Barbie inglese

di nicailuig
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Let me down easy ***
Capitolo 2: *** Marinade ***
Capitolo 3: *** The ripe and ruin ***



Capitolo 1
*** Let me down easy ***


Let me down easy

 

Give me a good reason to be heartsick again
To be here, to be strong, to be oddly and boldly estranged
From a loss of better years
I found myself descending into tedium and fear

You want someone who wants you for who you are
I want someone to try and let me down easy, easy tonight
Easy, easy tonigh

You wanted to fight for a cause?
Then go out and fall in love
Don't stop, don't stop believing
In truth, grace, and the grieving

 

 

La prima volta che ci siamo visti era tardi e mentre ti aspettavo mi sono chiesta che stessi facendo. Io sola, su un ponte desolato, in una zona della città poco frequentata a quell’ora della notte, a cercare con lo sguardo una persona che neanche avevo mai visto. Lo pensavo, che fosse una cazzata, accettare il tuo invito, ma mi sentivo elettrica dopo anni di grigiore e così, mentre premevo invio – see you tonight – mi sono detta ma sì, ma che te ne frega.

Sei arrivato con una bici a noleggio arancione. Ti ho guardato parcheggiarla e avvicinarti nella mia direzione, la mascherina a coprirti gran parte del viso e i ricci biondi che ribalzavano a ogni tuo passo. Di primo acchito non mi sei piaciuto, forse perché sembravi troppo sicuro di te, forse perché mi hai salutato con due baci sulla guancia, canonici per noi italiani, ma decisamente poco appropriati in questo periodo. Hai iniziato una conversazione che ora non ricordo e ho pensato che la tua voce non si addiceva al tuo aspetto fisico, ma che era bella, profonda e rassicurante.  Ci siamo seduti sul porticciolo di legno che sta proprio sopra il fiume e abbiamo stappato le birre che ti avevo promesso avrei portato.  Mi hai raccontato delle tue origini ebraiche, dei parenti che vivono in Svizzera – è per questo che stai studiando il tedesco – e della tua passione per la storia italiana. – L’Impero Romano, intendi? –. – O no – hai detto, – il Rinascimento, la Venezia del Cinquecento. Io ti ho ascoltato, curiosa, come se venissi da un altro pianeta, stregata dal tuo accento inglese.

Finita la birra hai chiesto se ci fosse qualche posto aperto dove comprarne un’altra ma sapevi benissimo che ormai era troppo tardi. Io ho proposto di controllare se ai distributori automatici vicino a casa mia vendessero alcolici – cosa di cui dubitavo – e una volta appurato che non era così hai suggerito maliziosamente di andare da me, che lì saremmo potuti stare al caldo. Io ho acconsentito, non perché mi andasse davvero ma perché volevo sembrare disinvolta.

Ci ha aperto Andrea, in silenzio, e per qualche secondo mi sono sentita il suo sguardo incerto addosso, a voler verificare che andasse tutto bene. Credo di avergli sorriso. Ci siamo seduti in cucina e io ti offerto un bicchiere d’acqua. Tra un sorso e l’altro ho cercato di inghiottire anche l’imbarazzo: sentivo che tu volevi andare in camera mia ma non sapevo se io, invece, volessi invitarti a salire.

Alla fine in camera mia ci siamo andati e dopo due banali chiacchere di circostanza mi hai baciata. Credo di aver pensato a quanto quell’interazione fosse prevedibile – cos’altro potevo aspettarmi? – ma che il modo in cui era scaturita fosse troppo macchinoso, innaturale. Sapevo dove volevi arrivare e ti ho subito avvisato che quella sera non sarebbe successo. Con voce tenue, mentre ancora mi baciavi, hai affermato che andava bene comunque. Ho dovuto ristabilire i miei limiti un paio di volte – You’re not a good listener – ti ho rimproverato, ma non hai forzato la mano.

