Cieli in plastica

di Gaia Bessie
(/viewuser.php?uid=141599)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima: Plastica che sembra vetro ***
Capitolo 2: *** Parte seconda: Plastica che sembra carta ***
Capitolo 3: *** Parte terza: Plastica che è plastica ***



Capitolo 1
*** Parte prima: Plastica che sembra vetro ***


Premessa: La storia tiene conto di alcuni avvenimenti di The Cursed Child nel seguente modo. Per prima cosa, Delphini Riddle esiste, come penso sia chiaro anche dall'introduzione.
In secondo luogo, ha convinto Albus e Scorpius a rubare la Giratempo del Ministro, sebbene abbiano rimandato di qualche giorno il loro piano di andare indietro nel tempo per salvare Cedric Diggory.
Inoltre, la storia si basa su un what if: Bellatrix non è morta nella Battaglia di Hogwarts, per mano di Molly, ma è sopravvissuta.
Per ulteriori info su aggiornamenti e note, vi rimando alle mie NdA di fine capitolo.


Cieli in plastica
 
Parte prima: Plastica che sembra vetro
 
C'è qualcosa dentro di me
Che è sbagliato e non ha limiti
E c'è qualcosa dentro di te
Che è sbagliato e ci rende simili
 
È che a volte il cielo sembra di plastica e invece è solamente pioggia che non riesce a scendere giù. Delphini respira a fatica, il volto nascosto da una mascherina chirurgica, mentre le mani le tremano celate dall’aria così umida da apparire quasi tangibile. Carica la Giratempo, in un ticchettio che sembra avere il potere di stopparle il cuore.
 
***
 
Ventiquattro ore prima, Aula del Wizengamot.
 
Ad Azkaban non piove mai, pensa distrattamente Narcissa occhieggiando al temporale che fuori dalla finestra si consuma: eppure Lucius ha detto che a volte l’acqua filtra dal cielo e si scompone in pozzanghere sudicie, dove nemmeno ti puoi riflettere. Strano, che nella sua mente ad Azkaban non riesca mai a piovere – analogamente, ad Azkaban come in qualunque altro posto, lei non riesce a versare una lacrima per sua sorella. In pozzanghere s’è depositato il suo ultimo brandello di sopportazione nei confronti di Bellatrix, e lì è rimasto a stagnare.
Cissy sospira. Mille colori le sfumano la mente in un tramonto senza inizio né fine, mille stagioni si superano a vicenda nella corsa verso quel luglio afoso e privo di un termine: il giorno del processo, della condanna. Che sia giusta, ingiusta, dovuta, non dovuta, cosa importa?
Harry Potter s’è sempre detto disposto a concedere perdono a piene mani ma a lei, l’assassina di Sirius, non darà mai nemmeno un brandello di clemenza: Bellatrix Lestrange dovrà essere spazzata via dall’esistenza come un residuo di cancellatura, come una macchia d’inchiostro sulla pergamena e un incubo sul piè di pagina della notte. Così ha detto, e Narcissa comunque s’è detta disposta a testimoniare a favore di quella sorella perduta, sì, e dimenticata, forse, ma di certo non rimpianta.
Sia fatta la volontà di questo Fato crudele, ha pensato Cissy avanzando fino al banco dei testimoni, e che sia questo processo giusto o ingiusto, con una condanna dovuta o non dovuta: alla fine, il cielo sembrerà comunque una bolla di plastica pronta a scoppiare in una pioggia di frammenti d’aria vetrificata.
Mancherà, a Bellatrix, la pioggia? Seduta sul pavimento della propria cella ad Azkaban, avrà ancora voglia di fuggire via? Tra le foreste perdute dell’Albania, lì deve aver scoperto chi è lei e chi era Lui, ed il fatto che nonostante tutto fossero spaventosamente simili. Narcissa l’ha sempre pensato: simili, Bellatrix e il suo Signore, simile la fine e simile il loro principio – e se in ogni fine c’è un principio, allora, che nella fine di Bellatrix non vi sia mai un nuovo cominciamento di un’era oscura.
Non c’è più niente da salvare, nemmeno un brandello di pioggia che s’ostina a cadere su tutta Londra. Se tendesse le mani, Cissy scoprirebbe che è solamente l’ennesimo frammento di vetro che, cadendo dal cielo, non uccide ma ferisce soltanto. E lei, che ha perso sua sorella nel battito di ciglia dei giudici a un processo – giusto e dovuto – può solamente chinarsi a raccogliere quel sangue purissimo che, nonostante tutto, lascia anch’esso macchia sul terreno.
«Narcissa Malfoy» la chiama l’assistente del Ministro Granger. «Entri a testimoniare».
Prende un respiro profondo, entra nella stanza: è un grande teatro, pensa distrattamente, il banco di prova su cui il Mondo Magico testerà la risolutezza del proprio neoeletto primo ministro, insieme al contenimento dell’epidemia che da mesi prostra il mondo intero. Hermione Granger la osserva con curiosità, forse domandandosi perché il Fato abbia deciso di metterla alla prova nel primo anno del proprio governo.
L’hanno cercata per anni, Bellatrix Lestrange, e solamente dopo più di un ventennio di fughe, incidenti, battaglie, hanno scoperto che era esattamente dove temevano che fosse: a cercare residui di Lord Voldemort in Albania, a scoprirsi diversa nei luoghi dove Lui aveva vissuto.
Il Ministro sa di dover condannare: smaniosa, l’espressione di Harry Potter, di Arthur Weasley e di chiunque improvvisamente incroci il suo sguardo. Smanioso il bruciore di una cicatrice che ha sempre nascosto sotto la manica del completo da Strega, che le ricorda che il sangue macchia sempre, a prescindere dal grado di purezza che in esso sia contenuto.
«Signora Malfoy» la chiama, cercando di sopprimere quel fastidioso tremore che le crepa la voce. «La chiamo oggi per deporre testimonianza riguardo gli omicidi, la fuga e tutti gli altri crimini commessi da sua sorella».
Narcissa Malfoy china il capo, in una finta riverenza che la fa sembrare più regina di tutti gli altri presenti in sala, e quando incontra gli occhi del ministro essi sono solamente biglie di vetro sul volto sorpreso di Hermione Granger.
«È così, Ministro» conferma la donna, con voce salda. «E per quanto io reputi giusto e doveroso questo processo, la mia coscienza non può fare a meno di dire: guardatela».
Bellatrix Lestrange, seduta su una sedia al centro della sala, con le mani legate dalla magia. Ride, mostrando i denti mancanti in una bocca che pare più una ferita, un’incrinatura, sul viso devastato dalle rughe.
Il Ministro Granger getta un’occhiata infastidita all’imputata, come se solamente quella vista fosse in grado di disgustarla: Bellatrix Lestrange le restituisce uno sguardo atono, incolore, e una risata isterica. Buffa cosa, pensa Hermione, la mente di una persona: qual è il limite tacito della pazzia, che emerge improvvisamente da una pozzanghera d’acqua stagnante in un posto in cui non piove mai.
Narcissa Malfoy china il capo, di fronte a quel suono così familiare, osservando il pavimento come se potesse suggerirle le risposte a un interrogatorio completamente ingiusto e non dovuto. Inutile, si dice, innecessario.
Buffa cosa, pensa Cissy osservando sua sorella, il perdono: privato a una vecchia folle da persone che dicono di averlo concesso a piene mani. Buffa cosa, pensare che debba esser sempre concesso, quando l’è solamente nel caso in cui l’imputato sia al di sopra di ogni colpa.
«Guardati, Bella, cosa sei diventata» sibila Narcissa, prima di potersi frenare. «Che cosa ti sei fatta fare».
Ma Bellatrix le lancia uno sguardo denso di mille silenzi e non risponde, gettando indietro i capelli un po’ bianchi e un po’ neri con aria indiscutibilmente fiera. Tutto in lei urla mancata resa: onore all’Oscuro Signore, perché egli mi ha fatta dal nulla, onore a colui che nei suoi pensieri Bellatrix nomina sempre.
Narcissa Malfoy lancia uno sguardo incerto al Ministro, aspettandosi un’occhiata di comprensione che. Che non arriva. Perché Hermione Granger sospira e, con lentezza esasperante, scuote la testa in cenno di diniego.
Tra ventiquattr’ore Bellatrix Lestrange verrà sottoposta al bacio del Dissennatore.
 
***
 
Ventitré ore prima, Azkaban.
 
C’è una pozzanghera. Inizialmente non l’aveva notata ma, da quando il suo sguardo era caduto su di essa, era divenuta semplicemente tutto il suo mondo: vi si era specchiata, Bellatrix, volto invecchiato su acqua fangosa – eppure, qualcosa le urlava che quel volto scheletrico non era lei. Dov’erano finiti i capelli neri come un’ombra notturna, e gli occhi che le proiettavano sul viso quelle medesime oscurità?
Bellatrix non s’è riconosciuta in quel riflesso fangoso, incapace di catturare la sua essenza: e, di qualunque cosa siano fatte le anime la sua e quella del suo Signore sono fatte della medesima sostanza1.
Ad Azkaban s’intravedono i fulmini che squarciano il cielo in un’unghiata, il sangue che piove dalle nubi fatte di vetro, sopra la sua testa. Ma, di pioggia, nemmeno a volerla pagare con sonanti Galeoni d’oro. Eppure, si dice, da qualche parte quella pozzanghera dovrà pur provenire.
L’acqua non si crea, non si genera – come può essercene in quel deserto di anime disperate che è la prigione di Azkaban?
Bellatrix non sospira, il suo orgoglio non glielo consente: ma, dentro di lei, una preghiera si forma e non riesce a non graffiarla fino all’anima più pura, nuda e disperata, che s’agita in lei come un mai nato. Venite a prendermi. Ma Lord Voldemort è perduto e dimenticato dai più, non potrà mai risorgere per volontà, sebbene la sua – di volontà – sia più salda di quella di chiunque altro.
Le hanno spiegato che non deve morire, ma che deve essere annullata: tra ventitré ore, sarà sottoposta al Bacio e tutto ciò per cui ha combattuto, tutti i suoi sacrifici, tutto sarà stato vano. Non c’è speranza, ha colto dallo sguardo di sua sorella, ve n’è mai stata almeno un surrogato?
Eppure, un ricordo vago e sbiadito dentro di lei, qualcosa urla: la speranza c’è e sta in quella bambina inutile. Bellatrix la ricorda a stento, la memoria l’ha come cancellata dai suoi ricordi, ma Delphini Lestrange esiste ancora.
Non ne ricorda il volto, il colore della prima peluria che l’è spuntata in testa, il rumore fastidioso dei vagiti al calar del sole. Ma sa che esiste. Forse rapita, forse cresciuta da Cissy, ma da qualche parte quella bambina inutile vive ancora. Deve farlo.
L’unica speranza in una nuova era, nell’erede che lui l’aveva costretta a generare, è lei. Una bambina inutile e niente di più.
E, adesso che anche lei è perduta e dimenticata, Delphini Lestrange è l’unica persona che potrebbe essere in grado di trascinarla via da quel labirinto d’acqua stagnante in cui l’hanno rinchiusa.
«Madre».
È un richiamo che non riconosce, eppure qualcosa dentro di lei la costringe ad alzare lo sguardo per incontrare quello scuro e insensato di una ragazza che non somiglia a nessuno. Ha qualcosa di Narcissa nei capelli biondissimi, la carnagione lattea dei Black, i suoi occhi neri. Del Signore Oscuro, dentro di lei, non vi è traccia: è una Black in tutto e per tutto, sebbene Rodolphus sia stato vincolato a darle il suo cognome.
Bellatrix ride, facendo sibilare l’aria attraverso i buchi dei denti che ha perso, e scuote il capo brizzolato, più grigio che nero.
«Non chiamarmi mai più in quel modo» sibila, divertita. «Madre» ne imita il tono, aggiungendovi una caricaturale disperazione che nella voce di sua figlia non era contenuta.
Delphini arriccia le labbra, di fronte al tono pieno di scherno di sua madre. «Sono venuta ad aiutarti» sibila. «Tra meno di ventiquattr’ore sarai sottoposta al Bacio. L’hai capito, questo?».
Bellatrix ride, scatenando un colpo di tosse da parte degli Auror di guardia.
«E dimmi, come hai fatto a intrufolarti qui?» le domanda, divertita. «Hai detto questo anche a loro?».
«Il St. Oswald2 aveva proposto di accoglierti» sibila Delphini. «E io lavoro lì. Sono una volontaria, ecco».
Bellatrix ride nuovamente, di fronte alla prospettiva di lei rinchiusa in una casa di riposo per vecchi maghi e streghe, ride così tanto che le dolgono i polmoni solamente al pensiero di quella prospettiva.
«Io non riderei, fossi in te» commenta sua figlia, atona. «Sono l’unica speranza che ti è rimasta».
«E come avresti intenzione di aiutarmi?» la sfida Bellatrix, divertita. «C’è qualcuno dei vecchi cui badi che ha qualche misterioso piano per aiutarmi a fuggire di qui?».
Delphini sospira, si passa una mano tra i capelli biondissimi. «Sono io ad avere un piano» risponde, piccata. «Il Ministro Granger è in possesso di una Giratempo sperimentale».
«Ma tu non hai tempo per procurartela» l’interrompe Bellatrix, divertita. «Un vero peccato, Delphini, che i tuoi piani siano già stati rovinati».
Delphini sorride, per la prima volta fiera, e agita davanti a sua madre un dito con aria pregna di superiorità. «Io me la sono già procurata, nel momento esatto in cui si è saputo che saresti stata sotto processo» risponde, con una nota di contentezza nella voce. «Ho raggirato il figlio di Potter e quello di Malfoy».
«Interessante» commenta sua madre, la voce pregna d’ironia. «Anche se io preferisco altri metodi. E come intendi utilizzarla?».
Delphini non fa in tempo a risponderle, che Bellatrix s’alza di scatto e con un’agilità sorprendente per una donna della propria età, le sfila la bacchetta dalla tasca del mantello. Immediatamente, gli Auror accorrono a disarmarla.
Bellatrix ride, mentre lancia uno Schiantesimo alla propria figlia, e un Avada Kedavra a uno degli Auror. Ma non serve a niente, pensa distintamente Delphini accasciandosi con il viso pericolosamente vicino alla pozzanghera.
La fine arriva comunque.
 
***
 
Ventuno ore prima, Aix-en-Provence
 
Il Cours Mirabeau pullula di gente: ed è a malapena luglio, con quel caldo afoso che dovrebbe impedire a chiunque sano di mente di uscire fuori di casa. Delphini, il viso nascosto da una mascherina chirurgica Babbana3, s’addentra nel viale alberato – in mente, ha il volto di una persona che non ha mai visto, ma deve ritrovare: Rodolphus Lestrange.
Il suo patrigno è scomparito in un mare di niente – ch’è nulla, ma rimane tangibile – dopo la Battaglia di Hogwarts e nessuno l’ha mai più rivisto. È un codardo, direbbe Bellatrix, ha trattato con il Ministero per vivere in mezzo ai Babbani nella Francia meridionale: ha venduto a Potter i suoi amici, senza alcun rimorso di coscienza. Ce l’ha mai avuta per davvero, Rodolphus Lestrange, una coscienza o s’è sempre tutto perso, tutto dimenticato, in una pozzanghera d’acqua stagnante?
Non è difficile individuarlo. Seduto a uno dei tavolini di fronte alla Pâtisserie Béchard4, il suo patrigno addenta pensieroso un croissant, osservandola tranquillamente mentre s’avvicina a grandi passi. Delphini non è sicura – come potrebbe? – di ricevere il suo aiuto, ma sa anche che Rodolphus Lestrange è l’ultima speranza che le resta oltre sé stessa.
«Sapevo che saresti arrivata, prima o poi» commenta Rodolphus, posando il dolce sul piattino. «E la risposta è no, a qualunque domanda tu sia venuta a pormi».
«Non è una domanda» risponde Delphini, alzando il mento. «Ho bisogno che mi aiuti: devo tornare indietro nel tempo e impedire che mio padre…».
La risata del suo patrigno le piega la voce, costringendola a interrompere il proprio discorso: Rodolphus ha la barba brizzolata di zucchero, che cade a granelli al suono delle sue risa sfrenate, che fanno voltare qualche Babbano nella loro direzione.
«Tuo padre» ripete, piano. «Sei coraggiosa, a chiamarlo così. Se ti avesse sentita, ti avrebbe sciolto le ossa con una Cruciatus, te lo assicuro».
Delphini abbassa lo sguardo, ma non cede, e nuda determinazione compare nei suoi occhi scuri. «Se non lo riporto indietro, tua moglie sarà condannata al Bacio» commenta, scandendo bene le parole. «Porti ancora la fede. Come potresti non volerla salvare?».
Ma Rodolphus ride nuovamente, mostrandole un dente incrinato in un sorriso perfetto. «La porto per non dimenticare, Delphini» commenta, pronunciando il suo nome con disprezzo. «Non muoverò un dito per salvarla. Come se ne avesse bisogno: lei non vuole che noi la tiriamo via di lì».
«Sei bloccato qui perché ti hanno detto di non tornare in Inghilterra» commenta Delphini, piano. «Se il Signore Oscuro risorgesse, potresti tornare a casa tua, dalla tua famiglia».
«Casa?» domanda Rodolphus, la voce pregna d’ironia. «Famiglia? Mio fratello è morto, io non ho mai avuto figli. E tua madre, lei… ha preferito piegarsi verso il Signore Oscuro in maniere che non voglio nemmeno spiegarti».
Delphini china il capo e vorrebbe replicare, difendere sua madre, ma non le vengono le parole: così rimane ad ascoltare il proprio silenzio, senza sapere come infrangerlo. Rodolphus ride, scuotendo il capo e riprendendo tra le mani il proprio croissant.
«Userai la tua Giratempo da sola, Delphini Riddle» commenta, atono. «D’altronde, sei quel che sei: e, una Lestrange, non lo sarai mai».
Delphini alza gli occhi al cielo: nubi plumbee incombono su Aix-en-Provence, pronte a seppellire la città in un’ondata di vetri.
Quel giorno, il cielo sembra solamente fatto di plastica, quando le nubi si piegano per lasciare intravedere un singolo spiraglio di sole.
«Me ne ricorderò» sibila, altera. «Quando sarò riuscita a salvarli entrambi, ricorderò che hai preferito non aiutarmi».
«Guardami» Rodolphus Lestrange spalanca le braccia. «La mia vita è finita da tempo, Delphini. Non ho più né una casa né una famiglia, perché dovrei perdere quel poco che ho riconquistato per aiutare te?».
Perché il Cours Mirabeau si sta sciogliendo in uno scroscio di pioggia, pensa Delphini, e io sono ancora qui. Ma Rodolphus scuote il capo, indossa la propria mascherina e s’avventura per il viale alberato.
Lei alza lo sguardo, sospirando verso le nubi. È che a volte il cielo sembra di plastica e invece è solamente pioggia che non riesce a scendere giù. Delphini respira a fatica, il volto nascosto da una mascherina chirurgica, mentre le mani le tremano celate dall’aria così umida da apparire quasi tangibile. Carica la Giratempo, in un ticchettio che sembra avere il potere di stopparle il cuore.
Chiude gli occhi.
 
***
 
Quando Delphini riapre gli occhi, si ritrova nello stesso posto in cui aveva lasciato sua madre, poche ore prima. Azkaban non s’è asciugata con il sole, e la pozzanghera è sempre lì nel medesimo posto: a guardarla, sul fondo della cella di sua madre, permettendole di scorgere la propria anima attraverso il riflesso. Questa volta, però, i Dissennatori sono lì.
Non c’è nessun Ministro Granger che abbia combattuto per debellarli dalla prigione magica, e allora loro s’aggirano tra i reclusi con calma angosciante, privandoli prima di un ricordo e poi del successivo. I detenuti sono quasi tutti accasciati sul terreno, le unghia lì conficcate come per appigliarsi alle proprie memorie e non lasciarle andare.
Bellatrix è l’unica a sedere con la schiena contro la parete, dritta e fiera, ride ogni volta che un Dissennatore le si avvicina troppo. Dove l’abbia, la forza per ridere, Delphini non ne ha idea. Eppure Bellatrix ride, fa sibilare l’aria come se quello sforzo la prosciugasse, e finalmente lascia cadere il proprio sguardo su di lei.
Delphini si avvicina, la bacchetta in mano per allontanare eventuali Dissennatori. «Devi fuggire» le sussurra. «Devi andare via di qui».
«E tu chi saresti?» le domanda sua madre, tossendo appena. «Sei uno dei miei incubi?».
«Mi chiamo Delphi» sussurra la ragazza, sedendosi accanto a lei. «Io… vengo da un altro tempo, madre».
Bellatrix scuote il capo, e i capelli nerissimi le coprono il visco scarno, come un’ombra. «Non ho figli» sibila. «Non ne avrò mai».
«Madre, ascoltatemi» la prega Delphi, prendendole le mani in una stretta da cui lei rifugge disgustata. «Vengo da un altro tempo, Lui vi chiederà un figlio e voi gli darete me».
Sua madre ride, facendo tremare l’aria in un sibilo, come un vetro che s’infrange.
«Non te l’hanno detto, che non si gioca con il tempo?» sussurra, a fatica. «Potresti infrangere leggi sacre, rovinare tutto. Perché sei tornata indietro?».
«Perché perderete la guerra» sussurra la ragazza, piano. «L’Oscuro Signore rimarrà ucciso e tu… tu scamperai per un pelo alla morte, per mano di una Weasley, e ti condanneranno al Bacio».
Bellatrix contrae la bocca in una smorfia infastidita. «Non avresti dovuto» commenta, atona. «Sarei stata lieta di sacrificarmi per il Mio Signore».
Le artiglia il polso, torcendoglielo leggermente. «Lasciami andare, madre5» le sussurra Delphi, cercando di staccare quelle dita artigliate dalla propria carne debole. «Dimmi solo dove posso tornare per aiutarti».
«Al mio matrimonio» le sussurra Bellatrix, chinando il capo. «Vai da Lui e digli quello che hai detto a me. Saprà cosa fare».
Delphini annuisce, guarda un attimo il cielo: i Dissennatori si sono accorti di lei, ne è certa – perché il cielo sembra plastica che sembra vetro e, allora, potrebbe semplicemente infrangersi sopra la sua testa.
Carica la Giratempo e chiude gli occhi.
 
