Rimpianti e speranze di un Sensei di Stria93 (/viewuser.php?uid=319287)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The day before... ***
Capitolo 2: *** The day after... ***
Capitolo 1 *** The day before... ***
cap 1
The day
before...
Kakashi Hatake sedette sul bordo del
letto esalando un lento sospiro che gli si riversò fuori dalle
labbra come una benedizione dopo quella lunga giornata. Il materasso
accolse docile il suo peso, cigolando impercettibilmente.
La luce calda del tramonto che stava
calando come un velo dorato sui tetti di Konoha imporporava il cielo
e filtrava dalla finestra, rivelando le impalpabili particelle di
pulviscolo che fluttuavano senza schema davanti a lui, ora agitate
dal flusso d'aria provocato dai suoi movimenti nella stanza.
La schiena curva, le braccia
abbandonate inermi sulle gambe con le mani penzoloni, lo sguardo
rivolto al labirinto di piccole crepe che si rincorrevano
intersecandosi nel pavimento... tutto nel suo modo di sedere su quel
letto raccontava di un uomo stanco, scoraggiato.
Non era certo quella l'immagine che il
mondo degli shinobi aveva di lui: Kakashi dello Sharingan, il
formidabile Ninja-Copia di Konoha, il prodigio che, appena dodicenne,
si era guadagnato il titolo di Jonin e che di lì a poco era
diventato un eccezionale capitano delle Forze Speciali ANBU, veterano
della Terza Grande Guerra.
Il suo nome era rispettato e temuto;
sinonimo di talento, valore, e genialità in tutte le cinque Grandi
Terre. Ma sulle sue spalle gravava il fardello di un vissuto
travagliato segnato da una sequela di eventi tragici che, uno ad uno,
avevano concorso a scavare un solco sempre più profondo nella sua
anima, inaridendola fino a trasformarla in uno sterile deserto dove
l'unica cosa che cresceva era il rovo infestante e velenoso del
lutto. Durante il suo ultimo periodo al comando degli ANBU, chi
avesse provato a guardare oltre quella corazza di gelida
indifferenza, avrebbe scorto solo la triste visione di un giovane
uomo che aveva fretta di morire. Una persona intossicata dal
rimpianto, che si trascinava giorno dopo giorno alla stregua di un
fantasma lungo un infinito sentiero di espiazione privo di una meta,
sordo al richiamo di qualunque piacere potesse offrirgli la vita
ancora nel pieno della sua primavera.
Il suicidio di suo padre Sakumo aveva
messo precocemente fine alla spensieratezza dell'infanzia, sostituita
da una maturità non comune per la sua età nonché da una ferrea e
quasi ossessiva dedizione verso le regole, tutto ciò affiancato da
una ricerca spasmodica della perfezione nelle arti ninja, nelle quali
peraltro eccelleva senza alcuna fatica. I suoi superiori e gli
abitanti del villaggio si profondevano in lodi ed elogi ammirati
rivolti a quel bambino straordinario e così serio che stava
rapidamente scalando le vette della rigida gerarchia degli shinobi,
sorpassando non solo i suoi coetanei ma perfino guerrieri adulti,
forti di molti anni di esperienza. Nel giro di un lustro, Kakashi
aveva collezionato una folta serie di successi, bruciando traguardi
su traguardi fino alla promozione a Jonin a soli dodici anni.
L'uomo stirò la bocca in un sorriso
amaro ripensando al ragazzino borioso che era stato a quel tempo. Fin
troppo consapevole delle sue doti, non aveva mai tenuto in gran
considerazione i sentimenti di amicizia, solidarietà e fiducia
reciproca che univano i compagni di una stessa squadra; la missione
aveva la priorità su tutto, sempre. Se in un frangente si fosse reso
necessario sacrificare la vita di un membro del suo team per evitare
di compromettere il successo della missione, non avrebbe esitato un
secondo. Avrebbe fatto ciò che doveva; nientemeno di ciò che ci si
aspettava da un vero shinobi.
Per quanto gli avesse voluto bene,
aveva giurato a se stesso che non sarebbe finito come suo padre
Sakumo, il quale aveva scelto di mettere al primo posto la sorte dei
propri compagni decretando così il fallimento della missione della
quale era stato messo a capo: un gesto altruistico in apparenza
nobile ma che si scontrava con le dure leggi sulle quali si reggevano
le fondamenta dell'intero sistema ninja e che gli era valso il
biasimo di tutto il villaggio finché, disonorato e caduto in
disgrazia, aveva scelto di farla finita piuttosto che continuare a
vivere nella vergogna.