Per ricomporti ti sei seduto, e mentre lo facevi hai tirato indietro i capelli in un modo tutto tuo, inconfondibile. Avrei voluto scattarti una foto. Ti sei sdraiato su un fianco e mi hai avvicinato a te.  Ho poggiato la testa sul tuo braccio e tu hai preso ad accarezzarmi i capelli; per un momento mi sono dimenticata di averti incontrato solo qualche ora prima. Mi guardavi negli occhi, e io ti ho sfidato a mantenere lo sguardo, che hai più volte distolto, imbarazzato. Mi hai chiesto e richiesto a cosa pensassi, e io davvero non pensavo a niente, ma non mi hai creduto. Volevo che restassi e che te ne andassi al tempo stesso. Nel primo caso sapevo che sarebbe bastato baciarti, intrecciare le mani tra i tuoi ricci, dietro la nuca, infilare le mani sotto maglione, accarezzarti la schiena. Nel secondo ero impreparata. Ricordo di averti preso il braccio per controllare l’ora dall’orologio che avevi al polso, con una sfacciataggine che con mi appartiene. Tu mi hai guardato in silenzio, e io mi sono giustificata dicendo che il giorno dopo mi sarei dovuta svegliare presto, che avevo lezione. Mi hai chiesto se volevo che te ne andassi e ho detto sì. Ti sei alzato senza esitazione e senza tracce di delusione in faccia. Ti ho seguito per le scale e mentre aprivi la porta ho pensato che non ci saremmo rivisti più.

 

***

 

Il giorno dopo stavo raccontando ad un’amica della serata trascorsa con te quando mi è arrivato un tuo messaggio – Let me know when you want to do something again – hai detto.

Il giorno dopo ancora ci siamo rivisti, questa volta all’aperto, questa volta con del vino bianco. Tu sei abituato a bere a un ritmo molto più veloce del mio, e così è finita che io ero particolarmente brilla e tu no. Abbiamo parlato di salute mentale, di come sia un argomento ormai sdoganato in Inghilterra, del fatto che tu stesso sei stato in terapia. La tranquillità che emanavi nel trattare temi così delicati mi ha portato ad accennare alla mia depressione. Sono rimasta vaga ma l’alcol bevuto mi confondeva le idee e davvero non ricordo se ho parlato troppo. Ci siamo anche divertiti tanto e tra una battuta maliziosa e l’altra mi sono fatta distrarre dalle pieghe che ti si formano a lato della bocca quando ridi. Avrei voluto baciarti ma non l’ho fatto.

Quel pomeriggio ti avevo avvisato che non avrei fatto tardi e a mezzanotte precisa ci siamo alzati per tornare ognuno nelle rispettive case. Mi hai salutato con un bacio molto lungo e dolce e per la prima volta ho pensato che forse non eri una testa di cazzo. Ti ho scritto io la notte stessa, accusandoti scherzosamente di avermi fatta ubriacare. Tu hai fatto il brillante come tuo solito, mandandomi dei messaggi pieni di lusinghe e pieni di bugie. Volevi rivedermi e volevi che succedesse presto.

Era la mattina successiva quando ti ho risposto che sarei tornata a casa dai miei quel pomeriggio stesso, e che quindi per rivedermi avresti dovuto aspettare la settimana successiva. Dopo aver saputo che il treno ce lo avevo solo alle quattro, hai proposto di berci un morning coffee, che non avevi ancora fatto colazione, e ancora una volta la soddisfazione di essere stata invitata di nuovo si è mescolata alla frustrazione quando hai specificato che il caffè lo avremmo preso non al bar ma da te.

Dopo aver soppesato pro e contro ho acconsentito, dicendo a me stessa che forse ti avevo giudicato troppo velocemente. Sono scesa dalla bici che avevo il fiato corto, il sudore appiccicato ai vestiti e gli occhiali appannati dall’umidità di quel giorno. Ho lasciato passare qualche minuto prima di scriverti che ero arrivata e una volta saliti da te mi sono messa a studiare il tuo bilocale per prendere tempo e calmare l’imbarazzo. Stavo guardando qualcosa poggiato sulla tua scrivania disordinata quando mi hai preso la vita e iniziato a baciarmi il collo. In poco tempo eravamo seduti sul letto, le tue mani sotto il mio maglione e le mie gambe avvinghiate al tuo torace. Quello che volevi era evidente, ma prima che andassi troppo oltre ti ho illustrato la mia politica – hai riso sentendo questa parola –, mettendo bene in chiaro che non mi va di fare sesso con persone che non tengono a me e di cui a me non importa nulla. Tu hai risposto che capivi, ma non cerchi una relazione, che hai passato gli ultimi 5 anni da fidanzato e che ora non è il momento. Ti ho chiesto se eri deluso e mi hai risposto di no, ma che mi desideravi davvero. Ti ho confessato che anche io avrei fatto sesso con te, ma che non sarebbe successo. Le mie parole devono avere risvegliato qualcosa in te, perché hai ripreso a baciarmi con più ardore di prima. Poi mi hai chiesto se io fossi delusa: ti ho risposto di no, che tendo a non farmi aspettative e che è impossibile ferirmi, che come ti avevo già detto non sono in grado di provare sentimenti. – Non mi cercherai più, immagino – hai chiesto – e io ti ho detto che no, probabilmente non ci saremmo rivisti più.