***
 
Bellatrix non ha mai indossato un abito da sposa: nello specchio, quella che restituisce lo sguardo è solamente un’ombra oscura che taglia il vetro come un lampo nerissimo. Ha scelto un abito color pece, per la cerimonia, che urla per un lutto di cui s’è presa carico – senza inizio o fine – e che sventola come una vittoria di fronte ai suoi genitori.
Vittoriosa, Bellatrix pensa che non avrà bisogno di alcun gioiello, per quella cerimonia insensata: le mani di Lui sono l’unico ornamento che accetta su di sé. E, se non farà attenzione, le finirà come sua sorella Narcissa che ha quindici anni e già le hanno messo un girocollo addosso, con lo stemma dei Malfoy. Un collare.
A lei, un collare, non lo metteranno mai: non sarà la cagna da riproduzione dei Lestrange, non sarà una bella moglie per il figlio maggiore, né presenzierà ai ricevimenti di Célie come se fosse l’unica cosa che non abbia mai desiderato. Moglie di Rodolphus, lei, non potrà mai esserlo.
Lo sposa perché i suoi genitori l’hanno ordinato e l’Oscuro signore ha detto di sì, ma imbrigliarle la volontà sarà anche più complicato di così. Imbrigliarle i desideri, poi, altrettanto impossibile: perché la notte Bellatrix s’addormenta e ha le Sue mani che le carezzano la mente.
Perché al mattino si desta e il letto è sempre gelido, ma semplice è immaginarselo dormire al suo fianco. Sono pensieri che Lui le rimprovera, perché sono terreni e tangibili, quando lui è etereo e immortale, ma Bellatrix non riesce a sopprimerli.
Sono simili, lei e il Suo Signore: freddi come le frasi che lui le dice davanti a quello specchio, finti come quei sorrisi che Bellatrix rivolge a Rodolphus, anneriti come quell’abito che lei porta con tanta fierezza. Sposerà Rodolphus Lestrange, ma non gli apparterrà mai.
Perché l’anima è un vaso di fiori e, allora, i due vasi gemelli di Lord Voldemort e Bellatrix Lestrange sono opachi e ammuffiti della medesima incuria.
Sul fondo dello specchio, lo vede quasi: lui che si sporge verso di lei e le accarezza il viso con quelle dita gelide – d’altronde rispecchiano la temperatura dell’anima – scendendo lungo il collo, prima, e attraverso la scollatura poi. Sospira, i sogni a occhi aperti lui li ha banditi dalla loro esistenza.
«Mio Signore?» borbotta Bellatrix, colta nel bel mezzo di una fantasia, mentre la porta si apre con uno scricchiolio. «Cosa ci fate qui?».
Lord Voldemort sorride, ha il viso trasfigurato dalla magia oscura, e sembra nuovamente il giovane attraente che aveva incontrato per la prima volta anni prima.
«Vengo a trovare la sposa» commenta l’Oscuro Signore, con una risata. «Nero, Bellatrix? Dovrebbe essere una giornata di letizia».
«Che letizia ci potrà mai essere, in un matrimonio?» ribatte lei, sistemandosi l’anello di fidanzamento sul dito. «Ogni matrimonio è solamente la tomba di tutto quello che una donna potrebbe essere».
Osserva con disgusto il rubino sistemato sul proprio anulare: alla fine, anche contro la sua volontà, un collare gliel’hanno messo comunque.
«E tu cosa saresti potuta essere, che non sei?» le domanda Lord Voldemort, con sincera curiosità. «Ti ho già onorata sopra ogni altra, Bellatrix, cosa stai cercando ancora?».
Lei ricambia il suo sguardo, senza paura, e su riflesso dei suoi occhi neri lui riesce quasi a cogliere quel desiderio che le infiamma le vene. Dissanguata, Bellatrix, da quel desiderio che lui non asseconda, che finge di non vedere.
«Una divinità non si abbassa ad assecondare i desideri terreni, Bellatrix» commenta, l’Oscuro Signore, atono. «Dovrai imparare a moderare le tue voglie, se vorrai continuare a servirmi».
Lei abbassa il capo, i capelli ricci le coprono il viso: è una Black, non si abbasserà a pregare come, a suo tempo, hanno fatto altre donne che ha conosciuto – sparite nel nulla, mentre lei è sempre al suo fianco.
«Mio signore» lo supplica, adorante. «Non lasciatemi sposare Lestrange. Come potrei continuare a servirvi, se dovrò essere moglie e madre?».
Lui alza la mano, le tira una ciocca di capelli con curiosità, senza farle male, e scuote il capo con aria tremendamente seria. «Tu non sarai moglie, né madre» risponde, senza alcuna inflessione. «Ho già parlato con Rodolphus: desidera compiacermi almeno quanto lo desideri anche tu».
Lei s’illumina, in quello sguardo pieno d’ammirazione che gli rivolge, e torna a cercare di sistemare i propri capelli in una crocchia ordinata. Ma, quando fa per appuntarli con degli spilloni, Lord Voldemort le prende la mano, fermandola.
«Meglio di no» scuote il capo. «Una sposa, per quanto recalcitrante, deve presentarsi all’altare con i capelli sciolti».
Bellatrix ride, facendo tremare gli specchi. «Perché, devo dimostrare a mio marito la mia supposta verginità?» gli domanda, con un velo d’irriverenza che gli fa stringere lo sguardo. «Penso che sia una cattiva idea, mio Signore».
Lui, però, non si fa convincere e con gesti secchi, strappandole anche qualche capello di troppo, comincia a disfarle l’acconciatura. «Dimentichi, Bellatrix» commenta, lasciando cadere l’ultimo spillone sul pavimento. «Che dev’essere fatta la mia volontà».
Lei si volta, osando ricambiarne lo sguardo direttamente. «Io faccio sempre la vostra volontà» gli ricorda, piano. «Anche quando non la comprendo o qualcosa rimane oscuro, mio Signore. Come sta accadendo in questo momento».
«Non mi aspetto che tu comprenda, Bellatrix, i miei piani sanno essere incomprensibili» commenta Lord Voldemort, con aria magnanima. «Ma un giorno, forse, avrai chiaro che ciò è stato fatto per te».
Bellatrix sospira, sfilandosi l’anello di fidanzamento: ormai non conta più niente.
«Pensavo mi avreste portato con voi» gli sussurra, ardentemente. «Senza lasciarmi a casa a scaldare il letto di qualcuno che non siete voi».
«Pace, Bellatrix» risponde lui, alzando la mano. «Cedere una volta non significa cedere sempre. Hai macchiato la mia divinità una volta, non ti sarà permesso replicare».
Ma lei lo guarda e ha gli occhi tondi come scodelle e le labbra arrossate di rossetto, e allora lui alza la mano, incerto, e gliela posa lì. Sulla bocca, sporcandosela di carminio.
«Vi prego» sussurra lei, contro il suo dito. «Non permettetegli di portarmi via da voi».
«Rodolphus sa a chi appartieni» risponde Lord Voldemort, senza particolare inflessione. «E anche tu».
Bellatrix alza una mano, portandola sulla nuca di lui: i capelli, diradati dalla magia oscura, le solleticano le nocche squarciate dal gelo che ha dentro. Rabbrividisce, nell’osservare lo sguardo guardingo che lui le rivolge, come a invitarla a fermarsi.
Ma lei ha ben chiaro qual è il suo posto, ed è a lasciarsi baciare da lui, i cui occhi sono ostinatamente puntati sulla sua bocca. Lei è l’amante da amare senza amore.
Si lascia baciare, sebbene il suo signore s’opponga in ogni nervo a quel gesto così naturale e, contraddittoriamente, le affondi le mani nei fianchi come se potesse annegarvici dentro.
«Bellatrix» l’ammonisce lui, con tono severo. «Il peccato è sempre dietro l’angolo, con te».
C’è tiepida rassegnazione, nelle sue parole, ma lei non ascolta: è finita con la schiena contro la toeletta e, l’unica cosa che riesce a pensare, è cosa verrà dopo.
Quando dovrà seguire i suoi movimenti, senza dimenticarne nessuno6, e allora non basterà premersi contro di lui, aprire le gambe per permettergli di entrarle dentro ben più di quanto non abbia già fatto.
«Vi prego, mio signore» sussurra lei, ancora una volta. «Tenetemi con voi. Non datemi a Rodolphus Lestrange».
Lui sospira sul suo collo, cominciando lentamente a muoversi dentro di lei. «Ho preso la mia decisione» sibila, mordendole il lobo dell’orecchio. «E non è mutabile, Bellatrix: sposerai Lestrange, questa è la mia volontà».
Lei sospira, socchiudendo gli occhi come una gatta, e aggrappandosi con forza alle spalle di lui. «Vi prego» ripete. «Voglio rimanere con voi».
Voldemort sospira, scostandosi leggermente da quella fonte di tentazione, intenzionata a sporcarne definitivamente la divinità. «Proprio per questo devi sposarti» le sibila. «Ho bisogno di sapere che non mi tenterai più, Bellatrix».
Bellatrix non risponde, sospirando tra una spinta e l’altra. Riprende fiato solamente quando lui si scosta, borbottando un incantesimo per pulirsi, e lasciandola a rimettere a posto il proprio vestito. Macchiata, più che esserlo la sua divinità, lo è lei: della convinzione che potrà farla sposare, tenerla lontana, ma per quanti tentativi possano fare, lui e lei rimarranno sempre fatti della stessa sostanza.
«Legati i capelli» le sibila, Voldemort, sulla soglia. «Avevi ragione: non c’è alcuna verginità che tu debba sostenere d’aver preservato».
Lei ride, chinandosi per raccogliere gli spilloni dal pavimento.
 
***
 
Rodolphus Lestrange non è ansioso di sposarsi, non freme, né è curioso di incontrare nuovamente quella ragazza che ha visto solamente un paio di volte. È stata iniziata alla Magia Oscura, le ha detto il suo Signore, e lui non dovrà toccarla per nessun motivo al mondo: non s’insozza con il sesso l’allieva di Lord Voldemort, la sua migliore luogotenente, e Rodolphus s’è già rassegnato a un matrimonio senza amore e senza eredi. Non vi sono motivi, gli ha sussurrato Rabastan mentre si vestiva, per cui tu debba sposarla: rifiuta.
Ma Rodolphus, di fronte allo sguardo serpentino di Lord Voldemort, ha semplicemente chinato il capo e detto sì, lo voglio seppur peccasse di volontà.
«Perdonami» una ragazza gli tira la manica della giacca, facendolo voltare. «Sono una cugina di Bellatrix. Mi puoi dire dove posso trovarla?».
Rodolphus si volta, osservando una delle ragazze con cui dovrà imparentarsi. «La trovi in camera sua, al piano superiore» borbotta, meccanicamente. «Si sta finendo di preparare. Potresti andare ad aiutarla».
La ragazza, biondissima come la giovane Narcissa ma con i capelli striati di blu, china il capo e s’affretta verso l’enorme tenuta di campagna dei Black.
«Aspetta» la chiama Rodolphus, seguendola a grandi passi. «Potresti almeno dirmi come ti chiami?».
«Delphini» borbotta la ragazza, senza voltarsi. «Delphini Black».
«Voi Black e questa patetica ossessione per i nomi di stelle» sibila lo sposo, con astio. «Vai pure, non ti trattengo oltre».
Delphini comincia a correre verso camera di sua madre, ignorando gli sguardi di biasimo per il vestito semplice, estivo, che indossa: ringrazia Salazar per aver avuto il buonsenso di cambiarsi prima di intraprendere quel viaggio attraverso il tempo, con i pantaloni e la canottiera sarebbe risultata ancora più fuori luogo.
Non è complicato, arrivare di fronte alla camera di Bellatrix: è la migliore della casa, quella che un tempo era della figlia preferita di Cygnus, ormai cancellata dall’arazzo di famiglia e dalla memoria comune. Andromeda Black riposa nei ricordi del padre e, adesso, la camera più spaziosa appartiene alla figlia maggiore.
Nel corridoio, un bel giovane le passa di fianco, regalandole niente di più che un’occhiata distratta: Lord Voldemort è uscito dalla stanza di sua madre, con le mani in tasca e l’espressione turbata.
«Padre…» si lascia sfuggire Delphini, e quella parola suona strana persino alle sue orecchie. «Aspettate».
Ma Lord Voldemort, come sordo a quel richiamo, prosegue nel proprio cammino verso il giardino. Delphini sospira, aprendo la porta della camera da letto di sua madre e chiudendosela dietro le spalle. Bellatrix si sta aggiustando i capelli, cercando di legarli in una crocchia troppo stretta: impossibile, per quelle ciocche che fino a poco tempo prima sono state libere nelle mani di lui.
«Bellatrix» la chiama, distogliendola da quei pensieri disordinati che le affollano il cranio. «Possiamo parlare un momento?».
Bellatrix le dedica uno sguardo distratto, cominciando a infilzare la propria acconciatura con gli spilloni raccolti dal pavimento. «E tu saresti?» domanda, incerta. «Una di quelle cugine di cui non ricordo l’esistenza?».
Lei annuisce. «Delphini» specifica, piano. «Delphi».
«E di chi sei figlia?» domanda Bellatrix, sistemando con il pollice uno sbaffo di rossetto lungo la guancia. «Non mi ricordo proprio di te».
«Vengo da un altro tempo» sussurra lei, per la prima volta timorosa della reazione della madre. «Sono tua figlia».
Nello specchio, Bellatrix spalanca gli occhi con aria turbata. «Mia figlia?» domanda, con una risata nervosa. «Mi ha mentito, dunque, sono davvero finita a fare la madre?».
Lo dice con un tale sconforto che, per un momento, Delphini si fa confondere dalla pena che prova nei suoi confronti.
«Non è Rodolphus, mio padre, anche se mi avete dato il suo cognome» sussurra, piano. «Lui vi ha chiesto un erede e voi gli avete dato me».
«Una femmina» constata Bellatrix, con disgusto. «Forse era il Fato a non volere che io fossi mai madre, non credi?».
«Vengo in un futuro dove siamo stati sconfitti, madre» sussurra Delphini, con urgenza. «Dove l’Oscuro Signore è stato sconfitto e io non sono riuscita a fare niente per impedirlo».
Lo sguardo di Bellatrix s’accende di comprensione, mentre si appoggia alla toeletta, con aria pensosa: forse teme che, rimanendo in piedi, le gambe potrebbero cederle.
«Hai parlato con Lui?» sibila, incerta. «Gli hai detto ciò che sai?».
Delphi scuote il capo, pensando alla fretta con cui Lord Voldemort ha ignorato il suo richiamo, dirigendosi verso quel matrimonio fallito ancor prima di cominciare.
«Non dirgli niente» risponde Bellatrix, dura. «Non ti crederebbe: è troppo certo della bontà dei suoi piani per poter pensare che siano in grado di fallire».
«Cosa posso fare?» sussurra Delphini, piano. «Per impedirgli di uccidere i Potter e perdere tutto quello che ha costruito in questi anni».
Bellatrix Black stringe le labbra, sporcandosi di rossetto i denti, e comincia a vagare per la stanza con fare pensieroso. «Devi andare avanti nel tempo» borbotta, infine. «Pensi di poterlo fare?».
«Posso» risponde Delphi, risoluta. «Quanto avanti?».
Sua madre ride, divertita. «Cosa pensi che possa saperne, io?» sibila. «Fai in modo che non uccida i Potter, avvisami di quel che sta succedendo e io ti aiuterò, ne sono sicura».
Delphini annuisce: fuori sta piovendo, nota, un matrimonio bagnato per una sposa dall’anima asciutta come sabbia vetrificata. Anche oggi, il cielo sembra plastica.
Carica la Giratempo, mentre sua madre la osserva corrucciata. Chiude gli occhi.
 
***
 
Urla di dolore risuonano in casa Lestrange: Rodolphus non è mai stato avvezzo alla tortura ma, di fronte alle urla di dolore di Alice Longbottom, non riesce a non pensare che siano il suono più dolce che le sue orecchie abbiano mai udito. La donna si contorce sotto le Cruciatus, riuscendo persino a sfiorargli la gamba con la mano, come se appigliarsi a qualcosa le possa consentire di rimanere ancorata a sé stessa.
«Andiamo, Rod» sibila Bellatrix, contrariata. «Puoi fare di meglio. Suo marito è messo molto peggio, di là con Barty e Rabastan».
Rodolphus sbuffa. «Cosa dovrei fare?» le domanda, occhieggiando a quel corpo con aria interessata. «Sei tu la professionista in incantesimi di tortura, Bellatrix».
Lei ride, come una bambina, chinandosi di fianco al corpo esanime di Alice e carezzandole il capo con curiosità infantile. Ha i capelli d’un biondo sporco, opaco, l’Auror: il viso tondo per un corpo troppo esile, non sembra essere quella donna in grado di opporsi e persino sfidare Lord Voldemort.
«Non farmi essere volgare» risponde Bellatrix, occhieggiando divertita alla donna di cui sta sfiorando i capelli con curiosità. «Prometto di chiudere gli occhi per non metterti a disagio».
«Sparisci dalla mia vista, Bellatrix» le borbotta suo marito, indicandole la porta. «O vuoi unirti?».
Lei ride, uscendo in giardino con aria svagata, in una camminata fatta di pochi passi e qualche saltello. Fuori, trova una ragazza bionda – biondissima, con i capelli striati di blu – a guardarla con occhi un po’ spiritati.
«Finalmente sei arrivata» constata, raggiungendola a grandi passi. «Ti stavo aspettando».
«E tu chi saresti?» le domanda Bellatrix, alzando un sopracciglio scuro. «Ti ha mandata Lui?».
«Più o meno» ammette Delphi, piano. «Mi chiamo Delphini Lestrange, vengo da un tempo che non è questo. Tra qualche anno, sarò tua figlia».
Bellatrix spalanca gli occhi, sorpresa. «Io non avrò mai figli» ribatte, orgogliosa. «Lui me l’ha promesso. Non so chi tu sia, ma se sei in cerca di guai, allora…».
«Non di Rodolphus» la frena Delphini, sebbene sua madre abbia già le mani perse nella sua bacchetta magica. «Sua».
Bellatrix si frena, lasciando ricadere il braccio lungo il fianco con aria stupita. «Non è riuscito a procurarsi un erede con la magia oscura?» domanda, eccitata. «E ha scelto me?».
Delphini si guarda le mani, incerta. «Nessuno mi ha mai parlato della mia nascita» ammette. «Non so bene come sia andata, ma…credo di sì».
Bellatrix sorride vittoriosa, cominciando a camminare avanti e indietro per il parco. Dentro casa, s’odono distintamente le urla soffocate di Alice Longbottom, unite alle risate di Rabastan e Barty Crouch, probabilmente giunti per assistere allo spettacolo gentilmente offerto da Rodolphus.
Questa è la fine, si ritrova a pensare Bellatrix distintamente, dell’amante da amare senza amore: per una volta, avrebbe avuto in mano qualcosa che Lord Voldemort desiderava così tanto al punto di concederle di macchiare la sua divinità.
«Ascoltami, madre» la richiama Delphini, strattonandola per una manica. «Ho bisogno che mi aiuti».
Bellatrix la osserva, perplessa ma attenta, facendole cenno di continuare a parlare.
«Nel futuro da cui provengo, il Signore Oscuro ha perso la propria battaglia contro Harry Potter» sussurra. «E voi siete stata catturata dopo una lunga fuga per essere sottoposta al Bacio del Dissennatore».
«Non può essere» strepita Bellatrix, pestando i piedi come una bambina stizzosa. «Lui è grande e fa cose immense, non può perdere sé stesso contro un neonato».
«Madre» la richiama Delphini, con determinazione. «Se non facciamo qualcosa, sarà tutto perduto».
Bellatrix sospira, e le tende una mano con aria turbata. «Vieni» le dice. «Ti porto da Lui».
Lo schiocco della Materializzazione congiunta fa male alle orecchie, ma duole comunque meno del cuore di Delphini nella prospettiva di non riuscire ugualmente a salvare i suoi genitori da un disastro già vissuto, già preannunciato.
 
***
 
«Come faccio a farmi ascoltare da lui?» sussurra Delphi, mentre sua madre la trascina per i corridoi di casa di Rabastan, alla ricerca del suo Signore. «A convincerlo che dico la verità».
«Non puoi» risponde Bellatrix, semplicemente. «Ma forse posso trattenerlo in qualche modo».
La lascia fuori ad aspettare, entrando nelle viscere cave della sala da pranzo di Villa Lestrange: Bellatrix finge una sicurezza che non prova, nel fronteggiare lo sguardo curioso e perplesso di Lord Voldemort.
«Bellatrix» la richiama lui, con freddezza. «Pensavo di averti dato un compito: io tra pochi minuti andrò a fare una visita ai Potter. Pensavo di ritrovarti occupata con i Longbottom».
Lei china il capo, in un sospiro. «Non andate» mormora, con ardore. «Mandate qualcun altro, mandate me».
«Sei forse impazzita, Bellatrix?» le domanda, calmo. «L’affare dei Potter è qualcosa che solamente io posso compiere, cui posso porre fine. Perché mai dovrei mandare te?».
«Temo per voi» sussurra lei, appassionatamente. «I Potter sono membri esperti dell’Ordine e poi… vi prego, lasciatemi venire con voi».
Lui la guarda, ha il gelo negli occhi, nell’anima, mentre con una mano prende la bacchetta e gliela punta contro. Lei sobbalza, ma non si scosta di un millimetro. «Dovrei Cruciarti solamente per averlo pensato» le sussurra, suadente, avvicinandosi per sfiorarle il volto con la punta della bacchetta. «Ma ignorerò il tuo momento di temporanea follia, Bellatrix, se mi spiegherai perché».
«Lily Potter è astuta, mio signore» confessa la strega, chinando il capo. «Conosce magie antiche, voi…».
«Solo io, al mondo, posso vivere per sempre» le risponde Voldemort, deciso. «Non mi accadrà niente, Bellatrix: i Potter cadranno proprio come sono caduti i Longbottom e tanti altri valorosi maghi prima di loro. Un terribile sacrificio, ma necessario».
«Mi credereste, se vi direi che ho la certezza che, in un futuro prossimo, voi non vincerete contro i Potter?» sussurra Bellatrix, vergognandosi di quell’impudenza. «Che il mondo non ha saputo cogliere la vostra grandezza e l’ha fraintesa».
La Cruciatus che Lord Voldemort le scaglia è così potente da farla cadere sul pavimento, sbattendo la testa. Quando riapre gli occhi, lui è chinato vicino a lei, con le maniche della sua lunga veste che le solleticano le braccia.
«Che sia l’ultima volta, Bellatrix, che osi parlarmi in questo modo» l’ammonisce. «E, adesso, torna ai tuoi doveri. Avremo di che parlare, stasera, quando tornerò vittorioso».
Lei vorrebbe replicare, ma lui le lancia uno sguardo d’ammonizione, costringendola a tacere. «Adesso, vai» ribadisce, con forza. «Non sarò responsabile delle mie azioni, altrimenti: e non ho intenzione di uccidere la mia migliore Mangiamorte».
Fuori dalla stanza, Delphini piange e nemmeno sa il perché.
 
***
 
Diciotto prima, St. Oswald’s Home for Old Witches and Wizard.
 
