Dependence

di eringad
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1# Dependence: Absinthium ***
Capitolo 2: *** Fama ***
Capitolo 3: *** Dependence: Forbidden Love ***
Capitolo 4: *** Capitolo avviso ***



Capitolo 1
*** 1# Dependence: Absinthium ***


1# Dependence: Absintium

Una raccolta senza pretese sulle varie dipendenze che si possono avere. Diciamo più un esperimento che altro.

Le ambientazioni sono nel nostro mondo e sparpagliate nel tempo.

Ecco la prima, incentrata su Neji e sul rapporto con la sua famiglia o meglio con le due donne della sua vita.

Introduzione: Seconda Guerra Mondiale; l’epoca del dolore, delle separazioni e della vita o della morte, la vita raccontata dagli occhi di un capitano, che si abbandona ai piaceri della sua droga per non dimenticare la sua vita.

1# Dependence: Absinthium

 

“L’Assenzio è un distillato ad alta gradazione alcolica all’aroma di anice derivato da erbe quali i fiori e le foglie dell’assenzio maggiore, dal quale prende il nome. Talvolta viene erroneamente definito un liquore, ma non lo è; essendo l’Assenzio prodotto da una trasformazione a caldo tramite alambicco e imbottigliato senza l’impiego di zucchero, perciò è classificato come distillato.”

 

“Sta zitto Neji! Chi se ne frega di quello che stai dicendo! È alcol, è buono, e questo basta.”

 

“Basta ai drogati e gli insulsi, come te Kiba. Questo non è solo alcol, questa è un’arte mortale.”

 

§§§

 

Durante quei tempi di guerra era a dir poco impossibile trovare un carico così ricco, pregiato e raro.

Però era successo. Kiba e Naruto avevano fermato una camionetta sospetta, credendo di trovarci sicuramente dei rifornimenti per le truppe tedesche, e invece avevano trovato quelle cinque casse.

Erano sicuramente destinate a generali, ufficiali o comunque di alto rango tra i nemici.

Incredibile come quei due fossero stati attenti a nascondere le casse, non farne parola con nessuno, soprattutto a me, il loro capitano.

Versai con cura e precisione il liquido verde dentro il bicchiere a forma di ampolla raggiungendo il segno limite.

Quei due bigotti avevano addirittura negato di averlo trovato loro quando li avevo scoperti in pieno, ubriachi fradici, in preda a visioni e tremori.

Una droga ardita, che sicuramente avrebbe fatto gola a qualsiasi soldato, di qualsiasi nazionalità, durante quei tempi bui.

Perché ognuno ha bisogno di poter dimenticare i propri dolori, le proprie ferite, e distrarsi da questo mondo infame, lasciando scivolare il dolce veleno dentro sé.

Per sopravvivere.

Presi un cucchiaino specifico appoggiandolo sopra il bicchiere, in bilico. Era strano, piatto, largo nella testa, quasi come una spatola, e traforato con decorazioni varie.

Mio zio, Hiashi, mi aveva insegnato a dosare e a preparare questo distillato nel modo più adatto. Quando ancora ero giovane, quando ancora ero accettato.

Avevo imparato che per ogni gesto, oggetto, parola, c’è il momento giusto.

Il problema viene da sé, quando più momenti si accavallano.

La guerra, la famiglia, la malattia, la vecchiaia.

E Hiashi non aveva trovato soluzione più giusta che sbattermi fuori dalla sua famiglia, dentro un’accademia militare in Irlanda.

Lo maledii, ogni secondo della mia giornata. Quando ero costretto agli esercizi più disparati, a studiare tattiche per la guerra che sarebbe arrivata presto, quando la notte mi aggrappavo al corpo di quell’operaia da quattro soldi molto inferiore del mio rango.

Maledii lui, e quella debole di sua figlia. La polmonite l’aveva colpita e aveva costretto la nostra nobile famiglia a sperperare i nostri soldi in cure inutili e inappropriate.

Versai l’acqua ghiacciata sopra la zolletta che avevo posto sopra il cucchiaio, facendola disciogliere piano, colorando il verde di un bianco perlaceo.

Come la sua pelle, bianca, pallida, malata. La guardavo con astio, rinchiusa nel suo letto, quando prendevo la licenza dall’accademia.

E odiavo vederla inerme, tra le lenzuola bianche come il suo volto. Mi veniva la nausea.

Quando tornavo dall’Inghilterra trovavo sempre lei, lì davanti all’officina, ad aspettarmi a braccia aperte con quei suoi sorrisi gentili, Tenten.

Non le avevo mai chiesto niente, ed era sempre vicina per sorreggermi quando tornavo.

Presi tra le mani callose il bicchiere gelido con lo sguardo perso al di là delle pareti della tenda.

Bevvi d’un fiato il mio veleno abbandonando la testa oltre la spalliera.

Non l’avevo mai ringraziata e l’avevo sempre trattata con sufficienza. Voleva che tornassi in pace con la mia famiglia, che mi riavvicinassi a Hinata.

E per questo, quando tornavo, odiavo anche lei.

Quella vicinanza mi avvelenava dentro, diventavo ancora più chiuso, freddo e razionale di quanto già non fossi.

Chiusi gli occhi sentendo la testa girare, i contorni del soffitto di tela cominciarono a sfumare mentre socchiudevo le palpebre lasciandomi andare.

Solo quando ero solo, con quella mia droga riuscivo a farlo.

Chiudere gli occhi e abbandonarmi al tepore dei miei ricordi.

Quando da piccolo giocavo con mia cugina Hinata a palla, quando da giovane studiavo insieme a mio zio, quando da adulto affondavo la testa nella spalla di Tenten.

Piccoli scorci di vita serena, che in guerra mi sembravano così lontani, riaffioravano vividi nella mia mente.

Strinsi gli occhi sentendo un brusio fastidioso e improvviso.

Rialzai la testa di scatto sentendo una potente fitta di nausea salirmi fin dentro le narici, poggiai gli avambracci alle ginocchia aprendo gli occhi con una smorfia.

Una chioma bionda e una bruna della medesima lunghezza si agitavano confuse davanti all’entrata.

 

“…Ji…”

 

Digrignai i denti cercando di concentrarmi per riacquistare le mie facoltà.

Le voci confuse si infrangevano crudelmente contro le mie orecchie creando un frastuono insopportabile.

Scossi la testa lentamente agitando il mio cervello con le onde che mi scombussolavano.

 

“Neji ma che fai? Non ci aspetti per bere?”

 

“Se vuoi bere, prenditi una sedia e un bicchiere, non c’è ragione per cui tu debba scocciare me Kiba.”

 

Sentii il graffiante rumore del metallo strisciante contro la terra e le pietre. Mi coprii le orecchie con le mani storcendo il naso, riconobbi a stento le figure che sembravano Kiba e Naruto sedersi attorno al mio tavolo.