Kakashi aveva eletto il rigoroso
rispetto delle leggi a vera e propria filosofia di vita. Ma la sua
visione delle cose era mutata radicalmente grazie a Obito.
Nel nostro mondo chi infrange le
regole viene considerato feccia di bassa lega. Ma chi abbandona i
propri compagni al loro destino è anche peggio della feccia.
Non aveva mai dimenticato quelle parole
che l'avevano colpito con la violenza di uno schiaffo in pieno volto.
Dal giorno in cui l'amico aveva dato la sua vita per proteggere lui e
Rin le aveva fatte sue, ripetendosele come un mantra, custodendole
nel tempio del proprio cuore come una formula ammantata di sacralità.
Prima di morire, Obito gli aveva fatto
dono del suo occhio sinistro e del potere che vi era contenuto, ma
c'era di più: era come se insieme all'abilità oculare dello
Sharingan fosse stato trapiantato in Kakashi anche il modo in cui
l'amico guardava la realtà intorno a sé. E allora il paradigma
secondo il quale aveva impostato la sua esistenza fino a quel momento
si era capovolto al punto che il comportamento di Sakumo aveva
lentamente iniziato ad acquistare un senso e la disapprovazione del
figlio nei confronti del padre era mutata in orgoglio.
Quel triste giorno, mentre le lacrime
di Kakashi cadevano sul suo viso per metà sepolto dalle rocce, Obito
gli aveva rivolto una sola richiesta. Prenditi cura di Rin.
Ci
aveva provato. Kakashi si era davvero impegnato con tutte le
sue forze per mantenere la promessa fatta all'amico morente... eppure
non era bastato. Non solo Rin Nohara era morta ma, per una crudele
ironia della sorte, era stata proprio la sua mano a squarciare il
petto della ragazza con il Chidori.
Per mesi ogni notte aveva rivissuto in
sogno lo strazio di quegli istanti. Gli occhi sbarrati e colmi di
orrore della sua compagna lo perseguitavano ogni volta che, sfinito
dalla stanchezza e dal tormento, osava abbandonarsi al sonno; il
flebile rantolo della sua voce spezzata mentre, ormai senza fiato,
articolava stentatamente le tre sillabe del suo nome prima di spirare
gli rimbombava nelle orecchie come amplificato di cento volte insieme
allo sfrigolio del fascio di fulmini prodotto dal suo stesso attacco.
Riusciva ancora a sentire il calore del suo sangue vischioso che gli
colava lungo il braccio e gocciolava ai suoi piedi formando una pozza
densa e scura che si allargava sempre di più sotto di lui, come a
volerlo inghiottire. L'odore acre di carne bruciata e l'effluvio
dolciastro e ferroso che emanava dal terreno intriso di sangue e dal
corpo straziato della ragazza pervadevano l'aria e gli saturavano le
narici, lasciandolo nauseato anche per diverse ore dopo il risveglio.
Non importava quanto a lungo
strofinasse le sue mani sotto il getto d'acqua del lavandino: il
rosso cremisi del sangue di Rin non se ne andava mai. Era sempre lì
a ricordargli la sua colpa, la sua promessa infranta, l'ennesima
persona che non era stato in grado di salvare. Aveva oltrepassato
l'epidermide, insediandosi sottopelle come un marchio d'infamia che
era divenuto parte di lui e gli aveva fatto guadagnare un nuovo
epiteto: Kakashi l'Ammazza-Compagni.
Era occorso molto tempo perché
riuscisse a superare il trauma e trovasse il coraggio di tornare ad
adoperare il Chidori. Se non fosse stato per
Minato, che una volta nominato Hokage aveva avuto l'acume e la
lungimiranza di proporre al suo allievo di unirsi alle Forze
Speciali, forse non sarebbe mai riuscito a riprendersi.
Ma alla fine, dodici anni prima, quella
maledetta notte del 10 ottobre in cui la Volpe a Nove Code si era
liberata e aveva attaccato il villaggio, il fato inclemente si era
portato via anche il suo maestro.