Delphi ha contato i minuti che l’hanno separata da quella sua buffa avventura in mezzo al tempo, cercando cambiamenti nello spazio e nel tempo, nella speranza di ritrovare un cambiamento, qualcosa che le faccia capire che Lord Voldemort in quel mondo possibile ha trionfato. Ma non accade niente, e la vita a St. Oswald è sempre la solita noiosa esistenza insensata, e Amos Diggory continua a lamentarsi contro Harry Potter per via di quella Giratempo che non gli ha voluto concedere. Delphi lo sente e sorridere: tramite l’aiuto dei rampolli Potter-Malfoy, è riuscita a impadronirsene, prima di lasciarli attendere sue notizie che non sono arrivate.
«Delphi!» la chiama una voce, facendola sobbalzare sul suo letto. «L’inserviente ha detto che ti avremmo trovata qui: non abbiamo molto tempo, mio padre ha acconsentito a portarci solamente per potersi scusare con Amos».
Delphini sbuffa, di fronte all’espressione corrucciata del Potter mezzano, ma subito riesce a mascherare la propria espressione contenta in un sorriso dolcissimo. «Albus, Scorpius!» esclama, pimpante. «Che piacere vedervi! Cosa vi ha portato fin qui?».
«Lo sai» le risponde Scorpius, secco. «Salvare Cedric Diggory. Avevamo un accordo, non ricordi?».
«Non è tempo, miei cari» mormora, melliflua, cercando a tentoni la bacchetta sul proprio copriletto. «Bisognerà aspettare la condanna di Bellatrix Lestrange, prima di portare ulteriore scompiglio, non trovate?».
Albus annuisce, piano, mentre Scorpius la osserva con sospetto. «Non credo proprio» dice, calmo. «Dovremmo approfittare del fatto che siano tutti concentrati sul processo alla Lestrange, per accorgersi della sparizione della Giratempo».
«Penso di non potervelo permettere» sussurra Delphi, la voce carica di un sentimento che non prova. «Siete così giovani… io non ho niente da perdere, ma voi…».
Albus le posa una mano sulla spalla, pieno di comprensione. «Scorpius ha ragione» mormora. «Hai già un piano?».
Delphini sorride, ha la bacchetta stretta tra le mani. «Sai Albus, io non sono mai stata ad Hogwarts» confessa, divertita. «Ho studiato a Durmstrang: lì l’istruzione è altrettanto valida, ma si concentrano in particolare su alcuni incantesimi molto utili».
Fa una pausa, calcolata, prima di puntare la bacchetta sulla fronte del figlio di Potter, il quale spalanca gli occhi, disorientato.
«Gli incantesimi di memoria, ad esempio» mormora dolcemente. «Te ne mostro uno: Oblivion».
Albus Potter si accascia sul pavimento, gli occhi resi vitrei dall’incantesimo, mentre uno sgomentato Scorpius Malfoy corre a sorreggerlo.
«Non la farai franca» sussurra, schiaffeggiando leggermente il viso dell’amico. «I nostri genitori lo verranno a sapere7».
Delphi sorride, prima di lanciare un secondo incantesimo di memoria, e fare svenire anche il rampollo dei Malfoy.
La Giratempo ticchetta in tasca, come per ricordarle che deve tornare indietro, prima di perdere per sempre anche sua madre.
 
***
 
Diciassette ore e quaranta minuti prima, St. Oswald’s Home for Old Witches and Wizard.
 
«Signor Potter?».
Delphini s’affaccia nella sala da pranzo, scorgendo Harry Potter intento a parlare con l’inserviente, con aria turbata.
«Credo che Albus abbia qualche linea di febbre» constata, trascinando Albus Potter dentro la stanza. «Poco fa delirava, non è vero Scorpius?».
Scorpius Malfoy, leggermente confuso anch’egli, annuisce partecipe. «Temo di sì» sbiascica, incerto. «Anche io non mi sento molto bene».
Harry Potter sospira, passandosi una mano tra i capelli neri, ancora folti, con aria terribilmente stanca. «Grazie per averli riportati qui, Delphi» la ringrazia, con cortesia. «Ce ne stavamo giusto andando. Riuscite a camminare fino all’uscita, ragazzi?».
«Signor Potter» lo richiama Delphini, mentre questi si avvia verso l’uscita della stanza, un po’ tirando e un po’ accompagnando i due ragazzi. «Posso farle una domanda?».
Harry annuisce, senza nemmeno voltarsi a guardarla, ma borbottando a mezza bocca un dimmi pure che suona così forzato da farla sorridere.
«Lei è sicuro di aver fatto tutto quello che era in suo potere per salvare Cedric Diggory?» domanda, melliflua. «Amos ne parla spesso, e mi domandavo quale fosse la verità. Tutto qui».
«Facciamo mai del nostro meglio, quando non sappiamo che ne varrà la vita di qualcuno?» risponde Harry Potter, calmo. «Me lo chiedo spesso e la risposta è, no, certo che no».
«E non pensa mai di poter tornare indietro per sistemare le cose?» gli domanda, sinceramente interessata. «Se, per esempio, avesse impedito a Voldemort di reincarnarsi…».
«Giocare con il tempo, Delphi?8» le domanda lui, turbato. «Non ci penso mai. E nessuno dovrebbe farlo».
Delphini sorride e annuisce, al ritmo della Giratempo che le ticchetta nella tasca dei pantaloni.
 
***
 
Diciassette ore prima, Aix-en-Provence.
 
È che a volte il cielo sembra fatto di vetro – crepe invisibili lo attraversano, e suono i tuoni, facendolo sciogliere in uno scroscio di pioggia – ma, quando infine dovrebbe crollare sulla terra in cocci taglientissimi, scopri che è solamente plastica. Delphini osserva il cielo della Provenza con interesse, come se potesse cambiare colore sotto i suoi occhi e divenire lilla o verde e argento: non sa nemmeno lei perché sia venuta in quel luogo, dove dimora l’unica persona in grado di odiare Bellatrix Lestrange quando Harry Potter o Hermione Granger.
Rodolphus Lestrange sbuffa, nel vederla avvicinarsi alla porta della sua tenuta di campagna a grandi passi, le braccia strette attorno al busto come per difendersi da un freddo che non c’è. E allora il freddo lo avrà dentro, in un eterno inverno che prende la propria essenza dall’assenza, e quell’assenza è propria di due genitori troppo occupati per la grandeur.
«Se pensi che ti inviterò ad entrare, ti sbagli di grosso» borbotta Rodolphus, aprendo la porta. «Cosa ci fai qui, di nuovo?».
Lei vorrebbe solamente mettersi a piangere come una bambina, per l’impossibilità cui il Fato l’ha messa davanti, impossibilità di salvarli prima della prima morte di suo padre. Ma, quando finalmente alza il viso nei confronti del proprio patrigno, ha gli occhi indiscutibilmente e fieramente asciutti.
«Ho bisogno del tuo aiuto» spiega, determinata. «Mi va bene che tu non voglia venire con me. Ma devi dirmi i punti precisi in cui devo andare, per cambiare il presente».
Rodolphus Lestrange sbuffa, aprendo poco di più la porta. «Non sei riuscita a cambiare niente?» le domanda, incerto. «Vieni, entra. Farò una cioccolata calda, per te, e un bel bicchiere di vino per me».
Delphini lo guarda, muovendo un passo nella sua direzione. «Potrei avere un bicchiere di vino anche io?» borbotta, il capo chino. «Penso di averne bisogno».
L’uomo ride, facendole strada nelle viscere della casa. «Non se ne parla» la rimbrotta. «Non ho intenzione di avere ventiduenni ubriache a casa mia, sia chiaro».
Delphini sorride ma, al pari del cielo, pare solamente essere l’ennesima incrinatura: a volte il viso sembra vetro ma, il più delle volte, è solamente plastica sporca di lacrime.
Rodolphus le fa strada, portandola in un’ampia cucina, e facendola accomodare di fronte a un tavolo di legno.
«Sei proprio a terra» constata, senza delicatezza. «Ti andrebbe di spiegarmi cosa è successo?».
Delphini sospira. «Sono andata indietro. Ad Azkaban, prima» comincia, piano. «Lì mia madre mi ha consigliato di andare al vostro matrimonio».
«Spero che tu non l’abbia sorpresa nel momento sbagliato» ridacchia Rodolphus, ripensando con amarezza a quella giornata. «E cosa hai fatto, quando l’hai incontrata?».
«Le ho detto chi ero» risponde Delphini, scrollando le spalle con aria stanca. «E lei mi ha detto che mio padre non mi avrebbe mai creduta, se gli avessi raccontato quel che sapevo. Così mi ha detto di cercarla prima della morte dei Potter».
Rodolphus annuisce, concentrato. «Ha senso» borbotta, concentrato. «E perché non ha funzionato?».
«Lei gliel’ha detto, lui non ha creduto nemmeno a una parola» sussurra Delphi, coprendosi il volto con le mani. «L’ha Cruciata ed è andato via, non sono nemmeno riuscita a dirgli una parola».
«Quindi è tutto come prima» constata Rodolphus, sempre più assorto. «Buffa cosa, il tempo, non trovi? Passi una vita a cercare di modificarlo e quello scorre comunque».
Le mette davanti una ciotola di cioccolata calda, accompagnata da qualche biscotto, con una smorfia scontenta.
«La Francia è bellissima» commenta, indicando i biscotti. «Ma i biscotti al burro non li sanno proprio fare».
Delphini sorride, assaggiando un sorso della bevanda e ustionandosi la lingua: per la prima volta, controvoglia e contrariamente ai desideri di lui, si sente a casa. E, per quel singolo momento, scompare tutto: scompare la Giratempo, sua madre e suo padre, perfino il pensiero di poter essere scoperta e fermata da qualcuno.
«Tu che avresti fatto, al mio posto?» gli domanda, intingendo un biscotto nella bevanda. «Dove saresti andato?».
Rodolphus si gratta la barba, con aria pensosa. «Io non sarei mai tornato indietro per lui» confessa, infine. «Ho seguito le sue idee, mi sono fidato di lui, l’ho venerato come richiedeva. Ma è caduto, Delphini, s’è macchiato: cosa mai puoi fartene di una divinità imperfetta?».
«Era mio padre e, per essere la sua erede, deve insegnarmi tante cose» sussurra, piano. «E mia madre, anche lei dovrebbe essere qui ad aiutarmi».
«Ascoltami, Delphini» la rimprovera Rodolphus, con tono fermo. «Ci sono situazioni dove non si salva nessuno. Tua madre… se non fosse fuggita, forse, tramite Cissy avrebbe potuto invocare clemenza. Se l’è persa da sola, la speranza».
Ma lei, Delphi, la speranza non riesce a perdersela per strada: le rimane appiccicata addosso come un pezzo di plastica fusa, e non riesce a staccarlo nemmeno con tutta la forza di volontà del mondo, quella che sta impiegando per cercare di salvare i suoi genitori da loro stessi.
«Potevano concederle clemenza ugualmente» ringhia. «Lei è una grande Strega ed è uno spreco privarla dell’anima. Specialmente dopo la campagna del Ministro Granger per mandare via i Dissennatori da Azkaban».
«Serve per davvero a qualcosa, fare politica?» le domanda Rodolphus, massaggiandosi le tempie. «Devi rassegnarti, Delphini. Prima lo farai e meglio sarà per tutti».
Lei affila lo sguardo, le briciole di un biscotto finiscono sul tavolo e lei le spazza via, con aria irata. «E questo è il tuo consiglio?» sibila. «Lasciar perdere? Io pensavo che tu l’amassi, almeno un po’, altrimenti non mi avresti accolta qui».
Lui sorride, le agita una mano davanti – quella con la fede. Poi, lentamente, si sfila l’anello dall’anulare e lo lascia scivolare sul tavolo, fino a raggiungere il piatto con la cioccolata calda, ormai raffreddatasi.
«Prendilo» le risponde, indicandole la fede nuziale. Una promessa ormai infranta. «Magari porterà più fortuna a te che a me: c’è una piccola ambra incastonata. Per i desideri da realizzare».
«Mia madre non l’aveva» sussurra, lei, ripensando al proprio incontro ad Azkaban con Bellatrix Lestrange. «Quando l’ho incontrata, poche ore fa. E nemmeno quando sono tornata a cercarla, ad Azkaban, prima che mio padre risorgesse».
Rodolphus la guarda, ha una malinconia insospettabile depositata come acqua fangosa sul fondo degli occhi scuri. «Perché non crede più» sussurra, semplicemente. «Perché ha creduto, forse, in un tempo che nemmeno mi è possibile ricordare. Ma, da quando ha capito di avere il potere di macchiare un Dio, non crede più in niente».
«E tu in cosa credi?» sibila Delphini, spingendo via la propria tazza. «Se non credi in lei, nel vostro matrimonio e nemmeno nella mia possibilità di salvarli entrambi, in cosa credi?».
Lui socchiude gli occhi, come se stesse semplicemente sognando quella discussione, e sorride: chissà che altri mondi ha visitato nel tempo di un sussurro.
«Credo che dovresti lasciar perdere, Delphini» la rimbrotta, pacificamente. «Trovare qualcos’altro per cui valga la pena di combattere».
«Li rivoglio indietro» insiste lei, dura. «E tu devi aiutarmi, lo devi a mia madre e lo devi anche a mio padre».
Rodolphus sospira. «Resta qui» le propone, indicandole la propria fede nuziale. «Non ti verranno mai a cercare: questo posto non compare nemmeno sulle cartine geografiche. Non sarò tuo padre, ma…».
«Pensavo non avessi un cuore» sibila Delphini, senza scomporsi. «Ti ho visto stuprare Alice Longbottom senza mutare espressione, e adesso vieni a dirmi che ti piacerebbe farmi da padre pur di impedirmi di giocare con il passato?».
«Tua madre non ti ha mai voluta: anche se la salvassi, cosa cambierebbe?» le risponde lui, atono. «Tuo padre ti ha voluta solamente perché, sul fondo del suo cuore bugiardo, lo sapeva anche lui: nessuno può vivere per sempre».
«Tu l’hai sempre odiata» ribatte Delphini, con forza. «Ed è per questo che vuoi dissuadermi dal salvarla».
Rodolphus sospira, stremato. «Ricordo la prima volta che sono riuscita a strapparle un bacio» risponde, con una dolcezza strana, malinconica. «È stato sporco, come sciogliere le bende9».
Vorrebbe proiettarla in un mondo di ricordi nel qualche Rodolphus Lestrange segretamente ha sperato e ha creduto nell’amore, prima di risultare deluso da sé stesso perfino nelle proprie fantasie.
«Le ho detto quel che dico ora anche a te» continua Rodolphus, piano. «Di stargli lontano, che amare un Dio non porta mai a niente di buono. Che è solamente distruttivo».
Delphi vorrebbe interromperlo, fermarlo, ma non le viene nemmeno una parola: la Giratempo ticchetta nella sua tasca, spaventata.
«Le ho detto che potevamo fuggire, se solamente me l’avesse chiesto» borbotta Rodolphus, piano. «In Francia o in Italia, questo sì, persino in Islanda se a lei fosse piaciuto: dove si sarebbe stancato di cercarci».
«Lo sai anche tu che l’avrebbe continuata a cercare» risponde Delphini, acida. «Non avrebbe smesso per assecondare le tue smanie da principe azzurro».
«Solo perché tu sei convinta che, in qualche modo che non riesco a comprendere, lui l’amasse» commenta lui, con tono pacifico. «L’Oscuro Signore non era capace di amare, Delphini. Se lo fosse stato, non mi avrebbe imposto di riconoscerti come figlia mia».
«Mia madre…» insiste Delphini, incerta. «Lei mi ha aiutata».
«Solo perché è sempre stata talmente folle da pensare di poterlo salvare» risponde Rodolphus, atono. «Tua madre lo amava appassionatamente, in maniera devozionale: ma, noi due, non ci ha mai voluti al suo fianco».
Lei si alza in piedi di scatto, cercando di guadagnare l’uscita da quella casa, ma Rodolphus la raggiunge, prendendola per il polso. Lasciami andare, padre.
«Rimani» le dice, con fermezza. «Non riuscirai a riportarli indietro, e sotto sotto lo sai anche tu».
Ma lei si divincola con forza. «Lasciami andare» padre, sibila nei suoi pensieri. «Ho bisogno di lei, anche se tu non lo comprendi: ho bisogno di qualcuno che mi illumini riguardo il mio futuro».
«Non so che sogni tu nutra in merito» commenta Rodolphus, piano. «Ma i tuoi genitori erano maledettamente simili, fatti della medesima sostanza. C’era qualcosa di sbagliato, in loro, ed era questo che li rendeva tali».
Ma Delphini non lo ascolta, corre fuori dalla tenuta, respirando a pieni polmoni l’aria che sa di umidità e lacrime non versate.
È che a volte il cielo sembra di plastica e invece è solamente pioggia che non riesce a scendere giù. Carica la Giratempo, in un ticchettio che sembra avere il potere di stopparle il cuore.
 
 
E un bacio sporco sa
Spogliarmi il cuore dagli incubi
Un bacio sporco sa
Come un miliardo di uomini

 
Buongiorno a tutti e grazie per avermi letta fin qui (check per il prossimo aggiornamento: venerdì 5 marzo), questa storia mi ha ossessionata per una settimana e sono stra felice di poterla finalmente postare.
Sarà composta da un totale di tre capitoli, che spero vi piacciano.
Vi lascio le note:

1Emily Brontë, Cime Tempestose
2Si tratta di un'ambientazione che vedrete spesso, è una specie di casa di riposo per maghi, menzionata in TCC
3Scusate, è una mia idea molto stupida: TCC è ambientato nel 2020, quindi ho semplicemente supposto che ci fosse il covid
4La pasticceria esiste davvero e la trovate nel posto in cui l'ho descritta
5Helga Schneider, Lasciami andare, madre
6"Lei era solo l'amante da amare senza amore. Seguì i suoi movimenti. Non ne dimenticò nessuno." - Isabella Santacroce
7Scusatemi, l'ho fatto con soddisfazione: è una cit dai film, pronunciata da Draco Malfoy
8Da TCC
9Jeffrey Eugenides, Middlesex

Spero sia tutto chiaro, ma se così non fosse chiedetemi pure e risponderò il prima possibile.
Gaia

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parte seconda: Plastica che sembra carta ***


Cieli in plastica

Parte seconda: Plastica che sembra carta
 
 
Vieni a fare un giro dentro di me
O questo fuoco si consumerà da sé
E se una vita finisce qua
Quest'altra vita presto comincerà
 
 
È che a volte il cielo sembra di plastica e invece è solamente pioggia che non riesce a scendere giù. Delphini respira a fatica, il volto nascosto da una mascherina chirurgica, mentre le mani le tremano celate dall’aria così umida da apparire quasi tangibile. Carica la Giratempo, in un ticchettio che sembra avere il potere di stopparle il cuore.
 
***
 
Sedici ore prima, St. Oswald’s Home for Old Witches and Wizard.
 
Ad Azkaban piove sempre, pensa distrattamente Delphini, e adesso sua madre siederà sul pavimento della propria cella inzuppata di pioggia a osservare i mutamenti d’una pozzanghera che si espande fino ad allagare tutta la prigione. Allagata, si sente anche lei, perché il cuore non sa nuotare nella pozza di lacrime in cui è immerso.
Allagata, la cassa toracica e perfino i polmoni: respirare diviene complicato, in quella complessa mappa subacquea. Delphini sospira, giocherellando con la Giratempo con aria distratta. Non ha il coraggio di prendere e andare a chiedere consiglio a sua madre, non ha il coraggio di azionarla ancora una volta per tornare in un passato indefinito, sconosciuto.
«Delphi?» la richiama la bionda inserviente, entrando in camera senza bussare. «Una signora è venuta a trovarti. Dice di essere un’amica del signor Diggory».
Lei alza lo sguardo, incuriosita, per incontrare due occhi azzurri come una pervinca e capelli così biondi da sembrare bianchi. Non l’ha mai vista prima, se non al matrimonio di sua madre: una damigella in abito azzurro – un po’ demodé – che vagava tra gli invitati con un sorriso fiero e il girocollo dei Malfoy a designarne l’appartenenza.
Lo indossa ancora, quel collare, come per dire che è ancora fiera d’esser una Malfoy e una Black, l’ultima erede legittima di Cygnus. Narcissa Black le sorride, amabilmente, accomodandosi su una poltroncina rossa con un cenno del capo.
«E così eri qui» commenta, atona. «Non hai idea di quanto tempo ho impiegato a cercarti, quando sei scomparsa da casa mia durante la Battaglia di Hogwarts».
Delphini le lancia uno sguardo guardingo, incerto, mentre si tira a sedere sul letto. La Giratempo è ancora lì, nascosta nel copriletto, ma sa perfettamente che sua zia deve averla vista: Narcissa la osserva con curiosità, come se stesse cercando di comprenderne la psiche senza doverle per forza rivolgere la parola.
Ha l’aria aristocratica, Cissy Malfoy, il naso all’insù le conferisce un’espressione sempre terribilmente schifata da chi le sta intorno. L’aria aristocratica e occhi freddi come quella pozzanghera che si slarga sul pavimento di Azkaban.
«E che avresti fatto, se fossi rimasta a casa tua?» sibila Delphini, contrariata. «Se Rabastan Lestrange non mi avesse portata via. A chi mi avresti venduta? A chi mi venderai?».
«Ti avrei cresciuta come una figlia, Delphini» la rimbrotta Narcissa, senza scomporsi. «E sicuramente i risultati sarebbero stati migliori di quel che vedo».
«Non mi hai cercata» risponde la ragazza, atona. «Non era nemmeno così complicato, trovarmi: ho sempre vissuto qui».
Narcissa sospira, massaggiandosi le tempie con la mano gelida. Gelida, l’anima che cruda avanza fino a uscirle dalla bocca in quel singolo sospiro, privandola di ogni spirito vitale.
«Se ti avessi trovata, come hai detto tu, il Wizengamot non ti avrebbe permesso di vivere» commenta Cissy, calma. «Sei la figlia di due maghi oscuri, Delphini, cerca di tenerlo bene a mente».
«E adesso perché sei qui?» le sibila Delphi, stringendo gli occhi neri. «Adesso vuoi giocare alla famiglia felice anche con me?».
«Voglio che tu restituisca al Ministro la Giratempo che hai rubato» risponde la donna, senza scomporsi minimamente. «Diremo che l’hai trovata in giro, o qualcosa del genere. Nessuno sarà disposto ad ammettere che una ragazza fresca di scuola sia stata in grado di aggirare le misure di sicurezza ministeriali».
«E poi vivremo per sempre felici e contente?» le domanda Delphini, lo sguardo carico di disprezzo. «Temo di dover rifiutare: non rinuncerò a far risorgere i miei genitori, zia, anche se tu hai già perso ogni speranza».
«Ho provato a salvare tua madre» risponde Narcissa, calma. «Puoi pensare quel che vuoi ma, nonostante tutto, rimane pur sempre mia sorella».
Narcissa omette che, da quando ha riscoperto Andromeda al funerale dei caduti, Bellatrix non è più l’unica sorella che le rimane. Ma l’ama ancora, di quel ricordo dolceamaro che ne ha, proveniente da una gioventù offuscata dalla memoria che trema su quelle immagini. Bellatrix piena di speranze, al suo matrimonio, piena di passione e devozione per l’uomo sbagliato.
Devozione e passione, ciò che l’ha sempre mossa attraverso gli anni, passione e devozione, le sue condanne. È quello che Narcissa ha domandato ad Harry Potter, fermandolo al Ministero dopo il processo a sua sorella: si può condannare qualcuno per aver amato?
Lei sì, ha risposto Harry con sguardo determinata, io lei la condannerei altre mille volte. Narcissa ha taciuto ma, dentro di sé, qualcosa disperatamente gridava.
«Cosa sei venuta a fare, qui?» le domanda Delphini, atona. «A parte ricostruire la tua famiglia perfetta, intendo».
«Io non posso aiutarti, se non dicendoti di rinunciare» commenta Narcissa, piano. «Ma tu lo sai già, quanto indietro devi tornare».
Lei è sicuro di aver fatto tutto quello che era in suo potere per salvare Cedric Diggory?
Delphi spalanca gli occhi, in un lampo di comprensione che non le lascia scampo. Cedric Diggory. Deve tornare a quel momento e riuscire a fermare suo padre dopo lo scontro del Prior Incantatio, e convincerlo a tornare indietro per impedire a sé stesso di provare a uccidere il neonato Harry Potter. Lord Voldemort non crederà mai a lei, ma a sé stesso come potrebbe non prestare orecchio?
«Perché mi stai aiutando?» le domanda Delphini, incerta. «Pensavo che le cose ti andassero bene, da quando Potter ha sconfitto mio padre».
«Noi resistiamo» commenta Narcissa, senza alcuna inflessione. «A ogni cambio di sorte, noi Malfoy ci adeguiamo. Non sarò contenta di un ritorno del Signore Oscuro, questo no, e spero che tu capisca che non puoi riuscire nel tuo intento».
«Cosa intendi dire?» sussurra la ragazza, con tono di voce incerto. «Come fai a sapere che non posso cambiare il passato?».
«Perché esiste il destino, Delphini» commenta l’altra, sistemando con una mano i capelli biondi, che ormai iniziano a esser bianchi per davvero. «E il destino di tuo padre era essere sconfitto: tutti noi dobbiamo morire, prima o poi».
«Lui avrebbe potuto vivere per sempre» insiste Delphini, stringendo i pugni. «E insegnarmi come fare ad essere come lui».
Ma Narcissa Malfoy scuote la testa, alzandosi con lentezza dalla poltroncina. «Avresti dovuto rimanere con Rodolphus» constata, amaramente. «Adesso mi scuserai, ma devo tornare a casa».
Sulla soglia, si ferma.
«So che a Durmstrang insegnano con molta dovizia un certo particolare tipo di incantesimo» commenta, sorridendo quieta. «Ti dispiacerebbe?».
Delphini alza la bacchetta. Oblivion.
 