Mi gettai indietro con un po’ troppo slancio finendo dolorosamente con la schiena contro la spalliera.

Vidi confusamente altri due bicchieri accanto al mio, e guardai i miei due sottoposti.

 

“Prepara il cocktail micidiale Neji.”

 

Guardai male il moro e il suo amico che già aveva cominciato a straparlare, senza neanche aver bevuto.

Versai con calma il distillato nei tre bicchieri ripetendo metodicamente i gesti che ormai sapevo a memoria.

Girammo in contemporanea il cucchiaio a mescolare il liquido.

Come ogni sera.

Perché quando puoi, vuoi dimenticare di essere sul campo, di avere gente intorno che muore.

Versammo nelle nostre gole quella droga così dolce, sprofondando nel torpore, una, due, quaranta volte forse, non saprei dirlo con certezza.

I contorni sfuocati scivolavano nel verde, e piano sentivo anche la mia vita scivolare via con loro, nel verde.

 

Ancora, vedevo ancora lei, Tenten. Tra gli sperduti campi d’Irlanda, girare in tondo con un sorriso marcato sulle labbra, la vedevo abbracciare mia cugina, vestite di bianco, come due nuvole, eteree.

Allungai una mano per raggiungerle e vidi la mia mano rossa di sangue.

Le due dee mi guardarono inorridite scappando veloci come due gazzelle dove i miei occhi non potevano raggiungerle.

Rimasi lì, solo, ripudiato. Dalle due persone che più contavano per me.

È difficile ammetterlo, ma tutti, bene o male, siamo soli.

Siamo soli nel bisogno, nella vita, e accanto a noi ci sono solo persone che ti sfiorano da dentro per poi abbandonarti.

Chiusi gli occhi tremante. Ripetendo parole a vanvera, senza neanche capire io stesso cosa stessi dicendo.

Mi trovai sul pavimento, non capendo come c’ero arrivato, aprii le palpebre guardando il soffitto verde.

Non erano loro ad avermi abbandonato, ero io ad aver abbandonato loro.

Un conato mi travolse facendomi girare da un lato. Rigettai sulla terra nuda, infilando le mani nel terriccio crudo.

Stranamente però, non sentii il nauseante odore che caratterizzava quel gesto, ma il profumo dei suoi capelli corvini mi avvolse.

Era un odore dolce ma pungente, come di frutta fresca, ancora acerba.

Hinata…

Il suo profumo era sempre stato buono. Mi piaceva molto da piccolo dormire con lei, perché mi sdraiavo lì accanto e respiravo a pieni polmoni quella droga che era il profumo dei suoi capelli.

Rimasi lì, assaporando quel dolce profumo, prima di ricadere in un baratro vuoto, senza odori, senza luce, senza suono.

Mi rigirai su me stesso sentendo i miei muscoli in preda agli spasmi peggiori.

Un tanfo orribile mi arrivò alle narici, quasi vomitai di nuovo, ma un suono mi tenne occupato il corpo e la mente da quella fine.

Una risata cristallina, dolce e solare. Come uno scrosciare d’acqua in primavera.

Tenten…

Chiusi la mente ai suoi ricordi. Non volevo vederla, non in questo stato.

La testa girava vorticosa, mi coricai supino sentendo delle voci ovattate sopra di me.

pan>

 

“…pitano! …taccano! …alzi!...”

 

Chiusi gli occhi ancora una volta, sentendo svanire – troppo lentamente per i miei gusti – l’effetto di quella droga in corpo.

Guardai i miei sottoposti agitarsi per alzarmi da terra e poggiarmi sul letto.

 

“Capitano! Ci attaccano! Cosa dobbiamo fare?”

 

Guardai quel giovane sbarbato che mi teneva la testa tra le mani prima che cadesse nel vuoto.

Troppo giovane per morire. Probabilmente doveva ancora sposarsi, avere dei figli.

E io, io non potevo ancora morire.

Prima dovevo sistemare le cose con Hinata. Prima dovevo sposare Tenten. Prima dovevo salvare tutti loro.

Con una smorfia di disappunto mi alzai cercando la lucidità tra le nebbie che oscuravano il mio cervello.

Guardai la cartina orientandomi a malapena sotto il frastuono che producevano le bombe che colpivano il terreno attorno alla tenda.

Ce la dovevo fare.

Non potevo ancora morire.

§§§

Un uomo che non vuole dimenticare, che non vuole morire.
Classificata al sesto posto al Poison Contest indetto da PansyMalfoy che ringrazio sentitamente.
Un grandioso applauso alle podiste e a voi lettori che vi siete fermati a leggere fino alla fine ^^
Se volete lasciate un commento ^^

Bye Bye

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Capitolo 2
*** Fama ***


Fama

Seconda shot per questa raccolta ^^

Ringrazio tutti coloro che hanno letto anche la prima e che leggeranno questa ^^

Ecco a voi siore e siori un viaggio indietro nel tempo fino a raggiungere un’epoca sconosciuta, in Spagna.

Orochimaru e Kabuto, come toreri, e la loro dipendenza... Diversa.

Orochimaru, il torero, dipendente dalla fama, dalla gloria e dall’immortalità.

Kabuto, il suo allievo, dipendente da lui.

 

Questa fic ha passato il primo turno del Piramidy Contest indetto da ShiIta.

Ringrazio la giudice per il suo splendido giudizio *_*

E naturalmente complimenti a tutte le partecipanti, sia chi ha passato il turno sia chi no.

Siete magnifiche!

 

Ecco la fan art cui dovevo ispirarmi:

 

 fan art OrochimaruXKabuto

 

Buona lettura! ^^

 

Fama

 

 

« Da quanto tempo stai qui ragazzo? »

« Cinque anni… I cinque anni più lunghi della mia vita… »

Guardai il bicchiere sporco e il rhum al suo interno mescolarsi sinistro.

Spostai lo sguardo lungo il bancone logoro e incrostato di alcol colato dai bicchieri.

Un luogo tutt’altro che silenzioso, ma preferivo così.

Niente cui pensare, solo per quel momento.

« Ha visto la corrida señor? »

Sentii una lama fredda scivolarmi tra le costole, come fosse ghiaccio.

Lo sentii continuare sul come e quando il toro era riuscito a infilzare il torero.

Strinsi la mano sul bicchiere di vetro grezzo bevendo d’un fiato il liquore nel bicchiere.

Lanciai due pesos sul bancone scivolando nel mio mantello nero e uscendo dal locale senza proferir parola.

Non ne meritavano.

Non meritava un solo mio respiro quella feccia che infangava la memoria del più grande torero mai esistito.

Il mio maestro.

Orochimaru sama.

 

§§§

 

Presi lo straccio lucidando avido il bastone della lancia che si utilizzava per ferire il dorso del toro.