Da allora Kakashi non aveva mai smesso
di servire Konoha al meglio delle sue capacità come capitano della
Squadra Speciale, ma si era allontanato dagli affetti, estraniandosi
dalla vita collettiva, fermamente deciso a negarsi qualsiasi
possibilità di tornare a sperare nel futuro e di redimersi. Si era
chiuso in se stesso, divenendo facile preda dell'oscurità vampirica
che albergava in lui, dalla quale veniva divorato pezzo a pezzo,
consumato. La volontà di opporre resistenza a quel processo
inesorabile era ormai svanita e il Jonin si lasciava docilmente
sprofondare nel suo inferno privato quasi fosse sotto l'effetto di un
anestetico. Avanzava alla cieca come un automa: senza scopo, senza
direzione, limitandosi a portare a termine una missione dopo l'altra.
La feroce tirannia dei ricordi non si
era placata ma la presenza costante degli spettri del passato gli era
ormai diventata famigliare, come se l'abitudine al dolore l'avesse
reso meno acuto. Sofferenza e rimpianto erano divenuti suoi
inseparabili compagni, senza i quali Kakashi si sarebbe sentito
mancare della sua stessa essenza. E quasi senza accorgersene, aveva
finito per affezionarsi a quel tormento onnipresente, a ritrovarsi
incapace di lasciarlo andare, alimentandolo sempre di più. Perché
era giusto così. Era la condanna che doveva scontare per essersi
dimostrato incapace di proteggere coloro a cui teneva di più. Per
essere ancora vivo, mentre loro erano morti.
Tuttavia, dopo dieci anni di militanza
negli ANBU, il Terzo Hokage lo aveva infine dispensato dal suo
incarico, ritenendo che quell'ambiente non fosse più compatibile con
le sue condizioni psicologiche e delegandogli la supervisione dei
giovani diplomati all'accademia, sebbene Kakashi stentasse a
riconoscersi pienamente in quel ruolo.
Non che avesse mai avuto davvero
l'opportunità di mettersi alla prova come Sensei: il suo esame
preliminare si era sempre concluso a sfavore dei suoi aspiranti
allievi, che erano stati prontamente rispediti in accademia senza
tanti complimenti. Mai nessuno era stato promosso al grado di Genin.
E ora ci risiamo. Pensò
Kakashi, lasciandosi sfuggire un altro sospiro. Il Terzo Hokage
l'aveva informato che tre neodiplomati erano stati selezionati per
far parte della nuova Squadra 7.
Doveva ammettere con se stesso che
questa volta le circostanze rendevano la faccenda più intrigante del
solito: si sarebbe ritrovato a fare da guida al figlio orfano del
Maestro Minato, il Jinchuuriki della Volpe, e all'unico sopravvissuto
allo sterminio degli Uchiha... sempre che, naturalmente, quei ragazzi
si fossero dimostrati all'altezza della sua “esercitazione di
sopravvivenza”, eventualità tutt'altro che scontata.
Non si faceva troppe illusioni a
riguardo. Aveva già assistito a quello scenario desolante negli anni
precedenti: un trio di teppistelli arroganti che pensavano di potersi
considerare ninja in virtù del fatto che era stato concesso loro di
indossare il coprifronte della Foglia. Ormai conosceva il tipo: a
quei bambocci spocchiosi interessava unicamente prevalere gli uni
sugli altri, dimostrare di essere migliori dei propri compagni,
talvolta arrivando perfino a scontrarsi tra loro per decretare chi
fosse meritevole di divenire suo allievo. E quand'anche la prima
parte della prova non si fosse risolta in un esito così disastroso,
nessuna squadra era poi stata in grado di superare il trabocchetto
del secondo test, notevolmente più insidioso.
Non era affatto sicuro che le cose si
sarebbero concluse diversamente. Aveva trascorso la mattinata a
spiare di nascosto i tre che gli erano stati affidati, cercando di
farsi una prima idea delle loro personalità e del modo in cui
interagivano per capire rispettivi punti di forza e di debolezza. Al
momento di presentarsi a loro era stato accolto da quello scherzo
idiota del cancellino sulla porta e gli era bastata un'occhiata per
ottenere la conferma di ciò che già aveva dedotto dalla sua
indagine in incognito: quei tre ragazzini erano tutto fuorché una
squadra. Ciascuno era concentrato solo su se stesso e sulle proprie
mire egoistiche, del tutto disinteressato a fare fronte comune.