***
 
Quindici ore prima, Aix-en-Provence.
 
Sembra che sia rimasto ad aspettarla. Rodolphus Lestrange, almeno nei suoi pensieri sfilacciati come cartastraccia, non ha mai abbandonato il suo posto di fronte al tavolo della cucina, con una cioccolata calda ormai inevitabilmente fredda.
I pensieri, per quanto accartocciati e inservibili, non mentono: quando si Materializza nella cucina della tenuta Lestrange, Delphini lo trova nella stessa posizione in cui l’ha lasciato – le mani perse nei capelli brizzolati, e l’espressione disperata.
Lui la guarda, come se nel suo viso privo di espressione potesse cogliere qualcosa, e invece è tutta carta che si piega in un sorriso che non è mai tale. È una smorfia che deforma il volto in un buffo origami di cartastraccia, un santino che reca su di sé il nome di Lord Voldemort.
«Sei tornata indietro» osserva Rodolphus, atono. «Cosa ti serve, adesso?».
Delphini sospira. «Il Torneo Tremaghi» sussurra. «Devo andare lì, non è vero?».
Rodolphus le lancia un’occhiataccia, passandosi una mano tra i capelli con aria esasperata. «Pensavo avessi cambiato idea» ammette, senza mostrarle vestigia di dispiacere. «Che avessi deciso di lasciar perdere».
«Io non lascio mai perdere» risponde Delphi, calma. «E tu hai le risposte che cerco. E la chiave è il Tremaghi, non è vero?».
«E chi lo sa? Solo gli sciocchi possono pretendere di cambiare il passato» osserva Rodolphus. «Il Tremaghi, forse, la notte dell’Ufficio Misteri? Magari perfino più indietro di dove sei andata, forse a quando si sono conosciuti? Chi può saperlo».
«Voglio delle risposte» sibila la ragazza, puntandogli contro la bacchetta. «E tu me le darai».
«So che a Durmstrang vi insegnano solo due cose» constata l’uomo, calmo. «A dire la verità e a dimenticare d’averla detta».
Delphini stringe la bacchetta in mano, la formula che le brucia la punta della lingua come Ardemonio: è lì, sulle papille gustative, e lei potrebbe semplicemente dirla. Ma Rodolphus Lestrange la osserva come potesse coglierne i pensieri e ride, ride, ride. Il suono della risata di sua madre, indimenticabile, lo scolo d’acqua in una prigione dove piove sempre.
«Non parlerai» constata Delphini, delusa. «Mi lascerai per davvero vagare nel passato finché non avrò trovato un modo?».
Rodolphus sorride, mostrando i denti come un lupo. «Solo gli sciocchi pensano di poter giocare con il passato» ribadisce. «Ed è ancora più sciocco e folle di chi pensa di poter vivere per sempre».
Delphini gli punta contro la bacchetta, senza mutare espressione del volto. Rodolphus le sorride con una dolcezza strana, disarmante.
«Fallo» la incita, alzando il mento con aria di sfida. «Cosa vuoi che abbia da perdere? Per il Mondo Magico è come se fossi già morto».
Per un momento, Delphini non riesce a non pensare a quanto lui e Bellatrix siano simili.
«Torna indietro, 15 giugno 1979» le risponde, con calma disarmante. «Scoprirai di non essere insostituibile, Delphini, ma di essere una sostituta».
Delphi stringe gli occhi, decisa a non fargli pregustare la sua ira, prima di chiuderli definitivamente e pronunciare quella formula.
«Una vita per una vita, Delphini Lestrange» continua Rodolphus, chinando il capo in segno di saluto. «15 giugno 1979, e poi vienimi a cercare e a dirmi cosa ne pensi dei tuoi genitori».
Delphi non ricambia il cenno, ma agita la bacchetta con grazia algida, disegnando un ghirigoro nell’aria. Oblivion.
Corre fuori: il cielo sembra carta stracciata, le nubi l’ennesimo inchiostro inutilmente versato. È che a volte il cielo sembra di plastica e invece è solamente pioggia che non riesce a scendere giù.
Carica la Giratempo, in un ticchettio che sembra avere il potere di stopparle il cuore.
 
***
 
Non ha resistito alla curiosità, che se l’è mangiata viva mentre caricava la Giratempo: punto d’arrivo, 15 giugno 1979, la tenuta in Cornovaglia dei Lestrange. L’erba le pizzica le caviglie, incolta, mentre avanza a fatica nella nebbia che ne inghiotte i passi.
Un grido lacera l’aria. A pochi passi da lei, Bellatrix Lestrange s’è accasciata sull’erba stringendosi il ventre. Delphini vorrebbe correre da lei, ma qualcosa la frena, è come se le gambe non rispondessero ai suoi comandi.
Perché un giovane Rodolphus Lestrange corre attraverso il prato, chinandosi vicino alla moglie, con aria turbata.
«Lo sta perdendo» urla, in direzione di una persona fuori dal campo visivo di Delphini. «Per Salazar, Narcissa! Vieni a darmi una mano, portiamola dentro».
Narcissa Malfoy s’avvicina a passo cadenzato, chinandosi per guardare sua sorella da vicino, con aria disgustata.
«Lo sta perdendo» conferma al cognato, senza lasciar trasparire alcuna emozione. «Devi avvisare il Signore Oscuro, Rod».
«Come fai ad essere così calma, Cissy?» le domanda Rodolphus, in un sibilo. «Se lo perde siamo tutti morti, te compresa».
«In ogni fine c’è un nuovo inizio» risponde Narcissa, con tono pacifico. «Ha dimostrato di essere in grado di dargli un figlio. Gliene darà un secondo, se serve. Chiamalo!».
Rodolphus sospira, arrotolando la manica del completo da Mago fino al gomito, e premendo il pollice sul Marchio Nero.
«Portiamola dentro» ripete. «O vuoi farla vedere all’Oscuro Signore in questo stato?».
Narcissa annuisce, con aria concentrata. «Hai una pozione calmante?» gli domanda, alzando lo sguardo. «Temo che le servirà».
Un grido squarcia l’aria. Delphini non se ne rende nemmeno conto, ma ha gli occhi pieni di lacrime.
 
***
 
Quattordici ore prima, Azkaban.
 
Bellatrix Lestrange brucia di mancanza. A Delphini ciò pare subito chiaro, quando torna ad Azkaban per interrogarla su ciò che ha visto, con un cestino pieno di torta di mele per giustificare la propria presenza in quella prigione. Fatta da noi volontari, ha spiegato agli Auror, non sarebbe corretto concederle un ultimo pasto?
Sua madre non l’ha nemmeno guardata, quella torta, ma ha puntato i propri occhi neri e febbrili sulla figlia, cercando sul suo viso vestigia del padre. E senza trovarne nessuna. Delphini s’è seduta sul pavimento, incerta, piena di domande.
«Madre» la chiama, sussurrando. «Devo porti delle domande».
Bellatrix osserva la torta di mele con incertezza, forse convinta che la propria figlia sarebbe in grado di avvelenarla. «Domanda, allora» sibila. «Non colgo impedimenti».
Delphi sospira, stremata, e si decide a guardare sua madre dritta negli occhi, ricambiandone lo sguardo.
«Hai avuto altri figli, oltre a me?» le domanda, atona. «Altri bambini».
Bellatrix ride, facendo tremare l’aria. «Io non ho figli» risponde, con calma innaturale. «Non ne ho mai avuti».
«Io sono tua figlia» ribadisce Delphini, in un sibilo. «Fingi di dimenticartene, se vuoi, ma lo sai».
«Tu sei un piano» risponde sua madre, affilando lo sguardo. «Un incontro tra Arti Oscure, forse. Ma, figlia mia, non lo sarai mai».
Delphi sospira, passandosi una mano sul volto con aria stanca. «Hai avuto altri piani?» chiede, nuovamente. «Altri incontri di Arti Oscure?».
Bellatrix sorride, a quel ricordo di vite che le si sono spezzate dentro, e di come abbia confessato a sua sorella di non esser fatta per divenire madre: i patti, la passione asciugatasi tra le braccia di colui che ha sempre nominato, sono tutte cose che non collimano con l’essere chiamata madre. Lei, un Draco piagnucoloso e con il moccio al naso, non l’ha mai desiderato – e, dopo la nascita di Delphini, è sempre stata Narcissa a cullarla e a cantarle canzoncine stupide sopra la culla. A nutrirla, con il latte preparato dalle Elfe, perché Bellatrix s’è rifiutata di fornire nutrimento a un essere talmente inutile. Una femmina.
Persino Lord Voldemort – che le aveva esplicitamente domandato un piano e un incontro di Arti Oscure – ne era rimasto terribilmente deluso. Una bambina inutile, che sarebbe sempre stata seconda a un uomo, una bambina che non sarebbe stata nominata, forse, ma che avrebbe sempre e comunque avuto un nome da donna. Della famiglia della madre, quello sì, Lord Voldemort non avrebbe permesso a nessun infante di portare il suo nome.
Bellatrix Lestrange alza il volto verso il cielo, per quel poco che si vede ad Azkaban, e sorride mostrando i denti mancanti: è che a volte il cosmo sembra fatto di carta e, invece, è solamente plastica accartocciata. E la pioggia che non scende crepando il cielo, quello sì, quello sempre.
«Due» ammette Bellatrix, aspettando che il cielo si sciolga in acqua sporca. «Uno era troppo piccolo per capire se fosse maschio o femmina, non ha fatto nemmeno male».
A Delphini si strozza il fiato in gola, nell’udire quelle parole. «E il secondo?» sussurra, piano. «Cosa gli è successo?».
Sua madre ride, tagliente come l’aria gelida che attraversa la prigione. «L’ho perso mentre io e Rodolphus fuggivamo da Moody e i suoi Auror» ricorda, scrollando le spalle. «L’ho pugnalato con le mie mani, pur di non consegnarlo a loro. E sai qual è la cosa peggiore?».
Delphi scuote il capo, ma non riesce a domandare: quel giorno sua madre ha fretta di raccontare, più che di rispondere alle sue domande.
«Era un maschio» mormora Bellatrix. Una goccia d’acqua le sfregia il volto nell’ennesima cicatrice. «Lui era molto deluso, ma ha detto che in ogni fine c’è un inizio, e allora dovevamo ricominciare d’accapo».
Sembra arsa viva, sua madre, da un fuoco che non distrugge ma consuma soltanto e ha preso residenza nel suo sguardo, nei suoi ricordi. Delphini sospira, cercando in sé un parvenza di comprensione che non trova da nessuna parte.
«Tuo marito non me ne aveva parlato» sussurra, ripensando allo sguardo triste con cui Rodolphus Lestrange l’aveva accolta in casa sua. «Adesso vive nella Francia Babbana».
«Rodolphus ha tradito: vivere tra i Babbani è il suo posto» commenta Bellatrix, risolvendosi ad addentare un pezzo di torta di mele. «Il sangue macchiato puzza quanto quello sporco».
Delphini vorrebbe replicare, spendere qualche parola in difesa di quell’uomo che le ha prestato aiuto, nonostante l’odio che Bellatrix sembra provare per lui. Ma, di fronte allo sguardo serio di sua madre, non le escono le parole.
«Non sei riuscita a salvarlo?» domanda Bellatrix, distogliendo lo sguardo da quel cielo che lentamente si scioglie in lacrime. «Io sono ancora qui e, se lui fosse vivo, verrebbe a portarmi via: sono la sua migliore Mangiamorte, dopotutto».
«Non ancora» confessa Delphi, la voce crepata dal fastidio provocatole da quella semplice ammissione. «Sto cercando di capire dov’è che devo andare. Né tu, né Rodolphus, né tua sorella mi siete stati d’aiuto».
Il Tremaghi, forse, la notte dopo l’Ufficio Misteri? Magari perfino più indietro di dove sei andata, forse a quando si sono conosciuti? Chi può saperlo.
Involontariamente – o forse in piena consapevolezza, questo lei non saprà mai dirlo – Rodolphus Lestrange le ha fornito delle chiavi.
«Devo andare» sussurra Delphini, alzandosi di scatto. «Devo fare delle prove. Spero di poter tornare a trovarti, madre».
Ma lei scuote il capo, con forza. «Non sono tua madre» risponde, mentre i passi di Delphini coprono quelle parole in un sussurro.
Io non sono tua madre.
 
***
 
Tredici ore prima, villa Riddle (Little Hangleton)
 
Harry Potter ha chiesto – domandato e preteso – che il cadavere del suo nemico fosse sepolto in maniera dignitosa, ma anonima. Non un luogo di culti per i neo-Mangiamorte dell’ultima ora, ha detto, solamente una tomba rispettabile in una casa di famiglia resa invisibile con la Magia.
Ma Delphini, il cui sangue è quello di Lord Voldemort, casa sua riesce a vederla: le appartiene, quella catapecchia, le appartengono quelle tombe e le appartiene il corpo gelido e immobile di suo padre, lì sotto. È un momento soltanto, ma le viene voglia di vederlo.
Alza la bacchetta, smuovendo la terra umida di pioggia, e lasciandola accumularsi in maniera ordinata al proprio fianco. Una bara semplice, priva di orpelli, le restituisce lo sguardo: l’hanno disseminata di così tanti chiodi che, anche con la magia, Delphi fa fatica ad aprirla.
Cosa si aspettavano, pensa distrattamente mentre i chiodi si staccano e cadono ai suoi piedi, che risorgesse al terzo giorno?
La bara, priva di chiodi, la guarda come per dirle aprimi. Delphini muove nuovamente la bacchetta, scostando il coperchio, e affacciandosi per scoprirne il contenuto.
Uno scheletro senz’occhi ricambia il suo sguardo, costringendola a soffocare un gridolino: ecco, si dice, quel che rimane di Lord Voldemort. Polvere e qualche frammento di ricordo, ossa incrociate e niente occhi.
Io non sarò così. Delphini ne è così certa da farsi male, con quella consapevolezza tagliente, io non sarò così.
Una goccia di pioggia le graffia il volto, costringendola ad alzare lo sguardo. È che a volte il cielo sembra di plastica e invece è solamente pioggia che non riesce a scendere giù. Carica la Giratempo, in un ticchettio che sembra avere il potere di stopparle il cuore.
 
***
 
Il cimitero è ancora più tetro e inquietante, quella notte: Delphini sa che, di tutte le notti, quella sarà la più lunga. Sa che non basterà guardare, ma impedire che Harry Potter riesca a fuggire dopo il Prior Incantatio, sa che. Che sua madre non vegeterà ad Azkaban mai più, che suo padre non finirà in una bara dimenticata dal mondo a esser polvere per vermi. Mai più.
«Osso del padre, donato a sua insaputa, rinnoverai il figlio» la voce di Codaliscia emerge come l’ultimo baluardo che la separa da quella sensazione di irrealtà che l’ha investita.
Delphini non si sente più. Si percepisce come fatta di carta, volatile, incapace di resistere ai venti che la trasportano via verso un cielo che pare di carta ma che, toccandolo nell’insieme di nubi fradicie che lo formano, è solamente l’ennesimo mondo di plastica trasparente punteggiata di minuscola speranza.
«Carne… del servo… donata con l’assenso… rinnoverai… il tuo Signore» piange il servo di suo padre, mentre un corpo morto crolla nel calderone. Fa un rumore buffo, pensa Delphi, sorridendo a quel pensiero.
È il rumore di qualcosa che cade nel vuoto pieno di un cielo di plastica, qualcosa si spezza dentro di lei. Sono le parole di Narcissa Malfoy – Perché esiste il destino, Delphini. E il destino di tuo padre era essere sconfitto: tutti noi dobbiamo morire, prima o poi – che le rimbombano in testa come una maledizione.
Ormai, si dice rabbrividendo nei suoi abiti forse troppo leggeri, ha finito per crederci anche lei a quel freddo che sente dentro: sa del Bacio di un Dissennatore, quella sensazione in volto, nel vedere il proprio padre ridotto a un essere dipendente da un servitore.
«S-sangue del nemico… preso con la forza… farai risorgere… il tuo avversario»1 pigola Codaliscia, attendendo che il miracolo si compia.
Delphini ha gli occhi pieni di quella nebbia che si sprigiona dal calderone, ha gli occhi pieni di quel momento in cui suo padre si alza e osserva Harry Potter con gli occhi di sangue e determinazione, altrettanto sanguinolenta.
«Vestimi» sibila a Codalisca, tendendo le braccia per ricevere la veste.
È in quel momento che le gambe di Delphini si muovono da sole, trasportandola al cospetto del padre. Codaliscia, occupato a piangere per la sua mano perduta, non la nota. Ma Harry Potter sì: scappa, le sillaba, corri.
«Padre!» esclama, nel momento in cui Lord Voldemort si volta verso di lei e ne incrocia lo sguardo. «Devi ascoltarmi!».
«La bacchetta, Codaliscia» ordina lui, calmo. «Abbiamo un’ospite».
Peter Minus gli porge la bacchetta, macchiandola appena con il proprio sangue. «Mio Signore» mormora, a metà tra la supplica e il pianto. «La mano…».
Lorv Voldemort agita la bacchetta, senza distogliere lo sguardo da Delphini, creando una mano d’argento per il suo servitore.
«Prendila» sibila, senza degnare di uno sguardo Harry Potter. «Voglio vederla da vicino».
Codaliscia si volta, pronto a eseguire gli ordini, ma è Delphi ad avvicinarsi a lui a grandi passi. «Padre» ripete, come incantata. «Ho bisogno di parlarti, io… mi chiamo Delphini Lestrange. E vengo da un altro tempo».
Lord Voldemort ride, facendo tremare l’aria. «Lestrange» commenta, piano. «E chiami me padre?».
«Mi avete dato voi questo cognome» sussurra lei, con passione. «Il nome del marito di mia madre».
C’è sospetto, nello sguardo dell’Oscuro Signore, ma anche un dubbio profondissimo che ne scuote le corde del cuore.
«Hai qualcosa di lei» sibila, lui, più a sé stesso che ha lei. «Come faccio a crederti, Delphini Lestrange?».
«State per ingaggiare un duello con Harry Potter» sussurra Delphini, chinando il capo. «Le vostre bacchette hanno la stessa anima: non riuscirete ad ucciderlo, a causa di un Prior Incantatio».
Voldemort spalanca gli occhi affilati, di fronte a quella rivelazione. «Codaliscia» chiama, con voce tonante. «Prendigli la bacchetta».
Codaliscia trotterella verso Harry, incapace di muoversi, per sfilargli la bacchetta dalla tasca dei pantaloni e portarla al suo signore. Voldemort la prende dalla mano argentata del suo servo, mormorando una formula contro di essa.
La bacchetta di Harry Potter si illumina, come fosse colpevole, facendo sorridere Lord Voldemort sovrappensiero.
«Dici il vero» constata, piano. «Ma non puoi essere mia figlia: le divinità non si sporcano con i mortali».
«Mi hai voluta tu» sussurra Delphini, stringendo i pugni. «Sono il tuo strumento per vivere per sempre, padre».
«Perché sei tornata indietro nel tempo, Delphini Lestrange?» le domanda, in un sibilo che non lascia scampo. «Che avvertimento mi porti?».
«Ci sarà una battaglia, tra tre anni» sussurra la ragazza, timorosa. «E Harry Potter trionferà».
«Impossibile!» grida Lord Voldemort, in un ampio movimento della veste. «Solo io posso vivere per sempre!».
Delphini china il capo, i capelli biondissimi e striati di blu le gettano un’ombra cupa e sinistra sulla fronte. «Padre, ascoltami» sussurra. «Io posso aiutarti a sconfiggerlo, è per questo che mi hai voluta: io sono la tua chiave per vivere in eterno».
«Io non ho figli» sibila, lui, con disprezzo. «Io ho piani, abilità magiche che s’incontrano».
«Ti prego» sussurra Delphini, spalancando gli occhi nell’oscurità. La stessa che ha dentro di sé. «Ho bisogno che tu viva. Hai tanto da insegnarmi, padre».
Ma Lord Voldemort ride, mostrando i denti e le gengive rosate, in un ghigno che ha del grottesco. «Io non ho figli» ripete, in un sibilo. «E se tu provenissi dal futuro, mi recheresti notizie riguardanti la mia vittoria».
Le punta la bacchetta contro, certo che lei non si sposterà. Ma Delphini, che ha un dispiacere viscerale dipinto tra le rughe d’espressione della fronte, scuote il capo.
«Mi dispiace tanto» sussurra, stringendosi il busto in un abbraccio che, di consolatorio, riesce ad avere ben poco. «Continuerò a provare a salvarti, padre».
Lui sta già gridando la formula – Avada Kedavra – quando lei si Smaterializza in uno schiocco. Una lacrima rimane lì, ai piedi di suo padre in un cimitero di campagna.
 
