji…”, borbottò in risposta, la bocca piena di biscotti. Sapeva che era maleducazione parlare a bocca piena, ma sinceramente in quel momento non le importava.
Il cugino sembrò ignorare la maleducazione della ragazzina, perché, dopo aver afferrato una ciotola che stava su una mensola, si sedette davanti a lei, la solita espressione di ogni Hyuga, e le chiese di passargli il latte.
I due mangiarono in silenzio, come al solito. Neji non era il tipo di persona con cui chiacchierare amabilmente, Hanabi lo sapeva bene.
Tuttavia, gli domandò: “Neji, sai dov’è Hinata?”
Il ragazzo rispose, dopo aver finito il suo latte: “Si è svegliata molto presto, stamani. Mi ha detto che sarebbe andata ad aiutare Sakura con i preparativi.”

Preparativi?
“Scusa, Neji…preparativi per cosa?”, domandò Hanabi, poggiando la tazza mezza vuota sul tavolo.
Il ragazzo la fissò, lievemente stupito. “Dovreste ricordare, Hanabi. Dopotutto, avevate sette anni…”
La ragazzina iniziò a stizzirsi: non sopportava quando non le veniva svelato subito qualcosa, ed era certa che se Neji non si fosse spicciato gli avrebbe tirato in testa gli ultimi residui di latte presenti nella sua ciotola.
“In questo giorno, circa cinque anni fa, Konoha è stata presa d’assalto da Suna. Proprio oggi si ricorda la morte del nostro terzo Hokage, Sarutobi Hiruzen, Hanabi.”, disse Neji, duro e schietto.
Alla cugina mancò il fiato: in quello stesso momento, l’immagine di un bambino dall’aria sbruffona e un sorriso accattivante si presentò nella sua mente.

Konohamaru.
Hanabi rimase di sasso per qualche secondo, mentre Neji si alzò e ripose la tazza sporca nel lavello.
“Ora perdonatemi, ma devo raggiungere TenTen per gli allenamenti. Vi auguro una buona giornata, Hanabi.”
Detto questo, se ne andò, lasciando la cugina a combattere con i fantasmi del passato.
Nella grande cucina vuota cadde un silenzio di tomba.
Un silenzio carico di sorpresa, stupore.
Perché Hanabi, nonostante tutto, non aveva dimenticato quel giorno.
Perché in quella domenica di tanti anni fa aveva compreso di poter essere se stessa, senza aver paura degli altri.
Perché là, in quel lontanissimo 27 marzo, aveva capito cos’è l’amicizia. E l’affetto.
Tutto questo, in un silenzio.

 
E poi... silenzi..
Silenzi
...

Non sapeva nemmeno dove l’avessero sepolto.
Questo era un piccolo particolare che Konohamaru non aveva mai tenuto in considerazione.
Ogni anno si riprometteva di scoprirlo, di venire a sapere dove il suo nonnino riposava in eterno.
Ogni anno si dimenticava.
Perciò era lì. Come sempre, in quel giorno.
La lapide commemorativa, incisa quasi completamente con i nomi dei grandi eroi di Konoha, si stagliava di fronte a lui. Era consumata, si vedeva a occhio nudo.
D’altronde era lì da più di sedici anni, e tutti, prima o poi, erano stati costretti a fargli una visita e a piangervi sopra.
Era il turno di Konohamaru, ora.
Il ragazzino si avvicinò alla pietra, posando la fionda nuova nella borsa logora e ponendola sotto di questa, come fosse un dono.
Si inginocchiò per mettere a fuoco i nomi dei grandi ninja deceduti per il Villaggio della Foglia. Li lesse mentalmente, pregando per loro.
Come ogni anno, un moto di stizza lo invase quando terminò di leggere.
Il nome di suo nonno non c’era.
Sapeva che tutti a Konoha lo consideravano più di un eroe, tuttavia avrebbe voluto avere la testimonianza di quanto loro tenessero a lui.
Perché il suo nonnino ci teneva, a loro.

 
 

“Nonno…”
“Sì, Konohamaru?”
“Perché siamo qui?”, chiese il bambino, dopo un attimo di incertezza.
Erano nel parco di Konoha. Konohamaru era inizialmente entusiasta: pensava che il nonno lo portasse a giocare, e per questo aveva invitato anche Moegi e Udon, due suoi nuovi amici, per giocare ai ninja e tendergli delle imboscate.
Invece, quando l’uomo lo aveva condotto lontano dal punto di ritrovo dei tre amici, in mezzo al boschetto del parco, era rimasto deluso.
Non capiva cosa avrebbe potuto fare con quella pietra obliqua che stava lì, immobile. Come qualsiasi altra pietra.
Eppure il nonnino sembrava tenere molto a quel masso, perché gli si avvicinò e la carezzò.
“Vieni qui, Konohamaru.”, aveva detto, invitandolo con una mano a venire più vicino a lui.
Il bimbo obbedì. Non appena si avvicinò, il nonno gli spinse con forza la testa verso il basso, per farlo inginocchiare.
“Ahia…”, bisbigliò il bambino, sbuffando.
“Leggi i nomi che sono incisi qui sopra, per favore.”, disse il nonno, con un sorriso dolce. “Capirai quanto questo inutile masso sia importante per Konoha e per tutti noi. Anche per te.”
Il bambino iniziò a leggere, imbarazzato: non capiva ancora come suo nonno riuscisse sempre a leggere i suoi pensieri.