Durante il giro di presentazioni aveva
notato l'esuberanza dello scapestrato Naruto, maldestro, impulsivo,
immaturo e alla costante ricerca di attenzioni; l'atteggiamento
civettuolo e puerile di Sakura, tutta presa dalle sue fantasie
romantiche nei confronti di Sasuke; e poi c'era la fredda supponenza
del giovane Uchiha, interessato unicamente a vendicare il suo clan e
a diventare abbastanza forte da uccidere il fratello maggiore.
Si trattava indubbiamente di tre
soggetti che avevano ben poco da spartire, per non parlare della
differenza abissale che poneva Naruto e Sasuke letteralmente agli
antipodi. Riuscire a farne un vero team sarebbe stata un'impresa
alquanto ardua.
Kakashi sollevò lo sguardo sulla
fotografia un po' scolorita che ritraeva la sua vecchia squadra e si
permise un sorriso nostalgico. Ma del resto, anche noi eravamo
così, all'inizio.
Forse,
dopotutto, quella poteva essere la volta buona. Chi poteva dirlo!
L'indomani li avrebbe messi alla prova
e solo a quel punto avrebbe capito se quei tre si sarebbero rivelati
l'ennesimo fallimento o piuttosto una preziosa opportunità di
tramandare l'eredità del Quarto Hokage e di Obito a una nuova
generazione di shinobi.
Il Terzo Hokage gli aveva assegnato
quel compito e Kakashi avrebbe fatto il suo dovere, come sempre... ma
alle sue condizioni. Non gli importava che gli altri lo
considerassero troppo duro con le nuove reclute fresche di diploma,
né che i maestri dell'accademia scuotessero la testa ogni volta che
gli aspiranti Genin sottoposti al suo giudizio facevano ritorno in
aula delusi e imbronciati: non avrebbe mai permesso che qualcuno
incapace di collaborare con i propri compagni e di comprendere
l'importanza dello spirito di squadra diventasse shinobi. Mai.
In quell'istante, un refolo di vento
tiepido soffiò attraverso la finestra, sfiorando in una carezza
gentile i capelli argentati dell'uomo e lambendo la coppia di
campanellini appesi al muro. Un dolce tintinnio si levò alle spalle
di Kakashi, come in risposta al pensiero appena formulato dal Jonin.
Spazio Autrice
Kon'nichiwa! :)
Vi rubo giusto altri due secondi.
Innanzitutto voglio ringraziare chiunque abbia aperto questa storia e
speso un po' del suo tempo per leggere. Non scrivevo da un bel po' e
questo è solo il mio secondo lavoro nel fandom. Sinceramente non
sono convintissima del risultato, ma è il meglio che sono riuscita a
fare. Sono apertissima a suggerimenti e critiche costruttive.
Al prossimo e ultimo capitolo di questa
mini-storia introspettiva (che, vi prometto, sarà un pochino meno
angst).
Domo arigato!
P.S. Un ringraziamento speciale a
Menade Danzante, senza la quale probabilmente questa storia non
avrebbe mai visto la luce.
Grazie Menade del mio cuore!
|
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Capitolo 2 *** The day after... ***
cap.2
The day
after...
Morning
Kakashi
sollevò la palpebra destra un minuto prima che la sveglia iniziasse
a trillare. In realtà non ne aveva mai avuto bisogno: il suo
orologio interno era sempre perfettamente puntuale... che poi lui
decidesse deliberatamente di arrivare in ritardo agli appuntamenti
era un altro paio di maniche.
Allungò
un braccio dietro di sé e afferrò il piccolo congegno,
disinnescando il meccanismo che entro una manciata di secondi
l'avrebbe azionato. Le lancette, che dividevano il quadrante in due
perfette metà, indicavano le 6 in punto.
Il Jonin
rimise la sveglia al suo posto e si stiracchiò, ridacchiando
all'idea dei suoi tre esaminandi che dovevano già trovarsi al campo
di addestramento ad attenderlo da almeno un'ora, rigorosamente a
stomaco vuoto, come si era premurato di raccomandare loro prima di
congedarsi.
Scostò
le coperte e si alzò dal letto, gettando un'occhiata alla finestra.
Il chiarore e le tinte pastello del cielo sereno e sgombro da nubi
promettevano una bella giornata di sole. L'uomo aprì le ante e inalò
la brezza del primo mattino: l'alba portava con sé il profumo
delicato di muschio e resina e la freschezza fragrante dell'umidità
notturna si condensava in lingue di foschia che serpeggiavano tra le
vie del villaggio. Sì, si prospettava davvero una splendida
giornata.