***
 
Dodici ore prima, Malfoy Manor.
 
Lucius Malfoy è invecchiato male, pensa Delphini quando lo sorprende sotto un albero privo di fiori, l’unico, nel proprio giardino. I capelli biondi sono diventati bianchi: non s’è stempiato, ma il tempo ha comunque trovato il modo di incidergli addosso il proprio passaggio, nelle rughe pronunciate e nella leggera pinguedine che ne ha appesantito i movimenti. È invecchiato male anche nel tremore continuo delle mani, quando le alza per cogliere una foglia e osservare come essa si pieghi docilmente tra le sue mani.
Si sorprende della vita che chiama vita, Lucius, quando la sua vita chiama morte da anni: è stato ad Azkaban per un decennio, prima di poter tornare a casa da una moglie scontenta di lui e da un figlio divenuto scostante. E da una nuora che non approva, almeno quanto lei non approva il suocero – bella era bella, Asteria Greengrass, ma il passato non perdona che s’è invischiata con un Traditore2 per anni, prima di scegliere un marito fieramente Purosangue.
Si sorprende ogni giorno per essere ancora vivo, dopo aver convissuto con i propri pensieri per un decennio, avendo pianto e supplicato d’esser riportato a casa a morire. Harry Potter ha dispensato perdono a piene mani, anche a lui: l’esser marito della donna che gli ha salvato la vita è stata una ragione sufficiente per sorridere e perdonare.
Buffa cosa, il perdono, pensa Delphini avvicinandosi a quell’uomo a grandi passi. Buffa cosa che viene concesso solamente per affezione o simpatia, anche quando l’imputato non è più al di sopra di ogni colpa.
Lucius Malfoy alza lo sguardo, incontrando i suoi occhi neri, e il viso gli s’illumina di comprensione istantanea. Pare carta, la pelle tesa sopra gli zigomi quasi a volerli bucare, pare carta la mano con cui le fa cenno di avvicinarsi.
«Pensavo avessi compreso che era meglio sparire» commenta, con voce stentorea. «Che non c’era posto, al mondo, per te».
Delphini, la bambina inutile che lui stesso ha preso in braccio per mostrarla all’Oscuro Signore, sorride con finta dolcezza. «Ho bisogno del tuo aiuto» confessa, atona. «Devo entrare al Ministero della Magia».
Non gli rivela che, grazie all’aiuto di suo nipote e di Albus Severus Potter, l’ha già fatto: ma la Polisucco è già terminata e, allora, si ritrova ad aver bisogno dell’aiuto di un essere abietto come Lucius Malfoy.
«Il Ministero, sì» borbotta lui, con tono concentrato, come se faticasse a comprendere il significato di quell’ammissione di colpa. «Ma perché dovrei aiutarti, Delphini Lestrange?».
Lei scuote il capo, di fronte a quel cognome. «Perché il Signore Oscuro risorgerà» prevede. «E voi Malfoy vi adeguate al cambiamento da anni: resisterete anche questa volta, e il primo passo per farlo sono io».
«Cissy…» borbotta Lucius, muovendo il capo verso l’entrata del Manor. «Devo parlarne con lei. Da quando sono stata ad Azkaban, ha preso in mano il futuro della famiglia».
«Non ti rendi conto di quanto tu riesca a essere patetico?» sbuffa Delphini, sistemandosi i capelli con aria pensierosa. «Hai davvero bisogno di domandare il permesso di tua moglie, per fare qualcosa?».
Lui scuote il capo, ma non smette di osservare l’entrata di casa sua come se nascondesse risposte invisibili. Finché non china il capo, in segno di resa, guardandosi le mani macchiate dall’età mentre si stringono tra di loro, come per darsi coraggio.
«Dove devi introdurti?» le domanda, senza riuscire a guardarla negli occhi. «Non sarà facile, hanno aumentato le misure di sicurezza: dicono che qualcuno sia andato a rubare nell’ufficio del Ministro Granger».
Delphi ride, di fronte a quell’informazione, prima di confessargli il luogo dov’è diretta. «All’Ufficio Misteri» confessa, infine. «Sai se è ancora agibile?».
Lucius scuote il capo. «Il Ministro Granger l’ha chiuso al pubblico e agli stessi dipendenti» commenta. «Non è ben sorvegliato, questo sì, gli Auror sono troppo occupati con la setta dei neo-Mangiamorte».
Delphini annuisce, concentrata. «E puoi portarmi lì?» gli domanda. «Sicuramente ci saranno degli incantesimi di protezione, ma vale la pena tentare».
«Ho della Polisucco a casa, mio figlio è un Pozionista» commenta Lucius, con una sicurezza che non prova. «Dovrai trasformarti in qualcun altro. Nessuno sa chi sei, ma come spiegherei la tua presenza al Ministero?».
«E in chi dovrei trasformarmi?» domanda Delphini, alzando gli occhi al cielo. «Non tua moglie?».
Lucius scuote il capo, con deliberata lentezza. «In Draco» commenta, piano. «Lui non esce molto di casa, da quando il Ministero gli ha affidato un incarico confidenziale».
Delphi annuisce, con aria concentrata. «Se incontrassi qualcuno» commenta, calma. «Come giustificherei la mia presenza al Ministero?».
«Il Ministro» risponde lui, con certezza annichilente. «Lui va spesso a parlare con il Ministro Granger».
«E perché?» domanda Delphini, con aria perplessa. «Di cosa dovrebbe parlare, tuo figlio, con il Ministro della Magia?».
Lucius abbassa lo sguardo, con aria turbata. «Niente che mi riguardi» commenta, atono. «O, almeno, così dice».
Lei sorride, con aria tremendamente ironica. «Immagino che piangano la morte infelice di Asteria Greengrass» commenta, divertita. «In ginocchio, di fronte alla sua effige».
Lucius non ride.
 
***
 
Undici ore prima, Ministero della Magia.
 
«Benvenuti al Ministero della Magia. Per favore dichiarate il vostro nome e il motivo della visita» trilla la solita fredda voce femminile.
«Lucius e Draco Malfoy» risponde Lucius, con aria annoiata. «Incontro con il Ministro Granger e consueto orario di lavoro serale, per me».
«Grazie» risponde la voce. «Il visitatore è pregato di raccogliere la targhetta e assicurarla sul vestito».
Una spilla di metallo rotola fuori dalla fessura, e Delphi si china a raccoglierla: Draco Malfoy, reca la scritta, Incontro con il Ministro.
  «Il visitatore del Ministero ha l’obbligo di sottoporsi a perquisizione e di presentare la bacchetta perché sia registrata al banco della sorveglianza, all’estremità dell’Atrium» conclude la voce femminile. «Il Ministero della Magia vi augura una piacevole giornata»3.
L’Atrium del Ministero pullula di gente indaffarata: una ragazza molto giovane, con una fitta chioma riccia, passa loro accanto trillando un buongiorno signor Malfoy in direzione di Lucius, che ricambia con uno stanco cenno del capo.
«Signor Malfoy» qualcuno fa per interrompere l’avanzata di Delphini che si ferma di scatto, con aria contrariata. «Devo registrarle la bacchetta. Sa, fa parte della procedura per i visitatori».
«Va pure, Draco» commenta Lucius, fingendosi spazientito. «Ti attendo qui, non preoccuparti».
Delphini fa per avvicinarsi all’addetto della sorveglianza, timorosa, ma viene bloccata da una voce familiare. «Non c’è bisogno, Aurelius» esclama il Ministro Granger, con un gesto sbrigativo della mano. «Credo che Malfoy sia qui per conferire con me. Grazie per averlo accompagnato, Lucius».
Pronuncia il nome dell’uomo con disprezzo, quasi fosse qualcosa di bollente da sputar via perché le sta ustionando la lingua. «Seguimi pure» fa cenno a Delphini. «Andiamo nel mio ufficio».
Delphini la guarda, cercando di racimolare abbastanza idee per poterle mentire. «Aspetta» le dice, prendendola per un braccio e guadagnandosi un’occhiataccia. «Stavo andando in un posto, prima di venire a cercarti».
Lo sguardo di Hermione s’illumina di velata tristezza. «Oh, certo» osserva, calma. «Vieni con me. L’ho spostata nell’Ufficio Misteri, finché non deciderai di rivolerla indietro».
Delphini sorride, senza aver compreso una parola di quanto detto dal Ministro, e lanciando uno sguardo d’intesa a Lucius. Comincia a seguire Hermione Granger per il labirinto intricato di corridoi del Ministero, senza dire una parola, mentre lei gli lancia un’occhiata comprensiva ogni cinque o sei passi. È pietà, quella nel suo sguardo, è pietà e un tentativo di comprendere un dolore che Delphini non vede e non sente, di cui certamente non riuscirà a parlare.
La porta dell’Ufficio Mistero si spalanca al suono dei tacchi di Hermione Granger, rivelandone il contenuto: le profezie scintillano nella penombra, donando alla stanza un alone bluastro. La scrivania, senza che nessuno vi si sieda dietro, è ingombra di carte.
«Vengo ancora a lavorare qui quando ho bisogno di silenzio» confessa il Ministro, sorridendo. «Vieni, lei è di là».
Delphini la segue in silenzio tra le profezie, finché la Granger non si ferma di fronte a uno scaffale meno ingombro degli altri, facendogli segno di avvicinarsi. Una targhetta riluce, nonostante la discreta illuminazione della stanza: Asteria Greengrass-Malfoy, recita la scritta.
Sopra di essa, una profezia più piccola dalle altre e una fotografia incorniciata di una ragazza bionda, vestita da sposa, con un sorriso molto triste sul volto.
«Non sapevo venissi ancora qui» mormora Hermione, sfiorando la profezia con la punta delle dita. «Pensavo che avessi smesso, da quando… sai, pensavo che avessi cominciato a superarla. Non voglio prendermi tutti i meriti, ma…».
Delphini sfiora quella fotografia, con aria assorta, mentre con la mano stringe la Giratempo nascosta nella tasca dei pantaloni. «L’ho superata» mente. «Vengo qui quando ho bisogno di riflettere» borbotta, sulla falsariga della confessione di lei.
Hermione annuisce, regalandogli una comprensione che chiaramente non prova. «Ti aspetto nel mio ufficio, farò portare un tè» commenta, atona. «Prenditi tutto il tempo che ti serve».
Esce dalla stanza, in un turbinio di gonne e ticchettio di scarpe.
Delphini sospira, gli occhi puntati sulla profezia di Asteria Greengrass, mentre estrae la Giratempo e comincia a caricarla.
Il ticchettio sembra avere il potere di entrarle nelle ossa.
 
***
 
«Non posso, Potter?».
La voce di Lord Voldemort crepa i cieli, strappandoli come cartastraccia, e facendo tremare chiunque sia presente al suo cospetto: Delphini, nascosta nell’ombra, trema anch’ella di fronte a quel padre che – l’ha sperimentato sulle propria ossa – potrebbe essere in grado di ucciderla. Trema e non sa come fermarlo, come dirgli di fuggire, prima che sia tutto perduto, tutto rovinato, tutto da rifare.
«E così hai rotto la mia profezia?» chiede il Signore Oscuro, in un sibilo che si perde nel bagliore sanguinolento dei suoi occhi. «No, Bella, non dice il falso… vedo la verità nella sua mente indegna… mesi di preparativi, mesi di sforzi… e ancora una volta i miei Mangiamorte hanno permesso a Harry Potter di tagliarmi la strada…»4.
Delphini guarda sua madre, mentre si getta ai piedi del suo Signore: pieno di disprezzo, quello sguardo che lui le regala, pieno di remore quello di lei mentre si allunga verso di lui per baciargli la veste. Ti prego, pensa la loro unica figlia, fermalo.
Non le ode, le parole di sua madre singhiozzate ai piedi di Lord Voldemort, non ode le sue risposte: è tutto come immerso in una gigantesca bolla di silenzio che l’avvolge e non la lascia nemmeno respirare, se non nel momento in cui la mano di suo padre s’agita in direzione di Harry Potter. Ma il colpo non arriva.
«No!» grida Delphini, accovacciandosi ai piedi di Voldemort, impedendogli di scagliare l’incantesimo. «Devi fuggire, padre. Silente è qui, il Ministro sta arrivando».
Bellatrix Spalanca gli occhi, mentre il suo Signore si china, afferrando lei per un braccio e sua figlia per la manica della maglia, Smaterializzandosi in un crack di fronte allo sguardo sgomentato di Harry Potter.
«Mio Signore» singhiozza Bellatrix, nella sala di pranzo della casa di sua sorella minore. «Perché siete fuggito, voi… potevamo uccidere Potter, l’avrei ucciso per voi con le mie stesse mani!».
Ma Lord Voldemort alza un braccio, mettendola a tacere con uno sguardo e un gesto appena accennato.
«Io mi ricordo di te» sibila, piano. «Al cimitero, l’anno scorso, tu eri lì».
Delphini china il capo: questa volta, si dice, è talmente disperata che farsi uccidere dal proprio stesso padre le andrebbe bene. Questa volta, si dice, va bene morire ai suoi piedi ed attendere quella fine che sarà giusta o in giusta, ma sicuramente rapida e le caverà via l’aria dai polmoni in un battito di ciglia. Ma, anche questa volta, il colpo non arriva.
Lord Voldemort si gira la bacchetta tra le mani, con aria pensierosa, scrutandola come se sul viso potesse intuirne le risposte.
«Lei sa cosa ti ho chiesto, per ben due volte, Bellatrix» commenta, in direzione della sua migliore Luogotenente. «E pare essere stata il tuo tentativo migliore, venuta dal futuro per avvertirmi di un pericolo imminente».
«Mente» sussurra Bellatrix, in tono appassionato. «Io non vi darei mai una bambina inutile, mio Signore, io vi darei solamente il maschio che mi avete ordinato. Nulla di meno».
«Dille come ti chiami» le ordina Voldemort, puntandole contro la bacchetta.
«Delphini Lestrange» sussurra la ragazza, senza paura, ma piena di rassegnazione. «Delphi».
Bellatrix spalanca gli occhi, in un lampo di comprensione che le mastica l’anima, e china il capo con aria disperata.
«Mio Signore» sussurra, gettandosi nuovamente ai suoi piedi. «Io ve lo giuro, non so di cosa stia parlando, io…».
«Taci» sibila Voldemort, osservando Delphini con curiosità. «Di te mi occuperò più tardi, Bellatrix».
La donna sussulta e tace, sebbene lo sguardo che rivolga a sua figlia sia pieno di viscerale sofferenza al pensiero d’aver deluso il proprio Signore. È in quel momento che, in Delphi, qualcosa si straccia definitivamente.
Nel bagliore morente di un tramonto di carta, qualcosa si rompe per sempre dentro di lei: fa un male cane. Come squarciarsi il viso per non vedere una cicatrice, fa semplicemente male di quel dolore insensato e duraturo che solamente gli squarci comportano. E, vedere sua madre con quell’espressione delusa e sofferente, è esattamente quello. Uno squarcio. Qualcosa che va contro tutti i suoi sforzi per salvarli entrambi.
In quel momento, qualcosa dentro di Delphini va  in frantumi vetrosi e di plastica che ottenebrarono il tramonto ferito a morte. In quel momento, una certezza si forma dentro di lei con lentezza esasperante: ha fallito, questa volta per sempre. Non esiste un mondo possibile in cui potrà salvarli entrambi.
«Padre» sussurra. «Devo dirti una cosa».
Ma esiste un mondo in cui potrà salvare almeno sua madre, ed è quello in cui sta vivendo in quel momento: accetta di perdere suo padre, che di lei ha visto solamente il piano e l’incontro tra Arti Oscure, ma non accetterà di perdere anche sua madre. Non che Bellatrix l’abbia mai voluta e desiderata, oltre il piano e le Arti Oscure, ma si è dimostrata più propensa a insegnarle.
Delphini cerca questo, una guida – per un momento soltanto, in quel dolore privo di senso e di scopo, una visione chiarissima squarcia il cielo di plastica: la tenuta dei Lestrange in Provenza, Rodolphus che prepara una cioccolata calda con aria eccessivamente concentrata. Casa, le dice quella visione, famiglia. Eppure, anche lì, lo sguardo disperato di sua madre le toglie il fiato dalla gola.
«Parla» sibila Voldemort, dedicandole la propria attenzione. «Parla».
«Ho un fratello» sussurra, pregando di risultare convincente. «Lui… è il mio gemello, il tuo erede».
Lo sguardo di suo padre si fa vigile, interessato, di fronte a quella dichiarazione: sembra essersi dimenticato di Bellatrix, ai suoi piedi, quando avanza a grandi passi e agguanta il polso di Delphini, strattonandola verso di sé con forza.
«Lui dov’è?» le sibila, irato. «Perché non è qui a vedermi raggiungere il posto che mi spetta?».
Delphini abbassa lo sguardo, mettendo la mano in tasca. «Non ha voluto seguirmi» borbotta, incerta. «Lui… è sempre stato diverso».
«Dimmi il suo nome» ribatte Voldemort, in un sussurro. «E mi ricorderò di ucciderlo prima che esali il primo respiro».
«Tom» risponde lei, con sicurezza. Pensa a una tomba abbandonata in una casa resa invisibile, lo sguardo vuoto di uno scheletro. «Tom Riddle».
Voldemort sibila, lasciandola andare, per prendere la bacchetta e puntargliela in fronte con gli occhi liquidi di rabbia. Ma è tardi.
Perché lei ha già caricato la Giratempo, alla luce di un tramonto che sembra dipinto su carta quando, invece è solamente una luce che si riflette in un cielo di plastica.
 
***
 
Dieci ore prima, Villa Black.
 
È tornata sui suoi passi. Delphini è semplicemente tornata indietro nel luogo dove tutto è cominciato: quando si sono conosciuti. Chi può saperlo? – le parole di Rodolphus Lestrange le risuonano in mente come una cantilena. Chi può saperlo, chi può saperlo, chi può saperlo?
La casa dei suoi nonni è sempre bella, sempre ordinata, sebbene Narcissa Malfoy si sia categoricamente rifiutata di viverci con la propria famiglia. Casa di Bellatix, sarebbe, se solamente Harry Potter fosse stato così generoso da concederle quel perdono che ha dispensato praticamente a chiunque. Tranne lei.
La gelida carnefice dei Longbottom. L’assassina di Sirius. L’amante di Voldemort. Lei.
Delphini sospira, spingendosi nelle viscere della casa: è questo, quel luogo maledetto, dove si sono incontrati per la prima volta. L’aveva già percepito, sua madre, quel fuoco maledetto che l’avrebbe consumata fino a una follia gemella rispetto a quella di Alice Longbottom?
Sale le scale, un passo alla volta che risuonano nel silenzio atroce di quell’abitazione, un passo alla volta che risuona come una campana a morto nel suo torace. È così che si distrugge una vita, mormora, un passo alla volta: non ha idea delle conseguenze che possa aver causato il suo folle gesto, la bugia detta al padre, la fuga premeditata. Non le importa nemmeno.
La notte avanza e fa a brandelli il tramonto tardivo di luglio, ma Delphi non sente più il tempo che avanza facendo della sua anima terra bruciata. Non sente più quella determinazione che l’ha animata per quattordici ora senza dormire, senza mangiare, non sente più niente che la muova se non il sospiro del vento che la sospinge sotto le coperte che erano state di sua madre.
Sua madre. Io non ho figli, le ha detto con disprezzo, eppure quello sguardo pieno di sofferenza la perseguita ancora.
Non dovrebbe, si dice, non sarebbero fieri di sapere che, nonostante una realtà che è esattamente quella che si vede, Delphini ci crede ancora, in loro due. Non nell’amore, si dice piena di disprezzo, quello mai.
Ma nei piani, negli incontri di arti oscuri, quello sì.
«L’amore» tuona una voce, facendola sobbalzare. «Qualcosa di così estraneo, da tua madre».
Delphini alza lo sguardo, incontrando gli occhi azzurri come un fiordaliso di sua nonna: Druella Black, intrappolata nel proprio ritratto in una gioventù eterna, le sorride con finta dolcezza. L’hanno dipinta bellissima, limandole un po’ il naso pronunciato e la bocca generosa, e lei stessa pare saperlo e per questo nasconde la parte inferiore del viso in un vezzoso ventaglio color carta da zucchero.
«Non pensavo che mia madre avesse un tuo ritratto qui» constata Delphi, amaramente. «Pensavo ti odiasse».
«Amore materno» commenta Druella, con aria disgustata. In quel frangente, con i riccioli biondi ben acconciati e il naso arricciato, somiglia tremendamente a sua figlia Narcissa. «Sempre stata tutta suo padre, Bellatrix».
«Come fai a parlarne in questa maniera?» sibila Delphini, giocherellando con la Giratempo tra le mani. «Come fai a essere così tranquilla? Domani mattina, all’alba, sarà Baciata».
«Solo perché, a differenza di te, non la penso sola e sconsolata e innamorata dell’uomo sbagliato» risponde sua nonna, scrollando le spalle sottili. «Bellatrix ha sempre preso le sue scelte e ne ha sempre pagato le conseguenze».
«Perché non le hai impedito di divenire sua in quel modo?» le domanda Delphi, pensierosa. «Perché le hai permesso di sposare Rodolphus?».
«L’Oscuro Signore ha chiesto, mio marito ha acconsentito: Lestrange era un buon partito» recita Druella, calma. «Noi Black voliamo alto, Delphini. E con il matrimonio di Bellatrix e quello di Narcissa con i Malfoy… se solamente non fosse stato per Andromeda…».
Le parole si confondono in un borbottio insensato, innaturale, che Delphini non riesce ad ascoltare. Guarda sua nonna come se avesse una risposta, una qualunque, ma Druella continua a maledire la propria figlia mezzana e nemmeno le presta più attenzione.
«Quand’è stata la prima volta che si sono incontrati?» le domanda Delphi, con crescente aspettativa e debole speranza. «Ricordi il giorno?».
Druella Rosier-Black la guarda, occhi azzurri che si perdono in un mare sconfinato di memorie, la mano che gioca con i capelli sovrappensiero. «Era giugno, mi pare» commenta. «Forse il tredici, ma potrei sbagliarmi. L’anno era il 1970, di questo sono sicura: Bella aveva appena compiuto diciannove anni».
Delphini guarda il cielo oscuro fuori dalla finestra: può specchiarvisi, in quel blu sconfinato, e scoprirsi sempre diversa. La plastica deforma i riflessi, la mente li rende aguzzi come vetro, taglienti come carta. È che a volte le cose sembrano semplicemente diverse da quel che sono, ma in realtà l’essenza non muta mai. E, per quanto la plastica possa sembrare vetro riflettente o carta stracciata, alla fine è sempre quel che è e mai quel che sembra: un cielo di plastica deformante, e niente di più.
«Tredici giugno 1970» ripete Delphi, come in trance, cominciando a caricare la Giratempo. «Dev’essere quel momento».
«Non riuscirai a portarla via di lì» commenta Druella, senza un pizzico di rimpianto. «Mia figlia l’ho persa per sempre quel giorno, e nemmeno tu potresti salvarla».
Delphini non l’ascolta, il cielo fuori è tinteggiato di luce lunare. Fa freddo, ma lei non lo sente più.
 