Seduto su una cassa di legno, continuavo ad ammirare l’arma.

Era leggera ma potente.

Era pura forza tra le mani.

Poteva ferire un toro con la sua sola punta di metallo.

Afferrai il manico dal centro come a volerla scagliare.

Potevo vedere davanti a me la folla in ovazione, il toro scalpitante battere i suoi possenti zoccoli sul terreno per caricare, potevo sentire la sabbia gialla dell’arena sotto i miei piedi.

Mi alzai in piedi ponendo indietro il braccio pronto a colpire.

Una scarica di adrenalina mi attraversò la schiena mentre guardavo negli occhi rossi di sangue l’animale davanti a me.

Dio in terra, sono io, posso decidere della vita o della morte del toro.

Sorrisi compiaciuto compiendo un piccolo scatto del braccio con la lancia in avanti.

« La vara de picar non è un gioco per garzoni cabron! »

Una voce melliflua mi arrivò alle orecchie pungente come un ago.

Abbassai il braccio guardando la figura sinuosa appoggiata alla porta con le braccia incrociate.

Riconobbi le vesti dorate e rosse.

Il torero.

« Chiedo umilmente perdono, non intendevo arrecare danno a questo patrimonio. »

Feci un inchino umile davanti all’autorità del maestro.

Quello si avvicinò strisciando silenziosamente i piedi sul terreno, prese tra le sue mani la lancia guardandomi con superiorità.

« Non si tiene come un legionario con la sua spada. La corrida è un’arte, non è un combattimento gretto. »

Mosse il braccio facendolo scivolare lungo l’asta, poggiando l’avambraccio sul legno levigato.

Un’estensione del suo braccio, la vara sembrava fare parte di sé.

Girò sulle sue gambe esili compiendo ampi cerchi sul terreno con le gambe e muovendo le braccia con flessuosità.

Si rialzò in piedi tenendo la lunga lancia al suo fianco.

« Garzone, sai ballare? »

« Sì mio signore. »

« E allora perché con la lancia ti muovi meccanicamente? »

Abbassai lo sguardo mordendomi un labbro.

Rialzai lo sguardo incontrando per la prima volta quegli occhi freddi, calcolatori, d’ambra gelida.

« Hai voglia di diventare un maleta? »

« Mi perdoni mio signore, ma non la capisco. »

« Un maleta è un apprendista torero. Hai dentro di te il desiderio ardente di guardare negli occhi la morte. Lo vedo. »

Annuì serio.

Porgendo la mia mano ruvida vidi nei suoi occhi un lampo sadico uguale al mio.

Strinse delicatamente la mano con alterigia.

« Orochimaru. Il torero. »

« Kabuto Yakushi. Il suo umile servo. »

 

§§§

 

« Non è una vacca! È un toro! E tu sei il torero! Se hai paura, puoi anche andartene! »

Una lancia colpì il suolo accanto ai miei piedi. Alzai lo sguardo su quegli occhi freddi, furiosi.

Riposai lo sguardo sul manichino di toro di ferro battuto per l’allenamento.

Strinsi la mascella.

Ero un torero, ma se mi ponevo davanti alle corna del toro, sarei morto in una corrida vera.

Scese con grazia dagli spalti e si avvicinò prendendo la vara nella sua mano.

Si pose con sicurezza davanti alla testa del toro mantenendo la sua finezza anche in quel momento.

« Una vita per una vita, cabron!, non è un gioco! La vita spetta o a te o al toro! Se avrai il coraggio di affrontare il toro guardandolo negli occhi rimarrai immortale, altrimenti perirai come tutti! »

« La maggior parte dei tori che entrano in quest’arena sono tori mansi, quindi buoni solo ad essere uccisi. »

Conficcò la punta della vara in terra avvicinandosi sinuosamente a me.

In un modo molto ambiguo, come al suo solito.

« I tori bravi, quelli devi temere. Perché quelli che si conquistano il diritto alla vita hanno il diritto di rimanere su questa arena. »

« Ma in ogni caso voi mi avete detto che se non lo colpisco morirà lo stesso a causa dell’adrenalina che sale al cervello, quindi perché devo fronteggiarlo? »

« Perché solo chi ha sangue freddo e coraggio vive in questo mondo. Non c’è gloria a far morire un animale così possente d’infarto. Bisogna colpirlo, e bere con lo sguardo il suo sangue. »

Raccolse dal mucchio di oggetti appoggiati alla parete dell’arena un fioretto.

Cominciò a danzare sopra la sabbia creando nuvole dorate ad ogni suo passo. Mosse in fretta le mani facendo scivolare la spada tra le mani e facendola volteggiare in aria.

Il suo volto etereo pareva perso nel vuoto oltre la spada, oltre le mura dell’arena.

« Sai perché la corrida si fa alle cinque del pomeriggio? »

« No mio signore. »

« La festa dei tori è una riflessione estetica sulla morte. Non importa se è la morte di un toro o di un uomo, sopra la morte in generale. Alle cinque del pomeriggio il sole comincia a tramontare, e l’oscurità occupa il posto della luce. La luce è il simbolo della vita, e l’oscurità della morte. Anche l’arena, circolare, con la sabbia dorata, è un simbolo del sole, che si macchia del rosso del sangue, il simbolo del tramonto. »

Alzai gli occhi verso il sole che brill.

La luce è vita, è rumore, l’oscurità è morte, è silenzio.

Un dualismo comune in natura, ma trasformato in arte dalle sue parole.

Ammirai le sue movenze leggere, quasi degne di un ballerino, susseguirsi veloci.

Era l’uomo più complicato e raffinato che avessi mai incontrato.

Era intrigante.

Troppo intrigante per un povero maleta come me.

 

§§§

 

Orochimaru sama sciolse i lunghi capelli neri e setosi facendoli cadere con la solita grazia sulle spalle.

Presi la sua giacchetta nera aiutandolo ad infilarsela.

Sera di festa, di movida.

O per meglio dire, sera di spionaggio e di tradimento.

Due erano i toreri meglio conosciuti in questa città, due che erano stati entrambi allievi dello stesso maestro.

Orochimaru sama e Jiraya sama.

« Stasera andremo nella taverna di Tsunade. Ricordati di osservare attentamente come si comporta l’allievo di quel poveraccio, mi riferirai tutto in seguito. »

Annuii convinto.

Guardai attraverso lo specchio la mia immagine riflessa con rispetto.

Ero diventato non solo il maleta del più grande torero della città, ma avevo anche ricevuto compiti molto più importanti.

Sistemai gli occhiali riportandoli in alto sul naso.

Per lui l’importante era la fama, il potere. E non si faceva scrupoli per riuscire ad ottenerli.

La sua dipendenza, la notorietà.

Mi avvicinai abbastanza da sentire la fragranza di colonia ricercata diffondersi per la stanza del locale in cui eravamo da poco entrati.