A quel punto mi sono sentita del tutto fuori posto, sdraiata a letto con il reggiseno slacciato, al mio fianco un ragazzo mezzo nudo ma con cui non avrei fatto sesso. Ho tirato fuori la più banale delle scuse per andarmene – non avevo nemmeno voglia di sforzarmi di essere credibile – e tu probabilmente l’hai capito, ma grazie al cielo non mi hai complicato la vita e hai retto il gioco alla perfezione. Ho indossato il cappotto e ti ho guardato rivestirti, ma ti ho fermato quando ho capito che ti stavi preparando per uscire pure tu. Ti ho preso d’anticipo dicendoti che mi ricordavo la strada, che davvero non serviva che mi riaccompagnassi.  Mi hai guardato dubbioso e hai chiesto se fossi sicura, e io mi sono morsa la lingua per obbligarmi a stare zitta e annuire anziché dire qualcosa, qualsiasi cosa, che sarebbe stata di sicuro fuori luogo. Non volevo trapelasse nulla. Ho richiuso la porta del tuo appartamento dietro di me e sono salita sull’ascensore con una ragazza che mi ha sorriso. Ho pensato che sarebbe andato tutto bene.

 

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Questa storia è frutto della mia immaginazione. L'uso della prima e della seconda persona singolare è una scelta stilistica. 

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Capitolo 2
*** Marinade ***


Marinade

She got attacked by a pack of dogs
But she said, it's okay
I got some wilderness skills beneath my belt
She said she used to be a part of a scout team
They nearly made her leader one time
But they didn't have enough thread
To sew the patches on

And she said, do you know how you heard
About that family that burnt down in that house?
Well that was hers
She said, it was just some hoax that she made up
To watch people cry

 

 

Per qualche giorno non ti ho pensato. Ero tornata a casa dei miei per il weekend e le distrazioni mi hanno tenuto occupata. La domenica sera, rientrata nel mio appartamento, mi sei tornato in mente. Mentre prendevo in mano il telefono e digitavo let’s be friends sapevo benissimo cosa avrei dovuto fare – cancellare tutto – ma invece ho impulsivamente premuto invio. Ero perfettamente consapevole dell’espressione da schiaffi che in quel momento avevo dipinta in faccia e se al mio posto ci fosse stata una mia amica le avrei dato della testa di cazzo. Peccato essere stata sola. La mia era una proposta del tutto maliziosa e nella mia testa aveva senso proprio perché ero sicura avresti rifiutato. E invece – Sounds lovely – hai detto.

Ero così curiosa di capire se davvero fossi ingenuo – come potevamo rimanere amici dopo quello che ci eravamo detti? –  o se invece avessi letto tra le righe e mi stessi sfidando, che al tuo Let me know when you want to do something ho subito proposto una passeggiata all’aperto. Ora che il sesso era fuori discussione pensavo che uscire in pubblico e fare qualcosa che non implicasse spogliarsi fosse una proposta appropriata. Per qualche giorno sei stato irraggiungibile e mentre aspettavo una risposta mi sono chiesta perché mai avessi accettato la mia offerta se non eri davvero interessato a vedermi. Dopo avere bloccato e sbloccato il tuo numero come un’adolescente risentita, siamo riusciti a fissare un giorno.