 

Uchiha Obito.
Konohamaru sbadigliò: era più di un’ora che leggeva quei nomi, inginocchiato sui fiori che avvolgevano tutto il perimetro della pietra.
Umino Kanko.
Probabilmente Moegi e Udon si stavano chiedendo dove fosse finito.
Sarutobi Sanjiro.
Non voleva certo fare una brutta figura con i suoi due nuovi…
Konohamaru spalancò gli occhi. Poi tornò al nome che aveva appena letto.

Sarutobi Sanjiro.
Il bambino sbiancò, gli occhi iniziarono a pungere.
Sotto Sanjiro, un altro nome da lui ben conosciuto.

Enoki Nayoko in Sarutobi.
Konohamaru sentiva le lacrime scendere sulle guance, ma non si preoccupò di fermarle.
Sanjiro e Nayoko. I suoi genitori erano su quella lapide.
Scoppiò a piangere. Il corpicino del bambino era talmente scosso dai tremiti che dovette aggrapparsi alla lapide –era una lapide, l’aveva capito anche senza conoscere il termine “lapide”- per non cadere.
Il nonno, che era rimasto in piedi accanto a lui per tutto il tempo, prese il bambino in braccio e lo abbracciò.
“Nonno…nonno…mamma e papà sono…sono…”, balbettò Konohamaru, incapace di dire altro.
“Shhh, Konohamaru. Tranquillo, tranquillo. E scusami, piccolo.”
Il bambino si rizzò, tenendo le mani sulle spalle dell’uomo in modo da fissarlo in viso. Le lacrime scendevano ancora.
“S-scusarti, nonno?”
L’uomo annuì, intristitosi. “Sì, Konohamaru. Scusarmi perché sono un vecchio stolto e insensibile che non ha mai rivelato al suo unico nipote che i suoi genitori sono due eroi di Konoha.”
Il piccolo lo guardò a lungo, gli occhi sgranati pieni di lacrime. Poi abbracciò stretto stretto il nonno.
“Nonno…tu non devi scusarti. S-so quello che pensavi, che ero piccolo quando se ne sono andati, e che n-non potevo capire,  c-che…”
“Shhh, Konohamaru, shh. Ora tranquillizzati, c’è qui il nonno con te. Ci sono io con te…”

 

 

Sei anni dopo, in quello stesso posto, lo stesso bambino era cresciuto.
Era un ragazzo ormai. Però piangeva, perso nei dolorosi ricordi.
E non c’era nessuno a consolarlo.
L’unica persona che potesse farlo era proprio quella per cui stava piangendo.

 

Nei giardini che nessuno sa
si respira l'inutilità,
c'è rispetto e grande pulizia,
è quasi follia.
Non sai come è bello stringerti,
ritrovarsi qui a difenderti,
e vestirti e pettinarti sì,
e sussurrarti non arrenderti.