Continuai a rimanergli accanto, in fondo era meglio inspirare a pieni polmoni il suo delicato profumo che l’odore acre di vino e liquore che si diffondeva per la stanza. Guardai intorno a noi la plebaglia ubriacarsi inconsapevole di avere di fronte una persona tanto ammirevole.

Le donne vestite libidinosamente giravano attorno ai tavoli cercando un cliente per la serata.

Orochimaru sama mi fece cenno, sempre girato di schiena, di guardare infondo alla sala un piccolo tavolo ben imbandito di bevande da cui facevano capolino due figure.

Avvicinandoci le riconobbi, l’uomo sulla destra era un omaccione ben tornito, con braccia e corpo robusto, i capelli crespi bianchi come la neve, stravaccato sulla panca con un bicchiere in mano a ridere sguaiatamente. E invece alla sinistra un ragazzo di qualche anno più giovane di me, i capelli biondo grano e gli occhi color cielo e decisamente troppo entusiasta per i miei gusti.

Storsi il naso appena mentre ci fermavamo davanti al tavolo.

« Jiraya… Sono felice di vedere che ancora non sei morto. »

La voce melliflua del maestro raggiunse le mie orecchie come un sorso di acqua fresca durante la siccità.

« Orochimaru! Che piacere vederti! Siediti! Ti presento il mio allievo, Naruto Uzumaki! »

« Piacere di conoscerla! »

Con grazia ci sedemmo alla tavola.

I due toreri si lanciavano occhiate di sfida, d’intesa, di odio e di ammirazione.

Sapevo che tra loro c’era un passato tormentato, ma non riuscivo a immaginare come un bigotto del genere fosse paragonabile al mio grande maestro.

Non che lo sottovalutassi, ma sicuramente nell’arena chi sarebbe stato in grado di stupire di più il pubblico sarebbe stato sicuramente Orochimaru sama.

« Questo invece è il mio allievo. Kabuto Yakushi. »

« Onorato di conoscerla signore. »

« Andiamo Orochimaru! Non dirmi che quello nuovo è un ghiacciolo come te! »

« Mantiene il sangue freddo in qualsiasi situazione, non è un difetto. »

« Ah, io non direi se poi non è in grado di far esaltare la platea! »

Guardai il volto del mio maestro rimanere impassibile.

In realtà dietro la sua maschera di cera si potevano vedere quei segni microscopici che indicavano la rabbia.

Con un tonfo un vassoio di legno fu poggiato sgraziatamente sul tavolo.

I bicchieri traboccanti di rhum lasciarono cadere qualche goccia sul legno creando una piccola pozza zuccherina.

Alzai lo sguardo verso la locandiera. Una bella donna, molto prosperosa, aveva poggiato le mani sui fianchi squadrando i due.

I capelli biondi raccolti in due codini soffici rimanevano inerti sulle spalle e sul seno grande messo ben in mostra dal vestito scollato.

« Non cominciate a litigare di nuovo o sarò costretta a dividervi con la forza! »

« E dai Tsunade Hime! Non stavamo facendo niente di male! Solo una chiacchierata tra amici! »

« Giusto, come ha detto Jiraya, questa è solo una chiacchierata tra amici di vecchia data. »

« Orochimaru… È un piacere rivederti dopo tanto tempo… »

« La tua locanda è peggiorata molto da quando ci venivamo da ragazzi… »

« Colpa dei tempi fruttiferi! Ognuno ha soldi da spendere e viene a spenderli in alcol e donne! »

« E scommetto che Jiraya è un cliente fisso, vero? »

Sorrisi alla battuta guardando la donna e l’avversario del mio maestro ridere di gusto.

Tra le risate vidi una cosa scioccante.

Una mano liscia come il marmo sfiorare quella rozza e grezza della locandiera, Tsunade.

Una frazione di secondo, uno sguardo indecifrabile, probabilmente visto solo da me. Ma che era una stilettata al cuore per me.

Jiraya prese la parola non vedendo – o fingendo di non vedere – il gesto del rivale.

« Allora, Orochimaru, vedo che il tuo allievo non è esattamente il più indicato per questo mestiere… Non come l’altro almeno. »

« Vedo che nemmeno il tuo sembra esattamente il massimo. È rozzo e stupido, si vede a occhio nudo. »

« È fisicamente perfetto, non come il tuo maleta. Lo sai anche tu di sfidare la sorte, vero? »

« È perfettamente in grado di reggere la pressione dello spettacolo. »

« No che non lo è. Lo vedi il suo difetto o lo vedo solo io? »

Il viso sempre impassibile di Orochimaru sama si trasfigurò in una smorfia irosa.

Cominciò a sibilare delle offese soffiando come un serpente davanti a un aggressore.

« È perfettamente in grado di farcela Jiraya. Solo tu prediligi la forza bruta davanti alla grazia! »

« Oh andiamo! È miope! Se durante una corrida perdesse gli occhiali cosa farebbe?! »

Guardai i due toreri, i due più grandi colossi alzarsi in piedi e sfidarsi con lo sguardo.

Adrenalina pura scorreva nelle loro vene. Pulsava come il ticchettio di un orologio sotto la pelle, la sentivo.

Rimasi fermo sul mio posto stringendo le mani sul mio grembo.

Dall’altro lato il maleta di Jiraya si preparava all’attacco, velocemente e aggressivamente.

« Non tollero risse nel mio locale! »

Una voce rauca, greve ma femminile interruppe bruscamente la lite.

Morsi il labbro inferiore sentendo una furia cieca addosso.

Lui mi aveva detto che ero perfetto per questo mestiere.

E non mi aveva mentito.

Ne ero sicuro.

Lui era il migliore, per questo mi aveva scelto. Io ero il suo degno erede.

« Non preoccuparti Tsunade Hime… Non intendo scatenare una rissa! Vorrei solamente un altro rhum poi tolgo il disturbo mia cara… »

Lo sguardo languido tra i due mi sorprese.

Osservai il mio avversario dall’altro lato del tavolo. Anche lui era rimasto basito quanto me, solamente in maniera più visibile.

La locandiera chiamò entrambi i toreri a seguirla. Quando mi alzai per andare con il mio maestro, mi comandò di rimanere seduto al mio posto a bassa voce.

« Kabuto, sto facendo questo per te, ricordatelo. Tieni d’occhio l’altro maleta, rimani qui. »

Mi risedetti in maniera composta osservando attraverso gli occhiali il ragazzetto biondo che non riusciva a star fermo sulla sedia.

Mi guardò portando le mani dietro la nuca in maniera annoiata, io rimandai un sorriso falsamente gentile.