Ma
quelle condizioni climatiche favorevoli non avrebbero certo
facilitato le cose a quei tre, e lui non aveva alcuna intenzione di
andarci piano solo perché si sarebbe trovato davanti dei ragazzini
inesperti. D'altra parte, una delle qualità imprescindibili per uno
shinobi era la determinazione; la perseveranza che spingeva a non
soccombere anche dinanzi alle situazioni più difficili.
Kakashi
si fece una doccia e gustò una colazione leggera, dopodiché si
preparò per raggiungere i ragazzi al luogo dove sarebbe avvenuta la
prova.
Quando
rimosse i due campanellini dal muro scoccò uno sguardo alla
fotografia accanto alla finestra. Obito, Rin, Maestro. Oggi sarà
finalmente la volta buona? Posso permettermi il lusso di sperare?
I volti
sorridenti di Rin e Minato sembravano comunicargli un invito ad
essere fiducioso, mentre l'espressione ostinata di Obito pareva
indirizzargli un messaggio lievemente diverso: forse non sarebbe
stato facile e poteva darsi che, ad una prima impressione, Naruto
Uzumaki, Sasuke Uchiha e Sakura Haruno fossero del tutto inadatti a
diventare Genin e a far parte di un team. I primi due, in
particolare, erano diversi quanto il giorno e la notte e Kakashi era
perfettamente conscio del fatto che non si potessero soffrire. Ma
nonostante l'astio che in principio intercorreva anche fra loro, alla
fine Obito si era dimostrato il compagno e l'amico più leale che
potesse immaginare e Kakashi sapeva che, se fosse stato vivo, avrebbe
pienamente appoggiato il suo metodo di selezione dei giovani Genin.
In fondo, stava applicando ciò che Obito stesso gli aveva insegnato.
Evening
Kakashi entrò nella stanza sfilandosi
la giacca dell'uniforme e appendendo una busta di carta allo
schienale della sedia , poi si gettò sul letto a pancia in su,
sistemando un braccio dietro la testa per maggiore comodità. Sotto
la maschera si sarebbe potuta intravedere l'ombra di un sorriso e il
suo occhio destro brillava di una luce che sembrava scomparsa da
parecchi anni. Intorno a quell'iride grigia aveva ripreso a vibrare
qualcosa di simile ad uno slancio vitale.
Ce l'avevano fatta. Avevano superato
la prova!
L'uomo trasse dalla
tasca i due campanellini e prese a rigirarseli tra le dita, facendoli
tintinnare. Non si aspettava certo che i ragazzi riuscissero a
sottrarglieli come richiesto dalla consegna che aveva fornito (anche
se doveva ammettere di aver sottovalutato il giovane Uchiha) ma
l'esame non era stato proposto allo scopo di capire chi tra loro
fosse lo shinobi migliore. Il fine era testare la loro capacità di
fare gioco di squadra e unire le forze per raggiungere l'obiettivo
comune, e in quella prima parte della prova tutti e tre avevano
fallito miseramente. Ma sperare che Naruto, Sasuke e Sakura
decidessero spontaneamente di lavorare insieme fin dall'inizio
sarebbe stato ottimistico al limite dell'ingenuità. Sapeva fin dal
principio che sarebbe stato necessario il suo intervento per far
comprendere loro l'importanza del lavoro di squadra.
Aveva parlato ai
ragazzi del valore della collaborazione, della fiducia, dello spirito
di sacrificio che doveva accomunare i membri di un team e
dell'imprescindibilità dell'aiuto reciproco. Aveva cercato di
infondere alle sue parole quanta più passione riuscisse a richiamare
e alla fine, quando si era sentito piuttosto sicuro che il messaggio
fosse stato recepito da tutti, aveva lanciato l'esca, concedendo ai
ragazzi una seconda chance di superare il test nel pomeriggio e il
permesso di pranzare per recuperare le forze ma mettendo bene in
chiaro che passare anche solo un singolo boccone a Naruto, in
punizione per aver tentato di rubare i bentō,
avrebbe comportato la squalifica immediata di tutto il trio.
Una volta definita
quella condizione si era dileguato tra gli alberi, ben nascosto agli
occhi dei ragazzi ma abbastanza vicino da poterli osservare. Quello
era il momento della verità: in base alla scelta che avrebbero
compiuto, Kakashi avrebbe stabilito se promuoverli a Genin e
accettarli come suoi allievi o bocciarli e rimandarli all'accademia.