 
”Allora ti sei calmato, Konohamaru?”
Il piccolo rispose con un sorriso raggiante.
“Sì, nonno! Sai una cosa? Sono proprio contento che tu mi hai portato qui a vedere quella pietra!”
L’Hokage sospirò. “Konohamaru, devi dire: sono proprio contento che tu mi abbia portato qui a vedere quella pietra! Ogni giorno che passa perdo sempre più fiducia nei metodi d’insegnamento di Ebizu…”
“Ehilà, ciao!”, esclamò all’improvviso il bambino, staccando la sua mano da quella del nonno e correndo come un matto verso due bambini. “Scusate il ritardo, ma ero con il nonno!”
“Ciao Konohamaru! Era proprio ora che arrivassi!”, borbottò una bella bimba dai capelli arancioni, mentre l’altro, con i capelli castani a scodella, gli occhiali sul naso e lo sguardo insonnolito, annuì.
“Eh, scusami Moegi…il mio nonnino mi ha fatto sapere che i miei genitori erano due grandi eroi di Konoha, lo sapete?”, disse Konohamaru, gli occhi luminosi di contentezza.
“Davvero?!”, esclamarono all’unisono gli altri due, allungando in maniera esorbitante la e.
Il bambino fece sì con la testolina, ridacchiando fiero.
Quello mezzo addormentato, guardando dietro l’amico, disse con voce nasale: “Senti, Konohamaru…tuo nonno è quello là?”
L’altro seguì il dito che l’occhialuto aveva steso, e che indicava proprio il suo nonnino, che si era appena seduto su una panca e che proprio in quel momento li salutava cordiale.
“Sì, è lui! È il nonno migliore del mondo, sapete?”, bisbigliò per farsi sentire solo dai suoi amici , tutto fiero.
Quello?!”, esclamò disgustata Moegi, guardando il vecchino che le sorrideva. “Mamma mia, com’è rugoso e brutto! Sei sicuro che non sia un barbone, Konohamaru?”
La risposta dell’amica lasciò il bambino di sasso. Si voltò a guardare l’uomo, che in quel momento stava salutando alcune persone, e sentì crescere dentro di sé la rabbia.
Moegi, non contenta, proseguì: “Insomma, guardalo! Per me non ha nemmeno un dente…non ho ragione, Udon?”
L’occhialuto, fissando prima la bambina, poi Konohamaru, abbassò lo sguardo, intimidito da quella cattiveria gratuita.
“Io mi vergognerei se fossi in te, Konoham…”
Che ne sai tu?!”
Moegi rimase di stucco: senza accorgersene, il bambino davanti a lei aveva iniziato a gridare, gli occhi lucidi di pianto.
“Lo conosci meglio di me, per caso?”, sbraitò Konohamaru, infuriato. “Per caso lui ti saluta ogni mattina, ti porta a pranzo, a cena…ti da il bacio della buonanotte? Moegi, dimmelo!”
La bambina sbiancò, anche lei sull’orlo di un pianto isterico.
“Tu non…non sai niente del nonno…io sono l’unico abitante di Konoha che lo conosce davvero!”, continuò il bimbo, con il naso gocciolante di moccio. “E tu non puoi p-permetterti di dire quelle cose su di lui perché io…io…”
Sentì sotto le sue ascelle due mani rugose che lo sollevarono da terra, e si ritrovò in braccio all’Hokage.
“Su, Konohamaru, su…calmati, ci sono qui io.”
Il bambino chiuse gli occhi, tranquillizzato dai passi che il nonno faceva. Si stavano allontanando dal parco, da quell’antipatica di Moegi e da Udon che non aveva detto niente in difesa dell’uomo che in quel momento gli carezzava la testa e lo ringraziava.
Che strano, pensò Konohamaru, chissà come mai anche la faccia del nonno è bagnata…
Questa tenera domanda e tutte le lacrime che cadevano sul volto di quel bambino e di quel vecchio vennero inghiottite dal buio.

 
Nei giardini che nessuno sa,
quanta vita si trascina qua,
solo acciacchi, piccole anemie.
Siamo niente senza fantasie.

Nda

Cielo, questo capitolo è davvero angosciante. Me ne rendo conto solo ora. °°

Chiedo perdono per l'immenso ritardo di questo capitolo, ho troppi impegni in questo periodo. >>'

Piccola specificazione: i genitori di Konohamaru e il padre di Iruka (quel Kanko lì, insomma xD) sono miei OC, dal momento che non si sa pressochè niente su di loro. Certo, si sa che i genitori di Iruka morirono durante l'attacco di Kyuubi...ma il povero Konohamaru?

Mah. Quel bambino è perseguitato dalla sfiga. >>

Passiamo ai ringraziamenti ^^

Rinalamisteriosa: ...TU? Tu che commenti una MIA storia?! Oh Cielo d'Alcamo. °///°

Anch'io adoro 'Nei giardini che nessuno sa': è una canzone davvero triste, ma che mi piace cantare spesso. E l'ho sempre associata ai 'vecchi' di Naruto - all'inizio avevo intenzione di parlare di Jirayia, pensa. xD

Io amo il personaggio di Hababi, proprio tanto. E non so nemmeno perchè.

Comunque sia, penso che sia molto diversa da Hinata. Molto diversa. So che qui non si nota per nulla - era la prima volta che le davo un ruolo così importante - , però sto scrivendo una Long in cui è molto ma molto ma molto ma molto ma molto ma molto più str...ehm, cattivella. ^^'

Grazie mille per i complimenti, davvero. Quando ho visto il tuo commento mi brillavano gli occhi. *_*

So che questo capitolo è davvero molto angosciante, comunque spero ti sia piaciuto.