***
 
Ha diciannove anni, tutta la vita davanti – così le ha detto suo padre, Cygnus, nel sentirle dire a sua sorella Andromeda che sarebbe divenuta una Mangiamorte – per perdersi nelle spire di un uomo che non l’apprezzerà mai. In quanto donna, proprio perché è donna: lui, che ha sempre silenziosamente detestato sua moglie per avergli dato solamente figlie femmine, si crede sempre e comunque meno misogino di Lord Voldemort. Forse, si dice Delphini nell’osservare la fredda speranza con cui sua madre inquieta s’agita per la stanza, non si sbaglia.
La festa per il diciassettesimo compleanno di Andromeda è l’ennesimo sfoggio che i coniugi Black potranno usare per glorificarsi ma, esattamente come Delphini per suo padre, sia Bellatrix sia Andromeda sia Narcissa rimarranno sempre quel che sono: inutili figlie femmine, non volute, a stento amate.
Cygnus Black non se la spiega, quell’affinità che prova con la propria figlia mediana: determinata come un uomo, Andromeda, sicura, furba, ambiziosa. Ma, nel momento in cui si tratta di amare, è inequivocabilmente donna. Ha rifiutato la proposta di matrimonio dei Dolohov e suo padre gliel’ha permesso, ignorando i pianti e gli strepiti di Druella: se non avesse ceduto, ne è sempre stato certo, Andromeda sarebbe fuggita via di casa. E lui, che è sempre stato propenso a concederle un briciolo della libertà de vivre del mondo maschile, ha chinato il capo e le ha detto come desideri tu.
Non sarà Dolohov, ha pensato Cygnus, ma sarà un Lestrange, un Malfoy, gli andrebbe bene persino Carrow. Ma Andromeda l’ha fermato quella mattina e, con i capelli già acconciati in una morbida treccia alla francese, opera di sua sorella Narcissa, ha pronunciato parole imperdonabili.
Io non desidero sposarmi, padre.
Bellatrix, occupata a versarsi un generoso bicchiere di vino – ed erano solamente le dieci di mattina – ha riso. Cygnus ha chiuso il cuore e, per la prima volta in vita sua, non ha domandato perché ma ha solamente detto no. No, appena terminato il prossimo anno ad Hogwarts dovrai sposarti con qualcuno.
Andromeda ha sorriso, una crepa sul volto di pietra, e non ha risposto.
Pensieri le si sono affollati nel cranio, ha compreso suo padre, Andromeda cerca una scappatoia che lui non sa quale sia. O chi.
«Meda è innamorata, padre» mormora Narcissa con aria sognante. «Secondo te di chi si tratta? Oh, non Malfoy spero!».
Bellatrix alza gli occhi al cielo, sorbendo un generoso sorso di vino. «Lucius Malfoy non piace a nessuno, Cissy» commenta Bellatrix, atona. «Vedi di mettertelo in testa».
«Tu sai chi è?» domanda Cygnus, riferito a entrambe e a nessuna delle due. «Posso aiutarla, combinare un incontro con la famiglia».
«Le tue preferenze mi disgustano, padre» commenta Bellatrix. «Quasi quanto i gusti di mia sorella. Delle mie sorelle».
S’allontana a grandi passi: Delphini vorrebbe seguirla, nel grande salone dove potrebbe mimetizzarsi con le altre cugine Black-Rosier, ma farlo significherebbe farsi notare da suo nonno e da sua zia, così rimane nascosta dietro la porta del tinello, in silenzio.
«Narcissa» il tono di Cygnus è glaciale. «Di cosa stava parlando, tua sorella?».
Narcissa tace: brividi l’assalgono nel restituire fiera lo sguardo di suo padre. Non ha nulla della ribellione di Andromeda, tacita ma salda, né della forza di Bellatrix. Così semplicemente china il capo e si guarda le mani che s’attorcigliano sulla gonna lunga, rischiando di lacerare la stoffa con le unghie.
«Ted Tonks, padre» sussurra, piena di vergogna. «Ma non è nulla di grave, possiamo farle cambiare idea, io potrei…».
Ma suo padre non l’ascolta. «Tonks» mormora. «Non fa parte delle sacre ventotto. Non sarà un Mezzosangue, Narcissa? Anche se so che Andromeda non farebbe mai niente del genere, non mi darebbe mai motivo per vergognarmi di lei».
Narcissa prende fiato, alla ricerca di un coraggio che non risiede in  nessuna parte di lei. «No, padre» ammette, infine. «Non è un Mezzosangue».
Cygnus sospira di sollievo, ma sua figlia apre la bocca nuovamente – se solamente ne uscissero delle parole, pensa Cissy con distacco quasi innaturale, se solamente sapesse mentire a suo padre.
«Lui…» sussurra, così piano da udirsi solamente lei. «Lui è un Nato Babbano, padre».
Il cuore di Cygnus Black si spezza in quel preciso momento e non riesce nemmeno far finta di non aver udito la figlia minore. Un calice di vino gli si infrange tra le mani ed è vetro, ma taglia come carta.
«Le passerà» decreta l’uomo, determinato a mantenere il segreto. «Gliela farò passare. Non una parola con nessuno, Narcissa».
 
***
 
La trova subito, sua madre, seduta su una delle panchine del giardino di Druella Rosier-Black a osservare le rose con aria irata, come se l’avessero offesa con i loro dolci mormorii. L’ha sempre odiato, quell’angolo di silenzio, dove la madre si nascondeva per non udire gli strepiti di Narcissa bambina, i capricci della volitiva Andromeda. E anche lei.
Il silenzio la stordisce, le tira i capelli in cerca di attenzioni che Bellatrix non vuol concedere, e allora vorrebbe solamente urlare per squarciarlo via con il semplice vibrare delle corde vocali. La festa infuria nella sala da pranzo, piena di gente che non conosce né vorrebbe mai conoscere, figli di papà che le fanno sfilare davanti come volesse avere la possibilità di scegliere. I due Lestrange, Abbott, persino lontani cugini di sua madre con il naso storto e la bocca larga.
Delphini vorrebbe urlare insieme a lei, dille che capisce quell’insofferenza per la vita, sedersi accanto a lei e dirle non lasciarmi andare, madre. Ma dei passi la bloccano dietro la porta della casa dei suoi nonni, passi che culleranno i suoi sogni e incubi per il resto che le rimane da vivere.
Lord Voldemort incede calmo tra le rose di Druella Black, il bel volto segnato dalla Magia Oscura che precocemente l’invecchia e non lascia vestigia di quella bellezza violenza di cui s’era più volte avvalso, in passato.
«La figlia di Cygnus» commenta, con tono sottile, privo di calore. Una corda di vetro che si tende, diventa carta e dolcemente si spezza. «Pensavo fosse la festa per il tuo compleanno».
Bellatrix si siede più eretta, il bel viso distorto in un’espressione altera che, sul viso quasi gemello di Andromeda, non v’è mai stata. «Mi confonde con mia sorella, forse» commenta, formale. «Ho diciannove anni, sono la maggiore».
«Bellatrix» commenta Voldemort, causando un brivido sulla schiena di madre e figlia, per motivi diversi. Detto da lui, quel nome, assume un sapore gelido e mentolato che le fa spalancare gli occhi, disorientata.
«Penso di non conoscerla, signore» commenta Bellatrix, sistemando una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Hanno la sua stessa anima ribelle, quelle ciocche. «Forse è un amico dei miei genitori?».
«Una specie, sì» commenta lui, ridendo senza mostrare reale emozione. «Conosco i tuoi genitori da Hogwarts, questo sì».
Lei spalanca gli occhi, in un lampo di comprensione che le rischiara il viso di immotivata felicità. È lui. L’uomo che si farebbe a pezzi, che si straccerebbe l’anima come pergamena pur di raggiungere il proprio scopo: la vita eterna. Le Arti Oscure ne marchiano il volto, tolgono umanità, e lei in ogni cicatrice e in ogni pallore che la Magia non riesce a mascherare, lo vede per quel che è: l’uomo che sogna di seguire, di cui sogna d’apprendere ogni segreto, lui.
«Mio Signore» borbotta, lei, chinando il capo piena di vergogna. «Io non avevo idea, io…».
Lui ride, mostrando i denti innaturalmente bianchi. «Pace, Bellatrix» commenta, con magnanimità. «Ho saputo dai tuoi genitori che sei intenzionata ad unirti alle mie schiere».
«Sì, mio Signore» conferma lei, arrossendo per la soddisfazione. «Il mio desiderio più profondo è apprendere da voi tutto quel che posso».
Delphini, dietro la porta socchiusa dell’ingresso della casa ch’era stata dei suoi nonni, s’accascia al suolo con aria stremata. Si farebbe a pezzi l’anima, la regalerebbe a suo padre, pur di impedire a sua madre di guardarlo in quel modo. Impedirebbe a suo padre di fare a pezzi la propria, condannandolo alla stabilità, per assicurarsi che non la guardi mai più.
Ma non può, si rende conto, mentre Lord Voldemort osserva sua madre con aria incuriosita. E Delphi, incapace di muoversi in quel passato immutabile, si sente un po’ stracciata anche lei.
Alza lo sguardo verso il soffitto, incantato per sembrare dello stesso colore di una nube plumbea che si prepara a sciogliersi in una pioggia di sangue sulla Terra.
È che a volte il cielo sembra di plastica e invece è solamente pioggia che non riesce a scendere giù. Carica la Giratempo, in un ticchettio che sembra avere il potere di stopparle il cuore.
 
Nel tuo letto la novità
È fare a pezzi l'anima
Ma la violenza della stabilità
È un modo di morire a metà

 
 
1Da Harry Potter e il Calice di Fuoco
2Pensate pure quel che preferite, ma io intendevo un chiaro accenno di Fred/Asteria
3Da Harry Potter e L'Ordine della Fenice
4Come sopra
 
 
Spiegazione: a differenza di Bellatrix (che comunque incontra Delphi in parti sfasate della sua vita, e che quindi farà fatica a considerarla "reale"), Voldemort la può ricordare a distanza di un anno.

Prossimo appuntamento: martedì 9 marzo

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Parte terza: Plastica che è plastica ***


Cieli in plastica

Parte terza: Plastica che è plastica

 
E un bacio sporco sa
Spogliarmi il cuore dai demoni
E c'è qualcosa che è dentro di noi
Che è sbagliato e ci rende simili

 
È che a volte il cielo sembra di plastica e invece è solamente pioggia che non riesce a scendere giù. Delphini respira a fatica, il volto nascosto da una mascherina chirurgica, mentre le mani le tremano celate dall’aria così umida da apparire quasi tangibile. Carica la Giratempo, in un ticchettio che sembra avere il potere di stopparle il cuore.
 
***
 
Nove ore prima, Villa Black.
 
Il ritratto di sua nonna le restituisce uno sguardo insoddisfatto, insofferente, che non le risparmia una delusione che Delphi aveva già presofferto. Druella Black osserva la propria nipote più piccola, quella che non ha fatto in tempo a conoscere, e il viso delicato d’una poesia strana, innaturale, mentre sparisce dietro la cornice con aria offesa.
«Lasciala perdere» commenta una voce, dal dipinto di fianco. Pensava che fosse vuoto, quel quadro, quand’invece Cygnus Black è sempre stato lì. «Ha sempre avuto un pessimo carattere».
Delphini l’osserva, quell’uomo rimasto intrappolato in una cornice crepata: c’era sempre stata, quella crepa, o è comparsa improvvisamente?
Suo nonno ride, amaramente, alzando lo sguardo verso la propria cornice. «Tua madre» commenta, senza amore, senza sentimento. «Il giorno che le ho proibito di prestarsi a lui per avere te, mi ha lanciato contro una sedia».
«Avresti potuto essere più convincente» commenta Delphini, atona. «Mio padre… è stato lui, a rovinarla, non è vero?».
Il sorriso di Cygnus è di vetro, è di carta. Pelle tesa sopra i denti leggermente accavallati, rughe che coprono gli occhi come una tenda di palpebre pesanti. Azzurrissimi, quegli occhi, così che di Black non ha poi molto.
«Bellatrix era già rovinata» commenta, con severità. «Folli, quei suoi pensieri. È sempre stata troppo simile all’Oscuro Signore».
«Ma i tuoi genitori erano maledettamente simili, fatti della medesima sostanza. C’era qualcosa di sbagliato, in loro, ed era questo che li rendeva tali».
La voce di Rodolphus Lestrange le spacca i pensieri, rendendoli taglienti come carta e vetro, e costringendola a sedersi sul letto di sua madre tenendosi la testa striata di blu. Blu, i pensieri, un po’ annacquati di mareggiata.
Blu, la notte fuori dalla finestra, e lei è stanca. Vorrebbe semplicemente mollare quella missione che silenziosamente s’è autoimposta, e tornare in Provenza: pregare, sì pregare, Rodolphus di farle da mentore. Anche se, padre, non lo chiamerà mai. Ma le insegnerebbe ciò che sa sulle Arti Oscure, che è comunque meglio di una madre che non riesce a salvare da sé stessa.
«Aveva qualcosa di sbagliato, dentro di sé» borbotta Cygnus, pensieroso. «Qualcosa di rotto. Non era… tutti noi genitori abbiamo una preferenza, e chi dice di non averla mente».
Pensa ancora ad Andromeda, quel padre che ha abbandonato in maniere diverse tutte e tre le figlie, ma solamente una gli ha crepato il cuore come una cornice. Pensa ad Andromeda il giorno che se n’è andata, ed era solamente febbraio e il cuore doleva di un gelo perenne, e Narcissa ha pianto per i mesi che sono seguiti.
Bellatrix, una lacrima, non l’ha versata mai. Torna, le ha detto, e ucciderò te e il tuo Babbano.
Andromeda ne ha retto lo sguardo con determinazione, troppo Grifondoro per una ragazzina che ha pregato il Cappello Parlante d’essere smistata a Serpeverde, e ha sorriso. Da te non mi aspettavo altro, le ha risposto, certo che non torno.
Cygnus è rimasto sulla soglia per vedere se non fosse solamente un sogno, Druella ha appiccato l’incendio. Andromeda è scomparsa per sempre, ma mai dal cuore gelido di suo padre.
«Tu pensi che io non possa salvarla» commenta Delphini, sfiorando la crepa nella cornice con la punta delle dita. «Che finirebbe comunque per scegliere mio padre».
Cygnus china il capo. Pensa ancora ad Andromeda, ma non ha il coraggio di domandare alla nipote di riportarla da lui in quel giorno di febbraio in cui se n’è andata via, senza nemmeno voltarsi indietro per dirgli qualcosa che non fosse addio, padre.
Non le avrebbe personato il matrimonio con un Sanguesporco, questo no, ma non l’avrebbe mai cacciata via – e, da qualche parte dentro di lui, Meda Black è ancora la sua figlia preferita.
«Sì» risponde suo nonno, senza traccia d’alcuna incertezza nella voce. «Puoi rigirare un oggetto, dargli fuoco, rimodellarlo. Ma l’essenza è sempre quella e, quella di tua madre, è marcia come acqua in un vaso di fiori vecchi».
Lo sguardo di Delphini è aria che si condensa su quelle parole, facendo scendere gocce di brina sciolta. «Posso continuare a provare» sussurra, ma non ci crede nemmeno lei. «Ci deve essere un mondo possibile in cui posso evitarle tutto questo».
Cygnus scuote il capo. Tornare indietro, riportare una figlia a suo nonno, cercare Rodolphus Lestrange dirgli. L’ho lasciata andare, padre.
«Lascia andare tua madre» le sussurra, osservando Druella far capolino dalla propria cornice. «Non tornare più indietro, Delphini, prova ad andare avanti».
«La festa di compleanno di Andromeda» Druella pronuncia quel nome come un’elemosina schifata. «Bellatrix si Smaterializzò con lui a fine serata. Il giorno dopo ci comunicò che dovevamo combinarle un fidanzamento con i Lestrange».
«Ogni genitore ha le sue preferenze, anche se lo nega» ripete Cygnus. «Ma le tue, Druella, sono sempre state quelle sbagliate».
Narcissa che piange in un angolo e nessuno che la consola, le ombre di Andromeda ancora fresche sui muri. Bellatrix che si volta e in una lacrima di sua madre si ripiega come un origami e poi scompare.
Delphini s’affaccia dalla finestra, la notte incombe e le ombre sono ancora tutte lì.
 