Non osava concedere
troppo margine alla speranza. Le probabilità che Sasuke e Sakura
disobbedissero alle sue regole e condividessero i loro bentō
con Naruto erano notevolmente basse, inoltre il profilo che aveva
tracciato di quei due ragazzini non collimava affatto con la
predisposizione a contravvenire a un divieto imposto da un superiore.
Erano entrambi studenti modello, primi della classe, portati in palmo
di mano dai maestri, massimo dei voti in quasi tutte le discipline:
quanto ci si poteva aspettare che rischiassero la bocciatura per il
bene di quella testa quadra del loro compagno?
Si sentiva un po'
ipocrita, in verità. Aveva speso tante belle parole riguardanti la
fiducia tra compagni e adesso era il primo a dubitare del loro
successo. I suoi amici e il suo maestro avevano creduto in lui
all'epoca, quando gli era stata affidata la sua prima missione in
qualità di Jonin in capo e anche se alla fine li aveva delusi,
questo non sminuiva il valore della fede che essi avevano riposto in
lui. Ciononostante, Kakashi si sentiva comunque restio a scommettere
sull'esito positivo di quella giornata. Temeva che lasciarsi
trasportare troppo in alto dalle fragili ali dell'ottimismo avrebbe
reso l'impatto della rovinosa caduta al suolo delle sue illusioni
ancora più devastante.
Obito, Rin, Maestro. Sto forse
sbagliando tutto? Dovrei credere in loro così come voi avete creduto
in me?
E a cosa era valsa
quella fiducia? Ne era stato degno? Era stato in grado di proteggere
le persone care nel momento del pericolo?
La risposta a
quelle domande era incisa sul monumento ai Caduti in missione, eretto
proprio in quello stesso campo di addestramento, e su una pietra
tombale del cimitero di Konoha.
Kakashi si era
lasciato andare contro il tronco dell'albero dietro di lui,
avvertendo la ben nota sensazione di sconfitta e impotenza che lo
coglieva ogniqualvolta rievocava le sue mancanze nei confronti degli
amici. Se solo non fosse stato così cieco... Se solo avesse capito
prima... Se solo avesse agito diversamente...
Ma a un tratto, la
penosa catena di tutti quei “se solo” era stata interrotta dalla
voce di Sasuke: “Su, prendine un po'” e Kakashi aveva creduto che
le sue orecchie lo stessero ingannando. Forse si era trattato solo di
uno scherzo del vento che frusciando tra le foglie e mescolandosi ai
suoi pensieri gli aveva fatto immaginare di aver udito quelle parole.
Ma quando si era voltato per sincerarsene aveva visto molto
chiaramente Sakura e Sasuke allungare bocconi del loro pasto a
Naruto, che mangiava con gratitudine. Kakashi aveva trattenuto il
respiro e si era sentito colmare di una gioia incredula. Stava
succedendo davvero!
Spinto da
quell'impulso, si era arrischiato a sporgersi un po' di più oltre il
suo nascondiglio e aveva sollevato il coprifronte che teneva sempre
calato sull'occhio sinistro, quasi volesse accertarsi tramite lo
Sharingan dell'evento eccezionale che si stava svolgendo davanti a
lui.
Obito, li hai visti?
E in quel momento
gli era parso di sentire le voci dei vecchi compagni e del Maestro
Minato che sussurravano il suo nome e tre paia di mani che premevano
gentilmente ma con decisione sulla sua schiena, spingendolo a uscire
allo scoperto e a raggiungere il trio.
Era stato difficile
piombare sui ragazzi come una furia e fingere di essere adirato con
loro per aver infranto la consegna quando tutto il suo animo era in
preda a un'euforia commossa che lo induceva a scoppiare in una risata
liberatoria.
- Vi avevo
avvertiti! Sapevate cosa sarebbe successo se non aveste rispettato le
mie regole! Avete qualcosa da dire a vostra discolpa? -
Naruto, Sasuke e
Sakura erano impalliditi nel trovarsi di fronte il Jonin con
quell'aria più minacciosa che mai e ovviamente non avevano fatto
caso al sorriso trattenuto a fatica che premeva per affiorare alle
sue labbra o al guizzo di orgoglio e soddisfazione che luccicava in
un punto imprecisato del suo occhio.