A presto e grazie! Un bacio <3

MiCin (ovvero AngelEcate, ma vabbè xD): cara Nee, mi sto stufando a ringraziarti di tutte le recensioni che mi lasci xD
No scherzo, le adoro. <3

Guarda, se ti faccio diventare KonoHana-dipendente, ti faccio una statua d'oro.
Ah, e ti scrivo anche una SasuTen. xD

A presto, Nee. E grazie ancora. <3

Ringrazio anche tutti coloro che hanno messo la storia tra i preferiti, tra le seguite o che ha letto e basta.

Ogni critica sarà ben accetta, così come ogni commento. ^^

Al prossimo - e ultimo - capitolo!

Vale

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Capitolo 4
*** Vandalic Act of Love ***


A good deed 4

Cap. 4: Vandalic Act of Love

Sorreggili, aiutali,
ti prego non lasciarli cadere.
Esili, fragili,
non negargli un po' del tuo amore...
Stelle che ora tacciono,
ma daranno un senso a quel cielo.
Gli uomini non brillano,
se non sono stelle anche loro.


Hinata stava per sentirsi male.
E questa volta Naruto non c’entrava proprio nulla.
Appoggiò la mano sinistra allo stipite della porta, posò la destra contro la schiena dolorante, una smorfia sul viso.
Quando si metteva d’impegno, Sakura si trasformava in un mostro.
Lei e Ino avevano dovuto fare per almeno venti volte la strada dall’ufficio dell’Hokage al fioraio Yamanaka.
Trasportando delle inaspettatamente pesantissime scatole zeppe di fiori.
Sebbene la Hyuga li amasse alla follia, li avrebbe volentieri lasciati cadere. Per sbaglio, certo.
Ma si era resa conto che sarebbe stata una cattiveria imperdonabile.
Sbuffò lievemente: dannazione, l’anno seguente avrebbe fatto di tutto per non finire di nuovo sotto le grinfie dell’Haruno.
Questo era certo.
Un singhiozzo la riportò alla realtà: qualcuno stava piangendo.
Hinata si precipitò in cucina, dove trovò un’Hanabi in lacrime. Davanti a lei, una tazza di latte ormai congelato.
Era in quella posizione da almeno cinque ore, e non aveva intenzione di schiodarsi da lì.
“Hanabi…”, mormorò la sorella, avvicinandosi alla dodicenne e abbracciandola.
La minore di casa Hyuga non riusciva a formulare una frase di senso compiuto nemmeno a pagarla. Continuava a ripetere le stesse parole in continuazione.
“Konohamaru…compleanno…nonno…fionda…regalo…fionda…”
“Hanabi, shh…calmati, piccola…” Hinata le carezzava la testa, senza sapere cosa fare.
Si alzò e si diresse verso i fornelli, dove iniziò a preparare un the.
Hanabi in tutta sincerità odiava il the, ma lasciò fare: non aveva la forza di reagire.
Si sentiva una traditrice. Per tutti quegli anni aveva ignorato senza volerlo l’anniversario della morte del terzo Hokage.
La morte del nonno di Konohamaru. E forse questo era ancora più grave.
Perché anche se non si frequentavano, anche se Hanabi era in un team diverso, loro due erano amici.
Dopo quella domenica di marzo non si erano più parlati, ma ogniqualvolta si incrociavano, sui loro visi appariva un sorriso carico di ricordi e malinconia.
Un bel sorriso che piaceva ad entrambi.
Eppure adesso lei non sapeva come farsi perdonare.
“Tieni, Hanabi.”
Una zaffata di vapore colpì in viso la dodicenne, che storse il naso tra i singhiozzi.
Hinata si sedette davanti a lei, non senza qualche smorfia e molti gemiti di dolore, dovuti al lavoro incessante della mattina.
Quanto aveva lavorato lei, per onorare la memoria di quell’uomo?
Nemmeno un secondo.
Una lacrima finì dritta nel liquido ambrato, facendo sbuffare Hinata.
“Ecco, ora è imbevibile.”, borbottò, spostandolo su un’altra parte del tavolo.
“S-scusami…”, mormorò Hanabi, senza smettere di piangere.
“Ehi.” Hinata la fissava sorridendo. “D’altronde, le sorelle minori vengono al mondo solo per rovinare i piani delle sorelle maggiori, no?”
Hanabi ridacchiò. Poi sollevò lo sguardo ancora umido verso Hinata, e fu come specchiarsi in uno specchio.
Occhi uguali ai suoi la fissavano. Le imploravano di confidarsi, di svelare il motivo di quel pianto disperato.
Prese un profondo respiro, poi iniziò a parlare, senza che la maggiore chiedesse qualcosa.
Raccontò di Konohamaru, della fionda, di suo nonno, del compleanno. Parlò senza quasi prendere fiato. Ogni parola fuoriusciva dalle sue labbra automaticamente, come se fosse sempre stata lì pronta ad essere svelata.
Quando terminò, si accorse che il sorriso di Hinata era immutato.
Cadde un lungo silenzio, durante il quale la dodicenne si chiese se sua sorella aveva davvero ascoltato tutto o la stava solo prendendo in giro.
“Hanabi…”, disse in un soffio Hinata.
No, aveva sentito tutto.
“…comprendo il tuo rimorso. È naturale che tu ti senta in colpa nei confronti del tuo…amico, chiamiamolo così.”
Hanabi credette di vedere un lampo di malizia in quegli occhi sempre buoni e gentili, ma non ne tenne conto: la cosa che la preoccupò invece fu quello sgradevole rossore che le avvolse completamente il viso.
La sedicenne davanti a lei sembrava trovare molto divertente quel fatto, come se le parti per una volta si fossero scambiate.
“Tuttavia, Hanabi”, riprese Hinata, “non hai motivo di piangere, perché tu sei sempre stata accanto a Konohamaru.”
La Hyuga minore sgranò gli occhi: com’era possibile?
“Esatto. Non pensi che ogni anno, in questo giorno, lui non ripensi a tutti i bei momenti passati con suo nonno? Beh, in uno di questi ci sei anche tu. E a quanto pare, lui se ne ricorda ancora. Altrimenti non ti sorriderebbe in quel modo ogni volta che lo incrociamo.”
Hanabi sentì le guance esplodere: si era accorta anche di quello.
La maggiore aveva teso una mano, e l’aveva posata sul braccio della minore. Un sorriso dolcissimo le si spalancò in viso.
“Non devi preoccuparti”, disse. “Lui non ti odia, se è questo che pensi.”
“Ma no, non è per quello che piangevo!”, esclamò Hanabi, ritrovando la voce. “Io stavo male perché…”
“…non hai avuto modo di consolarlo in questi anni?”
La dodicenne rimase di sasso: ma come cavolo faceva quella ragazza a sapere tutto di lei?
Poi ci arrivò: Naruto.
Hinata si era alzata nel frattempo e le era venuta accanto. “In questo caso, ho solo una cosa da chiederti.”
Si inginocchiò e sussurrò all’orecchio di Hanabi: “Cosa ci fai ancora qui?”
Hanabi spalancò gli occhi e la bocca nello stesso momento.
Nella sua testa apparve un solo unico pensiero, che la fece sorridere.
Hinata se ne accorse, perché le domandò: “Ehi, cos’è quel sorrisino?”
“Niente, niente!”, ridacchiò la sorella, alzandosi in piedi come una furia. “Penso che ora…”
“…uscirai, certo.”, concluse Hinata, rizzandosi dolorosamente. “Purtroppo finchè non mi dirai cosa ti ha fatto sorridere, te lo scordi, piccola.”
In risposta la dodicenne diede un bacio sulla guancia alla sorella e si diresse a grandi passi verso l’uscita.
Poco prima di oltrepassare la soglia, si girò. Hinata la stava fissando interrogativa.
“…pensavo che Naruto sia proprio uno stupido a non capire quanto sei mitica, sorellona.”
Detto ciò, sparì, lasciando Hinata in mezzo alla stanza stupita, a bocca aperta e completamente bordeaux in viso.