***
 
Il cuore di Bellatrix è vestito d’ombre, rivestito del risentimento che come un burattino la muove attraverso il giardino tanto amato da sua madre.
Delphini la osserva entrare in casa, a grandi passi, e ha gli occhi vuoti e aspetta solamente di vedere lui per riempirli. Braccia esili, ha sua madre, che s’aggrappano ai muri come se avesse bisogno d’esser sorretta, come se qualcosa dentro di sé stesse ancora tremando.
«Che ti succede, Bella?» domanda Andromeda, appoggiata a un cassettone con aria perplessa. «Fatichi a reggerti in piedi. Hai forse la febbre?».
Bellatrix osserva sua sorella, che giocherella sovrappensiero con una collanina che non le ha mai visto. «Chi te l’ha data, quella?» le domanda, ritrovando improvvisamente quel disprezzo che le scaglia contro come frecce di vetro o di carta, ferendola. «Il tuo Sanguesporco?».
Andromeda china il capo ma, quando si risolve a guardare la sorella maggiore negli occhi, ha solamente determinazione a sanguinarle dalle palpebre. «Non sono affari tuoi» risponde, calma. «Un giorno me ne andrò via di qui, Bella. Cerchiamo di andare d’accordo fino a quel momento, ti va?».
Bellatrix ride, e ombre le scivolano via dalle labbra, attraverso i denti e scivolano sul pavimento in una pozzanghera nell’ennesimo posto dove non piove mai. E, casa Black, per lei è esattamente al pari di Azkaban: una prigione.
«Vattene, Andromeda, e non tornare più» sibila Bellatrix, con astio. «Sei la vergogna di tutta la famiglia».
Andromeda alza il mento con aria fiera, gli occhi che lampeggiano e la collanina – con un pezzetto d’ambra tagliato male – che riflette la luce giallastra del soffitto, urlando Ted Tonks. Tutto in lei grida appartenenza, possesso, sebbene la mezzana delle Black manifesti un orgoglio che ha Bellatrix, che ha Sirius.
«Me ne vado e non torno, Bellatrix, stanne certa» risponde, calma. «Mi dispiace che dobbiate essere così estremi, tutti quanti. Che ne capirai mai, tu, dell’amore?».
Bellatrix ride, facendo crepare l’aria in sussurri. «L’amore non esiste» risponde, senza alcuna inflessione. «E sei sciocca tu a continuare a cercarlo. Io non sarò mai come te, o come Cissy, due sciocche bastano in una sola famiglia».
Ma Andromeda ricambia la risata, gemella, scuotendo i capelli di quel castano troppo chiaro per esser nero. Nera, l’anima della sorella, almeno quanto la sua che è scolorata dal grigio al bianco.
«E allora perché hai bisogno di aggrapparti al muro dopo averlo visto?» le domanda, calmo. «Sei patetica, Bella, e nemmeno lo sai».
«Pensa allo stato della tua reputazione, Andromeda» le risponde Bellatrix, con tono acido. «Non è amore, è devozione».
A Delphini, seduta su una poltrona a pochi passi da loro, si ferma il cuore in quel secondo e rischia di non ripartire più. Imprigionato in una gabbia di ombre, il battito si schianta su un muro di silenzio e trema dolorosamente. Vorrebbe parlare, dire lascialo andare, madre.
«Devozione» commenta Andromeda, con sarcasmo. «Difendi il sangue puro, Bella, ma chi difenderà te da lui?».
Bellatrix non risponde, ha il fuoco negli occhi e la bacchetta puntata sopra il collo dolce, indifeso, di sua sorella. Andromeda non si muove, ma si scioglie in una risata amara, stanca.
«Fallo» la incita. «Non pentirtene, però. Fallo e basta».
Perché Bellatrix non lo sa, che sua sorella è spaccata in due: che deve scegliere tra amore e fedeltà, e sporcarsi nelle consapevolezze che ha sempre portato avanti con sicurezza. Deludere il padre, la madre e le proprie convinzioni – sono sbagliate? O è sbagliato amare?
Bellatrix non lo sa, ma Andromeda è stanca. Stanca, di quella collanina che ne riflette gli occhi pieni di dubbi – ma, almeno, a lei non hanno messo un collare – e stanca anche delle suppliche di Cygnus, tacite e inutili. Sposa Lestrange, le dice il padre, sposa Dolohov, non sposarti mai ma resta con me.
Onora il padre, pensa Andromeda, onora la madre. Ma onora anche il sentimento che scuote il petto e le crepa il cuore, se onori tutti quanti finirai per non onorare più nessuno?
Onora te stessa, si dice, prima di ogni altra cosa. Onore, onore, onore: che ne sapranno mai, i Serpeverde, dell’onore?
Cosa ne saprà una Serpeverde che ha pregato di non esser Grifondoro, perché una Black non ha bisogno di coraggio: ha bisogno di certezze, è il sangue puro lo è. Che ne sarà mai d’una Serpeverde che è scivolata nello sguardo dolcissimo di un Tassorosso, che ne sarà di lei?
Diseredata, disonorata, privata di quel padre che l’ha sempre amata anche se, ad amare qualcuno, non era mai riuscito prima.
Chiude gli occhi.
«Aspetta!» Delphini ha le orecchie piene delle suppliche di Cygnus, quando s’alza e si frappone tra sua madre e sua zia. «Non lo fare».
Bellatrix sbuffa, senza abbassare la bacchetta. «E tu chi saresti?» le domanda. «Ci sono troppi Black, non posso ricordarmeli tutti».
«Delphini» risponde la ragazza, calma. «Io… sono la nipote di vostra madre, dal lato dei Rosier».
Sua madre annuisce con aria distratta, sta fissando la vena sul collo di Andromeda che pulsa: chissà se riuscirà a farla smettere. «E cosa vorresti?» le domanda, aggressiva. «Non mi ricordo di aver chiesto a qualcuno d’intervenire».
«Lasciala andare» madre, pensa, ma non riesce a pronunciare quella parola. «Io… vorrei parlare con te, mi ha detto tua madre che avresti potuto aiutarmi con un problema».
Bellatrix la scruta, con aria curiosa. «Io non aiuto nessuno» sibila. «Non sei una principessa da salvare: o ti salvi da sola o non ti salvi1».
«Per favore» sussurra Delphini, osservandola con speranza tacita. «Io voglio diventare come te».
Sua madre sorride, improvvisamente, scoprendo i denti come un lupo. «Come me» ripete, in una risata ch’è vetro e carta. «Tu non sarai mai come me, ragazzina».
«Lasciala perdere, Delphini» commenta Andromeda, con dolcezza. «Non ci guadagneresti assolutamente niente a diventare come lei, te lo assicuro».
Delphi osserva sua madre con lo sguardo liquido di speranze e, per un momento soltanto, si domanda se riuscirà a farle vedere la parte di suo padre che vive in lei – quella che è sbagliata e le rende simili.
«Bellatrix, ci rincontriamo» una voce fredda congela l’aria in frammenti vetrosi e insensati. «Non mi presenti tua sorella?».
«Mio Signore» sussurra sua madre, con passione. «Lei è Andromeda, mia sorella minore. E lei è una delle cugine Rosier, Delphini».
Il Signore Oscuro non sembra minimamente far caso a sua figlia, puntando invece gli occhi – ancora scuri e privi di quella luce sanguinolenta che li avrebbe caratterizzati in futuro – su Andromeda Black. La ragazza ne sostiene lo sguardo, con fierezza, facendolo produrre in una risata che ha il sapore del ghiaccio.
«Avete qualcosa che vi rende simili, voi due» commenta. «Lo stesso fuoco. Ho accettato di introdurre Bellatrix alla Magia Oscura, mi piacerebbe che anche tu ti unissi a noi, Andromeda».
«Temo di non potere» risponde la mezzana delle Black, atona. «Non c’è purezza che valga la pena di macchiar l’anima in questa maniera, signore».
Lord Voldemort scuote il capo, divertito. «Nessuna macchia, nessun disonore» commenta lui, calmo. «Un’occasione per ripulirsi, Andromeda, per scoprire che non è l’amore che serve a rendere grande una Strega».
Andromeda ride, scuotendo il capo. «Meglio il disonore che essere serva delle tenebre» risponde, con un velo di acidità nella voce. «Mio padre non mi perdonerà mai ma, se seguissi mia sorella in questo percorso scellerato, come farei io a perdonarmi?».
«Confondi il perdono con l’onore, Andromeda» sibila Bellatrix, alzando il mento. «Servire è onorevole, ma cosa ne puoi sapere tu? Sei più sciocca di Narcissa, e pensare che nutrivo qualche speranza per te».
Lord Voldemort sorride, si passa una mano tra i capelli scuri, con un sorriso affascinante che fa sorridere Bellatrix, ma Andromeda mai. Lei sospira con aria stremata e s’allontana a grandi passi.
«La bruceremo sull’arazzo di famiglia» sibila sua sorella, la sua amata sorella, stringendo le mani tra di loro. «Non si può cambiare l’essenza di una persona, e quella di Andromeda è marcita da quando ha compiuto sedici anni».
«Pace, Bellatrix» commenta l’Oscuro Signore, calmo. «Bisogna potare i rami secchi, per far rifiorire l’albero, non credi?».
Lei sorride, la bocca tinta di rosso pare sporca di sangue secco. «Insegnatemi» sussurra con passione. «Sarò la vostra allieva migliore, mio signore».
Lord Voldemort ride, freddo, ma i suoi occhi sono sulla pelle di lei. «T’insegnerò cose che il mondo non è pronto ad apprendere» sibila, suadente. «Sarò il tuo maestro e tu diventerai la mia allieva, Bellatrix Black. E la mia volontà sarà la tua».
Lei china il capo, con espressione adorante. «Non avrò altra volontà che la vostra» annuisce, infervorandosi. «Insegnatemi».
Lo ripete come una preghiera, le mani giunte in preghiera a sfiorare il naso e le labbra. A Delphini si stringe il cuore nell’osservare come suo padre abbia gli occhi liquidi d’umanità, in un desiderio che probabilmente non si spiega. Non lo farà mai.
Qualcuno gli fa segno d’unirsi a una conversazione, così che l’Oscuro Signore china il capo in un cenno di saluto, ma i suoi occhi sono sempre nel fondo degli occhi di lei. Bellatrix osserva i suoi passi che le s’imprimono nel cuore, con un ritmo di ballata.
«Devo parlarti» sussurra Delphini, tirandola per la manica del vestito. «Ti prego. Io ho bisogno di te».
Bellatrix sospira, ma finalmente chiude gli occhi e cede. «Va bene» pesanti le palpebre su quegli occhi che sanno ancora di lui. «Vieni con me, andiamo in camera mia».
Delphini la segue nelle viscere della casa, passo dopo passo, e su una rampa di scale che collega il piano inferiore a una di quelle camerte che lei conosce bene. S’è stesa in quel letto, ha parlato con i quadri. E, soprattutto, ha pianto d’impotenza di fronte alla prospettiva dell’inevitabilità di quel fato.
È prigione, casa Black, è prigione peggio di Azkaban perché tiene al suo interno l’impossibilità di una fuga.
Delphini sospira, sulla soglia della porta. «Tu sei già innamorata di lui, non è vero?» le domanda, in un sussurro. «Lo desideri e per questo vuoi seguirlo».
Bellatrix ha lo sguardo duro come antracite, crepato di una scintilla di speranza che non sa come nascondere. «L’amore non esiste» risponde, ripetendo le parole che ha scagliato contro sua sorella pochi minuti prima. «Esiste il desiderio, i piani, le coincidenze e persino i compromessi» commenta, decisa. «Io voglio essere sua, ma non nel senso che intendi tu. Impara queste cose e andrai avanti, Delphini».
Lei sospira. È più madre in quel momento che in tutte le altre volte che l’ha incontrata, e lei vorrebbe solamente chiederle e supplicarla di. Abbracciami, madre, non lasciarmi andare.
«C’è un modo per convincerti a lasciarlo andare?» domanda, invece. «Io lo so, credimi lo so, che sarà la tua rovina».
Bellatrix ride. «Io sono già rovinata» risponde Bellatrix, pensando al proprio cuore ombroso che inevitabilmente si rischiara nell’oscurità. «Sono sua per sempre, e lo sa, sarò la migliore e lo sarò per renderlo orgoglioso del mio lavoro».
«Ti prego» sussurra Delphini, con sguardo triste. «Non mi crederesti, se dicessi perché ti sto pregando, ma ti farai spezzare da lui».
Guarda cosa sei diventata, guarda cosa ti sei fatta fare. Tre sorelle Black e, alla fine, le più felici son quelle che non hanno rischiato: che hanno scelto casa, forse l’amore, la famiglia. E Bellatrix, che non ha mai desiderato niente di tutto questo, s’è sciolta come un’ombra senza il sole.
«Non so chi tu sia, Delphini, ma ti sbagli» sibila Bellatrix. «Forse faresti meglio a tornare di sotto».
Delphini sospira, nella tasca il ticchettio della Giratempo è solamente l’ennesimo coccio di vetro che non taglia, ma affonda soltanto.
 
***
 
Otto ore prima, Azkaban.
 
È tornata dove ha perso le parole. Qualcuno ha detto, una volta, che la vita è un cerchio, un anello. L’avrebbe mai dato, lui, un anello e un cerchio a sua madre? Si sarebbe mai piegato ad amare controvoglia, perché controvoglia avrebbe amato, per non spezzarle la sanità mentale?
È impazzita poco a poco, Bellatrix Black, o tutto insieme come un bicchiere d’acqua che si versa in una pozza di sole?
Delphini questo non lo sa, né ha parole per domandarlo – guarda come ti sei ridotta, guarda cosa ti sei fatta fare – e ha troppe voci che s’affollano in mente. Stanno urlando tutte quante, mentre lei sorride agli Auror di guardia e alza un paniere contenente un banana bread. Ne offre un pezzo a quegli uomini, rifiutano.
Lei stessa si sente rifiutata da quella madre che la guarda e non sorride, ma scuote il capo con aria esasperata. «Hai fallito anche questa volta» constata Bellatrix, con durezza. «Cosa c’è di sbagliato in te?».
Delphini si siede sul pavimento, calma. «La stessa cosa che è sbagliata in te» risponde, calma. «Ed è questo che ci rende simili».
Bellatrix ride, scoprendo i denti mancanti, e mancante è la stessa anima che Delphi pensa di non avere più. L’ha venduta a suo padre quand’è nata, per salvarlo da una vita che non è eterna e nemmeno giusta, ma che è vita e allora va vissuta. Anche se lei non vorrebbe più.
Silenziosa, le allunga il paniere, e la osserva scrutare la torta con aria pensierosa, come se dentro potesse trovarvi delle risposte. Delphini sospira, nasconde il volto tra le ginocchia e si rende conto che vorrebbe solamente piangere.
«Tu, simile a me, non lo sarai mai» commenta Bellatrix, con cattiveria. «Potrai provarci, Delphini, ma non raggiungerai mai tutto questo. Lo splendore a cui tuo padre mi ha elevata… non lo conoscerai mai, ma lui era un Dio».
Bellatrix ha lo sguardo perso nel vuoto e sembra quasi faticare a riconoscere il senso delle parole che pronuncia, la lingua muove le frasi senza senso e Delphini vorrebbe fare quel che fanno le voci dentro di lei. Urlare fino a squarciare la trachea, morire in un lago di sangue e risorgere dopo tre giorni.
«Guarda cosa sei diventata» le sibila, sistemando una ciocca di capelli striati di blu dietro l’orecchio. «Guarda cosa ti sei fatta fare».
Ma Bellatrix ride, ride e ride. Ride finché non le fa male il petto e allora tossisce, ma l’aria sembra quasi rifiutare di lasciarle il petto senza dolore, senza fatica.
«Mi sono fatta fare te» risponde, con astio. «Che è uno dei compiti peggiori cui Lui mi ha sottoposta».
Ed anche l’unico in cui hai fallito, pensa Delphini, l’unico in cui ti sei mostrata inadeguata: io sarò anche stata una bambina inutile, ma tu sei stata ben più inutile di me. Pace, madre – è un pensiero doloroso, ma inevitabile – io ci ho provato.
«Io ci ho provato, a portarti via da qui» e da te stessa, ma questo non riuscirà mai a dirlo. «Cos’altro potevo fare?».
«La Battaglia di Hogwarts, adesso la chiamano così» sussurra Bellatrix, socchiudendo gli occhi con il viso rivolto verso la luna splendente. Riscalda quasi come fosse sole, nella sua mente contorta, e anche di più. «La Foresta Proibita. Quando sei nata tu, a casa di Narcissa. Quand’ha scoperto che l’avevo deluso».
«Madre» sibila Delphini, con aria stanca. «Sono date che vogliono dire tutto e niente. Come posso fare, come posso salvarti, se non mi dici come cambiare il passato?».
Bellatrix ride, si china in avanti e glielo dice così. «Non si può sempre cambiare il passato» risponde. «Io ho sempre scelto Lui. Sceglierlo significa avere tutto».
A Delphi si gela il sangue nelle vene, mentre la voce di Narcissa Malfoy grida più forte delle altre.
«Perché esiste il destino, Delphini» commenta l’altra, sistemando con una mano i capelli biondi, che ormai iniziano a esser bianchi per davvero. «E il destino di tuo padre era essere sconfitto: tutti noi dobbiamo morire, prima o poi».
«Tu lo sapevi» mormora, tenendosi la testa tra le mani, con una tale forza che le unghie potrebbero persino bucare il cuoio capelluto. «Hai sempre saputo che non potevo riuscirci».
Bellatrix sorride, con aria sornione. «Solo Lui poteva vivere per sempre» risponde, calma. «Io che speranze potrò mai avere, d’eguagliarlo?».
«Devi vivere» le risponde sua figlia, con determinazione del tutto nuova. «Ti dimostrerò che puoi farlo».
Ma sua madre ride così forte da spaccarle i pensieri a metà e Delphini, che ha la speranza già incrinata, si domanda come potrà fare a contraddire il principale assioma della vita di suo padre, e della sua morte.
«Ti servirebbe la fortuna di Potter» sibila Bellatrix, la lingua tra i denti come un rettile. «Hai fallito, Delphini, hai deluso me e il Mio Signore oltre ogni aspettativa».
Solo io posso vivere per sempre.
La sua voce è un sibilo tra le urla, ma lei lo sente comunque.
La fortuna di Potter, hai fallito.
Ma poi il tono calmo di Rodolphus Lestrange sovrasta le voci dei suoi genitori, dandole il suggerimento che le serve. La fortuna liquida.
 
***
 
Sette ore prima, Foresta Proibita.
 
I passi sono fangosi, sporca è anche l’anima come un bacio insanguinato, come una schiena graffiata dai rovi in un momento di distrazione. Squallidi, i suoi pensieri, mentre s’addentra in quel labirinto d’alberi contorti, di dolore ramificato.
Squallido: vada come vada, tra sette ore sarà tutto finito. Delphini inciampa in un ramo, finendo con le ginocchia sul terreno umido di pioggia, pietre e fango che si uniscono per insozzarla di sangue e lividi. Si puntella con le mani sul terreno per rialzarsi, scoprendo il palmo ferito da una pietra insolitamente aguzza. La osserva, alzandosi in piedi, la rigira tra le mani cercando – con gli occhi feriti dal buio – un albero contro cui lanciarla.
Sciocco, si dice, prendersela con una pietra: ma pietrosi, duri e insensati i sentimenti che prova in quel momento.
«Fossi in te non lo farei» sibila una voce, facendola sobbalzare. «Delphini Lestrange, finalmente ne sei venuta a capo».
Lei si volta lentamente, con l’ansia che le preme sulla nuca in una spiacevole morsa, e gli occhi ormai abituati al buio che pesante l’attanaglia. Lord Voldemort, grigio come uno spettro e altrettanto intangibile, la scruta con noia, con ovvietà.
Somiglia all’uomo che Delphi aveva incontrato alla festa per i diciassette anni di Andromeda Black, il viso affascinante mai toccato e mai sfregiato dalla Magia Oscura. Non v’è traccia, in lui, dell’aria serpentina che avrebbe assunto con l’incedere intollerabile degli anni.
«Ne sono venuta a capo?» domanda Delphi, osservando la pietra persa sul proprio palmo. «Padre, io non comprendo».
Lord Voldemort ride, in un suono spiacevolmente sibilante che le entra nell’anima, dilaniandola. Sporco e sbagliato, quel suono e quello sguardo, sporco e sbagliato il movimento con cui suo padre le tocca il braccio facendola rabbrividire. È intangibile, ma le causa comunque una sensazione spiacevole che le fa tremare i nervi come la sua voce.
«Penso che sappia anche tu cos’hai trovato» commenta Voldemort, atono. «Conosci almeno la storia, Delphini?».
«La Pietra della resurrezione» sussurra Delphini, spalancando gli occhi. «Com’è possibile?».
Lord Voldemort la guarda, con aria disgustata, e scuote il capo pieno di capelli scuri. «Che fallimento che sei stata» sussurra. «Bellatrix non mi aveva mai deluso, prima di te».
«Padre» lo chiama sua figlia, con aria sgomentata. «Ditemi come posso fare a salvarla».
Lui ride nuovamente, facendo tremare persino l’aria e le foglie scurissime degli alberi, facendole bloccare l’aria in gola con un risucchio sbagliato, innaturale.
«Io non sono tuo padre» sibila Voldemort. «Sono il tuo creatore, forse, colui che ti ha pensata. E tu mi hai deluso molto, Delphini, sei il fallimento dei miei piani e delle Arti Oscure».
«Pensavo che la Felix Felicis servisse a essere fortunati» commenta Delphi, grondante di sarcasmo. «L’ho rubata dallo studio di Draco Malfoy per questo. Non pensavo che sarei finita per resuscitare te».
Suo padre ride. «Pensavo che lo scopo della tua vita fosse permettermi di vivere per sempre» sibila. «Servirmi, come ha fatto Bellatrix prima di te. Sei una delusione ancora maggiore, Delphini Lestrange».
«Non chiamarmi così» risponde lei, stringendo la pietra tra le mani. «Come posso aiutarti, se nessuno mi dice cosa devo fare? Pensavo mi avresti aiutata, padre».
«Io aiutare te?» domanda Lord Voldemort. «Pensavo di aver creato un essere abbastanza forte, abbastanza intelligente da somigliarmi».
Delphini sospira, è scivolata a sedere sul terreno fangoso e nemmeno se n’è resa conto. «Vai via» sussurra, rigirando la pietra tra le mani. «Lasciami stare».
Sta piangendo e a malapena sa il perché. Quando alza lo sguardo, Lord Voldemort è scomparso nel buio pressante della foresta e lei è di nuovo sola.
Non sa perché, proprio non ne ha idea, ma la Felix Felicis le muove la mano, facendole girare la pietra sul palmo per un’ultima volta. Una donna rischiara le tenebre, guardandosi attorno nel silenzio, e scuotendo il capo con aria malinconica.
«Delphi» la chiama. «Fermati qui. Non andare oltre».
«Chi sei?» sussurra Delphini, seduta sul terreno fangoso, le gambe cinte dalle braccia. «Io non ti conosco».
«Chiamami Tonks» sussurra la donna, con un sorriso caldo, dolce. «Sono tua cugina, anche se non mi conosci».
Delphini la osserva, inquieta, mentre Ninfadora Tonks si siede sul terreno, di fronte a lei. Sebbene sia del colore degli spettri, sembra quasi possibile intuire il colore dei suoi capelli: un caldo rosso, forse, magari fucsia, rosa, viola? Sua cugina sorride, con un calore che sconcerta, e goffamente tenta di darle una pacca sulla spalla.
«Perché sei qui?» le domanda Delphi, incerta. «Pensavo che sarebbe apparsa Druella, o Cygnus».
«Perché desideravi non essere sola e avere qualcuno che ti dicesse cosa fare» commenta Tonks, piano. «Io non sono brava a obbligare la gente a fare qualcosa, ma… potresti semplicemente arrenderti, no?».
La bionda scuote il capo, con aria stanca. La Giratempo le giace sulle mani come il cadavere di tutte le sue speranze rotte, ticchettando in un requiem impallidito in una notte priva di luna. Lei non ha dormito, in attesa dell’alba che arriverà tra qualche ora, ma la stanchezza non le cammina sulle palpebre nemmeno dietro preghiera.
«Chi mi insegnerà a essere ciò che ci si aspetta da me?» domanda Delphini, con fierezza. «C’è un destino per tutti, e il mio è consentire di mio padre di vivere per sempre».
«Potresti sempre cambiare idea» suggerisce Tonks, piano. «Riportare la Giratempo al Ministero e andare via. Da Rodolphus Lestrange, forse, o magari da Narcissa, persino da mia madre».
In quel momento, Delphini comprende. «Andromeda» sussurra, piano. «Sei sua figlia».
Ninfadora sorride, malinconicamente, e annuisce. «Lei ti accoglierebbe, se tu le dicessi che hai bisogno di una guida» sussurra. «Ti insegnerebbe tutto quel che vuoi, e ti darebbe quell’amore che pensi di non meritare».
«Io sono un piano» risponde Delphini, con una sicurezza che non prova. «Un incontro di Arti Oscure. E, probabilmente, una speranza».
«Tu sei tu» risponde Tonks, con fervore. «I tuoi genitori erano assassini, ma tu puoi fare di meglio, vivere una vita che ne valga la pena. L’Amore, Delphi…».
«L’amore non esiste» sibila lei, piano. «Mi dispiace averti fatta venire qui, ma io devo salvare mia madre dal Bacio. E tu non mi servi».
Ninfadora Tonks sospira, alzandosi in piedi e preparandosi a svanire nel nulla. «Abbi cura di te, Delphi» sussurra, sorridendo dolcemente. «Pensaci. Puoi ancora avere una famiglia, un destino diverso».
Fa male forzarsi a rigirarsi la pietra sul palmo, costringendo sua cugina a sparire in un sospiro rassegnato. Delphini chiude gli occhi, seppellendo il viso tra le mani.
Stanca, lascia scivolare il braccio verso il terreno. La Pietra della risurrezione cade nel fango, lei a malapena se ne rende conto.
 
***
 
Sei ore prima, Foresta Proibita.
 
Delphini ha perso il conto dei minuti passata seduta in mezzo al niente, vicino alla radura dove Harry Potter si era consegnato a Lord Voldemort, aprendosi alla chiusura. Il tempo le è scivolato via dalle mani, imprigionandola tra quegli alberi e quel silenzio, costringendola a pregare il buio di trovare la forza.
La Giratempo ha ticchettato, scandendo il tempo, finché lei si è risolta a prenderla tra le mani, che si sono mosse contro la sua volontà. Ha inserito la data, stupendosi perché era diversa da quella Battaglia di Hogwarts.
Il cielo ha cominciato a scolorarsi in un blu più chiaro, punteggiato di stelle come lentiggini. È che quella sera il cielo non sembra né vetro né carta, pensa. Sembra plastica trasparente che si piega contro la luna, concava, dove l’aria sibila sussurri.
Il cuore duole di ticchettii, ma ormai non importa più.
 
***
 
«Mio Signore?» la voce di Bellatrix ne tradisce l’emozione, le raschia la gola. «Dove mi state portando?».
Lord Voldemort avanza a grandi passi nella foresta, seguito dalla sua migliore Luogotenente, i capelli castani scossi dal vento. La Magia Oscura ne ha distorto i tratti, scavando gli zigomi e rendendo sporchi di sangue gli occhi. Quando si volta, ha il gelo nello sguardo.
«Ho studiato e cercato in ogni libro conosciuto dall’uomo» esordisce, calmo. «Non c’è soluzione, temo».
«Mio Signore?» ripete la donna, con sguardo perplesso. «Temo di non essere a conoscenza dei vostri piani, io… non sono degna, ma sarei onorata se voi voleste informarmi di essi».
«Il mio destino è quello di vivere per sempre» osserva Voldemort, atono. «Si tratta del mio piano, Bellatrix, del massimo utilizzo delle Arti Oscure».
Lei spalanca gli occhi scuri, resi liquidi dall’emozione, e china il capo con aria silenziosamente emozionata. «Sono la vostra umile serva, Mio Signore» sussurra lei, appassionatamente. «Ditemi cosa devo fare, e per voi lo farò».
«Ho bisogno di un erede, Bellatrix» commenta lui, senza alcuna emozione apparente. «Qualcuno che possa garantire la mia sopravvivenza nel tempo, in eterno».
A lei manca il fiato, le tremano le mani e Delphini, nascosta nell’ombra della sera che avanza, trema fino all’anima stracciata, ignuda, infreddolita. È dicembre e Bellatrix, al pari della figlia, trema così tanto che la voce diviene un vapore inafferrabile.
«Voi mi onorate» sussurra, infine. «Sono ai vostri ordini».
Lo sei sempre stata, pensa Delphini con rammarico, lo sarai per tutta la vita che ti rimane da vivere. Chiude gli occhi, di fronte al sibilo di suo padre. Stenditi. Ma la Felix Felicis le dice anche che non è tempo di tornare indietro, ma nemmeno di andare avanti.
Per quello, forse il tempo non è mai contato, non è mai stato possibile: qualcuno la prende per il polso, silenziandola con un movimento preciso della bacchetta. Delphi non apre nemmeno gli occhi, mentre un gemito sommesso di sua madre squarcia l’aria (e l’anima) come carta che apre la pelle, infida, e vetro che punge fino a far sanguinare.
Ma quando viene svegliato dal ticchettio di una Giratempo e finalmente si decide ad aprire gli occhi e a puntarli sul cielo, scopre che esso è diverso da quel che s’era immaginata. Non v’è carta, né vetro, e alla fine è rimasta solamente la plastica – e non vi sono sogni, in quel cielo, non vi sono speranze: pare d’essere dentro una bolla che si piega ma non si rompe mai.
Le mani di Harry Potter sono gentili, nonostante tutto, e lei vorrebbe solamente urlargli di non fare così che le si spezza il cuore.
 