« Ma tu lo sapevi che quei due hanno litigato proprio per la vecchia Tsunade? »

« Davvero? Non lo sapevo… »

« Sì quell’idiota di Jiraya me l’ha raccontato quando ci allenavamo! »

« Sei molto gentile, grazie mille… Dimmi, il tuo maestro è forte come dicono? »

« Certo! È il migliore! La sua unica debolezza sono l’alcol e le donne! Soprattutto le donne! »

Risi alla sua battuta mordendomi in seguito l’interno della guancia.

Subito riprese il discorso. Certo che proprio non riusciva a tacere!

« La nonna Tsunade ha un rapporto speciale con entrambi. Cioè, intendo che con Jiraya stava quasi per sposarsi, ma poi quando erano sull’altare, lei ha capito che amava anche Orochimaru. Nel senso, il tuo maestro non ha mai mostrato tenerezza verso di lei, però si vede che sono legati. E anche adesso tutti e tre sono legati in maniera speciale. Hai capito quello che ho detto? »

« Certo. »

« Beato te! Io non ho mai capito molto di queste cose… »

« Naruto! Andiamo muoviti! »

Il vocione di Jiraya sovrastò il rumore della locanda.

Il ragazzo si alzò in piedi salutandomi gioioso.

« Ciao amico! Sei simpatico! »

Sorrisi e ricambiai la cortesia, poi mi alzai a mia volta raggiungendo Orochimaru sama e Tsunade.

Mi fece cenno di seguirlo in silenzio e feci ciò che mi ordinava.

Salimmo per le scale su un lungo corridoio soppalcato che dava l’accesso a molte stanze.

Stanza 29. Ci fermammo sull’uscio e il maestro mi lasciò tra le mani la giacchetta.

« Kabuto, rimani qui. »

Annuii in silenzio stringendo tra le mani l’indumento.

Orochimaru sama chiuse la porta alle sue spalle.

Guardai quella fredda superficie di legno che mi separava dai suoi segreti.

Serrai la mascella combattendo contro me stesso.

Il maestro lo faceva per me. Ogni sua scelta era per il mio futuro.

Me lo ripetevo nella mente, stringendo i denti, ricacciando indietro le lacrime che salivano agli occhi.

Strinsi le spalle contro la parete lignea cercando di non farmi distruggere dalle mie emozioni.

Ma ogni gemito di piacere, ogni mugolio, era come una spada che si infilava fredda tra le costole. Un colpo dritto al cuore.

Quando il rapporto fu consumato, sentii alcuni passi ovattati dietro la porta e un discorso confuso.

« Dimmelo Tsunade. »

« Prima dimmi cosa vuoi fare. »

« Sai bene cosa voglio. Dimmi dove sono. »

« Scordatelo! »

Una risata rauca raggiunse le mie orecchie.

Una voce strana, malata e sgraziata.

« Tsunade… Presto morirò. Curami, o dimmi come sconfiggere il mio nemico e diventare immortale. »

« Orochimaru… Io… Non posso… »

« Sai Tsunade, esistono due modi di soffrire, o di morire. Padecer e Sufrir, il primo è sentire dolore, come gli animali, senza sapere a cosa sia dovuto il dolore, mentre il secondo soffrire sapendo di provare dolore per qualcosa, e sapere per cosa. Sucumbir e Morir, come prima, il primo è soccombere, senza sapere di morire, il secondo è avere coscienza di stare per morire, e vivere ogni attimo in preda all’agonia. Io provo entrambe le due possibilità più dolorose per la mente e per il fisico. Dimmi dove sono le chiavi. »

« Lui… Le ha il suo maleta… »

« Grazie Tsunade. A buon rendere. »

Vidi uscire il mio maestro, con alterigia e serietà.

Prese la giacchetta dalle mie mani e la infilò con grazia, con quei movimenti fluidi che lo caratterizzavano.

Dietro la porta semichiusa, un pianto rotto accompagnava quella scena di bellezza.

Spostò i lunghi capelli fluenti che si erano impigliati tra la stoffa della giacca e la camicia lasciandoli ricadere morbidamente sulla schiena modellata.

Quel pianto diventava più forte, ogni secondo di più.

Tradita traditrice.

Fin dove ci si può spingere per amore?

 

§§§

 

« Dove stai guardando cabron?! Non sono io l’avversario! È il toro davanti a te! »

« Maestro io… »

« Fa silenzio. Non m’interessa quello che ti turba. Se sei in arena, non devi pensare ad altro che allo spettacolo, e a non morire. Vieni dentro. »

Annuii mordendomi l’interno della guancia e lo seguii all’interno del magazzino.

Nella semioscurità vedevo i suoi occhi brillare come topazi.

Belli, stupendi e crudeli.

« Kabuto, devi fare una cosa per me… »

Amavo quelle parole dette da lui.

Un brivido piacevole accompagnava il suo discorso, il suo piano.

Avevo deciso di tenere nascoste le mie scoperte su di lui. Anche dopo un anno.

Orochimaru sama sapeva di poter contare su di me quando voleva.

Ero costantemente a sua completa disposizione.

« Mi sono fidato di te dal primo momento, sono quattro anni che sei il mio allievo, e se tutto andrà secondo i piani, potresti prendere il mio posto nell’arena. Non deludermi. »

« Sì, mio signore. »

« Vai. »

Annuii avvolgendomi completamente nel mio mantello nero.

Uscii alla luce del sole coprendomi il volto. Mi sentivo al sicuro, protetto.

Metà volto coperto dall’ombra che il cappuccio gettava sulla mia pelle.

Le vesti scure non lasciavano trasparire nessun particolare del mio corpo.

Raggiunsi con frenetico eccitamento la locanda.

Salii sul soppalco, silenziosamente, come un fantasma.

Naruto stava sulla porta a braccia incrociate, sbadigliando annoiato.

Ancora un passo Kabuto, ancora un passo…

 

§§§

 

« Adesso Kabuto, sta a guardare come quella bestia crolla sotto il peso della sua vara de picar… »

In silenzio mi sedetti affianco al mio maestro, sugli spalti dell’arena.

Guardai in basso, sul palcoscenico si giostravano un uomo e un toro.

Jiraya sama era l’uomo.

« Quello che vedi in arena è un toro bravo. Ha il diritto di vivere, ma non vivrà. Jiraya è troppo bravo perché possa farsi sottomettere da un semplice toro. »

Tacqui, non avevo parole.

Jiraya sama non danzava deliziosamente come Orochimaru sama.

Sembrava più un ballo primitivo. Come un fronteggiarsi di onde possenti.

Una valanga di emozioni mi travolse. Era, strano, particolare.

Non mi ero mai sentito così, apparte nelle esibizioni del mio maestro.

Quel fantastico e incredibile gioco di sguardi, gioco di rispetto e complicità che si era instaurato tra il torero e la sua vittima era spettacolare.

Ora capivo perché Orochimaru sama avesse così paura del suo rivale.