Sei arrivato da me che erano le sette di sera. Io ero appena rientrata a casa dopo una lunga giornata passata tra lezioni in università e ore di studio in biblioteca ed ero a malapena riuscita a togliermi la gonna che stavo indossando – non volevo pensassi che fosse per te, perché non lo era – e a infilarmi una felpa e dei jeans. I capelli erano scomposti e il trucco sfatto ma ormai che eravamo solo amici non c’era più bisogno di impegnarsi. Tu eri vestito di chiaro e avevi addosso una quantità eccessiva di dopobarba. Mi sono sforzata di pensare che non fosse per me ma per qualcun’altra.

Erano trascorse almeno due settimane dall’ultima volta che ci eravamo visti – da quando ci eravamo visti mezzi nudi – ma non c’era traccia di imbarazzo. Tu mi hai chiesto come fosse andato il compleanno della mia amica e per qualche secondo sono rimasta interdetta, poi mi è tornata in mente la scusa campata per aria che avevo tirato fuori per scappare dal tuo appartamento dopo che ci eravamo rifiutati a vicenda. Ho inventato una risposta veloce ma credibile e mentre mi stupivo di me stessa e di essere così disinvolta in una situazione che normalmente mi avrebbe messo a disagio, mi sono chiesta come avessi potuto ricordarti un dettaglio così insignificante.

Ti sei accomodato sul mio letto scricchiolante, un cuscino dietro la schiena – I’m an old man, ti sei giustificato – e le gambe distese davanti a te. Io ti ho suggerito di provare con lo yoga, che aiuta con l’elasticità, e quando mi hai risposto che già lo pratichi, non ho potuto che dare ragione a quel pensiero che era sorto in me la prima volta che ci eravamo visti, che eri troppo, in tutto, per essere vero. Non erano solo gli occhi azzurri e i ricci biondi ad avermi stregato, le spalle larghe di chi gioca a rugby, la voce profonda e l’accento british, ma anche e soprattutto la spiccata ironia con cui rispondevi alle mie provocazioni, il tuo essere vegetariano, l’avere idee di sinistra pur provenendo da una famiglia benestante, l’amore per la storia e la letteratura, la voglia di imparare il tedesco, oltre il fatto di masticare l’italiano, e l’apertura mentale nell’affrontare temi delicati come la salute mentale.

Mi hai riportato alla realtà chiedendomi se mi andasse di stappare quel vino che ti avevo promesso. Sono scesa di corsa in cucina per tornare con due birre – è tutto quello che mi è rimasto – che abbiamo bevuto rimanendo sempre a debita distanza, io a un capo del letto e tu all’altro, senza mai avvicinarci. Non hai mai provato a rompere il patto e vedere che fossi una persona di parola mi ha rasserenata. Non c’era niente di innocente, però, nell’aria. Ti guardavo, ti fissavo quasi, con un sorriso beffardo dipinto in faccia, e tu facevi altrettanto. Questa volta lo sguardo non lo abbassavi, mi sfidavi, ma non sapevi che il manico del coltello ce l’avevo in mano io. Mi hai chiesto se la felpa che indossavo – una veccha felpa da allenamento – l’avessi rubata a qualche fidanzato passato ed io, fintamente risentita, ti ho ricordato che anche io avevo fatto sport per moltissimi anni. Tu ti sei giustificato dicendo che quello che era il nome del team ti aveva tratto in inganno, credevi fosse un cognome e, dato che non era il mio, hai pensato fosse di uno dei compagni di squadra di mio fratello, con cui ti avevo detto di essere uscita in passato. La memoria che dimostravi per dei piccoli dettagli come questi mi lasciava sorpresa.

Ti ho confidato che al contrario di quanto ti avevo detto in precedenza, quando ci eravamo visti da te, non sono davvero una tipa da relazione, che di storie serie non ne ho mai avute, che mi stufo presto e non mi sento mai coinvolta. – Perché non hai sentimenti, hai puntualizzato –. – Esattamente –. Ero consapevole che ti sarei potuta sembrare superficiale, ma forse lo volevo, perché non mi andava che pensassi a me come una persona pensante, che dice di no al sesso occasionale perché va in cerca del principe azzurro. La realtà è che sì, sono pesante e il sesso occasionale non mi piace, ma non cerco nemmeno una relazione a tutti i costi, perché so stare benissimo da sola e non è negli uomini che trovo il mio valore; ed è vero che mi sono stufata dei ragazzi che ho frequentato, ma solo perché non eravamo compatibili, e forse perché ho accettato di uscirci anche se non ne ero convinta, perché non so dire di no, e poi mi ci sono trovata invischiata. È venuto fuori che dei due il tipo da relazione in realtà sei tu, che nei hai chiusa una quest’estate che è durata cinque anni. Il modo in cui ne parlavi mi ha aiutato a vederti sotto una luce diversa. Forse davvero non eri solo il british handsome man who will sweep off your feet che avevi detti di essere prima che ci conoscessimo.