***
 
Cinque ore prima, Ufficio del Ministro della Magia.
 
Il Ministro della Magia è visibilmente provato, e continua a massaggiarsi le tempie con aria distratta, mentre è Harry Potter a condurre l’interrogatorio di Delphini. Le ha chiesto il suo nome e lei, per un momento non ha saputo cosa rispondere.
«Sono tante cose» mormora, infine. «Un piano, una convergenza di Arti Oscure, forse una figlia, non lo so. Mi chiamo Delphini Lestrange e…».
«Riddle» la corregge Draco Malfoy, seduto sulla scrivania della Granger. «Mio padre ha confessato, Delphini. Sappiamo chi sei veramente».
Ma lei lo guarda, e c’è una rassegnazione nel suo sguardo che fa male, malissimo, e per un momento persino Malfoy riesce a provare pietà per quell’esistenza nata per l’infelicità. Ma dura solo un attimo, perché Delphi alza il mento con aria fiera e, per un momento che fa rabbrividire Harry Potter fin dentro le ossa, Bellatrix Lestrange risorge.
«Lestrange» risponde, sicura. «Il nome che mi hanno voluto dare e, adesso, il nome che scelgo di tenere».
«Parlaci del tuo piano» suggerisce il Ministro, con calma. «Non sarà un nome a cambiare il significato di un’azione, Harry. Preferirei sentire di più su cosa intendeva fare».
«Mi sembra ovvio, Granger» constata Draco, l’ironia che gli sfregia la voce come l’ennesimo Marchio che è costretto a portare addosso. «Voleva riportare indietro chi l’ha generata, non pensi anche tu?».
Lei sospira, tornando a massaggiarsi le tempie. «Potresti lasciarla rispondere, Draco?» sibila, alterata. «Non mi interessa sentire le tue ipotesi, se permetti».
Delphini li guarda e, per un momento, vorrebbe solamente fare come sua madre e ridere, ridere, ridere. Ma le manca la voce.
«Volevo salvarla» sussurra, piano. «L’avete condannata e io ho bisogno di lei, e non so lasciarla andare».
«Tua madre ha commesso crimini contro il Mondo Magico» commenta il Ministro, in maniera diplomatica. «Ha subito un regolare processo ed è risultata colpevole».
«Sua madre era un’assassina» sbotta Potter, cercando il consenso negli occhi degli altri due. «Ti sei dimenticata di Sirius, Hermione?».
La Granger vorrebbe rispondere, ma viene interrotta da Delphini, che si schiarisce la voce, a disagio. «Pensavo che il Ministero volesse abolire il Bacio come condanna» sussurra. «Pensavo che il Prescelto volesse concedere il perdono a chi lo richiedeva».
Harry vorrebbe semplicemente mettersi a urlare, ma un’occhiata di Hermione, piena di ammonizioni, lo mette a tacere.
«Si tratta pur sempre di sua madre, Harry» conviene, con luminosa comprensione. «D’accordo, ha sbagliato, ma vogliamo davvero punirla perché ha cercato di salvare sua madre?».
«Sua madre è Bellatrix Lestrange, Hermione» sibila Draco. «E non posso credere che sto seriamente dando ragione a Potter2».
«Sua madre sarà anche Bellatrix Lestrange, ma noi ci occupiamo di salvaguardare i giovani» risponde Hermione, gesticolando animatamente. «Io non ci sto a processare una ragazza di quanto, vent’anni?».
«E cosa intende fare, Ministro?» domanda Malfoy, con la voce grondante di sarcasmo. «Sospendere la condanna della mia cara zia e lasciarle vivere insieme felici e contente?».
Hermione sbuffa, pronta a ribattere ma, ancora una volta, è Delphini a replicare. «Non m’importa più di lei» sussurra, piena di rancore. «L’ha detto anche lei, che è come se non fossi sua figlia. Io ho provato a salvarla, ma lei… lei vuole raggiungerlo».
«Delphini, ascoltami» comincia il Ministro, calmo. «Le cose che hai fatto varrebbero a un adulto una condanna a vita ad Azkaban: cercare di resuscitare Lord Voldemort, rubare nel mio ufficio…».
«Rubare dal mio studio» aggiunge Draco, in un sibilo. «Obliviare Scorpius e Albus. E, soprattutto, farmi svegliare in piena notte per venirti a prendere».
Hermione lo mette a tacere con un gesto scocciato della mano e uno sbuffo d’avvertimento, tornando a concentrarsi su Delphini.
«Non voglio sottoporti a un processo» dichiara. «Andrai a vivere da un tutore, per un periodo di rieducazione e reinserimento nella comunità magica».
«E chi vorresti nominare come tutore?» sibila Draco, incrociando le braccia sul petto. «Sono il suo unico parente, te lo assicuro, non ho intenzione di badare alla figlia di Voldemort».
«Draco, non puoi prendertela con lei solamente perché…» comincia Hermione, calma.
«Ha cercato di resuscitare Voldemort» completa Harry, sarcastico. «Io penso che dovresti essere più obiettiva, Hermione, la ragazza non può andare a vivere con Lucius Malfoy».
«Troveremo una soluzione» risponde il Ministro, piano. «Fatemici riflettere».
«Rodolphus Lestrange» sussurra Delphini, piano. «Vive in Provenza e mi prenderebbe con lui, se me lo permetteste».
Lo sguardo di Draco Malfoy è d’acciaio, mentre pronuncia quelle parole – altrettanto dure, altrettanto insensate – e taglia l’aria in un sussurro.
«Rodolphus Lestrange è deceduto tre ore fa» risponde, calmo. «Lo hanno trovato morto in casa sua».
A Delphini si ferma il fiato in gola.
 
***
 
Quattro ore prima, Ufficio del Ministro della Magia.
 
L’hanno trovato morto al tavolo della cucina, la mano stesa a sfiorare una tazza sporca di cioccolato, e un sorriso un po’ amaro – cioccolata senza zucchero – sul volto. Le dicono che è morto con un calice di vino in mano, forse avvelenato, ciò che conta è che gli ha fermato il cuore e adesso non ha più spazio, il torace, per altri respiri.
L’hanno trovato morto nel cuore della notte, che è l’ultimo cuore che Rodolphus ha potuto toccar con mano (e trovarlo congelato da una mancanza), senza una spiegazione o un perché. E adesso, Delphi, (rim)piange.
Silenziosamente una lacrima le scava il volto, silenziosamente solamente perché le parole non escono e lei grida con il volume azzerato. Cresci così, si dice. Il giorno in cui ti devi costringere a lasciare andare i tuoi genitori per scoprirti cambiato nella loro assenza forzata e innaturale, che non ti piace ed è innecessaria, ma indubbiamente c’è.
Ti ho lasciato andare, padre, ma adesso torna indietro e portami via con te. Ti prego.
Sopra la sua testa, Harry Potter, Malfoy e il Ministro continuano a parlottare fitto in attesa di una soluzione, mentre lei dimentica com’è che si fa a tornare a respirare. Delphini li guarda e vorrebbe supplicarli, pregarli in ginocchio, di lasciarla andare.
«Ministro Granger» tossisce, così piano che è sicura di non esser stata udita, finché Hermione non si volta verso di lei. «Farò quello che deciderete. Ma posso passare le ultime ore di mia madre con lei?».
«Certo» sussurra il Ministro, con uno sguardo che sa troppo di pietà e troppo poco di comprensione. «Ti farò portare lì da un Auror. Harry, pensi che Clarke potrebbe…?».
«Granger, perdonami» la interrompe Malfoy. «Non abbiamo ancora deciso cosa fare di lei, e tu vuoi lasciarla andare da sua madre».
Disprezzo, in una parola che dovrebbe suonare dolcissima ma che, per Delphini, contiene un’estraneità inenarrabile. Disprezzo, nello sguardo che le lancia, disprezzo nella consapevolezza di aver perso una battaglia e tutte le guerre.
«Mia madre aveva due sorelle» borbotta Delphini, piena di vergogna. «Perché non chiedete ad Andromeda se è disposta a prendermi con sé?».
«Tu non andrai a vivere con Andromeda Tonks» sibila Harry Potter, con il viso sul punto di lacerarsi come carta per l’ira. «Non dovresti nemmeno permetterti di nominarla».
«Non è una cattiva idea, Harry» sussurra Hermione, posandogli una mano sul braccio. «Si tratta pur sempre di sua nipote, magari…».
Ma Harry Potter è irremovibile nel proprio no.
«Come fai a pensare che possa essere diversa dai suoi genitori, dopo tutto quello che ha fatto?» domanda Draco, calmo. «La sostanza di una persona non cambia, se la travasi in un altro contenitore».
«Non sapevo fossi diventato anche poeta, Malfoy» constata Hermione, con amarezza. «Vorrei comunque parlare con la signora Tonks, Harry, e sono irremovibile su questo punto».
Gli altri due chinano il capo, occhi di fuoco incendiano il pavimento.
Delphini ricambia l’occhiata del ministro, mentre un pensiero le infesta i pensieri: c’è qualcosa di sbagliato, dentro di me, ed è questo che mi rende simile a lui.
 
***
 
Due ore prima, Azkaban.
 
La pozzanghera s’è asciugata nell’alba nascente. Bellatrix ha smesso di guardarla, preferendo specchiarsi nei propri pensieri: non s’aspetta di rivedere sua figlia, la fine arriverà comunque.
Eppure, quando Delphini compare all’orizzonte scortata da un Auror, non riesce proprio a mostrarsi sorpresa. È che a volte le cose sono semplicemente uguali a ciò che sembrano, e la sostanza bagnata e fradicia di un vaso di fiori è quel che appare – muffa, acqua marcia, petali rinsecchiti. La sostanza di Bellatrix, che è quella di Voldemort, è marcia come un mazzo di fiori dimenticato in un vaso da decenni.
«Cosa ci fai, qui?» le domanda, quando l’Auror le permette d’avvicinarsi dopo averle confiscato la bacchetta. «Hai davvero il coraggio di presentarti davanti a me?».
Delphini pensa che non si tratti di coraggio, ma di quell’amore che non esiste, di quella traccia invisibile che una persona – Rodolphus Lestrange – le ha scavato nel cuore un po’ controvoglia. Ti lascio andare, madre.
«Il Ministro mi ha permesso di venire a dirti addio» risponde Delphi, calma. «Sconterò la mia punizione, madre, non ti cercherò mai più».
Bellatrix ride, squarciando l’aria. «Io non sono tua madre» ribadisce, con forza. «Né tu potresti mai essere mia figlia».
Delphini china il capo – ti lascio andare, madre – e non risponde: solamente un colpo di tosse la scolla da quei pensieri che vogliono rapirla con la forza, facendola piombare in quel mondo d’oscurità dove le pozzanghere non s’asciugano mai.
«Guarda cosa sei diventata» commenta Narcissa Malfoy, e per un momento sua nipote deve chiedersi a chi si stia riferendo. «Cosa ti sei fatta fare».
«Cissy!» strilla Bellatrix, con tono infantile. «Sei venuta a trovarmi? E perché non hai portato nostra sorella? Pensavo che fossi corsa a nasconderti sotto la sua gonna, dopo che ci hai traditi tutti quanti».
Narcissa osserva sua sorella, senza scomporsi: si è regine anche senza il bisogno d’indossare una corona, e la signora Malfoy è regale nel portamento e nell’espressione leggermente disgustata che rivolge a sua sorella. Immobile, la costringe a tacere con uno sguardo. La bambina che piangeva sulla scia di sua sorella Andromeda è cresciuta, inevitabilmente, s’è rafforzata fino a divenire l’ennesimo idolo d’acciaio, privo di doratura.
«Hai perso, Bella» commenta Narcissa, atona. «Non c’è speranza, e lo sai: permettimi di avere un bel ricordo di te, nonostante tutto».
Ma sua sorella ride istericamente, facendo sobbalzare Delphini. «Io non perdo mai» risponde Bellatrix, con voce acuta. «Abbiamo fatto cose grandi, che nessuno al mondo potrà replicare mai».
Cissy sospira, mentre un Auror le porta una sedia – un trono – su cui accomodarsi. Distante, rimane, perché mai più si farà toccare dentro l’anima da sua sorella.
«Cose grandi?» commenta Narcissa, con tono ironico. «Forse, Bella. Ma lo sapevamo tutti che eravate già morti».
Bellatrix vorrebbe risponderle – solo lui può vivere per sempre – ma un suono di passi la fa voltare di scatto, con gli occhi spalancati. Andromeda Tonks avanza a passi misurati, i capelli castani e striati di grigio legati in un severo chignon e il viso atteggiato in un’espressione ancora più severa.
«Non posso dire che mi faccia piacere vederti qui, Bella» commenta, rimanendo in piedi accanto a Narcissa. «O vederti, in generale».
Delphini la guarda – negli occhi: tiepida speranza – e aspetta che quella donna, così simile a sua madre nell’aspetto, si renda conto che lei aspetta solamente un suo cenno. Che Andromeda Tonks le concede, un sorriso minuscolo, forzato, che comunque l’illumina e la fa tornare giovane e piena di belle speranze.
«Perché l’hai portata qui?» domanda Bellatrix, con disprezzo, rivolta a Narcissa. «Vi siete ritrovate, adesso che tu e Lucius avete deciso da che parte stare?».
«Potevi scegliere anche tu, Bella» risponde Cissy, calma. «Ma mi sembra evidente che, io e te, abbiamo priorità diverse».
La vita, ad esempio, pensa Delphini con una malinconia appiccicosa che le rende faticoso respirare, la vita e l’amore.
«L’amore, Cissy?» domanda sua madre, come fosse in grado di leggerle i pensieri. «Cosa c’è di sbagliato in te?».
Narcissa sorride, in un lampo d’occhi azzurri. «No, Bella, cosa c’è di sbagliato in te?» sussurra. «Perché sei diventata così simile a lui?».
Andromeda non interviene, ma guarda verso il basso, dove Delphini è seduta a osservare con malinconia le ultime ore di sua madre.
«Delphini» la chiama, bisbigliando. «Ho parlato con il Ministro, e mi ha detto che ti piacerebbe che diventassi la tua tutrice, per il tempo della tua punizione».
La fa sembrare una marachella da bambina, pensa Delphi con un velo di vergogna, un tentativo sciocco e insensato di una figlia che ama la madre e non riesce a lasciarla andare. Annuisce, coprendosi il viso con i capelli.
«Dimmi perché» commenta Andromeda, con aria severa. «Perché dovrei accogliere in casa mia la figlia dell’assassino di mia figlia».
«Perché le ho parlato» sussurra Delphi, rossa di vergogna. «Con Tonks. Mi ha detto che lei mi avrebbe permesso di vivere con lei, se avessi scelto di non andare a vivere… non importa, mi scusi».
La signora Tonks sorride tristemente, sfiorandole il capo con il dorso della mano. «Triste, la fine di Rodolphus» commenta. «Dicono sempre di lasciare andare i morti, di permettere loro di andare oltre. Ma come fai a lasciare andare le persone che ami?».
Delphini spalanca gli occhi, con aria turbata: l’amore, urla suo padre nella sua mente, non esiste. Ma lei lo vuole, quell’amore, e una casa, una famiglia. Qualcuno che le insegni a essere qualunque cosa sia destinata ad essere.
«Come faccio a prenderti con me?» sussurra Andromeda, con aria dispiaciuta. «Draco l’ha detto bene: la sostanza delle persone non muta. E tu di che sostanza sei fatta, Delphini?».
«Temo di non saperlo» sussurra, con la voce strozzata. «Lei pensa che io abbia qualcosa di sbagliato? E che per questo sia simile a loro?».
«Hai visto mia figlia» commenta sua zia, e c’è una leggera incrinatura tra le parole. «Dora non sarebbe mai apparsa a qualcuno simile a mia sorella».
Delphini sorride leggermente, piena di speranza silenziosa, e le lancia un’occhiata piena di domande inespresse.
Andromeda ricambia il sorriso, silenziosa, e per un momento la somiglianza con Bellatrix si appiattisce per poi svanire.
 
***
 
Ora. Azkaban.
 
Andromeda Tonks non è fuggita: non ti preoccupare, non torno. Eppure sua sorella la guarda con una risata negli occhi che non lascia scampo e lei pensa solamente che, in tutta la sua vita, questo sarà sempre lo sgarbo peggiore che potrà riservarle.
Prendere sua figlia – il suo piano, le Arti Oscure – e insegnarle quei valori che Bellatrix stessa ha sempre ignorato: casa, amore, famiglia3.
«Vuoi dirmi qualcosa, prima di andare?» le domanda Narcissa, con forzata dolcezza, carezzandole il capo. «A me, a tua figlia?».
Bellatrix ride, guardandosi attorno con aria disinteressata. «Io non ho una figlia» ribadisce, con forza. «Ho un piano, che è fallito, e conosco le Arti Oscure. Che si sono rivelate inutili».
Senza farsi vedere dalla sorella, Andromeda lascia scivolare la propria mano in quella di Delphini e dolcemente la stringe.
«Dille addio, almeno» la incita Cissy, con una nota di esasperazione nella voce. «Ha infranto la legge, solamente per provare a salvarti».
Ma Bellatrix ride – aria infranta da quel suono – e rivolge uno sguardo divertito a sua figlia, facendola rabbrividire.
«E ha fallito» commenta, piano. «A cosa ti sei ridotta, Cissy?».
«Ho una famiglia, Bella, una casa» risponde Narcissa, calma. «Un figlio che mi ama. E tu, invece, cosa ti è rimasto?».
«Lui mi perdonerà per averlo deluso» risponde Bellatrix, con forza. «Riconoscerà la mia devozione».
«Lui è morto» interviene nuovamente sua sorella. «La devozione non ti servirà a niente, in questo momento. Pentiti, Bella, fammi sapere che almeno riesci a renderti conto di cosa sei diventata».
«Io non ho tradito» risponde Bellatrix, cominciando ad avvicinarsi agli Auror. «Io sono rimasta fedele a Lui, per tutta la mia vita: sarò lieta di morire per lui, lo sono sempre stata».
«Mi dispiace, madre» sussurra Delphini, interrompendo quella conversazione. «Io… non mi dimenticherò di te, te lo giuro».
Ma Bellatrix ride, raggiungendo gli Auror e cominciando ad avviarsi verso la propria fine – gloriosa, ingloriosa, giusta o ingiusta – e voltandosi indietro dopo qualche passo.
«Io non sono tua madre».
 
***
 
So che puoi gettarmi via
Ma ciò che vuoi
Lo voglio anch'io
È troppo, troppo presto, è male
Le tue labbra sono nude
Sai che è solo il tempo
A rivelare la stagione
 
Poi, ???
 
È come cadere.
Senza fiato, un colpo sulla schiena che ti spezza i pensieri in un sussurro, in un tempo che non è tempo ma non è nemmeno spazio, e allora è semplicemente un niente che si consuma sui bordi di una vita che si spegne alla luce di un tramonto infuocato. Come una lucciola agonizzante, una luce che d’improvviso si spegne, e il fiato muore nel tentativo di continuare a respirare: tu lo vedi il cielo?
Tu lo senti, il cielo, lo tocchi? Sa di un bacio – sporco e crudele – e di un’anima che si snuda, si toglie ogni orpello per essere mangiata, sentita e toccata.
Lei non è più, non sarà mai: in una stagione della sua vita che è dimenticata, che non sarà trascritta nel censimento di quel che ha compiuto nei suoi anni migliori, Bellatrix Lestrange è semplicemente caduta. Ai suoi piedi, che è il posto che le compete, che è il posto che le spetta ed è il posto che desidera.
È cieca, ma ne percepisce la presenza sulla pelle, nella mente e nel corpo che si ricorda l’impronta delle sue dita – lasciata controvoglia, l’ennesima macchia su una divinità caduta dal cielo, infranta in un milione di frammenti. Vetro.
Bellatrix si appiglia alla sua veste, ne sente il profumo, ne sente la mancanza che le ha annebbiato la mente per più di vent’anni. Un ticchettio ne scandisce i pensieri, ne corrompe le memorie. Ma a che serve, ricordare, se le mani di lui la percorrono a memoria e lei può reimpararlo d’accapo?
In un posto che è casa e prigione, che non ha pareti e non ha colori, non ha niente, Bellatrix è di nuovo sua. Senza parole, perché le corde vocali sono come stracciate, come accartocciate. Carta.
Volge il volto verso un cielo che non c’è: dentro la scatola, il cielo è una bolla di sapone che si piega sotto la luce di un sole freddo come la morte. Che tempo è? Perché non sente niente, che giorno è, che cosa è successo?
Una voce le sussurra all’orecchio – vieni qui – e lei muove passi incerti che portano ovunque e da nessuna parte, piccoli tocchi di luci la guidano a passi incerti.
Il ticchettio diviene sempre più insopportabile, così che è costretta a fermarsi nel suo eterno girovagare.
Mette una mano nella tasca del vestito, scoprendo l’origine di quel rumore. Bellatrix respira a fatica, le mani tremano in quell’aria così umida che sembra possibile poterla toccare.
Carica la Giratempo, in un ticchettio che sembra avere il potere di stopparle il cuore: è che a volte il cielo sembra di plastica e invece è solamente pioggia che non riesce a scendere giù.
 
C'è qualcosa di nuovo per te
È sbagliato perché non ha limiti
E anche tu hai qualcosa per me
È sbagliato, ma ci rende simili
 
(Afterhours, La vedova bianca)


1Alice Sebold, Lucky
2Piccola strizzata d'occhio a TCC con il famoso "Non posso credere che sto prendendo ordini dalla Granger!"
3Dal Cartone Animato "Anastasia"

Aggiorno di volata. Grazie per aver seguito questa storia, risponderò alle recensioni il prima possibile, ma sappiate che vi leggo sempre con immenso piacere.
L'ultimo paragrafo è interpretabile, ma io l'ho scritto pensando a una sorta di "paradiso", ma siate liberi di scrivermi la vostra interpretazione personale.
Un bacio,
Gaia

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3965502