 

 
Mani che ora tremano,
perché il vento soffia più forte...
non lasciarli adesso no,
che non li sorprenda la morte.


Da quanto tempo era lì?
Dovevano essere passate ore, eppure gli sembrava di essere lì da pochissimo tempo.
Konohamaru sollevò lo sguardo: davanti ai suoi occhi, i nomi di suo padre e di sua madre.
Due eroi di Konoha.
Ma suo nonno non c’era.
Allora il ragazzo afferrò un kunai e iniziò a incidere sulla grande lapide commemorativa.
Fece parecchia fatica: l’arma non era affilata e la roccia sembrava acciaio.
Nel frattempo il sole era giunto allo zenit: era mezzogiorno, eppure non aveva fame. Che cosa strana.
Il caldo era atroce. La sua fronte e il suo viso erano imperlati da minuscole gocce di sudore, ma non se ne curò.
Era talmente occupato dal suo lavoro da vandalo/scalpellatore che non prese nemmeno in considerazione il fatto di poter avere un collasso.
Infatti è proprio quello che gli venne.
Mentre concludeva l’ultima n di Hiruzen, sentì mancare la terra sotto i piedi, tutto iniziò a girargli intorno e la vista gli si oscurò.
Era contento, però. Ora suo nonno era tra gli eroi di Konoha.

Siamo noi gli inabili,
che pur avendo a volte non diamo.