Poi ci siamo trovati a parlare di Tinder, delle persone che lo usano, che in genere lo prendono davvero troppo sul serio, e di quanto sia difficile avere una conversazione interessante. Ti sei lamentato che tante delle ragazze con cui hai chattato ti hanno approcciato con un banale ‘ei’, ed io ti ho criticato dicendo che non facevi nulla per aiutare la situazione, che avresti dovuto scrivere qualcosa nella tua bio, dire qualcosa di te. Mi hai dato ragione, quindi mi hai chiesto come facevo io, invece, ad approcciare gli uomini. Io ti ho detto che non scrivo mai per prima, e tu hai riso pensando che me la stessi tirando. Un po’ sì, in effetti, – ma è perché non mi importa degli sconosciuti, ho specificato – mica perché voglio fare la primadonna. Poi mi hai sorpreso, ammettendo che più di tanto Tinder non ti piace: troppo transactional, lo hai definito. Non ho potuto fare a meno di pensare che ti stavi contraddicendo, che uno che cerca solo sesso non dovrebbe avanzare una critica del genere, ma non te l’ho fatto notare.

Verso le nove hai detto che saresti rientrato a casa. Avrei voluto dirti che potevi rimanere anche a cena, ma ero talmente soddisfatta di come era andata la serata che mi sono limitata ad annuire senza lamentarmi. Ti ho seguito lungo le scale per accompagnarti alla porta e più di una volta ti sei girato, quasi a controllarmi, convinto che ad un certo punto ti avrei baciato. Non lo avrei fatto per niente al mondo. Ti ho salutato dalla giusta distanza e ho pensato che in fin dei conti era stato un successo: non saremmo stati niente più che amici, ma per una persona interessante come te poteva valerne la pena.

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Capitolo 3
*** The ripe and ruin ***


The ripe and ruin

 

She she she she only ever-ver-ver-ver-ver
Walks to-to count-count her steps,
Eighteen-teen strides and she stops to abide
By the law that she herself has set.
That eighteen steps is one complete set,
And before the next nine right and nine left.
She looks up up at the blueeeeeee,
And whispers to all of the above.

Don't let me drown, don't breathe alone,
No kicks no pangs no broken bones.
Never let me sink,
Always feel at home,
No sticks no shanks and no stones.
Never leave it too late,
Always enjoy the taste,
Of the great-great-great grey world of hearts.
As all dogs everywhere bark-bark-bark-bark
It's worth knowing,
Like all good fruit, the balance of life is in
The ripe, and ruined

 

Il giorno successivo alla nostra prima serata da amici mi hai mandato un messaggio dicendo che la prossima volta avresti pensato tu a portare qualcosa da bere. – Or do you smoke? – . No, non fumavo erba, soprattutto non lo avrei fatto davanti a te, visto che o non ne sentivo gli effetti, oppure finivo con lo stare male. – I don’t want to throw up in front of a stranger – e mentre premevo invio ho sperato che lo notassi che ti avevo chiamato ‘sconosciuto’ – la verità era che ancora non mi fidavo – e che ti facesse un po’ male. Tu mi hai preso in giro facendomi presente che esistono anche le mezze misure ed io, dopo averti ringraziato per l’illuminante rivelazione, ho ribattuto che da italiana quale sono, il senso della misura non lo conosco proprio, che non c’è nel mio DNA. Nel dirlo mi sono resa conto che stavo scherzando solo in parte, che se da un lato mi so regolare benissimo con l’alcol, dall’altro nella vita sono così, o tutto o niente. Tra le righe ti ho confidato molte cose di me, nel tempo che abbiamo passato insieme, chissà se te ne sei reso conto. Chissà se hai capito che sì, sono sfacciata e diretta nell’esprimere ciò che penso, ma che sono una codarda quando mi tocca svelare chi sono davvero.