Un solo movimento, un attimo prima che il toro perdesse definitivamente la testa e si accasciasse al suolo.

La vara si conficcò nel muscolo vibrante dell’animale.

Il toro urlò calpestando violentemente il suolo con gli zoccoli.

Le narici si allargavano e si restringevano affannosamente, era eccitato, nervoso, e anche iroso.

Partì alla carica contro Jiraya sama che con una capriola si scansò lateralmente.

Vidi Naruto lanciargli il fioretto e alcuni ganci ornati con dei nastri.

Il torero li raccolse e con scontri sempre più forzati e avvicinamenti al limite del rischio.

Con forza riuscì a raggiungere la schiena del toro infilzandolo quasi con crudeltà. Perse in mano il fioretto facendolo danzare nella sua mano.

Sempre mantenendo lo sguardo si scagliò contro il toro.

Lo fronteggiava, senza paura.

Il fragore della folla si spense per alcuni attimi che sembrarono infiniti.

Il toro e il torero si fusero in un’unica cosa, un’unica massa.

L’ultimo battito della bestia risuonò nell’aria chiaro e potente – o almeno così mi era parso.

Vidi con una lentezza esasperante ogni minimo movimento. Il ghigno sadico aprirsi sul volto di Orochimaru sama, la lancia passata da una mano all’altra per quel gesto.

Il sorriso del mio maestro si aprì radioso a quel gesto.

Un fischio potente si espanse per tutta l’arena.

« Fin del juego. »

La voce melliflua del mio maestro risultava quasi irrisoria.

Si alzò in piedi scivolando tra il pubblico sconvolto. Rimasi al mio posto guardando stranito il mio maestro.

Rigirai lo sguardo portandolo al palcoscenico.

Il rivale era accasciato al suolo sorretto appena dal suo maleta.

Stava soffocando.

Dunque… Era questo il punto in cui ci si può spingere per la fama?

 

§§§

 

« Bastardo! »

Un pugno mi colpì in pieno volto.

La mano premuta contro la clavicola si serrava a ritmo concitato facendomi male.

Sorrisi sputando da un lato il sangue che si riversava nella bocca.

« Il curaro è un veleno molto forte, te ne sei accorto, vero Naruto? »

Un altro pugno mi colpì in faccia. Lo sentii ringhiare per la rabbia. Lo guardai negli occhi, le lacrime gli offuscavano la vista.

« Ti abbiamo rubato le chiavi del magazzino, poi abbiamo bagnato l’asta della vara de picar di Jiraya sama con il veleno. Orochimaru sama aveva previsto tutto. Lui si sarebbe ferito la mano, la solita mano debole, la sinistra, nella troppa foga di uccidere il toro. E quando ha passato la lancia alla mano ferita, il veleno è entrato in circolo. »

« Perché?! Perché? »

« Perché Orochimaru sama voleva così.»

« Spero che gli sia servita la lezione che gli ho dato. Una persona bastava, non può rubarmene due! »

« Cosa gli hai fatto? »

Una risata roca mi stordì le orecchie, insieme a quella confessione.

Sbarrai gli occhi fissando il volto del mio rivale farsi scuro, quasi malvagio. Come se avesse un demone dentro che premeva per uscire.

« Vai al suo spettacolo, ti sorprenderà piacevolmente. Non penso che Tsunade abbia fatto un miracolo a curarlo. »

Con un’altra spinta della sua mano contro pa mia spalla, mi lasciò andare sparendo in un vicolo.

Mi appoggiai come meglio potevo al muro massaggiando la clavicola dolorante.

Troppe cose mi erano oscure, troppe cose non riuscivo a capire. Mi rialzai in piedi appoggiandomi sempre alla parete e corsi barcollante verso l'arena.

Due persone aveva portato via a Naruto il mio maestro, non una, due!

Una era Jiraya sama, ma l’altra?

Perché Jiraya sama mi aveva definito imperfetto? Chi era l’altro?

Perché Orochimaru sama aveva detto di stare per morire?

Per quanto fossi intelligente e sveglio, non riuscivo a trovare un collegamento.

Vidi le grandi arcate dell’arena comparire davanti a me, ne imboccai una raggiungendo l’apertura del campo.

Al centro, con un fioretto in mano, il mio maestro si reggeva in piedi a fatica lasciando le mani penzolanti nel vuoto. Un toro bravo

Afferrai il bordo del muro di legno che mi separava dalla gialla sabbia. Le nocche ormai erano bianche da quanta forza mettevo nello stringere lo steccato.

Orochimaru sama si spostò di lato schivando un attacco del toro.

Era affaticato, lo vedevo con il respiro affannato, malfermo sulle gambe.

In quei pochi attimi sentii come se lentamente la mia vita si fermasse, culminando in quell’unico secondo di morte.

Come se fossi fuori dal mio corpo, mi vidi saltare oltre la barriera lignea, guardare nelle pupille il toro poi il torero.

Orochimaru sama mi guardò fiero, supplicante, o malinconico, non seppi leggere il suo sguardo.

Un rumore innaturale si spanse per lo spazio dell’arena, un rumore sordo di ossa spezzate, un ticchettio di gocce di sangue che cadevara giù dalle corna dell’animale.

Fui catapultato nuovamente nel mio corpo, con uno schianto così violento da farmi male.

« No! »

Mi gettai sul corpo inerme del mio maestro lasciato cadere senza alcun riguardo dalla feroce bestia.

Con le mani tremanti, reggevo il suo capo. Guardai le sue labbra rosse di sangue.

« Non… Non è possibile… Maestro… »

« Una riflessione sopra la morte… E la morte hanno avuto… Kabuto, prendi il mio posto… Io sono immortale… Sono immortale… Sono l’unico degno adesso… L’unico… »

I suoi occhi erano vuoti, persi nel cielo. Vaneggiava, sentivo le sue parole come echi lontani.

Lacrime amare mi salirono agli occhi mentre tremavo appoggiando la mia fronte contro la sua.

Singhiozzavo tanto forte che pensavo i muscoli non avrebbero retto.

Guardai il mio maestro, la sua vita pian piano si affievoliva.

Il suo sguardo serio, fiero, ironico e sadico non esisteva più. La sua anima, la sua bellezza, non c’era più, c’era solo un involucro vuoto.

Il suo spirito, quello che amavo tanto era sparito ormai.

Mi rialzai guardando quel corpo sconvolto. I lunghi capelli neri giacevano intorno alla sua figura, i suoi occhi semichiusi erano vuoti.

Poi notai un’altra cosa…

Da sotto le lunghe maniche della sua maglia spuntavano delle bende.