La prima cosa che sentì quando rinvenne fu una gradevole brezza fresca che gli accarezzava il viso.
Avrebbe tanto voluto afferrarla e tenerla stretta a sé, per non tornare al caldo sahariano di poco prima.
Sollevò una mano e a tentoni tastò quel venticello che colpiva in particolare la sua guancia sinistra.
Soltanto quando afferrò qualcosa capì che quello non era il vento.
Spalancò gli occhi, stupefatto. Davanti a lui, lei.
O forse è meglio dire sopra di lui.
Il viso di Konohamaru raggiunse una tonalità di rosso indescrivibile.
Quella che credeva fosse brezza e che aveva afferrato era la mano di Hanabi, talmente delicata e fresca da essere scambiata con il vento.
Il ragazzo tentò di tirarsi su a sedere, immediatamente bloccato dalla dodicenne.
“Che diavolo fai, Sarutobi? Hai appena avuto un collasso, stai sdraiato per qualche minuto ancora!”
Da quanto non sentiva la sua voce? Sei anni, sette?
“…v-va bene, Hyuga. Ai suoi ordini.”, rispose lui, un ghigno serafico stampato in viso.
Hanabi lo fulminò con lo sguardo. Poi distolse lo sguardo da lui, e lo puntò su qualcosa che sembrava molto lontano.
“Che stavi facendo?”, mormorò poi.
“Scusa?”
La ragazza alzò gli occhi al cielo. “Che stavi facendo prima di collassare sotto il sole cocente di mezzogiorno?”
“Ah…ecco, io…”
Konohamaru distolse lo sguardo, vergognandosi come un cane.
In fin dei conti, quello che aveva fatto era un semplice atto di vandalismo. Spiegarlo a lei però sarebbe stato alquanto difficile.
“Hai scritto il nome di tuo nonno sulla lapide.”
Per poco il ragazzino non si strozzò con la sua stessa saliva. Iniziò a tossire come un disperato, mentre Hanabi lo sollevava e gli teneva la schiena con una leggerissima mano.
“C-come fai a…”, tossì Konohamaru.
Hanabi sorrise. “Ho guardato, scemo. Solo tu potevi tentare un’impresa quasi impossibile come quella.”
Konohamaru non rispose. Rimase incantato da quel sorriso: era lo stesso che gli rivolgeva ad ogni loro incontro.
Però…stavolta c’era qualcosa in più.
Un qualcosa che lui non conosceva.
“…in più è un atto vandalico puro, lo sai?”, lo rimproverò Hanabi, picchiettandogli il naso.
Konohamaru scoppiò a ridere. “Lo so, Hanabi, lo so. Dovevo farlo, tutto qui.”
Hanabi tacque, senza nemmeno chiedere il motivo che l’aveva spinto a farlo.
Il ragazzo la fissò per qualche secondo, senza nemmeno accorgersene. Era cambiata tanto dalla bambina che aveva rifiutato la sua fionda, tanti anni fa. Era diventata più snella, più slanciata, più bella…
Puntò lo sguardo al cielo, imbarazzato. Come poteva pensare robe del genere su una femmina?!
“Tu non hai mai fatto niente di così…rischioso, Hanabi?”
La dodicenne fissò l’altro, sorpresa da quella domanda a bruciapelo. Poi sorrise.
“Sì, Konohamaru. L’ho fatto.”
Il genin abbassò lo sguardo su di lei, mentre ripercorreva quello che aveva fatto nella mente.
“…posso sapere cosa?”
Hanabi in risposta si alzò in piedi e gli tese una mano. Konohamaru fissò prima la mano, poi Hanabi, poi di nuovo la mano.
“Andiamo, Sarutobi! Ti faccio vedere cos’ho fatto!”, sbottò lei, stizzita.
Un poco insicuro, il ragazzo afferrò la mano bianca davanti a lui. Si sentì subito meglio.
Stava tenendo una ragazza per mano. Udon sarebbe certamente morto di invidia.

 
Dimentica, c'è chi dimentica,
distrattamente un fiore una domenica


“Pensi di essere spiritosa, Hyuga?”
Konohamaru era stizzito, irritato e anche un bel po’ furioso. La kunoichi l’aveva portato esattamente davanti alla lapide commemorativa.
Hanabi lo fulminò con lo sguardo, poi si chinò sulla pietra. Ignorò la borsa, poggiata lì a sua insaputa proprio dal ragazzo alle sue spalle, e iniziò a sfiorare con il dito i nomi di tutti gli eroici abitanti della Foglia, fin quando non si fermò.
“Guarda un po’ qui, Sarutobi.”, disse poi, fissandolo con aria di sfida.
Konohamaru sbuffò e si inginocchiò, proprio come tanti anni fa. Puntò lo sguardo sul nome che Hanabi indicava, e rimase allibito.