Niente fumo, allora – mi hai garantito. Avresti portato delle birre, invece, e ti aspettavi che dal momento che non conosco le mezze misure, ci sarei andata pesante. Non volevo essere io a chiedere quando la prossima volta sarebbe stata, quindi ci ho girato intorno come sono solita fare e ti ho detto scherzosamente che sviluppare una dipendenza non era esattamente nei miei piani, che per me due bicchieri sarebbero stati più che sufficienti per essere brilla al punto giusto. Hai acconsentito con rammarico, dicendo che avresti dovuto reprimere le tendenze all’alcolismo che ti contraddistinguono – giusta eredità delle tue origini britanniche – ma io ti ho fatto notare che da studentessa di psicologia quale sono sto imparando proprio a non giudicare, che con me ti potevi sentire sempre libero di dire e fare ciò che volevi. Allora mi hai promesso che con qualche birra di troppo ti saresti aperto e mi avresti confidato i traumi che hai subito da bambino. Sapevo che eri sarcastico, ma per un attimo mi sono chiesta se per caso non ce lo avessi davvero qualche scheletro nell’armadio, che il senso dell’umorismo lo uso anche io per mascherare ciò che mi fa male.

Una seduta di psicoterapia con me si aggira sui 60 euro – ti ho avvisato, e tu hai detto che dal momento che chiedevo più della tua vera psicologa, mi avresti pagato con gli spicci. Ancora una volta mi ha stupito la naturalezza con cui ammettevi di essere stato in terapia. Io ad essere così trasparente non ci sono mai riuscita. Dunque ti ho sfidato, dicendoti che quel prezzo era del tutto giustificato, che non solo sono molto divertente ma sono anche bella da guardare, e tu sei stato al gioco, ribattendo che ormai che eravamo solo amici, il secondo di quei due bonus non lo si poteva prendere in considerazione, e che quindi avrei dovuto farti uno sconto, ma che me lo concedevi, ero simpatica. – Molto simpatica, ho ribadito –, al che hai riso, dicendo che non vedevi l’ora di sentirmi fare battute ai miei pazienti. Mi sono difesa puntualizzando che sarcasmo ed ironia sono molto terapeutici, ma che forse con te sarei dovuta stare più attenta, perché il tuo ego sarebbe rimasto ferito dalla mia lingua lunga.

 

***

 

Dopo qualche giorno di silenzio mi hai rassicurato che eri troppo perfetto perché il tuo ego venisse messo in discussione, e senza tanti giri di parole mi hai chiesto quando ci saremmo visti. Tu eri sempre così, quando volevi vedermi, andavi dritto al punto, e bypassavi le chiacchere che facevo io per messaggio, inutili – lo riconosco –, ma che a me piacevano tanto. Quella settimana io ero libera solo martedì sera, proprio nell’orario in cui tu avevi allenamento, e quando ti ho detto che giovedì sarei tornata a casa dai miei, ho aggiunto un secco – next week, then –, per lasciarti intendere che non se ne faceva niente, ma che più di tanto non me ne importava. La realtà era ben diversa: ero dispiaciuta, e forse lo ero più per il fatto che tu non avessi proposto un’alternativa che non per l’idea di non vederti per una settimana intera. Quindi abbiamo ripetuto il solito schema: tu che mi chiedevi per quanto tempo avessi intenzione di fermarmi, ed io che ti rispondevo che non lo avevo ancora deciso, anche se invece lo sapevo benissimo che sarei rimasta solo per il weekend. Chissà perché volessi tenertelo nascosto: forse per illudermi di avere la situazione sotto controllo e di non essere in completa balia dei tuoi when are you next around?, per ricordarmi che avevo una vita piena anche senza di te che eri solo un di più – un di più bello e intelligente, certo, ma nulla di essenziale.  A fine giornata, dopo che mi ero fatta ammorbidire da Sara – yolo, mi aveva detto scherzando, ma solo in parte – ti ho scritto di nuovo: Tomorrow, 17.30/18-20. That’s the best I can do. Tu hai risposto di sì senza esitazione, e vedere che per una volta non avevi opposto resistenza mi ha fatto pensare che ci tenevi davvero.