« Delle bende… Naruto… »

 

§§§

 

« Me lo dica Tsunade sama! Non sopporto che dei sudici ubriaconi infanghino la sua memoria senza che io sappia la verità! »

« Te lo dirò ma… Ti prego! »

Raccolsi il coltello affianco al suo bicchiere e con un colpo secco tagliai la pelle del mio avambraccio facendo uscire del sangue. Emofobia, era la mia specialità far leva sulle debolezze altrui, come con Jiraya sama, mentre lui era con una donna, avevamo messo in atto il nostro piano.

« Che cosa ha fatto Naruto al mio maestro? Che cosa intendeva Jiraya sama con quello nuovo? Che cosa sa su Orochimaru sama? »

« Io non… Ho cercato di curarlo al meglio, gli avevo detto di non andare, di non combattere, ma non mi ha ascoltato… »

« Orochimaru sama ti aveva detto di stare per morire, perché? »

« Era malato… Aveva il cancro, in questo momento era nello stadio terminale presto sarebbe morto nei più atroci dolori, in fondo Naruto gli ha fatto un gran favore… »

« Ho visto delle bende che spuntavano da sotto le maniche. Perché erano fasciate le sue braccia? »

« Naruto… In una colluttazione con Naruto si è slogato entrambe le braccia… Lui era arrabbiato con Orochimaru, ingannava tutti, qualsiasi persona gli capitasse a tiro… Anche tu sei stato ingannato da lui… »

« Cosa stai dicendo?! Non è vero! »

« Orochimaru ha scelto te perché non sei alla sua altezza! Puoi imparare al meglio qualsiasi suo segreto, ma non sarai mai al suo livello, ha scelto te perché porti gli occhiali, perché sei imperfetto… Solo una persona è alla sua altezza… »

« Jiraya sama è morto. Non c’è più nessuno che sia come lui. »

« Ti sbagli… Jiraya era forte, era incredibile, ma non è di lui che sto parlando. Il primo allievo di Orochimaru, era solo un bambino quando l’ha preso con sé. Jiraya e Orochimaru a quel tempo erano ancora amici, andarono all’orfanotrofio e raccolsero i due bambini che più sembravano in grado di imparare, che avessero questa passione dentro. Jiraya scelse Naruto, ma era ancora troppo piccolo per imparare, l’ho tenuto con me fino a qualche anno fa. Mentre Orochimaru scelse Sasuke. Quel bambino era… Era un genio, in tutto, era riuscito a crescere come maleta in pochi anni. Sasuke e Naruto erano molto amici da bambini, in continua rivalità ma amici, però Orochimaru è riuscito ad allontanarli, a farli odiare. Sasuke era stato abbandonato in orfanotrofio dal fratello, un omicida che aveva ucciso tutta la sua famiglia, ma aveva salvato lui. Non se l’era mai perdonato di esserselo lasciato sfuggire. Orochimaru sapeva dov’era, e Sasuke dopo avergli estorto tutti i segreti di cui era a conoscenza con l’inganno è fuggito, per cercare il fratello. Naruto ha incolpato a Orochimaru, per questo non ha avuto altra scelta che rimanere con il rancore e quando sarebbe diventato abbastanza famoso, l’avrebbe cercato. Ma ora, dopo che Orochimaru ha ucciso Jiraya, non ha più basi per poter realizzare il suo sogno… »

« Questo Sasuke, era più forte di Orochimaru sama come torero? »

Annuì, mordendosi il labbro. Dio solo sapeva quanto soffriva per quelle confessioni.

Guardai i suoi occhi riempirsi di lacrime.

Lui voleva la fama, lui voleva l’immortalità.

’alui l’avrebbe avuta.

ahoma;">« Dov’è Sasuke? »

« Io non… Non lo so. È andato a nord ma non so che fine abbia fatto… »

« Bene. »

Mi rialzai in piedi rintanandomi nuovamente nel mio mantello.

Fin dove ci si poteva spingere per la fama?

Fino a dove per l’immortalità?

Fin dove per l’amore?

Avevo deciso di rispondere a tutte quelle domande.

Avrei reso di nuovo immortale Orochimaru sama, avrei ripristinato la sua fama.

Perché lo amavo, avrei dovuto uccidere il suo allievo, Sasuke Uchiha.

Aprii la porta della locanda. Un altro passo, ma questa volta, i miei passi li avrei compiuti per me.

Per quello che ritenevo giusto, per quello che provavo.

Perché un’anima nata nel silenzio dopo che scopre il ritmo del proprio cuore che batte non può più fermarsi.

E lui era ancora con me. Per ora, per sempre.

Questo, non è un addio maestro.

 

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Capitolo 3
*** Dependence: Forbidden Love ***


Dependence: Forbidden Love

Introduzione: Seconda Guerra Mondiale; l’epoca delle grandi distinzioni tra chi è uomo e chi non lo è, solo una persona va contro questi pregiudizi, rischiando molto più di quello che dovrebbe.

 

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Dependence: Forbidden Love

 

 

Salvami…

 

Cosa stai dicendo Sakura?

Io non posso salvarti, io sono solo un lurido-

 

Sta zitto, e salvami, liberami dal mio corpo,

 dalle mie paure, liberami dalla mia maschera, Sasuke…

 

§§§

 

“Quegli occhi.

Era la prima volta che vedevo degli occhi così.

Profondi, sembravano degli specchi che rimandavano l’immagine di un’anima nera.

Vidi solo gli occhi di quella sagoma informe avvolta in un mantello consunto di tela, mentre ero al mercato, di sfuggita.

Cercai tra la gente con lo sguardo riuscendo a scorgere la figura che correva dietro a un vicolo.

Non so perché lo feci, ma lo seguii, seguii quello sconosciuto e perfino lo raggiunsi infondo alla strada chiusa!

Quando mi notò dietro di sé si tolse il cappuccio e mi mostrò il suo volto.

Come avete detto voi, aveva un viso longilineo, molto tagliente, glabro, pallido. Aveva gli occhi scuri, quasi neri e i capelli dello stesso colore.

Rimanemmo in silenzio a squadrarci per qualche minuto, probabilmente voleva capire se ero amica o nemica, e io cercavo di capire cosa facesse qui a Roma.

Poi notai che era ferito, il mantello era chiazzato di sangue coagulato sul lato destro. Signore, io sono un’infermiera, non ho potuto fare altro che curarlo, non importava che fosse amico o nemico.”

 

“E poi? Signorina Haruno, lei sta rischiando grosso, spero se ne renda conto.

Il signor Uchiha Sasuke è un traditore del grande Führer, come tutta la sua famiglia, per fortuna suo fratello Itachi ha contribuito alla giusta causa del suo paese ammazzando quei traditori della sua stirpe per il Führer! È un ottimo elemento, farà strada nel partito nazista, potrebbe diventare anche generale!

Comunque, quell’ebreo è ricercato dall’SS, non le consiglio di dilungarsi in racconti da donnette!”

 

Guardai il soldato italiano alzarsi dalla sua postazione e girare attorno alla scrivania appoggiando una coscia sull’angolo del ripiano e facendo dondolare la gamba avanti e indietro.