Baisotei Misako in Hyuga.
Quella doveva essere per forza…
“Quello che stai leggendo proprio ora è il nome di mia mamma. È morta mettendomi al mondo.”
Konohamaru si voltò di scatto verso Hanabi, che gli sorrideva.
“Se guardi bene, vedrai che ho compiuto il tuo stesso atto vandalico. Ero una bambina quando l’ho fatto, però è quasi perfetto.”
Il ragazzino passò un dito sulla scritta: era scavata, si sentiva bene. Spiccava da tutte le altre, in rilievo.
“Sai una cosa?”, bisbigliò Hanabi, carezzando la pietra. “Questo era il mio piccolo segreto. Nessuno lo sa, oltre a me…e a te, ora.”
Konohamaru era senza fiato, fiero per tutta quella fiducia immeritata. Quando ritrovò la voce, fece una domanda orrendamente stupida.
“Scusami, ma perché l’hai fatto?”
Quando percepì il peso del pugno sulla sua testa, ormai era troppo tardi.
“Ahia! Hyuga, dannazione!”, esclamò, portandosi entrambe le mani alla testa.
“Così impari a rispettare gli altri, brutta scimmia*!”, rispose la dodicenne, incrociando le braccia.
Konohamaru sbuffò: ora capiva perché sia lui che Naruto non avevano successo con le ragazze…
“Lo vuoi davvero sapere?”
La domanda di Hanabi lo pietrificò: la ragazza lo stava fissando interrogativa, in attesa di una risposta.
Il genin annuì. L’altra allora prese un lungo respiro, come ogni volta che doveva introdurre un discorso lungo.
“Misako, mia madre, era una bravissima donna. Era buona con tutti, amava mio padre e Hinata con tutto il cuore. Quando ha saputo di essere di nuovo incinta, il suo cuore scoppiò di gioia. Mia sorella mi ha raccontato che andava in giro per casa saltellando come una bambina.”
Un sorriso malinconico apparve sul viso di Hanabi.
“Poi ha scoperto di essere malata. Si è subito impaurita, non perché avrebbe potuto perdere la propria vita, ma perché rischiava di perdere me. I medici l’hanno costretta ad una scelta: la sua vita o la mia. Già sai cosa ha scelto.”
Konohamaru trattenne il respiro: gli occhi della ragazza si erano fatti lucidi.
“Ha scelto lei il mio nome: il clan Hyuga aveva deciso di festeggiarla con un grande spettacolo pirotecnico**. Ha sorriso, ha sussurrato Hanabi ed è…”
Cadde un profondo silenzio. Hanabi tentava di ricacciare indietro le lacrime, mentre Konohamaru non aveva la più pallida idea di cosa avrebbe dovuto fare in quel momento.
Avrebbe tanto voluto abbracciarla, consolarla come faceva il nonno.
Ma forse lei non avrebbe gradito.
Preferì allora afferrarle la mano e stringerla lievemente, come per infonderle coraggio.
La kunoichi se ne accorse e sorrise. Riacquistò la sua aria altezzosa e disse: “Ora capisci? Per me lei è al pari di tuo nonno.”
Un altro lungo silenzio cadde dopo quelle parole. Le loro mani rimasero unite, si infondevano calore a vicenda.
All’improvviso, Hanabi incominciò a ridacchiare, prima lievemente, a bassa voce, fino poi ad arrivare a ridere di gusto.
Il ragazzo la fissò stralunato: perché ora rideva?
“Scusami, Konohamaru…”, disse lei, cercando di sembrare seria. “Mi è solo tornato in mente il passato.”
“Tu lo trovi tanto divertente, il passato?”, sbottò lui, con un’involontaria nota astiosa nella voce.
La ragazza smise di ridere, ma un sorriso rimase sulle sue labbra. “No, hai ragione. Il mio passato è pieno di dolore e tristezza.”
Hanabi sollevò lo sguardo, fissandolo negli occhi neri del ragazzo.
“Io in realtà”, mormorò sorridendo, “stavo pensando al mio passato…con te.”
Konohamaru avrebbe desiderato enormemente tirarsi un pugno nei denti.
Non poteva arrossire, semplicemente non poteva.
“Forse non te ne ricordi nemmeno più”, continuò Hanabi, “ma io ho ancora quella fionda che mi regalasti, il giorno del mio settimo complean...”
La ragazzina smise di parlare: la faccia sbalordita e attonita di Konohamaru smorzò il suo discorso.
“C-come?! Ma se l’hai rifiutata, al negozio di giocattoli!”, esclamò, sbalordito.
Hanabi, altrettanto esterrefatta, scosse la testa. “No, scemo! L’ho trovata in un pacchetto davanti a casa mia!”
“Hanabi…”, mormorò Konohamaru, lo sguardo perso nel vuoto. “…io non so nemmeno dove abiti.”
Cadde un silenzio tombale. I due genin si fissarono a lungo negli occhi, cercando la risposta uno negli occhi dell’altra. Il bianco dentro il nero, il nero dentro il bianco.
Il ragazzo, quasi involontariamente, sollevò la mano libera e carezzò il nome di suo nonno, sulla roccia.