Erano le cinque passate quando ho parcheggiato la bici fuori dalla biblioteca dove Sara stava studiando. Stando a quanto ci eravamo detti il giorno precedente, avremmo dovuto vederci dopo meno di mezz’ora, ma siccome erano più di dodici ore che nessuno dei due si faceva vivo, mi sono presa la libertà di fare con calma. Stavo dicendole che sì, sarei andata a casa, ma che ci scommettevo che alla fine non se ne sarebbe fatto niente, quando mi è arrivato un tuo messaggio: Are we doing something today? Or shall we wait for when you’re back? Mentre digitavo today it’s fine, con Sara che mi faceva il verso – quanto te la tiri!, non puoi essere un po’ più espansiva? – mi chiedevo come mai oggi suonassi così incerto, quasi un’adolescente che ha a che fare con la sua prima cotta. Ti ho detto che stavo giusto rientrando a casa e che quindi saresti potuto arrivare quando ti faceva comodo, e tu hai chiesto se era il caso che venissi da me ancora una volta e se mi andasse o meno di bere. Nonostante i rimproveri non mi sono sciolta e ti ho detto semplicemente che avemmo deciso dove e come trascorrere la serata una volta che fossi arrivato da me. In risposta al tuo I’ll bring some beer just in case ho digitato un semplice ‘cool’.

Ti sei presentato da me alle 17.50 con un cappotto grigio lungo fino a terra e una borsa di stoffa che conteneva una bottiglia di birra davvero troppo grande per sole due persone. Ho aperto la porta e ti osservato camminare sul vialetto e ancora prima di salutarti ti ho chiesto perché mai fossi senza mascherina. Al tuo Should I put it on? ho risposto ridendo: mi prendevi troppo sul serio. Dato che eravamo soli in casa ti ho fatto accomodare in cucina e ti ho offerto una tazza di te. Pensavo che ti avrebbe fatto sentire a casa, invece – a cup of tea? – hai ripetuto scettico, ma poi l’hai accettata. Ti sei seduto al tavolo mentre io mettevo l’acqua sul fuoco e hai iniziato a sparpagliare le bustine per vedere quali gusti avessi a disposizione. Ti ho guardato prenderle in mano una dopo l’altra. Gli spessi anelli d’oro che avevi alle dita risaltavano sulla pelle chiara.

Saliti in camera hai aperto la birra e finito il primo bicchiere mi hai preso in giro notando che io stavo ancora bevendo la tisana. Mi sono difesa dicendoti che i miei amici mi accusano sempre di bere troppo velocemente, ma che è evidente che dei due la spugna sei tu. Qualche bicchiere più tardi ti ho chiesto se fossi ubriaco a sufficienza per parlarmi dei tuoi traumi infantili come mi avevi promesso. Mi hai chiesto se fossi curiosa solo perché studio psicologia o se volessi saperlo davvero. Ti ho risposto che ero affascinata dal fatto che fossi disposto a ad aprirti più che alla questione in sé, che non volevo ti sentissi obbligato, ma tu mi hai assicurato che ormai sei a tuo agio a parlarne. Sei andato dritto al punto, chiedendomi Do you know why…?, e in prima battuta sembrava l’inizio di uno di quegli indovinelli che dovrebbero far ridere; non hai aspettato che rispondessi e mi hai dato la soluzione. Io sono rimasta un attimo senza parole, ma tu hai scrollato le spalle, liquidando il tutto con il tuo solito sarcasmo. Non me l’aspettavo, e forse è un pensiero superficiale, ma non hai l’aspetto di qualcuno che ha sofferto. Non sapendo bene come ribattere ho detto che io delle mie sofferenze non ne parlavo mai, soprattutto non con persone che conosco da poco, che in un certo senso ti ammiravo. Mi hai detto come si comporta di solito la gente quando parli loro del tuo passato – alcuni fanno un po’ troppe domande, altri iniziano a chiedermi se sto bene come se fosse successo l’altro giorno e non un decennio fa – e il fatto di non rientrare in nessuna delle due categorie mi ha lasciato presumere che la mia reazione, invece, ti fosse andata bene.