Incrociò le braccia e mi guardò come fossi solo una traditrice.

Perché per loro questo ero. Avevo aiutato un ebreo fuggiasco, e nemmeno uno qualunque, un figlio di un attivista politico.

Strinsi tra le mani guantate la borsetta unendo di più i talloni per la paura e lo guardai con finta innocenza.

Ero sì una donnetta, ma il proverbio che mi diceva sempre mia madre era che una donna ne sa una più del diavolo.

 

“Egregio signore, la prego di non pormi domande sciocche! Una volta curato, lo sporco ebreo è scappato, e nelle condizioni in cui era probabilmente è morto.”

 

Storsi il naso con finto disgusto alla parola ‘ebreo’. Sentivo l’anima lacerarsi per le mie calunnie.

Stupidi. Tutti stupidi.

Nessuno è diverso da nessun altro fino a quando ha un’anima, nera o bianca che sia.

L’uomo di mezza età che avevo davanti si aggiustò il berretto guardando fuori dalla finestra, guardò ancora un paio di volte verso di me e poi si alzò decidendo di credermi.

Mi alzai a mia volta impettita come voleva la tradizione e strinsi la mano al soldato.

Quando chiusi la porta alle mie spalle tirai un sospiro di sollievo. Uscii dalla caserma senza quasi rendermene conto, me ne resi conto solo quando meccanicamente tirai fuori dalla borsetta il velo per sistemarmelo sui capelli.

Guardai la mia città, piena di persone dall’anima vuota. Automi imposti ad un regime che li rendeva schiavi delle loro stesse paure.

Strinsi la borsetta al fianco e mi inserii nella corrente di gente che scivolava lenta fino alle loro case per il coprifuoco.

Scivolavo anche io, come un fantasma, lungo le strade, per raggiungere l’unico posto che ancora mi faceva pensare a una via di uscita da quelle imposizioni: casa mia.

Mi infilai attraverso l’uscio dentro una stanza spoglia, con pochi mobili sobri. Mi voltai verso la porta e la richiusi con tre giri di chiavistello e catene.

Silenziosa salii fino alla soffitta, tirai verso il basso la scala nascosta che portava al sottotetto e, una volta salita, battei tre volte sul pavimento, scrutando nel buio per cercare quell’ombra familiare.

 

“Com’è andata?”

 

“L’hanno bevuta fino all’ultima goccia.”

 

“Bene.”

 

Nell’oscurità rimbombò qualche colpo di tosse secca, io feci segno con la mano di seguirmi al piano di sotto e sentii i passi ovattati trascinarsi sul pavimento polveroso.

Sasuke mi seguii lungo il corridoio fino alla mia stanza, lo feci stendere sul letto.

Doveva essere stato un uomo molto bello, ma ora non rimaneva che un involucro rovinato dal tempo davanti ai miei occhi.

Il volto era scarno, la barba rada aveva cominciato a ricrescere e i vestiti erano logori e sporchi.

Posai una mano su quel volto, accarezzandolo soavemente, ma lui con un gesto secco la tolse infastidito.

Si voltò da un lato dandomi le spalle e stringendosi nella coperta che gli avevo dato.

 

“Non ho bisogno della tua compassione.”

 

La mia non era compassione, era un sincero e puro amore.

Lo avevo capito dalla prima volta che avevo visto i suoi occhi, dalla prima volta che mi era crollato tra le braccia, dalla prima volta che per un piatto di pasta mi aveva sorriso, un sorriso timido, celato, ma ugualmente stupendo.

Mi sedetti sul letto stringendo le mani tra le ginocchia.

Lui aveva visto uccidere tutta la sua famiglia davanti agli occhi dal fratello Itachi, convertito alle stupidaggini che erano in voga in quel momento, e questo solo per le loro idee.

Lui era fuggito, per anni forse, solo per cercare la salvezza, la libertà.

 

“Io non voglio darti la mia compassione, non sarebbe vantaggioso Sasuke.”

 

“Perché mi nascondi in casa tua? Lo sai che ti potrebbero ammazzare per questo?”

 

Io guardai il pavimento sorridendo tra me e me al sentire quelle parole dette con il suo tono perennemente irritato.

Lo sapevo bene.

Sapevo che rischiavo di venir fucilata per aver difeso i miei ideali.

Lo spiai con la coda dell’occhio, il suo viso mi trasmetteva tristezza, pena, angoscia, paura, nostalgia.

Mi alzai annuendo e andai al vecchio comò che era di mia madre.

Sciolsi i capelli dalla morsa del foulard e li scompigliai con una mano, potevo sentire i suoi occhi addosso mentre mi spogliavo dei miei vestiti, della mia copertura, e rimanevo solo con la fine sottoveste di seta consunta addosso.

Guardai attraverso lo specchio la mia immagine, ero cambiata ancora, i capelli un tempo lunghi e fluenti ora erano solo stoppa corta, le ossa sporgenti che costituivano il mio corpo non erano più coperte dalla carne abbondante ma solo da pelle e quel poco che mi rimaneva addosso della vecchia me.

I tempi di crisi erano più duri di quello che si pensava, il cibo razionato, le bancarelle del mercato sempre semi vuote.

Ma a distrarmi da quegli orribili pensieri c’era lui. Un peccatore come me, che saggiava questo corpo consumato, ogni notte da un mese.

Sentii le sue labbra screpolate grattare contro la pelle del collo, le sue braccia ossute abbracciarmi da dietro, stringendomi più forte che poteva.

Chi avrebbe mai potuto amare, una bestia?

Lui, Sasuke, una bestia fuggitiva, odiata.

E io, una semplice ragazza, senza troppe pretese. Ma dipendente completamente da lui.

Non potevo non tornare a casa appena potevo, per poterlo guardare, toccare, curarmi di lui.

Non potevo uscire senza il suo pensiero.

Mi aggrappai alla sua schiena in un abbraccio rude.

Poi il resto non si dice, il resto è peccato.

Rinuncerei al mondo intero per averti al mio fianco, rinuncerei alla mia umanità in un campo di concentramento se solo potessimo stare insieme, rinuncerei alla vita e alle mie scelte.

Per averti, Sasuke, rinuncerò alla mia libertà.

Perché la mia libertà sei tu, e fino a quando non morirai, io ti starò accanto, e ingombrerò la tomba accanto alla tua.

 

Due peccatori, dentro al silenzio della notte, che si leccano le ferite a vicenda, sperando che la notte non finisca mai solo per vivere quella normalità che gli era stata tolta, quella libertà che trovavano solo insieme.

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Capitolo 4
*** Capitolo avviso ***


Fiction temporaneamente sospesa perchè in ricostruzione e restaurazione;
Mi scuso per l'interruzione, riprenderà presto.

Bye Bye

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