Sarutobi Hiruzen.
In quel momento entrambi capirono.

 
e poi... silenzi.

 

“Buongiorno, come posso…oh, signor Hokage!  Di nuovo lei?”
Il commesso si rialzò in piedi, causando un sorriso ironico sul volto del vecchio.
“Gliel’ho già detto prima: si sieda. Mi scusi se la disturbo ancora, ma…per caso ha una fionda?”
Il commesso lo guardò stupito. “Un’altra? Per caso suo nipote l’ha già rotta?”
L’Hokage sorrise, quasi scusandosi. “No, non è per quello…è solo per una sua amica, tutto qui.”

 

E poi... silenzi.

 

Hanabi trattenne il fiato, gli occhi iniziarono a bruciarle.
Konohamaru invece piangeva senza ritegno.

 

Siienzi...

 

“Konohamaru! Si può sapere dove sei stato?”
L’uomo assunse un finto atteggiamento arrabbiato. Il nipotino lo fissava, imbarazzato.
“Scusami, nonno…”, disse, passandosi una mano dietro la nuca. “Sono andato a trovare un mio compagno dell’Accademia, Udon. Ha la febbre, poverino.”
“Ah, capisco…”, rispose il vecchio, sorridendo. “E dov’è finita la tua fionda?”
Il bambino arrossì, e chinò il capo.
“Nonno, io…gliel’ho regalata. Scusami, lo so che non dovevo perché era un regalo tuo, ma…”
Sentì una mano passargli tra i capelli. Sollevò lo sguardo: il nonno gli sorrideva felice.
“Tranquillo, Konohamaru. Hai fatto molto bene.”
Il nipotino in risposta abbracciò l’uomo, che prese a carezzargli il capo.
“Nonno…”
“Sì, dimmi.”
“Tu cos’hai fatto tutto il pomeriggio?”
Il nonno aprì la bocca, poi la richiuse. Infine sorrise.
“Ho compiuto una buona azione, Konohamaru. Una buona azione, tutto qui.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 *= Saru in giapponese significa “scimmia”
**=Hanabi in giapponese significa “fuoco d’artificio”








NdA
E finisce qui 'A good deed', una delle storie che amo di più al mondo.
Perchè?
Perchè mi ha fatto scoprire la KonoHana. E ora ho deciso che riempirò EFP di KonoHana.
Perchè è stata la mia prima Long seria (no, 'La missione' non è da considerare seria).
Perchè Hiruzen non doveva morire. Questo è un tributo alla sua memoria.
Perchè amo i personaggi secondari, forse più di quelli primari.
Perchè ho usato 'Nei giardini che nessuno sa', una canzone che ascolterei in eterno e che mi piacerebbe portare su un palco, un giorno.
Perchè amo Hanabi.
Perchè amo Konohamaru.
Perchè adoro Hinata in veste di sorella maggiore.
Perchè fare apparire Moegi una vipera mi fa morire dalle risate.
Perchè era nata senza pairings.
Perchè non ha una fine.
Perchè è forse la migliore SongFic che ho mai scritto - e diamo un calcio alla modestia.
Perchè ha vinto il primo posto in un concorso, ma sono dettagli.
Perchè è il mio Marchio di Fabbrica.
Perchè 'A good deed' vuole dire 'una buona azione'.
Perchè sì.

Grazie di aver letto. Spero di avervi fatto capire perchè questa storia avrà sempre un ruolo speciale nel mio cuore. <3

Grazie alla mia Beta cara, Laly (lo so che ti piace, lo so xD salteranno fuori tante altre KonoHana, promesso!). a Rina-chan, che non è una persona normale, ma una grande scrittrice (hai ragione, è strano che Moegi e Udon non riconoscano l'Hokage. Non ci avevo pensato, grazie per avermelo fatto notare ^^' Mi dispiace per la tua perdita, grazie per le tue graditissime recensioni <3), alla Nee, AngelEcate, che ha classificato questa storia come 'il mio Marchio di Fabbrica' e che l'ha messa tra i Preferiti. <3


Grazie alla Nee, a Laly, a LupoGrigio, a Mamo_chan, a ninasakura e a Syra44 che hanno messo la storia tra le Seguite.

E grazie a voi, che in questo momento state leggendo. E se volete fare piacere a una scrittrice mediocre sull'orlo delle lacrime che si ascolta 'Il cerchio della vita', lasciate un commento.

Grazie ancora a tutti. Auguro ad ognuno di voi di trovare una fionda davanti a casa.
E insieme ad essa, la felicità. <3

Vale



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