Poi ci siamo ritrovati a parlare di Venezia e l’atmosfera si è fatta di nuovo rilassata. Ti ho chiesto se avessi già iniziato a cercare casa e tu hai risposto che no, non lo avevi fatto, ma che avevi una questione da sottopormi e volevi proprio sentire il mio parere a riguardo. Mi sono chiesta se la mia opinione ti importasse davvero o se lo avessi detto così, tanto per dire. Mi hai detto della possibilità di andare ad abitare in un appartamento davvero bello, a patto però di condividerlo una settimana al mese con i tuoi genitori. Ti ho chiesto cosa ci farebbero a Venezia così spesso e tu hai alzato le spalle – Amano la città – hai risposto, come se fosse normale per una coppia di cinquantenni inglesi trascorrere ottantacinque giorni all’anno in un altro paese solo perché gli piace. Ti ho detto che una settimana al mese mi sembrava tanto, che anche in cambio di un appartamento di lusso io non avrei accettato. Eri d’accordo con me.

Ho scoperto tanto di te, quella sera. Mi hai detto che hai paura degli aghi proprio come me, ma che più che per la vista del sangue ti capita di svenire perché ti dimentichi di mangiare; che le proteine che avevo visto sul tavolo di casa tua, quelle che ti servivano a far crescere i muscoli più velocemente, hai smesso di prenderle; che trovi la dieta italiana piuttosto noiosa e davvero fastidioso l’accanimento di chi vuole convincerti del contrario, solo perché non hai assaggiato il pasticcio della nonna di Tizio o la mozzarella del paesino dove abita Caio. Mi hai parlato dei tuoi libri preferiti, del fatto che reputi Dante sopravvalutato – e prima che potessi irritarmi mi assicurato che sì, l’hai letto – e del tuo scarso apprezzamento per la poesia. Io ti ho parlato dei miei studi passati, di quanto avere frequentato il liceo classico e poi lettere non mi abbia lasciato molto, a parte forse qualche citazione da sfoggiare per impressionarti, ma che tuttavia ci sono alcuni autori latini che vale la pena leggere, e di come anche io preferisca la prosa, ma che alcuni poeti del Novecento – Ungaretti, Montale, Saba – non sono poi così male.

Mi hai chiesto quale opera d’arte avrei comprato se avessi avuto a disposizione tutti i soldi del mondo e io ti ho risposto con un velo di supponenza che la scultura non mi interessa per nulla, e in fin dei conti nemmeno la pittura. Non è del tutto vero, ma mi divertiva vedere l’oltraggio nei tuoi occhi. – Mi piace Van Gogh, però – e tu hai riso, dicendo che ti sa buffo il modo con cui noi italiani ne pronunciamo il nome. Tu mi hai detto che ami in particolare i futuristi – Boccioni, Balla, Marinetti – e io ho ribattuto che per carità, avranno pure il merito di aver riconosciuto l’importanza del nuovo, della tecnologia, ma che la loro arte non mi comunicava niente. Quindi hai iniziato a illustrarmi la poetica che ci sta dietro e io ti ho subito fermato dicendo che lo so, l’ho studiato, e infatti non cambio idea. Ti ho parlato della mia passione per la fotografia e ho ammesso che forse solo per uno scatto di Henri-Cartier-Bresson avrei speso una fortuna. Mi hai mostrato la tua fotografia preferita – una statua in marmo girata di spalle, la testa rimasta fuori dall’inquadratura e una bambina accovacciata ai suoi piedi, a scrutarne la magnificenza – che non mi sembrava nulla di che ma che ti illuminava lo sguardo. – Io sono la bambina – hai detto. In quel momento mi sei apparso così innocente, puro, che ti avrei affidato tutti i miei segreti.

Alle sette e mezza, come una Cenerentola che scappa dal ballo, ti sei alzato, dicendo che dopo avresti avuto allenamento. Come mio solito ti ho accompagnato per le scale. Questa volta non hai dubitato delle mie intenzioni, ma io mi sono comunque fermata qualche gradino prima di arrivare all’ingresso e ti ho osservato aprire la porta. Eri a tuo agio come se casa mia la frequentassi da sempre, e il pensiero che tu ed io potessimo diventare amici di lunga data mi ha fatta sorridere. Avrei voluto ricordarti di mangiare, dato che poco prima mi avevi detto che te ne scordi spesso, ma mi sono morsa la lingua e ho pronunciato un generico see you. Questa volta lo sentivo che ci saremmo rivisti.

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