Tuttavia, sebbene
impietriti dallo spavento, quei tre avevano trovato la forza e il
coraggio per replicare e difendere il loro gesto, ricordandogli come
fosse stato proprio lui a invitarli ad unire le forze e ad agire come
una squadra piuttosto che individualmente. Avevano sostenuto il suo
sguardo con fermezza, pronti ad affrontare la sua collera, insieme.
E allora quella
facciata di sdegno si era dissolta e Kakashi aveva potuto finalmente
dare voce alla frase che ormai disperava di poter pronunciare: -
Siete promossi! -
La voglia di
scoppiare a ridere aveva preso ancora più spazio davanti alle
espressioni allibite e confuse dei suoi allievi, che lo guardavano
come se il loro maestro fosse impazzito... o viceversa.
Kakashi si crogiolò in quel ricordo,
accarezzandone la superficie come se temesse di mandarlo in frantumi
se vi si fosse soffermato troppo. Una parte di lui, ancora
imbrigliata dalla pessimistica rassegnazione nella quale aveva
vissuto gli ultimi anni, lo tratteneva dall'esultare; eppure era
tutto vero. Non si era trattato di un sogno o un'illusione: era
perfettamente sveglio, come gli comunicava il metallo fresco dei
campanelli che si stava pian piano scaldando a contatto con le sue
mani.
Il tempo della sua vita aveva infine
ricominciato a scorrere; il sangue gli pompava nelle vene con maggior
vigore, la cortina di nebbia grigia che aveva oppresso la sua mente
così a lungo si stava diradando e le catene di piombo che
avvolgevano il suo cuore avevano allentato la morsa, ritraendosi in
favore di una ritrovata scintilla di speranza, da troppo sopita.
Kakashi espirò lentamente, assaporando
quel tumulto di sensazioni vivificanti, poi si alzò dal letto e
riappese al muro il laccio con i due campanelli, che tintinnarono
un'ultima volta prima di tacere.
Trattenendo il fiato, immerse la mano
nella busta che aveva appeso allo schienale della sedia, estraendone
l'oggetto che vi era contenuto: si trattava di una semplice cornice
in legno all'interno della quale era stata inserita una fotografia
dai colori brillanti, scattata poche ore prima. L'immagine ritraeva
la formazione della neonata Squadra 7: Sakura sorrideva in primo
piano tra Naruto e Sasuke che si guardavano in cagnesco l'un l'altro
mentre un soddisfatto Kakashi torreggiava dietro di loro con le mani
posate sulle teste dei due ragazzi nel tentativo di fare da paciere e
di convincerli a guardare verso l'obbiettivo della macchina
fotografica.
Il Jonin sistemò la cornice accanto a
quella già presente sulla mensola dietro il letto e il profilo del
sorriso nascosto sotto la maschera si fece ancora più marcato:
eccole lì, la vecchia e la nuova Squadra 7. Da una parte il passato,
ormai scritto nero su bianco e immutabile; dall'altra la pagina
bianca del presente che recava in sé il seme del futuro e tutto
l'infinito potenziale dell'avvenire. A vederle vicine, chiunque
avrebbe potuto notare delle evidenti somiglianze; ma ora il ragazzino
che nella prima foto esibiva un atteggiamento annoiato, al limite
dell'insofferenza, era l'entusiasta Sensei che posava insieme ai suoi
allievi nella seconda.
No, non i suoi allievi. I suoi nuovi
compagni. E questa volta non avrebbe fallito. Questa volta li avrebbe
protetti ad ogni costo, in qualunque circostanza. Non avrebbe
permesso a nessuno di far loro del male. Non avrebbe lasciato che le
tragedie del passato si ripetessero.
Sapeva di non essere stato un buon
compagno per i suoi amici, ma forse ora gli si presentava l'occasione
di essere un buon Sensei per la nuova generazione e di riscattare gli
sbagli commessi. Forse il destino gli stava aprendo una nuova strada
per proseguire il suo cammino di espiazione.
Sì, quella che gli si stava offrendo
era una possibilità insperata di fare ammenda per tutte le volte in
cui aveva deluso le persone a cui teneva e rendere migliore il futuro
di Konoha.
Kakashi decise che avrebbe fatto di
tutto per non sprecarla. Lo doveva a suo padre, a Obito, a Rin, al
Maestro Minato, e anche a se stesso.
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